Il metodo carolingio: Identità culturale e dibattito teologico nel secolo nono [1° ed.] 9782503528625, 2503528627

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Il metodo carolingio: Identità culturale e dibattito teologico nel secolo nono [1° ed.]
 9782503528625, 2503528627

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NUTRI X

STUDIES IN LATE ANTIQUE MEDIEVAL AND RENAISSANCE THOUGHT STUDI SUL PENSIERO TARDOANTICO MEDIEVALE E UMANISTICO

Directed by Giulio d’Onofrio

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Ubi in eam deduxi oculos intuitumque defixi respicio nutricem meam cuius ab adulescentia laribus obversatus fueram Philosophiam BOETHIUS Consolatio Philosophiae, I, 3

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© 2008 Brepols Publishers n.v.,Turnhout, Belgium

La realizzazione di questo volume è stata resa possibile da un parziale contributo offerto dal Dipartimento di Latinità e Medioevo dell’Università degli Studi di Salerno nell’ambito del Progetto di Ricerca ex-60% (esercizio finanziario 2007) Per la storia del pensiero dell’alto Medioevo occidentale: modelli tradizionali e nuove chiavi di lettura.

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The logo of the Nutrix series is taken from Ms. New York, Pierpont Morgan Library, M. 302 (Ramsey Psalter), f. 2v. Photographic credit: The Pierpont Morgan Library, New York.

D/2008/0095/65 ISBN 978-2-503-52862-5 Printed in the E.U. on acid-free paper

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Armando Bisogno

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Rabano Mauro, De universo, XV, 1, De philosophis. Montecassino,Archivio dell’Abbazia, ms. 132, f. 374.

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Parentibus, qui me docuerunt vivere, uxori, quae me docuit amare, amicis, qui me docuerunt audere ac audire, magistris, qui me docuerunt studere, alumnis, qui me docuerunt docere.

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INDICE DEL VOLUME

CAPITOLO I L’ETÀ CAROLINGIA: NASCITA E SVILUPPO DI UN’IMMAGINE STORIOGRAFICA CAPITOLO II I GRANDI DIBATTITI DEL SECOLO CAROLINGIO (780-860)

1. La disputa adozionista

13 41 42

1.1. Origini e fasi della disputa: Migezio, Elipando e Felice, p. 42 • 1.2. La dottrina di Elipando, p. 48 • 1.3. Beato contro Elipando, p. 51

2. La disputa sulle immagini

60

2.1. Bisanzio prima dell’iconodulia, p. 60 • 2.2. Il secondo concilio di Nicea, p. 62 • 2.3. L’intervento della Chiesa franca e la composizione dei Libri Carolini, p. 64

3. Nuove dinamiche del dibattito teologico nell’età di Carlo il Calvo CAPITOLO III LE ‘COLONNE DELLA SAPIENZA’: I PRINCÌPI DI ALCUINO

1. L’epistolario

71 79 79

1.1. Lettere agli amici, p. 82 • 1.2. Lettere ai discipuli, p. 87 • 1.3. Lettere ai rectores, p. 93

2. L’esegesi biblica 3. Le arti liberali

101 111

3.1. La grammatica, p. 112 • 3.2. La retorica, p. 120 • 3.3. La dialettica, p. 126 CAPITOLO IV IL LABORATORIO DEL TEOLOGO: IL METODO ALCUINIANO ALLA PROVA

1. Il Liber contra haeresin Felicis 2. Il Contra Felicem Urgellitanum

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135 136 142

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INDICE DEL VOLUME

3. L’Adversus Elipandum Toletanum 4. Il De fide sanctae et individuae Trinitatis CAPITOLO V DAL CONCILIO DI FRANCOFORTE A LUDOVICO IL PIO

1. 2. 3. 4.

I Libri Carolini I Dicta Paolino di Aquileia La Scrittura e le artes: variazioni su un metodo

162 169 177 178 203 209 217

4.1.Fridugiso di Tours,p.217 • 4.2. Teodulfo di Orléans,p.224 • 4.3.Smaragdo di Saint-Mihiel, p. 232

5. La razionalità al servizio della dottrina:Agobardo di Lione 6. La seconda fase della disputa sulle immagini: Claudio, Dungal e Giona 7. Rabano Mauro CAPITOLO VI L’ETÀ DI CARLO IL CALVO

1. 2. 3. 4.

Pascasio Radberto di Corbie Ratramno di Corbie L’anima e la visione beatifica Godescalco di Orbais e i suoi avversari

238 255 271 289 291 301 311 324

4.1. Godescalco e Rabano Mauro, p. 324 • 4.2. Le tesi di Godescalco, p. 328 • 4.3. Godescalco e Incmaro di Reims, p. 332 CAPITOLO VII LA MATURAZIONE DEL METODO: GIOVANNI SCOTO ERIUGENA

1. 2. 3. 4. 5.

Il De praedestinatione liber I limiti della ratio: le critiche di Prudenzio di Troyes Giovanni Scoto e il neoplatonismo dionisiano L’Omelia sul Prologo di Giovanni Il Periphyseon

343 344 356 366 369 376

CONCLUSIONE

387

BIBLIOGRAFIA

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INDICE DEI NOMI

413

INDICE BIBLICO

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CAPITOLO PRIMO

L’ETÀ CAROLINGIA: NASCITA E SVILUPPO DI UN’IMMAGINE STORIOGRAFICA

Nella prefazione alla sesta edizione della fortunata Histoire de la Philosophie Médiévale, Maurice De Wulf ipotizzava che una volta realizzata una completa ed onnicomprensiva classificazione delle opere ancora inedite o sconosciute, sarebbe emerso con tutta evidenza un patrimonio dottrinale comune tra le diverse anime filosofiche del Medioevo latino1. A dispetto di questo auspicio, già nell’Introduzione, l’autore dell’Histoire operava però una netta divisione all’interno dell’evoluzione del pensiero medievale, distinguendo tra una speculazione, quella Scolastica, degna di esser definita ‘filosofia’, e la restante cultura dell’età di mezzo, inadatta o poco interessata ad ogni forma di speculazione. Gli stessi studiosi, che dal secolo XV in poi si erano occupati di storia della filosofia medievale, venivano nettamente distinti da De Wulf in due insiemi: da un lato, quelli che in modo approssimativo avevano giudicato oscura e dunque infruttuosa l’intera cultura filosofica medievale; dall’altro, coloro i quali avevano felicemente compreso la necessità di distinguere la Scolastica, età di profonde contraddizioni ma anche di grandi sistemi speculativi, dalla restante produzione medievale, di gran lunga meno interessante per la storia delle idee. De Wulf, che per formazione e sensibilità riteneva essenziale lo studio e la comprensione dei temi della teologia scolastica, mostrava con tutta evidenza questa predilezione nelle poche pagine dedicate all’età carolingia ed in parti1 Cfr. M. DE WULF, Histoire de la Philosophie Médiévale, Louvain 1934, I, Preface, p. VI; tr. it. di V. Miano, Firenze 1944, p. 4.

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colare ad Alcuino di York, Rabano Mauro e Giona d’Orléans; la teologia carolingia, eccezion fatta per Giovanni Scoto, al quale De Wulf dedicava una corposa sezione, veniva descritta come una cultura intenta alla sola riproposizione di una già consolidata sapienza patristica, impegnata nel preservare la tradizione teologica cristiana dalla barbarie, ed incapace di produrre speculazione originale.Anche Étienne Gilson, nella Philosophie au Moyen Âge, che ha rappresentato una tappa essenziale per la comprensione e la divulgazione nel secolo XX del pensiero medievale, tratteggia la figura di Alcuino lodando l’intelligenza della sua erudizione, ma sottolineando quanto egli non fosse mai riuscito ad elaborare, al di là delle fonti che utilizzava, una speculazione originale; indissolubilmente legato alla figura di Carlo Magno, impegnato a collaborare con la sua azione di recupero e salvaguardia del patrimonio della classicità, Alcuino viene descritto come rigoroso e inflessibile difensore dell’ortodossia e dell’utilità della cultura patristica e greco-romana ai fini di una formazione cristiana, ma non capace di cogliere pienamente e, di conseguenza, di approfondire gli elementi speculativi presenti nelle tradizioni alla quali era così legato2. Questa immagine di un’età carolingia impegnata nella acritica riproposizione della tradizione classica e patristica non nasce nel secolo XX, ma si forma lentamente, a cominciare dalla storiografia quattrocentesca, ed impone, a chi voglia analizzare, per descriverne le caratteristiche, il metodo utilizzato dai teologi carolingi, una riflessione preliminare. L’analisi dell’identità culturale di un periodo storico da un lato mira a verificare l’esistenza di elementi che abbiano permesso, coscientemente o meno, ai protagonisti dell’età oggetto di studio di sentirsi parte di un unico universo di riferimento; dall’altro, guarda ai risultati che tale età ha prodotto, alla conoscenza che le epoche successive ne hanno avuto ed alla considerazione di cui ha goduto, per capire in che misura essa abbia influenzato la storia del pensiero. In quest’ottica, è indubbio che la prima e più evidente connotazione del ‘metodo carolingio’ sia cronologica, si 2 Cfr. É. GILSON, La philosophie au Moyen Age, Paris 1922, pp. 191-193 (tr. it. di M.A. del Torre, Firenze 1973, pp. 230-233).

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identifichi cioè con tale espressione l’insieme di competenze possedute dagli intellettuali che hanno vissuto nell’Europa dominata da Carlo Magno e dai suoi eredi. Se dunque un ‘metodo carolingio’ non può che indicare un sistema di formazione ed erudizione nato e sviluppatosi tra la fine del secolo ottavo e la metà del nono, esso non esaurisce in questa collocazione storica il suo valore: in quanto carolingio, nasce in un determinato universo politico e culturale, ma, in quanto metodo, implica l’esistenza di norme, strumenti e finalità universalmente condivisi ed applicati. Sarà dunque indispensabile indagare il contesto storico nel quale questo metodo ebbe la possibilità di prendere forma, e, subito dopo, analizzare le diverse dottrine e le opere degli intellettuali carolingi, per verificare, alla fine, l’esistenza di una comune metodologia. Ma, proprio per condurre tale verifica in dinamico confronto con il pregiudizio che ancora all’inizio del secolo XX pesava su tutta la produzione teologica carolingia preeriugeniana, è preliminarmente utile indicare gli elementi che nel corso dei secoli hanno contribuito a dar vita a tale valutazione negativa. In questa analisi, non è agevole distinguere gli approcci più scientificamente orientati alla produzione di un giudizio storico adeguatamente documentato, fondato cioè su testimonianze solide e filologicamente vagliate, dalle operazioni di semplice sintesi acritica di un patrimonio di fonti spesso disordinato ed eterogeneo3. In ogni epoca la filosofia ha tentato di guardare retrospettivamente alla sua storia, per rintracciare nella tradizione elementi 3 Per un’analisi del problema della nascita della storia della filosofia come disciplina, che non può trovare luogo in queste pagine, si rimanda a M. DAL PRA, Storia della filosofia e della storiografia filosofica. Scritti scelti, Milano 1996; G. SEVERINO, Filosofia, storia della filosofia e storiografia filosofica alle soglie del nuovo millennio, in La trasmissione del sapere filosofico nella forma storica, a c. di L. MALUSA, I, Milano 1999, pp. 143-167; M. A. DEL TORRE, Le origini moderne della storiografia filosofica, Firenze 1976. Per una valutazione del percorso storico dall’erudizione cinquecentesca alla storiografia del secolo XIX, si rimanda alla Storia delle storie generali della filosofia, diretta da G. SANTINELLO; del progetto complessivo sono stati realizzati sinora cinque volumi, affidati a curatori diversi: I. Dalle origini rinascimentali alla “Historia philosophica”, a c. di F. BOTTIN, Brescia 1981; II. Dall’età cartesiana a Brucker, a c. di F. BOTTIN - M. LONGO - G. PIAIA, Brescia 1979; III/1-2. Il secondo illuminismo e l’età kantiana, a c. di I. F. BALDO, Padova 1988; IV/1-2. L'età hegeliana. La storiografia filosofica nell'area tedesca, a c. di B. BIANCO, Padova 1995 e La storiografia filosofica nell’area neolatina, danubiana e russa, a c. di A. JIMÉNEZ GARCÍA, Padova 2004;V. Il secondo ottocento, a c. di C. CESA, Padova 2004.

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di continuità o di difformità. In età rinascimentale in particolare si manifestò per la prima volta l’esigenza di integrare in un’opera di sintesi di tale genere la complessità dei sistemi filosofici medievali. Gli eruditi che si impegnarono in questo sforzo furono preliminarmente costretti a chiarire il ruolo e lo statuto che erano stati propri della filosofia nel corso dei secoli della grande speculazione teologica cristiana. A tal fine, essi tentarono di individuare gli elementi caratterizzanti dell’età medievale, utilizzando i frutti di tale ricerca per dimostrare, in alcuni casi, la sostanziale continuità tra le diverse epoche, ed in altri, la loro profonda distanza. Questo approccio rese inutile ogni aspirazione a ricostruire le tracce del lento passaggio dai saperi pagani alla sapienza cristiana; storici e studiosi preferirono infatti analizzare con maggiore attenzione le dottrine ritenute più influenti, tralasciando l’universo di autori minori che avevano concretamente permesso la lenta metabolizzazione della cultura antica. Tale sforzo si concretizzò nella elaborazione di grandi sillogi, frutto dell’accumulazione e del confronto scarsamente critico di fonti non controllabili, e accomunate da fattori scelti arbitrariamente e senza pretese di completezza. In queste opere il ruolo dell’intera speculazione medievale risulta ampiamente minoritario, e, nello specifico, l’età carolingia è pressoché ignorata. Nel De quatuor sectis philosophorum di Marsilio Ficino, ad esempio, appare evidente una precisa volontà di segnalare gli elementi di continuità tra la tradizione filosofica antica e quella moderna, relegando l’epoca medievale a semplice momento di passaggio e di verifica di un determinato percorso teoretico4. In una celebre lettera inviata nel 1489 a Martino Uranio (Martino Prenninger), Ficino illustra che la scelta tra le due strade percorribili per giungere alla verità, quella «philosophica» e quella «sacerdotalis», pur non prescindendo dalla conoscenza della successione cronologica dei diversi pensatori, non è ad essa strettamente vincolata. Se

4 Cfr. MARSILIUS FICINUS, De quatuor sectis philosophorum, ed. O. Kristeller, in Supplementum Ficinianum: Marsilii Ficini Florentini philosophi Platonici opuscola inedita et dispersa, Firenze 1937. Cfr. anche IOHANNES BAPTISTA BUONINSEGNI, Epistola de nobilioribus philosophorum sectis et de eorum inter se differentia, ed. in L. STEIN, Handschriftenfunde zur Philosophie der Renaissance. I. Die erste «Geschichte der antiken Philosophie» in der Neuzeit, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 1 (1888), pp. 532-553.

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infatti ci sono stati filosofi antichi, come Platone, che hanno saputo conciliarle entrambe, e per questo vanno venerati, occorre studiare ed approfondire anche coloro i quali, nei secoli successivi, si avvicinarono soltanto a tale risultato, come Boezio ed Enrico di Gand; questo studio, conclude Ficino, non richiede che si ricostruisca con precisione l’iter storico e dottrinale che dalla filosofia platonica conduce sino alla speculazione medievale5. Lo studio del Medioevo, periodizzato senza particolare dovizia storica, non è dunque per Ficino funzionale alla comprensione del valore reale degli autori menzionati; le categorie filosofiche appaiono infatti extratemporali, ed è solo l’aderenza dei diversi autori a questi paradigmi a renderli meritevoli di figurare in una più generale storia delle idee. Questa prospettiva, pur mostrandosi estremamente funzionale per una lettura trasversale del processo storico, non forniva alcuna indicazione sulle modalità del suo dispiegarsi nel tempo.Affermare l’esistenza di idee filosoficamente universali, infatti, non equivaleva a descrivere gli elementi di continuità storico-dottrinale tra età antica ed evo moderno. Non a caso, in quest’ottica, epoche come l’età carolingia venivano tralasciate perché prive di dottrine che dimostrassero la persistenza della antica sapienza filosofica. L’opera di Ficino non rimase isolata nel contesto rinascimentale. Nell’Adversus Theodorum Gazam in perversionem problematum Aristotelis di Giorgio Trapezunzio, ad esempio, Alberto Magno, Duns Scoto, Egidio Romano e Tommaso vengono descritti come interpreti autentici della tradizione aristotelica6; gli stessi autori, del resto, rientrano nel novero dei filosofi che Giovanni Pico della Mirandola si impegna a trattare nella sua Oratio de hominis dignitate7.Anche in queste opere, manca un riferimen5 MARSILIUS FICINUS, Marsilius Ficinus florentinus Martino Uranio Praenygero, ed. in ID., Opera omnia, Basileae 1576, ex Officina Henricpetrina [repr.Torino 1962], p. 899,2; e in R. KLIBANSKY, The Continuity of the Platonic Tradition During the Middle Ages, London 1939 [repr. München 1981], pp. 45-47. 6 Cfr. GEORGIUS TRAPEZUNTIUS, Adversus Theodorum Gazam in perversionem problematum Aristotelis, in Kardinal Bessarion als Theologe, Humanist und Staatsman, a c. di L. Mohler, 3 voll., III, Paderborn 1942, p. 324. 7 Cfr. IOHANNES PICUS MIRANDOLENSIS, Oratio de hominis dignitate, XXXI, p. 189 e seqq., ed. E. Garin, Pordenone 1994 (ed. Studio/Tesi, 1), p. 106, pp. 50-54: «At superfluum inquiunt hoc et ambitiosum. Ego vero non superfluo modo, sed necessario factum hoc a me contendo, quod et si ipsi mecum philosophandi rationem considerarent, inviti etiam fateantur plane necesse est. Qui enim se cui-

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to alla lenta evoluzione che conduce dall’età antica a quella medievale, e l’unico elemento di continuità spirituale e teoretica tra tradizione pagana e pensiero cristiano è individuato nella divina azione che, come dirà un secolo più tardi il De osculo ethnicae et christianae philosophiae di Pausius, «parla alla sapienza antica e si rivela nelle Scritture e nell’incarnazione»8. La difficoltà di costruire una solida prospettiva storica diviene così il principale difetto di queste prime sillogi. Se infatti da un lato essa costituisce un limite che rende incompleti gli studi tesi a mostrare una sostanziale continuità tra l’epoca medievale e quelpiam ex philosophorum familiis addixerunt, Thomae videlicet aut Scoto, qui nunc plurimum in manibus, faventes, possunt illi quidem vel in paucarum questionum discussione suae doctrinae periculum facere.At ego ita me institui, ut in nullius verba iuratus, me per omnes philosophiae magistros funderem, omnes scedas excuterem, omnes familias agnoscerem. Quare, cum mihi de illis omnibus esset dicendum, ne, si privati dogmatis defensor reliqua posthabuissem, illi viderer obstrictus, non potuerunt, etiam si pauca de singulis proponerentur, non esse plurima quae simul de omnibus afferebantur. Nec id in me quisquam damnet, quod me quocumque ferat tempestas deferar hospes. Fuit enim cum ab antiquis omnibus hoc observatum, ut omne scriptorum genus evolventes, nullas quas possent commentationes illectas preterirent, tum maxime ab Aristotele, qui eam ob causam anagnostes, idest lector, a Platone nuncupabatur, et profecto angustae est mentis intra unam se Porticum aut Achademiam continuisse. Nec potest ex omnibus sibi recte propriam selegisse, qui omnes prius familiariter non agnoverit. Adde quod in una quaque familia est aliquid insigne, quod non sit ei commune cum caeteris. Atque ut a nostris, ad quos postremo philosophia pervenit, nunc exordiar, est in Ioanne Scoto vegetum quiddam atque discussum, in Thoma solidum et equabile, in Egidio tersum et exactum, in Francisco acre et acutum, in Alberto priscum, amplum et grande, in Henrico, ut mihi visum est, semper sublime et venerandum. Est apud Arabes, in Averroe firmum et inconcusum, in Avempace, in Alpharabio grave et meditatum, in Avicenna divinum atque Platonicum. Est apud Graecos in universum quidem nitida, in primis et casta philosophia; apud Simplicium locuplex et copiosa, apud Themistium elegans et compendiaria, apud Alexandrum constans et docta, apud Theophrastum graviter elaborata, apud Ammonium enodis et gratiosa. Et si ad Platonicos te converteris, ut paucos percenseam, in Porphirio rerum copia et multiiuga religione delectaberis, in Iamblico secretiorem philosophiam et barbarorum mysteria veneraberis, in Plotino privum quicquam non est quod admireris, qui se undique prebet admirandum, quem de divinis divine, de humanis longe supra hominem docta sermonis obliquitate loquentem, sudantes Platonici vix intelligunt. Pretereo magis novitios, Proculum Asiatica fertilitate luxuriantem et qui ab eo fluxerunt Hermiam, Damascum, Olympiodorum et complures alios, in quibus omnibus illud to Theion, idest divinum peculiare Platonicorum simbolum elucet semper». 8 Cfr. MUTIUS PANSA [PAUSIUS], De osculo ethnicae et christianae philosophiae unde Chaldeorum,Aegyptiorum, Persarum,Arabum, Graecorum et Latinorum mysteria tamquam ab Hebraeis desumpta fidei nostra consona deducuntur, Marpurgi 1605, typis Pauli Egenolphi, p. 442.

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la antica, dall’altro ha soltanto il valore di un espediente polemico utile agli studiosi intenzionati a dimostrare l’inconciliabilità delle due tradizioni.A distanza di due generazioni, il nipote di Pico, Gianfrancesco della Mirandola, nel suo Examen vanitatis doctrinae gentium (1520) indica ad esempio che il compito che il «patruus» si era prefissato, vale a dire mostrare la continuità teoretica tra la tradizione cristiana e la speculazione di Platone ed Aristotele, era una illusione; ben più utile appariva infatti evidenziare gli errori dei pagani, e sottolineare il positivo atteggiamento dei filosofi cristiani, Agostino in particolare, che avevano preferito mostrare l’incompatibilità della filosofia antica con i dati della rivelazione9. Platone, filosofo per eccellenza, doveva dunque essere emendato più che compreso o conciliato con le Scritture.Anche in questo caso, l’assenza di una prospettiva realmente storica impedì all’autore di descrivere un percorso lineare di sviluppo, un itinerario attraverso il quale la filosofia del Medioevo avesse potuto realmente metabolizzare e superare la speculazione classica. Nell’ambito di una comune indifferenza nei confronti dello studio dell’evoluzione del sapere filosofico, tanto le tesi di Gianfrancesco Pico e degli ‘anticoncordisti’, quanto quelle ‘concordiste’ dei suoi predecessori trovarono ampia eco, producendo testi estremamente validi per la loro accuratezza. È il caso del De perenni philosophia di Agostino Steuco. Dedicato al pontefice Paolo III, il testo è diviso in nove libri, nei quali si prescinde dall’ordine cronologico, ma si seguono percorsi tematici, legati ai singoli filosofi (la «Platonis et Aristotelis theologia» occupa ad esempio l’intero libro quarto) o a dottrine generali (come il «De mundi creatione» o il «De immortalitate animorum» dei libri settimo e nono). L’opera di Steuco, soffermandosi sulle grandi scuole dell’antichità e sulle tradizioni sapienziali (caldaiche, ebraiche, ermetiche, etc.), costituisce una testimonianza preziosa nel tentativo di ricostruire una storia della storia delle idee. La logica che guida Steuco nella elaborazione della sua opera è infatti una linea ampiamente concordista, che tenta di conciliare tutte le grandi tradizioni filosofiche anteriori al cristianesimo, per poi mostrarne la congruenza complessiva non solo con i singoli autori medievali, 9 Cfr. IOHANNES FRANCISCUS PICUS E MIRANDOLA, Examen vanitatis doctrinae gentium et veritatis Christianae disciplinae, Mirandolae 1520, Iohannes Maciochius Bundenius.

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ma con gli aspetti più generali della dottrina10. Steuco elabora una snella genealogia della sapienza, donata ad Adamo e da lui trasmessa a Noè e, per il suo tramite, agli Armeni ed ai Caldei, per poi trovare ospitalità nella Grecia platonica. Tale approssimativa cronologia tradisce lo scarso interesse di Steuco per le classificazioni geografiche e temporali, e la predilezione per la trattazione dei principali temi della speculazione filosofica e teologica: psicologia, teologia trinitaria, angelologia e demonologia, problema della creazione del mondo. In Steuco, la riflessione di Ficino appare pienamente compiuta: la sapienza emerge infatti come risultato dell’incontro tra pensiero antico e speculazione dei Padri, e non come processo storico di accumulazione. Termini come «mens», «animus» ed «anima», «verbum», «sanctitas», la cui presenza è trasversale e metastorica, sono per lui segni di una «sapientia» che rimane, nei suoi dati di fondo, invariata, e che permette uno studio comparato di Platone, Aristotele, Porfirio, Plotino, Proclo e di tutta la tradizione ebraica ed ermetica successiva o contemporanea. La filosofia dunque si evolve come disciplina nata dall’incontro della «sapientia» e della «pietas», che guardano nella medesima direzione, perché derivano dalla stessa fonte di ogni sapere, a prescindere dal cammino storico compiuto. Se Steuco rappresenta la continuità concordista della linea ficiniana, Giovanni Battista Crispo nel suo De ethnicis philosophis caute legendis, pubblicato negli stessi anni, propone una visione della storia della filosofia diametralmente opposta, e dunque anticoncordista11. Nell’incipit dell’opera, Crispo offre un elenco degli autori trattati, menzionando, nel «catalogus philosophorum», solo pensatori greci. A cominciare dai platonici e dal platonismo in generale, nell’elenco posto a prefazione dell’opera i pagani vengono descritti come autori da leggere con cautela, quando non da rigettare perché eretici. L’opera di Crispo porta alle estreme conseguenze l’anticoncordismo di Gianfrancesco Pico, perché non solo non si preoccupa di verificare una concordanza tra 10

Cfr. AUGUSTINUS STEUCHUS EUGUBINUS, De perenni philosophia, I, 1, Lugduni 1540, Seb. Gryphius, p. 323: «Ut unum est omnium rerum principium, sic unam atque tandem de eo scientiam semper apud omnes fuisse multarumque gentium ac litterarum monimenta testantur». 11 Cfr. IOHANNES BAPTISTA CRISPUS, De ethnicis philosophis caute legendis, Romae 1594, in aedibus Aloysij Zannetti.

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Platone ed Aristotele, ma si impegna a dimostrare che essi sono tanto contrari alla fede, da rendere inutile ogni sforzo teso alla conciliazione tra le loro dottrine e le verità rivelate. Le «leges cautionis», infatti, vogliono che le teorie dei filosofi vengano accettate solo se sottoposte al consenso dei concili, dei Santi Padri e dei teologi; Crispo dunque procede all’analisi dei temi che ritiene di maggiore difficoltà, e per ognuno di essi propone l’interpretazione platonica, le eresie che essa ha prodotto, e appunto le «cautiones», le citazioni dei Padri ritenuti degni di fiducia. L’elenco delle auctoritates che Crispo menziona è vasto e significativo, e non comprende alcun autore d’età carolingia: lo pseudo-Dionigi (De divinis nominibus), Agostino (in particolar modo Retractationes e De civitate Dei),Tommaso (la Summa), Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, Beda e Tertulliano. Con la storiografia a lui coeva Crispo condivide, dunque, non solo la valutazione della tradizione patristica, che appare slegata da un discorso di storia delle idee e intesa come principio regolatore per interpretare ed eventualmente rigettare la speculazione pagana, ma anche la completa omissione di riferimenti alla speculazione d’età carolingia. È improbabile che tale circostanza sia dovuta esclusivamente ad una mancanza di informazioni. Negli stessi anni in cui Steuco e Crispo pubblicavano le loro opere, infatti, la conoscenza delle opere teologiche di epoca carolingia cominciava a diffondersi tramite florilegi di testi slegati cronologicamente, ma riuniti per affinità tematica, e attraverso le prime edizioni di singole opere. In particolare, anche grazie alla diffusione manoscritta tradizionalmente ampia di buona parte della sua produzione, Alcuino fu tra i primi ad essere considerato personaggio integrante della tradizione esegetica patristica, e dunque ad essere inserito in raccolte di testi e in progetti monografici12. 12 Sulla tradizione manoscritta dell’opera di Alcuino, cfr. P. GODMAN, Il periodo carolingio, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il medioevo latino, III, Roma 1993, [339-373], p. 339: «Raramente la letteratura carolingia è stata tramandata in modo sistematico. I concetti di paternità, attribuzione ed autenticità di un’opera, che nei secoli VIII e IX erano normalmente applicati allo studio dei classici, furono utilizzati molto raramente con riferimento agli scritti contemporanei. Un’eccezione a questa regola è rappresentata dalle lettere in prosa di Alcuino, che vennero raccolte insieme sia durante la sua vita sia dopo la sua morte. Proprio i motivi che sono alla base di questa eccezione evidenziano però una delle principali caratteristiche degli scritti del periodo carolingio: la loro funzione eminen-

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La prima pubblicazione a stampa di Alcuino, il De fide sanctae Trinitatis, risale infatti agli ultimi anni del secolo XV. Nel frontespizio dell’Homiliarius Doctorum pubblicato a Basilea nel 1493 da Nicolaus Keßler vengono rappresentati otto Padri della Chiesa13: a fianco di Girolamo, Agostino, Beda ed Ambrogio, Alcuino vi è raffigurato con l’indice rivolto verso il cielo, in una rappresentazione divenuta poi iconica e riportata anche nelle edizioni seicentesche. Nel corso del secolo XVI, la pubblicazione a stampa degli scritti tecnici ed esegetici di Alcuino diviene pressoché completa. Non solo infatti il De fide venne presentato, tra il 1493 ed il 1598, nelle otto ristampe dell’Homiliarius ed in cinque edizioni monografiche, ma trovò posto anche, alla fine del secolo, nella seconda edizione della celebre Sacra bibliotheca di Marguerin de la Bigne. Il testo dello studioso parigino si inscrive nella lunga serie di raccolte che, senza una particolare sistematicità, riportano testi spesso slegati. Pur pubblicando infatti, nel quattordicesimo e quindicesimo volume, un ampio numero di opere di intellettuali carolingi, da Teodulfo di Orléans a Claudio di Torino, da Giona di Orléans ad Agobardo di Lione, Pascasio Radberto, Amalario di Metz, Ratramno di Corbie e Floro di Lione, la Bibliotheca non propone alcun approfondimento esegetico, non premette nessuna introduzione ai testi né commenti storici di raccordo; la comprensione della collocazione cronologica e teoretica delle opere è affidata al lettore, del quale si presuppone un’ampia conoscenza dell’età carolingia. Diverse edizioni, in questi anni, propongono senza alcun apparato storico-critico testi poco conosciuti; in particolare, del corpus alcuiniano, le Quaestiones in Genesin, il Commento al Vangelo di Giovanni, il De rhetorica et virtutibus, pubblicato in due edizioni dal Molther, il De virtutibus et vitiis ed il commento ai Salmi ebbero particolare fortuna editoriale14. temente pratica. Le epistole di Alcuino furono utilizzate quale modello di stile latino, di cortigiano decorum, di comportamento spirituale e diplomatico. Erano documenti pubblici, concepiti per una cerchia di lettori molto più ampia dei loro destinatari immediati. All’interno di una cultura in cui l’acquisizione di uno stile latino chiaro ed elegante era requisito fondamentale per l’esercizio della maggior parte delle attività amministrative ed ecclesiastiche, la finalità esemplare della prosa carolingia era della massima importanza». 13 Cfr. Homiliarius Doctorum, a Paulo Diacono collectus, Basileae 1493, Nicolaus Keßler. 14 Per tutti i riferimenti bibliografici delle edizioni dei testi alcuiniani nel XVI

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La crescita progressiva di interesse per le singole opere dei teologi carolingi migliorò la conoscenza e la diffusione delle loro idee. In particolare, verso la metà del secolo XVI, l’età carolingia cominciò ad acquisire un ruolo ed una dimensione più definiti, anche all’interno di studi di più ampio respiro. Del 1546 è il De scriptoribus ecclesiasticis di Giovanni Tritemio (Jean Trithème). L’opera si presenta come un piccolo dizionario enciclopedico costruito con un ordinamento cronologico. Gli autori vengono presentati con brevi definizioni biografiche e bibliografiche. In particolare, Tritemio dedica un’ampia sezione alla teologia dell’età carolingia. La sua descrizione della personalità di Alcuino, nello specifico, rimarrà a lungo paradigmatica: Alcuino, anche detto Albino, monaco e diacono, abate del monastero di S. Martino di Tours, originario dell’Inghilterra, alunno del venerabile Beda, espertissimo nelle Sacre Scritture, secondo a nessuno nel suo tempo nella perizia delle arti secolari, eccellente nello scrivere versi e prosa, convocato dall’Inghilterra dal re Carlo Magno, giunse a tale confidenza con lui, da esser definito ‘maestro delizioso’ dall’imperatore, che si impegnava ad esser introdotto, dal suo insegnamento, alla conoscenza di ogni disciplina delle arti liberali15. secolo, cfr. M. GORMAN, Alcuin before Migne, in «Revue bénédictine», 112 (2002), [pp. 101-130], pp. 108 e seqq. La raccolta delle opere dei carolingi, che è ovviamente guidata dalla figura di Alcuino, è in una prima fase molto disordinata e poco sistematica. Si pensi, ad esempio, a J. HEROLD, Orthodoxographa theologiae sacrosanctæ ac syncerioris fidei doctores, Basileae 1556, ex Officina Henricpetrina, al cui interno trovano posto le Quaestiones in Genesin, il Commento ai Salmi e l Adversus Felicem di Alcuino, con una prima parte dell’opera antiadozionista di Paolino, e due opere di Claudio di Torino e Giona d’Orléans. Le opere vengono però riportate senza alcuna praefatio, né storica né teoretica. 15 Cfr. IOHANNES TRITHEMIUS, De scriptoribus ecclesiasticis, Coloniae 1556, pp. 110-111: «Alcuinus sive Albinus, monachus et diaconus, abbas monasterii S. Martini Thuronensis, natione Anglicus, S. Bedae presbyteri quondam auditor, vir in divinis scripturis eruditissimus, et in saecularium litterarum peritia nulli suo tempore secundus, carmine excellens et prosa, de Britania ab imperatore Carolo Magno evocatus, in tanta familiaritate apud eum habitus est, ut imperatoris magister deliciosus fuerit appellatus, cuius magistero ipse imperator omnibus liberalium artium disciplinis initiari satagebat». Sulla leggenda dei quattro fondatori dell’Università di Parigi e sulla tradizione che fa di Alcuino e di altri maestri carolingi discepoli diretti di Beda, cfr. G. D’ONOFRIO, I fondatori di Parigi. Giovanni Scoto e la teologia del suo tempo, in Giovanni Scoto nel suo tempo. L’organizzazione del sapere in età carolingia, Atti del XXIV Convegno storico internazionale dell’Accademia Tudertina e Centro di studi sulla spiritualità medievale (Todi, 11-14 ottobre 1987), Spoleto 1989, pp. 413-456, oggi anche in tr. ingl. in ID., Vera Philosophia.

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A margine di queste prime informazioni biografiche, il De scriptoribus riporta anche un elenco di opere alcuiniane, tratto dai titoli variamente introdotti nelle testimonianza manoscritte16. Proprio partendo da Alcuino, Tritemio offre, nell’arco di poche pagine, un breve excursus sui personaggi più caratteristici dell’epoca carolingia, pur senza introdurre alcun riferimento ad una evoluzione del pensiero filosofico, e dunque senza una valutazione del contributo lasciato in eredità dalla teologia carolingia ai secoli successivi. L’opera di Tritemio non rimane, nel secolo XVI, un isolato tentativo di rivalutare la teologia carolingia. Nel 1560,Wolfgang Lazius (Laz), «doctor philosophiae et medicinae», venne nominato storico di corte di Ferdinando I, imperatore e fratello di Carlo V. Il sovrano si era compiaciuto infatti delle scoperte del suo consigliere, che aveva rintracciato, nelle biblioteche, alcuni Fragmenta di Carlo Magno ed opere attribuibili a Rabano Mauro, nel tentativo di preservarli dalla distruzione e per la maggior gloria della Chiesa cattolica («iis a situ et iniuria temporum vindicandis, ut catholicae religioni et historiis sua fides et veritas constaret»)17. Sotto il nome di Fragmenta Caroli Magni, lo storico di corte compone un piccolo opuscolo, nel quale realizza un particolare collage di testi. Ad una lettera inviata da Carlo ad Alcuino, infatti, aggiunge senza soluzione di continuità una sezione del De divinis officiis, erroneamente attribuito ad Alcuino, riportato a partire dal capitolo diciannovesimo sino a metà del capitolo quarantesimo, dove viene bruscamente interrotto. A margine, l’autore aggiunge una lettera di Alcuino che si occupa degli stessi temi, per poi riportare il brano iniziale del De divinis officiis, che prima aveva omesso, e concludere con un centone di varie riflessioni di Rabano Mauro su diversi libri delle Scritture18. L’andamento confuso e rapsodico della racStudies in Late Antique, Early Medieval and Renaissance Christian Thought,Turnhout 2007 (Nutrix, 1), cap. 3. 16 Vengono citati ad esempio degli inesistenti De artibus liberalibus, De adoptione filiorum Dei, De nomine Dei proprietate, che certamente fanno riferimento agli scritti alcuiniani sulle arti liberali, ai testi adozionisti ed all’opera sulla Trinità. 17 Cfr. WOLFGANG LAZIUS, Fragmenta quaedam Caroli Magni imp. Rom. aliorumque incerti nominis de veteris ecclesiae ritibus ac ceremonijs, Antuerpiae (Antwerpen) 1560, ap. Ioannem Bellerum, p. 29. 18 Cfr. ibid., pp. 31-105. La successione è dunque: epistola di Carlo Magno LXXXI, De ratione septuagesimae, PL 100, 263B; De divinis officiis XIX-XXXIX,

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colta del Lazius è indicativo dell’atteggiamento antistorico sin qui evidenziato, e che permette agli studiosi di scegliere, tra le differenti dottrine, quelle più funzionali alla loro prospettiva esegetica. Il maggior rilievo concesso alla teologia carolingia, infatti, nasce da nuove esigenze storiografiche che la trasformano, nel breve arco di pochi decenni, nel simbolo della purezza di una Chiesa quasi primitiva, e di una teologia meno pedante di quella Scolastica. Se infatti in Lazius, storico di corte di un imperatore cattolico, i carolingi rappresentano la migliore tradizione della storia della Chiesa, da recuperare e valorizzare, negli stessi anni, sul fronte opposto, essi vengono interpretati dalla storiografia luterana come l’ultimo esempio di teologia pura, estranea all’epoca in cui la religione aveva cercato di usare la ragione di stampo ellenistico per parlare della fede, corrompendosi nella Scolastica. Questo giudizio viene chiaramente espresso e motivato nel Chronicon, scritto tra il 1568 ed il 1572 da Filippo Melantone ed ultimato dal marito di una delle figlie, Kaspar Peucer. L’opera racconta la storia delle «res ecclesiasticae et politicae» greche, romane e germaniche, «ab esordio mundi usque ad Carolum quintum imperatorem». Nella parte centrale del testo, emerge una chiara periodizzazione della speculazione bassomedievale, ed un veloce ma significativo riferimento al periodo immediatamente precedente. La Scolastica è divisa in tre grandi età, tutte identificate da diversi personaggi, e divise in precisi archi cronologici, che procedono da Lanfranco di Pavia sino ad Alessandro di Hales, da Alberto Magno a Durando di San Porziano e da quest’ultimo sino alla affissione delle tesi di Lutero. L’età che precede queste tre epoche, compresa tra il pontificato di Gregorio Magno ed il 1020, appare nel Chronicon come l’epoca del primo imbarbarimento dei costumi ecclesiastici19. «Leges» e norme giuste sono PL 101,1215A-1259B; Epistola LXXX, PL 101,259C; De divinis officiis, XIXXXXIX, PL 101,1173B-1215A. Cfr. J. J. RYAN, Pseudo-Alcuin’s ‘Liber de divinis officiis’ and the Liber ‘Dominus vobiscum’ of St. Peter Damiani, in «Mediaeval Studies», 14 (1952), p. 159. 19 Cfr. KASPAR PEUCER, Chronicon Carionis, Vitebergae (Wittenberg) 1572, Iohannes Crato. Lo stesso Peucer, nell’opera Triplex aetas doctorum scholasticorum, pubblicata a Berna nel 1757, tradotta in italiano da U. CANTIMORI in Umanesimo e religione nel Rinascimento, Torino 1975, denuncia il tradimento degli Scolastici, divenuti rispettosi della sola autorità di Aristotele. – Cfr. G. D’ONOFRIO, Lanfranco teologo e la storia della filosofia, in Lanfranco di Pavia e l’Europa del secolo XI, nel IX

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certamente volontà di Dio, che vorrebbe si riproducesse sulla terra l’ordine razionale che è nei cieli. Ma, continua il Chronicon, «discernendus est ipse ordo a personis»: i regnanti potrebbero facilmente tradire il loro compito, e lavorare solo per arricchimento personale. La storia è dunque il teatro in cui gli uomini operano, con maggiore o minore fedeltà rispetto alla missione affidata loro da Dio. Nella generale oscurità di questo universo, Carlo Magno e la sua opera di translatio potentiae mediante la quale tentò di riportare ordine in un'Europa militarmente e culturalmente sconvolta, rappresentano senza ombra di dubbio, per il primo luteranesimo, segni della misericordia di Dio nei confronti degli uomini giusti. Il sovrano carolingio è stato infatti, per il Chronicon, l’ultimo monarca capace di una virtuosa sintesi tra la potenza militare e l’attenzione per i problemi della cultura. Carlo viene dunque descritto come uomo di intelligenza raffinata, assiduo lettore di Agostino, e discepolo di un celebre «auditor Bedae»: Dopo che giunse a Parigi,Alcuino, alunno di Beda, insegnò a Carlo la dialettica, la dottrina della Chiesa, della quale fece una sintesi, che ancora oggi esiste: è evidente che ha seguito la dottrina di Agostino, come dopo di lui Ugo di S.Vittore ed altri, fino ai ‘labirinti’ di Tommaso e Scoto. Si narra che dietro consiglio di Alcuino, si creò l’Università di Parigi (…). Carlo Magno ebbe come precettore Alcuino non solo nella dottrina sacra, ma in tutta la filosofia, nel cui studio apprese diligentemente diverse cose, soprattutto la dottrina dei moti celesti e dei numeri20.

centenario della morte (1089-1989), Atti del Convegno internazionale di studi (Pavia,Almo Collegio Borromeo, 21/24 settembre 1989), a c. di G. d’Onofrio, Roma 1993 (Italia Sacra, 51), [pp. 189-228], pp.192-194. 20 Cfr. PEUCER, ibid., p. 436: «Postea cum venisset Lutetiam, Alcoinus, Bede auditor, erudiit eum (Carolum Magnum) in dialecticis, et doctrina Ecclesiae, cuius summam Alcoinus contraxit in librum qui adhuc extat: et apparet Augustini doctrinam secutum esse, sicut postea Hugo de sancto Victore, et alii eum secuuti sunt, usque ad Thomae et Scotus labyrinthos. Narratur, Alcoini consilio constitutam esse Accademiam Parisiensem. (…) Usus est, autem Carolus Magnus Alcoino praeceptore, non tantum in doctrina sacra, sed et tota philosophia in qua didicit diligenter cum alia, tum vero in primis doctrinam motuum coelestium ac numerorum». Per gli aspetti leggendari di questo racconto, cfr. supra, alla nota 15. Non è probabilmente un caso che il De Trinitate di Alcuino sia inserito, insieme al Chronicon Carionis, nelle prime edizioni dell’Index librorum prohibitorum: cfr. GASPARIUS [GASPAR] DE QUIROGA, Index librorum prohibitorum editus cum consilio Su-

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La scelta del Chronicon cade dunque su Alcuino e Carlo Magno perché nell’unione di spada e scriptorium il luteranesimo vede l’immagine di un potere non asservito alla giurisdizione pontificia, ma volto alla difesa ed alla più generale condivisione di uno spirito cristiano puro: Dio muta e stabilisce i regni. Non fu minore l’autorità della nobiltà italica nello scegliere l’Imperatore che quella degli orientali. Né fu la proclamazione del papa ad attribuire l’Impero, ma è la testimonianza pubblica che mostrava che questa persona era giusta e giustamente richiesta dall’Impero. Come il pastore della Chiesa non dà la sposa allo sposo, ma è testimone di un matrimonio legittimo (…). Ho premesso all’inizio queste cose, affinché riflettiamo che fu salutare questo mutamento dell’Occidente, e celebriamo grati il dono di Dio21.

Gli orientamenti della storiografia filosofica di ispirazione luterana modificarono sotto questa prospettiva il panorama culturale dei secoli XVI e XVII. Il dibattito sull’esistenza di una reale continuità dottrinale tra l’epoca antica, quella medievale e quella moderna, infatti, non venne più alimentato dalle diverse prove addotte per difendere l’una o l’altra interpretazione. Data infatti per assodata una considerevole influenza di tutta la cultura classica sull’evoluzione del pensiero medievale e moderno, divenne centrale nel dibattito storiografico la valutazione degli effetti di tale presenza. Per tutto il corso del secolo XVII, dunque, si moltiplicò

premi Senatus Sancta Generalis Inquisitionis, Madriti (Madrid) 1583, ap.Alphonsum Gomezium, pp. 7 e 19. 21 PEUCER, ibid., p. 436: «Deus transfert et stabilit regna. Nec minor fuit Italicae nobilitatis authoritas in eligendo Imperatore quam alibi Byzantinorum. Nec Pontifica renunciatio tribuit Imperium: sed est publica testificatio quae ostendebat hanc personam iustam esse et iuste petitam Imperio. Ut Pastor Ecclesiae non dat sponsam sponso, sed testis est legitimi coniugii (…). Haec initio praefatus sum, ut cogitemus salutarem fuisse mutationem, et grati beneficium Dei celebremus». Il Chronicon non fu l’unica opera protestante ad occuparsi di questi temi. Merita una menzione particolare il testo di uno storiografo protestante, Johan Grün, professore di Logica ed Etica all’università di Wittemberg, convinto, come buona parte della storiografia protestante, che l’origine della sapienza filosofica non fosse da rintracciare né tra i greci né tra i barbari, ma che derivasse direttamente da Dio; cfr. JOHANNES GRUNIUS, Philosophiae origo, progressus, definitio, divisio, dignitas, utilitates, quas vitae humane et Ecclesiae confert, Vitebergae (Wittenberg) 1587, Mathaeus Welach.

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lo sforzo di catalogazione e ricostruzione dei percorsi compiuti dai testi della tradizione teologica latina, greca ed ebraica, al fine di confrontarne l’impostazione con le nuove dottrine riformate. Il Medioevo divenne così oggetto di studi soprattutto perché considerato età di passaggio tra lo splendore classico ed il risveglio luterano.Testi come la Bibliotheca universalis del Gesner, la Bibliotheca philosophorum del Frisius, il Prodromus di Peter Lambeck, la Bibliotheca philosophica di Paolo Bolduan o la Bibliotheca Realis di Lipen documentano in quest’epoca i più compiuti tentativi di ampliare la conoscenza del mondo medievale22. Queste opere, pur fondandosi su nuove acquisizioni manoscritte, rimangono però semplici raccolte di testi spesso slegati e non coerenti, cronologicamente e tematicamente. Ciò nonostante, lo sforzo di raccolta delle fonti costituì la premessa indispensabile per la elaborazione delle prime, organiche storie della filosofia. Il De doctoribus scholasticis et corrupta per eos divinarum humanarumque rerum scientia liber singularis di Tribbechow rappresenta, in tal senso, un importante anello di congiunzione. Non più semplice opera di erudizione, e non ancora storia della filosofia scientificamente elaborata, il De doctoribus scholasticis esprime sin dal titolo l’orientamento dottrinale del suo autore, che tenta di fare storia del pensiero medievale, ma per evidenziarne la progressiva decadenza23. Il testo è composto di otto capitoli, per un totale di poco meno di quattrocento pagine. Una delle sezioni centrali è dedicata in particolare al periodo che dai Padri della Chiesa, ed in particolare Agostino, giunge sino al Dictatus papae di Gregorio VII24. 22 Cfr. CONRADUS GESNERUS, Bibliotheca universalis sive catalogus omnium scriptorum locupletissimus,Turicum (Zürich) 1545, Ch. Froschauer; JOHANNES J. FRISIUS, Bibliotheca philosophorum classicorum auctorum chronologica, Tiguri 1592 (particolarmente importanti sono i folia 58-88, Biblioteca Patrum minorum, dedicati ai Padri precedenti l’anno 1140); PETRUS LAMBECIUS, Prodromus historiae litterariae, Hamburgi 1659; PAULUS BOLDUANUS, Bibliotheca philosophica sive elenchus philosophicorum atque philologicorum illustrium, Hiena 1616; MARTINUS LIPENIUS, Bibliotheca realis, Francofurti ad Moenum 1685. 23 Cfr. ADAM TRIBBECHOW (TRIBBECHOVIUS), De doctoribus scholasticis et corrupta per eos divinarum humanarumque rerum scientia liber singularis, Giessae (Gißen) 1665. 24 Ibid., Praef., p. 32: «De Scholasticis hic institutum sermonem vides non tamen quatenus sana illi et maxime utilia hominum generi docuere; sed quatenus divinarum humanarumque rerum scientiam nugis foedarunt, barbaricis sordibus conspurcarunt, et vana subtilitate adeo temerarunt, ut a pristino splendore deficiens deformem prorsus induerit facies».

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Se tuttavia in area protestante si evidenzia,negli studi monografici, una particolare attenzione nei confronti di un’epoca di transizione come quella carolingia per verificare cosa vi sia andato perduto e cosa vi si sia invece conservato della tradizione patristica, le prime storie della filosofia del secolo XVII, orientate ad una valutazione degli esiti culturali delle varie epoche a seconda del loro peso specifico nel quadro di un complessivo sviluppo del pensiero occidentale, giudicano per lo più in modo negativo, quando non ignorano del tutto, la letteratura teologica dei secoli VIII e IX. Così, l’History of Philosophy di Thomas Stanley, concentrata sulla sola storia antica della filosofia, non affronta neanche il tema. L’Historia philosophica di Georg Horn (1655) analizza invece,nel quinto e nel sesto libro, tutta l’età altomedievale, ivi compresa la speculazione agostiniana e boeziana,i rapporti con il mondo neoplatonico e con la «saracena philosophia»25, ma non concede alcuno spazio ai secoli carolingi: il capitolo ottavo del libro quinto, infatti, descrive un quadro fosco, nel quale «barbaris viguentibus philosophia deficit», impèra l’«aversatio bonarum litterarum» e le biblioteche sono «combustae»26. Emerge, «inter densissimas tenebras», la sola figura di Giovanni Scoto, «patricius Erigena», del quale Horn indica le origini irlandesi («Erigena id est Hibernus,‘Erin’ enim Hiberniam hodieque indigenae appellant») ed evidenzia le elevate competenze filosofiche e teologiche, fondate su fonti latine e greche, che avrebbero contribuito a renderlo il primo maestro di «bonae artes» nella «Academia Oxoniensis» fondata dal re Alfredo27. Nonostante questa pressoché totale indifferenza permanente nei loro confronti nelle più generali storie della filosofia, alcuni autori carolingi continuarono a godere, nel secolo XVII, di una discreta fortuna editoriale. Nel 1617 André Duchesne (Andreas Chesnius o Quercetanus), «storiografo e geografo reale» protetto da Richelieu, nato a l’Île-Bouchard presso Tours, dava alle stampe, a Parigi, gli Albini Opera omnia28.Alcuino, «Flaccus Albinus, si25 Cfr. L. MALUSA, Le prime storie generali della filosofia in Inghilterra e nei Paesi Bassi, in Storia delle storie generali della filosofia, I, Dalle origini rinascimentali alla ‘Historia Philosophica’ cit. (alla nota 3), p.168. 26 Cfr. GEORGIUS HORNIUS, Historiae philosophicae libri septem,V, 8, Lugduni Batavorum 1655, pp. 281-282. 27 Cfr. ibid.,VI, 1, pp. 295-296. 28 BEATI FLACCI ALBINI sive ALCHUINI ABBATIS (…) Opera quae hactenus reperi-

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ve Alchuvinus, sancti Martini quondam Abbas», vi è descritto come discepolo di Egberto, con il quale sarebbe diventato esperto «in Philosophicis quoque, Mathematicis et omni Divinarum rerum scientia», conoscitore di latino, greco ed ebraico, poeta rinomato. Nella praefatio e nella prima litografia (che lo rappresenta, come nell’Homiliarius, con un libro in una mano, e con l’indice dell’altra rivolto al cielo), Alcuino viene indicato con l’appellativo di «magister Karoli», cristallizzato nel ruolo di intellettuale palatino al servizio del più grande sovrano altomedievale, dedito ad indirizzare le scelte politiche e culturali del re, ed a reggere le fila della vita di corte. Le opere accolte nel volume non sono introdotte singolarmente: Duchesne infatti preferisce condensare in una sola Praefatio le sue valutazioni. Preziosa è la parte storica: l’autore infatti si preoccupa di riportare non solo le opinioni di altri testimoni medievali, ma fornisce anche interessanti informazioni sulla percezione moderna e rinascimentale della figura e dell’opera di Alcuino e, in generale, della letteratura teologica di età carolingia. La raccolta del Duchesne consta di tre parti; la prima è interamente dedicata ai commenti scritturali: vi si ritrovano gli scritti alcuiniani sulla Genesi, sui Salmi, sul Cantico dei Cantici e sul Vangelo di Giovanni; nella seconda sono contenute le opere apologetiche (in particolare contro gli adozionisti), le opere teologiche e quelle liturgiche; nella terza, invece, sono raccolte le agiografie, le lettere e le poesie. Lo sforzo prodotto in tutto il secolo XVII per portare le prime aperture cinquecentesche ad una compiuta sistematizzazione viene del tutto assorbito dal più generale impegno della cultura settecentesca, dedita tanto a fornire primi elementi di scientificità allo studio storiografico, quanto ad individuare, nella successione ordinata delle varie epoche, un omogeneo e progressivo sviluppo verso il progresso. Questo sforzo non produce, però, una diffusa e coerente considerazione del ruolo dei carolingi, la cui presenza, nelle storie della filosofia, rimane incostante. Per un verso, permane una visione molto negativa dell’epoca genericamente compre-

ri potuerunt, nonnulla auctius et emendatius, pleraque nunc primum ex codd. mss. edita (…), studio & diligentia Andreae Quercetani Turonensis, Lutetiae Parisiorum 1617, ex Officina Nivelliana.

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sa tra VIII e XII secolo. Così, nel 1731, il filosofo e teologo luterano Francesco Buddeus pubblica un Compendium historiae philosophicae nel quale riproduce un ormai consolidato schema dell’evoluzione della storia della filosofia attraverso diverse età sapienziali. Una breve descrizione dei problemi della filosofia «generatim» intesa, ed una narrazione dell’evoluzione della sapienza «hebraea», «barbarica» e «graecanica» preludono, nei primi quattro capitoli dell’opera, alla trattazione della «philosophia medii aevi»29: giunta nel continente dalla Grecia grazie ai romani, la filosofia è però poi scomparsa dall’Occidente e solo l’arrivo dei «Saraceni,gens Arabica» in Spagna, ha riportato in Europa la filosofia, dando origine alla «philosophia scholastica». Negli stessi anni in cui Buddeus componeva il suo Compendium, Giovanbattista Capasso, «philosophiae ac medicinae doctor neapolitanus», dedicava una Historiae philosophiae synopsis a Giovanni V, re del Portogallo. L’opera propone una accurata descrizione del significato e dell’origine della filosofia, delle diverse «sectae» che ne hanno caratterizzato il primo sviluppo, da quella ebraica a quella africana, per poi dedicarsi alla filosofia «graecanica», in un amplissimo arco che va da Omero («philosophia mythica») sino agli eclettici, e concludere infine il libro quarto con la «philosophia recentior», che dal Medioevo giunge sino alla «philosophiae cartesianae epitome». La descrizione di Capasso è in generale imprecisa, perché accosta senza alcuna distinzione poeti, letterati e filosofi. La stessa classificazione degli autori in periodi o in indirizzi dottrinali è talvolta arbitraria. In particolare, nei primi sette capitoli i pensatori vengono divisi per scuole, in modo diacronico: pitagorici, platonici (tra i quali lo pseudo-Dionigi,Agostino,Ambrogio, Ficino e Pico), cinici, stoici e, infine, nel sesto capitolo, i peripatetici. Questa categoria – che comprende anche personaggi come Poliziano e che, nel settimo capitolo, sarà opposta a quella degli antiperipatetici – non nasce secondo Capasso nel secolo XIII, epoca della riscoperta scolastica di Aristotele, ma affonda le sue radici nell’età altomedievale. Tre infatti sono gli autori che ne caratterizzano il sorgere: Alcuino, Rabano e Giovanni Scoto. Capasso riprende le informazioni su Alcuino già fissate dal Tritemio, e ne sintetizza il senso in un’e29 Cfr. JOHANN FRANZ BUDDEUS, Compendium historiae philosophicae, Halae Saxonum (Hales) 1731, pp. 325-364.

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spressione più diretta ed efficace: Alcuino diviene infatti «homo universalis et secretarius artium liberalium»30. L’intensificarsi della pubblicazione di studi monografici sui singoli autori influisce sulle più generali storie della filosofia: Capasso fa riferimento direttamente all’edizione di Duchesne degli Opera omnia di Alcuino, e ad uno studio, pubblicato nei primi decenni del secolo XVII da John Bale, nel quale Alcuino è presentato come «philosophorum sui temporis antesignanum»31. Capasso dedica particolare attenzione anche agli altri due intellettuali carolingi: Rabano viene descritto come filosofo, retore, astronomo e poeta, «professor» dei dottori scolastici, mentre di Giovanni Scoto, magnificato per la sua erudizione, la Synopsis evidenzia anche «multa catholicae fidei contraria»32. Contemporaneo di Capasso e di Buddeus fu il celebre storico Jacob Brucker, che nel nel 1746 pubblicava una imponente Historia critica philosophiae. Nel terzo tomo, nell’introduzione del capitolo terzo dal quale prende avvio la trattazione della «philosophia scholastica», Brucker definisce «misera» la condizione della speculazione tra i secoli VII e XII33. Brucker dedica diversi paragrafi al mondo carolingio, proponendone una prima vera valutazione storiografica complessiva34. Pur evidenziando i talenti di Alcuino, la sua particolare relazione con Carlo Magno, ed i meriti della sua lotta contro Felice d’Urgel, Brucker non esita a sottolineare come la personalità culturale del «magister Karoli» emerga proprio in relazione all’epoca buia in cui essa si venne a formare e tentò di operare35. 30 Cfr. IOHANNES BAPTISTA (GIOVANBATTISTA) CAPASSO, Historiae philosophiae synopsis, sive de origine, & progressu philosophiae: de vitis, sectis, & systematis omnium philosophorum libri IV Johanni V Lusitaniae regi &c. dicati, IV, 6, Napoli 1735, p. 289. 31 JOHANNES BALEUS (JOHN BALE), Scriptorum illustrium maioris Brytanniae, Gippeswici (Ipswich) 1548, ap. Joannem Overton, p. 110. 32 Cfr. CAPASSO, ibid., p. 290. 33 Cfr. J. BRUCKER, Historia critica philosophiae a mundi incunabilis ad nostram usque aetatem deducta, 5 voll., Leipzig 1742-46 (1766-672), III, 3, 1, p. 675. 34 Cfr. ibid., 2, 13-34, pp. 579-629. 35 Cfr. ibid., 2, 13, pp. 581-582 (in riferimento, fra altri, agli studi di John Bale): «Horum auctoritate (...) Alcuinus audit philosophus et mathematicus nobilis. Sed hoc recte intelligendum et comparate tantum accipiendum, quatenus nempe cum aliis sui saeculi hominibus ignavia et ignorantia sepultis conferre potest, alias nimium dixisse laudatores istos omnino fatendum est. Id enim in literaria et philosophica aevi medii historia universali quadam observatione probe notan-

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Brucker evidenzia dunque i meriti ed i limiti di Alcuino, quasi rammaricandosi che il magister non abbia potuto fare tutto ciò che avrebbe desiderato («impedimentis pressus, fecit non quantum voluit, sed quantum potuit»); per tale motivo, però, è degno di essere menzionato in una storia della filosofia («dignus tamen cuius grata in historia philosophica conservetur memoria»)36. Proprio in relazione alla missione politico-culturale di Alcuino, la trattazione di Brucker non si limita ad illustrarne i meriti, ma dedica ampio spazio anche alla figura di Carlo Magno e, in particolare, allo studio, che la corte promuoveva, delle artes. Il sovrano appare, nelle parole di Brucker, impegnato nello strenuo tentativo di preservare la conoscenza della dialettica, come ultimo baluardo della filosofia: «solum itque trivium et quadrivium cum cursum philosophicum absolveret, dici non potest, quam depressa, non obstantibus Caroli conatibus, philosophia iacuerit»37. Brucker si sofferma dunque a descrivere la cultura delle corti carolingie, dedicando particolare attenzione a Giovanni Scoto. Nel giudizio sul maestro irlandese, Brucker dimostra una capacità storiografica diversa e più profonda rispetto ai suo predecessori. Non solo, infatti, nel parallelismo ivi proposto tra Giovanni Scoto e Spinoza si evidenzia una lettura diacronica e critica dell’evoluzione della storia delle idee, ma la stessa citazione della condanna di Onorio III nei confronti del Periphyseon lascia intravedere una ormai matura coscienza storica38.

dum est, viros doctos, qui tunc eminuerunt, ideo tantum extolli, quamvis mediocri enituerint doctrina, quod inter coecos lusco etiam imperandi occasio fuerit. Non itaque elegantiorum saeculorum viri eruditionis laude commendatissimi cum his viris doctis medii aevi comparandi horumque elogia ex istorum laudibus dimetienda sunt, sed id eruditioni eorum praetium statuendum, quod temporum patitur conditio. (...) Nos medio tutissime ibimus, nec Alcuinum summorum virorum choro, et primae philosophantium classi inseremus, debimus vero hanc meritis eius laudem, quod temporum suorum conditionem, qua rarissima avis erat Graece et Hebraice doctum esse, longe superavit, ingeniumque quod natura acutum habebat et elegans, quantum saeculi sui indoles permittebat, eximie disciplinis omnibus ornaverit, adeoque inter aetatis suae homines litteratos principe loco numerandus sit, quamvis cogitandum esse moneamus, aevo eum barbaro vixisse, eiusque vestigia quam plurima eius eruditione referre». 36 Ibid., p. 583. 37 Ibid., 2, 26, p. 594. 38 Cfr. ibid., 2, 32, p. 622.

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La nuova e più alta considerazione dell’opera dei maestri carolingi e, in particolar modo, di Alcuino nell’ambito della storiografia filosofica del Settecento si accompagna ad un rinnovato interesse per la pubblicazione e la diffusione delle opere. Nel 1725, Jacob Basnage ripubblicava, con il titolo di Thesaurus Monumentorum Ecclesiasticorum et Historicorum le Antiquae Lectiones seu antiqua monumenta ad historiam mediae aetatis illustrandam pubblicate tra il 1601 ed il 1604 da Pietro Canisio39. Tanto l’opera di Canisio quanto la nuova edizione settecentesca si presentano come repertori di testi, e dunque riportano opere teologiche accompagnate da brevi saggi monografici. Diverse sono le opere di autori carolingi; in particolare, nel secondo tomo, l’edizione Basnage presenta una sezione sulla disputa adozionista, che contiene per intero i due libri dell’Adversus Elipandum, l’opera composta da Beato di Libana, accompagnata da una breve introduzione del gesuita Pietro Stewart (Petrus Stewartius) che ne illlustra i contenuti. Basnage, nell’ampliare le Antiquae Lectiones, espresse l’auspicio che qualcuno realizzasse un’edizione completa del corpus di Alcuino. Nel 1757, Froben Forster, noto come Frobenius, abate di Sankt Emmeram a Ratisbona, quasi raccogliendo questo appello, e riprendendo in sostanza il lavoro già avviato da Duchesne, pubblicò una nuova raccolta di opere di Alcuino mostrando quanto ne fosse ormai cristallizzata la rappresentazione come maestro di corte e guida culturale di Carlo Magno. Nelle pagine dell’introduzione l’opera è illustrata da una litografia che raffigura il dedicatario, «Maximilianus Iosephus utriusque Bavariae ac superioris Palatinatus dux».Alle spalle del trono su cui siede il principe elettore, è disegnato un breve albero genealogico che da Carlo Magno giunge sino al destinatario dell’opera Massimiliano.Attorno, i segni del potere condivisi da entrambi: due figure femminili, che tengono per mano Massimiliano, a rappresentare la «sapientia» e l’«eloquentia», una copia del «codex maximilianeus», che ricorda lo sforzo normativo del principe elettore, in ideale continuità con l’operato di Carlo Magno, ed infine un quadro, nel quale Carlo, ormai identificato come «protoparens» di Massimiliano, riceve da 39 Thesaurus monumentorum ecclesiasticorum et historicorum, sive HENRICI CANISII Lectiones Antiquae, ad saeculorum ordinem digestae variisque opuscolis auctae, quibus praefationes historicas, animadversiones criticas, et notas in singulos auctores, adjecit JACOBUS BASNAGE, cum indicibus locupletissimus, 4 voll.,Amsterdam 1725.

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Alcuino, nel quale Frobenius si identifica, un’opera non meglio specificata.Alcuino è descritto con elementi divenuti ormai ordinari: la sua opera è tutta volta «in restaurandis litteris, in revocandis bonis artibus et revehenis omnium disciplinarum generibus». Per aver dunque tentato di tenere acceso il «lumen scientiarum» contro le «ignorantiae tenebrae», ad Alcuino è riconosciuto il merito di aver sollecitato tutta la gerarchia («episcopi et monachi») ad una formazione completa, a coltivare le «scientiae», a creare «scholae», e di essersi impegnato a rispondere a tutti gli interrogativi del re sulle più disparate questioni, in particolare «sulla grammatica, sulla dialettica, sull’astronomia, sulle discipline teologiche, sulle Sacre Scritture e sui riti della Chiesa»40. Il passaggio tra i secoli XVIII e XIX è segnato, nella storia delle storie della filosofia, dall’opera di Wilhelm Gottlieb Tennemann (1761-1819), figlio di un pastore luterano, ed autore di una monumentale Geschichte der Pilosophie, rimasta incompiuta per la morte dell’autore, che consta di undici volumi in dodici tomi articolati nel quadro di una ampia periodizzazione, due dei quali sono dedicati alla filosofia del Medioevo41. Nel settimo, Tennemann affronta lo studio dell’origine della filosofia cristiana, ed in particolare dell’età patristica, conclusa, in Occidente, da Beda, e in Oriente dal Damasceno; l’ottavo volume si occupa esclusivamente della scolastica, periodo compreso tra la speculazione di Giovanni Scoto e quella di Ockham, mentre nel nono Tennemann analizza le cause della fine della cultura scolastica. La Geschichte ha un’impostazione notevolmente vicina alle periodizzazioni tipiche di studi più recenti, a partire dalla scansione tripartita della filosofia in antica, medievale e moderna, e con la scomparsa della sezione, fino a quel momento consueta, dedicata alla filosofia sapienziale (caldea, indiana, etc.). L’età medievale, proprio in virtù di questa suddivisione, assume in modo deciso i contorni di un’epoca di subordinazione della ragione alle esigenze della fede. La speculazione dei Padri rientra con difficoltà nel 40 FROBENIUS [FROBEN FORSTER], Beati Flacci Albini seu Alcuini Opera, 2 voll., Regensburg 1777, I, p. 32: «De Arte Grammatica, de Dialectica, de Astronomia, de Theologicis disciplinis, de Scripturis sacris, deque ritibus Ecclesiae». 41 Cfr. W. G.TENNEMANN, Geschichte der Philosophie, Leipzig 1798-1819. Cfr. anche ID., Grundriß der Geschichte der Philosophie, Leipzig 1812.

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novero delle ‘filosofie’ degne di far parte di una storia delle idee: Tennemann ha infatti già ben chiaro come il patrimonio di conoscenze classiche, derivanti dal mondo pagano, fosse funzionale per gli autori cristiani alla sola difesa della rivelazione, e non ad una pura teoresi criticamente fondata. Egli retrodata dunque l’inizio della scolastica, come già aveva fatto Capasso, ma non risale oltre Giovanni Scoto. Nonostante l’interesse manifestato nel secolo XVIII da diversi studiosi nei confronti dell’età carolingia, si radica in seno alla storiografia ottocentesca la diffusa convinzione che l’età di Carlo Magno e dei suoi successori non abbia alcuno spessore speculativo. È questa l’opinione di Ernst Reinhold (1793-1855), figlio del filosofo Karl Leonhard, che nel suo Handbuch der allgemeinen Geschichte der Philosophie giudica i secoli intercorsi tra la fine dell’età greca e la scolastica come secoli bui, di cieca reiterazione di vecchi modelli culturali e speculativi42; condividono questa impostazione le Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie di Hegel, che non ebbe conoscenza diretta che di poche opere medievali, e fece spesso affidamento sulle notizie di Tennemann e di Brucker, dalla cui periodizzazione in tre età della storia della filosofia trasse l’idea di un Medioevo come età di passaggio, oscura e filosoficamente poco stimolante43. È dunque naturale che proprio nella neoscolastica tedesca posthegeliana siano fioriti i primi tentativi di recuperare il patrimonio culturale e filosofico medievale, pesantemente condannato dall’hegelismo.Tra il 1864 ed il 1866,Albert Stöckl, già nominato da papa Leone XIII membro ordinario dell’Accademia di San Tommaso d’Aquino, pubblicò, in tre volumi, la sua Geschichte der Philosophie des Mittelalters44. Nel primo dei tre tomi, Stöckl, dopo una breve Einleitung, dedica due sezioni all’epoca altomedievale e, in subordine, carolingia: una prima, nella quale tratta di Isidoro, Beda,Alcuino, Fridugiso, Rabano, Pascasio, Godescalco, Incmaro e della predestinazione; una seconda, invece, dedicata al solo Giovanni Scoto. L’esempio di Stöckl, pur si42 E. REINHOLD, Handbuch der allgemeinen Geschichte der Philosophie für alle wissenschaftlich Gebildete, 2 voll., Gotha 1793-1830. 43 G.W. F. HEGEL, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, 2/2, Scholastische Philosophie, in ID., Werke, 20 voll., XIX, Frankfurt a. Main 1979. 44 A. STÖCKL, Geschichte der Philosophie des Mittelalters, 3 voll., Mainz 18641866.

