Il mondo contemporaneo : dal 1848 a oggi [7. edizione.]
 9788842087410, 8842087416

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Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto Il mondo contemporaneo Dal 1848 a oggi

Premessa Questo volume nasce innanzitutto con l'intento di offrire agli studenti e ai docenti universitari, ma anche ai lettori in generale, una opzione ulteriore e diversa rispetto a quella proposta tre anni fa con i due volumi di Storia contemporanea (L'Ottocento e Il Novecento), che hanno peraltro ottenuto un lusinghiero successo anche fuori dal circuito universitario e che continueranno comunque a essere presenti in libreria. Si è pensato in questo caso di adottare una diversa periodizzazione, fra le molte possibili per segnare il problematico termine a quo della storia contemporanea, e di partire dall'ondata rivoluzionaria del 1848 - evento senza dubbio epocale a livello europeo, e avvertito come tale anche dai contemporanei - per raccogliere in un unico volume l'intera materia che comunemente viene ricompresa in questa disciplina. È una scelta opinabile come tutte le altre, dal momento che ogni periodizzazione è per sua natura arbitraria e convenzionale. Ma, rispetto ad altre altrettanto legittime (come quelle che fanno riferimento alle grandi rivoluzioni di fine Settecento, al congresso di Vienna o all'unificazione tedesca), presenta alcuni indubbi vantaggi: consente, infatti, di includere in un'unica e organica trattazione, senza procedere per tagli troppo sbrigativi, problemi ed eventi imprescindibili per la comprensione del mondo contemporaneo, a cominciare da quelli relativi alla realizzazione dell'unità italiana. G.S. V.V.

1. Le rivoluzioni del 1848. 1.1. Una rivoluzione europea. La crisi economica del '46-47 - La tradizione rivoluzionaria - La partecipazione popolare. Nel 1848 l'Europa fu sconvolta da una crisi rivoluzionaria di ampiezza e di intensità eccezionali. Non a caso l'espressione "quarantotto" è diventata da allora sinonimo di "sconvolgimento improvviso e radicale". Eccezionale fu innanzitutto l'estensione dell'area geografica interessata dalle agitazioni. Ma eccezionale fu anche la rapidità con cui il moto rivoluzionario si diffuse in tutta l'Europa continentale, dalla Francia all'Italia, all'Impero asburgico e alla Confederazione germanica. Fra le potenze europee, solo la Russia (dove l'arretratezza della società civile e l'efficienza dell'apparato repressivo impedivano l'emergere dei fermenti democratici) e la Gran Bretagna (dove al contrario il sistema politico si dimostrava più adatto a recepire le spinte della società) non furono toccate dall'ondata delle rivoluzioni. Un moto così ampio, esploso quasi simultaneamente in paesi molto diversi fra loro per assetto politico e condizioni sociali, non sarebbe stato possibile se non fosse stato favorito da alcuni fattori comuni, presenti nell'intera società europea. Un primo elemento comune era dato dalla situazione economica: nel biennio 1846-47 l'Europa aveva attraversato una fase di crisi, che aveva investito prima il settore agricolo, poi quello industriale e commerciale, provocando carestie, miseria, disoccupazione e creando dovunque un clima di acuto malessere. Il disagio economico e l'inquietudine sociale non sarebbero bastati di per sé a provocare una crisi di così vaste proporzioni se su di essi non si fosse inserita l'azione consapevole svolta dai democratici di tutta Europa, in particolare dagli intellettuali, depositari di una tradizione comune che affondava le sue origini nella rivoluzione francese. Questa tradizione nel '48 era ancora viva; e viva era l'attesa di un nuovo grande sommovimento che avrebbe dovuto ridare slancio al moto di emancipazione politica - ma anche nazionale cominciato alla fine del 700 e solo provvisoriamente interrotto dalla Restaurazione. In questo senso i moti del '48 si collegano a quelli del 182021 e del 1830. Simile fu il contenuto dominante delle insurrezioni: la richiesta di libertà politiche e di democrazia, variamente intrecciata - in Italia, in Germania e nell'Impero asburgico - alla spinta verso

l'emancipazione nazionale. Simile fu anche la dinamica dei moti, che si svilupparono tutti secondo lo schema delle "giornate rivoluzionarie": cominciarono cioè con grandi dimostrazioni popolari nelle capitali, sfociate poi in scontri armati. Se per un verso il 1848 chiude simbolicamente un'epoca - quella delle rivoluzioni liberali e democratiche legate all'iniziativa della borghesia e alle grandi sommosse urbane - per un altro verso ne apre una nuova, caratterizzata essenzialmente all'intervento delle masse popolari e dall'emergere degli obiettivi sociali accanto a quelli politici. Un altro tratto comune delle rivoluzioni del '48 fu rappresentato dalla massiccia partecipazione dei ceti popolari urbani. A Parigi come a Vienna, a Berlino come a Milano, furono gli artigiani e gli operai a svolgere il ruolo principale nelle sommosse. A Parigi, la componente popolare e operaia si mosse in relativa autonomia, e spesso in contrasto, rispetto alle forze democraticoborghesi e cercò di imporre propri specifici obiettivi di lotta. Nel gennaio del '48, poche settimane prima dello scoppio dei moti, era stato scritto il Manifesto dei comunisti di Marx ed Engels, destinato a diventare il testobase della rivoluzione proletaria. Questa coincidenza di date ci aiuta a capire come mai il 1848 sia stato spesso considerato l'anno ufficiale di nascita del movimento operaio e addirittura sia stato scelto come una delle date più indicative per segnare il problematico confine che divide l'età moderna dall'età contemporanea. 1.2. La rivoluzione di febbraio in Francia. Contraddizioni e crisi della "monarchia liberale", La lotta per la riforma elettorale, L'insurrezione di febbraio e la proclamazione della repubblica, Il governo provvisorio, L'entusiasmo rivoluzionario, Le prime riforme, Il diritto al lavoro e gli "ateliers nationaux", Le elezioni di aprile e la sconfitta dell'ala radicale, L'insurrezione operaia di giugno, Il riflusso conservatore, La nuova costituzione, Le elezioni presidenziali e la vittoria di Luigi Napoleone Bonaparte. Come già era accaduto nel 1830, il moto rivoluzionario ebbe il suo centro di irradiazione in Francia. La "monarchia liberale" di Luigi Filippo d'Orléans era certamente uno dei regimi europei meno oppressivi. Ma la stessa maturazione economica, civile e culturale della società francese, favorita dal regime liberale, faceva apparire sempre meno tollerabili i limiti oligarchici di quel regime e la politica ultramoderata praticata da Luigi Filippo e dal suo primo ministro Guizot. Si andò così coalizzando un vasto

fronte di opposizione che andava dai liberali progressisti ai democratici, dai bonapartisti ai socialisti, senza escludere alcune frange di opinione pubblica cattolica e legittimista. Per i democratici, in particolare, l'obiettivo da raggiungere era il suffragio universale, ossia la concessione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi senza distinzione di reddito o di condizione sociale. Il suffragio universale era visto non solo come l'attuazione pratica del principio della sovranità popolare, ma anche come il mezzo più sicuro per realizzare gli ideali di giustizia sociale, dando voce agli autentici rappresentanti del popolo e spezzando il monopolio del privilegio economico. Nettamente minoritari in Parlamento, i democratici cercarono di trasferire la loro protesta nel "paese reale". Lo strumento scelto fu la cosiddetta campagna dei banchetti: riunioni svolte in forma privata che aggiravano i divieti governativi e consentivano ai capi dell'opposizione e ai loro seguaci di tenersi in contatto e di far propaganda per la riforma elettorale. Fu proprio la proibizione di un banchetto, previsto per il 22 febbraio a Parigi, a innescare la crisi rivoluzionaria. Lavoratori e studenti parigini, già mobilitati da giorni, organizzarono una grande manifestazione di protesta. Per impedirla, il governo ricorse alla Guardia nazionale, il corpo volontario di cittadini armati che era stato istituito nel 1789 ed era rinato dopo l'insurrezione del luglio 1830. Espressione della borghesia cittadina, la Guardia nazionale era stata impiegata più volte per reprimere agitazioni o sommosse operaie. Ma questa volta, chiamata a difendere un governo largamente impopolare, finì col fare causa comune con i dimostranti. Il successivo intervento dell'esercito radicalizzò la situazione e rese impossibile qualsiasi soluzione di compromesso. Dopo due giorni di barricate e di violenti scontri, che provocarono più di trecentocinquanta morti, gli insorti erano padroni della città. Il 24 febbraio, dopo un vano tentativo di placare la piazza con la destituzione di Guizot, Luigi Filippo abbandonò Parigi. La sera stessa all’Hotel de Ville (il municipio parigino, naturale punto di riferimento di tutte le rivoluzioni) veniva costituito un governo che si pronunciava decisamente a favore della repubblica e annunciava la prossima convocazione di un'Assemblea costituente da eleggere a suffragio universale. Nel governo figuravano tutti i capi dell'opposizione democraticorepubblicana (il leader più in vista, l'avvocato parigino Alexandre LedruRollin, ebbe la responsabilità degli Interni, mentre gli Esteri furono affidati al poeta Alphonse de Lamartine) ed erano presenti anche due socialisti: Louis Blanc e l'operaio Alexandre Martin, detto Albert. L'inclusione nel governo di due rappresentanti dei lavoratori - un fatto

nuovo e sconvolgente nella storia europea - rifletteva la forza del popolo parigino, protagonista delle giornate di febbraio, e riaffermava la vocazione "sociale" della neonata repubblica. I primi passi della Seconda Repubblica francese si svolsero in un clima di generale entusiasmo e furono caratterizzati da una ripresa in grande stile del dibattito politico. Fu abrogata ogni limitazione alla libertà di riunione. Sorsero nuovi giornali e si moltiplicarono, come già era avvenuto nell'89, i club e le associazioni d'ogni colore. In generale, i primi atti del governo repubblicano furono improntati a una certa moderazione. Fu abolita la pena di morte per i reati politici (veniva così implicitamente ripudiata la tradizione della repubblica giacobina, sulla cui immagine aveva a lungo pesato il ricordo del Terrore). Fu rifiutata la proposta di sostituire al tricolore la bandiera rossa, simbolo della rivoluzione sociale. La Repubblica si impegnava inoltre a rispettare l'equilibrio europeo rinunciando così a "esportare" la rivoluzione oltre i suoi confini. Questa moderazione scontentava però le correnti più accese del fronte repubblicano, che chiedevano da un lato un appoggio deciso ai movimenti rivoluzionari di tutta Europa e premevano dall'altro per l'adozione di misure radicali in materia di politica economica e sociale. Già alla fine di febbraio il governo provvisorio aveva stabilito in un dici ore la durata massima della giornata lavorativa e - cosa ancora più importante - aveva affermato il principio del diritto al lavoro: una decisione di portata rivoluzionaria, che affrontava per la prima volta un nodo fondamentale dell'economia capitalistica, quello del pieno impiego, Per dare attuazione al diritto al lavoro, furono istituiti degli ateliers nationaux (alla lettera: opifici, o officine, nazionali). Il nome faceva pensare a quegli ateliers sociaux che Louis Blanc aveva teorizzato, nel suo libro del 1839 su L'organizzazione del lavoro, come vere e proprie cooperative di produzione, capaci di sostituirsi all'impresa privata. Ma la realtà era più modesta, legata com'era alla necessità immediata di aiutare i lavoratori colpiti dalla disoccupazione. Gli operai degli ateliers furono infatti adibiti a lavori di pubblica utilità (scavo di canali, riparazione di strade) e posti alle dipendenze del ministero dei Lavori pubblici. Anche entro questi limiti, l'esperimento poneva gravi problemi alle finanze statali e introduceva un motivo di profondo contrasto in seno allo schieramento repubblicano, la cui ala moderata considerava pericoloso - e incompatibile con i princìpi del liberismo economico - un intervento diretto dello Stato nel mercato della manodopera. Una prima secca sconfitta per le correnti di estrema sinistra venne dalle elezioni per l'Assemblea costituente, che si tennero il 23 aprile 1848. Il

suffragio universale - applicato per la prima volta dopo gli anni della "grande rivoluzione" e dopo i plebisciti napoleonici - portò infatti alle urne un elettorato rurale, i cui orientamenti erano assai più conservatori di quelli prevalenti nella capitale. Su novecento eletti, i conservatori dichiarati e i nostalgici della monarchia non erano più di un centinaio; ma un insuccesso ancora più netto toccò ai socialisti e all'ala più radicale dello schieramento democratico. I veri vincitori furono i repubblicani moderati: furono loro a costituire l'ossatura del nuovo governo dal quale vennero esclusi i socialisti Blanc e Albert. Invano il popolo parigino tentò di riprendere l'iniziativa sul terreno delle manifestazioni di piazza. Il 15 maggio, una grande dimostrazione conclusasi con l'invasione dell'Assemblea costituente fu prontamente repressa dalla Guardia nazionale e molti leader della sinistra rivoluzionaria furono arrestati. Un mese dopo, il governo emanò un decreto con cui si stabiliva la chiusura degli ateliers nationaux e si obbligavano i disoccupati più giovani ad arruolarsi nell'esercito. La reazione dei lavoratori di Parigi fu immediata e spontanea. Il 23 giugno, oltre cinquantamila persone (fra cui molti ex dipendenti degli ateliers) scesero in piazza. Nei quartieri popolari ricomparvero le barricate. In risposta, l'Assemblea costituente concesse pieni poteri al ministro della Guerra, il generale Louis Eugène Cavaignac, per procedere alla repressione, che fu condotta nei giorni successivi con spietata durezza. Migliaia di insorti trovarono la morte sulle barricate o nelle esecuzioni sommarie che seguirono gli scontri. Le tragiche giornate di giugno segnarono una svolta decisiva non solo nella breve storia della Seconda Repubblica. Agli occhi della borghesia di tutta Europa, la rivolta dei lavoratori parigini (apparsa a Marx come il primo vero scontro di classe che vedesse schierati su opposti fronti proletariato e borghesia) dava corpo all'incubo della rivoluzione sociale, allo "spettro del comunismo". Tutta la società francese, dalla borghesia urbana, al clero, ai contadini irritati per l'aumento delle tasse, fu attraversata da un'ondata di riflusso conservatore. Nei mesi successivi alle giornate di giugno, la situazione rimase tuttavia sotto il controllo dei repubblicani moderati. In novembre l'Assemblea costituente approvò a stragrande maggioranza una costituzione democratica, ispirata al modello statunitense, che prevedeva un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo per la durata di quattro anni e un'unica Assemblea legislativa eletta anch'essa a suffragio universale. Ma alle elezioni presidenziali (10 dicembre) i repubblicani si presentarono divisi (l'ala moderata appoggiò Cavaignac, quella progressista si schierò con LedruRollin), mentre i conservatori di ogni gradazione fecero

blocco sulla candidatura di Luigi Napoleone Bonaparte, figlio di un fratello dell'imperatore (quel Luigi Bonaparte che aveva occupato il trono olandese). Nonostante avesse un passato da cospiratore - era sfuggito al carcere due volte, dopo altrettanti tentativi falliti di rovesciare Luigi Filippo - l'allora quarantenne Luigi Napoleone seppe offrire ampie garanzie alla destra conservatrice e clericale, che non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se si fosse presentata isolata. Bonaparte assicurava, al contrario, per la sola forza del suo nome, una sicura presa su vasti strati di elettorato popolare. Il calcolo si rivelò esatto. Una vera e propria valanga di suffragi si riversò sul Bonaparte, che ottenne 5.400.000 voti, contro il milione e mezzo scarso di Cavaignac e i 400.000 di LedruRollin. Si chiudeva così la fase democratica della Seconda Repubblica. La Francia cessava di essere il centro di irradiazione della rivoluzione europea. 1.3. La rivoluzione nell'Europa centrale. Il contagio rivoluzionario, L'insurrezione di Vienna, L'incendio si propaga, La rivoluzione in Ungheria, La sollevazione dei popoli slavi, Il "Reichstag" e i contrasti fra le nazionalità, I croati contro i magiari, La sconfitta della rivoluzione a Vienna, L'insurrezione di Berlino, L'Assemblea di Francoforte, La sconfitta della rivoluzione in Prussia, "Grandi tedeschi" e "piccoli tedeschi", La fine della Costituente. Il moto rivoluzionario iniziato a Parigi alla fine di febbraio si propagò nel giro di poche settimane a gran parte dell'Europa. Nell'impero asburgico, negli Stati italiani e nella Confederazione germanica gli echi degli avvenimenti parigini fecero esplodere una situazione già tesa: il malcontento suscitato dalla crisi economica si univa alla protesta contro la gestione autoritaria del potere e si mescolava alle tensioni provocate dalle numerose "questioni nazionali" che il congresso di Vienna aveva lasciato irrisolte. Diversamente da quanto era accaduto in Francia, la componente "sociale" rimase in secondo piano e lo scontro principale fu combattuto fra la borghesia liberale (con l'appoggio di consistenti settori delle classi popolari) e le strutture politiche dell'assolutismo. Il primo importante episodio insurrezionale ebbe luogo a Vienna, il 13 marzo. L'occasione della rivolta fu data da una grande manifestazione di studenti e lavoratori duramente repressa dall'esercito. Dopo due giorni di combattimenti, gli ambienti di corte (regnava allora l'imperatore Ferdinando I, seminfermo di mente) furono costretti a sacrificare il cancelliere Metternich: l'uomosimbolo dell'età della Restaurazione dovette

abbandonare il potere, che deteneva ininterrottamente da quasi quarant’anni, e rifugiarsi all'estero. Le notizie dell'insurrezione di Vienna e della fuga di Metternich fecero precipitare la situazione nelle già irrequiete province dell'Impero asburgico e nella vicina Confederazione germanica. Il 15 marzo vi furono tumulti a Budapest. Il 17 e il 18si sollevavano Venezia e Milano (negli stessi giorni una violenta sommossa scoppiava a Berlino, capitale della Prussia). Il 19 i cittadini di Praga inviavano una petizione all'imperatore chiedendo autonomia e libertà politiche per i cechi. Nella primavera del '48 il grande impero plurinazionale sembrava sull'orlo del collasso. In maggio l'imperatore dovette abbandonare la capitale e promettere la convocazione di un Parlamento dell'Impero (Reichstag) eletto a suffragio universale. In Ungheria le promesse del governo imperiale di concedere ai magiari una propria costituzione e un proprio parlamento non bastarono a fermare l'agitazione autonomistica. Sotto la spinta dell'ala democraticoradicale, che faceva capo a Lajos Kossuth, i patrioti ungheresi profittarono della crisi in cui versava il potere centrale per creare un governo nazionale e per agire in totale autonomia da Vienna. Fu decretata la fine dei rapporti feudali nelle campagne, una misura che certo contribuì ad assicurare l'appoggio dei contadini alla causa nazionale. Fu eletto un nuovo Parlamento a suffragio universale. In luglio, infine, Kossuth cominciò a organizzare un esercito nazionale, primo passo verso la piena indipendenza, che costituiva ormai l'obiettivo finale degli insorti. Anche a Praga, in aprile, venne formato un governo provvisorio. I patrioti cechi, per lo più di orientamento liberale, non mettevano in discussione il vincolo con la monarchia asburgica, ma si limitavano a chiedere più ampie autonomie per tutte le popolazioni slave dell'Impero. Ai primi di giugno si riunì a Praga un congresso cui parteciparono delegati di tutti i territori slavi soggetti alla corona asburgica: sia di quelli settentrionali (Boemia, Slovacchia, Galizia, Rutenia), sia di quelli meridionali (Croazia e Slovenia). Ma il 12 giugno, pochi giorni dopo l'apertura del congresso, alcuni incidenti scoppiati fra la popolazione e l'esercito fornirono alle truppe imperiali il pretesto per un intervento. La capitale boema fu assediata e bombardata. Il congresso slavo fu disperso e il governo ceco sciolto d'autorità. La sottomissione di Praga segnò l'inizio della riscossa per il traballante potere imperiale. Essa mostrava che l'efficienza e la fedeltà dell'esercito, tradizionale pilastro della monarchia asburgica, non erano state intaccate dagli ultimi rivolgimenti politici. Nel corso dell'estate la svolta si consolidò. Mentre il Reichstag, riunitosi per la prima volta in luglio, era paralizzato dai contrasti fra le diverse nazionalità (l'unica sua decisione di portata storica fu

l'abolizione della servitù della gleba in tutti i territori dell'Impero in cui era ancora in vigore), il governo centrale riprendeva gradualmente il controllo della situazione. In luglio - come vedremo più avanti - il maresciallo Radetzky sconfiggeva i piemontesi e ristabiliva il dominio austriaco in Lombardia. In agosto, sotto la protezione dell'esercito, l'imperatore rientrava a Vienna. A questo punto il governo si sentì abbastanza forte per affrontare lo scontro con i separatisti ungheresi che ormai rifiutavano ogni compromesso con la monarchia. Per venire a capo della secessione, il potere imperiale si servì abilmente delle profonde rivalità che dividevano gli slavi dai magiari. Questi ultimi infatti inseguivano il sogno di una "grande Ungheria" che comprendesse tutti i territori slavi già appartenenti all'antico regno magiaro. Gli slavi del Sud - in particolare i croati - furono così indotti ad appoggiarsi alla monarchia asburgica che offriva loro maggiori garanzie di conservare la propria identità nazionale. Un capo del movimento autonomista, Josip Jelacic, fu nominato in luglio governatore della Croazia. In settembre, un esercito comandato dallo stesso Jelacic entrò in Ungheria per unirsi alle truppe imperiali. Almeno per il momento, però, l'Ungheria fu salvata grazie a una nuova insurrezione scoppiata a Vienna ai primi d'ottobre. Studenti e lavoratori della capitale austriaca si sollevarono per impedire la partenza di nuove truppe per il fronte. I reparti già impegnati in Ungheria furono allora richiamati per schiacciare la rivolta. Alla fine di ottobre Vienna fu cinta d'assedio e occupata dopo tre giorni di durissimi combattimenti che costarono agli insorti circa duemila morti. La rivoluzione nell'Impero asburgico veniva così stroncata nella sua punta più avanzata. Poche settimane dopo, l'imperatore Ferdinando I abdicava in favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe. Nel marzo 1849 il nuovo imperatore sciolse d'autorità il Reichstag e promulgò una costituzione "moderata", che prevedeva un Parlamento eletto a suffragio ristretto e dotato di poteri molto limitati e ribadiva al tempo stesso la struttura centralistica dell'Impero. Un corso per molti aspetti simile ebbero gli avvenimenti in Germania. Le grandi manifestazioni popolari iniziate a Berlino il 18 marzo 1848, dopo le prime notizie dei fatti di Vienna, costrinsero il re Federico Guglielmo IV di Prussia a concedere la libertà di stampa e a convocare un Parlamento prussiano (Landtag). Ma intanto agitazioni e sommosse erano scoppiate in molti degli Stati e staterelli che componevano la Confederazione germanica. Ne era scaturita, quasi spontaneamente, la richiesta di un'Assemblea costituente dove fossero rappresentati tutti gli Stati tedeschi, Austria compresa. Un "preparlamento" riunitosi all'inizio di aprile stabilì che la

Costituente tedesca sarebbe stata eletta a suffragio universale e avrebbe avuto la sua sede a Francoforte sul Meno. A metà maggio l'Assemblea aprì i suoi lavori in un clima di generale entusiasmo. Ben presto fu chiaro però che la Costituente di Francoforte non aveva i poteri necessari per imporre la propria autorità ai sovrani e ai governi degli Stati tedeschi e per avviare un processo di unificazione nazionale. Le sue sorti non potevano che dipendere da quanto accadeva nello Stato più importante, la Prussia. Ma proprio in Prussia il movimento liberaldemocratico conobbe un rapido declino, anche perché la borghesia era spaventata dalle agitazioni sociali che nel frattempo si andavano intensificando: in estate vi furono sommosse di lavoratori a Berlino, in Slesia e a Francoforte. Ai primi di dicembre Federico Guglielmo sciolse il Parlamento prussiano ed emanò una costituzione assai poco liberale. Frattanto, i lavori dell'Assemblea di Francoforte erano quasi completamente assorbiti dalle dispute sulla questione nazionale e dalla contrapposizione fra "grandi tedeschi" e "piccoli tedeschi": fautori i primi di una unione di tutti gli Stati germanici intorno all'Austria imperiale, sostenitori i secondi di uno Stato nazionale più compatto, da costruirsi sul nucleo principale del Regno di Prussia. Prevalse, dopo lunghe discussioni, la tesi "piccolotedesca". Ma quando, nell'aprile 1849, una delegazione dell'Assemblea si recò a Berlino per offrire al re di Prussia la corona imperiale, questi la rifiutò in quanto gli veniva offerta da un'assemblea popolare, nata da un moto rivoluzionario. Il gran rifiuto di Federico Guglielmo segnò in pratica la fine della Costituente di Francoforte. La Prussia ritirò i suoi delegati. I rappresentanti moderati e conservatori degli Stati minori, timorosi di sviluppi rivoluzionari, si ritirarono anch'essi. Ridotta alla sola componente democratica, l'Assemblea, che nel frattempo si era trasferita a Stoccarda, fu sciolta il 18 giugno 1849 dalle truppe del governo del Württemberg. 1.4. La rivoluzione in Italia e la prima guerra di indipendenza. L'attesa delle riforme, La sollevazione di Palermo, Le costituzioni, L'insurrezione di Venezia, Le "cinque giornate" di Milano, L'intervento piemontese, La guerra nazionale, La guerra di Carlo Alberto, Il ritiro di Pio IX, La sconfitta di Custoza. La rivoluzione del '48 in Italia ebbe, nella sua fase iniziale, uno sviluppo autonomo rispetto agli altri paesi europei. Già all'inizio dell'anno, tutti gli Stati italiani apparivano percorsi da un generale fermento. Primo e

fondamentale obiettivo comune a tutte le correnti politiche era la concessione di costituzioni (o statuti) fondate sul sistema rappresentativo. Fu la sollevazione di Palermo del 12 gennaio 1848 - legata soprattutto alle tradizionali rivendicazioni autonomistiche dei siciliani - a determinare il primo successo in questa direzione, inducendo Ferdinando II di Borbone - il più retrogrado di tutti i regnanti della penisola - ad annunciare, il 29 gennaio, la concessione di una costituzione nel Regno delle due Sicilie. La mossa inattesa di Ferdinando II non bastò a spegnere il moto autonomistico siciliano ed ebbe inoltre l'effetto di rafforzare l'agitazione costituzionale in tutto il resto d'Italia. Spinti dalla pressione dell'opinione pubblica e dalle continue dimostrazioni di piazza, prima Carlo Alberto di Savoia, poi Leopoldo II di Toscana, infine lo stesso Pio IX si decisero a concedere la costituzione. Annunciate - salvo quella di Pio IX - prima dello scoppio della rivoluzione di febbraio in Francia, le costituzioni del '48 avevano tutte un carattere fortemente moderato ed erano ispirate al modello di quella francese del 1830. La più importante di tutte, lo Statuto che fu promesso da Carlo Alberto l'8 febbraio e che sarebbe poi diventato la legge fondamentale del Regno d'Italia, prevedeva una Camera dei deputati (le cui modalità di elezione furono stabilite da una apposita legge, che legava il diritto di voto a un censo piuttosto elevato), un Senato di nomina regia e una stretta dipendenza del governo dal sovrano. Una soluzione costituzionalemoderata si andava dunque delineando nei maggiori Stati italiani, quando lo scoppio della rivoluzione in Francia e nell'Impero asburgico giunse a mutare i termini del problema, dando nuovo spazio all'iniziativa dei democratici e riportando in primo piano la questione nazionale, fin allora rimasta in ombra. Nei giorni immediatamente successivi alla rivolta di Vienna, si sollevarono anche Venezia e Milano. A Venezia, il 17 marzo, una grande manifestazione popolare aveva imposto al governatore austriaco la liberazione dei detenuti politici, fra cui era il capo dei democratici, l'avvocato Daniele Manin. Pochi giorni dopo, una rivolta degli operai dell'Arsenale militare, cui si unirono numerosi marinai e ufficiali (la marina asburgica era composta in larga parte da Veneti), costringeva i reparti austriaci a capitolare. Il 23 un governo provvisorio presieduto da Manin proclamava la costituzione della Repubblica veneta. A Milano l'insurrezione iniziò il 18 marzo, con un assalto al palazzo del governo, e si protrasse per cinque giorni, le celebri "cinque giornate" milanesi. Borghesi e popolani combatterono fianco a fianco sulle barricate contro il contingente austriaco, forte di quindicimila uomini comandati dal maresciallo Radetzky. Ma furono soprattutto gli operai e gli artigiani a

sostenere il peso degli scontri, che costarono agli insorti circa quattrocento morti. La direzione delle operazioni fu assunta da un "consiglio di guerra" composto prevalentemente da democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Anche gli esponenti dell'aristocrazia liberale, inizialmente favorevoli a un compromesso col potere imperiale, finirono per appoggiare la causa degli insorti e diedero vita, il 22 marzo, a un governo provvisorio. Il giorno stesso Radetzky, preoccupato per l'eventualità di un intervento del Piemonte, decise di ritirare le sue truppe ai confini tra Veneto e Lombardia, all'interno del cosiddetto quadrilatero formato dalle fortezze di Verona, Legnago, Mantova e Peschiera. Il 23 marzo, all'indomani della cacciata degli austriaci da Venezia e da Milano, il Piemonte dichiarava guerra all'Austria. Diverse furono le ragioni che spinsero Carlo Alberto a questa decisione: la pressione congiunta dei liberali e dei democratici, che vedevano nella crisi dell'Impero asburgico l'occasione per liberare l'Italia dagli austriaci; la tradizionale aspirazione della monarchia sabauda ad allargare verso est i confini del Regno; infine il timore che il LombardoVeneto diventasse un centro di agitazione repubblicana. Anche in questo caso, com'era avvenuto per la concessione degli statuti, l'esempio di un sovrano finì col condizionare le decisioni degli altri. Preoccupati dal diffondersi dell'agitazione democratica e patriottica che minacciava la stabilità dei loro troni, Ferdinando II di Napoli, Leopoldo II di Toscana e Pio IX decisero di unirsi alla guerra antiaustriaca e inviarono contingenti di truppe regolari che partirono, accompagnati da grande entusiasmo popolare, assieme a folte colonne di volontari. La guerra piemontese sembrava così trasformarsi in una guerra di indipendenza nazionale e federale, benedetta dal papa e combattuta col concorso di tutte le forze patriottiche. Ma l'illusione durò poco. Carlo Alberto mostrò scarsa risolutezza nel condurre le operazioni militari e si preoccupò soprattutto di preparare l'annessione del LombardoVeneto al Piemonte, suscitando l'irritazione dei democratici e la diffidenza degli altri sovrani, già poco entusiasti della partecipazione al conflitto. Particolarmente imbarazzante era la posizione di Pio IX, che si trovava in guerra contro una grande potenza cattolica. Il 29 aprile il papa annunciò il ritiro delle sue truppe. Lo imitava, pochi giorni dopo, il granduca di Toscana. A metà maggio era Ferdinando di Borbone, che nel frattempo aveva sciolto il Parlamento appena eletto, a richiamare il suo esercito. Rimasero a combattere contro l'Austria, disobbedendo agli ordini dei sovrani, molti fra i componenti dei corpi di spedizione regolari.

Rimasero i volontari toscani, guidati da Giuseppe Montanelli, che furono protagonisti, in maggio, di un glorioso fatto d'armi a Curtatone e Montanara. Accorse dal Sud America Giuseppe Garibaldi, che si mise a disposizione del governo provvisorio lombardo. Ma il contributo dei volontari fu poco e male utilizzato da Carlo Alberto, deciso a combattere la "sua" guerra e a non lasciare spazio all'azione dei democratici. Dopo alcuni modesti successi iniziali dei piemontesi, mentre fra maggio e giugno venivano indetti nei territori liberati (compresa Venezia) frettolosi plebisciti per sancire l'annessione al Regno sabaudo, l'iniziativa tornò nelle mani dell'esercito asburgico. Il 23-25 luglio, nella prima grande battaglia campale, che si combatté a Custoza, presso Verona, le truppe di Carlo Alberto furono nettamente sconfitte e si ritirarono oltre il Ticino. Il 9 agosto fu firmato l'armistizio con gli austriaci. 1.5. Lotte democratiche e restaurazione conservatrice. La rivoluzione dei democratici, La Sicilia, Venezia, la Toscana; La Repubblica romana, Il triumvirato, La ripresa della guerra piemontese, Sconfitta e abdicazione di Carlo Alberto, Il ritorno degli austriaci, L'opera della Repubblica romana, L'intervento francese e la fine della Repubblica romana, La fine della rivoluzione ungherese. Dopo la sconfitta del Piemonte, a combattere contro l'Impero asburgico restavano solo i democratici italiani e ungheresi. Mentre in Ungheria lo scontro col potere imperiale assunse il carattere di una vera e propria guerra nazionale, in Italia i patrioti democratici dovettero combattere una serie di battaglie locali (a Roma e a Venezia, in Toscana e in Sicilia) senza riuscire a coordinare i diversi fronti e senza poter dare alla loro lotta una dimensione autenticamente popolare. Il loro ideale di una guerra di popolo che unisse la prospettiva della liberazione nazionale a quella dell'emancipazione politica e del rinnovamento sociale contrastava con la ristrettezza della base su cui effettivamente potevano contare: la piccola e media borghesia urbana (soprattutto quella intellettuale), il "popolo minuto" e i ceti artigiani delle città. Le masse contadine, ossia la stragrande maggioranza della popolazione italiana, rimasero invece estranee, quando non apertamente ostili, alle loro battaglie. Tuttavia, nell'autunno del '48, la situazione in Italia era ancora abbastanza fluida. La Sicilia restava sotto il controllo dei separatisti, che si erano dati un proprio governo e una propria costituzione democratica. A Venezia, rimasta in mano degli insorti anche dopo la sconfitta di Custoza, Manin

aveva nuovamente proclamato la repubblica. In Toscana, alla fine di ottobre, il granduca fu costretto dalla pressione popolare a formare un ministero democratico, capeggiato da Giuseppe Montanelli e da Francesco Domenico Guerrazzi, leader dei repubblicani livornesi. A Roma, in novembre, l'uccisione in un attentato del primo ministro pontificio, il liberalmoderato Pellegrino Rossi, aveva indotto il papa ad abbandonare la città e a rifugiarsi a Gaeta sotto la protezione di Ferdinando di Borbone. Nella capitale, rimasta senza governo, presero il sopravvento i gruppi democratici. Nel gennaio del 1849, in tutti i territori dell'ex Stato pontificio, si tennero le elezioni a suffragio universale per l'Assemblea costituente. Fra gli eletti, in maggioranza democratici, c'erano anche Mazzini e Garibaldi. Il 9 febbraio l'Assemblea proclamò la decadenza del potere temporale dei papi e annunciò che lo Stato avrebbe assunto "il nome glorioso di Repubblica romana", avrebbe adottato come forma di governo "la democrazia pura" e avrebbe stabilito col resto d'Italia "le relazioni che esige la nazionalità comune". Era il primo passo verso la realizzazione di quella "Costituente italiana" che avrebbe dovuto fondare la costruzione dell'unità nazionale su basi democratiche e non dinastiche. Gli sviluppi della situazione nello Stato pontificio ebbero immediate ripercussioni in Toscana. Ai primi di febbraio, Leopoldo II abbandonò il paese, mentre veniva convocata un'Assemblea costituente e i poteri effettivi passavano a un triumvirato composto da Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni. Intanto i democratici ripresero l'iniziativa anche in Piemonte. Il 20 marzo 1849 Carlo Alberto, schiacciato fra le loro pressioni e l'intransigenza degli austriaci, che ponevano condizioni molto pesanti per la firma della pace, si decise a tentare di nuovo la via delle armi. Questa volta però aveva di fronte non un esercito in ritirata, ma una armata già pronta ad attaccare. Penetrate in territorio piemontese, le truppe di Radetzky affrontarono l'esercito sabaudo il 22-23 marzo nei pressi di Novara e gli inflissero una gravissima sconfitta. La stessa sera del 23 marzo, Carlo Alberto, per non mettere in pericolo le sorti della dinastia, abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Questi, il giorno dopo, firmò un nuovo armistizio con gli austriaci. Una rivolta democratica scoppiata a Genova fu duramente repressa dall'esercito. Liquidata la partita col Regno sabaudo, gli austriaci potevano ora procedere alla restaurazione dell'ordine in tutta la penisola. Alla fine di marzo, un'insurrezione a Brescia fu schiacciata dopo durissimi combattimenti (le "dieci giornate" di Brescia). In aprile, le truppe imperiali strinsero d'assedio Venezia, che avrebbe resistito eroicamente per quasi cinque mesi e si sarebbe arresa per fame solo alla fine di agosto. In maggio,

mentre Ferdinando di Borbone riusciva finalmente a riconquistare la Sicilia, gli austriaci occuparono il territorio delle Legazioni pontificie (Bologna, Ferrara, la Romagna e le Marche settentrionali) e contemporaneamente posero fine all'esperienza della Repubblica toscana. Più lunga e gloriosa fu la resistenza della Repubblica romana, divenuta il centro principale della rivoluzione democratica e il luogo di incontro di esuli e cospiratori di tutta Italia: da Mazzini e Garibaldi al romagnolo Aurelio Saffi, al genovese Mameli, al napoletano Pisacane, ai milanesi Cernuschi&Manara, eroi delle "cinque giornate". Fin dai suoi primi atti, il governo repubblicano si qualificò per l'energia con cui cercò di portare avanti l'opera di laicizzazione dello Stato e di rinnovamento politico e sociale. Furono aboliti i tribunali ecclesiastici e fu decretata la confisca dei beni del clero. Fu varato - caso unico nella storia delle rivoluzioni italiane dell'800 - un progetto di riforma agraria che prevedeva la concessione di parte dei fondi confiscati in affitto perpetuo alle famiglie più povere. Frattanto però, dal suo esilio di Gaeta, Pio IX si era rivolto alle potenze cattoliche per essere ristabilito nei suoi territori. Avevano risposto all'appello non solo l'Austria, la Spagna e il Regno di Napoli, ma anche la Repubblica francese, ormai dominata dalle forze clericoconservatrici. Il presidente Bonaparte - sia per assicurarsi l'appoggio dei cattolici sia per prevenire un intervento austriaco - si riservò il ruolo principale nella restaurazione pontificia, inviando nel Lazio un corpo di spedizione forte di 35.000 uomini. All'inizio di giugno i reparti francesi attaccarono la capitale. I repubblicani - che avevano affidato i pieni poteri a un triumvirato composto da Mazzini, da Saffi e dal romano Carlo Armellini - riuscirono a tenere in scacco gli assedianti per più di un mese. La difesa della Repubblica romana, pur priva di qualsiasi possibilità di successo sul piano militare, ebbe un altissimo valore di testimonianza politica e ideale. Il 4 luglio, subito prima di annunciare la resa, l'Assemblea costituente approvò il testo della Costituzione, destinato a diventare un documentosimbolo della politica democratica, oltre che un modello alternativo agli statuti di ispirazione moderata. Mentre i francesi entravano a Roma, Garibaldi lasciava la città con qualche centinaio di volontari, nel vano tentativo di raggiungere Venezia. Dopo la fine della Repubblica romana, l'unico focolaio di rivolta in Europa - a parte l'estrema resistenza di Venezia - restava l'Ungheria di Kossuth, dove i patrioti magiari, profittando anche dell'impegno austriaco in Italia, avevano riacquistato il controllo del paese e ne avevano proclamato l'indipendenza. Per venire a capo della ribellione, il governo austriaco chiese l'aiuto dello zar di Russia, preoccupato dalla persistenza di un

focolaio rivoluzionario ai confini del suo impero. Attaccato contemporaneamente da due eserciti, il neonato Stato magiaro fu costretto a soccombere (battaglia di Vilagos dell'11 agosto 1849), dopo una campagna durata più di due mesi. Due settimane dopo (26 agosto) capitolava Venezia. Si concludeva così l'ultima fase della stagione rivoluzionaria cominciata all'inizio del '48. La causa principale di questo generale fallimento va individuata nelle profonde fratture che attraversavano al loro interno le forze del cambiamento e della rivoluzione, dividendo sempre più le correnti democraticoradicali dai gruppi liberalmoderati. Questi ultimi, spaventati dalla minaccia della rivoluzione sociale (identificata con lo "spettro del comunismo"), si riaccostarono più o meno rapidamente alle vecchie classi dirigenti. Lasciati soli a sostenere lo scontro politico e militare con l'antico regime, e privi di un'autentica base di massa, i democratici erano inevitabilmente destinati a soccombere. La sconfitta dell'ipotesi rivoluzionaria non cancellava però quanto di nuovo era emerso dalla esperienza del '48: la spinta verso una più ampia partecipazione al potere politico e l'affermazione degli ideali di nazionalità costituivano ormai un dato incancellabile del panorama europeo, un problema cui si potevano dare risposte diverse, ma da cui non si poteva prescindere del tutto. 1.6. La Francia dalla Seconda Repubblica al Secondo Impero. Le cause della sconfitta democratica, Le elezioni del '49, La repressione contro i democratici, Il colpo di Stato di Bonaparte, Il Secondo Impero. Portato al potere da una coalizione di conservatori, clericali e moderati ex orleanisti, Luigi Napoleone Bonaparte mostrò subito di voler mantenere gli impegni assunti col "partito dell'ordine". Un notabile orleanista, Odilon Barrot, fu chiamato a presiedere il nuovo governo. Il ministero della Pubblica istruzione e dei culti fu affidato a un clericale. Le elezioni per la nuova Assemblea legislativa, che si tennero il 13 maggio '49, portarono nella nuova Camera una solida maggioranza clericoconservatrice. Una delle prime conseguenze delle elezioni fu la decisione del governo di affrettare i tempi dell'intervento militare contro la Repubblica romana. Contro questa decisione protestarono i democratici che, il 13 giugno, organizzarono una manifestazione nella capitale. Il successo della manifestazione fu scarso, ma ugualmente energica fu la repressione: molti capi democratici furono arrestati o, come LedruRollin, costretti a fuggire all'estero. Anche nei mesi successivi la destra conservatrice continuò a

segnare punti al suo attivo. Nel 1850 fu varata una nuova legge sull'istruzione, che riapriva al clero le porte della scuola e dell'università, e furono aumentate le tasse sulle imprese giornalistiche (una misura che colpiva soprattutto le piccole testate). Nello stesso anno, una nuova legge elettorale privava del diritto di voto circa tre milioni di elettori nullatenenti. A questo punto, però, l'alleanza fra il presidente e la maggioranza moderata cominciò a incrinarsi. I gruppi conservatori, che avevano favorito l'elezione di Bonaparte in quanto ritenevano di poterlo controllare facilmente, guardavano con sospetto a un eccessivo rafforzamento del suo potere personale. Nel luglio del '51, la Camera respinse la proposta di modificare quell'articolo della costituzione che impediva la rielezione di un presidente alla scadenza del mandato. Ma, pochi mesi dopo, un colpo di Stato attuato con l'appoggio dell'esercito consentì a Bonaparte di sbarazzarsi contemporaneamente della maggioranza moderata e dell'opposizione democratica. Il 2 dicembre 1851 la Camera fu occupata dalle truppe e sciolta d'autorità. Oltre diecimila oppositori furono arrestati e deportati oltremare. La resistenza dei quartieri popolari di Parigi e i tentativi isolati di insurrezione in provincia furono facilmente repressi dall'esercito. Il 21 dicembre, un plebiscito a suffragio universale sanzionò a maggioranza schiacciante (7 milioni e mezzo di voti contro 650.000) l'operato di Bonaparte e gli attribuì il compito di redigere una nuova costituzione. Promulgata nel gennaio successivo, la costituzione stabiliva in dieci anni la durata del mandato presidenziale; ripristinava il suffragio universale, ma toglieva alla Camera l'iniziativa legislativa (cioè il diritto di proporre leggi), riservandola al presidente; istituiva un Senato vitalizio, ovviamente di nomina presidenziale. La Repubblica era ormai tale solo di nome. E la finzione fu abolita, nel dicembre 1852, da un nuovo plebiscito che approvava, con una maggioranza ancor più schiacciante di quella dell'anno precedente, la restaurazione dell'Impero. Luigi Napoleone assumeva così il nome di Napoleone III (veniva dunque incluso nella serie anche il figlio di Napoleone I, morto in esilio) col diritto di trasmettere il titolo imperiale ai suoi eredi. Sommario La crisi rivoluzionaria del '48 interessò gran parte dell'Europa continentale, anche a causa di alcuni elementi comuni presenti nei vari paesi: crisi economica del 1846-47, azione dei democratici, attesa di un

nuovo grande sommovimento rivoluzionario. Simili furono anche i contenuti delle varie insurrezioni: richiesta di libertà politiche e di democrazia, e - in Italia, Germania e Impero asburgico - spinta verso l'emancipazione nazionale. La novità delle rivoluzioni del '48 risiedette nella massiccia partecipazione dei ceti popolari urbani e nella presenza di obiettivi sociali accanto a quelli politici. Il centro di irradiazione del moto rivoluzionario fu la Francia. L'insurrezione parigina di febbraio portò alla proclamazione della repubblica, che ebbe all'inizio un indirizzo democraticosociale. Le elezioni per l'Assemblea costituente dell'aprile '48 sancirono la vittoria dei repubblicani moderati. L'insurrezione di giugno dei lavoratori di Parigi fu duramente repressa e segnò la svolta in senso conservatore della Repubblica, concretizzatasi in dicembre con l'elezione a presidente di Luigi Napoleone Bonaparte. In marzo il moto rivoluzionario si propagò all'Impero asburgico, agli Stati italiani e alla Confederazione germanica. A Vienna, Metternich dovette lasciare il potere e venne concesso un Parlamento dell'Impero. In Ungheria l'agitazione ebbe un accentuato carattere indipendentistico. Anche a Praga e negli altri territori della monarchia asburgica si estesero, sia pure in forma meno accentuata, le rivendicazioni di autonomia. La repressione militare della sollevazione di Praga (giugno 1848) segnò l'inizio della riscossa del potere imperiale, che utilizzò abilmente le rivalità fra gli slavi e i magiari. Dopo la repressione di una nuova insurrezione a Vienna (ottobre '48), saliva al trono imperiale Francesco Giuseppe. La rivoluzione di Berlino portò inizialmente ad alcune concessioni da parte del re Federico Guglielmo IV; il movimento liberaldemocratico conobbe però un rapido declino. In maggio, sulla spinta delle agitazioni e sommosse scoppiate nei vari Stati tedeschi, si era riunita a Francoforte un'Assemblea costituente con l'obiettivo di avviare un processo di unificazione nazionale tedesca. Il rifiuto da parte di Federico Guglielmo IV della corona imperiale offertagli dall'Assemblea di Francoforte nell'aprile '49 segnò in pratica la fine di quest'ultima. All'inizio del 1848, e prima della rivoluzione di febbraio in Francia, negli Stati italiani c'erano forti aspettative di un'evoluzione interna dei vecchi regimi. La sollevazione di Palermo, in gennaio, induceva Ferdinando II di Borbone a concedere una costituzione; il suo esempio era subito seguito da Carlo Alberto, Leopoldo II di Toscana e Pio IX. Lo scoppio della rivoluzione in Francia dava nuova spinta all'iniziativa dei democratici italiani e riportava in primo piano la questione nazionale. A Venezia si proclamava la repubblica; a Milano, dopo "cinque giornate" di insurrezione,

fu costituito un governo provvisorio. Il 23 marzo '48 Carlo Alberto dichiarava guerra all'Austria, ottenendo l'appoggio del re delle due Sicilie, del granduca di Toscana e del papa, appoggio che sarebbe stato ritirato di lì a poco. I piemontesi, anche per la scarsa risolutezza con cui condussero le operazioni militari, vennero sconfitti a Custoza (luglio '48) e costretti a firmare un armistizio con l'Austria. A combattere contro l'Impero asburgico restavano i democratici italiani (oltre a quelli ungheresi). In Sicilia resistevano i separatisti, a Venezia era proclamata di nuovo la repubblica, in Toscana si formava un triumvirato democratico, a Roma, dopo la fuga del papa (novembre '48), si proclamava la repubblica. Nel marzo '49 il Piemonte riprendeva la guerra contro l'Austria. Subito sconfitto a Novara, Carlo Alberto abdicava a favore del figlio Vittorio Emanuele II. I governi rivoluzionari venivano sconfitti in tutta Italia: terminava la rivoluzione autonomistica siciliana, gli austriaci ponevano fine alla Repubblica toscana e occupavano le Legazioni pontificie, i francesi intervenivano militarmente contro la Repubblica romana. Gli ultimi focolai rivoluzionari a soccombere furono quelli ungherese e veneto, in entrambi i casi per l'intervento asburgico. La causa fondamentale del generale fallimento delle rivoluzioni del '48 va individuata nelle fratture all'interno delle forze che di quelle rivoluzioni erano state protagoniste: nei contrasti, cioè, fra correnti democraticoradicali e gruppi liberalmoderati. Aveva pesato inoltre, nel determinare la sconfitta delle esperienze rivoluzionarie italiane, l'estraneità delle masse contadine, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione. In Francia si accentuava, nel 1849, l'evoluzione della situazione politica in senso conservatore. Nel dicembre 1851 Bonaparte effettuò un colpo di Stato e riformò la costituzione. L'anno successivo un plebiscito sanzionava la restaurazione dell'Impero: Luigi Napoleone Bonaparte diventava imperatore con il nome di Napoleone III. Bibliografia Per uno sguardo d'insieme sulle rivoluzioni del '48-49: L'età della borghesia, a e. di G. Palmade, Feltrinelli, Milano 1975 (vol. 27 della Storia universale Feltrinelli). Sull'esperienza repubblicana in Francia: M. Agulhon, La Francia della Seconda Repubblica 1848-1852, Editori Riuniti, Roma 1979. Sulle rivoluzioni nell'Impero asburgico e in Germania: A. Sked, Grandezza e caduta dell'Impero asburgico 1815-1918, Laterza, RomaBari 1992; H. Holborn, Storia della Germania moderna, Rizzoli, Milano 1973;

H. Lutz, Fra Asburgo e Prussia. La Germania dal 1815 al 1866, Il Mulino, Bologna 1992. Per l'Italia, la ricostruzione migliore è quella di G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, vol. III, La Rivoluzione nazionale, Feltrinelli, Milano 1960. Fra le opere dei contemporanei vanno ricordate: K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Editori Riuniti, Roma 1973; i ricordi di A. de Tocqueville, Una rivoluzione fallita, in Scritti politici, vol. I, Utet, Torino 1969; e gli scritti di C. Cattaneo, Il 1848 in Italia, Einaudi, Torino 1972. 2. Società borghese e movimento operaio. 2.1. La borghesia europea. L'ascesa della borghesia; Borghesia, borghesie; Il ceto medio, Lo stile borghese, La casa., I valori tradizionali, Morale sessuale e rispettabilità, La povertà come peccato. Le rivoluzioni del '48-49 si erano concluse con un totale fallimento. Nessuno degli esperimenti democratici aveva retto all'urto dell'ondata restauratrice. I vecchi sovrani erano tornati sui loro troni dappertutto, salvo che in Francia (dove però l'istituto monarchico era stato ripristinato sotto altra forma). Le istituzioni rappresentative erano state quasi ovunque cancellate o soffocate dal ritorno dei metodi assolutistici. Al clima di generale conservatorismo e alla sostanziale staticità delle strutture politiche, faceva però riscontro un processo di profondo mutamento della società: un processo che aveva per principali protagonisti i ceti borghesi, ma che coinvolgeva anche, sia pure più lentamente, le classi proletarie. Nel ventennio successivo al 1848, la borghesia europea conobbe una stagione di crescita e di affermazione. Nonostante che il suo ruolo, la sua composizione e i suoi stessi caratteri variassero molto da paese a paese (in questo senso parlarne come di un tutto unico suona come una semplificazione eccessiva), nonostante fosse ancora condizionata dalla persistenza delle vecchie gerarchie sociali e fosse pesantemente sacrificata nella distribuzione del potere (in quasi tutti i paesi europei le redini del governo restavano nelle mani di membri dell'aristocrazia), la borghesia riuscì in questo periodo a presentarsi come portatrice e depositaria degli elementi di novità e trasformazione (lo sviluppo economico, il progresso

scientifico), a far valere la sua influenza e le sue idee guida: il merito individuale, la libera iniziativa, la concorrenza, l'innovazione tecnica. Chi erano, quanti erano, come vivevano e come pensavano i protagonisti di questa fase della storia europea che non a torto è stata definita come "età della borghesia"? Allora come oggi il termine "borghesia" serviva a definire una gamma molto ampia di figure e posizioni sociali. Si andava dagli artigiani e dai contadini piccoli proprietari, la cui condizione, ai livelli inferiori, tendeva a confondersi con quella delle classi proletarie, ai grandi magnati dell'industria e della finanza, che aspiravano ad assumere i comportamenti esteriori tipici dell'aristocrazia e, dove ciò fosse possibile, a mescolarsi con essa. Fra questi due estremi si collocavano i gruppi e le categorie sociali che più propriamente si possono definire borghesi. Innanzitutto i ceti "emergenti", la cui fortuna era legata allo sviluppo dell'industria e dei mezzi di trasporto: imprenditori e dirigenti d'azienda, banchieri e grossi commercianti. Accanto a loro, la borghesia più tradizionale: quella che traeva i suoi proventi dalla terra, quella che esercitava le professioni (avvocati, medici, ingegneri) e quella che occupava i gradi medioalti della burocrazia statale. Un gradino più in basso si situavano impiegati e insegnanti, piccoli commercianti e piccoli professionisti: insomma quell'area dai confini non ben definibili che già allora veniva indicata come ceto medio o piccola borghesia. Nel complesso, la borghesia costituiva una fascia piuttosto ristretta della popolazione: in Gran Bretagna, intorno al 1870, i borghesi in senso lato non erano più del 20%; e la percentuale scendeva al 2% circa se si prendevano in considerazione solo gli strati urbani superiori (senza contare, dunque, il ceto medio e la borghesia agraria). Nonostante la varietà delle sue componenti, la borghesia europea tendeva a esprimere una propria cultura e un proprio stile di vita, i cui tratti essenziali si possono ricondurre a un modello unitario. Uno stile di vita borghese è innanzitutto ravvisabile nelle manifestazioni esteriori. Ad esempio, nell'abbigliamento, cui uomini e donne delle classi superiori dedicavano allora molta cura e che rappresentava, assai più di quanto accade oggi, il principale segno distintivo di una condizione sociale. In Francia, verso la metà del secolo, nel bilancio di una famiglia altoborghese le spese per l'abbigliamento costituivano una quota non molto inferiore a quella per l'alimentazione e pari a quella destinata all'affitto della casa di abitazione (alimentazione e affitto assorbivano invece la quasi totalità delle entrate di una famiglia operaia).

Uguali cure erano destinate all’arredamento. Le abitazioni borghesi non avevano certo lo sfarzo e lo spreco di spazio delle dimore aristocratiche. Requisiti tipici della casa borghese erano piuttosto la solidità e la funzionalità. All'interno, però, l'abbondanza degli addobbi, dei quadri e dei soprammobili, l'attenzione al particolare e il gusto dell'ornato rivelavano l'esigenza di tradurre il successo e la ricchezza in simboli visibili e tangibili. Nonostante questa esigenza - e nonostante le tendenze imitative dei modelli aristocratici, che affioravano soprattutto negli strati superiori i valori fondamentali dell'etica e della cultura borghese restavano quelli tradizionali, l'austerità, la moderazione, la propensione al risparmio, la capacità di reprimere gli istinti erano le virtù capitali per il borghesetipo, quelle che gli permettevano di legittimare moralmente la propria posizione nella società. Questa componente moralistica e puritana si rifletteva in particolare nella struttura della famiglia: una struttura patriarcale non diversa nella sostanza da quella delle società preindustriali, basata quindi sull'autorità del capofamiglia e sulla subordinazione della donna. Con la differenza che, nella società borghese, la donna era generalmente esclusa dalle attività lavorative e confinata nel ruolo di custode e simbolo del focolare domestico. Ci si può chiedere come mai una società che riconosceva i valori della libertà e della concorrenza fra eguali poggiasse su un'istituzione che così radicalmente li negava; e come un rigorismo così intransigente in materia di morale familiare e sessuale potesse conciliarsi con l'ideale di moderazione e di giusto mezzo che tradizionalmente caratterizzava gli orizzonti culturali della borghesia. La contraddizione si può spiegare abbastanza agevolmente. Proprio perché credeva in una società aperta, dove nulla era garantito a priori, il borghese aveva bisogno di un retroterra sicuro, quale solo il tradizionale istituto familiare poteva fornirgli. Proprio perché viveva in un mondo dominato dalla competizione e rischiava continuamente di essere sostituito da altri più meritevoli e più fortunati di lui, doveva costruire e difendere un'immagine di rispettabilità (che non gli derivava, come agli aristocratici, dall'appartenenza a un ordine privilegiato) e doveva armarsi di quei saldi princìpi morali senza i quali la caduta sarebbe stata inevitabile. Non tutti i borghesi praticavano scrupolosamente le virtù borghesi: le cronache della borghesia ottocentesca pullulano di speculatori disonesti e di avventurieri senza scrupoli. Ma l'idea secondo cui solo certe doti morali potevano garantire il mantenimento o il miglioramento delle posizioni acquisite era largamente accettata. Ne discendeva, come logica conseguenza, il luogo comune secondo cui chi occupava i gradini inferiori della scala sociale era colui che di quelle doti era sprovvisto. In altre parole,

la povertà era un peccato o quanto meno il frutto di colpe ataviche. I poveri rimanevano poveri perché non conoscevano l'arte del risparmio e non erano in grado di dominare i bassi istinti. Così veniva spiegata, fra l'altro, la diffusione tra le classi subalterne della delinquenza, dell'alcolismo, della prostituzione. Al contrario, si pensava che chiunque possedesse accortezza, moderazione e capacità di sacrificio potesse raggiungere i traguardi più ambiziosi, in termini di ricchezza e di rispettabilità. 2.2. Ottimismo borghese e cultura positiva. Il positivismo, Le teorie di Darwin, Le implicazioni culturali del darwinismo, Il positivismo e la politica, Il "darwinismo sociale". Fermamente convinto della validità dei suoi princìpi e fiducioso nelle proprie capacità, il borghese europeo della seconda metà dell'800 era altresì animato da una robusta fede nel progresso generale dell'umanità. Questo diffuso ottimismo poggiava soprattutto su due pilastri: lo sviluppo economico e le conquiste della scienza. Negli anni 1850-70, la chimica, la fisica, la biologia e tutte le scienze della natura non solo conobbero importanti progressi teorici (furono questi gli anni delle scoperte di Maxwell sull'elettricità, delle ricerche di Pasteur sui microrganismi, della formulazione da parte di Mendel delle leggi sui caratteri ereditari), ma tornarono a occupare, come nell'età dell'Illuminismo, una posizione di preminenza nell'ambito della cultura europea. Sui progressi della scienza si fondò essenzialmente quella nuova corrente intellettuale, il positivismo, che cominciò ad affermarsi verso la metà del secolo e venne poi allargando la sua influenza fino a improntare di sé una lunga stagione della cultura occidentale, a diventare una sorta di mentalità diffusa, un metodo generale di ricerca e di interpretazione della realtà. Il positivismo fu prima di tutto un indirizzo filosofico) che considerava la conoscenza scientifica - quella basata su dati reali, positivi - come la sola valida e applicava i metodi delle scienze naturali allo studio di tutti i campi dell'attività umana, dall'arte all'economia, dalla psicologia alla politica. Il pensatore francese Auguste Comte, vissuto nella prima metà del secolo, fu il padre riconosciuto della nuova filosofia e il primo a tracciare i lineamenti di una "scienza della società", ossia della moderna sociologia. Il filosofo inglese Herbert Spencer, più giovane di una generazione, ne elaborò un'interpretazione in chiave evoluzionistica, che incontrò notevole fortuna soprattutto nel mondo anglosassone. Dal settore degli studi filosofici il

positivismo venne allargando la sua influenza a tutti gli altri campi del sapere. Fra i maggiori esponenti della cultura positivista si annoveravano infatti studiosi di economia e di politica, giuristi, storici, letterati e soprattutto scienziati. Il rappresentante più tipico e più popolare del nuovo spirito "positivo" fu appunto uno scienziato: il grande naturalista inglese Charles Darwin. In un'opera dal titolo L'origine delle specie, uscita nel 1859 e diventata subito celebre, Darwin formulò, sulla base di lunghe osservazioni scientifiche sul mondo animale, una compiuta teoria dell'evoluzione. Secondo questa teoria, la natura è soggetta a un incessante processo evolutivo, guidato da un meccanismo di selezione naturale che determina la sopravvivenza (e la riproduzione) degli individui meglio attrezzati per reagire alle sollecitazioni dell'ambiente e la scomparsa degli elementi più deboli e meno adatti. L'uomo stesso, secondo Darwin, non è che il risultato dell'evoluzione di organismi inferiori, l'ultimo anello di una catena biologica che procede, senza soluzione di continuità, dai protozoi fino ai mammiferi più complessi. Pur muovendosi in un ambito prettamente scientifico, le teorie darwiniane influenzarono in larga misura il dibattito filosofico; e, ciò che più conta, agirono in profondità sulle convinzioni e sulla mentalità delle classi colte e sulla stessa cultura popolare. La teoria evoluzionistica contraddiceva le credenze religiose sulla creazione dell'uomo direttamente ad opera della divinità e forniva gli elementi per una storia del genere umano radicalmente alternativa a quella offerta dalle Sacre Scritture. In questo modo il darwinismo si inseriva nel quadro più generale della cultura "positiva", che tendeva a liberare l'uomo da ogni forma di condizionamento soprannaturale, a immergerlo completamente nel mondo della natura, a sostituire le certezze delle religioni rivelate con quelle delle scienze esatte. Dal punto di vista ideologicopolitico, il positivismo poteva dar luogo a esiti diversi e talora opposti: fortemente conservatori in Comte, che teorizzava un sistema politico autoritario e gerarchico, apertamente progressisti in Spencer e in altri pensatori anglosassoni (come John StuartMilD, che pensavano invece a una società organizzata democraticamente e aperta alle esigenze del riformismo sociale. Lo stesso darwinismo fu letto e sviluppato in modi molto diversi. Se da un lato la teoria dell'evoluzione si prestava a essere interpretata in chiave ottimistica, come prova della possibilità di progresso indefinito della specie umana, dall'altro il principio della selezione naturale poteva essere utilizzato per consacrare il diritto del più forte nei rapporti fra gli individui e fra le classi (si parlò a questo proposito di "darwinismo sociale"), e anche fra gli Stati.

Quel che è certo comunque è che, nella seconda metà dell'800, il positivismo fu l'ideologia tipica della borghesia in ascesa; e che, nelle sue diverse espressioni, esso contribuì potentemente ad alimentare la fiducia nel progresso dell'umanità e a sostenere la convinzione di poter controllare, grazie alla scienza, il corso della natura e degli stessi processi sociali. Parola chiave Progresso Nel linguaggio comune, "progresso" è sinonimo di "avanzamento" o di "sviluppo". In termini storicofilosofici, credere nel progresso significa pensare che il corso della storia sia necessariamente orientato verso un graduale miglioramento della condizione umana, verso un aumento della felicità - o del benessere materiale, o della ricchezza spirituale - dei singoli e della collettività. L'idea moderna di progresso è nata con l'Illuminismo: tipica della cultura illuministica è infatti una concezione laica della storia, che considera la natura umana perfettibile e la felicità realizzabile nel mondo degli uomini (e non solo nell'aldilà). Nell'età romantica, l'idea di progresso viene mutando i suoi tratti e si lega alle concezioni idealistiche e storicistiche che vedono la storia come un processo di continuo arricchimento dello spirito universale: un processo che è inarrestabile e necessario, ma non dipende dall'azione dell'uomo, anzi la determina. L'epoca del positivismo è stata quella in cui l'ideale di progresso ha conosciuto la sua maggiore affermazione, fino a costituire il nucleo centrale e l'ideaguida della cultura borghese nella seconda metà dell'800. Anche per i positivisti il progresso è il risultato di leggi immanenti allo sviluppo storico, più che della volontà dei singoli (gli uomini possono tutt'al più agire per accelerare il progresso o per rallentarlo). Ma si tratta di leggi scientifiche, analoghe a quelle che regolano l'evoluzione del mondo naturale; e l'accento è posto non tanto sul progresso "spirituale", quanto sullo sviluppo tecnico e materiale. Questa idea di progresso è entrata in crisi alla fine dell'800, assieme a tutto il sistema culturale e filosofico legato al positivismo. Le vicende drammatiche del '900 - in particolare le due guerre mondiali hanno ulteriormente incrinato la fiducia in un corso razionale e ordinato della storia dell'umanità; e la cultura del '900, in tutte le sue molteplici correnti, ha assunto nei confronti dell'idea di progresso un atteggiamento più critico e disincantato. Nemmeno il grande processo di sviluppo economico e di avanzamento scientifico verificatosi nell'epoca successiva al secondo conflitto mondiale (epoca per altro verso dominata dall'incubo della guerra nucleare) è valso a riproporre l'idea di progresso nei termini ottimistici in cui veniva concepita nell'800.

2.3. Lo sviluppo economico. Il boom industriale, La diffusione delle macchine, Le concentrazioni e le società per azioni, Le crisi cicliche, I fattori dello sviluppo, La rimozione dei vincoli giuridici, Il trionfo del libero scambio, La disponibilità di materie prime, Capitali e banche, Mezzi di trasporto. A partire dalla fine degli anni '40, superata la crisi del '46-47, l'economia europea conobbe una fase di forte espansione, che fu caratterizzata dall'aumento dei prezzi, dei salari e dei profitti e che durò, salvo due brevi interruzioni, per quasi un quarto di secolo. Gli effetti di questa fase espansiva si fecero sentire, sia pure in diversa misura, in tutti gli Stati europei e interessarono tutti i settori dell'economia. Anche il settore meno dinamico, quello agricolo, favorito dal regime di alti prezzi, realizzò notevoli progressi in termini di produttività e si giovò in misura crescente delle nuove possibilità offerte dalle ferrovie che, aumentando la velocità di circolazione delle merci, aprirono le campagne alla penetrazione dell'economia di mercato. I risultati più consistenti si ebbero però nell'industria che, fra il 1850 e il 1873, fece registrare un vero e proprio boom. Il boom avvantaggiò soprattutto le "nuove" potenze industriali (la Francia del Secondo Impero e la Germania in via di unificazione), consentendo loro di ridurre il divario che le separava dalla Gran Bretagna, e si fondò essenzialmente sullo sviluppo dei settori siderurgico e meccanico: per i paesi di industrializzazione più recente, furono questi settori a svolgere il ruolo trainante che in Inghilterra era stato proprio dell'industria tessile. Si trattò di uno sviluppo imponente sia dal punto di vista quantitativo (l'industria siderurgica tedesca, ad esempio, crebbe, per tutto il ventennio 1850-70, a un tasso medio annuo del 10%), sia da quello qualitativo. In questi anni si diffusero nell'Europa continentale le innovazioni che avevano costituito, mezzo secolo prima, il nucleo propulsivo della rivoluzione industriale inglese. La macchina a vapore sconfisse definitivamente la ruota idraulica; (filatoi e telai meccanici) soppiantarono gradualmente quelli manuali; il combustibile minerale (carbon coke) si sostituì sempre più al carbone di legna. Fra il 1850 e il 1870, la potenza in cavalli vapore delle macchine fisse per l'industria crebbe di tre volte in Gran Bretagna, di cinque volte in Francia, di quasi dieci volte in Germania. I costi crescenti degli impianti e l'accresciuta concorrenza diedero un forte impulso alla tendenza verso l'aumento delle dimensioni delle imprese e

verso le concentrazioni aziendali. Si moltiplicarono le società per azioni, che permettevano agli imprenditori di ridurre il rischio degli investimenti e di sopperire al bisogno di capitale raccogliendolo fra numerosi sottoscrittori. Un clima di fiduciosa euforia, ai limiti della febbre speculativa, si diffuse nel mondo degli affari. L'eccesso di fiducia nelle capacità espansive del mercato fu all'origine di due crisi scoppiate nel '57-58 e nel '66-67, che interruppero temporaneamente il corso positivo dell'economia mondiale. Furono le prime "crisi cicliche" del capitalismo moderno: crisi provocate non da cattivi raccolti e da scarsità di derrate agricole - come avveniva nel mondo preindustriale - ma al contrario da un eccesso di produzione di determinate merci (di qui il termine crisi di sovrapproduzione) che causava a sua volta bruschi ribassi dei prezzi, crolli in borsa e fallimenti a catena. Entrambe le crisi furono comunque di breve durata, non intaccarono in modo durevole la fiducia degli investitori e furono seguite da periodi di rapida ripresa. Molti furono i fattori che resero possibile il boom degli anni '50 e '60. Fra questi possiamo elencarne cinque principali. 1. Dopo il 1848, soprattutto in quei paesi dell'Europa centro orientale dove più forti erano le sopravvivenze dell'antico regime, furono cancellate o lasciate cadere in disuso molte leggi che fin allora avevano inceppato le attività economiche. Furono smantellati gli ordinamenti corporativi che regolamentavano l'esercizio dei mestieri, ostacolando la mobilità del lavoro e l'innovazione tecnologica. Furono definitivamente abrogate le vecchie (e mai seriamente applicate) leggi che proibivano il prestito a interesse. Furono mitigate le pene dei condannati per debiti o per fallimento. Fu perfezionata la disciplina dei brevetti. Si diffuse sempre più l'uso della cartamoneta e degli assegni. 2. Assieme ai vecchi vincoli giuridici, caddero, nel giro di pochi anni, le numerose barriere che si frapponevano alla libera circolazione delle merci: imposte sul traffico delle vie d'acqua, dazi interni e soprattutto dazi di entrata e di uscita ai confini fra gli Stati. Una fitta rete di trattati commerciali, che prevedevano congrue riduzioni delle tariffe doganali, fu stretta tra le principali potenze europee, Russia compresa. Il trionfo del libero scambio favorì in primo luogo la Gran Bretagna che, grazie alla sua più collaudata struttura industriale, poteva offrire i suoi prodotti a prezzi competitivi sui mercati stranieri; ma finì col giovare anche agli altri paesi europei, in quanto, provocando la scomparsa delle imprese meno attrezzate per reggere alla concorrenza, favorì la modernizzazione dell'apparato produttivo.

3. Dopo la metà del secolo, la scoperta e lo sfruttamento di nuovi giacimenti minerari nell'Europa continentale (come quelli del Pas de Calais in Francia o del bacino della Ruhr in Germania) aumentarono in misura considerevole la disponibilità delle materie prime più importanti: i minerali ferrosi e soprattutto il carbone, prima ed essenziale fonte di energia per i paesi industrializzati. 4. La scoperta, nel 1848, di nuovi giacimenti auriferi in California fece affluire in Europa cospicue quantità di metalli preziosi. Ne derivò un rapido aumento della circolazione monetaria, che causò a sua volta l'abbassamento dei tassi di interesse e l'espansione del credito. Le banche assunsero una funzione decisiva nel promuovere lo sviluppo, incanalando i capitali disponibili verso gli investimenti produttivi. Nacquero a questo scopo, soprattutto in Francia e in Germania, "banche di investimento" (o "banche d'affari"), la cui funzione principale non consisteva tanto nel fornire prestiti a breve termine per operazioni commerciali, quanto nel sostenere iniziative di ampio respiro con finanziamenti a lunga durata. Fu questo il caso delle banche di credito mobiliare sorte nella Francia del Secondo Impero o delle banche miste tedesche, chiamate così perché svolgevano contemporaneamente due funzioni: quella tradizionale della raccolta del risparmio e dell'offerta di credito a breve termine e quella nuova dell'investimento a lungo termine nelle imprese industriali. 5. Ai fattori che abbiamo appena elencato ne va aggiunto un altro non meno importante, che fu insieme causa ed effetto dello sviluppo industriale: l'affermazione e la diffusione di nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, primo fra tutti la ferrovia, simbolo dell'età industriale e della civiltà moderna. La costruzione di linee ferroviarie, treni e navi a vapore fu certamente un prodotto della rivoluzione industriale, ma al tempo stesso contribuì potentemente ad alimentarla: sia perché allargava a dismisura le possibilità di circolazione dei prodotti dell'industria, sia perché determinava essa stessa una domanda in continua espansione per i settori siderurgico e meccanico. 2.4. La rivoluzione dei trasporti e dei mezzi di comunicazione. Il boom delle costruzioni ferroviarie, Il trionfo della ferrovia, La navigazione a vapore, Il telegrafo, La rivoluzione delle comunicazioni. La rivoluzione dei trasporti, che conobbe il suo momento decisivo intorno alla metà dell'800, non ebbe solo conseguenze di ordine economico, ma influenzò significativamente abitudini e modi di pensare della gente

comune: dei borghesi che commerciavano o viaggiavano per istruzione e per diporto, ma anche dei ceti popolari (lavoratori che emigravano, manovali impiegati nelle costruzioni ferroviarie, contadini che vendevano i loro prodotti sul mercato). La stessa immagine del mondo cambiò radicalmente, com'era avvenuto ai tempi delle grandi scoperte geografiche; e l'idea di un mondo unito, le cui parti erano legate fra loro da stretti rapporti di interdipendenza, cominciò a farsi strada nella coscienza collettiva. All'inizio degli anni '50 esistevano in tutto il mondo circa 40.000 km di ferrovie: 15.000 negli Stati Uniti e25.000 in Europa (di cui 11.000 nella sola Gran Bretagna). Dieci anni dopo, l'estensione della rete ferroviaria mondiale era quasi triplicata (110.000 km, di cui più della metà nel Nord America). La crescita continuò, con un ritmo di poco inferiore, nei due decenni successivi (oltre 200.000 km nel 1870 e 370.000 nell'80), favorita dai grandi progressi dell'ingegneria civile, che permisero di superare gli ostacoli naturali e di portare le linee ferroviarie anche nelle zone più impervie. Nel 1854 fu inaugurata la prima linea transalpina, la ViennaTrieste. Tre anni dopo, cominciarono i lavori del primo grande tunnel delle Alpi, il Fréjus, lungo 13 km, che, una volta completato nel 1870, avrebbe abbreviato di ventiquattr'ore i collegamenti fra l'Italia e l'Europa del Nord. Ma gli sviluppi più spettacolari si ebbero negli Stati Uniti, dove le costruzioni ferroviarie accelerarono notevolmente la conquista dei territori dell'Ovest (nel '69 fu aperta la prima linea transcontinentale da New York a San Francisco) e assunsero l'aspetto di una grandiosa avventura, a metà strada fra l'epopea e la speculazione finanziaria. Fra il 1860 e il 1880, le ferrovie penetrarono in vaste aree dei continenti extraeuropei, soprattutto nelle colonie britanniche (India e Australia) e nell'America Latina. Restavano ancora escluse dalla rivoluzione dei trasporti buona parte dell'Asia e l'intera Africa. Ma, già nel 1870, i viaggi da un capo all'altro del globo risultavano enormemente abbreviati rispetto a vent'anni prima: tanto da rendere possibile, almeno in teoria, quel Giro del mondo in ottanta giorni immaginato e minuziosamente descritto da Jules Verne in un celebre romanzo del 1872. Più lenta e contrastata fu l'affermazione del vapore nel campo dei trasporti marittimi. Nel secolo XIX, le navi a vela - che si giovavano di costi d'esercizio molto limitati - avevano raggiunto un notevole grado di perfezione tecnica: non di rado i grandi clippers (velieri veloci impiegati per la navigazione mercantile transoceanica) battevano in velocità gli steamers, battelli a vapore azionati da grandi ruote e dotati di vele ausiliarie. Perciò

solo dopo il 1860, con l'introduzione dell'elica al posto della ruota e con la sostituzione degli scafi in ferro a quelli in legno, le navi a vapore divennero decisamente competitive in termini di velocità oltre che di capacità di carico. Se nel 1870 il naviglio a vela copriva ancora circa la metà dei trasporti marittimi di tutto il mondo, negli ultimi anni del secolo la percentuale si sarebbe ridotta a poco più del 20%. Contemporaneamente alla rivoluzione dei trasporti, un'altra trasformazione non meno radicale si ebbe nel campo della comunicazione dei messaggi, grazie alla diffusione del telegrafo elettrico. L'invenzione, che risaliva alla fine degli anni '30, trovò le sue prime applicazioni pratiche nel decennio successivo (il telegrafo di Morse è del 1844). Negli anni '50 e '60, tutti i paesi europei si dotarono di un sistema di comunicazioni telegrafiche: in breve tempo l'intera Europa si coprì di pali e di fili (erano circa 3000 km nel 1850, divennero 180.000 dieci anni dopo). Nello stesso periodo, l'adozione di nuove tecniche di isolamento dei fili metallici consentì la posa dei primi cavi telegrafici sottomarini. La Manica fu attraversata già nel 1851. Per vedere in funzione il primo cavo nordatlantico, si dovette attendere il 1866; ma pochi anni dopo gli oceani erano solcati da una fitta rete di cavi ed era possibile per un europeo scambiare telegrammi con tutti i continenti. La comunicazione dei messaggi era così svincolata per sempre dalla dipendenza dei mezzi di trasporto e la velocità delle notizie aumentava in modo vertiginoso: il tempo necessario per comunicare un'informazione da Londra a Tokio si ridusse d'un colpo da tre mesi a tre minuti. Da allora diventò possibile concludere istantaneamente affari e transazioni finanziarie con paesi lontani, impartire direttive diplomatiche in tempi rapidissimi, guidare gli eserciti da zone distanti dal fronte. Una rivoluzione nella rivoluzione si verificò nel settore giornalistico, dove si assiste alla nascita di agenzie specializzate, basate sull'uso del telegrafo: la più celebre di tutte, l'anglotedesca Reuter, fu fondata nel 1851. In questo campo - ha scritto lo storico Eric Hobsbawm - "il Medioevo finì negli anni '60, quando i notiziari poterono essere telegrafati da un numero sufficiente di punti del pianeta per raggiungere all'indomani la tavola della prima colazione". 2.5. La città moderna. L'urbanesimo, La crescita delle grandi città, Le trasformazioni dei nuclei urbani, I nuovi centri, Le "cinture operaie", Haussmann e la ristrutturazione di Parigi, L'intervento dei poteri pubblici, Illuminazione e trasporti urbani, La città come sistema organizzato.

Nell'Europa dell'800, l'affermazione della borghesia e la crescita del proletariato andarono di pari passo con lo sviluppo dei grandi centri urbani. Ebbe allora inizio quel grande processo storico che va sotto il nome di urbanesimo e che avrebbe portato gradualmente la maggioranza della popolazione dei paesi industriali a trasferirsi dalle campagne nelle città. Attorno al 1850, la grande città - intendendo per grande città ciò che si intendeva allora, cioè un centro con almeno centomila abitanti era ancora un fenomeno molto raro. Unica eccezione, la Gran Bretagna, dove già negli anni '40 la popolazione urbana aveva uguagliato e superato quella rurale e dove, nel 1850, esistevano una trentina di grossi centri industriali. Londra, con più di due milioni e mezzo di abitanti, era di gran lunga la più grande città del mondo e continuava ad espandersi a un ritmo impressionante. In Francia, nello stesso periodo, le città con più di centomila abitanti erano solo sei, compresa Parigi che superava ormai il milione; in Germania erano otto, fra cui Berlino, che raggiungeva appena i quattrocentomila. Solo trent'anni dopo, la situazione era molto cambiata. In Francia e in Germania, il numero delle grandi città era più o meno raddoppiato. Erano cresciuti nuovi centri industriali, come Lille e Roubaix in Francia, Essen e Düsseldorf in Germania. Le grandi capitali si erano allargate a dismisura: Parigi era passata da poco più di uno a oltre due milioni di abitanti, Berlino da quattrocentomila a oltre un milione, mentre Londra superava i quattro milioni e mezzo. Alla base di questo fenomeno c'erano cause diverse, ma strettamente legate fra loro. Lo sviluppo industriale, che creava nuove occasioni di lavoro, e la contemporanea rivoluzione dei trasporti, che rendeva più facili gli spostamenti, alimentavano un imponente flusso migratorio dalla campagna alla città. Questo flusso ininterrotto determinava nei grandi centri una situazione di cronico sovrappopolamento, favorendo la diffusione delle malattie infettive (in primo luogo del colera) e mantenendo la mortalità a livelli molto elevati. Col mutare delle dimensioni, le città cambiavano anche il loro aspetto e le loro strutture. Nella seconda metà dell'800 molti grandi centri urbani assunsero un volto e una forma simili a quelli che ancora oggi conosciamo. Per secoli e secoli la pianta delle città era stata definita dalle cinte murarie. Sotto la spinta dello sviluppo economico e del boom demografico, la zona abitata prese ad allargarsi rapidamente e disordinatamente, coprendo gli spazi vuoti circostanti il vecchio nucleo urbano. La forma della città si rendeva del tutto indipendente dagli antichi condizionamenti di origine

militare e si modellava sempre più sulle esigenze della produzione e dei traffici. Tutta la vita cittadina ruotava intorno a nuovi centri, che si affiancavano e si sostituivano a quelli tradizionali (la cattedrale, il municipio, la piazza del mercato). Punti di riferimento essenziali erano in primo luogo le stazioni ferroviarie, costruite spesso con grandiosità, come veri e propri monumenti dell'età industriale; poi la borsa, i centri commerciali, il tribunale e, nelle capitali, i palazzi dei ministeri. Attorno a questi poli si sviluppava il quartiere degli affari, che tendeva a svuotarsi dei suoi abitanti di condizione meno agiata e a riempirsi di uffici e di negozi. I ceti popolari espulsi dai centri storici andavano ad addensarsi - assieme ai nuovi immigrati - nelle grandi periferie, costruite completamente ex novo (era il caso della periferia di Berlino, con i suoi casermoni di cinque o sei piani disposti in fila, parallelamente alle strade) o nate dall'assorbimento e dalla trasformazione di villaggi già separati dal centro principale (come i sobborghi che costituivano la "cintura operaia" di Parigi). Diventava sempre più netta la separazione fra le periferie operaie, tirate su in fretta, sovraffollate, malsane, prive di servizi e spesso afflitte dal fumo delle fabbriche, e i quartieri residenziali borghesi, che erano situati in zone più verdi e più aerate e cominciavano ad essere provvisti di acqua corrente e di impianti di riscaldamento centralizzato. Anche questa separazione costituiva una differenza importante rispetto alla vecchia città, che faceva coabitare ricchi e poveri nelle stesse strade o addirittura nei medesimi edifici: i ricchi ai piani bassi, i poveri ai piani alti e nelle soffitte. Queste trasformazioni si producevano nella maggior parte dei casi in modo spontaneo, sotto la spinta della speculazione edilizia e in assenza di qualsiasi piano regolatore. Un esempio di intervento attuato dall'alto, in base a un progetto consapevolmente studiato, fu invece la ristrutturazione di Parigi condotta per incarico di Napoleone III dal prefetto Georges Haussmann. Haussmann operò in profondità sul vecchio tessuto urbano, sventrando buona parte del centro medievale, col suo intrico di vicoli strettissimi, e aprendo una serie di larghi viali (boulevards) che avevano lo scopo di rendere più piacevole e meglio percorribile il centro cittadino, ma servivano anche a scoraggiare il ripetersi di sommosse urbane come quelle del '48 (nei grandi boulevards erano più facili gli spostamenti delle forze di polizia ed era impossibile la costruzione di barricate). L'opera di Haussmann non si limitò alla risistemazione della rete viaria. Negli anni '50 e '60 del secolo XIX, Parigi fu dotata di ben quindici nuovi ponti sulla Senna, di quattro nuove stazioni ferroviarie, di un nuovo sistema di fognature, di parchi e di edifici pubblici.

In quello stesso periodo, anche se in tempi più lunghi e in forme meno spettacolari, quasi tutte le grandi città europee videro moltiplicarsi le iniziative dei poteri pubblici, volte a risolvere i più urgenti problemi igienici, a sconfiggere la piaga delle epidemie, a migliorare la qualità della vita, a facilitare gli spostamenti all'interno dell'area urbana. La rete fognaria fu ovunque migliorata e spesso interamente ricostruita: scomparvero così i rigagnoli fetidi che costeggiavano le vie dei quartieri poveri e la città fu gradualmente liberata dai miasmi degli scarichi che ne rendevano talora l'aria irrespirabile. L'approvvigionamento idrico divenne più diffuso e più regolare, anche se doveva passare ancora parecchio tempo prima che la disponibilità di acqua corrente e di servizi igienici nelle case diventasse un fatto generalizzato. Le strade in terra battuta, polverose d'estate e fangose d'inverno, furono ricoperte dal selciato. I quartieri della periferia, bui e malsicuri nelle ore notturne, furono, come già il centro, illuminati da lampioni a gas. Attraversare la città divenne più facile anche per chi non disponeva di mezzi privati, grazie all'organizzazione di reti di trasporto pubbliche. Un caso unico era quello di Londra che, già negli anni '70, disponeva di un efficiente sistema di ferrovie metropolitane. Ma in tutte le grandi città, molto prima dell'avvento delle metropolitane e delle tramvie elettriche, gli itinerari più importanti erano serviti dai cosiddetti omnibus, grandi carrozze su rotaie trainate da cavalli. La città diventava più confortevole e più "vivibile" (soprattutto per le classi agiate, ma anche per i ceti popolari) e insieme più ordinata e più attrezzata. Man mano che l'area urbana si allargava, si moltiplicavano i centri commerciali (mercati, botteghe e anche grandi magazzini), i luoghi di svago e di riunione (teatri, caffè, ristoranti), i punti di riferimento culturali (scuole, musei, biblioteche), ma anche le istituzioni preposte al controllo sociale: uffici comunali, posti di polizia, tribunali, carceri. L'intervento sempre più sistematico dei pubblici poteri, statali e municipali; lo sviluppo di più ampi apparati burocratici per il governo delle città; la creazione di nuovi corpi di polizia sempre più numerosi e più "professionali" (era ormai un ricordo la "guardia civica" cara alle rivoluzioni liberali e democratiche dell'800); la formazione di nuovi quadri tecnici (amministratori, architetti, ingegneri) specializzati nei problemi della convivenza urbana: tutto ciò servì a disciplinare i processi di urbanizzazione e ad attenuarne il carattere spontaneo, talora "selvaggio". Pur conservando al suo interno squilibri giganteschi e ponendo sempre nuovi e difficili problemi ai suoi amministratori, la grande città tendeva a perdere l'aspetto caotico e tentacolare che tanto aveva affascinato gli scrittori ottocenteschi (si pensi alle opere di Balzac e di Dickens, ai Miserabili di Victor Hugo o a

un romanzo popolarissimo nel secolo XIX come I Misteri di Parigi di Eugène Sue). Si avviava a diventare un sistema organizzato, specchio della civiltà moderna e dei suoi progressi e al tempo stesso luogo di tutte le sue contraddizioni. 2.6. Il mondo delle campagne. Il peso numerico dei lavoratori agricoli, Una realtà molto differenziata, Le condizioni di vita delle masse rurali, L'emigrazione. La rilevanza assunta dal fenomeno urbano non deve far dimenticare che, intorno alla metà dell'800, in tutta l'Europa continentale erano i lavoratori della terra a costituire il grosso della popolazione attiva. Se in Gran Bretagna, già negli anni '50, gli addetti all'agricoltura si erano ridotti a non più del 20% sul totale degli occupati (contro il 50% di addetti all'industria), la percentuale era del 50% circa in Francia e negli Stati tedeschi, del 70% in Italia e nell'Impero asburgico, dell'80% e oltre in buona parte dell'Europa orientale. A sua volta, il mondo contadino comprendeva una miriade di realtà economiche e di figure sociali diverse, con forti differenze fra Stato e Stato e fra regione e regione. La Gran Bretagna, con una popolazione agricola formata in buona parte da lavoratori salariati, rappresentava un caso isolato; così come un caso limite era costituito dalla Russia con i suoi venti milioni e più di servi della gleba, liberati solo nel 1861. In Francia la tendenza all'aumento della piccola proprietà contadina, favorita dalla rivoluzione dell'89, continuò a manifestarsi per tutto l'800: nel 1860, su cinque milioni e mezzo di contadini capifamiglia, quattro milioni erano proprietari di appezzamenti di terra, per lo più di piccole e medie dimensioni. Negli Stati tedeschi e nei paesi dell'Impero asburgico una serie di leggi di emancipazione emanate fra il 1815 e il 1850 aveva gradualmente abolito le ultime forme di lavoro servile e stimolato il processo di privatizzazione della terra. Diversi furono però i beneficiari di queste trasformazioni. Nel Sud e nell'Ovest della Germania, la scomparsa del regime feudale lasciò il posto alla piccola e media proprietà. Nelle regioni tedesche a est dell'Elba, nonché in buona parte dell'Europa orientale, la privatizzazione della terra andò invece a vantaggio dei grandi latifondisti, mentre, per la maggior parte dei contadini, l'emancipazione significò semplicemente il passaggio dalla condizione di servi a quella di braccianti senza terra e non sempre comportò la rottura dei vincoli di subordinazione agli antichi signori. Una condizione in parte analoga, aggravata dalla scarsa produttività dei suoli, era quella in

cui versavano i contadini del Mezzogiorno d'Italia e dell'intera Europa mediterranea. La situazione era ancora più complessa in altre zone del continente (Germania centrale, Italia centrosettentrionale, Austria, Boemia), dove coesistevano e si intrecciavano latifondo, azienda capitalistica e piccola proprietà, lavoro salariato e mezzadria. I progressi, peraltro limitati, realizzati dall'agricoltura europea in coincidenza col generale sviluppo economico degli anni '50 e '60 non valsero a modificare nella sostanza le condizioni di vita delle masse contadine. Dappertutto i lavoratori agricoli occupavano i gradini inferiori della scala sociale e versavano in condizioni di notevole disagio: i redditi erano bassi o bassissimi salvo rare eccezioni, l'alimentazione povera, l'analfabetismo diffuso, la partecipazione alla vita politica quasi inesistente. Dappertutto i ceti rurali costituivano l'elemento statico della società, quello più legato alle religioni tradizionali e alle consuetudini del mondo preindustriale. La novità più rilevante stava nel fatto che lo sviluppo economico e la rivoluzione dei trasporti offrivano ai lavoratori della terra maggiori possibilità di allontanarsi dal luogo d'origine. Fra il 1840 e il 1870, milioni di lavoratori - in buona parte contadini provenienti dall'Inghilterra, dall'Irlanda e dall'Europa centrale - lasciarono il vecchio continente per andare a dissodare le terre vergini del Nord America. Ancora più imponente fu nello stesso periodo il numero di coloro che abbandonarono definitivamente le campagne per cercare nuove occasioni di lavoro nei grandi centri industriali. 2.7. Il proletariato urbano e il movimento operaio dopo il '48. L'emergere del proletariato di fabbrica, La condizione operaia, Nascita di una coscienza di classe, Le prime associazioni operaie, Il movimento operaio inglese: le "Trade Unions", Il movimento operaio in Francia:, Blanqui e Proudhon. Anche il proletariato delle città offriva, attorno alla metà del secolo, un quadro tutt'altro che omogeneo. Dappertutto, salvo che in alcuni centri industriali, gli operai di fabbrica costituivano ancora una minoranza fra gli stessi lavoratori urbani. Numerosissimi erano invece i lavoranti di piccole officine e botteghe artigiane, i domestici, i manovali; e altrettanto numeroso era l'esercito dei lavoratori occasionali, dei vagabondi, dei mendicanti, delle prostitute: quello che Marx chiamava Lumpenproletariat (proletariato degli straccioni). Con lo sviluppo della grande industria e la decadenza della piccola impresa artigiana, il proletariato di fabbrica venne però assumendo

sempre maggiore consistenza: più lentamente in Francia, più rapidamente in Germania, dove il numero dei dipendenti di grandi e medie imprese industriali passò dal mezzo milione del 1850 ai cinque milioni del 1880. Da un punto di vista economico, gli operai godevano di un certo vantaggio rispetto ai lavoratori della terra. I salari nell'industria erano mediamente superiori a quelli del settore agricolo e crebbero lentamente negli anni '50 e '60, pur senza mai elevarsi molto al di sopra del livello di sussistenza, salvo che per alcune categorie di lavoratori specializzati. Ma per altri aspetti (orari di lavoro, condizioni abitative, assenza di sicurezza circa il proprio futuro) la vita dell'operaio non era migliore di quella del lavoratore agricolo. La precarietà della condizione operaia contrastava fortemente col quadro di sicurezza e di crescente prosperità offerto, e in qualche modo ostentato, dall'alta borghesia. E il contrasto era avvertito tanto più nettamente in quanto era la stessa vita nella città a evidenziarlo e a esaltarlo. Nella città l'operaio era a contatto quotidiano con le manifestazioni esteriori del modo di vita borghese (le case, i vestiti, le carrozze, i negozi). Nella città veniva meno il quadro consolidato dei rapporti sociali che sussisteva ancora nelle campagne e che faceva apparire naturale al contadino il suo stato di subordinazione. Nella città il lavoratore smarriva i tradizionali punti di riferimento culturali e religiosi: sempre più spesso alla parrocchia si sostituiva la taverna, luogo di perdizione agli occhi dei moralisti borghesi, ma anche luogo di incontri, di discussione, di scambi di esperienze. Cominciò così a maturare, all'interno e all'esterno dei luoghi di lavoro, una nuova coscienza di classe, ossia la consapevolezza di una condizione comune, unita alla spinta ad associarsi per mutare questa condizione. Le prime forme di associazioni operaie che avevano cominciato a svilupparsi in Europa già prima del '48 si rivolgevano soprattutto ai lavoratori più evoluti e meglio pagati, si collegavano spesso alla tradizione delle antiche corporazioni artigiane e si dedicavano più alla cooperazione e al mutuo soccorso fra i soci che non alle lotte rivendicative contro i datori di lavoro. Dopo le repressioni del '48-49, che avevano colpito i nuclei operai più combattivi, il movimento associativo fra i lavoratori appariva ovunque indebolito e per lo più lontano da nuove iniziative rivoluzionarie. Il movimento operaio inglese (l'unico che potesse vantare una struttura organizzativa ormai solida e si potesse muovere in condizioni di relativa libertà) aveva rinunciato, dopo la sconfitta del cartismo, ai progetti politici di lungo respiro, delegando agli uomini della sinistra liberale la

rappresentanza parlamentare dei propri interessi. L'attività dei dirigenti operai si concentrò in compenso sul rafforzamento delle organizzazioni sindacali di mestiere (Trade Unions), che conobbero un notevole sviluppo negli anni '50 e '60. Questo sviluppo fu coronato, nel 1868, dalla costituzione del Trade Unions Congress che riuniva i delegati di tutti i maggiori sindacati e che rappresentò da allora il nucleo basilare del movimento operaio britannico. Molto peggiore era la situazione del movimento operaio francese, decimato nei suoi quadri più attivi dalle sconfitte del '48 e del '51. I pochi nuclei organizzati su base locale - che in parte operavano nella clandestinità, in parte profittavano degli scarsi margini di azione legale concessi dal paternalismo sociale di Napoleone III - dividevano le loro simpatie fra il comunismo insurrezionista di Auguste Blanqui e il federalismo a sfondo anarchico di PierreJoseph Proudhon. Le teorie proudhoniane non potevano dirsi socialiste in senso stretto, basate com'erano sull'avversione a ogni forma di collettivismo; ma si inserivano in un filone libertario e autonomistico della democrazia francese (distinto da quello giacobino, cui si ispirava invece Blanqui) e si adattavano bene alla struttura sociale di un paese in cui la maggioranza dei contadini erano piccoli proprietari e in cui l'artigianato e il commercio minuto conservavano un peso notevole anche nelle città. Per motivi analoghi, le dottrine di Proudhon ebbero una certa fortuna anche in Italia e influenzarono in modo significativo le elaborazioni dei primi teorici socialisti nel nostro paese (Pisacane, Ferrari). In Italia, peraltro, il proletariato di fabbrica era ancora pressoché inesistente e i pochi nuclei di operai e artigiani organizzati in società di mutuo soccorso subivano soprattutto l'influenza di Mazzini, fautore della cooperazione e avverso alla lotta di classe e a ogni forma di collettivismo. Molto diversa era la situazione in Germania, dove si stava formando rapidamente una forte classe operaia e dove un movimento socialista esisteva già prima del '48. Alla fine degli anni '50, questo movimento trovò un leader abile ed autorevole in Ferdinand Lassalle. Intellettuale brillante e versatile, Lassalle basava le sue concezioni socialiste su una teoria dello sfruttamento capitalistico molto simile a quella elaborata nello stesso periodo da Marx. Ma, diversamente da Marx, credeva nella possibilità per i lavoratori di conquistare lo Stato borghese e di trasformarlo dall'interno attraverso il suffragio universale. Per dare concreta attuazione al suo programma, Lassalle svolse nel suo paese, la Prussia, un'intensa attività politica e riuscì a fondare, nel 1863, una Associazione generale dei lavoratori tedeschi, che raccolse vaste adesioni

negli Stati della Confederazione germanica, sopravvisse alla scomparsa prematura del suo fondatore (morto in duello nel '64 a meno di quarant'anni) e rappresentò il primo importante esempio di partito operaio organizzato su scala nazionale. 2.8. Marx e "Il Capitale". Marx e la critica dell'economia politica, La teoria del valorelavoro, Il destino del capitalismo, Il significato del "Capitale", Marxismo e movimento operaio, La fortuna del "Capitale". Pubblicando, all'inizio del '48, il Manifesto dei comunisti, Marx ed Engels non solo avevano gettato le basi per una nuova concezione del socialismo, ma avevano anche indicato al proletariato europeo un programma rivoluzionario da attuarsi a breve scadenza. Il fallimento dei moti del '48 e la lunga stasi delle lotte sociali che ne seguì costrinsero Marx, in esilio a Londra, a ripensare modi e tempi del processo rivoluzionario. Lontano per molti anni da ogni possibilità di azione, Marx dedicò gran parte del suo tempo allo studio dell'economia politica: l'analisi economica divenne sempre più la base fondamentale del suo "socialismo scientifico". Il frutto più maturo di questa fase del pensiero marxiano fu Il Capitale, il cui primo e più importante volume uscì nel 1867. Opera vasta e complessa come poche altre, Il Capitale è innanzitutto una minuziosa descrizione delle leggi e dei meccanismi su cui si fonda il modo di produzione capitalistico. Ma al tempo stesso contiene anche una storia del capitalismo, una previsione circa i suoi futuri sviluppi e un'indicazione dei compiti che, in vista di tali sviluppi, spettano al nuovo soggetto rivoluzionario: il proletariato industriale. Fondamento principale della costruzione di Marx è la teoria del valorelavoro: la teoria cioè per cui il valore di scambio di una merce è dato dalla quantità di lavoro mediamente impiegato per produrla. Il lavoro stesso è una merce e come tale viene comprato e venduto sulla base del valorelavoro che esso contiene (ossia dei costi relativi alla formazione e al sostentamento dell'operaio). Ma la caratteristica della mercelavoro è di produrre un valore superiore ai propri costi di produzione, di rendere più di quanto non costi. La differenza fra il valore del lavoro e il valore del prodotto - differenza di cui il capitalista si appropria - è detta da Marx plusvalore. L'imprenditore che, assumendo salariati, acquista sul mercato il lavoro (la forzalavoro, secondo la terminologia di Marx) e vende il prodotto di questo lavoro, realizza così un profitto. Da esso si forma il capitale, che si accumula e cresce su se stesso mediante l'impiego di nuova forzalavoro.

Nel formulare la sua teoria del valorelavoro, Marx si basa in larga parte sulle elaborazioni degli economisti "classici", ma capovolge il senso delle loro analisi e ne ribalta le conclusioni. Smith e Ricardo consideravano il modo di produzione capitalistico come un dato naturale e scontato. Per Marx il capitalismo rappresenta solo una fase ben definita nello sviluppo storico dei rapporti di produzione. Una fase iniziata alle soglie dell'età moderna e destinata a concludersi in un tempo non precisato (ma non troppo lontano), quando il sistema avrà espresso appieno le sue potenzialità e sarà distrutto dalle sue stesse contraddizioni. Man mano che si sviluppa, il capitalismo produce infatti, secondo Marx, i germi della sua dissoluzione. La concentrazione del capitale in poche mani si accompagna alla formazione di una massa proletaria sempre più numerosa e sempre più misera; alla tendenza espansiva insita nello sviluppo capitalistico (più macchine, più investimenti, maggiore produzione) fa riscontro l'incapacità del sistema di allargare in proporzione l'area di assorbimento dei suoi prodotti (di qui le periodiche crisi di sovrapproduzione, o "crisi cicliche"); alle forme sempre più organizzate della produzione industriale si contrappone il carattere "anarchico" della concorrenza. Sono dunque le stesse leggi della produzione capitalistica a determinare la crisi finale del sistema. La pubblicazione del Capitale segnò una data fondamentale nella storia del movimento operaio e della cultura occidentale. Per la prima volta il socialismo non era presentato come il sogno di un mondo migliore, la cui realizzazione era legata alla riuscita di questo o quel movimento insurrezionale, ma veniva fatto scaturire dalle leggi stesse dello sviluppo economico, oltre che dall'azione consapevole del proletariato organizzato. L'utopia diventava necessità, la profezia acquistava il fascino della previsione scientifica. Per i militanti socialisti, per i lavoratori impegnati nelle lotte sociali, Marx non era soltanto il teorico del materialismo storico, colui che aveva individuato nel proletariato di fabbrica il protagonista del processo rivoluzionario. Era anche il grande economista che aveva analizzato fino in fondo i meccanismi dell'economia capitalistica e ne aveva svelato le contraddizioni, era lo studioso che aveva detto una parola nuova e definitiva nel campo delle scienze sociali, allo stesso modo in cui Darwin aveva rivoluzionato il settore delle scienze naturali. Di tutto il complesso insegnamento marxiano, fu questo l'aspetto che più profondamente penetrò nella cultura del movimento operaio (anche perché era quello che meglio si accordava con la mentalità positivistica allora dominante) e che permise al marxismo di affermarsi gradualmente sulle altre teorie socialiste: fino a diventare, alla fine del secolo, la dottrina "ufficiale" del movimento operaio

e a rimanere tale per molto tempo, anche quando molte delle sue indicazioni (come quella sull'immiserimento progressivo del proletariato o sull'incapacità del capitalismo di controllare i processi di sviluppo) furono smentite dalle trasformazioni intervenute nella realtà economica e sociale. La penetrazione delle dottrine di Marx nel movimento operaio europeo non fu però immediata né incontrastata. Negli anni successivi all'uscita del Capitale non furono in molti a conoscerne direttamente il testo e ad assimilarne completamente le tesi. Sul piano politico, poi, l'affermazione del socialismo marxista fu il risultato di un lungo e aspro scontro di tendenze che ebbe per teatro principale la prima organizzazione internazionale fra i lavoratori. 2.9. L'Internazionale dei lavoratori: marxisti e anarchici. Le origini dell'Internazionale, Marx e lo statuto dell'Internazionale, Mito e realtà dell'Internazionale, Socialisti e proudhoniani, Michail Bakunin, Il comunismo anarchico di Bakunin, Marxismo e bakuninismo, Il contrasto MarxBakunin, La fine dell'Internazionale, La forza dell'anarchismo. Nonostante la varietà delle ideologie e delle forme organizzative in cui si articolava nei vari paesi, il movimento operaio avvertì presto l'esigenza di un collegamento internazionale. La prima occasione per soddisfare questa esigenza fu offerta nel 1862 dalla visita di una delegazione di lavoratori francesi all'Esposizione universale di Londra. In tale occasione, i delegati presero contatto con i dirigenti delle Trade Unions britanniche e stabilirono di dar vita a un'organizzazione permanente di coordinamento aperta ai rappresentanti di altri paesi. La riunione inaugurale della nuova organizzazione, che prese il nome di Associazione internazionale dei lavoratori, si tenne a Londra due anni dopo, nel settembre 1864. Le uniche delegazioni che potessero vantare una certa rappresentatività erano quella inglese, composta da dirigenti delle Trade Unions, e quella francese, dove erano in maggioranza i proudhoniani. Un emissario di Mazzini rappresentava le società operaie italiane. Gli altri partecipanti alla riunione erano esuli di vari paesi invitati a titolo personale: fra essi, Karl Marx. Assuntosi il compito di redigere lo statuto provvisorio, Marx riuscì a inserire nel documento alcuni punti che qualificavano l'Associazione in senso classista, nonostante l'opposizione del rappresentante italiano (da allora i mazziniani non ebbero più parte alcuna nell'Internazionale). Ciò che risultava più evidente era l'affermazione dell'autonomia del proletariato e la priorità data alla lotta contro lo sfruttamento.

L'emancipazione della classe lavoratrice - così esordiva lo statuto - deve essere opera della classe lavoratrice stessa. [...] La soggezione economica del lavoratore [...] forma la base della servitù in tutte le sue forme, la base di ogni miseria sociale, di ogni degradazione spirituale e dipendenza politica. Di conseguenza l'emancipazione economica della classe operaia è il grande fine cui deve essere subordinato, come mezzo, ogni movimento politico. La fondazione dell'Associazione internazionale dei lavoratori (o Prima Internazionale come venne successivamente chiamata) fu senza dubbio un evento capitale nella storia del movimento operaio, ma lo fu più per il suo significato simbolico che per i suoi effetti pratici. L'Internazionale costituì subito un punto di riferimento ideale per i lavoratori d; tutta Europa, oltre che uno spauracchio per i governi conservatori, sempre pronti ad attribuirle la responsabilità di agitazioni e complotti. Ma la sua capacità di rappresentare realmente le organizzazioni operaie dei singoli paesi e di guidare la loro attività fu, tutto sommato, assai scarsa; e il suo funzionamento fu gravemente compromesso dall'eterogeneità delle sue componenti e dalle aspre rivalità che dividevano i suoi capi. Fino alla fine degli anni '60, il dibattito ai vertici dell'Internazionale vide contrapposti da un lato i socialisti veri e propri (coloro cioè che sostenevano la socializzazione dei mezzi di produzione), dall'altro i proudhoniani, fautori di un sistema fondato sulle cooperative e sulle autonomie locali. Nei primi congressi dell'Associazione le tesi dei proudhoniani furono ripetutamente sconfitte. Ma gli ideali libertari e federalisti esercitavano ancora un fascino notevole sul proletariato rivoluzionario, in particolare su quello dei paesi meno industrializzati: una volta tramontata la stella del proudhonismo, essi conobbero nuova fortuna nella versione assai più radicalmente rivoluzionaria che ne diede il russo Michail Bakunin, massimo teorico dell'anarchismo moderno. Bakunin aveva alle spalle una lunga carriera di cospiratore: aveva partecipato ai moti del '48 in Francia e in Germania e, dopo più di dieci anni trascorsi fra il carcere e il confino in Siberia, era andato esule in Italia e in Svizzera, partecipando alle attività dell'Internazionale e schierandosi sulle posizioni di Marx. Ma le posizioni dei due leader erano nettamente divergenti su una serie di problemi fondamentali. Per Bakunin, l'ostacolo principale che impediva all'uomo il conseguimento della piena libertà era costituito non tanto dai rapporti di produzione, quanto dall'esistenza stessa dello Stato. Lo Stato era, assieme alla religione, lo strumento di cui si servivano le classi dominanti per mantenere la stragrande maggioranza della popolazione in condizioni di inferiorità economica e intellettuale. Compito prioritario dei rivoluzionari era dunque quello di liberare le masse

dall'influenza nefasta della religione per poi condurle all'assalto del potere statale. Abbattuto questo, il sistema di sfruttamento economico basato sulla proprietà privata sarebbe inevitabilmente caduto. Il comunismo si sarebbe instaurato spontaneamente come l'ordine più consono alle esigenze naturali delle masse, senza che allo Stato dovesse sostituirsi nessuna organizzazione di tipo centralizzato e coercitivo: gli stessi lavoratori, spinti dal naturale istinto di collaborazione sociale, si sarebbero naturalmente associati in gruppi via via più vasti. È evidente quanto queste concezioni fossero distanti da quelle di Marx. Anche Marx vedeva nella religione e nello Stato degli strumenti al servizio delle classi dominanti; ma collocava l'uno e l'altra nella sfera della sovrastruttura, li considerava cioè come un prodotto della struttura economica basata sullo sfruttamento: solo la distruzione di quella struttura ossia del sistema capitalistico - avrebbe reso possibile la distruzione dello Stato borghese. Anche per Marx l'avvento del comunismo avrebbe portato con sé l""estinzione dello Stato"; ma questo stadio finale sarebbe stato raggiunto solo dopo una fase transitoria, quella della "dittatura del proletariato", necessaria per neutralizzare la reazione delle classi dominanti. Per Marx, inoltre, il protagonista del processo rivoluzionario non poteva essere che il proletariato industriale dei paesi più avanzati. Per Bakunin, invece, il vero soggetto della rivoluzione erano le masse diseredate in quanto tali, senza distinzione fra operai, contadini e sottoproletari. Mentre Marx, pur non credendo nella possibilità di trasformare il sistema borghese dall'interno, riteneva utile che la classe operaia cominciasse a combattere le sue battaglie già dentro il sistema, Bakunin era decisamente contrario a ogni prospettiva del genere: per lui l'unica forma possibile di lotta era la rivolta armata. La lotta fra i marxisti e gli anarchici bakuniniani (o, come allora si disse, fra "autoritari" e "antiautoritari") si sviluppò all'inizio degli anni 70, soprattutto sui problemi riguardanti i compiti e la struttura dell'Internazionale. Al congresso dell'Aja del settembre 1872, Marx ed Engels riuscirono a mettere in minoranza i seguaci di Bakunin e a far approvare una risoluzione che trasferiva la sede centrale dell'Internazionale da Londra a New York. Gli "antiautoritari" non riconobbero la validità di questa decisione, continuando a ritenersi i legittimi rappresentanti dell’associazione e ad agire in nome di essa. In realtà, decidendo il trasferimento degli organi centrali lontano dall’Europa, Marx aveva consapevolmente decretato la morte dell'internazionale (che infatti fu sciolta ufficialmente nel 1876), in quanto la giudicava ormai uno strumento inefficace e inadeguato ai tempi e puntava

invece sullo sviluppo nei vari Stati di forti partiti socialisti che fossero in grado di inquadrare la maggioranza della classe operaia. La scelta di Marx si sarebbe rivelata vincente, ma solo sui tempi lunghi. Nell'immediato, l'Internazionale anarchica conservò in molti paesi europei un seguito e un'influenza considerevoli. Il bakuninismo si adattava meglio del marxismo a quei paesi e a quei ceti sociali che non avevano ancora conosciuto la rivoluzione industriale e si inseriva spesso sul tronco di un antico ribellismo contadino. Fu questa la forza dell'anarchismo bakuniniano. Ma fu anche la causa del suo inarrestabile declino di fronte allo sviluppo dell'industria e alla crescita di una classe operaia moderna. 2.10. Il mondo cattolico di fronte alla società borghese. La restaurazione tradizionalista di Pio IX, L'enciclica "Quanta cura" e il "Sillabo", Il Concilio Vaticano I, I cristianosociali, Ketteler, L'associazionismo cattolico. Socialisti e anarchici non furono i soli a protestare contro le ingiustizie della società borghese e a denunciare i guasti, veri o presunti, del capitalismo industriale. Negli stessi anni in cui il movimento operaio internazionale muoveva i suoi primi passi, anche il mondo cattolico assunse, sia pure da posizioni opposte, un atteggiamento duramente critico ne confronti di una civiltà che si basava su presupposti laici e individualisti e che tendeva a relegare la religione nell'ambito delle superstizioni e delle credenze popolari. Capofila di questa crociata ideologica fu quello stesso papa Pio IX che, subito dopo il suo insediamento, aveva suscitato tante speranze nel l'opinione pubblica liberale. Scottato dalle esperienze del '48-49, Pio IX abbandonò qualsiasi velleità innovatrice e, per il restante corso del suo lungo pontificato (morì nel 1878), si preoccupò soprattutto di riaffermare la più rigida ortodossia dottrinaria e di incoraggiare le tradizionali pratiche di devozione, soprattutto quelle relative al culto mariano. Nel 1854 fu proclamato il dogma dell'Immacolata Concezione (con cui si stabiliva che la Vergine era stata concepita libera dal peccato originale). Dal 1858, la cittadina francese di Lourdes, luogo di una miracolosa apparizione della Madonna, divenne meta di ininterrotti pellegrinaggi. Lo scontro fra la Chiesa cattolica e la cultura laicoborghese ebbe i suo culmine nel 1864, quando Pio IX emanò l'enciclica Quanta cura, nella quale accomunava in una condanna senza appello il liberalismo, la democrazia, il socialismo e l'intera civiltà moderna. Per dare maggior forza alla condanna,

il papa fece pubblicare, assieme all'enciclica, una sorta di elenco - o Sillabo - degli "errori del secolo", dove erano raccolti in ottanta proposizioni tutti i princìpi basilari della tradizione illuministica e della cultura liberale ottocentesca: dalla sovranità popolare alla laicità dello Stato, alla libertà di stampa e di opinione. La pubblicazione del Sillabo suscitò sorpresa e scalpore in tutta Europa, anche fra i cattolici e i loro alleati: Napoleone III, ad esempio, proibì la diffusione del documento in Francia, in quanto lo giudicava imbarazzante e altamente nocivo alla causa della convivenza fra Chiesa e Stato. La frattura si allargò ulteriormente pochi anni dopo, quando, nel Concilio Vaticano I conclusosi nell'estate del 1870, Pio IX fece proclamare il dogma dell'infallibilità del papa nelle sue pronunce ufficiali in materia di fede e di morale. Una decisione che rafforzava l'autorità del pontefice nei confronti dell'episcopato e che anche per questo non piacque ai governi degli Stati cattolici, accentuando così l'isolamento della Santa Sede. Quando, nel settembre 1870, le truppe italiane entrarono in Roma, nessuno dei governi europei si mosse per salvare il potere temporale del papa. Mentre i vertici vaticani inseguivano il sogno di un impossibile ritorno all'antico e si impegnavano in una battaglia puramente negativa contro la civiltà del tempo, continuavano a manifestarsi nel mondo cattolico tendenze che cercavano di adeguare in qualche modo la presenza della Chiesa alle trasformazioni della società. La condanna intransigente della civiltà borghese, se schiacciava e riduceva al silenzio le correnti cattolicoliberali, lasciava in compenso un certo spazio ai movimenti cristianosociali che si svilupparono in questo periodo, oltre che in Francia, anche in Belgio, in Austria e soprattutto in Germania, grazie all'opera dell'arcivescovo di Magonza Wilhelm Emmanuel von Ketteler. Ketteler non si limitava infatti a fare appello alla pietà e al senso di responsabilità delle classi più elevate, ma invocava l'intervento dello Stato, sotto forma di leggi e iniziative assistenziali a favore dei lavoratori, e auspicava lo sviluppo della cooperazione e del mutuo soccorso fra i lavoratori stessi. Su questa base si realizzarono, soprattutto nei paesi dell'Europa centrale, i primi esperimenti di moderno associazionismo cattolico, fondato sulle unioni di mestiere, sulle cooperative, sulle casse rurali e artigiane: una rete organizzativa che, adeguatamente sviluppata, avrebbe in seguito permesso ai movimenti cattolici di contare su una propria base organizzata, non solo fra i ceti rurali ma anche fra i lavoratori urbani (soprattutto artigiani), e di contendere il passo ai socialisti sul terreno degli organismi di massa.

Sommario Al conservatorismo politico che, dopo il fallimento delle rivoluzioni del '48-49, caratterizzava la situazione europea, faceva riscontro un processo di profondo mutamento sociale. Il ventennio successivo al '48 vide la crescita della borghesia: il ceto sociale attraversato da notevoli differenziazioni interne e tuttavia portatore di uno stile di vita e di un insieme di valori sostanzialmente unitari. Centrale, tra questi valori, era la fede nel progresso generale dell'umanità, che poggiava sull'imponente sviluppo economico e scientifico della seconda metà dell'800. Sul piano culturale, il progresso scientifico diede origine a una nuova corrente filosofica, il positivismo, che diventò l'ideologia della borghesia in ascesa e influenzò tutta la mentalità dell'epoca. Il rappresentante più noto del nuovo spirito "positivo" fu Darwin, cui si deve la teoria dell'evoluzione e della selezione naturale. alla fine degli anni '40, l'economia europea conobbe una fase di forte sviluppo durata quasi un quarto di secolo. Lo sviluppo interessò anzitutto l'industria, principalmente nei settori siderurgico e meccanico. Si generalizzò in quest'epoca l'impiego delle macchine a vapore e del combustibile minerale. I fattori principali del boom industriale degli anni '50 e '60 furono: la rimozione dei vincoli giuridici che ostacolavano le attività economiche; l'affermarsi del libero scambio; la disponibilità di materie prime; la diminuzione dei tassi di interesse e l'espansione del credito a favore degli impieghi industriali; lo sviluppo di nuovi mezzi di trasporto (navi a vapore e, soprattutto, ferrovie) e di comunicazione (telegrafo). Quest'ultimo fattore mutava per alcuni aspetti essenziali la vita dell'epoca e l'immagine stessa che la gente aveva del mondo: esso appariva, ed era effettivamente, sempre più unito. Cambiava anche, in relazione alla rivoluzione dei trasporti e alle nuove opportunità di lavoro, il volto delle città, che diventavano sempre più grandi e più complesse, anche se la loro trasformazione non apportava a tutti i ceti sociali i medesimi vantaggi (nascevano allora le grandi periferie operaie). Lo sviluppo economico successivo alla metà del secolo toccò in misura minore l'agricoltura europea, dove era impiegato il grosso della popolazione attiva, e dove le condizioni economiche e le forme di proprietà variavano sensibilmente da una zona all'altra del continente. In generale, però, restavano disagiate le condizioni di vita dei contadini, che in numero sempre crescente erano spinti a scegliere la via dell'emigrazione. Si diffondeva, nello stesso periodo, la figura dell'operaio di fabbrica, le cui dure condizioni di vita e di lavoro favorivano il formarsi di una

coscienza di classe e delle prime associazioni operaie (soprattutto in Gran Bretagna, Germania e Francia). La teoria socialista assunse, con l'opera di Marx, il carattere di teoria "scientifica" contenente un'indicazione di superamento del capitalismo. Progressivamente il marxismo si sarebbe affermato quale dottrina ufficiale del movimento operaio. Nel 1864 venne fondata la Prima Internazionale, la cui storia fu caratterizzata da contrasti fra le varie correnti - principalmente tra marxisti e anarchici - che avrebbero presto condotto alla sua dissoluzione. Il maggior teorico dell'anarchismo fu Bakunin, le cui teorie si distinguevano per alcuni aspetti sostanziali da quelle di Marx. Bakunin, tra l'altro, riteneva che, una volta abbattuto il potere statale, il comunismo si sarebbe instaurato spontaneamente, senza dunque la fase di "dittatura del proletariato" prevista da Marx. Egli considerava, inoltre, le masse diseredate (e non il proletariato industriale) il soggetto della rivoluzione. Per quest'ultimo motivo il bakuninismo si diffuse soprattutto nei paesi più arretrati. Di fronte alla società borghese, il mondo cattolico da un lato assunse un atteggiamento di dura condanna (Sillabo, 1864), dall'altro, si fece promotore, con i movimenti cristianosociali, di un intervento dello Stato a favore dei lavoratori e di un associazionismo cattolico. Bibliografia La migliore esposizione degli argomenti trattati in questo capitolo è fornita da EJ. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia 1848-1875, Laterza, RomaBari 1976. Per un quadro generale del periodo: L'età della borghesia, a e. di G. Palmade, cit. al cap. 1. Su alcuni aspetti del modo di vita e della cultura borghese: P. Ariès G. Duby (a e. di), La vita privata. L'Ottocento, a e. di M. Perrot, Laterza, RomaBari 1988. Sull'evoluzionismo e Darwin: L. Eiseley, Il secolo di Darwin, Feltrinelli, Milano 1975. Per i problemi dello sviluppo economico, si vedano i capp. 3 e 4 di D. S. Landes, Prometeo liberato, Einaudi, Torino 1978; e il vol. IV, t. 1, della Storia economica e sociale del mondo, a e. di P. Leon, Il capitalismo. 18401914, Laterza, RomaBari 1980. Per un'analisi comparata dell'industrializzazione nei paesi europei: A. S. Milward S. B. Saul, Storia economica dell'Europa continentale, 1.1780-1870, Il Mulino, Bologna 1977; e S. Pollard, La conquista pacifica. L'industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970, ivi 1984. Sullo sviluppo della città e l'urbanizzazione: L. Benevolo, Storia della città, Laterza, RomaBari 1975; A. Caracciolo, La città moderna

e contemporanea, Guida, Napoli 1982; C. de Seta, La città europea dal XV al XX secolo, Rizzoli, Milano 1996. Per la storia del movimento operaio e del socialismo: G. D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, II. Marxismo e anarchismo 1850-1890, Laterza, Bari 1967; e Antologia del pensiero socialista, Marxismo e anarchismo, a e. di A. Salsano, ivi 1980. Su Marx e il marxismo: G. Bedeschi, Introduzione a Marx, Laterza, RomaBari 1981; Storia del marxismo, vol. I, Il marxismo ai tempi di Marx, Einaudi, Torino 1978. Per i rapporti fra mondo cattolico e società borgheseliberale si vedano: Liberalismo e integralismo. Tra stati nazionali e diffusione missionaria 1830-1870, Jaca Book, Milano 1977 (vol. VIII/2 della Storia della Chiesa, a e. di H. Jedin); R. Aubert, Il pontificato di Pio IX (1846-1878), Ed. Paoline, Torino 1976 (vol. XXI/1-2 della Storia della Chiesa dalle origini ai nostri giorni, a cura di A. Fliche V. Martin). 3. L'unità d'Italia. 3.1. La seconda restaurazione. Il LombardoVeneto, Gli Stati minori, Lo Stato pontificio, Il Regno delle due Sicilie, Arretratezza e isolamento. In Italia, dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848-49, il ritorno dei sovrani legittimi segnò l'arresto di qualsiasi esperimento riformatore. Le conseguenze di questa "seconda restaurazione" furono gravi, non solo in termini di mancata evoluzione delle strutture politiche, ma anche per ciò che concerneva lo sviluppo economico, soffocato -dalla miopia delle classi dirigenti, dalla ristrettezza dei mercati e dalla scarsezza delle vie di comunicazione. Il LombardoVeneto, che era stato fino a quel momento la regione economicamente più avanzata della penisola, fu sottoposto a un pesante regime di occupazione militare (governatore fu, fino al 1857, il maresciallo Radetzky) cui si accompagnò un inasprimento della già forte pressione fiscale che colpiva gli imprenditori, i commercianti e soprattutto i ceti popolari, su cui cadeva il maggior peso delle imposte indirette. Né a tutto ciò faceva riscontro un adeguato sviluppo delle opere pubbliche: le costruzioni ferroviarie, ad esempio, si svilupparono negli anni '50 in modo lento e disorganico. Nonostante la concessione di un'ampia amnistia (che escludeva però i patrioti più compromessi) e nonostante il tentativo di guadagnarsi il favore delle masse contadine con qualche alleggerimento

delle imposte che gravavano sull'agricoltura, l'Impero asburgico vide così allargarsi il fossato di risentimento e di incomprensione che separava la monarchia dalle popolazioni italiane. Negli Stati minori del CentroNord (Granducato di Toscana, ducati di Modena e Parma), il ritorno di uomini e istituzioni dell'antico regime accentuò il distacco fra le corti e l'opinione pubblica borghese. Anche quei moderati che si erano illusi di poter riprendere il discorso costituzionale interrotto dalle rivoluzioni del '48 furono tenuti in disparte o costretti all'esilio: avrebbero finito, per lo più, col convertirsi alla causa dell'unità italiana. Lo stesso fenomeno si verificò nello Stato pontificio, riorganizzato secondo il vecchio modello teocraticoassolutistico, con qualche lieve ritocco (l'istituzione di una Consulta e di un Consiglio di Stato non elettivi) che non ne mutava i caratteri di fondo. Democratici e liberali furono perseguitati e il potere restò nelle mani di una ristretta oligarchia di prelati con al vertice il segretario di Stato cardinale Antonelli. Anche nel Regno delle due Sicilie il ritorno al sistema assolutistico fu integrale e la repressione durissima: centinaia di oppositori furono condannati a lunghe pene detentive. In campo economico, la politica dei governi borbonici fu improntata a un gretto conservatorismo. Il mantenimento di alti dazi doganali, se permetteva la sopravvivenza di alcuni insediamenti industriali (stabilimenti tessili e metallurgici concentrati per lo più nelle zone di Napoli e Salerno) non abbastanza vitali per reggere la concorrenza internazionale, ostacolava lo sviluppo di una moderna agricoltura volta all'esportazione. La relativa mitezza della pressione fiscale si traduceva in una forte limitazione della spesa statale. I settori più sacrificati furono così quelli dell'istruzione e delle opere pubbliche: con conseguenze disastrose in un paese che, intorno alla metà del secolo, aveva in tutto cento chilometri di ferrovie e un tasso di analfabetismo fra i più alti d'Europa. Le poche iniziative dei governi nel campo dei lavori pubblici si concentrarono a Napoli e nelle zone vicine, accentuando così lo squilibrio fra una capitale abnorme e parassitaria (che, con i suoi 450.000 abitanti, era la città più popolosa d'Italia) e il resto del paese. L'insofferenza per questo stato di cose era particolarmente viva in Sicilia, dove l'opposizione al restaurato centralismo napoletano accomunava aristocrazia, borghesia e masse popolari. L'arretratezza economica e sociale e la durezza della repressione fecero del Regno delle due Sicilie una specie di modello negativo agli occhi dell'opinione pubblica liberale europea. Questo isolamento fu uno dei fattori principali che avrebbero determinato, nel 1860, il rapido crollo dello Stato borbonico.

3.2. L'esperienza liberale in Piemonte e l'opera di Cavour. Vittorio Emanuele II e lo scontro col Parlamento, Il governo D'Azeglio e le leggi Siccardi, Cavour: l'estrazione familiare, La formazione culturale, Il pensiero politico, Un liberalismo dinamico, Cavour e il "connubio", L'interpretazione parlamentare dello Statuto, La scelta liberista, Le opere pubbliche e lo sviluppo industriale, Ritardi e squilibri, I progressi del Piemonte, L'emigrazione politica. Ben diversa da quella degli altri Stati italiani fu la vicenda politica del Piemonte sabaudo, dove, pur fra molte difficoltà e contrasti, poté sopravvivere l'esperimento costituzionale inaugurato con la concessione dello Statuto albertino. Il regno di Vittorio Emanuele II cominciò con un duro scontro fra la corona e la Camera elettiva, composta in maggioranza da democratici. Quando, nell'agosto del '49, fu conclusa la pace di Milano con l'Austria - in base alla quale il Piemonte si impegnava a pagare una forte indennità di guerra, senza però subire mutilazioni territoriali - la Camera rifiutò di approvarla. La corona e il governo, presieduto dal moderato Massimo D'Azeglio, decisero di sciogliere la Camera e di indire nuove consultazioni, mentre il re indirizzava agli elettori un messaggio (proclama di Moncalieri) in cui li invitava a scegliersi dei rappresentanti di orientamento più moderato, lasciando intendere che, in caso contrario, lo stesso Statuto avrebbe corso seri pericoli. L'intervento era tutt'altro che ortodosso, ma raggiunse il suo scopo. La nuova Camera, formata in maggioranza da moderati, approvò la pace di Milano. La crisi istituzionale fu evitata e l'esperimento liberale poté proseguire senza che, dal punto di vista formale, le norme dello Statuto fossero state violate. Fu così che il governo D'Azeglio poté portare avanti, senza ostacoli da parte della corona e con l'appoggio della maggioranza parlamentare, l'opera di modernizzazione dello Stato già avviata negli ultimi anni del regno di Carlo Alberto. Una tappa fondamentale in questo senso fu rappresentata, nel febbraio 1850, dall'approvazione di un progetto di legge presentato dal ministro della Giustizia Siccardi che riordinava i rapporti fra Stato e Chiesa, ponendo fine agli anacronistici privilegi (tribunali riservati, diritto d'asilo per le chiese e i conventi, censura sui libri) di cui il clero godeva ancora nel Regno sabaudo e adeguando la legislazione ecclesiastica del Piemonte a quella degli altri Stati cattolici europei. La battaglia per l'approvazione delle leggi Siccardi - che incontrarono una durissima opposizione nel clero e negli ambienti conservatori vide emergere

nelle file della maggioranza liberalmoderata la figura di un nuovo e dinamico leader: il conte Camillo Benso di Cavour, aristocratico e uomo d'affari, proprietario terriero e giornalista, direttore di un battagliero organo di stampa dal titolo "Il Risorgimento". Nato nel 1810, il conte di Cavour era cresciuto e si era formato in un clima familiare aristocratico e conservatore, ma diverso da quello chiuso e retrivo che caratterizzava la nobiltà piemontese nell'età della Restaurazione. Suo padre faceva parte infatti di quel settore, allora abbastanza ristretto, dell'aristocrazia terriera che amministrava direttamente il proprio patrimonio. Sua madre veniva da una nobile famiglia calvinista di Ginevra. Cosmopolitismo culturale e intraprendenza borghese furono le due componenti decisive nella formazione di Cavour, che già negli anni giovanili si avvicinò alle idee liberali; e, all'indomani della rivoluzione del 1830 in Francia, abbandonò la carriera militare, cui lo destinava la sua condizione di secondogenito di una famiglia aristocratica, per dedicarsi agli studi, ai viaggi (soggiornò a lungo in Inghilterra, in Francia, in Belgio oltre che a Ginevra), agli affari e alla cura del patrimonio familiare: in particolare della grande tenuta di Leri nel Vercellese, che trasformò in un'azienda agricola d'avanguardia. Quando, nel 1847-48, decise di dedicarsi all'attività politica, il suo pensiero era già coerentemente sviluppato. L'ideale politico di Cavour era quello di un liberalismo moderato, molto lontano dai valoribase della democrazia ottocentesca (sovranità popolare, suffragio universale, ecc.). Cavour era convinto che la tendenza, inarrestabile, verso un sempre maggiore allargamento delle basi dello Stato dovesse essere attuata con gradualità e incanalata in un sistema monarchicocostituzionale, fondato sulla libertà individuale e sulla proprietà privata: anzi, un sistema del genere, purché inteso in senso attivo, come promotore di riforme e di trasformazioni, era visto da lui come l'unico antidoto efficace contro la rivoluzione e il disordine sociale. Rispetto al moderatismo dottrinario tipico della cultura francese nell'età della Restaurazione, cui pure si ispirava, il liberalismo cavouriano aveva dunque un piglio più moderno e più pragmatico. Alla concreta esperienza di uomo d'affari e di imprenditore agricolo, Cavour univa infatti una buona conoscenza della teoria economica e vedeva nello sviluppo produttivo la premessa indispensabile per il progresso politico e civile. Ammiratore di Cobden e del liberalismo britannico, nutriva quella fiducia pressoché illimitata nelle virtù della libertà economica che era tipica della migliore cultura borghese del suo tempo. Cavour entrò a far parte del gabinetto D'Azeglio nell'ottobre 1850, come titolare del ministero dell'Agricoltura e Commercio. Due anni dopo, nel

novembre 1852, quando D'Azeglio dovette dimettersi per contrasti col re, fu incaricato di formare il nuovo governo. Prima ancora di diventare presidente del Consiglio, Cavour si era reso protagonista di una piccola rivoluzione parlamentare, promuovendo un accordo fra l'ala più progressista della maggioranza moderata (il cosiddetto "centrodestro", di cui lui stesso era il leader) e la componente più moderata della sinistra democratica (il "centrosinistro" capeggiato da Urbano Rattazzi). Dall'accordo, che fu ironicamente definito connubio, nacque una nuova formazione politica di centro, che relegava all'opposizione le due sparute pattuglie dei clericaliconservatori e dei democratici intransigenti. In questo modo Cavour poté allargare la base parlamentare del suo governo e spostarne l'asse verso sinistra: il che gli consentì non solo di far propria la politica patriottica e antiaustriaca sostenuta fin allora dai democratici, ma anche di rendere più incisiva la sua azione riformatrice in campo politico ed economico. L'avvento di Cavour segnò una svolta decisiva anche sul piano istituzionale. Fu infatti in questi anni che si affermò stabilmente quell'interpretazione parlamentare dello Statuto che, andando oltre là lettera del testo costituzionale, faceva dipendere la vita del governo non solo dalla fiducia del sovrano, ma anche e soprattutto dal sostegno di una maggioranza in Parlamento. Prima come ministro dell'Agricoltura, poi come presidente del Consiglio, Cavour si adoperò per sviluppare l'economia del suo paese e per integrarla nel più ampio contesto europeo. Premessa essenziale della sua politica fu l'adozione di una linea decisamente liberoscambista: nel 1851 furono stipulati trattati commerciali con Francia, Belgio, Austria e Gran Bretagna; fra il '51 e il '54 fu gradualmente abolito il dazio sul grano. La caduta delle barriere doganali avvantaggiò innanzitutto il settore agricolo: in particolare la produzione del riso, diffusa nelle zone pianeggianti fra Novara e Vercelli. Notevoli progressi si registrarono anche nel campo delle opere pubbliche, cui Cavour diede un fortissimo impulso, a costo di inasprire la pressione fiscale. Furono costruiti strade e canali: fra gli altri quello che attraversava le zone risicole del Novarese, consentendone una razionale irrigazione, e che avrebbe poi preso il nome di canale Cavour. Fu ampliato e ammodernato il porto di Genova. Ma soprattutto furono sviluppate le ferrovie: tanto che il Piemonte, alla fine degli anni '50, disponeva di una rete di strade ferrate quasi uguale a quella di tutti gli altri Stati italiani messi insieme, compreso il LombardoVeneto. Lo sviluppo delle ferrovie non solo ebbe effetti positivi sul commercio, ma servì da stimolo per l'industria siderurgica e meccanica: nuove aziende per la lavorazione del ferro e per la produzione di materiale ferroviario e navale (più importante di tutte

l'Ansaldo) sorsero sulla riviera ligure e si affermarono grazie alle commesse statali per le ferrovie, l'esercito e la marina. Uno sviluppo spontaneo ebbe invece l'industria della seta, che esportava filati e tessuti soprattutto in Francia ed era la più importante per produzione e per numero di addetti, ma anche la meno moderna e la più legata al mondo agricolo. In questo quadro di generale sviluppo non mancavano i ritardi e gli squilibri. Le condizioni delle classi subalterne, nelle città e nelle campagne, non conobbero miglioramenti sostanziali, anche a causa del peso crescente delle imposte indirette. Il tasso di analfabetismo si mantenne elevato (fra il 1848 e il 1860 si passò dal 70 al 65%). Eppure, alla vigilia dell'unità italiana, dopo dodici anni di regime costituzionale e dieci di politica cavouriana, il Piemonte poteva vantare, in termini di sviluppo economico e civile, un bilancio quanto mai lusinghiero: un'agricoltura in fase di espansione e di modernizzazione, tanto da reggere il confronto con quella della vicina Lombardia; un'industria che, pur occupando ancora un ruolo secondario, poneva il Piemonte all'avanguardia degli Stati italiani; un sistema creditizio potenziato e riorganizzato, sempre ad opera di Cavour, intorno a una banca centrale (la Banca nazionale); una rete di trasporti efficiente e collegata con l'Europa tramite il traforo del Fréjus [§2.4]; un volume di scambi commerciali con l'estero che, rapportato alla popolazione, era quasi il doppio di quello medio del resto d'Italia. Con la forza del suo esempio, il Piemonte di Cavour riuscì così a dimostrare che la causa della libertà faceva tutt'uno con quella del progresso economico e a diventare il naturale punto di riferimento per la borghesia liberale di tutta Italia. Moltissimi esuli politici (dai venti ai trentamila) si stabilirono nel Regno sabaudo fra il 1849 e il 1860 dando un importante apporto alla vita culturale dello Stato sabaudo, che si arricchì di nuove voci e di nuove correnti intellettuali. Gli emigrati presero parte attiva alla vita politica del Regno, amalgamandosi con la classe dirigente piemontese che diventava così sempre più rappresentativa della futura classe dirigente italiana. 3.3. Il fallimento dell'alternativa repubblicana. La strategia di Mazzini, La repressione in Lombardia, Il Partito d'azione e le società operaie, Le critiche a Mazzini, Ferrari e Pisacane, La spedizione di Sapri, Daniele Manin e la Società nazionale. Le sconfitte del '48-49 non avevano mutato nella sostanza la strategia di Mazzini e dei mazziniani, più che mai convinti che l'unità italiana sarebbe

scaturita da un moto insurrezionale e avrebbe potuto attuarsi solo nel quadro di una generale ripresa del processo rivoluzionario. In questa prospettiva, Mazzini da un lato si preoccupò di intensificare i contatti con i maggiori esponenti di tutto il movimento democratico europeo, dall'altro si adoperò instancabilmente per ritessere dall'esilio di Londra le fila dell'attività cospirativa in Italia. Sul piano pratico, però, i risultati furono fallimentari in rapporto agli altissimi costi umani sostenuti. Negli anni 1851-52 la polizia austriaca inferse duri colpi all'organizzazione mazziniana. Molti furono gli arresti e molte le condanne capitali emanate da tribunali militari. Particolare sensazione destarono le nove impiccagioni avvenute nella fortezza di Belfiore, presso Mantova, fra la fine del '52 e l'inizio del '53. Nonostante i gravi vuoti aperti nelle file del movimento rivoluzionario, Mazzini ritenne di poter tentare ugualmente la carta dell'insurrezione. Il 6 febbraio 1853, a Milano, poche centinaia di operai e di artigiani assalirono con armi improvvisate i posti di guardia austriaci. Ma il moto fu facilmente represso e ne seguirono nuovi arresti e nuove condanne a morte. Convinto che il fallimento dei moti milanesi fosse dovuto alle carenze organizzative, oltre che al troppo tiepido appoggio dell'elemento liberalborghese, Mazzini fondò nel 1853, a Ginevra, una nuova formazione politica cui diede il nome di Partito d'azione, quasi a sottolinearne il carattere di puro strumento di battaglia, al di là delle dispute teoriche. Nel contempo Mazzini, pur senza fare nessuna concessione alle ideologie socialiste, intensificò i suoi sforzi per crearsi una base fra gli artigiani e gli operai delle città del Nord: molte fra le società operaie di mutuo soccorso nate in questo periodo, soprattutto in Piemonte e in Liguria grazie alla libertà di associazione garantita dallo Statuto, furono controllate dai mazziniani e si ispirarono al credo repubblicano e patriottico. Fin dall'inizio degli anni '50 si delinearono però fra i democratici italiani nuovi orientamenti che, da diversi punti di vista, tendevano a mettere in discussione la guida politica di Mazzini e a contestare la sua strategia. Vi era chi riteneva questa strategia troppo intransigente e auspicava una più ampia collaborazione con tutte le forze interessate al conseguimento dell'unità. Vi era d'altra parte chi, collocandosi già in una prospettiva socialista, criticava da sinistra l'impostazione mazziniana e la considerava poco aperta ai problemi sociali e alle esigenze delle classi subalterne. Due libri usciti entrambi nel 1851 - La Federazione repubblicana di Giuseppe Ferrari e La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 di Carlo Pisacane - introdussero il tema del socialismo nel dibattito interno al movimento risorgimentale. Sia l'uno che l'altro sostenevano che la lotta per

l'indipendenza nazionale avrebbe potuto aver successo solo se avesse saputo legare a sé le classi popolari, identificandosi con la loro lotta per l'emancipazione economica e spirituale. Ma, mentre per il milanese Ferrari qualsiasi iniziativa italiana era necessariamente legata a una ripresa delle forze rivoluzionarie in Francia, il napoletano Pisacane pensava che proprio l'Italia - e soprattutto l'Italia meridionale - offrisse, per le sue caratteristiche di paese arretrato con una borghesia ancora debole, il terreno più adatto per la rivoluzione. Nate dalla riflessione teorica più che dalla conoscenza dei problemi delle masse, le dottrine di Pisacane si fondavano su presupposti assai fragili. Esse, tuttavia, non solo anticipavano di parecchi anni le formulazioni di Bakunin [§2.9], ma rappresentavano anche la prima importante espressione in Italia di un filone di pensiero socialista, ben distinto da quello democraticomazziniano. Le divergenze ideologiche non impedirono, peraltro, a Pisacane e a Mazzini di trovare un concreto terreno di collaborazione nella preparazione di un nuovo progetto insurrezionale, da attuarsi questa volta nell'Italia meridionale. Nel giugno del 1857, Pisacane si imbarcò a Genova con pochi compagni su un piroscafo di linea, se ne impadronì e con esso fece rotta verso l'isola di Ponza, sede di un penitenziario borbonico. Ingrossata da circa trecento detenuti (in buona parte comuni) liberati dal carcere, la spedizione si diresse verso le coste meridionali della Campania e sbarcò a Sapri, iniziando la marcia verso l'interno. Ma a questo punto nessuna delle condizioni che, nel progetto di Pisacane, avrebbero dovuto assicurare la riuscita del piano si verificò: mancò soprattutto l'attesa adesione dei contadini. Isolata e fatta segno addirittura all'ostilità delle popolazioni locali, la colonna dei rivoltosi fu facilmente individuata e annientata dalle truppe borboniche. Pisacane, ferito, si uccise per non cadere prigioniero. Il fallimento della spedizione di Sapri esasperò il dissidio già in atto fra i democratici e coincise con la nascita ufficiale di un movimento indipendentista filopiemontese. Iniziatore del movimento era stato Daniele Manin, il capo del governo repubblicano di Venezia nel '48-49, che fin dall'estate del '55 aveva proposto il superamento di ogni divisione relativa alla futura forma di governo dell'Italia unita e l'unione di tutte le correnti, moderate e democratiche, intorno all'unica forza in grado di raggiungere l'obiettivo: la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II. Alla proposta di Manin (che morì nel '57) aderirono molti autorevoli esponenti dell'emigrazione democratica in Piemonte. Importantissima fu l'adesione di Giuseppe Garibaldi, rientrato in Italia nel '55 dopo una lunga permanenza in America. Nel luglio 1857 il movimento si diede una struttura organizzativa e assunse il nome di Società nazionale. L'associazione dichiarava nel suo

manifesto costitutivo di anteporre la causa dell'unità "ad ogni predilezione di forma politica e di interesse municipale"; di ritenere "necessaria" al raggiungimento di tale scopo l'azione popolare e "utile" il "concorso governativo piemontese"; di appoggiare quindi la monarchia sabauda fintantoché questa avesse appoggiato la causa italiana. Con la fondazione della Società nazionale, la politica cavouriana, che aveva già colto i suoi primi successi diplomatici, si trovò a disporre di una nuova importantissima carta. 3.4. La diplomazia di Cavour e la seconda guerra di indipendenza. La strategia di Cavour, L'intervento piemontese in Crimea e la conferenza di Parigi, La necessità dell'appoggio francese, L'attentato di Orsini, L'alleanza francopiemontese, I progetti di Napoleone III e di Cavour, La ricerca del "casus belli", Le sconfitte austriache, Le guerre di indipendenza, L'armistizio di Villafranca e le dimissioni di Cavour, Le insurrezioni nell'Italia centrosettentrionale, La pace di Zurigo e le annessioni. Nei primi anni del suo governo, Cavour non aveva tra i suoi obiettivi l'unità italiana. La sua azione fu piuttosto orientata verso gli scopi tradizionali della monarchia sabauda: allargare i confini del Piemonte verso l'Italia settentrionale, a scapito dei domini austriaci e degli Stati minori del CentroNord. Cavour perseguì però questa strategia con una abilità e una spregiudicatezza sconosciute alla vecchia diplomazia, senza mai precludersi la possibilità di raggiungere traguardi più ambiziosi. Prima preoccupazione di Cavour, in politica estera così come in politica economica, fu quella di avvicinare il Piemonte all'Europa più moderna e più sviluppata, facendolo passare dal rango di Stato regionale a quello di media potenza europea. Un passo importante in questa direzione fu compiuto nel 1855, quando il governo piemontese rispose positivamente all'invito rivoltogli da Francia e Inghilterra di associarsi alla guerra contro la Russia [§4.2] e inviò in Crimea un corpo di 18.000 uomini al comando del generale La Marmora. In questo modo il Piemonte ottenne di partecipare come Stato vincitore alla conferenza di Parigi del 1856 e di poter sollevare la questione italiana di fronte a un consesso internazionale. Cavour protestò contro la presenza militare austriaca nelle Legazioni pontificie e denunciò il malgoverno dello Stato della Chiesa e del Regno delle due Sicilie come causa perenne di instabilità e di tensioni rivoluzionarie, e dunque come minaccia alla pace e all'equilibrio europeo. Il Piemonte si presentava così come portavoce delle istanze di rinnovamento di tutta la borghesia italiana e

insieme come strumento e garante di uno sbocco non rivoluzionario delle tensioni che si manifestavano nella penisola. Importante sotto il profilo morale, l'esperienza del congresso di Parigi fu però avara di risultati concreti. Cavour ne uscì convinto che solo una radicale modifica dell'equilibrio europeo sancito dal congresso di Vienna avrebbe permesso al Piemonte di eliminare la presenza austriaca dall'Italia centrosettentrionale. Era dunque necessario, da un lato, mantenere viva l'agitazione patriottica (di qua l'appoggio dato da Cavour alla Società nazionale); dall'altro, assicurarsi l'appoggio dell'unica grande potenza europea veramente interessata a una modifica dello status quo: la Francia di Napoleone III. Per raggiungere il suo scopo, Cavour poté contare non solo sulle ambizioni egemoniche dell'imperatore, desideroso di riprendere la politica italiana del primo Napoleone, ma anche sulla paura suscitata in lui dal ripetersi delle agitazioni mazziniane. Paradossalmente, fu proprio il gesto isolato di un mazziniano, che voleva vendicare l'intervento contro la Repubblica romana, ad affrettare i tempi dell'alleanza francopiemontese. Nel gennaio del 1858, Felice Orsini, un repubblicano romagnolo che aveva ricoperto incarichi di rilievo nel '49 a Roma, attentò alla vita dell'imperatore lanciando tre bombe contro la sua carrozza, ma fallì l'obiettivo provocando molti morti tra la folla che assisteva al passaggio del corteo imperiale. Orsini - che fu subito arrestato e condannato a morte - aveva agito di propria iniziativa. Ma il suo gesto gettò ulteriore discredito sul movimento mazziniano e diede spunto a Cavour per ribadire l'urgenza di una soluzione del problema italiano. Un aiuto in questo senso venne dallo stesso Orsini che, prima di salire sul patibolo, si dichiarò pentito per le conseguenze del suo gesto e scrisse due lettere all'imperatore per scongiurarlo di far propria la causa del movimento nazionale italiano. Le lettere impressionarono vivamente Napoleone III, peraltro già convinto della necessità di una iniziativa francese in Italia. Cavour ebbe, così, la strada spianata verso la conclusione di un'alleanza francopiemontese, che fu sancita in un incontro segreto fra l'imperatore e il primo ministro piemontese svoltosi nel luglio 1858 nella cittadina termale di Plombières. Gli accordi ipotizzavano una nuova sistemazione dell'intera penisola italiana, che avrebbe dovuto essere divisa in tre Stati: un regno dell'Alta Italia comprendente, oltre al Piemonte, il LombardoVeneto e l'Emilia-Romagna, sotto la casa sabauda (che in cambio avrebbe ceduto alla Francia i territori transalpini di Nizza e della Savoia); un regno dell'Italia centrale formato dalla Toscana e dalle province pontificie; un regno meridionale, coincidente con quello delle due Sicilie liberato dalla dinastia borbonica. Al papa, che avrebbe conservato la sovranità su Roma e dintorni,

sarebbe stata offerta la presidenza della futura Confederazione italiana. Dietro questo progetto si celavano in realtà due diversi disegni: quello di Napoleone III, che mirava a porre l'Italia sotto il suo controllo; e quello di Cavour che, pur mostrando di assecondare i progetti bonapartisti, contava soprattutto sulla forza d'attrazione del Piemonte nei confronti degli altri Stati italiani. Premessa indispensabile per la riuscita dei progetti di Cavour era comunque la guerra contro l'Austria. Anzi, era necessario che la guerra apparisse provocata dall'Impero asburgico perché l'alleanza con la Francia potesse diventare operante. Il governo piemontese fece il possibile per far salire la tensione con lo Stato vicino: dalle manovre militari al confine, all'armamento di corpi volontari (i Cacciatori delle Alpi comandati da Garibaldi e inquadrati nell'esercito sabaudo), al celebre discorso tenuto nel gennaio '59 da Vittorio Emanuele, in cui il re si dichiarava non insensibile al "grido di dolore" che si levava da tante parti d'Italia. Fu lo stesso governo asburgico a creare il tanto sospirato casus belli inviando, il 23 aprile 1859, un secco ultimatum al Piemonte (vi si chiedeva, fra l'altro, lo scioglimento dei corpi volontari e il ritorno dell'esercito sul piede di pace), che Cavour ebbe buon gioco a respingere. Dopo un primo scontro con gli austriaci a Montebello, sul Po, e mentre i volontari di Garibaldi impegnavano l'esercito asburgico penetrando nel Nord della Lombardia, i francopiemontesi spostarono il grosso delle truppe sul Ticino (fu questo il primo esempio nella storia militare di impiego delle ferrovie in un'importante operazione strategica) e, ai primi di giugno, sconfissero gli asburgici nella battaglia di Magenta aprendosi la via di Milano. Un successivo contrattacco austriaco fu respinto il 24 giugno nelle due contemporanee, sanguinosissime battaglie di Solferino e San Martino. In questa situazione, estremamente favorevole dal punto di vista militare, Napoleone III decise unilateralmente di interrompere la campagna e propose agli austriaci un armistizio, che fu firmato l'11 luglio a Villa Franca, presso Verona. Con l'accordo l'Impero asburgico rinunciava alla Lombardia e la cedeva alla Francia (che l'avrebbe poi "girata" al Piemonte), mantenendo il Veneto e le fortezze di Mantova e Peschiera. Per il resto d'Italia, l'accordo prevedeva il ripristino dello status quo precedente lo scoppio della guerra (che era stato turbato, come vedremo fra poco, dalle insurrezioni nell'Italia centrale). La notizia dell'armistizio suscitò lo sdegno dei democratici italiani e colse di sorpresa lo stesso Cavour, che rassegnò subito le dimissioni e fu sostituito dal generale La Marmora.

Fra i motivi che avevano spinto l'imperatore a un così clamoroso ripensamento, c'erano le pressioni dell'opinione pubblica francese, impressionata dagli alti costi umani e finanziari della guerra; c'era la minaccia di un intervento della Confederazione germanica a fianco dell'Austria; ma c'era anche la nuova situazione che si era venuta a creare nell'Italia centrosettentrionale e che vanificava il progetto di nuova sistemazione dell'Italia concepito a Plombières. Alla fine di aprile a Firenze e in altre città toscane, ai primi di giugno nei ducati di Modena e Parma, una serie di insurrezioni aveva costretto alla fuga i vecchi sovrani. Poco dopo la sollevazione si estese anche allo Stato della Chiesa, costringendo le truppe pontificie ad abbandonare Bologna e la Romagna. A differenza di quanto era accaduto nel '48, i moti furono saldamente controllati dai moderati e dagli uomini della Società nazionale, e i governi provisori che subito si costituirono si pronunciarono per l'annessione al Piemonte. Dopo Villafranca, il governo sabaudo inviò nelle regioni liberate dei commissari straordinari. Dopo alcuni mesi di stallo - e dopo la firma in novembre della pace di Zurigo con l'Austria, in cui non si prendeva in considerazione il problema delle province insorte - Napoleone III decise di accettare il fatto compiuto. Cavour, tornato a capo del governo nel gennaio 1860, poté così negoziare la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia - cui il Piemonte non era più tenuto dopo Villafranca - in cambio dell'assenso francese alle annessioni nell'Italia centrale. Nel marzo dello stesso anno, le popolazioni di Emilia, Romagna e Toscana, chiamate a scegliere, nella forma tipicamente bonapartista del plebiscito, fra l'annessione al Piemonte e la creazione di regni separati, si pronunciavano a schiacciante maggioranza per la soluzione unitaria. 3.5. Garibaldi e la spedizione dei Mille. L'iniziativa dei democratici, Crispi, Pilo e l'insurrezione in Sicilia, Il ruolo di Garibaldi, L'atteggiamento di Cavour e di Vittorio Emanuele II, La spedizione dei Mille, La battaglia di Calatafimi e la liberazione di Palermo, Il governo garibaldino e la battaglia di Milazzo, Il processo di unificazione, Le cessioni di Nizza e Savoia, L'epopea garibaldina, I tentativi annessionisti di Cavour, Le agitazioni contadine in Sicilia, La repressione. Cedendo i suoi territori d'oltralpe (in particolare la Savoia, terra di origine della casa regnante, ma abitata da popolazioni di lingua francese) e allargando i suoi confini verso la Lombardia e l'Italia centrale, lo Stato sabaudo cessava di essere uno Stato dinastico e si avviava a diventare uno

Stato nazionale. Un simile risultato poteva apparire soddisfacente, almeno per il momento, a Cavour e ai moderati; ma certo non accontentava i democratici, pronti a sfruttare le circostanze favorevoli per rilanciare l'iniziativa rivoluzionaria nel Mezzogiorno e nello Stato della Chiesa. Esclusa, per le prevedibili complicazioni internazionali, l'opportunità di un'azione nei territori pontifici, tornava d'attualità l'idea di una spedizione di volontari nel Regno delle due Sicilie, dove, nel maggio del '59, era salito al trono il giovane Francesco II. Ma, più che il Mezzogiorno continentale, teatro recente del fallito tentativo di Pisacane, era la Sicilia, in stato di latente rivolta contro il governo napoletano, a offrire un terreno favorevole per un'iniziativa rivoluzionaria. Furono due mazziniani siciliani esuli in Piemonte, Francesco Crispi e Rosolino Pilo, a concepire il progetto di una spedizione nell'isola come prima tappa di un movimento insurrezionale che avrebbe dovuto estendersi al continente. Diversamente da quanto aveva fatto Pisacane nel '57, Crispi e Pilo cercarono, da una parte, di organizzare una rivolta locale prima dello sbarco dei volontari; dall'altra, di assicurare alla spedizione un'efficiente guida politica e militare e di garantirsi nel contempo un qualche appoggio del governo piemontese. Ai primi di aprile del 1860, un'insurrezione popolare scoppiava a Palermo. Mentre Pilo accorreva in Sicilia per assumere la direzione del moto - che fu sanguinosamente represso nel capoluogo ma si estese alle campagne, dando luogo ad una diffusa e ostinata guerriglia -, Crispi si adoperò per convincere Giuseppe Garibaldi ad assumere la guida della spedizione. Garibaldi era in quel momento non solo il capo militare più prestigioso di cui disponesse il movimento patriottico, ma anche l'unico leader capace di unificare attorno a sé le diverse componenti dello schieramento patriottico e unitario, dai democratici intransigenti ai moderati filocavouriani. Repubblicano convinto, con qualche vaga inclinazione verso un socialismo di stampo umanitario, si era allontanato da Mazzini non tanto per divergenze teoriche, quanto per una realistica valutazione sulle possibilità di successo del programma proposto dal Partito d'azione. Aveva finito così per aderire alla Società nazionale e, negli anni successivi, aveva collaborato lealmente con la monarchia sabauda, combattendo con successo in Lombardia nella campagna del '59 ed assumendo, dopo Villafranca, il comando dei corpi volontari unificati costituiti dai governi provisori dell'Italia centrale. Garibaldi era insomma l'unico fra i leader democratici che apparisse in grado di assicurare qualche possibilità di riuscita all'impresa, ritenuta da tutti estremamente rischiosa. Cavour, che temeva le

complicazioni internazionali e vedeva nella spedizione un'occasione di rilancio per i mazziniani, la avversò, pur senza far nulla di serio per impedirla. Vittorio Emanuele II, che guardava invece con malcelato favore al tentativo di Garibaldi, non poté intervenire concretamente in suo aiuto. La spedizione fu così preparata in fretta e con pochi mezzi finanziari: dunque con scarso equipaggiamento e pessimo armamento. Nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860, poco più di mille volontari provenienti da diverse regioni (ma in maggioranza settentrionali) e di varia estrazione sociale (per metà borgheseintellettuale, per metà operaia o artigiana) in larga parte veterani delle campagne del '48 e del '59, presero il mare a Quarto presso Genova, dopo essersi impadroniti di due navi a vapore, il Piemonte e il Lombardo. Pochi giorni dopo, eludendo la sorveglianza della flotta borbonica, i volontari sbarcavano a Marsala, nell'estremità occidentale della Sicilia e penetravano nell'interno, accolti con entusiasmo dalla popolazione. Il 15 maggio, a Calatafimi, le colonne garibaldine, ingrossate da poche centinaia di insorti siciliani, entrarono in contatto con un contingente borbonico e, nonostante l'inferiorità numerica, riuscirono a metterlo in fuga. Galvanizzati dal successo, i volontari puntarono su Palermo e la raggiunsero dopo una difficile marcia fra le montagne. All'arrivo delle avanguardie garibaldine, Palermo insorse. Alla fine di maggio, dopo tre giorni di duri combattimenti, i contingenti governativi furono costretti ad abbandonare il capoluogo, dove Garibaldi che appena sbarcato in Sicilia aveva assunto la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II - proclamò la decadenza della monarchia borbonica. Mentre nell'isola si formava un governo civile provvisorio sotto la guida di Francesco Crispi e si tentava di mettere in moto un primo processo di riforma sociale (riduzione del carico fiscale, assegnazione di terre ai contadini combattenti nelle file garibaldine), nell'Italia settentrionale una organizzazione che faceva capo ad Agostino Bertoni raccoglieva uomini e mezzi da inviare in Sicilia: fra giugno e luglio sbarcarono a Palermo quasi 15.000 volontari. Col loro apporto, Garibaldi poté muovere all'attacco delle truppe borboniche, che si erano concentrate nella parte nordorientale dell'isola, e sconfiggerle, il 20 luglio, a Milazzo, costringendole a rifugiarsi sul continente. Nel giro di poche settimane, l'impresa garibaldina aveva assunto le dimensioni di una vera e propria epopea, cui l'opinione pubblica di tutta Europa assisteva con stupore e spesso con simpatia. La rapidità con cui si era consumato il collasso del regime borbonico in Sicilia aveva inoltre colto di sorpresa la diplomazia delle grandi potenze e aveva costretto Cavour e i moderati italiani a rivedere frettolosamente la loro strategia. Di fronte

all'inatteso successo dell'azione garibaldina, il primo ministro piemontese mostrò, da un lato, di volerne agevolare il buon esito, favorendo l'afflusso di armi e di volontari in Sicilia; dall'altro, tentò di bloccarne gli ulteriori sviluppi, suscitando un movimento di opinione pubblica favorevole all'annessione al Piemonte. Il tentativo fallì di fronte alla ferma reazione di Garibaldi. Ma era la stessa situazione che si era nel frattempo venuta a creare nell'isola a lavorare in favore dell'annessione. Il clima di entusiastica concordia che aveva accolto i garibaldini al loro sbarco in Sicilia - e che era stato tra i fattori principali del loro successo - si era ben presto dissolto quando i contadini avevano intravisto la possibilità di liberarsi non solo dal malgoverno borbonico, ma anche dal secolare sfruttamento cui li condannava una struttura sociale arcaica e semifeudale; e avevano dato vita a una serie di violente agitazioni. Dal canto loro, Garibaldi e i suoi collaboratori avevano cercato di andare incontro alle esigenze dei contadini, ma senza mettere in discussione il quadro dei rapporti di proprietà (le assegnazioni decise ai primi di giugno riguardavano solo i terreni demaniali) e comunque subordinando le iniziative riformatrici all'esigenza primaria di raccogliere sul posto un esercito capace di condurre a termine la lotta contro il governo borbonico: un obiettivo questo che cozzava contro l'ostilità dei siciliani alla coscrizione obbligatoria, fino a quel momento sconosciuta nell'isola. Fra i patrioti giunti dal Nord, che miravano a una meta essenzialmente politica (e non volevano né potevano alienarsi l'appoggio della borghesia locale), e i contadini insorti, che si preoccupavano invece di raggiungere i propri obiettivi particolari (la lotta contro le tasse e contro i signori, la conquista della terra) disinteressandosi dei fini generali della guerra, nacque così un contrasto insanabile, sfociato in episodi di dura repressione: il più noto si verificò ai primi di agosto nella cittadina di Bronte, ai piedi dell'Etna, dove alcuni ribelli furono fucilati per ordine di Nino Bixio, braccio destro militare di Garibaldi. Ma intanto i proprietari terrieri, spaventati dalle agitazioni agrarie, guardavano sempre più all'annessione al Piemonte come all'unica efficace garanzia per la tutela dell'ordine sociale. 3.6. L'intervento piemontese e i plebisciti. Lo sbarco sul continente e la liberazione di Napoli, L'intervento piemontese, La battaglia del Volturno, I plebisciti, Il ritiro di Garibaldi, La proclamazione del Regno d'Italia.

Fino a tutta l'estate del 1860, l'iniziativa restò nelle mani di Garibaldi, che il 20 agosto, profittando della benevola neutralità della flotta inglese, riuscì a sbarcare in Calabria e poi risalì rapidamente la penisola senza che l'esercito borbonico, ormai in via di disgregazione, fosse in grado di opporgli un'efficace resistenza. Il 6 settembre, Francesco II abbandonò la capitale per rifugiarsi nella fortezza di Gaeta. Il giorno dopo, Garibaldi fece il suo ingresso trionfale a Napoli. Cavour, che aveva tentato senza successo di suscitare un movimento liberaleannessionista a Napoli prima dell'arrivo dei garibaldini, si trovò ancora una volta battuto sul tempo. Napoli liberata rischiava di trasformarsi in un quartier generale dei democratici (vi giunsero, poco dopo l'arrivo di Garibaldi, anche Mazzinie Cattaneo) e di diventare la base per una spedizione nello Stato pontificio. Un'impresa che avrebbe provocato l'intervento francese e che, se fosse andata a buon fine, avrebbe rimesso in discussione l'assetto monarchico e moderato dello stesso Regno sabaudo. Non restava, per il governo piemontese, altra scelta se non quella di prevenire l'iniziativa garibaldina con un intervento militare. In settembre dopo che Cavour ebbe ottenuto l'assenso di Napoleone III, impegnandosi a non minacciare Roma e il Lazio - le truppe regie varcarono i confini dello Stato della Chiesa, invasero l'Umbria e le Marche e sconfissero l'esercito pontificio nella battaglia di Castelfidardo. Ai primi di ottobre, mentre Garibaldi batteva i borbonici nella grande battaglia campale del Volturno, l'esercito sabaudo iniziò la marcia verso il Mezzogiorno. Pochi giorni dopo, il Parlamento piemontese approvò quasi all'unanimità una legge proposta da Cavour, che autorizzava il governo a decretare l'annessione, senza condizioni, di altre regioni italiane allo Stato sabaudo, purché le popolazioni interessate esprimessero la loro volontà in tal senso mediante plebisciti. L'iniziativa tornava così - e questa volta definitivamente - nelle mani di Cavour e dei moderati. E a questa iniziativa Garibaldi non aveva concrete possibilità di opporsi, una volta esclusa l'ipotesi di uno scontro fratricida. Il 21 ottobre, in tutte le province meridionali e in Sicilia (e, due settimane dopo, anche nelle Marche e in Umbria) si tennero plebisciti a suffragio universale maschile, nella forma voluta da Cavour: agli elettori non veniva lasciata altra scelta che quella di accettare o respingere "in blocco" l'annessione allo Stato sabaudo con la sua forma di governo, i suoi ordinamenti e le sue leggi. Molto ampia (75-80%) fu l'affluenza alle urne e addirittura schiacciante - tanto da giustificare qualche sospetto sulla regolarità delle operazioni di voto e di scrutinio - la maggioranza dei sì. A Garibaldi non restò che attendere l'arrivo dei piemontesi (lo storico incontro col re avvenne a Teano, presso Caserta, il 25 ottobre) per cedere

loro ogni responsabilità nel governo delle province liberate. Mentre Garibaldi si ritirava a Caprera in volontario isolamento - annunciando la sua intenzione di riprendere a breve scadenza la lotta per la liberazione di Roma e del Veneto - e mentre Mazzini partiva verso l'ennesimo esilio, l'esercito sabaudo eliminava le ultime resistenze borboniche. Il 17 marzo 1861, il primo Parlamento nazionale - eletto secondo la legge elettorale vigente in Piemonte, e quindi su base rigorosamente censitaria proclamava Vittorio Emanuele II re d'Italia "per grazia di Dio e volontà della nazione". 3.7. Le ragioni dell'unità. "Conquista regia" e iniziativa popolare, I fattori internazionali. A poco più di un decennio dal fallimento delle rivoluzioni del '48-49, il processo di unificazione nazionale italiana si compiva così in tempi straordinariamente rapidi e con modalità non previste nemmeno da coloro che ne erano stati i principali artefici. I progetti di quei patrioti che pensavano di far sorgere il nuovo Stato dalla sola iniziativa popolare e dalle libere decisioni di un'Assemblea costituente non si erano realizzati. Al contrario l'Italia unita si presentava, almeno da un punto di vista formale, come il risultato dell'allargamento di uno Stato regionale rivelatosi forte, dinamico e fortunato al punto da poter assorbire territori di gran lunga più ampi e popolazioni molto più numerose rispetto al suo nucleo originario; e da questo Stato l'intero paese si vedeva imporre sovrano e istituzioni, leggi e ordinamenti. Non sarebbe tuttavia corretto leggere il processo unitario come il frutto di una pura conquista o di una "rivoluzione dall'alto" analoga a quella che, dieci anni dopo, avrebbe portato alla formazione del Reitch tedesco. In Italia l'unità non fu soltanto il prodotto dell'iniziativa militare e diplomatica di uno Stato o dell'azione di un uomo politico geniale (anche se molte sono le analogie tra il ruolo del Piemonte di Cavour e quello svolto più tardi dalla Prussia di Bismarck). Essa fu preparata da un ampio moto di opinione pubblica che coinvolse gli strati sociali più attivi e più dinamici, seppur minoritari: intellettuali, studenti e anche una borghesia produttiva desiderosa di creare quel mercato nazionale che era giustamente considerato una premessa indispensabile allo sviluppo economico. E fu proprio grazie ai suoi progressi economici, oltre che al suo modello istituzionale indubbiamente più avanzato e più liberale rispetto a quello degli altri Stati italiani, che il Piemonte poté conquistare un ruolo egemone cui non avrebbe

potuto aspirare in virtù della sua sola forza militare e riuscì a coinvolgere nel suo disegno di espansione le stesse forze democratiche. In Italia, dunque, lo Stato nazionale nacque dalla combinazione di un'iniziativa dall'alto (la politica di Cavour e della monarchia sabauda) e di un'iniziativa dal basso (le insurrezioni nell'Italia centrale e la spedizione garibaldina nel Sud). E gli stessi plebisciti, per quanto poco espressivi dei reali orientamenti delle popolazioni interessate, rappresentarono un omaggio all'idea della sovranità popolare. Nell'incontro fra la componente democratica e quella moderata e dinastica, quest'ultima risultò nettamente vincente: non tanto però da impedire che la nascita del nuovo Stato fosse in qualche modo segnata e condizionata dalle rivoluzioni democratiche che l'avevano preceduta e che avevano contribuito a renderla possibile. Va infine ricordato che l'unità non sarebbe stata raggiunta, non comunque in tempi così brevi, senza l'aiuto di una serie di circostanze favorevoli a livello internazionale: la benevola neutralità della Gran Bretagna, l'isolamento del Regno delle due Sicilie e dello stesso Impero asburgico, l'appoggio di Napoleone III nella guerra del '59. Fu soprattutto il ruolo della Francia, massima potenza continentale desiderosa di affermare la propria egemonia, a risultare decisivo: come decisivo sarebbe stato di lì a pochi anni, ma in senso del tutto opposto, nel processo di unificazione nazionale tedesca. Sommario In Italia, la "seconda restaurazione" - cioè il ritorno dei sovrani legittimi dopo il fallimento delle rivoluzioni del '48-49 - bloccò ogni esperimento riformatore e frenò pesantemente lo sviluppo economico dei vari Stati, mentre veniva sancita l'egemonia austriaca nella penisola. Aumentava anche il fossato che separava i sovrani dall'opinione pubblica borghese, fenomeno evidente soprattutto nei due Stati che più perseguirono una politica repressiva e autoritaria: lo Stato pontificio e il Regno delle due Sicilie. Solo in Piemonte la situazione era diversa. Qui fu conservato il regime costituzionale; inoltre, superata la crisi legata alla ratifica del trattato di pace con l'Austria, venne intrapresa dal governo D'Azeglio un'opera di modernizzazione dello Stato, soprattutto nel campo dei rapporti con la Chiesa (leggi Siccardi). Nel 1850 Cavour entrava nel governo (come ministro dell'Agricoltura e Commercio) e, due anni dopo, diveniva presidente del Consiglio. Si affermava, così, un politico dai vasti orizzonti culturali e dall'ampia conoscenza dei problemi economici, animato dalla fede nelle virtù della libera concorrenza e da un liberalismo pragmatico e

moderno. Spostato a sinistra l'asse del governo ("connubio" con Rattazzi), Cavour pose mano anzitutto alla modernizzazione economica del paese, attraverso l'adozione di una linea liberoscambista, il sostegno dello Stato all'industria, la riorganizzazione delle attività creditizie, le opere pubbliche. La conservazione delle libertà costituzionali, lo sviluppo economico, l'accoglienza data agli esuli provenienti dagli altri Stati italiani fecero del Piemonte cavouriano il punto di riferimento per l'opinione pubblica liberale di tutta la penisola. Proseguiva instancabile, dopo le sconfitte del '48-49, l'attività di Mazzini, volta al raggiungimento dell'indipendenza e dell'unità per via insurrezionale. I tragici insuccessi contro cui la sua strategia si scontrò fecero crescere i dissensi entro il movimento democratico. Si affacciava, soprattutto con Pisacane, un'ipotesi "socialista" di liberazione nazionale, che cioè facesse leva sulle masse diseredate del Mezzogiorno. Il tragico esito della spedizione di Sapri (1857) - dovuto soprattutto all'ostilità delle popolazioni locali - sollecitò l'iniziativa di quegli esponenti democratici che vedevano nell'alleanza con la monarchia sabauda l'unica possibilità di successo (nel 1857 si costituì la Società nazionale). Dopo aver ottenuto un successo diplomatico dalla partecipazione piemontese alla guerra di Crimea e alla conferenza di Parigi (1855-56), Cavour si convinse che era indispensabile l'appoggio di Napoleone III per scacciare gli austriaci dalla penisola. Favorito dagli effetti che l'attentato di Orsini ebbe sull'imperatore, strinse con questi a Plombières (1858) un'alleanza militare in vista della guerra contro l'Austria, che scoppiò nell'aprile dell'anno successivo. Le sorti del conflitto volsero subito a favore dei francopiemontesi. Ma l'armistizio di Villafranca - improvvisamente stipulato da Napoleone III - assegnava allo Stato sabaudo la sola Lombardia. Si dove alla nuova situazione creata dalle insurrezioni nell'Italia centrosettentrionale se il Piemonte poté annettere anche Emilia, Romagna e Toscana. Rimanevano scontenti i democratici, che cominciarono a pensare a una prosecuzione della lotta attraverso una spedizione nel Mezzogiorno. Nel maggio 1860 Garibaldi sbarcò in Sicilia con mille volontari e, sconfitte le truppe borboniche, formò un governo provvisorio. Le aspirazioni dei contadini - desiderosi anzitutto di una trasformazione dei rapporti di proprietà - causarono presto la fine del clima di concordia che aveva salutato i "liberatori". Spaventati dalle agitazioni agrarie, i proprietari terrieri guardarono con favore all'annessione al Piemonte. Dopo lo sbarco di Garibaldi in Calabria e il suo ingresso a Napoli, divenne urgente per il governo piemontese un'iniziativa al Sud tale da

evitare complicazioni internazionali e garantire alla monarchia sabauda il controllo della situazione. Con l'intervento dell'esercito piemontese e le annessioni, la liberazione del Sud veniva così ricondotta entro i binari della politica cavouriana. Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II fu proclamato re d'Italia. Bibliografia Per le vicende che portarono all'unità d'Italia, fondamentale è il IV volume della Storia dell'Italia moderna di G. Candelora, Dalla Rivoluzione nazionale all'unità, Feltrinelli, Milano 1964; vedi anche H. Hearder, Cavour. Un europeo piemontese, Laterza, RomaBari 2000; A. Scirocco, L'Italia del Risorgimento, Il Mulino, Bologna 1990 e G. Sabbatucci V. Vidotto (a e. di), Storia d'Italia, 1. Le premesse dell'Unità, Laterza, RomaBari 1994. La più importante ricostruzione di questa fase del processo risorgimentale è quella che, prendendo le mosse dalla biografia di Cavour, R. Romeo ha tracciato nei tre ampi volumi dell'opera Cavour e il suo tempo, Laterza, RomaBari 1969-84 e nella più breve Vita di Cavour, ivi 1984; dello stesso autore si vedano anche i saggi raccolti in Dal Piemonte sabaudo all'Italia liberale, ivi 19742. E ancora, L. Cafagna, Cavour, Il Mulino, Bologna 1999 e A. Scirocco, Garibaldi, Laterza, RomaBari 2001. Sulle correnti democratiche: F. Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Editori Riuniti, Roma 1965. Il dibattito storiografico fino al 1960 è trattato ampiamente in W. Maturi, Le interpretazioni del Risorgimento, Einaudi, Torino 1962. Le riflessioni di Antonio Gramsci, affidate ai Quaderni del carcere e pubblicate nel dopoguerra - Il Risorgimento, Einaudi, Torino 1949 (e più recentemente con il titolo Quaderno 19. Il Risorgimento italiano, ivi 1977) , hanno largamente influenzato la storiografia di ispirazione marxista. Le tesi di Gramsci sono state respinte dagli storici di formazione liberale: in particolare, vedi la critica di R. Romeo in Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1959. 4. L'Europa delle grandi potenze (1850-1890). 4.1. La lotta per l'egemonia continentale. Il primato della Germania, Gli assetti interni, Le grandi potenze, Il tentativo egemonico della Francia, La crescita della Prussia e il contrasto francotedesco.

Dopo la tempesta rivoluzionaria del 1848-49, la scena europea continuò a essere occupata dagli stessi protagonisti che avevano dominato gli equilibri continentali nei decenni successivi al congresso di Vienna: le cinque "grandi potenze" (Francia, Gran Bretagna, Austria, Prussia e Russia, cui dopo il 1861 cercò di aggiungersi l'Italia), ossia da quegli Stati che, per dimensioni, per capacità economica e soprattutto per forza militare, potevano esercitare un ruolo attivo negli affari internazionali, in una continua competizione per l'egemonia. Se però, durante l'età della Restaurazione e del cosiddetto "concerto europeo", le rivalità si erano mantenute in termini pacifici, il ventennio 1850-70, segnato da ben quattro guerre, fu caratterizzato da un elevato tasso di conflittualità e di instabilità: instabilità originata soprattutto dal tentativo della Francia di Napoleone III di riaffermare la sua posizione di massima potenza continentale (sullo scacchiere mondiale la superiorità inglese era fuori discussione), rovesciando il sistema uscito dal congresso di Vienna e contrapponendosi all'Impero asburgico, che di quel sistema era il cardine principale. Ma l'indebolimento dell'Austria ebbe fra le sue conseguenze quella di facilitare l'ascesa della potenza prussiana fra i paesi di lingua tedesca. La crescita della Prussia e la sua aspirazione a riunire attorno a sé un grande Stato nazionale tedesco costituivano una minaccia intollerabile per la Francia, che da oltre due secoli aveva fondato la sua egemonia continentale proprio sulla debolezza e sulla frammentazione politica della Germania: la strada dell'unità tedesca passava quindi inevitabilmente attraverso lo scontro con la Francia. L'esito di questo scontro, che fu fatale per il Secondo Impero, segnò una svolta decisiva nella politica europea, elevando la Germania unita al ruolo di maggiore potenza continentale, di garante di un nuovo equilibrio e di fulcro di un sistema di alleanze tutto mirato all'isolamento della Francia sconfitta. Solo nell'ultimo decennio del secolo, questo equilibrio sarebbe entrato in crisi (dopo l'uscita di scena del suo principale artefice, il cancelliere Bismarck), per dare poi luogo a un assetto fondato non più sull'idea di un "concerto europeo", ma sulla contrapposizione fra due blocchi di potenze. Sul piano delle politiche interne, la sconfitta delle correnti democraticoradicali nelle rivoluzioni del '48 rallentò, ma non pregiudicò il cammino dell'Europa verso forme più avanzate di governo rappresentativo. Non solo la Gran Bretagna consolidò, e rese più aperte, le sue istituzioni liberali, non solo la Francia si ritrasformò in repubblica dopo la sconfitta nella guerra con la Prussia, ma anche regimi a forte vocazione autoritaria dall'Impero di Napoleone III all'Austria degli Asburgo e alla Germania di

Bismarck, con l'unica eccezione della Russia zarista - subirono una qualche evoluzione nel senso di un maggior peso degli organismi elettivi, di un allargamento dell'area degli aventi diritto al voto (dopo il 1870, sia nel Reich tedesco sia nella Repubblica francese era in vigore il suffragio universale maschile) e di una più forte sensibilità nei confronti degli emergenti problemi sociali. 4.2. La Francia del Secondo Impero e la guerra in Crimea. "Bonapartismo", Autoritarismo e paternalismo, La crescita della borghesia, Le aspirazioni "tecnocratiche", La vocazione bellicistica, La questione d'Oriente e la guerra russoturca, L'intervento anglofrancese e la guerra in Crimea, Il congresso di Parigi, L'alleanza col Piemonte e la guerra all'Austria, L'Impero liberale. Nell'Europa di metà '800 la Francia di Napoleone III rappresentava un caso anomalo. Il Secondo Impero non apparteneva infatti alla categoria dei sistemi liberalparlamentari, ma era anche molto diverso dai regimi monarchici tradizionali. Per molti aspetti, il nuovo regime - che pure ricalcava ostentatamente le forme istituzionali del Primo Impero napoleonico - inaugurò un modello politico di nuovo genere, che da allora fu detto bonapartismo. Nel bonapartismo l'omaggio formale al principio della sovranità popolare - che si voleva espressa attraverso i plebisciti legittimava in realtà un potere fondato sulla forza delle armi; il centralismo autoritario si univa a una certa dose di riformismo sociale e il conservatorismo borghese si mescolava con la demagogia: tutti elementi che ritroveremo in molti regimi autoritari tipici delle moderne società di massa. All'autoritarismo e al centralismo, Napoleone III univa la pratica del paternalismo e la ricerca del consenso popolare, verificato periodicamente attraverso le elezioni della Camera a suffragio universale. Oltre al sostegno delle campagne - indispensabile in un paese in cui l'agricoltura occupava, ancora negli anni '60, circa la metà della popolazione attiva - l'imperatore cercò ed ottenne quello della borghesia urbana, del mondo degli affari, della finanza e dell'industria. Questa borghesia fu, negli anni del Secondo Impero, attiva e influente come non era mai stata prima. Le banche conobbero uno sviluppo senza precedenti, grazie soprattutto alla nascita degli istituti di credito mobiliare [§2.3], e le iniziative finanziarie trovarono adeguato sbocco nella crescita dell'industria. Le costruzioni ferroviarie e le grandi opere pubbliche promosse dal regime bonapartista (si pensi alla

ristrutturazione di Parigi operata da Haussmann [§2.5]) svolsero la funzione di motore e di volano dello sviluppo, sia per l'edilizia sia per i settori di punta come il siderurgico e il meccanico. Un altro aspetto importante della cultura e della società del Secondo Impero fu quello che potremmo definire tecnocratico: la tendenza cioè ad affidare sempre maggior potere ai tecnici (scienziati, ingegneri, esperti di economia e finanza) e a ravvisare nel trionfo della tecnica e della civiltà industriale la via più sicura per la realizzazione del bene comune. Certo, Napoleone III ebbe, più di molti uomini di Stato suoi contemporanei, il senso di ciò che lo sviluppo economico significava per le sorti di uno Stato moderno. In un discorso pronunciato nel 1852, poco prima del plebiscito che lo avrebbe consacrato imperatore, si era impegnato a dare la priorità alle grandi conquiste civili ("Abbiamo territori incolti da dissodare, strade da aprire, porti da scavare, canali da portare a termine, le nostre reti ferroviarie da completare"). E, rispondendo a coloro che identificavano l'Impero col ricordo delle guerre europee, aveva coniato la celebre formula "l'Impero è la pace". I propositi pacifisti erano però destinati a scontrarsi con un'altra componente essenziale del Secondo Impero: la tradizione bonapartista. Giunto al potere soprattutto grazie al prestigio del suo nome, sbarazzatosi delle opposizioni grazie all'appoggio dei militari, Napoleone III non poteva prescindere dalle tradizioni belliche del Primo Impero. Un'eredità che lo portava a contestare l'assetto europeo uscito dal congresso di Vienna e ad impegnarsi in una politica estera ambiziosa e aggressiva. La prima occasione per misurare le nuove ambizioni imperiali della Francia fu offerta dall'improvviso riacutizzarsi, nel 1853-54, della questione d'Oriente. All'origine della crisi vi era l'aspirazione della Russia a espandersi in direzione del Mar Nero e dei Balcani, profittando della crescente incapacità dell'Impero ottomano a esercitare un effettivo controllo sui suoi domini europei. Nel novembre 1853, traendo pretesto da problemi relativi alla tutela dei cristiani ortodossi che vivevano in Turchia, la Russia aprì le ostilità contro l'Impero ottomano. Gli iniziali successi della Russia suscitarono, però, la reazione del governo inglese, che temeva un improvviso tracollo dell'Impero ottomano ed era spinto da un'opinione pubblica bellicosa e violentemente antirussa. Alla Gran Bretagna si associò subito Napoleone III, interessato soprattutto all'affermazione della presenza francese nel Mediterraneo, mentre il governo austriaco, deludendo le attese della Russia, optò per una rigida neutralità. Nell'estate del 1854 una flotta anglofrancese penetrò nel Mar Nero. Gli eserciti alleati - forti di circa quattrocentomila uomini forniti in

gran parte dalla Francia - sbarcarono nella penisola di Crimea e posero l'assedio alla piazzaforte di Sebastopoli. Quella combattuta in Crimea dagli anglofrancesi - ai quali si aggiunse dopo qualche mese un corpo di spedizione inviato dal Piemonte [§3.4] - fu una strana guerra, condotta da ambo le parti con scarsa risolutezza. Vi furono pochi scontri campali (i molti morti della campagna si dovettero alle epidemie più che alle battaglie). E tutto si risolse nel lunghissimo assedio di Sebastopoli, durato circa un anno e seguito con impazienza dall'opinione pubblica europea, che per la prima volta, grazie al telegrafo, fu informata giorno per giorno dell'andamento di una guerra. Sebastopoli cadde nel settembre 1855. Nel febbraio dell'anno seguente un congresso delle potenze europee tenuto a Parigi confermò la "neutralizzazione" del Mar Nero, che restava chiuso alle navi da guerra di tutti i paesi compresa la Russia. L'Impero ottomano vide garantita la sua integrità e confermata la sua sovranità nominale sui principati autonomi di Serbia, Moldavia e Valacchia (questi ultimi si sarebbero uniti nel '59 per formare il nuovo Stato di Romania). La Francia non ottenne risultati concreti, in proporzione all'impegno sostenuto, ma accrebbe il suo prestigio svolgendo un ruolo da protagonista al congresso della pace, dove si batté, contro l'ostilità austriaca, per l'autonomia dei principati danubiani. L'appoggio ai movimenti nazionali che lottavano contro l'equilibrio del congresso di Vienna rappresentò una direttiva fondamentale nella politica estera del Secondo Impero. L'episodio più significativo di questa politica fu l'alleanza col Piemonte, stipulata nel 1858 e culminata, l'anno seguente, nella guerra contro l'Austria [§3.4]. Dal conflitto, che pure si concluse vittoriosamente, la Francia uscì però indebolita. Il risultato principale della guerra - la formazione di uno Stato nazionale italiano sotto la guida del Piemonte - fu ben lontano dai progetti di Napoleone III, che aveva sperato di subentrare all'Austria nel ruolo di potenza egemone in un'Italia sempre divisa. Sul piano interno, lo scontro con l'Austria e l'appoggio al movimento nazionale italiano determinarono un contrasto fra l'imperatore e i gruppi cattolicoconservatori che lo avevano fin allora appoggiato. Da qui ebbe inizio una lenta evoluzione in senso liberale delle strutture politiche dell'Impero. L'esperimento non ebbe modo però di esplicarsi compiutamente e, nel 1870, fu bruscamente interrotto dallo scoppio della guerra francoprussiana e dal crollo del regime napoleonico.

4.3. Il declino dell'Impero asburgico e l'ascesa della Prussia. La restaurazione centralistica, I problemi delle nazionalità, I pilastri della monarchia: i contadini e la Chiesa, Il declino dell'Impero, Lo sviluppo economico, Il potere degli "Junker", La "via prussiana" allo sviluppo, Il problema del potenziamento dell'esercito, Bismarck al potere, Il contrasto con l'Austria, La guerra dei ducati, La guerra austroprussiana, La pace di Praga e la fine della Confederazione germanica, "compromesso" del 1867, Il trionfo di Bismarck. Sopravvissuto alle tempeste del '48-49 grazie alla tenuta della sua struttura burocraticomilitare, lo Stato plurinazionale degli Asburgo d'Austria tentò di riorganizzarsi, negli anni '50, sulla base del vecchio sistema assolutistico. La costituzione concessa nel '49, e mai realmente applicata, fu revocata nel 1851 (solo dieci anni dopo sarebbe stato ricostituito un organismo rappresentativo bicamerale, dotato peraltro di poteri molto limitati). Il centralismo amministrativo fu rafforzato e la burocrazia sempre più "germanizzata" (il tedesco divenne l'unica lingua ufficiale dell'Impero). Il centralismo burocratico contribuiva però a esasperare il problema fondamentale della monarchia asburgica: la coesistenza all'interno dell'Impero di diverse nazionalità, ciascuna con la propria lingua, le proprie tradizioni e le proprie aspirazioni all'autonomia. Anche l'aristocrazia, tradizionale puntello dell'Impero, era divisa fra i diversi gruppi nazionali e, soprattutto nelle province orientali, era stata danneggiata dall'abolizione della servitù della gleba. Questa misura aveva invece giovato ai contadini, che avevano potuto riscattare le terre pagando indennizzi relativamente modesti e che da allora avrebbero finito col costituire il sostegno più sicuro per la monarchia. L'altro pilastro su cui poggiò la restaurazione assolutistica di Francesco Giuseppe fu l'alleanza con la Chiesa cattolica, sancita nel 1855 da un concordato fra l'Impero e la Santa Sede. Appoggiandosi sulla Chiesa e sui contadini e puntando le sue carte sul centralismo burocratico, la monarchia sacrificò le esigenze della borghesia produttiva (soprattutto quella delle zone più progredite, come la Boemia e la Lombardia), chiamata a pagare i costi di un imponente apparato amministrativo e militare e al tempo stesso delusa nelle sue aspirazioni nazionali. L'Impero mancò in sostanza l'appuntamento con lo sviluppo economico degli anni '50 e '60, senza peraltro riuscire a mantenere, anche a causa delle sconfitte militari, il ruolo di primissimo piano che aveva prima del '48 nel concerto delle potenze europee.

Fu così la Prussia, che nel 1849 aveva mancato l'occasione per mettersi alla testa della rivoluzione nazionale, a riproporre con autorità la sua candidatura alla guida della nazione tedesca e all'egemonia sul Centro Europa, fidando soprattutto sulla forza trainante del suo sviluppo industriale e sulla stretta integrazione della sua economia con quella degli altri Stati tedeschi, uniti fin dal 1834 in una Lega doganale (Zollverein) da cui era invece esclusa l'Austria. Lo sviluppo dell'industria e la correlativa crescita di una forte borghesia urbana si concentrarono soprattutto nella parte occidentale dello Stato prussiano, cioè nella RenaniaWestfalia. Nei territori a est dell'Elba che costituivano il nucleo originario del regno degli Hohenzollern, resisteva ancora un'economia prevalentemente agricola, basata sulla grande proprietà terriera. L'abolizione degli ordinamenti feudali non aveva scalfito il potere dei nobili latifondisti, gli Junker. Questi formavano un gruppo sociale ristretto e compatto (erano non più di 25.000), fortemente conservatori nelle abitudini e nelle inclinazioni politiche, ed esercitavano un peso preponderante nella vita dello Stato: non solo fornivano la quasi totalità degli ufficiali di carriera, ma occupavano anche i più alti gradi dell'amministrazione statale. Lo stesso sistema elettorale rimasto in vigore dopo il '48 - che divideva i cittadini in tre classi in ragione della loro capacità contributiva e assegnava a ciascuna classe un ugual numero di deputati - assicurava agli Junker una rappresentanza sproporzionata alla loro consistenza numerica. Il Parlamento era peraltro fornito di poteri assai scarsi e non esercitava un reale controllo sull'attività del governo, responsabile esclusivamente di fronte al sovrano. La mancata evoluzione delle istituzioni in senso liberalparlamentare e la presenza ai vertici dello Stato di un ceto di aristocraticiproprietari terrieri non ebbero però sulla società tedesca gli effetti negativi, per il progresso economico e civile, che ebbero in Russia e nell'Impero asburgico. Al contrario, autoritarismo politico e conservatorismo sociale si rivelarono componenti essenziali di quella "via prussiana" allo sviluppo che avrebbe finito col costituire una sorta di modello, alternativo a quello britannico, per i paesi "secondi arrivati" sulla via dell'industrializzazione. Questo accadde anche perché in Germania esistevano elementi di modernità sconosciuti agli altri paesi dell'Europa centroorientale: un efficiente sistema di comunicazioni interne (strade, canali) che facilitavano gli scambi commerciali; una rete ferroviaria relativamente sviluppata; un'alta diffusione dell'istruzione elementare - eredità della tradizione protestante e del dispotismo illuminato settecentesco -, che rappresentò un fattore decisivo per i successi della Germania nel campo economico come in quello

militare. A tutto ciò si aggiunga la forza di una tradizione nazionale tedesca che traeva origine dalle guerre contro Napoleone I e dalla grande cultura romantica e idealistica del primo '800. Si capirà allora come il tradizionalismo degli Junker e le aspirazioni nazionali della borghesia finissero col trovare un terreno di convergenza nella politica di potenza dello Stato prussiano e nel suo necessario complemento: lo sviluppo di un'adeguata forza militare. Il problema del rafforzamento dell'esercito venne in primo piano all'inizio degli anni '60, quando il nuovo sovrano Guglielmo I, succeduto nel '61 a Federico Guglielmo IV, cercò di far approvare dal Parlamento un progetto di riforma delle forze armate. Il progetto prevedeva, oltre a un consistente aumento degli organici, il prolungamento della ferma e il potenziamento dei quadri permanenti a scapito della "milizia territoriale" (Landwehr): ossia di quella parte dell'esercito che, reclutata su base locale, aveva il compito di difendere il suolo nazionale in caso di invasione e incarnava, agli occhi dei democratici tedeschi, l'ideale del "cittadino soldato". La maggioranza liberale del Parlamento prussiano, preoccupata per le implicazioni politiche della riforma non meno che per i suoi costi economici, si oppose però al progetto. Non riuscendo a venire a capo dell'opposizione parlamentare, Guglielmo I decise di sfidarla apertamente e, nel 1862, nominò cancelliere (cioè capo del governo) il conte Otto von Bismarck, tipico esponente dell'ala più reazionaria degli Junker. Già fautore, in coerenza con le sue idee conservatrici, di una stretta alleanza con l'Impero asburgico, si era in seguito convertito alla causa dell'unificazione della Germania senza l'Austria o contro di essa; ma intendeva giungere allo scopo senza fare la minima concessione agli ideali del '48. Nel momento in cui salì al potere si impegnò, dunque, a realizzare il progetto di riforma dell'esercito a prescindere dal consenso del Parlamento (infatti governò per tre anni facendo approvare il bilancio per decreto reale); e, in un celebre discorso programmatico, enunciò la sostanza della sua filosofia politica, proclamando di voler risolvere il problema dell'unità nazionale "non con discorsi né con deliberazioni della maggioranza [...] bensì col sangue e col ferro". Raramente un programma politico trovò più integrale applicazione. In pochi anni, l'uso spregiudicato della forza, unito all'abilità diplomatica, consentì alla Prussia di realizzare l'unificazione tedesca e di passare dalla posizione di ultima fra le cinque grandi potenze europee a un'indiscussa egemonia sul continente. Il primo ostacolo sulla via dell'unificazione era costituito dall'Austria che, se da un lato era parte di un impero plurinazionale, era anche uno Stato

tedesco, membro della Confederazione germanica, all'interno della quale esercitava da sempre un ruolo di primo piano. Il contrasto si fece acuto nel 1864-65, quando le due potenze, dopo essersi accordate per strappare alla Danimarca, con una rapida campagna militare, i ducati di Schleswig, Holstein e Lauenburg, entrarono in conflitto circa l'amministrazione dei territori conquistati. Prima di provocare il casus belli con l'occupazione militare dello Holstein (che era stato affidato provvisoriamente all'amministrazione austriaca), Bismarck svolse un abile lavoro di preparazione diplomatica, alleandosi col neocostituito Regno d'Italia [§8.5] e assicurandosi, oltre alla benevola neutralità della Russia, anche quella di Napoleone III, che sperava in un indebolimento di entrambi i contendenti. Dalla parte dell'Austria si schierarono molti Stati minori della Confederazione germanica spaventati dalla prospettiva di un assorbimento da parte della Prussia. Cominciata nel giugno 1866, la guerra durò soltanto tre settimane. Mentre l'Italia impegnava, con scarsa fortuna, una parte delle forze imperiali, il rinnovato esercito prussiano penetrava in Boemia e, il 3 luglio, nella grande battaglia campale di Sadoiva, infliggeva agli austriaci una durissima sconfitta. Giocarono a favore dei prussiani la perfetta organizzazione dell'esercito, guidato dal generale von Moltke, la miglior qualità degli armamenti (le truppe erano dotate per la prima volta di fucili a retrocarica, che consentivano una superiore rapidità di tiro), la tempestività degli spostamenti dovuta a un razionale sfruttamento delle ferrovie. Fu, quella del '66, la prima delle numerose guerre di movimento che avrebbero reso celebre e temuta la macchina militare tedesca. Si giunse così, alla fine di agosto, alla firma della pace di Praga. L'Austria non subì mutilazioni territoriali, salvo quella del Veneto ceduto all'Italia. Ma dovette accettare lo scioglimento della vecchia Confederazione germanica, e dunque la fine di ogni sua influenza nell'Europa centrosettentrionale. Gli Stati tedeschi situati a nord del fiume Meno entrarono a far parte di una nuova Confederazione della Germania del Nord presieduta da Guglielmo I. Quelli situati a sud del Meno, fra cui la Baviera, rimasero invece indipendenti. I nuovi equilibri creatisi in Europa centrale a seguito della vittoria prussiana spinsero l'Impero asburgico a spostare il centro dei suoi interessi verso l'area danubianobalcanica e a cercare una nuova soluzione per il problema delle nazionalità che convivevano al suo interno. Nel 1867 l'Impero fu diviso in due Stati, l'uno austriaco l'altro ungherese (da ora in poi si parlerà infatti di Impero austroungarico), uniti fra loro nella persona del sovrano, ma ciascuno con un proprio Parlamento e un proprio governo,

salvo che per i ministeri preposti agli affari di interesse comune (Esteri, Guerra e Finanze). Col "compromesso" del '67, la dinastia asburgica si accordava col gruppo nazionale più forte e compatto, ma scontentava soprattutto gli slavi che avrebbero rappresentato da allora il pericolo più grave per l'unità dell'Impero. Il trionfo di Bismarck ebbe immediate ripercussioni anche sulla politica interna prussiana. Una folta schiera di deputati si staccò dall'opposizione liberale per dar vita a un nuovo partito nazionalliberale. Il 3 settembre 1866, pochi giorni dopo la firma della pace di Praga, il Parlamento prussiano ratificava retroattivamente le spese effettuate fin allora dal governo senza l'approvazione della Camera. Quel voto rappresentò un evento decisivo nella storia della Germania moderna: con esso la borghesia liberale rinunciò in pratica a guidare il processo di unificazione nazionale e accettò di collocarsi in una posizione subalterna nei confronti della monarchia e dell'aristocrazia terriera. Diversamente da quanto era accaduto in Gran Bretagna e in Francia, lo storico contrasto fra la corona e gli organi elettivi si risolveva a favore della prima. 4.4. La guerra francoprussiana e l'unificazione tedesca. La Francia, ultimo ostacolo all'unificazione tedesca, La questione del trono spagnolo, L'inferiorità della Francia, La sconfitta di Sedan, L'unificazione tedesca, La pace di Francoforte, Le conseguenze della guerra. Uscita trionfatrice dallo scontro con l'Austria, la Prussia di Bismarck e di Guglielmo I poteva accingersi a realizzare l'ultima fase del suo ambizioso programma: l'unificazione di tutti gli Stati della defunta Confederazione germanica, tranne l'Austria, in un grande Reich tedesco sotto la corona degli Hohenzollern. L'ultimo ostacolo reale sulla via dell'unità era rappresentato non tanto dagli Stati tedeschi a sud del Meno - ormai privati dell'appoggio austriaco e rassegnati a subire l'egemonia prussiana - quanto dalla Francia di Napoleone III. Questi, che aveva gravemente sottovalutato la forza della Prussia, vedeva ora messo in forse dai successi di Bismarck il risultato più importante e più duraturo mai raggiunto dalla Francia sul piano internazionale: quello conseguito più di due secoli prima col trattato di Westfalia del 1648 che aveva distrutto l'unità politica della Germania. L'occasione per il conflitto fu offerta da una questione dinastica. Nel 1868 il trono di Spagna era rimasto vacante in seguito a un colpo di Stato militare. Il governo provvisorio spagnolo aveva offerto la corona a

Leopoldo di Hohenzollern Sigmaringen, parente del re di Prussia. La prospettiva di un principe tedesco sul trono di Spagna spaventava ovviamente la Francia, che si sentiva minacciata di accerchiamento. L'opinione pubblica francese insorse compatta e la reazione del governo fu fermissima, ai limiti dell'ultimatum, tanto da indurre il principe di Hohenzollern, d'accordo con la corte prussiana, a declinare la proposta. Ma Bismarck seppe trasformare la ritirata in aperta provocazione. All'indomani di un incontro fra Guglielmo I e l'ambasciatore francese, comunicò alla stampa un telegramma a lui indirizzato dal re (il cosiddetto telegramma di Ems, dal nome della località termale dove il sovrano si trovava in vacanza): il testo, opportunamente manipolato, lasciava intendere che il rappresentante di Napoleone III fosse stato bruscamente congedato. Quel comunicato provocò in Francia, e soprattutto a Parigi, un'ondata di furore nazionalistico. Il governo e lo stesso imperatore, fin allora esitante, si lasciarono trascinare dalla spinta dell'opinione pubblica e, il 19 luglio 1870, dichiararono guerra alla Prussia. La Francia affrontò il conflitto in un clima di grande entusiasmo, ma con scarsa preparazione militare. L'esercito, che pure poteva contare su un armamento moderno ed efficiente, era nettamente inferiore a quello prussiano sia per il numero degli effettivi, sia per l'organizzazione. Come nel '66, le truppe comandate da von Moltke si mossero con grande rapidità in base a un preciso piano strategico. Il 1° settembre, mentre metà dell'esercito francese era costretta ad attestarsi nella fortezza di Metz, l'altra metà venne accerchiata a Sedan, presso il confine col Belgio, e costretta ad arrendersi. Lo stesso imperatore cadde prigioniero dei tedeschi. Pochi giorni dopo, nella capitale ormai minacciata dai prussiani, si formava un governo provvisorio composto in buona parte da repubblicani. Invano il ministro della Guerra Leon Gambetta, fuggito con un pallone aerostatico da Parigi assediata, tentò di rianimare la resistenza organizzando la leva in massa nelle province e mobilitando il popolo contro gli invasori (in questa occasione intervenne in difesa della Francia democratica anche un corpo di volontari italiano comandato da Garibaldi). Dopo una serie di sconfitte, il governo fu però costretto a lasciare Parigi e a chiedere l'armistizio, che fu firmato il 28 gennaio 1871. Frattanto le vittorie prussiane avevano fatto cadere le residue resistenze degli Stati tedeschi indipendenti nei confronti dell'unificazione. Il 18 gennaio 1871, nella reggia di Versailles, luogosimbolo della potenza dei re di Francia, Guglielmo I fu incoronato imperatore tedesco (DeutscherKaiser). Si evitò di usare la formula "imperatore di Germania" per non urtare i particolarismi dei vecchi Stati, che avrebbero conservato nel nuovo Impero (Reich) ampie autonomie.

Ciò non toglieva nulla al carattere autoritario della procedura con cui si era giunti all'unità: un'unità calata dall'alto, attuata, in seguito a una guerra combattuta fuori dai confini nazionali, soprattutto per l'iniziativa di uno statista geniale e dispotico, mai ratificata da un plebiscito o da una qualsiasi forma di consultazione popolare. La stessa logica autoritaria ispirò le condizioni di pace imposte da Bismarck alla Francia col trattato di Francoforte, firmato il 10 maggio 1871. Non solo la Francia fu costretta a corrispondere una pesante indennità di guerra e a mantenere truppe d'occupazione tedesche sul proprio territorio fino al completo pagamento di questa indennità; ma dovette cedere al Reich l'Alsazia e la Lorena: due province di confine di notevole importanza economica e strategica che i francesi consideravano parte integrante del territorio nazionale (quel territorio che nemmeno il congresso di Vienna aveva mutilato dopo le sconfitte di Napoleone I). Anche per questo la guerra francoprussiana fu diversa da tutte quelle che l'avevano preceduta, dalla Restaurazione in poi: guerre che avevano impegnato solo limitatamente le energie dei paesi coinvolti, si erano concluse con paci di compromesso e non avevano impedito la rapida ripresa di normali rapporti fra gli ex belligeranti. La disfatta di Sedan, l'invasione del paese, la caduta di Parigi e la perdita dell'Alsazia Lorena rappresentarono per la Francia molto più che una semplice sconfitta militare. Si trattò di una vera e propria umiliazione nazionale, sentita profondamente anche dagli strati popolari. Il desiderio di riparare a questa umiliazione (il cosiddetto "revanscismo", dal francese revanche, rivincita) avrebbe condizionato per quasi mezzo secolo la politica francese e l'intero equilibrio europeo. 4.5. La Comune di Parigi. La capitale e la provincia, Le elezioni e il governo Thiers, La ribellione di Parigi, La Comune, Democrazia diretta e riforme sociali, L'isolamento della Comune, La fine della Comune. Nella primavera del 1871, mentre si stava ancora negoziando la pace con la Germania, la Francia dovette affrontare una drammatica crisi interna, in parte causata dalla sconfitta, in parte legata alle tensioni politiche e sociali che gli avvenimenti del '48 avevano portato alla luce e che vent'anni di regime bonapartista non erano riusciti a soffocare. Dopo la sconfitta di Sedan, era stato il popolo della capitale a insorgere, a costituire una Guardia nazionale e a decretare la fine del regime napoleonico. Parigi, insomma,

aveva vissuto la caduta dell'Impero come una nuova occasione rivoluzionaria e al tempo stesso come l'inizio di una riscossa nazionale. Molto diverso era l'orientamento delle campagne e dei centri minori, dove prevalevano le tendenze conservatrici e il desiderio di una rapida firma della pace. La frattura si delineò con chiarezza dopo le elezioni della nuova Assemblea nazionale, che si tennero l'8 febbraio 1871. Grazie al voto delle campagne, l'Assemblea, che tenne le sue prime riunioni a Bordeaux, risultò composta in stragrande maggioranza da moderati e conservatori. A presiedere il governo fu chiamato Adolphe Thiers, già ministro di Luigi Filippo e tipico rappresentante della Francia moderata. Appena entrato in carica, il nuovo governo si affrettò ad aprire trattative con i vincitori per la conclusione della pace. Ma, quando furono note le durissime condizioni imposte da Bismarck (che prevedevano fra l'altro l'ingresso delle truppe tedesche nella capitale), il popolo di Parigi protestò in massa. Lo scontro fra la Parigi rivoluzionaria e la Francia rurale e conservatrice diventava così fatale. Né Thiers fece nulla per evitarlo. Nella prima metà di marzo il governo varò una serie di misure - dalla sospensione delle proroghe per il pagamento dei fitti alla decisione di trasferire la sede del Parlamento da Bordeaux a Versailles (anziché a Parigi) - che ebbero l'effetto di aumentare l'irritazione delle masse popolari parigine. Tutto questo mentre i reparti dell'esercito e i funzionari governativi venivano ritirati dalla capitale. La capitale fu così lasciata a se stessa e indotta a riconoscersi nell'unica struttura organizzata rimasta nella città: la Guardia nazionale, controllata da elementi della sinistra più accesa. Quando, a metà marzo, il governo ordinò la consegna delle armi raccolte per la difesa della capitale, il comando della Guardia nazionale rifiutò di obbedire e indisse le elezioni per il Consiglio della Comune. Il termine "Comune" non aveva in origine altro significato che quello usuale di organo di autogoverno cittadino; ma evocava anche l'immagine della prima Comune: quella giacobina del 1793-94 che per un anno aveva goduto di un'enorme autorità non solo sulla capitale ma su tutta la Francia. Anche la Comune del 1871 assunse ben presto i tratti di un'esperienza radicalmente rivoluzionaria: nelle elezioni per il Consiglio della Comune, tenutesi il 28 marzo, l'elettorato conservatore si astenne in gran parte dalle urne (anche perché gli abitanti dei quartieri ricchi avevano abbandonato in massa la capitale) e il potere restò dunque nelle mani dei gruppi di estrema sinistra, dai democraticogiacobini ai blanquisti, dai proudhoniani ai socialisti e agli anarchici. Per quanto divisi da seri contrasti, i dirigenti della Comune diedero vita nel giro di poche settimane al più radicale esperimento

di democrazia diretta che mai si fosse tentato in Europa. Fu abolita la distinzione fra potere esecutivo e legislativo; tutti i funzionari furono resi elettivi e continuamente revocabili; l'esercito fu sostituito da milizie popolari armate. Queste misure provocarono l'allarme dei conservatori e dei moderati e suscitarono l'entusiasmo dei rivoluzionari di tutta Europa. Marx e Bakunin furono concordi nel salutare nella Comune il primo esempio di gestione diretta del potere da parte delle masse, quasi un modello per la futura società socialista. In realtà, il governo rivoluzionario parigino non si caratterizzò in senso strettamente socialista. Furono presi, è vero, alcuni significativi provvedimenti di carattere sociale (come quello che stabiliva uguaglianza di retribuzioni fra operai e impiegati). Alcuni stabilimenti industriali furono affidati a cooperative di lavoratori. Ma non fu possibile andare più in là, sia per il carattere eterogeneo delle forze rappresentate nel Consiglio, sia, e soprattutto, per le condizioni assolutamente anomale in cui l'esperimento si svolse. Tutta racchiusa entro i confini di una sola città, isolata dal resto del paese (occupato per giunta da truppe straniere), la Comune avrebbe avuto qualche speranza di sopravvivere solo se fosse riuscita a provocare un moto generalizzato che coinvolgesse anche i piccoli centri e le campagne. Ma la Francia provinciale e rurale si era già espressa nelle elezioni di febbraio. Gli appelli lanciati da Parigi agli altri comuni di Francia perché si associassero alla capitale in una libera federazione caddero nel vuoto. E l'esperienza della Comune durò non più di due mesi: il tempo necessario a Thiers per raccogliere, con la benevola neutralità degli occupanti tedeschi, un esercito abbastanza forte per muovere alla conquista della capitale. Fra il 21 e il 28 maggio le truppe governative procedettero all'occupazione di Parigi, che fu difesa strada per strada dalle milizie popolari. Alla disperata volontà di resistenza dei "comunardi" fece riscontro la condotta spietata dei reparti regolari, che tradiva la volontà del governo di infliggere un colpo definitivo al movimento rivoluzionario parigino. Alle esecuzioni sommarie (circa ventimila uomini furono passati per le armi senza processo durante la "settimana di sangue"), i difensori della Comune risposero con sanguinose rappresaglie, che contribuirono a diffondere nell'opinione pubblica moderata un senso di paura e di odio per i rivoluzionari. La repressione governativa proseguì con immutata durezza anche dopo la caduta delle ultime resistenze. Per la seconda volta in poco più di vent'anni, il movimento rivoluzionario francese si trovava sconfitto e fisicamente decimato.

4.6. La svolta del 1870 e l'equilibrio bismarckiano. Il nuovo clima internazionale, Il trionfo della "Machtpolitik", La lunga pace, Il sistema bismarckiano, Il patto dei tre imperatori, La guerra russoturca del 1877, Il congresso di Berlino (1878) Il rinnovo del patto dei tre imperatori e la Triplice alleanza. La nazione vuole soprattutto potere. Il modo di vita del piccolo Stato viene aborrito come condizione d'infamia. [...] Si vuole appartenere soltanto a qualcosa di grande, e così si rivela chiaramente che il primo fine è la potenza e che la cultura è solo un fine secondario. Più in particolare, si vuol far valere verso l'esterno la volontà collettiva, a dispetto di altri popoli. Così il grande storico svizzero Jacob Burckhardt, in una pagina scritta all'inizio degli anni 70, sintetizzava efficacemente la nuova concezione dello Stato e dei rapporti internazionali che, affermatasi soprattutto in Germania, andava contagiando l'intera Europa all'indomani della guerra francoprussiana. Il modo stesso in cui era stata preparata e realizzata l'unità tedesca aveva fatto tramontare, agli occhi di molti uomini politici e di molti intellettuali, alcuni fra i princìpi fondamentali della cultura liberaldemocratica ottocentesca, come il diritto di nazionalità e la libertà dei popoli. Si affermava sempre più l'ideologia della forza, del fatto compiuto, della pura politica di potenza (in tedesco Machtpolitik), fondata sullo sviluppo degli eserciti permanenti e degli armamenti di terra e di mare. A questo nuovo clima contribuì, come vedremo meglio in seguito, il mutamento della congiuntura economica, che indusse quasi tutti gli Stati europei a ripudiare la politica del libero scambio e ad accentuare le misure protezionistiche. Si dissolse così, nel giro di pochi anni, quell'atmosfera di ottimismo e di fiducia nella cooperazione economica internazionale e nella libera concorrenza che aveva caratterizzato gli anni '50 e '60. Eppure, nonostante queste inquietanti premesse, quello che seguì il 1870 fu per l'Europa occidentale un periodo di pace, anzi il più lungo periodo di pace di cui il vecchio continente avesse mai goduto dagli albori dell'età moderna. Compiutisi i processi di unificazione nazionale italiano e tedesco, la carta politica d'Europa assunse un aspetto più definito e più stabile. Non per questo vennero meno i motivi di rivalità e di attrito. Ma il teatro delle tensioni si spostò ai margini del continente, verso la penisola balcanica e il Mediterraneo, per poi allargarsi ai territori dell'Asia e dell'Africa, oggetto della grande competizione imperialistica degli ultimi decenni del secolo. Per il possesso delle colonie (lo vedremo nel cap. 7) quasi tutte le potenze

europee si impegnarono in conflitti, talvolta lunghi e sanguinosi: ma si trattava di guerre combattute lontano dalla madrepatria, che non videro mai le potenze coloniali affrontarsi direttamente l'una contro l'altra. Il risultato fu che per quasi mezzo secolo - dal 1871 al 1914 - nessuna regione d'Europa, con l'eccezione della penisola balcanica, fu mai attraversata da eserciti in guerra. Nel ventennio successivo al conflitto francoprussiano, la pace fu assicurata soprattutto dall'indiscussa egemonia esercitata sugli equilibri del continente dall'Impero tedesco, che rappresentava per popolazione (40 milioni di abitanti), per risorse economiche e per forza militare, la massima concentrazione di potenza apparsa sul continente europeo dopo il Primo Impero napoleonico. Se prima del 1870 l'iniziativa bismarckiana aveva rappresentato l'elemento dinamico e perturbatore nel concerto delle grandi potenze, dopo la vittoria sulla Francia e la proclamazione del Reich gli obiettivi della politica tedesca mutarono radicalmente e Bismarck divenne il custode più geloso dell'equilibrio europeo. Il cancelliere tedesco concentrò i suoi sforzi su uno scopo fondamentale: impedire che la Francia, di cui nessuno ignorava le velleità di rivincita, potesse uscire dal suo isolamento diplomatico per stipulare un'alleanza con un'altra qualsiasi delle grandi potenze. Lo scopo fu raggiunto, in quanto, finché Bismarck rimase al potere, la Germania poté contare, da un lato, sulla tradizionale tendenza dell'Inghilterra a non impegnarsi sul continente europeo se non per difendere i suoi interessi più vitali (una tendenza che si faceva tanto più evidente quanto più il Regno Unito era assorbito dai problemi coloniali); dall'altro lato, riuscì a legare a sé le altre due potenze maggiori - gli imperi di Russia e AustriaUngheria - e la stessa Italia. Fulcro iniziale del sistema bismarckiano fu il patto dei tre imperatori, stipulato nel 1873 fra Germania, Russia e Austria: un patto essenzialmente difensivo, che si fondava soprattutto sulla solidarietà dinastica fra i tre imperi autoritari e aveva per mira non troppo nascosta la tutela degli equilibri conservatori all'interno dei singoli Stati. L'alleanza aveva però un punto debole: la vecchia rivalità fra Austria e Russia nella penisola balcanica. Nel 1875-76 l'esercito turco intervenne in Bosnia, in Erzegovina e in Bulgaria schiacciando con una sanguinosa repressione una serie di rivolte scoppiate fra le popolazioni slave. Si verificò a questo punto una situazione analoga a quella del 1854, da cui era scaturita la guerra in Crimea. Nella primavera del '77, la Russia, grande protettrice dei popoli slavi, entrò in guerra contro la Turchia e la sconfisse dopo una guerra durata quasi un anno, imponendole una pace quanto mai onerosa (trattato di Santo

Stefano), che contemplava fra l'altro la creazione di un grosso Stato bulgaro, la piena indipendenza della Serbia e del Montenegro e l'autonomia della Bosnia e dell'Erzegovina. Questo accordo, che avrebbe definitivamente sancito l'egemonia russa sui Balcani, provocò però l'immediata reazione dell'Austria e dell'Inghilterra. Fu a questo punto che Bismarck prese l'iniziativa di convocare un congresso fra le grandi potenze, che fu tenuto a Berlino nell'estate del 1878. Grazie all'attiva mediazione del cancelliere tedesco, si giunse a un accordo che ridimensionava notevolmente i vantaggi già ottenuti dalla Russia. Serbia e Montenegro conservarono l'indipendenza. La Bulgaria conservò l'indipendenza, ma entro confini assai più ristretti di quelli previsti dal trattato di Santo Stefano. La Bosnia e l'Erzegovina furono dichiarate autonome, ma affidate in "amministrazione temporanea" all'Austria. La Gran Bretagna ottenne l'isola di Cipro, situata in posizione strategica per il controllo del canale di Suez. Rimasero escluse da ogni vantaggio territoriale la Germania, che peraltro nulla aveva chiesto, e la Francia, che ebbe però mano libera per una eventuale azione in Tunisia. In questo modo Bismarck non solo distoglieva dal teatro europeo le velleità espansionistiche della Terza Repubblica, ma creava le premesse per un contrasto tra la Francia e l'Italia [§8.8]. Scongiurato il pericolo di un conflitto europeo, la diplomazia bismarckiana si impegnò nella difficile impresa di rimettere insieme l'alleanza con l'Austria e la Russia. L'intesa fu raggiunta sulla base di una divisione dei Balcani in zone di influenza e, nel 1881, fu firmato un nuovo patto dei tre imperatori. L'anno seguente (1882) il complesso edificio diplomatico fu completato dalla stipulazione della Triplice alleanza, che univa la Germania all'AustriaUngheria e all'Italia e sanciva l'ingresso di quest'ultima nel sistema di alleanze tedesco. La costruzione era in apparenza perfetta, visti anche gli ottimi rapporti fra gli Stati della Triplice e l'Inghilterra; ma aveva in sé non pochi elementi di fragilità. Fra Italia e Austria, divise da una storica inimicizia, c'era sempre in sospeso la questione del Trentino e della Venezia Giulia. Ma il più grave punto di frizione stava sempre nell'area balcanica, dove qualsiasi riassestamento dei rapporti fra i vari Stati (o anche solo dei loro regimi interni) rischiava di far saltare la precaria intesa fra Russia e AustriaUngheria. Nel 1885-86 una serie di contrasti, che avevano per oggetto le intricate vicende del Regno di Bulgaria, fece salire di nuovo la tensione fra i due imperi e mise in crisi - stavolta definitivamente - il patto dei tre imperatori. Non potendo più tenere le due potenze rivali legate in una stessa alleanza, Bismarck scelse allora la strada degli accordi bilaterali.

Mantenne ferma l'alleanza con l'Impero asburgico e, nel 1887, stipulò con la Russia, senza informarne l'Austria, il trattato di controassicurazione: una specie di patto di non aggressione che impegnava la Russia a non aiutare la Francia in caso di attacco alla Germania e la Germania a non unirsi all'Austria in una guerra contro la Russia. Fu questo l'ultimo capolavoro diplomatico di Bismarck. Di lì a tre anni i contrasti col nuovo imperatore Guglielmo II, le pressioni dei gruppi che chiedevano una politica estera di respiro mondiale (e non solo europeo) avrebbero determinato, assieme ad alcuni insuccessi in politica interna, la caduta del cancelliere e la fine del suo sistema di alleanze. Parola chiave Potenza Nel linguaggio della diplomazia, sono definiti potenze quegli Stati che si dimostrano in grado, in virtù della loro forza economica e militare o della loro capacità politica, di essere soggetti attivi, e non solo oggetti, della politica internazionale, di assumere autonomamente impegni ed iniziative senza essere condizionati da vincoli di subordinazione. Si parla poi di grandi potenze in riferimento a quegli Stati che, in un dato periodo, acquistano un ruolo egemonico in una determinata area e sono chiamati per questo ad assumere responsabilità speciali nella conduzione degli affari internazionali. Nell'800, le grandi potenze erano cinque: Francia, Gran Bretagna, Russia, Prussia (poi Germania) e Austria. Negli ultimi decenni del secolo a esse si aggiunsero l'Italia (cui non tutti, per la verità, riconoscevano questo ruolo) e le nuove potenze extraeuropee, gli Stati Uniti e il Giappone. Dopo la prima guerra mondiale, l'Austria, non più centro di un impero, uscì dal novero delle grandi potenze, e ne furono escluse, ma solo temporaneamente, la Germania e la Russia (che vi sarebbe rientrata come Unione Sovietica). Quella di grande potenza è naturalmente una condizione di fatto, non prevista dal diritto internazionale, fondato sulla presunzione di uguaglianza formale fra tutti i soggetti indipendenti. Eppure essa fu sancita ufficialmente nello statuto delle Nazioni Unite, che implicitamente attribuiva questa qualifica a cinque Stati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina), designati come membri permanenti del Consiglio di sicurezza. In realtà, all'indomani del secondo conflitto mondiale, stava già emergendo un nuovo equilibrio internazionale, basato sull'esistenza di due sole superpotenze (Stati Uniti e Urss) capaci di far sentire il loro peso sull'assetto dell'intero pianeta e di esercitare così una sorta di condominio conflittuale a livello mondiale. Con la crisi del blocco comunista e la fine dell'Urss (1991), gli scenari mutavano di nuovo. Gli

Stati Uniti restavano l'unica superpotenza planetaria. Ma nel frattempo emergevano altre candidate al ruolo di grande potenza (le due sconfitte della seconda guerra mondiale, la Germania riunificata e il Giappone, la stessa Russia portata a ereditare il ruolo dell'ex Unione Sovietica) e nuove potenze regionali (il Brasile e l'Argentina, la Turchia e l'Iran, l'India e l'Indonesia) pronte a inserirsi in una realtà internazionale diventata di nuovo fluida dopo la fine dell'equilibrio bipolare durato quasi mezzo secolo. Nuovi contrasti fra Austria e Russia. Il trattato di controassicurazione. 4.7. La Germania imperiale. La struttura costituzionale: la debolezza del potere legislativo, Il blocco sociale dominante, Le forze politiche, Il Centro cattolico e la socialdemocrazia, "Kulturkampf", Le leggi eccezionali, La legislazione sociale, Il "socialismo della cattedra", Autoritarismo e paternalismo, I successi della socialdemocrazia. Dal punto di vista istituzionale, il Reich tedesco era un organismo piuttosto complesso, fondato in apparenza su larghe autonomie, ma in realtà strettamente accentrato intorno al nucleo della vecchia Prussia. I venticinque Stati che componevano l'Impero avevano propri governi e propri parlamenti, i cui poteri erano però limitati al campo amministrativo. Le grandi scelte politiche erano di competenza del governo centrale, presieduto da un cancelliere e responsabile di fronte all'imperatore, anziché - come in Gran Bretagna e in Francia - di fronte al Parlamento. Il potere legislativo era esercitato da una Camera (Reichstag) eletta a suffragio universale e da un Consiglio federale (Bundesrat) - composto da rappresentanti dei singoli Stati, nominati dai governi locali secondo una proporzione stabilita - cui spettava il compito di ratificare o meno le leggi votate dal Reichstag. La Camera elettiva aveva margini d'azione molto ridotti e scarse possibilità di condizionare il potere esecutivo, concentrato nelle mani dell'imperatore e del cancelliere: soprattutto di quest'ultimo, finché Bismarck restò al potere. Come già nella Prussia preunitaria, il potere del cancelliere si fondava su un solido blocco sociale imperniato sull'alleanza fra il mondo industriale e bancario e l'aristocrazia terriera e militare: un blocco che fu rinsaldato dalla politica protezionistica attuata da Bismarck dopo il 1879, a vantaggio

soprattutto dell'industria pesante e della cerealicoltura (si parlò a questo proposito di un "matrimonio fra il ferro e la segale"). La forma accentrata e autoritaria del potere e la schiacciante preponderanza degli interessi conservatori nella gestione dello Stato non impedirono, tuttavia, il manifestarsi di una vivace dialettica politica. Anzi proprio in Germania - forse in virtù dell'alto livello medio di istruzione della popolazione tedesca, forse grazie alla tradizione organizzativa delle antiche corporazioni artigiane - si svilupparono prima che altrove nuovi e forti movimenti politici di massa. Alle tradizionali formazioni liberali e conservatrici che avevano dominato la scena parlamentare in Prussia negli anni '60 (il Partito conservatore, espressione degli Junker, il Partito nazionalliberale, che rappresentava la borghesia industriale e commerciale, il piccolo raggruppamento degli intellettuali liberalprogressisti) si aggiunse, nel 1871, il Centro, partito di dichiarata ispirazione cattolica. Nel 1875, dall'accordo fra la corrente marxista e quella che si ispirava all'insegnamento di Lassalle [§2.7], nacque al congresso di Gotha il Partito socialdemocratico tedesco (Spd). Mentre la socialdemocrazia traeva la sua forza dalla massiccia adesione operaia, il Centro poggiava su una base sociale piuttosto composita, formata per lo più da agricoltori e ceti medi urbani e reclutata quasi esclusivamente negli Stati cattolici (soprattutto in Baviera), di cui esprimeva le esigenze autonomistiche, minacciate dal "prussianesimo" accentratore. La lotta di Bismarck contro i cattolici, pomposamente definita Kulturkampf (ossia "battaglia per la civiltà") ebbe la sua acme negli anni 1872-75, quando il governo del Reich emanò una serie di misure volte non solo ad affermare il carattere laico dello Stato (obbligo del matrimonio civile, abolizione di ogni controllo religioso sull'insegnamento), ma anche a porre sotto sorveglianza l'attività del clero cattolico. La battaglia scatenata da Bismarck ebbe però l'effetto di stimolare l'orgoglio e la compattezza dei cattolici tedeschi, che, sotto la guida di un leader di grandi capacità, Ludwig Windthorst, riuscirono nel giro di pochi anni a raddoppiare la loro rappresentanza parlamentare (nelle elezioni del 1878 ottennero quasi cento seggi). Bismarck fu indotto, così, ad attenuare le misure anticattoliche e più tardi (1887) a varare una nuova legislazione ecclesiastica, molto più moderata della precedente. La ritirata, che in pratica segnava il fallimento del Kulturkampf, fu imposta al cancelliere dalla necessità di fronteggiare la nuova e temibile minaccia che veniva dall'ascesa della socialdemocrazia. Già nel 1878, traendo pretesto da due attentati falliti contro l'imperatore, il governo varò una serie di provvedimenti eccezionali specificamente rivolti contro il movimento socialdemocratico. Le "leggi contro le tendenze sovvertitrici"

ponevano gravi limitazioni alla libertà di stampa e di riunione e dichiaravano illegali tutte le associazioni "aventi lo scopo di provocare il rovesciamento dell'ordinamento statale o sociale esistente", costringendo così la socialdemocrazia a una condizione di semiclandestinità. Nel tentativo di soffocare sul nascere lo sviluppo del movimento operaio, Bismarck non si limitò però alle misure repressive. Fra il 1883 e il 1889 il Parlamento approvò, su proposta del governo, alcune importanti leggi di tutela delle classi lavoratrici, che istituivano assicurazioni obbligatorie per gli infortuni sul lavoro, le malattie e la vecchiaia, facendone gravare il peso in parte sugli imprenditori, in parte sullo Stato, in parte sui lavoratori stessi. In un'epoca in cui le attività previdenziali e assistenziali erano di solito affidate all'iniziativa dei privati o delle istituzioni religiose, la legislazione sociale varata da Bismarck era obiettivamente molto avanzata. Essa si collegava a una corrente di riformismo conservatore che era allora molto in auge fra gli intellettuali tedeschi, in particolare fra i professori universitari, e che per questo era definita "socialismo della cattedra": dove l'espressione "socialismo" indicava semplicemente l'attribuzione allo Stato di ampi poteri di intervento nella sfera dei rapporti economicosociali, in opposizione alle teorie liberiste. In realtà le leggi sociali bismarckiane si inquadravano nello stesso disegno autoritario che aveva partorito qualche anno prima le leggi eccezionali. Dando soddisfazione ad alcune delle esigenze più sentite dalla classe operaia e al tempo stesso rifiutando di riconoscere legittimità alla sua rappresentanza organizzata, Bismarck mirava a integrare le masse lavoratrici nello Stato in una posizione subalterna. Si ispirava dunque al modello paternalistico della Francia bonapartista, più che a quello dell'Inghilterra liberale, dove la concessione di riforme sociali si accompagnava all'allargamento delle libertà politiche e sindacali. Questa operazione però, almeno nell'immediato, andò incontro a un insuccesso analogo a quello patito da Bismarck nella lotta contro i cattolici. Il varo della legislazione sociale non impedì la nascita, alla fine degli anni '80, di un forte movimento sindacale guidato da leader socialdemocratici. D'altra parte le leggi eccezionali, prorogate periodicamente fino al 1890, non riuscirono a bloccare la crescita elettorale della socialdemocrazia, che passò dai circa 500.000 voti del 1878 a quasi un milione e mezzo (il 18% dei suffragi, con 35 deputati al Reichstag) nel 1890. L'affermazione socialdemocratica sancì il fallimento della politica bismarckiana nei confronti del movimento operaio ed ebbe non poca parte nel provocare l'allontanamento dal governo dell'onnipotente cancelliere.

4.8. La Terza Repubblica in Francia. La ripresa della Francia, La costituzione del 1875, L'egemonia dei repubblicani, Opportunisti e radicali, Il consolidamento della democrazia, La battaglia per la scuola laica, Instabilità e corruzione, Il caso Boulanger. Dopo i traumi della sconfitta e della guerra civile, la Francia non tardò a rivelare segni di ripresa. Nel luglio del 72, quasi a dimostrare la volontà di rivincita del paese, l'Assemblea nazionale decise l'introduzione del servizio militare obbligatorio. Nel settembre 73, con qualche mese di anticipo sulla scadenza fissata, fu ultimato il pagamento dell'indennità di guerra dovuta ai tedeschi. Alla fine degli anni 70 la Francia aveva già recuperato buona parte del suo prestigio internazionale; disponeva di un forte esercito e cominciava a incamminarsi con decisione sulla strada delle conquiste coloniali. Più che sulla vitalità dell'economia, la ripresa si fondò sul patriottismo dei contadini e della piccola borghesia, che sopportarono una durissima pressione fiscale, sulla tenacia dei piccoli risparmiatori, autentica spina dorsale dell'economia francese, sull'efficienza dell'organizzazione bancaria, che consentì di utilizzare il risparmio nazionale come base per l'espansione imperialistica. Se la ricostruzione economica fu relativamente rapida, assai più travagliato fu il processo di stabilizzazione politica. La stessa forma repubblicana di governo fu a lungo in forse, dato che i membri dell'Assemblea nazionale, incaricata di redigere la nuova costituzione, erano in maggioranza favorevoli alla restaurazione della monarchia. Solo le fratture interne allo schieramento monarchico (diviso fra i legittimisti, fautori di un ritorno dei Borbone, e gli orleanisti, che volevano sul trono gli eredi di Luigi Filippo) e un accordo raggiunto in extremis fra orleanisti e repubblicani moderati consentirono il varo di una costituzione repubblicana, i cui articoli più importanti furono approvati nell'estate del 1875. La costituzione della Terza Repubblica prevedeva che il potere legislativo fosse esercitato da una Camera eletta a suffragio universale maschile e da un Senato composto da membri in parte vitalizi e in parte elettivi. Un elemento di stabilità era costituito dalla figura del presidente della Repubblica, capo dell'esecutivo, che veniva eletto dalle camere riunite e godeva in teoria di poteri molto estesi. Pur rappresentando un compromesso fra una soluzione di tipo presidenziale, all'americana, preferita dai moderati, e una di stampo parlamentare, sostenuta dai democratici, la costituzione del '75 costituì un indubbio successo per i repubblicani francesi che, nelle elezioni del 1876, riuscirono a capovolgere la tendenza conservatrice fin allora prevalente

nell'elettorato e ad assicurarsi una solida maggioranza. Nell'estate del 1877, il presidente della Repubblica MacMahon (un generale di sentimenti monarchici e conservatori) cercò di opporsi a questa tendenza facendo ricorso all'arma dello scioglimento della Camera; ma le nuove elezioni, che si tennero in ottobre, confermarono la maggioranza repubblicana. Mac Mahon si dimise un anno dopo. Da allora nessun presidente avrebbe più fatto uso del suo teorico potere di scioglimento; e le prerogative del capo dello Stato sarebbero state fortemente ridimensionate in nome di un'interpretazione tutta parlamentare della costituzione. A dominare la scena, nei primi anni di vita della Repubblica, furono i repubblicani dell'ala moderata, i cosiddetti opportunisti che facevano capo a Gambetta (morto nell'82) e a Jules Ferry. La forza degli opportunisti stava essenzialmente in un solido legame con l'elettorato "medio", quello dei commercianti, degli impiegati e soprattutto dei piccoli agricoltori. Di questo elettorato essi seppero interpretare la generica aspirazione al progresso, ma anche le tendenze conservatrici in materia di rapporti sociali. Di qui le critiche dei repubblicani più avanzati - o radicali, come allora si definirono in contrapposizione agli opportunisti - che costituirono un forte raggruppamento autonomo sotto la guida di Georges Clemenceau. Fu comunque sotto la guida dei governi repubblicanomoderati che la Francia poté consolidare le sue istituzioni democratiche e superare gradualmente le fratture provocate dalla guerra civile del '71. Nel 1879 fu deciso il ritorno del Parlamento a Parigi. L'anno seguente fu approvata un amnistia per i comunardi incarcerati o deportati, che permise al movimento operaio francese di ricostituire lentamente le sue file. Nel 1884 il Senato fu reso completamente elettivo. Sempre nel 1884, furono approvate tre leggi di notevole importanza: quella che garantiva la libertà di associazione sindacale, quella che ampliava le autonomie locali, stabilendo fra l'altro l'elettività dei sindaci, e quella che introduceva il divorzio. L'azione dei governi repubblicani fu incisiva soprattutto nell'affermazione della laicità dello Stato, in particolare nel settore della scuola, tradizionale terreno di scontro fra cattolici e laici, fra democratici e conservatori. Con una serie di leggi approvate fra l'8O e l'85, l'istruzione elementare fu resa obbligatoria e gratuita e posta sotto il controllo statale, mentre le università e gli istituti superiori gestiti dal clero furono privati del diritto di rilasciare titoli legali di studio. L'affermazione dei valori laici e progressisti fu però tutt'altro che incontrastata, né poté mai considerarsi acquisita una volta per tutte. I gruppi conservatori e clericali erano sempre forti e potevano contare sull'appoggio di larga parte del clero e dei quadri dell'esercito. L'indebolimento dei poteri

del presidente della Repubblica e l'instaurarsi di una prassi parlamentare ebbero come conseguenza negativa un'altissima instabilità dei governi, aggravata dalla mancanza di schieramenti politici compatti. Un altro male storico della Terza Repubblica fu la corruzione diffusa nelle alte sfere del potere. Una corruzione che - come già nella monarchia di Luigi Filippo e nel Secondo Impero - affondava le sue radici nello stretto legame fra il mondo politico e gli ambienti della speculazione finanziaria, e che trovava nuovo alimento nelle rapide possibilità di guadagno offerte dall'espansione coloniale. Il susseguirsi di scandali politicofinanziari mise spesso a dura prova la solidità delle istituzioni e seminò disagio e sfiducia in larghi settori dell'opinione pubblica. Un segno eloquente di questo disagio si ebbe alla fine degli anni '80, quando un generale in fama di repubblicano, Georges Boulanger, si mise a capo di un vasto ed eterogeneo movimento che invocava una riforma delle istituzioni in senso autoritario e antiparlamentare. L'avventura neobonapartista di Boulanger ebbe breve durata: nel 1889, accusato di aver preso parte a un complotto contro la Repubblica, il generale fuggì all'estero dove morì poco dopo. L'episodio rivelava, tuttavia, che le tentazioni autoritarie erano sempre vive nella società francese e toccavano anche settori politici diversi dalla destra tradizionale. 4.9. L'Inghilterra vittoriana. L'egemonia liberale e il sistema parlamentare, La lotta per l'allargamento del suffragio, Disraeli e la riforma elettorale, Il ritorno di Gladstone e le riforme, Disraeli: imperialismo e riforme, Gladstone e la riforma elettorale del 1884, La questione irlandese, Il progetto "Home Rule", Chamberlain e la secessione degli "unionisti". Nel periodo successivo al 1848, la Gran Bretagna visse una lunga stagione di stabilità politica e di tranquillità sociale, oltre che di notevole britannica prosperità economica. Intorno alla metà del secolo, il Regno Unito era, sotto quasi tutti gli aspetti, la più progredita fra le grandi potenze europee. Aveva un numero di occupati nell'industria che si avvicinava alla metà della popolazione attiva (mentre era circa un quarto in Francia e in Prussia). Produceva i due terzi del carbone e la metà del ferro prodotti in tutto il mondo. Aveva la rete ferroviaria più sviluppata in relazione al territorio e

una flotta mercantile pari alla metà di quella di tutti gli altri paesi europei messi insieme. Era il centro commerciale e finanziario cui facevano capo i traffici di tutti i continenti. Possedeva un impero coloniale già vasto e in via di ulteriore espansione. Aveva un tasso di analfabetismo fra i più bassi del mondo (superata in questo solo dalla Prussia e dalla Svezia). Aveva infine le istituzioni politiche più libere d'Europa. Da questo punto di vista, il ventennio 1848-66 - caratterizzato dalla presenza quasi ininterrotta dei liberali al governo - segnò un ulteriore consolidamento del sistema parlamentare: cioè di quel sistema, nato proprio in Gran Bretagna, che subordinava la vita di un governo alla fiducia del Parlamento e faceva di quest'ultimo l'arbitro indiscusso della vita politica. Alla corona era invece affidato un ruolo essenzialmente simbolico di personificazione dell'identità nazionale, ruolo che si manifestò pienamente nel corso del lunghissimo regno della regina Vittoria (dal 1837 al 1901). Il sistema parlamentare non era però sinonimo di democrazia. In Gran Bretagna - come in altri paesi in cui vigeva il sistema bicamerale - molti poteri spettavano ancora alla Camera alta, ossia alla Camera dei Lords, alla quale si accedeva per diritto ereditario o per nomina regia. La stessa Camera elettiva (la Camera dei Comuni) era espressione di uno strato piuttosto ristretto della popolazione: in base alla legge elettorale del 1832, avevano infatti diritto al voto, negli anni '60, circa 1.300.000 persone, ossia il 15% del totale dei maschi adulti. La riforma elettorale rappresentò in questo periodo il principale oggetto di dibattito nella vita politica britannica. Fino alla metà degli anni '60 - cioè nel periodo in cui la scena fu dominata dalla personalità di Henry Palmerston, già ministro degli Esteri, poi capo del governo, leader della corrente moderata del liberalismo - la lotta per l'allargamento del suffragio fu condotta soprattutto dagli intellettuali radicali, come John Bright o come il filosofo John Stuart Mill. Le cose cambiarono nel 1865, quando, morto Palmerston, la guida dei liberali fu assunta da William Gladstone. Questi presentò un progetto di legge che prevedeva una limitata estensione del diritto di voto. Il progetto incontrò però la resistenza dell'ala moderata del partito: il che provocò, nel 1866, la caduta del governo liberale e il ritorno al potere dei conservatori. Ma furono proprio i conservatori, sotto la spinta di un nuovo e dinamico leader, Benjamin Disraeli, ad assumere l'iniziativa di una riforma elettorale più avanzata di quella proposta da Gladstone. La nuova legge (Reform Act), che fu varata nel 1867, aumentava di quasi un milione la consistenza del corpo elettorale, ammettendo al voto i lavoratori urbani a reddito più elevato. Spingendo i conservatori a farsi promotori della riforma, Disraeli

mostrava di riconoscere il peso che i lavoratori dell'industria avevano assunto nella società inglese e cercava di allargare in quella direzione la base di consenso del suo partito. In un primo tempo, però, l'allargamento del suffragio favorì i liberali, tradizionalmente più radicati negli strati operai e piccoloborghesi dell'elettorato. Nelle elezioni del 1868, i conservatori furono sconfitti e Gladstone ritornò al potere a capo di un governo decisamente orientato in senso progressista. Sotto questo governo, che sarebbe rimasto in carica fino al 1874, l'Inghilterra conobbe un periodo di incisive riforme, che investirono i più importanti settori della vita sociale. Il sistema di istruzione pubblica fu incrementato e migliorato e fu ridimensionato il ruolo della Chiesa anglicana nella scuola. Fu affermato nell'amministrazione pubblica il principio del reclutamento tramite concorsi e fu proibita nell'esercito la compravendita dei gradi. Nel 1872 fu infine abolita la pratica del voto palese che, in uso fin allora soprattutto nelle zone rurali, aveva costituito una potente arma di condizionamento a favore dell'aristocrazia terriera. La stagione delle riforme non fu interrotta dal ritorno al potere dei conservatori, nel 1874. Disraeli, infatti, mutò gli indirizzi e lo stile della politica estera - che Gladstone aveva voluto ancorata agli ideali del liberalismo e al principio di nazionalità - e la rese più consona al clima "bismarckiano" allora dominante in Europa. Diede una decisa priorità alla politica coloniale, in particolare al consolidamento dei possedimenti indiani (fu sua l'iniziativa di proclamare la regina Vittoria imperatrice dell'India). Ma, per la sua politica imperiale, cercò anche il consenso delle masse popolari, non esitando a entrare in concorrenza con i liberali sul terreno delle riforme sociali, come aveva fatto dieci anni prima su quello della riforma elettorale. Sotto il suo governo furono approvati importanti provvedimenti in materia di assistenza ai lavoratori (leggi sulla salute pubblica e sulle case operaie) e le Trade Unions poterono giovarsi della caduta di numerose restrizioni al diritto di sciopero. L'esperimento di conservatorismo popolare si concluse nel 1880, quando Disraeli, criticato per alcuni insuccessi coloniali e per l'appoggio fornito alla Turchia nelle ultime vicende della questione d'Oriente [§4.2], fu sconfitto nelle elezioni (sarebbe morto un anno dopo). Tornato al potere, William Gladstone corresse parzialmente le linee della politica estera britannica, soprattutto in materia di questione d'Oriente, pur senza mutarne l'indirizzo imperialistico (fu lui a decidere, nel 1882, l'intervento inglese in Egitto). Il leader liberale cercò inoltre di riqualificare l'azione del suo partito sul tradizionale terreno delle riforme politiche. Una nuova legge approvata nel 1884 allargò ancora il corpo elettorale,

comprendendovi la maggioranza dei lavoratori agricoli in larga parte esclusi dalla legislazione precedente. Il ministero liberale dovette però dedicare buona parte delle sue energie alla questione irlandese. Costretta a fare esclusivo affidamento su un'agricoltura povera e condotta con sistemi arretrati da proprietari assenteisti (in buona parte inglesi e protestanti), l'Irlanda vide aggravare le sue condizioni alla fine degli anni '70, in conseguenza della generale crisi che allora colpì l'intero mondo agricolo europeo soprattutto nei suoi settori più arretrati. La reazione del movimento nazionale irlandese si espresse sia in una recrudescenza delle azioni terroristiche condotte dall'ala estremista e repubblicana (già da tempo organizzata nella società segreta dei Feniani), sia in una intensa pressione esercitata in Parlamento dalla rappresentanza irlandese per ottenere che fosse posto all'ordine del giorno il problema dell'autonomia dell'isola. Per fronteggiare questa pressione - resa più efficace dal sistematico ricorso alle tecniche ostruzionistiche - Gladstone tentò dapprima la strada della riforma agraria, varando nel 1881 una legge (Land Act) che migliorava i contratti di affitto e garantiva i piccoli fittavoli dal rischio dell'espulsione dal loro fondo. Ma successivamente si convinse che l'unica vera soluzione stava nella concessione all'Irlanda di un'ampia autonomia politica. Quando però, nel 1886, presentò in Parlamento il suo progetto di Home Rule (autogoverno), Gladstone dovette affrontare non solo la scontata opposizione dei conservatori, ma anche la ribellione di una parte consistente del suo stesso partito. Fra i ribelli, oltre a numerosi rappresentanti dell'ala moderata, c'era anche l'ex sindaco di Birmingham Joseph Chamberlain, principale esponente della corrente di sinistra, quella che vantava i più solidi legami con l'elettorato operaio. La secessione degli unionisti - detti così in quanto contrari all'autonomia irlandese - fece fallire il progetto di Home Rule e provocò la caduta del governo Gladstone che fu battuto seccamente nelle elezioni del 1886. L'apporto del gruppo unionista consentì ai tories di rinnovare il tentativo, che era stato già di Disraeli, di combinare il nazionalismo con una certa dose di riformismo sociale e di procurare alla politica imperialistica il sostegno di una consistente base di massa. 4.10. La Russia di Alessandro II. L'arretratezza russa, Nobili e servi della gleba, La vita intellettuale, Occidentalisti e slavofili, Alessandro II e le riforme, La liberazione dei servi della gleba, Le delusioni dei contadini, Il ritorno all'autocrazia, Nichilisti e populisti.

Se fra le grandi potenze europee la Gran Bretagna era, nella seconda metà del secolo, la più avanzata sul piano economico e civile, all'altro estremo d'Europa il primato dell'arretratezza spettava indubbiamente all'Impero russo. All'inizio degli anni '50, più del 90% della popolazione era occupato nell'agricoltura e oltre 20 milioni di contadini (su un totale di circa 60 milioni di abitanti) erano soggetti alla servitù della gleba: erano cioè legati alla terra che coltivavano - dunque comprati e venduti assieme ad essa - e subordinati personalmente ai proprietari, cui erano tenuti a fornire un canone in denaro o un contributo in lavoro sulle terre padronali. Nella maggior parte dei territori dell'Impero, l'organizzazione del lavoro agricolo era fondata sui mir: ossia sulle comunità di villaggio, dove assemblee composte dai capifamiglia assegnavano ai contadini i fondi da coltivare e curavano l'esazione delle imposte dovute ai signori. Un'aristocrazia terriera assenteista dominava ancora incontrastata come nell'Europa dell'ancien regime. L'Impero zarista era inoltre, fra i grandi Stati del continente, l'unico assolutamente privo di istituzioni rappresentative, per quanto limitate, e governato da un gigantesco apparato burocraticopoliziesco, responsabile dei suoi atti solo di fronte allo zar. All'immobilismo delle strutture sociali e politiche faceva singolare riscontro l'eccezionale livello della vita intellettuale. L'800 fu il secolo d'oro della letteratura russa: i grandi romanzi di Gogol e di Turgenev, di Tolstoj e di Dostojevskij ci offrono un quadro vivissimo di una società diversa in ogni suo aspetto da quella dell'Europa occidentale e ci restituiscono gli echi di un dibattito ideologico quanto mai vivace. I membri della nobiltà usavano compiere lunghi viaggi in Europa e si servivano abitualmente del francese come lingua colta. Gli intellettuali, nonostante la censura, discutevano di liberalismo, di democrazia, di socialismo, con uno sforzo costante di adattare i termini del dibattito alle condizioni peculiari del proprio paese. Sulla questione dei rapporti con la cultura occidentale, gli intellettuali russi si divisero in due correnti contrapposte. Agli occidentalisti, che vedevano nell'adozione dei modelli politici e culturali offerti dai paesi più avanzati il mezzo più idoneo per risollevare le sorti della nazione russa, si opponevano i cosiddetti slavofili: questi si richiamavano, contro il razionalismo e l'individualismo della cultura occidentale, alle tradizioni dei popoli slavi, alla religione ortodossa, alle antiche istituzioni comunitarie radicate nella società russa. Gli occidentalisti segnarono un punto a loro favore e qualche spiraglio cominciò ad aprirsi nella vita politica e sociale dell'Impero quando, nel 1855, alla morte di Nicola I, salì sul trono imperiale Alessandro II Il nuovo

zar iniziò il suo regno concedendo un'amnistia ai detenuti politici e varando una serie di riforme che avevano lo scopo di introdurre elementi di modernizzazione nella burocrazia, nella scuola, nel sistema giudiziario e nell'esercito. Un parziale decentramento amministrativo fu promosso attraverso la creazione degli zemstvo, consigli distrettuali elettivi. Ma la riforma di gran lunga più importante cui Alessandro II legò il suo nome fu l'abolizione della servitù della gleba. Grazie a una serie di decreti imperiali emanati nel febbraio 1861, i servi acquistarono la libertà personale e la parità giuridica con gli altri cittadini e, contemporaneamente, ebbero la possibilità di riscattare le terre che coltivavano e di trasformarsi così in piccoli proprietari. Restava in piedi l'organizzazione del mir, cui spettava fra l'altro la responsabilità di provvedere al pagamento delle rate dovute ai signori per il riscatto delle terre. Per quanto segnasse un progresso civile di incalcolabile portata, l'abolizione della servitù, così come fu attuata, deluse coloro che avrebbero dovuto beneficiarne. I contadini si videro assegnata una quantità di terra più piccola di quella che coltivavano prima della riforma (e che erano abituati a considerare come cosa propria, pur essendo loro stessi "proprietà" del signore) e dovettero pagare, per entrarne in possesso, una somma mediamente superiore all'effettivo valore dei fondi. Molti contadini rinunciarono all'acquisto delle terre (e si trasformarono così in proletariato rurale). I nuovi piccoli proprietari furono costretti, per far fronte all'onere degli indennizzi, a comprimere ulteriormente i loro scarsi consumi. Agli entusiasmi che avevano accompagnato l'inizio della riforma subentrò ben presto nelle campagne un clima di delusione e di malcontento. Vi furono proteste e vere e proprie ribellioni, represse con l'intervento dell'esercito. Con le travagliate vicende legate all'emancipazione dei servi si chiuse la breve stagione liberalizzante del regno di Alessandro II Quando, nel 186364, i polacchi insorsero per reclamare una più ampia autonomia, la risposta del potere zarista fu una sanguinosa repressione militare, seguita da una politica di forzata "russificazione" del paese. Anche in Russia si assiste a un appesantimento del clima politico e a un nuovo inasprimento della censura e dei controlli polizieschi. E si accentuò di conseguenza la frattura fra il potere statale e la borghesia colta. Soprattutto fra le giovani generazioni, andarono diffondendosi atteggiamenti di rifiuto totale dell'ordine costituito: un rifiuto che poteva sboccare nell'individualismo anarchico e radicalmente pessimista dei cosiddetti "nichilisti" (dal latino nihil, nulla) o nello sforzo sincero di accostarsi in modo non paternalistico ai problemi delle classi subalterne. Fu questo il senso della parola d'ordine "andare al popolo" che ebbe ampia eco fra i giovani negli anni '60 e 70: donde il nome di

"populisti" (narodniki, da narod, popolo) col quale vennero designati gli intellettuali rivoluzionari che in questo periodo tentarono, senza troppa fortuna, di compiere opera di educazione culturale e di proselitismo politico fra le masse. Movimento complesso, difficilmente classificabile secondo le categorie occidentali, il populismo russo riuniva componenti diverse: dai gruppetti clandestini che si collegavano, per il tramite di Bakunin, al filone dell'anarchismo europeo, ai democratici occidentalisti (come lo scrittore Aleksandr Herzen), ai socialisti. Nucleo ideologico comune alle varie correnti era l'utopia di un socialismo agrario che facesse leva sul proletariato delle campagne e si inserisse nella tradizione comunitaria della società rurale russa. L'incomprensione delle masse contadine e la durezza della repressione poliziesca finirono però con l'isolare sempre più i narodniki e con lo spingerli verso la pratica cospiratoria. Questa a sua volta dava luogo a un rincrudimento dell'azione repressiva dello Stato. Quando, nel 1881, Alessandro II fu ucciso da un attentatore anarchico, le speranze che avevano accompagnato i suoi primi anni di regno non erano ormai che un lontano ricordo. Sommario Nella seconda metà del secolo XIX, la scena europea continuò a essere dominata dalle cinque "grandi potenze", impegnate in una lotta per l'egemonia che, fra il 1850 e il 1870, provocò ben quattro guerre. In questo periodo, il ruolo più attivo fu svolto dalla Francia del Secondo Impero, che però, nel suo tentativo di indebolire l'Austria, finì col facilitare l'ascesa della Prussia. Dalla guerra francoprussiana del '70-71, uscì un nuovo equilibrio che faceva perno sulla Germania riunificata. Il regime di Napoleone III cercò di coniugare l'autoritarismo e il paternalismo sociale con l'incoraggiamento allo sviluppo economico. Al tempo stesso si impegnò in una politica estera ambiziosa e aggressiva, volta a modificare l'assetto europeo uscito dal congresso di Vienna. Una prima manifestazione di tale politica si ebbe con la guerra di Crimea (1854-55), quando Francia e Inghilterra si unirono per contrastare le mire della Russia sull'Impero ottomano. Un'altra fu l'appoggio dato ai movimenti nazionali, soprattutto attraverso l'alleanza col Piemonte e la guerra con l'Austria del '59. Negli anni '60 si avviò un'evoluzione liberale del regime. L'Impero asburgico, dopo le rivoluzioni del '48-49, accentuò i suoi caratteri autoritari e burocratici. L'appoggio dei contadini e della Chiesa cattolica non fu sufficiente ad arrestare il declino dell'Impero, travagliato

dai contrasti fra i diversi gruppi nazionali. Nello stesso periodo la Prussia, anch'essa retta da un regime autoritario e dominata dai ceti aristocratici, ripropose la sua candidatura alla guida dei paesi di lingua tedesca, grazie soprattutto al suo sviluppo industriale. Con l'ascesa al governo di Bismarck, la Prussia scelse la strada di un'unificazione da ottenersi soprattutto per mezzo della forza militare. La vittoriosa guerra del '66 contro l'Austria portò alla formazione di una Confederazione della Germania del Nord sotto l'egemonia prussiana e all'adesione della borghesia tedesca alla politica di Bismarck. L'Impero asburgico sconfitto si riorganizzò in forma "dualistica", dividendosi in una parte austriaca e una ungherese, dotate di larghe autonomie. Nel 1870 Bismarck riuscì a provocare una guerra con la Francia (ultimo ostacolo ai suoi progetti di unificazione tedesca), che fu rovinosamente sconfitta a Sedan. Col trattato di Francoforte (1871) nasceva il nuovo Reich tedesco. La sconfitta, che rappresentò per la Francia una autentica umiliazione nazionale, comportò la caduta di Napoleone III e la perdita dell'Alsazia e della Lorena. La sconfitta ebbe tra le sue conseguenze la ribellione di Parigi e la proclamazione della Comune, radicale esperienza di democrazia diretta. Isolata dal resto del paese, la Comune venne schiacciata dalle truppe governative dopo durissimi combattimenti nelle strade della capitale. Dopo la guerra francoprussiana si diffuse in Europa un nuovo clima politico: si affermò l'ideologia della forza e tramontò la politica del libero scambio. Ciononostante l'Europa godette di un lungo periodo di pace destinato a protrarsi fino al 1914. Fino al 1890 l'equilibrio europeo si fondò soprattutto sul sistema di alleanze costruito da Bismarck allo scopo principale di isolare la Francia. Il sistema bismarckiano si fondò sul "patto dei tre imperatori" con Austria e Russia, reso però precario dalla rivalità fra queste due potenze: rivalità che emersero con la guerra russoturca del '77 e col successivo congresso di Berlino del '78. Il sistema di alleanze bismarckiano fu completato nel 1882 dalla Triplice alleanza con Austria e Italia. Dal punto di vista degli assetti interni, l'Impero tedesco era caratterizzato dalla prevalenza dell'esecutivo sul legislativo e dalla presenza di un blocco sociale dominante, fondato sull'alleanza fra industriali e aristocrazia agraria. Ciò non impedì la nascita di nuove formazioni politiche, quali il Centro cattolico e il Partito socialdemocratico. La lotta di Bismarck contro i cattolici (Kulturkampf) si risolse in un insuccesso e fu abbandonata anche per la necessità di fronteggiare la socialdemocrazia. Ma né le leggi repressive promulgate a tale scopo né le avanzate riforme sociali varate da

Bismarck in materia di assistenza e previdenza per i lavoratori riuscirono a bloccare la crescita elettorale dei socialisti. Ripresasi rapidamente dalla sconfitta del '70-71, la Francia si diede nel '75 una nuova costituzione repubblicana. Il nuovo regime, dominato dai repubblicani moderati (gli "opportunisti"), riuscì a consolidarsi e a evolversi in senso parlamentare, nonostante l'instabilità dei governi e i frequenti scandali politicofinanziari. Alla fine degli anni '80 una minaccia fu rappresentata dall'emergere di un movimento nazionalista guidato dal generale Boulanger. In Gran Bretagna gli anni centrali del lungo regno della regina Vittoria coincisero con un periodo di notevole prosperità economica, col rafforzamento del regime parlamentare e con alcune importanti riforme, soprattutto in materia di allargamento del suffragio. Dopo un lungo periodo di incontrastata egemonia liberale, fra il '66 e l'86 si alternarono al governo il liberale Gladstone, espressione dell'ala progressista del suo partito, e il conservatore Disraeli, fautore di una politica imperialistica non priva di aperture sociali. Gladstone affrontò fra l'altro la questione irlandese cercando, senza fortuna, di concedere all'isola un regime di autonomia. In Russia all'arretratezza politica e sociale faceva riscontro una grande vivacità della vita culturale e del dibattito ideologico. L'avvento al trono di Alessandro II alimentò grandi speranze di rinnovamento, in conseguenza di alcune riforme varate dal sovrano: la più importante di tutte fu l'abolizione della servitù della gleba (1861), che però non produsse i risultati sperati. Seguì una nuova stretta autoritaria, con conseguente accrescersi del distacco fra potere statale e ceti intellettuali. Bibliografia Per un quadro generale: EJ. Hobsbawm, L'età degli imperi 1875-1914, Laterza, RomaBari 1984. Per l'inquadramento degli aspetti politici e diplomatici: AJ. P. Taylor, L'Europa delle grandi potenze, Laterza, Bari 1961. Sulla Francia: F. Furet, Il secolo della rivoluzione, Rizzoli, Milano 1989; R. Magraw, Il "secolo borghese" in Francia. 1815-1914, Il Mulino, Bologna 1987. Sulla Comune, oltre al racconto di un contemporaneo, P. O. Lissagaray, La Comune di Parigi. Le otto giornate di maggio dietro le barricate, Feltrinelli, Milano 1979, vedi la raccolta di saggi a e. di J. Bruhat J. Dautry E. Tersen, La Comune del 1871, Editori Riuniti, Roma 1971.

Sulla Terza Repubblica: M. Winock, La febbre francese. Dalla Comune al maggio '68, Laterza, RomaBari 1987 e, per gli aspetti sociali: E. Weber, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale 1870-1914, Il Mulino, Bologna 1989. Sull'Impero asburgico, oltre al volume di A. Sked, Grandezza e caduta dell'Impero asburgico, cit. al cap. 1, A. A. May, La monarchia asburgica, Il Mulino, Bologna 1973. Per l'ascesa della Prussia e il processo di unificazione tedesca: H. Lutz, Tra Asburgo e Prussia, cit. al cap. 1; G. Ritter, / militari e la politica nella Germania moderna, I. Da Federico il Grande alla prima guerra mondiale, Einaudi, Torino 1967; H. Bòhme, Lascesa della Germania a grande potenza. Economia e politica nella formazione del Reich 1848-1881, Ricciardi, MilanoNapoli 1970; L. Gall. Bismarck, Rizzoli, Milano 1982; AJ. P. Taylor, Bismarck. L'uomo e lo statista, Laterza, RomaBari 1988. Sulla Germania imperiale: H. U. Wehler, L'Impero guglielmino, 18711918, De Donato, Bari 1981 e M. Stùrmer, L'Impero inquieto. La Germania dal 1866 al 1918, Il Mulino, Bologna 1986. Sulla Gran Bretagna, oltre all'agile volume di E. Grendi, L'Inghilterra vittoriana, Sansoni, Firenze 1975, vedi: A. Briggs, L'Inghilterra vittoriana, Editori Riuniti, Roma 1978; G. Kitson Clark, L'Inghilterra vittoriana. Genesi e formazione, Jouvence, Roma 1980; EJ. Feuchtwanger, Democrazia e Impero. L'Inghilterra fra il 1865 e il 1914, Il Mulino, Bologna 1989. Sulla Russia: M. Raeff, La Russia degli Zar, Laterza, RomaBari 1984; D. Saunders, La Russia nell'età della nazione e delle riforme, 1801-1881, Il Mulino, Bologna 1997. 5. I nuovi mondi: Stati Uniti e Giappone. 5.1. Sviluppo economico e fratture sociali negli Stati Uniti. Un paese in costante espansione, Il NordEst industrializzato, Il Sud e l'economia delle piantagioni, La società del West, Il contrasto fra Nord e Sud, L'importanza del cotone, Sviluppo industriale e nuove alleanze economiche, Lo scontro sulla schiavitù, Democratici e "whigs", Il Partito repubblicano, Lincoln. Intorno alla metà del secolo XIX, gli Stati Uniti d'America offrivano l'immagine di un paese in crescente espansione. La popolazione era in costante aumento (23 milioni nel 1850, oltre 30 dieci anni dopo), grazie

soprattutto all'ininterrotto flusso migratorio proveniente dall'Europa. I confini dell'Unione continuavano a spostarsi verso Ovest, includendo vasti territori ben presto attraversati da strade e linee ferroviarie. La produzione agricola progrediva con ritmi che non avevano uguali al mondo, sia per la messa a coltura di nuove terre nelle regioni di recente colonizzazione, sia per lo sviluppo di una moderna agricoltura capitalistica negli Stati del Vicino Ovest (Midwest). Contemporaneamente, la regione del NordEst - in particolare la zona della costa atlantica - conosceva un rapido e tumultuoso sviluppo industriale. Ma a questa eccezionale vitalità dell'economia e del corpo sociale facevano riscontro profonde fratture interne. Negli Stati Uniti coesistevano infatti tre diverse società, corrispondenti a diverse zone del paese, ciascuna col suo sistema economico, i suoi valori, le sue tradizioni culturali. C'erano innanzitutto gli Stati del NordEst, sede delle prime colonie britanniche e nucleo originario dell'Unione. Era la zona più progredita, più ricca e più industrializzata, dove sorgevano i maggiori centri urbani (New York, Boston, Philadelphia), dove si concentravano i commerci con l'Europa e dove principalmente si indirizzava l'ondata migratoria. Un ambiente dunque in perenne trasformazione, sottoposto a sollecitazioni di ogni genere, profondamente influenzato dai valori del capitalismo imprenditoriale, dominato dai gruppi industriali, commerciali e bancari, cui si contrapponeva un ormai numeroso proletariato urbano. Quella degli Stati del Sud era invece una società agricola e profondamente tradizionalista, che fondava la sua economia e la sua organizzazione sociale sulle grandi piantagioni di cotone (e, in minor misura, di tabacco e di canna da zucchero). La manodopera che vi lavorava era costituita in gran parte da schiavi neri, discendenti da quelli che erano stati forzatamente trapiantati in America nel 700 (la tratta era stata ufficialmente vietata negli Stati Uniti solo nel 1808). Nel 1860 vivevano negli Stati del Sud quasi quattro milioni di schiavi neri, contro circa sei milioni di bianchi, in maggioranza piccoli e medi coltivatori. Il ceto dei grandi proprietari - che impiegavano il grosso della manodopera servile contava non più di 2000 famiglie: una ristretta minoranza, che però dominava la vita politica e sociale, forniva i migliori ufficiali all'esercito federale e svolgeva, in un paese in cui non era mai esistita una vera nobiltà, una funzione sociale simile a quella di un'aristocrazia. I grandi proprietari vivevano in case ampie e lussuose, avevano il culto della tradizione e il gusto delle buone maniere, si ispiravano a un'etica patriarcale e paternalistica. La stessa istituzione della schiavitù veniva giustificata in questo contesto: anzi, la vita nella piantagione, dove allo schiavo erano

assicurati l'abitazione, il vitto giornaliero e l'istruzione religiosa, era polemicamente contrapposta alla venalità, alla brutalità e all'insicurezza che caratterizzavano i rapporti di lavoro in regime di capitalismo industriale. A queste due società così diverse fra loro se ne contrapponeva una terza: quella dei liberi agricoltori e. allevatori di bestiame che popolavano gli Stati dell'Ovest. Era una società in rapida evoluzione: man mano che la frontiera si spostava verso il West, le aziende stabili si sostituivano agli insediamenti isolati dei pionieri, lo scambio in natura e l'autoconsumo cedevano il passo all'agricoltura mercantile che forniva derrate alimentari, e soprattutto cereali, alle città del NordEst. Nonostante tutto ciò, la società agricola dell'Ovest restava legata all'etica e ai valori della frontiera: l'iniziativa individuale, l'indipendenza, l'uguaglianza delle opportunità. Fu proprio l'Ovest a costituire il pomo della discordia, e al tempo stesso l'elemento risolutore, nel contrasto che, a partire dalla metà del secolo, oppose il Nord industriale e il Sud schiavistico. L'idea stessa della schiavitù mal si conciliava con la mentalità democratica diffusa fra le popolazioni del Nord (dove era attivo da tempo un vivace movimento abolizionista); ma era anche incompatibile con la filosofia di un capitalismo moderno e con la sua esigenza di disporre di una manodopera mobile e di un mercato interno in espansione. Non si deve pensare, tuttavia, che l'economia delle piantagioni rappresentasse una appendice parassitaria o addirittura un vincolo per il capitalismo del Nord. Al contrario, essa costituiva una macchina produttiva altamente perfezionata e redditizia, che assicurava il 75 % della produzione mondiale di cotone e alimentava un imponente flusso di esportazioni verso l'Europa. Fino alla metà del secolo, il cotone esercitò un peso decisivo sull'economia dell'intero paese e non solo su quella del Sud: le manifatture che lavoravano il cotone formarono il primo nucleo importante dell'industria statunitense. Quando però, con gli anni '40 e '50, lo sviluppo industriale si allargò a nuovi settori (in particolare a quello meccanico), diminuì l'importanza della produzione cotoniera nel complesso dell'economia americana e si allentò il rapporto di dipendenza reciproca che aveva fin allora legato i due sistemi. Contemporaneamente si fecero più strette le relazioni fra il NordEst industriale e l'Ovest agricolo: quest'ultimo trovava infatti nelle aree urbane in continua espansione ampi sbocchi per i suoi prodotti e costituiva a sua volta un ottimo mercato per l'industria meccanica, che vi collocava soprattutto macchine agricole. Su queste premesse si inserì, intorno alla metà del secolo, l'acutizzarsi dello scontro sulla schiavitù. Al centro del dibattito non stava tanto il problema dell'esistenza o meno di questa "istituzione peculiare", quanto

quello della possibilità di introdurla nei territori di nuova acquisizione. L'estensione dell'economia delle piantagioni (e dunque del lavoro servile) ai nuovi territori era richiesta dai piantatori del Sud, che volevano allargare la coltura del cotone alle terre vergini, dove i rendimenti erano più alti; ma incontrava forti opposizioni nell'opinione pubblica del Nord e fra i coloni dell'Ovest, che chiedevano terre a buon mercato, o addirittura in uso gratuito, per diffondervi la coltivazione dei cereali. Lo scontro sulla questione della schiavitù fece sentire i suoi effetti anche in campo politico. Nei decenni precedenti, la scena era stata dominata da due grandi partiti, entrambi privi di una caratterizzazione ideologica ben definita ma formatisi - secondo un modello destinato a restare costante nella storia degli Stati Uniti - sulla base di coalizioni fra grandi gruppi di interesse. Il Partito democratico, erede della tradizione di Jefferson, si ispirava a ideali di democrazia rurale, di liberismo economico, di rispetto dell'autonomia dei singoli Stati e raccoglieva il consenso sia dei piccoli e medi agricoltori sia dei grandi piantatori del Sud, ma anche di buona parte dei lavoratori immigrati del NordEst. Il Partito whig godeva invece dell'appoggio della borghesia del Nord e si riallacciava alla tradizione del federalismo di Hamilton nell'invocare un rafforzamento del potere centrale. Con l'inizio degli anni '50, entrambi i partiti entrarono in una profonda crisi. I democratici, identificandosi sempre più con la causa dei grandi proprietari schiavisti, persero molti dei consensi di cui godevano al Nord e all'Ovest. Il Partito whig, diviso fra una corrente progressista e una conservatrice, si dissolse nel giro di pochi anni. Dall'ala progressista - cui si aggiunsero gruppi di ex democratici dissidenti - nacque nel 1854 una nuova formazione politica: il Partito repubblicano. Qualificandosi in senso decisamente antischiavista e accogliendo nella sua piattaforma politica sia le rivendicazioni degli industriali (dazi doganali più alti), sia quelle dei coloni dell'Ovest (distribuzione gratuita dei terreni demaniali), il nuovo partito conquistò un seguito sempre crescente. Finché, nelle elezioni del 1860, riuscì a portare alla presidenza un tipico uomo dell'Ovest: Abraham Lincoln, un avvocato di salde convinzioni democratiche, proveniente da una famiglia di modesti agricoltori del Kentucky. 5.2. La guerra di secessione e le sue conseguenze. La secessione del Sud, La guerra civile (1861-65), L'iniziale prevalenza dei sudisti, Le vittorie nordiste, Prima guerra "totale", I limiti della rivoluzione democratica, La politica dei vincitori, La reazione del Sud.

Nonostante fosse un convinto avversario della schiavitù, Lincoln non era un abolizionista radicale, come non lo erano la maggior parte dei leader del suo partito. Nella sua campagna elettorale aveva anzi negato qualsiasi intenzione di abolire la schiavitù dove essa già esisteva. Ciononostante, la vittoria repubblicana nelle elezioni del '60 fu sentita da una parte dell'opinione pubblica del Sud come l'inizio di un processo irreversibile che avrebbe portato alla vittoria degli interessi industriali, al rafforzamento del potere centrale, alla progressiva emarginazione degli Stati schiavisti. Di qui la decisione, presa fra il dicembre '60 e il maggio '61 da undici Stati del Sud, di staccarsi dall'Unione e di costituirsi in una Confederazione indipendente che ebbe come capitale Richmond in Virginia. La secessione, imposta da una minoranza intransigente a una popolazione incerta e divisa, non poteva non suscitare la reazione del potere federale. Se era vero infatti che l'Unione si fondava in teoria su un libero contratto fra Stati sovrani, era anche vero che il rifiuto di una parte del paese di accettare il responso della maggioranza avrebbe distrutto le basi stesse dello Stato. Non vi era dunque alternativa alla guerra civile, che ebbe inizio nell'aprile 1861 quando le forze confederate (ossia i secessionisti del Sud) attaccarono la piazzaforte di Fort Sumter, nella Carolina del Sud, occupata dall'esercito unionista. Scegliendo la strada dello scontro, i confederati facevano assegnamento sulla migliore qualità delle loro forze armate. Ma speravano anche in un intervento a loro favore della Gran Bretagna, che era la principale acquirente del cotone del Sud e non vedeva di buon occhio i programmi protezionisti dei repubblicani. Gli Stati del Nord confidavano invece nella schiacciante superiorità numerica della loro popolazione (il rapporto era di circa tre a uno) e sul loro maggior potenziale economico. Nelle fasi iniziali della guerra, il miglior addestramento delle forze sudiste e le notevoli capacità del loro comandante, il generale Robert Lee, diedero ai confederati una netta prevalenza. Ma, quando fu chiaro che gli Stati del Sud avrebbero dovuto contare solo sulle loro forze (la Gran Bretagna e le altre potenze europee si astennero infatti da ogni intervento) e che la guerra sarebbe stata lunga e logorante, il fattore numerico e quello economico si rivelarono decisivi. I primi successi nordisti si ebbero solo nel '63, quando le forze dell'Unione, comandate dal generale Ulysses Grant, cominciarono una lenta avanzata lungo il corso del Mississippi e quando, in luglio, un tentativo dei confederati di penetrare in Pennsylvania fu bloccato nella battaglia di Gettysburg. Nell'estate dell'anno seguente, un'armata nordista, muovendo dal Mississippi verso l'Atlantico, riuscì a penetrare in profondità nel

territorio dei nemici e a spezzarne in due lo schieramento dopo una lunga marcia devastatrice attraverso il Tennessee e la Geòrgia, conclusasi nel dicembre '64. Il 9 aprile 1865, quando ormai l'esercito unionista occupava buona parte del Sud, i confederati si arresero. Pochi giorni dopo, il presidente Lincoln cadeva vittima di un attentato per mano di un fanatico sudista. La guerra era durata ben quattro anni, aveva visto impegnati nelle operazioni belliche circa tre milioni di uomini ed era costata oltre 600.000 morti. Era stata senza dubbio la prima guerra totale dei nostri tempi: la prima che avesse coinvolto così a lungo la società civile di un grande paese moderno, la prima in cui fossero stati utilizzati sistematicamente i nuovi mezzi offerti dallo sviluppo tecnologico e industriale, a cominciare dalla ferrovia e dal telegrafo. Per vincerla, i nordisti dovettero non solo fare appello a tutte le loro risorse economiche, ma anche mobilitare tutte le energie politiche disponibili. Per questo Lincoln e i suoi collaboratori furono costretti a spingersi oltre i loro programmi iniziali. Nel 1862 fu approvata una legge che assegnava gratuitamente ai cittadini che ne facessero richiesta quote di terre del demanio statale. L'anno dopo fu decretata la liberazione degli schiavi in tutti gli Stati del Sud (anche per favorirne l'arruolamento nell'esercito unionista). In realtà, la rivoluzione democratica implicita nell'esito della guerra di secessione fu ben lontana dal compiersi interamente. La legge del '62 sulla distribuzione delle terre libere fu revocata pochi anni dopo la fine della guerra. Gli schiavi acquistarono la libertà - un risultato questo che non può comunque essere sottovalutato - ma le loro condizioni economiche non migliorarono più di quelle dei servi della gleba liberati da Alessandro II in Russia nel 1861. La vittoria nordista e le innovazioni legislative non valsero a colmare le disuguaglianze sociali, né poterono cancellare i pregiudizi razziali profondamente radicati nella società del Sud. Certo non giovarono alla causa della democrazia e dell'integrazione razziale i metodi sbrigativi e lo spirito talvolta vendicativo con cui i vincitori condussero l'opera di riunificazione del paese. Negli anni successivi alla fine della guerra, il Sud, sottoposto a un regime di vera e propria occupazione militare, fu in pratica governato da uomini dell'ala radicale del Partito repubblicano. Fra questi, accanto agli idealisti sinceri, c'erano molti avventurieri venuti dal Nord in cerca di fortuna e molti politicanti che mascheravano dietro una fraseologia rivoluzionaria i loro legami con i gruppi di interesse del Nord. Il risultato fu una reazione di rigetto, che prima si espresse in forma di lotta clandestina (fu creata allora l'organizzazione paramilitare e razzista del Ku Klux Klan) e che più tardi

determinò la riscossa del Partito democratico negli Stati del Sud. Il ritorno alla normalità nel Sud, che poté considerarsi compiuto solo alla fine degli anni 70, significò anche il ritorno all'indiscussa supremazia dei bianchi e ad un regime di segregazione di fatto, destinato a protrarsi, in alcuni Stati, per buona parte del secolo XX. Con tutto ciò, il bilancio della guerra civile non poteva dirsi del tutto negativo per gli Stati Uniti, che uscivano dalla crisi con una struttura politica e sociale indubbiamente più compatta che in passato, con un'economia ancora vitalissima e con un'intatta capacità di egemonia nei confronti dei paesi vicini. 5.3. Nascita di una grande potenza. La conquista del West, I pellirosse, L'immigrazione, Le grandi metropoli, La tutela degli equilibri continentali, La guerra civile in Messico e l'intervento francese, La creazione dell'Impero del Messico, Sconfitta e uccisione di Massimiliano d'Asburgo. Negli ultimi decenni dell'800, gli Stati Uniti conobbero un periodo di grandi trasformazioni interne e di rapido sviluppo territoriale. Chiuso il capitolo della guerra di secessione e della ricostruzione postbellica, riprese con rinnovato slancio la colonizzazione dei territori dell'Ovest, ora favorita dallo sviluppo della rete ferroviaria: sviluppo che ebbe la sua tappa più importante nel 1869, con il completamento della prima linea transcontinentale dall'Atlantico al Pacifico. Intorno al 1890, la conquista del West poteva considerarsi compiuta, la frontiera coincideva ormai con la costa del Pacifico e la nazione americana aveva raggiunto l'estensione attuale. Vittime principali della corsa all'Ovest furono le tribù dei pellirosse, che si videro restringere progressivamente gli spazi, un tempo sconfinati, in cui potevano muoversi liberamente. Contro di essi il governo federale condusse, fra il '66 e il '90, una serie di campagne militari che avevano lo scopo di proteggere le vie di comunicazione e di rendere più sicura l'opera di colonizzazione dei pionieri. Gli indiani cercarono di resistere alla conquista bianca e riuscirono anche a riportare qualche isolato successo (come quello di Little Big Horn, nel 1876, quando un corpo di cavalleria comandato dal generale Custer fu sterminato dai Sioux). Ma dopo il 1890, data dell'ultima battaglia delle "guerre indiane", quella di Wounded Knee, ogni resistenza armata cessò. I pellirosse, decimati dalle guerre (il loro numero alla fine del secolo non superava i 250.000), furono confinati nelle riserve e ridotti a un corpo estraneo e marginale nella società americana.

Una società che aveva tra i suoi princìpi costitutivi quello della proprietà individuale e che stava allora attraversando una fase di impetuoso sviluppo capitalistico. Questo sviluppo economico fu reso possibile, oltre che dall'abbondanza di risorse naturali, anche e soprattutto dall'esistenza di un mercato interno in continua espansione. La popolazione statunitense, che nel 1871 ammontava a 39 milioni di persone, passò a 62 nel 1894 (e a 97 nel 1914). Per oltre un terzo, questo aumento fu dovuto all'afflusso di immigrati provenienti dall'Europa, che fornirono braccia per l'industria o contribuirono a completare la colonizzazione dei territori dell'Ovest. Tale era il bisogno di manodopera che, nel 1882, il governo federale spalancò le porte all'immigrazione rendendo l'ingresso negli Stati Uniti libero a tutti, con le sole eccezioni dei criminali comuni e dei malati di mente. La società americana diventò così un immenso crogiolo (melting pot) dove andarono a fondersi culture, tradizioni, valori ed energie di tutti i paesi del vecchio continente. Pur restando ancora un paese in larga misura agricolo (la percentuale degli addetti all'agricoltura sul totale della popolazione attiva scese lentamente, dal 52% del 1870 al 40% circa del 1900), gli Stati Uniti conobbero, in questo periodo, una rapida crescita dei grandi centri urbani. La spinta all'urbanesimo diede alle città nordamericane l'aspetto di grandi metropoli ferventi di attività, specchio di una società che non aveva conosciuto i vincoli del passato feudale, che faceva sempre più del progresso materiale il suo obiettivo fondamentale e della competizione spesso senza quartiere - il motore del proprio sviluppo. La crescente mobilità dei redditi e delle occupazioni, caratteristica della società americana, faceva anche risaltare i contrasti sociali, che apparivano evidenti nella stessa fisionomia delle metropoli, con i loro grandi centri della finanza e del commercio ma anche con le loro sacche di povertà, col ridisegnarsi continuo di aree di miseria e di benessere a diretto contatto le une con le altre. Fino agli ultimi anni dell'800, la crescita economica della potenza statunitense non ebbe proiezioni significative al di fuori delle Americhe. La stessa dottrina Monroe, con la quale nel 1823 gli Stati Uniti avevano affermato il loro ruolo di custodi degli equilibri del continente contro qualsiasi ingerenza esterna, fu intesa soprattutto in senso difensivo. Gli Stati Uniti non intervennero attivamente nell'emisfero meridionale. Anche i loro scambi commerciali col Sud America restarono limitati, in confronto alla massiccia penetrazione messa in atto dalla Gran Bretagna nell'Impero del Brasile e nelle inquiete repubbliche latinoamericane. La spinta insita nella

vitalità dell'economia e della società statunitensi si indirizzò verso la colonizzazione dei territori dell'Ovest e il consolidamento dell'espansione in precedenza realizzata verso il Sud, nell'area delle ex colonie francesi e spagnole (Louisiana, Florida, Texas, California). In una sola occasione gli Stati Uniti dovettero fronteggiare la minaccia del reinserimento di una potenza europea vicino ai propri confini. Fu quando Napoleone III cercò di imporre l'influenza francese sul Messico. L'occasione era stata offerta da un'altra guerra civile: quella che nella Repubblica messicana opponeva le forze democratiche, guidate dal presidente Benito Judrez, alle correnti conservatrici e clericali. Nel 1861, per far fronte a una drammatica situazione finanziaria, Juàrez aveva sospeso il pagamento dei debiti con l'estero. I maggiori Stati creditori - Francia, Gran Bretagna e Spagna - avevano allora reagito con un intervento militare. Napoleone III volle profittare dell'occasione per impiantare nel continente americano una sorta di Stato satellite. Fu così creato, sotto la protezione delle truppe francesi, un Impero del Messico, la cui corona fu offerta a un principe di casa d'Austria, Massimiliano d'Asburgo, fratello minore di Francesco Giuseppe. Alla proclamazione dell'Impero, avvenuta nel '64, le forze patriottiche risposero con una violenta guerriglia. Gli Stati Uniti, dal canto loro, una volta terminata la guerra di secessione, fornirono ai repubblicani un solido retroterra, oltre a consistenti aiuti in armi e denaro. Nel 1867, vista l'impossibilità di domare la guerriglia, Napoleone III richiamò le sue truppe, rinunciando al sogno dell""Impero latino" e abbandonando a se stesso lo sfortunato Massimiliano che, sconfitto e catturato dai repubblicani, fu fucilato in giugno. Fu uno scacco gravissimo per il prestigio del Secondo Impero, ma anche una eloquente e definitiva conferma della dottrina Monroe. 5.4. La Cina, il Giappone e la penetrazione occidentale. L'Impero cinese, L'isolamento della Cina, La prima guerra dell'oppio, La rivolta dei Taiping e la seconda guerra dell'oppio, La rottura dell'isolamento. Intorno alla metà del secolo XIX, i due paesi più importanti dell'Estremo Oriente, la Cina e il Giappone, si trovarono entrambi a fronteggiare la pressione delle potenze europee (e degli stessi Stati Uniti), che miravano a imporre, se necessario con la forza, la loro presenza commerciale in aree fin allora chiuse alla penetrazione occidentale. In entrambi gli antichi imperi

l'intervento straniero aprì ferite profonde. Ma diverse furono le risposte e le conseguenze: mentre in Cina si ebbe un aggravamento della crisi interna, in Giappone la reazione nazionalista e modernizzante della classe dirigente pose le premesse per la nascita di una nuova potenza mondiale. A metà '800 la Cina era già lo Stato più popoloso del mondo con quasi 400 milioni di abitanti. La sua organizzazione politica si fondava su un forte potere centrale, incarnato dall'imperatore e rappresentato in tutto il paese da una classe di potenti funzionari (i mandarini), provenienti per lo più dalla nobiltà terriera e custodi della tradizione confuciana. Anche l'agricoltura, basata su un complesso sistema di irrigazione, era in qualche modo legata alla burocrazia imperiale, dal momento che era lo Stato a farsi carico della sistemazione idraulica dei terreni. L'Impero cinese era rimasto, fino all'inizio del secolo, pressoché inaccessibile ai viaggiatori e ai commercianti occidentali; inoltre, non aveva relazioni diplomatiche con l'esterno (in omaggio all'idea che l'imperatore fosse l'unica fonte del potere in terra e che gli altri sovrani potessero avere con lui solo rapporti di vassallaggio). Agli stranieri era consentito di operare solo nel porto di Canton, nella Cina meridionale. Questo orgoglioso isolamento mascherava in realtà una profonda debolezza. Da tempo ormai la società cinese, irrigidita e chiusa in se stessa, aveva perso quel primato scientifico e tecnologico di cui aveva goduto fino al '500. Il ceto burocratico, profondamente tradizionalista e legato alla propria formazione filosoficoletteraria, ostacolava ogni mutamento nelle tecniche produttive e nei sistemi di governo. Il risultato fu che, al primo traumatico scontro con l'Occidente, la Cina imperiale entrò in una crisi irreversibile. Occasione dello scontro fu il contrasto scoppiato alla fine degli anni '30 fra il governo imperiale e la Gran Bretagna a proposito del commercio dell'oppio. La droga, prodotta in grande quantità nelle piantagioni indiane, veniva esportata clandestinamente in Cina, dove il suo consumo era largamente diffuso, benché ufficialmente proibito. Ne era derivata un'acuta tensione fra il governo cinese e la Gran Bretagna, ritenuta non a torto la principale responsabile e beneficiaria del traffico. Quando, alla fine del 1839, un funzionario imperiale fece sequestrare il carico di tutte le navi straniere nel porto di Canton, il governo inglese decise di intervenire militarmente. Dopo una guerra durata più di due anni, gli inglesi ebbero partita vinta su tutta la linea. Col trattato di Nanchino del 1842, la Cina dovette cedere alla Gran Bretagna la città di Hong Kong, situata su un'isola prospiciente il porto di Canton, e aprire al commercio straniero altri quattro porti, fra cui Shangai.

La "prima guerra dell'oppio", mettendo a nudo la debolezza militare della Cina e aprendola alla penetrazione commerciale europea, ebbe il doppio effetto di sconvolgere gli equilibri sociali su cui si reggeva l'Impero e di far convergere su di esso le mire espansionistiche di altre potenze. Nel decennio 1850-60 la Cina si trovò, così, ad affrontare contemporaneamente una gravissima crisi interna - culminata nella lunga e sanguinosissima ribellione contadina nota come rivolta dei Taiping - e un nuovo sfortunato scontro con la Gran Bretagna, coadiuvata questa volta dalla Francia. Il conflitto, chiamato impropriamente "seconda guerra dell'oppio", cominciò nel '56, in seguito all'attacco a una nave inglese nel porto di Canton, e si concluse nel '60, con una nuova capitolazione della Cina, costretta ad aprire al commercio straniero anche le vie fluviali interne e a stabilire normali rapporti diplomatici con gli Stati occidentali. Una vicenda analoga, almeno all'inizio, fu quella che negli stessi anni segnò l'incontroscontro fra le potenze occidentali e un altro "mondo chiuso": l'Impero del Giappone. La società giapponese era allora organizzata secondo uno schema tipicamente feudale. L'imperatore (mikadó) era più che altro un capo religioso ed esercitava un potere puramente simbolico. Il governo del paese era da più di due secoli nelle mani di una dinastia di feudatari, i Tokugawa, che si trasmettevano per via ereditaria la carica di shogun: questi era nominalmente la suprema autorità militare e il più alto dignitario imperiale, in realtà una specie di sovrano assoluto, che amministrava direttamente molte zone del paese e teneva legati a sé, con un vincolo di vassallaggio, i grandi feudatari (daimyo) cui spettava il controllo sul restante territorio. I daimyo erano un gruppo estremamente ristretto (nell'800 non erano più di 250), godevano di poteri pressoché assoluti nei loro feudi, che occupavano a volte regioni molto estese, e disponevano di eserciti e burocrazie propri. Al di sotto dei daimyo stavano i samurai, ossia la piccola nobiltà un tempo dedita al mestiere delle armi. Privati di una loro autonoma funzione sociale dalla lunga pace interna che era seguita all'avvento dei Tokugawa, i samurai costituivano un ceto relativamente numeroso (circa il 7% della popolazione), ma molto composito e irrequieto. Alcuni ricoprivano posti importanti nell'esercito e nella burocrazia; altri erano ridotti alla miseria e non di rado dediti al brigantaggio; pochissimi avevano scelto la strada delle attività mercantili, considerate indegne di un nobile. Mercanti e artigiani costituivano nella società giapponese un gruppo numericamente debole e politicamente emarginato. Le poche industrie, per lo più dedite alla produzione di armi e navi da guerra, erano sotto il diretto

controllo dello shogun. L'unica attività produttiva di rilievo, che occupava oltre l'80% della popolazione, era l'agricoltura: in particolare la coltura del riso basata, come in Cina, su sistemi di irrigazione piuttosto avanzati. I contadini, organizzati in comunità di villaggio, versavano tuttavia in condizioni di notevole disagio a causa della forte pressione fiscale esercitata dai daimyo, cui era dovuto fra l'altro un terzo del raccolto di riso. Una struttura economica e sociale così arcaica aveva potuto mantenersi - com'era accaduto in Cina - grazie all'assoluto isolamento in cui il paese era stato tenuto negli ultimi secoli. Non esistevano rapporti diplomatici o culturali fra il Giappone e l'Occidente. Il commercio con l'estero era vietato e solo il porto di Nagasaki era aperto ai mercanti stranieri. L'isolamento fu rotto, verso la metà dell'800, dall'iniziativa delle potenze occidentali. A fare da battistrada furono questa volta gli Stati Uniti che, nel 1854, inviarono una squadra navale nelle acque giapponesi e chiesero formalmente allo shogun il libero accesso nei porti e l'apertura di relazioni commerciali. L'iniziativa americana - cui subito si unirono Gran Bretagna, Francia e Russia - trovò il Giappone del tutto impreparato. Lo shogun fu costretto a firmare nel 1858 una serie di accordi commerciali che assicuravano alle potenze occidentali ampie possibilità di penetrazione economica. 5.5. La "restaurazione Meiji" e la nascita del Giappone moderno. La rivolta contro lo shogun, La restaurazione Meiji, La creazione di uno Stato moderno, La modernizzazione dell'economia, Una rivoluzione dall'alto, Il modello giapponese. La firma dei trattati ineguali del '58 suscitò in tutto il paese un'ondata di risentimento nazionalistico, che fu guidata dai grandi feudatari e da una parte dei samurai e si indirizzò contro lo shogun, principale responsabile della capitolazione. Ad esso fu contrapposta la figura dell'imperatore, che in teoria rappresentava ancora la vera fonte del potere. I daimyo si resero sempre più indipendenti dal governo centrale, rafforzarono i loro eserciti privati e giunsero a prendere iniziative autonome contro la presenza straniera in Giappone. Nel gennaio del 1868 le forze congiunte dei sei maggiori feudi occuparono la città imperiale di Kyoto, dichiararono decaduto lo shogun e diedero vita a un governo che aveva sede a Tokyo e si richiamava all'autorità dell'imperatore, un ragazzo di quindici anni salito da poco al trono, Mutsuhito, il quale era destinato ad acquisire l'appellativo di Meiji Tenno (imperatore illuminato).

Ma la cosiddetta "restaurazione Meiji" non fu solo un fenomeno di reazione tradizionalista alla penetrazione straniera, né si limitò a sostituire il potere dello shogun con quello dell'imperatore o a rafforzare l'autorità dei daimyo. Questo era forse l'obiettivo dei grandi feudatari che si assunsero il peso militare della lotta contro i Tokugawa. Ben più ambiziosi erano invece gli scopi di quel gruppo di intellettuali, militari e funzionari, tutti provenienti dal ceto dei samurai, che assunsero i postichiave nel governo una volta rovesciato lo shogun. Questa élite dirigente era ben consapevole del legame esistente fra l'inferiorità politica e militare del Giappone rispetto alle potenze occidentali e l'arretratezza delle sue strutture economicosociali: era dunque decisa a colmare il dislivello in tempi il più possibile rapidi, senza paura di ricalcare i modelli degli Stati europei più avanzati. L'operazione fu condotta con risolutezza e rapidità eccezionali. Nel giro di pochi anni, senza violenti sommovimenti sociali, il Giappone compì quella transizione dal sistema feudale allo Stato moderno che nella maggior parte dei paesi europei si era realizzata in tempi lunghissimi, accelerati solo da traumatici processi rivoluzionari. Nel 1871 fu proclamata l'uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, i diritti feudali vennero aboliti e i feudi trasformati in circoscrizioni amministrative. I feudatari vennero largamente indennizzati mentre ai samurai fu assegnata una pensione vitalizia. Negli anni seguenti fu introdotto l'obbligo dell'istruzione elementare, fu unificata la moneta, fu creato un sistema fiscale moderno in luogo dei vecchi tributi in natura, fu organizzato un esercito nazionale basato sulla coscrizione obbligatoria. Procedeva intanto l'opera di modernizzazione economica: sia nell'agricoltura, dove si cercò di incoraggiare la piccola proprietà; sia, e soprattutto, nell'industria, che si sviluppò praticamente da zero, grazie al massiccio investimento di capitali statali (ricavati in parte dalla vendita delle terre sequestrate allo shogun) e alla rapidissima importazione di tecnologia straniera (acquisto di brevetti, assunzione di esperti occidentali, invio di giovani all'estero per soggiorni di studio). Non meno rapida fu la crescita delle infrastrutture: dalle ferrovie (la prima linea fu aperta nel 71) alle comunicazioni telegrafiche, all'organizzazione bancaria. I risultati furono notevoli da tutti i punti di vista. Nell'ultimo ventennio del secolo il Giappone vantava un tasso di crescita del prodotto nazionale fra i più alti del mondo (quasi il 5% annuo) e, pur restando ancora distante dai paesi occidentali più avanzati, aveva sviluppato un suo consistente nucleo di industrie moderne, soprattutto nei settori tessile e meccanico. Quella che si compì in Giappone dopo il 1868 fu una vera e propria "rivoluzione dall'alto", realizzata senza alcuna partecipazione attiva delle

classi inferiori, non preparata, com'era avvenuto in Occidente, da un'autonoma crescita della borghesia e non seguita da uno sviluppo delle istituzioni liberali e della democrazia politica (solo nel 1889 il Giappone ebbe un suo Parlamento eletto a suffragio ristretto e con poteri molto limitati). Furono le classi dirigenti tradizionali a guidare la trasformazione e a gestirla in prima persona, spogliandosi spontaneamente dei loro antichi diritti, senza per questo perdere la loro posizione privilegiata nella società, investendo le loro rendite nella terra, nelle banche o nell'industria protetta, trasformandosi insomma da oligarchia feudale in oligarchia industriale e finanziaria. Il processo di rapida modernizzazione sul piano delle strutture economiche e politiche risultò tanto più stupefacente in quanto si accompagnò alla conservazione dei tradizionali valori culturali e religiosi. Limitatamente ad alcuni aspetti, l'esperienza giapponese è stata accostata a quella della Germania bismarckiana, dove il passaggio dalle strutture tradizionali a quelle della società industriale si effettuò senza che fosse messo in pericolo il potere dell'aristocrazia terriera e della casta militare. Ma, per quante analogie si possano istituire, l'esperienza del Giappone dopo la "restaurazione Meiji" resta un caso assolutamente unico. Non era mai accaduto che uno Stato mutasse così radicalmente i suoi tratti politici, economici e sociali senza una rivoluzione "dal basso". Né era mai accaduto che un paese passasse, in pochi decenni, da una condizione di estrema debolezza e di assoluta emarginazione a una realtà di grande potenza, quale il Giappone si sarebbe rivelato già alla fine dell'800. Parola chiave Modernizzazione "Modernizzazione" è un termine creato dalla sociologia e dalla scienza politica del '900 per designare quell'insieme di trasformazioni politiche, economiche e sociali che hanno avuto luogo nelle società occidentali negli ultimi due secoli (a partire, grosso modo, dalle grandi rivoluzioni politiche del '700 e dalla rivoluzione industriale inglese) e si sono successivamente verificate - o si stanno verificando, pur fra molte resistenze e contraddizioni - nella maggior parte del mondo. Nel linguaggio politico contemporaneo il concetto di modernizzazione tende a sostituirsi a quello di progresso [§parola chiave: Progresso] e a superarne la genericità mediante il riferimento a una serie di parametri "oggettivi". Sul piano politico, si ha modernizzazione quando l'autorità statale acquista autonomia dagli altri poteri (in particolare da quello religioso) e capacità di far rispettare le proprie decisioni; quando esistono leggi valide

per tutti; quando per la popolazione si verifica il passaggio dalla condizione di sudditi a quella di cittadini dotati, almeno in teoria, di uguali diritti. Sul piano economico, la modernizzazione è quel processo mediante il quale un sistema acquista razionalità ed efficienza e accresce la sua capacità di produrre beni e di soddisfare bisogni: in questo senso la modernizzazione coincide col passaggio da un'economia agricola a una economia industriale e si misura con indici quali il prodotto nazionale, il reddito procapite e, soprattutto, il tasso di sviluppo annuo. Sul piano sociale, la modernizzazione si identifica con una serie di processi tutti in qualche modo legati fra loro: la diffusione dell'istruzione, premessa essenziale per lo sviluppo della partecipazione politica e per la stessa crescita economica; l'urbanizzazione, conseguenza dello sviluppo industriale; l'aumento della mobilità geografica e sociale della popolazione; la rottura delle vecchie stratificazioni legate alla società tradizionale e la creazione di gerarchie basate non più, o non solo, sulla nascita, ma piuttosto sul merito individuale. Tutti i processi cui abbiamo accennato hanno, nella tradizione culturale occidentale, un valore implicitamente positivo; e il processo di modernizzazione nel suo complesso è considerato, in questo contesto, come un fenomeno auspicabile e in qualche misura necessario. Ma una simile prospettiva non è condivisa universalmente, né all'interno delle società industrializzate, né soprattutto in molti di quei paesi che oggi si definiscono "in via di sviluppo". Se alcuni di questi paesi hanno imboccato con decisione la strada dell'industrializzazione, cercando, con alterna fortuna, di imitare l'esempio del Giappone (o quello delle economie pianificate dell'Est europeo), in altri la modernizzazione è stata vista come una "occidentalizzazione" più o meno forzata, e ha provocato reazioni talora molto aspre, a sfondo nazionalistico o religiosotradizionalistico. Sommario Alla metà dell'800 gli Stati Uniti erano un paese in crescente espansione, benché attraversato da forti differenze tra le diverse zone: il NordEst industrializzato, il Sud agricolo e tradizionalista nelle cui grandi piantagioni lavoravano milioni di schiavi neri, gli Stati dell'Ovest con una popolazione di liberi agricoltori e di allevatori di bestiame. Le popolazioni dell'Ovest cominciarono intorno alla metà del secolo a stringere invece i loro rapporti con il NordEst. Lo scontro sull'estensione della schiavitù ai nuovi territori dell'Unione vide dunque una contrapposizione tra gli Stati dell'Ovest e del NordEst e quelli del Sud. Questa nuova dislocazione dei rapporti reciproci tra le varie zone del paese trovò riscontro nella crisi del Partito democratico

e nella nascita del Partito repubblicano (che faceva proprie sia le rivendicazioni protezionistiche degli industriali settentrionali sia le richieste di terre dei coloni dell'Ovest, e si qualificava in senso nettamente antischiavista). La vittoria del repubblicano Lincoln alle elezioni presidenziali del '60 fece precipitare il contrasto, provocando la secessione degli Stati del Sud. Era la guerra civile (1861-65), che - dopo i primi successi dei "confederati" - doveva concludersi con la vittoria degli "unionisti", superiori come popolazione e potenza economica. La liberazione degli schiavi fu uno dei portati più rilevanti della guerra, benché si riproducesse presto, per la popolazione nera, una situazione di segregazione di fatto. Superati i traumi della guerra civile, gli Stati Uniti vissero una stagione di intenso sviluppo economico e di grandi trasformazioni sociali, cui non fu estranea la continua crescita del flusso migratorio. Sul piano della politica estera, gli Stati Uniti - impegnati a proseguire la colonizzazione dell'Ovest e il consolidamento dell'espansione nei territori di recente acquisizione - si limitarono per tutto l'800 a una interpretazione difensiva della "dottrina Monroe", senza un grande coinvolgimento nelle vicende dell'emisfero meridionale del continente. Unica eccezione fu l'aiuto dato ai repubblicani messicani contro il tentativo di egemonia francese in Messico (1864-67). L'isolamento della Cina dal resto del mondo fu violentemente interrotto, alla metà dell'800, dalla pressione esercitata, dopo le due "guerre dell'oppio" (1839-42 e 1856-60), dagli Stati europei (soprattutto dall'Inghilterra), che imposero al paese l'apertura al commercio straniero. Diverse furono invece, in Giappone, le conseguenze dell'impatto con l'Occidente. Anche qui fu la costrizione a permettere, dopo i "trattati ineguali" del 1858, la penetrazione economica delle grandi potenze. Ma l'umiliazione subita spinse i grandi feudatari e i samurai a una rivolta contro lo shogun, che di fatto esercitava il potere di sovrano assoluto relegando l'imperatore a un ruolo puramente simbolico. La "restaurazione Meiji" (1868) si risolse in una modernizzazione accelerata dell'intera società giapponese: una "rivoluzione dall'alto" che coinvolse l'economia e la legislazione, il sistema politico e i rapporti sociali, e che consentì al Giappone di compiere in pochi anni la transizione dal feudalesimo allo Stato moderno. Bibliografia Fra le opere generali sugli Stati Uniti: R. Luraghi, Gli Stati Uniti, Utet, Torino 1974; A. Nevins H. S. Commager, Storia degli Stati Uniti, Einaudi,

Torino 1980; D. B. Davis D. H. Donald, Espansione e conflitto. Gli Stati Uniti dal 1820 al 1877, Il Mulino, Bologna 1987. Sul problema degli schiavi neri: E. D. Genovese, L'economia politica della schiavitù, Einaudi, Torino 1972. Sulla guerra di secessione, si vedano R. Luraghi, Storia della guerra civile americana, Einaudi, Torino 19764, nonché la raccolta di saggi a e. dello stesso Luraghi, La guerra civile americana, Il Mulino, Bologna 1978. Sulla penetrazione europea in Asia: J. Chesneaux, L'Asia orientale nell'età dell'imperialismo: Cina, Giappone, India e Sudest asiatico nei secoli XIX e XX, Einaudi, Torino 1969; G. Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia orientale. La penetrazione europea e la crisi delle società tradizionali in India, Cina e Giappone, Rizzoli, Milano 1977; M. Torri, Storia dell'India, Laterza, RomaBari 2000. Per la Cina: M. Sabattini P. Santangelo, Storia della Cina. Dalle origini alla fondazione della Repubblica, Laterza, RomaBari 1986; J. Chesneaux M. Bastid, La Cina, vol. I, Dalle guerre dell'oppio al conflitto francocinese (1840-1885), Einaudi, Torino 1974. Sul Giappone: E. O. Reischauer, Storia del Giappone, Rizzoli, Milano 1974; E. H. Norman, La nascita del Giappone moderno, Einaudi, Torino 1975 e la raccolta di testi curata da E Gatti, Il Giappone contemporaneo 1850-1970, Loescher, Torino 1976. Per una analisi comparativa dei processi di modernizzazione in Europa, Asia e America del Nord, vedi B. Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno, Einaudi, Torino 1969. 6. La seconda rivoluzione industriale. 6.1. Il capitalismo a una svolta: concentrazioni, protezionismo, imperialismo. Le trasformazioni dell'economia, La crisi del 1873 e il calo rallentamento dei ritmi di crescita, La crisi della libera Concentrazioni e monopoli, Il ruolo delle banche, Il finanziario", L'intervento statale, Il ritorno al protezionismo, Gran Bretagna, La corsa ai nuovi mercati.

dei prezzi, Il concorrenza, "capitalismo Il caso della

Negli ultimi trent'anni del secolo XIX il sistema dell'economia capitalistica subì una serie di trasformazioni di tale profondità e di tale portata da giustificare, in riferimento a questo periodo, l'uso del termine "seconda rivoluzione industriale". Si modificarono le tecniche produttive,

con la nascita di nuove branche dell'industria. Cambiarono i rapporti fra i vari settori della produzione e quelli fra i poteri statali e l'economia nel suo insieme. Cambiarono anche i rapporti economici internazionali e le gerarchie mondiali della potenza industriale: negli anni '90 la Gran Bretagna perse il suo tradizionale primato in alcuni settorichiave, dove fu superata per la prima volta da Germania e Stati Uniti. La nuova fase dell'economia ebbe inizio con una improvvisa crisi di sovrapproduzione che, scoppiata nel 1873, continuò a far sentire i suoi effetti nei due decenni successivi, caratterizzati da una prolungata caduta dei prezzi (il cui indice medio scese di circa un terzo fra il 1873 e il 1896). Ciò ha fatto sì che questa fase fosse impropriamente definita, già dai contemporanei, come grande depressione. In realtà la caduta dei prezzi fu, più che un sintomo di crisi, un prodotto delle trasformazioni organizzative e delle innovazioni tecnologiche che permisero di ridurre progressivamente i costi di produzione. Non vi fu dunque una vera e propria recessione, ma piuttosto un rallentamento dei ritmi di crescita globale: questo rallentamento fu più breve negli Stati Uniti e in Germania, dove lo sviluppo riprese impetuoso già dall'inizio degli anni '80, più prolungato in Gran Bretagna, dove il relativo ristagno si protrasse fino agli ultimi anni del secolo. In nessun paese, comunque, si registrarono sostanziali cadute negli indici della produzione industriale. Il volume degli scambi commerciali continuò a crescere ovunque. Il tenore di vita della popolazione nelle aree urbane non subì abbassamenti: al contrario, i lavoratori salariati si giovarono della diminuzione dei prezzi e riuscirono, grazie anche all'azione delle organizzazioni di classe, a difendere meglio che in passato il livello reale delle loro retribuzioni. Uno dei segni più vistosi della nuova stagione cominciata negli anni 70 fu il declino dei valori della libera concorrenza, che avevano largamente ispirato nel ventennio precedente le teorie degli economisti e le scelte dei governanti. Le nuove dimensioni assunte da un mercato internazionale dove diventava sempre più difficile farsi largo, le crescenti difficoltà create alle imprese dal regime di prezzi calanti, l'esigenza di aumentare continuamente gli investimenti spinsero gli imprenditori a cercare nuove soluzioni al di fuori dei canoni liberisti. Nacquero così le grandi consociazioni (holdings) per il controllo finanziario di diverse imprese; i consorzi (cartelli o pools) fra aziende dello stesso settore che si accordavano sulla produzione e sui prezzi; le vere e proprie concentrazioni (trusts) fra imprese prima indipendenti. Le concentrazioni potevano essere orizzontali, se riguardavano aziende operanti nel medesimo settore produttivo, verticali se coinvolgevano imprese interessate alle diverse fasi della lavorazione di un

prodotto: per esempio un'industria estrattiva, una siderurgica e una meccanica, come nel caso del grande complesso Krupp di Essen, in Germania, che impiegava, nel 1887, più di 20.000 addetti. Fenomeni di questo genere non erano nuovi nella storia del capitalismo industriale; ma ora assunsero dimensioni imponenti, soprattutto negli Stati Uniti e in Germania, fino a determinare in qualche caso un regime di monopolio. Negli Stati Uniti, già negli anni '80, un'unica compagnia, la Standard Oil di John Rockefeller, controllava il 90% della produzione petrolifera del paese. In Germania, nello stesso periodo, il settore elettrico era quasi interamente nelle mani del grande cartello SiemensAeg. Un ruolo decisivo, in questi processi, fu svolto dalle istituzioni finanziarie. Solo le grandi banche - o addirittura i gruppi di banche consociate - potevano assicurare gli imponenti e costanti flussi finanziari necessari alla nascita e alla crescita dei colossi della siderurgia e della meccanica, della chimica e dell'elettricità, per i quali i profitti, per quanto elevati, non erano sufficienti a ricostituire in tempi brevi il capitale di investimento. Fra banche e imprese si venne così a creare uno stretto rapporto di compenetrazione: le banche controllavano quote rilevanti dei pacchetti azionari delle industrie, ma d'altro canto i magnati dell'industria sedevano spesso nei consigli di amministrazione delle banche. Questo intreccio fra industria e finanza - definito dagli economisti marxisti col nome di "capitalismo finanziario" - divenne il luogo primario di formazione della disponibilità di capitale, il centro motore dell'intero sistema economico. Il tramonto dei princìpi liberisti si fece sentire fortemente anche nell'azione dei poteri pubblici. Condizionati dalla pressione crescente dei grandi gruppi di interesse (sia industriali sia agricoli), ma preoccupati anche, secondo una logica tipicamente nazionalistica, di favorire la produzione interna a scapito di quella dei paesi concorrenti, i governi delle grandi e piccole potenze vennero man mano allargando l'area dei loro interventi. Questi potevano prendere la forma del sostegno diretto alla grande industria, attuato per lo più mediante le commesse per le forze armate; ma soprattutto si esercitavano attraverso l'inasprimento delle tariffe doganali, volto a scoraggiare le importazioni e a proteggere in tal modo la produzione interna. Fu la Germania di Bismarck a indicare la strada varando, nel 1879, nuovi dazi fortemente protezionistici. Fu poi la volta della Russia (1881-82), dell'Italia (1887), della Francia (1892). Gli Stati Uniti, che anche nell'epoca del liberismo trionfante avevano mantenuto tariffe relativamente alte, le aumentarono ulteriormente nel 1890.

Solo la Gran Bretagna, patria del liberoscambismo e primo paese esportatore del mondo, restò estranea alla tendenza generale, ma ne fu doppiamente danneggiata, in quanto vide ridursi gli sbocchi di mercato per le sue merci e dovette assistere allo sviluppo delle industrie nei paesi concorrenti, all'ombra delle barriere doganali. Nell'ultimo decennio del secolo, le industrie tedesche e statunitensi riuscirono a superare quelle inglesi nella produzione di acciaio e si assicurarono un vantaggio decisivo in settori nuovi e strategicamente importanti come il chimico e l'elettrico. Fra il 1880 e il 1914 la partecipazione britannica al commercio mondiale diminuì, in percentuale, di circa la metà (passando dal 25 al 12% circa). Alla perdita del primato industriale e alla riduzione dei suoi spazi commerciali in Europa la Gran Bretagna reagì rinsaldando e ampliando il suo già vasto impero d'oltremare e intensificando gli scambi con le colonie. La ricerca di nuovi mercati per i propri prodotti, di nuovi rifornimenti di materie prime fuori dalle aree industrializzate, di nuovi sbocchi per l'investimento di capitali fu del resto comune, in questo periodo, a tutte le economie più avanzate. Soprattutto nell'ultimo ventennio del secolo - come vedremo nel prossimo capitolo - la corsa ai nuovi mercati assunse proporzioni macroscopiche: tanto da costituire uno dei tratti distintivi di quella fase della storia del capitalismo cominciata negli anni '70 e ancora oggi comunemente identificata con l""età dell'imperialismo". Parola chiave Liberismo/Protezionismo "Liberismo" è quella dottrina che affida al mercato - e solo al mercato - il compito di regolare l'attività economica, che si oppone all'intervento dello Stato nel mondo della produzione e del commercio, che sostiene il principio del libero scambio nei traffici fra paese e paese. In quest'ultimo senso il liberismo si oppone al "protezionismo": ossia a quella pratica che tende a proteggere la produzione nazionale imponendo sui prodotti di importazione dazi doganali così elevati da scoraggiarne l'acquisto. Al contrario del protezionismo - che è solo una prassi adottabile, e adottata, da regimi diversi per motivazioni diverse - il liberismo è anche un'ideologia a sfondo ottimistico che ha il suo fondamento nelle teorie di Adam Smith. Un'ideologia che vede nella libertà economica non solo il mezzo più sicuro per ottenere il maggior benessere possibile per l'intera collettività (attraverso il perseguimento del benessere privato da parte dei singoli soggetti), ma anche il complemento indispensabile della libertà politica. Il momento di maggior fortuna del liberismo si può collocare attorno alla metà del secolo XIX: in particolare nel periodo che seguì

l'abolizione del dazio sul grano in Gran Bretagna (1846). In questo periodo il liberismo fu, non solo in Inghilterra, l'ideologia delle correnti progressiste (che vedevano in esso anche un mezzo per sconfiggere i privilegi dell'aristocrazia terriera); e finì quasi con l'identificarsi col liberalismo politico. Successivamente, a partire dagli anni '70 dell'800, le fortune del liberismo andarono declinando in tutti i paesi, salvo che in Gran Bretagna. Negli ultimi decenni del secolo, si assisté ovunque all'imposizione di elevati dazi protezionistici e, più in generale, a un intervento crescente dei poteri pubblici nelle vicende economiche (sotto forma sia di leggi sociali, sia di provvedimenti a favore di singoli comparti produttivi). Nel corso del XX secolo, l'intervento statale si è andato continuamente sviluppando in quantità e in qualità, anche all'interno dei sistemi economici fondati sulla proprietà privata e sulla libera impresa. Soprattutto negli anni della "grande depressione" seguita alla crisi del '29, l'era del laissezfaire sembrò definitivamente conclusa. Tuttavia, anche nel '900, le teorie liberiste hanno trovato numerosi e autorevoli sostenitori, soprattutto fra gli economisti. Fra gli studiosi formatisi alla fine dell'800, è il caso di ricordare Luigi Einaudi, che diede vita negli anni '30 a una celebre polemica con Benedetto Croce, postulando un inscindibile legame fra liberismo economico e liberalismo politico (legame che Croce contestava). Nel secondo dopoguerra, il liberismo ha conosciuto una fase di rilancio, grazie anche alle opere di economisti come Friedrich Hayek e Milton Friedman. Alle loro teorie si sono in parte ispirate le politiche "neoliberiste" affermatesi verso la fine degli anni '70 come reazione alla crisi dello "Stato sociale" e applicate nei decenni successivi soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. 6.2. La crisi agraria e le sue conseguenze. I progressi tecnici in agricoltura, Le aree arretrate, La caduta dei prezzi agricoli, L'aumento della conflittualità nelle campagne, L'emigrazione, Il protezionismo agrario, Il declino delle attività agricole. Il settore dell'economia europea in cui la caduta dei prezzi si fece sentire con maggiore intensità e con effetti più drammatici fu senza dubbio quello agricolo. Negli ultimi decenni dell'800 l'agricoltura europea realizzò importanti progressi tecnici. L'uso sempre più diffuso dei concimi chimici (fosfati e nitrati di origine minerale, ma anche scorie ricavate dalle lavorazioni industriali); i primi parziali esperimenti di meccanizzazione, applicati soprattutto alla cerealicoltura mediante l'impiego di mietitrici e

trebbiatrici a trazione animale (l'uso del vapore, dell'elettricità e del motore a scoppio si sarebbe affermato solo col nuovo secolo); l'estensione delle opere di bonifica e di irrigazione resa possibile dai progressi dell'ingegneria idraulica; l'introduzione di nuove colture (come la barbabietola da zucchero, diffusa soprattutto nell'Europa centrale) e di nuovi, più perfezionati sistemi di rotazione: tutto ciò consentì di accrescere la superficie coltivabile e di aumentare i rendimenti dei terreni. Questi progressi interessarono, però, solo determinati paesi e determinate aree geografiche: l'Inghilterra, che aveva attuato con largo anticipo sugli altri paesi la sua rivoluzione agricola, la Germania, che conquistò in questo periodo un'indiscussa supremazia in Europa nel campo delle innovazioni tecniche applicate all'agricoltura, il Belgio, i Paesi Bassi, la Danimarca e, in minor misura, la Francia, i paesi scandinavi e alcune regioni dell'Italia settentrionale, dell'Austria e della Boemia. In quasi tutta l'Europa orientale e in buona parte dell'area mediterranea la situazione era molto diversa: la persistenza del latifondo di origine feudale e delle antiche gerarchie sociali e la povertà dei coltivatori indipendenti costituivano ostacoli insuperabili per l'innovazione tecnologica e per gli investimenti sulla terra, redditizi solo sui tempi lunghi. Quelle che venivano comunemente praticate erano colture estensive, basate essenzialmente sullo sfruttamento del lavoro umano. L'attrezzatura del contadino - la zappa, la vanga e la falce per le braccia dell'uomo; l'aratro, l'erpice e il carro per gli animali da tiro - non era molto diversa da quella di mille o duemila anni prima, salvo che per un maggior impiego degli elementi in ferro e, più tardi, in acciaio. L'agricoltura europea restava, dunque, frenata da questi colossali squilibri: per avere un'idea del divario si pensi che, negli anni 70, i rendimenti medi delle terre coltivate a grano andavano dai circa 20 quintali per ettaro dell'Inghilterra ai 6-7 della Russia e delle zone mediterranee più povere. Negli Stati Uniti - in particolare nei territori dell'Ovest e del Midwest - si andava invece sviluppando una nuova agricoltura: qui la vasta disponibilità di terre ricche da dissodare si accompagnava all'adozione di tecniche avanzate e anche il piccolo coltivatore indipendente poteva affrontare - grazie al basso prezzo di acquisto della terra e alla relativa facilità di accesso al credito - il rischio dell'investimento. Quando i progressi della navigazione a vapore, determinando un notevole abbassamento dei costi di trasporto, consentirono ai prodotti dell'agricoltura nordamericana - che avevano prezzi competitivi - di raggiungere i mercati del vecchio continente, tutta l'agricoltura europea, in particolare quella più arretrata, ne ricevette un colpo durissimo. A partire dagli anni 79-80, i prezzi dei prodotti agricoli calarono bruscamente il che, se avvantaggiò i

consumatori delle città, provocò il declino o la rovina di molte aziende agricole piccole e grandi: e quindi disoccupazione, fame, miseria crescente nelle campagne. Conseguenze immediate della crisi furono, da un lato, l'aumento delle tensioni sociali entro il mondo rurale (si assisté in questo periodo a una forte crescita della conflittualità e alla penetrazione di ideologie rivoluzionarie fra i lavoratori della terra); dall'altro, l'intensificazione dei movimenti migratori verso le aree industriali e verso i paesi d'oltreoceano, soprattutto verso l'America del Nord. Il flusso degli emigranti dall'Europa, che si era mantenuto intorno alle 300.000 partenze all'anno fra il 1845 e il 1875, raggiunse le 500.000 unità annue intorno all'80, per superare le 800.000 alla fine del decennio e per sfondare infine il tetto del milione nei primi anni del '900. Mutò anche, progressivamente, la provenienza geografica degli emigranti: fino a circa il 1880 erano stati in prevalenza inglesi, irlandesi, tedeschi e scandinavi. Alla fine del secolo erano per due terzi originari di paesi latini e slavi; qui, infatti, le conseguenze della crisi agraria si erano fatte sentire più pesantemente e minori erano le capacità di assorbimento di manodopera da parte dell'industria e del terziario. In questi paesi l'emigrazione servì certamente come valvola di sfogo per le accresciute tensioni sociali. Nello stesso tempo, riducendo l'eccedenza di manodopera, diede maggior forza contrattuale ai lavoratori della terra e alle organizzazioni di classe che si andavano costituendo nelle campagne. Fu anche per far fronte alle conseguenze della crisi agraria e per andare incontro alle pressioni dei grandi proprietari, e degli agricoltori in genere, che i governi europei finirono per imboccare la strada del protezionismo. Tutte le nuove tariffe adottate dai vari Stati stabilivano dazi elevati per numerosi prodotti agricoli, in particolare per i cereali. Questi interventi riuscirono a tamponare parzialmente gli effetti della crisi, tenendo in vita molte aziende che altrimenti sarebbero state inevitabilmente messe fuori mercato, ma ebbero costi economici e sociali molto elevati. L'aumento dei prezzi dei cereali danneggiò la massa dei consumatori e rese meno impellenti l'ammodernamento delle tecniche agricole e la diversificazione delle colture. I dazi doganali non impedirono, inoltre, un generale declino del settore agricolo nel complesso dell'economia europea. Negli ultimi due decenni del secolo, la quota dell'agricoltura nella formazione del prodotto interno diminuì, più o meno rapidamente, in tutti i paesi industrializzati; e diminuì parallelamente la percentuale degli addetti all'agricoltura sulla popolazione attiva.

6.3. Scienza e tecnologia. Le scoperte scientifiche, Scienza, tecnologia e industria. Negli anni fra il 1870 e il 1900 fecero la loro prima apparizione una serie di strumenti, di macchine, di oggetti d'uso domestico che sarebbero poi diventati parte integrante della nostra vita quotidiana: la lampadina e l'ascensore elettrico, il motore a scoppio e i pneumatici, il telefono e il grammofono, la macchina da scrivere e la bicicletta, il tram elettrico e l'automobile, per ricordare solo i più importanti. È stato soprattutto a questo proposito che si è parlato di seconda rivoluzione industriale: una rivoluzione che fu forse meno radicale della prima quanto alle conseguenze di lungo periodo, ma che certo fece sentire i suoi effetti su un'area più vasta ed ebbe una diffusione più capillare, mutando le abitudini, i comportamenti, i modelli di consumo di centinaia di milioni di uomini. Alla base di questa nuova rivoluzione c'erano i progressi realizzati dalle scienze fisiche e chimiche lungo tutto il corso dell'800, e soprattutto negli anni '50 e '60, gli anni del trionfo della scienza e della cultura positiva. Negli ultimi decenni del secolo il flusso delle scoperte e delle invenzioni non accennò ad arrestarsi: basterà qui ricordare - oltre alle molte altre di cui si dirà più avanti - le scoperte di Hertz sulle onde elettromagnetiche (1885), da cui ebbero origine, negli ultimi anni dell'800, i primi esperimenti di telegrafia senza fili di Guglielmo Marconi, e quelle di Rontgen sui raggi X (1895). Ma la vera novità di questo periodo non consistette tanto nelle conquiste della scienza, quanto nell'applicazione su sempre più larga scala delle scoperte (recenti o meno recenti) ai vari rami dell'industria, nel legame sempre più stretto che si venne a creare fra scienza e tecnologia e fra tecnologia e mondo della produzione. Mentre la prima rivoluzione industriale aveva avuto per protagonisti imprenditori e dilettanti di genio, spiriti eminentemente pratici spesso sprovvisti di una seria preparazione teorica, la seconda impegnò in larga misura le energie del mondo scientifico. Scienziati di grande prestigio misero i loro studi a disposizione dell'industria, che applicò in modo sistematico i risultati delle loro scoperte e ne moltiplicò immediatamente gli effetti pratici. Ingegneri, biologi, chimici e fisici divennero titolari o contitolari di imprese: nomi come Edison, Siemens, Bell, Dunlop, Bayer - nomi di scienziati e inventori ancor oggi associati indissolubilmente a marchi industriali - bastano a ricordarci quanto stretti fossero diventati alla fine dell'800 i rapporti fra scienza ed economia.

6.4. Le nuove industrie. Le industrie "giovani", L'acciaio, L'ingegneria civile, Gli sviluppi della chimica, I prodotti "intermedi", Nuove applicazioni della chimica, La conservazione degli alimenti. Nessun settore produttivo rimase estraneo all'ondata di rinnovamento tecnologico degli ultimi decenni dell'800. Ma gli sviluppi più interessanti si concentrarono in industrie relativamente "giovani", come la chimica o come quel particolare ramo della metallurgia dedito alla produzione dell'acciaio. Furono questi settori - assieme a un altro completamente nuovo come l'elettrico - a svolgere nella seconda rivoluzione industriale quel ruolo trainante che cent'anni prima, in Inghilterra, era stato svolto dall'industria del cotone e poi da quella meccanica. L'impiego su vastissima scala dell'acciaio fu certamente uno dei tratti distintivi della nuova epoca. L'acciaio è una particolare lega di ferro e carbonio (in un certo senso lo si può considerare una varietà pregiata del ferro) che unisce in misura ottimale i vantaggi dell'elasticità con quelli della robustezza. I suoi pregi erano conosciuti da tempo, ma gli elevati costi di produzione ne avevano limitato l'uso alle lame, alle armi da fuoco e agli strumenti di precisione. Con l'impiego di nuove tecniche di fabbricazione il metodo Bessemer e il forno MartinSiemens, sperimentati già negli anni '50 e '60, quindi il procedimento GilchristThomas, introdotto nel 1879 - fu possibile produrne grandi quantità a costi relativamente modesti. Da allora l'acciaio vide crescere la sua produzione a ritmi rapidissimi (fra il 1870 e il 1913 il consumo mondiale aumentò di circa ottanta volte) e trovò infinite applicazioni nei campi più svariati. Fu usato per le rotaie delle ferrovie, al posto del ferro, e per le corazze delle navi da guerra, per gli utensili domestici e per le macchine industriali, che divennero più leggere, precise e potenti (dando così una spinta decisiva ai processi di meccanizzazione). Ma fornì anche le strutture che resero possibile la costruzione di grandi edifici e di grandi ponti, ancor prima che, nel 1892, fosse introdotto nell'ingegneria civile l'uso del cemento armato (ossia del calcestruzzo rinforzato da sbarre di ferro). Il primo palazzo con strutture in acciaio, il Tower Building di New York, alto dieci piani, fu costruito nel 1889. Nello stesso anno, in occasione dell'Esposizione universale di Parigi, l'ingegnere francese Alexandre Eiffel realizzò una torre alta 300 metri e pesante 8000 tonnellate, destinata a diventare il simbolo più celebre dell'età dell'acciaio.

Non meno importanti, anche per i loro effetti "indotti", furono in questo periodo gli sviluppi della chimica. Industria multiforme e versatile più di ogni altra, la chimica abbracciava una grandissima varietà di produzioni: dalla carta al vetro, dai medicinali ai concimi, dai saponi ai coloranti, dagli esplosivi al cemento, dalla gomma alla ceramica. La stessa metallurgia, nel momento in cui usava procedimenti chimici per combinare o separare diversi elementi, poteva essere considerata una branca della chimica applicata. Fu, ad esempio, un processo chimico che, nel 1886, permise di ricavare l'alluminio dalla bauxite, trasformando quello che fin allora era stato un metallo prezioso in un utile sostituto del ferro e dell'acciaio. I progressi della chimica furono dunque legati a quelli di tutti gli altri settori da un reciproco nesso di causa e di effetto: furono componente essenziale del nuovo sviluppo industriale e da esso furono a loro volta potentemente stimolati. La crescita delle nuove industrie fece aumentare soprattutto la domanda di prodotti "intermedi", destinati cioè a essere impiegati come reagenti chimici in altre lavorazioni. Il più diffuso di questi prodotti era l'acido solforico, che entrava nella preparazione dei concimi, degli esplosivi, dei coloranti e anche, più tardi, nella raffinazione del petrolio. Altrettanto importante era la soda, usata soprattutto come detergente e come sbiancante, ma impiegata anche nella fabbricazione del vetro e nella siderurgia. La produzione di soda, piuttosto elevata già dalla fine del '700, fece registrare un ulteriore boom all'inizio degli anni '70, quando fu introdotto il nuovo metodo Solvay, che consentiva di ridurne notevolmente i costi. Produzioni come quelle della soda e dell'acido solforico costituirono la base per lo sviluppo dell'industria chimica, che venne man mano allargando e diversificando l'area delle sue specializzazioni, sotto la spinta incessante di nuove scoperte e invenzioni. Intorno al 1870 fu sperimentata perla prima volta, in Inghilterra e soprattutto in Germania, la lavorazione dei coloranti artificiali, i cui princìpi furono alla base di molti successivi sviluppi della chimica organica. Nel 1875 un chimico svedese, Alfred" Nobel, depositò il brevetto della dinamite. Nel 1888 l'invenzione dello pneumatico da parte dello scozzese Robert Dunlop aprì nuovi orizzonti all'industria della gomma. Fra l'89 e il '92, furono realizzate in Francia e in Inghilterra le prime fibre tessili artificiali, derivate dalla cellulosa. Strettamente legato ai progressi della chimica fu lo sviluppo di due settori destinati a occupare un posto fondamentale nella vita del XX secolo: quello farmaceutico [§6.6] e quello alimentare. Per l'industria alimentare la svolta fu rappresentata da un lato dall'invenzione di nuovi metodi per la

sterilizzazione, la conservazione e l'inscatolamento dei cibi, dall'altro dallo sviluppo delle tecniche di refrigerazione. La diffusione degli alimenti in scatola (più rapida negli Stati Uniti, molto più lenta in Europa) e la costruzione dei vagoni (in America alla fine degli anni '60) e delle celle frigorifere rappresentarono un'autentica rivoluzione nell'ambito della più generale rivoluzione dei trasporti. Per tutto l'Occidente industrializzato, la possibilità di conservare cibi deperibili e di trasportarli a grande distanza dai luoghi di produzione significava la fine delle mille incertezze legate all'andamento dei raccolti, la liberazione definitiva dall'incubo delle carestie. 6.5. Motori a scoppio ed elettricità. Il motore a scoppio, Le prime automobili, Il petrolio, L'elettricità, Dinamo, batterie, motori elettrici, La lampadina di Edison, L'illuminazione pubblica, Le centrali idroelettriche, Il telefono, il grammofono, il cinema. Se la prima rivoluzione industriale si era fondata essenzialmente su un tipo di macchina, quella a vapore, e su una fonte di energia, il carbon fossile, la seconda fu caratterizzata dall'invenzione del motore a scoppio (o a combustione interna) e dall'utilizzazione sempre più larga dell'elettricità. Il motore a combustione interna - quello in cui è lo stesso combustibile a fornire la spinta motrice bruciando ed espandendosi in uno spazio limitato fu il risultato di una lunga serie di studi e di esperimenti che videro impegnati, fin dagli anni '50, scienziati di diversi paesi: gli italiani Barsanti e Matteucci, il francese Lenoir, l'inglese Clerk, il tedesco Nikolaus Otto che, nel 1876, costruì un motore a quattro tempi capace di unire un rendimento molto elevato a una relativa silenziosità. Si dovettero attendere altri nove anni prima che due ingegneri tedeschi, Gottlieb Daimler e Carl Friedrich Benz, riuscissero, separatamente, a montare dei motori a scoppio - più potenti e meno ingombranti di quelli a vapore su autoveicoli a ruote, realizzando così, nel 1885, le prime automobili. Il combustibile usato era un distillato del petrolio che prese poi il nome di benzina. Nel 1897, un altro ingegnere tedesco, Rudolf Diesel, inventò il motore a nafta che porta ancora il suo nome. Gli esordi dell'automobile furono lenti e avventurosi. Solo all'inizio del '900 si cominciarono a produrre autovetture a motore sufficientemente veloci e affidabili. E solo negli anni intorno alla prima guerra mondiale fu compiuto - prima negli Stati Uniti, poi in Europa - il salto decisivo verso la produzione in serie. Questo sviluppo limitato fu tuttavia sufficiente a dare un impulso decisivo all'estrazione del petrolio,

soprattutto nel Nord America dove, alla fine dell'800, era concentrata la metà della produzione mondiale. La diffusione dei prodotti petroliferi, usati anche come lubrificanti e come combustibili da riscaldamento e da illuminazione, era però ostacolata dagli alti costi di produzione: il prezzo del petrolio era dalle cinque alle dieci volte più alto di quello del carbone, che rimaneva - e sarebbe rimasto per buona parte del '900 - il combustibile di gran lunga più diffuso. Alla fine del secolo XIX, molti pensarono che il primato del carbone e della macchina a vapore sarebbe stato presto soppiantato da una nuova e rivoluzionaria forma di energia: l'elettricità. L'elettricità - che non è a rigore una fonte di energia, ma piuttosto una forma di distribuzione dell'energia prodotta da altre fonti primarie, come il vapore o l'acqua in movimento - era oggetto di studio da oltre un secolo. I primi apparecchi elettrici (la pila di Volta, il motore sperimentale di faraday) risalivano ai primi decenni dell'800: ma si trattava ancora di curiosità scientifiche, non suscettibili di applicazioni pratiche estese. La prima applicazione su vasta scala si ebbe negli anni '40 e '50 con lo sviluppo della telegrafia via filo. Fra il 1860 e il 1880, grazie alle scoperte quasi contemporanee di numerosi scienziati (il belga Gramme, i francesi Plante e Faure, il tedesco Siemens, lo statunitense Edison, l'italiano Pacinotti), fu possibile realizzare congegni in grado di trasformare il movimento di un corpo entro un campo magnetico in corrente elettrica (dinamo e generatori), di immagazzinarla (batterie o accumulatori), di trasmetterla e distribuirla a grandi distanze, di utilizzarla per l'illuminazione o il riscaldamento o di ritrasformarla in movimento (motori elettrici). L'invenzione decisiva per lo sviluppo dell'industria elettrica fu la lampadina a filamento incandescente, ideata da ThomasAlva Edison nel 1879. Per la prima volta - ha scritto lo storico americano David S. Landes l'elettricità forniva qualcosa di utile non solo all'industria o al commercio o al palcoscenico, ma ad ogni famiglia. [...] Adesso esisteva una domanda di dimensioni globali incalcolabili, e tuttavia atomizzata in una moltitudine di bisogni individuali, che poteva essere soddisfatta soltanto da un sistema centralizzato di generazione e distribuzione dell'energia. Nacquero così, all'inizio degli anni '80, in Inghilterra, in Francia, in Germania, negli Stati Uniti e anche in Italia, le prime grandi centrali termiche (azionate cioè da motori a vapore), capaci di fornire energia elettrica a interi quartieri urbani e destinate soprattutto all'illuminazione privata. Più lenta fu l'affermazione dell'elettricità come mezzo di illuminazione pubblica: ai primi del '900, le principali città europee erano

ancora illuminate con lampade a gas. A partire dalla fine del secolo, l'energia elettrica cominciò a essere usata anche per i mezzi di trasporto (tramvie e, più tardi, ferrovie) e per gli usi industriali: essa fornì alle fabbriche una forza motrice più comoda e flessibile di quante se ne conoscessero e rese possibili nuove lavorazioni nella chimica e nella metallurgia. Di fronte alla richiesta sempre crescente di energia elettrica, si faceva strada frattanto l'idea di ricorrere per la produzione di corrente, anziché alle macchine a vapore, all'energia idrica: cioè a quella forma di energia, ben conosciuta fin dagli albori della storia dell'industria, che sfrutta il movimento o la caduta - naturale o artificiale - dei corsi d'acqua. La costruzione di centrali idroelettriche ebbe impulso, nell'ultimo decennio del secolo, soprattutto in quei paesi, come l'Italia del Nord, che erano poveri di carbone ma ricchi di bacini idrici. Parve anzi che in questi paesi il "carbone bianco" prodotto dalle centrali idroelettriche potesse fornire le basi per una futura autosufficienza energetica. Questi obiettivi si rivelarono presto troppo ambiziosi. Resta comunque il fatto che, in tutti i paesi, lo sviluppo del settore elettrico svolse un ruolo di primo piano nella modernizzazione dell'economia ed ebbe sull'intera società effetti non inferiori a quelli provocati dai contemporanei progressi della metallurgia e della chimica: basti pensare all'illuminazione domestica e ai trasporti urbani. Sempre legate all'elettricità furono altre novità non meno rivoluzionarie, anche se dotate di minore incidenza immediata sulla vita quotidiana delle masse: il telefono, inventato nel 1871 dall'italiano Antonio Meucci e perfezionato pochi anni dopo in America dallo scozzese Alexander Graham Bell; il grammofono, ideato da Edison nel 1876; e infine il cinematografo, sperimentato per la prima volta in Francia nel 1895 dai fratelli Louis e Auguste Lumière. Queste invenzioni erano destinate a produrre i loro effetti soprattutto nel nuovo secolo. Ma, già al loro apparire, fecero intravedere la possibilità di nuovi e fin allora imprevedibili sviluppi nel campo delle comunicazioni, e anche di nuovi linguaggi e di nuove forme di espressione artistica. 6.6. Le nuove frontiere della medicina. La trasformazione scientifica della medicina, Le teorie igieniste e le loro applicazioni, La scoperta dei microrganismi, Gli studi sulle cellule, I nuovi farmaci, I nuovi ospedali.

Negli ultimi decenni del secolo XIX, sotto l'impulso della cultura scientifica positivistica e delle trasformazioni sociali legate all'industrializzazione e all'urbanesimo, anche la medicina subì un'evoluzione profonda. Ancora alla metà dell'800, la cura e l'idea stessa della malattia si basavano su un singolare intreccio di empirismo e di superstizione, di tradizione popolare e di ignoranza diffusa anche all'interno della categoria medica. Il tutto era aggravato dalle condizioni delle strutture ospedaliere, che spesso erano le stesse di tre o quattro secoli prima e che costituivano dei ricoveri indifferenziati per i poveri, gli incurabili e i trovatelli. La trasformazione scientifica della medicina si fondò su quattro cardini fondamentali: 1) la diffusione delle pratiche igieniste e la conseguente adozione di efficaci strategie di prevenzione e contenimento delle malattie epidemiche; 2) lo sviluppo della microscopia ottica, che consentì di identificare i microrganismi responsabili di alcune malattie infettive; 3) i progressi della chimica, in particolare della farmacologia, che permise la sintesi e l'estrazione di numerose sostanze in grado di modificare il corso naturale della malattia; 4) la nuova ingegneria sanitaria, che rese possibile, con la costruzione dei grandi "policlinici", l'osservazione sistematica del malato. Le teorie igieniste - che cercavano le cause delle malattie, e i mezzi per prevenirle, non tanto nei singoli individui quanto nell'ambiente in cui essi vivevano e nei loro rapporti reciproci - furono avanzate per la prima volta in Francia già negli anni '20 dell'800, ma si affermarono in tutta Europa solo negli ultimi decenni del secolo. Partendo da osservazioni empiriche e dati statistici inoppugnabili e proponendo una serie di interventi dimostratisi poi efficaci (la canalizzazione delle acque di scarico, la lotta contro il sovraffollamento nelle abitazioni, la rigida circoscrizione dei focolai di epidemie), gli igienisti riuscirono a diffondere alcune pratiche preventive e a imporle - nonostante l'ostilità di gran parte della medicina "accademica" all'attenzione dei poteri pubblici. Fu il caso dell'italiano Luigi Pagliani, titolare della prima cattedra di igiene istituita in Italia, che, chiamato nel 1886 a guidare la nuova Direzione di sanità presso il ministero degli Interni, riscosse notevoli successi nella lotta contro il colera nel Mezzogiorno e in Sicilia. Il successo della proposta igienista - che privilegiava l'aspetto sociale rispetto a quello individuale, il momento della prevenzione rispetto a quello della cura della malattia - si accompagnò, e per certi aspetti si contrappose, a quel fondamentale evento scientifico che fu l'identificazione, da parte del

francese Louis Pasteur e del tedesco Robert Koch, dei microrganismi come agenti causali della peste, del colera e della tubercolosi. Una scoperta che, sottolineando la necessaria presenza dei germi nella genesi delle malattie infettive, dimostrava come le condizioni ambientali non fossero di per sé sufficienti a provocare l'insorgere del male e che fu usata da molti medici per svalutare l'importanza dei fattori igienici. A mettere l'accento sui fattori individuali contribuirono anche gli studi microscopici del patologo tedesco RudolfVirchow, che riconducevano l'origine delle malattie alle alterazioni delle cellule e dei tessuti. Un'ulteriore e decisiva spinta ai progressi della medicina curativa venne, sempre nella seconda metà dell'800, dalle scoperte della chimica, che consentirono l'isolamento di una serie di sostanze e la sintesi di numerosi composti, dimostratisi - in seguito a ricerche specifiche, ma anche a scoperte fortuite - capaci di agire sui processi fisiologici. Già nel 1846, la scoperta degli effetti dell'etere dietilico sul sistema nervoso aveva aperto la strada alla pratica dell'anestesia chirurgica. Nel 1857 fu sintetizzato il bromuro, impiegato nel trattamento dell'epilessia e in genere come calmante. Nel 1860 fu la volta dell'acido acetilsalicilico, che più tardi (dal 1875) avrebbe costituito la base della più diffusa fra le medicine dei nostri tempi, l'aspirina. Negli ultimi due decenni del secolo furono estratti i princìpi attivi della digitale e dello strofanto, destinati a diventare la pietra angolare nel trattamento dello scompenso cardiaco. Furono inoltre identificate ed estratte numerose sostanze già presenti nell'organismo umano: come l'acetilcolina, che rallenta la frequenza cardiaca, e l'adrenalina, che invece la accelera. Al 1875 risale la sintesi del diclorodifeniltricloroetano (meglio noto come Ddt): un potente insetticida che consentì progressi decisivi nella lotta contro la malaria. Grazie a scoperte come queste, si sviluppò rapidamente una nuova industria farmaceutica, le cui fortune coincisero in molti casi con le fortune personali di celebri ricercatori come i tedeschi Bayer e Merck. La radicale trasformazione delle terapie andò di pari passo con la contemporanea evoluzione subita dai luoghi fisici della cura, cioè dagli ospedali. Le nuove strutture realizzate in Europa negli ultimi decenni del secolo si basavano su un'organizzazione razionale dello spazio, sulla suddivisione dei pazienti in reparti specializzati per classi di malattie e sul rispetto delle più essenziali norme igieniche. 6.7. Il boom demografico.

Progressi della medicina e allungamento della vita, La crescita della popolazione in Europa e in Nord America, Il calo della natalità, I continenti extraeuropei. La rivoluzione tecnologica dell'ultimo trentennio del secolo XIX non si limitò a cambiare quella che oggi chiameremmo la "qualità" della vita degli abitanti dei paesi economicamente più avanzati, ma ne allungò considerevolmente la durata media. Il boom demografico dell'Europa e del Nord America era cominciato in coincidenza con la rivoluzione industriale e con l'introduzione di nuove tecniche agricole. A partire dalla seconda metà dell'800, i progressi della medicina e dell'igiene, assieme agli sviluppi dell'industria alimentare, determinarono un ulteriore aumento della popolazione. I grandi fattori che nei secoli precedenti avevano inciso negativamente sull'andamento demografico - epidemie e carestie sembravano ormai definitivamente eliminati, nonostante alcuni episodi significativi ma marginali che ancora colpivano le aree più depresse (come il colera a Napoli e a Palermo nel 1884-85). La vita media dell'uomo europeo, che era di 30-35 anni prima della rivoluzione industriale e di circa 40 verso la metà dell'800, poté quindi salire a 50 anni alla fine del secolo. La popolazione del vecchio continente, che fra il 1800 e il 1850 era passata da 190 a 270 milioni, raggiunse nel 1900 i 425 milioni: l'aumento fu dunque di quasi il 60% in cinquant'anni, senza contare i circa 30 milioni di individui che avevano abbandonato l'Europa e si erano in buona parte trasferiti nel Nord America: dove l'immigrazione, sommandosi all'incremento naturale della popolazione, fece quasi quadruplicare il numero degli abitanti (da poco più di 20 milioni nel 1850 a quasi 80 nel 1900). Questo vistoso aumento della popolazione - fondato su incrementi annuì non particolarmente elevati, ma costanti e protratti nel tempo - fu tanto più notevole in quanto era dovuto essenzialmente alla caduta della mortalità ed era accompagnato da una progressiva riduzione della natalità. La tendenza al calo delle nascite, per effetto del controllo della fecondità e della diffusione di metodi contraccettivi, si manifestò precocemente in Francia alla fine del XVIII secolo (anche in conseguenza degli sconvolgimenti economici, sociali e culturali portati dalla rivoluzione dell'89) e si diffuse in seguito in tutto l'Occidente. Questo comportamento demografico, proprio dei paesi economicamente più avanzati, esprimeva un nuovo atteggiamento nei confronti della vita dei figli: un atteggiamento svincolato da presunte "leggi naturali", meno soggetto al tradizionale controllo delle norme

religiose e orientato invece a programmare razionalmente la famiglia e il suo futuro. Agli inizi dell'età industriale i principali paesi europei avevano un tasso di natalità medio che si aggirava intorno al 35% (ossia 35 nati per anno su mille abitanti). Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900, in Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti, il tasso scese sotto il 30%, cioè sotto quella che i demografi considerano come la soglia critica per distinguere i paesi a bassa da quelli ad alta fecondità. In Francia la natalità era inferiore al 30% già nel decennio 1830-39. In Italia e in altri paesi mediterranei, ancora alla fine dell'800, il tasso si manteneva invece ben al di sopra del 35%: sarebbe sceso sotto il 30 solo negli anni '20 del '900. Per quanto riguarda l'Asia e l'Africa, anch'esse conobbero nella seconda metà del secolo XIX, nonostante il permanere di alti tassi di mortalità, un incremento della popolazione abbastanza consistente (rispettivamente del 30 e del 20%), anche se molto più limitato di quello dell'Europa. Il rapporto fra la crescita demografica delle aree industrializzate e quella dei paesi non ancora toccati dalla modernizzazione avrebbe cominciato a invertirsi solo con l'inizio del '900. Sommario L'ultimo trentennio dell'800 vide una profonda trasformazione economica ("seconda rivoluzione industriale"). La crisi di sovrapproduzione del 1873 dette inizio a una fase di rallentamento dello sviluppo durata oltre un ventennio. La prolungata caduta dei prezzi che le si accompagnò era però conseguenza soprattutto di profonde trasformazioni organizzative e innovazioni tecnologiche. Vari fattori - tra cui la diminuzione dei prezzi e l'acuirsi della concorrenza internazionale - portarono allo sviluppo delle grandi concentrazioni produttive e finanziarie e a una stretta compenetrazione tra banche e industrie. Si affermava contemporaneamente nei vari Stati una politica di appoggio all'economia nazionale attraverso il protezionismo e una maggiore aggressività sul piano dell'affermazione economica all'estero, che fu tra le principali cause della politica di espansione coloniale seguita dalle maggiori potenze. Gli effetti più gravi della caduta dei prezzi si ebbero nell'agricoltura. Qui i progressi tecnici rimasero limitati ad alcune aree europee più sviluppate. Diverso, invece, perché privo di tali squilibri, il rilevante sviluppo agricolo degli Stati Uniti, i cui prodotti a buon mercato inflissero un colpo durissimo alla più arretrata agricoltura europea. Di conseguenza nelle campagne d'Europa aumentarono la conflittualità sociale e l'emigrazione (soprattutto

quella transoceanica, che conobbe un vero e proprio boom). Anche la crisi agraria spinse in direzione di politiche doganali che proteggessero la produzione nazionale dalla concorrenza estera. Nel complesso, comunque, il calo dell'agricoltura in rapporto al complesso delle attività economiche fu comune a tutti i paesi industrializzati. Caratteristica fondamentale della seconda rivoluzione industriale fu la stretta integrazione fra scienza e tecnologia e fra tecnologia e attività produttive. Il rinnovamento tecnologico si concentrò nelle industrie giovani: chimica, elettrica, dell'acciaio (la prima rivoluzione industriale del secolo precedente era stata invece dominata dal cotone e dal ferro). Soprattutto gli sviluppi della chimica aprirono nuove prospettive un po'"in tutti i settori produttivi: dalla produzione di alluminio a quella di prodotti "intermedi" (come acido solforico e soda) con impieghi estesissimi, dalle fibre tessili artificiali ai nuovi metodi di conservazione degli alimenti. L'invenzione del motore a scoppio e la produzione di energia elettrica furono tra le caratteristiche salienti della seconda rivoluzione industriale. L'energia elettrica, in particolare, forniva una nuova importante forza motrice per gli usi industriali, e rivoluzionava - anzitutto con l'illuminazione - la vita quotidiana. Questo periodo vide anche la trasformazione scientifica della medicina, dovuta a quattro fattori: prevenzione e contenimento delle malattie epidemiche attraverso la diffusione delle pratiche igieniste; identificazione dei microrganismi; progressi della farmacologia; nuova ingegneria ospedaliera. I progressi della medicina e dell'igiene, sommandosi allo sviluppo dell'industria alimentare, determinarono in Europa una riduzione della mortalità. Nonostante il calo delle nascite verificatosi nei paesi economicamente più avanzati (dovuto alla diffusione dei metodi contraccettivi e a una nuova mentalità tesa a programmare razionalmente la famiglia), si ebbe così un sensibile aumento della popolazione. Bibliografia L'esposizione più chiara degli aspetti economici e tecnologici della seconda rivoluzione industriale si trova nel cap. V del volume di D. S. Landes, Prometeo liberato, Einaudi, Torino 1978. Più in generale, si veda il vol. VII della Storia economica Cambridge (2 tomi), Einaudi, Torino 197980; e il vol. IV, t.1, della Storia economica e sociale del mondo, a e. di P. Leon, Il capitalismo 1840-1914, Laterza, RomaBari 1980.

Per gli sviluppi della medicina e dell'assistenza sanitaria in Italia: Malattia e medicina, a C. di F. Della Peruta, vol. 7 degli Annali della Storia d'Italia, Einaudi, Torino 1984; G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, Laterza, RomaBari 1987. Sulle tendenze demografiche in Europa: M. Livi Bacci, La trasformazione demografica delle società europee, Loescher, Torino 1977; per l'Italia, L. Del Panta M. Livi Bacci G. Pinto E. Sonnino, La popolazione italiana dal Medioevo a oggi, Laterza, RomaBari 1996. 7. Imperialismo e colonialismo. 7.1. La febbre coloniale. I nuovi obiettivi delle imprese coloniali, L'ampliamento degli imperi coloniali, Gli interessi economici, Le motivazioni politicoideologiche, Il "fardello dell'uomo bianco", Esploratori e missionari, I fattori locali. Negli ultimi decenni del secolo XIX, la tendenza delle potenze europee a espandersi su scala planetaria, a costruire imperi coloniali nei territori d'oltremare, o ad estendere quelli già esistenti, conobbe una forte accelerazione. In realtà, fin dai tempi delle grandi scoperte geografiche, l'Europa si era lanciata alla conquista del mondo, disseminando in tutti i continenti soldati e missionari, commercianti e coloni. Ma questo processo raggiunse il suo apice e il suo compimento proprio alla fine dell'800, con dimensioni e con obiettivi nuovi rispetto a quelli della colonizzazione tradizionale. Se questa era rimasta legata soprattutto all'iniziativa dei privati, in particolare delle grandi compagnie mercantili, la nuova espansione venne assunta sempre più come un obiettivo di politica nazionale da parte dei governi. Alla penetrazione commerciale subentrò un disegno più sistematico di assoggettamento politico e di sfruttamento economico. La tendenza prevalente divenne quella di imporre un controllo più o meno formale a vastissimi territori dell'Africa, dell'Asia e del Pacifico, che furono ridotti alla condizione di vere e proprie colonie (se venivano assoggettati all'amministrazione diretta dei conquistatori) o di protettorati (se il controllo era esercitato in modo indiretto, conservando in vita, almeno formalmente, gli ordinamenti preesistenti). I territori detenuti dalle potenze europee, nell'una o nell'altra forma, vennero enormemente ampliati nel giro di pochi decenni. Fra il 1876 e il 1914, la Gran Bretagna aggiunse al suo già vastissimo impero 11 milioni di kmq, con 142 milioni di abitanti (raggiungendo un totale di circa 30 milioni

di kmq, quasi cento volte la superficie del Regno Unito). Nello stesso periodo, la Francia acquistò nuovi possedimenti per 10 milioni di kmq, con 50 milioni di abitanti. Alla competizione coloniale si unirono anche Stati privi di una tradizione imperiale o con una storia unitaria molto recente: così la Germania, malgrado l'iniziale scetticismo di Bismarck sull'utilità delle colonie, così il Belgio, l'Italia (fra le potenze europee, l'unica assente di rilievo fu l'AustriaUngheria) e, negli ultimi anni del secolo, anche il Giappone e gli Stati Uniti. Questi sviluppi si produssero in un lasso di tempo molto breve. Ancora a metà '800, le colonie non interessavano molto il grosso dell'opinione pubblica e delle classi dirigenti europee. Molti le consideravano nient'altro che un peso superfluo: lo stesso Disraeli, futuro campione dell'imperialismo britannico, nel 1852 ne parlava come di "pietre legate al collo" del suo paese. Una generazione più tardi la situazione era completamente cambiata: la febbre coloniale dilagava in tutta Europa, coinvolgendo strati sempre più larghi dell'opinione pubblica e accomunando personaggi di ogni tendenza politica. I fattori che stavano all'origine di questo mutamento erano numerosi e complessi. Gli interessi economici giocarono senza dubbio un ruolo notevole. C'era la spinta, tradizionale nella storia del colonialismo, all'accaparramento di materie prime a basso costo. C'era la ricerca di sbocchi commerciali, che era sempre stata uno dei moventi principali della politica coloniale e che venne assumendo un nuovo peso in coincidenza con la svolta protezionistica sui mercati europei. Più recente era la spinta proveniente dall'accumulazione di capitali finanziari disponibili per investimenti ad alto profitto nei territori d'oltremare. Questi aspetti - sui quali soprattutto si sono fondate le interpretazioni "economiche" dell'imperialismo - non devono però essere sopravvalutati: alla vigilia della prima guerra mondiale, la Gran Bretagna indirizzava verso le nuove colonie conquistate dopo il 1870 appena il 3% dei suoi investimenti all'estero, la Francia il 9%, la Germania una percentuale insignificante. Inoltre, anche nell'età dell'imperialismo e del protezionismo, il grosso del commercio mondiale si svolse fra i paesi industrializzati. Ciò non toglie nulla al fatto che proprio la prospettiva dei benefici economici ottenibili dalle colonie teorizzati nelle opere di illustri economisti e continuamente evocati nei parlamenti e nella stampa - finì con l'influenzare in modo decisivo le scelte dei governanti europei. Le motivazioni politicoideologiche ebbero spesso un'importanza pari a quelle economiche. Esse affondavano le loro radici in una mescolanza di nazionalismo e di politica, di potenza, di razzismo e di spirito missionario.

In Inghilterra, ad esempio, l'idea di appartenere a una nazione eletta, a quella che Disraeli chiamava "una razza dominatrice, destinata dalle sue virtù a spargersi per il mondo", fu comune a scrittori come Thomas Carlyle e Rudyard Kipling e a uomini politici anche di estrazione liberale, come Joseph Chamberlain o come Charles Dilke, strenuo propagandista di una "più grande Bretagna" (GreaterBritain). Il mito di una vocazione imperiale delle singole nazioni si legò a quello di una missione nel mondo della civiltà europea nel suo complesso. Il "fardello dell'uomo bianco" di cui parlava Kipling era appunto il dovere di redimere le "popolazioni selvagge". Un paternalismo non privo di componenti umanitarie si univa così a un razzismo di matrice positivistica. L'interesse dell'opinione pubblica europea nei confronti delle colonie - già sollecitato dall'opera, per molti versi anticipatrice, dei missionari, da tempo impegnati nell'evangelizzazione dei popoli non cristiani - fu inoltre fortemente alimentato dall'eco delle grandi esplorazioni che, a partire dalla metà del secolo, ebbero per teatro soprattutto l'Africa. In questo interesse confluivano la prospettiva di grandi ricchezze nascoste nei territori da esplorare, la curiosità scientificogeografica tipica della cultura del positivismo, la moda dell'esotismo presente in molta letteratura del secondo '800, l'alone romantico da cui erano circondate - grazie anche all'amplificazione che la stampa faceva delle loro imprese - le figure dei grandi esploratori: il missionario scozzese David Livingstone che, già all'inizio degli anni '50, esplorò per primo la zona dello Zambesi e, nei vent'anni successivi, attraversò tutta l'Africa centromeridionale, dall'uno all'altro oceano; gli inglesi Burton e Speke che, intorno al 1860, raggiunsero le sorgenti del Nilo e aprirono la via dei grandi laghi equatoriali; il giornalista americano di origine inglese Henry Morton Stanley, che negli anni 70 esplorò, per incarico del re del Belgio, il bacino del Congo e pose le basi per la successiva conquista belga della regione (di cui divenne governatore); l'italofrancese Pietro Savorgnan di Brazzà che, nel decennio successivo, aprì la strada alla penetrazione francese in Africa equatoriale; il tedesco Karl Peters che, nello stesso periodo, esplorò l'Africa orientale per conto del governo del suo paese. Accanto ai motivi di fondo che abbiamo appena elencato - che avevano la loro origine nell'economia, nel sistema politico e nella cultura europea agirono come stimoli all'azione coloniale anche fattori più occasionali determinati dalle specifiche realtà locali dei territori extraeuropei o dalla necessità di prevenire e controbattere le iniziative di potenze concorrenti, senza che ciò rispondesse a un piano di conquista prestabilito. Il risultato fu

comunque che, alla fine del processo di espansione, il mondo intero risultò spartito in imperi e zone di influenza fra le maggiori potenze. 7.2. Colonizzatori e colonizzati. La violenza dei colonizzatori, Trasformazioni economiche e sfruttamento coloniale, L'impatto culturale della colonizzazione, Il risveglio dei nazionalismi. Nel corso della sua espansione coloniale, l'Europa portò in tutto il mondo l'impronta della sua tecnica, della sua economia e, più in generale, della sua civiltà. Di solito non ne portò la faccia migliore. Quasi tutte le conquiste coloniali furono segnate dall'uso sistematico e indiscriminato della forza contro le popolazioni indigene, da un campionario di crudeltà sconosciuto agli ultimi conflitti combattuti sul vecchio continente. Soprattutto nell'Africa nera, dove più schiacciante era la superiorità tecnologica degli europei, le frequenti rivolte delle popolazioni locali contro i nuovi dominatori si concludevano spesso con veri e propri massacri: terribile quello perpetrato nel 1905 dai tedeschi nell'Africa del SudOvest ai danni della tribù bantu degli herero, che fu quasi completamente distrutta. Dal punto di vista economico, l'esperienza coloniale ebbe alcuni effetti positivi sui paesi che ne furono investiti: vennero messe a coltura nuove terre, introdotte nuove tecniche agricole, costruite infrastrutture, avviate attività industriali e commerciali, esportati migliori ordinamenti amministrativi e finanziari. Ma tutto ciò avveniva a prezzo di un continuo depauperamento di risorse materiali e umane (i lavoratori indigeni venivano pagati per lo più con salari irrisori, quando non erano costretti a forme di lavoro forzato), insomma di un vero e proprio sfruttamento coloniale. La trasformazione delle economie dei paesi sottomessi, che furono generalmente orientate verso l'esportazione, portò in molti casi alla rottura di sistemi economici di pura sussistenza, basati sul circolo vizioso dell'autoconsumo e della povertà; in altri casi stravolse un meccanismo produttivo modellato in funzione del mercato interno. Fu comunque messo in moto un processo di sviluppo, ma in funzione degli interessi dei colonizzatori. Nuovi paesi entrarono in un più vasto mercato mondiale, ma vi entrarono in una posizione dipendente: passarono cioè dalla povertà al "sottosviluppo". Gli effetti della colonizzazione sulle culture dei paesi afroasiatici non furono meno violenti, pur variando a seconda delle diverse realtà locali e delle diverse politiche attuate dai paesi colonizzatori (quella britannica, ad

esempio, fu più rispettosa degli usi locali, quella francese più oppressiva nel suo tentativo di introdurre elementi di modernizzazione forzata). I sistemi culturali che erano legati a strutture politicosociali più organizzate e avevano alle spalle una più solida tradizione - come quelli dell'Asia e del Nord Africa - si difesero meglio: per un verso, seppero opporre una resistenza più consapevole agli apporti estranei che la presenza europea inseriva nelle loro società; per l'altro, finirono poi con l'assimilare in qualche misura questi apporti. Ben diverso fu il caso dell'Africa più arcaica, animista e pagana. Qui l'effetto dell'incontro con la civiltà del colonizzatore fu dirompente. Le trasformazioni economiche, tecnologiche, sociali, religiose e linguistiche prodotte dalla presenza degli europei alterarono dalle fondamenta non solo gli equilibri immobili delle comunità di tribù e di villaggio (dove concetti come quelli di proprietà terriera e di lavoro salariato erano del tutto sconosciuti), ma gli stessi universi culturali che ne erano espressione. Interi sistemi di vita, di riti e di credenze, di costumi e di valori entrarono rapidamente in crisi. In molti casi, in cui mancava una tradizione scritta, ne rimasero a malapena le tracce. Sul piano politico, però, l'espansione coloniale finì col favorire, in tempi più o meno lunghi, la formazione o il risveglio di nazionalismi locali, ad opera soprattutto di nuovi quadri dirigenti che si formarono nelle scuole europee e vi assorbirono gli ideali democratici e i princìpi di nazionalità. L'Europa si trovò così a esportare quello che meno avrebbe desiderato: il bisogno di autogovernarsi e di decidere il proprio destino. Parola chiave Imperialismo. Coniato in Francia, ai tempi del Secondo Impero, in riferimento ai disegni egemonici di Napoleone III, il termine "imperialismo" si affermò in Inghilterra, alla fine degli anni '70, per indicare il programma di espansione coloniale del governo Disraeli, ed entrò poi nell'uso comune come sinonimo di politica di potenza e di conquista territoriale su scala mondiale. In generale, l'imperialismo rappresentò la tendenza degli Stati europei a proiettare più aggressivamente verso l'esterno i propri interessi economici, le proprie esigenze di difesa, la propria immagine nazionale e la propria cultura: la fusione di queste diverse componenti (economiche, politiche, ideologiche) si tradusse in una politica di potenza su scala mondiale, realizzata con la forza e spesso perseguita come fine in sé. Nel tentativo di identificare le forze profonde che erano alla base di questi sviluppi, molte delle teorie sull'imperialismo avanzate fin dall'inizio del '900, soprattutto ma non soltanto - da parte di studiosi e politici marxisti, hanno posto

l'accento sui suoi moventi economici (la ricerca di materie prime a buon mercato e di nuovi sbocchi per le merci e per i capitali in eccedenza) e sui suoi legami con le trasformazioni "interne" del sistema capitalistico (la svolta protezionistica, le concentrazioni, la prevalenza del capitale finanziario), lasciandone in secondo piano gli aspetti ideologici e politicomilitari. Il dibattito sulle cause, sulla natura e sulla stessa estensione cronologica dell'imperialismo è ancora aperto. Ma è certo che, in sede storica, la nozione di imperialismo diventa difficilmente utilizzabile se staccata dal contesto nel quale nacque e se slegata da quella che ne fu la manifestazione più tipica e appariscente: la grande espansione coloniale degli ultimi decenni dell'800. Il colonialismo non è solo un aspetto fra i più importanti dell'imperialismo, ma rappresenta anche il miglior banco di prova delle teorie avanzate per spiegarlo. 7.3. L'espansione in Asia. La presenza europea in Asia, L'India britannica, Il canale di Suez, La società indiana, La rivolta dei Sepoys, La riorganizzazione della colonia, La conquista francese dell'Indocina, La colonizzazione russa in Siberia, La ferrovia Transiberiana, Il contrasto anglorusso in Asia centrale, La spartizione del Pacifico, La guerra cinogiapponese, La rivolta dei "boxers". Agli inizi dell'età dell'imperialismo, gli europei avevano già messo radici profonde nel continente asiatico. Gli inglesi, oltre all'India, la "perla" del loro impero, possedevano Ceylon, Hong Kong, Singapore e numerose basi nell'Oceano Indiano e nel SudEst asiatico. Gli olandesi dominavano l'arcipelago indonesiano. I portoghesi controllavano Macao in Cina, Goa in India e parte dell'isola di Timor. La Spagna possedeva le Filippine. La Russia aveva avviato da oltre un secolo la sua espansione verso la Siberia e l'Asia centrale. La Francia, ultima a giungere sul continente, aveva gettato, negli anni del Secondo Impero, le basi di un vasto dominio nella penisola indocinese. A dare nuovo impulso alla corsa verso Oriente contribuì potentemente l'inaugurazione, avvenuta nel novembre 1869, dopo dieci anni di lavori, del canale artificiale che, tagliando l'istmo di Suez, metteva in comunicazione il Mediterraneo col Mar Rosso, abbreviando di parecchie settimane i collegamenti marittimi fra l'Europa e l'Asia. La nuova via d'acqua - che fu gestita da una compagnia internazionale controllata da Francia e Gran Bretagna - sanzionava e simboleggiava la supremazia tecnica e commerciale dell'Europa e ne facilitava l'espansione verso il continente

asiatico. Un'espansione che già si era accentuata negli anni intorno alla metà del secolo e che ora subì un'ulteriore accelerazione, seguendo tre direttrici principali: il consolidamento della dominazione inglese in India; la penetrazione della Francia nella penisola indocinese; l'avanzata dell'Impero russo verso l'Asia centrale e l'Estremo Oriente. Passata nel 700 sotto il controllo britannico, l'India fu a lungo governata e amministrata da una compagnia privata, la Compagnia delle Indie orientali, che però agiva come una diretta emanazione del governo inglese. A metà '800 il territorio controllato dalla compagnia era vastissimo (si estendeva su buona parte dell'area oggi occupata da India, Pakistan e Bangla Desh) e, con una popolazione in continua crescita (130 milioni nel 1845, oltre200 nel 1881), offriva ampi sbocchi di mercato per i manufatti provenienti dalla Gran Bretagna, verso la quale esportava grandi quantità di tè e di cotone. Cent'anni di dominazione inglese non avevano mutato di molto i caratteri della società indiana. L'economia restava fondata su un'agricoltura poverissima e arretrata. L'effetto principale della presenza inglese era stato quello di distruggere, con l'importazione di tessuti dalla Gran Bretagna, l'industria cotoniera locale, abbastanza estesa anche se a livello artigianale. La struttura sociale era basata, per la maggioranza della popolazione di religione induista, su una rigida divisione in caste. Il potere statale, formalmente ancora rappresentato dall'antico impero Moghul, era carente o addirittura assente: il senso dell'appartenenza alla casta o alla comunità locale prevaleva su qualsiasi legame con l'autorità centrale. I colonizzatori inglesi si erano appoggiati sulle gerarchie sociali preesistenti - i signori locali, i sacerdoti induisti (brahmini) - per assicurare il mantenimento dell'ordine e la riscossione delle imposte. I loro tentativi di avviare un prudente processo di modernizzazione, diffondendo la lingua inglese e la cultura occidentale e combattendo alcune delle pratiche più barbare della religione induista (come l'usanza di bruciare le vedove insieme ai cadaveri dei mariti), provocarono in più di un caso reazioni di stampo tradizionalisticoreligioso. La più importante fu la cosiddetta "rivolta dei Sepoys", originata, nel 1857, da un ammutinamento dei reparti indigeni dell'esercito (chiamati appunto Sepoys). La rivolta, che richiese una lunga e sanguinosa repressione, indusse il governo britannico a riorganizzare la presenza inglese in India. Soppressa nel 1858 la Compagnia delle Indie, il paese passò sotto la diretta amministrazione della corona britannica, rappresentata da un viceré. L'esercito e la burocrazia furono ristrutturati: il principio seguito fu quello di promuovere gli elementi indigeni e i notabili fedeli alla Gran Bretagna, affiancandoli però ad elementi inglesi. La costruzione di nuove ferrovie consentì non solo un incremento degli scambi,

ma anche un più stretto controllo militare su tutto il territorio indiano. Nel 1876, a coronamento di quest'opera di riorganizzazione, la regina Vittoria fu proclamata imperatrice dell'India. Motivi di concorrenza e di emulazione nei confronti della Gran Bretagna furono probabilmente all'origine della penetrazione francese in Indocina. La penisola indocinese, abitata da popolazioni di religione buddista, era divisa in una serie di regni, tutti gravitanti nell'orbita dell'Impero cinese. I più importanti erano quelli dell'Annam (corrispondente all'attuale Vietnam), quello del Siam (oggi Thailandia) e quello della Cambogia. La penetrazione francese, avviata negli anni '50 sull'onda delle guerre dell'oppio [§5.4], si limitò all'inizio a qualche stazione commerciale, oltre che alle numerose missioni cattoliche già da tempo operanti nella regione. Furono le persecuzioni contro i missionari a fornire alla Francia il pretesto per un intervento militare: nel 1862 i francesi occuparono la Cocincina, ossia la parte meridionale del Regno dell'Annam, e, l'anno dopo, imposero il protettorato alla Cambogia. La seconda fase dell'espansione francese in Indocina si aprì all'inizio degli anni '80. Dopo una guerra con la Cina durata due anni (1883-85), la Francia riuscì a estendere il suo protettorato a tutto l'Annam. Dal canto suo, la Gran Bretagna, per evitare che i possedimenti francesi giungessero a ridosso dell'India, procedette, fra il 1885 e il 1887, all'occupazione del Regno di Birmania. La Francia rispose, nel 1893, assicurandosi il controllo del Laos. Quanto al Siam, Gran Bretagna e Francia si accordarono per mantenerlo indipendente, come "Statocuscinetto". Se, sul fianco orientale dell'India, la Gran Bretagna doveva guardarsi dalla Francia, su quello nordoccidentale doveva preoccuparsi della Russia. L'Impero zarista seguiva da tempo in Asia due direttrici di espansione: la prima verso la Siberia e l'Estremo Oriente, la seconda verso l'Asia centrale. La colonizzazione della Siberia, che ebbe un decisivo impulso già a partire dagli anni '30, fu realizzata soprattutto sotto la spinta e il controllo dell'autorità statale (contrariamente a quanto avveniva negli Stati Uniti, dove l'espansione verso Ovest era dovuta alla libera iniziativa individuale). I risultati furono comunque notevoli: nei primi cinquant'anni dell'800 la Siberia vide più che raddoppiata la sua popolazione e notevolmente incrementate le attività produttive e commerciali. Si accentuava nel frattempo la spinta della Russia a consolidare le proprie posizioni strategiche verso la Cina e il Pacifico. Nel 1860 fu imposta alla Cina la cessione dei distretti dell'Ussuri e dell'Amur. Nello stesso anno fu avviata la costruzione del porto di Vladivostok, sul Mar del Giappone. Il governo zarista ritenne invece opportuno rinunciare all'Alaska, dove fin dal 1799

operava una compagnia privata russa: il territorio, il cui controllo fu giudicato troppo costoso dal punto di vista economico e militare, fu così venduto nel 1867 agli Stati Uniti per sette milioni di dollari. Nel 1891, quasi a sancire il completamento di uno sterminato impero che si estendeva senza soluzione di continuità dall'Europa al Pacifico, fu avviata la costruzione della ferrovia Transiberiana, la più lunga del mondo che, una volta completata nel 1904, collegò Mosca a Vladivostok con un percorso di oltre novemila chilometri. In Asia centrale, l'Impero zarista riuscì a incamerare, fra il 1876 e il 1885, l'intera regione del Turchestan: una zona importante dal punto di vista economico, in quanto forte produttrice di cotone, ma pericolosamente vicina alle frontiere dell'Impero indiano. Nella zona compresa fra il Turchestan, il Regno dell'Afghanistan e il Pakistan settentrionale, Russia e Gran Bretagna si fronteggiarono a lungo, in una sorta di guerra per procura combattuta attraverso le tribù locali. Nel 1885 le due potenze giunsero a un accordo, con cui si definivano le frontiere fra il Turchestan e il Regno dell'Afghanistan, che veniva mantenuto indipendente, ma assegnato alla sfera di influenza inglese. Mentre si compiva la spartizione dell'Asia, anche gli arcipelaghi del Pacifico vennero inglobati negli imperi coloniali, soprattutto in quelli inglese e tedesco. La Gran Bretagna - che già dominava sull'Australia e la Nuova Zelanda - occupò le isole Fiji, le Salomone e le Marianne, mentre la Nuova Guinea fu divisa fra tedeschi e inglesi. Ma intanto nell'area del Pacifico si andavano affacciando due nuove potenze con ambizioni egemoniche: il Giappone e gli Stati Uniti. Alla fine del XIX secolo, il Giappone si affacciò prepotentemente sulla scena della competizione imperialistica in Asia. Nel 1894, in seguito a contrasti che avevano per oggetto la Corea, uno Stato fin allora vassallo della Cina, i giapponesi mossero guerra all'Impero cinese e lo sconfissero per terra e per mare, dando una prima prova della loro efficienza bellica. La Cina dovette rinunciare a ogni influenza sulla Corea e cedere al Giappone vari territori, fra cui l'isola di Formosa. Le potenze occidentali cercarono da un lato di contenere i successi del Giappone, dall'altro profittarono dell'ennesima sconfitta della Cina per ritagliarsi nel paese nuove zone di influenza economica. La prospettiva di uno sgretolamento dell'Impero provocò per reazione la nascita di un movimento conservatore, nazionalista e xenofobo che si proponeva la restaurazione integrale delle antiche tradizioni imperiali. Questo movimento trovò il suo braccio armato in una società segreta a

carattere paramilitare, nota in Occidente come movimento dei boxers (ossia pugili, dal nome di un'antica società ginnica denominata "Pugni della giustizia e dell'armonia"). Nel 1900, in seguito a una serie di violenze compiute dai boxers contro i simboli e gli stessi rappresentanti della presenza straniera, le grandi potenze - compresi Stati Uniti e Giappone - si accordarono per un intervento militare congiunto. In due settimane la rivolta fu sedata e Pechino venne occupata dalle truppe alleate. La rivolta non rimase tuttavia senza effetti. Da un lato, essa mostrò la persistenza di un nazionalismo cinese che rendeva impraticabile una spartizione politica dell'Impero. Dall'altro, la sconfitta del nazionalismo tradizionalista preparò il terreno alla nascita di un movimento di ispirazione democratica e "occidentalizzante", che avrebbe cercato di collegare la lotta contro gli stranieri a quella per la modernizzazione del paese. 7.4. Le origini dell'imperialismo americano. L'imperialismo informale, Le direttrici dell'espansione, La guerra ispanoamericana e l'acquisto delle Filippine. Nati essi stessi da una rivoluzione anticoloniale, gli Stati Uniti d'America non potevano seguire il modello del colonialismo all'europea senza tradire i valoribase su cui avevano costruito la loro storia di nazione. Ciò non impedì alla potenza nordamericana di proiettare verso l'esterno il suo prorompente dinamismo economico, assicurandosi il controllo (diretto o indiretto) di territori anche lontani: di praticare cioè una sorta di "imperialismo informale" fondato essenzialmente sull'esportazione di merci e di capitali. Verso la fine del secolo si sviluppò un movimento d'opinione che ebbe il suo testo programmatico in un saggio di John Fiske intitolato significativamente Manifest Destiny (Il destino manifesto) che sosteneva il diritto degli Stati Uniti di esportare in tutto il mondo i propri princìpi e la propria organizzazione sociale, oltre che le proprie merci, magari in nome della lotta contro il colonialismo di vecchio stampo. L'espansionismo statunitense si esercitò in due direzioni. La prima, verso il Pacifico, rappresentava il prolungamento ideale della appena esaurita "corsa all'Ovest". La seconda, verso l'America Latina, costituiva un aggiornamento della "dottrina Monroe", ora intesa come un diritto di penetrazione economica e di tutela politica sull'intero continente. La prima importante manifestazione della nuova politica di potenza degli Stati Uniti si ebbe con l’intervento a Cuba dove, dal 1895, era in atto una violenta rivolta contro i dominatori spagnoli. Questi attuarono una dura

repressione che suscitò vivaci reazioni nell'opinione pubblica americana, ma anche notevoli preoccupazioni per la sorte dei cospicui interessi che gli Stati Uniti avevano nelle piantagioni di canna da zucchero dell'isola. L'affondamento, nel febbraio 1898, di una corazzata americana nel porto dell'Avana, portò così alla guerra con la Spagna, che fu rapidamente sconfitta sia nelle Antille sia nel Pacifico. Cuba divenne una repubblica indipendente, sottoposta tuttavia alla tutela degli Stati Uniti (che vi mantennero un contingente di truppe). La Spagna fu inoltre costretta a cedere Portorico e l'intero arcipelago delle Filippine. Gli Stati Uniti si assicurarono così, oltre al controllo dei Caraibi, anche un vasto dominio in Asia orientale. Sempre nel '98 la presenza americana nel Pacifico fu rafforzata dall'annessione delle isole Hawaii, un importante punto di appoggio nelle rotte oceaniche. Nel giro di pochi mesi gli Stati Uniti avevano compiuto un salto decisivo nella loro posizione internazionale, assumendo a tutti gli effetti il ruolo di potenza mondiale. 7.5. La spartizione dell'Africa. La decadenza delle antiche civiltà africane, Le società tribali dell'Africa centromeridionale, Tunisia ed Egitto, Tentativi di modernizzazione, L'intervento francese in Tunisia, L'intervento inglese in Egitto, La rivolta del "Mahdi", L'espansione belga nel Congo, La conferenza di Berlino: i princìpi della spartizione, I risultati della spartizione, L'espansione inglese in Africa sudorientale, Il Sudan e l'incidente di Fashoda, L'Africa divisa. Gli sviluppi più spettacolari dell'espansione coloniale di fine '800 si ebbero nel continente africano. Nel 1870 i paesi europei ne controllavano appena un decimo: i francesi occupavano l'Algeria e il Senegal, i portoghesi l'Angola e il Mozambico, gli inglesi la Colonia del Capo (ossia la parte meridionale dell'odierna Repubblica Sudafricana). Meno di quarant'anni dopo, i possedimenti europei comprendevano più dei nove decimi del continente. Quando gli europei procedettero alla conquista dell'Africa, ben poco restava in piedi delle antiche civiltà locali, entrate in crisi ormai da secoli per la decadenza commerciale, per le guerre e per gli effetti devastanti della tratta degli schiavi, praticata prima dagli arabi, poi, in modo più sistematico, dai primi coloni europei. La regione sahariana e quella della costa nordoccidentale - che aveva visto fiorire i grandi imperi del Ghana (IVXI secolo) e del Mali (XIIXV secolo) - erano controllate da una serie di potentati locali e di regni musulmani con una tradizione statuale ancora

viva, sebbene in declino. In queste società la dispersione tribale era compensata dall'esistenza di un forte elemento coesivo, costituito dalla religione islamica. Compattamente cristiano era invece l'Impero etiopico, il più vasto e il più solido fra gli Stati del continente. Gli elementi di coesione politica o religiosa erano invece del tutto assenti nell'Africa centrale e meridionale, dove pure si erano sviluppate, fra il X e il XV secolo, civiltà commerciali relativamente fiorenti, soprattutto nei bacini del Congo e dello Zambesi. Quelle che restavano erano società tribali disaggregate, dedite alla caccia, alla pastorizia nomade o a un'agricoltura primitiva, dissanguate, oltre che dalla tratta degli schiavi da terribili lotte intestine. Per avere un'idea degli effetti di queste lotte si pensi che in soli dieci anni (fra il 1818 e il 1828) le guerre combattute dagli zulù - una popolazione guerriera che abitava la regione del Nata! nell'Africa australe provocarono un numero di morti valutabile attorno al milione: un bilancio impressionante per un conflitto dove non si usavano fucili e cannoni, ma solo lance e frecce. I primi atti della nuova espansione, che contribuirono in buona parte a innescare la gara di conquista che seguì, furono l'occupazione francese della Tunisia, nel 1881, e quella inglese dell'Egitto nell'anno successivo. In entrambi i paesi, che nominalmente dipendevano ancora dall'Impero ottomano, anche se i loro governanti (il bey di Tunisi e il khedivè d'Egitto) avevano da tempo acquisito un'indipendenza di fatto, le potenze europee avevano consistenti interessi economici e strategici. La Tunisia rientrava nella sfera di influenza rivendicata dalla Francia, già padrona della vicina Algeria, ma subiva anche l'ipoteca di consistenti interessi italiani. L'Egitto era anch'esso oggetto dell'influenza francese, che risaliva al periodo napoleonico, ma aveva acquistato un'importanza fondamentale per la Gran Bretagna dopo che, nel 1869, era stato aperto il canale di Suez. Negli anni 70, sia l'Egitto sia la Tunisia si erano lanciati in ambiziosi programmi di modernizzazione, che avevano finito però, causa la scarsezza di risorse proprie e l'inefficienza di amministrazioni corrotte, col dissestare le finanze dei due paesi, col costringere i governi ad aumentare la pressione fiscale (suscitando così il malcontento delle popolazioni) e col far salire a livelli altissimi il debito nei confronti delle banche europee. Per tutelarsi contro il rischio di una bancarotta, Francia e Inghilterra, principali paesi creditori, scelsero la strada dell'intervento militare. La prima a muoversi fu la Francia che, avendo avuto mano libera dalle altre grandi potenze nel congresso di Berlino del 78 [§4.6], trasse pretesto da un incidente avvenuto nella primavera del 1881 alla frontiera con l'Algeria per inviare un contingente militare a Tunisi e imporre al bey un regime di protettorato.

Gli avvenimenti tunisini ebbero immediate ripercussioni in Egitto, dove la nascita di un forte movimento nazionalista, guidato da un colonnello di nome Arabi Pascià, parve mettere in pericolo non solo il recupero dei crediti esteri, ma anche il controllo internazionale sul canale di Suez. Nell'estate del 1882, in seguito allo scoppio di moti antieuropei ad Alessandria, il governo inglese, allora presieduto da Gladstone, inviò in Egitto un corpo di spedizione che sconfisse le truppe guidate da Arabi Pascià e assunse il controllo del paese. Da allora l'Egitto, pur conservando la sua indipendenza formale, divenne di fatto una semicolonia britannica. Dall'Egitto, gli inglesi si trovarono ben presto impegnati nel vicino Sudan, un vastissimo territorio sotto il controllo egiziano, dove era scoppiata una rivolta capeggiata dal Mahdi (profeta) Mohammed Ahmed, una straordinaria figura carismatica di integralista islamico, fautore di una teocrazia musulmana allargata a tutto il mondo arabo. Appoggiato dalla setta religiosa dei dervisci, il Mahdi lanciò le tribù sudanesi in una guerra santa contro le forze angloegiziane, sconfiggendole a più riprese, conquistando nel 1885 la città di Khartum e fondando un proprio Stato che gli inglesi sarebbero riusciti a rovesciare solo nel 1898. L'azione unilaterale dell'Inghilterra in Egitto provocò il risentimento della Francia, suscitando tra le due potenze una rivalità destinata a durare per quasi un ventennio, e contribuì a scatenare la corsa alla conquista dell'Africa nera. I primi contrasti si delinearono nel bacino del Congo. Qui re Leopoldo II del Belgio, dietro la copertura di una Associazione internazionale africana, fondata nel 1876 con scopi apparentemente umanitari (evangelizzazione e lotta contro la tratta degli schiavi), si era costruito una sorta di impero personale. Dopo la scoperta di importanti giacimenti minerari nella regione del Katanga, il sovrano belga cercò di consolidare il suo dominio attraverso uno sbocco sull'Atlantico; ma suscitò l'opposizione del Portogallo, che rivendicava la foce del Congo per la contiguità con la sua vecchia colonia dell'Angola. La questione del Congo fu oggetto di una conferenza internazionale che fu convocata a Berlino per iniziativa di Bismarck nel 1884-85. La conferenza, oltre a dare una prima sanzione alla spartizione dell'Africa, codificò le norme che avrebbero dovuto regolarla anche nell'avvenire. Il principio adottato fu quello della effettiva occupazione, ufficialmente notificata agli altri Stati, come unico titolo atto a legittimare il possesso di un territorio. Questo principio lasciava in realtà larghi margini di incertezza (ai tempi del congresso di Berlino le "occupazioni effettive" si limitavano spesso a poche stazioni commerciali situate nelle zone costiere) ed ebbe

anche l'effetto di accelerare la corsa all'occupazione di territori ritenuti di qualche interesse economico o strategico. In concreto, la conferenza riconobbe la sovranità personale di re Leopoldo sull'immenso territorio che poi sarebbe stato denominato Congo belga (e, dopo l'indipendenza, Zaire), ma che allora si chiamò Stato libero del Congo - un paradossale eufemismo per indicare quella che fu, per il trattamento delle popolazioni e lo sfruttamento delle risorse, una delle forme più rapaci e disumane di dominio coloniale - e gli assegnò un piccolo sbocco sull'Atlantico. Alla Francia andarono i territori sulla riva destra del fiume (l'attuale Repubblica del Congo). In Africa occidentale, la Germania, ultima arrivata nella corsa alle colonie, si vide riconosciuto il protettorato sul Togo e sul Camerun. L'Inghilterra ebbe il controllo del basso Niger (l'attuale Nigeria), mentre la Francia si assicurò il possesso dell'alto corso del fiume. Partendo da questa regione, in dieci anni di sanguinose guerre di conquista (dovute spesso all'iniziativa dei comandanti militari) contro gli Stati musulmani del Sahara, i francesi riuscirono ad assicurarsi il possesso di territori immensi, anche se in gran parte desertici, che si estendevano dall'Atlantico al Sudan, dal bacino del Congo al Mediterraneo. La Gran Bretagna concentrò invece le sue mire sull'Africa sudorientale, importante per il controllo dell'Oceano Indiano (e dunque per la sicurezza dell'India). Fra il 1885 e il 1895, partendo dalla Colonia del Capo e agendo per lo più in appoggio alle iniziative delle grandi compagnie private (come la British South Africa Company o la Imperial British Easi Africa Company), gli inglesi risalirono il continente fino al bacino dello Zambesi e al lago Niassa, mentre più a nord si impadronivano del Kenya e dell'Uganda, ossia dei territori compresi fra le sorgenti del Nilo, il lago Vittoria e l'Oceano Indiano. La tendenza era quella di saldare i possedimenti inglesi a sud dell'equatore con quelli della regione del Nilo, assicurandosi un dominio ininterrotto dall'estremità meridionale a quella settentrionale del continente. Questo disegno, però, si scontrava con la presenza della Germania che dal 1885 si era assicurata il controllo del Tanganika, a sud del lago Vittoria. Il contrasto fu regolato da un accordo nel 1890: l'Inghilterra riconobbe l'Africa orientale tedesca, rinunciando al sogno del dominio "dal Capo al Cairo", ricevendo in compenso l'isola di Zanzibar, nodo importantissimo delle rotte commerciali nell'Oceano Indiano, e ottenendo di tener lontana la Germania dalla regione dell'alto Nilo, considerata essenziale per il controllo dell'Egitto. Ma proprio in questa regione gli inglesi si trovarono in rotta di collisione con i francesi che, nella loro marcia dalla costa atlantica verso l'interno dell'Africa, si erano spinti fino al Sudan. Nel settembre del 1898, un

contingente dell'esercito britannico, allora impegnato nella riconquista del Sudan, si incontrò con una colonna francese che aveva occupato la fortezza di Fashoda sul Nilo. L'incontro rischiò di trasformarsi in un conflitto dalle conseguenze imprevedibili. Ma il governo francese, che non era preparato a una guerra, acconsentì a ritirare le sue truppe e ad accantonare le sue mire sulla regione. Ne seguì una distensione nei rapporti francoinglesi, che avrebbe poi aperto la strada a una più stretta intesa fra le due potenze. All'inizio del '900, la spartizione dell'Africa era pressoché completa. Oltre alla piccola repubblica di Libertà - che era stata fondata nel 1822 sulla costa atlantica da ex schiavi neri degli Stati Uniti - restavano indipendenti solo l'Impero etiopico e, ancora non per molto, la Libia e il Marocco. Tutto il resto del continente era diviso in colonie e in protettorati (di nome o di fatto), separati fra loro da confini spesso arbitrari, tracciati sulla carta geografica (magari in corrispondenza di meridiani e paralleli) senza tenere alcun conto delle divisioni tribali e delle preesistenti realtà etnicolinguistiche. Questi confini erano destinati tuttavia ad essere conservati anche nel momento in cui quelle entità composite e artificiose si sarebbero trasformate in Stati indipendenti. 7.6. Il Sud Africa e la guerra angloboera. La colonizzazione boera, Il disegno imperiale di Rhodes, La resistenza delle repubbliche boere, La guerra angloboera, L'Unione Sudafricana. Gli avvenimenti che portarono alla colonizzazione dell'Africa australe meritano una considerazione particolare: sia perché costituirono un esempio tipico di impulso espansionistico proveniente non tanto dalla madrepatria, quanto dalla stessa realtà coloniale (nella fattispecie dalla colonia inglese del Capo); sia, e soprattutto, perché l'imperialismo europeo, in questo caso britannico, si scontrò con un nazionalismo locale anch'esso di origine europea, quello boero, provocando un inedito conflitto coloniale fra due popoli bianchi e cristiani. Discendenti dagli agricoltori olandesi che nel XVII secolo avevano colonizzato la regione del Capo di Buona Speranza, i boeri erano caduti sotto la sovranità dell'Inghilterra quando questa aveva ottenuto la colonia, al tempo delle guerre napoleoniche. Molti di loro, per sfuggire alla sottomissione, avevano dato vita a un massiccio esodo verso nord (il cosiddetto grande trek, ossia grande marcia), dove avevano fondato le due repubbliche dell'Orange (1845) e del Transvaal (1852). Ma la scoperta di importanti giacimenti di diamanti nel Transvaal, alla fine degli anni '60,

risvegliò l'interesse della Gran Bretagna, che lasciò mano libera alla politica aggressiva attuata dalla classe dirigente inglese della Colonia del Capo, minacciata dalla crescita economica delle due repubbliche. Protagonista e promotore principale di questa politica aggressiva fu Cecil Rhodes, politico e uomo d'affari, presidente e padrone della British South Africa Company, primo ministro della Colonia del Capo fra il '90 e il '98. Rhodes metteva una colossale fortuna personale, accumulata con il quasimonopolio della produzione diamantifera, al servizio di un disegno imperiale in cui un realismo spregiudicato nei mezzi si univa a un romanticismo visionario negli obiettivi (sua fu l'idea di estendere la sovranità inglese "dal Capo al Cairo"). Si dovette comunque alla frenetica attività di Rhodes se la Gran Bretagna poté espandere i suoi domini in buona parte dell'Africa meridionale, fino alla zona dello Zambesi (che appunto da Rhodes avrebbe avuto il nome di Rhodesia), circondando completamente le due repubbliche boere. Un ulteriore elemento di tensione fu costituito dalla scoperta, nel 188586, di nuovi giacimenti auriferi nell'Orange e nel Transvaal, che attirò nelle due repubbliche un gran numero di immigrati, soprattutto di origine inglese. In questo afflusso di forestieri (uitlanders) i boeri videro il pericolo di una "ricolonizzazione" o comunque l'inizio di un processo che minacciava di stravolgere il carattere patriarcale e contadino della loro società: una società che coltivava il mito della propria indipendenza e superiorità, che si ispirava a un calvinismo a tinta rigidamente conservatrice e si fondava sull'imposizione agli indigeni di un regime di semischiavitù, avversato invece dagli inglesi. Gli uitlanders furono duramente discriminati e Rhodes non perse occasione per appoggiarne la protesta. La tensione crebbe costantemente finché, nell'ottobre del 1899, non fu il presidente del Transvaal, Paul Krùger, a dichiarare guerra all'Inghilterra. La guerra fu lunga e sanguinosa. I boeri combatterono con grande tenacia, riportando all'inizio notevoli successi e suscitando un'ondata di simpatie nell'opinione pubblica europea, soprattutto in quella tedesca. Anche dopo la sconfitta - che si consumò nel maggio 1902 e fu seguita dall'annessione del Transvaal e dell'Orange all'Impero britannico - i boeri condussero un'accanita lotta di resistenza che durò vari anni e fu piegata dagli inglesi solo con una serie di spietate azioni antiguerriglia. In seguito, tuttavia, il governo britannico riuscì a realizzare una politica di pacificazione: l'Orange e il Transvaal ottennero uno statuto di autonomia simile a quello della Colonia del Capo, alla quale vennero unite nel 1910, dando vita all'Unione Sudafricana. Inglesi e boeri avrebbero trovato un terreno concreto di

collaborazione nello sfruttamento delle immense risorse del paese e nella politica di dura segregazione praticata ai danni della popolazione indigena. Sommario Vari fattori determinarono, negli ultimi decenni dell'800, quella corsa alla conquista coloniale che costituì il più caratteristico tratto dell'imperialismo europeo. Vi fu certamente la spinta esercitata dagli interessi economici (ricerca di materie prime a basso costo e di sbocchi per i prodotti industriali e i capitali d'investimento), ma non meno importante fu l'affermarsi di tendenze politicoideologiche che affiancavano a un acceso nazionalismo la fede nella missione civilizzatrice dell'uomo bianco. Le potenze conquistatrici fecero generalmente un uso indiscriminato della forza contro le popolazioni indigene; sconvolsero l'economia dei paesi afroasiatici sottoponendola a un sistematico sfruttamento; colpirono, spesso irrimediabilmente, antiche culture. Tuttavia gli effetti della conquista non furono sempre e solo negativi: sul piano economico, essa significò anche, in molti casi, un inizio di modernizzazione, sia pure finalizzata agli interessi dei dominatori; su quello culturale, alcuni paesi con tradizioni e strutture politicosociali più solide riuscirono a difendere la loro identità ovvero ad assimilare aspetti della cultura dei dominatori; sul piano politico, infine, la colonizzazione, a più o meno lunga scadenza, favorì il formarsi di nazionalismi locali che avrebbero alimentato la lotta per l'indipendenza. Agli inizi dell'età dell'imperialismo, gli europei avevano già numerosi possedimenti in Asia. Più importante di tutti, l'India, soggetta dal '700 alla dominazione della Gran Bretagna e affidata al controllo della Compagnia delle Indie. I tentativi inglesi di introdurre elementi di modernizzazione nell'arcaica società indiana suscitarono violente reazioni, cui il governo britannico rispose con una sanguinosa repressione e con la riorganizzazione della colonia sotto la diretta amministrazione della corona. L'apertura del canale di Suez, nel 1869, diede nuovo impulso alla penetrazione europea in Asia. In questo periodo si ebbero la conquista francese dell'Indocina, la spartizione del Pacifico, lo sviluppo della colonizzazione russa della Siberia. L'altra direttrice dell'espansionismo russo - quella verso l'Asia centrale - portò l'Impero zarista ad un duro contrasto con l'Inghilterra. Una novità, sul piano della competizione imperialistica, fu l'improvviso emergere del Giappone che, dopo una guerra con la Cina (1894), le strappò vari territori. La sconfitta subita favorì nell'Impero cinese la nascita di un movimento xenofobo che si batteva per la restaurazione delle antiche

tradizioni imperiali. La rivolta dei boxers provocò un intervento delle grandi potenze (1900). L'imperialismo americano si distinse da quello degli altri paesi europei perché si basava soprattutto su forme di controllo indiretto e proclamava di voler difendere quegli ideali di libertà sui quali si era costruita la nazione americana. Interessi economici e -idealismo- si fusero nella guerra contro la Spagna (1898) che portò all'indipendenza di Cuba, sottoposta tuttavia alla tutela degli Stati Uniti. Fu in Africa che l'espansione coloniale si verificò con la velocità più sorprendente, portando nel giro di pochi decenni alla conquista quasi completa - sotto forma di colonie o protettorati - di tutto il continente. Francia e Inghilterra occuparono rispettivamente Tunisia (1881) ed Egitto (1882). Poco dopo (1884-85), la conferenza di Berlino, convocata per risolvere i contrasti internazionali suscitati dall'espansione belga nel Congo, stabiliva i princìpi della spartizione dell'Africa e riconosceva il possesso di vari territori a Belgio, Francia, Germania e Inghilterra. L'incidente di Fashoda (Sudan) del 1898, quando Francia e Inghilterra furono a un passo dalla guerra, mostrò quali rischi di conflitti internazionali comportasse la corsa alla conquista. In Sud Africa l'Inghilterra, soprattutto attraverso la politica di Cecil Rhodes, mirò ad estendere il suo dominio dalla Colonia del Capo alle due repubbliche boere dell'Orange e del Transvaal, ricche di giacimenti d'oro e di diamanti. Il disegno poté realizzarsi solo dopo una lunga e sanguinosa guerra, vinta dalla Gran Bretagna contro i boeri (1899-1902). Bibliografia Per una rapida introduzione agli aspetti teorici dell'imperialismo: T. Kemp, Teorie dell'imperialismo, Einaudi, Torino 1969; M. Barratt Brown, L'economia dell'imperialismo, Laterza, RomaBari 1977. Sull'espansione coloniale e l'imperialismo: D. K. Fieldhouse, L'età dell'imperialismo 1830-1914, Laterza, RomaBari 1975; Id., Gli imperi coloniali dal XVIII secolo (vol. 29 della Storia universale Feltrinelli), Milano 1967; G. Carocci, L'età dell'imperialismo, Il Mulino, Bologna 1979; R. F. Betts, L'alba illusoria. L'imperialismo europeo nell'Ottocento, ivi 1986; D. R. Headrick, Al servizio dell'impero. Tecnologia e imperialismo europeo nell'800, ivi 1984. Sull'Asia e il Giappone, si vedano i titoli citati nella bibliografia del cap. 5. Per la Cina di fine secolo, si veda inoltre M. Bastid M. C. Bergère J.

Chesneaux, La Cina dalla guerra francocinese alla fondazione del Partito comunista cinese 1885-1921, Einaudi, Torino 1974; M. Sabattini P. Santangelo, Storia della Cina, cit. al cap. 5. Sugli Stati Uniti: J. L. Thomas, La nascita di una potenza mondiale. Gli Stati Uniti dal 1870 al 1920, Il Mulino, Bologna 1988; A. Aquarone, Le origini dell'imperialismo americano. Da McKinley a Taft (1897-1913), ivi 1973. Sull'Africa: P. Bertaux, Africa. Dalla preistoria agli Stati attuali (vol. 32 della Storia universale Feltrinelli), Milano 1968; J. KiZerbo, Storia dell'Africa nera, Einaudi, Torino 1977. 8. Stato e società nell'Italia unita. 8.1. L'Italia nel 1861. Lingua e dialetti, Le aziende capitalistiche, L'area della mezzadria, L'area del latifondo, Le condizioni di vita nelle campagne, Una realtà poco conosciuta. Al momento dell'unità, l'Italia era abitata da circa 22 milioni di abitanti (26 calcolando anche la popolazione del Veneto e del Lazio). Di questi, solo 5 milioni avevano frequentato un corso di istruzione elementare (il tasso medio di analfabetismo era del 78%, con punte del 90% nei territori ex pontifici, nel Mezzogiorno e nelle isole). Molto minore - più o meno la metà - era il numero di coloro che erano effettivamente in grado di leggere e scrivere. Pochissimi - non più di 200.000 se si eccettuano i toscani facevano uso corrente della lingua italiana. Tutti gli altri comunicavano attraverso i dialetti, di cui la stessa minoranza colta si serviva nelle conversazioni familiari e nei rapporti con la gente del popolo. Intorno al 1860 l'Italia era, com'era sempre stata, uno dei paesi europei con il maggior numero di città. Una decina erano i centri con più di 100.000 abitanti (il più grande era Napoli con 450.000, seguivano Torino, Palermo, Milano e Roma con circa 200.000) e la popolazione urbana propriamente detta - quella che viveva in comuni con oltre 20.000 abitanti - era pari al 20% del totale. Ma la maggior parte delle città - con l'eccezione di alcuni centri maggiori come Milano, Torino, Genova e Napoli - era priva di attività produttive di grande rilievo, dal momento che le poche industrie di cui il paese disponeva erano preferibilmente dislocate lontano dai grossi centri. La grande maggioranza degli italiani viveva nelle campagne e nei piccoli centri rurali e traeva i suoi mezzi di sostentamento dalle attività agricole.

L'agricoltura occupava, infatti, il 70% della popolazione attiva, contro il 18% dell'industria e dell'artigianato e il 12% del settore terziario (commercio e servizi); e contribuiva per il 58% al prodotto lordo di tutto il paese, mentre industria e terziario vi contribuivano ciascuno per il 20% circa. Contrariamente a quanto affermava un luogo comune allora largamente diffuso, l'agricoltura italiana nel suo complesso non era affatto favorita dalle condizioni naturali. Il suolo della penisola era per quasi due terzi montagnoso. Più del 20% della superficie del paese era occupato da terre incolte o da terreni paludosi infestati dalla malaria. Anche nelle zone coltivabili di pianura e di collina, quella italiana era, con alcune rilevanti eccezioni, un'agricoltura povera (i rendimenti medi per ettaro erano pari a metà di quelli francesi e a un terzo di quelli inglesi), caratterizzata da una grande varietà di colture e di assetti produttivi. Solo nella zona irrigua della Pianura Padana - la Bassa Lombardia e le province risicole del Piemonte - si erano sviluppate, tra la fine del 700 e l'inizio dell'800, numerose aziende agricole moderne che univano l'agricoltura all'allevamento dei bovini, erano condotte con criteri capitalistici e impiegavano soprattutto manodopera salariata. Accanto ad esse coesistevano, nelle regioni del Nord, le grandi proprietà coltivate a cereali e le piccole aziende a conduzione familiare, diffuse queste ultime soprattutto nelle zone collinari della Lombardia, del Piemonte e del Veneto. In tutta l'Italia centrale, in particolare in Toscana, Marche e Umbria, dominava invece la mezzadria. La terra era divisa in poderi, prevalentemente di piccole e medie dimensioni, dove le colture cerealicole si mescolavano a quelle arboree (olivi, viti, alberi da frutta). Ciascun podere produceva quanto era necessario per il mantenimento della famiglia che viveva e lavorava sul fondo e per il pagamento del canone in natura dovuto al padrone. Il contratto mezzadrile era infatti basato sulla ripartizione degli oneri e dei ricavi fra il proprietario e il coltivatore: questi corrispondeva al proprietario metà del prodotto ed era tenuto a concorrere ai lavori di manutenzione del fondo, alle spese per il bestiame e per gli attrezzi agricoli, senza contare i numerosi oneri aggiuntivi - sempre in senso sfavorevole al contadino - di cui il contratto si era andato caricando nel corso dei secoli. In queste condizioni, il regime di mezzadria finiva col costituire un ostacolo all'innovazione tecnica e allo sviluppo di un'agricoltura moderna, orientata verso il mercato. In compenso consentiva una relativa pace sociale (per questo era apprezzata da molti conservatori) e assicurava un certo grado di salvaguardia del territorio e un rapporto abbastanza equilibrato fra l'uomo e l'ambiente in cui viveva: ne è testimonianza il tipico paesaggio vario e

ordinato, tutto intessuto di strade e di confini e punteggiato da villaggi e piccole città, che ancora sopravvive in buona parte dell'Italia centrale. Molto diversa, da questo punto di vista, era la situazione nel Mezzogiorno e nelle isole. Se si prescinde dai terreni di montagna (dove si viveva di una agricoltura povera e polverizzata in piccolissimi appezzamenti e di un altrettanto povera pastorizia) e se si prescinde da alcune zone fertili della Campania, delle Puglie e della Sicilia, specializzate nella produzione di ortaggi e frutta, le campagne meridionali e insulari (oltre a buona parte dell'Agro romano) portavano evidente anche nel paesaggio l'impronta del latifondo: grandi distese, per lo più coltivate a grano, non interrotte da strade o da insediamenti umani, con la popolazione concentrata in pochi e grossi borghi rurali. Le tracce dell'ordinamento feudale - abolito nel 1806 nel Mezzogiorno continentale e in Sicilia solo nel 1838 - si facevano sentire pesantemente nei contratti agrari profondamente arcaici e basati sullo scambio in natura, e nei rapporti fra i signori e i contadini, spesso caratterizzati, soprattutto in Sicilia, da forme di dipendenza personale. Quella della Sicilia e di molte zone del Mezzogiorno era senza dubbie una situazionelimite. Ma anche nel resto d'Italia l'autoconsumo e lo scambio in natura rappresentavano, al momento dell'unità, una realtà largamente diffusa. Tutto ciò si rifletteva nel bassissimo livello di vita della popolazione rurale. I contadini italiani, nella loro grande maggioranza, vivevano ai limiti della sussistenza fisica. Si nutrivano quasi esclusivamente di pane (per lo più non di frumento, ma di cereali "inferiori" come granturco, avena e segale) e di pochi legumi: andavano quindi soggetti alle malattie da denutrizione, prima fra tutte la pellagra. Vivevano, soprattutto nel Sud, ammucchiati in abitazioni piccole e malsane, non di rado in capanne o in caverne che spesso servivano da dimora anche per gli animali. Questa realtà non poteva essere del tutto ignota ai membri della classe dirigente, molti dei quali erano proprietari terrieri. Ma certamente il grosso dell'opinione pubblica urbana e borghese non la conobbe, almeno in un primo tempo, nei suoi termini reali e nelle sue esatte dimensioni. Nell'Italia appena unificata mancavano dati statistici completi e attendibili; ma soprattutto mancava un sistema di comunicazioni rapide fra le varie parti della penisola. Una rete ferroviaria nazionale era in pratica inesistente: nel 1861 erano in funzione circa duemila chilometri di strade ferrate, di cui due terzi in Piemonte e in Lombardia. Anche la rete stradale era gravemente carente, soprattutto nel Sud. Vaste zone del paese (le paludi pontine, parte dei territori interni della Calabria e della Sardegna, alcune valli appenniniche) erano pressoché impraticabili, conosciute solo da pastori e cacciatori.

Fra gli uomini politici settentrionali ben pochi avevano conoscenza diretta delle condizioni del Mezzogiorno. Lo stesso Cavour, che pure aveva girato in lungo e in largo per l'Europa, non si era mai spinto a sud di Firenze. Il romagnolo Farini, quando nell'autunno del 1860 fu inviato nelle province meridionali in qualità di luogotenente generale, non seppe nascondere il proprio stupore e il proprio aristocratico disprezzo: "Che barbarie! scriveva in una lettera a Cavour - Altro che Italia! Questa è Africa: i beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civili". Gli uomini cui toccò il difficilissimo compito di realizzare la vera unificazione del paese dopo quella politica sancita dai plebisciti e dai decreti - si trovarono dunque di fronte a una realtà mal conosciuta e mal compresa: l'incontro non poteva essere facile. 8.2. La classe dirigente: Destra e Sinistra. L'eredità di Cavour, La Destra storica, La Sinistra, Paese legale e paese reale, Il suffragio ristretto, L'isolamento della classe dirigente. Il 6 giugno 1861, poche settimane dopo la proclamazione dell'unità, moriva a Torino a soli cinquant'anni il conte di Cavour: la classe dirigente moderata perdeva così il suo leader naturale e il suo esponente più capace. I successori di Cavour si attennero sostanzialmente alla politica da lui già impostata nelle grandi linee: una politica rispettosa delle libertà costituzionali e insieme energicamente accentratrice, decisamente liberista in campo economico, sinceramente laica in materia di rapporti fra Stato e Chiesa. Ma lo fecero senza la genialità e la capacità di iniziativa che erano state caratteristiche dell'azione cavouriana. Il gruppo dirigente che governò ininterrottamente il paese nel primo quindicennio di vita unitaria non era molto diverso da quello che si era venuto formando dopo il '49 nel Piemonte costituzionale. Il nucleo centrale era costituito da piemontesi (La Marmora, Sella, Lanza), cioè dalla vecchia maggioranza della Camera subalpina. Ad essa si erano uniti senza difficoltà i gruppi moderati lombardi (Jacini, ViscontiVenosta), emiliani (Farini, Minghetti) e toscani (Ricasoli, Peruzzi). Quantitativamente minore era la rappresentanza delle regioni meridionali, che pure contava personalità di tutto rilievo, come Scialoja e Spaventa. Diversi per provenienza geografica, per formazione culturale e per esperienze politiche trascorse, questi uomini formavano tuttavia un gruppo dirigente abbastanza omogeneo, sia dal punto di vista sociale (venivano per lo più da famiglie di proprietari terrieri ed erano spesso di origine aristocratica) sia sotto il profilo politico. Nei primi

parlamenti dell'Italia unita, la maggioranza si collocava a destra e come "Destra" essa venne definita nel linguaggio corrente (l'aggettivo "storica" fu aggiunto più tardi, a significare la funzione decisiva e peculiare svolta da questa classe dirigente nella storia d'Italia). In realtà, più che una forza di destra, essa costituiva un gruppo di centro moderato: la vera destra - quella dei clericali e dei nostalgici dei vecchi regimi - si era infatti autoesclusa dalle istituzioni del nuovo Stato in quanto non ne riconosceva la legittimità. Un fenomeno analogo si verificò sull'altro versante dello schieramento politico: quello della sinistra democratica. I mazziniani di stretta osservanza e, in genere, i repubblicani intransigenti rifiutarono di partecipare all'attività politica ufficiale. Sui banchi dell'opposizione in Parlamento sedevano, assieme agli esponenti della vecchia sinistra piemontese (Depretis, Valerio, Brofferio), quei patrioti mazziniani o garibaldini da Crispi a Bertani a Benedetto Cairoli - che, in numero sempre crescente, decidevano di inserirsi nelle istituzioni monarchiche, sia pure per cambiarle. Rispetto alla Destra, la Sinistra si appoggiava su una base sociale più ampia e composita, che era formata essenzialmente dai gruppi piccolo e medioborghesi delle città (professionisti e intellettuali, ma anche commercianti e imprenditori) e comprendeva anche gruppi di operai e artigiani del Nord, esclusi dall'elettorato. Nei primi anni dopo l'unità, la Sinistra si contrappose nettamente alla maggioranza moderata facendo proprie le rivendicazioni della democrazia risorgimentale: il suffragio universale, il decentramento amministrativo e soprattutto il completamento dell'unità, da raggiungersi tramite la ripresa dell'iniziativa popolare. Col passare degli anni, la Sinistra venne allargando la sua base, fino a includere una serie di componenti eterogenee unite più che altro dall'avversione alla politica della Destra; e il suo programma venne perdendo alcuni dei connotati originari, tanto da rendere abbastanza incerti i confini tra maggioranza e opposizione. Non bisogna dimenticare che Destra e Sinistra erano entrambe espressione di una classe dirigente molto ristretta, di un "paese legale" assai poco rappresentativo del "paese reale". La legge elettorale piemontese, estesa a tutto il Regno, concedeva infatti il diritto di voto solo a quei cittadini che avessero compiuto i venticinque anni, sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte all'anno. Questi criteri non erano molto diversi da quelli vigenti in Gran Bretagna prima della riforma elettorale del '67. Ma diverse erano le condizioni dei due paesi: in Italia il reddito procapite era pari a circa un terzo di quello inglese e il tasso di analfabetismo era quasi tre volte più alto. Nelle prime elezioni dell'Italia unita gli iscritti nelle liste elettorali erano circa 400.000, meno del 2% della popolazione totale e del 7% dei maschi adulti. Se poi si calcola che la

percentuale di coloro che non votavano pur avendone il diritto era molto elevata - fino a toccare in certe elezioni il 50% - si capirà come, nel primo ventennio di vita unitaria, grazie anche al vigente sistema del collegio uninominale (quello in cui le circoscrizioni elettorali sono di piccole dimensioni e designano ciascuna un solo rappresentante in Parlamento), bastassero poche centinaia o addirittura poche decine di voti per eleggere un deputato. Risultava così esasperato il carattere oligarchico e personalistico della vita politica. Nell'assenza di partiti organizzati nel senso moderno del termine (quelli che allora si chiamavano partiti erano piuttosto schieramenti parlamentari, senza il supporto di organizzazioni permanenti nel paese), la lotta politica si imperniava su singole personalità più che su programmi definiti; era dominata da pochi notabili in grado di sfruttare la propria influenza e le proprie relazioni per ottenere i suffragi necessari all'elezione; ed era pesantemente condizionata dalle ingerenze del potere esecutivo, cui non era difficile favorire la riuscita dei candidati "governativi". Questi caratteri della vita politica, comuni in una certa misura a tutti i regimi liberali ottocenteschi, in un paese appena unificato politicamente com'era l'Italia ebbero l'effetto di accentuare l'isolamento della classe dirigente. Una classe dirigente che era tuttavia convinta di rappresentare la parte migliore e più avanzata del paese e che, per molti aspetti, lo era davvero. Gli uomini della Destra storica si distinsero per onestà e per rigore, tanto da costituire, da questo punto di vista, un esempio mai più superato nella storia dell'Italia unita. Essi furono però portati a identificare le proprie sorti di gruppo politico con quelle delle istituzioni statali, sottoposte alla minaccia concentrica dei "neri" e dei "rossi", ossia dei clericali reazionari e dei repubblicani rivoluzionari; a considerare i fermenti e le inquietudini della società come altrettante minacce al bene supremo dell'unità appena conquistata. Parola chiave Accentramento/ Decentramento Per tutto il secolo XIX la scena politica europea fu dominata dallo scontro "triangolare" fra conservatori, liberalmoderati e democratici: uno scontro che riguardava essenzialmente le forme e i modi della partecipazione al potere. Ma un altro scontro non meno importante, anche se meno appariscente, era quello che concerneva l'organizzazione del potere: ovvero la forma accentrata o decentrata delle istituzioni statali. Su questo tema si fronteggiavano due modelli: quello francese - nato con l'assolutismo regio e rafforzatosi con la rivoluzione giacobina e con l'Impero napoleonico prevedeva uno stretto controllo del potere centrale sugli organi di governo

locale, realizzato attraverso una fitta rete di funzionari che facevano capo ai prefetti, rappresentanti del governo nelle singole circoscrizioni amministrative (dipartimenti); quello britannico lasciava invece ampi spazi, nel campo amministrativo e anche in quello giudiziario, all'iniziativa delle comunità locali. La linea di divisione fra i sostenitori dell'uno e dell'altro modello non coincideva con quella fra conservatori e progressisti. Nell'800 furono soprattutto i democratici a farsi paladini dell'accentramento e dell'unità amministrativa vista come strumento di uguaglianza, mentre conservatori e moderati difesero le autonomie e le diversità locali come il contesto più adatto a far valere i tradizionali privilegi sociali delle classi alte. Ma non mancarono, e non sarebbero mancati in seguito, esempi contrari nell'uno e nell'altro senso. In Italia esisteva fra i democratici una forte corrente autonomista e federalista (si pensi a Cattaneo), mentre i moderati, al potere dopo l'unificazione, realizzarono un ordinamento fortemente accentrato. Presi in sé, dunque, l'accentramento e il decentramento non sono né "di destra", né "di sinistra": entrambi possono essere usati con scopi politici opposti. È vero invece che la propensione all'accentramento è propria in qualche misura di chi detiene il potere centrale (e cerca di rafforzarne le basi), mentre il decentramento è solitamente rivendicato dalle forze che da quel potere sono escluse o non vi si sentono adeguatamente rappresentate. 8.3. Lo Stato accentrato, il Mezzogiorno, il brigantaggio. Sistema accentrato, Le leggi unificatrici, Il malessere del Mezzogiorno, Il brigantaggio, La repressione militare, Il problema della terra, La vendita dei beni ecclesiastici. La preoccupazione quasi ossessiva dell'unità da salvaguardare contro nemici veri o presunti condizionò pesantemente le scelte dei primi governi postunitari e determinò in larga parte la stessa fisionomia del nuovo Stato. I leader della Destra, ammiratori dell'esempio britannico, erano disposti a riconoscere in teoria la validità di un sistema decentrato, basato sull'autogoverno (selfgovernment) delle comunità locali. Nei fatti, però, prevalsero le esigenze pratiche immediate, che spingevano i governanti a stabilire un controllo il più possibile stretto e capillare su tutto il paese e dunque a orientarsi verso un modello di Stato accentrato molto vicino a quello napoleonico: basato cioè su ordinamenti uniformi per tutto il Regno e su una rigida gerarchia di funzionari dipendenti dal centro.

Del resto, le premesse dell'accentramento statale erano implicite nel modo stesso in cui si era giunti all'unificazione del paese, mediante successive annessioni al Regno di Sardegna. Decisiva a questo proposito era stata, fra il giugno '59 e il gennaio '60, l'opera svolta dal ministero La Marmora che, valendosi dei poteri straordinari conferitigli dallo stato di guerra con l'Austria, aveva varato senza alcun controllo parlamentare numerose leggi riguardanti i settorichiave della vita del paese. Talora si trattava di un'estensione, con piccole modifiche, delle leggi piemontesi alle province appena annesse (così fu, ad esempio, per la legge elettorale). In altri casi furono emanate leggi nuove: come la legge Casati sull'istruzione, che creava un sistema scolastico nazionale e stabiliva il principio dell'istruzione elementare obbligatoria (demandandone però l'attuazione ai comuni); o come la legge Rattazzi sull'ordinamento comunale e provinciale, che affidava il governo dei comuni a un consiglio eletto a suffragio ristretto e a un sindaco di nomina regia e faceva delle province le circoscrizioni amministrative più importanti, ponendole sotto lo stretto controllo dei prefetti, rappresentanti del potere esecutivo. Anche questa legge fu successivamente estesa, con poche modifiche, a tutto il Regno: prima provvisoriamente, poi in via definitiva, con la legge di unificazione amministrativa varata nel 1865 dal secondo governo Ricasoli. Fra i motivi che spinsero la classe dirigente a scegliere questa soluzione e ad accantonare ogni progetto di decentramento amministrativo, il principale fu costituito certamente dalla situazione che si era venuta a creare nel Mezzogiorno. Nelle province meridionali liberate dal regime borbonico, il malessere antico delle masse contadine si sommò a una diffusa ostilità verso il nuovo ordine politico, che non aveva portato nessun mutamento radicale nella sfera dei rapporti sociali, anzi aveva visto la borghesia rurale fare rapidamente causa comune con i "conquistatori". Già nell'ultima fase dell'impresa garibaldina erano scoppiate, soprattutto in Campania, rivolte contadine di una certa gravità. Man mano che la realtà del nuovo Stato si venne manifestando con i suoi tratti più spiacevoli agli occhi delle popolazioni meridionali (la pesante fiscalità, il servizio di leva obbligatorio), i disordini si fecero più estesi e più frequenti, fino a trasformarsi in un generale moto di rivolta, incoraggiato da una parte del clero e sovvenzionato dalla corte borbonica in esilio a Roma. Fin dall'estate del '61, tutte le regioni del Mezzogiorno continentale erano percorse da bande di irregolari, dove i briganti veri e propri si mescolavano ai contadini insorti, agli ex militari borbonici, ai cospiratori legittimisti italiani e stranieri. Le bande assalivano di preferenza i piccoli centri e li occupavano per giorni, massacrando i notabili liberali e incendiando gli

archivi comunali; quindi si ritiravano sulle montagne per attaccare subito dopo altrove. A questo attacco, che pareva mettere in forse le basi stesse dell'unità nazionale, i governi postunitari reagirono con spietata energia, rafforzando in primo luogo i contingenti militari già presenti nel Sud. Nel 1863 le forze impiegate nella lotta al brigantaggio giunsero a contare 120.000 uomini, circa la metà dell'intero esercito italiano. Sempre nel '63, il Parlamento approvò una legge che istituiva, nelle province dichiarate "in stato di brigantaggio", un vero e proprio regime di guerra: tribunali militari per giudicare i ribelli e fucilazione immediata per chi avesse opposto resistenza con le armi. Sia per l'efficacia delle misure repressive, sia per la stanchezza della popolazione, il "grande brigantaggio" fu sconfitto nel giro di pochi anni. Già nel 1865 le bande più importanti erano state isolate e distrutte. Rimasero però irrisolti i nodi politici e sociali che avevano reso possibile la diffusione del fenomeno. Mancò ai governi della Destra la capacità o la volontà di attuare una politica per il Mezzogiorno capace di ridurre le cause del malcontento: cause legate in gran parte alla mancata realizzazione delle secolari aspirazioni contadine alla proprietà della terra. La divisione dei terreni demaniali (ossia delle terre pubbliche di origine feudale o comunale), che era stata avviata in periodo napoleonico ed era proseguita con molta lentezza sotto i Borbone, fu portata avanti con scarsa incisività, senza che fosse affrontato il problema delle usurpazioni compiute dai grandi proprietari, né quello dell'abolizione degli usi civici, i tradizionali diritti (di pascolo, di raccolta del legname, ecc.) di cui i contadini godevano sulle terre comuni. Non ottenne risultati migliori la vendita dei terreni dell'asse ecclesiastico, ossia del patrimonio fondiario già appartenente a ordini e congregazioni religiose, incamerato dallo Stato con una legge del 1866. Attuata in tempi molto rapidi, sotto l'urgenza dei problemi finanziari, e col sistema delle vendite all'asta, questa operazione - che riguardava oltre 700.000 ettari di terre coltivabili - non servì a migliorare la situazione dei piccoli proprietari e dei contadini senza terra, che non erano in grado di concorrere all'acquisto dei fondi, e si risolse in un rafforzamento della grande proprietà. Più in generale, le principali scelte di politica economica messe in atto dai governi della Destra si rivelarono tutt'altro che vantaggiose per l'economia del Mezzogiorno. Ne risultò accentuato il divario fra le regioni del Sud e quelle del CentroNord. Molto prima di diventare oggetto di polemiche e di studi, la questione meridionale era già una dolorosa realtà. 8.4. La politica economica: i costi dell'unificazione.

L'unificazione della Destra storica, Lo sviluppo della rete ferroviaria, La crescita dell'agricoltura, Il mancato sviluppo industriale, Il modello liberista, La realizzazione delle infrastrutture, Una dura politica fiscale, Il corso forzoso, La tassa sul macinato, Il pareggio del bilancio. Parallelamente all'unificazione amministrativa e legislativa, i governi dovettero affrontare il problema, non meno complesso, dell'unificazione economica del paese. Si trattava, da un lato, di uniformare sistemi monetari e fiscali diversi, di rimuovere le barriere doganali fra i vecchi Stati preunitari; dall'altro, di costruire un'efficiente rete di comunicazioni stradali e ferroviarie, strumento per avvicinare le varie parti d'Italia, premessa indispensabile per la formazione di un mercato nazionale, ma anche simbolo visibile di modernità e di progresso civile. Nell'affrontare questi problemi, la classe dirigente moderata si mosse con grande decisione sulla strada già indicata e percorsa da Cavour in Piemonte. La legislazione doganale vigente nel Regno sardo - ispirata a princìpi liberisti e quindi basata su dazi di entrata molto bassi - fu subito estesa al territorio dei vecchi Stati: anche di quelli che, come il Regno delle due Sicilie, avevano vissuto fin allora in regime marcatamente protezionistico. Molto rapido fu lo sviluppo delle vie di comunicazione: in particolare della rete ferroviaria che, nel primo decennio unitario, passò da poco più di duemila a circa seimila chilometri, collegando fra loro le principali città italiane, comprese quelle del Mezzogiorno. I risultati di questo sforzo furono notevoli da molti punti di vista. Paesi prima isolati e popolazioni abituate a produrre per il proprio consumo conobbero rapporti di scambio con altre zone più progredite; e ciò fu tramite, a sua volta, di nuovi bisogni e di nuove aspirazioni. Dall'intensificazione degli scambi trassero giovamento le produzioni agricole più specificamente rivolte all'esportazione, in particolare le colture specializzate che abbiamo visto praticate in alcune zone del Mezzogiorno. Più in generale, tutto il settore agricolo conobbe, nei primi decenni dopo l'unità, progressi abbastanza significativi in termini di incremento produttivo. Nessun vantaggio immediato venne invece al settore industriale, che fu anzi nel complesso penalizzato dall'accresciuta concorrenza internazionale. Continuò a svilupparsi l'industria della seta, tradizionalmente esportatrice seppur poco avanzata, tecnologicamente. Declinarono invece le altre produzioni tessili, in particolare quella laniera, e, cosa ancora più grave, i settori siderurgico e meccanico, ancora troppo deboli per potersi giovare dell'occasione che in altri paesi era stata offerta dallo sviluppo delle ferrovie (la cui costruzione fu invece affidata, in buona parte, a imprese straniere).

Gli effetti negativi della scelta liberista furono sentiti soprattutto dai pochi nuclei industriali del Mezzogiorno, inesorabilmente cancellati dalla brusca caduta dei dazi protettivi all'ombra dei quali si erano sviluppati. La penetrazione dei rapporti di mercato nelle campagne meridionali segnò inoltre la fine di molte lavorazioni artigiane che spesso servivano a integrare i bilanci delle famiglie contadine. Questi processi - a prescindere dai loro costi sociali - rappresentavano comunque un fattore di modernizzazione dell'apparato produttivo. Ma essi non furono accompagnati da un'azione dei poteri statali capace di dare impulso ai settori più avanzati e più importanti ai fini dello sviluppo. Ad un'azione del genere si opponevano non solo le condizioni oggettive della ristrettezza del mercato interno, le difficoltà finanziarie), ma anche le convinzioni e la cultura dell'intera classe dirigente. Salvo poche eccezioni, gli uomini politici italiani, di destra come di sinistra, erano stati educati al culto del liberismo e non concepivano altro modello di sviluppo economico all'infuori di quello basato sulle potenzialità naturali del paese. La scommessa liberista e "agricolturista" dei governi postunitari ebbe alcuni effetti positivi: non ultimo quello di consentire una rapida integrazione del nuovo Stato nel contesto economico europeo. Inoltre, lo sviluppo agricolo degli anni '60 e 70, legato all'abbattimento delle barriere doganali, rese possibile una sia pur limitata accumulazione di capitali. Questi capitali, in parte prelevati dallo Stato sotto forma di entrate fiscali, consentirono a loro volta la realizzazione delle cosiddette infrastrutture (strade, ferrovie) indispensabili per il successivo sviluppo industriale. Dopo un ventennio di vita unitaria, l'Italia era senza dubbio una nazione più unita, più avanzata politicamente e civilmente rispetto a quella del 1861. Ma non era un paese molto più ricco di quanto non fosse al momento dell'unificazione e, sotto il profilo dello sviluppo industriale, aveva addirittura perso terreno nei confronti dei paesi più progrediti. Se in alcuni settori sviluppo vi era stato, esso comunque non era andato a beneficio della stragrande maggioranza degli italiani, il cui tenore di vita non aveva registrato mutamenti di rilievo e, in alcuni casi, era addirittura peggiorato. Responsabile principale di questa situazione fu la durissima politica fiscale, dettata dalla necessità di coprire i costi dell'unificazione. La costruzione del nuovo Stato aveva infatti comportato spese ingentissime, sia nel campo delle comunicazioni sia in quelli dell'amministrazione pubblica, dell'istruzione e dell'esercito. Per far fronte a queste spese, i governi della Destra dovettero ricorrere a una serie di inasprimenti fiscali. La pressione tributaria all'inizio fu distribuita abbastanza equilibratamente. Essa si esercitò sia attraverso le imposte dirette, come quella sulla ricchezza mobile

(ossia sui redditi) e quella fondiaria; sia attraverso la tassazione indiretta, che colpiva in primo luogo i consumi (tasse sui sali e i tabacchi, dazi locali sui generi alimentari), ma anche gli affari e i movimenti di capitale (tasse sulle ipoteche, tasse di successione, di bollo e di registro). La situazione si aggravò dopo il '66, in conseguenza di una crisi internazionale e delle spese sostenute per la guerra contro l'Austria [§8.5]. Per rinsanguare le casse dello Stato, i governi succedutisi fra il '66 e il '69 ricorsero a mezzi diversi: furono accelerate le operazioni di incameramento e liquidazione dell'asse ecclesiastico; fu introdotto, nel '67, il corso forzoso, ossia la circolazione obbligatoria della cartamoneta emessa dalle banche autorizzate (ciò significava che lo Stato non era più tenuto a convertire in oro i biglietti di banca e poteva autorizzarne la stampa in maggior quantità). Infine, poiché tutto questo non era sufficiente, furono inasprite le imposte indirette già esistenti e, nell'estate del 1868, ne fu varata una nuova: quella sulla macinazione dei cereali, meglio nota come tassa sul macinato. Si trattava in pratica di una tassa sul pane, cioè sul consumo popolare per eccellenza, che colpiva duramente le classi più povere (si è calcolato che essa sottraeva a un operaio il frutto di dieci giornate lavorative all'anno). Inoltre, dovendo essere pagata ai mugnai all'atto del ritiro della farina, non risparmiava nemmeno quei lavoratori agricoli che producevano da soli i cereali o li ricevevano come parte del salario. L'introduzione di questa tassa accrebbe l'impopolarità della classe dirigente e provocò, all'inizio del 1869, le prime agitazioni sociali su scala nazionale della storia dell'Italia unita. Scoppiati senza alcun coordinamento un po'"in tutto il paese, i moti contro la tassa sul macinato assunsero dimensioni preoccupanti soprattutto nelle campagne padane. La repressione fu anche in questo caso durissima, con largo impiego dell'esercito e con un bilancio di duecentocinquanta morti. La politica di duro fiscalismo e di inflessibile rigore finanziario - politica legata soprattutto al nome di Quintino Sella, ministro delle Finanze nel gabinetto Lanza dal 1869 al 1873 - ottenne alla fine gli effetti sperati. Le condizioni del bilancio statale migliorarono rapidamente fino a raggiungere, nel 1875, l'obiettivo del pareggio. Ma intanto il fronte degli scontenti si allargava. Alla protesta dei ceti popolari, al cronico malcontento del Mezzogiorno, alla reazione dei gruppi di interesse locali colpiti in egual misura dal fiscalismo e dal centralismo amministrativo, si aggiunsero le pressioni degli industriali e dei gruppi bancari e speculativi in favore di una politica economica meno rigida e restrittiva, che lasciasse più ampi margini alla formazione della ricchezza privata. Il peso di questi interessi sarebbe stato decisivo nel provocare la caduta della Destra.

8.5. Il completamento dell'unità. Il problema del completamento dell'unità, La questione romana e i rapporti fra Stato e Chiesa, "Libera Chiesa in libero Stato", Il fallimento dei tentativi di conciliazione, Il tentativo garibaldino, Lo scontro dell'Aspromonte, La Convenzione di settembre, L'alleanza con Bismarck, Le sconfitte di Custoza e Lissa, Un bilancio deludente, I nuovo tentativo garibaldino, La sconfitta di Mentana, La presa di Roma, La legge delle guarentigie, Il rifiuto di Pio IX e il "non expedit". Fra i molti difficili compiti che i governi della Destra storica furono chiamati ad assolvere c'era anche quello di completare l'unità, di riunire cioè alla madrepatria quei territori abitati da popolazioni italiane che erano rimasti fuori dai confini politici del Regno: il Veneto, il Trentino e soprattutto Roma e il Lazio. Sulla necessità di portare a compimento l'unificazione del paese erano d'accordo tutti, moderati e democratici: in particolare, la rivendicazione di Roma capitale era stata solennemente proclamata da Cavour in una delle prime sedute del Parlamento. Ma, mentre i leader della Destra, preoccupati di inserire gradualmente l'Italia nel concerto delle potenze europee, si affidavano ai tempi lunghi delle vie diplomatiche, la Sinistra restava fedele all'idea della guerra popolare e vedeva nella lotta per la liberazione di Roma l'occasione per un rilancio dell'iniziativa democratica. In realtà era proprio la presenza del papa a Roma a costituire il problema più spinoso. E non solo per via dei rapporti con la Francia, che manteneva un suo corpo di occupazione a Roma e costituiva pur sempre per l'Italia l'alleato più sicuro e il principale partner economico. Per capire la gravità della questione si deve riflettere sul fatto che in Italia i cattolici costituivano la stragrande maggioranza della popolazione (più del 99% secondo i censimenti ufficiali); che il clero rappresentava in molte zone rurali l'unica presenza organizzata e l'unico punto di riferimento culturale; che, infine, nella stessa scuola pubblica erano gli ecclesiastici a fornire quasi la metà del corpo insegnante. Anche in questo caso, i primi governi dell'Italia unita cercarono di procedere sulla strada indicata da Cavour. Questi, in coerenza con le sue convinzioni - espresse nella celebre formula "libera Chiesa in libero Stato" già nelle settimane precedenti la proclamazione del Regno d'Italia, aveva avviato trattative informali col Vaticano in vista di una soluzione che assicurasse al papa e al clero piena libertà di esercitare il proprio magistero spirituale, in cambio della rinuncia al potere temporale e del riconoscimento

del nuovo Stato. Le proposte cavouriane si scontrarono, però, contro l'intransigenza di Pio IX, ormai in rotta definitiva non solo col movimento nazionale italiano ma coi valori stessi della civiltà liberale. Né miglior fortuna ebbe un analogo progetto di conciliazione elaborato dal successore di Cavour, il toscano Bettino Ricasoli. Il fallimento di questi tentativi finì col ridare spazio all'iniziativa dei democratici. Nel giugno del 1862, Garibaldi tornò in Sicilia, dove era sempre molto popolare, e rilanciò pubblicamente il progetto di una spedizione contro lo Stato pontificio, senza che le autorità facessero nulla per sconfessarlo o per impedire l'afflusso dei volontari che accorrevano da ogni parte d'Italia. Ma il disegno, coltivato anche dal re e dall'allora primo ministro Rattazzi, di ripetere il gioco del 1860 mettendo le potenze di fronte al fatto compiuto si rivelò impraticabile. Quando Napoleone III fece capire di essere deciso a impedire con la forza un attacco contro Roma, Vittorio Emanuele II fu costretto a sconfessare con un proclama l'impresa garibaldina. Quindi decretò lo stato d'assedio in Sicilia e in tutto il Mezzogiorno. Il 29 agosto 1862 duemila volontari sbarcati in Calabria sotto il comando di Garibaldi furono intercettati, sulle montagne dell'Aspromonte, da reparti dell'esercito regolare. Vi fu un breve scambio di colpi, con alcuni morti da ambo le parti. Lo stesso Garibaldi, ferito leggermente, fu arrestato e rinchiuso per poche settimane in una fortezza militare. L'episodio dell'Aspromonte, che destò vivissima impressione in tutto il paese, fece fare un ulteriore passo indietro alla soluzione della questione romana. Preoccupati di ristabilire buoni rapporti con la Francia, i governanti italiani riannodarono le trattative con Napoleone III e conclusero, nel settembre del 1864, un accordo - la cosiddetta "Convenzione di settembre" in base al quale si impegnavano a garantire il rispetto dei confini dello Stato pontificio, ottenendo in cambio il ritiro delle truppe francesi dal Lazio. A garanzia del suo impegno, il governo - allora presieduto da Marco Minghetti - decideva di trasferire la capitale da Torino a Firenze. Erano ancora vive le discussioni sulla provvisoria rinuncia alla conquista del Lazio, quando all'Italia si presentò inaspettatamente l'occasione di raggiungere l'altro obiettivo fondamentale in vista del compimento dell'unità: la liberazione del Veneto. L'occasione fu offerta, nel '66, da una proposta di alleanza militare italoprussiana rivolta al governo italiano da Bismarck, che si apprestava allora ad affrontare la guerra con l'Impero asburgico [§4.3]. La partecipazione italiana fu decisiva per l'esito del conflitto, in quanto impegnò una parte dell'esercito austriaco e rese quindi possibile la grande vittoria prussiana a Sadowa. Ma, per le forze armate

nazionali chiamate alla loro prima prova impegnativa, la guerra si risolse in un clamoroso insuccesso. Gli italiani si scontrarono con forze austriache inferiori di numero sia per terra (a Custoza il 24 giugno 1866) sia per mare (il 20 luglio presso l'isola di Lissa). In entrambi i casi gli alti comandi diedero cattiva prova di sé: furono i loro errori di valutazione a trasformare in cocenti sconfitte quelli che in realtà erano stati degli scontri brevi e confusi, con perdite limitate da ambo le parti. Gli unici successi della campagna vennero dai Cacciatori delle Alpi, che operarono in Trentino sotto il comando di Garibaldi. Frattanto la Prussia, avendo raggiunto i suoi obiettivi, aveva avviato le trattative per l'armistizio. Dalla successiva pace di Vienna del 3 ottobre 1866 l'Italia ottenne il solo Veneto, senza la Venezia Giulia e il Trentino, regioni abitate da italiani e comprese nei "confini naturali" della nazione, comunemente identificati con la cerchia alpina. Ciò avrebbe costituito, ancora per mezzo secolo, un ricorrente motivo di protesta e di agitazione patriottica. L'ultima delle guerre di indipendenza lasciò inoltre pesanti strascichi sul piano finanziario e, cosa ancora più grave, suscitò in vasti strati dell'opinione pubblica una vera e propria crisi morale: quasi che l'infelice andamento delle operazioni belliche costituisse la prova di una non ancora raggiunta coesione nazionale, di una sostanziale inadeguatezza del nuovo Stato a inserirsi fra le potenze europee su un piano di parità. La situazione venutasi a creare dopo l'esito deludente della guerra con l'Austria diede slancio ancora una volta all'attività dei gruppi democratici d'opposizione. Mazzini intensificò la propaganda per una rifondazione repubblicana dello Stato. Garibaldi ricominciò a progettare una spedizione a Roma. Rispetto allo sfortunato tentativo di qualche anno prima, il progetto conteneva un elemento nuovo. L'azione dei volontari - che si andarono radunando in Toscana nell'estate del '67 avrebbe dovuto appoggiarsi su un'insurrezione preparata dagli stessi patrioti romani. Si sperava in tal modo di giustificare il colpo di mano, presentandolo come un atto di volontà popolare, e di evitare così l'intervento francese. Ancora una volta i calcoli si rivelarono errati. A metà ottobre, mentre le prime colonne di volontari penetravano in territorio pontificio, il governo francese inviò un corpo di spedizione nel Lazio. L'insurrezione a Roma fallì per la sorveglianza della polizia e per la scarsa partecipazione popolare. Un piccolo contingente garibaldino che aveva disceso il Tevere in barca per dare man forte ai rivoltosi fu circondato a Villa Glori e decimato dalle truppe pontificie. L'impresa era già praticamente fallita quando, il 3 novembre '67, le truppe francesi da poco sbarcate a Civitavecchia attaccarono presso Mentana il grosso delle forze garibaldine e le sconfissero dopo un duro combattimento.

Con l'infelice episodio di Mentana si chiudeva definitivamente la stagione delle imprese risorgimentali. E svaniva, nel contempo, ogni speranza di risolvere la questione romana d'accordo col papa e con la Francia. L'occasione per la conquista di Roma sarebbe stata offerta, di lì a poco, da eventi esterni e imprevedibili, come la guerra francoprussiana e la caduta del Secondo Impero. Nel settembre 1870, subito dopo la battaglia di Sedan, il governo italiano, non sentendosi più vincolato ai patti sottoscritti con l'imperatore, decise di mandare un corpo di spedizione nel Lazio e di avviare contemporaneamente un negoziato col papa per giungere a una soluzione concordata. Benché fosse completamente isolato in Europa, soprattutto dopo le decisioni del Concilio Vaticano I [§2.10], Pio IX rifiutò ogni accordo, deciso a mostrare al mondo intero di essere stato costretto a cedere alla violenza. Il 20 settembre 1870 le truppe italiane, dopo aver aperto con l'artiglieria una breccia nella cinta muraria che allora circondava Roma e dopo aver sostenuto un breve combattimento con i reparti pontifici, entravano nella città presso Porta Pia, accolte festosamente dalla popolazione. Pochi giorni dopo, un plebiscito sanzionava a schiacciante maggioranza l'annessione di Roma e del Lazio. Il trasferimento della capitale da Firenze a Roma fu effettuato nell'estate dell'anno successivo, dopo che lo Stato italiano ebbe regolato con una legge il complesso problema dei rapporti con la Santa Sede. La legge, approvata il 13 maggio 1871, fu detta "delle guarentigie", cioè delle garanzie, in quanto con essa il Regno d'Italia si impegnava unilateralmente a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale, secondo le linee del progetto cavouriano di dieci anni prima. Al papa venivano riconosciute prerogative simili a quelle di un capo di Stato: onori sovrani, facoltà di tenere un corpo di guardie armate, diritto di rappresentanza diplomatica, extraterritorialità per i palazzi del Vaticano e del Laterano, libertà di comunicazioni postali e telegrafiche col resto del mondo. Lo Stato offriva inoltre al papa, che la rifiutò, una dotazione annua pari a quella iscritta nel bilancio dell'ex Stato pontificio per il mantenimento della corte papale. Nel complesso la legge delle guarentigie attuava largamente il principio della libertà della Chiesa: la quale, liberatasi dal peso del potere temporale, finì col guadagnarne in dinamismo e in capacità di influenza. Non per questo si attenuò l'intransigenza del papa nei confronti del Regno d'Italia. Anzi, l'invito ad astenersi da ogni partecipazione alla vita politica dello Stato, già rivolto dal clero ai cittadini italiani all'indomani dell'unità, si trasformò, nel 1874, in un esplicito divieto pronunciato dalla Curia romana

e riassunto nella formula del non expedit ("non giova", "non è opportuno" che i cattolici partecipino alle elezioni politiche). L'acquisto di Roma, nel momento stesso in cui coronava il processo di unificazione nazionale, allargava così le fratture della società italiana e restringeva la già fragile base di consenso su cui si reggevano le istituzioni. 8.6. La Sinistra al potere. Le divisioni della Destra e l'evoluzione della Sinistra, La caduta della Destra, Le elezioni del novembre 1876, Un nuovo ceto dirigente, I tentativi di democratizzazione, Depretis, Il programma della Sinistra, La legge Coppino sull'istruzione elementare, L'ampliamento del suffragio, La riforma elettorale del 1882, Il trasformismo, I radicali. Nella prima metà degli anni 70 si verificarono nel quadro politico italiano alcuni significativi mutamenti. Aumentò il numero dei deputati che non si collocavano né a destra né a sinistra, ma si definivano "indipendenti" o "di centro". Si accentuarono le fratture interne alla Destra, sempre più divisa in gruppi a base regionale (lombardoemiliani, piemontesi, toscani). Si fece evidente, anche in conseguenza dei timori suscitati dalla Comune parigina, lo slittamento di buona parte della Sinistra parlamentare su posizioni più moderate. Accanto alla vecchia Sinistra piemontese, guidata da Agostino Depretis, e alla cosiddetta Sinistra storica - quella degli ex garibaldini come Crispi, Cairoli e Zanardelli - veniva emergendo una Sinistra giovane, espressione di una borghesia moderata (soprattutto meridionale), poco sensibile alla tradizione democraticorisorgimentale e attenta piuttosto alla tutela dei propri interessi. A mettere in crisi la già scossa maggioranza fu, paradossalmente, la defezione di uno dei gruppi più conservatori, quello toscano. Il 18 marzo 1876 la Destra si presentò divisa nella discussione alla Camera di un progetto governativo per il passaggio alla gestione statale delle ferrovie (che erano affidate in esercizio a compagnie private). Il governo Minghetti, messo in minoranza, presentò le dimissioni. Pochi giorni dopo, il re chiamò a formare il nuovo governo Agostino Depretis, che costituì un ministero formato interamente da uomini della Sinistra. Nelle elezioni politiche del novembre di quell'anno, la Sinistra riportò un nettissimo successo, in parte dovuto alle pesanti ingerenze del governo: e ne uscì confermato il carattere irreversibile del declino della Destra, ormai sostituita nella rappresentanza dei ceti borghesi e moderati.

Con la cosiddetta rivoluzione parlamentare del marzo 1876, si apriva una nuova fase nella storia politica dell'Italia unita. Giungeva al potere un ceto dirigente quasi del tutto nuovo a esperienze di governo, diverso per formazione e per estrazione sociale da quello che aveva retto il paese nel primo quindicennio di vita unitaria. Si allontanava l'età delle lotte risorgimentali mentre scomparivano, nel giro di un decennio, gli ultimi protagonisti di quella stagione: Mazzini, spentosi in solitudine e in semiclandestinità a Pisa nel 1872, Vittorio Emanuele II (cui successe il figlio Umberto I) e Pio IX, scomparsi nel 1878 a poche settimane di distanza l'uno dall'altro, Garibaldi, morto a Caprera nel 1882. Nel momento in cui arrivò al potere, la Sinistra parlamentare aveva fortemente attenuato la sua originaria connotazione radicaldemocratica e si era allargata, come si è visto, fino ad accogliere nel suo seno componenti moderate o addirittura conservatrici. Ciononostante, la nuova classe dirigente riuscì a esprimere in qualche modo il desiderio di democratizzazione della vita politica diffuso in larga parte della società; tentò, pur con molte incertezze e cautele, di allargare le basi dello Stato; seppe venire incontro alle esigenze di una borghesia in crescita meglio di quanto non fossero stati in grado di fare gli uomini della Destra, troppo chiusi in un atteggiamento di aristocratico distacco rispetto ai fermenti del "paese reale". Il protagonista indiscusso di questa fase politica, il piemontese Agostino Depretis, già leader della Sinistra all'opposizione, fu capo del governo per oltre dieci anni, con una parentesi fra il 1878 e il 1881 (quando la guida dell'esecutivo fu affidata a Benedetto Cairoli, esponente dell'ala progressista della maggioranza). Mazziniano in gioventù, approdato poi a posizioni più moderate, parlamentare espertissimo maturato nelle lotte politiche della Camera piemontese, Depretis riuscì a contemperare con molta abilità le spinte progressiste e le tendenze conservatrici che coesistevano all'interno della nuova maggioranza. Il programma della Sinistra era basato su pochi punti fondamentali: allargamento del suffragio elettorale; riforma dell'istruzione elementare che ne assicurasse l'effettiva obbligatorietà e gratuità; sgravi fiscali soprattutto nel settore delle imposte indirette; decentramento amministrativo. Quest'ultimo impegno fu completamente accantonato. Gli altri ebbero attuazione, anche se a volte tardiva. La prima riforma attuata fu quella dell'istruzione elementare. Una legge del 1877 - nota come legge Coppino dal nome del ministro che la presentò ribadiva l'obbligo della frequenza scolastica già stabilito dalla legge Casati, portandolo fino a nove anni e aggiungendovi alcune sanzioni per i genitori inadempienti. Restavano tuttavia irrisolti i nodi di fondo che impedivano

una reale attuazione dell'obbligo scolastico e che erano legati alle condizioni di povertà in cui versava la maggioranza delle famiglie italiane e alla insufficiente capacità dei comuni - soprattutto meridionali - di provvedere ai compiti loro spettanti. Fino alla fine del secolo, la percentuale degli analfabeti si mantenne molto elevata, pur diminuendo costantemente (si passò dal 70% del 1871 al 63% dell'81, per scendere di poco al di sotto del 50% solo all'inizio del '900). Legato al problema dell'istruzione era quello dell'ampliamento del suffragio, che costituiva il punto centrale di tutto il programma della Sinistra. La nuova legge elettorale, che fu approvata dalla Camera solo all'inizio del 1882, concedeva il diritto di voto a tutti i cittadini che avessero compiuto il ventunesimo anno di età (la legge precedente fissava l'età minima a venticinque anni) e avessero superato l'esame finale del corso elementare obbligatorio, o dimostrassero comunque di saper leggere e scrivere. Il requisito del censo era mantenuto, in alternativa a quello dell'istruzione, e contemporaneamente abbassato di circa la metà (da quaranta a venti lire annuali di imposte pagate). A causa dell'alto tasso di analfabetismo, la consistenza numerica dell'elettorato restava sempre piuttosto esigua: poco più di due milioni, pari al 7% della popolazione e a circa un quarto dei maschi maggiorenni. Il corpo elettorale risultava tuttavia più che triplicato rispetto alle ultime consultazioni a suffragio ristretto e, quel che più conta, profondamente modificato nella composizione. Grazie alla nuova legge accedeva alle urne non solo la piccola borghesia urbana, ma anche una frangia non trascurabile di artigiani e operai del Nord. Le prime elezioni a suffragio allargato (ottobre 1882) videro infatti l'ingresso alla Camera del primo deputato socialista, il romagnolo Andrea Costa. La riforma elettorale dell'82 segnò il coronamento, ma anche il punto terminale, della stagione di riforme inaugurata con l'avvento della Sinistra. Furono proprio le preoccupazioni suscitate dall'allargamento del suffragio e dal conseguente prevedibile rafforzamento dell'estrema sinistra a favorire quel processo di convergenza fra le forze moderate che nacque da un accordo elettorale fra Depretis e il leader della Destra Minghetti e che prese il nome di "trasformismo". La sostanza del trasformismo non stava - come sosteneva Depretis - nella "trasformazione" dei moderati in progressisti, ma piuttosto nel venir meno delle tradizionali distinzioni ideologiche fra Destra e Sinistra e nella rinuncia, da parte di quest'ultima, a una precisa caratterizzazione programmatica. Si compiva così, in modo irreversibile, quel mutamento nella fisionomia della Camera e nei caratteri stessi della lotta politica che si era profilato fin dall'inizio degli anni 70. A un modello "bipartitico" di stampo inglese (destra contro sinistra, maggioranza contro

opposizione, conservatori contro progressisti) se ne sostituiva un altro basato su un grande centro che tendeva a inglobare le opposizioni moderate e a emarginare le ali estreme (i conservatori più intransigenti da un lato, l'estrema sinistra dall'altro). La maggioranza non era più definita sulla base di precise discriminanti programmatiche, ma veniva "costruita" giorno per giorno a forza di compromessi e patteggiamenti: il che provocava un sostanziale immobilismo nell'azione di governo, oltre che un netto scadimento nel tono della vita politica. La svolta moderata di Depretis ebbe come conseguenza il definitivo distacco dalla maggioranza dei gruppi democratici più avanzati che, pur avendo abbandonato i metodi cospirativi e accantonato la pregiudiziale repubblicana, continuavano a battersi per il suffragio universale, per una politica estera antiaustriaca e per una politica ecclesiastica più decisamente anticlericale, per un più forte impegno in favore delle classi povere. Sotto la guida di Agostino Bertani, e poi di Felice Cavallotti, questo gruppo - che, con termine mutuato dalla Francia della Terza Repubblica, fu chiamato radicale - svolse negli anni '80 un ruolo di combattiva opposizione contro le maggioranze trasformiste. 8.7. Crisi agraria e sviluppo industriale. Gli sgravi fiscali e l'aumento della spesa pubblica, L'agricoltura italiana: i settori più avanzati, Le condizioni dei contadini e l'Inchiesta Jacini, Gli effetti della crisi agraria, L'emigrazione, Il problema del "decollo", Dal liberismo al protezionismo, La siderurgia e la fondazione della Terni, La svolta protezionistica del 1887, Le conseguenze sull'economia, La crisi delle esportazioni agricole. Fra le cause che avevano portato alla caduta della Destra c'era sicuramente il malcontento provocato dalla sua politica economica, sia fra i ceti popolari, gravati dal peso delle imposte indirette, sia fra la borghesia produttiva, desiderosa di una linea meno rigida che incoraggiasse gli investimenti e la formazione della ricchezza. I governi della Sinistra cercarono di andare incontro a queste esigenze non facilmente conciliabili. La famigerata tassa sul macinato fu considerevolmente ridotta nel 1880, per essere poi del tutto abolita nell'84. Fu contemporaneamente aumentata la spesa pubblica, sia per coprire le accresciute esigenze militari sia per accontentare le richieste dei variegati gruppi di interesse su cui si reggeva la maggioranza. Questa politica, se da un lato favorì - come vedremo meglio nel prossimo paragrafo - l'avvio di un processo di industrializzazione,

dall'altro provocò, fin dall'inizio degli anni '80, la ricomparsa di un forte e crescente deficit nel bilancio statale, senza peraltro riuscire a superare le difficoltà economiche dovute in primo luogo all'arretratezza del settore agricolo. Gli sviluppi registrati dall'agricoltura italiana nel ventennio 1860-80 grazie alla caduta delle barriere doganali e allo sviluppo dei trasporti erano stati più quantitativi che qualitativi, non avevano modificato nella sostanza i rapporti di produzione né avevano comportato grandi progressi nelle tecniche di coltivazione. Se miglioramenti vi erano stati, questi avevano riguardato soprattutto le zone e i settori già relativamente progrediti: le terre irrigue della pianura lombarda e le colture "specializzate" del Mezzogiorno (olivi, agrumi e soprattutto uva da vino). Altri mutamenti significativi si erano avuti, fin dall'inizio degli anni 70, in alcune zone della Bassa Padana, in particolare nel Ferrarese: dove grandi lavori di bonifica promossi da imprenditori capitalisti avevano sconvolto la fisionomia del paesaggio agrario e attirato vaste masse di braccianti. In tutto il resto d'Italia, però, la situazione dell'agricoltura non era molto cambiata rispetto ai primi anni dell'unità; né molto migliorate erano le condizioni dei lavoratori delle campagne, oberati da contratti arcaici, sottopagati, malnutriti, analfabeti nella stragrande maggioranza. Questa realtà fu ampiamente documentata dalla grande Inchiesta agraria deliberata dal Parlamento nel 1877 e presieduta dal senatore lombardo Stefano Jacini. Dall'Inchiesta, che fu conclusa nel 1884, emergeva un quadro drammatico dello stato dell'agricoltura italiana. Nella relazione finale si indicavano come rimedi un'estensione delle opere di bonifica e di irrigazione, un più razionale avvicendamento delle colture e una loro maggior diversificazione. Ma ciò richiedeva abbondanza di capitali e disponibilità all'investimento da parte dei privati: tutte condizioni che allora mancavano, soprattutto nel Mezzogiorno. Tanto più che, a partire dal 1881, l'Italia cominciò a risentire gli effetti della crisi agraria [§6.2]. Anche in Italia la crisi si manifestò con un brusco abbassamento dei prezzi che colpì in primo luogo i cereali e poi tutto l'insieme della produzione agricola, ad eccezione delle colture da esportazione che non subivano la concorrenza dei prodotti d'oltreoceano. Al calo dei prezzi seguì un calo della produzione (quella dei cereali diminuì del 25 % in dieci anni), con conseguenti gravissimi disagi per tutte le categorie agricole. Anche gli effetti sociali della crisi agraria furono analoghi a quelli già osservati per l'insieme dei paesi europei: aumento della conflittualità nelle campagne; rapido incremento dei flussi migratori verso i centri urbani e soprattutto

verso l'estero. Nel decennio 1870-80, l'emigrazione dall'Italia si era mantenuta intorno a una media annua di 100-120.000 espatri. Nell'ultimo ventennio del secolo la cifra crebbe considerevolmente, fino a raggiungere una media di 300.000 partenze all'anno fra il '96 e il '900, con un forte aumento della quota di emigrazione permanente, diretta per lo più verso i paesi transoceanici. Fra il 1881 e il 1901, abbandonarono definitivamente l'Italia più di due milioni di persone. Se da un lato la crisi agraria costituì un ulteriore fattore di ritardo per il decollo industriale italiano (in quanto indebolì la base produttiva del paese e rallentò il processo di trasformazione capitalistica dell'agricoltura), per altri versi essa finì col favorirlo, o quanto meno col renderne più chiara la necessità. La crisi non solo distolse capitali dal settore agricolo, indirizzandoli verso altri impieghi, ma fece cadere le illusioni di chi ancora credeva che lo sviluppo economico italiano potesse fondarsi solo sull'agricoltura e sull'esportazione dei prodotti della terra. Gli esponenti della Sinistra, pur essendo nel complesso bendisposti nei confronti delle richieste degli industriali, erano, come i loro predecessori, decisamente avversi in linea di principio all'intervento dello Stato nell'economia. Queste convinzioni liberiste furono però scosse dall'andamento tutt'altro che brillante dell'economia nazionale e dall'esempio che veniva dagli altri Stati europei, soprattutto dalla Germania. Un primo mutamento di rotta si ebbe nel 1878, con l'approvazione di una serie di dazi doganali che offrivano una moderata protezione ai prodotti dell'industria, in particolare di quella tessile, con effetti però abbastanza limitati. Nel 1884 un nuovo grande complesso siderurgico, le Acciaierie di Terni, fu realizzato col concorso finanziario delle maggiori banche nazionali e col decisivo aiuto dello Stato, che si impegnava all'acquisto di ingenti forniture per le ferrovie e per la marina da guerra. Lo scopo era quello di raggiungere l'autosufficienza in materia di armamenti, allora considerata un requisito indispensabile per un paese con ambizioni da grande potenza. D'altra parte, l'industria siderurgica, non potendosi reggere sulle sole commesse statali, aveva bisogno per sopravvivere di un'elevata protezione doganale. Una decisa svolta in senso protezionistico era del resto invocata ormai da quasi tutti gli industriali e dagli stessi proprietari terrieri, un tempo incondizionatamente favorevoli al liberismo ma ora colpiti dalle conseguenze della crisi agraria. Si giunse così nell'estate del 1887 - mentre era in carica l'ultimo governo Depretis - al varo di una nuova tariffa generale che metteva al riparo dalla concorrenza straniera importanti settori dell'industria nazionale (i più

favoriti, oltre al siderurgico, furono il laniero, il cotoniero e lo zuccheriero), colpendo le merci di importazione con pesanti dazi di entrata. In campo agricolo, il nuovo regime doganale fu esteso ai cereali: il dazio sul grano fu quasi triplicato fra l'87 e l'89. La tariffa dell'87 segnava una rottura definitiva con la tradizione liberoscambista seguita negli anni '60 e 70 e poneva le basi di un nuovo blocco di potere economico simile per certi aspetti a quello realizzatosi nella Germania bismarckiana - fondato sull'alleanza fra l'industria protetta e i grandi proprietari terrieri (settentrionali e meridionali) e sull'intreccio non sempre limpido fra i maggiori gruppi di interesse e i poteri statali. È ormai opinione diffusa che la scelta protezionistica non avesse molte alternative nell'Europa di fine '800, che essa costituisse per l'Italia una sorta di passaggio obbligato sulla strada di quel decollo industriale poi realizzatosi a partire dagli ultimi anni del secolo XIX. È certo tuttavia che, almeno nell'immediato, la tariffa dell'87 produsse una serie di conseguenze negative e accentuò gli squilibri fra i vari settori dell'economia e fra le varie zone del paese. I dazi doganali non proteggevano in modo uniforme i diversi comparti produttivi. Al forte sostegno accordato alla siderurgia faceva riscontro la scarsa protezione di cui godeva l'industria meccanica (danneggiata oltretutto dal rialzo dei prezzi dei prodotti siderurgici). Nel ramo tessile i progressi dei settori protetti (laniero e cotoniero) si accompagnarono al declino di un'industria tradizionalmente esportatrice come quella della seta. Quanto all'agricoltura, l'introduzione del dazio sul grano provocò un immediato rialzo del prezzo dei cereali: il che, se da un lato rappresentò una boccata d'ossigeno per le aziende in crisi, dall'altro danneggiò i consumatori (che videro praticamente annullati i vantaggi ottenuti con l'abolizione della tassa sul macinato) e contribuì a tenere in vita, soprattutto nel Mezzogiorno, realtà produttive tecnicamente arretrate. Contemporaneamente l'agricoltura meridionale veniva colpita nel suo settore più moderno: quello delle colture specializzate, che si reggeva soprattutto sulle esportazioni e che vide bruscamente chiudersi il suo principale mercato di sbocco. La tariffa dell'87 ebbe infatti come conseguenza una rottura commerciale, poi degenerata in vera e propria guerra doganale, con la Francia, che era stata fin allora il principale partner economico dell'Italia e il maggior acquirente dei prodotti agricoli del Sud. Ancora una volta era dunque il Mezzogiorno a pagare i prezzi più pesanti in termini di povertà e di arretratezza sociale.

8.8. La politica estera: la Triplice alleanza e l'espansione coloniale. La svolta della politica estera italiana, Il timore dell'isolamento, Il contrasto con la Francia per Tunisi, La Triplice alleanza, L'irredentismo, Il rinnovo della Triplice, L'avvio dell'espansione coloniale, L'Etiopia, L'episodio di Dogali. Anche per la politica estera italiana gli anni della Sinistra segnarono una svolta decisiva: una svolta che si compì nel maggio 1882, quando il governo Depretis - abbandonando la linea di prudente equilibrio seguita dai governi precedenti e basata sul mantenimento di buone relazioni con tutte le grandi potenze e sul rapporto "preferenziale" con la Francia - stipulò con la Germania e l'AustriaUngheria il trattato della Triplice alleanza. Diversi motivi concorsero a determinare e a rendere quasi inevitabile questa scelta che risultò per molti versi sgradita all'opinione pubblica italiana, in quanto rappresentava una netta rottura con la tradizione risorgimentale. Pesarono nella decisione preoccupazioni di ordine interno: l'alleanza con gli imperi conservatori del Centro Europa - voluta soprattutto dal re e dagli ambienti militari e stipulata quasi in coincidenza con la svolta trasformista e moderata di Depretis - sembrava la più adatta a conferire solidità alle istituzioni del giovane Stato. Ma il movente decisivo era di natura internazionale e stava nel desiderio, avvertito in quasi tutti i settori dello schieramento politico, di uscire da una situazione di isolamento diplomatico che appariva insopportabile in un'epoca dominata dalla logica di potenza. Questa situazione era apparsa in tutta la sua evidenza già durante il congresso di Berlino del 1878 [§4.6], in cui l'Italia era rimasta a mani vuote, senza riuscire a opporsi all'espansione austriaca nei Balcani né a ottenere dall'Impero asburgico qualche compenso territoriale in Trentino o in Venezia Giulia. Un trauma ancora più grave era stato rappresentato, nel 1881, dall'affare tunisino [§7.5]. L'Italia considerava la Tunisia - per la vicinanza geografica e per la presenza di una forte comunità di immigrati (soprattutto siciliani) - come il naturale sbocco di una sua eventuale azione coloniale. Ma non aveva potuto far nulla per opporsi quando a muoversi era stata la Francia, con l'aperto incoraggiamento della Germania e l'avallo dell'Inghilterra. Ne era seguito un grave deterioramento dei rapporti italofrancesi, destinato a far sentire i suoi effetti per oltre un quindicennio. Per uscire dall'isolamento, l'Italia non aveva dunque altra strada se non quella dell'accordo con Germania e Austria, insistentemente sollecitato da Bismarck.

La Triplice era un'alleanza di carattere difensivo, che impegnava gli Stati firmatari a garantirsi reciproca assistenza in caso di aggressione da parte di altre potenze. In concreto, l'Italia veniva coinvolta nel sistema di sicurezza bismarckiano, ricevendone in cambio la garanzia contro un'improbabile aggressione francese (molto più plausibile era invece l'eventualità di un attacco della Francia alla Germania), ma senza ottenere dai nuovi alleati alcun vantaggio immediato, anzi rinunciando implicitamente alla rivendicazione storica delle terre irredente (cioè il Trentino e la Venezia Giulia, "non redente" ovvero non liberate dal dominio austriaco). Un problema questo che era tenuto particolarmente vivo dalle numerose associazioni "irredentiste", nate negli ambienti della sinistra repubblicana e radicale, e che fu drammaticamente riproposto dal caso di Guglielmo Oberdan, un giovane triestino impiccato nel dicembre 1882 per aver cercato di attentare alla vita dell'imperatore austriaco Francesco Giuseppe. La situazione diplomatica dell'Italia migliorò nel 1887, quando, in occasione del rinnovo della Triplice, furono inserite nel trattato due nuove clausole. La prima stabiliva che eventuali modifiche territoriali nei Balcani sarebbero avvenute di comune accordo fra Italia e Austria e che ogni vantaggio di una delle due potenze sarebbe stato bilanciato da adeguati "compensi" per l'altra. Con la seconda clausola, la Germania si impegnava a intervenire a fianco dell'Italia in caso di un conflitto provocato da iniziative francesi in Marocco e in Tripolitania. L'Italia si garantiva così contro il ripetersi di episodi come quello tunisino e riaffermava la sua aspirazione a un ruolo di potenza mediterranea. Contemporaneamente alla stipulazione della Triplice, il governo DepretisMancini, spinto da considerazioni di prestigio e dalla pressione di ristretti gruppi di interesse, aveva ritenuto opportuno porre le basi per una piccola iniziativa coloniale in una zona dell'Africa orientale in cui l'espansione appariva più facile (anche per la presenza di esploratori e missionari italiani) e la concorrenza meno agguerrita, ma in cui era difficile ravvisare per l'Italia interessi economici o strategici di qualche importanza. Il punto di partenza fu costituito dall'acquisto, nel giugno 1882, della baia di Assab, sulla costa meridionale del Mar Rosso. All'acquisto fece seguito, nel 1885, l'invio di un corpo di spedizione che procedette all'occupazione di una striscia di territorio fra la baia di Assab e la città di Massaua. La zona, abitata da popolazioni nomadi, confinava con l'Impero etiopico, il più forte e il più vasto fra gli Stati africani. L'Etiopia - o Abissinia, come veniva comunemente chiamata in Italia - era un paese economicamente molto arretrato, con una popolazione di fede cristiana e di confessione copta, dedita in prevalenza alla pastorizia, con un'organizzazione di tipo feudale, in

cui l'autorità dell'imperatore (negus) era fortemente limitata rispetto a quella dei signori locali (ras), che disponevano di propri eserciti. In un primo tempo, gli italiani cercarono di stabilire buoni rapporti con l'Etiopia e di avviarvi una penetrazione commerciale. Ma, quando tentarono di allargare il loro controllo territoriale verso l'interno, dovettero scontrarsi con la reazione del negus Giovanni IV e dei ras locali. Nel gennaio 1887, una colonna di cinquecento militari italiani fu sorpresa dalle truppe abissine e sterminata nei pressi di Dogali. La notizia dell'eccidio suscitò un'ondata di proteste in tutto il paese, in particolare fra i gruppi di estrema sinistra che si erano sempre opposti all'avventura coloniale. Prevalse però l'esigenza di tutelare il prestigio nazionale; e la Camera accordò al governo i finanziamenti richiesti per l'invio di rinforzi e per il consolidamento della presenza italiana sulla fascia costiera. 8.9. Movimento operaio e organizzazioni cattoliche. La composizione della classe operaia, Le società di mutuo soccorso, Anarchici e socialisti, Le leghe operaie, Gli scioperi agricoli nella Valle Padana, Antonio Labriola, Filippo Turati e Anna Kuliscioff, La nascita del Partito socialista, Il fronte cattolico, L'Opera dei congressi, Il pontificato di Leone XIII. La crescita di un movimento operaio organizzato fu rallentata, in Italia, dal ritardo nello sviluppo industriale e dalla conseguente assenza di un proletariato di fabbrica moderno e numericamente consistente. Degli oltre tre milioni di persone - pari a un 20% della popolazione attiva - che il censimento del 1871 indicava come addetti all'industria, la maggioranza era costituita da lavoranti di botteghe artigiane. Anche nelle unità produttive di maggiori dimensioni (specie nel settore tessile, dove era molto numerosa la manodopera femminile e minorile) accadeva spesso che gli operai alternassero stagionalmente il lavoro in fabbrica con quello nei campi; e molto diffuso, sempre nel settore tessile, restava il lavoro a domicilio. Fino all'inizio degli anni 70, l'unica organizzazione operaia di una certa consistenza diffusa in tutto il paese fu quella delle società di mutuo soccorso, associazioni in parte controllate dai mazziniani e in parte organizzate da esponenti moderati. Concepite come strumenti di educazione del popolo più che come organismi di lotta, le società operaie avevano essenzialmente scopi di solidarietà, rifiutavano la lotta di classe e consideravano "funesto" il ricorso allo sciopero. Era dunque naturale che perdessero terreno via via che lo scontro sociale si faceva più aspro e

cominciava a diffondersi nel paese l'internazionalismo socialista, che in Italia si ispirò, almeno in un primo tempo, più alle teorie anarchiche di Bakunin [§2.9] che a quelle di Marx. La crescita del movimento internazionalista si dovette soprattutto all'opera di alcuni instancabili agitatori (come Carlo Cafiero, Andrea Costa, Errico Malatesta) che, fedeli al credo bakuniniano, concentrarono i loro sforzi nell'organizzazione di moti insurrezionali, facendo leva soprattutto sul proletariato delle campagne. Il completo fallimento di questi tentativi convinse Andrea Costa che era necessario elaborare un programma concreto, impegnandosi nelle lotte di tutti i giorni e dando vita a un vero e proprio partito. La "svolta" di Costa trovò una prima attuazione con la nascita, nell'estate dell'81, del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, che avrebbe dovuto essere il primo nucleo di un "Partito rivoluzionario italiano" e che rese possibile l'elezione di Costa nell'82. In realtà il partito rimase sempre una formazione regionale, priva di legami con i nuclei operai più maturi e avanzati che intanto si andavano costituendo soprattutto in Lombardia. Fin dall'inizio degli anni 70, circoli operai, società di miglioramento, leghe di resistenza (queste ultime esplicitamente finalizzate alla organizzazione degli scioperi) erano venuti sorgendo in numerosi centri industriali e avevano dato un forte impulso all'azione rivendicativa dei lavoratori. Nell'82, alcune associazioni operaie milanesi decisero di dar vita a una formazione politica autonoma che prese il nome di Partito operaio italiano e che si presentò come un organismo rigidamente classista, più federazione di associazioni operaie che vero e proprio partito politico. Fermissimi nel respingere ogni apporto borghese (tanto da ammettere nelle loro file solo i lavoratori manuali), gli "operaisti" cercarono di stabilire un contatto con quel proletariato rurale della Bassa Padana che fu protagonista dei primi grandi scioperi agricoli nella storia dell'Italia unita: particolarmente imponenti quelli che si svolsero nel Mantovano e nel Polesine nel 1884-85. Fra il 1887 e il 1893 sorsero le prime federazioni di mestiere a carattere nazionale; furono fondate le prime Camere del lavoro (organizzazioni sindacali a base locale); si accelerò anche la penetrazione del socialismo fra i lavoratori della terra grazie al movimento associativo fra i braccianti e i contadini della Valle Padana. Per tutto il movimento di classe si poneva a questo punto il problema di una organizzazione politica unitaria capace di guidare e coordinare le lotte a livello nazionale. Il problema non era di facile soluzione a causa della frammentazione organizzativa del movimento operaio e del suo scarso grado di maturazione ideologica. Le opere di Marx erano poco conosciute e le sue teorie erano spesso interpretate in chiave

positivistica, quasi come una integrazione sul piano economico delle dottrine di Darwin e Spencer. L'unico autentico e originale teorico marxista che allora operasse in Italia era il filosofo napoletano Antonio Labriola. Giunto al socialismo dall'idealismo hegeliano, amico e corrispondente di Engels, Labriola contribuì non poco alla conoscenza del pensiero di Marx in Italia; ma rimase, per il suo stesso rigore teorico, una figura relativamente isolata fra i leader socialisti, formatisi tutti nel clima del positivismo evoluzionistico allora dominante nei circoli intellettuali e nelle università. In realtà fu proprio un intellettuale milanese di formazione positivistica, Filippo Turati, il principale protagonista delle vicende che portarono alla fondazione del Partito socialista italiano. Nato nel 1857 da una famiglia dell'alta borghesia lombarda, Turati aveva militato da giovane nelle file della democrazia radicale. Decisivo per la sua formazione politica era stato l'incontro con Anna Kuliscioff, una giovane esule russa che aveva già alle spalle una notevole esperienza politica e una larga conoscenza del mondo socialista europeo. Ma non meno decisivo fu il contatto con l'ambiente operaio di Milano, già allora indiscussa capitale economica d'Italia e sede degli esperimenti più avanzati di associazionismo fra i lavoratori. Meno rigorosa, sul piano teorico, rispetto a quella di Labriola, la posizione di Turati fu molto chiara nelle scelte politiche di fondo: l'affermazione dell'autonomia del movimento operaio dalla democrazia borghese; il rifiuto dell'insurrezionismo anarchico; il riconoscimento del carattere prioritario delle lotte economiche; l'esigenza di collegare queste lotte con quelle politiche, e di inquadrarle in un progetto generale che aveva come obiettivo finale la socializzazione dei mezzi di produzione. Nell'agosto del 1892 si riunirono a Genova i delegati di circa trecento fra società operaie, leghe contadine, circoli politici e associazioni di varia natura. Subito si delineò la frattura tra una maggioranza favorevole all'immediata costituzione di un partito e una minoranza contraria, formata dagli anarchici e da una parte degli aderenti al Partito operaio. Vista l'impossibilità di trovare un accordo, i delegati della maggioranza, guidati da Turati, abbandonarono la sala del congresso e, riunitisi in altra sede, dichiararono costituito il Partito dei lavoratori italiani, approvandone subito il programma e lo statuto. Il programma indicava come fine la "gestione sociale" dei mezzi di produzione e, come mezzo atto a raggiungerlo, "l'azione del proletariato organizzato in partito [...] esplicantesi sotto il doppio aspetto: 1) della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia [...]; 2) di una lotta più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici [...]". L'anno seguente il nuovo partito avrebbe modificato il suo

nome in Partito socialista dei lavoratori italiani, per assumere poi, nel 1895, quello definitivo di Partito socialista italiano. Se per la classe dirigente liberalmoderata il movimento socialista rappresentava una presenza minacciosa, sull'opposto versante politico non meno preoccupante era l'atteggiamento della massa dei cattolici militanti, fermi nella fedeltà al papa e nel conseguente rifiuto dello Stato uscito dal Risorgimento [§8.5]. I cattolici non organizzavano scioperi né insurrezioni, ma costituivano ugualmente una forza eversiva nei confronti delle istituzioni unitarie di cui non riconoscevano la legittimità: una forza tanto più pericolosa in quanto profondamente radicata nel tessuto sociale, in particolare nel mondo delle campagne. Il divieto papale di partecipare alle elezioni, formulato col non expedit del 1874, non si applicava alle elezioni amministrative; né significava per il movimento cattolico la rinuncia a una presenza autonoma nella vita del paese. Proprio nel 1874, in un convegno tenuto a Venezia, un gruppo di autorevoli esponenti del mondo cattolico italiano (ecclesiastici e laici) decise di dar vita a un'organizzazione nazionale che fu chiamata Opera dei congressi; saldamente controllata dal clero, essa ebbe il compito di convocare periodicamente congressi delle associazioni cattoliche operanti in Italia, assicurando loro un più stretto collegamento. Il suo programma si riduceva a una dichiarazione di ostilità nei confronti del liberalismo laico, della democrazia e del socialismo, a una professione di fedeltà al magistero del pontefice e alla dottrina cattolica. Qualche segno di apertura si ebbe dopo il 1878, in coincidenza con l'avvento al soglio pontificio di papa Leone XIII. Sotto il suo pontificato il movimento cattolico italiano accentuò il suo impegno sul terreno sociale, cui lo spingeva fatalmente la stessa tendenza a raccogliere una base di massa. Sorsero così, soprattutto in Lombardia e nel Veneto, società di mutuo soccorso, cooperative agricole e artigiane controllate dal clero e ispirate alla dottrina sociale cattolica. Di fronte alla crescita delle organizzazioni cattolicointransigenti, l'atteggiamento della classe dirigente fu incerto e oscillante. Da un lato, gli uomini della Sinistra erano naturalmente portati a combattere l'associazionismo cattolico in ogni sua forma; dall'altro, erano indotti a riconsiderare l'importanza di un accordo con la Chiesa per la stabilità politica e sociale del paese. Ma un tentativo di conciliazione avviato nel 1886-1887 per iniziativa di esponenti cattolicomoderati si scontrò con l'intransigenza del papa sulla questione della sovranità su Roma e si concluse con un fallimento.

8.10. La democrazia autoritaria di Francesco Crispi. Crispi, La riforma amministrativa e il codice Zanardelli, La politica repressiva, La politica estera di Crispi, La politica coloniale, L'opposizione a Crispi. Quando, nell'estate del 1887, morì Agostino Depretis, parve naturale che a succedergli fosse Francesco Crispi, che ricopriva allora la carica di ministro degli Interni ed era certo la personalità più rilevante della Sinistra parlamentare. Siciliano, primo meridionale a salire alla presidenza del Consiglio, Crispi poteva contare, in virtù del suo passato mazziniano e garibaldino, su ampie simpatie a sinistra, ma anche sulla benevola fiducia dei gruppi conservatori, attratti dalle sue promesse di uno stile di governo più autoritario ed efficiente, di chiara impronta "bismarckiana". Appoggiandosi su una larghissima maggioranza e accentrando nella sua persona per quasi quattro anni la presidenza del Consiglio e i ministeri degli Interni e degli Esteri, Crispi impresse in effetti una decisa svolta all'azione di governo: accentuò le spinte autoritarie e repressive, ma si fece anche promotore di un'opera di riorganizzazione e di razionalizzazione dell'apparato statale che non aveva precedenti se non nei primi anni dell'unità e che certo non fu priva di aspetti positivi. Nel 1888 fu approvata una legge comunale e provinciale che allargava il diritto di voto per le elezioni amministrative - estendendolo a tutti i cittadini maschi maggiorenni che sapessero leggere e scrivere o pagassero almeno cinque lire di imposte all'anno - e rendeva elettivi i sindaci dei comuni con più di diecimila abitanti. Nel 1889 fu varato un nuovo codice penale (noto come codice Zanardelli, dal nome dell'allora ministro della Giustizia) che aboliva la pena di morte, ancora in vigore in tutti i maggiori Stati europei, e non negava il diritto di sciopero, riconoscendone implicitamente la legittimità. Questo riconoscimento era però temperato - e in qualche misura contraddetto - dalla nuova legge di pubblica sicurezza (varata anch'essa nell'89) che, pur essendo più avanzata della precedente, poneva gravi limiti alla libertà sindacale e lasciava alla polizia ampi poteri discrezionali, come quello di inviare al domicilio coatto, senza l'autorizzazione della magistratura, gli elementi ritenuti pericolosi. Di questi poteri i governi presieduti da Crispi si valsero con molta frequenza, intervenendo duramente contro il movimento operaio, ma anche contro le organizzazioni cattoliche e contro i circoli irredentisti di ispirazione repubblicana: il che provocò un rapido inasprimento dei rapporti fra la maggioranza crispina e i gruppi dell'estrema sinistra democratica.

Alla riorganizzazione "efficientistica" dello Stato faceva riscontro, nei progetti di Crispi, una decisa quanto velleitaria affermazione del ruolo dell'Italia come grande potenza, anche nel settore coloniale. Per realizzare il suo programma, lo statista siciliano - che non aveva mai fatto mistero della sua ammirazione per la Germania bismarekiana - puntò fin dall'inizio sul rafforzamento della Triplice alleanza e, all'interno di essa, sul consolidamento dei legami con l'Impero tedesco. Conseguenza di questa politica fu un ulteriore inasprimento dei rapporti italofrancesi, che ebbe la sua manifestazione più clamorosa nella "guerra doganale" [§8.7]. Nelle intenzioni di Crispi, il rafforzamento della Triplice doveva non solo garantire l'Italia da nuove iniziative francesi nel Mediterraneo, ma anche servire da base per una più attiva presenza nello scacchiere africano. Alla fine dell'87 fu inviato a Massaua un nuovo corpo di spedizione. I possedimenti italiani furono ampliati e riorganizzati, nel 1890, col nome di Colonia Eritrea, mentre venivano poste le basi per una nuova iniziativa di espansione sulle coste della vicina Somalia. La politica coloniale di Crispi suscitava, però, perplessità sempre più diffuse in seno alla stessa maggioranza, in quanto risultava troppo costosa per il bilancio dello Stato in un momento di grave crisi economica. Messo in minoranza in una votazione alla Camera, Crispi si dimise all'inizio del 1891. Nel maggio 1892, dopo un intermezzo in cui la guida del governo fu affidata al marchese Antonio di Rudinì, esponente di quell'ala della destra conservatrice che si era opposta alla politica coloniale e finanziaria di Crispi, la presidenza del Consiglio passò al piemontese Giovanni Giolitti. 8.11. Giolitti, i Fasci siciliani e la Banca romana. Giolitti, Il programma giolittiano, I Fasci siciliani, Lo scandalo della Banca romana, La caduta di Giolitti. Figura centrale del successivo trentennio di storia italiana, Giovanni Giolitti aveva cinquant'anni quando assunse per la prima volta la guida del governo: era nato nel 1842 ed era dunque troppo giovane per aver potuto partecipare alle lotte risorgimentali. Entrato in Parlamento nel 1882, dopo una brillante carriera nei ranghi dell'amministrazione statale, si era segnalato come critico severo della politica economica della Sinistra. In politica finanziaria, Giolitti mirava a una più equa ripartizione del carico fiscale che risparmiasse i ceti disagiati e colpisse con aliquote più alte i redditi maggiori (secondo il principio, oggi universalmente accettato, della progressività delle imposte). Anche in politica interna - nonostante fosse

difficile attribuirgli una collocazione precisa in termini di schieramenti parlamentari - aveva idee piuttosto avanzate: nel periodo in cui fu presidente del Consiglio e ministro degli Interni si astenne infatti da misure preventive (o indiscriminatamente repressive) nei confronti del movimento operaio e delle organizzazioni popolari. Giolitti non venne meno a questa linea quando, fra il '92 e il '93, si sviluppò in Sicilia un vasto movimento di protesta sociale che sfociò nella formazione di una fitta rete di associazioni popolari. Queste organizzazioni, che presero il nome di Fasci dei lavoratori (il termine "fascio" stava per lega, unione) e si diffusero sia nei centri urbani sia nelle campagne, interpretavano soprattutto la protesta popolare contro le tasse troppo pesanti e contro il malgoverno locale e chiedevano per i contadini terre da coltivare e patti agrari più vantaggiosi. Non si trattava dunque di un movimento rivoluzionario, anche se diede luogo ad alcune manifestazioni violente (assalti ai municipi e ai caselli daziari), né di un movimento socialista in senso stretto, anche se era guidato da organizzatori di tendenza socialista. Lo sviluppo dei Fasci siciliani suscitò tuttavia forti preoccupazioni nella classe dirigente locale e fra i conservatori di tutta Italia, che intensificarono le loro pressioni su Giolitti perché adottasse nell'isola misure eccezionali. L'ostilità dei conservatori contribuì non poco a indebolire il governo e ad accelerarne la caduta, che fu dovuta tuttavia alle conseguenze di un grave scandalo politicofinanziario, quello della Banca romana. La Banca romana era uno dei maggiori istituti di credito italiani, uno dei cinque che, assieme alla Banca nazionale, godevano del privilegio di stampare - dietro autorizzazione del ministero del Tesoro - biglietti a corso legale. Avendo impegnato somme cospicue nell'edilizia, negli anni in cui la capitale in rapida espansione era stata attraversata da una vera e propria febbre speculativa, si era poi trovata in serio imbarazzo quando, alla fine degli anni '80, la crisi economica aveva colpito il settore delle costruzioni facendo fallire molte delle imprese debitrici. Per uscire dalle difficoltà, i dirigenti della banca si erano resi colpevoli di gravissime irregolarità. Una successiva inchiesta parlamentare rivelò il pericoloso intreccio che legava il mondo politico e giornalistico agli ambienti della speculazione edilizia e bancaria. Molti deputati e giornalisti erano stati finanziati dalla Banca romana; e di essa si era servito lo stesso governo - con Crispi come con Giolitti - per ottenere anticipazioni di denaro che serviva a influenzare la stampa e l'opinione pubblica in occasione delle campagne elettorali. Accusato di aver coperto le irregolarità della banca in quanto ministro del Tesoro nel governo Crispi, Giolitti fu costretto a dimettersi nel dicembre

1893. Le accuse non erano prive di fondamento, ma furono manovrate dai gruppi conservatori e dallo stesso Crispi per sbarazzarsi di un presidente del Consiglio giudicato troppo debole. Non altrimenti si spiegherebbe come mai a sostituire Giolitti fosse richiamato proprio Crispi, che nello scandalo bancario aveva responsabilità ancora più pesanti. Ciò che in realtà si invocava era l'avvento dell""uomo forte", capace di rimettere ordine nel paese e di arrestare la crescita del movimento operaio. 8.12. Il ritorno di Crispi e la sconfitta di Adua. La riforma bancaria, La repressione in Sicilia e in Lunigiana, Le leggi antisocialiste, Il socialismo e gli intellettuali, L'alleanza con i democratici, Le difficoltà di Crispi, Il contrasto con l'Etiopia, La sconfitta di Adua e la caduta di Crispi, Impopolarità del colonialismo. Tornato al governo nel dicembre del 1893, Francesco Crispi affrontò con l'abituale risolutezza una situazione preoccupante sotto tutti i punti di vista, con un'opinione pubblica allarmata dalla crisi economica, sconcertata dagli scandali bancari, spaventata dall'intensificarsi delle agitazioni in Sicilia. In campo economico, il nuovo governo avviò una politica di risanamento del bilancio basata su pesanti inasprimenti fiscali e completò la riorganizzazione del dissestato sistema bancario, già iniziata da Giolitti con una legge che istituiva la Banca d'Italia. Questa avrebbe ottenuto, nel 1926, il monopolio dell'emissione e, a partire dal 1947, avrebbe svolto compiti di controllo sull'intero sistema bancario. In materia di ordine pubblico, Crispi non esitò a ricorrere a mezzi eccezionali. Ai primi di gennaio del 1894, lo stato d'assedio fu proclamato in Sicilia e successivamente esteso alla Lunigiana, dove si era verificato, senza alcun nesso con gli avvenimenti siciliani, un tentativo di insurrezione anarchica. La repressione militare fu dura e sanguinosa e fu accompagnata da una più generale operazione di polizia estesa a tutto il paese e rivolta soprattutto contro circoli, leghe e giornali facenti capo al Partito socialista, che pure non aveva responsabilità dirette nel moto siciliano. Nel luglio 1894 il governo volle dare alla sua azione repressiva un carattere organico, facendo approvare dal Parlamento un complesso di leggi limitative della libertà di stampa, di riunione e di associazione, che ricordava da vicino la legislazione eccezionale varata una quindicina di anni prima da Bismarck in Germania. Le leggi furono definite "antianarchiche", ma avevano come obiettivo principale il Partito socialista, che nell'ottobre fu dichiarato fuori legge. Gli effetti non furono però quelli sperati da Crispi.

Le persecuzioni non riuscirono a distruggere la già solida rete organizzativa su cui si reggeva il partito e accrebbero le simpatie di cui i socialisti godevano nella sinistra democratica e soprattutto negli ambienti intellettuali: si accostarono in questo periodo al socialismo molti scrittori, filosofi e scienziati, da De Amicis a Pascoli, da Cesare Lombroso a Guglielmo Ferrero. La nuova situazione spinse inoltre i dirigenti socialisti a riscoprire il valore delle libertà politiche e a riannodare i contatti con quelle forze di democrazia "borghese" (radicali e repubblicani) rispetto alle quali fin allora avevano tenuto a sottolineare soprattutto la propria autonomia. Si spiega così la decisione di attenuare l'originaria intransigenza in materia elettorale e di ammettere limitate alleanze con i partiti progressisti: una scelta che fu premiata nelle elezioni politiche del maggio 1895, dove i socialisti riuscirono a far eleggere dodici candidati. Questo successo aumentò le difficoltà del governo Crispi che doveva subire i contraccolpi della "questione morale" sollevata nei suoi confronti dall'estrema sinistra (e soprattutto dal leader radicale Felice Cavallotti) sulla base delle rivelazioni che venivano man mano emergendo sulle responsabilità del presidente del Consiglio nello scandalo della Banca romana. Ma il colpo definitivo per Crispi venne dal fallimento del suo tentativo di conciliare la politica di austerità finanziaria col mantenimento di un alto livello di spese militari e con una ripresa di iniziativa in campo coloniale. Già durante il suo primo governo, Crispi aveva cercato di stabilire una qualche forma di protettorato sull'Etiopia, intavolando col nuovo negus Menelik trattative che portarono, nel 1889, alla firma del trattato di Uccialli. Ma il trattato, redatto in due versioni (in italiano e in amarico, la lingua parlata in Etiopia) non perfettamente corrispondenti, conteneva notevoli ambiguità: mentre gli italiani vi lessero un riconoscimento del loro protettorato sull'Etiopia, Menelik lo interpretò come un normale patto di amicizia e di collaborazione. Quando l'equivoco venne alla luce, i rapporti italoetiopici si deteriorarono bruscamente. Nella primavera del 1895, gli italiani ripresero la loro penetrazione dall'Eritrea verso l'interno, scontrandosi ancora una volta con la reazione etiopica. In dicembre un distaccamento italiano rimasto isolato sull'Amba Alagi venne circondato e distrutto. Tre mesi dopo i comandi italiani, spinti dal desiderio di rivincita e sollecitati in tal senso da Crispi, decisero di attaccare il grosso dell'esercito etiopico. L'azione, imprudentemente concepita e mal preparata, si risolse in un disastro: il 1° marzo 1896, nella conca di Adua, un esercito di circa sedicimila uomini fu praticamente distrutto dalle soverchianti forze abissine, lasciando sul terreno quasi la metà dei suoi effettivi.

La sconfitta - che aveva pochi precedenti nella storia delle guerre coloniali - ebbe immediate ripercussioni in Italia: violente manifestazioni contro la guerra d'Africa scoppiarono a Roma, a Milano e in molte altre città, mentre il governo era costretto a dimettersi. Crispi usciva così - e questa volta definitivamente - dalla scena politica. Al suo successore, che fu ancora una volta il leader dell'opposizione di destra Rudinì, non restò che concludere in tutta fretta una pace con l'Etiopia che garantisse almeno la presenza italiana in Eritrea e Somalia. L'episodio di Adua e le reazioni che ne erano seguite avevano dimostrato quanto la guerra coloniale fosse poco sentita dalle masse popolari e da larghi strati della stessa classe dirigente (la borghesia milanese era stata in prima fila nell'opposizione alla politica africana del governo) e quanto illusorio fosse stato il tentativo di Crispi di cogliere successi di prestigio, per sé e per il paese, in un'avventura imperialistica a cui mancavano le indispensabili premesse politiche ed economiche. Sommario Al momento dell'unità l'agricoltura era l'attività economica nettamente prevalente nel paese; si trattava di un'agricoltura per lo più povera, caratterizzata da una grande varietà negli assetti produttivi: aziende agricole moderne (Pianura Padana), mezzadria (Italia centrale), latifondo (Mezzogiorno). La condizione di vita dei contadini era generalmente ai limiti della sussistenza fisica. Questa realtà di arretratezza economica e disagio sociale era assai poco conosciuta dalla classe dirigente. Morto Cavour (giugno '61), il gruppo dirigente che tenne le redini del paese proseguendone l'opera - sia pure senza la sua genialità e abilità - fu quello della Destra. Le si contrapponeva la Sinistra, che faceva proprie le rivendicazioni della democrazia risorgimentale (suffragio universale, decentramento amministrativo, completamento dell'unità attraverso l'iniziativa popolare). Destra e Sinistra erano espressione d'una classe dirigente molto ristretta (gli aventi diritti al voto erano 400.000): il che diede un carattere accentrato e personalistico alla vita politica. I leader della Destra realizzarono, sul piano amministrativo e legislativo, una rigida centralizzazione. Tra le circostanze che li spinsero in tale direzione va ricordata soprattutto la situazione del Mezzogiorno, dove l'ostilità delle masse contadine verso i "conquistatori" assunse col brigantaggio caratteristiche di vera e propria guerriglia. Il brigantaggio fu sconfitto grazie a un massiccio impiego dell'esercito; restò tuttavia irrisolto il problema di fondo del Mezzogiorno, cioè quello della terra (non

favorirono i contadini né la divisione dei terreni demaniali né la vendita dei beni ecclesiastici). Sul piano economico, la linea liberista seguita dal governo produsse un'intensificazione degli scambi commerciali che favorì lo sviluppo dell'agricoltura e consentì l'inserimento del nuovo Stato nel contesto economico europeo. Fu importante anche l'impegno della Destra nella creazione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo economico (strade, ferrovie). Nell'immediato, tuttavia, il tenore di vita della popolazione non migliorò, anche a causa della dura politica fiscale seguita dalla Destra, soprattutto quando, dopo il '66, alla necessità di coprire gli ingenti costi dell'unificazione si sommarono le conseguenze di una crisi internazionale e le spese per la guerra contro l'Austria. Particolarmente impopolare fu la tassa sul macinato, che provocò violente agitazioni sociali in tutto il paese. Il completamento dell'unità costituì uno dei problemi più difficili che la Destra si trovò di fronte. Falliti i tentativi di conciliazione con la Chiesa, riacquistava spazio l'iniziativa dei democratici; nel 1862 l'iniziativa garibaldina di una spedizione di volontari si risolse in uno scontro con l'esercito regolare (Aspromonte). Nel 1864 fu firmata la Convenzione di settembre con la Francia, che prevedeva il trasferimento della capitale a Firenze. L'alleanza con Bismarck contro l'Austria e la vittoria prussiana consentirono nel 1866 l'acquisto del Veneto, cui si accompagnò però una profonda amarezza nell'opinione pubblica: solo grazie alla Prussia, infatti, l'Italia allargava il suo territorio dopo una guerra in cui aveva subito due cocenti sconfitte (Custoza e Lissa). Il problema della conquista di Roma fallito a Mentana (1867) un nuovo tentativo garibaldino - poté risolversi inaspettatamente con la caduta del Secondo Impero, che permise al governo italiano la presa della città (20 settembre 1870). Con la legge delle guarentigie lo Stato italiano si impegnava a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale. L'intransigenza di Pio IX si manifestò nel divieto per i cattolici italiani di partecipare alle elezioni. Nel marzo 1876, il governo fu battuto alla Camera su un progetto di legge relativo alla statizzazione delle ferrovie. Il nuovo governo presieduto da Depretis segnava il definitivo allontanamento della Destra dal potere. L'avvento al potere della Sinistra segnò l'inizio di una nuova fase nella politica italiana: si allontanava il periodo delle lotte risorgimentali e si allargavano in qualche misura le basi dello Stato. Tuttavia - approvate la legge Coppino sull'istruzione e la riforma elettorale dell'82 - gran parte del programma riformatore della Sinistra fu accantonato. Il sistema politico italiano perse, col "trasformismo" di Depretis, il suo carattere bipartitico,

finendo con l'essere dominato da un grande centro che emarginava le ali estreme. La Sinistra abolì la tassa sul macinato e aumentò la spesa pubblica. Se si escludono le zone più sviluppate del Nord, l'agricoltura italiana versava in condizioni assai arretrate. Situazione ulteriormente aggravata dalle ripercussioni della crisi agraria, tra i cui effetti vi fu un rapido incremento dell'emigrazione. La crisi agraria finì col favorire indirettamente il "decollo" industriale italiano, dimostrando quanto fosse illusoria l'idea che lo sviluppo economico del paese potesse basarsi solo sull'agri_ coltura. Si affermò così una linea di appoggio dello Stato all'industria che si manifestò anzitutto nell'adozione di tariffe protezionistiche (1878 e, soprattutto, 1887). Il protezionismo era una strada obbligata per l'industrializzazione del paese. Restava, e anzi si aggravava, lo squilibrio economico fra Nord e Sud. La stipulazione della Triplice alleanza (1882) segnò nella politica estera italiana una svolta, determinata dal timore di un isolamento internazionale e dal trauma rappresentato dall'occupazione francese della Tunisia. Il trattato costringeva l'Italia a rinunziare implicitamente alla rivendicazione di Trentino e Venezia Giulia, tenuta viva dal movimento irredentista. Fu avviata in quegli anni un'espansione coloniale sulle coste del Mar Rosso. Il tentativo di estendersi verso l'interno portò al contrasto con l'Etiopia e all'eccidio di Dogali (1887). Dati i ritardi nello sviluppo industriale, la classe operaia italiana era costituita solo per una minoranza da proletariato di fabbrica. Le società di mutuo soccorso, inizialmente dominate da mazziniani e moderati, perdettero via via terreno a favore del movimento internazionalista che in Italia ebbe essenzialmente indirizzo anarchico. Gli anni '80 videro una notevole crescita del movimento operaio, con la fondazione di federazioni di mestiere e Camere del lavoro, leghe bracciantili e cooperative agricole. Nel 1892 fu fondato il Partito dei lavoratori italiani (poi Partito socialista). Benché il non expedit (1874) vietasse la partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche (ma non alle amministrative), la presenza cattolica nella società italiana, soprattutto nelle campagne, era massiccia. L'Opera dei congressi sorse per organizzare tale presenza, secondo una linea di rigida opposizione al liberalismo e al socialismo. L'elezione di papa Leone XIII (1878), più aperto ai problemi della società moderna, favorì l'impegno sociale dei cattolici e lo sviluppo delle loro organizzazioni. Alla morte di Depretis (1887) divenne presidente del Consiglio Crispi: la sua politica autoritaria e repressiva si accompagnò a una importante riorganizzazione dell'apparato statale. La sua politica estera portò alla

"guerra doganale" con la Francia e a un maggior impegno in Africa orientale. Nettamente diversa la politica di Giolitti, a capo del governo nel '92-93, imperniata su una più equa pressione fiscale e su una linea non repressiva nei confronti dei conflitti sociali. Il rifiuto di Giolitti di adottare misure eccezionali contro i Fasci siciliani e lo scandalo della Banca romana provocarono le sue dimissioni. Gli atti di maggior rilievo del nuovo governo Crispi (1893) furono: la riforma bancaria (nascita della Banca d'Italia), la proclamazione dello stato d'assedio in Sicilia e Lunigiana, le leggi antisocialiste, l'ulteriore spinta all'azione coloniale che portò alla guerra con l'Etiopia. La sconfitta di Adua (1896) causò la fine politica di Crispi. Bibliografia Per la storia dell'Italia unita fino al 1915, accanto alle classiche interpretazioni, "liberale" di Benedetto Croce (Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1928) e "nazionalista" di Gioacchino Volpe (Italia moderna, I, Ispi, Milano 1943; II e III, Sansoni, Firenze 1949-52), tuttora ricche di suggestioni, si vedano il V e il VI volume della Storia dell'Italia moderna di G. Candelora: La costruzione dello Stato unitario e lo sviluppo del capitalismo e del movimento operaio, Feltrinelli, Milano 1968 e 1970; R. Romanelli, L'Italia liberale (1861-1900), Il Mulino, Bologna 1979; G. Sabbatucci V. Vidotto (a e. di), Storia d'Italia, vol. 2, Il nuovo Stato e la società civile (1861-1887), Laterza, RomaBari 1995; F. Cammarano, Storia politica dell'Italia liberale 1861-1901, ivi 1999. Ricordiamo inoltre, tra le storie generali dell'Italia unita, i tre tomi del IV volume, Dall'unità a oggi, della Storia d'Italia, a e. di R. Romano e C. Vivanti, Einaudi, Torino 197576: 1. V. Castronovo, La storia economica; 2. A. Asor Rosa, La cultura; 3. E. Ragionieri, La storia politica e sociale. Si veda infine la biografia politica di Crispi, Ch. Duggan, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Laterza, RomaBari 2000. Sugli aspetti istituzionali: C. Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia. 1848/1948, Laterza, RomaBari 1974; R. Romanelli (a e. di), Storia dello Stato italiano dall'Unità a oggi, Donzelli, Roma 1995; G. Melis, Storia dell'amministrazione italiana (1861-1993), Il Mulino, Bologna 1996. Per la storia economica, vedi G. Toniolo, Storia economica dell'Italia liberale 1850-1918, Il Mulino, Bologna 1988 e L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d'Italia, Marsilio, Venezia 1989; V. Zamagni, Dalla

periferia al centro. La seconda rinascita economica dell'Italia (1861-1981), Il Mulino, Bologna 1990 e G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico, Laterza, RomaBari 1998. In particolare sul problema dell'industrializzazione, vedi i volumi di R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, cit. al cap. 3, e Breve storia della grande industria in Italia 1861-1961, Cappelli, Bologna 19724; e i saggi raccolti in La formazione dell'Italia industriale, a cura di A. Caracciolo, Laterza, Bari 1963, e in L'industrializzazione in Italia (1861-1900), a e. di G. Mori, Il Mulino, Bologna 19812. Sulla questione meridionale: Il Sud nella storia d'Italia, a e. di R. Villari, Laterza, Bari 1961; M. L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Einaudi, Torino 1960 e P. Bevilacqua, Breve storia dell'Italia meridionale, Donzelli, Roma 1990. Sui ceti dirigenti, vedi A. M. Banti, Storia della borghesia italiana. L'età liberale, Donzelli, Roma 1996. Sui rapporti tra classe dirigente e "paese reale", vedi R. Romanelli, Il comando impossibile, Il Mulino, Bologna 1988. Su scuola e cultura, S. Soldani G. Turi (a e. di), Fare gli italiani, vol. I, La nascita dello Stato nazionale, ivi 1993. Sulla politica estera, ma anche sull'atmosfera politica e culturale dell'epoca, si veda il classico studio di E. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. Le premesse, Laterza, Bari 1951. Per la storia del movimento operaio e del socialismo: Il socialismo nella storia d'Italia. Storia documentaria dal Risorgimento alla Repubblica, a e. di G. Manacorda, Laterza, Bari 1966;G. Arfè, Storia del socialismo italiano (1892-1926), Einaudi, Torino 1965; R. Zangheri, Storia del socialismo italiano. Dalle prime lotte nella Valle Padana ai fasci siciliani, ivi 1997. Sulla formazione della classe operaia e sulla nascita delle organizzazioni di classe vedi S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano, 1880-1900, La Nuova Italia, Firenze 1972; e la raccolta documentaria di A. Pepe, Movimento operaio e lotte sindacali (1880-1922), Loescher, Torino 1976. Sui Fasci siciliani: F. Renda, I Fasci siciliani 189294, Einaudi, Torino 1977. Sui cattolici: G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, vol. I, Dalla Restaurazione all'età giolittiana, Laterza, Bari 1966; G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 19612. 9. Verso la società di massa. 9.1. Che cos'è la società di massa.