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gnificativo, non muta il più generale indirizzo della storiografia filosofica del XIX secolo. Negli stessi anni in cui veniva pubblicata la sua Geschichte, infatti, Jean-Barthélemy Hauréau dava alle stampe, a Parigi, l’Histoire de la philosophie scolastique, confermando, nella sezione dedicata alla teologia carolingia, l’avvenuta stabilizzazione di un canone interpretativo. Alcuino e gli intellettuali che avevano collaborato con Carlo sono descritti come grandi eruditi, rispetto alla cui reiterazione della tradizione patristica risaltano poi soprattutto le competenze e i talenti speculativi di Giovanni Scoto45. Questa veloce ricognizione di alcune tra le più significative tappe dell’evoluzione del giudizio storiografico sul Medioevo e, in particolare, sull’età carolingia mostra, pur nella sua inevitabile incompletezza, l’alternarsi di due interpretazioni distinte di un medesimo dato storico. Alcuino, e con lui i suoi collaboratori e gli intellettuali che ne seguirono il magistero, si impegnarono con decisione a perfezionare le loro competenze filosofiche e la loro complessiva erudizione nell’intento di porle al servizio del progetto politico carolingio. In virtù di tale incontestabile evidenza, già Petrarca, alla metà del secolo XIV, definiva Alcuino «praeceptor» di Carlo, trasmettendo alla cultura moderna un’immagine divenuta iconica. Ciò che muta, nell’opinione dei diversi interpreti che nel corso dei secoli hanno affrontato lo studio dell’età carolingia, è dunque il parametro in virtù del quale giudicare l’indiscutibile vocazione di Alcuino e di buona parte della cultura carolingia a collaborare con Carlo Magno e con i suoi eredi. In taluni casi, infatti, la storiografia filosofica ha ritenuto utile, ai fini dell’evoluzione della speculazione medievale, il contributo di preservazione del sapere patristico operato dai carolingi; in altri, pur riconoscendo questi meriti, ha evidenziato l’incapacità, dei teologi carolingi, di produrre qualcosa di più originale e significativo. In entrambi i casi, l’interpretazione storiografica appare condizionata da una valutazione pregiudiziale. La storia della filosofia si produce descrivendo la successione cronologica dei diversi autori, e giustificando i nessi di dipendenza o gli elementi di innovazione di ciascuno di essi rispetto alla 45

Cfr. B. HAURÉAU, Histoire de la philosophie scolastique, Paris 1872, pp. 1-28.

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tradizione che li precede ed alla cultura che li segue, per giungere ad un quadro d’insieme complessivo, che permetta la creazione di categorie interpretative valide anche al di là della semplice descrizione storica. Lo studio del Medioevo filosofico, e in particolare del pensiero prodottosi nei primi secoli altomedievali, ha però spesso subito un trattamento inverso, che potremmo definire rigidamente «comparativistico»: stabilita la validità di talune categorie esegetiche, elaborate a partire dallo studio delle opere di pensatori di altre età, diversi per formazione, strumentazione e finalità, esse sono state pregiudizialmente applicate, senza sottoporle ad alcun adattamento critico, ai prodotti di un’epoca alle quali erano completamente estranee. È dunque evidente come una corretta analisi del metodo di pensiero carolingio, per non essere ulteriormente forzata dall’applicazione di schemi interpretativi ad essa non funzionali, non possa assumere, come petizione di principio, il presupposto che vada riconosciuto effettivo valore storiografico soltanto al reperimento di una speculazione originale prodottasi in quest’epoca, sia pure in dipendenza da fonti del passato, cercandone una impossibile presenza operante nei testi a noi pervenuti. Il procedimento di indagine risulterà sicuramente più fecondo operando una inversione sistematica di tali orientamenti di giudizio e delle valutazioni che ne conseguono. Non dovranno essere ricercate nelle opere interessanti sotto la prospettiva filosofico-teologica di età carolingia presenze di apporti dottrinali che non avrebbero potuto rispondere alle effettive finalità che ispiravano gli autori nel comporle. Solo in questo modo lo storico del pensiero carolingio potrà sentirsi libero di descriverlo, apprezzandone gli elementi condizionanti che lo hanno effettivamente fatto nascere e le finalità che ne hanno orientato lo sviluppo, con una omogenea verifica dei testi prodotti tra gli inizi del regno di Carlo Magno e la conclusione di quello di suo nipote Carlo il Calvo. Per riuscire in questo intento sarà dunque opportuno impegnarsi nel descrivere con la documentazione più completa e corretta possibile la lenta evoluzione delle dottrine e della produzione teologica di quel determinato contesto. L’intento sarà di far emergere senza orientamenti preconcetti, esclusivamente dalla lettura delle opere ed esprimendo valutazioni la cui compiutezza sarà evidente solo alla fine del percorso, la presenza di un autentico ed operante pensiero filosofico in questi decenni:

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che sia sistematico oppure no, che tragga efficacia dagli strumenti e dalle coordinate storiche in cui si è generato, e possa quindi essere accolto quale documento di una vera identità culturale e – per le specifiche condizioni in cui essa si è evoluta, che non sono state necessariamente limitanti – di una identità efficacemente teologica.

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CAPITOLO SECONDO

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L’intreccio di personaggi, documenti e dottrine venutosi a creare tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo nel regno di Carlo Magno e nei territori prossimi ai suoi domini costituisce un fitto insieme che impone, nel tentativo di offrire un racconto comprensibile, alcune forzature narrative. L’insieme multiforme di stili, finalità e modelli letterari utilizzati dai teologi carolingi suggerisce infatti di non seguire esclusivamente la successione cronologica degli avvenimenti, ma di valutare anche le diverse relazioni esistenti tra la corte carolingia, quella papale, la sede imperiale di Bisanzio, e gli intellettuali che vivevano nei territori direttamente dominati o semplicemente controllati dal potere carolingio. L’età in esame è compresa tra due estremi che non pretendono di isolare un periodo realmente distinto dagli altri, ma che risultano efficaci per facilitare la narrazione. Si terrà dunque in considerazione il secolo che intercorre tra la pubblicazione dei primi scritti adozionisti nella Spagna mozarabica (780 ca.) e la morte di Carlo il Calvo (877), nipote di Carlo Magno, ossia l’epoca che appare complessivamente dominata dalle due grandi figure di Alcuino prima e Rabano Mauro poi1. 1 Cfr. M. C. FERRARI, Il ‘Liber sanctae crucis’ di Rabano Mauro.Testo – immagine – contesto, Bern - Berlin - Frankfurt a. Main - New York - Paris - Wien 1999, p. 11; nella Intercessio Albini pro Mauro, posta dall’autore stesso come introduzione al proprio Liber, è evidente il passaggio di consegne tra discepolo e maestro; cfr. HRABANUS MAURUS, In honorem sanctae crucis,A2, PL 107, 137A, ed. M. Perrin,Turnhout 1997 (CCCM, 100), p. 5,5-14: «Hunc puerum docui divini famine verbi / ethicae monitis et sophiae studiis. / Ipse quidem Francus genere est, atque incola silvae /

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1. La disputa adozionista 1.1. Origini e fasi della disputa: Migezio, Elipando e Felice Come conseguenza dell’isolamento derivato dalla conquista araba del 711, la Chiesa iberica aveva accentuato quei caratteri di indipendenza che già nei secoli precedenti avevano causato un netto allontanamento dalla sede papale. In particolare, l’arcivescovato di Toledo aveva acquisito il ruolo di guida spirituale e punto di riferimento della gerarchia della penisola, ormai divisa dal potere di Roma anche nella pratica liturgica2.Tale concreta autonomia,uniBochoniae, huc missus discere verba Dei. / Abbas namque suus, Fuldensis rector ovilis,/ illum huc direxit ad tua tecta,pater,/ quo mecum legeret metri scolasticus artem, / scripturam et sacram rite pararet ovans. / Ast ubi sex lustra inplevit, iam scribere temptans. / Ad Chirsti laudem hunc edidit arte librum». 2 Per il ruolo rivestito da Toledo nell’ambito della Chiesa iberica, cfr. J. F. O’CALLAGHAN, A History of Medieval Spain, Ithaca 1975, p. 51; H. FUHRMANN, Studien zur Geschichte mittelalterlicher Patriarchate, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung fur Rechtsgeschichte», 70 (1953), pp. 143-147. Questa centralità politica, unita al carisma spirituale ormai acquisito, nell’ambito della Chiesa spagnola, dalla diocesi toletana, la resero il teatro naturale dei due eventi di politica ecclesiale più significativi della Spagna barbarica: l’unzione di un re barbaro, e, prima ancora, la conversione al cristianesimo romano dei re visigoti; su questa problematica cfr. P. BREZZI, La civiltà del Medioevo europeo, 4 voll., Città di Castello 1978, I, pp. 146 e seqq. Salito al trono nella primavera del 586, succedendo a Leovigildo, re Recaredo si fece infatti promotore del terzo concilio di Toledo, che aprì i suoi lavori l’8 maggio 589, al fine di condannare l’arianesimo, con l’approvazione di un symbolum alla cui elaborazione aveva contribuito probabilmente lo stesso re, appena convertitosi; cfr. H. DENZINGER, Enchiridion Symbolorum, Roma 1876, p. 42A e Historia de España, dir.A. D. Ortiz, Madrid 1989, vol. I, La España romana y visigoda, sec. III-VII, cur.A. B. de Aguilera - J. L. Garcia, pp. 441 e seqq. La strada segnata da Recaredo fu perseguita con decisione dai suoi eredi. Nel 672, l’unzione toletana di Vamba avveniva in concomitanza con le prime incursioni arabe sulle coste spagnole ed assunse, per questo motivo, un ancor più alto valore simbolico. L’investitura episcopale suscitò infatti i timori della nobiltà gota, spaventata dall’accresciuto potere vescovile, che nel gesto del re sembrava aver trovato legittimazione. In particolare, uno degli eredi di Vamba,Vitizia, salito al trono nel 703, dovette combattere l’alleanza segreta tra gli arabi conquistatori ed i ribelli interni. Intervenendo nel 708 in aiuto di Giuliano, conte bizantino, che stava difendendo l’ultimo baluardo greco in Africa, Ceuta,Vitizia trovò la morte in battaglia, lasciando il trono in mano al figlio, il cui diritto di successione fu violentemente contestato dalla nobiltà iberica. Giuliano, senza più un appoggio ufficiale nella penisola, non trovò altra soluzione per salvare Ceuta che indirizzare verso la Spagna le truppe arabe che la assediavano. Nell’aprile del 711, 7000 uomini partirono al comando di Tarik b’ Ziyad per conquistare, nell’arco di un lustro, tutta la penisola iberica, costituendo «al-Andalus», proclamata, ancora a Toledo, provincia dell’impero arabo, dipendente dal califfato di Damasco, e con capitale Cordova (719). Rimase fuori dal dominio arabo la sola zona atlantica a

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tamente ai timori per le deviazioni che la cultura mozarabica poteva provocare rispetto all’ortodossia, convinsero papa Adriano I ad affidare ad un legato, Egila, una particolare missione diplomatica. Segnalato per la sua rettitudine dall’arcivescovo Wilcario, Egila ricevette nel 779 l’incarico di imporre alla Chiesa iberica l’osservanza di alcune decisioni conciliari3. Nello svolgere il suo compito, il missus papale venne a conoscenza della predicazione di un certo magister Migetius, uno sconosciuto difensore di un deciso sentimento filopapale, avverso dunque all’autonomia conquistata dalla Chiesa iberica. Fu probabilmente questa circostanza ad alimentare impreviste simpatie per Migezio nello stesso Egila,inviato proprio a contrastare i sentimenti autonomistici manifestatisi nei territori mozarabici. La fedeltà alla Chiesa di Roma ed al suo pontefice dichiarata da Migezio non fu sufficiente a nascondere invece la profonda eterodossia della sua dottrina trinitaria,che sembrava voler identificare Davide con il Padre,san Paolo con lo Spirito Santo, e riduceva la figura di Gesù Cristo ad una dimensione esclusivamente terrena. Papa Adriano I disconobbe pubblicamente la missione e la conversione di Egila, indicando al contempo, in un’epistola indirizzata ai vescovi iberici, il sorgere in quella penisola di un’altra dottrina eretica, difesa da «Elipandus et Ascaricus», che riprendendo tesi apparentemente nestoriane attribuivano a Cristo

nord-ovest della penisola, le Asturie; cfr. R. DOZY, Historia de los musulmanes de España, Leiden 1931; E. GÒMEZ MORENO, Iglesias mozàrabes: arte español de los siglos IX a XI, Madrid 1919; A. GONZÁLEZ PALENCIA, Historia de la España musulmana, Barcelona 1945. Il calo improvviso di comunicazioni tra i pontefici ed i più alti rappresentanti della gerarchia ecclesiastica della penisola, verificatosi in questi decenni, aveva motivazioni in special modo politiche, anche se i personaggi coinvolti spesso dissimulavano, sotto forme diplomaticamente eleganti, i reali motivi dell’avvenuto allontanamento. Se ad esempio papa Gregorio Magno, in una lettera a re Recaredo, si lamentava di aver cercato invano qualcuno da inviare con una sua missiva in Spagna, dal versante iberico il vescovo di Saragozza Braulio, scrivendo a papa Onorio I, si soffermava a disquisire delle Chiese di Roma e di Spagna, rammaricandosi che la distanza, via terra come via mare, fosse tale da rendere impossibili relazioni stabili, anche solo epistolari; cfr. P. JAFFÈ, Regesta Pontificum Romanorum ab condita ecclesia ad annum post Christum natum 1198, Leipzig 1888, I, p. 199. Come osserva con ironica precisione E. MAGNIG, L'église wisigothique au VIIe siècle, Paris 1912, p. 4: «Un voyage d’Italie en Grande-Bretagne n’étaitil pas plus difficulteux encore qu’une traversée d’Ostie à Carthagène?». 3 Cfr. HADRIANUS I PAPA, Epistola, in Codex Carolinus, 96, ed.W. Gundlach, in MGH, Epistolae, 3 (Epistolae Merowingici et Karolini aevi, 1), Berlin 1957, pp. 469657, p. 646.

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una natura soltanto umana ma congiunta al Padre da una figliolanza adottiva4. Pur menzionando nella stessa lettera tanto le tesi migeziane quanto la presunta eresia di Elipando,Adriano I non indicava tra le due posizioni un collegamento speculativo, né tantomeno nessi di dipendenza. È invece molto probabile che il vescovo di Toledo avesse deciso di formulare le proprie teorie adozioniste appunto per contrastare la predicazione migeziana, che non solo indeboliva il potere e l’indipendenza della Chiesa iberica, sottomettendola completamente all’autorità papale, ma diffondeva una dottrina trinitaria fortemente eterodossa. Non si posseggono testi di Elipando che evidenzino una derivazione diretta delle dottrine adozioniste, da lui successivamente perfezionate, dall’intento di combattere la dottrina di Migezio. È però opinione concorde dei critici che l’esito adozionista rappresentasse per il vescovo toletano il tentativo di fugare ogni dubbio sulla superiorità del Verbo, nella perfezione della sua eterna divinità, rispetto alla sua congiunzione con la natura umana quale esito dell’incarnazione5. Se secondo l’umanità [Cristo] è figlio di Davide, senza dubbio si crede che sia figlio adottivo e servo del Dio Padre, e figlio adottivo e servo dello stesso Figlio e dello Spirito Santo per ciò che concerne la sua umanità. Lo chiamiamo adottivo soltanto nella forma della umana servitù, non nella gloria o nella sostanza della divina natura6.

Convocato un concilio, i cui atti sono andati perduti, Elipando ribadì l’ortodossia trinitaria della Chiesa iberica, rigettando le te4

Cfr. ID., Epistola, in Codex Carolinus, 97, ed. Gundlach cit., p. 648. Cfr. R. DE ABADOL Y DE VYNYALS, La battalia del adopcionismo, Madrid 1980, p. 63: «Las absurdas afirmaciones de Migecio (…) obligaron Elipando en el Concilio de Sevilla, para dejar bien sentada la doctrina ortodoxa, a fijar bien la filiación eterna del Logos y la distinctión entre la generación del Verbo y la Encarnación del Cristo»; J. C. CAVADINI, The Last Christology of the West:Adoptionism in Spain and Gaul, 785-820, Philadelphia 1993, p. 22 (in riferimento ad un passo adozionista delle lettere di Elipando): «If it is in fact true that this early adoptionist fragment is a reply to Migetius, this would mean that Elipandus adoptionism begins as a defense of a one-person christology». 6 ELIPANDUS TOLETANUS, Epistola ad Albinum, in ID., Epistolae, 4, PL 96, [870881], 874B: «Si secundum humanitatem filius est David, sine dubio adoptivus et servus Dei Patris, et ipsius Filii et Spiritus Sancti adoptivus secundum humanitate, et servus esse creditur. Adoptivum dicimus in sola forma servitutis humanae, non in gloria vel substantia divinae naturae». 5

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si migeziane con un documento di probabile ispirazione adozionista. Si ha notizia di questa iniziativa perché Elipando si preoccupò successivamente di dare ufficialità alla sua azione antiereticale, diffondendo tra le diocesi iberiche i capitula conciliari e, come testimoniato dal suo scarno epistolario, ricevette da più parti elogi ed incoraggiamenti a perseverare sulla via adozionista7. Unico oppositore di cui è rimasta notizia fu Beato, monaco presso il cenobio asturiano di Libana, nel cuore dei territori iberici estranei alla contaminazione mozarabica. Beato indirizzò ad Elipando una lettera, oggi perduta, nella quale si rivolgeva al metropolita di Toledo in qualità di portavoce ufficioso della Chiesa asturiana che non accettava la dottrina adozionista. Elipando, probabilmente per dimostrare la fragilità del presunto fronte di cui Beato si dichiarava rappresentante, scrisse a Fedele, abate anch’egli nelle Asturie, sottoponendo al suo giudizio l’«haeresis beatiana», ed allegando alla documentazione una lettera di elogi ricevuta dal vescovo Ascarico, già menzionato come eretico da papa Adriano I. Beato fu dunque costretto a comporre un’opera più voluminosa, nella quale replicava alle critiche ricevute, il Liber Adversus Elipandum. Dinanzi a tale opposizione, Elipando tentò di contattare altre personalità ecclesiastiche, per potersi garantire maggior sostegno8.Tra esse, un ruolo particolare rivestì Felice, vescovo di Urgel, il quale, appunto perché sollecitato da Elipando, compose un’opera in difesa delle tesi adozioniste9. Il coinvolgimento di Felice e del suo vescovato trasformò la disputa, che d’improvviso fu sottoposta all’attenzione critica dei teologi carolingi, determinando il loro diretto coinvolgimento. Di ritorno dalla campagna contro i Bavari, Carlo Magno trascor7

Cfr. ibid., 875B e seqq. Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS (in seguito: ALCUINUS), Epistolae, in ID., Epistolae, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 4 (Karolini aevi, 2), Hannover 1895, 5 e 23, pp. 30 e 60. Gli epistolari carolingi saranno sempre citati, quando disponibili, dalle edizioni dei Monumenta, senza riferimento alle coll. della PL in ragione dell’incongruenza tra i testi e, spesso, tra le stesse numerazioni delle raccolte. 9 Il rapporto tra Elipando e Felice fu certamente di mutuo scambio: l’alleanza con Felice offerse ad Elipando la possibilità di diffondere le proprie dottrine in una zona della penisola iberica non pienamente mozarabica; la battaglia di Elipando, di converso, apparve probabilmente a Felice l’occasione per agganciare la sua diocesi urgellitana al potere vescovile iberico, negli anni in cui Carlo Magno cercava di assorbirla nei domini carolingi. Cfr. CAVADINI, The Last Christology of the West cit. (alla nota 5), p. 71, nota 5. 8

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se il Natale del 791 presso Ratisbona, ove venne a conoscenza delle idee adozioniste nate in terra toletana, e diffusesi poi anche nel nord della penisola iberica, nei territori che in quegli anni erano al centro delle sue mire espansionistiche10.Venne dunque convocato un concilio per l’estate del 792. In quella sede, alla presenza del sovrano, Felice dovette abiurare, e dare alle fiamme dinanzi a Paolino d’Aquileia e Benedetto d’Aniane i suoi testi e quelli di Elipando. Il vescovo di Urgel, subito dopo, fu condotto a Roma, a disposizione del papa Adriano I, dal quale fu convinto a scrivere un’opera definitivamente ortodossa. La disputa aveva ormai superato i confini iberici, coinvolgendo, in pochi mesi, Carlo Magno, i suoi migliori intellettuali ed il pontefice romano. Lo stesso Elipando ritenne dunque opportuno rivolgersi, per ottenere giustizia, direttamente al sovrano11. Nella missiva indirizzata a Carlo, il vescovo di Toledo indicava i rischi della nascente eresia di Beato, chiedendogli di porsi come arbitro della disputa. In un successivo concilio organizzato a Francoforte nel 794, vescovi tedeschi, francesi, italiani e legati pontifici produssero due epistolae, indirizzate ai vescovi di Spagna ed ad Elipando, ed un Liber sacrosyllabus, composto da Paolino d’Aquileia, nel quale vennero descritte le actiones del concilio12. 10 Negli anni in cui Elipando scriveva contro Migezio dal cuore dei territori mozarabici, Carlo Magno progettava infatti, al di là dei Pirenei, la reconquista alla cristianità delle terre iberiche. Deciso a fare sua tutta la Spagna o, quantomeno, la parte settentrionale più prossima all’Aquitania, il futuro imperatore organizzò nel 778 una campagna di riconquista, che terminò, come narrano leggenda e letteratura, nelle gole pirenaiche, con un assalto delle tribù indipendentiste basche; cfr. A. BARBERO, Carlo Magno, un padre per l’Europa, Roma - Bari 2000, pp. 62 e seqq. Carlo si rese dunque conto di dover programmare meglio il suo attacco agli arabi di Spagna; cominciò a costituire un regno autonomo di Aquitania, che affidò al figlio Ludovico, il futuro Pius, nel 781, quando egli aveva appena tre anni. Pacificate con questa iniziativa le popolazioni aquitane, desiderose di un riconoscimento almeno formale della loro indipendenza, Carlo pose le premesse per un attacco, che divenne improrogabile nel 797, dopo le continue scorrerie degli arabi in territorio franco. Nell’arco dei 13 anni che vanno dal 797 all’810, Ludovico il Pio conquistò Lerida, Barcellona, e, nell’810, ottenne che l’emiro di Cordova (dominus della provincia di Spagna) riconoscesse l’influenza franca su tutte le zone spagnole a nord del fiume Ebro, costituendo dunque quella Marca Hispanica che sarebbe diventata la futura Catalogna. 11 Cfr. ELIPANDUS TOLETANUS, Epistola ad Carolum Regem, in ID., Epistolae, 3, 868A-870A. 12 Cfr. PAULINUS AQUILEIENSIS, Liber sacrosyllabus contra Elipandum, PL 99, 151166.

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Conclusa la vicenda conciliare con una condanna definitiva delle tesi adozioniste, la corte carolingia ed il suo più illustre magister,Alcuino di York, tentarono inutilmente di riannodare i rapporti con Elipando e Felice13. Alle lettere concilianti di Alcuino, Felice infatti rispose con un libellus dai toni non amichevoli14. Nei mesi in cui Paolino d’Aquileia componeva un corposo Contra Felicem Urgellitanum per ribadire la condanna di Francoforte,Alcuino chiese ed ottenne un incontro ad Aquisgrana con Felice, per prepararsi al quale compose i sette libri del suo Contra Felicem Urgellitanum15; nel corso del dibattito, Felice abiurò nuovamente le proprie tesi con una Confessio fidei, e fu condannato al carcere a vita, da scontare a Lione, presso Leidrado16. Anche con Elipando Alcuino tentò una strategia conciliante; questi, però, venuto a conoscenza di quanto accaduto a Felice ad Aquisgrana, scrisse ad Alcuino con toni veementi, ribadendo l’indipendenza della Chiesa iberica17. La confutazione da parte di Alcuino della lettera di Elipando, l’Adversus Elipandum, chiuse i rapporti ufficiali tra la corte carolingia e gli adozionisti18. Lo stesso Alcuino avrebbe poi ribadito, negli ultimi anni della sua vita, nel De fide sanctae et individuae Trinitatis, le tesi difese contro Elipando e Felice19. Un 13 Cfr. ALCUINUS, Epistolae ad Felicem Urgellitanum e ad Elipandum Toletanum, in ID., Epistolae, 23 e 166, ed. Dümmler cit., pp. 60 e 268; e ID., Liber contra haeresin Felicis, PL 101, 87-120, ed. G. B. Blumenshine, Città del Vaticano 1980 (Studi e Testi, 285). 14 Oltre a ribadire la sua convinzione adozionista, il vescovo di Urgel specificava come Cristo potesse dirsi Dio solo «nuncupative»; venuto a conoscenza di questa recrudescenza del suo errore, papa Leone III indisse un concilio a Roma per ribadire la condanna dell’adozionismo; cfr. Concilium romanum, ed. A. Werminghoff, in MGH, Concilia, 2/1 (Karolini aevi, 1), Hannover - Leipzig 1906, pp. 203-227. 15 PAULINUS AQUILEIENSIS,Contra Felicem Urgellitanum episcopum libri tres,PL 99, 343-468, ed. D. Norberg,Turnhout 1990 (CCCM, 95). Per la richiesta di Alcuino di confutare de visu Felice,cfr.ALCUINUS,Epistola ad Arnonem Archiepiscopum,in ID., Epistolae, 194, p. 321, in cui chiede l’intercessione di Leidrado e Benedetto d’Aniane, autore di un trattato contro Felice, Disputatio Benedicti levitae adversus Felicianam impietatem, PL 103, 1399-1411. L’opera composta per l’occasione fu ALCUINUS, Contra Felicem Urgellitanum episcopum libri septem, PL 101, 119-230. 16 Cfr. ALCUINUS, Epistolae ad Arnonem Archiepiscopum, in ID., Epistolae, 193 e 207, pp. 319 e 343; FELIX URGELLITANUS, Confessio fidei, PL 96, 882-887; ALCUINUS, Epistola ad Arnonem Archiepiscopum, in Epistolae, 208, p. 345. 17 Cfr. ALCUINUS, Epistola, in ID., Epistolae, 182, p. 300. 18 Cfr. ID., Adversus Elipandum Toletanum libri quatuor, PL 101, 243-304. 19 Cfr. ID., De fide sanctae et individuae Trinitatis, PL 101, 9-62.

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ventennio più tardi (818) Agobardo, successore di Leidrado a Lione, compose un Adversus dogma Felicis, nel timore che le teorie feliciane potessero nuovamente attecchire, nonostante il vescovo di Urgel fosse già morto da tempo20. 1.2. La dottrina di Elipando Nella fase iniziale della disputa, nella quale Elipando confuta le tesi di Migezio e viene a sua volta contestato da Beato di Libana, non si evidenzia ancora alcun rapporto, come si è detto, tra l’adozionismo ed i teologi di area franca. Solo dopo il concilio di Francoforte Alcuino cominciò a scrivere contro Elipando e Felice, senza considerare, se non marginalmente, l’Adversus Elipandum di Beato, e praticamente ignorando l’esistenza di Migezio. Non è dunque un caso che nessuna opera di Migezio sia oggi conservata e che per avere una adeguata comprensione delle sue tesi occorra ricostruirne il senso attraverso le lettere che Elipando compose per confutarne la dottrina. Il vescovo di Toledo, intuendo nella predicazione di Migezio una radice di ribellione che incrinava la sua autorità politica e dottrinale, si impegnò a mostrare l’infondatezza della dottrina trinitaria del suo avversario, ribadendo al contempo l’indipendenza dell’episcopato toletano tanto rispetto alla gerarchia iberica quanto rispetto al pontefice romano21. La critica moderna si è a lungo interrogata sull’appartenenza di Migezio e della sua dottrina ad una delle grandi aree ereticali altomedievali. I diversi tentativi in questo senso, pur fondati di volta in volta su valide argomentazioni, non sono mai apparsi conclusivi22. Nell’ambito di una ricerca sul ruolo che ebbe la vicenda adozionista per la nascita e la formazione dell’identità teologica carolingia, l’appartenenza o l’estraneità, reali o ideali, di Migezio ad una determinata setta ereticale appare una questione sostanzialmente marginale. È invece utile comprendere i tratti della personalità filosofica di Elipando quali emergono dallo scontro con Migezio, per meglio interpretare la successiva reazione alcuiniana. 20 Cfr. AGOBARDUS LUGDUNENSIS, Liber adversus dogma Felicis (ad Ludovicum), in Agobardi Lugdunensis Opera omnia, ed. L.Van Acker,Turnhout 1981 (CCCM, 52), pp. 71-111. 21 Cfr. CAVADINI, The Last Christology of the West cit. (alla nota 5), pp. 10-12. 22 Cfr. ibid., p. 16.

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Migezio aveva identificato la seconda persona della Trinità con la sua incarnazione terrena, considerata cioè nella sua semplice storicità; era dunque necessario riaffermare con forza che essa, invece, è «genita» consustanzialmente, fuori dal tempo, a prescindere dalla sua incarnazione23. Elipando non ebbe difficoltà a individuare e sottoporre all’avversario numerosi passi dalle Scritture e dalle opere dei Padri che evidenziavano l’assurdità dell’identificazione delle tre persone della Trinità con «tres personae corporeae»24. La stessa portata dell’eresia migeziana veniva così ricondotta ad una banale ignoranza dei testi sacri, delle autorità patristiche e, infine, della dottrina ufficialmente stabilita dai concili25. Nell’occasione, Elipando sottolinea con forza la gerarchica scansione di gravità che caratterizza l’ignoranza nei confronti di ciascuna di queste tre sorgenti di auctoritas. La Scrittura ed i Padri traggono la loro autorevolezza rispettivamente dall’ispirazione divina e dalla tradizione che nel corso dei secoli ne ha assicurato la solidità. Il senso e la validità delle decisioni maturate nei concili sono invece elementi sottoposti ai rischi delle debolezze degli uomini che, se anche rivestono cariche importanti, non per 23 Cfr. ELIPANDUS TOLETANUS, Epistolae ad Migetium, in ID., Epistolae, 1, 863C: «Personam vero Filii non eam esse quam tui asseris Patri et Spiritui sancto aequalem esse, quae facta est ex semine David secundum carnem in novissimo tempore; sed eam quae genita est a Deo Patre, sine initio temporis, quae ante assumptionem carnis dixit per Prophetam». 24 I passi biblici citati da Migezio a fondamento della identificazione di Davide con il Padre sono «Eructavit cor meum verbum bonum» (Ps 44, 2) e «Non derelinques animam meam in inferno neque dabis Sanctum tuum videri corruptionem» (Ps 15, 10). I passi invece citati da Elipando contro questa tesi sono «In iniquitatibus conceptus sum, et in peccatis peperit me mater mea» (Ps 50, 7), e «Iniquitatem meam ego agnosco et peccatum meum ante faciem meam est semper¸ ego sum qui peccavi, ego inique egi» (2Sm 24, 17). L’eresia trinitaria di Migezio ha condotto taluni a sottolineare eccessivamente il rapporto tra la sua dottrina e l’ambiente giudeo-arabo della Spagna tra i secoli VIII e IX, descrivendo la stravagante idea migeziana come una spia della difficoltà incontrata dai cristiani iberici nel contrapporre al monoteismo non trinitario di arabi ed ebrei, un trinitarismo spiritualmente puro. Cfr. J. F. RIVERA RECIO, El adopcionismo en España (sec. VIII). Historia y doctrina, Madrid 1980, pp. 21-22; e anche D. MILLET-GERARD, Chrétiens mozarabes et culture islamique dans l’Espagne des VIIIe-IXe siècles, Paris 1984. 25 Forzando la lettura di alcuni passi delle lettere di Elipando a Migezio, è possibile individuare anche un legame dell’eretico con non meglio identificati infideles, che potrebbero essere i musulmani mozarabi. Cfr. CAVADINI, The Last Christology of the West, cit. (alla nota 5), p. 11; ELIPANDUS TOLETANUS, Epistola ad Migetium, in ID., Epistolae, 1, 863D: «Quod concilium fuit ut ita discretiones personarum, ut tu distinguis, sanctae Ecclesiae catholicae tenendum instituit?».

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questo sono immuni dai difetti comuni a tutto il genere umano. Rispetto all’evidente infondatezza delle tesi teologiche di Migezio, ad Elipando appariva dunque ben più delicata la questione politica: il potere della Chiesa toletana e l’energia che il suo metropolita dimostrava, potevano infatti risultare sgradite a chi desiderava sottrarre la Chiesa iberica al controllo centrale da parte della sua sede episcopale più prestigiosa, e chiedeva si tenessero in maggior considerazione tanto le dottrine stabilite dalla collegialità dei concili, quanto l’autorità del pontefice romano. La pericolosità di Migezio, che emerge dalle lettere elipandiane con grande chiarezza, non consisteva dunque tanto nell’immanentismo della Trinità che egli predicava, e che era facilmente contestabile con un breve florilegio scritturale, quanto più nell’incapacità di comprendere che, se pur ministri di Dio, vescovi e papi non sono altro che uomini fallibili. Pur mantenendo un’altissima considerazione delle decisioni ufficiali della Chiesa ecumenicamente riunita, Elipando insomma non dimentica mai che questa unità, politica prima che spirituale, è costituita da uomini di carne oltre che di spirito, e che dunque anche al suo interno possono manifestarsi comportamenti non degni dei primi servi di Dio. All’eretico che vorrebbe dichiararsi «a peccato alienus», Elipando dunque risponde che la stessa gerarchia episcopale, nella quale dovrebbe incarnarsi per dignità e integrità il vertice della comunità religiosa, non di rado si mostra debole, e cade in errore: Anche noi, che sembriamo tenere nel servizio ecclesiastico il vertice del prestigio, e che siamo glorificati dalla sacralità delle nostre sedi, anche noi, dico, primi tra i sacerdoti, maestri e dottori delle genti, siamo accerchiati da varie schiere d’errori, e spesso cadiamo nel peccato26.

L’«universalis ecclesia», nella concezione di Elipando, non è costituita da gerarchie e poteri ma dai soli uomini di fede, e non ha un luogo geopolitico determinato; non si identifica con le cariche ecclesiastiche, nemmeno rappresentate al loro massimo grado: contro Migezio che avrebbe affermato esserci solo a Roma la po26 Ibid., 865B: «Nos quoque ipsi, qui in Ecclesiarum munere tenere videmur apicem dignitatis, et sacris sedibus illustramur: nos, inquam, ipsi principes sacerdotum, et magistri populorum, atque doctores, variis errorum circumdamur agminibus, vitiis frequenter subdimur».

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tenza di Dio, perché lì risiede Cristo27, Elipando si spinge sino a dichiarare che proprio la Chiesa di Roma non può identificarsi con quella «ecclesia catholica» che per essere tale deve essere incorrotta («absque macula et ruga»)28: come potrebbe essere infatti pura la Chiesa romana che è stata presieduta da pontefici condannati per eresia e dove, come indica il «beatus Gregorius», hanno regnato «tot scelerati homines»?29 Elipando prospetta dunque al suo avversario l’esistenza di due regni sotto il dominio di Dio. Da un lato, il regno dal quale gli angeli elimineranno un giorno gli «scandala»30. È questa la Chiesa che vive nel mondo e che, così come l’arca di Noè era abitata da uomini ed animali, è formata di uomini malvagi e di veri credenti. Dall’altro, invece, la città di Dio, il regno libero dal peccato e dal vizio. Da un lato, il mondo malvagio e nemico della fede, nel quale Elipando non esita a condannare pontefici eretici e vescovi ignoranti; dall’altro, il regno di Dio, l’eterna Gerusalemme celeste ove domina la «iustitia Dei»31. 1.3. Beato contro Elipando La disputa tra Migezio ed Elipando non ebbe vera dignità teologica. La tesi trinitaria migeziana apparve al vescovo di Toledo tanto assurda da non meritare alcuna vera contro-argomentazione, che non fosse l’enumerazione dei passi scritturali e delle opere dei Padri che respingevano ogni immanentismo della Trinità. Dai documenti rimasti dello scambio epistolare tra Elipando e Migezio, del resto, non si desume ancora nessun tratto adozionista nelle tesi del vescovo di Toledo che, piuttosto, esibisce con orgoglio la propria energia intellettuale e preparazione patristica e scritturale, e proclama la coscienza della centralità politica e morale che il suo ruolo gli conferisce, anche rispetto alla restante gerarchia 27

Cfr. ibid., 866B: «In sola Roma sit potestas Dei, in qua Christus habitat». Cfr. Eph 5, 27. 29 Cfr. ELIPANDUS TOLETANUS, ibid., 867C. 30 Cfr. Mt 13, 41. 31 Per il tema della «praesens ecclesia», cfr. HILARIUS PICTAVIENSIS, Sermo de dedicatione ecclesiae, PL 10, [879-883], 883B; GREGORIUS I PAPA [MAGNUS], Homiliae in Evangelia, I, 12, PL 76, [1075-1305], 1118A-1119B, ed. R. Étaix, Turnhout 1999 (CCSL, 141), pp. 80,18 - 82,37; ibid., I, 32, 1236D, pp. 283,169 - 284,176. 28

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ecclesiastica ed al papa. Elipando parla in effetti impersonando con decisione il ruolo di metropolita della Chiesa iberica, intenzionato non soltanto a difenderne l’ortodossa compattezza teologica contro gli attacchi di Migezio, ma anche a preservarne l’indipendenza politico-ecclesiastica dalle pretese di controllo da parte della sede di Roma. Pochi anni dopo lo scontro tra Elipando e Migezio, probabilmente attorno al 785, Beato compose, insieme al confratello Eterio, un trattato Adversus Elipandum32. Nel contesto di quest’opera Beato inserisce ampi frammenti di testi elipandiani oggi perduti, dopo aver premesso una lunga introduzione sui temi della fede e del rapporto di quest’ultima con l’indagine razionale. Per quanto si rischi di mutarne l’ordine narrativo, è dunque necessario estrapolare dal testo dell’Adversus Elipandum i brani attribuiti al vescovo di Toledo, utili anche per comprendere il tenore apologetico della stessa opera di Beato. Il primo frammento è costituito da un Credo (introdotto da Beato come Symbolum fidei Elipandianae), che equivale ad una breve ma esauriente esposizione dell’adozionismo iberico del secolo VIII. In esso, Elipando non fa riferimento alcuno a Beato; probabilmente si tratta di un documento approvato e sottoscritto dai vescovi adozionisti, anche se nessun elemento testuale fornisce conferme. Nel Credo, Elipando, che dichiara di parlare anche a nome dei suoi «consequentes», espone subito la sua dottrina trinitaria: unica ed unitaria è l’«essentia deitatis» della Trinità, la «deitas» come «coaeterna substantia». La seconda persona della Trinità, pur mantenendo l’unità della sostanza, svolge diversi «officia» distinguibili ma non conoscibili né nominabili dalla mente dell’uomo, che può soltanto tentare di coglierne il valore avvian32 Cfr. BEATUS LIEBANENSIS, Commentarius in Apocalypsin, Praef., ed. E. Romero-Pose, 2 voll., Roma 1985 (Scriptores Graeci et Latini Consilio Academiae Lynceorum Editi), pp. 3-5 (e ed. J. G. Echegaray - A. Del Campo - L. G. Freeman, Obras completas de Beato de Lievana, Madrid 1995, p. 32), dove viene dichiarata l’appartenenza di Beato ed Eterio ad ordini monastici, e la loro condivisione gioiosa dell’«habitare fratres in monasterio». Il titolo di «abbas» è riferito nel contesto della breve Vita Sancti Beati Abbatis Hispanici, PL 96, [890-893], che fissa la data di morte di Beato al 19 febbraio 798, e lo indica quale «paedagogus» della regina Adosinda; cfr. H. FLORÉZ, Memorias de las reynas catholicas, Madrid 1761, I, p.103. Eterio, personaggio presente solo in modo secondario nella produzione di Beato, viene ricordato cinque volte dall’abate di Libana nella Praefatio al Commento sull’Apocalisse, e quattro nell’opera contro Elipando.

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do paragoni con le modalità secondo cui opera la propria anima, una, ma divisa per funzioni: lo «spiritus», ove si imprimono le immagini delle cose corporee; la «mens», che raccoglie i dati provenienti da «ratio» ed «intellectus»; la «memoria», che trattiene i dati acquisiti33. Posta tale incomprensibilità e indicibilità delle sue funzioni, Elipando ritiene impossibile che si possa predicare in modo sostanziale del Figlio di Dio l’essersi incarnato e l’essere stato crocifisso ed umiliato dagli uomini: il Verbo divino, per mezzo del quale tutto è stato creato, non è dunque il figlio della Vergine, ma la seconda persona della Trinità. Il Symbolum elipandiano non è uno scritto polemico. È invece in un documento di poco successivo, anch’esso riportato da Beato nel proprio trattato, che Elipando aggredisce con vivacità l’avversario denunciandone quelli che sono a suo parere insanabili errori dottrinari. Si tratta di una lettera per mezzo della quale egli informa infatti l’abate asturiano Fedele tanto degli attestati di stima ricevuti dal vescovo Ascarico, quanto degli attacchi subiti da parte di Beato: Questi [ossia gli uomini di Libana] da un lato contraddicendomi, dall’altro quasi trattandomi come se ignorassi cosa è giusto, non vollero interrogarmi, ma insegnare. Perciò Dio sa che, per quanto avessero scritto con protervia, se avessero detto cose vere avrei dovuto obbedire, ricordando ciò che è scritto: «Se al giovane è stato rivelato il vero, il vecchio taccia», e ancora: «È più vicino a Dio chi sa tacere appropriatamente». Non si è però mai sentito che gli uomini di Libana si facessero maestri degli uomini di Toledo. È infatti noto a tutti che questa sede è stata rinomata da sempre per le sue sacre dottrine, e che non ne sia mai fuoriuscito un eretico. Ed ora, una pecora malata pretende di farci da dottore?34 33 Cfr. BEATUS LIEBANENSIS - ETERIUS OXOMENSIS, Adversus Elipandum libri duo, I, 40, PL 96, [893-1030], 916D, ed. B. Löfstedt,Turnhout 1984 (CCCM, 59), p. 28,1059-1064: «Et sicut spiritus pars animae est, per qua imagines rerum corporalium imprimuntur; sicut mens pars eiusdem animae est, per quem omnis ratio intelligentiaque percipitur; sicut memoria, quae meditare memoratur: sic in Verbo Dei pro suis officiis diversa meruerunt vocabula, quae nequaquam dividuntur in substantiam». 34 Ibid., 43, 918CD, p. 30,1134-1143: «Isti vero modo et contraria dicendo, modo et quasi ignorantem me, quid rectum sit, noluerunt interrogare, sed docere. Unde Deus novit, quia, licet proterve scribsissent, nam si vera dixissent, gratus oboedire debui, reminiscendo quod scriptum est:‘si iuniori revelatum fuerit, se-

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Il metropolita toletano indica al destinatario della sua lettera che Beato ha voluto porsi come maestro ancor prima di chiedere spiegazioni al proprio interlocutore, atto questo reso ancora più intollerabile perché proveniente da un rappresentante della Chiesa di Libana: mai infatti i «Libanenses» sono stati maestri dei «Toletani». Come un animale malato, Beato rischia dunque di infettare tutto il gregge iberico. Lo stile evidenziato nelle lettere indirizzate a Migezio, ed i toni con i quali difende la propria posizione contro gli attacchi di Beato, rivelano in Elipando un ministro ecclesiale convinto della propria competenza, saldo nel difendere i diritti ed il rispetto dovuto alla sua carica, e fortemente irritato per i tentativi, operati da personaggi marginali come poteva apparire ai suoi occhi Beato, di metterne in discussione l’autorità. L’opera di Beato, caratterizzata da un incedere continuamente interrotto da citazioni scritturali e patristiche, a volte anche molto ampie, delinea al contrario la figura spirituale di un monaco certamente desideroso di ottenere il riconoscimento della sua ortodossia, messa in discussione dal testo che Elipando aveva fatto circolare proprio nelle Asturie, ma che sceglie di utilizzare, contro l’alterigia dell’oppositore, le armi dell’umiltà, del linguaggio medio, della metafora. La prosa non è raffinata, né teologicamente né stilisticamente, ma componendo un denso florilegio di auctoritates patristiche per confutare le tesi di Elipando Beato sembra optare deliberatamente per questo registro dimesso, mostrandosi interessato solo all’affermazione della verità della fede. La salvezza non può essere conquistata razionalmente: e per quanto la «mens» possa sollevarsi, non potrà mai comprendere appieno le qualità di Dio. In tal senso, dunque, se anche non è possibile conoscere in quale modo si possa comprendere la nascita terrena di Cristo, Figlio di Dio, è necessario credere per fede che egli sia «natus»:

nior taceat’. Et iterum:‘proximus Deo est, qui scit rationi tacere’. Nam numquam est auditum, ut Libanenses Toletanos docuissent. Notum est plebi universae hanc sedem sanctis doctrinis ab ipso exordio fidei claruisse et numquam scismaticum aliquid emanasse. Et nunc ovis morbida doctor nobis appetit esse?». Le auctoritates qui invocate da Elipando congiungono singolarmente sapienza biblica e profana: la prima citazione sembra infatti essere una versione diversa dalla Vulgata di 1Cor 14, 30: «Quod si alii revelatum fuerit sedenti, prior taceat»; la seconda è invece un aforisma desunto dai Disthica Catonis, I, 3.

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Anche se non ci è concesso sapere come sia nato il Figlio di Dio, ci è concesso sapere e credere che veramente è nato35.

La fede assoluta e non dimostrativa in Cristo, scaturita per gli uomini dalla sola testimonianza evangelica, è veramente il cuore, il nucleo del pensiero di Beato. La sua prosa non documenta dunque l’ordinato svolgersi di una dimostrazione che affronta il problema teologico attraverso concatenazioni logiche, ma si propone piuttosto come una continua circumnavigazione, con volute a volte più strette a volte più larghe e vaghe, attorno al concetto portante: l’assenza, nelle Scritture, di ogni riferimento ad un Cristo «adoptivus humanitate». La parola di Dio non afferma, in nessuna occasione, che Cristo sia «adoptive» uomo, ed è dunque la sola ostinazione dell’eretico, «cum esset rationalis», a negare che il figlio della Vergine sia anche Figlio di Dio. Questo doveva dunque apparire, agli occhi di Beato, l’errore del vescovo di Toledo: un Cristo «adoptivus humanitate et nequaquam adoptivus divinitate»36. Le conclusioni a cui giungeva Elipando risultavano, così, cattive interpretazioni del rapporto esistente tra le persone della Trinità. Se infatti Cristo fu servo del Padre, in quanto, fattosi uomo, fu sottoposto alla legge di natura posta in essere dalla volontà paterna, non fu però per questo servo di Dio, essendo Dio egli stesso: «Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella del Padre, che mi ha mandato». Non ha detto, qui, «fare la volontà di Dio», ma «la volontà del Padre». Per quanto infatti abbia definito Dio suo Padre, essendo Dio anche nella sua natura e nella sua essenza, tuttavia non ignoriamo affatto che, rimanendo Dio, fu fatto anche uomo, tale da venire all’esistenza sottoposto a Dio secondo la vincolante legge della natura umana37.

35 Ibid., 2, 895C, p. 1,32-34: «Nam etsi non licet nobis scire, quomodo natus sit Dei Filius, scire tamen nobis licet et credere, quod vere natus sit». 36 Ibid., 8, 898BC, p. 5,165-166. 37 Ibid., 9, 899CD, p. 6,221-227: «‘Non veni voluntatem meam facere, sed voluntatem eius, qui misit me, Patris’ (Jo 5, 30). Non hoc loco dixit ‘voluntatem Dei facere’, sed ‘Patris’. Quamvis enim Deum suum Patrem dixerit, cum Deus sit etiam ipsa natura et de illius essentia, tamen nullatenus ignoramus, quod manens Deus homo quoque factus sit, qui sub Deo iuxta devitam legem naturae humanitatis existeret».

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L’Adversus Elipandum di Beato si mostra così, nella sua immediatezza, come una costante riproposizione del medesimo ragionamento: la tesi adozionista non ha fondamento alcuno nelle Scritture; di conseguenza, coloro i quali affermano il contrario sono lupi che non leggono il testo sacro, ma ululano nelle tenebre dell’ignoranza, fingendosi pastori della Chiesa per poter meglio sgozzare le pecore che sono state loro affidate38. Beato non è un intellettuale carolingio; le Asturie, dove ha sede il monastero di Libana, sono distanti dai territori iberici che, proprio negli anni della polemica anti-adozionista, Carlo Magno era sul punto di riconquistare. Il monaco di Libana dunque non ragiona nei termini della legittimità di un nuovo impero cristiano da preservare politicamente e teologicamente. Ciononostante, ha ben presente il fattore di rischiosa rottura che ogni falsa dottrina teologica introduce nell’equilibrio politico della comunità cristiana nel suo complesso. L’eresia elipandiana, diffusa, nell’opinione di Beato, oltre i confini asturiani, in tutta la penisola iberica ed «usque ad Franciam», ha di fatto creato due partiti, in uno scontro che non riguarda il popolo dei credenti («minuta plebs»), ma le gerarchie: da un lato, i vescovi adozionisti; dall’altro, la Chiesa che nega in Cristo ogni adozione. Due partiti, due Chiese e, necessariamente, due fedi si contrappongono. Elipando ha dunque diviso quella comunità di figli dell’unico Padre che proprio per questa sua natura dovrebbe rimanere unita. La sua «prava scientia», che «philosophando obscuris sermonibus» tenta di ingannare i fedeli, è tanto più erronea e deviante quanto più si allontana dalla semplicità del messaggio evangelico39. Parlare e credere «simpliciter» è infatti la prospettiva che Beato contrappone alle sofisticazioni razionali di Elipando, al suo sermo ornato, ai suoi «verba mendacia», evidente indizio di una razionalità distorta.Ad essa si contrappone la fede dei semplici, che conduce anche gli illetterati al regno dei cieli:

38 Cfr. ibid., 13, 901C, p. 9,320-324: «Ululant isti, Scripturam non tractant. Et quia ululant, lupi sunt, in tenebris ambulant, id est inter ignaros praedicant, obscuras et distortuosas disputationes proferrunt, pro quibus ignaros decipiant. Pastores ecclesiarum auferre conantur, ut oves Domini facilius extrangulent». 39 Cfr. ibid, 14, 902CD, p. 10,376-381.

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Dunque è meglio credere in ciò che non si capisce che insegnare con parole false ciò che va creduto. La fede infatti precede di molto l’intelletto. Se infatti la fede ha un merito e per mezzo di essa anche agli ignoranti Cristo darà un premio, allora sicuramente essa precede l’intelletto. Per conseguenza, ogni uomo semplice ed ignorante, che crede rettamente in Cristo, che vive semplicemente e che si allontana dal male, supera l’intelletto. L’intelletto tuttavia per quante opere buone sembri fare, è preceduto dall’ignorante, se questi ha una retta fede. Non comprende nulla chi non crede, dal momento che il profeta dice: «se non avrete creduto, non capirete»40.

La semplificazione linguistica e teoretica operata da Beato, che spesso utilizza termini differenti come «ratio», «intellectus», «mens» o «animus» come puri e semplici sinonimi, e non porta a compimento l’analisi delle tesi proposte, scaturisce dunque da una convinta sfiducia nei confronti della razionalità: perseverare nella discussione critica e nella pretesa di ordire ragionamenti di ordine naturale su Dio e sull’uomo («de Deo et homine») conduce alla perdizione41. La fede è semplice, vale a dire si impone «sine philosophia saeculi», e soprattutto è condivisa da tutta la Chiesa. La «simplicitas» infatti tiene i «rustici» lontani dalla conoscenza («scientia»), ma non per questo è motivo di vergogna quando è messa alla prova tra i più eruditi («inter philosophos»)42. Se essi si affidano alla guida della ragione, tralasciano l’insegnamento dei «rustici» apostoli, dei pescatori che seppero conquistare Roma, laddove avevano fallito i migliori retori («eloquentes»):

40 Ibid., 20, 905D-906A, p. 14,525-533: «Ergo melius est non intellecta credere quam credenda verbis mendacibus perdocere. Multum enim praecedet fides intellectum. Si enim fides habet meritum et per ipsam etiam rusticis Christus daturus est praemium, praecedit utique intellectum. Quamobrem omnis rusticus idiota, qui recte credit Christum, simpliciter vivet et recedet a malo, superat intellectum. Intellectus tamen quamvis bona opera videatur habere, praecedit eum rusticus, si fidem rectam habet. Nihil ergo intelligit, qui non credit, dicente propheta:‘Nisi credideritis, non intellegetis’ (Is 7, 9 sec. LXX)». 41 Cfr. ibid., 20, 906A, p. 14,535-536; cfr. inoltre ibid., 37, 914B, p. 25,940-944: «Nullus philosophorum potuit dicere primus:‘Tu es Christus Filius Dei vivi’ (Mt 16, 16), nisi Petrus piscator, homo rusticanus et pauper, qui ab opere callosam habebat manum. Iste piscator et rusticanus de Ierosolyma perrexit Romam et rusticanus cepit Romam, quam eloquentes capere non potuerunt». 42 Cfr. ibid., 37, 914B, p. 25,932-939.

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Difficilmente troverai eretici non colti. Sono infatti tutti maestri nelle conoscenze mondane. Non vogliono stancarsi nell’estensione delle Scritture, ma sognano e russano in un sonno profondo, e sputano fuori ciò che hanno sognato, e in più con audacia lo scrivono nei libri, e lo difendono senza vergogna43.

Quella stessa «simplicitas» che l’apostolo Giovanni raccomanda nelle sue lettere e che induce Maria a dichiararsi «ancilla» del proprio nascituro, diviene nell’atteggiamento di Beato non la pacata benevolenza dell’uomo di poco ingegno, nutrito solo di citazioni scritturali, ma un vero e proprio progetto, con un preciso obiettivo polemico. Elipando accusa Beato di insegnare cose insane e di voler convincere i toletani, da sempre «magistri» di tutta la penisola iberica, della bontà delle sue tesi. Beato, di converso, sfida gli avversari a farsi maestri, ad avventurarsi nell’insegnare, se possibile, argomenti più certi della semplice fede che ha condotto «rustici ac piscatores» a governare il mondo cristiano. Difensore del «vulgus», inteso come popolo ignorante ma pio, che è più vicino a Dio di quanto non lo siano i filosofi proprio in virtù della insipienza che lo rende più puro e meno arrogante e contorto, Beato indubbiamente sceglie di contrapporre al registro duro e polemico di Elipando un profilo mediato e meditato, che identifichi l’opera come una riflessione sul senso dell’umiltà cristiana. «Omnes heretici philosophi sunt, quia rusticus hereticus dici non potest»: caratteristica distintiva dell’eretico è, dunque, proprio il voler essere filosofo, ossia indagatore razionale della fede, in contrapposizione al «rusticus» che accetta le Scritture ed i Padri senza discutere44. Perciò Beato diffida del parlare ornato («locuples sermo») che accomuna, in un’unica, approssimativa categoria (che egli ritiene di poter presentare, genericamente, come «philosophorum secta»),Ario, Sabellio, Bonoso, Marcione, Basilide e, ora, ovviamente, Elipando45. L’unica verità, per un cristiano, è rappresentata dalle Scritture, parola di Dio; ogni altra parola, 43 Ibid., 88, 947C, p. 66,2514-2517: «Difficile hereticos invenies imperitos. Omnes enim magistri instructi sunt scientia saeculi. Nolunt in scripturarum latitudine laborare, sed somniant et stertent in alto sopore, et ructant, quod somniaberint, et insuper cum audacia in libris inserunt et cum temeritate defendunt». 44 Cfr. ibid., 51, 924B, p. 37,1407. 45 Cfr. ibid., 54, 926A, p. 39,1487-1489.

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tanto più se umana e non ispirata, non ha senso, se non come commento rispettoso di quanto la Scrittura ha già stabilito. Le parole del mondo rimangono parole nel mondo: esse, al massimo, possono servire a quei monaci che desiderano esser chiamati magistri, e che utilizzano la filosofia per giungere «ad primas cathedras»46. Mal utilizzata, la parola è uno strumento diabolico; Beato ne riserva infatti l’uso libero solo ai santi ispirati. Essi infatti non parlano «de Deo» ma «ex Deo»47: La Chiesa subisce la persecuzione dai suoi avversari in due modi, vale a dire con la parola o con la spada. Ma quando sostiene la persecuzione della parola, si rivela la sapienza dei servi di Dio, quando invece sostiene quella delle armi, appare la loro sopportazione48.

Tale sapienza cristiana non può che coincidere, per Beato, con la «ratio Scripturarum» che gli eretici, Elipando compreso, pur ostentando citazioni abbondanti dai libri sacri, di fatto ignorano. Essa consiste non solo nella lettura ordinata e corretta delle Scritture, ma anche nella comprensione del loro significato simbolico, che passa attraverso la corretta ricezione della forma letteraria e del contenuto spirituale, che nella loro distinzione e complementarietà riproducono la relazione redentrice che sussiste tra il corpo sacramentale di Cristo e la sua efficacia salvifica49. Nell’ottica di Beato senza fede non c’è Chiesa, senza «charitas» non c’è fede, e senza «simplicitas» non c’è «charitas»50. Non è lecito, perciò, far affidamento sul discorso e sul ragionamento per amare veramente Dio: perché a parole tanto i fedeli quanto gli eretici possono professarsi credenti in Cristo; altra è invece la verità che li separa nel profondo dei loro cuori. La distanza tra il credente e il non credente risiede infatti nella accettazione di ciò che, per sola conoscenza naturale e senza la fede, non può essere accettato, e che

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Cfr. ibid., 925D, p. 39,1467-1489. Cfr. ibid., 64, 932C, p. 47,1805-1806; 2Cor 2, 17. 48 Ibid., 65, 933A, p. 48,1819-1822: «Ab adversariis namque suis duobus modis ecclesia persecutionem patitur, scilicet aut verbis aut gladiis. Sed cum verbis persecutionem sustinet, ostenditur servorum Dei sapientia; cum vero gladiis, hostenditur eorum patientia». 49 Cfr. ibid., 66, 934D, p. 50,1904-1908. 50 Cfr. ibid., 61, 931AB, p. 45,1720-1732. 47

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infatti i pagani rigettano come assurdo: la presenza del Verbo nella storia, come vero Dio e vero uomo51.

2. La disputa sulle immagini 2.1. Bisanzio prima dell’iconodulia La disputa sul culto delle immagini, che vide coinvolti Bisanzio e la corte carolingia nell’ultimo ventennio dell’VIII secolo e, in una seconda fase, l’entourage intellettuale ed ecclesiastico di Ludovico il Pio negli anni attorno all’825, segna in realtà l’ultima fase di una lunga serie di discussioni e controversie che affonda le radici nella storia stessa della teologia cristiana. Sin dai primi secoli i Padri della Chiesa avevano tentato di elaborare una riflessione compiuta sul valore delle immagini, e sulla loro liceità. In generale, tanto in Oriente quanto in Occidente, la venerazione delle icone, distinta dalla adorazione, destinata solo alle persone della Trinità, era stata considerata legittima, come mediatrice nei confronti di Dio, al pari delle Scritture, e la pratica ne era stata concessa alla devozione popolare52. In questo contesto storicamente tollerante nei confronti del culto delle immagini, risulta particolarmente interessante la svolta iconoclasta della corte imperiale bizantina nel secolo VII e nella prima parte del secolo VIII. Già stremato dalla lotta con la costante anarchia interna e con il dissesto economico,l’impero bizantino fu anche costretto ad arginare la pressione militare praticamente continua della Persia,che giunse,nel 626 a cingere d’assedio Costantinopoli, con il supporto di Slavi e Bulgari, e ad occupare la Calcedonia53. L’incerta pace riconquistata nel 629, quando l’imperatore Eraclio riuscì a rientrare a Bisanzio da vincitore,recuperando Egitto,Siria ed Asia Minore,e riportando a Gerusalemme il legno della 51

Cfr. ibid., 83, 944A, p. 62,2349-2351. Sono celebri, a tal proposito, le considerazioni di papa Gregorio Magno sull’utilità delle immagini nelle chiese per favorire l’educazione cristiana degli illetterati, e le riflessioni del Damasceno che descrive il proprio rapimento dinanzi alle immagini sacre che, in assenza di testi su cui studiare, ispirano al suo cuore le meditazioni più profonde. Cfr. GREGORIUS I PAPA, Epistola ad Serenum Massiliensem episcopum, in ID., Epistolae, IX, 209, PL 77, [441-1328], 1027CD, ed. D. Norberg (Registrum Epistolarum), 2 voll.,Turnhout 1982 (CCSL, 140-140A), II, p. 768. 53 Cfr. L.W. BARNARD, The graeco-roman and oriental background of the iconoclastic controversy, Leiden 1974 (Byzantina Neerlandica, 5), p. 2. 52

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santa croce, trafugato nel 614 dai persiani, si incrinò dopo soli undici anni, nel 640; sotto i colpi dell’Islam in espansione, caddero la Palestina, la Siria,Alessandria nel 642, mentre nel 673 solo il fuoco greco impedì ai musulmani di entrare nella capitale54.Potere e giurisdizione di Costantinopoli videro drasticamente ridotto il proprio raggio d’azione; parallelamente al centro amministrativo, i restanti territori vennero organizzati in tèmi, i cui comandanti esercitavano una estesa giurisdizione militare e civile.Tale instabilità, anche politica, che si manifestò concretamente nel 685 con la deposizione di Giustiniano II, fu ricomposta solo dopo un trentennio, con la salita al potere di un contadino dalle umili origini, Leone Isaurico,iconoclasta,che entrò in Costantinopoli il 25 marzo del 717, per essere poi incoronato in Santa Sofia con il nome di Leone III, spodestando Teodosio III55. Il primo atto militare di Leone fu preparare la capitale all’attacco imminente degli arabi, che da quasi sei mesi mantenevano flotta ed esercito nei pressi di Costantinopoli56: ancora l’utilizzo del fuoco greco, il rigore inusitato dell’inverno tra il 717 ed il 718, gli accordi militari tra greci, bulgari e chazari permisero a Leone di liberare, il 15 agosto 718, Costantinopoli dall’assedio. Il nuovo imperatore si preoccupò, scampato il pericolo, di rafforzare la struttura amministrativa dei tèmi, per garantire allo stato un maggior livello di sicurezza contro slavi ed arabi; tentò poi di dare ordine alla struttura dello Stato con la promulgazione di un codice legislativo e con la pubblicazione, nel 726, della sua Ecloga, di stampo marcatamente avverso al culto delle immagini sacre57. Secondo fonti coeve, la violenza dell’azione iconoclasta di Leone III fu inaudita,accompagnata da una com54

Cfr. S. CLARAMUNT, Las claves del Imperio Bizantino, Barcelona 1992, pp. 46 e seqq. 55 In merito alle origini di Leone, la provenienza isaurica, attestata da TEOPHANES, Chronographia, ed. C. De Boor, 2 voll., Leipzig 1883-1885, I, p. 391, è da molti considerata una modifica postuma, aggiunta alle reali origini dell’imperatore, risalenti al Mar’ash, nel nord della Siria, nell’area del califfato musulmano; cfr. K. SCHENK, Kaiser Leons III Walten im Inneren, in «Byzantinische Zeitschrift», 5 (1896), p. 296; C. HEAD, Who was the real Leo the Isaurian, in «Byzantion», 41 (1971), p. 105; S. CLARAMUNT, Bisanzio: le dinastie isaurica e macedone, in S. CLARAMUNT - E. PORTELA - M. GONZÁLEZ - E. MITRE, Historia de la Edad Media, Barcelona 1995, pp. 85 e seqq. 56 Cfr. J. GOUILLARD, Aux origines de l’iconoclasme: la témoignage de Grégoire II, in «Travaux et Mémoires», 3 (1968), pp. 243-307. 57 Cfr. E. H. FRESHFIELD, A Manual of Roman Law, Cambridge 1926, p. 32.

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pleta ridiscussione del valore del culto dei santi,dellaVergine e della croce, e portata a termine mutilando e scacciando dai luoghi di culto monaci e religiosi, torturando ferocemente centinaia di iconoduli, e raschiando via dalle pareti le immagini sacre58. La sostanza rivoluzionaria e la forma brutale con cui Leone tentò di dare applicazione ai suoi intenti suscitarono violente reazioni: in diverse occasioni le truppe imperiali si trovarono costrette a sedare, con la forza, rivolte scoppiate nel tèma dell’Ellade (Grecia e le Cicladi). Questo clima di accesa tensione interna non permise nemmeno un sereno svolgimento dei riti di successione;CostantinoV,come il padre, dovette infatti dividere le proprie energie tra le guerre contro gli invasori, in primo luogo arabi, e gli sforzi per imporre, ai sudditi come alle gerarchie ecclesiastiche,la dottrina iconoclasta:al semplice raschiamento delle immagini sacre si aggiunse infatti la sostituzione di queste ultime con pitture e composizioni raffiguranti il suo potere e la sua gloria. 2.2. Il secondo concilio di Nicea I regni di Costantino e di suo figlio Leone IV furono caratterizzati da una violenta prosecuzione della propaganda iconoclasta. Solo alla morte di Leone, nel 780, la vedova Irene si impegnò nell’organizzazione di un concilio ecumenico, il settimo, al fine di modificare la linea iconoclasta della corte orientale.Reggente in vece del figlio minorenne, il futuro Costantino VI, l’imperatrice, approfittando della presenza a Roma di Carlo Magno nel 781, inviò nell’Urbe degli ambasciatori che, da un lato, avevano il compito di anticipare al pontefice la nuova linea iconodula che di lì a poco la corte orientale avrebbe adottato, ma che, dall’altro, dovevano anche segretamente perfezionare la riconciliazione tra Oriente ed Occidente, che si sarebbe dovuta concretizzare con il matrimonio tra il futuro Costantino VI e la figlia di Carlo Magno, Rotrude59. 58 Cfr. J. C. CHEYNET, Quelques remarques sur le culte de la croix en Asie Mineure, in Cultures et christianisme. Histoire et culture chrétienne. Hommage à Monsigneur Yves Marchasson, ed.Y. Leudre, Paris 1992, pp. 67-78; V. PHIDAS, Les causes de l’iconoclasme, in «Nicolaus», 15 (1988), pp. 71-81, e in partic. p. 71; J. MOORHEAD, Iconoclasm, the Cross and the imperial image, in «Byzantium», 55 (1985), pp. 165-179. 59 Cfr. J. GOUILLARD, L’Église d’Orient et la primauté romaine au temps de l’iconoclasm, Paris 1963, pp. 25-54 ; P. BREZZI, La civiltà del Medioevo europeo cit. (alla no-

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Quanto anticipato dagli ambasciatori al pontefice si concretizzò in una lettera datata 29 agosto 784 ed indirizzata al papa Adriano I60: in essa, gli imperatori (Irene ed il figlio) affermavano che, consultati il popolo ed i vescovi, avevano deciso di indire un concilio ecumenico, al quale il pontefice era invitato a partecipare di persona, o con l’invio di missi, perché, in quella sede, le due Chiese, divise da quasi mezzo secolo, avrebbero potuto riconoscersi unite nel culto di Cristo. L’idea del concilio, secondo quanto tramandato dagli storici bizantini coevi, sarebbe stata suggerita all’imperatrice Irene dal patriarca Paolo IV. Eletto durante l’impero di Leone IV, Paolo aveva prestato giuramento secondo l’ortodossia allora vigente, cioè quella iconoclasta; scomparso Leone, aveva abbandonato le cariche ufficiali, ritirandosi in convento. In un incontro con Irene, il patriarca avrebbe confessato il proprio pentimento rispetto a quel giuramento, consigliandole di ricomporre lo scisma con la convocazione di un concilio. Il prescelto a sostituire Paolo IV, l’asecretis Tarasio, in una pubblica allocuzione, pose, come condizione della sua elezione alla carica di patriarca il consenso delle gerarchie orientali ad un ritorno dottrinale alla piena iconodulia61. Ottenuta tale rassicurazione ed eletto patriarca,Tarasio, ben consapevole di quanto la sede pontificia potesse mal tollerare l’elezione di un laico a tale carica, si affrettò a far giungere al pontefice una dichiarazione della sua ortodossia iconodula62. Nella lettera di risposta ad Irene, Adriano I approvava l’idea del concilio, promettendo di partecipare tramite suoi legati, ed esponeva ta 2), pp. 120 e seqq.; S.VARNALIDIS, La difesa delle icone al Concilio Niceno II, in La legittimità del culto delle icone, Oriente ed Occidente riaffermano insieme la fede cristiana, Atti del III Convegno storico interecclesiale (Bari, 11-13 maggio 1987), Bari 1988, pp. 105-128, in partic. p. 110. 60 Il testo è pubblicato da F. DOELGER, Regesten der Kaiserurkunden des oströmischen Reiches von 565-1453, Hildesheim 1976, p. 341. 61 Il termine «asecretis» deriva, come illustra G. HOFMANN nella voce Tarasio della Enciclopedia Cattolica, Firenze 1953, pp. 1755-1756, da «protus a secretis», vale a dire presidente della Cancelleria, titolo che Tarasio aveva ottenuto, prima di divenire patriarca, sotto la stessa Irene. L’allocuzione è presente negli acta del secondo concilio di Nicea, cfr. J. D. MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, XI, Lipsiae 1759, col. 986. 62 Copia di tale sinodica fu inviata anche ai patriarchi di Antiochia,Alessandria e Gerusalemme, come risulta in MANSI, ibid., col. 1119; essa è presumibilmente identica a quella inviata al pontefice, come risulta dalla risposta di quest’ultimo, contenuta in ibid., col. 1077.