Il concetto di "massa", I caratteri della società di massa, Le reazioni alla società di massa. Le città sono piene di gente. Le case piene di inquilini. Gli alberghi pieni di ospiti. I treni pieni di viaggiatori. I caffè pieni di consumatori. Le strade piene di passanti. Le anticamere dei medici piene di ammalati. Gli spettacoli [...] pieni di spettatori. [...] La moltitudine, improvvisamente, s'è fatta visibile [...]. Prima, se esisteva, passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso s'è avanzata nelle prime linee, è essa stessa il personaggio principale. Ormai non ci sono più protagonisti: c'è soltanto un coro. Queste frasi, tratte dal celebre libro La ribellione delle masse dello spagnolo José Ortega y Gasset, sono state scritte nel 1930. Ma il fenomeno che vi è descritto - e che allora appariva così esplicito nelle sue manifestazioni visibili e così inquietante nelle sue implicazioni - aveva radici molto lontane. Di "massa" nel senso di moltitudine indifferenziata al suo interno, di aggregato omogeneo in cui i singoli tendono a scomparire rispetto al gruppo, si parlava già all'inizio dell'800, dopo che la Rivoluzione francese aveva visto il "popolo" entrare per la prima volta da protagonista sulla scena politica. I problemi del rapporto fra massa e individuo, con particolare accento sui pericoli che l'ascesa delle masse portava all'ordine sociale tradizionale (ma anche a quello liberalborghese), erano stati al centro della riflessione di molti pensatori ottocenteschi (si pensi a Tocqueville). Ma è solo alla fine dell'800, col diffondersi dell'industrializzazione e dei connessi fenomeni di urbanizzazione, e solo nei paesi economicamente più avanzati dell'Europa occidentale e del Nord America, che si vengono delineando i contorni di quella che oggi chiamiamo "società di massa". Nella società di massa la maggioranza dei cittadini vive in grandi e medi agglomerati urbani; gli uomini sono quindi a più stretto contatto gli uni con gli altri; entrano in rapporto fra loro con maggiore frequenza e facilità che in passato (grazie anche alla disponibilità di mezzi di trasporto, di comunicazione e di informazione), ma questi rapporti hanno spesso un carattere anonimo e impersonale. Il sistema delle relazioni sociali non passa più attraverso le piccole comunità tradizionali (locali, religiose, di mestiere), ma fa capo alle grandi istituzioni nazionali: agli apparati statali, ai partiti e in genere alle organizzazioni "di massa", che esercitano un peso crescente sulle decisioni pubbliche e sulle stesse scelte individuali. Il grosso della popolazione è uscito dalla dimensione dell'autoconsumo e quasi tutti sono entrati, come produttori o come consumatori di beni e di servizi, nel circolo

dell'economia di mercato. I comportamenti e le mentalità tendono a uniformarsi secondo nuovi modelli generali, svincolati dagli schemi e dalle consuetudini delle società tradizionali. La società di massa è dunque una realtà complessa, risultante dall'intreccio di una serie di processi economici, di trasformazioni politiche, di mutamenti culturali. Una realtà che ha suscitato, e continua a suscitare, resistenze e reazioni d'ogni sorta e che è stata dipinta, a seconda dei punti di vista, ora con tratti ottimistici (l'ascesa delle masse come frutto della democratizzazione e della diffusione del benessere), ora con accenti di angosciata preoccupazione (il dominio delle masse come appiattimento generale e come minaccia per le libertà individuali). Comunque lo si voglia considerare, l'avvento della società di massa è un fenomeno che ha segnato come pochi altri la storia degli ultimi cent'anni. Di questo fenomeno cercheremo ora di cogliere le componenti principali e le manifestazioni più importanti, così come si presentavano nella loro fase iniziale, cioè negli anni a cavallo fra '800 e '900. 9.2. Sviluppo industriale e razionalizzazione produttiva. L'espansione economica, Produzione in serie e consumi di massa, Meccanizzazione e razionalizzazione produttiva, Taylorismo e fordismo. Nel ventennio che precedette la prima guerra mondiale, l'economia dei paesi industrializzati conobbe una fase di espansione intensa e prolungata, interrotta solo da una breve crisi nel 1907-8. Se il periodo 1873-95 era stato caratterizzato soprattutto dalle innovazioni tecnologiche, dalla affermazione di settori "giovani" (acciaio, chimica, elettricità) e dalla crescita di nuove potenze industriali (Germania e Stati Uniti), gli anni 1896-1913 furono segnati da uno sviluppo generalizzato della produzione che interessò quasi tutti i settori e toccò anche paesi "nuovi arrivati" come la Russia e l'Italia. In questo periodo, l'indice della produzione industriale e quello del commercio mondiale risultarono più o meno raddoppiati. I prezzi, che erano stati sempre calanti a partire dal 1873, crebbero costantemente anche se lentamente dopo il 1896. Ma crebbe anche, e in misura più consistente, il livello medio dei salari, e il reddito procapite dei paesi industrializzati aumentò nonostante il contemporaneo, cospicuo aumento della popolazione. La crescita generalizzata dei redditi determinò a sua volta l'allargamento del mercato. Le industrie produttrici di beni di consumo e di servizi si trovarono per la prima volta a dover soddisfare una domanda che sempre più assumeva dimensioni di massa. Beni la cui produzione era stata fin

allora assicurata solo dal piccolo artigianato o dall'industria domestica (per esempio, abiti e calzature, utensili e mobili) cominciarono a essere prodotti in serie e venduti attraverso una rete commerciale sempre più estesa e ramificata: nelle città, ma anche nei piccoli centri, si moltiplicarono i negozi; i grandi magazzini crebbero in numero e in dimensioni; si aprirono nuovi canali di vendita a domicilio e per corrispondenza, con forme di pagamento rateale che rendevano gli acquisti più accessibili ai ceti meno abbienti; i muri dei palazzi e le pagine dei giornali si riempirono di annunci e cartelloni pubblicitari. Le esigenze della produzione in serie per un mercato di massa spinsero le imprese ad accelerare i processi di meccanizzazione e di razionalizzazione produttiva. Nel 1913, nelle officine automobilistiche Ford di Detroit, fu introdotta la prima catena di montaggio: un'innovazione rivoluzionaria che consentiva di ridurre notevolmente i tempi di lavoro, ma, frammentando il processo produttivo in una serie di piccole operazioni, ciascuna affidata a un singolo operaio, rendeva il lavoro ripetitivo e spersonalizzato. La catena di montaggio - simbolo in positivo e in negativo della nuova era industriale - fu, del resto, il culmine di una serie di tentativi volti a migliorare la produttività non solo mediante l'introduzione di nuove macchine, ma anche attraverso un più razionale controllo e sfruttamento del lavoro umano. Il tentativo più organico e più fortunato in questo senso lo si dovette a un ingegnere statunitense, Frederick W. Taylor, autore nel 1911 di un libro intitolato Princìpi di organizzazione scientifica del lavoro. Il metodo di Taylor si basava sullo studio sistematico del lavoro in fabbrica, sulla rilevazione dei tempi standard necessari per compiere le singole operazioni e sulla fissazione, in base ad essi, di regole e ritmi cui gli operai avrebbero dovuto uniformarsi, eliminando le pause ingiustificate e gli sprechi di tempo. Applicate con un certo successo in molte grandi imprese americane e (soprattutto dopo la prima guerra mondiale) anche europee, le tecniche del taylorismo assicurarono notevoli progressi in termini di produttività e permisero alle imprese che le adottarono di innalzare il livello delle retribuzioni. Tipico fu il caso della Ford, industria di Detroit che fu la prima a produrre automobili in grande serie e legò il suo nome a una nuova filosofia imprenditoriale (il fordismo) basata sui consumi di massa, sui prezzi competitivi e sugli alti salari. I sistemi tayloristici incontrarono però una diffusa ostilità fra i lavoratori che si sentivano spossessati di qualsiasi autonomia, oltre che di qualsiasi orgoglio professionale, e vedevano subordinato il loro lavoro agli automatismi delle macchine.

9.3. Le nuove stratificazioni sociali. Le "aristocrazie operaie", I nuovi ceti medi i "Colletti bianchi, Cultura e valori della borghesia impiegatizia, Un ceto "di confine". Gli esordi della società di massa, se da un lato tendevano a creare uniformità nei comportamenti e nei modelli culturali di una parte crescente della popolazione, dall'altro rendevano più mobile e più complessa la stratificazione sociale. Nella classe operaia si veniva accentuando la distinzione fra la manodopera generica e i lavoratori qualificati, fra il grosso del proletariato e le cosiddette "aristocrazie operaie", che partecipavano in misura maggiore ai vantaggi dello sviluppo capitalistico. Contemporaneamente, l'espansione del settore dei servizi e la crescita degli apparati burocratici facevano aumentare la consistenza di un ceto medio urbano che andava sempre più distinguendosi dagli strati superiori della borghesia. A ingrossare le file di questo ceto medio contribuivano sia il settore del lavoro autonomo sia quello del lavoro dipendente. La crescita dei lavoratori autonomi fu dovuta in parte alla moltiplicazione degli esercizi commerciali, in parte all'emergere di nuove attività (il fotografo, il meccanico, il dattilografo), che compensava ampiamente il declino delle botteghe artigiane e la progressiva scomparsa di alcuni vecchi mestieri (lo scrivano, il maniscalco, l'acquaiolo). La categoria dei dipendenti pubblici si allargava di pari passo con l'aumento delle competenze dello Stato e delle amministrazioni locali in materia di sanità, di istruzione, di trasporti e di altri servizi. E ancora più rapidamente cresceva la massa de gli addetti al settore privato (tecnici, impiegati, commessi) che svolgevano mansioni non manuali: quelli che più tardi sarebbero stati chiamati "colletti bianchi" (per sottolineare il contrasto con i "colletti blu" delle tute degli operai) In Germania, ad esempio, in poco più di quarant'anni (tra il 1883 e il 1925) il numero dei "colletti bianchi" aumentò di circa cinque volte, mentre quello degli operai si limitò a raddoppiare Già alla vigilia della prima guerra mondiale, nei paesi più industrializzati e più toccati dai processi di modernizzazione produttiva, "colletti bianchi" e impiegati statali costituivano una massa abbastanza omogenea e numerosa, anche se non paragonabile per consistenza (come sarebbe avvenuto in tempi più recenti) a quella dei lavoratori manuali. Nella scala dei redditi, i ceti medi impiegatizi occupavano una posizione molto distante da quella dell'alta borghesia e tendenzialmente più vicina a quella degli strati "privilegiati" della classe operaia. Dal punto di vista della

cultura, della mentalità, dei comportamenti sociali, la distinzione tra piccola borghesia e proletariato era però molto netta. I ce ti medi rifiutavano ogni identificazione con le masse lavoratrici, erano per lo più refrattari a inquadrarsi nelle organizzazioni sindacali e puntavano sul merito individuale per progredire nella scala sociale. Agli ideali tipici della tradizione operaia (la solidarietà, lo spirito di classe, l'internazionalismo) contrapponevano i valori storici della borghesia: l'individualismo e la rispettabilità, la proprietà privata e il risparmio, il senso della gerarchia e il patriottismo. Anzi, si atteggiavano a depositari di questi valori, magari in polemica con l'alta borghesia industriale e bancaria che tendeva a diventare cosmopolita e ad assumere modelli di comportamento tipici delle classi aristocratiche. Ceto "di confine", privo di una originale identità culturale e di una propria, autonoma rappresentanza politica, la piccola borghesia impiegatizia era destinata tuttavia, man mano che cresceva in consistenza numerica, a svolgere un ruolo di primo piano: sia nel campo economico, in quanto principale destinataria di una serie di beni di consumo prodotti dall'industria, sia in quello politico, come elettorato di massa, capace, a seconda delle sue oscillazioni, di far pendere la bilancia dalla parte delle forze conservatrici o di quelle progressiste. 9.4. Istruzione e informazione. La scuola come servizio pubblico, Obbligo scolastico e calo dell'analfabetismo, La diffusione dei giornali. Un ruolo di fondamentale importanza nel plasmare i lineamenti della nuova società che si venne formando in Europa negli ultimi decenni del secolo XIX fu svolto senza dubbio dalla scuola. Fu in questo periodo che si cercò ovunque di dare attuazione pratica al principio secondo cui l'istruzione non era un bene riservato ai membri di una élite sociale destinata per nascita a comandare altri uomini, ad amministrare i culti, a esercitare arti e professioni - ma costituiva un'opportunità da cui nessuno doveva essere escluso, un servizio reso alla collettività. Per assicurare questo servizio non poteva essere sufficiente l'impegno della Chiesa e delle istituzioni filantropiche, ma era necessario l'intervento dello Stato e delle amministrazioni locali. L'idea di una scuola aperta a tutti e controllata dai poteri pubblici, se provocava la resistenza degli ambienti più retrivi e più legati a una visione tradizionale della società - che vedevano nell'istruzione popolare un'arma pericolosa in mano alle classi subalterne -. presentava non

pochi motivi di interesse per le classi dirigenti: la scolarizzazione diffusa poteva rappresentare, infatti, non solo un canale pacifico di promozione sociale, un mezzo per educare il popolo e per ridurre la criminalità, ma anche uno strumento di nazionalizzazione delle masse attraverso cui lo Stato poteva diffondere tra le giovani generazioni immagini e valori patriottici. A partire dagli anni '70 tutti i governi d'Europa si impegnarono per rendere l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita, per sviluppare quella media e superiore e per portare l'insegnamento sotto il controllo pubblico. Il processo di laicizzazione e di statizzazione del sistema scolastico ebbe tempi, forme e risultati diversi a seconda dei paesi. Fu meno spinto in Gran Bretagna, dove la Chiesa anglicana e le istituzioni private conservarono spazi abbastanza ampi, più radicale in Francia [§4.8], dove la questione scolastica diede luogo ad aspri conflitti fra Chiesa e Stato; più rapido in quegli Stati, come la Francia e la Germania, in cui esisteva già da tempo una scolarizzazione diffusa, più lento nei paesi mediterranei e nell'Europa orientale, dove le condizioni di partenza erano più sfavorevoli dal punto di vista sociale ed economico. L'effetto più immediato di questo sforzo fu un aumento generalizzato della frequenza scolastica (in tutta Europa, alla vigilia della prima guerra mondiale, andare a scuola era diventato la regola per i bambini sotto i dieci anni), con conseguente rapida diminuzione del tasso di analfabetismo, che già ai primi del '900 era sceso a percentuali poco più che marginali (intorno al 10%) nelle aree più avanzate e tendeva a calare anche in quelle più arretrate (dove spesso superava ancora il 50%) relativamente alle classi di età più giovani. Strettamente legato ai progressi dell'istruzione fu l'incremento nella diffusione della stampa quotidiana e periodica. Si moltiplicarono le pubblicazioni (il numero delle testate stampate in Europa raddoppiò fra il 1880 e il 1900); e, ciò che più conta, crebbe rapidamente il numero dei lettori. Per fare un esempio, in Francia la tiratura totale dei quotidiani, che era di duetrecentomila copie al giorno negli anni del Secondo Impero, passò a ottonove milioni nel 1914. Nacquero, prima negli Stati Uniti poi in Europa, i quotidiani popolari ad altissima tiratura, come l'inglese "Daily Mail" che, ai primi del secolo, superava già il milione di copie giornaliere. Si allargava così l'area di coloro che contribuivano a formare l'opinione pubblica; diventava più facile, per un numero crescente di cittadini, accedere alle informazioni di interesse generale, farsi una propria opinione sulle questioni più importanti e far pesare questa opinione sulle scelte di parlamenti e governi.

9.5. Gli eserciti di massa. L'esercito di leva, Gli ostacoli alla coscrizione obbligatoria, La necessità di grandi eserciti. Un contributo notevole allo sviluppo della società di massa venne anche dalle riforme degli ordinamenti militari che furono realizzate in tutta Europa - con l'unica significativa eccezione della Gran Bretagna - a partire dagli anni 70, sotto la spinta dell'impressione suscitata dalla sconfitta della Francia nella guerra francoprussiana. Il principio su cui si fondavano queste riforme era quello del servizio militare obbligatorio per la popolazione maschile, ossia la trasformazione degli eserciti a lunga ferma, composti in pratica da professionisti, in eserciti a ferma più o meno breve formati da "cittadini in armi". All'attuazione di tale principio - che aveva origine dalle innovazioni introdotte in questo campo dalla Rivoluzione francese e dalla loro successiva applicazione in Prussia dopo il 1814 - si opponevano però due ostacoli. Il primo era di carattere economico, in quanto le risorse finanziarie degli Stati non erano sufficienti a mantenere, armare e addestrare per un congruo numero di anni (almeno tre) tutti gli uomini giudicati abili: da qui la permanenza di criteri di scelta arbitrari, basati sul privilegio economico (la possibilità di comprare l'esonero versando una tassa o pagando un sostituto) o addirittura affidati alla sorte. Il secondo ostacolo era di natura politica. Come e per quanto tempo le classi dirigenti moderate avrebbero potuto negare il diritto di voto a coloro ai quali lo Stato chiedeva di mettere a repentaglio la propria vita? E perché i governi avrebbero dovuto addestrare all'uso disciplinato della forza quelle masse potenzialmente rivoluzionarie - l'eco della Comune parigina, e anche del '48, era ancora vivissima - che avrebbero così potuto minacciarli con maggior possibilità di successo? Tanto più che i ceti borghesi mostravano, col ricorso all'esonero, una diffusa riluttanza a sottostare alla dura condizione del soldato: e dunque la truppa era nella quasi totalità di estrazione popolare, soprattutto contadina. Alcuni potenti fattori spingevano però per la trasformazione degli eserciti. Uno era di carattere politicomilitare: senza la disponibilità di grandi masse non era possibile avere un esercito in grado di assolvere quella funzione deterrente che ne faceva uno strumento indispensabile anche in tempo di pace. Un altro elemento favorevole era dato dal fatto che la tecnologia e l'industria consentivano la produzione in serie di armi, munizioni ed

equipaggiamenti in misura tale da coprire le esigenze di grandi eserciti, mentre lo sviluppo delle ferrovie offriva a questi eserciti la possibilità di spostamenti veloci, riducendo di molto i tempi di mobilitazione, di radunata e di schieramento. A tutto ciò vanno aggiunte le pressioni esercitate sui governi dai gruppi industriali interessati alle forniture militari. Fra il 1870 e il 1914, l'impegno crescente di governi e Stati maggiori nell'organizzare la mobilitazione e l'armamento di grandi quantità di coscritti non solo rese possibile la nascita dei moderni eserciti di massa che sarebbero stati i protagonisti del primo conflitto mondiale, ma servì anche ad estendere la capacità di controllo dei poteri statali sulla società civile. 9.6. Suffragio universale, partiti di massa, sindacati. Società di massa e democratizzazione, L'estensione del diritto di voto, Il partito di massa, La crescita dei sindacati, Le grandi confederazioni nazionali. Società di massa non è sinonimo di società democratica. Già nel XIX secolo si erano avuti tentativi di usare il coinvolgimento delle masse, attraverso forme di pseudodemocrazia plebiscitaria, per dare maggior forza a regimi autoritari (si pensi alla Francia del Secondo Impero o alla stessa Germania bismarckiana); e il XX secolo avrebbe conosciuto regimi autoritari di massa ben più tirannici e meglio attrezzati. Si può affermare tuttavia che in Europa, tra la fine dell'800 e l'inizio del '900, il cammino verso la società di massa si accompagnò alla tendenza costante verso una più larga partecipazione alla vita politica. Il segno più evidente di questa tendenza fu l'estensione del diritto di voto. Nel 1890 il suffragio universale maschile era praticato solo in Francia, in Germania e in Svizzera. Nei venticinque anni successivi, in quasi tutti i paesi dell'Europa occidentale furono approvate leggi che allargavano il corpo elettorale fino a comprendervi la totalità o la stragrande maggioranza dei cittadini maschi maggiorenni, indipendentemente dal censo. Il suffragio universale maschile fu introdotto in Spagna nel 1890, in Belgio nel 1893, in Norvegia nel 1898, in Austria e in Finlandia nel 1907 (Norvegia e Finlandia furono i primi Stati a concedere il voto anche alle donne), in Italia - con alcune limitazioni - nel 1912. Inghilterra e Olanda furono le ultime ad adeguarsi, e lo fecero subito dopo la prima guerra mondiale. L'allargamento del diritto di voto alle grandi masse determinò dappertutto mutamenti di rilievo nelle forme organizzative e nei meccanismi della lotta

politica. Tutti i gruppi - anche i più conservatori - furono costretti a sperimentare nuove tecniche per conquistare e mantenere il consenso popolare. Si affermò un nuovo modello di partito: quello proposto per la prima volta dai socialisti (e in minor misura dai cattolici), basato sull'inquadramento di larghi strati della popolazione attraverso una struttura permanente, articolata in organizzazioni locali (sezioni, federazioni) e facente capo a un unico centro dirigente. Doveva passare ancora del tempo perché i partiti di massa diventassero i protagonisti incontrastati della scena politica. Ma, già alla vigilia della prima guerra mondiale, appariva chiaro come, in nessun paese dell'Europa occidentale, la vita pubblica potesse più essere considerata un terreno riservato a ristretti gruppi di notabili che traevano la loro forza dalla posizione sociale; e come nuovi centri di potere si andassero affiancando a quelli tradizionali previsti dal costituzionalismo liberale. Un altro segno delle nuove dimensioni assunte dalla lotta politica e sociale - e un altro canale efficacissimo di "socializzazione" delle masse - fu costituito dalla rapida crescita delle organizzazioni sindacali. Sino alla fine del secolo XIX, il sindacalismo operaio era una realtà solida e consistente solo in Gran Bretagna, dove le Trade Unions, intorno al 1890, contavano già un milione e mezzo di iscritti. Negli ultimi anni dell'800, grazie all'impulso decisivo del movimento socialista, le organizzazioni dei lavoratori crebbero in numero e in consistenza in tutti i paesi europei (ma anche negli Stati Uniti, in Australia e in America Latina); e quasi ovunque riuscirono a far valere il proprio diritto all'esistenza contro le resistenze degli imprenditori e delle classi dirigenti conservatrici e contro i pregiudizi della dottrina liberista, che vedeva nei sindacati niente altro che un ostacolo al libero gioco della contrattazione Nati e sviluppatisi in forme diverse a seconda dei paesi, i sindacati si federarono, sull'esempio delle Trade Unions inglesi, in grandi organismi nazionali. I più importanti furono quelli di ispirazione socialista, come la Commissione centrale dei sindacati liberi tedeschi, fondata nel 1890, la francese Confédération generale du travail (Cgt), nata nel 1895, o la Confederazione generale del lavoro (Cgl), costituita in Italia nel 1906. Ma un notevole sviluppo ebbero anche le associazioni sindacali cattoliche; e non mancarono nemmeno (in Germania e in Francia) le organizzazioni a guida liberale o conservatrice. Alla vigilia della prima guerra mondiale, i lavoratori iscritti ai sindacati erano quattro milioni in Gran Bretagna, quasi tre milioni in Germania, oltre due milioni in Francia, poco più di 500.000 in Italia: si trattava del più vasto fenomeno di associazionismo popolare cui mai si fosse assistito nella storia d'Europa.

9.7. La questione femminile. I primi movimenti di emancipazione, Lavoro ed emancipazione, Le suffragette, L'isolamento dei movimenti femminili. L'epoca che vide il sorgere della società di massa fu anche quella che registrò l'emergere - in forme ancora frammentarie e minoritarie - di una "questione femminile". Il problema dell'inferiorità economica, politica e giuridica delle donne era rimasto, con poche eccezioni (fra cui va ricordata quella di John Stuart Mill, autore nel 1869 di un libro Sulla schiavitù della donna), estraneo agli orizzonti del pensiero liberale e democratico ottocentesco. I primi movimenti di emancipazione femminile, nati alla fine del 700 nella Francia giacobina e nell'Inghilterra della rivoluzione industriale, avevano avuto scarsissimo seguito ed erano stati subito dimenticati. Alla fine dell'800 le donne erano escluse dappertutto dall'elettorato attivo e passivo e, in molti paesi, anche dalla possibilità di accedere agli studi universitari e alle professioni. Quando lavoravano, ricevevano un trattamento economico nettamente inferiore a quello degli uomini. Per la maggior parte delle donne, quella del lavoro extradomestico non era una consapevole scelta di emancipazione, ma piuttosto una dura necessità, quasi una naturale prosecuzione del lavoro svolto da sempre nei campi o entro le pareti di casa; e non significava nemmeno la liberazione dai tradizionali obblighi familiari. Tuttavia i maggiori contatti col mondo esterno, le esperienze collettive, la partecipazione alle agitazioni sociali (in tutti i paesi industrializzati la manodopera femminile fu protagonista di episodi salienti della lotta sindacale) portarono le donne lavoratrici a una più viva coscienza dei loro diritti e delle loro rivendicazioni nei confronti dell'intera società. Ciononostante, il movimento per l'emancipazione femminile rimase in questo periodo ristretto a minoranze operaie e intellettuali, a circoli e leghe prive di un seguito consistente. Solo in Gran Bretagna il movimento femminile, sotto la guida di Emmeline Pankhurst - fondatrice nel 1902 della Women’s Social and Politicali Union - riuscì a imporsi all'attenzione dell'opinione pubblica e della classe dirigente, concentrando la sua attività nell'agitazione per il diritto al suffragio (donde il nome di suffragette dato alle sue militanti) e ricorrendo non di rado a forme di protesta quanto mai decise: dimostrazioni di piazza, marce sul Parlamento, scioperi della fame e anche attentati a edifici pubblici.

La lotta delle suffragette - che nel 1918 avrebbe portato, in Gran Bretagna, alla concessione del voto alle donne - trovò qualche appoggio tra i parlamentari laburisti. Nel complesso, però, il movimento operaio non si mostrò troppo sensibile nei confronti delle rivendicazioni femministe. Molti dirigenti socialisti guardavano con sospetto al voto alle donne, perché temevano che ciò avrebbe significato, almeno a breve scadenza, un vantaggio per i partiti di ispirazione cristiana. Diffusa era poi, fra i socialisti, la tendenza a privilegiare gli aspetti economicoretributivi del problema del lavoro femminile, o a vederne la soluzione nel ritorno delle donne ai loro compiti "naturali" in seno alla famiglia. Certo è che quasi dappertutto i movimenti femminili furono lasciati soli a combattere le loro battaglie, ricevendo tutt'al più qualche generico incoraggiamento. Allo scoppio della prima guerra mondiale, le donne europee avevano visto cadere alcune delle preclusioni più gravi, relative all'istruzione superiore e all'accesso alle professioni; ma restavano ancora escluse dal diritto di voto (salvo che in Norvegia e Finlandia) e pesantemente discriminate sui luoghi di lavoro. 9.8. Riforme e legislazione sociale. La legislazione sociale, I servizi pubblici urbani, L'aumento della tassazione diretta. L'estensione del suffragio e l'accresciuto peso degli organismi di massa non significarono automaticamente la prevalenza delle forze progressiste né comportarono, per lo più, mutamenti radicali nelle classi dirigenti. Queste, però, furono costrette a tener conto assai più che in passato degli orientamenti popolari e ad andare incontro, almeno in parte, alle esigenze più sentite dalle classi subalterne. Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900, grazie anche alla pressione delle organizzazioni sindacali, furono introdotte nei maggiori Stati europei forme di legislazione sociale variamente ispirate a quelle adottate per la prima volta nella Germania bismarckiana negli anni '80. Furono istituiti sistemi di assicurazione contro gli infortuni e di previdenza per la vecchiaia e, in alcuni casi, anche sussidi per i disoccupati. Si stabilirono controlli, anche se spesso poco efficaci, sulla sicurezza e l'igiene nelle fabbriche. Si cercò di impedire il lavoro dei fanciulli in età scolare. Furono introdotte limitazioni agli orari giornalieri degli operai (la media non scese comunque sotto le dieci ore) e fu sancito il diritto al riposo settimanale.

All'azione dei governi si affiancò quella delle amministrazioni locali, soprattutto nei grandi centri urbani. Qui il fatto nuovo fu costituito dalla progressiva estensione dei servizi pubblici (gas, acqua, trasporti) ad opera degli stessi comuni, che in molti casi ne assunsero la gestione tramite aziende pubbliche appositamente create. L'iniziativa degli organi di governo locale si esplicò anche nel campo dell'istruzione (scuole, biblioteche, musei), dell'assistenza (ospedali, ospizi, asili d'infanzia) e dell'edilizia popolare. Per sopperire all'aumento delle spese che si veniva così a determinare, governi centrali e amministrazioni locali dovettero ricorrere a nuove forme di imposizione fiscale. La tendenza sostenuta dalle forze politiche più avanzate fu quella di aumentare il peso delle imposte dirette (ossia sul reddito o sul patrimonio di persone o società), a scapito di quelle indirette (cioè di quelle che colpiscono i consumi e, in genere, le attività economiche e che gravavano soprattutto sui ceti popolari), e di introdurre il principio della progressività (cioè dell'aumento delle aliquote fiscali in relazione all'aumento della base imponibile). Si andava lentamente affermando l'idea che compito dello Stato fosse non solo quello di garantire i meccanismi di formazione della ricchezza, ma anche quello di assicurarne una più equa distribuzione. 9.9. I partiti socialisti e la Seconda Internazionale. La nascita dei partiti socialisti, Il Partito socialdemocratico tedesco, Il socialismo francese e la Sfio, Le Trade Unions e il laburismo inglese, La piattaforma comune, La Seconda Internazionale, Il marxismo della Seconda internazionale, Riforme o rivoluzione, Il revisionismo di Bernstein, La condanna del revisionismo, Le correnti rivoluzionarie, Lenin e il "Che fare?", Bolscevichi e menscevichi, Il sindacalismo rivoluzionario, Sorel e la violenza proletaria. Fino agli anni 70-80 del secolo XIX, i movimenti socialisti costituivano dappertutto delle piccole minoranze emarginate (e spesso perseguitate) e per lo più puntavano le loro carte sulla prospettiva di un radicale sconvolgimento rivoluzionario. La situazione cambiò completamente alla fine dell'800. In tutti i più importanti paesi europei, e anche fuori d'Europa, sorsero partiti socialisti che cercavano di organizzarsi sul piano nazionale, che affiancavano - e gradualmente sostituivano - al proselitismo rivoluzionario un'azione legale all'interno delle istituzioni, che

partecipavano alle elezioni inviando, dove possibile, i loro rappresentanti nei parlamenti, e che, all'inizio del '900, cominciarono addirittura a discutere circa la possibilità di una loro partecipazione a governi "borghesi". Furono proprio i partiti socialisti a proporre per primi il modello di quel "partito di massa" che si sarebbe affermato come la forma di organizzazione politica più diffusa nelle democrazie europee. Il primo e il più importante di questi partiti fu quello socialdemocratico tedesco, nato - come già si è visto - nel 1875. L'efficienza organizzativa raggiunta dalla Spd sotto la guida di August Bebel, i successi elettorali, la compattezza ideologica fornita dal marxismo, assunto definitivamente come dottrina ufficiale, ne fecero un esempio e un modello per gli altri partiti nazionali che vennero sorgendo nell'ultimo ventennio del secolo. L'affermazione della dottrina marxista e del modello organizzativo socialdemocratico si rivelò più difficile nei paesi in cui il movimento operaio aveva una più antica e autonoma tradizione. In Francia un partito di ispirazione marxista (il Parti ouvrier français) si formò nel 1882, all'indomani dell'amnistia ai comunardi, sotto la guida di Jules Guesde; ma subito si scisse in diversi tronconi, che si fecero accanita concorrenza fino alla riunificazione in un nuovo partito (la Sfio, ossia Sezione francese dell'Internazionale operaia), avvenuta nel 1905 per iniziativa soprattutto di Jean Jaurès. In Gran Bretagna, l'unico paese in cui da tempo era attivo un forte movimento sindacale, i gruppi marxisti non riuscirono a imporre la loro egemonia sul grosso dei lavoratori organizzati nelle Trade Unions. Maggiore influenza sulle vicende del movimento operaio britannico ebbe la Società fabiana, una piccola associazione formata soprattutto da intellettuali (fra gli altri, i coniugi Sidney e Beatrice Webb e gli scrittori George Bernard Shaw e Herbert G. Wells), fautori di una strategia gradualista e "temporeggiatrice". Furono comunque gli stessi dirigenti delle Trade Unions, all'inizio del '900, a prendere l'iniziativa di creare una formazione politica che fosse espressione dell'intero movimento operaio. Nacque così, nel 1906, il Partito laburista (Labour Party), che si fondava, dal punto di vista organizzativo, sull'adesione collettiva delle organizzazioni sindacali ed era privo di una caratterizzazione ideologica ben definita. Al di là delle diversità organizzative, delle divergenze ideologiche e delle inevitabili peculiarità nazionali, i partiti operai europei, compresi i laburisti inglesi, si muovevano, all'inizio del secolo XX, su una piattaforma in larga parte comune: tutti si proponevano il superamento del sistema capitalistico e la gestione sociale dell'economia; tutti si ispiravano a ideali internazionalisti

e pacifisti; tutti tendevano a crearsi una base di massa tra i lavoratori e a partecipare attivamente alla lotta politica nel proprio paese; tutti infine facevano capo a un'organizzazione socialista internazionale, erede di quella che si era dissolta all'inizio degli anni 70 [§2.9]. La nascita della Seconda Internazionale (o Internazionale socialista) si fa risalire al 1889, quando i rappresentanti di numerosi partiti europei, per lo più di ispirazione marxista, si riunirono a Parigi e approvarono alcune importanti deliberazioni, fra cui quella che fissava come obiettivo primario del movimento operaio la giornata lavorativa di otto ore e proclamava a tale scopo una giornata mondiale di lotta per il primo maggio di ogni anno. La ricostituzione dell'Internazionale fu sancita ufficialmente in un secondo congresso che si tenne a Bruxelles nel 1891 e che vide una nuova affermazione della tendenza marxista: affermazione confermata nei congressi successivi, che stabilirono fra l'altro l'esclusione degli anarchici e di quanti rifiutavano pregiudizialmente la partecipazione all'attività politicoparlamentare Diversamente dalla Prima, che aveva avuto l'ambizione di costituire una specie di centro dirigente della classe lavoratrice di tutto il mondo la Seconda Internazionale fu più che altro una federazione di partiti nazionali autonomi e sovrani Essa svolse tuttavia un'importante funzione di coordinamento e i suoi congressi costituirono un fondamentale luogo di incontro e di discussione sui grandi problemi di interesse comune a tutti i partiti (lo sciopero generale, la lotta contro la guerra, la questione coloniale), la sede naturale dei grandi dibattiti ideologici che animarono il movimento operaio europeo all'inizio del '900. Negli anni della Seconda Internazionale, il movimento operaio europeo ebbe, di fatto, una dottrina ufficiale. Questa dottrina fu il marxismo. Nella versione, adattata alle nuove realtà della politica europea, che era stata elaborata e divulgata da Friedrich Engels e che aveva trovato i suoi interpreti più autorevoli nei leader della socialdemocrazia tedesca: in particolare in Karl Kautsky, assurto, dopo la morte di Engels, al ruolo di massimo teorico del partito. Engels e Kautsky non mettevano in discussione i fondamenti teorici del Capitale né gli obiettivi strategici assegnati da Marx al movimento operaio, ma ponevano l'accento sulle fasi intermedie del processo rivoluzionario, sulla partecipazione alle elezioni, sulle lotte per la democrazia e per le riforme. Inizialmente questa posizione fu grosso modo fatta propria dalla maggioranza dei leader socialisti europei, dal tedesco Bebel all'austriaco Viktor Adler, dal francese Jaurès all'italiano Turati. Col passare del tempo, però, presero corpo due diverse e opposte tendenze: da un lato, quella a prendere atto dei mutamenti intervenuti nella situazione politica e sociale per valorizzare l'aspetto democraticoriformistico

dell'azione socialista; dall'altro, il tentativo di bloccare le tentazioni legalitarie e parlamentaristiche recuperando l'originaria impostazione rivoluzionaria del marxismo. L'interprete più lucido e coerente della prima tendenza fu il tedesco Eduard Bernstein. In un volume apparso nel 1899 e intitolato I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Bernstein partiva dalla constatazione di una serie di fatti che andavano in senso contrario alle previsioni di Marx: il proletariato non si impoveriva, ma migliorava lentamente la sua condizione; il capitalismo rivelava una insospettata capacità di modificarsi e di superare le crisi; lo Stato borghese diventava sempre più Stato democratico. In questa situazione, i partiti operai dovevano abbandonare le vecchie pregiudiziali di intransigenza, collaborare con le altre forze progressiste, "accettare di essere i partiti delle riforme sociali e democratiche". La società socialista non sarebbe nata da una rottura rivoluzionaria, ma da una trasformazione graduale realizzata grazie al lavoro quotidiano delle organizzazioni operaie e soprattutto del movimento sindacale. In questo lavoro, e non nel mito della dittatura del proletariato, stava, per Bernstein, la sostanza del socialismo: ovvero, secondo una formula diventata poi celebre, "tutto è nel movimento, niente è nel fine" Le tesi di Bernstein - che furono definite revisioniste in quanto implicavano una profonda "revisione" della teoria marxista - suscitarono un acceso dibattito in seno al movimento socialista internazionale, ma furono respinte da tutti i maggiori esponenti del marxismo "ortodosso" Negli stessi anni in cui si sviluppava il dibattito sulle tesi di Bernstein il movimento operaio vide emergere nelle sue file nuove correnti di estrema sinistra che non si limitavano a condannare il revisionismo, ma con testavano la politica "centrista" dei dirigenti socialdemocratici tedeschi ed europei, accusati di mascherare, dietro un'apparente fedeltà agli ideali rivoluzionari, una pratica riformista e legalitaria. In Germania un'agguerrita minoranza di sinistra si formò attorno a Karl Liebknecht e a Rosa Luxemburg, una giovane intellettuale di origine polacca. Gruppi analoghi, seppur variamente ispirati, si formarono in tutti i più importanti partiti europei, giungendo in qualche caso a minacciare l'egemonia delle correnti centriste. Una dissidenza tutta particolare, date le condizioni in cui maturò, fu quella che si sviluppò nella socialdemocrazia russa e che ebbe per protagonista l'allora poco più che trentenne Vladimir Il'ič Ul'janov, più noto con lo pseudonimo di Nikolaj Lenin. In un opuscolo pubblicato nel 1902 col titolo Che fare?, Lenin contestava il modello organizzativo della socialdemocrazia tedesca, e gli contrapponeva il progetto di un partito tutto votato alla lotta, formato da militanti scelti e guidato da "rivoluzionari di

professione", con una direzione fortemente accentrata. Questa concezione che affidava a una ristretta élite il ruolo di guida intellettuale e di avanguardia delle classi lavoratrici - contrastava con la tradizione del movimento operaio occidentale, ma si adattava alla situazione di un partito come quello russo, costretto alla quasi completa clandestinità. In un congresso della socialdemocrazia russa, svoltosi in esilio a Londra nel 1903, le tesi di Lenin ottennero, sia pur di stretta misura, la maggioranza dei consensi. Il partito si spaccò allora in due correnti: quella bolscevica (cioè maggioritaria) guidata da Lenin e quella menscevica (ossia minoritaria) che faceva capo a Julij Martov. Una divisione che sul momento non destò eccessivo interesse, poiché riguardava un partito fra i meno importanti della Seconda Internazionale. Un dibattito ampio e vivace fu invece suscitato dal profilarsi di un'altra dissidenza di sinistra, che ebbe origine in Francia e prese il nome di sindacalismo rivoluzionario. Contrariamente a quanto accadeva nella maggior parte dei paesi europei, i sindacati francesi si muovevano su una linea anarchicorivoluzionaria del tutto estranea alle impostazioni prevalenti nella Seconda Internazionale. Furono i dirigenti sindacali francesi a formulare la teoria secondo cui compito dei sindacati non era tanto quello di strappare concessioni economiche alla controparte, ma anche e soprattutto quello di addestrare i lavoratori alla lotta contro la società borghese. Il momento più importante dell'azione operaia era individuato nello sciopero, visto come una "ginnastica rivoluzionaria" utile a rendere i lavoratori consapevoli della loro forza e a prepararli al grande sciopero generale rivoluzionario che avrebbe segnato la fine dell'ordine borghese. Queste idee trovarono il loro interprete più autorevole in un intellettuale "esterno" al movimento operaio: il francese Georges Sorel che, in alcuni scritti apparsi nel 1904-5 (e raccolti poi in volume col titolo Considerazioni sulla violenza), esaltò la funzione liberatoria della violenza proletaria e insistette sull'importanza dello sciopero generale come mito capace di trascinare gli operai alla lotta. Il sindacalismo rivoluzionario non riuscì a piantare solide radici nei principali partiti socialisti; ma esercitò una forte suggestione su molti intellettuali e anche su frange consistenti della classe operaia, soprattutto nei paesi latini (dove si legò alla sempre viva tradizione anarchica), contribuendo alla radicalizzazione dello scontro sociale che si verificò in Europa negli anni precedenti la prima guerra mondiale. 9.10. I cattolici e la "Rerum novarum".

Nuove pratiche religiose, Il ruolo sociale della Chiesa, Leone XIII, La "Rerum novarum", Il pensiero sociale cattolico, La democrazia cristiana, Il modernismo, Pio X e la condanna del modernismo. Di fronte all'avanzata inarrestabile dell'industrialismo, alla crescita del movimento operaio e alle prime manifestazioni della società di massa, la Chiesa di Roma e il mondo cattolico reagirono in modo complesso e articolato. Accanto al rifiuto tradizionale della società industriale, alla duplice condanna lanciata nei confronti dell'individualismo borghese e delle ideologie socialiste, vi fu anche il tentativo, in parte riuscito, di rilanciare la missione della Chiesa, adeguandone le forme alle mutate condizioni storiche. Sul piano della pratica religiosa, il declino dei culti e delle devozioni locali tipiche delle società rurali (ad esempio, i santi patroni) fu in qualche modo compensato dalla promozione di forme di religiosità più individuali, e al tempo stesso meglio controllate dalla gerarchia ecclesiastica, e dall'incoraggiamento a nuovi culti di portata universale, come quelli della Vergine di Lourdes o del Sacro Cuore di Gesù. Sul piano della presenza nella società, la Chiesa fu certamente spiazzata e disorientata dai nuovi processi sociali che sconvolgevano gli orizzonti chiusi della società tradizionale; ma fu anche l'unica istituzione a poter supplire ai fenomeni di disgregazione sociale e di perdita di identità indotti dall'urbanizzazione con una struttura organizzativa capillare e collaudata: quella delle parrocchie, delle associazioni caritative, dei movimenti di azione cattolica. L'esistenza di queste strutture permise anzi ai cattolici di impegnarsi con un certo successo nell'inquadramento dei lavoratori in organismi di massa, capaci di porsi in concorrenza con quelli di ispirazione socialista e classista. L'impegno dei cattolici su questo terreno si era cominciato a manifestare già nell'età di Pio IX; ma ebbe un impulso decisivo durante il successivo pontificato di Leone XIII (1878-1903). Questi, pur senza attenuare l'intransigenza dottrinaria del suo predecessore, si mostrò politico assai più duttile: favorì il riavvicinamento fra i cattolici e le classi dirigenti di quei paesi (come la Germania e la Francia, ma non l'Italia) dove maggiore era la tensione fra Stato e Chiesa; incoraggiò la nascita di nuovi partiti cattolici in Belgio (1884) e in Austria (1887), ispirati all'esempio del Centro tedesco; ma soprattutto cercò di riqualificare il ruolo della Chiesa in materia di questione sociale. Il documento più importante e più emblematico di questo sforzo fu l'enciclica Rerum novarum, emanata da Leone XIII nel maggio 1891 ed

espressamente dedicata ai problemi della condizione operaia. L'enciclica non conteneva novità rilevanti sul piano dottrinario: ribadiva la condanna del socialismo e riaffermava l'ideale della concordia fra le classi. Ma indicava anche, come condizione di questa concordia, il rispetto dei doveri spettanti alle parti sociali: e, se i doveri degli operai erano la laboriosità, la frugalità e il rispetto delle gerarchie, il dovere degli imprenditori stava nel retribuire i lavoratori con la "giusta mercede", nel rispettarne la dignità umana, nel non considerare la loro fatica alla stregua di una merce da pagare al minor prezzo possibile. Ma la parte più interessante dell'enciclica era quella riguardante il movimento associativo fra i lavoratori. La creazione di società operaie e artigiane ispirate ai princìpi cristiani veniva apertamente incoraggiata e tutti i cattolici erano invitati a impegnarsi su questo terreno. Neanche questa poteva considerarsi una novità assoluta, visto che l'associazionismo cattolico fra i lavoratori era già una realtà abbastanza diffusa ai tempi della Rerum novarum. Ciò che conferì all'enciclica un'enorme risonanza fu il fatto che l'incoraggiamento venisse dalla più alta autorità della Chiesa e fosse sancito in un documento ufficiale. Certo, la Rerum novarum diede una spinta potentissima allo sviluppo dei movimenti cattolici, anche al di là delle intenzioni originarie del pontefice. L'enciclica leonina, in accordo con le più accreditate correnti del pensiero cattolico dell'epoca (quelle che si ricollegavano al pensiero di San Tommaso e avevano il loro esponente più noto nel sociologo italiano Giuseppe Tomolo), si muoveva all'interno di una concezione tradizionalista, venata di nostalgia per la società preindustriale, e vedeva nelle associazioni cattoliche uno strumento di collaborazione fra le classi, qualcosa di simile alle antiche corporazioni di arti e mestieri. Nella pratica, però, gli ideali corporativi si rivelarono di difficile attuazione. I sindacati cattolici si svilupparono soprattutto su basi di classe (cioè raccogliendo solo i lavoratori dipendenti) e in seguito avrebbero finito con l'adottare metodi di lotta non troppo diversi da quelli dei sindacati socialisti. Parallelamente, negli ultimi anni dell'800, venne emergendo, in particolare in Italia e in Francia, una nuova tendenza politica che fu definita democrazia cristiana e che mirava a conciliare la dottrina cattolica non solo con l'impegno sociale, ma anche e soprattutto con la prassi e gli istituti della democrazia. La nascita dei movimenti democraticocristiani coincise, e in parte si collegò, col sorgere di una corrente di riforma religiosa che prese il no me di modernismo, in quanto si proponeva di reinterpretare la dottrina cattolica in chiave appunto "moderna", applicando i metodi della critica storica e filologica allo studio delle Sacre Scritture. Anche il modernismo - che ebbe fra i suoi maggiori teorici il francese Alfred Loisy e l'italiano Ernesto

Buonaiuti - aspirava dunque, sul piano dottrinario, a uno scopo simile a quello perseguito, sul terreno politico, dalla democrazia cristiana: conciliare l'insegnamento della Chiesa, depurato dalle componenti più rigidamente dogmatiche, col progresso filosofico e scientifico e, più in generale, con la civiltà moderna. Negli ultimi anni del pontificato di Leone XIII, sia la democrazia cristiana sia il modernismo godettero di qualche spazio di tolleranza. Questi spazi si chiusero però quando, nel 1903, salì al soglio pontificio il nuovo papa Pio X, legato a una visione più tradizionale dei compiti della Chiesa e del laicato cattolico. I democraticocristiani furono richiamati all'ordine e si videro proibita ogni azione politica indipendente dalle gerarchie ecclesiastiche. Il modernismo, che investiva questioni di fede, fu addirittura colpito da scomunica nel 1907 Mentre sul terreno del dogma religioso la condanna pontificia riuscì a bloccare la diffusione delle voci riformatrici, sul piano politico non poté arrestare del tutto gli sviluppi di un movimento come quello democraticocristiano, che aveva ormai una sua base sociale e un suo spazio ben definito nella vita politica europea. 9.11. Il nuovo nazionalismo. Nazionalismo e ideologie conservatrici, Le teorie razziste, L'imperialismo popolare in Gran Bretagna, Nazionalismo e tradizionalismo in Francia, Il nazionalismo tedesco e il mito del "Volk", Il panslavismo e l'antisemitismo in Europa orientale, Il sionismo. Nell'Europa di fine '800 la nazione, intesa come insieme di valori politici e culturali, costituiva ancora un fattore centrale, sia nei rapporti fra gli Stati, sia nelle vicende interne dei singoli paesi. Ma gli ideali nazionali venivano modificandosi profondamente (soprattutto in quei paesi che avevano già realizzato il loro processo di unificazione statale). Fra il 1815 e il 1870 il nazionalismo era stato soprattutto il principio ispiratore di movimenti di liberazione che combattevano contro l'ordine costituito, si era collegato all'idea di sovranità popolare e si era alleato col liberalismo e con la democrazia. Le cose cambiarono già con l'unificazione tedesca, realizzata da Bismarck "col ferro e col sangue"; e più ancora con l'imperialismo coloniale, che legava la grandezza nazionale alle guerre di conquista a danno di altri popoli ritenuti inferiori. Infine, la crescita dei movimenti socialisti, che si ispiravano a ideali internazionalisti e pacifisti, suscitò per reazione un ritorno di spiriti patriottici e guerrieri in seno alla borghesia conservatrice. La battaglia per i valori nazionali o per gli interessi

del proprio paese finì spesso col legarsi alla lotta contro il socialismo, alla difesa dell'ordine sociale esistente, quando non al sogno di restaurazione di un ordine passato. In altri termini, il nazionalismo tendeva a spostarsi a destra, si sganciava dalle sue matrici illuministiche e democratiche per riscoprire quelle romantiche e tradizionaliste, si collegava spesso alle teorie razziste allora in voga, che pretendevano di stabilire una gerarchia fra "razze superiori" e "razze inferiori" e di affermare su questa base la superiorità di un popolo, o di un gruppo di popoli, su tutti gli altri. Queste teorie, che avevano avuto il loro precursore nel francese Arthur de Gobineau (autore nel 1855 di un Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane), si fondavano su argomentazioni pseudoscientifiche di origine positivistica, ma in realtà si collegavano a credenze ataviche e ad antichi pregiudizi (l'istintiva diffidenza per l'estraneo e per il "diverso") e proprio per questo avevano una forte capacità di suggestione anche fra le classi meno colte. Più in generale, il successo del nuovo nazionalismo si può spiegare in buona parte con l'appello alle componenti irrazionali della psicologia collettiva, oltre che col ricorso a strumenti tipici della società di massa (stampa popolare, comizi, manifestazioni di piazza) e a tecniche di lotta prese a prestito dalla tradizione sovversiva. Non sempre le tendenze nazionalistiche si coagularono in movimenti politici autonomi. In Gran Bretagna, ad esempio, il diffuso consenso popolare alla causa imperiale non assunse in genere contenuti polemici nei confronti delle istituzioni liberali, anche perché trovò ampio riscontro nell'atteggiamento della classe dirigente, da Disraeli a Joseph Chamberlain. In Francia, invece, il nazionalismo fu soprattutto un terreno di incontro fra movimenti di diversa origine (bonapartista, cattolicolegittimista, ma anche rivoluzionariogiacobina) uniti nella polemica contro una classe dirigente repubblicanomoderata [§4.8] considerata mediocre e corrotta e quindi incapace di tutelare gli interessi e le tradizioni del paese. In realtà il nazionalismo dei gruppi più oltranzisti (il più noto fu quello che si raccolse intorno alla rivista "Action française", fondata nel 1899, ed ebbe i suoi maggiori esponenti in scrittori come Maurice Barrès e Charles Maurras) era rivolto non tanto verso l'esterno, in funzione della politica estera, quanto contro i supposti "nemici interni": i protestanti, gli immigrati e soprattutto gli ebrei, considerati come un corpo estraneo alla nazione e identificati con gli ambienti dell'affarismo e della speculazione bancaria. Una forte componente antiebraica, unita a una impostazione popolareggiante e a una sottile vena anticapitalistica e antiborghese, fu presente anche nei movimenti nazionalisti dei paesi di lingua tedesca, nei

quali l'antisemitismo (che in Francia si legava soprattutto a una tradizione cattolicoreazionaria) si appoggiava su presupposti apertamente razzisti. Fu proprio in Germania che le teorie della razza conobbero, già alla fine dell'800, le loro formulazioni più organiche e più fortunate: come quella contenuta nel libro I fondamenti del XIX secolo, uscito nel 1899, dello scrittore di origine inglese Houston Stewart Chamberlain. Chamberlain riprendeva da Gobineau il mito di una "razza ariana" depositaria delle virtù più nobili e ne vedeva l'incarnazione più pura nel popolo tedesco. Anche il nazionalismo tedesco aveva lo sguardo rivolto al passato, ma, al contrario di quello francese, non aveva un'antica tradizione statuale in cui rispecchiarsi: cercava quindi le sue basi nel mito del popolo (Volk), concepito come comunità di sangue e come legame quasi mistico con la terra d'origine. Questo mito, che aveva le sue radici nella cultura romantica ed era stato fatto rivivere, nella seconda metà dell'800, dalle opere del grande compositore Richard Wagner, fornì la base alle ideologie e ai movimenti pangermanisti, che auspicavano cioè la riunificazione in un unico Stato di tutte le popolazioni tedesche, comprese quelle che nel 1871 erano rimaste fuori dai confini del Reich. I movimenti pangermanisti, che facevano capo alla Lega pantedesca fondata nel 1894, non riuscirono a condizionare in modo decisivo la politica estera del Reich, ma esercitarono ugualmente una notevole influenza sulla classe dirigente del paese, fortemente impregnata di spiriti nazionalisti e militaristi. Un movimento contrapposto al pangermanismo, ma ad esso affine per molti aspetti, fu il panslavismo, che nacque in Russia alla fine dell'800 e si diffuse anche nei paesi slavi dell'Europa orientale, fungendo da strumento della politica imperiale zarista. Anche il panslavismo si basava su ideologie tradizionaliste e largamente intrise di antisemitismo. Infatti, nell'Europa orientale - dove le comunità ebraiche erano più numerose, ma anche meno integrate nella società e nella cultura dei paesi ospitanti - l'antisemitismo aveva profonde radici popolari. Nell'Impero russo (dove vivevano alla fine dell'800 oltre cinque milioni di ebrei) era addirittura sancito da leggi discriminatorie e ufficialmente tollerato, quando non incoraggiato, dalle autorità, che se ne servivano come di un classico diversivo per lasciar sfogare il malcontento delle classi subalterne. Di qui la barbara pratica del pogrom (in russo, devastazione, saccheggio), ossia di periodiche e impunite violenze contro i beni e le persone degli ebrei: pratica ancora largamente diffusa all'inizio del '900 nell'Impero degli zar. Una reazione all'antisemitismo - ma anche una manifestazione fra le più caratteristiche di quel fenomeno di risveglio nazionalistico che attraversò tutta l'Europa di fine '800 - fu la nascita del "sionismo": cioè di quel

movimento, fondato nel 1896 dallo scrittore ebreo viennese Theodor Herzl, che si proponeva di restituire un'identità nazionale alle popolazioni israelite sparse per il mondo e di promuovere la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina (di qui il nome sionismo, dalla collina di Sion su cui sorge l'antica Gerusalemme). Movimento complesso e atipico, ai confini fra il politico, il religioso e il sociale (non senza una componente di stampo colonialistico), il sionismo stentò all'inizio ad affermarsi, anche perché l'alta e media borghesia ebraica era prevalentemente "assimilazionista": tendeva cioè, pur senza rinnegare le sue origini, a integrarsi, ove possibile, nelle società dei paesi d'appartenenza. All'inizio del '900, tuttavia, grazie all'attività instancabile dei suoi sostenitori, il movimento riuscì a imporsi all'attenzione dell'opinione pubblica e a trovare qualche autorevole appoggio nelle classi dirigenti dell'Europa occidentale. Parola chiave Secolarizzazione Nel linguaggio della Chiesa, "secolarizzazione" (da "secolo", inteso come mondanità, vita terrena) significa passaggio allo stato laicale di chi ha ricevuto gli ordini religiosi oppure destinazione all'uso profano di beni già destinati al culto. Nel linguaggio delle scienze sociali contemporanee, per secolarizzazione si intende il processo di emancipazione della società dal condizionamento dei valori sacri o magici e dal controllo delle autorità religiose. Una società secolarizzata non è necessariamente una società irreligiosa. È piuttosto una società laica, in cui le credenze e le pratiche religiose non si traducono in norme vincolanti per tutti; in cui i comportamenti collettivi - in materia di attività economiche, di istruzione, ma anche di morale familiare e sessuale - tendono ad allontanarsi dagli schemi della tradizione e a orientarsi secondo criteri di pura razionalità. In questo senso la secolarizzazione è componente essenziale della modernizzazione e si accompagna ai processi di sviluppo industriale e di urbanizzazione. Ma è soprattutto con l'avvento della società di massa - e con la conseguente crisi delle culture locali e tradizionali legate al mondo rurale che la secolarizzazione riceve una spinta decisiva. Oggi, nei paesi industrializzati dell'Occidente, la secolarizzazione è un processo in gran parte compiuto (a prescindere dal posto che la religione ancora occupa nelle coscienze e nelle credenze della gente). La stessa Chiesa cattolica - che per lungo tempo ha visto nella secolarizzazione l'origine di tutti i mali del mondo moderno - tende a inserirsi nella società secolarizzata e a

confrontarsi con essa, pur condannandone gli aspetti più apertamente irreligiosi e materialistici. 9.12. La crisi del positivismo. La crisi del modello positivistico, Nietzsche, Lo storicismo tedesco, L'idealismo italiano, Bergson, Il pragmatismo, Gli sviluppi della fisica, Einstein e la teoria della relatività, Freud e la psicanalisi, Weber e il metodo delle scienze sociali, Mosca e Pareto, La burocratizzazione, La sfiducia nella democrazia. Il periodo compreso fra la fine dell'800 e la prima guerra mondiale coincise, nella cultura occidentale, con un'età di decisivi cambiamenti. Fra il 1850 e il 1890, il panorama culturale europeo era stato dominato dal positivismo, che aveva fornito un solido quadro di riferimento in ogni campo del sapere umano. A partire dalla fine dell'800, il modello interpretativo offerto dal positivismo apparve sempre più inadeguato non solo a spiegare i fenomeni politici, economici e sociali, ma anche a tener dietro all'evoluzione delle scienze. Il positivismo restò per molti un metodo di ricerca e di conoscenza della realtà, ma non fu più accettato come una visione del mondo, legata all'idea di un progresso necessario e costante. Sul piano filosofico si assisté alla nascita di nuove correnti irrazionalistiche e vitalistiche, diverse fra loro ma tutte convergenti nel ricondurre i meccanismi della conoscenza e dell'attività umana a fattori come l'istinto, la volontà o lo "slancio vitale", e nel considerare oggetto principale della propria indagine la realtà psicologica: una realtà anch'essa "oggettiva" (e dunque conoscibile), ma dotata di sue proprie leggi e di un suo tempo (quello della memoria, del vissuto) diverso da quello fisicoquantitativo delle scienze esatte. Primo e principale interprete della critica al positivismo fu il filosofo e letterato tedesco Friedrich Nietzsche. Alla concezione lineare del tempo, Nietzsche oppose quella ciclica dell""eterno ritorno"; all'ottimismo progressivo delle filosofie borghesi - considerato come il risultato ultimo e negativo dell'intera tradizione ebraicocristiana giunta ormai alla sua estrema decadenza - contrappose l'idea dell'uomo nuovo (il "superuomo"), nato dalle ceneri della vecchia civiltà e capace di esprimere e realizzare la propria individualità al di fuori della morale corrente. Le teorie nietzschiane conobbero una larghissima popolarità alla fine del secolo (ad esse si sarebbero poi richiamati, più o meno arbitrariamente, i movimenti nazionalisti e totalitari), ma costituirono un fenomeno relativamente isolato

nella cultura tedesca di fine '800. In Germania, infatti, la reazione al positivismo si espresse piuttosto in una ripresa della filosofia kantiana e idealistica, in una più approfondita riflessione sui problemi della conoscenza storica, in un ritorno alla distinzione fra "scienze dello spirito" e "scienze della natura". In questo clima culturale operarono filosofi come Wilhelm Dilthey, considerato il fondatore dello storicismo moderno, storici come Friedrich Meinecke, sociologi come Werner Sombart e Max Weber, sul quale avremo occasione di ritornare fra poco. Anche in Italia, a partire dall'inizio del '900, vi fu una rinascita idealistica, che ebbe per protagonisti Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Filosofo, storico e uomo di lettere, protagonista di oltre mezzo secolo di storia della cultura italiana, Croce partì da una critica al materialismo marxista - cui aveva aderito in gioventù sotto l'influenza di Antonio Labriola - e giunse a elaborare un complesso sistema filosofico che tendeva a risolvere tutta la realtà nella storia. Gentile portò la filosofia idealistica alle sue estreme conseguenze riducendo tutta la realtà all""atto" pensante del soggetto (attualismo). In Francia la reazione al positivismo trovò la sua espressione più organica nella filosofia di Henri Bergson, che concepiva la realtà come creazione continua, mossa da uno "slancio vitale" e conoscibile nella sua pienezza solo attraverso l'intuizione, e contrapponeva alla concezione del tempo "spazializzato" (quello dell'orologio o della clessidra) l'idea di un tempo "vissuto" internamente nella coscienza. Nei paesi anglosassoni, e soprattutto negli Stati Uniti, la corrente di pensiero dominante fu quella conosciuta col nome di pragmatismo, che si diffuse largamente anche in Europa nei primi anni del '900 ed ebbe i suoi rappresentanti più noti in William James e in John Dewey. Il pragmatismo considerava determinante il rapporto di reciproca verifica fra teoria e pratica e fra individuo e natura, e rivalutava così, inserendole nel campo filosofico, scienze "pratiche" come la psicologia e la pedagogia. L'elemento comune alle principali correnti filosofiche che si affermarono fra '800 e '900 era dunque costituito da un approccio più complesso nei confronti delle "scienze esatte", non più oggetto di quella fiducia illimitata che aveva rappresentato il tratto essenziale della cultura positivistica. Gli stessi sviluppi del pensiero scientifico contribuivano, del resto, a mettere in crisi il quadro di certezze su cui quella cultura si era fondata. Si pensi alla nascita della fisica atomica, dovuta soprattutto alle scoperte degli inglesi Joseph Thomson ed Ernest Rutherford; alla formulazione, nel 1900, della teoria quantistica da parte del tedesco Max Planck; all'enunciazione, nel 1905, della "teoria della relatività" di Albert Einstein: teoria che non solo

metteva in discussione i fondamenti della fisica classica, ma sconvolgeva alcuni pilastri della scienza tradizionale, come la distinzione fra materia ed energia e il carattere "assoluto" dei concetti di spazio e di tempo. L'idea di un tempo "relativo" (i cui parametri di misurazione potessero, cioè, cambiare in funzione di altre variabili come la velocità) rappresentò una sorta di filo comune, attraverso il quale la fisica einsteiniana si legò ad altre fondamentali esperienze intellettuali dell'epoca, nei campi del pensiero filosofico, della psicologia, delle lettere e delle arti. Un altro elemento comune alle principali correnti del pensiero occidentale fra '800 e '900 fu certamente l'attenzione alle motivazioni non razionali della condotta umana. Un'attenzione che troviamo in un pensatore politico come Sorel [§9.9] e in un sociologo come Vilfredo Pareto, attento studioso degli istinti primari che costituiscono, a suo giudizio, la vera essenza del comportamento umano. In tutt'altro campo, queste problematiche trovarono un riscontro di eccezionale importanza nell'opera del medico viennese Sigmund Freud, fondatore della teoria "psicanalitica". Nelle sue opere (in particolare nell'Interpretazione dei sogni del 1900 e nei Tre saggi sulla teoria della sessualità del 1905), Freud poneva alla base dei processi psichici il concetto di una vita "inconscia" (Es), dominata da leggi diverse da quelle della vita cosciente (Io). L'esigenza di "rimuovere" (ossia di reprimere, di allontanare dalla coscienza) gli istinti primari dell'inconscio è, secondo Freud, essenziale per lo sviluppo normale dell'individuo e della stessa civiltà; ma può creare - se gli istinti non vengono "sublimati" nelle realizzazioni sociali (ossia nella sfera del Superio) - delle turbe psichiche (nevrosi). Di qui la necessità di una tecnica terapeutica (analisi) che riporti alla luce i processi inconsci attraverso il tramite principale dell'attività onirica. Accolte all'inizio con diffidenza, le teorie freudiane avrebbero non solo rivoluzionato la terapia delle malattie mentali, ma anche influenzato profondamente, soprattutto nella seconda metà del '900, la cultura e la mentalità delle società occidentali. Un ulteriore tratto distintivo della cultura europea negli anni a cavallo fra i due secoli fu la riflessione sulla relatività e sulla soggettività della conoscenza: più esattamente, il problema dell'influenza delle inclinazioni personali, dei "valori" dell'osservatore sul modo di studiare e di rappresentare il fenomeno osservato. Un problema che interessò i filosofi, ma anche i cultori delle cosiddette "scienze umane" (sociologia, psicologia, scienza politica, antropologia, ecc.) e che trovò le sue formulazioni più lucide nell'opera del tedesco Max Weber. Sociologo, filosofo e storico, Weber approfondì soprattutto i problemi relativi al metodo delle scienze

sociali: scienze che muovono inevitabilmente da un punto di partenza soggettivo (quello costituito dagli interessi personali e dalla situazione culturale dello studioso), ma possono ugualmente dare risultati scientificamente validi, purché adottino procedimenti logici e criteri esplicativi corretti. I nuovi orientamenti della filosofia e delle scienze umane influenzarono profondamente, sia pur in modo tutt'altro che univoco, anche il pensiero politico. I "massimi sistemi" ereditati dalla cultura setteottocentesca (il liberalismo, la democrazia, lo stesso socialismo) furono guardati spesso con diffidenza o sottoposti a revisione critica. E comune a buona parte della cultura politica dell'epoca fu la tendenza a penetrare oltre la facciata delle formule ideologiche per ricostruire i meccanismi reali e svelare i moventi autentici dell'agire politico. Si spiega così la notevole fortuna incontrata dalla teoria della classe politica, formulata per la prima volta alla fine del secolo XIX dall'italiano Gaetano Mosca. In netto contrasto con la dottrina democratica della sovranità popolare, Mosca sosteneva che, in qualsiasi ordinamento, il potere effettivo è destinato a restare comunque nelle mani di una ristretta minoranza di politici di professione (la "classe politica", appunto, o "classe dirigente"). Questa teoria fu ripresa, all'inizio del '900, da Pareto, che vedeva nella politica soprattutto uno scontro di élites (ossia minoranze qualificate, oligarchie); e prevedeva la rapida decadenza della borghesia liberale, sostituita da nuove élites più giovani e più aggressive. A questo stesso filone di pensiero si collegava il sociologo tedesco Robert Michels che, nella sua opera più nota (la Sociologia del partito politico del 1910), stabiliva un nesso inscindibile fra la tendenza all'organizzazione, tipica dei grandi partiti di massa, e la creazione di oligarchie burocratiche praticamente inamovibili. Su un piano più generale, i fenomeni della burocratizzazione furono studiati, negli anni intorno alla prima guerra mondiale, da Max Weber. Secondo Weber, la tendenza alla crescita degli apparati burocratici era inarrestabile, in quanto espressione della fase più evoluta dello sviluppo della società (quella basata sul potere "razionale"); ma conteneva in sé gravi pericoli per il destino delle libertà individuali. È facile notare come queste analisi, maturate in contesti politici diversi, avessero in comune un accentuato pessimismo sulla sorte degli ordinamenti democratici. Certo è che, indipendentemente dalle personali convinzioni dei loro autori, esse contribuirono a determinare quel clima di sfiducia e di scetticismo verso la democrazia e le sue istituzioni che si diffuse negli ambienti intellettuali europei proprio nel periodo in cui la partecipazione

alla vita politica si allargava incessantemente e si muovevano i primi passi verso la società di massa. Sommario Alla fine dell'800 cominciarono a delinearsi, nell'Europa occidentale e negli Stati Uniti, i caratteri della moderna società di massa. La maggioranza della popolazione viveva ormai nei centri urbani ed era inserita nel circolo dell'economia di mercato; i rapporti sociali si facevano più intensi e si basavano non più sulle comunità tradizionali, bensì sulle grandi istituzioni nazionali (apparati statali e organizzazioni di massa). Gli anni 1896-1913 furono, per i paesi industrializzati, un periodo di intensa espansione economica, cui si accompagnò, tra l'altro, un aumento del reddito procapite che determinò un allargamento del mercato. Le dimensioni di massa assunte dalla domanda stimolarono la produzione in serie, nonché la diffusione di processi di meccanizzazione e razionalizzazione produttiva (catena di montaggio, taylorismo). Mutava, parallelamente, la stratificazione sociale. Se nella classe operaia si accentuò la distinzione fra lavoratori generici e qualificati, la maggiore novità fu il crescere dei nuovi strati del ceto medio. Di fondamentale importanza nel determinare i caratteri della nuova società di massa fu il diretto impegno dello Stato nel campo dell'istruzione, che ebbe per conseguenza una drastica diminuzione dell'analfabetismo in tutta Europa. Si allargava, anche per l'incremento nella diffusione dei giornali, l'area dell'opinione pubblica. Anche l'introduzione generalizzata del servizio militare obbligatorio e la creazione di eserciti di massa (imposta dall'evoluzione delle strategie e delle tecniche militari) contribuirono ad accelerare i processi di socializzazione. Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 si ebbe un processo di allargamento della partecipazione alla vita politica determinato dall'estensione del diritto di voto, dall'affermarsi di un nuovo modello di partito (il partito di massa) e dalla crescita di grandi organismi sindacali nazionali. Parallelamente, la politica delle classi dirigenti tenne in maggior conto le esigenze delle classi lavoratrici (legislazione sociale, servizi pubblici urbani, aumento della tassazione diretta). I primi albori della società di massa segnarono il manifestarsi di una questione femminile, anche per le conseguenze dell'industrializzazione sull'assetto della famiglia e il ruolo della donna. I primi movimenti di

emancipazione femminile, all'epoca nettamente minoritari, concentrarono la loro azione nella lotta per il suffragio alle donne. Alla fine dell'800 sorsero nei principali paesi europei dei partiti socialisti che si ispiravano per lo più al modello della socialdemocrazia tedesca e facevano capo alla Seconda Internazionale, fondata nel 1889. Nella maggioranza di questi partiti il marxismo fu assunto come dottrina ufficiale; si affacciarono presto, tuttavia, contrasti fra il revisionismo riformista di Bernstein, gli esponenti dell'ortodossia marxista e le nuove correnti rivoluzionarie, tra le quali va ricordata quella "sindacalista rivoluzionaria" che aveva il suo maggior ispiratore in Georges Sorel. L'ascesa al soglio pontificio di Leone XIII (1878) se non mitigò l'intransigenza dottrinaria della Chiesa favorì però l'impegno dei cattolici in campo sociale, stimolato soprattutto dall'enciclica Rerum novarum (1891). Significativa espressione dei fermenti in atto nel mondo cattolico fu l'emergere, soprattutto in Francia e Italia, di movimenti democraticocristiani e, sul piano più strettamente religioso, del modernismo (colpito, nel 1907, dalla scomunica di Pio X). Sul piano delle ideologie politiche, nell'Europa di fine '800 trovò larga diffusione il nazionalismo, ormai divenuto una corrente nettamente conservatrice. In varia commistione con esso - e grazie all'appello alle componenti irrazionali della psicologia collettiva - si diffusero tendenze apertamente razziste e antisemite. In Germania e nell'Europa orientale il nazionalismo prese anche la forma, rispettivamente, di pangermanesimo e panslavismo. Espressione particolare del generale risveglio nazionalistico, ma anche reazione contro l'antisemitismo, fu il sionismo. Sul piano culturale, la fine del secolo vide la crisi del positivismo, a favore del diffondersi di nuove correnti che ponevano l'accento sul ruolo del soggetto, considerando elementi costitutivi dell'attività umana fattori quali l'istinto e la volontà. Le certezze del positivismo in campo scientifico entrarono in crisi anche per le scoperte della fisica contemporanea. Bibliografia Sulla società di massa e le nuove stratificazioni sociali: J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna 1962; D. Riesman, La folla solitaria, ivi 1956; C. Wright Mills, Colletti bianchi. La classe media americana, Einaudi, Torino 1966; R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, Bari 1963. Sui partiti politici: R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Il Mulino, Bologna 1966; M. Duverger, I partiti

politici, Comunità, Milano 19702; Sociologia dei partiti politici, a e. di G. Sivini, Il Mulino, Bologna 1971. Su istruzione e alfabetizzazione, vedi H. Graff, Storia dell'alfabetizzazione occidentale, III. Tra presente e futuro, Il Mulino, Bologna 1989 e l'antologia, a e. dello stesso Graff, Alfabetizzazione e sviluppo sociale in occidente, ivi 1988. Il problema degli eserciti di massa è affrontato in J. Gooch, Soldati e borghesi nell'Europa moderna, Laterza, RomaBari 1982. Sulla questione femminile: L. A. Tilly J. W. Scott, Donne, lavoro e famiglia nell'evoluzione della società capitalistica, De Donato, Bari 1981. Per la storia del marxismo e della Seconda Internazionale: G. D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, III. La Seconda Internazionale, 1889-1914, Laterza, Bari 1968; Antologia del pensiero socialista, III. La Seconda Internazionale, a e. di A. Salsano, Laterza, RomaBari 1981; Storia del marxismo, II Il marxismo nell'età della Seconda Internazionale, Einaudi, Torino 1979; G. Haupt, La Seconda Internazionale, La Nuova Italia, Firenze 1973. Sul mondo cattolico e la Chiesa: La Chiesa negli stati moderni e i movimenti sociali (1878-1914) (vol. LX della Storia della Chiesa diretta da H. Jedin), Jaca Book, Milano 1973; K. E. Lònne, Il cattolicesimo politico nel XIX e XX secolo, Il Mulino, Bologna 1991. Sul nazionalismo: E. Lemberg, Il nazionalismo, Jouvence, Roma 1981; EJ. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo, Einaudi, Torino 1991. Su alcuni aspetti particolari: G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania dalle guerre napoleoniche al Terzo Reich, Il Mulino, Bologna 1975. Dello stesso Mosse si vedano inoltre Il razzismo in Europa dalle origini all'olocausto, Laterza, RomaBari 1980 e L'uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, ivi 1982. Sulle nuove correnti culturali e la società politica di fine secolo: H. S. Hughes, Coscienza e società. Storia delle idee in Europa dal 1890 al 1930, Einaudi, Torino 1967. 10. L'Europa tra due secoli. 10.1. Le nuove alleanze. La crisi del sistema bismarckiano, L'alleanza francorussa, Il riarmo navale tedesco e il contrasto con l'Inghilterra, L""Intesa cordiale" tra Francia e Inghilterra, Triplice alleanza e Triplice intesa, L'aggressività tedesca.

A partire dal 1890 - l'anno delle dimissioni di Bismarck - i rapporti fra le grandi potenze che dominavano la politica europea e mondiale subirono radicali mutamenti. Gli equilibri internazionali, rimasti come bloccati nei vent'anni precedenti in una trama di alleanze che faceva perno sulla Germania di Bismarck, si ruppero dando luogo a un assetto bipolare fondato sulla contrapposizione fra due blocchi di potenze. A mettere in crisi il vecchio sistema di alleanze furono soprattutto due fattori: la scelta del nuovo imperatore tedesco Guglielmo II in favore di una politica di respiro mondiale, più dinamica e aggressiva di quella praticata da Bismarck dopo il '70; la crescente, obiettiva difficoltà per la Germania di tenere uniti i suoi due maggiori alleati, gli imperi austroungarico e russo, in perenne tensione nel settore balcanico. Mentre Bismarck era riuscito in qualche modo a legare a sé entrambe le potenze, i suoi successori optarono decisamente per l'alleanza con l'Austria, non rinnovando, nel 1890, il trattato di controassicurazione stipulato tre anni prima con la Russia (che impegnava la Russia a non aiutare la Francia in caso di attacco alla Germania e la Germania a non unirsi all'Austria in una guerra contro la Russia): ciò nella convinzione che l'Impero zarista non avrebbe mai stretto alleanza con la Francia repubblicana. Ma queste due potenze, diversissime e distanti sotto tutti i punti di vista, avevano almeno una cosa in comune: la necessità di trovare un alleato. Si giunse così, nell'estate del 1891, a un primo accordo francorusso, trasformatosi poi, nel 1894, in vera e propria alleanza militare. Contemporaneamente la Francia si impegnò in una serie di ingenti prestiti alla Russia, che stava cercando di avviare un processo di industrializzazione. Con la stipulazione della Duplice francorussa veniva meno il principale pilastro su cui si era fondato il sistema bismarckiano, l'isolamento della Francia, e la Germania era costretta a premunirsi contro l'eventualità, sempre temuta, di una guerra su due fronti. Pochi anni dopo, la decisione presa dal governo tedesco di dare il via alla costruzione di una potente flotta da guerra capace di contrastare la superiorità britannica nel Mare del Nord provocava un inasprimento dei rapporti - fin allora abbastanza cordiali - fra Germania e Inghilterra. Nelle intenzioni dei suoi fautori, il riarmo navale doveva servire a incutere rispetto alla Gran Bretagna e a renderla più malleabile in vista di un'intesa generale. Ma l'effetto fu quello di indurre gli inglesi, decisi a mantenere la propria superiorità, a impegnarsi a loro volta in una vera e propria corsa agli armamenti navali, che avrebbe toccato il suo culmine fra il 1907 e il 1914. Frattanto aveva inizio fra Inghilterra e Francia

quel processo di graduale riavvicinamento che portò le due potenze a sistemare le vecchie vertenze coloniali in Africa [§7.5] e a stipulare, nel 1904, un accordo che prese il nome di Intesa cordiale. L'Intesa non era una vera e propria alleanza militare, ma costituiva ugualmente una sconfitta diplomatica per la Germania e un notevole successo per la Francia, che diventava il perno di un nuovo sistema di alleanze. Quando, nel 1907, anche Inghilterra e Russia regolarono i loro contrasti in Asia con un accordo che limitava le rispettive sfere di influenza, il capovolgimento della situazione pre-1890 poté dirsi completo. Del sistema di alleanze bismarckiano restava in piedi soltanto il blocco fra i due imperi centrali, con l'appendice dell'Italia (che peraltro tendeva a riservarsi una sempre maggiore autonomia all'interno della Triplice alleanza). A questo blocco se ne contrapponeva un altro, quello che poi fu chiamato Triplice intesa, politicamente meno omogeneo e meno compatto dal punto di vista diplomatico, ma potenzialmente più forte per risorse e per popolazione e unito, se non altro, dalla preoccupazione per la crescente potenza tedesca. In Germania, d'altro canto, questa situazione - che pure era dovuta in massima parte agli errori della classe dirigente tedesca - determinò una sorta di complesso di accerchiamento. E ciò fu causa a sua volta di una maggiore aggressività in politica estera, di una più accentuata spinta al riarmo, di una pericolosa inclinazione - diffusa soprattutto nelle alte sfere militari - verso la guerra "preventiva". Tendenze aggressive e spinte nazionalistiche si manifestavano, del resto, anche negli altri Stati; e convergevano nel creare un clima di sempre maggiore tensione internazionale. 10.2. La "belle époque" e le sue contraddizioni. Correnti militariste e correnti democratiche, Ottimismo borghese e progresso materiale, Conflittualità politica e sociale. Se è giusto cogliere nella gara dei nazionalismi, nella corsa al riarmo e nelle ricorrenti crisi internazionali le premesse dell'imminente conflitto mondiale, non è però corretto dipingere l'Europa del periodo a cavallo fra i due secoli come una specie di grande piazza d'armi, o immaginare una società tutta protesa verso l'inevitabile scontro finale fra i due blocchi contrapposti. La realtà era molto più complessa. La tendenza all'aumento delle spese militari, che costituì uno dei tratti distintivi di questo periodo, si accompagnava quasi ovunque a un parallelo aumento della spesa sociale. Alle correnti militariste si contrapponevano, in seno alle stesse classi dirigenti, correnti decisamente orientate al pacifismo. Alla diffusione dei

movimenti nazionalisti a sfondo autoritario, faceva riscontro una tendenza generalizzata all'allargamento della partecipazione alla vita politica. I nuovi orientamenti dell'alta cultura e la critica dissolvente di molti intellettuali al progressismo ottocentesco non scalfirono, se non in parte, il sostanziale ottimismo della borghesia europea: un ottimismo giustificato dal rinnovato slancio dell'economia e da un progresso materiale che mai come allora era parso alla portata di tutti. Per questo, gli anni che precedettero la prima guerra mondiale sarebbero stati ricordati come la belle époque, l'epoca "bella" per eccellenza, paragonata non senza rimpianto alle tragedie del conflitto e agli anni agitati del dopoguerra. Si trattava, anche in questo caso, di un'immagine eccessivamente semplificata. La belle époque fu in realtà un periodo di crescita complessiva della società europea, ma anche di forti contrasti politici e di grandi conflitti sociali. I miglioramenti - che indubbiamente vi furono - nella condizione di vita dei ceti popolari furono conquistati a prezzo di lotte aspre e prolungate. Anche le spinte alla democratizzazione incontrarono dappertutto la resistenza ostinata dei gruppi conservatori. Se in alcuni paesi le tendenze democratiche finirono col prevalere più o meno largamente, altrove furono duramente represse, come in Russia, o bloccate, come in Germania e nell'Impero asburgico, entro le vecchie strutture autoritarie. 10.3. La Francia tra democrazia e reazione. I nemici della Repubblica, Il caso Dreyfus, La spaccatura dell'opinione pubblica, La vittoria dei democratici, La battaglia anticlericale, I governi radicali e le riforme, La ripresa dei moderati. Negli ultimi decenni dell'800 la Francia aveva compiuto progressi sostanziali sulla strada della democrazia. Eppure le istituzioni repubblicane continuavano a essere oggetto di una insidiosa contestazione, che ora prendeva le forme di un esasperato nazionalismo a sfondo militarista e bonapartista (si pensi al caso Boulanger: [§4.8], ora quelle della reazione clericale contro il laicismo della classe dirigente, ora quelle del tradizionalismo monarchico, ora quelle di un antisemitismo non privo di componenti demagogiche. Negli ultimi anni dell'800, queste correnti si coagularono, facendo blocco con una parte delle forze moderate e mettendo a serio repentaglio la vita stessa della Terza Repubblica. Ciò avvenne in occasione di un clamoroso caso giudiziario: quello di Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo condannato ai lavori forzati nel 1894 sotto l'accusa di aver fornito documenti riservati

all'ambasciata tedesca. La sentenza, che fornì alla stampa di destra il pretesto per una violenta campagna antisemita, era basata su indizi falsi o inconsistenti. Ma la cosa più grave non fu l'errore giudiziario in sé, quanto il fatto che, una volta emersi i primi dubbi sulla colpevolezza del condannato, le alte sfere militari si rifiutarono di procedere a una revisione del processo, giungendo al punto di falsificare documenti e di coprire i veri colpevoli. Quando, nel gennaio del 1898, il celebre scrittore Emile Zola pubblicò un clamoroso atto d'accusa contro i tentativi messi in atto dallo Stato maggiore per nascondere la verità, fu processato e condannato per offese all'esercito. Ma il caso era ormai sollevato; e su di esso l'opinione pubblica francese si divise in due schieramenti contrapposti. Socialisti, radicali e una parte dei repubblicani moderati si batterono perché venisse riconosciuta l'innocenza dell'ufficiale condannato. Clericali, monarchici, nazionalisti di destra e non pochi moderati insistettero sulla tesi della colpevolezza. Il contrasto travalicò ben presto i confini del caso giudiziario per trasformarsi in uno scontro politico che aveva per oggetto le stesse istituzioni della Repubblica. Quando, nell'estate del 1899, si giunse alla revisione del processo, Dreyfus si vide confermata la condanna dalla corte marziale, nonostante fossero ormai emerse prove evidenti della sua innocenza. Per rendergli la libertà fu necessario un atto di grazia del presidente della Repubblica; una riabilitazione definitiva sarebbe venuta solo nel 1906. Sconfitti, in un primo tempo, sul piano giudiziario, i sostenitori di Dreyfus ebbero però partita vinta sul terreno politico. L'esito delle elezioni del 1899, favorevole sia pur di stretta misura alle forze progressiste, consentì la formazione di un governo di "coalizione repubblicana" che comprendeva anche un esponente socialista nella persona di Alexandre Millerand. Con questo e con i successivi governi a direzione radicale, la Francia laica e repubblicana si prese le sue rivincite su nazionalisti e clericali. Alcune associazioni di estrema destra vennero sciolte e i loro capi arrestati. Fu avviata un'epurazione negli alti gradi dell'esercito. Soprattutto, riprese con rinnovato vigore la battaglia contro le posizioni di potere ancora detenute dal clero cattolico: allo scioglimento di oltre cento congregazioni religiose seguirono, nel 1905, la rottura delle relazioni diplomatiche tra Francia e Santa Sede, la denuncia del concordato in vigore dal 1803 e la completa separazione fra Stato e Chiesa. La battaglia anticlericale, condotta non senza eccessi e faziosità, suscitò nel paese nuove profonde divisioni, ma si concluse con un sostanziale successo e con un netto rafforzamento dei gruppi radicali.

Dominatori ormai incontrastati della vita politica, i radicali erano però soggetti a un processo di involuzione moderata simile a quello subito a suo tempo dai repubblicani "opportunisti". La Francia del primo '900, all'avanguardia in materia di democrazia politica e di laicità dello Stato, non lo era affatto sul piano della legislazione sociale né su quello dell'ordinamento fiscale, che era basato in larga parte sulla tassazione indiretta. I governi che si succedettero fra il 1906 e il 1910, sotto la guida di Georges Clemenceau e poi di Aristide Briand, condussero in porto alcune importanti riforme sociali (limitazione dell'orario di lavoro, legge sul riposo settimanale, pensioni di vecchiaia), ma non riuscirono a far passare un progetto di imposta generale sul reddito e dovettero scontrarsi, anche duramente, con la protesta di una classe lavoratrice che aveva beneficiato solo marginalmente dei progressi economici compiuti dal paese ed era, anche per questo, sensibile agli appelli delle correnti rivoluzionarie. Lo spostamento a sinistra del movimento sindacale e della stessa Sfio [§9.9] provocò la rottura dell'alleanza fra socialisti e radicali e, alla lunga, ridiede spazio alle correnti repubblicanomoderate che, rimaste in ombra dopo il caso Dreyfus, riuscirono a tornare al potere fra il 1912 e il 1914 portando alla guida del governo - e poi alla presidenza della Repubblica - il loro leader più prestigioso, Raymond Poincaré. In questi anni il dibattito politico, accantonati i temi delle riforme, si sarebbe concentrato sul problema delle spese militari e del rafforzamento dell'esercito. Parola chiave Radicalismo Nel linguaggio politico il termine "radicalismo" indica la tendenza contraria al "moderatismo": cioè la tendenza favorevole alle innovazioni profonde e decisive, alle misure appunto "radicali". In questo senso si può parlare sia di un radicalismo di sinistra, sia di un radicalismo di destra. In senso più stretto, si dicono "radicali" le correnti di sinistra nate dal filone dei movimenti liberali e democratici. Il radicalismo moderno nacque in Inghilterra tra la fine del '700 e l'inizio dell'800, in quei circoli intellettuali e politici che, ispirandosi alla filosofia utilitarista di Jeremy Bentham e al liberismo economico di Smith e Ricardo, propugnavano una serie di profonde riforme economiche e politiche (prime fra tutte, l'abolizione del dazio sul grano e l'allargamento del suffragio). Il movimento radicale sopravvisse in Gran Bretagna per tutto il secolo XIX, ma non assunse mai la consistenza di un partito vero e proprio, svolgendo per lo più un ruolo di appoggio e di stimolo alla sinistra liberale. In Francia, l'appellativo di "radicale", che fin allora serviva a designare genericamente le correnti

democraticorepubblicane, fu assunto nei primi anni della Terza Repubblica da quell'ala dei repubblicani che, sotto la guida di leader come Clemenceau, si opponeva alla politica "opportunista" dei repubblicanimoderati alla Jules Ferry. All'inizio del '900, dopo la crisi dell""affare Dreyfus", i radicali divennero la forza dominante dello schieramento politico francese, facendosi promotori di una politica energicamente anticlericale, ma vennero nel contempo attenuando la loro originaria connotazione democraticoriformista per assumere il ruolo di forza stabilizzatrice, tendenzialmente "centrista", moderatamente progressista, con solide radici nella piccola e media borghesia rurale. Il Partito radicale francese costituì un modello per altre formazioni analoghe nate tra fine '800 e inizio '900 in Italia, in Spagna e in molti paesi latinoamericani, sulla stessa piattaforma politica progressista e anticlericale e con la stessa base sociale essenzialmente piccoloborghese. In Italia il Partito radicale nacque negli anni '80 come frazione dissidente della Sinistra e si sviluppò soprattutto in età giolittiana, ma rimase sempre una forza minoritaria nello schieramento liberaldemocratico e finì col dissolversi come forza politica autonoma dopo la prima guerra mondiale. Altra e diversa vicenda è quella del "nuovo" Partito radicale (Pr), nato nel 1956 da una scissione a sinistra del Partito liberale e successivamente caratterizzatosi come una formazione politica molto diversa da quelle tradizionali e vivacemente polemica nei confronti dell'intero sistema politico, come un gruppo d'opinione strettamente collegato ai movimenti collettivi (pacifisti, ecologisti, femministi, ecc.) e promotore di specifiche campagne sui temi dei diritti civili, della pace, della lotta contro la fame nel mondo. 10.4. Imperialismo e riforme in Gran Bretagna. I governi conservatori unionisti, Il successo dei liberali, Le riforme dei liberali, Lo scontro con i Lords, Il rafforzamento dei laburisti. Negli anni a cavallo fra i due secoli - gli anni dell'esaltazione imperialistica, della guerra contro i boeri e della fine dell'età vittoriana (la regina morì nel 1901, lasciando il trono al figlio, l'ormai sessantenne Edoardo VII) - la Gran Bretagna fu governata dalla coalizione fra i conservatori e i liberali "unionisti", con Joseph Chamberlain che occupò quasi ininterrottamente la carica di ministro per le Colonie. Come aveva fatto Disraeli, anche i governi conservatoriunionisti cercarono di contemperare l'imperialismo con una certa dose di riformismo sociale: non

tale, tuttavia, da intaccare seriamente i privilegi delle classi agiate. Fra il 1897 e il 1905 furono varate leggi che stabilivano la responsabilità degli imprenditori in materia di infortuni sul lavoro, aumentavano i finanziamenti per le scuole elementari e medie e prevedevano alcune misure atte a favorire il collocamento dei lavoratori disoccupati. A mettere in crisi l'egemonia conservatrice fu il progetto, sostenuto soprattutto da Chamberlain sotto la pressione di una parte degli industriali, di introdurre anche in Gran Bretagna il protezionismo doganale, sotto forma di una tariffa imperiale (comune cioè a tutti i paesi facenti parte dell'Impero britannico), sconvolgendo così una tradizione liberoscambista che durava ormai da più di mezzo secolo. Nelle elezioni del 906, i liberali - che si erano opposti al progetto - conquistarono un'ampia maggioranza, mentre per la prima volta faceva il suo ingresso alla Camera un gruppo di trenta deputati laburisti. I governi liberali si qualificarono per una linea meno aggressiva in campo coloniale e per una più energica e organica politica di riforme sociali: riduzione dell'orario a otto ore per i minatori, istituzione di uffici di collocamento, assicurazioni per la vecchiaia a totale carico dello Stato. Ma l'aspetto più nuovo e coraggioso della loro azione fu il tentativo di sopperire alle spese per le riforme (che si sommavano a quelle sempre più alte richieste dalla corsa agli armamenti navali) con una politica fiscale fortemente progressiva, mirante a colpire soprattutto i grandi patrimoni. Il tentativo si scontrò con la reazione della Camera dei Lords roccaforte dell'aristocrazia, che, in base alla costituzione non scritta si cui si reggeva il sistema politico inglese, aveva il diritto di respingere le leggi votate dalla Camera dei Comuni. Il diritto di veto, però, non si applicava per tradizione alle leggi finanziarie, la cui mancata approvazioni avrebbe provocato il blocco della macchina statale. Quando, nel 1909, i Lords violarono questa prassi respingendo il bilancio preventivo presentato dal governo liberale (ed elaborato da David Lloyd George, astro nascente del partito, allora cancelliere dello Scacchiere, ossia ministro per l'Economia), ne nacque un conflitto costituzionale che vedeva contrapposte le due Camere, l'una a maggioranza liberale, l'altra dominata dai conservatori. I liberali presentarono allora un "progetto di legge parlamentare" (Parliamentary Bill), che negava ai Lords il diritto di respingere le leggi di bilancio e lasciava loro, per tutte le altre leggi, solo la facoltà di rinviarle due volte alla Camera dei Comuni (dopodiché sarebbero state comunque approvate). Nel 1911, dopo un braccio di ferro durato due anni e dopo due successive elezioni anticipate vinte, sia pure di stretta

misura, dai liberali, i Lords, grazie anche alle pressioni del nuovo re Giorgio V, si piegarono ad accettare la legge che limitava i loro privilegi e che rappresentava un'indiscutibile vittoria per le forze progressiste. Questo successo politico non servì però a portare nel paese un clima di tranquillità. I progressi della legislazione sociale, non accompagnati da consistenti miglioramenti salariali, non avevano smorzato la combattività della classe lavoratrice, protagonista di una lunga serie di scioperi che spesso sfuggivano al controllo delle stesse Trade Unions. Alle agitazioni operaie si aggiungevano quelle delle "suffragette" [§9.7] e quelle, mai interrottesi, dei nazionalisti irlandesi, che disponevano alla Camera dei Comuni di un gruppo di ottanta deputati, il cui appoggio era indispensabile alla sopravvivenza dei governi liberali. Nel 1911, il governo Asquith presentò un nuovo progetto di Home Rule, che prevedeva un'Irlanda autonoma, con un proprio governo e un proprio parlamento, ma pur sempre legata alla corona britannica e dipendente dall'Inghilterra per tutte le questioni di comune interesse. La soluzione proposta scontentava sia i nazionalisti irlandesi, che miravano alla piena indipendenza, sia la minoranza protestante dell'Ulster (Irlanda del Nord), che organizzò un movimento clandestino armato per opporsi all'autonomia. Dopo un lungo e tormentato dibattito, il progetto liberale fu comunque approvato dalla Camera nel maggio 1914, ma la sua applicazione fu subito dopo sospesa a causa dello scoppio della guerra. 10.5. La Germania guglielmina. Guglielmo II e il "nuovo corso", La continuità degli equilibri di potere, La "Weltpolitik", La socialdemocrazia: isolamento politico e sviluppo organizzativo, L'evoluzione politica della Spd. La fine del lunghissimo cancellierato di Otto von Bismarck, nel 1890, parve dover segnare una svolta anche nella politica interna tedesca. Erano stati soprattutto motivi di politica interna (in particolare la vittoria socialdemocratica nelle elezioni del 1890) a determinare la caduta del "cancelliere di ferro". Lo stesso imperatore Guglielmo II aveva annunciato di voler inaugurare un "nuovo corso" (Neue Kurs) nella vita del paese e aveva apertamente criticato le leggi eccezionali contro i socialisti (che in effetti non furono più rinnovate dopo il 1890). Le speranze in una evoluzione liberale del sistema andarono però deluse. L'imperatore, messe da parte le aperture vagamente democratiche degli esordi, mostrò ben presto una chiara inclinazione alle soluzioni autoritarie e

all'esercizio personale del potere. L'unico mutamento di rilievo fu costituito dal fatto che nessuno dei cancellieri succedutisi alla guida del governo del Reich ebbe le capacità e la personalità che avevano permesso a Bismarck di imporsi allo stesso potere imperiale. Per il resto, i cancellieri continuarono a governare "al di sopra dei partiti" e a render conto del loro operato all'imperatore e allo stato maggiore più che al Parlamento, insomma, il passaggio dall'età bismarckiana all'età "guglielmina" non comportò nessun mutamento sostanziale nel gruppo di potere dominante, se non forse per un peso più accentuato e più scoperto dei vertici militari (in particolare del capo della flotta ammiraglio von Tirpitz) e dei gruppi di interesse ad essi collegati. Anche i nuovi orientamenti di politica estera, affermatisi soprattutto a partire dagli ultimi anni dell'800 - quando la Germania imboccò la via della Weltpolitik (politica mondiale) e diede il via al riarmo navale -, contribuirono a rinsaldare l'alleanza fra la casta agraria e militare degli Junker e gli ambienti della grande industria. Un'industria che era sempre più dominata dai cartelli o dalle imprese giganti e che vantava ritmi di sviluppo tecnologico e di crescita produttiva paragonabili solo ai contemporanei progressi dell'industria statunitense. La coscienza di questa superiorità accentuò nella classe dirigente, ma anche nel popolo, le tendenze nazionaliste e imperialiste. Pur essendo un paese ricco di risorse naturali, la Germania, priva com'era di un grande impero coloniale, non aveva una disponibilità di materie prime paragonabile a quella dell'Impero britannico, degli Stati Uniti o dello stesso Impero russo. Di qui la volontà di modificare a proprio vantaggio la distribuzione mondiale delle risorse e gli equilibri sullo scacchiere planetario: il che, essendo ormai compiuta la spartizione dei continenti extraeuropei, portava fatalmente la Germania ad assumere una posizione antagonistica rispetto alle altre potenze imperialiste. La spinta nazionalista e aggressiva insita nella politica estera tedesca finì col coinvolgere in varia misura tutte le maggiori forze politiche. Non solo i gruppi conservatori e nazionalliberali, ma anche i cattolici del centro e i gruppi liberalprogressisti si allinearono sostanzialmente con le scelte dei governi e degli stati maggiori. L'unica autentica forza di opposizione, la socialdemocrazia, restò per tutta l'età guglielmina in una condizione di assoluto isolamento che le precludeva qualsiasi influenza sulla condotta degli affari di Stato, anche se non le impediva di aumentare continuamente la massa dei propri iscritti (più di un milione nel 1914), di incrementare il proprio seguito elettorale (nel 1913 la Spd si affermò addirittura come gruppo di maggioranza relativa col 34% dei voti e 110 seggi al Reichstag), di controllare lo sviluppo imponente delle organizzazioni collaterali

(sindacati, cooperative, circoli ricreativi e culturali). A lungo andare però nonostante la riaffermata fedeltà ai princìpi della dottrina marxista - anche la socialdemocrazia finì con l'ammorbidire i toni e le forme della sua opposizione e col venire tacitamente a patti con le ideologie nazionalimperialistiche cui nemmeno la classe operaia era del tutto insensibile. Alla base di questa evoluzione (delineatasi a partire dal 1907, quando la Spd, dopo aver condotto una vivace campagna antimilitarista e anticolonialista, subì la sua prima seria battuta d'arresto elettorale) c'era innanzitutto la volontà di uscire dall'isolamento e di non prestarsi alle manovre dei gruppi conservatori che indicavano nella socialdemocrazia il "nemico interno"; ma c'era anche un graduale processo di adattamento alla situazione esistente, che portava la maggioranza del gruppo dirigente socialdemocratico a identificare le fortune del movimento operaio con lo sviluppo di un apparato organizzativo sempre più complesso e più radicato nella società. Quella del movimento socialdemocratico nella Germania guglielmina fu - per usare una definizione della storiografia recente - una integrazione negativa: che si esauriva, cioè, in una limitata partecipazione della classe operaia ai vantaggi materiali dello sviluppo economico e in una legislazione sociale relativamente avanzata, ma non comportava alcun prezzo politico significativo per la classe dirigente. 10.6. I conflitti di nazionalità in AustriaUngheria. Sviluppo e arretratezza, I conflitti nazionali, Il risveglio dei nazionalismi, Cechi e slavi del Sud, Il progetto "trialistico". Nei decenni che precedettero la prima guerra mondiale, l'Impero asburgico vide aggravarsi il declino delineatosi a partire dal 1848 e dovuto, oltre che al ritardo nello sviluppo dell'economia, ai sempre più forti contrasti fra le diverse nazionalità. Dal punto di vista economico, l'Impero era ancora un paese essenzialmente agricolo (nel 1910 il 56% della popolazione attiva era occupato nelle campagne), complessivamente più povero della Germania e della Francia e poco più ricco dell'Italia, ma con alcune isole altamente urbanizzate e industrializzate: la regione gravitante attorno alla capitale Vienna, la Boemia (in particolare la zona di Praga), il porto di Trieste, nodo commerciale di primaria importanza fra il Centro Europa e il Mediterraneo. Allo sviluppo economico e civile dei grandi centri, alla eccezionale vitalità culturale che si manifestò in questo periodo (e che fece di Vienna una delle maggiori capitali europee della musica, delle

arti figurative e della letteratura), allo sviluppo dei grandi partiti di massa socialdemocratici e cristianosociali - facevano riscontro, soprattutto nelle regioni di lingua tedesca, il sostanziale immobilismo del sistema politico e la persistenza delle strutture sociali tradizionali nella provincia contadina, dominata dalla Chiesa e dai grandi proprietari. Ma il principale motivo di disagio e di crisi era costituito dai conflitti nazionali. Mentre l'Impero tedesco - che pure presentava, sotto il profilo politicoistituzionale, non poche affinità con quello asburgico - trovava nel nazionalismo di una popolazione compattamente tedesca un potentissimo elemento di coesione, in AustriaUngheria le tensioni fra i diversi gruppi etnici costituivano un fattore di logoramento e di disgregazione per una compagine statale che aveva come principali elementi unificanti la corona, l'esercito e la burocrazia. Con la soluzione "dualistica" varata nel 1867 [§4.3], la monarchia asburgica aveva scelto la strada del compromesso col gruppo nazionale più forte, quello magiaro, che aveva conquistato nella parte sudoccidentale dell'Impero una posizione privilegiata simile a quella detenuta dagli austriaci nella parte nordoccidentale. Fino alla fine del secolo XIX il potere imperiale riuscì a controllare la situazione appoggiandosi agli elementi conservatori e all'aristocrazia agraria delle varie nazionalità, con qualche concessione alle masse contadine. Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 si assisté però a una crescita dei movimenti nazionali: tutti in forte contrasto gli uni con gli altri, ma uniti dall'ostilità al centralismo imperiale e dalla tendenza a radicalizzarsi, scivolando dal piano delle rivendicazioni autonomistiche a quello dell'indipendentismo. I più irrequieti erano naturalmente i popoli slavi, i grandi sacrificati dal "compromesso" del '67. Fra i cechi della Boemia e della Moravia che erano inclusi nella zona di competenza austriaca e che, fra i popoli soggetti alla corona asburgica, potevano vantare le più solide tradizioni politiche e culturali - si affermò, nell'ultimo decennio dell'800, il movimento dei giovani cechi che si batteva contro la politica di "germanizzazione" del governo di Vienna. Tendenze nazionaliste ancora più radicali si cominciarono a manifestare nello stesso periodo fra gli "slavi del Sud", serbi e croati, che erano soggetti al dominio ungherese (più duro di quello austriaco) e subivano l'attrazione del vicino Regno di Serbia. Persino nel gruppo etnico "privilegiato", quello magiaro, sorse, all'inizio del '900, un movimento che rivendicava totale autonomia dall'Austria anche in materia di tariffe doganali e di organizzazione dell'esercito. In questa situazione, il compito del potere centrale diventava estremamente difficile. Le limitate concessioni che i governi di Vienna

erano disposti a fare alle singole nazionalità non erano mai sufficienti a bloccare i fermenti autonomistici, ma bastavano a suscitare la reazione degli altri gruppi etnici. Una parte della classe dirigente e dei circoli di corte si orientò verso l'idea di trasformare la monarchia da "dualistica" in "trialistica": di staccare cioè gli slavi del Sud dall'Ungheria e di creare così un terzo polo nazionale accanto a quelli tedesco e magiaro. Questo progetto, che aveva il suo sostenitore più autorevole nell'arciduca ereditario Francesco Ferdinando (nipote di Francesco Giuseppe), si scontrava però con l'opposizione degli ungheresi e con quella dei nazionalisti serbi e croati, che miravano con tutti i mezzi - compresi quelli terroristici alla fondazione di un unico Stato slavo indipendente ed erano palesemente appoggiati dalla Serbia (a sua volta protetta dalla Russia). Da questo pericoloso focolaio di tensione sarebbe scoccata nel 1914 la scintilla che portò allo scoppio della guerra europea e alla dissoluzione dell'Impero austroungarico. 10.7. La Russia fra industrializzazione e autocrazia. L'autocrazia zarista, Il decollo industriale, I caratteri dello sviluppo russo, Concentrazione industriale e classe operaia, L'arretratezza della società, Le correnti di opposizione, Socialdemocratici e socialrivoluzionari. Fra le grandi potenze europee, la Russia era la sola che, alla fine dell'800, si reggesse ancora su un sistema autocratico, nemmeno temperato da forme di limitato costituzionalismo simili a quelle vigenti in Germania e in AustriaUngheria. Sotto i successori di Alessandro II - Alessandro III (che regnò dal 1881 al 1894) e Nicola II -ogni tentativo di "occidentalizzazione" delle istituzioni fu decisamente accantonato. Furono ridotti i poteri degli zemstvo, ossia degli organi di autogoverno locale, principale punto di riferimento per la borghesia e l'aristocrazia di tendenze liberali. Fu rafforzato il controllo sulla giustizia e sull'istruzione. Fu intensificata l'opera di "russificazione" delle minoranze nazionali e si aggravarono le vessazioni contro gli ebrei. Mentre restava immobile, o addirittura procedeva a ritroso, sul piano delle strutture politiche, la Russia compiva il suo primo tentativo di decollo industriale. Cominciato all'inizio degli anni '90 sotto lo stimolo delle grandi costruzioni ferroviarie, lo sviluppo dell'industria ebbe un impulso decisivo dalla politica di Sergej Vitte, ministro delle Finanze dal 1892 al 1903 e successivamente primo ministro. Vitte da un lato aumentò il sostegno dello Stato alla produzione nazionale inasprendo il protezionismo e moltiplicando gli investimenti pubblici; dall'altro, incoraggiò l'afflusso di capitali stranieri

(soprattutto francesi), cui la repressione dei conflitti sociali e la conseguente compressione dei salari offrivano la possibilità di elevati profitti. Accadeva, così, che una potenza imperialista come la Russia fosse al tempo stesso terreno di penetrazione per l'imperialismo finanziario di altri paesi. Né questa era la sola anomalia del modello di sviluppo russo. Affidata com'era all'iniziativa dello Stato e del capitale straniero più che all'autonoma crescita di una borghesia imprenditoriale, l'industrializzazione risultò come calata dall'alto e fortemente concentrata sia per la dislocazione geografica sia per le dimensioni delle imprese (la Russia era il paese che aveva la più alta percentuale europea di aziende con oltre mille addetti). Pertanto anche la classe operaia russa - che, intorno al 1900, contava circa due milioni e mezzo di lavoratori su oltre cento milioni di abitanti - si concentrò in poche zone (la capitale Pietroburgo in primo luogo, poi la zona di Mosca, i distretti minerari degli Urali, la regione petrolifera di Baku sul Mar Caspio) e rimase isolata in un contesto sociale ancora dominato dall'agricoltura, che occupava circa il 70% della popolazione attiva. Il decollo industriale di fine secolo non cambiò dunque i tratti fondamentali della società russa, né elevò in misura significativa il tenore di vita di una popolazione che cresceva con un ritmo fra i più rapidi del mondo. Tanto più che l'agricoltura versava ancora in uno stato di estrema arretratezza e soffriva, fin dai tempi della liberazione dei servi, di una cronica sovrabbondanza di manodopera. All'inizio del '900 la Russia era in testa alle classifiche europee dell'analfabetismo e della mortalità infantile, mentre il suo prodotto procapite era meno della metà di quello della Francia o della Germania. In queste condizioni era naturale che la tensione politica e sociale crescesse pericolosamente e che le manifestazioni di malcontento si moltiplicassero in tutti i settori della società. Alla timida opposizione liberale, alle ricorrenti agitazioni nelle campagne, alla recrudescenza degli atti terroristici si aggiunsero gli scioperi sempre più frequenti, benché proibiti, dei lavoratori dell'industria e si accentuò, nonostante la durezza della repressione, la penetrazione delle correnti rivoluzionarie fra i ceti popolari. Mentre la classe operaia subiva l'influenza del Partito socialdemocratico, che era stato fondato nel 1898 da Georgij Plechanov e faceva assegnamento solo sulla crescita del proletariato industriale (secondo una strategia rigorosamente marxista che restò comune ai due tronconi bolscevico e menscevico - in cui il partito si divise nel 1903: [§9.9], fra i contadini riscuoteva qualche successo la propaganda del Partito socialista rivoluzionario, nato nel 1900 dalla confluenza di gruppi anarchici e

populisti, dai quali riprendeva il progetto di un socialismo agrario legato alle tradizioni russe. 10.8. La rivoluzione russa del 1905. La "domenica di sangue", La nascita dei "soviet", La controffensiva zarista, La "Duma", La fine dell'esperimento parlamentare, Stolypin e la riforma agraria. Priva di canali legali attraverso cui esprimersi, la protesta politica e sociale nella Russia zarista finì col coagularsi in un moto rivoluzionario: il più ampio e sanguinoso cui l'Europa avesse mai assistito dai tempi della Comune parigina. A far precipitare gli eventi contribuì lo scoppio nel 1904 della guerra col Giappone (ne parleremo nel prossimo capitolo) che, provocando fra l'altro un brusco aumento dei prezzi, fece immediatamente salire la tensione sociale. In una domenica di gennaio del 1905, a Pietroburgo, un corteo di 150.000 persone che si dirigeva verso il Palazzo d'Inverno, residenza dello zar, per presentare al sovrano una petizione (vi si chiedevano maggiori libertà politiche e interventi atti ad alleviare il disagio delle classi popolari) fu accolto a fucilate dall'esercito: i morti furono più di cento e oltre duemila i feriti. La brutale repressione della "domenica di sangue" scatenò in tutto il paese - nei grandi centri come nelle campagne - un'ondata di agitazioni, di vere e proprie sommosse, di ammutinamenti nelle stesse forze armate. E le agitazioni si intensificavano man mano che giungevano le notizie sull'esito catastrofico della guerra. Fra la primavera e l'autunno del 1905 la Russia visse in uno stato di semianarchia. Di fronte alla crisi dei poteri costituiti - incapaci di riportare l'ordine, anche perché il grosso dell'esercito era impegnato in Estremo Oriente, a migliaia di chilometri dal territorio russo - sorsero spontaneamente in molti centri nuovi organismi rivoluzionari, i soviet (termine russo che significa "consigli"), cioè rappresentanze popolari elette sui luoghi di lavoro e costituite da membri continuamente revocabili, secondo un principio di democrazia diretta ispirato all'esperienza della Comune di Parigi. Il più importante di questi soviet, quello di Pietroburgo, assunse la guida del movimento rivoluzionario nella capitale e si trovò a esercitare un notevole potere di fatto in tutta la Russia. In ottobre lo zar parve finalmente disposto a cedere e promise libertà politiche e istituzioni rappresentative. Nello stesso tempo, però, le autorità

incoraggiavano segretamente la formazione di movimenti paramilitari di estrema destra (le famigerate Centurie nere) e organizzavano spedizioni punitive contro i rivoluzionari e pogrom antiebraici. Fra novembre e dicembre infine - dopo che era stata conclusa la pace col Giappone e le truppe erano rientrate dal fronte - la corona e il governo passarono risolutamente alla controffensiva facendo arrestare quasi tutti i membri del soviet di Pietroburgo e schiacciando con durezza le rivolte successivamente scoppiate nella capitale e a Mosca. Una volta ristabilito l'ordine, restava, come unico risultato del moto rivoluzionario, l'impegno dello zar di convocare un'assemblea rappresentativa (Duma) che, nelle speranze dei gruppi liberaldemocratici e degli stessi socialisti menscevichi, avrebbe dovuto aprire nuovi spazi di libertà nella vita politica russa. Molto diversa su questo punto era la posizione dei bolscevichi che non nutrivano alcuna fiducia nelle istituzioni "borghesi" ed erano convinti che la classe operaia dovesse guidare in prima persona il processo rivoluzionario, alleandosi con gli strati più poveri del ceto contadino. Le attese di un'evoluzione parlamentare del regime andarono comunque deluse. Eletta nell'aprile 1906, a suffragio universale ma con un complicato sistema che privilegiava i proprietari terrieri, dotata di poteri troppo limitati per poter condizionare l'esecutivo, la prima Duma risultò ugualmente un ostacolo troppo ingombrante sulla via della restaurazione assolutista e fu sciolta dopo poche settimane. Uguale sorte subì una seconda Duma eletta nel febbraio 1907 e rivelatasi ancor meno governabile della prima, in quanto le elezioni avevano rafforzato le ali estreme (destra reazionaria e socialisti rivoluzionari) ai danni del centro rappresentato dai costituzionalidemocratici (cadetti). A questo punto (estate 1907) il governo modificò la legge elettorale in senso smaccatamente classista (il voto di un grande proprietario contava cinquecento volte quello di un operaio) e poté finalmente disporre di un'assemblea più docile, composta in gran parte da aristocratici. Con questo colpo di mano, gli strascichi della rivoluzione del 1905 potevano considerarsi liquidati e la Russia tornava a essere un regime sostanzialmente assolutista. Artefice principale della restaurazione fu il conte Pètr Stolypin, diventato primo ministro nel 1906 in sostituzione del troppo "liberale" Vitte. Stolypin legò il suo nome alla spietata repressione di ogni opposizione politica, ma al tempo stesso si pose il problema di riguadagnare al regime una base di consenso e avviò - prima di cadere vittima di un attentato nel 1911 - una riforma agraria destinata a incidere profondamente nella struttura sociale del paese. Punto chiave della riforma Stolypin fu la dissoluzione della struttura

comunitaria del mir [§4.10]: in base a un decreto del 1906 i contadini ebbero la facoltà di uscire dalle comunità di villaggio, diventando proprietari della terra che coltivavano e godettero di facilitazioni creditizie per l'acquisto di altre terre sottratte al demanio statale o cedute, dietro indennizzo, dai latifondisti. Lo scopo era quello di creare un ceto di piccola borghesia rurale che fosse al tempo stesso fattore di modernizzazione economica e di stabilità politica. Il progetto riuscì solo in parte. Dei nuovi piccoli proprietari creati dalla riforma (circa sette milioni fra il 1906 e il 1914), una parte andò a ingrossare il numero dei contadini ricchi o relativamente agiati (kulaki); ma i più non trovarono nei loro piccoli appezzamenti la possibilità di condizioni di vita accettabili. Tutto ciò favoriva alla lunga l'esodo dalle campagne (e aumentava dunque la disponibilità di manodopera per l'industria), ma provocava nell'immediato un'ulteriore radicalizzazione dei contrasti sociali e non permetteva dunque il raggiungimento di quegli obiettivi di stabilizzazione che erano stati all'origine della riforma. 10.9. Verso la prima guerra mondiale. I contrasti fra le potenze, Le crisi marocchine, La crisi dell'Impero ottomano e la "rivoluzione dei giovani turchi", L'annessione all'Austria della Bosnia-Erzegovina, La prima guerra balcanica (1912), La seconda guerra balcanica (1913), Il nodo balcanico e la minaccia della guerra. Nel decennio che precedette lo scoppio della prima guerra mondiale, i due blocchi di potenze che si erano venuti a formare nell'Europa di inizio secolo si fronteggiarono in un contesto internazionale sempre più inquieto, dove ai vecchi motivi di contrasto (il "revanscismo" francese nei confronti della Germania, la rivalità austrorussa nei Balcani) si sommavano le nuove tensioni derivanti dalla politica sempre più aggressiva dell'Impero tedesco e dalla sua competizione con la Gran Bretagna per la superiorità navale. In queste condizioni accadeva di frequente che le tensioni vecchie e nuove si traducessero in crisi acute, ognuna delle quali rischiava di innescare il meccanismo di un conflitto generale. Due furono in questo periodo i più pericolosi punti di frizione. Il primo e il più importante era l'ormai cronico focolaio balcanico. Il secondo era costituito dal Marocco, uno degli ultimi Stati africani indipendenti, oggetto da tempo delle mire francesi (avallate dall'Inghilterra con l'Intesa cordiale del 1904) e proprio per questo scelto dalla Germania come ultimo possibile terreno di scontro per contrastare lo strapotere delle potenze rivali in campo

coloniale. Per due volte, nel 1905 e nel 1911, il contrasto francotedesco sul Marocco sembrò portare l'Europa sull'orlo della guerra. Alla fine la Francia riuscì a spuntarla, grazie alla solidarietà dei suoi alleati, e si vide riconosciuto un formale protettorato sul territorio conteso. La Germania ottenne in cambio una striscia del Congo francese: un risultato modesto che confermava l'isolamento diplomatico in cui la politica guglielmina aveva condotto il Reich tedesco e alimentava per reazione le spinte militariste e aggressive. Se l'esito pacifico delle due "crisi marocchine" confermava la regola per cui i contrasti coloniali non erano causa di guerra fra le potenze europee, i pericoli maggiori per la pace sul continente vennero in questo periodo dalla zona balcanica, dove la crisi dell'Impero ottomano, aggravata dalla spinta dei vecchi e nuovi nazionalismi, creava un'area di continua turbolenza. A mettere in movimento una situazione già precaria fu, nel 1908, uno sconvolgimento interno dell'Impero ottomano: la cosiddetta rivoluzione dei giovani turchi. Quello dei "giovani turchi" era un movimento composto in prevalenza da intellettuali e da ufficiali che si proponevano la trasformazione dell'Impero, retto da istituzioni autocratiche e arretratissimo sul piano economico, in una moderna monarchia costituzionale. Nell'estate del 1908, un gruppo di ufficiali marciò con le proprie truppe sulla capitale e costrinse il sultano a concedere una costituzione. Il nuovo regime tentò di realizzare, con qualche successo, un'opera di modernizzazione dello Stato. Ma non seppe avviare a soluzione il problema dei rapporti con i popoli europei ancora soggetti all'Impero, in stato di endemica rivolta. Al contrario, i giovani turchi cercarono di attuare un ordinamento amministrativo più centralistico di quello, autoritario ma inefficiente, del vecchio regime; e ottennero l'effetto di accentuare le spinte indipendentiste e di accelerare la dissoluzione di quanto restava della presenza turca in Europa. Della crisi interna all'Impero ottomano profittò subito l'AustriaUngheria per procedere, nell'ottobre 1908, all'annessione della Bosnia e dell'Erzegovina, che le erano state assegnate in "amministrazione temporanea" al congresso di Berlino del 1878. La mossa austriaca provocò un immediato inasprimento della tensione con la Serbia - che mirava a unificare sotto il suo regno gli slavi del Sud - e con la stessa Russia, che della Serbia era la grande protettrice. Appoggiata risolutamente dall'alleata Germania, l'Austria riuscì però a far accettare alle altre potenze il fatto compiuto. I due imperi centrali ottennero così un successo diplomatico; ma lo pagarono con una radicalizzazione del nazionalismo sud slavo e con un indebolimento della Triplice alleanza: l'Italia, infatti, subì a malincuore

l'iniziativa austriaca che alterava l'equilibrio balcanico senza essere accompagnata da nessuno di quei "compensi" previsti dal trattato nel rinnovo del 1887 [§8.8]. Pochi anni dopo, fu proprio l'Italia a riportare alla ribalta, sia pure indirettamente, l'intricatissimo nodo balcanico. L'occupazione italiana della Tripolitania, nel 1911, provocò infatti (come vedremo più avanti: [§12.7] una guerra con la Turchia, che subì l'ennesima sconfitta. La sconfitta turca stimolò a sua volta le mire dei piccoli Stati balcanici, attivamente incoraggiati dalla Russia. Nel 1912, Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria strinsero una coalizione e, in ottobre, mossero guerra all'Impero ottomano sconfiggendolo in pochi mesi. La Turchia perse tutti i territori che ancora conservava in Europa (salvo una striscia della Tracia che le consentiva il controllo degli stretti). Sulla costa meridionale dell'Adriatico nasceva inoltre un nuovo piccolo Stato, il principato di Albania, voluto dall'Austria e dall'Italia per impedire alla Serbia lo sbocco al mare. Ma, al momento della spartizione dei territori conquistati, si ruppe l'alleanza fra gli Stati balcanici. Nel giugno 1913 la Bulgaria, che aveva sostenuto il maggior peso nella guerra contro la Turchia e si riteneva sacrificata nella divisione del bottino, attaccò improvvisamente la Grecia e la Serbia. Contro l'aggressione bulgara si formò una nuova coalizione. Alla Serbia e alla Grecia si unirono la Romania, che non aveva partecipato alla guerra precedente, e la stessa Turchia. La Bulgaria, sconfitta, dovette restituire alla Turchia una parte della Tracia e cedere alla Romania una striscia di territorio sul Mar Nero. Il bilancio finale delle due guerre balcaniche risultava così largamente sfavorevole per gli imperi centrali. Il loro maggiore alleato, l'Impero turco, era stato praticamente estromesso dall'Europa. Né una sorte molto migliore era toccata alla Bulgaria che fra i piccoli Stati balcanici era il più legato alla Germania e all'Austria. La Serbia, vera spina nel fianco della monarchia austroungarica, si era considerevolmente rafforzata raddoppiando quasi il suo territorio senza per questo attenuare la sua ostilità verso l'Impero asburgico, che le aveva precluso lo sbocco sull'Adriatico e ostacolava i suoi disegni di unificazione dei popoli slavi. In queste condizioni si faceva sempre più forte nei circoli dirigenti austriaci, e soprattutto fra i militari, la tentazione di liquidare una volta per tutte i conti con la Serbia. Ma se l'Austria avesse attaccato la Serbia, come avrebbe potuto la Russia rimanere inerte? E, in caso di conflitto austrorusso, come si sarebbero comportate le altre potenze, soprattutto la Germania e la Francia, legate da stretti vincoli di alleanza militare rispettivamente all'Impero degli Asburgo e a quello

degli zar? A questi interrogativi erano legate, come a un filo sottile, le sorti della pace in Europa e nel mondo. Sommario Tra l'ultimo decennio dell'800 e i primi anni del '900 si delineò un mutamento nelle alleanze che segnò la crisi del sistema bismarckiano. Attraverso l'alleanza tra Francia e Russia, l""Intesa cordiale" francoinglese, l'accordo anglorusso sulle questioni asiatiche, si venne a costituire uno schieramento - poi detto Triplice intesa - contrapposto alla Triplice alleanza e di questa potenzialmente più forte. In Francia, alla fine del secolo, restavano forti le correnti contrarie alle istituzioni repubblicane. Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900, queste correnti si coagularono intorno al caso del capitano Dreyfus (un ufficiale ebreo ingiustamente condannato per spionaggio) che divenne simbolo della spaccatura dell'opinione pubblica, divisa tra innocentisti e colpevolisti. Le forze progressiste ebbero infine una vittoria sul piano elettorale, che diede inizio a un periodo di governi a direzione radicale. A cavallo fra i due secoli la politica inglese fu dominata dalla coalizione tra conservatori e "unionisti", che cercarono di unire a una politica imperialistica una certa dose di riformismo sociale. Il successo dei liberali (1906) segnò un mutamento politico in senso progressista che trovò il suo momento più importante nella battaglia per la riduzione dei poteri della Camera dei Lords. Contemporaneamente cresceva, a scapito dei liberali, la rappresentanza parlamentare dei laburisti. Il "nuovo corso" di Guglielmo II non segnò, al di là dell'allontanamento di Bismarck (1890), un effettivo mutamento di indirizzi: la più aggressiva politica estera della Germania guglielmina rafforzava, anzi, la tradizionale alleanza tra grande industria, aristocrazia terriera e vertici militari, e finiva con l'ottenere l'appoggio di tutte le forze politiche, socialdemocratici esclusi. La Spd confermava la sua grande forza, cui si accompagnava però un sostanziale isolamento. Nell'Impero asburgico lo sviluppo economico rimase limitato ad alcune aree; il sistema politico e la struttura sociale delle campagne erano caratterizzati da un sostanziale immobilismo. Il più grave problema per la monarchia era rappresentato dalle agitazioni autonomistiche delle varie nazionalità, anzitutto degli slavi. Grazie all'intervento diretto dello Stato e all'afflusso di capitali stranieri si verificò, nella Russia degli anni '90, un primo decollo industriale. Si trattò

di uno sviluppo fortemente concentrato (dal punto di vista geografico e per dimensione di imprese); la società russa rimaneva però fortemente arretrata. Tutte le sue contraddizioni si rivelarono nella rivoluzione del 1905. Ristabilito l'ordine e svuotato l'esperimento parlamentare della Duma, fu varata dal primo ministro Stolypin una riforma agraria non in grado, tuttavia, di risolvere gli enormi problemi delle campagne. Il decennio precedente la prima guerra mondiale vide un acuirsi dei contrasti internazionali. Dalle due crisi marocchine (1905 e 1911) la Germania uscì sconfitta, mentre la Francia ottenne infine un protettorato sul Marocco. Più gravi furono gli avvenimenti nella penisola balcanica. L'annessione della Bosnia-Erzegovina (1908) da parte dell'Austria, la guerra italoturca (1911), le due guerre balcaniche (1912-13) segnarono un profondo rivolgimento degli equilibri in questa area. La Turchia - dove nel 1908 si era verificata la rivoluzione dei "giovani turchi" - veniva definitivamente estromessa dall'Europa, mentre si faceva sempre più acuto il contrasto tra Austria e Serbia (protetta dalla Russia). Bibliografia Sulla storia europea fra i due secoli, oltre alle opere citate al cap. 4, si veda: W. Mommsen, L'età dell'imperialismo. Europa 1885-1918, Feltrinelli, Milano 1970 (vol. 28 della Storia universale Feltrinelli); M. Silvestri, La decadenza dell'Europa occidentale, I. Anni di trionfo 1890-1914, Einaudi, Torino 1977; AJ. Mayer, Il potere dell'Ancien Regime fino alla prima guerra mondiale, Laterza, RomaBari 1982. Sulla socialdemocrazia tedesca: G. Roth, / socialdemocratici nella Germania imperiale, Il Mulino, Bologna 1971. Sulla Russia: F. Benvenuti, Storia della Russia contemporanea 1853-1996, Laterza, RomaBari 1999. 11. Imperialismo e rivoluzione nei continenti extraeuropei. 11.1. Il ridimensionamento dell'Europa. I primi segni del declino europeo, L'emergere dei popoli extraeuropei, Le tendenze demografiche, Il "pericolo giallo". Nel primo quindicennio del '900, mentre le potenze europee si avviavano verso uno scontro da cui tutte sarebbero uscite profondamente trasformate e indebolite, si cominciarono ad avvertire i sintomi di un ridimensionamento della posizione del vecchio continente in rapporto al resto del mondo. Si

trattava in realtà di un processo di lungo periodo, cominciato, nonostante tutte le apparenze contrarie, nella seconda metà dell'800 (che aveva visto il boom dell'espansione coloniale, ma anche la crescita di nuove potenze extraeuropee come gli Stati Uniti e il Giappone) e destinato a concludersi dopo la seconda guerra mondiale. Fu, comunque, all'inizio del '900 che l'idea di una minaccia portata alla supremazia europea dall'emergere di nuovi popoli e nuove nazioni cominciò a farsi strada nell'opinione pubblica. A suggerire questi timori non era tanto l'ascesa degli Stati Uniti, considerati con eccessiva sufficienza e visti pur sempre come un'appendice dell'Europa, quanto il risveglio dei popoli dell'Estremo Oriente: il Giappone innanzitutto, ormai apertamente lanciato in una politica imperiale che lo avrebbe portato come vedremo fra poco - a scontrarsi con la Russia; ma anche la Cina, sempre più insofferente dello stato di semisoggezione impostole dalle potenze europee. Alle preoccupazioni di ordine politicomilitare si aggiungevano quelle indotte dalle tendenze dello sviluppo demografico. La popolazione europea continuava a crescere, ma non al punto da ridurre significativamente il divario con i popolosissimi paesi asiatici. Al contrario, in questi paesi l'introduzione, sia pur limitata, di nuove tecniche agricole e di più moderni metodi di cura e prevenzione delle malattie cominciò a far calare il tasso di mortalità senza che si verificassero quei mutamenti culturali che nelle società industrializzate avevano portato a una caduta del tasso di natalità. Questa tendenza era, ai primi del secolo, appena ai suoi inizi. Ma già allora la sovrappopolazione dei paesi asiatici fu sentita da molti come una minaccia all'egemonia europea, e, più in generale, alla supremazia dei popoli "bianchi". Come sarebbe stato possibile, alla lunga, per le potenze coloniali, che per tutto l'800 avevano inondato il mondo intero di coloni e soldati, funzionari e mercanti, mantenere il proprio dominio in condizioni di crescente inferiorità numerica? E come l'Occidente avrebbe potuto resistere alle ondate migratorie che dall'Oriente cominciavano a riversarsi sugli Stati Uniti e sui dominions britannici? Fu allora che in Europa si cominciò a parlare sempre più insistentemente di un "pericolo giallo": un'espressione coniata dall'imperatore di Germania Guglielmo II ai tempi della rivolta dei boxers e diventata d'attualità soprattutto dopo la guerra russogiapponese del 1904-5. 11.2. La guerra russogiapponese. Il contrasto sulla Manciuria, L'attacco giapponese, La battaglia di Tsushima, Gli echi della sconfitta russa.

Un contrasto fra Russia e Giappone si cominciò a delineare negli ultimi anni dell'800, quando l'Impero nipponico, dopo la guerra vittoriosa contro la Cina nel 1894 [§7.3 ], si era inserito di forza nella spartizione in zone di influenza dell'agonizzante Impero cinese, entrando in diretta concorrenza con la Russia per il controllo delle regioni del NordEst. Nel 1903, dopo essersi assicurato con un trattato l'appoggio della Gran Bretagna (allora interessata a tener impegnato l'Impero zarista in Estremo Oriente per alleggerirne la pressione in Asia centrale), il Giappone propose alla Russia un accordo per la spartizione della Manciuria. Ma i russi, che già occupavano buona parte di quella regione e sottovalutavano la forza militare dei rivali, rifiutarono ogni trattativa preparandosi all'inevitabile conflitto. Furono però i giapponesi a prendere l'iniziativa. Nel febbraio del 1904, senza alcuna dichiarazione di guerra, la flotta nipponica attaccò quella russa nel Mar Giallo e strinse d'assedio la base di Fort Arthur, all'estremità meridionale della Manciuria. L'assedio durò quasi un anno. All'inizio del 1905, caduta Port Arthur, le forze giapponesi penetrarono in Manciuria e, in marzo, sconfissero l'esercito russo nella grande battaglia campale di Mukden. Soltanto in maggio, a sedici mesi dall'inizio della guerra, giunse sul teatro di operazioni la flotta russa del Mar Baltico, dopo una lunga e avventurosa circumnavigazione dell'Africa e dell'Asia. Ma anch'essa fu distrutta, presso l'isola di Tsushima, dall'efficientissima marina giapponese. Alla Russia non restò che accettare la mediazione offerta dagli Stati Uniti e firmare, in settembre, il trattato di Portsmouth, in base al quale il Giappone otteneva la Manciuria meridionale e una parte dell'isola di Sakhalin, situata di fronte alle coste della Siberia, e si vedeva riconosciuto il protettorato sulla Corea (che già deteneva di fatto dal 1895). Per l'Impero zarista la sfortunata guerra contro il Giappone significò un immediato aggravamento delle tensioni interne, che sfociarono nella rivoluzione del 1905, ma anche un ridimensionamento della propria posizione internazionale. Per l'Europa intera, la secca sconfitta della Russia rappresentò un trauma di proporzioni difficilmente immaginabili. Per la prima volta nell'età moderna un paese asiatico batteva in un'autentica guerra una grande potenza europea, distruggendo in un sol colpo il mito della supremazia militare e tecnologica del vecchio continente e quello di una presunta superiorità della "razza bianca". Anche gli Stati che, come l'Inghilterra, avevano appoggiato il Giappone, sperando di poterlo tenere facilmente sotto controllo, dovettero da allora in poi preoccuparsi di frenarne in qualche modo il dinamismo. L'Estremo Oriente cessava di

essere campo d'azione incontrastato per le potenze europee e si avviava a diventare terreno di competizione fra i due nuovi imperialismi in ascesa: quello giapponese e quello statunitense. 11.3. La Repubblica in Cina. I movimenti indipendentisti in Asia, La crisi dell'Impero cinese, Sun Yatsen e i "tre princìpi del popolo", La rivoluzione del 1911, L'inizio della guerra civile. La vittoria del Giappone sulla Russia ebbe fra gli altri effetti quello di dare un poderoso impulso alle lotte nazionali e anticoloniali dei popoli asiatici. Movimenti indipendentisti si svilupparono, in questo periodo, nell'Indocina francese, nell'Indonesia olandese e nelle Filippine, da poco passate sotto il controllo degli Stati Uniti. Nell'India britannica, il Congresso nazionale indiano - un'organizzazione nata nel 1885 e formata per lo più da notabili e professionisti che chiedevano una maggior partecipazione dell'elemento indigeno alla vita della colonia - vide prevalere al suo interno un'ala nazionalista e radicale. Ma fu soprattutto la Cina a subire in maniera determinante l'influsso del vicino Giappone, visto a un tempo come minaccia all'indipendenza nazionale e come modello da imitare sul piano dello sviluppo economico e dell'emancipazione politica. Ormai screditata la dinastia Manciù dimostratasi incapace di promuovere un processo di riscossa nazionale simile a quello realizzato in Giappone con la "restaurazione Meiji" -, fallito disastrosamente con la rivolta dei boxers [§7.3] il tentativo di condurre la lotta per l'indipendenza all'insegna del tradizionalismo reazionario, la strada era aperta per l'affermazione di un movimento di ispirazione democratica e occidentalizzante, in alternativa al potere imperiale. Nel 1905 un medico di Canton, Sun Yatsen, che aveva soggiornato a lungo in Europa e in Giappone, fondò un'organizzazione segreta, il Tung meng bui (Lega di alleanza giurata) con un programma basato sui tre princìpi del popolo: l'indipendenza nazionale, la democrazia rappresentativa, il benessere del popolo, vale a dire l'essenza della tradizione democratica occidentale. La lega di Sun Yatsen fece proseliti soprattutto fra gli intellettuali, fra gli ufficiali dell'esercito e fra i nuclei di proletariato industriale che si erano venuti formando in alcune grandi città, in particolare a Shangai. Al movimento andarono anche le simpatie di una parte della ancora esigua borghesia imprenditoriale, quella meno legata agli interessi commerciali delle potenze straniere.

Invano la corte imperiale cercò di mettere in atto un limitato e tardivo programma di modernizzazione. Nell'ottobre del 1911 la decisione del governo di affidare a imprese straniere il controllo della rete ferroviaria cinese provocò una serie di sommosse nelle province centromeridionali e l'ammutinamento di alcuni reparti dell'esercito. Nel gennaio del 1912 un'assemblea rivoluzionaria dichiarava decaduta la dinastia Manciù ed eleggeva Sun Yatsen alla presidenza della Repubblica. In aprile il generale Yuan Shikai, inviato dal governo di Pechino a domare la rivolta, si schierò dalla parte dei repubblicani e ottenne in cambio di essere nominato presidente in luogo di Sun Yatsen. Il più antico impero del mondo (aveva alle spalle circa tremila anni di storia) crollava così ingloriosamente. Ma la nuova Repubblica era destinata a una vita quanto mai travagliata. Il fragile compromesso tra le forze democratiche organizzate nel nuovo "Partito nazionale" (Kuomintang) e i gruppi conservatori che facevano capo a Yuan Shikai, ostili a ogni riforma che minacciasse i tradizionali equilibri sociali nelle campagne, si ruppe nel giro di pochi mesi. Nel 1913 il nuovo presidente sciolse il Parlamento appena eletto, mise fuori legge il Kuomintang, costrinse Sun Yatsen all'esilio e instaurò una dittatura personale appoggiata dalle potenze straniere (i cui privilegi rimasero naturalmente intatti). Cominciava per la Cina una lunga stagione di guerre civili che si sarebbe conclusa solo nel 1949 con la vittoria della rivoluzione comunista. 11.4. Imperialismo e riforme negli Stati Uniti. Lo sviluppo industriale e le "corporations", Lo sviluppo agricolo, Il Partito populista, Organizzazioni operaie e lotte sindacali, L'imperialismo di Theodore Roosevelt, La questione del canale di Panama, Roosevelt e le riforme, La popolarità di Roosevelt, Le divisioni fra i repubblicani e l'elezione di Wilson, La nuova politica estera. Mentre l'Asia orientale assisteva alla crescita inarrestabile della potenza giapponese, nel continente americano si andava progressivamente rafforzando il ruolo egemonico degli Stati Uniti. Questo ruolo, come già si è visto [§7.4], si fondava principalmente su uno sviluppo economico che non aveva paragone, per ritmi e per intensità, in nessun altro paese del mondo. La crescita più imponente si verificò nell'industria, in particolare in alcuni settoriguida come il siderurgico, il meccanico, l'elettrico e il petrolifero, dove dominavano le grandi concentrazioni (corporations) industriali e finanziarie: come la General Electric, la American Telephone Company, la

Standard Oil Company, o come il gigantesco trust dell'acciaio, la United States Steel Corporation, costituitosi nel 1901. Per contrastare le tendenze monopolistiche e la conseguente lievitazione dei prezzi (già tenuti alti da una politica doganale fortemente protezionistica), fu varata nel 1890 una legge, lo Sherman Antitrust Act, che vietava gli accordi sui prezzi fra imprese operanti in uno stesso settore. La legge ebbe però un effetto opposto a quello sperato, giacché indusse le imprese a vere e proprie fusioni (e le spinse a incrementare le loro attività all'estero). Alla fine del secolo, gli Stati Uniti non solo avevano superato Inghilterra e Germania nel volume della produzione industriale (raggiungendo quindi il primato mondiale), ma erano anche diventati un paese prevalentemente esportatore di capitali e di prodotti finiti. Progressi decisivi furono compiuti anche nell'agricoltura e nell'allevamento. Soprattutto nelle grandi praterie del Midwest proseguì e si intensificò quella autentica rivoluzione agricola che sempre più avrebbe fatto degli Stati Uniti il "granaio del mondo". Il grande sviluppo materiale degli ultimi anni del secolo non fu privo di tensioni sociali. Lo strapotere delle corporations e il rigido protezionismo alimentarono il malcontento dei contadini ifarmers) del Midwest, danneggiati dagli alti prezzi dei manufatti. La principale espressione politica di questa protesta fu costituita, nell'ultimo decennio del secolo, dal Partito populista, una formazione a base essenzialmente contadina che, ispirandosi a ideali democratici ed egualitari, ottenne un notevole ma effimero successo soprattutto negli Stati dell'Ovest e del Sud e giunse a sfiorare la vittoria nelle elezioni presidenziali del 1896. Notevole sviluppo ebbero in questo periodo anche le organizzazioni operaie. Nel 1886 venne fondata da Samuel Gompers l'American Federation of Labor, una grande confederazione di sindacati autonomi priva di una precisa caratterizzazione politica. Altri sindacati e gruppi di ispirazione socialista e rivoluzionaria costituitisi alla fine del secolo ebbero, nel complesso, un seguito limitato. Insomma, né la maggioranza delle organizzazioni sindacali né il movimento politico dei contadini sposarono la strategia di classe dei movimenti socialisti europei o si posero come obiettivo il rovesciamento del sistema capitalistico. Ciò non servì tuttavia a rendere meno aspri i contrasti sociali. Le lotte sindacali, negli Stati Uniti di fine '800, si scontrarono con la durissima resistenza di un padronato deciso a contrastare con ogni mezzo le richieste della controparte e furono per questo costellate di violenti conflitti. Una decisa svolta in tema di politica sociale si verificò all'inizio del '900, negli anni della presidenza di Theodore Roosevelt. Esponente dell'ala

progressista del Partito repubblicano, salito al potere nel 1901 dopo la morte del presidente McKinley (vittima di un attentato anarchico), Roosevelt mostrò grande decisione nella difesa degli interessi americani nel mondo, alternando con disinvoltura la pressione economica alle minacce di interventi armati, la "diplomazia del dollaro" alla politica del "grosso bastone" (big stick), secondo un'eloquente espressione da lui stesso coniata. La più importante occasione per mettere in pratica l'una e l'altra politica fu offerta a Roosevelt dalla questione del canale di Panama. Nel 1901 gli Stati Uniti ottennero dal governo della Colombia l'autorizzazione a costruire e a gestire per un periodo di cento anni un canale che tagliasse l'istmo di Panama (allora facente parte della Repubblica colombiana), aprendo un passaggio fra l'Oceano Pacifico e il Mar dei Caraibi. Quando, nel 1903, il Parlamento colombiano, in un sussulto di orgoglio nazionale, rifiutò di ratificare l'accordo, gli Stati Uniti non esitarono a organizzare una sommossa a Panama e a minacciare un intervento armato per impedire la reazione del governo legittimo. Panama, come già Cuba, divenne una repubblica indipendente sotto la tutela americana. Il canale fu realizzato nel giro di dieci anni e la sua apertura, nel 1914, consentì di mettere in comunicazione i due settori - l'Oceano Pacifico e i mari del Centro America - su cui principalmente si esercitava la spinta espansionistica degli Stati Uniti. Imperialista e aggressiva all'estero, la linea di Roosevelt si caratterizzò in politica interna per un'apertura ai problemi sociali sconosciuta alle precedenti amministrazioni, sia repubblicane sia democratiche. Si dovettero a Roosevelt i primi, limitati provvedimenti del governo federale nel campo della legislazione sociale (limitazioni di orario, tutela del lavoro minorile, assicurazioni contro gli infortuni) e le prime energiche affermazioni del diritto di intervento dei pubblici poteri nel mondo dell'economia. Pur senza mai mettere in discussione i princìpicardine del capitalismo americano e senza modificare la politica protezionistica ereditata dai suoi predecessori, Roosevelt cercò di limitare il potere dei grandi trusts, interpretando così le esigenze della piccola e media borghesia urbana, dei piccoli produttori indipendenti e degli stessi sindacati operai. La lotta contro i monopoli procurò a Roosevelt una vasta popolarità e contribuì a dare alla sua presidenza un segno marcatamente progressista. Ma, una volta che Roosevelt ebbe lasciato la presidenza, nel 1908 (in omaggio alla prassi che impediva a un presidente di ricoprire la carica per più di due mandati consecutivi), il Partito repubblicano si spaccò. L'ala più progressista, che aveva appoggiato l'azione di Roosevelt, non si riconobbe

nella politica assai più conservatrice del suo successore Howard Taft. E, nelle elezioni del 1912, la divisione tra le file repubblicane favorì il successo del candidato democratico Woodrow Wilson. Professore di scienze politiche, intellettuale di solide convinzioni democratiche, molto lontano da Roosevelt per formazione e per temperamento, Wilson ne riprese l'impegno sociale inserendolo però in un quadro ideologico e politico completamente diverso. Mentre Roosevelt aveva cercato di rafforzare il potere federale, Wilson, fedele alla tradizione del Partito democratico, fu contrario a ogni limitazione dell'autonomia dei singoli Stati dell'Unione. Mentre Roosevelt aveva lasciato inalterato il regime doganale protezionistico, Wilson impostò la lotta contro i grandi monopoli sull'abbassamento delle tariffe protettive, che furono considerevolmente ridotte nel 1913. Anche nella politica estera Wilson portò uno stile nuovo, più prudente e più rispettoso delle norme della convivenza internazionale, anche se non meno attento alla tutela degli interessi statunitensi nel mondo. Era infatti convinto che il ruolo degli Stati Uniti dovesse fondarsi, più che sulla forza delle armi, sulla capacità espansiva dell'economia e sulla fedeltà ai princìpi basilari della tradizione democratica. Paradossalmente fu proprio in base a questi princìpi che, nel 1917, Wilson avrebbe condotto il suo paese a intervenire per la prima volta in un conflitto fra potenze europee. 11.5. L'America Latina e la rivoluzione messicana. Sviluppo e dipendenza economica, La persistenza del latifondo, I regimi parlamentari, L'avvento dei radicali in Argentina, La rivoluzione in Messico, Rivoluzione borghese e rivoluzione contadina, La guerra civile e la vittoria dei democratici. Nel trentennio che precedette la prima guerra mondiale, i paesi dell'America Latina conobbero uno sviluppo economico di notevoli proporzioni, basato principalmente sull'esportazione di materie prime e di prodotti agricoli verso l'Europa industrializzata. Questo sviluppo attirò un consistente flusso migratorio dall'Europa e favorì la crescita di grandi centri urbani (come Buenos Aires, Rio de Janeiro, Città del Messico); ma non mutò la posizione di sostanziale subalternità economica comune, in varia misura, a tutti i paesi del continente, dipendenti dagli investimenti stranieri (soprattutto britannici, ma anche tedeschi e statunitensi) per lo sviluppo delle proprie risorse produttive e legati all'andamento dei mercati esteri per

la collocazione delle proprie merci. Anzi, la crescita delle esportazioni accentuò questi caratteri di dipendenza, favorendo la tendenza delle agricolture dei singoli paesi ad adottare il sistema della monocoltura: ossia a concentrarsi su una determinata produzione (il caffè in Brasile, il grano in Argentina, la canna da zucchero a Cuba), scelta in base alla richiesta del mercato internazionale. L'orientamento dell'agricoltura in funzione del mercato non era di per sé segno di modernità nelle tecniche produttive o nei rapporti sociali: al contrario, si accompagnava alla persistenza del latifondo e al mantenimento in condizioni semiservili delle masse contadine da parte di un ristretto numero di grandi proprietari. Assente quasi ovunque l'industria manifatturiera, controllato in gran parte da compagnie straniere il settore estrattivo (molto importante vista la ricchezza di risorse minerarie del continente), l'oligarchia terriera finiva con l'essere arbitra incontrastata della vita sociale e col dominare i meccanismi della lotta politica. Dal punto di vista istituzionale, gli Stati latinoamericani erano retti da regimi parlamentari e repubblicani (l'ultima monarchia del Sud America, quella brasiliana, fu rovesciata da un colpo di Stato militare nel 1889), ispirati, almeno esteriormente, ai modelli del liberalismo ottocentesco. La facciata istituzionale liberalparlamentare copriva però una realtà di profonda corruzione e di totale esclusione delle masse dalla vita politica, quando non degenerava in forme più o meno larvate di dittatura personale. Nel periodo a cavallo fra i due secoli, questi regimi assicurarono tuttavia al continente latinoamericano una stagione di relativa stabilità politica (o che almeno appare tale se la si paragona all'età delle guerre civili che avevano seguito la conquista dell'indipendenza e alle vicende non meno agitate del periodo successivo al primo conflitto mondiale). Negli anni immediatamente precedenti la grande guerra, questa calma relativa fu interrotta da due importanti rivolgimenti politici che ebbero per teatro due fra gli Stati più vasti e popolosi: l'Argentina e il Messico. Nel caso dell'Argentina, si trattò di un rivolgimento pacifico, originato dall'introduzione del suffragio universale, nel 1912, e dalla successiva ascesa al potere dell'Unione radicale, espressione delle classi medie di orientamento progressista. In Messico, invece, la spinta alla democratizzazione politica e sociale sfociò in una lotta rivoluzionaria fra le più lunghe e sanguinose della storia del XX secolo. La rivolta contro il regime semidittatoriale del presidente Porfirio Diaz un generale già collaboratore di Juàrez nella lotta per l'indipendenza, che governava dal 1876 appoggiandosi soprattutto sull'oligarchia terriera -

cominciò nel 1910 per iniziativa di gruppi liberalprogressisti guidati da Francisco Madero e fu subito accompagnata da un vasto moto contadino, organizzato da improvvisati e popolarissimi capi rivoluzionari come Emiliano Zapata e Poncho Villa. Nell'autunno del 1911, Diaz fu costretto ad abbandonare il paese mentre Madero veniva eletto presidente. A questo punto però cominciò a manifestarsi in modo drammatico il contrasto fra le due componenti del fronte rivoluzionario: quella borghese e moderata, che mirava soprattutto a una liberalizzazione delle istituzioni politiche, e quella contadina, che aveva come obiettivo fondamentale una radicale riforma agraria: un obiettivo fortemente sentito, e altrettanto fortemente temuto, in un paese in cui la proprietà della terra era concentrata nelle mani di un migliaio di latifondisti e dove i tre quarti circa della popolazione erano costituiti da braccianti senza terra i peones), quasi tutti analfabeti e poverissimi. Nel 1913 il presidente Madero fu eliminato da un colpo di Stato militare che portò al potere il generale Adolfo Huerta e aprì la strada a un regime di spietata reazione. La guerra civile riprese da allora con rinnovata violenza e si protrasse, in un susseguirsi di rivolte e colpi di Stato, fino all'inizio degli anni '20, per concludersi infine con l'assunzione della presidenza (1921) da parte del progressista Alvaro Obregón e con il varo di una costituzione democratica e laica, aperta alle istanze di riforma sociale. L'attuazione di queste istanze si sarebbe rivelata lenta e difficile. Dieci anni di rivoluzione (con oltre un milione di morti) non erano bastati a risolvere i problemi originati dal preesistente assetto semifeudale della proprietà terriera. Avevano però assicurato al Messico un livello di democrazia superiore a quello della maggior parte degli altri Stati latinoamericani. Sommario Il primo quindicennio del '900 vide il manifestarsi dei primi segni d'un declino dell'Europa di fronte all'emergere di popoli extraeuropei. Preoccupava in particolare la crescita dei paesi asiatici (Cina e Giappone), che fece parlare di un "pericolo giallo". Questi timori presero corpo soprattutto dopo l'esito della guerra fra Russia e Giappone (1904-5), entrati in conflitto per il controllo della Manciuria. Vittorioso per terra e per mare, il Giappone si affermava definitivamente come potenza egemone in Estremo Oriente. In Cina sorse un movimento nazionalista e democratico guidato da Sun Yatsen, eletto presidente della Repubblica dopo la rivoluzione del 1911 che

rovesciò la dinastia Manciù. Successivamente le forze conservatrici ebbero il sopravvento, con ciò dando inizio a una lunga stagione di guerre civili. Fino alla prima guerra mondiale l'imperialismo statunitense si rivolse principalmente verso l'America centrale. Ciò si manifestò soprattutto durante la presidenza di Theodore Roosevelt, nel contrasto con la Colombia per il canale di Panama. Sul piano interno, Roosevelt si caratterizzò con una politica di apertura ai problemi sociali, che contribuì alla sua grande popolarità. Le divisioni nel Partito repubblicano favorirono nel 1912 l'elezione del democratico Wilson, che riprese l'impegno sociale di Roosevelt inserendolo però in un quadro politico e ideologico assai diverso. Nei trent'anni precedenti la prima guerra mondiale, il notevole sviluppo economico dei paesi dell'America Latina non attenuò la loro dipendenza dagli Stati industrializzati dell'Occidente. Le campagne erano dominate dal latifondo, mentre una ristretta oligarchia terriera controllava la vita sociale e politica. I maggiori mutamenti sul piano politico furono la vittoria dei radicali in Argentina e la rivoluzione messicana cominciata nel 1910 e segnata dal conflitto fra le sue varie componenti: conflitto che solo nel 1921 si sarebbe concluso con la vittoria dei democratici. Bibliografia Sull'imperialismo e le rivoluzioni nei continenti extraeuropei si vedano in particolare: E. H. Norman, La nascita del Giappone moderno, Einaudi, Torino 1975; M. Bastid M. C. Bergère J. Chesneaux, La Cina dalla guerra francocinese alla fondazione del Partito comunista cinese 1885-1921, ivi 1974; M. Sabattini P. Santangelo, Storia della Cina. Dalle origini alla fondazione della Repubblica, Laterza, RomaBari 1986; A. Aquarone, Le origini dell'imperialismo americano. Da McKinley a Taft (1897-1913), Il Mulino, Bologna 1973; T. Halperin Donghi, Storia dell'America Latina, Einaudi, Torino 1972. Va ricordato, inoltre, G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Laterza, Bari 1971, che discute ampiamente il tema del ridimensionamento dell'Europa agli inizi del '900. Sugli Usa si veda anche l'antologia curata da A. Testi, Gli Stati Uniti nell'età progressista, Il Mulino, Bologna 1984. Sull'America Latina si veda inoltre M. Plana A. Trento, Lamerica latina nel XX secolo, Ponte alle Grazie, Firenze 1992. 12. L'Italia giolittiana. 12.1. La crisi di fine secolo.

Crisi ed evoluzione del regime liberale, Il fronte conservatore e la proposta di Sonnino, I moti per il pane, La repressione militare: i fatti di Milano, I provvedimenti di Pelloux e l'ostruzionismo parlamentare, Le elezioni del 1900, L'uccisione di Umberto I. Negli ultimi anni del secolo XIX, l'Italia fu teatro di una crisi politicoistituzionale paragonabile a quella vissuta dalla Francia, più o meno nello stesso periodo, intorno al caso Dreyfus o a quella attraversata dall'Inghilterra una decina di anni dopo con lo scontro fra Lords e Camera dei Comuni. Se diverso era nei vari casi il contesto politicosociale e diverse furono le modalità del conflitto, uguale nella sostanza era la posta in gioco: l'evoluzione del regime liberale verso forme di più avanzata democrazia. Anche in Italia lo scontro si concluse con un'affermazione delle forze progressiste: un'affermazione non completa né definitiva, ma sufficiente a far evolvere la vita del paese, che conosceva allora una fase di intenso sviluppo industriale, secondo modelli più vicini a quelli delle liberaldemocrazie occidentali che non a quelli autoritariocostituzionali degli imperi del Centro Europa. La caduta di Crispi (marzo 1896), determinata dagli insuccessi coloniali e dall'opposizione convergente dell'estrema sinistra e di una parte della destra, non pose fine ai tentativi di risolvere le tensioni politiche e sociali con una restrizione delle libertà. Al contrario, negli anni che seguirono le dimissioni di Crispi e il ritorno al potere di Rudinì, si delineò fra le forze conservatrici - già divise sulla politica estera e sulle questioni coloniali - la tendenza a ricomporre un fronte comune contro le vere o supposte minacce portate all'ordine costituito dai "nemici delle istituzioni", socialisti, repubblicani o clericali che fossero. Questa tendenza si esprimeva, da un lato, nel tentativo di tornare a una interpretazione restrittiva dello Statuto che, interrompendo la prassi "parlamentare" affermatasi con Cavour, rendesse il governo responsabile di fronte al sovrano, lasciando alle Camere i soli compiti legislativi (era quanto proponeva Sidney Sonnino in un celebre articolo apparso all'inizio del '97 e intitolato significativamente Torniamo allo Statuto); dall'altro, in una ripresa dei metodi crispini in materia di ordine pubblico, volti a colpire indiscriminatamente ogni forma di protesta sociale. La tensione esplose nella primavera del 1898, quando un improvviso aumento del prezzo del pane (provocato da un cattivo raccolto e dal contemporaneo blocco delle importazioni di cereali dagli Stati Uniti in seguito alla guerra di Cuba) fece scoppiare in tutto il paese - prima in Romagna e nelle Puglie, poi in Toscana, Marche e Campania e in molte delle maggiori città del CentroNord - una serie di manifestazioni popolari.

Si trattava di manifestazioni in larga parte spontanee, che, nonostante una forte presenza operaia, richiamavano, nelle motivazioni e nella dinamica, forme di protesta tipiche delle società preindustriali. La risposta del governo fu comunque durissima. Anziché prendere l'unico provvedimento atto a eliminare le cause della protesta - una riduzione del dazio sul grano - Rudinì si comportò come se dovesse fronteggiare un complotto rivoluzionario: prima massicci interventi delle forze di polizia, quindi proclamazione dello stato d'assedio, con conseguente passaggio dei poteri alle autorità militari, a Milano, a Napoli e nell'intera Toscana. La repressione raggiunse il culmine a Milano nelle giornate dell'8 e 9 maggio, quando le truppe del generale Bava Beccaris fecero uso dell'artiglieria contro la folla inerme provocando circa cento morti e più di cinquecento feriti. Capi socialisti, radicali e repubblicani furono arrestati e condannati a pene severissime (Turati ebbe dodici anni di carcere) sotto l'accusa, falsa e pretestuosa, di avere organizzato e diretto le agitazioni. Anche il movimento cattolicointransigente fu duramente colpito dalla repressione. Una volta riportato l'ordine nel paese, i gruppi moderati e conservatori, che detenevano la maggioranza alla Camera e godevano dell'appoggio del re, cercarono di dare una base legislativa all'azione repressiva dei poteri pubblici. Lo scontro si trasferì così dalle piazze alle aule parlamentari. Caduto un primo progetto presentato da Rudinì - che dovette dimettersi nel giugno '98 per contrasti col re e per dissensi interni alla compagine di governo - il tentativo fu ripreso dal suo successore, il generale piemontese Luigi Pelloux. Ma, alla presentazione da parte di Pelloux di un pacchetto di provvedimenti che limitavano gravemente il diritto di sciopero e le stesse libertà di stampa e di associazione, i gruppi di estrema sinistra (socialisti, repubblicani, radicali) risposero mettendo in atto la tecnica dell'ostruzionismo, consistente nel prolungare all'infinito le discussioni paralizzando così l'azione della maggioranza. La lotta ostruzionistica si protrasse per quasi un anno con fasi altamente drammatiche: dibattiti accesissimi, interventifiume, veri e propri scontri fisici fra i deputati. Incapace di venire a capo dell'ostruzionismo, e indebolito dalla sempre più aperta opposizione dei gruppi liberaliprogressisti che facevano capo a Giuseppe Zanardelli e a Giovanni Giolitti, Pelloux decise infine di sciogliere la Camera, sperando in un risultato elettorale che suonasse appoggio alla sua politica. Ma nelle elezioni, che si tennero nel giugno 1900, lo schieramento governativo perse parecchi seggi, mentre ne guadagnarono le opposizioni, in particolare i socialisti che ebbero 33

deputati. Il presidente del Consiglio, pur potendo ancora contare su un'esigua maggioranza, preferì a questo punto dimettersi. Accettando le sue dimissioni e affidando la successione al senatore Giuseppe Saracco, un moderato ritenuto al di sopra delle parti, Umberto I mostrava di prendere atto del fallimento di quella politica repressiva che lo aveva visto fra i suoi più attivi sostenitori. Un mese dopo, il 29 luglio 1900, il re cadeva vittima di un attentato per mano di un anarchico, Gaetano Bresci, venuto appositamente dagli Stati Uniti per vendicare le vittime del '98. 12.2. La svolta liberale. Vittorio Emanuele I, Il governo ZanardelliGiolitti, Le riforme di Zanardelli, La neutralità del governo nei conflitti di lavoro, La crescita delle organizzazioni sindacali, La Federterra, Scioperi e aumenti salariali. Rinunciando a ripresentare i provvedimenti repressivi proposti da Pelloux, il governo Saracco inaugurò una fase di distensione nella vita politica italiana. Una distensione che fu indubbiamente favorita dal buon andamento dell'economia - e dal conseguente allentamento delle tensioni sociali - e non fu interrotta nemmeno da un evento traumatico come l'uccisione di Umberto I. Al contrario il nuovo re, Vittorio Emanuele III, si mostrò propenso assai più del padre ad assecondare l'affermazione delle forze progressiste. Quando il governo Saracco fu costretto a dimettersi per il comportamento incerto e contraddittorio tenuto in occasione di un grande sciopero generale indetto dai lavoratori genovesi, il re seppe ben interpretare il nuovo clima politico chiamando alla guida del governo, nel febbraio 1901, il leader della sinistra liberale Zanardelli, che affidò il ministero degli Interni a Giovanni Giolitti. Una scelta, quest'ultima, quanto mai significativa, dal momento che proprio Giolitti, nel dibattito parlamentare sullo sciopero di Genova, aveva formulato con molta chiarezza la teoria secondo cui lo Stato liberale non aveva nulla da temere dallo sviluppo delle organizzazioni operaie e nulla da guadagnare da una repressione indiscriminata delle loro attività, ma al contrario aveva tutto l'interesse a consentirne il libero svolgimento. Idee che oggi possono apparire ovvie ma che allora, tradotte in pratica di governo, ebbero l'effetto di aprire una nuova stagione nei rapporti fra lo Stato e i lavoratori, fra la classe dirigente e il movimento operaio. Nei suoi quasi tre anni di vita il ministero ZanardelliGiolitti condusse in porto alcune importanti riforme. Furono estese le norme, varate nel 1886 sotto il governo Depretis, che limitavano il lavoro minorile e femminile

nell'industria. Fu migliorata la legislazione, introdotta per la prima volta da Rudinì nel '97-98, relativa alle assicurazioni (volontarie per la vecchiaia e a quelle (obbligatorie) per gli infortuni sul lavoro. Fu costituito un Consiglio superiore del lavoro, organo consultivo per la legislazione sociale, cui partecipavano, accanto a funzionari governativi rappresentanti espressi dalle categorie economiche, compresi esponenti delle organizzazioni sindacali socialiste. Importante fu anche la legge che autorizzava i comuni all'esercizio diretto (municipalizzazione) di servizi pubblici come l'elettricità, il gas, i trasporti. Ma più importante delle singole riforme fu il nuovo atteggiamento del governo in materia di conflitti di lavoro. Tenendo fede al programma enunciato, e in parte già sperimentato nella sua prima, sfortunata esperienza di governo, Giolitti mantenne una linea di rigorosa neutralità nelle vertenze del settore privato (diverso e più intransigente fu invece il suo atteggiamento nei confronti delle agitazioni nei servizi pubblici), purché non degenerassero in manifestazioni violente. Le conseguenze del nuovo corso furono subito evidenti. Le organizzazioni sindacali, operaie e contadine, cancellate o ridotte alla clandestinità dalle repressioni del '98, si svilupparono rapidamente. In quasi tutte le principali città del CentroNord si costituirono, o si ricostituirono, le Camere del lavoro [§8.9], mentre crescevano anche le organizzazioni di categoria (nel 1902 esistevano 25 federazioni nazionali, con 240.000 iscritti). Un fenomeno a parte - e tipicamente italiano era poi lo sviluppo delle organizzazioni dei lavoratori agricoli. Formate soprattutto da braccianti (ma anche da mezzadri e piccoli affittuari) e concentrate in prevalenza nelle province padane, le leghe rosse si riunirono, nel novembre 1901, nella Federazione italiana dei lavoratori della terra (Federterra) che contava oltre 200.000 iscritti. Obiettivo finale e dichiarato delle leghe era la "socializzazione della terra". Obiettivi immediati erano l'aumento dei salari, la riduzione degli orari di lavoro, l'istituzione di uffici di collocamento controllati dai lavoratori stessi. Lo sviluppo delle organizzazioni sindacali fu accompagnato da una brusca impennata degli scioperi. Le astensioni dal lavoro, che nell'ultimo decennio dell'800 erano state rare e sporadiche (con una media di poche decine all'anno), salirono a 1670 nel 1901 e superarono il migliaio anche nel 1902, interessando sia il settore industriale sia quello agricolo. Ne derivò una spinta al rialzo dei salari destinata a protrarsi, con poche interruzioni, per tutto il primo quindicennio del secolo. Fra il 1900 e il 1915 le retribuzioni reali dei lavoratori dell'industria crebbero del 35% (dunque in misura superiore all'aumento del reddito medio, che fu del 30% circa); e

ancora più consistente, intorno al 50%, fu l'aumento delle paghe giornaliere dei salariati agricoli. Questi progressi non si possono spiegare, ovviamente, solo con la nuova politica liberale e la conseguente libertà sindacale, ma vanno inquadrati nella fase di generale sviluppo economico attraversata dal paese in questo periodo. 12.3. Decollo industriale e progresso civile. Il nuovo slancio industriale, Le banche, La siderurgia, L'industria tessile, Chimica e meccanica, L'industria elettrica, Le cifre della crescita, L'aumento del reddito, Il miglioramento del tenore di vita, I progressi dell'igiene urbana, Il divario con l'Europa avanzata, L'emigrazione, Emigrazione e Mezzogiorno. A partire dagli ultimi anni del secolo XIX, l'Italia conobbe, dopo i primi incerti passi compiuti negli anni '80, il suo primo autentico decollo industriale. Se l'economia italiana poté inserirsi nella congiuntura internazionale favorevole cominciata nel 1896 [§9.2] ciò fu dovuto anche ai progressi che, pur fra battute d'arresto e contraddizioni, il paese era venuto realizzando nei primi trentaquarant'anni di vita unitaria sul piano delle infrastrutture economiche e delle strutture produttive. La costruzione di una rete ferroviaria, avviata negli anni della Destra, aveva favorito i processi di commercializzazione dell'economia. La scelta protezionistica del 1887 aveva reso possibile la creazione, sia pure a costi molto alti, di una moderna industria siderurgica. Infine, il riordinamento del sistema bancario attuato dopo la crisi della Banca romana aveva creato una struttura finanziaria abbastanza solida ed efficiente. Particolare importanza ebbe la costituzione, avvenuta nel 1894 con l'incoraggiamento dello Stato e con l'apporto di capitali tedeschi, di due nuovi istituti di credito, la Banca commerciale e il Credito italiano, entrambi ispirati al modello della "banca mista" [§2.3]. Le nuove banche svolsero una funzione decisiva nel facilitare l'afflusso del risparmio privato verso gli investimenti industriali, soprattutto nei settori più moderni. Furono appunto questi settori che fecero registrare i maggiori progressi. La siderurgia, la più favorita dalle tariffe dell'87, vide la creazione, accanto alle Acciaierie di Terni, di numerosi nuovi impianti per la lavorazione del ferro (i più importanti sorsero a Savona, a Piombino e a Bagnoli, presso Napoli). Tutto il settore era dominato da poche grandi società, strettamente legate ai maggiori istituti bancari e dipendenti in larga misura dalle commesse statali (rotaie per le ferrovie, corazze per le navi da guerra). Nel

settore tessile, che restava sempre il più importante per quantità di stabilimenti e per numero di addetti, i maggiori progressi si ebbero nell'industria cotoniera, anch'essa altamente meccanizzata e favorita dalle tariffe doganali. Nel settore agroalimentare si assisté alla crescita rapidissima di un'altra industria protetta, quella dello zucchero. Ma sviluppi interessanti si ebbero anche in settori che non erano favoriti dalle tariffe doganali, come quello chimico (soprattutto l'industria della gomma, che aveva il suo centro principale negli stabilimenti Pirelli di Milano) o addirittura ne erano svantaggiati, come quello meccanico: quest'ultimo si giovò dell'accresciuta richiesta di materiale ferroviario, di navi e di armamenti da parte dello Stato, nonché della domanda di macchinari indotta dallo sviluppo industriale nel suo complesso. Il principale fatto nuovo nel campo della meccanica fu però costituito dall'affermazione dell'industria automobilistica, dove, nonostante la ristrettezza del mercato interno (le automobili erano allora riservate a pochissimi privilegiati), riuscirono a svilupparsi numerose aziende: alcune, di dimensioni semiartigianali, scomparvero nel giro di pochi anni; altre come la Fiat di Torino, fondata nel 1899 da Giovanni Agnelli - riuscirono a consolidarsi per poi acquistare, a partire dalla grande guerra, una posizione di preminenza nel mondo industriale italiano. Un discorso a parte va fatto, infine, per l'industria elettrica, che in Italia aveva mosso i primi passi già negli anni '80 (quando a Milano era stata realizzata una delle prime centrali elettriche del mondo) e che conobbe un autentico boom all'inizio del '900, passando da una produzione di circa 100 milioni di chilowattora nel 1898 a oltre due miliardi e mezzo nel 1914. In termini complessivi, i progressi realizzati dall'industria italiana furono più che ragguardevoli. Fra il 1896 e il 1907 il tasso medio di crescita annua fu del 6,7%, superiore a quello di qualsiasi altro paese europeo nello stesso periodo. Fra il 1896 e il 1914, il volume della produzione industriale risultò quasi raddoppiato, mentre la quota dell'industria nella formazione del prodotto nazionale, che fra il 1880 e il 1900 era rimasta pressoché stazionaria attorno al 20%, passò nel 1914 al 25% circa, contro il 43 % dell'agricoltura. Il decollo industriale dell'inizio del '900 fece sentire i suoi effetti anche sul tenore di vita della popolazione. Nel primo quindicennio del secolo, il reddito procapite aumentò, come già si è accennato, di quasi il 30% (mentre era rimasto pressoché invariato nei precedenti quarant'anni). Questo aumento consentì a vasti strati di cittadini di destinare una quota crescente dei bilanci familiari - fin allora assorbiti in misura schiacciante dalle spese per l'alimentazione - alla casa, ai trasporti, all'istruzione, alle attività

ricreative e soprattutto all'acquisto di beni di consumo durevoli: in primo luogo utensili domestici, ma anche biciclette, macchine da cucire e altri prodotti della moderna tecnologia che fecero allora la prima timida comparsa sul mercato nazionale. Era insomma la "qualità della vita" degli italiani che cominciava a mutare, sia pur lentamente e parzialmente, di pari passo con lo sviluppo economico. I segni di questo mutamento erano visibili soprattutto nelle città, ancora piccole rispetto alle maggiori metropoli europee (Roma, per esempio, contava nel 1906 poco più di 500.000 abitanti contro i quasi tre milioni di Parigi), ma ad esse più simili che in passato, grazie soprattutto allo sviluppo dei servizi pubblici - illuminazione, trasporti urbani, gas domestico, acqua corrente - gestiti non di rado dagli stessi comuni tramite apposite aziende "municipalizzate". Le condizioni abitative dei lavoratori urbani restavano ancora precarie, nonostante il varo delle prime iniziative organiche di edilizia popolare da parte dei governi e delle amministrazioni locali. Le case operaie erano per lo più malsane e sovraffollate. Gli appartamenti dotati di servizi igienici autonomi restavano un'eccezione nelle grandi città (e un'autentica rarità nei centri rurali). Il riscaldamento centralizzato era un lusso. Ma la diffusione dell'acqua corrente nelle case e il miglioramento delle reti fognarie costituirono un progresso di non poco conto, contribuendo in modo decisivo alla forte diminuzione della mortalità da malattie infettive (colera, tifo e, in genere, affezioni gastroenteriche) che si verificò nel primo quindicennio del secolo. Anche la mortalità infantile indicatore fra i più importanti dell'arretratezza economica e civile - fece registrare un notevole calo (dal 17,4% nel 1900 al 13% nel 1914) portandosi su percentuali più vicine che in passato a quelle dei paesi più avanzati (10,5 in Gran Bretagna, 11,1 in Francia). Questi progressi tuttavia non furono sufficienti a colmare il divario che ancora separava l'Italia dagli Stati più ricchi e più industrializzati. Alla vigilia della guerra mondiale il reddito procapite era circa la metà di quello inglese e due terzi di quello tedesco. L'analfabetismo era ancora molto elevato (37% nel 1911), mentre si avviava a scomparire in tutta l'Europa del Nord. Il consumo annuo di carne di ogni italiano era di tre volte inferiore a quello di un inglese. La quota della popolazione attiva impiegata nelle campagne era ancora del 55 % (mentre era del 40% in Francia, del 35% in Germania e addirittura dell'8% in Inghilterra): una quota troppo alta per le capacità produttive dell'agricoltura italiana, com'era dimostrato dal fatto che l'emigrazione verso l'estero, anziché diminuire in coincidenza con lo sviluppo economico, crebbe fino a raggiungere la cifra impressionante di

870.000 partenze nel solo 1913, per un totale di circa 8 milioni (di cui almeno 2 milioni a carattere permanente) fra il 1900 e il 1914. Tutte le regioni italiane parteciparono al fenomeno migratorio. Ma il contributo più rilevante, in rapporto alla popolazione, venne dal Mezzogiorno. Inoltre, mentre l'emigrazione dalle regioni centrosettentrionali era soprattutto temporanea e diretta verso i paesi europei, quella meridionale si indirizzava in prevalenza verso il Nord America e aveva per lo più carattere permanente. Dal punto di vista economico, il fenomeno migratorio ebbe alcuni effetti positivi: non solo perché allentò la pressione demografica, creando un rapporto più favorevole fra popolazione e risorse e attenuando tensioni sociali altrimenti insostenibili, ma anche perché le rimesse degli emigranti (ossia i risparmi inviati dai lavoratori all'estero alle famiglie in patria) alleviarono il disagio delle zone più depresse e risultarono di non poco giovamento all'economia dell'intero paese. D'altra parte, un'emigrazione così massiccia rappresentò un impoverimento, in termini di forzalavoro e di energie intellettuali, per la comunità nazionale: soprattutto per la società del Mezzogiorno che, privata di molti fra i suoi elementi più giovani e intraprendenti, vedeva allontanarsi i tempi del suo riscatto economico e civile. 12.4. La questione meridionale. Il divario meridionale.

industriale,

L'agricoltura,

L'arretratezza

della

società

Ancora una volta, dunque, gli effetti del progresso economico non si distribuirono uniformemente in tutto il paese, ma si fecero sentire soprattutto nelle regioni già più sviluppate, in particolare nel cosiddetto triangolo industriale che aveva come vertici Milano, Torino e Genova. E il divario fra Nord e Sud si venne perciò accentuando, sia pure nel quadro di una crescita generalizzata. Secondo i dati di un'inchiesta del 1903, sul totale dei lavoratori dell'industria, il 57% era concentrato nelle regioni settentrionali mentre solo il 25 % viveva nel Mezzogiorno (che aveva una popolazione pari al 37% di quella nazionale), dove erano assenti, salvo rare eccezioni, le aziende di grandi dimensioni e a tecnologia avanzata. Anche i discreti progressi che l'agricoltura italiana venne realizzando a partire dagli ultimi anni dell'800 finirono col concentrarsi nel Nord, soprattutto nelle aziende capitalistiche della Valle Padana, che seppero profittare della congiuntura favorevole e dell'elevata protezione doganale sui cereali per migliorare le tecniche di coltivazione. Scarsi furono invece i

progressi dell'agricoltura meridionale, sfavorita dalle condizioni climatiche e idrologiche e dalla naturale povertà dei terreni di montagna, ma anche dalla permanenza di rapporti sociali consolidati e di mentalità diffuse che ostacolavano il mutamento economico e sociale. L'agricoltura meridionale - ha scritto lo storico Alberto Aquarone - era sostanzialmente fondata [...] non tanto sulla azienda agraria, ossia [...] sulla razionale organizzazione produttiva di una determinata estensione di terra ordinata e trasformata grazie a un costante impegno di capitali, di energie imprenditoriali e di innovazioni tecniche, ma sullo sfruttamento del lavoro individuale, nell'ambito di un sistema che aveva la sua vera cellula nell'uomo singolo, contadino senza terra o piccolo proprietario che fosse. Da questa situazione, ancor più che dal mancato sviluppo industriale, derivavano in buona parte i mali storici della società meridionale: l'analfabetismo diffuso (nel 1911 il tasso era ancora del 60% nel Mezzogiorno, contro il 15% delle regioni del Nord), la disgregazione sociale, l'assenza di una classe dirigente moderna, la subordinazione della piccola e media borghesia agli interessi della grande proprietà terriera, il carattere clientelare e personalistico della lotta politica. Tale carattere era accentuato dal fatto che, per molti giovani, la conquista di un impiego pubblico - raggiungibile grazie ai favori del notabile o del deputato locale costituiva l'unica alternativa alla disoccupazione o all'emigrazione: fu in questo periodo che la pubblica amministrazione italiana, nata piemontese e "nordista", cominciò a "meridionalizzarsi". Tutti questi erano mali antichi (o antiche erano le radici che li alimentavano), ma risaltavano maggiormente nel momento in cui contrastavano col generale sviluppo del paese, ostacolando gravemente il cammino verso forme di più avanzata organizzazione politica e sociale. 12.5. I governi Giolitti e le riforme. Il governo Giolitti, I limiti del riformismo giolittiano, Le leggi speciali per il Mezzogiorno, La statizzazione delle ferrovie, I governi Fortis e Sonnino, Il "lungo ministero Giolitti" e la conversione della rendita, La crisi del 1907, La Confindustria, Il governo Luzzatti, Il ritorno di Giolitti e l'allargamento del suffragio. Su una realtà complessa e contraddittoria come quella dell'Italia all'inizio del '900 si esercitò per oltre un decennio l'opera di governo di Giovanni Giolitti, certo la più notevole figura di statista mai apparsa in Italia dopo la morte di Cavour.

Chiamato alla guida del governo nel novembre 1903, dopo le dimissioni di Zanardelli, Giolitti cercò non soltanto di portare avanti l'esperimento liberalprogressista avviato dal precedente ministero, ma anche di allargarne le basi offrendo un posto nella compagine governativa al socialista Filippo Turati. Era certamente una proposta coraggiosa, se si pensa che solo cinque anni prima Turati era stato condannato e incarcerato come sovversivo. Ma il leader socialista rifiutò l'offerta, in quanto la giudicava prematura e temeva, non a torto, di non essere seguito dal suo partito. Giolitti finì col costituire un ministero nettamente spostato al centro e aperto alla partecipazione di elementi conservatori. Una mossa questa che da la misura dei limiti entro cui si muoveva il riformismo giolittiano, sempre condizionato dal peso delle forze moderate e sempre attento alla conservazione degli equilibri parlamentari, al punto da sacrificare progetti anche importanti quando si rivelassero incompatibili con la solidità della maggioranza: tipico fu il caso della riforma fiscale, che fu lasciata cadere nonostante costituisse, fin dal 1892, uno dei punti qualificanti del programma di Giolitti. Furono invece condotte in porto, nel 1904, le prime importanti "leggi speciali" per il Mezzogiorno: quella per la Basilicata e quella per Napoli, volte a incoraggiare la modernizzazione dell'agricoltura e, nel caso di Napoli, lo sviluppo industriale mediante una serie di stanziamenti statali e di agevolazioni fiscali e creditizie. Queste leggi - cui seguirono altre analoghe per la Calabria e per le isole - avevano il limite di non incidere se non limitatamente sulla struttura sociale del Mezzogiorno, di curare dunque più i sintomi che le cause del male; ma avevano almeno il vantaggio di essere attuabili in tempi brevi (la legge per Napoli, ad esempio, rese possibile la costruzione del centro siderurgico di Bagnoli) e costituirono un precedente cui si sarebbe ispirata, anche in tempi recenti, la pratica degli "interventi speciali" dello Stato nelle aree depresse. Un altro importante progetto elaborato da Giolitti nel 1904-5 fu quello relativo alla statizzazione delle ferrovie, ancora affidate alla gestione di compagnie private. Il progetto, che riprendeva quello presentato nel 1876 da Minghetti e non approvato dalla Camera (su questo episodio, come si ricorderà, era maturata la caduta della Destra storica), incontrò però diffuse opposizioni sia a destra sia a sinistra: i socialisti, in particolare, lo avversarono perché prevedeva il divieto di sciopero per i ferrovieri una volta diventati dipendenti pubblici. Di fronte a queste difficoltà, Giolitti si dimise con un pretesto lasciando la guida del governo ad Alessandro Fortis secondo una tattica che avrebbe messo in atto anche successivamente e che consisteva nell'abbandonare le redini del potere nei momenti difficili per poi riprenderle in condizioni più favorevoli, fidando sul controllo della

maggioranza parlamentare. Fortis restò al governo meno di un anno: il tempo necessario per condurre in porto la legge sulla statizzazione delle ferrovie. E vita ancora più breve (tre mesi) ebbe il successivo ministero guidato da Sidney Sonnino, che si presentava come il più autorevole antagonista di Giolitti in campo liberale ma non disponeva di un seguito parlamentare abbastanza solido. Nel maggio 1906 Giolitti tornò alla guida del governo e vi restò ininterrottamente per tre anni e mezzo. Il "lungo ministero Giolitti" si aprì sotto buoni auspici sul piano economico: nel giugno del 1906 fu realizzata la cosiddetta conversione della rendita, ossia la riduzione del tasso di interesse versato dallo Stato ai possessori di titoli del debito pubblico, un provvedimento che serviva a ridurre gli oneri gravanti sul bilancio statale. Il successo dell'operazione si manifestò nel fatto che solo pochi detentori di titoli si valsero della facoltà di esigere l'immediato rimborso delle somme prestate: segno evidente della fiducia dei risparmiatori nella finanza pubblica. La congiuntura favorevole che durava dal 1896 si interruppe però nel 1907, quando si manifestarono anche in Italia i sintomi di una crisi internazionale [§9.2] che si tradusse in forti difficoltà per le banche e per le imprese dipendenti dai loro crediti. La crisi fu superata in tempi relativamente brevi, grazie anche al tempestivo intervento della Banca d'Italia (che vide rafforzato in questa occasione il suo ruolo di controllo del sistema creditizio). Già dal 1908 la crescita riprese, anche se con ritmi rallentati rispetto al decennio 1897-1906. Ma le lotte sociali conobbero un brusco inasprimento. E l'atteggiamento degli industriali - che in questo periodo cominciarono a unirsi in associazioni padronali per poi dar vita, nel 1910, alla Confederazione italiana dell'industria (Confindustria) - si fece più duro nei confronti della controparte operaia e più diffidente rispetto alle iniziative sociali dei pubblici poteri: il che contribuì certamente a frenare l'azione riformatrice del governo. Nel dicembre del 1909 Giolitti attuò una nuova "ritirata strategica", aprendo la strada a un secondo governo Sonnino, destinato anch'esso a vita brevissima, e a un successivo governo Luzzatti, che avviò fra l'altro una importante riforma scolastica (la legge DaneoCredaro, che avocava allo Stato, sottraendolo ai comuni, l'onere dell'istruzione elementare). Nel marzo 1911 Giolitti tornò al governo con un programma decisamente orientato a sinistra, il cui punto cardine era la proposta di estendere il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto trent'anni e a tutti i maggiorenni che sapessero leggere e scrivere o avessero prestato servizio

militare. Ciò che Giolitti proponeva, scavalcando un progetto più moderato già presentato da Luzzatti, era in pratica il suffragio universale maschile, ormai in vigore del resto in buona parte dei paesi europei. Un altro punto importante del programma giolittiano era l'istituzione di un monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, i cui proventi sarebbero serviti a finanziare il fondo per le pensioni di invalidità e vecchiaia per i lavoratori. La legge sull'allargamento del suffragio e quella sul monopolio delle assicurazioni, approvate nel 1912, rappresentarono il punto più alto del riformismo di Giolitti. Ma il loro significato politico fu oscurato, e in qualche modo controbilanciato, dalla contemporanea decisione del governo di procedere alla conquista della Libia: una vicenda che, come vedremo più avanti, contribuì non poco ad alterare i tradizionali equilibri politici e a mettere in crisi l'intero "sistema" giolittiano. Parola chiave Massoneria La "Massoneria" è un'associazione segreta che trae il suo nome dalle corporazioni medievali dei "liberi muratori" (freemasons in inglese, francmaçons in francese), i cui membri erano tenuti all'aiuto reciproco e alla conservazione dei segreti del mestiere. Nel corso dei secoli, col decadere delle corporazioni artigiane, queste associazioni assunsero un carattere esoterico, allargandosi anche a membri estranei all'arte muratoria e appartenenti agli strati superiori della società (nobili, borghesi, intellettuali). Finché, all'inizio del '700, l'associazione perse definitivamente il suo carattere di organizzazione di mestiere, pur conservandone il linguaggio, la simbologia e le strutture organizzative (la divisione in "logge" facenti capo a un "gran maestro"). Nata in Inghilterra e diffusasi presto in tutta Europa e nel Nord America, la "nuova" Massoneria si ispirava a una filosofia "deista" (Dio era chiamato il "Grande architetto" dell'universo), faceva propri gli ideali illuministi, professava la tolleranza religiosa e imponeva ai suoi affiliati la pratica della filantropia e della mutua assistenza. Duramente avversata dalla Chiesa cattolica, la Massoneria venne accentuando, durante il secolo XIX, la sua ispirazione anticlericale e assunse una connotazione politica più spiccata. Legate direttamente o indirettamente alla Massoneria erano molte delle società segrete (come la Carboneria) impegnate nelle agitazioni nazionali e costituzionali dell'età della Restaurazione. Nella seconda metà del secolo, la Massoneria divenne in molti paesi (in particolare in quelli in cui più forte era la presenza cattolica) una sorta di accademia del "libero pensiero", un vero e proprio contraltare della Chiesa di Roma, e insieme un luogo di incontro e di raccordo fra gruppi politici di

orientamento democratico e anticlericale. Questa funzione quasi di "superpartito" la Massoneria la svolse principalmente in Francia e in Italia e soprattutto negli anni a cavallo fra '800 e '900. In Francia essa fu in prima fila nelle battaglie sviluppatesi intorno all'affare Dreyfus [§10.3] e fu ispiratrice della politica anticlericale praticata dai governi di inizio secolo. In Italia svolse un'importante funzione di appoggio alla svolta giolittiana e favorì, a livello delle amministrazioni locali, la formazione di "blocchi democratici" aperti a tutte le forze di sinistra. In questo stesso periodo, però, la Massoneria fu oggetto di critiche e attacchi sempre più frequenti. Non solo da parte dei tradizionali avversari cattolici, ma anche di uomini politici e intellettuali di diverse tendenze (dall'estrema destra all'estrema sinistra), che vedevano in essa un centro di potere occulto, in cui i riti iniziatici e la fraseologia umanitaria servivano a coprire il perseguimento di obiettivi tutt'altro che idealistici. In effetti, nel corso del XX secolo, la Massoneria ha finito col perdere buona parte della sua caratterizzazione ideologica e del suo afflato universalistico, per frammentarsi in una serie di gruppi di interesse legati alle specifiche situazioni dei singoli paesi. Significativo a questo proposito è il caso dell'Italia, che ha visto, negli anni '70 e '80, alcune frazioni della massoneria coinvolte in oscuri scandali politicofinanziari e in trame a sfondo autoritario. 12.6. Il giolittismo e i suoi critici. La "dittatura" di Giolitti, Il controllo del Parlamento, Sonnino e Albertini. Se è ormai consuetudine parlare di "età giolittiana" per indicare il periodo che va dal superamento della crisi di fine secolo alla vigilia della prima guerra mondiale, ciò è dovuto al fatto che in questo periodo lo statista piemontese esercitò sulla vita del paese un'influenza ancora maggiore di quanto non dica la sua pur lunga permanenza alla guida del governo. Quella esercitata da Giolitti fu una "dittatura parlamentare" molto simile, per le forme in cui si manifestava, a quella realizzata da Depretis fra il 1876 e il 1887, anche se diversa, e decisamente più aperta, nei contenuti. Tratti caratteristici dell'azione di Giolitti furono infatti: il sostegno costante alle forze più moderne della società italiana (la borghesia industriale e il proletariato organizzato), il tentativo di condurre nell'orbita del sistema liberale gruppi e movimenti che fino a poco prima erano considerati (e in parte si consideravano) nemici delle istituzioni, la tendenza ad allargare l'intervento dello Stato per correggere gli squilibri sociali.

Questa linea politica si esplicava però - e qui stava il suo limite maggiore - in una dimensione liberalparlamentare di stampo ancora sostanzialmente ottocentesco. Il controllo delle Camere - unito a una perfetta conoscenza della burocrazia statale - costituì l'elemento fondamentale del "sistema" di Giolitti. Grazie ad esso lo statista poté governare a lungo senza l'assillo di crisi ricorrenti e addirittura, come si è visto, abbandonare temporaneamente la guida del governo per riprenderla nel momento più opportuno. Il controllo del Parlamento era però ottenuto a prezzo della perpetuazione dei vecchi sistemi trasformistici, che furono affinati ed estesi, e di un intervento costante e spregiudicato del governo nelle lotte elettorali: intervento che si esercitava soprattutto nel Mezzogiorno, dove le ingerenze del potere esecutivo trovavano terreno favorevole in un ambiente dominato dalle lotte fra i notabili e caratterizzato dall'assenza quasi totale di organizzazioni politiche moderne. Tutto ciò finiva inevitabilmente col limitare gli aspetti più nuovi e progressivi dell'esperienza giolittiana e col contraddirne, almeno in parte, le stesse premesse. Su questi aspetti deteriori si appuntarono ben presto le critiche dei numerosi avversari dello statista piemontese. Per i socialisti rivoluzionari e per i cattolici democratici Giolitti era colpevole di far opera di corruzione all'interno dei rispettivi movimenti, dividendoli e cooptandone le componenti moderate entro il suo sistema di potere trasformista. Per converso, i liberaliconservatori, come Sidney Sonnino o Luigi Albertini (direttore del "Corriere della Sera" di Milano, il più importante quotidiano italiano), accusavano Giolitti di attentare alle tradizioni risorgimentali, venendo a patti con i nemici delle istituzioni e mettendo così in pericolo l'autorità dello Stato. Al riformismo empirico di Giolitti, Sonnino contrappose - senza peraltro poterlo realizzare nelle sue brevissime esperienze di governo - un programma non privo di aperture sociali anche coraggiose, attento soprattutto ai problemi del Mezzogiorno e alla condizione delle classi rurali, ma concepito come iniziativa autonoma della classe dirigente liberale anziché come frutto di un patteggiamento con le forze "extracostituzionali". Diversamente motivate rispetto alle critiche di un Sonnino o di un Albertini, ma in parte coincidenti con esse, erano le accuse lanciate a Giolitti dai meridionalisti come Gaetano Salvemini. Per loro la denuncia del malcostume politico imperante nelle regioni del Sud (fu Salvemini a bollare Giolitti con l'epiteto ingiurioso di "ministro della malavita") si legava alla critica severa della politica economica governativa, che avrebbe favorito l'industria protetta e le "oligarchie operaie" del Nord (ma anche la grande proprietà terriera meridionale, tutelata dal dazio sul

grano), ostacolando lo sviluppo delle migliori forze produttive nel Mezzogiorno. Critiche come queste erano, se non del tutto infondate, certamente eccessive: e la critica storica più recente le ha largamente ridimensionate. Ma, negli anni della "dittatura" giolittiana, esse furono fatte proprie da molti intellettuali, ebbero ampia risonanza sulla stampa non governativa e influenzarono profondamente larghi settori dell'opinione pubblica borghese. Nonostante l'ampiezza delle maggioranze parlamentari che continuavano a sostenerlo, Giolitti dovette così fare i conti con una crescente impopolarità, sintomo di interna debolezza di tutto il sistema, oltre che di distacco fra classe dirigente e pubblica opinione. Questi sintomi di difficoltà, già delineatisi con la crisi economica del 1907, si fecero più evidenti dopo il 1911, in coincidenza con le vicende legate alla guerra di Libia. La decisione di impegnarsi nell'impresa coloniale è stata spesso interpretata in chiave di politica interna, come una concessione fatta ai gruppi conservatori per bilanciare gli effetti del suffragio universale e del monopolio delle assicurazioni. In realtà essa fu soprattutto l'atto finale di un lungo lavoro di preparazione diplomatica cominciato alla fine dell'800. 12.7. La politica estera, il nazionalismo, la guerra di Libia. Salvemini, Le difficoltà del sistema giolittiano, La svolta nella politica estera, La tensione con l'Austria, La "nazione proletaria", Il movimento nazionalista, Il problema della Libia, La guerra italoturca, La pace di Losanna, Opposizione e consenso alla guerra, La radicalizzazione del confronto politico. A partire dal 1896, anno della caduta di Crispi, la politica estera italiana subì una netta correzione di rotta. Fu attenuata, pur senza rinnegare il vincolo della Triplice, la linea rigidamente filotedesca seguita nel precedente decennio. Il conseguente miglioramento dei rapporti con la Francia portò, nel 1898, alla firma di un nuovo trattato di commercio che poneva fine alla "guerra doganale" iniziata dieci anni prima e, nel 1902, un accordo per la divisione- delle sfere di influenza in Africa settentrionale: accordo con cui l'Italia otteneva il riconoscimento dei suoi diritti di priorità sulla Libia, lasciando in cambio mano libera alla Francia sul Marocco. La nuova situazione creava però motivi di contrasto in seno alla Triplice. Il riconoscimento italiano delle aspirazioni francesi sul Marocco non piacque naturalmente ai tedeschi. E meno ancora piacque agli italiani il

modo in cui l'AustriaUngheria, con l'appoggio della Germania, procedette unilateralmente, e senza preventive consultazioni, all'annessione della Bosnia-Erzegovina nel 1908 [§10.9]. L'episodio, che metteva in evidenza la posizione di partner più debole occupata dall'Italia nella Triplice, lasciò nell'opinione pubblica uno strascico di malumori e risentimenti e contribuì a determinare un clima di riscossa nazionale: dove la riscoperta delle vecchie - e quasi dimenticate - rivendicazioni irredentiste sul Trentino e la Venezia Giulia si mescolava alle richieste di una più energica affermazione in campo coloniale. Allontanatosi il trauma delle prime e sfortunate imprese africane, molti uomini politici e intellettuali cominciavano a chiedersi perché l'Italia dovesse rassegnarsi a un destino di potenza di secondo rango, perché tanti lavoratori italiani fossero costretti a emigrare in cerca di lavoro nei paesi più ricchi anziché impegnare le loro energie al servizio della grandezza nazionale. Ebbe allora notevole fortuna la teoria formulata dallo scrittore Enrico Corradini, secondo cui il contrasto fondamentale non era più quello fra le diverse classi all'interno di un singolo paese, ma quello fra paesi ricchi e paesi poveri, fra "nazioni capitalistiche" e "nazioni proletarie" (ossia dotate di una popolazione in eccedenza rispetto alle risorse economiche). Applicata all'Italia, questa teoria portava a una contrapposizione nei confronti delle democrazie occidentali, a una ripresa dell'iniziativa coloniale e, sul piano interno, al tentativo di contenere i conflitti sociali indirizzando la spinta delle masse verso obiettivi "imperiali". In questo clima politico e culturale poté sorgere e affermarsi un movimento nazionalista che, raccoltosi in un primo tempo attorno a riviste e circoli intellettuali, si diede una struttura organizzativa alla fine del 1910 con la fondazione dell'Associazione nazionalista italiana. Nata dalla confluenza di componenti piuttosto eterogenee (democratici e reazionari, fautori delle imprese coloniali e nostalgici dell'irredentismo), l'Associazione vide ben presto emergere un gruppo imperialista e conservatore che si rifaceva alle teorie di Corradini e che, dalle colonne del nuovo periodico romano "L'idea nazionale", diede vita a una martellante campagna in favore della conquista della Libia. In questa campagna i nazionalisti trovarono potenti alleati nei gruppi cattolicomoderati legati alla finanza vaticana e in particolare al Banco di Roma, da anni impegnato in una opera di penetrazione economica in terra libica. Sia la pressione dei gruppi legati al Banco di Roma, sia la campagna della stampa nazionalista - che, senza troppi scrupoli di verità, si diede a esaltare le presunte ricchezze naturali della Libia e gli sbocchi che essa avrebbe potuto offrire all'emigrazione - contribuirono a spingere l'Italia sulla via

dell'intervento. La spinta decisiva venne però dalle vicende della politica internazionale, in particolare dagli sviluppi della seconda "crisi marocchina" dell'estate 1911 [§10.9]. Quando apparve chiaro che la Francia si apprestava a imporre il suo protettorato sul Marocco, il governo italiano ritenne giunto il momento di far valere gli accordi del 1902 e, nel settembre del 1911, inviò sulle coste libiche un contingente di 35.000 uomini, scontrandosi però contro la reazione dell'Impero turco, che esercitava su quei territori una sovranità poco più che nominale. La guerra fu più lunga e difficile del previsto, anche perché i turchi, anziché accettare uno scontro campale, preferirono fomentare la guerriglia condotta con decisione dalle popolazioni arabe. Per venire a capo della resistenza, l'Italia dovette non solo rinforzare il corpo di spedizione (che fu portato a circa 100.000 unità), ma anche estendere il teatro di guerra al Mare Egeo, occupando l'isola di Rodi e l'arcipelago del Dodecanneso. Solo nell'ottobre del 1912 i turchi acconsentirono a firmare la pace di Losanna, rinunciando alla sovranità politica sulla Libia e conservando per il sultano un'autorità religiosa sulle popolazioni musulmane. La pace non valse, peraltro, a far cessare la resistenza araba; e da ciò gli italiani trassero pretesto per mantenere l'occupazione di Rodi e del Dodecanneso. Dal punto di vista economico, poi, la conquista della Libia si rivelò un pessimo affare. I costi della guerra furono molto pesanti; le ricchezze naturali favoleggiate dai nazionalisti si scoprirono scarse o inesistenti (nessuno sospettava allora la presenza di petrolio sotto lo "scatolone di sabbia" del deserto libico); la colonizzazione delle zone costiere non bastò ad assorbire quote consistenti di lavoratori. Nonostante tutto ciò, il paese seguì l'impresa con spirito ben diverso da quello con cui aveva seguito le avventure africane di Crispi. Non mancarono, anche questa volta, gli oppositori decisi: i socialisti, che organizzarono manifestazioni contro la guerra, una parte dei repubblicani e dei radicali, oltre ad alcuni intellettuali indipendenti, come Gaetano Salvemini, che si sforzarono di contrastare le falsificazioni della propaganda colonialista. Ma la maggioranza dell'opinione pubblica borghese - grazie anche alla campagna orchestrata dai principali giornali d'opinione si schierò a favore dell'impresa coloniale, la appoggiò con manifestazioni patriottiche, accolse con soddisfazione il fatto che l'Italia fosse riuscita, a sedici anni dal disastro di Adua, a condurre in porto la sua prima campagna militare vittoriosa. Il successo politico e propagandistico dell'impresa non si risolse però in un durevole consolidamento del governo. Al contrario, la guerra di Libia, introducendo elementi di radicalizzazione nel dibattito politico, scosse

pericolosamente gli equilibri su cui si reggeva il sistema giolittiano e favorì il rafforzamento delle ali estreme. La destra liberale, i clericoconservatori e soprattutto i nazionalisti trassero nuovo slancio dal buon esito di un'impresa che avevano fermamente e rumorosamente sostenuto. Sull'opposto versante, quello socialista, l'opposizione alla guerra fece emergere le tendenze più radicali e indebolì quelle correnti riformiste e collaborazioniste che avevano costituito fin allora un elemento non secondario degli equilibri politici giolittiani. 12.8. Riformisti e rivoluzionari. Il riformismo socialista, Gli intransigenti, Lo sciopero generale del 1904, Nascita della Cgl, La sconfitta dei sindacalisti rivoluzionari, Le divisioni fra i riformisti, L'espulsione di Bissolati e Bonomi, Mussolini direttore dell""Avanti!". La svolta liberale dell'inizio del '900 aveva avuto nei socialisti non solo degli spettatori interessati, ma anche dei protagonisti attivi. Dopo aver combattuto i tentativi autoritari di fine secolo, i dirigenti e i deputati del Psi avevano incoraggiato la nuova politica annunciata da Giolitti e appoggiato in Parlamento i governi che davano garanzie di muoversi su quella linea. Il grande sviluppo delle organizzazioni operaie e contadine nei primi anni del secolo sembrò dar ragione a chi, come Turati e i dirigenti a lui più vicini (Treves, Bissolati, Trampolini), pensava che la via delle riforme e della collaborazione con la borghesia progressista, pur nel rispetto della propria autonomia di classe, fosse per il movimento operaio l'unica capace di assicurare il consolidamento dei risultati appena conseguiti. Condivise, all'inizio, dalla grande maggioranza del partito, le tesi di Turati cominciarono a incontrare opposizioni crescenti, man mano che si venivano delineando i limiti del liberalismo giolittiano. Agli occhi dei socialisti rivoluzionari, i conflitti a volte sanguinosi fra lavoratori e forza pubblica che continuavano a verificarsi soprattutto nelle campagne del Mezzogiorno (dove le agitazioni avevano in genere carattere spontaneo e incontrollato) mostravano la vera natura dello Stato monarchico e borghese, contro cui si doveva continuare ad opporre una linea di rigida intransigenza classista. Su questa linea si schierarono alcuni leader storici del partito, come Enrico ferri e Costantino Lazzari, e molti giovani che cominciavano a subire l'influenza del sindacalismo rivoluzionario francese e della teoria dello sciopero generale.

Nel congresso di Bologna dell'aprile 1904, le correnti rivoluzionarie coalizzate riuscirono a strappare ai riformisti la guida del partito. Pochi mesi dopo, in settembre, la protesta dei lavoratori per l'ennesimo "eccidio proletario" (quello verificatosi a Buggerru, in Sardegna, nel corso di una manifestazione di minatori) sfociava nel primo sciopero generale nazionale della storia d'Italia. Lo sciopero non diede luogo, se non in rari casi, a manifestazioni violente. Ma rappresentò ugualmente un grave trauma per la borghesia italiana, agli occhi della quale l'idea stessa di sciopero generale si caricava di riferimenti minacciosi. Forti furono le pressioni sul governo perché intervenisse militarmente contro gli scioperanti. Ma Giolitti, fedele al suo metodo, lasciò che la manifestazione si esaurisse da sola, salvo poi a sfruttare le paure dell'opinione pubblica moderata per convocare, in novembre, nuove elezioni in cui le sinistre segnarono una battuta d'arresto. Per il movimento operaio, lo sciopero costituì un'indubbia prova di forza, ma anche una rivelazione di alcuni gravi limiti: la distribuzione territoriale squilibrata, la mancanza di coordinamento fra le organizzazioni locali, l'assenza di un organo sindacale centrale capace di guidare le agitazioni. L'esigenza di un più stretto coordinamento nazionale era sentita soprattutto dai riformisti, che avevano aderito senza entusiasmo allo sciopero generale e che controllavano la maggior parte delle organizzazioni nazionali di categoria (mentre i rivoluzionari erano più forti nelle Camere del lavoro). Dalle federazioni di categoria partì l'iniziativa che portò, nel 1906, alla fondazione della Confederazione generale del lavoro (Cgl), che raccoglieva oltre duecentomila iscritti ed era saldamente controllata da riformisti come il segretario generale Rinaldo Rigola. Minoritari nel sindacato, i rivoluzionari persero posizioni anche nel partito. La corrente più estremista, quella sindacalistarivoluzionaria, fu progressivamente emarginata e infine allontanata dal Psi nel 1907 (nel 1911 si sarebbe staccata anche dalla Cgl dando vita all'Usi, Unione sindacale italiana). I riformisti riassunsero il controllo del partito, ma conobbero nel contempo le prime serie divisioni interne. In questi anni si andò infatti delineando una tendenza revisionista che faceva capo a Leonida Bissolati e a Ivanoe Bonomi e che, ispirandosi alle teorie di Bernstein e all'esperienza del laburismo inglese, prospettava la trasformazione del Psi in un "partito del lavoro" privo di connotazioni ideologiche troppo nette e disponibile per una collaborazione di governo con le forze democraticoliberali. In un primo tempo la dissidenza rimase circoscritta al piano teorico. Ma a far precipitare i contrasti fu l'atteggiamento non pregiudizialmente contrario assunto da Bissolati e Bonomi di fronte all'impresa libica.

Nel congresso di Reggio Emilia del luglio 1912, i rivoluzionari riuscirono a imporre l'espulsione dal Psi dei riformisti di destra, che diedero vita al Partito socialista riformista italiano. La scissione ebbe pesanti conseguenze sulle vicende del socialismo italiano. I riformisti rimasti nel Psi furono nuovamente ridotti in minoranza e la guida del partito tornò nelle mani degli intransigenti, fra i quali venne emergendo la figura di un giovane agitatore romagnolo che si era distinto nelle manifestazioni contro la guerra libica ed era stato fra i protagonisti del congresso di Reggio Emilia: Benito Mussolini. Chiamato alla direzione del quotidiano del partito, l""Avanti!", Mussolini portò nella propaganda socialista uno stile nuovo, basato sull'appello diretto alle masse e sul ricorso a formule agitatorie prese a prestito dal sindacalismo rivoluzionario. Uno stile che si inseriva bene nel clima politico creatosi in Italia all'indomani della guerra libica. 12.9. Democratici cristiani e clericomoderati. Murri e i democratici cristiani, Pio X e lo scioglimento dell'Opera dei congressi, Il movimento sindacale cattolico, Le alleanze clericomoderate, Il "patto Gentiloni". Nel corso dell'età giolittiana, anche il movimento cattolico italiano conobbe sviluppi e trasformazioni di grande importanza che, se non valsero a modificarne la posizione di formale estraneità alla vita politica, lo portarono però a esercitarvi un peso reale crescente. Il fatto nuovo che, all'inizio del secolo, giunse a portare una ventata di rinnovamento nell'ambiente chiuso e immobilista del cattolicesimo intransigente inquadrato nell'Opera dei congressi fu l'affermazione del movimento democraticocristiano [§9.10]. Leader del movimento era un giovane sacerdote marchigiano, Romolo Murri, che, dopo aver militato fra gli intransigenti, era poi approdato a posizioni audacemente riformatrici, in cui la polemica contro il capitalismo e lo Stato borghese si riempiva di contenuti progressisti (suffragio universale, decentramento amministrativo, legislazione sociale). Nei primi anni del '900, i democratici cristiani svolsero un'intensa attività organizzativa, fondarono riviste e circoli politici, diedero vita alle prime unioni sindacali cattoliche "di classe" (basate cioè sull'adesione dei soli lavoratori). Tollerata, ed entro certi limiti incoraggiata, da Leone XIII l'azione dei democratici cristiani fu invece duramente osteggiata dal nuovo papa Pio X [§9.10]. Questi, nel 1904, temendo che l'Opera dei congressi potesse finire sotto il loro controllo, non esitò a scioglierla, creando al suo posto tre

organizzazioni distinte, tutte strettamente dipendenti dalla gerarchia ecclesiastica: l'Unione popolare, l'Unione economicosociale e l'Unione elettorale, più tardi riunite da un organo di coordinamento che fu detto Direzione generale dell'Azione cattolica. Romolo Murri, che aveva rifiutato di sottostare alle direttive pontificie, fu sconfessato e più tardi sospeso dal sacerdozio (eletto in Parlamento nel 1909, avrebbe militato nel gruppo radicale). La condanna di Murri e della democrazia cristiana non impedì peraltro al movimento sindacale cattolico di continuare a svilupparsi. Nel 1910 esistevano in Italia 375 leghe bianche, con oltre 100.000 iscritti, concentrati in buona parte in Lombardia e in Veneto e reclutati soprattutto fra gli operai tessili, che diedero vita, nel 1909, al primo sindacato nazionale cattolico di categoria. Le organizzazioni bianche riscossero un certo successo anche tra i lavoratori agricoli, in particolare fra i piccoli proprietari e i mezzadri. Nelle campagne del Cremonese un organizzatore di notevoli capacità, Guido Migliali, riuscì a creare una rete di leghe non meno forti e combattive delle analoghe organizzazioni "rosse". Il movimento contadino cattolico si sviluppò anche in Sicilia, sotto la guida di un prete di Caltagirone, Luigi Sturzo. Preoccupati, anche sulla scorta dei contemporanei avvenimenti francesi, dai progressi delle forze laiche e socialiste, il papa e i vescovi favorirono le tendenze clericomoderate che si andavano manifestando nel movimento cattolico e che miravano a far fronte comune con i "partiti d'ordine" per bloccare l'avanzata delle sinistre. Alleanze di questo genere, già largamente sperimentate nelle elezioni amministrative, furono esplicitamente autorizzate dalle autorità ecclesiastiche e furono d'altra parte incoraggiate dallo stesso Giolitti. Questi, pur ispirandosi in materia di rapporti fra Stato e Chiesa a una linea rigorosamente laica (sua è la celebre formula delle "due parallele" che non devono mai incontrarsi né interferire reciprocamente), vide nel nuovo atteggiamento dei cattolici la possibilità di allargare i suoi spazi di manovra, utilizzando nuove forze a sostegno delle sue maggioranze. Il non expedit fu sospeso, in alcuni collegi del Nord, già nelle elezioni del novembre 1904 e, in misura molto più ampia, nelle successive consultazioni del marzo 1909, dove fu autorizzata anche la presentazione di candidature dichiaratamente cattoliche, anche se solo a titolo personale (secondo la formula "cattolici deputati sì, deputati cattolici no"). La linea clericomoderata ebbe piena consacrazione con le elezioni del novembre 1913 - le prime a suffragio universale maschile - quando il conte Onorino Gentiloni, presidente dell'Unione elettorale cattolica, invitò i militanti ad appoggiare quei candidati liberali che si impegnassero, una

volta eletti, a rispettare un programma che prevedeva fra l'altro la tutela dell'insegnamento privato, l'opposizione al divorzio, il riconoscimento delle organizzazioni sindacali cattoliche. Moltissimi candidati liberali, fra cui non pochi noti anticlericali, accettarono segretamente di sottoscrivere questi impegni, spinti dall'esigenza di assicurarsi i suffragi di un elettorato di massa. Nella prospettiva dello sviluppo di un movimento cattolico autonomo, il "patto Gentiloni" - come impropriamente fu definito quello che in realtà era il risultato di una serie di accordi locali - rappresentò una netta battuta d'arresto; e fu per questo duramente criticato dai democratici cristiani. D'altra parte, con le elezioni del '13, i cattolici italiani acquistavano una capacità di pressione sulla classe dirigente mai avuta fin allora. E la presenza di oltre duecento deputati "gentilonizzati" rischiava di incrinare seriamente la fisionomia laica del Parlamento italiano. 12.10. La crisi del sistema giolittiano. Gli effetti dell'allargamento del suffragio, Da Giolitti a Salandra, La "settimana rossa", La fine del giolittismo. Se si prescinde dalle conseguenze del "patto Gentiloni", l'allargamento del suffragio - che quasi triplicava il corpo elettorale, portandolo da poco più di tre milioni a 8.672.000 unità - non ebbe effetti sconvolgenti sugli equilibri parlamentari. Nonostante i progressi dei socialisti e dei cattolici "dichiarati" e nonostante l'ingresso alla Camera di un piccolo gruppo nazionalista, i liberali delle varie gradazioni conservavano un'ampia maggioranza. Ma si trattava di una maggioranza più eterogenea e divisa che in passato: il che rendeva la mediazione giolittiana sempre più problematica. Nel maggio 1914, Giolitti rassegnò le dimissioni, indicando al re come suo successore Antonio Salandra, giurista, agrario pugliese e uomo di punta della destra liberale. Come aveva già fatto in passato, Giolitti incoraggiò dunque un'esperienza di governo conservatore con la prospettiva di lasciarla logorare rapidamente e di tornare poi al potere a capo di un ministero orientato a sinistra. Ma la situazione era molto cambiata rispetto a quattro o cinque anni prima. La guerra di Libia - lo abbiamo visto - aveva fortemente radicalizzato i contrasti politici; e anche la situazione economica, a partire dal 1913, si era nuovamente deteriorata, provocando un inasprimento delle tensioni sociali. Il dibattito tendeva a polarizzarsi nello scontro fra una destra conservatrice, rafforzata dall'apporto di clericomoderati e nazionalisti, e una sinistra in cui le correnti rivoluzionarie prendevano il sopravvento su quelle riformiste e gradualiste.

Un sintomo evidente del nuovo clima fu la cosiddetta settimana rossa del giugno 1914. La morte di tre dimostranti in uno scontro con la forza pubblica durante una manifestazione antimilitarista ad Ancona provocò un'ondata di scioperi e di agitazioni in tutto il paese. Nelle Marche e in Romagna la protesta, guidata dagli anarchici e dai repubblicani - ma appoggiata anche dai socialisti rivoluzionari, in particolare dall""Avanti!" di Mussolini - assunse un carattere apertamente insurrezionale: vi furono assalti a edifici pubblici, atti di sabotaggio contro le linee telegrafiche e ferroviarie; alcuni ufficiali dell'esercito furono catturati dai rivoltosi e in molti piccoli centri furono proclamate effimere repubbliche. Priva di qualsiasi sbocco concreto, non appoggiata dalla Cgl e fronteggiata con decisione dal governo, l'agitazione si esaurì in pochi giorni. L'unico risultato fu quello di rafforzare le tendenze conservatrici in seno alla classe dirigente, spaventata dal ritorno di fiamma del sovversivismo vecchia maniera, e di accentuare le fratture all'interno del movimento operaio. Gli echi della "settimana rossa" non si erano ancora spenti, quando lo scoppio del conflitto mondiale intervenne a distogliere l'opinione pubblica dai problemi interni e a determinare nuovi schieramenti fra le forze politiche italiane. La grande guerra avrebbe reso irreversibile la crisi del giolittismo e messo in luce la debolezza di una linea politica che aveva avuto il merito innegabile di favorire la democratizzazione della società, incoraggiando al tempo stesso lo sviluppo economico, ma che, tutta fondata sulla mediazione parlamentare, si rivelava inadeguata a fronteggiare le tensioni sprigionate dalla nascente società di massa. Sommario Negli ultimi anni dell'800, si fece strada tra le forze conservatrici italiane la tentazione di risolvere in senso autoritario le tensioni politiche e sociali. Essa si manifestò con la dura repressione militare dei moti per il pane del '98 e con il tentativo del governo Pelloux di far approvare delle leggi limitative delle libertà. La dura opposizione incontrata alla Camera e le elezioni del 1900 portarono a un mutamento di rotta, che (dopo l'assassinio di Umberto I) fu confermato dal nuovo re Vittorio Emanuele III. Il governo ZanardelliGiolitti (1901-3) si caratterizzò per alcune importanti riforme sociali e per la neutralità nel campo dei conflitti di lavoro. Quest'ultimo fatto favorì lo sviluppo delle organizzazioni sindacali, che a sua volta fu accompagnato da un brusco aumento degli scioperi (con la conseguenza di un notevole incremento dei salari operai e agricoli).

Negli ultimi anni del secolo iniziò il decollo industriale italiano, preparato - negli anni precedenti - dalla costruzione di una rete ferroviaria, dalla scelta protezionistica, dal riordinamento del sistema bancario. Lo sviluppo industriale, se non ridusse il divario con i paesi più ricchi, provocò però un aumento del reddito e un miglioramento del tenore di vita degli italiani. Cresceva - parallelamente - l'emigrazione, conseguenza di una sovrabbondanza della popolazione rispetto alle capacità produttive dell'agricoltura, che nel Mezzogiorno restava arretrata (provocando così un accentuarsi del divario con il Nord industrializzato). Leggi speciali per il Mezzogiorno, statizzazione delle ferrovie, conversione della rendita, introduzione del suffragio universale maschile (1912), monopolio statale delle assicurazioni sulla vita rappresentarono i punti qualificanti della politica di Giolitti, che rimase a capo del governo, con alcune interruzioni, dal 1903 al 1914. Il suo riformismo non era privo di limiti, per il condizionamento delle forze conservatrici e per la costante attenzione di Giolitti a non modificare in senso eccessivamente democratico gli equilibri parlamentari; inoltre, la crisi economica del 1907 accrebbe, da un lato, le lotte sociali mentre, dall'altro, favorì un atteggiamento più duro delle associazioni padronali. La "dittatura" di Giolitti - realizzata attraverso lo stretto controllo del Parlamento e l'intervento del governo, soprattutto al Sud, nelle competizioni elettorali - trovò molti critici fra le forze politiche (socialisti rivoluzionari, cattolici democratici, liberaliconservatori, meridionalisti) e soprattutto fra gli intellettuali. Sul piano della politica estera, l'Italia si avvicinò, tra fine '800 e inizio '900, alla Francia, pur restando fedele alla Triplice alleanza. Mutò contemporaneamente l'atteggiamento dell'opinione pubblica nei confronti delle imprese coloniali, che cominciarono ad essere caldeggiate soprattutto dal nuovo movimento nazionalista. Proprio la campagna di stampa dei nazionalisti fu, con le pressioni degli interessi della finanza cattolica, tra i fattori che spinsero il governo all'intervento militare in Libia (1911). La guerra con la Turchia che ne seguì si concluse con l'imposizione della sovranità italiana sulla Libia. Nel Psi la corrente riformista guardò con simpatia alla politica giolittiana. Presto crebbe però entro il partito la forza delle correnti di sinistra, in particolare dei sindacalisti rivoluzionari (questi ultimi ne uscirono nel 1907). La fondazione della Cgl (1906) segnò un rafforzamento della presenza riformista sul piano delle organizzazioni sindacali. Ma, dopo

l'espulsione dei "revisionisti" nel 1912, il controllo del partito passò ai rivoluzionari, uno dei cui maggiori leader era Mussolini. In età giolittiana si sviluppò, in campo cattolico, il movimento democraticocristiano, condannato dal nuovo papa Pio X. Ebbero un grande sviluppo, contemporaneamente, le organizzazioni sindacali "bianche". Sul piano politico le forze clericomoderate stabilirono alleanze elettorali, in funzione conservatrice, con i liberali: questa linea politica avrebbe avuto piena consacrazione, nelle elezioni del 1913, col "patto Gentiloni". I mutamenti in atto nel sistema politico italiano alla vigilia della grande guerra (sviluppo del nazionalismo, accresciuto peso dei cattolici, prevalenza dei rivoluzionari nel Psi) segnavano la progressiva crisi della politica giolittiana, sempre meno in grado di controllare la radicalizzazione politica che si stava verificando (e di cui, nel '14, la "settimana rossa" fu un rilevante sintomo). In questa situazione la guerra avrebbe significato la fine del giolittismo. Bibliografia Per l'età giolittiana si vedano: il vol. VII della Storia dell'Italia moderna di G. Candelora, La crisi di fine secolo e l'età giolittiana, Feltrinelli, Milano 1974; il vol. III della Storia d'Italia a e. di G. Sabbatucci V. Vidotto, Liberalismo e democrazia 1887-1914, Laterza, RomaBari 1995; A. Aquarone, L'Italia giolittiana, Il Mulino, Bologna 1988; E. Gentile, L'età giolittiana 1900-1915, ivi 1991; e inoltre l'antologia curata dallo stesso Gentile, L'Italia giolittiana. La storia e la critica, Laterza, RomaBari 1977, nonché il breve profilo di G. Carocci, Giolitti e l'età giolittiana, Einaudi, Torino 1961. Sulla cultura, vedi A. Asor Rosa, La cultura, tomo 2 del vol. IV, Dall'unità a oggi, della Storia d'Italia, a e. di R. Romano e C. Vivanti, Einaudi, Torino 1975-76. Sulla questione meridionale cfr., oltre ai volumi di M. L. Salvadori, limiti del buon governo. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Einaudi, Torino 1960, e di R. Villari, Il Sud nella storia d'Italia, Laterza, RomaBari 19883, P. Bevilacqua, Breve storia dell'Italia meridionale dall'Ottocento a oggi, Donzelli, Roma 1993. Sull'emigrazione: E. Sori, L'emigrazione italiana dall'Unità alla seconda guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1979 e la Storia dell'emigrazione italiana, vol. I, Partenze, a e. di P. Bevilacqua, A. De Clementi e E. Franzina, Donzelli, Roma 2001. Sui socialisti: G. Manacorda, Il socialismo nella storia d'Italia, Laterza, Bari 1966, e G. Arfè, Storia del socialismo italiano (1892-1926), Einaudi, Torino 1965. Per i cattolici, oltre ai volumi di G. De Rosa, Storia del

movimento cattolico in Italia, vol. I, Dalla Restaurazione all'età giolittiana, Laterza, Bari 1966, e G. Candelora, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 19612, vedi M. G. Rossi, Le origini del partito cattolico, Editori Riuniti, Roma 1977. Sui nazionalisti: F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Laterza, RomaBari 1981. 13. La prima guerra mondiale. 13.1. Dall'attentato di Sarajevo alla guerra europea. L'uccisione di Francesco Ferdinando, Il caso e la storia, L'ultimatum austriaco, La mobilitazione russa, L'iniziativa tedesca, Il piano Schlieffen, L'invasione del Belgio e l'intervento britannico, La sottovalutazione della guerra, La mobilitazione patriottica, La crisi dell'internazionalismo socialista. Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco di nome Gavrilo Princip uccise con due colpi di pistola l'erede al trono d'Austria, l'arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie, mentre attraversavano in auto scoperta le vie di Sarajevo, capitale della Bosnia. L'attentatore faceva parte di un'organizzazione irredentista che aveva la sua base operativa in Serbia e godeva di una certa tolleranza da parte del governo di quel paese. Tanto bastò per suscitare la reazione del governo e dei circoli dirigenti austriaci, da tempo convinti della necessità di impartire una dura lezione alla Serbia. Un attentato terroristico, molto simile a quelli di matrice anarchica che avevano già mietuto numerose vittime fra governanti e teste coronate, si trasformò così in un caso internazionale e mise in moto una catena di reazioni e controreazioni che precipitarono l'Europa in un conflitto di proporzioni mai viste. Un conflitto che avrebbe segnato una svolta decisiva nella storia dell'Europa e del mondo, ridisegnando i confini e mutando i rapporti di forza fra gli Stati, trasformando la stessa società, aprendo infine una fase di guerre e rivolgimenti interni durata più di trent'anni e conclusasi col definitivo tramonto della centralità europea. La vicenda dell'attentato di Sarajevo è dunque un tipico esempio di come il corso della "grande storia" possa essere influenzato da eventi singoli, da decisioni individuali prese da personaggi oscuri, da circostanze del tutto accidentali: nessuno può dire che cosa sarebbe accaduto se a Sarajevo i servizi di sicurezza imperiali fossero stati più efficienti o se l'attentatore avesse mancato il suo bersaglio. Nell'Europa del 1914 esistevano, è vero, tutte le premesse che rendevano possibile una guerra: rapporti tesi fra le

grandi potenze (Austria contro Russia, Francia contro Germania, Germania contro Inghilterra), divisione in blocchi contrapposti, corsa agli armamenti, spinte belliciste all'interno dei singoli paesi. Ma queste premesse non avevano come sbocco obbligato un conflitto europeo. Fu l'attentato di Sarajevo a far esplodere tensioni che altrimenti avrebbero potuto restare latenti. Furono le decisioni prese da governanti e capi militari a trasformare una crisi locale in un conflitto generale, il primo combattuto sul vecchio continente dopo la fine delle guerre napoleoniche. L'Austria compì la prima mossa inviando, il 23 luglio, un durissimo ultimatum alla Serbia. Il secondo passo lo fece la Russia assicurando il proprio sostegno alla Serbia, sua principale alleata nei Balcani. Forte dell'appoggio russo, il governo serbo accettò solo in parte l'ultimatum, respingendo in particolare la clausola che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti dell'attentato. L'Austria giudicò la risposta insufficiente e, il 28 luglio, dichiarò guerra alla Serbia. Immediata fu la reazione del governo russo che, il giorno successivo, ordinò la mobilitazione delle forze armate. Dichiarare la mobilitazione significava dare il via a tutta quella serie di operazioni che costituivano la necessaria premessa di una guerra: operazioni particolarmente lunghe e complesse in un paese delle dimensioni dell'Impero zarista. Ma la mobilitazione - che i generali russi vollero estesa all'intero confine occidentale (e non solo alle frontiere con l'AustriaUngheria) per prevenire un eventuale attacco da parte della Germania - fu interpretata dal governo tedesco come un atto di ostilità. Il 31 luglio la Germania inviò un ultimatum alla Russia intimandole l'immediata sospensione dei preparativi bellici. L'ultimatum non ottenne risposta e fu seguito, a ventiquattr'ore di distanza, dalla dichiarazione di guerra. Il giorno stesso (1° agosto) la Francia, legata alla Russia da un trattato di alleanza militare, mobilitò le proprie forze armate. La Germania rispose con un nuovo ultimatum e con la successiva dichiarazione di guerra alla Francia (3 agosto). Fu dunque l'iniziativa del governo tedesco, che già nella prima fase della crisi aveva assicurato il proprio appoggio incondizionato all'Austria, a far precipitare definitivamente la situazione. Ma come spiegare un impegno così deciso della Germania in una crisi che in fondo non toccava direttamente nessuno dei suoi interessi vitali? Bisogna ricordare innanzitutto che la Germania soffriva da tempo di un complesso di accerchiamento, ritenendosi ingiustamente soffocata nelle sue ambizioni internazionali. C'erano poi le motivazioni di ordine militare. La strategia dei generali tedeschi si basava infatti sulla rapidità e sulla sorpresa, non ammetteva la possibilità di lasciare l'iniziativa in mano agli avversari e costituiva dunque

di per sé un fattore di accelerazione della crisi e di ostacolo al negoziato. Il piano di guerra elaborato ai primi del '900 dall'allora capo di stato maggiore Alfred von Schlieffen, dando per scontata l'eventualità di una guerra su due fronti (l'alleanza francorussa era operante dal 1894), prevedeva in primo luogo un massiccio attacco contro la Francia, che avrebbe dovuto esser messa fuori combattimento in poche settimane. Raggiunto questo obiettivo, il grosso delle forze sarebbe stato impiegato contro la Russia, la cui macchina militare era potenzialmente fortissima, ma lenta a mettersi in azione. Presupposto essenziale per la riuscita del "piano Schlieffen" era la rapidità dell'attacco alla Francia. A questo scopo era previsto che le truppe tedesche passassero attraverso il Belgio, nonostante che la sua neutralità fosse garantita da un trattato internazionale sottoscritto anche dalla Germania. Ciò avrebbe permesso di investire lo schieramento nemico nel suo punto più debole e di puntare direttamente su Parigi. Il 4 agosto, i primi contingenti tedeschi invasero il Belgio per attaccare la Francia da nordest. La violazione della neutralità belga non solo scosse profondamente l'opinione pubblica europea, ma ebbe anche un peso decisivo nel determinare l'intervento inglese nel conflitto. La Gran Bretagna, già fortemente preoccupata dall'eventualità di un successo tedesco, non poteva tollerare l'aggressione a un paese neutrale che si affacciava sulle coste della Manica. Così, il 5 agosto, l'Inghilterra dichiarava guerra alla Germania. Per i governanti tedeschi, che avevano sottovalutato la reazione dell'opinione pubblica inglese e avevano subordinato alle esigenze militari qualsiasi considerazione di opportunità politica, l'intervento della Gran Bretagna rappresentò il primo grave scacco. Gli uomini politici tedeschi non furono i soli, in quei giorni cruciali, a dar prova di scarsa lungimiranza. Tutti i governi sottovalutarono la gravità dello scontro che si andava preparando; e tutti, salvo quello inglese, finirono con l'agire al rimorchio dei vertici militari. Fra gli stessi politici, del resto, era ampiamente diffusa la convinzione che una guerra (che ognuno immaginava breve e vittoriosa) avrebbe contribuito a soffocare i contrasti sociali e a rafforzare la posizione di governi e classi dirigenti. Almeno sui tempi brevi, il calcolo si dimostrò tutt'altro che sbagliato. In quasi tutti gli Stati coinvolti nel conflitto le forze pacifiste trovarono scarso appoggio in un'opinione pubblica massicciamente mobilitata a sostegno della causa nazionale e pronta a riconoscere le buone ragioni del proprio paese. Le grandi città si riempirono di dimostrazioni belliciste. Intellettuali di prestigio e maestri di scuola si adoperarono per spiegare al popolo la necessità della guerra. Il

richiamo del patriottismo mostrò in questa occasione tutta la sua forza e fece breccia anche in quegli schieramenti che meno sembravano disposti ad accoglierlo. Nemmeno i partiti socialisti, che avevano fatto del pacifismo e dell'internazionalismo la loro bandiera, seppero o vollero sottrarsi al clima generale di unione sacra. I capi della socialdemocrazia tedesca votarono in Parlamento a favore dei crediti di guerra, motivando la loro scelta col pericolo di una vittoria zarista. Analogo atteggiamento fu assunto dai socialdemocratici austriaci. I socialisti francesi, quando il 31 luglio il loro leader Jean Jaurès fu ucciso in un attentato da un fanatico nazionalista, rinunciarono a ogni manifestazione di protesta e poco dopo entrarono a far parte del governo. La stessa cosa fecero i laburisti inglesi. Solo in Russia e in Serbia - paesi in cui il movimento operaio era completamente emarginato dalla vita politica - i socialisti mantennero un atteggiamento di intransigente opposizione. La Seconda Internazionale - nata come espressione della solidarietà fra i lavoratori di tutti i paesi e impegnata da sempre nella difesa della pace - cessò praticamente di esistere: fu, in fondo, la prima vittima della grande guerra. [[L'Europa nel 1914 (cartina p.242)]. 13.2. Dalla guerra di movimento alla guerra di usura. Lo spiegamento delle forze, Nuovi armamenti e vecchie strategie, L'attacco alla Francia, Le vittorie tedesche sul fronte orientale, La battaglia della Marna e il fallimento del piano tedesco, La nuova realtà della guerra, L'allargamento del conflitto, La guerra mondiale. La pratica ormai generalizzata della coscrizione obbligatoria e le accresciute possibilità dei mezzi di trasporto consentirono ai belligeranti di mettere in campo rapidamente eserciti di proporzioni mai conosciute prima. Nell'agosto '14 la Germania schierò sul solo fronte occidentale un milione e mezzo di uomini e la Francia gliene contrappose più di un milione, senza contare i contingenti inglesi e belgi (per avere un termine di paragone, si pensi che il più grande esercito mai messo in campo fin allora, quello allestito da Napoleone per la campagna di Russia, non raggiungeva le 600.000 unità). La Gran Bretagna era la sola a non disporre di un esercito di leva; ma, ancor prima di introdurre (nel 1916) la coscrizione obbligatoria, riuscì a mobilitare oltre due milioni di volontari. Questi eserciti così imponenti erano inoltre assai meglio armati di qualsiasi esercito

ottocentesco: tutti disponevano di fucili a ripetizione (capaci cioè di ricaricarsi col semplice movimento di una leva) e di cannoni potentissimi. Ma la novità più importante era costituita dalle mitragliatrici automatiche, armi potenti e maneggevoli capaci di sparare centinaia di colpi al minuto. Eppure, nonostante queste novità, nessuna fra le potenze belligeranti aveva elaborato concezioni strategiche diverse da quelle che avevano ispirato le ultime guerre ottocentesche e che si fondavano sull'idea della guerra di movimento: cioè sulla manovra offensiva, sullo spostamento rapido di ingenti masse di uomini in vista di pochi e risolutivi scontri campali. Tutti i piani di guerra erano basati sulla previsione di un conflitto di pochi mesi o addirittura di poche settimane. Come abbiamo appena visto, furono soprattutto i militari tedeschi a puntare le loro carte sull'ipotesi della guerra di movimento, già sperimentata con successo nella campagna del 1870 contro la Francia. Anche questa volta, nonostante i molti ostacoli imprevisti (l'accanita resistenza belga, l'intervento inglese, l'inattesa rapidità della mobilitazione russa), i tedeschi ottennero una serie di clamorosi successi iniziali. Nelle ultime due settimane di agosto, le armate del Reich dilagarono nel NordEst della Francia costringendo gli avversari a una precipitosa ritirata. Ai primi di settembre si attestarono lungo il corso della Marna, a poche decine di chilometri da Parigi. Il governo francese, assieme a mezzo milione di civili, si affrettò a lasciare la capitale, dove ormai si udivano distintamente i colpi delle artiglierie. Nel frattempo, sul fronte orientale, le truppe tedesche, comandate dal generale Hindenburg, fermavano i russi che tentavano di penetrare in Prussia orientale, sconfiggendoli fra agosto e settembre nelle grandi battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri. L'offensiva russa mise però in serie difficoltà gli austriaci e preoccupò gli stessi comandi tedeschi, inducendoli a trasferire oltre centomila uomini dal fronte occidentale a quello orientale, mentre l'esercito francese, comandato dal generale Joffre, si stava frettolosamente riorganizzando al di qua della Marna. Il 6 settembre i francesi lanciarono un improvviso contrattacco che colse i tedeschi di sorpresa. Dopo una settimana di furiosi combattimenti, gli invasori furono costretti a ripiegare su una linea più arretrata, in corrispondenza dei fiumi Anne e Somme. Con l'arresto dell'offensiva sulla Marna, il progetto di guerra tedesco poteva dirsi sostanzialmente fallito. Alla fine di novembre gli eserciti si erano ormai attestati in trincee improvvisate, su un fronte lungo 750 chilometri che andava dal Mare del Nord al confine svizzero. In quattro mesi di guerra, sul solo fronte occidentale, si erano avuti 400.000 morti e quasi un milione di feriti: in tutto quasi la metà degli

effettivi impegnati in quel periodo su quel teatro di operazioni. E tutto questo senza che nessuno dei due schieramenti fosse riuscito a conseguire risultati decisivi sul piano strategico. La guerra di movimento progettata dai generali si era così risolta in una situazione di stallo. Cominciava una guerra di tipo nuovo, non prevista né preparata da nessuno dei contendenti: la guerra di logoramento, o di usura, che vedeva due schieramenti praticamente immobili (dal novembre del '15 al marzo del'18 le linee di combattimento sul fronte francese non subirono spostamenti superiori ai 15 chilometri) affrontarsi in una serie di sterili quanto sanguinosi attacchi, inframmezzati da lunghi periodi di stasi. In una guerra di questo genere, l'iniziale superiorità militare degli imperi centrali passava in secondo piano. Diventava invece essenziale il ruolo della Gran Bretagna, che poteva gettare sul piatto della bilancia le risorse del suo impero coloniale e la sua superiorità navale. Altrettanto importante si dimostrava l'apporto della Russia col suo enorme potenziale umano. Un problema vitale per entrambi gli schieramenti era poi costituito dall'atteggiamento dei paesi che in un primo momento erano rimasti estranei al conflitto e che sembravano poter modificare, col loro intervento, l'equilibrio delle forze in campo. Molte potenze minori temevano di restar sacrificate da una nuova sistemazione dell'assetto internazionale decisa sopra le loro teste; altre cercarono di profittare della guerra per soddisfare le loro ambizioni territoriali. Di qui la tendenza del conflitto ad allargarsi, fino ad assumere dimensioni planetarie. Nell'agosto del 1914, il Giappone, richiamandosi al trattato che lo legava alla Gran Bretagna dal 1902, dichiarava guerra alla Germania, profittando dell'occasione per impadronirsi dei possedimenti tedeschi in Estremo Oriente. Nel novembre dello stesso anno, la Turchia, legata alla Germania da un trattato segreto, interveniva a favore degli imperi centrali. Sei mesi dopo, nel maggio 1915, l'Italia entrava in guerra contro l'AustriaUngheria. A fianco degli imperi centrali sarebbe poi intervenuta la Bulgaria (settembre 1915), mentre nel campo opposto si sarebbero schierati il Portogallo (marzo 1916), la Romania (agosto 1916) e la Grecia (giugno 1917). Decisivo sarebbe risultato, infine, l'intervento a favore dell'Intesa degli Stati Uniti (aprile 1917), che si trascinarono dietro numerosi paesi extraeuropei (Cina, Brasile e altre repubbliche latinoamericane), il cui contributo alla guerra fu però poco rilevante. Se a tutto questo si aggiunge l'estensione del conflitto agli imperi coloniali (battaglie anche importanti furono combattute in Medio Oriente, in Africa, in Oceania), si capirà come la guerra, pur avendo

in Europa il suo teatro principale, assumesse sempre più un carattere mondiale, coinvolgendo per la prima volta tutti e cinque i continenti. [Fronte occidentale (1914-1918) (cartina p.246)]. 13.3. L'Italia dalla neutralità all'intervento. La neutralità italiana, L'interventismo di sinistra, I nazionalisti, L'interventismo dei conservatori, I neutralismo giolittiano, Il pacifismo dei cattolici, Il neutralismo socialista e la defezione di Mussolini, I rapporti di forza, L'interventismo dei giovani e degli intellettuali, Salandra, Sonnino e il Patto di Londra, Le resistenze del Parlamento, Le "radiose giornate" del maggio 1915, "Né aderire né sabotare". L'Italia entrò nel conflitto mondiale nel maggio del 1915, quando la guerra era già iniziata da dieci mesi, schierandosi a fianco dell'Intesa contro l'Impero austroungarico fin allora suo alleato. Fu una scelta sofferta e contrastata, sulla quale classe politica e opinione pubblica si spaccarono in due fronti contrapposti, solo in parte coincidenti con gli schieramenti tradizionali. Il 2 agosto 1914, a guerra appena scoppiata, il governo presieduto da Antonio Salandra aveva dichiarato la neutralità dell'Italia. Questa decisione, giustificata col carattere difensivo della Triplice alleanza (l'Austria non era stata attaccata, né aveva consultato l'Italia prima di intraprendere l'azione contro la Serbia), aveva trovato concordi in un primo tempo tutte le principali forze politiche. Ma, una volta scartata l'ipotesi di un intervento a fianco degli imperi centrali - ipotesi che cozzava fra l'altro contro i sentimenti antiaustriaci di buona parte dell'opinione pubblica -, cominciò a essere affacciata da alcuni settori politici l'eventualità opposta: quella di una guerra contro l'Austria, che avrebbe consentito all'Italia di portare a compimento il processo risorgimentale (riunendo alla patria Trento e Trieste), ma anche di aiutare la causa delle "nazionalità oppresse" e della stessa democrazia, che si pensava sarebbe stata minacciata da una vittoria dei due imperi autoritari del Centro Europa. Portavoce di questa linea interventista furono innanzitutto gruppi e partiti della sinistra democratica: i repubblicani, custodi della tradizione garibaldina; i radicali e i socialriformisti di Bissolati, fortemente legati alla Francia; e naturalmente le associazioni irredentiste, che avevano tra le loro file numerosi fuorusciti dall'Impero austroungarico (fra questi Cesare Battisti, già leader dei socialisti trentini). Ad essi si aggiunsero esponenti

delle frange estremiste ed "eretiche" del movimento operaio (fra i quali i leader del sindacalismo rivoluzionario Alceste De Ambris e Filippo Corridoni), sorprendentemente convertitisi alla causa della "guerra rivoluzionaria": una guerra destinata, nelle loro speranze, a rovesciare non solo gli assetti internazionali ma anche gli equilibri sociali all'interno dei paesi coinvolti. Sull'opposto versante dello schieramento politico, fautori attivi dell'intervento erano i nazionalisti, favorevoli comunque all'entrata in guerra (si erano infatti schierati in un primo momento per gli imperi centrali, salvo poi passare rapidamente al fronte antiaustriaco) affinché l'Italia potesse affermare la sua vocazione di grande potenza imperialista; una logica molto lontana da quella dei democratici, che non impedì comunque ai nazionalisti di costituire, assieme a repubblicani, irredentisti e sindacalisti rivoluzionari, l'ala marciante del fronte interventista. Più prudente e graduale fu l'adesione alla causa dell'intervento da parte di quei gruppi liberalconservatori che avevano la loro espressione più autorevole nel "Corriere della Sera" di Luigi Albertini e i loro punti di riferimento politici nel presidente del Consiglio Antonio Salandra e in Sidney Sonnino, ministro degli Esteri dall'ottobre 1914. Salandra e Sonnino temevano soprattutto che una mancata partecipazione al conflitto in cui si decidevano le sorti dell'Europa avrebbe gravemente compromesso la posizione internazionale dell'Italia e il prestigio stesso della monarchia; una guerra vittoriosa avrebbe invece rafforzato le istituzioni e dato maggiore solidità al governo. L'ala più consistente dello schieramento liberale, quella che faceva capo a Giovanni Giolitti, era però schierata su una linea neutralista. Giolitti infatti, pur non essendo pregiudizialmente contrario a un intervento nel conflitto, intuiva che la guerra sarebbe stata lunga e logorante e non riteneva il paese preparato ad affrontarla; era inoltre convinto che l'Italia avrebbe potuto ottenere dagli imperi centrali, come compenso per la sua neutralità, buona parte dei territori rivendicati. Decisamente ostile all'intervento era, con poche eccezioni, il mondo cattolico italiano. Il nuovo papa Benedetto XV, salito al soglio pontificio proprio nel momento in cui stava iniziando il conflitto, assunse un atteggiamento decisamente pacifista: atteggiamento che da un lato interpretava i sentimenti prevalenti fra le masse cattoliche, dall'altro rispecchiava la preoccupazione per una guerra che vedesse l'Italia schierata a fianco della Francia repubblicana e anticlericale contro la cattolica AustriaUngheria.

Molto netta fu infine la posizione assunta dal Psi e dalla Cgl: una posizione di ferma condanna della guerra, che contrastava apertamente con la scelta patriottica dei maggiori partiti socialisti europei, ma rispecchiava l'istintivo pacifismo delle masse operaie e contadine. L'unica defezione importante fu quella, clamorosa, del direttore dell""Avanti!" Benito Mussolini: il quale, dopo aver condotto dalle colonne del suo giornale una vigorosa campagna per la "neutralità assoluta", si schierò con un'improvvisa conversione a favore dell'intervento. Destituito dal suo incarico e poi espulso dal partito, Mussolini fondò, nel novembre 1914, un nuovo quotidiano, "Il Popolo d'Italia", che divenne la principale tribuna dell'interventismo di sinistra. In termini di forza parlamentare e di peso nella società i neutralisti erano dunque in netta prevalenza, ma non costituivano uno schieramento omogeneo, capace di trasformarsi in alleanza politica. Il fronte interventista era altrettanto composito. Era però unito da un obiettivo preciso, la guerra contro l'Austria, oltre che dalla comune avversione per la "dittatura" giolittiana: per molti intellettuali e politici, infatti, la guerra doveva significare la fine del giolittismo e l'avvio di un radicale rinnovamento della politica italiana. Inoltre, le minoranze interventiste diedero prova di un'insospettata capacità di mobilitazione e - favorite dall'atteggiamento tutt'altro che imparziale delle autorità - seppero impadronirsi, nei momenti decisivi, del dominio delle piazze: riuscirono quindi a imporre l'immagine di se stesse come rappresentanti del "paese reale" in contrapposizione al Parlamento giolittiano, giudicato imbelle e corrotto. Bisogna ricordare, infine, che il partito della guerra poteva contare sui settori più giovani e dinamici della società, quelli che più contribuivano a formare l'opinione pubblica. Erano in maggioranza interventisti gli studenti, gli insegnanti, gli impiegati, i professionisti, ovvero la piccola e media borghesia colta, più sensibile ai valori patriottici. Erano interventisti, con poche eccezioni fra cui quella illustre di Benedetto Croce, gli intellettuali di maggior prestigio: da Giovanni Gentile a Giuseppe Prezzolini, da Luigi Einaudi a Gaetano Salvemini. Il caso più tipico fu quello di Gabriele D'Annunzio che, noto fin allora come scrittore raffinato e come personaggio eccentrico, si improvvisò per l'occasione capopopolo ed ebbe un ruolo di rilievo nelle manifestazioni di piazza a favore dell'intervento. Ma ciò che in definitiva decise l'esito dello scontro fra neutralisti e interventisti fu l'atteggiamento del capo del governo, del ministro degli Esteri e del re: cioè degli uomini cui spettava, a norma dello Statuto, il potere di decidere i destini del paese in materia di alleanze internazionali. Fin dall'autunno '14, dopo il fallimento del piano di guerra tedesco, Salandra

e Sonnino allacciarono contatti segretissimi con l'Intesa, pur continuando nel contempo a trattare con gli imperi centrali per strappare qualche compenso territoriale in cambio della neutralità. Infine decisero, col solo avallo del re e senza informare né il Parlamento né gli altri membri del governo, di accettare le proposte dell'Intesa firmando, il 26 aprile 1915, il cosiddetto Patto di Londra, con Francia, Inghilterra e Russia. Le clausole principali prevedevano che l'Italia avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Sud Tirolo fino al confine "naturale" del Brennero, la Venezia Giulia e l'intera penisola istriana (con l'esclusione della città di Fiume), una parte della Dalmazia con numerose isole adriatiche. Restava da superare, a questo punto, la prevedibile opposizione della maggioranza neutralista della Camera, cui spettava la ratifica del trattato. Quando, ai primi di maggio, Giolitti, non ancora al corrente del Patto di Londra, si pronunciò per la continuazione delle trattative con l'Austria, ben trecento deputati gli manifestarono solidarietà, inducendo Salandra a rassegnare le dimissioni. Ma la volontà neutralista del Parlamento fu di fatto scavalcata: da un lato dalla decisione del re, che respinse le dimissioni di Salandra, mostrando così di approvarne l'operato; dall'altro dalle manifestazioni di piazza che in quei decisivi giorni di maggio (le "radiose giornate" celebrate dalla retorica interventista) si fecero sempre più imponenti e più minacciose. Il 20 maggio 1915, costretta a scegliere fra l'adesione alla guerra e un voto contrario che sconfessasse con il governo lo stesso sovrano, aprendo così una crisi istituzionale, la Camera approvò, col voto contrario dei soli socialisti, la concessione dei pieni poteri al governo, che la sera del 23 maggio dichiarava guerra all'Austria. Il 24 ebbero inizio le operazioni militari. Disorientati e isolati, i socialisti non riuscirono a organizzare una opposizione efficace e dovettero accontentarsi di ribadire solennemente la loro ostilità alla guerra e la loro fedeltà all'internazionalismo proletario. La stessa formula "né aderire né sabotare", coniata per definire l'atteggiamento del partito a intervento ormai deciso, era poco più di una dichiarazione di principio e un'implicita confessione di impotenza. La crisi dell'intervento aveva comunque lasciato un segno profondo nella vita politica italiana, mostrando che larga parte delle masse popolari rimaneva estranea ai valori patriottici; che la mediazione parlamentare non controllava più i fenomeni politici ed era rifiutata da larghi strati di opinione pubblica; che nuovi metodi di lotta potevano prendere il sopravvento su quelli tipici dello Stato liberale.

[linea raggiunta il 3 novembre 1918. (cartina p.250)]. 13.4. La grande strage (1915-16). Le battaglie dell'Isonzo, Il fronte francese, Il fronte orientale, Verdun, La "Strafexpedition", La caduta di Salandra e I ministero Boselli, Il fronte orientale nel 1916, La battaglia dello Jutland. Al momento dell'entrata in guerra, era diffusa in Italia la convinzione che una rapida campagna militare sarebbe bastata per aver ragione degli avversari e per far volgere le sorti del conflitto a favore dell'Intesa. La realtà si incaricò ben presto di far fallire queste previsioni. Sul confine orientale le forze austroungariche, nettamente inferiori di numero, ripiegarono per pochi chilometri: quanto bastava per attestarsi sulle posizioni difensive più favorevoli, lungo il corso dell'Isonzo e sulle alture del Carso. Contro queste linee le truppe comandate dal generale Luigi Cadorna sferrarono, nel corso del 1915, quattro sanguinose offensive (le prime quattro "battaglie dell'Isonzo") senza riuscire a cogliere alcun successo. Alla fine dell'anno, dopo aver perso quasi 250.000 uomini fra morti e feriti (fra cui buona parte degli ufficiali inferiori caduti alla testa dei loro reparti), l'esercito italiano si trovava a combattere sulle stesse posizioni su cui era schierato in giugno. Una situazione analoga, su scala ancora più ampia, si era creata sul fronte francese. Anche qui gli schieramenti rimasero pressoché immobili per tutto il 1915: centinaia di migliaia di soldati furono sacrificati, in omaggio a una concezione ottocentesca delle battaglie, alla vana ricerca dell'attacco risolutivo. In quell'anno gli unici successi di qualche rilievo furono ottenuti sul fronte orientale dagli austrotedeschi: prima contro i russi, che durante l'estate furono costretti ad abbandonare buona parte della Polonia; poi contro la Serbia che, attaccata simultaneamente in novembre da Austria e Bulgaria, fu invasa e cancellata dal novero dei contendenti. All'inizio dell'anno successivo, i tedeschi ripresero l'iniziativa sul fronte occidentale, sferrando, nel febbraio 1916, un attacco in forze contro la piazzaforte francese di Verdun. Scopo dell'azione era non tanto la conquista dell'obiettivo, quanto il dissanguamento delle forze francesi. Ma la battaglia, durata quattro mesi e condotta dai tedeschi con uno spiegamento senza precedenti di artiglieria pesante, risultò troppo costosa anche per gli attaccanti, che ebbero perdite di poco inferiori a quelle degli avversari. I francesi riuscirono a resistere sino alla fine di giugno, quando gli inglesi organizzarono una controffensiva sulla Somme, presto trasformatasi in una

nuova, estenuante battaglia di logoramento. Il tutto si risolse in una spaventosa carneficina, forse la più tremenda cui l'umanità avesse mai assistito in uno spazio così limitato: più di 600.000 uomini dei due schieramenti perirono tra febbraio e giugno nella sola battaglia di Verdun e quasi un milione ne caddero sulla Somme nei sei mesi successivi. Nel giugno 1916, mentre si andava esaurendo l'offensiva tedesca contro Verdun, l'esercito austriaco passò all'attacco sul fronte italiano, tentando di penetrare dal Trentino nella pianura veneta e di spezzare in due lo schieramento nemico. Gli italiani furono colti di sorpresa dall'offensiva, che fu chiamata significativamente Strafexpedition (ossia spedizione punitiva contro l'antico alleato ritenuto colpevole di tradimento), ma riuscirono faticosamente ad arrestarla sugli altipiani di Asiago e successivamente a contrattaccare (durante questa azione cadde prigioniero degli austriaci Cesare Battisti, che fu condannato a morte per alto tradimento). L'Italia non subì alcuna perdita territoriale, ma il contraccolpo psicologico nel paese fu ugualmente fortissimo. Il governo Salandra fu costretto alle dimissioni e sostituito da un ministero di coalizione nazionale (comprendente cioè tutte le forze politiche, esclusi i socialisti) presieduto da Paolo Boselli. Il cambio di ministero non comportò però alcun mutamento nella conduzione militare della guerra. Nel corso dell'anno furono combattute altre cinque battaglie dell'Isonzo, tutte estremamente sanguinose e tutte prive di risultati tangibili, salvo quello, di valore morale più che strategico, della presa di Gorizia, avvenuta in agosto. Meno statica, anche nel 1916, si presentava la situazione sul fronte orientale. A prendere l'iniziativa furono questa volta i russi che, sollecitati dagli alleati, lanciarono in giugno una violenta offensiva, riuscendo a recuperare buona parte dei territori perduti l'anno prima. I successi russi ebbero l'effetto di indurre la Romania a intervenire, in agosto, a fianco dell'Intesa. Ma l'intervento si risolse in un completo disastro: la Romania subì la stessa sorte della Serbia lasciando nelle mani dei nemici le sue considerevoli risorse agricole e minerarie (grano e petrolio). Questo risultato non bastò a riequilibrare la situazione in favore degli imperi centrali, che restavano sempre inferiori all'Intesa per risorse economiche e per potenziale umano e subivano le conseguenze del ferreo blocco navale attuato dagli inglesi nel Mare del Nord. Invano, nel maggio 1916, la flotta tedesca aveva tentato un attacco contro quella inglese, in prossimità della penisola dello Jutland. Le perdite subite nella battaglia, per quanto inferiori a quelle degli avversari, furono tali da indurre i comandi a ritirare le navi nei porti, rinunciando definitivamente allo scontro in campo aperto. A questo si ridusse il contributo della flotta tedesca del Mare del

Nord, la cui costruzione aveva rappresentato nell'anteguerra uno dei più gravi fattori di tensione internazionale. 13.5. La guerra nelle trincee. La trincea, La vita nelle trincee, L'assalto, Entusiasmo e rassegnazione, Ufficiali e soldati, I reparti speciali, Renitenza e insubordinazione. Due anni e mezzo di guerra non avevano dunque risolto la situazione di stallo creatasi nell'estate del '14, né avevano mutato i caratteri di un conflitto sempre più dominato dalla tremenda usura dei reparti combattenti. Un'usura dovuta soprattutto alla combinazione micidiale fra la vecchia dottrina militare, che imponeva ai soldati di cercare a ogni costo la rottura del fronte avversario (o la conquista di una determinata posizione), e le nuove armi automatiche, capaci di trasformare ogni assalto in un'autentica carneficina per gli attaccanti. In realtà, dal punto di vista tecnico, la vera protagonista della guerra fu la trincea, ossia la più semplice e primitiva tra le fortificazioni difensive: un fossato scavato nel terreno per mettere i soldati al riparo dal fuoco nemico. Concepite all'inizio come rifugi provvisori per le truppe in attesa del balzo decisivo, le trincee divennero, una volta stabilizzatesi le posizioni, la sede permanente dei reparti di prima linea. In breve tutta la zona del fronte fu ricoperta da una fitta rete di fossati disposti su due o più linee (la linea più avanzata si trovava a volte a poche decine di metri da quella del nemico) e collegati fra loro per mezzo di camminamenti. Col passare del tempo le trincee furono allargate, dotate di ripari, protette da reticolati di filo spinato e da "nidi" di mitragliatrici, diventando sempre più difficilmente espugnabili. La vita nelle trincee, monotona e rischiosa al tempo stesso, logorava i combattenti nel morale oltre che nel fisico e li gettava in uno stato di apatia e di torpore mentale. Soldati e ufficiali restavano in prima linea senza ricevere il cambio anche per intere settimane. Vivevano in condizioni igieniche deplorevoli, senza potersi lavare né cambiare. Erano esposti al caldo, al freddo e alle intemperie, oltre che ai periodici bombardamenti dell'artiglieria avversaria. Non uscivano dai loro ricoveri se non per compiere qualche pericolosa azione notturna di pattuglia o, quando scattava un'offensiva, per lanciarsi all'attacco delle trincee nemiche. Gli assalti, che iniziavano di regola nelle prime ore del mattino, erano preceduti da un intenso tiro di artiglieria ("fuoco di preparazione") che in teoria avrebbe dovuto scompaginare le difese avversarie ma in pratica aveva

come risultato principale quello di eliminare ogni effetto di sorpresa. I soldati che scattavano simultaneamente fuori delle trincee e riuscivano a superare il fuoco di sbarramento avversario finivano con l'accalcarsi nei pochi varchi aperti dall'artiglieria nei reticolati, facilitando così il compito dei tiratori nemici. Se, nonostante tutto ciò, riuscivano a raggiungere le trincee di prima linea, dovevano subire il contrattacco dei reparti di seconda linea e delle riserve, che in genere li ricacciava sulle posizioni di partenza. Pochi mesi di guerra nelle trincee furono sufficienti a far svanire l'entusiasmo patriottico con cui molti combattenti - soprattutto i giovani di estrazione borghese - avevano affrontato il conflitto. Ma, mentre gli ufficiali di complemento (cioè quelli non di carriera, che ricoprivano i gradi inferiori), per quanto provati e disillusi, restarono nel complesso fedeli alle motivazioni ideali originarie, diverso fu l'atteggiamento della truppa. Gran parte dei soldati semplici - il discorso vale soprattutto per quelli di origine contadina che costituivano quasi ovunque il nerbo dei reparti di fanteria (molti operai erano rimasti in fabbrica per le esigenze della produzione bellica) - non aveva idee precise sui motivi per cui si combatteva la guerra e la considerava come una specie di flagello naturale da accettare con fatalistica sopportazione. La visione eroica e avventurosa della guerra restò prerogativa di alcune esigue minoranze di combattenti, per lo più organizzate in reparti speciali - come le "truppe d'assalto" (Sturmtruppen) tedesche o gli arditi italiani - impiegati solo in azioni particolarmente impegnative e rischiose. Per tutti gli altri la guerra era una dura necessità. I soldati la combattevano perché animati da un senso di elementare solidarietà con i propri compagni di reparto o con i propri superiori diretti (gli ufficiali inferiori che rischiavano la vita assieme alla truppa), ma anche perché vi erano costretti dalla presenza di un apparato repressivo spietato nel punire ogni forma di insubordinazione. Né il senso del dovere né la minaccia del plotone di esecuzione poterono impedire, tuttavia, che la paura o l'avversione contro la guerra si traducessero talora in forme di autentico rifiuto. Le più diffuse erano quelle individuali, che andavano dalla renitenza alla leva alla diserzione (il caso più frequente era il mancato rientro dalle licenze), alla pratica dell'autolesionismo, consistente nell'infliggersi volontariamente ferite e mutilazioni per essere dispensati dal servizio al fronte. Meno frequenti erano i casi di ribellione collettiva - "scioperi militari" o veri e propri ammutinamenti - che si verificarono un po'"dappertutto (più spesso negli eserciti dell'Intesa) e che crebbero in numero ed intensità col prolungarsi del conflitto, raggiungendo l'apice nel corso del 1917.

13.6. La nuova tecnologia militare. Le armi chimiche, Telecomunicazioni e mezzi motorizzati, L'aviazione, Il carro armato, Il sottomarino. Scoppiato al termine di un periodo di grandi progressi scientifici e di grande sviluppo economico, il primo conflitto mondiale si caratterizzò per l'applicazione intensiva e sistematica dei nuovi ritrovati della tecnologia alle esigenze della guerra. Artiglierie pesanti, fucili a ripetizione e mitragliatrici giocarono un ruolo decisivo nei combattimenti, ma non costituirono delle novità assolute. Del tutto nuova e sconvolgente fu invece l'introduzione di nuovi mezzi d'offesa subdoli e micidiali come le armi chimiche, gas che venivano indirizzati verso le trincee nemiche provocando la morte per soffocamento di chi li respirava. Oltre a stimolare la produzione in grande serie di armi vecchie e nuove, la guerra sollecitò notevolmente lo sviluppo di settori relativamente giovani, come quello automobilistico, o che stavano muovendo i primi passi, come l'aeronautica e la radiofonia. Il perfezionamento delle telecomunicazioni, via radio o via filo, permise di coordinare i movimenti delle truppe su fronti vastissimi. L'impiego sempre più massiccio dei mezzi motorizzati consentì di far affluire rapidamente enormi masse di soldati dalle retrovie al fronte. Non sempre, però, l'uso di nuovi mezzi o di nuove armi riuscì a influire sul corso della guerra. Il caso più tipico fu quello dell'aviazione. Dal 1903, quando due ingegneri americani, i fratelli Orville e Wilbur Wright, erano riusciti per la prima volta a far sollevare dal suolo un apparecchio a motore più pesante dell'aria, la tecnica del volo aveva fatto limitati progressi. Nel corso della guerra la produzione di aerei conobbe un enorme incremento (ne furono costruiti circa 200.000). Si realizzarono mezzi sempre più veloci, ma non abbastanza affidabili da poter essere usati sistematicamente nelle battaglie. Nei primi anni del conflitto gli aerei furono usati soprattutto per la ricognizione, oltre che per la "caccia" (cioè l'azione contro altri aerei e, in genere, contro obiettivi mobili nemici). Altrettanto stentati furono gli esordi di un altro futuro protagonista delle guerre del '900: il carro armato. I primi mezzi corazzati, le autoblindo (ossia autocarri ricoperti da piastre d'acciaio e muniti di mitragliatrici), erano limitati nel loro impiego dal fatto di potersi muovere solo su strada. Il passo successivo consistette nel sostituire le ruote con i cingoli, che già venivano impiegati sulle macchine agricole e che permettevano ai veicoli di attraversare qualsiasi terreno e di essere usati per attaccare e scavalcare le

trincee nemiche. Sperimentati per la prima volta nel 1916 dagli inglesi, i carri armati furono impiegati in modo massiccio e con discreto successo, sempre dagli inglesi, solo nel novembre del ' 17. Ma i primi risultati non bastarono a convincere i comandi alleati circa l'utilità dei mezzi corazzati, che avrebbero invece potuto rappresentare un'arma vincente, capace di superare con azioni in profondità lo stallo della guerra di trincea. Fra le nuove macchine belliche sperimentate in questi anni, una sola influì in modo significativo sul corso della guerra: il sottomarino. Furono soprattutto i tedeschi a intuire le possibilità del nuovo mezzo e a servirsene sia per attaccare le navi da guerra nemiche, sia per affondare senza preavviso le navi mercantili, anche di paesi neutrali, che portavano rifornimenti verso i porti dell'Intesa. Nonostante il numero limitato dei mezzi disponibili, la guerra sottomarina si rivelò subito un'arma molto efficace. Essa però sollevava gravi problemi politici e morali e urtava in particolare gli interessi commerciali degli Stati Uniti. Infatti, quando nel maggio 1915 un sottomarino tedesco affondò il transatlantico inglese Lusitania, che trasportava più di mille passeggeri fra cui 140 cittadini americani (ma aveva a bordo anche armi destinate all'Inghilterra), le proteste degli Stati Uniti furono così energiche da convincere i tedeschi a sospendere la guerra sottomarina indiscriminata. 13.7. La mobilitazione totale e il "fronte interno". Le vittime della guerra, La mobilitazione industriale, Il "socialismo di guerra", Il rafforzamento degli apparati statali, La "militarizzazione" della società, La propaganda, Le conferenze di Zimmerwald e Kienthal, L'allargamento dell'opposizione socialista, La proposta di Lenin. Durante il primo conflitto mondiale, anche i civili furono investiti in varia misura dagli eventi bellici. Per le popolazioni che vivevano nelle zone attraversate dalla guerra, il coinvolgimento era diretto e poteva avere conseguenze drammatiche. Il caso limite fu quello degli armeni di Turchia, già vittime di massacri e persecuzioni dopo la rivoluzione dei giovani turchi perché sospettati di scarsa lealtà nei confronti dello Stato: nella primaveraestate del 1915, mentre Russia e Turchia si combattevano nella regione del Caucaso, gli armeni furono sottoposti a una brutale deportazione, che per molti di loro (oltre un milione) si trasformò in vero e proprio sterminio (una sorta di sinistro preludio ad altri stermini di massa che avrebbero costellato il secolo XX).

Ma anche coloro che vivevano lontano dal fronte risentirono, più o meno direttamente, delle trasformazioni legate alla guerra. I mutamenti più vistosi furono quelli che interessarono il mondo dell'economia e in particolare il settore industriale, chiamato ad alimentare la macchina gigantesca degli eserciti al fronte. Le industrie interessate alle forniture belliche (siderurgiche, meccaniche e chimiche in primo luogo) conobbero uno sviluppo imponente, al di fuori di qualsiasi legge di mercato: il cliente principale era infatti lo Stato che, pressato dalle urgenze della guerra, badava soprattutto alla rapidità delle consegne, preoccupandosi poco dei prezzi. Tutto ciò impose una riorganizzazione dell'apparato produttivo e una continua dilatazione dell'intervento statale, che assunse dimensioni incompatibili col modello liberale ottocentesco. Interi settori dell'industria furono posti sotto il controllo dei poteri pubblici, che distribuivano le materie prime a seconda delle necessità e stabilivano quanto e che cosa si dovesse produrre. La manodopera impiegata nell'industria di guerra fu ovunque sottoposta a disciplina militare o semimilitare. Anche la produzione agricola fu assoggettata a un regime di requisizioni e di prezzi controllati. In alcuni casi si giunse al razionamento dei beni di consumo di prima necessità. In Germania - il paese in cui la pianificazione economica raggiunse le forme più spinte - si giunse addirittura a parlare di socialismo di guerra. Ma il sistema era in realtà gestito da organismi paritetici composti da militari e da industriali, i quali trassero dall'economia bellica notevoli vantaggi in termini di profitto e di potere. Strettamente legate ai mutamenti nell'economia furono le trasformazioni degli apparati statali. Ovunque i governi furono investiti di nuove attribuzioni e dovettero farvi fronte con l'aumento della burocrazia. Ovunque il potere esecutivo si rafforzò a spese degli organismi rappresentativi, poco adatti per loro stessa natura alle esigenze di rapidità e segretezza nelle decisioni imposte dallo stato di guerra. I poteri dei governi erano a loro volta insidiati dall'invadenza dei militari: sottoposti in teoria all'autorità degli organi costituzionali, gli stati maggiori avevano in realtà poteri pressoché assoluti per tutto ciò che riguardava la conduzione della guerra e potevano quindi influenzare pesantemente le scelte dei politici. In realtà, la dittatura militare di fatto vigente in Germania - dove il potere si concentrò nelle mani del capo di stato maggiore Hindenburg e del suo collaboratore Ludendorff - non differiva granché dalla dittatura "giacobina" instaurata in Francia nell'ultimo anno di guerra dal governo di unione nazionale di Georges Clemenceau o da quella esercitata in Gran Bretagna dal "gabinetto di guerra" di David Lloyd George. Nel primo caso come negli altri tutti i mezzi - compresa la censura e la sorveglianza sui cittadini

sospetti di "disfattismo" - furono usati per combattere i "nemici interni" e per mobilitare la popolazione verso l'obiettivo della vittoria. Strumento essenziale per la mobilitazione dei cittadini era la propaganda: una propaganda che non si rivolgeva soltanto alle truppe, ma cercava anche di raggiungere in tutti i modi possibili la popolazione civile. I governi di tutti i paesi profusero un impegno senza precedenti per stampare manifesti murali, organizzare manifestazioni di solidarietà ai combattenti, incoraggiare la nascita di comitati e associazioni "per la resistenza interna". Si trattava di mezzi ancora rudimentali, che rivelavano tuttavia la preoccupazione dei governi nel "curare" l'opinione pubblica e nel cercarne l'appoggio: preoccupazione che diventava tanto più forte quanto più crescevano i segni di stanchezza fra i combattenti e la popolazione civile e quanto più si rafforzavano le correnti di opposizione alla guerra. La scelta patriottica operata dai maggiori partiti socialisti nell'estate del '14 non fece tacere del tutto le voci dissidenti all'interno del movimento operaio europeo. Nel settembre 1915 e nell'aprile 1916, a Zimmerwald e a Kienthalin Svizzera, si tennero due conferenze socialiste internazionali che si conclusero con l'approvazione di documenti in cui si rinnovava la condanna della guerra e si chiedeva una pace "senza annessioni e senza indennità". Parteciparono alle conferenze delegazioni dei partiti socialisti dei paesi neutrali (svizzeri, olandesi e scandinavi) e di quelli che avevano fin dall'inizio rifiutato l'adesione alla guerra, nonché rappresentanti delle minoranze pacifiste che si erano formate in seno ai partiti maggiori. Col protrarsi del conflitto e con l'inasprirsi del regime repressivo all'interno dei singoli Stati, vennero rafforzandosi i gruppi socialisti contrari alla guerra. Al loro interno esisteva però una spaccatura molto netta fra il pacifismo delle sinistre riformiste - per le quali l'obiettivo era una pace negoziata e un conseguente ritorno alla piena vita democratica - e il "disfattismo rivoluzionario" dei gruppi più radicali: fra questi spiccavano gli "spartachisti" tedeschi (chiamati così dalla Lega di Spartaco, un'organizzazione semiclandestina fondata nel '16 da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg) e soprattutto i bolscevichi russi, staccatisi definitivamente dalla socialdemocrazia e costituitisi, fin dal 1912, in partito autonomo. Già nel convegno di Zimmerwald, Lenin, leader riconosciuto dei bolscevichi, aveva sostenuto la tesi secondo cui il movimento operaio doveva profittare della guerra e delle sofferenze che essa provocava nelle masse per affrettare il crollo dei regimi capitalistici. Le tesi leniniane riproposte all'inizio del '17 nel celebre saggio L'imperialismo fase suprema del capitalismo - trovarono adesioni nelle minoranze di estrema sinistra che

agivano all'interno dei partiti socialisti europei. Si riproponeva così, in forma drammatica, la spaccatura fra riformisti e rivoluzionari. Le vicende della rivoluzione russa del '17, intrecciandosi con quelle della guerra, avrebbero allargato questa frattura fino a farle assumere un carattere irreversibile. Parola chiave propaganda Il termine propaganda deriva dalla locuzione latina "de propaganda fide" (sulla fede da diffondere) con la quale la Chiesa designa la Congregazione che si occupa delle attività di proselitismo e di diffusione dei princìpi cattolici in tutto il mondo. Nel linguaggio contemporaneo per "propaganda" si intende la diffusione deliberata e sistematica di informazioni e messaggi volti a fornire un'immagine, positiva o negativa, di determinati fenomeni - o avvenimenti o istituzioni o persone -, ma anche a far apprezzare un prodotto commerciale (in questo caso propaganda è sinonimo di pubblicità). Praticata per la prima volta su vasta scala dai partiti socialisti, la propaganda politica è presto divenuta una componente essenziale della società di massa: soprattutto a partire dal primo conflitto mondiale, quando furono le autorità statali a impadronirsi dei metodi e delle tecniche propagandistiche per rendere popolare presso l'opinione pubblica la causa della guerra. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (la radio e il cinema, poi la televisione) ha dato alle attività di propaganda nuove dimensioni e nuova capacità di penetrazione. Di queste possibilità si sono avvalsi largamente i regimi totalitari che, controllando direttamente i canali di informazione, hanno potuto realizzare forme di persuasione e di indottrinamento molto più efficaci e sofisticate di quelle attuate in passato (quando la propaganda era affidata essenzialmente alla stampa o, tutt'al più, ai manifesti e ai volantini). Anche in seguito a queste esperienze, il termine "propaganda" ha finito con l'assumere una connotazione negativa, legata all'idea di manipolazione, o quanto meno di informazione unilaterale e distorta. 13.8. La svolta del 1917. La rivoluzione in Russia, L'intervento americano, La dissoluzione dell'esercito russo, Il malessere delle truppe, Le "nazionalità oppresse" in AustriaUngheria, Benedetto XV e l""inutile strage".

Nei primi mesi del 1917, due fatti nuovi intervennero a mutare il corso della guerra e dell'intera storia europea e mondiale. All'inizio di marzo (fine febbraio secondo il calendario russo), uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado (questo il nuovo nome assunto dalla capitale russa dopo l'estate del ' 14) si trasformò in un'imponente manifestazione politica contro il regime zarista. Quando i soldati chiamati a ristabilire l'ordine rifiutarono di sparare sulla folla e fraternizzarono coi dimostranti, la sorte della monarchia fu segnata; lo zar abdicò il 15 marzo e pochi giorni dopo fu arrestato con l'intera famiglia reale. Si metteva in moto, così, un processo che avrebbe portato in breve tempo al collasso militare della Russia. Circa un mese dopo (6 aprile), gli Stati Uniti decidevano di entrare in guerra contro la Germania che, ai primi di febbraio, aveva ripreso la guerra sottomarina indiscriminata nel tentativo di chiudere in tempi brevi la partita con l'Intesa infliggendo un colpo mortale alle economie dei paesi nemici. L'intervento americano, pur facendo sentire il suo peso solo in capo a parecchi mesi (gli Stati Uniti non disponevano, all'inizio, di un esercito in grado di competere con quelli europei), sarebbe risultato decisivo sia sul piano militare sia su quello economico: tanto da compensare il gravissimo colpo subito dall'Intesa con l'uscita di scena della Russia. Il crollo del regime zarista (come vedremo nel prossimo capitolo) era stato infatti il preludio della disgregazione dell'esercito. Molti reparti rifiutarono di riconoscere l'autorità degli ufficiali ed dessero organi di autogestione. Molti soldaticontadini abbandonarono il fronte e tornarono ai loro villaggi per partecipare alla probabile spartizione delle terre dei signori. Il tentativo del governo provvisorio di lanciare, in luglio, una nuova offensiva contro gli austrotedeschi in Galizia si risolse in un completo fallimento. Da allora la Russia cessò di fornire qualsiasi apprezzabile contributo militare agli alleati. I tedeschi penetrarono in profondità nel territorio dell'ex Impero zarista e, una volta raggiunti i propri obiettivi, poterono trasferire forti contingenti di truppe sul fronte occidentale. Per le potenze dell'Intesa, colpite dalla guerra sottomarina e ancora in attesa dell'apporto militare americano, i mesi fra la primavera e l'autunno del '17 furono i più difficili dall'inizio del conflitto. Alle difficoltà militari si aggiungevano quelle politicopsicologiche derivanti dalle ripercussioni degli avvenimenti russi sugli orientamenti delle masse lavoratrici e sul morale delle truppe al fronte. Si intensificarono dappertutto le manifestazioni di insofferenza popolare contro la guerra, gli scioperi operai, gli ammutinamenti dei reparti combattenti. Il caso più grave si verificò sul fronte francese dove, all'inizio di maggio, a conclusione di

un'ennesima, inutile offensiva, alcuni reparti di fanteria si rifiutarono di tornare a combattere. L'ammutinamento, che coinvolse più di 40.000 uomini, fu domato con una durissima repressione, ma anche con qualche concessione ai combattenti. Il trattamento materiale dei soldati fu migliorato e al comando dell'esercito fu chiamato il generale Philippe Pétain, sostenitore di un uso più umano delle truppe in battaglia. Ma anche negli imperi centrali si andavano frattanto moltiplicando i segni di stanchezza. In aprile una serie di scioperi ebbe luogo in Germania e in Austria. In maggio si ammutinarono i marinai della flotta tedesca del Baltico. Particolarmente delicata era la posizione dell'Impero austroungarico, dove l'andamento non brillante della guerra aveva ridato forza alle aspirazioni indipendentiste delle "nazionalità oppresse". Alla costituzione di un governo cecoslovacco in esilio seguì, nell'estate del '17, un accordo fra serbi, croati e sloveni per la costituzione di uno Stato unitario degli slavi del Sud (la futura Jugoslavia). Consapevole del pericolo di disgregazione cui era esposto l'Impero, il nuovo imperatore Carlo I (Francesco Giuseppe era morto nel novembre del'16 dopo quasi settant’anni di regno) avviò fra il febbraio e l'aprile del '17 negoziati segreti in vista di una pace separata. Ma le sue proposte furono respinte dall'Intesa. Non ebbe miglior fortuna una iniziativa promossa in agosto dal papa Benedetto XV che invitò i governi a por fine all""inutile strage" e a prendere in considerazione l'ipotesi di una pace senza annessioni. I destinatari accolsero infatti con irritazione l'accenno all""inutile strage", un'espressione che sembrava riecheggiare le formule della propaganda socialista. Tanto più cresceva il carico di sofferenze imposto dalla guerra, tanto meno i responsabili degli Stati belligeranti erano disposti ad ammettere che tutto ciò potesse essere considerato "inutile" e ad accontentarsi di altro che della vittoria finale. 13.9. L'Italia e il disastro di Caporetto. La stanchezza delle truppe italiane, I moti di Torino dell'agosto '17, Lo sfondamento di Caporetto, La ritirata sul Piave, Le cause della sconfitta, Il governo Orlando, Le condizioni dei soldati, La propaganda al fronte. Anche per l'Italia il 1917 fu l'anno più difficile della guerra. Fra maggio e settembre Cadorna ordinò una nuova serie di offensive sull'Isonzo, con risultati modesti e costi umani ancora più pesanti che in passato. Tra i soldati le manifestazioni di protesta e i gesti di insubordinazione si fecero più frequenti, anche se non giunsero mai a coagularsi in un movimento di

ampie proporzioni. Intanto fra la popolazione civile si moltiplicavano i segni di malcontento per i disagi causati dall'aumento dei prezzi e dalla carenza di generi alimentari. Si trattava per lo più di manifestazioni spontanee che vedevano in prima fila le donne e si esaurivano nel giro di poche ore. L'unico vero episodio insurrezionale si verificò a Torino fra il 22 e il 26 agosto, quando una protesta originata dalla mancanza di pane si trasformò in una autentica sommossa, con forte partecipazione operaia. Fatti come quelli di Torino indicavano comunque che la situazione si stava avvicinando al punto di rottura. Fu in questa situazione che i comandi austrotedeschi decisero di profittare della disponibilità di truppe provenienti dal fronte russo per infliggere un colpo decisivo all'Italia. Il 24 ottobre 1917, un'armata austriaca rinforzata da sette divisioni tedesche attaccò le linee italiane sull'alto Isonzo e le sfondò nei pressi del villaggio di Caporetto. Gli attaccanti avanzarono in profondità nel Friuli, mettendo in atto per la prima volta la nuova tattica dell’infiltrazione, che consisteva nel penetrare il più rapidamente possibile in territorio nemico senza preoccuparsi di consolidare le posizioni raggiunte, ma sfruttando invece la sorpresa per mettere in crisi lo schieramento avversario. La manovra fu così efficace e inattesa che buona parte delle truppe italiane, per evitare di essere accerchiate, dovettero abbandonare precipitosamente le posizioni che tenevano dall'inizio della guerra. Alcuni reparti riuscirono a ripiegare ordinatamente, altri si disgregarono: 400.000 sbandati rifluirono verso il Veneto mescolandosi alle colonne di profughi civili e dando alla ritirata l'aspetto di un'autentica rotta. Solo dopo due settimane un esercito praticamente dimezzato riusciva ad attestarsi sulla nuova linea difensiva del Piave, lasciando in mano al nemico circa 10.000 km2 di territorio italiano, oltre a 300.000 prigionieri e a una quantità impressionante di armi, munizioni e vettovaglie. Prima di essere rimosso dal comando supremo, dove fu sostituito da Armando Diaz, il generale Cadorna gettò le colpe della disfatta sui suoi stessi soldati, accusando i reparti investiti dall'offensiva di essersi arresi senza combattere. In realtà la rottura del fronte era stata determinata dagli errori dei comandi, che si erano lasciati cogliere impreparati dall'attacco sull'alto Isonzo, ed era diventata irreparabile per l'efficacia della manovra ideata dagli strateghi tedeschi. Certo le conseguenze della sconfitta furono ingigantite dallo stato di stanchezza e di demoralizzazione delle truppe: ma una simile condizione era in larga parte comune a tutti gli eserciti, a cominciare da quello austriaco. Del resto i soldati italiani dimostrarono di saper combattere valorosamente resistendo, sul Piave e sul Monte Grappa, all'avanzata degli austrotedeschi che minacciavano di dilagare nella Pianura

Padana ed evitando così che la sconfitta si trasformasse in una definitiva catastrofe. Paradossalmente la svolta imposta dalla disfatta di Caporetto finì con l'avere ripercussioni positive sull'andamento della guerra italiana. I soldati si trovarono a combattere una guerra difensiva, contro un nemico che occupava una parte del territorio nazionale: ciò contribuì a rendere più comprensibili gli scopi del conflitto e ad aumentare il senso di coesione patriottica, al fronte come nel paese. Intorno al nuovo governo di coalizione nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando (un giurista siciliano che era stato più volte ministro con Giolitti), le forze politiche parvero trovare una maggiore concordia. Gli stessi leader dell'ala riformista del Psi, con in testa Turati, assicurarono la loro solidarietà allo sforzo di resistenza del paese. Anche il cambio della guardia alla testa dell'esercito ebbe effetti positivi sul morale delle truppe. Il nuovo capo di stato maggiore si mostrò meno incline di Cadorna all'uso indiscriminato dei mezzi repressivi e più attento alle esigenze dei soldati. Profittando anche del fatto che la ritirata sul Piave aveva consentito un notevole accorciamento del fronte e quindi un minor logorio dei reparti combattenti, il comando supremo mise in atto una serie di provvedimenti volti a sollevare le condizioni materiali e morali dei soldati: vitto più abbondante, licenze più frequenti, maggiori possibilità di svago. Inoltre, a cominciare dall'inizio del '18, fu svolta un'opera sistematica di propaganda fra le truppe, attraverso la diffusione dei giornali di trincea e la creazione di un Servizio P (cioè propaganda) che si affidava soprattutto all'opera degli ufficiali inferiori e si valeva anche della collaborazione di numerosi intellettuali di prestigio. Attraverso la propaganda si cercò di prospettare ai soldati la possibilità di vantaggi materiali di cui il paese e i singoli cittadini avrebbero potuto godere in caso di vittoria (fu in questo clima che cominciò a circolare la parola d'ordine della terra ai contadini); ma ci si sforzò anche di presentare la guerra in una nuova cornice ideologica, di dipingerla come una lotta per un più giusto ordine interno e internazionale. Prendeva corpo così l'idea della guerra democratica, già agitata dagli interventisti di sinistra e - come vedremo rilanciata con ben altra autorità dal presidente americano Wilson. 13.10. Rivoluzione o guerra democratica? La rivoluzione d'ottobre, La pace di BrestLitovsk, La guerra di Wilson, I quattordici punti, Una rivoluzione diplomatica.

Nella notte fra il 6 e il 7 novembre 1917 (24-25 ottobre secondo il calendario russo), un'insurrezione guidata dai bolscevichi rovesciava in Russia il governo provvisorio. Il potere fu assunto da un governo rivoluzionario presieduto da Lenin, che decise immediatamente di por fine a una guerra diventata ormai impossibile e dichiarò la sua disponibilità a una pace "senza annessioni e senza indennità", firmando subito dopo l'armistizio con gli imperi centrali. Per concludere la pace, che fu stipulata il 3 marzo 1918 nella città di BrestLitovsk, ai confini con la Polonia, la Russia dovette però accettare tutte le durissime condizioni imposte dai tedeschi, che comportavano la perdita di circa un quarto dei territori europei dell'Impero russo. Con la pace Lenin riuscì comunque a salvare il nuovo Stato socialista e a dimostrare al mondo che la trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione era realmente attuabile, sia pure a un prezzo elevatissimo. Per rispondere alla sfida lanciata da Lenin e per scongiurare la minaccia di un'ulteriore diffusione del "disfattismo rivoluzionario", gli Stati dell'Intesa dovettero a loro volta accentuare il carattere ideologico della guerra, presentandola sempre più come una crociata della democrazia contro l'autoritarismo, come una difesa della libertà dei popoli contro i disegni egemonici dell'imperialismo tedesco. Questa concezione della guerra trovò il suo interprete più autorevole nel presidente americano Woodrow Wilson. Già nell'aprile del '17, nel momento dell'entrata in guerra, Wilson aveva dichiarato solennemente che gli Stati Uniti non avrebbero combattuto in vista di particolari rivendicazioni territoriali, ma col solo obiettivo di ristabilire la libertà dei mari violata dai tedeschi, di difendere i diritti delle nazioni, di instaurare infine un nuovo ordine internazionale basato sulla pace e sull""accordo fra i popoli liberi". Nel gennaio 1918, quasi in risposta all'armistizio russotedesco, Wilson precisò le linee ispiratrici della sua politica in un organico programma di pace in quattordici punti. Oltre a invocare l'abolizione della diplomazia segreta, il ripristino della libertà di navigazione, l'abbassamento delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti, il presidente americano formulava alcune proposte concrete circa il nuovo assetto europeo che avrebbe dovuto uscire dalla guerra: piena reintegrazione del Belgio, della Serbia e della Romania, evacuazione dei territori russi occupati dai tedeschi, restituzione alla Francia dell'Alsazia Lorena, possibilità di "sviluppo autonomo" per i popoli soggetti all'Impero austroungarico e a quello turco, rettifica dei confini italiani secondo le linee indicate dalla nazionalità. Nell'ultimo punto si proponeva infine l'istituzione di un nuovo organismo

internazionale, la Società delle nazioni, per assicurare il mutuo rispetto delle norme di convivenza fra i popoli. Il programma esposto nei "quattordici punti" non mancava di aspetti astratti e utopistici, ma rappresentava un'autentica rivoluzione rispetto ai princìpi cardine della diplomazia prebellica. Per questo fu accolto da una parte consistente dell'opinione pubblica come una sorta di "nuovo vangelo", capace di assicurare, se attuato, una lunga era di pace e di benessere. Per la verità i governanti dell'Intesa non condividevano affatto il programma wilsoniano, o lo condividevano solo in parte, vincolati com'erano al raggiungimento dei rispettivi obiettivi di guerra. Dovettero ugualmente far mostra di accettarlo, sia perché avevano troppo bisogno dell'aiuto americano, sia perché speravano che il wilsonismo costituisse un valido antidoto contro la diffusione dell'altro vangelo rivoluzionario che veniva dalla Russia bolscevica. 13.11. L'ultimo anno di guerra. L'ultima offensiva tedesca, L'attacco austriaco sul Piave, L'Intesa al contrattacco, Crisi politica in Germania, Il crollo dell'AustriaUngheria, Vittorio Veneto, La rivoluzione in Germania, L'armistizio di Rethondes, Il bilancio della guerra. Nonostante i grandi mutamenti intervenuti nel corso dell'anno precedente, l'inizio del 1918 vedeva ancora i due schieramenti in una situazione di sostanziale equilibrio sul piano militare. La partita decisiva continuava a giocarsi sul fronte francese. Fu qui che lo stato maggiore tedesco tentò la sua ultima e disperata scommessa impegnando tutte le forze rese disponibili dalla firma della pace con la Russia. Negli ultimi giorni di marzo, i tedeschi riuscirono a sfondare fra Saint Quentin e Arras e avanzarono in territorio francese per una profondità di oltre cinquanta chilometri. L'attacco proseguì senza soste nei mesi successivi. In giugno l'esercito di Hindenburg era di nuovo sulla Marna e Parigi era sotto il tiro dei nuovi cannoni tedeschi a lunga gittata. Sempre in giugno, gli austriaci tentarono di sferrare il colpo decisivo sul fronte italiano attaccando in forze sul Piave, ma furono respinti dopo una settimana di furiosi combattimenti. Anche l'offensiva tedesca cominciava frattanto a esaurirsi. A metà luglio un ultimo attacco sulla Marna fu fermato dagli anglofrancesi, che agivano ora sotto un comando unificato affidato al generale francese Foch e cominciavano finalmente a giovarsi del massiccio apporto degli Stati Uniti.

Alla fine di luglio le forze dell'Intesa, ormai superiori in uomini e mezzi, passarono al contrattacco. Fra l'8 e l" 11 agosto, nella grande battaglia di Amiens, i tedeschi subirono la prima grave sconfitta sul fronte occidentale. Da quel momento cominciarono ad arretrare lentamente, mentre fra le loro truppe si facevano più evidenti i segni di stanchezza. I generali tedeschi capirono allora di aver perso la guerra: la loro principale preoccupazione divenne quella di sbarazzarsi del potere che avevano così largamente esercitato e di lasciare ai politici la responsabilità di un armistizio che si annunciava durissimo, ma che avrebbe permesso alla Germania di concludere la guerra con l'esercito ancora integro e il territorio nazionale intatto. Il compito ingrato di aprire le trattative toccò a un nuovo governo di coalizione democratica, formatosi ai primi di ottobre con la partecipazione dei socialdemocratici e dei cattolici del Centro. Si sperava che un governo realmente rappresentativo potesse costituire un interlocutore più credibile per l'Intesa, in particolare per Wilson. Ma era ormai troppo tardi. Mentre la Germania cercava invano una soluzione di compromesso, i suoi alleati crollavano militarmente o si disgregavano dall'interno. La prima a cedere, alla fine di settembre, fu la Bulgaria. Un mese dopo era l'Impero turco a chiedere precipitosamente l'armistizio. Sempre alla fine di ottobre si consumò la crisi finale dell'AustriaUngheria. Il tentativo compiuto in extremis di trasformare l'Impero in una federazione di Stati semiautonomi non riuscì ad arrestare la volontà indipendentista dei vari movimenti nazionali. Cecoslovacchi e slavi del Sud diedero vita a Stati indipendenti, mentre le truppe di nazionalità non tedesca abbandonavano il fronte in numero sempre maggiore. Quando, il 24 ottobre, gli italiani lanciarono un'offensiva sul fronte del Piave, l'Impero era ormai in piena crisi. Sconfitti sul campo nella battaglia di Vittorio Veneto, gli austriaci non riuscirono a organizzare una linea di resistenza per la defezione dei reparti cechi e ungheresi e il 3 novembre firmarono a Villa Giusti, presso Padova, l'armistizio con l'Italia che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo, 4 novembre. Intanto la situazione precipitava anche in Germania. Ai primi di novembre i marinai di Kiel, dov'era concentrato il grosso della flotta tedesca, si ammutinarono e diedero vita, assieme agli operai della città, a consigli rivoluzionari ispirati all'esempio russo. Il moto si propagò a Berlino e in Baviera e ad esso parteciparono anche i socialdemocratici, pure presenti nel governo "legale" del Reich. Un socialdemocratico, Friedrich Ebert, fu proclamato il 9 novembre capo del governo, mentre il Kaiser era costretto a fuggire in Olanda, subito imitato dall'imperatore d'Austria Carlo I.

L'11 novembre i delegati del governo provvisorio tedesco firmavano l'armistizio nel villaggio francese di Rethondes, accettando le durissime condizioni imposte dai vincitori: consegna dell'armamento pesante e della flotta (che si autoaffondò per non cadere in mano al nemico), ritiro al di qua del Reno delle truppe, annullamento dei trattati con la Russia e la Romania, restituzione unilaterale dei prigionieri. La Germania perdeva così una guerra che più degli altri aveva contribuito a far scoppiare. La perdeva per fame e per stanchezza, per esaurimento delle forze morali e materiali, ma senza essere stata schiacciata sul piano militare e senza che un solo lembo del suo territorio fosse stato invaso da eserciti stranieri. Gli Stati dell'Intesa, vincitori grazie all'apporto, tardivo ma decisivo, di una potenza extraeuropea, uscivano dal conflitto scossi e provati per l'immane sforzo sostenuto. La guerra, che era nata da una contesa locale e si era poi trasformata in uno scontro fra due blocchi di potenze per l'egemonia europea e mondiale, si chiudeva non solo con un tragico bilancio di perdite umane (8 milioni e mezzo di morti, oltre 20 milioni di feriti gravi e mutilati, un'intera generazione quella dei nati nell'ultimo ventennio dell'800 - letteralmente decimata), ma anche con un drastico ridimensionamento del peso politico del vecchio continente sulla scena internazionale. 13.12. I trattati di pace e la nuova carta d'Europa. Il compito dei vincitori, La difficile applicazione dei quattordici punti, Pace democratica e pace punitiva, Il trattato di Versailles, Le clausole economiche e militari, L'umiliazione della Germania, La dissoluzione dell'Impero asburgico, L'Europa dopo la prima guerra mondiale, Le nuove nazioni, I rapporti con la Russia, Un equilibrio delicato, Le contraddizioni della Società delle nazioni, La mancata adesione degli Stati Uniti. Un compito di eccezionale difficoltà era quello che attendeva gli statisti impegnati nella conferenza della pace, i cui lavori si aprirono il 18 gennaio 1919 nella reggia di Versailles presso Parigi e si protrassero per oltre un anno e mezzo. Si doveva ridisegnare la carta politica del vecchio continente, rimasta pressoché immutata per oltre mezzo secolo e ora sconvolta dal crollo contemporaneo di ben quattro imperi (tedesco, austroungarico, russo e turco). Si doveva ricostruire un equilibrio europeo. Ma era anche necessario tener conto di quei princìpi di democrazia e di giustizia internazionale a cui i governi dell'Intesa si erano esplicitamente richiamati nell'ultima fase del conflitto. Né si potevano ignorare le pressioni che negli

stessi paesi vincitori venivano da un'opinione pubblica spesso infiammata dal nazionalismo, diventato ormai fenomeno di massa. Quando la conferenza si aprì, era convinzione diffusa che la sistemazione dell'Europa postbellica si sarebbe fondata essenzialmente sul programma indicato da Wilson nei suoi "quattordici punti" e che le nuove frontiere avrebbero tenuto conto del principio di nazionalità e della volontà liberamente espressa dalle popolazioni interessate. In pratica, però, la realizzazione del programma wilsoniano si rivelò assai problematica. In un'Europa popolata da gruppi etnici spesso intrecciati fra loro, non era facile applicare i princìpi di nazionalità e di autodeterminazione senza rischiare di far nascere nuovi irredentismi. Inoltre quei princìpi non sempre erano compatibili con l'esigenza di punire in qualche modo gli sconfitti considerati i responsabili della guerra e non rappresentati alla conferenza - e di premiare i vincitori, o quanto meno di garantirli, anche sul piano territoriale, contro la possibilità di rivincite da parte degli ex nemici. Questi problemi si manifestarono fin dalle prime discussioni fra i capi di governo delle principali potenze vincitrici: l'americano Wilson, il francese Clemenceau, l'inglese Lloyd George e l'italiano Orlando (il quale, pur figurando nominalmente fra i "quattro grandi", svolse in realtà un ruolo marginale). Il contrasto fra l'ideale di una pace democratica e l'obiettivo di una pace punitiva risultò evidente soprattutto quando furono discusse le condizioni da imporre alla Germania. I francesi non si accontentavano della restituzione dell'Alsazia Lorena, ma chiedevano di spostare i loro confini fino alla riva sinistra del Reno: il che avrebbe significato l'annessione di territori fra i più ricchi e popolosi della Germania. Ma questi progetti incontravano l'opposizione decisa di Wilson e quella, meno esplicita, degli inglesi, contrari per lunga tradizione allo strapotere di un unico Stato sul continente europeo. Clemenceau dovette dunque accettare, e far accettare ai suoi compatrioti, la rinuncia al confine sul Reno, in cambio della promessa di una garanzia angloamericana delle nuove frontiere francotedesche. La Germania poté così limitare le amputazioni territoriali, ma subì, senza nemmeno poterle discutere, una serie di clausole che, se eseguite integralmente, sarebbero state sufficienti a cancellarla per molto tempo dal novero delle grandi potenze. Il trattato di pace con la Germania - il primo e il più importante fra quelli conclusi nella conferenza di Versailles - fu firmato il 28 giugno 1919. Si trattò di una vera e propria imposizione (un Diktat, come allora fu definito con termine tedesco), subita sotto la minaccia dell'occupazione militare e del blocco economico. Dal punto di vista territoriale il trattato prevedeva,

oltre alla restituzione dell'Alsazia Lorena alla Francia, il passaggio alla ricostituita Polonia di alcune regioni orientali abitate solo in parte da tedeschi: l'alta Slesia, la Posnania più una striscia della Pomerania (il cosiddetto corridoio polacco) che interrompeva la continuità territoriale fra Prussia occidentale e Prussia orientale per consentire alla Polonia di affacciarsi sul Baltico e di accedere al porto di Danzica. Questa città, abitata in prevalenza da tedeschi, veniva anch'essa tolta alla Germania e trasformata in "città libera". La Germania perse inoltre le sue colonie, spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone. Ma la parte più pesante del Diktat era costituita dalle clausole economiche e militari. Indicata nel testo stesso del trattato come responsabile della guerra, la Germania dovette impegnarsi a rifondere ai vincitori, a titolo di riparazione, i danni subiti in conseguenza del conflitto. L'entità delle riparazioni sarebbe stata fissata solo in seguito; ma era chiaro che essa avrebbe dovuto essere tale da rendere impossibile per molto tempo una ripresa economica tedesca. Per finire, la Germania fu costretta ad abolire il servizio di leva, a rinunciare alla marina da guerra, a ridurre la consistenza del proprio esercito entro il limite di 100.000 uomini dotati del solo armamento leggero e a lasciare "smilitarizzata" - priva cioè di reparti armati e di fortificazioni - l'intera valle del Reno, che sarebbe stata presidiata per quindici anni da truppe inglesi, francesi e belghe. Erano condizioni umilianti, tali da ferire profondamente la Germania nel suo orgoglio nazionale, oltre che nei suoi interessi. Ma erano anche, agli occhi dei vincitori e soprattutto dei francesi, l'unico mezzo per impedire alla Germania - che restava pur sempre lo Stato più popoloso (Russia a parte), più industrializzato e potenzialmente più ricco dell'Europa continentale - di riprendere la posizione di grande potenza che naturalmente le competeva. Un problema completamente diverso era costituito dal riconoscimento delle nuove realtà nazionali emerse dalla dissoluzione dell'Impero asburgico. A fare le spese della nuova sistemazione furono i gruppi etnici tedesco e ungherese, che avevano avuto una posizione dominante nella duplice monarchia e che furono trattati alla stregua di popoli vinti. La nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta entro un territorio di appena 85.000 km2 (più o meno quello che occupa attualmente), abitato da sei milioni e mezzo di cittadini di lingua tedesca: più di un quarto risiedevano a Vienna, una capitale ormai sproporzionata alle dimensioni e alle risorse del piccolo Stato. Il trattato di pace stabiliva inoltre che l'indipendenza austriaca sarebbe stata affidata alla tutela della costituenda Società delle nazioni: una formula che serviva a mascherare l'opposizione delle potenze vincitori all'eventualità di un'unificazione con la Germania (vista invece con favore

in entrambi i paesi interessati). Un trattamento severo toccò all'Ungheria che, costituitasi in repubblica nel novembre '18, perse non solo tutte le regioni slave fin allora dipendenti da Budapest, ma anche alcuni territori abitati in prevalenza da popolazioni magiare. A trarre vantaggio dal crollo dell'Impero asburgico, oltre all'Italia [§16.3], furono soprattutto i popoli slavi. I polacchi della Galizia si unirono alla nuova Polonia, formata da territori già appartenenti agli imperi russo e tedesco. I boemi e gli slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia, uno Stato federale che comprendeva anche una minoranza di tre milioni di tedeschi (i sudeti). Gli slavi del Sud - cioè gli abitanti della Croazia, della Slovenia e della Bosnia-Erzegovina - si unirono a Serbia e Montenegro per dar vita alla Jugoslavia. Il nuovo assetto balcanico era completato dall'ingrandimento della Romania, dal ridimensionamento della Bulgaria e dalla quasi completa estromissione dall'Europa dell'Impero ottomano che, privato contemporaneamente di tutti i suoi territori arabi, si trasformava in Stato nazionale turco, conservando la sola penisola dell'Anatolia, tranne la regione di Smirne assegnata alla Grecia. Un problema particolarmente delicato per gli Stati vincitori era infine quello dei rapporti con la Russia rivoluzionaria. Le potenze occidentali, com'era naturale, imposero alla Germania l'annullamento del trattato di BrestLitovsk. Ma non riconobbero la Repubblica socialista (che non partecipò alla conferenza della pace); anzi cercarono di abbatterla aiutando in ogni modo i gruppi controrivoluzionari. Furono invece riconosciute e protette le nuove repubbliche indipendenti che si erano formate con l'appoggio dei tedeschi nei territori baltici perduti dalla Russia: la Finlandia, l'Estonia, la Lettonia e la Lituania. La nuova Russia si trovò così circondata da una cintura di Staticuscinetto (le quattro repubbliche baltiche, oltre alla Polonia e alla Romania) che le erano tutti fortemente ostili: un vero e proprio cordone sanitario, come allora fu definito, che aveva la funzione di bloccare ogni eventuale spinta espansiva della Repubblica socialista e, con essa, ogni possibile contagio rivoluzionario. L'Europa uscita dalla conferenza di Parigi contava dunque ben otto nuovi Stati sorti dalle rovine dei vecchi imperi. Ad essi si sarebbe aggiunto, nel 1921, lo Stato libero d'Irlanda, cui la Gran Bretagna si risolse infine a concedere un regime di semiindipendenza, anche se con l'esclusione dell'Ulster protestante. Il problema che a questo punto si poneva ai vincitori era quello di garantire la sopravvivenza del nuovo assetto territoriale, reso delicato dalla proliferazione degli Stati indipendenti e dalla scomparsa di alcuni fra i pilastri del vecchio equilibrio prebellico. Nelle intenzioni di Wilson - e nelle speranze di tutti i pacifisti - ad assicurare il rispetto dei

trattati e la salvaguardia della pace avrebbe dovuto provvedere la Società delle nazioni, la cui istituzione, già proposta nei "quattordici punti", fu ufficialmente accettata, sotto la pressione degli Stati Uniti, da tutti i partecipanti alla conferenza di Versailles. Il nuovo organismo sovranazionale, che prevedeva nel suo statuto la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti, il ricorso all'arbitrato, l'adozione di sanzioni economiche nei confronti degli Stati aggressori, non aveva precedenti nella storia delle relazioni internazionali. Ma nasceva minato in partenza da profonde contraddizioni, più grave di tutte l'esclusione iniziale dei paesi sconfitti e della Russia: un'esclusione che, limitando la rappresentatività dell'organizzazione, ne comprometteva anche la capacità operativa, già problematica per l'assenza di un'efficiente struttura decisionale e di un reale potere di dissuasione. Ma il colpo più grave e inatteso la Società delle nazioni lo ricevette proprio dagli Stati Uniti, cioè dal paese che avrebbe dovuto costituirne il principale pilastro. Interpretando gli orientamenti dell'opinione pubblica americana - che non vedeva di buon occhio un eccessivo coinvolgimento del paese nelle vicende europee - il Senato degli Stati Uniti respinse nel marzo 1920 l'adesione alla Società delle nazioni e fece cadere anche l'impegno assunto da Wilson circa la garanzia dei nuovi confini francotedeschi. Wilson, gravemente ammalato, non si ripresentò alle elezioni presidenziali del novembre 1920, che videro la netta vittoria dei repubblicani. Cominciava per gli Stati Uniti una stagione di isolazionismo, ossia di rifiuto delle responsabilità mondiali e di ritorno a una sfera di interessi continentale. Quanto alla Società delle nazioni, essa finì con l'essere egemonizzata da Gran Bretagna e Francia e non fu in grado di prevenire nessuna delle crisi internazionali che costellarono gli anni fra le due guerre mondiali. Sommario L'evento scatenante della prima guerra mondiale fu l'uccisione a Sarajevo, il 28 giugno '14, dell'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono degli Asburgo. Un mese dopo, l'Austria dichiarò guerra alla Serbia, ritenuta corresponsabile dell'attentato. La Russia, che proteggeva la Serbia, mobilitò il suo esercito provocando la reazione della Germania, alleata dell'Austria. Il 3 agosto la Germania dichiarò guerra alla Russia e alla Francia sua alleata. Il 5, dopo che le truppe tedesche ebbero invaso il Belgio neutrale, anche la

Gran Bretagna scese in campo contro gli imperi centrali. Allo scoppio del conflitto, e alla sua successiva estensione su scala mondiale, concorsero una serie di tensioni preesistenti, ma anche errori e scelte avventate commesse dai capi politici e militari dei paesi interessati. Le scelte dei governanti furono del resto appoggiate da una forte mobilitazione dell'opinione pubblica. Gli stessi partiti socialisti si schierarono, nella maggior parte dei casi, su posizioni patriottiche. Gli eserciti scesi in campo nell'estate del '14 non avevano precedenti per dimensioni e per novità di armamenti. Ma le concezioni strategiche restavano legate alle esperienze ottocentesche. I tedeschi, in particolare, puntavano sull'ipotesi di una rapida guerra di movimento. Ma, dopo essere penetrati in territorio francese, furono bloccati sulla Marna. Già alla fine del '15, il conflitto assunse dunque i caratteri di guerra di posizione e di guerra di logoramento. Allo scoppio del conflitto, l'Italia si dichiarò neutrale. Successivamente, però, le forze politiche e l'opinione pubblica si divisero sul problema dell'intervento in guerra contro gli imperi centrali. Erano interventisti: i gruppi della sinistra democratica e alcune frange eretiche del movimento operaio, i nazionalisti, alcuni ambienti liberalconservatori. Erano neutralisti: la maggioranza dello schieramento liberale, che faceva capo a Giolitti, il mondo cattolico, i socialisti. Contrarie alla guerra erano le masse operaie e contadine, mentre i ceti borghesi e gli intellettuali erano per lo più a favore dell'intervento. Ciò che determinò l'entrata in guerra (maggio 1915) fu la convergenza tra la pressione della piazza e la volontà del sovrano, del capo del governo e del ministro degli Esteri. Nel 1915-16, la guerra sui fronti italiano e francese si risolse in una immane carneficina, senza che nessuno dei due schieramenti riuscisse a conseguire risultati significativi. Più alterne furono le vicende sul fronte orientale, dove gli imperi centrali ottennero alcuni importanti successi. Sul piano tecnico, la trincea fu la vera protagonista del conflitto: la vita monotona ma pesante che vi si svolgeva era interrotta solo, di quando in quando, da grandi e sanguinose offensive, prive di risultati decisivi. Da ciò, soprattutto nei soldati semplici, uno stato d'animo di rassegnazione e apatia che a volte sfociava in forme di insubordinazione. Altra novità fu l'utilizzazione di nuove armi: gas, aerei, carri armati, sottomarini. Il conflitto trasformò profondamente la stessa vita civile dei paesi coinvolti. In campo economico si dilatò enormemente l'intervento statale, teso a garantire le risorse necessarie allo sforzo bellico. Il potere dei governi fu largamente condizionato da quello dei militari e, in genere, tutta la società fu soggetta a un processo di "militarizzazione". Col protrarsi del

conflitto si rafforzarono i gruppi socialisti contrari ad esso, divisi però tra il pacifismo dei riformisti e la proposta dei rivoluzionari di utilizzare la guerra come occasione per la rivoluzione. Il 1917 fu l'anno più difficile della guerra, soprattutto per l'Intesa: molti furono i casi di manifestazioni popolari contro il conflitto e di ribellione fra le stesse truppe. Questo clima di stanchezza (espresso anche dall'iniziativa di pace lanciata senza successo dal papa) si riscontrava anche in Italia. La demoralizzazione e la stanchezza delle truppe favorirono la vittoria degli austrotedeschi dell'ottobre '17 (Caporetto), dovuta comunque anzitutto ad errori dei comandi italiani. Sempre nel 1917 si verificarono due avvenimenti di decisiva importanza. In Russia dopo la caduta dello zar, in marzo, iniziò un processo di dissoluzione dell'esercito; dopo la rivoluzione di novembre, il paese si ritirò dal conflitto. In aprile gli Stati Uniti entrarono in guerra con l'Intesa, dando al conflitto, per volontà del presidente Wilson, una nuova connotazione ideologica "democratica". Anche grazie alla superiorità militare conseguita con l'intervento americano, nel novembre 1918 la guerra terminava con la vittoria dell'Intesa: un esito cui contribuirono in larga misura la dissoluzione interna dell'AustriaUngheria (causata dal distacco delle varie nazionalità) e la rivoluzione scoppiata in Germania. Alla conferenza della pace, che si tenne a Versailles, il compito dei vincitori si rivelò difficilissimo. Nelle dure condizioni imposte alla Germania risultò evidente il contrasto fra l'ideale di una pace democratica e l'obiettivo francese di una pace punitiva. La carta dell'Europa fu profondamente mutata, soprattutto in conseguenza della dissoluzione dell'Impero asburgico, che permise la nascita di nuovi Stati. L'ideale wilsoniano di un organismo internazionale che potesse evitare guerre future in sostanza non si realizzò: la Società delle nazioni nacque minata da profonde contraddizioni (anzitutto la mancata adesione degli Stati Uniti). Bibliografia Sulle origini della guerra: J. Joli, Le origini della prima guerra mondiale, Laterza, RomaBari 1985. Fra le opere complessive: B. H. Liddell Hart, La prima guerra mondiale 1914-1918, Rizzoli, Milano 1968; M. Silvestri, La decadenza dell'Europa occidentale, vol. II, L'esplosione 1914-1922, Einaudi, Torino 1978; M. Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, Milano 1998; J. Keegan, La prima guerra mondiale: una storia politicomilitare, Carocci, Roma 2000.

Sulla Germania e sul problema della responsabilità della guerra: cfr. le opposte tesi di F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi, Torino 1965 e di G. Ritter, / militari e la politica nella Germania moderna, 3 voll., ivi 1967-73 e vedi inoltre G. E. Rusconi, Rischio 1914. Come si decide una guerra, Il Mulino, Bologna 1987. Sulla crisi finale dell'Impero asburgico: F. Fejtò, Requiem per un impero defunto, Mondadori, Milano 1990. Sull'Italia: P. Melograni, Storia politica della grande guerra 1915-1918, Laterza, Bari 1969; A. Gibelli, La grande guerra degli italiani 1915-1918, Sansoni, Milano 1998; M. Isnenghi G. Rochat, La grande guerra 19141918, La Nuova Italia, Firenze 1999; M. Silvestri, Caporetto, Mondadori, Milano 1984; G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Editori Riuniti, Roma 1994; e, per una rassegna critica, G. Rochat, L'Italia nella prima guerra mondiale, Feltrinelli, Milano 1976. Sui riflessi psicologici e letterari: EJ. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1985; P. Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, ivi 1984; e per l'Italia: M. Isnenghi, Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte, Laterza, Bari 1970; La grande guerra. Esperienza, memoria, immagini, a e. di D. Leoni e C. Zadra, Il Mulino, Bologna 1986; A. Gibelli, La fabbrica della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991. 14. La rivoluzione russa. 14.1. Da febbraio a ottobre. Una svolta storica. La rivoluzione di febbraio e il governo provvisorio, Le forze politiche, I bolscevichi, I soviet, Il ritorno di Lenin, Le "tesi di aprile", Il problema della guerra, Il governo Kerenskij, Il tentato colpo di Stato e il rafforzamento dei bolscevichi. Fra tutti gli sconvolgimenti politici e sociali provocati dalla prima guerra mondiale, la rivoluzione russa fu non soltanto il più violento e traumatico, ma anche il più imprevisto, almeno nei suoi sviluppi. In realtà, già prima dello scoppio del conflitto, erano in molti a pensare che il regime assolutistico degli zar non potesse resistere a lungo e fosse destinato ad essere sostituito da forme di governo più adeguate ai tempi. Pochissimi, però, immaginavano che la caduta della monarchia avrebbe dato luogo al

più grande evento rivoluzionario mai verificatosi nel mondo dopo la rivoluzione francese. Quando, nel marzo 1917 (febbraio per il calendario russo), il regime zarista fu abbattuto dalla rivolta degli operai e dei soldati di Pietrogrado [§13.8], la successione fu assunta da un governo provvisorio di orientamento liberale, costituito per iniziativa dei membri della Duma e presieduto da un aristocratico, il principe Georgij L’vov. Obiettivo dichiarato del governo era quello di continuare la guerra a fianco dell'Intesa e di promuovere nel contempo l""occidentalizzazione" del paese sul piano delle strutture politiche e dello sviluppo economico. Condividevano questa prospettiva non solo i gruppi liberalmoderati che facevano capo al partito dei cadetti, ma anche i menscevichi, che si ispiravano ai modelli della socialdemocrazia europea, e i socialisti rivoluzionari, che avevano solide radici nella società rurale russa e interpretavano le aspirazioni delle masse contadine a una radicale riforma agraria. I socialrivoluzionari erano divisi in correnti molto eterogenee (si andava dai democraticoradicali come Aleksandr Kerenskij agli anarchici ancora legati ai metodi terroristici), ma quasi tutti ritenevano inevitabile il passaggio attraverso una fase democraticoborghese. Per questo accettarono, con i menscevichi, di far parte del secondo governo provvisorio costituito da L" vov nel maggio '17, in cui Kerenskij assunse il ministero della Guerra. Gli unici a rifiutare ogni partecipazione al potere furono i bolscevichi, convinti che solo la classe operaia, alleata agli strati più poveri delle masse rurali, avrebbe potuto assumersi la guida della trasformazione del paese. Ma anch'essi, colti di sorpresa dallo scoppio della rivoluzione, assunsero sulle prime una posizione di attesa. Il consenso, o la neutralità, di tutte le forze politiche antizariste non furono tuttavia sufficienti per fondare su solide basi il potere del governo provvisorio e per evitare che alla caduta del vecchio regime seguisse il completo sgretolamento dell'autorità centrale. Come già era accaduto nella rivoluzione del 1905, al potere "legale" del governo si era subito affiancato e sovrapposto il potere di fatto dei soviet: soprattutto di quello della capitale, che agiva come una specie di parlamento proletario, emanando ordini spesso in contrasto con le disposizioni governative. Quello che la rivoluzione aveva ormai messo in moto era, secondo le parole dello storico Edward H. Carr, un movimento di massa animato da un entusiasmo enorme e da visioni utopistiche di emancipazione dell'umanità dai ceppi di un potere remoto e dispotico [...]. L'idea di un'autorità centrale era tacitamente respinta. Soviet locali di operai o di contadini spuntarono in tutta la Russia, e talune città o distretti si dichiararono repubbliche sovietiche; comitati

operai di fabbrica rivendicavano un'autorità esclusiva sulla loro sfera; i contadini si impadronivano della terra e se la dividevano. E su tutto incombeva il desiderio di pace, il desiderio che avessero fine gli orrori di una guerra sanguinosa e insensata. Questa era la situazione nell'aprile del '17, quando Lenin, leader dei bolscevichi, rientrò in Russia dalla Svizzera dopo un avventuroso viaggio attraverso l'Europa in guerra. Il viaggio era stato reso possibile dalla copertura delle autorità tedesche che, conoscendo le idee di Lenin sulla guerra, speravano di indebolire, col suo arrivo, la posizione di quanti in Russia si battevano per la prosecuzione del conflitto. Non appena giunto a Pietrogrado, Lenin diffuse un documento in dieci punti (le cosiddette "tesi di aprile") in cui rifiutava la diagnosi corrente sul carattere "borghese" della fase rivoluzionaria in atto e poneva in termini immediati il problema della presa del potere, rovesciando la teoria marxista ortodossa, secondo cui la rivoluzione proletaria sarebbe scoppiata prima nei paesi più sviluppati, come risultato delle contraddizioni del sistema capitalistico giunto al suo ultimo stadio: era invece la Russia, in quanto "anello più debole" della catena imperialista, a offrire le condizioni più favorevoli per la messa in crisi del sistema. Per l'immediato, l'obiettivo era quello di conquistare la maggioranza nei soviet e di lanciare le parole d'ordine della pace, della terra ai contadini poveri, del controllo sociale della produzione da parte dei consigli operai. Questo programma poteva apparire utopico ed estremistico, ma si collegava in qualche modo allo stato d'animo prevalente fra le masse operaie e contadine e consentì al Partito bolscevico di allargare sensibilmente l'area dei suoi consensi. Al tempo stesso si approfondiva però la frattura con gli altri gruppi socialisti che avevano accettato di partecipare al governo di coalizione e di collaborare alla prosecuzione dello sforzo bellico. Il primo episodio di esplicita ribellione al governo provvisorio si ebbe a Pietrogrado a metà luglio, quando soldati e operai armati scesero in piazza per impedire la partenza per il fronte di alcuni reparti. I bolscevichi, che all'inizio non avevano approvato l'iniziativa, cercarono successivamente di assumerne il controllo. Ma l'insurrezione fallì per l'intervento di truppe fedeli al governo. Alcuni leader bolscevichi furono arrestati o, come lo stesso Lenin, costretti a fuggire. Per il governo provvisorio fu questo l'ultimo successo. In agosto il principe L" vov si dimise e fu sostituito da Kerenskij. Il nuovo presidente del Consiglio era però screditato dal fallimento dell'offensiva contro gli austrotedeschi da lui promossa in luglio [§13.8]; e i suoi tentativi di portare avanti una politica personale gli avevano alienato sia le simpatie del suo

stesso partito, il socialrivoluzionario, sia l'appoggio dei moderati che ormai gli contrapponevano apertamente il nuovo uomo forte della situazione, il comandante dell'esercito generale Kornilov. Ai primi di settembre Kornilov lanciò un ultimatum al governo chiedendo il passaggio dei poteri alle autorità militari. Kerenskij reagì facendo appello alle forze socialiste, compresi i bolscevichi. Si distribuirono armi alla popolazione e si incitarono alla rivolta le truppe di Kornilov. Il tentativo di colpo di Stato militare fu così stroncato. Ma ad uscire rafforzati dalla vicenda furono soprattutto i bolscevichi, principali protagonisti della mobilitazione popolare, che conquistarono la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e di Mosca. Per Lenin, rientrato clandestinamente in patria, i tempi erano maturi per rilanciare la parola d'ordine "tutto il potere ai soviet" e per preparare l'insurrezione contro il governo provvisorio. Parola chiave Soviet Il termine "soviet" altro non è che il corrispettivo russo di "consiglio" e indica quegli organismi rivoluzionari, espressi direttamente dai lavoratori, che, sorti a Pietroburgo durante la rivoluzione russa del 1905, avrebbero poi costituito, almeno in teoria, la struttura fondamentale dello Stato nato dalla rivoluzione bolscevica dell'ottobre '17: Stato che portava appunto il nome di Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (o Unione Sovietica). Nel primo dopoguerra, l'esperienza dei soviet rappresentò per tutta la sinistra rivoluzionaria un esempio da seguire e un mito cui ispirarsi. In tutti i maggiori paesi europei si formarono, all'interno delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio, gruppi "consiliari" (in Italia il più importante fu quello che faceva capo ad Antonio Gramsci e alla rivista torinese "L'Ordine nuovo"), poi in buona parte confluiti nei partiti comunisti. Questi gruppi contestavano le forme tradizionali di rappresentanza politica e sindacale e vedevano nei consigli un organo di democrazia diretta (in cui i delegati dovevano essere espressi dalle assemblee e potevano essere revocati in qualsiasi momento) e al tempo stesso la cellula attraverso cui realizzare la gestione dei processi produttivi da parte dei lavoratori. La fortuna delle ideologie consiliari (o "soviettiste") declinò rapidamente nel corso degli anni '20: sia per il riflusso generale dell'ondata rivoluzionaria seguita alla fine della guerra; sia per le vicende stesse dell'Urss, dove i soviet furono ben presto ridotti a una funzione puramente simbolica e di facciata (mentre il potere reale era assunto dalle organizzazioni di partito). Una ripresa delle tematiche consiliari si ebbe in Europa molto più tardi, per opera dei movimenti di contestazione

studentesca e operaia del 1968 [§25.6 e 28.4]: movimenti che impostarono le loro lotte sul primato dell'assemblea e sul rifiuto della "democrazia delegata". 14.2. La rivoluzione d'ottobre. Il progetto insurrezionale, Trotzkij, La presa del potere, Il Congresso dei soviet, I decreti sulla pace e sulla terra, Il governo rivoluzionario, L'opposizione, Lo scioglimento della Costituente. La decisione di rovesciare con la forza il governo Kerenskij fu presa dai bolscevichi il 23 ottobre, in una drammatica riunione del Comitato centrale del partito, nella quale Lenin dovette superare forti opposizioni fra i suoi stessi compagni. Contrari all'insurrezione erano due fra i più autorevoli dirigenti del partito, Gregorij Zinovev e Lev Kamenev. Favorevole era invece un altro leader di grande prestigio, Lev Davidovic Bronstein, noto con lo pseudonimo di Trotzkij. Proveniente dalla sinistra menscevica, eletto in settembre presidente del soviet di Pietrogrado, Trotzkij fu l'organizzatore e la mente militare dell'insurrezione. Kerenskij cercò di correre ai ripari ordinando, come aveva già fatto in luglio, l'allontanamento dei reparti "sovversivi" e l'arresto dei dirigenti bolscevichi. Ma questa volta le truppe non obbedirono. La mattina del 7 novembre (25 ottobre secondo il calendario russo), soldati rivoluzionari e guardie rosse (ossia milizie operaie armate), dopo essersi assicurati durante la notte il controllo dei punti nevralgici della capitale, circondarono e isolarono il Palazzo d'Inverno, già residenza dello zar e ora sede del governo provvisorio, e se ne impadronirono la sera stessa, incontrando scarsa o nessuna resistenza fra gli eterogenei e sfiduciati reparti che erano incaricati di difenderlo. L'assalto al Palazzo d'Inverno - destinato ad assurgere a episodiosimbolo della rivoluzione, come era stata la presa della Bastiglia nel 1789 - fu praticamente incruento: pochissime furono le vittime nei rari e confusi scontri che ebbero luogo nei corridoi e nei saloni dell'antica reggia. Nel momento stesso in cui cadeva l'ultima resistenza del governo provvisorio, si riuniva a Pietrogrado il Congresso panrusso dei soviet, cioè l'assemblea dei delegati dei soviet di tutte le province dell'ex Impero russo. La coincidenza di date era stata voluta dai bolscevichi perché il congresso dove essi erano in netta maggioranza - potesse sanzionare l'avvenuta presa del potere. Come suo primo atto il congresso approvò due decreti proposti personalmente da Lenin. Il primo faceva appello a tutti i popoli dei paesi

belligeranti "per una pace giusta e democratica [...] senza annessioni e senza indennità". Il secondo stabiliva in forma lapidaria che la grande proprietà terriera era "abolita immediatamente e senza alcun indennizzo". Il nuovo potere tendeva così a garantirsi l'appoggio, o almeno la neutralità, delle masse contadine, accontentate nelle loro aspirazioni più elementari e immediate. Veniva frattanto costituito un nuovo governo rivoluzionario, composto esclusivamente da bolscevichi e di cui Lenin era presidente, che fu chiamato Consiglio dei commissari del popolo. La fulminea presa del potere da parte dei bolscevichi lasciò disorientate tutte le altre forze politiche. Solo la minoranza di sinistra dei socialrivoluzionari si schierò col nuovo governo ed entrò successivamente a farne parte con tre suoi esponenti. I menscevichi, i cadetti, e la maggioranza dei socialrivoluzionari protestarono vivacemente contro l'atto di forza. Ma non organizzarono manifestazioni di aperto sabotaggio contro il governo rivoluzionario e preferirono puntare le loro carte sull'imminente convocazione dell'Assemblea costituente, le cui elezioni, dopo molti rinvii, erano state fissate per la fine di novembre. I risultati delle urne costituirono una gravissima delusione per i bolscevichi. Con circa nove milioni di voti, ottenuti per lo più nei grandi centri, essi ebbero infatti meno di un quarto dei seggi (175 su 707). Quasi scomparsi dalla scena i menscevichi e i cadetti, che ebbero una quindicina di seggi ciascuno, i veri trionfatori delle elezioni furono i socialrivoluzionari, che si assicurarono la maggioranza assoluta con oltre 400 seggi, grazie al massiccio sostegno dell'elettorato rurale. Ma i bolscevichi non avevano nessuna intenzione di rinunciare al potere appena conquistato. Riunitasi la prima volta in gennaio, la Costituente fu immediatamente sciolta grazie all'intervento di militari bolscevichi, che ubbidivano a un ordine del Congresso dei soviet. Questo nuovo atto di forza era coerente con le idee espresse più volte da Lenin, che non credeva alle regole della "democrazia borghese" e riconosceva al solo proletariato il diritto di guidare il processo rivoluzionario, attraverso le sue espressioni dirette (i soviet) e la sua sedicente avanguardia organizzata (il partito). Certo è che, con lo scioglimento della Costituente, il potere bolscevico rompeva definitivamente con le altre componenti del movimento socialista e con tutta la tradizione democratica occidentale, ponendo le premesse per l'instaurazione di una dittatura di partito. 14.3. Dittatura e guerra civile.

Le difficoltà del governo rivoluzionario, "Stato e rivoluzione", Il problema della pace e il trattato di BrestLitovsk, L'intervento dell'Intesa e l'inizio della guerra civile, Le armate bianche, La dittatura rivoluzionaria, L'Armata rossa, La fine della guerra civile, La guerra russopolacca, La pace con la Polonia. Se era stato relativamente facile per i bolscevichi impadronirsi del potere centrale, molto più difficile - per un partito che contava nel novembre '17 circa 70.000 iscritti su una popolazione di oltre 150 milioni di abitanti - si presentava il compito di gestire questo potere, di amministrare un paese immenso, di governare una società tanto complessa quanto arretrata, di affrontare i tremendi problemi ereditati dal vecchio regime, primo fra tutti quello della guerra. Un compito reso ancor più difficile dal fatto che i bolscevichi non potevano contare né sull'appoggio delle altre forze politiche, estromesse dal potere con la violenza, né sulla collaborazione degli strati sociali più elevati: ufficiali e tecnici, imprenditori e intellettuali, molti dei quali abbandonarono il paese, assieme a numerosi esponenti dell'aristocrazia, dando vita al più imponente fenomeno di emigrazione politica mai verificatosi fin allora (oltre un milione di esodi volontari fra il '18 e il '26). Convinti di poter conquistare in tempi brevi l'appoggio compatto delle masse popolari, i leader bolscevichi affermarono di voler procedere rapidamente alla costruzione di un nuovo Stato proletario ispirato all'esperienza della Comune di Parigi, secondo il modello delineato da Lenin in una delle sue opere più famose, Stato e rivoluzione. In quel saggio, scritto alla vigilia della rivoluzione d'ottobre, Lenin riprendeva la definizione di Marx sullo Stato come strumento del dominio di una classe sulle altre e prevedeva che, una volta scomparso questo dominio, lo Stato stesso si sarebbe avviato verso una rapida estinzione. Nella società socialista non vi sarebbe stato bisogno di parlamenti e di magistratura, di eserciti e di burocrazia, ma le masse stesse si sarebbero autogovernate secondo i princìpi di democrazia diretta sperimentati nei soviet. Per quanto riguardava la guerra, l'ipotesi su cui puntavano i bolscevichi era quella di una sollevazione generale dei popoli europei, da cui sarebbe scaturita una pace equa, "senza annessioni e senza indennità". Ma questa ipotesi non si realizzò. E i capi rivoluzionari, che non potevano deludere le attese di pace da loro stessi incoraggiate, si trovarono a trattare in condizioni di grave inferiorità con una potenza che già occupava vaste zone dell'ex Impero russo. La pace separata con la Germania, che fu conclusa il 3 marzo 1918 con la firma del durissimo trattato di BrestLitovsk [§13.10], era

dunque per i bolscevichi una scelta priva di alternative. Per imporla Lenin dovette tuttavia superare le perplessità di alcuni fra i suoi stessi compagni di partito e la violenta opposizione dei socialrivoluzionari, compresa la corrente di sinistra che ritirò i suoi rappresentanti dal Consiglio dei commissari del popolo. I bolscevichi perdevano così i loro unici alleati e rimanevano completamente isolati. Gravissime furono poi le conseguenze del trattato a livello dei rapporti internazionali. Le potenze dell'Intesa, ancora impegnate in una lotta durissima contro gli imperi centrali e preoccupate di un possibile "contagio" rivoluzionario, considerarono la pace di BrestLitovsk come un tradimento e, in risposta, cominciarono ad appoggiare concretamente le forze antibolsceviche che, già dalla fine del ' 17, si erano andate organizzando in varie zone del paese, per lo più sotto la guida di ex ufficiali zaristi. Fra la primavera e l'estate del 1918 si ebbero sbarchi di truppe anglofrancesi prima nel Nord della Russia e poi sulle coste del Mar Nero, mentre reparti statunitensi e giapponesi penetravano nella Siberia orientale. L'arrivo dei contingenti stranieri servì a rafforzare l'opposizione al governo bolscevico soprattutto quella dei monarchicoconservatori, i cosiddetti bianchi- e ad alimentare la guerra civile in diverse zone del paese. La prima minaccia venne dall'Est, dove l'ammiraglio zarista Kolciak assunse il controllo di vasti territori della Siberia penetrando, nell'estate del ' 18, nella zona fra gli Urali e il Volga: fu in questa circostanza che lo zar e tutta la sua famiglia, prigionieri nella città di Ekaterinenburg, furono giustiziati per ordine del soviet locale nel timore che fossero liberati dai controrivoluzionari. Altri focolai di ribellione si andavano frattanto sviluppando nel Nord della Russia, dove più forte era la presenza di truppe dell'Intesa (questa minaccia indusse il governo a decidere il trasferimento, poi diventato definitivo, della capitale da Pietrogrado a Mosca) e soprattutto nella regione del Don dove, oltre alle truppe guidate dal generale Denikin, era attivo un movimento di guerriglia contadina ostile sia ai "bianchi" sia ai "rossi". Ancora più caotica era la situazione in Ucraina, diventata nominalmente uno Stato indipendente sotto il protettorato tedesco. Frattanto il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari, lasciando da parte le utopie antimilitariste e i progetti di autogoverno popolare. Si era cominciato, già nel dicembre '17, con la creazione di una polizia politica, la Ceka. Nello stesso periodo era stato istituito un Tribunale rivoluzionario centrale, col compito di processare chiunque disubbidisse al "governo operaio e contadino": una formulazione molto ampia, che permetteva di perseguire anche quegli oppositori, come i menscevichi, ai quali non poteva imputarsi nessuna forma di contestazione violenta. Nel

giugno 1918 tutti i partiti d'opposizione vennero messi fuori legge e fu reintrodotta la pena di morte che era stata abolita subito dopo la rivoluzione d'ottobre. Arresti arbitrari ed esecuzioni sommarie di "nemici di classe" entrarono sin da allora nella realtà quotidiana del nuovo regime. Si procedeva nel contempo alla riorganizzazione dell'esercito, ricostituito ufficialmente nel febbraio ' 18 col nuovo nome di Armata rossa degli operai e dei contadini. Artefice principale dell'operazione fu Trotzkij che, servendosi anche di ufficiali del vecchio esercito zarista, fece di quella che avrebbe dovuto essere una milizia popolare una potente macchina da guerra, fondata su una ferrea disciplina. Ad assicurare la lealtà al governo rivoluzionario provvedevano figure di nuova istituzione, i commissari politici, distaccati dal partito presso le singole unità combattenti. La creazione di un esercito efficiente consentì alla Russia bolscevica di sopravvivere allo scontro con i suoi numerosi nemici che pure erano nettamente superiori sul piano militare, anche perché armati e riforniti dalle potenze dell'Intesa. Le forze controrivoluzionarie erano però divise e mal coordinate, per motivi sia di rivalità politica sia di distanza geografica, e non riuscirono a guadagnarsi l'appoggio dei contadini, che spesso diffidavano dei bolscevichi ma temevano ancor più il ritorno dei vecchi proprietari. Infine, nell'estate del '19, i "bianchi" persero l'appoggio diretto dei governi occidentali, preoccupati per le proteste che l'intervento suscitava nei loro paesi e per la diffusione del contagio rivoluzionario fra gli stessi reparti inviati in Russia. Nella primavera del '20, a parte qualche residua sacca di resistenza, le armate bianche erano sconfitte e la fase più acuta della guerra civile poteva considerarsi esaurita dopo oltre due anni di combattimenti che avevano provocato perdite gravissime da ambo le parti e sofferenze inaudite per l'intera popolazione. Ma proprio nel momento in cui trionfava sui suoi nemici interni, il regime bolscevico dovette subire un inatteso attacco esterno. A sferrarlo, nell'aprile del 1920, fu la nuova Repubblica di Polonia. I governanti polacchi, insoddisfatti dei confini definiti a Versailles, decisero di profittare della debolezza del nuovo regime rivoluzionario appena uscito dalla guerra civile per recuperare i territori appartenuti alla "grande Polonia" due o tre secoli prima. Fra maggio e giugno l'esercito polacco dilagò entro i confini russi. La reazione dei bolscevichi fu rapida ed efficace. Ai primi di agosto, dopo una travolgente avanzata, l'Armata rossa giunse fino alle porte di Varsavia. Parve in quel momento che i bolscevichi russi fossero sul punto di seguire l'esempio dei giacobini francesi, affidando ai loro eserciti il compito di diffondere la rivoluzione in Europa. Ma, a fine agosto, una controffensiva polacca costrinse i russi a una precipitosa ritirata.

Si giunse infine (dicembre 1920) alla conclusione di un armistizio e quindi alla pace, nel marzo 1921. La Polonia vide in parte accontentate le sue aspirazioni territoriali, incorporando ampie zone della Bielorussia e dell'Ucraina. La guerra contro l'aggressione straniera aveva comunque accresciuto in Russia il senso di coesione nazionale, riavvicinando molti oppositori al regime sovietico, ormai identificato con una nuova "patria socialista". 14.4. La Terza Internazionale. La prospettiva rivoluzionaria in Europa, La fondazione Internazionale comunista, I "ventun punti", I partiti comunisti.

della

Con l'insurrezione d'ottobre e poi con la vittoria nella guerra civile i bolscevichi avevano compiuto il miracolo di far nascere il primo Stato socialista in un paese profondamente arretrato (in cui la classe operaia rappresentava un'esigua minoranza della popolazione) e per giunta circondato da potenze ostili. Fra i dirigenti bolscevichi era tuttavia diffusa l'idea che questa fosse una situazione transitoria e che alla lunga il regime comunista avrebbe potuto sopravvivere solo con l'aiuto del proletariato dell'Europa più progredita (in particolare di quello tedesco). All'inizio del '19, nonostante la sconfitta del moto spartachista in Germania [§15.4], la prospettiva di una rivoluzione europea pareva ancora attuale e concreta. Fu in questo clima che Lenin decise di realizzare un progetto concepito fin dall'inizio della guerra mondiale: sostituire alla vecchia Internazionale socialista una nuova Internazionale "comunista", che coordinasse gli sforzi dei partiti rivoluzionari di tutto il mondo e rappresentasse, anche nel nome, una rottura definitiva con la socialdemocrazia europea, colpevole di aver tradito gli ideali internazionalisti. Già nel marzo 1918, del resto, i bolscevichi avevano abbandonato l'antica denominazione di Partito socialdemocratico, a lungo contesa con i menscevichi, per quella di Partito comunista (bolscevico) di Russia. La riunione costitutiva dell'Internazionale comunista, o Terza Internazionale, come venne subito chiamata, ebbe luogo a Mosca ai primi di marzo del 1919. Vi parteciparono una cinquantina di delegati, in buona parte provenienti dalle province dell'ex Impero russo. Nonostante la scarsa rappresentatività dell'assemblea, fu decisa, su proposta dei russi, la costituzione della nuova Internazionale comunista (o, con dizione abbreviata, Comintern).

In realtà, nel suo primo anno di vita, la nuova organizzazione - le cui risorse e la cui forza politica si fondavano unicamente sul partito russo - non svolse alcuna attività di rilievo. La struttura e i compiti dell'Internazionale comunista furono fissati soltanto nel II congresso, che si tenne, sempre a Mosca, nel luglio del 1920, proprio in coincidenza con la vittoria sui bianchi e la travolgente avanzata dell'Armata rossa in Polonia. I partecipanti questa volta erano numerosi e autorevoli e rappresentavano 69 partiti operai di ogni parte del mondo. Il problema centrale del congresso fu rappresentato dalle condizioni cui i singoli partiti avrebbero dovuto sottostare per essere ammessi a far parte dell'Internazionale. Fu lo stesso Lenin a fissare le condizioni in un documento in ventun punti. Vi si affermava fra l'altro che i partiti aderenti al Comintern avrebbero dovuto ispirarsi al modello bolscevico, cambiare il proprio nome in quello di Partito comunista, difendere in tutte le sedi possibili la causa della Russia sovietica, rompere con le correnti riformiste espellendone i principali esponenti. Condizioni così pesanti e ultimative suscitarono in seno al movimento operaio europeo accesi dibattiti e gravi lacerazioni con conseguenti scissioni. Fra la fine del '20 e l'inizio del '21 fu comunque raggiunto quello che era stato lo scopo principale del secondo congresso: creare in tutto il mondo una rete di partiti ricalcati sul modello bolscevico e fedeli alle direttive del partitoguida; fare della Russia sovietica il centro del comunismo mondiale; impegnare nella difesa della "patria del socialismo" i movimenti rivoluzionari di tutti i paesi. Fu invece mancato l'obiettivo di convogliare nei nuovi partiti la maggioranza della classe operaia dei paesi più sviluppati. In tutta l'Europa occidentale i partiti comunisti - legati alla centrale russa da uno stretto rapporto di dipendenza politicoorganizzativa e vincolati alla strategia rivoluzionaria tracciata nell'estate del 1920 dal secondo congresso del Comintern - rimasero minoritari rispetto ai socialisti. Il legame col Partito bolscevico e con la Repubblica dei soviet divenne un fattore di debolezza, o quanto meno un limite alle possibilità di espansione, man mano che l'ondata rivoluzionaria rifluiva in tutta Europa e la Russia comunista cominciava a preoccuparsi soprattutto dei suoi problemi interni e della sua posizione di Stato fra gli altri Stati. 14.5. Dal comunismo di guerra alla Nep. Il dissesto economico, Il comunismo di guerra, "Kolchoz" e "sovchoz", La statizzazione dell'industria, Il fallimento del comunismo di guerra, La

carestia, Il dissenso operaio, La rivolta di Kronstadt, Il X congresso, LaNep, La ripresa produttiva, Gli effetti della liberalizzazione. Quando i comunisti presero il potere, l'economia russa si trovava già in uno stato di gravissimo dissesto, che la rivoluzione e le devastazioni della guerra civile finirono col rendere ancor più completo. Il decreto sulla terra aveva provocato la creazione di una miriade di piccole aziende che producevano soprattutto per l'autoconsumo e non contribuivano all'approvvigionamento delle città. Molte industrie furono lasciate in mano ai vecchi imprenditori, ma sotto la sorveglianza dei consigli operai; altre furono gestite direttamente dai lavoratori; altre infine furono poste sotto il controllo statale. Ancora più caotica era la situazione finanziaria. Le banche furono nazionalizzate e i debiti con l'estero cancellati. Ma tutto questo serviva a poco, visto che il governo non era in grado di riscuotere tasse ed era costretto, per le esigenze più urgenti, a stampare carta moneta priva di qualsiasi valore. Si finì così col tornare al sistema del baratto e le stesse retribuzioni vennero pagate in natura. A partire dall'estate del '18 il governo bolscevico, che fin allora si era mosso senza un preciso piano di intervento, cercò di attuare anche in campo economico una politica più energica e autoritaria, che fu poi definita col termine comunismo di guerra, con evidente riferimento al "socialismo di guerra" sperimentato in Germania. Si cercò innanzitutto di risolvere il problema più urgente, quello degli approvvigionamenti alle città, dove la fame si faceva sentire in modo sempre più drammatico. Per questo furono istituiti in tutti i centri rurali dei comitati col compito di provvedere all'ammasso e alla distribuzione delle derrate: squadre di operai e di contadini poveri percorsero le campagne requisendo il grano degli agricoltori benestanti (o presunti tali). Fu incoraggiata, senza molto successo, la formazione di comuni agricole volontarie, le cosiddette "fattorie collettive" (kolchoz), e furono anche istituite delle "fattorie sovietiche" (sovchoz) gestite direttamente dallo Stato o dai soviet locali. In campo industriale il comunismo di guerra fu inaugurato da un decreto del giugno 1918 che nazionalizzava tutti i settori più importanti. Si trattava di una misura di emergenza, che aveva lo scopo principale di normalizzare la produzione e di centralizzare le decisioni più importanti, ponendo fine allo spontaneismo che aveva caratterizzato le prime fasi della rivoluzione. Si cercò quindi di utilizzare i vecchi quadri dirigenti delle imprese, spesso affiancandoli con funzionari di partito, e di reintrodurre nelle fabbriche criteri di efficienza (compreso il sistema del "cottimo", ossia del salario

legato al rendimento) in netto contrasto con i princìpi di egualitarismo salariale. Grazie al comunismo di guerra il regime bolscevico riuscì ad assicurare lo svolgimento di alcune funzioni essenziali alla vita organizzata e soprattutto ad armare e nutrire il suo esercito. Ma sul piano economico l'esperienza si risolse in un totale fallimento. Alla fine del 1920 il volume della produzione industriale era di ben sette volte inferiore a quello del 1913. Le grandi città si erano letteralmente spopolate per la disoccupazione e per la fame. Nelle campagne i raccolti dei cereali risultavano più che dimezzati rispetto all'anteguerra. I tentativi di attuare un rigido razionamento dei generi alimentari e di controllare gli scambi fra città e campagna si scontravano con la scarsezza delle merci e con la sorda ostilità dei contadini. Il commercio privato, formalmente vietato, fioriva nell'illegalità con gli inevitabili fenomeni di "borsa nera". Per far fronte alle necessità più immediate le autorità civili e militari ricorrevano spesso a requisizioni indiscriminate: e ciò non faceva che accrescere il malcontento diffuso nelle campagne. Allontanatosi l'incubo del ritorno al vecchio regime, i contadini manifestarono sempre più chiaramente la loro insofferenza dando vita, nell'inverno 1920-21, a vere e proprie sommosse. La crisi raggiunse il culmine nella primaveraestate del '21, quando, per l'effetto congiunto della guerra civile e di un anno di siccità, una terribile carestia colpì le campagne della Russia e dell'Ucraina, provocando la morte di almeno tre milioni di persone. Questa catastrofe, nonostante gli sforzi compiuti dalle autorità per nasconderne al mondo le reali dimensioni, rappresentò un duro colpo per l'immagine del regime sovietico. Non meno imbarazzante per il potere comunista era il dissenso che cominciava a serpeggiare fra gli operai, stanchi delle privazioni materiali, ma anche delusi dalla gestione autoritaria dell'economia, dalla scomparsa di una genuina rappresentanza sindacale (i sindacati, privati di ogni funzione rivendicativa, furono considerati come "organi della società socialista" e investiti del compito di assicurare la produttività del lavoro) e dal regime di militarizzazione imposto in molte fabbriche. Il punto di maggior tensione fu toccato ai primi di marzo del 1921, quando a ribellarsi al governo furono i marinai della base di Kronstadt, presso Pietrogrado, che era stata una roccaforte dei bolscevichi e aveva svolto un ruolo importante nella rivoluzione d'ottobre. Alle richieste dei ribelli, che invocavano elezioni libere nei soviet e, in genere, maggiori libertà politiche e sindacali, il governo rispose con una dura repressione militare.

In quello stesso marzo del 1921 si tenne a Mosca il X congresso del Partito comunista. Sul piano politico il congresso segnò la fine di ogni aperta dialettica all'interno del partito, vietando formalmente la costituzione di correnti organizzate. In materia economica fu abbandonato l'esperimento del comunismo di guerra, che stava suscitando una diffusa reazione di rigetto, e fu avviata una parziale liberalizzazione nella produzione e negli scambi. La nuova politica economica (in sigla Nep) aveva l'obiettivo principale di stimolare la produzione agricola e di favorire l'afflusso dei generi alimentari verso le città. Ai contadini - che in regime di comunismo di guerra e di requisizioni forzate non avevano alcun interesse a produrre al di là delle proprie esigenze di sostentamento - si consentiva ora di vendere sul mercato le eventuali eccedenze, una volta che avessero consegnato agli organi statali una quota fissa dei raccolti (una specie di imposta in natura). La liberalizzazione si estese anche al commercio e alla piccola industria produttrice di beni di consumo. Lo Stato mantenne comunque il controllo delle banche e dei maggiori gruppi industriali. Accolta con generale favore, come una necessaria pausa di respiro dopo le durezze del comunismo di guerra, la Nep ebbe conseguenze indubbiamente benefiche su un'economia del tutto stremata, ma produsse effetti sociali non previsti né desiderati dai suoi promotori. Nelle campagne i nuovi spazi concessi all'iniziativa privata stimolarono la ripresa produttiva, ma favorirono il riemergere del ceto dei contadini ricchi (i kulak/), che giunsero in breve a controllare il mercato agricolo. La liberalizzazione del commercio aumentò la disponibilità di beni di consumo, ma provocò la comparsa di una nuova classe di trafficanti (i cosiddetti nepmen) la cui ricchezza contrastava col basso tenore di vita della maggioranza della popolazione urbana. Se le piccole imprese realizzarono apprezzabili progressi, la grande industria di Stato stentava a riprendere slancio, anche per la ristrettezza del mercato interno. In queste condizioni, l'industria non era in grado di dar lavoro a tutti quelli che ne avevano bisogno. Nelle città, che si andavano lentamente ripopolando, cresceva il numero dei disoccupati. Ma anche per i lavoratori occupati la vita non era facile. I salari, pagati nuovamente in denaro, erano in genere piuttosto bassi, mentre la contrattazione era resa difficile dall'assenza di una vera organizzazione sindacale. Proprio la classe operaia, protagonista della rivoluzione e principale sostegno del regime comunista, risultò così la maggiore sacrificata dalle scelte della Nep.

14.6. L'Unione Sovietica: costituzione e società. La costituzione del '18, Le repubbliche sovietiche, L'Urss e la costituzione del '24, La dittatura del partito, Rivoluzione e società, La lotta, contro la Chiesa ortodossa, La famiglia e i rapporti fra i sessi, Istruzione e organizzazione della gioventù, Gli intellettuali e la rivoluzione, La stagione delle avanguardie. La prima costituzione della Russia rivoluzionaria era stata varata nel luglio del '18, in piena guerra civile, e rispecchiava l'originaria impostazione operaista e "consiliare" del gruppo dirigente bolscevico. Essa si apriva con una "Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato" (quasi una replica alle dichiarazioni dei diritti dell'uomo delle grandi rivoluzioni borghesi), dove si proclamava fra l'altro che il potere doveva "appartenere unicamente e interamente alle masse lavoratrici e ai loro autentici organismi rappresentativi: i soviet degli operai, dei contadini e dei soldati". La costituzione prevedeva inoltre che il nuovo Stato avesse carattere federale, rispettasse l'autonomia delle minoranze etniche e si aprisse all'unione, su basi di parità, con altre future repubbliche "sovietiche". La prospettiva a lungo termine era quella di un'unica repubblica socialista mondiale. In realtà, quella che si attuò fra il '20 e il '22 fu semplicemente l'unione alla Repubblica russa (che comprendeva anche l'intera Siberia) delle altre province dell'ex Impero zarista (l'Ucraina, la Bielorussia, l'Azerbaigian, l'Armenia e la Geòrgia), nelle quali i bolscevichi erano riusciti a prendere il potere dopo aver di fatto eliminato, col decisivo aiuto dell'Armata rossa, le altre forze politiche. Nel dicembre 1922 i congressi dei soviet delle singole repubbliche decisero di dar vita all'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss). La nuova costituzione dell'Urss, approvata nel 1924, dava vita a una complessa struttura istituzionale, in cui il potere supremo era affidato al Congresso dei soviet dell'Unione. Il potere reale era però nelle mani del Partito comunista, l'unico la cui esistenza fosse prevista dalla costituzione. Era il partito a fornire le direttive ideologiche e politiche cui si ispirava l'azione del governo. Era il partito a controllare la potentissima polizia politica. Era il partito a proporre i candidati alle elezioni dei soviet che avvenivano su lista unica e con voto palese. Questo partito, il cui apparato centrale e periferico si sovrapponeva a quello dello Stato, era inoltre organizzato secondo criteri di rigido centralismo. Lo Stato, che si proclamava fondato sulla democrazia "sovietica" (ossia consiliare) e sulla libera federazione fra diverse nazioni, finiva così con l'essere governato,

attraverso un apparato fortemente centralizzato, dal ristretto gruppo dirigente del Partito bolscevico. Lo sforzo di trasformazione del paese intrapreso dai bolscevichi non riguardò soltanto le strutture economiche e gli ordinamenti politici. Come tutti i rivoluzionari dei tempi moderni, anche i comunisti russi miravano a cambiare la società nel profondo, a cancellare valori e comportamenti tradizionali, a creare una nuova cultura adatta alla realtà socialista che si voleva costruire. Lo sforzo dei bolscevichi si indirizzò soprattutto in due direzioni: l'educazione della gioventù (presupposto essenziale per la creazione dell""uomo nuovo", ma anche premessa indispensabile per lo sviluppo economico) e la lotta contro la Chiesa ortodossa, in quanto istituzione e in quanto espressione di una visione del mondo che si voleva estirpare perché incompatibile con i fondamenti materialisti della dottrina marxista. La lotta per la scristianizzazione del paese fu condotta con molta durezza (confisca dei beni ecclesiastici, chiusura di chiese, arresti di capi religiosi) e, nel complesso, poté dirsi riuscita nei suoi obiettivi. L'influenza della Chiesa non fu del tutto eliminata (culti e credenze continuarono a sopravvivere, soprattutto nelle campagne), ma certo drasticamente ridimensionata. La Chiesa ortodossa, che pure aveva una presenza capillare nella società russa, era, già prima della rivoluzione, indebolita e screditata da una troppo lunga tradizione di dipendenza dal vecchio ordine politicosociale e non fu in grado di opporre una resistenza paragonabile a quella messa in atto dalla Chiesa cattolica ai tempi della rivoluzione francese. A partire dal 1925, allentatasi la stretta repressiva nei suoi confronti, si adattò a vivere negli spazi limitatissimi che il regime comunista decise di concederle. La battaglia contro le sopravvivenze della religione e della morale tradizionale si estese naturalmente anche ai problemi della famiglia e dei rapporti fra i sessi. Il governo rivoluzionario stabilì fra i suoi primi atti il riconoscimento del solo matrimonio civile e semplificò al massimo le procedure per il divorzio. Nel 1920 fu legalizzato l'aborto. Fu proclamata l'assoluta parità fra i sessi e la condizione dei figli illegittimi fu equiparata a quella dei legittimi. In generale il regime comunista favorì una notevole liberalizzazione dei costumi, anche se furono ben presto emarginate le posizioni estreme di coloro che ritenevano che la rivoluzione avrebbe dovuto portare all'assoluta libertà sessuale e alla scomparsa della famiglia. Ma il settore in cui l'opera del nuovo regime si esplicò con maggiore impegno e con i risultati più notevoli fu quello dell'istruzione, che fu resa obbligatoria fino all'età di quindici anni. La lotta contro l'analfabetismo si

accompagnò a sostanziali innovazioni nei contenuti e nei metodi dell'insegnamento. Si cercò di collegare la scuola al mondo della produzione, privilegiando l'istruzione tecnica su quella umanistica. E ci si preoccupò, nel contempo, di formare ideologicamente le nuove generazioni incoraggiando l'iscrizione in massa nell'organizzazione giovanile del partito (il Komsomol, ossia Unione comunista della gioventù) e facendo largo spazio in tutti i livelli di istruzione all'insegnamento della dottrina marxista. Gli effetti della rivoluzione si fecero sentire anche nel mondo dell'alta cultura. Parecchi intellettuali di prestigio (come il musicista Igor Stravinskij, il pittore Mare Chagall, il linguista Roman Jakobson) andarono a ingrossare le file dell'emigrazione politica. Ma i più, soprattutto fra i giovani, si gettarono con entusiasmo nell'esperienza rivoluzionaria tentando di trasferirne contenuti e valori nei propri settori di attività. Se per alcuni intellettuali comunisti la nuova arte "proletaria" doveva porsi al diretto servizio della politica di classe e andare incontro ai bisogni culturali delle masse, per molti altri - quelli già impegnati nei movimenti d'avanguardia artistica e letteraria - la rivoluzione nelle arti doveva essere parallela a quella politica (non dipendente da essa) e doveva consistere prima di tutto nella rottura dei canoni tradizionali e nella ricerca di nuove forme espressive. In una prima fase queste tendenze d'avanguardia furono guardate con simpatia o apertamente incoraggiate dalle autorità preposte alla cultura. Anche per questo gli anni del doporivoluzione rappresentarono una stagione di intensa sperimentazione, di accesi dibattiti fra le varie correnti e soprattutto di straordinaria fioritura creativa. Furono gli anni della poesia futurista di Majakovskij e Chlebnikov, del teatro rivoluzionario di Mejerchold, della pittura astrattista di Malevic e Lisitzkij, dei primi grandi film di Ejzenstein e di Pudovkin. La stagione d'oro delle avanguardie ebbe però breve durata. A partire dalla metà degli anni '20, la libertà di espressione artistica fu sempre più condizionata dalle preoccupazioni di ordine propagandistico e dalla crescente invadenza di un potere politico che diventava di giorno in giorno più autoritario. 14.7. Da Lenin a Stalin: il socialismo in un solo paese. L'ascesa di Stalin, Il problema della burocratizzazione: Trotzkij contro Stalin, Le tesi di Trotzkij, Stalin e il "socialismo in un solo paese", La sconfitta di Trotzkij, Lo scontro sulla politica economica, La sconfitta dell'opposizione di sinistra.

Nell'aprile del 1922 l'ex commissario alle Nazionalità Josip Djugasvili, detto Stalin, fu nominato segretario generale del Partito comunista dell'Urss. Poche settimane dopo, Lenin fu colpito dal primo attacco di quella malattia che ne avrebbe fortemente limitato le capacità di lavoro e lo avrebbe condotto alla morte nel gennaio 1924. Finché era rimasto sulla breccia, Lenin aveva controllato saldamente il partito e aveva impedito, con la sua indiscussa autorità, che i contrasti nel gruppo dirigente degenerassero in veri e propri scontri. Con la malattia di Lenin e la quasi contemporanea ascesa di Stalin alla segreteria le cose cambiarono rapidamente. I dissensi interni si fecero più aspri e si intrecciarono con una sempre più scoperta lotta per la successione. Il primo grave scontro all'interno del gruppo dirigente ebbe per oggetto il problema della centralizzazione e della burocratizzazione del partito e degli enormi poteri che, in conseguenza di questo processo, si andavano accumulando nelle mani del segretario generale Stalin. Protagonista sfortunato della battaglia volta a limitare le prerogative dell'apparato e a ridare spazio ai princìpi della democrazia "sovietica" nella conduzione del partito e dello Stato fu Lev Trotzkij. Per le sue indubbie doti personali e per il ruolo di primo piano svolto nelle fasi della presa del potere e della guerra civile, Trotzkij era il più autorevole e il più popolare dopo Lenin fra i capi bolscevichi. Ma era anche, forse proprio per questo, isolato rispetto agli altri leader di primo piano (Zinov'ev, Kamenev, Bucharin), che respinsero le sue critiche alla gestione del partito e fecero blocco col segretario generale: il quale poté così rafforzare la sua posizione, nonostante non avesse, all'inizio, un grande prestigio personale e non godesse nemmeno della fiducia di Lenin, che lo considerava troppo rozzo e autoritario. Lo scontro fra Trotzkij e Stalin, cominciato nell'autunno del '23 e fattosi più aspro dopo la morte di Lenin, non riguardava solo il problema della "burocratizzazione". Trotzkij collegava infatti l'involuzione del partito all'isolamento internazionale dello Stato sovietico, costretto a dedicare energie preziose alle esigenze della difesa e a sopportare da solo il peso della sua arretratezza. L'Unione Sovietica doveva, dunque, da un lato accelerare i suoi ritmi di industrializzazione, dall'altro concentrare i suoi sforzi nel tentativo di favorire l'estendersi del processo rivoluzionario nell'Occidente capitalistico e soprattutto nei paesi più sviluppati. Contro questa tesi, per cui fu coniata l'espressione rivoluzione permanente, scese in campo lo stesso Stalin. Pur non rinnegando del tutto la teoria tradizionale, secondo cui la piena realizzazione dell'ideale socialista sarebbe stata il risultato dello sforzo comune del proletariato mondiale, Stalin sosteneva che, nei tempi brevi, la vittoria del "socialismo in un solo

paese" era "possibile e probabile" e che l'Unione Sovietica aveva in sé le forze sufficienti a fronteggiare l'ostilità del mondo capitalista. La teoria del socialismo in un solo paese rappresentava una rottura con quanto era sempre stato affermato dai bolscevichi; ma aveva il vantaggio di adattarsi alla situazione reale, che da tempo non consentiva illusioni circa la possibilità di una rivoluzione mondiale, e offriva inoltre al paese lo stimolo di un potente richiamo patriottico. Anche l'atteggiamento delle potenze europee, che fra il '24 e il '25 si decisero a riconoscere lo Stato sovietico e a instaurare con esso normali rapporti diplomatici, finì col rafforzare implicitamente le tesi di Stalin. Il risultato fu l'ulteriore emarginazione di Trotzkij. Una volta sconfitto Trotzkij, venne meno però il principale legame che teneva uniti i suoi avversari e il gruppo dirigente comunista conobbe una nuova drammatica spaccatura. L'occasione dello scontro fu offerta questa volta dal dibattito sulla politica economica. A partire dall'autunno del '25 Zinov'ev e Kamenev, riprendendo idee già sostenute da Trotzkij, si pronunciarono per un'interruzione dell'esperimento della Nep, che a loro avviso stava facendo rinascere il capitalismo nelle campagne, e per un deciso rilancio dell'industrializzazione a spese, se necessario, degli strati contadini privilegiati. La tesi opposta, favorevole alla prosecuzione della Nep e all'incoraggiamento alla piccola impresa agricola, pur nel quadro di un'economia pianificata, fu sostenuta con decisione da Bucharin, che ebbe l'appoggio di Stalin. Zinov'ev e Kamenev, messi in minoranza nel congresso del partito tenutosi nel dicembre '25, si riaccostarono a Trotzkij e, assieme a lui, cercarono di organizzare un fronte unico di opposizione. Ma la lotta contro Stalin e contro l'ormai onnipotente macchina del partito era perduta in partenza. I leader dell'opposizione furono dapprima allontanati dall'Ufficio politico e dal Comitato centrale, poi, nel '27, addirittura espulsi dal partito. I loro seguaci furono perseguitati e spesso incarcerati. Trotzkij fu deportato in una località dell'Asia centrale e successivamente espulso dall'Urss. Con la sconfitta dell'opposizione di sinistra e con l'uscita di scena di buona parte del gruppo dirigente "storico", si chiudeva definitivamente la prima fase della rivoluzione comunista, la fase "eroica" della costruzione del nuovo Stato. Cominciava una nuova fase, che sarebbe stata caratterizzata dalla continua crescita del potere personale di Stalin e dal suo tentativo di portare l'Unione Sovietica alla condizione di grande potenza industriale e militare.

Sommario Nel marzo '17, la rivolta degli operai e dei soldati di Pietrogrado provocò la caduta dello zar e la formazione di un governo provvisorio dominato dalle forze liberalmoderate. Nel maggio si formò un secondo governo provvisorio cui parteciparono tutti i partiti, a eccezione dei bolscevichi. Frattanto, accanto al potere "legale" del governo veniva crescendo il potere parallelo dei soviet, i consigli eletti direttamente dagli operai e dai soldati. Col ritorno di Lenin in Russia, i bolscevichi accentuarono la loro opposizione al governo provvisorio, chiedendo la pace immediata, la socializzazione della terra e il passaggio di tutti i poteri ai soviet. Il contributo da essi dato alla sconfitta del tentativo di colpo di Stato di Komilov rafforzò ulteriormente la loro posizione. A questo punto, grazie alla determinazione di Lenin, decisero di conquistare il potere con la forza. La fulminea presa del potere da parte dei bolscevichi (7 novembre '17) e il governo rivoluzionario da essi formato incontrarono l'opposizione della maggioranza delle forze politiche. In dicembre i socialisti rivoluzionari riportarono un grande successo nelle elezioni per l'Assemblea costituente: questa, però, fu subito sciolta dai bolscevichi, che in tal modo rompevano definitivamente con la tradizione democratica occidentale. L'uscita della Russia dalla guerra (trattato di BrestLitovsk del marzo '18) provocò l'intervento militare dell'Intesa in appoggio alle armate bianche costituite dalle truppe ribelli al governo. La gravità della situazione spinse i bolscevichi ad instaurare una vera e propria dittatura. Grazie alla riorganizzazione dell'esercito operata con la costituzione dell'Armata rossa, il governo rivoluzionario riuscì a prevalere. Nata ufficialmente nel 1919, ma di fatto effettivamente operante solo dal '20, l'Internazionale comunista estese a tutto il movimento operaio europeo la frattura fra comunismo e socialdemocrazia che si era verificata in Russia. I partiti comunisti dei vari paesi nacquero strettamente dipendenti dalle direttive dell'Internazionale, controllata dai russi, e non riuscirono ad ottenere l'adesione della maggioranza della classe operaia. Nel '18 il governo bolscevico attuò una politica economica più energica e autoritaria ("comunismo di guerra"), basata sulla centralizzazione delle decisioni e sulla statizzazione di gran parte delle attività produttive. Questa politica ebbe tuttavia scarsi risultati, finendo con l'alimentare il malcontento di contadini e operai. Nel marzo 1921 ci fu un mutamento di rotta con la Nep (nuova politica economica). Basata su una parziale liberalizzazione

delle attività economiche, la Nep stimolò la ripresa produttiva, ma ebbe anche effetti non previsti e non desiderati (crescita dei contadini ricchi, degli imprenditori e degli affaristi). Le condizioni della grande industria di Stato - e degli operai in essa impiegati - non migliorarono sensibilmente. Nel 1922 nacque l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss). La nuova costituzione comportava di fatto la dittatura del Partito comunista, l'unico del quale fosse consentita l'esistenza. I bolscevichi si proposero anche di trasformare cultura e valori tradizionali: da ciò la lotta contro la Chiesa ortodossa, nuove norme sulla famiglia e i rapporti tra i sessi, l'impegno nell'istruzione e nell'educazione dei giovani. In campo culturale, i primi anni '20 furono una stagione di fioritura delle avanguardie artistiche. Con l'ascesa di Stalin alla segreteria del partito (aprile '22) e la malattia di Lenin (morto nel gennaio '24), si scatenò una dura lotta all'interno del gruppo dirigente bolscevico. Stalin riuscì dapprima a emarginare Trotzkij (fautore di un continuo sviluppo e di una continua estensione del processo rivoluzionario), contrapponendogli la teoria del "socialismo in un solo paese". Quindi si sbarazzò dell""opposizione di sinistra" (Zinov'ev, Kamenev), che chiedeva la fine della Nep e l'accelerazione dello sviluppo industriale. Si affermava sempre più il suo potere personale. Bibliografia Un'efficace sintesi delle vicende e dei problemi della rivoluzione russa fino all'ottobre è quella di M. Ferro, La rivoluzione del 1917, Sansoni, Firenze 1974; in una prospettiva di più lungo periodo, O. Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Corbaccio, Milano 1997. Sulla rivoluzione e i suoi sviluppi successivi: R. Pipes, La rivoluzione russa, Mondadori, Milano 1995; G. Boffa, Storia dell'Unione Sovietica, I. Dalla rivoluzione alla seconda guerra mondiale. Lenin e Stalin 1917-1941, Mondadori, Milano 1976. Copre un ampio periodo, dai prodromi della rivoluzione al 1929, l'imponente Storia della Russia sovietica di E. H. Carr, Einaudi, Torino 1964-80, in nove tomi: si veda soprattutto il primo volume, La rivoluzione bolscevica 1917-23. Una rapida sintesi dello stesso autore è La rivoluzione russa. Da Lenin a Stalin (1917-1929), ivi 1980. Un resoconto partecipe delle giornate di ottobre è quello del giornalista americano John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, Editori Riuniti, Roma 1961. Su Lenin e i bolscevichi vedi inoltre A. B. Ulam, Lenin e il suo tempo, Vallecchi, Firenze 1967. Sulla Terza Internazionale, A. Agosti, Le Internazionali operaie, Loescher, Torino 1973. Sui problemi ideologici, M. L. Salvadori, Storia del pensiero comunista, Mondadori, Milano 1984.

15. L'eredità della grande guerra. 15.1. Le trasformazioni sociali. La guerra come esperienza di massa, I mutamenti nel mondo del lavoro, Le trasformazioni della mentalità e del costume, Il problema dei reduci, Le associazioni combattentistiche, La "massificazione" della politica, Progetti rivoluzionari e aspirazioni riformistiche. Gli effetti del primo conflitto mondiale non si esaurirono nella tremenda distruzione di vite umane e nello sconvolgimento dei confini fra gli Stati. La guerra era stata la più grande esperienza di massa mai vissuta fin allora nella storia dell'umanità e aveva agito come un potentissimo acceleratore dei fenomeni sociali, come una incubatrice di trasformazioni e rivolgimenti in tutti i campi della vita associata. Circa 65 milioni di uomini erano stati strappati alle loro occupazioni abituali e coinvolti in un'esperienza collettiva senza precedenti. Si erano trovati, spesso per la prima volta, inseriti in una comunità organizzata e articolata gerarchicamente e si erano così abituati a vivere in gruppo, a obbedire o a comandare. Si erano assuefatti all'uso delle armi, alla svalutazione della vita umana, al dramma quotidiano della morte violenta. Tornati alla vita civile, i combattenti si trovarono di fronte a una realtà molto diversa da quella che avevano lasciato. Nel lavoro dei campi, nelle fabbriche, negli uffici le donne erano subentrate in gran numero a fratelli e mariti, creando, a guerra finita, non pochi problemi per il reinserimento dei reduci. L'espansione dell'industria di guerra aveva spostato dalle campagne alle città nuovi strati di lavoratori non qualificati, per lo più donne e ragazzi non ancora in età di leva. Il brusco distacco dal nucleo familiare di molti giovani, l'allargamento dell'area del lavoro femminile, l'assenza prolungata dei capifamiglia chiamati al fronte avevano messo in crisi le strutture tradizionali della famiglia patriarcale e provocato mutamenti profondi nella mentalità e nelle abitudini delle generazioni più giovani. Le donne tendevano a rendersi più indipendenti dagli uomini, i figli dai padri. C'era minor rispetto per le tradizioni e per le gerarchie consolidate. L'abbigliamento - indicatore fra i più significativi dei mutamenti del costume - si fece più libero e disinvolto: abiti più sportivi per gli uomini, più corti e leggeri per le donne. I giovani cercavano nuove occasioni di divertimento e le trovavano nel cinema o nella musica americana importata in Europa dai soldati statunitensi. I lavoratori chiedevano maggior

disponibilità di tempo libero. Tutti cercavano qualche forma di compenso per le sofferenze subite o per gli anni perduti a causa della guerra. Tutto contribuiva a rendere più febbrile e concitato il ritmo della vita nelle grandi città. Il primo problema che si pose con drammatica urgenza alle classi dirigenti di tutti i paesi fu il reinserimento dei reduci. Chi aveva per anni rischiato la vita sui campi di battaglia tornava a casa con una nuova coscienza dei propri diritti, con la convinzione di aver maturato un credito nei confronti della società. Quelli che al fronte avevano avuto ruoli di comando trovavano spesso difficoltà a riprendere occupazioni o studi per troppo tempo abbandonati e mal si rassegnavano al ritorno a un lavoro subordinato. Nacque allora un nuovo tipo sociale, quello del reduce di guerra, nacque una nuova mentalità "combattentistica", fatta di fierezza, di attaccamento alla memoria dei morti, di cameratismo e di istintiva ostilità verso la politica e le divisioni partitiche. Sorsero dappertutto grosse associazioni di ex combattenti che agivano come veri e propri gruppi di pressione, pronti a mobilitarsi perla difesa dei propri valori e dei propri interessi. Nei confronti dei reduci i governanti di tutti i paesi furono larghi di promesse; ma in realtà, a causa dei gravissimi problemi finanziari che assillavano gli Stati europei, le provvidenze in favore dei combattenti (polizze di assicurazione, premi di smobilitazione, pensioni per gli invalidi, gli orfani e le vedove) furono piuttosto modeste. Di qui un senso di acuto risentimento che fu tra le cause non ultime dei fermenti sociali postbellici. Le inquietudini dei reduci erano però solo un segno di un più vasto fenomeno di mobilitazione sociale. La guerra aveva dimostrato l'importanza del principio di organizzazione applicato alle masse. E, se questo principio aveva dominato in guerra, perché non estenderlo alle battaglie politiche e sociali del tempo di pace? Per far valere i propri diritti e per affermare le proprie rivendicazioni sembrava dunque necessario associarsi e organizzarsi in gruppi il più possibile numerosi. Risultò così bruscamente accentuata la tendenza, già in atto, alla massificazione della politica. Partiti e sindacati videro aumentare ovunque il numero dei loro iscritti, i loro apparati organizzativi divennero più complessi e centralizzati. Di fronte a questa crescita delle organizzazioni di massa persero importanza le forme tradizionali dell'attività politica nei regimi liberali: quelle che si svolgevano nei circoli ristretti dei notabili e che culminavano nell'azione parlamentare. Acquistavano invece maggior peso e maggiore frequenza le manifestazioni pubbliche (comizi, dimostrazioni, adunate, cortei) basate sulla partecipazione diretta dei cittadini. La consapevolezza del sacrificio subito dai popoli giustificava di per sé l'attesa di soluzioni nuove. Che senso

avrebbero avuto tante stragi e tante distruzioni se non fossero almeno servite a porre le premesse per una società più giusta, per un ordine politico e sociale diverso da quello che aveva portato l'Europa alla guerra? Era stata del resto la stessa propaganda ufficiale a incoraggiare le aspettative in tal senso. L'aspirazione a un ordine nuovo era dunque comune alla maggioranza degli europei. Varie però erano le soluzioni concrete che venivano prospettate. Diversi, o addirittura opposti, i princìpi che le ispiravano. Per un buon numero di lavoratori e di intellettuali l'ordine nuovo era quello che si stava cominciando ad attuare in Russia. Ma questa prospettiva radicale era fatta propria solo da minoranze, per quanto consistenti e attive. Più numerosi erano coloro che limitavano le loro aspirazioni a un generico desiderio di pace e di giustizia sociale, che cercavano di inserire le loro richieste concrete (salari più alti, case a buon mercato, terre da coltivare) nel quadro ideale di una società più equa e più democratica, che tentavano di conciliare le loro rivendicazioni patriottiche col progetto wilsoniano di un nuovo ordine internazionale fondato sull'autodeterminazione dei popoli e sui pacifici rapporti fra le nazioni. 15.2. Le conseguenze economiche. Dissesto finanziario e indebitamento, L'inflazione, Le conseguenze sociali dell'inflazione, I nuovi equilibri del commercio internazionale, L'intervento statale e gli apparati burocratici, Espansione e crisi. Con la sola eccezione degli Stati Uniti, tutti i paesi belligeranti, non importa se vinti o vincitori, uscirono dal conflitto in condizioni di gravissimo dissesto economico. La guerra aveva inghiottito come in una voragine una quantità incredibile di risorse: in Italia, in Francia e in Germania le spese sostenute per il conflitto furono pari al doppio del prodotto nazionale dell'ultimo anno di pace, in Gran Bretagna addirittura al triplo. Per far fronte a queste enormi spese, i governi erano ricorsi dapprima all'aumento delle tasse. Quindi avevano fatto appello al patriottismo dei risparmiatori lanciando sottoscrizioni e prestiti nazionali e allargando a dismisura il debito pubblico. Infine avevano contratto massicci debiti con i paesi amici, in primo luogo con gli Stati Uniti. Né le tasse né i debiti interni né quelli esteri erano stati comunque sufficienti a coprire le spese di guerra. Così i governi avevano sopperito al fabbisogno di denaro stampando carta moneta in eccedenza e mettendo in moto un rapido processo inflazionistico, l'inflazione era allora un fenomeno

pressoché sconosciuto per l'Europa occidentale, vissuta per più di un secolo in regime di prezzi relativamente stabili (fra il 1900 e il 1915 nei principali paesi europei l'aumento medio era stato inferiore all'1% annuo). Fra il 1915 e il 1918 i prezzi crebbero di tre volte e mezzo in Francia, di due volte e mezzo in Italia, di due volte in Gran Bretagna e in Germania. E nei primi due anni del dopoguerra la tendenza risultò ulteriormente accelerata, determinando un vero e proprio sconvolgimento nella distribuzione della ricchezza e nelle stesse gerarchie sociali. Se la guerra aveva creato fortune improvvise soprattutto fra gli industriali e gli speculatori (i cosiddetti pescecani), l'inflazione distruggeva posizioni economiche solidissime (per esempio quelle di molti proprietari di terre o di case che riscuotevano canoni d'affitto svalutati) ed erodeva i risparmi dei ceti medi. In genere, gli operai dell'industria riuscirono a difendere le loro retribuzioni reali (misurate cioè in termini di potere d'acquisto) meglio degli impiegati e soprattutto dei dipendenti pubblici. Tutto ciò creava naturalmente tensioni diffuse e rendeva sempre più problematico il raggiungimento della pace sociale. Alle prese con l'inflazione e con la minaccia del dissesto finanziario, i governi europei dovettero affrontare i complessi problemi legati al passaggio dall'economia di guerra a quella di pace. Quattro anni di interruzione delle usuali correnti di traffico avevano inferto un colpo durissimo alla tradizionale supremazia commerciale dell'Europa. Gli Stati Uniti e il Giappone avevano fortemente aumentato le esportazioni, sostituendosi agli europei sui mercati dell'Asia e del Sud America. Altri paesi, come l'Argentina e il Brasile, il Canada, il Sud Africa e l'Australia, avevano sviluppato una propria produzione industriale allentando la dipendenza dal vecchio continente. Ancora più grave, nell'immediato, era per Gran Bretagna e Francia la perdita di molti partner commerciali europei, economicamente stremati come la Germania, isolati come la Russia, smembrati, come l'Impero austroungarico, in tanti nuovi Stati (ciascuno con la sua moneta, il suo sistema di comunicazioni, i suoi dazi doganali). Invece della piena libertà degli scambi auspicata nel programma di Wilson, si ebbe nel dopoguerra una ripresa di nazionalismo economico e di protezionismo doganale, soprattutto da parte dei nuovi Stati che volevano sviluppare una propria industria. Anche all'interno dei singoli paesi risultò impossibile un immediato ritorno all'economia di mercato. Per non aggravare le tensioni sociali e per andare incontro alle pressioni dei lavoratori organizzati, i governi dovettero mantenere per tempi più o meno lunghi il blocco sui prezzi dei generi di prima necessità e sui canoni d'affitto. D'altro canto il sostegno dei poteri

pubblici era richiesto dagli industriali che dovevano affrontare la difficile riconversione alle attività di pace. Rimasero quindi in vita molti apparati burocratici (ministeri, sottosegretariati, commissariati) destinati ai compiti più diversi: dal controllo dei prezzi agli approvvigionamenti alimentari, dalle pensioni di guerra alla composizione delle vertenze di lavoro. Non si interruppe, anzi si rafforzò, la tendenza dei pubblici poteri a intervenire su materie un tempo riservate alla libera iniziativa delle parti sociali. Grazie al sostegno dello Stato, accordato sotto forma di dazi protettivi, di facilitazioni creditizie, di nuove commesse per la ricostruzione civile e per le forze armate, l'industria europea riuscì in un primo tempo a mantenere o a incrementare i livelli produttivi degli anni di guerra. Ma questa espansione "artificiale", che si accompagnò a una stagione di intense lotte sociali [§15.1], durò meno di due anni e fu seguita da una fase depressiva che, iniziata alla fine del 1920, provocò la crisi di molte imprese e un conseguente rapido aumento della disoccupazione. In realtà, per le economie europee una vera stabilizzazione si ebbe solo a partire dalla metà degli anni '20, anche in coincidenza con la provvisoria soluzione del problema delle riparazioni tedesche [§15.4] e con la distensione internazionale che ne seguì. In alcuni paesi, come la Francia e la stessa Germania, si manifestarono segni evidenti di ripresa. Ma la ripresa poggiava su basi fragili, anche perché era troppo strettamente legata agli spettacolari sviluppi dell'economia statunitense. 15.3. Il biennio rosso. L'avanzata del movimento operaio, Il mito della rivoluzione russa e i consigli operai, Il fallimento dell'ipotesi rivoluzionaria, La divisione del movimento operaio. Tra la fine del 1918 e l'estate del 1920, il movimento operaio europeo, uscito dalla forzata compressione degli anni di guerra, fu protagonista di un'impetuosa avanzata politica che assunse a tratti l'aspetto di una grande ventata rivoluzionaria. I partiti socialisti registrarono quasi ovunque notevoli incrementi elettorali. I lavoratori organizzati dai sindacati - ma spesso anche fuori dal loro controllo - diedero vita a un'imponente ondata di agitazioni che consentì agli operai dell'industria di difendere o migliorare i livelli reali delle loro retribuzioni e di ottenere fra l'altro la riduzione dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere a parità di salario: un obiettivo che da trent'anni figurava al primo posto nei programmi del movimento

socialista e che fu raggiunto quasi simultaneamente, subito dopo la fine della guerra, in tutti i principali Stati europei. La grande ondata di lotte operaie del biennio rosso non si esaurì, però, nelle rivendicazioni sindacali. Alimentate dalle vicende russe, si manifestavano aspirazioni più radicali, che investivano direttamente il problema del potere nella fabbrica e nello Stato. "Fare come in Russia" divenne la parola d'ordine dei gruppi rivoluzionari, soprattutto di quelli che più attivamente si erano battuti contro la guerra. Ovunque si formarono spontaneamente consigli operai che scavalcavano le organizzazioni tradizionali dei lavoratori e che, sull'esempio dei soviet russi, si proponevano come rappresentanze dirette del proletariato e come organi di governo della futura società socialista. L'ondata rossa del '19-20 si manifestò nei singoli paesi in forme e con intensità diverse. Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna (diverso fu, come vedremo nel prossimo capitolo, il caso dell'Italia), le classi dirigenti riuscirono a contenere senza eccessive difficoltà la pressione del movimento operaio. Germania, Austria e Ungheria, dove le tensioni sociali si sommavano ai traumi della sconfitta e del cambiamento di regime, furono invece teatro di veri e propri tentativi rivoluzionari. Ma questi tentativi furono rapidamente stroncati. Ciò che era stato possibile in Russia, in presenza di un capitalismo debole, di una borghesia numericamente esigua, di un movimento operaio abituato alla cospirazione più che alle lotte quotidiane, non fu possibile negli altri paesi europei: dove borghesia e capitalismo non erano stati prostrati, ma piuttosto trasformati dalla guerra e dove lo stesso movimento operaio era legato a una ormai lunga esperienza di azione pacifica all'interno delle istituzioni. La rivoluzione d'ottobre in Russia, se da un lato aveva galvanizzato le avanguardie rivoluzionarie di tutta Europa, dall'altro aveva accentuato la frattura, già manifestatasi durante la guerra, fra queste avanguardie e il resto del movimento operaio, legato ai partiti socialdemocratici e alle grandi centrali sindacali. Il contrasto - che non investiva solo problemi di tattica, ma anche questioni di fondo come il ruolo della democrazia e delle istituzioni rappresentative - fu sancito ufficialmente, già nel '19, con la costituzione dell'Internazionale comunista e, in seguito, con la fondazione in tutta Europa di nuovi partiti ispirati al modello bolscevico [§14.4]. La scissione del movimento operaio, preparata e consumata nella prospettiva di un'imminente rivoluzione europea, avrebbe invece contribuito ad aprire il varco alla controffensiva conservatrice.

15.4. Rivoluzione e controrivoluzione nell'Europa centrale. Disgregazione dell'esercito e situazione rivoluzionaria, I consigli, Gli ostacoli alla rivoluzione, I socialdemocratici e il compromesso con la vecchia classe dirigente, I rivoluzionari, L'insurrezione spartachista, Le elezioni per la Costituente e il successo socialdemocratico, La costituzione di Weimar, Nuovi tentativi rivoluzionari, La minaccia dell'estrema destra, La sconfitta della Spd, Socialdemocratici e cattolici in Austria, La Repubblica dei soviet in Ungheria, Horthy e il "terrore bianco". Prima ancora di essere sancita dalle scissioni ufficiali, la rottura fra socialdemocrazia e comunismo era stata segnata nei fatti dalle vicende che in Russia avevano portato i bolscevichi al potere e più ancora da quelle drammatiche che in Germania avevano seguito la proclamazione della Repubblica. Già al momento della firma dell'armistizio, lo Stato tedesco si trovava in una situazione tipicamente rivoluzionaria. L'esercito, una volta ripiegato sulla linea del Reno, si disgregò e centinaia di migliaia di soldati si riversarono nel paese, spesso portando con sé le proprie armi. Il governo legale era esercitato da un Consiglio dei commissari del popolo presieduto dal socialdemocratico Ebert e composto esclusivamente da socialisti (compresi gli "indipendenti" dell'Uspd, la frazione di sinistra staccatasi dalla Spd nel '17). Ma nelle città i veri padroni della situazione erano i consigli degli operai e dei soldati, che occupavano aziende e sedi di giornali, requisivano viveri da distribuire alla popolazione, dettavano le loro condizioni agli industriali e ai rappresentanti dei poteri legali. A Berlino, roccaforte dell'estrema sinistra, dove i disoccupati erano oltre duecentomila e le strade erano piene di soldati armati, si susseguivano le manifestazioni e gli scontri di piazza. La situazione, insomma, poteva sembrare molto simile a quella della Russia del '17. In realtà le differenze erano notevoli. C'erano innanzitutto gli eserciti vincitori schierati lungo il Reno e pronti a intervenire per bloccare ogni sviluppo rivoluzionario. Mancava una mobilitazione delle masse rurali, che rimasero in maggioranza ostili ai movimenti rivoluzionari urbani. La classe dirigente (ufficiali e alti burocrati, proprietari terrieri e magnati dell'industria) era, rispetto a quella russa, più numerosa e meglio radicata nella società. Molto diversi erano infine i rapporti di forza all'interno del movimento operaio. Contrariamente ai menscevichi russi, i socialdemocratici tedeschi avevano dietro di sé una lunga tradizione di lotte legali, controllavano le

centrali sindacali, disponevano di un apparato organizzativo efficiente e capillare: erano anzi, dopo la dissoluzione dell'esercito, l'unica grande forza organizzata presente nel paese. I leader socialdemocratici erano decisamente contrari a una rivoluzione di tipo sovietico e favorevoli a una democratizzazione del sistema politico entro il quadro delle istituzioni parlamentari. Non intendevano, soprattutto, smantellare le strutture militari e civili del vecchio Stato fino alla convocazione di un'assemblea costituente. Si creò così un'obiettiva convergenza fra i capi della Spd e gli esponenti della vecchia classe dirigente che vedevano nella forza della socialdemocrazia e nel suo ascendente sulle masse l'unico argine efficace contro la rivoluzione. I capi dell'esercito, in particolare, stabilirono con i leader socialdemocratici una specie di patto non scritto, impegnandosi a servire lealmente le istituzioni repubblicane in cambio di garanzie circa la tutela dell'ordine pubblico e il mantenimento della tradizionale struttura gerarchica delle forze armate. La linea moderata scelta dalla Spd portava fatalmente allo scontro con le correnti più radicali del movimento operaio tedesco: gli "indipendenti" dell'Uspd e soprattutto i rivoluzionari della Lega di Spartaco (nucleo originario del Partito comunista tedesco). Questi ultimi si opponevano infatti alla convocazione della Costituente e puntavano tutto sui consigli, visti come cellule costitutive di una nuova "democrazia socialista". Gli spartachisti erano però consapevoli di essere nettamente minoritari, anche all'interno dei consigli operai, e avrebbero evitato volentieri un'immediata prova di forza contro i socialdemocratici. Fu l'iniziativa spontanea delle masse della capitale a spingerli verso lo scontro. Il 5-6 gennaio 1919, centinaia di migliaia di berlinesi scesero in piazza per protestare contro la destituzione di un esponente della sinistra dalla carica di capo della polizia della capitale. I dirigenti spartachisti e alcuni leader "indipendenti" decisero allora di approfittare di questa mobilitazione di massa e diffusero un comunicato in cui si incitavano i lavoratori a rovesciare il governo. Ma la risposta del proletariato berlinese fu inferiore alle aspettative. Durissima fu invece la reazione del governo socialdemocratico che affidò l'incarico di fronteggiare la rivolta al commissario alla Difesa Gustav Noske. Questi, non potendo contare su un esercito efficiente, si servì per la repressione di squadre volontarie (i cosiddetti Freikorps, ossia "corpi franchi") formate da soldati smobilitati e inquadrate da ufficiali di orientamento nazionalista e conservatore. Nel giro di pochi giorni i Freikorps schiacciarono nel sangue l'insurrezione berlinese. I leader del movimento spartachista, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, furono arrestati e trucidati da ufficiali dei corpi franchi.

Il 19 gennaio, poco dopo la fine della rivolta spartachista, si tennero le elezioni per l'Assemblea costituente. Assenti i comunisti, che avevano deciso di boicottare le elezioni, i socialdemocratici si affermarono come il partito più forte, ma non riuscirono a raggiungere la maggioranza assoluta nemmeno con l'apporto dell'Uspd. Non potevano più dunque esercitare il potere da soli, ma dovevano cercare l'accordo con almeno una parte dei gruppi "borghesi": i cattolici del Centro, confermatisi come il secondo partito tedesco, o i partiti di matrice liberale che avevano dominato la scena parlamentare in età imperiale e ora si ripresentavano, fortemente ridimensionati, con nuove sigle e nuovi programmi. L'accordo fra socialisti, cattolici e democratici rese possibile l'elezione di Ebert alla presidenza della Repubblica, la formazione di un governo di coalizione a direzione socialdemocratica e, cosa più importante, il varo della nuova costituzione repubblicana. Una costituzione indiscutibilmente democratica, che prevedeva il mantenimento della struttura federale dello Stato, il suffragio universale maschile e femminile, un governo responsabile di fronte al Parlamento e un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo. Né la convocazione della Costituente né il varo (agosto '19) della costituzione di Weimar - chiamata così dal nome della città in cui si svolsero i lavori dell'assemblea - valsero però a riportare la tranquillità nel paese. Ai primi di marzo vi furono nuovi disordini a Berlino, repressi con notevole spargimento di sangue. In primavera l'epicentro del moto rivoluzionario si spostò in Baviera, dove comunisti e "indipendenti" avevano proclamato una Repubblica dei consigli, stroncata alla fine di aprile, dopo duri combattimenti, dall'intervento dell'esercito e dei corpi franchi. Anche in seguito i comunisti - che non perdonavano ai socialdemocratici la repressione del moto spartachista - continuarono a organizzare manifestazioni di piazza e veri e propri tentativi insurrezionali. Ma ancora più grave era la minaccia che veniva dall'estrema destra: dai militari smobilitati inquadrati nei corpi franchi (che sempre più tendevano ad agire per proprio conto, al di fuori di qualsiasi controllo delle autorità) e dagli stessi capi dell'esercito, inclini a dimenticare, man mano che si allontanava il pericolo rivoluzionario, i loro impegni di lealtà alle istituzioni repubblicane. Furono proprio quei generali che portavano la maggiore responsabilità politica della sconfitta e che avevano sollecitato, nell'autunno del '18, una rapida conclusione dell'armistizio, a diffondere la leggenda della pugnalata alla schiena: quella secondo cui l'esercito tedesco sarebbe stato ancora in grado di vincere se non fosse stato tradito da una parte del paese. Si trattava di una leggenda priva di qualsiasi fondamento; ma essa servì ugualmente a gettare discredito sulla Repubblica nata dalla sconfitta e

sulla classe dirigente che si era assunta l'ingrato compito di firmare la pace. Di ciò fecero le spese soprattutto i socialdemocratici, che delle scelte politiche compiute in regime repubblicano portavano le maggiori responsabilità. Nelle elezioni del giugno 1920 la Spd subì una secca sconfitta e dovette cedere la guida del governo ai cattolici del Centro. Simili per molti aspetti a quelle della Germania furono le vicende attraversate dall'Austria dopo la fine della guerra e la proclamazione della Repubblica. Furono i socialdemocratici, forti soprattutto nella capitale, a governare il paese nella difficile fase del trapasso di regime, mentre i comunisti tentarono ripetutamente, senza fortuna, la carta dell'insurrezione. Nel 1920, però, le elezioni videro prevalere il voto clericale e conservatore delle campagne e la maggioranza assoluta andò al Partito cristianosociale. Breve e drammatica fu la vita della Repubblica democratica in Ungheria: dove i socialisti, anziché far blocco con le forze liberali (che avevano governato il paese nei primi mesi di indipendenza), si unirono ai comunisti per instaurare, nel marzo del 1919, una Repubblica sovietica, che attuò una politica di dura repressione nei confronti della borghesia e dell'aristocrazia agraria. L'esperimento durò poco più di quattro mesi. Ai primi di agosto, il regime guidato dal comunista Bela Kun cadde sotto l'urto convergente delle forze conservatrici guidate dall'ammiraglio Miklós Horthy e delle truppe rumene, che avevano invaso il paese con l'appoggio di Inghilterra e Francia. Horthy si insediò al potere scatenando un'ondata di "terrore bianco". L'Ungheria cadeva così sotto un regime autoritario sorretto dalla Chiesa e dai grandi proprietari terrieri: prima applicazione di un modello destinato a incontrare notevole fortuna nei paesi dell'Europa orientale negli anni fra le due guerre mondiali. 15.5. La stabilizzazione moderata in Francia e in Gran Bretagna. Sconfitta operaia e ripresa moderata, Moderati e radicali in Francia, La stagnazione economica in Gran Bretagna, Conservatori e laburisti, Lo sciopero dei minatori del '26. La fine del biennio rosso e la recessione economica seguita alla fase espansiva dell'immediato dopoguerra segnarono in tutta Europa un brusco riflusso delle agitazioni operaie, una riscossa delle forze moderate e un ritorno alle soluzioni conservatrici in campo politico ed economico. Allontanatosi il pericolo rivoluzionario - e svanito anche il sogno di un nuovo ordine democratico mondiale - le classi dirigenti si preoccuparono

soprattutto di ricostruire, nei limiti del possibile, i tradizionali equilibri politici e sociali, di frenare i fenomeni inflazionistici (mediante restrizioni del credito e tagli nella spesa pubblica), di assicurare una qualche stabilità all'assetto internazionale uscito dalla conferenza della pace. Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna, l'obiettivo della stabilizzazione fu sostanzialmente raggiunto, almeno sul piano della politica interna. In Francia la maggioranza di centrodestra che controllò il governo dal '19 in poi attuò una politica fortemente conservatrice, che faceva ricadere sulle classi popolari il peso di una difficile ricostruzione. Solo nella primavera del '24 i radicali di sinistra, uniti ai socialisti in una coalizione elettorale (il cartello delle sinistre) riuscirono a strappare la maggioranza ai moderati e a portare alla presidenza del Consiglio il loro leader Edouard Herriot. Ma l'esperimento ebbe breve durata, anche perché il governo non seppe affrontare una gravissima crisi finanziaria, accentuata dalla fuga di capitali verso l'estero. Nel luglio del '26 la guida del governo fu assunta dal leader storico dei moderati, l'ex presidente della Repubblica Raymond Poincaré. Rimasto in carica per tre anni, Poincaré riuscì a stabilizzare il corso della moneta e a risanare il bilancio statale aumentando ulteriormente la pressione fiscale sui consumi popolari. In questi anni la Francia conobbe un vero boom economico, incrementando notevolmente la produzione in alcuni settorichiave come il chimico e il meccanico. Più lenta e incerta fu la stabilizzazione economica in Gran Bretagna, il cui apparato produttivo si dimostrava sempre più invecchiato e sempre meno in grado di reggere la concorrenza con i paesi di più recente industrializzazione. Il risultato fu un generale ristagno produttivo protrattosi per tutti gli anni '20: nel 1929 l'indice della produzione industriale era ancora pari a quello del 1914. Anche in Gran Bretagna furono le forze moderate a guidare il paese negli anni critici del dopoguerra. Fra il 1918 e il 1929 i conservatori furono sempre al potere (prima coi liberali, poi da soli), salvo un breve intervallo nel 1924, quando l'affermazione dei laburisti consentì la formazione di un governo guidato per la prima volta da un esponente del Labour Party: James Ramsay Mac Donald. Ma i conservatori riuscirono a spezzare la maggioranza che lo sosteneva, a provocare lo scioglimento della Camera e a vincere le successive elezioni (novembre '24). La grande novità fu la secca sconfitta dei liberali, che consentì ai laburisti di assumere il ruolo di principali antagonisti dei conservatori e al sistema politico inglese di riassumere la tradizionale forma bipartitica.

Tornati al potere, i conservatori avviarono una politica di austerità finanziaria e di contenimento dei salari che li portò a scontrarsi duramente con i sindacati. Nel maggio 1926 un milione di minatori entrò in sciopero chiedendo aumenti salariali e proponendo la nazionalizzazione del settore minerario. Altre categorie di lavoratori li appoggiarono con uno sciopero generale di una settimana, ma padronato e governo non cedettero. In dicembre, dopo una lotta durata sette mesi durante i quali la tensione sociale aveva raggiunto livelli altissimi, i minatori dovettero cedere. Il governo conservatore cercò di profittare di questa sconfitta storica per minare le basi stesse dell'opposizione laburista: furono vietati gli scioperi di solidarietà e fu dichiarata illegale la pratica per cui gli aderenti alle Trade Unions venivano iscritti "d'ufficio" al Labour Party. I laburisti accusarono il colpo, vedendo quasi dimezzati i propri iscritti, ma riuscirono a risalire la corrente e ad affermarsi nelle elezioni del 1929. Si formò così un nuovo ministero laburista guidato ancora da Mac Donald ma destinato anch'esso a vita breve, per il sopraggiungere della grande crisi economica mondiale del 1929-30. 15.6. La Repubblica di Weimar. Vitalità intellettuale e artistica, Le difficoltà del sistema politico, La Spd, I partiti borghesi, Debolezza della Repubblica e tradizione imperiale, Le riparazioni, L'offensiva dell'estrema destra, La crisi del marco. Nonostante i drammatici travagli che ne avevano segnato la gestazione, la Repubblica nata dalla Costituente di Weimar rappresentò nell'Europa degli anni '20 un modello di democrazia parlamentare aperta e avanzata. Lo stesso rigoglio di attività intellettuali, che fece della Germania weimariana il centro più vivace della cultura europea del tempo, era strettamente collegato al clima di grande libertà che allora si respirava e che faceva singolare contrasto con l'atmosfera chiusa e conformista dell'età guglielmina. Molti erano tuttavia i fattori che contribuivano a insidiare la vita democratica e a indebolire il sistema repubblicano. Il più evidente motivo di debolezza stava nella accentuata frammentazione dei gruppi politici, che rendeva instabili maggioranze e governi, e nell'assenza di una forza egemone, capace di dominare i nuovi fenomeni di mobilitazione sociale, di superare le fratture presenti nella società, di guidare il paese nella difficile crisi di trasformazione che stava attraversando. L'unica forza in grado di aspirare a questo ruolo era la socialdemocrazia, riunificatasi in un unico partito nell'estate del '22 con la confluenza dell'Uspd nella Spd. Grazie al sostegno accordatole dalla maggioranza di

una classe operaia numerosa e ben organizzata - e nonostante la concorrenza di un agguerrito partito comunista - la Spd rimase per un intero decennio il partito più forte e fece sempre sentire il suo peso, dal governo o dall'opposizione, nella vita politica tedesca; ma non riuscì mai, malgrado la prudenza delle sue scelte politiche, ad allargare i suoi consensi al di là del tradizionale elettorato operaio. Le classi medie, che ormai occupavano uno spazio consistente nella società tedesca, si riconoscevano in parte nel Centro cattolico - che si fondava soprattutto sui suffragi dei contadini delle regioni meridionali e in parte maggiore nelle formazioni della destra conservatrice e moderata: il Partito popolare tedesconazionale e il Partito tedescopopolare. Un terzo partito di matrice borghese, il Partito democratico tedesco, che raccoglieva l'adesione di numerosi intellettuali e aveva l'intento di conciliare i ceti medi con le istituzioni repubblicane, dopo un iniziale successo si ridusse alle dimensioni di una forza marginale. Tutto ciò dimostrava che la diffidenza nei confronti del sistema democratico coinvolgeva non solo i gruppetti dell'estrema destra sovversiva, non solo gli esponenti della vecchia classe dirigente, sempre saldamente insediata nelle alte sfere dell'esercito e della burocrazia, ma anche buona parte della media e della piccola borghesia. Per i ceti medi l'età imperiale si identificava con un periodo di tranquillità, di relativa prosperità, di rispetto per le tradizioni e per le gerarchie consolidate, e soprattutto con la potenza e il prestigio della nazione tedesca. La Repubblica, al contrario, era indissolubilmente associata alla sconfitta, all'umiliazione di Versailles e a quella autentica tragedia nazionale che fu costituita dal problema delle riparazioni. Nella primavera del 1921, una commissione interalleata stabilì l'ammontare delle riparazioni nella cifra, spaventosa per quei tempi, di 132 miliardi di marchioro, da pagare in 42 rate annuali. In altri termini, i tedeschi avrebbero dovuto privarsi, per quasi mezzo secolo, di un quarto del loro prodotto nazionale per assolvere un impegno a cui la popolazione non riconosceva alcuna legittimità. L'annuncio dell'entità delle riparazioni suscitò in tutta la Germania un'ondata di proteste. I gruppi dell'estrema destra nazionalista - fra i quali si stava mettendo in luce il piccolo Partito nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler - scatenarono una vera e propria offensiva terroristica contro la classe dirigente repubblicana, accusata di tradimento per essersi piegata alle imposizioni dei vincitori. Nel '21 fu ucciso in un attentato il ministro delle Finanze Matthias Erzberger, esponente del Centro cattolico, colpevole di aver firmato l'armistizio del novembre '18 in rappresentanza del governo provvisorio. L'anno dopo la

stessa sorte toccò a Walther Rathenau, grande industriale ed esponente del Partito democratico, che, in qualità di ministro degli Esteri, si stava adoprando per raggiungere un accordo con le potenze vincitrici. I governi di coalizione che si succedettero fra il '21 e il '23 si impegnarono comunque a pagare le prime rate delle riparazioni; ma, per non rendersi ulteriormente impopolari agli occhi di un'opinione pubblica già esasperata, evitarono interventi troppo drastici sulle tasse e sulla spesa pubblica: quindi furono costretti ad aumentare la stampa di cartamoneta. Il risultato fu che in pochi mesi il valore del marco precipitò (nel maggio del '21 un dollaro si cambiava con 15 marchi, un anno dopo con 500), mettendo in moto un rapidissimo processo inflazionistico. Nelle intenzioni dei governanti tedeschi la caduta del marco avrebbe dovuto allarmare le stesse potenze vincitrici e convincerle della materiale impossibilità per la Germania di sopportare il peso delle riparazioni. 15.7. La crisi della Ruhr. L'occupazione della Ruhr e la resistenza passiva, Il tracollo finanziario, La grande inflazione, Il governo Stresemann, Hitler e il complotto di Monaco, La stabilizzazione monetaria, Il piano Dawes, La ripresa economica, L'elezione di Hindenburg, Gli anni della stabilità. Nel gennaio 1923, la Francia e il Belgio, traendo pretesto dalla mancata corresponsione di alcune riparazioni in natura, inviarono truppe nel bacino della Ruhr, la zona più ricca e industrializzata di tutta la Germania. L'azione aveva per scopo ufficiale quello di controllare la consegna dei materiali dovuti, ma il vero obiettivo era spegnere ogni velleità tedesca di sottrarsi al pagamento integrale delle riparazioni. Impossibilitato a reagire militarmente, il governo tedesco incoraggiò la resistenza passiva della popolazione: imprenditori e operai della Ruhr abbandonarono le fabbriche rifiutando ogni collaborazione con gli occupanti. Intanto gruppi clandestini formati per lo più da membri dei disciolti "corpi franchi" organizzarono attentati e sabotaggi contro i francobelgi che reagirono con fucilazioni e arresti in massa. Per le già dissestate finanze tedesche l'occupazione della Ruhr rappresentò il definitivo tracollo, in quanto privava il paese di una parte delle sue risorse produttive e contemporaneamente costringeva il governo a nuove ingenti spese per finanziare la resistenza passiva nella Ruhr con sussidi alle imprese e ai lavoratori disoccupati. Il marco, abbandonato al suo destino, precipitò a livelli impensabili (5 milioni di marchi per un dollaro in

luglio, 200 miliardi in settembre, 4000 miliardi in novembre) e il suo potere d'acquisto fu praticamente annullato: un chilo di pane giunse a costare 400 miliardi, un chilo di burro 5000. Le conseguenze di questa polverizzazione della moneta furono sconvolgenti. Lo Stato stampava banconote in quantità sempre maggiore e con valore nominale sempre più alto (un milione, un miliardo, cento miliardi e così via). Ma chi riceveva in pagamento denaro svalutato si affrettava a liberarsene in cambio di qualsiasi cosa, aumentando così la velocità di circolazione della moneta e alimentando ulteriormente l'inflazione. Chi possedeva risparmi in denaro o in titoli di Stato perse tutto. Chi viveva del proprio stipendio dovette affrontare grossi sacrifici: le retribuzioni venivano infatti continuamente adeguate (si giunse a pagarle giornalmente), ma mai abbastanza da poter tener dietro al ritmo dell'inflazione. Furono invece avvantaggiati i possessori di beni reali (agricoltori, industriali, commercianti) e tutti coloro che avevano contratto debiti. Doppiamente avvantaggiati furono gli industriali che producevano per l'esportazione (e si facevano pagare in valuta straniera): nell'anno della grande inflazione l'industria tedesca riuscì a conquistare nuovi mercati e ad aumentare profitti e investimenti, ponendo le basi per l'espansione degli anni successivi. Il prezzo pagato dalla collettività fu tuttavia altissimo. E altrettanto grave fu il danno per le istituzioni repubblicane. Nel momento più drammatico della crisi la classe dirigente trovò però la forza di reagire. Nell'agosto 1923 si formò un governo di "grande coalizione" comprendente tutti i gruppi "costituzionali" (dai tedescopopolari alla Spd) e presieduto da Gustav Stresemann. Leader del Partito tedescopopolare (considerato il portavoce della grande industria), con alle spalle un passato di nazionalista intransigente, Stresemann era tuttavia convinto che la rinascita della Germania sarebbe stata possibile solo attraverso accordi con le potenze vincitrici. In settembre, fra le proteste della destra, il governo ordinò la fine della resistenza passiva nella Ruhr e riallacciò i contatti con la Francia. Subito dopo decretò lo stato di emergenza e se ne servì per sciogliere i governi regionali della Sassonia e della Turingia (dove erano al potere comunisti e socialdemocratici di sinistra), per reprimere un'insurrezione comunista ad Amburgo, ma anche per fronteggiare la ribellione della destra nazionalista che aveva il suo centro in Baviera. A Monaco, nella notte fra l'8 e il 9 novembre 1923, alcune migliaia di aderenti al Partito nazionalsocialista e ad altre formazioni paramilitari cercarono di organizzare un'insurrezione contro il governo centrale. Ma il complotto, capeggiato da Hitler e dal generale Ludendorff, non ottenne lo sperato appoggio dei militari e delle autorità locali e fu rapidamente represso. Hitler fu condannato a cinque anni di carcere (poi in

buona parte condonati) e la sua carriera politica parve precocemente conclusa. Ristabilita l'autorità dello Stato, il governo cercò di porre rimedio al caos economico. Nell'ottobre '23 fu emessa una nuova moneta, il cosiddetto Rentenmark (marco di rendita) il cui valore era garantito dal patrimonio agricolo e industriale della Germania: lo Stato tedesco si comportava cioè come un privato che impegni tutti i suoi averi per garantirsi un credito. Nel contempo fu avviata una politica rigorosamente deflazionistica (basata cioè sulla limitazione del credito e della spesa pubblica e sull'aumento delle imposte) che costò ai tedeschi ulteriori sacrifici, ma consentì un graduale ritorno alla normalità monetaria. Una vera stabilizzazione sarebbe stata tuttavia impossibile senza un accordo con i vincitori sulle riparazioni. L'accordo fu trovato, all'inizio del 1924, sulla base di un piano elaborato da un finanziere e uomo politico statunitense, Charles G. Dawes. Il piano si basava sul principio che la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi impegni solo se fosse stata messa in grado di far funzionare al meglio la sua macchina produttiva: prevedeva quindi che l'entità delle rate da pagare fosse graduata nel tempo e che la finanza internazionale, in particolare quella statunitense, sovvenzionasse lo Stato tedesco con una serie di prestiti a lunga scadenza. La Germania rientrava così in possesso della Ruhr, vedeva temporaneamente alleviato l'onere dei suoi debiti e soprattutto otteneva un massiccio aiuto per la sua ripresa economica, che fu in effetti pronta e consistente: in poco tempo l'industria tedesca tornò ai primi posti nel mondo per volume di produzione. La crisi della Ruhr e la grande inflazione del '23 avevano però lasciato segni profondi nella società tedesca e aggravato i mali cronici di cui soffriva la Repubblica di Weimar. La grande coalizione guidata da Stresemann si ruppe già alla fine del '23. Le elezioni del maggio '24 videro un calo dei partiti democratici e una parallela avanzata delle due estreme (comunisti e tedesconazionali) che avevano impostato la loro campagna sul rifiuto del piano Dawes. Un anno dopo (marzo 1925), nelle elezioni presidenziali convocate per eleggere il successore di Ebert, il cattolico Wilhelm Marx, sostenuto da tutti i partiti democratici ma non dai comunisti, fu battuto di stretta misura dal vecchio maresciallo Hindenburg, già capo dell'esercito e simbolo vivente del passato imperiale. Negli anni successivi tuttavia, grazie anche alla ripresa economica, la situazione politica si andò stabilizzando. I partiti di centro e di centrodestra mantennero il potere fino al 1928, quando i socialdemocratici ottennero una buona affermazione elettorale e riassunsero la guida del governo.

Stresemann conservò ininterrottamente fino alla sua morte (luglio 1929) la carica di ministro degli Esteri, assicurando così la continuità di quella linea di collaborazione con le potenze vincitrici che era stata inaugurata in piena crisi della Ruhr e che costituì il cardine principale dell'equilibrio europeo nella seconda metà degli anni '20. 15.8. La ricerca della distensione in Europa. L'equilibrio europeo, Il sistema di alleanze francese, Briand e Stresemann, Gli accordi di Locarno, Il piano Young, Apogeo e crisi della politica di distensione. Il varo del piano Dawes e il superamento della crisi della Ruhr segnarono una svolta importante non solo per i rapporti francotedeschi, ma per l'intero assetto europeo uscito dai trattati di pace. Di questo assetto la Francia era stata, nella prima metà degli anni '20, la principale se non l'unica garante, in seguito alla scelta isolazionista degli Stati Uniti e vista la riluttanza della Gran Bretagna ad assumere nuovi impegni militari sul continente. La Francia si era sentita in qualche modo tradita dai suoi alleati e aveva cercato di costruirsi da sola il proprio sistema di sicurezza, legando a sé con una rete di alleanze tutti quei paesi dell'Europa centroorientale che erano stati avvantaggiati dai trattati di Versailles - o dovevano ad essi la loro stessa esistenza - ed erano quindi contrari a ogni ipotesi di revisione del nuovo assetto europeo: in primo luogo la Polonia; poi la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e la Romania che, nel 1921, si erano unite in un'alleanza che fu detta Piccola Intesa. L'accordo coi piccoli Stati dell'Est non sembrava tuttavia sufficiente ad allontanare lo spettro di una rivincita tedesca. Da qui l'impegno quasi fanatico dei governanti francesi nel pretendere il rispetto integrale delle clausole di Versailles e nell'esigere il pagamento delle riparazioni, viste come il mezzo più sicuro per mettere in ginocchio la Germania. Questa linea di politica estera, culminata nell'occupazione della Ruhr, subì un deciso mutamento nel 1924 con l'accettazione del piano Dawes da parte dei governi francese e tedesco. Si inaugurò allora una fase di distensione e di collaborazione fra le due potenze ex nemiche, che ebbe i suoi maggiori protagonisti in Gustav Stresemann e nel ministro degli Esteri francese Aristide Briand, I due statisti perseguivano obiettivi diversi, se non opposti: Briand voleva fondare su basi più stabili l'equilibrio di Versailles, mentre Stresemann cercava di superare quell'equilibrio per riportare prima o poi la Germania a una condizione di grande potenza. Alla base della loro

intesa c'era però la volontà comune di superare le fratture create dalla guerra, di normalizzare i rapporti fra vincitori e vinti sulla base di impegni liberamente sottoscritti, nel quadro di un più vasto progetto di sicurezza collettiva. Il risultato più importante dell'intesa francotedesca fu rappresentato dagli accordi di Locarno dell'ottobre 1925, che consistevano nel riconoscimento da parte di Germania, Francia e Belgio delle frontiere comuni tracciate a Versailles e nell'impegno di Gran Bretagna e Italia a farsi garanti contro eventuali violazioni. La Francia otteneva così una garanzia internazionale ai suoi confini. La Germania accettava la perdita dell'Alsazia Lorena, ma evitava di prendere impegni analoghi per quanto riguardava le sue frontiere orientali e usciva nel complesso rafforzata dagli accordi che la vedevano, per la prima volta dopo la guerra, in veste di soggetto attivo, e non di semplice oggetto, di un trattato internazionale. Un anno dopo la firma del patto, la Germania fu ammessa alla Società delle nazioni. Nel giugno 1929 un nuovo piano, elaborato ancora una volta da un finanziere americano, Owen D. Young, ridusse ulteriormente l'entità delle riparazioni e ne graduò il pagamento in sessant’anni. Nel giugno 1930 gli ultimi reparti francesi si ritirarono dalla Renania [§13.12] mentre il governo tedesco rinnovava l'impegno a mantenere la regione smilitarizzata. Il graduale superamento dello storico contrasto francotedesco parve aprire nuove prospettive di pace per l'Europa e per il mondo intero. Il nuovo clima di distensione internazionale trovò una conferma eloquente - anche se di valore soprattutto simbolico - nell'estate del 1928, quando i rappresentanti di quindici Stati, fra cui Germania e Unione Sovietica, riuniti a Parigi su iniziativa di Briand e del segretario di Stato americano Frank Kellogg, firmarono un patto con cui si impegnavano a rinunciare alla guerra come mezzo per risolvere le controversie. La firma del Patto di Parigi (o Patto BriandKellogg) e il varo del piano Young rappresentarono il punto più alto della fase di distensione internazionale che caratterizzò la seconda metà degli anni '20. Ma questa stagione si interruppe bruscamente alla fine del decennio, in coincidenza con l'inizio della grande crisi economica mondiale. Già nel settembre 1930 la Francia decideva di dare il via alla costruzione di un imponente complesso di fortificazioni difensive (la cosiddetta linea Maginot) lungo il confine con la Germania. Era il segno più evidente dell'esaurirsi dello "spirito di Locarno" e della caduta delle speranze nella "sicurezza collettiva".

Sommario La guerra era stata un'esperienza di massa senza precedenti e fece sentire i suoi effetti in ogni campo della vita sociale; tutti i valori tradizionali ne furono scossi. Il problema maggiore che i governi si trovarono di fronte fu quello dell'inserimento dei reduci. La politica si fece sempre più fenomeno di massa. Dappertutto si diffondevano le aspirazioni al cambiamento, sia di tipo rivoluzionario, sia sotto forma di generiche aspirazioni alla pace e alla giustizia sociale. Tranne gli Stati Uniti, tutti i paesi belligeranti uscirono dal conflitto in condizioni di dissesto economico. L'inflazione modificava la distribuzione della ricchezza, mentre la nuova situazione del commercio internazionale vedeva ridotto il ruolo dell'Europa. Fu necessario nei vari paesi, di fronte ai problemi posti dal ritorno all'economia di pace, tenere ancora in piedi le strutture statali di intervento nell'economia. A un'iniziale e artificiale espansione economica seguì, nel 1920-21, una fase di crisi. Tra la fine del '18 e l'estate del '20 (il "biennio rosso") il movimento operaio europeo fu protagonista di una grande avanzata politica che assunse anche tratti di agitazione rivoluzionaria, sulla scia del mito della rivoluzione russa. L'ipotesi rivoluzionaria fallì ovunque, mentre si accentuò, entro il movimento operaio, la divisione tra riformisti e rivoluzionari, con la fondazione del Comintern e la nascita di partiti comunisti. Dopo l'armistizio e la caduta dell'Impero, la Germania si trovava in una situazione simile a quella della Russia nel '17. Ma la socialdemocrazia - che era il partito più forte e controllava il governo repubblicano - si oppose decisamente a esperienze di tipo sovietico, trovando un terreno di obiettiva convergenza con la vecchia classe dirigente. L'insurrezione tentata nel gennaio '19 dai comunisti "spartachisti" fu repressa nel sangue. Le elezioni per l'Assemblea costituente che si tennero poco dopo videro l'affermazione della socialdemocrazia e del Centro cattolico. L'Assemblea, riunita a Weimar, elaborò una costituzione democratica fra le più avanzate dell'epoca. Nel 1920 i socialdemocratici subirono una sconfitta elettorale e dovettero lasciare la guida del governo. Simili furono le vicende politiche in Austria: dopo che i socialdemocratici governarono nella fase del trapasso di regime, il potere passò nelle mani del Partito cristianosociale. In Ungheria, nel 1919, dopo la breve esperienza comunista, il potere fu conquistato da Horthy che instaurò un regime autoritario. Il biennio rosso si concluse con un riflusso delle agitazioni operaie e una ripresa delle forze moderate. La Francia degli anni '20 vide sul piano politico un'egemonia dei conservatori (tranne la breve parentesi del "cartello

delle sinistre" nel '24-25); alla stabilizzazione politica si accompagnò - nella seconda metà del decennio - una sensibile ripresa economica. Più difficile fu la situazione dell'economia britannica, caratterizzata da una fase di ristagno per tutti gli anni '20. In questo periodo, il Partito laburista si affermò come secondo partito del paese (nonostante la secca sconfitta subita dal movimento sindacale nel '26). La situazione politica della Repubblica di Weimar era caratterizzata da una forte instabilità politica; l'opinione pubblica borghese, in particolare, nutriva diffidenza per un sistema democratico che considerava indissolubilmente associato alla sconfitta. Il problema delle riparazioni alimentò questo stato d'animo, provocando, sul piano economico, una gravissima crisi del marco. All'inizio del '23, Francia e Belgio occuparono la Ruhr, regione vitale per l'economia tedesca. In Germania la crisi precipitò e l'inflazione raggiunse livelli impensabili. Vi furono tentativi insurrezionali da parte dell'estrema sinistra (Amburgo) e dell'estrema destra (putsch di Monaco, capeggiato da Hitler, nel novembre '23). A partire dall'estate il governo Stresemann avviò una politica di stabilizzazione monetaria e di riconciliazione con la Francia. Grazie al piano Dawes del 1924, la Germania poté fruire di prestiti internazionali (soprattutto statunitensi), che le avrebbero consentito una rapida ripresa economica. Con il piano Dawes iniziava una fase di distensione internazionale, confermata dagli accordi di Locarno del 1925, che normalizzavano i rapporti francotedeschi. Questa fase si interruppe alla fine del decennio in coincidenza con la crisi economica internazionale. Bibliografia Su economia e società in Europa nel primo dopoguerra, vedi il tomo I del vol. V della Storia economica e sociale del mondo, a e. di P. Leon, Guerre e crisi 1914-1947, Laterza, RomaBari 1979. Per un'analisi comparata delle vicende economiche e politiche in Francia, Germania e Italia, C. Maier, La rifondazione dell'Europa borghese, Il Mulino, Bologna 1999. Sul "biennio rosso" in Europa: EL. Carsten, La rivoluzione nell'Europa centrale 19181919, Feltrinelli, Milano 1978; A. S. Lindemann, Socialismo europeo e bolscevismo (1919-1921), Il Mulino, Bologna 1977. Sulla Repubblica di Weimar: E. Eyck, Storia della Repubblica di Weimar (1918-1933), Einaudi, Torino 1966; H. Schulze, La Repubblica di Weimar. La Germania dal 1917 al 1933, Il Mulino, Bologna 1987; H. A. Winkler, La Repubblica di Weimar. 1918-1933: storia della prima democrazia tedesca,

Donzelli, Roma 1998. Per un'analisi in chiave sociologica e politologica, G. E. Rusconi, La crisi di Weimar. Crisi di sistema e sconfitta operaia, Einaudi, Torino 1977; sugli aspetti culturali, W. Laqueur, La Repubblica di Weimar, Rizzoli, Milano 1977 e P. Gay, La cultura di Weimar, Dedalo, Bari 1978. Su Gran Bretagna e Francia nel periodo fra le due guerre: A J. P. Taylor, Storia dell'Inghilterra contemporanea, Laterza, Bari 1968 e W. L. Shirer, La caduta della Francia, Einaudi, Torino 1971. 16. Il dopoguerra in Italia e l'avvento del fascismo. 16.1. I problemi del dopoguerra. Crisi economica e mobilitazione sociale, La fragilità delle strutture politiche, La crisi della classe dirigente liberale. Con la vittoria l'Italia aveva superato la prova più impegnativa della sua storia unitaria, ma restava alle prese con i mille problemi che la grande guerra aveva ovunque lasciato dietro di sé. L'economia presentava i tratti tipici della crisi postbellica: sviluppo abnorme di alcuni settori industriali (con conseguenti problemi di riconversione), sconvolgimento dei flussi commerciali, deficit gravissimo del bilancio statale, inflazione galoppante. Tutti i settori della società erano in fermento. La classe operaia, tornata alla libertà sindacale dopo la compressione degli anni di guerra e infiammata dagli echi di quanto stava accadendo in Russia, non solo chiedeva miglioramenti economici, ma reclamava maggior potere in fabbrica e manifestava, almeno in alcune frange, tendenze rivoluzionarie. I contadini tornavano dal fronte con una accresciuta consapevolezza dei loro diritti, insofferenti dei vecchi equilibri sociali, decisi a ottenere dalla classe dirigente l'attuazione delle promesse fatte nel corso del conflitto. I ceti medi, che erano stati fortemente coinvolti nell'esperienza della guerra - e fortemente colpiti dalle sue conseguenze economiche - tendevano a organizzarsi e a mobilitarsi più che in passato per difendere i loro interessi e i loro ideali patriottici. Questi problemi erano in parte comuni a tutti gli Stati usciti dal conflitto. Ma si presentavano in forma più acuta in un paese come l'Italia, dove, rispetto all'Inghilterra e alla Francia, le strutture economiche erano meno avanzate e le istituzioni politiche meno profondamente radicate nella società. Il processo di democratizzazione era appena agli inizi, anche perché il suffragio universale maschile era stato applicato per la prima volta nel 1913. Il modo stesso in cui era stato deciso l'intervento - contro

l'orientamento delle masse popolari e della maggioranza parlamentare aveva provocato gravissime fratture nel paese e in seno alla classe dirigente liberale. A guerra finita, questa classe dirigente si trovò sempre più contestata e isolata, non si mostrò in grado di dominare i fenomeni di mobilitazione di massa che il conflitto mondiale aveva suscitato e finì così col perdere l'egemonia indiscussa di cui aveva goduto fin allora. Risultarono invece favorite quelle forze, socialiste e cattoliche, che si consideravano estranee alla tradizione dello Stato liberale, che non erano compromesse con le responsabilità della guerra e che, inquadrando larghe masse, potevano meglio interpretare le nuove dimensioni assunte dalla lotta politica. 16.2. Cattolici, socialisti e fascisti. Il Partito popolare, La crescita del Psi, Il massimalismo, L'estrema sinistra socialista, Le illusioni rivoluzionarie, Mussolini e i Fasci di combattimento, L'assalto all""Avanti!". Furono i cattolici a portare il primo e più importante fattore di novità, abbandonando la tradizionale linea astensionistica e dando vita, nel gennaio 1919, a una nuova formazione politica che prese il nome di Partito popolare italiano (Ppi). Il nuovo partito, che ebbe il suo padre riconosciuto e il suo primo segretario in don Luigi Sturzo, si presentava con un programma di impostazione democratica e, pur ispirandosi apertamente alla dottrina cattolica, si dichiarava aconfessionale. In realtà, il Ppi era strettamente legato alla Chiesa e alle sue strutture organizzative. La sua stessa nascita era stata resa possibile dal nuovo atteggiamento assunto dopo la guerra dal papa e dalle gerarchie ecclesiastiche, preoccupati di opporre un argine alla minaccia socialista. Nelle file del partito erano inoltre confluiti, accanto agli eredi della democrazia cristiana di Romolo Murri e ai capi delle leghe bianche (spesso schierati su posizioni socialmente molto avanzate), anche gli esponenti delle correnti clericomoderate che avevano guidato il movimento cattolico nell'anteguerra. Nonostante questi elementi contraddittori, la nascita del partito rappresentò una svolta in positivo per la democrazia italiana, la fine di un'anomalia che aveva accompagnato lo Stato unitario fin dalla nascita. L'altra grande novità nel panorama politico italiano fu la crescita impetuosa del Partito socialista, i cui iscritti aumentarono rapidamente, fino a raggiungere, alla fine del '20, la cifra di 200.000. Schiacciante, nel partito, era la prevalenza della corrente di sinistra, ora chiamata massimalista, su quella riformista, che conservava però una posizione di forza nel gruppo

parlamentare e nelle organizzazioni economiche. I massimalisti, che avevano il loro leader di maggior spicco nel direttore dell""Avanti!" Giacinto Menotti Serrati, si ponevano come obiettivo immediato l'instaurazione della repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato e si dichiaravano ammiratori entusiasti della rivoluzione bolscevica. In realtà i massimalisti italiani avevano ben poco in comune coi bolscevichi russi. Più che preparare la rivoluzione, la aspettavano, ritenendola comunque inevitabile. Più che guidare le masse alla conquista dello Stato, ne seguivano i movimenti, vedendovi i segni di una prossima presa del potere. In polemica con questa impostazione, si formarono nel Psi gruppi di estrema sinistra, composti per lo più da giovani, che si battevano per un più coerente impegno rivoluzionario e per una più stretta adesione all'esempio dei comunisti russi. Fra questi gruppi emergevano quello napoletano che faceva capo ad Amadeo Bordiga e quello che operava a Torino attorno ad Antonio Gramsci e alla rivista "L'Ordine Nuovo". Mentre Bordiga puntava soprattutto sulla creazione di un nuovo partito rivoluzionario ricalcato sul modello bolscevico, Gramsci e i suoi amici (Togliatti, Terracini, Tasca), che agivano a contatto coi nuclei operai più avanzati e combattivi d'Italia, erano affascinati dall'esperienza dei soviet, visti come strumenti di lotta contro l'ordine borghese e al tempo stesso come embrioni della società socialista. All'indomani della guerra, il grosso del Partito socialista era dunque schierato su posizioni apertamente rivoluzionarie. Ma questa radicalizzazione finì con l'isolare il movimento operaio e col ridurne i margini di azione politica. Prospettando una soluzione "alla russa", i socialisti si preclusero ogni possibilità di collaborazione con le forze democraticoborghesi, spaventate dalla minaccia della dittatura proletaria. Insistendo nella condanna indiscriminata di tutto ciò che avesse a che fare col passato conflitto, e in genere nel rifiuto di ogni logica "nazionale", ferirono il patriottismo della piccola borghesia e fornirono argomenti all'oltranzismo nazionalista dei numerosi gruppi e gruppuscoli che si formarono nell'immediato dopoguerra con lo scopo di difendere i "valori della vittoria". Fra questi movimenti, per lo più destinati a vita breve, faceva spicco quello fondato a Milano, il 23 marzo 1919, da Benito Mussolini, col nome di Fasci di combattimento. Politicamente, il nuovo movimento si schierava a sinistra, chiedeva audaci riforme sociali e si dichiarava favorevole alla repubblica; ma nel contempo ostentava un acceso nazionalismo e una feroce

avversione nei confronti dei socialisti. Ai suoi esordi, il fascismo raccolse solo scarse ed eterogenee adesioni (ex repubblicani, ex sindacalisti rivoluzionari, ex arditi di guerra). Ma si fece subito notare per il suo stile politico aggressivo e violento, insofferente di vincoli ideologici e tutto teso verso l'azione diretta. Non a caso i fascisti furono protagonisti del primo grave episodio di guerra civile dell'Italia postbellica: lo scontro con un corteo socialista avvenuto a Milano il 15 aprile '19 e conclusosi con l'incendio della sede dell""Avanti!". Era il segno di un clima di violenza e di intolleranza destinato ad aggravarsi col passare dei mesi, in conseguenza sia dell'inasprimento delle tensioni sociali, sia delle polemiche provocate dall'andamento della conferenza della pace. 16.3. La "vittoria mutilata" e l'impresa fiumana. Il Patto di Londra, Fiume e la Dalmazia, La conferenza della pace e le contraddizioni dell'Italia, Da Orlando a Nitti, La "vittoria mutilata", D'Annunzio a Fiume, L'avventura fiumana. Dal punto di vista degli equilibri internazionali, l'Italia era uscita dalla guerra nettamente rafforzata. Non solo aveva raggiunto i sospirati "confini naturali", ma aveva visto scomparire dalle sue frontiere il nemico tradizionale, l'Impero asburgico. La dissoluzione dell'AustriaUngheria poneva però una serie di problemi non previsti nel momento in cui era stato stipulato il Patto di Londra [§13.3]: in esso si stabiliva, fra l'altro, che la Dalmazia - abitata in prevalenza da slavi e ora rivendicata dal nuovo Stato jugoslavo - fosse annessa all'Italia e che la città di Fiume - dove gli italiani erano in maggioranza - restasse all'Impero austroungarico. Per i governanti italiani si imponeva quindi una scelta: restare ancorati ai canoni della vecchia diplomazia e pretendere il rispetto integrale del Patto di Londra, o abbracciare i princìpi della nuova "politica delle nazionalità", rinunciando ai vantaggi territoriali in Dalmazia e puntando sull'amicizia con la Jugoslavia. La delegazione italiana alla conferenza di Versailles, capeggiata dal presidente del Consiglio Orlando e dal ministro degli Esteri Sonnino, cercò di eludere questa scelta, chiedendo l'annessione di Fiume sulla base del principio di nazionalità, ma in aggiunta ai territori promessi nel '15. Tali richieste incontrarono l'opposizione degli alleati, in particolare di Wilson che non era vincolato dalle clausole del Patto di Londra. Nell'aprile del '19, per protestare contro l'atteggiamento del presidente americano - che aveva cercato di scavalcarli indirizzando un messaggio al popolo italiano Orlando e Sonnino abbandonarono Versailles e fecero ritorno in Italia, dove

furono accolti da imponenti manifestazioni patriottiche. Ma un mese dopo dovettero tornare a Parigi senza aver ottenuto alcun risultato. Questo insuccesso segnò la fine del governo Orlando, che si dimise a metà giugno. Il nuovo ministero presieduto da Francesco Saverio Nitti (economista e meridionalista di orientamento democratico) si trovò ad affrontare una situazione già gravemente deteriorata. Gli avvenimenti della primavera '19 avevano infatti suscitato in larghi strati dell'opinione pubblica borghese un sentimento di ostilità verso gli ex alleati, accusati di voler defraudare l'Italia dei frutti della vittoria, e verso la stessa classe dirigente, giudicata incapace di tutelare gli interessi nazionali. Si parlò allora di vittoria mutilata: un'espressione coniata da Gabriele D'Annunzio, ormai assurto al ruolo di vate nazionale, anche in virtù di alcune audaci e fortunate imprese compiute durante la guerra. La manifestazione più clamorosa di questa protesta si ebbe nel settembre 1919, quando alcuni reparti militari ribelli assieme a gruppi di volontari, sotto il comando di D'Annunzio, occuparono la città di Fiume, posta allora sotto controllo internazionale, e ne proclamarono l'annessione all'Italia. Concepita all'inizio come un mezzo di pressione sul governo, l'avventura fiumana si prolungò per quindici mesi e si trasformò in un'inedita esperienza politica. A Fiume, dove D'Annunzio istituì una provvisoria "reggenza", si diedero convegno i personaggi più disparati: alti ufficiali con inclinazioni al colpo di Stato e politici in cerca di fortuna; giovani idealisti e avventurieri d'ogni tipo; nazionalisti e antichi sovversivi (soprattutto sindacalisti rivoluzionari); esuli di diverse nazionalità che protestavano contro i trattati di Versailles. A Fiume maturò il piano, non attuato, di una marcia che avrebbe dovuto concludersi a Roma con la cacciata del governo. A Fiume, infine, furono sperimentati per la prima volta formule e rituali collettivi (adunate coreografiche, dialoghi fra il capo e la folla) che sarebbero stati ripresi e applicati su ben più larga scala dai movimenti autoritari degli anni '20 e '30. 16.4. Le agitazioni sociali e le elezioni del '19. L'inflazione e i moti contro il caroviveri, Gli scioperi, Le agitazioni agrarie La frammentazione delle lotte, Le elezioni del novembre '19: il successo dei partiti di massa, La crisi dei vecchi equilibri politici. Fra il 1919 e il 1920, in coincidenza con l'impresa fiumana e con le polemiche sulla questione adriatica, l'Italia attraversò una fase di convulse agitazioni sociali e di profondi mutamenti negli equilibri politici. Fra il '18 e

il '20, i prezzi continuarono ad aumentare (con un ritmo annuo superiore al 30%). Fra il giugno e il luglio del '19, le principali città italiane furono teatro di una serie di violenti tumulti contro il caroviveri. Più in generale, l'aumento del costo della vita determinò una continua rincorsa fra salari e prezzi, che si tradusse a sua volta in una grande ondata di agitazioni sindacali. Gli scioperi nell'industria passarono dai 300 del '18 ai 1660 del '19, con un numero di lavoratori coinvolti superiore al milione (una cifra senza precedenti per l'Italia) e aumentarono ancora nel 1920 (1880 scioperi con 1.270.000 scioperanti). Anche il settore dei servizi pubblici, in genere meno sindacalizzato, fu sconvolto da una lunga serie di scioperi: furono soprattutto questi ultimi a suscitare disagio nell'opinione pubblica e a provocare le prime reazioni contro quella che venne definita "scioperomania". Non meno intense furono in questo periodo le lotte dei lavoratori agricoli. Oltre alla Bassa Padana, dove prevaleva il bracciantato e dove le leghe rosse avevano in pratica il monopolio della rappresentanza sindacale, le agitazioni interessarono anche altre aree del CentroNord: zone in cui dominavano la mezzadria e la piccola proprietà e in cui erano attive, spesso in concorrenza con le organizzazioni socialiste, le leghe bianche cattoliche. Leghe bianche e leghe rosse si battevano spesso per le stesse rivendicazioni immediate, ma divergevano profondamente negli obiettivi di lungo periodo. Mentre le organizzazioni socialiste insistevano sul programma massimo della "socializzazione della terra", i cattolici difendevano la mezzadria e le altre forme di compartecipazione e si battevano per lo sviluppo della piccola proprietà contadina. L'aspirazione alla proprietà della terra fu all'origine di un altro movimento che si sviluppò in forma spontanea, tra l'estate e l'autunno del'19 (e ancora nel corso del '20) nelle campagne del CentroSud: l'occupazione di terre incolte e latifondi da parte di contadini poveri, spesso ex combattenti. Se si guarda al panorama complessivo delle agitazioni sociali nel primo biennio postbellico, ciò che più colpisce è la mancanza di un collegamento reciproco. Le molte piccole rivoluzioni che sconvolsero il paese all'indomani della guerra procedettero ognuna per proprio conto o addirittura l'una contro l'altra, seguendo - ed esasperando - le tradizionali linee di divisione della società italiana: borghesiproletari, laicicattolici, operaicontadini, NordSud, cittàcampagna, patriasocialismo. Le prime elezioni politiche del dopoguerra, che ebbero luogo nel novembre 1919, diedero la misura delle trasformazioni avvenute rispetto al periodo prebellico, ma mostrarono anche la gravità delle fratture che

attraversavano la società e il sistema politico. Furono queste le prime elezioni tenute col metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista: metodo che prevedeva il confronto fra liste di partito (anziché fra singoli candidati) e che, contrariamente al vecchio sistema del collegio uninominale, assicurava alle varie liste un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti e favoriva i gruppi organizzati su base nazionale. L'esito fu disastroso per la vecchia classe dirigente. I gruppi liberaldemocratici, che si erano presentati divisi alle elezioni, persero la maggioranza assoluta passando dagli oltre 300 seggi del 1913 a circa 200. I socialisti si affermarono come il primo partito con 1.800.000 voti (pari al 32 %) e 156 seggi (tre volte più che nel '13), seguiti dai popolari, con 1.160.000 voti e 100 deputati. Questi risultati mostravano che il sistema politico, sollecitato da nuove istanze e da nuove presenze, non era capace né di reggersi secondo il vecchio equilibrio né di esprimerne uno nuovo: anche a causa della frammentazione prodotta dal sistema proporzionale che, riproducendo fedelmente le tendenze dell'elettorato, non favoriva la formazione di maggioranze omogenee. Dal momento che il Psi rifiutava ogni collaborazione coi gruppi "borghesi", l'unica maggioranza possibile era quella basata sull'accordo fra popolari e liberaldemocratici. Su questa precaria coalizione si fondarono gli ultimi governi dell'era liberale. 16.5. Giolitti, l'occupazione delle fabbriche e la nascita del Pci. Il programma di Giolitti, Il trattato di Rapallo, La fine dell'avventura fiumana, I limiti del disegno giolittiano, Lo scontro sindacale, I consigli di fabbrica L'occupazione delle fabbriche, Dalle attese rivoluzionarie al compromesso sindacale, Delusione operaia e propositi di rivincita borghese, I contrasti nel movimento operaio, Il congresso di Livorno e la nascita del Pci. Indebolito dall'esito delle elezioni, il ministero Nitti sopravvisse fino al giugno 1920, quando a costituire il nuovo governo fu chiamato l'ormai ottantenne Giovanni Giolitti. Rimasto ai margini della vita politica negli anni della guerra, Giolitti era rientrato in scena alla vigilia delle elezioni delineando, in un celebre discorso pronunciato a Dronero, in Piemonte, un programma molto avanzato, in cui si proponeva fra l'altro la nominatività dei titoli azionari (cioè l'obbligo di intestare le azioni al nome del possessore, permettendone così la tassazione) e un'imposta straordinaria sui "sovraprofitti" realizzati dall'industria bellica. Le preoccupazioni che questo

programma suscitava negli ambienti conservatori passarono in secondo piano rispetto alla speranza che il vecchio statista riuscisse a domare l'opposizione socialista con le arti del compromesso parlamentare. In effetti, nei dodici mesi in cui tenne la guida dell'esecutivo, Giolitti diede prova ancora una volta di abilità e di energia. I risultati più importanti il governo li ottenne in politica estera, imboccando l'unica strada praticabile per la soluzione della questione adriatica: quella del negoziato diretto con la Jugoslavia. Il negoziato si concluse, il 12 novembre 1920, con la firma del trattato di Rapallo. L'Italia conservò Trieste, Gorizia e tutta l'Istria. La Jugoslavia ebbe la Dalmazia, salvo la città di Zara che fu assegnata all'Italia. Fiume fu dichiarata città libera (sarebbe diventata italiana, grazie a un successivo accordo con la Jugoslavia, nel 1924). Il trattato fu accolto con generale favore dall'opinione pubblica e dalle forze politiche. A Fiume, D'Annunzio annunciò una resistenza a oltranza; ma, quando, il giorno di Natale del 1920, le truppe regolari attaccarono la città dalla terra e dal mare, preferì abbandonare la partita. Molto più serie furono le difficoltà incontrate da Giolitti sul terreno della politica interna. Il governo impose, nonostante le proteste dei socialisti, la liberalizzazione del prezzo del pane (tenuto artificialmente basso, a spese dell'erario, fin dagli anni della guerra) e avviò così il risanamento del bilancio statale; ma non riuscì a rendere operanti i progetti di tassazione dei titoli azionari e dei profitti di guerra, progetti che sarebbero poi stati affossati dai successivi governi. Ma a fallire fu soprattutto il disegno politico complessivo dello statista piemontese: disegno che consisteva nel ridimensionare le spinte rivoluzionarie del movimento operaio accogliendone in parte le istanze di riforma, nel ripetere insomma l'esperimento già tentato con qualche successo ai primi del secolo. In realtà, quell'esperienza non era più ripetibile: i liberali non avevano più la solida maggioranza dell'anteguerra; i socialisti erano su posizioni molto diverse da quelle di vent'anni prima; i popolari erano troppo forti per piegarsi al ruolo subalterno cui Giolitti avrebbe voluto costringerli; il centro della lotta politica si era ormai spostato dal Parlamento alle segreterie dei partiti, alle centrali sindacali o addirittura alle piazze; i conflitti sociali, infine, conobbero, nell'estateautunno del '20, il loro episodio più drammatico con l'agitazione dei metalmeccanici culminata nell'occupazione delle fabbriche. La vertenza vedeva contrapposti i nuclei di punta del mondo imprenditoriale e del movimento operaio italiano. Da un lato gli industriali del settore metalmeccanico, ingranditosi con la produzione bellica, minacciato dai primi segni di una crisi produttiva e anche per questo deciso a cercare la prova di forza. Dall'altro una categoria operaia compatta e

combattiva, che era organizzata dal più forte dei sindacati aderenti alla Cgl (la Fiom, Federazione italiana operai metallurgici), ma aveva visto anche svilupparsi, al di fuori dei canali sindacali ufficiali, l'esperimento rivoluzionario dei consigli di fabbrica: organismi eletti direttamente dai lavoratori e ispirati dal gruppo torinese dell""Ordine Nuovo" [§16.2] che vedeva in essi un nuovo strumento di "democrazia operaia", una sorta di corrispettivo italiano dei soviet. Fu il sindacato a dare inizio alla vertenza, presentando una serie di richieste economiche e normative, cui gli industriali opposero un netto rifiuto. Alla fine di agosto, in risposta alla serrata (cioè alla chiusura degli stabilimenti) attuata da un'azienda milanese, la Fiom ordinò ai suoi aderenti di occupare le fabbriche. Nei primi giorni di settembre, quasi tutti gli stabilimenti metallurgici e meccanici (e anche di altri settori) furono occupati da circa 400.000 operai, che issarono le bandiere rosse sui tetti delle officine, organizzarono servizi armati di vigilanza e cercarono, ove possibile, di proseguire da soli il lavoro. La maggior parte dei lavoratori in lotta visse questa esperienza come l'inizio di un moto rivoluzionario destinato ad allargarsi ben oltre le officine occupate. In realtà il movimento non era in grado di uscire dalle fabbriche, di collegarsi ad altre lotte sociali in corso (per esempio a quelle delle campagne padane), di porsi in modo concreto il problema del potere. Nemmeno i gruppi più coerentemente rivoluzionari, come i torinesi dell""Ordine Nuovo", avevano idee precise sul modo in cui spostare il movimento dal terreno della vertenza sindacale a quello dell'attacco allo Stato. Prevalse così la linea dei dirigenti della Cgl, che intendevano impostare lo scontro sul piano economico e proponevano come obiettivo il controllo sindacale sulle aziende. Tale esito fu favorito dall'iniziativa mediatrice di Giolitti, che si era attenuto a una linea di rigorosa neutralità, resistendo alle pressioni del padronato per un intervento della forza pubblica contro le fabbriche occupate. Il 19 settembre, il capo del governo riuscì a far accettare ai riluttanti industriali un accordo che accoglieva nella sostanza le richieste economiche della Fiom e affidava a una commissione paritetica l'incarico di elaborare un progetto per il controllo sindacale (che peraltro non avrebbe trovato attuazione pratica). Sul piano sindacale, gli operai uscivano vincitori dallo scontro. Ma sul piano politico la sensazione dominante era di delusione rispetto alle attese maturate nei giorni "eroici" dell'occupazione. D'altro canto, gli industriali non nascondevano la loro irritazione per aver dovuto subire le pressioni del governo. E la borghesia tutta, passata la "grande paura" della rivoluzione,

cominciava a serrare i suoi ranghi, apprestandosi a sfruttare ogni occasione di rivincita. L'esito dell'occupazione delle fabbriche lasciò nelle file del movimento operaio uno strascico di recriminazioni e polemiche. I dirigenti riformisti della Cgl erano accusati di aver svenduto la rivoluzione in cambio di un accordo sindacale. Ma anche la direzione massimalista del Psi era attaccata dai gruppi di estrema sinistra per il suo comportamento incerto. Queste polemiche si intrecciarono con le fratture provocate dal II Congresso del Comintern [§14.4]: dove, come si ricorderà, erano state fissate le condizioni per l'ammissione dei partiti operai all'Internazionale comunista. Due furono i punti più controversi: quello in cui si ingiungeva ai partiti aderenti di assumere la denominazione di "Partito comunista" e quello in cui si imponeva l'espulsione degli elementi "riformisti e centristi". Serrati e i massimalisti rifiutarono di sottostare a queste condizioni: sia perché le ritenevano lesive dell'autonomia del partito, sia perché sapevano che, espellendo i riformisti, il Psi avrebbe perso buona parte dei suoi quadri sindacali, dei suoi deputati, dei suoi amministratori locali. Al congresso del partito, tenutosi a Livorno nel gennaio 1921, i riformisti non furono espulsi e fu invece la minoranza di sinistra ad abbandonare il Psi per fondare il Partito comunista d'Italia. Il nuovo partito nasceva così con una base piuttosto ristretta e con un programma rigorosamente leninista, proprio nel momento in cui la prospettiva rivoluzionaria si andava dileguando in Italia e in tutta Europa. D'altra parte la scissione comunista non servì nemmeno a determinare una svolta nel Psi: in questo partito la minoranza riformista rimase come prigioniera di una maggioranza massimalista sempre ferma nel rifiutare ogni ipotesi di collaborazione con le forze borghesi e sempre più impotente a contrastare l'ondata antisocialista che intanto andava montando nel paese. 16.6. Il fascismo agrario e le elezioni del '21. Il riflusso delle lotte operaie, La trasformazione del fascismo, Il "sistema" delle leghe nella Valle Padana, Braccianti, mezzadri, piccoli affittuari, I fatti di Palazzo d'Accursio, La crescita del fascismo agrario, Gli obiettivi dello squadrismo, Le connivenze dei poteri pubblici, Le elezioni del maggio '21. L'occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnarono in Italia la fine del biennio rosso. Provata da due anni di lotte e indebolita dalle divisioni interne, la classe operaia cominciò ad accusare i colpi della crisi recessiva che stava investendo l'economia italiana ed europea e che si

tradusse in un forte aumento della disoccupazione e in una perdita di potere contrattuale per i lavoratori. In questo quadro, in larga parte comune a tutta l'Europa, si inserì un fenomeno che invece non aveva riscontro in nessun altro paese e che aveva origine nelle campagne: lo sviluppo improvviso del fascismo agrario. Fino all'autunno del '20, il fascismo aveva svolto un ruolo marginale nella vita politica (nelle elezioni del '19 le liste dei Fasci avevano ottenuto poche migliaia di voti e nessun deputato) e non era uscito dall'ambito dei gruppetti di matrice interventista a base urbana, intellettuale e piccoloborghese. Tra la fine del '20 e l'inizio del '21, il movimento subì un rapido processo di mutazione che lo portò ad accantonare l'originario programma radicaldemocratico, a fondarsi su strutture paramilitari (le squadre d'azione) e a puntare le sue carte su una lotta spietata contro il movimento socialista, in particolare contro le organizzazioni contadine della Valle Padana. Questa trasformazione si spiega in parte con una scelta di Mussolini, che decise di cavalcare l'ondata di riflusso antisocialista seguita al biennio rosso; in parte va ricollegata alla particolare situazione delle campagne padane, dove il fascismo agrario si sviluppò: che erano poi le zone in cui più forte era la presenza delle leghe rosse. In due anni di lotte aspre e quasi sempre vittoriose (tipico il caso del grande sciopero agrario del Bolognese, durato ben dieci mesi e conclusosi, nell'ottobre del '20, con una sostanziale capitolazione dei proprietari), le leghe socialiste non solo avevano ottenuto notevoli miglioramenti salariali, ma avevano creato un "sistema" apparentemente inattaccabile. Attraverso i loro uffici di collocamento, le leghe controllavano il mercato del lavoro, contrattando con i proprietari il numero di giornate lavorative da svolgere su ogni fondo e distribuendone il carico fra i propri associati. I socialisti disponevano inoltre di una fitta rete di cooperative e avevano in mano buona parte delle amministrazioni comunali, delle quali si servivano per sostenere le lotte dei salariati agricoli. Questo sistema, nato quasi spontaneamente sull'onda delle lotte dei braccianti, non era privo di aspetti autoritari (chi si sottraeva alla disciplina della lega veniva "boicottato", in pratica bandito dalla comunità) e celava al suo interno non pochi motivi di debolezza. Primo fra tutti il contrasto fra la strategia delle organizzazioni socialiste - che privilegiavano il ruolo dei salariati senza terra e miravano all'obiettivo finale della socializzazione - e gli interessi delle categorie intermedie (mezzadri, piccoli affittuari, salariati fissi stabilmente impiegati nell'azienda agraria), che aspiravano a distinguere la loro posizione da quella dei braccianti e a trasformarsi in proprietari. Queste categorie avevano accettato il sistema delle leghe anche perché ne ricevevano

vantaggi in termini sindacali. Ma le cose cambiarono nel momento in cui l'offensiva fascista aprì le prime brecce nell'edificio delle organizzazioni rosse. L'atto di nascita del fascismo agrario viene comunemente individuato nei fatti di Palazzo d'Accursio, a Bologna, del 21 novembre 1920, quando i fascisti si mobilitarono per impedire la cerimonia d'insediamento della nuova amministrazione comunale socialista. Vi furono scontri e sparatorie dentro e fuori il municipio. Per un tragico errore, i socialisti incaricati di difendere il palazzo comunale spararono sulla folla, composta in gran parte dai loro stessi sostenitori, provocando una decina di morti. Da ciò i fascisti trassero pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia. Episodi analoghi si verificarono un mese dopo nel Ferrarese, dopo l'uccisione di tre fascisti. In entrambi i casi i socialisti furono colti di sorpresa e non riuscirono a organizzare reazioni adeguate. La loro incertezza e la loro vulnerabilità accrebbero l'audacia degli avversari. I proprietari terrieri scoprirono nei Fasci lo strumento capace di abbattere il potere delle leghe e cominciarono a sovvenzionarli generosamente. Il movimento fascista vide affluire nelle sue file nuove e numerose reclute: ufficiali smobilitati che faticavano a reinserirsi nella vita civile; figli della piccola borghesia alla ricerca di nuovi canali di promozione sociale e di affermazione politica; giovani e giovanissimi che non avevano fatto in tempo a partecipare alla guerra e che trovavano l'occasione per combattere una loro battaglia contro i veri o presunti nemici della patria. Nel giro di pochi mesi, il fenomeno dello squadrismo dilagò in tutte le province padane, estendendosi anche alle zone mezzadrili della Toscana e dell'Umbria e facendo qualche sporadica comparsa nelle grandi città del CentroNord. Pressoché immune dal contagio fascista rimase per il momento solo il Mezzogiorno, con l'eccezione della Puglia, dove esisteva una fitta rete di leghe socialiste. L'offensiva squadrista ebbe ovunque le stesse caratteristiche. Le squadre partivano in genere dalle città e si spostavano in camion per le campagne, verso i centri rurali. Obiettivo delle spedizioni erano i municipi, le camere del lavoro, le sedi delle leghe, le case del popolo, che vennero sistematicamente devastati e incendiati, e le persone stesse dei dirigenti e dei semplici militanti socialisti, sottoposti a ripetute violenze e spesso costretti a lasciare il loro paese. Buona parte delle amministrazioni "rosse" della Valle Padana furono costrette a dimettersi. Centinaia di leghe furono sciolte e molti dei loro aderenti furono indotti, con le buone o con le cattive maniere, ad aderire a nuove organizzazioni costituite dagli stessi fascisti,

che dal canto loro promettevano di incoraggiare la formazione della piccola proprietà coltivatrice. Il successo travolgente dell'offensiva fascista non può spiegarsi solo con fattori di ordine "militare"; né può essere imputato interamente agli errori dei socialisti, che pure furono molti e di non poco conto. In realtà il movimento operaio, nel 1921-22, si trovò a combattere una lotta impari contro un nemico che godeva di un notevole margine di impunità, potendo giovarsi della benevola neutralità, o addirittura dell'aperto sostegno, di buona parte della classe dirigente e degli apparati statali. Quasi mai la forza pubblica, portata a vedere nei fascisti dei naturali alleati nella lotta contro i "rossi", si oppose con efficacia alle azioni squadristiche. La stessa magistratura adottò nei confronti dei fascisti criteri ben diversi da quelli usati contro i sovversivi di sinistra. Ma pesanti furono anche le responsabilità del governo. Giolitti infatti, pur evitando di favorire apertamente lo squadrismo, guardò con malcelata compiacenza allo sviluppo del movimento fascista, pensando di servirsene per ridurre a più miti pretese i socialisti (e gli stessi popolari) e di poterlo in seguito "costituzionalizzare" assorbendolo nella maggioranza liberale. In questa strategia si inquadrava la decisione di convocare nuove elezioni per il maggio 1921 e di favorire l'ingresso di candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali, cioè nelle liste di coalizione in cui i gruppi "costituzionali" (conservatori, liberali, democratici) si unirono per impedire una nuova affermazione dei partiti di massa. I fascisti ottenevano così una legittimazione da parte della classe dirigente, senza per questo dover rinunciare ai metodi illegali. Anzi, la campagna elettorale fornì loro lo spunto per intensificare intimidazioni e violenze contro gli avversari. Ciononostante, i risultati delle urne delusero chi aveva voluto le elezioni. I socialisti subirono una flessione piuttosto lieve (dal 32 al 25%), tenuto conto delle condizioni anomale in cui si era votato in molti collegi e dell'incidenza della scissione comunista (il Pci ottenne quasi il 5% dei voti). I popolari addirittura si rafforzarono. I gruppi liberaldemocratici uniti nei blocchi nazionali migliorarono le loro posizioni, ma non tanto da riacquistare il completo controllo del Parlamento. In definitiva, la maggior novità fu costituita dall'ingresso alla Camera di 35 deputati fascisti, capeggiati da un Mussolini deciso a giocare il ruolo di nuovo arbitro della politica nazionale. 16.7. L'agonia dello Stato liberale.

Il governo Bonomi e il patto di pacificazione, L'opposizione del fascismo agrario, La nascita del Pnf, Da Bonomi a Facta, L'immobilismo socialista, Lo sciopero "legalitario", La scissione di Roma e la nascita del Psu. L'esito delle elezioni di maggio mise praticamente fine all'ultimo esperimento governativo di Giolitti, che si dimise all'inizio di luglio. Il suo successore, l'ex socialista Ivanoe Bonomi, tentò di far uscire il paese dalla guerra civile favorendo una tregua d'armi fra le due parti in lotta. Una tregua teorica fu in effetti conclusa nell'agosto 1921, con la firma di un patto di pacificazione tra socialisti e fascisti. Il patto consisteva in un generico impegno per la rinuncia alla violenza da ambo le parti. I socialisti, in particolare, accettavano di sconfessare le formazioni degli arditi del popolo, ossia quei gruppi di militanti di sinistra che si erano organizzati spontaneamente in alcune città per opporsi allo squadrismo. Il patto rientrava in quel momento nella strategia di Mussolini, che mirava a inserirsi nel gioco politico "ufficiale" e temeva il diffondersi di una reazione popolare contro lo squadrismo. Questa strategia non era però condivisa dai fascisti intransigenti, che si riconoscevano nello squadrismo agrario e nei suoi capi locali, i cosiddetti ras (un nome ricalcato ironicamente su quello dei signori feudali etiopici). I "ras" (Grandi a Bologna, Farinacci a Cremona, Balbo a Ferrara, per citare solo i più noti) sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione e giunsero a mettere in discussione la leadership di Mussolini. La ricomposizione delle fratture si ebbe al congresso dei Fasci tenutosi a Roma ai primi di novembre. Mussolini si rese conto di non poter fare a meno della massa d'urto dello squadrismo agrario e sconfessò il patto di pacificazione (che del resto non aveva mai funzionato sul serio). I "ras" riconobbero la guida politica di Mussolini e accettarono la trasformazione del movimento fascista in un vero e proprio partito, cosa che avrebbe limitato non poco la loro libertà d'azione. Nasceva così il Partito nazionale fascista (Pnf), che poteva contare su una base di oltre 200.000 iscritti. Mentre il fascismo acquistava forza e compattezza, si consumava la parabola del ministero Bonomi. Nel febbraio 1922, dopo un veto posto da Sturzo al ritorno al potere di Giolitti, la guida del governo fu affidata a Luigi Facta, un giolittiano dalla personalità alquanto sbiadita. Con la costituzione del ministero Facta, l'agonia dello Stato liberale entrò nella sua fase culminante. La scarsa autorità politica del nuovo governo finì col dare ulteriore spazio alla dilagante violenza squadrista. Condotto dalle sue stesse dimensioni, e dalla vastità degli interessi che ormai rappresentava, a superare l'ambito prevalentemente locale entro il quale si era mosso fin

allora, il fascismo si rese protagonista, a partire dalla primavera del '22, di operazioni sempre più ampie e clamorose: scorrerie che coinvolgevano intere province, occupazione in armi di grandi centri, come Ferrara, Bologna e Cremona. All'offensiva del fascismo - che giocava contemporaneamente su due tavoli, quello della violenza armata e quello della manovra politica - i socialisti non seppero opporre risposte efficaci né sul piano della tattica parlamentare né su quello della mobilitazione di massa. Inutile, perché tardiva, fu la decisione presa alla fine di luglio dal gruppo parlamentare socialista di ribellarsi alla linea intransigente imposta dalla direzione del Psi, dichiarando la propria disponibilità ad appoggiare un governo di coalizione democratica. Addirittura disastrosa nei suoi effetti si rivelò la decisione, presa pochi giorni dopo dai dirigenti sindacali, di proclamare per il 1° agosto uno sciopero generale legalitario in difesa delle libertà costituzionali. I fascisti colsero il pretesto per atteggiarsi a custodi dell'ordine e per lanciare una nuova e più violenta offensiva contro il movimento operaio. Per un'intera settimana le camicie nere si scatenarono contro sezioni, circoli, sedi di organizzazioni e giornali socialisti, attaccando le ultime roccheforti "proletarie", come Milano, Genova, Ancona, Livorno e Parma (fu questa l'unica città in cui la popolazione resistette validamente all'attacco squadrista). Il movimento operaio usciva da questa prova materialmente e moralmente distrutto. L'unica conseguenza della ribellione dei parlamentari socialisti alla direzione del partito fu quella di affrettare una nuova e ormai inutile scissione. Ai primi di ottobre del '22 - poche settimane prima che il fascismo conquistasse il potere - in un congresso tenuto a Roma, i riformisti guidati da Turati abbandonavano il Psi per fondare il nuovo Partito socialista unitario (Psu). 16.8. La marcia su Roma. Il fascismo verso il potere, La mobilitazione fascista e il progetto della marcia su Roma, La scelta del re, Mussolini capo del governo, Cambio di governo o di regime? Assicuratosi il controllo della piazza e sbaragliato il movimento operaio, il fascismo era costretto a porsi il problema della conquista dello Stato. Solo insediandosi al potere il partito avrebbe potuto andare incontro alle aspettative delle masse ormai ingenti che si raccoglievano nelle sue file ed evitare il pericolo di una reazione di rigetto da parte di quelle forze

moderate che, avendo appoggiato lo squadrismo in funzione antisocialista, avrebbero potuto ritenerne ormai esaurito il ruolo. In questa delicata fase Mussolini giocò, come al solito, su due tavoli. Da un lato intrecciò trattative con tutti i più autorevoli esponenti liberali in vista della partecipazione fascista a un nuovo governo; rassicurò la monarchia sconfessando le passate simpatie repubblicane; si guadagnò il favore degli industriali annunciando di voler restituire spazio all'iniziativa privata. Dall'altro lasciò che l'apparato militare del fascismo si preparasse apertamente alla presa del potere mediante un colpo di Stato. Cominciò così a prender corpo il progetto di una marcia su Roma, ossia di una mobilitazione generale di tutte le forze fasciste, con obiettivo la conquista del potere centrale. L'inizio della mobilitazione fu fissato al 27 ottobre. Un piano del genere non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse incontrato una ferma reazione da parte delle autorità. Per quanto numerose, le squadre fasciste erano pur sempre delle bande indisciplinate ed equipaggiate in modo approssimativo, non certo in grado di affrontare uno scontro con l'esercito regolare. Lo stesso Mussolini credeva poco nelle possibilità di un successo "militare" e pensava piuttosto di servirsi della mobilitazione come di un mezzo di pressione politica, contando sulla debolezza del governo e sulla benevola neutralità della corona e delle forze armate. In effetti, nel generale disfacimento dei poteri statali (il ministero Facta si dimise proprio il 27 ottobre), fu l'atteggiamento del re a risultare decisivo. Vuoi perché non si curò della lealtà dei vertici militari, vuoi perché deciso a evitare a ogni costo una guerra civile, Vittorio Emanuele III rifiutò, la mattina del 28 ottobre, di firmare il decreto per la proclamazione dello stato d'assedio (cioè per il passaggio dei poteri alle autorità militari), che era stato preparato in tutta fretta dal governo già dimissionario. Il rifiuto del re aprì alle camicie nere la strada di Roma e al loro capo la via del potere. Forte della resa ottenuta senza colpo ferire, Mussolini non si accontentò della soluzione auspicata dal re e dagli ambienti moderati (partecipazione fascista a un governo guidato da un esponente conservatore), ma chiese e ottenne di essere chiamato lui stesso a presiedere il governo. La mattina del 30 ottobre, mentre alcune migliaia di squadristi cominciavano a entrare nella capitale senza incontrare alcuna resistenza, Mussolini fu ricevuto dal re. La sera stessa il nuovo gabinetto era già pronto. Ne facevano parte, oltre a cinque fascisti, esponenti di tutti i gruppi che avevano partecipato ai precedenti governi: liberali giolittiani, liberali di destra, democratici e popolari. La crisi si era dunque risolta in modo quanto meno ambiguo. I fascisti gridarono al trionfo e si convinsero di aver attuato una rivoluzione che in

realtà era stata soltanto simulata. I moderati si rallegrarono per il fatto che la legalità costituzionale, violata nei fatti, era stata rispettata almeno nelle forme. I rivoluzionari (massimalisti e comunisti) si illusero che nulla fosse cambiato nella sostanza, dal momento che ai loro occhi ogni governo borghese era espressione della stessa dittatura di classe. Il paese nel suo complesso seguì gli eventi con un misto di indifferenza e di rassegnazione. Pochi capirono che il sistema liberale aveva ricevuto un colpo mortale e che il cambio di governo sarebbe presto diventato un cambio di regime. 16.9. Verso lo Stato autoritario. Le due linee di Mussolini, Il Gran consiglio e la Milizia, La repressione "legale", La crisi del movimento operaio, La politica liberista, Il sostegno della Chiesa, La riforma Gentile, La rottura coi popolari, La legge elettorale maggioritaria e le liste nazionali, La vittoria fascista. Una volta assunta la guida del governo, Mussolini continuò ad alternare la linea dura alla linea morbida, le promesse di normalizzazione moderata alle minacce di una seconda ondata rivoluzionaria. Ciò gli fu possibile anche per la miopia delle altre forze politiche, in particolare degli alleati liberali e cattolici (i cosiddetti fiancheggiatori). A dissolvere le illusioni dei moderati non valse il tono ricattatorio usato da Mussolini alla Camera nel dibattito sulla fiducia al governo ("Potevo fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto"). Né valsero i due provvedimenti con cui il Partito fascista assumeva ruolo e funzioni incompatibili con i princìpi basilari dello Stato liberale. Nel dicembre '22 fu istituito il Gran consiglio del fascismo, che aveva il compito di indicare le linee generali della politica fascista e di servire da raccordo fra partito e governo. Nel gennaio '23 le squadre fasciste furono inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale: un corpo armato di partito che aveva come scopo dichiarato quello di "proteggere gli inesorabili sviluppi della rivoluzione", ma che, nelle intenzioni di Mussolini, doveva anche disciplinare lo squadrismo e limitare il potere dei "ras". L'istituzionalizzazione della Milizia non servì peraltro a far cessare le violenze illegali contro gli oppositori, alle quali ora si sommava la repressione "legale" condotta dalla magistratura e dagli organi di polizia mediante sequestri di giornali, scioglimenti di amministrazioni locali, arresti preventivi di militanti. Le vittime principali della repressione furono i

comunisti, costretti già dal '23 a una sorta di semiclandestinità. Le conseguenze di questa azione combinata su quel poco che restava delle organizzazioni del movimento operaio furono disastrose. Il sindacato non fascista si ridusse a sopravvivere solo in alcune categorie più compatte, come i metalmeccanici della Fiom. Il numero degli scioperi, già in rapido calo a partire dal '21, scese nel '23 a livelli insignificanti. I salari reali subirono una costante riduzione, riavvicinandosi ai Livelli dell'anteguerra. La compressione salariale era del resto una componente importante della politica economica del governo, che, fedele alle promesse della vigilia, mirò soprattutto a restituire libertà d'azione e margini di profitto all'iniziativa privata. Furono alleggerite le tasse gravanti sulle imprese; fu abolito il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, istituito nel '12; il servizio telefonico, già affidato a un'azienda statale, fu privatizzato. Si cercò infine di contenere la spesa pubblica con un energico sfoltimento nei ruoli del pubblico impiego, che colpì, con oltre 20.000 licenziamenti, soprattutto la combattiva categoria dei ferrovieri. Su un piano strettamente economico, la politica liberista, impersonata soprattutto dal ministro delle Finanze De Stefani, parve ottenere discreti successi: fra il '22 e il '25 vi fu un notevole aumento della produzione, sia industriale sia agricola, e il bilancio dello Stato tornò in pareggio. Questo risultato era in buona parte dovuto all'opera degli ultimi ministeri liberali; ma valse ugualmente a rafforzare il governo e a rinsaldare i legami fra potere economico e fascismo. Un altro sostegno decisivo Mussolini lo ebbe da una Chiesa cattolica in cui, dopo l'avvento (febbraio '22) del nuovo papa Pio XI, stavano riprendendo il sopravvento le tendenze più conservatrici. Per molti cattolici, il fascismo, a prescindere dai suoi orientamenti ideologici, aveva il merito di aver allontanato il pericolo di una rivoluzione socialista e di aver restaurato il principio di autorità. Dal canto suo Mussolini, abbandonati i toni anticlericali tipici del primo fascismo, fu prodigo di riconoscimenti per la "missione universale" della Chiesa e si mostrò disposto a importanti concessioni. Anche la riforma scolastica varata nella primavera del '23 dall'allora ministro della Pubblica istruzione, il filosofo Giovanni Gentile, andava incontro per molti aspetti alle attese del mondo cattolico: la riforma, tutta fondata sul primato dell'istruzione classica come canale di formazione della classe dirigente, prevedeva infatti, oltre all'insegnamento della religione nelle scuole elementari, l'introduzione di un esame di Stato al termine di ogni ciclo di studi (una misura da tempo richiesta dai cattolici, in quanto metteva sullo stesso piano scuole pubbliche e scuole private). La prima vittima dell'avvicinamento fra Chiesa e fascismo fu il Partito popolare, considerato ormai dalle gerarchie ecclesiastiche un ostacolo sulla

via del miglioramento dei rapporti con lo Stato. Nell'aprile '23 Mussolini impose le dimissioni dei ministri popolari. Poco dopo, don Sturzo, sotto le pressioni del Vaticano, lasciò la segreteria del Ppi. Liberatosi del più forte e del più scomodo fra i suoi alleati di governo, Mussolini aveva il problema di rafforzare la sua maggioranza parlamentare, sanzionando al tempo stesso la posizione di preminenza del fascismo. Fu questo lo scopo della nuova legge elettorale maggioritaria, varata nel luglio '23 col voto favorevole di buona parte dei liberali e dei cattolici di destra. La legge avvantaggiava vistosamente la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa (con almeno il 25 % dei voti) assegnandole i due terzi dei seggi disponibili. Quando, all'inizio del '24, la Camera fu sciolta, molti esponenti liberali (compresi Orlando e Salandra) e alcuni cattolici conservatori accettarono di candidarsi assieme ai fascisti nelle liste nazionali presentate in tutti i collegi col simbolo del fascio. Si riformava così il blocco delle elezioni del '21, ma questa volta a parti invertite, con i fascisti in posizione dominante. Le forze antifasciste erano invece profondamente divise. I due partiti socialisti, i comunisti, i popolari, i liberali d'opposizione guidati da Giovanni Amendola e gli altri partiti minori si presentarono ciascuno con proprie liste: il che significava condannarsi a sicura sconfitta. Nonostante questo vantaggio iniziale, i fascisti non rinunciarono alla violenza contro gli avversari, sia durante la campagna elettorale sia nel corso delle votazioni, che ebbero luogo il 6 aprile 1924. La scontata vittoria fascista assunse così proporzioni clamorose, tanto da rendere inutile il meccanismo della legge maggioritaria. Le "liste nazionali" ottennero infatti il 65 % dei voti e più di tre quarti dei seggi. Il successo fu massiccio soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, cioè nelle regioni in cui il fascismo aveva minori radici, ma si era rapidamente ingrossato, dopo l'andata al governo, con l'adesione dei notabili moderati e delle loro clientele. Un dato che confermava come ormai il fascismo avesse sostituito la classe dirigente liberalmoderata nella guida del blocco conservatore. 16.10. Il delitto Matteotti e l'Aventino. L'uccisione di Matteotti, L'isolamento del fascismo, La debolezza delle opposizioni, L'Aventino, Il discorso del 3 gennaio e la svolta autoritaria. Il successo nelle elezioni rafforzò notevolmente la posizione di Mussolini e alimentò le speranze di quei fiancheggiatori che, chiudendo gli occhi davanti a violenze e illegalità, speravano in un'evoluzione del fascismo in

senso liberalconservatore. Le opposizioni, indebolite e sfiduciate, non sembravano in grado di reinserirsi nel gioco politico. Ma, a poco più di due mesi dalle elezioni, un evento tragico e inatteso intervenne a mutare bruscamente lo scenario. Il 10 giugno 1924, il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Partito socialista unitario [§16.7], fu rapito a Roma da un gruppo di squadristi (membri di un'organizzazione illegale alle dipendenze del Pnf), caricato a forza su un'auto e ucciso a pugnalate. Il suo cadavere, abbandonato in una macchia a pochi chilometri dalla capitale, fu trovato solo due mesi dopo. Dieci giorni prima di essere ucciso, Matteotti aveva pronunciato alla Camera una durissima requisitoria contro il fascismo, denunciandone le violenze e contestando la validità dei risultati elettorali. Era dunque naturale che la sua scomparsa suscitasse nell'opinione pubblica, pur assuefatta alla violenza politica, un'ondata di indignazione contro il fascismo e il suo capo. Sebbene gli esecutori materiali del crimine fossero stati arrestati dopo pochi giorni, né allora né in seguito si poterono individuare con certezza i mandanti diretti. Il paese capì tuttavia che il delitto era il risultato di una pratica ormai consolidata di violenze e di impunità, di cui Mussolini e i suoi seguaci portavano intera la responsabilità. Il fascismo, che fino a pochi giorni prima era parso inattaccabile, si trovò improvvisamente isolato. Divise e distintivi del fascio scomparvero dalle strade. I giornali antifascisti moltiplicarono le vendite. Tutto l'edificio del nascente regime parve per un momento sul punto di crollare. Ma l'opposizione, drasticamente ridimensionata dalle elezioni, non aveva la possibilità di mettere in minoranza il governo, né d'altra parte era in grado di affrontare una prova di forza sul piano della mobilitazione di piazza. La proposta dei comunisti di proclamare lo sciopero generale fu respinta dagli altri partiti e dai capi della Cgl. L'unica iniziativa concreta presa dai gruppi d'opposizione fu quella di astenersi dai lavori parlamentari e di riunirsi separatamente finché non fosse stata ripristinata la legalità democratica. La secessione dell'Aventino - come fu definita con un termine tratto dalla storia romana - aveva un indubbio significato ideale, ma era di per sé priva di qualsiasi efficacia pratica. I partiti "aventiniani" si limitarono infatti ad agitare di fronte all'opinione pubblica una "questione morale", sperando in un intervento della corona o in uno sfaldamento della maggioranza fascista. Ma il re non intervenne. E i fiancheggiatori, pur accentuando le loro critiche all'illegalismo fascista, non tolsero l'appoggio al capo del governo. Per venire incontro alle loro richieste, Mussolini accettò di dimettersi da ministro degli Interni e di sacrificare alcuni suoi collaboratori più coinvolti nell'affare Matteotti.

Nel giro di pochi mesi l'ondata antifascista rifluì. E Mussolini, premuto dall'ala intransigente del fascismo, decise di contrattaccare. Il 3 gennaio 1925, in un discorso alla Camera, il capo del governo ruppe ogni cautela legalitaria, dichiarò chiusa la "questione morale" e minacciò apertamente di usare la forza contro le opposizioni: Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. [...] Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! [...] Il governo è abbastanza forte per stroncare definitivamente la secessione dell'Aventino. Nei giorni successivi, un'ondata di arresti, perquisizioni e sequestri si abbatté sui partiti d'opposizione e sui loro organi di stampa. Anziché provocare la fine dell'avventura fascista, la crisi Matteotti aveva determinato la disfatta dei partiti democratici e accelerato il passaggio da un governo autoritario a una vera e propria dittatura. 16.11. La dittatura a viso aperto. I manifesti degli intellettuali, La persecuzione degli antifascisti, La fascistizzazione della stampa, La legislazione autoritaria, Le leggi "fascistissime", La fine dello Stato liberale. La svolta del 3 gennaio 1925 non lasciava più spazio per gli equivoci e i compromessi: la scelta era tra fascismo e antifascismo, tra dittatura e libertà. Molti politici e uomini di cultura che avevano fin allora mantenuto nei confronti del fascismo un atteggiamento di benevola neutralità sentirono la necessità di prendere posizione. A un "Manifesto degli intellettuali del fascismo" diffuso nell'aprile '25 per iniziativa di Giovanni Gentile (divenuto ormai il filosofo ufficiale del fascismo), gli antifascisti risposero con un "contromanifesto" redatto da Benedetto Croce, che rivendicava i diritti di libertà ereditati dalla tradizione risorgimentale. Ma intanto il fascismo portava a compimento l'occupazione dello Stato e chiudeva ogni residuo spazio di libertà politica e sindacale. Molti esponenti antifascisti furono costretti a prendere la via dell'esilio. Giovanni Amendola morì in Francia nell'estate del '26 in seguito ai postumi di un'aggressione squadrista. Sempre in Francia era morto pochi mesi prima il giovane liberale di sinistra Fiero Gobetti che era stato, con la sua rivista "La Rivoluzione Liberale", uno degli animatori del dibattito politico fra il '22 e il '24. Gli organi di stampa dei partiti antifascisti furono messi

nell'impossibilità di funzionare. I grandi quotidiani di informazione, che avevano assunto una linea antifascista dopo il delitto Matteotti, furono "fascistizzati" mediante pressioni sui proprietari. Nell'ottobre '25, il sindacalismo libero ricevette un colpo mortale dal patto di Palazzo Vidoni, con cui la Confindustria si impegnava a riconoscere la rappresentanza dei lavoratori ai soli sindacati fascisti. Eliminate o ridotte al silenzio le voci d'opposizione, il fascismo non si accontentò più di esercitare una dittatura di fatto, ma procedette alla formulazione di nuove leggi destinate a stravolgere definitivamente i connotati dello Stato liberale. Una serie di falliti attentati alla vita di Mussolini (ben quattro in un solo anno) servì a creare il clima adatto al varo della nuova legislazione, che ebbe il suo maggior artefice nel ministro della Giustizia Alfredo Rocco, proveniente dalle file dell'Associazione nazionalista (che si era fusa col Pnf nel febbraio 1923). La prima importante legge costituzionale del regime fu quella del dicembre '25 che rafforzava i poteri del capo del governo sia rispetto agli altri ministri sia rispetto al Parlamento. Nell'aprile '26, una legge sindacale proibì lo sciopero e stabilì che solo i sindacati "legalmente riconosciuti" (cioè quelli fascisti) avevano il diritto di stipulare contratti collettivi. Infine, nel novembre '26, all'indomani dell'ultimo attentato a Mussolini, una vera e propria raffica di provvedimenti repressivi cancellò le ultime tracce di vita democratica. Furono sciolti tutti i partiti antifascisti e soppresse tutte le pubblicazioni contrarie al regime. Furono dichiarati decaduti dal mandato i deputati aventiniani. Fu reintrodotta la pena di morte per i colpevoli di reati "contro la sicurezza dello Stato". Fu istituito, per giudicare questi reati, un Tribunale speciale per la difesa dello Stato composto non da giudici ordinari, ma da ufficiali delle forze armate e della Milizia. La costruzione del regime sarebbe stata completata successivamente: con la legge elettorale del 1928, che introduceva il sistema della lista unica (con tanti candidati quanti erano i seggi da occupare) e lasciava agli elettori solo la scelta se approvarla o respingerla in blocco; e con la "costituzionalizzazione" del Gran consiglio che, sempre nel '28, diventò un organo dello Stato, dotato di prerogative molto importanti, fra cui quella di preparare le liste elettorali. Ma già le leggi fascistissime del '26 avevano messo fine alla parabola dello Stato liberale nato con l'unità d'Italia e avevano dato vita a un nuovo regime: un regime a partito unico, in cui la separazione dei poteri era stata abolita e tutte le decisioni importanti erano concentrate nelle mani di un solo uomo. Un regime che si differenziava dagli antichi sistemi assolutistici perché non si accontentava di reprimere e

controllare le organizzazioni.

masse,

ma

pretendeva

di

inquadrarle

in

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Sommario I problemi del dopoguerra erano aggravati, in Italia, dalla debolezza delle strutture democratiche e dalla crisi della classe dirigente liberale. I cattolici si organizzarono politicamente con il Partito popolare (1919). A sinistra, la crescita del Partito socialista corrispondeva ad una prevalenza, in esso, delle correnti rivoluzionarie. La nascita del fascismo (1919) introdusse nella vita politica un nuovo stile aggressivo e violento. In relazione alle vicende della conferenza di Parigi, si diffuse tra l'opinione pubblica un atteggiamento di risentimento verso gli ex alleati (la "vittoria mutilata") e il governo. Clamorosa fu la protesta attuata da D'Annunzio con l'occupazione di Fiume (settembre '19). Sul piano interno, il '19-20 fu una fase di acute agitazioni sociali: moti contro il caroviveri, scioperi operai e agrari, occupazione delle terre. Le elezioni del novembre '19, tenute col sistema proporzionale, segnarono la perdita del controllo del Parlamento da parte delle forze liberali, nonché un successo di socialisti e popolari. Nel giugno 1920 Giolitti tornò al potere con un programma molto avanzato. Durante il suo governo fu risolta la questione di Fiume (trattato di Rapallo e fine dell'impresa dannunziana). Tuttavia il disegno giolittiano di ridimensionare le spinte rivoluzionarie del Psi attraverso un'apertura riformista fallì. Il maggior episodio di conflittualità del periodo fu l'occupazione delle fabbriche (settembre '20), la cui conclusione accentuò le divisioni nel movimento socialista e diffuse in tutta la borghesia un desiderio di rivincita. Al congresso socialista di Livorno del gennaio '21, la corrente di sinistra guidata da Bordiga e Gramsci si scisse dal Psi e fondò il Partito comunista. Tra la fine del '20 e l'inizio del '21 il fascismo, abbandonando gli originari caratteri radicaldemocratici, si qualificò decisamente in senso antisocialista. Le azioni squadristiche colpirono sedi ed esponenti del movimento operaio e contadino del CentroNord, in particolare le leghe rosse nella Valle Padana. Le cause della repentina crescita del fascismo agrario furono varie: forza "militare", connivenza dei pubblici poteri, tentativo di Giolitti di usare il fascismo per ridurre alla ragione socialisti e popolari, ma anche consensi in quelle categorie contadine (piccoli proprietari, mezzadri, piccoli affittuari) che mal sopportavano il controllo esercitato dalle organizzazioni

socialiste nelle campagne. L'inserimento nei "blocchi nazionali" (elezioni del maggio '21) diede al fascismo una completa legittimazione. Profittando della debolezza dei governi liberali (Bonomi e Facta), il fascismo si rese protagonista di imprese sempre più clamorose, culminate nella risposta allo sciopero "legalitario" dell'agosto '22, estremo tentativo socialista di arginare le violenze squadristiche. Mentre trattava con i principali leader liberali per una partecipazione al governo, Mussolini lasciò che le milizie fasciste si preparassero per un colpo di Stato. Il successo della marcia su Roma (28 ottobre '22) fu reso possibile solo dal rifiuto del re a firmare lo stato d'assedio. Il nuovo governo Mussolini - lungi dal rappresentare, come parve a molti, un ritorno alla normalità - preparava la fine dello Stato liberale. Una volta al potere, Mussolini attuò una politica autoritaria (soprattutto contro il movimento operaio) e creò nuovi istituti (il Gran consiglio del fascismo e la Milizia) incompatibili con i princìpi liberali. Al tempo stesso continuò a promettere la "normalizzazione" e a collaborare con forze politiche non fasciste. Oltre all'appoggio di liberali e cattolici, Mussolini poteva valersi di quello del potere economico, nonché del sostegno della Chiesa, che vedeva nel fascismo un baluardo contro la minaccia socialista. Un ulteriore rafforzamento il fascismo ottenne con le elezioni del '24, tenute secondo la nuova legge maggioritaria: da esse le opposizioni uscirono notevolmente ridimensionate. Nel giugno '24 il deputato socialista Matteotti - che aveva denunciato alla Camera i brogli e le violenze commesse dai fascisti in occasione delle elezioni - fu assassinato da un gruppo di squadristi. L'ondata di sdegno che ne seguì fece vacillare il potere di Mussolini. Ma le opposizioni, che abbandonarono la Camera (secessione dell'Aventino), erano troppo deboli per mettere in crisi il governo. Col duro discorso del 3 gennaio '25, Mussolini riacquistò il controllo della situazione. Tra il '25 e il '26 si consumò la fine dello Stato liberale: "fascistizzazione" della stampa, persecuzione degli antifascisti, rafforzamento dei poteri del capo del governo, legge "per la difesa dello Stato" (che, tra l'altro, istituiva il Tribunale speciale), scioglimento di tutti i partiti (tranne quello fascista). Bibliografia L'opera classica sul dopoguerra e le origini del fascismo, pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1938, è quella di A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, La Nuova Italia, Firenze 1995. Si vedano inoltre le opere di altri testimoni e contemporanei: P. Nenni, Storia di quattro anni (1919-1922),

Sugarco, Milano 1976, scritto nel 1926 ma pubblicato solo dopo la guerra; G. Salvemini, Lezioni di Harvard. L'Italia dal 1919 al 1929, stese nel 1943 e pubblicate postume in Id., Scritti sul fascismo, I, Feltrinelli, Milano 1961. Fra le opere scritte dopo la guerra, le più significative e documentate sono quelle di R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Einaudi, Torino 1965 e Mussolini il fascista, I. La conquista del potere 1921-1925, ivi 1966; A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, RomaBari 1974; R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, 2 voll., Il Mulino, Bologna 1991; vedi inoltre il vol. VIII della Storia dell'Italia moderna di G. Candelora, La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l'avvento del fascismo, Feltrinelli, Milano 1978; e il vol. IV (Guerre e fascismo 1914-1943) della Storia d'Italia, a e. di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, RomaBari 1997 (in particolare il saggio di G. Sabbatucci, La crisi dello Stato liberale). In generale sui partiti politici: E. Gentile, fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Le Monnier, Firenze 2000. Sul Psi: G. Arfè, Storia del socialismo italiano (1892-1926), Einaudi, Torino 1965; L. Guerci, Il Partito socialista italiano dal 1919 al 1946, Cappelli, Bologna 1969. Sulla scissione di Livorno e il Pci: P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, I. Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1967; V. Vidotto, Il Partito comunista italiano dalle origini al 1946, Cappelli, Bologna 1975. Sul Partito popolare: G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Il Partito popolare italiano, Laterza, Bari 1966. Sui Fasci di combattimento e il Partito fascista: E. Gentile, Storia del Partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Laterza, RomaBari 1989. Sugli aspetti culturali e ideologici del fascismo, si veda dello stesso Gentile, Le origini dell'ideologia fascista (1918-1925), Il Mulino, Bologna 1996. 17. La grande crisi: economia e società negli anni '30. 17.1. Crisi e trasformazione. La ripresa degli anni '20, La grande crisi. Alla fine degli anni '20 l'Europa e il mondo sembravano avviati a superare i traumi e le ferite del primo conflitto mondiale. I rapporti fra le maggiori potenze attraversavano una fase di distensione. Il problema tedesco - punto critico dell'assetto europeo - sembrava avviato a una soluzione equilibrata, che garantiva gli interessi delle potenze vincitrici e assicurava al tempo stesso il reinserimento pacifico della Germania fra i protagonisti della

politica internazionale. L'economia dell'Occidente capitalistico, trainata dalla spettacolosa espansione produttiva degli Stati Uniti, aveva ripreso a svilupparsi con discreta regolarità dopo le convulsioni del primo quinquennio postbellico. In questo quadro di apparente stabilità e di diffusa prosperità si abbatté una crisi economica tanto imprevista quanto catastrofica. Scoppiata negli Stati Uniti nell'autunno del 1929 e prolungatasi per buona parte degli anni '30, la "grande crisi" - come ancora oggi viene chiamata fece sentire i suoi effetti anche sulla politica e sulla cultura, sulle strutture sociali e sulle istituzioni statali, segnando una netta cesura - che si sovrappose a quella creata dalla grande guerra - nello sviluppo storico delle società occidentali. Sconvolse i vecchi assetti e accelerò trasformazioni già in atto. Diede un'ulteriore, decisiva spinta alla decadenza dell'Europa liberale. Compromise seriamente gli equilibri internazionali, mettendo in moto una catena di eventi che avrebbe portato, nel giro di un decennio, a un nuovo conflitto mondiale. Nel corso degli anni '30 vennero inoltre in primo piano problemi e tematiche destinati a improntare di sé la società del secondo dopoguerra: la compenetrazione fra apparati statali ed economia (già venuta in evidenza durante la grande guerra) e l'affermarsi di forme di capitalismo diretto (ossia programmato dall'alto); lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (radio e cinematografo); la crescita delle classi medie (in particolare dei ceti impiegatizi), in rapporto allo sviluppo continuo del settore terziario; la radicalizzazione dei conflitti ideologici e il loro trasferimento su scala internazionale. Si tratta di processi molto diversi fra loro, né tutti possono essere collegati in senso stretto alla grande crisi: questa tuttavia, in quanto fenomeno dominante di un intero decennio e origine di profonde trasformazioni, ha assunto nella ricostruzione storica il rilievo di un evento periodizzante. 17.2. Gli anni dell'euforia: gli Stati Uniti prima della crisi. Le trasformazioni degli anni '30, Il primato economico degli Usa, Il boom industriale e lo sviluppo del terziario, I mutamenti nella vita quotidiana, L'egemonia dei repubblicani e la politica liberista, Gli squilibri sociali, L'ondata conservatrice e i pregiudizi razziali, Il proibizionismo, Ottimismo e speculazione, La precarietà dell'espansione, Il legame con i mercati europei.

Durante la grande guerra gli Stati Uniti non solo avevano rinsaldato la loro posizione di primo paese produttore, ma avevano anche concesso cospicui prestiti ai loro alleati in Europa, divenendo il maggior esportatore di capitali. A guerra finita, il dollaro era la nuova moneta forte dell'economia mondiale. Accanto al mercato finanziario di Londra cresceva di importanza quello di New York. Superata la depressione postbellica del 1920-21 [§15.2], cominciò per il sistema economico statunitense l'inizio di un periodo di grande prosperità. La diffusione della produzione in serie e della razionalizzazione del lavoro in fabbrica secondo i princìpi del taylorismo favorì notevoli aumenti di produttività: la produzione oraria per operaio nel settore manifatturiero crebbe infatti, fra il '19 e il '29, del 72%. La produzione industriale salì del 30% fra il '23 e il '29 e il reddito nazionale aumentò nello stesso periodo di quasi il 25%. Tuttavia, nonostante gli incrementi produttivi, il numero degli occupati nell'industria calò sensibilmente, a causa della cosiddetta disoccupazione tecnologica: gli sviluppi della tecnica diminuivano infatti la quantità di lavoro necessaria a ottenere un determinato prodotto, in misura tale da non poter essere compensata dall'aumento della produzione. Parallelamente andava invece crescendo, per l'espansione delle funzioni organizzative e burocratiche, l'occupazione nel settore dei servizi: gli Stati Uniti furono il primo paese in cui, alla fine degli anni '20, il numero degli occupati nel terziario superò quello degli addetti all'industria. L'espansione industriale portò anche notevoli mutamenti nell'organizzazione della vita quotidiana. Alla fine degli anni '20 circolava negli Usa un'automobile ogni cinque abitanti (in Europa il rapporto era di 1 a 83), mentre l'uso degli elettrodomestici (radio, frigoriferi, aspirapolvere) si era largamente diffuso nelle famiglie, grazie anche ai sistemi di vendita rateale. Gli Stati Uniti divennero così il laboratorio in cui fu per la prima volta sperimentato un nuovo modo di vita, caratterizzato da una continua espansione dei consumi e da una loro progressiva standardizzazione. Dal punto di vista politico, gli anni '20 furono segnati da un'incontrastata egemonia del Partito repubblicano. Sostenitori di un rigido liberismo economico e convinti che l'accumulazione della ricchezza privata costituisse la miglior garanzia di prosperità, i repubblicani attuarono una politica fortemente conservatrice: ridussero le imposte dirette, aumentando quelle indirette; mantennero la spesa pubblica a livelli molto bassi, rinunciando a operare in favore delle classi più povere; lasciarono cadere la legislazione antimonopolistica prebellica, favorendo la crescita di gigantesche corporations industriali e finanziarie. I presidenti repubblicani, insomma, costruirono le proprie fortune alimentando le più ottimistiche aspettative sui

destini della prosperità americana, senza troppo preoccuparsi dei gravi problemi sociali che pure continuavano a manifestarsi nel paese. La distribuzione dei redditi era infatti fortemente sperequata e comportava l'emarginazione di consistenti fasce della popolazione. Il ritmo di aumento dei salari era molto inferiore a quello dei profitti. Mentre gli operai di alcune industrie (tipico il caso della Ford) e altre minoranze di lavoratori qualificati erano favoriti sul piano retributivo e assistenziale, e potevano così inserirsi nel circuito della prosperità, assai misere restavano le condizioni di vita e di lavoro degli operai comuni e soprattutto dei lavoratori immigrati e di colore. A tutto questo si aggiunse una diffusa ondata di conservatorismo ideologico che investì in primo luogo le minoranze nazionali e razziali. Furono introdotte leggi limitative dell'immigrazione, anche per impedire la contaminazione dei caratteri etnici della popolazione yankee e la diffusione di "ideologie sovversive" di origine europea. Il punto culminante di questa reazione fu il processo ai due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati di omicidio con una montatura giudiziaria e mandati a morte nel 1927 in spregio a tutte le prove della loro innocenza. Contemporaneamente si inasprirono le pratiche discriminatorie nei confronti della popolazione di colore e la setta del Ku Klux Klan, espressione del razzismo più isterico, raggiunse negli Stati del Sud le dimensioni di un'organizzazione di massa. Consistenti settori della popolazione si chiusero in una difesa ottusa e fanatica dei valori della civiltà bianca e protestante: anche cattolici ed ebrei venivano guardati con diffidenza. Lo stesso "proibizionismo" - cioè il divieto di fabbricare e vendere bevande alcoliche, introdotto nel 1920 e rimasto in vigore fino al '34 - scaturì da questo retroterra culturale, poiché l'ubriachezza era ritenuta un vizio tipico di neri e proletari in genere. Questa realtà sociale così contraddittoria non intaccava però il sostanziale ottimismo della borghesia americana e la sua fiducia in una continua moltiplicazione della ricchezza e in un indefinito processo di crescita. La conseguenza più vistosa di questo clima fu la frenetica attività della borsa di New York (chiamata Wall Street dal nome della via in cui tuttora ha sede): un'attività consistente in gran parte in pure operazioni speculative, incoraggiate dalla prospettiva dei facili guadagni che si potevano ottenere acquistando azioni e rivendendole poi a prezzo maggiorato: il tutto facendo assegnamento sulla continua ascesa delle quotazioni sostenuta dalla crescente domanda di titoli. Questa incontenibile euforia speculativa poggiava in realtà su fondamenti assai fragili, come fragili erano le basi dell'intero processo di espansione

sviluppatosi negli Stati Uniti degli anni '20. La domanda sostenuta di beni di consumo durevoli aveva fatto sì che nel settore industriale si formasse una capacità produttiva sproporzionata alle possibilità di assorbimento del mercato interno: possibilità limitate sia dalla particolare natura dei beni di consumo durevoli (che, non avendo bisogno di essere continuamente sostituiti, tendevano a "saturare" il mercato), sia dalla crisi del settore agricolo, che teneva bassi i redditi dei ceti rurali. Ai limiti del mercato interno l'industria statunitense aveva ovviato con l'aumento delle esportazioni nel resto del mondo, in particolare nel vecchio continente. La generale ripresa dell'economia europea nella seconda metà degli anni '20 resa possibile, come si è visto, da un cospicuo afflusso di capitali americani sotto forma di prestiti - aveva consentito all'industria statunitense, protetta da elevate barriere doganali, di allargare la sua penetrazione nei mercati europei. Fra economia americana ed economia europea si era così venuto a creare uno stretto e proficuo rapporto di interdipendenza: l'espansione americana finanziava la ripresa europea e questa a sua volta alimentava con le sue importazioni lo sviluppo degli Stati Uniti. Ma questo meccanismo poteva incepparsi da un momento all'altro, anche perché i crediti statunitensi all'estero erano generalmente erogati da banche private e dunque legati a puri calcoli di profitto. Quando, nel 1928, molti capitali americani furono dirottati verso le più redditizie operazioni speculative di Wall Street, le conseguenze sull'economia europea si fecero sentire immediatamente, ripercuotendosi subito dopo sulla produzione industriale americana, il cui indice cominciò a scendere già nell'estate del '29. Parola chiave Ceto medio L'espressione "ceto medio" (o "classe media") indica genericamente quegli strati sociali che occupano una posizione intermedia nella distribuzione della ricchezza, del potere e del prestigio in una società che si presume divisa secondo uno schema bipolare (aristocraziapopolo, poveriricchi, borghesiaproletariato). Già nel tardo '700 si parlava di ceto medio in riferimento al "terzo stato", cioè alla borghesia. Più tardi, con lo sviluppo del capitalismo e col delinearsi di un antagonismo "primario" fra borghesia e proletariato, l'espressione è diventata sinonimo di "piccola e media borghesia" ed è passata a designare un arco molto ampio e variegato di classi e gruppi sociali. Rientravano sotto questa definizione tutti quei gruppi che non potevano essere assimilati alla borghesia propriamente detta (imprenditori e proprietari), ma si distaccavano dalle classi popolari per cultura, mentalità e

orientamenti politici, oltre che per condizioni economiche: piccoli proprietari e piccoli commercianti, ma soprattutto impiegati pubblici e privati. Le trasformazioni economiche e sociali intervenute nel '900 - in particolare la crescita degli apparati statali e lo sviluppo del settore dei servizi - hanno gonfiato numericamente questi strati (che invece, secondo lo schema marxista, erano destinati a scomparire o a "proletarizzarsi") e ne hanno progressivamente aumentato il peso politico. Nel periodo fra le due guerre mondiali furono soprattutto le inquietudini e le oscillazioni del ceto medio (fin allora considerato come una garanzia di stabilità sociale e come la base più sicura delle istituzioni liberaldemocratiche) a determinare le più profonde trasformazioni politiche. I regimi autoritari e fascisti, in particolare, trovarono il loro principale sostegno di massa proprio nel ceto medio; mentre i partiti operai pagarono spesso duramente l'errore di averne sottovalutato la forza e di averlo giudicato fatalmente subalterno alle scelte della grande borghesia. Nel secondo dopoguerra, tutti i partiti di massa, compresi quelli di sinistra, hanno riservato un'attenzione crescente alle esigenze di questo strato sociale (da cui, fra l'altro, provengono in gran parte i quadri dirigenti dei partiti stessi) e hanno cercato di guadagnarne i consensi. Ciò è apparso tanto più necessario in relazione ai recenti sviluppi delle società industrializzate (innalzamento generale dei livelli di vita, crescita del settore terziario): sviluppi che, se da un lato hanno ulteriormente dilatato la consistenza numerica del ceto medio, dall'altro hanno reso meno netta la distinzione, in termini di reddito e di status sociale, fra classe operaia e piccola borghesia. Oggi si parla sempre più spesso, nei paesi economicamente avanzati, di una progressiva scomparsa delle classi tradizionalmente intese: o meglio di un loro assorbimento in un unico grande ceto medio che comprende ormai la maggioranza della popolazione, lasciando fuori solo alcune consistenti sacche di "nuova povertà" (non più coincidenti col proletariato industriale) e alcune esigue minoranze di ricchissimi e di privilegiati. 17.3. Il "grande crollo" del 1929. Il crollo di Wall Street, Gli effetti del crollo, Il protezionismo Usa, Il dilagare della recessione, La disoccupazione. In una situazione già incerta e carica di segnali allarmanti si abbatterono gli effetti catastrofici del crollo della borsa di New York: un evento che fu a un tempo la spia del malessere serpeggiante nell'economia mondiale e

l'elemento propulsore che portò d'un tratto in superficie tutti gli squilibri accumulatisi nel precedente periodo di espansione. Il corso dei titoli a Wall Street raggiunse i livelli più elevati all'inizio del settembre 1929. Seguirono alcune settimane di incertezza durante le quali cominciò a emergere la propensione degli speculatori a liquidare i propri pacchetti azionari per realizzare i guadagni fin allora ottenuti. Il 24 ottobre, il "giovedì nero", furono scambiati 13 milioni di titoli; il 29 le vendite ammontarono a 16 milioni. La corsa alle vendite determinò naturalmente una precipitosa caduta del valore dei titoli, distruggendo in pochi giorni i sogni di ricchezza dei loro possessori. A metà novembre le quotazioni si stabilizzarono su valori più o meno dimezzati. Ma intanto molte fortune si erano volatilizzate, con conseguenze facilmente immaginabili non solo sul piano economico: nel solo "giovedì nero" vi furono a New York undici suicidi fra speculatori e agenti di borsa. Il crollo del mercato azionario colpì in primo luogo i ceti ricchi e benestanti. Ma, riducendo drasticamente la loro capacità di acquisto e di investimento, finì con l'avere conseguenze disastrose sull'economia di tutto il paese e sull'intero sistema economico mondiale, che ormai dipendeva in larga parte da quello statunitense. Gli effetti planetari della crisi furono aggravati dal fatto che gli Usa, anziché assumersi le responsabilità connesse al ruolo di potenza egemone sul piano economico (e farsi dunque carico della stabilità del sistema internazionale), cercarono innanzitutto di difendere la loro produzione inasprendo il protezionismo e contemporaneamente ridussero, fino a sospenderla, l'erogazione dei crediti all'estero. Il protezionismo statunitense indusse gli altri paesi ad adottare misure analoghe a difesa della propria bilancia commerciale. Fra il 1929 e il 1932 - l'anno in cui la crisi giunse al culmine - il valore del commercio mondiale si contrasse di oltre il 60% rispetto al triennio precedente. Attraverso la contrazione degli scambi, la recessione economica si diffuse in tutto il mondo - con la significativa eccezione dell'Urss - come una spaventosa epidemia, presentandosi ovunque con i medesimi sintomi e con la stessa dinamica: un'industria chiudeva i battenti perché priva di ordini, licenziando i suoi dipendenti; i lavoratori privi di occupazione erano costretti a ridurre i loro consumi; il mercato diventava così sempre più asfittico, provocando il crollo di altre imprese, portando alla rovina gli esercizi commerciali, aggravando la crisi dell'agricoltura che non trovava più sbocchi per i suoi prodotti. Fra il '29 e il '32, la produzione mondiale di manufatti diminuì del 30% e quella di materie prime del 26%. I prezzi caddero bruscamente sia nel settore industriale sia, soprattutto, in quello agricolo (dove il calo fu di oltre il 50%).

I disoccupati raggiunsero il numero di 14 milioni negli Stati Uniti e di 15 milioni in Europa, cui si deve aggiungere la cifra, ingente anche se incalcolabile, dei sottoccupati. Nel complesso un consistente impoverimento colpì la massa dei lavoratori urbani e rurali, generando uno stato di generale incertezza, una crisi di sfiducia che in molti paesi fu all'origine di profondi mutamenti politici. 17.4. La crisi in Europa. La crisi finanziaria, La fine della convertibilità della sterlina, L'insuccesso delle politiche di austerità, La crisi in Germania, Crisi economica e instabilità politica in Francia, Mac Donald e la politica di austerità in Gran Bretagna. In Europa al declino delle attività produttive e commerciali si sovrappose una crisi finanziaria che ebbe le sue prime manifestazioni in Austria e in Germania, dove si giunse al collasso del sistema bancario. Alla crisi bancaria seguì una crisi monetaria. I crolli verificatisi in Austria e Germania provocarono un allarme incontrollato sulla solidità delle finanze inglesi (molti capitali britannici erano stati infatti investiti in quei due paesi) e sulla stessa tenuta della sterlina. Le banche inglesi dovettero far fronte a un precipitoso ritiro dei capitali stranieri e a ingenti richieste di conversione delle sterline in oro. Nel settembre 1931, esauritesi le riserve auree della Banca d'Inghilterra, dovette essere sospesa la convertibilità della sterlina e la valuta inglese fu svalutata: si trattò di un avvenimento che destò sensazione, giacché sanzionava emblematicamente la decadenza della Gran Bretagna dal ruolo di "banchiere del mondo". Analoghi provvedimenti di sospensione della convertibilità e di svalutazione vennero successivamente adottati da molti altri paesi, nella speranza che il deprezzamento della moneta favorisse le esportazioni e consentisse di aprire varchi nelle barriere doganali ovunque frapposte alla circolazione delle merci. Sulla profondità e sulla durata della depressione influì negativamente anche la sostanziale impreparazione delle autorità politiche ad affrontare un cataclisma economico di quella portata. Quando la crisi ebbe inizio, tutti i governi dei paesi industrializzati ritennero di potersi affidare ai classici princìpi della scuola economica liberale: primo fra tutti quello del pareggio del bilancio. Per ottenere questi risultati, la spesa pubblica venne drasticamente tagliata (riducendo gli stipendi ai pubblici dipendenti e diminuendo le prestazioni sociali elargite dallo Stato) e furono imposte nuove tasse. Questi provvedimenti compressero ulteriormente la domanda

interna, aggravando perciò la recessione e la disoccupazione. Solo nel 1933 l'economia europea cominciò a manifestare sintomi di miglioramento. Ma nella maggior parte dei paesi la ripresa fu molto lenta: un vero rilancio produttivo si ebbe solo alla fine del decennio e fu dovuto anche al generale incremento delle spese militari conseguente all'aggravarsi delle tensioni internazionali. In definitiva, fu solo col riarmo e la guerra che l'Europa e il mondo uscirono dalla grande depressione. In Germania le conseguenze della crisi si fecero sentire più che in ogni altro Stato europeo, a causa della stretta integrazione che il sistema dei prestiti internazionali aveva creato fra l'economia statunitense e quella tedesca, ancora gravata dall'onere delle riparazioni. La crisi mise in gravi difficoltà il governo di coalizione allora guidato dai socialdemocratici, provocando un dissenso insanabile fra la Spd e i partiti di centrodestra circa il destino dei servizi sociali statali, che i moderati volevano ridimensionare sensibilmente. Nel marzo 1930 la guida del governo passò a un esponente del Centro cattolico, Heinrich Brüning, che attuò una severissima politica di sacrifici, anche allo scopo di rivelare al mondo l'intollerabile onere che la Germania era condannata a sopportare per tener fede all'obbligo delle riparazioni. Lo scopo fu in parte raggiunto nel 1932, quando una conferenza internazionale ridusse sensibilmente l'entità delle riparazioni e ne sospese il versamento per tre anni (trascorsi i quali, comunque, i pagamenti non furono mai ripresi). Ma intanto la politica di Brüning aveva prodotto ben più tragici frutti: 6 milioni di lavoratori disoccupati facevano da sfondo alla rapida ascesa del movimento nazionalsocialista che, come si vedrà nel prossimo capitolo, seppe sfruttare abilmente il disagio e il risentimento largamente diffusi nella popolazione. Anche in Francia la politica di austerità fu applicata con estremo rigore. Qui la crisi giunse in ritardo, nella seconda metà del '31, ma durò più a lungo (nel '38 la produzione non era ancora tornata ai livelli del '29) anche perché i governi vollero legare il loro prestigio alla difesa del franco, ritardando fino al '37 la svalutazione della moneta. La crisi economica coincise con un periodo di grande instabilità della situazione politica francese: fra l'ottobre del '29 e il giugno del '36 si succedettero ben diciassette governi, ora di centrodestra ora di centrosinistra. In Gran Bretagna il ministero guidato dal laburista Ramsay Mac Donald cercò di fronteggiare la crisi con un programma che prevedeva, fra l'altro, un drastico taglio del sussidio ai disoccupati. Questo programma incontrò però la ferma opposizione delle Trade Unions, nerbo del movimento laburista. A quel punto (agosto 1931) Mac Donald ruppe clamorosamente col suo partito e, seguito solo da una ridotta minoranza di deputati laburisti,

si accordò con liberali e conservatori per la formazione di un "governo nazionale" di cui lui stesso assunse la presidenza. Fu sotto questo governo che la Gran Bretagna svalutò la sterlina e abbandonò la sua secolare tradizione liberoscambista, adottando un sistema di tariffe doganali che privilegiava gli scambi commerciali nell'ambito del Commonwealth [§20.4]. Nel '33-34 l'Inghilterra cominciava a uscire dalla crisi, con notevole anticipo rispetto agli altri paesi industrializzati. 17.5. Roosevelt e il "New Deal". L'elezione di Roosevelt, La popolarità di Roosevelt, Il "New Deal", I "cento giorni", Gli strumenti del "New Deal", Le contraddizioni del riformismo rooseveltiano, L'aumento della spesa pubblica, La legislazione sociale, L'opposizione a Roosevelt, I limiti del "New Deal". Nel novembre 1932, quando tre anni di crisi avevano diffuso in tutto il paese un angoscioso senso di insicurezza, si tennero negli Stati Uniti le elezioni presidenziali. Il presidente uscente, Herbert Hoover, non solo non aveva conseguito alcun successo nella lotta contro la crisi, ma aveva finito col proiettare attorno a sé un'atmosfera di apatia e di scoraggiamento. Nettissima fu quindi la sua sconfitta nei confronti del candidato democratico, il governatore dello Stato di New York Franklin Delano Roosevelt, cinquantenne, rampollo di una ricca famiglia e con alle spalle una brillante carriera politica. Quando presentò la sua candidatura alla presidenza, Roosevelt non aveva un programma organico da contrapporre ai repubblicani: fin dal momento della campagna elettorale seppe però instaurare con le masse un rapporto basato su notevoli doti di comunicativa e capì che la condizione preliminare di un'azione politica di successo stava nella capacità di infondere speranza e coraggio nella popolazione. Celebri divennero, per esempio, le sue "chiacchierate al caminetto", cioè le conversazioni radiofoniche che teneva spesso, con tono familiare e suadente, per illustrare ai concittadini la sua attività presidenziale. Già nel discorso inaugurale della sua presidenza, nel marzo 1933, Roosevelt annunciò di voler iniziare un New Deal ("nuovo patto" o "nuovo corso") nella politica economica e sociale: un nuovo stile di governo - più che un programma precisamente definito - che si sarebbe caratterizzato soprattutto per un più energico intervento dello Stato nei processi economici (in netto contrasto con la tradizione delle precedenti amministrazioni repubblicane) e per la stretta associazione fra l'obiettivo della ripresa

economica e gli elementi di riforma sociale. Il New Deal fu avviato immediatamente, nei primi mesi della presidenza Roosevelt (i cosiddetti "cento giorni"), con una serie di provvedimenti che dovevano servire da terapia d'urto per arrestare il corso della crisi: fu ristrutturato il sistema creditizio, sconvolto da cinquemila fallimenti bancari che avevano polverizzato i risparmi di milioni di americani; fu svalutato il dollaro per rendere più competitive le esportazioni; furono aumentati i sussidi di disoccupazione e furono concessi prestiti per consentire ai cittadini indebitati di estinguere le ipoteche sulle case. A queste misure d'emergenza il governo affiancò alcuni provvedimenti più organici e qualificanti, caratterizzati dall'uso di nuovi e originali strumenti di intervento. L'Agricultural Adjustment Act (Aaa) si proponeva di limitare la sovrapproduzione nel settore agricolo, assicurando premi in denaro a coloro che avessero ridotto coltivazioni e allevamenti. Il National Industrial Recovery Act (Nira) imponeva alle imprese operanti nei vari settori dei "codici di comportamento" volti a evitare (mediante accordi sulla produzione e sui prezzi) le conseguenze di una concorrenza troppo accanita, ma anche a tutelare i diritti e i salari dei lavoratori. Particolare rilievo ebbe, infine, l'istituzione della Tennessee Valley Authority (Tva), un ente che aveva il compito di sfruttare le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee, producendo energia a buon mercato a vantaggio degli agricoltori, ed era anche impegnato in opere di sistemazione del territorio e di conservazione della natura. Se l'esperienza della Tva - rimasta come un modello di intervento organico sul territorio da parte del potere centrale - rappresentò per Roosevelt un notevole successo sia sul piano economico sia su quello propagandistico, le altre iniziative ebbero effetti più lenti e contraddittori. I codici del Nira, che recavano l'impronta degli interessi della grande industria, suscitarono le perplessità dei piccoli e medi operatori. La riduzione della produzione agricola prevista dall'Aaa arrestò la caduta dei prezzi, ma causò l'espulsione dalle campagne di vaste masse di contadini senza lavoro. Alla fine del '34 gli investimenti erano ancora stagnanti, mentre i disoccupati raggiungevano gli 11 milioni. Per porre rimedio a questa situazione, il governo potenziò ulteriormente l'iniziativa statale, varando vasti programmi di lavori pubblici destinati a creare nuovi posti di lavoro e a offrire nuovi sbocchi agli investimenti industriali - e allargando al di là di ogni consuetudine il flusso della spesa pubblica: il tutto nella convinzione che le difficoltà derivanti dalla crescita del deficit potessero essere ampiamente compensate dal contemporaneo aumento della produzione e del reddito. Parallelamente, si intensificò

l'impegno del governo nel campo delle riforme sociali. Nel 1935 furono varate una riforma fiscale, una legge sulla sicurezza sociale - che garantì alla maggior parte dei lavoratori la pensione di vecchiaia e riorganizzò l'assistenza statale a favore dei bisognosi - e una nuova disciplina dei rapporti di lavoro, che favorì le attività sindacali e tutelò il diritto dei lavoratori alla contrattazione collettiva. Con questa politica progressista Roosevelt si guadagnò l'appoggio del movimento sindacale che, negli anni del New Deal, attraversò una fase di espansione grazie anche a un'ondata di lotte operaie senza precedenti nella storia americana. D'altra parte, le novità del New Deal e i suoi risultati non sempre brillanti diedero spazio al formarsi di un'ampia coalizione antirooseveltiana. Persino la Corte suprema, massimo organo del potere giudiziario, cercò di bloccare le riforme di Roosevelt dichiarando, nel 193536, l'incostituzionalità del Nira e dell'Aaa. Forte dello schiacciante successo ottenuto nelle elezioni presidenziali del '36, Roosevelt reagì con energia, ripresentando con lievi modifiche le leggi bocciate. In conclusione, l'azione di Roosevelt, se da un lato smentì i dogmi liberisti dimostrando che l'intervento statale era indispensabile per arrestare il corso della crisi, dall'altro non riuscì a conseguire completamente il fine ultimo che si era proposto: quello cioè di ridare slancio all'iniziativa economica dei privati. Per tutti gli anni '30 l'economia americana ebbe bisogno di continue iniezioni di denaro pubblico. Sarebbe giunta a una piena ripresa, nonché alla piena occupazione, solo durante la seconda guerra mondiale, con lo sviluppo della produzione bellica. 17.6. Il nuovo ruolo dello Stato. Stato e mercato prima della crisi, Le nuove forme dell'intervento statale, Il capitalismo "diretto", Le teorie di Keynes, Il ruolo della spesa pubblica. In Europa e negli Stati Uniti l'intervento pubblico in economia era stato già largamente attuato per favorire i processi di industrializzazione, per temperare i conflitti di classe e, in forme particolarmente incisive, per organizzare la produzione in tempo di guerra. Ma, allo scoppio della grande crisi, la cultura dominante fra gli statisti dei paesi industrializzati considerava ancora queste forme di intervento come una conseguenza di specifiche situazioni o al massimo come un supporto che doveva rendere più scorrevole il funzionamento di una realtà economica - il mercato dotata di autonoma capacità espansiva.