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determinanti prove bibliche della liceità del culto delle immagini, ma, cosa non meno importante, non esitava a sottolineare la pratica non del tutto trasparente con la quale Tarasio era divenuto patriarca63. La lettera di Adriano ad Irene e Costantino è datata 26 ottobre 785. Il secondo concilio di Nicea ebbe invece inizio ufficialmente nel settembre del 787: nei due anni intercorsi, una parte dell’episcopato e dell’esercito, ancora legata alla dottrina iconoclasta di Costantino V e di Leone IV, aveva infatti impedito che la riunione indetta per i primi di agosto del 786 potesse avere luogo64; l’esercito era penetrato nella basilica dei SS. Apostoli a Costantinopoli, dove i prelati e gli imperatori erano riuniti, ed aveva ottenuto che il concilio venisse rinviato sine die. Irene fu dunque costretta, con l’aiuto di un contingente proveniente dalla Tracia e fedele alla dottrina iconodula, ad epurare le fila dell’esercito, trasferendo poi la sede conciliare a Nicea, per sottrarsi dalle pressioni del clero di Bisanzio, ancora iconoclasta.A Nicea, il 24 settembre 787, il concilio cominciò i suoi lavori, che si protrassero sino al 23 ottobre, in 7 sessioni. 2.3. L’intervento della Chiesa franca e la composizione dei Libri Carolini Il testo conclusivo del secondo concilio di Nicea, redatto originariamente in greco, venne tradotto in latino in una versione oggi perduta e certamente poco attendibile,conservata in frammenti in 63 L’Actio prima del concilio, nella presentazione degli astanti, cita i missi romani, Pietro, arcipresbitero della chiesa romana di S. Pietro, e Pietro, monaco nonché abate del monastero sancti Sabbae, indicandoli come retinentes dell’«almus et sanctissimus archiepiscopus senior Romae», Adriano; cfr. MANSI, ibid., col. 993A. Tarasio, primate d’Oriente, è presentato, negli Acta niceni, dopo Adriano ma con il suo stesso titolo, vale a dire come «archiepiscopus», ovviamente di Costantinopoli, definita, con acume politico, «nova Roma». I vescovi siciliani, dopo l'elencazione di tutti i presenti al concilio, chiedono che a prendere la parola sia il «santissimus et summus ac eximius pastor et praesul regiae Constantinopoleos novae Romae», Tarasio. Questi, compiuto il suo intervento, cede la parola agli imperatori, che citano la lettera inviata tramite missi da papa Adriano, e che lasciano poi il passo al Credo sinodale: «His qui dicunt, quod diabolica argumentationis inventio sit factura imaginum, et non sanctorum patrum nostrorum traditio, anatema»; cfr. ibid., coll. 1000D-1012B. 64 Cfr. W. DE WRIES, Orient et Occident. Les structures ecclésiales vues dans l’histoire des sept premiers conciles oecuméniques, Paris 1974, in partic. pp. 221-244.

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un testo, comunemente noto come Libri Carolini, ma per il quale più recentemente è stato proposto il titolo Opus Caroli contra synodum65. La ricezione del testo del concilio niceno costituì, nella vita della corte di Carlo Magno, l’occasione per una più ampia riflessione sul ruolo e le finalità del nascente dominio carolingio sull’Europa. Il concilio di Francoforte del 794 fu infatti testimone di una particolare congiuntura politica: mentre il metropolita di una delle più grandi ed autonome aree continentali, Elipando, chiedeva l’intervento di Carlo Magno al fine di dirimere la questione adozionista, Bisanzio tentava di riaffermare, con l’appoggio di Roma, la propria centralità nel determinare gli orientamenti dell’ortodossia in materia di culto delle immagini; la corte carolingia doveva dunque decidere se conformarsi a tale autorità e rinunciare a proporre una propria autonoma linea interpretativa, proprio nel momento in cui il prestigio politico e dottrinale di Carlo sembrava esaltato dalle richieste di un personaggio carismatico come Elipando. Il futuro imperatore avrebbe potuto porsi concretamente nelle vesti di un «novus Constantinus», purché avesse avuto la forza di imporre la visione teologica della sua corte agli imperatori d’Oriente. Se pur di grande rilevanza, infatti, la richiesta di Elipando non costituiva, da sola, motivo valido per attribuire a Carlo ed alla sua corte la funzione di auctoritas posta a guida della Chiesa; e il papato sembrava piuttosto propenso ad affidare questo ruolo a quanto dell’antico prestigio imperiale so65 Cfr. Opus Caroli regis contra synodum (Libri Carolini) (in seguito soltanto: Libri Carolini), PL 98, [999-1248]; si riportano, qui e nel capitolo V, i riferimenti alle edizioni moderne del testo, presenti entrambe nei Monumenta, e di volta in volta rispettivamente segnalate come Libri Carolini (LC) e Opus Caroli contra synodum (OC): per la prima (LC), ed. H. Bastgen, in MGH, Leges, 3, Concilia, 2, Suppl., Leipzig 1925; per la seconda (OC), ed. A. Freeman, in MGH, Leges, 4, Concilia, 2, Suppl., 1, Hannover 1998. Per uno sguardo d’insieme sull’opera, cfr. F. BRUNHÖLZL, [Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, I, München 1975], tr. fr. con aggiornamenti dell’autore, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge, I (De Cassiodore à la fin de la renaissance carolingienne), 2 (L’époque carolingienne), Louvain-la-Neuve 1991, pp. 49-50; G. D’ONOFRIO, La teologia carolingia, in Storia della Teologia nel Medioevo, direzione di G. d’Onofrio, I, I princìpi, Casale Monferrato 1996, [pp. 107-196], pp. 132-138 e 180-182. Per la ricezione del testo greco del secondo concilio niceno, cfr. HINCMARUS RHEMENSIS, Opusculum LV capitulorum, 20, PL 126, [282-494], 360A e seqq.; cfr. inoltre: B. BISCHOFF, Das griechische Element in der abendländischen Bildung des Mittelalters, in «Byzantinische Zeitschrift», 44 (1951), pp. 27-55; R.WEISS, Medieval and Humanist Greek, Padova 1977; W. BERSCHIN, Griechisch-lateinisches Mittelalter:Von Hiernymus zu Nikolaus von Kues, München 1980; e cfr. gli studi citati infra, alle note 71 e seqq.

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pravviveva a Bisanzio. Forte dunque della richiesta di Elipando, ma soprattutto preoccupato dei pericoli provenienti dalla corte orientale, Carlo stabilì, nel concilio di Francoforte, che parallelamente alla questione adozionista si rispondesse a quella che doveva essere presentata al papa, e dunque alla cristianità intera, come l’eresia iconodula della corte costantinopolitana66. In una prima fase, precedente al concilio di Francoforte, e collocabile all’incirca tra la fine del 790 ed il 791, alla corte carolingia arrivarono gli atti del concilio niceno, li si analizzò, e se ne ricavò materiale da confutare. Un primo documento, Capitulare adversus synodum, oggi perduto, venne così prodotto ed inviato, tramite Angilberto, al papa Adriano I, che si preoccupò di far giungere alla corte di Carlo le sue osservazioni. Dopo un triennio, attorno al 793, si collocherebbe la stesura dell’Opus Caroli contra Synodum, al quale il pontefice rispose ancora con osservazioni personali, di indirizzo iconodulo67. L’Opus Caroli venne dunque in qualche misura emendato in relazione alle osservazioni del pontefice, giungendo alla versione definitiva.Tanto la cronologia della composizione, quanto l’individuazione dell’autore materiale del testo appaiono, per la scarsità delle fonti, complesse, ed hanno a lungo diviso la critica storiografica sulla contrapposizione di due ben definite ipotesi. Luitpold Wallach, nel suo articolo Charlemagne’s Libri Carolini and Alcuin, difese nel 1953 la fondata idea che l’autore potesse essere Alcuino68. Questa ipotesi si poneva come alternativa all’identificazione dell’autore dei Libri Carolini con uno studioso di origine iberica: nel 1926, Arthur Allgeier, nel contributo Psalmenzitate und die Frage nach der Herkunft der Libri Carolini, aveva infatti evidenziato similitudini formali tra il testo dei Libri Carolini ed un salterio ispano-mozarabico, ipotizzando dunque 66 Cfr. M. F. AUZÈPY, Francfort e Nicée II, in Das Frankfurter Konzil von 794, Kristallisationspunkt karolingischer Kultur, Akten zweier Symposien (23.-27. Februar und 13.-15. Oktober 1994), hg. von R. Berndt, Mainz 1997 (Quellen und Abhandlungen zur mittelrheinischen Kirchengeschichte,80),pp.279-300;W.ULLMANN,The carolingian Renaissance and the Idea of Kingship, London 1969, pp. 23-40. 67 Cfr. HADRIANUS I PAPA, Epistola ad Carolum, in Epistolae, ed E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 5 (Karolini aevi, 3), Berlin 1899, pp. 5-57. 68 Cfr. L. WALLACH, Charlemagne’s Libri Carolini and Alcuin, in «Traditio», 9 (1953), pp. 143-149.

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che l’autore potesse essere di origini iberiche, riconoscibile con tutta probabilità in Teodulfo di Orléans69. La tesi di Allgeier, pur motivata, non era però argomentata in modo da poter essere considerata del tutto fondata come mostrò, pochi anni dopo, Donatien De Bruyne70. Sin dalla metà del secolo XX, però, e in esplicita contrapposizione alla proposta di Wallach, la tesi dell’origine iberica dell’autore dei Libri Carolini e, in particolare, della sua identificazione con Teodulfo, fu difesa con diverse argomentazioni da Ann Freeman71. I suoi corposi contributi pubblicati tra gli anni ’60 e ’70 difendono l’ipotesi Allgeier sulla base di una serrata analisi formale di alcuni passi dei Libri Carolini e di uno studio sulle glosse al loro testo riportato nel manoscritto Vaticano Latino 7207, sulla cui base la Freeman riteneva di poter identificare direttamente indizi evidenti delle competenze e della stessa grafia di Teodulfo72. Negli stessi anni Wallach ha, al contrario, continuato a difendere l’attribuzione alcuiniana, rifiutando di considerare sufficientemente provata l’evidenza degli «spanish symptoms»73. Il dibattito tra i fautori delle due interpretazioni si è fatto quindi così serrato da rendere necessario riepilogare le successive fasi del dibattito per valutarne singolarmente sviluppi, articolazioni ed esiti più o meno accertati74. Nel 1998, infine, ha visto la luce una nuova edizione 69 Cfr. A. ALLGEIER, Psalmenzitate und die Frage nach der Herkunft der Libri Carolini, in «Historisches Jahrbuch», 46 (1926), pp. 333-353. 70 Cfr. D. DE BRUYNE, La composition des Libri Carolini, in «Revue Bénédictine», 44 (1932), pp. 227-234. 71 Cfr. A. FREEMAN, Theodulf of Orleans and the Libri Carolini, in «Speculum», 32 (1957), pp. 663-705. 72 Cfr. EAD., Further studies in the Libri Carolini I: Paleographical problems in Vaticanus Latinus 7207. II: Patristic exegesis, Mozarabic Antiphons, and the Vetus Latina, in «Speculum», 40 (1965), pp. 203-289; EAD., Further studies in the Libri Carolini. III:The marginal notes in Vaticanus Latinus 7207, in «Speculum», 46 (1971), pp. 597612. 73 Cfr. L. WALLACH, Diplomatic Studies in Latin and Greek Documents from the Carolingian Age, Ithaca 1977, in partic. i cc. 9-14 e p. 209. Segnatamente nel dodicesimo capitolo, intitolato Philological and historical evidence disposing Theodulf of Orléans’ alleged authorship,Wallach dedica una sezione ad una breve trattazione del tema della paternità alcuiniana, in cui si ribadiscono i parallelismi tra i topics alcuiniani antiadozionisti, ed alcuni passi dei Libri Carolini; cfr. ibid., p. 269: il contributo era già stato pubblicato in «Speculum», 40 (1965), pp. 266-286. Cfr. inoltre: H. BASTGEN, Der Verfasser des Capitolare uber die Bilder, in «Neues Archiv», 37 (1912), pp. 491-533, in partic. p. 531. 74 Cfr. P. MEYVAERT, The Autorship of the Libri Carolini, in «Revue Bénédicti-

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dei Libri Carolini, curata da Ann Freeman, e corredata di una ricca bibliografia, in buona parte orientata a produrre un sostegno argomentativo definitivo per l’attribuzione dell’opera alla paternità di Teodulfo75. Nonostante la forza delle argomentazioni e la ricchezza e il dettaglio delle documentazioni con cui le due tesi sono state sostenute nel corso dei decenni, il problema della identificazione dell’autore dei Libri Carolini non è giunto ad una soluzione definitiva. Se è però complesso, sulla scorta dell’analisi dei testi e della tradizione manoscritta, proporne una interpretazione conclusiva, è utile considerare la questione all’interno del quadro complessivo dello sviluppo generale della teologia carolingia. La funzione che, nella vita spirituale della corte di Carlo Magno, rivestirono la disputa sulle immagini e la conseguente pubblicazione dei Libri Carolini è evidente: la cultura teologica li affiancava al grande progetto di espansione territoriale del sovrano, e tentava anzi di forgiare gli strumenti necessari a questo sviluppo. La creazione di un patrimonio di testi e conoscenze stabile e condiviso non solo era utile per organizzare la vita culturale e la formazione all’interno della corte. Carlo Magno, nel suo tentativo di espansione territoriale, favoriva inevitabilmente contaminazioni culturali. La conquista di nuovi territori richiedeva un compiuto sforzo di evangelizzazione che non poteva fondarsi sul semplice uso della violenza, anche perché, in taluni casi, l’espansione del dominio carolingio portava la corte, e dunque la sua sapienza teologica, a rapportarsi non solo a popolazioni pagane, ma anche a regioni pienamente cristianizzate nelle quali si era sviluppata una dottrina in parte alternativa alla ortodossia ‘cattolica’. Il crescente potere di Carlo Magno, in questa duplice funzione di sovrano evangelizzatore e di difensore di una corretta linea di pensiero teologico, lo poneva in un sempre più vistoso contrasto con l’autorità imperiale bizantina. In tal senso, i teologi di corte, che collaborarono fattivamente alla creazione degli strumenti utili alla diffusione del messaggio cristiano tra le popolazioni conquistate ed alla riaffermazione dell’ortodossia, furono certamente coin-

ne», 53 (1979), pp. 29-57; e A. MELLONI, L’ Opus Caroli Regis contra Synodum o Libri Carolini, in «Studi Medievali», 29 (1989), pp. 873-886. 75 Cfr. alla nota 65.

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volti nell’affermazione del nuovo primato culturale della corte. Se è dunque possibile che i Libri Carolini siano stati materialmente opera di un solo autore, è certo che la loro ideazione, il reperimento delle auctoritates utili alla difesa della tesi iconoclasta, la strutturazione dell’opera e la precisa identità che le deriva dai saperi tecnici utilizzati per comporla sono eredità non di un solo individuo, ma di un ambiente, di un più generale e condiviso metodo teologico di indagine e di divulgazione dei contenuti della fede76. L’intervento franco nella disputa sulla legittimità del culto delle immagini non ebbe conseguenze rilevanti. Il successore di Irene, Niceforo (802-811), fu un tiepido sostenitore dell’iconodulia, mentre il suo erede, Michele (811-813), non riuscì a sedare il rinato moto iconoclasta, che trasse infine nuovo vigore dall’elezione imperiale di Leone V l’Armeno (813-820), il quale, organizzando un concilio antiniceno nell’815, diede il via ad una energica ma tardiva reazione iconoclasta. L’iconoclasmo si presentava ormai come un tema reazionario, privo di slancio vitale, ed il suo declino apparve da subito inesorabile; dopo l’assassinio di Leone V, nella notte di Natale dell’825, era inevitabile per il potere bizantino tornare ad uno spirito di tolleranza ben marcato nei confronti delle immagini, che culminò, nell’843, nella convocazione di un concilio costantinopolitano che ripristinò l’inconodulia difesa nel secondo concilio niceno. Parte del merito di questa ritrovata tolleranza va ascritto all’imperatore Michele II (820-840). Nel novembre 824, una sua ambasceria raggiunse Rouen per intavolare, con il nuovo imperatore Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, e con il papa, una trattativa che sciogliesse l’ormai pluriennale disputa sulle immagini sacre. Nell’Occidente carolingio la prima fase del dibattito aveva avuto implicazioni in gran parte politiche, di giurisdizione culturale e dunque territoriale: questo medesimo aspetto si faceva ora, dopo la morte prima di Alcuino (804) e poi di Carlo (814), ancora più evidente in 76 Questa linea interpretativa, che permetterebbe di ipotizzare per la genesi del testo il contributo complessivo di un coordinato gruppo di diversi studiosi, in parte anticipata da MEYVAERT, The Authorship cit. (alla nota 74), è stata delineata come possibile contributo alla soluzione del problema anche dalla stessa A. FREEMAN, Addition and Corrections to the Libri Carolini: Links with Alcuin and the Adoptionist Controversy, in «Scire litteras». Forschungen zum mittelalterlichen Geistesleben, hg. S. Krämer - M. Bernhard, München 1988, pp. 159-169.

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singole, sporadiche riprese della discussione teologica sulle immagini presso la nuova generazione di intellettuali che animava la nuova corte. Nello scambio di opinioni tra Ludovico e Michele II emergeva quindi con forza l’aspirazione comune ad evitare gli eccessi, ossia da una parte il rischio di un iconoclasmo fosco e distruttivo, e dall’altra il pericolo di concedere all’iconodulia il territorio della superstizione. Nell’anno 825, proprio a seguito delle riflessioni condotte presso le due corti, Ludovico indisse a Parigi un concilio de causa imaginum, nel quale, data pubblica lettura del passato carteggio intercorso tra Adriano I e gli imperatori Costantino ed Irene, vennero ricusati tanto l’iconoclasmo più efferato, quanto l’iconodulia ingenua e tendente all’idolatria77. Le posizioni dei tre protagonisti (la corte carolingia, quella bizantina ed il papato) erano ora ben definite e tendenzialmente concordi: se il pontefice Eugenio II manteneva una fedeltà adrianea al secondo niceno, le due corti imperiali apparivano significativamente spaventate dagli opposti estremismi: Avete visto due destinati a correre un pericolo ed ad allontanarsi dalla via regia; uno da un lato scivolato nel burrone dell’iconoclastia, l’altro incline alla superstiziosa iconodulia78.

La struttura dei documenti del conventus ricalcava, in linea di massima, quella classica delle assemblee ecclesiastiche dell’epoca. Al riferimento alla lettura corretta e rispettosa delle Scritture, si affiancava un congruo dossier di auctoritates patristiche ed ecclesiastiche, che spaziava da Eusebio di Cesarea a papa Silvestro, sino al riferimento d’obbligo alle tesi di Gregorio Magno, in merito all’utilità delle immagini sacre per facilitare la conoscenza dei passi scritturali anche a coloro i quali non siano abili a leggere in codicibus. Nell’equidistanza tra gli opposti radicalismi che la corte carolingia decideva ora di assumere come atteggiamento virtuoso nei confronti del problema delle immagini, ai primi due capitula del conventus, dedicati a sconfessare coloro i quali ritenevano ne77

Cfr. Concilium parisiense, ed.A.Werminghoff, in MGH, Concilia, 2/1 (Karolini aevi, 2), Hannover - Leipzig 1908, pp. 480-551. 78 Cfr. ibid., p. 482: «Duos in periculo constitutos conspexistis et a via regia declinantes, unum scilicet ad sinistram in abruptum confringendarum imaginum prolapsum, alterum vero ad dextram in superstitiosam videlicet imaginum adorationem proclivem».

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cessaria la distruzione di ogni rappresentazione del divino, seguiva un caput terzo, nel quale ancora testimonianze dedotte dalle stesse auctoritates erano doviziosamente raccolte ed invocate per argomentare la correttezza e la santità dell’atteggiamento moderato, anche «contra eos, qui indebito cultu imagines colunt, et adorant, et sanctas nuncupant»79.

3. Nuove dinamiche del dibattito teologico nell’età di Carlo il Calvo Nell’843, il trattato di Verdun sanciva di fatto, anche se non formalmente, la dissoluzione dell’unità imperiale carolingia. Dopo lunghi anni di guerre, i figli di Ludovico il Pio avevano diviso l’immensa eredità territoriale di Carlo Magno in tre grandi regioni: Lotario, che già possedeva buona parte della penisola italiana, ampliava i suoi possedimenti con una fascia continentale, compresa tra il Rodano ed il Reno, e con il titolo imperiale; ad est del Reno e ad ovest del Rodano si sviluppavano invece i regni di Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo. Pur preservando giuridicamente tanto l’istituzione imperiale, quanto l’uniformità normativa delle tre nuove regioni, il fondamento ideale stesso della «unanimitas» politica carolingia sembrava tramontato. Ciò nonostante, il dibattito teologico rimase vivace; gli intellettuali continuarono a collaborare con i sovrani carolingi, offrendo loro i risultati migliori di un ormai consolidato modello di formazione. Lo stesso Carlo il Calvo, proprio negli anni in cui concretamente le nuove istituzioni nate dal trattato di Verdun prendevano corpo, incoraggiò diverse dispute tra i migliori teologi del suo regno. Nello stesso anno 843, Carlo sottopose un’interrogazione ai monaci di Corbie su problemi legati al sacramento eucaristico, chiedendo in sostanza di prendere esplicitamente posizione sul modo in cui si dovesse correttamente interpretare la presenza del corpo e del sangue di Cristo sull’altare, ossia «in mysterio an in veritate». Il monaco Ratramno e l’abate Pascasio inviarono separatamente al sovrano due opere, entrambe intito79 Cfr. P. SPECK, Kaiser Konstantin VI. Die Legitimation einer fremden und der Versuch einer eigenen Herrschaft, München 1978 e I. ROCHOW, Kaiser Kostantin V. Materialen zu seinen Leben und Nachleben, Frankfurt 1994.

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late De corpore et sanguine Domini 80. Ratramno tentò di dimostrare che il sacramento ha senso solo «in mysterio», e che dunque non se ne può comprendere il significato profondo se non post mortem. Pascasio invece spiegava, nel suo De corpore, che la virtus sacramentale si manifesta «in veritate», e che già sulla terra il fedele avverte concretamente, tramite la fede, la vera sostanza del sacramento. I due teologi erano evidentemente divisi sul valore da attribuire, nella compiutezza del sacramento eucaristico e quindi, più in generale, nella complessa dimensione del sapere teologico, alle evidenze o alle apparenze sensibili. Per Ratramno il mondo fisico, con la sua mutevolezza, è del tutto inadeguato ad accogliere una verità superiore; la potenza di Dio si rivela agli uomini quando essi non si soffermano a ragionare sui limiti dei fenomeni naturali, e tendono alla comprensione di ciò che inevitabilmente sfugge ai sensi ed alla ragione, e che non potrà mai rivelarsi pienamente nella vita terrena. Pascasio, pur condividendo la sfiducia di Ratramno nei confronti della possibilità che il sensibile riveli l’intelligibile, crede che già la fede possa portare l’uomo a superare, in vita, i limiti gnoseologici imposti dai fenomeni, e cogliere, anche laddove l’evidenza non la mostra, la manifestazione della potenza divina. La medesima divergenza interpretativa, fondata sul divario di due impostazioni speculative fondamentalmente opposte, divise i due teologi anche nel corso di una discussione sul tema della nascita verginale di Cristo, che ebbe luogo, in modo intermittente, negli anni successivi81. Ratramno, nel suo De nativitate Christi, sostenne che Maria ha partorito naturaliter, senza però perdere la propria integrità fisica; Pascasio, invece, nel De partu virginis, evidenziò come fosse improprio definire «lex», nel senso di legge naturale voluta da Dio, la modalità di parto comune a tutte le donne: essa è infatti frutto del peccato adamico, e dunque è impossibile che Cristo vi si sia sottomesso. Per Ratramno, l’instabilità del sensibile non può assicurare alcuna conoscenza di Dio, della sua realtà 80

Cfr. PASCHASIUS RADBERTUS, De corpore et sanguine Domini, PL 120, 12551350, ed. B. Paulus, Turnhout 1969 (CCCM, 16); RATRAMNUS CORBEIENSIS, De corpore et sanguine Domini, PL 121, 125-170. 81 PASCHASIUS RADBERTUS, De partu Virginis, PL 120, 1365-1386, ed.A. Matter,Turnhout 1985 (CCCM, 56C), pp. 47-96; RATRAMNUS CORBEIENSIS, De nativitate Christi, PL 121, 83-103.

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e delle sue operazioni: Maria ha però partorito secondo natura proprio perché la nascita di Cristo riguarda l’ordine creaturale al quale egli si sottopose incarnandosi;e se il parto non fosse avvenuto secondo le consuete norme fisiologiche, il Redentore non sarebbe stato vero uomo, con grave compromissione della sua missione soteriologica. E tuttavia il parto, sempre secondo Ratramno, non ha implicato alcuna corruzione dell’integrità fisica della madre: perché il sensibile non è il luogo in cui la verità si manifesta pienamente, ed è dunque inutile tentare di rintracciare una coerenza tra il sensibile, la ragione ed il mistero. Da parte sua, l’abate Pascasio, respingendo l’idea che Cristo possa aver condiviso con gli altri uomini un parto naturale, proclama l’incontaminata perfezione della verginità della madre, modello di purezza per l’attuazione dell’autentico ideale di santità monastica da parte dei veri seguaci del figlio. In tal modo, Pascasio chiede agli uomini di credere, grazie alla fede, che la verità dell’incarnazione sia stata comunque preservata dall’eccezionalità soprannaturale dell’evento, nonostante essa non sia compatibile con l’evidenza razionale. Contemporaneamente alle dispute sul sacramento eucaristico e sulla nascita verginale, si svilupparono, nell’età di Carlo il Calvo, altri temi di dibattito.In particolare,gli intellettuali vicini alla corte si divisero sull’interpretazione delle dottrine sulla predestinazione divina e sulla Trinità argomentate e diffuse nella sua predicazione girovaga dal monaco Godescalco. Costretto alla monacazione dal padre, conte di Sassonia, Godescalco era entrato nel monastero di Fulda, dove aveva incontrato intellettuali di prestigio, come Lupo di Ferrières e Walafrido Strabone,ma aveva mal sopportato la disciplina imposta ai monaci dall’abate Rabano Mauro.Appellatosi alle norme che impedivano la monacazione forzata, aveva ottenuto che nel sinodo di Magonza e poi a Worms si discutesse del suo caso.Le decisioni conclusive di Worms non sono note;è certo che tra l’830 e l’840,anno in cui partì per l’Italia,Godescalco fu monaco a Corbie, entrando in contatto con Ratramno, e poi ad Orbais. In questi anni, si dedicò a riflettere sui rapporti tra l’onniscienza divina e la libertà dell’uomo, giungendo a difendere l’esistenza di una doppia predestinazione del genere umano, ossia dei buoni alla salvezza e dei malvagi alla dannazione82.Nel suo viaggio in Italia,Go82

Per una ricostruzione complessiva della disputa, cfr. E. S. MAINOLDI, Intro-

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descalco si fermò aVerona,dove il vescovo Noting,spaventato dalla sua predicazione sulla doppia predestinazione,scrisse una preoccupata lettera a Rabano Mauro, in qualità di abate da cui dipendeva Godescalco. Rabano compose ed inviò a Noting un De praedestinatione 83. Sei anni più tardi, nell’846, un anno prima di diventare arcivescovo di Magonza, Rabano fu ancora una volta interpellato dall’Italia, ricevendo da parte di Eberardo, conte del Friuli, dove ora si trovava Godescalco, una richiesta di consiglio e chiarimento sugli insegnamenti del monaco. Rabano si impegnò allora nella elaborazione di una silloge di testi agostiniani perché Godescalco affermava di avere reperito negli scritti dei Padri numerosi elementi utili alla propria dottrina84. Allontanato da Eberardo, dopo due anni di peregrinazione nei Balcani, Godescalco tornò a Fulda,ora governata dall’abate Hattone,ma sempre sotto la giurisdizione di Rabano, divenuto intanto arcivescovo di Magonza.Nello stesso anno Rabano convocò un sinodo;condannato come eretico,Godescalco fu costretto a ritornare ad Orbais. Rabano inviò i documenti del sinodo ad Incmaro, arcivescovo di Reims, nella cui giurisdizione rientrava Orbais, rimettendogli l’incarico di portare ad esecuzione il giudizio ed impedire al pericoloso monaco di perseverare nel diffondere il suo errore. Per volontà di Incmaro, nel sinodo di Quierzy dell’849 Godescalco fu nuovamente condannato e rinchiuso nel monastero di Hautvilliers. Pur recluso, tuttavia, egli non rinunciò a difendere le sue tesi, e soprattutto continuò a far circolare le sue opere tra intellettuali, monaci ed ecclesiastici85. La soluzione dottrinale ufficialmente sancita dal sinodo di Quierzy non fu condivisa da tutti gli intellettuali carolingi.Tra coloro che manifestarono apertamente un dissenso, si segnalarono Lupo di Ferrières e Prudenzio, vescovo di duzione, in IOHANNES SCOTUS ERIUGENA, De praedestinatione liber. Dialettica e teologia all’apogeo della rinascenza carolingia, Firenze 2003, pp. IX-XLI. 83 Cfr. HRABANUS MAURUS, Epistola ad Notingum, in ID., Epistolae, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 5 (Karolini aevi, 3), Berlin 1899 (1978), [pp. 381516 (e pp. 517-530, Epistolarum Fuldensium fragmenta)], 22, p. 428; ID., De praedestinatione, PL 112, 1531-1553. 84 Cfr. ID., Epistola ad Eberhardum, in ID., Epistolae, ed. Dümmler cit., 42, pp. 481-487. 85 Cfr. GODESCHALCUS ORBACENSIS (GODESCHALCUS SAXONICUS), Confessio brevior, ed. C. Lambot, in Oeuvres théologiques et grammaticales de Godescalc d’Orbais, Louvain 1945 (Spicilegium sacrum Lovaniense, 20), pp. 52-54.

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Troyes; essi sostenevano che, per quanto Dio non possa predestinare alla colpa, è tuttavia indubbio e necessario ammettere la predestinazione dei peccatori alla pena86. Avversato dunque da una parte significativamente autorevole degli intellettuali del tempo, Incmaro condannò direttamente gli «pseudochristi» che mettevano in pericolo l’unità della Chiesa, e tentò di coinvolgere nuovamente nella disputa Rabano87. Ormai settantenne, questi si limitò a ribadire la propria condanna, e a inviare ad Incmaro i documenti già composti per Noting ed Eberardo88. Intanto, forte del consenso che andava maturando intorno al suo caso, Godescalco compose una Confessio prolixior, nella quale tentò di illustrare la sua dottrina sulla predestinazione con il ricorso ad un’espressione tratta dalle Sententiae di Isidoro di Siviglia, secondo cui appariva corretto definire la predestinazione «gemina» (ossia ‘gemella’, e cioè ‘duplice’ e distinta negli effetti, pur essendo identica nella causa divina)89: Godescalco pensò così di sintetizzare, in un solo termine, la semplicità, singolare, della sostanza divina, e la distinzione, plurale, delle tre persone. La soluzione proposta da Godescalco, che ne dimostrava la competenza teologica e linguistica, trovò ancora il sostegno di Lupo di Ferrières, nonché l’appoggio di Ratramno di Corbie90. L’intervento di Lupo era stato sollecitato dallo stesso Carlo il Calvo. Incmaro decise dunque di avvalersi della collaborazione di Giovanni Scoto Eriugena, maestro originario dell’Irlanda e attivo 86

Cfr. PRUDENTIUS TRECENSIS, Epistola ad Hincmarum et Pardulum, PL 115, [971-1010], 976AB. 87 Cfr. HINCMARUS RHEMENSIS, Epistola ad simplices et reclusos, in ID., Epistolae, 37, ed. E. Perels, in MGH, Epistolae, 8 (Karolini aevi, 6), Berlin 1939, pp. 12-23, in partic. pp. 13, 17. 88 Cfr. HRABANUS MAURUS, Epistolae ad Hincmarum, in ID., Epistolae, ed. Dümmler cit., 43 e 44, pp. 487-489 e 489-499. 89 ISIDORUS HISPALENSIS, Sententiae, II, 6, 1, PL 83, [537-738], 606A: «Gemina est praedestinatio, sive electorum ad requiem, sive reproborum ad mortem. Utraque divino agitur iudicio, ut semper electos superna et interiora sequi faciat, semperque reprobos ut infimis et exterioribus delectentur deserendo permittat»; cfr. GODESCHALCUS ORBACENSIS, Confessio prolixior, ed. Lambot cit. (alla nota 85), pp. 55-78, in partic. pp. 67,2 - 68,2. 90 Cfr. LUPUS FERRARIENSIS, De tribus quaestionibus, PL 119, 619-648; ID., Collectaneum de tribus quaestionibus, PL 119, 647-655; RATRAMNUS CORBEIENSIS, De praedestinatione Dei ad regem Carolum Calvum, PL 121, 13-80. Sul testo di Ratramno cfr. P. BOUHOT, Ratramne de Corbie. Histoire littéraire et controverses doctrinales, Paris 1976, pp. 38-41.

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proprio nella scuola di palazzo del sovrano. Educato secondo il modello di formazione carolingio alla conoscenza dei Padri e delle artes, Giovanni Scoto compose per l’occasione un opusculum, il De praedestinatione liber, nel quale confutò le tesi di Godescalco dimostrando, con rigorose argomentazioni, che la semplicità della sostanza divina è incompatibile non soltanto con una predestinazione doppia (o comunque duplice), ma anzi che Dio di fatto non può e non potrà mai conoscere né predestinare il male in quanto, secondo la sua ottica speculativa, di impostazione platonizzante e armonica con la tradizione agostiniana, nell’universo ordinato da Dio nessuna realtà malvagia e contraria alla sua eternamente buona volontà potrà mai esistere91. Colpito dall’accusa di introdurre limiti, escogitati secondo le ristrette prospettive della razionalità umana, all’assolutezza dell’onnipotenza divina il De praedestinatione liber suscitò violente reazioni. Prudenzio di Troyes, forse animato da malumori personali, ma ufficialmente invitato dal suo metropolita Ganilone di Sens, al quale Incmaro aveva inviato l’opera di Giovanni Scoto, scrisse un De praedestinatione contra Iohannem Scotum, nel quale confutava le tesi del maestro irlandese commentandone l’opera con precisione e rigore92. Utilizzando quale base di partenza questo lavoro, inviato da Prudenzio a Lione, il monaco Floro compose a sua volta un Adversus Iohannis Scoti Erigenae erroneas definitiones liber, nel quale sono in pratica oggetto di una feroce critica più che il trattato eriugeniano, le citazioni da esso dedotte e sinteticamente riportate da Prudenzio nel proprio93. Lo stesso Incmaro, pochi anni più tardi, prese quindi le distanze da Giovanni Scoto, in un suo De praedestinatione inviato a Carlo il Calvo94. Mentre tentava in tutti i modi di confutare la tesi della «gemina praedestinatio», Incmaro si impegnò nel contrastare anche le posizioni che lo stesso Godescalco aveva assunto in quegli stessi 91 Cfr. IOHANNES SCOTUS ERIUGENA, De praedestinatione liber, PL 122, 347438, ed. G. Madec (De divina praedestinatione liber),Turnhout 1978 (CCCM, 50); ed. Mainoldi cit. (alla nota 82). 92 Cfr. PRUDENTIUS TRECENSIS, De praedestinatione contra Iohannem Scotum, PL 115, 1011-1351. 93 Cfr. FLORUS LUGDUNENSIS, Adversus Iohannis Scoti Erigenae erroneas definitiones liber, PL 119, 101-250. 94 Cfr. HINCMARUS RHEMENSIS, De praedestinatione, PL 125, 65-474.

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anni in materia di dottrina trinitaria. Seguendo infatti lo stesso ragionamento che lo aveva condotto a difendere l’espressione «gemina praedestinatio» – e anzi, forse, proprio per consolidarne l’utilizzabilità – Godescalco sostenne che l’aggettivo «trina», grammaticalmente singolare ma plurale sotto l’aspetto semantico, è quanto mai adatto ad illustrare il mistero del rapporto ineffabile tra l’unitaria sostanza divina, o «deitas», e le singole persone della Trinità: Preso spunto dalla conclusione dell’inno, del quale si ignora l’autore, nella quale si dice: «Te trina deitas, unaque poscimus», è ormai da tempo che alcuni, dedicandosi con compiacimento a nuovi termini per farli conoscere, cominciarono a discutere sul fatto che come Dio è uno e trino, così si debba e si possa dire, compatibilmente con la dottrina cattolica, che anche la divinità è una e trina95.

Con queste parole, Incmaro di Reims riassumeva lo status quaestionis. Godescalco aveva dunque ritrovato l’espressione «trina deitas» nell’anonimo inno liturgico Sanctorum meritum inclita gaudia, e ne proponeva l’utilizzo, nel discorso trinitario, per il suo duplice valore: formalmente singolare, ma plurale nel significato96. Godescalco compose diverse opere dedicate all’argomento: un insieme di quattro brevi testi, tramandati con il titolo unitario De trina deitate; un testo più lungo e ricco di citazioni patristiche, noto come De Trinitate; e, all’interno di una ventina di brevi testi che va sotto il nome Responsa de diversis, cinque capitoli di teologia trinitaria97. Incmaro da parte sua replicò con un corposo De una ac non trina deitate, in cui non solo confutava le tesi del suo avver95 Cfr. ID., De una et non trina deitate, PL 125, 475AC: «Diu est quod quidam, occasione accepta de finalitate hymni, cuius auctor penitus ignoratur, in qua dicitur:‘Te trina Deitas, unaque poscimus’, delectabiliter vocum novitatibus ut innotescerent incumbentes, coeperunt contendere quod sicut trinus et unus Deus, ita trina et una Deitas et debeat et catholice valeat dici». 96 Cfr. GREGORIUS I PAPA, Liber responsalis seu antiphonarius, PL 78, [725-849], 811A; Breviarium Gothicum, PL 86, [885-939], 908A. Cfr. inoltre C. BLUME, Der cursus S. Benedicti Nursini und die liturgischen Hymnen des VI-IX Jahrhunderts in ihrer Beziehung zu den Sonntags und Feierhymnen unseres Breviars, Leipzig 1908. 97 Cfr. GODESCHALCUS ORBACENSIS, Schedula quod trina deitas dici possit, ed. Lambot cit. (alla nota 85), pp. 20-26; De trina deitate, ibid., pp. 81-91; Responsa de diversis, ibid., pp. 136-138 Cfr. G. H.TAVARD,Trina deitas: The Controversy between Hincmar and Gottschalk, Marquette 1996, pp. 40-41.

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sario, ma denunciava anche Ratramno per avere apertamente difeso Godescalco in un suo scritto che non è giunto fino a noi98. Tra reciproche ed opposte accuse di eresia e fraintendimento dei termini impiegati nei testi teologici dei Padri, o con l’invenzione accurata di ulteriori formule escogitate a partire da essi, i protagonisti di questa ultima fase dei dibattiti teologici di età carolingia si irrigidivano insomma di volta in volta sui diversi schieramenti che li vedevano contrapposti, quasi sottoponendo a progressiva verifica l’efficacia della strumentazione metodologica che le generazioni precedenti avevano escogitato e raffinato, perché li guidasse nella ricerca di una ben diversa, più intimamente sentita e più strenuamente difesa unitarietà spirituale e ideologica.

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Cfr. HINCMARUS RHEMENSIS, De una ac non trina deitate, PL 125, 475-479.

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CAPITOLO TERZO

LE ‘COLONNE DELLA SAPIENZA’: I PRINCÌPI DI ALCUINO

1. L’epistolario Alcuino nacque nell’Inghilterra centro-settentrionale attorno al 7351. Pur non appartenendo ad una famiglia aristocratica, entrò giovanissimo a far parte della comunità che gravitava attorno alla cattedrale di York, dove venne educato dall’arcivescovo Egberto. Qui apprese i rudimenti delle arti liberali,conobbe i principali autori della cultura classica, dagli historici a Virgilio, e costruì il bagaglio di conoscenze patristiche che influenzò in modo significativo il suo mondo intellettuale2. Negli stessi anni, il giovane principe franco Carlo, ereditata la corona dal padre Pipino il Breve (768), aveva già conquistato l’Italia longobarda, sconfitto più volte i Sassoni e aperto le ostilità con gli arabi presenti nella penisola iberica, lasciando intravedere il lungo percorso che lo avrebbe portato a 1

Cfr. E. S. DUCKETT, Alcuin, Friend of Charlemagne. His World and His Work, New York 1951; S.ALLOTT, Alcuin of York: His Life and Letters,York 1974; E. COCCIA, La cultura irlandese precarolingia, miracolo o mito in «Studi medievali», Ser. 3a, 8 (1967), pp. 257-420; D. A. BULLOUGH, Alcuin before Frankfort, in Das Frankfurter Konzil von 794 cit. (cap. 2, alla nota 66), pp. 571-585. Cfr. anche BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 267-272. 2 Diverse notizie sulla prima formazione di Alcuino provengono da uno dei suoi Carmina, noto come Versus de patribus regibus et sanctis Euboracensis ecclesiae, in ID., Carmina, ed. E. Dümmler, in MGH, Poetae Latini Aevi Karolini, 1, Berlin 1881, pp. 169-206; per un’analisi della tradizione testuale di questo poema e della sua importanza in relazione allo stato degli studi classici a York nel secolo VIII, cfr. P. GODMAN, The Textual Tradition of Alcuin’s Poem on York, in «Mittellateinisches Jahrbuch», 15 (1980), pp. 33-50; BRÜNHOLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit., p. 31.

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riunire, per breve tempo, gran parte della moderna Europa sotto un unico impero cristiano. Quando Alcuino si presentò in Italia a Carlo Magno, nel 781, si produsse dunque un fortuito ma ricchissimo incontro tra le competenze del primo, e l’istituzione politica che il secondo stava militarmente e politicamente costruendo3.Da un lato,Alcuino rappresentava infatti il prototipo dell’intellettuale colto, raffinato e cristiano che avrebbe potuto garantire all’impero che Carlo stava creando un’unitaria e consolidata identità culturale;dall’altro la sincera volontà di evangelizzazione di Alcuino aveva trovato in Carlo un «novus Constantinus» a cui affidare il compito di estendere i confini incerti della Cristianità. Per portare a compimento l’evangelizzazione dei barbari e ricondurre nell’ambito dell’ortodossia le più pericolose eresie, rispettando i progetti del sovrano,Alcuino si preoccupò di costruire per sé e per i suoi discepoli le armi necessarie a combattere i nemici della fede. Se infatti le Scritture e l’auctoritas dei Padri costituivano i pilastri della formazione cristiana, per diventare «munimina fidei» essi dovevano acquisire stabilità ed omogeneità4. Preoccupandosi dunque di fondare una «scientia sacra», Alcuino tentò di emendare il testo biblico, di realizzare sillogi di esegesi scritturale patristica, manuali di arti liberali che guidassero gli studiosi nella formazione delle «regulae» del retto ragionamento, agiografie che inducessero i fedeli all’imitazione dei santi, ed opere apologetiche nelle quali confluissero, per la difesa della verità della fede, conoscenze scritturali, esegetiche, patristiche e liberali. L’elaborazione di un insieme così complesso di testi, diffe-

3 Nel periodo trascorso alla corte di Carlo, Alcuino tornò in Inghilterra, in missione per conto del re, solo dal 790 al 793. Pur rimanendo diacono, Carlo gli affidò il governo di diverse abbazie, come Ferrières e S. Martino di Tours, dove, nell’801, si ritirò, probabilmente in seguito a contrasti con il sovrano.A Tours Alcuino morì nell’804. 4 Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS (in seguito: ALCUINUS), Adversus Elipandum Toletanum libri quatuor, PL 101, 235D; ID., Contra Felicem Urgellitanum episcopum libri septem, PL 101, 151D. Per il rapporto, ampiamente dibattuto dalla critica, di Alcuino con i Padri e con la tradizione esegetica, cfr. D. A. BULLOUGH, Alcuin and the Kingdom of Heaven: Liturgy,Theology and the Carolingian age, in Carolingian Essays. Lectures in Early Christian Studies, ed. U. R. Blumenthal,Washington 1991, pp. 17-31; J. MARENBON, Alcuin, the Council of Frankfort and the Beginnings of Medieval Philosophy, in Das Frankfurter Konzil von 794 cit. (cap. 2, alla nota 66), pp. 603-615, in partic. p. 603; J. C. CAVADINI, The Sources and Theology of Alcuin’s De Fide Sanctae et Individuae Trinitatis, in «Traditio», 46 (1991), pp. 123-146.

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renti per stile e funzione, occupò l’intera esistenza di Alcuino, che dedicò momenti diversi della propria vita a molteplici e diversificate produzioni5. Distanti per finalità, genere letterario ed epoca di stesura, le opere di Alcuino possono dunque essere analizzate come un unico corpus solo cercando al loro interno una cifra comune, un progetto unitario calato di volta in volta con modalità diverse nelle differenti circostanze. In questa ricerca, la lettura e l’analisi dell’epistolario forniscono in particolare utili indicazioni. La stesura di epistolae accompagnò infatti l’intera esistenza di Alcuino, che riversò in esse la traccia delle fatiche della composizione del suo corpus, le speranze nell’evangelizzazione delle popolazioni sottomesse da Carlo Magno, le preoccupazioni per la gestione della complessa rete di relazioni creata dal sovrano, il coinvolgimento nei rapporti personali. Dalle circa trecento lettere che compongono l’epistolario emerge infatti il carattere ufficiale dell’uomo politico e di cultura, accanto ai tratti intimi dell’amico e del confidente. La raccolta fornisce dunque una immagine completa e complessa del suo autore, sia in relazione al tenore delle lettere, tra loro profondamente differenti, sia per la capacità di variare registro letterario a seconda delle diverse circostanze. L’epistolario di Alcuino non è un prodotto letterario ma raccoglie epistolae realmente scritte o ricevute nell’arco di quasi quattro decenni. Risulta per questo motivo complesso fornire in modo sommario una descrizione esaustiva delle caratteristiche formali e dei contenuti di tale raccolta. Nel tentativo di isolare un criterio di classificazione, soffermandosi in particolare sugli interlocutori di Alcuino, è possibile individuare tre grandi gruppi di destinatari: gli «amici», i «discipuli» e quelli che, con terminologia alcuiniana, potrebbero definirsi «rectores», gli uomini cioè che devono esercitare la funzione del governare («regere»).

5 Non esistono studi specifici sullo stile letterario di Alcuino; per una prima ricognizione, con particolare riferimento allo stile epistolare, cfr. P. GODMAN, Alcuin: the Bishops, Kings and Saints of York, Oxford 1982, ed i più recenti E.A. MATTER, The Voice of My Beloved:The Song of Songs in Medieval Latin Christianity, Philadelphia 1990, in partic. pp. 251-264; C. CHASE, Two Alcuin Letter Books,Toronto 1975.

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1.1. Lettere agli amici Le lettere che Alcuino indirizza agli «amici» appaiono tra le più sincere e dirette. Il mondo, pur ristretto alla cerchia del vivere civilizzato, sembra ad Alcuino abitato in egual misura da uomini buoni e da malvagi: «in omni loco, ubi hominum conversatio est plurimorum, utrumque et boni et mali inveniuntur»6. Nella lettera che apre l’epistolario Alcuino indica con queste parole il timore suscitato dall’alterità e dalla diversità, che accompagna anche la «conversatio» tra esseri umani, l’intima e personale frequentazione degli affetti, e non si nasconde il pericoloso fascino che i rapporti interpersonali possono esercitare sull’uomo, sviandolo dai suoi veri doveri. Questa preoccupazione, però, non conduce necessariamente alla rinuncia dei piaceri dell’amicizia e degli affetti. Preghiere di suffragio e richieste di lettere, vino, cibo, vestiario e, talvolta, reliquie dei santi:Alcuino si rivolge spesso ai propri amici per parlare anche delle esigenze del vivere quotidiano o delle aspirazioni della propria fede7. Le lettere più personali mostrano dunque il tentativo di rispettare una sana moderazione degli affetti, ma di conciliarla con il naturale bisogno di condividere con le persone care la propria esistenza. In una parte consistente di queste epistole,Alcuino si preoccupa ad esempio di portare conforto ad amici che per diversi motivi sono in difficoltà, fisica e morale. In questi casi, le epistolae presentano nell’incipit o nel saluto finale una citazione biblica che fornisce lo spunto per le successive considerazioni o per riassumere i pensieri appena espressi. Affidando le sofferenze dei suoi destinatari alla parola consolante delle Scritture, Alcuino tende a ribadire, anche nel momento del dolore, l’indispensabile presenza della media6

Cfr. ALCUINUS, Epistola ad amicum, in ID., Epistolae, 1, ed. Dümmler cit. (cap. 2, alla nota 8), p. 18,18-19. 7 Alcuino dedica, ad esempio, dei versi all’amico Candido in partenza per Roma, nei quali fa espressamente riferimento al suo desiderio di ricevere reliquie dei santi; cfr. ALCUINUS, Ad Candidum, in ID., Carmina, ed. Dümmler cit. (alla nota 2), p. 256,33-39: «Si te preveniat clementis gratia Christi / ante oculos sacros patris apostolici, / posce patrum cineres, vestes, vel forte capillos / sanctorum, sacrae aut gaudia magna crucis, / ut sit subsidium nostrae per saecula vitae, / et nostris pariter, semper ubique pium». Con le reliquie, afferma infatti Alcuino in una lettera inviata al vescovo Aginone, si rende onore a Dio, si protegge l’esistenza di chi le riceve, e si aumentano i meriti di chi le cede; cfr. ID., Epistola ad Aginonem, in ID., Epistolae, 75, pp. 117-118.

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zione di Dio. Il testo sacro diventa così un luogo spirituale e letterario, una riserva di exempla, di metafore e di immagini evocative. Nell’invitare i propri interlocutori a non sottovalutare la temibilità dei pericoli del mondo, Alcuino menziona con continuità la morale dell’umiltà dei Proverbi, come, nel consolare un infermo, si affida all’invocazione con la quale Giuditta chiede a Dio la forza per decapitare Oloferne8; allo stesso modo, l’immagine evangelica dei servi svegli e vigili in attesa del padrone conclude in un’altra missiva un lungo elenco di raccomandazioni utili alla formazione del perfetto cristiano9. Questo uso letterario delle Scritture per scopi parenetici o consolatori nei confronti degli «amici» appare evidente nelle lettere dedicate al tema della morte. Con parole solo apparentemente prive di partecipazione al dolore altrui, Alcuino sposta l’attenzione del suo interlocutore, sofferente per la scomparsa di una persona cara, dal dolore per la perdita terrena, alla gioia per la comune rinascita in Cristo: Non piangere [tuo figlio], che non potrai richiamare in vita. Se Dio esiste, non ti dispiaccia averlo perso, ma ti dia gioia l’idea che ti ha preceduto nella pace. Se due uomini sono amici, è più fortunato chi muore prima di chi muore dopo: il primo infatti ha chi, con amore fraterno, intercede per lui ogni giorno e lava con le lacrime gli errori della sua vita terrena. E non dubitare che possa giovare la cura della devota premura che hai per la sua anima. Serve, a te ed a lui10.

Alcuino invita la madre che ha perso il figlio a non smarrire la fede, ma a sublimare in essa, secondo le esortazioni scritturali, anche la sofferenza. Il dolore che spesso accompagna la vita degli uomini trova il suo senso e la sua direzione solo se viene offerto a Dio; così è possibile lenire anche lo strazio di una madre sofferente ricor8 Cfr. ID., Epistolae ad amicum e ad Leutfredum, in Epistolae, 1 e 2, pp. 18,5-17 e 19,7-11. I passi biblici sono PV 27, 1 e Jdt 13, 4 e seqq. 9 Cfr. ID., Epistola ad Hechstanum, ibid., 37, pp. 79,25-27; il passo biblico è Lc 12, 35 e seqq. 10 ID., Epistola ad Edilthrudam, ibid., 105, p. 152,5-9: «Noli lugere eum, quem revocare non poteris. Et si Deus est, non illum doleas amissum, sed tibi in requiem gaudeas praemissum. Si duo sunt amici, felicior est mors praecedentis quam subsequentis: habet enim qui fraterno amore pro se cotidie intercedat et lacrimis lavet pristinae errores vitae. Nec dubites prodesse piae sollicitudinis curam, quam pro anima illius geris.Tibi proficit et illi».

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dandole l’eredità promessa da Cristo sin dall’inizio della sua predicazione11.Anche in epistolae così intense, consolatorie per chi vive il dolore della scomparsa dei propri cari, Alcuino tenta di attenuarne l’eccessivo coinvolgimento nei crucci mondani assicurando la propria vicinanza spirituale, alla ricerca di una sincera «medietas Christiana» tra sofferenza e carità: la fede comune e l’osservanza dei doveri che da essa derivano, infatti, costituiscono costantemente per Alcuino il piano sul quale è possibile ricomporre questo duplice sentimento, e le Scritture determinano l’orizzonte dottrinale nel quale realizzare questa comunione.Tutto ciò che nel mondo è bene deriva da Dio, anche gli «amici»; la loro frequentazione, moderata dal buon senso, non può dunque nuocere.Al contrario, essa può e deve risultare utile perché le persone care si spronino a vicenda ad una vita cristianamente virtuosa12. La forza di questo sentimento appare ancora più evidente nel racconto alcuiniano delle sensazioni provate nell’attesa delle lettere di un fraterno amico, e delle emozioni poi suscitate dal loro desiderato arrivo: Come il sole infuocato sale nella costellazione del Cancro ardente, e la terra, arida per il calore lungo ed eccessivo, aspetta le piogge, così, ottimo Padre, il desiderio di saperti felice, alimentato intimamente dalla sete del refrigerio di un grande amore, aspettava da tempo tue notizie. Continuamente, in ogni attimo, ardendo ripetevo questa litania: quando arriveranno gli scritti dolcissimi del mio desiderato? Quando avverrà che io veda i segni della salute del mio dilettissimo? Quando una pagina dell’italica nobiltà mi mostrerà la felicità dell’amico che desidero, perché possa vedere se sia rimasto nel suo petto un qualche ricordo di quell’amicizia giurata in Cristo; se abbia ancora nascosto il nome del suo Albino nel segreto del suo cuore con lo stilo della carità, come il nome dolcissimo del Padre Paolino è presente con perpetuo amore, con lettere eterne, nel cuore del figlio? Ecco, ecco arriva la pagina dell’affetto paterno, che da tempo desideravo, più dolce al mio palato di ogni miele, più prezioso, agli occhi, di ogni pietra preziosa. La prendevo, felice, tra le mie mani, e la strin11

Cfr. ID., Epistola ad Anglicam, ibid., 106, p. 153,14-19. Il riferimento biblico è a Mt 11, 28-29. 12 Cfr. ID., Epistola ad Riculfum, ibid., 35, p. 77,16: «Quid faciet mens, nisi lugeat, dum paucos habet amicos?».

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gevo al petto, ansioso di sapere che cosa mi annunciava del mio caro Paolino. Rotti i sigilli, con un’avida occhiata mi sono aperto un sentiero attraverso le singole righe, e, apprendendo dell’auspicata salute del Padre, coprivo di baci i tratti di ogni singola lettera, e ho profuso tutto me stesso nel ringraziare Cristo Dio, dicendo con il salmista: «Mi farai sentire gioia e letizia, ed esulteranno le ossa deboli»13.

L’immagine illustra in modo esemplare lo spirito alcuiniano. In essa si esplicitano, infatti, accenti di lirismo, intimi e personali, sempre pervasi da un chiaro riferimento al comune fondamento cristiano. L’amicizia, pur se «foederata in Christo», è descritta con vivaci accenti di passione, turbata ad esempio dal timore di non essere parte dei pensieri del proprio confidente e di non godere più della sua amicizia e del suo affetto. Nella narrazione, l’arrivo della lettera scioglie la tensione di una lunghissima attesa; Alcuino bacia le parole che l’amico scrive, ringraziando Cristo di avergli donato ciò che aveva chiesto. Anche in questo caso, una citazione scritturale chiude idealmente il percorso: l’amico diviene infatti l’«egregius pastor» per il cui tramite godere della gloria di Cristo per l’eternità, dopo aver spezzato le catene del peccato ed essere risorto a nuova vita come Lazzaro14. In questa, come in al13

ID., Epistola ad Paulinum, ibid., 86, pp. 128,31-35 e 129,1-12: «Dum ferventis Cancri igneus sol sidus ascendit, et nimio diuturnoque calore arida tellus imbres exspectat; sic tuas, Pater optime, in refrigerium magni amoris sitiens in meo pectore voluntas tuae beatitudinis diu desiderabat litteras. Iterum atque iterum per singula horarum momenta aestuans hoc revolvebat elogium: Quando venient desiderati mei dulcissimi apices? Quando videam signa salutis dilectissimi mei? Quando mihi Ausoniae nobilitatis pagina optati prosperitatem ostendet amici, ut videam si aliqua foederatae in Christo amicitiae in illius pectore maneat memoria; si Albini sui nomen stylo charitatis in cordis arcano reconditum habeat, sicut suavissimum Paulini Patris nomen, perpetua dilectione, in corde filii aeternis viget litteris inscriptum? Ecce venit, ecce venit paternae pietatis pagina, quam diu desiderabam, omni melle palato meo dulcior, omni obrizo oculis honorabilior. Hanc laetus ambabus accipiebam manibus, et toto amplectebar pectore, suspensus, quid mihi de meo nuntiaret Paulino? Solutisque sigillis, avidis oculorum obtutibus per singulas lineas iter aperui, desiderabilemque optatae salutis sospitatem Patris agnoscens, in illis mox singulis litterarum apicibus oscula libabam, totumque me Deo Christo in gratiarum effudi actiones, dicens:‘Auditui meo dabis gaudium et laetitiam, et exsultabunt ossa humiliata’ (Ps 50, 10)». Per l’utilizzo, nell’ambito della corte di Carlo Magno, di soprannomi derivanti spesso dalla tradizione classica, come nel caso di Albinus e Flaccus per Alcuino, cfr. DUCKETT, Alcuin, Friend of Charlemagne cit. (alla nota 1), pp. 91-95, 100-104, 105-108, 140-146, 151-154. 14 Cfr. ALCUINUS, ibid., p. 131,13-15. La citazione biblica è da Jo 11, 44.

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tre occasioni in cui è similmente descritta l’intensità umana dei sentimenti di affetto ed amicizia e la lontananza delle persone care sembra insopportabile15, Alcuino non può non lasciar trapelare una nota di tristezza nel costatare quanto la «longinquitas terrarum» sia davvero «iniqua» nel costringere gli amici a rinunciare alla «confabulationis dulcedo», ed a doversi accontentare delle rare e mai complete notizie epistolari16. Lo scambio di lettere rappresenta dunque un «officium» nel quale assaporare la gioia della carità, ed il «servitium Dei» diviene, per ogni amico a cui Alcuino si rivolge, un elemento di comunione reale; il rapporto interpersonale così non si riduce semplicemente alla reciprocità degli affetti, ma si dipana e si consolida nel comune rivolgersi alla medesima fonte di verità17. Quasi a compensare la sofferenza della lontananza, Alcuino ribadisce infatti come la comunità cristiana debba, per la sua stessa natura evangelica, ampliare indefinitamente la sua estensione; i cristiani, per vocazione, non possono rimanere legati a un’unica patria terrena ed ai costumi comuni18. Solo la «societas sanctae caritatis» garantisce quindi l’esistenza di un legame, fondato proprio sulla comune origine di figli di Dio orientati dalla fede («amicitia fraternae dilectionis quae inter homines Dei servos inviolata debet observari»)19. Gli amici rappresentano dunque, nell’universo mutevole e nella potenzialmente infinita estensione delle terre toccate dal Vangelo, una certezza ed un conforto per il credente, se, in nome della comune fede, affrontano con lui le alterne vicende della fortuna: «Un nuovo amico non è simile ad uno vecchio». L’amico che segue il mutare della fortuna, e bada al tempo, che a seconda della qualità del luogo muta, non fu mai vero amico. (...) Poiché in te, fratello santissimo, ho trovato la vera carità, nessuna 15 Cfr. ID., Epistola ad Arnonem, ibid., 59, p. 102,25-27: «Spectavi, spectavi, optabam: et ecce quem spectavi, non venit: et quem spectavi, non consideravi, quem optabam, non accipiebam. Frustrata est expectatio, evacuata est spes. Et utinam pro spe esset praesentia, nunc esset plenum gaudium». 16 Cfr. ID., Epistolae ad Paulinum, ibid., 96 e 99, pp. 140,9-11 e 143,8-11. 17 Cfr. ID., Epistola ad Edilburgam, ibid., 102, pp. 148,31-32 e 149,1: «Quia invidia terrarum longinquitas mutuae confabulationis prohibet dulcedinem, datur nobis litterarum officio caritatis demonstrare suavitatem»; ID., Epistola ad amicum, ibid., 6, p. 31. 18 Cfr. ID., Epistola ad Fordradum, ibid., 12, p. 37,15-17. 19 Cfr. ID., Epistola ad Higbaldum, ibid., 24, p. 65,21-27.

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distanza sulla terra mi tiene lontano poiché desidero che tu goda perennemente in Cristo secondo la disponibilità di un messo. E voglia il cielo che il suo amore riempia i nostri cuori, affinché tramite l’amore di Dio tra di noi rimanga inviolabile il sentimento fraterno20.

1.2. Lettere ai discipuli Nel vasto mondo di relazioni ed affetti costruito da Alcuino, e così efficacemente riportato nel suo epistolario, un ruolo particolare rivestono i rapporti caratterizzati da un vincolo didattico. Già discepolo prima di essere maestro a sua volta, Alcuino si rivolge spesso ai suoi educatori d’infanzia per ricordare loro, e far presente a se stesso, l’impegno dovuto in ogni relazione pedagogica: Voi avete curato con caldo affetto materno gli anni fragili della mia infanzia; avete sostenuto con devota pazienza il tempo insolente della fanciullezza, mi avete educato ad una perfetta maturità con la disciplina del castigo paterno, rafforzandola con la conoscenza dello studio delle cose sacre. Padri e fratelli, tra tutti i più amati, ricordatemi sempre. Io ricorderò voi, in vita come in morte. E forse Dio avrà misericordia di me in quanto seppellirete una volta diventato vecchio colui che avete nutrito bambino21. 20 ID., Epistola ad amicum, ibid., 39, p. 82,8-10 e 20-24: «‘Amico antiquo novus non est similis’ (Sir 9,14).Amicus qui fortunam sequitur, et tempus observat, qui iuxta loci qualitatem mutatur, numquam verus fuit. (...) Quia in te, frater sanctissime, veram inveni caritatem, ideo nulla terrarum spatia me prohibent, secundum opportunitatem portantis cupiens te in Christo perenniter frui, cuius amor nostra utinam impleat corda, ut per eius dilectionem nobis inviolabilis permaneat fraternitas». Alcuino ritorna spesso sul tema dell’amicizia come espressione del costante riferimento comune a Dio. Cfr. ID., Epistola ad Benedictum, ibid., 56, pp. 99,40 e 100-1-3: «Quia amicus in necessitate conprobatur, quo maxime de hac vita quisque transiens indiget, ut fraterna intercessione iudicis sui faciem videat clementem. Tu illum, quantum valeas, verbis consolare et factis, donec videas, quid de illo faciat Deo. Me vero saeculi diversis agitat motibus; tu vero cum fratribus tuis, sicut promisisti, orationibus adiuvare non cessa, ne cuiuslibet cupiditatis vel peccati me vorago submergat». 21 ID., Epistola ad Eboracenses monachos, ibid., 42, pp. 85,21-23 e 86,9-11: «Vos fragiles infantiae meae annos materno fovistis affectu; et lascivum puericiae tempus pia sustinuistis patientia et paternae castigationis disciplinis ad perfectam viri edocuistis aetatem et sacrarum eruditione disciplinarum roborastis. (...) O omnium dilectissimi patres et fratres, memores mei estote. Ego vester ero, sive in vita sive in morte. Et forte miserebitur mei Deus, ut, cuius infantiam aluistis, eius senectutem sepelietis».

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Alcuino sembra volersi ora dedicare a tutti coloro i quali, per motivi diversi, possono definirsi suoi «discipuli», con lo stesso animo servizievole ma severo che ha ispirato i suoi maestri. Nel rivolgersi a questi destinatari, abbandona in parte i toni appassionati delle lettere inviate agli affetti più intimi; non più «amicus» ma «magister», Alcuino sente l’esigenza di accompagnare le sue epistolae con un messaggio che dia un senso alla sua funzione educativa: Dov’è il nostro dolcissimo chiacchierare? Dove l’amabile studio delle Scritture? Dove la faccia allegra, che ero solito guardare? Dove la comunione nella carità, che l’amore fraterno tenne viva dovunque? Dov’è almeno la memoria del nostro nome? Ecco. È passato un anno intero, nel quale non è giunta ai miei occhi la consolazione delle tue lettere, né alle mie orecchie l’omaggio di un saluto. In che cosa ha sbagliato questo padre per esser dimenticato dal figlio? In che cosa ha sbagliato questo maestro per esser stato trascurato dal discepolo? Forse l’orgoglio mondano ha svilito in lui il nome del maestro? O la mia peregrinazione sulla terra ha perso valore ai tuoi occhi? O l’amore per Virgilio ha portato via il mio ricordo? Oh, se potessi chiamarmi Virgilio! Ora sarei sempre presente dinanzi ai tuoi occhi,e ascolteresti le mie parole con tutto te stesso, e sarei per te proprio come recita la massima: «ora è straordinariamente felice, e nessuno lo è di più». Che fare? Dolermi della mia infelicità, poiché non sono chi tu ami? Lodare la tua sapienza, perché ami colui che non è? Flacco è sparito, si è avvicinato Virgilio, e al posto del maestro ha fatto il nido Marone? Ho dettato queste cose soffrendo o perché mi hai dimenticato o perché sei lontano, raschiando la carta con una pietra poco più dura affinché adirato tu riscrivessi qualcosa, poiché il bue ferito affonda più duramente lo zoccolo. Comincia a difenderti, o ad offendere me, affinché capisca l’impegno nel quale hai trascorso il tuo tempo quest’anno; e mostraci con quale tesoro hai riempito il tuo cuore, affinché godiamo con te del tuo bene.Voglia il cielo che siano stati i quattro Vangeli, e non i dodici libri dell’Eneide a riempirti il petto, affinché quella quadriga ti trasporti al palazzo del regno celeste, dove è l’onore che mai decade, ed il regno eterno, e dove, credo, ti ricorderai di intercedere per me22.

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ID., Epistola ad Ricbodum, ibid., 13, p. 39,2-23: «Ubi est dulcissimum inter

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Come nelle più ispirate epistolae dedicate agli amici, dalle parole di Alcuino emerge evidente la sofferenza per il «totus annus» nel quale non ha ricevuto notizie dal suo discepolo, il timore di non esser più parte della memoria e degli affetti del proprio interlocutore, forse troppo impegnato nella lettura di Virgilio per pensare al magister 23. Nella conclusione, però, Alcuino abbandona le vesti di confidente, e indica al discipulus i rischi insiti nel preferire l’Eneide ai Vangeli rispetto al percorso che ogni cristiano deve compiere verso il «regnum sempiternum». Nel ruolo di maestro Alcuino dunque affianca all’amore per gli amici la preoccupazione di indicare a chi si affida alla sua guida la strada per la vera felicità24. Molte delle sue lettere ai discepoli vengono quindi finanos colloquium? Ubi sacrarum litterarum studium desiderabile? Ubi laeta facies, quam conspicere solebam? Ubi communio charitatis, quam fraternus amor hinc inde exercuit? Ubi saltem memoria nominis nostri? Ecce totus praeteriit annus, quo nec litterarum consolatio oculis advenit, nec salutationis officium auribus insonuit. Quid peccavit pater, ut a filio oblivisceretur? Quid magister, ut discipulus neglexerit eum? Forte exaltatio saeculi dedignata est nomen magistri in illo? Aut peregrinatio mea viluit in oculis tuis? Aut amor Maronis tulit memoriam mei? O si mihi nomen esset Virgilius! Tunc semper ante oculos luderem tuos, et mea dicta tota pertractares intentione, et iuxta proverbium illius essem apud te ‘Tunc felix nimium, quo non felicior ullus’. Quid faciam? An meam doleo infelicitatem, quia non sum quem diligis? An tuam laudo sapientiam, quia diligis illum, qui non est? Flaccus recessit,Virgilius accessit, et in loco magistri nidificat Maro? Hoc dolens dictavi, vel propter oblivionem mei, vel propter absentiam tui, paululum ferociori pumice chartam terens, ut vel iratus aliquid rescriberes: quia bos laesus fortius figit ungulam. Incipe vel defendere te, vel me offendere, ut intelligam studium, in quo otium istius anni exercuisti; et quo thesauro cor impleris tuum, pande nobis, ut tecum gaudeamus in bono tuo. Utinam Evangelia quatuor, non Aeneades duodecim, pectus compleant tuum, ut ea te vehat quadriga ad coelestis regni palatium, ubi est honor indeficiens et regnum sempiternum, ubi pro me intercedere, credo, memor eris». Il proverbium citato in questo testo deriva forse da una fusione di reminiscenze virgiliane: cfr. Aen., IV, 657 e IX, 772. 23 Per una considerazione generale del rapporto di Alcuino con il recupero della tradizione letteraria classica, cfr. L.WALLACH, Alcuin and Charlemagne, Ithaca 1968; W. F. BOLTON, Alcuin and Beowulf:An Eight-Century View, London 1979, in partic. pp. 13-99; I DEUG-SU, Cultura ed ideologia nella prima età carolingia, Roma 1984. 24 Cfr. C. LEONARDI, Alcuino e la scuola palatina: le ambizioni di una cultura unitaria, in Nascita dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare, XXVII Settimana di Studio del Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto, 19-25 aprile 1979), 2 voll., Spoleto 1981 (Settimane della Fondazione C.I.S.A.M., 27), I, pp. 449-496; M. CRISTIANI, Le vocabulaire de l’enseignement dans la correspondance d’Alcuin, in Vocabularie des écoles et des méthodes d’enseignement au Moyen Age, Actes du Colloque, ed. O. Weijers, Turnhout 1992, pp. 13-32; D. A. BULLOUGH, Reminiscence and Reality: Text, Transmission and Testimony of an Alcuin

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lizzate «ad mores emendandos», incentrate cioè sul tentativo di convertire uomini troppo legati ai piaceri del mondo ad una riflessione sul proprio destino e sui talenti dell’essere umano25. «Naturaliter» figli di Dio, gli uomini devono infatti sforzarsi con grande impegno per meritare questo privilegio26. Rispetto alla comunità dei fedeli, però, ai cristiani più colti è stato affidato un compito particolare: essi non devono solo accostarsi con frequenza alla «lectio sancta» ed alla «virtus» eucaristica, ma hanno il dovere di giungere alla «intellectio», perché le verità più profonde della fede, pur apparentemente accessibili a tutti, rimangono in realtà comprese da pochi («a paucis intellecta»)27. Alcuino scrive dunque ai suoi discipuli epistole nelle quali approfondisce proprio i temi di una fede più consapevole, nel cui esercizio allo sforzo comune di ogni cristiano si aggiunge il valore della speculazione filosofica. Solo così si perviene, infatti, al di sopra della visione corporale e spirituale, alla «visio intellectualis», che accede ai significati più oscuri e misteriosi («obscuras et mysticas significationes, quarum si intellegentiam ignoramus, mens nostra infructuosa remanet»), e che si nutre dello «studium», intenso e costante28: Quanto è stata dolce la vita, mentre sedevamo tranquilli nella biblioteca di chi è sapiente, tra la moltitudine dei libri, tra i venerabili ingegni dei Padri, ai quali non mancò nulla di ciò che atteneva ad una vita religiosa ed allo studio della conoscenza29.

letter, in «Journal of Medieval Latin», 5 (1995), pp. 174-201; A. F. WEST, Alcuin and the Rise of the Christian Schools, New York 1971. 25 Cfr. ID., Epistolae ad Dodonem e ad Arnonem, in Epistolae, 65 e 66, pp. 107109 e 109-110. 26 Cfr. ID., Epistola ad Dodonem, ibid., 65, p. 108,23-25: «Gratis enim nobis donatum est esse filios Dei. Sed magno labore, adiuvante gratia eius, contendere debemus, ne tanto patri degeneres simus». 27 Cfr. ID., Epistola ad Fridugisium, ibid., 135, p. 204,31-32: «Haec tibi, karissime fili Fridugisi, citato sermone dictavi, ne ignarus huius tripartitae rationis esses, quae omnibus usitata est, sed a paucis intellecta». 28 Cfr. ibid., p. 204,16-19. 29 ID., Epistola ad discipulum, ibid., 281, p. 439,23-26: «O quam dulcis vita fuit, dum sedebamus quieti inter sapientis scrinia, inter librorum copias, inter venerandos patrum sensus: quibus nihil defuit, quod religiosae vitae et studio scientiae deposcebat».