La crisi del '29 fece però sorgere un complesso di problemi la cui soluzione si rivelò al di là della capacità di recupero delle forze economiche individuali. Ovunque, con maggiore o minore ampiezza, fu quindi lo Stato ad assumersi nuovi e importanti oneri. Dall'intensificazione delle tradizionali misure di sostegno esterno alle attività produttive (ad esempio, i provvedimenti in materia doganale) si passò alla adozione di più radicali misure di controllo (dei cambi, dei prezzi, dei salari, dei livelli di produzione) e, infine, all'assunzione da parte dello Stato del ruolo di vero e proprio soggetto attivo dell'espansione economica. Ciò avvenne in forme diverse da paese a paese: in alcuni casi, come quello degli Stati Uniti, si agì soprattutto attraverso il potenziamento della domanda interna mediante l'espansione della spesa pubblica; in altri, come in Italia, si giunse all'assunzione diretta da parte dello Stato di imprese industriali in difficoltà; altrove - per esempio in Gran Bretagna e, in forme più incisive, nei paesi scandinavi - si puntò sull'elaborazione di programmi di sviluppo che, delineando un ordine di priorità per la produzione e i consumi, si proponevano di orientare, tramite il credito o la manovra fiscale, l'attività economica verso obiettivi fissati dal potere politico. La grande trasformazione attraversata dal capitalismo nel corso degli anni '30 rimase comunque un fenomeno interno al sistema. Gli schemi di sviluppo del capitalismo liberale, fondati sull'autonoma iniziativa di soggetti individuali, furono modificati e sostituiti da nuove forme di capitalismo "diretto", che comportavano alcune limitazioni alle scelte dei privati. Ma queste limitazioni, che ebbero per contropartita l'aiuto statale per fronteggiare le difficoltà della crisi, non intaccarono il principio del profitto, che restava scopo finale e molla fondamentale dell'attività economica. In generale i governi, a cominciare da quello americano, potenziarono l'intervento statale seguendo linee di condotta fortemente empiriche, elaborate per rispondere alle urgenze del momento. Il primo e più importante sforzo di sistemazione teorica delle trasformazioni in corso giunse nel 1936, con la pubblicazione da parte dell'economista inglese John Maynard Keynes del volume Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, che aprì un capitolo nuovo nella storia della scienza economica. Già negli anni '20 Keynes si era distinto per la sua critica all'osservanza dogmatica dei princìpi del liberismo. La crisi del '29 e la susseguente depressione gli fornirono gli elementi per confutare alcune proposizioni fondamentali della teoria economica classica, in particolare quelle secondo cui il mercato tenderebbe spontaneamente a produrre l'equilibrio fra domanda e offerta e a raggiungere la piena occupazione delle unità di lavoro disponibili. Keynes riteneva invece che i meccanismi spontanei del

capitalismo non fossero in grado di consentire da soli un'utilizzazione ottimale delle risorse. Anziché orientarlo verso soluzioni socialiste, questa constatazione lo indusse a prospettare una serie di correttivi all'instabilità capitalistica. Keynes criticò radicalmente tutte le politiche deflazionistiche che, riducendo il potere d'acquisto dei privati mediante il contenimento della spesa pubblica e la restrizione del credito, aggravavano le difficoltà della domanda. E, soprattutto, attribuì allo Stato il compito di accrescere il volume della domanda effettiva, manovrando in senso espansivo la spesa pubblica. Condizione preliminare di questa manovra era l'abbandono del mito del bilancio in pareggio: la spesa pubblica poteva essere finanziata anche col ricorso ai deficit di bilancio (politica del deficit spending) e con l'aumento della quantità di moneta in circolazione. Gli effetti inflazionistici di queste procedure sarebbero stati compensati dai benefici che le spese statali avrebbero arrecato al reddito e alla produzione. Com'è facile rilevare, le linee di intervento proposte da Keynes in sede di teoria economica rispecchiavano molto da vicino quelle che Roosevelt stava attuando - o aveva già attuato - negli Stati Uniti del New deal. Politiche analoghe, basate essenzialmente sulla manovra della spesa pubblica, sarebbero state adottate da quasi tutti i governi occidentali dopo la fine della seconda guerra mondiale. 17.7. I nuovi consumi. L'urbanizzazione, Il boom edilizio e i servizi domestici, Il mutamento dei consumi, La motorizzazione privata, Gli elettrodomestici. Dopo il 1929, l'intero Occidente industrializzato subì, come si è visto, un generale processo di impoverimento. Ma questo non impedì che nuove abitudini di vita, nuovi e più moderni modelli di consumo si affermassero presso vasti strati della popolazione, soprattutto urbana. Nel corso degli anni '30, la popolazione delle città non smise mai di accrescersi a scapito di quella delle campagne. Anzi, il processo di urbanizzazione si accelerò ulteriormente a causa della grave crisi in cui versava il settore agricolo nonostante la fortuna incontrata un po'"dappertutto dalle ideologie ruraliste (che esaltavano la funzione dell'agricoltura nella società e vedevano nel mondo delle campagne la fonte dei valori più autentici). Crescita delle città significava sviluppo del settore edilizio. Lo sviluppo edilizio ebbe a sua volta conseguenze notevoli non solo sull'economia, ma anche sulla qualità della vita delle masse urbane. Le case di nuova costruzione erano di solito fornite di acqua corrente e di elettricità; inoltre,

dato che si trovavano per lo più in zone periferiche, resero necessario uno sviluppo dei trasporti pubblici (tram elettrici e autobus) e della stessa motorizzazione privata. Alcune industrie produttrici di beni di consumo durevoli risultarono dunque avvantaggiate dal boom edilizio e, nello stesso tempo, contribuirono a stimolarlo, visto che i moderni impianti igienicosanitari ed elettrici rendevano superate le vecchie abitazioni e più desiderabili le nuove. Si deve inoltre tener presente che la grande crisi, se per un verso aveva accentuato le distanze fra ricchi e poveri, fra occupati e disoccupati, per un altro aveva determinato un certo miglioramento nelle retribuzioni reali e nei consumi di quei lavoratori che avevano mantenuto la loro occupazione e a cui il drastico calo dei prezzi agricoli aveva consentito di ridurre la quota di reddito destinata ai consumi alimentari e di aumentare viceversa quella disponibile per l'affitto, per il risparmio o per acquisto di altri beni. Tutto ciò aiuta a spiegare come mai, proprio negli anni '30, la società europea conobbe per la prima volta la diffusioni sia pure su scala più ridotta, di quei consumi di massa che erano esplosi negli Stati Uniti durante il decennio precedente. La produzione di veicoli a motore, per esempio, fece registrare consistenti progressi, anche se restò lontana dai livelli statunitensi: nel 1938 circolavano in Europa oltre 8 milioni di autovetture, contro i 5 del 1930 (nello stesso periodo gli Usa passarono da 25 a 31 milioni). Nel vecchio continente l'automobile rimase, per tutti gli anni '30, un bene riservato a pochi. Ma intanto cominciavano a comparire anche in Europa le prime vetture "popolari" - come la Volkswagen (vettura del popolo) in Germania o la Topolino in Italia - concepite per emulare il successo della leggendaria Ford T, la prima utilitaria, che negli Stati Uniti, fra il 1908 e il 1924, era stata venduta in 15 milioni di esemplari. Un discorso analogo si può fare per la produzione degli elettrodomestici. I più costosi, come frigoriferi, scaldabagni, continuarono a essere considerati beni di lusso, ma il loro uso si andò ugualmente estendendo, almeno fra le categorie a reddito più elevato. Più ampia diffusione, anche fra i ceti medioinferiori, ebbero altri apparecchi domestici, come il ferro da stiro, la cucina a gas e la radio. 17.8. Le comunicazioni di massa. La radio, Le trasmissioni radiofoniche, La radio, il tempo libero, l'informazione; Radio e società di massa, Il cinema, Cinema e modelli di vita, Cinema e propaganda, La politica come spettacolo.

I primi apparecchi per la trasmissione del suono attraverso l'etere sen za l'ausilio dei fili erano stati sperimentati alla fine dell'800. Durante i primi vent'anni del secolo la tecnica radiofonica aveva fatto continui progressi e aveva ricevuto una forte spinta dal primo conflitto mondiale. Il grande salto si ebbe dopo la fine della guerra, quando la radio si trasformò da mezzo di comunicazione fra singoli soggetti in strumento di irradiazione di programmi destinati a un pubblico fornito di apparecchi riceventi dunque in mezzo di informazione e di svago. I primi programmi regolari di trasmissioni si ebbero negli Stati Uniti nel 1920 e furono organizzati da compagnie private che si finanziavano con gli introiti pubblicitari. Nei maggiori paesi europei le trasmissioni si svilupparono negli anni immediatamente successivi, per lo più ad opera di enti che operavano sotto il controllo statale, sul modello dell'inglese Bbc (British Broadcasting Corporation), e imponevano agli utenti un canone di abbonamento. Nell'uno come nell'altro caso lo sviluppo della radiofonia fu rapidissimo. Le vendite di apparecchi radio registrarono un boom spettacolare: alla fine degli anni '20 ne esistevano circa 3 milioni in Gran Bretagna, altrettanti in Germania e quasi 10 negli Stati Uniti. Queste cifre si moltiplicarono nel decennio successivo: nel 1939 c'erano in tutto il mondo circa 100 milioni di radio, metà delle quali nel Nord America. Con il suo prezzo d'acquisto relativamente basso e i suoi costi d'esercizio praticamente nulli, la radio divenne presto un fondamentale mezzo di svago anche per le classi popolari: anzi, la sua importanza era tanto maggiore quanto più ridotto era il reddito e minore quindi la possibilità di accedere ad altre forme di uso del tempo libero. Anche come mezzo d’informazione la radio non temeva confronti: i notiziari radiofonici entravano nelle case, potevano essere ascoltati in qualsiasi ora, non richiedevano particolari sforzi di attenzione né spese supplementari ed erano per giunta molto più tempestivi dei giornali. A partire dagli anni '30, infatti, lo sviluppo della stampa di informazione subì un netto rallentamento. I giornali quotidiani continuarono a essere acquistati e letti soprattutto dal pubico più qualificato, ma persero molta della loro capacità di espansione fra le classi popolari. Per riguadagnare il terreno perduto, il settore della carta stampata cominciò a puntare più sull'immagine: di qui lo sviluppo delle riviste illustrate (capofila del genere fu l'americana "Life"), dove l'arte fotografica prevaleva decisamente sui testi. Capostipite di una serie di invenzioni destinate a improntare di sé la civiltà contemporanea, la radio segnò una tappa decisiva nel cammino della società di massa e inaugurò - come a suo tempo il telegrafo e il telefono

un'era nuova nel campo delle telecomunicazioni. Se ne resero conto alcuni grandi gruppi industriali, in particolare i colossi elettrici americani e tedeschi, che puntarono decisamente sullo sviluppo della radiofonia. Se ne resero conto anche gli uomini politici, da Roosevelt a Hitler e Mussolini, che affidarono alla radio i loro discorsi più importanti e di essa si servirono per assicurare ai loro messaggi una diffusione capillare. Gli anni del trionfo della radio videro anche l'affermazione di un'altra forma di comunicazione di massa tipica del nostro tempo: il cinema, verso la fine degli anni '20, con l'invenzione del sonoro, il cinema divenne uno spettacolo "completo", come lo erano il teatro di prosa o l'opera lirica. Con la differenza che la proiezione di un film, ripetibile infinite volte, aveva costi incomparabilmente più bassi rispetto a una rappresentazione teatrale, poteva essere realizzata in qualsiasi locale abbastanza ampio per contenere uno schermo ed era quindi alla portata di un pubblico vastissimo. Spettacolo popolare per eccellenza, esempio di fusione fra creazione artistica e prodotto industriale, il cinema non era solo un mezzo di svago. Era anche un veicolo attraverso cui imporre immagini e personaggi: col boom del cinema nacque il fenomeno del "divismo" di massa, ossia quel particolare rapporto di attrazione, spesso ai limiti dell'idolatria, che lega il grande pubblico agli attori più popolari, o meglio alla loro immagine diffusa dagli schermi. Ma attraverso il cinema si potevano anche divulgare messaggi ideologici e visioni del mondo: si pensi al ruolo svolto dalla cinematografia statunitense - la più importante per prestigio e volume di produzione - nel diffondere in tutto il mondo i valori tipici della società americana (il coraggio fisico, la tecnica, l'ascesa individuale). Una forma di propaganda più diretta era quella affidata ai cinegiornali d'attualità che venivano proiettati nelle sale cinematografiche in apertura di spettacolo e svolgevano una funzione complementare a quella dei notiziari radiofonici. Insomma, lo sviluppo delle comunicazioni di massa non solo cambiò radicalmente i modi di concepire e di usare il tempo libero, ma ebbe effetti rivoluzionari in tutti i settori dell'attività umana. La radio e il cinema costituivano un formidabile moltiplicatore, capace di trasformare in spettacolo di massa qualsiasi manifestazione della vita sociale: la creazione artistica come la competizione sportiva (fu in questo periodo che lo sport perse definitivamente il suo carattere di attività dilettantistica fine a se stessa per trasformarsi in esibizione destinata essenzialmente al pubblico), la cultura come la politica. Furono soprattutto i regimi autoritari a sfruttare appieno le possibilità insite nei nuovi mezzi di comunicazione e ad accentuare il lato "spettacolare" delle manifestazioni di massa. Ma anche

nelle democrazie la radio, il cinema e la stampa illustrata contribuirono a "spettacolarizzare" la competizione politica (è il caso soprattutto delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti), a valorizzarne gli aspetti più eclatanti, a concentrare l'attenzione sulle figure dei leader. 17.9. La scienza e la guerra. Gli sviluppi della scienza, La ricerca nucleare e la bomba atomica, L'arma aerea. Il boom dei mezzi di comunicazione di massa non fu il solo risultato saliente dell'evoluzione tecnologica e scientifica negli anni fra le due guerre mondiali. In questo periodo l'onda lunga della rivoluzione della scienza applicata, cominciata negli ultimi decenni dell'800, e accelerata in forme spesso esasperate dal primo conflitto mondiale, continuò a far sentire i suoi effetti sulla vita quotidiana e sulla salute, sulle attività di pace e sullo sviluppo dei mezzi bellici. Risalgono agli anni '20 e '30 alcune scoperte che avrebbero segnato in modo decisivo la storia del XX secolo, dando la misura del potere sconfinato della scienza moderna, della contraddittorietà dei suoi esiti, del suo carattere sempre meno "neutrale". In questi anni un folto gruppo di fisici di diversi paesi, quasi tutti nati dopo l'inizio del secolo (l'italiano Fermi, gli inglesi Dirac e Chadwick, i francesi Joliot e De Broglie, i tedeschi Schròdinger e Heisenberg per citarne solo alcuni) portò avanti gli studi e gli esperimenti sul nucleo dell'atomo avviati all'inizio del '900 da Rutherford e da Bohr. Si trattava di ricerche essenzialmente teoriche, che assunsero però un'immediata risonanza anche al di fuori degli ambienti scientifici quando, alla fine degli anni '30, si scoprì che dalla scissione, provocata artificialmente, di un nucleo atomico di materiale radioattivo era possibile liberare enormi quantità di energia. Molti intuirono allora che da questa nuova straordinaria fonte di energia sarebbe stato possibile ottenere un'arma più potente di qualsiasi altra fin allora realizzata. Ma soltanto nel 1942, quando, a conflitto mondiale già in corso, una équipe di scienziati americani guidata da Enrico Fermi realizzò il primo reattore nucleare, lo spettro della "guerra atomica" si materializzò minacciosamente, inducendo i due schieramenti in lotta a un'affannosa e segretissima corsa verso la costruzione della nuova bomba. Se i possibili impieghi bellici della fisica nucleare restarono per molto tempo sconosciuti ai più, nessuno poteva ignorare il nesso strettissimo che intercorreva fra le caratteristiche della guerra futura e gli sviluppi della

tecnica aviatoria. Negli anni '20 e '30 l'aeronautica compì in tutti i paesi industrializzati progressi notevoli: gli aerei divennero più sicuri e più rapidi (i mezzi più veloci toccavano punte di 7-800 chilometri orari), aumentando nel contempo la loro capacità di carico e la loro autonomia. Imprese come la trasvolata solitaria dell'americano Charles Lindbergh, che nel 1927 compì per primo su un piccolo aereo il volo senza scalo da New York Parigi, o come le grandi crociere transatlantiche compiute da Italo Balbo nel 1930-31 al comando di una squadriglia di idrovolanti, valsero a esaltare agli occhi dell'opinione pubblica mondiale le nuove possibilità offerte dal trasporto aereo, l'aviazione civile, dopo i primi timidi passi negli anni 10, conobbe nel decennio successivo un considerevole incremento (soprattutto negli Stati Uniti), pur restando, a causa dei suoi alti costi, un servizio accessibile solo alle categorie privilegiate. I progressi dell'aviazione civile furono però superati dai contemporanei e più consistenti sviluppi dell'aeronautica militare, che assorbiva allora contrariamente a quanto avviene ai nostri giorni - la maggior parte della produzione del settore. Dopo aver accolto con scetticismo e diffidenza i primi impieghi bellici dell'aviazione, generali e uomini di governo finirono col convincersi che un'arma aerea, autonoma dall'esercito e dalla marina, era destinata a svolgere un ruolo decisivo. Tutte le grandi e medie potenze intensificarono, dall'inizio degli anni '30, la costruzione di aerei militari: aerei da caccia sempre più veloci, aerei da trasporto sempre più capienti, bombardieri dotati di sempre maggiore autonomia. L'ipotesi di una guerra in cui i contendenti si combattessero spargendo il terrore fra le popolazioni civili diventava ormai una tragica certezza. 17.10. La cultura della crisi. La perdita dell'unità, Le avanguardie, La crisi del romanzo borghese, Le grandi divisioni ideologiche, Intellettuali e impegno politico L'emigrazione degli intellettuali, L'impoverimento culturale dell'Europa. Anche per la cultura europea, gli anni '20 e '30 furono anni di crisi e di mutamenti profondi. Si accentuarono in questo periodo i fenomeni di disgregazione e di perdita dell'unità che già si erano delineati negli anni precedenti il primo conflitto mondiale. Le maggiori scuole di pensiero sorte dopo la guerra (il neopositivismo e la fenomenologia, l'esistenzialismo, lo spiritualismo cattolico e le varie correnti del marxismo) avevano

metodologie e interessi molto distanti fra loro e procedettero ciascuna per proprio conto senza molto influenzarsi vicendevolmente. Un discorso analogo si può fare per la letteratura, per le arti figurative, per la musica. Proseguì in questi anni la tendenza alla rottura delle forme canoniche e la ricerca, a volte esasperata, di nuovi moduli espressivi. Continuò la stagione delle grandi correnti d'avanguardia, che trovarono un pubblico più ampio e disponibile che in passato in una società delusa e disorientata come quella postbellica. Ai movimenti già affermatisi prima della grande guerra (l'astrattismo e il cubismo, il futurismo e l'espressionismo) se ne aggiunsero altri nuovi come il surrealismo, lanciato nel 1924 da un gruppo di intellettuali francesi (André Breton, Louis Aragon, Paul Éluard) che vedevano nell'arte l'espressione delle tendenze profonde dell'inconscio e predicavano, nel campo culturale come in quello politico, la lotta contro ogni forma di convenzione borghese. Ma nessuna di queste correnti giunse ad affermarsi sulle altre, nessuna può essere scelta come particolarmente rappresentativa di un'epoca e di una temperie culturale. Non è forse un caso se due fra le maggiori personalità dell'epoca rispettivamente nel campo pittorico e in quello musicale, Pablo Picasso e Igor Stravinskij, non si identificarono con una sola corrente d'avanguardia, ma piuttosto le attraversarono e le utilizzarono tutte con straordinario eclettismo. Consideriamo anche i grandi capolavori della narrativa apparsi nel periodo fra le due guerre: gli ultimi volumi della Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust uscirono a guerra appena terminata, come molti dei racconti e romanzi di Franz Kafka; l'Ulisse di James Joyce è del 1922, La Montagna incantata di Thomas Mann del 1924, mentre L'Uomo senza qualità di Robert Musil pubblicato all'inizio degli anni '30. Queste opere hanno fra loro poco di simile, salvo il fatto di rappresentare i problemi e le angosce dell'uomo del XX secolo, di esprimere in modi molto diversi (ora re stando, come Mann, nel solco della tradizione del romanzo ottocentesco ora forzando, come Joyce, strutture letterarie e convenzioni linguistiche) la rottura dell'universo borghese che aveva fatto da sfondo e da sostrato al la grande narrativa del secolo XIX. Un ulteriore elemento di crisi e di disgregazione della cultura europea di questi anni fu indubbiamente rappresentato dalle divisioni politicoideologiche. Anche se le loro opere non recavano spesso alcuna traccia visibile delle vicende sociali contemporanee (e apparivano invece come distaccate e ripiegate sulla sperimentazione formale e sull'introspezione psicologica), letterati e artisti furono fortemente coinvolti nelle grandi contrapposizioni fra liberalismo borghese e comunismo marxista, fra fascismo e democrazia. L'impegno politico non era certo una

cosa nuova per gli intellettuali europei. Ma ciò che accadde negli anni fra le due guerre fu un fenomeno più esteso e più carico di implicazioni. Gli intellettuali furono chiamati sempre più spesso non solo a testimoniare, ma a parteggiare apertamente, a prendere posizione su singoli problemi (fu allora che si diffuse l'uso dei pubblici manifesti e degli appelli firmati da personalità della cultura); furono mobilitati, e spesso utilizzati spregiudicatamente, da partiti e governi; si divisero secondo linee di contrapposizione che ricalcavano gli schieramenti politicoideologici: se la cultura liberale aveva i suoi maggiori punti di riferimento in Benedetto Croce e in Thomas Mann, se i comunisti potevano vantare illustri "compagni di strada" come Picasso e Gorkij, André Gide e Romain Rolland, anche la destra autoritaria poteva mettere in campo personaggi prestigiosi: i filosofi Giovanni Gentile e Martin Heidegger (uno dei padri dell'esistenzialismo), il giurista e politologo tedesco Carl Schmitt, il poeta nericano Ezra Pound, per citare solo i più noti. Parve a molti che gli intellettuali, lasciandosi coinvolgere così a fondo nelle contese politiche, tradissero in qualche modo la loro missione, che abdicassero al loro ruolo di guida delle coscienze per adattarsi a quello di propagandisti. Divisa e lacerata dalla radicalizzazione ideologica e politica, la cultura europea subì anche in modo diretto e drammatico le conseguenze dell'avvento dei regimi totalitari. Se la dittatura staliniana provocò la scomparsa fisica di una parte non trascurabile dell'intellettualità russa (una perdita che si aggiunse alla cospicua "fuga di cervelli" verificatasi dopo la rivoluzione del '17), il regime nazista in Germania costrinse all'esilio centinaia di intellettuali, soprattutto ebrei. Molti si rifugiarono in Francia, in Gran Bretagna, in Svizzera. Ma i più scelsero come meta della loro emigrazione gli Stati Uniti. Qui approdarono, fra il '33 e il '39, grandi scrittori come Thomas Mann e Bertolt Brecht, registi come Fritz Lang e Ernst Lubitsch, musicisti come Paul Hindemith e Arnold Schoenberg, idre della musica dodecafonica, pittori come George Grosz e architetti come Walter Gropius, fondatore del Bauhaus (la più importante scuola di architettura fiorita in Germania fra le due guerre). Si trasferirono in America celebri psicanalisti (fra gli altri Adler e Fromm) e molti fra i maggiori sociologi e scienziati politici (come Mannheim, Neumann, Marcuse). A lasciare l'Europa fu dunque il nucleo più importante della vivissima e avanzatissima cultura fiorita nella Germania di Weimar. Emigrarono infine negli Stati Uniti numerosi e illustri scienziati: da Albert Einstein, patriarca della scienza moderna, a molti fisici della generazione più giovane, impegnati nelle ricerche sull'atomo. A questi si aggiunse, nel '39, Enrico

Fermi, premio Nobel per la fisica, emigrato per protesta contro l'introduzione delle leggi razziali in Italia. La cultura e la scienza europee subirono così, negli anni '30, un'emorragia di grandi proporzioni: dopo quello economico, anche il centro culturale del mondo industrializzato cominciava a dislocarsi al di là dell'Atlantico. Sommario Gli anni '20 furono per gli Stati Uniti un periodo di prosperità economica che INFLUÌ sulla stessa vita quotidiana degli americani (con la diffusione dell'automobile e degli elettrodomestici). Dal punto di vista politico, fu incontrastata l'egemonia del Partito repubblicano, sostenitore di un indirizzo conservatore e liberista. Si diffondevano, tra l'opinione pubblica, tendenze conservatrici e pregiudizi raziali. La borghesia americana cercava facili guadagni nella speculazione borsistica, inconsapevole delle fragili basi dell'espansione economica di quegli anni. Il crollo della borsa di New York (ottobre 1929) fu a un tempo la spia di un malessere economico preesistente e la causa di ulteriori episodi di crisi. Negli Stati Uniti molte aziende dovettero chiudere. Le misure protezionistiche adottate subito in Usa - e poi negli altri paesi - provocarono una brusca contrazione del commercio internazionale. La recessione economica - cui si accompagnò un altissimo numero di disoccupati - si diffuse in tutto il mondo. In Europa una grave crisi finanziaria culminò nella sospensione della convertibilità della sterlina. Scarso successo ebbero le politiche di austerità perseguite dai governi dei paesi industrializzati, che finirono con l'aggravare la recessione in corso e col ripercuotersi negativamente sugli equilibri politici e sociali. Nel 1932 divenne presidente degli Stati Uniti il democratico F. D. Roosevelt. La sua politica (New Deal) si caratterizzò per un energico intervento dello Stato nell'economia e per alcune iniziative di riforma sociale. Il New Deal, se rappresentò un'importante innovazione, non riuscì a determinare una piena ripresa dell'economia americana, che si sarebbe verificata solo con la guerra. Un po'"in tutti i paesi la grande crisi finì col far adottare nuove forme di interventi dello Stato in campo economico, che giunsero a configurare una forma di capitalismo "diretto". Quanto i governi fecero solo empiricamente fu teorizzato dall'economista Keynes che, in particolare, sottolineò il ruolo

della spesa pubblica ai fini dell'incremento della domanda e del raggiungimento della piena occupazione. Nei paesi europei si verificò proprio durante la grande crisi uno sviluppo di qui consumi di massa che si erano affermati in Usa negli anni '20. Grande diffusione ebbero la radio e il cinema, che divennero elementi caratteristici della società di massa: mezzi di svago, di informazione ma anche di propaganda, essi contribuirono ad accentuare il lato spettacolare della politica. Negli anni '20 e '30 vennero fatte alcune scoperte scientifiche destinate a segnare la storia del XX secolo: anzitutto quella dell'energia nucleare (che avrebbe portato alla costruzione della bomba atomica). Sul piano delle applicazioni belliche della scienza, sono da ricordare i grandi sviluppi dell'aeronautica. Nella cultura europea si accentuarono allora i fenomeni di disgregazione e di perdita dell'unità, tanto che nessuna delle correnti del periodo può essere assunta da sola, come particolarmente rappresentativa. Furono anni, per gli intellettuali di grandi contrapposizioni ideologiche (liberalismocomunismo, democraziafascismo) e di impegno politico. L'emigrazione degli intellettuali tedeschi durante il nazismo provocò un impoverimento culturale dell'Europa. Bibliografia Sugli Stati Uniti negli anni '20 e '30, vedi M. E. Parrish, L'età dell'ansia. Gli Stati Uniti dal 1920 al 1940, Il Mulino, Bologna 1992. L'opera più ampia sugli anni della crisi e del "New Deal" è quella di A. Schlesinger jr., L'età di Roosevelt, Il Mulino, Bologna 1959-65, in tre volumi; una sintesi più rapida è quella di W. E. Leuchtenburg, Roosevelt e il New Deal 1932-1940, Laterza, Bari 1968; si veda inoltre Il New Deal, a cura di M. Vaudagna, Il Mulino, Bologna 1981. Sul "grande crollo" e la crisi mondiale che ne seguì: J. K. Galbraith, Il grande crollo, Boringhieri, Torino 1972; C. P. Kindleberger, La grande depressione nel monde 1929-1939, Etas Libri, Milano 1982; inoltre, sui mutamenti economici e sociali Guerre e crisi 1914-1947, tomo I del vol. V della Storia economica e sociale del mondo moderno, a e. di P. Leon, Laterza, RomaBari 1979 e vedi anche E. J. Hobsbawm Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995. Sulle trasformazioni strutturali del capitalismo: K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.

Sull'esodo degli intellettuali europei verso gli Stati Uniti: H. S. Hughes, Da sponda, a sponda. L'emigrazione degli intellettuali europei e lo studio della società contemporanea (1930-65), Il Mulino, Bologna 1977. 18. L'età dei totalitarismi. 18.1. L'eclissi della democrazia. La sfiducia nella democrazia, Caratteristiche dei fascismi, Fascismo e ceti medi, Fascismo e società di massa: il totalitarismo. Nel corso degli anni '30, la democrazia europea - che pure era sembrata uscire trionfatrice dal primo conflitto mondiale - visse i suoi momenti più neri. Già nel decennio precedente regimi autoritari si erano affermati in molti Stati dell'Europa mediterranea e orientale. Ma, nei paesi più progrediti sul piano dell'economia e delle strutture civili, questi regimi erano stati visti soprattutto come un prodotto dell'arretratezza e dell'insufficiente radicamento dei princìpi liberaldemocratici. Con la grande crisi, con i successi del nazismo in Germania e con la crescita generalizzata dei movimenti autoritari in Europa e nel mondo, si capì che il male era più profondo e non risparmiava nemmeno i paesi economicamente più sviluppati. In ampi strati dell'opinione pubblica si diffuse la convinzione che i sistemi democratici avessero ormai i giorni contati; che fossero troppo deboli per tutelare gli interessi nazionali e troppo insufficienti per garantire il benessere dei cittadini; che la vera alternativa fosse quella fra il comunismo sovietico (anch'esso organizzato, con Stalin, nelle forme della dittatura personale) e i regimi autoritari di destra. Questi ultimi conobbero negli anni '30 il loro periodo di maggior fortuna: sia che si presentassero sotto la veste delle dittature reazionarie di tipo tradizionale, sia che si ispirassero all'esempio più "moderno" del fascismo italiano (e, più tardi, del nazismo tedesco). Caratteristica fondamentale dei movimenti e dei regimi che convenzionalmente chiamiamo fascisti (anche se il fascismo non ebbe mai una base dottrinaria ben definita né un modello riconosciuto) era un tentativo di proporsi come artefici di una rivoluzione (e non solo di una controrivoluzione) di dar vita a un nuovo ordine politico e sociale, diverso da quelli conosciuti fin allora. Sul piano dell'organizzazione politica, fascismo significava accentramento del potere nelle mani di un capo, struttura gerarchica dello Stato, inquadramento più o meno forzato della popolazione nelle organizzazioni di massa, rigido controllo

sull'informazione e sulla cultura. Sul piano economico e sociale, il fascismo si vantava di aver indicato una terza via fra capitalismo e comunismo: ma questo modello non riuscì mai a prender corpo e l'unica vera verità in questo campo consistette nella soppressione della libera dialettica sindacale, oltre che in un complessivo rafforzamento dell'intervento statale in economia. Eppure, nonostante la sua inconsistenza, la "terza via" proposta dal fascismo esercitò una notevole attrazione, soprattutto sugli strati sociali intermedi. Mentre le classi popolari si piegarono di malavoglia ai regimi autoritari, mentre la grande borghesia appoggiò le dittature più per calcolo utilitaristico che per convinzione, i ceti medi offrirono al fascismo un'adesione diffusa e talvolta entusiastica. Ai giovani in cerca di avventura, agli intellettuali bisognosi di certezze, ai piccoloborghesi delusi dalla democrazia e spaventati dall'alternativa comunista il fascismo pareva offrire una prospettiva nuova ed emozionante: la sensazione di appartenere a una comunità e di riconoscersi in un capo, la convinzione di essere inseriti in una gerarchia basata sul merito (e non sulla ricchezza o sui privilegi di nascita), l'identificazione certa di un nemico. Tutto ciò rappresentava una sorta di protezione contro il senso di schiacciamento e di anonimato provocato dai processi di "massificazione": dunque una reazione contro la società di massa, ma al tempo stesso un'esaltazione di alcuni suoi aspetti. Più e meglio di quanto non avessero mai fatto le classi dirigenti liberaldemocratiche, il fascismo seppe capire le società di massa, ne interpretò le componenti aggressive e violente e soprattutto ne sfruttò appieno le tecniche e gli strumenti: i mezzi di propaganda (soprattutto quelli nuovi, come la radio e il cinema), i canali di informazione e di istruzione, le strutture associative, in particolare quelle giovanili. Questa capacità di adattamento alla società di massa e di controllo sui suoi meccanismi costituì una caratteristica specifica del fascismo e del nazismo ma anche di un regime di opposta matrice ideologica e sociale come quello sovietico nell'età di Stalin; fu insomma propria di tutti quei regimi che, per la loro pretesa di dominare in modo "totale" la società, di condizionare non solo i comportamenti ma la stessa mentalità dei cittadini, sono stati definiti totalitari [§parola chiave: Totalitarismo]. 18.2. La crisi della Repubblica di Weimar e l'avvento del nazismo. L'ascesa di Hitler, Il Partito nazionalsocialista e le SA, Il programma nazista, Il "Mein Kampf", L'antisemitismo di Hitler, Lo "spazio vitale", La grande crisi e la radicalizzazione della lotta politica, I motivi dell'adesione al nazismo, Le elezioni del 1930: successo nazista e sconfitta dei partiti

democratici, Crisi economica e violenza politica, La rielezione di Hindenburg, I governi Papen e Schleicher, Le elezioni del '32 e i successi nazisti, Hitler capo del governo. Nel novembre 1923, quando finì in prigione per aver tentato di organizzare un colpo di Stato a Monaco di Baviera [§15.7], Adolf Hitler era un politico di secondo piano, capo di una minuscola formazione - il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi - a metà tra il partito e il gruppo paramilitare, con un programma accesamente nazionalista e confusamente demagogico. Di lui si sapeva che era di origine austriaca, che aveva servito durante la guerra nell'esercito tedesco col grado di caporale guadagnandosi alcune decorazioni al valore, che aveva tentato senza successo di fare il pittore. Meno di dieci anni dopo, nel gennaio 1933, Hitler, leader di un partito che ormai rappresentava circa un terzo dell'elettorato tedesco, riceveva l'incarico di formare il governo. Per capire i motivi di questa imprevedibile ascesa è necessario rifarsi alla grande crisi e ai suoi effetti sulla società tedesca. Fino al '29, infatti, il Partito nazionalsocialista - o nazista, come veniva comunemente chiamato - rimase un gruppo minoritario e marginale, che si collocava al di fuori della legalità repubblicana, si serviva sistematicamente della violenza contro gli avversari politici e fondava la sua forza soprattutto su una robusta organizzazione armata: le SA (sigla di SturmAbteilungen, cioè "reparti d'assalto") comandate dal capitano dell'esercito Ernst Rohm. Dopo il fallimentare tentativo di Monaco, Hitler aveva cercato, sull'esempio di quanto aveva fatto Mussolini in Italia, di dare al partito un volto più "rispettabile". Aveva messo da parte le rivendicazioni di stampo anticapitalistico (riforma agraria, nazionalizzazione dei grandi trust) che figuravano nel programma nazista del '20, riuscendo così ad assicurarsi un certo sostegno finanziario da parte di alcuni ambienti della grande industria. Ma non aveva affatto rinunciato al nucleo centrale di quel programma, che prevedeva la denuncia del trattato di Versailles, la riunione di tutti i tedeschi in una nuova "grande Germania", l'adozione di misure discriminatorie contro gli ebrei, la fine del "parlamentarismo corruttore". I suoi progetti a lungo termine Hitler li espose con molta chiarezza in un libro dal titolo Mein Kampf (La mia battaglia) scritto nei mesi del carcere, pubblicato nel '25 e destinato a diventare una sorta di testo sacro del nazismo. Al centro dei piani hitleriani c'era un'utopia nazionalista e razzista. Antisemita radicale fin dai tempi della giovinezza passata a Vienna, sostenitore di una concezione grossolanamente darwiniana della vita come continua lotta in cui solo i forti sono destinati a vincere, Hitler credeva

nell'esistenza di una razza superiore e conquistatrice, quella ariana, progressivamente inquinatasi per la commistione con le razze "inferiori". I caratteri originari dell'arianesimo si erano per lui conservati solo nei popoli nordici, in particolare nel popolo tedesco, che avrebbe dunque dovuto dominare sull'Europa e sul mondo. Per realizzare questo sogno era necessario dapprima schiacciare i nemici interni: primi fra tutti gli ebrei, considerati, in quanto "popolo senza patria", i portatori del virus della dissoluzione morale, responsabili a un tempo dei misfatti del capitale finanziario e di quelli del bolscevismo, causa e simbolo vivente della decadenza della civiltà europea. Una volta ricostituita la propria unità in un nuovo Stato, intorno a un capo in grado di interpretare i bisogni profondi del popolo, i tedeschi avrebbero dovuto respingere le imposizioni di Versailles, recuperare i territori perduti ed espandersi verso est a danno dei popoli slavi, considerati anch'essi inferiori. La ricerca dello spazio vitale a oriente avrebbe permesso di far coincidere l'espansione territoriale con la crociata ideologica contro il comunismo. Un programma estremista e guerrafondaio come quello delineato nel Mein Kampf trovò scarsi consensi nella Germania dell'età di Stresemann. Nelle elezioni del dicembre '24 i nazisti ottennero circa il 3 % dei voti; in quelle del maggio '28 appena il 2,5%. Ma con lo scoppio della grande crisi lo scenario cambiò radicalmente. La maggioranza dei tedeschi, immiseriti o addirittura ridotti alla fame per la terza volta in poco più di dieci anni, perse ogni fiducia nella Repubblica e nei partiti che in essa si identificavano. A destra, le forze conservatrici (esercito, agrari, grande industria, alta burocrazia) si sentirono definitivamente sciolte da ogni vincolo di lealtà verso le istituzioni repubblicane e si proposero sempre più apertamente di cambiare le regole del sistema appoggiando le forze sovversive, a cominciare dai nazisti. A sinistra, settori consistenti della classe operaia si staccarono dalla socialdemocrazia per avvicinarsi ai comunisti, che attaccavano la classe dirigente democratica con una virulenza non inferiore a quella dell'estrema destra, convinti che la rovina della Repubblica avrebbe spianato la strada alla rivoluzione. In questa situazione i nazisti poterono uscire dal loro isolamento e far leva sulla paura della grande borghesia, sulla frustrazione dei ceti medi, sulla rabbia dei disoccupati. Ai suoi concittadini provati dalla crisi Hitler offriva non solo la prospettiva esaltante della riconquista di un primato della nazione tedesca, non solo l'indicazione rassicurante di una serie di capri espiatori cui addossare la responsabilità delle disgrazie del paese, ma anche l'immagine tangibile di una forza politica in grado di ristabilire l'ordine contro "traditori" e "nemici interni". Senza contare il fatto che l'adesione al

nazismo offriva l'opportunità di entrare a far parte di un gruppo di "eletti", di una comunità compatta che forniva ai suoi membri, in cambio di una dedizione assoluta, protezione e sicurezza anche materiale. L'agonia della Repubblica di Weimar cominciò nel settembre 1930, quando il cancelliere Brùning convocò nuove elezioni sperando di far uscire dalle urne una maggioranza favorevole alla sua politica di austerità [§17.4]. Accadde invece che i nazisti ebbero uno spettacolare incremento (dal 2,5 al 18,3% dei voti), a spese soprattutto della destra tradizionale. I comunisti guadagnarono posizioni ai danni dei socialdemocratici (che rimasero comunque il partito più forte). L'aspetto più grave dei risultati stava nel fatto che, mentre le forze antisistema si ingrossavano, i partiti fedeli alla Repubblica - socialdemocratici, cattolici del Centro, democratici, tedescopopolari - non disponevano più della maggioranza. Il ministero Brùning continuò a governare per altri due anni grazie all'appoggio concessogli, in mancanza di alternative, dalla Spd e soprattutto grazie al sostegno del presidente Hindenburg, che si valse sistematicamente dei poteri straordinari previsti dalla costituzione nei casi di emergenza. Ma in quei due anni le istituzioni parlamentari si indebolirono ulteriormente, mentre la situazione economica andò continuamente precipitando. Nel 1932 la crisi raggiunse il suo apice. La produzione industriale calò del 50% rispetto al '28 e i senza lavoro raggiunsero i sei milioni (ciò significava che la disoccupazione toccava la metà delle famiglie tedesche). Frattanto i nazisti ingrossavano le loro file in modo impressionante (un milione e mezzo di iscritti, di cui quasi un terzo inquadrati nelle SA) e riempivano le piazze con comizi e cortei. Le città divennero teatri di scontri sanguinosi fra nazisti e comunisti, di agguati, di spedizioni punitive: nei soli mesi di luglio e agosto si registrarono più di 150 morti. I dissesto economico e l'esplodere della violenza andarono di pari passo con il collasso del sistema politico. Due crisi di governo e tre drammatiche consultazioni elettorali tenute a pochi mesi di distanza l'una dall'altra non fecero che confermare la crescita delle forze eversive e l'impossibilità di formare una qualsiasi maggioranza "costituzionale". Si cominciò, nel marzo 1932, con le elezioni per la presidenza della Repubblica. Per sbarrare la strada a Hitler, che aveva presentato la propria candidatura, i partiti democratici non trovarono di meglio che appoggiare la rielezione dell'ottantacinquenne maresciallo Hindenburg, capace di attirare i consensi di almeno una parte della destra. Hindenbuq fu eletto con un margine abbastanza netto su Hitler (che ottenne comunque ben 13 milioni di voti, pari al 37%). Ma, una volta confermato nella carica, cedette alle pressioni dei militari e della grande industria: congedò il cancelliere

Brùning e cercò una via d'uscita dalla crisi prendendo atto dello spostamento a destra dell'asse politico. A guidare il governo furono chiamati due uomini della destra conservatrice, privi di una propria base parlamentare: prima il cattolico Franz von Papen, esponente dell'aristocrazia terriera, poi il generale Kurt von Schleicher, consigliere personale del presidente. Entrambi i tentativi si risolsero in un fallimento. Nelle due successive elezioni politiche che Papen fece convocare, nel luglio e nel novembre '32, nella speranza di procurarsi una maggioranza stabile, i nazisti si affermarono come il primo partito tedesco (37 % dei voti in luglio, il doppio rispetto alle elezioni del '30, e 33% in novembre). I gruppi conservatori, l'esercito, lo stesso Hindenburg finirono col convincersi che senza di loro non era possibile governare. Il 30 gennaio 1933, Hitler fu convocato dal presidente della Repubblica e accettò di capeggiare un governo in cui i nazisti avevano solo tre ministeri su undici e in cui erano rappresentate tutte le più importanti componenti della destra. Gli esponenti conservatori credettero di aver ingabbiato Hitler (così come, una decina di anni prima, i liberali italiani si erano illusi di aver neutralizzato Mussolini) e di poter utilizzare il nazismo per un'operazione di pura marca conservatrice. Si sarebbero presto resi conto di aver sbagliato grossolanamente i loro calcoli. Parola chiave Totalitarismo Il termine "totalitarismo" fu inventato, a quanto sembra, dagli antifascisti italiani già nella prima metà degli anni '20. Successivamente, furono gli stessi fascisti, a cominciare da Mussolini, a usarlo "in positivo" per definire la loro aspirazione, peraltro mai pienamente realizzata, a una identificazione totale fra Stato e società. Nel secondo dopoguerra, il termine fu adottato dalla scienza politica e dalla pubblicistica dei paesi occidentali per designare quella particolare forma di potere assoluto, tipica della società di massa, che non si accontenta di controllare la società, ma pretende di trasformarla dal profondo in nome di un'ideologia onnicomprensiva, di pervaderla tutta attraverso l'uso combinato del terrore e della propaganda: quel potere, insomma, che non solo è in grado di reprimere, grazie a un onnipotente apparato poliziesco, ogni forma di dissenso, ma cerca anche di mobilitare i cittadini attraverso proprie organizzazioni, di imporre la propria ideologia attraverso il monopolio dell'educazione e dei mezzi di comunicazione di massa. Il concetto di totalitarismo - così come lo ha definito la scienza politica, da Hannah Arendt a Carl J. Friedrich e Zbigniew

K. Brzezinski è modellato sulla concreta esperienza del nazismo tedesco e del comunismo staliniano. Più discutibile e discussa è la sua applicabilità al caso del fascismo italiano (che pure, come abbiamo visto, si autodefiniva totalitario) o a quella dei regimi comunisti imposti all'Europa dell'Est nel secondo dopoguerra. Certamente scorretto è parlare di "totalitarismo" in riferimento a regimi autoritari più "tradizionali" come il franchismo e il salazarismo. Per molto tempo la categoria del totalitarismo è stata rifiutata, o quanto meno guardata con sospetto, dalla cultura di sinistra (in particolare da quella marxista) perché, prescindendo da qualsiasi riferimento alla base sociale dei regimi, accomunava fenomeni giudicati incomparabili come il nazismo e lo stalinismo. Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, il termine si è largamente affermato nel linguaggio politico corrente (e anche in quello della sinistra). Oggi il termine "totalitarismo" rischia di essere addirittura "inflazionato". Lo si usa infatti comunemente - e impropriamente - come sinonimo di "autoritarismo" o di "dittatura" o di "tirannia". 18.3. Il consolidamento del potere di Hitler. L'incendio del Reichstag, La stretta repressiva, Le elezioni del marzo 1933, I pieni poteri a Hitler, L'annientamento delle opposizioni, Estremismo nazista e destra conservatrice, La "notte dei lunghi coltelli", Hitler capo dello Stato. Per trasformare lo Stato liberale italiano in una dittatura monopartitica Mussolini aveva impiegato circa quattro anni. A Hitler bastarono pochi mesi per imporre un potere molto più totalitario di quello che Mussolini aveva e avrebbe mai esercitato in Italia. L'occasione per una prima stretta repressiva fu offerta da un episodio drammatico quanto oscuro: l'incendio appiccato al Reichstag, il Parlamento nazionale, nella notte del 27 febbraio 1933, una settimana prima della data fissata per una nuova consultazione elettorale. L'arresto di un comunista olandese, semisquilibrato mentale, indicato come l'autore materiale dell'incendio, fornì al governo il pretesto per un'imponente operazione di polizia contro i comunisti (migliaia di dirigenti e militanti furono incarcerati e il partito fu messo in pratica fuori legge) e per una serie di misure eccezionali che limitavano o annullavano le libertà di stampa e di riunione. Nelle successive elezioni del 5 marzo - che, nelle intenzioni di Hitler, avrebbero dovuto sanzionare l'avvenuta presa del potere - i nazisti

mancarono però l'obiettivo della maggioranza assoluta. Ottennero comunque un numero di voti (il 44%) che, uniti a quelli dei gruppi di destra, sarebbero bastati ad assicurare al governo un'ampia base parlamentare. Ma Hitler mirava ormai all'abolizione del Parlamento. E il Reichstag appena eletto lo assecondò approvando una legge suicida che conferiva al governo i pieni poteri, compreso quello di legiferare e quello di modificare la costituzione. Assenti i deputati comunisti (tutti incarcerati o latitanti), votarono contro i soli socialdemocratici: i quali mantennero tuttavia un atteggiamento di estrema prudenza, nell'illusione di poter conservare almeno il ruolo di opposizione legale. Fu tutto inutile: nel giugno 1933 la Spd, accusata di "alto tradimento", fu sciolta dopo che era stata soppressa con un provvedimento di polizia la Confederazione dei sindacati liberi, di ispirazione socialdemocratica. Quello che era stato il partito operaio più forte d'Europa veniva così annientato senza nemmeno riuscire a esprimere una qualsiasi resistenza organizzata. Una sorte non molto migliore toccò a quelle forze politiche che avevano favorito o assecondato l'avvento del nazismo. Alla fine di giugno il Partito tedesconazionale si autosciolse su pressione dei nazisti. La stessa cosa fece pochi giorni dopo il Centro cattolico. In luglio Hitler poteva varare una legge in cui si proclamava che il Partito nazionalsocialista era l'unico consentito in Germania. Infine, in novembre, una nuova consultazione elettorale, questa volta di tipo "plebiscitario", su lista unica, faceva registrare un 92% di voti favorevoli. Hitler aveva così realizzato in tempi insperatamente rapidi la prima parte del suo programma di politica interna. Di fronte a lui restavano ancora due ostacoli: da una parte l'ala estremista del nazismo, rappresentata soprattutto dalle SA di Rohm che invocavano apertamente una "seconda ondata" rivoluzionaria ed erano poco disposte a sottomettersi al controllo dei poteri legali; dall'altra la vecchia destra, impersonata dal presidente Hindenburg e dai capi dell'esercito, che chiedevano in termini ultimativi a Hitler di frenare i rigurgiti estremisti e di tutelare le tradizionali prerogative delle forze armate. Hitler, che temeva anche lui l'autonomia delle SA (e, già da qualche anno, aveva provveduto a formare una sua milizia personale, le SS, sigla di SchutzStaffeln, "squadre di difesa"), decise di risolvere il problema nel modo più drastico e a lui più congeniale: con un massacro che fece inorridire il mondo civile. Preparato in quella che sarà ricordata come la "notte dei lunghi coltelli", il colpo di mano contro le SA fu guidato da Hitler che provvide, armi alla mano, ad arrestare Rohm. Il capo delle SA, insieme a tutto il suo stato maggiore, fu poi assassinato dalle SS. Hitler profittò inoltre dell'occasione per eliminare altri elementi sgraditi, come l'ex cancelliere von Schleicher.

La contropartita chiesta e ottenuta da Hitler in cambio della testa di Rohm fu l'assenso delle forze armate alla sua candidatura alla successione di Hindenburg. Quando il vecchio maresciallo morì, nell'agosto del '34, Hitler si trovò così, in virtù di una legge emanata dal suo stesso governo, a cumulare le cariche di cancelliere e capo dello Stato. Ciò significava, fra l'altro, l'obbligo per gli ufficiali di prestare giuramento di fedeltà a Hitler (quindi al nazismo): in prospettiva, la fine di quell'autonomia dal potere politico di cui i generali tedeschi si erano mostrati così gelosi. Le conseguenze sarebbero apparse chiare pochi anni dopo, nel febbraio '38, quando Hitler decise di assumere personalmente il comando supremo delle forze armate. 18.4. Il Terzo Reich. Il "Führerprinzip", Le organizzazioni di massa, La "comunità di popolo" Gli ebrei tedeschi, La propaganda antisemita, Le leggi di Norimberga, La "notte dei cristalli", La "soluzione finale", La "difesa della razza", Il mito della razza. Con l'assunzione della presidenza da parte di Hitler scomparivano anche le ultime tracce del sistema repubblicano. Nasceva il Terzo Reich, il terzo Impero (dopo il Sacro Romano Impero medioevale e quello nato nel 1871). Nel nuovo regime si realizzava pienamente quel "principio del capo" (Führerprinzip) che costituiva un punto cardine della dottrina nazista. Il capo (Führer è l'equivalente tedesco di "duce") non era soltanto colui al quale spettavano le decisioni più importanti, ma anche la fonte suprema del diritto; non era solo la guida del popolo, ma anche colui che sapeva esprimerne le autentiche aspirazioni. Era insomma fornito di quel potere che Max Weber, ai primi del secolo, aveva definito carismatico, in quanto fondato su un dono, su una presunta qualità straordinaria (appunto il carisma), di cui il capo sarebbe dotato, sulla consapevolezza di una missione da compiere in nome di tutto il popolo. Il rapporto fra capo e popolo doveva essere diretto, al di là di ogni mediazione istituzionale e di ogni forma di rappresentanza. L'unico tramite con le masse era costituito dal partito unico e da tutti gli organismi ad esso collegati: come il Fronte del lavoro, che sostituiva i disciolti sindacati, o come le organizzazioni giovanili che facevano capo alla Hitlerjugend (gioventù hitleriana). Compito di queste organizzazioni era di trasformare l'insieme dei cittadini in una comunità di popolo compatta e disciplinata. Dalla "comunità di popolo" erano esclusi per definizione gli elementi "antinazionali", i cittadini

di origine straniera o di discendenza non "ariana" e soprattutto gli ebrei, investiti del ruolo di polo negativo, di capro espiatorio, di obiettivo predeterminato del malcontento popolare. Gli ebrei erano allora in Germania una ristretta minoranza: circa 500.000 su una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti. Ma, diversamente da quanto accadeva nei paesi dell'Europa orientale, erano concentrati in prevalenza nelle grandi città (quasi 200.000 nella sola Berlino) e, pur non facendo parte della classe dirigente tradizionale, occupavano le zone medioalte della scala sociale: erano per lo più commercianti, liberi professionisti (un terzo dei medici e degli avvocati delle grandi città erano ebrei), intellettuali e artisti; parecchi avevano posizioni di prestigio nell'industria e nell'alta finanza. Nei confronti di questa minoranza attivamente inserita nella comunità nazionale (oltre 100.000 ebrei avevano combattuto nell'esercito tedesco nella grande guerra), la propaganda nazista riuscì a risvegliare quei sentimenti di ostilità - contro la diversità etnica e religiosa e contro il presunto privilegio economico - che erano largamente diffusi, soprattutto fra le classi popolari, in tutta l'Europa centroorientale. La discriminazione fu ufficialmente sancita, nel settembre 1935, dalle cosiddette leggi di Norimberga che tolsero agli ebrei la parità dei diritti conquistata nel 1848 e proibirono i matrimoni fra ebrei e non ebrei (largamente diffusi nella Germania prenazista). Alla discriminazione "legale" si accompagnava una crescente emarginazione dalla vita sociale: il che spinse molti ebrei - circa 200.000 fra il '33 e il '39 - ad abbandonare la Germania. La persecuzione antisemita subì un'ulteriore accelerazione a partire dal novembre 1938, quando, traendo pretesto dall'uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un gigantesco pogrom in tutta la Germania. Quella fra l'8 e il 9 novembre '38 fu chiamata "notte dei cristalli" per via delle molte vetrine di negozi appartenenti a ebrei che furono infrante dalla furia dei dimostranti. Ma vi furono conseguenze ben più gravi: sinagoghe distrutte, abitazioni devastate, decine di ebrei uccisi e migliaia arrestati. Da allora in poi per gli ebrei rimasti in Germania la vita divenne pressoché impossibile: taglieggiati nei loro beni, privati del lavoro, accusati di cospirare contro il Reich e dunque minacciati di nuove violenze e di nuove misure repressive. Finché, a guerra mondiale già iniziata, Hitler non concepì il progetto mostruoso di una soluzione finale del problema: soluzione che prevedeva la deportazione in massa e il progressivo sterminio del popolo ebraico. La persecuzione antiebraica fu certo la manifestazione più vistosa e più orribile della politica razziale nazista, ma non fu l'unica. Essa si inquadrava

in un più vasto programma di "difesa della razza" che prevedeva, fra l'altro, la sterilizzazione forzata per i portatori di malattie ereditarie e la soppressione degli infermi di mente classificati come incurabili. Pratiche incompatibili con i fondamenti dell'etica cristiana, ma che il nazismo considerava essenziali per mantenere la sanità e l'integrità del "popolo eletto". Il mito della razza occupò un posto centrale nella teoria e nella prassi del nazismo: la stessa idea dello Stato - che era invece fondamentale nella dottrina del fascismo italiano - aveva, rispetto a quella della razza, una funzione del tutto secondaria. Il tratto "demoniaco" dell'esperienza nazista sta nell'avere inseguito questo mito con brutale coerenza. 18.5. Repressione e consenso nel regime nazista. La debolezza dell'opposizione al nazismo, Il concordato con la Chiesa cattolica, Le chiese luterane tra conformismo e resistenza, L'opposizione conservatrice, L'apparato repressivo, I successi in politica estera, La ripresa produttiva, La piena occupazione, Iniziativa privata e intervento pubblico, Le relazioni industriali, Mito e ideologia, L'utopia ruralista, Propaganda e comunicazioni di massa, L'inquadramento degli intellettuali, Le cerimonie spettacolo, Una religione laica. Fino a quando non fu definitivamente distrutta dalla sconfitta in guerra, la macchina del regime nazista poté funzionare senza incontrare ostacoli di rilievo e senza suscitare nel paese resistenze efficaci ed estese. L'opposizione comunista, quasi annientata dopo l'incendio del Reichstag, riuscì a mantenere in piedi solo pochi e isolati nuclei clandestini. La socialdemocrazia, per nulla preparata alla lotta illegale, fece sentire la propria voce solo attraverso gli esuli. I cattolici, dopo lo scioglimento del Centro, finirono con l'adattarsi al regime; incoraggiati anche dall'atteggiamento della Chiesa di Roma che, nel luglio del '33, stipulò un concordato col governo nazista, assicurandosi la libertà di culto e la non interferenza dello Stato negli affari interni del clero. Solo nel marzo 1937, di fronte agli eccessi della politica razziale nazista, il papa Pio XI intervenne con un'enciclica in lingua tedesca per condannare dottrine e pratiche che sempre più rivelavano il loro carattere "pagano". Ma non vi fu, né allora né in seguito, una denuncia del concordato o una scomunica ufficiale del nazismo. Se pochi furono i problemi creati al regime dalla minoranza cattolica, deboli furono anche le resistenze offerte dalla maggioranza protestante. Le chiese luterane, per lo più orientate in senso conservatore e tradizionalmente

ossequienti al potere, si piegarono alle imposizioni del regime, compreso il giuramento di fedeltà dei pastori al Führer. Solo una minoranza di ministri del culto si oppose attivamente alla nazificazione e fu perciò duramente perseguitata. Paradossalmente, l'opposizione più pericolosa per Hitler sarebbe venuta, negli ultimi anni del regime, da esponenti di quei gruppi conservatori e militari che avevano avuto non piccole responsabilità nell'avvento del nazismo. In buona parte conservatori erano quegli ufficiali e quei politici che, nel luglio 1944, cercarono di attentare alla vita di Hitler, fallendo l'obiettivo per un soffio e finendo sterminati con tutte le loro famiglie. Come spiegare la debolezza dell'opposizione al nazismo in un paese che aveva un foltissimo proletariato industriale e che, fin quando aveva potuto esprimersi liberamente, aveva dato una parte rilevante dei suoi consensi alla sinistra? È necessario mettere in conto, in primo luogo, la vastità e l'efficienza dell'apparato repressivo e terroristico: le molte polizie (da quella ufficiale a quella segreta, la Gestapo, all'onnipresente "servizio di sicurezza" delle SS) che controllavano con ogni mezzo la vita pubblica e privata dei cittadini; i campi di concentramento (lager) dove gli oppositori venivano rinchiusi a centinaia di migliaia e sottoposti, sotto la regia di speciali reparti delle SS, a un lento annientamento. La repressione poliziesca e i lager possono spiegare la limitatezza del dissenso (almeno di quello esplicito), ma non ci aiutano a capire le dimensioni del consenso al regime, che furono forse superiori a quelle mai ottenute da qualsiasi altro sistema totalitario. Una prima spiegazione sta nei successi di Hitler in politica estera. Di questi successi avremo modo di parlare più avanti. Ma è il caso di sottolineare fin d'ora che, smontando pezzo dopo pezzo tutta la costruzione di Versailles e riportando la Germania al ruolo di protagonista della politica europea, Hitler stimolò l'orgoglio patriottico dei tedeschi (un sentimento che non era patrimonio della sola borghesia) e fece provare ai suoi concittadini la sensazione della rivincita. Un altro importante fattore di consenso fu senza dubbio la ripresa economica. Superato, già nel '33, il momento più acuto della crisi, l'economia tedesca, liberata dal peso delle riparazioni, riprese progressivamente slancio. La produzione industriale tornò in pochi anni ai livelli del '28, per superarli nel '38-39. Il piano di preparazione alla guerra approntato da Hitler subito dopo la presa del potere ebbe indubbiamente l'effetto di rendere più rapida la ripresa. Analogo effetto ebbe il programma di lavori pubblici che, fra l'altro, consentì alla Germania di dotarsi, prima in Europa, di una vasta rete di autostrade. Grazie al riarmo e ai lavori pubblici

la disoccupazione diminuì rapidamente: fra il '33 e il '36 i disoccupati si ridussero da 6 milioni a 500.000. Nel '39, alla vigilia della guerra, era stata raggiunta la piena occupazione. Usando la spesa pubblica per favorire la ripresa e accrescere l'occupazione, il regime nazista attuò una politica in fondo non molto diversa da quella messa in atto negli stessi anni da Roosevelt negli Stati Uniti: senza però il respiro sociale del New Deal. Abbandonando i programmi anticapitalistici del primo nazismo, il regime cercò di incoraggiare in ogni modo l'iniziativa privata e al tempo stesso di legarla al potere politico (attraverso le commesse statali), di vincolarla ad alcuni obiettivi di fondo, che si riassumevano nel porre il paese in condizione di affrontare una guerra. In questo quadro il potere nazista poté agire, almeno nei primi anni, in perfetto accordo con la grande industria e con la grande proprietà terriera. In campo agricolo, il regime si limitò a imporre una serie di norme che tutelavano la piccola e media proprietà terriera, senza intaccare i latifondi. Nel settore delle relazioni industriali, la maggiore novità fu l'applicazione del Führerprinzip all'interno dei luoghi di lavoro, con l'imprenditore elevato al rango di capo assoluto dell'azienda. Sottoposti a disciplina semimilitare e privati delle loro autonome rappresentanze, i lavoratori dell'industria persero ogni capacità contrattuale e videro i loro salari crescere in misura mediamente inferiore al costo della vita. Anche gli operai, tuttavia, parteciparono in qualche misura al ritrovato benessere: fruirono di migliori servizi sociali (pensioni, assistenza medica, organizzazione del tempo libero) e soprattutto videro allontanarsi l'incubo della disoccupazione che tanto aveva pesato sulla condizione dei lavoratori negli anni della grande crisi. I successi in economia e in politica estera non basterebbero però a spiegare l'ampiezza del consenso al regime se non si tenesse conto di un altro fattore essenziale: la capacità del nazismo di proporre e di imporre formule e miti capaci di toccare le corde profonde dell'anima popolare, la sua abilità nel servirsi a questo scopo di tutti gli strumenti disponibili nell'età delle comunicazioni di massa. L'utopia che il nazismo proponeva ai tedeschi attraverso la stampa, i discorsi del Führer, i film di propaganda, era un'utopia reazionaria e "ruralista": un mondo popolato da uomini belli e sani, profondamente legati alla loro terra; una società patriarcale di contadiniguerrieri, libera dagli orrori delle metropoli moderne e dalle malattie della civiltà industriale. Questo ideale - ovviamente irrealizzabile in una società industrializzata e altamente urbanizzata come quella tedesca -

contrastava in modo stridente con la prassi concreta del regime, sospinto dalla sua logica bellicistica a favorire lo sviluppo della grande industria. Ma si innestava su una solida tradizione culturale nazionale, di origine soprattutto romantica, fondata sui miti della terra e del sangue; e rifletteva uno stato d'animo, largamente diffuso a livello popolare, di istintivo rifiuto della civiltà moderna e di rimpianto per un passato preindustriale dipinto in forme idilliache. La caratteristica peculiare della politica culturale nazista stava nel fatto che per diffondere un'utopia antimoderna il regime si serviva di mezzi moderni e modernissimi. Quello nazista fu il primo governo a istituire in tempo di pace un ministero per la Propaganda che, affidato all'abilissimo Joseph Goebbels, divenne uno dei principali centri di potere del regime. La stampa fu sottoposta a strettissimo controllo e inglobata in un unico apparato alle dipendenze del ministero. Gli intellettuali furono inquadrati in un'organizzazione nazionale (la Camera di cultura del Reich) e dovettero fare atto di adesione al regime: quelli che non vollero piegarsi furono costretti al silenzio o obbligati a lasciare il paese. Ma, soprattutto, furono largamente sfruttati i nuovi mezzi di comunicazione di massa e furono utilizzate in misura mai vista prima le tecniche dello spettacolo. Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono scanditi da feste e cerimonie pubbliche: sfilate militari, esibizioni sportive di gruppo e, soprattutto, adunate di massa culminanti nel discorso del Führer o di altri dirigenti. Queste cerimoniespettacolo erano preparate con estrema cura: la scenografia doveva essere solenne e monumentale, il colpo d'occhio suggestivo, la coreografia impeccabile. L'importanza delle cerimonie pubbliche non si limitava a questi aspetti di parata. Nella grande adunata il cittadino trovava quei momenti di socializzazione, sia pure forzata, che la vita nelle grandi città non offriva spontaneamente; trovava quegli elementi "sacrali" che aveva perso col tramonto della vecchia società contadina (il cui ritmo era appunto scandito da feste e da riti). Era questo un fenomeno, ha scritto lo storico George L. Mosse, che non può essere classificato con i tradizionali canoni della teoria politica. [... Era] una religione laica, la prosecuzione, dai tempi primordiali e cristiani, di un modo di considerare il mondo attraverso il mito e il simbolo, di manifestare le proprie speranze e timori in forme cerimoniali e liturgiche. 18.6. Il contagio autoritario. La crisi dei regimi liberali in Europa, Ungheria e Polonia, I regimi autoritari negli Stati balcanici, Autoritarismo e fascismo, La dittatura di

Primo de Rivera in Spagna, Il regime salazarista in Portogallo, Movimenti filonazisti e regimi autoritari nell'Europa centroorientale, Il regime clericaleautoritario in Austria. L'avvento del nazismo fu l'episodio centrale e decisivo della crisi della democrazia nell'Europa fra le due guerre. Ma questa crisi era iniziata, come si è detto, già negli anni '20, all'indomani di quella guerra mondiale che pure era sembrata concludersi col trionfo degli ideali democratici. I successi del fascismo in Italia non furono infatti un caso isolato. Il virus autoritario si diffuse dapprima nei paesi dell'Europa centroorientale, dove le istituzioni parlamentari avevano radici molto deboli e dove - con l'unica eccezione della Cecoslovacchia - molto forte era invece il peso delle forze conservatrici, della grande proprietà terriera e delle Chiese. Il primo fra questi Stati a sperimentare l'autoritarismo di destra fu l'Ungheria, dove l'ammiraglio Horthy [§15.4] impose un regime rigidamente conservatore, in cui le libertà politiche e sindacali erano di fatto abolite. Un altro regime semidittatoriale, anche se diversamente connotato rispetto a quello ungherese, si affermò in Polonia nel 1926, quando l'ex socialista Józef Pilsudski organizzò una marcia su Varsavia per riformare la costituzione in senso autoritario e dar vita a un governo "al di sopra dei partiti". Non meno agitate furono negli anni '20 le vicende degli Stati balcanici. In Grecia il regime repubblicano nato nel '24, dopo la sconfitta con la Turchia [§20.3], non riuscì a funzionare regolarmente per i continui interventi dei militari e per la ricorrente minaccia dei gruppi monarchici. In Bulgaria l'esperimento democratico attuato dal primo ministro Stambolijski, leader del Partito dei contadini e promotore di un'ampia riforma agraria, fu interrotto nel '23 da un colpo di Stato militare. Un caso a parte era rappresentato dalla Jugoslavia, dove la scena politica era dominata dal contrasto fra i diversi gruppi etnici. Per domare la protesta dei croati, che si sentivano oppressi dal centralismo serbo, il re Alessandro I attuò nel 1929 un colpo di Stato, col risultato di aggravare le tensioni e di spingere il movimento separatista croato (gli ustascia) sulla via del terrorismo. Tutti questi regimi non potevano definirsi autenticamente fascisti, anche se avevano col fascismo non pochi elementi di affinità. Erano piuttosto regimi autoritari di tipo tradizionale, sostenuti dall'esercito e dai gruppi conservatori e privi di una propria base di massa, molto simili a quelli che nello stesso periodo si affermarono in un'altra area geografica, anch'essa afflitta da grave arretratezza economica e da profonde disuguaglianze sociali: la penisola iberica.

In Spagna, paese in cui la democrazia parlamentare aveva sempre vissuto di vita precaria, un colpo di Stato fu attuato nel 1923 dal generale Miguel Primo de Rivera, con l'appoggio del sovrano Alfonso XIII. Nel 1930, dopo sette anni di governo semidittatoriale, Primo de Rivera fu costretto a dimettersi di fronte a una massiccia ondata di proteste popolari. Nelle elezioni del 1931 i partiti democratici e repubblicani ottennero un larghissimo successo, che indusse il re a lasciare il paese. Si formò così una Repubblica, destinata anch'essa - come si vedrà in seguito - a vita breve e travagliata. Anche in Portogallo furono i militari a interrompere, nel 1926, l'esperienza di una fragile democrazia parlamentare. Ma fu un economista cattolico, Antonio de Oliveira Salazar (ministro delle Finanze dal '28, presidente del Consiglio dal '32) ad assumere il ruolo di ispiratore e guida di un regime autoritario, clericale e corporativo che avrebbe dimostrato una notevole solidità, rimanendo in vita per quasi mezzo secolo. Con la vittoria di Hitler in Germania (ossia in uno degli Stati più progrediti e più potenti del vecchio continente), la crisi dei regimi e dei valori democratici subì, ovviamente, una ulteriore accelerazione. In tutta l'Europa centroorientale si assisté, a partire dal '33, alla crescita di movimenti estremisti ispirati all'esempio del nazismo (come le Croci frecciate in Ungheria o le Guardie di ferro in Romania), al rafforzamento delle tendenze dittatoriali e militariste nei paesi già soggetti a regimi autoritari (fu il caso dell'Ungheria, della Polonia, della Jugoslavia, della Bulgaria), alla nascita di nuove dittature di stampo monarchicofascista (in Grecia nel '36, in Romania nel '38). Anche in Austria, dove la democrazia sembrava aver radici più solide, cristianosociali e conservatori, al potere dal 1920, cercarono di modificare le istituzioni in senso autoritario, scontrandosi con l'opposizione di una socialdemocrazia ancora molto forte a livello organizzativo ed elettorale. Nel febbraio 1934, dopo aver represso sanguinosamente una rivolta operaia scoppiata a Vienna, il cancelliere cristianosociale Engelbert Dollfuss mise fuori legge il Partito socialdemocratico e varò una nuova costituzione di ispirazione clericale e corporativa, molto vicina al modello fascista. 18.7. L'Unione Sovietica e l'industrializzazione forzata. L'Urss e l'antifascismo, La scelta della industrializzazione Nep, La campagna contro i "kulaki", La sconfitta di collettivizzazione dell'agricoltura, Lo sterminio L'industrializzazione forzata:, Il primo piano

e la fine della Bucharin, La dei kulaki, quinquennale,

Industrializzazione e mobilitazione ideologica, Lo "stachanovismo", Il mito dell'Urss in Occidente. Negli anni della grande depressione e del fascismo trionfante, lavoratori e intellettuali antifascisti di tutto il mondo guardavano con interesse e speranza all'Unione Sovietica: il paese che tentava di costruire una nuova società fondata sui princìpi del socialismo e che si presentava come l'estrema riserva dell'antifascismo mondiale. Non solo, ma, mentre gli Stati capitalistici si dibattevano nelle spire della grande crisi, l'Urss, in virtù del suo stesso isolamento economico, non ne era affatto toccata: anzi si rendeva protagonista di un gigantesco sforzo di industrializzazione. La decisione di forzare i tempi dello sviluppo industriale e di porre fine all'esperienza della Nep [§14.5] fu presa da Stalin tra il '27 e il '28, subito dopo la definitiva sconfitta di quell'opposizione di sinistra che proprio sulla necessità dell'industrializzazione aveva impostato la sua battaglia. Del resto quasi tutto il gruppo dirigente comunista aveva sempre considerato la Nep come una soluzione di ripiego. L'idea - comune a Lenin e a tutto il partito bolscevico - dell'industrializzazione come presupposto insostituibile della società socialista si univa alla convinzione, forte soprattutto in Stalin, che solo un deciso impulso all'industria pesante avrebbe potuto fare dell'Urss una grande potenza militare, in grado di competere con le potenze capitalistiche. Ma, per raggiungere questo scopo in tempi brevi, era necessario che lo Stato acquistasse il controllo completo dei processi economici, anche a costo di rompere la relativa tregua sociale stabilitasi negli anni della Nep. Il primo e più importante ostacolo alla costruzione di un'economia totalmente collettivizzata e altamente industrializzata fu individuato nel ceto dei contadini benestanti, i kulaki, accusati di arricchirsi alle spalle del popolo e di affamare le città non consegnando allo Stato la quota di prodotto dovuta. Contro di loro furono adottate misure restrittive e operate ingenti requisizioni. E, poiché queste misure si rivelarono inefficaci (i contadini reagirono limitando la produzione e aggravando i problemi di approvvigionamento), Stalin proclamò, nell'estate '29, la necessità di procedere immediatamente alla collettivizzazione del settore agricolo e addirittura di "eliminare i kulaki come classe". Contro questa linea prese posizione Nikolaj Bucharin, numero due del regime e convinto teorico della Nep, che sosteneva la necessità di non spezzare l'alleanza fra operai e contadini. Ma la maggioranza del partito si schierò con Stalin: Bucharin e i suoi amici, condannati nel 1930 come "deviazionisti di destra" subirono una

sorte analoga a quella dell'opposizione "di sinistra". E il gruppo dirigente comunista procedette sulla via della collettivizzazione forzata, senza arretrare dinanzi alla prospettiva di una inevitabile, sanguinosa repressione. Non solo i contadini ricchi, ma anche tutti coloro che si opponevano alle requisizioni e resistevano al trasferimento nelle fattorie collettive (kolchoz) furono considerati come "nemici del popolo". Migliaia furono i fucilati dopo processi sommari. Centinaia di migliaia gli arrestati. Milioni di contadini furono deportati con le loro famiglie in Siberia o nella Russia settentrionale, chiusi in campi di lavoro forzato o abbandonati in terre inospitali. Quella attuata nelle campagne dell'Urss fra il '29 e il '33 fu una gigantesca rivoluzione dall'alto, come la definì lo stesso Stalin. Nel giro di pochi anni i kulaki furono eliminati non solo "come classe" ma, in larga parte, anche come persone fisiche. La maggioranza dei contadini (il 60% nel '33, oltre il 90% nel '39) fu inserita nelle fattorie collettive. L'eccesso di popolazione nelle campagne fu drasticamente ridotto con le deportazioni ed anche con l'emigrazione verso i centri industriali. Ma i costi economici dell'operazione, per non parlare di quelli umani (circa 5 milioni di morti, fra cui numerosissimi bambini), furono altissimi e i risultati immediati disastrosi. Disorganizzazione e inefficienza si sommarono alla resistenza dei contadini (che preferirono, ad esempio, macellare subito il bestiame piuttosto che consegnarlo ai kolchoz), fino a provocare, nel 1932-33, una vera e propria carestia. Solo nella seconda metà degli anni '30, la situazione si andò gradualmente normalizzando e la produzione agricola - grazie anche al massiccio impiego di macchine e concimi - superò i livelli dei tempi della Nep. Il vero scopo della collettivizzazione non era però tanto quello di aumentare la produzione agricola, quanto quello di favorire l'industrializzazione del paese mediante lo spostamento di risorse economiche e di energie umane. Da questo punto di vista i risultati furono indubbiamente notevoli, anche se inferiori a quelli programmati: il primo piano quinquennale per l'industria, varato nel 1928, fissava infatti una serie di obiettivi tecnicamente impossibili da conseguire, frutto più di una decisione politica che di un calcolo economico. La crescita del settore fu comunque imponente e si svolse con ritmi che nessun paese capitalistico aveva mai conosciuto fin allora. Nel 1932 la produzione industriale era aumentata, rispetto al '28, di circa il 50%, con punte del 200% per il carbone e l'acciaio, e il numero degli addetti all'industria era passato da 3 milioni scarsi a oltre 5 milioni. Col secondo piano quinquennale (1933-37), la produzione aumentò di un altro 120% e il numero degli operai giunse a toccare i 10 milioni.

Questi risultati furono consentiti non solo da una straordinaria concentrazione di risorse - resa a sua volta possibile da un gigantesco prelievo di ricchezza a spese dell'intera popolazione -, ma anche dal clima di entusiasmo fra ideologico e patriottico che Stalin seppe suscitare nella classe operaia intorno agli obiettivi del piano e che permise ai lavoratori dell'industria di sopportare sacrifici pesanti, anche se non paragonabili a quelli dei contadini, in termini di consumi individuali e di ritmi lavorativi. Gli operai furono infatti sottoposti a una disciplina severissima, ai limiti della militarizzazione; ma furono anche stimolati con incentivi materiali che premiavano in modo vistoso i lavoratori più produttivi. Agli incentivi materiali si univano quelli morali. I lavoratori che contribuivano in misura maggiore alla crescita della produzione venivano promossi e insigniti di onorificenze (il titolo più ambito era quello di "eroe del lavoro"). Si diffuse così uno spirito di emulazione che spesso sconfinava in una sorta di competizione sportiva. Il caso di un minatore del bacino del Don, Aleksej Stachanov, diventato famoso per aver estratto in una notte un quantitativo di carbone superiore di ben quattordici volte a quello normale, diede origine a un vero e proprio movimento di massa detto appunto stachanovismo, sostenuto dalle autorità ed esaltato da Stalin. La letteratura, la stampa e il cinema si mobilitarono per celebrare i trionfi degli "eroi del lavoro" e dell""emulazione socialista". L'eco di questi successi si diffuse rapidamente al di là dei confini dell'Urss, galvanizzando i comunisti di tutto il mondo che ne trassero auspici per un prossimo trionfo della rivoluzione nell'Occidente capitalistico. Anche esponenti socialdemocratici e laburisti espressero ammirazione per lo sforzo dell'Unione Sovietica. Intellettuali fin allora lontani dai partiti comunisti ne divennero simpatizzanti o aderenti. Il tentativo intrapreso dall'Urss aveva in effetti qualcosa di straordinario. Né era possibile ignorare il fatto senza precedenti di un paese che nel giro di un decennio riusciva a quasi triplicare il volume della produzione industriale e a quasi quadruplicare il numero degli occupati nel settore, in un periodo in cui tutto il mondo industrializzato vedeva calare la produzione e crescere la disoccupazione. Meno noti fuori dall'Urss erano i costi umani e politici di quell'impresa. Pochi immaginarono le reali dimensioni della tragedia che si era consumata nelle campagne. E pochi si resero conto che il clima creatosi nel paese in coincidenza col lancio dei piani quinquennali - un clima di esaltazione collettiva, ma anche di sospetto e di repressione giustificata con l'esigenza di colpire i "sabotatori" - era il più adatto ad accentuare i tratti autoritari del regime e la crescita del potere assoluto di Stalin.

18.8. Lo stalinismo. Il potere di Stalin, Il "realismo socialista", Interpretazioni dello stalinismo, Continuità e rottura nell'esperienza staliniana, Le "grandi purghe", L""Arcipelago Gulag", I processi agli oppositori, L'uccisione di Trotzkij, Gli echi in Occidente. Sorretto da un onnipotente apparato burocratico e poliziesco - ma anche dal consenso spontaneo di milioni di lavoratori che vedevano in lui il continuatore dell'opera di Lenin e l'artefice dell'industrializzazione - Stalin finì con l'assumere in Urss un ruolo di capo carismatico non diverso da quello svolto nello stesso periodo dai dittatori di opposta sponda ideologica. Era il padre e la guida infallibile del suo popolo. Era l'autorità politica suprema, ma anche il depositario della "autentica" dottrina marxista anzi marxistaleninista, secondo la formula codificata in quegli anni - e al tempo stesso il garante della sua corretta applicazione. Ogni critica, da qualunque parte avanzata, assumeva i caratteri odiosi del tradimento. Le stesse attività culturali dovevano ispirarsi alle direttive del capo e dei suoi interpreti autorizzati (uno di questi, Andrej Zdanov, sarebbe assurto alla fine degli anni '30 al ruolo di controllore di tutto il settore culturale). La letteratura, il cinema, la musica e le arti figurative furono sottoposte a un regime di rigida censura e costrette a svolgere una funzione propagandisticopedagogica entro i canoni del cosiddetto realismo socialista: il che in pratica significava limitarsi alla descrizione idealizzata della realtà sovietica. La storia recente fu riscritta per esaltare il ruolo di Stalin e sminuire quello di Trotzkij e degli altri oppositori. Persino il settore delle scienze naturali fu messo sotto controllo e scienziati illustri furono perseguitati per aver sostenuto teorie giudicate non ortodosse. Come fu possibile che una tirannide così totale scaturisse da una rivoluzione che aveva suscitato tante speranze di libertà, oltre che di giustizia sociale? Alcuni hanno cercato di spiegare lo stalinismo collegandolo alla tradizione centralistica e autocratica del regime zarista. Altri hanno visto invece nella dittatura staliniana una forma inedita di dispotismo industriale, una scorciatoia autoritaria funzionale all'esigenza di un rapido sviluppo economico. Alcuni hanno cercato le radici del "fenomeno Stalin" nella storia stessa del bolscevismo, nelle teorie di Lenin e nella prassi antidemocratica inaugurata dai comunisti subito dopo la presa del potere. Altri, al contrario, hanno considerato lo stalinismo come una deviazione "di destra" della rivoluzione, paragonandolo alla dittatura

napoleonica o, secondo la formula usata da Trotzkij, alla "reazione termidoriana" seguita alla rivoluzione giacobina. Ognuna di queste tesi contiene elementi validi. Lo stalinismo è un fenomeno profondamente inserito nella storia della Russia e nella sua tradizione imperiale; ma è anche inseparabile da quella traumatica esperienza modernizzatrice che fu l'industrializzazione forzata. Stalin sviluppò, portandole alle estreme conseguenze, alcune premesse autoritarie che esistevano già nel pensiero di Lenin e nel sistema sovietico; ma introdusse nella gestione di questo sistema un sovrappiù di spietatezza e di arbitrio. Non solo emarginò politicamente tutti i suoi rivali reali o potenziali (in pratica l'intero gruppo dirigente del bolscevismo "storico"), ma li sterminò fisicamente. E fece eliminare assieme a loro migliaia di quadri dirigenti del partito e un numero incalcolabile di semplici cittadini sospetti di "deviazionismo" o soltanto invisi alla polizia politica. Già negli anni del primo piano quinquennale e della collettivizzazione la macchina del terrore aveva cominciato a funzionare. Vittime principali ne erano stati, come si è visto, i contadini; ma non vennero risparmiati commercianti, tecnici e dirigenti di partito accusati di sabotare lo sforzo produttivo. Il periodo delle "grandi purghe" cominciò però nel 1934. L'assassinio (organizzato, a quanto sembra, dallo stesso Stalin) di Sergej Kirov, esponente di punta del gruppo dirigente comunista, fornì il pretesto per un'imponente ondata di arresti che colpirono in larga misura gli stessi quadri del partito. Negli anni successivi le purghe si susseguirono a un ritmo impressionante, sempre giustificate dalla necessità di combattere traditori e nemici di classe. Si trattò di una gigantesca repressione poliziesca, condotta nell'arbitrio più assoluto, che colpì milioni di persone e che diede vita ad un immenso universo concentrazionario formato dai campi di lavoro (detti, con termine tedesco, "lager") disseminati in tutte le zone più inospitali dell'Urss: quell'universo cui, molti anni dopo, il romanziere Aleksandr Solzenicyn avrebbe dato il nome di "Arcipelago Gulag" (Gulag è in realtà una sigla burocratica che stava per "Amministrazione centrale dei lager"). Nella maggior parte dei casi le vittime furono prelevate dalle loro case, fucilate o deportate nei campi di concentramento senza nemmeno conoscere i loro capi di imputazione. Forse peggiore fu la sorte di coloro che furono sottoposti a pubblici processi, formalmente regolari ma in realtà basati su confessioni estorte con la tortura in cui gli imputati si confessavano colpevoli di complotti tramati immancabilmente d'intesa con i "trotzkisti" e con gli agenti del fascismo internazionale. In questo modo furono eliminati tutti gli antichi oppositori di Stalin (Zinov'ev e Kamenev furono fucilati nel

'36, Bucharin nel '38), ma anche molti stretti collaboratori del dittatore, inghiottiti dalla stessa macchina che avevano contribuito a creare. Lo stesso Trotzkij, esule dal '29 e animatore dall'estero di un'instancabile polemica antistaliniana, fu ucciso nel 1940 in Messico da un sicario di Stalin. La repressione non risparmiò nessun settore della società. Professionisti e intellettuali, tecnici e scienziati scomparvero a decine di migliaia nei campi di concentramento. Nel '37 una drastica epurazione colpì i quadri delle forze armate: furono eliminati circa 20.000 ufficiali, a cominciare dal maresciallo Tuchacevskij, capo dell'Armata rossa. Si calcola che, fra il '37 e il '38, circa 700.000 persone perirono a causa delle purghe. Fra l'inizio della collettivizzazione e lo scoppio della seconda guerra mondiale, il conto totale delle vittime dello stalinismo ammontò, secondo le stime più attendibili, a 10-11 milioni. Le grandi purghe, le deportazioni in massa e i processi degli anni '30 provocarono una certa impressione in Occidente. Ma nel complesso la denuncia dello stalinismo non ebbe grande rilievo negli ambienti democratici e socialisti. Lo impedivano il difetto di informazioni sulle reali dimensioni del fenomeno, ma anche i pregiudizi ideologici (in particolare l'idea, di origine giacobina, che una certa dose di terrore fosse componente indispensabile di ogni grande rivoluzione) e soprattutto le remore politiche: troppo prezioso era il contributo dell'Urss e del comunismo internazionale alla lotta contro il fascismo. 18.9. La crisi della sicurezza collettiva e i fronti popolari. Le prime iniziative hitleriane in politica estera, L'assassinio di Dollfuss e la reazione italiana, La conferenza di Stresa, La svolta della politica estera sovietica, Dal "socialfascismo" ai fronti popolari: il VII congresso del Comintern, I fatti del febbraio '34 in Francia, Le illusioni delle sinistre, I governi di Fronte popolare in Spagna e in Francia, Il governo Blum, Declino e caduta del Fronte popolare. L'avvento al potere di Hitler diede un duro colpo all'equilibrio internazionale già scosso dalle conseguenze della grande crisi (che aveva distrutto le basi economiche della cooperazione fra vinti e vincitori e fra Europa e Stati Uniti). La prima importante decisione del governo nazista in materia di politica estera fu, nell'ottobre '33, il ritiro della delegazione tedesca dalla conferenza internazionale di Ginevra, dove le grandi potenze (comprese Usa e Urss) cercavano di giungere a un accordo sulla limitazione

degli armamenti. Seguì, pochi giorni dopo, il ritiro della Germania dalla Società delle nazioni. Queste decisioni, con le quali Hitler mostrava chiaramente di non sentirsi legato al "sistema di Locarno" [§15.8] e agli impegni assunti dai suoi predecessori, destarono allarme in tutta Europa. Anche l'Italia fascista, nonostante le indubbie affinità ideologiche e nonostante il comune atteggiamento revisionista (critico cioè nei confronti dell'assetto internazionale stabilito a Versailles), ebbe ben presto motivo di preoccuparsi per le mire aggressive tedesche. Quando in Austria, nel luglio del '34, gruppi nazisti ispirati da Berlino tentarono di impadronirsi del potere e uccisero il cancelliere Dollfuss al fine di preparare l'unificazione fra Austria e Germania, Mussolini reagì immediatamente facendo schierare quattro divisioni al confine italoaustriaco. Hitler, che non era ancora pronto per una guerra, fu costretto a far marcia indietro sconfessando gli autori del complotto. Meno di un anno dopo (aprile 1935), di fronte a una nuova iniziativa unilaterale del governo tedesco, che reintrodusse in Germania la coscrizione obbligatoria vietata dal trattato di Versailles, i rappresentanti di Italia, Francia e Gran Bretagna si riunirono a Stresa per condannare il riarmo tedesco, per ribadire la validità dei patti di Locarno e per riaffermare il loro interesse all'indipendenza dell'Austria. Fu questa l'ultima manifestazione di solidarietà fra le tre potenze vincitrici. Pochi mesi più tardi l'aggressione italiana all'Etiopia [§19.6] avrebbe rotto il "fronte di Stresa" e dato avvio a un processo di riavvicinamento italotedesco. Ma intanto la causa della sicurezza collettiva aveva trovato un nuovo e insperato sostegno proprio nel paese che fin allora era rimasto - per sua e per altrui volontà - completamente estraneo a tutte le iniziative nate nell'ambito della Società delle nazioni: l'Unione Sovietica. Fino al '33 la politica estera dell'Urss si era ispirata a una linea dura e spregiudicata: rifiuto dei trattati di Versailles, nessuna distinzione fra Stati fascisti e democrazie borghesi. I successi di Hitler, che non aveva mai fatto mistero di quali fossero i suoi progetti nei confronti della Russia, indussero Stalin a modificare radicalmente le precedenti impostazioni. Nel settembre '34 l'Urss entrò nella Società delle nazioni e nel maggio '35 stipulò un'alleanza militare con la Francia. Questa brusca svolta diplomatica ebbe immediato riscontro in un altrettanto rapido capovolgimento della linea seguita dal Comintern e dai partiti comunisti europei. Fu improvvisamente accantonata la tattica della contrapposizione frontale nei confronti delle forze democraticoborghesi e più ancora delle socialdemocrazie (già accusate di favorire

"oggettivamente" il fascismo o addirittura di costituire "un'ala del fascismo", da cui l'espressione polemica socialfascismo): tattica che tanto aveva contribuito a isolare il movimento comunista e a spianare la strada al nazismo in Germania. La nuova parola d'ordine, lanciata ufficialmente nel VII congresso del Comintern (Mosca, agosto 1935) fu quella della lotta al fascismo, indicato ora come il primo e il principale nemico. Ai partiti comunisti spettava il compito di riallacciare i rapporti non solo con gli altri partiti operai, ma anche con le forze democraticoborghesi, di favorire ovunque possibile la nascita di larghe coalizioni dette fronti popolari (dove l'aggettivo stava a indicare il passaggio in secondo piano degli obiettivi più propriamente socialisti), di appoggiare i governi democratici decisi a combattere il fascismo. La politica dei fronti popolari, se da una parte rappresentò l'estensione di una direttiva della politica estera dell'Urss, dall'altra fu il risultato di una pressione unitaria della base operaia europea, spaventata dalla minaccia fascista. Questa spinta si avvertì soprattutto in Francia, dove "instabilità governativa e il susseguirsi degli scandali politicofinanziari mettevano a dura prova le istituzioni repubblicane, dando spazio alla crescita della destra reazionaria e dei movimenti filofascisti. Quando, il 6 febbraio 1934, l'estrema destra organizzò una marcia sul Parlamento (interrotta dall'intervento della polizia) per impedire l'insediamento del governo presieduto dal radicale Daladier, socialisti e comunisti risposero con manifestazioni unitarie, le prime dopo molti anni. Fu questo il segno di un riavvicinamento che anticipava e preparava la svolta dell'Internazionale comunista e che sarebbe poi stato sanzionato dalla firma, in Francia e in altri paesi, di patti di unità d'azione fra socialisti e comunisti. La nuova linea unitaria ebbe l'effetto di rinfrancare un movimento operaio depresso da una lunga serie di sconfitte e di far rinascere la speranza che fosse possibile fronteggiare vittoriosamente il fascismo con l'unità fra tutte le forze di sinistra. Queste speranze si sarebbero in buona parte rivelate illusorie. L'avvicinamento fra l'Urss e le democrazie e il rilancio della politica di sicurezza collettiva non bastarono a fermare, nel '35, l'aggressione dell'Italia fascista all'Etiopia; né poterono impedire che, nella primavera del '36, Hitler violasse un'altra clausola di Versailles reintroducendo truppe tedesche nella Renania "smilitarizzata". Il solo risultato concreto della politica dei fronti popolari fu quello di restituire un minimo di unità al movimento operaio europeo, per la prima volta dopo la grande rottura della rivoluzione russa, e di ridare così alla sinistra l'opportunità di assumere il governo nelle democrazie occidentali. Nel febbraio 1936, una coalizione di Fronte popolare comprendente anche i

comunisti vinse le elezioni politiche in Spagna. Nel maggio dello stesso anno, in Francia il netto successo elettorale delle sinistre aprì la strada alla formazione di un governo composto da radicali e socialisti, sostenuto dall'esterno dai comunisti e presieduto dal socialista Leon Blum. L'insediamento del primo governo a guida socialista nella storia francese fu accompagnato da grandi manifestazioni di entusiasmo popolare. La Francia repubblicana e socialista parve ritrovare per un momento l'atmosfera fra esaltata e festosa delle rivoluzioni ottocentesche. Gli operai dell'industria diedero vita a un'imponente ondata di scioperi e di occupazioni di fabbriche, strappando a un padronato riluttante, grazie anche alla decisiva mediazione del governo, la firma degli "storici" accordi di Palazzo Matignon (giugno 1936), che prevedevano, oltre a consistenti aumenti salariali, la riduzione della settimana lavorativa a quaranta ore e la concessione di quindici giorni di ferie pagate. Nonostante venissero incontro a esigenze più che legittime (le due settimane di ferie, ad esempio, erano state conquistate in altri paesi europei già nell'immediato dopoguerra ed erano in vigore anche in Italia e in Germania), gli accordi di Palazzo Matignon crearono notevoli difficoltà all'economia francese, che non si era ancora ripresa dalla grande depressione. L'improvviso aumento del costo del lavoro pregiudicò la competitività dei prodotti dell'industria e innescò un rapido processo inflazionistico che vanificò in gran parte i vantaggi salariali conseguiti dai lavoratori. L'inflazione, e la contemporanea fuga dei capitali all'estero, costrinsero i governi di Fronte popolare a due successive svalutazioni del franco. Fatto segno alla violenta ostilità degli ambienti industriali e finanziari, oltre che alla ricorrente minaccia dell'estrema destra, il governo Blum si dimise nel giugno del '37 senza essere riuscito a condurre in porto un organico programma di riforme. La maggioranza di sinistra resistette ancora per un anno, prima di dissolversi a causa dei continui contrasti fra i radicali e i partiti operai. Nella primavera del '38, mentre la situazione internazionale si andava rapidamente deteriorando, l'esperienza del Fronte popolare poteva considerarsi già chiusa. 18.10. La guerra civile in Spagna. Guerra civile e scontro ideologico, Tensioni politiche e sociali nella Spagna repubblicana, La vittoria del Fronte popolare, Il colpo di Stato del generale Franco, L'aiuto delle potenze fasciste ai nazionalisti, Le potenze democratiche e il "non intervento", L'Urss e le Brigate internazionali, Gli antifascisti italiani in Spagna, L'unità delle destre e la divisione dei

repubblicani, Lo scontro fra comunisti e anarchici, L'offensiva franchista e la sconfitta repubblicana, Il bilancio della guerra. Fra il 1936 e il 1939, mentre in Francia si consumava l'esperienza del Fronte popolare, la Spagna fu sconvolta da una drammatica e sanguinosa guerra civile: un conflitto che si caricò di accesi antagonismi ideologici, trasformandosi in uno scontro fra democrazia e fascismo, fra rivoluzione sociale e reazione conservatrice. Scoppiata in un momento di forti tensioni internazionali, la guerra civile spagnola contribuì a sua volta ad aggravarle. Ma le sue origini furono essenzialmente nazionali e vanno ricondotte ai contrasti che avevano lacerato il paese nella prima metà degli anni '30. Dopo la fine della dittatura di Primo de Rivera e la caduta della monarchia [§18.6], la Spagna aveva attraversato un periodo di grave instabilità economica e sociale, che aveva visto succedersi un fallito colpo di Stato militare (estate '32) e una insurrezione anarchica sanguinosamente repressa (autunno '34). Alle tensioni che percorrevano l'intera Europa negli anni della grande depressione si sommavano quelle specifiche di un paese arretrato e prevalentemente agricolo qual era allora la Spagna: dove qualsiasi tentativo riformatore si scontrava da un lato contro l'ottusità di un ceto dominante reazionario, dall'altro contro le tendenze sovversive e antistatali di un proletariato fortemente influenzato dalle ideologie anarcosindacaliste. La Spagna era l'unico paese al mondo in cui la maggior centrale sindacale (la Cnt) fosse ancora controllata dagli anarchici. Ma era anche uno degli Stati in cui più si faceva sentire il peso dell'aristocrazia terriera, che possedeva oltre il 40% delle terre coltivate ed era strettamente legata alla Chiesa. Quando, nel febbraio 1936, le sinistre unite in una coalizione di Fronte popolare (che vedeva per la prima volta i comunisti schierati assieme a repubblicani e socialisti) si affermarono nelle elezioni politiche e si insediarono al governo, la tensione esplose in tutto il paese. Le masse proletarie vissero la vittoria come l'inizio di una rivoluzione sociale: un'autentica esplosione di collera popolare si rivolse contro i grandi proprietari, i notabili conservatori e soprattutto contro il clero cattolico. La nazione della vecchia classe dominante si espresse prima nella violenza squadristica, affidata ai gruppi fascisti della Falange (un'organizzazione che fin allora non aveva goduto di grande seguito); quindi in un nuovo pronunciamento (ribellione, colpo di Stato) messo in atto dai militari. Iniziata nel luglio del '36, la ribellione ebbe il suo punto di forza nelle truppe coloniali di stanza nel Marocco spagnolo e fu organizzata da una giunta di cinque generali: fra essi il poco più che quarantenne Francisco

Franco, assurto al ruolo di capo degli insorti. I ribelli assunsero inizialmente il controllo di gran parte della Spagna occidentale; le prime fasi dello scontro parvero però favorevoli al governo repubblicano che, appoggiato da una parte delle stesse forze armate e sostenuto da un'intensa mobilitazione popolare (si organizzarono corpi volontari e si distribuirono armi alla popolazione), poté mantenere il controllo della capitale e delle regioni del NordEst, le più ricche e industrializzate. Ciò che fece pendere la bilancia a favore dei nazionalisti di Franco fu il comportamento delle potenze europee. Italia e Germania aiutarono massicciamente gli insorti franchisti. Mussolini inviò in Spagna un contingente di 50.000 "volontari" (ma si trattava in realtà di reparti regolari) oltre a notevoli quantità di materiale bellico. Meno rilevante quantitativamente, ma ugualmente prezioso, fu l'aiuto della Germania nazista, che inviò soprattutto aerei e piloti e si servì della guerra per sperimentare l'efficienza della sua aviazione. Nessun aiuto venne invece alla Repubblica da parte delle potenze democratiche. I governi conservatori inglesi si attennero a una rigida neutralità che mal nascondeva una certa simpatia per i nazionalisti. Frenato dagli alleati inglesi, ma anche da ampi settori della sua stessa maggioranza, e preoccupato dal rischio di uno scontro aperto con gli Stati fascisti, il governo francese di Fronte popolare si astenne da ogni aiuto palese ai repubblicani e si illuse di bloccare gli aiuti al campo opposto promovendo un accordo generale fra le grandi potenze per il non intervento nella crisi spagnola. Sottoscritto, nell'agosto del '36, anche da Italia e Germania, l'accordo fu però rispettato solo da Francia e Gran Bretagna. L'unico Stato a portare un aiuto efficace alla Repubblica fu l'Urss, che non solo rifornì il governo spagnolo di materiale bellico, ma favorì, attraverso il Comintern, la formazione di Brigate internazionali: reparti volontari composti in buona parte da comunisti ma aperti ad antifascisti di tutte le tendenze e di tutti i paesi (fra questi non pochi intellettuali di prestigio, come l'americano Hemingway, il francese Malraux, l'inglese Orwell). Numerosi furono gli italiani e i tedeschi, che trovarono nella guerra l'occasione per combattere in campo aperto quella battaglia che non potevano affrontare in patria. "Oggi in Spagna, domani in Italia" fu lo slogan lanciato da Carlo Rossetti a nome dell'emigrazione antifascista italiana, presente nelle Brigate internazionali con molti suoi dirigenti, l'intervento dei volontari antifascisti - che fece rivivere la tradizione garibaldina delle rivoluzioni ottocentesche - ebbe un significato morale e politico largamente superiore a quello militare, che pure non fu trascurabile (lo si vide nella battaglia di Guadalajara del marzo '37, quando gli italiani

della Brigata Garibaldi inflissero una dura sconfitta ai loro connazionali inquadrati nei reparti fascisti). Ma non bastava a controbilanciare gli appoggi internazionali di cui godevano i franchisti. Inferiori agli avversari sul piano militare, i repubblicani erano anche indeboliti politicamente dalle loro divisioni interne. Mentre Franco, insignito del titolo di caudillo (duce, condottiero), si guadagnava l'appoggio delle gerarchie ecclesiastiche, dell'aristocrazia terriera e di buona parte della borghesia moderata e realizzava l'unità di tutte le destre in un partito unico chiamato falange nazionalista (ma con i veri falangisti ridotti i posizione subalterna), il Fronte popolare vedeva allontanarsi quei settori della borghesia progressista che, favorevoli in un primo tempo alla Repubblica, erano ora spaventati dagli eccessi di violenza cui si abbandonavano soprattutto gli anarchici. Mentre i nazionalisti mettevano in piedi nei loro territori uno Stato dai chiari connotati autoritari, i repubblicani si scontravano fra loro sull'organizzazione presente e futura della società e sul modo stesso di combattere la guerra. Particolarmente grave era il con trasto che divideva gli anarchici - insofferenti di qualsiasi disciplina militare e di ogni compromesso politico - dagli altri partiti della coalizione:; a cominciare dai comunisti, favorevoli - in omaggio alla strategia dei fronti popolari - a una linea relativamente moderata, tale da non rompere l'unità con le forze democraticoborghesi. Il contrasto assunse toni drammatici soprattutto nella primavera del '37, quando, a Barcellona, gli anarchici si scontrarono armi in pugno con i comunisti e l'esercito regolare repubblicano. I comunisti che, grazie al legame con l'Urss, godevano di un'influenza sproporzionata alla loro modesta consistenza numerica, adottarono nei confronti degli anarchici metodi simili a quelli in uso nella Russia di Stalin: numerosi militanti anarchici scomparvero fra il '37 e il '38 e un intero partito, il Poum, nato dalla confluenza fra trotzkisti e anarcosindacalisti, fu liquidato anche con l'intervento di agenti sovietici. Le divisioni nel fronte repubblicano contribuirono a far svanire quel clima di entusiasmo popolare che aveva caratterizzato le prime fasi della resistenza antifranchista e facilitarono l'offensiva delle forze nazionaliste: un'offensiva lenta ma sistematica e spietata, volta a eliminare non solo ogni sacca di resistenza militare, ma anche ogni possibile centro di dissidenza politica. La sorte della guerra fu segnata nella primavera del '38, quando i franchisti riuscirono a spezzare in due il territorio controllato dai repubblicani separando Madrid dalla Catalogna. Abbandonata da tutti (anche il Comintern decise in autunno il ritiro delle Brigate internazionali), la Repubblica spagnola resistette ancora per quasi un anno. All'inizio del

'39, i nazionalisti sferrarono l'offensiva finale che si concluse, in marzo, con la caduta di Madrid. Tre anni di guerra civile lasciarono nel paese una pesante eredità di lutti e distruzioni: circa 500.000 morti (ai quali vanno aggiunte le decine di migliaia di vittime di una feroce repressione protrattasi per molti anni dopo il '39), quasi 300.000 emigrati politici, un dissesto economico di proporzioni incalcolabili. Terminata pochi mesi prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, la guerra civile spagnola ne rappresentò per molti aspetti un sinistro preludio: non solo perché ne prefigurò, almeno i parte, gli schieramenti (Urss e democrazie contro gli Stati fascisti) e ne anticipò il carattere di "guerra ideologica", ma anche perché in Spagna furono adottati per la prima volta metodi e tecniche di guerra (i bombardamenti dei centri abitati, le rappresaglie, i rastrellamenti) che l'Europa e il mondo avrebbero presto sperimentato su ben più ampia scala. 18.11. L'Europa verso la catastrofe. L'espansionismo hitleriano, Chamberlain e l""appeasement", L'intransigenza di Churchill, La crisi della Francia, L’"Anschluss", La questione dei sudeti, Gli accordi di Monaco e il sacrificio della Cecoslovacchia, La falsa pace. Nel periodo in cui si combatté la guerra di Spagna, la marcia dell'Europa verso la catastrofe di un secondo conflitto generale subì una paurosa accelerazione. Il fattore scatenante dell'accresciuta tensione fu senza dubbio la politica della Germania hitleriana. Il comportamento arrendevole tenuto da Gran Bretagna e Francia in tutte le occasioni di confronto con le potenze fasciste convinse Hitler - che contava ormai sull’amicizia dell'Italia, consolidata dalla comune avventura spagnola e dalle conseguenze internazionali dell'impresa etiopica [§19.6] - di poter accelerare i tempi per la realizzazione del suo programma. Programma che prevedeva prima la distruzione dell'assetto europeo uscito da Versailles, con la riunione di tutti i tedeschi in un unico "grande Reich", poi espansione verso est ai danni della Russia. I piani hitleriani non comportavano necessariamente una guerra contro le potenze occidentali, anche se non scartavano a priori questa eventualità. Al contrario, Hitler sperò fino all'ultimo di poter evitare uno scontro con l'Inghilterra, a patto naturalmente che l'Inghilterra lasciasse campo libero alle mire tedesche in Europa centroorientale. In questa speranza fu indubbiamente incoraggiato dalla linea seguita dai conservatori inglesi,

soprattutto a partire dal maggio '37, quando la guida del governo fu affidata a Neville Chamberlain, sostenitore convinto di quella che allora fu chiamata politica dell'appeasement: una politica basata sul presupposto che fosse possibile "ammansire" Hitler accontentandolo nelle sue rivendicazioni più "ragionevoli" e risarcendo in qualche modo la Germania del duro trattamento subito a Versailles. Il presupposto era fondamentalmente sbagliato, visto che i programmi di Hitler non erano affatto "ragionevoli". Ma l'idea dell'appeasement riscosse ugualmente notevole successo perché rispondeva a una tendenza diffusa nella classe dirigente e nell'opinione pubblica inglese, incline al pacifismo (anche i laburisti, che contestavano l'appeasement in nome dell'antifascismo, si opponevano poi a qualsiasi politica di riarmo) e poco convinta, nel fondo, dell'equità del trattato di Versailles. La più coerente opposizione alla politica di Chamberlain venne da un'esigua minoranza di conservatori che facevano capo a Winston Churchill. Questi sostenevano che l'unico modo per fermare Hitler fosse quello di opporsi con decisione a tutte le sue pretese, anche a costo di affrontare subito una guerra. Quanto alla Francia, che era stata negli anni '20 la prima garante dei trattati di Versailles, essa fu attraversata in questo periodo, oltre che da profonde lacerazioni politiche, da una sorta di crisi morale che ne minò la capacità di reazione. In Francia la paura della Germania era per ovvi motivi più sentita che in Gran Bretagna. Ma ancora più forte era la paura di una nuova guerra: troppo recente era il trauma del primo conflitto mondiale che ai francesi era costato un prezzo in vite umane superiore, in proporzione, a quello di qualsiasi altro popolo. Protetti dall""inespugnabile linea Maginot [§15.8], i francesi si chiedevano se valesse la pena rischiare una nuova guerra per difendere la Russia comunista o i lontani alleati dell'Est europeo. Ad alimentare queste perplessità concorrevano sia il tradizionale pacifismo dei socialisti sia l'aperto filofascismo di una destra tanto spaventata dal Fronte popolare da dimenticare le sue tradizioni nazionaliste ("meglio Hitler che Blum" fu lo slogan di moda in quegli anni negli ambienti reazionari). Così la Francia, che restava almeno sulla carta la prima potenza militare d'Europa, si adattò a una politica timida e oscillante sostanzialmente subalterna a quella della Gran Bretagna. E ciò consentì alla Germania di cogliere una serie di grossi successi senza nemmeno dover mettere alla prova le sue forze armate ancora in fase di ricostituzione. Il primo successo clamoroso Hitler lo ottenne nel marzo 1938 con l'annessione (Anschluss) dell'Austria al Reich tedesco. Era questo un obiettivo che il Führer, austriaco di nascita, aveva particolarmente a cuore e

che aveva già tentato di raggiungere nell'estate del '34 [§18.9]. Allora ne era stato impedito dalla decisa reazione delle potenze occidentali, in particolare dell'Italia. Ma quando, all'inizio del '38, Hitler rilanciò la questione dell'Anschluss, mobilitando i nazisti austriaci e costringendo alle dimissioni il cancelliere Schuschnigg, Mussolini rinunciò a opporsi alle pretese tedesche. Né alcuna reazione venne dal governo inglese, che considerava la questione austriaca fuori dalla sua sfera di interessi e riteneva non del tutto infondata la rivendicazione dell'Anschluss (l'Austria era un paese di lingua tedesca, che già in passato si era mostrato favorevole alla prospettiva dell'unificazione). L'11 marzo 1938 il capo dei nazisti austriaci SeyssInquart, nuovo capo del governo, chiese ufficialmente l'intervento dell'esercito tedesco "per salvare il paese dal caos". Il giorno seguente le truppe del Reich procedettero all'occupazione del territorio austriaco. Un mese dopo, un plebiscito sanzionò a schiacciante maggioranza l'avvenuta unificazione. La questione austriaca si era appena chiusa, e già Hitler metteva sul tappeto una nuova rivendicazione, anch'essa fondata su motivi etnici: quella riguardante i sudeti, ossia gli oltre tre milioni di tedeschi che vivevano entro i confini della Cecoslovacchia. Anche in questo caso Hitler agì mobilitando i nazisti locali e spingendoli a formulare richieste sempre più pesanti all'indirizzo del governo ceco: il quale, in un primo tempo, si mostrò disposto alla concessione di più larghe autonomie alla comunità tedesca. Ma questo non bastò ad accontentare Hitler, che in realtà mirava apertamente all'annessione della regione dei Sudeti e alla distruzione dello Stato cecoslovacco: uno Stato democratico, industrializzato, abbastanza forte militarmente e legato da trattati di alleanza alla Francia e all'Urss. Un concreto sostegno militare alla Repubblica ceca da parte dei suoi alleati era però problematico, in quanto la Cecoslovacchia non confinava né con la Francia né con la Russia (ed era invece circondata da Stati ostili come la Polonia e l'Ungheria). Inoltre l'Urss era tenuta a intervenire solo se la Francia avesse fatto altrettanto. Ma l'atteggiamento francese era sempre condizionato da quello britannico. E il governo inglese si mostrò ancora una volta propenso ad accontentare Hitler in quella che avrebbe dovuto essere la sua "ultima richiesta". Due volte, nel settembre del '38, Chamberlain volò in Germania per sottoporre invano a Hitler ipotesi di compromesso. Alla fine di settembre, quando ormai l'Europa si stava preparando a la guerra che sembrava inevitabile, Hitler accettò la proposta di un incontro fra i capi di governo delle grandi potenze europee (Russia esclusa), lanciata in extremis da Mussolini su suggerimento dello stesso Chamberlain.

Nell'incontro, che si svolse a Monaco di Baviera il 29-30 settembre '38, Chamberlain e il primo ministro francese Daladier accettarono un progetto presentato dall'Italia che in realtà accoglieva quasi alla lettera le richieste tedesche e prevedeva l'annessione al Reich dell'intero territorio dei Sudeti. Ai cecoslovacchi, che non erano stati ammessi alla conferenza e nemmeno consultati, non restò che accettare un accordo che li lasciava la mercé della Germania e apriva la strada al dissolvimento della loro Repubblica. I sovietici, anch'essi tenuti fuori dal tavolo delle trattative, capirono di non poter contare sulla solidarietà delle potenze occidentali in caso di aggressione tedesca e ne trassero le conseguenze, abbandonando la politica di alleanza con le democrazie adottata negli ultimi anni. Chamberlain, Daladier e lo stesso Mussolini furono accolti, al rientro in patria, da imponenti manifestazioni di entusiasmo popolare e acclamati come salvatori della pace. Ma quella salvata a Monaco era una pace fragile e precaria, pagata per giunta a caro prezzo. Accordandosi con Hitler sulla testa della Cecoslovacchia, le potenze democratiche avevano distrutto, assieme alle ultime tracce del principio di sicurezza collettiva, la loro stessa credibilità e avevano aperto la strada a nuove aggressioni. Il commento più appropriato agli accordi di Monaco fu quello di Winston Churchill: "Potevano scegliere fra il disonore e la guerra, hanno scelto il disonore e avranno la guerra". Sommario Dopo la crisi del '29 si diffuse in tutta Europa il fenomeno della disaffezione verso la democrazia. Parallelamente si affermarono, negli anni '30, regimi antidemocratici, sia di tipo tradizionale sia di tipo "moderno" (cioè ispirati al fascismo e al nazismo). La novità del fascismo e del nazismo si evidenziò nel campo dell'organizzazione del potere, con quella ricerca di un controllo totale sui cittadini comune al regime staliniano) che ha fatto coniare il termine "totalitarismo". Il successo del nazismo è strettamente collegato alle conseguenze della grande crisi. Fu allora che la maggioranza dei tedeschi perse ogni fiducia nella Repubblica e nei partiti democratici e prestò ascolto in misura crescente alla propaganda del nazismo, che prometteva il ritorno della Germania alla passata grandezza, indicando nelle sinistre e negli ebrei i responsabili delle difficoltà del paese. Il partito di Hitler, rimasto fin allora ai margini della vita politica, vide crescere i suoi consensi nelle numerose elezioni che si tennero fra il '30 e il '32, fino a diventare il primo partito

tedesco. Nel gennaio '33, Hitler fu chiamato dal presidente Hindenburg a guidare il governo. La trasformazione della Repubblica tedesca in dittatura avvenne nel giro di pochi mesi. Nel '33, traendo pretesto dall'incendio del Reichstag, Hitler assunse i pieni poteri e annientò le opposizioni. L'anno seguente si sbarazzò dell'ala estremista del nazismo (quella che faceva capo alla milizia armata delle SA) e, morto Hindenburg, si fece nominare capo dello Stato. Tra i princìpibase del nazismo stava il particolare rapporto tra il capo (Führer) e le masse (inquadrate nel partito unico e nei suoi organismi collaterali). Dalla "comunità di popolo" in cui il nazismo voleva trasformare tutti i tedeschi erano esclusi gli ebrei, che una massiccia propaganda additava a bersaglio dell'odio popolare e che vennero legalmente discriminati con le leggi di Norimberga (1935). Le azioni violente contro di essi si sarebbero trasformate, durante la guerra, nella politica dello sterminio. Non vi fu, durante il nazismo, alcuna forma di opposizione politica. La Chiesa cattolica e quelle luterane finirono con l'adattarsi al regime. L'efficienza dell'apparato repressivo spiega la mancanza di un esplicito dissenso, non l'estensione notevole del consenso al regime. Tale consenso ebbe varie cause: i successi in politica estera, la ripresa economica (dovuta a una politica di riarmo e lavori pubblici), il raggiungimento della piena occupazione e il miglioramento dei servizi sociali; ma anche l'uso molto abile che il nazismo seppe fare delle cerimonie pubbliche e dei mezzi di comunicazione di massa. Già nel corso degli anni '20 regimi autoritari si erano affermati in molti paesi: nel l'Europa centroorientale (Ungheria, Polonia), nei Balcani (Bulgaria, Jugoslavia) e nella penisola iberica (Spagna, Portogallo). L'avvento del nazismo in Germania provocò una ulteriore diffusione di questi regimi (Austria, Grecia e Romania) e una loro radicalizzazione. In Urss, alla fine degli anni '20, Stalin pose fine alla Nep, dando inizio all'industrializzazione forzata. Le attività agricole vennero collettivizzate (e i kulaki, di fatto, sterminati). Parallelamente fu varato, nel 1928, il primo piano quinquennale che segnò una strepitosa crescita della produzione industriale (questo suscitò diffusa ammirazione nel mondo occidentale, che subiva le conseguenze della grande crisi). Il nuovo indirizzo ebbe costi umani assai elevati e si accompagnò ad un clima di forte mobilitazione ideologica. Gli anni '30 videro anche il continuo rafforzamento della dittatura personale di Stalin, che eliminò tutti i suoi possibili rivali (in pratica l'intero gruppo dirigente bolscevico). Col 1934 ebbe inizio la stagione delle "grandi

purghe" e del terrore indiscriminato, funzionale al rafforzamento del potere di Stalin. Quello che si consumò in Urss negli anni dello stalinismo fu un vero e proprio sterminio di massa. Le prime iniziative hitleriane in politica estera (ritiro dalla Società delle nazioni, appoggio al tentativo dei nazisti austriaci di impadronirsi del potere) rappresentarono una minaccia all'equilibrio internazionale. A partire dal 1935, la causa della sicurezza collettiva trovò un sostegno nella nuova politica estera sovietica, ispirata alla lotta al fascismo come principale nemico, che incoraggiò la formazione di alleanze tra comunisti e forze socialiste e democraticoborghesi. Nel '36 governi di Fronte popolare sorsero in Spagna e Francia. In Spagna, alla vittoria del Fronte popolare (febbraio '36) seguì una ribellione militare. I ribelli, guidati dal generale Franco, ebbero il decisivo aiuto di Italia e Germania, mentre i repubblicani poterono contare solo su rifornimenti sovietici e sui reparti di volontari antifascisti. La sconfitta dei repubblicani fu dovuta anche alle profonde divisioni esistenti al loro interno soprattutto fra comunisti e anarchici. Nel 1939 la guerra civile terminava con la vittoria di Franco. Negli stessi anni della guerra di Spagna, la politica di arrendevolezza (appeasement) praticata da Francia e Inghilterra nei confronti della Germania finì coll'incoraggiare la politica espansionistica del nazismo. Nel 1938 avveniva l'annessione dell'Austria (Anschluss); subito dopo Hitler avanzava mire sul territorio cecoslovacco abitato da popolazione tedesca (sudeti). Gli accordi di Monaco (settembre '38) sembrarono conservare la pace, ma - accettando le richieste tedesche - finirono con lo spianare la strada a un nuovo conflitto mondiale. Bibliografia Sul totalitarismo: H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano 1967; Neumann, Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Il Mulino, Bologna 1973; S. Forti, Il totalitarismo, Laterza, RomaBari 2001. Sulla crisi della Repubblica di Weimar e il nazismo: M. Broszat, Da Weimar a Hitler, Laterza, RomaBari 1986; K. D. Bracher, La dittatura tedesca, Il Mulino, Bologna 1973; D. Peukert, Storia sociale del Terzo Reicb, Sansoni, Firenze 1989; N. Frei, Stato nazista, Laterza, RomaBari 1992; H. U. Thamer, Il Terzo Reich, Il Mulino, Bologna 1993 e I. Kershaw, Hitler e l'enigma del consenso, Laterza, RomaBari-1997. Si vedano inoltre le biografie di J. C. Fest, Hitler, Rizzoli, Milano 1974 e di Kershaw, Hitler 1889-1936 e 1936-1945, Bompiani, Milano 1999-2001,2 voll, e L. Mosse,

La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania dalle guerre napoleoniche al Terzo Reich, Il Mulino, Bologna '75. Sul dibattito in Germania, che ha visto gli storici dividersi sul tema dei rapporti fra nazismo e storia tedesca, vedi Germania: un passato che non passa, a e. di E. Rusconi, Einaudi, Torino 1987, e I. Kershaw, Che cos'è il nazismo. Problemi interpretativi e prospettive di ricerca, Bollati Boringhieri, Torino 1995. Sulla diffusione dei regimi fascisti: Il fascismo in Europa, a e. di S. J. Woolf, Laterza, Bari 1968. Sull'Unione Sovietica: F. Benvenuti, Storia della Russia contemporanea 1853-1996, Laterza, RomaBari 1982; G. Boffa, Storia dell'Unione Sovietica, vol. I, citato nel cap. 14; V. Zaslavsky, Storia del sistema sovietico, Nis, Roma 1995. Sullo stalinismo: G. Boffa, Il fenomeno Stalin nella storia del XX secolo, Laterza, RomaBari 1982; G. Medvedev, Lo stalinismo, Mondadori, Milano 1972; I. Deutscher, Stalin, Longanesi, Milano 1969; M. Lewin, Storia sociale dello stalinismo, Einaudi, Torino 1988. Sulle "purghe" staliniane: F. Bettanin, Il lungo terrore, Editori Riuniti, Roma 1999. Sull'attrazione esercitata dall'Urss nei confronti degli intellettuali: F. Fut, Il passato di un'illusione. Storia dell'idea comunista nel XX secolo, Mondadori, Milano 1995; per un diverso approccio al problema si veda il volume di E. J. Hobsbawm, Il secolo breve citato al cap. prec. Per una analisi comparata dei due totalitarismi, vedi infine E. Nolte, Nazionalsocialismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945, Sansoni, Firenze 1989. Sulla guerra civile spagnola: R. Carr, Storia della Spagna (1808-1939), La Nuova Italia, Firenze 1978; H. Thomas, Storia della guerra civile spagnola, Einaudi, Torino 1963. Sulla politica internazionale: AJ. P. Taylor, Le origini della seconda guerra mondiale, Laterza, Bari 1965. 19. L'Italia fascista. 19.1. Il totalitarismo imperfetto. Organizzazione statale e organizzazione partitica, Dilatazione e burocratizzazione del Pnf, Le organizzazioni collaterali, Il progetto totalitario, Il peso della Chiesa, I Patti lateranensi, Il concordato, Il successo politico del fascismo e il plebiscito del '29, I vantaggi per la Chiesa, Il ruolo della monarchia. Nella seconda metà degli anni '20, quando in Germania il nazismo era ancora una forza marginale, in Italia lo Stato totalitario era già una realtà

consolidata nelle sue strutture giuridiche (il partito unico, la milizia, i sindacati di regime, ecc.) e ben riconoscibile nelle sue manifestazioni esteriori: le adunate di cittadini in uniforme, le campagne propagandistiche orchestrate dall'autorità, l'amplificazione dell'immagine e della parola del capo, oggetto di un vero e proprio culto. Caratteristica essenziale del regime era la sovrapposizione di due strutture e di due gerarchie parallele: quella dello Stato, che aveva con servato l'impalcatura esterna del vecchio Stato monarchico, e quella del partito con le sue numerose ramificazioni. Il punto di congiunzione fra le due strutture era rappresentato dal Gran consiglio del fascismo, organo di partito investito anche di importantissime funzioni costituzionali. Al di sopra di tutti si esercitava incontrastato il potere di Mussolini, che riuniva in sé la qualifica di capo del governo e quella di duce del fascismo. Contrariamente a quanto sarebbe accaduto in altri regimi totalitari, nel fascismo italiano l'apparato dello Stato ebbe fin dall'inizio, per esplicita scelta di Mussolini, una netta preponderanza sulla macchina del partito. Per trasmettere la sua volontà dal centro alla periferia, Mussolini si servì del tradizionale strumento dei prefetti assai più che degli organi locali del Pnf. A controllare l'ordine pubblico e a reprimere il dissenso provvedeva la polizia di Stato, mentre la Milizia era confinata a una funzione poco più che decorativa di corpo "ausiliario", senza nessun paragone con quello che sarebbe stato il ruolo svolto in Germania prima dalle SA e poi dalle SS. Privato di ogni autonomia politica, il Partito fascista venne però continuamente dilatando le sue dimensioni e la sua presenza nella società civile. Dalla fine degli anni '20 l'iscrizione al partito cessò di essere il segno dell'appartenenza a un élite e divenne una pratica di massa (nel '39 iscritti superavano i due milioni e mezzo), quasi una formalità burocratica, necessaria fra l'altro per ottenere un posto nell'amministrazione statale. Una funzione importante nella fascistizzazione del paese fu svolta da alcune organizzazioni "collaterali" al partito: come l'Opera nazionale dopolavoro, fondata nel '25, che si occupava del tempo libero di milioni di lavoratori organizzando gare sportive, gite domenicali e altre attività ricreative prima gestite liberamente dalle organizzazioni di classe o dalla Chiesa; o come il Comitato olimpico nazionale (Coni), nato nel '27 allo scopo di incoraggiare, ma anche di controllare, le attività sportive fin ora affidate all'iniziativa di organismi privati. Più importanti di tutte erano le organizzazioni giovanili del partito: i Fasci giovanili, i Gruppi universitari fascisti (Guf) e soprattutto l'Opera nazionale Balilla (Onb). L'Onb, nata nel '26, inquadrava tutti i giovani fra i dodici e i diciotto anni (divisi, secondo l'età, in "balilla" e "avanguardisti") e forniva loro, oltre a un supplemento di educazione fisica

e a qualche rudimento di istruzione "premilitare", anche un minimo di indottrinamento ideologico. Anche per i bambini sotto i dodici anni fu creata un'organizzazione, detta dei Figli della lupa. Il tentativo messo in atto dal fascismo attraverso queste e altre organizzazioni di massa (dai sindacati alla Milizia) era quello di "occupare", insieme allo Stato, anche la società, di riplasmarla dalle fondamenta facendo leva soprattutto sui giovani. In questo senso il regime fascista fu certamente totalitario, almeno nelle intenzioni. Ma alle intenzioni non sempre corrisposero i risultati, visti i notevoli ostacoli che il fascismo doveva superare nel suo tentativo di permeare di sé la società. L'ostacolo maggiore era senza dubbio rappresentato dalla Chiesa. In un paese in cui oltre il 99% della popolazione si dichiarava di fede cattolica, in cui la pratica religiosa era diffusa in modo massiccio, in cui le parrocchie rappresentavano spesso l'unico centro di aggregazione sociale e culturale, non era facile governare contro la Chiesa o senza trovare con essa un qualche modus vivendi. Consapevole di ciò, Mussolini non solo aveva cercato un'intesa politica col Vaticano - e l'aveva trovata, come si è visto, ai danni del Partito popolare [§16.9] - ma aveva mirato più lontano, profittando della disponibilità manifestata dalle gerarchie ecclesiastiche nei confronti del regime per avviare a definitiva composizione lo storico contrasto fra Stato e Chiesa che aveva segnato l'intera vita del Regno d'Italia. Le trattative fra governo e Santa Sede cominciarono nell'estate del '26, si protrassero per due anni e mezzo nel più assoluto segreto e si conclusero l'11 febbraio 1929 con la stipula dei patti che presero il nome dai palazzi del Laterano, cioè dal luogo in cui Mussolini e il segretario di Stato vaticano cardinal Gasparri si incontrarono per la firma. I Patti lateranensi si articolavano in tre parti distinte: un trattato internazionale, con cui la Santa Sede poneva ufficialmente fine alla "questione romana" riconoscendo lo Stato italiano e la sua capitale e vedendosi riconosciuta la sovranità sullo "Stato della Città del Vaticano" (uno Stato poco più che simbolico, comprendente la basilica di San Pietro e i palazzi circostanti); una convenzione finanziaria, con cui l'Italia si impegnava a pagare al papa una forte indennità a titolo di risarcimento per la perdita dello Stato pontificio; infine un concordato, che regolava i rapporti interni fra la Chiesa e il Regno d'Italia, intaccando sensibilmente il carattere laico dello Stato. Il concordato stabiliva fra l'altro che i sacerdoti fossero esonerati dal servizio militare, che i preti spretati fossero esclusi dagli uffici pubblici, che il matrimonio religioso avesse effetti civili, che l'insegnamento della dottrina cattolica fosse considerato "fondamento e

coronamento" dell'istruzione pubblica, che le organizzazioni dipendenti dall'Azione cattolica potessero continuare a svolgere la propria attività, purché sotto il controllo delle gerarchie ecclesiastiche e al di fuori di ogni partito politico. Per il regime fascista i Patti lateranensi rappresentarono un notevole successo propagandistico. Presentandosi come l'artefice della "conciliazione", come l'uomo che era riuscito laddove erano falliti tutti i governi liberali, Mussolini consolidò la sua area di consenso e la estese anche a strati della popolazione rimasti fin allora ostili o indifferenti. Le prime elezioni plebiscitarie - tenute col sistema della lista unica e indette, non a caso, nel marzo '29, a poche settimane dalla conciliazione registrarono un afflusso alle urne senza precedenti (quasi il 90%) con un 98% di voti favorevoli. Un risultato da valutare con cautela (come tutti quelli dei plebisciti tenuti in regimi autoritari, dove l'elettore non ha una vera libertà di scelta e manca qualsiasi controllo sulla veridicità dei dati), ma comunque indicativo di un diffuso orientamento favorevole al regime. Se il fascismo trasse dai Patti lateranensi immediati vantaggi politici fu però il Vaticano a cogliere i successi più significativi e duraturi. In cambio della rinuncia a qualcosa che aveva irrevocabilmente perduto da quasi sessant’anni (il potere temporale), la Chiesa acquistò una posizione di indubbio privilegio nei rapporti con lo Stato - anche in materie importanti come l'istruzione e la legislazione matrimoniale - e rafforzò notevolmente la sua presenza nella società. Mantenendo intatta la rete di associazioni e circoli facente capo all'Azione cattolica, la gerarchia ecclesiastica si assicurava un largo margine di autonomia operativa ed entrava in concorrenza col fascismo proprio nel settore che stava più a cuore al regime: quello delle organizzazioni giovanili. Di questi spazi la Chiesa non si servì mai per fare opera di opposizione; li usò, però, per educare ai suoi valori una parte non trascurabile della gioventù, per formare una classe dirigente capace, all'occorrenza, di prendere il posto di quella fascista: cosa che di fatto si verificò nel secondo dopoguerra. La Chiesa non costituì l'unico ostacolo per le aspirazioni totalitarie del fascismo. Un altro limite insuperabile stava all'interno, anzi al vertice delle istituzioni statali ed era rappresentato dalla monarchia. Diversamente da Hitler, che dopo il '34 poté riunire nella sua persona le figure di capo del partito, del governo e dello Stato, Mussolini dovette fare i conti con una autorità - quella appunto del re - che non gli era in alcun modo subordinata e che non derivava dal fascismo i suoi titoli di legittimità. Per quanto fosse regolarmente esautorato, fino ad apparire come un ostaggio nelle mani di

Mussolini, il re restava pur sempre la più alta autorità dello Stato. A lui spettavano il comando supremo delle forze armate, la scelta dei senatori e addirittura il diritto di nomina e revoca del capo del governo. Si trattava di poteri del tutto teorici, destinati a restare tali finché il regime fosse rimasto forte e compatto attorno al suo capo. Ma, in caso di crisi o di spaccatura interna, le carte migliori sarebbero fatalmente tornate in mano al re, punto di riferimento insostituibile per i militari e la borghesia conservatrice. Il che rappresentava per il fascismo un motivo di sotterranea debolezza. 19.2. Il regime e il paese. L'immagine dell'Italia fascista, Realtà e propaganda, Sviluppo demografico e urbanizzazione, L'arretratezza della società italiana, Il tradizionalismo fascista, La politica demografica, Le organizzazioni femminili, L'utopia dell""uomo nuovo", La Carta del lavoro, Il calo dei salari, Il consenso della piccola e media borghesia, I limiti della fascistizzazione. Se osserviamo l'Italia del ventennio fascista quale ci appare attraverso l'abbondante materiale propagandistico prodotto durante il regime (cinegiornali d'attualità, foto ufficiali, stampa illustrata, ecc.), vediamo emergere con prepotente evidenza l'immagine di un paese largamente fascistizzato. I ritratti di Mussolini esposti nelle scuole e negli uffici o innalzati per le strade in giganteschi cartelli. Gli edifici pubblici e i monumenti, le copertine dei libri e le cartoline ornati dall'emblema del fascio littorio, insegna del potere dei magistrati di Roma antica, eletto a simbolo del regime. I muri istoriati da scritte guerriere (quelle di cui ancor oggi ci può capitare di scorgere le tracce scolorite). Le grandi folle mobilitate in occasione delle ricorrenze fasciste (come l'anniversario della marcia su Roma) o dei discorsi del duce trasmessi dalla radio in tutti gli angoli del paese. Gli scolari che sfilavano in formazione militare, vestiti in camicia nera e armati di fucili di legno. I loro padri, anch'essi in divisa fascista, che si riunivano nei giorni festivi agli ordini dei Fasci locali per celebrare i riti del regime. Gli attempati gerarchi che si esibivano negli stadi in pericolosi esercizi ginnici. Queste e altre immagini ci sono state tante volte riproposte, attraverso film, documentari e rievocazioni d'ogni genere, da diventare quasi convenzionali. Il problema è vedere se esse rispecchiavano la realtà dell'Italia di allora. Il paese era davvero cambiato rispetto al periodo precedente, così com'era cambiata la sua immagine "ufficiale"? Per

affrontare questo problema è necessario dare uno sguardo alle condizioni del (paese reale", quali risultano dai dati statistici. Questi dati ci dicono in primo luogo che, anche durante il periodo fascista, l'Italia continuò a muoversi e a svilupparsi secondo le linee e tendenza comuni a tutti i paesi dell'Europa occidentale, benché con un ritmo più lento di quello tenuto nel ventennio precedente. La popolazione, che era di 38 milioni nel 1921, passò a 44 nel '39. Nello stesso periodo si accentuò l'urbanizzazione e la percentuale dei residenti in comuni con più di 100.000 abitanti salì dal 13 al 18%; la quota degli addetti all'agricoltura sul totale della popolazione attiva calò dal 58 al 51 %, mentre quella degli occupati nell'industria passò dal 23 al 26,5% e quella degli addetti al terziario dal 18 al 22%. Tradotto in cifre assolute ciò significa che il numero dei lavoratori dell'industria era aumentato di circa un milione di unità e di quasi altrettanto era cresciuto quello degli occupati nel commercio, nei servizi e nella pubblica amministrazione (dove vi fu l'incremento più alto). Nonostante questi segni di sviluppo, alla vigilia della seconda guerra mondiale l'Italia era ancora un paese fortemente arretrato e il suo distacco dalle grandi potenze europee non si era ridotto. Alla fine degli anni '30, il reddito medio di un italiano era poco più della metà di quello di un francese, un terzo di quello di un inglese (e un quarto di quello di uno statunitense). Nonostante spendesse più della metà del suo reddito in consumi alimentari, l'italiano medio si nutriva essenzialmente di farinacei, mangiava carne e beveva latte in quantità tre volte inferiore a quella di un inglese o di un americano, considerava generi di lusso il caffè, il tè e lo zucchero. La spesa per il vestiario era circa la metà di quella di un rancese o di un inglese. Il divario era ancora più consistente nel campo dei beni di consumo durevoli. Nel '38 c'era in Italia un'automobile ogni 100 abitanti (mentre il rapporto era di 1 a 20 in Inghilterra e in Francia), un telefono ogni 70 abitanti (1 a 13 in Inghilterra, 1 a 27 in Francia), un apparecchio radio ogni 40 (1 a 6 in Inghilterra, 1 a 8 in Francia). L'arretratezza economica e civile della società italiana fu per certi aspetti funzionale al regime e all'ideologia fascista, o quanto meno ne favorì le tendenze conservatrici e tradizionaliste. Il fascismo, come il nazismo, predicò il "ritorno alla campagna", esaltò la bellezza e la sanità della vita campestre, lanciò a più riprese la parola d'ordine della ruralizzazione: tentò di scoraggiare, senza peraltro riuscirvi, l'afflusso dei lavoratori verso i centri urbani. Il fascismo inoltre, d'accordo in questo con la Chiesa, difese ed esaltò la funzione del matrimonio e della famiglia, come garanzia di stabilità e come base per lo sviluppo demografico. Ispirandosi

all'anacronistica dottrina che identificava la potenza con la forza del numero, il regime cercò di incoraggiare con ogni mezzo l'incremento della popolazione: furono aumentati gli assegni familiari dei lavoratori, furono favorite le assunzioni dei padri di famiglia, furono istituiti premi per le coppie più prolifiche, fu addirittura imposta, nel '27, una tassa sui celibi. In coerenza con questa linea, il regime ostacolò il lavoro delle donne (anche in questo caso con scarso successo) e, più in generale, si oppose al processo di emancipazione femminile. Anche le donne ebbero, durante il fascismo, le loro proprie strutture organizzative: quella dei Fasci femminili, quella delle piccole italiane e delle giovani italiane (dipendenti dall'Opera nazionale Balilla) e, più importante di tutte, quella delle massaie rurali. Ma si trattava di organismi poco vitali (pur nella loro indubbia novità), la cui funzione principale stava nel valorizzare le virtù domestiche della donna, nel ribadirne l'immagine tradizionale di "angelo del focolare" diffusa attraverso la stampa, la letteratura fascista e i testi per la scuola. Il fascismo non era però solo un regime conservatore e immobilista Se da un lato voleva mantenere in vita strutture sociali e tradizioni del passato, dall'altro era in qualche modo proiettato verso il futuro, verso la creazione dell""uomo nuovo", verso un sistema totalitario moderno, il cui l'intera popolazione fosse inquadrata nelle strutture del regime, sensibile agli appelli del capo e pronta a combattere per la grandezza nazionale. Per la realizzazione di questo progetto il ritardo economico e culturale del paese rappresentava un ostacolo insormontabile. Non era facile far giungere il messaggio fascista nei piccoli paesi sperduti dove non arrivavano le strade carrozzabili, non c'erano scuole e non si sapeva cosa fossero la radio e il cinema. Ma era soprattutto la scarsezza delle risorse a disposizione della collettività che impediva al fascismo di praticare una politica economica e salariale tale da permettergli di far breccia fra le classi lavoratrici. Le generiche enunciazioni contenute nella Carta del lavoro (un documento varato con grande solennità nel 1927, in cui si parlava fra l'altro di "uguaglianza giuridica" fra imprenditori e prestatori d'opera e di "solidarietà fra i vari settori della produzione") non erano certo sufficienti a ripagare i lavoratori della perdita di qualsiasi autonomia organizzativa e capacità contrattuale. I vantaggi dell'organizzazione dopolavoristica e i miglioramenti nel campo previdenziale non bastavano a compensare il calo quasi costante dei salari reali - quelli dell'industria erano, nel '39, inferiori di circa il 20% rispetto ai livelli del '21 - e la conseguente compressione dei

consumi alimentari che, già bassi in partenza, andarono lentamente contraendosi negli anni '30. I maggiori successi, in termini di partecipazione e di consenso, il regime li ottenne non a caso presso la media e piccola borghesia. I ceti medi infatti, non solo furono complessivamente favoriti dalle scelte economiche del regime; non solo si videro aprire nuovi canali di ascesa sociale dalla moltiplicazione degli apparati burocratici (nello Stato, nel partito, negli enti di nuova istituzione); ma erano anche i più sensibili ai valori esaltati dal fascismo (la nazione, la gerarchia, l'ordine sociale), i più disposti a recepirne i messaggi e a farne proprie le parole d'ordine. Per dare una risposta sintetica agli interrogativi circa il reale grado di fascistizzazione del paese, si può quindi concludere che questo fenomeno fu ampio, ma riguardò essenzialmente gli strati intermedi della società, toccando solo superficialmente le classi popolari e l'alta borghesia; che il regime riuscì a cambiare, in maniera anche vistosa, i comportamenti pubblici e le forme di partecipazione collettiva, ma non a trasformare nel profondo schemi mentali e strutture sociali. Parola chiave Consenso Nel linguaggio politico moderno, il termine "consenso" indica l'accordo fra i membri di una comunità su alcuni valori e princìpi fondamentali o su alcuni obiettivi specifici che la comunità stessa si pone attraverso l'azione dei suoi gruppi dirigenti. Nei sistemi democratici e pluralistici, un certo grado di consenso sui princìpi e sulle istituzioni è considerato indispensabile alla vita dello Stato; ma sulle scelte dei governanti il dissenso è ammesso e in qualche misura istituzionalizzato attraverso meccanismi che permettono il ricambio della classe dirigente. Invece nei sistemi autoritari - e soprattutto in quelli totalitari [§parola chiave: Totalitarismo] - il dissenso è represso o nascosto, mentre il consenso è dato per scontato, sulla base di una arbitraria attribuzione al capo, o al partito dominante, della capacità di rappresentare il popolo e di interpretarne i bisogni. Questo non significa che anche i regimi autoritari non possano godere di autentico consenso popolare. Il problema, per gli storici, è di verificare e misurare questo consenso, in assenza di indicatori attendibili (poiché tali non sono i risultati delle consultazioni elettorali "plebiscitarie" e le manifestazioni di massa organizzate dai regimi stessi). Nel caso del fascismo italiano, ad esempio, si è discusso e si continua a discutere sulla natura e sulle dimensioni del consenso di cui il regime godette. Negli anni '70 il più autorevole storico del fascismo, Renzo De Felice, autore di una grande biografia di Mussolini, ha

sostenuto che, per la maggioranza della popolazione, questo consenso fu ampio e stabile, soprattutto nella prima metà degli anni '30 (prima che cominciasse la fase delle guerre e dell'avvicinamento alla Germania nazista). Altri studiosi hanno contestato sia le conclusioni di De Felice, sia l'attendibilità delle fonti da lui prevalentemente utilizzate (la stampa, le carte di Mussolini, i rapporti di polizia); e hanno affermato che il grosso della popolazione diede al regime niente più che un consenso "passivo", un'accettazione rassegnata (salvo che in alcuni momenti particolari, come la conquista dell'Etiopia o la conferenza di Monaco). Oggi la maggior parte degli storici tende a riconoscere al fascismo una certa base di consenso, soprattutto fra i ceti medi. Anche se ci si rende conto della difficoltà di valutarne la natura (come si può distinguere il consenso "attivo" da quello "passivo"?) e di misurarne con precisione l'entità. 19.3. Cultura, scuola, comunicazioni di massa. La riforma Gentile, Il fascismo e la scuola, L'università, L'adesione dell'alta cultura, Il controllo sulla stampa, Il Minculpop, La radio: cultura di massa e propaganda, Il cinema: film d'evasione e cinegiornali. Consapevole di quanto le motivazioni ideologiche e culturali fossero importanti ai fini del consenso, il fascismo dedicò un'attenzione tutta particolare al mondo della cultura e della scuola. La scuola italiana era stata profondamente ristrutturata, già nel 1923, con la riforma Gentile [§16.9]: una riforma, ispirata ai princìpi della pedagogia idealistica, che cercava di accentuare la severità degli studi e sanciva il primato delle discipline umanistiche (considerate come il principale strumento di educazione delle élites dirigenti) su quelle tecniche, relegate a una funzione nettamente subalterna. Una volta consolidatosi, il regime si preoccupò di fascistizzare l'istruzione sia attraverso una più stretta sorveglianza sugli insegnanti, sia attraverso il controllo dei libri scolastici e l'imposizione, dal 1930, di "testi unici" per le elementari. Nel complesso il corpo docente si adattò senza grosse resistenze alle direttive del regime: anche se la fascistizzazione fu spesso superficiale, dal momento che molti insenanti, formatisi nel clima culturale di prima della guerra, continuarono a svolgere il loro lavoro come avevano sempre fatto, senza concedere al fascismo nulla più che un'adesione generica. Rispetto alla scuola elementare e media, l'università godette di un'autonomia molto maggiore. Ma non la usò per contestare le scelte culturali del fascismo. Quando, nel 1931, fu imposto a tutti i docenti il

giuramento di fedeltà al regime, su 1200 professori titolari, solo una dozzina, per lo più anziani e prossimi alla pensione, rifiutarono di giurare perdendo così le loro cattedre. Vi furono insegnanti non fascisti (o addirittura antifascisti) che si piegarono all'imposizione solo per poter continuare la loro attività. Ma, nella maggior parte dei casi, il giuramento non suscitò particolari problemi di coscienza. In generale, gli ambienti dell'alta cultura - universitaria e non - si allinearono su una posizione di sostanziale adesione al regime. Alcuni fra i nomi più illustri della cultura italiana - scrittori come Luigi Pirandello, scienziati come Guglielmo Marconi, musicisti come Pietro Mascagni, architetti come Marcello Piacentini, storici come Gioacchino Volpe, filosofi come il già citato Gentile - fecero esplicita professione di fede fascista, ma quasi tutti gli intellettuali accettarono di inserirsi nelle istituzioni culturali pubbliche, godendo delle gratificazioni materiali e dei riconoscimenti di cui il fascismo fu prodigo nei loro confronti. Comunque, sulle attività culturali che si rivolgevano a un pubblico specialistico, o in ogni caso ristretto, il controllo del fascismo si esercitò in forme relativamente blande. Ben più diretto e capillare fu, invece, il controllo nel campo della cultura e dei mezzi di comunicazione di massa. Tutto il settore della stampa politica - già fascistizzata fra il '22 e il 26 - fu sottoposto a un controllo sempre più stretto e soffocante da parte del potere centrale, che non si limitava alla semplice censura, ma interveniva con precise direttive sul merito degli articoli. Affidata istituzionalmente a un apposito ufficio dipendente dalla presidenza del Consiglio - poi trasformato in sottosegretariato e infine assorbito dal nuovo ministero per la Cultura popolare (Minculpop), creato nel '37 a imitazione di quello nazista per la propaganda - la sorveglianza sulla stampa era in realtà esercitata personalmente da Mussolini: il quale, non dimentico del suo passato di giornalista, dedicava una parte notevole del suo tempo alla lettura dei quotidiani, intervenendo spesso anche su questioni di secondaria importanza. Al controllo sulla carta stampata il regime univa quello sulle trasmissioni radiofoniche, affidate, dal 1927, a un ente di Stato denominato Eiar (progenitore dell'attuale Rai). Come mezzo d'ascolto privato la radio ebbe però - già lo si è visto - una diffusione abbastanza limitata, in confronto a quella dei paesi più sviluppati. Solo dopo il '35 essa si affermò come essenziale canale di propaganda, grazie anche alla decisione del governo di installare apparecchi nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle sedi delle organizzazioni di partito. E solo negli ultimi anni '30 entrò stabilmente nelle case della classe media, influenzandone non poco i gusti e le abitudini.

Attraverso il nuovo mezzo giungevano alle famiglie della piccola e media borghesia non solo i messaggi propagandistici - diffusi attraverso i notiziari politici, le "cronache del regime", i programmi culturali - ma anche le canzonette, i servizi sportivi, gli sceneggiati radiofonici, le trasmissioni di varietà: tutti ingredienti essenziali di una nuova cultura di massa destinata a svilupparsi su più larga scala nel secondo dopoguerra. Come la radio, anche il cinema fu oggetto privilegiato delle attenzioni del regime e ne ricevette generose sovvenzioni, che avevano lo scopo di favorire la produzione nazionale e di limitare la massiccia penetrazione dei film americani. Sulla normale produzione cinematografica il regime esercitò un controllo abbastanza elastico, volto più a bandire dalle pellicole qualsiasi argomento politicamente e socialmente scabroso che non a introdurvi temi di esplicita propaganda. Per questo bastavano i cinegiornali d'attualità, prodotti da un apposito ente statale (l'Istituto Luce) e proiettati obbligatoriamente nelle sale cinematografiche all'inizio di ogni spettacolo. I cinegiornali furono uno dei più importanti strumenti di propaganda di massa di cui disponesse il fascismo: sia perché raggiungevano un pubblico valutabile in parecchi milioni di persone, sia perché fornivano delle immagini capaci di attirare l'attenzione popolare e scelte accuratamente per meglio illustrare i trionfi del fascismo e del suo capo. Tutto ciò si prestava bene agli scopi di un regime che in larga misura affidava il suo successo alla forza dell'immagine e alla sua capacità di persuasione. 19.4. Il fascismo e l'economia. La "battaglia del grano" e "quota novanta". Fascismo "terza via", Mito e realtà del corporativismo, La fase liberista, La svolta del '25, La "battaglia del grano", "Quota novanta", Gli effetti della rivalutazione. Tutti i movimenti fascisti si presentarono fin dai loro esordi come portatori di soluzioni nuove e originali per i problemi dell'economia e del lavoro (la famosa "terza via" fra capitalismo e socialismo). Il fascismo italiano credette di individuare la sua "terza via" nella formula del corporativismo. L'idea corporativa affondava le sue radici addirittura nel Medioevo, nell'esperienza delle corporazioni di arti e mestieri, che aveva ispirato già nell'800 il pensiero sociale cattolico; ma si nutriva anche di suggestioni provenienti dal nazionalismo e dallo stesso sindacalismo rivoluzionario. In

sostanza il corporativismo avrebbe dovuto significare gestione diretta dell'economia da parte delle categorie produttive, organizzate appunto in corporazioni distinte per settori di attività e comprendenti sia gli imprenditori sia i lavoratori dipendenti. Questo sistema non trovò mai vera attuazione. Per molti anni le corporazioni restarono un puro progetto. Quando infine vennero istituite, nel 1934, tutto si risolse nella creazione di una nuova burocrazia sovrapposta a quelle già esistenti (statali, parastatali, partitiche, sindacali). Il fascismo riuscì ugualmente a realizzare interventi importanti nell'economia, a creare enti e istituzioni di nuova concezione che in gran parte sopravvissero alla sua caduta. Ma non inventò un nuovo sistema economico. E non mantenne nemmeno, nel corso del ventennio, una linea di politica economica coerente e riconoscibile. Nei suoi primi anni di governo (1922-25) il fascismo adottò, come già abbiamo visto [§16.9], una linea liberista e "produttivista", volta cioè a rilanciare la produzione incoraggiando l'iniziativa privata e allentando i controlli statali. Questa linea provocò però, assieme a un consistente incremento produttivo, un riaccendersi dell'inflazione, un crescente deficit nei conti con l'estero e un forte deterioramento del valore della lira, il cui rapporto di cambio con la sterlina scese a livelli mai toccati in passato (fino a 145 lire per una sterlina). Con l'estate 1925, la politica economica del governo subì una brusca svolta: il ministro delle Finanze De Stefani fu sostituito da Giuseppe Volpi, industriale e finanziere veneziano, che inaugurò una politica fondata sul protezionismo, sulla deflazione, sulla stabilizzazione monetaria e su un più accentuato intervento statale nell'economia. Primo importante provvedimento in questo senso fu, nel '25, l'inasprimento del dazio sui cereali: una misura che si inseriva in una tendenza di lungo periodo (cominciata, come si ricorderà, col 1887) volta a favorire il settore cerealicolo, ma che questa volta fu accompagnata da una rumorosa campagna propagandistica detta battaglia del grano, dove gli accenti ruralisti si mescolavano ai toni guerrieri. Scopo della battaglia, che si sarebbe protratta lungo tutto il corso del regime, era il raggiungimento dell'autosufficienza nel settore dei cereali, sia attraverso l'aumento della superficie coltivata a grano, sia mediante l'impiego di tecniche più avanzate (col che si intendeva anche favorire le industrie produttrici di concimi e macchine agricole). Lo scopo fu in buona parte raggiunto: alla fine degli anni '30 la produzione di grano era aumentata del 50% e le importazioni si erano ridotte a un terzo rispetto a quindici anni prima. Ma il prezzo fu ancora una volta il sacrificio di altri settori, come l'allevamento

(danneggiato dalla riduzione dei pascoli) e le colture "specializzate" (in particolare quelle ortofrutticole) rivolte all'esportazione. La seconda "battaglia" impostata dal binomio MussoliniVolpi fu quella per la rivalutazione della lira. Nell'agosto '26 il duce annunciò di voler riportare in alto il corso internazionale della moneta e fissò l'obiettivo, da molti ritenuto irrealistico, di quota novanta (ossia 90 lire per una sterlina). Alla base di questa scelta c'era soprattutto il desiderio di dare al paese un'immagine di stabilità monetaria oltre che politica, rassicurando i ceti medi risparmiatori. L'obiettivo di "quota novanta" fu raggiunto in poco più di un anno, in virtù di una serie di provvedimenti che limitavano drasticamente il credito, e con l'aiuto di un cospicuo prestito concesso allo Stato italiano da grandi banche statunitensi. I prezzi interni diminuirono per effetto della politica deflazionistica e del minor costo delle importazioni (conseguenza della rivalutazione della moneta) e la lira recuperò il potere d'acquisto perduto. Ma a goderne non furono i lavoratori dipendenti, che si videro tagliare stipendi e salari in misura più che proporzionale. La produzione agricola e industriale subì una certa flessione. Furono colpite soprattutto le industrie che lavoravano per l'esportazione (danneggiate dalla sopravalutazione della lira che rendeva poco competitivi i loro prodotti), mentre quelle che operavano sul mercato interno poterono giovarsi della contrazione del costo del lavoro, degli sgravi fiscali concessi dal governo e di un forte aumento delle commesse pubbliche. Tutto questo avvantaggiò soprattutto le grandi imprese e favorì i processi di concentrazione aziendale. Qualcosa di analogo si verificò in agricoltura, dove la politica monetaria del regime - che pure dichiarava di voler incoraggiare la piccola proprietà - finì col mettere in crisi molte piccole e medie aziende che si erano formate nei primi anni '20 e che furono strozzate dalla restrizione del credito, oltre che dal calo generalizzato dei prezzi agricoli. 19.5. Il fascismo e la grande crisi: lo "Statoimprenditore". La risposta del regime, La politica dei lavori pubblici, La bonifica delle Paludi Pontine, La crisi bancaria, L'Imi e l'Iri, Lo Stato- imprenditore, Il ruolo dei tecnici, Un'economia di guerra. L'economia italiana non si era ancora ripresa dalla cura deflazionistica, quando cominciarono a farsi sentire le conseguenze della grande crisi mondiale. Queste conseguenze furono meno drammatiche che in altri paesi europei, anche perché la politica economica adottata dopo il '25,

accentuando l'orientamento della produzione verso il mercato interno, aveva in qualche modo anticipato gli effetti negativi della depressione. Eppure la recessione fu pesante anche in Italia. Il commercio con l'estero si ridusse drasticamente (nel '33 il volume delle esportazioni era più che dimezzato rispetto al '29). L'agricoltura subì un nuovo duro colpo in tutti i suoi settori a causa del calo delle esportazioni e dell'ulteriore tracollo dei prezzi. Le imprese industriali, grandi e piccole, accusarono gravi difficoltà inducendo il governo a decretare un nuovo taglio dei salari (compensato però dalla contemporanea caduta dei prezzi). La disoccupazione nell'industria e nel commercio aumentò bruscamente, passando dalle 300.000 unità del '29 a 1.300.000 nel '33. La risposta del regime alla crisi si attuò su due direttrici fondamentali: lo sviluppo dei lavori pubblici come strumento per rilanciare la produzione e attutire le tensioni sociali (e qui si può notare una certa analogia con le politiche messe in atto sia negli Stati Uniti di Roosevelt sia nella Germania di Hitler); l'intervento, diretto o indiretto, dello Stato a sostegno dei settori in crisi. La politica dei lavori pubblici ebbe il suo maggiore sviluppo nella prima metà degli anni '30. Furono realizzate nuove strade e nuovi tronchi ferroviari, costruiti nuovi edifici pubblici dove il fascismo poté appagare il suo gusto per il monumentale. Fu varato il "risanamento" del centro storico della capitale, che provocò la distruzione di interi quartieri della vecchia Roma medioevale. Ma soprattutto fu avviato un gigantesco programma di bonifica integrale che avrebbe dovuto portare al recupero e alla valorizzazione delle terre incolte o mal coltivate. Il progetto di bonifica integrale, ostacolato sia dalle difficoltà della finanza pubblica sia dalle resistenze dei grandi proprietari, fu attuato solo parzialmente. Fu però portata a termine, nel giro di soli tre anni (dal '31 al '34), la sua parte più impegnativa e più spettacolare: la bonifica dell'Agro Pontino, un vasto territorio paludoso e malarico a sud della capitale. In complesso furono recuperati alle colture circa 60.000 ettari. Furono creati 3000 nuovi poderi dove vennero insediati contadini provenienti dalle zone più depresse del CentroNord (soprattutto dal Veneto); furono costruiti villaggi rurali e vere e proprie "città nuove" come Sabaudia e Littoria (l'odierna Latina). A prescindere dalla sua portata effettiva - che fu certamente notevole, anche se limitata nel tempo e nello spazio - la bonifica delle Paludi Pontine rappresentò per il fascismo un grosso successo propagandistico. Lo spettacolo delle grandi masse impegnate nei lavori di sistemazione del suolo o nella costruzione delle città nuove, adeguatamente amplificato dai mezzi di comunicazione, era indubbiamente lusinghiero per il regime (tanto più se

accostato alle immagini di disoccupazione e di fame che arrivavano dal resto del mondo) e ne appagava la vocazione populista e ruralista. Fu comunque nel settore dell'industria e del credito che l'intervento dello Stato assunse le forme più originali e incisive, sotto la spinta di una crisi che minacciava, se non affrontata in tempo, di provocare un collasso senza precedenti dell'intero sistema bancario. Colpite dalla crisi erano in particolare le grandi "banche miste" (Banca commerciale e Credito italiano) che, create alla fine dell'800 allo scopo di sostenere gli investimenti nell'industria, si erano trovate a controllare quote azionarie sempre più consistenti di importanti gruppi industriali. La caduta della borsa che si verificò anche in Italia in coincidenza con la grande crisi mise in grave difficoltà le banche, le quali, per sostenere il corso dei titoli, effettuarono nuovi massicci acquisti, aggravando così la loro esposizione. Per far fronte alla crisi e salvare le banche dal fallimento, il governo intervenne creando dapprima (1931) un istituto di credito pubblico (l'Imi, Istituto mobiliare italiano) col compito di sostituire le banche nel sostegno alle industrie in crisi e dando vita due anni dopo (1933) all'Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), dotato di competenze eccezionalmente ampie. Valendosi di fondi forniti in gran parte dallo Stato, l'iri divenne azionista di maggioranza delle banche in crisi e ne rilevò le partecipazioni industriali, acquistando così il controllo di alcune fra le maggiori imprese italiane (fra le altre l'Ansaldo, l'Ilva e la Terni). Nei progetti originari, il compito dell'Istituto avrebbe dovuto essere transitorio, limitandosi al risanamento delle imprese in crisi in vista di una loro "riprivatizzazione". Accadde invece che la riprivatizzazione risultò impraticabile (date le dimensioni delle imprese e i rischi connessi alla loro gestione) e l'Iri diventò, nel '37, un ente permanente. In questo modo lo Stato italiano si trovò a controllare, sia pur indirettamente, una quota dell'apparato industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro Stato (salvo naturalmente l'Urss): diventò cioè Statoimprenditore oltre che Statobanchiere. Ciò non significa che l'Italia si avviasse verso un sistema di economia statizzata, né che l'autonomia dell'insieme delle imprese capitalistiche fosse seriamente scalfita. Al contrario, i maggiori gruppi privati furono aiutati a rafforzarsi e a ingrandirsi e accolsero con favore l'intervento statale, che finiva con l'accollare alla collettività i costi della crisi industriale e bancaria. Ancor meno si può parlare di una fascistizzazione dell'economia, visto che per gli interventi più importanti Mussolini non si servì di personale proveniente dal partito o dalla nascente burocrazia "corporativa", ma si affidò piuttosto a

tecnici "puri", come l'esperto di agraria Arrigo Serpieri, massimo ispiratore della bonifica integrale, o come Alberto Beneduce, fondatore e primo presidente dell'Iri. Nei nuovi enti parastatali e nella stessa Banca d'Italia (che nel 1926 ottenne il monopolio dell'emissione di moneta e vide i suoi poteri ulteriormente rafforzati da una riforma bancaria nel 1936) si formò così una "burocrazia parallela" destinata a svolgere un ruolo di primo piano nell'Italia postfascista. Intorno alla metà degli anni '30, l'Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi e - sia pure a prezzo di sacrifici non lievi a spese soprattutto delle classi popolari - ne era uscita prima e meglio rispetto alla maggior parte delle potenze industriali. A questo punto però mancò al regime la capacità e la volontà di profittare della ripresa per mettere in moto un processo di sviluppo che si riflettesse sulle condizioni di vita della popolazione. A partire dal '35, Mussolini si lanciò in una politica di dispendiose imprese militari che sottrasse risorse ai consumi e agli investimenti produttivi e accentuò l'isolamento economico del paese, senza nemmeno ottenere, tranne che per i settori interessati alle commesse belliche, quegli effetti positivi che il riarmo produsse sulla ben più forte struttura industriale della Germania nazista. Cominciava per l'Italia una lunga stagione di economia di guerra destinata a prolungarsi senza soluzione di continuità fino al secondo conflitto mondiale. 19.6. L'imperialismo fascista e l'impresa etiopica. Il nazionalismo fascista, La contestazione dei trattati di Versailles, L'accordo con le democrazie, I moventi dell'impresa etiopica, L'aggressione all'Etiopia e le sanzioni, La mobilitazione popolare contro le sanzioni La proclamazione dell'Impero, Il successo politico dell'impresa, L'Asse RomaBerlino, La subordinazione alla Germania e il "patto d'acciaio". Nel movimento fascista fu sempre presente, fin dalle origini, una forte componente nazionalistica. Tale componente era profondamente connaturata all'ideologia e alla prassi del fascismo, che doveva parte del suo successo al fatto di presentarsi come il paladino della riscossa nazionale e che, una volta giunto al potere, continuò a proporsi come il restauratore delle glorie di Roma antica e a servirsi della propaganda nazionalpatriottica come strumento essenziale di aggregazione del consenso. Diversamente dalla Germania, sconfitta in guerra e mutilata al tavolo della pace, l'Italia fascista non aveva però da avanzare rivendicazioni territoriali plausibili, capaci di mobilitare l'opinione pubblica. Nonostante le delusioni subite a

Versailles, l'Italia era pur sempre una potenza vincitrice e aveva risolto in modo soddisfacente l'intricata questione adriatica. Fino ai primi anni '30, le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero vaghe e spesso contraddittorie e si tradussero, più che in una coerente direttiva di politica estera, in una generica contestazione dell'assetto uscito dai trattati di Versailles: dunque appoggio alle velleità revisioniste dei paesi insoddisfatti (come Ungheria e Austria); polemica ricorrente contro le democrazie "plutocratiche", contrapposte, secondo una formula già cara ai nazionalisti, all'Italia "proletaria", ricca di popolazione ma povera di risorse; richiesta, mai precisata nei dettagli, di un nuovo equilibrio mediterraneo più favorevole all'Italia. Tutto ciò contribuì a rendere più tesi i rapporti con la Francia (già difficili anche a causa dell'ospitalità offerta dalla vicina Repubblica agli esuli antifascisti); ma non impedì all'Italia di mantenere buoni rapporti con la Gran Bretagna - secondo una linea tradizionale della politica estera italiana - e di restare, nel complesso, all'interno del sistema di sicurezza collettiva fondato sull'accordo fra le potenze vincitrici della guerra. L'accordo di Stresa dell'aprile 1935 [§18.9] fu la manifestazione più significativa di questa fase della politica estera fascista. Ma fu anche l'ultima. Mentre si accordava con le democrazie occidentali per contrastare il riarmo tedesco, Mussolini stava già preparando l'aggressione all'Impero etiopico, unico grosso Stato indipendente del continente africano. A spingere Mussolini verso un'impresa di cui pochi in Italia sentivano la necessità, e che presentava costi economici e umani sproporzionati ai possibili vantaggi concreti, furono motivi di politica interna e internazionale. Con la guerra d'Etiopia Mussolini intendeva innanzitutto dare uno sfogo alla vocazione imperiale del fascismo, vendicando lo scacco subito dall'Italia nel 1896 con la sconfitta di Adua e mostrando che il suo regime poteva riuscire là dove la classe dirigente liberale aveva fallito. Ma voleva anche creare una nuova occasione di mobilitazione popolare che facesse passare in secondo piano i problemi economicosociali del paese (in particolare la disoccupazione, che si manteneva su livelli piuttosto alti). Mussolini pensava inoltre di poter sfruttare la favorevole congiuntura diplomatica creata dalla politica hitleriana, che rendeva l'amicizia dell'Italia più preziosa che in passato per le potenze occidentali. In effetti i governi francese e inglese - soprattutto il primo - erano disposti ad assecondare, al meno in parte, le mire italiane. Ma non potevano accettare che uno Stato indipendente, per giunta membro della Società delle nazioni, fosse cancellato dalla carta geografica da un atto di aggressione. Né potevano ignorare il fatto che in Gran Bretagna e in Francia si era creata una forte corrente di opinione pubblica in difesa dell'indipendenza etiopica.

Così, quando ai primi dell'ottobre 1935 l'Italia diede inizio all'invasione dell'Etiopia senza nemmeno farla precedere da una dichiarazione di guerra, i governi francese e inglese non poterono fare a meno di condannare ufficialmente l'azione e di proporre al Consiglio della Società delle nazioni l'adozione di sanzioni consistenti nel divieto di esportare in Italia merci necessarie all'industria di guerra. Approvate a schiacciante maggioranza pochi giorni dopo l'inizio dell'invasione, le sanzioni ebbero un'efficacia molto limitata: sia perché il blocco non era esteso alle materie prime, sia perché non impegnava gli Stati che non facevano parte della Società delle nazioni, come gli Stati Uniti e la Germania. Queste decisioni ebbero però l'effetto di approfondire il contrasto fra il regime fascista e le democrazie europee e consentirono a Mussolini di montare un'imponente campagna propagandistica tesa a presentare l'Italia come vittima di una congiura internazionale. L'immagine dell'Italia proletaria cui le nazioni plutocratiche, già padrone di sterminati imperi coloniali, volevano impedire la conquista di un proprio "posto al sole" riuscì in effetti a far breccia nell'opinione pubblica italiana, non escluse le classi popolari, alle quali fu fatto intravedere il miraggio di nuovi posti di lavoro e di nuove opportunità di ricchezza da conquistare oltremare. Le piazze si riempirono di folle inneggianti a Mussolini e alla guerra. Studenti e attivisti di partito diedero vita a rumorose manifestazioni antiinglesi. Milioni di coppie, a cominciare da quella reale, accolsero l'invito del governo di donare alla patria l'oro delle loro fedi nuziali. Anche alcuni noti antifascisti, fra cui Benedetto Croce, si sentirono in dovere di esprimere solidarietà alla nazione in guerra. Il paese fu percorso da un'ondata di imperialismo popolaresco, ben più ampia di quella che aveva accompagnato, un quarto di secolo prima, la spedizione in Libia. Gli organi di informazione fecero a gara nel denigrare la resistenza degli etiopici, riproponendo l'equazione fra popoli di colore e selvaggi e solleticando gli istinti inconsciamente razzisti del pubblico. Ma non mancò neppure il tentativo di assegnare alla guerra scopi umanitari, presentandola come una crociata per liberare la popolazione etiopica da un regime corrotto e schiavista. In realtà gli etiopici si batterono con accanimento per più di sette mesi sotto la guida del negus Hailé Selassié. Ma il loro esercito, male organizzato e peggio equipaggiato (molti soldati non disponevano nemmeno di armi da fuoco), nulla poteva contro un corpo di spedizione che giunse a impegnare circa 400.000 uomini e fece ampio ricorso ai mezzi corazzati e all'aviazione (usata in più occasioni per bombardare le truppe nemiche con gas asfissianti). Il 5 maggio 1936, le truppe italiane, comandate dal maresciallo

Badoglio, entrarono in Addis Abeba. Quattro giorni dopo, Mussolini poteva annunciare alle folle plaudenti "la riapparizione dell'Impero sui colli fatali di Roma" e offrire al sovrano la corona di imperatore d'Etiopia. Da un punto di vista economico, la conquista dell'Etiopia, paese povero di risorse naturali e poco adatto agli insediamenti agricoli, rappresentò per l'Italia un peso non indifferente, aggravato dai problemi suscitati dalle sanzioni (poco efficaci militarmente, ma dannose per il commercio) e non compensato dai temporanei benefici arrecati all'industria dalla produzione bellica. Ma sul piano politico il successo fu clamoroso e indiscutibile. Portando a termine una campagna coloniale vittoriosa, imponendo la propria volontà alle democrazie occidentali e costringendole poi ad accettare il fatto compiuto (le sanzioni furono ritirate nell'estate del '36 e, successivamente, Gran Bretagna e Francia riconobbero l'Impero italiano in Africa orientale), Mussolini diede a molti la sensazione di aver conquistato per l'Italia uno status di grande potenza. In realtà, si trattava di una sensazione illusoria: l'Italia, infatti, non era in grado di affrontare uno scontro con una potenza di prima grandezza e aveva potuto "tirare diritto" (secondo l'espressione mussoliniana) nella questione abissina solo perché gli inglesi, pronti a mobilitarsi a parole per sostenere il buon diritto dell'Etiopia, non avevano alcuna intenzione di affrontare una guerra per difenderla. Mussolini era consapevole di tutto questo. Ma, inebriato dal successo etiopico, credette ugualmente di poter condurre una politica adeguata a una grande potenza, sfruttando ogni occasione (vedi il caso della Spagna) per allargare l'area di influenza italiana giocando sulla rivalità fra tedeschi e francoinglesi. In questo gioco doveva rientrare, almeno in un primo tempo, anche il riavvicinamento dell'Italia alla Germania, cominciato subito dopo la guerra d'Etiopia e sancito, nell'ottobre 1936, dalla firma di un patto di amicizia cui fu dato il nome di Asse RomaBerlino. Rafforzata dal comune impegno nella guerra civile spagnola e, nell'autunno '37, dalla adesione italiana al cosiddetto Patto anticomintern (un accordo stipulato l'anno prima da Germania e Giappone, che impegnava i due paesi a lottare contro il comunismo internazionale), l'Asse RomaBerlino non assunse tuttavia, nonostante le pressioni tedesche, la forma di una vera alleanza militare. Mussolini considerava infatti l'avvicinamento alla Germania non tanto come una scelta irreversibile, quanto come un mezzo di pressione sulle potenze occidentali, come uno strumento che, aumentando il peso contrattuale dell'Italia, le consentisse di lucrare qualche ulteriore vantaggio in campo coloniale: il tutto in attesa che il paese fosse preparato ad affrontare un conflitto in posizione di forza. Ma il dinamismo aggressivo della Germania

era tale da non consentire a Mussolini i tempi e gli spazi di manovra necessari per realizzare il suo programma. Credendo di potersi servire dell'amicizia tedesca, il duce ne fu in realtà sempre più condizionato, al punto da dover accettare passivamente tutte le iniziative di Hitler (comprese quelle più sgradite come l'annessione dell'Austria). Finché, nel maggio 1939, privato di ogni margine d'azione, si decise alla scelta che sarebbe risultata fatale al regime e al paese: la firma di un formale patto di alleanza con la Germania (il patto d'acciaio) che legava definitivamente le sorti dell'Italia a quelle dello Stato nazista. 19.7. L'Italia antifascista. L'opposizione silenziosa, Cattolici e liberali, I comunisti e l'agitazione clandestina, L'antifascismo all'estero, La Concentrazione antifascista, "Giustizia e Libertà", Togliatti e l'organizzazione comunista all'estero, Gramsci e i "Quaderni del carcere", La stagione dei fronti popolari, Un bilancio dell'antifascismo. A partire soprattutto dagli anni 1925-26 - quando il dissenso politico fu proibito non solo in via di fatto, ma anche a termini di legge - un numero crescente di italiani dovette affrontare il carcere o il confino politico, l'esilio o la clandestinità. Non tutti coloro che nutrivano sentimenti antifascisti, o che avevano svolto attività di opposizione nel periodo in cui si costruiva la dittatura, sperimentarono i rigori della repressione. Molti, anzi i più, si appartarono in volontario silenzio o cercarono di sfruttare i ridotti spazi di autonomia culturale che il regime lasciava sussistere purché non si trasformassero in centri di opposizione politica. Fu questa la strada scelta da quasi tutti gli ex popolari, dalla maggioranza dei liberali non fascistizzati e anche da molti socialisti. Se i cattolici potevano contare su qualche forma di tacito e prudente appoggio da parte di una Chiesa alleata sì del fascismo, ma non al punto da interrompere ogni contatto con i vecchi militanti del Ppi, i liberali trovarono un importante punto di riferimento in Benedetto Croce. Protetto dalla sua notorietà internazionale, ma anche da una precisa scelta del regime (preoccupato dei danni che sarebbero derivati alla sua immagine da un intervento repressivo), l'anziano filosofo poté proseguire senza eccessivi fastidi la sua attività culturale e pubblicistica. Grazie ai suoi libri e alla sua rivista "La Critica", che continuò a stamparsi per tutto il ventennio, molti intellettuali ebbero la possibilità di conoscere e mantenere in vita la tradizione dell'idealismo liberale (contrapposta a quella idealisticototalitaria impersonata da Gentile):

anche se questa attività in tanto fu possibile in quanto rinunciava ad ogni aperto sconfinamento nel campo della politica. Per coloro che intendevano opporsi attivamente al fascismo, restavano aperte solo due strade: l'esilio all'estero e l'agitazione clandestina in patria. A praticare fin dall'inizio quest'ultima forma di lotta furono soprattutto, anche se non esclusivamente, i comunisti: gli unici preparati all'attività cospiratoria, sia per le caratteristiche della loro struttura organizzativa, sia perché erano stati oggetto per primi di una repressione sistematica da parte delle autorità. Durante tutto il ventennio, il Pci riuscì a tenere in piedi e ad alimentare dall'interno e dall'estero una propria rete clandestina, a diffondere opuscoli, giornali e volantini di propaganda, a infiltrare suoi uomini nei sindacati e nelle organizzazioni giovanili fasciste. Tutto questo nonostante i modesti risultati immediati e gli altissimi rischi cui andavano soggetti i militanti: più di tre quarti dei 4500 condannati dal Tribunale speciale e degli oltre 10.000 confinati fra il '26 e il '43 furono infatti comunisti. Anche gli altri gruppi antifascisti (socialisti riformisti e massimalisti, repubblicani, liberaldemocratici che avevano raccolto l'eredità di Amendola e Gobetti) cercarono di tenere in vita qualche isolato nucleo clandestino in Italia. Ma la loro attività principale si svolse quasi esclusivamente all'estero, soprattutto in Francia, già sede di una numerosa comunità italiana, dove molti esponenti antifascisti (fra cui i vecchi capi del socialismo italiano come Turati e Treves e i leader della generazione più giovane come Nenni e Saragat) si erano rifugiati fra il '25 e il '27 e dove i due partiti socialisti, quello repubblicano e la Confederazione del lavoro ricostituirono i loro organi dirigenti. Nel 1927 questi gruppi si federarono in un'organizzazione unitaria, la Concentrazione antifascista, che si ricollegava all'esperienza dell'Aventino, ereditandone, con il contenuto ideale, anche i limiti pratici e le divisioni interne. Nonostante questi limiti, i partiti della Concentrazione svolsero un'attività importante a livello di testimonianza e di propaganda, mantennero i contatti con l'emigrazione di lavoro in Francia, fecero sentire la voce dell'Italia antifascista nelle organizzazioni internazionali, stamparono i loro giornali, proseguirono in esilio le elaborazioni ideologiche e i dibattiti politici iniziati in patria sulle ragioni della loro sconfitta e sui possibili fattori di una riscossa democratica. Di particolare interesse fu il dibattito autocritico che vide impegnati i socialisti e che portò, nel 1930, in un congresso tenuto a Parigi, alla riunificazione dei due tronconi in cui il Psi si era diviso nel '22.

Un nuovo impulso all'azione concreta contro il fascismo e un'aperta critica alla tattica "attesista" della Concentrazione vennero dal movimento di Giustizia e Libertà (in sigla GL), fondato nell'estate del '29 da due antifascisti della giovane generazione: Emilio Lussu e Carlo Rosselli (che nel '37 sarebbe stato assassinato da sicari fascisti assieme al fratello Nello). GL voleva essere innanzitutto un organismo di lotta sul tipo del Partito d'azione mazziniano, capace di far concorrenza ai comunisti sul piano dell'attività clandestina (infatti riuscì a costituire piccoli nuclei organizzati in varie città); ma si proponeva anche come punto di raccordo fra socialisti, repubblicani e liberali, come nucleo di una nuova formazione che sapesse coniugare gli ideali di libertà politica e di giustizia sociale, ricomponendo la frattura fra liberalismo e marxismo, secondo le linee indicate da Rosselli in un libro del 1930 intitolato Socialismo liberale. Fortemente polemici verso i partiti della Concentrazione, ma altrettanto ostili ai tentativi di GL, erano i comunisti, presenti anche loro nell'emigrazione ma attestati, fino al '34-35, su una posizione di orgoglioso isolamento. Anche i comunisti avevano un "centro estero" con sede a Parigi: ma esso dipendeva strettamente dai dirigenti che risiedevano a Mosca, a contatto con i vertici dell'Internazionale comunista. Palmiro Togliatti, il leader che aveva preso il posto di Gramsci (arrestato nel '26) e che guidò con notevole abilità il partito negli anni dell'esilio e della clandestinità, era anche un dirigente di primo piano nel Comintern. Era dunque inevitabile che il Pci si allineasse senza riserve alla strategia dettata da Mosca, che ne seguisse fedelmente anche le formulazioni più settarie (come quelle relative al "socialfascismo"), che si adeguasse all'imperante culto di Stalin. I dirigenti che assunsero posizioni eterodosse furono espulsi dal partito. Le critiche alla linea ufficiale formulate in carcere da leader come Terracini e Gramsci rimasero sconosciute ai militanti. Egualmente sconosciute rimasero le originali riflessioni sulla sto ria d'Italia, sul ruolo degli intellettuali e sulla strategia del partito formulate, sempre in carcere, da Gramsci e affidate ai quaderni di appunti che sarebbero stati pubblicati nel secondo dopoguerra, molti anni dopo che il loro autore si era spento, nel 1937, stroncato dalla dura esperienza carceraria. A metà degli anni '30, la svolta dei fronti popolari inaugurò anche per l'antifascismo italiano una fase nuova, che vide il Pci riannodare i contatti con le altre forze d'opposizione, partecipare alle manifestazioni unitarie contro il fascismo, stringere nel '34 un patto di unità d'azione con i socialisti. Ma questa stagione, che conobbe il suo momento più alto con l'esperienza della guerra di Spagna, durò solo pochi anni. Il fallimento del Fronte popolare in Francia, le lotte interne allo schieramento repubblicano

in Spagna, gli echi delle grandi purghe staliniane, la rottura fra l'Urss e le democrazie occidentali culminata, come vedremo più avanti, nel patto tedescosovietico del '39: tutti questi fatti si ripercossero negativamente sull'unità del movimento antifascista italiano, che fu colto disorientato e diviso dallo scoppio del secondo conflitto mondiale. Se si volesse tracciare un bilancio del movimento antifascista in base ai suoi scarsi successi immediati, si dovrebbe concludere che la sua incidenza sulla situazione italiana di quegli anni fu poco più che nulla. Per molto tempo gli antifascisti attesero invano un grande sommovimento popolare che abbattesse il regime. Si illusero che lo scossone potesse venire dalla grande crisi e dall'avventura etiopica, dovendo poi constatare che il fascismo era uscito rafforzato dall'una e dall'altra. Quando infine scoppiò la guerra, si trovarono nella difficile posizione di chi è costretto ad augurarsi la sconfitta del proprio paese; e solo nell'ultima fase del conflitto, a disfatta ormai avvenuta, ebbero l'occasione di combattere il fascismo con le armi e sul suolo italiano. Eppure il movimento antifascista svolse, fra il '26 e il '43, un ruolo di grande importanza politica oltre che morale. Testimoniò con la sua sola presenza l'esistenza di un'Italia che non si piegava al fascismo e ad essa diede voce e rappresentanza politica; rese possibile il sorgere, dopo il '43, di un movimento di resistenza armata al nazifascismo (movimento che invece mancò del tutto in Germania); anticipò con le sue riflessioni teoriche e i suoi dibattiti molti tratti della futura Italia democratica: un'Italia che gli antifascisti non sempre seppero immaginare quale poi sarebbe stata in realtà, ma che certo contribuirono più d'ogni altro a rifondare. 19.8. Apogeo e declino del regime fascista. Le incrinature del consenso, L'autarchia, L'impopolarità dell'amicizia con la Germania, I programmi guerrieri di Mussolini, La polemica contro la borghesia, La "totalitarizzazione", Le leggi razziali, L'impopolarità della campagna antiebraica, I giovani e il fascismo, La guerra e il fallimento del regime. La vittoriosa campagna contro l'Etiopia segnò, per il regime fascista, l'apogeo del successo e della popolarità. Ma, svaniti gli entusiasmi che avevano accompagnato l'impresa coloniale, il fronte apparentemente compatto dei consensi conobbe alcune significative incrinature e il distacco fra regime e paese si andò lentamente ma inesorabilmente allargando. A suscitare disagio e perplessità era innanzitutto la politica economica fascista, sempre più ispirata a motivi di prestigio nazionale e condizionata

dal peso delle spese militari, che oltretutto servivano, più che a realizzare un vero riarmo, a domare i residui focolai di guerriglia in Etiopia e a sostenere i costi dell'intervento in Spagna. Alla fine del '35, traendo spunto dall'episodio delle sanzioni, Mussolini decise di intensificare e di rilanciare la politica dell'autarchia, già abbozzata negli anni '20 (si pensi alla battaglia del grano) e consistente nella ricerca di una sempre maggiore autosufficienza economica, soprattutto nel campo dei prodotti e delle materie prime indispensabili in caso di guerra. In pratica l'autarchia si tradusse in una ulteriore stretta protezionistica, in un più intenso sfruttamento del sottosuolo e in un incoraggiamento alla ricerca applicata, soprattutto nel campo delle fibre e dei combustibili sintetici. Molte industrie - chimiche, metallurgiche, meccaniche, minerarie - trassero dall'autarchia cospicui vantaggi. Ma non mancarono nelle alte sfere economiche le perplessità nei confronti di una politica che implicava fra l'altro uno stretto controllo governativo sulla produzione, il commercio e gli scambi valutari. I risultati finali dell'autarchia non furono brillanti. L'autosufficienza rimase un traguardo irraggiungibile, nonostante i progressi in alcuni settori. L'indice della produzione industriale crebbe, ma piuttosto lentamente. Crebbero anche i prezzi e ciò comportò (nonostante la concessione di modesti aumenti salariali) un peggioramento nei livelli di vita delle classi popolari. A questi concreti motivi di disagio si aggiungevano le diffuse preoccupazioni per il nuovo indirizzo di politica estera attuato da Mussolini e dal suo principale collaboratore di questi anni: suo genero Galeazzo Ciano, assurto poco più che trentenne - con una decisione che non mancò di suscitare scalpore - alla carica di ministro degli Esteri. L'aspetto che più inquietava l'opinione pubblica era senza dubbio l'amicizia con la Germania: un'amicizia che urtava contro le tradizioni del Risorgimento e della grande guerra, e soprattutto contro la diffusa antipatia (anche se talvolta mista a una certa dose di ammirazione) di cui era oggetto lo Stato nazista. La nuova politica mussoliniana si mostrava inoltre priva di risultati immediati (al contrario, non mancavano gli scacchi clamorosi come quello dell'Anschluss) e faceva sembrare più vicina l'eventualità di una nuova guerra europea. Non fu un caso se le uniche manifestazioni di spontaneo entusiasmo popolare di questo periodo si ebbero in coincidenza col ritorno di Mussolini dalla conferenza di Monaco [§18.11] e furono rivolte al duce in quanto presunto salvatore della pace. Ma le aspirazioni alla pace contrastavano profondamente con le convinzioni e i programmi di Mussolini, nelle cui mani stava l'assoluto

controllo delle scelte politiche del paese. Il duce auspicava per l'Italia un avvenire di conquiste e di confronti militari. Persuaso che un nuovo conflitto generale sarebbe scoppiato in un futuro non lontano (anche se ne prevedeva l'inizio in tempi più lunghi di quelli che poi si sarebbero dati), Mussolini pensava che gli italiani avrebbero dovuto non solo armarsi adeguatamente, ma anche rinnovarsi nel profondo, trasformandosi in quello che non erano mai stati: un popolo di attitudini e di tradizioni guerriere. Ciò implicava da parte del duce un atteggiamento duro e quasi punitivo nei confronti della popolazione, in particolare della borghesia, intesa non tanto come classe sociale quanto come atteggiamento mentale (tendenza agli agi e alla vita comoda, ricerca del profitto anteposta al perseguimento di ideali superiori) che doveva essere definitivamente estirpato dal costume nazionale. Per avvicinarsi a questo obiettivo il regime sarebbe dovuto diventare più totalitario di quanto non fosse stato fin allora. Di qui scaturirono una serie di modifiche istituzionali, che andavano dalla creazione del ministero per la Cultura popolare all'accorpamento delle organizzazioni giovanili nella Gioventù italiana del littorio, dall'ampliamento delle funzioni del Pnf alla sostituzione, nel 1939, della Camera dei deputati con una nuova Camera dei fasci e delle corporazioni dove, abolita ogni finzione elettorale, si entrava semplicemente in virtù delle cariche ricoperte negli organi di regime. A una medesima logica rispondevano alcune iniziative di carattere più che altro formale, e quasi folkloristico, che tuttavia possono dare un'idea del clima di quegli anni: la campagna contro l'uso del "lei" (considerato "servile" e poco italiano e da sostituirsi quindi col "voi") e contro tutti i termini stranieri; l'imposizione della divisa ai funzionari pubblici; l'adozione del "passo romano" (una variante del "passo dell'oca" in uso nell'esercito tedesco) per conferire un aspetto più marziale alle sfilate militari. Ma la manifestazione più seria e più aberrante della stretta totalitaria voluta da Mussolini fu l'introduzione, nell'autunno del 1938, di una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei: leggi che ricalcavano nelle grandi linee quelle naziste del '35 [§18.4], escludendo gli israeliti da qualsiasi ufficio pubblico, limitandone l'attività professionale e vietando i matrimoni misti. Preannunciata da un manifesto di sedicenti scienziati (che sosteneva l'esistenza di una "pura razza italiana" di indiscutibile origine ariana) e preparata da un'intensa campagna di stampa, la legislazione razziale giunse tuttavia del tutto inattesa in un paese che non aveva mai conosciuto - al contrario della Germania, della Russia e della stessa Francia - forme di antisemitismo diffuso: anche perché la comunità ebraica era assai poco numerosa (circa 50.000 persone concentrate per lo più a Roma e nelle

città del CentroNord) e complessivamente ben integrata nella società. Adottando queste misure, tanto gratuite quanto moralmente ripugnanti, Mussolini si proponeva di inoculare nel popolo italiano il germe dell'orgoglio razziale e di fornirgli così un nuovo motivo di aggressività e compattezza nazionale. Ma, anziché suscitare consenso e mobilitazione (non vi furono in Italia, né allora né in seguito, episodi di violenza popolare contro gli ebrei), le leggi razziali suscitarono sconcerto o quanto meno perplessità nell'opinione pubblica e aprirono per giunta un serio contrasto con la Chiesa, contraria non tanto alla discriminazione in sé quanto alle sue motivazioni biologicorazziali. In generale, lo sforzo compiuto da Mussolini sul finire degli anni '30 per fare del regime fascista un totalitarismo "perfetto" e per trasformare gli italiani in un popolo guerriero ottenne risultati decisamente mediocri. L'unico settore in cui le aspirazioni "totalitarizzanti" ottennero qualche successo di rilievo fu quello giovanile. I ragazzi cresciuti nelle organizzazioni di regime, gli studenti inquadrati nei Gruppi universitari fascisti, i giovani più impegnati intellettualmente che ogni anno partecipavano a migliaia ai littoriali della cultura (concorsi nazionali riservati ai migliori studenti medi e universitari) si abituarono a "pensare fascista", a considerare il regime come una realtà immutabile, come un quadro di riferimento obbligato nelle sue linee di fondo. Anche coloro che magari prendendo troppo sul serio certe proclamazioni rivoluzionarie del duce - svilupparono attività di fronda più o meno aperta, lo fecero per lo più in nome del "vero" fascismo delle origini o di un nuovo fascismo ancora tutto da inventare. Fu solo con lo scoppio del conflitto e con i primi rovesci bellici che il fascismo cominciò a perdere progressivamente il sostegno sul quale più contava: quello appunto dei giovani. I quali, diventati nel frattempo soldati e ufficiali, vissero in prima persona il drammatico fallimento di un regime che, avendo puntato tutto sulla politica di potenza e sull'esaltazione bellica, si dimostrò poi incapace di preparare sul serio la guerra, la perse rovinosamente e finì per questo col crollare come un castello di carte. Sommario Nel regime fascista l'organizzazione dello Stato e quella del partito venivano a sovrapporsi. Fu la prima però - per volere di Mussolini - ad avere sempre la prevalenza, mentre la funzione del Pnf, sempre più burocratizzato, fu quella di "occupare" la società civile, soprattutto attraverso le sue organizzazioni collaterali. Un primo limite ai propositi

totalitari del regime era rappresentato dal peso della Chiesa, la cui influenza venne espressamente riconosciuta coi Patti lateranensi (1929). I Patti rappresentarono anche un successo politico per il fascismo, sancito dal plebiscito di quello stesso anno. Altro limite ai propositi totalitari era costituito dalla presenza del re quale massima autorità dello Stato. Negli anni del fascismo, nonostante l'aumento dell'urbanizzazione e degli addetti all'industria e ai servizi, la società italiana restava notevolmente arretrata. La "fascistizzazione" perseguita dal regime - portatore di un'ideologia tradizionalistica, ma aspirante anche alla creazione di un "uomo nuovo" - poté realizzarsi solo in parte: il fascismo riuscì ad ottenere il consenso della piccola e media borghesia, ma solo in misura limitata e superficialmente quello dell'alta borghesia e delle classi popolari (queste ultime videro diminuire i loro salari e i loro consumi). Il regime cercò in modo particolare di esercitare uno stretto controllo nell'ambito della scuola e della cultura. Soprattutto si impegnò nel campo dei mezzi di comunicazione di massa, essendo consapevole della loro importanza ai fini del consenso. La radio e il cinema furono, così, sia strumenti di propaganda sia mezzi di semplice intrattenimento. Il fascismo non costruì un nuovo sistema economico: il modello corporativo rimase infatti sulla carta. Sul piano della politica economica, si passò nel '25 da una linea liberista ad una protezionistica e di maggior intervento statale. La "battaglia del grano" doveva servire al raggiungimento dell'autosufficienza cerealicola; la rivalutazione della lira ("quota novanta") aveva il compito di dare al paese un'immagine di stabilità monetaria. Di fronte alla crisi del '29, il regime reagì attraverso una politica di lavori pubblici ("risanamento" di Roma, bonifica delle Paludi Pontine) e di intervento diretto dello Stato in campo industriale e bancario. Con l'iri lo Stato diventò il proprietario di alcune fra le maggiori imprese italiane. Superata la crisi, il fascismo indirizzò l'economia verso la produzione bellica. Fino ai primi anni '30 le aspirazioni imperiali, connaturate all'ideologia del fascismo, rimasero vaghe. L'aggressione all'Etiopia (1935) mutò bruscamente la posizione internazionale del regime. Se l'impresa indubbiamente costituì per Mussolini un grosso successo politico, vista l'adesione della maggioranza dell'opinione pubblica, rappresentò anche una rottura con le potenze democratiche. Questa rottura fu accentuata dall'intervento nella guerra civile spagnola e dal riavvicinamento alla Germania (sancito, nel '36, dall""Asse RomaBerlino"). Tale riavvicinamento era concepito da Mussolini come un mezzo di pressione su

Francia e Inghilterra: si risolse invece - con la firma del "patto d'acciaio" (1939) - in una subordinazione alle scelte di Hitler. In Italia la maggioranza degli antifascisti - soprattutto ex popolari e liberali - rimasero in una posizione di silenziosa opposizione. I comunisti invece si impegnarono, benché con scarsi risultati, nell'agitazione clandestina; sulla stessa linea si mosse il gruppo di "Giustizia e Libertà", di indirizzo liberalsocialista. Gli altri gruppi in esilio all'estero (socialisti, repubblicani, democratici, federati nel '27 nella Concentrazione antifascista) svolsero soprattutto un'opera di elaborazione politica in vista di una sconfitta del regime che l'antifascismo non era in grado di provocare. Nonostante questa debolezza, l'importanza dell'antifascismo risiedette nella funzione di testimonianza e di preparazione dei quadri e delle piattaforme politiche della futura Italia democratica. Il consenso ottenuto dal regime cominciò a incrinarsi dopo l'impresa etiopica. La politica dell""autarchia" - finalizzata all'obiettivo dell'autosufficienza economica in caso di guerra - ottenne solo parziali successi e suscitò un diffuso malcontento. Soprattutto l'avvicinamento alla Germania e la politica discriminatoria nei confronti degli ebrei suscitarono timori e dissensi nella maggioranza della popolazione. Soltanto fra le nuove generazioni il disegno mussoliniano di trasformare in senso fascista la vita e la mentalità degli italiani ottenne qualche successo. Bibliografia L'opera più importante e documentata sul fascismo è l'ampia biografia di Mussolini di Renzo De Felice, i cui studi hanno suscitato un largo e vivace dibattito. Ai volumi indicati nel cap. 16 vanno aggiunti Mussolini il fascista, 2. L'organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Einaudi, Torino 1968; Id., Mussolini il duce, 1. Gli anni del consenso 1929-1936 e 2. Lo Stato totalitario 1936-1940, ivi 1974 e 1981. De Felice ha sintetizzato le sue posizioni nell'Intervista sul fascismo, Laterza, RomaBari 1975; per un panorama storiografico, Id., Le interpretazioni del fascismo, ivi 1986. Per un approccio interpretativo diverso da quello di De Felice, cfr. Il regime fascista. Storia e storiografia, a e. di A. Del Boca, M. Legnani e M. G. Rossi, Laterza, RomaBari 1995. Un'ampia raccolta di saggi interpretativi è quella curata da C. Casucci, Il fascismo. Antologia di scritti critici, Il Mulino, Bologna 1982. Fra le opere d'insieme sul fascismo: il vol. IX della Storia dell'Italia moderna di G. Candelora, Il fascismo e le sue guerre, Feltrinelli, Milano 1981; e il vol. IV (Guerre e fascismo 1914-1943) della Storia d'Italia, a e. di

G. Sabbatucci e V. Vidotto, cit. al cap. 16; Dizionario del fascismo, a e. di V. de Grazia e S. Luzzatto, Einaudi, Torino 2002-2003. Per gli aspetti istituzionali: A. Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino 1965. Sui rapporti fra Stato e partito: E. Gentile, La via italiana al totalitarismo, Nis, Roma 1995. Per una storia parallela del Pnf e dei partiti antifascisti si veda, dello stesso Gentile, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Le Monnier, Firenze 2000. Sul funzionamento della macchina politica del regime: S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2000. Sull'economia: L'economia italiana nel periodo fascista, a e. di P. L. Ciocca e G. Toniolo, Il Mulino, Bologna 1976; e, dello stesso Toniolo, L'economia dell'Italia fascista, ivi 1980. Sull'imperialismo fascista: E. Collotti, Fascismo e politica di potenza, La Nuova Italia, Firenze 1999. Sui rapporti con la Germania: J. Petersen, Hitler e Mussolini. La difficile alleanza, ivi 1975. Su alcuni aspetti del consenso: P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza, RomaBari 1975; V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell'Italia fascista. L'organizzazione del dopolavoro, ivi 1981; S. Colarizi, L'opinione degli italiani sotto il regime, 1929-1943, ivi 2000; E. Gentile, Il culto del littorio, ivi 1993. Si veda inoltre la raccolta documentaria di M. Isnenghi, L'educazione dell'italiano, Cappelli, Bologna 1979. Su fascismo e intellettuali: L. Mangoni, L'interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, RomaBari 1974; G. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Il Mulino, Bologna 1980; G. C. Marino, L'autarchia della cultura, Editori Riuniti, Roma 1983. Sull'ideologia: P. G. Zunino, L'ideologia del fascismo, Il Mulino, Bologna 1985. Sull'antifascismo: A. Garosci, Storia dei fuorusciti, Laterza, Bari 1953; L'Italia antifascista dal 1922 al 1940, a e. di S. Colarizi, Laterza, RomaBari 1976; C. F. Delzell, I nemici di Mussolini, Einaudi, Torino 1966; S. Fedele, Storia della Concentrazione antifascista, Feltrinelli, Milano 1976 e i voll. II e III (Gli anni della clandestinità e I fronti popolari, Stalin, la guerra) della Storia del Partito comunista italiano di P. Spriano, Einaudi, Torino 1969-70. 20. Il tramonto del colonialismo. L'Asia e l'America Latina. 20.1. Il declino degli imperi coloniali. La crisi dell'egemonia europea, Il contributo delle colonie alla grande guerra, Gli echi della rivoluzione russa, L'influenza del wilsonismo.

Negli anni fra le due guerre mondiali, la crisi dell'egemonia europea sugli altri continenti subì una brusca accelerazione. Questo processo che si sarebbe definitivamente compiuto durante e dopo il secondo conflitto mondiale - non fu, se non in parte, avvertito dai contemporanei. Le due maggiori nazioni europee vincitrici - Gran Bretagna e Francia - si illusero per molto tempo di poter continuare a svolgere il loro ruolo di potenze mondiali, grazie alla scelta isolazionista degli Stati Uniti e grazie anche al fatto che i loro domini d'oltremare erano usciti intatti dalla guerra, anzi si erano ampliati con l'acquisto delle colonie tedesche e di alcuni territori dell'ex Impero ottomano. In realtà le potenze europee, esaurite dal conflitto mondiale, non avevano più le risorse economiche e le capacità militari necessarie per mantenere il controllo sui loro sterminati imperi, dove nel frattempo si moltiplicavano i segni di insofferenza nei confronti dei dominatori. Per tutto il corso della guerra, Gran Bretagna e Francia avevano dovuto fare ampio ricorso all'aiuto dei loro territori d'oltremare, sotto forma non solo di materie prime, ma anche di uomini da mandare al fronte. La partecipazione alla grande guerra, il contatto con altri popoli e con altre culture politiche fortemente imbevute di ideali nazionali e democratici, la consapevolezza di aver maturato nuovi diritti e di aver mutato i rapporti di forza con i colonizzatori: tutto ciò influì in modo determinante sullo sviluppo dei movimenti indipendentisti in Asia e in Africa. Non bisogna poi dimenticare gli echi della rivoluzione russa (e più tardi di quella kemalista turca [§20.3]) nel continente asiatico. I bolscevichi non solo promossero una politica di larghe autonomie amministrative nei confronti dei territori non russi già appartenenti all'Impero zarista, ma cercarono di dare all'esperienza della rivoluzione sovietica il valore di un messaggio universale, innalzando la bandiera della liberazione dei popoli dall'imperialismo e sostenendo apertamente i movimenti anticoloniali. Alla crisi del colonialismo di vecchio stampo contribuì anche la diffusione dell'ideologia wilsoniana, che riconosceva, almeno in teoria, a tutti i popoli il diritto dell'autodeterminazione. Alla conferenza della pace gli Stati Uniti - che non erano mai stati una potenza coloniale in senso stretto - si batterono perché l'assegnazione alle potenze vincitrici dei territori già appartenenti alla Germania e all'Impero turco avvenisse sotto la forma del mandato: ossia di un'amministrazione a carattere temporaneo che avrebbe dovuto preparare i popoli ancora "immaturi" alla piena indipendenza. Si trattava di un istituto che da un lato serviva a mascherare

la prosecuzione a tempo indeterminato del dominio coloniale, ma dall'altro conteneva un implicito riconoscimento del diritto dei popoli extraeuropei all'autogoverno. 20.2. Il nodo del Medio Oriente. La strumentalizzazione dei movimenti indipendentisti, L'appoggio inglese al nazionalismo arabo, La spartizione del Medio Oriente, La dichiarazione Balfour e l'immigrazione ebraica in Palestina. Una parziale legittimazione alle aspirazioni indipendentiste dei paesi soggetti al dominio europeo era venuta in fondo dalle stesse potenze coloniali, che nel corso della guerra mondiale non avevano esitato ad appoggiare queste aspirazioni ogniqualvolta ciò potesse tornar loro utile per danneggiare gli avversari. Ciò era accaduto nel Nord Africa - dove la Germania aveva cercato, senza troppa fortuna, di sollevare le popolazioni arabe contro il dominio francese - e soprattutto nell'area mediorientale controllata dall'Impero ottomano. In questa regione gli impegni spesso contraddittori assunti dalle potenze dell'Intesa sul destino dei territori abitati dai popoli arabi determinarono una situazione quanto mai intricata. Gli inglesi, in particolare, avevano giocato spregiudicatamente contro i turchi la carta del nazionalismo arabo, che in quegli anni era ancora un movimento in embrione, legato più al prestigio dei capi tribali che alla spinta delle popolazioni. Nel 1915-16 l'alto commissario britannico per l'Egitto, MacMahon, si accordò con uno di questi capi, lo "sceriffo" della Mecca Hussein, promettendo, in cambio di una collaborazione militare contro l'Impero ottomano, l'appoggio del suo governo alla creazione di un grande regno arabo indipendente comprendente l'Arabia, la Mesopotamia e la Siria. Nel 1916 Hussein lanciò le sue truppe beduine in una "guerra santa" contro i turchi, che si affiancò efficacemente alla campagna dell'esercito inglese. Alla guida delle truppe erano i figli di Hussein, Abdallah e Feisal. Loro consigliere era un agente inglese, il colonnello Thomas Edward Lawrence (il leggendario "Lawrence d'Arabia"). Le vere intenzioni della Gran Bretagna sul futuro dei territori arabi sottratti all'Impero ottomano erano però diverse, anche perché il governo inglese non poteva non tener conto degli interessi tradizionalmente rivendicati dalla Francia in quella regione. Nel maggio 1916, francesi e inglesi si spartirono in zone di influenza tutta la zona compresa fra la Turchia e la penisola arabica: alla Francia la Siria e il Libano, all'Inghilterra la Mesopotamia e la Palestina. A guerra finita, nonostante le proteste degli

arabi, la spartizione fu attuata, appena velata dall'assegnazione alle due potenze dei rispettivi territori sotto forma di mandato. Come compenso alla forzata rinuncia al grande regno arabo, la Gran Bretagna creò nella zona di sua competenza due nuovi Stati, l'Iraq e la Transgiordania (l'odierna Giordania). Un'altra parziale ipoteca sulla sovranità nei territori ex ottomani era stata intanto posta in Palestina, dove il governo inglese aveva riconosciuto, nel novembre 1917, con una dichiarazione ufficiale del ministro degli Esteri Balfour, il diritto del movimento sionista a creare una "sede nazionale" per il popolo ebraico. Redatta in consultazione col presidente Wilson, sotto la pressione del movimento sionista di cui si voleva ottenere l'appoggio alla causa dell'Intesa, la "dichiarazione Balfour" faceva salvi "i diritti civili e religiosi" (non si parlava di quelli politici) delle comunità non ebraiche. Venne così legittimata, in termini alquanto ambigui, l'immigrazione sionista che cominciò a svilupparsi in quegli anni. Con essa si ebbero, nel '20-21, i primi violenti scontri fra coloni ebrei e residenti arabi, insofferenti della minaccia portata ai loro diritti sulla Palestina. Erano i primi segnali di un conflitto che avrebbe insanguinato la regione nei decenni successivi ed è tuttora lontano dall'essere risolto. 20.3. Rivoluzione e modernizzazione in Turchia. La crisi dell'Impero turco, Mustafà Kemal e la riscossa nazionale, La guerra con la Grecia, La Repubblica di Atatürk. Il risveglio nazionale arabo fu causa ed effetto al tempo stesso del definitivo collasso di quel grande contenitore di popoli che era stato fino alla grande guerra (e nonostante la sua ormai plurisecolare crisi) l'Impero ottomano. Come già si è visto [§13.12], fra tutti i paesi sconfitti l'Impero turco fu forse quello cui venne riservata la sorte peggiore. Drasticamente ridimensionato dal punto di vista territoriale, amputato anche nel suo nucleo storico (l'Anatolia) dall'occupazione greca di Smirne, era inoltre oggetto di un tentativo di spartizione in zone di influenza da parte di Gran Bretagna e Francia, che occupavano militarmente alcune regioni costiere e manovravano un governo centrale inefficiente e corrotto. La reazione a questo stato di cose venne dalle forze armate. Fu infatti un generale, Mustafà Kemal, che aveva partecipato al movimento dei "giovani turchi" e aveva combattuto contro gli inglesi durante la guerra, ad assumere la guida del movimento di riscossa nazionale, con l'appoggio degli intellettuali e di buona parte della borghesia. Mentre le potenze vincitrici

trattavano col governofantoccio del sultano, un'Assemblea nazionale riunita ad Ankara nella primavera del '20 affidava a Kemal il compito di liberare il suolo della Turchia dagli stranieri. L'impresa fu condotta a termine in poco più di due anni. Inglesi e francesi ritennero opportuno rinunciare ai loro progetti di penetrazione economica e lasciarono la Grecia a vedersela da sola contro i nazionalisti turchi. Fra il '21 e il '22, l'esercito di Kemal sconfisse ripetutamente i greci e li costrinse a evacuare la zona di Smirne. Per la Grecia, costretta a riaccogliere in patria quasi un milione di profughi che da tempo vivevano in quella regione, fu un'autentica tragedia nazionale. La Turchia ebbe riconosciuta la sua sovranità su tutta l'Anatolia e si vide restituito quel lembo di territorio europeo (la Tracia orientale) che aveva conservato dopo le guerre balcaniche, recuperando così il controllo degli stretti. Contemporaneamente, si avviava la trasformazione della Turchia in uno Stato nazionale, laico e repubblicano. Nel novembre '22 venne abolito il sultanato e, un anno dopo, fu proclamata la repubblica. Nominato presidente con poteri semidittatoriali, Mustafà Kemal (insignito del soprannome di Atatürk, ossia "padre dei turchi") si impegnò a fondo in una politica di occidentalizzazione e di laicizzazione dello Stato che lo portò a scontrarsi duramente con i musulmani tradizionalisti. L'esperimento riuscì solo in parte, come avrebbero dimostrato le travagliate vicende della Repubblica turca dopo la morte, nel 1938, del suo fondatore, ma ebbe il valore di un modello per molti paesi impegnati nella difficile strada della modernizzazione e dell'emancipazione dai vincoli coloniali. 20.4. L'Impero britannico e l'India. Il ridimensionamento dell'Impero britannico, L'indipendenza dell'Egitto, Il Commonwealth, Il problema dell'India, Le promesse di autogoverno, Il massacro di Amritsar, Gandhi e lo sviluppo del movimento indipendentista, Le concessioni degli inglesi. Fra le potenze coloniali, la Gran Bretagna fu quella che prima di tutte comprese la necessità di ridimensionare la sua posizione imperiale. Mentre la Francia represse con durezza i fermenti indipendentisti che si manifestarono negli anni '20 e '30 sia nei territori nordafricani sia in Indocina (e nello stesso modo si comportarono le potenze coloniali minori: Belgio, Olanda, Spagna, Portogallo e la stessa Italia), la Gran Bretagna oppose una resistenza più elastica, orientandosi fin dagli anni '20 verso un allentamento dei vincoli fra la madrepatria e i territori d'oltremare. Questa

tendenza si manifestò, come si è visto, nell'area mediorientale e portò, oltre che alla creazione dei regni arabi di Iraq e Transgiordania (e, più tardi, dell'Arabia Saudita), alla rinuncia al protettorato inglese sull'Egitto: il più importante e il più popoloso fra i paesi del Nord Africa fu trasformato nel '22 in regno autonomo e ottenne nel '36 la piena indipendenza, pur restando nell'orbita dell'Inghilterra, che conservò a ogni buon conto il controllo del Canale di Suez. Un'altra tappa nel processo di graduale smobilitazione dell'Impero britannico fu rappresentata dalla conferenza imperiale che si tenne a Londra nel 1926 e nella quale i dominions bianchi (Canada, Sud Africa, Australia) che già godevano di una condizione di semiindipendenza e avevano partecipato con proprie delegazioni alla conferenza della pace - furono riconosciuti come "comunità autonome ed eguali in seno all'Impero", unite solo dal comune vincolo di fedeltà alla corona d'Inghilterra e "liberamente associate come membri del Commonwealth britannico": ossia di quella libera federazione fra Stati che sarebbe servita anche in futuro ad assicurare il mantenimento di una serie di legami economici e istituzionali fra la Gran Bretagna e le sue ex colonie. Il paese in cui il processo di emancipazione fu più contrastato e drammatico fu senza dubbio l'India: la più importante, sul piano economico e strategico, fra le colonie britanniche, quella il cui controllo era ancora considerato essenziale da una parte della classe dirigente inglese, ma anche quella in cui le aspirazioni all'indipendenza si erano fatte sentire maggiormente già prima della grande guerra. Durante il conflitto mondiale il governo inglese aveva premiato il lealismo manifestato dalla classe dirigente locale in occasione della guerra, promettendo ufficialmente, nel novembre 1917, "una crescente associazione degli indiani a ogni ramo dell'amministrazione e un graduale sviluppo di forme di autogoverno, in vista della progressiva realizzazione di un governo responsabile in India". Queste promesse, formulate non a caso nel momento più difficile della guerra e successivamente attuate in modo lento e parziale, non bastarono però a bloccare lo sviluppo del movimento nazionalista. Quando, nell'aprile '19, nella città di Amritsar, le truppe inglesi repressero sanguinosamente una manifestazione popolare di protesta (i morti furono quasi 400), l'abisso fra colonizzatori e colonizzati divenne incolmabile. In seno al movimento nazionalista indiano - organizzatosi, dal 1920, nel Partito del Congresso - e in genere fra la maggioranza della popolazione di religione induista, riscosse sempre maggiori consensi la predicazione di un nuovo e prestigioso leader indipendentista, Mohandas Karamchand Gandhi. Propagandando e attuando nuove forme di lotta, basate sulla resistenza passiva, sulla

nonviolenza e sul rifiuto di qualsiasi collaborazione con i dominatori, e coniugando la battaglia per l'indipendenza con quella per la rottura del sistema delle caste, Gandhi acquistò in breve tempo un'immensa popolarità e fece del nazionalismo indiano un autentico movimento di massa. Alla crescita del movimento indipendentista - che faceva proseliti anche nella forte minoranza musulmana - gli inglesi risposero alternando gli interventi repressivi alle concessioni. Già nel 1921, col Government of India Ad, fu dato maggior spazio agli indiani nei ranghi dell'amministrazione, fu attuato un limitato decentramento e fu consentita a una ristretta minoranza della popolazione l'elezione di propri organismi rappresentativi. Nel 1935 il diritto di voto fu esteso (al 15% circa della popolazione) e furono allargati gli spazi di autonomia delle singole province. Questi provvedimenti non valsero a fermare la marcia dell'India verso la piena indipendenza (cui si sarebbe giunti, come vedremo, dopo la fine del secondo conflitto mondiale); ma almeno offrirono al movimento nazionale indiano dei canali legali attraverso cui esprimersi e combattere le proprie battaglie. 20.5. Nazionalisti e comunisti in Cina. L'anarchia militare e i "signori della guerra", L'umiliazione di Versailles, Il ritorno di Sun Yatsen e la protesta nazionalista, Il Partito comunista cinese e l'alleanza col Kuomintang, Il contrasto fra Chang Kaishek e i comunisti, La Repubblica di Chang Kaishek, L'invasione giapponese della Manciuria, La strategia di Mao Tsetung, L'offensiva di Chang Kaishek contro i comunisti, La lunga marcia, L'accordo fra comunisti e nazionalisti, L'aggressione giapponese. Gli eventi che sconvolsero il mondo occidentale nella prima metà del '900 (la prima guerra mondiale e la rivoluzione russa, l'ascesa dei fascismi e la seconda guerra mondiale) si ripercossero in modo decisivo anche su Cina e Giappone, entrambi coinvolti in profondi processi di trasformazione ed entrambi destinati a giocare un ruolo di primo piano nella seconda metà del secolo. Ma, mentre il Giappone negli anni fra i due conflitti mondiali confermò e rafforzò il suo ruolo di potenza imperialista, economicamente forte e militarmente aggressiva, la Cina fu lacerata e paralizzata da una lunga e sanguinosa guerra civile. Il regime autoritario imposto dal generale Yuan Shikai nel 1913, due anni dopo la proclamazione della Repubblica, non riuscì ad assicurare al paese

tranquillità e unità. Al contrario, venuto meno il collante costituito dal pur screditato potere imperiale, la Cina precipitò in una situazione di semianarchia. Il governo - soprattutto dopo la morte di Yuan Shikai nel 1916 - non aveva forza sufficiente per imporre la sua autorità alle province (dove i governatori militari, i cosiddetti signori della guerra, si comportavano come capi feudali, arruolando milizie e imponendo tributi); né per opporsi alle mire egemoniche del Giappone che, entrato in guerra contro la Germania nel 1915, mirava a sostituirsi alle potenze europee nel controllo delle zone più ricche della Cina. La decisione presa dal governo nel ' 17 di far intervenire anche la Cina nel conflitto mondiale a fianco dell'Intesa (un intervento che ebbe peraltro un valore poco più che simbolico) non servì a mutare la situazione. Alla conferenza della pace - cui pure partecipò come Stato vincitore - la Cina fu sacrificata dalle grandi potenze occidentali che riconobbero al Giappone il diritto di subentrare alla Germania sconfitta nel controllo economico della regione dello Shantung. Questa ennesima umiliazione - che significava per la Cina la conferma di una condizione di sovranità limitata - ebbe l'effetto di risvegliare l'agitazione nazionalista, che si raccolse ancora una volta attorno al Kuomintang e al suo leader Sun Yatsen, tornato nel frattempo dall'esilio, ed esplose, nel maggio 1919, in una serie di dimostrazioni di protesta iniziate nelle università e poi propagatesi in tutte le grandi città. Alla base di queste agitazioni c'era l'alleanza, già operante nella rivoluzione del 1911, fra la gioventù intellettuale, la nascente borghesia industriale e commerciale insofferente dell'invadenza straniera e quei nuclei di classe operaia che si erano formati nelle regioni più soggette alla penetrazione del capitale europeo. Comune a queste forze era la lotta contro l'imperialismo delle grandi potenze; e comune era anche l'avversione all'inetto governo centrale e ai "signori della guerra", l'uno e gli altri espressione della vecchia classe dirigente di estrazione terriera che dominava nelle campagne. La lotta intrapresa contro il governo da Sun Yatsen, che nel '21 formò un proprio governo a Canton, ebbe così l'appoggio del Partito comunista cinese, fondato, sempre nel '21, da un gruppo di intellettuali (fra i quali il giovane Mao Tsetung), per lo più passati attraverso l'esperienza nazionalista e successivamente influenzati dall'esempio della rivoluzione russa. Anche l'Unione Sovietica - che allora si proponeva come un modello per i paesi in lotta contro l'imperialismo occidentale - sostenne attivamente la causa di Sun Yatsen (in omaggio alla strategia che prescriveva l'appoggio del movimento operaio alle borghesie nazionali impegnate nei movimenti di liberazione dal colonialismo), inviò aiuti economici e militari al governo di Canton e indusse addirittura il

Partito comunista ad aderire in blocco al Kuomintang (conservando però la sua struttura organizzativa). L'alleanza fra nazionalisti e comunisti non sopravvisse però alla morte, nel 1925, di Sun Yatsen. Il suo successore Chang Kaishek, esponente dell'ala moderata del Kuomintang, era molto meno aperto alle istanze di riforma sociale e molto più diffidente nei riguardi dei comunisti, i cui progressi suscitavano crescente preoccupazione nei ceti borghesi. I contrasti cominciarono a manifestarsi nel '26, quando Chang Kaishek, alla testa di un nuovo esercito, iniziò la campagna per riunificare il paese e scacciare il governo "legale" di Pechino (ancora riconosciuto dalle potenze occidentali); ed esplosero l'anno successivo, quando questa campagna aveva già conseguito una serie di decisivi successi. Nell'aprile 1927 a Shangai, massimo centro industriale cinese e roccaforte dei comunisti, le milizie operaie che da sole avevano liberato la città e non intendevano deporre le armi furono affrontate e sconfitte dalle truppe di Chang Kaishek. In dicembre un'insurrezione operaia a Canton fu repressa in un bagno di sangue. Il Partito comunista fu messo fuori legge e molti dirigenti furono incarcerati. Dopo aver stroncato l'opposizione operaia e aver condotto a termine vittoriosamente la lotta contro il governo di Pechino (la capitale fu conquistata nel giugno '28), Chang Kaishek cercò di riorganizzare l'economia e l'apparato statale secondo modelli "occidentalisti" (ma fortemente venati di autoritarismo). Il suo progetto però si scontrava contro l'obiettiva difficoltà di controllare un paese immenso e profondamente diviso. Da un lato c'erano i comunisti che, sconfitti nelle città, cominciarono a organizzare "basi rosse" nelle campagne, rimaste fin allora estranee al processo rivoluzionario. Dall'altro sopravvivevano in alcune province le velleità autonomiste dei "signori della guerra", aiutati dal Giappone che non aveva rinunciato ai suoi progetti di espansione ed era ostile al consolidamento di un forte potere statale in Cina. Nel 1931, traendo pretesto da un incidente di frontiera, i giapponesi invasero la Manciuria, una vasta regione ai confini con la Siberia, da tempo oggetto delle loro mire, e vi crearono uno Statofantoccio, il Manchukuo, che avrebbe dovuto servire da base per un'ulteriore espansione sul continente. L'inerzia manifestata nell'occasione dal governo di Chang e lo scarso appoggio ad esso fornito dalle potenze occidentali (la Società delle nazioni si limitò a una platonica condanna dell'aggressione) diedero nuovo spazio all'azione dei comunisti, che sempre più potevano presentarsi come i soli autentici difensori degli interessi nazionali. Decisiva per le fortune del partito si rivelava frattanto la strategia contadina impostata soprattutto da

Mao Tsetung: una strategia che individuava nelle masse rurali il vero protagonista del processo rivoluzionario, in un paese arretrato come la Cina, e rovesciava la teoria marxista ortodossa in modo ancor più radicale di quanto non avesse fatto a suo tempo Lenin. All'inizio degli anni '30, i comunisti fecero numerosi proseliti fra i contadini (delusi per la mancata attuazione della promessa riforma agraria da parte del governo di Chang), allargarono le loro basi in molte zone agricole (dove i latifondi furono espropriati e le terre distribuite fra i coltivatori) e fondarono addirittura una "Repubblica sovietica cinese", con centro nella regione del Kiangsi. Costretto a combattere su due fronti, Chang Kaishek decise di dare la priorità alla lotta contro i comunisti - anche a costo di trascurare la minaccia giapponese - e lanciò, fra il '31 e il '34, una serie di sanguinose campagne militari contro le zone da loro controllate. Investiti dall'offensiva e scarsamente appoggiati dall'Urss, che non condivideva la strategia maoista e tendeva invece a mantenere rapporti con la Repubblica "borghese" di Chang - i comunisti dovettero abbandonare molte delle loro posizioni. Nell'ottobre del '34 circa 100.000 comunisti accerchiati nello Hunan, nel Sud del paese, decisero di evacuare quella zona e di trasferirsi nella regione settentrionale dello Shanxi, giudicata meglio difendibile. Ne giunsero a destinazione meno di 10.000, dopo una marcia durata un anno e lunga 10.000 chilometri attraverso l'interno della Cina. Con quella che sarebbe poi passata alla storia e all'epopea rivoluzionaria come la lunga marcia Mao Tsetung, ormai leader incontrastato del partito, riuscì comunque a salvare il nucleo dirigente comunista e a ricostituire la sua "Repubblica sovietica" proprio nelle zone in cui più forte era la minaccia giapponese. Quando, nel '36, Chang Kaishek decise di lanciare una nuova campagna di annientamento contro i comunisti, dovette scontrarsi con l'aperta dissidenza di una parte dell'esercito, che chiedeva la fine della guerra civile e l'unione di tutte le forze nazionali contro l'aggressione giapponese. Si giunse così, all'inizio del '37, a un accordo stipulato sotto gli auspici dell'Urss fra comunisti e nazionalisti, con cui le due parti si impegnavano a costituire un fronte unito (una specie di Fronte popolare in edizione cinese) contro l'imperialismo straniero. Ma nell'estate di quello stesso 1937, prima che il difficile accordo potesse dare i suoi frutti, i giapponesi sferrarono un attacco in forze contro l'intero territorio cinese. La resistenza fu questa volta accanita, sia da parte dell'esercito regolare sia da parte dei guerrigliericontadini organizzati dai comunisti. Ma non bastò a impedire che i giapponesi proseguissero la loro sistematica avanzata. Nell'estate del '39, dopo due anni di guerra, il Giappone

controllava buona parte della zona costiera, tutto il NordEst industrializzato e quasi tutte le città più importanti (fra cui Nanchino, dove fu installato un governo collaborazionista). Ma a questo punto le vicende della guerra cinogiapponese cominciarono a intrecciarsi con quelle del secondo conflitto mondiale che stava allora scoppiando in Europa. La Cina (1934-1950) (cartina p.408). 20.6. Imperialismo e autoritarismo in Giappone. Sviluppo economico e politica imperiale, La crescita dei movimenti di destra, Il regime autoritario negli anni '30. La partecipazione alla prima guerra mondiale consentì al Giappone di consolidare, con un costo militare relativamente esiguo, la sua posizione di massima potenza asiatica e di rafforzare la sua struttura produttiva, grazie soprattutto alla conquista di nuovi mercati non più raggiungibili dalle potenze europee impegnate nel conflitto. Il dinamismo dell'economia - in particolare delle grandi concentrazioni industrialifinanziarie, gli zaibatsu -, l'impetuosa crescita demografica (fra l'inizio del secolo e il 1930 la popolazione passò da 44 a 65 milioni di abitanti), la stessa struttura "prussiana" della classe dirigente, imperniata sull'unione fra grande industria, grande proprietà terriera e alti gradi militari, spingevano il Giappone verso una politica imperialistica che aveva come campo d'azione il Pacifico e l'intera Asia orientale e come obiettivo principale la sottomissione di vaste zone della Cina. Durante il primo decennio postbellico, queste spinte imperialistiche si conciliarono col mantenimento di un quadro istituzionale di tipo liberale, con lo sviluppo di una certa dialettica politica, con la crescita, sia pur contrastata, di partiti e sindacati operai. Già negli anni '20, però, fecero la loro comparsa movimenti autoritari di destra, in parte ispirati al modello dei fascismi occidentali, in parte impregnati di cultura tradizionalista (difesa delle antiche strutture sociali e familiari, culto dell'imperatore come suprema autorità politica e religiosa). Alla fine degli anni '20, queste tendenze furono favorite sia dalle conseguenze della grande crisi (che, pur facendosi sentire meno che in Europa, determinò una certa contrazione delle attività economiche suscitando un diffuso malcontento popolare), sia dalle preoccupazioni suscitate nella classe dirigente dai progressi delle sinistre nelle prime elezioni a suffragio universale che si tennero nel 1928.

Cominciò così per il Giappone, in significativa coincidenza con quanto stava accadendo in molti Stati europei, una stagione di crescente autoritarismo. Questo autoritarismo non sfociò, almeno in un primo tempo, in forme esplicitamente fasciste (un tentativo di colpo di Stato dei gruppi estremisti di destra fu represso dall'esercito nel 1936; e solo nel '40 fu istituito un regime a partito unico); ma si risolse ugualmente nella chiusura di ogni spazio di opposizione legale, in una dura repressione antioperaia, in pratica nell'assunzione diretta del potere da parte dei generali e degli esponenti degli zaibatsu, con l'autorevole copertura dell'imperatore Hirohito, salito al trono nel '26. Furono queste forze a gestire la politica imperialistica in Estremo Oriente, a spingere per la guerra con la Cina, a fare assumere al Giappone una collocazione internazionale molto vicina pur con parecchie reciproche diffidenze - a quella delle potenze fasciste europee, a spingere infine il paese nella catastrofica avventura del secondo conflitto mondiale. 20.7. Dittature militari e regimi populisti in America Latina. La grande crisi e le economie latinoamericane, Le dittature personali, Nuovi processi sociali e nuove esperienze politiche, I governi autoritari in Argentina, Autoritarismo e populismo in Brasile, La presidenza Càrdenas in Messico. Negli anni '20 e '30 anche i paesi latinoamericani, come quelli asiatici, risentirono fortemente gli effetti dei mutamenti in atto in Europa e nel Nord America. Il trauma maggiore fu rappresentato certamente dalla grande crisi, giunta dopo un decennio di relativa stabilità che era stato caratterizzato soprattutto dalla definitiva assunzione da parte degli Stati Uniti del ruolo, già appartenuto alla Gran Bretagna, di potenza economica egemone. Riducendo drasticamente i tradizionali flussi commerciali e facendo crollare i prezzi delle materie prime e delle derrate alimentari, la grande crisi mise in gravi difficoltà le economie di tutti i paesi del continente che si fondavano essenzialmente sulle esportazioni di minerali, carne e prodotti agricoli. Alcuni paesi subirono passivamente la crisi. Altri (i più grandi e i più importanti: Brasile, Argentina, Cile e Messico) reagirono promuovendo un processo di diversificazione produttiva che li portò a sviluppare alcuni settori di industria manifatturiera; e si giovarono poi del nuovo aumento dei prezzi delle materie prime da essi esportate per dar vita anche a qualche nucleo di industria pesante.

Questi processi non furono senza influenza sugli equilibri politici dei singoli Stati, che conobbero quasi tutti vicende molto agitate. Nei paesi che non erano riusciti a svincolarsi dal modello della monocoltura (che imponeva a ciascun paese di concentrarsi su un'unica produzione agricola) continuarono a prevalere le vecchie oligarchie terriere, in un alternarsi di instabili regimi liberali e di spietate dittature personali gestite per lo più da militari: come quelle di Trujillo a Santo Domingo (1930), di Batista a Cuba (1933) e di Somoza in Nicaragua (1936), tutte destinate a durare ben oltre la fine della seconda guerra mondiale. Gli Stati in cui la diversificazione produttiva aveva messo in moto nuovi processi di crescita e favorito l'emergere della classe operaia conobbero invece sviluppi più complessi e contraddittori, in cui l'emergere di nuove istanze sociali si intrecciava con la crisi dei valori liberaldemocratici che dall'Europa si stava allora diffondendo in tutto il mondo. Anche i paesi più importanti e più dinamici con l'eccezione del Cile che conservò le sue istituzioni parlamentari e fu addirittura governato, fra il '38 e il '43, da una coalizione di Fronte popolare - sperimentarono così forme di autoritarismo più o meno marcato. Nell'autunno del 1930, quando cominciavano a farsi sentire le ripercussioni della grande crisi, due sommovimenti politici quasi contemporanei ebbero luogo in Argentina e in Brasile. In Argentina - che era stato il primo paese latinoamericano ad aver conosciuto un processo di democratizzazione già prima della grande guerra - un colpo di Stato militare rovesciò il presidente radicale Yrigoyen. Seguirono, per oltre un decennio, una serie di governi conservatori tenuti sotto stretta tutela dai generali e dalle oligarchie terriere. In Brasile invece una rivolta popolare contro le vecchie oligarchie portò al potere Getùlio Vargas. Questi diede vita a un regime autoritario e populista, basato sul rapporto diretto fra capo e masse, su un acceso nazionalismo e su un energico intervento statale a sostegno della produzione, ma anche sulla concessione di una legislazione sociale abbastanza avanzata per i lavoratori urbani (nulla fu fatto invece per il proletariato rurale, sempre emarginato e poverissimo). Simile per certi aspetti al fascismo - soprattutto dopo il '37, quando Vargas varò una costituzione di tipo corporativo e proclamò la nascita di un Estado novo - il getulismo se ne differenziò sia per il carattere relativamente blando del suo autoritarismo, sia per il sostegno di cui godeva fra i lavoratori organizzati. In questo senso costituì un modello per altre successive esperienze latinoamericane. Una forma di populismo molto avanzata sul piano sociale fu quella praticata in Messico sotto la presidenza di Làzaro Càrdenas (1934-40), che portò avanti in modo deciso la riforma agraria iniziata negli anni '20 e

nazionalizzò la produzione petrolifera. Nella sua versione più ambigua e demagogica, il populismo si sarebbe poi affermato in Argentina, negli anni della seconda guerra mondiale, con l'ascesa di Juan Domingo Perón e del movimento che da lui prese il nome di peronismo e avrebbe fatto sentire la sua influenza nei decenni successivi. Parola chiave Populismo Per "populismo" si intende un orientamento politico e culturale che si fonda su una visione idealizzata e indifferenziata del "popolo", visto - in opposizione all'aristocrazia e ai ceti privilegiati - come depositario dei più autentici valori nazionali e come protagonista del processo di rinnovamento sociale. Il populismo si differenzia dunque dal marxismo, che contrappone all'idea del popolo come un tutto unico la visione di una società divisa in classi individuate in base al loro ruolo nel processo produttivo. In quanto movimento politico organizzato, il populismo nacque e si sviluppò in Russia nella seconda metà dell'800. I teorici del populismo russo (Herzen, Cernisevskij) teorizzavano il dovere degli intellettuali di "andare verso il popolo" (identificato soprattutto con le masse contadine) e si ispiravano a ideali di socialismo agrario. A ideali di democrazia rurale (ma senza sconfinamenti nel socialismo) si ispirò anche il Partito populista che nacque e si affermò negli Stati Uniti nell'ultimo decennio dell'800 ed esprimeva la protesta dei piccoli e medi agricoltori, messi in difficoltà dalla crisi agraria di fine '800, contro il mondo industriale e finanziario. In epoche più recenti il termine "populismo" è stato usato anche in riferimento a ideologie e movimenti di stampo nazionalista e autoritario (in questo senso si può parlare di un populismo fascista o nazista). In particolare, sono definiti populisti quei movimenti e quei regimi sviluppatisi in America Latina a partire dagli anni '30 - come il "getulismo" in Brasile e il "peronismo" in Argentina - che hanno cercato di combinare il nazionalismo col riformismo sociale, la lotta contro le vecchie oligarchie terriere con una gestione più o meno autoritaria e personalistica del potere, e che hanno trovato la loro principale base di sostegno nel proletariato industriale e nella piccola borghesia urbana. Sommario Il contributo, in uomini e materie prime, dato dalle colonie inglesi e francesi durante la grande guerra, le suggestioni della rivoluzione russa e dell'ideologia wilsoniana avevano alimentato le aspirazioni all'indipendenza

delle colonie europee I movimenti indipendentisti erano stati spesso strumentalizzati durante la guerra soprattutto in Medio Oriente, dove l'appoggio inglese al nazionalismo arabo contrastava in realtà con la contemporanea spartizione della regione tra Gran Bretagna e Francia e con il riconoscimento dei diritti del movimento sionista in Palestina. In Turchia la sconfitta subita dall'Impero ottomano nella grande guerra suscitò un movimento di riscossa nazionale promosso dalle forze armate e guidato da un generale, Mustafà Kemal. Dopo aver sconfitto la Grecia, che occupava la zona di Smirne, Kemal proclamò la repubblica e avviò una politica di modernizzazione e di laicizzazione del paese. La Gran Bretagna cercò di venire incontro ad alcune delle aspirazioni delle sue colonie: concesse l'indipendenza all'Egitto e creò, con il Commonwealth, una libera associazione degli Stati ad essa soggetti. Più difficile fu per gli inglesi affrontare il problema indiano, dove il movimento indipendentista si sviluppò soprattutto per opera di Gandhi; in India la Gran Bretagna alternò interventi repressivi a concessioni di autonomia. Negli anni fra le due guerre la Cina fu teatro di una lunga guerra civile. Fino alla metà degli anni '20 il contrasto fu tra i nazionalisti del Kuomintang - alleati con i comunisti - e il governo centrale. Negli anni successivi si scatenò una dura lotta tra il Kuomintang, alla cui testa era ora Chang Kaishek, e i comunisti. Sconfitto il governo centrale, Chang proseguì nella sua lotta contro i comunisti, relegando in secondo piano quella contro i giapponesi che, nel '31, avevano invaso la Manciuria. Il Partito comunista cinese, guidato da Mao Tsetung, estese la sua presenza tra i contadini e, nel '34, con la "lunga marcia" riuscì, nonostante notevoli perdite, a salvare il suo gruppo dirigente. Un accordo tra comunisti e nazionalisti in funzione antigiapponese non riuscì ad impedire di lì a poco che il Giappone invadesse il paese e ne occupasse un'ampia zona ('37-39). In Giappone gli anni tra le due guerre videro un notevole sviluppo economico e l'affermarsi di una spinta imperialistica, in coincidenza con lo sviluppo dei movimenti di destra e con un crescente autoritarismo del sistema politico. In America Latina la grande crisi ebbe conseguenze fortemente negative, ma stimolò comunque in alcuni paesi un processo di diversificazione produttiva. Sul piano politico, molti Stati latinoamericani videro l'affermarsi di dittature personali o di governi più o meno autoritari. In alcuni casi (Brasile, Messico e, più tardi, Argentina), questi regimi assunsero un indirizzo populista e godettero dell'appoggio dei lavoratori urbani.

Bibliografia Sul problema mediorientale: Storia dell'Africa e del Vicino Oriente, a e. di A. Triulzi, vol. 4 de Il mondo contemporaneo, La Nuova Italia, Firenze 1979. Sull'India: P. Spear, Storia dell'India, Rizzoli, Milano 1970; M. Torri, Storia dell'India, Laterza, RomaBari 2000. Sulla Cina: E. Collotti Pischel, Storia della rivoluzione cinese, Editori Riuniti, Roma 1972; J. Chesnaux, La Cina contemporanea, Laterza, RomaBari 1975; E. Snow, Stella rossa sulla Cina, Einaudi, Torino 1965. Sul Giappone: W. G. Beasley, Storia del Giappone moderno, ivi 1969; J. Halliday, Storia del Giappone contemporaneo, ivi 1979. Sull'America Latina si vedano i volumi di T. Halperin Donghi, Storia dell'America Latina, Einaudi, Torino 1982 e di M. Plana A. Trento, Lamerica latina nel XX secolo, Ponte alle Grazie, Firenze 1992. 21. La seconda guerra mondiale. 21.1. Le origini e le responsabilità. La falsa pace, La responsabilità della Germania, L'occupazione della Boemia, La garanzia anglofrancese alla Polonia, L'occupazione italiana dell'Albania, Il "patto d'acciaio", Le trattative fra l'Urss e le democrazie, Il patto tedescosovietico, Lo scoppio del conflitto, Guerra mondiale, guerra totale. Gli undici mesi che vanno dalla conferenza di Monaco (fine settembre 1938) allo scoppio della seconda guerra mondiale (inizio settembre 1939) mostrarono come la "falsa pace" negoziata a Monaco fra Hitler e le potenze democratiche non fosse che il rinvio di uno scontro ormai inevitabile. Mentre nell'estate del ' 14 il conflitto europeo era stato occasionato da un singolo evento tragico e imprevedibile come l'attentato di Sarajevo, nell'estate di venticinque anni dopo si può dire che la guerra fosse nell'aria. Per la seconda guerra mondiale la questione delle responsabilità è molto meno controversa di quanto non sia per la prima. Non vi sono dubbi sul fatto che a provocare il conflitto fu la politica di conquista e di aggressione della Germania nazista. Anche se ciò non significa che le altre potenze fossero immuni da errori o da colpe. Le democrazie occidentali si erano illuse, a Monaco, di aver placato la Germania con la cessione dei Sudeti. In realtà, già nell'ottobre del '38, Hitler

aveva pronti i piani per l'occupazione della Boemia e della Moravia, ossia della parte più popolosa e più sviluppata della Cecoslovacchia. L'operazione scattò nel marzo 1939 e fu facilitata dal progressivo sfaldamento della compagine statale cecoslovacca, indebolita dalla perdita dei Sudeti e minata dalla lotta fra le diverse nazionalità. Mentre la Slovacchia si proclamava indipendente con l'appoggio dei tedeschi, Hitler dava vita al "protettorato di Boemia e Moravia", facente parte integrante del Grande Reich. La distruzione dello Stato cecoslovacco determinò una svolta nell'atteggiamento delle potenze occidentali. Fra il marzo e il maggio 1939, accantonata la politica dell'appeasement, Gran Bretagna e Francia diedero vita a una vera e propria offensiva diplomatica, volta a contenere l'aggressività delle potenze dell'Asse con una rete quanto più possibile estesa di alleanze. Patti di assistenza militare furono stipulati con Belgio, Olanda, Grecia, Romania e Turchia. Ma più importante di tutti fu quello con la Polonia, che costituiva il primo obiettivo delle mire espansive tedesche: già in marzo, infatti, Hitler aveva rivendicato il possesso di Danzica e il diritto di passaggio attraverso il "corridoio" che univa la città al territorio polacco [§13.12]. L'alleanza fra Inghilterra, Francia e Polonia, conclusa fra marzo e aprile, costituiva una risposta a queste minacce; e significava che le potenze occidentali erano disposte ad affrontare anche la guerra pur di impedire che la Polonia subisse la sorte della Cecoslovacchia. Il radicalizzarsi della contrapposizione fra la Germania e gli anglofrancesi tolse ogni residuo spazio di manovra all'Italia. Mussolini cercò dapprima di contrapporre alle iniziative di Hitler una propria iniziativa unilaterale: l'occupazione (aprile 1939) del piccolo Regno di Albania, considerato una base per una possibile ulteriore penetrazione nei Balcani. L'operazione ebbe il solo risultato di accrescere la tensione fra l'Italia e le democrazie occidentali. Un mese dopo (maggio '39), Mussolini, convinto che l'Italia non potesse restare neutrale nello scontro che si andava profilando e sicuro della superiorità della Germania, decise di accettare le pressanti richieste tedesche di trasformare il generico vincolo dell'Asse RomaBerlino in una vera e propria alleanza militare, che fu significativamente chiamata patto d'acciaio [§19.6]. Il patto stabiliva che, se una delle due parti si fosse trovata impegnata in un conflitto per una causa qualsiasi (dunque anche in veste di aggressore), l'altra sarebbe stata obbligata a scendere in campo al suo fianco. Mussolini e il ministro degli Esteri Ciano accettarono sconsideratamente un impegno così grave, pur sapendo che l'Italia non era preparata militarmente a un conflitto europeo, fidandosi delle assicurazioni

verbali di Hitler circa la sua intenzione di non scatenare la guerra prima di due o tre anni. In realtà, nel maggio '39, lo stato maggiore tedesco stava già preparando i piani per l'invasione della Polonia. La principale incognita era costituita a questo punto dall'atteggiamento dell'Urss. Un'adesione sovietica alla coalizione antitedesca avrebbe probabilmente bloccato i piani di Hitler. Ma le trattative con l'Urss furono compromesse da una serie di reciproche e non infondate diffidenze: i sovietici sospettavano che gli occidentali mirassero a scaricare su di loro l'aggressività della Germania; gli occidentali attribuivano ai sovietici ambizioni egemoniche sull'Europa dell'Est; inoltre i polacchi - che temevano una presenza militare russa non meno di un'aggressione tedesca non volevano concedere alle truppe dell'Urss il permesso di attraversare il proprio territorio in caso di attacco da parte della Germania. I sovietici si convinsero che i governi occidentali non avevano intenzione di offrire nulla in cambio del loro aiuto e cominciarono a prestare maggiore attenzione alle offerte di intesa che stavano intanto giungendo da parte di Hitler. Il 23 agosto 1939, i ministri degli Esteri tedesco e sovietico, Ribbentrop e Molotov, firmavano a Mosca un patto di non aggressione fra i due paesi. L'annuncio dell'accordo fra due regimi ideologicamente contrapposti rappresentò uno dei più grandi colpi di scena nella storia della diplomazia di ogni tempo e fu accolto in tutto il mondo con un misto di stupore e di indignazione. Si trattò in realtà di un gesto di spregiudicato realismo, che assicurava ad ambo le parti considerevoli vantaggi. L'Urss non solo allontanava momentaneamente la minaccia tedesca dai suoi confini, guadagnando tempo prezioso per la sua preparazione militare, ma otteneva anche, mediante un protocollo segreto, un riconoscimento delle sue aspirazioni territoriali nei confronti degli Stati baltici, della Romania e della Polonia (di cui si prevedeva la spartizione). Dal canto suo Hitler era costretto a modificare la sua strategia di fondo, rinviando lo scontro col nemico storico, la Russia sovietica; ma intanto poteva risolvere la questione polacca senza correre il rischio della guerra su due fronti. Il 1° settembre 1939, le truppe tedesche attaccavano la Polonia. Il 3 settembre Gran Bretagna e Francia dichiaravano guerra alla Germania, mentre l'Italia, il giorno stesso dello scoppio delle ostilità, si era affrettata a proclamare la sua "non belligeranza". La seconda guerra mondiale cominciava così come una continuazione, o una replica, della prima. Molto simili erano la posta in gioco e le cause di fondo: il tentativo della Germania di affermare la propria egemonia sul

continente europeo e la volontà di Gran Bretagna e Francia di impedire questa affermazione. Simile era anche la tendenza del conflitto ad allargarsi fuori dai confini europei. Ma questa volta l'estensione del teatro di guerra sarebbe stata ancora maggiore e ancora più rivoluzionarie le conseguenze sugli equilibri internazionali. Rispetto al primo conflitto mondiale, il secondo vide inoltre accentuarsi il carattere totale della guerra. Lo scontro ideologico fra i due schieramenti fu più aspro e radicale, e dunque più ampia fu la mobilitazione dei cittadini con o senza uniforme. Nuove tecniche di guerra e nuove armi furono impiegate anche fuori dai campi di battaglia e le conseguenze sulle popolazioni civili furono più tragiche che in qualsiasi guerra del passato. 21.2. La distruzione della Polonia e l'offensiva al Nord. La guerralampo, La fine della Polonia, La "dróle de guerre", La guerra fra Urss e Finlandia, L'attacco tedesco a Danimarca e Norvegia. Le prime settimane di guerra furono sufficienti alla Germania per sbarazzarsi della Polonia e per offrire al mondo un'impressionante dimostrazione di efficienza bellica. L'offensiva tedesca, accompagnata da una serie di micidiali bombardamenti aerei, ebbe facilmente ragione di un esercito antiquato e mal guidato. Fu questa la prima applicazione della guerralampo, un nuovo metodo di guerra che si basava sull'uso congiunto dell'aviazione e delle forze corazzate, affidando a queste ultime il peso principale dell'attacco. L'impiego su vasta scala dei carri armati e delle autoblindo e il loro raggruppamento in speciali reparti "meccanizzati" rendevano di nuovo possibile la guerra di movimento, e consentivano, in caso di successo, di impadronirsi in pochi giorni di territori molto vasti, tagliando fuori gli eserciti nemici dalle loro fonti di rifornimento. Fu esattamente quanto accadde nella campagna di Polonia. A metà settembre le armate del Reich già assediavano Varsavia che, semidistrutta dai bombardamenti, capitolò alla fine del mese. Frattanto i russi, in base alle clausole segrete del patto MolotovRibbentrop, si impadronivano delle regioni orientali del paese. All'inizio di ottobre cessava ogni resistenza da parte dell'esercito polacco. Tedeschi e sovietici imponevano nei territori sotto il loro controllo uno spietato regime di occupazione (fu in questo periodo che si consumò, per opera dei sovietici, il massacro di oltre 4000 ufficiali polacchi fatti prigionieri, i cui corpi, gettati in fosse comuni, sarebbero stati scoperti dai tedeschi, nel '43, nella foresta di Katyn, in Russia). La Repubblica polacca cessava così di esistere, dopo appena

vent'anni di vita, senza aver ricevuto alcun aiuto concreto dai suoi alleati occidentali. Per i successivi sette mesi, la guerra a occidente restò come congelata. L'Europa visse una fase di trepida attesa che i francesi chiamarono dróle de guerre (strana guerra o guerra per finta) e che certo non giovò al morale delle truppe alleate, mentre consentì ai tedeschi di riorganizzare le forze in vista dello scontro decisivo. Mentre le armi tacevano sul fronte occidentale, il teatro di guerra si spostava inaspettatamente nell'Europa del Nord. Questa volta fu l'Urss a prendere l'iniziativa, attaccando il 30 novembre la Finlandia, colpevole di aver rifiutato alcune rettifiche di confine. La campagna si rivelò però più difficile del previsto: i finlandesi resistettero per più di tre mesi infliggendo notevoli perdite agli aggressori. Nel marzo '40 la Finlandia dovette cedere alle richieste sovietiche, conservando tuttavia la sua indipendenza. A questo punto fu di nuovo la Germania a cogliere tutti di sorpresa e a prevenire ogni eventuale mossa anglofrancese nel Nord Europa lanciando, il 9 aprile 1940, un improvviso attacco alla Danimarca e alla Norvegia. La Danimarca si arrese senza combattere. La Norvegia oppose una certa resistenza, aiutata anche da un tardivo sbarco alleato nel Nord. Ma ancora una volta l'azione tedesca si rivelò incontenibile, nonostante la relativa esiguità delle forze impiegate. Nella primavera del '40, Hitler controllava buona parte dell'Europa centrosettentrionale. I tempi erano maturi per scatenare l'attacco a occidente. 21.3. L'attacco a occidente e la caduta della Francia. Gli errori strategici dei francesi, Lo sfondamento tedesco, Dunkerque, La sconfitta della Francia, L'armistizio, Il regime di Vichy, La subordinazione alla Germania. L'offensiva tedesca sul fronte occidentale ebbe inizio il 10 maggio 1940 e si risolse nel giro di poche settimane in un nuovo travolgente successo, tale da far ritenere che il conflitto fosse prossimo a concludersi con la vittoria della Germania. Il successo fu tanto più clamoroso in quanto ottenuto a spese delle due maggiori potenze occidentali coalizzate. L'esercito francese, in particolare, era il più numeroso e il più armato d'Europa e disponeva di una forte aviazione e di ingenti forze corazzate. A provocare la sconfitta degli alleati non fu dunque un'inferiorità in uomini o in mezzi, ma furono gli errori dei comandi francesi, ancora legati a una concezione statica della guerra e troppo fiduciosi nell'efficacia delle fortificazioni difensive che costituivano la famosa linea Maginot: fortificazioni che fra l'altro coprivano

solo la frontiera francotedesca, lasciando scoperto il confine col Belgio e col Lussemburgo, da dove in realtà veniva la minaccia più seria. Infatti, come nel 1914, i tedeschi iniziarono l'attacco violando la neutralità dei piccoli Stati confinanti. Questa volta, oltre al Belgio, furono invasi anche Olanda e Lussemburgo. Fra il 12 e il 15 maggio, dopo aver attraversato velocemente la foresta delle Ardenne (ritenuta dai francesi invalicabile dai carri armati), i reparti corazzati tedeschi sfondarono le linee nemiche nei pressi di Sedan. Colpito nel suo punto più debole - le forze più ingenti erano in parte impegnate a nord, nella difesa del Belgio, in parte dislocate a sud, a presidiare l'inutile linea Maginot - lo schieramento alleato cedette di schianto. Le truppe tedesche dilagarono in pianura e puntarono verso il mare, chiudendo in una sacca molti reparti francesi e belgi e l'intero corpo di spedizione inglese, appena sbarcato sul continente. Solo un momentaneo rallentamento dell'offensiva consentì al grosso delle forze britanniche, assieme a circa 100.000 fra belgi e francesi, un difficile e drammatico reimbarco nel porto di Dunkerque (29 maggio-4 giugno). La sosta tedesca era dovuta in parte all'esigenza di riorganizzare le forze in vista del definitivo attacco alla Francia, in parte a un calcolo politico di Hitler, che voleva lasciarsi aperta la strada di un accordo con la Gran Bretagna. Per gli inglesi la ritirata rappresentò comunque la salvezza, o almeno la possibilità di continuare la lotta. Ma per la Francia, fiaccata nel morale oltre che nell'efficienza bellica, la sconfitta era ormai irreparabile. Il 14 giugno i tedeschi entravano a Parigi, mentre interminabili colonne di profughi si riversavano verso il Sud. Divenuto allora presidente del Consiglio, l'ottantaquattrenne maresciallo Philippe Pétain, da tempo schierato su posizioni di destra, aprì immediatamente le trattative per l'armistizio. Invano il generale Charles De Gaulle lanciò da Londra, il 18 giugno, un appello ai francesi per incitarli a continuare a combattere a fianco degli alleati. Pétain e i capi delle forze armate erano convinti dell'inutilità di ogni ulteriore resistenza. E l'armistizio fu firmato il 22 giugno nella stessa località (il villaggio di Rethondes) e nello stesso vagone ferroviario che nel novembre '18 avevano visto la delegazione tedesca piegarsi al Diktat dei vincitori di allora. In base all'armistizio il governo, che stabilì la sua sede nella cittadina termale di Vichy, conservava la sua sovranità su una zona corrispondente grosso modo alla metà centromeridionale del paese, oltre che sulle colonie. Il resto della Francia restava sotto l'occupazione tedesca. Il crollo militare della Francia e l'avvento di Pétain segnarono anche la fine della Terza Repubblica, nata settant'anni prima da un'altra catastrofe bellica (quella subita da Napoleone III a Sedan). Il 9 luglio l'Assemblea

nazionale, riunita a Vichy, si spogliava dei suoi poteri, affidando al presidente del Consiglio il compito di promulgare una nuova costituzione. Come molti suoi concittadini di parte conservatrice, Pétain attribuiva la responsabilità della sconfitta non agli errori dei comandi militari, ma alla classe dirigente repubblicana e al sistema democraticoparlamentare, considerato troppo permissivo e dunque causa di rilassamento morale. La "rivoluzione nazionale" promossa da Pétain - col diffuso consenso di un'opinione pubblica passiva e smarrita, desiderosa soprattutto di tenersi fuori dalla guerra - si risolse così in un ritorno alle tradizioni dell'ancien regime: culto dell'autorità, difesa della religione e della famiglia, esaltazione retorica della piccola proprietà e del lavoro nei campi, organizzazione sociale di stampo corporativo. Il regime di Vichy si ridusse al rango di Statosatellite della Germania hitleriana. Ogni rapporto con la Gran Bretagna fu interrotto dopo che il 3 luglio la flotta francese, ancorata nella baia di Mers el Kebir in Algeria, fu attaccata e distrutta da quella inglese per evitare che cadesse in mano dei tedeschi. Attacco tedesco alla Francia (primavera 1940) cartina p.418). 21.4. L'intervento dell'Italia. La non belligeranza, L'intervento, L'attacco alla Francia, Gli insuccessi in Africa e nel Mediterraneo. Nell'estate del '39, l'Italia era stata colta di sorpresa dal precipitare della crisi. E, allo scoppio delle ostilità, non aveva potuto far altro che annunciare la propria non belligeranza, giustificando l'inadempienza agli impegni del patto d'acciaio con l'impreparazione ad affrontare una guerra di lunga durata. In effetti, l'equipaggiamento delle forze armate, già scarso e antiquato, era stato ulteriormente impoverito dalle imprese in Etiopia e in Spagna. Insufficienti erano anche le scorte di materie prime, per le quali l'Italia dipendeva cronicamente dalle importazioni estere. Il crollo repentino della Francia valse però a spazzar via le ultime esitazioni di Mussolini - deciso a non consentire che l'Italia restasse spettatrice nel conflitto - e a vincere le resistenze di quei settori della classe dirigente che fin allora si erano mostrati meno favorevoli alla guerra: il re, i gerarchi dell'ala "moderata", gli industriali (che commerciavano vantaggiosamente con tutti gli Stati belligeranti), gli stessi vertici militari. Anche l'opinione pubblica, prima avversa alla guerra e all'alleanza con la

Germania, cambiò orientamento di fronte alla prospettiva di una vittoria da ottenersi con pochissimo sforzo (lo stesso Mussolini, in privato, parlò di "qualche migliaio di morti da gettare sul tavolo della pace"). Il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, il duce annunciava a una folla plaudente l'entrata in guerra dell'Italia "contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente". L""offensiva sulle Alpi, sferrata il 21 giugno in condizioni di netta superiorità numerica contro un avversario praticamente già sconfitto (il 22 a Francia firmava l'armistizio con la Germania), si risolse però in una grossa prova di inefficienza: la penetrazione in territorio francese fu limitatissima e le perdite relativamente ingenti (5000 fra morti e feriti). L'armistizio subito richiesto dalla Francia e firmato il 24 giugno prevedeva solo qualche minima rettifica di confine, oltre alla smilitarizzazione di una fascia di territorio francese profonda 50 chilometri. Le cose non andarono meglio contro gli inglesi. Nel Mediterraneo la lotta italiana subì, in luglio, due successive sconfitte da quella britannica (sulle coste della Calabria e nei pressi di Creta). In Africa settentrionale, l'attacco lanciato in settembre dal territorio libico contro le forze inglesi in Egitto dovette arrestarsi ben presto per l'insufficienza dei mezzi corazzati. Un'offerta di aiuto da parte della Germania fu respinta da Mussolini, preoccupato di sottrarsi alla tutela del più potente alleato e convinto che l'Italia dovesse combattere una sua guerra, parallela a quella tedesca (e non coincidente con essa). Una guerra che le forze armate italiane non erano però in grado di affrontare, come gli avvenimenti dei mesi successivi avrebbero ampiamente dimostrato. 21.5. La battaglia d'Inghilterra. L'intransigenza di Churchill, Il progetto di invasione dell'Inghilterra, I bombardamenti tedeschi e la resistenza britannica, La guerra aerea. Dal giugno 1940, la Gran Bretagna era rimasta sola a combattere contro la Germania e i suoi alleati. A questo punto Hitler sarebbe stato disposto a trattare, a patto di vedersi riconosciute le sue conquiste. Ma ogni ipotesi di tregua trovò un ostacolo insuperabile nella volontà della classe dirigente e del popolo britannico di continuare la lotta, fidando su una potenza marittima ancora intatta, oltre che sul sostegno del Commonwealth. Interprete e ispiratore di questa volontà di lotta fu il primo ministro conservatore Winston Churchill, da sempre deciso fautore di una linea intransigente contro le pretese hitleriane. Chiamato nel maggio del '40 a

guidare il nuovo governo di coalizione nazionale, Churchil] enunciò subito il suo programma, in un celebre discorso: una sola politica, "la guerra per mare, per terra e nell'aria, con tutte le nostre energie", e un solo obiettivo, "la vittoria a tutti i costi [...] per quanto lunga e dura possa essere la strada". Ai suoi concittadini non aveva nulla da offrire "se non sangue, travagli, lacrime e sudore". I sacrifici annunciati da Churchill divennero ben presto una dura realtà. All'inizio di luglio Hitler dava il via al progetto per l'invasione dell'Inghilterra (l'operazione Leone marino). Premessa essenziale per la riuscita del piano era il dominio dell'aria, che avrebbe consentito ai tedeschi di compensare la superiorità navale della Gran Bretagna e di fiaccarne la resistenza colpendola nella capacità produttiva e nel morale. Quella ingaggiata dalla Germania contro l'Inghilterra nell'estate del '40 fu la prima grande battaglia aerea della storia, nel corso della quale Coventry fu rasa al suolo. Per circa tre mesi l'aviazione tedesca (Luftwaffe) effettuò continue incursioni in territorio britannico, prima contro obiettivi militari, poi contro i principali centri industriali (compresa Londra, che fu ripetutamente bombardata). Gli attacchi furono però efficacemente contrastati dalla contraerea e dagli aerei da caccia della Royal Air Force (Raf), che si valeva fra l'altro di un ottimo sistema di informazione e di avvistamento radar. All'inizio dell'autunno apparve chiaro che, nonostante le perdite umane e le distruzioni materiali subite, l'Inghilterra non era stata piegata; e l'operazione "Leone marino" fu rinviata a tempo indefinito. La tenace resistenza degli inglesi aveva ottenuto un successo determinante, soprattutto dal punto di vista psicologico, imponendo alla Germania la prima battuta d'arresto dall'inizio del conflitto. La battaglia d'Inghilterra aveva dato tuttavia una tragica dimostrazione delle potenzialità distruttive del mezzo aereo: i bombardamenti sulle città, le terrificanti incursioni notturne precedute dal suono delle sirene e dalla fuga dei civili verso i rifugi antiaerei, gli orrori prodotti dalle bombe incendiarie sarebbero diventati un elemento ricorrente e un fattore decisivo nelle successive fasi della guerra. 21.6. Il fallimento della guerra italiana: i Balcani e il Nord Africa. Il fallimento dell'attacco alla Grecia, Le sconfitte in Nord Africa e l'intervento tedesco, La caduta dell'Africa orientale italiana, L'intervento tedesco nei Balcani.