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Qui come in altre occasioni,Alcuino propone ai suoi discipuli un modello di formazione costituito essenzialmente da tre componenti: conoscenza scritturale, competenza patristica, utilizzo delle artes. In ciò si definiscono le linee generali del suo progetto formativo (destinate a diventare i tre requisiti fondamentali dell’intera cultura scaturita nel secolo successivo dagli esiti del suo impegno intellettuale): un progetto che si distacca dalla semplice accumulazione di materiale derivante dalla tradizione, ma che richiede una relazione personale, critica ed assidua con i testi. Nel rivolgersi ad esempio al suo più illustre discepolo, Carlo Magno, nella lettera dedicatoria del Contra Felicem Urgellitanum, i sette libri che compongono l’opera, ricca di numerose citazioni (da Agostino ad Ilario, da Cirillo e Beda ai pontefici Leone e Gregorio Magno), sono presentati come i cinque «panes» ed i due «pisciculi» pronti a sfamare il popolo dei fedeli; frutto di una concessione divina all’ignoranza degli uomini, tali libri hanno una natura finita, ma il ripetersi nei loro confronti del miracolo operato da Cristo con la moltiplicazione dei pani e dei pesci consente di estenderne infinitamente l’efficacia30.Accanto ai Padri, però, Alcuino non esita a menzionare autori come Origene che, se pur lontani in talune occasioni dalle interpretazioni esegetiche raccomandate dalla tradizione («in quibusdam locis Scripturarum suarum a fide orbitare videantur»), possono comunque essere accolti come fonti di conoscenza preziosa. La corretta utilizzazione, la comprensione e l’assimilazione delle auctoritates non procede dunque per semplice acquisizione e raccolta di citazioni scelte per l’occasione dalle opere di Padri della Chiesa più o meno celebri o a partire da una diretta lettura antologica del testo sacro. La capacità di trarre frutto dal patrimonio della tradizione patristica e scritturale richiede il lungo esercizio preliminare di una consapevole riflessione e di una attenta meditazione sul significato, letterale e spirituale, dei termini. In diverse epistolae, Alcuino mostra una particolare dedizione ai temi dell’esegesi biblica, non solo attraverso l’analisi di passaggi numerologici, questioni storiche e terminologiche, di figure simboliche e metaforiche, ma anche soffermandosi sulla preservazione e sulla ricezione del testo 30 Cfr. ID., Contra Felicem Urgellitanum episcopum libri septem, Praef., PL 101, 128A; cfr. Mt 15,34-37.

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sacro, destinata a tradursi nel suo concreto impegno per la definizione di un canone biblico carolingio31. Alla corte di Carlo Magno, infatti, costante è stata fin dall’inizio la tensione a promuovere lo studio delle litterae, ed a produrre dei «libri catholici», ossia verificati al meglio nella loro ortodossia. Come il medico che sa individuare le erbe adatte a curare i malati, così Alcuino ha dunque raccolto umilmente i frutti della migliore tradizione patristica (Agostino, Ambrogio, Gregorio Magno, Beda), tentando di utilizzare concetti e parole il più possibile riconducibili a tali maestri, senza cadere nella «praesumptio» di poter aggiungere qualcosa di personale, correndo il rischio di contraddire la coerenza veritativa di tale tradizione32. Lo studio rispettoso e rigoroso dei Padri e l’assidua lettura delle Scritture costituiscono dunque due elementi fondamentali della «sapientia Christiana»; nelle lettere indirizzate ai discepoli Alcuino non manca però di ricordare il terzo, indispensabile fattore di formazione: la conoscenza del patrimonio classico delle artes. La sapientia è la «divinarum humanarumque scientia»33. In particolare, la «scientia humanarum», che si risolve nelle artes liberales, conduce l’uomo a riflettere sul senso della propria fede. Ogni uomo tende naturalmente alla felicità («beatitudo»); il cristiano in particolare sa che essa non si realizza nei beni e nei soli ragionamenti del mondo, ma nel raggiungimento della vera sapientia, attraverso lo studio delle Scritture, dei Padri e infine anche delle artes. Diverse sono le epistolae in cui Alcuino tenta di comunicare, ai suoi discipuli ed ai suoi collaboratori, la necessità di conciliare tutte le competenze fondanti una ideale cultura cristia31

Cfr. B. FISCHER, Die Alkuin-Bibel, Freiburg im Breisgau 1957; F. L. GANrévision de la Bible par Alcuin, in «Bibliothèque d’Umanisme et Renaissance», 9 (1947), pp. 7-20. 32 Si noti l’interessante ricostruzione in GANSHOF, ibid., in partic. alle pp. 1520, della composizione di un codice della Bibbia che Alcuino invia a Carlo tramite Fridugiso perché accompagni il monarca nel suo viaggio a Roma per l’incoronazione imperiale nella notte di Natale dell’anno 800. Cfr. G. D’ONOFRIO, Theological ideas and the idea of Theology in the Early Middle Ages (9th-11th centuries), in «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», 38 (1991), pp. 273297. 33 Cfr. ALCUINUS, Epistola ad Carolum imperatorem, in Epistolae, 307, p. 466,23. Sull’origine classica e la tradizione altomedievale di tale formula, cfr. G. D’ONOFRIO, Vera philosophia. Studies in Late Antique, Early Medieval and Renaissance Christian Thought,Turnhout 2007 (Nutrix, 1), cap. 1, nota 7. SHOF, La

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na. La «consuetudo sanctae religionis» non può esser pensata separatamente dallo «studium sanctae sapientiae», che consiste non solo nell’apprendere gli insegnamenti («traditiones») dei Padri, ma soprattutto nell’occuparsi delle «rationes catholicae fidei»; senza l’ausilio degli uni e delle altre è infatti impossibile essere graditi a Dio. Ma a tutto ciò, conclude sovente Alcuino, è altrettanto indispensabile aggiungere la conoscenza della «saecularium litterarum scientia», ossia della grammatica e, in generale, di tutte le discipline costitutive della «philosophica subtilitas», la cui pratica è essenziale per consentire l’innalzamento della mente verso le realtà spirituali, sino a farla giungere al culmine della «perfectio» evangelica34. 1.3. Lettere ai rectores Non aver cupidigia di oro o di argento, ma di guadagnare anime. Ricordati di me ogni giorno, nelle preghiere e nelle offerte, e di te nell’osservanza degli incarichi divini; e se una tempesta ti minacciasse da ogni parte, governa con forza la nave di Cristo per giungere presto o tardi con i tuoi marinai nel porto della prosperità. (…) Il tuo animo non si rammollisca nell’adulazione dei potenti, né si addormenti, quando è necessario correggere i tuoi sottoposti. Non ti ingannino i piaceri di questo mondo, non ti attraggano gli onori passeggeri, non ti abbattano i favori del popolo. Sii, «nella casa di Dio, colonna» saldissima, e non fragile «come una canna al vento». Sii «la luce posta sul candelabro e non nascosta sotto il moggio». Sii per tutti via di salvezza, non strada di perdizione, affinché, grazie a te, moltissimi si correggano e si salvino, e, con te, giungano alla vita eterna.Vivi e prospera, felicemente, e memore di noi, progredisci sempre nel lavoro per Dio35. 34

Cfr. ID., Epistola ad monachos Hiberniae, ibid., 280, p. 437,4-39. ID., Epistola ad Eanbaldum II, ibid., 116, p. 171,20-35: «Noli cupidus esse de auro et argento, sed de animarum lucro. Me vero in orationibus et elemosynis memora quotidie, et te in observatione mandatorum Dei semper; et si tempestas undique immineat, guberna viliriter navem Christi, ut quandoque cum tuis nautis in portum pervenias prosperitatis. (…) Non mollescat animus tuus in adulatione principum, nec torpescat in correctione subiectorum. Non te decipiant saeculi blanditiae; non exaltent honores transeuntes; non subvertant favores populi. Esto ‘columna’ firmissima ‘in domo Dei’ (cfr. 1Tm 3, 15), non ‘harundo vento agitata’ (cfr. Mt 11, 7). Esto ‘lucerna super candelabrum posita, non sub modio abscondita’ (cfr. Mt 5, 15). Esto omnibus via salutis, non vena perditionis, ut per 35

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In queste parole rivolte all’arcivescovo di York Eanbaldo,Alcuino sembra sintetizzare tutto quanto egli stesso ritiene essenziale per la formazione e per la vita degli uomini a cui è affidato il compito di governare. In tutto il suo epistolario, Alcuino ribadisce come non esista attività umana nella quale non sia indispensabile il continuo riferimento alla fede. L’amicizia non ha fondamento, l’insegnamento non ha una sua direzione, la formazione non ha finalità se non in relazione al significato cristiano della vita: anche nei confronti dei «rectores» egli è dunque costantemente preoccupato di mostrare l’opportunità di conciliare le virtutes del cristiano erudito, vale a dire conoscenza delle Scritture, rispetto delle auctoritates e competenze nelle artes, con i doveri politici e, spesso, militari. Nella visione di Alcuino, infatti, il rapporto tra questi elementi non costituisce solo una norma di comportamento eticamente conveniente, ma si incardina in esso l’unica possibile modalità per conservare saldo il governo. Le Scritture, infatti, insegnano che non è sufficiente evitare il male, se al contempo non si realizza il bene36; e solo la conoscenza più compiuta, perseguita secondo le giuste «regulae», può indicare in cosa il bene consista. Nello scrivere ad esempio ad Eardulfo, re della Northumbria,Alcuino parla al sovrano dei suoi predecessori, e di quanto sia stato loro tolto a causa dei peccati commessi («considera intensissime pro quibus peccatis antecessores tui vitam perdidissent et regnum»), indicando al contrario le virtù che devono esser presenti in chiunque assuma il ruolo di guida di una comunità. Moralmente, egli dovrà dimostrare bontà e sobrietà dei costumi, umiltà nella condotta e nel vestiario, onestà nella fede e nei giudizi, nei comportamenti e nella pratica del culto di Dio37. Amante della verità, dovrà circondarsi di ottimi consiglieri, timorati di Dio, che lo conducano a divenire una ricchezza per gli uomini che governa: solo infatti chi regna felicemente sulla terra merita il dono del regno dei cieli38.Alcuino dunque affida ai governanti una funzione sacerdotale, di ministri e mediatori, pur dite plurimi corrigantur, salventur, et ad vitam tecum perveniant sempiternam.Vive, vale feliciter et nostri memor proficias semper in opere Dei». 36 Cfr. ID., Epistola ad Megenfridum, ibid., 111, p. 159,33-35. Il passo biblico cui si fa qui riferimento è Ps 33, 15. 37 Cfr. ID., Epistola ad Earduulfum, ibid., 108, p. 156,5-28. 38 Cfr. ID., Epistola ad Aethelredum, ibid., 18, p. 51,29-35.

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stinguendo con precisione le mansioni proprie del potere politico e di quello religioso: È compito dei vescovi indirizzare i monasteri, organizzare la vita dei servi di Dio, predicare la parola di Dio al popolo, ed educare con diligenza la massa a loro sottoposta.È invece compito dei non consacrati obbedire alla predicazione,essere giusti e misericordiosi, fino a quando la benedizione divina, che si è degnata di concedere,attraverso il favore della sua pietà,questa patria ai nostri progenitori, con la sua grande misericordia si degni di conservarne il possesso a noi ed ai nostri discendenti in buona prosperità39.

Nel vasto e variegato ambito dei «rectores» da educare e instradare al giusto, la preparazione di Carlo Magno costituisce ovviamente un caso particolare, e riveste un ruolo centrale in tutto l’epistolario alcuiniano40. Proprio in quanto anch’egli «rector» del suo popolo, Carlo viene spesso sollecitato da Alcuino a ricordare che i destini dell’uomo di governo sono legati inscindibilmente alla sua capacità di proporsi come uomo di fede. Non poche sono infatti le lettere nelle quali il maestro ricorda al suo più illustre discepolo che il principio di un «imperium» non risiede esclusivamente nella forza delle armi. «Beata» è infatti quella «gens» che è guidata da Dio per opera dei suoi figli più illustri. Carlo è dunque descritto, proprio in ragione di questa funzione, come «rector et doctor» del suo popolo, capace di reggere le sorti del potere secolare con le proprie armi, e di contrastare i nemici della Chiesa con la propria «doctrina»41. Non è infatti la spada a convertire, ma la fede:

39 Ibid., p. 52,30-34: «Episcoporum est monasteria corrigere, servorum Dei vitam disponere, populo Dei verbum predicare et diligenter plebem erudire subiectam. Laicorum est oboedire praedicationi, iustos esse et misericordes: quatenus divina benedictio per suam magnam misericordiam nobis nostrisque nepotibus patriam in bona prosperitate conservare dignetur, quam nostris parentibus per pietatis suae dexteram perdonare dignata est». 40 Alcuino appare, e presenta se stesso, in queste lettere come una figura di continuo riferimento per il sovrano, che lo interpella per le questioni più diverse. Si consideri ad esempio ID., Epistola ad Carolum, ibid., 132, pp. 198-199, in cui Alcuino risponde brevemente a dodici interrogationes, probabilmente postegli da Carlo o dalla sua corte, di diversissimo argomento, dalla regolamentazione dei testamenti ai rapporti tra ragione ed autorità, alla conversione dei popoli. 41 Cfr. ID., Epistola ad Carolum, ibid., 41, pp. 84-85.

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Non è possibile che il corpo riceva il sacramento del battesimo, se l’anima non abbia prima accolto la verità della fede. Essi (scil. i popoli vinti da Carlo) sono battezzati infatti nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in modo tale che uno solo sia il dono della grazia delle tre persone unite nella divinità, e il nome della Trinità sia un unico Dio. «Insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato»: ordinò con queste parole agli apostoli che in primo luogo educassero tutte le genti, e poi si immergessero nel sacramento della fede, e dopo la fede ed il battesimo impartissero loro i precetti da osservare42.

Riportando le parole pronunciate secondo l’evangelista Matteo da Cristo risorto, Alcuino sottolinea con forza la propria scelta culturale: «docere» è il compito del cristiano che realmente vuole diffondere il messaggio evangelico, ed è dunque necessario che il sovrano si preoccupi («praevideat») di dotare le popolazioni convertite di maestri che le guidino sulla retta via: «integri nei costumi, preparati nella scienza della sacra fede e impregnati dei precetti evangelici, ma anche particolarmente attenti al modello che gli Apostoli hanno incarnato di perfetta predicazione del verbo di Dio»43. Il tempo terreno non ha mai posa («tempus huius vitae velociter currit, fugit et non revertitur»); è dunque indispensabile per ogni buon governante investire le proprie energie nel convertire gli infedeli, nel confermare nella fede i credenti e nell’educare le giovani menti: Io, il vostro Flacco, secondo il vostro invito e le vostre intenzioni, mi impegno a dare ad alcuni, attraverso il rifugio di San Martino, il miele delle sante Scritture; mi preoccupo di far 42 ID., Epistola ad Carolum, ibid., 110, p. 158,22-28: «Non enim potest fieri, ut corpus baptismi accipiat sacramentum, nisi ante anima fidei susceperit veritatem. Baptizantur autem in nomine Patris et Filli et Spiritus sancti, ut quorum una est divinitas, sit una largitio, nomenque Trinitatis unus Deus est.‘Docentes eos servare omnia, quaecumque mandavi vobis’. Iussit apostolis, ut primum docerent omnes gentes, deinde fidei tingere sacramento et post fidem ac baptisma, quae essent observanda, praeciperent». 43 Ibid., p. 157,23-25: «Moribus honesti, scientiae sacrae fidei edocti et evangelicis praeceptis inbuti, sanctorum quoque apostolorum in praedicatione verbi Dei exemplis intenti». La formula «evangelicis praeceptis imbuti» è un calco cristianizzato del ciceroniano «parentium praeceptis imbuti»: cfr. MARCUS TULLIUS CICERO, De officiis, I, 32, 118, ed. C. F. W. Müller, Scripta, IV/3, Leipzig 1888, p. 41,4-5; ed. C.Atzert, Leipzig 1949, p. 54,5.

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ubriacare altri con il vino puro e stagionato delle antiche discipline; comincerò a nutrire altri con i frutti delle sottigliezze grammaticali; sono impaziente di illuminare alcuni sulla disposizione delle stelle o sulla volta dipinta di qualche grande casa; sono diventato moltissime cose per molti, per istruire moltissimi a vantaggio della santa chiesa di Dio e a decoro del vostro regno imperiale44.

Nelle parole di Alcuino, la comunità retta da Carlo Magno appare come un unico popolo in marcia verso la salvezza, lungo la strada segnata dalle Scritture e dalla sapienza. Lo stesso sovrano non potrà dunque aspirare ad essere tale se non sarà sottomesso alla necessaria preparazione etica, religiosa e culturale: Niente è più necessario per governare un popolo o è migliore per condurre una vita di ottimi costumi, che il decoro derivante dalla sapienza, la lode che nasce dalla disciplina e l’efficacia derivante dall’erudizione45.

Conoscere le artes significa onorare la sapienza di chi ha creato il mondo fissando tra tutte le cose il rispetto di armoniche proporzioni intelligibili. In una celebre epistola indirizzata a Carlo,Alcuino racconta come i filosofi non siano stati liberi artefici delle loro artes, perché ne furono invece gli ‘scopritori’, capaci di leggerne e descriverne le regole contemplando la natura e così osservandole operanti e universalmente vigenti nel creato («non conditores sed inventores»):

44 ID., Epistola ad Carolum, in Epistolae, 121, pp. 176,32-35 e 177,1-2: «Ego vero Flaccus vester secundum exhortationem et bonam voluntatem vestram aliis per tecta sancti Martini sanctarum mella scripturarum ministrare satago; alios vetere antiquarum disciplinarum mero inebriare studeo; alios grammaticae subtilitatis nutrire pomis incipiam; quosdam stellarum ordine, ceu picto cuiuslibet magnae domus culmine, illuminare gestio; plurima plurimis factus, ut plurimos ad profectum sanctae Dei ecclesiae et ad decorem imperialis regni vestri erudiam». Cfr. ID., Epistola ad Carolum, ibid., 110, p. 158,31-33: «Igitur infantes, ratione non utentes, aliorum peccati obnoxii, aliorum fide et confessione per baptismi sacramentum salvari possunt, si confessae pro se fidei integritatem, congrua adveniente aetate, custodient». 45 ID., Epistola ad Carolum, ibid., 121, p. 177,22-23: «Nihil ad regendum populum necessarius, nihil ad componendam vitam in optimos mores melius, quam sapientiae decus, et diciplinae laus et eruditionis efficatia». Cfr. ID., Epistola ad Carolum, ibid., 126, pp. 185-189.

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Infatti il Creatore di ogni cosa pose quelle (scil. le arti) nelle leggi naturali, come volle; i filosofi, che erano nel mondo i più sapienti, ritrovarono quelle arti nella natura delle cose, come puoi facilmente comprendere relativamente al sole, alla luna ed alle stelle. Che cosa altro infatti consideriamo ed ammiriamo nel sole, nella luna e nelle stelle, se non la sapienza del Creatore ed i loro corsi naturali?46

Nell’epistola,Alcuino ricorda la lezione del suo maestro Aelberto, che magnificava le menti degli «inventores» delle artes, e lamentava il rischio di perdere per incuria tale immenso patrimonio. L’ignoranza delle «rationes» di ciò che esiste infatti non permette di apprezzare la dolcezza della perfetta proporzione («dulcis arithmetica») sottesa alla vera conoscenza delle Scritture. Carlo, destinatario della lettera, nella sua funzione di tutore delle antiche conoscenze e delle tradizioni della dottrina cristiana, assume proprio in quanto tale tutte le fondamentali caratteristiche del sovrano credente e dunque difensore della fede47. Nella conclusione della lettera, infatti,Alcuino non solo dichiara quanto la sua gioia sia frutto di quella provata dal re nell’accrescere la propria «scientia» («gaudeat mens tua in rationibus rerum, sicut mea multum gaudet tibi saepius talia dirigere»)48, ma ricorda al sovrano che l’«ignorantia» temuta e combattutta da Aelberto si annida nelle pieghe stesse della dottrina, e trova spazio nei confini più lontani e meno certi del dominio carolingio: Mi è da poco arrivato un libercolo inviatomi dall’infelice Felice. (…) La risposta a questo libro, meglio ancora a questo errore deve essere considerata con grande diligenza e con l’aiuto di diversi collaboratori. Io da solo infatti non sono sufficiente ad oppormi. La tua santa pietà preveda per questa opera, tanto ardua quanto necessaria, dei collaboratori adatti, cosicché questa empia eresia sia del tutto cancellata, prima che si sparga più ampiamente attraverso l’impero cristiano che la divina pietà ha affidato a te ed ai tuoi figli affinché lo reggiate 46 ID., Epistola ad Carolum, ibid., 148, p. 239,19-23: «Nam creator omnium rerum condidit eas in naturis, sicut voluit; illi vero, qui sapientiores erant in mundo, inventores erant harum artium in naturis rerum; sicut de sole et luna et stellis facile potes intelligere. Quid aliud in sole et luna et sideribus consideramus et miramur nisi sapientiam creatoris et cursus illorum naturales?». 47 Cfr. ibid., p. 239,35-38. 48 Cfr. ibid., p. 241,3-5.

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e lo governiate.Alzati, uomo eletto da Dio, alzati figlio di Dio, alzati, soldato di Cristo, e difendi la sposa del Signore Dio tuo49.

Nel combattere le dottrine del vescovo adozionista Felice, già condannato nel concilio di Francoforte, ma non ancora ridotto al silenzio,Alcuino richiama il suo sovrano ad una doppia responsabilità. Da un lato, fa appello al promotore degli studi, principio di aggregazione di uomini tanto competenti da risultare adatti («idonei») alla distruzione dell’eresia adozionista; dall’altro, ricorda al sovrano, che di lì a poco verrà incoronato imperatore, che il potere esercitato dalla sua dinastia proviene da Dio, e gli è stato concesso come una «electio». Carlo è l’unico sovrano che ha le energie, politiche e culturali, per ricreare nella terra dei franchi una nuova Atene; essa sarà però più splendida della prima solo se nobilitata dalla guida di Cristo («magisterium Christi»). Se infatti l’accademia platonica brillò grazie allo studio delle sette artes, sarà la settiforme pienezza dello Spirito Santo a promuovere la gloria della seconda50. Carlo diviene dunque contemporaneamente il catalizzatore politico delle migliori forze culturali della sua epoca, ma anche il simbolo vivente della trasformazione, nell’era cristiana, della sapientia antica. Non solo infatti il sovrano è per Alcuino un interlocutore continuo delle più tecniche tra le questioni astrologiche, numerologiche e logiche, ma possiede i sette doni del perfetto cristiano indicati nella profezia di Isaia («sapientia», «intellectus», «consilium», «fortitudo», «scientia», «pietas» e «timor Dei»)51 in cui si compendiano, lungo tutto l’epi49 Ibid., p. 241,11 e 20-26: «Nuper mihi venit libellus a Felice infelice directus. (…) Huius vero libri vel magis erroris responsio multa diligentia et pluribus adiutoribus est consideranda. Ego solus non sufficio ad responsionem. Praevideat vero tua sancta pietas huic operi tam arduo et necessario adiutores idoneos; quatenus haec impia heresis omnimodis extinguatur, antequam latius spargatur per orbem Christiani imperii, quod divina pietas tibi tuisque filiis commisit regendum et gubernandum. Surge, vir electe a Deo, surge fili Dei, surge miles Christi, et defende sponsam domini Dei tui». 50 ID., Epistola ad Carolum, ibid., 170, p. 279,22-26: «Forsan Athenae nova perficeretur in Francia, immo multo excellentior. Quia haec Christi domini nobilitata magisterio omnem achademicae exercitationis superat sapientiam. Illa, tantummodo Platonicis erudita disciplinis, septenis informata claruit artibus; haec etiam in super septiformi sancti Spiritus plenitudine ditata omnem saecularis sapientiae excellit dignitatem». 51 Cfr. Is 11, 1-3.

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stolario alcuiniano, le doti essenziali che devono sposarsi con l’indole, la formazione e le finalità di Carlo. Attorno a questo progetto di evangelizzazione culturale che egli stesso aveva disegnato per il sovrano, Alcuino tentò di creare un ambiente che ne favorisse la realizzazione; la storia della sua costruzione è scandita nel dettaglio da molteplici passaggi e indicazioni emergenti dall’epistolario. In diverse lettere indirizzate ad arcivescovi o abati, mentre magnifica le doti di Carlo che progressivamente sottomette i popoli barbarici al dominio del nuovo impero cristiano, Alcuino invita gli esponenti della gerarchia ecclesiastica a collaborare con il sovrano, educando ed evangelizzando le nuove genti52. L’interazione tra le campagne militari di Carlo ed i doveri evangelici della Chiesa, infatti, è l’indispensabile premessa affinché la comunità dei credenti, «in partibus Europae», abbia pace e possa crescere. L’«exercitus» con il quale Carlo costringe diversi popoli alla sottomissione assume nelle lettere di Alcuino il titolo di «christianus» proprio in virtù della battaglia, militare e spirituale, che porta avanti, e che sembra riassumere, nella sua semplicità, l’intero sforzo per l’attuazione concreta di un così complesso progetto di fondazione di una nuova civiltà53. Se l’epistolario, per il suo essere diacronicamente distribuito lungo tutto l’arco della vita pubblica di Alcuino, può diventare un elemento per fornire una chiave di lettura unitaria al complesso corpus delle sue opere, è proprio nell’attenzione per una formazione ed una società omogenea, politicamente e culturalmente, che ne va rintracciato il dato più fecondo54. In tutte le epistolae, infatti, Alcuino individua un comune percorso formativo, per tutti i suoi interlocutori, amici intimi e devoti, maestri e discepoli, abati e sovrani. La parola delle Scritture è, per ogni ordine della società, la stella polare; essa infatti rende veri i rapporti di amicizia, orienta ogni sforzo didattico, guida le gesta di chi governa. La scientia sacra emerge dall’epistolario come il terreno di crescita per tutta la Cristianità; non a caso, Alcuino dedicherà alle Scrittu52

Cfr. ID., Epistola ad Arnonem, in Epistolae, 113, pp. 163-166. Cfr. ID., Epistola ad Colcum, ibid., 7, pp. 32-33. 54 Cfr. M. CRISTIANI, Lo sguardo ad Occidente. Religione e cultura in Europa nei secoli IX-XI, Roma 1995, in partic. pp. 13-24; J. MARENBON, From the Circle of Alcuin to the School of Auxerre. Logic,Theology and Philosophy in the early Middle Ages, Cambridge 1981, in partic. pp. 1-11. 53

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re una particolarissima attenzione, filologica ed esegetica. A tale studio si affiancano, costantemente, l’ausilio dell’interpretazione patristica e il supporto della conoscenza delle artes. L’affermazione della verità della fede, infatti, passa per la comprensione completa («omnis intentio») delle sue motivazioni («rationes»), dei fondamenti razionali che la rendono universale e valida55. Se infatti senza fede è impossibile essere graditi a Dio, la fede stessa, per essere «orthodoxa», può da una parte trovare conforto nella storia della tradizione esegetica patristica, e può dall’altra avvalersi del contributo sapienziale di tutte le discipline legate alla «subtilitas philosophica», per quanto possano esser utili al raggiungimento della vetta della perfezione evangelica56.

2. L’esegesi biblica La reperibilità delle motivazioni («rationes») della fede costituisce nelle epistolae il presupposto di una piena condivisione della verità rivelata tra i diversi membri della comunità dei fedeli. Il riconoscimento delle «rationes fidei» nella parola della Scrittura consente il radicarsi nella coscienza del credente di quella mede55 Cfr. ALCUINUS, Epistola ad monachos Hiberniae, in Epistolae, 280, p. 437,1531: «Igitur antiquo tempore doctissimi solebant magistri ex Hibernia Britanniam, Galliam, Italiam venire et multos per Ecclesias Christi fecisse profectus; et quanto magis periculosa nunc esse tempora noscuntur, et plurimos, secundum apostolicam prophetiam, a via veritatis avertentes, tanto instantius ipsa catholicae fidei veritas ubique inter vos discenda est et docenda, ut habeant orthodoxae fidei praedicatores, quo possint contradicentibus veritati resistere, et palam vincere adversarios apostolicae doctrinae. Erumpunt subito apostatica seducti calliditate pseudo doctores, novas et inauditas introducentes sectas, qui dum novis dogmatibus sibi laudem acquiri putant, inveniuntur reprehensibiles, omnibusque odibiles esse, sicut in Hispaniae partibus vidimus factum. Unde, sanctissimi patres, exhortamini iuvenes vestros, ut diligentissime catholicorum doctorum discant traditiones, et catholicae fidei rationes omni intentione apprehendere studeant, ‘quia sine fide Deo impossibile est placere’ (Heb 11, 6). Nec tamen saecularium litterarum contemnenda est scientia, sed quasi fundamentum tenerae infantium aetati tradenda est grammatica, aliaeque philosophicae subtilitatis disciplinae, quatenus quibusdam sapientiae gradibus ad altissimum evangelicae perfectionis culmen ascendere valeant, et iuxta annorum augmentum sapientiae quoque accrescant divitiae». 56 Cfr. ID., Epistola ad Arnonem, ibid., 268, pp. 426-427; e ID., Epistola ad monachos murbacenses, ibid., 117, p. 173, con riferimento a Dn 12, 3 («Qui autem docti fuerint fulgebunt quasi splendor firmamenti, et qui ad iustitiam erudiunt multos quasi stellae in perpetuas aeternitates»).

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sima certezza evidente del vero che, come mostra la competenza nello studio delle arti liberali, è possibile all’intelligenza umana scoprire e apprendere indagando l’ordine voluto da Dio per il creato. L’epistolario è il luogo nel quale Alcuino annota gli esiti del suo costante impegno per diffondere e far condividere ai credenti questa certezza; le opere esegetiche invece sono dedicate a mostrare l’assoluta omogeneità dei diversi piani di lettura offerti dalle Scritture, così come le opere tecniche tentano di presentare le «regulae» che fondano il ragionamento umano, a loro volta ricavate dalla razionalità infusa nell’universo dal Creatore. In questo compito di diffusione ed armonizzazione, personale e ufficiale,Alcuino ebbe diversi compagni di lavoro. Quando accettò di seguire Carlo ad Aquisgrana, infatti, vi trovò alcuni intellettuali con i quali strinse intensi rapporti, e che avevano già introdotto a corte parte di quel sapere classico e tecnico che egli aveva invece appreso a York. La rifondazione della cultura e dell’educazione del popolo assoggettato dal potere del sovrano era affidata, negli anni in cui Alcuino entrò a far parte della corte di Carlo, ai maestri Pietro di Pisa, Paolo Diacono e Paolino d’Aquileia. Alcuino aveva già ascoltato in Italia Pietro, che per Carlo e per i suoi figli aveva composto un manuale di grammatica, utilizzando le proprie conoscenze di testi latini e greci. Pietro giunse a corte subito dopo la vittoria di Carlo sui Longobardi, e quindi era probabilmente già molto anziano quando Alcuino arrivò ad Aquisgrana. L’erudizione dello storico Paolo Diacono, invece, lo aveva reso uno dei maestri preferiti di Carlo, capace di comporre versi secondo i metri greci, e di tradurre i migliori poemi della classicità. Con Paolino d’Aquileia, infine, Alcuino condivise una profonda amicizia, e, pochi anni dopo il suo arrivo a corte, collaborò con lui nel tentativo di respingere gli attacchi dell’adozionismo spagnolo57. Alcuino si inserì dunque in un contesto culturale in cui già operavano intellettuali di solida formazione. A questa realtà, egli offrì strumenti di studio più esaustivi, sillogi più complete ed estese dei testi classici, ed una seria revisione dei testi biblici e della tradizione esegetica patristica.A testimonianza di tale impegno, 57 Per una ricostruzione dei rapporti di Alcuino con questi tre personaggi, cfr. DUCKETT, Alcuin, Friend of Charlemagne cit. (alla nota 1), pp. 98-104.

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ancora Rabano Mauro, il più illustre discepolo di Alcuino, afferma con decisione nel De institutione clericorum che non è concesso a chi educa se stesso o è dedito alla formazione altrui di ignorare la scienza della Sacra Scrittura58. Rabano aveva appreso dal maestro che la condizione indispensabile per lo sviluppo di una scientia è la certezza dell’oggetto di indagine: in linea infatti con l’Admonitio generalis nella quale Carlo Magno aveva sottolineato l’esigenza di un testo biblico filologicamente corretto, Alcuino dedicò al raggiungimento di questo risultato una parte cospicua dei suoi sforzi. Scrivendo alla sorella ed alla figlia di Carlo Magno, alle quali indirizza una parte dei propri commentari biblici, Alcuino si scusa del ritardo accumulato nella redazione della «expositio» sul Vangelo di Giovanni, specificando quale compito, più gravoso e certamente propedeutico a quello esegetico, occupi il suo tempo: Avrei osato inviarvi un commento di tutto il Vangelo, se non mi avesse tenuto occupato il compito affidatomi dal signore nostro re di emendare il testo sia del Vecchio sia del Nuovo Testamento59.

Fornire al testo biblico correttezza filologica rappresentò dunque, alla corte di Carlo, una priorità. Alcuino tuttavia, pur dedicandovi grande impegno, manifestò in diverse occasioni il timore che questo sforzo non fosse sufficiente. Rimaneva infatti la necessità di una illustrazione dei temi più complessi che accompagnasse il testo sacro emendato; si dedicò dunque personalmente alla stesura di opere che facilitassero lo studio delle Scritture, sciogliendone i nodi interpretativi più intricati, ed offrendo una sintesi omogenea dei migliori risultati dell’esegesi patristica. Le Interrogationes in Genesin, in particolare, ebbero dopo la morte di Alcuino un’ottima diffusione manoscritta, anche grazie alla particolare forma che ne rendeva semplice la consultazione, in un’alternanza di domande e risposte, secondo una struttura spesso uti58

Cfr. HRABANUS MAURUS, De institutione clericorum, III, 1, PL 107, [293-418], 377C, ed. D. Zimpel - P. Lang, Frankfurt a. Main 1996, p. 136. 59 ALCUINUS, Epistola ad Gislam et Rotrudem, in ID., Epistolae, ed. Dümmler cit. (cap. 2, alla nota 8), 195, p. 323,5-8: «Totius forsitan evangelii direxerim vobis, si me non occupasset domni regis praeceptum in emendatione veteris novique testamenti».

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lizzata in età carolingia60. Sin dalla praefatio,Alcuino ribadisce l’utilità dell’esegesi biblica e della realizzazione di opere valide ed attendibili ad essa dedicate. Il «thesaurus litterarum», infatti, permette di conservare nella memoria concetti e temi che altrimenti verrebbero meno, cancellati dalle preoccupazioni del vivere quotidiano («saeculi occupationes»). La stessa forma letteraria rispecchia queste esigenze: brevi interrogationes e veloci risposte, che forniscano quanto necessario in poco tempo, e non richiedano la fatica, anche fisica, dell’utilizzo di libri più corposi61. Se pur Alcuino individua nel testo «difficillimae quaestiones» (numerologiche, anagogiche e storiche), esse vengono analizzate nella convinzione che il fondamento comune esistente tra lettore e testo, vale a dire la razionalità divina, possa guidare l’interpretazione: «utitur Scriptura sancta usitatis nobis verbis intellegibilibus, ut coaptet se nostrae parvitati, quatenus ex cognitis incognita cognoscamus»62. Al di là della lettura semplicemente emotiva e superficiale, simile alla vivida esperienza del sogno e del sentimento che esso ha generato nell’animo («in spiritu») del Faraone, le Scritture nascondono segreti che solo l’ispirazione di Giuseppe («in mente») può svelare con l’«intelligere»63. Dalla lettura della Genesi, e con il conforto dell’esegesi patristica, Alcuino ricava una visione antropologica di impostazione fortemente tradizionalistica. Predestinato al perdono divino, perché non «inventor» del suo male, ma vittima delle lusinghe di un «seductor», l’uomo, che condivide solo con gli angeli la natura razionale, rimane perpetuamente libero di accondiscendere o meno a tali tentazioni64. Dotato infatti, con una «inspiratio» da Dio, di un’anima razionale, è stato posto nel mondo come in una casa. Creato in sei giorni secondo la «ratio arithmeticae disciplinae»,

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Cfr. E. A. MATTER, Alcuin’s Question-and-Answer Texts, in «Rivista di Storia della Filosofia», 4 (1990), pp. 645-656, in partic. pp. 646 e 654. 61 Cfr. ALCUINUS, Interrogationes et responsiones in Genesin, Praef., PL 101, [515569], 516C-517B. 62 Ibid., 99, 527A. Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De Trinitate, IX, 1, PL 42, [8151099], 961, ed. W. J. Mountain, 2 voll., Turnhout 1968 (CCSL, 50-50A), I, p. 293,31-43. 63 Cfr. ALCUINUS, Epistola ad Fridugisium, in ID., Epistolae, 135, p. 204,1-30. 64 Alcuino specifica in tal modo perché il peccato degli angeli è insanabile: cfr. ALCUINUS, Interrogationes et responsiones in Genesin, 4, 517CD.

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l’universo è il teatro dell’azione dell’uomo65. In quest’ottica di narrazione metastorica, la lotta contro il male ed il peccato, la redenzione tramite il sacrificio di Cristo e la storia complessa della creazione vengono lette non solo come un percorso anagogico in cui tutto trova il suo senso nel progetto divino di promuovere le creature alla massima perfezione raggiungibile, ma anche come il racconto concreto delle sofferenze derivate, per l’uomo, dalla sua corruzione corporea. Cristo, con la sua incarnazione, passione e morte, ha infatti dimostrato che è la sola carne che, nel tempo, muore e deperisce («sola carne mortuus est ad tempus»), mentre l’anima è immortale66. Il peccato di Adamo, infatti, nasce contestualmente alla presa di coscienza, da parte dell’uomo, del suo essere sensibile, impuro e corruttibile, derivante dalla sua parte corporea. Il primo uomo non ha provato vergogna della sua nudità sin che ha avvertito la perfetta identità della «lex» del Creatore con la propria «lex» razionale («nullam legem senserunt in membris suis repugnantem legi mentis suae»)67. È infatti l’attività dell’«intelligere» che distingue l’uomo dal resto del creato, ed è proprio la sua «insipientia» ad averlo reso inviso al suo Creatore, così come la caduta del primo angelo costituì la «prima inopia rationalis creaturae»68. Proprio la razionalità in cui risiede l’immagine di Dio, dunque, ha indotto l’uomo a peccare, quando ha creduto che essa potesse avere un valore autonomo, slegato dal suo Creatore. Da un lato, dunque, la Genesi scandisce i momenti di un tempo teologico, in cui gli avvenimenti mostrano il rapporto tra la «ratio» del

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Cfr. ibid., 42, 520D-521A, e 108, 528BC. Cfr. ibid., 53, 522AB. 67 Cfr. ibid., 59, 522D. Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De Genesi ad litteram, X, 16, PL 34, [245-485], 430, ed. J. Zycha, Praha - Wien - Leipzig 1894 (CSEL, 28/1), pp. 315,16 - 317,11;Alcuino riprende il commento agostiniano, che parafrasa Rm 7, 23: «Video autem aliam legem in membris meis repugnantem legi mentis meae et captivantem me in lege peccati quae est in membris meis». 68 Cfr. ALCUINUS, ibid., 93, 526B.Alcuino sottolinea ampiamente questo concetto, con particolare riferimento alla contraddizione tra peccato e razionalità, che tenta di ribadire con differenti esemplificazioni.Attingendo infatti ad AURELIUS AUGUSTINUS, ibid., XI, 28, 35, 444, ed. Zycha, pp. 360,19 - 361,21, afferma con decisione come il serpente che ha tentato Eva fosse certamente incapace di comprendere le parole che pronunciava, come i «mente capti», gli indemoniati, perché era solo un «organum» del diavolo.Alcuino non chiarisce nel testo la motivazione della sua asserzione, probabilmente considerando ovvio il riferimento al più celebre testo agostiniano: cfr. ALCUINUS, ibid., 62, 523A; 77, 524C. 66

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Creatore e quella decaduta della creatura; dall’altro, descrive i dati concreti di un tempo cronologico e storico, composto di avvenimenti fattualmente accaduti nella successione storica e legati da precisi nessi causali. Anche laddove la prospettiva simbolica è più evidente, infatti, come nell’interpretazione del racconto del diluvio universale o nella distruzione della torre di Babele, i «verba intellegibilia» non offrono mai un solo piano di lettura, metaforico e metastorico69; è solo la sua imperfezione ad impedire all’uomo di comprendere il significato di ciò che lo circonda, e di valutare al contempo il significato teologico-simbolico e quello storico-naturale che è proprio di tutti gli avvenimenti che scandiscono le vicende dell’umanità. Ogni informazione scritturale acquisisce così un duplice valore: per un verso, descrive la lunga epopea del popolo di Dio, per l’altro, mostra l’intima omogeneità razionale di tutte le parti del creato.La stessa «diversitas linguarum» con la quale Dio ha voluto punire gli uomini costruttori della torre appare ad Alcuino come il simbolo della «stultitia» che sempre si accompagna alla superbia, e che rifiuta di accettare la necessità della comunione della razionalità umana con il superiore progetto divino; essa è però al contempo anche il segno dell’intima coerenza della lettera scritturale, in una dimensione insieme teologica e metastorica: se Dio si è riposato nell’ultimo giorno della creazione e non ha più creato, le lingue poi diffusesi sulla terra, specifica Alcuino, non possono essere nuove creazioni divine, come la prima lingua che era stata data ad Adamo (e che in quanto originaria, è divenuta la lingua degli Ebrei, vale a dire del Cristo venturo), ma devono essere riconosciute come pure produzioni dell’uomo, prodotte dalla sua incontrollata capacità di mescolare le «syllabae», origine e segno insieme di quella divisione che sarebbe stata riassunta in unità soltanto nell’ecclesia fondata da Cristo70. Piano della storia e 69 In particolare, Alcuino si riferisce ai passi nei quali a Dio sono attribuite sensazioni o incertezze tipiche degli uomini. È il caso del ‘pentimento’ del Creatore che, prima di punire l’uomo con il Diluvio, si rammarica di averlo creato (Gn 6,6); cfr. ALCUINUS, ibid., 99, 526D-527A: «INTERROGATIO. Quid est, quod Deus dicit:‘poenitet me fecisse hominem’. Et iterum:‘tactus dolore cordis sui intrinsecus’. Numquid in Deum poenitentia aut dolor cordis cadere potest? - RESPONSIO. Non Deum de facto suo poenitet, nec dolet Deus sicut homo, cui est de omnibus rebus tam fixa sententia, quam certa praescientia: sed utitur Scriptura sancta usitatis nobis verbis intelligibilibus, ut coaptet se nostrae parvitati, quatenus ex cognitis incognita cognoscamus». 70 Cfr. ibid., 150-151, 533D-534A: «INTERROGATIO. In qua familia illa per-

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piano della fede si intersecano, così, continuamente, perché soltanto la fermezza del credente riesce a dare un significato alla mutevolezza del tempo: così come solo la certezza della vita futura ha guidato Abramo nel dire, pur sapendo di dover sacrificare il figlio, che dopo l’adorazione sarebbe tornato indietro con lui («revertemur ad vos»)71. Alcuino dunque esalta la fede che diviene chiave esegetica della storia,e penetra la storia con lo sguardo consapevole della fede: spiegare in che modo gli animali potessero sopravvivere tanto tempo nell’arca, in particolar modo le specie abituate all’ambiente umido, o quale fosse la natura del bitume che copre le pareti dell’imbarcazione, non significa infatti negare il valore simbolico della figura di Noè o del senso catartico del diluvio.Allo stesso modo, le misure della nave e la sua struttura non rappresentano semplicemente una metafora del corpo di Cristo72; se infatti i trecento cubiti di lunghezza dell’arca contengono sei volte i cinquanta della larghezza, e dieci volte i trenta dell’altezza, tanto da rappresentare il corpo umano «sufferens» per definizione, cioè Cristo, esse non posseggono questo valore per un mero scopo letterario e metaforico, ma perché tanto il corpo umano, e dunque anche quello del Cristo, quanto l’arca rispondono alle medesime «regulae»73. Lettura «historica» e «spiritualis» dunque si sovrappongono e collaborano, nel testo alcuiniano, continuamente: «historia» ed «allegoria» sono elementi imprescindibili della commansit lingua, quae primitus Adam data fuerat? – RESPONSIO. Ut putatur in familia Heber, ex quo Hebraei dicti sunt in ea parte hominum, quae Dei portio permansit, in qua et nasciturus erat Christus. Oportuit enim ut in ea lingua salus mundo primo praedicaretur, per quam primum mors intraverat in mundum. Ostendit quoque titulus in cruce Salvatoris scriptus, hanc esse omnium linguarum primam. – INTERROGATIO. Si Deus requievit ab omnibus operibus suis in die septimo, unde subito tanta apparuit diversitas linguarum? – RESPONSIO. Non in hac divisione linguarum novum quid condere Creatorem aestimatur, sed dicendi modos et formas in diversis loquelarum generibus divisit. Unde easdem syllabas et eiusdem potestatis litteras, licet aliter coniunctas, in diversis gentium linguis inveniemus; saepe et eadem nomina vel verba aliud quid significantia in alia lingua, atque aliud in alia». E ibid. 147, 533C: «Fecit ergo superbia diversitates linguarum, et quod turris dissociaverat, Ecclesia collegit». 71 Cfr. ibid., 205, 545C. 72 Cfr. ibid., 105-117, 527C-530A, passim. 73 Cfr. ibid. 108, 528BC. Per le fonti delle Interrogationes, cfr. K. O’BRIEN O’KEEFFE, The use of Bede’s writings on Genesis in Alcuin’s ‘Interrogationes’, in «Sacris Erudiri», 18 (1978/1979), pp. 463-483.

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prensione delle Scritture, e costituiscono i cardini della formazione della fede. Il commento in forma di Interrogationes et responsiones al libro della Genesi non fu l’unico testo di esegesi scritturale di Alcuino. Se infatti si escludono opere per lo più ritenute spurie, è possibile affiancare ad esso un Enchiridion in Psalmos poenitentiales et graduales ad Arnonem episcopum, una Expositio in Ecclesiasten ad Oniam sacerdotem, Candidum presbyterum et Nathanaelem diaconum ed infine un Commentarium in Evangelium Ioannis ad Gislam et Rothrudam (o Rothrudem)74. L’Expositio sul Vangelo di Giovanni – «in divinorum profunditate mysteriorum eminentior» – riveste nell’economia dell’opera alcuiniana un valore particolare, come in tutta la tradizione esegetica altomedievale, e risulta essere, tra le opere esegetiche di Alcuino, la più corposa. Suddiviso in sette libri, è dedicato alla sorella ed alla figlia di Carlo Magno, Gisla e Rotrude, entrambe votate al monastero. Nella epistola dedicatoria,Alcuino rammenta alle due religiose l’utilità dello studio delle Scritture, ed in particolare di questo quarto Vangelo, nel quale sono contenuti gli «altiora mysteria divinitatis». Alcuino aveva diviso probabilmente il lavoro in due parti; è conservata infatti una epistola nella quale le due religiose chiedono con insistenza il completamento del lavoro di esegesi, che non riescono a portare avanti con il solo supporto dei testi agostiniani, spesso oscuri75. Pochi mesi dopo, Alcuino invia la versione definitiva del commento a Giovanni, accompagnandola con un’ultima lettera dedicatoria, nella quale esprime nuovamente la sua fiducia nello studio della Bibbia, e la sua grande devozione al quarto Vangelo. «Mens firmissima et acutissima», Giovanni rappresenta la virtù contemplativa, che completa quella attiva, propria dei sinottici76. Opera particolarmente interessante per la comprensione del metodo di 74 Per i commenti scritturali spuri, cfr. M. GORMAN, Alcuin Before Migne, in «Revue Bénédictine», 112 (2002), pp. 99-130, in partic. pp. 104 e seqq. Le tre opere sono edite in PL100, rispettivamente alle coll. 516-566, 570-638 e 7371008. Ad esse vanno aggiunte tre epistolae di argomento esegetico: ad Remedium, ad Eanbaldum I e ad monacos Sancti Martini Turonenses, in Epistolae, ed. Dümmler cit. (cap. 2, alla nota 8), 76, 44 e 51, pp. 118,89-90, 89-90 e 94-96. 75 Cfr. GISLA ET ROTHRUDIS (RECTRUDA), Epistola ad Alcuinum magistrum, in ALCUINUS, ibid., 196, p. 324,25-35. 76 Cfr. ALCUINUS, Epistola ad Gislam et Rothrudem, ibid., 213, pp. 356-357.

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Alcuino e del suo atteggiamento pedagogico nell’utilizzo delle fonti patristiche, il suo commento al Vangelo di Giovanni, probabilmente anche in relazione alla difficoltà denunciata dalle destinatarie nella lettura della corrispondente esegesi agostiniana, si presenta in massima parte, sia pure senza escludere l’utilizzazione di altre autorità patristiche, come una vera e propria «reductio» ragionata dei Tractatus in Iohannem di Agostino, dei quali recepisce, ordina, organizza in forma semplificata e più diretta, i passaggi più importanti. Se le Interrogationes sul libro della Genesi rappresentano per Alcuino l’occasione di mostrare come la creazione si sia realizzata per opera della «ratio» divina, che è dunque presente nella realtà creata come norma regolatrice, il commento al Vangelo di Giovanni ha il compito di evidenziare ed esaltare l’amore del Creatore per l’uomo: nonostante questi abbia infatti perso il senso della comune radice che lo unisce a Dio, l’atto misterioso e assolutamente gratuito dell’incarnazione del Verbo, vale a dire la discesa nel tempo della ragione eterna, è l’invito per l’uomo a ritornare prima di ogni altra cosa entro l’ambito e la giurisdizione universale della «lex» divina. Nella «vitalis ratio» della volontà divina è stabilito cosa deve venire all’esistenza e quando e cosa deve persistere o perire, come nella mente dell’artista è presente l’immagine della sua opera sia prima che egli la crei,sia dopo averla creata.Tutte le cose sono stabilite e rette («omnia disposta sunt et reguntur») dalla «ratio» che, al contempo, illumina gli uomini capaci di comprenderla77. È perciò indispensabile instaurare un perfetto rapporto di corrispondenza tra la capacità umana di comprendere il vero e la sua adeguatezza nel riflettere le «regulae» che Dio ha impresso nel creato.Affermare l’intelligibilità dell’universo attraverso le categorie razionali che fondano l’«intelligentia» umana e la «ratio voluntatis Dei», infatti, non equivale a confondere i sensi delle Scritture, distinti per forma e per scopo, così come attribuire anche agli avvenimenti più simbolici, contenuti nelle Scritture, un significato comprensibile per gli uomini, non equivale a perseguire un’esegesi letteralistica. È opportuno distinguere infatti termi-

77 È la dottrina fondamentale del commento agostiniano al prologo giovanneo, che Alcuino ritaglia e riproduce in parte alla lettera nel proprio testo; cfr. ID., Commentarium in Evangelium Ioannis, I, 1, PL 100, [738-1007], 746A.

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nologicamente la comprensione del senso profondo ed intelligibile degli avvenimenti scritturali («spiritualiter»), dal fraintendimento e dalla semplificazione storica («carnaliter»)78. «Carne», secondo la fondamentale regola esegetica paolina, è solo ciò che appare, mentre è «spirito» («spiritus») ciò che sfugge alle capacità percettive dei sensi corporei e può essere colto soltanto dall’intelligenza e mediante l’intelligenza (cfr. 2Cor 1, 17; 3, 6). L’interpretazione, dunque, deve essere condotta con grande attenzione («summa vigilantia»), perché l’obiettivo di una corretta esegesi non sono le cose temporali, «quae videntur», ma le eterne, «quae non videntur»79. Alcuino attinge direttamente da Agostino la coscienza della subordinazione della comprensione alla fede («intellectus enim merces est fidei»), e l’idea che la ricompensa dei giusti sia la «claritas» della «visio»80: il metodo esegetico alcuiniano trova dunque la propria principale norma ispiratrice nell’agostiniana esortazione ad allontanare dalla meditazione scritturale tutte le «carnales cogitationes»81. E proprio in tale prospettiva di orientamento spirituale dell’intera verità del Vangelo, è possibile anche un apprezzamento pieno del significato concreto e temporale della storia del mondo. La venuta di Cristo nel creato, infatti, non ha fatto altro che conciliare i due piani. La divinità, sempre presente nel creato come razionalità fondante, si rivela nell’incarnazione proprio per mostrare al mondo ciò che il mondo avrebbe dovuto sapere. Come chiarisce ripetutamente anche nella Expositio in psalmos, l’Alcuino esegeta – pur nella rarefatta originalità dei propri testi, ma proprio grazie alla specificità delle scelte operate nel fare propria l’esperienza esegetica dei Padri – si mostra costantemente accompagnato da una grande fiducia nella possibilità di interpretare le Scritture comprendendone il valore figurato e simbolico, anagogico ed allegorico, senza mai dimenticare che tale interpre78 È un principio che Alcuino, ibid., II, 4, 776C, enuncia riportando integralmente le parole dell’Expositio in Ioannis Evangelium di Beda (cfr. PL 92, 666B): «Sed ne nos quoque spiritalem Domini sermonem carnaliter sentiremus, evangelista subsequenter, de quo templo loqueretur, exposuit». 79 Prospettiva agostinana esplicitata a proposito dell’episodio della Samaritana, che Alcuino ripropone alla lettera nel proprio collage: cfr. ibid., 792C-793A. 80 Cfr. ALCUINUS, ibid., IV, 17, 844C e IV, 22, 867C; e AURELIUS AUGUSTINUS, In Ioannis Evangelium tractatus, 29, 5-6, PL 35, [1379-1977], 1684, ed. R.Willems, Turnhout 1959 (CCSL, 36), pp. 286,1 - 287,18; ibid., 111, 3, 1927, p. 630,1-6. 81 Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, ibid., 3, 19, 1404, pp. 28,1 - 29,38.

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tazione è resa possibile proprio dal presupposto, che è il fondamento stesso del linguaggio profetico, dell’assoluta armonia vigente tra la struttura ordinata dell’universo e la razionalità umana che la riflette. Considerate queste cose, è chiaro e manifesto quanto siano importanti i numeri nelle divine Scritture, e quanto sia necessario, per chi le legge, conoscerne la scienza: senza dubbio attraverso di loro si muove l’ordine del tempo, e rimane salda la regola della nostra vita82.

Le Scritture si confermano dunque specchio fedele della realtà non perché tutti i dati in esse contenuti, secondo un rigoroso letteralismo esegetico, devono corrispondere al vero storico, ma perché la «ratio» che fonda tanto il creato quanto il testo sacro garantisce l’unità interpretativa di diversi registri83.

3. Le arti liberali In una lettera inviata all’abate Radone per presentare la Vita Vedasti da poco conclusa e corretta,Alcuino propone una lunga serie di «admonitiones ad morum honestatem», rivolte in particolare agli uomini di Chiesa. Nella parte conclusiva dell’epistola, si sofferma sulla formazione del cristiano, e sui doveri che essa comporta: Esorta i confratelli a leggere con molta cura le sante Scritture. Non ripongano fiducia solo nell’apprendere il significato del linguaggio in esse utilizzato, ma nella comprensione della verità, affinché possano resistere a chi la nega. Sono questi tempi pericolosi, come predissero gli apostoli, perché, creando nuove sette, molti falsi sapienti si presenteranno, tentando 82

ALCUINUS, Epistola ad Arnonem, in Epistolae, ed. Dümmler cit. (cap. 2, alla nota 8), 243, p. 390,25-27: «His omnibus consideratis, quanta sit numerorum excellentia in divinis scripturis, et quam necessarium sit eas legentibus illorum nosse scientiam, perspicue patet: per quos etiam saeculorum ordo decurrit, et nostrae vitae ratio constat». 83 Cfr. G. D’ONOFRIO, Tra antiqui e moderni. Parole e cose nel dibattito teologico altomedievale, in Comunicare e significare nell’Alto Medioevo, LII Settimana di studio della Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto, 15-20 aprile 2004), 2 voll., Spoleto 2005 (Settimane della Fondazione C.I.S.A.M., 52), II, pp. 821-886, in partic. pp. 843-846.

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di macchiare con empie affermazioni la purezza della fede universale. Perciò è necessario che la Chiesa abbia moltissimi difensori, che sappiano proteggere con energia lo schieramento del Signore non solo con la santità della propria vita, ma anche con la dottrina della verità84.

Secondo le richieste del sovrano, Alcuino non solo si preoccupò di creare e gestire una fitta rete di relazioni, politiche e personali, e di approfondire lo studio delle Scritture, offrendo un testo emendato e ampi commenti di ispirazione patristica; valorizzando il patrimonio di conoscenze tecniche, e dunque di origine profana e secolare, che aveva appreso a York, tentò di dare loro uno statuto che le rendesse degne di affiancarsi allo studio del pensiero dei Padri e della tradizione esegetica latina e greca. Così, nel comporre la tetralogia di opere dedicata alle artes (De grammatica, De orthographia, Dialogus de rhetorica et virtutibus, De dialectica), Alcuino presenta un insieme sintetico ma completo delle discipline necessarie alla formazione del cristiano e del modo in cui esse devono essere da lui messe in pratica. In questo contesto, pur non parlando mai da teologo, egli costruisce le condizioni preliminari affinché il discorso teologico possa comporsi, costruirsi e svilupparsi correttamente. Lo studio delle artes non è mai orientato, infatti, alla sola ricerca della correttezza del ragionamento o dell’espressione linguistica: è pienamente funzionale, anzi, alla ricerca della verità, naturale e divina, e dunque filosofica e teologica al contempo. 3.1. La grammatica A confermare questo rapporto di scambievole utilità tra speculazione e sapere tecnico, il più antico manoscritto del De grammatica antepone alla parte più propriamente didattica e precettistica 84 ALCUINUS, Epistola ad Radonem, in Epistolae, ed. Dümmler cit. (cap. 2, alla nota 8), 74, p. 117,10-16: «Fratres quoque cohortare, ut sanctas diligentissime legant scripturas. Non confidant in linguae notitia, sed in veritatis intellegentia, ut possint contradicentibus veritati resistere. Sunt tempora periculosa, ut apostoli praedixerunt, quia multi pseudo-doctores surgent, novas introducentes sectas, qui catholicae fidei puritatem impiis adsertionibus maculare nituntur. Ideo necesse est ecclesiam plurimos habere defensores, qui non solum vitae sanctitate, sed etiam doctrina veritatis castra Dei viriliter defendere valeant».

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del testo un breve e conciso dialogo noto come Disputatio de vera philosophia: DISCEPOLI - Ti abbiamo sentito dire piuttosto spesso, sapiente maestro, che la filosofia è la maestra di ogni virtù, e che è stata la sola tra le ricchezze del mondo che non abbia lasciato mai in miseria chi la possiede. Con queste parole ci hai spronato, va detto, a dedicarci alla ricerca di una così grande felicità, invitandoci a desiderare di sapere quale fosse l’apice del magistero della filosofia, o attraverso quali gradini si sarebbe potuto ascendere ad essa. La nostra età è ancora immatura, e siamo incapaci di elevarci, se tu non ci porgi la tua destra in aiuto. Capiamo che nel cuore è racchiusa la natura del nostro animo, come sulla nostra fronte c’è quella degli occhi. Proprio gli occhi, se sono colpiti dallo splendore del sole o dalla presenza di qualsivoglia altra luce, sono capaci di discernere qualunque cosa gli si presenti; al contrario, senza l’ausilio della luce, è invece cosa risaputa che rimarrebbero nelle tenebre. Così è forse sufficiente per la sapienza il vigore dell’animo, se qualcuno comincerà ad illuminarlo. MAESTRO – Avete perfettamente fatto vostro il paragone tra gli occhi e l’animo, figli miei. Ma «Colui che illumina ogni uomo che viene sulla terra» illumini le vostre menti, così da rendervi capaci di far progressi nella filosofia, che non abbandona mai, come avete detto giustamente, chi la possiede85.

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ALCUINUS, Disputatio de vera philosophia, PL 101, [849-854], 849C: «DISCIPUdoctissime magister, saepius te dicentem quod philosophia esset omnium virtutum magistra, et haec sola fuisset quae inter omnes saeculi divitias nunquam miserum se possidentem reliquisset. Incitasti nos, ut vere fatemur, his dictis ad tam excellentis felicitatis indagationem, scire cupientes quae esset huius magisterii summa, vel quibus gradibus ascendi potuisset ad eam. Aetas nostra tenera est, et te non dante dexteram sola surgere satis infirma est.Animi vero nostri naturam esse intelligimus in corde, seu oculorum in capite. Oculi itaque si splendore solis, vel alia qualibet lucis praesentia asperguntur, perspicacissime, quidquid obtutibus occurrit, discernere valent: ceterum sine lucis accessu in tenebris manere notissimum est. Sic animi vigor acceptabilis est sapientiae, si erit qui eum illustrare incipiat. - MAGISTER. Bene siquidem, filii, comparationem oculorum et animi protulistis. Sed ‘qui illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum’ (Jo 1, 9), illuminet mentes vestras, ut in ea proficere valeatis philosophia, quae nunquam, ut dixistis, deserit possidentem». Sul valore e la collocazione di questo testo, in pratica un vero e proprio opuscolo autonomo rispetto al manuale di grammatica, cfr. F. BRUNHÖLZL, Die Bildungsauftrag der Hofschule, in «Karl der Grosse: Das geistige Leben», II, hg. B. BISCHOFF, Düsseldorf 1965. Per il riferimento alla LI. Audivimus, o

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La conversazione tra i discepoli ed il maestro si svolge secondo un canone predefinito, nel quale all’ammissione di ignoranza dei primi, fa eco la topica modestia del secondo. I discepoli incalzano il maestro: come la selce, che ha dentro di sé il fuoco, non riesce a mostrarlo senza esser colpita («exire ad ictus»), così la mente degli uomini possiede già la luce della conoscenza («scientiae lumen»), ma solo l’insistenza continua di un maestro può far si che questa scintilla si manifesti86. L’ansia dimostrata dai discepoli è, agli occhi del maestro, il sano appetito naturale di ogni uomo alla felicità («beatitudo»), che non si realizza nei beni del mondo, illusori. Nella Disputatio, il maestro insiste però con i suoi discepoli sulla insufficienza di tale aspirazione, se essa non è accompagnata da una purificazione interiore che preluda al possesso della sapienza. Per tale motivo, sembra mostrarsi titubante nel rivelare quali siano realmente i passi («gradus») che permettono all’uomo di accostarsi alla scientia, temendo che nei suoi interlocutori la fede non sia salda quanto forte è l’entusiasmo. Egli cede alla fine alle richieste dei discipuli: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, musica ed astrologia sono le discipline che accompagnano la speculazione dei filosofi ed aiutano i dottori della Chiesa a mostrarsi superiori agli eretici nelle discussioni pubbliche87. Le artes sono dunque assimilate al settuplice colon-

«philosophia» come «virtutum magistra», cfr. ANICIUS MANLIUS SEVERINUS BOETHIUS (in seguito: BOETHIUS), Consolatio Philosophiae, I, pr. 3, 3, PL 63, 604A, ed. C. Moreschini, München - Leipzig 2000, p. 9,6-7. Cfr. inoltre: P. COURCELLE, Le sources antiques du prologue d’Alcuin, in «Philologus», 110 (1966), 293-305; H. J. WERNER, Meliores viae sophiae: Alkuins Bestimmungen der Philosophie in der Schrift Disputatio de vera philosophia, in Was ist Philosophie im Mittelalter? Akten des X. Internationalen Kongresses für mittelalterliche Philosophie der Société Internationale pour l’Étude de la Philosophie Médiévale (Erfurt, 25. - 30. August 1997), hrsg J.A.Aertsen - A. Speer, Berlin - New York 1998, pp. 452-459. 86 Cfr. ALCUINUS, ibid., 849C: «Ignem siquidem silex naturaliter habet in se, qui solet exire ad ictus. Naturale itaque est mentibus humanis scientiae lumen, sed nisi crebra doctoris intentione excutiatur, in se quasi scintilla in silice latet». Cfr. V. LAW, The Study of Grammar, in Carolingian Culture: Emulation and Innovation, ed. R. McKitterick, Cambridge 1993, pp. 88-110. 87 Cfr. ALCUINUS, ibid., 854A: «Grammatica, rhetorica, [dialectica], arithmetica, geometrica, musica et astrologia. Per hos enim philosophi sua contriverunt otia atque negotia. Iis namque consulibus clariores effecti, iis regibus celebriores, iis videlicet aeterna memoria laudabiles: iis quoque sancti et catholici nostrae fidei doctores et defensores omnibus haeresiarchis in contentionibus publicis semper superiores exstiterunt».

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nato che sostiene la «domus Sapientiae» descritta da Salomone; sono diverse dalla Sapienza che su di esse poggia, come ciò che regge è diverso da ciò che è retto, ma sono utili per guidare verso di essa chi le frequenta, perché la strada verso la perfecta scientia prevede che ogni passo venga compiuto secondo norme precise ed immutabili88. È dunque indispensabile comprendere quali siano le «regulae» del ragionamento umano, per conoscerne adeguatamente procedimenti ed esiti, al fine di renderlo degno della sapienza che su di esso fonda il proprio regno. Nella Disputatio vengono dunque compendiati da Alcuino i migliori insegnamenti della tradizione patristica sul ruolo del sapere secolare, con particolare riferimento all’opera di Agostino. La «vera et germana philosophia», nel De ordine, rappresenta infatti una delle due opzioni tra le quali l’uomo può scegliere quando brancola nel buio («cum rerum nos obscuritas movet»): la ragione e l’auctoritas 89. La prima si avvale di validi strumenti, il cui utilizzo richiede però prudenza: se infatti essi permettono, a chi li adopera correttamente, di migliorare le proprie capacità, al 88

Cfr. ibid., 853C: «Legimus, Salomone dicente, per quem ipsa se cecinit (scil. Sapientia): ‘Sapientia aedificavit sibi domum, excidit columnas septem’ (Pv 9, 1) Quae sententia licet ad divinam pertineat Sapientiam, quae sibi in utero virginali domum, id est corpus, aedificavit, hanc et septem donis sancti Spiritus confirmavit: vel Ecclesiam, quae est domus Dei, eisdem donis illuminavit; tamen sapientia liberalium litterarum septem columnis confirmatur; nec aliter ad perfectam quemlibet deducit scientiam, nisi his septem columnis vel etiam gradibus exaltetur». Per un primo collegamento tra il versetto dai Proverbi e il numero delle arti liberali cfr. CASSIODORUS SENATOR, Institutiones libri duo, II, Institutiones saecularium litterarum (in seguito: Institutiones saec. litt.), Praef., 2, PL 70, 1149D, ed. R.A. B. Mynors, Oxford, 1937, p. 89,11-20. 89 Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De ordine, II, 5, 16, PL 32, [977-1020], 1002, ed. W. M. Green,Turnhout 1970 (CCSL, 29), pp. 157,16 - 158,3: «Duplex enim est via quam sequimur, cum rerum nos obscuritas movet; aut rationem, aut certe auctoritatem. Philosophia rationem promittit, et vix paucissimos liberat: quos tamen non modo non contemnere illa mysteria, sed sola intelligere, ut intelligenda sunt, cogit. Nullumque aliud habet negotium, quae vera, et, ut ita dicam, germana philosophia est, quam ut doceat quod sit omnium rerum principium sine principio, quantusque in eo maneat intellectus, quidve inde in nostram salutem sine ulla degeneratione manaverit: quem unum Deum omnipotentem cum quo tripotentem, Patrem, et Filium, et Spiritum sanctum, docent veneranda mysteria, quae fide sincera et inconcussa populos liberant; nec confuse, ut quidam; nec contumeliose, ut multi praedicant. Quantum autem illud sit, quod hoc etiam nostri generis corpus, tantus propter nos Deus assumere atque agere dignatus est, quanto videtur vilius, tanto est clementia plenius, et a quadam ingeniosorum superbia longe lateque remotius».

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contempo rischiano di ingenerare superbia90. Quando infatti l’uomo crede di poter giungere alla verità con le sole sue forze, tralascia lo studio delle Scritture, e implicitamente rinuncia a conoscere ciò a cui aspira91; le norme della dialettica ed in generale di ogni ars non sono invenzioni umane, ma leggi già poste nel creato da Dio, e dunque veramente utili solo nell’ambito teologico92. Se la Disputatio si propone, nella tradizione manoscritta, come una sorta di piccola introduzione all’intera raccolta della trattatistica tecnica di Alcuino, l’incipit vero e proprio del De grammatica suggerisce come anche nei testi dedicati alle artes Alcuino tenti di applicare lo schema interpretativo già precedentemente indivi90 Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De doctrina christiana, II, 37, 55, PL 34, 61, ed. J. Martin, Turnhout 1962 (CCSL, 32), p. 72,1-26: «Sed haec pars cum discitur, magis ut proferamus ea quae intellecta sunt, quam ut intelligamus, adhibenda est. Illa vero conclusionum et definitionum et distributionum, plurimum intellectorem adiuvat: tantum absit error, quo videntur homines sibi ipsam beatae vitae veritatem didicisse, cum ista didicerint. Quamquam plerumque accidat ut facilius homines res eas assequantur, propter quas assequendas ista discuntur, quam talium praeceptorum nodosissimas et spinosissimas disciplinas.Tanquam si quispiam dare volens praecepta ambulandi, moneat non esse levandum posteriorem pedem, nisi cum posueris priorem, deinde minutatim quemadmodum articulorum et poplitum cardines oporteat movere, describat.Vera enim dicit, nec aliter ambulari potest; sed facilius homines haec faciendo ambulant, quam animadvertunt cum faciunt, aut intelligunt cum audiunt. Qui autem ambulare non possunt, multo minus ea curant, quae nec experiendo possunt attendere. Ita plerumque citius ingeniosus videt non esse ratam conclusionem, quam praecepta eius capit; tardus autem non eam videt; sed multo minus quod de illa praecipitur: magisque in his omnibus ipsa spectacula veritatis saepe delectant, quam ex eis in disputando aut iudicando adiuvamur; nisi forte quod exercitatiora reddunt ingenia, si etiam maligniora aut inflatiora non reddant, hoc est, ut aut decipere verisimili sermone atque interrogationibus ament, aut aliquid magnum, quo se bonis atque innocentibus anteponant, se assecutos putent qui ista didicerunt». 91 Cfr. ibid., 31,48-49, PL 34, 58, p. 68,12-16: «Cum ergo sint verae connexiones, non solum verarum, sed etiam falsarum sententiarum, facile est veritatem connexionum etiam in scholis illis discere, quae praeter Ecclesiam sunt. Sententiarum autem veritas in sanctis libris ecclesiasticis investiganda est». 92 Cfr. ibid., 32, 50, PL 34, 58, p. 68,17-20: «Ipsa tamen veritas connexionum non instituta, sed animadversa est ab hominibus et notata, ut eam possint vel discere vel docere: nam est in rerum ratione perpetua et divinitus instituta». Per il tema dell’utilizzo dei saperi pagani da parte dei cristiani, cfr. anche ibid. 40,60 e 41, 63, p. 75,9 - 76,8 e 78,8-25. Cfr. inoltre: M. ALBERI, ‘The Better Paths of Wisdom’: Alcuin's Monastic ‘True Philosophy’ and the Worldly Court, in «Speculum», 76 (2001), pp. 896-910, in partic. pp. 901 e seqq.; F. DECHANT, Die theologische Rezeption der Artes liberales und die Entwicklung des Philosophiebegriffs in theologischen Programmschriften des Mittelalters von Alkuin bis Bonaventura, Bamberg 1991, pp. 44-54.

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duato nella produzione esegetica e nell’epistolario93. L’opera si apre infatti con un breve dialogo tra due giovani: Ci furono, nella scuola del maestro Albino, due ragazzi, uno Franco, l’altro Sassone, che da poco avevano penetrato le irte difficoltà della ricchezza grammaticale. Perciò sembrò loro opportuno scegliere poche regole della scienza delle lettere per esercitare la memoria attraverso domande e risposte. Per primo il Franco disse al Sassone: «Dunque, Sassone, tu rispondi ed io interrogo, perché sei più grande d’età. Io ho quattordici anni, tu, come credo, quindici». A ciò il Sassone rispose: «Lo farò, tuttavia in modo tale che se si debba chiedere qualcosa di più profondo, o ricavarlo dalla disciplina filosofica, si possa interrogare il maestro». Il maestro rispose: «Mi piace il vostro intento, figli miei, e acconsento di buon grado alla vostra avvedutezza»94.

Il dibattito tra i personaggi introdotti da Alcuino in questo prologo dell’opuscolo evidenzia da subito il complesso statuto epistemologico dello studio delle artes. Se infatti esse hanno un lato tecnico, mnemonico, costituito da «regulae» che vanno apprese e continuamente ripetute, è possibile che nella loro trattazione debba esser coinvolta la filosofia, il cui studio richiede la guida di un maestro esperto. Nell’ulteriore sviluppo del dialogo, i due giovani allievi suppongono che la loro «disputatio» debba prendere le mosse dalla «littera», intesa come la più piccola unità linguistica; essi però, li redarguisce Alcuino, in questo modo ragionano senza filosofia: non solo infatti prima della «littera» esiste la «vox», ma, metodologicamente, prima di dar vita ad una «disputatio», conviene capire di quante parti essa si componga, e come vada amministrata95. È infatti il senso filosofico delle artes che permet93 Cfr. E.VINEIS, Grammatica e filosofia nel linguaggio di Alcuino, in «Studi e saggi linguistici», 28 (1988), pp. 403-429, in partic. pp. 409-411. 94 ALCUINUS, De grammatica, PL 101, [854-901], 854BC: «Fuerunt in schola Albini magistri duo pueri, unus Franco, alter Saxo, qui nuperrime spineta grammaticae densitatis irruperunt. Quapropter placuit illis paucas litteralis scientiae regulas memoriae causa per interrogationes et responsiones excerpere. At prior illorum Franco dixit Saxoni: Eia, Saxo, me interrogante responde, quia tu maioris es aetatis. Ego XIV annorum; tu ut reor XV.Ad haec Saxo respondit: Faciam; ita tamen, ut si quid altius sit interrogandum, vel ex philosophica disciplina proferendum, liceat magistrum interrogare.Ad haec magister: Placet, filii, propositio vestra: et libens annuo vestrae sagacitati». 95 Cfr. ibid., 854CD: «DISCIPULI. Unde, domine magister, nisi a littera? – MA-

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te di ben intenderne il ruolo nella formazione del buon cristiano. Nel programma di studi alcuiniano, la grammatica è custode della correttezza del parlare e dello scrivere96; è il medesimo ruolo che già Marziano Capella le affidava nel De nuptiis: la prima delle ancelle che compare dinanzi al consesso degli dei durante le nozze di Mercurio e Filologia porta infatti con sé gli strumenti per curare solecismi e barbarismi, le malattie che corrompono la correttezza del parlare97. Tre sono infatti le parti costitutive di ogni «disputatio»: le cose così come le conoscono i sensi («res»), vale a dire gli oggetti concreti ‘di cui’ si parla; l’intuizione che gli uomini hanno delle cose e dei concetti («intellectus»), vale a dire il materiale ‘attraverso cui’ si parla; i suoni che si utilizzano per comunicare tali intuizioni ad altri uomini («voces»), cioè ciò ‘con cui’ si parla, il mezzo con il quale questi contenuti vengono veicolati98. Le «voces» possono essere inserite in una proposizione («articulatae») o esser considerate senza alcun contesto («inarticulatae»); entrambe queste forme poi possono o meno essere rappresentate mediante un segno grafico («litteratae» e «illitteratae»); in particolare, lo studio delle «voces» rappresentate con un simbolo grafico è l’oggetto della grammatica, definita dunque «litteralis scientia»99. Essa ha il compito di garantire che le «voces litteratae» che il cristiano utilizza siano ben formate, per evitare che negli errori si annidino pericoli per la fede100. GISTER. Bene arbitramini, si non philosophiae memoriam paulo prius fecissetis. Unde a voce, cuius causa litterae sunt inventae, inchoandam disputationem constat: vel magis primo omnium interrogandum est, quibus modis constet disputatio? – D. Et a te, magister, suppliciter rogamus exponi. Nam nos nescire confitemur quibus modis constet disputatio. – M. Tria sunt quibus omnis collocutio disputatioque perficitur, res, intellectus, voces. Res sunt, quae animi ratione percipimus. Intellectus, quibus res ipsas addiscimus.Voces, quibus res intellectas proferimus; cuius causa, ut diximus, litterae inventae sunt». 96 Cfr. ibid., 857D: «M. Grammatica est litteralis scientia, et est custos recte loquendi et scribendi». 97 Cfr. MARTIANUS CAPELLA, De nuptiis Philologiae et Mercurii libri novem (in seguito: De nuptiis), II, 226, ed.A. Dick - J. Préaux, Stuttgard 1969, p. 83,17-22; ed. J.Willis, Leipzig 1983, p. 60,19-23. Lo stesso Agostino sottolinea, in diverse occasioni, che il carattere normativo della grammatica è funzionale a difendere la lingua, e dunque i concetti che essa esprime, dalla falsità; cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De ordine,II,12,PL 32,1011 e seqq.,ed.Green cit.(alla nota 89) pp.172,8 - 173,26. 98 Cfr. ALCUINUS, ibid., 854C. 99 Cfr. ibid., 857D. 100 Cfr. ibid., 852D-853B: «DISCIPULI. Quanto magis nos tua, magister, ingre-

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L’analisi di Alcuino risale dai «nomina», prima unità significativa del discorso,alle «syllabae» che costituiscono i nomi,e da queste ai loro elementi atomici, le «litterae», che la grammatica si sforza di combinare rispettandone la «ratio». Con questo termine, infatti, nel De grammatica si indicano, in contesti diversi, il senso corretto di una etimologia, le motivazioni di una determinata scansione metrica, la capacità umana di cogliere le sottigliezze e le particolarità grammaticali, l’ordine esatto di una declinazione, secondo la medesima linea interpretativa già evidenziata nell’esegesi scritturale e nell’epistolario.Unica è infatti la razionalità insita nel creato, ed è dunque evidente che essa emerge anche nella corretta struttura della «litteralis scientia». «Vocales» e «consonantes» vengono così denominate perché le une sono espresse dalla singola «vox», mentre le altre risuonano solo accompagnate da un suono vocalico; è però indubbio, agli occhi di Alcuino, che la loro distinzione è anche funzionale alla riproposizione di una classica bipartizione antropologica: come le vocali possono sussistere di per sé, mentre le consonanti necessitano delle vocali per suonare, così l’anima dell’uomo è autonoma, mentre il corpo deve essere da essa vivificato101. Alcuino rivela nel De grammatica il suo debito nei confronti della tradizione classica. Non solo infatti l’opera di Donato e di Prisciano viene continuamente riportata al centro della discussione, ma gli stessi exempla terminologici usati («Troia», «Virgilius», «Iulius», «Iliades», «Aeneades») sono di evidente origine pagana. Nessun passo biblico, nessuna espressione scritturale viene usata da Alcuino come esempio nel testo, quasi ad indicare come dientem vel egredientem vestigia sequi debemus, qui non solum litterario nos liberalium studiorum itinere ducere nosti, sed etiam meliores sophiae vias, quae ad vitam ducit aeternam pandere poteris? – MAGISTER. Divina nos praecedat gratia, et in thesauros spiritalis deducat sapientiae, in qua divinae ubertatis fonte inebriari possitis, ut sit in vobis ‘fons aquae salientis in vitam aeternam’ (Jo 4,14). Sed quia Apostolo praecipiente legimus: ‘Omnia vestra honesta cum ordine fiant’ (1Cor 14, 40), vos per quosdam eruditionis gradus ab inferioribus ad superiora esse ducendos reor, donec pennae virtutum paulatim accrescant, quibus ad altiora puri aetheris spectamina volantes dicere valeatis:‘Introduxit nos rex in cellaria sua, exsultabimus et laetabimur in eis’ (Ct 1, 3). – D. Da dexteram, magister, et nos ab humo imperitiae eleva, et in gradus sophiae nos tecum constitue, in quibus te ex morum dignitate, ex verborum veritate saepius consistere agnovimus, quo te rerum ratio pulcherrima ab ineunte, ut audivimus, aetate perduxit». 101 Cfr. ibid., 855B.

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lo statuto normativo di questa disciplina sussista a prescindere dall’ambito di applicazione. La grammatica, infatti, in quanto «litteralis scientia», indica esclusivamente le regole con le quali formare ed utilizzare gli elementi più semplici ed atomici delle disputationes. L’interazione tra i diversi nomi e altri termini del discorso, infatti, al fine di costruire ragionamenti corretti ed ornati, è il compito della dialettica e della retorica. 3.2. La retorica Nell’introduzione del De rhetorica et virtutibus Carlo Magno, che incarna in questo dialogo fittizio la figura del discepolo, ricorda d’aver sentito dire da Alcuino che la retorica è una disciplina utilissima in politica («in civilibus quaestionibus»); nonostante i problemi («occupationes regni») connessi al suo ruolo, il sovrano ritiene dunque ridicolo che proprio lui possa essere tacciato di non conoscere adeguatamente tale ars, rammaricandosi al contempo della propria ignoranza in dialettica, e avvia il dialogo per apprenderla, proponendo al maestro le proprie interrogationes. Anche la retorica ed il suo studio rientrano, dunque, nel più complesso universo di discipline utili alla comprensione del divino. Se infatti Carlo chiede ad Alcuino di conoscere le «rationes» di questo sapere tecnico, il maestro riconosce la propria impotenza; ogni comprensione delle norme che sono a fondamento della sapienza non è merito di un insegnamento esterno, ma solo della consonanza tra lo stimolo fornito da di chi insegna, ed il «lumen» interiore di chi apprende102: Ci fu, come si tramanda, un tempo in cui gli uomini vagavano senza ordine come animali nei campi, amministrando tutto senza la razionalità ma con la forza bruta. Non si praticava nessun culto religioso, e non si aveva coscienza dei compiti di un uomo; ma una cieca e temeraria brama sfruttava la forza fisica per un pieno appagamento. In quel tempo, un uomo grande e sapiente comprese quale e quanta grande capacità naturale di giungere alle cose più alte ci fosse nell’animo di ogni uomo, se solo qualcuno fosse riuscito a promuoverla ed a renderla migliore con l’educazione. Concentrò in un unico 102

Cfr. ALCUINUS, De rhetorica et virtutibus, PL 101, [919-945], 920D.

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luogo con qualche sistema gli uomini dispersi nei campi e nascosti nei boschi, e diede loro un’unità infondendo una utile e decorosa quiete. Portò quelli che all’inizio si lamentavano per insolenza, e poi via via ascoltavano con sempre maggior attenzione ragionamenti e discorsi, dallo stato ferino ad una mite e mansueta identità. A me sembra, mio re, che una inefficace e scarsa conoscenza delle arti del discorso non sarebbe riuscita a produrre ciò, cioè una conversione immediata degli uomini alla vita regolata da leggi, e a diversi modi di vivere103.

Questo testo è ripreso, alla lettera, dal De inventione ciceroniano104. Nel racconto, gli uomini hanno superato lo stadio della primitiva età della convivenza ferina grazie ad un uomo («quidam vir magnus et sapiens») capace di renderli mansueti e pronti alla convivenza. «Ratio» (dialettica) ed «oratio» (retorica) sono le armi di cui si serve il «vir sapiens» nel condurre esseri ancora irrazionali alla vita in società105. Nel testo ciceroniano, la storia dell’umanità era infatti la storia stessa della vita associata, dove l’eloquenza disgiunta dalla sapienza o la sapienza disgiunta dall’eloquenza impedivano l’apparire delle norme di civile convivenza; era dunque utilissimo alla pubblica condivisione di regole

103 Ibid., 920D-921B: «Nam fuit, ut fertur, quoddam tempus, cum in agris homines passim bestiarum more vagabantur, nec ratione animi quidquam, sed pleraque viribus corporis administrabant. Nondum divina religio, nondum humani officii ratio colebatur, sed caeca et temeraria cupiditas ad se explendam viribus corporis abutebatur. Quo tempore quidam vir magnus et sapiens cognovit, quae materia et quanta ad maximas res opportunitas animis inesset hominum, si quis eam posset elicere et praecipiendo meliorem reddere. Qui dispersos homines in agris et in tectis sylvestribus abditos ratione quadam compulit in unum locum, et congregavit eos in unum, aliquam quietem inducens utilem atque honestam; primo propter insolentiam reclamantes, deinde propter rationem atque orationem studiosius audientes, ex feris et immanibus mites reddidit et mansuetos. Ac mihi quidem videtur, domine mi rex, hoc nec tacita, nec inops dicendi sapientia perficere potuisse, ut homines a consuetudine subito converteret, et ad diversas vitae rationes traduceret». 104 Cfr. MARCUS TULLIUS CICERO, De inventione, I, 2, 2, ed.W. Friedrich (De inventione rhetorica, in M.T. Ciceronis Opera rhetorica, I), Leipzig 1884, p. 118,7-28; ed. E. Stroebel (Rhetorici libri duo), Stuttgard 1965, pp. 2,17 - 3,8. 105 Il concetto di ratio nell’opera di Alcuino, parallelamente a quanto avviene nella tradizione patristica, è sottoposto ad un uso molto variegato. Dio stesso, nella creazione del mondo, avrebbe impiegato sei giorni perché il sei è il numero perfetto secondo la «arithmeticae disciplinae ratio»; cfr. ALCUINUS, Interrogationes et responsiones in Genesin, PL 100, 519C.

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(«pubblicae rationes») il contributo del cittadino che scopriva e finalizzava al vivere civile lo studio della retorica. Il De rhetorica et virtutibus si iscrive correttamente nel solco ciceroniano di tale esaltazione del valore civile e politico della retorica; diversa è però, in quanto profondamente rinnovata dalla spiegazione teologica propria della mentalità cristiana, la prospettiva che conduce Alcuino a ribadire l’origine metastorica della retorica e le radici di quel suo insostituibile valore di strumento del progresso sociale che aveva spinto Carlo a chiedere di poterne apprendere le basi. Se infatti le artes, come in generale ogni studium, sono il mezzo di cui è dotato l’uomo per allontanarsi dallo stadio della vita animale, per la promozione della sua specifica individualità e per realizzare il suo fine naturale, vale a dire la convivenza con i suoi simili, è evidente che la fortuita circostanza con la quale Cicerone descrive il sopraggiungere, nell’epoca della ferinità, di una guida illuminata, diviene in Alcuino il segno evidente del compiersi di un progetto divino106. Non è dunque un caso che il De rhetorica, a differenza del De grammatica, introduca tra gli esempi tecnici che illustrano le regole retoriche alcuni precisi riferimenti alle Scritture ed in generale alla fede cristiana. Se infatti la strumentalità della «litteralis scientia» è puramente formale, la retorica concede a chi la utilizza un potere tanto grande da dover essere saldamente legato alla dottrina ortodossa. Fin dall’inizio dell’opera, appare dunque naturale ad Alcuino indicare a Carlo esempi tratti dall’Antico Testamento nel mostrare quali siano le più opportune applicazioni della retorica nelle «causae civiles»»107. Epi-

106 È interessante che Alcuino, nella finzione del dialogo, faccia dire a Carlo Magno «rhetoricae disciplinae regulas nobis pande», perché «quotidiana occupationum necessitas cogit nos exerceri in illis», sottolineando così energicamente quanto un re sia costretto a conoscere almeno i rudimenti di questa ars; cfr. ID., De rhetorica et virtutibus, 921C. 107 Cfr. ibid., 921D: «Ars quidem rhetoricae in tribus versatur generibus, id est, demonstrativo, deliberativo, iudiciali. Demonstrativum genus est, quod tribuitur in alicuius certae personae laudem vel vituperium, ut in Genesi de Abel et Cain legitur:‘Respexit Dominus ad Abel et ad munera eius; ad Cain autem et ad munera eius non respexit’ (Gn 4, 4-5). Deliberativum est in suasione et dissuasione, ut in secundo Regum libro legimus, qualiter suasit Absaloni Achitophel, ut David patrem perderet, Chusai dissuasit, ut regem salvaret (cfr. 2Rg 17). Iudiciale est, in quo est accusatio et defensio, ut in Actibus legimus Apostolorum, quomodo Iudaei cum Tertullo quodam oratore Paulum accusabant apud praesidem Felicem, et quomodo Paulus se defendebat apud eumdem (cfr. Ac 24). Nam in iu-

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sodi tratti dalle Scritture divengono, in tal modo, exempla introdotti in modo lecito per illustrare le norme della retorica: lo studio di tali norme, infatti, per il cui tramite l’uomo impara a trovare gli argomenti più efficaci («inventio»), disporli nell’ordine giusto («dispositio»), ornarli di parole adeguate («elocutio»), ed infine imparare («memoria») e declamare al meglio («pronuntiatio») tutto quanto prodotto, traduce in concretezza lo sforzo necessario ad un sapiente cristiano per giungere ad una «sancta medietas» nel sapere e nell’indagare, che non si innalzi in arrogante superbia ma neanche si confonda con l’ignavia108. Nonostante il tecnicismo di questo studio, Alcuino sembra comunque aver chiaro, nella sua percezione del rapporto tra fede ed artes, i rispettivi ruoli e l’autonomia dell’una e delle altre pur nella loro complementarietà, soprattutto grazie ad una forte coscienza della solida normatività interna di ogni disciplina. Così, per illustrare, tra le tecniche persuasive della retorica, il valore dell’«inductio», sottopone al giudizio del sovrano un breve ma significativo racconto. Un filosofo un giorno intavolò una discussione con Senofonte e con la moglie, e per primo cominciò il discorso con questa: «Dimmi, ti chiedo, moglie di Senofonte: se la tua vicina avesse dell’oro più bello del tuo, preferiresti quello o il tuo?». «Quello» rispose lei. «E se quella avesse vestiti ed ornamenti femminili più preziosi dei tuoi, preferiresti quelli che hai tu, o i suoi?». «I suoi» rispose lei. «Procediamo, dunque. Se avesse un uomo migliore del tuo, preferiresti tuo marito o il suo?». Qui la donna arrossì. Il filosofo passò dunque a parlare con Senofonte. «Ti chiedo, o Senofonte, se il tuo vicino avesse un cavallo migliore del tuo, preferiresti il tuo o vorresti il suo?». «Il suo» disse. «E se avesse un campo migliore del tuo, preferiresti il tuo o il migliore?». «Il migliore» rispose. «E se avesse una moglie migliore della tua, forse preferisci anche quella». E a questo punto anche Senofonte tacque. Il filosofo concluse: «Poiché nessuno di voi due mi risponde sull’unica cosa che avrei voluto sentirmi dire, vi dirò io cosa ciascuno di voi sta pensando.Tu, donna, vuoi avere il migliore tra gli uomini, e tu, Senofonte, vuoi la migliore tra le donne. Di condiciis saepius, quid aequum sit, quaeritur; in demonstratione, quid honestum sit, intelligitur; in deliberatione, quid honestum sit et utile, consideratur». 108 Cfr. ibid., 922A.

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seguenza, se non riuscirete a far sì che non ci sia in terra un uomo né una donna migliori, sicuramente cercherete con tutte le forze ciò che riterrete essere il meglio, cioè tu di essere il marito di una donna eccellente, e questa di essere moglie di un ottimo marito»109.

Al termine del racconto, il sovrano chiede meravigliato al maestro il senso della narrazione: perché leggere ed usare come esempio un comportamento moralmente riprovevole, dal momento che è evidente che «iste philosophus non fuit evangelicus»? Alcuino risponde con chiarezza: «non fuit evangelicus, sed rhetoricus»110. Il semplice rispetto delle «regulae» interne ad una ars, se anche essa si orienta ad un contenuto non propriamente cristiano, la rende in sé giusta, e dunque non disprezzabile. Nelle ultime pagine dell’opera,Alcuino evidenzia un ulteriore fondamento su cui ribadire lo stretto legame che sussiste, nonostante la rigorosa distinzione dei rispettivi percorsi, tra retorica e fede. La retorica, per il suo valore sociale, non può esser pensa109 Ibid., 935C-936A: «Nam philosophus quidam cum Xenophonte [quondam] et [eius] uxore iniit disputationem, et primum cum uxore eius sermonem instituit: Dic mihi, quaeso, Xenophontis uxor, si vicina tua melius habeat aurum quam tu habes, utrum illudne, an tuum malis? Illud, inquit. Quid si vestem et caeterum ornamentum muliebre maioris praetii habeat quam tu habes, tuumne an illius malles? Respondit, illius.Age, inquit, si virum meliorem habeat quam tu habeas, utrumne tuum virum malis, an illius? Hic mulier erubuit. Philosophus autem sermonem cum Xenophonte instituit. Quaeso, inquit, Xenophon, si vicinus tuus equum meliorem habeat quam tuus est, tuumne malis equum, an illius? Illius, inquit. Quid si fundum meliorem habeat quam tu habes, tuumne malis, an meliorem? Meliorem, inquit. Quid si uxorem meliorem habeat quam tu habes, nunquid et illam malis. Atque hic Xenophon quoque tacuit. Post philosophus: Quoniam uterque vestrum, inquit, id mihi solum non respondit, quod ego solum audire volueram, egomet dicam quid uterque vestrum cogitet. [Nam et] tu mulier, optimum virum vis habere; et tu Xenophon uxorem electissimam maxime vis. Quare nisi hoc perfeceritis, ut neque vir melior, neque femina electior in terris sit, profecto id, quod semper optimum putabitis esse, maxime requiretis, ut tu maritus sis optimae feminae, et haec quam optimo marito nupta sit». Per la fonte anche di questo aneddoto, cfr. MARCUS TULLIUS CICERO, De inventione, I, 31, 51, ed. Friedrich cit. (alla nota 104), p. 148,9-34; ed. Stroebel cit. (ibid.), pp. 42,6 - 43,3. Il «philosophus quidam» in Cicerone è Socrate. 110 Cfr. ALCUINUS, ibid., 936A. È indubbio che Alcuino nutra rispetto per l’applicazione corretta delle regulae delle diverse artes, anche se possono condurre a comportamenti estranei alla morale cristiana. Negli ultimi capitoli del De rhetorica, ad esempio, trattando della «pronuntiatio», sottoscrive l’idea ciceroniana per la quale un discorso, se anche non erudito («indocta oratio»), porta comunque la lode dell’oratore, se ben pronunciato: cfr. ibid., 941D.

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ta separatamente dal codice etico che deve sempre accompagnare, e anzi guidare l’acquisizione della sapienza: se infatti l’arte è un vestito, che deve aderire perfettamente a chi lo usa, essa non può mutare a seconda dei contesti in cui chi ne è padrone la utilizza. Anche privatamente, dunque, il retore dovrà tenere un contegno degno della sua disciplina, e non eccedere mai in nulla, perché ogni cosa che perde la sua giusta misura («quidquid modum excedit») diviene vizio111. Se la retorica si limitasse infatti ad insegnare come sfruttare al meglio, per interessi privati, capacità intellettive e linguistiche, correrebbe il rischio di apparire perversa, capace cioè di tramutare anche il falso in verosimile. La retorica alcuiniana, invece, è maestra e deposito di virtù «in medio positae», ossia tali da essere capaci di concedere agli uomini gli strumenti per sollevarsi dalle bassezze, pur senza essere sufficientemente efficaci da poterlo condurre per vie naturali fino alla beatitudine ultima. La virtù come «medietas» è dunque apprezzata e lodata tanto dalla «Christiana religio», quanto dal filosofo che la ritrova nella natura umana. Posta questa identità sui fini, che differenza dunque corre tra un filosofo ed un cristiano? Se medesimo è il codice etico, se cioè sono condivisibili anche dal cristiano le «philosophicae definitiones» delle virtù, sembrerebbe possibile rispondere che a distinguerli siano solo i simboli esteriori del culto. Non è però soltanto il puro percorso etico che interessa ad Alcuino, quanto più i suoi moventi ed il suo fine: per un fedele, le virtù non sono semplicemente norme di comportamento, quanto piuttosto «regulae» concesse agli uomini per venerare Dio anche nella vita pratica, rifuggendo il male, sopportando il dolore e la privazione, fortificandosi nella privazione. Esse dunque, studiate e onorate dai filosofi, non restano che norme pratiche per il vivere civile; quando invece entrano nei cuori dei credenti, mostrano all’anima con definitiva chiarezza quale sia il compito fondamentale che l’attende e, a seconda della sua capacità o meno di assolverlo, quale sarà il suo destino eterno. Essa deve guardare verso il cielo per dominare la terra, vivere nell’equilibrio tra spirituale e carnale, per «intrare in gaudium Domini sui», e rispettare così, quale riflesso dell’«ordo» cosmico, l’«ordo» etico che vige nell’animo umano: cercare ciò che trascende la materia e i 111

Cfr. ibid., 943C.

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godimenti sensibili, governare la terra ed amare le anime dei giusti112. La conclusione evidenzia dunque il senso profondo dell’opera intera. Le virtù sono la quadriga che conduce l’anima al regno celeste, e che porta a compimento, nelle parole del maestro Alcuino condivise dal discepolo sovrano, l’itinerario: ALCUINO – Questo nostro discorso, che prese le mosse dalla mutevole comprensione delle questioni civili, abbia come fine la stabilità eterna, affinché nessuno ci accusi di aver portato a compimento tale percorso disputando inutilmente. CARLO – Chi mai oserebbe dire che si discute inutilmente se si ricercano le arti oneste, o si è seguaci delle più eccellenti virtù? Infatti l’amore della conoscenza, lo ammetto, mi ha spinto a questi interrogativi, e ti sono grato, perché non hai ignorato le mie domande113.

3.3. La dialettica Riprendendo nell’incipit del De Rhetorica il tema ciceroniano del primo «sapiens», al quale è riconosciuto il merito di aver condotto l’umanità fuori dallo stato di ferinità utilizzando la ragione e la capacità di parlare, Alcuino tradisce la propria sensibilità all’esigenza di coniugare il ragionamento corretto con la corretta capacità di esporlo. È dunque indispensabile che l’uomo apprenda le «regulae» del ragionamento che assicurano solidità e veridicità dei contenuti al discorso che la retorica ha il compito di abbellire e divulgare. Lo studio della disciplina del corretto ragionamento si presenta, dunque, indispensabile quale coronamento dell’apprendimento e della pratica delle «artes dicendi». E in effetti la ‘dialettica’, nome che fin dai tempi di Varrone designa nel suo complesso tale arte, gode già nella tradizione tardo-antica, cui Alcuino attinge le proprie nozioni scientifiche, di uno status particolare. Se infat112

Cfr. ibid., 946B. Ibid. 946C: «ALBINUS. Sermo iste noster, qui de volubili civilium quaestionum ingenio initium habuit, hunc aeternae stabilitatis habeat finem, ne aliquis nos incassum tantum disputando itineris peregisse contendat. – CAROLUS. Quis est, qui frustra sermocinari audeat dicere, si aut honestarum scrutator artium, aut excellentium scrutator virtutum? Nam me, ut fateor, ad has inquisitiones scientiae amor adduxit: et tibi gratiam habeo, quod inquisita non negasti». 113

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ti anch’essa necessita di una sistematizzazione manualistica, che Alcuino propone brevemente nel suo De dialectica, è indubbio che i suoi insegnamenti offrano strumenti essenziali per riconoscere e distinguere la verità e la falsità, evidentemente indispensabili al sapiente per difendere e diffondere gli insegnamenti anche delle altre artes114. La dialettica è infatti funzionale a dimostrare quale sia l’utilità delle altre discipline, e viene quindi utilizzata e presupposta prima ancora di essere compiutamente illustrata115. Nel De grammatica, Alcuino aveva semplicemente accennato («mentio») al significato ed al valore della filosofia; nel De dialectica, ancora in un dialogo con il sovrano in veste di discepolo, procede analiticamente alla sua definizione. Le indicazioni fornite da Alcuino sono perfettamente in accordo con la tradizione patristica, in particolare per quanto riguarda il ricorso ad una netta distinzione tra «scientia et opinio»116. Ciò che le separa è l’uso del114 Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De ordine, II, 13, 38, PL 32, 1013, ed. Green cit. (alla nota 89) p. 128,1-9: «Illa igitur ratio perfecta dispositaque grammatica, admonita est quaerere atque attendere hanc ipsam vim, qua peperit artem: nam eam definiendo, distribuendo, colligendo, non solum digesserat atque ordinaverat, verum ab omni etiam falsitatis irreptione defenderat. Quando ergo transiret ad alia fabricanda, nisi ipsa sua prius quasi quaedam machinamenta et instrumenta distingueret, notaret, digereret proderetque ipsam disciplinam disciplinarum, quam dialecticam vocant?». È evidente il problema della strumentalità della dialettica, che serve ad ogni altra disciplina perché illustra come procede il ragionamento, ma le cui regole devono essere preliminarmente intese, in una sorta di spirale ermeneutica. 115 Cfr. G. D’ONOFRIO, Fons scientiae. La dialettica nell’Occidente tardo-antico, Napoli 1984, p. 7: «Quando la tradizione si cristallizza, le discipline in essa consacrate sono sette: la grammatica, invariabilmente collocata al primo posto; la dialettica e la retorica, che completano un primo gruppo, relativo alle scienze del linguaggio». È la stessa dialettica personificata che, descrivendo le proprie competenze nel quarto libro del De nuptiis di Marziano Capella, specifica quanto senza le sue rationes sia impossibile la comprensione della grammatica, della retorica e della geometria: cfr. MARTIANUS CAPELLA, De nuptiis, IV, 336-337, ed. Dick Préaux cit. (alla nota 97), p. 155,11-16; ed. Willis cit. (ibid.), p. 109,10-13: «Mei prorsum iuris esse, quicquid Artes ceterae prolocuntur, neque ipsam, quam aures vestrae probavere, Grammaticam, neque alteram opimi oris praecluem facultate vel illam formarum diversa radio ac pulvere lineantem sine meis posse rationibus explicari». 116 Cfr. ALCUINUS, De dialectica, PL 101, [949-975], 952AB: «ALCUINUS. Philosophia est naturarum inquisitio, rerum humanarum divinarumque cognitio, quantum homini possibile est aestimare. Est quoque philosophia honestas vitae, studium bene vivendi, mediatatio mortis, contemptus saeculi; quod magis conveni Christianis, qui saeculi ambitione calcata disciplinabili similitudine futurae patriae vivunt. – CAROLUS. Ex qua materia constat? – ALCUINUS. Scientia et opinio-

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la «ratio»: se la scientia si fonda su di una salda conoscenza della razionalità dei fenomeni, la seconda, invece, è sempre incerta, perché priva di una «firma ratio». La filosofia si identifica dunque con il desiderio di comprendere razionalmente, e perciò solidamente, in modo inconfutabile, quanto circonda l’uomo. Ed è proprio questa sua peculiarità a renderla perfettamente utilizzabile nello studio della sacra Scrittura: entrambe prodotto della razionalità divina, infatti, i risultati certi di ratio e revelatio sono perfettamente sovrapponibili, come dimostra anche il fatto che i tre «genera» che, secondo la tradizione classica, compongono la prima trovano una possibile applicazione anche nell’articolazione in parti nella seconda117. La filosofia, infatti, è l’«amor sapientiae» che si prefigge come scopo lo studio delle cose fisiche, di quelle morali e di quelle razionali («in physica igitur causa quaerendi, in ethica ordo vivendi, in logica ratio intelligendi versatur»118): CARLO – In quante specie si divide la logica? ALCUINO – In due, dialettica e retorica. Nei tre generi della filosofia si dividono certamente anche i discorsi sacri. CARLO – In che modo? ALCUINO – Essi trattano infatti della natura, come nel libro della Genesi o nell’Ecclesiaste, dei costumi, come nei Proverbi e, in parte, in tutti gli altri libri, ed infine di logica, grazie alla quale i nostri avocano a sé la teologia, come nel Cantico dei Cantici e nei Vangeli119. ne. – CAROLUS. Scientia quid est? – ALCUINUS. Scientia est cum res aliqua certa ratione percipitur, ut eclipsis solis lunaris corporis obiectu est. – CAROLUS. Opinio quid est? – ALCUINUS. Opinio est, cum incerta res latet et nulla firma ratione diffiniri potest, ut magnitudo coeli, vel profunditas terrae». Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De Trinitate, XIV, 1, PL 42, 1037, ed. Mountain cit. (alla nota 62), II, p. 422,24-29; ISIDORUS HISPALENSIS, Etymologiarum sive Originum libri XX (in seguito: Etymologiae), II, 24, PL 82, [73-729], 141B [ed. W. M. Lindsay, Oxford 1911 (senza indicaz. delle pagine)]. 117 Cfr. ALCUINUS, ibid., 953A. Cfr. D. E. LUSCOMBE, Dialectic and Rhetoric in the Ninth and Twelfth Centuries: Continuity and Change, in Dialektik und Rhetorik im früheren und hohen Mittelalter, cur. J. Fried, München 1997 (Schriften des Historischen Kollegs Kolloquien, 27), pp. 1-20, in partic. p. 2. 118 ALCUINUS, ibid., 952B. 119 Ibid., 952C: «CAROLUS. Logica in quot species dividitur? – ALCUINUS. In duas, in dialecticam et rhetoricam. In his quippe generibus tribus philosophiae etiam eloquia divina consistunt. – CAROLUS. Quomodo? – ALCUINUS. Nam aut de natura disputare solent, ut in Genesi et in Ecclesiaste; aut de moribus, ut in

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Se dunque nel De rhetorica è stato possibile utilizzare il testo sacro per attingervi possibili esempi di «causae civiles» nelle quali le norme di quella disciplina trovano adeguata applicazione, nel De dialectica le Scritture appaiono adatte all’illustrazione delle differenti parti della filosofia120. In particolare, è significativo l’accostamento tra la teologia dei Vangeli e la logica dei filosofi. Girolamo aveva stabilito, per primo, una corrispondenza tra le parti della filosofia ed i libri delle Scritture; Alcuino, seguendone l’insegnamento (forse sulle orme di Isidoro di Siviglia), non esita ad identificare nella dialettica lo strumento con il quale è possibile, per i cristiani, dimostrare la fondatezza dei testi sacri121. Essa può dunque aiutare l’uomo a superare le cose visibili ed a giungere (come si esprimono già sia Cassiodoro sia Isidoro nelle loro sintesi manualistiche sulla dialettica), ad una prospettiva «inspectiva», cioè teologica, nella quale contemplare con il solo spirito le cose celesti e divine122. La teologia diviene dunque la naturale prosecuzione della filosofia.Alcuino trova conferma di questa nozione patristica nella stessa struttura narrativa delle Scritture. I tre Vangeli sinottici trattano in modo più diffuso i dati storici della vita Proverbiis et in omnibus sparsim libris; aut de logica, pro qua nostri theologicam sibi vindicant, ut in Canticis canticorum et sancto Evangelio». 120 Per il rapporto tra dialettica e dottrina, cfr. G. D’ONOFRIO, La dialettica in Agostino ed il metodo della teologia nell’alto Medioevo, in Atti del Congresso internazionale su S. Agostino nel XVI centenario della conversione (Roma, 15-20 settembre 1986), Roma 1987, pp. 273-274. 121 Cfr. HIERONYMUS STRIDONIUS, Epistola ad Paulam de alphabeto hebraico, PL 22, [442-445], 30, 442, ed. I. Hiberg, Wien-Leipzig 1919 (CSEL, 54), p. 243,512; ISIDORUS HISPALENSIS, Etymologiae, II, 24, 8, PL 82, 141D, ed. Lindsay cit. (cap. 3, alla nota 116). Cfr. D’ONOFRIO, Fons scientiae, cit. (alla nota 115), pp. 71-73; e ID., Quando la metafisica non c’era. Vera philosophia nell'Occidente latino ‘pre-aristotelico’, in Metaphysica – sapientia – scientia divina. Soggetto e statuto della filosofia prima nel Medioevo, Atti del Convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (Bari, 9-12 giugno 2004), a c. di P. Porro, Turnhout - Bari 2005 [= «Quaestio», 5/2005], [pp. 103-144], pp. 116-118. 122 Cfr. ALCUINUS, ibid., 952D: «CAROLUS. Theologica quid est? – ALCUINUS. Theologica est quae Latine inspectiva dicitur, qua supergressi visibilia de divinis et coelestibus aliquid mente solum contemplamur»; cfr. ISIDORUS HISPALENSIS, ibid., II, 11, PL 82, 142B; CASSIODORUS SENATOR, Institutiones saec. litt., 3, 6, PL 70, 1168C, ed. Mynors cit. (alla nota 88), p. 111,3-5. Nelle fonti tardo-antiche questa definizione riguardava in realtà originariamente la filosofia theoretica; ma già nella tradizione manoscritta di tutti questi testimoni si constata una oscillazione tra theoretica e theologica, fino a che proprio nel De dialectica di Alcuino si fissa definitivamente la variante theologica: cfr. D’ONOFRIO, Quando la metafisica non c’era cit., p. 118.

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di Gesù, mentre Giovanni si sofferma meno sugli avvenimenti, e descrive con più dovizia i concetti («dicta») espressi da Cristo123: i primi indicano la virtù attiva dell’anima, il secondo invece parla alla virtù contemplativa, così come, tra le discipline della filosofia, spetta rispettivamente all’etica da una parte, e alla retorica e alla dialettica dall’altra. Il tessuto didattico del De Dialectica si propone dunque di dare corpo, nell’esposizione analitica e seccamente tecnica delle varie regole formali dedotte dalla logica tardo-antica, ad una vera e propria rappresentazione teorica di quella pensabilità razionale del creato che Alcuino evidenzia come principio orientativo dell’intero sapere umano in tutto il corpus dei suoi scritti. Così la logica è, prima d’altro, scienza della definizione, intesa come capacità di sintetizzare («brevis oratio») in poche parole ogni cosa caratterizzata da un multiforme significato: per cui costruendo la definizione di ‘uomo’ in base alla classica determinazione del significato mediante la congiunzione di genere e differenza specifica, Alcuino osserva, con entusiasmo degno di un trattato teologico, come l’essere umano sia definibile al contempo ‘razionale’ e ‘mortale’, tanto da godere del privilegio di possedere ciò che lo accomuna agli angeli e ciò che lo accomuna agli animali («O mirum animal! Una parte coeleste, et altera terrenum»)124. È questa già una illustrazione significativa di come la dialettica appaia all’intellettuale carolingio come il fondamento formale di quel sapere che permette di leggere la struttura del creato e di ricostruirne interiormente la pensabilità ordinata, e che in quanto tale aiuta inoltre l’uomo ad avere una percezione intuitiva di ciò che è superiore alla natura e che non potrà mai conoscere direttamente. Particolarmente importante, da questo punto di vista, è la dottrina delle dieci categorie, indispensabile per conoscere e descrivere ogni cosa reale partendo dalla sostanza, come fondamento della predicazione («substantia dicitur, quia substit»), ed at-

123 Cfr. ALCUINUS, Commentarium in Evangelium Ioannis, PL 100, 742D: «Ioannem vero facta Domini multo pauciora narrantem, dicta vero eius, ea prasertim quae Trinitatis unitatem et vitae aeternae felicitatem insinuarent, diligentius et uberius conscribentem, in virtute contemplativa commendanda, suam continuationem atque praedicationem tenuisse». 124 Cfr. ALCUINUS, De dialectica, 953D. Per la definizione della logica come «brevis oratio», cfr. anche ibid. 966D.

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tribuendo alle nove categorie la funzione di predicare ciò che può in diversi modi inerire alla sostanza, individuandola (gli «accidentia»)125. Una speciale attenzione è dedicata da Alcuino alla categoria della relazione («ad aliquid»), insolitamente collocata come terza nell’ordine delle dieci categorie, in seguito ad uno scambio con la qualità: essa descrive la «coniunctio» di due sostanze distinte, e dunque, è giusto porla in più stretto rapporto con la spiegazione della sostanza; ma, soprattutto, essa merita di essere analizzata con più urgenza e con maggiore cautela per la sua complessa implicazione con le questioni predicative relative al problema cristologico. È in particolare grazie all’utilizzazione teologica della capacità significativa propria di tale categoria che il vero teologo è messo in condizione di spiegare correttamente il rapporto tra natura umana e divina in Cristo, e a denunciare la povertà di intelletto di coloro (ossia gli ariani e i loro moderni seguaci) i quali pur sapendo che il Padre è eterno, negano che gli sia coeterno il Figlio: E perciò, secondo questa regola della categoria [scil. della relazione], suscita meraviglia e soprattutto commiserazione la stolta cecità di Ario e dei suoi seguaci, poiché sostengono che il Figlio è posteriore al Padre secondo il tempo; mentre risulta senza dubbio secondo la dialettica che il Figlio è sempiterno al Padre. Se Dio Padre è eterno (cosa che nemmeno la loro empietà osava negare), così anche il Figlio è eterno secondo la necessità del ragionamento dialettico126.

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Cfr. ibid., 955A. Nell’ultima parte del De dialectica, trattando del De interpretatione di Aristotele, e in particolare della definizione del «nomen» come «vox significativa» di una sostanza, Alcuino specifica con precisione che «substantia» è tutto ciò che può ricevere accidenti, con l’unica eccezione di Dio, nel quale «bonitas», «iustitia», «veritas» non sono accidenti, ma specificazioni della sua essenza, cfr. 973B: «ALCUINUS. Omnis enim natura, quae substantia dici potest; ut homo. Et omni igitur naturae, praeter Dei solius, aliquid accidit; ut homini in corpore calor, in animo disciplina. – CAROLUS. Nunquid non Deo accidit bonitas, iustitia, et caeterae virtutes? – A. Non accidit ei bonitas et iustitia; quia ipse est bonitas et iustitia. Ita et de aliis virtutibus sentiendum est». 126 Ibid., 959C: «Ac ideo secundum hanc categoriae regulam miranda est Arii, vel magis miseranda, et eius quoque sociorum stulta caecitas, asserentes Filium secundum tempus Patri esse posteriorem, dum omnino constat secundum dialecticam simul consempiternum esse Filium cum Patre. Et si Deus Pater (quod nec illorum impietas audebat negare) aeternus est, utique et Filius aeternus est secundum dialecticae rationis necessitatem».

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Come aveva chiaramente già evidenziato Boezio, la relazione si può predicare di un termine solo se considerato «cum alio». Posta dunque l’eternità del Padre, ne consegue che da sempre esiste anche ciò che gli permette di esser ‘Padre’, ossia il secondo termine della relazione, il ‘Figlio’. Se dunque il Padre è eterno, lo sarà anche il Figlio, «secundum dialecticae rationis necessitatem»127. Formatasi grazie agli insegnamenti boeziani, ed educata dallo studio di Agostino alla corretta comprensione dei rapporti tra sapere pagano e sapienza cristiana, la visione della dialettica proposta da Alcuino è pienamente conforme alla tradizione patristica, ed alla funzione strumentale che a tale ars attribuiva in generale la manualistica altomedievale128. Grazie a questo vasto e organico patrimonio giunto dai secoli precedenti Alcuino non avvertì l’esigenza di creare un nuovo modello speculativo, ma ebbe la possibilità armonizzare le diverse componenti di questa eredità in un coerente metodo teologico. In quest’ottica, conoscenze e competenze già pienamente inserite nel panorama culturale cristiano vennero utilizzate in tutti gli ambiti del sapere, dalle epistolae ai carmina, dalle sillogi manualistiche alle agiografie. La stessa tradizione patristica, che aveva dichiarato lecite e, in parte, utili tali competenze, ne permetteva infatti un più ampio sfruttamento perché mostrava una netta interdipendenza tra la norma con la quale Dio aveva costruito il creato e le «regulae» che ogni disciplina, anche l’esegesi biblica, sembrava possedere «naturaliter». In questo senso vanno dunque interpretati anche i testi alcuiniani espressamente dedicati a tematiche teologiche, e composti per difendere la fede ortodossa dagli eretici. La formazione del vero cristiano non può che fondarsi sulla lettura delle Scritture, sull’ossequio dei Padri e sulla conoscenza delle artes perché queste tre competenze permettono di apprezzare, da diversi punti di vista, la complessiva intelligibilità del creato. I detrattori della ve-

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Cfr. ibid., 959C. Cfr. inoltre BOETHIUS, In Categorias Aristotelis libri quatuor, I, PL 64, 217A: «Ad aliquid per se et singulariter capi intellectu non potest, ut dicamus esse ad aliquid singulariter. Quidquid enim in natura relationis agnoscitur, id cum alio necesse est consideretur; cum enim dico ‘dominus’, per seipsum nihil est, si ‘servus’ desit». 128 Cfr. supra, alla nota 115. E cfr. BOETHIUS, In Isagogen Porphyrii commentarium. Editio secunda, I, 3, PL 64, 74CD, ed. S. Brandt, Wien - Leipzig 1906, p. 142,16-24.

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ra fede, pur essendo spesso abili interpreti del testo sacro, o saldi conoscitori dei Padri e della sapienza antica, sono incapaci di coordinare tra di loro queste competenze: in tal modo, la lettura della Scrittura si allontana dalle vie sicure tracciate dall’esegesi patristica, il pensiero dei Padri viene interpretato con ingiustificata libertà senza il corretto riferimento alle Scritture, e le artes divengono uno strumento sterile. Nelle opere scritte per difendere l’ortodossia,Alcuino tentò dunque di contrapporre, a questo disordinato insieme di nozioni e conoscenze slegate, l’equilibrio del suo modello di formazione e di un più omogeneo e coerente metodo teologico.

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CAPITOLO QUARTO

IL LABORATORIO DEL TEOLOGO: IL METODO ALCUINIANO ALLA PROVA

In un passo del Commento al Vangelo di Giovanni, Alcuino denunzia i pericoli derivanti da interpretazioni capziose delle Scritture; innumerevoli sono infatti gli errori che possono nascere da una cattiva comprensione dei testi sacri, e questo, conclude Alcuino, è proprio ciò che è accaduto quando si è generata la devianza che ha condotto alcuni importanti membri della Chiesa iberica a difendere l’idea che Cristo sia figlio adottivo del Padre1. La presenza di questo riferimento antiereticale in un’opera esegetica non sorprende; non è infatti rintracciabile nella produzione di Alcuino una separazione, una divisione di metodologie e finalità tra i vari ambiti del sapere, quanto piuttosto un complessivo tentativo di difendere una unitaria visione della fede e della dottrina, che di volta in volta trova espressione in opere e contesti diversi. Tralasciando i riferimenti presenti in modo isolato nelle varie opere, in particolar modo nelle epistolae, tre sono i testi scritti da Alcuino con il preciso intento di combattere l’eresia adozionista: il Liber contra haeresin Felicis, i Contra Felicem Urgellitanum episcopum

1 Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS (nel seguito del capitolo: ALCUINUS), Commentarium in Evangelium Ioannis, PL 100, 843B: «Nam nova haeresis in angulis occulte susurrat: Christus est adoptivus. Sed clarius universalis sanctae Ecclesiae vox resonat: Christus Filius est Dei proprius. Sibilant quoque serpentino ore: Christus nuncupatus est Deus; sed pressius firmiusque fidelium omnium unanimitas clamat: Christus bonus est Deus, verus est Deus; teste egregio praedicatore, qui ait: ‘Quorum patres, ex quibus Christus, qui est super omnia Deus benedictus’ (Rm 9, 5)»; cfr. ibid., 883D.

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libri septem e gli Adversus Elipandum Toletanum libri quatuor 2.A questa produzione va aggiunto il De fide sanctae et individuae Trinitatis, opera scritta da Alcuino in tarda età e nella quale si manifesta la dimensione profondamente teologica della sapienza carolingia, proposta in una forma compendiata, con evidenti riferimenti antiadozionisti.

1. Il Liber contra haeresin Felicis Il testo prende le mosse, come spesso avviene nelle opere alcuiniane, da una breve metafora, nella quale il maestro si paragona al medico che, preoccupato per il dilagare di una infezione mortale, procura ai suoi concittadini il medicamento giusto. La verità della fede universale («catholicae fidei veritas») è infatti ora attaccata dal «venenum» degli adozionisti, per i quali Cristo non sarebbe né figlio vero né proprio di Dio, ma solo ‘adottivo’, secondo una particolare deformazione dell’eresia nestoriana3. Per questo dunque l’opera apologetica ed antiereticale può essere felicemente paragonata alla medicina, in quanto anche essa scientia, attenta alla salute delle anime invece che a quella dei corpi: Leggiamo negli scritti di storia profana che alcuni uomini esperti dell’arte medica, allorquando sentirono di alcune città infestate da un’epidemia di peste, per amore dei loro concitta2 Cfr. supra, cap. 2 alle note 13, 15 e 18. Un punto di riferimento bibliografico sull’adozionismo è l’articolo di I. A. e A. RIESTRA, Bibliografia sobre el adopcionismo español del siglo VIII: 1951-1990, in «Scripta Teologica», 26 (1994), pp. 10931152. Le opere che in modo più significativo hanno contribuito a costruire una completa storia dell’adozionismo d’età carolingia sono: F. ANSPRENGER, Untersuchungen zum adoptianischen Streit im 8. Jahrhundert, Berlin 1952; A. CABANISS, The heresiarch Felix, in «The Catholic Historical Review», 39 (1953), pp. 129-141; per la ricostruzione del contesto storico e dottrinale nel quale si è sviluppata la polemica antiadozionista, e per la collocazione cronologica delle opere, cfr. supra, al cap. 2, § 1. 3 Cfr. ALCUINUS, Liber contra haeresin Felicis, PL 101, 88AB, ed. Blumenshine cit. (cap. 2, alla nota 13), p. 55,16-18: «Nestoriana haeresis ab Oriente, ubi damnata est a ducentis synodali auctoritate Patribus, longum postliminium reviviscens, latitando fugit in Occidentem, ut ubi sol visibilis ab oculis se abscondit humanis, ibi sol iustitiae a cordibus recederet infidelium. Nestorius impia assertione negat beatissimam virginem Mariam Dei esse genitricem, sed tantummodo hominis – similiter et isti, eadem pravitate decepti, negant eam vere Filii Dei esse genitricem, sed cuiusdam adoptivi filii». Cfr. BULLOUGH, Alcuin and the Kingdom of Heaven cit. (cap. 3, alla nota 4), pp. 39 e seqq.

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dini, trovarono con provvida sollecitudine un tipo di medicina con la quale premunirli dal diffondersi del contagio, affinché il pericolo imminente non distruggesse inaspettatamente una parte della popolazione. Sembra opportuno che la nostra pietà adotti questo medesimo comportamento contro la pestilenza della malvagità degli eretici, la cui dottrina serpeggia come un cancro, si diffonde come un’infezione, uccide come un veleno iniettato dal morso del dente lacerante di un serpente. Né per noi la preoccupazione che le anime rimangano salde nella verità della fede universale dovrà essere inferiore alla cura della salute del corpo che, è noto, gli antichi ebbero nella loro scienza4.

L’adozionismo appare come il contagio estremo del nestorianesimo, che sembra voler imitare, nel suo cammino, il corso del sole: sorto (e sconfitto) in Oriente, tenta di nascondersi in Occidente, laddove anche il sole si cela. Alcuino individua dunque subito la sua missione; la storia della lotta alle eresie appare come un monastero dalle tante celle, o un prato dai molteplici fiori, nei quali è lecito cercare, isolare e raccogliere le testimonianze dei Padri della Chiesa che, nei secoli precedenti, hanno attaccato e distrutto le sette ereticali occidentali ed orientali. Interpretata sotto la guida di tali testimoni del vero, l’opera degli eresiarchi più che come un sole apparirà come una tenebra, che tutto annulla, cercando di sottrarsi alla vera luce della fede. L’impegno della onesta teologia dovrà dunque essere quello di scacciare tale oscurità lasciando splendere in cielo il vero sole della dottrina autentica: In primo luogo la luce del Vangelo, più chiara di ogni sole, apre la strada all’illuminazione della vera fede. Contro la chiarezza di questa luce nessuno che ha gli occhi sani osa opporsi; ma come il cieco cammina in presenza del sole e benché il sole gli stia davanti, tuttavia è dimostrabile che il sole è per lui 4 ALCUINUS, ibid., 87CD, p. 55,3-9: «Legimus in saecularis litteraturae historiis, quosdam viros medicinalis artis peritos, dum aliquas civitates pestilentiae lue infectas audierunt, amore civium suorum, aliquod medicamenti genus provida sollicitudine excogitasse, quo cives suos a grassantis morbi infestatione praemunirent, ne ingruens periculum ex insperato partem subverteret multitudinis. Hoc idem nostrae videtur agendum esse devotioni contra haereticae pravitatis pestilentiam, quorum doctrina ut cancer serpit, ut virus infunditur, ut venenum serpentino dente ingestum, quos laceret, occidit. Nec posterior nobis in catholicae fidei veritate animarum sollicitudo integritatis esse debebit, quam antiquis in scientia sua corporalis cura salutis fuisse probatur».

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assente, così colui che non accetta la verità del Vangelo, smarrisce la strada, finché non precipita nella fossa della estrema perdizione5.

Già dalle prime righe del Liber contra haeresin Felicis,Alcuino mette a frutto il patrimonio di conoscenze accumulato negli anni della sua formazione: sul giardino profumato delle verità dei Padri deve splendere la luce della fede e della Scrittura. È lo stesso Alcuino che lo suggerisce, mostrando quanto l’utilizzo della tradizione esegetica classica aiuti a comprendere ciò che forse le sole Scritture non chiariscono perfettamente6. Il rapporto tra le due fonti è dunque biunivoco: come le Scritture hanno ispirato i Padri, così i Padri rendono intelligibili ai più le Scritture. Se dunque il Signore Cristo è Figlio adottivo secondo la carne, come alcuni con fede malvagia insinuano, non è un solo Figlio, perché in nessun caso un Figlio proprio ed un Figlio adottivo possono essere un unico Figlio, perché è necessario ammettere che uno è vero, mentre l’altro non lo è. Perché dunque ci sforziamo con superbia peccatrice di soffocare l’onnipotenza di Dio sotto i nostri vincoli terreni? Non è legato dalla legge del nostro essere mortali: «Dio fa tutte le cose che vuole, in cielo ed in terra». Se anche volle crearsi, dall’utero di una vergine, il proprio Figlio, chi ha osato dire che non poteva? «Chi resiste alla sua potenza?» Perché qualcuno osa indagare i segreti della sua volontà e della sua potenza? E soprattutto perché non dovremmo credere alla sua testimonianza su un Figlio che tante volte nel Vangelo chiama ‘suo’ e non ‘altrui’?7 5 Ibid., 88B, p. 56,6-10: «Et primo omnium ponentes, quid evangelica lux omni sole clarior ad illuminationem verae fidei pandat; contra huius claritatem luminis nemo sanos habens oculos repugnare audet: sed sicut caecus errat in sole; et licet ille soli sit praesens, sol tamen absens illi esse probatur; sic qui evangelicae non consentit veritati, errat de via, donec in ultimam perditionis foveam devolvatur». 6 Cfr. ibid., 88D, p. 56,190-22, «Etsi luce clarius patescat ex auctoritate paternae vocis Filii proprietas; tamen audiendi sanctorum Patrum et catholicorum doctorum venerabiles sensus, quid in hac veridica paterni testimonii professione senserint». 7 Ibid., 92AB, p. 60,24 - 61,10: «Si igitur Dominus Christus secundum carnem, sicut quidam improba fide garriunt, adoptivus est Filius, nequaquam unus est Filius, quia nullatenus proprius Filius et adoptivus Filius, unus esse potest Filius, quia unus verus, et alter non verus esse dignoscitur. Quid Dei omnipotentiam sub nostram necessitatem prava temeritate constringere nitimur? Non est

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L’errore degli eretici nasce da una perversa, e dunque erronea lettura delle Scritture, ed in particolar modo dal tentativo di innestare e far fiorire, sulla pagina sacra, concetti ed espressioni improprie. La coerenza e la bellezza delle proporzioni che, secondo Alcuino, Dio ha posto a fondamento del creato, ne garantisce l’omogeneità e l’intelligibilità delle parti. Le Scritture rappresentano, in questa complessa armonia, il più completo strumento con il quale l’uomo, incerto, possa essere «roboratus»; se infatti l’indagine razionale può condurre alla conoscenza compiuta del creato, solo il testo sacro mostra all’uomo l’universale validità del progetto divino. I «testimonia» scritturali sono i soli, agli occhi di Alcuino, atti a mostrare Dio al contempo «regnans in coelis» e «vagens in cunabulis»8. L’eresia, per ignoranza o con malizia, tenta di negare la validità di questo principio, perché riduce a pura apparenza la reale corrispondenza tra diversi elementi dell’armonia fissata da Dio con la creazione, vale a dire, tra la realtà ed il linguaggio che la descrive. Così, l’eretico può confondere «nomina» e «natura», illudendosi di descrivere la seconda con termini che non hanno nessuna valenza extralinguistica, ma sono fonemi o segni grafici, creati ex novo e dunque vani proprio perché superflui. Una lettura consapevole delle Scritture, da una parte, ed una conoscenza corretta dall’altra della tecnica con la quale la disciplina logica perviene alla corretta definizione dell’autentico significato dei termini implicati nella determinazione dei dogmi non possono invece trarre in errore; se così non fosse, sarebbe possibile utilizzare ogni termine rintracciato nei testi sacri, a prescindere dal contesto di senso in cui è espresso, per giustificare posizioni totalmente estranee all’ortodossia. Non basta così che nel testo sacro ci sia il termine «filius adoptivus» per rendere questa espressione universalmente utilizzabile; essa, infatti, solo quando si applica agli uomini, ed indica il dono concesso da Dio, in virtù del quale possono definirsi ‘figli adottivi’, ha senso; non ne

nostrae mortalitatis lege ligatus; omnia enim, quaecunque vult,‘Dominus facit in coelo et in terra’ (Ps 113,23). Si autem voluit ex virginali utero proprium sibi creare Filium, quis ausus est dicere, eum non posse? ‘Potestati eius quis resistit’ (Rm 9, 19)? Cur secreta voluntatis illius vel potestatis indagare aliquis audet? Vel quare credere non debemus eius testimonio de Filio suo, quem toties in Evangelio suum nominavit, et non alienum?». 8 Cfr. ibid., 92C, p. 61,15-25.

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possiede invece in relazione a Cristo e al suo rapporto di figliolanza diretta con il Padre. Come è stato chiaramente stabilito dai Padri che hanno risposto in modo inequivocabile e sufficiente a tale problema di linguaggio, esiste una distanza insuperabile tra le proprietà unicamente attribuibili al Figlio, che ne escludono dunque l’«adoptio», e la funzione («ministerium») di ‘figli’ ricevuta con la grazia dagli uomini9. Le Scritture sono fonte di solida dottrina perché è Dio stesso a farsi «testis», a testimoniare cioè la veridicità di quanto vi è affermato, purché esse vengano lette con rigore e rispetto. La relazione tra le capacità del singolo interprete e il senso profondo nascosto nelle Scritture emerge con chiarezza nelle opere antiadozioniste scritte da Alcuino. L’eresia non è l’errore di infedeli o di atei, ma di credenti che hanno fede nello stesso libro sacro degli autentici cristiani, universalmente condiviso ma non comunemente interpretato:Alcuino insiste dunque con forza sull’impossibilità di trovare riscontri scritturali alle tesi adozioniste e sulla necessità da parte dei veri credenti di recuperare una autentica coscienza della propria limitatezza («mensura naturae»), che l’uomo non deve mai smarrire10; solo in tal modo infatti riusciranno a comprendere quanto il tentativo di imporre a Dio i vincoli ontologici propri della realtà creata non solo sia impossibile ma anche deleterio11. Se infatti gli eretici non desiderassero interpretare secondo la propria deviante volontà esegetica l’universo, ma si abbandonassero alla accettazione della omogeneità delle diverse parti del creato, comprenderebbero al meglio il mistero cristologico. Se da un lato infatti è indispensabile credere nel profondo ordinamento razionale del creato per poter accettare, per fede, che Dio possa infrangerne le regole, dall’altro è la struttura stessa del mondo a mostrare agli uomini il senso del mistero dell’Incarnazione. L’uomo è composto di due parti, anima e corpo: la prima, «ex nihilo creata», vivifica il secondo12; nonostante ciò, l’unione di anima e corpo, cioè 9 È una formula provenente da AURELIUS AUGUSTINUS, In Ioannis Evangelium tractatus, PL 35, 1439, ed.Willems cit. (cap. 3, alla nota 80), p. 69,1-7: «unicus habet potestatem, adoptati ministerium». 10 Cfr. ALCUINUS, ibid., 93A, p. 62,5 e seqq. 11 Cfr. ibid., 96AC, p. 66, 7 e seqq; GREGORIUS I PAPA [MAGNUS], Moralia in Iob, XVIII, 51, PL 76, 88C-91A, ed. M.Adriaen, 3 voll.,Turnhout 1985 (CCSL, 143143B), II, pp. 930,1 - 932,61. 12 Cfr. ALCUINUS, ibid., 101D, p. 74,7.

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l’individuo umano, è figlio «totus, unus et proprius» di suo padre. Perché dunque invocare l’impossibilità che Cristo, vero uomo e vero Dio, sia «verus et proprius» figlio del Padre? Ti chiedo, difensore di un empio errore: l’anima razionale che è in te, e che vivifica, nutre e muove tutto il tuo corpo e che, come vogliono i santi Padri, non è instillata nell’origine del corpo, ma, creata dal nulla, è inserita da fuori in un corpo, questa anima non è forse adottiva rispetto a tuo padre, come invece la carne gli è figlia propria? E tu non sei forse tutto intero, anima e corpo, figlio proprio e non diviso di tuo padre? E allora, se un uomo, da quella sostanza, che non è generata da sé, congiunta al corpo potrà avere un figlio vero e proprio, perché pensi che Dio sia impotente, perché non può aver un Figlio vero e proprio, nato da Maria attraverso lo Spirito Santo? (...) Tardi sei venuto, come consigliere di Dio, quasi che senza di te non potesse fare ciò che volle. A me sembri invece ingrato nei confronti dei doni di colui che quando non eri ti ha creato a sua immagine, e per mezzo del proprio Figlio ti riportò dalla corruzione a quella immagine con maggiore dignità. Reputi uguale a te in adozione chi ti ha fatto adottivo?13

13 Ibid., 101CD e 102AB, pp. 74,7-15 e 24-28: «Interrogo te, profani assertor erroris: anima rationalis, quae in te est, et totum corpus tuum vivificat, vegetat, et movet, et ut sancti Patres volunt, corporis origine non seminatur, sed ex nihilo creata aliunde corpori immittitur; an non sit patri tuo adoptiva filia, et caro tantummodo propria filia? An tu totus, anima et corpore, unus et proprius patri tuo sis filius? Quid si homo ex ea substantia, quae non ex se generatur, corpori coniuncta proprium et verum poterit habere filium, cur Deum impotentem putas, quod proprium non possit et verum de Spiritu sancto ex Maria virgine natum habere Filium? (…) Serus consiliator venisti Deo, qui absque te non potuit quod voluit. Ingratus mihi videris beneficiorum eius, qui te, dum non esses, ad imaginem creavit suam, perditumque per proprium Filium suum maiore dignitate ad eamdem reparavit imaginem. Et in adoptione tibi aequalem esse asseris, qui te adoptivum fecit?». Il riferimento all’anima «creata ex nihilo» mostra una propensione di Alcuino per una soluzione creazionista rispetto al problema dell’origine delle anime, posto già da Agostino in forma aporetica; cfr. AUGUSTINUS, De Genesi ad litteram, X, 3, 4, PL 34, 410, ed. Zycha cit. (cap. 3, alla nota 67), p. 298,13-19: «Ac per hoc videndum est, etsi latet quid verum sit, quid saltem tolerabilius dici possit: utrum hoc quod modo dixi, an in illis primis Dei operibus unam animam primi hominis factam, de cuius propagine omnes hominum animae crearentur; an novas subinde animas fieri, quarum nulla vel ratio facta praecesserit in primis illis sex dierum operibus». Per una trattazione dei temi psicologici in età carolingia, cfr. infra, cap. 6, § 3.

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La produzione apologetica di Alcuino è caratterizzata da un netto indirizzo, secondo il quale la razionalità che permette all’uomo di comprendere la creazione, leggendola e interpretandola alla luce delle sua «regulae» naturali, non deve mai innalzarsi fino alla presunzione di imporre tale normatività alla volontà di Colui che ne è il creatore e il garante.Al perverso impulso di ricondurre il divino nei percorsi dell’umana razionalità, corrisponde una profonda incertezza esegetica, in cui «liberator» e «liberatus» si confondono: così, la «praesumptiosa audacia» degli eretici, nel tentativo di penetrare nel mistero divino, è destinata a precipitare nel baratro dell’errore. Inversamente, l’intervento dei Padri («sancti doctores») contro tale presunzione è funzionale a ricondurre la ragione entro i termini che le competono: e dunque non solo a fermare in tal modo i cattivi interpreti, ma soprattutto a risvegliare, nei cuori dei fedeli, il «lumen» interiore14. Fondata sulle Scritture e fortificata dall’esperienza dei Padri, la fede consolidata dalla vera sapienza teologica non è immaginazione («phantasia»), e mal si concilia con la superba presunzione di comprendere ciò che Dio possa o non possa fare o essere. La tesi adozionista è completamente infondata perché è priva di riferimenti scritturali, contraddice la linea interpretativa attestata nei Padri e scaturisce da una eccessiva ed illecita fiducia nelle forze di una razionalità il cui autentico compito dovrebbe invece esaurirsi nel reperire, nella misura del possibile, le tracce del parallelismo che sussiste necessariamente tra il pensiero e la volontà di Dio, quali sono rivelati nella Scrittura, e la struttura del creato, quale è intelligibile per la razionalità, senza per questo ammettere alcuna limitazione alle infinite possibilità dell’onnipotenza divina.

2. Il Contra Felicem Urgellitanum Nel secondo testo dedicato da Alcuino al problema adozionista, i Contra Felicem Urgellitanum libri septem, la riflessione inaugurata nel Liber contra haeresin Felicis si amplia e giunge ad una compiuta 14 Cfr. ALCUINUS, ibid., 108A, p. 82,29. Cfr. G. B. BLUMENSHINE, Alcuin’s ‘Liber contra haeresin Felicis’ and the Frankish Kingdom, in «Frühmittelalterliche Studien», 17 (1983), pp. 146-157.