Il 28 ottobre 1940 l'esercito italiano, muovendo dall'Albania, attaccava improvvisamente la Grecia, un paese governato da un regime semifascista, con cui l'Italia aveva fin allora intrattenuto buoni rapporti. L'attacco fu determinato soprattutto da ragioni di concorrenza con la Germania che aveva appena iniziato una penetrazione militare in Romania. Decisa in gran fretta e senza adeguata preparazione, l'offensiva italiana si scontrò con una resistenza molto più dura del previsto. Alla fine di novembre, i greci passarono al contrattacco e gli italiani furono costretti a ripiegare in territorio albanese e a schierarsi sulla difensiva. L'esito fallimentare della campagna di Grecia, che era stata annunciata con grande sfoggio di retorica bellica, determinò un terremoto nei vertici militari (lo stesso capo di stato maggiore Badoglio dovette rassegnare le dimissioni) e provocò nel paese una diffusa crisi di sfiducia. Le notizie provenienti dal fronte albanese - che parlavano di completa disorganizzazione, di carenza di equipaggiamento invernale, di fenomeni di sbandamento fra le truppe - diedero un durissimo colpo all'immagine guerriera del regime e alla popolarità di Mussolini. Tanto più che quelle notizie si accompagnavano all'eco dei contemporanei insuccessi in Africa. Nel dicembre '40 gli inglesi erano infatti passati al contrattacco e, grazie anche alla superiorità dei loro carri armati, in meno di due mesi avevano conquistato l'intera Cirenaica (ossia la parte orientale della Libia) infliggendo agli italiani la perdita di 140.000 uomini fra morti, feriti e prigionieri. Per evitare la definitiva cacciata dalla Libia, Mussolini fu costretto ad accettare l'aiuto della Germania. In marzo, con l'arrivo dei primi reparti tedeschi, equipaggiati con moderni mezzi corazzati e comandati da un brillante stratega della guerra di movimento, il generale Erwin Rommel, le truppe dell'Asse cominciavano una lunga controffensiva che, già in aprile, portò alla riconquista della Cirenaica. Ma intanto l'Africa orientale italiana (Etiopia, Somalia, Eritrea), difficilmente difendibile per la sua posizione geografica, stava cadendo nelle mani degli inglesi: il 6 aprile 1941 fu occupata Addis Abeba, dove pochi giorni dopo rientrava trionfalmente il negus. Fu un altro durissimo colpo per il prestigio dell'Italia, ormai costretta a rinunciare a ogni sogno di "guerra parallela" e ridotta ovunque a recitare il ruolo dell'alleato subalterno. Anche nei Balcani, come in Nord Africa, il fallimento delle iniziative italiane finì con l'aprire la strada all'intervento in forze della Germania. Nell'aprile 1941, la Jugoslavia e la Grecia, attaccate simultaneamente da truppe tedesche e italiane, furono rapidamente travolte, mentre gli inglesi - che in marzo erano sbarcati nella penisola ellenica -

erano costretti a ritirarsi, abbandonando per la seconda volta il continente europeo. A questo punto (primaveraestate del '41) restava aperto il solo fronte nordafricano (dove gli inglesi erano avvantaggiati dalla superiorità navale nel Mediterraneo, oltre che dall'ampio retroterra di cui disponevano in Africa e in Medio Oriente). Ma Hitler non aveva più rivali in Europa. E poteva concentrare il grosso delle sue forze verso l'obiettivo più ambito: la conquista dello "spazio vitale" a est ai danni dell'Urss. 21.7. L'attacco all'Unione Sovietica. Una svolta nel conflitto, L'attacco tedesco e l'impreparazione russa, I successi tedeschi, Dalla guerra lampo alla guerra d'usura. Con l'attacco tedesco all'Unione Sovietica, all'inizio dell'estate 1941, la guerra entrò in una nuova fase. Un altro vastissimo fronte si aprì in Europa orientale. La Gran Bretagna non fu più sola a combattere. Lo scontro ideologico si semplificò e si radicalizzò col venir meno dell'anomala intesa fra nazismo e regime sovietico. Il movimento comunista internazionale, schierato dopo l'agosto '39 su un'ambigua posizione di condanna dei due "opposti imperialismi", si riconvertì all'alleanza con la democrazia e alla lotta contro il fascismo. Che l'Urss costituisse da sempre il principale obiettivo delle mire espansionistiche di Hitler non era un mistero per nessuno, nemmeno per i sovietici. Stalin si illuse tuttavia che Hitler non avrebbe mai aggredito la Russia prima di aver chiuso la partita con la Gran Bretagna. Così, quando il 22 giugno 1941 l'offensiva tedesca (denominata in codice operazione Barbarossa) scattò su un fronte lungo 1600 chilometri, dal Baltico al Mar Nero, i russi furono colti impreparati; e questa impreparazione - aggravata dal fatto che le grandi purghe del '37 [§18.8] avevano privato l'Armata rossa dei suoi migliori comandanti - facilitò all'inizio il compito degli aggressori. In due settimane le armate del Reich penetrarono in territorio sovietico per centinaia di chilometri e misero fuori combattimento 600.000 avversari. L'offensiva - cui prese parte anche un corpo di spedizione italiano inviato in tutta fretta da Mussolini, ansioso di inserirsi nella crociata antibolscevica continuò per tutta l'estate e si sviluppò con successo su due direttrici principali: a nord, attraverso le regioni baltiche, e a sud, attraverso l'Ucraina, con l'obiettivo di raggiungere le zone petrolifere del Caucaso. Ma l'attacco decisivo verso Mosca fu sferrato troppo tardi, all'inizio di ottobre, e fu bloccato a poche decine di chilometri dalla capitale, anche per il

sopraggiungere del maltempo, che rese impraticabile la maggior parte delle strade e rallentò il movimento degli automezzi, favorendo la disperata resistenza dei russi. In dicembre i sovietici lanciavano la loro prima controffensiva, allontanando la minaccia da Mosca. All'inizio dell'inverno, i tedeschi erano ancora padroni di territori vastissimi e importantissimi dal punto di vista economico (l'Ucraina, la Bielorussia, le regioni baltiche). Ma Hitler aveva mancato l'obiettivo di mettere fuori causa l'Urss ed era costretto a tenere il grosso del suo esercito immobilizzato nelle pianure russe, alle prese con un terribile inverno e con una resistenza sempre più accanita. Guidata personalmente da Stalin - che seppe mobilitare il sentimento patriottico del popolo russo - la resistenza dei sovietici risultò infatti più efficace del previsto. Attingendo a un serbatoio umano che sembrava inesauribile e riorganizzando la produzione industriale nelle regioni a est del Volga, l'Urss riusciva infatti a compensare le spaventose perdite subite (3 milioni di uomini, 20.000 carri armati e 15.000 aerei nei primi tre mesi di guerra). Anche la guerra meccanizzata si trasformava così in una guerra d'usura in cui l'elemento decisivo era costituito dalla capacità di compensare rapidamente il logorio degli uomini e dei materiali. In una guerra del genere - così com'era accaduto nel primo conflitto mondiale - la Germania era destinata a perdere il suo vantaggio iniziale, dovuto alla superiorità tecnica e strategica. Tanto più nel momento in cui la massima potenza industriale del mondo si schierava a fianco di Gran Bretagna e Urss. La seconda guerra mondiale (1939-1942) (cartina p.423). 21.8. L'aggressione giapponese e il coinvolgimento degli Stati Uniti. L'appoggio degli Usa alla Gran Bretagna, La Carta atlantica, L'espansionismo giapponese, La reazione delle potenze occidentali, L'attacco a Pearl Harbor, L'offensiva giapponese nel Pacifico. Allo scoppio del conflitto, gli Stati Uniti avevano ribadito la linea di non intervento negli affari europei mantenuta negli anni fra le due guerre. Ma, una volta rieletto alla presidenza per la terza volta (caso unico nella storia americana) nel novembre 1940, Roosevelt si impegnò in una politica di aperto sostegno economico alla Gran Bretagna, rimasta sola a combattere contro la Germania. Nel marzo 1941 fu approvata una legge, detta degli affitti e prestiti, che consentiva la fornitura di materiale bellico a condizioni molto favorevoli a quegli Stati la cui difesa fosse considerata vitale per gli

interessi americani. In maggio gli Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche con Germania e Italia. In giugno la marina militare Usa fu incaricata di scortare fino all'Islanda i convogli che trasportavano aiuti a nazioni alleate e autorizzata a rispondere a eventuali attacchi. Questa politica - che tendeva a fare degli Stati Uniti l""arsenale delle democrazie" e poneva il paese in rotta di collisione con le potenze dell'Asse - ebbe il suo suggello ufficiale nell'incontro fra Roosevelt e Churchill avvenuto il 14 agosto 1941 su una nave da guerra al largo dell'isola di Terranova. Frutto dell'incontro fu la cosiddetta Carta atlantica: un documento in otto punti (quasi una edizione aggiornata dei quattordici punti di Wilson), in cui i due statisti ribadivano la condanna dei regimi fascisti e fissavano le linee di un nuovo ordine democratico da costruire a guerra finita: rispetto dei princìpi di sovranità popolare e di autodecisione dei popoli, libertà dei commerci, libertà dei mari, cooperazione internazionale, rinuncia all'uso della forza nei rapporti fra gli Stati. Il coinvolgimento degli Usa in quella che sempre più stava diventando una guerra antifascista sembrava già a questo punto inevitabile. A trascinare gli Stati Uniti nel conflitto fu l'aggressione improvvisa subita nel Pacifico da parte del Giappone: la maggiore potenza dell'emisfero orientale e il principale alleato asiatico di Germania e Italia, cui era legato, dal settembre 1940, da un patto di alleanza detto patto tripartito. Già impegnato dal '37 in una guerra di conquista contro la Cina [§20.5], il Giappone aveva profittato del conflitto europeo per allargare le sue aspirazioni espansionistiche a tutti i territori del SudEst asiatico. Quando, nel luglio '41, i giapponesi invasero l'Indocina francese, Stati Uniti e Gran Bretagna reagirono decretando il blocco delle esportazioni verso il Giappone. L'Impero asiatico - paese industrialmente sviluppato ma povero di materie prime - si trovò a questo punto di fronte a una scelta: piegarsi alle richieste delle potenze occidentali (che esigevano il ritiro delle truppe giapponesi dall'Indocina e dalla Cina), o scatenare la guerra per conquistare nuovi territori e procurarsi così le materie prime necessarie alla sua politica di grande potenza. Il governo giapponese, dominato dalle correnti belliciste, scelse la strada della guerra. Il 7 dicembre 1941, l'aviazione giapponese attaccò, senza previa dichiarazione di guerra, la flotta degli Stati Uniti ancorata a Pearl Harbor, nelle Hawaii, e la distrusse in buona parte. Nei mesi successivi, profittando della netta superiorità navale così conquistata nel Pacifico, i giapponesi raggiunsero di slancio tutti gli obiettivi che si erano prefissati: nel maggio '42 controllavano le Filippine (strappate agli Usa), la Malesia e la Birmania britanniche, l'Indonesia olandese ed erano in grado di minacciare l'Australia e la stessa India, costringendo la Gran Bretagna a distogliere forze preziose

dal Medio Oriente. Pochi giorni dopo l'attacco a Pearl Harbor, anche Germania e Italia dichiaravano guerra agli Stati Uniti. Il conflitto diventava a questo punto veramente mondiale. Il Pacifico nella seconda guerra mondiale (1941-1945)(cartina p.425). 21.9. Il "nuovo ordine". Resistenza e collaborazionismo. L'apogeo della espansione nazista in Europa, Il dominio della nazione eletta, La tragedia dei popoli slavi, La persecuzione degli ebrei, La soluzione finale, Gli effetti del dominio nazista, La resistenza al nazismo, Le divisioni interne alla Resistenza, Il collaborazionismo, I governi collaborazionisti, La Francia di Vichy. Nella primaveraestate del '42, le potenze del Tripartito raggiunsero la loro massima espansione territoriale. Il Giappone dominava, come si è appena visto, su tutto il SudEst asiatico, su vaste zone della Cina e su molte isole del Pacifico. In Europa le forze dell'Asse, di nuovo all'offensiva in Russia, controllavano, direttamente o indirettamente, un territorio di circa 6 milioni di chilometri quadrati con oltre 350 milioni di abitanti. Attorno alla Germania e all'Italia ruotavano gli alleati "minori": Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Serbia e Francia di Vichy. In Olanda, in Norvegia e in Boemia governavano "alti commissari" tedeschi. Ai due lati del blocco e al suo estremo settentrionale c'erano Spagna, Turchia e Svezia, formalmente neutrali ma di fatto incluse nella sfera politicoeconomica dell'Asse. All'interno di questo blocco l'Italia aveva un ruolo marginale. Il vero cuore pulsante del sistema era infatti la Germania, la cui macchina bellica lavorava a pieno ritmo, grazie anche al lavoro obbligatorio dei prigionieri di guerra e degli operai prelevati dai paesi occupati: una massa enorme di uomini valutabile a oltre 5 milioni nell'estate '42 (e a quasi 10 verso la fine della guerra). Sia la Germania sia il Giappone cercarono di costruire nelle zone sotto il loro controllo un nuovo ordine basato sulla supremazia della nazione eletta e sulla rigida subordinazione degli altri popoli alle esigenze dei dominatori. Mentre però il Giappone si appoggiò ai movimenti indipendentisti locali e fece propria, strumentalmente, la causa della lotta contro l'imperialismo europeo, la Germania non concesse nulla alle esigenze di indipendenza e di autogoverno dei popoli ad essa soggetti. Un trattamento particolarmente duro e inumano fu riservato ai popoli slavi, considerati razzialmente

inferiori e destinati, nei progetti di Hitler, a una condizione di semischiavitù: tutta l'Europa orientale doveva diventare una colonia agricola del Grande Reich, ogni traccia di industrializzazione e di urbanizzazione doveva essere cancellata, ogni forma di istruzione superiore bandita. Le élites dirigenti e gli intellettuali (a cominciare dai quadri del Partito comunista in Russia) dovevano essere sterminati fisicamente. Circa 6 milioni di civili sovietici e 2 milioni e mezzo di polacchi, senza contare gli ebrei, morirono negli anni dell'occupazione tedesca. Dei quasi 6 milioni di prigionieri di guerra russi, più della metà non fecero mai ritorno in patria. Ma la persecuzione più orribile e più spietata fu quella consumata contro gli ebrei, da sempre considerati da Hitler come il nemico principale e sottoposti in Germania, già prima della guerra, a una serie di crescenti vessazioni. In tutti i paesi occupati dai nazisti - in particolare in quelli dell'Europa orientale, dove le comunità israelitiche erano più numerose - gli ebrei furono prima confinati nei ghetti (quello di Varsavia fu teatro, nell'aprile '43, di una disperata insurrezione terminata con un massacro) e discriminati, anche visibilmente, con l'obbligo di portare al braccio una stella gialla; quindi furono deportati in campi di prigionia (lager), situati per lo più in località della Polonia o della Germania, dai nomi destinati a restare tristemente famosi (Auschwitz, Buchenwald, Dachau e molte altre). Qui i deportati venivano sfruttati fino alla consunzione fisica, usati talora come cavie per esperimenti medici e, se non erano in grado di lavorare, eliminati in massa nelle camere a gas. La "soluzione finale" del problema ebraico, progettata e avviata da Hitler a partire dal '41 e affidata principalmente alle cure delle SS, prevedeva infatti la pura e semplice eliminazione fisica degli ebrei. Fra i 5 e i 6 milioni di israeliti - provenienti da ogni parte d'Europa, ma per la maggior parte polacchi e russi - scomparvero così negli anni della guerra. Il sistema di sfruttamento, di terrore e di sterminio pianificato costruito dai tedeschi nell'Europa occupata portò alla Germania consistenti vantaggi immediati: una riserva inesauribile di forzalavoro gratuita, un flusso continuo di materie prime, un enorme prelievo di ricchezza e di beni di consumo che permise ai cittadini tedeschi di mantenere, almeno fino al '43, un livello di vita molto più elevato di quello consentito agli altri popoli europei. Questo sistema di dominio, ispirato a un cieco e irrazionale fanatismo razziale, costrinse però i tedeschi a mantenere nei territori occupati forti contingenti di truppe; suscitò nelle popolazioni soggette moti di ribellione che spesso sarebbero sfociati in resistenza armata; sollevò infine contro la Germania nazista un'ondata di odio che avrebbe finito per rivolgersi contro l'intero popolo tedesco.

Episodi di resistenza all'occupazione nazista - in forme che andavano dalla non collaborazione alla diffusione di materiale propagandistico, alla trasmissione di informazioni agli alleati, al sabotaggio - si manifestarono già nella prima fase della guerra in tutti i paesi invasi dai nazisti. Protagonisti di questi episodi erano di solito piccoli gruppi antifascisti, appoggiati dagli inglesi e legati per lo più ai governi in esilio o ai movimenti di liberazione (come la Francia libera di De Gaulle) che avevano trovato ospitalità in Gran Bretagna. Ma fu soprattutto con la primaveraestate del '41 che la resistenza al nazismo assunse in molti paesi dimensioni rilevanti. Veri movimenti popolari furono quelli che si svilupparono in Jugoslavia e in Grecia. Un salto decisivo fu poi rappresentato dall'attacco tedesco all'Urss, che portò i comunisti di tutta Europa a impegnarsi attivamente nella lotta armata contro i nazisti. Non sempre le diverse forze che confluivano nella Resistenza riuscirono a stabilire una linea d'azione comune. Nonostante avessero adottato una strategia che subordinava ogni obiettivo rivoluzionario alla lotta di liberazione nazionale - strategia voluta soprattutto da Stalin che, nel maggio '43, a garanzia della nuova linea, decise lo scioglimento del Comintern - i comunisti erano guardati con sospetto dagli angloamericani e dalle componenti moderate del fronte antifascista. Accordi unitari furono ugualmente raggiunti in Francia e, come vedremo fra poco, in Italia. Ma la collaborazione si rivelò impossibile in quei paesi dell'Europa orientale e balcanica dove più diffuso era il timore che i partiti comunisti fungessero da strumento per i piani egemonici dell'Urss. In Jugoslavia in particolare - il paese in cui il movimento di resistenza assunse più che altrove le dimensioni di una guerra di popolo - l'esercito popolare guidato dal comunista Josip Broz (più noto col nome di battaglia di Tito) prevalse nettamente sui gruppi nazionalistici e monarchici. La resistenza al nazismo rappresentò solo una faccia della realtà dell'Europa occupata dai tedeschi. In tutti i paesi invasi dalla Germania o da essa controllati, vi fu una parte più o meno consistente della popolazione che, per opportunismo o per convinzione, accettò di collaborare con i dominatori. Le forze di occupazione tedesche trovarono ovunque degli alleati per la lotta antipartigiana, dei volontari pronti ad arruolarsi nelle loro file (decine di migliaia di giovani di diversi paesi furono inquadrati nei reparti combattenti delle SS), dei leader disposti a governare in nome e alle dipendenze degli occupanti. In alcuni paesi i tedeschi si servirono di esponenti dei fascismi locali. In altri trovarono il sostegno di movimenti separatisti (gli slovacchi, gli

ustascia croati) già in lotta contro gli Stati cui appartenevano. In altri ancora, infine, furono frazioni della classe dirigente al potere prima della guerra che si assunsero la responsabilità di governare nel segno di un esasperato anticomunismo o di un malinteso spirito di realismo. Il caso più importante in questo senso fu quello della Francia di Vichy, la cui sottomissione ai tedeschi si accentuò nella primavera del '42, quando Pétain affidò il governo a Pierre Laval, già primo ministro negli anni '30. La sua accondiscendenza verso la Germania non servì a evitare che, dopo lo sbarco alleato in Nord Africa alla fine del '42, i tedeschi occupassero anche la parte meridionale del paese ponendo fine a ogni simulacro di indipendenza. Parola chiave Genocidio "Genocidio" (dal greco gènos, stirpe) è lo sterminio deliberato di tutto un popolo, a prescindere dall'età, dal sesso, dalle opinioni politiche e dalle credenze religiose dei suoi membri. Il termine fu coniato nel 1946, durante il processo di Norimberga contro i dirigenti nazisti, per indicare la più orribile delle colpe che venivano addebitate agli imputati: il massacro degli israeliti nei paesi occupati dall'esercito tedesco. Quello messo in atto dai nazisti contro gli ebrei non fu certo l'unico massacro indiscriminato compiuto nella storia ai danni di un intero popolo. Riferendosi ai secoli passati, si è parlato di genocidio in relazione ad alcune guerre di religione del Medioevo (per esempio, la crociata contro gli Albigesi) o alla decimazione degli Incas e degli Aztechi a opera dei colonizzatori spagnoli. Per restare al '900, basterà ricordare lo sterminio di oltre un milione di armeni perpetrato dai turchi durante la grande guerra [§13.7]; la deportazione - che comportava un vero e proprio "sterminio di classe" - di milioni di contadini (ma anche di intere popolazioni considerate infide, sulla base di discriminanti etniche) decisa da Stalin nel corso degli anni '30 e '40; infine il trasferimento forzato, risoltosi in una vera e propria strage, di tutta la popolazione urbana della Cambogia sotto la dittatura comunista di Pol Pot nel '75-76 [§27.9]. Sul problema dell""unicità" di quello che impropriamente viene chiamato l'olocausto, ossia il sacrificio, del popolo ebraico (e che gli ebrei preferiscono chiamare shoah, in ebraico sciagura, catastrofe) si è sviluppato in tempi recenti un acceso dibattito. Certo è difficile, e forse inutile, stabilire una graduatoria fra sterminii di massa tutti caratterizzati dal fatto di coinvolgere intere popolazioni inermi e di non risparmiare nemmeno i bambini. Si può tuttavia osservare che nessuno di questi sterminii ebbe il carattere sistematico e pianificato della "soluzione finale" progettata da Hitler, che aveva lo scopo di cancellare tutti

gli ebrei dalla faccia della terra e aveva l'aggravante di compiersi nel cuore della civilissima Europa. A maggior ragione appare improprio usare il termine "genocidio" - come spesso si è fatto negli ultimi decenni - per denunciare il carattere di indiscriminata crudeltà (soprattutto nei confronti della popolazione civile) di alcune guerre condotte contro movimenti di guerriglia partigiana (per esempio, dagli americani in Vietnam o dai sovietici in Afghanistan) o per richiamare l'attenzione sull'oppressione di minoranze etniche e su episodi particolarmente sanguinosi di repressione politica. 21.10. 1942-43: la svolta della guerra e la "grande alleanza". Le prime sconfitte giapponesi, La guerra nell'Atlantico, La battaglia di Stalingrado, La battaglia di El Alamein, Lo sbarco alleato in Nord Africa, La conferenza di Washington e il patto delle Nazioni Unite, I contrasti fra gli alleati, La conferenza di Casablanca. Fra il 1942 e il 1943, l'andamento della guerra subì una svolta decisiva su tutti i fronti. I primi segni di inversione di tendenza si ebbero nel Pacifico, dove la spinta offensiva dei giapponesi fu fermata dagli americani nel maggiogiugno '42 - nelle due battaglie del Mar dei Coralli, di fronte alle coste della Nuova Guinea, e delle isole Midway, a ovest delle Hawaii: le prime battaglie navali in cui le flotte si affrontarono senza vedersi, a decine di chilometri l'una dall'altra, bombardandosi a vicenda con gli apparecchi che decollavano dalle grandi portaerei. Dopo che, nel febbraio '43, le truppe da sbarco americane (i marines) ebbero conquistato l'isola di Guadalcanal, i giapponesi rinunciarono alle azioni offensive di ampio respiro, limitandosi a difendere le posizioni raggiunte all'inizio della guerra. Tra la fine del '42 e l'inizio del '43, un mutamento nei rapporti di forza si verificò anche nell'Atlantico, dove i tedeschi avevano condotto fin allora un'efficace guerra sottomarina contro i convogli che trasportavano armi e approvvigionamenti dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna. Gli alleati riuscirono a limitare notevolmente le perdite, grazie a una serie di innovazioni tecniche (radar più perfezionati, bombe di profondità, razzi antisommergibile) e grazie a una migliore organizzazione tattica, che consisteva nel concentrare le forze nella difesa dei convogli, anziché disperderle in una ricerca casuale, e spesso inutile, dei sommergibili nemici. Ma l'episodio decisivo di questa fase della guerra si verificò in Russia. In agosto i tedeschi iniziarono l'assedio di Stalingrado, sul Volga, punto nodale della difesa russa nel settore sudest e città simbolo che portava il nome di

Stalin. Nel novembre '42, dopo mesi di durissimi combattimenti, strada per strada, casa per casa, i sovietici contrattaccarono efficacemente sui fianchi dello schieramento nemico, e chiusero i tedeschi in una morsa. Anziché autorizzare la ritirata, Hitler ordinò la resistenza a oltranza, sacrificando così un'intera armata che, all'inizio di febbraio, fu costretta ad arrendersi. Per i tedeschi quello di Stalingrado rappresentò il più grave rovescio subito dall'inizio della guerra. Per i sovietici e per gli antifascisti di tutto il mondo, Stalingrado divenne immediatamente un simbolo di riscossa, il segno più evidente della svolta intervenuta nel corso del conflitto. Negli stessi mesi in cui tedeschi e sovietici combattevano attorno a Stalingrado, un'altra decisiva battaglia vedeva l'esercito britannico impegnato nel deserto del Nord Africa contro il contingente italotedesco del generale Rommel, che era giunto ad El Alamein, a soli 80 chilometri da Alessandria. A fine ottobre il generale Montgomery, comandante delle forze britanniche, poteva lanciare la controffensiva disponendo di una notevole superiorità in uomini e mezzi. Ai primi di novembre gli italotedeschi avevano perso la battaglia e cominciavano una lunga ritirata che li avrebbe portati, in tre mesi, a ripercorrere a ritroso tutto il litorale libico fino alla Tunisia. Frattanto, nel novembre '42, un contingente alleato era sbarcato in Algeria e in Marocco. Le truppe dell'Asse, prese fra due fuochi, dovettero arrendersi, nel maggio '43, alle preponderanti forze alleate. Con la definitiva cacciata dall'Africa di italiani e tedeschi, gli alleati potevano prepararsi ad attaccare la "fortezza Europa". Per gli angloamericani e i sovietici, trovatisi a combattere dalla stessa parte più per scelta altrui che per propria volontà, si faceva più urgente a questo punto la necessità di elaborare una strategia comune per battere le potenze fasciste. Già nella conferenza tenuta a Washington fra il dicembre '41 e il gennaio '42, tutte le 26 nazioni in guerra contro il Tripartito (oltre ai "tre grandi" - Usa, Urss e Gran Bretagna - c'erano anche i paesi del Commonwealth e numerosi rappresentanti di Stati occupati dai tedeschi) si erano riunite per sottoscrivere il patto detto delle Nazioni Unite: i contraenti si impegnavano a tener fede ai princìpi della Carta atlantica, a combattere le potenze fasciste, a non concludere armistizi o paci separate. L'impegno comune non bastava però a cancellare né le divergenze ideologiche né i contrasti strategici. Il contrasto più grave riguardava i tempi e i modi con cui procedere all'apertura di un secondo fronte in Europa. Stalin lo avrebbe voluto subito, possibilmente nell'Europa del Nord, per alleggerire la pressione tedesca sull'Urss. Churchill voleva prima chiudere la partita in Africa e pensava a un successivo sbarco nell'Europa meridionale. Prevalse alla fine il punto di vista inglese. Nella conferenza di Casablanca

in Marocco (gennaio 1943) inglesi e americani decisero che, una volta chiuso il fronte africano, lo sbarco sarebbe avvenuto in Italia, considerata l'obiettivo più facile sia per motivi logistici (la vicinanza della Sicilia alle coste della Tunisia), sia per ragioni politicomilitari (lo stato di crisi in cui versavano le forze armate italiane e lo stesso regime fascista). Nella stessa conferenza, con una decisione di portata storica che serviva soprattutto a rassicurare i russi sulla serietà dell'impegno alleato, gli angloamericani si accordavano sul principio della resa incondizionata da imporre agli avversari: la guerra sarebbe continuata fino alla vittoria totale, senza patteggiamenti di sorta con la Germania o con i suoi alleati. 21.11. La caduta del fascismo e l'8 settembre. Lo sbarco in Sicilia, La crisi del fascismo e gli scioperi del marzo '43, La "congiura monarchica" e il 25 luglio, L'arresto di Mussolini e il crollo del fascismo, Il problema della guerra, L'armistizio con gli alleati, L'Italia nel caos, La tragedia delle forze armate, L'arresto dell'offensiva alleata L'Italia divisa. La campagna d'Italia ebbe inizio il 12 giugno 1943 con la conquista alleata dell'isola di Pantelleria. Un mese dopo (10 luglio) i primi contingenti angloamericani sbarcavano in Sicilia e in poche settimane si impadronivano dell'isola, mal difesa da truppe in larga parte convinte dell'inevitabilità della sconfitta. Anche la popolazione locale non oppose alcuna resistenza e spesso accolse gli alleati come liberatori. Lo sbarco angloamericano rappresentò il colpo di grazia per il regime fascista che, screditato da un'incredibile serie di insuccessi militari, vedeva già da tempo moltiplicarsi al suo interno i segni di malcontento e di crisi. Un sintomo allarmante era venuto, nel marzo 1943, dai grandi scioperi operai che, partendo da Torino, avevano interessato tutti i maggiori centri industriali del Nord. La prima vera protesta di massa del periodo fascista era il sintomo di un diffuso disagio popolare legato al carovita, all'acuirsi dei disagi alimentari, agli effetti dei bombardamenti aerei alleati che, nell'inverno '42-43, avevano colpito sempre più frequentemente le città italiane; ma in essa aveva avuto parte anche l'iniziativa di nuclei clandestini comunisti. A determinare la caduta di Mussolini non furono però le proteste popolari, né le iniziative dei partiti antifascisti, ancora sconosciute alla maggioranza della popolazione. Fu invece una sorta di congiura che faceva capo alla corona - unica fonte di potere formalmente indipendente dal

fascismo - e vedeva tutte le componenti moderate del regime (industriali, militari, gerarchi dell'ala monarchicoconservatrice) unite ad alcuni esponenti del mondo politico prefascista nel tentativo di portare il paese fuori da una guerra ormai perduta e di assicurare la sopravvivenza della monarchia. Il pretesto formale per l'intervento del re fu offerto da una riunione del Gran consiglio del fascismo, tenutasi nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943 e conclusasi con l'approvazione a forte maggioranza di un ordine del giorno presentato da Dino Grandi, che invitava il re a riassumere le sue funzioni di comandante supremo delle forze armate e suonava quindi come esplicita sfiducia nei confronti del duce. Il pomeriggio del 25 luglio, Mussolini era convocato da Vittorio Emanuele III, invitato a rassegnare le dimissioni e immediatamente arrestato dai carabinieri. Capo del governo era nominato il maresciallo Pietro Badoglio, ex comandante delle forze armate. L'annuncio della caduta di Mussolini fu accolto dalla popolazione con incontenibili manifestazioni di esultanza. La gente scese per le strade e sfogò il suo risentimento contro sedi e simboli del regime. Non vi fu spargimento di sangue, anche perché il Partito fascista, che per vent'anni aveva riempito la scena politica italiana, scomparve praticamente nel nulla con tutte le sue mastodontiche organizzazioni collaterali, prima ancora che Badoglio provvedesse a scioglierlo d'autorità. Quello del fascismo fu un crollo repentino e inglorioso, spiegabile in parte con le debolezze interne di un apparato privo di autonomia e di iniziativa politica, in parte col discredito che negli anni di guerra si era accumulato sul regime e sul suo capo. L'entusiasmo con cui il paese accolse la caduta del fascismo era dovuto non tanto alla gioia per la riconquistata libertà, quanto alla diffusa speranza di una prossima fine della guerra. L'uscita dal conflitto si sarebbe però rivelata per l'Italia più tragica di quanto non fosse stata la guerra stessa. I tedeschi, che già avevano inviato in Italia forti contingenti di truppe per contrastare l'avanzata alleata, si affrettarono a rafforzare la loro presenza militare per prevenire, o punire, la ormai prevedibile defezione. Il governo Badoglio, dal canto suo, proclamò che nulla sarebbe cambiato nell'impegno bellico italiano. Ma intanto allacciò trattative segretissime con gli alleati per giungere a una pace separata. Con gli angloamericani, legati all'impegno della "resa incondizionata", c'era però ben poco da trattare. Quello che i negoziatori italiani dovettero sottoscrivere fu appunto un atto di resa senza nessuna garanzia per il futuro. Firmato il 3 settembre, l'armistizio fu reso noto solo l'8 settembre, in coincidenza con lo sbarco di un contingente alleato a Salerno.

L'annuncio dell'armistizio, comunicato da Badoglio al paese con un messaggio radiofonico, gettò l'Italia nel caos più completo. Mentre il re e il governo abbandonavano la capitale per riparare a Brindisi, sotto la protezione degli alleati appena sbarcati in Puglia, i tedeschi procedevano a una sistematica occupazione di tutta la parte centrosettentrionale dell'Italia. Abbandonate a se stesse, con ordini vaghi e contraddittori, le truppe si sbandarono senza poter opporre ai tedeschi una resistenza organizzata. Roma, nei cui pressi erano dislocate alcune fra le migliori unità, fu inutilmente difesa solo da alcuni reparti isolati ai quali si unirono gruppi di civili armati (gli scontri, che ebbero luogo a Porta San Paolo, furono il primo episodio della Resistenza italiana). Ben 600.000 furono i militari fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Germania. Molti soldati fuggirono cercando di tornare alle loro case. Gli episodi di aperta resistenza, che pure non mancarono, furono puniti dai tedeschi con veri e propri massacri: il più grave avvenne nell'isola greca di Cefalonia dove fu sterminata un'intera divisione italiana che aveva rifiutato di arrendersi. Le conseguenze del disastro dell'8 settembre si ripercossero anche sull'andamento della campagna d'Italia. Attestatisi su una linea difensiva (la linea Gustav) che andava da Gaeta alla foce del Sangro (poco a sud di Pescara) e aveva il suo punto nodale nella zona di Cassino, i tedeschi riuscirono a bloccare l'offensiva alleata fino alla primavera dell'anno successivo. Diventata campo di battaglia per eserciti stranieri, per la prima volta dopo le guerre napoleoniche, l'Italia doveva affrontare i momenti più duri di tutta la sua storia unitaria. 21.12. Resistenza e lotta politica in Italia. La liberazione di Mussolini e la Repubblica sociale, L'occupazione tedesca, La resistenza armata, Le formazioni partigiane, La ricostituzione dei partiti antifascisti, La nascita del Cln, Il Cln e il governo Badoglio, Togliatti e la svolta di Salerno, Il governo di unità nazionale e la tregua istituzionale, Il governo Bonomi, Il rafforzamento della Resistenza, Le repubbliche partigiane, Contrasti e difficoltà, Il difficile inverno '44-45. A partire dall'autunno 1943, l'Italia fu non solo divisa di fatto da un fronte, ma anche spezzata in due entità statali distinte, in guerra l'una contro l'altra. Mentre nel Sud il vecchio Stato monarchico sopravviveva col suo governo e la sua burocrazia, esercitando la sua sovranità sotto il controllo alleato, nell'Italia settentrionale il fascismo risorgeva dalle sue ceneri sotto la protezione degli occupanti nazisti.

Il 12 settembre 1943, un commando di aviatori e paracadutisti tedeschi liberò Mussolini dalla prigionia di Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Pochi giorni dopo, il duce annunciò la sua intenzione di dar vita, nell'Italia occupata dai tedeschi, a un nuovo Stato fascista, la Repubblica sociale italiana (Rsi), a un nuovo Partito fascista repubblicano e a un nuovo esercito che continuasse a combattere a fianco degli antichi alleati. La Rsi, che stabilì la sua capitale a Salò, sul lago di Garda, si proponeva di combattere contro gli artefici del "tradimento" del 25 luglio: monarchici, "badogliani" e fascisti moderati (cinque dei gerarchi che avevano votato l'ordine del giorno Grandi - fra cui il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano - furono fucilati a Verona nel gennaio '44 dopo un sommario processo). Il regime repubblicano (o repubblichino com'era spregiativamente chiamato dagli antifascisti) cercò di guadagnare consensi riesumando le parole d'ordine pseudorivoluzionarie del primo fascismo e lanciando un programma di socializzazione delle imprese industriali, che in realtà non riuscì mai a decollare. In generale la Repubblica di Mussolini non acquistò mai una vera credibilità per la sua totale dipendenza dai tedeschi, che si comportavano a tutti gli effetti come un esercito di occupazione, praticando un intenso sfruttamento delle risorse economiche e umane dei territori controllati requisizioni di ogni sorta di materiale, deportazione di lavoratori in Germania - e applicandovi le politiche razziali già sperimentate negli altri paesi occupati: l'episodio più tragico si verificò il 16 ottobre '43, quando oltre 1000 ebrei di Roma (la più antica comunità israelitica d'Europa) furono prelevati nelle loro case e inviati nel campo di sterminio di Auschwitz, dal quale pochissimi fecero ritorno. La principale funzione effettivamente svolta dal governo di Salò fu quella di reprimere e combattere il movimento partigiano che stava nascendo nell'Italia occupata per opporsi ai tedeschi. Le regioni del CentroNord diventavano così teatro di una guerra civile tra italiani, che si sovrapponeva a quella combattuta dagli eserciti stranieri. Le prime formazioni armate si raccolsero sulle montagne dell'Italia centrosettentrionale subito dopo l'8 settembre e nacquero dall'incontro fra i piccoli nuclei di militanti antifascisti già attivi nel paese e i gruppi di militari sbandati che non avevano voluto consegnarsi ai tedeschi. I partigiani agivano soprattutto lontano dai centri abitati, con attacchi improvvisi ai reparti tedeschi e con azioni di sabotaggio e disturbo; ma erano presenti anche nelle città con i Gruppi di azione patriottica, piccole formazioni di tre o quattro uomini che compivano attentati contro militari o contro singole personalità tedesche e "repubblichine". In qualche caso i tedeschi risposero con spietate rappresaglie: particolarmente feroce quella

messa in atto a Roma, nel marzo '44, quando, in risposta a un attentato in cui avevano trovato la morte 33 militari tedeschi, furono fucilati alle Fosse Ardeatine 335 detenuti, ebrei, antifascisti e militari "badogliani" (in una proporzione di 10 a 1, con 5 in più aggiunti per errore). Dopo una prima fase di aggregazione spontanea e spesso casuale, le bande partigiane si andarono organizzando in base all'orientamento politico prevalente fra i loro membri: le Brigate Garibaldi, le più numerose e attive, erano formate in maggioranza da comunisti; le formazioni di Giustizia e Libertà, anch'esse abbastanza consistenti, si ricollegavano all'omonimo movimento antifascista degli anni '30 [§19.7] e al nuovo Partito d'azione che ne aveva raccolto l'eredità; le Brigate Matteotti erano legate ai socialisti; vi erano anche formazioni cattoliche e liberali e bande autonome composte per lo più da militari di orientamento monarchico. Fin dall'inizio, dunque, le vicende della Resistenza si intrecciarono strettamente con quelle dei partiti antifascisti, riemersi alla luce durante i "quarantacinque giorni" che separarono la caduta del fascismo dall'annuncio dell'armistizio. Già prima della caduta del fascismo era sorto, dalla confluenza di diversi gruppi che si collocavano in area intermedia fra il liberalismo progressista e il socialismo, il Partito d'azione (Pda). Nello stesso periodo numerosi esponenti cattolici, per lo più ex popolari, avevano elaborato, col cauto appoggio delle gerarchie ecclesiastiche, il programma di una nuova formazione destinata a raccogliere l'eredità del Partito popolare: la Democrazia cristiana (Dc). Subito dopo il 25 luglio, fu costituito il Partito liberale (Pli) e rinacquero il Partito repubblicano (Pri) e quello socialista, col nome di Partito socialista di unità proletaria (Psiup). Quanto ai comunisti, da sempre presenti nel paese coi loro nuclei clandestini e già attivi negli scioperi di marzo, riuscirono a ricostituire buona parte del loro gruppo dirigente, soprattutto dopo la liberazione, avvenuta in agosto, di molti leader dal carcere o dal confino. Nei giorni immediatamente successivi all'8 settembre, i rappresentanti di sei partiti (Pci, Psiup, Dc, Pli, Pda, oltre alla Democrazia del lavoro, appena fondata da Ivanoe Bonomi) si riunirono a Roma e si costituirono in Comitato di liberazione nazionale (Cln), incitando la popolazione "alla lotta e alla resistenza [...] per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni". I partiti antifascisti si proponevano così come guida e rappresentanza dell'Italia democratica, in contrapposizione non solo agli occupanti tedeschi e ai loro collaboratori fascisti, ma allo stesso sovrano, corresponsabile della dittatura e della guerra, e al governo Badoglio, di cui il Cln chiese la sostituzione.

Nati per lo più dall'iniziativa isolata di piccoli gruppi, privi di una base di massa nell'Italia liberata e forti solo del prestigio che veniva loro dal fatto di rappresentare politicamente il nascente movimento partigiano, divisi fra un'ala di sinistra (Pci, Psiup, Pda) e una di centrodestra (Dc, Pli, Democrazia del lavoro), i partiti del Cln non avevano però la forza per imporre il loro punto di vista. Infatti il governo Badoglio godeva della fiducia degli alleati, in quanto garante degli impegni assunti con l'armistizio. Nell'ottobre '43 il governo dichiarò guerra alla Germania e ottenne per l'Italia la qualifica di "cobelligerante"; un Corpo italiano di liberazione combatté in effetti a fianco degli angloamericani, in rappresentanza del ricostituito esercito italiano. Il contrasto tra Cln e governo fu sbloccato solo nel marzo 1944 dall'inattesa e spregiudicata iniziativa del leader comunista Palmiro Togliatti, giunto in Italia dall'Urss dopo un esilio durato quasi vent'anni. Appena sbarcato a Napoli, Togliatti, scavalcando la posizione ufficiale del Cln, propose di accantonare ogni pregiudiziale contro il re o contro Badoglio e di formare un governo di unità nazionale capace di concentrare le sue energie sul problema prioritario della guerra e della lotta al fascismo. La svolta di Salerno (così chiamata perché Salerno era allora la capitale provvisoria del "Regno del Sud"), era in armonia con le scelte dell'Urss (che aveva già riconosciuto il governo Badoglio), ma serviva anche a legittimare il Pci agli occhi degli alleati e dell'opinione pubblica moderata. La scelta togliattiana, criticata da socialisti e azionisti, consentì comunque di formare, il 24 aprile, il primo governo di unità nazionale, presieduto sempre da Badoglio e comprendente i rappresentanti dei partiti del Cln. Da parte sua Vittorio Emanuele III si impegnò, una volta liberata Roma, a trasmettere provvisoriamente i suoi poteri al figlio Umberto, in attesa che, a guerra finita, fosse il popolo a decidere la sorte dell'istituzione monarchica. Nel giugno 1944, dopo che Roma era stata liberata dagli alleati, Umberto assunse la luogotenenza generale del Regno. Badoglio si dimise e lasciò il posto a un nuovo governo di unità nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi, emanazione diretta del Cln. L'avvento del governo Bonomi significò un più stretto collegamento fra i poteri legali dell'Italia liberata e il movimento di resistenza, che conobbe nell'estate '44, in coincidenza con l'avanzata alleata nelle regioni centrali, il suo momento di maggior vitalità. Le formazioni partigiane, che già dal gennaio avevano la loro guida politica nel Cln Alta Italia (Clnai), si diedero anche una direzione militare con la costituzione, nel giugno '44, di un comando unificato. La base di reclutamento delle bande si allargò, soprattutto fra gli strati operai e contadini, anche per l'afflusso di molti

giovani renitenti alla leva decretata nel novembre del '43 dal governo di Salò. Le azioni militari dei partigiani (oltre 100.000 nell'estate '44) divennero più ampie e frequenti, nonostante le feroci rappresaglie effettuate dai tedeschi (la più terribile fu quella messa in atto a Marzabotto, nell'Appennino bolognese, dove, nel settembre '44, furono uccisi 770 civili, in pratica l'intera popolazione del paese). Molte città, fra cui Firenze, furono liberate prima dell'arrivo degli alleati. In alcune zone dell'Italia settentrionale (la Val d'Ossola, le Langhe, l'Oltrepò pavese) la Resistenza riuscì addirittura a creare delle "repubbliche partigiane", amministrate secondo modelli di autogoverno popolare. Questa attività - che testimoniava l'esistenza di un'Italia decisa a tagliare i ponti con l'esperienza fascista e disposta a dare un contributo attivo alla causa alleata - aveva un valore politico e simbolico molto superiore alla sua reale forza militare. Questa era limitata sia dai contrasti che attraversavano il movimento partigiano (e che talvolta sfociarono in aperto conflitto), sia, soprattutto, dall'obiettiva difficoltà di coinvolgere e di mobilitare il grosso della popolazione: una popolazione traumatizzata dagli eventi bellici, preoccupata soprattutto della propria sopravvivenza e quindi incline a non prendere esplicitamente partito in uno scontro il cui rapido esito restava affidato essenzialmente all'azione delle armate angloamericane. I limiti e le contraddizioni del movimento resistenziale vennero alla luce nell'autunno del '44, quando l'offensiva alleata sul fronte italiano diventato secondario nel quadro della strategia alleata [§21.13] - si bloccò lungo la linea gotica, fra Rimini e La Spezia. La Resistenza visse allora il suo momento più difficile. Il proclama del generale inglese Alexander che, nel novembre '44, invitava i partigiani a sospendere le operazioni su vasta scala, provocò malintesi e polemiche fra i capi della Resistenza da una parte, gli alleati e il governo di Roma dall'altra. I contrasti furono comunque superati e in dicembre il ministero Bonomi riconobbe il Clnai come suo rappresentante nell'Italia occupata. Nonostante i sistematici rastrellamenti dei tedeschi e dei repubblichini (che rioccuparono una dopo l'altra le "zone liberate"), il movimento partigiano riuscì a mantenersi attivo e a sopravvivere al difficile inverno '44-45. Nella primavera del '45, con la ripresa dell'offensiva alleata e il definitivo cedimento delle difese tedesche, la Resistenza, forte ora di 200.000 uomini armati, sarebbe stata pronta a promuovere l'insurrezione generale contro gli occupanti in ritirata. 21.13. Le vittorie sovietiche e lo sbarco in Normandia.

L'avanzata dell'Armata rossa, La conferenza di Teheran, Lo sbarco in Normandia, La liberazione della Francia. Fra il 1943 e il 1944, mentre gli angloamericani erano impegnati nella lunga campagna d'Italia, i sovietici riprendevano l'iniziativa su tutto il fronte orientale. Dopo aver respinto, nel luglio '43, l'ultimo attacco in forze tedesco, l'Armata rossa iniziò una lenta ma inarrestabile avanzata che si sarebbe conclusa solo nell'aprilemaggio '45 con la conquista di Berlino. Le vittorie sovietiche, ottenute a prezzo di un eccezionale sforzo organizzativo e di un enorme sacrificio di vite umane, consentirono all'Unione Sovietica di accrescere notevolmente il suo peso contrattuale in seno alla "grande alleanza". Il nuovo ruolo dell'Urss emerse chiaramente nella conferenza interalleata di Teheran (novembredicembre 1943), la prima in cui i "tre grandi" - Roosevelt, Stalin e Churchill - si incontrarono personalmente. Questa volta Stalin ottenne dagli angloamericani l'impegno, da tempo sollecitato, per uno sbarco in forze sulle coste francesi, da attuarsi nella primavera del '44. Si trattava di un'operazione rischiosa, anche perché i tedeschi avevano munito tutta la zona costiera con imponenti fortificazioni difensive (il cosiddetto vallo atlantico). Per attuare il piano, che prevedeva lo sbarco sulle coste settentrionali della Normandia, furono necessari un lungo lavoro di preparazione e un eccezionale spiegamento di mezzi, tale da assicurare agli alleati - che agivano sotto il comando unificato del generale americano Eisenhower - una schiacciante superiorità aeronavale. L'operazione Overlord - questo il nome in codice dello sbarco in Normandia - scattò all'alba del 6 giugno 1944, preparata da un'impressionante serie di bombardamenti e da un nutrito lancio di paracadutisti. Nonostante l'accanita resistenza tedesca, gli attaccanti riuscirono a far sbarcare in territorio francese, nelle successive quattro settimane, oltre un milione e mezzo di uomini. Alla fine di luglio, dopo due mesi di combattimenti, gli alleati riuscirono a sfondare le difese tedesche e a dilagare nel Nord della Francia. Il 25 agosto, gli angloamericani e i reparti di De Gaulle entravano a Parigi, già liberata dai partigiani. In settembre la Francia era quasi completamente liberata. L'esercito tedesco, logorato dalla tattica suicida imposta da Hitler, che pretendeva ovunque la resistenza a oltranza, era in piena crisi. Ma a questo punto, per una serie di errori dei comandi alleati, l'offensiva si arrestò e i tedeschi poterono riorganizzare le loro forze su una linea molto vicina al confine del '39. Il crollo del Terzo Reich era però soltanto rinviato.

La seconda guerra mondiale (1942-1945) (cartina p.437). 21.14. La fine del Terzo Reich. Il crollo degli alleati della Germania, I bombardamenti sulla Germania, L'intransigenza di Hitler, La tenuta della grande alleanza, La conferenza di Yalta, L'ultima offensiva degli alleati, L'insurrezione nell'Italia settentrionale, La morte di Hitler e la resa tedesca. Nell'autunno 1944 la Germania poteva considerarsi virtualmente sconfitta. Il fronte dei suoi alleati si stava sfaldando. In agosto, la Romania aveva cambiato fronte, seguita a breve distanza dalla Bulgaria. Fra agosto e ottobre la Finlandia e l'Ungheria avevano chiesto l'armistizio all'Urss. Sempre in ottobre, i russi e i partigiani jugoslavi erano entrati in Belgrado liberata, mentre gli inglesi erano sbarcati in Grecia. L'offensiva alleata si era momentaneamente arrestata in Francia, in Italia e in Polonia. Ma la sproporzione di forze fra i due schieramenti era tale da non lasciare alcun dubbio sull'esito dello scontro. Il territorio del Reich non era ancora stato toccato da eserciti stranieri, ma era sottoposto a continui bombardamenti da parte degli alleati che disponevano ormai del dominio dell'aria. L'offensiva aerea contro la Germania aveva lo scopo non solo di colpire la produzione industriale e il sistema di comunicazioni, ma anche di "demoralizzare" il popolo tedesco fino a minarne la capacità di resistenza. Un milione e mezzo di tonnellate di bombe furono lanciate sulla Germania (900.000 nel solo 1944) e metà delle incursioni furono dirette contro obiettivi non militari. Molte città tedesche (fra cui Amburgo e Dresda) furono ridotte a cumuli di macerie. In tutto, oltre 600.000 civili perirono sotto i bombardamenti. Nemmeno i bombardamenti servirono, però, a piegare la feroce determinazione del Fuhrer. Hitler, da un lato, era deciso a rifiutare ogni ipotesi di resa e a far sì che l'intero popolo tedesco condividesse fino in fondo la sorte del regime nazista. Dall'altro, continuò a illudersi di poter rovesciare la situazione bellica grazie all'impiego di nuove "armi segrete" (i razzi telecomandati V1 e V2, che furono in effetti lanciati contro le città inglesi, ma con risultati tutt'altro che decisivi) o per un'improvvisa rottura dell""innaturale" alleanza fra l'Urss e le democrazie occidentali. Questa ipotesi era in realtà del tutto infondata. Nonostante la accesa concorrenzialità che si manifestava all'interno della "grande alleanza", angloamericani e sovietici continuarono a tener fede agli impegni già assunti e a cercare accordi globali per la sistemazione dell'Europa

postbellica. Nella conferenza di Mosca dell'ottobre '44, Churchill e Stalin abbozzarono una divisione in sfere d'influenza dei paesi balcanici (Romania e Bulgaria all'Urss, Grecia alla Gran Bretagna, situazione di equilibrio in Jugoslavia e Ungheria) che, in contrasto con le proclamazioni della Carta atlantica, non teneva in alcun conto la volontà dei popoli interessati. I tre grandi tornarono a incontrarsi nella cittadina termale di Yalta, in Crimea, nel febbraio 1945. In questa occasione fu stabilito, fra l'altro, che la Germania sarebbe stata divisa in quattro zone di occupazione (una delle quali riservata alla Francia) e sottoposta a radicali misure di "denazificazione"; che i popoli dei paesi liberati avrebbero potuto esprimersi mediante libere elezioni; che, per quanto riguardava la Polonia (uno dei maggiori punti di contrasto), il governo sarebbe dovuto nascere da un accordo fra la componente comunista e quella filooccidentale. In cambio delle assicurazioni ottenute, l'Urss si impegnò a entrare in guerra contro il Giappone. Mentre i grandi discutevano a Yalta sulle sorti future dell'Europa, era già scattata l'offensiva finale che, nel giro di pochi mesi, avrebbe portato al crollo del Terzo Reich. A metà gennaio, dopo un'ultima disperata controffensiva tedesca nelle Ardenne, gli alleati riprendevano l'iniziativa su tutti i fronti. I sovietici, dopo aver conquistato Varsavia, attraversavano tutto il restante territorio polacco. In febbraio erano già a poche decine di chilometri da Berlino (un obiettivo che Stalin teneva moltissimo a raggiungere prima degli angloamericani). Più a sud l'Armata rossa cacciava i tedeschi dall'Ungheria per poi puntare su Vienna, che fu raggiunta il 23 aprile e su Praga, liberata il 4 maggio. Frattanto gli angloamericani attaccavano sul Reno, che fu attraversato il 22 marzo, e dilagavano nel cuore della Germania incontrando, per la prima volta dall'inizio della guerra, una scarsissima resistenza da parte dei soldati tedeschi, che invece continuavano a combattere con disperato accanimento sul fronte orientale (al doppio scopo di proteggere la fuga dei civili dalla devastante avanzata dell'Armata rossa e di ridurre per quanto possibile la zona di occupazione dell'Urss). Il 25 aprile le avanguardie alleate raggiungevano l'Elba e si congiungevano coi sovietici che stavano accerchiando Berlino. In aprile crollava anche il fronte italiano. Il 25 aprile, mentre il Cln lanciava l'ordine dell'insurrezione generale contro il nemico in ritirata, i tedeschi abbandonavano Milano. Mussolini, che tentava di fuggire in Svizzera travestito da soldato tedesco, fu catturato e fucilato dai partigiani il 28, assieme ad altri gerarchi. Il suo cadavere, impiccato per i piedi, fu esposto per alcune ore a piazzale Loreto, a Milano.

Il 30 aprile, mentre i russi stavano entrando a Berlino, Hitler si suicidò nel bunker sotterraneo dove era stata trasferita la sede del governo, lasciando la presidenza del Reich all'ammiraglio Karl Dönitz, che chiese subito la resa agli alleati. Il 7 maggio 1945, nel quartier generale alleato a Reims, fu firmato l'atto di capitolazione delle forze armate tedesche. Le ostilità cessarono nella notte fra l'8 e il 9 maggio. La guerra europea si concludeva così, a cinque anni e otto mesi dal suo inizio, con la morte dei due dittatori che più d'ogni altro avevano contribuito a scatenarla. Ma il conflitto mondiale proseguiva in Estremo Oriente, dove il Giappone, ormai isolato, continuava ostinatamente a combattere. 21.15. La sconfitta del Giappone e la bomba atomica. L'offensiva americana nel Pacifico, La bomba atomica, La resa del Giappone. A partire dal 1943, nonostante la priorità accordata al fronte europeo, gli Stati Uniti avevano iniziato una lenta riconquista delle posizioni perdute nel Pacifico, valendosi di una superiorità che si faceva sempre più netta man mano che l'industria statunitense dispiegava tutto il suo enorme potenziale. Decisivo fu soprattutto l'apporto delle grandi portaerei (capaci di trasportare fino a cinquanta apparecchi) e dei bombardieri strategici (le "superfortezze volanti") che, dalla fine del '44, cominciarono a bombardare sistematicamente il territorio nipponico. Nell'estate del '45 gli alleati, ormai liberi da impegni bellici in Europa, erano pronti a portare l'attacco nel territorio nemico. Un nemico che però continuava a combattere con eccezionale accanimento, rifiutando di arrendersi anche nelle condizioni più disperate e facendo ampio ricorso all'azione dei kamikaze, aviatori suicidi che si gettavano sulle navi avversarie con i loro aerei carichi di esplosivo. Fu a questo punto che il nuovo presidente americano Harry Truman (Roosevelt era morto il 12 aprile 1945) decise di impiegare contro il Giappone la nuova arma "totale", la bomba a fissione nucleare o bomba atomica, che era stata appena messa a punto da un gruppo di scienziati [§17.9] e sperimentata per la prima volta in luglio nel deserto del Nuovo Messico. La decisione di Truman serviva innanzitutto ad abbreviare una guerra che si annunciava ancora lunga e sanguinosa, ma aveva anche lo scopo di offrire al mondo (e soprattutto agli alleatirivali sovietici) la dimostrazione della potenza militare americana. Il 6 agosto 1945, un bombardiere americano sganciava la prima bomba atomica sulla città di Hiroshima. Tre giorni dopo l'operazione era ripetuta a Nagasaki. In

entrambi i casi le conseguenze furono spaventose: non solo per il numero dei morti (100.000 a Hiroshima, 60.000 a Nagasaki) e per la distruzione totale delle due città, ma anche per gli effetti di lungo periodo su quanti erano stati contaminati dalle radiazioni. Il 15 agosto, dopo che l'Urss aveva anch'essa dichiarato guerra al Giappone, l'imperatore Hirohito offrì agli alleati la resa senza condizioni. Con la firma dell'armistizio, il 2 settembre 1945, si concludeva così il secondo conflitto mondiale. Sommario La distruzione della Cecoslovacchia (marzo '39) determinò una svolta nella politica anglofrancese verso la Germania. In risposta alle mire tedesche sulla Polonia, Francia e Inghilterra conclusero un'alleanza con questo paese. Decisivo divenne a quel punto l'atteggiamento dell'Urss: ma, per reciproche diffidenze, le trattative fra sovietici e anglofrancesi si arenarono. Garantitosi a est con il patto di non aggressione con l'Urss (agosto), Hitler poté attaccare subito dopo la Polonia (1° settembre 1939). Francia e Inghilterra dichiararono guerra alla Germania mentre l'Italia - che da poco aveva concluso il "patto d'acciaio" con i tedeschi - annunciò la "non belligeranza". La conquista tedesca della Polonia fu rapidissima, grazie al nuovo tipo di "guerralampo" praticato dai tedeschi (uso congiunto di aviazione e mezzi corazzati). Nei primi mesi la guerra si svolse in pratica solo a nord: la Russia attaccò la Finlandia, la Germania occupò Danimarca e Norvegia. Nel maggiogiugno 1940 l'offensiva tedesca sul fronte occidentale si risolse in un travolgente successo: la parte centrosettentrionale della Francia fu occupata dai tedeschi, mentre la sovranità francese si esercitava su quella meridionale (la Repubblica di Vichy), di fatto subordinata alla Germania. Il 10 giugno '40, convinto che la guerra stesse ormai per finire, Mussolini annunciò l'intervento dell'Italia a fianco dell'alleato nazista. Ma l'esercito italiano fornì una pessima prova sia contro i francesi, sia - in Africa e nel Mediterraneo contro gli inglesi. I successivi insuccessi in Grecia e nel Nord Africa obbligarono gli italiani a chiedere l'aiuto dei tedeschi: finiva così l'illusione di una "guerra parallela". Rimasta sola a combattere contro le potenze fasciste, l'Inghilterra, sotto la guida energica del primo ministro Churchill, riuscì a respingere il tentativo tedesco di invadere le isole britanniche. La battaglia d'Inghilterra dell'estate '40 - combattuta soprattutto nell'aria - segnò così per la Germania la prima battuta d'arresto.

Nel 1941 il conflitto entrò in una nuova fase, divenendo effettivamente mondiale. Nell'estate la Germania invase l'Urss, riportando notevoli successi ma finendo con l'immobilizzare su quel fronte, in una guerra di usura, gran parte del proprio esercito. In dicembre gli Stati Uniti - che già sostenevano economicamente lo sforzo bellico inglese - entrarono anch'essi in guerra dopo l'attacco che la loro flotta subì a Pearl Harbor ad opera del Giappone (unito alle potenze dell'Asse dal "patto tripartito"). Nella primaveraestate del 1942 le potenze del Tripartito raggiunsero la loro massima espansione. Nelle zone occupate, il Giappone e la Germania cercarono di costruire un "nuovo ordine" fondato sulla supremazia della nazione "eletta". I tedeschi, in particolare, miravano a ridurre i popoli slavi in condizioni di semischiavitù. La persecuzione si concentrò, però, soprattutto contro gli ebrei: dai 5 ai 6 milioni ne furono sterminati nei lager. Soprattutto dopo l'attacco tedesco all'Urss, si svilupparono in Europa movimenti di resistenza (pur attraversati da divisioni fra comunisti e non comunisti). In molti dei paesi controllati dai nazisti una parte della popolazione e della classe dirigente accettò di collaborare con gli occupanti. Nel 1942-43 si ebbe una svolta nella guerra. I giapponesi subirono alcune sconfitte nel Pacifico. Sul fronte russo la lunga e sanguinosa battaglia di Stalingrado si risolse in una sconfitta dei tedeschi. Sul fronte nordafricano gli alleati fermarono le forze dell'Asse a El Alamein e le costrinsero a ritirarsi. Nel luglio '43 gli angloamericani sbarcarono in Sicilia. Gli insuccessi militari ormai drammatici furono all'origine della caduta di Mussolini (25 luglio '43). L'8 settembre veniva annunciato l'armistizio fra l'Italia e gli angloamericani. Mentre il re e Badoglio fuggivano a Brindisi, i tedeschi occupavano l'Italia centrosettentrionale; prive di chiare direttive, le forze armate italiane si sbandarono. A quel punto il paese era diviso in due: lo Stato monarchico sopravviveva nel Sud occupato dagli alleati. Al Nord Mussolini costituiva la Repubblica sociale italiana, del tutto soggetta al controllo dei tedeschi. Alla fine del '43 si formarono le prime bande partigiane. Tra la fine del '42 e l'estate del '43 si erano ricostituiti i partiti antifascisti, che nel settembre '43 diedero vita al Comitato di liberazione nazionale. La contrapposizione tra Cln e governo Badoglio si sbloccò per l'intervento di Togliatti, che propose di accantonare ogni pregiudiziale contro il re o Badoglio. Nell'aprile '44 si formò il primo governo di unità nazionale, con i partiti del Cln. Dopo la liberazione di Roma il re trasmise i propri poteri al figlio Umberto e si costituì un nuovo governo (con alla testa Bonomi), più direttamente legato al movimento partigiano che si andava sviluppando in tutta l'Italia settentrionale.

Mentre gli angloamericani erano impegnati in Italia, fra il '43 e il '44 l'Urss iniziava una lenta ma inarrestabile avanzata. Nel giugno '44 gli alleati sbarcavano in Normandia e, di lì a poco, liberavano la Francia. Frattanto, nelle conferenze di Mosca (ottobre '44) e di Yalta (febbraio '45), russi, americani e inglesi si accordavano sulla futura sistemazione dell'Europa. Nel 1945 i tedeschi dovettero arretrare su entrambi i fronti, sotto la pressione di angloamericani e russi. Il 25 aprile, mentre la Resistenza proclamava l'insurrezione generale, l'Italia era liberata dalle forze alleate (Mussolini fu allora giustiziato dai partigiani). Pochi giorni dopo, entrati i russi a Berlino, la Germania capitolava. La guerra proseguiva, a quel punto, solo nel Pacifico contro il Giappone; terminò il 2 settembre, dopo l'esplosione di due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Bibliografia Sulla guerra: B. H. Liddell Hart, Storia militare della seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1970; H. Michel, Storia della seconda guerra mondiale, Mursia, Milano 1977; A. Hillgruber, La seconda guerra mondiale, Laterza, RomaBari 1987; P. Calvocoressi G. Wint, Storia della seconda guerra mondiale, Rizzoli, Milano 1980; A. J.P. Taylor, Storia della seconda guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1991; M. Silvestri, La decadenza dell'Europa occidentale, IV. La catastrofe 1939-1946, Einaudi, Torino 1982. Di grande interesse sono le memorie di W. Churchill, La seconda guerra mondiale, 12 voll., Mondadori, Milano 1948. Sulla sconfitta della Francia, si veda la lucida testimonianza di M. Bloch, La strana disfatta. Testimonianza del 1940, Einaudi, Torino 1995. Sulla partecipazione italiana: G. Bocca, Storia d'Italia nella guerra fascista, Laterza, Bari 1969; R. De Felice, Mussolini l'alleato, I. L'Italia in guerra 1940-1943, Einaudi, Torino 1990. Sull'uscita dell'Italia dalla guerra: E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando, Il Mulino, Bologna 2003; C. Vallami, Soldati. Le forze armate italiane dall'armistizio alla Liberazione, Utet, Torino 2003. Sul genocidio degli ebrei: L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei, Einaudi, Torino 1955; AJ. Mayer, La soluzione finale, Mondadori, Milano 1990; R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d'Europa, Einaudi, Torino 1995. Sul problema della responsabilità del popolo tedesco, si vedano le opposte tesi di Ch. R. Browning, Uomini comuni, Einaudi, Torino 1995 e di DJ. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, Mondadori, Milano 1997.

Sulla Resistenza in Europa: H. Michel, La guerra dell'ombra. La resistenza in Europa, Milano, Mursia 1973; G. Vaccarino, Storia della Resistenza in Europa 1938-1945.I paesi dell'Europa centrale: Germania, Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Feltrinelli, Milano 1981; La Resistenza e l'Europa, a e. di A. Colombo, Le Monnier, Firenze 1984. Per l'Italia: R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964; G. Bocca, Storia dell'Italia partigiana, Laterza, Bari 1966; C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991; L. Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia, 1943-1945, ivi 1996. Sulla Repubblica sociale: F. W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Einaudi, Torino 1963; G. Bocca, La repubblica di Mussolini, Laterza, RomaBari 1977; L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Garzanti, Milano 1999. Su Resistenza e Repubblica sociale, si veda infine l'ultimo volume incompiuto della biografia mussoliniana di R. De Felice, Mussolini l'alleato, II. La guerra civile 1943-1945, Einaudi, Torino 1997. 22. Il mondo diviso. 22.1. Le conseguenze della seconda guerra mondiale. Uno spartiacque storico, La crisi delle potenze europee, Le superpotenze: Usa e Urss, Il confronto ideologico e l'equilibrio bipolare, La lezione della guerra, La rifondazione dei rapporti internazionali, Il processo di Norimberga, L'egemonia degli Usa e il "mito americano". Alla seconda guerra mondiale si guarda oggi come a un grande spartiacque storico, al quale sono riconducibili molte fra le cause delle trasformazioni, dei conflitti e delle tensioni della società contemporanea. Certo, il mondo attuale è anche il prodotto di processi cominciati molto prima della guerra (come il declino europeo o lo sviluppo della società di massa) e di altri successivi (come i mutamenti nell'economia, nelle tecniche e nel costume degli ultimi decenni). Tuttavia pochi avvenimenti come la seconda guerra mondiale hanno avuto conseguenze così vaste e profonde sugli assetti internazionali, sulla vita dei singoli paesi, sulla stessa psicologia individuale e di massa. La guerra non solo segnò la liquidazione del nazifascismo e il trionfo delle democrazie, non solo cambiò la carta territoriale del vecchio continente; ma portò al suo drammatico epilogo quella crisi dell'Europa delle grandi potenze già iniziata col primo conflitto mondiale. La Germania era stata sconfitta (e si avviava a perdere la sua unità statale); ma anche la

Francia, generosamente riammessa dagli alleati al tavolo dei vincitori, e la stessa Gran Bretagna vittoriosa uscivano dalla guerra gravemente indebolite, incapaci di mantenere i loro imperi coloniali (che infatti sarebbero stati smantellati nel giro di pochi anni) e di conservare il loro ruolo di potenze mondiali. Due soli Stati potevano ormai aspirare a quel ruolo: gli Stati Uniti, forti di un'indiscussa superiorità economica e di un altrettanto netta supremazia militare (esaltata dal monopolio dell'arma atomica), e l'Unione Sovietica, che usciva dalla guerra dissanguata sul piano economico e demografico, ma restava potenzialmente fortissima ed era già padrona di mezza Europa. Le due superpotenze erano entrambe entità continentali e multietniche, molto diverse dai vecchi Statinazione; entrambe dotati di immense risorse naturali e di un massiccio apparato industriale; entrambe avevano interessi di dimensione mondiale; ciascuna, infine, era portatrice di una propria cultura, di un proprio messaggio globale, radicalmente contrapposto a quello dell'altra, sul modo di assicurare il benessere e il progresso dei popoli. Il messaggio americano era quello dell'espansione della democrazia liberale, in regime di pluralismo politico, di concorrenza economica e di ampia libertà individuale, in base a un'etica del successo a sfondo individualistico. Il messaggio sovietico era invece quello della trasformazione dei vecchi assetti politicosociali in nome del modello collettivistico, fondato sul partito unico e sulla pianificazione centralizzata, nonché su un'etica antiindividualista della disciplina e del sacrificio, mossa dall'ideale della costruzione di una nuova società. Proprio per effetto di questa contrapposizione globale fra Usa e Urss, si giunse a un nuovo sistema mondiale essenzialmente bipolare, con influenze determinanti sulla vita dei singoli Stati: questo era evidente soprattutto in Europa, dove la linea divisoria fra area "socialista" e area "capitalistica" rispecchiava, in larga misura, le posizioni raggiunte alla fine delle ostilità dai due maggiori eserciti occupanti. Sul piano psicologico e morale, il secondo conflitto mondiale conferì certamente una nuova dimensione all'orrore per la guerra, non solo per l'entità del massacro (50 milioni di morti, per oltre due terzi civili), ma anche per la sua inedita e sconvolgente "qualità". I bombardamenti indiscriminati sulle città, le carestie, la frequente violazione di ogni regola umanitaria, lo sviluppo dei mezzi di distruzione di massa: tutto questo entrò durevolmente, da allora, nella coscienza collettiva, gettando una nuova luce sulla natura stessa della guerra nella nostra epoca. A ciò si aggiunse, alla fine del conflitto, un duplice trauma morale: da un lato quello derivante dalle agghiaccianti rivelazioni sui crimini nazisti e sul genocidio degli ebrei;

dall'altro quello provocato dall'apparizione della bomba atomica, cioè di un'arma non solo dotata di capacità distruttive senza precedenti, ma addirittura capace di minacciare la sopravvivenza stessa dell'umanità. Questa terribile lezione produsse allora un diffuso bisogno di cambiamento, un generale desiderio di rifondare su basi più stabili il sistema delle relazioni internazionali e di mutarne le regole. Il fatto che di lì a poco il mondo si sia ritrovato nella morsa di nuove tensioni (quelle della cosiddetta "guerra fredda") non toglie nulla alla serietà dei tentativi, che allora si fecero da parte delle grandi potenze, per porre riparo agli errori del passato ed evitarne il ripetersi: in particolare, la gestione della pace da parte americana fu complessivamente più generosa e lungimirante di quella messa in atto dall'Intesa nel primo dopoguerra. Un altro aspetto importante fu, come vedremo tra poco, il tentativo di dare nuova fisionomia e nuovi poteri all'Organizzazione delle Nazioni Unite. Infine, si intraprese un'opera di codificazione e di aggiornamento del diritto internazionale, includendovi per la prima volta un vero e proprio settore "penale", applicato nel processo di Norimberga (1945-46) contro i capi nazisti (e poi in quello di Tokyo contro i dirigenti giapponesi). Il processo - che si concluse con la condanna a morte di alcuni fra i principali collaboratori di Hitler - destò grande scalpore in tutto il mondo e costituì un precedente di notevole rilievo, nonostante i numerosi problemi politici e morali suscitati da un procedimento intentato e condotto dai vincitori nei confronti dei vinti. A farsi promotori e garanti del progetto di un nuovo sistema mondiale furono, in virtù della loro posizione egemonica, soprattutto gli Stati Uniti. Come già nel primo dopoguerra, e in misura maggiore di allora, gli Usa diventarono per l'Europa occidentale il principale punto di riferimento non solo materiale (per la ricostruzione e per la difesa), ma anche ideale e "culturale" in senso lato. Da allora l'imitazione dei modelli di vita d'oltreoceano, della musica e dello spettacolo, dell'abbigliamento, del linguaggio, dei moduli artistici (basti pensare al cinema e alla narrativa) costituì l'elemento caratterizzante di un rapporto complesso e ambivalente, ma comunque intenso, fra le due sponde dell'Atlantico. Con il mito americano che prese forma in quegli anni, l'egemonia materiale degli Usa sembrò assumere anche i connotati di un primato ideale: gli Stati Uniti apparivano, all'indomani della più terribile delle guerre, come l'unico paese in grado di dispensare speranze e gioia di vivere anche a tanti europei che erano tornati alla pace senza ottimismo, orfani dei vecchi valori e bisognosi di nuove certezze.

22.2. Le Nazioni Unite e il nuovo ordine economico. La nascita dell'Onu, L'Assemblea generale, Il Consiglio di sicurezza, Gli altri organi dell'Onu, Funzioni e limiti dell'Onu, Gli accordi di Bretton Woods: il Fondo monetario e la Banca mondiale, Il Gatt. Di matrice soprattutto americana fu l'ispirazione di base dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu), creata nella conferenza di San Francisco (aprilegiugno 1945) al posto della vecchia e screditata Società delle nazioni, con l'obiettivo di "salvare le generazioni future dal flagello della guerra" e di impiegare "strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli". Ispirato ai princìpi della Carta atlantica [§21.8], lo statuto dell'Onu reca l'impronta di due diverse concezioni: da un lato quella dell'utopia democratica wilsoniana, di cui era ancora imbevuta una parte dell'opinione pubblica americana; dall'altro quella, più propriamente rooseveltiana, della necessità di un "direttorio" delle grandi potenze come unico efficace strumento di governo degli affari mondiali. I princìpi dell'universalità (dell'organizzazione) e dell'uguaglianza (delle nazioni) sono rispecchiati nell'Assemblea generale degli Stati membri, che si riunisce annualmente e ha il potere di adottare, a maggioranza semplice, risoluzioni che però non sono vincolanti (e hanno solo il valore di raccomandazioni). Il meccanismo del "direttorio" è riflesso invece nel Consiglio di sicurezza, organo permanente che, in caso di crisi internazionale, ha il potere di prendere decisioni vincolanti per gli Stati e di adottare misure che possono giungere fino all'intervento armato. Il Consiglio si compone d: quindici membri: le cinque maggiori potenze vincitrici - Usa, Urss (dal 1992 Russia), Gran Bretagna, Francia e Cina - sono membri permanenti di diritto, mentre gli altri dieci vengono eletti a turno fra tutti gli Stati. Ciascuno dei membri permanenti gode inoltre di un diritto di veto (che è stato adoperato ampiamente) col quale può paralizzare l'azione del Consiglio quando la ritenga contraria ai propri interessi o ai propri convincimenti: un meccanismo che fu introdotto soprattutto per volontà dell'Urss, diffidente nei confronti di un'organizzazione in cui avrebbe potuto facilmente essere messa in minoranza. Altri organi dell'Onu sono il Consiglio economico e sociale, da cui dipendono le "agenzie specializzate" per la cooperazione nei vari campi (come l'Unesco per l'istruzione e la cultura e la Fao per l'alimentazione e l'agricoltura), e la Corte internazionale di giustizia, cui spetta di dirimere le controversie fra gli Stati che vi si rimettono volontariamente.

Malgrado l'aspirazione a costituire un embrione di governo mondiale, l'Onu è stata fin dall'inizio solo lo specchio fedele del carattere conflittuale della comunità internazionale. Egemonizzata, ma anche esautorata, dalle maggiori potenze, paralizzata dai loro contrasti sulle questioni più importanti, ha spesso finito per essere inadempiente al suo compito principale: quello di prevenire e contenere le crisi. Ciò non toglie che essa abbia svolto un'importante funzione di centro di contatti e consultazioni, nonché di tribuna mondiale dove ogni Stato può far sentire la propria voce. Anche la rifondazione dei rapporti economici internazionali si attuò sotto l'impulso e la guida degli Stati Uniti. L'opera di riforma fu improntata alla filosofia di fondo e agli interessi del capitalismo americano, che andavano nel senso di dar vita a un vasto e vitale mercato mondiale in regime di libera concorrenza. Vennero così ridimensionati i vincoli protezionistici e le aree preferenziali di commercio, a cominciare da quella legata al sistema imperiale britannico. Con gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944, fu creato il Fondo monetario internazionale, con lo scopo di costituire un adeguato ammontare di riserve valutarie mondiali (cui gli Stati membri potessero attingere in caso di necessità) e di assicurare la stabilità dei cambi fra le monete, ancorandoli non soltanto all'oro, ma anche al dollaro (di cui gli Stati Uniti si impegnavano a garantire la convertibilità in oro). Si venne così a consolidare il primato della moneta americana come valuta internazionale per gli scambi e come valuta di riserva per le banche centrali di tutto il mondo: un ruolo detenuto prima, su scala più ridotta, dalla sterlina britannica. Al Fondo monetario fu affiancata, sempre a Bretton Woods, la Banca mondiale, col compito di concedere prestiti a medio e lungo termine ai singoli Stati per favorirne la ricostruzione e lo sviluppo. Sul piano commerciale, un sistema fondamentalmente liberoscambista fu instaurato dall'accordo generale sulle tariffe e sul commercio (Gatt), stipulato a Ginevra nell'ottobre '47, che prevedeva un generale abbassamento dei dazi doganali. L'insieme di queste riforme, e più ancora il ruolo internazionale del dollaro, misero nelle mani degli Usa leve di azione formidabili sulle economie occidentali (i paesi comunisti rinunciarono ad associarsi al Fondo monetario). Gli Stati Uniti le usarono ampiamente per stimolare la rinascita delle economie europee nel periodo in cui queste non disponevano di valuta, ma anche per renderle omogenee e complementari alla loro economia. 22.3. La fine della "grande alleanza".

Pace americana e pace sovietica, Il "grande disegno" di Roosevelt, Da Roosevelt a Truman, La conferenza di Potsdam, L'Urss e l'Europa orientale, La cortina di ferro, La conferenza di Parigi. Le ostilità non erano ancora cessate in Europa e in Asia e già si delineavano nettissimi i contrasti fra le due maggiori potenze vincitrici nel diverso approccio ai problemi della pace. Gli Stati Uniti, che godevano di un primato economico soverchiante e avevano sofferto meno degli altri gli effetti della guerra, puntavano più alla ricostruzione e alla ricerca di uno stabile ordine mondiale che non alla punizione dei vinti. Per l'Unione Sovietica, che aveva invece subito perdite e devastazioni spaventose, si trattava innanzitutto di esigere il prezzo della vittoria in termini politici, economici e soprattutto di sicurezza. Ciò implicava il bisogno di veder legittimato il suo ruolo di grande potenza, l'esigenza di non avere nazioni ostili ai confini (il che valeva particolarmente per la Polonia), nonché un'insistenza martellante sulla questione delle riparazioni, che avevano per l'Urss un valore non solo pratico, ma anche simbolico. Nonostante l'esistenza di questi e di altri gravi contrasti di fondo, Roosevelt si era convinto, nella pratica degli incontri diretti con Stalin, della possibilità di mantenere aperto il dialogo con l'Urss. Visto che la presenza sovietica nei paesi danubiani e balcanici, derivante dagli sviluppi del conflitto, non poteva essere scalzata a meno di scatenare un'altra guerra, tanto valeva rinunciare ad aprire un confronto con l'Urss nella sua "sfera di influenza" e cercare di giungere a un ragionevole compromesso. Le esigenze di sicurezza sovietiche - che Roosevelt riteneva per molti versi legittime - avrebbero potuto essere assicurate, nei paesi dell'Europa orientale, da regimi favorevoli all'Urss ma non necessariamente "sovietizzati". Si trattava insomma di creare un nuovo ordine europeo in cui, ferma restando l'egemonia degli Usa, anche l'Urss avrebbe avuto un ruolo importante, presentandosi come forza d'ordine in un'area tradizionalmente turbolenta. Questo "grande disegno" di cooperazione fra Occidente e Unione Sovietica morì con Roosevelt, proprio quando si apriva la sua fase decisiva di verifica. L'avvento di Harry Truman alla presidenza degli Stati Uniti, nell'aprile '45, coincise con un brusco 448 cambiamento del clima e con un generale irrigidimento americano nei confronti dei sovietici. Già alla conferenza di Potsdam (luglioagosto '45) emersero chiaramente i nodi fondamentali del contrasto: il futuro della Germania sconfitta e gli sviluppi in Europa orientale, dove già stava prendendo corpo il disegno staliniano di assoggettamento. Negli Stati di quell'area occupati dall'Armata rossa, le possibilità che l'influenza sovietica si affermasse nel rispetto della

volontà popolare erano pressoché inesistenti. Per imporre la propria egemonia, l'Urss non trovò così altro mezzo che imporre al potere i partiti comunisti locali, con l'appoggio dell'esercito sovietico e con una serie di crescenti forzature sui meccanismi democratici. Ciò non poteva lasciare indifferenti le potenze occidentali. Nel marzo 1946, Churchill (che aveva perso pochi mesi prima la guida del governo, ma conservava intatto il suo prestigio personale) pronunciò a Fulton, negli Stati Uniti, un discorso che ebbe un'enorme risonanza, in cui denunciava il comportamento dei sovietici in Europa orientale: "Da Stettino, sul Baltico, a Trieste, sull'Adriatico, una cortina di ferro è calata sul continente. [...] Questa non è certo l'Europa liberata per costruire la quale abbiamo combattuto". Stalin replicò dando a Churchill del guerrafondaio e paragonandolo a Hitler. La "grande alleanza" era ormai in frantumi e il processo negoziale sui trattati di pace ne subì le conseguenze. Alla conferenza di Parigi, che si tenne fra il luglio e l'ottobre del 1946, si giunse a un accordo tra i vincitori solo relativamente ai trattati con l'Italia, la Bulgaria, la Romania, l'Ungheria e la Finlandia. Furono anche ratificati, nonostante l'assenza di un accordo generale, i nuovi confini fra Urss, Polonia e Germania: l'Unione Sovietica incamerava le ex repubbliche baltiche (Estonia, Lituania e Lettonia), parte della Polonia dell'Est e della Prussia orientale; la Polonia, a sua volta, si rifaceva a ovest a spese della Germania, portando il suo confine alla linea segnata dai fiumi Oder e Neisse. Rimaneva ancora irrisolto il problema del futuro della Germania, nodo principale dell'intero riassetto europeo. 22.4. La "guerra fredda" e la divisione dell'Europa. Il contrasto fra Urss e Turchia, La dottrina Truman, I piano Marshall, La ripresa economica dell'Europa occidentale, Il Cominform, La "guerra fredda" e l'Europa, Il problema tedesco, Il blocco di Berlino, Le due Germanie, Il Patto atlantico e il Patto di Varsavia, Le conseguenze della guerra fredda. La conferenza di Parigi dell'estateautunno 1946 fu l'ultimo atto della cooperazione postbellica fra Urss e potenze occidentali. Nell'agosto 1946, mentre la conferenza era ancora in corso, una grave crisi fu innescata dal contrasto fra l'Unione Sovietica e la Turchia (appoggiata dagli Stati Uniti) a proposito dello stretto dei Dardanelli. Convinto che un cedimento sulla questione avrebbe consegnato all'influenza russa non solo la Turchia, ma anche la Grecia (dove era in atto una sanguinosa guerra civile fra governo

conservatore e partigiani comunisti), Truman ingaggiò una drammatica prova di forza inviando la flotta americana nel Mar Egeo per appoggiare il punto di vista turco. Fu la prima applicazione della teoria del containment (contenimento), che sosteneva la necessità di "contenere" l'espansionismo dell'Urss facendole sentire l'unica voce che si riteneva fosse in grado di intendere: quella, appunto, della forza. Questa linea fu ufficialmente fatta propria dall'amministrazione americana in un discorso tenuto dal presidente Truman al Congresso, nel marzo 1947, per l'approvazione di aiuti militari a Grecia e Turchia. In base alla dottrina Truman gli Stati Uniti si impegnavano a intervenire, quando necessario, "per sostenere i popoli liberi nella resistenza all'asservimento da parte di minoranze armate o pressioni straniere". Il che equivaleva ad aprire un confronto globale con l'Urss. Nel giugno 1947 gli americani lanciarono un vasto programma di aiuti economici all'Europa, che prese il nome di European Recovery Program (Erp) o, più comunemente, di piano Marshall, dal nome del segretario di Stato americano che ne assunse l'iniziativa. I sovietici, convinti che l'aiuto economico fosse uno strumento per scalzare la loro influenza e per assoggettare l'Europa agli Stati Uniti, respinsero il piano e imposero ai loro "satelliti" di fare altrettanto, mentre i partiti comunisti occidentali promossero agitazioni contro gli aiuti americani. Fra il 1948 e il 1952, il piano Marshall riversò sulle economie europee ben 13 miliardi di dollari fra prestiti a fondo perduto, macchinari e derrate agricole. L'effetto fu non solo di permettere la ricostruzione, ma anche di avviare un forte rilancio delle economie dell'Europa occidentale, che già nel 1951 avrebbero superato mediamente del 30% i livelli produttivi dell'anteguerra. Ciò avvenne entro un quadro complessivo di economia liberista (anche se con diverse gradazioni di interventismo statale) e comportò, per i paesi interessati, un rafforzamento delle tendenze moderate in politica, un'attenuazione dei conflitti sociali (grazie all'aprirsi di nuove prospettive di benessere) e lo stabilimento di sempre più stretti legami con gli Stati Uniti. Un nuovo fattore di tensione - e un'implicita risposta di Stalin alle iniziative occidentali - fu rappresentato, nel settembre 1947, dalla costituzione di un Ufficio d'informazione dei partiti comunisti (Cominform): una sorta di riedizione in tono minore della Terza Internazionale, che era stata sciolta nel '43 in omaggio all'alleanza antifascista. Il dialogo fra le superpotenze era ormai cessato. Al suo posto subentrò quella che il giornalista americano Walter Lippmann battezzò efficacemente guerra fredda: non guerra guerreggiata, ma irriducibile ostilità tra due

blocchi contrapposti di Stati. Le conseguenze si fecero sentire un po'"ovunque. In Grecia la resistenza comunista fu combattuta sempre più duramente e infine debellata nel 1949. In Francia e in Italia i comunisti furono estromessi dai governi di coalizione nel 1947. Nei paesi del blocco sovietico, come si vedrà fra poco, le residue parvenze di sovranità nazionale furono rapidamente soffocate. Il più importante terreno di scontro fu però la questione della Germania, divisa dalla fine della guerra in quattro zone di occupazione (americana, inglese, francese e sovietica). La capitale Berlino, che si trovava all'interno dell'area sovietica, era a sua volta divisa in quattro zone. Saltata ogni possibilità di intesa con i sovietici sul futuro del paese, Stati Uniti e Gran Bretagna integrarono, all'inizio del '47, le loro zone, attuandovi una riforma monetaria, liberalizzando l'economia e rivitalizzandola poi con gli aiuti del piano Marshall. Di fronte a quella che ormai si profilava chiaramente come la rinascita di un forte Stato tedesco integrato nel blocco occidentale, Stalin reagì con la prova di forza del blocco di Berlino. Nel giugno 1948, l'Urss chiuse gli accessi alla città impedendone il rifornimento, nella speranza di indurre gli occidentali ad abbandonare la zona ovest da loro occupata. Fu il momento di maggior tensione dell'intero periodo della guerra fredda e l'Europa sembrò nuovamente sull'orlo del conflitto. La crisi si risolse tuttavia senza uno scontro militare. Gli americani organizzarono un gigantesco ponte aereo per rifornire la città, finché, nel maggio '49, i sovietici si risolsero a togliere il blocco, rivelatosi inefficace. Nello stesso mese furono unificate tutte e tre le zone occidentali della Germania e fu proclamata la Repubblica federale tedesca (con capitale Bonn). La scontata risposta sovietica fu la creazione, nella parte orientale del paese, di una Repubblica democratica tedesca, che aveva la sua capitale a Pankow (un sobborgo di Berlino). A questo punto la divisione dell'Europa in due blocchi contrapposti era perfezionata. La sanzione militare del nuovo assetto non si fece attendere. Nell'aprile 1949, mentre era ancora aperta la crisi di Berlino, fu firmato a Washington il Patto atlantico, alleanza difensiva fra i paesi dell'Europa occidentale (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo e Italia), gli Stati Uniti e il Canada. Il patto, che si fondava su una comune professione di fede nella "civiltà occidentale" e (nonostante la presenza del Portogallo) nella democrazia, prevedeva un dispositivo militare integrato composto da contingenti dei singoli paesi membri: la Nato (Organizzazione del trattato del Nord Atlantico). Nel 1951 aderirono al patto la Grecia e la Turchia, nel 1955 anche la Germania federale. Sempre nel '55, proprio a seguito

dell'adesione tedesca, l'Urss rispose stringendo con i paesi satelliti un'alleanza militare, il Patto di Varsavia, basata anch'essa su un'organizzazione militare integrata. Convenzionalmente la fase della guerra fredda propriamente detta si fa giungere fino al 1953 (l'anno della morte di Stalin), per indicare il periodo in cui la tensione fra i due blocchi fu tanto acuta da non lasciare alcuno spazio al dialogo. In realtà, le forze profonde che determinarono il contrasto EstOvest proiettarono la loro influenza ben oltre tale periodo: e infatti alla guerra fredda risale il tipo di mobilitazione ideologica e di approntamento militare che ha caratterizzato, nei decenni successivi, le relazioni fra le superpotenze. Con la guerra fredda, il vincolo di politica estera sulla vita dei singoli Stati, la subordinazione di ogni altra istanza all'esigenza di compattezza dei rispettivi blocchi assunsero un carattere "strutturale". Molti dei nuovi fermenti che si erano manifestati dopo la guerra in campo politico, economico e culturale vennero ridimensionati o ingabbiati in rozze ortodossie. Risorse immense vennero profuse nella corsa agli armamenti e nella ricerca a fini militari. Infine, mentre all'Est l'edificazione e la conservazione dei regimi comunisti si realizzarono a prezzo di sanguinose repressioni e di interventi armati, in Occidente si ebbe il paradosso di un'America, già paladina della democrazia e dell'autodeterminazione dei popoli, che si trovò, in nome della difesa del "mondo libero", ad appoggiare anche regimi autoritari. 22.5. L'Unione Sovietica e le "democrazie popolari". Gli ultimi anni della dittatura staliniana, Le riparazioni, Lo sviluppo dell'economia, La bomba atomica sovietica, I regimi comunisti in Europa orientale, La Polonia, Romania, Bulgaria e Ungheria, La Cecoslovacchia e il colpo di Stato del'48, La Jugoslavia di Tito, L'industrializzazione nell'Europa dell'Est, I legami economici con l'Urss: il Comecon, Lo scisma di Tito, I modello iugoslavo Le epurazioni nei regimi comunisti dell'Est europeo. La vittoria in guerra non portò in Urss ad alcun allentamento del dispotismo interno. Al contrario, lo stalinismo rispose alle necessità della ricostruzione e alle sfide poste dal confronto con l'Occidente accentuando i suoi connotati autocratici e repressivi. Le purghe tornarono a colpire i quadri del partito e i comuni cittadini, mentre i condizionamenti sulla vita intellettuale e artistica si fecero ancora più soffocanti. L'intera vita nazionale

fu subordinata alle esigenze di una ricostruzione attuata senza aiuti esterni, in un clima di aspro conflitto con l'Occidente. In realtà gli apporti di capitale straniero vennero ugualmente, sotto forma di riparazioni imposte ai paesi ex nemici controllati dall'Armata rossa. Il prelievo di risorse finanziarie, di derrate agricole, di macchinari, impianti e mezzi di locomozione fu ingente: non solo dalla Germania dell'Est, ma anche da Ungheria, Romania e Cecoslovacchia. La ricostruzione economica sovietica fu comunque molto rapida. Nel 1950 la produzione industriale aveva superato di ben il 70% il livello del '40. Ancora una volta la priorità andò all'industria pesante, a scapito dell'agricoltura e del settore dei beni di consumo. Sacrificando il tenore di vita della sua popolazione, l'Unione Sovietica era comunque diventata una grande potenza industriale nonché uno dei massimi produttori mondiali di materie prime e di energia. Ed era diventata anche una grande potenza militare. Lo sviluppo tecnologico, orientato selettivamente verso gli impieghi bellici, non rimase senza risultati: nel 1949 l'Urss fece esplodere la sua prima bomba atomica, ponendo così fine al monopolio nucleare americano. Sul terreno della politica estera, il maggior successo dell'Unione Sovietica in questo periodo fu la trasformazione dei paesi dell'Europa orientale occupati dall'Armata rossa durante la guerra in altrettante democrazie popolari: una formula che mascherava l'imposizione a quei paesi di un sistema politico e sociale nella sostanza simile a quello vigente in Urss e la loro riduzione al ruolo di satelliti della potenza egemone. Le vicende della Polonia ebbero in questo senso un valore emblematico. Gli inglesi - che erano entrati in guerra, nel '39, proprio per la Polonia consideravano la difesa dell'indipendenza polacca come un punto d'onore. Ma per Stalin la Polonia rappresentava innanzitutto un problema di sicurezza, giacché era stata, per due volte in trent'anni, la via maestra attraverso cui eserciti invasori erano entrati in Russia. Era quindi indispensabile che a Varsavia si costituisse un governo "amichevolmente disposto" nei confronti dell'Urss. Su questo Stalin fu irremovibile ed ebbe infine partita vinta. Nel giugno 1945, a seguito di accordi interalleati, si insediò a Varsavia un governo presieduto dal socialista Morawski, ma in realtà controllato dai comunisti. Questi si impadronirono gradualmente dei principali centri di potere e, nell'imminenza delle elezioni del gennaio '47, ruppero la coalizione con i partiti borghesi. Le elezioni si svolsero sotto il controllo dei comunisti e si risolsero in una loro schiacciante vittoria, dando il via a una sistematica campagna di liquidazione delle altre forze politiche. Non molto diverso fu il corso degli eventi in Romania e in Bulgaria. Particolarmente tenaci furono le resistenze opposte dalle forze non

comuniste in Ungheria, soprattutto dal Partito dei contadini che aveva ottenuto il 60% dei voti nelle elezioni del novembre '45. Fin dal '46, tuttavia, i comunisti, che per imposizione sovietica controllavano il ministero degli Interni, iniziarono una campagna di arresti e intimidazioni contro i loro avversari e riuscirono a modificare in parte il rapporto di forze nelle elezioni dell'agosto '47. Da allora il processo di sovietizzazione del paese si accelerò, per culminare nelle elezioni a lista unica del maggio '49. Ancora più drammatico, e più direttamente legato al crescere della tensione fra i due blocchi, fu il destino della Cecoslovacchia, paese economicamente e socialmente sviluppato, di solida tradizione democratica, che in politica estera seguiva una linea non ostile all'Urss e in cui i comunisti avevano ottenuto il 38% dei suffragi nelle libere elezioni del maggio '46. Il governo formatosi a seguito delle elezioni era guidato dal leader comunista Klement Gottwalde si fondava sull'alleanza fra i partiti di sinistra. La coalizione si ruppe però all'inizio del '48, quando si trattò di decidere circa l'accettazione degli aiuti del piano Marshall, sostenuta dai socialisti e dalle forze borghesi e osteggiata dai comunisti. Per imporre il loro punto di vista i comunisti lanciarono una violenta campagna contro le altre forze politiche, provocando le dimissioni di dodici ministri (febbraio '48) e costringendo, sotto la minaccia della guerra civile, il presidente della Repubblica Edvard Benes ad affidare il potere a un nuovo governo da loro completamente controllato. In marzo, il ministro degli Esteri socialista Jan Masaryk, l'unica personalità non comunista del nuovo ministero, morì cadendo dalla finestra in circostanze mai chiarite. Nel maggio 1948, le elezioni si tennero col sistema della lista unica e il presidente Benessi dimise per non dover firmare la nuova costituzione che trasformava definitivamente il paese in una "democrazia popolare". La presa del potere da parte dei comunisti si compì invece senza eccessivi problemi in Albania e soprattutto in Jugoslavia: qui i comunisti, sotto la guida di Tito, si imposero da soli al governo del paese, con l'autorità e il prestigio guadagnati durante la Resistenza, che aveva permesso di liberare il territorio nazionale a prescindere dall'aiuto dell'Armata rossa. L'imposizione, più o meno forzata, del modello collettivistico sovietico ebbe conseguenze profonde sugli assetti socioeconomici dell'Europa orientale. In molte di quelle che erano fra le regioni più arretrate del continente si ebbe un inizio di modernizzazione e di relativo decollo economico. I latifondisti furono spazzati via fin dalle prime riforme agrarie, cui fece rapidamente seguito la collettivizzazione dell'agricoltura. Il ceto contadino si ridusse sensibilmente, in parallelo all'espansione di quello

operaio. Fra il '46 e il '48, furono nazionalizzate le miniere, le industrie siderurgiche e meccaniche, le banche e l'intero settore commerciale. Furono lanciati i primi piani di sviluppo, basati sul modello sovietico, che assegnava la priorità all'industria pesante, relegando l'agricoltura in una posizione subalterna. Soprattutto nei primi anni, la crescita produttiva fu notevole, con incrementi medi superiori al 10% annuo. Questo sviluppo fu però condizionato, e in qualche modo distorto, dalla subordinazione delle economie dei paesi "satelliti" a quella dello "Statoguida". Gli obiettivi di produzione furono scelti in modo da risultare complementari a quelli dell'Urss. I tassi di cambio all'interno dell""area del rublo", nonché la quantità e i prezzi dei beni scambiati furono rigidamente regolati, attraverso il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), fondato a Varsavia nel gennaio '49 con l'adesione di tutti i paesi del blocco orientale. Inoltre, le caratteristiche del modello di sviluppo imposto ai paesi dell'Europa dell'Est comportavano una forte compressione dei consumi e del tenore di vita della popolazione. Tutto questo non avrebbe certo giovato alla popolarità dei regimi comunisti e avrebbe contribuito non poco a far nascere agitazioni sociali e moti di rivolta antisovietica (che paradossalmente avrebbero avuto per protagonista proprio il ceto operaio cresciuto con la collettivizzazione). Per conservare e tenere unito il suo "impero", l'Urss avrebbe quindi dovuto esercitare un controllo molto stretto sui paesi "satelliti", sia sul terreno dei rapporti diplomatici e militari, sia (attraverso il Cominform) su quello delle relazioni fra i partiti comunisti. L'unico fra i regimi dell'Est europeo che cercò, con successo, di sottrarsi all'egemonia sovietica fu quello iugoslavo. La rottura si consumò nel 1948: in seguito alle resistenze di Tito ai piani staliniani di "divisione del lavoro" all'interno del blocco orientale, l'Urss sospese dapprima ogni collaborazione economica, quindi, in giugno, condannò ufficialmente i comunisti iugoslavi, accusandoli di "deviazionismo" e di collusione con l'imperialismo ed escludendoli dal Cominform. Completamente isolata dal mondo comunista (che si schierò compatto con Stalin), la dirigenza iugoslava resistette alle pressioni sovietiche e cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera, basata sull'equidistanza fra i due blocchi, e un nuovo originale corso in politica interna, volto alla ricerca di un equilibrio fra statalizzazione ed economia di mercato. Il "modello iugoslavo" (che avrebbe preso forma definitiva negli anni '60, con una serie di ampie riforme economiche) si basava sull'autogestione delle imprese da parte delle direzioni aziendali e dei consigli di fabbrica e sulla loro reciproca concorrenza in un sistema di prezzi liberi. Esso rappresentò a lungo,

nonostante le molte difficoltà incontrate, il più radicale esperimento di revisione del modello collettivistico emerso nei paesi dell'Europa dell'Est. Nell'immediato, lo scisma iugoslavo provocò per reazione una stretta repressiva estesa a tutto il mondo comunista. Per evitare che l'eresia di Tito trovasse nuove adesioni, furono attuate, tra la fine degli anni '40 e l'inizio degli anni '50, massicce "purghe" nei confronti dei dirigenti comunisti dell'Est europeo sospettati di velleità autonomistiche. I processi di quegli anni furono una drammatica replica del copione già sperimentato in Unione Sovietica nel periodo prebellico: arresti arbitrari, inverosimili accuse di tradimento o di altri crimini, corroborate da confessioni estorte con la tortura, condanne pesantissime, anche alla pena capitale. Parola chiave Nucleare L'energia nucleare - o, meno propriamente, "atomica" - è quella contenuta nel nucleo dell'atomo e liberata mediante processi di reazione (scissione o fusione) provocati artificialmente. Le prime applicazioni dell'energia nucleare furono indirizzate a fini bellici. Furono le "bombe atomiche" (basate sulla scissione del nucleo di materiali radioattivi come l'uranio o il plutonio) fatte esplodere dagli americani a Hiroshima e Nagasaki nell'agosto '45 a porre fine al secondo conflitto mondiale. Pochi anni più tardi (1952) sarebbero state sperimentate le più potenti bombe all'idrogeno (o termonucleari), in cui l'energia è sviluppata dalla fusione di atomi dell'idrogeno o dei suoi isotopi (deuterio e tritio). L'apparizione delle bombe nucleari - col loro enorme potenziale distruttivo e con i loro disastrosi effetti di lungo periodo sugli equilibri naturali - aprì una nuova fase nella storia delle relazioni internazionali, portò un elemento di sconvolgente novità nella strategia militare e influì profondamente sugli stessi modi di pensare dei contemporanei. Espressioni come "era nucleare" (o "era atomica"), "logica nucleare", "equilibrio nucleare", "rischio nucleare" sono entrate stabilmente nel linguaggio politico e militare. Da un lato, l'affermarsi di due superpotenze nucleari, ciascuna delle quali dotata di arsenali nucleari capaci di distruggere l'avversario, ha dato una notevole stabilità al quadro internazionale e ha fatto apparire più remota l'eventualità di un conflitto generale. D'altro canto, la stessa esistenza di armi capaci di alterare in modo irrimediabile gli equilibri naturali, di compromettere la salute delle generazioni future e, al limite, di distruggere ogni forma di vita sul pianeta ha introdotto un fattore di angoscia

permanente che è tipico della nostra epoca (ed è sostanzialmente diverso dalla semplice paura della guerra e della morte). L'incubo della morte nucleare ha dato argomenti e spazio alle tematiche pacifiste e, successivamente, ha costituito uno degli argomenti centrali delle campagne dei movimenti ecologisti, che dell'energia nucleare hanno contestato anche gli usi pacifici. Le numerose centrali nucleari, costruite a partire dagli anni '50 in molti paesi industrializzati per assicurare la produzione di energia elettrica a costi inferiori a quelli delle centrali "termiche" (alimentate da derivati del petrolio), presentano infatti alcune inquietanti incognite, legate sia al problema dell'eliminazione delle scorie radioattive sia al rischio di guasti o di errori umani. Incidenti come quello accaduto nel '79 nella centrale statunitense di Three Mile Island o quello, più grave, verificatosi nell'86 nella centrale sovietica di Chernobyl hanno destato allarme in tutto il mondo e provocato conseguenze di cui ancor oggi è difficile valutare l'entità. 22.6. Gli Stati Uniti e l'Europa occidentale negli anni della ricostruzione. Il problema della riconversione, La presidenza Truman, L'esaurirsi della spinta progressista, Il maccartismo, Trasformazioni e riforme in Europa occidentale, Il governo laburista in Gran Bretagna: il "Welfare State", Il dopoguerra in Francia: la Quarta Repubblica, Il dissenso di De Gaulle, Il dramma della Germania postbellica, Le due Germanie, Il miracolo tedesco. Diversamente dagli altri paesi belligeranti, gli Stati Uniti si trovarono, alla fine della guerra, ad affrontare un problema non di ricostruzione (in quanto il loro territorio non era stato toccato dalle distruzioni belliche), ma di riconversione; il sistema economico americano, indirizzato negli ultimi anni alla produzione bellica e da questa straordinariamente stimolato (nel '45, rispetto al '39, la produzione era raddoppiata, la disoccupazione scomparsa, il reddito nazionale aumentato del 75%), doveva essere riorientato a scopi di pace, pur tenendo conto delle accresciute responsabilità mondiali degli Usa. A guidare il paese in questa nuova fase fu, come già si è detto, Harry Truman. Dotato di notevoli capacità decisionali, concreto, fiero della sua qualità di "uomo comune", Truman non ebbe però né l'ampiezza di visione né il carisma del suo predecessore. Sul piano interno, il suo programma di Fair Deal (letteralmente "giusto patto"), che si proponeva di portare avanti la politica riformista rooseveltiana, si realizzò solo in parte a causa delle resistenze del Congresso, a maggioranza repubblicana, e dei democratici del

Sud, contrari all'integrazione razziale. L'abolizione, seguita alla fine della guerra, dei controlli sulle attività industriali e il forte deficit del bilancio statale (gravato dalle spese militari e da quelle per gli aiuti all'estero) provocarono inoltre un sensibile aumento del costo della vita. Ne seguì un'ondata di rivendicazioni salariali e di agitazioni operaie, cui il Congresso rispose adottando nel 1947, contro il volere del presidente, il TaftHartley Act, una legge di impronta conservatrice e antisindacale che limitava la libertà di sciopero nelle industrie di interesse nazionale. Le conquiste fondamentali del New Deal vennero comunque salvaguardate; si ebbe anzi soprattutto dopo la rielezione di Truman nel '48 - un certo incremento dei programmi di assistenza sociale. Ma la spinta ideologica dell'età rooseveltiana appariva ormai esaurita, sia per il venir meno delle condizioni economicosociali che l'avevano originata, sia per il clima di mobilitazione e di contrapposizione che si accompagnò alla guerra fredda. Soprattutto a partire dal '49 - in coincidenza con l'esplosione dell'atomica sovietica - si scatenò negli Stati Uniti una campagna anticomunista che prese la forma di una vera e propria caccia alle streghe e che ebbe il suo principale ispiratore nel senatore repubblicano Joseph McCarthy (donde l'espressione "maccartismo", con cui fu designato il fenomeno) presidente di una commissione parlamentare istituita per reprimere le "attività antiamericane". Nel 1950, il Congresso adottò l'Internal Security Act (legge per la sicurezza interna), che costituì lo strumento giuridico per epurare o emarginare quanti, nella pubblica amministrazione o nel mondo della cultura e dello spettacolo, fossero sospettati di filocomunismo o di simpatie di sinistra. Gli eccessi del maccartismo si protrassero fino al 1955, quando le accuse indiscriminate del senatore, che commise l'errore di attaccare persino l'esercito, si ritorsero contro di lui, costringendolo a uscire di scena dopo un biasimo formale del Senato. Se negli Stati Uniti il progressismo degli anni '30 appariva definitivamente tramontato, sull'altra sponda dell'Atlantico spirava, nell'immediato dopoguerra, un vento di trasformazione, presto bloccato, però, dalle tensioni della guerra fredda. A parte i casi della Spagna e del Portogallo, ancora retti da regimi autoritari, in tutta l'Europa occidentale la fine della guerra si accompagnò a una forte spinta in senso democratico e riformista: governi a guida socialista in Gran Bretagna e nei paesi scandinavi, governi di coalizione con la partecipazione delle sinistre in Italia e in Francia (dove vennero varate nuove costituzioni), vaste riforme economiche e sociali.

Il caso più emblematico fu quello dell'Inghilterra, dove nelle elezioni del luglio 1945 Churchill fu inaspettatamente battuto dai laburisti di Clement Attlee. Il nuovo governo nazionalizzò la Banca d'Inghilterra, le industrie elettriche e carbonifere, la siderurgia e i trasporti; introdusse il salario minimo e il Servizio sanitario nazionale, che prevedeva la completa gratuità delle prestazioni mediche; riformò in senso progressivo la fiscalità ed estese il sistema di sicurezza sociale. Complessivamente furono gettate le basi di uno "Stato del benessere" (Welfare State) che aveva l'ambizione di assistere il cittadino "dalla culla alla tomba". Queste riforme - che si ispiravano in parte a quelle realizzate dai governi socialdemocratici in Svezia negli anni '30 e che avrebbero a loro volta costituito un modello poi applicato in molti paesi dell'Occidente industrializzato - furono però attuate in un momento di difficile congiuntura economica. Esse comportarono per la popolazione anche dei notevoli sacrifici: il che favorì, nel '51, il ritorno al potere dei conservatori. In Francia nazionalizzazioni e programmi di sicurezza sociale furono varati dal governo provvisorio presieduto da De Gaulle fra il '44 e il '45 e dai successivi ministeri di coalizione basati sull'accordo fra i tre partiti di massa: il Partito comunista, la Sfio e il Movimento repubblicano popolare, di ispirazione democraticocristiana, tutti usciti rafforzati dalle prime elezioni postbelliche (ottobre '45) a spese dei radicali e delle vecchie formazioni moderate. Nel 1946 fu varato un piano quadriennale (piano Monnet) che contemperava un'ispirazione liberista di fondo con aspetti di carattere riformatore e dirigistico. Sempre nel '46, un'Assemblea costituente eletta in giugno elaborò una nuova costituzione di stampo democraticoparlamentare molto simile a quella in vigore prima della guerra. De Gaulle, che aveva lasciato il governo già dal gennaio '46 per contrasti con i partiti, avrebbe invece preferito un sistema presidenziale con un esecutivo forte; e per questo fondò nel '47 un proprio movimento, il Raggruppamento del popolo francese, che aveva come obiettivo principale proprio la riforma della costituzione. In quello stesso anno, e precisamente in maggio, l'alleanza fra i tre partiti di massa si ruppe in seguito ai contrasti fra i comunisti e le altre forze della coalizione: contrasti che traevano origine da questioni di politica sindacale, ma in realtà riflettevano le tensioni della guerra fredda. Da allora, estromessi i comunisti dal governo, si succedettero numerosi governi, tutti fondati su laboriosi accordi fra i socialisti e i partiti di centro e tutti caratterizzati da una notevole instabilità. L'instabilità sarebbe stata da allora il male cronico della Quarta Repubblica, così come lo era stata della Terza.

Paradossalmente, fu proprio la Germania sconfitta e sottoposta alla tutela dei vincitori a riprendersi più rapidamente dai traumi della guerra e a dare le migliori prove di vitalità economica e di stabilità politica. Alla fine della guerra il paese si trovava in una situazione disastrosa da tutti i punti di vista. Molte fra le maggiori città erano state distrutte dai bombardamenti, le vie di comunicazione erano inservibili, la popolazione era ridotta alla fame, l'economia era in completo collasso. Il drastico ridimensionamento territoriale subito a est (con la perdita della Prussia orientale, della Slesia, della Pomerania e dei Sudeti) fece inoltre affluire nelle zone occupate dalle potenze occidentali quasi 10 milioni di profughi, costretti ad abbandonare i paesi d'origine. Solo nel '49 [§10.4] la Germania aveva recuperato una teorica sovranità nazionale, ma aveva contemporaneamente perso la sua unità ed era stata divisa in due Stati retti da regimi diversi: l'uno (la Repubblica federale) retto da una costituzione democraticoparlamentare e federale retta sotto il controllo degli occupanti e governata dai cristianodemocratici del cancelliere Konrad Adenauer (gli eredi del vecchio Centro); l'altro (la Repubblica democratica) costruito sul modello delle democrazie popolari e in pratica sottoposto a un regime a partito unico (la Sed, Partito socialista unificato tedesco, nato dalla forzata fusione tra comunisti e socialdemocratici di sinistra). In queste condizioni drammatiche, l'economia tedesca diede prova ancora una volta di eccezionali capacità di recupero. Ma, mentre nella zona orientale la ripresa fu frenata dal peso delle riparazioni imposte dall'Urss e dalla forzata collettivizzazione dell'apparato produttivo, la Germania Ovest fu favorita dalla stretta integrazione nel blocco occidentale. Gli Stati Uniti intendevano fare della Repubblica federale non solo un bastione avanzato dello schieramento atlantico, ma anche una sorta di vetrina del benessere "capitalistico", contrapposto al modello "spartano" dei paesi dell'Est. Rinunciarono perciò alle riparazioni di guerra loro dovute e consentirono alla Repubblica federale di beneficiare degli aiuti del piano Marshall. Stimolata dalla politica di rilancio degli investimenti messa in atto dal governo (in particolare dal ministro dell'Economia Ludtvig Erhard), la macchina produttiva tedescooccidentale riprese a girare a pieno ritmo: il prodotto nazionale era tornato già nel 1951 ai livelli del '38. L'Europa nel 1956 (cartina p.457). 22.7. La ripresa del Giappone.

La tutela americana, Lo sviluppo industriale, I fattori del miracolo giapponese, Una nuova potenza economica. Non poche analogie legavano la situazione della Germania postbellica a quella dell'altro grande sconfitto del secondo conflitto mondiale, il Giappone. Anche in Giappone si affermò, per iniziativa degli occupanti americani, un modello di organizzazione politica e sociale di tipo liberale e occidentale. Sottoposto all'amministrazione del generale Mac Arthur, che agiva con poteri simili a quelli di un viceré, il paese si vide imporre, nel '46, una nuova costituzione redatta da funzionari americani, che trasformava l'autocrazia imperiale in una monarchia costituzionale (a questo patto l'imperatore Hirohito poté conservare il trono) e introduceva un sistema parlamentare. Sempre nel '46 fu inoltre varata una radicale riforma agraria. L'azione di rinnovamento imposta dagli Stati Uniti ebbe un effetto durevole nel rimodellare su nuove basi la realtà del paese. Tuttavia essa incontrò un freno nella necessità per gli occupanti di non indebolire troppo quei ceti conservatori su cui essi contavano per legare a sé il paese e per farne un bastione del "mondo capitalistico" in Asia. Questo orientamento si accentuò quando, con la guerra di Corea [§22.8], il Giappone divenne base logistica e fornitore dell'esercito americano. Le grandi concentrazioni industriali furono smembrate solo in minima parte. A partire dagli anni '50 esse sarebbero diventate il motore principale di una rapidissima ripresa economica, favorita dall'assistenza degli Stati Uniti, oltre che da una stabilità politica che si fondava sull'egemonia dei gruppi moderati, raccolti nel Partito liberaldemocratico. La quasi completa assenza di spese militari imposta dal trattato di pace, assieme a una politica economica tutta fondata sul contenimento dei consumi e sul rilancio produttivo, consentì nel corso degli anni '50 un tasso di investimento elevatissimo, pari a un terzo del prodotto nazionale. Inoltre il sistema delle imprese - basato sulla compresenza di pochi grandissimi complessi industrialfinanziari (come la Honda, la Matsuda, la Mitsubishi, la Matsuhida) e di una miriade di piccole e medie aziende - si rivelò particolarmente adatto a cogliere le occasioni di sviluppo. Merito della classe imprenditoriale fu quello di puntare sui settori in crescita - la siderurgia, la cantieristica, l'automobile, la meccanica di precisione e poi soprattutto l'elettronica - e sulle tecnologie d'avanguardia. Tutto ciò permise al Giappone di mantenere per tutto il ventennio '50-70 un tasso di sviluppo medio del 15% annuo (il triplo di quello dell'Occidente industrializzato), di invadere il mondo con i prodotti della sua industria, compensando ampiamente le importazioni di materie prime e mantenendo

in perenne attivo la bilancia commerciale, e di diventare, già nel corso degli anni '60, la terza potenza economica mondiale dopo Usa e Urss. Così come la Germania, il Giappone trovava nell'alleanza con l'ex nemico, trasformatosi in tutore politico, la base per uno spettacoloso rilancio che gli avrebbe consentito di ottenere con mezzi pacifici gli obiettivi egemonici prima perseguiti attraverso la guerra. 22.8. La rivoluzione comunista in Cina e la guerra di Corea. Una nuova potenza comunista, La guerra cinogiapponese e il regime di Chang Kaishek, L'alternativa di Mao Tsetung, La ripresa della guerra civile La vittoria dei comunisti, La Repubblica popolare cinese, Le due Coree, L'attacco nordcoreano. Gli interventi americano e cinese, I negoziati. Un punto di svolta fondamentale nel confronto fra "mondo socialista" e "mondo capitalistico" si ebbe nel 1949, con l'avvento al potere dei comunisti in Cina: un evento che alterò profondamente i rapporti di forza complessivi e diede una nuova dimensione mondiale al confronto fra i due sistemi. Se per questo aspetto la rivoluzione cinese si colloca nell'ambito della guerra fredda, per altro verso essa segna il punto di raccordo con l'altro grande processo messo in moto dalla seconda guerra mondiale, quello della decolonizzazione. La rivoluzione segnò infatti non solo la definitiva rinascita della Cina come Stato indipendente e come grande potenza (comprendente da sola un quarto della popolazione mondiale), ma anche la progressiva affermazione di un modello di società comunista distinto da quello russo e destinato a esercitare una certa attrazione sui paesi ex coloniali. La precaria alleanza che i comunisti di Mao Tsetung e i nazionalisti di Chang Kaishek avevano stretto nel '37 [§20.5] contro l'aggressione giapponese, entrò in crisi con lo scoppio della guerra nel Pacifico. A partire dal '41, profittando dell'impegno giapponese contro gli Stati Uniti, il governo di Chang cominciò a trascurare la lotta contro gli occupanti stranieri (come già era accaduto nella prima metà degli anni '30), per prepararsi invece alla resa dei conti coi comunisti, che occupavano e amministravano ampie zone dell'interno. Tutto questo però non faceva che aumentare il discredito di un regime che aveva ormai perso il contatto con gli strati più dinamici della società e si era ridotto a espressione dei proprietari terrieri; un regime che, mentre si mostrava incapace di fare la guerra ai giapponesi (i pochi scontri aperti, nel '43-44, si risolsero in disastrose sconfitte), concentrava le sue risorse nella repressione del

dissenso interno; un regime in cui la corruzione aveva raggiunto livelli incredibili, coinvolgendo grandi e piccoli funzionari, ministri e generali. Al contrario, nei territori da loro controllati, i comunisti non solo combatterono un'efficace guerriglia contro i giapponesi, ma (seguendo la strategia indicata da Mao) seppero anche rafforzare i loro legami con le masse contadine e con gli stessi ceti medi, attuando ampie riforme agrarie. A guerra terminata, gli Stati Uniti, consapevoli della debolezza e del discredito dei nazionalisti, cercarono di promuovere un nuovo accordo fra comunisti e Kuomintang. Ma Chang Kaishek, che sapeva di poter contare comunque sull'appoggio Usa, rifiutò ogni compromesso e lanciò contro i comunisti una campagna militare in grande stile, utilizzando gli aiuti ricevuti dagli alleati durante e dopo la guerra. In un primo tempo (1946-47), i nazionalisti ebbero il sopravvento, occupando vaste zone già controllate dagli avversari. Ma i comunisti - nonostante fossero poco aiutati dall'Urss, che continuò fino all'ultimo a riconoscere il regime di Chang - riuscirono a riorganizzarsi e a contrattaccare, contando sull'appoggio della popolazione contadina, che consentiva loro di usare le tecniche della guerriglia. Nel corso del '48, le sorti della guerra si rovesciarono. Le forze di Chang Kaishek, poco motivate e poco disciplinate, prive di sostegno popolare e disperse su un territorio troppo vasto, cominciarono a sbandarsi o a disertare, mentre l'esercito di Mao si rafforzava anche sul piano militare. Nel febbraio '49, i comunisti entrarono a Pechino. Chang Kaishek, con quanto restava del governo e dell'esercito nazionalista, riparò, sotto la protezione della flotta americana, nell'isola di Taiwan (Formosa), da dove non cessò mai di sognare la riconquista. Il 1° ottobre 1949 fu proclamata a Pechino la nascita della Repubblica popolare cinese, subito riconosciuta dall'Urss e dalla Gran Bretagna, ma non dagli Stati Uniti, che continuarono a considerare come legittimo governo cinese quello di Taiwan (che occupò, fino al 1971, il seggio della Cina all'Onu). La nuova Repubblica a guida comunista procedette subito a radicali misure di socializzazione (le banche e le grandi e medie industrie furono nazionalizzate, così come il commercio con l'estero, mentre la terra fu distribuita fra i contadini) pur lasciando, in un primo tempo, un limitato spazio al settore privato. Nel febbraio 1950, la Cina di Mao stipulò con l'Unione Sovietica un trattato di amicizia e di mutua assistenza. Il "campo socialista" allargava così i suoi confini al più vasto e popoloso Stato dell'Asia. La sfida al mondo capitalistico diventava più ampia e più temibile. La prova più drammatica delle nuove dimensioni mondiali del confronto fra i due blocchi si ebbe nel 1950 in Corea. In base agli accordi interalleati,

quel paese (già a lungo conteso fra Cina e Giappone) era stato diviso in due zone, delimitate dal 38° parallelo. Analogamente a quanto era accaduto in Germania, una delle due zone - la Corea del Nord era governata da un regime comunista guidato da Kim II Sung, mentre nell'altra - la Corea del Sud - si era insediato un governo nazionalista appoggiato dagli americani. Dopo una serie di incidenti di frontiera, in un clima di crescente tensione (dovuta al fatto che entrambi gli Stati rivendicavano la sovranità sull'intero territorio nazionale), nel giugno 1950 le forze nordcoreane, armate dai sovietici, invasero il Sud. Di fronte a quella che appariva come una clamorosa conferma delle mire espansionistiche del blocco comunista, gli Stati Uniti reagirono inviando in Corea un forte contingente di truppe. Gli americani - che agivano sotto la bandiera dell'Onu, in quanto il Consiglio di sicurezza, in assenza del delegato sovietico, aveva condannato la Corea del Nord e autorizzato l'invio di truppe - respinsero i nordcoreani e in ottobre oltrepassarono a loro volta il 38° parallelo. A questo punto, però, fu la Cina di Mao a intervenire in difesa dei comunisti, con un massiccio invio di "volontari", che in poche settimane capovolsero le sorti della guerra penetrando nella Corea del Sud. Nell'aprile '51 Truman accettò di aprire trattative con la Corea del Nord. I negoziati - e con essi la guerra - si trascinarono per altri due anni, per concludersi infine nel 1953 con il ritorno alla situazione precedente (col confine sul 38° parallelo). Le conseguenze della crisi coreana furono di ampia portata: un vasto riarmo americano, di cui beneficiò soprattutto la marina, un'accresciuta sensibilità degli Stati Uniti alla minaccia comunista nel Pacifico, un rafforzamento dei legami militari fra gli Usa e gli alleati asiatici ed europei. 22.9. Dalla guerra fredda alla coesistenza pacifica. Mutamenti e continuità, La rivolta di Berlino Est, Le premesse della coesistenza, Il trattato di Vienna e la conferenza di Ginevra. Con la fine della presidenza Truman (novembre '52) e con la morte di Stalin (marzo '53), la guerra fredda perse i suoi maggiori protagonisti e il confronto fra blocco occidentale e blocco sovietico cominciò ad assumere nuove forme. In un primo tempo, tuttavia, il cambio della guardia ai vertici delle due superpotenze non comportò significative correzioni di rotta né dall'una né dall'altra parte. La "direzione collegiale" succeduta a Stalin alla guida dell'Urss non fece alcun gesto di apertura verso l'Occidente, né allentò il controllo sui paesi satelliti: quando, nel giugno 1953, gli operai di Berlino Est scesero in piazza per protestare contro le dure condizioni di vita imposte

dal regime comunista, le truppe sovietiche repressero sanguinosamente la rivolta. Negli Stati Uniti, frattanto, la nuova amministrazione repubblicana guidata dal generale Eisenhower pareva accentuare l'atteggiamento di sfida globale nei confronti dell'Urss. Gli anni '53-54 segnarono quindi uno dei periodi di più acuta tensione internazionale dall'inizio della guerra fredda. Eppure, proprio in questi anni di tensione, venne maturando all'interno delle due superpotenze un nuovo atteggiamento di accettazione reciproca, che, pur non comportando alcuna tregua nel confronto ideologico o alcuna pausa nella corsa agli armamenti, costituiva almeno la premessa per una coesistenza pacifica fra i due blocchi. Se i sovietici avevano di fronte lo spettacolo di complessiva stabilità e di crescente prosperità offerto dal blocco occidentale, gli Usa erano costretti a prendere atto del consolidamento dell'Urss, della sua capacità di controllare il proprio "impero", del continuo rafforzamento del suo apparato militare: nell'agosto 1953 l'esplosione della bomba all'idrogeno (o bomba H) sovietica, a un anno dal primo analogo esperimento americano, mostrava che in questo campo il divario tecnologico fra le due superpotenze andava scomparendo. Nel corso del 1955, in coincidenza col declino del maccartismo negli Stati Uniti e con l'ascesa di Kruscev all'interno del gruppo dirigente sovietico, si ebbero da ambo le parti alcuni significativi gesti di distensione. In marzo i sovietici decisero di ritirare le proprie truppe di occupazione dall'Austria in cambio dell'impegno occidentale a garantire la neutralità del paese, impegno sancito in maggio con la firma del trattato di Vienna. Nella conferenza di Ginevra, che fu convocata in luglio per discutere il problema tedesco, non furono raggiunti accordi; ma Eisenhower affermò di non voler rimettere in discussione lo status quo europeo. I drammatici avvenimenti del 1956 confermarono nella sostanza questa situazione. La crisi di Suez dell'estate [§23.4] vide Usa e Urss unite nel contrastare la sortita dell'imperialismo francoinglese. L'intervento sovietico in Ungheria (di cui parleremo fra poco) non provocò alcuna reazione militare degli occidentali e ribadì, dunque, l'accettazione da parte americana della situazione di fatto nell'Europa dell'Est. 22.10. Il 1956: la destalinizzazione e la crisi ungherese. L'ascesa di Kruscev, Il XX congresso del Pcus e il rapporto Kruscev Le ripercussioni nell'Europa dell'Est, L'ottobre polacco e le riforme di Gomulka, L'insurrezione ungherese, L'intervento sovietico.

In Unione Sovietica la "direzione collegiale" che aveva raccolto l'eredità di Stalin ed era composta da ex collaboratori del capo scomparso (Malenkov, Molotov, Beria, Mikoyan, Bulganin, Kruscev) durò solo pochi anni. Dopo una serie di duri scontri, il segretario del Pcus, Nikita Kruscev, si impose come il leader indiscusso del paese, giungendo a cumulare, nel '57, le cariche di segretario del partito e primo ministro. Personaggio vivace ed estroverso (molto diverso in questo da Stalin), dotato di una notevole carica di comunicativa popolaresca, il nuovo leader si fece promotore di alcune significative aperture sia in politica estera sia in politica interna. Sotto il primo aspetto vanno ricordati il trattato di Vienna e l'incontro con i capi occidentali a Ginevra, ma anche la clamorosa riconciliazione con i comunisti jugoslavi, nel maggio '55, e lo scioglimento del Cominform, nell'anno seguente. In politica interna la svolta krusceviana non introdusse mutamenti sostanziali nella struttura autoritaria del potere sovietico e nella gestione centralizzata dell'economia, ma segnò la fine delle "grandi purghe" e comportò, in materia economica, un rilancio dell'agricoltura e una maggiore attenzione alle condizioni di vita dei cittadini. Per rendere irreversibile la svolta, Kruscev non esitò a compiere l'operazione più traumatica di tutta la storia del gruppo dirigente sovietico: la demolizione della figura di Stalin attraverso una sistematica denuncia degli errori e dei crimini commessi in Unione Sovietica a partire dagli anni '30. In un rapporto al XX congresso del Pcus (febbraio 1956), Kruscev pronunciò una durissima requisitoria contro il leader scomparso, rievocando senza reticenze gli arresti in massa e le deportazioni, le torture e i processifarsa e riabilitando implicitamente le vittime del terrore staliniano (con l'eccezione di Trotzkij). Il rapporto Kruscev - che fu letto ai soli dirigenti e non fu mai pubblicato in Urss, ma fu presto conosciuto in tutto il mondo occidentale - non metteva in discussione la validità del modello sovietico e della dottrina leniniana. Gli errori e le deviazioni erano attribuiti alle scelte di Stalin, al "culto della personalità" che lo aveva circondato, all'eccessivo potere della burocrazia e alle troppo frequenti violazioni della "legalità socialista". La denuncia ebbe ugualmente effetti traumatizzanti. I partiti comunisti occidentali si allinearono al nuovo corso non senza imbarazzi e riserve. Resistenze e proteste si manifestarono anche in Urss, dove il contenuto del documento divenne presto noto, anche se per canali non ufficiali. Ma le conseguenze più esplosive della destalinizzazione si ebbero nell'Europa dell'Est, in particolare in Polonia e in Ungheria. In questi paesi, il rapporto Kruscev fece nascere l'illusione che l'egemonia dell'Urss sui suoi satelliti potesse assumere forme più blande o essere cancellata del tutto.

In Polonia furono soprattutto gli operai - con l'appoggio di una Chiesa cattolica ancora molto forte, nonostante le dure repressioni subite - a rendersi interpreti delle aspirazioni al cambiamento, dando vita a una serie di agitazioni culminate, nel giugno 1956, nel grande sciopero di Poznan. Lo sciopero fu stroncato con l'intervento di truppe sovietiche. Ma le agitazioni continuarono durante l'estate per poi sfociare in un generale moto di protesta (l'ottobre polacco), in cui le istanze di democratizzazione si mescolavano al risentimento antisovietico. Piuttosto che affrontare una difficile repressione militare, i dirigenti dell'Urss preferirono puntare su un ricambio ai vertici del partito e del governo, favorendo l'ascesa al potere di Wladyslaw Gomulka, liberato da poco dal carcere. Gomulka promosse una politica di cauta liberalizzazione e di parziale riconciliazione con la Chiesa, impegnandosi per contro a non mettere in discussione l'alleanza con l'Urss e l'appartenenza della Polonia al campo socialista. In Ungheria gli avvenimenti del '56 seguirono all'inizio un corso analogo. Vi furono, per tutta l'estate, agitazioni e proteste animate soprattutto da intellettuali e studenti. In ottobre le proteste sfociarono in una vera e propria insurrezione, con ampia partecipazione dei lavoratori. In tutte le fabbriche si formarono consigli operai, autonomi dalle organizzazioni ufficiali. A capo del governo fu chiamato Imre Nagy, comunista dell'ala "liberale", già espulso dal partito. Alla fine del mese le truppe sovietiche si ritirarono dall'Ungheria. A questo punto, però, il regime di piena libertà instauratosi nel paese aprì larghi spazi alle forze antisovietiche e i comunisti persero il controllo della situazione. Quando, il 1° novembre, Nagy annunciò l'uscita dell'Ungheria dal Patto di Varsavia, il segretario del Partito comunista Jànos Kàdàr invocò l'intervento sovietico. Reparti dell'Armata rossa occuparono Budapest e stroncarono in pochi giorni l'accanita resistenza delle milizie popolari. Pochi mesi dopo, Nagy fu fucilato, mentre Kàdàr assumeva la guida del paese. L'intervento sovietico - che suonava come una brutale smentita alle speranze suscitate dalla destalinizzazione - provocò sdegno e proteste in Occidente e suscitò non poche crisi di coscienza fra i comunisti di tutto il mondo, già colpiti dal trauma del rapporto Kruscev. Ma, sul piano dei rapporti di forza, la "rioccupazione" dell'Ungheria rappresentò una conferma del controllo sovietico sui paesi satelliti e dell'immutabilità dell'assetto europeo uscito dalla seconda guerra mondiale. 22.11. L'Europa occidentale e il Mercato comune.

Il declino dell'Europa occidentale, I governi conservatori e il declino della Gran Bretagna, I fattori del miracolo tedesco, Cristianodemocratici e socialdemocratici, La spinta all'integrazione europea, La Ceca, Il trattato di Roma e la Comunità economica europea, Gli effetti del Mercato comune. Nel corso degli anni '50, mentre i paesi dell'Est europeo vedevano ribadita la loro condizione di "sovranità limitata", i maggiori Stati dell'Europa occidentale vivevano il difficile passaggio dalla condizione di grandi potenze a quella di potenze di secondo rango, dipendenti per la loro sicurezza e per il loro benessere dall'alleato d'oltreoceano. Il paese che visse questo trapasso in modo più agitato, soprattutto in relazione alle vicende algerine, fu certamente la Francia, come si vedrà nel prossimo paragrafo. Al contrario, in Gran Bretagna la smobilitazione dell'Impero si attuò senza eccessivi traumi e in un quadro di notevole stabilità politica. Rimasti ininterrottamente al governo fra il '51 e il '64, i conservatori non smantellarono l'edificio del Welfare State costruito dai precedenti governi laburisti (limitandosi a riprivatizzare il settore siderurgico). Ma non riuscirono a impedire che il lento declino dell'economia britannica, in atto da oltre mezzo secolo, si trasformasse in un prolungato ristagno: tanto più allarmante se paragonato al grande dinamismo manifestato in quello stesso periodo da altri Stati dell'Europa occidentale. La ripresa più spettacolare, soprattutto se si tien conto delle condizioni di partenza, fu realizzata dalla Germania federale dove i governi a guida cristianodemocratica applicarono con ottimi risultati un modello di economia sociale di mercato che combinava gli interventi sul terreno sociale con un'ispirazione di fondo liberistica e produttivistica. Il prodotto nazionale tedesco crebbe negli anni '50 al ritmo del 6% annuo; la disoccupazione fu quasi completamente riassorbita; il marco, drasticamente svalutato nel '49, divenne la più forte fra le monete europee; il tasso di inflazione si mantenne entro limiti modesti; la bilancia commerciale rimase sempre in attivo. Alla base del "miracolo tedesco" vi erano diversi fattori: la disponibilità di una numerosa manodopera fornita dai profughi (a quelli provenienti dai territori perduti se ne aggiunsero, nel decennio '50-60, altri 3 milioni fuggiti dalla Germania orientale); la moderazione dei sindacati; la notevole stabilità politica. Questa stabilità era dovuta in parte alla costituzione del '49, che prevedeva meccanismi atti a penalizzare i piccoli partiti e a evitare le troppo frequenti crisi parlamentari; in parte agli interventi legislativi che misero fuori legge il Partito comunista e i movimenti neonazisti, peraltro già

abbastanza deboli; in parte alle scelte degli elettori, che si orientarono verso i partiti maggiori, uniti dalla comune accettazione delle regole liberaldemocratiche. L'Unione cristianodemocratica - che, federata con l'Unione cristianosociale bavarese aveva raccolto l'eredità del vecchio Centro cattolico - mantenne ininterrottamente fino al '63 la guida del governo con Adenauer, per lo più in coalizione con il Partito liberale. Il Partito socialdemocratico svolse il ruolo di opposizione costituzionale, senza mettere in discussione i fondamenti del sistema economico e anzi abbandonando ufficialmente, nel congresso di Bad Godesberg del 1959, l'antica base teorica marxista, in favore di una piattaforma di tipo democraticoriformista. Risorta economicamente e rigenerata nelle strutture politiche, parzialmente riarmata dopo la metà degli anni '50 (anche se sotto la stretta tutela degli Usa), la Germania federale riprendeva così il suo posto fra le nazioni sovrane dell'Europa occidentale. Nazioni che, per il fatto stesso di aver perduto la posizione centrale a suo tempo occupata nel mondo, di essere inserite nella stessa alleanza e rette da regimi parlamentari molto simili fra loro, vedevano svanire i vecchi motivi di rivalità legati all""Europa delle grandi potenze" e crescere gli elementi di affinità reciproca. In parte diverso era il caso della Gran Bretagna che, pur avendo perduto il suo impero, continuava a considerarsi separata dall'Europa e a privilegiare i legami col Commonwealth. L'ideale di un'Europa unita nel segno della pace, della democrazia e della cooperazione economica fu fatto proprio, nell'immediato dopo guerra, da autorevoli uomini politici di diversi paesi e di diversa estrazione ideologica: conservatori come Churchill, cattolici come De Gasperi, Adenauer e il francese Robert Schuman, socialisti come Leon Blum e il belga PaulHenri Spaak. La prima realizzazione concreta sul cammino dell'unità si ebbe nel 1951 con la creazione della Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca) che aveva il compito di coordinare produzione e prezzi in quelli che erano ancora i settorichiave della grande industria continentale. Il successo della Ceca incoraggiò i governi a proseguire sulla strada di un accordo che, accantonando i progetti più ambiziosi di "Stati uniti d'Europa", consentisse almeno un coordinamento delle politiche economiche e la creazione di un'area di libero scambio. Nel marzo 1957 si giunse così, dopo anni di trattative diplomatiche, alla firma del trattato di Roma fra i rappresentanti di Francia, Italia, Germania federale, Belgio, Olanda e Lussemburgo, che istituiva la Comunità economica europea (Cee). Scopo primario della Comunità era quello di creare un Mercato comune europeo (Mec), mediante il graduale

abbassamento delle tariffe doganali e la libera circolazione della forzalavoro e dei capitali, ma anche attraverso il coordinamento delle politiche industriali e agricole e l'intervento delle autorità comunitarie in favore delle aree depresse e dei settori in crisi. Organi principali della Cee erano la Commissione, organo essenzialmente tecnico che ha il compito di proporre i piani di intervento e di disporne l'attuazione; il Consiglio dei ministri (formato da delegati dei governi dei paesi membri), cui spettano le decisioni finali; la Corte di giustizia, incaricata di dirimere le controversie fra Stato e Stato; il Parlamento europeo, con funzioni puramente consultive, composto inizialmente da rappresentanti dei parlamenti nazionali, poi (dal 79) eletto direttamente dai cittadini. Sul piano economico, il Mercato comune ottenne all'inizio buoni risultati, dando un forte stimolo alle economie dei paesi associati, che conobbero tutti, tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60, un periodo di notevole espansione. Sul piano politico, però, la spinta all'integrazione rallentò nel giro di pochi anni, frenata dal peso delle tradizioni e degli egoismi nazionali. 22.12. La Francia dalla Quarta Repubblica al regime gaullista. La crisi della quarta Repubblica e l'avvento di De Gaulle, La costituzione della Quinta Repubblica, La politica estera di De Gaulle. Fra le democrazie dell'Europa occidentale, la Francia fu l'unica a sperimentare nel dopoguerra una grave crisi istituzionale. I governi instabili e discordi che si avvicendarono per un decennio, dopo la rottura, nel '47, della coalizione fra i tre partiti di massa, si trovarono ad affrontare il problema della smobilitazione di un impero la cui conservazione si rivelava sempre più insostenibile, ma il cui abbandono era osteggiato da forti correnti di opinione pubblica. Nel maggio '58 giunse al culmine la crisi legata al problema algerino, con la minaccia di un colpo di Stato da parte dei militari di stanza in Algeria [§23.5]. Venne allora chiamato alla guida del governo, e incaricato di redigere una nuova costituzione, il generale De Gaulle, che da alcuni anni si era ritirato in orgoglioso isolamento. La nuova costituzione - con cui nasceva la Quinta Repubblica - lasciava intatte le strutture democraticorappresentative, pur introducendovi alcuni elementi di rafforzamento dell'esecutivo. Il capo dello Stato - che, dal '62, sarebbe stato eletto direttamente dai cittadini - aveva il potere di nominare il capo del governo (che doveva però, per restare in carica, godere anche dell'appoggio della maggioranza parlamentare), di sciogliere le Camere

quando lo ritenesse opportuno e di sottoporre a referendum le questioni da lui considerate più importanti. La costituzione stessa fu sottoposta a referendum e approvata, nel settembre '58, dal.'80% dei francesi. Eletto alla presidenza della Repubblica nel dicembre dello stesso anno, De Gaulle deluse le aspettative della destra colonialista che pure ne aveva accolto con favore l'avvento al potere: avviò alla sua logica soluzione l'affare algerino e stroncò duramente i tentativi di sedizione. D'altra parte, obbedendo alla sua vocazione nazionalista, cercò di risollevare il prestigio internazionale del suo paese, facendosi promotore di una politica estera che tendeva a svincolare la Francia da legami troppo stretti con gli Stati Uniti e a proporla come guida di una futura Europa indipendente dai due blocchi. De Gaulle volle dunque che la Francia si dotasse di una propria "forza d'urto" nucleare; ritirò nel '66 le truppe francesi dall'organizzazione militare della Nato, pur restando fedele all'alleanza atlantica; contestò la supremazia del dollaro nell'economia occidentale, proponendo il ritorno al sistema della convertibilità in oro; si oppose ai progetti d’integrazione politica fra i paesi della Cee, che non si accordavano col suo ideale di un'Europa egemonizzata dalla Francia; mise il veto all'ingresso della Gran Bretagna nel Mec. Era una politica per molti aspetti velleitaria, anche perché non sostenuta da un'adeguata base economica. Ma suscitò ugualmente vaste adesioni, a destra come a sinistra, e contribuì a rendere più solida la base di consenso su cui poggiava la Quinta Repubblica. Sommario La seconda guerra mondiale sancì la crisi definitiva della supremazia europea e l'emergere di due superpotenze, Usa e Urss. Nasceva così un nuovo equilibrio internazionale di tipo bipolare. Gli orrori della guerra, le rivelazioni sullo sterminio degli ebrei, lo spaventoso potere distruttivo della bomba atomica colpirono profondamente l'opinione pubblica e spinsero le potenze vincitrici a cercare basi più stabili e regole nuove per i rapporti internazionali. La creazione dell'Onu (1945) rappresentò il risultato più importante del tentativo di dare vita a un nuovo ordine internazionale capace di scongiurare nuovi conflitti. La creazione del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale (1944), gli accordi commerciali Gatt (1947), il primato del dollaro come valuta internazionale furono gli strumenti della ripresa economica occidentale.

La "grande alleanza" fra le potenze vincitrici aveva cominciato ad incrinarsi già prima della fine della guerra, in relazione al problema del futuro della Germania e il controllo dell'Urss sui paesi dell'Europa orientale. La conferenza della pace (Parigi, luglioottobre 1946) lasciò irrisolto il problema tedesco. Nel '46-47 i contrasti fra le due superpotenze si accentuarono dando inizio a quel la contrapposizione tra due blocchi che fu definita "guerra fredda". La maggiore tensione si ebbe nel 1948-49, quando i sovietici chiusero gli accessi a Berlino - questa crisi si risolse nella nascita della Repubblica federale tedesca (che inglobava le zone sotto il controllo di americani, inglesi e francesi), cui l'Urss rispose con la creazione della Repubblica democratica tedesca. Il Patto atlantico (1949 e il Patto di Varsavia (1955) completarono la divisione dell'Europa in due blocchi In Urss si ebbe nel dopoguerra un'accentuazione dei caratteri autoritari del regime. La ricostruzione economica avvenne rapidamente, privilegiando l'industria pesante e comprimendo i consumi della popolazione. L'Urss diventò una grande potenza militare, dotandosi anch'essa della bomba atomica. La ricostruzione del paese avvenne anche grazie a massicce riparazioni imposte ai paesi dell'Est ex nemici. Tutti questi paesi furono trasformati, nella seconda metà degli anni '40, in "satelliti" dell'Urss, politicamente ed economicamente dipendenti dalle decisioni della potenza egemone e modellati secondo il sistema sovietico. Un'eccezione fu la Jugoslavia di Tito, la cui autonomia dai sovietici portò nel '48 a una vera e propria rottura. Negli Stati Uniti si esaurì, durante la presidenza Truman, la spinta progressista del New Deal e si diffuse, nei primi anni '50, una campagna anticomunista il cui protagonista fu il senatore McCarthy. L'Europa occidentale, invece, fu attraversata da una forte spinta riformista. Il caso più emblematico fu quello dell'Inghilterra, dove nel '45-51 i laburisti attuarono un vasto programma di riforme sociali che segnava la nascita del Welfare State. In Francia - dove nel '46 fu varata una nuova costituzione democraticoparlamentare (Quarta Repubblica) - la coalizione fra i partiti di massa resse fino al 1947, quando i comunisti furono esclusi dal governo. Grazie anche agli aiuti americani, la Germania federale si risollevò rapidamente dalle disastrose condizioni della fine della guerra e fu protagonista di un vero "miracolo economico". Un altro miracolo economico fu quello del Giappone, dove gli Stati Uniti imposero una trasformazione in senso democraticoparlamentare senza tuttavia intaccare il potere delle grandi concentrazioni industriali. Negli anni successivi il Giappone si affermò come una delle maggiori potenze economiche mondiali.

La vittoria dei comunisti sui nazionalisti e la fondazione della Repubblica popolare cinese (1949) segnarono la rinascita della Cina come Stato indipendente e, insieme, un allargamento del "campo socialista". L'anno successivo la dimensione mondiale del confronto tra i due blocchi si manifestò con la guerra di Corea, originata dall'invasione del Sud del paese da parte di truppe del Nord comunista appoggiate dai sovietici. All'intervento americano contro l'invasione rispose quello cinese, finché la crisi coreana si concluse nel '53 col ritorno alla situazione precedente la guerra. Negli anni successivi alla fine della presidenza Truman (1952) e alla morte di Stalin (1953) si affermò progressivamente un nuovo rapporto meno conflittuale tra le due superpotenze. L'equilibrio fra i due blocchi si basava essenzialmente sul reciproco riconoscimento delle rispettive sfere di influenza. Nel febbraio '56, nel corso del XX congresso del Pcus, il leader sovietico Kruscev fece una clamorosa denuncia dei crimini di Stalin. Il processo di "destalinizzazione" avviato in Urss alimentò nei paesi dell'Europa dell'Est la speranza di un allentamento del controllo sovietico. Diffusi movimenti di protesta si verificarono in Polonia (giugnoottobre '56) e in Ungheria (ottobrenovembre). Mentre le agitazioni polacche portarono a una cauta liberalizzazione, l'insurrezione ungherese fu stroncata dall'intervento dell'Armata rossa. Negli anni '50 e '60, mentre l'economia britannica visse un prolungato ristagno, in tutti i paesi dell'Europa occidentale si verificò una crescita economica sostenuta. Rapida fu soprattutto la ripresa della Germania favorita anche da una notevole stabilità politica. Il definitivo ridimensionamento politico dell'Europa, conseguenza del conflitto mondiale, favorì l'integrazione economica dei vari Stati, dapprima con la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca) e poi con l'istituzione, nel 1957, della Comunità economica europea (Cee). La Francia attraversò negli anni '50 una grave crisi istituzionale, legata al problema algerino. Nel '58 De Gaulle assunse la guida del governo, varando una nuova costituzione (con cui nasceva la Quinta Repubblica) e concedendo l'indipendenza all'Algeria. In politica estera De Gaulle seguì una politica finalizzata alla creazione di un'Europa indipendente dai due blocchi ed egemonizzata dalla Francia. Bibliografia

Sulla guerra fredda: A. Gambino, Le conseguenze della seconda guerra mondiale. L'Europa da Yalta a Praga, Laterza, Bari 1972; A. Fontaine, Storia della guerra fredda, Il Saggiatore, Milano 1968; Gli Stati Uniti e le origini della guerra fredda, a e. di E. Aga Rossi, Il Mulino, Bologna 1984. Per un inquadramento generale dei problemi del dopoguerra: E. Galli della Loggia, Il mondo contemporaneo (1945-1980), Il Mulino, Bologna 1982. Sugli Stati Uniti: G. Mammarella, L'America da Roosevelt a Reagan, Laterza, RomaBari 1984. Sull'Europa occidentale, sempre di Mammarella, Storia d'Europa dal 1945 a oggi, ivi 1980. Sull'economia europea: M. M. Postan, Storia economica d'Europa 1945-1964, Laterza, Bari 1968. Sui rapporti economici fra le due sponde dell'Atlantico: D. W. Ellwood, L'Europa ricostruita, Il Mulino, Bologna 1994. Sull'Urss: G. Boffa, Storia dell'Unione Sovietica, II. Dalla Guerra patriottica al ruolo di seconda potenza mondiale. Stalin e Chruscev 19411964, Mondadori, Milano 1979; sulle "democrazie popolari": F. Fejtò, Storia delle democrazie popolari, 2 voll., Bompiani, Milano 1977. Sulla rivoluzione cinese, oltre al volume di E. Collotti Pischel, Storia della rivoluzione cinese, citato nel cap. 20, si veda E. Masi, Breve storia della Cina contemporanea, Laterza, RomaBari 1979. 23. La decolonizzazione e il Terzo Mondo. 23.1. I caratteri generali della decolonizzazione. La guerra e la crisi del colonialismo, Il ruolo di Usa e Urss, L'Onu e il principio di autodeterminazione, Le forme della decolonizzazione, Il rapporto con l'Europa, Il fallimento della democrazia parlamentare. Lo smantellamento del sistema coloniale e l'accesso all'indipendenza dei popoli afroasiatici sono tra i fenomeni più importanti del XX secolo: forse i più importanti sotto il profilo dei rapporti internazionali e della trasformazione della comunità mondiale nel suo insieme. Preparato già nel primo dopoguerra con lo sviluppo di movimenti di liberazione nazionale, il processo di decolonizzazione ricevette la spinta decisiva dal secondo conflitto mondiale. Nei teatri di guerra extraeuropei, i gruppi indipendentisti, appoggiati dall'uno o dall'altro dei belligeranti, avevano acquistato forza e prestigio sempre maggiori. In Asia essi erano stati sostenuti dai giapponesi in funzione antifrancese e antinglese, ma in molti casi erano passati ben presto alla guerriglia contro l'occupazione nipponica.

Quasi dappertutto, a guerra finita, queste forze rimasero mobilitate politicamente e militarmente per battersi contro il dominio coloniale. Un altro fattore di importanza decisiva fu la pressione congiunta degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica per scalzare gli europei dall'Asia e dall'Africa e quindi per accelerare la liquidazione del vecchio ordine mondiale fondato sull'eurocentrismo. Le due superpotenze avrebbero in seguito fatto pesare la loro egemonia sui paesi afroasiatici, anche se in forme molto diverse (essenzialmente economiche gli americani, soprattutto politicomilitari i sovietici). Ma ciò non toglie che il loro ruolo fu decisivo nell'avviare il processo di decolonizzazione. Per volontà soprattutto americana, gli alleati avevano proclamato, ancora in piena guerra mondiale, con la Carta atlantica del 1941 [§21.8], il "diritto di tutti i popoli a scegliere la forma di governo da cui intendono essere retti". Il principio di autodeterminazione dei popoli, che avrebbe ispirato l'intera attività dell'Onu, si impose così come base di un nuovo codice eticopolitico internazionale, a cui l'Europa non poteva sottrarsi, tanto più che era uscita indebolita e ridimensionata dalla guerra. Del resto i benefici economici del colonialismo compensavano sempre meno i costi politici, militari e finanziari del mantenimento delle colonie, di fronte alla crescente pressione dei movimenti indipendentisti. Se la linea di tendenza era già chiaramente fissata alla fine della guerra, non mancarono tuttavia incertezze e resistenze nella fase di attuazione. Il processo si compì attraverso vicende alterne, che risentirono sia della natura dei nazionalismi locali, sia della consistenza numerica della colonizzazione bianca, sia delle politiche dei paesi europei. La Gran Bretagna, come già si è visto [§20.4], procedette a una graduale abdicazione al proprio dominio, preparando i popoli soggetti all'indipendenza (mediante la concessione di costituzioni e di organismi rappresentativi) e cercando di trasformare l'Impero in una comunità di nazioni sovrane, liberamente associate nel Commonwealth. La Francia, invece, oppose una tenace resistenza ai movimenti indipendentisti e praticò fino all'ultimo una politica "assimilatrice", che pretendeva di riunire la madrepatria e le colonie in un unico Stato e concedeva ai popoli soggetti una formale parità di diritti. Sia nel caso dei domini francesi sia in quello dei possedimenti britannici, olandesi, belgi e portoghesi, lo sbocco obbligato fu l'indipendenza. Dove furono mantenuti legami, ciò avvenne per scelta volontaria. Il rapporto con l'Europa, che nel bene e nel male era stato per i popoli afroasiatici un fattore decisivo di modernizzazione, rimase comunque importante. Nonostante la fortuna di alcune ideologie autoctone e tradizionaliste (come, ad esempio, l'integralismo islamico) e nonostante la

polemica ricorrente nei paesi "decolonizzati" contro alcuni aspetti della cultura occidentale, l'eredità coloniale lasciò tracce durevoli non solo sul piano materiale, ma anche su quello delle abitudini, della cultura, della lingua (si pensi al caso dell'India, dove l'inglese continua a svolgere la funzione di lingua nazionale). Sul piano delle istituzioni politiche, però, la democrazia parlamentare di tipo europeo si affermò solo in pochi paesi. Le ragioni furono molteplici: il peso di una tradizione diversa; il fatto che l'Europa aveva mostrato in Africa e in Asia non il suo volto liberale, ma quello autoritario del governo coloniale; il carattere delle dirigenze locali, espressione di élites numericamente esigue (spesso cresciute nelle file delle forze armate) e non di borghesie mature, radicate nella società; la difficoltà di avviare un processo di sviluppo partendo da condizioni di grave arretratezza economica. Tutto ciò fece sì che, in genere, l'accento fosse posto sulla coesione nazionale più che sulle libertà individuali. Il risultato fu quindi la prevalenza di regimi di stampo autoritario, di sistemi a partito unico tanto di destra quanto di sinistra, di vere e proprie dittature militari. 23.2. L'emancipazione dell'Asia. Cultura e tradizioni nazionali in Asia, Il movimento nazionale indiano: Gandhi e il Partito del congresso, L'indipendenza dell'India e del Pakistan, Il conflitto fra indù e musulmani e l'uccisione di Gandhi, I problemi dell'India indipendente Il SudEst asiatico, La lotta di liberazione in Vietnam, La sconfitta dei francesi a Dien Bien Phu e gli accordi di Ginevra. Il continente asiatico fu il primo ad affrancarsi dal dominio coloniale, precedendo l'Africa di quasi dieci anni. Il motivo di ciò, più che nel l'impatto diretto delle vicende belliche, sta nel carattere relativamente più avanzato dell'organizzazione politica e della struttura sociale. L'Asia era stata sede di antiche e raffinate civiltà e di religioni millenarie, era ricca di un importante patrimonio eticofilosofico e legata a un sistema di valori e di costumi che aveva saputo recepire gli influssi europei senza perdere la propria identità; era anche forte di tradizioni nazionali consolidate da antichissima data. Le stesse campagne, se scontavano il peso di una grave arretratezza tecnica e di un regime fondiario di stampo per lo più feudale, erano comunque a uno stadio più avanzato rispetto ai "micromondi" primitivi delle società tribali africane. La più lunga consuetudine di contatti con gli europei aveva inoltre favorito la formazione di élites locali educate nelle università occidentali, ma profondamente legate al proprio retroterra

culturale, che presero la guida del processo di emancipazione e poi dei governi dei rispettivi paesi. Tale fu, innanzitutto, il caso dell'India che nella storia della decolonizzazione occupa un posto preminente e per molti aspetti esemplare. Qui, come già abbiamo visto, la crescita del movimento nazionalista si era legata all'affermazione del Partito del congresso, espressione della borghesia indiana, e soprattutto all'influenza politica e morale di Gandhi che, con una serie di campagne di disobbedienza civile e di boicottaggio delle istituzioni inglesi, aveva ottenuto alcune importanti concessioni, come la costituzione federale del '35 [§20.4]. Nel corso del conflitto mondiale, il Partito del congresso - guidato, dal '41, da Javaharlal Nehru, uno dei più stretti collaboratori di Gandhi - promosse un movimento di resistenza non violenta alla guerra, strappando agli inglesi la promessa di concedere all'India lo status di dominion, che equivaleva a una indipendenza di fatto. A guerra finita, la Gran Bretagna aprì i negoziati per il trasferimento della sovranità. Mentre Gandhi si batteva per uno Stato unitario laico dove potessero convivere indù e musulmani, questi ultimi reclamarono la separazione, che fu infine accordata dagli inglesi dopo un lungo e faticoso negoziato e dopo gravi conflitti fra le due comunità. Nell'agosto 1947 videro così la luce due Stati: l'Unione Indiana, a maggioranza indù, e il Pakistan musulmano, geograficamente diviso in due tronconi situati alle opposte estremità della penisola indiana (quello orientale si sarebbe a sua volta separato nel 1971, prendendo il nome di Bangladesh). La creazione dei due Stati non impedì il moltiplicarsi degli scontri fra indù e musulmani, che assunsero a tratti le proporzioni di una vera e propria guerra. L'epopea di un movimento di liberazione nazionale affermatosi con mezzi pacifici si concluse così con oltre 100.000 morti e con il trasferimento da uno Stato all'altro di 17 milioni di persone: senza contare le due guerre che India e Pakistan combatterono successivamente (nel '48 e nel '65) per il controllo della regione del Kashmir, musulmano ma assegnato all'Unione Indiana. Lo stesso Gandhi fu vittima di quel clima di violenza e di odio religioso che tanto aveva combattuto: giudicato troppo arrendevole verso i musulmani, fu assassinato da un estremista indù nel gennaio 1948. Il primo ministro Nehru rimase fino alla sua morte (1964) alla guida di un paese che si era guadagnato un notevole prestigio internazionale (diventando, come vedremo, uno dei portabandiera del "non allineamento"), ma era sempre gravato da immensi problemi interni: la povertà cronica delle campagne; l'eccezionale sovraccarico demografico (in trent'anni la popolazione dell'Unione Indiana quasi raddoppiò, passando dai 360 milioni del '51 ai 683 dell'81); le tensioni fra i diversi gruppi etnici e religiosi

(tendenze separatiste si manifestarono soprattutto nella setta dei sikh, concentrata nella regione del Punjab); la permanenza di abiti mentali arcaici e di divisioni legate al vecchio sistema delle caste. Problemi che avrebbero afflitto il paese anche negli anni 70 e '80, nonostante le prudenti iniziative riformiste della classe di governo e nonostante un relativo sviluppo economico e tecnologico che consentì di risolvere (con l'apporto di cospicui aiuti internazionali) i più drammatici problemi alimentari. Tuttavia, malgrado alcuni aspetti autoritari e personalistici del potere esercitato prima da Nehru, poi da sua figlia Indirà Gandhi (primo ministro dal '66 al 77 e dall'81 all'84, quando morì per mano di un militante sikh), le istituzioni democraticoparlamentari nate con l'indipendenza ressero complessivamente al confronto con i problemi del paese. Non altrettanto si può dire per la maggioranza degli altri Stati del continente, a cominciare dal Pakistan, a lungo governato da dittature militari (1958-72 e 1977-88). Nel SudEst asiatico, il processo di emancipazione e gli sviluppi successivi furono condizionati dal confronto tra le forze nazionaliste (con servatrici o progressiste) e i movimenti comunisti, che avevano, come in Cina, la loro base principale nelle campagne (cronicamente sovrappopolate e oppresse da regimi fondiari di stampo feudale) e traevano i loro quadri dagli intellettuali delle città. L'esito del confronto fu diverso a seconda dei paesi. In Birmania e in Malesia, indipendenti rispettivamente nel '48 e nel '57, prevalsero le forze nazionaliste e la guerriglia comunista fu duramente sconfitta. In Indonesia, il movimento nazionalista guidato da AhmedSukarno ottenne l'indipendenza nel '49 e seguì una politica di non allineamento e di emancipazione economica dai capitali stranieri, resistendo alle pressioni contrapposte della destra militare e dei comunisti. Nel 1965, a seguito di un fallito tentativo rivoluzionario di questi ultimi, risoltosi con un autentico massacro di militanti del partito, Sukarno fu costretto a cedere il potere ai militari del generale Subarto. Nel Regno di Thailandia l'ex Siam, unico fra gli Stati della regione ad aver sempre mantenuto l'indipendenza) le forze moderate mantennero sempre il potere, in un alternarsi di regimi militari e di governi civili. Nelle Filippine, cui gli Stati Uniti concessero l'indipendenza nel 1946, conservando tuttavia ampi privilegi economici e basi militari, governi di carattere sempre più autoritario (come quello di Ferdinand Marcos, al potere dal '65 all'86) dovettero fronteggiare la guerriglia condotta dai comunisti e dalle forze separatiste musulmane. Una netta prevalenza dei comunisti si ebbe invece negli Stati sorti dalla dissoluzione dell'impero francese in Indocina. Nel Vietnam (che comprendeva gli antichi regni di Cocincina, Annam e Tonchino) i comunisti, sotto la guida del loro leader Ho Chiminb, avevano assunto un

ruolo di preminenza nella Lega per l'indipendenza (Vietminh), che era stata costituita nel 1941 con la partecipazione di tutte le forze patriottiche e aveva condotto, durante la guerra, la lotta contro i giapponesi e contro i francesi di Vichy. A guerra finita, nel 1945, Ho Chiminh proclamò ad Hanoi la Repubblica democratica del Vietnam. Ma i francesi non riconobbero il nuovo Stato e rioccuparono la parte meridionale del paese. Nel 1946, dopo un illusorio tentativo di accordo, cominciò una lunga e aspra guerra fra gli occupanti francesi e le forze del Vietminh che, sotto la guida del generale Giap, riuscirono a logorare gli avversari con un impiego magistrale della strategia della guerriglia. La guerra si concluse solo nel maggio 1954, quando la piazzaforte di Dien Bien Phu, dove era concentrato il grosso delle forze francesi, fu costretta a capitolare dopo tre mesi di assedio. Gli accordi di Ginevra del luglio dello stesso anno sanzionarono il ritiro dei francesi da tutta la penisola indocinese - dunque anche dal Laos e dalla Cambogia e la divisione provvisoria del Vietnam in due Stati: uno comunista al Nord, l'altro filooccidentale al Sud. In realtà, come già era accaduto in Corea, la crisi indocinese veniva ormai a inserirsi nel contrasto EstOvest, portando i germi di un conflitto di più ampie proporzioni. Tabella di p.473 1947 data dell'indipendenza. B. = BAHREIN 1971 BA. = BANGLADESH 1971 BH. = BHUTAN 1947 CA. = CAMBOGIA 1953 E. A.U. = EMIRATI ARABI UNITI 1971 Gì. = GIORDANIA 1946 I. = ISRAELE 1948 KU. = KUWAIT 1961 LA. = LAOS 1953 LI. = LIBANO 1941/43 QA. =QATAR 1971 YE. = YEMEN 1967 L'Asia nel 1975 23.3. Il Medio Oriente e la nascita di Israele. Integralismo islamico e nazionalismo laico, L'indipendenza dei paesi mediorientali, La questione palestinese e l'immigrazione ebraica Il ritiro degli inglesi e la prima guerra araboisraeliana, Lo Stato di Israele Il dramma palestinese.

Regione di grande importanza strategica ed economica, il Medio oriente, già dai primi decenni del secolo, aveva visto svilupparsi un movimento nazionale arabo che, rivolto inizialmente contro la dominazione ottomana, si era successivamente indirizzato soprattutto contro le potenze europee. In questo movimento confluivano due diverse componenti: una tradizionalista, fautrice di una "reislamizzazione" della società mediante l'applicazione integrale dei precetti coranici (da qui il nome di "integralismo islamico"); e un'altra laica e nazionalista, più attenta alle esigenze di modernizzazione economica. Questa seconda tendenza, sostenuta prima dai capi dinastici, poi, in chiave "progressista", dai militari e dalle borghesie locali, finì nel complesso col prevalere sulla componente tradizionalista, che rimase comunque molto forte. Anche in Medio Oriente, la seconda guerra mondiale accelerò il processo di emancipazione, costringendo le potenze europee a venire a patti con le rivendicazioni nazionali arabe. Nel 1946 la Gran Bretagna riconobbe definitivamente l'indipendenza della Transgiordania e la Francia ritirò le sue truppe dalla Siria e dal Libano. l'Iraq aveva ottenuto l'indipendenza dagli inglesi già nel '32. Insieme all'Egitto, all'Arabia Saudita e allo Yemen, questi paesi formarono, nel 1945, la Lega degli Stati arabi, con scopi di cooperazione politica ed economica e con ambizioni di integrazione federalista che sarebbero peraltro rimaste sulla carta. Restava da sciogliere il nodo della Palestina [§20.2], che nel 1939 la Gran Bretagna si era impegnata a rendere indipendente entro dieci anni, ma che era ancora contesa fra arabi ed ebrei. Negli anni della guerra, la pressione del movimento sionista per la creazione di uno Stato ebraico si fece sempre più forte, alimentata dall'immigrazione degli ebrei europei che fuggivano dal terrore nazista (nel 1945 c'erano in Palestina 150.000 ebrei, contro 1.250.000 arabi); e l'aspirazione a un "focolare nazionale" ricevette una nuova, potente legittimazione presso l'opinione pubblica democratica dopo le rivelazioni sugli orrori dei campi di sterminio. La causa sionista trovò un potente alleato negli Stati Uniti, dove la comunità ebraica era numerosa e influente, ma fu ostacolata dalle autorità inglesi, preoccupate di inimicarsi i vicini Stati arabi, che si muovevano ancora nell'ambito del sistema di alleanze britannico. Mentre i leader sionisti chiedevano la libertà di immigrazione, le organizzazioni militari ebraiche in Palestina passavano alla lotta armata condotta, dai gruppi più estremisti, anche con metodi terroristici non più solo contro gli arabi, ma contro gli stessi inglesi. Trovatasi di fronte a una situazione incontrollabile, e avendo constatato l'impossibilità di formare uno

Stato binazionale, la Gran Bretagna si tirò fuori dal conflitto: nel 1947 il governo inglese annunciò che avrebbe ritirato le sue truppe dalla Palestina alla mezzanotte del 15 maggio 1948 e rimise alle Nazioni Unite il compito di trovare una soluzione al problema. L'Onu approvò un piano di spartizione in due Stati, che venne però respinto dagli arabi. Nel maggio '48, all'atto della partenza degli inglesi, gli ebrei proclamarono la nascita dello Stato di Israele e gli Stati della Lega araba reagirono subito attaccandolo militarmente. La prima guerra araboisraeliana (maggio '48-gennaio '49) si risolse però con la sconfitta delle forze arabe, mal equipaggiate e mal coordinate fra loro, e segnò la definitiva affermazione del nuovo Stato ebraico, mostrandone la determinazione e la combattività. Stato moderno, ispirato ai modelli delle democrazie occidentali, dotato di strutture sociali e civili molto avanzate - che contrastavano con la complessiva arretratezza dell'area mediorientale - e di un'organizzazione economica in cui il capitalismo industriale conviveva con l'esperimento cooperativistico delle comunità agricole (kibbutzim) create dai pionieri sionisti fin dall'inizio del secolo, Israele rivelò fin dai primi anni una forza insospettata rispetto alle sue piccole dimensioni: una forza che gli derivava non solo dalle risorse provenienti dall'esterno (le comunità ebraiche europee e soprattutto americane), ma anche dalla preparazione e dall'intraprendenza dei suoi dirigenti (in particolare dei leader laburisti come David Ben Gurion, che guidarono il paese dopo l'indipendenza) e dalla forte motivazione patriottica dei suoi cittadini. Con la guerra del '48, lo Stato ebraico si ingrandì rispetto al piano di spartizione dell'Onu, occupando anche la parte occidentale di Gerusalemme. La Transgiordania, che mutò il suo nome in quello di Giordania, incamerò i territori occupati dalle sue truppe durante il conflitto, sottraendoli all'ipotizzato Stato arabo di Palestina [cartina, p. 540]. Quest'ultimo non vide la luce. Un milione di profughi arabi abbandonarono i territori occupati da Israele e ripararono nei paesi vicini, per lo più in Giordania. Cominciò così il dramma palestinese, sul quale si sarebbe da allora incentrato il conflitto araboisraeliano. 23.4. La rivoluzione nasseriana in Egitto e la crisi di Suez. La monarchia egiziana, La rivoluzione nasseriana, La guerra di Suez, La diffusione del nasserismo in Medio Oriente Il sogno dell'unità araba, Il regime di Gheddafi in Libia.

All'inizio degli anni '50, il nazionalismo arabo trovò il suo centro e la sua guida indiscussa nell'Egitto, certo il più importante fra gli Stati del Medio Oriente per popolazione, per posizione strategica e per tradizioni storiche. Nel paese, formalmente indipendente dal '22, la spinta nazionalista sembrava essersi esaurita negli anni '30 in un compromesso con gli inglesi, che avevano rinunciato al controllo sulla politica estera e sulla difesa, ma avevano mantenuto la loro presenza militare nella zona del Canale di Suez. Di fatto, la monarchia egiziana restava legata alla Gran Bretagna e teneva in piedi, con l'appoggio inglese, un sistema di governo sempre più corrotto e inefficiente, contestato sia dalla borghesia più progressista, sia dalle forze integraliste islamiche che facevano capo alla setta dei Fratelli musulmani. Ma la scossa decisiva venne dall'esercito. Nel luglio 1952, un Comitato di ufficiali liberi guidato da Mohammed Neguib e da Gamal Abdel Nasser assunse il potere rovesciando la monarchia. Nel 1954, Nasser allontanò il più moderato Neguib e rimase arbitro della situazione. Il nuovo regime avviò una serie di riforme in senso socialista (redistribuzione della terra, nazionalizzazione delle principali attività economiche) e tentò di promuovere un processo di industrializzazione. In politica estera, Nasser si mosse con decisione per affrancare il paese da ogni condizionamento da parte delle potenze ex coloniali e rivelò subito l'ambizione di assumere la guida dei paesi arabi nella lotta contro Israele; ottenne lo sgombero delle truppe inglesi dalla zona del Canale e stipulò accordi con l'Urss per aiuti economici e militari. Reagendo a quello che appariva come uno scivolamento verso posizioni filosovietiche, gli Stati Uniti bloccarono nel '56 il finanziamento da parte della Banca mondiale della grande diga di Assuan, sull'alto Nilo, necessaria per l'elettrificazione del paese. Nasser rispose nazionalizzando la Compagnia del Canale di Suez, dove inglesi e francesi conservavano forti interessi. Si aprì a questo punto una crisi internazionale di vasta portata. Nell'ottobre 1956, d'intesa con i governi di Londra e Parigi, Israele attaccò l'Egitto e lo sconfisse, penetrando in profondità nella penisola del Sinai, mentre truppe francesi e inglesi occupavano la zona del Canale. A far fallire questo tentativo di riesumare obiettivi e metodi del vecchio colonialismo fu l'atteggiamento delle due superpotenze: gli Stati Uniti non diedero alcun appoggio all'impresa, anzi la condannarono apertamente; l'Urss inviò addirittura un ultimatum a Francia, Gran Bretagna e Israele. Prive dell'appoggio americano, le due vecchie potenze coloniali dovettero cedere. Mentre Israele si ritirava dal Sinai, le truppe francoinglesi abbandonavano la zona del Canale. L'effetto più immediato della crisi di Suez fu quello di rafforzare la posizione dell'Egitto e soprattutto il prestigio personale di Nasser.

Rilanciando con contenuti più moderni la causa del panarabismo (ossia dell’unità fra tutti i popoli arabi), il leader egiziano acquistò un'immensa popolarità presso le masse popolari e la borghesia intellettuale di tutto il mondo islamico e diede all'Egitto una posizione di preminenza fra i paesi in via di sviluppo. L'impatto del nasserismo sugli equilibri politici dell’area mediorientale fu in effetti dirompente. Già nel '54 in Siria si era affermato un regime militare di ispirazione panaraba che, nel '58, accettò la fusione con l'Egitto, nell'ambito della Repubblica araba unita sotto la presidenza di Nasser. Sempre nel '58, i militari nazionalisti presero il potere in Iraq, rovesciando la monarchia (mentre analoghi tentativi fallirono in Libano e in Giordania per l'intervento rispettivamente di Stati Uniti e Gran Bretagna). La fusione fra Egitto e Siria si rivelò in realtà di breve durata (fu annullata nel '61), come altri esperimenti analoghi tentati successivamente con altri paesi. Più in generale, i sogni di unità panaraba si scontrarono ben presto con la realtà delle gelosie nazionali e delle divisioni ideologiche. Tuttavia il richiamo del panarabismo nella versione nasseriana rimase molto forte. Di ispirazione nasseriana, anche se con connotati particolari di ortodossia islamica, fu la rivoluzione che, nel 1969, depose la monarchia in Libia e portò al potere i militari guidati dal giovane colonnello Muhammar Gheddafi. Il regime di Gheddafi - che fra i suoi primi atti nazionalizzò le compagnie petrolifere straniere ed espulse la numerosa comunità italiana ancora residente nel paese - si sarebbe in seguito caratterizzato per il tentativo di realizzare un'inedita forma di "socialismo islamico" e soprattutto per il dinamismo a tratti avventuroso della sua politica estera: una politica che lo avrebbe portato ad appoggiare la causa di tutti i movimenti di guerriglia "antiimperialisti" e a inserirsi nei conflitti interni di vari paesi africani, creando uno stato di permanente tensione con i regimi arabi moderati e soprattutto con gli Stati Uniti. 23.5. L'indipendenza dei paesi del Maghreb. La lotta per l'indipendenza in Marocco e in Tunisia, La resistenza dei francesi in Algeria, L" Fln, La battaglia di Algeri e la repressione militare, De Gaulle e l'Algeria, Gli accordi di Evian e l'indipendenza algerina. All'inizio degli anni '50, nei paesi del Maghreb (ossia la parte occidentale del Nord Africa, comprendente Marocco, Algeria e Tunisia), il nazionalismo arabo continuava a scontrarsi con la dominazione coloniale francese. In Marocco e in Tunisia, la guida del movimento indipendentista fu assunta da forze di ispirazione "occidentalizzante": l'htiqlal (Partito

dell'indipendenza), appoggiato dallo stesso sultano Ben Yussef, in Marocco, e il NeoDestur, guidato da Habib Burghiba, in Tunisia. Dopo aver cercato di reprimere l'agitazione indipendentista alternando la repressione militare con le proposte di parziale autogoverno, i francesi furono costretti a concedere, nel 1956, la piena indipendenza a entrambi i paesi, che avrebbero in seguito mantenuto una posizione moderata e filooccidentale in politica estera. Ben più drammatica e cruenta fu la lotta di liberazione in Algeria, dove la presenza di oltre un milione di francesi, tenacemente arroccati nella difesa dei propri privilegi, rendeva particolarmente rigida la posizione dei governi e della stessa opinione pubblica in Francia. Con l'inizio degli anni '50, e soprattutto dopo il successo della rivoluzione nasseriana in Egitto, il movimento nazionalista algerino si radicalizzò: uscirono di scena i capi tradizionali e i leader moderati, disposti ad accettare soluzioni di compromesso, e si affermò il Fronte di liberazione nazionale (Fin), guidato da Mohammed Ben Bella: un'organizzazione clandestina radicata soprattutto nelle città e votata alla causa della piena indipendenza. Cominciava così la fase decisiva di uno scontro che avrebbe provocato gravi fratture e crisi politiche nella stessa Francia e avrebbe d'altro canto assunto il valore di un modello per i movimenti rivoluzionari del Terzo Mondo. Lo scontro culminò, nel '57, con la battaglia di Algeri, uno dei più drammatici episodi di guerriglia urbana del nostro tempo, che durò quasi nove mesi e vide l'intera città araba stringersi attorno ai combattenti dell" Fln. I francesi riuscirono a piegare l'insurrezione con un massiccio invio di reparti speciali. La repressione fu condotta con metodi particolarmente brutali (liquidazione fisica dei prigionieri, uso sistematico della tortura) e suscitò sdegno e proteste in una parte non trascurabile (anche se minoritaria) dell'opinione pubblica e del mondo politico francese. Nel maggio 1958, temendo un cedimento da parte del governo di Parigi, i coloni più oltranzisti, con l'appoggio di elementi dell'esercito, costituirono ad Algeri un Comitato di salute pubblica. Questa iniziativa, che sembrava preludere a un colpo di Stato militare in Francia, mise definitivamente in crisi la Quarta Repubblica e, come si è visto [§22.12], spianò la strada al ritorno al potere di Charles De Gaulle. Il generale, inizialmente favorevole al mantenimento di una presenza nella colonia, capì ben presto che la causa dell""Algeria francese" era ormai perduta e agì con coraggio e determinazione per far uscire il paese da una guerra sempre più impopolare e costosa. Stabilì i primi contatti con l" Fln, stroncò, nell'aprile '61, un tentato colpo di Stato militare ad Algeri e reagì con durezza alla campagna

terroristica condotta in Francia dagli oltranzisti di destra dell'Oas (Organisation armée secrète). Nel marzo 1962, dopo un anno di trattative, il governo francese e il governo rivoluzionario provvisorio (espressione politica dell" Fln) si accordarono a Evian su un progetto di indipendenza da sottoporre tramite referendum al giudizio della popolazione algerina. A questo punto i coloni francesi abbandonarono in massa il paese, dando per scontato l'esito del referendum, che si tenne in luglio e diede un risultato largamente favorevole all'indipendenza. Prima sotto la guida di Ben Bella, poi (dal '65 al 79) sotto quella del più "moderato" Huari Bumedien, l'Algeria si diede un ordinamento interno fortemente autoritario e centralizzato, con un'economia in buona parte statizzata, e assunse una posizione di punta nello schieramento dei paesi arabi. Non rinunciò, però, alla collaborazione economica con la Francia e con gli altri Stati occidentali e riuscì, grazie anche all'abbondanza di materie prime, a mettere in moto un processo di sviluppo relativamente rapido e intenso. 23.6. L'emancipazione dell'Africa nera. La decolonizzazione nell'Africa subsahariana, Il 1960, "anno dell'Africa", La resistenza dei coloni bianchi: il Kenya e la Rhodesia, Il regime di "apartheid" in Sud Africa Il dramma del Congo, I conflitti interni, La fragilità delle istituzioni statali, I regimi militari, Il neocolonialismo. La via socialista. Nell'Africa a sud del Sahara, il processo di decolonizzazione fu più tardivo rispetto a quello della regione mediterranea, ma, una volta innescato, fu anche più rapido e meno conflittuale. Alla fine degli anni '50, le potenze europee avevano rinunciato a contrastare quel processo, che appariva ormai inarrestabile - soprattutto dopo la vittoriosa conclusione delle lotte per l'indipendenza in Asia, in Medio Oriente e nel Maghreb - e si erano anzi risolte ad assecondarlo. La grande stagione dell'emancipazione africana si aprì nei territori britannici nel 1957, con l'indipendenza del Ghana (l'antica Costa d'oro), dove si era affermato un forte movimento nazionalista guidato da Nkwame Nkrumah. Fra le colonie francesi, la prima ad affrancarsi fu la Guinea, sotto la guida di Sékou Touré, nel 1958. Nel 1960, in quello che fu chiamato "l'anno dell'Africa", ottennero l'indipendenza ben diciassette nuovi Stati: fra questi la Nigeria, il Congo belga (poi ribattezzato Zaire), il Senegal e la Somalia (dove era scaduto il mandato assegnato all'Italia).

Complessivamente, il processo ebbe carattere pacifico e spesso fu pilotato dalle stesse potenze europee, che riuscirono così a mantenere con le ex colonie importanti legami economici e culturali. Il cammino verso l'indipendenza fu però più lento e travagliato dove erano in gioco interessi più forti o dove più consistente era la presenza dei coloni bianchi. Il Kenya, prima di raggiungere l'indipendenza nel 1963, fu insanguinato dalla feroce campagna terroristica condotta dalla setta dei MauMau e da un altrettanto spietata repressione da parte degli inglesi. Nella Rhodesia del Sud, la minoranza bianca (il 7 % della popolazione), per difendere le sue posizioni, non esitò a rompere con la Gran Bretagna: nel 1965 il governo razzista di Jan Smith proclamò unilateralmente l'indipendenza e l'uscita dal Commonwealth. Solo nel 1980, dopo quindici anni di lotte, il paese fu restituito alla maggioranza indigena e prese il nome di Zimbabwe. Ultima roccaforte del potere bianco nel continente rimase l'Unione Sudafricana, dove, negli anni '50 e '60, fu addirittura inasprito il regime di apartheid (cioè di separazione e di discriminazione nella residenza, nel lavoro e nella vita di tutti i giorni) ai danni della maggioranza nera della popolazione. Né la condanna della comunità internazionale né le ricorrenti rivolte della gente di colore - come quella del "ghetto" nero di Soweto, nel 1976 - riuscirono a intaccare il monopolio politico della minoranza bianca: circa 5 milioni di persone fra anglofoni e boeri (i discendenti dei primi coloni olandesi), contro oltre 20 milioni di neri. Una soluzione pacifica del contrasto era resa problematica sia dall'entità della posta in gioco (il Sud Africa è uno dei massimi produttori mondiali di materie prime "strategiche" come l'uranio, oltre che di oro e di diamanti), sia dai contrasti politici e tribali in seno alla maggioranza nera, sia infine dalla consistenza della comunità bianca, soprattutto di quella boera, presente da tre secoli nel paese e dunque portata a considerarlo come la propria vera patria. Un caso di decolonizzazione particolarmente drammatica e cruenta fu quello del Congo, lasciato dalla dominazione belga in condizioni di spaventosa arretratezza. L'indipendenza, concessa nel 1960 senza alcuna preparazione politica e istituzionale, si accompagnò a una sanguinosa guerra civile e al tentativo di secessione della ricca provincia mineraria del Katanga, fomentato e appoggiato con l'invio di mercenari dalle compagnie di sfruttamento belghe. Il capo del governo congolese e leader del movimento indipendentista, il nazionalista di sinistra Patrice Lumumba, fu fatto prigioniero e ucciso dai secessionisti. L'unità del paese - dove si affermò un regime militare guidato dal generale Mobutu - fu faticosamente ristabilita solo con l'intervento di truppe delle Nazioni Unite.

Sia pure in forma estrema, il conflitto nel Congo fu emblematico delle contraddizioni e dei contrasti (etnici, tribali, politici e religiosi) che attraversarono l'Africa all'indomani di una decolonizzazione rapida e apparentemente indolore. Basti ricordare, in Nigeria, la sanguinosa repressione del tentativo secessionista del Biafra, fra il '66 e il '68, e le lotte degli indipendentisti eritrei contro il governo etiopico, protrattesi e inaspritesi dopo il colpo di Stato che, nel 1974, rovesciò il vecchio imperatore Hailé Selassié, portando al potere i militari di sinistra capeggiati dal colonnello Menghistu. Questi conflitti misero in drammatica evidenza l'intrinseca fragilità degli Stati africani e delle loro istituzioni. Per ottenere l'indipendenza, i leader nazionalisti avevano finito con l'accettare le frontiere e gli stessi apparati amministrativi ereditati dall'epoca coloniale. Del resto non esistevano facili alternative: il "panafricanismo" o altre ideologie come quella della "negritudine" teorizzata dal presidente senegalese Léopold Senghor o il "socialismo africano" rappresentato soprattutto dalla Tanzania (già Tanganika) di Julius Nyerere, se avevano svolto un ruolo di mobilitazione politica e ideale nella lotta per l'emancipazione, offrivano poco o nulla ai fini delle costruzioni nazionali nella nuova Africa. Rispetto alla frammentazione delle società tradizionali africane, l'organizzazione statale appariva come un principio di aggregazione più avanzato e consentì in effetti un significativo ridimensionamento del potere dei capitribù. D'altro canto era inevitabile che il tentativo di imporre strutture da Statonazione a popolazioni eterogenee per etnia e religione, lingua e tradizioni incontrasse difficoltà formidabili. Allo stesso modo, il ricalco delle istituzioni democraticoparlamentari europee, tentato soprattutto nelle ex colonie inglesi, non poteva essere che di breve durata. Nella maggioranza dei casi, infatti, nel giro di pochi anni questi istituti lasciarono il posto a regimi militari di stampo autoritario o decisamente dispotico (come la sanguinaria dittatura esercitata dall'ex caporale Idi Amin in Uganda fra il 71 e il 79). All'instabilità politica si aggiungeva una condizione di grave debolezza economica, che rischiava di provocare una rinnovata dipendenza dai paesi industrializzati, attraverso aiuti economici non sempre disinteressati e rapporti commerciali fortemente squilibrati. Contro queste forme di neocolonialismo si fecero più forti, a partire dalla metà degli anni '60, le spinte a una decolonizzazione più radicale, ispirata al socialismo marxista e appoggiata dall'Unione Sovietica. Paesi come la Tanzania, il Congo Brazzaville (ossia l'ex Congo francese) e il Benin (già Dahomey) scelsero la via della rottura con l'Occidente industrializzato, a favore di uno sviluppo basato sul mercato interno e interamente pilotato dallo Stato. A questo

indirizzo si ispirarono successivamente anche il regime etiopico di Menghistu e soprattutto l'Angola e il Mozambico, giunti all'indipendenza nel 1975, dopo una lunga lotta contro il dominio portoghese, e protagonisti di quella che è stata chiamata la "seconda decolonizzazione" africana. La scelta del modello socialista non risparmiò tuttavia ai paesi che l'avevano effettuata gli stessi problemi di quelli che avevano mantenuto stretti legami con l'Occidente: povertà cronica e carestie, disgregazione sociale, emarginazione dal mercato mondiale. Tabella p. 482. 1960 data dell'indipendenza. AI = AFAR e ISSA 1977 B. = BURUNDI 1962 D. = DAHOMEY 1960 G. = GAMBIA 1965 GB. = GUINEA BISSAU 1974 G. E. = GUINEA EQUATORIALE 1968 M. = MALAWI 1964 R. = RUANDA 1962 S. = SWAZILAND 1968 T. = TOGO 1960 L'Africa nel 1975 23.7. Il Terzo Mondo. Il "non allineamento" e il sottosviluppo, Il non allineamento, La conferenza di Bandung, Il "terzomondismo", Le divisioni fra i non allineati Povertà e sottosviluppo, I caratteri del sottosviluppo, La polemica contro l'Occidente. I paesi di nuova indipendenza si affacciarono sulla scena internazionale con la convinzione di condividere un'eredità comune, quella della lotta di liberazione dal colonialismo, e di essere portatori di comuni interessi e aspirazioni, al di là delle differenze fra i diversi regimi politici. In un mondo sempre più pervaso dalla competizione fra Est e Ovest, questi paesi avvertirono la necessità di garantirsi dalle tendenze egemoniche delle superpotenze, così come si erano affrancati dal dominio coloniale: la parola d'ordine diventò così quella del "non allineamento" rispetto ai grandi blocchi militari e ideologici. Per impulso soprattutto dell'India di Nehru e dell'Egitto di Nasser - ai quali si unì, per la sua particolare posizione

internazionale, la Jugoslavia di Tito - questa parola d'ordine divenne la principale piattaforma politica comune di quello che veniva emergendo come un Terzo Mondo (secondo una fortunata espressione coniata dal demografo francese Alfred Sauvy), distinto sia dall'Occidente capitalistico sia dall'Est comunista. La consacrazione ufficiale di questo indirizzo si ebbe nell'aprile 1955, con la conferenza afroasiatica di Bandung, in Indonesia, a cui parteciparono 29 Stati, inclusa la Cina. La conferenza - che proclamò l'eguaglianza fra tutte le nazioni, il sostegno ai movimenti impegnati nella lotta al colonialismo e il rifiuto delle alleanze militari egemonizzate dalle superpotenze - segnò non solo l'atto di nascita del movimento dei non allineati, ma anche l'affermazione del Terzo Mondo sulla scena mondiale. Nacque allora, e si diffuse largamente anche nella sinistra occidentale, il cosiddetto terzomondismo: ossia la tendenza a individuare proprio nei paesi di nuova indipendenza il principale fattore di mutamento e di rinnovamento a livello mondiale. Nelle attese dei protagonisti, Bandung non doveva però fornire solo una piattaforma ideologica, ma doveva essere il punto di partenza per una politica di neutralismo attivo, destinata a erodere l'egemonia delle superpotenze e a sottrarre il mondo alla morsa della guerra fredda. In realtà, le aspirazioni neutraliste finirono con lo stemperarsi sempre più in rituali affermazioni di principio, spesso contrastanti con la realtà delle scelte di campo effettuate dai vari paesi per motivi di ideologia o di convenienza politica. Il movimento dei non allineati, che già nel 73, alla conferenza di Algeri raccoglieva 75 Stati, andò ingrossando progressivamente le sue file e al tempo stesso accentuando la sua eterogeneità. Accanto a paesi di osservanza filooccidentale, vi figuravano Stati strettamente legati all'Urss, come Cuba e il Vietnam del Nord. Il contrasto fra Est e Ovest condizionò largamente le vicende del movimento. Né mancarono, da parte di alcuni paesi, i tentativi di spostare l'asse del non allineamento in senso filosovietico, sostenendo la posizione dell'Urss come "naturale alleata" dei paesi del Terzo Mondo, in quanto avversaria degli Stati Uniti e depositaria di una tradizione antiimperialista. Quella del non allineamento divenne dunque una realtà sempre più differenziata. Un'eredità comune con problemi diversi da regione a regione e da paese a paese. Essa comunque impresse una nuova fisionomia alla comunità internazionale, rendendola non più riducibile alla contrapposizione EstOvest. Se il non allineamento apparve fin dagli anni '50 il comune denominatore politico del Terzo Mondo, il sottosviluppo sembrò rappresentarne, con

uguale semplificazione, la dimensione economica. Quello di "sottosviluppo" è un concetto dinamico, che va ben oltre la nozione tradizionale e "statica" di povertà. Esso indica un'arretratezza o un ritardo rispetto allo sviluppo economico dei paesi di più antica industrializzazione, nonché rispetto alle attese di crescita nate dall'incontro con i paesi ricchi. La categoria del "sottosviluppo" abbracciò fin dall'inizio realtà economiche e sociali diverse. Al di là delle differenze, emergevano tuttavia alcune caratteristiche comuni a quasi tutti i paesi di nuova indipendenza: la carenza di strutture industriali; l'arretratezza dell'agricoltura, caratterizzata il più delle volte dalla persistenza dei vecchi regimi fondiari e da una produttività molto bassa (mediamente inferiore alla metà di quella dell'Europa all'inizio della rivoluzione industriale); la crescente emarginazione dalle grandi correnti degli scambi internazionali (fra il '48 e il 70 la partecipazione dei paesi del Terzo Mondo al commercio mondiale scese dal 33 al 18%); la drammatica sproporzione fra le risorse disponibili e una popolazione in continuo, inarrestabile aumento [§25.4]. Da tutto ciò emergeva un quadro di generale e sconsolante povertà. Intorno al 1960, nei paesi definiti in via di sviluppo il reddito procapite era mediamente inferiore di dieci volte a quello dei paesi industrializzati; l'analfabetismo era ancora molto diffuso (con punte del 90% e oltre in alcuni Stati africani); le infrastrutture civili e le attrezzature igienicosanitarie largamente carenti; la sottoalimentazione una realtà molto diffusa. Non si trattava certamente di fatti nuovi, ma nuova fu la percezione del fenomeno. L'allargamento dell'orizzonte mondiale provocato dalla decolonizzazione fece sì che la povertà di massa che affliggeva i due terzi della popolazione del globo non potesse più essere considerata come una condizione "naturale", ma diventasse invece una flagrante smentita a quel principio di uguaglianza dei popoli che era alla base del nuovo ordine affermatosi dopo la seconda guerra mondiale. Questa problematica fu inoltre amplificata dall'atteggiamento "rivendicazionista" assunto dalla maggior parte dei paesi del Terzo Mondo nei confronti dell'Occidente sviluppato, accusato di aver costruito il suo benessere sullo sfruttamento coloniale, e poi su quello "neocoloniale", e dunque chiamato a dividere questo benessere con i paesi più poveri. 23.8. Dipendenza economica e instabilità politica in America Latina. L'egemonia degli Usa, La politica panamericana, Lo sviluppo economico degli anni di guerra, La centralità dei ceti medi, Il regime di Perón in Argentina, Crisi e caduta del peronismo, Il Brasile: ritorno e caduta di

Vargas, Tentativi di modernizzazione e l'avvento dei militari, Regimi militari e democrazie, La rivoluzione cubana, La rottura con gli Usa e la scelta socialista di Castro, La sfida cubana, La risposta degli Usa: l'Alleanza per il progresso. I paesi dell'America Latina, la cui indipendenza politica era da tempo consolidata, richiedono un discorso diverso da quello fatto finora. I problemi che lì si ponevano alla fine della seconda guerra mondiale derivavano da uno sviluppo socioeconomico che era già in parte avviato, ma che scontava ancora il peso di una diffusa arretratezza e di una forte dipendenza dagli Stati Uniti. L'influenza degli Usa, che fin dagli anni '20 aveva soppiantato quella britannica, giocò in modo diverso a seconda delle realtà locali e degli interessi economici coinvolti. In alcuni casi, come quello del Messico, i capitali Usa concorsero, pur con inevitabili condizionamenti, alla crescita industriale. In altri casi, soprattutto nei paesi più arretrati del Centro America - le cui economie, basate sulle monocolture agricole, erano dominio riservato delle grandi corporations come la United Fruit Company - i gruppi di interesse statunitensi e lo stesso governo di Washington si trovarono alleati alle oligarchie terriere locali nel combattere ogni forma di rinnovamento. In generale, gli Stati Uniti si arrogarono una funzione di tutela sul continente, sia con interventi diretti più o meno mascherati, sia con un rilancio della politica "panamericana". Sotto l'impulso degli Usa, infatti, fu creata nel 1948 (in piena guerra fredda) l'Organizzazione degli Stati americani, che doveva realizzare una più stretta cooperazione economica fra i paesi del continente, ma aveva anche un preciso scopo politico: impedire che l'aggravarsi dell'instabilità politica e il riacutizzarsi delle tensioni sociali aprissero spazi alla penetrazione comunista. Gli anni del secondo conflitto mondiale - e, in una certa misura, anche quelli della guerra in Corea - furono anni di sviluppo economico per i paesi latinoamericani, che si avvantaggiarono dell'aumento dei prezzi delle materie prime e dei prodotti agricoli e riuscirono anche a far crescere le industrie nazionali, profittando delle diminuite capacità esportative degli Stati Uniti e delle altre potenze occidentali. Questa fase di sviluppo - che fu peraltro limitata e si interruppe nei primi anni '50 rafforzò i nuclei di proletariato industriale (e gli stessi sindacati operai), ma vide soprattutto la progressiva crescita del ceto medio urbano: un ceto medio di sentimenti nazionalistici, avverso alle oligarchie tradizionali, diviso fra le aspirazioni al rinnovamento e l'esigenza di garantirsi contro le spinte dal basso, e dunque

portato ad allearsi ora con le classi più povere, ora con gli strati più abbienti. Questa crescente centralità dei ceti medi, in un periodo caratterizzato da profondi squilibri e tensioni, si concretò in una serie di soluzioni politiche di diverso segno, oscillanti fra liberalismo, populismo e autoritarismo. Di stampo populistaautoritario fu il regime instaurato nel 1946 in Argentina dal colonnello Juan Domingo Perón. Attuando una politica di incentivi all'industria, di aumenti salariali, di lotta contro i monopoli e di nazionalizzazione dei servizi pubblici, Perón si guadagnò un largo consenso sia fra i ceti medi sia fra le classi popolari, soprattutto fra i sindacati operai. Il riformismo sociale di Perón, condito da una forte dose di demagogia, si accompagnava a una prassi politica autoritaria, che ricordava per molti aspetti quella dei regimi fascisti: violenze contro le opposizioni, censura sulla stampa, culto carismatico della figura del presidente e di quella di sua moglie Evita. Sul piano economico, la politica peronista, confusa nella concezione e maldestra nell'esecuzione, ebbe successo fino a che durò la congiuntura favorevole del periodo postbellico. Dall'inizio degli anni '50, si assisté a un continuo aumento dell'inflazione e a una crisi della produzione agricola, danneggiata dal calo delle esportazioni. Osteggiato dai conservatori, dai vertici delle forze armate e dalle gerarchie ecclesiastiche, avversato alla fine anche dai ceti medi colpiti dall'inflazione, Perón fu rovesciato nel 1955 da un colpo di Stato militare e costretto ad abbandonare l'Argentina. Nei dieci anni successivi, i militari lasciarono la guida del paese a governi civili, per lo più a direzione radicale, che tentarono senza troppa fortuna di risanare l'economia del paese. Nel 1966, profilandosi la minaccia di una vittoria elettorale dei peronisti, i generali attuarono un nuovo colpo di Stato, instaurando una ferrea dittatura di destra. Simili per molti aspetti a quelle vissute dall'Argentina furono le vicende del Brasile, dove si era sviluppato, negli anni '30, il primo e più importante esperimento populista dell'America Latina, quello di Getùlio Vargas [§20.7]. Rovesciato nel '45 dai militari, Vargas tornò al potere nel 1950, ma si scontrò con difficoltà (crisi economica, inflazione) analoghe a quelle incontrate da Perón in Argentina. Nel 1954, nuovamente esautorato dai militari, Vargas si suicidò. I suoi successori tentarono in vario modo di riprenderne l'eredità, assumendo una linea di "non allineamento" in politica estera e rilanciando i progetti di industrializzazione e modernizzazione (del '60 è la nascita della nuova capitale, Brasilia). Ma non riuscirono a svincolare il Brasile dai rapporti di dipendenza commerciale con l'estero, né a cancellare i gravissimi squilibri sociali di un paese immenso: dove più di metà della popolazione era ancora occupata in un'agricoltura spesso primitiva e intere regioni (soprattutto quelle del NordEst) versavano in

condizioni di tremenda arretratezza. Nel 1964, un nuovo colpo di Stato appoggiato dagli Stati Uniti riportò al potere i militari, che imposero un regime di dura repressione interna e sperimentarono un nuovo modello di sviluppo, basato sul blocco dei conflitti sociali e sull'incoraggiamento ai capitali stranieri. Uno sviluppo in effetti si realizzò (in questo periodo l'economia brasiliana crebbe con tassi vicini al 10% annuo), ma al prezzo di un ulteriore aggravamento degli squilibri sociali. Negli anni '50 e '60, anche gli altri Stati del Sud America soffrirono di un'accentuata instabilità politica. Regimi militari si affermarono in Venezuela e in Colombia. In Paraguay cominciò nel '54 la lunga dittatura del generale Stroessner. In Bolivia il laburista Victor Paz Estenssoro, che aveva nazionalizzato le compagnie minerarie straniere, fu rovesciato dall'esercito nel '64. In Perù il potere fu assunto nel '68 da militari di orientamento populista e riformista. I soli paesi in cui le istituzioni democratiche tennero, sia pur fra molte difficoltà, furono l'Uruguay, il Cile e il Messico, dove la stabilità politica era assicurata dal dominio incontrastato del Partito rivoluzionario istituzionale, custode dei valori della rivoluzione del 1910. In un quadro di generale debolezza delle forze di sinistra, assunse enorme rilievo la clamorosa svolta che si realizzò a Cuba, dove la dittatura reazionaria di Fulgencio Batista fu rovesciata nel gennaio 1959, dopo una guerriglia iniziata tre anni prima sulle montagne della Sierra Maestra, da un movimento rivoluzionario guidato da Fidel Castro. Schierato inizialmente su posizioni democraticoriformiste, Castro avviò subito una riforma agraria che colpiva direttamente il monopolio esercitato dalla United Fruit sulla coltivazione della canna da zucchero, principale risorsa dell'isola. Gli Stati Uniti, che pure non avevano osteggiato la rivoluzione e avevano prontamente riconosciuto il nuovo regime, assunsero a questo punto un atteggiamento ostile. Castro si rivolse allora all'Urss (che si impegnò ad acquistare lo zucchero cubano a prezzi molto superiori a quelli del mercato internazionale), sfidando il boicottaggio economico americano e rompendo le relazioni diplomatiche con gli Usa. Nel giro di pochi anni, il regime cubano si orientò sempre più decisamente in senso socialista. L'economia fu in gran parte statizzata e fu istituito un regime a partito unico. Le vicende cubane assunsero subito una portata che andava ben al di là di quella di un qualsiasi rivolgimento politico in un piccolo Stato del Centro America. Per la prima volta, in un continente sotto tutela nordamericana e in un paese vicinissimo agli Stati Uniti, si affermava un regime che, muovendo da posizioni radicali e nazionaliste, operava una netta scelta di campo in

senso marxista e filosovietico e che mirava apertamente a esportare il suo modello rivoluzionario nel resto dell'America Latina e in tutto il Terzo Mondo. Uno dei più stretti collaboratori di Castro, l'argentino Ernesto "Che" Guevara, si impegnò in prima persona nel vano tentativo di suscitare "fuochi" di guerriglia in tutta l'America Latina e fu catturato e ucciso nel 1967 dai militari in Bolivia, dove cercava di organizzare un movimento rivoluzionario. Alla sfida politica e ideologica di Cuba gli Stati Uniti risposero da un lato tentando, senza successo, di soffocare il regime castrista [§26.2], dall'altro lanciando, nel '61, la cosiddetta Alleanza per il progresso: un programma di aiuti ai paesi latinoamericani, che non bastava però a compensare lo strapotere economico esercitato dagli Usa su buona parte del continente. Sommario La seconda guerra mondiale sancì la definitiva crisi del colonialismo e l'affermazione, a livello internazionale, del principio di autodeterminazione. La decolonizzazione avvenne in forme relativamente indolori nei possedimenti inglesi, mentre la Francia applicò nelle sue colonie una politica di forte resistenza nei confronti dei movimenti indipendentisti. Solo assai di rado i nuovi Stati indipendenti avrebbero avuto regimi democratici, prevalendo in generale governi autoritari o militari. L'Asia precedette di quasi dieci anni il continente africano nella liberazione dal dominio coloniale. La prima e più importante tappa fu l'indipendenza dell'India (1947). Al raggiungimento dell'indipendenza seguirono spesso aspri contrasti entro i nuovi Stati, come quello fra indù e musulmani in India e quello fra nazionalisti e comunisti in vari paesi del SudEst asiatico. Particolarmente lungo il processo di emancipazione del Vietnam, ove la lotta contro i francesi si concluse nel '54 con la divisione del paese in due Stati, l'uno comunista e l'altro filooccidentale. In Medio Oriente, già dall'inizio del secolo si era sviluppato un movimento nazionalista arabo; la seconda guerra mondiale accelerò il processo di emancipazione. Nel 1948, con il ritiro degli inglesi dalla Palestina e la nascita dello Stato d'Israele (cui seguiva immediatamente la prima guerra araboisraeliana) nasceva il problema palestinese. Il regime di Nasser in Egitto, nato dopo che una rivolta di ufficiali rovesciò la monarchia (1952), diede a quel paese una posizione di preminenza nella regione, soprattutto dopo la crisi di Suez del '56 (quando inglesi e francesi, che avevano occupato il Canale, furono costretti a ritirarsi dalle pressioni di Usa e Urss). In Libia, nel 1969, una rivoluzione portò al

potere il colonnello Gheddafi, artefice di un esperimento di "socialismo islamico" e, sul piano internazionale, di una politica che avrebbe alimentato le tensioni nell'area mediorientale. Particolarmente drammatico e cruento fu il processo di emancipazione in Algeria, per la presenza di oltre un milione di coloni francesi tenacemente avversi all'indipendenza. Fu De Gaulle a capire l'inevitabilità della rinuncia all'Algeria, che ottenne nel '62 l'indipendenza. A sud del Sahara, nell'Africa nera, il processo di decolonizzazione si compì fra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60. Fu un processo generalmente pacifico tranne in casi come quelli della Rhodesia del Sud o del Congo. Le vicende del Congo furono particolarmente rappresentative dei conflitti intestini che agitavano spesso le ex colonie, costituitesi in Stati secondo gli artificiali confini della dominazione europea. Le stesse istituzioni politiche, ricalcate sui modelli europei, avrebbero mostrato una particolare fragilità, lasciando spesso il posto a regimi militari. Un caso a sé fu quello del Sud Africa, dove la consistente minoranza bianca (presente nel paese da tre secoli) riuscì a conservare il potere praticando una politica di discriminazione (apartheid) ai danni della maggioranza nera. Sul piano della politica internazionale, i paesi di nuova indipendenza cercarono una piattaforma comune (a partire dalla conferenza di Bandung del '55) nel "non allineamento". Progressivamente, però, tale neutralismo rispetto al contrasto EstOvest lasciò il campo, nella realtà, allo schieramento di molti paesi non allineati in senso filocomunista o filooccidentale. Sul piano economico, il Terzo Mondo era accomunato dalla realtà del sottosviluppo, ovvero dall'incapacità a risolvere i problemi di arretratezza economica resi ancor più gravi dall'aumento assai rapido della popolazione. I paesi dell'America Latina godevano da tempo dell'indipendenza politica ma si trovavano tuttavia in condizioni di dipendenza economica dagli Stati Uniti (che esercitavano una sorta di tutela su tutto il continente). L'instabilità politica dell'America centrale e meridionale si caratterizzò nell'oscillazione fra liberalismo, populismo e autoritarismo. Fra le esperienze più significative, quella del regime populistaautoritario stabilito da Perón in Argentina. Di grande rilievo, per l'attrazione che esercitò in tutta l'America Latina, fu la rivoluzione cubana guidata da Castro (1959) che diede al nuovo regime un orientamento comunista. Bibliografia Sulla decolonizzazione: G. Calchi Novati, Decolonizzazione e Terzo Mondo, Laterza, RomaBari 1979, con particolare attenzione all'Africa; J.

Romein, Il secolo dell'Asia. Imperialismo occidentale e rivoluzione asiatica nel secolo XX, Einaudi, Torino 1969. Sul Medio Oriente e su Israele: M. Rodinson, Israele e il rifiuto arabo, Einaudi, Torino 1969; Z. Sternhell, Nascita dello Stato d'Israele, Baldini & Castoldi, Milano 1999; Storia dell'Africa e del Vicino Oriente, citato al cap. 20; W. Eytan, I primi dieci anni di Israele, Comunità, Milano 1960; N. Garribba, Lo Stato di Israele, Editori Riuniti, Roma 1983. Sulla guerra di indipendenza algerina: G. Calchi Novati, La rivoluzione algerina, Dall'Oglio, Milano 1969; A. Home, Storia della guerra d'Algeria 1954-1962, Rizzoli, Milano 1980. Sull'Africa: J. KiZerbo, Storia dell'Africa nera, Einaudi, Torino 1977; C. CoqueryVidrovitch e H. Moniot, L'Africa nera dal 1800 ai nostri giorni, Mursia, Milano 1977; Y. Bénot, Ideologie dell'indipendenza africana, Editori Riuniti, Roma 1976. Sull'America Latina, oltre alle opere citate nel cap. 20, si veda: A. Gunder Frank, Capitalismo e sottosviluppo in America Latina, Einaudi, Torino 1969; G. Germani, Sociologia della modernizzazione. L'esperienza dell'America Latina, Laterza, Bari 1971; G. Pasquino, Militari e potere in America Latina, Il Mulino, Bologna 1974. Su Cuba: H. Thomas, Storia di Cuba 1762-1970, Einaudi, Torino 1973. Per i problemi del sottosviluppo si veda: P. Bairoch, Lo sviluppo bloccato. L'economia del Terzo Mondo tra il XIX e il XX secolo, Einaudi, Torino 1978; P. Sylos Labini, Il sottosviluppo e l'economia contemporanea, Laterza, RomaBari 1983. 24. L'Italia dopo il fascismo. 24.1. Un paese sconfitto. Le conseguenze economiche della guerra, Le distruzioni materiali, I problemi dell'ordine pubblico, Le occupazioni di terre nel CentroSud, Contrabbando, borsa nera, mafia, Il separatismo siciliano e il banditismo, La disgregazione morale e la frattura NordSud, Le spinte al rinnovamento. Liberata e riunificata, nella primavera del '45, dall'avanzata degli alleati e dall'insurrezione partigiana, l'Italia si trovò ad affrontare i problemi e le incognite di un difficilissimo dopoguerra. Nel 1945 l'economia italiana era in condizioni gravissime. Gli stabilimenti industriali si erano in buona parte salvati (le distruzioni causate dai bombardamenti non superavano il 20% della capacità produttiva), ma la produzione era scesa a meno di un terzo di

quella dell'anteguerra. Incalcolabili erano i danni inferti all'agricoltura (la produzione era diminuita del 60% rispetto al '38) e più ancora al patrimonio zootecnico, che risultava distrutto per tre quarti. Tutto ciò rendeva drammatico il problema degli approvvigionamenti alimentari: nel '45 la quantità media giornaliera di calorie a disposizione di ogni cittadino era meno della metà di quella, già piuttosto scarsa, del '38; e la situazione sarebbe stata ancor più insostenibile senza gli aiuti alleati. L'inflazione provocata dalla guerra aveva assunto ritmi paurosi: i prezzi al consumo erano cresciuti di 18 volte in sei anni, polverizzando i risparmi e ridimensionando drasticamente i salari reali, che si ridussero della metà fra il '39 e il '45. Il sistema dei trasporti era in buona parte disarticolato (strade interrotte, ferrovie inutilizzabili, ponti distrutti), con conseguenze disastrose sul movimento delle merci. Meno gravi quantitativamente, ma ugualmente drammatici, i danni subiti dall'edilizia abitativa: circa 3 milioni di vani di abitazioni erano stati distrutti o seriamente danneggiati; i moltissimi rimasti senza casa erano costretti a coabitazioni forzate o cercavano rifugio nelle scuole e in altri edifici pubblici, trasformati in dormitori per gli "sfollati". La fame, la mancanza di alloggi e l'elevata disoccupazione (oltre un milione e mezzo di senza lavoro nell'estate '45) contribuivano a rendere precaria la situazione dell'ordine pubblico. Nell'Italia settentrionale la fine della guerra aveva ridato slancio alle lotte sociali e i leader della sinistra faticavano a tenere a freno una base galvanizzata dalla sconfitta del fascismo. Un serio problema era poi costituito dagli ex partigiani, spesso riluttanti a deporre le armi e a volte inclini ad adottare misure di giustizia sommaria nei confronti dei repubblichini o degli ex gerarchi fascisti. Nelle regioni del CentroSud, fin dalla primavera del '44, contadini e braccianti avevano preso, come nel primo dopoguerra, a occupare terre incolte e latifondi; e il movimento si protrasse negli anni successivi, nonostante i tentativi delle autorità di disciplinarlo e "legalizzarlo". Ma la minaccia più grave all'ordine pubblico, nel Mezzogiorno e nelle isole, veniva dalla malavita comune, in buona parte legata al contrabbando e alla borsa nera (ossia al commercio clandestino di generi razionati). In Sicilia, in particolare, si assisteva a una ripresa in grande stile del fenomeno mafioso, favorita anche dal comportamento delle autorità militari americane, che non avevano esitato, al momento dello sbarco nell'isola, a servirsi di noti esponenti della malavita italoamericana per stabilire contatti con la popolazione. Sempre negli anni dell'occupazione alleata, si era sviluppato in Sicilia un movimento indipendentista, strettamente legato agli agrari e alla vecchia classe dirigente prefascista e condizionato da una forte presenza

mafiosa. Il movimento, che disponeva di un proprio esercito clandestino, fu affrontato con energia e stroncato dai governi postliberazione. Ma molti suoi aderenti rimasero alla macchia, dando vita ad alcuni fra i più gravi episodi di banditismo del dopoguerra (come quelli di cui fu protagonista, sui monti del Palermitano, la banda capeggiata da Salvatore Giuliano). Fenomeni come questi erano solo i segni più evidenti della disgregazione morale, oltre che politica, in cui la guerra aveva gettato il paese. Le vicende seguite all'armistizio, in particolare, avevano fortemente appannato l'immagine stessa del potere statale e avevano scavato nella compagine nazionale una profonda frattura che ricalcava, aggravandole, le tradizionali spaccature fra Nord e Sud. A partire dal settembre '43, le due metà del paese avevano infatti vissuto due esperienze completamente diverse. Da una parte l'occupazione alleata, la continuità istituzionale sotto il segno della monarchia, la sostanziale tenuta dei vecchi equilibri sociali. Dall'altra l'occupazione tedesca, la guerra civile, un'insurrezione popolare in cui la lotta di liberazione nazionale si intrecciava alle istanze di rinnovamento (o di rivoluzione) in campo politico e sociale: soprattutto fra quanti si erano impegnati nella lotta contro il nazifascismo era diffusa l'attesa di mutamenti profondi nelle istituzioni e nella vita civile. Queste spinte al cambiamento si scontravano, però, non solo con le resistenze di una società reduce da vent'anni di regime fascista e toccata solo in parte dall'esperienza rinnovatrice della lotta partigiana (il cosiddetto vento del Nord), ma anche con la situazione obiettiva del paese nel contesto internazionale. L'Italia era una nazione sconfitta (e tale era considerata dai vincitori, nonostante il cambio di fronte dell'8 settembre e nonostante la Resistenza), era occupata militarmente, dipendeva dagli aiuti alleati e non poteva dunque considerarsi completamente arbitra del proprio destino. 24.2. Le forze in campo. Le nuove condizioni della lotta politica, Il Partito socialista, Il Partito comunista, La Democrazia cristiana, Il Partito liberale, Il Partito repubblicano e il Partito d'azione, Neofascisti e monarchici L""Uomo qualunque", La Cgil unitaria, Le conquiste sindacali. Le forze politiche che si candidavano alla guida del paese all'indomani della liberazione erano, con poche varianti, le stesse che erano state protagoniste della lotta politica tra la fine della prima guerra mondiale e l'avvento della dittatura. Rispetto ad allora era però profondamente mutata la situazione interna e internazionale in cui quei partiti si trovavano a

operare; e, fino a nuove libere elezioni, era impossibile conoscere i reciproci rapporti di forza. Il ritorno alla dialettica democratica si era accompagnato a un'impetuosa crescita della partecipazione politica: gli iscritti ai partiti più forti si misuravano ormai in centinaia di migliaia, anziché in decine di migliaia come in età prefascista. Era dunque convinzione comune che il dopoguerra avrebbe visto in primo piano i partiti organizzati su basi di massa, soprattutto quelli della sinistra operaia. In particolare il Partito socialista - che portava allora il nome di Psiup, assunto nel '43 - pareva destinato ad assumere un ruolo da protagonista grazie anche alla popolarità del suo leader Pietro Nenni. Il gruppo dirigente era però tutt'altro che compatto, diviso ancora una volta fra le spinte rivoluzionarie, che lo portavano a mantenere uno stretto legame coi comunisti, e il richiamo alla tradizione riformista, che lo spingeva ad assumere una posizione intermedia, quasi di cerniera fra il Pci e i partiti borghesi. Giocava inoltre a sfavore del Psiup il ruolo non di primo piano svolto nella lotta clandestina e poi nella resistenza armata al nazifascismo. Al contrario, il Partito comunista traeva nuova forza e credibilità proprio dal contributo offerto alla lotta antifascista e su questo fondava i suoi titoli di legittimità per presentarsi come forza "nazionale" e di governo. Il partito nuovo che Togliatti aveva cercato di costruire dopo la "svolta di Salerno" [§21.12] era molto diverso dal piccolo e intransigente partito leninista nato a Livorno nel 1921. Era anzitutto un autentico partito di massa (vantava infatti un milione di iscritti già nell'estate '45, 1.700.000 un anno dopo), che tendeva ad allargare l'area dei suoi consensi al di là della tradizionale base operaia, verso i contadini, i ceti medi e soprattutto gli intellettuali. Era inoltre un partito che, già rappresentato nel governo, mostrava di volersi inserire attivamente nelle istituzioni democraticoparlamentari, senza tuttavia rinnegare il suo legame privilegiato con l'Urss e senza cessare di incarnare le aspettative rivoluzionarie della classe operaia. Fra gli altri partiti presenti sulla scena politica italiana, l'unico che apparisse in grado di competere con comunisti e socialisti sul piano dell'organizzazione di massa era la Democrazia cristiana. La Dc si richiamava direttamente all'esperienza del Partito popolare di Sturzo, ne ricalcava il programma (ispirato alla dottrina sociale cattolica e dunque avverso alla lotta di classe, rispettoso del diritto di proprietà ma aperto alle istanze di riforma) e ne ereditava la base contadina e piccoloborghese. Anche il gruppo dirigente, a cominciare dal segretario Alcide De Gasperi, veniva in buona parte da quel partito, ma era stato rafforzato dall'afflusso delle nuove leve cresciute politicamente durante il ventennio nelle file

dell'Azione cattolica. Rispetto al Partito popolare, la Dc godeva inoltre di un più esplicito e massiccio appoggio da parte della Chiesa. In virtù di questo appoggio - e della posizione centrale occupata nello schieramento politico la Democrazia cristiana si presentava come il principale perno del fronte moderato: anche perché le formazioni tradizionali di area liberaldemocratica apparivano del tutto inadeguate a fronteggiare la spinta dei partiti di massa. Il Partito liberale, che raccoglieva fra le sue file gran parte della classe dirigente prefascista, poteva contare su una serie di adesioni illustri (come quelle di Luigi Einaudi e Benedetto Croce), oltre che sul sostegno della grande industria e dei proprietari terrieri. Ma il rapporto fra i leader e la loro base elettorale - un rapporto di tipo personale e clientelare, già in crisi nel primo dopoguerra - era ormai definitivamente compromesso. Fra i partiti laici, il Partito repubblicano si distingueva per l'intransigenza sulla questione istituzionale (aveva infatti respinto ogni compromesso con la monarchia, rifiutando persino di partecipare al Cln). In una posizione particolare, al confine fra l'area liberaldemocratica e quella socialista, si collocava il Partito d'azione. Forte del prestigio che gli veniva dall'adesione di molti leader dell'antifascismo (Farri, Lussu, Valiani) e di molti intellettuali - e più ancora del notevole contributo dato dai suoi militanti alla lotta partigiana - il Pda si presentava come una forza nuova e moderna e si faceva promotore di ampie riforme sociali e istituzionali: nazionalizzazione dei grandi complessi industriali, riforma agraria, massimo sviluppo delle autonomie locali. Il partito era però privo di una base di massa e faticava a trovare una sua identità, diviso com'era fra un'ala socialista e un'ala liberaldemocratica. Un contrasto che lo avrebbe accompagnato lungo tutto il breve arco della sua vita e lo avrebbe portato di lì a poco a una scissione (febbraio 1946) e al successivo scioglimento. Quanto alla destra vera e propria, essa appariva politicamente fuori gioco nel clima del dopoliberazione. Ma era ancora forte, soprattutto nel Mezzogiorno, e tendeva a diventarlo sempre più con l'accentuarsi delle insofferenze nei confronti del nuovo assetto politico e dei timori provocati dalle misure di epurazione annunciate a carico degli aderenti al passato regime. Assente ancora un movimento neofascista organizzato (solo nel dicembre '46 si sarebbe costituito il Msi, Movimento sociale italiano), i gruppi di destra andarono in parte a ingrossare le file della Dc, e del Pli, in parte si raccolsero sotto le bandiere monarchiche e in parte contribuirono all'affermazione, clamorosa ma effimera, di un nuovo movimento: L'Uomo qualunque. Fondato nel novembre '45 dal commediografo Guglielmo Giannini sull'onda del successo ottenuto dall'omonimo giornale (che si stampava a

Roma dalla fine del '44), il movimento qualunquista rifiutava qualsiasi caratterizzazione ideologica e si limitava ad assumere le difese del cittadino medio - l""Uomo qualunque", appunto - che, dopo essere stato oppresso dalla dittatura fascista, era ora minacciato - si sosteneva - dalla dittatura non meno soffocante dei partiti del Cln. Con i suoi slogan pittoreschi, l""Uomo qualunque" riscosse notevoli consensi, soprattutto presso la piccola e media borghesia del CentroSud, spaventata dall'avanzata delle sinistre. Già a partire dal '47, tuttavia, il fenomeno qualunquista cominciò a sgonfiarsi, soprattutto per la confluenza dell'opinione pubblica moderata attorno alla Democrazia cristiana. Se i partiti si erano affermati, fin dal periodo della Resistenza, come i veri protagonisti della vita politica nell'Italia libera, un ruolo importante, non solo sul piano economico, fu svolto anche dalla Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil), ricostituita su basi unitarie, nel giugno '44, nella Roma ancora occupata dai tedeschi. Le tre componenti socialista, comunista e cattolica - erano rappresentate pariteticamente negli organi dirigenti, ma erano molto squilibrate fra loro come peso numerico (i comunisti erano di gran lunga i più forti, i cattolici nettamente i più deboli, soprattutto fra le categorie operaie). La loro convivenza non fu sempre facile e richiese un incessante lavoro di mediazione politica. La Cgil riuscì tuttavia, nel quadro di una linea complessivamente "moderata", a realizzare alcune importanti e durevoli conquiste normative: il riconoscimento delle commissioni interne, che rappresentavano il sindacato all'interno delle aziende; l'introduzione di un meccanismo di scala mobile per l'adeguamento automatico dei salari al costo della vita; una nuova e più rigida disciplina dei licenziamenti; un maggior egualitarismo retributivo fra i lavoratori delle diverse categorie. 24.3. Dalla liberazione alla repubblica. Il governo Parri, L'avvento di De Gasperi e la prevalenza dei moderati, Le incertezze della sinistra, Il referendum istituzionale e la vittoria della repubblica, Le elezioni per la Costituente, I nuovi equilibri, Il voto del Nord e quello del Sud. La prima occasione di confronto fra i partiti all'indomani della liberazione si presentò al momento di scegliere il successore di Bonomi, dimessosi in giugno per lasciare il posto a un governo più rappresentativo dell'Italia liberata. Dopo un lungo braccio di ferro fra socialisti e democristiani, i partiti trovarono l'accordo sul nome di Ferruccio Parri, leader di una formazione minore come il Partito d'azione, ma investito di un grande

prestigio personale, in quanto era stato uno dei capi militari della Resistenza. Formato un ministero con la partecipazione di tutti i partiti del Cln, Parri cercò di promuovere un processo di normalizzazione nel paese ancora sconvolto dagli strascichi della guerra e mise all'ordine del giorno lo spinoso problema dell'epurazione (che avrebbe dovuto applicarsi non solo ai funzionari statali, ma anche agli esponenti del potere economico più compromessi col fascismo). Annunciò inoltre una serie di provvedimenti volti a colpire con forti tasse le grandi imprese e a favorire la ripresa delle piccole e medie aziende. Ma in questo modo Parri suscitò l'opposizione delle forze moderate, in particolare del Pli, che nel novembre '45 ritirò la fiducia al governo, determinandone la caduta. La Dc riuscì allora a imporre la candidatura di Alcide De Gasperi: segno di un mutamento di clima intervenuto rispetto a pochi mesi prima, ma anche di una obiettiva posizione di forza acquisita dal partito cattolico. Il nuovo governo si reggeva sempre sulla partecipazione di tutti i partiti del Cln. Ma inaugurava ugualmente una svolta in senso moderato destinata poi a rivelarsi irreversibile. I progetti di riforme economiche furono rapidamente accantonati. Quasi tutti i prefetti nominati dal Cln nell'Italia settentrionale furono sostituiti da funzionari di carriera. L'epurazione fu fortemente rallentata: finché, nel giugno '46, non fu lo stesso Togliatti, nella sua qualità di ministro della Giustizia, a varare una larga amnistia che in pratica metteva la parola fine a un'operazione molto difficile da condurre con equità, anche per l'ampiezza delle adesioni di cui il fascismo aveva goduto. Il riflusso delle prospettive di radicale rinnovamento che avevano accompagnato la lotta di liberazione lasciò nei militanti di sinistra, e soprattutto negli ex partigiani, un forte senso di delusione che spesso si tradusse in manifestazioni di protesta. Ma il Pci e il Psiup non potevano cavalcare questa ondata di risentimento: sia perché non volevano rompere la solidarietà di governo, sia perché speravano in un successo elettorale che avrebbe consentito loro di assumere la guida del paese. Il governo aveva infatti fissato al 2 giugno 1946 la data per le elezioni dell'Assemblea costituente: le prime consultazioni politiche libere dopo venticinque anni, e le prime in cui avevano diritto a votare anche le donne. In quello stesso giorno i cittadini sarebbero stati chiamati a decidere, mediante referendum, se mantenere in vita l'istituto monarchico o fare dell'Italia una repubblica. Il 9 maggio, quando mancavano poche settimane al voto, Vittorio Emanuele III, con una decisione a sorpresa, tentò di risollevare le sorti della dinastia sabauda, abdicando in favore del figlio Umberto II, che dal giugno '44 aveva svolto le funzioni di luogotenente del

Regno. Ma la mossa non ottenne gli effetti sperati. Nelle votazioni del 2 giugno, caratterizzate da un'affluenza senza precedenti nella storia delle elezioni libere in Italia (circa il 90% degli aventi diritto), la repubblica si affermò con un margine abbastanza netto. 12.700.000 voti contro 10.700.000 per la monarchia. Il 13 giugno, dopo la proclamazione ufficiale dei risultati, Umberto II partì per l'esilio in Portogallo. Nelle elezioni per la Costituente, la Dc si affermò come il primo partito col 35,2% dei voti, seguita a notevole distanza dal Psiup (20,7) e subito dopo dal Pci (19). L'Unione democratica nazionale che raccoglieva, assieme ai liberali e ai "demolaburisti" di Bonomi, i maggiori esponenti della classe dirigente prefascista, non andò al di là del 6,8%: poco più dei qualunquisti (5,3%) e dei repubblicani (4,4%). Il quadro era completato dal modesto risultato dei monarchici (2,8%) e dall'autentica disfatta del Partito d'azione che ebbe solo l'1,5% dei voti. Rispetto alle ultime elezioni prefasciste, era evidente l'ulteriore avanzata dei partiti di massa e la crisi definitiva dei vecchi gruppi liberaldemocratici, ormai sostituiti dalla Dc nella rappresentanza dell'Italia moderata. La sinistra risultava complessivamente rafforzata, ma non tanto da risultare maggioritaria; e vedeva mutati i rapporti di forza al suo interno, col Psiup ancora in leggero vantaggio, ma insidiato da vicino dal Pci. Nel complesso, i risultati del 2 giugno mostravano che gli elettori italiani avevano definitivamente voltato pagina rispetto all'esperienza fascista; che in materia di scelte istituzionali non si erano lasciati spaventare dalla minaccia del "salto nel buio" agitata dai monarchici; che nella stragrande maggioranza avevano dato la loro fiducia ai partiti antifascisti. Quegli stessi risultati, però, se analizzati regione per regione, rivelavano che la vittoria repubblicana si reggeva tutta sul voto del CentroNord (mentre il Sud aveva dato una forte maggioranza alla monarchia) e che anche il voto politico si era distribuito in modo tutt'altro che omogeneo, con la sinistra nettamente maggioritaria nel Nord, ma debolissima nel Mezzogiorno. Le spaccature ereditate dalla guerra e da tutta la storia del paese si riproponevano nella nuova Italia democratica e ne rendevano più difficile il cammino. Parola chiave Qualunquismo Il "qualunquismo", come atteggiamento di diffidenza nei confronti dei partiti e in genere della politica (che si vorrebbe risolta nella buona amministrazione), come esaltazione dei valori dell'individuo e della tradizione contro le tendenze stataliste, come protesta contro la fiscalità, esiste da molto prima che qualcuno pensasse di dargli un nome, o

addirittura di fondare su di esso un vero e proprio partito. In questo senso, tendenze qualunquiste sono sempre state presenti nei regimi parlamentari, anche se non avevano un'espressione politica autonoma, in quanto si risolvevano nell'adesione ai partiti conservatori o, più coerentemente, nell'astensione dal voto. Nel periodo fra le due guerre mondiali, queste tendenze confluirono in larga parte nei movimenti fascisti o parafascisti, che proclamavano la loro avversione nei confronti della politica tradizionale e ne proponevano una nuova, basata sul drastico accentramento dei processi decisionali. Solo nel secondo dopoguerra, alcuni abili quanto improvvisati leader pensarono di isolare e di coltivare il virus della sfiducia nella politica, per farne la base di inediti movimenti di massa. Il primo di questi movimenti fu quello fondato in Italia nell'immediato dopoguerra dal commediografo Guglielmo Giannini, col nome di "Fronte dell'Uomo qualunque" (donde il termine "qualunquismo") [§24.2]. Una vicenda molto simile fu quella dell""Unione per la difesa dei commercianti e degli artigiani", fondata in Francia nel '53 dal cartolaio Pierre Poujade (in francese il termine poujadisme corrisponde all'italiano "qualunquismo"). Nata come gruppo di pressione extrapartitico e poi trasformatasi in movimento politico vero e proprio, sull'onda del rigurgito nazionalista seguito alla crisi dell'impero coloniale francese [§22.12], l'Unione ebbe il 10% dei voti nelle elezioni del '56 e mandò cinquanta deputati alla Camera. Ma, due anni dopo, la sua base era stata già erosa dalla crescita del movimento gaullista. Negli ultimi decenni, quasi tutte le democrazie industriali dell'Occidente hanno conosciuto fenomeni che, pur non potendosi definire qualunquisti in senso stretto, hanno non pochi punti di contatto col qualunquismo "storico". Dai gruppi che si richiamavano alla cosiddetta "maggioranza silenziosa" (termine coniato negli Stati Uniti alla fine degli anni '60) e che esprimevano le esigenze di "legge e ordine" delle classi medie spaventate dalle agitazioni operaie o studentesche, ai movimenti "antitasse", nati nella seconda metà degli anni '70 in Europa e negli Stati Uniti, nel quadro del rilancio delle ideologie liberiste e della crisi dello "Stato assistenziale" [§27.1]. Anche in Italia si è assistito in questi ultimi anni al crescere di nuove e diffuse forme di protesta contro un fisco ritenuto troppo esoso, ma anche contro una classe politica accusata in blocco di eccessiva invadenza nei confronti della società civile. Se queste forme di protesta si possano o meno definire "qualunquiste" (termine che, nel linguaggio della classe politica, porta con sé una certa connotazione spregiativa), è un tema di discussione ancora aperto.

24.4. La crisi dell'unità antifascista. Due anni decisivi, L'approfondirsi dei contrasti, La scissione socialista di Palazzo Barberini, L'esclusione delle sinistre dal governo. I due anni che vanno dalle elezioni per la Costituente (2 giugno '46) alle consultazioni politiche del 18 aprile '48 furono decisivi per la storia della neonata Repubblica. Fu questo il periodo in cui l'Italia definì il suo nuovo assetto istituzionale col varo della Costituzione, riorganizzò la propria economia secondo i modelli tipici dei sistemi capitalistici occidentali, si diede infine un equilibrio politico destinato a resistere per molti anni e a riflettersi immediatamente sulla collocazione internazionale del paese. Dopo le elezioni per la Costituente, democristiani, socialisti e comunisti continuarono a governare insieme; si accordarono sull'elezione del primo, e provvisorio, presidente della Repubblica, il giurista liberale Enrico De Nicola; e diedero vita a un secondo governo De Gasperi, basato sull'accordo fra i tre partiti di massa. Ma la coabitazione al governo non eliminava i motivi di contrasto fra la Dc e le sinistre. Contrasti originati, da un lato, dall'inasprirsi dello scontro sociale, dall'altro dal profilarsi della guerra fredda che contribuì a esasperare le divisioni politiche già esistenti. Mentre la Dc tendeva sempre più ad assumere il ruolo di garante dell'ordine sociale e della collocazione del paese nel campo occidentale, i comunisti, pur evitando iniziative di aperta rottura, si ponevano più risolutamente alla testa delle lotte operaie e contadine (per il salario, per l'occupazione, per la terra) e accentuavano il loro allineamento all'Urss. A fare le spese di questa radicalizzazione fu soprattutto il Partito socialista. Alla fine del '46 si erano delineati in seno al Psiup due schieramenti contrapposti. Il primo, che faceva capo a Nenni, voleva mantenere al partito i suoi caratteri classisti e rivoluzionari, era favorevole all""unità d'azione" col Pci e puntava, a livello internazionale, su un'impossibile alleanza fra l'Urss e le sinistre occidentali. Il secondo schieramento, che era guidato da Giuseppe Saragat, si batteva invece per un allentamento dei legami col Pci e non nascondeva la sua ostilità verso il comunismo sovietico e la politica staliniana nell'Europa dell'Est. Nel gennaio 1947, in occasione del XXV congresso del partito, che si teneva a Roma, i seguaci di Saragat decisero di abbandonare il Psiup (che riassunse il vecchio nome di Psi) e si riunirono a Palazzo Barberini per fondare un nuovo partito, che si chiamò Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli) e che, qualche anno più tardi, avrebbe assunto il nome di Partito socialdemocratico italiano (Psdi).

La scissione di Palazzo Barberini, se nell'immediato provocò una crisi di governo, per il ritiro dei rappresentanti del Psli, e la formazione di un nuovo gabinetto tripartito (Dc, Psi, Pci) presieduto da De Gasperi, in realtà finì col dare maggior libertà d'azione a una Democrazia cristiana sempre più insofferente della "coabitazione forzata" con le sinistre. In maggio, traendo spunto dai contrasti in seno alla coalizione, De Gasperi diede le dimissioni e, ottenuto il reincarico dopo una lunga crisi, formò un governo di soli democristiani, rafforzato dall'apporto di "tecnici" di area liberale (come Einaudi al Bilancio e Sforza agli Esteri). Si chiudeva così, con i cattolici al potere e le sinistre all'opposizione, la fase della collaborazione governativa fra i tre partiti di massa. 24.5. La Costituzione repubblicana. I lavori della Costituente, Gli istituti democratici, Le norme inattuate, I contenuti sociali, Costituzione e sistema politico, Un compromesso equilibrato, Il voto sull'articolo 7. I contrasti politici culminati nell'esclusione delle sinistre dal governo non impedirono ai partiti antifascisti di mantenere quel minimo di solidarietà che era necessaria alla Repubblica per superare le due prime e fondamentali prove che le si ponevano di fronte: la conclusione del trattato di pace - che fu firmato, come si vedrà più avanti, nel febbraio '47 - e soprattutto il varo della Costituzione. L'Assemblea costituente incaricata di dare al paese una nuova legge fondamentale, dopo lo Statuto albertino di cento anni prima, cominciò i suoi lavori il 24 giugno 1946 e li concluse il 22 dicembre 1947 con l'approvazione a larghissima maggioranza del testo costituzionale, che entrò in vigore dal 1° gennaio 1948. La Costituzione repubblicana si ispirava ai modelli democratici ottocenteschi per la parte riguardante le istituzioni e i diritti politici: essa dava vita infatti a un sistema di tipo parlamentare, col governo responsabile di fronte alle due Camere (la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica), titolari del potere legislativo (senza apprezzabili differenze di funzioni), entrambe elette a suffragio universale e incaricate anche di scegliere, in seduta congiunta, un capo dello Stato con mandato settennale. Era inoltre previsto che un Consiglio superiore della magistratura garantisse l'autonomia dell'ordine giudiziario, che una Corte costituzionale vigilasse sulla conformità delle leggi alla Costituzione, che le leggi stesse potessero essere sottoposte a referendum abrogativo - ed eventualmente annullate - dietro richiesta di almeno 500.000 cittadini, che

la vecchia struttura centralistica dello Stato fosse spezzata creando il nuovo istituto della regione, dotato di ampi poteri (anche legislativi). Le norme relative al Consiglio superiore della magistratura, alla Corte costituzionale, al referendum e alle regioni (come altri punti importanti della Costituzione) erano però destinate a restare inattuate per molti anni. Anche perché, per volontà delle forze moderate, la Costituente non era stata investita dei poteri legislativi ordinari, che rimasero in via provvisoria affidati al governo, e non ebbe quindi la possibilità di tradurre immediatamente in leggi applicative le norme del dettato costituzionale. Non sempre, inoltre, avrebbero trovato riscontro nella realtà alcune affermazioni di principio in materia di diritti sociali, che erano il risultato della convergenza fra la Dc e i partiti di sinistra e che rappresentavano la maggiore novità rispetto ai modelli costituzionali ottocenteschi: tra l'altro, era sancito il "diritto al lavoro" ed era stabilito che il diritto di proprietà potesse essere limitato a vantaggio del benessere collettivo. Un'altra critica che è stata mossa, soprattutto in anni recenti, al testo costituzionale riguarda il suo impianto politico: in particolare il fatto che i costituenti - preoccupati di allontanarsi il più possibile dall'esempio negativo dell'autoritarismo fascista - sentirono più l'esigenza di garantire spazi di agibilità e di visibilità a tutte le forze politiche che non quella di assicurare stabilità e legittimazione autonoma al potere esecutivo. La scelta in favore di un modello parlamentare - unita a una legge elettorale proporzionale molto simile a quella già adottata nel '19 [§16.4] e destinata a restare in vigore fino al '93 - faceva infatti dei partiti (già titolari del potere di fatto a partire dalla nascita del Cln) i veri destinatari del consenso popolare e dunque gli arbitri incontrastati della politica italiana. Nel corso degli anni, questo assetto istituzionale - che in pratica obbligava i governi a fondarsi su accordi di coalizione e rendeva difficile ogni forma di alternanza - avrebbe contribuito, assieme alle tensioni e ai vincoli della guerra fredda, a bloccare il sistema politico italiano, accentuandone i tratti oligarchici e immobilisti. Nel complesso, tuttavia, la Costituzione rappresentò allora un compromesso equilibrato - e non più contestato nei difficili anni che seguirono - fra le istanze delle diverse forze politiche che avevano contribuito a realizzarla. Certo fu merito dei costituenti l'aver raggiunto questo risultato nonostante il contemporaneo radicalizzarsi della lotta politica e nonostante l'asprezza dei contrasti che si aprirono su singole questioni. Lo scontro più clamoroso si verificò nel marzo '47, quando si discusse la proposta democristiana di inserire nella Costituzione un articolo (l'articolo 7) in cui si stabiliva che i rapporti fra Stato e Chiesa erano

regolati dal concordato stipulato nel 1929 fra Santa Sede e regime fascista. La proposta sembrava destinata a essere respinta. Ma all'ultimo momento, con una decisione che destò non poco scalpore, Togliatti annunciò il voto favorevole del Pci, motivando la sua scelta con la volontà di rispettare il sentimento religioso della popolazione italiana e di non creare fratture in seno alle masse. L'articolo 7 fu così approvato, nonostante l'opposizione dei socialisti e degli altri partiti laici. 24.6. Le elezioni del '48 e la sconfitta delle sinistre. La polarizzazione fra i due schieramenti, Il Fronte popolare, La mobilitazione cattolica, La propaganda delle sinistre, La vittoria della Dc e la sconfitta dei socialisti, L'attentato a Togliatti, La rottura dell'unità sindacale: la Cisl e la Uil. Il varo della Costituzione repubblicana fu l'ultima manifestazione significativa della collaborazione fra le forze antifasciste. Dall'inizio del '48, i partiti si impegnarono in una gara sempre più accanita per conquistarsi i favori dell'elettorato, in vista delle elezioni politiche convocate per il 18 aprile di quell'anno, che avrebbero dato alla Repubblica il suo primo Parlamento. Caratteristica di questa campagna elettorale fu la polarizzazione fra due schieramenti contrapposti: quello di opposizione, egemonizzato dal Pci, e quello governativo, guidato dalla Dc e comprendente anche i partiti laici minori (Psli e Pri erano entrati nel dicembre '47 nel ministero De Gasperi). Un contributo alla radicalizzazione dello scontro lo diede il Partito socialista, decidendo, nel dicembre '47, di presentare liste comuni col Pci sotto l'insegna del Fronte popolare. Gli elettori si trovarono così di fronte a un'alternativa secca, che lasciava scarsi margini alle posizioni intermedie. E la Dc ebbe buon gioco a impostare la sua battaglia in termini di scontro "di civiltà", oltre che di schieramenti internazionali e di sistemi economici. Nella sua campagna elettorale il partito di De Gasperi poté inoltre giovarsi dell'aiuto di due potenti alleati. La Chiesa, a cominciare dal pontefice Pio XII, si impegnò in prima persona in una dura crociata anticomunista e mobilitò tutte le sue organizzazioni in una propaganda spesso grossolana, ma indubbiamente efficace, a sostegno della Dc. Meno diretto, ma ugualmente decisivo, fu l'appoggio degli Stati Uniti, che consentì ai democristiani di presentarsi come i più accreditati rappresentanti della massima potenza mondiale e di agitare la minaccia di una sospensione degli aiuti del piano Marshall in caso di vittoria delle sinistre.

Socialisti e comunisti risposero facendo appello ai lavoratori e ai ceti disagiati e mettendo in primo piano i toni democraticopopulisti (il ritratto di Garibaldi fu scelto come contrassegno delle liste del Fronte popolare), rispetto a quelli classisti e rivoluzionari. Ma la loro propaganda fu fortemente danneggiata da una stretta adesione alla causa dell'Urss e alla politica estera di Stalin, in un momento in cui l'immagine del comunismo sovietico era inevitabilmente associata a quanto stava accadendo nell'Europa dell'Est, in particolare in Cecoslovacchia, dove i comunisti presero il potere [§22.5] poche settimane prima delle elezioni italiane. Giocavano invece a favore della Dc le prospettive di sviluppo e di benessere, associate nella stessa mentalità popolare al legame cogli Stati Uniti, il desiderio di ordine e tranquillità e la paura di mutamenti radicali, il tradizionale ossequio alla Chiesa di Roma. Le elezioni del 18 aprile si risolsero così in un travolgente successo del partito cattolico, che ottenne il 48,5% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, attirando sulle sue liste i suffragi dell'elettorato moderato, istintivamente propenso a concentrare i suoi voti sul partito più forte (le destre e le formazioni minori di centro risultarono infatti in netto calo). Bruciante fu la sconfitta dei due partiti operai, che ottennero il 31% (contro il 40% del '46) perdendo circa un milione di voti. Il peso della sconfitta ricadeva per intero sul Psi, che vedeva più che dimezzata la sua rappresentanza parlamentare e pagava così l'eccessiva identificazione con le posizioni del Pci. Con le elezioni del '48 si chiudeva dunque la fase più agitata e incerta del dopoguerra; cadevano le speranze dei partiti di sinistra di guidare la trasformazione della società; si rafforzava l'egemonia del partito cattolico, già delineatasi con l'avvento al governo di De Gasperi e ora sancita in modo inequivocabile dal responso delle urne. La delusione dei militanti di sinistra per questo risultato si espresse tre mesi dopo le elezioni, quando un episodio drammatico rischiò di far precipitare il paese nella guerra civile. Il 14 luglio 1948, uno studente di destra sparò al segretario comunista Togliatti mentre usciva da Montecitorio e lo ferì gravemente. Alla notizia dell'attentato, in tutte le principali città, operai e militanti comunisti scesero in piazza, scontrandosi con le forze dell'ordine. Ricomparvero armi e barricate e molte fabbriche furono occupate. Nella zona del Monte Amiata, in Toscana, il moto assunse un carattere insurrezionale. In pochi giorni, l'agitazione si esaurì, anche per il comportamento prudente dei dirigenti comunisti e dei capi sindacali. Ma le tensioni nel paese risultarono ulteriormente esasperate; e si rafforzò, in seno alla compagine governativa, la tendenza a una gestione dura dell'ordine pubblico.