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maturazione. Alcuino compone quest’opera dopo aver a lungo tentato di ricostruire, con il suo avversario, una relazione pacifica: per questo la prima istanza che lo muove nello scriverla è ancora quella di tentare la conciliazione, fondandosi sull’ammissione della buona fede in chi erra, e nella disponibilità a ravvedersi. Soprattutto attraverso lo strumento epistolare,Alcuino aveva sollecitato infatti Felice ad una semplice ma fondante riflessione sui rapporti tra ortodossia ed eterodossia. L’eretico, secondo le sue parole, compie sempre, simul et semel, due peccati, l’uno morale, l’altro culturale: non solo si abbandona a quella litigiosità («contentio») che, a prescindere dal merito della discussione, genera particolarismo e nasce da una cattiva disposizione d’animo estranea alla Chiesa universalmente intesa («catholica»); in aggiunta, egli giustifica questa sua propensione allo scontro rivendicando il diritto di individuare interpretazioni nuove rispetto alla dottrina universalmente riconosciuta come ortodossa. Ma questa aspirazione si riduce in pratica alla sola creazione di «nova nomina» che non hanno attestazione nella tradizione: ipotesi esegetiche che già per il fatto di essere innovative mostrano di essere soltanto vane finzioni, soprattutto se formulate da uomini mediocri15. La prima offensiva contro l’eresia deve dunque essere sferrata nell’animo stesso dell’eretico, contando sull’onestà della sua natura razionale per convincerlo dell’errore: solo la percezione («sensus») che le proprie idee siano esatte, infatti, lo fa sviare dalla verità delle cose, senza però che egli abbia la coscienza di tale perversione. Anche l’eretico, come ogni essere umano, ha infatti una «sua sapientia», discordante però dalla «veritas» e mal diretta dalla «praesumptio». Ma se esiste una sola possibilità di rendere virtuosa la propria sete di conoscenza, essa consiste nell’uniformare la razionalità alla legge divina. E il modello da seguire per assicurare tale uniformità è offerto, per chi ha onesta coscienza dei propri limiti, dalla collaudata solidità dottrinale degli scritti dei Padri. Il Contra Felicem, dedicato a Carlo Magno, viene perciò presentato da Alcuino come un ampio florilegio di citazioni, nel quale si manifesta ancora il debito speculativo e terminologico 15 Cfr. ID., Epistola ad Felicem, in ID., Epistolae, ed. Dümmler cit. (cap. 2, alla nota 8), 23, p. 61,13-15: «Non est haereticus nisi ex contentione. Noli contendere frustra; claret enim evangelica per totum orbem doctrina: hanc unanimiter teneamus et fideliter praedicemus».

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della teologia carolingia nei confronti della tradizione patristica e dell’esegesi scritturale. I cinque pani ed i due pesci del racconto evangelico (Mt 14, 15-21) appaiono, agli occhi degli apostoli, insufficienti per il popolo che ha seguito nel deserto Gesù, che con una «benedictio» ne moltiplica la virtù: la loro quantità sembra restare la stessa, eppure è miracolosamente sufficiente per sfamare una moltitudine. Allo stesso modo anche i sette libri dell’opera contro Felice, ricevuta la benedizione di Cristo, potranno essere divulgati dal sovrano, ricchi di tutto quanto è necessario per sfamare il popolo dei fedeli:Agostino, Ilario, Cirillo, Beda, i pontefici Leone e Gregorio Magno.Alcuino sembra così voler implicitamente chiarire che chiunque vorrà attaccare la sua opera, dovrà coinvolgere in questa critica la miglior parte della tradizione teologica della Chiesa16.Al suo interno,Alcuino ritaglia uno spazio anche per autori, come Origene, che in alcuni passaggi sembrano distaccarsi da interpretazione ufficiali («in quibusdam locis Scripturarum suarum a fide orbitare videantur»): seguendo Girolamo,Alcuino sottolinea come sia possibile utilizzare anche autori non pienamente riconosciuti come ortodossi, grazie all’esercizio di un giudizio illuminato dalla fede e dalla ragione insieme, e così selezionando con attenzione nei loro scritti le cose sensate e distinguendole da quelle incerte17.A questo patrimonio tratto dai Padri,Alcuino affianca infine l’auctoritas scritturale, con particolare attenzione per gli scritti paolini. Sin dalla lettera prefatoria dell’opera e dall’incipit, entrambi dedicati a Carlo Magno, i sette libri del Contra Felicem Urgellitanum si presentano come uno dei risultati più maturi della apologetica alcuiniana18. Investito del ruolo di destinatario e giu-

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Cfr. ALCUINUS, Contra Felicem Urgellitanum, I, Praef., PL 101, 128A. Alcuino sottolinea in diverse occasioni la necessità di operare simili interventi di giudizio critico nei confronti anche di dottrine sostenute da autori sospetti, che però appaiono non del tutto perverse, seguendo l’esempio di Paolo, che ha ripulito dal sudiciume le verità nascoste nelle dottrine dei pagani («aurum e stercore tulisse»); cfr. ibid., 128C e supra, p. 89. 18 Cfr. ibid., Ep. praef., 127C: «Vestra vero sancta voluntas atque a Deo ordinata potestas catholicam atque apostolicam fidem ubique defendat; ac veluti armis imperium Christianum fortiter dilatare laborat, ita et apostolicae fidei veritatem defendere, docere et propagare studeat, ipso auxiliante in cuius potestate sunt omnia regna terrarum, quatenus cum multiplici laboris mercede ad perpetui regni beatitudinem pervenire merearis». 17

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dice del trattato, il sovrano dovrà valutare non solo il senso di quanto in esso sostenuto, ma anche la sua utilità per la comunità cristiana. La società nella quale il credente vive, infatti, è tanto più progredita e consolidata quanto più si avvia lungo il cammino finalizzato a portare a compimento i disegni di quella razionalità ordinata che Dio ha instillato nella natura e nell’anima di ogni singolo uomo. Carlo dunque non è soltanto il referente politico di Alcuino, il sovrano alla cui corte costruire un tessuto di relazioni e di saperi utili all’identità culturale della nascente Europa carolingia; l’intera opera antiereticale trova il suo significato in questa particolare relazione con il potere, perché anche in essa è offerto lo strumento indispensabile per distinguere l’eresia dall’ortodossia. La «veritas», evidenziata dalla perfetta consonanza tra il senso delle Scritture e gli ammaestramenti che ne hanno saputo trarre i Padri, è il nutrimento perfetto dei cristiani, ma solo gli intellettuali posseggono le artes necessarie a rendere commestibile questo alimento spirituale. Il compito del potere è infine quello di distribuirlo come cibo ai bisognosi. E tuttavia soltanto le Scritture ed i Padri consentono alla parola dei credenti di esprimere in parte ciò che trascende ogni linguaggio umano; è dunque alla conferma e alla difesa della loro universale veridicità che devono tendere tanto il linguaggio dei teologi, l’utilizzo cioè delle artes del ragionare e del parlare, quanto la forza politica e militare di chi deve diffondere questo messaggio. La critica di Alcuino all’eresia non può limitarsi alla sola questione della corretta valutazione delle auctoritates, ma tende consapevolmente all’armonico utilizzo di tutte queste essenziali componenti della verità cristiana. Egli sa infatti che ogni eretico conosce tanto bene le auctoritates da saperle piegare a proprio vantaggio19. Ciò che dunque è necessario correggere non è l’auc19 Nel commentare Ec 2, 17-19,Alcuino ribadisce il tema classico dell’uomo che investe fruttuosamente il suo tempo nella meditazione e nello studio, aggiungendo un polemico riferimento alle deviazioni che le interpretazioni degli eretici apportano alle dottrine dei Padri; cfr. ID., Commentaria super Ecclesiasten, PL 100, [665-723], 678A: «Melius intelligendum est de spiritali labore, in quo diebus ac noctibus vir sapiens in lege Domini meditatur, et Scripturarum sanctarum desudat interpretatione, et libros componit multos, ut memoriam sui posteris relinquat, et nihilominus labores illius in manus stultorum perveniunt, qui frequenter secundum perversitatem cordis sui, ex sanctorum Patrum dictis, haereticae pravitatis semina capiunt, et alienos labores calumniantur».

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toritas in sé, ma ciò che di essa si dice, le parole che si usano per interpretarla20. Una volta poi determinata l’interpretazione corretta, il linguaggio cioè con il quale si può parlare senza errore, è necessario che la si diffonda universalmente. In primo luogo, dunque, vanno combattute le «sententiae» degli uomini figlie di un uso distorto della razionalità; successivamente va elaborata la formulazione corretta della «veritas», tale da essere universalmente condivisibile da tutta la comunità dei credenti. Infine al potere sarà dato il compito di estendere indefinitamente i confini di questo comune possesso del vero21. Dio infatti concede agli eletti il potere («potestas») ed il sapere («sapientia»), il primo affinché schiaccino i superbi e difendano gli umili, il secondo per guidare ed educare i sudditi con la dedizione propria degli uomini di fede («ut regat et doceat pia sollicitudine subiectos»), come Alcuino stesso evidenzierà anche nelle opere più tarde22. Non è casuale che Carlo rappresenti, agli occhi di Alcuino, la perfetta sintesi tra queste due virtù, «rector» dei destini politici e militari delle genti che sottomette, ma al contempo esperto di cose sacre. In quest’ottica, e dunque non per un mero fine encomiastico,Alcuino loda continuamente le competenze di Carlo, presentandosi ai suoi occhi, quando compone opere teologiche, come un intellettuale credente chiamato non ad insegnare, ma soltanto a contribuire con il proprio ruolo magistrale alle finalità comuni della società cristiana, i cui confini coincidono con quelli del regno. Carlo possiede in effetti già, nell’ambito del suo sapere («scientia»), tutto quanto va conosciuto dall’uomo di fede. Il rapporto di Alcuino con il sovrano è dunque una relazione paritaria, in cui l’erudizione del «magister» è solo uno strumento, un mezzo di accrescimento e consolidamento delle conoscenze, da lui messe a disposizione del già sapiente, nobile «discipulus». Alcuino descrive dunque se stesso come un sistematizzatore, impegnato solo a

20 Cfr. J. J. CONTRENI, Carolingian Biblical Studies, in Carolingian essays cit. (cap. 3, alla nota 4), pp. 71-98, in partic. p. 72: «Carolingian leaders promoted and Carolingian scholars executed the organization and dissemination of what had, by their time, become an accepted body of knowledge and attitude toward learning. (...) The arts were not, of course, studied fot themselves.They provided students (...) with the tools they would need to plumb the mysteries of the Bible». 21 Cfr. ALCUINUS, Contra Felicem Urgellitanum, I, 2, 129B. 22 Cfr. ID., De fide sanctae et individuae Trinitatis, PL 101, [9-62], 12A.

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donare al proprio sovrano un corpus di opere nelle quali sia agevole muoversi per chi già possieda la scientia indispensabile per farlo. Nell’esordio dell’opera, Alcuino informa Carlo di aver tentato di riappacificarsi con Felice per via epistolare utilizzando un tono conciliate («charitatis calamus») e evitando ogni litigiosità («contentionis stimulus»). Il vescovo iberico, rinunciando alla sintetica essenzialità della comunicazione epistolare, ha invece composto una breve opera ricca di complicati ragionamenti. Nelle pagine del suo libellus, Felice, risorto dalle prime condanne come l’idra a cui ricrescono cento teste ogni qual volta gliene viene recisa una, non solo ha voluto negare che Cristo, nato dalla Vergine, fosse propriamente figlio di Dio; egli infatti si è spinto sino a nominarlo Dio «nuncupativus», ossia tale solo di nome23. Alcuino sintetizza infatti così la tesi dell’avversario: Egli non teme di dire che Cristo è Dio solo di nome, dividendolo in due figli, e chiamando uno ‘propriamente figlio’, e l’altro ‘figlio per adozione’, e in due dèi, l’uno vero, l’altro solo di nome24.

Come consigliano le Scritture («da occasionem sapienti et sapientior erit», Pv 9, 9), Alcuino ha tentato di convincere Felice della necessità di amare la verità più che le proprie idee, di conformarsi al messaggio scritturale, che vuole Cristo vero Dio e vero uomo, ed al di fuori della cui auctoritas si diventa simili a morti, dormienti «sine vita»25. Alcuino stigmatizza allora la «praesumptio» di Felice e la sua ostinazione nel difenderne le conseguenze26, e scioglie una appassionata supplica proprio alla «veritas», tradìta dalla dottrina degli adozionisti: 23 Cfr. ID., Contra Felicem Urgellitanum, IBID., 1, 128D. Sull’immagine dell’idra cfr. AMBROSIUS MEDIOLANENSIS, De fide, I, 6, PL 16, 539AB: «Haeresis enim velut Hydra fabularum, vulneribus suis crevit, et dum saepe reciditur, pullulavit, igni debita, incendioque peritura»; cfr. inoltre BOETHIUS, Consolatio Philosophiae, IV, 6, PL 64, [579-862], 813AB, ed. C. Moreschini, Leipzig 2005, p. 121,7-10. 24 ALCUINUS, ibid., 129A: «Nuncupativum Deum nominare illum non timet, dividens Christum in duos filios, unum vocans ‘proprium’, alterum ‘adoptivum’: et in duos deos, unum verum Deum, alterum nuncupativum Deum». 25 Cfr. ibid., 2, 129C. 26 Relativamente al tema dell’ostinazione («pertinacia») eretica nell’errore, cfr. M. D. CHENU, Orthodoxie et hérésie. Le point de vue du théologien, in Hérésies et sociétés dans l’Europe pré-industrielle (XI-XVIII s.), Paris 1968, pp. 9-14.

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Due sono senz’altro le cose che nell’errare umano sono più difficili da tollerare: la presunzione di conoscere la verità prima che si riveli e, una volta che si è rivelata, la difesa della falsità della propria presunzione.Tutta la malvagità degli eretici discende da questi due rivoli fangosi. Se Dio, come prego e spero, mi difenderà e mi proteggerà con lo scudo della sua volontà buona da questi vizi nemici della ricerca della verità, dell’indagine sulla fede cattolica e della meditazione sulle Sacre Scritture, e mi avrà aiutato con la grazia della sua misericordia, non mi attarderò ad aggiungermi a quelli che cercano la solidità della verità, ed a difendere la santità della fede cattolica con i suoi difensori27.

Il Contra Felicem non si limita, come il Liber contra haeresin Felicis, ad una semplice elencazione di autorità patristiche e scritturali. La distanza tra il ragionamento («sermo») di Felice e le affermazioni («sententiae») delle Scritture è certamente nettissima; essa però non può venir evidenziata se non illustrando dettagliatamente brani dell’opera di Felice, commentandone le manchevolezze e sottolineando le falsità. Se dunque nel Liber Alcuino ostenta la propria erudizione, e sembra implicitamente affermare che la sola individuazione e riproposizione delle auctoritates conduca all’annullamento delle tesi ad esse contrarie, nei sette libri del Contra Felicem tenta di costruire un impianto più vasto e complesso di dettagliata analisi delle posizioni dell’avversario e delle sue argomentazioni, con una perizia architettonica che contribuisce a dare un senso nuovo, più compiuto e diretto, alla sua azione apologetica. Felice dichiara di aver difeso dottrine perfettamente coerenti con l’insegnamento della Chiesa28; la precisazione di Alcuino è dunque opportuna e significativa: 27 ALCUINUS, ibid., 3, 130B: «Duo sunt quippe quae in errore hominum difficillime tolerantur, praesumptio priusquam veritas pateat: et cum iam patuerit, praesumptae defensio falsitatis. Ex his duobus coenosis rivulis omnis haereticorum pravitas emanavit.A quibus vitiis nimis inimicis inventioni veritatis et catholicae fidei indagationi, sive considerationi sanctarum Scripturarum, si me, ut precor et spero, Deus defenderit atque munierit scuto bonae voluntatis suae, et gratia misericordiae suae adiuvaverit non ero segnis cum quaerentibus quaerere veritatis soliditatem, et cum defendentibus defendere catholicae fidei sanctitatem». 28 Cfr. ibid., 4,130CD: «Dicit itaque [scil. Felix]: ‘Credimus et confitemur sanctam Ecclesiam catholicam, toto in orbe diffusam per apostolorum praedicationem, in Christo Domino velut solida petra fundatam, extra quam nullum salvum fieri posse credimus, nullum salvum nisi eum qui intra terminos fidei eius, et in concordia charitatis usque in debitum finem inconcusse permanserit: unam

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Noi siamo stabilmente nei confini della dottrina apostolica della santa Chiesa di Roma, seguendone la certissima verità, e concordando con le santissime dottrine, senza portare niente di nuovo, e senza accettare nulla che non si ritrovi nei loro scritti universali («catholici»). Chi dunque deve esser ritenuto eretico, forse colui che segue le idee universali dei santi Padri e di tutta la Chiesa, dal primo inizio della fede, o quello che, nell’ultima età del mondo, inventa nomi nuovi, mai uditi prima, sull’umanità di Cristo Signore o sulla divinità di colui il quale è nato dalla Vergine?29

La metodologia illustrata nell’epistolario e formalizzata negli scritti didattici ed esegetici, viene dunque coscientemente messa in opera, nella produzione apologetica di Alcuino, con l’esplicita finalità di contribuire alla improcrastinabile ricostruzione della «universitas Ecclesiae». Non può infatti dirsi ‘Chiesa universale’ quella presente solo «in uno angulo terrarum»: ne deriva quindi che solo la nuova onnicomprensiva civiltà costruita da Carlo può aspirare a farsi detentrice di tale universalità, mentre la pretesa degli adozionisti di rappresentare, da soli, separatamente dalla comunità dei credenti, la vera dottrina ortodossa, è ingiustificata e presuntuosa30. Il richiamo alla necessità di una «pax catholica» fondata sulla «unitas fidei apostolicae» diviene così, nell’opera di Alcuino, la diretta conseguenza delle premesse teoriche sin qui esposte: interpretare con sapienza teologica l’ordine presente nel creato e voluto da Dio coincide con il riconoscere e difendere la necessaria universalità del suo messaggio. Esistono dunque credenti che a parole si definiscono ortodossi, rispettosi dei Padri e delle Scritture, fedeli alla Chiesa di Roma, ma che nelle opere e nelle dottrine tradiscono questa fedeltà, distruggendo l’unità della Chiesa stessa, e dunque minando il providelicet, non divisam; simplicem, non scissam, sed in catholicis, non in haereticis; in fidelibus charitate connexis, non in schismaticis’». 29 Ibid.,131A: «Nos intra terminos apostolicae doctrinae et sanctae Romanae Ecclesiae firmiter stamus: illorum probatissimam sequentes auctoritatem, et sanctissimis inhaerentes doctrinis, nihil novi inferentes, nullaque recipientes, nisi quae in illorum catholicis inveniuntur scriptis. Et quis censendus est haereticus, an ille qui sanctorum Patrum et totius Ecclesiae ab initio nascentis fidei catholicos sequitur sensus, aut ille qui in ultimo tempore mundi nova quaedam nomina, inaudita priscis temporibus, fingit de Christi Domini humanitate vel divinitate illius qui ex Virgine natus est?». 30 Cfr. ibid., 6, 132BC.

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getto divino. Denunciata questa mancanza, Alcuino tenta di rintracciarne l’origine, e leva ancora una volta il dito contro la «praesumptio» della fede debole che si illude di poter essere sostituita dalle macchinazioni della ragione. Ma in questo caso, tale razionalità non è quella che per natura è propria dell’uomo, dono di Dio, non conduce alla sapienza, ma si svuota in una inutile «astutia» di natura diabolica31. Pur affermando la sua fiducia nell’universalità della Chiesa, Felice insegue dunque una pseudo-conoscenza che incrina tale universalità alle fondamenta, perché implicitamente sostiene che la speculazione del singolo credente è più efficace della dottrina condivisa da una intera comunità. Il valore dell’unità della Chiesa rimane invece primario per Alcuino. Informato sommariamente da Felice delle tesi di Beato ed Eterio, i monaci asturiani che per primi hanno combattuto le tesi di Elipando,Alcuino afferma che se essi hanno per primi combattuto l’adozionismo seguendo la dottrina ortodossa della Chiesa, la lode nei loro confronti sarà grande; se invece, come afferma Felice, a fini apologetici hanno sostenuto che la duplice natura di Cristo si confonde in una semplice natura, dovranno ritenersi fuori dalla Chiesa32. Per ogni credente, dunque, una distorta percezione della relazione tra pensiero e fede può portare all’eresia;Alcuino non rifiuta mai pregiudizialmente l’utilizzo della ragione, ma ad essa richiede la capacità di fermarsi,laddove avverta di essere impotente33.Chi antepone sempre e comunque la ragione alla fede, implicitamente rifiuta come incomprensibili perché inspiegabili tutti i misteri della fede cristiana, a partire dalla nascita verginale di Cristo. Gli adozionisti sostengono infatti come non sia possibile che il divino si sia incarnato nell’umano; essi affermano dunque, di fatto, che

31 Cfr. ibid., 132D: «Videtisne quod vestra sapientia non est pacifica, non est suasibilis, non bonis consentiens. Et ideo omnino intelligite eam a Deo non esse datam, sed quadam astutia diabolicae fraudis inventam». 32 Cfr. ibid., 7, 133D-134A: «Quod vero quemdam Beatum abbatem et discipulum eius Hitherium episcopum dicitis huic vestrae sectae primum contraire, laudamus eos in eo quod veritatem defendere conati sunt. Sed si verum est quod dixistis, eos duas naturas Christi in unum confundere, sicut vinum et aquam, hoc nullatenus consentimus: sed in eo, si verum est, valde eos esse reprehensibiles iudicamus». Cfr. W. HEIL, Der Adoptianismus, Alkuin und Spanien, in Karl der Grosse. Lebenswerk und Nachleben, II, Das geistige Leben, ed. B. Bischoff, Düsseldorf 1965, pp. 5-87. 33 Cfr. ALCUINUS, ibid., 8, 134C: «Ubi ratio deficit, ibi fides est necessaria».

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l’incolmabile distanza tra il divino e l’umano non ha permesso alla seconda persona della Trinità di incarnarsi realmente. Alcuino prova a sottoporre a verifica tale ipotesi assumendo strumentalmente come valida e insuperabile l’affermazione dell’impossibilità dell’incarnazione. In conseguenza di questo presupposto, prosegue Alcuino, si aprono, per il ragionamento, due alternative: o Dio non fu capace di violare le regole della propria divinità e dell’umanità che ha creato, o non volle violarle. Se si ammette in Dio una incapacità di violare le leggi intrinseche alla sua divinità ed alla umanità, si nega implicitamente la sua onnipotenza; se si afferma al contrario che avrebbe potuto violarle, ma non volle farlo, ci si ritiene in grado di comprendere le motivazioni per le quali Dio compie o meno determinate azioni. Questi ragionamenti, conclude Alcuino, non hanno alcun senso, perché anziché porre le umane capacità al servizio di una verità superiore, le mettono in pratica per indagare ciò che è per sua definizione non indagabile: «Deus incomprehensibilis est»34. Cristo è vero Dio nato dal Padre («quid potuit ex Deo nasci, nisi verus Deus?»), ma la sua realtà non contempla quest’unica nascita. Una «gemina nativitas», infatti, fa sì che egli riceva dal Padre la natura divina, e dalla madre la natura umana, unificando però in una sola persona queste due nature: non «alter et alter», dunque, ma «unus»35. Come quella della Chiesa universale, così dunque anche l’unità del Cristo è messa in discussione da questa eresia, vicina tanto all’errore dei nestoriani, che volevano le due nature di Cristo separate, quanto a quello di Eutiche, che al contrario le leggeva confuse. Dagli apostoli ai Padri della Chiesa ed agli evangelisti, ogni auctoritas afferma l’«unitas» di Cristo, che più volte, nelle Scritture, ricorda Alcuino, viene apertamente indicato come Figlio del Padre36. È dunque proprio la separazione ontologica introdotta da Felice tra le due nature dell’unica persona di Cristo, a rendere la sua dottrina inaccettabile:

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Ibid., 134C. Cfr. ibid., 10, 135BC. 36 Cfr. ibid., 20, 144D-146D, come commento a Mt 3, 16-17: «Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi complacui». 35

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Come è evidente nel corso del vostro trattato, dove, per usare le parole stesse che vi avete scritto, affermate: «Non nella gloria della deità, nella quale è del tutto simile al Padre, e dissimile da ogni altra creatura, ma nella sola umanità, nella quale è stato fatto del tutto simile a noi, tranne per il peccato originale (...), in ciò crediamo che sia adottivo presso il Padre, nel fatto cioè che, secondo la carne, è figlio di Davide»37.

La funzione soteriologica del Cristo è assicurata propriamente dall’unione, in una sola persona, di entrambe le nature. Se infatti è grazie all’assunta umanità che Cristo ha potuto salvare gli uomini dalla morte, risorgendo, è falso affermare che gli uomini siano del tutto simili a Cristo in umanità, in quanto Cristo non è nato come un uomo semplice («purus»): pur essendo infatti sottoposto alla più caratteristica schiavitù umana, la morte, non la subisce «misera necessitate, sed misericordi voluntate»38. Forte della solidità metodologica assicurata dalla convergenza dottrinale di verità rivelata, corretto ammaestramento dei Padri e impegno della razionalità nel reperire nella natura le vestigia dell’opera divina,Alcuino affida le argomentazioni del Contra Felicem ad una efficace vis retorica incisiva e polemica. Egli invita spesso il suo lettore a considerare quanto sia faticoso redigere uno scritto apologetico, che non può proporre un ragionamento lineare, ma deve inseguire i percorsi contorti dell’avversario, per isolarne gli errori. L’eretico si avviluppa in una mortale spirale linguistica, che si fonda sul tentativo di fornire una perversa interpretazione («pravus sensus») delle Scritture. Felice afferma ad esempio che «novus homo novum nomen habere debeat»: quale spirito, lo incalza Alcuino, ha comunicato al vescovo di Urgel, ed a lui solo, questa dottrina? Forse Dio ha parlato nel vento («forte Deus tecum loquebatur in turbine») o come un tuono tra le montagne? Se è così, continua Alcuino, è giusto che Felice sveli a tutti i segreti che gli sarebbero stati rivelati («illa ineffabilia verba quae au-

37 ALCUINUS, ibid., 15, 139D-140A: «Sicut in libelli vestri serie ostenditur, ut ipsa verba ponamus quae vos in eodem posuistis, dicentes: ‘Non in gloria deitatis, in qua per omnia similis est Patri, dissimilis vero omni creaturae; sed in sola humanitate, in qua per omnia similis factus est nobis, excerpta lege peccati (...), in hoc autem illum adoptivum credimus apud Patrem, in quo secundum carnem filius est David’». 38 Cfr. ibid., 140B.

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disti dic nobis»), e soprattutto le testimonianze sul nuovo nome da applicare al nuovo uomo («testimonia novi nominis quod novo homini indidisti»)39. È evidente, in Alcuino, l’intento di ridicolizzare le tesi dell’avversario, senza però sottovalutarne la pericolosità. Proprio l’avere ipotizzato l’esistenza di un Figlio che non sia «verus» ha costretto Felice a coniare il termine «adoptivus», reiterando l’errore tipico degli eretici incapaci di accettare la dottrina stabilita dalla tradizione, ed intenti solo a produrre «nova nomina». Probabilmente, conclude Alcuino, lo spirito che ha riferito nuove dottrine in merito al Cristo figlio adottivo e «Deus nuncupativus», è diverso dallo Spirito che ha parlato ad Isaia e Malachia della paternità divina da cui sarebbe disceso il Messia (Is 7, 14 e 9, 6; Ml 3, 8) ed altro rispetto a Gabriele, l’Arcangelo che annunziò a Maria la nascita del Figlio di Dio. È dunque certo che lo spirito che ha parlato con Felice ha anche sussurrato al suo orecchio: «ricorda di chiamare adottivo questo bambino, che è nato dalla Vergine»40. L’ironia di Alcuino è dunque volta a sottolineare l’impotenza delle «ratiunculae humanae cogitationis», e ad invocare la necessità, invece, di una chiara presa di posizione in favore delle sole certezze della fede rivelata: Dunque per prima cosa ti chiedo questo: il Signore Gesù Cristo, che nacque dalla Vergine Maria, diresti che è soltanto Figlio dell’uomo, o anche Figlio di Dio?41

Patrimonio patristico, esegesi scritturale, profondo rispetto del mysterium ed uso accorto degli strumenti retorici convergono dunque nel conferire a quest’opera di Alcuino l’aspetto di un vero e proprio sintetico manifesto delle sue capacità di scrittore e di teologo. Il linguaggio del magister, intento a non tradire l’ortodossia, accompagna sempre l’attenzione ai contenuti al rispetto estremo della forma. Alcuino conosce i rischi insiti in formulazioni vaghe, imprecise e incerte. Se è infatti particolarmente attento nei confronti della forma letteraria, spesso ariosa e ricca, valuta sem39

Cfr. ibid., II, 2, 147AC. Ibid., 147D: «Hunc, inquit, puerum, qui natus est de Virgine, adoptivum vocare memento». 41 Ibid., 3, 148A: «Primum ergo illud a te requiro, Dominum Iesum Christum, qui ex Maria virgine natus est, hominis tantum Filium, an etiam Dei Filium dicas?». 40

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pre con cautela le rischiose implicazioni che si annidano nelle affermazioni del suo avversario, del quale ben conosce le capacità argomentative. Proponi anche un argomento di questo genere, dicendo: «Se il nostro Redentore nella sua carne, che trasse nell’utero della Vergine certamente dallo stesso concepimento, non è adottivo per il Padre, ma Figlio vero e proprio, cosa ne deriva se non che la sua stessa carne non sia stata creata e fatta dalla massa del genere umano, né dalla carne della madre, ma sia stata generata dalla sostanza del Padre, come la sua divinità?»42.

Felice ribalta, in tal modo, un’argomentazione precedentemente formulata da Alcuino, secondo la quale, dovendo credere per fede che Cristo sia uno, è impossibile chiamare «adoptiva» la sua parte umana; se infatti fosse adottivo in quanto uomo, dovrebbe esserlo anche come Dio, essendo uno. Felice utilizza la medesima premessa, ma con una opposta finalità: se si crede per fede che Cristo è uno, e la sua parte umana non è adottiva, non è possibile separare il suo essere carnale da quello divino, e dunque si dovrà ammettere che anche la sua corporeità scaturisce dalla medesima fonte da cui deriva la sua divinità, e cioè dalla «substantia Dei», il che sarebbe assurdo. Alcuino accusa Felice di percorrere le Scritture zoppicando («non plano pede, sed claudicante gressu»), rifiutando di comprendere in quale modo debba la ragione intendere il corretto rapporto tra la parte divina e quella umana in Cristo: «assumpsit namque sibi Dei Filius carnem ex Virgine, et non amisit proprietatem, quam habuit in Filii nomine»43. 42 Ibid., 12, 155C: «Proponis quoque huiusmodi argumentum dicens:‘Quod si idem Redemptor noster in carne sua, quam ex utero Virginis ab ipso videlicet conceptu suscepit, adoptivus apud Patrem non est, sed verus et proprius Filius, quid superest, nisi ut eadem caro eius non de massa humani generis, neque de carne matris sit creata et facta, sed de substantia Patris, sicut et divinitatis eius generata?’». 43 Cfr. ibid., 155D-156B. Felice dimostra una buona competenza teologica, perizia tecnica, ma soprattutto una approfondita conoscenza delle Scritture, che, in talune occasioni, pone in difficoltà lo stesso Alcuino. La conseguenza più naturale della premessa di Felice, infatti, è che la duplicità di Cristo, nel suo essere divino e nell’adozione di un uomo, si sposi perfettamente con la doppia nascita a cui è destinato ogni credente: come Cristo è nato dalla Vergine ed è risorto dai morti, così l’uomo, nato carnalmente in Adamo, rinascerà a vita eterna. Nell’illustrare questo parallelismo, Felice utilizza un’espressione inconsueta, sottolineando come la seconda vita venga iniziata da Cristo «in lavacro».Alcuino individua,

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L’accordo sulla tesi iniziale conduce dunque i due scrittori ad applicazioni diversificate nelle conseguenze. Per entrambi, Cristo è eminentemente Dio; Alcuino risolve la distinzione tra natura umana e natura divina spiegando la relazione che le congiunge alla luce di quella fissata con la creazione tra corpo e anima nell’individuo umano;Felice invece insiste sulla distinzione tra le due nature, mantenendo rigidamente la separazione sostanziale tra l’individuo divino e quello umano, adottato. Per Felice è impossibile che Cristo,che ab aeterno siede alla destra del Padre,possa essersi incarnato; l’uomo del quale parlano i Vangeli è dunque chiamato («nuncupative») Figlio di Dio, ma lo è solo «adoptive»44. Se infatti fosse stato Figlio «proprius», avrebbe dovuto subire l’umiliazione del sopportare i limiti connaturati all’essere umano. Alcuino rifiuta questa conclusione,che cancella il valore soteriologico dell’incarnazione, ed implicitamente nega l’onnipotenza di Dio. Affermare che gli apostoli non hanno conosciuto un Figlio «proprius» equivale a sostenere che Dio non aveva la potenza per superare la «lex naturalis»,in virtù della quale ogni uomo nasce sottoposto al peccato e limitato dalla corporeità. L’incarnazione del Verbo non sarebbe più il compimento del progetto divino,in ragione di una «potentia defectiva» di Dio,insufficiente a far generare,da una donna,un Figlio «proprius vel naturalis»45. Assoggettare il potere di Dio alle semplicistiche definizioni («diffinitiunculae») umane significa, per Alcuino, tradire quel principio di omogeneità tra l’ordine del creato e le capacità di comprensione proprie dell’uomo, che appare, anche nell’opera antiereticale, la cifra del suo filosofare. Dio ha dato forma al creato attraverso «rationes» eterne, in virtù delle quali esseri tanto piccoli come le api hanno una struttura sociale raffinatissima, in tale espressione, l’ennesima stortura scritturale: come è possibile che Cristo salvi dalla morte gli uomini tramite un «lavacrum», se nel suo caso il battesimo non è servito a togliere i peccati di cui non si era macchiato? Alcuino probabilmente fraintende il senso dell’osservazione di Felice. Il termine lavacrum, infatti, in ambito neotestamentario è utilizzato solo da Paolo, in due occasioni, nella lettera agli Efesini ed in quella a Tito, ed in entrambi i casi non indica tecnicamente il battesimo, ma solo la funzione purificatrice di Cristo; cfr. Eph 5, 26 e Tt 3, 5. 44 Cfr. ALCUINUS, ibid., III, 3, 164B. 45 Cfr. ibid., 2, 164A: «Quapropter unigeniti Dei nativitatem, vel divinam vel etiam humanam, deinde ad nostram mortalitatis impossibilitatem redigere: neque ei, qui extra conceptum humanae originis natus est, humanis diffinitiunculis praeiudicare tentes, quomodo nasci potuisset, vel quomodo esset proprius Filius Dei, dum natus est».

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la terra è stabile, i cieli maestosi nella loro grandiosità, ed il creato mirabile nel suo essere variegato; la «praesumptio» dell’eretico consiste proprio nel voler passare dalla ammirata devozione per tali norme universali, alla loro determinazione e comprensione da parte della razionalità umana, che dovrebbe rispettarle e studiarle, non assimilarle forzatamente alle proprie capacità.Esse non possono che sfuggire all’uomo,che non comprende come il Figlio possa essere «proprius» nonostante abbia assunto anche la natura e le sembianze umane. L’uomo, dunque, ha il compito di riconoscere ed onorare con la propria «ratio» tali «rationes», e non di limitare l’operato di Dio, tentando di costringerlo in regole logiche terrene: «concede Deum aliquid posse quod humana non valeat infirmitas comprehendere»46. A Felice, come ad ogni eretico, manca dunque l’umiltà per comprendere e rispettare la ricchezza delle Scritture, linguisticamente e teologicamente. Pur ammettendo ad esempio che nel testo sacro non c’è alcuna traccia dell’adozione di Cristo o di espressioni o formule che consentano di autorizzare l’uso di tale termine,il vescovo di Urgel elenca una serie di sinonimi del termine «adoptio» («electio», «gratia», «voluntas», «assumptio», «susceptio», «placitum», «applicatio»), presenti nelle Scritture e riferiti al Cristo,affermando che rifiutare l’«adoptio» significherebbe negare la correttezza anche di tali riferimenti.Alcuino invoca la necessità di operare delle precisazioni tra i diversi termini teologici, e sottolinea, da principio, come non tutte le assumptiones siano adoptiones. Di Cristo, ad esempio, le Scritture affermano che «assumpsit eum diabolum, et statuit super pinnaculum templi» (Mt 4, 5): ciò non equivale a sostenere che l’«assumptio diaboli» sia l’adoptio di Cristo da parte del diavolo, ma si dovrà ammettere che indica semplicemente una «prava temptatio». Allo stesso modo, se si afferma che Cristo è «veritas», non si può al contempo sostenere il suo essere adottivo: l’«adoptio» è una «quaedam voluntatis significatio non nativitatis veritas», se è vero che chi adotta «vult habere in nomine illum quem non habet proprium in natura»47. È dunque indispensabile la cautela terminologica che distingue l’opera dei «viri peri46 Cfr. ibid., 3, 164C. Cfr. G. D’ONOFRIO, La dialettica in Agostino cit. (cap. 3, alla nota 120), p. 274. 47 Cfr. ALCUINUS, ibid., 13, 169C-170A.

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ti». Operare correttamente con la propria ragione, infatti, non significa utilizzare forzatamente gli strumenti dialettici o retorici, come la sinonimia, per ritrovare nelle Scritture ciò che le Scritture non dicono: la forma linguistica impone rispetto ed attenzione, perché proprio discorsi falsi e scorretti fondano le eresie.È dunque una «stultitia indocta» quella di Felice, priva di «omnis ratio»: affermare che Cristo è figlio adottivo di Dio, significa usare un «nomen» il cui vero significato è ‘figlio non proprio’.Tale nome è stato del resto utilizzato anche nella letteratura pagana («historiae saeculares») come espressione della volontà di un individuo di attribuire a sé per nome ciò che non è suo per natura. Felice ritiene che Cristo, nato «de Spiritu Sancto et Maria virgine», sia figlio adottivo e Dio «nuncupativus», vale a dire sia stato assunto successivamente come figlio, e venga ‘detto’ Dio48. Il rapporto tra significante e significato e la sua intrinseca problematicità costringono Alcuino ad incalzare Felice:cos’è dunque il quid che,morto sulla croce,si adora? Felice sembra incapace di accettare l’evidenza scritturale;nell’idea che Cristo sia vero Dio e vero uomo la presenza del divino nella storia non è solo una conseguenza, ma costituisce la vera premessa. Dinanzi alla domanda che lo stesso Satana pone a Cristo in forma di ipotesi («si Filius Dei es»,Mt 4,3),Felice tradisce,dietro la sua intransigenza terminologica,la gravità dell’errore ereticale in cui incorre, e nel quale neanche il demonio tentatore è caduto («Filius Dei non est; quod ille interrogavit dubitanter, tu negas instanter»)49: Si legge ancora, infatti, nella tua Epistola: «Come crediamo ed esaltiamo tutto ciò che di grande e glorioso lo riguarda, così non dobbiamo in alcun modo disprezzare la sua umiltà e tutte le cose non degne che per noi con compassione volle accogliere su di sé»50.

Felice insomma ha tentato, linguisticamente, di definire la realtà di Cristo per sollevarne teologicamente la divinità al di sopra del48

Cfr. ibid., 14, 170AB. Cfr. ibid., 15, 171A. 50 Ibid., 16, 171C: «Sequitur quoque in Epistola tua:‘Sicut ea quae de illo celsa, atque gloriosa sunt, credimus et collaudamus, ita humilitatem eius et omnia indigna, quae propter nos misericorditer suscipere voluit, despicere nullo modo debemus’». 49

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le ignominie che egli ha subito per salvare gli uomini. Ma, se il suo tentativo di concedere a Cristo una umanità solo «per adoptionem» – in quanto uomo che è anche Dio ma soltanto «nuncupative», nel quale non si dà alcuna relazione tra il nomen e lo status corrispondente –, è funzionale a preservare Cristo dalle passioni dell’«humanitas», è invece indispensabile ammettere, per assicurare la validità del messaggio soteriologico cristiano, che sia proprio Dio ad aver subìto quelle ignominie, e non una sua creatura adottiva o detta tale, in nome della unione distinta delle due nature: Noi infatti crediamo e professiamo non, come tu sostieni con Eutiche, che le due nature sono confuse nell’unica persona di Cristo, ma, con la Chiesa universale, che sono così ineffabilmente congiunte che pur permanendo la proprietà dell’una e dell’altra natura e, per meglio dire, pur essendo salva l’integrità di entrambe, ne consegue con certezza che tutto ciò che è divino comunica con tutto ciò che è umano e tutto ciò che è umano comunica con tutto ciò che è divino: e che c’è in questa santa e meravigliosa congiunzione non la mutazione della divinità ma l’esaltazione dell’umanità, cioè non un Dio trasformato in uomo, ma un uomo glorificato in Dio; e ancora che la divina natura non ha smesso di essere ciò che era, vale a dire, Dio, ma l’umana natura ha cominciato ad essere ciò che non era; cosicché, come spesso abbiamo detto, e sempre diremo, Cristo sia uno da due nature unite mirabilmente ed ineffabilmente, tutto intero uno e vero Figlio di Dio51.

Alcuino sa che non si può dire nulla su Dio in modo diretto; ciò però non implica che di Dio si possa dire tutto: se è infatti possibile difendere la fede con discorsi semplici («simplex sermo»), l’errore è cadere nella presunzione di affermazioni erronee («impietatis assertio») che solo nel confronto, anche polemico, («di51 Ibid., 17, 172B: «Nos namque duas naturas in una Christi persona, non, ut tu dicis cum Eutyche, confusas, sed cum Ecclesia catholica sic ineffabiliter coniunctas credimus et confitemur, ut manente utriusque naturae proprietate, et ut ita dicam, salva integritate ambarum, et divina humanis, et humana divinis communicent; essetque in hac sancta et mirabili coniunctione non deitatis conversio, sed humanitatis exaltatio: id est, non Deus conversus in hominem, sed homo glorificatus in Deum; nec divina natura amisisset esse quod erat, id est, Deus, sed humana natura inciperet esse quod non erat: sicque, ut saepe diximus, et semper dicemus, unus sit Christus ex duabus naturis mirabiliter et ineffabiliter unitis, totus unus et verus Filius Dei».

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sputatio») possono essere confutate, rigettando la litania di parole blasfeme («infidelium verborum cantilena») che verrà punita nel giorno del giudizio52. È dunque necessario individuare le più corrette parole che possano descrivere, a parte hominis, quel mistero dell’incarnazione che rimane, sempre, irraggiungibile. Dalla tradizione patristica, e da una attenta e rispettosa lettura delle Scritture, è necessario trarre il lessico corretto che le artes umane sanno difendere e diffondere. Non è allora l’«adoptio» a descrivere il rapporto, in Cristo, tra parte umana e parte divina; Dio ha operato una «coniunctio», in modo che la realtà personale di Cristo risultasse da una «adunatio» delle due nature53. Sul rapporto tra natura umana e natura divina di Cristo e sul valore stesso dell’incarnazione rimane dunque incolmabile la distanza tra Alcuino ed il suo interlocutore: se infatti Felice non esita a sostenere che il vero Figlio di Dio è «bis genitus», una volta dal Padre senza la carne e senza madre, un’altra nella carne senza il Padre, il Cristo di Alcuino è invece «simul et semel» Figlio del Padre e della Vergine, vero Dio incarnatosi in forma servile senza sottostare alle necessità della carne («in Cristo, quidquid gestum est, totum voluntatis fuit, non necessitatis»), perché, nell’incarnazione, l’assunzione della natura umana è stata pienamente volon-

52 Cfr. ibid., IV, 1, 173C: «Sequitur in libello praefati doctoris pessimum et a saeculo inauditae blasphemiae argumentum, quo omnino Christi Dei impiissima temeritate contradicit divinitati, quod multis sanctorum Patrum testimoniis destruendum esse necessarium videtur. Quapropter lectorem obsecro, ne me longiorem in hac serie disputationis reprehendat. Simplici sermone apud auditores pios fides vera proferri potest; sed impietatis assertio plurima testimoniorum auctoritate diluenda: quatenus si nostrae parvitatis sensus contemptibiles habeat, saltem multimoda catholicorum doctorum auctoritate vincatur, utque Dei Christi donante et miserante clementia corrigatur». Cfr. inoltre ibid., 6, 179C: «Ama vitam, ama salutem tuam, ama eum per quem redemptus es, metue eum a quo iudicandus es.Velis enim nolis, manifestandus ante tribunal Christi es; et seposita impietatis blasphemia, ac verborum infidelium cantilena, si aliud putas tribunal Dei esse quam Christi, venias ante tribunal Christi, et invenies utroque documento inexplicabili, ipsum tribunal Dei esse quod Christi, totamque in uno Filio Iesu Christo divinitatis potentiam et Patris Dei maiestatem». 53 Cfr. ibid., 5, 177C: «Intellige, o indocta temeritas, quid post tantorum Patrum testimonia relinqui possit nuncupationis in Christo vel adoptionis. Dicit ipsa Veritas:‘Quod Deus coniunxit, homo non separet’ (Mt 19, 6). Deus coniunxit seipsum humanae naturae, ut esset unus Deus in duabus naturis, et unus Filius Dei: quis est qui possit separare quod Iesus adunavit, vel dividere quod Deus coniunxit?».

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taria («alia est volontaria humilitas, alia servilis necessitas»)54. Cristo non è nato naturalmente servile, ma ha voluto esserlo per realizzare un progetto di salvezza. Uomo «perfectus» e «perfectus» Dio, Cristo ha scelto di soffrire per l’uomo, anche se patì la sua sola parte carnale: Professiamo che due sono le nature in Cristo e due le attività; tuttavia una è la divinità, non due. Come infatti quando diciamo ‘l’uomo vede’ non è tuttavia tutto l’uomo che vede ma solo gli occhi; così quando diciamo ‘Dio soffrì’, soffrì con la sola carne. Infatti nel corpo umano alcune sono le funzioni della testa, altre quelle dei piedi; ciascuna delle membra ha una sua funzione particolare, ma uno è il corpo, e uno è l’uomo, nel quale operano mani e piedi, mentre l’anima regge e vivifica55.

Se dunque da un lato Felice non esita a sottolineare come Cristo sia nato da un essere «ignobilis», da una «ancilla», dalla quale altro non può nascere nisi servus, Alcuino invita i «fideles» all’umiltà teologica, a riconoscere umilmente in Dio la libertà e il potere di compiere ciò che vuole: Concedi all’onnipotenza divina di aver potuto creare da una ancella tutto ciò che fosse piaciuto alla sua ineffabile volontà, se per caso non vuoi opporti a Dio e dire: non voglio che si faccia qualcosa da un’ancella, che non sia un servo56.

L’allestimento di un cospicuo dossier patristico e scritturale57; l’accentuata insistenza sul tema dell’«universitas», che si traduce in condanna di qualsiasi attentato all’unità della onnicomprensiva 54

Cfr. ibid., 9, 182CD. Ibid., 13, 188B: «Naturas in Christo duas confitemur, et duas operationes; unam tamen divinitatem, non duas. Sicut enim cum dicimus: ‘homo vidit’, non tamen totus homo vidit, sed oculi tantummodo: sic cum dicimus, ‘Deus passus est’, sed carne sola.Alia enim sunt opera in humano corpore capitis, alia pedum; nam unumquodque membrum habet et opus suum speciale, sed unum est corpus, et unus homo, in quo operantur caput et pedes, anima regente et vivificante». 56 Ibid.,V, 3, 202C: «Concede omnipotentiae divinae ut de ancilla creare potuisset quidquid placuisset suae ineffabili voluntati, nisi forte resistere velis Deo, et dicere: nolo ut aliquid aliud fiat de ancilla, nisi servus tantum». 57 Cfr. ibid., 1, 199D: «Sublimitas apostolicae auctoritatis terrere debuisset istos adoptionis vel nuncupationis in Christo assertores, ut tacerent, quia omnes novitates vocum cunctis catholicae fidei filiis sub anathematis terrore interdixit». 55

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comunità ecclesiale dei credenti; il ricorso costante alla corretta formulazione della «universalis doctrina ecclesiae» contro le argomentazioni del singolo Felice, del quale sono sottolineati con insistenza l’isolamento e l’assoluta devianza dalla comune tradizione religiosa58; la coscienza della necessità di fortificare il metodo dell’apologia teologica con esempi e metafore semplici e comprensibili, come quelle che illustrano somiglianze e differenze tra Cristo e la costituzione naturale degli uomini nello stato attuale della vita terrena59; la capacità di modellare il registro linguistico e letterario in relazione alle diverse esigenze apologetiche: questi sono gli elementi che caratterizzano e riassumono nel suo più intimo significato il tentativo operato da Alcuino di dare solidità alla sua azione antiereticale. Attestandosi nel solco della tradizione patristica, senza mai discuterne i fondamenti teologici e scritturali, Alcuino appare impegnato, nelle pagine del Contra Felicem come del resto in tutta la sua produzione di argomento sia teologico sia (apparentemente) profano, a diversificare le sue strategie, sforzandosi di evidenziare e mettere a frutto il proprio ruolo di intellettuale che si propone come organico ad una realtà politica che aspira all’universalità, e che transla questi princìpi in una metodologia argomentativa che tenta di essere «universalis» in quanto «simplex» perché fondata sull’unico progetto divino per il creato. Le ragioni umane, mal utilizzate ed orientate dalla superbia di una strumentazione retorica e dialettica non adeguatamente educata e non sufficientemente guidata dalla fede, segnano il discrimine tra chi aderisce alla dottrina cattolica e chi si allontana da essa tradendone il più autentico ed eternamente vero significato. È impossibile infatti definire cattolico chi non crede nelle testimonianze dei Padri, nell’autorità apostolica, e nelle pagine 58

Cfr. ibid., IV, 5, 177D-178A: «Si Iesus Christus, qui natus est ex Virgine, non est verus Deus, quomodo universalis Ecclesia per totum mundum communi consuetudine, etiam et vos, ut reor, in omnibus orationibus quae in missarum solemniis decantantur, dicere solet: ‘Per Iesum Christum Dominum nostrum, qui tecum vivit et regnat Deus in unitate Spiritus sancti per omnia saecula saeculorum’?». 59 Cfr. ibid., V, 3, 190BC: «Aut ergo temetipsum divide in duos filios, proprium ex carne et adoptivum ex anima parentibus tuis, aut si hoc absurdum tibi forte videatur, concede Deo Patri ea lege, vel etiam potentiore, proprium et vere Filium ex Virgine natum habere potuisse, qua te vis tuorum parentum proprium esse filium. (…) Et sicut teipsum mortalem et immortalem esse non denegas, ita et Chistus divinitate quidem immortalis, carne sola mortalis erat».

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del Vangelo60. Negando questi tre punti di riferimento, ogni libera variazione esegetica sui contenuti della dottrina è possibile, e dunque diviene lecita ogni deviazione da quella universalità che è il senso proprio della verità cattolica.

3. L’Adversus Elipandum Toletanum Nell’analisi della formazione della personalità teologica alcuiniana, e con essa della metodologia carolingia,il passaggio dalle opere antifeliciane agli Adversus Elipandum libri quattuor non segna un mutamento significativo. Se infatti Alcuino ha utilizzato, nelle opere scritte per confutare Felice, gli argomenti tipici contro l’adozionismo,menzionando i passi delle Scritture nelle quali il Padre si rende «testis» della natura divina del Figlio ed elencando le auctoritates patristiche che più o meno direttamente hanno respinto l’idea di una «adoptio», nello scritto contro Elipando non modifica sostanzialmente il metodo complessivo del ricorso alle citazioni scritturali e patristiche esplicitamente introdotte nel testo, né sembra utilizzare con costanza il proprio patrimonio di conoscenze retoriche, logiche e grammaticali. L’opera è concepita piuttosto come una conferma del percorso già tracciato,e le sue poche peculiarità sono determinate dall’esigenza particolare di fronteggiare una personalità culturalmente forte e definita come quella di Elipando. Utilizzando lo stesso procedimento del Contra Felicem, nel quale aveva costruito la sua argomentazione riportando e confutando le tesi dell’avversario, nell’Adversus Elipandum Alcuino prende le mosse dalla condanna di una durissima replica con cui l’arcivescovo di Toledo ha reagito ad una sua precedente epistola di richiamo alla correttezza della fede ortodossa. Il testo di Elipando è sin dall’esordio molto incisivo: Al reverendissimo fratello Albino, diacono, non ministro di Cristo,ma discepolo del lurido contestatore Beato (…),nuovo Ario, contrario alle dottrine di santi e venerabili Padri come Ambrogio, Agostino,Isidoro e Girolamo,se si converte dall’errore della sua via, eterna salvezza nel Signore; se non vorrà, 60 Cfr. ibid., IV, 8, 181C: «Quomodo catholicus aestimari potest, qui et tantorum doctorum testimoniis non credit, nec apostolica ad credulitatem movetur auctoritate, nec divinae per evangelicas paginas consentit veritati?».

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eterna dannazione.(...) In verità,dal momento che sostieni che non ci sia stata alcuna adozione della carne nel Figlio di Dio secondo la forma di servo dalla gloriosaVergine di Dio, non persegui la verità,ma sarà evidente che sei pieno di falsità61.

Elipando rovescia apertamente gli equilibri che avevano caratterizzato il rapporto tra Alcuino e Felice, in cui il secondo si difendeva dalle critiche producendo argomentazioni per sostenere la propria ortodossia. Equiparando Alcuino al suo peggior nemico, Beato, Elipando mette in campo tutta l’energia e la vitalità della sua personalità, senza però limitarsi ad un attacco diretto; diverse sono infatti, nel corso dell’epistola, le auctoritates patristiche citate per dimostrare l’infondatezza della tesi contraria, e discusse con piglio. Per portare avanti con argomentazioni sostenibili la difesa della dottrina adozionista, Elipando dimostra nello specifico una buona erudizione ed una precisa idea di come essa dovesse essere utilizzata. Se infatti le fonti scelte sono facilmente sovrapponibili a quelle comunemente utilizzate da Alcuino, esse vengono spesso presentate fuori contesto, estrapolate nel punto in cui la loro parziale citazione permette al vescovo di Toledo di usarle a conferma delle proprie asserzioni. Questo procedimento è particolarmente evidente nel caso di alcune citazioni da opere di Ambrogio e di Isidoro riportate nell’epistola elipandiana: Il beato Ambrogio nei suoi articoli di fede dice: «Figlio adottivo secondo il nostro uso, e vero figlio». (…) Anche il beato Isidoro, splendore della Chiesa, astro dell’Esperia, dottore della Spagna, nel libro delle Etimologie dice: «è chiamato unigenito in quanto eccelle per divinità, perché senza fratelli; primogenito secondo la partecipazione dell’uomo, nella quale per adozione della grazia si è degnato di avere dei fratelli, dei quali è il primogenito»62. 61

ELIPANDUS TOLETANUS, Epistola ad Albinum, in ID., Epistolae, 4 (cfr. supra, cap. 2, alla nota 6), PL 96, 870A: «Reverentissimo fratri Albino diacono non Christi ministro, sed Antiphrasi Beati fetidissimi discipulo (…) novo Ario, sanctorum venerabilium Patrum, Ambrosii, Augustini, Isidori, Hieronymi, doctrinis contrario, si converterit ab errore viae suae, a Domino aeternam salutem; et si noluerit, aeternam damnationem. (...) Quod vero asseris nullam carnis adoptionem in Filio Dei secundum formam servi de gloriosa Dei Virgine suscepisse, non vera persequeris, sed mendacio plenus esse ostenderis». Per il rapporto tra Elipando e Beato, cfr. supra, cap. 2, § 1. 62 Ibid., 872C: «Beatus Ambrosius in suis dogmatibus dicit:‘nostro usu adop-

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Il primo testo, estrapolato da un più complesso ragionamento proposto da Ambrogio, viene sfruttato da Elipando per motivare l’utilizzo della distinzione anche terminologica tra Dio vero e Dio adottivo. Di altro tenore appare però l’argomentazione di Ambrogio se considerata nella sua interezza: Che cosa significa, per natura, esser Dio, se non essere Dio veramente? Come nella lettera ai Tessalonicesi l’Apostolo Paolo disse: «Come vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero?». Quelli infatti fingono soltanto di essere dèi, mentre Dio è per natura vivo e vero. Infatti anche nel nostro uso distinguiamo tra le espressioni ‘figlio adottivo’ e ‘figlio vero’. Non affermiamo che il figlio adottivo sia figlio per natura: ma diciamo che lo è per natura solo il figlio vero63.

Essere Dio, sostiene Ambrogio, significa esserlo veramente, non come un simulacro o una imitazione. Dunque, pur facendo parte delle consuetudini linguistiche la possibilità di parlare di un figlio adottivo e di un figlio vero, solo quest’ultimo è veramente figlio perché lo è per natura. Elipando sembra dunque utilizzare le proprie fonti – in forma anche più accentuata e abusiva di quanto Alcuino non avesse già individuato nella scrittura teologica di Felice – attingendo ad esse termini ed espressioni estrapolati dal contesto per adattarli alla difesa della dottrina adozionista, allontanandoli in questo modo dal loro autentico significato originario. La citazione da Isidoro accentua in modo ancora più rimarchevole questa impressione di intenzionale capziosità esegetica. Nel paragrafo che nelle Etymologiae precede quello citato da Elipando, Isidoro parla di un Cristo «bis genitus», vale a dire senza tivus Filius, et verus Filius’. (...) Beatus quoque Isidorus, iubar Ecclesiae, sidus Hesperiae, doctor Hispaniae, in libro Etymologiarum dicit: ‘unigenitus autem vocatur secundum divinitatis excellentiam, quia sine fratribus; primogenitus secundum susceptionem hominis, in qua per adoptionem gratiae fratres habere dignatus est, quibus esset primogenitus’». 63 AMBROSIUS MEDIOLANENSIS, De incarnationis Dominicae sacramento, 8, 87, PL 16, 839, ed. O. Faller,Wien 1964 (CSEL, 79), p. 267,62-68: «Quid est autem natura Deum esse, nisi verum Deum esse? Sicut ad Thessalonicenses dixit:‘Quomodo conversi estis ad Deum a simulacris servire Deo vivo et vero?’ (1Th 1, 9). Illi enim dii esse simulantur, natura autem Deus vivus et verus est. Nam et in ipso usu nostro est ‘adoptivus filius’, et ‘verus filius’.Adoptivum filium non dicimus filium esse natura: sed eum dicimus natura esse, qui verus est filius».

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madre «in aeternitate», e senza Padre «in tempore». Solo così si spiega perché questa duplice nascita implichi che Cristo sia al contempo «unigenitus», in quanto unico a fregiarsi della dignità di Figlio di Dio, e «primogenitus», in quanto primo rispetto agli altri a cui è stato concesso, «per adoptionem», di esser chiamati fratelli64. Elipando forza evidentemente il dettato del testo isidoriano, interpretando il termine «adoptio» come estensibile allo stesso Gesù Cristo in quanto la sua nascita da una donna è frutto di una assunzione di figliolanza per grazia e non per natura. È chiaro tuttavia come in questo modo egli, muovendosi in direzione simmetricamente contraria a quella di Alcuino, intenda evidenziare la presenza della dottrina adozionista nelle più autorevoli fonti patristiche, manifestando apertamente con tale operazione la propria volontà di difendere l’ortodossia della fede contro gli eretici, preservando il sensus più corretto della dottrina testimoniata dalle Scritture e dai Padri. L’adozionismo rappresenta così, nelle parole di Elipando, l’unica strada per evitare pericolose deviazioni: distinguere infatti tra la «Verbi potentia» e la «carnis veritas» appare ad Elipando l’unico mezzo per evitare che, con l’incarnazione, si possa sostenere che Dio abbia potuto soffrire in croce. Dicano dunque questi ipocriti, che non vogliono ricevere, nelle loro menti oscurate, la luce della verità, dicano in quale forma Cristo, Signore di grandezza, è stato inchiodato al legno della croce, chi giacque nel sepolcro e, fatta rotolare via la pietra sepolcrale, quale carne nel terzo giorno resuscitò65.

La lettura dell’epistola di Elipando aiuta a comprendere perché Alcuino ritenesse così importante confutarne con rigore le tesi. Elipando sembra infatti applicare le stesse regole metodologiche che Alcuino aveva esplicitamente indicato come indispensabili per la formazione del vero cristiano: l’uso delle Scritture e delle autorità patristiche, mediato dall’utilizzo delle artes, rende anche Elipando, metropolita lontano dalla vita della corte di Carlo Ma-

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Cfr. ISIDORUS HISPALENSIS, Etymologiae,VII, 2, PL 82, 265A, ed. Lindsay cit. (cap. 3, alla nota 116); cfr. Gal 4, 5. 65 ELIPANDUS TOLETANUS, ibid., 876D: «Dicant ergo isti hypocritae, qui caecis mentibus lumen nolunt recipere veritatis, in qua forma crucis ligno Dominus maiestatis Christus affixus sit, quis iacuit in sepulcro, et revoluto monumenti lapide, quae tertio die caro surrexit».

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gno, un ‘intellettuale carolingio’ completo, formato dagli stessi canoni educativi e rispettoso degli stessi modelli di sapere che caratterizzano il sapiente ideale disegnato da Alcuino. Ma le modalità e le finalità di utilizzo,da parte di Elipando,della propria erudizione incarnano, agli occhi di Alcuino, proprio certi pericoli insiti in quello stesso modello formativo che in quegli anni andava costruendosi e diffondendosi nella corte carolingia. Appunto per operare una netta distinzione tra diversi utilizzi di tale patrimonio,Alcuino compone allora il suo corposo trattato Adversus Elipandum. Come accade in molteplici occasioni del suo corpus di scritti teologici, Alcuino affida all’epistola dedicatoria composta per Leidrado, Nefridio e Benedetto il compito di illustrare con precisione spirito e finalità dell’opera. La Chiesa va difesa nella sua integrità dalle eresie con una medicina adatta alla malattia: se dunque il morbo nato nella penisola iberica («pestis hispanica») attacca le menti («maculare mentes») macchiando le sentenze dei Padri e le Scritture, essa non può che esser combattuta ricorrendo all’uso corretto di un saldo «ingenium»66. Nell’esordio dell’Adversus Elipandum, il Salmo cinquantaseiesimo risuona come una invocazione, la richiesta che Alcuino leva a Dio affinché lo supporti, e gli conceda la saldezza indispensabile per combattere i nemici: «O Dio, il mio cuore è pronto, pronto è il mio cuore». Pronto per la grazia divina che lo ispira a proclamare la dottrina della verità; pronto a resistere agli errori della falsità; pronto, o Signore Gesù, ad amarti, lodarti, a farti conoscere, con il beato evangelista che attingendo la fede della verità universale dalla santissima pienezza del tuo petto dice: «ora queste cose sono state scritte affinché crediate che Gesù è il Cristo Figlio di Dio»67. 66 La lettera, posta come introduzione all’Adversus Elipandum, è pubblicata anche nell’epistolario di Alcuino; cfr. ALCUINUS, Adversus Elipandum Toletanum, Ep. praef., PL 101, 231A, e ID., Epistola ad Leidradum et Nefridium ac Benedicutm, in ID., Epistolae, ed. Dümmler cit. (cap. 2, alla nota 8), 200, pp. 330-333. 67 ID., Adversus Elipandum Toletanum, I, 1, 243B: «‘Paratum cor meum Deus, paratum cor meum’ (Ps 56, 8). Paratum divina inspirante gratia ad proferendam veritatis doctrinam; paratum ad resistendum falsitatis erroribus; paratum, Domine Iesu, te amare, laudare et praedicare; paratum te verum Deum, verumque Dei Filium intelligere, cum beato evangelista qui de sacratissima tui pectoris plenitudine catholicae veritatis hauriens fidem ait:‘Haec autem scripta sunt, ut crediatis quia Iesus est Christus Filius Dei’ (Jo 20, 31)».

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L’Adversus Elipandum non offre, rispetto alle opere scritte contro Felice, nuovi spunti antiadozionisti. Ciò che lo caratterizza è l’approccio di Alcuino, che sembra volersi presentare non più, o non solo, come magister autore di testi apologetici. Con immagini volutamente forti, Alcuino si descrive come un «fidelis» circondato da leoni, minacciato da denti che sembrano lance e da una lingua che assomiglia ad una spada affilata, pronta a dividere il Figlio di Dio in due, l’uno proprio e l’altro adottivo. Resistere alle falsità ed affermare la verità equivale come già nelle opere scritte contro Felice d’Urgel, a ribadire che l’«adoptio» della parte umana di Cristo non trova alcun fondamento nelle Scritture, nei Padri e nei concili; ciò che invece muta, rispetto alle opere antifeliciane, non è la necessità di leggere con fiducia e comprendere fino in fondo («fiducialiter legere et veraciter intelligere») le auctoritates che conducono alla «veritatis doctrina», ma la presenza forte e tangibile, nel testo, dell’Alcuino credente, che sembra coinvolto al punto di ritenere ormai indispensabile ribadire non solo la difesa dell’ortodossia dottrinale, ma anche proclamare con toni inequivocabili la solidità della propria fede68. Il tenore e lo stile dell’Adversus Elipandum appaiono perciò più diretti ed incisivi rispetto alle precedenti opere apologetiche di Alcuino; lo stesso autore sembra voler giustificare questa veemenza, perché il desiderio acceso di testimoniare il vero («fervor testificandae veritatis») talvolta può limitare la coerenza dell’esposizione. Le accuse di Elipando sono durissime («venenosum os»), e tanto più incomprensibili se paragonate al tono conciliante che lo stesso Alcuino aveva con lui utilizzato, al fine di riportarlo alla concordia69. La vera conoscenza («sapientia») è portatrice di pace, e rende concilianti gli uomini che la perseguono, soprattutto se ad essi, come nel caso di Elipando, Dio ha affidato il compito di guidare le vite degli altri: «per il suo gregge, Dio (...) ti renda pastore prudente, pio, pacifico e cattolico»70. Elipando invece si contrappone all’esempio di Carlo Magno, la cui missione politica e sociale si sposa completamente con un sincero desiderio di conoscenza teologica.Alcuino

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Cfr. ibid., 4, 245B. Cfr. ibid., 5, 245C. 70 Cfr. ibid., 245D: «Dominus (...) te pastorem efficiat populi sui, prudentem, pium, pacificum et catholicum». 69

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si propone come rappresentante di un utilizzo delle proprie competenze completamente alternativo rispetto a quello di Elipando, al quale pur tuttavia riconosce un’ampia conoscenza delle auctoritates e degli strumenti migliori, retorici e dialettici, per utilizzarle a difesa delle proprie dottrine. Ma il possesso di questo patrimonio non è di per sé sufficiente: l’«extirpator», che desidera eliminare le eresie «Deo miserante» e «rationabili disputatione», deve essere necessariamente, agli occhi di Alcuino, competente ma anche «devotus», vale a dire ben educato ai saperi secolari ma rispettoso delle autorità patristiche e scritturali71.Attaccato direttamente da Elipando, Alcuino ribadisce dunque con forza la sua formazione cristiana e cattolica («huius rei tibi testimonia non dabo, quia catholicus sum, in catholica natus et nutritus Ecclesia»72), ma soprattutto sente il dovere di difendere il proprio ruolo in relazione alla figura del sovrano, che, secondo Elipando, è stato mal consigliato: Non sono venuto in Francia per corrompere chi non può esser corrotto, ma per aiutarlo nella fede cattolica, nella quale egli, sin dalla tenera età, fu nutrito ed erudito ottimamente dalla famiglia, cristianissima, e dai cattolici maestri. È impossibile infatti che sia corrotto da qualcuno, perché è cattolico per quanto riguarda la fede, re per la potenza, autorità per la predicazione, giudice per l’equanimità, filosofo per gli studi di discipline liberali, giusto nei costumi ed eccezionale per dignità73.

Gli sforzi per la preservazione e la difesa della fede e dell’ortodossia, compiuti in piena collaborazione con il sovrano cattolico, rappresentano per Alcuino costantemente il senso profondo della sua missione, ed appaiono nell’Adversus Elipandum moltiplicati, a causa della particolare vis polemica del suo avversario. Alcuino non ha dunque niente da rimproverare a se stesso, ed invita anzi 71

Cfr. ibid., 7, 246C; e cfr. ibid., 12, 249A. Ibid., 14, 250BC. 73 Ibid., 16, 251CD: «Non ego illum corrumpere veni in Franciam, qui corrumpi non potest, sed adiuvare in fide catholica, in qua ille ab ineunte aetate nutritus fuit, et optime a Christianissimis parentibus et magistris catholicis edoctus. Impossibile est enim, ut corrumpatur a quoquam, quia catholicus est in fide, rex in potestate, pontifex in praedicatione, iudex in aequitate, philosophus in liberalibus studiis, inclytus in moribus, et omni honestate praecipuus». 72

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il suo avversario a meditare sulle proprie affermazioni. La mortificazione di sé, infatti, ben si adatterebbe al vescovo di Toledo («erubesce, frater»), dinanzi alle cui parole insensate, appare più saggio il silenzio74.