Un'altra conseguenza delle giornate del luglio '48 fu la rottura della già precaria convivenza fra le maggiori forze politiche all'interno del sindacato. La decisione della maggioranza socialcomunista della Cgil di proclamare uno sciopero generale per protesta contro l'attentato a Togliatti fornì infatti alla componente cattolica l'occasione per staccarsi dal sindacato unitario e per dar vita a una nuova confederazione, che avrebbe poi assunto il nome di Cisl (Confederazione italiana sindacati lavoratori). Pochi mesi dopo anche i sindacalisti repubblicani e socialdemocratici abbandonarono la Cgil, fondando una terza organizzazione, la Uil (Unione italiana del lavoro). Svaniva così l'ultimo residuo di unità anti fascista; la divisione del paese in due schieramenti contrapposti poteva ormai dirsi completa. 24.7. La ricostruzione economica. Le mancate riforme e la "restaurazione liberista", Einaudi ministro del Bilancio, Risanamento finanziario e mancato slancio produttivo, L'Iri e l'Agip. Con le elezioni del 18 aprile '48, gli elettori italiani non solo scelsero il partito che avrebbe governato il paese negli anni a venire, ma si espressero anche in favore di un sistema economico e di una collocazione internazionale. Sul terreno della politica economica, le forze moderate - in particolare i liberali, che occuparono l'importantissimo ministero del Tesoro nei governi Bonomi e Parri e nel primo gabinetto De Gasperi - riuscirono a prendere il sopravvento fin dai primi mesi del dopoliberazione, bloccando i tentativi delle sinistre di introdurre nel sistema forti elementi di trasformazione. In generale, i governi dell'immediato dopoguerra evitarono di usare in modo incisivo gli strumenti di intervento sull'economia che erano stati creati negli anni successivi alla grande crisi: anche perché la corrente di pensiero dominante, ispirata soprattutto dagli economisti di formazione prefascista, vedeva nel dirigismo economico un prodotto dei regimi autoritari. A tutto questo i dirigenti della sinistra non seppero contrapporre una coerente linea alternativa: finché restarono al governo, comunisti e socialisti si limitarono sostanzialmente a un'azione di sostegno ai sindacati, di difesa dei salari e di tutela dell'occupazione, mediante il blocco dei licenziamenti. Anche questa linea di resistenza cadde però a partire dal maggio '47, con l'estromissione delle sinistre dal governo e la formazione del nuovo gabinetto De Gasperi, in cui il ministero del Bilancio era tenuto dal liberale

Luigi Einaudi. Mentre le sinistre, costrette all'opposizione, si impegnavano in un'impopolare battaglia contro il piano Marshall, Einaudi attuava una manovra economica che aveva come scopi principali la fine dell'inflazione, il ritorno alla stabilità monetaria e il risanamento del bilancio statale. La manovra si attuò su tre distinti livelli: una serie di inasprimenti fiscali e tariffari; una svalutazione della lira (da 225 a 350 lire per un dollaro) che doveva favorire le esportazioni e incoraggiare il rientro dei capitali, attirati dal cambio favorevole; una energica restrizione del credito che limitò la circolazione della moneta e costrinse imprenditori e commercianti a gettare sul mercato le scorte accumulate in attesa di un aumento dei prezzi. Nel complesso, la linea Einaudi ottenne i risultati che si era prefissa: la lira recuperò potere d'acquisto, i capitali esportati rientrarono in Italia (soprattutto dopo le elezioni del '48), i ceti medi risparmiatori riacquistarono fiducia, gli stessi salariati si giovarono del calo dei prezzi. Ma l'operazione ebbe forti costi sociali, soprattutto sul versante della disoccupazione che, abolito il blocco dei licenziamenti, superò nel '48 i due milioni di unità. I fondi del piano Marshall (13 00 milioni di dollari fra il '48 e il '51) furono utilizzati per finanziare le importazioni di derrate alimentari e materie prime, ma non per sviluppare la domanda interna. La ricostruzione si attuò dunque nel segno dell'ortodossia finanziaria, senza nessuna concessione alle politiche "keynesiane", che pure erano largamente praticate in tutto il mondo occidentale ed erano incoraggiate dalla stessa amministrazione americana. D'altro canto, non si ebbe nemmeno una "restaurazione liberista". Gli strumenti di controllo dell'economia furono sottoutilizzati, ma non cancellati: l'Iri fu potenziato con nuovi finanziamenti e l'Agip, l'ente petrolifero di Stato, fu rilanciato dalla scoperta di giacimenti di idrocarburi in Val Padana; e l'azione dei pubblici poteri si sarebbe poi rivelata decisiva nell'avvio di un nuovo processo di sviluppo industriale. 24.8. Il trattato di pace e le scelte internazionali. Il trattato di pace, La questione di Trieste Il contrasto fra italiani e slavi, La scelta di campo, L'adesione al Patto atlantico. Frutto di negoziati protrattisi per più di un anno, il trattato di pace fra l'Italia e gli alleati fu firmato a Parigi nel febbraio 1947 e ratificato dalla Costituente nel luglio dello stesso anno. L'Italia vi era considerata a tutti gli effetti come una nazione sconfitta: doveva dunque impegnarsi a pagare riparazioni (di entità peraltro abbastanza contenuta) agli Stati che aveva attaccato (Russia, Grecia, Jugoslavia, Albania, Etiopia) e a ridurre la

consistenza delle sue forze armate. Rinunciava inoltre a tutte le colonie, già perdute durante la guerra (nel '50 avrebbe ottenuto, per un decennio, l'amministrazione fiduciaria sulla Somalia). Tale rinuncia non suscitò eccessivi rimpianti nell'opinione pubblica, che invece seguì con notevole partecipazione le vicende relative ai nuovi confini nazionali. A ovest l'Italia non subì mutilazioni di rilievo, salvo alcune rettifiche secondarie (Briga, Tenda e il Moncenisio) a favore della Francia. A nord poté avvantaggiarsi della posizione di inferiorità dell'Austria per mantenere l'Alto Adige (impegnandosi però, con gli accordi De GasperiGruber del '46, a concedere ampie autonomie amministrative e linguistiche alla provincia di Bolzano). I problemi più delicati si presentarono sul confine orientale, dove gli jugoslavi avevano occupato nel '45 buona parte della Venezia Giulia e rivendicavano la stessa Trieste. Alla fine del '46 fu attuata una sistemazione provvisoria, che lasciava alla Jugoslavia la penisola istriana, eccettuata una striscia comprendente Trieste e Capodistria, che avrebbe dovuto costituire il Territorio libero di Trieste. Il Territorio fu a sua volta diviso in una zona A (Trieste e dintorni) occupata dagli alleati e in una zona B tenuta dagli jugoslavi. Solo nell'ottobre 1954, dopo momenti di forte tensione fra Italia e Jugoslavia, si giunse a una spartizione di fatto, che sanciva il controllo iugoslavo sulla zona B e il passaggio dall'amministrazione alleata a quella italiana della zona A, ossia di Trieste, che veniva così riunita all'Italia. Ma sarebbero passati ancora più di vent'anni perché si giungesse a un accordo (il trattato di Osimo del novembre 1975), con cui le due parti si riconoscevano reciprocamente la sovranità sui territori in questione. Certo, la questione di Trieste e della Venezia Giulia rappresentò nel primo decennio postbellico la ferita più dolorosa fra quelle lasciate aperte dalla guerra. Il contrasto fra italiani e slavi - esasperato durante il fascismo dalla dura repressione contro le minoranze etniche condotta dal regime - era riesploso alla fine della guerra, nelle zone occupate dagli jugoslavi, con una serie di sanguinose vendette contro gli italiani, culminate nell'esecuzione di alcune migliaia di persone, gettate nelle foibe (profonde fosse naturali del Carso). Un gran numero di giuliani e dalmati (fra i due e i trecentomila) erano stati costretti a riparare in Italia, contribuendo a tener desta la polemica contro il trattato di pace. Il problema di Trieste divenne così un fattore di mobilitazione per l'opinione pubblica moderata e si intrecciò con le divisioni create dalla guerra fredda (fino alla rottura fra Tito e Stalin, nel '48, la frontiera fra Italia e Jugoslavia coincise con quella fra Occidente e blocco comunista).

A differenza, però, di quanto era accaduto dopo la prima guerra mondiale, il problema del confine orientale non giunse a rappresentare il nodo centrale della politica estera italiana. Per un paese sconfitto, economicamente debole e privo di qualsiasi autonoma forza militare, il problema capitale era quello della scelta di campo fra i due blocchi che si fronteggiavano in Europa. La scelta dell'Italia, in buona parte condizionata da fattori esterni (l'appartenenza alla zona di occupazione angloamericana, gli accordi fra le grandi potenze sulle aree di influenza), diventò netta ed esplicita dopo l'estromissione delle sinistre dal governo e l'accettazione del piano Marshall, per essere poi sancita dall'elettorato il 18 aprile 1948. Non era però affatto scontato che questa scelta di campo dovesse tradursi in un'alleanza militare. Così, quando, alla fine del '48, furono gettatele basi per il Patto atlantico, l'ipotesi di un'adesione dell'Italia suscitò non solo la dura opposizione di socialisti e comunisti, ma anche le perplessità di una parte del mondo cattolico e dei partiti laici di centrosinistra. Prevalse alla fine la volontà di De Gasperi e del ministro degli Esteri Carlo Sforza, che vedevano nell'alleanza soprattutto uno strumento per garantire all'Italia una più stretta integrazione con l'Occidente. E l'adesione al Patto atlantico fu approvata dal Parlamento, dopo un acceso dibattito, nel marzo 1949. Col passare degli anni, la scelta atlantica sarebbe stata accettata anche da molte delle forze che l'avevano inizialmente contestata e sarebbe rimasta un punto fermo della politica estera italiana. 24.9. Gli anni del centrismo. I governi De Gasperi e la politica centrista, La riforma agraria, Gli obiettivi della riforma e i suoi limiti, La Cassa per il Mezzogiorno, Le resistenze della destra e l'opposizione delle sinistre, Mobilitazione operaia e repressione, La "legge truffa", Le elezioni del giugno '53 e la sconfitta della coalizione centrista. I cinque anni della prima legislatura repubblicana (1948-53) segnarono il periodo di massima egemonia della Democrazia cristiana sulla vita politica nazionale. Nonostante potesse contare sulla maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, la Dc continuò a puntare sull'alleanza coi partiti laici minori; appoggiò la candidatura alla presidenza della Repubblica del liberale Luigi Einaudi, eletto nel maggio 1948; associò ai suoi governi, sempre presieduti da De Gasperi, rappresentanti del Pli, del Pri e del Psdi. Fu questa la formula del centrismo, che vedeva una Dc molto forte occupare il centro dello schieramento politico, lasciando fuori della maggioranza sia la sinistra

socialcomunista, sia l'estrema destra monarchica e neofascista. Componente essenziale della politica centrista era una moderata dose di riformismo che, senza troppo sconvolgere gli equilibri sociali, conservasse al governo il consenso delle masse popolari, soprattutto dei contadini. Da questo punto di vista, l'iniziativa più importante del periodo centrista fu la riforma agraria, attuata fra il maggio e il dicembre 1950, che fissava norme per l'esproprio e il frazionamento di una parte delle grandi proprietà terriere di ampie aree geografiche (il delta del Po, la Maremma, la Sila, parte del Molise, della Campania, della Sardegna e delle Puglie, l'intera Sicilia). La riforma costituiva il primo tentativo di profonda modifica dell'assetto fondiario mai attuato nella storia dell'Italia unita; dava un duro colpo al potere della grande proprietà assenteista; e andava incontro alle attese delle masse rurali del CentroSud, protagoniste, ancora alla fine degli anni '40, di alcuni drammatici episodi di lotta per la terra. Se lo scopo immediato della riforma era quello di rimuovere una causa di scontento e di protesta sociale, l'obiettivo più a lungo termine stava nell'incrementare la piccola impresa agricola: nel rafforzare quindi il ceto dei contadini indipendenti, tradizionalmente considerato una garanzia di ordine e di stabilità sociale e largamente egemonizzato dalla Dc attraverso la potente Confederazione dei coltivatori diretti (o Coldiretti, che organizzava, all'inizio degli anni '50, oltre un milione di famiglie contadine). Questo obiettivo doveva però rivelarsi illusorio e anacronistico. Le nuove piccole aziende agricole si dimostrarono per lo più poco vitali. E la riforma non servì a contenere quel fenomeno di migrazione dalle campagne che, cominciato all'inizio degli anni '50 in coincidenza coi primi segni di ripresa industriale, avrebbe poi assunto proporzioni imponenti alla fine del decennio. Nell'agosto 1950, contemporaneamente alla riforma agraria, fu varata un'altra legge, non meno ambiziosa negli obiettivi e certamente più moderna nella concezione: quella che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno, un nuovo ente pubblico che aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo economico e civile delle regioni meridionali attraverso il finanziamento statale per le infrastrutture (strade, acquedotti, centrali elettriche, ecc.) e il credito agevolato alle industrie localizzate nelle aree depresse. L'impegno fu in effetti imponente (1500 miliardi nei primi dieci anni) e si prolungò per oltre un trentennio (la Cassa fu sciolta solo nel 1983). Ma i risultati non corrisposero del tutto alle attese. L'ingente iniezione di denaro pubblico, se ebbe indubbi effetti positivi sull'economia meridionale e sul tenore di vita della popolazione, non sempre bastò a mettere in in moto un autonomo processo di modernizzazione, né a cambiare i lineamenti della società civile,

né a colmare il divario con le regioni del Nord, che stavano intanto conoscendo un impetuoso sviluppo. Le riforme varate dai governi centristi - accanto a quelle già citate - si devono ricordare la legge Fanfani sul finanziamento alle case popolari e la riforma Vanoni, che introduceva per la prima volta l'obbligo della dichiarazione annuale dei redditi- furono duramente avversate dalla destra: gli stessi liberali si ritirarono dal governo nel '50 in quanto contrari alla riforma agraria. D'altro canto le sinistre continuarono a condurre contro i governi De Gasperi un'opposizione dura, in parte fondata sulle divergenze ideologiche, in parte motivata dallo stato di disagio in cui ancora versavano le classi lavoratrici. La politica economica del governo continuava infatti a basarsi sull'austerità finanziaria e sul contenimento dei consumi privati. Nonostante la forte ripresa produttiva iniziata nei primi anni '50, la disoccupazione si mantenne su livelli elevati e i salari restarono bassi. I partiti di sinistra e la Cgil reagirono mobilitando le masse operaie in una serie di scioperi e manifestazioni, che spesso si concludevano in scontri con le forze dell'ordine. A sua volta, il governo, deciso a non lasciarsi condizionare dalla piazza, rispose intensificando l'uso dei mezzi repressivi. Le forze di polizia furono potenziate con la creazione dei reparti celeri (ossia gruppi motorizzati di pronto intervento) impiegati esclusivamente nei servizi di ordine pubblico. Le armi da fuoco furono spesso usate contro i manifestanti, provocando non poche vittime. Prefetti e questori cercarono di limitare la libertà di riunione valendosi di leggi e regolamenti varati in epoca fascista. Comunisti e socialisti furono "schedati" e a volte discriminati negli impieghi pubblici. Il ministro degli Interni Mario Scelba, che tenne quasi ininterrottamente la carica fra il '47 e il '55, divenne, agli occhi dei militanti di sinistra, il simbolo di una politica illiberale e repressiva. Costretti a fronteggiare la pressione della sinistra e minacciati dall'eventualità di una crescita della destra, De Gasperi e i suoi alleati tentarono, nell'imminenza delle elezioni del '53, di rendere inattaccabile la coalizione centrista attraverso una modifica dei meccanismi elettorali in senso maggioritario. Il sistema scelto fu quello di assegnare il 65% dei seggi alla Camera a quel gruppo di partiti "apparentati" (ossia uniti da una preventiva dichiarazione di alleanza) che ottenesse almeno la metà più uno dei voti. Dal momento che né l'opposizione di sinistra né quella di destra potevano aspirare a raggiungere un simile risultato, il sistema sembrava costruito su misura per la maggioranza. Di qui le violente polemiche che accompagnarono la discussione in Parlamento della nuova legge elettorale, ribattezzata dalle sinistre legge truffa. La legge fu approvata nel marzo '53,

dopo una durissima battaglia parlamentare. Ma nelle elezioni, che si tennero in giugno, la coalizione di governo fu sorprendentemente sconfitta: sia la Dc sia i suoi alleati persero voti rispetto al '48 (mentre ne guadagnarono le sinistre e, in misura maggiore, la destra monarchica e neofascista), mancando per poche decine di migliaia di voti l'obiettivo del 50%. Il premio di maggioranza non scattò e la Dc di De Gasperi dovette registrare la sua prima sconfitta. 24.10. Alla ricerca di nuovi equilibri. Sviluppo economico e nuovi fermenti politici, Il piano Vanoni e il ministero delle PP. SS., La Corte costituzionale, La Dc da De Gasperi a Fanfani, L'elezione di Gronchi, La svolta autonomista del Psi. Fallito, con le elezioni del '53, il tentativo di stabilizzare la coalizione centrista attraverso la legge maggioritaria (che fu accantonata nella legislatura successiva), cominciò una lunga fase di transizione e di ricerca di nuovi equilibri politici. Il paese cominciava, sia pur lentamente, a modernizzarsi. La ripresa economica si consolidava. E si rafforzavano di pari passo - grazie alla completa liberalizzazione degli scambi con l'estero attuata negli anni precedenti dal ministro repubblicano Ugo La Malfa i legami con l'Europa più avanzata: legami che sarebbero poi stati ribaditi, nel marzo 1957, dall'adesione italiana al Mercato comune europeo [§22.11]. In alcuni settori politici legati alla sinistra Dc o ai partiti laici si avvertiva l'esigenza di un allargamento verso sinistra dell'area di maggioranza, di una spinta riformatrice che interpretasse le trasformazioni della società. Tuttavia, sino alla fine degli anni '50, questo fermento non si tradusse in una modifica degli equilibri di governo. Dimessosi De Gasperi nel luglio '53 in seguito a un voto contrario della Camera, i successivi governi a guida democristiana continuarono ad appoggiarsi sulla esigua maggioranza quadripartita, addirittura rafforzata in qualche caso dall'apporto di voti monarchici e neofascisti. Frattanto, però, significative novità andavano maturando nelle istituzioni e nel governo dell'economia. Nell'estate 1955 fu presentato in Parlamento il cosiddetto piano Vanoni (dal nome dell'allora ministro del Bilancio), che rappresentava il primo e ancor timido tentativo di programmazione economica mai sperimentato fin allora in Italia. Nel dicembre '56 fu creato il ministero delle Partecipazioni statali, col compito di coordinare l'attività delle aziende di Stato: era il segno di un nuovo rilievo assunto dagli enti a partecipazione statale (soprattutto l'iri e l'Eni, Ente nazionale idrocarburi, fondato nel '53) e anche di una nuova volontà

del potere politico, in particolare della Dc, di intervenire più incisivamente nella gestione dell'economia. Ma la novità più importante di questi anni, sul piano delle istituzioni, fu l'insediamento, nell'aprile '56, della Corte costituzionale (due anni dopo sarebbe stata la volta del Consiglio superiore della magistratura). Composta in parte da magistrati e in parte da membri nominati dal Parlamento e dal presidente della Repubblica, la Corte avrebbe svolto una funzione importante e fortemente progressiva nell'adeguare la vecchia legislazione ai princìpi costituzionali e nel far cadere alcune fra le norme più anacronistiche varate in periodo fascista. Gli anni della seconda legislatura repubblicana (1953-58) portarono parecchi cambiamenti anche all'interno dei partiti più importanti. Nella Dc le elezioni del '53 segnarono non solo la sconfitta politica di De Gasperi, che morì nell'estate dell'anno seguente, ma anche la progressiva emarginazione del gruppo dirigente degasperiano e l'emergere della nuova generazione formatasi nell'Azione cattolica degli anni '20 e '30. Questa generazione, più legata alle problematiche del cattolicesimo sociale, era favorevole all'intervento statale nell'economia e critica nei confronti dell'impostazione liberista che aveva ispirato le scelte dei governi postbellici. Esponenti principali di questa generazione erano Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Mariano Rumor e soprattutto Amintore Fanfani. Diventato nel '54 segretario della Dc, Fanfani cercò di rafforzarne la struttura organizzativa e di svincolare il partito dai condizionamenti della Confindustria, collegandolo più strettamente all'emergente industria di Stato: in particolare all'Eni di Enrico Mattei, un abile e dinamico manager che esercitò in questi anni una notevole influenza sul mondo politico e sulla stampa. Questa scelta contribuì certamente a svecchiare la Dc e tutta la politica italiana. Ma creò le premesse per quell'intreccio fra potere partitico ed economia pubblica che sarebbe stato poi all'origine di gravi degenerazioni. Sul piano delle alleanze di governo, la Dc di Fanfani non mutò, all'inizio, la linea centrista di De Gasperi. Ma, soprattutto dopo le elezioni presidenziali del 1955 - che videro la vittoria di Giovanni Gronchi, democristiano di sinistra, sostenuto, contro le indicazioni della segreteria, da una parte della Dc e appoggiato da socialisti e comunisti - si manifestò nel partito una maggior consapevolezza della fragilità della coalizione quadripartita e una nuova attenzione a quanto stava cambiando nella sinistra: in particolare nel Partito socialista, interlocutore obbligato per ogni ipotesi di allargamento a sinistra della maggioranza. Già negli anni '54-55, il Psi aveva iniziato una cauta revisione della politica "frontista", aveva allentato i legami col Pci e auspicato l'aprirsi di un "dialogo" con i cattolici. Una forte accelerazione al processo di

autonomia fu impressa dai fatti del 1956. La denuncia dei crimini di Stalin al XX congresso del Partito comunista sovietico e l'invasione sovietica dell'Ungheria [§22.10] costituirono un trauma per tutti i militanti di sinistra. Ma, mentre il Pci, pur accettando la critica delle degenerazioni staliniane e riservandosi una certa autonomia rispetto all'Urss (fu allora che Togliatti parlò di "vie nazionali al socialismo"), si mantenne sostanzialmente fedele al modello sovietico, il Psi se ne distaccò in modo definitivo. Fu lo stesso Nenni, leader del partito negli anni del "frontismo", a guidare la svolta autonomista. Il Psi non rinunciava alla prospettiva di una radicale trasformazione della società, ma si dichiarava disposto a collaborare a una politica di riforme. Questa nuova linea fu premiata dall'elettorato. Nelle elezioni del 1958, il Psi registrò un netto progresso, pur restando a notevole distanza dalla Dc (in recupero rispetto al '53) e dal Pci, che mantenne le sue posizioni mostrando di aver ben assorbito il trauma del '56. A questo punto le premesse politiche per l'apertura a sinistra c'erano tutte. Né mancavano i margini economici per una politica di riforme, dato che il paese stava cominciando a vivere il più rapido boom industriale della sua storia. Sommario Le condizioni in cui versava l'Italia alla fine della guerra erano gravissime: se le industrie non erano state eccessivamente danneggiate, era però stata fortemente colpita l'agricoltura; ingenti anche i danni subiti dall'edilizia e dai trasporti; elevatissima l'inflazione. La maggioranza della popolazione risentiva della scarsità di cibo e abitazioni e dell'alta disoccupazione. I problemi dell'ordine pubblico erano gravi: difficoltà nella smobilitazione dei partigiani, occupazione delle terre, borsa nera, separatismo e banditismo in Sicilia. Il ritorno della democrazia determinò una crescita della partecipazione politica. La Democrazia cristiana si presentava come perno del fronte moderato, in quanto era l'unico partito in grado di competere con socialisti e comunisti sul piano dell'organizzazione di massa. Molto minor seguito avevano i liberali, i repubblicani e il Partito d'azione. A destra il movimento dell""Uomo qualunque" ebbe, per breve tempo, notevole successo. La Confederazione generale italiana del lavoro fu ricostituita nel '44 su basi unitarie. Il primo governo dell'Italia liberata, basato sulla coalizione fra i partiti del Cln, fu presieduto da Ferruccio Parri, capo partigiano ed esponente del Partito d'azione. Nel novembre '45 la guida del governo passò al democristiano De Gasperi. L'avvento di De Gasperi segnò una svolta

moderata nella politica italiana e la fine delle prospettive di radicale rinnovamento sociale. Il 2 giugno 1946 un referendum popolare sancì la vittoria della repubblica e la caduta della monarchia. Nello stesso giorno si tennero le elezioni per l'Assemblea costituente, che videro il successo dei tre partiti di massa, e soprattutto della Dc che divenne il partito di maggioranza relativa. Nel '46-47 i contrasti fra i partiti della coalizione antifascista si approfondirono. Le accresciute tensioni interne e internazionali provocarono, nel gennaio '47, la scissione del Partito socialista: l'ala guidata da Saragat, contraria alla stretta alleanza col Pci, fondò il Partito socialista dei lavoratori italiani (poi Partito socialdemocratico). Nel maggio, De Gasperi estromise socialisti e comunisti dal governo e formò un ministero "monocolore". I contrasti tra i partiti non impedirono il varo della nuova Costituzione repubblicana (che entrò in vigore dal 1° gennaio 1948). La Costituzione affiancava agli istituti tipici di un sistema democraticoparlamentare alcuni importanti princìpi di tipo sociale (diritto al lavoro, libertà sindacale, ecc.). La campagna per le elezioni del 18 aprile '48 - dalle quali doveva uscire il primo Parlamento - vide una forte contrapposizione tra socialisti e comunisti (uniti nel Fronte popolare), da un lato, e Dc e partiti laici minori, dall'altro. I democristiani ottennero un grande successo, anche grazie all'appoggio della Chiesa e degli Stati Uniti. Dopo le elezioni De Gasperi diede vita ad una coalizione "centrista" che vedeva la Dc alleata con liberali, repubblicani e socialdemocratici. Sul piano della politica economica, ebbero sempre il sopravvento le forze moderate, che seguirono una politica di "restaurazione liberista", rifuggendo da un uso incisivo degli strumenti di intervento statale nell'economia. Tale politica si affermò pienamente, dopo l'estromissione delle sinistre dal governo, ad opera del ministro del Bilancio Einaudi: il successo della sua linea di risanamento finanziario ebbe comunque forti costi sociali, soprattutto in termini di disoccupazione. Il trattato di pace, che comportava la rinuncia alle colonie e secondarie rettifiche di confine a favore della Francia, fu firmato dall'Italia nel '47. Restava aperta con la Jugoslavia la questione di Trieste, riunita all'Italia solo nel '54. L'appartenenza dell'Italia al blocco occidentale ottenne una sanzione sul piano militare con l'adesione, nel 1949, al Patto atlantico. Negli anni del "centrismo" ('48-53) la politica dei governi De Gasperi non fu priva di importanti interventi sociali, come la riforma agraria e l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. La politica di austerità

finanziaria e contenimento dei consumi perseguita dal governo suscitò numerose proteste di piazza cui le forze dell'ordine risposero con durezza. In questa situazione la Dc cercò di rendere più stabile la propria maggioranza con una riforma del meccanismo elettorale ("legge truffa"), la cui approvazione suscitò vivaci proteste a sinistra e fu comunque priva di risultati pratici nelle elezioni del '53. Gli anni '53-58 furono un periodo di transizione. Alle novità sul piano economico ("piano Vanoni", ministero delle Partecipazioni statali) e istituzionale (insediamento della Corte costituzionale) si affiancarono mutamenti entro i partiti che avrebbero poi reso possibile l'allargamento della maggioranza ai socialisti. Nella Dc si affermò con la segreteria Fanfani (1954) una nuova generazione, più attenta all'intervento dello Stato nell'economia e più sensibile ai problemi sociali. Il Psi, soprattutto a partire dal '56, andava allontanandosi dai comunisti. Bibliografia Sull'Italia del dopoguerra: G. Mammarella, L'Italia contemporanea (19431992), Il Mulino, Bologna 1993; P. Ginsborg, Storia d'Italia 1943-1996. Famiglia, società, Stato, Einaudi, Torino 1998; il vol. XI della Storia dell'Italia moderna di G. Candeloro, La fondazione della Repubblica e la ricostruzione. Considerazioni finali, Feltrinelli, Milano 1986; A. Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla Liberazione al potere Dc, Laterza, RomaBari 1978; Italia 1943-1950. La ricostruzione, a e. di SJ. Woolf, ivi 1974; E. Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani (1943-1953), Mondadori, Milano 1986; P. Scoppola, La repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna 1991; S. Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana. L'Italia dal 1942 al 1994, Marsilio, Venezia 1992; A. Lepre, Storia della prima Repubblica, Il Mulino, Bologna 1995; infine il vol. 5, La Repubblica 1943-1963, della Storia d'Italia, a e. di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, RomaBari 1997, e i cinque tomi della Storia dell'Italia repubblicana, coordinata da F. Barbagallo, Einaudi, Torino 1993-1997. Sull'economia: C. Daneo, La politica economica della ricostruzione 19451949, Einaudi, Torino 1975; M. Salvati, Stato e industria nella ricostruzione, Feltrinelli, Milano 1982. Per gli aspetti istituzionali: P. Pombeni, La Costituente. Un problema storicopolitico, Il Mulino, Bologna 1995; F. Bonini, Storia costituzionale della Repubblica, Nis, Roma 1993. Sui partiti: S. Colarizi, Storia dei partiti nell'Italia repubblicana, Laterza, RomaBari 1994. Sul qualunquismo: S. Setta, L'Uomo qualunque 1944-

1948, Laterza, RomaBari 1975. Sul Partito d'azione: G. De Luna, Storia del Partito d'azione, Feltrinelli, Milano 1982. Sulla Dc: G. BagetBozzo, Il Partito cristiano al potere, Vallecchi, Firenze 1974; A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Laterza, RomaBari 1996. Sul Pci: R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, VI. Il "partito nuovo" dalla Liberazione al 18 aprile, Einaudi, Torino 1995 e R. Martinelli G. Gozzini, Storia del Partito comunista italiano, VII. Dall'attentato a Togliatti all" VIII congresso, ivi 1998. Sulla politica estera: A. Varsori, L'Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992, Laterza, RomaBari 1998. 25. La società del benessere. 25.1. Il boom dell'economia. Gli anni dello sviluppo, Usa, Europa occidentale, Giappone, Industria, agricoltura, terziario, L'esplosione demografica, Rinnovamento tecnologico e razionalizzazione produttiva, L'espansione del commercio mondiale, Un mercato regolato. Negli anni '50 e '60, l'economia capitalistica attraversò un periodo di sviluppo senza precedenti per intensità, per durata e per ampiezza dell'area geografica interessata. Rispetto alle altre fasi di espansione della storia del capitalismo industriale (1850-73, 1896-1913), questa ebbe ritmi molto più rapidi: nei paesi industrializzati, fra il 1950 e il 1973, il tasso medio annuo di incremento reale del prodotto procapite fu del 3,8%, quasi tre volte superiore a quello del 1896-1913. Ma l'espansione fu caratterizzata anche da una maggiore continuità: tanto da far apparire lo sviluppo economico e l'aumento del benessere come la condizione normale delle società industriali. Il boom cominciò subito dopo la guerra negli Stati Uniti, che - usciti dal conflitto in posizione di forza - fecero da "locomotiva" alla ripresa economica mondiale. A partire dall'inizio degli anni '50, questa si estese anche ai paesi dell'Europa occidentale e al Giappone: superate le difficoltà della ricostruzione postbellica, grazie anche agli aiuti americani, questi paesi si svilupparono, nel ventennio successivo, a ritmi mediamente superiori a quelli degli Usa. Se intorno al 1950 gli Stati Uniti fornivano da soli un terzo della produzione mondiale (il 33,3%) contro il 28,4% delle altre aree industrializzate, nel 1970 il rapporto si era più che rovesciato (gli Usa al 26,5% e l'Europa col Giappone al 36,2).

Lo sviluppo degli anni '50 e '60 riguardò in primo luogo l'industria, soprattutto i settori legati da un lato all'uso di tecnologie avanzate, dall'altro alla produzione di quei beni di consumo durevoli (automobili, elettrodomestici, televisori) che raggiunsero in questi anni una diffusione di massa non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa occidentale e in Giappone. L'agricoltura ebbe uno sviluppo più lento, ma il processo di modernizzazione del settore si estese e si consolidò, consentendo fortissimi aumenti di produttività: in tutti i paesi sviluppati la produzione agricola crebbe costantemente (seppur meno velocemente di quella industriale), mentre il numero degli addetti al settore diminuiva, fino a scendere stabilmente sotto il 15 % della popolazione attiva (addirittura sotto il 5% in Gran Bretagna e negli Usa). Parallelamente si accresceva la quota degli occupati nel settore terziario (commercio, servizi, amministrazione e, in genere, tutto ciò che non rientra nei settori agricolo e industriale), che nei paesi più avanzati, all'inizio degli anni 70, era superiore anche a quella degli addetti all'industria. Il boom del secondo dopoguerra fu il risultato di una serie di fattori concomitanti. Uno dei principali fu certamente l'esplosione demografica che seguì la fine della guerra [§25.4]. La crescita della popolazione significò un allargamento della domanda di beni di consumo, di abitazioni, di strutture sociali (scuole, ospedali) e, sui tempi lunghi, l'immissione nei processi produttivi di nuova forzalavoro più giovane e meglio qualificata (grazie ai progressi dell'istruzione). Gli apparati produttivi dei paesi industriali furono in grado di soddisfare le esigenze di un mercato in continua espansione - e di stimolarne a loro volta di nuove - perché poterono giovarsi di alcuni fattori favorevoli: il costo relativamente basso, e tendenzialmente calante fino al '73, delle più importanti materie prime, in particolare del petrolio, che aveva ormai preso il posto del carbone come principale fonte energetica; e la disponibilità di una serie di scoperte scientifiche e di innovazioni tecnologiche che risalivano in buona parte agli anni precedenti il secondo conflitto mondiale, ma non avevano ancora trovato larga e universale applicazione o erano state usate soprattutto per fini bellici. Il rinnovamento tecnologico si accompagnò a un generale processo di razionalizzazione produttiva e di concentrazione aziendale. Le concentrazioni coinvolsero sempre più frequentemente imprese operanti in diversi settori e anche in diversi paesi. Crebbero, in numero e in dimensioni, le grandi multinazionali, ossia le imprese che possiedono non solo filiali commerciali, ma anche impianti produttivi fuori dai confini del paese

d'origine e che in qualche caso gestiscono bilanci - e detengono poteri - non inferiori a quelli di uno Stato di media grandezza. Un altro fattore di sviluppo dell'economia fu rappresentato dalla liberalizzazione degli scambi internazionali che si realizzò nel secondo dopoguerra, in netto contrasto con la tendenza alle chiusure protezionistiche tipiche degli anni della grande depressione. Fra il 1950 e il 1970, il volume complessivo del commercio mondiale aumentò di ben cinque volte, grazie anche alla migliore efficienza dei trasporti e alla stabilità dei cambi fra le monete, frutto degli accordi di Bretton Woods [§22.2]. Negli anni '50 e '60, il mercato capitalistico mondiale fu non solo più unito, sotto l'egemonia degli Usa, ma anche meglio regolato di quanto non fosse mai stato in passato. Ciò si dovette agli accordi commerciali fra singoli Stati o gruppi di Stati, all'azione degli organismi internazionali (come il Fondo monetario, la Banca mondiale e il Gatt, [§22.2]), ma anche all'opera dei governi degli Stati industriali, quasi tutti ammaestrati dalle esperienze negative degli anni '30 e guadagnati alla causa delle politiche "keynesiane" di intervento statale in sostegno della crescita [§17.6]. 25.2. Le nuove frontiere della scienza. Ricerca scientifica e produzione industriale, Materie plastiche e fibre sintetiche, I nuovi farmaci, I progressi della chirurgia, Il boom della motorizzazione privata, Lo sviluppo dell'aviazione civile, Il declino del treno e della nave La conquista dello spazio, La missilistica, Dal primo satellite artificiale allo sbarco sulla Luna, Satelliti e navette spaziali, La ricaduta tecnologica e le implicazioni militari, La fisica nucleare e le bombe atomiche. Scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche furono, come si è detto, componenti fondamentali dello sviluppo economico postbellico. Il nesso fra ricerca scientifica e produzione, che si era instaurato a partire dalla seconda rivoluzione industriale, divenne ora strettissimo. I governi destinarono quote crescenti del reddito nazionale alla ricerca, creando spesso enti e agenzie speciali ad essa preposti. E il lungo periodo di pace seguito alla fine del conflitto consentì di indirizzare verso gli usi civili risorse intellettuali e finanziarie prima assorbite in misura preponderante dalle esigenze militari (che pure continuarono a farsi sentire, soprattutto nelle grandi potenze e soprattutto nei settori di rilevanza strategica, in primo luogo il nucleare). Ciò che mutò rispetto all'anteguerra fu non tanto il ritmo dell'innovazione tecnologica, quanto la velocità della sua diffusione e della sua applicazione

ai diversi settori produttivi. Nel giro di pochi anni, il mondo sviluppato fu letteralmente sommerso da un'ondata di nuovi materiali, di nuove macchine, di prodotti d'ogni genere in gran parte sconosciuti alla generazione precedente (e spesso destinati ad apparire superati alla generazione successiva). Nel settore chimico, le maggiori novità furono legate allo sviluppo di scoperte risalenti al periodo prebellico. La più diffusa tra le fibre sintetiche, il nylon, era stata realizzata già nel '35. Le prime materie plastiche erano state realizzate addirittura nei primi anni del secolo. Ma solo nel secondo dopoguerra materie plastiche e fibre sintetiche si affermarono su larghissima scala nelle forme e negli usi più vari, fino a sostituirsi in larga parte ai materiali "naturali" e a dominare lo scenario della vita quotidiana nei paesi industrializzati. Un discorso in parte analogo si può fare per i medicinali. Molti farmaci le cui proprietà erano già note prima della guerra entrarono nell'uso corrente solo dopo il conflitto mondiale, grazie ai progressi della chimica, che consentirono di isolare una serie di sostanze e di produrle su larga scala. Il caso più noto è quello degli antibiotici, che costituiscono tuttora il più efficace strumento di difesa contro i batteri patogeni. La scoperta della penicillina avvenne nel 1928, per opera del chimico inglese Alexander Fleming. Ma solo dieci anni dopo si poterono isolare i primi antibiotici (impiegati dagli Stati Uniti durante la guerra mondiale); e solo alla fine degli anni '50 cominciò la produzione delle penicilline sintetiche. Al periodo fra le due guerre risalgono anche l'isolamento di molte vitamine (la A, la C, la B 12) e la scoperta di sostanze importantissime come i sulfamidici (antibatterici che poi sarebbero stati in parte soppiantati dagli antibiotici) e come gli ormoni, fra cui l'insulina e il cortisone. Alla ricerca del periodo postbellico si deve invece l'introduzione di altri farmaci che si possono considerare in qualche modo tipici della nostra epoca, come gli psicofarmaci e gli anticoncezionali. Paralleli a quelli della farmacologia furono i progressi della chirurgia, legati soprattutto all'uso di nuove apparecchiature e di nuovi anestetici meno tossici, che consentirono interventi di durata anche molto lunga (come le operazioni "a cuore aperto"). Un nuovo salto qualitativo nella storia della chirurgia si ebbe negli anni '60 con la realizzazione dei primi trapianti di organi (cornea, rene, midollo osseo, fegato e, dal '67, anche il cuore): tecnica che ha suscitato non pochi problemi, sia di ordine clinico (per la "reazione di rigetto" dell'organismo in presenza di un corpo estraneo), sia di natura etica (in rapporto alla difficoltà di definire la morte clinica del "donatore").

Un altro settore in cui gli effetti del progresso tecnologico si fecero subito sentire fu quello dei trasporti. In questo campo, due furono le novità caratteristiche del periodo postbellico. La prima fu il boom della motorizzazione privata e in genere del trasporto su strada: un boom che dagli Stati Uniti, dov'era già esploso negli anni fra le due guerre, si estese progressivamente a tutti i paesi industrializzati a economia capitalistica. In Europa occidentale, il rapporto fra vetture circolanti e abitanti, che era di 1 a 50 prima della guerra, passò a 1 a 5 nel 1970. Ancora più rapido fu lo sviluppo del parco automobilistico in Giappone, che alla fine degli anni '60 divenne il secondo produttore mondiale di auto dopo gli Usa. La seconda e più importante novità fu lo sviluppo dell'aviazione civile. Già cresciuto nei primi anni del dopoguerra (i passeggeri in tutto il mondo passarono dai 2 milioni e mezzo del '37 ai 21 milioni del '47), il trasporto aereo ricevette una nuova decisiva spinta, nella seconda metà degli anni '50, dall'impiego della propulsione a reazione (in luogo di quella a elica) sui mezzi civili. Gli aerei aumentarono contemporaneamente la loro velocità e la loro capienza: se nel 1950 un Constellation impiegava 18 ore per trasportare 60 passeggeri da Parigi a New York, vent'anni dopo un Boeing 747 (il cosiddetto jumbo jet) ne impiegava 7 per trasportarne 400. Negli anni '70 nessun punto della terra distava da un altro più di una giornata di volo. L'affermazione dell'aereo sui lunghi percorsi e dell'auto su quelli mediobrevi ebbe come conseguenza il declino del treno e della navepasseggeri: ossia dei mezzi che erano stati protagonisti della prima rivoluzione dei trasporti a metà '800. La navigazione marittima trovò un nuovo terreno di sviluppo in alcuni trasporti speciali (le gigantesche petroliere, di stazza anche superiore alle 500.000 tonnellate, i portacontainers), ma vide contrarsi progressivamente, fino a scomparire del tutto, il traffico passeggeri sulle rotte transatlantiche per l'incalzare della concorrenza del mezzo aereo. Direttamente collegata ai progressi dell'aeronautica fu l'apertura, alla fine degli anni '50, di un nuovo capitolo nella storia della ricerca e delle esplorazioni: quello relativo alla conquista dello spazio. Nessun aspetto del progresso scientifico e tecnologico del secondo dopoguerra fu capace come questo di colpire la fantasia dei contemporanei, di simboleggiare lo slancio ottimistico di un'intera epoca, combinando l'avventura con le tecniche più sofisticate, il trionfo della grande organizzazione con lo spirito pionieristico. Nacque da qui una nuova mitologia, in parte anticipata e poi amplificata dalla letteratura e dal cinema di fantascienza, un genere assurto rapidamente a diffusa e stabile popolarità.

Le esplorazioni spaziali ebbero la loro principale premessa tecnica negli sviluppi della missilistica. Impiegati per la prima volta dai tedeschi nell'ultima fase del conflitto mondiale e perfezionati negli anni successivi come vettori di ordigni esplosivi (soprattutto nucleari), i missili furono il veicolo che consentì di portare satelliti e astronavi fuori dall'atmosfera. Dal punto di vista politicoeconomico, i voli spaziali furono resi possibili da un'eccezionale concentrazione di risorse nel settore, da parte soprattutto delle due superpotenze, che si impegnarono in una gara accanita e spettacolare, dettata sia da motivi propagandistici sia da moventi strategici. Fu l'Unione Sovietica a ottenere il primo, clamoroso (e per molti inatteso) successo mandando in orbita, il 4 ottobre 1957, il primo satellite artificiale, lo Sputnik, precedendo di pochi mesi gli Stati Uniti, che lanciarono il loro Explorer nel gennaio '58. Furono ancora i sovietici a inviare nello spazio il primo astronauta, Yuri Gagarin, che il 12 aprile '61 girò per due ore attorno alla Terra a bordo della navicella Vostok. A questi successi gli Stati Uniti che nel '58 avevano dato vita a un'agenzia statale per i voli aerospaziali, la Nasa - replicarono moltiplicando il loro impegno finanziario nel settore e puntando all'obiettivo più ambizioso: lo sbarco di uomini sulla Luna. L'obiettivo fu centrato, dopo una lunga preparazione, il 21 luglio 1969, quando gli astronauti Armstrong e Aldrin, discesi dalla navicella Apollo 11, misero piede sul suolo lunare mentre le loro immagini venivano trasmesse sui teleschermi di tutto il mondo. Negli anni successivi, gli sforzi delle potenze impegnate nella corsa allo spazio (agli Usa e all'Urss si erano intanto aggiunti i paesi della Cee, il Giappone e la Cina) si concentrarono su operazioni meno spettacolari, ma non meno interessanti dal punto di vista scientifico: messa in orbita di satelliti meteorologici e per telecomunicazioni, invio di "sonde spaziali" senza uomini a bordo per esplorare il sistema planetario e gli spazi intersiderali, costruzione di "stazioni orbitanti", lancio di "navette spaziali" (gli Space shuttles realizzati dagli Stati Uniti) capaci di rientrare a terra dopo aver compiuto la loro missione. Al di là del loro specifico interesse scientifico, le imprese spaziali provocarono una fortissima "ricaduta" di tecnologia, che interessò tutti i settori produttivi di punta: la meccanica e la metallurgia, la chimica dei combustibili e quella dei nuovi materiali, le telecomunicazioni e l'elettronica in genere. Non meno importanti - e per certi aspetti preoccupanti - furono le implicazioni di carattere militare. Il perfezionamento delle tecniche di lancio e di guida a distanza dei missili si riflesse immediatamente sui sistemi d'arma delle superpotenze, che ormai affidavano agli arsenali missilistici il grosso della loro capacità deterrente. "Satellitispia" dotati di

potentissime apparecchiature fotografiche furono regolarmente usati da americani e sovietici. E l'eventualità di una "militarizzazione" dello spazio divenne una minaccia reale. Il carattere sempre meno neutrale della ricerca e il dissolversi del confine fra ricerca pura e ricerca applicata sono del resto - come già abbiamo osservato [§17.9] - aspetti connaturati alla scienza del secolo XX. Il caso più tipico, e più drammatico, è quello della fisica nucleare, che aveva ricevuto un impulso decisivo dalla guerra e che anche in seguito, nonostante avesse trovato numerosi impieghi pacifici (centrali nucleari per la produzione di energia elettrica furono installate, a partire dagli anni '60, in quasi tutti i paesi più industrializzati), ebbe la sua applicazione principale nella produzione di bombe sempre più potenti. La capacità distruttiva degli ordigni nucleari in dotazione alle superpotenze divenne molto superiore a quella necessaria per distruggere ogni forma di vita sull'intero pianeta. Per restare nel campo della fisica, va citata ancora l'invenzione, nel 1960, del laser: un dispositivo che, generando e amplificando radiazioni ottiche, riesce a concentrare enormi quantità di energia in spazi minimi e che, usato con successo nella microchirurgia e nella meccanica di precisione, trovò poi nuove applicazioni nel campo militare (soprattutto nella difesa antimissilistica). 25.3. Il trionfo dei "mass media". La radio e il transistor, Nascita e sviluppo della televisione, Televisione e cultura di massa, Il boom della musica leggera, Un nuovo universo culturale. Fra i prodotti dello sviluppo tecnologico degli ultimi decenni, quelli che forse più di tutti hanno condizionato e trasformato la vita quotidiana nelle società industrializzate - e in parte anche in quelle meno sviluppate - sono i mezzi di comunicazione di massa (o mass media, come spesso vengono chiamati con termine inglese). La rivoluzione in questo campo era cominciata già nel periodo fra le due guerre [§17.8], con l'affermazione della radio e del cinema sonoro. Anche nel secondo dopoguerra, radio e cinema continuarono a svolgere un ruolo importantissimo. La radio, in particolare, conobbe un nuovo boom alla fine degli anni '50, con l'apparizione degli apparecchi a transistor (caratterizzati dall'ingombro minimo, dai bassi costi di fabbricazione e dall'indipendenza dalle fonti di alimentazione elettrica) e rimase il più diffuso fra i mezzi di comunicazione: all'inizio degli anni '80 ne esistevano in tutto il mondo circa un miliardo.

Ma la vera protagonista di questa fase della storia delle comunicazioni di massa fu certamente la televisione. Le prime trasmissioni sperimentali di immagini furono effettuate in Gran Bretagna già negli anni '30. Ma le trasmissioni regolari per il grande pubblico cominciarono subito dopo la guerra negli Usa, per opera di alcune grandi compagnie private. E fu negli Stati Uniti che il nuovo mezzo si affermò in pochi anni fino a diventare un consumo di massa (un televisore ogni 4 abitanti nel 1960). Nel corso degli anni '50, la televisione si impose anche in Europa occidentale e, nei decenni successivi, si diffuse nelle aree meno industrializzate: nel 1980 c'erano in tutto il mondo circa 400 milioni di apparecchi (uno ogni 10 abitanti) e anche i paesi più poveri disponevano di una propria rete televisiva. Frattanto il mezzo si andava perfezionando dal punto di vista tecnico. All'inizio degli anni '60, l'uso dei satelliti per telecomunicazioni consentì la trasmissione dei segnali televisivi da un capo all'altro del mondo. Nello stesso periodo furono realizzati i primi apparecchi a colori, che sarebbero stati commercializzati su vasta scala nel decennio successivo. L'avvento della televisione ebbe effetti rivoluzionari in molti campi. Trasformò il mondo dell'informazione, offrendo la possibilità di mostrare e di diffondere in tutto il mondo - le immagini di un evento (da una competizione sportiva allo sbarco del primo uomo sulla Luna, da un attentato all'eruzione di un vulcano) nel momento stesso in cui si svolge. Portò lo spettacolo dentro le case, creando nuove abitudini familiari, nuove forme di intrattenimento collettivo e un diverso uso del tempo libero, soprattutto da parte dei ragazzi. Ma creò anche una nuova cultura di massa: una cultura in cui l'immagine tende a prevalere sulla parola scritta (quello di libri e giornali è l'unico fra i consumi culturali a non aver conosciuto incrementi di rilievo nell'ultimo quarantennio); una cultura i cui prodotti e i cui modelli - prevalentemente di origine americana - si diffusero in tutto il mondo, imponendo ovunque nuovi linguaggi: nuovi valori, a scapito delle culture tradizionali. Un'altra componente fondamentale di questo universo culturale, un'altra fabbrica inesauribile di miti e di idoli popolari - e in particolare giovanili fu costituita, soprattutto a partire dalla fine degli anni '50, dalla musica "leggera". La canzone - intesa come componimento musicale breve e orecchiabile - era da secoli una forma tipica della cultura popolare; e ancor più lo era diventata con l'avvento della radio. L'ulteriore boom commerciale degli anni postbellici si spiega, da un lato, con la diffusione della canzone americana durante e dopo il conflitto mondiale; all'altro, col perfezionamento degli strumenti per la riproduzione del suono (grammofoni

e registratori, dischi microsolco, cassette magnetiche e compact disk). In questo campo si assisté a un continuo affinamento delle tecnologie (alta fedeltà, stereofonia, registrazione digitale) e a un contemporaneo rapido allargamento del mercato (circa due miliardi di dischi e cassette venduti annualmente in tutto il mondo alla fine degli anni 70). Anche in questo caso, come in quello della televisione, i progressi della tecnologia elettronica e l'egemonia commerciale e culturale dei paesi anglosassoni (l'inglese è oggi la lingua della musica pop - ossia popolare come nel 700 l'italiano era stato la lingua della musica colta) contribuirono insieme a creare un linguaggio comune ai giovani di buona parte del mondo, a diffondere valori alternativi alle convenzioni "borghesi" (maggior indipendenza, più liberi rapporti fra i sessi, pacifismo, ecc.), a imporre un po'"ovunque nuove mode e nuovi modelli di comportamento, con una forza di penetrazione sconosciuta a tutti i fenomeni analoghi del passato. 25.4. L'esplosione demografica. Le cause dell'aumento demografico, L'esplosione demografica nel Terzo Mondo, I paesi industrializzati e il "baby boom", Le cause del calo della natalità, La contraccezione e le sue conseguenze. A partire dagli anni '50, la popolazione mondiale si accrebbe a un tasso medio annuo dell'1,8%: un ritmo più che doppio di quello mantenuto nel cinquantennio precedente (0,8%), che era a sua volta il doppio di quello dell'età preindustriale (0,4%). In vent'anni, fra il 1950 e il 1970, gli abitanti della terra aumentarono del 50%, passando da 2 miliardi e mezzo a 3 miliardi e 700 milioni (nel ventennio successivo il ritmo di incremento fu di poco inferiore e nel 1990 la popolazione era stimata in 5 miliardi e 262 milioni). Sempre fra il '50 e il 70 la vita media dell'uomo salì da 65 a oltre 70 anni nelle zone più sviluppate e da 40 a 50 (e a quasi 60 nell'85) nei paesi più poveri. Le cause di questo incremento spettacolare già le conosciamo. Ed erano in parte operanti a partire dalla seconda metà dell'800: i progressi della medicina e della chirurgia, l'uso di nuovi farmaci e la pratica delle vaccinazioni di massa, la diffusione di alcuni essenziali princìpi igienici, la maggior quantità di cibo disponibile (almeno nei paesi sviluppati) e la miglior qualità dell'alimentazione. Il boom della popolazione mondiale non si distribuì in modo omogeneo fra le diverse aree del pianeta. Anzi, si andò accentuando la forbice, già delineatasi nei primi decenni del '900, fra le tendenze demografiche dei

paesi industrializzati e quelle dei paesi in via di sviluppo. Nei paesi del Terzo Mondo, il regime demografico tipico delle società arretrate - alti tassi di natalità e alti tassi di mortalità - fu modificato solo per quanto riguardava la mortalità (soprattutto infantile) che diminuì rapidamente in seguito alla diffusione delle pratiche mediche e igieniche; mentre la permanenza delle culture tradizionali e i ritardi nel processo di modernizzazione impedirono che si affermasse l'abitudine al controllo delle nascite e fecero sì che i tassi di natalità restassero molto elevati. Come risultato di tutto ciò, la popolazione di questi paesi crebbe a un tasso medio del 2,5% annuo (con punte del 4%): il che equivale a dire che raddoppiava ogni ventotto anni. Invece i paesi industrializzati conobbero una fase di relativo slancio demografico (con tassi medi dell'1,3%) solo nel decennio successivo alla guerra: il periodo del cosiddetto baby boom. Dopo la metà degli anni '50, riprese il sopravvento la tendenza al calo della natalità. Questo fenomeno che ha come cause immediate la minor durata dei matrimoni (ci si sposa più tardi e si divorzia più spesso) e soprattutto l'abitudine al controllo delle nascite - si accompagna sempre ai processi di modernizzazione e si collega alla mentalità e ai modi di vita delle società urbanizzate e industrializzate: l'incremento del lavoro femminile, i costi crescenti per l'educazione e il mantenimento dei figli, la ristrettezza degli spazi abitativi, la maggior preoccupazione per il benessere materiale e la minor influenza delle religioni tradizionali (in particolare di quella cattolica, fermamente contraria al divorzio e alla contraccezione). La tendenza alla pianificazione familiare, e in genere alla limitazione delle nascite, fu favorita dalla diffusione delle pratiche anticoncezionali, in particolare dei contraccettivi orali (la cosiddetta pillola, ossia il farmaco introdotto all'inizio degli anni '60, che inibisce l'ovulazione nella donna). L'uso generalizzato delle pratiche anticoncezionali significò per la prima volta la possibilità di un controllo pressoché totale sulla fertilità ed ebbe conseguenze rivoluzionarie non solo sulle tendenze demografiche, ma anche sulla mentalità e sul costume. La rapida liberalizzazione dei comportamenti sessuali che le società sviluppate conobbero a partire soprattutto dalla fine degli anni '60 si dovette non solo alle caratteristiche generali di quelle società (maggior mobilità, maggiori possibilità di contatti, maggior circolazione delle informazioni e delle idee), ma anche alla drastica riduzione del rischio di gravidanze indesiderate. 25.5. La civiltà dei consumi e i suoi critici.

L'espansione dei consumi, Il boom dei consumi "superflui", La standardizzazione dei modelli di consumo, Il "consumismo", L'affermazione delle scienze umane, Il rifiuto ideologico, Marxismo e "Scuola di Francoforte", Le teorie di Marcuse. La conseguenza più vistosa dell'espansione economica postbellica nei paesi industrializzati fu il generale e rapido miglioramento del livello di vita della popolazione, in particolare delle classi lavoratrici. L'aumento del reddito procapite (che, nei paesi dell'Europa occidentale, risultò più che triplicato fra il '50 e il 70) si tradusse in una fortissima espansione dei consumi privati. Per questo si è parlato, in riferimento a quel periodo, di società del benessere o, con una sottile sfumatura polemica, di civiltà dei consumi. Il tratto distintivo di quest'epoca sta non solo nella crescita globale dei consumi, ma anche nella loro composizione. Fra il '50 e il 70, il consumo essenziale per eccellenza, quello di prodotti alimentari, scese dalla metà a meno di un terzo della spesa globale di un salariato europeo, pur essendo aumentato in quantità e in qualità. Crebbe, in compenso, la quota destinata all'abbigliamento, alla casa e soprattutto ai beni e servizi considerati comunemente non essenziali e in gran parte riservati fin allora (tranne che negli Usa) alle sole classi agiate: gli elettrodomestici e le automobili, i televisori e gli apparecchi per la riproduzione del suono, gli spettacoli e i viaggi. Questo boom dei consumi "superflui" fu favorito - oltre che dall'aumento dei redditi e dal contemporaneo calo dei prezzi di molti beni prodotti in grande serie e a costi continuamente decrescenti - anche dall'ampliamento e dalla razionalizzazione della rete commerciale (si pensi ai supermercati) e dalla moltiplicazione dei messaggi pubblicitari, amplificati dai mezzi di comunicazione di massa. Come risultato di tutto ciò, i modelli di consumo nelle aree industrializzate subirono un processo di omologazione, di standardizzazione. Si attenuarono le differenze fra paese e paese, nel segno di un'inarrestabile "americanizzazione", e si fecero meno evidenti - pur nel permanere di forti squilibri sociali e di grosse sacche di povertà - i segni esteriori delle differenze di classe. Sotto questi aspetti, la civiltà dei consumi non fece che accentuare e portare a compimento alcuni processi che erano impliciti nella società di massa (e le cui radici si possono cogliere già agli inizi del secolo). Essa presentava tuttavia alcuni tratti specifici: il rapido invecchiamento tecnologico di molti prodotti industriali; la spinta alla frequente sostituzione

dei beni di uso corrente (dai capi di abbigliamento all'automobile) molto al di là delle necessità imposte dall'usura materiale; il massiccio, e spesso invadente, condizionamento esercitato da un'onnipresente pubblicità; una certa tendenza allo spreco, un tempo caratteristica dei soli ceti aristocratici e ora ampiamente diffusa fra i ceti medi e fra le stesse classi popolari. Gli sviluppi della civiltà dei consumi posero una serie di problemi nuovi alla cultura occidentale e contribuirono a mutare il ruolo e la posizione degli intellettuali. Da un lato, le trasformazioni della società e del costume favorirono, soprattutto nei paesi anglosassoni, l'affermazione delle scienze umane, come la sociologia, la scienza politica, la psicologia (in particolare la psicanalisi, diventata in questo periodo una componente essenziale della stessa cultura di massa nei paesi industrializzati) e la stessa economia: queste discipline erano considerate gli strumenti più adatti per capire la nuova realtà e, in una certa misura, anche per accettarla. Dall'altro lato, si assisté, a partire dagli anni '60, a una sorta di rifiuto ideologico nei confronti di una società accusata di sostituire allo sfruttamento economico di tipo tradizionale una forma più subdola e raffinata di dominio (esercitata soprattutto attraverso la pubblicità e i mass media), di sottoporre gli individui a una nuova tirannia tecnologica, di sopire i conflitti sociali con la diffusione di un benessere che si giudicava illusorio (e si riteneva comunque ottenuto a spese dei popoli poveri del Terzo Mondo). Questa reazione si espresse in primo luogo in una ripresa delle ideologie rivoluzionarie di matrice marxista, che peraltro avevano conservato, anche negli anni della guerra fredda, una forte influenza sugli intellettuali, soprattutto in Italia e in Francia. Ma non mancarono i tentativi di innestare sulla base teorica del marxismo i risultati delle nuove scienze sociali. Significativa fu la fortuna incontrata in questo periodo da quel filone di pensiero, formatosi nella Germania di Weimar e poi trapiantato negli Stati Uniti dopo l'avvento del nazismo, che aveva il suo nucleo originario nella cosiddetta Scuola di Francoforte (Francoforte era stata la sede dell'Istituto per la ricerca sociale, fondato nel 1923 e diretto da Max Horkheimer) e che si era applicato fin dall'inizio all'analisi e alla critica della società di massa. Un successo tutto particolare, soprattutto fra i giovani, toccò, nella seconda metà degli anni '60, alle opere di Herbert Marcuse, seguace della Scuola di Francoforte emigrato negli Usa. Alla critica della società opulenta, del consumismo, dell'etica borghese del successo, Marcuse univa un giudizio pessimistico sulle capacità rivoluzionarie di una classe operaia ormai "integrata" nel sistema: le residue speranze di trasformazione erano affidate agli emarginati delle metropoli moderne e soprattutto ai popoli del

Terzo Mondo non ancora toccati dall'industrialismo. La critica alla società dei consumi si congiungeva così alla diffusione delle tendenze "terzomondiste" nel fornire una base teorica a quei fenomeni di diffuso ribellismo, soprattutto giovanile, che percorsero i paesi industrializzati nella seconda metà degli anni '60. 25.6. Contestazione giovanile e rivolta studentesca. Rifiuto giovanile e culture alternative, La protesta studentesca negli Usa, La rivolta dei neri e il "Black power", La diffusione del movimento, La contestazione in Germania, La rivolta del maggio '68 in Francia, L'eredità del '68. La contestazione nei confronti della società del benessere trovò la più larga eco proprio fra coloro che di quella società potevano considerarsi i figli: i giovani nati nei primi anni del dopoguerra. L'opposizione alla civiltà consumistica si espresse dapprima in forma di rifiuto delle convenzioni, di vera e propria fuga dalla società industrializzata (fu il caso delle comunità hippies, che si diffusero soprattutto negli Stati Uniti a partire dalla metà degli anni '60) e quindi nella creazione di una cultura alternativa, in cui confluivano pratica della nonviolenza e religiosità orientale (buddismo, induismo), consumo di droghe leggere e messaggi della nuova musica. In seguito la rivolta giovanile assunse forme più politicizzate e trovò i suoi centri propulsori nelle università, dove la scolarizzazione di massa aveva concentrato un ceto studentesco più numeroso e socialmente più articolato (anche se di estrazione in prevalenza borghese) di quanto non fosse mai stato in passato. Anche in questo caso il fenomeno prese l'avvio dagli Stati Uniti, dove la mobilitazione - iniziata con l'occupazione dell'Università di Berkeley, in California, nel 1964 - si intrecciò con la protesta contro la guerra del Vietnam [§26.4] e col movimento contro la segregazione razziale. Mentre la protesta studentesca ebbe un carattere prevalentemente pacifico e si espresse soprattutto in marce, dimostrazioni, sitin, la mobilitazione dei neri - in un primo tempo egemonizzata da leader non violenti come Martin Luther King - esplose fra il '65 e il '67 in una serie di aspre rivolte dei "ghetti" metropolitani, ispirate all'ideologia rivoluzionaria e separatista del Black power (potere nero). A partire dal '66-67 - e con un apice nel '68, "l'anno degli studenti" - la rivolta giovanile si estese ai maggiori paesi dell'Europa occidentale (e anche al Giappone), dove prese forme più radicali e ideologizzate, ispirandosi ora

alle correnti radicali del marxismo, ora a modelli "terzomondisti", ora all'esempio della "rivoluzione culturale" nella Cina di Mao Tsetung [§26.3]. Principali elementi unificatori del movimento furono la lotta contro l'autoritarismo, considerato un tratto distintivo delle società industriali avanzate, e la mobilitazione contro l""imperialismo" americano (in particolare contro l'intervento Usa in Vietnam). In Germania la rivolta studentesca si concentrò soprattutto contro le misure repressive del governo di "grande coalizione" [§26.6] e contro la grande stampa controllata dalla destra, dando vita a organizzazioni politiche che si definirono extraparlamentari. In Francia il coagulo fra i diversi movimenti di estrema sinistra - che cercavano di coniugare il tradizionale impegno rivoluzionario con nuove e più fantasiose forme di lotta antiautoritaria ("l'immaginazione al potere") diede luogo all'episodio più clamoroso di tutta la stagione delle rivolte studentesche: all'inizio di maggio del 1968, il quartiere latino di Parigi fu teatro di una prolungata e violenta guerriglia urbana che vide contrapposti studenti e forze di polizia e parve richiamare l'immagine delle insurrezioni cittadine ottocentesche. Il movimento riuscì a coinvolgere sindacati e partiti di sinistra, uniti nell'opposizione al regime di De Gaulle, che per un momento sembrò vacillare sotto l'urto di un'imponente ondata di scioperi. Ma il generale, mobilitando l'opinione pubblica moderata, ottenne un vistoso successo nelle elezioni del mese successivo e, con una riforma universitaria di segno efficientista, riuscì a indebolire le basi della rivolta studentesca, che infatti si esaurì rapidamente. In Italia invece il movimento, che era nato fra il '67 e il '68, ebbe - come vedremo più avanti - maggior durata e particolari caratteristiche. Al di là dei loro risultati politici, che furono nel complesso modesti, le rivolte del '68 lasciarono un segno profondo nella società occidentale: rinnovarono, seppure in modo effimero, il mito di una trasformazione rivoluzionaria della società; influenzarono i comportamenti individuali; crearono nuove forme di mobilitazione; diedero vita a un patrimonio di memorie e di tradizioni in cui molti giovani avrebbero continuato a riconoscersi anche negli anni successivi. 25.7. Il nuovo femminismo. Lavoro femminile e strutture familiari, Il nuovo femminismo: gli obiettivi e i metodi di lotta, Le conquiste legislative, Nuove tendenze del movimento delle donne.

Fra la seconda metà degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, in coincidenza con la generale ondata di contestazione che investì le strutture e i valori della società "borghese", si assisté a un rilancio, in forme nuove e più radicali, della questione femminile. Il problema della parità fra i sessi era stato sollevato, per opera dei primi gruppi femministi, già alla fine dell'800 e soprattutto all'inizio del '900. Le due guerre mondiali, che avevano visto le donne sostituire gli uomini in molte occupazioni tradizionalmente maschili e assumersi responsabilità crescenti in seno alla famiglia, avevano dato un'ulteriore spinta al processo di emancipazione. Dopo il secondo conflitto mondiale, esauritasi, con l'estensione generalizzata del voto alle donne, la battaglia per la conquista dei diritti politici, l'impegno del movimento femminista si rivolse innanzitutto alla rivendicazione di un trattamento egualitario per il lavoro femminile. Una richiesta che, al di là dei suoi aspetti puramente economici, chiamava in causa il problema più generale della condizione delle donne nella società e metteva implicitamente in discussione gli equilibri e i ruoli interni alla struttura familiare tradizionale. Questa problematica fu al centro della nuova ondata femminista che ebbe origine negli Stati Uniti alla metà degli anni '60 e trovò i suoi testi fondamentali negli scritti di militanti come Betty Friedan e Kate Millet. La nuova corrente segnò una svolta netta, rispetto alla fase precedente, sia per la radicalità degli obiettivi (che implicavano una politicizzazione del privato, ossia il riconoscimento della rilevanza politica di ciò che avviene nella sfera dei rapporti personali e familiari), sia per la novità dei metodi di lotta: la contestazione di tutti i modelli culturali legati al "maschilismo", l'esaltazione dei valori tipicamente femminili ("donna è bello"), l'affermazione del separatismo rispetto agli uomini, l'autonomia da ogni gruppo politico, il rifiuto dell'organizzazione tradizionale (vista come imposizione di una gerarchia tipica del mondo maschile) e l'adozione del collettivo femminista come principale forma di aggregazione e di militanza. Le lotte del nuovo femminismo erano tese, da un lato, al conseguimento di misure legislative per il miglioramento della condizione delle donne (legalizzazione dell'aborto volontario, riforma del diritto di famiglia, accesso alle nuove professioni); dall'altro, alla critica del modello femminile proposto sia dalla cultura tradizionale sia da quella dei mass media (soprattutto dalla pubblicità). Nel corso degli anni 70, il movimento delle donne allargò il suo seguito in tutti i paesi dell'Occidente industrializzato, ma anche conobbe alcune fratture interne. Da una parte c'era la ricerca della parità con l'uomo, da raggiungersi attraverso la progressiva riduzione delle differenze nel comportamento quotidiano, soprattutto all'interno della struttura familiare

(tipica di questa corrente è la discussione del ruolo tradizionale di madre e la rivalutazione di quello del padre, fin dalla nascita del bambino). Dall'altra parte c'era la rivendicazione della specificità femminile, attraverso la rivalutazione di quelli che da sempre erano considerati i tratti tipici delle donne: la spontaneità, la dolcezza, la capacità di vivere i sentimenti, la conoscenza dei problemi emotivi. A partire dalla fine degli anni '70, l'ondata di ribellione femminista entrò in una fase di ripiegamento. Ma i suoi effetti di ripensamento e di trasformazione del ruolo della donna sono tuttora largamente operanti. 25.8. La Chiesa cattolica e il Concilio Vaticano II. La Chiesa e la società del benessere, Giovanni XXIII, Le encicliche di Giovanni XXIII, Il Concilio Vaticano II, La riforma della Chiesa, Il dissenso cattolico. Come la società borghese, laica e positivista di metà '800, anche la società opulenta e consumista sviluppatasi dopo il secondo conflitto mondiale trovò un critico severo e un avversario tenace nella Chiesa di Roma. I cattolici costituivano ancora, negli anni '60, la più numerosa fra le comunità religiose, con oltre 500 milioni di fedeli sparsi in tutto il mondo. Ma non potevano non guardare con preoccupazione al progressivo declino delle pratiche religiose tradizionali nelle aree industrializzate, all'affermarsi di mentalità e valori tipicamente materialisti, al diffondersi di comportamenti e di costumi (soprattutto in materia di rapporti sessuali e di contraccezione) contrari agli insegnamenti della Chiesa. Questa volta però la reazione non si espresse, come un secolo prima, in un arroccamento dottrinario, in una chiusura quasi totale alle novità del mondo esterno, ma sfociò in un tentativo di rinnovamento interno, accompagnato da una maggiore attenzione alla mutata realtà sociale e internazionale. Il nuovo corso ebbe inizio col pontificato di Giovanni XXIII, salito al soglio nel 1958 dopo la morte di Pio XII. Diversamente dal suo predecessore - che aveva legato il suo pontificato alla riaffermazione dei dogmi tradizionali, alla lotta frontale contro il comunismo e anche a un'accentuata ingerenza nella politica italiana - il nuovo papa, che pure non era affatto un innovatore in materia dottrinaria, cercò di rilanciare il ruolo ecumenico della Chiesa e di instaurare un dialogo con le realtà esterne, o addirittura ostili, al mondo cattolico. In questo fu favorito sia dal suo indubbio carisma personale (legato alla sua immagine bonaria e rassicurante e alla sua stessa origine contadina), sia dalla congiuntura internazionale di

quegli anni: gli anni di Kruscev e Kennedy e della distensione fra le due superpotenze. La svolta impressa alla politica vaticana da Giovanni XXIII fu sancita in due celebri encicliche. Nella prima, la Mater et magistra del '61, il papa si richiamava alla Rerum novarum di Leone XIII per rilanciare il filone sociale del pensiero cattolico, per condannare l'egoismo dei ceti privilegiati e dei paesi ricchi, per incoraggiare, pur nella persistente condanna delle ideologie e dei regimi socialisti, il riformismo politico ed economico. La seconda enciclica, la Pacem in terris del '63, era invece dedicata soprattutto ai rapporti internazionali e conteneva, oltre a un appello al negoziato fra le potenze e alla cooperazione fra i popoli, e a una significativa apertura verso i paesi di nuova indipendenza, anche una proposta di dialogo con le religioni non cattoliche e con gli stessi non credenti. Ma l'atto più importante del pontificato giovanneo fu la convocazione di un Concilio ecumenico, il Vaticano II, a quasi cent'anni di distanza dal precedente (il Vaticano I del 1870) che aveva segnato il momento di più rigida chiusura e di più grave isolamento della Chiesa di Roma. Apertosi nell'ottobre 1962, pochi mesi prima della morte di Giovanni XXIII, il Concilio si prolungò per oltre tre anni (fino al dicembre '65) sotto il pontificato di Paolo VI, che continuò e consolidò, sia pure con uno stile più cauto e più "diplomatico", la svolta avviata dal suo predecessore. Dal Concilio la Chiesa uscì riformata, anche se non radicalmente trasformata, sia nell'organizzazione interna (per il maggior peso assunto dal collegio dei vescovi rispetto al papa e alla Curia romana), sia nella liturgia (l'innovazione più importante fu l'introduzione della messa in volgare, per consentire una maggior partecipazione dei fedeli al rito). Sul piano strettamente dottrinario, non vi furono novità di grande rilievo. Ma fu ribadita l'importanza delle Sacre Scritture come fonti prime della rivelazione e fu affermata la necessità del dialogo con le altre religioni e in particolare con le altre chiese cristiane (presenti al Concilio con loro osservatori), in vista di una possibile futura riunificazione della cristianità. I nuovi fermenti introdotti nella Chiesa dal Concilio - e prima ancora dalle encicliche di Giovanni XXIII - suscitarono in molti paesi nuove correnti e nuovi movimenti che, andando spesso al di là delle indicazioni della gerarchia ecclesiastica, cercarono di coniugare il messaggio cattolico con un più accentuato impegno nelle lotte sociali, approdando in molti casi a posizioni apertamente rivoluzionarie. Gruppi di cattolici del dissenso si formarono in Italia e in Francia alla fine degli anni '60; e spesso andarono a confluire nei partiti di sinistra o nelle file dei movimenti nati dalle lotte studentesche del '68. In America Latina, la partecipazione di sacerdoti e

gruppi cattolici alla lotta contro le dittature e le oligarchie conservatrici fu addirittura all'origine di una nuova teologia la "teologia della liberazione"), che reinterpretava il messaggio cristiano e le stesse Scritture nel quadro di una concezione marxista della storia. Questa teologia fu ufficialmente condannata dalla Chiesa, ma conservò una certa influenza su una parte del clero latinoamericano, anche dopo il generale riflusso del dissenso cattolico in Europa. Sommario Negli anni '50 e '60 l'economia dei paesi industrializzati attraversò una fase di intenso sviluppo, che ebbe tra le sue cause: crescita della popolazione (da cui un aumento della domanda); innovazione tecnologica e razionalizzazione produttiva; espansione del commercio mondiale; politiche statali in sostegno della crescita. L'applicazione delle scoperte scientifiche alla produzione divenne velocissima, nel campo della chimica si svilupparono le materie plastiche e le fibre sintetiche. In medicina c'è da segnalare la produzione di nuovi farmaci (antibiotici, ormoni, psicofarmaci, anticoncezionali, ecc.) e i grandi progressi della chirurgia. Le conseguenze dello sviluppo tecnologico si fecero sentire in modo decisivo nel campo dei trasporti (motorizzazione privata, sviluppo dell'aviazione civile), contribuendo a modificare radicalmente le abitudini di vita. Nel 1957, col lancio del primo satellite artificiale sovietico, iniziava la conquista dello spazio (del '69 è il primo sbarco dell'uomo sulla Luna), che avrebbe determinato una "ricaduta" di tecnologia in tutti i settori produttivi. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (anzitutto della televisione) ha rappresentato, tra i prodotti dello sviluppo tecnologico, quello che più di ogni altro ha condizionato la vita quotidiana e i modelli di comportamento delle società industrializzate (e in parte anche di quelle meno sviluppate). Una caratteristica dei decenni del dopoguerra è il forte aumento della popolazione, concentrato però soprattutto nel Terzo Mondo, dove al calo della mortalità si è accompagnato un tasso di natalità notevolmente elevato. Nei paesi industrializzati l'aumento demografico è stato invece molto contenuto e in alcuni di essi si è giunti ormai alla "crescita zero" della popolazione. La notevole espansione dei consumi "superflui" è ormai caratteristica fondamentale delle società avanzate, ove ha suscitato fenomeni estesi di

rifiuto ideologico, nonché di critica da parte di alcune correnti intellettuali (anzitutto quella che si richiama alla "Scuola di Francoforte"). Alla fine degli anni '60 si verificò un'esplosione della protesta giovanile contro la "società del benessere": protesta iniziata negli Stati Uniti e poi diffusasi nell'Europa occidentale e in Giappone. L'episodio più clamoroso della contestazione studentesca fu la rivolta parigina del maggio '68. La fase della ribellione giovanile lasciò un segno profondo nelle società occidentali, soprattutto nel campo dei valori e dei modelli di comportamento. Negli stessi anni si sviluppava un nuovo femminismo che - raggiunta ormai la parità tra i sessi sul piano dei diritti politici - criticava la divisione dei ruoli tra uomo e donna nella famiglia e nel lavoro, e più in generale rifiutava i valori "maschilisti" dominanti nelle società industrializzate. Di fronte alla nuova realtà della società del benessere, la Chiesa cattolica pur ribadendo la sua critica al diffondersi di valori materialistici e di comportamenti contrari alle sue dottrine - tentò un proprio rinnovamento interno e un'apertura ai problemi del mondo contemporaneo. Tale nuovo corso iniziò col pontificato di Giovanni XXIII (1958-63) e proseguì con il Concilio Vaticano II. Bibliografia Per gli aspetti economici e sociali: il vol. VI, / nostri anni. Dal 1947 a oggi, della Storia economica e sociale del mondo, a e. di P. Leon, Laterza, RomaBari 1979; J. K. Galbraith, La società opulenta, Comunità, Milano 1963; Id., Il nuovo Stato industriale, Einaudi, Torino 1968, e cfr. anche il volume di EJ. Hobsbawm, Il secolo breve, cit. al cap. 17. Sui mass media e le comunicazioni di massa: V. Packard, I persuasori occulti, Einaudi, Torino 1958; U. Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teoria della cultura di massa, Bompiani, Milano 1964; M. Me Luhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1971. Su alcuni aspetti della mentalità e del costume del nostro tempo, vedi i saggi di autori vari raccolti in: P. Ariès G. Duby, La vita privata. Il Novecento, Laterza, RomaBari 1988. Sulla contestazione giovanile: M. Teodori, Storia delle nuove sinistre in Europa (1956-1976), Il Mulino, Bologna 1976; P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988. Sul femminismo: S. Rowbotham, Esclusa dalla storia, Editori Riuniti, Roma 1977. Sulle trasformazioni della Chiesa: G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto Chiesasocietà nell'era contemporanea,

Marietti, Genova 1985; G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea, Laterza, RomaBari 1988. 26. Distensione e confronto. 26.1. Mito e realtà degli anni '60. Un decennio felice? L'equilibrio del terrore. Nei paesi occidentali, gli anni '60 sono spesso ricordati come un decennio felice, come un periodo di grande sviluppo economico e civile e di ancor più grandi speranze. Quest'immagine un po'"convenzionale che, come sempre accade in questi casi, trae forza dal confronto col periodo successivo, segnato dalla crisi di molte antiche certezze e da un diffuso pessimismo - è legata soprattutto alla notevole prosperità di cui l'Occidente industrializzato godette in quegli anni: anni che - come abbiamo visto nel capitolo precedente - segnarono il trionfo della "civiltà del benessere". Sia sul piano degli equilibri internazionali sia su quello degli equilibri interni alle società industrializzate, il periodo che va dalla fine degli anni '50 ai primi anni 70 offre però un quadro abbastanza agitato e per molti versi contraddittorio. Lo sviluppo economico non spense i conflitti politici e sociali, anzi in qualche caso li acuì (lo abbiamo visto a proposito dei movimenti studenteschi); e la diffusione di più elevati livelli di benessere si accompagnò spesso al rilancio delle ideologie rivoluzionarie. La coesistenza fra i due blocchi politicomilitari in cui era diviso il mondo si confermò e si consolidò, ma ciò avvenne attraverso momenti di duro scontro diplomatico e di confronto anche drammatico. La coesistenza si basava inoltre, più che sulla fiducia reciproca, sul sostanziale equilibrio fra gli armamenti nucleari in possesso dei due blocchi e sulla consapevolezza dell'una e dell'altra parte di non poter prevalere sull'avversario se non mettendo a repentaglio la sopravvivenza propria e dell'intera umanità. Dunque, un equilibrio del terrore che, se evitò lo scoppio di un nuovo conflitto generale e assicurò all'Europa molti decenni d: pace, non impedì né il manifestarsi di tensioni all'interno dei due blocchi, né lo scatenarsi di conflitti locali nelle numerose aree calde del mondo: in particolare il Medio Oriente e il SudEst asiatico. 26.2. Kennedy e Kruscev: la crisi dei missili e la distensione.

Kennedy e la "nuova frontiera", Il confronto con l'Urss e il muro di Berlino, Il conflitto con Cuba e lo sbarco alla Baia dei porci, La crisi dei missili, La distensione, La sfida pacifica di Kruscev, La caduta di Kruscev, L'uccisione di Kennedy, La presidenza Johnson. Nel novembre 1960, scaduto il secondo mandato di Eisenhower, il candidato democratico John Fitzgerald Kennedy salì alla presidenza degli Stati Uniti. Proveniente da una ricca famiglia di origine irlandese, Kennedy fu, a 44 anni, il più giovane presidente americano e fu anche il primo cattolico a entrare alla Casa Bianca. Assistito da un nutrito gruppo di intellettuali, Kennedy suscitò immediatamente ampi consensi attorno alla sua persona, riallacciandosi, già nel suo discorso di insediamento, alla tradizione progressista di Wilson e Roosevelt e aggiornandola col riferimento a una nuova frontiera, una frontiera non più materiale, come quella dei pionieri dell'800, ma spirituale, culturale e scientifica: Al di là di questa frontiera si estendono i domini inesplorati della scienza e dello spazio, dei problemi irrisolti della pace e della guerra, delle sacche di ignoranza e di pregiudizi non ancora debellate. In politica interna, lo slancio riformatore kennediano si tradusse in un forte incremento della spesa pubblica, assorbito in parte dai programmi sociali, in parte maggiore dalle esplorazioni spaziali; ma anche nel tentativo, non sempre riuscito, di imporre l'integrazione razziale in quegli Stati del Sud che ancora praticavano forme di discriminazione nei confronti dei neri. In politica estera, la presidenza Kennedy fu caratterizzata da una linea ambivalente, in cui l'enfasi posta sui temi della pace e della distensione con l'Est si univa a una sostanziale intransigenza sulle questioni ritenute essenziali e a una difesa, anche spregiudicata, degli interessi americani nel mondo. Il primo incontro fra Kennedy e Kruscev, avvenuto a Vienna nel giugno '61 e dedicato al problema di Berlino Ovest (che gli americani consideravano parte della Germania federale, mentre i sovietici avrebbero voluto trasformarla in "città libera"), si risolse in un fallimento. Gli Stati Uniti riaffermarono il loro impegno in difesa di Berlino Ovest. I sovietici risposero innalzando un muro che separava le due parti della città e rendeva pressoché impossibili le fughe, fin allora molto frequenti, dall'uno all'altro settore. Il muro di Berlino sarebbe diventato da allora il simbolo più visibile della divisione della Germania (e dell'Europa e del mondo) secondo le linee già segnate dalla guerra fredda. Ma in questo periodo il confronto più drammatico fra le due superpotenze ebbe per teatro l'America Latina. All'inizio della sua presidenza, Kennedy

tentò di soffocare il regime socialista a Cuba, sia boicottandolo economicamente, sia appoggiando i gruppi di esuli anticastristi che tentarono, nel 1961, una spedizione armata nell'isola. Lo sbarco, che ebbe luogo in una località chiamata Baia dei porci e che, nei progetti americani, avrebbe dovuto suscitare un'insurrezione contro Castro, si risolse però in un totale fallimento e in un gravissimo scacco per l'amministrazione Kennedy. Nella tensione così creatasi si inserì l'Unione Sovietica che non solo offrì ai cubani assistenza economica e militare, ma iniziò l'installazione nell'isola di alcune basi di lancio per missili nucleari. Quando, nell'ottobre 1962, le basi furono scoperte da aereispia americani, Kennedy ordinò un blocco navale attorno a Cuba per impedire alle navi sovietiche di raggiungere l'isola. Per sei drammatici giorni (16-21 ottobre) il mondo fu vicino a un conflitto generale. Ma alla fine Kruscev cedette e acconsentì a smantellare le basi missilistiche in cambio dell'impegno americano ad astenersi da azioni militari contro Cuba. Il compromesso sulla questione di Cuba, che segnava un netto rafforzamento della posizione degli Usa e del prestigio personale di Kennedy, aprì comunque la strada a una nuova fase di distensione. Nel 1963 Stati Uniti e Unione Sovietica firmarono un trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell'atmosfera (continuarono invece quelli sotterranei, meno pericolosi per l'equilibrio ambientale), al quale però non aderirono Cina e Francia, entrambe impegnate nella sperimentazione di un proprio armamento atomico. Nello stesso periodo Usa e Urss si accordarono per l'installazione di una linea diretta di telescriventi (la linea rossa) fra la Casa Bianca e il Cremlino, che serviva a scongiurare il pericolo di una guerra "per errore". Kruscev accentuò in questi anni il tono pacifista dei suoi interventi e interpretò il confronto fra i blocchi soprattutto in chiave di competizione economica fra i due sistemi: la "vittoria" sarebbe andata a quello capace di assicurare al popolo il più alto grado di benessere e di giustizia sociale. La sfida lanciata all'Occidente da Kruscev - che giunse a promettere ai cittadini dell'Urss il raggiungimento, entro vent'anni, di un livello di vita superiore a quello dei paesi capitalistici più sviluppati - era quanto meno velleitaria. E questo eccesso di ottimismo, destinato di lì a poco a essere smentito dall'andamento tutt'altro che brillante dell'economia sovietica, non fu estraneo all'improvvisa caduta di Kruscev che, nell'ottobre 1964, fu estromesso da tutte le sue cariche. Un anno prima era scomparso tragicamente l'altro protagonista della scena internazionale dei primi anni '60. Il 22 novembre 1963, Kennedy fu ucciso a Dallas, nel Texas, in un attentato di cui non si giunse mai a scoprire

i mandanti: il primo di una serie di misteriosi omicidi politici (nel '68 furono uccisi Robert Kennedy, fratello di John e probabile candidato democratico alla presidenza, e il pastore negro Martin Luther King, leader del movimento antisegregazionista), che contribuirono a imprimere un segno di inquietante violenza su tutta una fase della storia degli Usa. A Kennedy subentrò - e fu poi rieletto nel '64 - il vicepresidente Lyndon Johnson, un esperto uomo politico di formazione rooseveltiana, che ebbe il merito di tradurre in atto e di ampliare molti progetti di legislazione sociale (assistenza medica, sussidi ai poveri, ecc.) avviati in epoca kennediana e di imprimere una spinta decisiva all'integrazione razziale nel Sud. Johnson finì però, come vedremo più avanti, col legare il suo nome soprattutto all'impopolare e sfortunato impegno americano nella guerra del Vietnam. 26.3. La Cina di Mao: il contrasto con l'Urss e la "rivoluzione culturale". I contrasti fra Cina e Urss, I problemi della Cina comunista, Il "grande balzo in avanti" e le comuni popolari, La rottura con l'Urss, Le divisioni interne dei comunisti cinesi, La "rivoluzione culturale", La fine della "rivoluzione culturale", Chou Enlai e la svolta in politica estera. Tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60, parallelamente allo stabilirsi di una sia pur precaria coesistenza fra Usa e Urss, si venne delineando un contrasto sempre più grave fra le due maggiori potenze comuniste: Unione Sovietica e Cina. All'origine della rottura c'era un intreccio di rivalità statuali e di divergenze politicoideologiche che investivano sia le strategie internazionali sia le grandi scelte di politica interna. Mentre l'Urss si proponeva come garante di un ordine mondiale "bipolare", la Cina di Mao Tsetung tendeva a contestare lo status quo internazionale, ad appoggiare la causa dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, a porsi come guida dei paesi in via di sviluppo in lotta contro l'imperialismo. Mentre l'Urss intendeva mantener fermo il suo ruolo di Statoguida e di unica superpotenza del campo socialista, la Cina rivendicava maggior peso sulla scena internazionale e maggior voce in capitolo sulle questioni di interesse comune. Mentre in Urss la destalinizzazione diede luogo a una sia pur timida apertura in senso "liberale", in Cina si assisté nello stesso periodo a una accentuazione dei tratti radicali e collettivistici del regime nato dalla rivoluzione del '49. Trovatisi a governare un paese immenso e sovrappopolato, economicamente arretrato e devastato da decenni di guerre, i comunisti

cinesi avevano dovuto sostenere un compito non meno difficile di quello affrontato nel '17 dai bolscevichi russi (rispetto ai quali avevano però il vantaggio di una più ampia base di consenso e di una concreta esperienza di governo locale). Nel corso degli anni '50 la Cina comunista aveva progressivamente nazionalizzato i settori industriale e commerciale e aveva compiuto uno sforzo notevole per dotarsi di una propria industria pesante, giovandosi dell'aiuto di numerosi tecnici sovietici. Nello stesso tempo aveva proceduto risolutamente alla collettivizzazione dell'agricoltura (dove erano occupati oltre tre quarti della popolazione), pur discostandosi dall'esperienza della Russia staliniana per un maggior rispetto dei caratteri rurali della società. Il regime comunista aveva dapprima, con la riforma agraria del 1950, redistribuito le terre fra i contadini, creando così una miriade di piccole aziende agricole. Quindi aveva incoraggiato, poi obbligato, le famiglie contadine a riunirsi in cooperative, di fatto controllate dalle autorità statali. Mentre nel settore industriale si era ottenuta, partendo quasi da zero, una crescita molto rapida (con ritmi di poco inferiori al 20% annuo), molto meno soddisfacenti erano stati i risultati nel settore agricolo, sul quale incombeva l'onere di sfamare una popolazione in continuo aumento (oltre mezzo miliardo nel '49, quasi 600 milioni cinque anni dopo). Per promuovere in tempi brevi un rilancio della produzione agricola, la dirigenza comunista varò, nel maggio 1958, una nuova strategia che fu definita del grande balzo in avanti e che avrebbe dovuto realizzarsi grazie a una generale razionalizzazione produttiva, ma soprattutto in virtù di un gigantesco sforzo di volontà collettivo. Le cooperative furono forzatamente riunite in unità più grandi, le comuni popolari, ciascuna delle quali doveva tendere all'autosufficienza economica, producendo in proprio quanto le era necessario (dunque anche le macchine e, in qualche caso, persino l'acciaio). L'intera popolazione fu sottoposta a un controllo sempre più stretto, anche nella sfera della vita privata, e mobilitata con una martellante campagna propagandistica, in una atmosfera simile a quella dei piani quinquennali sovietici. L'esperimento si risolse però in un colossale fallimento: la produzione agricola crollò, provocando una spaventosa carestia e costringendo la Cina a massicce importazioni di cereali. Un'altra conseguenza gravissima fu quella di far precipitare il contrasto con l'Urss. Già in aperta polemica con i cinesi sui temi della coesistenza pacifica e dei rapporti fra i partiti comunisti, i sovietici criticarono aspramente la linea del "grande balzo in avanti" e, fra il '59 e il '60, richiamarono i loro tecnici, infliggendo un duro colpo alla già provata economia cinese. Contemporaneamente, l'Urss rifiutò di fornire

qualsiasi assistenza nel campo nucleare (il che non avrebbe impedito alla Cina di far esplodere, nel '64, la sua prima bomba atomica). Da allora la rottura fra le due potenze comuniste divenne sempre più esplicita. I sovietici accusarono i cinesi di "avventurismo" e di "settarismo", cercando, senza però riuscirvi, di ottenere una solenne condanna del maoismo da parte dell'intero movimento comunista internazionale. I cinesi replicarono con accuse di revisionismo, di acquiescenza all'imperialismo (giudicato invece da Mao come una "tigre di carta", ossia uno spauracchio da cui non bisognava farsi intimidire); e, in un crescendo di scambi polemici, giunsero a definire i dirigenti sovietici "nuovi zar" e a rimettere in discussione i confini fra Cina e Russia definiti nell'800. Nel 1969 la tensione sarebbe sfociata addirittura in episodici scontri armati ungo il fiume Ussuri, ai confini fra la Siberia e la Manciuria. Il fallimento del "grande balzo in avanti" ebbe contraccolpi anche sul piano interno, dando spazio alle componenti più "moderate" e meno antisovietiche del gruppo dirigente comunista (rappresentate soprattutto dal presidente della Repubblica Liu Shaochi). Non disponendo di un controllo dell'apparato tale da consentirgli una rapida epurazione dei "moderati", Mao ricorse a una forma di lotta inedita in un regime comunista: avvalendosi del sostegno dell'esercito, controllato dal ministro della Difesa Lin Piao, mobilitò contro i suoi avversari le generazioni più giovani, esortandole a ribellarsi contro i dirigenti sospettati di percorrere la "via capitalistica". La mobilitazione culminò, fra il '66 e il '68, nella cosiddetta rivoluzione culturale: una rivolta giovanile apparentemente spontanea, ma in realtà orchestrata dall'alto, che, richiamandosi all""autentico" pensiero di Mao, contestava ogni potere burocratico e ogni autorità basata sulla competenza tecnica. Nelle scuole e nei luoghi di lavoro, nel partito e negli organi di governo locale, gruppi di giovani guardie rosse, in maggioranza studenti, mettevano sotto accusa insegnanti e dirigenti politici, intellettuali e artisti: molti di questi furono internati in "campi di rieducazione" e sottoposti a torture fisiche e psicologiche, alle quali spesso non sopravvissero. L'intento era quello di provocare, in virtù dell'iniziativa di massa, un radicale mutamento nella cultura e nella mentalità collettiva (di qui il nome di "rivoluzione culturale") e di superare in questo modo tutti gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione del comunismo. Anche in paesi molto lontani dalla Cina, soprattutto in Europa occidentale, si formarono gruppi e movimenti giovanili ispirati all'esempio delle guardie rosse e al pensiero di Mao. Ma la rivoluzione culturale si esaurì nel giro di due o tre anni: quanti furono necessari per eliminare dai posti di responsabilità i dirigenti contrari alla linea maoista, a cominciare da Liu Shaochi, che morì per i

maltrattamenti subiti in prigionia. A partire dal '68, lo stesso Mao Tsetung cominciò a porre un freno al movimento da lui suscitato, che - al di là dei suoi pesantissimi costi umani (almeno un milione di morti secondo stime recenti) - stava provocando profonde spaccature nella base comunista (soprattutto fra studenti e operai) e rischiava di gettare nel caos l'economia. Le guardie rosse furono allontanate dalle città. I leader più radicali furono emarginati, mentre riacquistarono peso tecnici ed esperti. Un ruolo importante in questa fase fu svolto da Chou Enlai, il più autorevole dopo Mao fra i capi comunisti cinesi, che ricoprì ininterrottamente dal 1949 la carica di primo ministro e che rappresentò, anche negli anni più agitati, la continuità del potere istituzionale. Fu Chou Enlai ad avviare, all'inizio degli anni 70, una linea di normalizzazione anche in campo internazionale, resa necessaria dall'isolamento economico e diplomatico in cui il paese si trovava. Dal momento che i rapporti con l'Urss restavano pessimi, la nuova linea si tradusse in una clamorosa apertura agli Stati Uniti, sancita, nell'estate 72, da un viaggio del presidente americano Nixon a Pechino e dall'ammissione all'Onu della Cina comunista (che prese il posto occupato fin allora dalla Repubblica "nazionalista" di Chang Kaishek). Nell'autunno 1971 il maresciallo Lin Piao, protagonista della rivoluzione culturale e delfino designato di Mao, scomparve in un incidente aereo e fu successivamente accusato di aver tentato di fuggire in Urss dopo un fallito complotto antimaoista. Con questo misterioso episodio, il periodo della rivoluzione culturale si chiudeva definitivamente. Cominciava una fase di transizione destinata a sfociare, dopo la morte di Mao e di Chou Enlai (1976), in un radicale mutamento di rotta anche sul piano interno. 26.4. La guerra del Vietnam. I due Vietnam, L'intervento militare americano, La protesta contro la guerra, L'offensiva vietcong del '68, L'armistizio di Parigi, La vittoria dei comunisti in Indocina. La guerra che si combatté per oltre dieci anni - fra il '64 e il '75 - nel Vietnam rappresentò uno degli strascichi più drammatici del processo di decolonizzazione, ma anche uno dei momenti di scontro più acuto fra gli Stati Uniti, coinvolti direttamente nel conflitto, e il mondo comunista, allora diviso dallo scisma russocinese ma unito nel sostegno, in armi e aiuti economici, alle forze "antiimperialiste".

Gli accordi di Ginevra del '54 [§23.2] avevano diviso il Vietnam in due repubbliche: quella del Nord era retta dai comunisti di Ho Chiminh (protagonisti della lotta per l'indipendenza); quella del Sud era governata dal regime semidittatoriale del cattolico Ngo Dinh Diem, appoggiato dagli americani che cercavano di sostituire la loro influenza a quella francese. Contro il governo del Sud, inviso alla maggioranza buddista della popolazione, si sviluppò un movimento di guerriglia (il Vietcong) guidato dai comunisti e sostenuto dallo Stato nordvietnamita. Preoccupati dalla prospettiva di un'Indocina comunista, gli Stati Uniti inviarono nel Vietnam del Sud un contingente di "consiglieri militari" che, durante la presidenza Kennedy, si ingrossò fino a raggiungere la consistenza di 30.000 uomini. Sotto la presidenza Johnson, la presenza Usa in Vietnam compì un vero salto qualitativo, trasformandosi in aperto intervento bellico. A partire dall'estate del '64, il corpo di spedizione americano fu continuamente rinforzato, fino a contare, nel '67-68, oltre mezzo milione di uomini. Nel febbraio '65, senza che vi fosse stata una dichiarazione di guerra, ebbe inizio una serie di violenti bombardamenti contro il territorio del Vietnam del Nord. La continua dilatazione dell'impegno militare americano (l'escalation, ossia intensificazione progressiva, come fu definita negli Stati Uniti) non fu però sufficiente a domare la lotta dei vietcong, che godevano di vasti appoggi fra le masse contadine; né a piegare la resistenza della Repubblica nordvietnamita che, aiutata da Russia e Cina, continuò ad alimentare la guerriglia con armi e uomini. Di fronte a un nemico inafferrabile, che evitava lo scontro in campo aperto ma si muoveva fra la popolazione "come un pesce nell'acqua" (secondo una celebre espressione di Mao Tsetung), l'esercito statunitense entrò in una profonda crisi, originata non solo da fattori tecnici (le difficoltà di un esercito moderno, addestrato alla guerra meccanizzata, nell'affrontare una guerriglia partigiana), ma anche da un crescente disagio morale. Negli Stati Uniti, infatti, il conflitto vietnamita - le cui immagini venivano quotidianamente diffuse dalla televisione e le cui vicende erano oggetto di un continuo e acceso dibattito - apparve a larghi settori dell'opinione pubblica come una guerra fondamentalmente ingiusta (una "sporca guerra"), contraria alle tradizioni della democrazia americana; e i suoi costi, economici e soprattutto umani, furono sempre più sentiti come insostenibili. Vi furono imponenti manifestazioni di protesta (che spesso si intrecciavano con la mobilitazione dei neri sulla questione razziale) e molti giovani in età di leva rifiutarono di indossare la divisa. Anche fuori dagli Usa le ripercussioni del conflitto furono vastissime. Ai movimenti rivoluzionari di tutto il mondo i successi del Vietcong apparvero come la prova del fatto che

la più potente macchina militare esistente poteva essere tenuta in scacco da una guerra di popolo. Tutta l'opinione pubblica di sinistra, soprattutto in Europa occidentale, si mobilitò in favore del popolo vietnamita. E ciò contribuì ad accrescere l'isolamento della presidenza americana. La svolta della guerra si ebbe all'inizio del '68, quando i vietcong lanciarono contro le principali città del Sud una grande offensiva (l'offensiva del Tet, ossia il Capodanno buddista), che, pur non ottenendo risultati decisivi sul piano militare, mostrò tutta la vitalità della guerriglia proprio nel momento del massimo impegno militare americano. Nel marzo 1968 Johnson decise la sospensione dei bombardamenti sul Nord e annunciò contemporaneamente la sua intenzione di non ripresentarsi alle elezioni di quell'anno. Il successore di Johnson, il repubblicano Richard Nixon, avviò negoziati ufficiali con il Vietnam del Nord e con il governo rivoluzionario provvisorio, espressione politica dei Vietcong, e ridusse progressivamente l'impegno militare americano. Ma nel contempo cercò, senza molta fortuna, di potenziare l'esercito sudvietnamita e allargò le operazioni belliche agli Stati confinanti, il Laos e la Cambogia - dove pure erano attivi movimenti di guerriglia comunisti -, nel tentativo di tagliare ai vietcong le vie di rifornimento. Solo nel gennaio 1973, americani e nordvietnamiti firmarono a Parigi un armistizio, che prevedeva il graduale ritiro delle forze statunitensi. Dopo il ritiro americano, la guerra continuò per oltre due anni: fino a che, il 30 aprile 1975, i vietcong e le truppe nordvietnamite entrarono a Saigon, capitale del Sud, mentre i membri del governo, assieme agli ultimi consiglieri e al personale dell'ambasciata Usa, abbandonavano precipitosamente la città. Pochi giorni prima, i guerriglieri comunisti (khmer rossi) avevano conquistato Phnom Penh, capitale della Cambogia, cacciandone il governo filoamericano del generale Lon Nol. Tre mesi dopo (agosto 75) era il Laos a cadere nelle mani dei partigiani del Pathet Lao. Tutta l'Indocina era così diventata comunista. Gli Stati Uniti, che avevano sacrificato uomini, risorse economiche e stabilità interna proprio per impedire questo esito, dovettero registrare la prima grave sconfitta di tutta la loro storia. La guerra del Vietnam (cartina p.534). 26.5. L'Urss e l'Europa orientale: la crisi cecoslovacca. Da Kruscev a Breznev, Repressione e riforme economiche, La dissidenza rumena, La primavera di Praga, L'intervento sovietico, La normalizzazione, Le ripercussioni internazionali, La crisi polacca del 70.

Dopo l'allontanamento di Kruscev, così com'era accaduto dopo la morte di Stalin, l'Unione Sovietica fu retta da una direzione collegiale formata da ex collaboratori del leader rimosso: Leonid Breznev, che divenne segretario del Pcus, AleksejKossighin, che assunse la guida del governo, e Michail Suslov, che rappresentò la massima autorità in campo ideologico. Anche questa volta fu il segretario del partito a emergere sugli altri dirigenti e ad affermarsi come il leader indiscusso del paese. Il nuovo gruppo dirigente mutò profondamente lo stile della politica krusceviana (meno iniziative clamorose, meno dichiarazioni ottimistiche, minore enfasi sulla destalinizzazione), ma ne lasciò invariata la sostanza. Si accentuò, pur senza mai raggiungere i livelli di brutalità dell'era staliniana, la repressione di ogni forma di dissenso, che colpì soprattutto gli intellettuali. In economia, fu varata una riforma che accordava alle imprese più ampi margini di autonomia, compensati però da un più stretto controllo del potere centrale sui singoli settori produttivi. I risultati non furono brillanti e l'Urss vide in questo periodo accentuarsi il suo distacco rispetto ai paesi occidentali. In politica estera, non vi fu alcun miglioramento dei rapporti con la Cina. La linea della coesistenza con l'Occidente non fu mai messa in discussione, ma si accompagnò a una più decisa politica di riarmo che assorbì quote crescenti del bilancio, a scapito del tenore di vita dei cittadini. Non si verificarono sostanziali mutamenti nemmeno nei rapporti con i paesi dell'Europa orientale. Solo la Romania, sotto la guida di Nicolae Ceausescu, riuscì a conquistare una certa autonomia, sia sul piano delle scelte economiche sia su quello della politica internazionale. I dirigenti sovietici tollerarono la dissidenza rumena, che peraltro non metteva in discussione le strutture interne del regime. Ma si mostrarono intransigenti nei confronti del più ampio e interessante esperimento di liberalizzazione mai tentato fin allora in un paese del blocco sovietico: quello avviato in Cecoslovacchia all'inizio del '68 e culminato nella cosiddetta primavera di Praga. Tutto cominciò nel gennaio del '68, quando il segretario del partito, Antonin Novotny, un superstite dell'età staliniana, fu rimosso dalla sua carica e sostituito da Aleksander Dubcek, leader dell'ala innovatrice. Premuto da un'opinione pubblica in fermento, appoggiato con entusiasmo dagli intellettuali, dagli studenti e dagli stessi operai, Dubcek spinse il processo di rinnovamento fino a limiti impensabili prima d'allora. Il "programma d'azione" varato in aprile dal Partito comunista cercava, infatti, di conciliare il mantenimento del sistema economico socialista con l'introduzione di elementi di pluralismo economico e soprattutto politico (compresa la presenza di diversi partiti) e con la più ampia libertà di stampa

e di opinione. Fra la primavera e l'estate del '68, la Cecoslovacchia visse in effetti una stagione di radicale rinnovamento politico e di esaltante fermento intellettuale, che parve dar corpo all'ideale di un socialismo dal volto umano. A differenza del moto ungherese del '56, l'esperienza cecoslovacca del '68 fu sempre saldamente guidata dai comunisti e non mise mai in discussione la collocazione del paese nel sistema di alleanze sovietico. Ma essa costituì ugualmente una minaccia intollerabile per l'Urss, preoccupata dagli effetti di contagio che quel processo avrebbe potuto avere sugli altri Stati del blocco orientale. I sovietici tentarono invano di indurre i dirigenti di Praga a bloccare il processo di liberalizzazione. Poi, il 21 agosto 1968, truppe dell'Urss e di altri quattro paesi del Patto di Varsavia (Germania Est, Polonia, Ungheria e Bulgaria) occuparono Praga e il resto del paese; Dubcek fu arrestato e venne formato un governo filosovietico. I dirigenti cechi rinunciarono all'opposizione armata, ma promossero un'efficace resistenza passiva, che isolò politicamente e moralmente gli occupanti. In una fabbrica di Praga si tenne un congresso clandestino del Partito comunista che riaffermò la sua fiducia a Dubcek. Trovatisi in tal modo in una situazione imbarazzante, i sovietici costrinsero Dubcek e gli altri dirigenti della "primavera di Praga" a riprendere il loro posto, ma sotto lo stretto controllo degli occupanti che, nel giro di pochi mesi, riuscirono a imporre un rovesciamento dei rapporti di forza nel partito. I dirigenti "liberali" furono progressivamente emarginati e, a partire dalla primavera '69, allontanati dai loro incarichi. Con la rimozione di Dubcek, che fu sostituito da Gustav Husàk, cominciò la fase della "normalizzazione". Ne furono vittime i quadri comunisti e soprattutto gli intellettuali, che erano stati protagonisti del nuovo corso e che furono in gran parte costretti a emigrare o a cercarsi un lavoro manuale. Con la repressione della "primavera di Praga", l'Unione Sovietica registrò un ulteriore appannamento della propria immagine. Questa volta a condannare l'intervento non furono singoli intellettuali, ma interi partiti comunisti occidentali (a cominciare da quello italiano); critiche severe vennero anche da partiti al potere, come quelli cinese, jugoslavo e rumeno. D'altra parte, come nel '56, l'Urss poteva riaffermare il suo controllo sull'Europa dell'Est senza pagare prezzi politici significativi nei rapporti con gli Stati Uniti, allora impegnati nella guerra del Vietnam, e senza interrompere il dialogo con l'Occidente. Restava però, insoluto e aggravato, il problema di un crescente disagio nei rapporti fra governi e governati nei paesi dell'Europa orientale. Un disagio che si manifestò chiaramente in Polonia nel dicembre 1970, quando gli operai di Danzica e Stettino, per

protestare contro la politica di austerità e di aumento dei prezzi decisa da Gomulka, diedero vita a una vera e propria insurrezione. La crisi fu risolta con la concessione di aumenti salariali e con l'allontanamento di Gonulka, sostituito da Edward Gierek. Ma il cambio al vertice rappresentò una soluzione solo temporanea ai problemi economici e politici del paese, che si sarebbero puntualmente riproposti alla fine degli anni '70. 26.6. L'Europa occidentale negli anni del benessere. L'egemonìa dei gaullisti in Francia, La grande coalizione in Germania, I governi socialdemocratici: Brandt e la "Ostpolitik", I governi laburisti in Gran Bretagna e la questione irlandese, L'adesione inglese alla Cee. Per le democrazie dell'Europa occidentale, gli anni '60 e i primi anni '70 rappresentarono un periodo di complessiva prosperità - nonostante un certo rallentamento dello sviluppo fra il '63 e il '67 - e di importanti mutamenti politici. La crescita economica si tradusse in consistenti progressi nel tenore di vita della popolazione, con conseguenze rilevanti sulla mentalità e sul costume, soprattutto delle generazioni più giovani (come si è già visto nel capitolo precedente). In Italia, in Germania occidentale e in Gran Bretagna, questa fase coincise con l'entrata al governo dei socialisti, da soli o in coalizione con altre forze. In Francia invece - nonostante i progressi dell'opposizione di sinistra e l'improvvisa ventata di contestazione del '68 [§25.6] - i gruppi di obbedienza gaullista mantennero la guida del governo. L'avrebbero mantenuta, con le presidenze di Georges Pompidou e di Valéry Giscard d'Estaing, anche dopo l'uscita di scena di De Gaulle, che, avendo visto sconfitto in un referendum un suo progetto di riforma delle amministrazioni locali, si dimise nell'agosto 1969. In Germania federale il quasimonopolio governativo dei cristianodemocratici si interruppe nel 1966, quando il partito di maggioranza, dovendo affrontare una congiuntura economica che, per la prima volta dalla nascita della Repubblica, presentava qualche segno di ristagno, e non trovando un accordo coi liberali, formò una grande coalizione insieme ai socialdemocratici guidati dall'ex borgomastro di Berlino Ovest Willy Brandt. Il governo di coalizione dovette fronteggiare da un lato una temporanea reviviscenza della destra neonazista, dall'altro l'ondata di contestazione giovanile del '68. Nel 1969, placatasi la contestazione studentesca e con l'economia in netta ripresa, i

socialdemocratici ruppero la "grande coalizione" e si allearono con i liberali, in alternativa ai cristianodemocratici. La stagione dei governi socialdemocraticoliberali - che si sarebbe prolungata per un quindicennio e avrebbe coinciso con un periodo di crescente prosperità e di notevoli progressi in campo sociale - si caratterizzò, all'inizio, soprattutto per una nuova linea di politica estera, impersonata dal cancelliere Brandt e dal ministro degli Esteri Scheel. Una politica che tendeva a una normalizzazione nei rapporti fra la Germania federale e i paesi del blocco comunista e che, pur restando all'interno dell'ortodossia atlantica, riproponeva implicitamente il problema di una futura riunificazione fra le due Germanie attraverso un graduale superamento dei blocchi. Questa "politica orientale" (Ostpolitik) si concretò nell'instaurazione di rapporti diplomatici coi paesi comunisti, nel riconoscimento, sancito da trattati con la Polonia e con l'Urss, dei confini fissati dopo la seconda guerra mondiale e in un primo scambio ufficiale di contatti con i tedeschi dell'Est. Più sfortunata fu l'esperienza di governo dei laburisti inglesi, tornati al potere con Harold Wilson, nel novembre 1964. Trovatosi a gestire una congiuntura economica difficile e costretto quindi ad attuare un'impopolare politica di austerità, il governo Wilson dovette anche fronteggiare il riacutizzarsi della mai risolta questione irlandese. Nell'Ulster (ossia l'Irlanda del Nord, rimasta nel Regno Unito dopo la concessione dell'indipendenza al resto dell'isola), la minoranza cattolica, che costituiva la parte più povera della popolazione, diede vita, alla fine degli anni '60, a una serie di violente agitazioni. In queste agitazioni, che spesso sconfinavano in episodi di terrorismo e di guerriglia urbana, la rivendicazione dell'unità irlandese si mescolava alla protesta sociale. Le difficoltà economiche e politiche, che si accompagnarono all'abbandono degli ultimi resti dell'Impero (Malta, Singapore, Aden), ebbero l'effetto di attenuare la riluttanza della classe dirigente e dell'opinione pubblica, soprattutto di parte laburista, nei confronti dell'adesione britannica alla Comunità europea. Nel '67 il governo Wilson sotto la pressione degli ambienti imprenditoriali - si convertì alla causa europea e aprì un difficile negoziato che si concluse solo nel 1972 (dopo che i conservatori erano tornati al potere) con l'ingresso della Gran Bretagna (insieme a Irlanda e Danimarca), nella Cee. Giunta alla vigilia di una crisi economica internazionale, l'adesione inglese al Mercato comune non sarebbe stata però sufficiente a risolvere i problemi dell'economia britannica, né a rilanciare, com'era negli auspici degli europeisti, il processo di integrazione politica fra gli Stati del vecchio continente.

26.7. Il Medio Oriente e le guerre araboisraeliane. Un focolaio di tensione, La guerra dei sei giorni, La resistenza palestinese: Arafat e l'Olp "settembre nero", La guerra del Kippur. Dopo la crisi di Suez del '56, il Medio Oriente continuò a rappresentare non solo un pericoloso focolaio di tensione locale, a causa della permanente ostilità fra Israele e i paesi arabi (che rifiutavano di riconoscere lo Stato ebraico), ma anche un terreno di scontro fra l'Unione Sovietica, divenuta grande protettrice dell'Egitto, e gli Stati Uniti, che sostenevano con decisione Israele. Nel 1967 il presidente egiziano Nasser chiese il ritiro delle forzecuscinetto dell'Onu che presidiavano il confine del Sinai, proclamò la chiusura del golfo di Aqaba, vitale per gli approvvigionamenti israeliani, e strinse un patto militare con la Giordania. Gli israeliani risposero sferrando, il 5 giugno, un attacco preventivo contro Egitto, Giordania e Siria. La guerra durò appena sei giorni, ma il suo esito fu deciso fin dalle prime ore, con la distruzione al suolo dell'intera aviazione egiziana, e fu disastroso per gli arabi. L'Egitto perse la penisola del Sinai, la Giordania tutti i territori della riva occidentale del Giordano, inclusa la parte orientale di Gerusalemme (la città venne successivamente annessa dallo Stato ebraico e proclamata sua capitale), la Siria le alture del Golan. Gli arabi contarono più di 30.000 morti, gli israeliani poche centinaia. Altri 400.000 palestinesi ripararono in Giordania e negli altri paesi arabi, dove andarono a ingrossare le file dei rifugiati nei campi profughi. La disfatta della "guerra dei sei giorni" ebbe per gli arabi conseguenze di vasta portata. Segnò il declino di Nasser e della sua politica di oltranzismo panarabo; indusse a un atteggiamento più prudente la Giordania e gli altri Stati moderati della zona; determinò il distacco dei movimenti di resistenza palestinese, riuniti nell'Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), dalla tutela dei regimi arabi. Guidata, a partire dal 1969, da Yasir Arafat, già leader del gruppo principale, quello di Al Fatah, l'Olp pose le sue basi in Giordania, creandovi una specie di Stato nello Stato. Il re di Giordania Hussein, esposto alle rappresaglie israeliane a causa degli attentati terroristici dei feddayn (combattenti) palestinesi, reagì con una sanguinosa prova di forza. Nel settembre 1970 (il cosiddetto settembre nero) mobilitò le sue truppe contro i feddayn e i profughi palestinesi, che dopo aver avuto migliaia di morti - furono costretti a riparare nel vicino Libano. Da allora l'Olp avrebbe esteso la lotta terroristica sul piano

internazionale, con una serie di dirottamenti aerei e di attentati clamorosi, come quello attuato a Monaco contro gli atleti israeliani, durante le Olimpiadi del 1972. Nel 1970 Nasser morì. Il suo successore, Anwar Sadat, procedette a una cauta ma decisa revisione della politica egiziana. Deciso a recuperare il Sinai, preparò accuratamente il confronto con Israele. Il 6 ottobre 1973, giorno della festa ebraica dello Yom Kippur, le truppe egiziane attaccarono di sorpresa le linee israeliane, dilagando nel Sinai. Ma Israele riuscì a capovolgere le sorti del conflitto, grazie anche ai massicci aiuti americani, e a respingere gli attaccanti. Al momento del cessate il fuoco, la "guerra del Kippur" aveva ottenuto scarsi risultati sul piano territoriale. Ne ebbe invece sul piano politico e psicologico. Da un lato fu scosso il mito dell'invincibilità israeliana e gli egiziani poterono sostenere di aver lavato l'onta del '67. Dall'altro la chiusura del Canale di Suez e il blocco petrolifero, decretato dagli Stati arabi (fra i quali si annoveravano alcuni fra i maggiori produttori mondiali, come l'Arabia Saudita, l'Iraq, il Kuwait) contro i paesi occidentali amici di Israele, diedero alla crisi una dimensione globale. Israele (cartina p540). 26.8. La crisi petrolifera. La sospensione della convertibilità del dollaro, Lo shock petrolifero, Il calo della produzione, L'inflazione, La disoccupazione. All'inizio degli anni 70, due avvenimenti dalle conseguenze traumatiche sconvolsero il corso dell'economia mondiale. Nell'agosto 1971, gli Stati Uniti decisero di sospendere la convertibilità del dollaro in oro: convertibilità che costituiva il pilastro del sistema monetario internazionale costruito con gli accordi di Bretton Woods del 1944 [§22.2]. Era il segno di un grave disagio dell'economia americana, esaurita dall'impegno militare in Vietnam e afflitta in quegli anni da un crescente deficit della bilancia commerciale. Ma era anche l'inizio di una lunga fase di instabilità e di disordine monetario, caratterizzata da continue oscillazioni nei prezzi delle materie prime e nei cambi fra le monete, non più ancorate a un sistema di convertibilità fisso. Ancora più sconvolgente fu la decisione presa dai paesi produttori di petrolio nel novembre 1973, in seguito alla guerra araboisraeliana, di quadruplicare d'un colpo il prezzo della materia prima: prezzo che avrebbe continuato a salire negli anni seguenti, subendo nel 79 (dopo la rivoluzione

iraniana) una nuova impennata che lo portò a livelli dieci volte superiori a quelli del 72. Lo "shock petrolifero" colpì in varia misura tutti i paesi industrializzati, in particolare quelli che dipendevano quasi interamente dall'estero per il loro fabbisogno energetico (come Italia e Giappone); e fu il fattore scatenante di una crisi economica sulle cui cause profonde e sulla cui vera natura si discute ancora oggi. Ovunque, fra il 74 e il 75, la produzione industriale fece registrare un brusco calo, per poi riprendere a crescere a partire dal 76, ma con ritmi più lenti rispetto al periodo precedente. Contrariamente a quanto accadeva nelle crisi del passato, tutte caratterizzate dal calo dei prezzi, in questo caso la recessione produttiva si accompagnò a una generale tensione inflazionistica, con tassi di aumento dei prezzi, nei paesi industrializzati, superiori al 10%, e talvolta al 20% annuo. Questo fenomeno inedito - che è stato definito col termine "stagflazione" - era dovuto in parte all'origine "esterna" dell'inflazione (l'aumento dei prezzi del petrolio e delle materie prime in genere); in parte alla maggior rigidità dei salari che, in virtù dei meccanismi di copertura introdotti nei decenni precedenti, tendevano ad adeguarsi automaticamente alla crescita dei prezzi, creando a loro volta nuove spinte inflazionistiche. Ciò significava, d'altra parte, che i lavoratori furono tutelati, almeno parzialmente, dalle conseguenze dell'aumento dei prezzi. Sul piano sociale, la conseguenza più grave della crisi fu la crescita della disoccupazione, che si mantenne molto elevata per tutto il decennio successivo. Un problema sempre attuale, soprattutto in Europa occidentale, anche se reso meno drammatico dalla presenza di numerosi "ammortizzatori" sociali: i sussidi di disoccupazione, le sovvenzioni statali alle industrie in crisi, la stessa preesistente condizione di benessere. Giunta dopo un venticinquennio di sviluppo pressoché ininterrotto e di benessere crescente, la crisi del 73-75 costituì un trauma foltissimo sul piano psicologico prima ancora che economico, rivelò un'insospettata fragilità delle economie capitalistiche avanzate e fece sorgere, come si vedrà più avanti, una serie di interrogativi sui fondamenti stessi della civiltà nata con la rivoluzione industriale. Sommario Negli Usa la presidenza Kennedy (durata dal '60 al '63, quando Kennedy fu assassinato) fu improntata a un indirizzo riformistico. In politica estera, la grave crisi legata alla presenza di missili nucleari sovietici a Cuba (1962) si risolse infine con un successo americano e non compromise la distensione (nel '63 Usa e Urss firmarono un trattato per la messa al bando degli

esperimenti nucleari nell'atmosfera). In Urss Kruscev accentuò i caratteri pacifici del confronto con l'Occidente. Ma nel 1964 fu destituito anche per il fallimento dei suoi piani economici. In Cina, l'insuccesso della politica di sviluppo agricolo lanciata nel '58 ("grande balzo in avanti") favorì sul piano internazionale la definitiva rottura con l'Urss, mentre sul piano interno diede spazio alle componenti "moderate" del gruppo dirigente comunista. Fra il '65 e il '68, per scalzare il potere di queste ultime, Mao stimolò un movimento di contestazione giovanile (la rivoluzione culturale) che portò alla defenestrazione di molti dirigenti, finché fu frenato dallo stesso Mao. In politica estera, soprattutto per opera del primo ministro Chou Enlai, la Cina attuò, all'inizio degli anni 70, un clamoroso avvicinamento agli Stati Uniti. A partire dalla metà degli anni "60 si sviluppò progressivamente l'intervento militare americano nel Vietnam del Sud, dove era attivo un movimento di guerriglia che godeva del diretto appoggio dei nordvietnamiti. Dopo il ritiro delle truppe americane (1973), avvenuto anche in seguito alla forte opposizione che quella guerra aveva suscitato negli Stati Uniti, il governo sudvietnamita fu sconfitto nel 1975. Nello stesso anno si ebbe la vittoria dei partigiani comunisti in Cambogia e Laos. La segreteria Breznev (1964-82) mutò più lo stile che la sostanza della politica sovietica; si accentuò, in particolare, la repressione dei dissidenti. In politica estera l'Urss, se accettò la moderata autonomia conquistata dai rumeni, represse duramente il tentativo riformatore dei comunisti cecoslovacchi ("primavera di Praga"), intervenendo militarmente nell'estate del '68. Per le democrazie dell'Europa occidentale gli anni '60 e i primi anni '70 furono un periodo di stabilità economica e di mutamenti politici. In Italia, Germania federale e Gran Bretagna entrarono al governo i socialisti. In Germania il socialdemocratico Brandt inaugurò una politica estera di conciliazione con i paesi dell'Est. Nel 1972 la Cee si allargò con l'ingresso di Inghilterra, Irlanda e Danimarca. Il Medio Oriente fu teatro in questi anni di due successive guerre: la "guerra dei sei giorni" del '67 e la "guerra del Kippur" del '73. In seguito alla guerra del '67, Israele occupò nuovi territori arabi, riacutizzando il problema palestinese. La guerra del '73 fu all'origine del blocco petrolifero proclamato dai paesi arabi e del successivo aumento del prezzo del petrolio. L'aumento del prezzo del petrolio nel '73 (che si inseriva in una fase di instabilità monetaria internazionale inaugurata nel '71 dalla sospensione della convertibilità del dollaro) generò una crisi economica internazionale di vaste proporzioni. A differenza delle crisi del passato, la crescita della

disoccupazione si sommava a un elevato tasso di inflazione. La gravità della crisi indusse ad interrogarsi sui fondamenti stessi della civiltà nata con la rivoluzione industriale. Bibliografia Oltre alle opere citate nella bibliografia dei capp. 22 e 23, si veda: G. Mammarella, La Germania da Adenauer a oggi, Laterza, RomaBari 1979, e più in generale alcuni saggi della Storia d'Europa. L'Europa oggi, Einaudi, Torino 1993. Sulla guerra del Vietnam: S. Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Rizzoli, Milano 1985. 27. Apogeo e crisi del bipolarismo. 27.1. Il tempo del "riflusso". Le premesse della crisi, La crisi delle ideologie di sinistra, La crisi del modello sovietico, Le delusioni della sinistra, Le difficoltà del "Welfare State", Neoliberismo e monetarismo, Il grande riflusso, Il terrorismo politico in Europa occidentale, Il terrorismo internazionale. Gli eventi succedutisi nella prima metà degli anni 70 (crisi del dollaro, conflitto araboisraeliano del 73, crisi petrolifera, tramonto del maoismo, fine della guerra del Vietnam) possono essere considerati come le premesse, o i segni premonitori, di una crisi generale del sistema dei rapporti internazionali uscito dalla seconda guerra mondiale e della cultura politica ad esso legata. La crisi sarebbe esplosa, come vedremo, solo alla fine degli anni '80, per il collasso improvviso di uno dei due pilastri dell'equilibrio postbellico, l'Unione Sovietica. Ma già nel corso del decennio precedente, quando il sistema bipolare pareva ancora inattaccabile, molte cose erano mutate, soprattutto sul piano delle idee e della mentalità. Le trasformazioni economiche e sociali degli anni 70 si accompagnarono infatti, nelle società industriali dell'Occidente, a un mutamento profondo delle ideologie e della cultura politica corrente. Si può affermare, schematizzando, che negli anni '60 e nei primi anni 70 la cultura di sinistra era stata (soprattutto per le generazioni più giovani), la cultura egemone: sia nella versione riformista, che accettava la "società del benessere" e cercava di guidarla verso traguardi di maggiore giustizia sociale; sia nella versione rivoluzionaria, che rifiutava quella società e contestava il riformismo

gradualista. Ma entrambe le versioni della cultura di sinistra si basavano sul presupposto di un'illimitata capacità espansiva del sistema economico e sulla possibilità di controllare i processi sociali con gli strumenti della politica. A partire dagli anni dello shock petrolifero e della crisi economica, queste e altre certezze cominciarono a venir meno. La crisi energetica metteva in discussione la prospettiva di uno sviluppo industriale continuo. Le trasformazioni dell'economia legate alla rivoluzione elettronica ridimensionavano il peso numerico e politico della classe operaia. Inoltre le vicende dei paesi comunisti mostravano l'incapacità dei regimi ispirati al modello leninista e collettivista di offrire soluzioni accettabili ai problemi della società contemporanea. L'Unione Sovietica, in particolare - ancor prima degli eventi di fine anni '80 che avrebbero portato al collasso l'intero sistema comunista in Europa -, aveva visto la sua immagine, già incrinata dai fatti di Praga del '68, deteriorarsi progressivamente: sia per le continue denunce degli esuli sulla repressione interna, sia per l'intervento militare in Afghanistan (di cui si parlerà più avanti), sia per gli insuccessi in campo economico. Gli stessi partiti comunisti dell'Europa occidentale accentuarono in questo periodo le prese di distanza dall'Urss. Delusioni non meno gravi vennero ai militanti di sinistra da quei regimi rivoluzionari che erano sembrati offrire, negli anni '60, esempi più attraenti e più dinamici rispetto a quello dell'Unione Sovietica: la misteriosa morte di Lin Piao e il brusco riflusso della rivoluzione culturale in Cina (seguito dalla radicale svolta del dopo Mao); i terribili massacri nella Cambogia dei khmer rossi; i caratteri autoritari del regime imposto dai vincitori nel Vietnam unificato; i conflitti sempre più frequenti fra Stati comunisti: tutte queste vicende - cui avremo modo di accennare più avanti - fecero via via impallidire molti miti su cui per parecchi anni si erano alimentate le speranze dei movimenti rivoluzionari nelle società industrializzate. Ma la crisi non risparmiava neppure il versante riformista della sinistra. Il modello del Welfare State, dopo essersi imposto nei suoi aspetti essenziali in tutte le democrazie occidentali, cominciò a mostrare, alla fine degli anni 70, evidenti segni di difficoltà. La crescita dei costi costringeva i governi a portare a livelli molto alti la pressione fiscale. E ciò suscitava, in vasti settori dell'opinione pubblica e della stessa scienza economica, un crescendo di critiche contro lo Stato assistenziale, e in genere contro l'eccessivo "statalismo" nella gestione dell'economia, e un parallelo ritorno in auge delle dottrine liberiste e del monetarismo (la teoria che tende a limitare l'intervento statale al controllo dell'emissione e della circolazione di moneta). L'avvento al potere dei conservatori, con Margaret Thatcher, in

Gran Bretagna (1979) e l'elezione alla presidenza degli Stati Uniti del repubblicano Ronald Reagan (1980) - l'una e l'altro presentatisi agli elettori con un programma decisamente liberista e con promesse di tagli delle spese e delle tasse - furono anche il prodotto di questa ventata antistatalista e antifiscale. Il "grande riflusso" (questo il termine usato in Italia per indicare la caduta dei più ambiziosi progetti di trasformazione politica e sociale) era però un fenomeno più vasto, che attraversava i gruppi tradizionali e coinvolgeva anche, al loro interno, le forze di sinistra. Ciò che veniva messo in discussione non era solo la validità di questo o quel programma, ma la stessa capacità dei grandi sistemi ideologici (in particolare di quelli orientati alla trasformazione rivoluzionaria della società) di fornire risposte valide alle esigenze reali della gente. La generale caduta della tensione politica (o meglio di un certo tipo di tensione politica) verificatasi negli anni 70 finì col lasciare isolate (ma proprio per questo col rendere più esasperate e incontrollabili) quelle punte estreme dei movimenti rivoluzionari dei paesi industrializzati che, dall'inizio del decennio, avevano cominciato a praticare forme più o meno organizzate di lotta armata. Si assisté così, in alcuni paesi dell'Europa occidentale, a una drammatica esplosione di terrorismo politico. Un terrorismo attuato da piccoli gruppi clandestini fortemente militarizzati (le Brigate rosse in Italia, la Raf, ossia Frazione dell'Armata rossa, attiva in Germania attorno alla metà degli anni 70, il gruppo di Action directe in Francia, di formazione più recente) che agivano per lo più sulla base di parole d'ordine ispirate a una versione estremizzata del marxismoleninismo e colpivano con gesti "esemplari" (attentati dinamitardi, omicidi, ferimenti, sequestri) quei personaggi o quelle istituzioni che ai loro occhi più si identificavano col sistema da abbattere. Un terrorismo molto diverso da quello - essenzialmente individualistico - degli anarchici di fine '800, e invece ispirato nel modello organizzativo - e in qualche caso anche collegato - a certi movimenti di liberazione del Terzo Mondo (soprattutto a quello palestinese) o a quelli nati dalle lotte delle minoranze etniche nella stessa Europa (come L'ira in Irlanda del Nord o i separatisti baschi dell'Eta in Spagna), privo però della base di consenso di cui quei movimenti si giovavano. Poco seguiti dalle masse lavoratrici in nome delle quali affermavano di agire, i gruppi terroristici italiani e tedeschi furono sconfitti prima politicamente, per il fallimento del loro tentativo di mobilitare la classe operaia, poi sul piano dell'azione repressiva, con l'arresto di buona parte dei loro componenti, tra la fine degli anni 70 e l'inizio degli anni '80. Ma il

terrorismo come fenomeno internazionale - spesso finanziato e strumentalizzato da Stati contro altri Stati - non scomparve; si espresse attraverso una serie di azioni sanguinose e di gesti clamorosi (come l'attentato a papa Giovanni Paolo II, nel maggio 1981, da parte di un killer turco facente parte di un gruppo di estrema destra, ma sospettato anche di legami coi servizi segreti dell'Est); e si dimostra ancora capace di colpire una società che appare tanto più vulnerabile quanto più è "aperta" e complessa. 27.2. La difficile unità dell'Europa occidentale. Le difficoltà economiche, La dipendenza militare, La Gran Bretagna: la vittoria dei conservatori e il governo Thatcher, La Germania federale: il ritorno al potere dei cristianodemocratici, La Francia: la vittoria di Mitterrand, Il ritorno della democrazia in Portogallo, La Grecia dalla dittatura alla democrazia, La transizione alla democrazia in Spagna, L'allargamento della Cee. Gli anni che seguirono la crisi petrolifera del 1973 furono per l'Europa occidentale anni di serie difficoltà economiche e di importanti mutamenti politici. Tutti i paesi della Cee (con la parziale eccezione della Gran Bretagna che cominciava a sfruttare i giacimenti scoperti di recente nel Mare del Nord) furono duramente colpiti dal rincaro dei prezzi del petrolio. E tutti dovettero affrontare i problemi legati al declino di alcuni settori industriali (il minerario e soprattutto il siderurgico) un tempo centrali nell'economia del vecchio continente. Ne risultarono inasprite le tensioni sociali e accentuate le tentazioni protezionistiche e le spinte centrifughe nei confronti di un processo di integrazione che già stentava a decollare. L'istituzione, nel 1979, del Sistema monetario europeo (Sme) - ossia di un sistema di cambi fissi fra le singole monete nazionali - non fu sufficiente a coordinare in modo efficace le politiche economiche dei paesi membri della Comunità. Nel complesso, pur restando una delle aree più sviluppate e più prospere del pianeta, l'Europa occidentale perse terreno rispetto agli Stati Uniti e al Giappone. E la sua dipendenza militare dall'alleato di oltre Atlantico si accentuò man mano che saliva il livello tecnologico del confronto fra i due blocchi: un confronto che toccò punte di forte tensione alla fine degli anni 70, quando i membri europei della Nato decisero l'installazione di nuovi missili a media gittata - gli euromissili - per rispondere allo spiegamento di armi analoghe da parte dell'Urss.

Sul piano delle politiche interne, la crisi della metà degli anni 70 mise in difficoltà soprattutto le socialdemocrazie dell'Europa settentrionale. I laburisti inglesi, dopo aver ripreso il potere nel 74, lo persero nel 79 a favore dei conservatori. Il governo di Margaret Thatcher, presentatosi su una piattaforma di intransigente liberismo, lanciò un duro attacco contro il potere delle Trade Unions; mise in discussione i fondamenti del WelfareState (senza però toccare le prestazioni fondamentali), privatizzò settori importanti dell'industria pubblica. Questa linea fu complessivamente premiata dagli elettori, che per due volte confermarono la maggioranza ai conservatori: sia nell'83 - anche in virtù dell'ondata patriottica seguita alla guerra delle Falkland [§27.6] -, sia nelle successive elezioni dell'87. Nel 1990, però, dopo ben undici anni di ininterrotta presenza al governo, la Thatcher dovette lasciare la guida dell'esecutivo a un altro conservatore, John Major, in seguito alla ribellione del suo stesso partito, che non approvava alcune impopolari misure fiscali decise dal primo ministro e non condivideva la sua ostinata opposizione ai progetti di integrazione europea. Anche nei paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Norvegia), le socialdemocrazie videro minacciato o interrotto un dominio che durava incontrastato da oltre un trentennio. In Germania federale, infine, l'era dei governi socialdemocratici, guidati prima da Willy Brandt poi da Helmut Schmidt, si concluse nel 1983, con la rottura dell'alleanza coi liberali e con l'ascesa al governo del cristianodemocratico Helmut Kohl. In questo caso la rottura della coalizione coi liberali e la successiva sconfitta elettorale della Spd non furono determinate dai problemi economici (l'economia tedesca si era ripresa bene dalla crisi degli anni 70 e avrebbe poi mantenuto un buon ritmo di crescita nel decennio successivo), ma dai contrasti di politica estera: in particolare dalle perplessità dei socialdemocratici circa l'installazione degli "euromissili" in Germania. All'inizio degli anni '80, mentre perdevano terreno nelle tradizionali roccheforti dell'Europa del Nord, i partiti socialisti si affermavano largamente nell'area mediterranea e latina. In Francia l'Unione delle sinistre, che già aveva sfiorato il successo nel 74, si impose nelle elezioni dell'81, portando alla presidenza il socialista François Mitterrand. Partita fra grandi entusiasmi, con ambiziosi programmi di nazionalizzazione, riforme sociali e aumenti salariali, l'esperienza dell'Unione delle sinistre finì in parte col deludere le attese dei suoi sostenitori. Le difficoltà dell'economia indussero i socialisti ad accantonare i progetti di riforma più ambiziosi e ad adottare una serie di misure restrittive: il che contribuì a provocare la rottura con un Partito comunista schierato su posizioni di intransigenza (ma in forte calo

elettorale). La rottura non impedì a Mitterrand di ottenere nell'88 il suo secondo mandato presidenziale, né al Partito socialista di governare per oltre un decennio (salvo un intermezzo tra l'86 e l'88), fino alla secca sconfitta subita nelle elezioni del marzo '93, ad opera della coalizione moderata. Governi a guida socialista si affermarono, all'inizio degli anni '80, nelle nuove democrazie dell'Europa meridionale (Portogallo, Grecia, Spagna), protagoniste, a metà del decennio precedente, di rapidi e quasi simultanei processi di fuoriuscita da regimi autoritari. La prima a cadere fra le superstiti dittature del vecchio continente fu la più antica di tutte, quella portoghese, sopravvissuta per pochi anni alla morte del suo fondatore Salazar (1970). Il processo di democratizzazione, accelerato dall'insofferenza dell'opinione pubblica e degli stessi militari nei confronti di una costosa guerra coloniale contro i movimenti indipendentisti dell'Angola e del Mozambico [§23.6], seguì un copione assolutamente inedito. Furono i militari a realizzare, nella primavera del 74, un incruento colpo di Stato. Il potere fu assunto dapprima dall'ala moderata delle forze armate, poi da un gruppo di ufficiali di sinistra appoggiati dal Partito comunista. Ma dall'autunno del 75 - dopo la concessione dell'indipendenza alle colonie - i militari più radicali vennero emarginati e il paese fu restituito a un normale regime parlamentare e pluripartitico, che vide da allora i socialisti di Mario Soares alternarsi al potere con i gruppi moderati di centrodestra. Molto diversa fu la vicenda della Grecia. Qui erano stati i militari, nel 1967, a rovesciare con un colpo di Stato il regime liberale vigente dalla fine della guerra, attuando poi una durissima repressione ai danni dell'opposizione democratica. A porre fine alla dittatura dei colonnelli fu, nel 1974, l'esito disastroso di un colpo di mano mirante a ottenere l'annessione alla Grecia dell'isola di Cipro, da sempre divisa fra una comunità greca e una turca. La Turchia, militarmente più forte, reagì occupando una parte dell'isola. Travolti dall'insuccesso, i militari dovettero lasciare il potere ai partiti democratici: la "Nuova democrazia" di Costantin Karamanlis, espressione della destra moderata, e il Partito socialista di Andreas Papandreu, da allora alternatisi al governo. Nel 1974 un referendum popolare aveva sancito la fine della monarchia, peraltro già estromessa dalla dittatura dei colonnelli. Un ruolo importante e positivo fu invece svolto dalla monarchia in Spagna. Il re Juan Carlos di Borbone, insediato nel 1975, dopo la morte del generale Franco, su un trono vacante dal 1931, come erede designato del

caudillo, seppe pilotare con abilità il passaggio alla democrazia di un paese che, fin dagli anni '60, aveva conosciuto un rapido sviluppo economico (paragonabile per molti aspetti a quello italiano) e che non si riconosceva più nelle strutture del regime clericalautoritario. Il re chiamò alla guida del governo Adolfo Suàrez, un giovane uomo politico cresciuto nelle file del franchismo, ma convinto della necessità di un radicale rinnovamento politico, legalizzò i partiti (compreso quello comunista) e i sindacati liberi e fece approvare per referendum, nel 78, una costituzione democratica. Nonostante l'intensificarsi delle azioni terroristiche dei separatisti baschi, la democrazia spagnola si consolidò rapidamente e sopportò senza scosse il cambio di potere verificatosi nell'82 con la vittoria elettorale dei socialisti di Felipe Gonzàlez. Il ritorno alla democrazia di Spagna, Portogallo e Grecia rappresentò certamente una delle maggiori e più positive novità della recente storia d'Europa. E consentì un ulteriore allargamento della Cee, cui aderirono tutti e tre i paesi: la Grecia dall'81, la Spagna e il Portogallo dall'86. L'ingresso dei nuovi membri - complessivamente meno avanzati degli altri sul piano dello sviluppo economico - fu senza dubbio un passo avanti sulla strada dell'unità dell'Europa occidentale; ma nell'immediato fece sorgere non pochi problemi nella gestione delle politiche comunitarie, costrette a conciliare interessi spesso divergenti, e fece risaltare ancor più le distanze politiche, economiche e culturali fra le diverse aree del continente. 27.3. Gli Stati Uniti da Nixon a Bush. Il caso Watergate, La presidenza Carter, La presidenza Reagan, La ripresa economica in Usa, La politica degli armamenti, Il confronto con Libia e Iran, La presidenza Bush. Per gli Stati Uniti gli anni 70 rappresentarono una fase tutt'altro che felice. Prima la crisi del dollaro nel 1971 [§26.8], poi la sconfitta politicomilitare in Vietnam. Quindi una gravissima crisi interna, il cosiddetto caso Watergate, che, nel 1974, costrinse alle dimissioni il presidente Nixon, accusato da un'efficace campagna giornalistica di aver coperto i comportamenti illegali di alcuni suoi collaboratori (responsabili di un'operazione di spionaggio ai danni del Partito democratico). Il democratico Jimmy Carter, divenuto capo dello Stato nel 76, dopo due anni di presidenza alquanto incolore del repubblicano Gerald Ford, cercò di risollevare il prestigio del paese e di restituire fiducia ai cittadini recuperando i valori della tradizione progressista americana e sostituendo

alla Realpolitik di Nixon e del segretario di Stato Henry Kissinger una linea di tipo "wilsoniano", fondata sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione e sulla difesa dei diritti umani in ogni parte del mondo. Una linea che fu però portata avanti in modo incerto e velleitario e che, se da un lato contribuiva a rendere tesi i rapporti con l'Urss, dall'altro fu criticata perché lasciava spazio all'affermazione di regimi ostili agli Stati Uniti in Africa (Etiopia, Angola, Mozambico), in Medio Oriente (Iran) e in America Latina (Nicaragua). Il senso di frustrazione diffusosi nell'opinione pubblica americana in seguito a questi episodi - culminati con la rivoluzione iraniana e la drammatica crisi degli ostaggi [§27.8] - contribuì non poco alla sconfitta di Carter nelle elezioni dell'80 e alla clamorosa affermazione di Ronald Reagan, anziano ex attore esponente dell'ala destra del Partito repubblicano. Reagan si presentò con un programma liberista in economia e promise di adottare in politica estera una linea più dura nei confronti dell'Urss e di tutti i nemici dell'America. In questo modo riuscì a incarnare, richiamandosi alla tradizione dei pionieri, l'orgoglio nazionalista e la voglia di rivincita di larghi strati dell'opinione pubblica americana, desiderosa di riprendersi dal trauma del Vietnam. Il successo della presidenza Reagan, che fu confermata con ampio margine nelle elezioni dell'84, si dovette anche al buon andamento dell'economia americana che, fra l'83 e l'86, riprese a marciare a pieno ritmo, grazie soprattutto allo sviluppo dei settori di punta (in particolare quelli legati all'elettronica e alle produzioni di interesse militare). Certo, il boom degli anni '80 non fu privo di aspetti negativi: interi settori industriali e numerose imprese agricole entrarono in crisi perché privati di qualsiasi sussidio governativo; le disuguaglianze sociali - e le stesse fratture fra i gruppi razziali nelle grandi metropoli - si accentuarono in seguito al taglio delle spese per l'assistenza pubblica. In compenso l'inflazione fu contenuta; la disoccupazione in parte riassorbita; il dollaro tornò a essere la moneta forte dell'economia mondiale, nonostante il permanere di un vistoso deficit nel bilancio dello Stato, dovuto alla continua crescita della spesa militare. Il mantenimento di un alto livello di armamenti costituì del resto un elemento essenziale della strategia internazionale di Reagan, tesa a far valere il peso militare degli Usa, sia per acquisire una posizione di forza nel confronto con l'Urss, sia per far sentire la presenza americana in tutti i punti caldi del pianeta. Sotto il primo aspetto, va ricordato l'appoggio di Reagan all'iniziativa di difesa strategica (Sdi), un avveniristico quanto costoso progetto mirante a creare una sorta di scudo elettronico spaziale, capace di neutralizzare, mediante raggi laser, qualsiasi minaccia missilistica (e, in

prospettiva, di rendere obsoleti gli stessi ordigni nucleari): un progetto fortemente criticato sia per la sua problematica realizzabilità, sia perché rischiava di mettere in moto una nuova incontrollabile spirale di spese militari in entrambe le superpotenze. Per quanto riguarda la presenza americana nel mondo, essa si concretizzò nel sostegno in armi e materiali ai guerriglieri afghani in lotta contro i sovietici, nei massicci aiuti militari forniti ai contras del Nicaragua [§27.6], nella sfida lanciata ai regimi integralisti del Medio Oriente, la Libia di Gheddafi e l'Iran di Khomeini. Nel marzo '86, in risposta a un probabile coinvolgimento libico in una serie di attentati terroristici rivolti contro cittadini americani in Europa, l'aviazione statunitense bombardò il quartier generale di Gheddafi, a Tripoli. Nell'estate '87, una squadra navale fu inviata nel Golfo Persico per proteggere le rotte petrolifere minacciate dallo scontro fra Iran e Iraq. Nell'88 - grazie anche al successo dei suoi incontri con il leader sovietico Gorbacév [§27.4] e all'avvio di una nuova fase di distensione con l'Urss Reagan poté concludere il suo secondo mandato con una popolarità pressoché intatta. E ciò favorì indubbiamente la vittoria, nelle elezioni dell'88, del repubblicano George Bush, già vicepresidente con Reagan. Politico più esperto del suo predecessore (anche se non altrettanto dotato di carisma personale), esponente dell'ala moderata del suo partito, Bush riprese nella sostanza l'eredità reaganiana, ma con uno stile più prudente ed equilibrato (significativo, in questo senso, il drastico ridimensionamento del progetto di "scudo spaziale"). D'altro canto fu proprio il "moderato" Bush ad assumersi la responsabilità dei più vasti interventi militari mai intrapresi dagli Stati Uniti dopo la guerra del Vietnam: quello effettuato a Panama nel dicembre '89 per deporre e arrestare il dittatore locale ManuelNoriega, accusato di stretti legami con i trafficanti di droga; e quello ben più massiccio deciso nel '90-91 contro l'Iraq di Saddam Hussein [§30.5]. Nei rapporti con l'Urss venne confermata una linea che, mescolando le manifestazioni di fermezza con la disponibilità alla trattativa, consentì alle superpotenze di proseguire nel cammino della distensione. Fu però proprio Bush, tra il 1991 e il 1992, ad assistere alla dissoluzione della potenza rivale e a sancire la definitiva vittoria degli Stati Uniti nel confronto con il blocco comunista. 27.4. L'Urss da Breznev a Gorbacev. L'Urss nel periodo brezneviano, L'occupazione dell'Afghanistan La repressione dei dissidenti, La conferenza di Helsinki, L'ascesa di Gorbacev, Le riforme, Contraddizioni e difficoltà, I movimenti separatisti, Gli scontri

interetnici, La "glasnost", Il rilancio del dialogo con l'Occidente, La trattativa sugli armamenti, Il ritiro dall'Afghanistan, La nuova distensione. Per tutti gli anni 70 - gli anni del potere incontrastato di Leonid Breznev l'Urss riuscì a mascherare i suoi gravi problemi interni con un accentuato dinamismo in politica internazionale. In questi anni lo Stato sovietico, pur essendo afflitto da notevoli difficoltà economiche, soprattutto nel settore agricolo (e costretto per questo a importare ingenti quantitativi di cereali dall'Occidente), profittò della relativa debolezza e delle incertezze di leadership degli Stati Uniti per avvantaggiarsi nella corsa agli armamenti e per allargare la sua sfera di influenza in tutti i continenti: dall'America Latina (Nicaragua) all'Africa (Etiopia, Angola, Mozambico), al Medio Oriente (nonostante lo scacco subito col passaggio dell'Egitto nel campo filooccidentale [§27.7]). Un successo effimero, e pagato a caro prezzo, fu quello ottenuto dall'Urss nel vicino Afghanistan, un tipico Stato cuscinetto situato nel cuore dell'Asia musulmana, in posizione chiave per il controllo dell'area del Golfo Persico. Per imporre nel paese, fin allora schierato su posizioni di non allineamento, un governo fedele alle loro direttive, i sovietici inviarono in Afghanistan, alla fine del 79, un forte contingente di truppe che si dovette scontrare, per quasi dieci anni, contro l'accanita resistenza dei gruppi guerriglieri islamici (sostenuti dal Pakistan, dall'Iran e anche dagli Stati Uniti): un'esperienza amara che, per il suo altissimo costo in vite umane e per le sue ripercussioni psicologiche, è stata spesso paragonata all'intervento americano in Vietnam. Alla stagnazione economica e al rinnovato dinamismo in politica estera faceva riscontro, nell'Urss dell'età brezneviana, un'accentuazione dei tratti burocraticoautoritari del regime interno. Si inasprì, in particolare, la repressione nei confronti degli intellettuali dissidenti, molti dei quali in questo periodo furono condannati a pene detentive o internati in cliniche psichiatriche. Alcuni, fra cui il celebre scrittore Aleksandr Solzenicyn, poterono emigrare in Occidente, da dove alimentarono una vivace polemica contro il regime comunista. Nel 1975 l'Urss partecipò, assieme ad altri 35 paesi, alla conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce) e ne sottoscrisse gli accordi finali che garantivano fra l'altro il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà politiche fondamentali. Il mancato rispetto di questi accordi avrebbe costituito negli anni successivi un ulteriore motivo di protesta da parte dei dissidenti e un serio ostacolo al dialogo con l'Occidente. Una svolta radicale per l'Unione Sovietica e per l'intero mondo comunista si verificò a partire dalla metà degli anni '80. Nel 1985, dopo la morte di

Breznev (1982) e dopo un breve interregno che vide salire alla guida del partito e dello Stato gli anziani Jurij Andropov e Konstantin Cernenko entrambi deceduti per malattia poco dopo la loro ascesa al vertice - la segreteria del Pcus fu assunta da Michail Gorbacev. Più giovane (54 anni) e più dinamico dei suoi predecessori, rappresentante di una generazione che non era stata direttamente coinvolta nello stalinismo, Gorbacev si mostrò subito deciso a introdurre una serie di radicali novità nel corso della politica sovietica, sia sul piano interno sia su quello internazionale. In politica economica, il nuovo segretario legò il suo nome alla parola d'ordine della perestrojka (ossia "riforma"), proponendo una serie di interventi nel segno della liberalizzazione, volti a introdurre nel sistema socialista elementi di economia di mercato. Sul terreno delle istituzioni, Gorbacev si fece promotore, nel 1988, di una nuova costituzione che, senza intaccare il sistema del partito unico, lasciava spazio a un limitato pluralismo, distinguendo più chiaramente le strutture dello Stato da quelle del partito (comunque unite al vertice nella persona del segretariopresidente). Le elezioni del congresso dei Soviet tenutesi nel marzo '89 inaugurarono un sistema di candidature plurime (ma sempre su lista unica) e consentirono l'ingresso nel massimo organo rappresentativo di alcuni esponenti del dissenso: fra questi il fisico Andrej Sacharov, già perseguitato nel periodo brezneviano. Nel maggio '90, il congresso elesse a larghissima maggioranza Gorbacev presidente dell'Urss. Riforme economiche e liberalizzazione interna, se da un lato giovarono indubbiamente all'immagine dell'Urss, dall'altro evidenziarono e acutizzarono alcune contraddizioni che erano rimaste fin allora come soffocate nella stagnazione dell'età di Breznev. I tentativi di riforma dell'economia, innestandosi su una realtà poco preparata ad accoglierli (perché ormai disassuefatta alla logica della competizione e dell'efficienza), finirono col suscitare non pochi malumori e con l'aggravare il dissesto di un sistema tradizionalmente inefficiente. L'apertura di nuovi spazi di dibattito politico mise in moto tensioni non facilmente controllabili. Particolarmente allarmante era l'emergere di movimenti autonomisti o addirittura indipendentisti fra le popolazioni non russe già facenti parte dell'Impero degli zar e poi inglobate, spesso con mezzi coercitivi, entro i confini dell'Unione [§14.6]. Le prime a muoversi furono le tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania) annesse all'Unione Sovietica in seguito al patto russotedesco dell'agosto '39 [§21.1]. Ma movimenti analoghi emersero anche nelle repubbliche caucasiche (Armenia, Geòrgia, Azerbaigian) e nelle regioni musulmane dell'Asia centrale. In qualche caso la tensione esplose in sanguinosi scontri interetnici: particolarmente gravi

quelli che, a partire dall'88, opposero i cattolici armeni ai musulmani azeri (abitanti dell'Azerbaigian). Nel 1990, la stessa repubblica russa (la più grande e la più popolosa dell'Unione, guida e centro motore dell'intero sistema sovietico) rivendicò la propria autonomia dal potere federale ed elesse alla propria presidenza il riformista radicale Boris Eltsin, la cui leadership fu confermata, nel giugno dell'anno seguente, da un'elezione popolare a suffragio diretto. Ancora più importante delle riforme - che per lo più si dimostrarono inadeguate e furono regolarmente scavalcate dall'incalzare della crisi dell'intero sistema - fu l'avvio di un processo di liberalizzazione interna condotto all'insegna della glasnost ("pubblicità", "trasparenza", in un senso più lato "libertà d'espressione"): un processo che consentì lo svilupparsi di un dibattito politicoculturale impensabile fino a pochi anni prima. Conseguenza - e insieme presupposto - delle aperture riformiste all'interno fu il rilancio del dialogo con l'Occidente, rimasto pressoché congelato negli anni precedenti: un rilancio imposto anche dall'incapacità del sistema sovietico di rispondere alla sfida globale lanciata dall'America di Reagan e dalla necessità di frenare la corsa agli armamenti per poter destinare maggiori risorse ai consumi individuali. La disponibilità al negoziato di Gorbaciov trovò un interlocutore interessato in un Reagan desideroso di concludere in bellezza il suo mandato presidenziale e di dimostrare al mondo che l'ostentazione di forza di cui era stato protagonista (soprattutto in materia di armamenti) non portava necessariamente allo scontro, ma al contrario poteva costituire la miglior base per una nuova trattativa globale con l'Urss. Due successivi incontri fra Reagan e Gorbacèv (Ginevra, novembre '85 e Reykjavik, ottobre '86), pur non raggiungendo risultati conclusivi, segnarono la fine di una lunga stagione di incomunicabilità e inaugurarono un clima più disteso nei rapporti UsaUrss. Un terzo vertice (Washington, dicembre '87) portò a uno storico accordo sulla riduzione degli armamenti missilistici in Europa: un accordo che, al di là della sua limitata portata pratica, aveva un alto valore simbolico, perché per la prima volta prevedeva la distruzione concordata di armi nucleari. Pochi mesi dopo (aprile '88), l'Urss si impegnò a ritirare le sue truppe dall'Afghanistan: ritiro che fu effettivamente ultimato nel gennaio '89. Nel nuovo clima determinato dai rivolgimenti politici dell'Europa orientale, nuovi incontri al vertice fra Gorbacév e Bush (Malta, dicembre '89 e Washington, giugno '90) consentirono di porre le basi per ulteriori accordi sulla riduzione degli armamenti strategici. La rinnovata collaborazione fra le due superpotenze fece nascere molte speranze sulle prospettive di un nuovo ordine internazionale basato non

soltanto sull""equilibrio del terrore". Il nuovo ordine ebbe un inizio di attuazione in Europa, quando a Parigi, nel novembre 1990, nell'ambito di una nuova riunione della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (la seconda dopo quella di Helsinki del '75), i paesi della Nato e del Patto di Varsavia, con la significativa partecipazione della Germania riunificata [§27.5], firmarono un trattato di non aggressione e di riduzione degli armamenti convenzionali. A questo punto era però la stessa idea di un ordine internazionale basato sul condominio fra Usa e Urss a entrare in crisi per l'improvviso collasso di uno dei due partner. 27.5. La crisi dell'Europa comunista, la caduta del muro di Berlino e la riunificazione tedesca. Le ripercussioni nell'Europa dell'Est, L'affermazione di Solidarnosc in Polonia, Gli accordi di Danzica, La liberalizzazione in Ungheria, L'apertura della cortina di ferro, La caduta del muro di Berlino, Il ritorno della democrazia nell'Europa dell'Est, Le elezioni del 1990, Le elezioni in Germania Est, La riunificazione tedesca. Prima di provocare la dissoluzione dell'Urss (di cui parleremo più avanti, §30.2), la crisi del comunismo sovietico aveva prodotto un risultato di eccezionale e irreversibile portata storica: il crollo dei regimi comunisti imposti all'Europa dell'Est dopo il secondo conflitto mondiale e la conseguente perdita da parte dell'Unione Sovietica di quel dominio di fatto che era stato mantenuto con tutti i mezzi per oltre un quarantennio. Come nel '56, i mutamenti in atto nell'Urss si ripercossero immediatamente nei paesi satelliti (soprattutto in Polonia e in Ungheria). Ma, contrariamente a quanto era accaduto allora, i processi riformatori furono favoriti, almeno all'inizio, dall'atteggiamento della dirigenza sovietica, decisa a non ripercorrere le orme di Kruscev e di Breznev. La Polonia - che fra tutti i paesi comunisti dell'Est era sempre stato il più refrattario all'imposizione del modello comunista - aveva già conosciuto una inattesa stagione di cambiamenti fra l'80 e l'81, quando era sorto spontaneamente e si era rapidamente affermato un sindacato indipendente chiamato Solidarnosc ("solidarietà"), appoggiato e ispirato dal clero cattolico e guidato da un leader diventato subito popolarissimo, l'operaio Lech Walesa. Il movimento, protagonista di una serie di imponenti scioperi, era stato in un primo tempo tollerato dalle autorità. Ma, nel dicembre 1981, per bloccare un processo dagli esiti imprevedibili e forse per prevenire un minacciato intervento sovietico - il generale Jaruzelski, già segretario del

Partito operaio polacco (l'equivalente del Partito comunista), aveva attuato un vero e proprio colpo di Stato militare, assumendo i pieni poteri e mettendo fuori legge Solidarnosc. In seguito, tuttavia, lo stesso Jaruzelski aveva allentato le misure repressive e aveva riallacciato il dialogo con la Chiesa e con lo stesso sindacato indipendente. Dialogo poi culminato, in epoca gorbaceviana, negli accordi di Danzica del 1988, con i quali il capo dello Stato si impegnava a una riforma costituzionale che avrebbe consentito lo svolgimento, nel giugno '89, delle prime libere elezioni in un paese del blocco comunista (elezioni stravinte dai candidati di Solidarnosc) e la formazione di un governo di coalizione presieduto da un esponente del sindacato indipendente, l'economista cattolico Tadeusz Mazowiecki. Gli avvenimenti polacchi erano in parte il prodotto di fattori specifici (in primo luogo la grande influenza di un clero cattolico reso più forte e più autorevole dall'ascesa di Karol Wojtyla al soglio pontificio nel 78). Ma furono anche una conseguenza diretta del nuovo corso della politica sovietica e rappresentarono l'inizio di una reazione a catena che, nel giro di pochi mesi, fra l'89 e il '90, avrebbe rovesciato gli equilibri politici e strategici di tutta l'Europa dell'Est. Il primo paese a seguire la Polonia sulla via delle riforme interne fu l'Ungheria, dove, all'inizio dell'89, era stato deposto il vecchio Kàdàr (protagonista della repressione del '56, ma anche del successivo trentennio di relativo benessere e di graduale liberalizzazione). Sempre nell'89, i nuovi dirigenti comunisti, decisi a spingere il processo riformatore fino alle sue ultime conseguenze, riabilitarono solennemente i protagonisti della rivolta del '56 [§22.10], legalizzarono i partiti e indissero libere elezioni per l'anno successivo. Ma la decisione più importante e più gravida di conseguenze fra quelle assunte dai nuovi dirigenti ungheresi fu la rimozione dei controlli polizieschi e delle barriere di filo spinato al confine con l'Austria: decisione che aprì la prima vera breccia nella cortina di ferro e innescò una serie di reazioni in tutto il mondo comunista. A partire dall'estate '89, decine di migliaia di cittadini della Germania orientale abbandonarono il loro paese per raggiungere la Repubblica federale tedesca, per lo più attraverso l'Ungheria e l'Austria. La fuga in massa, accompagnata da imponenti manifestazioni di protesta nelle principali città tedescoorientali, mise in crisi il regime comunista, costringendo alle dimissioni il vecchio segretario del partito Erich Honecker. I nuovi dirigenti, con l'autorevole avallo di Gorbaciov, avviarono un processo di riforme interne e quindi liberalizzarono la concessione dei visti d'uscita e dei permessi d'espatrio. Il 9 novembre 1989, furono aperti i confini fra le due Germanie, compresi i

passaggi attraverso il muro di Berlino, emblema della guerra fredda; e grandi masse di cittadini tedescoorientali si recarono in visita all'Ovest in un'atmosfera di festa e di riconciliazione che implicitamente rilanciava il tema dell'unità tedesca. Al di là delle sue ripercussioni sull'assetto della Germania, la caduta del muro (che poi sarebbe stato materialmente distrutto) rappresentò un evento epocale e assurse a simbolo della fine delle divisioni che avevano spaccato in due l'Europa e il mondo all'indomani del secondo conflitto mondiale. Gli avvenimenti tedeschi accelerarono ulteriormente il ritmo delle trasformazioni nell'Europa dell'Est. In Cecoslovacchia una serie di imponenti manifestazioni popolari (che videro tornare sulla scena Aleksander Dubcek e gli altri protagonisti della "primavera di Praga") determinarono la caduta del gruppo dirigente comunista legato alla "normalizzazione" del dopo-'68 e l'apertura di un processo di democratizzazione. In dicembre il Parlamento, presieduto da Dubcek, elesse alla presidenza della Repubblica lo scrittore Vaclav Havel, già perseguitato dal regime comunista. In Romania il mutamento di regime, che negli altri paesi si era svolto in forme pacifiche, ebbe sviluppi drammatici per la resistenza opposta dalla dittatura personale di Nicolae Ceausescu, abbattuta nel dicembre '89 da un'insurrezione popolare dopo un sanguinoso tentativo di repressione. Ceausescu fu catturato e messo a morte insieme alla moglie Elena. Alla fine dell'89, anche in Bulgaria fu avviato un graduale processo di liberalizzazione. Un anno dopo, il vento delle riforme toccò anche l'Albania, ultima roccaforte dell'ortodossia marxistaleninista in Europa. Se in Romania i leader "neocomunisti" riuscirono a mantenere il controllo del processo riformatore, nonostante le forti proteste di cui erano fatti segno da parte dell'opposizione, soprattutto studentesca (la contestazione al regime del presidente Ion Iliescu, vincitore delle elezioni del maggio '90, sfociò in episodi da guerra civile), negli altri paesi dell'ex blocco dell'Est la democratizzazione finì col travolgere quegli stessi gruppi dirigenti che l'avevano avviata e che avevano cercato di adeguarvisi, fino al punto da cambiare la denominazione dei loro partiti (da cui scomparve ovunque l'aggettivo "comunista"). In Ungheria le prime elezioni libere (aprilemaggio 1990) segnarono l'affermazione di un partito di centrodestra, il Forum democratico, e la sconfitta degli ex comunisti (ribattezzatisi socialdemocratici). In Cecoslovacchia, nelle elezioni di giugno, la vittoria andò a una formazione di centrosinistra, il Forum civico del presidente Havel. In Polonia, le

elezioni presidenziali del novembredicembre '90 videro la divisione del movimento di Solidarnosc, che comunque portò alla guida dello Stato il suo leader storico Walesa. In Bulgaria e in Albania, gli eredi dei partiti comunisti mantennero il potere nella fase di transizione, ma furono sconfitti nelle successive consultazioni politiche. Un discorso a parte va fatto per la Jugoslavia, dove già dal 1980 (data della morte di Tito) era in atto una grave crisi economica e istituzionale. Qui l'esito delle prime elezioni libere, che si tennero nel corso del '90, accentuò le spinte centrifughe già operanti all'interno dello Stato federativo: mentre infatti le più sviluppate repubbliche di Slovenia e Croazia davano la vittoria ai partiti autonomisti, in Serbia prevaleva il neocomunismo nazionalista di Slobodan Milosevic, deciso a riaffermare il ruolo egemone dei serbi in una Jugoslavia unita. Le conseguenze più clamorose del crollo dei regimi comunisti si ebbero però nella Germania dell'Est, dove le elezioni del marzo 1990 punirono non solo gli ex comunisti, ma anche i socialdemocratici e gli altri gruppi di sinistra, mostratisi troppo timidi di fronte alla prospettiva di un'immediata unificazione tedesca nel segno dell'economia di mercato e della democrazia liberale. La vittoria andò così ai cristianodemocratici che, in pieno accordo coi loro omologhi dell'Ovest, accelerarono i tempi per la liquidazione di una entità statuale, la Repubblica democratica tedesca, ormai privata di ogni legittimità e svuotata di qualsiasi funzione storica. In questa situazione si inserì con grande efficacia l'azione del governo Kohl, che riuscì a preparare in pochi mesi l'assorbimento della Germania orientale nelle strutture istituzionali ed economiche della Repubblica federale tedesca e a fare accettare anche all'Urss e ai paesi dell'Est europeo la nuova realtà di una Germania unita e integrata nell'Alleanza atlantica. In maggio i due governi firmarono un trattato per l'unificazione economica e monetaria. Il 3 ottobre 1990, dopo che il leader sovietico Gorbacév aveva dato il suo assenso alla riunificazione e dopo che la Polonia era stata tranquillizzata da una solenne dichiarazione dei due Parlamenti tedeschi circa l'inviolabilità delle frontiere uscite dal secondo conflitto mondiale, entrò in vigore il vero e proprio trattato di unificazione; e la Germania tornò a essere, dopo oltre un quarantennio di divisione, uno Stato unitario: potenzialmente il più forte e il più dinamico dell'intero continente europeo. 27.6. Dittature e democrazie in America Latina. La crisi della democrazia in Uruguay, Il Cile da Allende a Pinochet, L'Argentina fra peronismo e dittature militari, La guerra delle Falkland e la caduta del regime militare, Il ritorno ai metodi democratici, I fattori di

destabilizzazione, I narcotrafficanti, Dittature e movimenti di guerriglia nel Centro America, La rivoluzione sandinista in Nicaragua, Inflazione e crisi finanziaria. Anche per l'America Latina, quelli compresi fra la crisi petrolifera (1973) e la caduta del muro di Berlino (1989) furono anni di profonde trasformazioni, soprattutto dal punto di vista politico. Questi anni segnarono infatti la massima espansione e la successiva caduta delle dittature militari che abbiamo visto essere già presenti in buona parte del continente [§23.8]. Un esito, quest'ultimo, cui forse non fu estraneo l'attenuarsi della tensione planetaria fra Usa e Urss. Nella prima metà degli anni '70, i militari assunsero il potere anche in paesi in cui la tradizione democratica sembrava avere radici più antiche e più profonde. Fu il caso dell'Uruguay (dove il regime liberale, indebolito da una gravissima crisi economica e dalle spettacolari azioni di guerriglia urbana messe in atto dal movimento clandestino dei tupamaros, fu rovesciato nel 73) e soprattutto del Cile, dove nel 1970 il socialista Salvador Allende aveva assunto la presidenza, a capo di un governo di Unità popolare. Allende tentò di realizzare un programma di nazionalizzazioni e di ampie riforme sociali. Ma dovette scontrarsi con una situazione economica ai limiti del dissesto, con l'opposizione della borghesia e con l'aperta ostilità degli Stati Uniti (che vedevano messi in pericolo i privilegi di alcune grandi corporations), oltre che con le intemperanze estremiste di una parte dei suoi stessi seguaci. Nel settembre 1973, Allende fu rovesciato da un colpo di Stato militare e ucciso mentre tentava un'estrema resistenza nel palazzo presidenziale. Il potere fu assunto dal generale Augusto Pinochet, che diede vita a un regime dai tratti duramente autoritari. Non meno drammatiche furono in questo periodo le vicende attraversate dall'Argentina. Nel 1972, il regime militare che aveva assunto il potere sei anni prima, non riuscendo a dominare una situazione sempre più delicata soprattutto sotto il profilo dell'economia e dell'ordine pubblico (erano attivi nel paese diversi gruppi di guerriglia, sia di ispirazione marxista sia di obbedienza peronista), non trovò di meglio che accordarsi con l'ex dittatore Perón, esule da quasi vent'anni ma sempre popolarissimo, soprattutto fra le masse urbane. Eletto trionfalmente alla presidenza della Repubblica nel settembre 73, Perón fallì completamente nel compito di riportare l'ordine nel paese, mentre sul piano economico non fece che ripetere l'esito disastroso della sua precedente esperienza di governo [§23.8]. La situazione precipitò ulteriormente quando, dopo la sua morte (luglio 74), la presidenza passò alla sua seconda moglie Isabelita. Nel marzo 76, in presenza di una

guerriglia di sinistra sempre più aggressiva e di un'inflazione crescente, i militari decisero di deporre la presidentessa e di riprendere in mano il potere. La dittatura militare, per aver ragione della sovversione interna, usò metodi estremamente brutali: decine di migliaia di oppositori, o presunti tali, furono arrestati o scomparvero nel nulla. Ma nemmeno il pugno di ferro dei militari servì a rimettere in sesto l'economia e a fermare l'inflazione. Al fallimento economico si aggiunse poi un gravissimo scacco militare. Nel 1982, anche per distogliere l'opinione pubblica dai problemi interni, il governo argentino procedette all'occupazione delle isole Malvine (o Falkland), situate a qualche centinaio di chilometri dalla costa atlantica e tenute da secoli dalla Gran Bretagna. Ma il governo inglese reagì duramente, inviando navi, aerei e truppe che, dopo poche settimane di combattimenti, ricacciarono gli argentini dall'arcipelago. Investiti da un'ondata di impopolarità, i generali furono costretti a farsi da parte e a convocare libere elezioni che, nel 1983, videro la vittoria del radicale Raùl Alfonsin. In questo stesso periodo, anche negli altri paesi sudamericani, si assisté al rientro più o meno spontaneo dei militari nelle caserme e al conseguente ritorno a una sia pur precaria vita democratica. In Brasile, dove già negli anni 70 i militari avevano allentato le maglie della dittatura, le prime libere elezioni presidenziali si tennero nel 1985. Fra il 1984 e il 1985 si ebbero libere consultazioni in Perù, Uruguay e Bolivia. Nel 1988, in Cile, il regime di Pinochet - già costretto dalle pressioni internazionali ad aprire alcuni spazi di limitato pluralismo - fu sconfitto in un referendum indetto dallo stesso dittatore; le elezioni presidenziali, tenutesi nel dicembre '89, videro la vittoria del candidato delle opposizioni, il democristiano Patricio Aylwin. Nel 1989 fu rovesciata anche la dittatura del generale Stroessner in Paraguay. Visto che in Colombia, Venezuela ed Ecuador le istituzioni liberaldemocratiche erano rimaste in piedi, pur fra molte contraddizioni, anche nel periodo precedente, si può dire che, alla fine degli anni '80, l'intero continente sudamericano era riguadagnato alla democrazia politica. Il consolidamento della democrazia trovava però tuttora numerosi e gravissimi ostacoli di natura economica, politica e sociale. In Argentina le conseguenze di un'inflazione catastrofica - unite all'inquietudine dei militari, messi sotto accusa per le repressioni degli anni della dittatura e per questo protagonisti di ripetuti episodi di insubordinazione - logorarono l'esperimento di Alfonsin e determinarono, nelle elezioni del 1989, la sconfitta dei radicali e l'affermazione del candidato peronista Carlos Meném. In Brasile un'inflazione inarrestabile fece da sfondo a una seria crisi istituzionale, che vide il presidente Vernando Collor de Mello, eletto

nel 1989, messo sotto accusa per corruzione e costretto a dimettersi alla fine del '92. Nello stesso anno il Venezuela fu teatro di due falliti tentativi di colpo di Stato militare. In Perù, dove un movimento di guerriglia di ispirazione maoista (Sendero luminoso) si era reso protagonista di una serie di azioni sanguinose e spietate, fu lo stesso presidente Alberto Fujimori a farsi promotore, sempre nel '92, di un colpo di Stato incruento, sospendendo la costituzione ed esautorando il Parlamento. In Colombia la minaccia più grave era costituita dalla strapotenza dei grandi trafficanti di droga, che raffinavano ed esportavano sui mercati statunitensi ed europei la cocaina ricavata dalle foglie della coca, prodotta per lo più in Perù e in Bolivia. Grazie agli enormi profitti realizzati - ma grazie anche al fatto che la coltivazione della coca rappresenta la principale risorsa di intere regioni poverissime - i narcotrafficanti potevano condizionare, con la corruzione e con la violenza, l'operato dei poteri locali e degli stessi governi di molti paesi. Ancora più complessa e travagliata, dal punto di vista politico, era la situazione dei piccoli Stati dell'America centrale, dove la fine delle ultime dittature personali (Somoza in Nicaragua nel 79, Duvalier a Haiti nell'86) non si tradusse in una stabile affermazione della democrazia; e dove fragili regimi formalmente liberaldemocratici (come quelli di Honduras, Salvador, Guatemala, Santo Domingo) erano perennemente soggetti al rischio di scivolare nella dittatura militare e nel contempo dovevano subire gli attacchi della guerriglia di estrema sinistra. Un ulteriore fattore di tensione nell'area centroamericana fu costituito, negli anni '80, dagli avvenimenti del Nicaragua, dove un movimento rivoluzionario di sinistra - il movimento sandinista (chiamato così da Sandino, eroe nazionale e protagonista della lotta antiimperialista negli anni '20 del '900) prese il potere nel 1979 rovesciando la dittatura di Anastasio Somoza. Gli Stati Uniti, che avevano a lungo appoggiato lo screditatissimo Somoza, non intervennero per impedirne la caduta. Ma quando il nuovo regime accentuò i suoi tratti "socialisti" in politica interna e internazionale, si creò una forte tensione, sfociata, durante la presidenza Reagan, nell'appoggio degli Usa ai movimenti armati antisandinisti (i contras). Solo nel 1989 si giunse a una tregua, in seguito alla quale i contras sospesero la guerriglia in cambio della promessa del governo di convocare libere elezioni: elezioni che si tennero nel febbraio '90 e furono vinte dal fronte delle opposizioni antisandiniste. La sconfitta dei sandinisti in Nicaragua accentuava l'isolamento di Cuba, dove il regime di Fidel Castro era messo in seria difficoltà dal collasso dell'Urss, che lo privava del suo principale tutore e partner economico.

Se, nonostante tutto, la tendenza alla stabilizzazione nel segno della democrazia poteva considerarsi una costante nell'America Latina degli anni '80, più complesso e contraddittorio si presentava il quadro economico. Quasi tutti i paesi latinoamericani furono in questo periodo travagliati dall'inflazione, con tassi di aumento dei prezzi a volte vertiginosi, e dovettero contemporaneamente far fronte a un pesantissimo carico di debiti con l'estero: debiti contratti per finanziare ambiziosi programmi di sviluppo e cresciuti negli anni al punto da assorbire spesso, con l'onere dei soli interessi, l'intero valore delle esportazioni. 27.7. Israele e i paesi arabi. La svolta di Sadat e la pace fra Egitto e Israele, Il problema palestinese, L""intifada", La crisi libanese e l'intervento israeliano. Anche nel tormentato scenario mediorientale, gli anni 70 portarono grosse novità. All'indomani della "guerra del Kippur" [§26.7], il presidente egiziano Sadat si convinse della necessità di trovare una soluzione politica al conflitto con Israele (unico modo per liberare il paese da un perenne stato di guerra) e dunque di avvicinarsi agli Stati Uniti. Nel 1974-75, con un clamoroso rovesciamento di alleanze, espulse i tecnici sovietici dall'Egitto, congelò i rapporti con l'Urss e impresse alla sua politica estera un segno filooccidentale. Nel novembre 1977 il presidente egiziano compì un clamoroso viaggio a Gerusalemme e formulò personalmente, in un discorso al Parlamento israeliano, la sua offerta di pace. Si giunse quindi, con la mediazione del presidente americano Carter, agli accordi di Camp David del settembre 1978 fra Sadat e il primo ministro israeliano Begin. L'Egitto ottenne la restituzione del Sinai e stipulò con Israele un trattato di pace (marzo 79). Una pace che rappresentò un evento storico e sopravvisse anche alla morte del presidente Sadat, ucciso nell'81 in un attentato di integralisti islamici; ma non fu sufficiente a mettere in moto un generale processo di pacificazione nell'area mediorientale. Gli accordi di Camp David prevedevano ulteriori negoziati per un regolamento globale nella regione e per la soluzione del problema palestinese. Ma questi negoziati non furono avviati. L'ostacolo principale venne in un primo tempo dagli Stati arabi e dall'Olp, che denunciarono il "tradimento" dell'Egitto e rifiutarono ogni trattativa col "nemico storico". Successivamente, a partire dalla metà degli anni '80, gli Stati arabi "moderati" (in particolare Giordania e Arabia Saudita) e la stessa dirigenza dell'Olp assunsero una posizione più morbida e, sfidando la condanna del

cosiddetto "fronte del rifiuto" (Siria, Libia e l'ala radicale delle organizzazioni palestinesi), si dissero disposti a trattare con Israele e a riconoscerne l'esistenza in cambio del suo ritiro dai territori occupati (Cisgiordania e striscia di Gaza), dove sarebbe dovuto sorgere uno Stato palestinese. A questo punto, però, furono i dirigenti dello Stato ebraico che aveva frattanto avviato una parziale "colonizzazione" dei territori occupati a rifiutare la trattativa con l'Olp di Arafat, considerata un'organizzazione terroristica, e a opporsi alla creazione di uno Stato palestinese, visto come una minaccia permanente all'esistenza stessa di Israele. La tensione si accrebbe ulteriormente quando, a partire dalla fine dell'87, i palestinesi dei territori occupati diedero vita a una lunga e diffusa rivolta (detta intifada, in arabo "risveglio") contro gli occupanti, che reagirono con una dura repressione. L'intensità e la durata della protesta (nata spontaneamente, ma sostenuta dagli uomini dell'Olp) e il suo indiscutibile carattere popolare giovarono alla causa del movimento palestinese, assai più di quanto non avessero fatto a suo tempo le azioni terroristiche, e resero più difficile la posizione dei governi israeliani. I riflessi dell'irrisolto nodo palestinese si erano fatti sentire pesantemente anche in Libano: un piccolo Stato pluriconfessionale, rimasto fin allora ai margini del conflitto araboisraeliano, dove l'Olp aveva trasferito le sue basi dopo il "settembre nero" del 1970. Il trapianto delle organizzazioni di guerriglia non tardò a far saltare il fragile equilibrio su cui si reggeva la convivenza fra le diverse comunità libanesi (cristiani, musulmani sunniti, sciiti, drusi). Dal 1975 il Libano entrava in uno stato di cronica e sanguinosa guerra civile, in cui tutte le fazioni si fronteggiavano con le loro milizie armate e si combattevano a colpi di attentati e di massacri ai danni soprattutto della popolazione civile. La situazione si aggravò ulteriormente dopo che l'esercito israeliano, nell'estate 1982, invase il paese spingendosi fino a Beirut per cacciarne, dopo sanguinosi combattimenti, le basi dell'Olp. Il successivo invio a Beirut di una forza multinazionale di pace da parte di Stati Uniti, Francia, Italia e Gran Bretagna consentì l'evacuazione dei combattenti dell'Olp (il cui centro dirigente fu trasferito a Tunisi), ma non servì a riportare la calma nel paese. La forza fu ritirata nel 1984, dopo una serie di attentati contro i contingenti americano e francese. E il Libano rimase da allora lacerato da lotte intestine, che avrebbero poi fornito alla vicina Siria il pretesto per intervenire militarmente nel paese e imporvi una sorta di protettorato. 27.8. Il mondo islamico e la rivoluzione iraniana.

Laici e integralisti, La Turchia, L'Iran e il regime dello scià, La rivoluzione di Khomeini, La crisi degli ostaggi americani, La guerra IraqIran. Quello fra Israele e il mondo arabo non fu certo l'unico conflitto che interessò nel secondo dopoguerra l'inquieta area mediorientale. Un altro scontro di lunga durata - esteso a tutta la vasta area dei paesi musulmani - fu quello che oppose, e tuttora oppone, le forze laiche, rivoluzionarie o conservatrici ma comunque aperte all'influenza dell'Occidente, ai movimenti integralisti [§23.3]. Le correnti laiche, complessivamente maggioritarie nei gruppi di governo dell'epoca postcoloniale, avevano, fin dal primo dopoguerra, la loro roccaforte nella Turchia nata dalla rivoluzione kemalista [§20.3]: paese rivolto più verso l'Europa che verso l'Asia, membro della Nato dal 1952, retto da istituzioni rappresentative di tipo occidentale (nonostante i frequenti e pesanti interventi dei militari nella vita politica). Le correnti integraliste, minoritarie fra i ceti dirigenti ma forti di un notevole seguito popolare in quasi tutti i paesi islamici, trovarono alla fine degli anni 70 una base e un punto di riferimento in Iran. Paese vasto e popoloso, ricco di risorse naturali (soprattutto di petrolio), collocato in una posizione strategica per il controllo delle rotte petrolifere, l'Iran era stato fin allora, accanto alla Turchia, il principale pilastro della presenza occidentale, e in particolare americana, in Medio Oriente dopo la seconda guerra mondiale. Dopo il fallimento dell'esperimento riformatore del primo ministro Mossadeq - che nel '53 era stato rovesciato da un colpo di Stato, per aver tentato di nazionalizzare le compagnie petrolifere straniere - il paese era stato governato con metodi autoritari dallo scià (imperatore) Rheza Pahlavi. A partire dagli anni '60, lo scià aveva avviato una politica di modernizzazione accelerata, e per molti aspetti traumatica, che mirava a trasformare il paese in una grande potenza militare ma che non si tradusse in significativi progressi nella condizione di vita delle masse. Questa politica suscitò una crescente opposizione sia da parte dei gruppi di sinistra, sia da parte del clero islamico tradizionalista che assunse, dal 1978, la guida di un vasto movimento di protesta popolare. Lo scià tentò di fermare la rivolta prima con sanguinose repressioni, poi chiamando al governo esponenti dell'opposizione moderata. Ma, nel gennaio 79, abbandonato anche dagli Stati Uniti, dovette lasciare il paese. In Iran si instaurò così una Repubblica islamica di stampo teocratico, ispirata a un vago riformismo sociale basato sui dettami del Corano e guidata dall'ayatollah Khomeini,

massima autorità dei musulmani sciiti, che aveva capeggiato dall'esilio di Parigi l'opposizione religiosa al regime dello scià. Violentemente antioccidentale e antiamericano, il nuovo regime entrò subito in contrasto con gli Stati Uniti, accusati di aver sostenuto lo scià e di avergli offerto ospitalità dopo la sua fuga. Per oltre un anno (novembre 79gennaio '81), il personale dell'ambasciata Usa a Teheran fu tenuto prigioniero da un gruppo di militanti islamici che agivano col pieno appoggio delle autorità. Gli ostaggi furono liberati solo dopo una lunga trattativa e dopo il fallimento, nell'aprile '80, di una azione di forza ordinata dal presidente Carter. Isolato internazionalmente e gravemente dissestato nell'economia, l'Iran fu attaccato, nel settembre 1980, dal vicino Iraq, che cercava di profittare della situazione per impadronirsi di alcuni territori da tempo contesi fra i due paesi. La guerra - che rappresentò un gravissimo fattore di tensione internazionale in un'area di eccezionale importanza strategica (per il Golfo Persico passava il 30% della produzione petrolifera mondiale) - si protrasse con fasi alterne per ben otto anni e si risolse in una spaventosa quanto inutile carneficina: il cessate il fuoco stabilito, grazie alla mediazione dell'Onu, nel luglio '88 trovò infatti i contendenti sulle stesse posizioni dell'inizio del conflitto. La fine della guerra e la morte, l'anno successivo, dell'ayatollah Khomeini aprirono qualche spazio alle componenti meno estremiste del regime iraniano, che negli anni precedenti aveva contribuito non poco - anche attraverso le azioni terroristiche dei gruppi radicali sciiti attivi soprattutto in Libano - all'instabilità dell'intera area mediorientale. 27.9. I conflitti nell'Asia comunista. Il Vietnam comunista, La Cambogia e l'utopia agraria di Pol Pot, L'invasione vietnamita La guerra fra Cina e Vietnam, I tentativi di pacificazione. Negli anni successivi alla vittoria dei comunisti in Vietnam (1975) e alla morte di Mao Tsetung in Cina (1976), l'Asia comunista attraversò una fase di profonde trasformazioni e di drammatici conflitti. Dopo la conquista di Saigon, ribattezzata "città Ho Chiminh", i nordvietnamiti ignorarono tutte le promesse di autodeterminazione e di riconciliazione fra le due metà del paese e attuarono una politica di puro e semplice assorbimento del Sud nel Nord e di sistematica emarginazione, non solo dei sostenitori del vecchio regime, ma anche dei capi della lotta di liberazione nel Sud. La collettivizzazione dell'economia fu condotta con

notevole durezza. Nella primavera del 1978, la numerosa comunità di origine cinese - formata in gran parte da commercianti - fu improvvisamente espropriata dei suoi averi. Centinaia di migliaia di persone abbandonarono il paese, per lo più su piccole imbarcazioni, e molti persero la vita durante la fuga. Ancora più tragiche furono le vicende della vicina Cambogia, dove i khmer rossi, sotto la guida di Pol Pot, misero in atto, fra il 76 e il 78, uno dei più radicali e sanguinari esperimenti di rivoluzione sociale mai tentati nella storia. Nell'intento di cancellare ogni traccia della vecchia società e di costruirne una nuova partendo da zero, i comunisti cambogiani consumarono uno spaventoso massacro, non solo eliminando fisicamente coloro che avevano servito sotto il regime di Lon Nol [§26.4], ma provocando anche la morte per fame e per stenti di circa un milione e mezzo di comuni cittadini (su una popolazione di nemmeno sette milioni), costretti da un giorno all'altro a evacuare le città e a trasferirsi nelle campagne. Il denaro fu abolito. Templi buddisti, biblioteche e istituzioni d'ogni genere furono materialmente distrutti, in omaggio all'utopia di uno spietato comunismo agrario. Geloso della propria indipendenza, e appoggiato per motivi tattici dalla Cina, il regime di Pol Pot costituiva però un ostacolo per i piani del Vietnam, che intendeva ridurre l'intera Indocina sotto il proprio protettorato (e lo stava già facendo col Laos). Nel dicembre 1978, 200.000 soldati vietnamiti, assieme a gruppi di esuli cambogiani, invadevano il paese e vi installavano un governo "amico" rovesciando quello dei khmer rossi, i quali, col sostegno della Cina, avrebbero continuato per parecchi anni a dar vita a un'ostinata guerriglia. Poche settimane dopo (febbraio 79) i cinesi effettuarono una spedizione punitiva nel Vietnam del Nord, infliggendo notevoli danni al paese, senza però raggiungere lo scopo di costringere il governo vietnamita a ritirare le truppe di occupazione dalla Cambogia. Dopo aver visto per decenni la lotta fra movimenti di guerriglia guidati dai comunisti e occupanti stranieri, la penisola indocinese diventava così teatro di conflitti interni al mondo comunista. Solo nell'88 - grazie alla mediazione dell'Onu e grazie anche al miglioramento nel frattempo intervenuto nei rapporti fra Cina e Urss - le forze vietnamite cominciarono a ritirarsi dalla Cambogia. E solo nel '91 si giunse - dopo lunghissimi negoziati - a un precario accordo di pacificazione fra tutte le fazioni in lotta (compresi i khmer rossi) e alla formazione di un "Consiglio nazionale supremo" col compito di convocare libere elezioni. Le elezioni si tennero, sotto il controllo dell'Onu, nel maggio '93, in una situazione ancora tesa e segnarono il successo dei sostenitori dell'ex sovrano

Norodom Sihanouk, ponendo così le basi per la restaurazione della monarchia. Ma questo non bastò a riportare una vera pace nel paese, attraversato da un conflitto "triangolare", che vedeva i monarchici e i comunisti filovietnamiti in lotta fra loro ed entrambi impegnati a fronteggiare gli eredi dei khmer rossi. 27.10. La Cina dopo Mao. L'ascesa di Deng Xiaoping, Le riforme economiche, La contestazione studentesca, La repressione di piazza Tiananmen. In Cina la fine degli anni 70 vide compiersi un processo di radicale revisione interna, simile per alcuni aspetti a quello avviato in Urss dopo la morte di Stalin. Artefice principale della demaoizzazione fu Deng Xiaoping, anziano esponente del gruppo dirigente "storico" del comunismo cinese, emarginato ai tempi della rivoluzione culturale perché fautore della linea moderata ed emerso progressivamente dopo il 76 come il vero leader del paese. Nel giro di pochi anni, Deng capovolse la linea rigorosamente collettivista ed egualitaria di Mao Tsetung e promosse una serie di profonde modifiche nella gestione dell'economia: furono reintrodotte le differenze salariali e aumentati gli incentivi per i lavoratori; la direzione delle aziende fu ricondotta a criteri di efficienza; fu incoraggiata l'importazione di tecnologia dai paesi più sviluppati; i contadini ebbero la possibilità di coltivare i propri fondi e di venderne i prodotti sul mercato libero; in generale, furono introdotti nel sistema elementi di economia di mercato, soprattutto in materia di formazione dei prezzi. Quella avviata in Cina fu dunque una trasformazione di vasto respiro, che provocò notevoli mutamenti nella stratificazione sociale (si formarono, come nella Russia della Nep, nuovi strati privilegiati di manager, piccoli imprenditori agricoli, tecnici e commercianti) e anche nella mentalità e nel costume, con la penetrazione di modelli di tipo "consumistico" soprattutto fra le generazioni più giovani. Proprio il contrasto fra una modernizzazione economica per molti aspetti traumatica (e non priva di costi sociali, in termini di disoccupazione e di migrazioni interne) e il mantenimento della struttura burocraticoautoritaria del potere fu all'origine, alla fine degli anni '80, di un nuovo e spontaneo fenomeno di protesta. Protagonisti di quest'ultima cui certo non era estranea l'eco dei processi riformatori in atto in Unione Sovietica - furono gli studenti dell'università di Pechino, che diedero vita, nella primavera dell'89, a una serie di imponenti e pacifiche manifestazioni di piazza per chiedere

più libertà e più democrazia. Dopo qualche vano tentativo di dialogo, il gruppo dirigente comunista guidato dal vecchio Deng Xiaoping e dal primo ministro Li Peng - preoccupato anche per l'estendersi delle manifestazioni ad altre città della Cina - rispose con una brutale repressione militare, con una serie di pesanti condanne e con l'epurazione degli elementi riformisti che facevano capo al segretario del partito Zhao Ziyang. L'intervento dell'esercito nella piazza Tienanmen (giugno '89) si risolse in un vero e proprio massacro, che suscitò reazioni sdegnate in tutto il mondo democratico e, in un primo tempo, si riflesse negativamente sui rapporti commerciali con l'Occidente, indispensabili alla modernizzazione del paese. Le relazioni economiche furono successivamente ristabilite, anche per l'interesse dei paesi industrializzati nei confronti di un mercato potenzialmente enorme e di un'economia che, nel decennio '80-90, seppe dar vita a un vero e proprio boom, raddoppiando il volume della sua produzione. Il regime cinese riuscì così a sopravvivere al grande ciclone che investì l'intero mondo comunista alla fine degli anni '80. E il paese più popoloso del mondo divenne teatro di un inedito esperimento di liberalizzazione economica all'interno di un regime che si proclamava ancora comunista e in cui il partito unico deteneva il monopolio del potere politico. 27.11. Il miracolo giapponese. Uno sviluppo eccezionale, La corruzione politica, Forza economica e debolezza militare. Fra i numerosi "miracoli economici" del secondo dopoguerra, quello del Giappone - protagonista già nel secolo XIX di un'esperienza di modernizzazione unica nel suo genere - fu certamente il più straordinario. Paese da sempre povero di materie prime e con una densità di abitanti fra le maggiori del mondo (alla fine degli anni '80 la popolazione superava i 120 milioni, su una superficie di poco superiore a quella dell'Italia), uscito dalla guerra in condizioni disastrose, il Giappone era diventato, già negli anni '60, la terza potenza economica del mondo dopo Usa e Urss. All'inizio degli anni '80, il suo prodotto nazionale superava quello sovietico, la sua industria conquistava i mercati di tutto il mondo e la sua potenza finanziaria preoccupava gli stessi Stati Uniti. Le cause di questo miracolo erano numerose. In parte esse affondavano le loro radici nelle tradizioni e nella mentalità del popolo giapponese: abitudine all'organizzazione e alla disciplina, forte coesione nazionale,

spirito di gruppo che si traduceva in "patriottismo d'impresa"; in parte si collegavano a un preesistente elevato livello di industrializzazione, di scolarizzazione e di istruzione tecnica; in parte erano da ricondursi all'eccezionale stabilità politica di un sistema essenzialmente bipartitico, in cui il Partito liberaldemocratico mantenne ininterrottamente per oltre un quarantennio la guida del governo, il che favoriva, per altro verso, fenomeni di autoritarismo e di corruzione. La crisi petrolifera del 73 -74 colpì il Giappone più di altri paesi industriali e provocò la prima brusca caduta della produzione; ma la crisi fu superata abbastanza rapidamente e negli anni '80 il tasso di sviluppo, pur molto rallentato rispetto al ventennio precedente, fu sempre circa il doppio di quello dei paesi occidentali. Sul piano politico, la tradizionale stabilità del paese fu messa a dura prova, a partire dalla fine degli anni '80, da una serie di scandali finanziari che investirono il Partito liberaldemocratico. Persa, nelle elezioni del 1992, la maggioranza assoluta dei seggi e decimato da tre successive scissioni, il partito fu costretto a dividere le responsabilità di governo con altre formazioni, compresi i tradizionali avversari socialdemocratici. Alle incognite derivanti dalla mutata situazione politica si aggiungevano quelle derivanti dall'anomala posizione internazionale del paese, saldamente inserito nella sfera di influenza degli Usa e protetto dal loro "ombrello" nucleare, ma privo - anche per le disposizioni contenute nella costituzione imposta dai vincitori [§22.7] - di una adeguata forza militare propria. Il Giappone, che fin allora aveva potuto concentrare le sue risorse sulla ricerca scientifica e sullo sviluppo industriale, vedeva crescere le pressioni da parte dei suoi alleati per un maggior contributo alle spese per la propria difesa e per le attività delle Nazioni Unite: premessa per l'assunzione di nuove responsabilità di una comunità internazionale non più bloccata dalla competizione bipolare. Sommario Nei paesi occidentali si manifestò nei tardi anni '70 una crisi delle ideologie di sinistra, sia riformiste sia rivoluzionarie, e la tendenza all'abbandono dell'impegno politico per un ritorno al privato o ai valori tradizionali (il cosiddetto "riflusso"). Nello stesso periodo esplose il fenomeno del terrorismo politico. Sul piano dell'economia, l'Europa perse terreno, negli anni '70 e '80, rispetto a Usa e Giappone, e il processo di unificazione non fece grandi passi avanti. Sul piano politico le principali novità furono: la vittoria dei

conservatori di Margaret Thatcher in Gran Bretagna; il ritorno al potere dei cristianodemocratici in Germania federale; la vittoria del socialista Mitterrand in Francia; il ritorno alla democrazia di Portogallo, Grecia e Spagna (entrati poi a far parte della Cee). Dopo un periodo di incertezza politica ed economica, gli Stati Uniti inaugurarono, con la presidenza di Reagan (1980-88) e poi di Bush, un nuovo corso basato sulla scelta liberista in economia e su una politica estera più dura nei confronti dell'Urss e dei regimi integralisti del Medio Oriente (Iran, Libia). Negli ultimi anni dell'età di Breznev, l'Urss, pur non avendo risolto i suoi problemi interni, allargò la sua sfera di influenza mondiale. Particolarmente costoso, anche da un punto di vista umano, fu l'intervento militare in Afghanistan (79). Con l'avvento di Gorbaciov (1985), fu avviata una radicale svolta sia in politica estera sia in politica interna (riforme economiche e istituzionali, maggior libertà di informazione): svolta che suscitò però non poche difficoltà all'interno dell'Urss. In seguito a una serie di incontri fra i leader sovietici e statunitensi, si instaurò, dopo l'85, un nuovo clima di distensione internazionale che consentì alcuni accordi fra le superpotenze sulla limitazione degli armamenti e si riflesse positivamente anche sulle prospettive di soluzione dei conflitti locali. I mutamenti in Urss ebbero immediati riflessi sui paesi dell'Europa orientale, provocando la crisi dell'intero blocco comunista. Processi di liberalizzazione furono avviati prima in Polonia (dove già all'inizio degli anni '80 si era affermato il sindacato indipendente "Solidarnosc") e in Ungheria, poi in Germania orientale, Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania (l'unico paese in cui il trapasso di regime avvenne in forma violenta). Mentre in Romania e in Serbia i gruppi "neocomunisti" riuscirono a mantenere il potere, negli altri Stati i partiti comunisti furono completamente travolti. Nella Repubblica democratica tedesca la caduta del muro di Berlino e la vittoria dei cristianodemocratici aprirono la strada alla riunificazione con la Repubblica federale, che fu portata a termine nell'ottobre 1990. In America Latina gli anni 70 e '80 videro prima la massima espansione delle dittature militari (come quelle affermatesi in Cile nel 73 e in Argentina nel 76), poi il graduale ritorno alla democrazia politica. Il processo di democratizzazione fu però ostacolato quasi ovunque da gravi problemi economici. Il Medio Oriente fu teatro di due successive guerre - la "guerra dei sei giorni" del '67 e la "guerra del Kippur" del 73 - fra arabi e israeliani. La

pace fra Egitto e Israele (79) non servì a riportare la pace nella regione e lasciò irrisolto il problema palestinese. I riflessi della crisi si fecero sentire anche nel Libano, sconvolto da una crudele guerra civile. In Iran, nel 79, una rivoluzione portò alla caduta del regime dello scià e alla nascita di un regime integralista islamico guidato da Khomeini. Il nuovo regime, violentemente antioccidentale, entrò subito in contrasto con gli Stati Uniti e fu coinvolto in una lunga e sanguinosa guerra con l'Iraq (1980-88). Il SudEst asiatico, dopo la partenza degli americani, vide l'esplodere di conflitti fra paesi comunisti. Nel 78, dopo essere stata teatro del sanguinoso esperimento rivoluzionario di Pol Pot, la Cambogia fu invasa dal Vietnam. In Cina l'ascesa di Deng Xiaoping portò a un processo di riforme interne e liberalizzazione economica che diede buoni risultati in termini di sviluppo produttivo, ma non si accompagnò alla democratizzazione. Il Giappone, già protagonista, nel secondo dopoguerra, di un "miracolo economico", divenne all'inizio degli anni '80 la seconda potenza industriale e finanziaria del mondo, senza peraltro svolgere in campo internazionale un ruolo adeguato alla sua forza economica. Bibliografia Si rimanda alle opere citate nella bibliografia dei capitoli 22,23,24 e 26, in particolare: E. Galli della Loggia, Il mondo contemporaneo cit, e EJ. Hobsbawm, Il secolo breve cit.; si veda inoltre W. Benz H. Grami, Tensioni e conflitti nel mondo contemporaneo, Feltrinelli, Milano 1982 (vol. 36 della Storia universale Feltrinelli). Sul terrorismo: W. Laqueur, L'età del terrorismo, Rizzoli, Milano 1987. Sulla politica internazionale: E. Di Nolfo," Storia delle relazioni internazionali, 1918-1999, Laterza, RomaBari 20012. Sui problemi delle superpotenze, considerati in una prospettiva di lungo periodo, vedi: P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano 1989. Sulla crisi dell'Urss: V. Zaslavsky, Storia del sistema sovietico, e E Benvenuti, Storia della Russia contemporanea, citati al cap. 18. Sulla crisi dei regimi comunisti nell'Europa dell'Est: R. Dahrendorf, 1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa, Laterza, RomaBari 1990; T. Garton Ash, Le rovine dell'Impero. Europa centrale 1980-1990, Mondadori, Milano 1992. Sulla riunificazione tedesca: G. E. Rusconi, Capire la Germania, Il Mulino, Bologna 1990; R. Darnton, Diario berlinese 1989-1990, Einaudi, Torino 1992.

28. L'Italia dal miracolo economico alla crisi della prima repubblica. 28.1. Il miracolo economico. La crescita produttiva, I fattori del "miracolo": bassi salari e alti profitti, L'Italia paese industriale, Il ristagno dell'agricoltura, Gli aumenti salariali e la crisi del '63-64. Fra il 1958 e il 1963, giunse al culmine il processo di crescita economica iniziato in Italia dopo il 1950. Furono questi gli anni del miracolo economico: anni in cui l'Italia, con un tasso di sviluppo inferiore in Europa solo a quello tedesco, ridusse significativamente il divario che la separava dalla maggior parte dei paesi più industrializzati. Il prodotto interno lordo, che fra il '51 e il '58 era cresciuto a un tasso medio annuo del 5,3%, nel quinquennio successivo progredì ulteriormente a un ritmo del 6,5%. Il reddito procapite, che nel '51 era di 296.000 lire, raggiunse nel '63 le 536.000. Lo sviluppo interessò soprattutto l'industria manifatturiera, che nel '61 giunse a triplicare la sua produzione rispetto al periodo prebellico: un incremento particolarmente significativo si verificò nei settori siderurgico, meccanico e chimico, dove più ampio fu il rinnovamento degli impianti e delle tecnologie. L'aspetto più evidente del nuovo peso assunto dall'economia italiana era rappresentato dallo sviluppo delle esportazioni di prodotti industriali, soprattutto nei settori degli elettrodomestici e dell'abbigliamento. La diffusione dei prodotti italiani, la solidità della lira, la stabilità dei prezzi, ma anche alcuni eventi extraeconomici, come il successo organizzativo delle Olimpiadi di Roma nel '60, o le celebrazioni del centenario dell'Unità, nel '61, improntate a un generale ottimismo circa l'avvenire produttivo del paese: tutto contribuiva a rafforzare l'immagine di un'Italia ormai avviata stabilmente verso nuove prospettive di benessere. Molti erano i fattori che avevano promosso il miracolo: la congiuntura internazionale favorevole; la politica di libero scambio avviata negli anni '50 e sancita dall'adesione alla Cee; la modesta entità del prelievo fiscale; e, soprattutto, lo scarto che si venne a creare fra l'aumento della produttività e il basso livello dei salari, il che consentì alti profitti e tassi di investimento molto elevati (con un incremento di oltre il 10% annuo fra il '51 e il '63). La compressione salariale degli anni '50 - premessa essenziale per l'avvio del miracolo italiano - era il risultato di una larga disponibilità di manodopera a basso costo: disponibilità dovuta, a sua volta, all'estesa disoccupazione e al costante flusso migratorio dalle zone depresse a quelle più progredite.

L'agricoltura, che nel '51 assorbiva ancora quasi il 45% degli occupati, passava dieci anni dopo al 30% (e la percentuale sarebbe scesa ulteriormente negli anni successivi); l'industria saliva, nello stesso periodo, dal 29 al 37% e i servizi dal 27 al 32%. Fu dunque in questi anni che l'Italia divenne un paese pienamente industriale, non solo sotto l'aspetto della formazione del prodotto nazionale (già negli anni '30 la quota dell'industria aveva superato quella dell'agricoltura), ma anche sotto quello della forzalavoro occupata. Molto limitata fu, invece, la modernizzazione delle attività agricole, che mantennero in questo periodo un tasso di sviluppo modesto (circa il 3% contro il 9% dell'industria) e una scarsa produttività. L'agricoltura non riuscì quindi a rispondere positivamente all'accresciuta domanda della popolazione urbana e alla diffusione di nuove abitudini alimentari, come quella del consumo di carne, legate all'ascesa dei redditi delle famiglie. La crescita dei consumi (non solo alimentari) fu resa possibile dall'aumento generalizzato delle retribuzioni che si verificò a partire dalla fine degli anni '50. Il calo della disoccupazione, conseguenza dello stesso sviluppo economico, accrebbe la capacità contrattuale dei lavoratori che, con una serie di lotte sindacali, riuscirono a ottenere notevoli miglioramenti salariali: fra il '58 e il '63, il costo del lavoro nell'industria aumentò di circa il 60%. Questi aumenti - necessari non solo per avvicinare i livelli retributivi italiani a quelli dei paesi più avanzati, ma anche per sviluppare il mercato interno - ebbero però l'effetto di ridurre i margini di profitto e di mettere in moto un processo inflazionistico. Così, nel 1963-64, il miracolo italiano conobbe una battuta d'arresto. Gli investimenti, che erano stati uno dei fattori propulsivi del boom, si ridussero drasticamente; e lo sviluppo subì una brusca frenata, accentuata dalla politica deflazionistica messa in atto dal governo e dalle autorità monetarie. La congiuntura negativa fu superata nel giro di pochi anni: a partire dal '66, la crescita riprese, anche se a ritmi più lenti. Ma intanto era venuta in primo piano una serie di problemi economici e sociali legati agli squilibri e alle distorsioni del modello italiano di sviluppo. 28.2. Le trasformazioni sociali. Le migrazioni interne, La crescita delle città, Il disordine urbano, La televisione, L'automobile. Negli anni '50 e '60, in coincidenza col boom industriale, la società italiana subì una serie di profonde trasformazioni, che cambiarono il volto

del paese e le abitudini dei suoi cittadini forse più di quanto non fosse avvenuto nei precedenti cent'anni di storia unitaria. Col miracolo economico, l'Italia si lasciò alle spalle le strutture e i valori della società contadina ed entrò nella civiltà dei consumi. Vi entrò disordinatamente, quasi di colpo, senza aver superato i suoi storici squilibri territoriali, che anzi nell'immediato apparvero aggravati. Il fenomeno più importante e più vistoso di questi anni fu il massiccio esodo dal Sud verso il Nord e dalle campagne verso le città. Fra il '51 e il '61, circa due milioni di persone abbandonarono il Mezzogiorno. Nelle zone appenniniche del CentroSud si assiste a un vero e proprio spopolamento. In tutto il paese il ceto dei coltivatori diretti e degli affittuari subì una drastica riduzione, mentre aumentavano la piccola borghesia urbana e la classe operaia. Sempre fra il '51 e il '61, la popolazione residente in città con più di 300.000 abitanti passò da 6.847.000 a 9.190.000 (ossia dal 14,5 al 18,2% del totale). La popolazione di Milano crebbe del 22%, quella di Roma del 27%, quella di Torino (sede della maggior industria nazionale, la Fiat) di circa il 40%. La crescita delle città, anche di quelle non industriali, si accompagnò fra il '51 e il '63 a un fortissimo incremento dell'occupazione nei settori del commercio (+100%) e dell'edilizia (+84%), vere e proprie "spugne" dell'esodo rurale (nello stesso periodo, l'occupazione nell'industria manifatturiera aumentò solo del 40%). Le grandi migrazioni interne e la rapida urbanizzazione erano indubbiamente il segno di un progresso economico del paese (anche perché fecero calare progressivamente l'emigrazione verso l'estero, ancora molto elevata per tutti gli anni '50), ma furono segnate da pesanti costi umani e sociali. L'espansione delle città avvenne spesso in forme caotiche, senza piani regolatori e senza un adeguato intervento dei poteri pubblici nel campo dell'edilizia popolare: ciò favorì la speculazione e il disordine urbano, con conseguenze negative non solo sulla struttura dei nuovi quartieri, ma sugli stessi centri storici. L'inserimento degli immigrati meridionali nelle grandi città industriali fu tutt'altro che indolore e, almeno in un primo tempo, mise in evidenza il divario - che non era solo economico, ma investiva anche i modi di vita e i modelli culturali - fra il Nord e il Sud del paese. Tuttavia, in quegli stessi anni, le differenze nei comportamenti sociali cominciarono ad attenuarsi: ebbe inizio un processo di integrazione legato alle comuni esperienze lavorative, ma favorito anche, per le generazioni più giovani, dalla scolarizzazione e, per l'insieme della popolazione, dalla diffusione di alcuni consumi di massa. La televisione e l'automobile furono gli strumenti e i simboli principali di questo cambiamento. I primi apparecchi televisivi comparvero in Italia alla

metà degli anni '50, con l'inizio di regolari trasmissioni da parte della Rai, l'ente di Stato che già deteneva il monopolio dell'emittenza radiofonica. Ma il boom della televisione cominciò alla fine del decennio, in significativa coincidenza con l'avvio del miracolo economico: nel 1955 c'erano 4 apparecchi ogni 1000 abitanti, nel '60 43, nel '65 117. La televisione non era solo l'ornamento del soggiorno e l'elemento aggregante della vita familiare: era anche un veicolo attraverso cui passavano una lingua comune (la lingua nazionale, che solo in questi anni si affermò nell'uso parlato, a scapito dei dialetti) e nuovi modelli culturali di massa. Se la televisione fu il maggiore strumento di unificazione linguistica e culturale dell'Italia del miracolo, l'automobile fu l'espressione principale di una supposta parificazione economica e sociale, il simbolo di una nuova indipendenza e di una nuova libertà di movimento. Anche il boom della motorizzazione privata cominciò alla fine degli anni '50 e coincise col grande successo delle nuove utilitarie prodotte dalla Fiat: la 600 e la 500. La produzione annuale di auto passò da 318.000 unità nel '57 a 1.100.000 del '63 (per l'80% costruite dalla Fiat). Dalle 18 automobili ogni 1000 abitanti del 1955 si passò alle 105 di dieci anni dopo. L'espansione dell'industria automobilistica nazionale fu anche incoraggiata dallo Stato, sia attraverso una politica fiscale che favoriva i modelli di piccola cilindrata, sia attraverso la costruzione di una grande rete autostradale che, progettata nel '55, sarebbe stata completata a metà degli anni 70. 28.3. Il centrosinistra. Mutamenti sociali e svolta politica, Le difficoltà dell'apertura a sinistra, Il governo Tambroni, I fatti del luglio '60, I governi Fanfani, Il programma del centrosinistra, Le riforme del centrosinistra, I contrasti sulla programmazione, Le elezioni del '63 e il centrosinistra organico, Il blocco delle riforme, La Dc di Moro, La scissione socialista e il Psiup, La morte di Togliatti, L'isolamento del Pci. I mutamenti economici e sociali suscitati dal "miracolo italiano" si accompagnarono, all'inizio degli anni '60, all'allargamento delle basi del sistema politico, attraverso l'ingresso dei socialisti nell'area di governo. Si trattò del primo importante mutamento negli equilibri politici italiani dopo la rottura della coalizione tripartita nel '47 e il trionfo democristiano nelle elezioni del '48. Non fu un mutamento traumatico, anche perché non nacque da un capovolgimento dei rapporti di forza elettorali, ma da una scelta operata a livello dei gruppi dirigenti dei partiti interessati. Eppure esso

suscitò, soprattutto nella sua fase iniziale, molte speranze di rinnovamento e anche, nell'opinione pubblica moderata, molti timori. I due anni seguiti alle elezioni del '58 videro frapporsi numerosi ostacoli sulla difficile strada dell'apertura a sinistra, che era già da tempo nell'aria [§24.10] ma era ancora osteggiata dalla destra economica e da una larga parte della stessa Democrazia cristiana. Opposizioni e perplessità nei confronti del nuovo corso si manifestarono anche in Vaticano e negli ambienti diplomatici statunitensi, prima dell'avvento di Kennedy alla presidenza. La svolta maturò in seguito a una serie di avvenimenti drammatici. Nella primavera 1960, il democristiano Fernando Tambroni, non riuscendo a trovare l'accordo con socialdemocratici e repubblicani (che avrebbero voluto accelerare i tempi dell'apertura a sinistra), formò ugualmente un governo "monocolore" con l'appoggio determinante dei voti del Movimento sociale: il che suscitò le proteste dei partiti laici e della stessa sinistra Dc, i cui rappresentanti si dimisero dal governo. La tensione esplose alla fine di giugno, quando il governo autorizzò il Msi a te nere il suo congresso nazionale a Genova, nonostante l'opposizione del le forze democratiche cittadine. La decisione, che fu interpretata come un prezzo pagato da Tambroni per l'appoggio parlamentare dei neofascisti e che suonava come una sfida alle tradizioni operaie e antifasciste della città, suscitò un'autentica rivolta popolare: per tre giorni (30 giugno-2 luglio 1960) operai e militanti antifascisti si scontrarono duramente con la polizia che cercava di garantire lo svolgimento del congresso missino. Alla fine il governo cedette e il congresso fu rinviato. Ma altre manifestazioni antigovernative dilagate in molte città furono represse aspramente, in qualche caso con le armi, provocando una decina di morti (cinque nella sola Reggio Emilia). In un clima di sollevazione dell'opinione pubblica di sinistra, Tambroni fu sconfessato dalla stessa Dc e costretto a dimettersi. Con lui cadde ogni ipotesi di governo appoggiato dall'estrema destra. Per superare la gravissima crisi, fu formato un nuovo governo monocolore presieduto da Fanfani, che ottenne, nell'agosto '60, l'astensione dei socialisti in Parlamento, aprendo così la stagione politica del "centrosinistra". La nuova alleanza fu sancita dal congresso della Dc che si tenne nel gennaio '62, grazie alla sapiente regia del segretario Aldo Moro, che riuscì a far accettare la svolta al grosso del suo partito. Un nuovo governo Fanfani, formatosi nel marzo '62 e composto da Dc, Pri e Psdi, si presentò con un programma concordato col Psi, che si impegnava a dare il suo appoggio a singoli progetti legislativi.

Fu proprio in questa fase che la politica di centrosinistra, ancora incompiuta sul piano della composizione dell'esecutivo (i socialisti non facevano parte del governo), conseguì i risultati più avanzati. Il programma di governo prevedeva infatti la realizzazione della scuola media unificata, l'attuazione dell'ordinamento regionale previsto dalla Costituzione, l'imposizione fiscale nominativa sui titoli azionari e la nazionalizzazione dell'industria elettrica. Queste due ultime riforme, che erano state da tempo richieste dai socialisti come condizione per il loro ingresso nella maggioranza, miravano a introdurre dei correttivi nella struttura del capitalismo italiano e si inquadravano nel tentativo di dare avvio a una programmazione economica, nucleo qualificante e obiettivo prioritario del disegno riformatore: un disegno che mirava a potenziare gli strumenti dell'intervento statale sull'economia, al fine di ridurre gli squilibri della società italiana, e soprattutto il divario fra Nord e Sud. La nazionalizzazione dell'industria elettrica fu portata a compimento, pur fra molte difficoltà, nel novembre '62, con la creazione dell'Ente nazionale per l'energia elettrica (Enel). Nel dicembre '62 fu approvata la legge di riforma che istituiva la scuola media unica, abolendo gli istituti di avviamento professionale (destinati, nel vecchio ordinamento, a coloro che non avevano la possibilità di proseguire gli studi). Breve vita ebbe invece la nominatività dei titoli azionari, che fu radicalmente modificata già nel '64 dopo una fase di crollo in borsa e di fuga all'estero dei capitali. L'attuazione delle regioni, temuta dalla Dc perché avrebbe rafforzato le sinistre al livello del potere locale, fu rinviata. Quanto alla politica di programmazione, essa non riuscì mai a tradursi compiutamente in pratica e rimase il simbolo più evidente dell'utopia riformatrice del primo centrosinistra. Tale politica avrebbe richiesto infatti consensi politici e sindacali più ampi di quelli rappresentati dalle forze di governo, peraltro già largamente divise. Il contrasto non riguardava solo la quantità e la portata delle riforme, ma anche le priorità da introdurre nella politica di programmazione, che per i socialisti doveva privilegiare gli investimenti e la spesa sociale, mentre per i repubblicani (guidati dal ministro del Bilancio Ugo La Malfa) comportava anche un controllo della dinamica salariale (la cosiddetta politica dei redditi), al fine di commisurarla alla crescita produttiva e di contenere così i processi inflazionistici. I contrasti nella maggioranza furono esasperati dall'esito delle elezioni dell'aprile '63. La perdita dei voti della Dc e del Psi, il successo dei liberali, che si erano fortemente opposti all'apertura a sinistra, e il rafforzamento dei comunisti accentuarono le resistenze moderate in seno alla Dc e inasprirono

le divisioni interne del Psi. Un governo "organico" di centrosinistra (cioè con la partecipazione di ministri socialisti accanto a quelli democristiani, socialdemocratici e repubblicani) si formò solo nel dicembre 1963 sotto la presidenza di Aldo Moro e nacque su basi più moderate rispetto al precedente governo Fanfani. A partire dal '63, il processo riformatore fu praticamente bloccato, anche per il manifestarsi dei primi segni di crisi economica, che sembravano suggerire una politica più cauta. Inoltre, si faceva sempre sentire il peso delle forze ostili al centrosinistra, che annoveravano tra le loro file, oltre alla destra economica, anche le alte gerarchie militari (nell'estate del '64 si diffusero voci di un progetto di colpo di Stato promosso dal generale De Lorenzo, capo dei servizi segreti delle forze armate) e lo stesso presidente della Repubblica, il democristiano Antonio Segni. Ma gli ostacoli più seri a una politica innovatrice venivano dall'interno della coalizione governativa, in particolare dall'esigenza della Dc di mantenere unito il composito fronte di forze economiche e sociali che costituiva la sua base di consenso: un fronte in cui le istanze di rinnovamento erano nettamente minoritarie rispetto al peso dei gruppi moderati che avevano accettato a malincuore la politica di centrosinistra. Nell'atteggiamento della Dc agivano anche la visione solidaristica della politica e il rifiuto ideologico di scelte radicali che erano tipici della cultura cattolica e si riflettevano nel modo di operare di un leader come Aldo Moro, tendente a risolvere i contrasti col compromesso e la mediazione (anche a costo di un progressivo svuotamento dei connotati originari del programma di governo). Se la Dc riuscì in questo modo a mantenere la sua unità, il Psi pagò la partecipazione al governo con una riacutizzazione dei dissensi interni e con una nuova scissione: nel gennaio 1964, la minoranza di sinistra che si opponeva alla scelta governativa e non voleva rinunciare all'alleanza col Pci - diede vita al Partito socialista di unità proletaria (Psiup). Nella stessa maggioranza del Psi si fronteggiavano due linee diverse: una impersonata da Riccardo Lombardi, sosteneva che le riforme dovevano essere "di struttura" e fungere da strumento per la modificazione del sistema economicosociale; l'altra, che faceva capo a Pietro Nenni, era attenta soprattutto alla modifica degli equilibri politici e mirava all'unificazione col Psdi. La fusione sarebbe stata in effetti realizzata nell'ottobre 1966; ma i due partiti si sarebbero nuovamente separati tre anni dopo, in seguito all'esito deludente delle elezioni del '68. Il disegno di un rafforzamento socialista fallì sia per l'incidenza della scissione del Psiup (che nel '68 raccolse il 4,5% dei voti), sia per

l'ampliamento dei consensi del Pci. Nell'agosto 1964, Togliatti era morto durante un soggiorno in Urss, lasciando al partito una pesante eredità, ma indicando, nel cosiddetto memoriale di Yalta (una specie di testamento politico redatto alla vigilia della morte), una linea che riaffermava il principio dell'indipendenza da Mosca e l'originalità della "via italiana al socialismo". I funerali di Togliatti, che si tennero a Roma, furono un esempio emblematico del larghissimo seguito e delle grandi capacità organizzative di un partito che, con oltre il 25% dei voti, restava tuttavia in una posizione di marcato isolamento. L'isolamento non fu attenuato dal contributo determinante dei voti comunisti all'elezione alla presidenza della Repubblica del leader socialdemocratico Giuseppe Saragat, che nel dicembre '64 successe a Segni, dimessosi per malattia. Nonostante le difficoltà incontrate fin dai suoi esordi, la formula di centrosinistra sarebbe durata, con fasi alterne e interruzioni, per oltre un decennio, con i governi presieduti fino al '68 da Moro, poi da Mariano Rumor e da Emilio Colombo. Ma si sarebbe progressivamente esaurita, rivelandosi inadeguata a fronteggiare i problemi di una società sempre più articolata e percorsa da un'elevata conflittualità politica e sindacale. 28.4. Il '68 e l'autunno caldo. La contestazione studentesca, Il collegamento con la classe operaia, I gruppi extraparlamentari, L'autunno caldo, Il nuovo peso dei sindacati, Le incertezze della classe dirigente, Le regioni e il divorzio. La fine degli anni '60 fu caratterizzata in Italia da una radicalizzazione dello scontro sociale che ebbe come protagonisti prima gli studenti, poi la classe operaia. La mobilitazione degli studenti universitari, iniziata nel '67 e cresciuta nei primi mesi del '68, portò all'occupazione di numerose facoltà universitarie, a grandi manifestazioni di piazza e a frequenti scontri con le forze dell'ordine. La contestazione giovanile, mentre riprendeva temi e obiettivi già presenti negli altri movimenti studenteschi dei paesi occidentali (l'antiimperialismo e la protesta contro la guerra del Vietnam, l'antiautoritarismo e l'avversione alla civiltà dei consumi: §25.6), assunse in Italia come caratteristica specifica una forte ideologizzazione in senso marxista e rivoluzionario. Cresciuto nella lotta contro l'autoritarismo accademico e lo stesso principio della selezione scolastica, il movimento studentesco assunse una posizione sempre più ostile nei confronti del sistema capitalistico e della "cultura borghese" in generale. La critica alla società borghese divenne rifiuto della prassi politica tradizionale (compresa

quella dei partiti della sinistra "storica"), esaltazione della democrazia di base e del momento assembleare, dell'egualitarismo e della spontaneità. La ricerca, spesso velleitaria, di un nuovo modo di far politica si accompagnò, per molti giovani nati tra la fine degli anni '40 e l'inizio degli anni '50, a una vera e propria rivoluzione dei comportamenti che, innestandosi sui mutamenti già provocati dal boom economico, coinvolgeva i rapporti personali, il ruolo della famiglia e le relazioni fra i sessi. Promosso all'inizio da una minoranza di estrazione borghese e allargatosi poi, col coinvolgimento degli studenti medi, a strati sociali più ampi, il movimento studentesco, a partire dall'autunno '68, individuò il suo interlocutore privilegiato nella classe operaia. La ricerca di uno stabile collegamento col proletariato derivava in parte dall'influenza di gruppi intellettuali da tempo schierati su posizioni operaiste (imperniate cioè sull'affermazione del ruolo egemonico della classe operaia), ma più in generale era dovuta alla presenza di una forte tradizione marxista che aveva caratterizzato per tutto il dopoguerra la cultura della sinistra italiana. L'operaismo fu anche il tratto distintivo di alcuni fra i nuovi gruppi politici (tutti destinati a vita più o meno breve) che nacquero fra il '68 e il 70 sull'onda del movimento studentesco e che, per sottolineare il distacco dai partiti tradizionali rappresentati in Parlamento, furono chiamati "extraparlamentari": Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia. Caratteristiche ideologiche e organizzative diverse (più simili a quelle di un partito, con strutture fortemente autoritarie) ebbe invece l'Unione dei marxistileninisti, che si ispirava all'esperienza della Cina di Mao e della rivoluzione culturale. Legata alle lotte del '68 - e più specificamente alla contestazione nei confronti del Pci - fu infine la nascita del Manifesto, gruppo costituitosi nel '69 attorno all'omonima rivista per iniziativa di alcuni dissidenti comunisti. La riscoperta della centralità operaia da parte del movimento degli studenti coincise con un'intensa stagione di lotte dei lavoratori dell'industria, iniziata nei primi mesi del '69, in vista di una serie di rinnovi contrattuali, e culminata, alla fine di quell'anno, nel cosiddetto autunno caldo. Avviatesi in modo spontaneo in alcune grandi fabbriche del Nord, le lotte ebbero come principale protagonista la figura dell'operaio massa, ossia del lavoratore scarsamente qualificato, spesso immigrato, sul quale più gravavano i disagi dell'inserimento nel contesto urbano e l'insufficienza dei servizi sociali. Anche per l'influenza della contestazione giovanile, questi conflitti aziendali si caratterizzarono per l'adozione dell'assemblea come momento decisionale, per l'elevato grado di partecipazione e per la radicalità delle richieste, incentrate sull'egualitarismo e sulla messa in discussione

dell'organizzazione del lavoro in fabbrica. Per quanto colte di sorpresa dal movimento (e contestate dalle sue frange più radicali), le tre maggiori organizzazioni sindacali (Cgil, Cisl, Uil) riuscirono a prendere in mano la direzione delle lotte e a pilotarle verso la conclusione di una serie di contratti nazionali che assicurarono ai lavoratori dell'industria cospicui vantaggi salariali (la crescita media delle retribuzioni fu di circa il 18%). L'impegno comune nelle lotte dell'autunno caldo servì anche a riavvicinare le tre confederazioni sindacali, che avviarono un processo di parziale unificazione (sfociato, nel 72, nella costituzione di una Federazione unitaria, ma destinato a interrompersi alla fine del decennio) e rinnovarono profondamente le loro strutture organizzative, con la creazione di nuove e più dirette forme di rappresentanza, i consigli di fabbrica. Cominciò allora una fase - che si sarebbe protratta nei decenni successivi - in cui i sindacati assunsero un peso crescente nella vita del paese, trattando direttamente col governo anche questioni non strettamente attinenti ai rapporti di lavoro (fisco, pensioni, sanità, tariffe pubbliche, ecc.) e invadendo non di rado il campo d'azione dei partiti. Il nuovo peso delle organizzazioni sindacali fu favorito, e in qualche modo sancito, dall'approvazione da parte del Parlamento, nella primavera del 70, dello Statuto dei lavoratori: una serie di norme che garantivano le libertà sindacali e i diritti dei lavoratori all'interno delle aziende. Nel complesso, le lotte degli studenti e degli operai trovarono pochi sbocchi in un sistema politico che rivelò nell'occasione la sua rigidità e il suo scarso dinamismo. Le elezioni del maggio '68 non modificarono nella sostanza i rapporti di forza fra i partiti. E, di fronte alla contestazione, la classe dirigente si mosse con molte incertezze, senza riuscire a condurre in porto i disegni riformatori che essa stessa si era proposta. L'unico intervento di rilievo nel campo dell'istruzione fu la liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie, non accompagnata, come sarebbe stato necessario, da una riforma della scuola superiore e della stessa università. Furono tuttavia varate in questo periodo alcune leggi importanti, destinate a incidere profondamente nelle istituzioni e nella società. Abbiamo già detto dello Statuto dei lavoratori. Fra il '68 e il 70 furono approvati i provvedimenti relativi all'istituzione delle regioni, peraltro già previste dalla Costituzione [§24.5] e, nel giugno 1970, si tennero le prime elezioni regionali. Nel dicembre dello stesso anno, con l'appoggio delle sinistre e dei partiti laici e nonostante l'opposizione della Dc, fu approvata la legge FortunaBaslini, che introduceva in Italia l'istituto del divorzio.

28.5. La crisi del centrosinistra. La strage di piazza Fontana e la "strategia della tensione", La rivolta di Reggio Calabria, I contrasti nella maggioranza, Le difficoltà economiche, Gli scandali politicofinanziari, I referendum sul divorzio, Il compromesso storico e l'eurocomunismo, I successi elettorali del Pci e la fine del centrosinistra. Nei primi anni 70, la debolezza dell'esecutivo di fronte alle tensioni della società apparve in tutta la sua evidenza non solo nelle frequenti crisi governative, ma anche nel modo in cui fu affrontato il primo manifestarsi del terrorismo politico. Il 12 dicembre 1969, in pieno "autunno caldo", una bomba esplosa a Milano, in piazza Fontana, nella sede della Banca nazionale dell'agricoltura, provocò 17 morti e oltre 100 feriti. L'incapacità di risolvere il caso, di cui dettero prova gli apparati dello Stato, fu messa sotto accusa dall'opinione pubblica e dalla stampa di sinistra, che individuò nell'estrema destra fascista la matrice politica dell'attentato e denunciò le pesanti responsabilità dei servizi di sicurezza nel deviare le indagini verso un'improbabile "pista anarchica". Si parlò allora di una strategia della tensione messa in atto dalle forze di destra per incrinare le basi dello Stato democratico e favorire soluzioni autoritarie. La conferma dei pericoli corsi dalle istituzioni venne, nell'estate '70, dalla rivolta di Reggio Calabria, che vide un'intera città, esasperata per non essere stata designata come capoluogo dell'appena istituita regione, esplodere in una serie di violente dimostrazioni, culminate, in luglio, in una vera e propria rivolta guidata da esponenti del Msi. L'impotenza dimostrata, in questa come in altre occasioni, dai poteri pubblici rifletteva anche profonde divisioni all'interno dello schieramento di governo. Mentre ampi settori della Dc e del Psdi tendevano a farsi interpreti di un'opinione pubblica moderata (la cosiddetta maggioranza silenziosa) spaventata dalle agitazioni operaie e studentesche, e a spostare dunque verso destra l'asse politico della maggioranza, il Psi mirava apertamente a equilibri più avanzati, cioè al progressivo coinvolgimento del Pci nelle responsabilità di governo. Il ricorso a elezioni politiche anticipate, nel maggio '72, si rivelò inutile e non portò mutamenti di rilievo (a parte un certo rafforzamento del Msi). Né il governo centrista composto da democristiani, socialdemocratici e liberali e guidato da Giulio Andreotti (72-73) né i successivi governi di centrosinistra presieduti da Mariano Rumor (73-74) furono in grado di compiere scelte politiche di ampio respiro e di affrontare con efficacia una situazione economica che presentava

nuovamente sintomi preoccupanti (ristagno produttivo, dovuto anche alla persistente conflittualità sindacale, crescita della spesa pubblica). Alla fine del 73, le difficoltà economiche furono aggravate dalle conseguenze della guerra araboisraeliana del Kippur [§26.7-8]: l'aumento del prezzo del petrolio provocò, in Italia come altrove, un calo della produzione industriale e l'avvio di un processo inflazionistico. Alle difficoltà economiche (che peraltro incisero solo in misura limitata sul reddito dei cittadini) si aggiungeva un crescente disagio morale, provocato da una serie di scandali in cui furono coinvolti numerosi esponenti della maggioranza, messi sotto accusa per aver favorito gruppi di pressione italiani e stranieri in cambio di tangenti destinate a finanziare i rispettivi partiti. La rapida adozione, nell'aprile 74, di una legge sul finanziamento pubblico dei partiti rappresentati in Parlamento non servì a sanare la frattura fra società politica e società civile, solo in parte compensata dalla costante alta partecipazione alle consultazioni elettorali. In presenza di una diffusa sfiducia nel sistema dei partiti, l'elevata politicizzazione degli italiani prese le forme di un accentuato impegno sul terreno dei diritti civili. Quando, nel 1974, la nuova legge sul divorzio fu sottoposta a referendum abrogativo per iniziativa di gruppi cattolici appoggiati dalla De e dal Msi, si assistette a una grande mobilitazione che era appoggiata dalle forze laiche (in particolare dal piccolo Partito radicale di Marco Pannello, nato nel '58 e da sempre impegnato sulle tematiche dei diritti civili), ma che non sempre seguiva i canali partitici. Il netto successo dei divorzisti (nel referendum, che si tenne in maggio, i no all'abrogazione della legge furono quasi il 60%) mostrò chiaramente che la società italiana era cambiata, che il ruolo della donna non poteva essere più confinato nella difesa della famiglia, che il peso della Chiesa come ispiratrice della vita privata dell'individuo era fortemente ridimensionato. I mutamenti intervenuti nella società italiana trovarono ulteriore riscontro in due leggi approvate nel 75: la riforma del diritto di famiglia, che sanciva la parità giuridica fra i coniugi; e l'abbassamento della -maggiore età, cui era legato il diritto di voto, da ventuno a diciotto anni. Tre anni più tardi (giugno 78), dopo un lungo e acceso dibattito che vide ancora una volta la Dc opposta alle sinistre e ai partiti laici, il Parlamento approvò la legge che legalizzava e disciplinava l'interruzione volontaria della gravidanza. Intorno alla metà degli anni 70, anche sull'onda del successo nel referendum sul divorzio, le forze del cambiamento parvero in ascesa, sospinte dalle ricorrenti critiche al degrado della vita pubblica e dalle diffuse richieste di rinnovamento. A cogliere i frutti politici di questa domanda fu soprattutto il Pci, che già nel '68 aveva dato di sé un'immagine

diversa da quella tradizionale con la condanna dell'intervento sovietico in Cecoslovacchia, e che nel 73 prospettò un importante mutamento strategico. Il suo segretario Enrico Berlinguer sostenne la necessità di giungere a un compromesso storico, ossia a un accordo di lungo periodo fra le forze comuniste, socialiste e cattoliche, come unica via per scongiurare i rischi di soluzioni autoritarie e per allargare le basi dell'azione riformatrice. In seguito il Pci stabilì contatti con i comunisti francesi e spagnoli per avviare una politica comune in Europa occidentale, con connotati diversi da quelli del comunismo sovietico (si parlò allora di eurocomunismo). Il carattere moderato e rassicurante della proposta di Berlinguer, unito alla persistente "diversità" che derivava dalle origini rivoluzionarie e dal filosovietismo del partito (e che fin allora aveva rappresentato un limite alla sua espansione), fecero del Pci, in questa fase, il naturale punto di convergenza delle numerose ed eterogenee istanze di trasformazione che si agitavano nella società italiana. Lo si vide nelle elezioni regionali e locali del giugno 75 (le prime cui parteciparono i diciottenni), che registrarono un vistoso aumento del Pci (salito dal 27,9 al 33,4%) e un calo della Dc (scesa dal 37,9 al 35,3) e consentirono la formazione di giunte di sinistra in molte regioni del CentroNord e in alcuni tra i maggiori comuni italiani. Lo spostamento a sinistra dell'elettorato accentuò i dissensi fra Dc e Psi. Si giunse così, nel dicembre 75, al disimpegno socialista dal governo, che segnò in pratica la fine dell'esperienza del centrosinistra. Non trovandosi l'accordo per una formula politica di ricambio, si ricorse ancora una volta ad elezioni anticipate, che si tennero nel giugno 76. Mentre la Dc recuperò i consensi perduti nelle regionali, il Pci avanzò ulteriormente, toccando il suo massimo storico (34,4%). Il Psi, col 9,6%, registrò una sostanziale sconfitta, che portò alla crisi del vecchio gruppo dirigente e all'ascesa alla segreteria di Bettino Craxi, leader della corrente autonomista. 28.6. Il terrorismo e la solidarietà nazionale. Le elezioni del 76, Il governo delle astensioni e l'emergenza terroristica, Il terrorismo nero, Origini e motivazioni del terrorismo rosso, Le prime imprese delle Brigate rosse, La crisi economica, La disoccupazione giovanile, Il movimento del 77, La crescita del terrorismo di sinistra, Il sequestro e l'assassinio di Moro, Il governo di solidarietà nazionale e la politica di austerità, L'equo canone e la riforma sanitaria, Le delusioni della solidarietà nazionale, Pertini presidente della Repubblica, La fine della solidarietà nazionale.

L'esito delle elezioni del giugno 76 lasciava aperto il problema di una nuova formula di governo. Visto che i socialisti non erano disponibili a una riedizione del centrosinistra e che non esistevano i margini (numerici e politici) per un ritorno al centrismo, l'unica soluzione praticabile stava in un coinvolgimento del Pci nella maggioranza. Si giunse così, in agosto, alla costituzione di un governo monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti, che ottenne l'astensione in Parlamento di tutti gli altri partiti, esclusi il Msi e i radicali. Non era ancora il "governo di emergenza" con la partecipazione di tutti i partiti costituzionali, invocato dalle sinistre, ma era pur sempre una risposta unitaria della classe politica a una situazione resa sempre più preoccupante dalla crisi economica e soprattutto dal dilatarsi del fenomeno terrorista, ora non più solo di destra, ma anche di sinistra. Un fenomeno che, nelle sue prime manifestazioni, fu giudicato come un fatto episodico e sostanzialmente estraneo al tessuto civile del paese, ma che doveva restare invece per molti anni un elemento permanente e disgregante della vita politica italiana. Opposti nella loro matrice ideologica, i due terrorismi, quello nero e quello rosso, erano diversi anche nel modo di operare. Il tratto distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, che provocavano stragi indiscriminate, col probabile scopo di diffondere il panico nel paese e di favorire una svolta autoritaria. Dopo la strage di piazza Fontana, vi furono le bombe in piazza della Loggia a Brescia, nel maggio 74, e quelle sul treno Italicus nell'agosto dello stesso anno, l'attentato alla stazione di Bologna (con oltre 80 morti) nell'agosto '80. La ragionevole convinzione di larga parte dell'opinione pubblica che attribuisce le stragi ad esponenti della destra eversiva sostenuti dai servizi segreti, pur confortata da molti riscontri investigativi, non ha trovato ancora (salvo che per Bologna) una conferma della magistratura giudicante. Al potere politico spetta la responsabilità di non aver saputo indirizzare l'azione dei servizi di sicurezza e di non aver posto rimedio a una loro inefficienza accompagnata da vere e proprie deviazioni. L'immagine di uno Stato debole e minato dalla corruzione politica, la presenza di un terrorismo di destra e la psicosi di un colpo di Stato (che era allora presente in tutta la sinistra e alimentava in alcuni settori la giustificazione di una risposta violenta) furono tra i fattori che contribuirono alla nascita del terrorismo di sinistra. In realtà, il principio della lotta armata era da tempo un elemento portante di tutte le ideologie estremiste e rivoluzionarie che il movimento del '68 aveva contribuito a mitizzare e a divulgare. Ma allora per la prima volta - anche per la suggestione dei modelli della guerriglia latinoamericana e del terrorismo palestinese - si

formarono nuclei organizzati pronti a mettere in pratica quella che fin allora era rimasta solo una prospettiva teorica. Inoltre, la lotta armata e la clandestinità apparvero a molti come una scelta di vita totale, un'esperienza eccezionale. Per i terroristi - in gran parte giovani o giovanissimi provenienti per lo più dalla militanza nelle file del movimento studentesco, dei gruppi extraparlamentari e degli stessi partiti della sinistra storica l'azione armata si presentava come un atto esemplare, destinato essenzialmente alla classe operaia, al fine di mobilitarla per il rovesciamento del sistema capitalistico e dello Stato borghese. Ai primi isolati attentati incendiari, seguirono, fra il 72 e il 75, sequestri di dirigenti industriali e di magistrati (il più clamoroso fu quello del giudice Sossi, avvenuto nell'aprile 74). Nel 76, con l'uccisione del procuratore generale di Genova Coco e dei due uomini della sua scorta, si giunse all'assassinio programmato. Gli autori di queste azioni appartenevano alle Brigate rosse, il primo e il più pericoloso gruppo terrorista di sinistra, attivo fino al 1988. Ad esso si affiancarono, fra il 75 e il 76, i Nuclei armati proletari e Prima linea. Negli stessi anni in cui dovette fronteggiare il salto di qualità compiuto dal terrorismo di sinistra, il governo si trovò a confrontarsi con la crisi economica. Nel 75 il prodotto interno si ridusse del 3,6%. A partire dall'anno successivo si ebbe una limitata ripresa, ma il tasso di inflazione rimase molto elevato, oscillando fra il 17 e il 19% (tra i più alti dei paesi industrializzati). L'inflazione era dovuta in parte all'aumento del prezzo del petrolio, ma anche alla dilatazione dei consumi e alla crescita della spesa pubblica (assorbita in buona parte dalle spese correnti); e i suoi effetti furono amplificati dal nuovo meccanismo di scala mobile introdotto nel gennaio 75 da un accordo fra sindacati e Confindustria, meccanismo che assicurava ai salari (soprattutto a quelli più bassi) un più rapido adeguamento al costo della vita. Se la questione della spesa pubblica e quella del costo del lavoro erano destinate a restare, anche negli anni successivi, i principali nodi dell'economia italiana, il problema socialmente più drammatico era quello della disoccupazione, soprattutto giovanile. Lo sviluppo della scolarizzazione accresceva le aspirazioni dei giovani, che però faticavano a trovare sbocchi adeguati al titolo di studio. Il malessere giovanile si espresse in forme drammatiche nei primi mesi del 1977, quando un nuovo movimento di studenti universitari e medi diede luogo a occupazioni di università e a violenti scontri di piazza, che videro per la prima volta l'uso frequente di armi da fuoco da parte dei dimostranti. Protagonisti degli scontri furono i gruppi di Autonomia operaia, che raccoglievano in forme ulteriormente estremizzate l'eredità dell'operaismo sessantottesco.