4. Il De fide sanctae et individuae Trinitatis Negli ultimi anni della sua esistenza, Alcuino compose il De fide sanctae et individuae Trinitatis75. L’opera rappresenta, per certi versi, una ricapitolazione di alcune dottrine fondanti l’identità speculativa alcuiniana e di elementi di metodo presenti in tutta la sua produzione. Scritto seguendo in massima parte Agostino, nel De fide l’autore ribadisce in modo definitivo e al di là della contingenza e dell’urgenza occasionale della polemica contro le devianze ereticali la propria fedeltà ai fondamenti del sapere teologico, 74

Cfr. II, 4, ibid., 261AB: «Erubesce, frater Elipande, dicant filii catholicae eruditionis.Aut melius sanctarum Scripturarum sententias expone; aut ‘pone digitum super os tuum’ (Jd 18,19): quia ‘stultus si tacuerit, sapiens aestimari poterit’ (Pv 17,28). Noli ad confusionem nominis tui foras terminum Hispaniae litteras dirigere tuas in aures Ecclesiarum Christi, nisi forte Felicis, quondam vestri, nunc autem nostri exemplo edoctus, poenitentiam pristini erroris agens, catholicis litteris syllabas infidelitatis vestrae delere velis, ut te sancta Dei Ecclesia maternae pietatis gremio suscipiat, habeatque filium charissimum in concordia charitatis, quem habuit hostem atrocissimum in dogmate perversitatis». 75 Il giudizio sui rapporti del De fide con la tematica adozionista non è generalmente concorde. Restio infatti a tale accostamento è CAVADINI, The sources and theology of Alcuin’s ‘De fide sanctae et individuae Trinitatis’ cit.(cap.3,alla nota 4).L’autore sostiene che il rapporto tra il De fide e le opere antiadozioniste probabilmente composte in quel periodo, vale a dire il Contra Felicem Urgellitanum episcopum e l’Adversus Elipandum, può essere letto soltanto come una «oblique relation», in quanto non è riconoscibile, tra le opere dichiaratamente antiadozioniste e il De fide, il medesimo impianto logico ed argomentativo (le auctoritates citate, ad esempio,sono diverse o diversamente intese).In questa analisi,probabilmente,viene tenuta in scarsa considerazione la situazione nella quale il De fide venne composto da Alcuino, due anni prima della morte, dopo quasi quindici anni di lotta antiadozionista che non potevano non trovare eco anche nell’ultimo, sintetico scritto teologico da lui composto. In tal senso, non sorprende che le opere antiadozioniste abbiano avuto una scarsissima diffusione manoscritta, mentre il De fide venne ricopiato ampiamente; la circostanza, infatti, è più facilmente motivabile con il carattere eminentemente tecnico-apologetico delle opere antiadozioniste, e con lo spirito all’inverso parenetico e didascalico di un libellus come il De fide, che ben rispondeva alle esigenze dell’epoca in materia di sintesi patristica su argomenti teologici. Cfr. E. A. MATTER, A Carolingian schoolbook? The manuscript tradition of Alcuin's De fide and related treatises, in The Whole Book: Cultural Perspectives on the Medieval Miscellany, ed. S. G. Nichols - S.Wenzel, Ann Arbor 1996, pp. 145-152.

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secondo il progetto descritto con uniforme coerenza in tante precedenti occasioni: in particolare le Scritture, descritte come unica fonte verace, i Padri, dai quali attinge gli elementi di un ordinario trinitarismo, e la strumentazione argomentativa fornita dalle artes, che il vero teologo deve saper utilizzare con precisione. L’opera risulta così uno specchio dell’intero corpus alcuiniano, anche grazie all’idea, che la pervade, che sia indispensabile avvicinarsi al mistero di Dio con una fede completa nella intelligibilità della sua presenza nel creato. Il destinatario dell’opera è Carlo Magno,al quale Alcuino ribadisce la propria devozione,non solo personale,ma soprattutto culturale. Carlo, come già sottolineato in altre opere, non è infatti per Alcuino soltanto il re capace di una grande impresa politica e militare, né tantomeno incarna esclusivamente l’idea del sovrano illuminato il cui mecenatismo favorisce la nascita e la crescita di una forte identità culturale. Prima che delle persone, infatti, Alcuino parla delle funzioni; se infatti Carlo è «imperator», è perché Dio ha creato la «dignitas imperialis», dotata di particolari scopi. Essa infatti deve guidare il popolo, sia con la «potestas», con la quale combatte i superbi e difende gli ultimi, sia con la «sapientia», che è utile ad indirizzare («regere») ed ad istruire («docere») i sudditi76.Solo in relazione a questa implicita missione cui è destinato Carlo,Alcuino rintraccia il senso del proprio compito magistrale: Affinché l’impegno della mia devozione nel Signore non venisse meno al soccorso che voi portate alla predicazione della fede universale intorpidendosi nell’ozio, ho indirizzato alla santissima autorità vostra, un discorso sulla fede della santa ed indivisibile Trinità, sotto forma di un opuscolo facilmente consultabile, affinché la lode e la fede della divina sapienza riceva un giudizio di approvazione dal più sapiente degli uomini. Né naturalmente ritenevo la sapienza più degna di qualsiasi altro dono della vostra maestà imperiale; né ritenevo qualsiasi altro egualmente degno di ricevere un dono così eccellente, dal momento che è risaputo che il principe del popolo cristiano è necessario che sappia tutto e professi tutto ciò che piace a Dio77. 76

Cfr. ALCUINUS, De fide sanctae et individuae Trinitatis, Ep. nuncup., PL 101,

12A. 77

Ibid., 12B: «Ne vero meae in Domino devotionis studium otio torpens, ve-

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Ogni realtà ha una sua virtù; nel più generale progetto divino ogni essere riveste un ruolo, ed ha il dovere, soprattutto se credente, di comprendere come attuare pienamente le proprie potenzialità, per portare a piena attuazione il progetto divino. In tal senso, è necessario che il «princeps Christianorum», l’«imperator», per esser tale, conosca tutto, e predichi ciò che piace a Dio; è anzi questo un dovere ed un privilegio che non è possibile ascrivere ad altri. Non è dunque per colmare irriguardosamente un’eventuale deficienza nelle competenze teologico-trinitarie di Carlo che Alcuino ha composto la sua opera; il grande rispetto che Alcuino nutre nei confronti del progetto divino, lo induce soltanto a voler attuare pienamente tutte le potenzialità insite nel nome di magister che gli viene indegnamente attribuito, per essere dunque fino in fondo non solo ciò che egli è e sa di essere, ma anche ciò che la comunità nella quale opera ritiene che egli sia. Alcuino ribadisce, sin dall’esordio del De fide, il canone già individuato per distinguere ciò che attiene alla formazione della vera dottrina cristiana, e ciò che invece ad essa non compete. Lo stesso dogma trinitario, mistero tra i più complessi e fondanti del cristianesimo, può essere compreso solo tramite le «rationes dialecticae disciplinae»; in particolare, la «subtilitas categoriarum» appare indispensabile per chiarire la struttura stessa dei rapporti tra le persone trinitarie. Secondo una ben consolidata tradizione di teologia trinitaria che risale ad Agostino e Boezio, infatti, la «regula relationis» che «in personis sanctae Trinitatis intellegenda est» fonda correttamente anche l’esposizione semplificata ma assolutamente esauriente della dottrina trinitaria qui proposta da Alcuino: la «substantia» divina è unica, «aeterna et incommutabilis», ed al suo interno le tre persone sono distinte «secundum relationem» ed unite «secundum substantiam», perché appunto la «incommutabilitas» della «essentia» divina non permette «mutabilitas»78. La corretta applicazione delle «regulae» evita dunque che, stro in praedicatione catholicae fidei deesset adiutorio, direxi sanctissimae auctoritati vestrae de fide sanctae et individuae Trinitatis, sub specie manualis libelli, sermonem, ut divinae laus et fides sapientiae sapientissimi hominum probaretur iudicio. Nec videlicet alio quolibet vestrae imperialis maiestatis munere digniorem existimabam sapientiam; nec alium quemlibet tam excellenti dono in accipiendo aeque dignum putabam, dum principem populi Cristiani cuncta scire et praedicare quae Deo placeant necesse esse, notissimum est». 78 Cfr. ibid., 12CD; e ibid., I, 6, 17BC. Per le fonti del De fide, cfr. P. HADOT,

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parlando di Dio, si commettano errori pericolosi, confondendo ciò che si può predicare secondo relazione con ciò che si predica secondo sostanza, o cadendo in una impropria «conversio» dei termini nel rapporto tra le persone della Trinità79. Il De fide può essere considerato, così, l’ultima opera antiadozionista di Alcuino, utile a ribadire la dignità umana e divina del Cristo, la consustanzialità con il Padre, la sua composizione di due nature (umana e divina) e non di tre (divina, razionale e corporea)80. Come nelle opere scritte contro Felice ed Elipando, anche nel De fide Alcuino ribadisce l’ineludibile riferimento, per ogni cristiano, alle Scritture: L’intera scrittura dell’Antico e Nuovo Testamento, inspirata da Dio, se la si interpreta in maniera retta, infonde questo concetto, che Padre, Figlio e Spirito Santo sono un Dio unico della stessa sostanza, di una sola essenza e di una inseparabile unità nella divinità81.

Dalle parole stesse con cui le Scritture introducono il mistero trinitario si evince che le tre persone partecipano della medesima sostanza, sono inseparabili per essenza e unite nell’attributo comune della divinità. Non sono dunque gli accidenti a distinguerle: la mutabilità («instabilitas») dell’«accidens» non ha alcuna relazione con l’eternità e la stabilità («incommutabilitas») di Dio82. La distinzione fra le tre persone della Trinità è invece enunciata dall’affermazione del rispettivo «proprium»: il Padre, mentre tutto ciò che esiste trae la propria esistenza da altro, «solus est qui ab alio non est»; il Figlio è il solo ad esser stato generato dal Padre «consubstantialiter et coessentialiter»; lo Spirito, infine, ha di pro-

Marius Victorinus et Alcuin, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire», 29 (1954), pp. 5-19. 79 Cfr. ALCUINUS, ibid., 16B. Cfr. inoltre D’ONOFRIO, Fons scientiae cit. (cap. 3, alla nota 115), p. 178. 80 Cfr. IULIANUS TOLETANUS, Apologeticum de tribus capitulis, in ID., Opera, ed. I. N. Hillgarth,Wien 1964 (CSEL, 115), pp. 127-139; cfr. inoltre: ISIDORUS HISPALENSIS, Differentiae, PL 83, 74A. 81 ALCUINUS, ibid., 2, 14CD: «Omnis itaque Scriptura Veteris ac Novi Testamenti divinitus inspirata, si catholice intelligitur, hoc insinuat, quod Pater, et Filius et Spiritus Sanctus unus sit Deus eiusdem substantiae, uniusque essentiae atque inseparabilis in divinitate unitatis». 82 Cfr. ibid., 9, 19AB.

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prio il suo procedere dal Padre e dal Figlio83. L’individuazione del «proprium» di ciascuna persona contribuisce alla sua definizione; Alcuino avverte però la necessità di ricordare al lettore, in un intermezzo chiarificatore e prima di proseguire nell’utilizzo di questo metodo, come la distinzione tra le persone sia solo una percezione della Trinità a parte hominis, un modo cioè che ha l’uomo di comprendere ciò che strutturalmente rimane distante dalle sue capacità conoscitive. I misteri più profondi, infatti, non sono attingibili con gli occhi del corpo, ma attraverso il «purae mentis intuitus»: Perciò la santa Trinità deve essere intesa come inseparabile nelle persone, sebbene abbia nomi separabili nei termini perché in nessun modo ammette un numero plurale nei nomi che si riferiscono alla sua natura84.

«Trinitas», infatti, come «nomen naturae», non rende la pluralità di persone in essa contenute, in quanto frutto delle limitazioni del linguaggio umano. Dieci sono i «genera humanae locutionis» per mezzo dei quali gli uomini comunicano significati («homines suos sensus solent inter se conferire»). Essi, «causae locutionis nostrae», non sono quelli che i «grammatici» chiamano «partes orationis», ma piuttosto quelli che i filosofi greci chiamano «categoriae», e che in latino vengono detti «praedicamenta». La stessa Scrittura utilizza tali strumenti organizzativi del discorso creaturale per parlare di Dio a volte «proprie», altre volte «translative», altre volte ancora «relative». Quando se ne parla «proprie», vale a dire quando si tenta di aderire il più possibile con il linguaggio che significa alla «res» che è significata, di Dio altro non si può dire se non che è «una substantia, summa et ineffabilis, quae semper idem est quod est»85. Di essa non si può predicare niente di accidentale, in quanto realizza in sé il massimo grado di tutti gli attributi che le sono riferibili. Dio infatti non è grande, ma è la grandezza, non è bello, ma è la stessa bellezza, così come per ogni altra qualità. 83

Cfr. ibid., 11, 19B-20C. Ibid., 11, 21C: «Idcirco inseparabilis est sancta Trinitas in personis sensu intelligenda, quamvis in voce separabilia habeat nomina, quia pluralem numerum in naturae nominibus nullatenus recipit». 85 Cfr. ibid., 15, 22CD. 84

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Come nel resto della sua produzione, Alcuino, sicuro del fondamento scritturale del proprio linguaggio, non tradisce alcun imbarazzo nel parlare di Dio e della Trinità in termini dialettici, utilizzando cioè gli strumenti propri della logica. Il principio di tale metodologia risiede nella convinzione che Dio sia al contempo esterno ed interno al mondo, nella misura in cui lo ha creato ab initio, ossia ha infuso in esso il senso del suo progetto provvidenziale, lasciandovi le tracce intelligibili del proprio essere: L’immensità della divina grandezza è tale che possiamo comprendere Dio in tutte le cose, senza che in esse sia presente, ed al di fuori di tutte le cose, senza che da esse sia assente; ed è interno al mondo proprio nel senso che Egli tutto contiene, ed è esterno, proprio nel senso che comprende tutte le cose nella propria immensità, che è di grandezza non circoscrivibile. Per il fatto di essere esteriore, si mostra come creatore; essendo invece interno, si mostra come governatore di tutto86.

Le Scritture sono il luogo nel quale questa relazione si manifesta. Illustrate al meglio dai dottori della Chiesa, esse hanno il compito di unire l’umano e il divino, ed espletano questa funzione utilizzando parole che fanno parte dell’uso comune («consuetudo») del linguaggio umano87. Misericordioso nei confronti della «infirmitas» umana, che non riesce a giungere sino ad una conoscenza piena e diretta, Dio concede attraverso le Scritture l’uso di «locutiones» comuni, rendendo possibile, all’uomo, una parziale comprensione del mistero; il credente, dunque, al filosofo che dovesse chiedere dov’è Dio, non potrebbe che rispondere domandando se c’è un luogo in cui Dio non sia presente88.Tutto ciò che esiste è diviso infatti in ciò che è sempre stato (la Trinità), ed in ciò che invece ha cominciato ad essere in un dato momento (le

86 Ibid., II, 4, 25CD: «Immensitas divinae magnitudinis ista est, ut intelligamus eum intra omnia, sed non inclusum; extra omnia, sed non exclusum; et ideo interiorem, ut omnia contineat; ideo exteriorem, ut incircumscriptae magnitudinis sua immensitate omnia concludat. Per id quod exterior est, ostenditur esse creator, per id vero quod interior, gubernare omnia demonstratur»; cfr. ISIDORUS HISPALENSIS, Sententiae, cit., 541B. 87 Cfr. ibid., 6, 27A. Cfr. J. C. CAVADINI, Alcuin and Augustine: De Trinitate, in «Augustinian studies», 12 (1981), pp. 11-18. 88 Cfr. ALCUINUS, ibid., 7, 27CD.

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creature). A sua volta, ciò che è sempre stato si divide in ciò che è ingenito (il Padre), in ciò che è generato (il Figlio), ed in ciò che non è né ingenito né generato (lo Spirito), ma procede dal Padre e dal Figlio. Ciò che invece non è stato sempre si divide in «visibilia» ed «invisibilia». Punto medio della divisione, il Cristo è la possibilità del recupero di questo piano perdutosi con il peccato; in tal modo il Padre ha stabilito si salvasse attraverso di lui ciò che attraverso di lui era stato creato: «Mandò il Figlio suo, unigenito» Dio, per mezzo del quale creò l’uomo, affinché fosse redento attraverso colui per mezzo del quale fu creato89.

Cristo «semper Deus, semper in Deo», perfeziona, con la sua incarnazione, il rapporto di circolarità esistente tra creatura e Creatore; alla caduta del primo uomo e alla condizione sottomessa di ignoranza figlia del peccato che ne è derivata, corrisponde la volontà da parte di Dio di rendersi nuovamente intelligibile, con le Scritture e con la diretta testimonianza dell’incarnazione90. Se dunque come in tutta la tradizione, anche in Alcuino il tema trinitario oppone particolari difficoltà al tentativo di conciliare l’assoluta trascendenza ed unità di Dio con l’immanenza dell’incarnazione e la separazione delle persone, nel De fide si avverte anche il senso di una dialettica interna alla divinità, in virtù della quale il Dio creatore lontano si fa carne ed uomo sulla terra, secondo un movimento che si ripete continuamente quando gli uomini tentano di attingere la verità, ma riconoscono la necessità della grazia divina per raggiungerla. Dio ha dato vita a due creature, l’una celeste, l’altra terrestre, entrambe dotate di libero arbitrio. Delle due creature, quella celeste, anche se non nella sua totalità («non tamen tota»), decise di allontanarsi da Dio («ab amore summi boni recedens»), innamorata del proprio potere («propria delectando potentia»), perdendosi così in un abisso di dolore. Invidiosa della possibilità ancora concessa alla sua controparte creaturale terrestre di giungere a Dio, essa tentò di strapparle tale potenzialità, quasi che il soffrire insieme a molti altri potesse fornirle

89 Ibid., 10, 29D: «‘Misit Filium suum unigenitum’ (1Jo 4, 9) Deum, per quem creavit hominem, ut per eumdem redimeretur, per quem creatus est». 90 Cfr. ibid., 14, 32BC.

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un qualche sollievo, o forse per colpire Dio, dannando proprio la creatura creata a sua immagine e somiglianza. Poiché Dio non fu però toccato da tale offesa, quanto invece l’uomo fu condannato, il Padre decise di mandare sulla terra il Figlio per redimere il mondo, affidando alla sua missione ciò che in seguito avrebbe espletato la sua grazia91: due sono dunque le resurrezioni cui sono destinati i credenti, l’una attuale, «in mente», l’altra futura, «in carne»92. I «novissima tempora», il «praemium iustorum», ed il suo opposto, la «poena peccatorum», chiudono così l’opera di Alcuino: il fuoco ultraterreno riguarda tutti gli uomini, i giusti, i santi ed i peccatori. L’oro, l’argento e le pietre preziose, vale a dire la fede in Cristo, che i santi hanno usato per costruire la loro vita, non sono intaccati dalle fiamme. Essi dunque sorvoleranno con facilità il fuoco purificatore; i giusti, quelli cioè che hanno commesso solo piccoli peccati, hanno costruito sul fondamento, Cristo, ma con legno, ferro e «stipulae», che sono colpiti dal fuoco, e da esso purificati: in tal modo, essi rientreranno nel numero dei salvati93. L’universo alcuiniano si presenta così, in ogni sua parte, pervaso dalla provvidenzialità divina, che ha creato l’uomo razionale, capace cioè di meritare o meno la salvezza grazie al suo arbitrio, e gli ha concesso ricchi strumenti per percorrere al meglio questo cammino: le Scritture, la cui intelligibilità si fonda proprio sulla comune norma che unisce chi le ha ispirate, chi le ha scritte e chi le legge; i Padri, la cui esegesi ha rappresentato lo sforzo di mostrare l’intrinseca evidenza del dettato scritturale; le artes, vale a dire quell’insieme di discipline, del ragionamento e della comunicazione, rette da «regulae» la cui sola esistenza implicitamente conduce a magnificare il loro Creatore, e ne impone, al vero credente, l’utilizzo.

91

Cfr. ibid., III, Prol., 37D-38D. Cfr. ibid., 18, 50D. 93 Cfr. ibid., 21, 53BD. 92

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CAPITOLO QUINTO

DAL CONCILIO DI FRANCOFORTE A LUDOVICO IL PIO

Nelle idee e nelle opere sin qui analizzate si evidenzia il contributo apportato da Alcuino al processo di formazione dell’identità teologica carolingia: esse trasmisero infatti alle generazioni coeve e successive un modello di lavoro ed un complesso universo di saperi che, se pur non esaurivano il panorama degli stimoli culturali presenti in tutta l’età carolingia, certamente ne caratterizzarono la nascita ed il primo sviluppo. Il contesto nel quale Alcuino visse era politicamente e culturalmente estremamente frammentato, e metteva in contatto realtà e personaggi profondamente diversi, che solo la fede cristiana e la nuova istituzione imperiale carolingia potevano accomunare. A questo complesso universo Alcuino si relazionò dimostrando grande acume e versatilità, confrontandosi con prìncipi e sovrani, ed educando alle artes ed alla teologia i discepoli più capaci; trasmise così ad una generazione di personaggi destinati, nei decenni successivi, a divenire protagonisti della vita culturale carolingia, gli elementi utili a creare una nuova identità, al contempo politica e culturale. Sarebbe improprio parlare della cultura carolingia nel suo complesso come di un’età in tutto ‘alcuiniana’: è utile però seguire le tracce più evidenti della presenza del metodo del maestro di York nelle opere dei suoi contemporanei e dei suoi discepoli, per evidenziare quali elementi di questo patrimonio furono preservati, e quali nuovi stimoli furono apportati al fine di creare la più generale e complessa identità teologica carolingia*. * Il capitolo affronta gli autori singolarmente; si è dunque preferito citare l’e-

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1. I Libri Carolini Nella ricerca di un paradigma complessivo che caratterizzi l’identità teologica carolingia, la disputa sulle immagini riveste un ruolo particolare. Dal capitolare conclusivo del concilio di Francoforte, Carlo Magno emerge come un sovrano impegnato su più fronti: dalla condanna dell’adozionismo e del secondo concilio niceno alla coniazione di una nuova moneta,da disposizioni relative al «more monastico vivere» sino alla presentazione ufficiale di Alcuino alla corte1.La presenza,nel medesimo testo,di materie ed argomenti tanto disomogenei per contenuto ed importanza dimostra quanto il tentativo di estromettere Bisanzio dalla vita culturale e dottrinale della comunità cristiana, sostituendo la corte carolingia a quella costantinopolitana nei rapporti con il pontefice di Roma,non fosse la priorità assoluta né la finalità unica dell’operato di Carlo e della sua corte,ma un importante corollario di una più vasta operazione politica e culturale.Avocare a sé il diritto di dirimere la disputa adozionista e, contestualmente, smentire le conclusioni di un concilio ecumenico convocato motu proprio dagli imperatori non rappresentava dunque «un colpo di Stato ecclesiologico», ma piuttosto uno degli strumenti attraverso i quali Carlo tentava, all’interno come all’esterno del suo regno,di mostrare la centralità del proprio ruolo2. I Libri Carolini testimoniano la volontà di Carlo Magno di imporsi come nuova auctoritas dottrinale,e al contempo si rivelano utili a verificare quanto il bagaglio di competenze finalizzato alla costituzione di un sapere teologico condiviso ed universalistico potesse già considerarsi indirizzo comune della corte e dei suoi intellettuali. Nell’invocatio iniziale dei Libri Carolini, Carlo Magno viene indicato con chiarezza come autore dell’opera. L’attribuzione al sodizione di riferimento di ogni opera solo all’inizio di ciascun paragrafo, o in generale alla prima menzione dell’opera stessa. Si è cercato in tal modo di rendere più agevole la lettura, senza rimandare, per ogni ulteriore citazione, alla nota originaria. 1 Cfr. Concilia aevi karolini, ed. A.Werminghoff in MGH, Concilia, I, 2, Hannover 1902, p. 165; per una lettura complessiva del capitolare, cfr. F. L. GANSHOF, Miscellanea historica in honorem Alberti de Meyer, I, Louvain - Bruxelles 1946, pp. 306-318. 2 Cfr. G. ARNALDI, La questione dei Libri carolini, in «Cultura», 17 (1979), pp. 3-19, in partic. p. 7.

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V. DAL CONCILIO DI FRANCOFORTE A LUDOVICO IL PIO

vrano, «illustrissimus, excellentissimus seu spectabilis vir», ha evidentemente solo motivazioni encomiastiche. Carlo non solo non è l’autore materiale dei Libri Carolini, ma non emerge nemmeno come personaggio principale nella prefazione, dove invece trionfa l’immagine della Chiesa; nutrice e consolatrice, essa appare dilaniata dai dissidi provocati dagli eretici e dagli scismatici («externa et intestina»)3. Diversa è la loro origine, identici sono gli strumenti utilizzati ed i risultati conseguiti: la Chiesa, attaccata dall’interno e dall’esterno, rischia di soccombere a causa di un perverso utilizzo dello strumento linguistico, causa ed effetto di una comprensione parziale, per malizia o per ignoranza, del vero messaggio scritturale. Questo è dunque, ufficialmente, il motivo che ha portato la corte carolingia alla composizione dei Libri Carolini, opera scritta «contra synodum quae in partibus Graetiae pro adorandis imaginibus stolide sive arroganter gesta est»4; difendere ed esaltare la Chiesa universale è un dovere al quale sono tenuti non solo coloro i quali da essa hanno ricevuto i «gubernacula regni», ma in generale chiunque sia stato educato al rispetto della sua dottrina5. Sin dalla stesura dei Libri Carolini, la corte individua dunque i pericoli che derivano dall’operato di tutti coloro i quali rifiutano l’universalità della dottrina, e che verranno ribaditi con costanza nei decenni successivi. La «praesumptio», che solitamente guida 3 Come già indicato (cap. 2, alla nota 65), nelle citazioni dei Libri Carolini verranno riportati i riferimenti ad entrambe le edizioni moderne, di volta in volta segnalate come Libri Carolini (LC), per l’ed. H. Bastgen, in MGH, Leges, III, Concilia, II, Suppl., Leipzig 1925; e Opus Caroli contra synodum (OC), per l’ed.A. Freeman, in MGH, Leges, IV, Concilia, II, Suppl., I, Hannover 1998. Il testo citato riflette di norma quello dell’edizione Bastgen. Per la prefazione cfr. LC, pp. 1,9 e seqq.; OC pp. 97,12 e seqq. 4 Cfr. E. SCHWARTZ, Acta Conciliorum oecumenicorum, II, 3, 3, Berlin - Leipzig 1937, p. 210. 5 Cfr. LC, p. 3,6-14; OC, pp. 98,35 - 99,8: «Inflammavit igitur ventosae arrogantiae inflata ambitio et vanae laudis insolentissimus appetitus quosdam orientalium partium non solum reges, sed etiam sacerdotes, adeo ut postposita sana sobriaque doctrina et parvipendentes illud apostolicum: ‘Si quis evangelizaverit vobis praeter id, quod evangelizatum est, etsi angelus sit, anathema sit’ (Gal 1, 9), et transgredientes contra propheticam institutionem terminos maiorum per infames et ineptissimas synodos ecclesiae inferre conentur, quod nec Salvator nec apostoli intuisse noscuntur, et dum sublimare conantur suae laudis fastigium, magnum adcumulent suis animabus deliquium, dumque suorum gestorum ordinem volunt mandare memoriae posteritatis, discindant vinculum ecclesiasticae unitatis».

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gli eretici e li accomuna agli scismatici, ha accecato gli stessi padri conciliari greci. Ignorando le più semplici «regulae» che rendono corretto tanto il ragionamento quanto l’esegesi, essi sono infatti incorsi nell’errore tipico di ogni eretico, interpretando a loro piacimento il testo delle Scritture («suae voluntatis arbitrium vertunt»)6. I Libri Carolini tentano dunque di screditare il prestigio della corte bizantina, mostrando l’insipienza dei suoi rappresentanti, e la pericolosità che da essa deriva. Per esaltare il parallelo sorgere dell’intesa tra i pipinidi ed il papato, nella ricostruzione offerta dai Libri Carolini tale imperizia trova origine nella tradizione recente della Chiesa d’Oriente. Nel sinodo costantinopolitano del 754, infatti, il precetto biblico che proibisce di avere «idola» (Lv 26, 1) era stato impropriamente esteso a tutte le «imagines», con estrema incompetenza. I termini idolum ed imago hanno infatti definizioni diverse: una imago viene creata come ornamento e per illustrare accadimenti reali; l’idolum invece sorge per sedurre i semplici con la superstizione7. Le due cose dunque non possono essere equiparate, perché mentre ogni idolum è un’imago, non ogni imago è un idolum: tra essi sussiste infatti un rapporto di genere e specie. I Libri Carolini, dunque, suggeriscono al cristiano avveduto di non fermarsi al semplice rispetto dovuto alla sacra Scrittura; è infatti lecito, e talvolta indispensabile, l’utilizzo del sapere delle artes nel lavoro esegetico, al fine di evitare fraintendimenti, purché esso non induca a ragionamenti capziosi e, mal utilizzato, non produca, come invece è successo ai padri niceni, un testo «elo-

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Cfr. ibid., LC p. 4,4; OC p. 100,10-11. Alcuino, nel raccontare la vita di Willibrodo, riporta un racconto che mostra il santo profondamente intollerante nei confronti del culto delle immagini; cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, Vita Sancti Willibrodi, PL 101[693-723], 702B: «Quodam igitur tempore, dum venerabilis vir iter evangelizandi more solito ageret, venit ad quamdam villam Walachrum nomine, in qua antiqui erroris idolum remansit. Quod cum vir Dei zelo fervens confringere, praesente eiusdem idoli custode, nimio furore succensus ille, quasi Dei sui iniuriam vindicaret, in impetu animi insanientis, gladio caput sacerdotis Christi percussit: sed Deo defendente servum suum, nullam ex ictu ferientis laesuram sustinuit. Socii vero illius hoc videntes, pessimam praesumptionem impii hominis vindicare concurrerunt. Sed a viro Dei pio animo de manibus illorum liberatus est reus ac dimissus: qui tamen eodem die daemoniaco spiritu arreptus est, et die tertia infeliciter miseram vitam finivit. Et quia vir Dei, iuxta praeceptum Domini, suas iniurias ulcisci noluit, citius a Domino vindicatus est, iuxta illud:‘Mihi vindictam, et ego retribuam, dicit Dominus’ (Rm 12, 19)». 7

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quentia sensuque carens»8. Come sono stati confusi idolum ed imago, i padri del secondo concilio niceno hanno in diverse occasioni frainteso il concetto di adorazione; diversi appaiono in effetti «habere» e «adorare», che si riferiscono a due praedicamenta differenti, l’habitus e l’actio, così come differenti sono l’imago e la similitudo, che rientrano entrambe nella categoria della relazione9: la prima, perché l’immagine è sempre immagine di qualcosa; la seconda, perché la similitudine esprime sempre la relazione di un quid con un altro. Ma, mentre la similitudine ha dei gradi, l’immagine non ne prevede; esse perciò non sono convertibili10. Per un verso, dunque, i Libri Carolini affermano la liceità dell’utilizzo di strumenti logici e dialettici nell’analisi delle Scritture, a condizione che le parole della rivelazione vengano preservate nel loro senso originario e profondo; per un altro, emerge la preoccupazione per l’uso che di queste tecniche può fare chi con superbia desidera solo affermare la propria opinione. Parallelamente al richiamo ad una più corretta analisi terminologica e formale del messaggio scritturale, i Libri Carolini ribadiscono 8 Cfr. LC, p. 5,3; OC, p. 101,22-23. Su questo aspetto, cfr. D. MAGHIOROS, Carolingian Word against Byzantine Image:The Seven Liberal Arts, Eloquence,Tellus and the Libri Carolini, in «Annual of Medieval Studies at the Central European University of Budapest», 1997, pp. 84-86. 9 Cfr. LC, p. 4,5-11; OC, p. 100,11-18: «Nec minoris absurditatis spiris hi connectuntur in habere et adorare, quam illi connexi sunt in imagine et idolo, cum illi imaginem et idolum, isti habere et adorare, unum esse putarunt, quae tamen a se invicem distant, et diversitate rei et societate praedicamenti: quippe cum unum illorum sit habitus, alterum agere. Nam illa etsi magna distent differentia, saltem in eo iunguntur, quod unum species, alterum genus est: haec vero nec genere, nec specie, nec ulla huiuscemodi societate sibi cohaerent, cum et adorari possint quae non habentur, et haberi quae non adorantur». 10 Cfr. ibid., I, 8, LC, p. 25,13-25; OC, p. 146,2-25: «Haec ergo tria distinguenda sunt, quia omne, quod imago est, similitudo est, non tamen omne, quod similitudo, imago est, et cum imago nunquam similitudine careat, similitudo vero multoties imagine careat, plerumque et similitudo et imago aequalitate carere noscuntur. Quae etiam aequalitas nonnunquam et imagini et similitudini copulari potest. Quae tria quanquam unius sint categoriae, quae relatio dicitur, habent tamen inter se quasdam proprietates, quibus aliae carent. Nam imagini proprium est, ut semper ab altero expressa sit, similitudini vero et aequalitati proprium est, ut in sua substantia permanentes, non ab altero expressae, sed aliis rebus assimilatae vel coaequatae hoc nomine censeantur, et imago magis vel minus non sibi admittat, similitudo vero et aequalitas admittant. Sicut enim dicitur magis similis vel minus similis, magis aequalis vel minus aequalis, non sic dici potest magis imago vel minus imago. Nam et in conversione earum, quae Graece antistrophe dicitur, subtilis quaedam repugnantia est».

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dunque l’importanza di preservare costantemente l’«humilitas» nei confronti di tutto ciò che è divino. L’uomo non deve mai dimenticare la propria fragilità, per evitare di impegnarsi a trascendere una connaturata limitatezza con uno sforzo che al contrario lo allontana dal suo principio. Non è infatti solo con l’ingegno («subtilitas») che il figlio di Adamo torna a Dio, ma applicandosi alle cose semplici («humiliora»), così da rigettare proprio l’atto di superbia che costò all’umanità intera il Paradiso. I Libri Carolini tentano di unire alla coscienza della fruibilità completa della strumentazione delle artes la consapevolezza di come essa non possa mai colmare il vuoto che separa la piccolezza dell’uomo dall’immenso mistero di Dio, ricordando ai credenti quanto «nostrum esse tantum distet a Dei esse»11. Questa distanza comporta una profonda distinzione tra l’agire divino e quello umano. Il vivere umano è diverso dal divino e l’umano regnare è diverso dal regnare divino: Dio e gli uomini non possono dunque, come vorrebbe il sinodo niceno, «cumregnare». Non è solo l’evidente sproporzione tra Creatore e creatura a mostrarlo; la conoscenza delle regole della grammatica («litterariae sollertia diciplinae») permette infatti di affermare che cum è una «sillaba» utilizzata, anche nelle Scritture, con il significato di «simul»; indica cioè la contemporaneità12. Il vivere umano e quello divino si differenziano perché il primo è immerso nella mutevolezza ed è scandito dalla successione di «praeteritum, praesens et futurum», mentre l’essere divino conosce soltanto l’«esse» di un eterno presente13: possedendo l’«integritas totius aeternitatis», nella immutabilità della sua essenza, solo Dio è l’essere («esse tantum ei est»), e dunque è in antitesi rispetto all’umana mutevolezza14. I Libri Carolini mostrano con un ragionamento logico, che comporta notevoli ricadute teologiche, come non esista, tra Dio e le sue creature, con-passione, con-divisione, e, dunque, possibilità di co-regnare15. «Grammati11 12

Cfr. ibid., I, 1, LC, p. 8,25-28; OC, p. 105,20-23. Il riferimento è ai seguenti passaggi scritturali: Lv 8, 3; Dn 3, 2; Jo 4, 6; Rm

8, 17. 13

Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, Sermo 57, 4, PL 38, 388. Cfr. ibid., I, 1, LC, p. 8,29-34; OC, p.105,24-27. 15 Fonte di quest’idea è HIERONYMUS STRIDONIUS, Commentaria in epistolam ad Titum, 1, PL 26, 594, ed. F. Bucchi,Turnhout 2003 (CCSL, 77C), pp. 9,121 10,143. 14

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ce» è possibile equiparare i termini cum e simul; quest’ultimo, nella sua funzione logica, chiara a chi studia i princìpi più profondi dell’ars dialettica («sagacissimae logicae archana»), può indicare tre aspetti: la simultaneità cronologica, l’unione naturale e la derivazione da un genere comune16. In tutti e tre i casi, non c’è alcuna possibilità di utilizzare la formula «regnare simul» per indicare il rapporto tra Dio e gli uomini: i due regni, infatti, non si muovono temporalmente insieme, non sono uniti per natura e non possono in alcun modo esser detti specie di un unico genere17. Non esiste dunque alcun rapporto di coerenza naturale tra l’attività di Dio e quella degli uomini; gli stessi imperatori sono «mendaces», se è vero che, secondo la «regula denominativorum», come il vero è reso tale dalla verità e il giusto dalla giustizia, colui che è «mendax» lo diviene per il fatto stesso di diffondere un «mendacium». Essi infatti in primo luogo utilizzano maldestramente le norme del corretto ragionamento, inducendo i credenti a sbagliare; in secondo luogo difendono le immagini, che sono per definizione delle finzioni, dunque degli inganni18. Nella creazione di figure l’artefice desidera mostrare come vere cose che vere non sono: «istae vero pro voluntate artificis plura se demonstrant agere, cum nihil agant»19. Le immagini rappresentano uomini che combattono, che parlano, che ascoltano discorsi, ma quegli uomini non esistono affatto nel modo in cui sono rappresentati. Non è dunque opportuno parlare delle immagini come di entità del tutto identiche a ciò che rappresentano, ma è al contrario indispensabile che – in base alla «ratio aequivocorum» applicabile, secondo la dialettica, a quei termini che possiedono lo

16

Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, De dialectica, 9, PL 101, 964C; AURELIUS AUGenesi ad litteram, IV, 34, PL 34, 319, ed. Zycha cit. (cap. 3, alla nota 67), pp. 133,20 - 136,3. 17 Cfr. ibid, LC, p. 10,1-3; OC, p. 109,3-6: «Qui tertius modus non minus quam praecedentes duo eum nobis simul regnare reluctatur, cum nullatenus natura nostra et eius quadam substantiae unitate coniuncta dignoscatur et quadam specie discernatur». 18 Cfr. BOETHIUS, In Aristotelis Categorias libri quatuor, I, PL 64, [159-593], 167D e seqq.; CASSIODORUS SENATOR, Institutiones saec. litt., 3, 9, PL 70, 1169D, ed. Mynors cit. (cap. 3, alla nota 88), p. 113,9-12; ISIDORUS HISPALENSIS, Etymologiae, II, 24, PL 82, 144B, ed. Lindsay cit. (cap. 3, alla nota 116); ALCUINUS EBORACENSIS, De dialectica, 2, PL 101, 954D e seqq. 19 Libri Carolini, I, 2, LC, p. 13,23; OC, p. 117,1-2. GUSTINUS, De

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stesso nome ma diverse sostanze – si sottolinei con decisione la distanza tra rappresentato e rappresentante. I Libri Carolini utilizzano dunque con padronanza gli insegnamenti della tradizione logica e grammaticale altomedievale, che non rappresentano però esclusivamente un’arma preziosa a fini apologetici; se esiste infatti una relazione tra divino ed umano, essa è rintracciabile nella volontà di Dio di fondare l’ordine del mondo su alcune «regulae», che permettono una generale intelligibilità di tutto il creato. In ciò trova giustificazione la necessità che la loro applicazione sia rigorosa: questa è infatti la condizione indispensabile affinché, attraverso il loro utilizzo, si possa magnificare la presenza del Creatore nelle creature. Nell’opinione dei padri conciliari niceni, ad esempio, le immagini sacre possiedono la «sanctitas»; questa affermazione, che indica di un oggetto sensibile una qualità non comune, deve essere analizzata con rigore, per evitare che uno scorretto utilizzo delle regole della predicazione generi equivoci. Le immagini sono creazioni umane, vale a dire sono modificazioni imposte a materiali già esistenti, che dunque prima dell’intervento dell’uomo avevano solo una diversa forma. Quando si parla delle «imagines», ci si riferisce a «res», vale a dire ad oggetti, creati allo scopo di rappresentare altro. In quanto «res», esse sottostanno alla classificazione categoriale, nella quale la «sanctitas» è catalogata tra le qualità. O essa è dunque già presente nei materiali che la compongono, o ad essi si aggiunge dall’esterno, nell’atto della produzione dell’«imago» o nella sua vita successiva, autonoma dal suo artefice. Ma se è ad essi connaturata, la «sanctitas» invecchia e deperisce con le immagini che di questi materiali sono composte? E se invece non nasce con essi, da dove deriva?20 Dall’opera dell’«artifex» o da qualche non meglio precisata imposizione esterna? Non è possibile che la «sanctitas» sia proprietà di un oggetto perché, per la distanza ontologica tra Dio e mondo, nessun ente materiale può possedere caratteristiche tipiche del divino, ed a nessun oggetto, naturale o artificiale, è concesso il privilegio di fungere da mediatore tra Creatore e creatura, a prescindere dalla nobiltà dei materiali di cui è costituito o dall’eleganza della sua forma.

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Cfr. ibid., LC, p. 14,13-25; OC, pp. 118,29 - 119,16.

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Evidente è dunque l’imperizia teologica e tecnica della corte di Bisanzio; Dio ha concesso agli uomini oro e argento, vale a dire la «dignitas spiritalis intellegentiae» e la «venustas eloquii», per comprendere al meglio la verità e per diffonderla, ma essi li hanno sacrificati al dio della gloria personale. Nella formulazione di una linea moderatamente iconoclasta, i Libri Carolini evidenziano continuamente il bisogno di utilizzare i talenti tipicamente umani, come l’intelligenza e l’eloquenza, ma di sottometterli alle necessità della fede; la luce della divina verità, infatti, così come rende nobili («perlustrat») coloro i quali la cercano con «purus sensus» e con «devota mens», così incenerisce coloro i quali ne vogliono rendere confuso il messaggio. Esiste dunque una via che avvicina alla luce di Dio, e che passa attraverso l’umiltà; ad essa si oppone la via che da Dio si allontana, perché pretende di procedere con ragionamenti «extranei et temerari»21. Se infatti il «sensus» è «purus» quando si avvicina alle Scritture senza tentare di piegarle alla propria interpretazione, la «mens» si dimostra «devota» quando accetta, con umiltà, di rispettare la tradizione e l’auctoritas: i due imperatori bizantini, e con essi il sinodo che hanno presieduto, hanno mostrato poco rispetto per la tradizione scritturale e patristica. Occorre infatti respingere testimonianze che la Chiesa di Roma non abbia già recepito nel suo canone, ed autorità che non siano state da essa riconosciute22. L’azione della Chiesa non si esaurisce però in questa semplice reiterazione e preservazione della tradizione.Proprio nel confronto con il pericolo ereticale e scismatico, essa è paragonata al primo degli apostoli, Pietro, la cui funzione è completata da Paolo: la «societas» che li unisce eternamente è giustificata dal fatto che l’uno, «piscator», è addetto a raccogliere la comunità attorno a sé («ad piscandas animas»); l’altro, già persecutore dei cristiani, è invece preposto alla difesa della Chiesa («ad muniendam ecclesiam»). In quest’ottica, la comunità dei credenti deve mostrarsi all’esterno come un soldato munito delle armi della fede («arma spiritalia sanctae fidei»), protetto dall’alto, pronto a resistere alle eresie, anche grazie alla collaborazione tra il potere spirituale del papa ed il potere tem21

Cfr. ibid., I, 5, LC, p. 18,31-39; OC, p. 129,14-27. Cfr. Os 2, 8. Cfr. E.V. DOBSCHÜTZ, Das Decretum Gelasianum de libris recipiendis vel non recipiendis.Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, Leipzig 1912, p. 198. 22

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porale dei sovrani, relazione questa che i Libri Carolini descrivono narrando le gesta dei predecessori di Carlo Magno23. I Libri Carolini alternano dunque con regolarità dimostrazioni fondate sul corretto utilizzo delle artes e riferimenti alle auctoritates, soprattutto rispetto a quelle verità di fede che si fondano direttamente su precetti scritturali, accettate dai Padri e confermate dall’uso competente degli strumenti della ragione24. La «similitudo» di cui trattano le Scritture in merito al rapporto tra Dio e l’uomo si fonda, come sostiene con chiarezza Agostino nel De diversis quaestionibus, sulla dignità («nobilitas») dell’anima umana («imago ergo Dei ex interioris hominis nobilitate est consideranda»)25: essa infatti è una e comanda tutto il corpo, come l’unico e solo Dio comanda l’universo intero; vive, pensa e vuole, ed è dunque trina in «facultates», secondo la struttura della Trinità divina. In piena continuità con le tesi dei Padri, i Libri Carolini ribadiscono come l’«imago» e la «similitudo» tra l’uomo e Dio siano dunque da intendersi rispettivamente «in anima, in qua est intellectus, voluntas et memoria», ed «in moribus, id est, in charitate, iustitia, bonitate et sanctitate»26. È una necessità logica ancor prima che una consuetudine patristica ad imporre questa distinzione: se si paragona la creazione dell’uomo da parte di Dio alla realizzazione, per mano degli artigiani, di manufatti ed «idola», e non si distingue l’«imago» teorica dalla «similitudo» concreta, si afferma implicitamente che anche Dio è corporeo. Occorre invece affermare che l’uomo è immagine di Dio nella sua parte spirituale, che è distante da quella corporea tanto quanto sono tra loro differenti uomo vero e uomo dipinto: Quanto infatti nelle loro stesse rispettive definizioni si differenziano l’uomo vero dal dipinto, il razionale dall’irrazionale, il sensibile dall’insensibile, l’animato dall’inanimato, tanto senza dubbio l’adorazione di questo si distingue dall’adorazione di quello27. 23

Cfr. Libri Carolini, I, 6, LC, pp. 21,18 - 22,5; OC, pp. 135,24 - 137,7. Cfr. D. J. SAHAS, Icon and logos: sources in Eighth-century iconoclasm, Toronto 1986, p. 17, n. 61. 25 Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De diversis quaestionibus octuaginta tres, 51, PL 40, 32, ed.A. Mutzenbecher,Turnhout 1975 (CCSL, 44A), p. 14,2-9. 26 Cfr. Libri Carolini, I, 7, LC, p. 24,33-40; OC, p. 144,18-24. 27 Ibid., I, 9, LC, p. 26,21-23; OC, p. 149,4-9: «Quantum enim verus homo a 24

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Come l’uomo corporeo è solo l’apparenza esterna del vero uomo, cioè di quello spirituale, così l’immagine dipinta altro non è se non la manifestazione esteriore del vero oggetto rappresentato, l’uomo reale. Se dunque si distinguono nettamente il rappresentante dal rappresentato, non sono solo il buon senso e l’evidenza che rendono impossibile confondere l’omaggio ad un’immagine con il saluto rivolto ad un individuo; nel Categoriae decem, infatti, il rapporto tra «homo verus» ed «homo pictus» è una «similitudo» che unisce equivocamente i due soggetti «homo», distinti invece nella «significatio rei»28. I padri niceni inciampano così in un improprio «loquendi modus», una forzatura delle Scritture e delle più elementari regole del ragionamento; l’errore teologico (rendere Dio simile alla parte corporea dell’uomo) è infatti provocato dalle conseguenze di un errore logico (l’ignoranza in merito alla distinzione tra rappresentazione e rappresentato). Nello specifico, i teologi greci non rivelano una sufficiente capacità di individuare con precisione gli elementi che, nelle singole definizioni, permettono di distinguere tra termini e concetti simili: come non hanno saputo comprendere la differenza tra ciò che deve essere venerato e gli oggetti che falsamente lo rappresentano, così hanno appiattito sul verbo «adorare» lo spettro di significati di una ben più vasta terminologia, considerando equivalenti espressioni come «habere», «salutare», «osculari» e «venerari». L’autore dei Libri Carolini sottolinea l’errore, definendolo una «acyrologia»: presentato da Isidoro come uno dei «vitia» che i grammatici consigliano di evitare «in eloquio», l’«acyrologia» consiste in una «non propria dictio», che si verifica quando si attribuisce ad un termine un significato che non gli appartiene29. Esiste dunque una normativa superiore, oggettiva e naturale che presiede al parlare e al leggere, al comporre parole e all’interpretarle, ed il manpicto, rationalis ab inrationali, sensibilis ab insensibili, animatus ab inanimato in sui definitione secernitur, tantum procul dubio et huius adoratio ab illius adoratione discernitur». 28 Cfr. Categoriae decem [= PSEUDO-AUGUSTINI, Categoriae decem ex Aristotele decerptae vel ANONYMI Paraphrasis Themistiana], 9-18, PL 32, [1419-1440], 1421, ed. L. Minio-Paluello, Bruges - Paris 1961 («Aristoteles latinus», I, 5), pp. 135,13 137,12. 29 Cfr. ISIDORUS HISPALENSIS, Etymologiae, I, 34, 4 PL 82, 108A, ed. Lindsay cit. (cap. 3, alla nota 116): «Acyrologia, non propria dictio: ut, liceat sperare timenti; proprium est autem timenti formidare, non sperare».

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cato rispetto di essa conduce all’errore, in generale nella ricerca umana della verità e in particolare nel rapporto con il testo sacro. La lettura delle Scritture legata alla semplice narrazione degli avvenimenti è infatti «mortificans», e soltanto una ermeneutica superiore, impegnata a coglierne lo spirito, è «vivificans»30. Le Scritture sono ricche di metafore ed allegorie, la cui comprensione è spesso complessa, e nelle quali è difficile isolare un solo, univoco significato, come è evidente nelle molteplici occasioni in cui il testo sacro parla della ‘casa di Dio’, espressione che può descrivere, a seconda delle circostanze, ora la Chiesa, ora la patria celeste, ora anche la stessa anima dell’uomo31: l’oro che decora la Chiesa è la «fides», le colonne, dal capitello dorato e dalla base argentea sono i santi coronati dalla fede in Cristo; i legni immarcescibili che la reggono sono la «scientia», la «bibliotheca» è costituita dai dottori («sancti viri divinae legis documentis eruditi»), mentre l’altare è la stabilità della fede («firmitas fidei»)32. La ricchezza di queste immagini non deve indurre il credente a pensare che le Scritture abbiano solo un valore letterario, possano cioè fornire esclusivamente un variegato ed utile patrimonio di immagini evocative e parenetiche. Proprio la loro bellezza impone uno sforzo esegetico che vada oltre l’apparenza linguistica, perché, con la ricchezza di contenuti che le accompagna, essa deve indurre a meditare sulla grandezza di chi le ha ispirate. I Libri Carolini affidano alla voce di Salomone la chiarificazione di questo aspetto, introdotto artificiosamente nel testo per avvertire che le rappresentazioni di «boves et leones et cherubin» che decorano il supporto del bacino di bronzo da lui fatto costruire (1Rg 7, 1-29) sono erroneamente interpretate, dai padri conciliari niceni, come segno della liceità di sottoporre ad adorazione le immagini decorative nei templi cristiani: Li ho fatti non perché dovessero essere adorati, ma perché manifestassero qualcosa di mistico, e non perché favorissero 30

Cfr. Libri Carolini, I, 19, LC, p. 44,29-36; OC, p. 193,9-18. Cfr. ibid., I, 29, LC, p. 57, 12-13; OC, p. 224,15-18: «Domus Dei aut secundum allegoriam ecclesia est aut secundum anagogen caelestis patria aut secundum tropologiam anima hominis». 32 Cfr. ibid., LC, pp. 57,22 e seqq.; OC, pp. 225,3 e seqq. I passi biblici citati sono Ex 25, 3; 38, 17; 36, 36; 38; 1Cor 11, 3; Ex 25, 10; 1Cor 2, 2; Sap 4,1; 2Mc 2, 13; Ps 118, 1; Ex 27, 1. 31

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l’errore, ma perché rivelassero l’aspetto più oscuro dei misteri, non perché fossero d’inciampo alle menti cieche, ma perché indicassero qualcosa di grande a coloro che scrutano con acutezza le cose sottili33.

Nelle parole che, nell’espediente letterario, Salomone utilizza per giustificare la creazione di queste rappresentazioni, si rivela il senso complessivo attribuito dai Libri Carolini, e in generale dalla teologia carolingia, all’interpretazione di ogni elemento che possa in qualche modo volgere l’attenzione del credente al suo Creatore. Le parole della Scrittura, così come le applicazioni delle regole delle artes, sono manifestazioni ed indicazioni del vero che conducono la mente di chi legge a meditare sull’operato della mente divina che le ha ispirate e fondate. È infatti lecito che esistano diversi «instrumenta religionis», ed è dunque giusto utilizzare anche le «regulae» delle discipline più tecniche per illustrare i punti più controversi delle Scritture; non è invece possibile accogliere tra tali «instrumenta» pratiche volte a fraintendere l’ordine della creazione, nel quale si manifesta la volontà divina. È proprio la «dialectica disciplina» che mostra come l’iconodulia non possa rientrare in questo ridotto patrimonio di conoscenze: La tromba terribile di tutta la divina Scrittura proclama che si deve onorare solo Dio, che lo si deve adorare e glorificare. Perciò essi devono fare bene attenzione, e in tutti i modi averne orrore, ad evitare che mentre si sforzano di introdurre nella religione cristiana il culto e l’adorazione delle immagini non appaiano voler demolire il culto, che è uno solo, e l’adorazione dell’unico Dio. Le due cose si oppongono, di modo che se ce ne è una, l’altra non può esistere34.

Dati due opposti, la presenza dell’uno implica l’assenza dell’altro; poiché il culto delle immagini è opposto al culto del solo Dio, la 33

Libri Carolini, II, 9, LC, p. 70,11-14; OC, 253,25-27: «Feci, inquam, eos, non ut adorari deberent, sed ut quaedam mystica significarent; non ut errori faverent, sed ut mysteriorum archana monstrarent; non ut offendiculum caecatis mentis essent, sed ut magnum quiddam subtilia subtiliter scrutantibus innuerent». 34 Ibid., 21, LC, p. 80,11-16; OC, p. 274,3-11: «Solum namque Deum colere, ipsum adorare, ipsum glorificare debere totius divinae Scripturae tuba terribilis intonat. Unde cavendum illis est, et modis omnibus pertimescendum, ne dum imaginum cultum et adorationem Christianae religioni ingerere nituntur, singularem unius Dei cultum et adorationem frustrari videantur. Quae duo inter se mutuo reluctantur, ut, si unum steterit, aliud stare non possit».

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venerazione di quest’ultimo implica la rinuncia ad ogni iconodulia. L'unico modo di avvicinarsi al divino, per un cristiano, è superare la finitudine di qualsiasi rappresentazione corporea, comprese le «imagines» pittoriche, per giungere a Dio con il puro «rationalis animae intuitus»35. Per la «visio Dei», infatti, ed in particolare per la «visio Christi», che è «imago Dei», non occorre fare affidamento sulla vista degli occhi, ma su quella dello spirito: «non corporeus nobis visus, quem communem cum inrationalibus animantibus habemus, sed spiritalis est necessarius»36. Non è utile l’organo sensibile che l’uomo condivide con gli animali per vedere Dio, ma la facoltà propria dell’essere umano. Le immagini possono svolgere una utile funzione solo come «recordationes»; in quanto tali, non sono oggetto di culto ma soltanto strumento educativo per sopperire ad una mancanza da parte del fedele, spesso illetterato e dunque incapace di confrontarsi direttamente con il testo sacro. Esse dunque non vanno né venerate né distrutte, ma considerate con misura ed equilibrio, evitando gli eccessi37. Il fraintendimento dell’autentico valore del dettato scritturale rimane, nel giudizio dei Libri Carolini, l’errore più grave della corte di Bisanzio; è dunque ad esso che viene rivolta una particolare attenzione polemica38. Nel mistero della transustanziazione, per esempio, gli iconoduli pretendono di individuare una giustificazione teologica delle loro tesi: come dai frutti della terra lavorata dall’uomo, pane e vino, si ottengono i simboli nei quali si manifesta il nutrimento del sangue del corpo di Cristo, così sarebbe possibile passare dalle immagini dei santi ad una lecita venerazione del divino39. Purificata da qualsiasi illecita contamina35

Cfr. ibid., 22, LC, p. 80,33-35; OC, p. 275,11-13: «Quod non bonam habeant memoriam, qui, ut non obliviscantur sanctorum vel certe ipsius Domini, idcirco imagines eriguntur». 36 Cfr. ibid., 21, LC, p. 81,4-7; OC, pp. 275,29 - 276,2. 37 Cfr. ibid., 23, LC, p. 81,41-42; OC, p. 289,28b-30: «Quod contra beati Gregorii, Romanae urbis antestitis, instituta sit imagines adorare seu frangere». E cfr. supra, cap. 2, nota 52. 38 Cfr. A. OMMUNDSEN, The Liberal Arts and the Polemic Strategy of the Opus Caroli contra Synodum (Libri Carolini), in «Symbolae Oslense», 77 (2002), pp. 175-200. 39 Cfr. Libri Carolini, II, 27, LC, p. 87,1-4; OC, pp. 289,30 - 290,4: «Quod magnae sit temeritatis ingentisque absurditatis saepe memoratas imagines corpori et sanguini Dominico aequiparare velle, sicut in eadem vanitate quae pro illis scripta est legitur».

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zione con il mistero sacramentale, la similitudine tra le immagini e la trasformazione eucaristica del cibo materiale in alimento spirituale viene recepita dal testo dei Libri Carolini, ma completamente modificata nel significato e nella finalità, per renderla coerente con l’indirizzo dottrinale carolingio. Non sono le immagini ad essere concesse ai cristiani quale nutrimento per la loro formazione («eruditio») ma le opere dei Padri e le stesse Scritture («scripta»). Nella biblioteca divina («divinae legis armaria»), infatti, sono presenti proprio gli strumenti della vera sapienza («liberalium studiorum profunditates»): le norme per imparare a parlare correttamente, le etimologie, i diversi schemi retorici, la storia e le discussioni grammaticali40.Tutta la ricchezza delle arti è dunque contenuta nelle opere dei Padri ed in particolar modo nelle Scritture, che sembrano in controluce strutturate secondo uno schema di studi liberali. In esse infatti si ritrovano la retorica, con le sue figure più celebri; la dialettica, che mostra in tutte le sue declinazioni («isagogae, categoriae, definitiones vel modi syllogismorum, topica») l’intelligibilità del testo sacro; la geometria, la musica, l’astronomia41. Rifacendosi testualmente ad una fortunata immagine divulgata da Cassiodoro nel Prologo del proprio Commento ai Salmi, i Libri Carolini avvertono con chiarezza i veri credenti che anche se nessuna delle norme e regolamentazioni proprie di queste discipline è dichiaratamente presentata ed indicata nelle Scritture, esse sono comunque rintracciabili come preziosi frutti della terra nelle profondità del testo sacro: Così nella profondità delle Sacre Scritture alcuni studiosi riconoscono le arti liberali, come con l’osservazione si vedono i grappoli nelle viti, la messe nei semi, le foglie nelle radici, i frutti nei rami e la grandezza degli alberi nelle bacche42.

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Cfr. ibid., 30, LC, p. 9621-30; OC, p. 313,2-10. Cfr. ibid., LC, pp. 96,40 - 97,29; OC, pp. 314,3 - 315,28. 42 Ibid., LC, p. 97,35-38; OC, p. 316,8-10: «Sic enim in profunditate divinarum Scripturarum liberales artes ab studiosis quibusque cernuntur, sicut vina in vitibus, segetes in seminibus, frondes in radicibus, fructus in ramis, arborumque magnitudines sensu contemplantur in nucleis». Cfr. CASSIODORUS SENATOR, Expositio Psalmorum, 15, PL 70, 21B, ed. M.Adriaen, 2 voll.,Turnhout 1968 (CCSL, 97-98), I, p. 20,92-97: «Sed dicit aliquis: nec partes ipsae syllogismorum, nec nomina schematum, nec vocabula disciplinarum, nec alia huiuscemodi ullatenus inveniuntur in psalmis; inveniuntur plane in virtute sensuum, non in effatione ver41

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Il fine della ricerca è infatti il raggiungimento di una «definitio dilucida et perspicua», una comprensione della verità che non lasci spazio al fraintendimento: Dunque qualsiasi definizione deve essere tale da mirare ad evidenziare in modo diretto ciò che ci si propone di rendere noto della cosa da dimostrare, eliminate tutte le oscurità e le ambiguità; e se la definizione di ogni altra cosa deve essere tanto chiara ed evidente da illustrare completamente ciò che non è ancora manifesto, molto di più deve essere chiara ed evidente ed esente da ogni ambiguità e tortuosità la definizione della fede. Infatti se in essa è stato lasciato qualcosa di tortuoso o di ambiguo o di oscuro per la nebbiosità delle parole, arreca gran danno a chi la dice ed a chi la ascolta43.

È proprio questo il caso degli enunciati veritieri che si leggono nelle Scritture. Due sono infatti le caratteristiche proprie di ogni «sermo»: esso può dire cose false o vere («sapiens»), e può dirle in modo più o meno raffinato («dissertus»). Dalla combinazione di queste caratteristiche emergono quattro tipologie di discorsi. Due tra questi mancano della sapienza: il «sermo haereticorum», «nec sapiens, nec dissertus», che non dice cose vere, e che sostiene tali falsità con un linguaggio sgraziato; il «sermo gentilium scriptorum», che invece è «dissertus et non sapiens», ossia ornato, ma privo di sapienza perché, pur reso elegante dalla conoscenza delle discipline del trivio e del quadrivio («venustus humanarum artium eruditione»), non ha potuto conoscere il vero Dio («veri Dei notitia caret»). Gli altri due, invece, proprio perché fondati sul possesso della sapienza, non possono che esser legati alle Scritture; ci sarà dunque un «sermo sapiens et dissertus», che i Libri Carolini esemplificano con la prosa di Isaia, presa a modello di conoscenza profetica e di stile ornato, ed un «sermo sapiens et borum: sic enim vina in vitibus, messem in semine, frondes in racidibus, fructus in ramis, arbores ipsas sensu contemplamur in nucleis». 43 Libri Carolini, ibid., III, 3, LC, p. 110,28-34; OC, p. 346,3-14: «Omnium ergo rerum definitio talis esse debet, ut omnibus obscuritatibus seu ambiguitatibus explosis, ad demonstrandae rei recto tramite tendat indicium et, si aliarum rerum definitio tam perspicua tamque debet esse dilucida, ut ea, quae demonstranda sunt, evidenter demonstret, multo magis fidei definitio dilucida et perspicua et omni ambiguitate sive tortuositate carens esse debet. In qua si aliquid aut tortuosum aut ambiguum, aut quodam nubilo verborum obductum fuerit, magnam affert dicenti vel audienti iacturam».

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indissertus», nel quale la conoscenza delle verità superiori si accompagna alla «simplicitas»44. Chi infatti non rispetta questa «sapientia» sempre presente nelle Scritture non potrà avere destino diverso da colui il quale vuole imparare un’ars ma si affida ai più imperiti, coprendosi di ridicolo45. Come la costruzione delle parole e la loro composizione possono essere più o meno aderenti alla verità delle cose, anche le immagini, costruite dall’abilità degli uomini, possono essere più o meno belle, deformi, e così via. Non è dunque possibile comprendere se siano «honorabiliores» le più umili, o quelle più eleganti. Mentre infatti le immagini più belle potrebbero indurre a pensare che si stia adorando non il rappresentato, ma la foggia e la bellezza del simbolo, le più vili, dissimili per forma e splendore dall’ideale che inseguono, sembrano non rispettarne adeguatamente il culto: «iniustum est, cum hae quae nec opere nec materia praecellunt, nec personis similes esse noscuntur, auctius propensiusque venerantur»46. Come dunque le parole umane non devono contraddire quelle divine, le umane immagini non devono travisare quelle scritturali. La «ratio» e le Scritture rifiutano l’iconodulia. Inutili appaiono nelle pagine dei Libri Carolini i tentativi dei padri conciliari greci di presentare riferimenti biblici nei quali sembra essere dichiarata lecita la venerazione delle immagini. L’«ars pictoria» mette in relazione «veritas» e «mendacium», in quanto può trasmutare in falso ciò che è vero, e far credere vero ciò che è falso. Questa capacità risiede nella possibilità, concessa alle arti figurative, di mostrare ciò che è e che non è, ciò che era o non era, e ciò che sarà o non sarà: il «mendacium» può manifestarsi nel trattare delle cose che non sono ma che possono essere e di quelle che non sono e che non possono essere, «de quibus in perihermenias», ossia nella tradizione aristotelico-boeziana del De interpretatione, «a philosophis acutissima sive subtilissima disputatio est»47. Nel rapporto tra «pictu44 Cfr. ibid., 9, LC, p. 121,25-29; OC, pp. 371,26 - 372,9. Sulla forma di questa ‘quadripartizione’ concettuale, cfr. G. D’ONOFRIO, Über die Natur der Einteilung. Die dialektische Entfaltung von Eriugenas Denken, in Begriff und Metapher. Sprachform des Denkens bei Eriugena,Vorträge des VII. Internationalen Eriugena-Colloquiums (Werner-Reimers-Stiftung Bad Homburg, 26.-29. Juli, 1989), Heidelberg 1990, pp. 17-38, in partic. pp. 34-35. 45 Cfr. Libri Carolini, ibid., 15, LC, p. 133,13-17; OC, p. 403,13-23. 46 Ibid., 16, LC, p. 136, 27-30; p. 410,29 - 411,3. 47 Cfr. ibid., 23, LC, p. 151,2-5; OC, p. 441,9-14.

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ra» e Scrittura, non c’è alcuna possibilità che i pittori, abituati a seguire le «fabulae poetarum vanissimae», riescano a non tradire la verità scritturale; essi, che danno vita nelle loro opere anche ai mesi dell’anno ed alle virtù degli uomini, sanno creare solo rappresentazioni che «aut mystice a philosophis intelliguntur, aut inaniter a gentilibus venerantur», ma che devono essere necessariamente rigettate dai credenti («veraciter a catholicis respuuntur»)48. Le rappresentazioni dei «pictores» sono dunque troppo lontane dalla verità per potersi avvicinare alla profonda realtà descritta dal messaggio scritturale49: Non è forse contrario alle divine Scritture il fatto che si immagina che Erittonio sia figlio dello zoppo Vulcano e della Terra, e che arroventi il ferro nel monte Etna, e che la sua fornace sia il Vesuvio, monte della Campania, che si dice arda di fiamme perpetue? Forse che tra le cose contrarie alle divine Scritture non c’è anche il fatto che Scilla viene immaginata circondata da teste di cane?50

Quale relazione può dunque mai sussistere tra le Scritture, prodotto dell’ispirazione divina, e coloro i quali hanno rappresentato pittoricamente o nelle statue Vulcano, la madre Terra e Scilla, il mostro marino? Le gesta di Prometeo, il supplizio infernale di Tantalo, Ercole, Marte e tutte le rappresentazioni favolistiche della mitologia pagana, non rendono i pittori e le loro opere inadatti a rappresentare al meglio la verità scritturale? Infatti, per non parlare del resto, se un pittore per smania di originalità dipinge due teste in un sol corpo, o una testa sola in due corpi, o la testa di un animale e tutte le altre membra di un altro, come l’Ippocentauro dal corpo equino e dalla testa umana, o il Minotauro, mezzo toro e mezzo uomo, non si dice forse che si oppone alle Sacre Scritture?51 48

Cfr. ibid., LC, p. 151,29; OC, p. 442,28. Cfr. H. BELTING, Bild und Kult. Geschichte des Bildes von dem Zeitalter der Kunst, München 1990, p. 123. 50 Libri Carolini, ibid., LC, p. 151,33-37; OC, p. 443,6-9: «An non divinis Scripturis alienum est, quod Vulcani claudi et Terrae filius Erichthonius esse, et in monte Aethna ferrum coquere, eiusque fornax Vesuvius mons Campaniae esse fingitur, qui perpetuis ignibus ardere perhibetur? An non divinis Scripturis aliena sunt, quod Scylla capitibus fingitur succincta caninis?». 51 Ibid., LC, p. 153,30-33; OC, p. 445,21-23: «Nam, ut caetera taceamus, si quis pictor duo capita in uno corpore, aut in duobus corporibus caput unum, aut 49

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La condanna dei Libri Carolini, particolarmente aspra nei confronti delle rappresentazioni del divino, non lo è meno nei confronti di oggetti ed eventi, come le reliquie o i miracoli, che possano dare l’illusione, ai credenti, di rendere Dio prossimo agli uomini. Le reliquie, infatti, sono diverse dalle immagini, in quanto hanno avuto una qualche relazione con il santo stesso, e dunque non sono puri manufatti; esse però, pur avendo avuto rapporti con la «sanctitas», non ne hanno alcuno con la «divinitas». Gli stessi «miracula» non possono ritenersi utili mediatori di verità perché non sono sempre necessariamente «signa» divini o comunque derivanti da potenze celesti: Dunque non è necessario ammirare questi segni, perché tutto ciò che di visibile accade si crede che possa accadere normalmente anche ad opera di potenze inferiori52.

Occorre perciò diffidare dei «signa» prodigiosi, perché potrebbero derivare da potenze demoniache; se anche si riuscisse a stabilire con certezza l’origine divina dei «miracula» che sembrano verificarsi il cristiano non dovrà per questo adorare l’oggetto del prodigio, che non è stato se non strumentale all’azione divina, ma solo la potenza di Dio stesso, che ha consentito il compiersi del miracolo: Se il Signore apparve nel fuoco, non per questo stabilì che bisogna adorare il fuoco, ma volle mostrarsi in quell’elemento naturale che sempre tende a salire verso l’alto53.

Come il «nummularius», che controlla il denaro per verificarne purezza e valore, i credenti devono soppesare, con l’aiuto dello stesso testo sacro, le dottrine volte a coglierne la migliore esegesi. Le Scritture devono essere studiate con precisione grazie ad un minuzioso esame («subtili examinatione perscrutandae»), corroalterius animantis caput, alterius caetera membra, ut Hippocentaurum toto corpore equino et capite humano, et Minotaurum semibovem semivirumque affectet pingere, nunquid non Scripturis dicitur contraire?». 52 Ibid., LC, p. 151,42; OC, p. 453,16: «Non ergo haec [signa] oportet mirari, quia omnia quae visibiliter fiunt, etiam per inferiores potestates non absurde fieri posse creduntur». 53 Ibid., LC, p. 153,20-21; OC, p. 455,12-13: «Quia ergo in igne Dominus apparuit (cfr. Ex 3, 2), non ideo ignem adorandum decrevit, sed in ea natura apparere voluit, quae semper ad alta conscendere contendit».