Sembrò a molti che ci si trovasse di fronte a una riedizione dell'esperienza del '68. Ma di quell'esperienza si era ormai perso l'originario ottimismo rivoluzionario. Il movimento del 77 era in realtà il coagulo provvisorio di una serie di gruppi e movimenti, accomunati solo dallo spontaneismo e da una radicalizzazione esasperata. Bersaglio principale della contestazione fu la sinistra tradizionale, soprattutto il Pci e i sindacati: clamorosa fu l'aggressione di un gruppo di autonomi a un comizio del segretario della Cgil Lama, avvenuta in febbraio all'università di Roma. L'inevitabile delusione seguita all'ondata del 77 si risolse, per la maggioranza dei giovani che vi erano stati coinvolti, in un ripiegamento nella dimensione del privato; ma per altri significò il passaggio alla militanza terroristica. A partire da questo momento si registrò infatti una brusca impennata del terrorismo di sinistra: nel solo 77 vi furono 287 attentati, molti dei quali con spargimento di sangue, rivendicati da 77 sigle diverse. Nel 79 gli attentati salirono a 805 e le sigle a 217. Gli anni fra il 77 e l'80, quelli in cui il terrorismo sembrava non più arginabile, furono fra i più duri della storia della repubblica. Nel 1978 le Brigate rosse, consapevoli di disporre di una più diffusa rete di consensi, misero in atto il loro progetto più ambizioso. Il 16 marzo - il giorno stesso della presentazione in Parlamento di un nuovo governo Andreotti, monocolore democristiano appoggiato da una maggioranza allargata anche al Pci - un commando brigatista rapì Aldo Moro, presidente della Dc e principale artefice della nuova politica di "solidarietà nazionale", uccidendo i cinque uomini della sua scorta. A quella giornata, vissuta dal paese con sorpresa e sgomento, seguirono 55 giorni di attesa e di polemiche di fronte alla sofferta decisione del governo di non trattare il rilascio di Moro con i terroristi, decisione appoggiata dal Pci e contrastata, per motivi politici e umanitari, dal Psi e da altri gruppi minori della sinistra. Il 9 maggio Moro fu ucciso e il suo cadavere abbandonato in una strada del centro di Roma. Questo delitto evidenziò come nessun altro la gravità del fenomeno terroristico, ma contemporaneamente avviò una progressiva presa di distanze dall'area eversiva da parte di quanti avevano coltivato fin allora ambigue solidarietà. Un fatto che, unito al potenziamento delle forze dell'ordine, avrebbe portato, a partire dall'80, alle prime sconfitte del terrorismo di sinistra. Nel non facile clima politico creatosi dopo l'assassinio di Moro, il nuovo governo di solidarietà nazionale cercò di avviare il risanamento dell'economia, aiutato in questo dall'atteggiamento dei comunisti, che si fecero sostenitori di una linea di austerità, e da una relativa moderazione

delle richieste sindacali. Nel 78 l'inflazione scese di qualche punto (toccando col 13,9% il livello più basso del periodo 73-84). La situazione finanziaria diede segni di miglioramento, grazie all'adozione di nuove imposte indirette e grazie anche agli effetti della riforma fiscale varata nel '74, che aveva reso più razionale ed efficiente il sistema della tassazione diretta. Ma, sul fronte delle riforme (che avrebbero dovuto compensare e giustificare la politica di austerità), la difficoltà di conciliare tutti gli interessi rappresentati nella coalizione portò a risultati discutibili. La legge del 78 sull'equo canone, che aveva lo scopo di regolare e calmierare il livello degli affitti, avrebbe prodotto risultati disastrosi sul mercato degli alloggi, soprattutto nelle grandi città. La riforma sanitaria varata nello stesso anno - che sanciva la gratuità delle cure per tutti e riordinava la medicina pubblica, affidandone la gestione ad appositi organismi (le Usl, Unità sanitarie locali) dipendenti dalle regioni - si sarebbe rivelata, nell'applicazione concreta, fonte di inefficienza e di sprechi. Nel complesso, la politica di solidarietà nazionale non produsse risultati adeguati all'ampiezza delle forze impegnate e alle attese dell'opinione pubblica di sinistra. L'ingresso dei comunisti nella maggioranza non servì, come molti avevano sperato, a mettere in moto un processo di trasformazione sociale e a risanare la vita pubblica. In questi anni si mantenne e si rafforzò la pratica della lottizzazione (ossia la spartizione delle cariche pubbliche in base a criteri di appartenenza partitica). Continuarono a verificarsi, soprattutto negli enti locali e nelle imprese a partecipazione statale, episodi di cattiva gestione o di vera e propria corruzione politica. Gli scandali giunsero a toccare la presidenza della Repubblica, costringendo alle dimissioni, nel giugno 78, il capo dello Stato, il democristiano Giovanni Leone (eletto nel 71 da una maggioranza di centrodestra), accusato di connivenze con gruppi affaristici. Al suo posto fu eletto, col voto di tutti i partiti dell""arco costituzionale", il socialista Sandro Pertini, ottantaduenne, figura di indiscusso prestigio morale, che seppe conquistarsi in breve tempo una vastissima popolarità. Si andava frattanto esaurendo l'esperienza della solidarietà nazionale. Il nuovo corso impresso da Craxi alla politica socialista - centrato sul recupero della tradizione riformista in aperta polemica col Pci e insofferente dei vincoli imposti dalla grande coalizione - rendeva sempre più difficile la collaborazione all'interno della maggioranza e ricreava le condizioni per una ripresa dell'alleanza fra il Psi e i partiti di centro (interrotta nel 75 per volontà degli stessi socialisti). D'altro canto i comunisti chiedevano l'ingresso a pieno titolo nell'esecutivo, minacciando in caso contrario il passaggio all'opposizione. Nel gennaio 79, il Pci, in contrasto con gli altri

partiti anche su problemi di politica estera ed economica - in particolare sull'adesione al Sistema monetario europeo - abbandonò la maggioranza. La crisi che seguì portò, pochi mesi dopo, a nuove elezioni anticipate. 28.7. Politica, economia e società negli anni '80. Il pentapartito e la presidenza Craxi, Le difficoltà dei partiti maggiori, Il ridimensionamento dei sindacati, I contrasti sul costo del lavoro, Il problema della spesa pubblica, La ripresa economica, L'economia sommersa, L'espansione del terziario, Lo scandalo della Loggia P2, La malavita organizzata, Gli attentati mafiosi, La sconfitta del terrorismo rosso. I risultati elettorali del giugno 79, e quelli delle successive elezioni anticipate del giugno '83, segnarono alcuni significativi mutamenti nel panorama politico. Il Pci registrò nel 79 una secca perdita di consensi, scendendo al 30% circa dei voti (percentuale su cui si sarebbe attestato anche nelle elezioni successive) e vedendo così frustrata la speranza di essere risospinto nell'area di governo dal voto popolare. La Dc, stabile nel 79, subì una netta sconfitta (dal 38,3 al 32,9%) nelle elezioni dell'83, che videro un significativo progresso dei partiti laici minori. Il Psi, nonostante il dinamismo di Craxi e del nuovo gruppo dirigente, raccolse risultati deludenti (9,8% nel 79, 11,4 nell'83), comunque non adeguati all'aspirazione a diventare l'elemento propulsivo del sistema politico. Sul piano degli equilibri di governo, le elezioni non fornirono indicazioni che andassero al di là della verifica dei reciproci rapporti di forza. Chiusa la parentesi della solidarietà nazionale, l'unica strada praticabile fu il ritorno alla coalizione di centrosinistra (Dc, Psi, Pri, Psdi), allargata, a partire dall'81, anche al Partito liberale. Ma la novità più importante non fu tanto la formula di governo pentapartitica, quanto il fatto che la Dc, per la prima volta dopo il '45, cedette la guida del governo, affidata nell'81-82 al segretario repubblicano Giovanni Spadolini e, dopo le elezioni dell'83, al leader socialista Bettino Craxi. Una presidenza, quella di Craxi, che si sarebbe caratterizzata per il tentativo di potenziare il ruolo dell'esecutivo e di affermare una più incisiva presenza dell'Italia nella politica internazionale. Fra gli atti più significativi del governo Craxi, va ricordata la firma, nel febbraio '84, di un nuovo concordato con la Santa Sede, che ritoccava gli accordi del '29 lasciandone cadere le clausole più anacronistiche. Per la Dc la perdita della presidenza del Consiglio fu lo sbocco di una fase di debolezza e di disorientamento seguita all'uccisione di Moro, ma

anche l'inizio di un tentativo di rinnovamento interno legato alla segreteria di Ciriaco De Mita. De Mita cercò, fra molte difficoltà e senza grandi successi, di restituire al partito credibilità ed efficienza e di cancellare l'immagine di una Dc logorata dagli scandali e condizionata dalle clientele. Anche per il Pci i primi anni '80 furono segnati dall'emergere di gravi problemi, legati sia al ridimensionamento subito nelle elezioni, sia alla difficoltà di spingere a fondo il processo di revisione ideologica, di elaborare una piattaforma politica originale e aggiornata. L'immagine di partito "dalle mani pulite" e il carisma personale di Berlinguer conservarono tuttavia al partito una larga base elettorale. L'emozione seguita all'improvvisa morte del segretario comunista, nel giugno '84, fu forse fra i fattori che portarono il Pci, nelle elezioni europee tenutesi pochi giorni dopo, a raggiungere per la prima volta (col 33,3 %) l'obiettivo del "sorpasso" della Dc. Ma nelle elezioni amministrative dell'anno successivo (giugno '85), i comunisti tornarono sotto il 30% (mentre la Dc segnò una certa ripresa); e l'estensione dell'accordo di pentapartito alle amministrazioni locali li allontanò dal governo di molte città e regioni conquistate a partire dal 75. All'inizio degli anni '80 si registrò un'altra profonda trasformazione degli assetti politicosociali, anch'essa legata al generale riflusso della spinta a sinistra che aveva caratterizzato buona parte degli anni 70. Nell’autunno 1980, i sindacati subirono la loro prima grave sconfitta dopo l'autunno caldo del '69, nella vertenza apertasi con la Fiat sul problema della riduzione della manodopera. L'azienda torinese riuscì a imporre le proprie scelte di razionalizzazione produttiva, nonostante la forte opposizione operaia, con l'imprevisto ausilio di una ampia mobilitazione di piazza dei quadri intermedi (la cosiddetta "marcia dei quarantamila"). Da quell'episodio ebbe inizio una progressiva riduzione del ruolo del sindacato, non solo come presenza in fabbrica, ma anche come soggetto politico. I sindacati rimasero, anche in seguito, gli interlocutori privilegiati del governo in materia di politica economica. Ma il loro impegno fu in buona parte assorbito dal tentativo, non sempre riuscito, di difendere le conquiste degli anni 70. Il principale motivo di contrasto era rappresentato dal costo del lavoro, in particolare dal meccanismo di scala mobile introdotto nel 75 e messo in discussione sia dagli imprenditori sia dal governo, impegnato nella lotta all'inflazione. Lo scontro si radicalizzò all'inizio dell'84, quando il governo Craxi, con l'accordo delle componenti non comuniste dei sindacati, varò un decretolegge che tagliava alcuni punti della scala mobile e che fu approvato in giugno dopo una lunga battaglia parlamentare. I comunisti promossero un referendum abrogativo, che si tenne nel giugno '85, ma ne

uscirono sconfitti, seppur di misura. Pochi mesi dopo, la scala mobile fu parzialmente modificata, con l'assenso delle confederazioni sindacali e della Confindustria. Ma le parti sociali non riuscirono a trovare un accordo generale e il problema di un nuovo modello di relazioni industriali rimase sostanzialmente irrisolto. Egualmente irrisolta rimaneva la questione del controllo della spesa pubblica (113.000 miliardi di deficit nel 1987). Una questione che presentava difficili risvolti politici, in quanto chiamava in causa i criteri e le forme dell'intervento statale, ampliatosi notevolmente, negli anni 70, nei settori della sanità, della previdenza e dell'istruzione, ma ancora caratterizzato da una larga inefficienza e da costi molto elevati. Anche in Italia, come in tutto il mondo occidentale [§27.1 ], gli anni '80 videro svilupparsi una polemica che, partendo dalla denuncia degli eccessi di assistenzialismo, giungeva a mettere in discussione alcune strutture portanti del Welfare State (come la gratuità delle cure mediche o la semigratuità dell'istruzione). Queste difficoltà vennero in parte compensate da una certa ripresa dell'economia che, a partire dall'84, superava la fase recessiva degli anni '82-83, grazie all'aumento delle esportazioni e al profondo rinnovamento tecnologico di alcuni settori industriali (a cominciare da quello automobilistico). Anche la grande industria pubblica (siderurgica, meccanica, chimica), che negli anni precedenti era stata spesso gestita con criteri antieconomici e aveva accumulato perdite gravissime, veniva sottoposta, in alcuni settori, ad ampie ristrutturazioni che ne aumentavano la competitività. Gran parte delle trasformazioni operate nell'industria pubblica e privata finirono però col gravare sulla collettività, sia in termini di accresciuta disoccupazione (l'11% circa nell'85), sia in termini di spesa dello Stato per la cassa integrazione guadagni (l'istituzione che garantisce un salario provvisorio ai lavoratori privati del posto). Nel complesso, il sistema economico italiano manifestava nel decennio '80-90 - anche nei momenti di crisi più acuta - una vitalità notevole, al di là di quanto non apparisse dai dati ufficiali sull'andamento della produzione e del reddito. Il fenomeno si spiegava soprattutto con la crescita della cosiddetta economia sommersa: ossia quella miriade di piccole imprese disseminate nella provincia italiana e caratterizzate - grazie agli intensi turni lavorativi, all'assenza di controlli sindacali, alla mobilità della manodopera, all'elevata evasione fiscale, ma talora anche all'innovazione tecnologica - da alta produttività, da bassi costi e da una notevole capacità di adattamento alle esigenze del mercato. Un'espansione molto articolata, dal punto di vista

della varietà delle forme di impiego, caratterizzò anche il settore terziario, ormai al primo posto anche in Italia per numero di addetti (54,2%, rispetto al 33,7 dell'industria e all'11,7 dell'agricoltura nel 1985). Lo sviluppo del terziario, il dinamismo di alcuni settori produttivi e la rinnovata competitività dei prodotti italiani sui mercati internazionali erano indubbiamente sintomi di vitalità del tessuto sociale, e giustificavano un certo ottimismo sulle prospettive di crescita economica e civile del paese. Essi furono però accompagnati dal manifestarsi di gravi fattori degenerativi. Il fenomeno della corruzione politica rivelò un nuovo inquietante volto all'inizio degli anni '80 con lo scandalo della Loggia P2: una specie di branca segreta della massoneria, ben inserita nel mondo politico, nella burocrazia e nei vertici militari e sospettata di perseguire - oltre a scopi di lucro e di carriera per i suoi associati - anche il fine di una ristrutturazione autoritaria dello Stato. Lo scioglimento della loggia, decretato nell'81 dal governo Spadolini, non cancellò l'immagine di una connessione, sia pur indiretta, fra alcuni settori della classe politica, il mondo dell'eversione di destra e la stessa malavita comune. Il dilagare della malavita organizzata - soprattutto la diffusione della mafia e della camorra anche al di là delle tradizionali aree meridionali di insediamento - si configurava come la minaccia più grave alla convivenza civile. Il fenomeno mafioso, in particolare, conosceva sviluppi abnormi, traducendosi spesso in aperta sfida ai poteri dello Stato. L'episodio più drammatico in questo senso fu, nel settembre '82, l'assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, già protagonista della lotta al terrorismo, inviato come prefetto a Palermo per coordinare la lotta alla mafia. Più grave per il numero delle vittime (15 morti) fu l'attentato del dicembre '84 su un treno nella galleria "direttissima" fra Firenze e Bologna, attribuito inizialmente alla destra eversiva e rivelatosi poi di origine mafiosa. Mafia e camorra trovavano la loro principale fonte di lucro nel controllo del mercato della droga: un mercato che si era continuamente allargato a partire dalla metà degli anni '70. Se la risposta dello Stato alla criminalità mafiosa non conseguì nonostante isolati successi - risultati decisivi, esiti ben più positivi ottenne la lotta contro il terrorismo di sinistra. La svolta in questo senso si delineò nel 1980, quando alcuni terroristi arrestati decisero di abiurare la lotta armata e di denunciare i compagni in libertà. Il numero dei pentiti così furono impropriamente chiamati coloro che accettavano di collaborare con la giustizia - andò da allora sempre aumentando, grazie anche a una legge approvata nell'80 che concedeva forti sconti di pena (fino alla scarcerazione immediata) come compenso per il contributo fornito dagli imputati allo

svolgimento delle indagini. Una legge che destò molte perplessità di ordine giuridico e morale, ma che diede un notevole contributo alla sconfitta del terrorismo. Il numero degli attentati, ancora molto alto nell'81, calò rapidamente negli anni successivi e i principali gruppi clandestini cessarono praticamente di esistere. 28.8. Le difficoltà del sistema politico. Sintomi di crisi, Le elezioni dell'87, Le difficoltà del pentapartito, I governi Goria e De Mita, Il governo Andreotti, La crisi della prima repubblica. L'esaurirsi delle ideologie e dei sistemi di valori fondati sul primato dell'impegno politico, se da un lato toglieva spazio alle ipotesi eversive, dall'altro contribuiva a perpetuare il distacco fra classe politica e società civile, a rafforzare la diffidenza nei confronti dei partiti, veri detentori del potere nell'Italia repubblicana, a far salire la polemica contro le disfunzioni del sistema: la lentezza delle procedure parlamentari, l'instabilità di una maggioranza troppo composita e logorata da continue polemiche interne, la mancanza di alternative alla coalizione di governo. Gli ultimi anni '80 - che pure si caratterizzarono per una congiuntura economica nel complesso favorevole e per una discreta espansione produttiva - videro accentuarsi queste difficoltà mentre si faceva più sentita la richiesta di riforme istituzionali. L'accordo che, nel luglio '85, consentì l'elezione alla presidenza della Repubblica, con una larghissima maggioranza, del democristiano Francesco Cossiga non evitò il riproporsi di contrasti in seno al pentapartito: contrasti inerenti sia alle scelte di politica internazionale (in particolare all'atteggiamento da tenere nella sempre più intricata crisi mediorientale), sia ad alcune delicate questioni interne, come la giustizia e la politica energetica. Al di là delle divisioni su problemi specifici, c'era poi la rivalità di fondo tra i due maggiori partner della coalizione, socialisti e democristiani: questi ultimi decisi a rivendicare, in quanto partito di maggioranza relativa, la guida del governo. Si giunse così nella primavera dell'87, alla crisi del lungo ministero Craxi e al quinto scioglimento anticipato delle Camere. Le elezioni (giugno '87) segnarono una affermazione del Psi (dall'11,4 al 14,3%) e un nuovo calo dei comunisti (dal 29,9 al 26,6%), cui fece riscontro un certo progresso della Dc (dal 32,9 al 34,3%). Ma la maggiore novità delle elezioni fu l'apparizione di nuovi gruppi, estranei ai partiti tradizionali: Nuovi movimenti ambientalisti

(i Verdi) che si presentarono un po'"ovunque cogliendo una discreta affermazione e le liste delle Leghe regionali (presenti soprattutto in Lombardia, ma anche in altre regioni del Nord). Queste ultime, impostando la loro propaganda su una dura polemica contro il centralismo statale, la fiscalità e la corruzione politica - ma facendo anche leva su pregiudizi xenofobi e antimeridionalisti e sulle preoccupazioni suscitate dal fenomeno immigratorio - avrebbero ottenuto notevoli successi nelle consultazioni amministrative dell'anno successivo. Dopo le elezioni, la maggioranza di pentapartito si ricostituì faticosamente grazie a un accordo sul programma, che consentì la formazione di due successivi governi a guida democristiana: il primo presieduto da Giovanni Goria (luglio '87-marzo '88), il secondo guidato dallo stesso segretario della Dc, Ciriaco De Mita. I governi Goria e De Mita non raggiunsero però i risultati sperati, né sul piano del risanamento finanziario, né su quello delle annunciate riforme istituzionali (l'unica innovazione di qualche rilievo fu la riforma dei regolamenti parlamentari dell"autunno '88, che limitava la pratica del voto segreto, al fine di dare maggiore stabilità all'esecutivo). Il tentativo di De Mita, in particolare, si trovò presto in difficoltà sia per la mai sopita conflittualità fra i partner della coalizione governativa, sia per i contrasti interni alla stessa Dc: contrasti che portarono, nel congresso di Roma del febbraio '89, alla fine della segreteria di De Mita, sostituito alla guida del partito da Arnaldo Forlani, leader dello schieramento "moderato" in seno al partito di maggioranza relativa. Indebolito dall'esito del congresso e logorato dall'ostilità dei socialisti, De Mita fu costretto a lasciare anche la guida del governo, nel maggio '89. La lunga crisi apertasi con le dimissioni di De Mita si risolse solo in luglio con la ricostituzione dell'alleanza a cinque e la formazione di un nuovo governo a guida democristiana, affidato questa volta all'esperto Giulio Andreotti. Ma nemmeno il governo Andreotti - che pure sulla carta si fondava su un accordo politico più forte rispetto ai precedenti "accordi di programma" - riusciva a riportare la compattezza nella maggioranza, che anzi doveva affrontare una nuova crisi nella primavera del '91 perdendo, in seguito ad essa, uno dei suoi partner, il Partito repubblicano. Questa coalizione di governo, indebolita e da più parti contestata, appariva ormai inadeguata ad affrontare la crisi della prima repubblica. Sommario Alla fine degli anni '80 si era sviluppato nell'opinione pubblica e nelle convinzioni dei singoli il rifiuto dei criteri che fin allora avevano regolato la

vita politica in Italia e si era nel contempo accentuata l'aspettativa del nuovo. La domanda di riforme era da troppo tempo disattesa. E i reiterati impegni dei partiti a favore di modifiche istituzionali si scontravano con gli interessi conservatori di un ceto politico pago delle posizioni raggiunte e garantite dai rapporti di potere vigenti. Un insieme che si sarebbe rivelato, ancor più di quanto non fosse già noto, poggiare su una diffusa commistione di privilegi e di corruzione. Al di là dei difetti permanenti di un costume, era il sistema politico nel suo insieme ad essere ora messo sotto accusa. Con l'ausilio anche degli strumenti propri della scienza politica, più che nelle manchevolezze di singoli o di singoli partiti, si cominciarono a individuare nel meccanismo elettorale marcatamente proporzionale, nella debolezza dell'esecutivo, nell'impossibile alternanza al governo di schieramenti politici contrapposti i limiti strutturali posti alle radici della crisi. Sarebbero stati tuttavia elementi esterni al sistema - le sollecitazioni indotte da nuove forze politiche e dal cambiamento degli assetti internazionali, unitamente a una serie di imprevedibili iniziative giudiziarie ad accelerare una crisi da tempo latente e alla quale i partiti di governo, in primo luogo Dc e Psi, non avevano saputo e voluto porre rimedio. Lo sviluppo dell'economia italiana si fece particolarmente intenso negli anni 1958-63. Fu questo il cosiddetto "miracolo economico", che nonostante il tasso di sviluppo si riducesse dopo la crisi del '63-64 - mutò definitivamente in senso industriale il volto del paese. Al boom nell'industria si accompagnarono due importanti fenomeni sociali: l'esodo dal Sud al Nord e la crescita dell'urbanizzazione. Entrambi si svolsero in modo caotico, creando notevoli problemi. In quegli anni, con la televisione si ebbe per la prima volta un'unificazione linguistica e nei modelli di comportamento. Altro simbolo dell'Italia del miracolo fu l'automobile, che ebbe una diffusione di massa. I mutamenti economici e sociali si accompagnarono, all'inizio degli anni '60, a una svolta politica, con l'ingresso dei socialisti nell'area della maggioranza. L'inserimento fu graduale e molto contrastato. Nell'estate '60. dopo la crisi del ministero Tambroni (che aveva tentato, suscitando violente proteste, di governare con l'appoggio determinante del Msi), si formò un governo Fanfani che si reggeva grazie all'astensione (poi trasformata in appoggio parlamentare) dei socialisti. Nel '63 si formò il primo governo di centrosinistra "organico", presieduto dal leader della Dc Moro. In questa fase furono varati due importanti provvedimenti: la nazionalizzazione dell'industria elettrica e l'istituzione della scuola media unica. A partire dal '63, il centrosinistra venne esaurendo la sua spinta riformatrice, anche per le

preoccupazioni suscitate nella Dc dal peggioramento della congiuntura economica e dall'ostilità dei gruppi moderati. Nelle elezioni del '63 e in quelle del '68, sia la Dc sia il Psi ottennero risultati deludenti. Nel '68 esplose anche in Italia la contestazione studentesca, con caratteri di particolare radicalità dovuti alla forte tradizione marxista presente nella cultura italiana. Nacquero, fra il '68 e il '70, i gruppi extraparlamentari. Il '69 fu segnato da acute agitazioni operaie (l""autunno caldo"), protagonisti delle quali furono soprattutto i lavoratori immigrati al Nord. Le lotte operaie si conclusero con forti aumenti salariali e con un rafforzamento delle confederazioni sindacali. A queste agitazioni la classe dirigente non seppe rispondere in modo adeguato. Furono approvati tuttavia alcuni importanti provvedimenti (Statuto dei lavoratori, istituzione delle regioni, divorzio). Gli anni '70 furono segnati dalle manifestazioni del terrorismo di destra e di sinistra, cui il governo non seppe reagire adeguatamente. Gli equilibri politici cominciarono a modificarsi dopo il successo del referendum (1974) che confermò il divorzio contro le posizioni della Chiesa e della Dc, testimoniando i profondi cambiamenti della società. La nuova politica del compromesso storico, annunciata dal segretario del Pci Berlinguer (1973), favorì le vittorie elettorali dei comunisti ('75-76). Dopo il distacco dei socialisti dal governo (75) si giunse - di fronte alla necessità di affrontare i problemi suscitati dalla crisi economica e dall'accentuarsi del terrorismo di sinistra - al governo di "solidarietà nazionale", nel 1978. Proprio allora le Brigate rosse compirono la loro azione più clamorosa: il rapimento e l'assassinio di Moro. Nonostante alcune leggi di contenuto sociale (equo canone e riforma sanitaria) il programma riformatore del governo di solidarietà nazionale non riuscì a realizzarsi, mentre si accentuarono le divisioni tra le forze politiche. Negli anni '80, esauritasi l'esperienza della solidarietà nazionale, si ebbero per la prima volta governi a guida non democristiana (con Spadolini e poi con Craxi). Tra i problemi maggiori affrontati dall'esecutivo vi furono quelli dell'espansione abnorme della spesa pubblica e della malavita organizzata (mentre il terrorismo, dopo la legge sui "pentiti", risultava sostanzialmente sconfitto). I contrasti interni alla maggioranza "pentapartita" portarono, nell'87, alla crisi del governo Craxi e a nuove elezioni anticipate, che segnarono un progresso del Psi e un calo del Pci. Dopo le elezioni, la coalizione si ricostituiva, dando vita a tre successivi governi a guida democristiana (Goria, De Mita, Andreotti). Si accentuavano frattanto nell'opinione

pubblica la critica alle disfunzioni del sistema politico e l'attesa delle riforme istituzionali. Bibliografia Per la bibliografia sull'Italia repubblicana, si rinvia alle opere citate nel cap. 24. Sul periodo trattato nel presente capitolo, vedi inoltre G. Sabbatucci V. Vidotto (a e. di), Storia d'Italia, vol. 6, L'Italia contemporanea, Laterza, RomaBari 1999. Sul miracolo economico: G. Crainz, Storia del miracolo italiano, Donzelli, Roma 1996. Sulle trasformazioni sociali: P. Sylos Labini, Le classi sociali negli anni '80, Laterza, RomaBari 1986 e V. Vidotto, La nuova società, in G. Sabbatucci V. Vidotto (a e. di). Storia d'Italia, vol. 6 cit. sopra. Sul centrosinistra: G. Tamburrano, Storia e cronaca del centrosinistra, Feltrinelli, Milano 1973. Sui caratteri del sistema politico italiano: Il sistema politico italiano, a e. di P. Farneti, Il Mulino, Bologna 1973; Il sistema politico italiano, a e. di G. Pasquino, Laterza, RomaBari 1985. Sul fenomeno del terrorismo e la conflittualità: D. della Porta, Terrorismi in Italia, Il Mulino, Bologna 1984; Id., Movimenti collettivi e sistema politico in Italia, 1960-1995, Laterza, RomaBari 1996. 29. La società postindustriale. 29.1. I limiti dello sviluppo. Il problema delle risorse naturali, Risparmio energetico e fonti alternative, Lo sviluppo sostenibile. Abbiamo già visto [§26.8] come la crisi petrolifera del 1973-74 avesse posto le società industrializzate di fronte a nuovi inquietanti problemi. Primo fra tutti, quello del carattere limitato, e dunque esauribile, delle risorse naturali del pianeta: un dato che contraddiceva, almeno in apparenza, la prospettiva ottimistica di una crescita illimitata - della produzione, dei consumi, della stessa popolazione - su cui si era sin allora fondata la filosofia ispiratrice della civiltà industriale. Questa prospettiva cominciò allora ad apparire a molti non solo irreale, ma anche dannosa, in quanto portava con sé la tendenza allo spreco energetico, alla dissipazione delle risorse naturali, alla modifica violenta dell'ambiente. Alla protesta "ideologica" contro la civiltà dei consumi, si sovrappose, e in parte si

sostituì, una critica più concreta animata dai movimenti ambientalisti (o verdi), attenta soprattutto alle tematiche dell'ecologia [§parola chiave: Ecologia] e fondata sulla denuncia delle minacce portate dall'azione degli uomini (e in particolare dall'industrializzazione indiscriminata) all'equilibrio ambientale del pianeta. All'indomani della crisi petrolifera, i governi si mossero soprattutto sulla base di esigenze economiche immediate e promossero politiche di risparmio energetico, volte ad alleggerire l'onere delle importazioni di petrolio sulla bilancia commerciale. Si cercò di limitare la circolazione dei mezzi di trasporto privati, di contenere i consumi di elettricità, e soprattutto di impiegare fonti di energia alternative al petrolio. Alcuni Stati (Usa, Francia, Germania federale) puntarono sullo sviluppo delle centrali nucleari, in grado di fornire energia a costi sensibilmente inferiori a quelli delle centrali termoelettriche, ma contestate dagli ecologisti per i danni irreversibili che possono provocare in caso di guasti o incidenti. Come nel caso della centrale sovietica di Chernobyl dalla quale, nel 1986, si sprigionò una nube radioattiva che contaminò acque e terreni provocando gravi malattie in chi era rimasto esposto alle radiazioni. Altrove si riscoprì il carbone, o si tentò di sfruttare \"energia solare: l'energia pulita e inesauribile per eccellenza, risultata però difficilmente utilizzabile. La spinta alla ricerca di fonti energetiche "alternative" venne in parte meno nel decennio seguente, in seguito alla stasi e poi al rapido calo, nell'85-86, dei prezzi del petrolio. Inoltre in questi anni si ridimensionarono gli allarmi suscitati dallo shock petrolifero del 73. La stessa crisi economica degli anni 70 è vista oggi, più che come il segno di un declino delle società industrializzate, come l'inizio di una fase di trasformazione nei meccanismi della produzione, nei rapporti fra i vari settori, nelle stesse gerarchie dell'economia mondiale. Più in generale, di fronte alle ricorrenti difficoltà di superare l'arretratezza, si è affermata una concezione che non mira più a valutare lo sviluppo secondo parametri economici puramente quantitativi (reddito procapite, produttività), ma tende a utilizzare il concetto di sviluppo sostenibile; valuta cioè la crescita in rapporto all'integrità dell'ambiente e delle risorse per realizzare uno sviluppo umano sostenibile che recuperi la centralità dell'uomo e la qualità della vita. Questi nuovi criteri hanno acquisito peso nel dibattito internazionale sui problemi dell'ambiente e su quelli relativi al divario crescente fra paesi ricchi e paesi poveri, anche in seguito alla nuova e prolungata fase di crescita conosciuta dalle economie dei paesi industrializzati nel corso degli anni '80.

Parola chiave Ecologia Si chiama "ecologia" (dal greco òikos, dimora) la scienza che studia i rapporti fra gli esseri viventi e l'ambiente fisico in cui vivono. Pur essendo da sempre una componente importante di tutte le scienze naturali, solo di recente l'ecologia chiamata così per la prima volta dallo scienziato e filosofo positivista Ernst Haeckel in un libro del 1866 ha acquistato uno status di disciplina autonoma. È stata soprattutto la crisi petrolifera del 1973-74 a far riflettere sui pericoli che potrebbero derivare all'umanità da un uso indiscriminato delle risorse naturali. Ma, più in generale, sono stati gli sviluppi della civiltà dei consumi che, portando all'estremo alcuni fenomeni tipici delle società industrializzate, hanno costretto l'opinione pubblica e i governi a preoccuparsi dei problemi ambientali più di quanto non fosse mai avvenuto in passato. L'estensione spesso abnorme dei centri urbani; la motorizzazione di massa; la moltiplicazione dei consumi, con conseguente accumulo di rifiuti solidi; l'uso crescente di prodotti non biodegradabili (ossia non riassorbibili nel ciclo naturale), come i contenitori di plastica o alcuni detersivi; gli scarichi delle industrie chimiche nell'atmosfera o nei corsi d'acqua: questi e altri fenomeni hanno non solo contribuito al degrado ambientale dei grandi agglomerati urbani, ma hanno anche influito sugli equilibri ecologici delle aree non industrializzate. Negli ultimi anni la comunità scientifica ha richiamato l'attenzione su altri e ancor più inquietanti fenomeni, anch'essi riconducibili agli effetti dello sviluppo industriale: come l'assottigliarsi dello strato di ozono che protegge la terra dalle radiazioni ultraviolette; o come il formarsi di una cappa di anidride carbonica che, provocando un innalzamento della temperatura ("effetto serra"), rischia di compromettere gli equilibri ecologici dell'intero pianeta. I temi dell'ecologia sono diventati così oggetto di discussione e di mobilitazione in tutti i paesi industriali. Soprattutto negli anni '70 sono sorti un po'"ovunque associazioni e gruppi - ricordiamo in particolare l'associazione internazionale Greenpeace, ecologista e pacifista, nata nel '71, mentre il WWF (World Wildlife Fund, Fondo mondiale per la natura) era attivo già negli anni '60 - che si propongono di lottare contro l'inquinamento atmosferico e marino, per la tutela degli spazi verdi e del territorio in generale, per la difesa delle specie animali minacciate di estinzione. Oggi l'esigenza di una più attenta tutela dell'ambiente è riconosciuta da tutti. Ma esiste ancora una profonda spaccatura fra gli ecologisti "puri", spesso attivi nei movimenti "verdi", e quelli che potremmo definire gli "industrialisti". I primi ritengono la difesa dell'ambiente naturale un obiettivo assolutamente prioritario, contestano il principio dello sviluppo a

ogni costo e mettono sotto accusa la logica stessa della società industriale. Gli altri non intendono sacrificare alla causa dell'ecologia le ragioni del progresso economico e tecnologico e affidano proprio a questo progresso la speranza di risolvere in modo equilibrato anche il problema del rapporto fra l'uomo e il suo ambiente. 29.2. La rivoluzione elettronica. Una nuova rivoluzione industriale, L'elettronica e i computer, L'evoluzione del computer, Computer e produzione di massa, Informatica e cibernetica, La telematica. Gli ultimi decenni del secolo XX saranno ricordati come un'epoca di grandi trasformazioni nell'economia e nella società del mondo industrializzato. Come alla fine dell'800 l'emergere di nuove tecnologie e di nuovi settori produttivi il siderurgico, il chimico, l'elettrico - aveva mutato profondamente le strutture economiche e la stessa vita quotidiana nei paesi più sviluppati, così ora si assisteva al declino di industrie che avevano svolto un ruolo centrale per oltre un secolo (prima fra tutte quella dell'acciaio, che vide bruscamente calare la sua produzione), all'affermarsi di nuove tecniche produttive, all'aprirsi di nuovi campi di attività che lasciavano intravedere una realtà economica e sociale molto diversa da quella che aveva avuto la sua massima espansione negli anni '50 e '60 del '900. Il centro e il nucleo propulsore di questo processo di trasformazione sta certamente nell'elettronica, cioè in quella branca della fisica che studia il movimento degli elettroni e che, già nella prima metà del '900, era stata alla base di alcune fondamentali scoperte nel campo delle comunicazioni radiofoniche e televisive. Ma la più importante e la più rivoluzionaria fra le applicazioni della tecnologia elettronica fu attuata nel secondo dopoguerra nel settore delle macchine da calcolo (computer): apparecchi capaci di riprodurre in qualche misura i meccanismi di funzionamento del cervello umano, mediante l'apertura e la chiusura di una serie di circuiti elettrici; di eseguire operazioni matematiche senza possibilità di errore in tempi infinitamente più brevi di quelli consentiti all'uomo; di immagazzinare nelle loro "memorie" una serie di dati da richiamare poi all'occorrenza; di reagire, se opportunamente programmati, a impulsi esterni e di comandare, in base a questi impulsi, l'attività di altre macchine. I primi calcolatori erano stati realizzati già durante la seconda guerra mondiale; ma, basati sull'uso di componenti elettromeccaniche (i relais,

comunemente impiegati nella telefonia), erano soggetti a usura, oltre che estremamente ingombranti. La sostituzione del relais prima con la valvola, poi col transistor (inventato nel 1948) consentì, nel corso degli anni '50, di ridurre enormemente le dimensioni dei computer e di aumentarne la potenza di calcolo, l'affidabilità e la complessità. Un ulteriore salto qualitativo fu compiuto nel decennio successivo con l'introduzione del circuito integrato: una piastrina di silicio (di dimensioni anche ridottissime) sulla quale possono essere riprodotte, in forma miniaturizzata, le funzioni di un'intera rete di transistor. Nascevano così, anche sotto la spinta delle imprese spaziali, i computer della "terza generazione": apparecchi che non solo vantavano, rispetto ai loro predecessori, dimensioni ancora più ridotte, velocità di calcolo ancora maggiore - oltre alla possibilità di collegare molti apparecchi "periferici" (terminali) a una sola memoria centrale -, ma avevano anche costi di produzione sensibilmente più bassi. E questo fu certo un fattore decisivo per far uscire il computer dall'ambito dei laboratori specializzati e degli istituti di ricerca e per farlo entrare nel mondo della produzione di massa. I successivi sviluppi della tecnologia consentirono di produrre processori sempre più piccoli e sempre più veloci e di elaborare programmi sempre più complessi. Del resto, nell'industria del computer la parte "materiale" del prodotto (quella che in inglese si chiama hardware, alla lettera "ferramenta") è meno importante, sotto il profilo dei costi, rispetto al complesso delle informazioni e dei programmi {software) che servono a farlo funzionare. Un'industria che ha i suoi centri principali negli Stati Uniti (in particolare in California) e in Giappone e che ha invaso con le sue tecnologie tutti i principali comparti produttivi. Oggi i computer non solo sono oggetti abbastanza familiari per chi vive nelle aree sviluppate - nella forma del piccolo calcolatore tascabile, del personal computer, dei terminali installati in molti uffici, agenzie, magazzini -, ma sono incorporati in una gran quantità di apparecchi di uso corrente: automobili ed elettrodomestici, impianti per il condizionamento termico e per la riproduzione del suono, orologi e apparecchi fotografici. La quantità di elettronica computerizzata contenuta oggi in una normale autovettura è superiore a quella delle prime navicelle spaziali. Strettamente legata alla "rivoluzione dei computer" è la crescita di nuove tecnologie e di nuove branche della scienza applicata. Lo sviluppo dell'informatica (la disciplina che ha per oggetto l'elaborazione e la trasmissione dell'informazione, in particolare i linguaggi e i programmi delle macchine da calcolo) si è intrecciato con quello della cibernetica,

scienza nata negli anni '40 che studia i processi di controllo e di comunicazione negli organismi viventi e cerca di riprodurli nelle macchine. Figlia della cibernetica è la robotica, che si occupa specificamente della costruzione di macchine capaci di sostituire l'uomo in una serie di operazioni anche molto complesse ed è stata largamente applicata nei processi di automazione del lavoro industriale. Ancora più recente - e databile agli anni 70 - è la nascita della telematica: ossia l'applicazione delle tecniche dell'informatica al settore delle telecomunicazioni, che ha permesso tra l'altro (grazie anche all'adozione delle cosiddette "fibre ottiche" in luogo dei vecchi fili di rame) di usare una stessa rete telefonica per trasmettere non solo messaggi in voce, ma anche programmi radiofonici e televisivi, o testi e dati elaborati da computer. Ciò ha consentito fra l'altro l'apertura di nuove reti di comunicazione, in cui ogni soggetto può inserirsi aprendo un proprio sito e collegarsi con altri siti in ogni parte del mondo. La più importante di queste reti si chiama Internet: è nata negli Stati Uniti, per iniziativa delle forze armate, come rete alternativa in caso di guerra nucleare e si è poi staccata dagli impieghi militari. Si è stimato, nel 2000, che gli utenti della rete Internet, nel mondo, fossero 400 milioni circa. 29.3. Società postindustriale e globalizzazione. La crescita del terziario, La fine della centralità della fabbrica, I postfordismo, Il ruolo dell'informazione, I nuovi conflitti sociali, La globalizzazione, Il decentramento produttivo, I rischi della globalizzazione. Nei paesi economicamente più avanzati, la rivoluzione elettronica ha contribuito a dare una forte accelerazione al processo di transizione verso un tipo di società che è stato definito "postindustriale". In questi paesi il ruolo dominante delle attività industriali è venuto declinando a vantaggio del settore dei servizi- Questo processo, in atto ormai da molti decenni, si era definito, nei primi anni '90, secondo una graduatoria che vedeva il terziario occupare una percentuale del 67% della popolazione attiva nei maggiori paesi industriali, con un'oscillazione che andava dal 59% della Germania al 69% della Gran Bretagna, al 73% degli Stati Uniti (e al 60% dell'Italia). Ridotta ormai l'agricoltura a un valore medio del 7% - ma con il 3% negli Usa e il 2% in Gran Bretagna -, l'industria manteneva percentuali di popolazione attiva superiori al 30% solo in Germania, Italia, Spagna e Giappone.

Lo sviluppo dei servizi non significava soltanto che attività come i trasporti, le assicurazioni, le banche, il commercio, il turismo, le telecomunicazioni assorbivano più manodopera e producevano più ricchezza, ma dava anche spazio a innumerevoli impieghi sottopagati e precari, i cosiddetti macjobs, dal nome dei lavori nelle catene dei fastfood americani McDonald" s. Significava anche che il motore centrale delle attività industriali, la fabbrica, aveva perso quella centralità nel mondo della produzione e nelle relazioni sociali che era stata tipica della società industriale (capitalistica e non). Del resto anche l'organizzazione del lavoro in fabbrica era ormai cambiata, a cominciare dal Giappone e dal modello adottato nell'industria automobilistica Toyota già dagli anni '50. L'organizzazione rigidamente gerarchica e taylorista fondata sulla catena di montaggio aveva ceduto il passo a una struttura più flessibile e leggera in grado di rispondere più rapidamente - e a costi più ridotti - alle domande del mercato e di adattarsi più agevolmente alle innovazioni tecnologiche. Il lavoro senza autonomia della catena di montaggio era stato sostituito da una strutturazione per gruppi in cui le mansioni esecutive si univano a compiti di controllo. Questo nuovo tipo di organizzazione del lavoro viene definito anche con il termine "postfordismo", ad indicare l'abbandono del modello produttivo applicato da Henry Ford già nei primi decenni del secolo. Per gli economisti e i sociologi, il passaggio al postfordismo implica il superamento della produzione standardizzata e del consumo standardizzato. Vengono introdotte così la flessibilità e la varietà sia sul versante della produzione che su quello del consumo di massa. Si pensi alle innumerevoli varianti dei prodotti di largo consumo, anche di beni durevoli (auto, elettrodomestici, apparecchi elettronici). Si pensi ancora alla possibilità di assemblare fuori dalla catena e fuori dalla fabbrica prodotti della tecnologia avanzata come i personal computer. Il termine "postindustriale" non indica tuttavia un mondo senza industria, ma suggerisce che l'industria non è più l'asse portante delle attività produttive e delle relazioni umane e sociali. Ciò che connota la società postindustriale è invece l'informazione. Il controllo dell'informazione, dei suoi linguaggi, delle sue procedure, dei suoi flussi è divenuto decisivo. Produrre e vendere informazione definisce le nuove gerarchie di potere e di ricchezza, di dominio e di libertà. Nelle società postindustriali c'è meno spazio per le contrapposizioni di classe di tipo tradizionale. Il che non significa che siano venuti meno i conflitti e le tensioni. I conflitti si collocano in ambiti diversi, meno condizionati dai sistemi di produzione: sono ad esempio quelli che

contrappongono le classi di età, soprattutto i giovani agli adulti col rafforzarsi simbolico e rituale delle identità giovanili; o che vedono i settori meno garantiti contrapposti a quelli più tutelati dal sistema del Welfare. Altre aree conflittuali sono quelle in cui operano i movimenti delle donne, i movimenti ecologisti, i gruppi di tutela delle diversità etniche, linguistiche, religiose. Lo sviluppo delle tecnologie dell'informazione e l'uso di una lingua veicolare comune - l'inglese - hanno reso straordinariamente veloci le comunicazioni abbattendone al tempo stesso i costi. Questo è uno dei fattori principali di quell'integrazione economica e finanziaria a livello mondiale che oggi viene definita "globalizzazione". L'integrazione non è una novità dell'ultima parte del XX secolo. Le economie capitalistiche avanzate si sono mosse sempre su scala planetaria. Anche senza voler partire dal '500-600, basterà ricordare come la rivoluzione dei trasporti nel XIX secolo avesse già proiettato la Gran Bretagna in una dimensione mondiale. La globalizzazione è stata tuttavia potentemente accentuata - per divenire effettivamente tale - dal crollo del comunismo europeo e del sistema sovietico fra il 1989 e il 1991 e dal definitivo ingresso della Cina sui mercati internazionali sia come paese produttore che come paese consumatore. Alla fine del 2001 la Cina è entrata a far parte della "World Trade Organization (Wto), l'organismo dell'Onu che dal 1995 ha sostituito il Gatt [§22.2] e ha contribuito alla liberalizzazione degli scambi internazionali. La dimensione globale dei mercati finanziari offre grandi possibilità di espansione, ma innesca anche rischi fortissimi derivanti dall'accelerata circolazione dei capitali e da ricchezze artificiali e sopravvalutate. Così come la disponibilità di una manodopera "globale", se da un lato consente di decentrare la produzione nei paesi dove il costo del lavoro è più basso (nell'Europa orientale o nell'Asia) determina anche la propagazione di nuove drammatiche forme di sfruttamento, soprattutto minorile. Alle soglie del 2000 quasi tutte le imprese - non solo quelle multinazionali, ma anche le piccole e le piccolissime - diversificano i luoghi di produzione riuscendo grazie al controllo informatico e alla velocità delle comunicazioni a mantenere elevata la qualità e ad abbassare i costi. E così non sono pochi quanti vedono accompagnarsi a un fatto in sé positivo come l'apertura di sempre nuovi mercati il rischio, per i paesi della vecchia industrializzazione, di perdere i privilegi di un benessere protetto che non è chiaro fino a che punto la supremazia tecnologica riuscirà a conservare.

29.4. La geografia della povertà. I fattori di mutamento, La modernizzazione fallita, L'approfondirsi delle disuguaglianze, Le tragedie della fame, Gli aiuti internazionali, Il problema del debito, Il movimento "no global". Le grandi trasformazioni intervenute nell'economia mondiale negli ultimi decenni del secolo XX hanno avuto, come si è appena visto, l'effetto di abbattere molte frontiere, dì rendere il mondo più unito di quanto non fosse mai stato in passato dal punto di vista delle informazioni, degli scambi commerciali, delle transazioni finanziarie. Non lo hanno però reso più omogeneo sotto l'aspetto delle culture (di cui ci occuperemo fra poco) né sotto quello della distribuzione della ricchezza in rapporto alla popolazione. L'approfondirsi delle disuguaglianze economiche fra i diversi paesi e le diverse aree del pianeta rappresenta, al contrario, uno dei principali fattori di inquietudine e di instabilità della società contemporanea. Certo, a partire dagli anni 70, il quadro dei rapporti fra le aree prospere e industrializzate e quelle povere e arcaiche (fra il Nord e il Sud del pianeta, per adottare una formula corrente, indubbiamente efficace anche se geograficamente approssimativa) subì non poche modifiche rispetto agli anni della decolonizzazione. I paesi produttori di petrolio si avvantaggiarono fortemente degli aumenti dei prezzi della materia prima e in qualche caso salirono nelle parti alte della classifica mondiale della ricchezza (senza però che questo si traducesse nell'avvio di un autonomo processo di industrializzazione). Stati poveri e popolosissimi - in primo luogo l'India - riuscirono a risolvere i più urgenti problemi alimentari e a mettere in moto un meccanismo di sviluppo. Le economie capitalistiche di alcuni paesi del SudEst asiatico - le cosiddette "tigri": Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Malaysia - conobbero una crescita rapidissima, soprattutto nel settore manifatturiero, inserendosi in forme particolarmente aggressive nei mercati internazionali. Ma per molti altri paesi - fra cui la maggioranza di quelli africani - la situazione è andata continuamente peggiorando. I parziali tentativi di industrializzazione, attuati per lo più con capitali esteri, sono falliti, aggravando per giunta i bilanci degli Stati col peso degli interessi sui debiti contratti; la modificazione degli antichi assetti agricoli in funzione del mercato internazionale ha sconvolto le preesistenti economie di sussistenza senza avviare un vero processo di sviluppo; la manodopera in fuga dalle campagne si è addensata in caotici agglomerati urbani (già nel '91 circa sei

milioni di abitanti vivevano in aree metropolitane come quella di Dacca, in Bangladesh e di Lagos in Nigeria, oltre quattro milioni e mezzo in quella di Kinshasa, capitale del CongoZaire); la popolazione ha continuato a crescere con tassi elevatissimi, anche per l'assenza di politiche di controllo demografico; la penetrazione di modelli culturali occidentali si è sovrapposta in modo traumatico alle culture tradizionali, creando nuove aspirazioni e nuove inquietudini: il tutto è stato spesso aggravato dall'incidenza delle spese militari sui bilanci statali e dall'opera di ceti dirigenti impreparati e corrotti. Il risultato è stato, appunto, l'allargamento delle distanze con le aree più sviluppate. Nel 1995, secondo le statistiche dell'Onu, il prodotto annuo procapite dello Stato più ricco (la Svizzera) era di circa cinquecento volte superiore a quello del più povero (il Mozambico); e quello medio dei 49 paesi definiti "a basso reddito" e comprendenti il 56% della popolazione mondiale (430 dollari Usa) era poco più di un sessantesimo di quello dei 26 paesi "a reddito elevato" (circa 25.000 dollari), dove viveva il 16% degli abitanti del pianeta. In quest'ultimo gruppo, accanto agli Stati del Nord America e dell'Europa occidentale, figuravano anche Singapore, Israele, la Corea del Sud e il Kuwait. Del primo facevano parte ben trenta paesi africani della fascia subsahariana. In questi paesi, ancora a metà degli anni '90, si riscontravano indici di analfabetismo largamente superiori al 50% (con punte di oltre l'80% in Stati come il Niger e il Burkina Faso), tassi di mortalità infantile al di sopra del 10% (del 15% in Sierra Leone e in Liberia), a fronte di un tasso medio oscillante fra lo 0,5 e l'1 % in Europa occidentale e nel Nord America, e aspettative di vita inferiori ai cinquant’anni (contro i 67 del la media mondiale e i 77 dei paesi più ricchi). Ed è soprattutto in questa area che l'impatto congiunto della povertà, delle epidemie e delle guerre intestine ha provocato autentiche catastrofi. Agli abituali fattori di mortalità, si è aggiunta, negli ultimi decenni, l'incidenza di nuovi e devastanti morbi: in particolare, l'Aids [§29.8], che ha il suo principale terreno di propagazione proprio nei paesi dell'Africa nera, dove arriva a colpire il 20% della popolazione. La povertà del Sud del mondo ha la sua espressione più vistosa nelle vere e proprie tragedie della fame che si consumano quotidianamente in molti paesi dell'Africa nera (e che hanno colpito negli anni '90 anche la Somalia e l'Etiopia). Tragedie come queste non sono certo nuove nella storia dell'umanità. Ma appaiono tanto più intollerabili per la coscienza civile dei paesi sviluppati quanto più il flusso delle informazioni attraverso i mass media ne diffonde i dati e le immagini in tutti i paesi.

Il problema della fame nel mondo e quello più generale del rapporto NordSud sono da tempo al centro di una serie di analisi e di iniziative, sia da parte di organismi internazionali - dalle Nazioni Unite alla Comunità europea - sia da parte di singoli Stati. Sono state promosse - da parte della Chiesa, di gruppi politici e di altre associazioni private - campagne di solidarietà internazionale e raccolte di fondi; e vi sono state forti pressioni sui governi perché aumentassero gli stanziamenti finanziari in favore dei paesi poveri. In molti casi il problema si è aggravato per l'impossibilità di questi paesi di restituire i prestiti internazionali concessi per favorire lo sviluppo. Investimenti spesso inutili o superflui uniti alla corruzione e al clientelismo delle classi dirigenti locali hanno in molti casi disperso improduttivamente i finanziamenti, mentre l'indebitamento, aggravato dall'innalzamento del costo degli interessi, ha innescato una spirale perversa per cui il costo del debito è venuto via via assorbendo quote sempre più consistenti della ricchezza prodotta. Inoltre le politiche di aggiustamento imposte dal Fondo monetario internazionale per garantire la restituzione dei prestiti obbligavano i paesi debitori, tendenti ad aumentare le esportazioni e diminuire le importazioni, a ridurre drasticamente le spese sociali, in particolare per l'istruzione e la sanità. Se in termini relativi il debito costituisce per i paesi poveri un onere insopportabile, in termini assoluti si tratta di cifre non ingenti: il debito estero di tutta l'Africa subsahariana rappresenta l'1% di tutto il debito emesso in dollari nel mondo. Nella seconda metà degli anni '90 si è progressivamente fatta strada una nuova sensibilità rispetto a questo tema che ha aperto una discussione all'interno delle stesse istituzioni economiche internazionali. Sono state avviate numerose campagne, fra cui quella promossa anche dalla Chiesa cattolica (Jubileo 2000), per la riduzione o l'annullamento del debito. Di fronte al manifestarsi sempre più evidente di questi problemi è emerso, alla fine degli anni '90, un movimento transnazionale di contestazione degli assetti economici mondiali e delle forme assunte dalla globalizzazione che raccoglie organizzazioni e gruppi di provenienza politica e culturale anche molto diversa e solo in parte riconducibile all'evoluzione della sinistra tradizionale. Apparso con manifestazioni molto vivaci e a tratti violente in occasione di una conferenza della Wto a Seattle (Usa) nel dicembre 1999 e per questo denominato popolo di Seattle e in seguito noto genericamente come no global, il movimento mira a sollecitare i governi dei paesi più avanzati ad attivare nuove forme di sviluppo economico più rispettose dell'uomo e dell'ambiente. Privo di un'organizzazione unitaria, il movimento si esprime sia in grandi momenti di riflessione e discussione, come il Forum

sociale mondiale tenuto a Porto Alegre (Brasile) nel gennaio 2001, sia in grandi manifestazioni di piazza in cui un ruolo decisivo hanno assunto piccole minoranze violente, come a Göteborg nel giugno 2001 e a Genova in occasione del vertice degli otto paesi più industrializzati (G8) nel luglio successivo [§31.6]. La soluzione dei problemi della povertà e dello sviluppo, per quanto dipendente dalle scelte compiute dalle maggiori potenze economiche mondiali, rimane legata anche alla mobilitazione di energie umane e materiali interne ai paesi che devono uscire dal sottosviluppo e all'instaurazione di un più equilibrato rapporto fra popolazione e risorse. 29.5. Le tendenze demografiche. Il rallentamento della crescita, I tassi di fertilità, Le cause del rallentamento, La crescita zero e le sue conseguenze. Nell'ultimo trentennio del secolo XX, la popolazione mondiale ha continuato ad accrescersi, fino a superare, nel 2000, la cifra di sei miliardi. Ma il ritmo di crescita si sta lentamente riducendo: se nel quinquennio 1970-75 era di circa il 2% all'anno, fra il 1995 e il 2000 il tasso è sceso all'1,35. Un rallentamento che in parte ridimensiona le previsioni catastrofiche formulate in passato dai demografi, anche se non elimina del tutto gli allarmi suscitati dai problemi del sovraffollamento e dell'inquinamento a livello planetario. I dati globali che abbiamo appena citato sono il risultato della somma dei due diversi regimi demografici che da almeno un secolo compongono il quadro della popolazione mondiale. Da un lato quello delle aree ricche e industrializzate, caratterizzate da bassi tassi di mortalità e di natalità. Dall'altro quello delle aree povere, dove il calo (più lento) della mortalità si accompagna al persistere di elevati indici di natalità. Se scomposto nei suoi elementi, il quadro si rivela però più articolato. In Europa e nel Nord America il tasso di fertilità - ossia il numero medio di figli per ogni donna, calcolato sull'arco della sua vita presunta - era sceso già nel quinquennio 1975-80 sotto quota 2, ossia sotto la soglia della "crescita zero" (e la popolazione aveva conosciuto un leggero incremento solo grazie all'apporto dei flussi migratori). Ma, mentre in Europa ha continuato a calare fino a toccare quota 1,41 nel quinquennio 1995-2000 (l'Italia ha raggiunto nel '97 il primo posto in questa classifica con un tasso di 1,2), nel Nord America la tendenza si è invertita e l'indice si è riportato appena sopra la soglia della crescita. Fra il 1970-75 e il 1995 2000, il tasso di fertilità è calato in tutti gli

altri continenti: più lentamente in Africa (da 6,6 a 5,3), più rapidamente in America Latina (da 5 a 2,7! e in Asia (da 5,1 a 2,7). Questa tendenza diffusa è dovuta a fattori diversi. In qualche caso è stata aiutata da politiche demografiche attuate dai governi centrali e volte a incoraggiare con tutti i mezzi il controllo delle nascite: è questo il caso dei due paesi più popolosi del mondo, la Cina e l'India (rispettivamente 1.277 milioni nel 2000 e 1.027 nel 2001). Ma più spesso va attribuita a fattori spontanei: la conquista di più elevati livelli di benessere (che immancabilmente porta con sé comportamenti demografici "moderni"); la penetrazione di nuovi modelli culturali; i processi, spesso tumultuosi, di urbanizzazione, che hanno interessato, come si è appena visto, anche le aree più povere: ai casi citati nel paragrafo precedente, vanno aggiunti quelli di Bombay (12 milioni e mezzo), di Calcutta (11.000.000) e di Giacarta (9.300.000), che figurano nella classifica delle aree metropolitane più popolose del mondo accanto a New York (21 milioni), Città del Messico (16,6 milioni) e a San Paolo del Brasile (16 milioni e mezzo). Se nelle regioni "sottosviluppate" del pianeta la tendenza a un rallentamento dei ritmi di procreazione ha lasciato qualche spazio alla prospettiva di un rapporto meno sfavorevole fra popolazione e risorse, nelle società industrializzate, e soprattutto in Europa occidentale, la crescita zero ha creato non pochi problemi proprio in relazione al mantenimento dei livelli di benessere raggiunti. La contrazione delle nascite, unita al prolungamento della vita media, ha aumentato la percentuale degli anziani sul totale della popolazione (in Italia nel '97 gli ultrasessantenni erano il 21,8%) e dunque la quota dei pensionati rispetto a quella dei lavoratori attivi: quota che dal canto suo si è assottigliata anche per l'accorciamento della vita lavorativa media (nelle società con alto livello di istruzione si tende a ritardare l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro). Tutto questo ha reso sempre più difficilmente sostenibili per la finanza pubblica i costi dei sistemi pensionistici e ha contribuito ad accentuare quella crisi del modello di Welfare State che già aveva cominciato a manifestarsi in Europa alla fine degli anni '70 [§27.1] e che ha introdotto nel quadro della società del benessere nuovi e inattesi elementi di incertezza. 29.6. Le migrazioni e la società multietnica. I flussi migratori, La società multietnica, La reazione identitaria, La crisi dello Stato nazionale.

Un mondo come quello in cui viviamo, in cui da un lato si accrescono gli squilibri economici e demografici tra le varie parti del pianeta, dall'altro aumentano gli scambi commerciali, la circolazione delle informazioni e le possibilità di spostamento da un luogo all'altro, non poteva non essere segnato da un considerevole incremento dei flussi migratori. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un fenomeno tutt'altro che nuovo: basti pensare al numero enorme di europei, ma anche di asiatici e di africani, trasferitisi sul continente americano a partire dall'età delle grandi scoperte geografiche. Nuove sono però le dimensioni del fenomeno e nuova è la sua estensione planetaria. Oggi si emigra da tutte le aree povere del mondo verso tutte quelle ricche e la scelta delle destinazioni segue una complessa rete di itinerari condizionata da fattori non solo geografici ed economici (dal Centro al Nord America, dalla riva sud a quella nord del Mediterraneo, dall'Europa orientale a quella occidentale), non solo politici (com'è, e come è sempre stato, per coloro che fuggono da regimi oppressivi o da vere e proprie persecuzioni), ma anche culturali (la lingua, la religione, la presenza nel luogo di arrivo di comunità di connazionali già consolidate). La portata di questo flusso imponente - che si mescola a quello, non meno vasto, dei viaggiatori per affari o per diporto - non è facilmente quantificabile: anche perché in parte considerevole le migrazioni si svolgono in forma clandestina. Ma proprio il carattere incontrollabile, e in apparenza inarrestabile, del fenomeno costituisce, per le economie e per le opinioni pubbliche dei paesi industrializzati, un problema di non facile soluzione, che ha dato luogo a reazioni di diverso segno. Da un lato, si è manifestata - soprattutto nella sinistra, nelle chiese cristiane, ma anche in certa cultura liberale - la tendenza a cogliere gli aspetti positivi dell'immigrazione: non solo in termini di afflusso di nuova forzalavoro funzionale allo sviluppo economico (e pronta a svolgere mansioni poco appetibili per i giovani cresciuti nella società del benessere), ma anche in quanto apportatrice di nuovi valori, di nuove usanze, di nuove culture. Da qui l'assunzione del multiculturalismo come valore positivo. Da qui l'idea di una società multietnica, in cui le differenze culturali e religiose siano non solo ammesse come cosa normale (piuttosto che tollerate come eccezioni), ma anche adeguatamente protette e valorizzate, soprattutto in ambito scolastico. D'altro canto, il fenomeno migratorio ha suscitato risposte di ansia e di ripulsa (con punte di vera e propria xenofobia), dando corpo all'antica paura dell'Occidente di vedersi fisicamente sommerso da ondate di popoli più numerosi e demograficamente più vitali. E la minaccia, vera o presunta, portata agli equilibri dei paesi ospiti dall'innesto degli immigrati (soprattutto

se dotati di forte coesione culturale, com'è il caso dei musulmani) ha accentuato, per reazione, la tendenza alla riscoperta, e alla difesa gelosa, delle identità nazionali o religiose, già alimentata, come si è visto [§27.1], dalla caduta dei grandi sistemi ideologici. Quel che è certo è che l'impatto congiunto della globalizzazione e del multiculturalismo sta mettendo in crisi la stessa idea ottocentesca dello Stato nazionale come comunità sovrana e compatta al suo interno e lascia intravedere l'emergere di nuove e più articolate forme di organizzazione politica. Ma questo processo di trasformazione, se da un lato spinge verso la creazione e il potenziamento di entità sovranazionali (si pensi ai pur lenti progressi del progetto di Unione europea), dall'altro lascia spazio all'esplodere dei micronazionalismi, dei localismi e dei separatismi, causa principale di tensioni e di conflitti nel mondo di fine millennio. 29.7. Religione e società contemporanea. La tenuta delle religioni, La Chiesa cattolica e il pontificato di Wojtyla, L'integralismo islamico. Gli sviluppi della società contemporanea negli ultimi decenni sembrano nel complesso smentire le previsioni di quanti preconizzavano un declino delle credenze e delle pratiche religiose in una civiltà sempre più segnata dai processi di secolarizzazione. Secondo statistiche dei primi anni '90, il totale degli atei e dei non credenti si aggirava intorno al 20% della popolazione mondiale, contro un 70% di adepti alle "grandi religioni" (cristiani, musulmani, ebrei, induisti, buddisti, confuciani, scintoisti) e un 10% di aderenti a religioni "minori". Al primo posto venivano le confessioni cristiane, col 33,5% (di cui più della metà, il 18,7%, cattolici). Al secondo, col 18,2%, un Islam segnalato in rapida espansione. Anche a prescindere dai numeri, basati su stime forzatamente approssimative, si può affermare che quello religioso resta ancora il riferimento culturale fondamentale per buona parte dei popoli del pianeta; che nelle stesse società industrializzate la ricerca del sacro e del trascendente si fa ancora fortemente sentire (anche se a volte, anziché rivolgersi alle religioni "istituzionali", si esprime in movimenti minoritari, impropriamente definiti come sètte); che la crisi dei regimi comunisti ha aperto nuovi spazi al proselitismo religioso o fatto emergere realtà prima sommerse. La Chiesa di Roma, in particolare, da sempre maggioritaria in Europa (52%, esclusa l'ex Urss) e soprattutto in America Latina (quasi il 90%) ha

guadagnato posizioni nelle tradizionali terre di missione, Africa e Asia, compensando così quella tendenza allo svuotamento del suo nucleo dogmatico e all'abbandono della pratica dei sacramenti (alla riduzione insomma della fede a una generica cornice, a un indefinito senso di appartenenza) che si registra in molti paesi europei pure classificati a maggioranza cattolica. Un ruolo importante nel rilancio planetario del cattolicesimo (e, indirettamente, anche nella crisi dei regimi comunisti) è stato certamente svolto dal papa polacco Karol Wojtyla, salito al soglio pontificio nel 1978 col nome di Giovanni Paolo II. Il pontificato di Wojtyla, primo papa non italiano dopo quattro secoli e mezzo, si è caratterizzato da un lato per l'intransigente difesa dei dogmi e dei culti tradizionali, dall'altro per la grande apertura ai problemi sociali e al dialogo con le altre religioni e con gli stessi non credenti: il tutto sottolineato da un attivismo senza precedenti che ha portato il pontefice a intraprendere una lunga serie di viaggi pastorali in ogni parte del mondo e a esporsi, come mai era accaduto prima a un papa, all'attenzione dei mass media. Un altro fenomeno caratteristico della fine del secolo XX è l'espansione della religione musulmana al di là delle sue aree tradizionali di insediamento (i paesi arabi dell'Asia minore e del Nord Africa, l'Asia centrale, l'Indonesia, il subcontinente indiano), realizzatasi grazie a un efficace, e talvolta aggressivo, proselitismo. Il rilancio dell'Islam ha spesso preso le forme dell'integralismo: ossia di quella tendenza che si batte per un'applicazione integrale dei precetti religiosi (che vuole tradotti in leggi dello Stato) e per la subordinazione del potere civile all'autorità spirituale. L'integralismo islamico ha assunto un notevole peso dopo la rivoluzione iraniana del 79 [§27.8]; e la sua diffusione ha suscitato non poche preoccupazioni in Occidente, a causa della sua carica aggressiva nei confronti delle altre religioni, e più ancora delle società laiche e secolarizzate. Esso rappresenta peraltro solo una componente minoritaria del mondo musulmano e non è una prerogativa esclusiva dell'Islam: correnti integraliste (o fondamentaliste, basate cioè sul richiamo ai fondamenti originari della religione e su un'interpretazione rigida delle Sacre Scritture) sono attive da sempre nell'ambito delle chiese cristiane (in particolare fra i protestanti americani) e nel mondo ebraico. La novità sta nel fatto che esse sono diventate più visibili e più aggressive: tanto da suggerire ai pessimisti lo scenario di un mondo futuro tutto percorso dalle guerre di religione o diviso da nuovi e catastrofici "scontri di civiltà". 29.8. Medicina e bioetica.

Gli sviluppi della diagnostica, L'ingegneria genetica, Vecchie e nuove malattie, L'Aids, La bioetica. Se, alla fine del secondo millennio, la vita media dell'uomo risulta più che raddoppiata rispetto a un secolo prima, questo è dovuto innanzitutto ai continui progressi realizzati dalla scienza medica. Progressi che però, come vedremo fra poco, hanno aperto un nuovo e delicato fronte nei rapporti, sempre difficili, fra scienza ed etica e fra scienza e religione. I maggiori sviluppi della medicina negli ultimi decenni si sono avuti nel campo delle tecnologie diagnostiche, in particolare nella diagnostica per immagini. I medici dispongono ora accanto alla ecografia con ultrasuoni, priva degli effetti collaterali delle radiazioni, della tomografia assiale computerizzata (Tac) in cui attraverso la sofisticata utilizzazione del computer è possibile ottenere una precisa elaborazione delle immagini radiologiche in grado di individuare la presenza di tumori e di lesioni interne. A queste due tecniche, già largamente diffuse, si sono aggiunte la risonanza magnetica nucleare (Rmn), che utilizza le radiazioni che provengono dal corpo stesso dopo l'attivazione di un campo magnetico, e la tomografia ad emissione di positroni (Pet), che si avvale di un microciclotrone, ed è impiegata nella diagnosi delle embolie polmonari e delle malattie cardiocircolatorie. Nel settore della medicina clinica un decisivo progresso si è realizzato con l'applicazione dell'ingegneria genetica. La scoperta decisiva in questo campo risale al 1953, quando due biologi inglesi, Harry Crick e James Watson individuarono la struttura dell'acido desossiribonucleico (Dna), responsabile della trasmissione ereditaria dei caratteri genetici negli esseri viventi. Gli sviluppi della genetica, offrendo la possibilità di selezionare le specie vegetali animali, hanno consentito di migliorare la produttività nell'agricoltura e nell'allevamento. Ma hanno aperto nuovi orizzonti anche in campo farmacologico. Una serie di farmaci di origine animale o umana (insulina, interferone, proteine) sono ricostruiti ormai in laboratorio con il vantaggio di ottenere maggiore purezza e tollerabilità. In questo stesso campo, tuttavia, ha suscitato allarme la scoperta di nuovi agenti infettanti, i prioni, diversi dagli altri microorganismi conosciuti. Né batterio, né virus, il prione appare come qualcosa di resistente a tutti i normali trattamenti antisettici. I ricercatori ne hanno dimostrato l'esistenza a proposito della encefalopatia spongiforme, la malattia della "mucca pazza" di cui numerosissimi casi si sono registrati in Gran Bretagna a partire dal 1996 e

che si è diffusa nel 2000-2001, con assai minore virulenza, in altri paesi europei fra cui anche l'Italia. Più in generale, mentre sembrano arginate o arginabili alcune malattie degenerative (come quelle cardiovascolari), mentre notevoli progressi si sono registrati nella cura dei tumori (grazie soprattutto all'uso di terapie chimiche), sono riemerse una serie di malattie infettive che si ritenevano per gran parte debellate. Malaria, tubercolosi, dissenteria sono di nuovo sull'agenda della sanità mondiale non solo per i paesi più poveri, ma anche per alcuni di quelli più sviluppati caratterizzati dalla presenza di condizioni di vita gravemente disagiate in alcuni settori della loro popolazione, soprattutto urbana. Così sia negli Stati Uniti che nell'ex Unione Sovietica la tubercolosi ha avuto una preoccupante ripresa. Gli allarmi maggiori sono stati però suscitati dalla diffusione di quella che è stata definita, forse con eccessiva enfasi, la peste del nostro tempo: l'Aids (Sindrome da immunodeficienza acquisita), che è provocata dal virus Hiv e che, abbattendo le difese immunitarie, espone l'organismo a ogni sorta di malattie, con conseguenze mortali. Il virus, che è stato isolato per la prima volta nel 1981 e ha come principale area di diffusione l'Africa subsahariana, si trasmette attraverso il sangue e si diffonde soprattutto, anche se non esclusivamente, attraverso i contatti sessuali. Per questo oggettivo legame con una liberalizzazione dei costumi sessuali solo di recente conquistata, la sua comparsa e la sua diffusione relativamente rapida hanno provocato notevoli traumi nei paesi industrializzati: dove pure il male colpisce solo settori minoritari della popolazione (in particolare omosessuali e tossicodipendenti) e dove negli ultimi anni si è ottenuto qualche risultato nella cura, grazie all'uso di una combinazione di farmaci peraltro molto costosi. Gli sviluppi recenti della medicina e della genetica, se da un lato hanno consentito notevoli successi nella lotta contro le vecchie e le nuove malattie, dall'altro hanno aperto un ampio e drammatico dibattito circa i limiti e la liceità di una serie di interventi resi possibili dalla scienza. Già nel 1973 James Watson, uno degli scopritori del Dna, aveva avanzato la provocatoria (e inascoltata) proposta di sospendere gli esperimenti di ingegneria genetica. La discussione su questi temi ha dato origine a una nuova disciplina, a metà fra scienza e filosofia, la bioetica. La bioetica affronta i problemi che derivano dalla generazione della vita nelle varie forme di procreazione assistita (fecondazione in vitro, utero in affitto) o quelli che investono le possibilità di riproduzione della vita: come nella clonazione, il processo che consente di "copiare" un organismo partendo da una singola cellula (è il caso della pecora Dolly creata in Gran

Bretagna nel 1997). Altri problemi suscita la ricostruzione della sequenza del genoma umano (ossia del patrimonio genetico dell'uomo) non solo per le opportunità di individuare le variazioni che contribuiscono all'insorgere di determinate malattie, ma anche per i rischi di manipolazioni che queste conoscenze renderanno possibili. Ulteriori interrogativi assediano in maniera sempre più pressante i contemporanei, medici e pazienti, scienziati, uomini e donne comuni, religiosi e laici. Fino a dove spingere il desiderio di procreare; dove finisce il dovere di curare e dove il diritto del paziente a essere curato; come introdurre criteri di equità per equilibrare l'ampiezza delle tecniche curative disponibili con l'impossibilità di fatto per moltissimi malati di accedervi. E ancora, se accanto al diritto alla vita si ponga anche il diritto a morire: se cioè le sempre più sofisticate tecniche di mantenimento in vita non configurino forme di eccesso terapeutico, arroganti sfide alla pietà della morte. Sommario La crisi petrolifera del 73 suscitò nel mondo industrializzato una serie di interrogativi sui limiti dello sviluppo economico e sulla distruzione di risorse naturali da esso provocata. Grande diffusione ebbero di conseguenza le tematiche ecologiche e la ricerca di fonti alternative. Il successivo calo del prezzo del petrolio ha però indotto a ridimensionare la portata della crisi. Gli ultimi decenni del secolo XX hanno segnato nuove trasformazioni nell'economia, che hanno avuto il loro centro propulsore nelle crescenti applicazioni dell'elettronica e delle scienze ad essa collegate (informatica, cibernetica, robotica, telematica). Queste trasformazioni hanno prodotto effetti rilevanti anche sui consumi e sulla vita quotidiana delle società industrializzate. Gli sviluppi dell'elettronica e dell'informatica hanno accelerato la transizione verso una società "postindustriale", caratterizzata dalla prevalenza del terziario, dalla fine della centralità della fabbrica, dal ruolo crescente dell'informazione. Si è accresciuta nel contempo, grazie alla velocità delle comunicazioni, la tendenza verso l'integrazione economica e finanziaria a livello planetario, il che ha fatto parlare di un processo di globalizzazione. Nonostante gli importanti mutamenti intervenuti in molte aree del Terzo Mondo (fra i produttori di petrolio, nei paesi di nuova industrializzazione del SudEst asiatico) il divario fra paesi ricchi e paesi poveri si è complessivamente approfondito. In molti paesi africani si sono registrate

vere e proprie tragedie della fame. Il problema del debito è divenuto sempre più pressante. Alla fine degli anni '90 è nato un movimento internazionale di contestazione di molti aspetti della globalizzazione. Alla fine del '900, la popolazione mondiale ha continuato ad aumentare, ma si è registrato un certo rallentamento dei ritmi di crescita nelle aree più povere. Nei paesi dell'Europa occidentale la "crescita zero" della popolazione ha aumentato la quota degli anziani creando difficoltà ai sistemi pensionistici. I crescenti squilibri economici fra le diverse parti del pianeta e la facilità delle comunicazioni hanno fatto aumentare i flussi migratori verso le aree ricche del pianeta. Ciò ha determinato da un lato la spinta verso una società multietnica, caratterizzata dalla compresenza di diverse culture, dall'altro la tendenza alla difesa delle identità nazionali e delle tradizioni locali. Nel mondo contemporaneo è ancora forte la presenza delle confessioni religiose, in primo luogo del cristianesimo e dell'Islam. La Chiesa cattolica ha conosciuto un rilancio mondiale sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Nel mondo musulmano (ma anche in altre religioni) hanno assunto rilievo le correnti integraliste, o fondamentaliste. Ai progressi della medicina nella cura delle più diffuse malattie, ha fatto riscontro negli ultimi decenni la comparsa di nuovi virus, fra cui quello che provoca la Sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids). Gli sviluppi della medicina e della genetica hanno aperto nuovi problemi nei rapporti fra scienza ed etica. I limiti degli interventi sulla natura e sulla vita costituiscono il campo di riflessione della bioetica. Bibliografia Sui problemi energetici e l'ecologia: U. Colombo, Energia. Storia e scenari. Donzelli, Roma 1996; C. Ponting, Storia verde del mondo. Sei, Torino 1992. Ha affrontato tra i primi i temi trattati in questo capitolo A. Touraine, La società postindustriale, Il Mulino, Bologna 1970. Sui problemi del lavoro nella società postindustriale: J. Rifkin, La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, Milano 1995. Sulla globalizzazione: Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, RomaBari 20014; M. Pianta, Globalizzazione dal basso. Economia mondiale e movimenti sociali, Manifestolibri, Roma 2001.

Su religione e società contemporanea: B. Lewis, La rinascita islamica, Il Mulino, Bologna 1991; A. Riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa cattolica verso il terzo millennio, Laterza, RomaBari 1996. Sull'Aids: M. D. Grmek, Aids. Storia di un'epidemia attuale, Laterza, RomaBari 1989. Sulle biotecnologie: J. Rifkin, Il secolo biotech: il commercio genetico e l'inizio di una nuova era, Baldini & Castoldi, Milano 2000. 30. Il mondo contemporaneo. 30.1. Nuovi equilibri e nuovi conflitti. La fine del sistema bipolare, Nazionalismi e razzismi, Nuove contrapposizioni, Le incognite del nuovo scenario mondiale. Nel breve giro di un biennio - quello compreso tra la fine dell'89 (caduta del muro di Berlino) e la fine del '91 (dissoluzione dell'Urss) - gli equilibri politici e strategici del pianeta subirono uno sconvolgimento paragonabile solo a quelli provocati dalle due guerre mondiali. Negli ultimi anni '80, all'epoca degli incontri fra Gorbaciov e i presidenti americani e degli accordi sul disarmo nucleare, molti avevano sperato che al sistema basato sull'equilibrio conflittuale fra le due superpotenze potesse succedere un nuovo ordine internazionale più pacifico, meno bloccato, più compatibile con gli ideali di libertà, ma sempre fondato sul condominio UsaUrss. Così non fu: le spinte centrifughe messe in moto dal processo di liberalizzazione avviato nei paesi comunisti finirono col provocare il crollo della stessa Urss. E nello spazio già occupato dalla superpotenza sovietica e dai suoi satelliti si aprì un gigantesco vuoto che la Russia postcomunista non era in grado di colmare. Dal vuoto politico e ideologico creato dalla scomparsa dell'Urss e del sistema ad essa legato emersero, con virulenza insospettata, tendenze politiche e credenze religiose rimaste a lungo soffocate e soprattutto vecchi e nuovi nazionalismi pronti a scontrarsi fra loro e a far valere le proprie ragioni con la forza delle armi. Più in generale, la crisi dell'equilibrio bipolare, allentando o cancellando il controllo già esercitato dalle superpotenze sulle rispettive sfere di influenza, lasciò spazio allo scoppio di conflitti locali; e la fine dello scontro tra sistema comunista e "mondo libero" fece emergere nuove e non meno temibili contrapposizioni globali: come quella fra il Nord ricco e il Sud povero o quella (profilatasi già in occasione della guerra del Golfo nel 1991

[§30.5] e ripropostasi drammaticamente dieci anni dopo con l'attentato alle Twin Towers di New York [§30.12]) fra un Occidente riunificato nel segno della democrazia e dell'economia di mercato e un mondo islamico animato da un aggressivo spirito di rivalsa. Insomma, una volta chiusasi, in modo fortunatamente incruento, la stagione del bipolarismo UsaUrss (che a sua volta aveva sostituito, dopo la catastrofe delle due guerre mondiali, l'egemonia della vecchia Europa delle potenze), il mondo entrava in una inquieta fase di transizione, in assenza di un ordine internazionale chiaramente delineato. Una delle due superpotenze, l'Unione Sovietica, non esisteva più e la sua erede (la Russia) conservava un apparato militare imponente ma poco efficiente e sproporzionato alla non brillante situazione del paese. Altre potenze emergenti per la loro forza economica (Giappone, Germania, in prospettiva l'Unione europea e la stessa Cina) non avevano un peso politicomilitare adeguato. L'unica superpotenza superstite, gli Stati Uniti, non aveva la volontà, e forse nemmeno la capacità, di assumersi da sola il carico dell'ordine planetario. Questo compito sarebbe spettato in teoria all'Onu, che in effetti intervenne con maggiore frequenza e determinazione che in passato (anche se non sempre con efficacia) in numerose aree di crisi. Ma l'Onu era essa stessa un'associazione fra Stati sovrani e la sua azione non poteva non riflettere i contrasti fra i suoi membri e le incertezze che dominavano il quadro internazionale. 30.2. La fine dell'Unione Sovietica. Le spinte centrifughe in Urss, Il golpe di agosto, L'aggravarsi della crisi, La disgregazione dell'Urss, La Comunità degli Stati indipendenti. Se il crollo del muro di Berlino nel 1989 [§27.5] aveva simbolicamente segnato la fine della divisione del mondo in blocchi, l'evento decisivo e definitivo in ordine alla rottura dei vecchi equilibri fu il collasso dell'Unione Sovietica: ossia di quella che era stata non solo una delle due superpotenze mondiali, non solo la guida del "blocco socialista", ma anche la più grande compagine multietnica mai apparsa sulla faccia della Terra. Abbiamo già visto [§27.4] come la crisi del regime sovietico avesse prodotto una serie di spinte centrifughe, giunte, nel caso delle repubbliche baltiche (Lettonia, Estonia, Lituania), alla rivendicazione della completa indipendenza. La crisi si acutizzò fra il '90 e il '91, in concomitanza con l'aggravarsi della situazione economica. Gorbacév cercò di reagire

mediando fra le spinte liberalizzatrici e le pressioni dell'ala dura del partito e delle forze armate, e alternando le concessioni agli interventi repressivi. Questo fragile equilibrio si ruppe nell'agosto 1991, quando un gruppo di esponenti del Partito comunista, del governo e delle forze armate tentò la carta del colpo di Stato, esautorando lo stesso presidente, sequestrato nella sua casa di vacanza in Crimea. I congiurati contavano di sfruttare il malcontento diffuso fra la popolazione e forse speravano, oltre che nel pieno appoggio delle forze armate, anche in un avallo di Gorbaciov. Ma tutti i calcoli si rivelarono errati e il golpe, evidentemente organizzato senza adeguata preparazione, fallì clamorosamente di fronte a un'inattesa protesta popolare e al mancato sostegno dell'esercito: a Mosca, fra il 19 e il 20 agosto, una grande folla si raccolse a presidio delle libere istituzioni appena conquistate, ponendo i golpisti di fronte alla scelta fra una sanguinosa repressione e un'ingloriosa ritirata. Decisivo fu in questa occasione il ruolo del presidente della Repubblica russa Eltsin, che, dopo aver capeggiato la resistenza popolare e aver imposto la liberazione di Gorbaciov, si propose come il vero detentore del potere, relegando in secondo piano lo stesso presidente sovietico. Il fallimento del golpe di agosto, se da un lato valse a spazzare via quanto restava del potere comunista (il Pcus, un tempo onnipotente, vide sospese le sue attività e requisiti i suoi averi), dall'altro accelerò ulteriormente la crisi dell'autorità centrale. La riforma economica non riuscì a decollare, mentre il sistema degli scambi all'interno dell'Unione entrava in crisi aggravando i problemi di distribuzione delle merci (e soprattutto delle derrate alimentari). Il pluralismo politico non si tradusse in vera democratizzazione e lasciò spazio anche all'emergere di tendenze autoritarie e tradizionaliste. Le spinte separatiste si accentuarono. Dopo le tre repubbliche baltiche - la cui indipendenza era ormai fuori discussione - anche la Geòrgia, l'Armenia e la Moldavia (strappata alla Romania dopo il secondo conflitto mondiale) proclamarono unilateralmente la loro secessione dall'Unione Sovietica; e lo stesso fece l'Ucraina, legata alla Russia da antichi vincoli storicoculturali, oltre che da stretti rapporti di interdipendenza economica. Gorbaciov tentò di bloccare questo processo proponendo un nuovo trattato di unione, meno rigido del precedente, ma tale da assicurare l'esistenza dell'Urss come Stato, come entità militare e come soggetto di politica internazionale. La sua iniziativa fu però scavalcata da quella dei presidenti delle tre repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia), che si accordarono sull'ipotesi di una comunità di Stati sovrani, e su questa ipotesi ottennero il consenso delle altre repubbliche ex sovietiche (comprese quelle

asiatiche a maggioranza musulmana, ma esclusi gli Stati baltici, ormai decisi a un distacco totale). Il 21 dicembre 1991, ad Alma Ata, capitale del Kazakistan, i rappresentanti di undici repubbliche (sulle quindici già facenti parte dell'Urss: § cartina, p. 609) diedero vita alla nuova Comunità degli Stati indipendenti (Csi) e sancirono la morte dell'Unione Sovietica, decretando implicitamente anche la fine politica del suo presidente. Il 25 dicembre, Gorbaciov trasse le logiche conseguenze da quanto era accaduto e annunciò in un discorso televisivo le sue dimissioni. Il giorno stesso, la bandiera sovietica fu ammainata dal Cremlino e sostituita da quella russa. Unione Sovietica (1991) (cartina p.609). 30.3. La nuova Russia. La Russia erede della potenza sovietica, I conflitti nazionali, Una difficile transizione, L'inflazione, Lo scontro fra Eltsin e il Parlamento, L'intervento militare in Cecenia, Le elezioni presidenziali del '96, Crisi economica e instabilità politica, Da Eltsin a Putin, La politica estera, Il terrorismo ceceno. Salutata in buona parte del mondo come un evento liberatorio, la dissoluzione del grande "impero" sovietico suscitò tuttavia non pochi interrogativi e motivi di inquietudine. Le preoccupazioni maggiori riguardavano gli aspetti militari, in particolare il destino dell'immenso arsenale nucleare sovietico, dislocato anche fuori dai confini della Repubblica russa. La Russia di Eltsin cercò di accreditarsi come l'erede del ruolo di grande potenza già svolto dall'Urss; e fu in questo appoggiata dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale, che le riconobbero il diritto di occupare il seggio dell'Unione Sovietica in seno al Consiglio di sicurezza dell'Onu. Nel gennaio 1993, il presidente americano Bush, in procinto di lasciare la sua carica, firmava a Mosca con Eltsin un nuovo importante trattato per la riduzione degli armamenti nucleari strategica. Ma la posizione egemonica della Russia era contestata dalle altre repubbliche ex sovietiche, in particolare dall'Ucraina, riluttante a cedere la sua quota di armi atomiche. Quanto alla Comunità degli Stati indipendenti, essa non riuscì a darsi un'organizzazione efficiente, né tanto meno a bloccare i ricorrenti contrasti fra le diverse repubbliche (per esempio, Armenia e Azerbaigian) o i violenti conflitti, etnici e politici, scoppiati all'interno dei singoli Stati: dalla Geòrgia, dilaniata da una sanguinosa guerra civile, alla repubblica

centroasiatica del Tagikistan, contesa fra ex comunisti e movimenti islamici, dalla Moldavia, teatro di uno scontro fra nazionalisti e minoranza russofona alla stessa Repubblica russa, ordinata anch'essa in forma di federazione e comprendente nei suoi confini etnie e culture diverse. Minacciata dal proliferare dei separatismi, la Russia dovette affrontare una drammatica crisi economica, sociale e politica che la portò sull'orlo della guerra civile. All'origine della crisi, il tentativo di Eltsin - sostenuto e incoraggiato dai governi occidentali - di accelerare il processo di transizione verso il capitalismo e l'economia di mercato: operazione tremendamente difficile in una società ingabbiata e come imbalsamata per oltre settant'anni nel rigido involucro dello statalismo e del socialismo burocratico. In assenza di un vero ceto imprenditoriale, e in genere di un tessuto sociale adatto a sostenere il cambiamento, il processo di privatizzazione dell'economia non riusciva a decollare, mentre l'inflazione praticamente cancellava il potere d'acquisto del rublo. Il risultato fu l'emergere di tendenze ostili al nuovo corso incarnato da Eltsin: tendenze che si esprimevano ora nella nostalgia del regime comunista, ora nel tradizionalismo monarchico, antioccidentale e antisemita, ora in una curiosa miscela dei due orientamenti. Il composito fronte degli avversari delle riforme trovò un luogo di aggregazione nel Congresso del popolo, il Parlamento russo eletto, secondo la vecchia costituzione, nel marzo del '90. Mancando una chiara definizione delle rispettive sfere di competenza, lo scontro fra i due poteri era inevitabile. Il conflitto esplose nel settembre 1993, quando Eltsin, non riuscendo a superare l'ostruzionismo del Parlamento, lo sciolse, indicendo nuove elezioni per dicembre. Il Parlamento rispose destituendo Eltsin. Il 3 ottobre i sostenitori del Parlamento assalirono il Municipio di Mosca e la sede della televisione. Ma, dopo un iniziale sbandamento, Eltsin riassunse il controllo della situazione, decretando lo stato di emergenza: il giorno dopo, reparti speciali delle forze armate espugnavano il Parlamento con notevole spargimento di sangue e arrestavano i capi della rivolta. Ristabilito l'ordine, Eltsin cercò di rafforzare il suo potere varando, in dicembre, una nuova costituzione dai tratti fortemente presidenziali. Ma l'esito delle elezioni politiche, tenutesi sempre in dicembre, non fu favorevole alle forze riformatrici e segnò invece una preoccupante crescita dei gruppi ultranazionalisti (in particolare del Partito liberaldemocratico di Vladimir Zhirinovskij) e una buona affermazione degli ex comunisti, fautori della ricostituzione dell'Urss e anch'essi nostalgici del passato ruolo di grande potenza.

Fu probabilmente allo scopo di non lasciare spazio ai nazionalisti (oltre che per le pressioni dei militari e per il timore di uno sfaldamento dell'intera Federazione russa) che Eltsin, contro il parere dei gruppi democratici che lo avevano fin allora sostenuto, decise, nel dicembre '94, un intervento militare in Cecenia: una repubblica autonoma situata nella regione del Caucaso, che aveva proclamato la propria indipendenza. Mal preparata e duramente contrastata dalla resistenza degli indipendentisti, l'operazione si trasformò in un lungo e logorante conflitto, costellato di cruente azioni di guerriglia e di crudeli rappresaglie sulla popolazione civile. L'esito disastroso dell'intervento in Cecenia non solo rivelava la perdita di efficienza della macchina militare russa, ma era, più in generale, il risultato di una profonda crisi dell'intero apparato statale e di una crescente disgregazione della società civile, cui i governanti non riuscivano a trovare risposte efficaci. Questo stato di crisi prolungata e generalizzata apriva nuovi spazi alle forze di opposizione al nuovo corso: in primo luogo ai neocomunisti, che divennero partito di maggioranza relativa nelle nuove elezioni politiche del dicembre 1995. Nelle elezioni presidenziali a suffragio popolare che si tennero fra giugno e luglio 1996, Eltsin riuscì ugualmente, grazie all'appoggio di tutti i gruppi democratici e riformatori, a prevalere sul leader neocomunista Gennadij Zjuganov. Subito dopo, in agosto, fu concluso con gli indipendentisti ceceni un difficile accordo, basato sulla concessione di ampie autonomie e sul rinvio della decisione circa l'eventuale indipendenza. La situazione politica restava comunque fluida, anche perché inevitabilmente legata alle precarie condizioni di salute del presidente Eltsin. Ma i problemi più gravi venivano dall'economia, che non riusciva a decollare, anzi faceva registrare un continuo e drammatico calo produttivo. Il passaggio ai privati di grandi concentrazioni industriali e finanziarie (spesso gestite da ex funzionari del periodo sovietico trasformatisi in imprenditori) e la nascita di un capitalismo dai tratti fortemente speculativi finirono coll'avvantaggiare solo gruppi ristretti, spesso legati alla malavita, mentre le condizioni di vita della maggioranza della popolazione peggioravano sensibilmente: anche perché lo Stato non disponeva di un efficiente apparato fiscale e non era quindi in grado di pagare puntualmente gli stipendi ai dipendenti pubblici. La crisi giunse al suo culmine nell'estate del '98, travolgendo definitivamente il rublo (che in pochi mesi si deprezzò del 60% rispetto alle altre valute) e dando un duro colpo alla popolarità di Eltsin, sempre più malato e sempre più incline a esercitare il suo potere in forme autoritarie (ben quattro governi si avvicendarono fra il '98 e il '99, per volontà del presidente).

Nell'autunno del '99 riprendeva anche la guerra in Cecenia, nuovamente invasa dalle truppe russe perché accusata di dare ospitalità a gruppi terroristici islamici. Fu soprattutto allo scopo di contrastare la guerriglia dei ceceni e le azioni terroristiche da essi messe in atto anche nella capitale russa, che Eltsin decise, nell'agosto 1999, un ennesimo cambio di governo, designando come primo ministro, e indicando come suo possibile successore alla presidenza della Repubblica, uno sconosciuto dirigente dei servizi segreti, Vladimir Putin. Grazie al suo piglio giovanile ed efficientistico, e soprattutto alla spietata energia con cui affrontò la ribellione cecena (senza peraltro riuscire a domarla), il nuovo premier guadagnò una notevole popolarità. Eltsin si dimise alla fine dell'anno e, nelle elezioni presidenziali del marzo 2000, Putin si impose con largo margine. La sua presidenza si sarebbe caratterizzata per il tentativo di restituire efficienza alla macchina dello Stato e di ridare slancio all'economia che, pur frenata dai problemi ormai cronici (corruzione diffusa, incertezza delle norme, disordine del sistema bancario), manifestò nel 2000 qualche segno di stabilizzazione finanziaria e di ripresa produttiva. Sul fronte della politica estera, si assisteva frattanto a una certa ripresa di iniziativa della diplomazia russa, nel tentativo di riassumere da un lato una posizione egemonica nei confronti delle repubbliche ex sovietiche (in particolare, Ucraina e Bielorussia), di riacquistare dall'altro una posizione di forza nel confronto con i paesi occidentali, di cui pure si continuava a cercare la collaborazione e l'assistenza economica. Se gli ultimi anni della presidenza Eltsin erano stati segnati da una crescita delle tensioni fra Russia e Occidente (l'appoggio velato alla Serbia nella crisi dell'ex Jugoslavia [§30.4]; la presa di distanza dagli Usa in materia di sanzioni all'Iraq [§30.5]; l'opposizione, poi rientrata in cambio di alcune garanzie, all'allargamento della Nato all'Europa dell'Est), Putin cercò piuttosto di accreditarsi come partner affidabile sia sul piano strategico (nonostante i contrasti emersi in tema di armamenti nucleari), sia su quello degli scambi commerciali. Del resto, all'inizio del nuovo secolo, era proprio l'ulteriore inasprirsi della crisi mediorientale e della tensione fra Occidente e mondo islamico [§30.5,30.11,30.12] a riproporre il ruolo della Russia come elemento di stabilizzazione internazionale, e anche come grande produttore ed esportatore di petrolio. In questa prospettiva Putin favorì anche un significativo avvicinamento tra la Russia e la Nato: nel maggio 2002, in un vertice a Pratica di Mare (vicino a Roma), fu firmato un accordo per la costituzione di un nuovo organismo di consultazione e collaborazione per fronteggiare i pericoli

comuni del terrorismo internazionale e della proliferazione delle armi di distruzione di massa. Rimaneva frattanto irrisolta la crisi in Cecenia, dove il ristabilimento formale dell'autorità russa suscitava reazioni sempre più violente da parte di un movimento indipendentista di cui erano evidenti i legami col fondamentalismo islamico [§30.11] e la propensione ad avvalersi dell'arma di un terrorismo indiscriminato. Nell'ottobre 2002 i terroristi si impadronivano di un teatro di Mosca, per poi essere sopraffatti dall'intervento delle forze speciali, che provocava quasi cento morti fra gli ostaggi. Nel settembre del 2004 si verificava l'episodio più atroce: il sequestro di una scuola elementare a Beslan, nella piccola Repubblica caucasica dell'Ossezia, dove lo scontro fra terroristi e militari russi causava circa quattrocento morti, in gran parte bambini. 30.4. L'Europa orientale e la crisi jugoslava. Jugoslavia (1991) (cartina p.614),Disagi economici e difficoltà politiche, La divisione della Cecoslovacchia, La crisi iugoslava, Lo scontro etnico in Bosnia, Gli accordi di pace, Le tensioni politiche, La crisi del Kosovo, L'intervento della Nato, La caduta di Milosevic, La crisi albanese, L'intervento dell'Onu. Se gli anni '80 si erano chiusi per l'Europa orientale sotto il segno delle riforme, della democratizzazione e delle speranze di benessere, l'inizio del nuovo decennio evidenziava soprattutto la gravità dei problemi cui dovevano far fronte le società uscite dall'esperienza comunista. Ovunque il passaggio all'economia di mercato si rivelò un processo lungo e costellato di disagi immediati (fenomeni speculativi, crescita dei prezzi, disoccupazione). E quasi ovunque, nei primi anni '90, le delusioni suscitate da queste difficoltà finirono col rilanciare e col riportare al potere i partiti ex comunisti, peraltro profondamente rinnovati nelle sigle e nei programmi, al punto da rinunciare a qualsiasi tentativo di restaurazione del "socialismo reale". In Polonia le elezioni del '91 registrarono una esasperata frammentazione politica, tale da rendere problematica la formazione di una maggioranza; e le successive consultazioni del '93 portarono al potere una coalizione dominata dagli ex comunisti, vincitori anche nelle presidenziali del novembre 1995 che videro la sconfitta di Lech Walesa, leader storico di Solidarnosc [§27.5], da parte di Aleksander Kwasniewski. In Cecoslovacchia si svilupparono nella minoranza slovacca tendenze separatiste che, mescolandosi con i contrasti politici ed economici,

portarono, nel 1992, a una sorta di separazione consensuale e alla creazione di due repubbliche: una ceca, comprendente Boemia e Moravia e governata dai partiti di ispirazione liberale, e una slovacca, egemonizzata dai gruppi ex comunisti. Assai più drammatica la vicenda della Jugoslavia, dove la crisi del regime a partito unico fece saltare i precari equilibri fra le nazionalità su cui il paese si reggeva dalla fine della seconda guerra mondiale e portò addirittura allo scontro armato e alla disgregazione dello Stato federale. La crisi precipitò in seguito al contrasto fra le risorgenti aspirazioni egemoniche della Serbia di Milosevic [§27.5] - già esercitatesi contro le minoranze albanesi del Kosovo - e la volontà autonomistica delle repubbliche di Slovenia e Croazia, le più sviluppate economicamente e le più vicine al Centro Europa per tradizioni e per collocazione geografica. Fra il '90 e il '91 prima la Slovenia poi la Croazia proclamarono la propria indipendenza, facendola sanzionare da plebisciti. Lo stesso fece la Repubblica di Macedonia, che occupava invece la parte meridionale (e più arretrata) della Jugoslavia, da sempre oggetto di contesa fra serbi, bulgari e greci. Gli organi federali e i vertici militari entrambi controllati dalla componente serba - accettarono il fatto compiuto dell'indipendenza slovena e macedone, ma reagirono duramente all'analoga iniziativa della repubblica croata (che ospitava nei suoi confini consistenti minoranze serbe), mobilitando forze armate e milizie irregolari. Ne nacque una vera e propria guerra, che aveva come teatro principale i territori contesi fra le due repubbliche e che non risparmiava nemmeno le popolazioni civili. A partire dalla primavera del 1992, il centro del conflitto si spostò nella Bosnia: una delle ex repubbliche iugoslave, che aveva in marzo proclamato anch'essa la propria indipendenza. Abitata da una popolazione mista, composta da musulmani (la componente più numerosa), croati cattolici e serbi ortodossi, la Bosnia divenne teatro di una guerra crudelissima, provocata soprattutto dalla reazione della componente serba, attivamente appoggiata dal regime di Milosevic e dalle sue forze armate. Una guerra difficile da fermare, anche perché combattuta senza un fronte definito e condotta, soprattutto dai serbi, all'insegna della cosiddetta "pulizia etnica": dunque costellata di assedi, massacri, deportazioni e di altri orrori che l'Europa non aveva più conosciuto dai tempi del secondo conflitto mondiale. Né gli sforzi di mediazione della Comunità europea, né le iniziative dell'Onu, che impose l'embargo alla Serbia e inviò in Bosnia contingenti di pace, ottennero alcun esito. E le stesse iniziative umanitarie volte a soccorrere la popolazione - in particolare quella della capitale Sarajevo, sottoposta a un lunghissimo assedio ad opera delle milizie serbe -

furono ostacolate dalla ferocia dei combattimenti. Per giungere a una tregua d'armi, fu necessario l'impegno diretto, diplomatico e militare, della maggiore potenza mondiale, gli Stati Uniti, che agirono sotto la copertura dell'Alleanza atlantica. Fra maggio e settembre 1995, la Nato attuò una serie di raid aerei contro le posizioni dei serbobosniaci (alle azioni parteciparono anche piloti italiani) e in agosto i successi militari croati imposero una soluzione negoziata. In ottobre, grazie agli sforzi della diplomazia statunitense, fu imposto il cessate il fuoco e furono infine avviate trattative dirette fra i governanti della Serbia, della Croazia e della Bosnia musulmana. Il 21 novembre un accordo di pace fu siglato a Dayton, negli Stati Uniti. L'accordo - che prevedeva il mantenimento di uno Stato bosniaco, diviso però in una repubblica serba e in una federazione croatomusulmana - ebbe l'effetto non trascurabile di porre fine ai combattimenti. Ma la sua attuazione, dopo anni di spietata guerra etnica, si rivelò quanto meno problematica. La situazione nell'ex Jugoslavia era resa ancor più precaria dalle tensioni politiche interne ai singoli Stati, dove le istituzioni democratiche stentavano ad affermarsi. In particolare, quella che ancora si chiamava Federazione Jugoslava (e che comprende, oltre alla Serbia, il solo Montenegro) conobbe, fra il '96 e il '97, una lunga stagione di agitazioni promosse dalle forze di opposizione contro lo strapotere del presidente Milosevic e degli ex comunisti del Partito socialista serbo. E nella stessa Croazia, governata dalle forze di matrice nazionalista e anticomunista, non mancavano le contestazioni all'autoritarismo del presidente Franjo Tudjman. Nel 1998 si ripropose in termini drammatici il problema del Kosovo, che era stato, come si ricorderà, uno dei fattori scatenanti dell'intera crisi jugoslava. In risposta alla protesta autonomista della popolazione di origine albanese e alla nascita di un movimento di guerriglia indipendentista (l'Uck), i serbi scatenarono una durissima repressione che colpì, come d'abitudine, soprattutto i civili. Ancora una volta furono i paesi della Nato, fra cui l'Italia, a intervenire: prima facendo pressioni sul presidente Milosevic perché ponesse fine alla repressione e restituisse al Kosovo le autonomie di cui godeva prima dell'89; poi, di fronte alle resistenze dei serbi (cui faceva riscontro l'atteggiamento intransigente degli indipendentisti), dando il via a un'operazione militare aerea su larga scala, il cui peso maggiore fu sostenuto dagli Stati Uniti. Per oltre due mesi, fra marzo e giugno del 1999, il territorio della Jugoslavia (compreso il Kosovo) fu sottoposto a una serie sistematica di bombardamenti che colpirono gli impianti industriali, le infrastrutture civili e gli stessi palazzi del potere. I serbi risposero

intensificando la "pulizia etnica" in Kosovo: circa cinquecentomila kosovari albanesi diedero vita a un drammatico esodo, rifugiandosi per lo più nelle vicine repubbliche di Albania e Macedonia, dove furono allestiti, con l'aiuto dei paesi della Nato (e in particolare dell'Italia), grandi campi per accogliere i profughi. L'intervento militare, giustificato con l'esigenza di proteggere i diritti della popolazione del Kosovo (si parlò a questo proposito di ingerenza umanitaria), fu apertamente criticato dalla Russia, tradizionale alleata dei serbi, e suscitò forti discussioni nell'opinione pubblica dei paesi occidentali. Ma alla fine, grazie anche alla mediazione della Russia stessa, lo scopo fu raggiunto: ai primi di giugno, Milosevic cedette e ritirò le sue truppe dal Kosovo, rimasto da allora sotto il controllo delle forze Nato in attesa di una decisione circa il suo status definitivo. Indebolito dalla sconfitta, il dittatore serbo resistette per poco più di un anno. Nel settembre 2000, le elezioni presidenziali videro la vittoria di una coalizione democratica guidata da Vojislav Kostunica. Milosevic cercò di contestare il verdetto delle urne, ma fu costretto ad abbandonare il potere da una grande e pacifica rivolta popolare. Kostunica, divenuto presidente, cercò di reinserire il paese nella comunità internazionale, pur non rinunciando a rivendicare la sovranità sul Kosovo. Milosevic fu successivamente arrestato, consegnato al Tribunale internazionale dell'Aja e processato per crimini contro l'umanità. Frattanto, un nuovo focolaio di tensione etnica si apriva nella vicina repubblica di Macedonia, sede di una consistente minoranza albanese che si riteneva oppressa dal governo. Qui, dall'inizio del 2001, cominciarono a operare gruppi di guerriglieri provenienti dal Kosovo. In questo caso le forze della Nato, che già avevano base nel paese, assunsero compiti di pacificazione, mentre i paesi dell'Unione europea cercarono di favorire un accordo per un nuovo assetto istituzionale che garantisse i diritti delle minoranze. Eventi drammatici furono vissuti in questi anni dalla stessa Albania, che era stata il più arretrato e il più isolato fra i paesi dell'Europa comunista e anche l'ultimo ad approdare a una fragile democrazia pluripartitica. Il fattore scatenante della crisi fu il fallimento di una serie di società finanziarie che, cresciute all'improvviso, avevano raccolto i risparmi di molti albanesi. Ne seguì un caotico moto di ribellione, dove la protesta economica si mescolava con quella politica (il presidente della Repubblica in carica, SaliBerisha, e il Partito democratico al potere erano accusati di connivenza coi responsabili delle società fallite) e con le vecchie divisioni fra il Nord e il Sud. Nei primi mesi del '97, si assisté al collasso quasi totale delle strutture statali, comprese le forze armate (i cui arsenali furono svuotati) e le

forze di polizia; e buona parte del paese (soprattutto le zone meridionali, centro dell'opposizione a Berisha) piombò in una condizione di anarchia, in cui trovavano largo spazio le bande malavitose. L'Albania fu salvata dall'intervento dell'Onu che, in marzo, decise di inviare nel paese un contingente di pace (in cui la parte più importante fu assunta dall'Italia) col compito di favorire il ritorno all'ordine e alla normalità politica. Contemporaneamente il presidente Berisha accettò di indire nuove elezioni, che si tennero in giugno e in luglio, pur fra mille difficoltà, e videro il successo dei socialisti. Si avviò così un processo di faticosa normalizzazione che, se non ha risolto tutti i gravi problemi del paese, ha comunque garantito prima la sopravvivenza e poi il progressivo consolidamento dello Stato. 30.5. Guerra e pace in Medio Oriente. L'invasione del Kuwait, La forza multinazionale, L'appello al mondo arabo, L'ultimatum dell'Onu e l'attacco all'Iraq, La vittoria degli Usa, Il rilancio del processo di pace, La vittoria laburista in Israele, L'accordo israelopalestinese, Le questioni aperte, Gli attentati suicidi, L'assassinio di Rabin, Il difficile cammino della pace, Il fallimento dei colloqui di Camp David, La "seconda intifada", La vittoria di Sharon. Nell'agosto del '90, il dittatore dell'Iraq Saddam Hussein già protagonista della guerra di aggressione contro l'Iran [§27.8] - e per questo a lungo armato e rifornito sia dall'Urss sia da molti paesi occidentali, compresa l'Italia - invase il piccolo e confinante Emirato del Kuwait, affacciato sul Golfo Persico, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, tradizionalmente filooccidentale, e ne proclamò l'annessione alla Repubblica irachena. L'invasione del Kuwait - che traeva pretesto da antiche rivendicazioni territoriali e mirava in realtà al controllo dell'intera penisola arabica (ossia del 40% delle risorse petrolifere mondiali) fu subito condannata dalle Nazioni Unite che, con voto pressoché unanime, decretarono l'embargo (ossia la sospensione dei rapporti commerciali) nei confronti dell'aggressore. Contemporaneamente, gli Stati Uniti inviavano in Arabia Saudita un corpo di spedizione che sarebbe giunto a contare oltre 400.000 uomini: e ciò al doppio scopo di difendere gli Stati arabi minacciati e di premere su Saddam Hussein per costringerlo al ritiro. Alla spedizione si univano anche alcuni Stati europei (Gran Bretagna, Francia e, in misura assai più limitata, l'Italia) e una parte dei paesi arabi fra cui Egitto e Siria (mentre l'Iran

manteneva una prudente neutralità). Decisivo fu l'atteggiamento dell'Unione Sovietica, che in analoghe occasioni si era schierata a fianco del nazionalismo arabo. Alle prese con la crisi interna che di lì a poco avrebbe portato alla dissoluzione dell'Urss e bisognoso dell'appoggio occidentale, Gorbaciov non si oppose all'intervento armato (pur cercando di svolgere opera di mediazione) e consentì così alla forza multinazionale di agire sotto la copertura delle Nazioni Unite. Il dittatore iracheno reagì cercando di stabilire un collegamento fra l'occupazione del Kuwait e il problema dei territori palestinesi occupati da Israele: il che gli permetteva di presentarsi come il vendicatore delle masse arabe oppresse e come il banditore di una guerra santa contro l'Occidente. L'appello, pur venendo da un paese in passato tutt'altro che sensibile ai richiami del fondamentalismo religioso, trovò notevole eco fra le masse di molti paesi arabi, e in particolare fra i palestinesi dell'Olp (il cui leader, Arafat, si schierò a fianco dell'Iraq). Alla fine di novembre, il Consiglio di sicurezza dell'Onu approvava a stragrande maggioranza (e col voto favorevole dell'Urss) una risoluzione che imponeva all'Iraq di ritirarsi dal Kuwait entro il 15 gennaio, autorizzando in caso contrario l'impiego della forza. Nella notte fra il 16 e il 17 gennaio 1991 la forza multinazionale scatenava un violento attacco aereo contro obiettivi militari in Iraq e nel Kuwait occupato. Saddam rispondeva lanciando missili con testate esplosive sulle città dell'Arabia Saudita e di Israele (che pure era rimasto estraneo al conflitto) e minacciando il ricorso alle armi chimiche. Alla fine di febbraio, dopo quaranta giorni di bombardamenti, scattava l'offensiva di terra contro le forze irachene in Kuwait. Inferiore quanto a tecnologia bellica e privo della copertura aerea indispensabile in una guerra nel deserto, l'esercito iracheno cedeva di schianto abbandonando precipitosamente il Kuwait occupato (non prima però di averne incendiato gli impianti petroliferi, con conseguenze gravissime sull'economia e sugli equilibri ecologici della regione). Ottenuto lo scopo principale, e ufficiale, dell'intervento (la liberazione del Kuwait), il presidente Bush decideva di arrestare l'offensiva della forza multinazionale, per evitare il rischio di complicazioni diplomatiche o di un coinvolgimento degli Usa in un conflitto di lunga durata. Saddam Hussein, contro tutte le previsioni, sopravviveva politicamente alla sconfitta, nonostante i tentativi di ribellione delle minoranze sciita e curda. Ma gli Stati Uniti risultavano ugualmente trionfatori, essendo riusciti a riscattare il proprio prestigio militare, ancora appannato dalla vicenda del Vietnam, e a imporsi come supremo garante degli equilibri mondiali.

Contando su questo prestigio - accresciuto dal contemporaneo collasso dell'Urss - gli Stati Uniti cercarono di profittare della situazione favorevole creatasi in seguito alla sconfitta irachena (e al conseguente indebolimento del fronte arabo radicale) per rilanciare il processo di pace in tutta l'area mediorientale. " Si dovette soprattutto agli sforzi di Bush e alla paziente mediazione del segretario di Stato americano James Baker, se, nell'ottobre del '91, fu convocata a Madrid la prima sessione di una conferenza di pace sul Medio Oriente, in cui rappresentanti del governo israeliano incontrarono delegazioni dei paesi confinanti (che ancora - con l'eccezione dell'Egitto non riconoscevano lo Stato ebraico) ed esponenti palestinesi dei territori occupati. Una ulteriore spinta al processo di pace venne, nel giugno 1992, dalla vittoria del Partito laburista nelle elezioni politiche israeliane, dopo quasi un ventennio di egemonia del Fronte nazionalista (il Likud). Il nuovo primo ministro, Itzhak Rabin, bloccò i nuovi insediamenti ebraici nei territori occupati e si mostrò più propenso dei suoi predecessori a concessioni territoriali in cambio di pace con i paesi confinanti. Ma la svolta storica si ebbe nel '93, quando Rabin e il ministro degli Esteri Shimon Peres presero la sofferta decisione di rimuovere il principale ostacolo che si opponeva al progresso dei negoziati e di trattare direttamente con l'Olp, profittando della disponibilità di un Arafat indebolito per l'appoggio a suo tempo fornito a Saddam Hussein e isolato all'interno dello stesso mondo arabo. Un lungo negoziato segreto portò a un primo accordo fondato sul reciproco riconoscimento e su un avvio graduale dell'autogoverno palestinese nei territori occupati, a partire dalla città di Gerico, in Cisgiordania, e dalla striscia di Gaza. Il 13 settembre 1993 l'accordo fu solennemente sottoscritto a Washington da Rabin e Arafat, sotto gli auspici del presidente americano Clinton [§30.6]. L'accordo fece sorgere molte speranze sulla possibile fine dello storico conflitto israelopalestinese. Ma sul negoziato gravava il peso di numerose questioni aperte: le forme, i tempi e l'ulteriore estensione dell'autogoverno, che i palestinesi consideravano come la prima tappa per uno Stato indipendente; il destino degli insediamenti ebraici nei territori; la sorte di Gerusalemme, proclamata "capitale eterna e indivisibile" di Israele; l'atteggiamento ostile della Siria (il cui presidente Hafez el Assad era sembrato disposto alla pace in cambio della restituzione dei territori persi nella guerra del '67, ma non gradiva di essere stato tagliato fuori dall'accordo israelopalestinese) e di altri Stati mediorientali come la Libia e l'Iran; l'opposizione dell'ala intransigente dell'Olp e della destra nazionalista

israeliana; infine la minaccia dei movimenti integralisti islamici (il più importante si chiama Hamas), che rifiutavano ogni prospettiva negoziale. L'attività terroristica dei gruppi integralisti si intensificò col frequente ricorso ad attentati suicidi, e fece numerosissime vittime tra le forze armate e la popolazione civile di Israele; essa suscitò, per contraccolpo, nella società israeliana un diffuso senso di insicurezza, tradottosi anche nella crescita di gruppi estremistici a sfondo nazionalistico e religioso (in questo clima maturò la strage di palestinesi compiuta nel febbraio '94 da un colono estremista israeliano nella moschea di Hebron in Cisgiordania). Questa nuova spirale di violenza e di fanatismo ebbe il suo culmine nell'uccisione del premier Rabin, avvenuta a Tel Aviv il 4 novembre 1995 per mano di un giovane estremista israeliano. Privato della sua guida più autorevole, il Partito laburista fu sconfitto di misura, nelle elezioni politiche del maggio 1996, da una coalizione di destra guidata da Benjamin Netanyahu (leader del partito del Likud) e formata da quei gruppi che si erano opposti alle trattative con l'Olp. La vittoria della destra segnò una battuta d'arresto nel processo di pace, ma non ne interruppe il cammino. Nell'ottobre 1998, ancora una volta sotto la pressione americana, Netanyahu e Arafat firmarono negli Stati Uniti un nuovo accordo che fissava i tempi del ritiro israeliano da parte dei territori occupati in cambio di un più forte impegno dell'autorità palestinese nella repressione del terrorismo. Il dialogo, sempre difficile, fra le due parti fu poi rilanciato, nel maggio 1999, dalla vittoria nelle elezioni politiche israeliane di una coalizione di centrosinistra guidata dal laburista Ehud Barak. Nell'estate del 2000, il presidente Clinton, desideroso di concludere il suo mandato con uno storico successo diplomatico, convocò le parti per una nuova tornata di colloqui di pace a Camp David: lo stesso luogo in cui nel '78 era stato negoziato il primo accordo fra Egitto e Israele [§27.7]. Questa volta gli israeliani si mostrarono disposti a trattare anche su problemi fin allora mai affrontati, come quello di Gerusalemme e quello del ritorno dei profughi nel futuro Stato palestinese. L'accordo per una pace globale e definitiva fu però ancora una volta mancato, soprattutto per i contrasti relativi alla sovranità sui luoghi santi di Gerusalemme. E da una pace mancata per poco si passò in brevissimo tempo a una nuova situazione di scontro generalizzato. A innescare lo scontro, alla fine di settembre, fu una visita compiuta da Ariel Sharon, leader della destra israeliana, alla spianata delle Moschee di Gerusalemme: una provocazione agli occhi dei palestinesi, che reagirono scatenando una nuova rivolta. La "seconda intifada" fu assai più cruenta della prima [§27.7], sia per la violenza delle manifestazioni - che videro i

dimostranti spesso appoggiati dalla polizia e dalle formazioni militari palestinesi - sia per la durezza della repressione. Il conflitto divenne cronico e coinvolse non solo Gaza e la Cisgiordania, dove il problema era rappresentato dalla presenza di insediamenti ebraici in mezzo ai territori controllati dall'Autorità nazionale palestinese, ma le stesse città israeliane, che furono teatro di una serie impressionante di attentati terroristici, spesso suicidi, condotti contro civili dalle organizzazioni estremistiche come Hamas. L'inasprirsi dello scontro e il conseguente diffondersi di un senso di paura e di insicurezza nella società israeliana portarono alla crisi del governo Barak e, nel febbraio 2001, a elezioni anticipate che videro la netta vittoria del centrodestra, guidato questa volta proprio da Sharon. Il nuovo governo alzò ulteriormente il livello della risposta militare; e giunse a contestare l'autorità di Arafat, considerato un interlocutore non più credibile per la sua incapacità di bloccare gli atti di terrorismo che pure ufficialmente condannava. Ma né la repressione né i ripetuti tentativi di mediazione condotti soprattutto dagli Stati Uniti riuscirono a riavviare il dialogo fra le parti. Al contrario, la situazione si andò continuamente deteriorando, in un susseguirsi di attentati e rappresaglie, in concomitanza col radicalizzarsi della sfida portata all'Occidente dal terrorismo fondamentalista e poi con lo scoppio della crisi irachena [§30.11-13]. La decisione del governo di Gerusalemme, annunciata nella primavera 2002, di costruire una barriera difensiva per proteggere i confini "storici" di Israele dalle infiltrazioni dei terroristi, se da un lato ebbe l'effetto di far calare il numero degli attentati, dall'altro suscitò accese proteste in tutto il mondo arabo e fu condannata da buona parte della comunità internazionale per il suo carattere unilaterale (e anche perché il tracciato includeva parti di territorio palestinese). Fu però proprio il governo Sharon (diventato dal gennaio 2005 governo di unità nazionale grazie a un accordo con i laburisti di Peres), a riaprire i giochi con un'altra decisione unilaterale; quella di procedere, nell'estate del 2005, al ritiro dell'esercito e allo smantellamento delle colonie nella striscia di Gaza. La decisione, attuata con grande risolutezza, fu aspramente contestata dalle organizzazioni dei coloni e dalla destra del Likud: tanto da indurre Sharon a spaccare il suo partito e a dar vita a una nuova formazione politica di centro. Si aprivano così nuovi spazi di dialogo con l'autorità palestinese, guidata, dopo la morte di Arafat nel novembre 2004, dal più moderato Abu Mazen. 30.6. Gli Stati Uniti e i problemi dell'egemonia mondiale.

Il disagio dell'Occidente, I problemi economici, La vittoria di Clinton, Gli interventi all'estero, I limiti dell'impegno americano, I rapporti con la Russia, La ripresa economica, Luci e ombre della presidenza Clinton, Le elezioni presidenziali del 2000, Gli esordi della presidenza Bush. Nei paesi dell'Occidente industrializzato, il collasso dell'Unione Sovietica e la crisi del modello comunista da essa incarnato non produssero quell'atmosfera trionfalistica che molti si aspettavano. Si assisté, al contrario, al diffondersi di un generale disagio, quasi che l'Occidente non fosse preparato alle nuove responsabilità derivanti dalla scomparsa dell'avversario storico. Questa fase coincise inoltre col ciclo produttivo tutt'altro che brillante che caratterizzò i primi anni '90 ed era originato dalle contemporanee difficoltà dell'economia statunitense e di quella tedesca, alle prese quest'ultima con i problemi dell'unificazione con l'ex Repubblica democratica. Le conseguenze si fecero sentire su entrambe le sponde dell'Atlantico. Negli Stati Uniti, in particolare, la doppia, storica vittoria ottenuta nel confronto con l'Urss e nello scontro armato col nazionalismo arabo incarnato da Saddam Hussein non si tradusse in un rafforzamento della presidenza Bush, che subì, al contrario, un forte calo di popolarità determinato essenzialmente dai problemi economicosociali lasciati aperti da oltre un decennio di amministrazioni repubblicane: crescita della disoccupazione, servizi sociali insufficienti, aumento delle distanze fra ricchi e poveri, calo generalizzato del tenore di vita. Il crescente deficit del bilancio statale costringeva inoltre il presidente ad aumentare la pressione fiscale, invertendo il corso inaugurato da Reagan e smentendo le promesse formulate in campagna elettorale. Nelle elezioni del novembre '92, Bush fu seccamente sconfitto dal candidato democratico Bill Clinton: un politico poco più che quarantenne, privo di esperienza internazionale, ma abile nello sfruttare le debolezze dell'avversario, nell'interpretare il diffuso desiderio di cambiamento e nel suscitare attorno a sé un clima di fiducioso entusiasmo simile a quello che, oltre trent'anni prima, aveva portato alla presidenza John Kennedy. Il nuovo presidente non apportò mutamenti sostanziali alla linea impostata da Bush, sia nel rapporto privilegiato con Eltsin (che fu ribadito, nonostante le vicissitudini attraversate dalla Russia), sia nella contrapposizione agli avversari tradizionali (l'Iraq di Saddam Hussein, l'Iran degli eredi di Khomeini, la Libia di Gheddafi). Clinton cercò tuttavia di imprimere alla politica estera americana un segno più "progressista", in

linea con la tradizione del suo partito, e di rilanciare l'immagine degli Stati Uniti non solo come garanti degli equilibri mondiali, ma anche come difensori della democrazia in ogni parte del pianeta. Esemplare in questo senso l'azione intrapresa, nell'autunno '94, nei confronti della repubblica centroamericana di Haiti, dove la giunta militare insediatasi al potere dal '91 fu costretta a ritirarsi e a consentire il ritorno del presidente legittimo, JeanBertrand Aristide. Questa vocazione interventista si scontrava però con la riluttanza dell'opinione pubblica americana ad accettare gli oneri e i sacrifici derivanti da un impegno militare troppo esteso. La "missione umanitaria" effettuata in Somalia sotto le bandiere dell'Onu, decisa da Bush alla fine del suo mandato, fu duramente contestata nel momento in cui, come vedremo [§30.9], si trasformò in una spedizione militare. In Iraq, le azioni (anche armate) volte a costringere Saddam Hussein al rispetto delle condizioni di armistizio non bastarono a mettere in crisi il regime, che pure continuava a essere sottoposto a dure sanzioni economiche. I maggiori successi diplomatici della presidenza Clinton (l'appoggio all'accordo israelopalestinese del '93, la pacificazione imposta in Bosnia) produssero risultati precari. Lo stesso capitolo dei rapporti con la Russia faceva segnare qualche momento di tensione. Per ottenere l'assenso di Eltsin al progetto, che sarebbe stato avviato nell'estate '97, di allargamento della Nato ad alcuni Stati dell'Est europeo (Polonia, Ungheria e Repubblica ceca), i paesi dell'Alleanza atlantica dovettero fornire alla Russia garanzie circa la rinuncia all'installazione di armi nucleari sul territorio dei nuovi membri. L'accordo fu sancito in un vertice tenutosi nel maggio '97 a Parigi, dove Russia e Nato sottoscrissero un "atto fondatore" di nuove reciproche relazioni: in pratica, una sorta di patto di consultazione, che però non comportava impegni vincolanti e non impedì il riproporsi di contrasti fra gli antichi protagonisti dell'equilibrio bipolare. Nel 1996, alla fine del suo primo mandato, Clinton poteva comunque vantare un bilancio internazionale non del tutto negativo. Ma soprattutto poteva giovarsi - e questo fu il fattore principale della sua trionfale rielezione, con ampio margine sul candidato repubblicano Bob Dole - del netto miglioramento della situazione economica. A partire dal '96, il sistema produttivo americano, alleggerito (sia pure a costi sociali pesanti) dalla cura liberista degli anni di Reagan e Bush, riacquistò flessibilità e competitività, traendo anche vantaggio dalle contemporanee difficoltà del Giappone, si sviluppò con un tasso annuo superiore al 4% e si impose nuovamente come principale locomotiva

dell'economia mondiale, rafforzando il suo primato in alcuni settorichiave come quelli dell'auto e del computer. Nel '97 la disoccupazione scese, secondo i dati ufficiali, sotto il 5%, mentre il deficit di bilancio si riduceva (e l'esecutivo varava un programma volto a eliminarlo entro il 2002). Clinton, dal canto suo, riuscì a presentarsi come il garante di questo corso positivo, accantonando alcuni suoi originali progetti di riforme sociali (in particolare quello che mirava a rendere più esteso ed efficace l'intervento pubblico nel settore della sanità) e spostando così verso il centro l'asse della sua politica: il che gli consentiva di interpretare gli umori moderati prevalenti nella società americana. Fra il '98 e il '99, la posizione del presidente fu minacciata dall'emergere di accuse relative alla sua vita privata (affari poco chiari precedenti alla sua elezione, molestie sessuali nei confronti di collaboratrici), ma anche ai metodi usati nella raccolta di fondi per la campagna elettorale. Queste accuse, per lo più non provate o prive di rilievo penale, rischiarono di incrinare l'immagine pubblica e il prestigio internazionale di Clinton, ma non ne scalfirono seriamente la popolarità interna. Una popolarità fondata sulle personali capacità comunicative del presidente e più ancora sui continui e spettacolari successi dell'economia statunitense, che fecero degli Usa il centro della "nuova economia" mondiale [§29.3] e restituirono al dollaro il suo ruolo di moneta forte sui mercati finanziari internazionali. Nel novembre 2000, scaduto il secondo mandato di Clinton, le elezioni presidenziali si risolsero però in un incredibile "pareggio" fra il vicepresidente democratico Al Gore e il candidato repubblicano George Bush junior (figlio del predecessore di Clinton): il risultato finale, a lungo contestato, vide Bush jr prevalere per poche centinaia di voti ottenuti nel decisivo Stato della Florida. I primi atti della presidenza Bush si ispirarono a una linea tendenzialmente conservatrice in politica interna (ulteriori tagli alle tasse, contenimento della spesa pubblica), e orientata, in politica estera, a una più esclusiva tutela degli interessi nazionali, anche a scapito dell'impegno diretto degli Usa nelle zone calde del globo (dai Balcani al Medio Oriente) e della collaborazione con gli alleati vecchi e nuovi. Significativa, in questo senso, la scelta di denunciare gli accordi sulla limitazione degli armamenti nucleari per rilanciare il progetto (che già era stato di Reagan) dello "scudo spaziale" [§27.3]: una scelta che aveva ufficialmente lo scopo di difendere il territorio nazionale dalla minaccia dei cosiddetti "Stati canaglia" (potenze minori avverse agli Stati Uniti e sospettate di volersi dotare di armamento atomico, come la Corea del Nord, l'Iraq e altri paesi islamici), ma che finiva con l'irritare soprattutto le altre

potenze nucleari, a cominciare da Russia e Cina, ed era vista con diffidenza dagli stessi partner della Nato. La strategia "neoisolazionista" di Bush jr non poté comunque attuarsi appieno: il traumatico attentato alle Twin Towers di New York dell'11 settembre 2001 [§30.12] avrebbe infatti costretto gli Stati Uniti a un impegno su scala mondiale, in nome della lotta contro il terrorismo. 30.7. Verso l'unità europea. Il trattato di Maastricht, I criteri di convergenza, Gli ostacoli iniziali, La disoccupazione, Un difficile cammino, La moneta unica, La prevalenza dei moderati, I successi dei socialisti, La sconfitta di Kohl, I problemi comuni, L'immigrazione, L'allargamento dell'Unione, La Convenzione europea. Le grandi trasformazioni degli equilibri di potenza e degli assetti economici mondiali maturate nell'ultimo decennio del secolo XX posero l'Europa occidentale di fronte a nuove e difficili sfide. Fu anche per rispondere a queste sfide che i dodici paesi membri della Comunità economica europea (sarebbero diventati quindici nel '95, in seguito all'adesione di Austria, Svezia e Finlandia) decisero di dare nuovo impulso a un processo di unificazione che aveva proceduto sin allora con molta lentezza. Ancora una volta, come del resto era avvenuto sin dagli inizi, il terreno prescelto fu soprattutto (anche se non esclusivamente) quello economico. Nel febbraio 1992, nella città olandese di Maastricht, fu firmato un trattato che faceva compiere un notevole salto di qualità alle strutture e agli obiettivi della Cee, trasformandola in Unione europea. Il trattato di Unione prevedeva, a partire dal gennaio '93, in coincidenza con l'attuazione del mercato unico (ossia la caduta di tutte le residue barriere che ancora si frapponevano alla libera circolazione di capitali, beni e servizi), una serie di interventi volti ad armonizzare le legislazioni dei paesi membri in molte importanti materie, non solo economiche: forze armate, giustizia, politica sociale, istruzione. I firmatari si impegnavano inoltre a realizzare entro il '99 il progetto di una moneta comune (cui sarebbe stato dato il nome di Euro) e di una Banca centrale europea. Si stabiliva, infine, come condizione per l'adesione all'Unione monetaria, l'adeguamento a una serie di parametri comuni (criteri di convergenza) che avrebbero dovuto garantire la solidità della nuova moneta e la credibilità finanziaria dell'Unione: tassi di inflazione contenuti, tassi di interesse uniformi, cambi stabili per un periodo di almeno due anni prima dell'entrata

in vigore della moneta unica, disavanzo annuale del bilancio pubblico non superiore al 3%, e debito pubblico globale non superiore al 60% del prodotto interno lordo. All'inizio, il cammino così impostato si rivelò irto di difficoltà, anche perché non era facile coordinare le decisioni autonome dei singoli governi nazionali, e la stessa libertà di circolazione dei capitali favoriva le operazioni speculative contro le valute deboli: nel '93 Gran Bretagna e Italia furono costrette a svalutare le loro monete e lo stesso sistema di cambi fissi attuato con lo Sme [§27.2] fu messo a dura prova. Inoltre gli sforzi messi in atto da tutti i governi per adeguarsi ai parametri di Maastricht mediante tagli alla spesa pubblica (soprattutto nei settori in cui questa tendeva naturalmente a espandersi: assistenza sanitaria, pensioni, trasferimenti agli enti locali) provocarono in larghi settori delle opinioni pubbliche reazioni di perplessità o di rifiuto, testimoniate fra l'altro dall'esito tutt'altro che trionfale dei referendum sull'Unione tenuti in alcuni paesi: i sì prevalsero di stretta misura sia in Francia (nel settembre '92) sia in Danimarca (nel maggio '93). Bisogna poi considerare che le politiche restrittive si inserivano, aggravandola, nell'ormai annosa crisi dei sistemi di Welfare [§27.1] e rendevano impraticabile l'uso della spesa pubblica per combattere una disoccupazione che si mantenne per l'intero decennio su livelli molto elevati (nel '97, la media dei paesi dell'Unione era dell" 11,3 % sul totale della forzalavoro). Né mancarono, da parte di politici e intellettuali di diversa matrice politica, le critiche nei confronti di un progetto che appariva viziato da eccessivo tecnicismo, espropriava le prerogative dei governi a vantaggio delle banche centrali (in particolare della più potente di tutte, la tedesca Bundesbank) e affidava decisioni delicatissime a organismi comunitari poco conosciuti dalla massa dei cittadini e da essi poco controllabili. In realtà, la cura di austerità finanziaria imposta dal trattato di Maastricht non fece che mettere a nudo (contribuendo così a correggerli) alcuni caratteri distorsivi che da tempo affliggevano le economie del vecchio continente (con la parziale eccezione di quella britannica, investita nel decennio precedente dalla "rivoluzione" thatcheriana: §27.2) e le rendevano poco competitive nel confronto con le più dinamiche realtà del Nord America o dell'Oriente: l'eccesso di spesa pubblica, che distoglieva risorse dagli impieghi produttivi; l'insostenibilità finanziaria, sui tempi lunghi, dei sistemi di sicurezza sociale (che per altri versi costituivano un vanto per la civiltà europea); la rigidità del mercato del lavoro, orientato più alla tutela

dei "garantiti" che alla creazione di nuove opportunità per giovani e disoccupati. Da questo punto di vista, i tanto discussi parametri europei ebbero effetti salutari sulle politiche economiche di quei paesi (come l'Italia) che sembravano più lontani dagli obiettivi fissati a Maastricht. Nel maggio 1998, l'Unione monetaria europea (Ume) venne così inaugurata ufficialmente con la partecipazione di undici Stati: restarono fuori la Grecia, che non aveva raggiunto i parametri (sarebbe stata ammessa solo nel 2001), e Gran Bretagna, Danimarca e Svezia, che rinviarono l'adesione per loro scelta. Contemporaneamente venne istituita la Banca centrale europea (Bce) e si fissò al 1° gennaio 1999 l'entrata in vigore negli scambi finanziari della moneta unica, destinata tre anni dopo (1 ° gennaio 2002) a sostituire interamente le monete nazionali. Il dibattito sui modi e sui tempi di realizzazione del progetto di moneta unica finì inevitabilmente col dominare la scena politica dei singoli paesi e col condizionare le scelte di governi e forze politiche. In un primo tempo, parve che a fare le spese delle difficoltà inerenti al processo di integrazione fossero soprattutto i partiti di matrice socialista, costretti a confrontarsi con problemi e rimedi poco congeniali ai loro orientamenti di fondo. In Germania la coalizione fra cristianodemocratici e liberali guidata da Helmut Kohl prevalse (per la quarta volta consecutiva) nelle elezioni dell'ottobre '94. In Francia, scaduto il secondo mandato di Mitterrand, la coalizione di centrodestra (già vincitrice nelle politiche del '93) portò alla presidenza della Repubblica il gaullista Jacques Chirac. In Spagna, nel marzo '96, i socialisti di Gonzàlez, al potere da quindici anni, furono sconfitti dai conservatori di José Maria Aznar. Successivamente, però, la tendenza si invertì: le forze di ispirazione socialista e progressista si affermarono in Italia nell'aprile '96 [§31.3]; in Gran Bretagna, nel maggio '97, i laburisti di Tony Blair prevalsero con largo margine sui conservatori di John Major; in Francia la coalizione di sinistra (comprendente anche i comunisti) vinse le elezioni legislative anticipate del maggiogiugno '97, portando al governo il socialista Lionel Jospin. Se il successo dei laburisti, dopo diciotto anni di governi conservatori, appariva largamente scontato, anche per la grande popolarità di Blair (abile, come Clinton negli Stati Uniti, nel conquistare l'elettorato moderato conciliando la vocazione sociale del suo partito con la sostanziale accettazione delle logiche di mercato e con la presa d'atto dell'avvenuta rivoluzione liberista), la sconfitta dei moderati in Francia costituì invece un'autentica sorpresa: era stato infatti il presidente Chirac a sciogliere le Camere dove il centrodestra disponeva di un'ampia maggioranza, allo scopo

di concedere maggior libertà d'azione al governo in vista delle scadenze europee. La vittoria delle sinistre (presentatesi con un programma che prevedeva fra l'altro la riduzione dell'orario di lavoro) suonò così come implicita protesta contro un'applicazione giudicata troppo rigida delle regole stabilite a Maastricht. La conferma del mutamento di tendenza veniva, nel settembre '98, dalla Germania, dove la netta vittoria dei socialdemocratici di Gerhard Schröder sulla coalizione fra cristianodemocratici e liberali pose fine alla lunga stagione politica del cancelliere Kohl: il più autorevole fra i leader del vecchio continente, che vantava al suo attivo la riunificazione tedesca ed era stato il più convinto promotore dell'Unione europea, lasciava così la guida del paese dopo sedici anni, mentre Schröder formava un governo assieme ai Verdi. Il quadro fu in parte modificato con l'inizio del nuovo secolo. La vittoria di Berlusconi in Italia nel maggio del 2001 [§31.6], la riconferma di Chirac nelle presidenziali francesi del maggio 2002, seguita dal successo del centrodestra nelle legislative di un mese dopo, il ritorno al potere dei socialisti in Spagna e dei moderati in Grecia nel marzo 2004 testimoniavano una realtà politica mossa e variegata, caratterizzata in quasi tutti i paesi da una regolare alternanza al potere. È facile notare come, pur nella diversità delle risposte (e nella specificità degli assetti politici e istituzionali), i governi e gli stessi cittadini europei si trovassero in questo periodo ad affrontare questioni in larga misura comuni: non solo quelle relative all'economia, alla moneta e alla finanza pubblica, o quelle di ordine sociale, come la disoccupazione e il ridimensionamento del Welfare, ma anche quelle in apparenza più attinenti alla sfera delle sovranità nazionali. Primo fra tutti il problema dell'immigrazione (principalmente dall'Europa orientale e dal Nord Africa), diventato un problema europeo da quando gli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone - stipulati nel 1985, perfezionati nel '90 e attuati a partire dal '95 - trasformarono l'area dell'Unione in uno spazio aperto in cui era possibile muoversi senza controlli di frontiera. La questione dell'immigrazione [§29.6] rinvia al discorso più generale sui rapporti fra l'Unione europea e i paesi che la circondano, collegandosi strettamente al problema del suo allargamento. Richieste di associazione furono avanzate da tutti gli Stati dell'Europa ex comunista e anche da alcuni paesi della sponda sud del Mediterraneo, tra cui la Turchia. Con dodici di questi paesi (Bulgaria, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Romania, Slovacchia, Slovenia, oltre a Polonia, Ungheria e Repubblica ceca, già

membri della Nato) i negoziati per l'adesione ebbero inizio nel luglio 1997 e, dopo una lunga valutazione dei requisiti per l'ammissione,/?/ deciso l'ingresso di dieci Stati (escluse Bulgaria e Romania) dal maggio 2004, estendendo così l'Unione a 25 membri. Questo allargamento dell'Unione pose una serie di questioni sull'organizzazione e sul funzionamento delle istituzioni comunitarie, sulla gestione delle politiche economiche e sociali, sul ruolo e sull'efficienza stessa di un organismo politico destinato a unire e rappresentare quasi tutto il continente. Nel 2001, proprio allo scopo di riformare l'Unione, i paesi membri decisero di dar vita a una Convenzione, composta da parlamentari e rappresentanti dei governi, con il compito di redigere una carta costituzionale della Ue. Dopo 16 mesi di lavoro questo organismo, presieduto dall'ex presidente francese Giscard d'Estaing, presentò nel giugno 2003 un progetto di costituzione con un elenco dei princìpi generali dell'Unione e uno schema di riforma delle istituzioni comunitarie. Nelle intenzioni degli europeisti, l'approvazione di una costituzione europea avrebbe dovuto rappresentare il primo passo verso una piena integrazione politica del continente. Un traguardo che tuttavia appariva ancora lontano. Se per un verso l'ingresso dei nuovi membri dava corpo per la prima volta all'ideale di un'Europa capace di superare antiche e recenti divisioni ideologiche e politiche e di accogliere nuove energie e nuove aspirazioni al benessere, per altro verso il progetto comunitario appariva a molti calato dall'alto e non riusciva a trovare un adeguato consenso popolare: ne è stato testimonianza il basso livello di partecipazione alle elezioni europee del giugno 2004 registrato in molti paesi. Ma il colpo più duro per le aspirazioni degli europeisti venne un anno dopo, quando, tra la fine di maggio e l'inizio di giugno del 2005, gli elettori della Francia e dell'Olanda (entrambi paesi fondatori della Comunità europea), chiamati a decidere mediante referendum sulla ratifica della Costituzione, si pronunciarono per il no con margini piuttosto netti (57% in Francia, 63% in Olanda). Giocarono nell'esito del voto la protesta contro i vincoli di politica economica imposti dall'appartenenza all'Unione e il timore di un'eccessiva liberalizzazione intereuropea del mercato del lavoro. 30.8. L'America Latina: stabilizzazione e crisi.

Gli spazi di integrazione, I tentativi di stabilizzazione, Sviluppo e protesta sociale in Messico, Le difficoltà finanziarie La crisi argentina, Populisti e progressisti. La tendenza alla creazione di aree economicamente integrate al di là dei confini fra Stati nazionali (una tendenza che contrastava con il proliferare di aggressivi micronazionalismi) non interessò soltanto l'Europa. Nel 1992 Stati Uniti, Canada e Messico firmarono un accordo di libero scambio (Nafta: North American Free Trade Agreement) che sarebbe entrato in vigore due anni dopo. Nel 1991 quattro Stati del Sud America (Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay) avevano dato vita a uno spazio commerciale comune, il Mercosud (Mercato Comune del Sud), che si sarebbe successivamente allargato a Cile e Bolivia e avrebbe prodotto effetti positivi sulle esportazioni dei paesi interessati. In quest'area, però, la spinta verso l'integrazione e lo sviluppo era frenata dalla cronica instabilità delle economie. Come già abbiamo visto [§27.6], gli anni '90 del '900 si erano aperti all'insegna del ritorno alla democrazia, ma anche dell'inflazione e della crescita del debito estero. La situazione parve normalizzarsi nel corso del decennio, a partire dai paesi più grandi e più popolosi del continente. In Argentina il governo neoperonista di Meném [§27.6] attuava, contraddicendo le sue stesse premesse ideologiche, una energica politica di risanamento finanziario. In Brasile la stabilizzazione si realizzò, grazie anche alla creazione di una nuova moneta, il real, con la presidenza del socialdemocratico Vernando Cardoso (eletto nel 1994 e confermato nel '98), mentre il Cile dava nuovo impulso a una crescita già avviata sotto il regime di Pinochet e basata sull'apertura agli investimenti stranieri. Ancor più spettacolare, ma più fragile, lo sviluppo avviato, su analoghe premesse, in Messico: una fragilità messa a nudo dall'esplodere, nel '94-95, di una grave crisi finanziaria e dalla nascita di un movimento di guerriglia detto zapatista (dal nome di Emiliano Zapata, eroe della rivoluzione messicana) animato dalle popolazioni indie della poverissima regione del Chiapas. Per i maggiori paesi del Sud America (Brasile e Argentina), una nuova crisi si profilò qualche anno più tardi, a partire dal 1998. A scatenarla furono da un lato l'attenuarsi delle misure di austerità e il ritorno a politiche di spesa facile (fu il caso dell'Argentina alla fine del secondo mandato di Meném), dall'altro le difficoltà del sistema finanziario internazionale (rispetto al quale quei paesi erano fortemente indebitati) in seguito 30. Il mondo contemporaneo 629 soprattutto all'insolvenza della Russia. In Brasile gli effetti della crisi furono tutto sommato contenuti; e il paese

assorbì senza eccessivi traumi il nuovo passaggio dei poteri che si ebbe nell'ottobre 2002, con l'elezione alla presidenza della Repubblica del candidato progressista Inàcio Lula da Silva, ex operaio, ex sindacalista e leader del Partito dei lavoratori (Pt). Invece l'Argentina - dove nel 1999 i peronisti avevano perso il potere a vantaggio dei radicali di Vernando de ha Rua - precipitò in una gravissima crisi finanziaria: la scelta, attuata già dal governo Meném, di scongiurare l'inflazione ancorando la moneta nazionale al dollaro finì col frenare le esportazioni e col rendere impossibile il pagamento del sempre più ingente debito estero. La crisi giunse al suo culmine alla fine del 2001, quando il governo arrivò a bloccare i depositi bancari. La violenta protesta popolare che ne seguì costrinse de La Rua ad abbandonare la presidenza: dopo un caotico periodo di interregno, una parziale stabilizzazione si ebbe con le elezioni dell'aprile 2003, che videro il successo del peronista Nestor Kirchner. Al contrario di quanto era accaduto in passato, la crisi economica dell'America Latina non compromise la tenuta delle istituzioni rappresentative. Anzi, la tendenza alla stabilizzazione democratica si consolidò, seppur in presenza di scontri per il potere spesso drammatici e nonostante la persistente vitalità dei movimenti populisti. Tipicamente populista fu la spinta che, nel 1999, portò al potere in Venezuela l'ex generale Hugo Chavez (coinvolto pochi anni prima in un tentativo di colpo di Stato) e consentì, l'anno seguente, l'approvazione mediante referendum di una nuova costituzione che rafforzava i poteri del presidente della Repubblica, invano contestato dalle forze di opposizione che cercarono a più riprese di deporlo. Sviluppi di segno opposto si ebbero in Perù, dove nel 2000 il presidente Fujimori fu deposto dal Parlamento e costretto a fuggire all'estero: le elezioni presidenziali del 2001 avrebbero visto la vittoria del progressista Alejandro Toledo. Un altro rivolgimento pacifico di portata storica si verificò in Messico, dove le elezioni del 2000 interruppero il dominio del Partito rivoluzionario istituzionale, che durava da più di settant'anni. A vincere fu il conservatore Vicente Fox, che esordì con alcune misure volte a combattere la corruzione e cercò di risolvere la crisi del Chiapas con la concessione di maggiori autonomie agli indios. 30.9. Il dramma dell'Africa. I problemi dell'Africa d'oggi, La fine dell""apartheid", Il nuovo Sud Africa, Segnali di pacificazione, Il dramma della Somalia, Le difficoltà della missione di pace, I massacri in Ruanda, La crisi in Congo, I condizionamenti esterni.

L'Africa subsahariana è, fra tutte le aree del pianeta, quella che meno poté profittare delle opportunità offerte dalle trasformazioni economiche di fine '900. Afflitta da una povertà crescente, da una situazione sanitaria drammatica e dalla cronica debolezza delle strutture statali nate dalla decolonizzazione [§29.4], l'Africa nera vide i suoi mali aggravati da una lunga serie di colpi di Stato e di guerre civili che, in alcuni paesi (Liberia, Sierra Leone, Angola, Somalia), giunsero a distruggere ogni autorità centrale. Le note incoraggianti vennero soprattutto dal Sud Africa, dove si concluse la lunga stagione dell'apartheid [§23.6]. Alla fine degli anni '80, il primo ministro Frederik de Klerk, fin allora esponente dell'ala conservatrice del Partito nazionalista al potere, cominciò a smantellare il regime di discriminazione razziale e aprì negoziati con Nelson Mandela, leader del movimento antisegregazionista African National Congress (Anc), liberato dal carcere nel febbraio 1990. Il negoziato, benché ostacolato dalla resistenza dei gruppi intransigenti di entrambe le parti e dai violenti contrasti tra l'Anc e la più numerosa fra le tribù nere, quella degli zulù, ricevette un forte impulso dall'esito favorevole di un referendum tra la comunità bianca, nel marzo '92. Nel maggio '94 si svolsero pacificamente le prime elezioni a suffragio universale, vinte dall'Anc, e Mandela divenne capo dello Stato, alla guida di un governo di coalizione. La collaborazione al governo fra gli antichi avversari durò poco. Ma il nuovo Sud Africa riuscì ugualmente a superare i difficili problemi di convivenza e a mantenere la sua unità e le sue istituzioni rappresentative, affermandosi inoltre, grazie anche al prestigio di Mandela, come principale potenza dell'Africa nera. Un forte contributo al superamento delle lacerazioni del passato venne dall'istituzione, fra il '96 e il '98, di una Commissione nazionale "per la verità e la riconciliazione", dinanzi alla quale i responsabili di reati e di violenze commessi da tutte le parti in lotta fornirono, con la promessa di amnistia, ampie testimonianze sugli anni dell'apartheid. Fra i conflitti che trovarono soluzione vanno ricordati quello in Mozambico (dove le diverse fazioni firmarono un accordo a Roma, nell'ottobre '92 presso la comunità di Sant'Egidio, anche con la mediazione dell'Italia); e quello che per decenni aveva opposto gli indipendentisti eritrei allo Stato etiopico: la crisi interna di quest'ultimo e la caduta, nel '91, del regime di Menghistu [§23.6] consentirono la nascita di una Eritrea indipendente, sancita da un referendum popolare nel '93. Dopo una fase di

pacifica convivenza, però, i due paesi si scontrarono, fra il '98 e il 2000, in un conflitto originato da questioni di confine. Intanto, in Africa orientale, si consumava la tragedia di un'altra ex colonia italiana, la Somalia. Abbattuta, nel gennaio '91, la dittatura di Siad Barre, il paese diventava teatro di una spietata guerra fra clan e bande rivali, che provocava fra l'altro il blocco di ogni attività economica, causando una vera e propria strage fra la popolazione civile. Per porre fine al massacro, le Nazioni Unite decidevano, alla fine del '92, l'invio di un forte contingente multinazionale, mentre gli Stati Uniti, nel quadro della stessa operazione, facevano sbarcare proprie truppe a Mogadiscio. Nelle intenzioni originarie, la missione avrebbe dovuto non solo soccorrere la popolazione con viveri e attrezzature mediche, ma anche pacificare il paese mediante il disarmo delle fazioni e il ristabilimento di un governo centrale. Questa operazione si rivelò più difficile del previsto: ne nacquero scontri sanguinosi fra gruppi somali e reparti dell'Onu; e ciò provocò forti polemiche nei paesi impegnati nella missione (fra cui l'Italia) e seri contrasti all'interno del corpo di spedizione. La missione di pace in Somalia, circondata all'inizio da un generale consenso, si concluse all'inizio del '95 senza aver raggiunto i suoi obiettivi. E solo nel '96-97, una parziale restaurazione dell'autorità statale fu avviata grazie all'opera di mediazione tra le fazioni in lotta svolta sia dall'Italia sia dai vicini africani (Etiopia e Kenya). A metà degli anni '90, il centro delle tensioni (e delle vere e proprie tragedie) si spostò dal corno d'Africa alla fascia equatoriale. Fra il 1994 e il 1996 il piccolo Stato del Ruanda, uno dei più poveri del continente, fu teatro di una crudelissima guerra fra le etnie degli hutu e dei tutsi, combattuta a colpi di autentici massacri che provocarono la morte di centinaia di migliaia di persone e diedero luogo a un gigantesco flusso di profughi nei paesi vicini. I conflitti etnici in Ruanda si ripercossero sulla situazione del vicino Zaire, dove erano riparati forti nuclei di entrambe le etnie e dove frattanto si stava disgregando - a causa della corruzione, del collasso economico, del disfacimento delle forze armate - la più che trentennale dittatura del presidente Mobutu [§23.6], Nel maggio 1997, un antico combattente delle lotte per l'indipendenza, Laurent Désiré Kabila, al comando di una sorta di esercito di ventura composto in parte da ex profughi tutsi, conquistava, senza quasi incontrare resistenza, Kinshasa, la capitale dello Zaire, che riassumeva il vecchio nome di Repubblica del Congo. La vittoria di Kabila che sarebbe stato ucciso in un attentato nel gennaio 2001 e sostituito dal figlio Joseph - non riportò la pace nel paese. Anzi lo scontro coinvolse

anche i paesi vicini (Zimbabwe, Namibia e Angola dalla parte di Kabila, Ruanda e Uganda da quella dei suoi avversari) e non si concluse del tutto nemmeno dopo il raggiungimento, nel 1999, di un accordo provvisorio che apriva la strada al ritiro delle truppe straniere e all'intervento di reparti dell'Onu. Anche in questo caso la guerra produsse, oltre a numerosissime vittime, un'imponente massa di profughi (circa 800.000), che si aggiungevano a quelli provocati dal conflitto in Ruanda. In questo caso (come anche in quello della guerra civile in Angola) le lotte etniche e tribali nascondevano scontri di interesse relativi allo sfruttamento delle cospicue risorse naturali del paese, ma celavano anche contrasti fra le potenze occidentali. Questi condizionamenti esterni erano però più l'effetto che la causa della crisi delle classi dirigenti africane, incapaci, a quarant’anni dall'indipendenza, di costruire strutture statali moderne e durature. 30.10. Il ruolo dell'Asia. Una crescita generalizzata, La crisi del Giappone, La Cina dopo Deng, L'annessione di Hong Kong e Macao Le difficoltà della democrazia, India e Pakistan, Indonesia e Filippine, Il modello asiatico, La crisi del '97-98. Ben altrimenti dinamico e articolato era il quadro offerto nell'ultimo decennio del secolo XX dal più vasto e popoloso fra i cinque continenti. Un dato è in questo senso particolarmente significativo: fra l'85 e il '95, quasi tutti i paesi asiatici - da quelli più ricchi come Taiwan e la Corea del Sud a quelli più poveri come il Vietnam e il Bangladesh, da quelli retti da economie di mercato a quelli governati da sistemi socialisti (tranne la Corea del Nord), dai colossi come l'India e la Cina alle città Stato come Hong Kong e Singapore - fecero registrare tassi di crescita annua del prodotto interno largamente superiori a quelli dell'Occidente industrializzato (nel '95 il tasso medio fu del 6%). L'eccezione (salvo il caso già citato della Corea comunista e quelli dei paesi travolti da guerre civili, come la Cambogia e l'Afghanistan) era costituita proprio dal Giappone, che vide progressivamente venir meno i fattori di un "miracolo" in atto ormai da mezzo secolo. Dopo aver subito una brusca battuta d'arresto a metà degli anni '90, l'economia nipponica riprese a crescere a ritmi più bassi per poi cadere, a partire dal '98-99, in una vera e propria recessione, determinata soprattutto dalle difficoltà del sistema bancario, vero motore dell'intero sistema. Alla crisi economica si aggiungevano le conseguenze dell'instabilità politica: il declino e la

frantumazione del Partito liberaldemocratico [§27.11] non si accompagnarono all'emergere di valide forze alternative. Una svolta, almeno nello stile di governo, si ebbe solo nel 2001, con la nomina a primo ministro del liberaldemocratico Junichiro Koizumi, assai più giovane dei suoi predecessori ed esponente dell'ala progressista e modernizzante del suo partito. Nonostante le difficoltà in campo economico e politico, il Giappone mantenne la sua posizione di seconda potenza economica mondiale e continuò a rappresentare un modello per l'intero continente: non solo per le "tigri" dell'Estremo Oriente che per prime avevano imboccato la via dello sviluppo accelerato (Corea del Sud, Taiwan, Malaysia, Singapore) e per i paesi a economia di mercato che avevano cercato di seguirne l'esempio (Thailandia, Indonesia, Filippine), ma anche per la Cina comunista ormai avviata stabilmente sulla strada della liberalizzazione economica. Uscito di scena il vecchio Deng Xiaoping (morto nel '97), i suoi eredi - i presidenti della Repubblica Jiang Zemin e (dal 2002) Hu Jintao, i presidenti del Consiglio Li Peng e (dal '98) Zhu Rongji - non deviarono dalla linea da lui tracciata [§27.10], che consisteva nel lasciare ampio spazio all'iniziativa privata pur nel quadro di uno stretto controllo statale e all'interno di un regime autoritario e monopartitico. La Cina riuscì comunque a mantenere ritmi di crescita annua elevatissimi (anche attorno al 10%) e a inserirsi, sia pur con un ruolo ancora marginale, in un mercato internazionale da cui era rimasta isolata per decenni. Un obiettivo di indubbio prestigio fu conseguito quando, alla fine di giugno del '97, la Cina ristabilì la propria sovranità sull'antica colonia inglese di Hong Kong, uno dei centri più attivi dell'economia asiatica e della finanza internazionale, pur impegnandosi a rispettarne le peculiarità attraverso un regime di autonomia (secondo la formula "uno Stato, due sistemi" a suo tempo coniata da Deng Xiaoping). Nel '99 fu la volta di Macao, ultimo residuo dell'impero portoghese d'oltremare e ultima traccia della presenza coloniale europea sul continente asiatico. Le potenze occidentali assecondarono l'evoluzione della Cina, chiudendo un occhio sulla repressione del dissenso politico, sulle ricorrenti violazioni dei diritti umani (nonché sulla dura dominazione imposta fin dai primi anni '50 a un paese di grandi tradizioni culturali e religiose come il Tibet): e lo fecero non solo per interesse economico, ma anche nel timore che una rapida democratizzazione potesse innescare un processo di disgregazione dell'immenso e composito paese, simile a quello già vissuto dall'Urss, con conseguenze dirompenti sugli equilibri continentali.

In tutta l'Asia, del resto, lo sviluppo economico non si accompagnò a un significativo progresso della democrazia. A parte il caso dei regimi comunisti (Cina, Vietnam, Laos, Corea del Nord) e delle dittature militari più o meno mascherate (l'esempio più tipico è quello del Myanmar, l'ex Birmania), anche i paesi retti da sistemi formalmente democratici continuavano a essere caratterizzati da forme di governo in vario grado autoritarie e da scarso rispetto per i diritti delle opposizioni. L'eccezione più rilevante era costituita dall'India, la più grande democrazia del mondo dal punto di vista numerico, dove le istituzioni rappresentative ressero alle tensioni etnicoreligiose che da sempre dividevano il paese e alla crisi del Partito del congresso, a lungo dominante, che portò alla vittoria, nel 1998, una formazione di matrice nazionalista e induista, il Partito del popolo (Bjp), guidato da Atal Behari Vajpayee. Assai più travagliate erano le vicende politiche del vicino e rivale Pakistan, dove erano presenti forti correnti di integralismo islamico e dove da tempo governi regolarmente eletti si alternavano a regimi militari: fu appunto un colpo di Stato militare quello che, nel 1998, portò al potere il generale Parvez Musharraf. Fra India e Pakistan restava oltretutto aperta l'antica vertenza per il Kashmir [§23.2]: una vertenza che dava luogo a frequenti scontri di confine (particolarmente gravi quelli verificatisi alla fine del 2001, in contemporanea con l'intervento americano in Afghanistan) e che preoccupava non poco la comunità internazionale, dal momento che entrambi i paesi si erano dotati di armamenti nucleari. Nel 1998, un altro grande paese musulmano, l'Indonesia, vide cadere la trentennale dittatura di Suharto [§23.2] e avviò un processo di democratizzazione. Le elezioni del 1999 segnarono il successo del Partito democratico, guidato da Megawatt Sukarnoputri (figlia di Sukarno, primo capo dell'Indonesia indipendente), che divenne presidente nel 2001. Il paese restava tuttavia irrequieto, sia a causa delle difficoltà economiche, sia per il ripetersi di scontri a sfondo etnicoreligioso in diverse parti del grande arcipelago. Il più serio si verificò nella parte orientale dell'isola di Timor, abitata in maggioranza da cattolici e rimasta fino al 1976 sotto il dominio portoghese. Solo grazie all'intervento dell'Onu, a Timor Est si poté tenere, nel 1999, un referendum con cui la popolazione si pronunciò per un'indipendenza di fatto dall'Indonesia. Problemi non molto diversi erano quelli che affliggevano le Filippine, dove la maggioranza cattolica era costretta a fronteggiare, in alcune isole, la guerriglia separatista di gruppi islamici e dove la caduta, nell'86, del dittatore Marcos [§23.2] non valse a dare stabilità alla democrazia.

Alla svolta del secolo, l'Asia presentava dunque una costellazione di democrazie fragili, di dittature militari e di regimi che ancora si definivano comunisti: il tutto però nel quadro di un notevole dinamismo produttivo e di una rinnovata aggressività commerciale; in riferimento a tutto questo si è parlato di un modello asiatico fondato sulla flessibilità e sui bassi salari, sull'elevata produttività e sulla repressione dei conflitti sociali. Questo modello fu in parte incrinato dalla grave crisi finanziaria che fra il '97 e il '98 colpì, con crolli borsistici e pesanti svalutazioni delle monete, tutti i principali protagonisti del boom degli anni precedenti (soprattutto i meno forti, come l'Indonesia e le Filippine). La crisi - originata da un eccesso di produzione e da un'incontrollata euforia speculativa - fu tamponata, grazie anche all'intervento delle autorità monetarie internazionali. Ma suscitò ugualmente forti preoccupazioni anche nei paesi occidentali, che se da un lato erano in posizione concorrenziale rispetto ai paesi emergenti dell'Estremo Oriente, dall'altro erano ad essi legati da vincoli commerciali e finanziari, tanto più stretti quanto più alto era il grado di integrazione dell'economia mondiale. Queste preoccupazioni, tuttavia, non smentivano quella che era ormai una previsione generalizzata circa il ruolo di primo piano che il continente asiatico, definitivamente liberato dalla soggezione all'Europa e al Nord America, era destinato a svolgere nel secolo XXI. 30.11. L'integralismo islamico. La diffusione dell'integralismo, I problemi della Turchia, La tragedia algerina, I massacri fra i civili. La diffusione dell'integralismo islamico è un problema che riguarda l'intero mondo arabo e la più vasta area dei paesi abitati da musulmani [§29.7]. Già presenti da tempo, soprattutto in Medio Oriente, le correnti integraliste furono rilanciate, negli anni '80, dagli sviluppi della rivoluzione iraniana e successivamente dalla vittoriosa resistenza all'occupazione sovietica in Afghanistan [§27.4], dove erano affluiti volontari da molti paesi musulmani. Fra il '96 e il '97, gruppi fondamentalisti detti talebam (studenti delle scuole coraniche) assunsero il controllo di buona parte del paese imponendovi un regime di duro e intollerante oscurantismo, basato su una rigida interpretazione della legge islamica: vittime principali furono le donne, cui fu tra l'altro impedito di lavorare e di frequentare le scuole. Ma la presenza integralista si fece sentire in forme diverse anche in Stati governati da gruppi dirigenti di matrice nazionalista e laica, come l'Egitto (teatro di frequenti attentati terroristici contro turisti stranieri) e la stessa

Turchia. Qui un partito di ispirazione islamica (il Refah, Partito del benessere) si affermò nelle elezioni del dicembre '95, assumendo la guida di un governo di coalizione. L'esperienza si interruppe nel '97, quando le pressioni dei militari, custodi dei valori della rivoluzione kemalista e garanti della scelta filooccidentale, convinsero i partiti laici a formare una nuova maggioranza (e il Refah fu addirittura messo fuori legge). Ma pochi anni dopo (novembre 2002) si affermò nelle elezioni politiche un altro partito di ispirazione islamicomoderata, il partito islamico Giustizia e Sviluppo guidato da Recep Tayyip Erdogan. In questo caso il passaggio dei poteri si attuò senza particolari traumi e senza ripercussioni sulla collocazione internazionale della Turchia. Ma queste vicende mettevano in evidenza le contraddizioni di un paese impegnato da molti decenni in una difficile (e incompiuta) modernizzazione, di uno Stato costretto, per difendere le proprie istituzioni democratiche, a tradirne in qualche misura lo spirito. Un problema, quest'ultimo, evidenziato anche dalla sanguinosa repressione attuata ai danni dei movimenti separatisti curdi (attivi nella parte sudorientale del paese) e che ebbe non poca parte nel determinare il rifiuto opposto, ancora nel '97, dall'Unione europea alle richieste turche di adesione. Assai più drammatico (anche se con qualche tratto in comune), il caso dell'Algeria, dove, già all'inizio degli anni '90, l'egemonia dei gruppi dirigenti di matrice laica e militare, organizzati nell" Fln (Fronte di liberazione nazionale: §23.5), risultava logorata, soprattutto a causa del diffuso disagio economico (conseguenza a sua volta del fallimento di un tentativo di modernizzazione che aveva caricato sulle spalle del paese un imponente debito con l'estero): il che apriva larghi spazi alla propaganda dei gruppi fondamentalisti. Nel gennaio 1992, le prime elezioni libere del dopoindipendenza videro così la vittoria al primo turno degli integralisti del Fis (Fronte islamico di salvezza). Il governo annullò allora le elezioni, scatenando la reazione dei gruppi islamici. Questa reazione assunse tratti di particolare ferocia, dal momento che le frange estreme del fondamentalismo, sfuggite probabilmente al controllo della stessa dirigenza del Fis, misero in atto una strategia del terrore a base di massacri indiscriminati fra la popolazione civile: strategia che provocò, fra il '92 e il '97, oltre centomila morti (fra cui un gran numero di donne e bambini), e che suscitò orrore in tutto il mondo isolando gli estremisti di fronte all'opinione pubblica algerina, senza peraltro restituire credibilità ai governanti. Questi risposero con una dura repressione e cercarono di rilegittimarsi attraverso nuove elezioni (1997), i cui risultati furono però contestati dalle opposizioni. La repressione, peraltro, non riuscì a fermare le

stragi, che proseguirono, seppur con minore intensità, anche dopo una iniziativa di pacificazione lanciata nel '99 dal nuovo presidente della Repubblica Abdelam Bouteflika. Ma intanto il problema dell'integralismo islamico - o meglio delle sue manifestazioni violente ed estreme - era esploso ben al di là dei confini dei singoli paesi, profilandosi come un'emergenza internazionale. 30.12. Terrorismo e crisi internazionale. L'attentato alle "Twin Towers", L'organizzazione terroristica, Un trauma per l'Occidente, La reazione americana, La coalizione antiterrorismo, La campagna contro l'Afghanistan. La mattina dell'11 settembre 2001 due aerei di linea americani si schiantarono contro le Twin Towers (torri gemelle), gli edifici più alti di New York, sede di uffici e banche, a quell'ora affollatissimi, provocandone l'incendio e il crollo. Un altro aereo, anch'esso carico di passeggeri, si abbatté a Washington sul Pentagono, il ministero della Difesa americano. Tutti gli apparecchi erano stati sequestrati da commandos suicidi e guidati sul bersaglio dagli stessi dirottatori, debitamente addestrati. Un quarto aereo, forse diretto verso la Casa Bianca, precipitò in Pennsylvania dopo una violenta colluttazione fra i dirottatori e alcuni passeggeri. I kamikaze erano tutti provenienti da paesi arabi: di alcuni di loro si accertò l'appartenenza a un'organizzazione terroristica internazionale detta Al Qaeda (la base, la rete). L'organizzazione, che aveva la sua principale base operativa nell'Afghanistan dei talebani, si ispirava all'integralismo islamico. A guidarla era un miliardario saudita, Osama bin Laden, da tempo assertore di una guerra santa da condurre in ogni luogo e con ogni mezzo contro i nemici dell'Islam, e in particolare contro gli Stati Uniti, oggetto, già in passato, di attacchi terroristici di analoga matrice: nel '93 le stesse Twin Towers erano state colpite con auto imbottite di esplosivo ad opera di gruppi dell'estremismo integralista; ed era stata la stessa Al Qaeda a rivendicare altri due sanguinosi attentati del '98 contro le ambasciate americane in Kenia e in Tanzania. Quanto alla tecnica dei commandos suicidi, essa era stata ampiamente sperimentata, anche se in forme assai meno sofisticate, dagli estremisti palestinesi contro Israele. L'attentato dell'11 settembre - ripreso in diretta e trasmesso dalle televisioni di tutto il mondo - provocò migliaia di vittime civili (almeno tremila, secondo stime attendibili, nelle sole torri gemelle) e destò ovunque enorme impressione. Gli Stati Uniti, prima potenza mondiale, avevano

subito per la prima volta un vero e proprio attacco sul loro stesso territorio. E l'intero Occidente, oggetto delle minacce di bin Laden, scopriva la propria vulnerabilità di fronte all'offensiva di un nemico che risultava tanto più inafferrabile in quanto non si identificava con un singolo Stato, ma agiva all'interno di società aperte e multietniche. Un senso di paura e di incertezza si diffuse in tutto il mondo, colpendo non solo i settori più direttamente interessati dalla catastrofe (le compagnie aeree, che videro bruscamente calare il numero dei viaggiatori, e le società di assicurazione, costrette a far fronte a un'enorme massa di risarcimenti), ma l'intera economia occidentale, di cui le Twin Towers apparivano come il simbolo e il cuore pulsante. La prospettiva di uno "scontro di civiltà", che pure ufficialmente veniva respinta dai maggiori leader politici americani ed europei, sembrava farsi improvvisamente più concreta: anche perché l'opinione pubblica americana, ferita e spaventata, esigeva risposte all'altezza della sfida lanciata. L'amministrazione americana, in carica da pochi mesi dopo un'elezione incerta e contestata, riuscì però, dopo un primo momento di smarrimento, a riprendere il controllo della situazione e a organizzare una reazione meditata e razionale, contando anche sulla compattezza patriottica del paese e della sua classe politica. Il presidente Bush jr - che, nelle ore successive agli attentati, era stato costretto ad abbandonare la Casa Bianca e a imbarcarsi sull'aereo presidenziale per sfuggire ad altri eventuali attacchi - si preoccupò innanzitutto di predisporre le condizioni politiche per un'azione militare adeguata, così come Bush padre aveva fatto dieci anni prima con la guerra del Golfo. L'obiettivo primario e obbligato era questa volta l'Afghanistan, che ospitava il presunto capo dei terroristi ed era diventato il riferimento di tutti i gruppi integralisti (gli stessi, paradossalmente, che gli americani avevano armato e finanziato negli anni '80 per la lotta contro l'invasione sovietica). Assicuratosi l'appoggio degli alleati della Nato (con la Gran Bretagna ancora una volta in prima linea) e delle potenze ex avversarie (Russia e Cina), la diplomazia statunitense si impegnò soprattutto sul fronte dei paesi musulmani. L'obiettivo era quello di isolare i regimi più estremisti e di rinsaldare i rapporti con gli Stati moderati, compresi quei paesi (Arabia Saudita e Pakistan in primo luogo) che, pur essendo formalmente alleati degli Usa, erano sospettati di intrattenere rapporti ambigui con i gruppi integralisti. L'operazione sostanzialmente riuscì. La Russia e gli altri paesi ex sovietici confinanti con l'Afghanistan offrirono agli Usa basi e appoggio logistico. Lo stesso fece il presidente pakistano Musharraf, sfidando la protesta dei movimenti integralisti. Gli Stati arabi, eccettuato l'Iraq, manifestarono comprensione, se non solidarietà, alla superpotenza. Persino l'Iran mantenne

un atteggiamento di prudente neutralità. Il presumibile obiettivo di Osama bin Laden - sollevare le masse arabe contro i regimi moderati in nome della fede islamica e dell'antiamericanismo - fu clamorosamente fallito: anche se il messaggio apocalittico del capo terrorista - che si atteggiava a nuovo profeta e si esprimeva periodicamente attraverso videocassette registrate non mancò di fare proseliti fra le masse più radicalizzate del mondo musulmano. Il 7 ottobre, quattro settimane dopo l'attentato, ebbero inizio le operazioni militari contro l'Afghanistan, che videro coinvolti, oltre agli americani, anche reparti britannici e - con compiti prevalentemente logistici - quelli di altri paesi della Nato, fra cui l'Italia. L'impegno degli Usa e dei loro alleati si limitò, salvo circoscritte azioni di commandos, ai bombardamenti aerei. Il grosso dell'offensiva di terra fu affidato ai combattenti (mujahiddin) delle fazioni afghane avverse ai talebani, che da anni si battevano contro il regime integralista. Dopo una stasi iniziale, l'offensiva fu rapida e vittoriosa: Kabul fu occupata il 13 novembre e il 7 dicembre cadde Kandahar, ultima roccaforte del regime, mentre il mullah Ornar, capo spirituale dei talebani, e Osama bin Laden (la cui cattura costituiva l'obiettivo ufficiale e primario dell'azione militare) riuscivano a far perdere le loro tracce. Frattanto gli esponenti delle diverse fazioni vittoriose (divise fra loro in base a linee etniche e tribali oltre che politiche) si incontravano a Bonn in Germania per stabilire il futuro politico del paese: un nuovo governo, presieduto da HamidKarzai, fu insediato a Kabul il 22 dicembre. La fine del regime dei talebani rappresentava certamente un successo per l'alleanza a guida americana. Ma non esauriva la lotta intrapresa dagli Usa contro il terrorismo. E non cancellava le preoccupazioni suscitate da un evento traumatico come l'attentato dell'11 settembre, che pareva destinato a condizionare durevolmente gli equilibri internazionali, i rapporti fra Nord e Sud del mondo e gli stessi stili di vita delle società occidentali. 30.13. La guerra all'Iraq. Bush jr contro Saddam Hussein, Le divisioni internazionali, La guerra, La difficile stabilizzazione, L'attentato di Madrid. Dopo aver rovesciato il regime dei talebani in Afghanistan, gli Stati Uniti volsero la loro attenzione all'Iraq di Saddam Hussein, accusato di fiancheggiare il terrorismo internazionale e, soprattutto, di nascondere armi di distruzione di massa (chimiche e batteriologiche). Nel 1998 il governo iracheno, in violazione delle risoluzioni dell'Onu, aveva espulso gli ispettori

internazionali incaricati di vigilare sugli armamenti e aveva respinto tutti i successivi inviti a riaprire il paese alle ispezioni. Nell'autunno 2001 l'amministrazione statunitense decise di aumentare la pressione sull'Iraq per il rientro degli ispettori: il presidente Bush jr avviò una serrata offensiva diplomatica, che venne ulteriormente intensificata nella primavera del 2002 in seguito agli avvertimenti dei servizi segreti americani su possibili legami tra Saddam Hussein e Al Qaeda. Dopo un infruttuoso negoziato tra Onu e Iraq, Stati Uniti e Gran Bretagna cominciarono a preparare un'operazione militare contro l'Iraq. A questo punto la comunità internazionale, che nel 1990-91 aveva appoggiato in modo quasi unanime l'intervento militare contro Saddam Hussein, si divise in due schieramenti: da una parte Stati Uniti e Gran Bretagna, convinti della necessità di un'azione urgente per impedire al dittatore iracheno di sviluppare i suoi programmi di riarmo, dall'altra Francia, Germania, Russia, Cina e Stati arabi, contrari all'uso immediato della forza e propensi a concedere maggior tempo per trovare una soluzione diplomatica. Saddam Hussein cercò di avvantaggiarsi della contrapposizione tra gli Stati Uniti e gran parte dell'Europa riaprendo a sorpresa il paese alle ispezioni sugli armamenti (novembre 2002). Ma la determinazione degli Stati Uniti a risolvere in modo definitivo la questione irachena e l'ambigua collaborazione delle autorità di Baghdad con gli ispettori internazionali accelerarono l'inizio della guerra. Il 18 marzo 2003, dopo un tentativo fallito di concordare una nuova risoluzione Onu (causa di ulteriori polemiche tra le potenze occidentali), Stati Uniti e Gran Bretagna lanciarono un ultimatum a Saddam Hussein: se non avesse lasciato il paese entro 48 ore, avrebbero sferrato un attacco militare. Il 20 marzo i primi missili statunitensi colpirono Baghdad. Nei giorni seguenti le truppe angloamericane cominciarono ad avanzare in Iraq dalla frontiera meridionale. Come nel 1991, la resistenza dell'esercito iracheno fu debole e male organizzata: il 9 aprile i marines americani conquistarono la capitale e, pochi giorni dopo, anche le città principali del Nord del paese. Saddam Hussein fuggì e il regime si sfaldò all'istante: bande di iracheni compirono saccheggi e razzie negli edifici pubblici, negli uffici del partito Baath, nelle scuole, nei negozi e nei musei. Soltanto alcuni giorni dopo, con molta fatica, le truppe angloamericane riuscirono a riportare un po'"di ordine nel paese. Nelle intenzioni degli angloamericani e degli altri governi che inviarono contingenti militari in Iraq per contribuire al ristabilimento dell'ordine (fra gli altri Italia, Spagna e Polonia), l'abbattimento della dittatura doveva

costituire la premessa per la rapida creazione di un regime democratico: condizione a sua volta per la diffusione della democrazia nel Medio Oriente e per la costruzione di un nuovo equilibrio più favorevole all'Occidente in un'area che restava cruciale per i rifornimenti petroliferi (un Iraq filooccidentale avrebbe fra l'altro consentito di ridurre il ruolo dell'Arabia Saudita, autoritaria e tradizionalista, ma anche sospettata di legami con le correnti fondamentaliste). In realtà il processo di stabilizzazione del paese, posto sotto il controllo di un amministratore statunitense, si rivelò lento e difficile. Nonostante la cattura di molti fra i principali esponenti del vecchio regime e dello stesso Saddam Hussein (dicembre 2003), i sostenitori del dittatore deposto e i gruppi integralisti arabi ispirati da Al Qaeda diedero inizio a un lungo stillicidio di sanguinosi attentati, per lo più suicidi, contro le truppe di occupazione (in uno di questi attentati, il 12 novembre 2003, morirono diciannove italiani: dodici carabinieri e cinque soldati del contingente militare nella città di Nassirya e due civili) sia contro gli stessi civili iracheni che collaboravano alla costruzione del nuovo ordine. Né la formazione di un governo provvisorio in cui erano rappresentati i diversi gruppi etnicoreligiosi del paese (sciiti, sunniti, curdi), né il varo (marzo 2004) di una costituzione provvisoria che tentava di conciliare la fedeltà all'Islam con il rispetto del pluralismo politico e religioso bastarono a ristabilire l'ordine nel paese e a consentire l'avvio di un reale autogoverno. Mentre continuava lo stillicidio degli attentati, si diffondeva in Iraq - a opera dei gruppi integralisti legati ad Al Qaeda, dei seguaci del vecchio regime e anche di bande criminali - la pratica dei sequestri di cittadini stranieri (o di iracheni accusati di "collaborazionismo"): sequestri che spesso si concludevano con barbare esecuzioni riprese da videocamere e poi trasmesse in tutto il mondo via Internet. Frattanto l'Occidente continuava a dividersi sull'intervento in Iraq, la cui opportunità e la cui legittimità venivano contestate anche a causa del mancato ritrovamento delle armi di distruzione di massa. Nel contempo si doveva confrontare con la minaccia di un terrorismo islamico sempre più aggressivo e ramificato, presente in molti paesi europei all'interno delle comunità degli immigrati. L'11 marzo 2004, a due anni e mezzo esatti dall'attacco alle due torri di New York, questa minaccia si concretizzò a Madrid in uno spaventoso attentato che provocò duecento morti fra i passeggeri di diversi treni. Attribuito in un primo tempo ai terroristi baschi, l'attentato fu poi rivendicato dagli integralisti islamici, che dichiaravano di voler punire la Spagna per il suo impegno in Iraq a fianco degli Usa. Il tutto accadeva tre giorni prima delle elezioni politiche spagnole. Vinsero, contro tutte le previsioni, i socialisti di José Luis Rodriguez Zapatero, che si erano

espressi per il ritiro immediato dall'Iraq. Questo risultato, che da alcuni fu interpretato come il frutto di un intervento del terrorismo nella politica interna europea, fece crescere le polemiche fra i paesi dell'Ue e sembrò evidenziare ulteriormente la frattura fra le due sponde dell'Atlantico. Negli Stati Uniti, infatti, la politica di intervento, nonostante le perduranti difficoltà incontrate in Iraq, continuava a godere del sostegno della maggioranza dei cittadini. Lo si vide nelle elezioni presidenziali del novembre 2004, quando Bush ottenne la rielezione prevalendo, questa volta con un margine abbastanza netto, sul candidato democratico John F. Kerry. Nel corso del 2005, il progetto di costruzione della democrazia in Iraq segnò alcune tappe importanti: prima le elezioni, in gennaio, per l'Assemblea costituente, che fecero registrare un'ampia partecipazione popolare, nonostante le minacce dei gruppi terroristi e videro l'affermazione della componente sciita (numericamente maggioritaria, ma discriminata sotto il regime di Saddam), sotto la guida spirituale dell'ayatollah moderato Ali alSistani. Quindi la nomina di un nuovo governo, guidato dallo sciita Ibrahim AlJaffari e di un nuovo presidente della repubblica nella persona del curdo Jalal Talabani. Infine, in agosto, il varo, grazie all'accordo fra sciiti e curdi, di una costituzione federale successivamente approvata con referendum popolare, nonostante l'opposizione dei gruppi sunniti. Questi progressi non servirono però a fermare l'offensiva della guerriglia fondamentalista, che, al contrario, intensificò le sue azioni sanguinose contro gli occupanti e soprattutto contro la popolazione civile in Iraq; e colpì ancora in Europa, il 7 luglio 2005, con una serie di attentati suicidi simultanei nella rete di trasporti urbani di Londra, che provocarono oltre cento morti. Sommario Fra il 1989 e il 1991, gli equilibri mondiali subirono un radicale sconvolgimento. Nel vuoto aperto dalla crisi dell'Urss e dall'assenza di un nuovo ordine internazionale, si inserì una generale ripresa dei movimenti nazionalisti. L'evento centrale di questa nuova fase fu la crisi dell'Urss. Il processo di disgregazione avviato con le riforme di Gorbacév si accelerò dopo un fallito colpo di Stato tentato, nell'agosto '91, dai rappresentanti del vecchio regime. Alla fine del '91 l'Unione Sovietica cessò di esistere e Gorbacév diede le dimissioni.

La Federazione russa, sotto la guida di Eltsin, cercò di ereditare il ruolo dell'Urss, ma si trovò in condizioni di grave dissesto economico e di cronica instabilità politica, aggravata dal conflitto con i separatisti della Cecenia. Una parziale stabilizzazione fu avviata a partire dal 2000, con l'elezione di Putin alla presidenza. Negli anni '90 l'Europa ex comunista attraversò momenti difficili dal punto di vista economico e politico. La Jugoslavia si divise in diversi Stati (Federazione jugoslava, comprendente Serbia e Montenegro, Croazia, Slovenia, Bosnia e Macedonia) e, dal '91, fu teatro di una spietata guerra fra le nazionalità: particolarmente sanguinoso il conflitto in Bosnia, concluso da un precario accordo solo nel '95. Fra il '98 e il '99 esplose la crisi del Kosovo, dove la repressione attuata dai serbi nei confronti della popolazione albanese venne bloccata dall'intervento militare della Nato. Nel '97 anche l'Albania conobbe una drammatica crisi interna, risolta solo con l'intervento dell'Onu. L'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq di Saddam Hussein nel 1990 provocò, nel '91, la risposta militare di una coalizione guidata dagli Stati Uniti, che agiva sotto la bandiera dell'Onu. La sconfitta dell'Iraq favorì il rilancio del processo di pace in Medio Oriente, che portò nel '93 a un primo accordo di pace fra Israele e i palestinesi dell'Olp. L'accordo era però minacciato sia dall'affermazione delle forze nazionaliste in Israele, dopo l'attentato che costò la vita al premier laburista Rabin (1995), sia dalla recrudescenza del terrorismo arabo di matrice integralista. Nel 2000, dopo un fallito tentativo di giungere a un accordo generale, gli scontri e gli attentati ripresero con rinnovata violenza. Negli Stati Uniti, le difficoltà economiche provocarono, nel '92, la sconfitta del presidente repubblicano Bush, che pure aveva riportato notevoli successi in politica internazionale, e l'elezione del democratico Clinton. Dopo le iniziali incertezze (dovute anche alle difficoltà inerenti al nuovo ruolo degli Usa, diventati l'unica superpotenza mondiale), Clinton accrebbe la sua popolarità grazie soprattutto alla favorevole congiuntura economica, e fu rieletto nel '96. Nonostante i buoni risultati ottenuti da Clinton nel suo secondo mandato, le presidenziali del 2000 furono vinte di strettissima misura dal repubblicano Bush jr. La storia dell'Europa occidentale negli anni '90 fu in gran parte dominata dalla scelta di accelerare il processo di unificazione. Il trattato di Maastrichtdel 1992, che dava vita all'Unione europea, propose il traguardo della moneta unica per il 2001 e stabilì una serie di condizioni economiche per accedervi. Il cammino verso l'Unione monetaria, inaugurata nel 1998, condizionò anche le vicende politiche dei singoli Stati: a un'iniziale

prevalenza delle forze moderate fecero seguito i successi della sinistra in Italia, Inghilterra, Francia e Germania. In America Latina la stabilizzazione delle democrazie era minacciata dalle ricorrenti crisi finanziarie: la più grave si verificò in Argentina alla fine del 2001. Ma le istituzioni rappresentative si consolidarono quasi ovunque, nonostante i contrasti che spesso opponevano i partiti di matrice democraticoradicale ai movimenti di ispirazione populista. I problemi della povertà e del sottosviluppo ebbero manifestazioni drammatiche soprattutto in Africa, dove erano aggravati da una serie di guerre civili (Angola, Etiopia, Somalia, Liberia, Ruanda, Congo). In Sud Africa, grazie al negoziato de KlerkMandela, fu abolito il regime di discriminazione razziale e la componente nera assunse pacificamente il potere. Quasi tutti i paesi asiatici fecero registrare, alla fine del '900, considerevoli progressi economici. In particolare alcuni paesi del SudEst realizzarono un rapidissimo sviluppo industriale, seguendo il modello del Giappone. Anche la Cina conobbe una stagione di grande sviluppo, pur nella permanenza del monopolio politico dei comunisti. In tutti i paesi del continente, con l'eccezione dell'India, la democrazia stentava però ad affermarsi. Le correnti integraliste si diffusero in tutto il mondo islamico e trovarono una base in Afghanistan sotto il regime dei talebani. Furono toccati anche paesi di tradizione laica, come la Turchia e soprattutto l'Algeria. Qui la reazione dei gruppi fondamentalisti all'annullamento delle elezioni del '92 provocò una serie di spaventosi massacri. L'11 settembre 2001 il terrorismo integralista mise a segno un clamoroso attentato contro le "Twin Towers" a New York e contro il Pentagono a Washington. L'intero Occidente ne fu sconvolto. La reazione degli Stati Uniti e dei loro alleati si indirizzò contro l'Afghanistan, che ospitava il presunto capo dei terroristi, Osama bin Laden: l'oppressivo regime dei talebani fu spazzato via dai bombardamenti americani e dall'offensiva delle forze d'opposizione. Dopo i talebani, gli Stati Uniti volsero la loro attenzione all'Iraq di Saddam Hussein, accusato di nascondere armi di distruzione di massa. Dopo un infruttuoso negoziato tra Onu e Iraq, Stati Uniti e Gran Bretagna cominciarono a preparare un'operazione militare. Su questa decisione la comunità internazionale si divise: da una parte Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna, determinati all'uso della forza; dall'altra Francia, Germania, Russia, Cina e Stati arabi, favorevoli a una soluzione diplomatica. Il 20 marzo 2003 i primi missili statunitensi colpirono Baghdad. Nei giorni seguenti le truppe

angloamericane cominciarono ad avanzare in Iraq. La resistenza dell'esercito iracheno fu debole: Saddam Hussein fuggì e il regime si sfaldò all'istante, ma la pacificazione del paese si rivelò lenta e difficile. Bibliografia Oltre alle opere citate nel cap. 27, si veda sulla crisi dei regimi comunisti: F. Fejtò, La fine delle democrazie popolari, Mondadori, Milano 1994; B. Bongiovanni, La caduta dei comunismi, Garzanti, Milano 1995; G. Boffa, Dall'Urss alla Russia. Storia di una crisi non finita, Laterza, RomaBari 1995; J. Pirjevec, Le guerre iugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino 2001. Sugli Stati Uniti e i nuovi equilibri mondiali: L'impero riluttante, a e. di S. Romano, Il Mulino, Bologna 1992. Sui nuovi scenari internazionali, con particolare riferimento all'Asia: P. Kennedy, Verso il XXI secolo, Garzanti, Milano 1993. Sull'Africa: A. M. Gentili, Il leone e il cacciatore. Storia dell'Africa subsahariana, Nis, Roma 1995. 31. La seconda repubblica in Italia. 31.1. La crisi del sistema politico. L'immigrazione clandestina, Le difficoltà dell'economia, L'offensiva della criminalità, Dal Pci al Pds, Le leghe, Il dibattito sulle istituzioni, Le polemiche di Cossiga, Le elezioni del 1992, Scalfaro" Tangentopoli", Le stragi di mafia, Il governo Amato. Nella pubblicistica, nei mass media e nel linguaggio corrente è ormai consuetudine indicare con l'espressione seconda repubblica il nuovo assetto politico determinatosi in Italia a partire dal 1992-94. Il crollo del sistema dei partiti, la nuova legge elettorale maggioritaria, il profondo rimescolamento e rinnovamento della classe politica, infine la nascita di un tendenziale bipolarismo sono tutti fattori che caratterizzano l'ampiezza del mutamento attraversato dal nostro paese. Apertosi, sul piano internazionale, con una serie di grandiosi mutamenti, l'ultimo decennio del secolo iniziava, anche per l'Italia, all'insegna di alcune rilevanti novità politiche, accompagnate però da un complessivo aggravarsi dei sintomi di disagio nella società civile e nelle istituzioni. Nodi antichi e problemi nuovi (come quello dell'immigrazione clandestina dal Terzo Mondo e dall'Europa dell'Est, che suscitava

inquietanti reazioni di intolleranza) venivano contemporaneamente alla ribalta, sottoponendo il sistema politico a una serie di sollecitazioni cui la classe dirigente non sapeva reagire con efficacia. Segnali negativi venivano innanzitutto dall'economia: la crescita produttiva, che nel decennio precedente era servita a mascherare molti problemi, si interrompeva a partire dal 1990. Molte imprese italiane, a cominciare dalle maggiori come Fiat e Olivetti, perdevano competitività sui mercati internazionali, anche perché penalizzate (in termini di oneri previdenziali e di inadeguatezza delle infrastrutture) dall'inefficienza della pubblica amministrazione. Il tutto mentre l'inflazione, alimentata dalla crescita della spesa pubblica, restava ben al di sopra della media europea e mentre il deficit del bilancio statale, ormai assorbito in gran parte dagli oneri degli interessi sul debito pubblico, non accennava a ridursi: il che costringeva lo Stato a continue emissioni di titoli (Buoni del Tesoro, Certificati di credito, ecc.) che attiravano il risparmio, distogliendolo dagli impieghi produttivi. I problemi dell'economia e della finanza pubblica non erano il solo motivo per cui l'Italia rischiava di restare emarginata dal processo di integrazione europea. Un motivo ancora più grave era rappresentato dall'accresciuta offensiva della criminalità organizzata in Sicilia, in Calabria e in Campania e, anche se in minor misura, in Puglia. In queste regioni dove nel '91 furono commessi quasi i tre quarti dei reati di sangue consumati in tutto il paese - le organizzazioni criminali, sostenute da una diffusa rete di complicità, finivano spesso con l'esercitare un autentico controllo sul territorio, inquinando il mondo politico locale, taglieggiando le attività produttive e bloccando lo sviluppo di un'economia non parassitaria. Sul piano della vita politica, le novità dei primi anni '90 furono numerose e rilevanti. La prima, direttamente legata ai mutamenti in corso nell'Urss e nell'Europa dell'Est, fu la trasformazione del Pci nel nuovo Partito democratico della sinistra (Pds). La clamorosa decisione - annunciata alla fine dell'89 dal segretario Achille Occhetto e tradotta in atto, dopo lunghe polemiche interne, in un congresso tenutosi a Rimini nel febbraio '91 avrebbe dovuto "sbloccare" la principale forza di opposizione e porre le premesse per una ricomposizione della sinistra italiana nel segno del riformismo democratico. Ma questo progetto si scontrava con le diffidenze reciproche che permanevano fra i due maggiori partiti della sinistra (l'uno al governo, l'altro all'opposizione); e il nuovo Pds, diviso al suo interno e abbandonato dall'ala più legata all'eredità del vecchio Pci (che diede vita al partito di Rifondazione comunista), faticava a imporsi come unico punto di

riferimento e di raccolta per un'opinione pubblica di sinistra attraversata da una forte crisi di identità. Sull'opposto versante politico, si consolidarono, nel Settentrione, i movimenti regionalisti: in particolare la Lega lombarda, affermatasi nelle consultazioni amministrative del maggio 1990 sull'onda di una violenta polemica "nordista" contro lo Stato centralizzatore, il fisco e l'intero sistema dei partiti. Più in generale, la proliferazione di nuovi piccoli movimenti, spesso concentrati su problemi specifici, esasperava la frammentazione dello schieramento parlamentare e aggravava i fenomeni di ingovernabilità. Anche per questo le forze politiche cominciarono a prendere in seria considerazione l'ipotesi di una nuova legge elettorale capace di dare maggiore stabilità all'esecutivo, o addirittura di una revisione della carta costituzionale, senza però trovare alcun accordo né sui contenuti né sul metodo delle eventuali riforme. A tenere aperto il problema contribuì tuttavia, nel giugno '91, lo schiacciante successo di un referendum abrogativo di alcune parti della legge elettorale promosso da un comitato composto da esponenti di diversi partiti e presieduto dal democristiano Mario Segni: un risultato importante non tanto per il suo contenuto specifico (la riduzione a una del numero delle preferenze), quanto per il suo significato di protesta nei confronti del sistema vigente. Un'altra inattesa sollecitazione in direzione delle riforme giungeva addirittura dal vertice dello Stato: il presidente della Repubblica Cossiga, mutando improvvisamente lo stile di comportamento seguito nei primi cinque anni del suo mandato, si rendeva protagonista di una serie di accese polemiche, sia con singole forze politiche (compreso il suo partito di provenienza), sia con altri organi dello Stato (in particolare il Consiglio superiore della magistratura, accusato di arrogarsi poteri non suoi); e dichiarava apertamente la sua volontà di contribuire a cambiare il sistema di cui lui stesso era il più alto rappresentante. Nel febbraio 1992, pochi mesi prima della fine del suo mandato, Cossiga decideva di sciogliere le Camere con lieve anticipo sulla scadenza della legislatura. Le elezioni, che si tennero il 5-6 aprile, registrarono alcune clamorose novità. Seccamente sconfitti la Dc (che passava dal 34,3% al 29,7% alla Camera) e il Pds (che con il 16,1% perdeva più del 10% rispetto al Pci, in parte a vantaggio di Rifondazione comunista), in flessione il Psi, più o meno fermi i partiti laici minori, vere vincitrici delle elezioni risultavano le forze politiche nuove e tendenzialmente "antisistema": in primo luogo la Lega Nord (guidata da Umberto Bossi, e nata dalla fusione della Lega lombarda con analoghe formazioni regionali) che con l'8,6% dei

voti, ottenuti quasi tutti nelle regioni settentrionali, si affermava come quarta forza politica nazionale. I Verdi rafforzavano la loro presenza in Parlamento, mentre un esiguo ma significativo successo otteneva la Rete, una nuova formazione, polemicamente schierata contro il sistema dei partiti, capeggiata dall'ex sindaco democristiano di Palermo Leoluca Orlando. La coalizione quadripartita conservava una maggioranza parlamentare ridottissima eppure decisiva perché, al momento, priva di alternative. All'indomani delle elezioni, era dunque un Parlamento profondamente diviso quello cui spettava il compito di rinnovare i vertici dello Stato, di investire un nuovo esecutivo (Andreotti si dimise il 24 aprile) e, più in generale, di dare risposte alla diffusa domanda di cambiamento emersa in modo inequivocabile (anche se in forma confusa e frammentaria) dalle elezioni. Ma dopo le dimissioni di Cossiga (28 aprile), date due mesi prima del termine del mandato nella convinzione che solo un nuovo presidente potesse affrontare gli aspetti istituzionali della crisi politica, il Parlamento fu subito impegnato a trovare un accordo sul nome del nuovo capo dello Stato. Cadute le candidature della coalizione quadripartita, un'ampia maggioranza elesse il 25 maggio Oscar Luigi Scalfaro, democristiano, presidente della Camera, parlamentare dagli anni della Costituente, una figura che per il suo rigore morale era chiamata a rappresentare la tradizione positiva di una classe politica ormai largamente screditata. Da alcuni mesi infatti un nuovo gravissimo scandalo stava coinvolgendo un numero crescente di uomini politici accusati di aver preteso e ottenuto tangenti per la concessione di appalti pubblici. L'inchiesta, avviata dalla magistratura milanese, svelava un diffusissimo sistema di finanziamento illegale dei partiti e di autofinanziamento dei politici (denominato "Tangentopoli"), sostenuto dalla complicità di società e imprenditori privati. Destinatari principali erano i partiti di maggioranza, in primo luogo la Dc e il Psi (ma non mancarono casi di coinvolgimento del PciPds). Fenomeno non nuovo, materia di precedenti scandali ma tacitamente ammesso e tollerato, il sistema delle tangenti rivelava una endemica diffusione che aggravava la crisi dei partiti e testimoniava della loro incapacità di rinnovarsi. In una situazione già carica di difficoltà, si inseriva l'improvvisa recrudescenza dell'offensiva mafiosa contro i poteri dello Stato. Il 23 maggio, mentre erano in corso alla Camera le votazioni per la presidenza della Repubblica, un attentato dinamitardo lungo l'autostrada fra l'aeroporto di Palermo e la città uccise il magistrato Giovanni Falcone, direttore degli

affari penali del ministero della Giustizia, la moglie e i tre agenti della scorta. Meno di due mesi dopo, il 19 luglio, il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta furono uccisi da un'autobomba in piena Palermo. Falcone e Borsellino erano stati in prima fila nella lotta alla mafia. Falcone era candidato a dirigere la superprocura antimafia, di recentissima istituzione, e, dopo la sua morte, si era fatto il nome di Borsellino per la stessa carica. La frustrazione di quanti erano impegnati sul fronte antimafia, l'ondata emotiva e la mobilitazione suscitate dalle due stragi sollecitavano a potenziare le indagini e a mettere a nudo gli intrecci fra mafia e politica. Alla crisi dei partiti e all'allarme per l'inarrestabile dilagare della criminalità organizzata si aggiungevano anche i problemi della crisi produttiva e della gravissima posizione debitoria dello Stato. Eccezionali erano dunque i compiti che si prospettavano al nuovo governo, entrato in carica alla fine di giugno dopo una lunga trattativa fra i partiti della vecchia maggioranza. Caduta la candidatura di Craxi dopo le indagini che avevano investito, per lo scandalo delle tangenti, molti uomini vicini al leader socialista (in seguito inquisito ripetutamente egli stesso), il presidente Scalfaro affidava l'incarico a un altro socialista, Giuliano Amato. Il nuovo governo quadripartito affrontò subito il problema finanziario prima con interventi di tipo fiscale sui beni mobiliari e immobiliari dei cittadini, poi con una più incisiva manovra destinata a contenere le spese riducendo, fra l'altro, quelle per la sanità, particolarmente onerose. Tali interventi, insieme a quelli annunciati relativi alla privatizzazione di alcune grandi imprese pubbliche, si rendevano tanto più necessari dopo che, in settembre, una violenta speculazione aveva costretto la lira a uscire dal Sistema monetario europeo [§21.2 e 30.7] e il libero mercato aveva deprezzato la nostra moneta di oltre il 20%. 31.2. Una difficile transizione. La riforma elettorale, I referendum del 18 aprile, La crisi di un regime, Da Amato a Ciampi, L'elezione diretta del sindaco, Le nuove leggi elettorali, Difficoltà del governo Ciampi. Mentre il governo Amato continuava a operare con una certa incisività, il Parlamento non riusciva a risolvere il problema delle riforme istituzionali, nonostante avesse nominato, a questo scopo una commissione bicamerale. Il tema più discusso e il nodo più difficile da sciogliere era quello della legge elettorale. L'introduzione di un nuovo sistema maggioritario uninominale sembrava a molti - e innanzitutto a quanti erano pronti ad

affidarsi, come nel 1991, al referendum abrogativo - la via più rapida per la riforma e la moralizzazione della politica: il voto a favore di singole personalità avrebbe ridotto al minimo l'ingerenza dei partiti e dei loro apparati. I difensori del sistema proporzionale vigente, con il voto di lista che tutelava al massimo il potere organizzativo dei partiti, si limitavano invece a suggerire una serie di correttivi in senso maggioritario. il disaccordo tra le forze politiche spianò ancora una volta la strada a una soluzione imposta da un referendum abrogativo. Il 18 aprile 1993 i cittadini approvarono a larghissima maggioranza, insieme ad altri sette referendum, quello che, attraverso la soppressione di alcune formulazioni della legge elettorale, introduceva il sistema uninominale maggioritario al Senato. Contemporaneamente, a opera di due altri referendum, venne abolito il finanziamento pubblico dei partiti (in vigore dal 1974) e furono mitigate le sanzioni penali contro i consumatori di droga introdotte da una legge varata fra molti dissensi nel 1990. Il successo del referendum elettorale suonava come una secca sconfitta per il sistema dei partiti, nonostante l'affrettato schierarsi di quasi tutte le formazioni politiche a favore del "sì". Del resto la consultazione referendaria giungeva al termine di un periodo durante il quale alcuni fra i maggiori rappresentanti dei partiti di maggioranza erano stati raggiunti da numerosi avvisi di garanzia (ossia da notifiche dell'avvio di indagini emesse dal magistrato inquirente a tutela dell'inquisito) per reati legati al sistema delle tangenti, ed erano state richieste al Parlamento le autorizzazioni a procedere. Nonostante la diversa gravità delle imputazioni, uomini politici come i segretari del Psi Bettino Craxi, del Pri Giorgio La Malfa e del Pli Renato Altissimo vedevano scossa la loro credibilità ed erano costretti ad abbandonare le responsabilità di partito. Indagato per tangenti risultava anche l'ex segretario della Dc Forlani, mentre Andreotti era accusato da alcuni pentiti di collusioni con la mafia (accuse da cui sarebbe uscito assolto nel 1999). Anche tre ministri del governo Amato si dimisero per accuse relative a finanziamenti illeciti. All'indomani dei referendum, mentre i mass media e l'opinione pubblica celebravano la svolta impressa dal voto degli italiani, Amato, convinto della fine di un'epoca - quella dominata dal sistema dei partiti -, annunciò in Parlamento le dimissioni del suo ministero. Il presidente della Repubblica designò allora, come figura indiscussa al di sopra delle parti, il governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, per formare il nuovo governo. Ciampi costituì il ministero muovendosi al di fuori delle logiche partitiche e delle maggioranze precostituite, richiamando ministri del precedente gabinetto, ma inserendo tecnici ed esponenti di altre aree. Il 29 aprile, però, quattro ministri del governo insediato quel giorno stesso - tre del Pds e un

verde - si dimisero per protesta contro la Camera che non aveva concesso alcune autorizzazioni a procedere nei confronti di Craxi. Nonostante queste prime difficoltà, Ciampi riuscì a varare il suo governo ottenendo l'appoggio della vecchia maggioranza quadripartita (DcPsiPsdiPli) e l'astensione di Pds, Lega, Verdi e Pri. L'impegno del nuovo esecutivo era rivolto in primo luogo a favorire il varo di una nuova legge elettorale per le due Camere che recepisse il principio maggioritario indicato dal referendum per il Senato. Si proponeva inoltre di continuare sulla via delle privatizzazioni, della riduzione della spesa pubblica e delle riforme fiscali. L'intento, infine, di contenere o diminuire la disoccupazione sembrava contraddetto dalla recessione economica e dall'obiettivo di ridurre la spesa. Una importante, anche se parziale, verifica per le forze politiche furono le elezioni comunali di giugno, le prime in cui si votasse per l'elezione diretta del sindaco. I risultati confermarono l'ascesa della Lega al Nord con la conquista di diverse città e dell'ambita carica di sindaco a Milano, decretarono una pesante sconfitta per la Dc e il crollo del Psi, un buon risultato per il Pds non in termini di voti, ma per numero di sindaci ottenuti al Centro e al Sud. Intanto le nuove leggi elettorali per la Camera e il Senato, dopo un accidentato percorso, venivano approvate definitivamente ai primi di agosto: introducevano il sistema maggioritario uninominale, ma prevedevano entrambe una quota di seggi, pari al 25%, da assegnare con il sistema proporzionale in omaggio alla vecchia struttura organizzativa dei partiti. Il governo Ciampi procedeva con quel tanto di consensi che gli venivano dalla mancanza di alternative, ma senza quell'incisività che solo una maggioranza parlamentare convinta e motivata poteva dare. Del resto le iniziative governative, sostenute dalla competenza tecnica dei nuovi ministri, tendevano a indurre scelte - come la riduzione della spesa, il taglio dei privilegi corporativi, una maggiore equità fiscale che suscitavano l'opposizione di gruppi sociali tradizionalmente tutelati da un Parlamento sensibile alle pressioni di parte. Una serie di ulteriori difficoltà derivavano al governo dalla improvvisa ripresa di gravissimi atti di terrorismo: forse come risposta ai successi investigativi che avevano portato, fra l'altro, a importanti arresti e a svelare alcuni intrecci fra politica e criminalità organizzata, venivano fatte esplodere cinque autobombe - due nel mese di maggio, la prima a Roma e l'altra a Firenze (dove causava cinque morti) e tre contemporaneamente in luglio, una a Milano (con cinque vittime) e due a Roma.

Sul piano economico, infine, la recessione che aveva colpito tutte le economie occidentali non consentiva il rilancio delle attività produttive nonostante la progressiva diminuzione del costo del denaro, volta a favorire gli investimenti, e un importante accordo con i sindacati sulla riduzione del costo del lavoro. 31.3. L'avvio del bipolarismo. Verso le elezioni anticipate, Il rinnovamento dei partiti, Dal Msi ad Alleanza nazionale, Un imprenditore in politica, Centrodestra e progressisti, Le elezioni politiche del marzo '94, Cause e conseguenze del voto, Il governo Berlusconi, Il governo Dini, Il confronto fra i due schieramenti. A partire dall'estate del 1993, alcune forze politiche, fra cui la Lega e il Pds, cominciarono a reclamare nuove elezioni il più presto possibile, mentre i partiti della maggioranza tradizionale, e in primo luogo la Dc, puntavano deliberatamente a ritardarle. Il rinnovamento che questi ultimi avevano avviato era infatti appena agli inizi e il timore di non avere uomini di ricambio da proporre nel confronto uninominale, dopo il ciclone di Tangentopoli, li rendeva molto cauti di fronte al rischio elettorale. Ma nell'opinione pubblica si era ormai fatta strada la convinzione che solo una consultazione elettorale e un Parlamento depurato dalle responsabilità e complicità con il sistema delle tangenti avrebbero potuto dare soluzione agli annosi problemi che stavano di fronte al paese e porre le basi per una nuova repubblica, per un nuovo patto fra cittadini e potere politico. In questa prospettiva i partiti della vecchia maggioranza pentapartita avevano avviato una trasformazione che coinvolgeva gli uomini, e in qualche caso il simbolo e il nome del partito. Il Psi aveva affidato prima a Giorgio Benvenuto, poi a Ottaviano Del Turco, entrambi ex sindacalisti, la segreteria del partito, ma non sembrava in grado di ridare credibilità alla sua immagine. La Dc, guidata da Mino Martinazzoli, aveva deciso di tornare alle origini e alla vecchia denominazione del primo partito cattolico (quello fondato da Sturzo nel 1919) riassumendo il nome di Partito popolare italiano. Ma, quando un'assemblea costituente varò la rinascita del Ppi (gennaio 1994), un gruppo di dirigenti democristiani, ostili al predominio delle sinistre nel nuovo partito, si raccolse in una nuova formazione, il Centro cristiano democratico (Ccd). L'anno seguente, una nuova scissione nel Partito popolare diede vita ai Cristiani democratici uniti (Cdu).

Nello stesso periodo anche a destra si registrarono significativi mutamenti. Il segretario del Msi Gianfranco Fini, sospinto dai successi ottenuti nelle elezioni comunali e dalla necessità di ottenere una definitiva legittimazione, avviò la trasformazione del suo partito in Alleanza nazionale: un processo che si sarebbe concluso nel congresso di fondazione di Fiuggi nel gennaio 1995. Nel definire i rapporti con il passato fascista, Fini dichiarò ripetutamente che il fascismo era finito nel 1945, rivendicando tuttavia la positività di alcuni aspetti del ventennio e la statura politica di Mussolini come uomo di Stato fino agli errori della politica antisemita e della guerra. Ma l'elemento di maggior novità nello scenario politico italiano fu l'ingresso in politica dell'imprenditore televisivo Silvio Berlusconi. Proprietario delle tre maggiori reti televisive private e del Milan, la società di calcio più forte del momento, industriale impegnato in molti altri settori, dall'edilizia alle assicurazioni alla finanza alla pubblicità, Berlusconi era sceso direttamente "in campo" con il dichiarato obiettivo di arginare un eventuale successo delle sinistre (e in primo luogo del Pds), di ricostituire un centro ormai disperso e in crisi inarrestabile, di porsi infine come elemento di aggregazione di un nuovo schieramento di centrodestra. Berlusconi poteva contare sulla larghissima popolarità legata ai suoi successi di imprenditore fattosi da sé e sull'appoggio esplicito e implicito delle sue reti televisive. Nel giro di qualche mese riuscì non solo a fondare un proprio movimento, Forza Italia, ma anche a costituire un cartello elettorale con la Lega Nord nell'Italia settentrionale (Polo della libertà), con Alleanza nazionale nel CentroSud (Polo del buon governo). Confluirono in questo schieramento anche i radicali di Pannella, il Ccd e altri politici di centro. Sul fronte opposto il Pds coagulò intorno a sé (nel cartello dei Progressisti) tutte le forze di sinistra da Rifondazione comunista ai socialisti, dai Verdi alla Rete, nonché altri gruppi di recente fondazione come Alleanza democratica. Più isolati e più deboli apparivano il Ppi e il gruppo Segni, collocati al centro fra i due schieramenti. Le elezioni politiche del 27-28 marzo 1994 decretarono il successo delle forze raccolte intorno a Berlusconi, che ottennero alla Camera 302 dei 475 seggi dei collegi uninominali. Lo schieramento di centrodestra conquistava con largo margine la maggioranza assoluta alla Camera, ma la mancava di poco al Senato. Il 25% dei seggi assegnati proporzionalmente consentì tuttavia un recupero al Ppi e al Pds.

Per un insieme di fattori dipendenti dall'alto numero di collegi dell'Italia settentrionale e dal sistema elettorale uninominale i candidati eletti della Lega Nord furono più numerosi di quelli di Forza Italia, nonostante il movimento di Berlusconi avesse ottenuto percentualmente il maggior numero di voti in tutta Italia (21 %) e superato la Lega persino in Lombardia. Il Pds si assestò come secondo partito (20,3 %), seguito da Alleanza nazionale (13,5%) e dal Ppi (11,1%). Nella distribuzione geografica dei collegi, i progressisti prevalsero in Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, ma anche in Abruzzo, Campania e Calabria. Nelle altre regioni settentrionali e meridionali il successo del centrodestra fu incontrastato. Le ragioni della vittoria di Berlusconi, una vittoria confermata e anzi accresciuta nelle elezioni europee di giugno, furono attribuite non solo al sostegno delle sue televisioni, ma soprattutto alla capacità di proporsi - con efficaci messaggi al tempo stesso popolari e populistici - come l'unico in grado di sostituire il ceto di governo spazzato via dagli scandali di Tangentopoli. Alcuni risultati di grande rilievo per il sistema dei partiti discendevano dalle elezioni del marzo 1994: la quasi scomparsa del Psi e dei partiti laici minori, lo sgretolamento del centro e del partito cattolico, la legittimazione del MsiAlleanza nazionale, infine la concreta possibilità dell'instaurarsi di un meccanismo di alternanza fra maggioranza e opposizione (bipolarismo). Nel maggio 1994 Berlusconi formava il nuovo governo con gli alleati della Lega, di Alleanza nazionale, del Ccd e altri esponenti di centro. Di fronte a lui stavano non solo i difficili equilibri e le tensioni interne alla sua maggioranza, ma l'insieme dei problemi ereditati dai governi precedenti: in primo luogo quello di conciliare ripresa economica, benessere sociale e riduzione della spesa pubblica. In tempi molto rapidi i contrasti tra Forza Italia, Alleanza nazionale, Ccd da un lato e la Lega dall'altro divenivano insanabili, mentre rimanevano irrisolte tutte le questioni derivanti dall'anomalia di un presidente del Consiglio grande imprenditore e proprietario delle maggiori reti televisive private. A dicembre, dopo una fase altamente conflittuale, Berlusconi fu costretto a dimettersi e, nel gennaio 1995, Lamberto Dini, ministro del Tesoro del precedente governo, formava un ministero di tecnici con l'obiettivo di superare gli antagonismi su alcuni temi nodali, come la riforma del sistema pensionistico, di allentare la tensione e portare in tempi brevi il paese a una nuova consultazione elettorale politica. Il governo Dini otteneva la fiducia del Parlamento con il voto favorevole della Lega, del Pds, del Ppi e l'astensione di Forza Italia, Alleanza nazionale e Ccd.

Nell'anno in cui rimase in carica, nonostante l'originaria connotazione tecnica, il governo divenne espressione della maggioranza di centrosinistra che lo sosteneva, mentre il centrodestra passava a una netta opposizione reclamando il ritorno alle urne. La realizzazione più significativa, ma anche molto discussa quanto agli effetti di contenimento della spesa sul lungo periodo, fu la riforma del sistema pensionistico, varata con il consenso dei sindacati. Intanto, già a febbraio 1995, Romano Prodi, economista, ex presidente dell'Iri ed esponente del Ppi, si candidò ad antagonista di Berlusconi e a leader di una nuova alleanza di centrosinistra (l'Ulivo). Una prima verifica dei rapporti di forza fra i due schieramenti si ebbe nelle elezioni regionali di aprile che attribuirono 9 regioni al centrosinistra e 6 al centrodestra. Una seconda in senso opposto venne, seppure indirettamente, dai referendum di giugno sulla riduzione delle reti concesse a un privato e sulla diminuzione della pubblicità nei programmi televisivi. I referendum erano intesi a ridimensionare il potere televisivo di Berlusconi e la sconfitta dei proponenti fu interpretata come un successo anche politico dell'imprenditore milanese e della sua capacità di influenzare il grande pubblico. Frattanto, in mancanza di un accordo fra i partiti, le elezioni politiche venivano rinviate in attesa di poter definire le regole del nuovo sistema di alternanza, di modificare la legge elettorale, di affrontare le linee di fondo delle riforme istituzionali con un'intesa generalizzata. Accanto a questi motivi, molti contavano sul prolungamento dei tempi per mettere a punto. Le elezioni politiche del 21 aprile '96, Il governo Prodi i difficili equilibri interni ai due cartelli elettorali e su un graduale ridimensionamento del fenomeno leghista. La Lega, infatti, staccatasi dal Polo e schieratasi con il centrosinistra nella maggioranza che sosteneva Dini, appariva sempre più come un elemento antisistema. Tra la fine del 1995 e gli inizi del 1996, dopo l'approvazione della legge finanziaria e le dimissioni del governo Dini che considerava esaurito il suo compito, anche gli ultimi tentativi di trovare un accordo politico si rivelarono inutili. Nelle nuove elezioni politiche anticipate (la legislatura era durata solo due anni) si confrontarono la coalizione di centrodestra (Polo delle libertà) formata da Forza Italia, Alleanza nazionale, Ccd, Cdu e radicali, e la coalizione di centrosinistra (l'Ulivo) formata da Pds, Ppi, ex socialisti di vari gruppi, Verdi e da una lista di centro, Rinnovamento italiano, promossa da Dini. I due schieramenti erano guidati, rispettivamente, da Berlusconi e da Prodi come leader e presidenti del Consiglio designati. La Lega si presentava da sola, mentre Rifondazione comunista aveva negoziato il suo

appoggio all'Ulivo in cambio del sostegno a propri candidati in alcuni collegi uninominali. Le elezioni del 21 aprile 1996 videro il successo di misura dell'Ulivo che ottenne la maggioranza assoluta al Senato e quella relativa alla Camera, dove diventava determinante l'appoggio di Rifondazione. Con il 21,1 % dei voti espressi per la quota proporzionale della Camera il Pds scavalcava Forza Italia (20,6%), affermandosi come primo partito del paese: si trattava di un significativo successo del segretario Massimo D'Alema (succeduto a Occhetto nel luglio 1994) e del nuovo gruppo dirigente. Alleanza nazionale con il 15,7% e Rifondazione con l'8,6% migliorarono i risultati del 1994, mentre il Ppi ottenne il 6,8%. Clamoroso fu il successo della Lega che, smentendo le previsioni, superò il 10% nazionale e il 30% nel NordEst. Forte di questo risultato, il leader della Lega Umberto Bossi avrebbe condotto il movimento sulla via di una crescente radicalizzazione, passando dall'originaria linea federalista a una apertamente separatista: a tal fine promosse una serie di manifestazioni culminate, il 15 settembre, in una "dichiarazione di indipendenza della Padania". Il nuovo governo presieduto da Prodi, entrato in carica nel maggio 1996, schierava molti esponenti del Pds - fra cui Walter Veltroni vicepresidente, Giorgio Napolitano agli Interni, Luigi Berlinguer all'Istruzione -, alcuni Verdi, Dini agli Esteri e ai Lavori pubblici Antonio Di Pietro, ex pubblico ministero, il più popolare dei magistrati impegnati nelle inchieste di Tangentopoli (ma dimessosi nel novembre successivo perché indagato in un procedimento giudiziario). Il governo Prodi affrontava l'insieme dei problemi irrisolti del paese e, in primo luogo, quelli di equilibrare la necessaria politica di rigore con la tutela dei ceti meno protetti, di rilanciare l'economia e l'occupazione, con quella maggiore sistematicità consentita a un esecutivo destinato a durare un'intera legislatura, ma con tutte le difficoltà derivanti da una maggioranza eterogenea che si estendeva dal centro all'estrema sinistra. 31.4. L'Italia nell'Unione europea. La riduzione del deficit, La revisione del "Welfare State", I problemi della giustizia, La Commissione bicamerale, Il bipolarismo imperfetto, Da Prodi a D'Alema, Le difficoltà del centrosinistra, I successi elettorali del centrodestra, L'elezione di Ciampi, La riforma federalista. Il primo obiettivo del nuovo governo, perseguito con particolare determinazione dal ministro del Bilancio e del Tesoro Ciampi, fu quello di

ridurre il deficit del bilancio statale entro il rapporto del 3 % con il prodotto interno lordo, il più importante dei parametri fissati a Maastricht per l'ammissione nel sistema della moneta unica europea [§30.7]. Una serie di interventi fiscali e di tagli alla spesa pubblica consentivano all'Italia, grazie anche al progressivo calo dell'inflazione fino a valori insolitamente bassi (1,5 % circa), di rientrare nel Sistema monetario europeo alla fine del '96, di attestarsi - alla fine del '97 - al di sotto dell'obiettivo del 3 % e di ottenere, nel maggio '98, l'ingresso ufficiale nell'Unione monetaria europea (cui sarebbe seguita l'introduzione dell'euro, a partire dal 1° gennaio 2002). Conseguiti questi primi positivi risultati in politica economica, rimanevano pressanti altri problemi: la revisione del Welfare State, l'eredità delle inchieste di Tangentopoli e l'ormai annosa questione delle riforme istituzionali. I correttivi da introdurre nel sistema previdenziale apparivano necessari onde evitare di caricare sulle generazioni future il costo di un numero elevato di pensionati di cui, a partire dagli anni '70, era stata favorita un'uscita precoce dal mondo del lavoro. Il prolungamento dell'età media, legato al miglioramento complessivo delle condizioni di vita, sommato alla riduzione numerica delle classi giovanili, rischiava infatti di far collassare il sistema. I tentativi di intervento del governo, solo parzialmente attuati, determinavano le resistenze dei sindacati e la risoluta opposizione di Rifondazione comunista, il cui apporto era invece indispensabile al governo per ottenere la maggioranza alla Camera dei deputati. Più in generale appariva difficile trovare nel paese e tra le forze politiche, anche d'opposizione, i consensi necessari per ridurre i privilegi diffusi in molti settori sociali protetti e spostare risorse a vantaggio di un rilancio dell'occupazione. Problemi non meno delicati erano quelli legati all'amministrazione della giustizia. Le inchieste giudiziarie sul sistema delle tangenti, che avevano avviato il crollo del sistema politico della prima repubblica, pur essendosi tradotte in un numero rilevante di processi, erano ben lungi dall'essere concluse, non solo per le lentezze consuete dei procedimenti giudiziari, ma per il continuo affiorare di nuovi intrecci illegali fra politici, imprenditori, funzionari pubblici e anche magistrati. Andavano quindi deluse le aspettative di chi riteneva di poter chiudere la stagione delle illegalità con la definizione delle responsabilità relative. Rimaneva invece aperto un contenzioso spesso assai aspro fra settori dell'ordine giudiziario e settori della classe politica, che criticavano il ruolo protagonistico assunto dopo Tangentopoli dalla magistratura inquirente: il contrasto era ulteriormente

alimentato dal coinvolgimento dell'opposizione, Silvio Berlusconi.

in

alcune

inchieste

del

leader

Lo stesso Berlusconi, d'intesa con il segretario del Pds D'Alema, aveva favorito la costituzione di una Commissione bicamerale per delineare in Parlamento un progetto organico di riforme istituzionali. La Commissione, presieduta da D'Alema, giungeva, nel corso del 1997, attraverso una serie di negoziati e compromessi con tutte le forze politiche, a definire una serie di modifiche costituzionali. La proposta della bicamerale prevedeva l'istituzione di un sistema semipresidenziale, caratterizzato dall'elezione diretta da parte del popolo del presidente della Repubblica e da un capo del governo designato contestualmente alla maggioranza; l'introduzione di una serie di elementi di federalismo, infine maggiori garanzie per gli imputati nei procedimenti giudiziari. Ma l'improvviso acutizzarsi delle tensioni fra il centrosinistra e il centrodestra impose la rinuncia a ogni progetto. Il tema più controverso collegato alle riforme istituzionali rimaneva quello degli aggiustamenti alla legge elettorale, sul quale si misuravano gli interessi dei numerosi gruppi e del folto personale politico che sopravvivevano all'interno di uno schema bipolare tutt'altro che consolidato. Il bipolarismo italiano sembrava caratterizzato infatti dal confronto fra cartelli elettorali assai compositi. Proprio una maggiore capacità di aggregazione e una maggiore credibilità dei candidati aveva consentito allo schieramento di centrosinistra di riconquistare, nelle elezioni amministrative della primaveraautunno 1997, la guida di molti grandi centri come Torino, Roma, Napoli, Palermo, mentre il centrodestra sottraeva Milano alla Lega. Agli inizi del 1998 rimanevano aperti una serie di problemi riguardanti il peso e le prospettive delle singole forze politiche presenti all'interno dei due grandi schieramenti. Nel centrosinistra la misura dell'egemonia del Pds, nel centrodestra la questione relativa alla tenuta della leadership di Berlusconi e al ruolo di Alleanza nazionale, mentre venivano a più riprese ventilate ipotesi di rafforzamento del nucleo centrista rappresentato nei due campi dai piccoli partiti risultati dalla frantumazione della Dc. Nel corso dell'anno, infatti, intorno all'ex presidente della Repubblica Cossiga, si aggregò una nuova formazione, l'Unione democratica per la repubblica (Udr), composta prevalentemente da parlamentari eletti nelle liste del Polo. Nell'ottobre 1998, dopo un ennesimo contrasto sulla politica economica, Rifondazione comunista negò la fiducia al governo Prodi che fu costretto a dimettersi. Si formò rapidamente un nuovo governo di centrosinistra presieduto dal leader dei Democratici di sinistra D'Alema, sostenuto dall'Ulivo e dal convergente e inedito appoggio da un lato dell'Udr e

dall'altro dell'ala dissidente di Rifondazione che aveva dato vita al nuovo Partito dei comunisti italiani, guidato da Armando Cossutta. La soluzione della crisi, che garantiva una continuità con la precedente politica di Prodi, apparve come una ripresa delle consuetudini del vecchio sistema dei partiti e perciò fu duramente contestata dal Polo. L'ascesa alla guida del governo di D'Alema, leader dei Democratici di sinistra (Ds, la nuova denominazione del Pds), il maggiore partito della coalizione, non riusciva a rallentare le microconflittualità interne al centrosinistra dove ogni raggruppamento, indipendentemente dalle dimensioni, faceva pesare il suo contributo determinante a un'alleanza priva di una larga maggioranza parlamentare. Si susseguivano così fratture e riaggregazioni, la più importante delle quali segnò la nascita dei Democratici, una formazione promossa da Prodi (poi chiamato alla guida della Commissione europea) e in cui confluirono Di Pietro e alcuni sindaci di grandi città (Rutelli di Roma, Bianco di Catania, Cacciari di Venezia). I Democratici si proponevano di rilanciare il cartello elettorale dell'Ulivo, i cui caratteri programmatici rimanevano tuttavia incerti così come la sua composizione e leadership. Le ricorrenti contraddizioni del sistema politico venivano confermate dal referendum del 18 aprile 1999, promosso per abrogare la quota proporzionale nelle elezioni della Camera dei deputati e ridurre così il numero dei partiti: il 91 % dei votanti si espresse a favore della proposta, ma meno del 50% degli elettori si recò alle urne e il referendum non poté essere convalidato. Analogo esito avrebbe avuto un nuovo referendum tenutosi nel maggio 2000, quando la partecipazione scese al 32%. Le elezioni per il Parlamento europeo del giugno 1999 videro un successo di prestigio e di immagine di Forza Italia e del suo leader Berlusconi. Le consultazioni registrarono anche un buon successo per la nuova formazione dei Democratici e l'inattesa ottima riuscita della lista che faceva capo alla radicale Emma Bonino, già commissario europeo. Contemporaneamente i Ds subivano una nuova sconfitta a Bologna, dove per la prima volta nel dopoguerra si affermò un sindaco non di sinistra, il candidato del Polo Giorgio Guazzaloca. L'indebolimento tendenziale del centrosinistra e il rafforzamento del centrodestra accentuavano la conflittualità fra i due schieramenti, ormai sempre meno disponibili a impegnarsi congiuntamente in quella riforma delle istituzioni che era stata indicata come uno degli obiettivi principali della legislatura.

In due occasioni tuttavia si manifestò un largo consenso tra le forze politiche: nell'elezione, a larga maggioranza e al primo scrutinio, di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica (maggio 1999); e nel sostegno alla partecipazione italiana alle operazioni militari contro la Jugoslavia per il Kosovo [§30.4], in piena sintonia con gli Stati Uniti e con gli alleati europei della Nato. Si trattava di un'ulteriore conferma della scelta europea dell'Italia. In politica interna, il governo D'Alema non resse alla prova delle elezioni regionali dell'aprile 2000. Dopo il successo del centrodestra, che conquistò otto regioni su quindici, D'Alema si dimise e al suo posto fu chiamato Giuliano Amato alla testa di un altro governo di centrosinistra. La principale realizzazione del centrosinistra, nell'ultima fase della legislatura, fu l'approvazione (nel marzo 2001 in Parlamento e nell'ottobre successivo con un referendum confermativo) di una legge costituzionale che introduceva modifiche di grande portata all'ordinamento istituzionale italiano in materia di poteri degli enti locali. Dopo aver minutamente elencato le competenze dello Stato, veniva ampliata la potestà legislativa delle regioni (ad esempio in materia di sanità, istruzione, lavoro, industria, lavori pubblici, agricoltura, turismo) e venivano attribuite ampie autonomie ai comuni, alle aree metropolitane, alle province. Si trattava della messa in atto del programma federalista della maggioranza sul quale il centrodestra e in particolare la Lega, ormai convergenti in vista delle elezioni politiche del 2001, manifestarono una netta opposizione, ufficialmente in nome di un federalismo più spinto: in realtà, al di là del merito della questione, veniva contestato il diritto della maggioranza a modificare unilateralmente la Costituzione. Fra il 1996 e il 2001 il centrosinistra aveva guidato l'Italia verso la nuova dimensione europea, ma il paese sembrava mantenere molte caratteristiche legate alle specifiche tradizioni della sua vita pubblica e del suo ordinamento istituzionale: in primo luogo la debolezza dell'esecutivo e la breve durata dei governi. E tuttavia l'insieme delle novità introdotte nel sistema politico a partire dai primi anni '90 confermava il passaggio epocale attraversato dal paese alla fine del secolo. 31.5. La società italiana alle soglie del nuovo secolo. Il calo demografico, I fattori del mutamento, Le trasformazioni della famiglia, L'omologazione dei consumi, Le disuguaglianze sociali, La difesa dei privilegi, Il deficit di etica pubblica.

L'Italia che si presentava all'appuntamento europeo era un paese profondamente diverso da quello che nel 1957 aveva sottoscritto il trattato di Roma e partecipato fra i primi al processo di avvio del Mercato comune [§22.11]. Con quasi 58 milioni di abitanti (2000) affiancava Gran Bretagna e Francia nel gruppo dei paesi più popolosi dell'Unione europea dopo la Germania. Ma con un incremento demografico prossimo allo zero, con il più basso numero medio di figli per donna in età feconda (pari a 1,3) e una percentuale di popolazione sotto i 15 anni (14,2% nel 2004) inferiore a ogni altro paese dell'Europa occidentale, l'Italia mostrava di aver ormai perduto il carattere di nazione giovane e prolifica. Come mai il comportamento demografico degli italiani aveva prima recuperato il divario con gli altri paesi europei e poi accentuato i caratteri della denatalità? Dalla metà degli anni '60 i matrimoni e le nascite avevano cominciato a diminuire e verso la fine degli anni 70 l'Italia scendeva al di sotto del tasso di riproduzione della popolazione (meno di due figli per donna). Il binomio matrimoniofigli non sembrava essere più per molti il perno intorno a cui costruire il proprio futuro. Avevano favorito questa rottura del modello tradizionale il nuovo ruolo della donna, una sessualità svincolata dalla riproduzione, il controllo consapevole delle nascite e in genere una complessiva secolarizzazione dei costumi. La maggiore diffusione di questi fenomeni nelle regioni a più alto reddito e con migliori servizi sociali suggeriva che nella scala dei valori era ormai salita la difesa di un livello di benessere da raggiungere e da conservare per sé e per i figli all'interno di una progettazione razionale e prudente della propria vita. Così le generazioni nate nel dopoguerra segnavano una distanza fortissima rispetto a quella dei loro genitori. Accanto a questa trasformazione di fondo, anche in Italia si diffondeva il fenomeno dei singles, dei nuclei familiari indipendenti formati da un solo individuo (uomo o donna), mentre si sviluppavano le nuove famiglie allargate, nate dalla scomposizione e ricomposizione determinata dal divorzio e dai secondi matrimoni. Il benessere e gli stili di vita un tempo appannaggio delle élites economiche e culturali si erano diffusi in strati sempre più ampi. Le seconde case per vacanze e weekend, la nuova disponibilità mentale per l'impiego del tempo libero, la capillare motorizzazione a due e a quattro ruote (nel 1995 si contavano oltre 520 autovetture ogni 1000 abitanti), fino alla più

recente esplosione dei telefoni cellulari segnalavano modelli di consumo largamente omologati. Accanto a questa omologazione, che si sommava a quella indotta dalla pervasività del linguaggio e del mezzo televisivo, persistevano profonde differenze culturali e di reddito. Nel confronto con altri paesi europei come Francia e Germania, l'Italia, pur in presenza di un'alta scolarizzazione (il 90% dei ragazzi si iscriveva alle superiori e il 70% dei maturi entrava all'università), registrava percentuali inferiori di laureati e di diplomati, confermando l'inefficienza e l'improduttività di un sistema formativo che da decenni cercava invano di riformarsi. La stretta correlazione fra titolo di studio e reddito contribuiva ad individuare una delle caratteristiche del nostro sistema sociale, in cui, ad esempio, il livello di spesa del 10% delle famiglie più ricche era di otto volte superiore a quello del 10% delle famiglie più povere. In una società in cui la coscienza e la solidarietà di classe si erano largamente indebolite in seguito al tramonto del socialismo e del comunismo, in cui la scena appariva dominata dalla articolata configurazione dei ceti medi, le differenze sociali derivavano soprattutto dalle disuguaglianze di reddito. E così la difesa dello status raggiunto e dei privilegi dei gruppi più tutelati era il crinale su cui si manifestava la conflittualità sociale. Le forme di difesa e di tutela si ponevano come ostacoli alla mobilità sociale che trovava alternative ai canali tradizionali nelle nuove professioni indotte dalle tecnologie avanzate e nei margini di elasticità del mercato. Anche in Italia dunque erano forti i segni delle trasformazioni legate all'affermarsi della società postindustriale [§29.3]. In più l'Italia era attraversata da alcuni anni dal processo di rinnovamento del suo sistema politico. E tuttavia anche di recente, in Italia e fuori d'Italia, si manifestavano critiche e perplessità incentrate sulla permanente diversità politicoculturale e, in ultima istanza, antropologica del nostro paese. In effetti negli ultimi anni e nel paragone con il resto dell'Europa emergeva un deficit di etica pubblica che appariva arduo recuperare in tempi brevi. Alla diffusa corruzione di ampi settori della politica, dell'amministrazione pubblica e della società, al persistere di forme di criminalità organizzata in grado di controllare interi territori (come la camorra nel Napoletano) si aggiungeva quel diffuso disprezzo delle regole che caratterizzava molti comportamenti pubblici e privati e che nell'opinione comune era a volte giustificato come espressione di una vitale creatività. Alla classe politica che già stentava a definire i contorni delle nuove istituzioni, e più in generale ai ceti dirigenti e alle élites del paese, spettava

il difficile compito di fornire le linee di una nuova "pedagogia nazionale" all'altezza degli obiettivi imposti dal confronto europeo. 31.6. Il centrodestra al governo. Una lunga campagna elettorale, Rutelli contro Berlusconi, Gli schieramenti contrapposti, Le elezioni del 2001 e la vittoria del centrodestra, Le ragioni del successo, Il governo Berlusconi, Gli incidenti di Genova I problemi aperti. La battaglia per le elezioni politiche del 2001 era cominciata con largo anticipo non solo per le reiterate richieste di tornare alle urne avanzate dall'opposizione che contestava la legittimità di una maggioranza parlamentare divisa e conflittuale e ormai diversa da quella espressa dal corpo elettorale, ma anche per la necessità di definire il quadro delle alleanze negli schieramenti contrapposti. In particolare il centrosinistra aveva il non facile compito di individuare il candidato premier in grado di contrastare Berlusconi, saldamente confermato alla leadership del centrodestra dopo i successi nelle elezioni europee e regionali. Nell'ottobre del 2000 Francesco Rutelli, sindaco di Roma, già militante dei radicali e poi dei Verdi, fu preferito a Giuliano Amato come leader del centrosinistra: presto la campagna elettorale, impostata da Berlusconi su un'accentuata personalizzazione, prese l'andamento di un referendum sulla sua persona. Rutelli fu costretto ad adeguarsi senza riuscire a conquistare interamente la scena e senza potersi misurare direttamente con Berlusconi che rifiutò il confronto a due in televisione. Il leader di Forza Italia guidava la coalizione della Casa delle libertà (Cdl) composta da Alleanza nazionale, Ccd e Cdu ai quali si era aggiunta la Lega Nord, che nel 1996 si era presentata da sola. Il centrosinistra riproponeva l'alleanza dell'Ulivo con i Ds, la nuova formazione della Margherita (che comprendeva i Democratici, il Ppi, l'Udeur e Rinnovamento italiano), i Verdi, i Socialisti Italiani e il Partito dei comunisti italiani. Il gruppo che faceva capo all'ex magistrato Di Pietro, uscito dai Democratici, si era posto fuori dalla coalizione di centrosinistra, mentre Rifondazione comunista, pur stabilendo accordi con l'Ulivo nell'uninominale per la Camera, si presentava autonomamente nel proporzionale e al Senato. Nelle elezioni del 13 maggio 2001 la vittoria della Casa delle libertà risultò nettissima. Alla Camera il vantaggio sull'Ulivo era di quasi 120 seggi sul totale di 630, al Senato di circa 50 su 315. Se lo scarto dei voti complessivamente riportati nell'uninominale della Camera era esiguo, il

meccanismo maggioritario aveva favorito largamente il centrodestra. La distanza fra le due coalizioni si misurava percentualmente nella quota proporzionale della Camera: qui i partiti dell'Ulivo ottenevano complessivamente il 35%, mentre quelli della Cdl raccoglievano il 49,4%. Solo i Ds, la Margherita, Forza Italia, Alleanza nazionale e Rifondazione comunista ottenevano seggi nel proporzionale mentre tutte le altre formazioni si fermavano al di sotto della soglia di sbarramento del 4%. Particolarmente significativo era il ridimensionamento della Lega che, passata dal 10,1 al 3,9%, poteva contare tuttavia sui 30 seggi conquistati nell'uninominale. Forza Italia con il 29,4% riconquistava la posizione di primo partito distanziando largamente i Ds scesi al 16,6%. Perdeva voti anche Alleanza nazionale col 12% mentre un buon risultato conseguiva la Margherita con il 14,5%. Il successo di Berlusconi era fondato sulla capacità di convogliare gran parte del voto moderato distribuito in tutti gli strati sociali e sollecitato dalla prospettiva di rovesciare gli assetti e le inefficienze della politica, presentati come frutto del malgoverno delle sinistre. I maggiori consensi venivano dalle fasce di età giovanili e anziane mentre geograficamente il risultato più favorevole fu realizzato nell'Italia meridionale e insulare, in particolare in Sicilia dove tutti i collegi uninominali erano stati conquistati dalla Cdl. La sconfitta dell'Ulivo fu parzialmente bilanciata dalla riconquista da parte del centrosinistra di alcuni grandi comuni, come Torino, Roma, Napoli, nelle elezioni amministrative svolte contemporaneamente a quelle politiche. L'ex segretario dei Ds, Walter Veltroni, fu eletto sindaco della capitale. Il carattere assunto dalle due ultime competizioni politiche del 1996 e 2001 aveva ormai imposto una modifica di rilievo nella costituzione materiale del paese: dalle elezioni usciva infatti un premier, dotato di un'investitura popolare (il suo nome era presente nel simbolo della coalizione) e solo formalmente designato dal presidente della Repubblica. Berlusconi formò il suo nuovo governo a giugno chiamando Fini alla vicepresidenza del Consiglio e affidando a Bossi il ministero per le Riforme istituzionali (poi lasciato per motivi di salute). Alla fine di giugno il governo presentò un ambizioso programma al fine di dare una scossa all'economia attraverso una serie di provvedimenti fondati su incentivi fiscali e snellimenti nelle procedure d'investimento. Ma il governo incontrò presto una serie di difficoltà. Fra il 20 e il 22 luglio, in occasione del vertice del G8 a Genova, gravi incidenti, con l'uccisione di un manifestante, dimostrarono la difficoltà di gestire l'ordine pubblico da parte delle forze di polizia italiane, accusate di incompetenza, impreparazione, eccessi. Una serie di provvedimenti varati dal Parlamento,

come l'abolizione delle tasse sulle successioni e donazioni anche per i patrimoni più cospicui, l'attenuazione delle pene previste per il falso in bilancio o la modifica unilaterale e retroattiva delle norme sulle rogatorie internazionali (gli atti processuali compiuti fuori dalla giurisdizione dei magistrati italiani) apparivano all'opposizione e a parte dell'opinione pubblica troppo mirati a tutelare le posizioni del presidente del Consiglio, che figurava, per di più, ancora imputato in alcuni procedimenti penali. Il conflitto di interessi che investiva Berlusconi come proprietario delle maggiori reti televisive private e in grado ora di influenzare quelle pubbliche, nonostante le ripetute assicurazioni, non trovava ancora la rapida soluzione più volte promessa. In politica estera il governo diede un forte sostegno, anche militare, alle iniziative belliche americane avviate dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, ottenendo il sostanziale appoggio del centrosinistra. Questo consenso venne meno nella primavera del 2003 quando il governo Berlusconi sostenne la linea americana di intervento nell'Iraq, osteggiata duramente dal centrosinistra. Del resto, nel corso del 2002 i rapporti fra i due schieramenti si erano andati progressivamente deteriorando sui temi della politica sociale. Il progetto governativo di modifica dello Statuto dei lavoratori, al fine di rendere più flessibile il mercato del lavoro, incontrò l'aspra opposizione della Cgil e dei partiti di sinistra, manifestatasi anche in una serie di imponenti dimostrazioni di piazza. Nel tentativo di sfruttare l'eco di queste controversie, una nuova formazione delle Brigate rosse, che aveva già colpito a morte nel maggio 1999, a Roma, il giurista del lavoro Massimo D'Antona, uccise a Bologna, nel marzo 2003, Marco Biagi, uno degli ispiratori della politica governativa nel settore dell'occupazione, tema che continuava a dividere la Cgil dagli altri grandi sindacati Cisl e Uil. Frattanto i problemi giudiziari del presidente del Consiglio continuavano a suscitare tensioni e dibattiti, evidenziati da nuove forme di mobilitazione dell'opinione pubblica di sinistra ("girotondi"), mentre si riaccendevano i contrasti fra l'esecutivo e la magistratura. Il perdurare di queste tensioni, il non brillante andamento dell'economia in cui tardavano a manifestarsi gli attesi segnali di ripresa, le perduranti difficoltà della finanza pubblica che rendevano problematici i tagli fiscali promessi da Berlusconi, l'esito negativo delle elezioni amministrative parziali del giugno 2004 e delle contemporanee elezioni europee, così come delle successive elezioni regionali dell'aprile 2005 (quando 12 regioni su 14 andarono al centrosinistra), tutto ciò ebbe l'effetto di acuire i contrasti interni alla maggioranza e di evidenziare la diversità di orientamento su

questioni cruciali come quella dell'immigrazione e della riforma federalista dello Stato, quest'ultima richiesta con forza dalla Lega come condizione della sua permanenza al governo. Nella seconda metà del 2005 si giunse quindi a varare una riforma costituzionale che attribuiva maggiori competenze alle regioni (in materia di istruzione, di polizia amministrativa e modificando quanto stabilito nel 2001), ampliava i poteri del presidente del Consiglio (riducendo quelli del presidente della Repubblica) e istituiva un Senato federale. L'entrata in vigore definitiva delle modifiche alla Costituzione era fissata al 2011, ma prima la riforma dovrà essere sottoposta a referendum confermativo. Nonostante qualche preliminare divisione interna, e con la netta ma inefficace opposizione del centrosinistra, la maggioranza di centrodestra impose in seguito anche la riforma della legge elettorale, abolendo i collegi uninominali e reintroducendo un criterio proporzionale nella distribuzione dei seggi, bilanciato da un premio di maggioranza per la coalizione vincente. Sommario I primi anni '90 vedevano aggravarsi i fattori di crisi, sia sul terreno dell'economia (aumento del deficit pubblico, rallentamento della produzione, svalutazione della lira), sia su quello della convivenza civile (ripresa dell'offensiva mafiosa, dilagare della corruzione). Sul piano politico, le maggiori novità furono la trasformazione del Pci in Partito democratico della sinistra e l'emergere di nuovi movimenti ostili al sistema dei partiti (Verdi, Leghe, Rete). Nel linguaggio corrente è ormai consuetudine indicare con l'espressione "seconda repubblica" il nuovo assetto politico determinatosi in Italia negli anni 1992-94. Dopo le elezioni del 5 aprile 1992, che segnavano la sconfitta delle forze tradizionali e mettevano in crisi i vecchi equilibri, il governo presieduto da Giuliano Amato ottenne alcuni successi nell'affrontare l'emergenza economica e quella dell'ordine pubblico. Ma il ceto politico, delegittimato dalle inchieste della magistratura, non riusciva a trovare un accordo sulle riforme istituzionali. Il referendum dell'aprile 1993 imponeva il passaggio al sistema maggioritario uninominale, passaggio confermato dalle nuove leggi elettorali. Dopo le dimissioni di Amato (aprile) il governo Ciampi affrontava la crisi economica e occupazionale del paese, mentre le forze

politiche si preparavano a un nuovo confronto elettorale. Le elezioni del marzo '94, tenutesi col nuovo sistema maggioritario uninominale (che poneva le premesse per instaurare un meccanismo di alternanza tra maggioranza e opposizione), hanno portato al governo una precaria maggioranza di centrodestra guidata dall'imprenditore Silvio Berlusconi. Costretto dopo solo sette mesi a dimettersi per i contrasti sopraggiunti all'interno della maggioranza, gli succedeva un ministero di tecnici presieduto da Lamberto Dini e sostenuto da uno schieramento di forze di centrosinistra. Nuove elezioni anticipate (aprile '96), vinte dalla coalizione di centrosinistra, inauguravano una nuova fase di governo diretta dal leader dell'Ulivo Romano Prodi. Il governo di centrosinistra affrontò il problema del deficit di bilancio riuscendo a ridurlo nel corso del 1997, e quindi a rientrare nei parametri indicati dal trattato di Maastricht per l'ingresso nell'Unione monetaria. Fra i problemi politici del Paese rimanevano aperti quello dei correttivi al "Welfare" e quello relativo alle riforme istituzionali, in presenza di una perdurante instabilità politica. Nel 1998 il governo Prodi cadde e fu sostituito da un nuovo centrosinistra guidato da D'Alema. Nel 1999 l'Italia partecipò con gli altri paesi della Nato all'intervento militare in Kosovo. Nel 2000, dopo la sconfitta elettorale nelle regionali, a D'Alema succedette un altro governo di centrosinistra presieduto da Amato. Alla fine della legislatura la maggioranza approvò un'importante legge costituzionale che ampliava i poteri degli enti locali. Le trasformazioni sociali dell'Italia si misurano ormai con i comportamenti demografici che registrano una spiccata denatalità e un invecchiamento della popolazione. L'omologazione dei consumi non riesce a nascondere differenze sociali basate soprattutto sulla disuguaglianza dei redditi e dei livelli culturali. Le elezioni politiche del maggio 2001 diedero una netta vittoria alla Casa delle libertà, la coalizione guidata da Berlusconi, che nel giugno successivo formò il nuovo governo di centrodestra. Bibliografia Per le opere di carattere generale sull'Italia repubblicana si rinvia alle bibliografie dei capp. 24 e 28. In particolare, per l'ultimo decennio del '900, vedi G. Sabbatucci, V. Vidotto (a e. di), Storia d'Italia, vol. 6 cit. Sui mutamenti politici dei primi anni '90: L. Cafagna, La grande slavina, Marsilio, Venezia 1993. Sulle nuove forze politiche: P. Ignazi, Dal Pci al

Pds, Il Mulino, Bologna 1992; I. Diamanti, La Lega, Donzelli, Roma 1993. Sulla società italiana: P. Ginsborg, L'Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Einaudi, Torino 1998; E. Sennino, La popolazione italiana: dall'espansione al contenimento, in Storia dell'Italia repubblicana, vol. II, 1.1, Einaudi, Torino 1995, e M. Paci, I mutamenti della stratificazione sociale, ivi, vol. III, 1.1, Einaudi, Torino 1996; infine di V. Vidotto, La nuova società, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a e. di), Storia d'Italia, vol. 6 cit.

Indice del volume Premessa XVII 1. Le rivoluzioni del 1848 - 1.1. Una rivoluzione europea - 1.2. La rivoluzione di febbraio in Francia - 1.3. La rivoluzione nell'Europa centrale - 1.4. La rivoluzione in Italia e la prima guerra di indipendenza 1.5. Lotte democratiche e restaurazione conservatrice - 1.6. La Francia dalla Seconda Repubblica al Secondo Impero - Sommario – Bibliografia. 2. Società borghese e movimento operaio - 2.1. La borghesia europea 2.2. Ottimismo borghese e cultura positiva - Parola chiave Progresso - 2.3. Lo sviluppo economico - 2.4. La rivoluzione dei trasporti e dei mezzi di comunicazione - 2.5. La città moderna - 2.6. Il mondo delle campagne - 2.7. Il proletariato urbano e il movimento operaio dopo il '48 - 2.8. Marx e "Il Capitale" - 2.9. L'Internazionale dei lavoratori: marxisti e anarchici - 2.10. Il mondo cattolico di fronte alla società borghese - Sommario – Bibliografia. 3. L'unità d'Italia - 3.1. La seconda restaurazione - 3.2. L'esperienza liberale in Piemonte e l'opera di Cavour - 3.3. II fallimento dell'alternativa repubblicana - 3.4. La diplomazia di Cavour e la seconda guerra di indipendenza - 3.5. Garibaldi e la spedizione dei Mille - 3.6. L'intervento piemontese e i plebisciti - 3.7. Le ragioni dell'unità - Sommario – Bibliografia. 4. L'Europa delle grandi potenze (1850-1890) - 4.1. La lotta per l'egemonia continentale - 4.2. La Francia del Secondo Impero e la guerra in Crimea - 4.3. Il declino dell'Impero asburgico e l'ascesa della Prussia - 4.4. La guerra francoprussiana e l'unificazione tedesca - 4.5. La Comune di Parigi - 4.6. La svolta del 1870 e l'equilibrio bismarckiano - Parola chiave Potenza - 4.7. La Germania imperiale - 4.8. La Terza Repubblica in Francia - 4.9. L'Inghilterra vittoriana - 4.10. La Russia di Alessandro II - Sommario – Bibliografia. 5. I nuovi mondi: Stati Uniti e Giappone - 5.1. Sviluppo economico e fratture sociali negli Stati Uniti - 5.2. La guerra di secessione e le sue conseguenze - 5.3. Nascita di una grande potenza - 5.4. La Cina, il Giappone e la penetrazione occidentale - 5.5. La "restaurazione Meiji" e la nascita del Giappone moderno - Parola chiave Modernizzazione Sommario – Bibliografia.

6. La seconda rivoluzione industriale - 6.1. Il capitalismo a una svolta: concentrazioni, protezionismo, imperialismo Parola chiave Liberismo/Protezionismo - 6.2. La crisi agraria e le sue conseguenze - 6.3. Scienza e tecnologia - 6.4. Le nuove industrie - 6.5. Motori a scoppio ed elettricità - 6.6. Le nuove frontiere della medicina - 6.7. Il boom demografico - Sommario – Bibliografia. 7. Imperialismo e colonialismo -- 7.1. La febbre coloniale - 7.2. Colonizzatori e colonizzati - Parola chiave Imperialismo - 7.3. L'espansione in Asia - 7.4. Le origini dell'imperialismo americano - 7.5. La spartizione dell'Africa - 7.6. Il Sud Africa e la guerra angloboera - Sommario – Bibliografia. 8. Stato e società nell'Italia unita - 8.1. L'Italia nel 1861 - 8.2. La classe dirigente: Destra e Sinistra - Parola chiave Accentramento/Decentramento 8.3. Lo Stato accentrato, il Mezzogiorno, il brigantaggio - 8.4. La politica economica: i costi dell'unificazione - 8.5. Il completamento dell'unità - 8.6. La Sinistra al potere - 8.7. Crisi agraria e sviluppo industriale - 8.8. La politica estera: la Triplice alleanza e l'espansione coloniale - 8.9. Movimento operaio e organizzazioni cattoliche - 8.10. La democrazia autoritaria di Francesco Crispi - 8.11. Giolitti, i Fasci siciliani e la Banca romana - 8.12. Il ritorno di Crispi e la sconfitta di Adua - Sommario – Bibliografia. 9. Verso la società di massa - 9.1. Che cos'è la società di massa - 9.2. Sviluppo industriale e razionalizzazione produttiva - 9.3. Le nuove stratificazioni sociali - 9.4. Istruzione e informazione - 9.5. Gli eserciti di massa - 9.6. Suffragio universale, partiti di massa, sindacati - 9.7. La questione femminile - 9.8. Riforme e legislazione sociale - 9.9. I partiti socialisti e la Seconda Internazionale - 9.10. I cattolici e la "Rerum novarum" - 9.11. Il nuovo nazionalismo - Parola chiave Secolarizzazione 9.12. La crisi del positivismo - Sommario - Bibliografia. 10. L'Europa tra due secoli - 10.1. Le nuove alleanze - 10.2. La "belle époque" e le sue contraddizioni - 10.3. La Francia tra democrazia e reazione - Parola chiave Radicalismo - 10.4. Imperialismo e riforme in Gran Bretagna - 10.5. La Germania guglielmina - 10.6. I conflitti di nazionalità in AustriaUngheria - 10.7. La Russia fra industrializzazione e autocrazia 10.8. La rivoluzione russa del 1905 - 10.9. Verso la prima guerra mondiale Sommario – Bibliografia.

11. Imperialismo e rivoluzione nei continenti extraeuropei - 11.1. Il ridimensionamento dell'Europa - 11.2. La guerra russogiapponese - 11.3. La Repubblica in Cina - 11.4. Imperialismo e riforme negli Stati Uniti - 11.5. L'America Latina e la rivoluzione messicana - Sommario – Bibliografia. 12. L'Italia giolittiana - 12.1. La crisi di fine secolo - 12.2. La svolta liberale - 12.3. Decollo industriale e progresso civile - 12.4. La questione meridionale - 12.5. I governi Giolitti e le riforme - Parola chiave Massoneria - 12.6. Il giolittismo e i suoi critici - 12.7. La politica estera, il nazionalismo, la guerra di Libia - 12.8. Riformisti e rivoluzionari - 12.9. Democratici cristiani e clericomoderati - 12.10. La crisi del sistema giolittiano - Sommario – Bibliografia. 13. La prima guerra mondiale - 13.1. Dall'attentato di Sarajevo alla guerra europea - 13.2. Dalla guerra di movimento alla guerra di usura - 13.3. L'Italia dalla neutralità all'intervento - 13.4. La grande strage (1915-16) 13.5. La guerra nelle trincee - 13.6. La nuova tecnologia militare - 13.7. La mobilitazione totale e il "fronte interno" - Parola chiave Propaganda - 13.8. La svolta del 1917 - 13.9. L'Italia e il disastro di Caporetto - 13.10. Rivoluzione o guerra democratica? - 13.11. L'ultimo anno di guerra - 13.12. I trattati di pace e la nuova carta d'Europa - Sommario – Bibliografia. 14. La rivoluzione russa - 14.1. Da febbraio a ottobre - Parola chiave Soviet - 14.2. La rivoluzione d'ottobre - 14.3. Dittatura e guerra civile 14.4. La Terza Internazionale - 14.5. Dal comunismo di guerra alla Nep 14.6. L'Unione Sovietica: costituzione e società - 14.7. Da Lenin a Stalin: il socialismo in un solo paese - Sommario – Bibliografia. 15. L'eredità della grande guerra - 15.1. Le trasformazioni sociali - 15.2. Le conseguenze economiche - 15.3. Il biennio rosso - 15.4. Rivoluzione e controrivoluzione nell'Europa centrale - 15.5. La stabilizzazione moderata in Francia e in Gran Bretagna - 15.6. La Repubblica di Weimar - 15.7. La crisi della Ruhr - 15.8. La ricerca della distensione in Europa - Sommario – Bibliografia. 16. Il dopoguerra in Italia e l'avvento del fascismo - 16.1. I problemi del dopoguerra - 16.2. Cattolici, socialisti e fascisti - 16.3. La "vittoria mutilata" e l'impresa fiumana - 16.4. Le agitazioni sociali e le elezioni del '19 - 16.5. Giolitti, l'occupazione delle fabbriche e la nascita del Pci - 16.6. Il fascismo

agrario e le elezioni del '21 - 16.7. L'agonia dello Stato liberale - 16.8. La marcia su Roma - 16.9. Verso lo Stato autoritario - 16.10. Il delitto Matteotti e l'Aventino - 16.11. La dittatura a viso aperto - Sommario – Bibliografia. 17. La grande crisi: economia e società negli anni '30 - 17.1. Crisi e trasformazione - 17.2. Gli anni dell'euforia: gli Stati Uniti prima della crisi Parola chiave Ceto medio - 17.3. Il "grande crollo" del 1929 - 17.4. La crisi in Europa - 17.5. Roosevelt e il "New Deal" - 17.6. Il nuovo ruolo dello Stato - 17.7. I nuovi consumi - 17.8. Le comunicazioni di massa - 17.9. La scienza e la guerra - 17.10. La cultura della crisi - Sommario – Bibliografia. 18. L'età dei totalitarismi - 18.1. L'eclissi della democrazia - 18.2. La crisi della Repubblica di Weimar e l'avvento del nazismo - Parola chiave Totalitarismo - 18.3. Il consolidamento del potere di Hitler - 18.4. Il Terzo Reich - 18.5. Repressione e consenso nel regime nazista - 18.6. Il contagio autoritario - 18.7. L'Unione Sovietica e l'industrializzazione forzata - 18.8. Lo stalinismo - 18.9. La crisi della sicurezza collettiva e i fronti popolari 18.10. La guerra civile in Spagna - 18.11. L'Europa verso la catastrofe Sommario – Bibliografia. 19. L'Italia fascista - 19.1. Il totalitarismo imperfetto - 19.2. Il regime e il paese - Parola chiave Consenso - 19.3. Cultura, scuola, comunicazioni di massa - 19.4. Il fascismo e l'economia. La "battaglia del grano" e "quota novanta" - 19.5. Il fascismo e la grande crisi: lo "Statoimprenditore" - 19.6. L'imperialismo fascista e l'impresa etiopica - 19.7. L'Italia antifascista 19.8. Apogeo e declino del regime fascista - Sommario – Bibliografia. 20. Il tramonto del colonialismo. L'Asia e l'America Latina - 20.1. Il declino degli imperi coloniali - 20.2. Il nodo del Medio Oriente - 20.3. Rivoluzione e modernizzazione in Turchia - 20.4. L'Impero britannico e l'India - 20.5. Nazionalisti e comunisti in Cina - 20.6. Imperialismo e autoritarismo in Giappone - 20.7. Dittature militari e regimi populisti in America Latina - Parola chiave Populismo - Sommario – Bibliografia. 21. La seconda guerra mondiale - 21.1. Le origini e le responsabilità 21.2. La distruzione della Polonia e l'offensiva al Nord - 21.3. L'attacco a occidente e la caduta della Francia - 21.4. L'intervento dell'Italia - 21.5. La battaglia d'Inghilterra - 21.6. Il fallimento della guerra italiana: i Balcani e il Nord Africa - 21.7. L'attacco all'Unione Sovietica - 21.8. L'aggressione

giapponese e il coinvolgimento degli Stati Uniti - 21.9. Il "nuovo ordine". Resistenza e collaborazionismo - Parola chiave Genocidio - 21.10. 1942-43: la svolta della guerra e la "grande alleanza" - 21.11. La caduta del fascismo e l'8 settembre - 21.12. Resistenza e lotta politica in Italia - 21.13. Le vittorie sovietiche e lo sbarco in Normandia - 21.14. La fine del Terzo Reich - 21.15. La sconfitta del Giappone e la bomba atomica - Sommario – Bibliografia. 22. Il mondo diviso - 22.1. Le conseguenze della seconda guerra mondiale - 22.2. Le Nazioni Unite e il nuovo ordine economico - 22.3. La fine della "grande alleanza" - 22.4. La "guerra fredda" e la divisione dell'Europa - 22.5. L'Unione Sovietica e le "democrazie popolari" - Parola chiave Nucleare - 22.6. Gli Stati Uniti e l'Europa occidentale negli anni della ricostruzione - 22.7. La ripresa del Giappone - 22.8. La rivoluzione comunista in Cina e la guerra di Corea - 22.9. Dalla guerra fredda alla coesistenza pacifica - 22.10. Il 1956: la destalinizzazione e la crisi ungherese - 22.11. L'Europa occidentale e il Mercato comune - 22.12. La Francia dalla Quarta Repubblica al regime gaullista - Sommario – Bibliografia. 23. La decolonizzazione e il Terzo Mondo - 23.1. I caratteri generali della decolonizzazione - 23.2. L'emancipazione dell'Asia - 23.3. Il Medio Oriente e la nascita di Israele - 23.4. La rivoluzione nasseriana in Egitto e la crisi di Suez - 23.5. L'indipendenza dei paesi del Maghreb - 23.6. L'emancipazione dell'Africa nera - 23.7. Il Terzo Mondo, il "non allineamento" e il sottosviluppo - 23.8. Dipendenza economica e instabilità politica in America Latina - Sommario – Bibliografia. 24. L'Italia dopo il fascismo - 24.1. Un paese sconfitto - 24.2. Le forze in campo - 24.3. Dalla liberazione alla repubblica - Parola chiave Qualunquismo - 24.4. La crisi dell'unità antifascista - 24.5. La Costituzione repubblicana - 24.6. Le elezioni del '48 e la sconfitta delle sinistre - 24.7. La ricostruzione economica - 24.8. Il trattato di pace e le scelte internazionali 24.9. Gli anni del centrismo - 24.10. Alla ricerca di nuovi equilibri Sommario – Bibliografia. 25. La società del benessere - 25.1. Il boom dell’economia - 25.2. Le nuove frontiere della scienza - 25.3. Il trionfo dei "mass media" - 25.4. L'esplosione demografica - 25.5. La civiltà dei consumi e i suoi critici 25.6. Contestazione giovanile e rivolta studentesca - 25.7. Il nuovo

femminismo - 25.8. La Chiesa cattolica e il Concilio Vaticano II Sommario – Bibliografia. 26. Distensione e confronto - 26.1. Mito e realtà degli anni '60 - 26.2. Kennedy e Kruscev: la crisi dei missili e la distensione - 26.3. La Cina di Mao: il contrasto con l'Urss e la "rivoluzione culturale" - 26.4. La guerra del Vietnam - 26.5. L'Urss e l'Europa orientale: la crisi cecoslovacca - 26.6. L'Europa occidentale negli anni del benessere - 26.7. Il Medio Oriente e le guerre araboisraeliane - 26.8. La crisi petrolifera - Sommario – Bibliografia. 27. Apogeo e crisi del bipolarismo - 27.1. Il tempo del "riflusso" - 27.2. La difficile unità dell'Europa occidentale - 27.3. Gli Stati Uniti da Nixon a Bush - 27.4. L'Urss da Breznev a Gorbaciov - 27.5. La crisi dell'Europa comunista, la caduta del muro di Berlino e la riunificazione tedesca - 27.6. Dittature e democrazie in America Latina - 27.7. Israele e i paesi arabi 27.8. Il mondo islamico e la rivoluzione iraniana - 27.9. I conflitti nell'Asia comunista - 27.10. La Cina dopo Mao - 27.11. Il miracolo giapponese Sommario – Bibliografia. 28. L'Italia dal miracolo economico alla crisi della prima repubblica 28.1. Il miracolo economico - 28.2. Le trasformazioni sociali - 28.3. Il centrosinistra - 28.4. Il '68 e l'autunno caldo - 28.5. La crisi del centrosinistra - 28.6. Il terrorismo e la solidarietà nazionale - 28.7. Politica, economia e società negli anni '80 - 28.8. Le difficoltà del sistema politico Sommario – Bibliografia. 29. La società postindustriale - 29.1. I limiti dello sviluppo - Parola chiave Ecologia - 29.2. La rivoluzione elettronica - 29.3. Società postindustriale e globalizzazione - 29.4. La geografia della povertà - 29.5. Le tendenze demografiche 29.6. Le migrazioni e la società multietnica - 29.7. Religione e società contemporanea - 29.8. Medicina e bioetica - Sommario – Bibliografia. 30. Il mondo contemporaneo - 30.1. Nuovi equilibri e nuovi conflitti 30.2. La fine dell'Unione Sovietica - 30.3. La nuova Russia - 30.4. L'Europa orientale e la crisi jugoslava - 30.5. Guerra e pace in Medio Oriente - 30.6. Gli Stati Uniti e i problemi dell'egemonia mondiale - 30.7. Verso l'unità europea - 30.8. L'America Latina: stabilizzazione e crisi - 30.9. Il dramma dell'Africa - 30.10. Il ruolo dell'Asia - 30.11. L'integralismo islamico -

30.12. Terrorismo e crisi internazionale - 30.13. La guerra all'Iraq Sommario – Bibliografia. 31. La seconda repubblica in Italia - 31.1. La crisi del sistema politico 31.2. Una difficile transizione - 31.3. L'avvio del bipolarismo - 31.4. L'Italia nell'Unione europea - 31.5. La società italiana alle soglie del nuovo secolo 31.6. Il centrodestra al governo - Sommario – Bibliografia.