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borato dall’esegesi dei Padri («sanctorum patrum testimoniis roborandae»): e la «subtilis examinatio» qui invocata per comprendere con precisione le Scritture si identifica naturalmente con le artes54. Esistono ad esempio proposizioni che sono secondo le regole della logica convertibili, nelle quali, poiché la conclusione deriva naturalmente e necessariamente dalla premessa, può essere con essa convertita: i teologi greci hanno applicato questo procedimento all’espressione «quod adorat quis, et diligit», concludendo a partire dalla sua conversione che «quod diligit quis et adorat». I latini precisano invece che sussiste una differenza di proprietà tra la «dilectio», che specifica un generico legame affettivo, e l’«adoratio», che ha esclusivamente un valore teologico55. Per dimostrare l’impossibilità di questa «circumversio», i Libri Carolini propongono, ancora una volta secondo la corretta prassi dialettica prescritta dal De interpretatione («dialecticorum experientia»), la composizione della proposizione in questione all’interno di una «quadrata formula», vale a dire la rappresentazione figurata del rapporto tra questa proposizione universale affermativa («omne quod diligit quis, adorat»), e le corrispondenti altre proposizioni che è possibile formulare con gli stessi termini, ossia una proposizione universale negativa («nihil quod diligit quis adorat»), una proposizione particolare affermativa («quidam quod diligit quis adorat»), ed una proposizione particolare negativa («quiddam quod diligit quis non adorat»)56. La verifica logica del quadrato così costruito mostra di fatto, sulla base delle differenti proprietà dei termini, che le due «superiores universales», tanto quella negativa quanto quella affermativa, sono false: non è infatti vero che ogni «dilectio» è una «adoratio», così come all’opposto è falso che nessuna «dilectio» sia una «adoratio». Sono invece entrambe vere le «inferiores particulares», perché è vero che chi è degno di «dilectio», può essere anche oggetto di «adoratio», il che implica che ci sia anche qualcuno che merita «dilectio» ma non «adoratio». Mentre dunque a Bisanzio hanno tentato di dimostrare l’identità tra «dilectio» e «adoratio» con un impreciso procedimento sillogistico («quidam syllogistica argumentatio»), l’impe54

Cfr. ibid., IV, 11, LC, p. 191,11-14; OC, p. 513,9-12. Cfr. ibid., LC, p. 219,40 - 220,1; OC, p. 547,20-30. 56 Cfr. ibid., LC, p. 220,22 e seqq.; OC, pp. 548,18 e seqq. 55

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gno profuso con l’aiuto di Dio su argomentazioni condotte secondo procedimenti realmente dialettici dimostra, nelle pagine dei Libri Carolini, l’esatto contrario: «argumentis ex industria dialecticae artis venientibus illorum assertionem cassare Domino auxiliante paravimus»57. La confusione terminologica perpetrata dai cattivi teologi, nella quale concetti diversi come amare ed adorare si sovrappongono e perdono la loro specificità, sottolinea nuovamente, nelle parole del testo franco, i limiti della affermazioni dottrinali promulgate dal sinodo niceno. La denuncia dell’imperizia nell’applicazione delle «regulae» del corretto ragionamento, che ritorna quale elemento caratterizzante del progetto apologetico dei Libri Carolini, non è infatti rimarcata come un semplice errore formale: essa produce anche una mortificazione dello sforzo dei veri credenti, che invece non devono fermarsi alle rappresentazioni sacre, ma sono invitati a volgere le loro preghiere direttamente a Dio. La stessa «recordatio Christi», la venerazione riservata alla croce come simbolo del sacrificio del Figlio di Dio per gli uomini, appare all’autore dei Libri Carolini deformata dalle affermazioni emanate dal sinodo greco, la cui cattiva dottrina fa sì che il culto di Cristo non nasca più nei credenti «ex corde», spontaneamente, ma soltanto attraverso la mediazione immaginifica prodotta dalle rappresentazioni materiali della croce: Infelice la memoria che per ricordarsi di Cristo, che non dovrebbe mai allontanarsi dal cuore del giusto, ha bisogno di una immagine fittizia; né altrimenti può avere in sé la presenza di Cristo se non ne ha visto un’immagine dipinta su un muro o su qualche altro materiale, poiché tale memoria che è alimentata dalle immagini, non viene dall’intimo amore, ma dal potere della rappresentazione58.

Solo se è invece spontaneamente nato ed alimentato dall’amore intimo, il vero culto di Cristo e della croce può anche passare at-

57

Cfr. ibid., LC, p. 221,33-35; OC, p. 550,3-4. Ibid., IV, 2, LC, p. 176,15-17; OC, p. 491,17-19: «Infelix memoria, quae ut Christi memoretur,qui nunquam a pectore iusti hominis recedere debet,imaginariae visionis est indigua; nec aliter potest Christi habere in se praesentiam, nisi in pariete,aut in aliqua materia eius viderit imaginem pictam,quoniam talis memoria quae imaginibus fovetur,non venit ex cordis amore,sed ex visionis necessitate». 58

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traverso la conduzione strumentale della rappresentazione iconografica. In armonia con i fondamenti della concezione della realtà consolidata e diffusa da Alcuino, nelle parole dei Libri Carolini l’universo appare come un tutto ordinato, nel quale all’uomo è riservato un duplice destino: conformarsi a tale ordinamento, rispettandone le norme, e rintracciarlo in ogni aspetto del reale. Peccare equivale appunto a tentare con la propria razionalità di immaginare un altro ordine, sforzo innaturale e destinato a fallire proprio per la sua aspirazione a sostituire con un altro, immaginato dall’uomo, l’impianto dell’universo fondato da Dio. La stessa storia della dottrina cristiana appare, in quest’ottica, una lunga metafora di un più alto ordine delle cose. Ben diverso era stato infatti l’insegnamento sorto dal primo concilio niceno: la perfezione dottrinale di quella assise conciliare rispetto al falso concilio iconodulo, è intimamente nascosta, per l’autore dei Libri Carolini, persino nei mistici significati numerologici che ne hanno accompagnata la celebrazione59. Il numero dei padri conciliari presenti nel primo sinodo niceno supera infatti di dodici unità quello dei padri conciliari del secondo60.Tale distanza non è ingiustificata: il numero dodici acquista nella lettura altomedievale dei simboli numerici biblici un particolare significato; esso è infatti la somma del numero che simboleggia la creatura umana (che è formata da sette parti, tre invisibili, «cor, anima et mens», e quattro visibili, «calida, frigida, humida, sicca») con il numero tre che allude alla divina Trinità e con il due, che evoca la «duplex disciplina» con cui l’anima umana studia la creatura e il Creatore; dodici è inoltre il risultato della somma della creatura umana «septenaria» con i «quinque legis libri»; se a questa somma poi si aggiungono i quattro evangeli, si ottiene il sedici, che a sua volta è dato dalla somma dei numeri sei, tre, due, quattro ed uno, tutti i divisori di dodici61. La Scrittura mostra sempre, lungo tutto il testo dei Libri Carolini, una intrinseca capacità di rappresentare, per i credenti, una 59

Cfr. ibid., IV, 13, LC, p. 194,7-13; OC, p. 515,20-23. Cfr. J. D. MANSI, Sacrorum Conciliorum cit. (cap. 2, alla nota 61), col. 453 e col. 492; i padri conciliari partecipanti alle due assise sono stati, rispettivamente, 318 e 306. 61 Cfr. ISIDORUS HISPALENSIS, Liber numerorum qui in sanctis scripturis occurrunt, PL 83, 185B. 60

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guida spirituale, un modello di ragionamento e di meditazione, una risorsa letteraria e parenetica. Essa si presenta, in particolar modo nell’ultima parte dell’opera, come modello interpretativo anche della realtà concreta della vita della Chiesa. Negli ultimi capitoli, infatti, i Libri Carolini dedicano particolare attenzione tanto a temi fortemente legati ai fondamenti della dottrina, come il problema del rapporto tra l’«imago» ed il sacramento eucaristico e la possibilità di rappresentare la Vergine, quanto ai legittimi timori che sorgono dall’analisi degli errori che i Padri conciliari hanno commesso nell’elaborazione dei canoni, e che ricordano a tutti gli altri credenti la fallibilità dell’essere umano. Rispondendo alle espressioni di Gregorio, «episcopus Neocaesarensis», che voleva attribuire il medesimo tipo di venerazione all’«imago Christi» e alla realtà sacramentale del sacrificio eucaristico prodotto «ad salutem animae et corporis», i Libri Carolini ribadiscono l’illiceità di ogni identificazione tra la simbologia eucaristica del pane e del vino e la rappresentazione generica di qualsivoglia «imago»: Infatti Egli non offrì in sacrificio a Dio Padre per noi un’immagine o qualche prefigurazione, ma se stesso; ed egli che già predestinato al sacrificio sotto l’ombra della legge nell’immolazione dell’agnello o in altre immagini allegoriche («imaginarie»), compiendo in verità («veraciter») ciò che fu annunciato dagli oracoli dei vati, si immolò a Dio Padre come vittima di salvezza, a noi fornì non una prova immaginaria della legge, fatta di ombre passeggere, ma il sacramento del suo sangue e della sua carne62.

I simboli che fondano il rito eucaristico non sono rappresentazioni, non sono «imagines» ma verità, e sono quindi intermediari diretti tra Dio ed i fedeli, «non in figura». Essi, soprattutto, non sono un segno che rimanda ad altro, ma sono realmente ciò che mediante i segni liturgici viene indicato («exemplar futurorum, 62 Libri Carolini, IV, 14, LC, p. 199,28-33; OC, p. 523,23-26: «Non enim imaginem aut aliquam praefigurationem, sed semetipsum Deo Patri pro nobis in sacrificium obtulit, et qui quondam sub umbra legis in agni immolatione, sive in quibusdam rebus imaginarie praefigurabatur offerendus, veraciter ea consummans quae de se vatum oraculis prophetata sunt, Deo Patri est victima salutaris oblatus, nec nobis legis transeuntibus umbris imaginarium quoddam indicium, sed sui sanguinis et corporis contulit sacramentum».

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sed id, quod exemplaribus praefigurabatur»)63. Non è possibile dunque confondere questo ministero di mediazione con le rappresentazioni pittoriche, così come è illecito richiamarsi alle raffigurazioni che mostrano la Vergine mentre riceve l’annunzio della nascita del Cristo; questo culto è contrario, nell’ottica dei Libri Carolini, alla dignità di Maria, la cui definizione non può essere esaustivamente espressa da un linguaggio umano, né dunque con le parole né con le immagini: Dobbiamo senz’altro credere che la Vergine che partorì il Salvatore del mondo, non si trova nelle opere degli artisti mondani, ma nell’opera dell’eterno ed ineffabile artista, cioè nelle sedi celesti64.

Ella ha la sua sede in cielo, e il culto a lei riservato non può concretizzarsi «in colorum fucis», né tantomeno «in materialibus opificiis», ma deve essere di puro ordine spirituale, e collocarsi «in acie mentis»65. La parte conclusiva dei Libri Carolini ribadisce quindi la necessità di valutare sempre con attenzione i diversi strumenti con i quali si pretende di identificare ciò che è divino, soprattutto quando questa attività ha pericolose ripercussioni nella vita della comunità dei fedeli. Pur nel tentativo di dimostrare l’inaffidabilità della corte di Bisanzio in materia di dottrina, i Libri Carolini non tradiscono mai il presupposto fondante di tutto il loro schema apologetico. Se infatti i greci hanno sbagliato a causa della fragilità strutturale dell’essere umano, vanno per questo redarguiti, ma dal loro errore è indispensabile imparare quanto sia semplice sbagliare, malgovernare la Chiesa ed essere d’ostacolo anziché di aiuto per i credenti. Un ultimo esempio, ancora una volta frutto di competenze dialettiche, permette ai Libri Carolini di sanzionare queste considerazioni. Confondere, come fanno i padri greci, i verbi «osculari», «amplectere» ed «amare» non costituisce solo un errore se63

Cfr. ibid., LC, p. 199,33-36; OC, p. 523,34. Ibid., 21, LC, p. 199,28-33; OC, p. 539,34-35: «Manifestum est […] credere Virginem quae Salvatorem protulit mundi, non in mundanorum artificum operibus, sed in aeterni et inenarrabilis artificis opere, id est, in coelestibus sedibus esse». 65 Cfr. ibid., LC, p. 213,7; OC, p. 539,40. 64

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mantico, perché equipara termini che indicano oggetti diversi; tale confusione rivela anche un fraintendimento filosofico: non sono infatti le cose a doversi adattare ai nomi, ma questi a quelle. I Libri Carolini accolgono la distinzione, presente nel De grammatica di Alcuino, tra la teoria linguistica platonica e quella aristotelica66: la prima afferma che i «nomina» sono legati alle cose per natura; la seconda propende invece per una lettura convenzionalista del linguaggio, secondo la quale la significazione è un processo che trova senso nella condivisione di un patrimonio segnico all’interno di una comunità. Aristotele, cui «fides adhibenda est», definisce il «nomen» come «vox significativa secundum placitum sine tempore», ovverosia un fonema invariabile in merito al tempo, sostantivo e non verbo (perché non indica un’azione), che viene riferito ad una «res» in virtù di un accordo tra coloro i quali lo utilizzano67.La «collocutio» è costituita dunque da «res», «intellectus» e «voces», a cui vanno aggiunte le «litterae», segni grafici che permettono, una volta combinati e pronunciati, di produrre le parole. Le «litterae» e le «voces» sono elementi artificiali del discorso, mentre «res» ed «intellectus» sono parti naturali: le prime generano una «similitudo» nell’animo di chi li osserva e dunque un ragionamento, che viene indicato artificialmente con la combinazione delle «litterae» in «voces». Non solo «osculari» ed «adorare» sono «voces» dissimili, ma lo sono anche le «res» che questi «nomina» indicano. È allora indispensabile, per chi ha il compito di guidare la Chiesa, fornire alla comunità dei credenti una dottrina che non abbia, da nessun punto di vista, tratti incerti: Quando i vescovi di due o tre province si riuniscono, se, sicuri dell’insegnamento dei libri sacri, stabiliscono sulla predicazione o sul dogma qualcosa che non differisca dagli insegnamenti fissati dagli antichi Padri, ciò che fanno ha valore universale, e forse si può dire tale perché sebbene non sia stato fatto dai vescovi di tutto il mondo, non si allontana dalla fede e dalla tradizione di tutti68.

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Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, De grammatica, PL 101, 859AC. Cfr. ARISTOTELES, Peri hermeneias, 2, 16a (tr. lat. di BOEZIO, ed. L. Minio-Paluello, Bruges - Paris 1961 [«Aristoteles latinus», I, 1], p. 6,4-6). Cfr. D’ONOFRIO, Fons scientiae cit. (cap. 3, alla nota 115), pp. 197-199. 68 Libri Carolini, IV, 28, LC, p. 227, 27-29; OC, p. 557,22-25: «Cum ergo dua67

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Quando i rappresentanti di due o tre province si riuniscono, purché rimangano nei limiti dei canoni della Chiesa universale, senza discostarsi dalla tradizione dei Padri, hanno legittimamente il diritto e l’autorevolezza di prendere decisioni universalmente valide,per tutta la Chiesa,purché non pretendano di introdurre variazioni nelle formule tradizionali che esprimono la vera dottrina e quindi di fondare, ingiustificatamente e senza averne l’autorità, un nuovo lessico («nova quaedam nomina»). La conclusione dei Libri Carolini riconduce dunque il dibattito sulle immagini ad uno dei temi centrali di tutta la letteratura apologetica carolingia, il problema della «universalitas». Se infatti il tenore complessivo dell’opera è incostante, perché il patrimonio patristico e delle artes è tanto ricco e vasto da imporre frequenti ripetizioni ed assunzioni di principio talvolta indimostrate, tutto il testo sembra omogeneamente pervaso dalla necessità di riaffermare un principio di universalità che è al contempo metodologico e teologico. Se infatti per un verso risulta evidente, ad una lettura complessiva dell’opera, come vi sia sotteso il progetto di Carlo e della sua corte di sottrarre ai teologi bizantini il primato dottrinale all’interno della Chiesa, tale intento doveva necessariamente fondarsi su una pars costruens, un nuovo modello teologico, propriamente carolingio, da contrapporre a quello greco. In tal senso, con tutti i limiti di un’opera lunga e complessa, l’utilizzo delle auctoritates patristiche, il continuo riferimento ad una lettura ortodossa delle Scritture, la puntualizzazione in merito ai passaggi fondanti degli insegnamenti logico-dialettici rappresentano una evidente dichiarazione d’intenti e di programma che consolida la coscienza teologica carolingia ancora nascente. Dai Libri Carolini già emerge l’idea di un sapere che è universale perché fondato sulla complessiva razionalità del creato, che si manifesta in ogni aspetto della realtà e che dunque, in ogni aspetto, va letta nella sua correttezza. Veicolandolo attraverso il tema della rappresentazione di Dio, i Libri Carolini pongono dunque al centro del dibattito teologico il problema del rapporto gnoseologico rum et trium provinciarum praesules in unum conveniunt, si antiquorum canonum institutione muniti aliquid praedicationis aut dogmatis statuunt, quod tamen ab antiquorum Patrum dogmatibus non discrepat, catholicum est quod faciunt, et fortasse dici potest universale, quoniam quamvis non sit ab universi orbis praesulibus actum, tamen ab universorum fide et traditione non discrepat».

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tra il Creatore, trascendente ma al contempo «artifex» dell’ordine intelligibile del creato, e gli uomini, dotati di capacità conoscitive imperfette ma portatori degli strumenti migliori per interpretare la trama razionale dell’universo. Da un lato, la volontà di Dio di mostrarsi; dall’altro, il desiderio dell’uomo di comprendere i segni lasciati da Dio nella creazione, valutandoli nell’ottica della più generale intelligibilità razionale del creato: Tutto ciò che appartiene alla Chiesa è cattolico, e tutto ciò che è cattolico è universale; d’altra parte tutto ciò che è universale è lontano dalle novità profane delle parole. Dunque tutto ciò che riguarda la Chiesa non sottostà alle novità profane del linguaggio69.

2. I Dicta Il dibattito teologico in età carolingia non rispose esclusivamente a finalità apologetiche. Se infatti una parte consistente delle opere composte da Alcuino e dai teologi che con lui collaborarono o ne seguirono gli insegnamenti furono realizzate al fine di contrastare dottrine ritenute contrarie all’ortodossia, persisteva sullo sfondo una coscienza dei rapporti tra speculazione filosofico-teologica e verità rivelata che trovava anche in argomenti diversi di dibattito il suo luogo naturale di espressione. Una testimonianza preziosa di questa vivacità è fornita da un insieme di brevi testi, che trattano in poche righe argomenti teologici di significativa importanza. La storia della composizione e della attribuzione di questi testi è complessa; le quindici brevi argomentazioni sono infatti tutte anonime, fatta eccezione per la settima, Dicta Albini de imagine Dei, e per l’ottava, Dicta Candidi praesbiteri de imagine Dei. I testi, presenti in diversi manoscritti senza alcun testimone unitario originale, riportano dunque due sole attribuzioni certe, in sostanza sovrapponibili. Se infatti «Albinus» è il soprannome con il quale era conosciuto a corte (e con cui presenta spesso se stesso nel proprio epistolario) Alcuino, sotto il nome di «Candidus» è con ogni pro69 Ibid., LC, p. 228,1-3; OC, p. 557,34-36: «Omne quod ecclesiasticum est, catholicum est, et omne quod catholicum est, universale est; omne autem quod universale est, profanis vocum novitatibus caret. Omne igitur quod ecclesiasticum est, profanis vocum novitatitubus caret». È evidente, in questa argomentazione, l’uso di una struttura sillogistica.

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babilità da riconoscere Wizo, discepolo diretto del maestro di York70. I rapporti di grande stima e confidenza tra i due personaggi – congiunti per altro anche dall’allusione al colore bianco nei rispettivi soprannomi – vengono evidenziati dalle lettere presenti nell’epistolario alcuiniano71. Nei Dicta, titolo comunemente utilizzato per indicare l’insieme di tutti i componimenti, i temi già evidenziati nel corpus delle opere di Alcuino ritornano costantemente, con particolare riferimento all’insegnamento logico-dialettico in tutte le sue declinazioni. I Dicta offrono così un esempio, in special modo, di applicazione al discorso teologico, con cui la ragione umana si sforza di parlare di Dio, delle categorie aristoteliche, mediate dal Categoriae decem e riportate in silloge da Alcuino nel suo De dialectica. Sin dal primo frammento, che reca come titolo De decem cathegoriis Augustini, è evidente il tema che attraverserà, più o meno latentemente, i brevi testi: tutto è pensabile in termini logico-dialettici, e descrivibile all’interno di schemi retorici, purché l’applicazione di queste artes sia rigorosa, ossia sia condotta nel pieno rispetto delle regole proprie di ciascuna di esse. La ripresa del classico tema agostiniano-boeziano, riproposto nel De fide sanctae Trinitatis di Alcuino, della predicabilità soltanto negativa in Dio dei termini che rientrano nelle dieci categorie aristoteliche risponde quindi all’evidente finalità di evidenziare accanto alla rimozione teologica anche le condizioni che consentano al sapiente una descrizione affermativa delle proprietà degli attributi divini72. Così, di Dio sarà predicabile la qualità, nella misura in cui egli è buono senza qualità: tale categoria è infatti al contempo superata e giustificata dall’esistenza di Dio, il cui essere «sine qualitate bonus» implica l’inutilità di tale predicazione 70 Cfr. H. LÖWE, Zur Geschichte Wizos, in «Deutsches Archiv für Geschichte des Mittelalters», 6 (1943), pp. 363-373. Per una ricostruzione delle differenti attribuzioni, e della tradizione manoscritta, cfr. J. MARENBON, From the Circle of Alcuin to the School of Auxerre, cit. (cap. 3 alla nota 54), pp. 31-40 e 151 e seqq.; Marenbon riporta anche il testo integrale dei frammenti (in seguito soltanto: Dicta), alle pp. 152-166. Cfr. inoltre BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 47-48 e p. 275; D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 127-132 e p. 179. 71 Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, Epistola ad Arnonem, in ID., Epistolae, ed. Dümmler cit. (cap. 2, alla nota 8), 156, p. 253,34. 72 Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De Trinitate,V, 7, 8 - 13, 14, PL 42, 915-921, ed. Mountain cit. (cap. 3, alla nota 62), I, pp. 212-222; ALCUINUS EBORACENSIS, De fide sanctae et individuae Trinitatis, I, 15, PL 101, 22C-24B; cfr. supra, al cap. 4, § 4.

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proprio nel momento stesso in cui se ne richiede l’introduzione negativa per la costruzione di un discorso teologico. Non diversamente ciò vale per l’applicazione di tutte le altre categorie a Dio, grande al di fuori di ogni grandezza, onnipresente senza un luogo proprio, eterno senza tempo, Creatore senza necessità di esserlo73. Egli sarà buono senza sottostare alla predicazione della qualità e grande senza implicare la categoria della quantità. Nei Dicta, dunque, sembra già matura la tensione individuata in Alcuino ad utilizzare, nei limiti consentiti, lo strumento dialettico per l’analisi di proposizioni di contenuto teologico. Se Dio non sottostà alla categoria del luogo, perché è «ubique totus», ciò non significa che una rigorosa analisi di quella categoria, assumendo Dio come soggetto nel modo che è però adeguato all’infinita perfezione spirituale della sua natura, non porti a conclusioni teologicamente corrette. Lo mostra con evidenza il breve sesto frammento: Dio non è in qualche luogo. Ciò che è in qualche luogo è contenuto in un luogo; ciò che è contenuto in un luogo è un corpo. Dio invece non è corpo; dunque non è in qualche luogo. E tuttavia poiché è, non è in un luogo: tutte le cose sono in lui piuttosto che lui in qualche luogo74.

La non-spazialità di Dio che, pur essendo, non è circoscrivibile in un «locus», ma contiene ogni cosa in modo non locale, è dunque affermata una prima volta, nella elencazione delle diverse categorie, come alternativa alla predicazione spaziale che invece si attribuisce ad ogni sostanza individuale, ed una seconda volta, sfruttando proprio un procedimento sillogistico, per evidenziare la distanza tra la predicazione locale degli individui e l’incorporea non localizzazione di Dio. Per quanto mantenendosi sul tracciato della via negationis, i Dicta mettono dunque continuamente in relazione Dio e le creature, per evidenziare, attraverso contrasti o similitudini, quanto del primo si riveli nelle seconde o ad esse si opponga; così, l’utilizzo dello strumento dialettico non è necessa73

Cfr. De Decem Cathegoriis Augustini, in Dicta, I, p. 152. De loco Dei, in Dicta, VI, p. 158: «Deus alicubi est. Quod alicubi est continetur in loco; quod continetur in loco corpus est. Deus autem non est corpus; non igitur alicubi est. Et tamen quia est, in loco non est: in illo sunt potius omnia quam ipse alicubi». 74

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riamente finalizzato ad una compiuta comprensione dell’oggetto di indagine, Dio, ma alla ricerca, come già nei Libri Carolini, di un linguaggio umano che aspiri, anche senza raggiungere risultati stabili e definitivi, a descrivere con discreta approssimazione ciò che è divino. In tal senso, intendere il sensibile come ricchissima chiave di lettura del trascendente è il presupposto necessario per comprendere la struttura trinitaria dell’anima umana, specchio ed immagine della Trinità celeste, secondo uno schema diffuso in tutta la tradizione psicologica altomedievale e fortemente presente nella teologia carolingia; è l’universo stesso ad essere strutturato come una gerarchia ascendente, che dagli esseri a cui è data la sola esistenza giunge sino a quelli a cui è concesso anche vivere e pensare. L’«intelligere», che compete all’uomo e che lo pone al vertice di questo ordine, non è però limitato alla sola conoscenza esteriore: l’individuo umano si sforza di «intellectum suum intellegere», e in questa analisi appercettiva coglie lo iato esistente tra il «velle» ed il «posse», e comprende la necessarietà di tendere ad un essere, superiore, in cui essi invece coincidano75. Le argomentazioni dei Dicta si fondano dunque sulla coscienza della struttura perfettamente omogenea e rigorosa dell’universo: DOMANDA. Cosa ti sembra migliore e più potente, come qualcosa sente o come è sentita? RISPOSTA. Di gran lunga migliore e più potente è il modo in cui qualcosa è sentito piuttosto che ci sia ciò che sente. D. Da dove pensi derivi ciò? R. Dall’ordine naturale delle cose76.

La ragione diviene così lo strumento adatto a comprendere le venature del reale, e il modo stesso in cui la sua funzione viene descritta illustra questa caratteristica. Essa infatti è il più alto elemento dell’animo umano («principale animi nostri») utile agli uomini in quanto li rende capaci di raggiungere una solida conoscenza 75

Cfr. Quo argumento colligendum sit Deum esse, in Dicta, III, pp. 153-154. Interrogatio, responsio, in Dicta, IV, p. 155: «INTERROGATIO. Quid tibi melius videtur atque potentius: quo sentit aliquid an quo sentitur? – RESPONSIO. Longe melius est longeque potentius quo sentitur aliquid quam illud sit quod sentit. – INT. Unde hoc accidere putas? – RESP. Ex naturali rerum ordine». 76

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(«scientia»). Conoscere altro non è che comprendere, «in veritatis luce», un’informazione («notitia») tramite l’uso della ragione («per rationem»)77. Solo se preliminarmente acquisisce questo bagaglio di conoscenze, all’uomo è concesso l’«intelligere», l’operazione cioè di distinguere, tra l’altro, ciò che è vero da ciò che è falso: La stessa ragione invece fu preposta a tale senso interno in maniera tale che distingua dalla falsità qualsiasi cosa sia stata avvertita attraverso il corpo e ad essa trasmessa per il tramite di esso, una volta compiuto tra sé e sé un esame della situazione. Questa distinzione è chiamata intelletto, del quale non è possibile trovare in natura nulla di migliore o più potente78.

La natura corporea dunque si distingue da quella spirituale, alla quale l’anima dell’uomo accede in un ordine di conoscenza immateriale: Qualcosa può esser vero senza verità? Il corpo è vero o no? Se è vero, è vero per la verità. Dunque il corpo è capace di verità. Ma il corpo può cogliere ciò che non è corpo? Se dunque è vero che il corpo è capace di verità,allora la verità è corpo.Ma Dio è la verità,e allora anche Dio sarebbe corpo.Il corpo però non è immortale, e dunque non è neanche vero. Dunque non è capace di verità. E se il corpo non può contenere la verità, allora la verità non è corpo79.

Come detto, la modalità argomentativa dei Dicta li pone in una prospettiva diversa rispetto alle opere apologetiche sin qui analizzate. In assenza di un obiettivo polemico concretamente individuabile in tesi che attentino all’ortodossia della dottrina, viene a mancare l’esigenza di riaffermare quale elemento costitutivo del 77

Cfr. ibid., p. 156. Ibid.: «Ipsa autem ratio ita illi interiori sensui praeposita est, ut quaecumque per corpus sensa ac per ipsius officium ad eam delata fuerint, facta secum rerum examinatione, absque falsitate diiudicet. Quae diiudicatio intellectus vocatur, quo in natura hominis nihil melius aut potentius valet inveniri». Per la lex, cfr. ibid., p. 157. 79 Si possit verum esse sine veritate, in Dicta, XI, p. 164-165: «Potest aliquid verum esse sine veritate? Estne corpus verum annon? Si verum est, veritate verum est. Ergo corpus veritatis capax est. Potest corpus aliud aliquid capere preter corpus? Si corpus veritatis capax est, ergo veritas corpus est. Deus veritas est, ergo Deus corpus est. Corpus igitur non est immortale, ac perinde nec verum. Ergo non est capax veritatis. Si corpus non capit veritatem, ergo veritas non est corpus». Cfr. anche ibid., XII-XIII, pp. 165-166. 78

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metodo teologico il ricorso all’incondizionata autorevolezza delle Scritture e dell’esegesi patristica, che invece caratterizza per lunghi tratti le opere pensate contro coloro i quali erano accusati di attentare all’unità della Chiesa universale. Questa particolare caratteristica permette però di isolare speculativamente altri tra i presupposti fondativi del discorso teologico carolingio, già emersi, accanto al ricorso all’auctoritas, nelle opere apologetiche. Si mostra così in tutta evidenza il modello speculativo fondamentale che sembra guidare la cultura carolingia nella individuazione di un proprio canone teologico. Nei Dicta ogni dimostrazione parte dall’idea della commensurabilità della creatura e del Creatore, anche se l’impossibilità di acquisire una conoscenza definitiva e definitoria sulla natura divina determina inesorabilmente il fissarsi di un termine ultimo, oltre il quale le capacità umane non possono procedere se non con l’indispensabile aiuto della grazia. In uno dei testi più interessanti della raccolta, l’Argumentum cuiusdam platonici, il discorso teologico viene proposto come completamento di uno sforzo razionale volto a comprendere l’ordine del creato, e a ritrovare, in un più generale equilibrio armonico, le vestigia della causa prima: Il mondo fu composto in maniera ordinatissima. L’ordine del resto non può esistere senza l’armonia. L’armonia è appunto compagna dell’analogia. L’analogia a sua volta è compagna alla ragione, e la ragione è compagna indivisibile della provvidenza. Non esiste provvidenza senza intelletto, né intelletto senza mente. La mente di Dio, che è la sola che possiede intelletto, è detta provvidenza. Essa compose ciò che si definisce mondo sensibile adattando insieme razionalmente gli elementi proporzionati di questo immenso corpo80.

Il mondo appare dunque pervaso da un «ordo», che si fonda su una «ratio» che implica l’azione di una «mens», che appunto fa

80 Argumentum cuiusdam platonici de mundi opifice inveniendo, in Dicta, p. 167: «Mundus ordinatissime compositus est.Ordo autem sine armonia esse non potest. Armonia demum analogiae comes est.Analogia item cum ratione, at ratio comes individua providentiae.Providentia vero nulla sine intellectu;neque intellectu sine mente.Mens ergo Dei,quae sola vere intelligens est,provida dicitur.Rationabiliter elimentorum congruentias coaptando huius immensi corporis, quod mundus sensibilis dicitur, composuit». Cfr. D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit. (cap. 2, alla nota 65),p.130,n.59.

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convergere ed armonizza i diversi elementi del creato, e che si rivela agli animi degli uomini capaci di leggerne le norme con gli strumenti della propria razionalità.

3. Paolino di Aquileia Nella valutazione del percorso compiuto dalla teologia carolingia partendo dalla speculazione di Alcuino per giungere nelle successive generazioni alla formulazione di una compiuta identità teologica, a Paolino di Aquileia deve indubbiamente essere riservato un ruolo particolare. Destinatario di alcune tra le lettere più intense di Alcuino, è impossibile limitarne l’importanza al ruolo di semplice amicus, né tantomeno è lecito considerarlo un discipulus del maestro di York. Quando arrivò alla corte di Carlo,Alcuino vi trovò infatti già Paolino, nei confronti del quale nutrì sempre grande rispetto e stima81. Negli anni in cui Carlo Magno, sulle orme del padre Pipino ed a difesa di papa Adriano I, combatteva i longobardi in Italia, Paolino assicurò la propria fedeltà alla corona carolingia, anche durante le ribellioni di alcuni nobili friulani. Nell’anno in cui Carlo tornò in Italia per sedare tali rivolte, fece dono a Paolino di alcune «res et facultates». Paolino, «artis grammaticae magister», fu ricompensato per la sua fedeltà ed al contempo inserito a pieno titolo nel progetto culturale carolingio. Sin dal 776, anno della donazione di Carlo, egli partecipò dunque alla vita di corte, seguendo il sovrano ad Aquisgrana, rimanendovi sino al 787, anno in cui venne elevato al rango di patriarca ad Aquileia. Per quindici anni, sino alla morte, rimase nella sede patriarcale, ma non dimenticò i propri doveri nei confronti di Car81 Sulla vita e la posizione politica di Paolino, cfr. C. G. MOR, S. Paolino e Carlo Magno, in Atti del convegno internazionale di studio su Paolino di Aquileia nel XII centenario dell’episcopato (Gorizia e Cividale del Friuli, 10 ottobre 1987), a c. di G. Fornasier, Udine 1988; P. PASCHINI, San Paolino Patriarca e la chiesa Aquileiese alla fine del secolo VIII, Udine 1977; G. FEDALTO, Il significato politico di Paolino, Patriarca di Aquileia, e la sua posizione nella controversia adozionista, in Das Frankfurter Konzil von 794 cit. (cap. 2, alla nota 66), pp. 103-123; F. STELLA, Le raccolte dei ritmi precarolingi e la tradizione manoscritta di Paolino d'Aquileia: nuclei testuali e rapporti di trasmissione, in «Studi medievali», Ser. 3a, 39 (1998), pp. 809-832: B. LÖFSTEDT, Nicht identifizierte Bibelzitate, in «Orpheus», 16 (1995), pp. 140-141; BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 14-20 e pp. 264265; D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 131-132 e pp. 179-180.

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lo, del quale, al pari di Alcuino, condivideva e sosteneva il progetto politico. In una epistola indirizzata al sovrano, Paolino esplicita con solennità tale incondizionata adesione ad una visione della società nella quale ad ogni individuo sia riconosciuta una funzione specifica e siano create le condizioni affinché ciascuno possa attuare la propria peculiare virtù: Ti conviene, principe venerabile, indirizzare i presuli all’indagine sulle Sacre Scritture e ad una dottrina integra e morigerata, il clero nel suo insieme alla disciplina, i filosofi alla conoscenza delle cose divine e di quelle umane, i monaci al vincolo religioso («religio»), tutti, senza distinzione, alla santità: i nobili al governo, i giudici alla giustizia, i soldati alla pratica delle armi, i sacerdoti alla umiltà, i sudditi all’obbedienza, tutti, senza distinzione, alla prudenza, alla giustizia, alla forza, alla temperanza, alla pace ed alla concordia82.

Nel concilio di Francoforte, nel quale aveva stabilito di rispondere alla nascente iconodulia bizantina con quelli che sarebbero diventati i Libri Carolini, Carlo si pronunciò anche per una piena condanna dell’eresia adozionista, avvalendosi della collaborazione di Alcuino.A Paolino fu affidato il compito di redigere un verbale esaustivo, oggi noto come Liber sacrosyllabus contra Elipandum83. L’opera si presenta come una drammatizzazione dell’azione svolta nel concilio.Alla presenza delle cariche ecclesiastiche e dinanzi al sovrano, viene data lettura di una epistola di Elipando.Al termine, Carlo si solleva «de sella regia», e pronuncia un lungo discorso («sermo prolixus») nel quale invita tutti i presenti, ciascuno nella propria funzione, a combattere per porre un freno 82 PAULINUS AQUILEIENSIS, Epistola ad Carolum, in ID., Epistolae, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 4 (Karolini aevi, 2), Berlin 1895, 18, p. 527,1-9: «Expedit tibi, venerande princeps, ut exerceas praesules ad sanctarum Scripturarum indagationem et sanam sobriamque doctrinam, omnem clerum ad disciplinam, philosophos ad rerum divinarum humanarumque cognitionem, monachos ad religionem, omnes generaliter ad sanctitatem: primates ad consilium, iudices ad iustitiam, milites ad armorum experientiam, praelatos ad humilitatem, subditos ad oboedientiam, omnes generaliter ad prudentiam, iustitiam, fortitudinem, temperantiam, pacem, atque concordiam». Cfr. M. PASSALACQUA, Terminologia filologica negli epistolari carolingi: intellettuali e testi, in Paolino d’Aquileia ed il contributo italiano all’Europa carolingia,Atti del Convegno Internazionale di Studi (Cividale del Friuli - Premariacco, 10-13 ottobre 2002), Udine 2003, pp. 405-420. 83 Cfr. supra, cap. 2, alla nota 12.

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(«censura fidei») al diffondersi della dottrina adozionista. Paolino offre per primo la sua disponibilità ad impegnarsi in questa lotta: compito del vero cristiano, infatti, è difendere l’ortodossia con tutto se stesso, con le proprie parole, nei propri scritti («corde, lingua, stylo respondere non formido»). Paolino esprime questa volontà utilizzando le stesse metafore tratte dal linguaggio militare che sono spesso impiegate nelle opere apologetiche di Alcuino: Infatti il soldato di Cristo non deve temere per debolezza l’impatto impetuoso della guerra, né inerme sbandandosi cercare vie di scampo: ma cinto dalle armi della sua milizia trapassare coraggiosamente il petto dei nemici irrompenti con dardi spirituali, scagliandoli con l’arco delle Scritture; fino a quando difeso dallo scudo della fede si preservi illeso, e insanguini i fianchi dei nemici con frecce acuminate84.

Il nemico contro il quale il «miles» è impegnato è una eresia che a Paolino appare di chiara derivazione nestoriana85. Il Liber Sacrosyllabus, pur presentandosi formalmente come la trascrizione della discussione tra sovrano e padri conciliari, ripropone temi portanti ed argomentazioni di tutta la letteratura apologetica carolingia. Gli eretici, che sono, secondo l’insegnamento di san Paolo, un male necessario («oportet et haereses esse», 1Cor 11, 19), rivelano una erronea comprensione delle Scritture, corrotte dalle loro dottrine, e quindi una distorta percezione della verità86. Paolino dunque utilizza diversi luoghi scritturali per dimostrare l’assurdità della tesi adozionista (come l’annuncio dell’arcangelo a Maria e la dichiarazione petrina di fede in Cristo); una volta escluso ogni possibile

84 PAULINUS AQUILEIENSIS, Liber sacrosyllabus contra Elipandum, PL 99, 154A: «Non enim Christi miles impetum irruentis belli debet enerviter expavescere, nec effugii latibula inermis palando appetere: sed armis militiae suae praecinctus irrumpentium hostium pectora spiritalibus iaculis ex arcu intorquens Scripturarum intrepide perforare: quatenus et semetipsum fidei clypeo munitus illaesum custodiat, et inimicorum latera spiculis cruentet acutis». 85 Cfr. ibid., 155A. 86 Cfr. ID., De salutaribus documentis, PL 99, [197-283], 205B: «Omnis enim sanctorum librorum series ad nostram doctrinam scripta est: et hoc maxime nostris auribus intonat, et iterum atque iterum replicat, quid sit homini cavendum, vel quid sequendum. In quibus libris tua dignitas optime exercere se novit; quia per illos nobis loquitur ipse Deus et Dominus noster, et piae voluntatis nobis demonstrat affectum».

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riferimento al testo sacro, infatti, agli eretici non rimane che inventare verità senza fondamento: Null’altro ti resta da dire, se non pescare dalla fabbrica della menzogna, come è tuo solito, una freccia intrisa di veleno, con la quale non ti vergogni di trapassare, infilzandoli con false affermazioni, i cuori dei semplici87.

Dimostrata l’impossibilità di fondare nelle Scritture la sostenibilità della dottrina adozionista, Paolino traspone la sua opera apologetica sul terreno che gli è più congeniale, quello della corretta interpretazione e utilizzazione dei termini. Che c’è da meravigliarsi se da stolti non sapete cogliere con mano esperta in quegli errori che sono una fitta selva di allegorie, e per di più avvolte dagli oscuri enigmi di inutili ornamenti, i pomi pendenti dei frutti spirituali da sotto le foglie di ciò che è scritto, mentre corrompete la corretta dottrina diffusa in pubblico dai santi predicatori mal interpretandola?88

Uno dei primi errori degli eretici è infatti l’utilizzo indiscriminato di «nomina» diversi che solo apparentemente indicano lo stesso concetto. Citati nel De grammatica di Alcuino a proposito degli avverbi, e ancora meglio specificati nelle pagine del suo De dialectica, i «polyonyma» sono appunto termini differenti tra loro ma riconducibili ad un medesimo significato89. È il caso, sostiene Paolino, degli aggettivi «advocatus» (usato come attributo cristologico in 1Jo 2, 1) e «adoptivus» che, seppur differenti, indicherebbero, per gli adozionisti, la medesima alterità del Figlio rispetto alla sostanza del Padre. Paolino, da buon maestro, indica l’unico metodo utile per evitare tale confusione: fornire le definizioni di entrambi i termini, e verificare se esse coincidano. Sarà evidente così che l’«ad87 ID., Liber sacrosyllabus, 157C: «Nihil tibi restat quid dicas, nisi solito more faciens, sumas de officina mendacii veneno illita spicula, quibus simplicium corda iaculando falsis assertionibus perforare non erubescas». 88 Ibid., 158A: «Sed quid mirum, si stulti in his erratis, quae allegorica sunt silva condensa, et umbrosis phalerarum aenigmatibus obvoluta, carpere nescitis docta manu de sub foliis litterarum pendentia spiritalium fructuum poma, cum in propatulo per sanctos praedicatores eductam male intelligentes orthodoxam depravatis doctrinam?». 89 Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, De grammatica, PL 101, 88C; ID., De dialectica, PL 101, 955B.

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vocatus» è colui il quale interpella un giudice al fine di perorare le istanze di chi lo richiede («qui pro me iudicem interpellat, et causam necessitatis meae propria tuitione defendit»), la cui definizione stessa lo distingue profondamente dall’«adoptivus», che è la condizione del figlio non proprio, ma impropriamente («abusive») definito tale90. La sovrapposizione dei due termini, evidentemente impropria a partire dalle rispettive definizioni, è inoltre smentita da una diretta verifica nel dettato della rivelazione: se infatti le definizioni di «advocatus» e «adoptivus» coincidessero, risulterebbe la predicabilità del termine ‘adottivo’ anche nei confronti dello Spirito Santo, perché la traduzione latina di «paraclitus» è proprio «advocatus». L’uso corretto e competente degli strumenti delle artes costituisce dunque anche per Paolino un elemento fondante della metodologia che i veri credenti devono utilizzare per combattere l’eresia. Come già aveva sostenuto Alcuino, tale possesso non è limitato esclusivamente alla conoscenza delle «regulae» proprie di ogni singola ars, ma si fonda sull’assunzione del principio comune che le uniforma tutte. Anche in Paolino emerge l’idea che il senso profondo delle artes risieda nella plurifunzionalità delle immagini, dei metodi e delle conclusioni, che permette loro di essere applicate anche alla illustrazione del «sacrum eloquium». Le Scritture sono chiare e non ingannevoli, e sembrerebbe dunque superfluo utilizzare le regole del sillogismo per migliorarne la comprensione: «cum in causa fidei non videatur necessarium sophistica disputatione saecularium litterarum calculos syllogistica spargere manu»91. È tuttavia indispensabile argomentare con precisione per evitare che la «sincera simplicitatis vox» del testo sacro venga fraintesa. Sei anni dopo la conclusione del concilio di Francoforte, mentre il nuovo pontefice Leone III ribadiva la condanna dell’adozionismo e Alcuino costringeva Felice di Urgel ad una abiura ad Aquisgrana, Paolino ultimava una seconda opera antiadozionista, i Contra Felicem libri tres, rivolgendosi direttamente all’adozionismo sviluppatosi a ridosso dei territori conquistati in quegli anni da Carlo Magno, e non più solo nella lontana Toledo mozarabica di 90 91

Cfr. PAULINUS AQUILEIENSIS, Liber sacrosyllabus, 158C. Cfr. ibid., 160C.

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Elipando92. L’opera ha un aspetto formale significativamente differente dal Liber sacrosyllabus.In primo luogo ripropone il vasto repertorio di citazioni patristiche già presenti nelle opere di Alcuino, ed in buona parte assenti nel Sacrosyllabus, nel quale Paolino aveva utilizzato prevalentemente citazioni scritturali; in secondo luogo, in questo suo secondo intervento antiadozionista Paolino dichiara apertamente la sua adesione ad un metodo argomentativo già evidente nell’opera di Alcuino. Sin dalla prefazione, infatti, egli specifica la differenza tra la «mens sancta», che gode della luce della verità, e la «mens lucubris», che vive nell’errore, ossia tra una ragione conforme al dettato della fede ed un’altra, opposta, che utilizza i propri strumenti argomentativi per distorcere le verità rivelate93. Stilisticamente, il Contra Felicem è caratterizzato da una prosa ridondante, ricca di metafore e di lunghe circonlocuzioni, parafrasi complesse dei passi scritturali citati, immagini forti e volutamente iperboliche. Così Felice ed ogni altro eretico appaiono figli del diavolo, generati dal seme della perfidia, partoriti in un amplesso adulterino, nemici delle verità spirituali della Chiesa. Paolino dedica nove dei trentotto capitoli del primo libro ad una cruda invettiva contro i suoi avversari, utilizzando espressioni ed immagini denigratorie, per poi giungere, dopo questa lunga premessa, all’analisi degli aspetti teologici della tesi adozionista. La vita del cristiano si fonda, nelle parole di Paolino, su due componenti, la «mens» e la «fides», con una evidente percezione della priorità della seconda rispetto alla prima. Nessuna «regula» dialettica o grammaticale, nessun ornamento retorico potranno mai 92

Lo stesso Alcuino sottolinea l’importanza dell’operato di Paolino per il consolidamento del potere di Carlo in una lettera indirizzata ad Arnone di Salisburgo; cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, Epistola ad Arnonem, in ID., Epistolae, ed. Dümmler cit. (cap. 2, alla nota 8), 208, p. 346,5-7: «Libellum vero catholicae fidei quem domno regi direxit, perlegebam, et satis mihi placuit in eloquentia sua et in floribus dictionum, et in fidei ratione, et in testimoniorum auctoritate, ita ut nihil his addi de quaestionibus nuper habitis inter nos et partes Felicianas opus esse arbitrabar. Et felix est Ecclesia populusque Christianus, quandiu unum talem habebit defensorem fidei catholicae». 93 Cfr. PAULINUS AQUILEIENSIS, Contra Felicem libri tres, Praef., PL 99, 346A, ed. D. Norberg,Turnhout 1990 (CCCM, 95), p. 3,30-33: «Si igitur mente sancta quis catholicae fidei sinceritate perspicuus gustaverit, vita vivit et non morietur. Sin autem mente lucubri perfidiaeque mancipatus errore epotaverit, ‘morte morietur’ et ‘non vivit’ (cfr. Ez 18, 13)».

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sostituirsi, nella esperienza di fede del cristiano, alla lettura ed alla meditazione sulle Scritture. In particolare nel Contra Felicem, alla «fides» è affidato il compito di tracciare un percorso apologetico corroborato da precise citazioni scritturali e patristiche, mentre alla mens spetta il compito, ove necessario, di evidenziare come tutto ciò che è narrato e insegnato nelle Scritture sia anche sostenuto da una rigorosa normatività naturale e razionale94. È dunque indispensabile per il vero cristiano bere dal solo calice delle Scritture; credere cioè con fiducia nella dottrina ortodossa senza arrischiarsi ad interpretare le Scritture in modo illecito o perverso, ma impegnare al contempo la propria capacità di comprensione indirizzandola alla verità («recta fides, devota mens, sanus sensus»)95. Gli eretici, invece, compiono il percorso esattamente inverso, con l’intenzione di pervertire il senso di ciò che leggono («os perfidum, cor pessimum, mens perversa»)96; in ciò, essi infrangono la «regula catholicae fidei»: Prendendo precauzioni per il futuro e non indotto dalla circostanza presente, ho deciso di oppormi singolarmente a tutto ciò che in qualsivoglia sua lettera si veda inserito contro la regola della fede cattolica, sia con la sola testimonianza della Scrittura, sia razionalmente, con dispute relative soltanto all’efficacia delle possibilità umane97.

Paolino, nel polemizzare con Felice, ricorre dunque agli stessi argomenti utilizzati da Alcuino nelle sue opere antiadozioniste. La «praesumptio» è infatti anche qui la convinzione che i propri mezzi intellettuali possano condurre ad una conoscenza tanto approfondita e vera delle Scritture, che pretende di proporsi come lettura alternativa a quella universalmente riconosciuta dalla Chiesa universale. Non è forse evidente che padre dell’infelicissimo Ario e dei suoi compagni fu il diavolo, che con un’unione adulterina ha 94

Cfr. ibid., 346A, pp. 4,28 e seqq. Cfr. ibid., 346B, pp. 4,40 e seqq. 96 Cfr. ibid., 347A, pp. 4,50 e seqq. 97 Ibid., 348A, p. 4,68-70: «Praecavens igitur in futurum, non ab re putavi per singula quaeque quae in qualibetcunque litteris eius contra catholicae fidei regulam inspiciuntur inserta, et Scripturarum admodum testimoniis, et rationabiliter dumtaxat iuxta humanae possibilitatis efficientiam disputationibus obviare». 95

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sparso in un coito foriero di male il seme virulento della perfidia nell’utero della loro mente depravata? Per questo, da un giacere tanto clandestino è stato concepito e formato il figlio della perdizione. Quasi che da un utero materno, con l’aiuto, come di un’ostetrica, di una lingua arrogante, nacque una prole che deve essere assoggettata al fuoco della eterna Geenna98.

L’immagine di Paolino è al contempo forte ed efficace. Gli eretici, ed in particolar modo Ario, appaiono fecondati dal seme della superbia, che genera nelle loro menti distorte dottrine che una lingua arrogante diffonde nel mondo. È infatti un errore prettamente linguistico, figlio di una «sophistica ratio», utilizzare termini come «adoptivus» o «nuncupativus» parlando del Figlio; se infatti il termine «filius» esiste in relazione ad aliquid, vale a dire ad un «pater», non è possibile che Cristo sia al contempo figlio proprio ed adottivo, perché ai due termini devono necessariamente corrispondere due diverse predicabilità di relazione: il figlio proprio trova il proprio ad aliquid in un padre naturale; il figlio adottivo, invece, in un padre acquisito99. Paolino non offre, nello sforzo apologetico del Contra Felicem, una rielaborazione particolarmente originale dei temi antiadozionisti già espressi da Alcuino. Pur confermando la necessità di utilizzare l’auctoritas patristica e scritturale e le nozioni tecniche apprese nello studio delle artes, egli non abbandona mai l’idea che solo Dio conceda i talenti necessari a combattere gli infedeli, e che dunque soltanto a Lui il vero teologo debba rendere conto del proprio operato100: Dunque in Lui è strettamente e tenacemente riposta e custodita la fiducia della speranza, nella profondità della mia inviolata fede, perché se è stato commesso un errore, non penso di 98 Ibid., I, 3, 353A, pp. 9,51 e seqq.: «Nunquidnam infelicissimi Arii sociorumque eius non exstitit pater diabolus, qui adulterino complexu virulentum semen perfidiae in vulvam depravatae mentis eorum coitu effudit pestifero? Ac per hoc de tam clandestino concubitu conceptus formatusque est filius perditionis: quasi de materno utero, procacissimae linguae obstetricante manu, processit proles aeternae gehennae ignibus mancipanda». 99 Cfr. ibid., I, 34, 410D, p. 41,40-41: «Non poteris filium et filium quod est relativum ad aliquid, hoc est proprium et adoptativum, uni adscribere genitori». 100 Cfr. ibid., III, 28, 466D, p. 121,6-7: «Nihil tamen habui quod non a te acciperim, nihil prorsus accepi quod non tuum sit».

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avere sbagliato per l’ostinazione della malvagità, ma forse obnubilato dall’ignoranza nella conoscenza delle artes o nella semplicità di un linguaggio incolto, non mi scuso intimamente perché non ho sbagliato101.

Paolino condivise con Alcuino l’esperienza di corte, la lotta contro l’adozionismo e, più in generale, un’idea di formazione cristiana. Nelle sue opere non emergono, rispetto ai temi presenti nel corpus alcuiniano, novità metodologiche o speculative, ma è possibile evidenziare uno dei più caratterizzanti elementi dell’identità teologica carolingia. La sua prosa apologetica si presenta infatti ridondante, arricchita di immagini volutamente forti, retoriche, e sviluppata con frequenti ed a volte dispersive ripetizioni. Per Paolino è evidente, più ancora di quanto non lo fosse per Alcuino, che si allontanano dalla vera fede non gli ignoranti, ma i superbi; prevale dunque nella sua prosa apologetica il desiderio di mortificarne la presunzione, piuttosto che l’esigenza di dimostrare l’infondatezza delle loro tesi.

4. La Scrittura e le artes: variazioni su un metodo 4.1. Fridugiso di Tours Se Paolino emerge, dall’epistolario alcuiniano, come uno dei personaggi con i quali il maestro di York strinse relazioni intense e condivise una grande amicizia ed una piena identità di prospettive, Fridugiso incarna la continuità del magistero di Alcuino, del quale fu discepolo e successore, dall’804, come abate a Tours102. La 101

Ibid., 467B, p. 121,25-30: «In eo igitur spei fiducia in sinu inviolate fidei meae artius tenaciusque reposita custoditur, quia non me perfidiae pervicacia recolo, si erratum est, oberrasse sed ignorantiae forte interveniente nubilo in artis peritia sive in sermonis inculti frugalitate frustratus non deliquisse me penitus non excuso». Cfr. anche ID., De salutaribus documentis, PL 99, 199A: «Tu vero, frater charissime, intellige quia consilio sanctae Trinitatis, et opere maiestatis divinae creatus es: ex primoque conditionis honore intellige quantum debeas Conditori tuo, dum tantum mox in conditione dignitatis privilegium praestitit tibi Conditor aeternus, ut tanto eum ardentius amares, quanto mirabiliorem te ab eo esse conditum intelligeres». 102 Cfr., su Fridugiso in generale, M.AHNER, Fredegis von Tours: Beitrag zur Geschichte der Philosophie im Mittelalter, Leipzig 1878, pp. 1-14; C. GENNARO, Fridugisio di Tours ed il De substantia nihili et tenebrarum: Edizione critica e studio introduttivo, Padova 1963 (Pubblicazioni dell’Istituto Universitario di Magistero di

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fortuna della figura di Fridugiso è legata, nella storiografia moderna e contemporanea, al dibattito sul nulla e al suo unico testo autentico giunto fino a noi, un opuscolo, in forma epistolare, noto come Epistola de substantia nihili et tenebrarum103. Il tema è riassunto dallo stesso Fridugiso in modo sintetico: «quaestio autem huiusmodi est, nihilne aliquid sit, an non». La domanda intorno a cui vertono le considerazioni problematiche formulate dall’autore è dunque soprattutto di filosofia del linguaggio, ossia scaturisce da uno scrupolo di ordine logico-grammaticale: cosa corrisponde alla parola «nihil»? E se tale parola ha un significato, ad esso corrisponde qualcosa che è? Se qualcuno sostenesse che il ‘nulla’ è («si quis responderit: ‘videtur mihi nihil esse’»), afferma Fridugiso, accetterebbe implicitamente che il nulla è qualcosa; la sua affermazione infatti diverrebbe «videtur mihi nihil quiddam esse». Al contrario, se qualcuno sostenesse che il nulla non esiste, dovrebbe confrontarsi non solo con la ragione umana, ma soprattutto con l’auctoritas divina, in quanto nella rivelazione è scritto che Dio creò tutte le cose ex nihilo, e la parola divina non può pronunciare un termine senza che a questo corrisponda un significato reale: Qualora la risposta fosse tale ‘mi sembra che il nulla non sia un qualcosa’, bisognerebbe opporsi a questa risposta in primo luogo con la ragione, in quanto essa stessa ne soffre, poi con l’autorità, non una qualsiasi, ma solo quella divina, che è l’unica che da sola produce una fermezza incontestabile104.

Catania, Serie filosofica, Saggi e monografie, 46), pp. 57-60; M. L. COLISH, Carolingian Debates over Nihil and Tenebrae: A Study in Theological Method, in «Speculum», 59 (1984), pp. 757-794, in partic. p. 758; BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 76-77 e pp. 279-280; D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 140-144 e pp. 182183. 103 Cfr. FRIDUGISUS (FREDEGISUS) TURONENSIS, Epistola ad proceres palatii de substantia nihili et tenebrarum (in seguito: FRIDUGISUS TURONENSIS, Epistola), PL 105, [751-756], ed. E. Dümmler, in Epistolae variorum Carolo Magno regnante scriptae, 36, in MGH, Epistolae, 4 (Karolini aevi, 2), Berlin 1895, [pp. 552,29 - 555,32], p. 552, 35. 104 FRIDUGISUS TURONENSIS, Epistola, p. 553,3-7: «Si vero huiusmodi fiat responsio: ‘videtur mihi nihil nec aliquid esse’, huic responsioni obviandum est, primum ratione, in quantum hominis ratio patitur; deinde auctoritate, non qualibet, sed divina dumtaxat, quae sola auctoritas est solaque immobilem obtinet firmitatem».

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Fridugiso introduce per primi gli argomenti razionali («agamus itaque ratione»). La sua discussione parte dal concetto di «nomen finitum». Nel De dialectica di Alcuino, sulla scorta del commento boeziano al Peri hermeneias aristotelico si legge che un «nomen» è «infinitum» quando la sua funzione referenziale non consiste, come normalmente accade per i «nomina», nel designare qualcosa mediante l’espressione di un significato ma, al contrario, nel sottrarre dal soggetto ciò che viene predicato, come nel caso dell’espressione «non homo». Si può dunque ipotizzare che con l’espressione «nomen finitum» Fridugiso abbia voluto indicare ogni termine significante che, predicando di una res qualcosa di determinato, implicitamente ne afferma l’esistenza105: Dunque ogni nome finito indica qualcosa di determinato, come ‘uomo’, ‘pietra’ o ‘legno’. Infatti non appena tali nomi vengono pronunciati, nello stesso istante abbiamo intelligenza delle cose che sono da essi significate. Ora, senza dubbio il nome ‘uomo’, formulato senza precisazione alcuna, designa l’insieme universale di tutti gli uomini. Anche ‘pietra’ e ‘legno’ comprendono in sé, allo stesso modo, la generalità delle cose corrispondenti. Pertanto, se ‘nulla’ è almeno un nome, come affermano i grammatici, certamente è un nome finito. Ma ogni nome finito significa qualcosa di determinato. E certamente è impossibile che la cosa determinata non sia qualcosa, di modo che, pur essendo, il finito non esista, ed è impossibile che il ‘nulla’, che è finito, non sia un qualcosa106. 105

Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, De dialectica, PL 101, 964D: «‘Homo’ nomen est, ut dicis; ‘non homo’ infinitum nomen est; hominem enim negas, nec tamen quid sit ostendis»; cfr. BOETHIUS, In librum Aristotelis Periermeneias vel De interpretatione, Editio prima, PL 64, 304D, ed. C. Meiser, Leipzig 1877, p. 52,11-23: «Omne enim nomen unam rem significat definitam, ut cum dicimus ‘homo’, substantiam significat nec quamlibet, sed rationalem atque mortalem. Eodem modo et caetera nomina. Qui vero dicit ‘non homo’, hominem quidem tollit. Quid autem illa significatione velit ostendere, non definit, potest enim quod homo non est, et equus esse, et canis, et lapis, et caetera quaecumque homo non fuerint. Quare quoniam id quod definite significare potest, aufert in eo negativa particula, quid vero significare debeat, definite non dicit, sed multa atque infinita unusquisque auditor intelligit. Dicatur, inquit, nomen infinitum». 106 FRIDUGISUS TURONENSIS, Epistola, ibid., p. 553,8-16: «Omne itaque nomen finitum aliquid significat, ut ‘homo’,‘lapis’,‘lignum’. Haec enim uti dicta fuerint, simul res, quas significant, intelligimus. Quippe hominis nomen praeter differentiam aliquam positum universalitatem hominum designat. Lapis et lignum suam similiter generalitatem complectuntur. Igitur ‘nihil’, si modo nomen est, ut grammatici asserunt, finitum nomen est. Omne autem nomen finitum aliquid significat.

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Ogni nome che si riferisca a qualcosa e non sia una semplice negazione di un altro nome è dunque per Fridugiso un «nomen finitum». Il referente del nome non deve però necessariamente essere un singolo oggetto; l’«aliquid» indicato da «nomina» come «homo», «lapis» o «lignum» non è infatti necessariamente un uomo, una pietra o un pezzo di legno individuali. Ogni nome finito, ossia ogni nome avente un significato determinato, si riferisce a qualcosa di determinato e dunque di esistente, proprio in quanto ne è «signum», sia che designi una singola realtà particolare, sia che invece si riferisca ad un insieme universale di «res» corrispondenti allo stesso significato. Poiché anche «nihil», come sostengono i grammatici, è un nome avente un significato determinato, necessariamente anch’esso è un nome finito e deve indicare qualcosa, di singolare o di universale, di cui è «signum»: Ogni segno è segno di qualcosa che è. Ma il nulla è segno di qualcosa. Pertanto il nulla è segno di qualcosa che è, vale a dire di una cosa esistente107.

La discussione sul significato del termine «nihil» e sulla sua capacità, in quanto dotato di un significato, di essere «signum» di qualcosa di determinato, probabilmente introdotta nell’alto Medioevo dalla riflessione su alcune pagine agostiniane (in particolare legate alla polemica antimanichea e al problema della sussistenza del male), aveva già lasciato alcune tracce nel mondo carolingio fin dalla produzione alcuiniana108. Sotto la forma apparentemente innocente di un puro gioco linguistico, se ne trova un’eco abbastanza significativa nella Disputatio Pippini di Alcuino, un breve e serrato dialogo fatto di rapide domande e risposte tra un maestro e un discepolo; nella parte finale della Disputatio, il primo chiede al secondo: «Quid est quod est et non est?»; domanda alla Ipsum vero aliquid finitum ut non sit aliquid, impossibile est, ut finitum aliquid non sit, impossibile est, ut nihil quod finitum est, non sit aliquid». 107 FRIDUGISUS TURONENSIS, ibid., p. 553,17-18: «Omnis significatio eius significatio est, quod est. Nihil autem aliquid significat. Igitur nihil eius significatio est quod est, id est rei existentis». 108 Cfr. G. D’ONOFRIO, ‘Quod est et non est’. Ricerche logico-ontologiche sul problema del male nel medioevo pre-aristotelico, in «Doctor Seraphicus», 38 (1991) [= Il problema del male nel pensiero di San Bonaventura e in alcuni contesti della tradizione medievale, XXXVIII Convegno di Studi bonaventuriani (Bagnoregio, 2-3 giugno 1990)], pp. 13-35, in partic. pp. 14-17.

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quale il giovane Pipino risponde, provocatoriamente, «nihil», giustificando subito dopo la propria affermazione con il seguente, pur sempre un po’ ambiguo chiarimento: «nomine est, et re non est»109. Con l’ermetica rapidità di questa precisazione, Alcuino gioca evidentemente sul fatto che «nihil», in quanto «nomen», vale a dire come «signum», esiste ed ha un significato determinato, ma che, paradossalmente a tale suo significato, che designa proprio l’assenza di realtà determinate, non corrisponde alcuna «res». Fridugiso si spinge decisamente più avanti: nella sua lettura esplicitamente logico-grammaticale, non solo «nihil» esiste come «signum», vale a dire come entità logica, grafica o fonetica, ma indica anche una «res existens». Egli si sforza dunque di fortificare con la ragione, vale a dire con l’analisi della funzione semantica del termine e con una determinazione definitoria rigorosa del suo significato, un’argomentazione decisiva su cui fondare un definitivo riconoscimento di verità per l’esistenza o la non esistenza della realtà che ad esso deve corrispondere. Nella seconda parte dell’opuscolo il medesimo procedimento viene applicato ad un altro termine la cui complessa natura semantica può essere assimilata a quella di «nihil»: ossia alle «tenebrae», termine introdotto nella Genesi («tenebrae erant super faciem abissi», Gn 1, 2) per significare qualcosa che fin dall’inizio della storia universale viene distinto dall’esistere della prima creatura, la luce; e che, pur designando una anteriorità ontologica a tutto ciò che è stato creato e quindi a tutto ciò che esiste ed è diverso da Dio, poiché significa qualcosa di determinato non può non designare altro che una res realmente esistente110. L’introduzione del testo scritturale come autorità incontestabile che convalida l’uso semanticamente positivo di termini finiti ai quali non sembra però corrispondere altro se non una pura privazione di realtà, non è casuale.Anzi, Fridugiso sembra di fatto voler offrire, in ultima analisi, con tale indagine sul significato del nulla e delle tenebre, proprio una testimonianza decisiva sulla 109

Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, Pippini regali seu nobilissimi iuvenis disputatio cum Albino scolastico, PL 101, [975-979], 980A; cfr. D’ONOFRIO, ibid., p. 13; cfr. M. BAYLESS, Alcuin's Disputatio Pippini and the Early Medieval Riddle Tradition, in Humour, History and Politics in Late Antiquity and the Early Middle Ages, ed. G. Halsall, Cambridge 2002, pp. 157-178. 110 Cfr. FRIDUGISUS TURONENSIS, Epistola, pp. 553-555.

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indispensabile costruzione di qualsiasi autentico sapere da parte del credente sulla base di una assoluta e solida convergenza di competenza filosofico-razionale e adesione sincera ai dettami della fede. Allo sforzo di analisi semantica che egli chiede al suo lettore è infatti sottesa la coscienza che l’argomentare razionale non sia il solo e, soprattutto, non sia il più fondato tra quelli possibili; accanto ad esso è infatti necessario il ricorso al contributo conoscitivo offerto dall’auctoritas scritturale, che non è mai in contrasto con la ragione, ed anzi ne costituisce «munimen et stabile firmamentum»111. Se anche il ragionamento umano non fosse capace di dimostrare talune affermazioni che invece concordano con le verità di fede, tale incapacità non potrebbe né cancellarle, né confutarle o ricusarle112. Le Scritture introducono infatti nella mente razionale del credente la certezza che ogni creatura, anche la più luminosa, giunga all’essere, attraverso la creazione, dal nulla: Questa infatti è la fede che indica che le prime e le più illustri tra le creature sono state create dal nulla. Pertanto il nulla è qualcosa di grande e nobile e non è possibile valutare quanto sia grande ciò da cui sono derivate tante e tanto nobili creature. E certamente non è possibile valutarlo né definirlo come si definisce in termini di essere una di quelle cose che da esso sono derivate113.

Non si tratta dunque soltanto della certezza, già acquisita dai Padri della Chiesa, della funzionalità conoscitiva della rivelazione che viene in soccorso di una ragione umana debole e incapace, da sola, di trovare soluzioni adeguate ai propri problemi. Con ben maggiore solidità argomentativa, la ragione di Fridugiso trova nella Scrittura un ineliminabile presupposto di validità per i pro111

Cfr. ibid., p. 553,22. Cfr. ibid., p. 553,26-27: «Erigenda est igitur ad tanti culminis auctoritatem mentis acies, quae nulla ratione cassari, nullis argumentis refelli, nullis potest viribus inpugnari». Cfr. F. CORVINO, Il De nihilo et tenebris di Fredegiso di Tours, in «Rivista critica di Storia della Filosofia», 11 (1956), pp. 280-286, in partic. p. 283. 113 FRIDUGISUS TURONENSIS, Epistola, p. 553,28-32: «Haec (fides) enim est, quae praedicat ea, quae inter creaturas prima ac praecipua sunt, ex nihilo condita. Igitur nihil magnum quiddam ac praeclarum est quantumque sit, unde tanta et tam praeclara sunt, aestimandum non est. Quippe cum unum horum, quae ex eo genita sunt, aestimari sicut est, aestimari ac difiniri non possit». 112

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pri percorsi nel momento stesso in cui offre ai contenuti del messaggio rivelato un adeguato supporto tecnico formale per renderne intelligibili gli enunciati. Se anche, infatti, la ragione non riuscisse a comprendere il senso del «nihil», argomento rimasto a lungo «indiscussus et inexaminatus» proprio per la sua difficoltà, come sottolinea con orgoglio Fridugiso, il credente dovrebbe comunque accettare per fede che il «nihil» rappresenti qualcosa, visto che è il luogo metafisico dal quale Dio ha tratto la sua creazione. La completa uniformabilità della razionalità al messaggio scritturale permette dunque di utilizzare entrambi i registri, separatamente o al contempo, per dimostrare la fondatezza delle verità di fede: l’analisi del significato del termine «nihil» consente infatti alla mente razionale di comprendere l’uso che ne viene fatto nelle pagine della Scrittura. Con procedimento capovolto nella forma, ma identico nella sostanza, a proposito dell’esistenza delle tenebre Fridugiso parte dall’analisi semantica dei termini implicati in un versetto della Genesi per evidenziarne il corretto significato con il sostegno degli strumenti della disciplina logico-grammaticale. Il predicato «erant» indica infatti con chiarezza e semplicità il dato dell’esistenza reale del soggetto grammaticale «tenebrae»: L’invincibile autorità sostenuta dalla ragione, e anche la ragione che riconosce l’autorità, illustrano la stessa ed identica verità: che le tenebre certamente esistono114.

La fiducia con la quale Fridugiso applica regole e criteri delle artes al dettato delle Scritture lo spinge a introdurre tra i termini della propria analisi razionale persino le condizioni logiche che vengono determinate dalla conoscenza che Dio stesso ha delle cose da lui poste in essere. Nell’atto della creazione, infatti, Dio divide la luce dalle tenebre, il giorno dalla notte. Le parole, attestate dalla rivelazione, con cui Egli stesso attribuisce un nome a tali oggetti del suo operare, indicano in modo evidente la sussistenza di due «res» che a tale nome devono corrispondere. Chi dunque negasse l’esistenza della notte e delle tenebre, affermerebbe implicitamente che Dio ha dato nome ad una cosa che non 114 Ibid., p. 554,9-12: «Invicta auctoritas ratione comitata, ratio quoque auctoritatem confessa, unum idemque praedicant: tenebras scilicet esse».

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esiste, e che dunque il presupposto di ogni «significatio», vale a dire che il «nomen» stia per qualcosa, verrebbe meno proprio nella narrazione significante, oggetto di fede per ogni credente, del perfetto operare di Dio: Dal momento che è stato assegnato alle tenebre il nome ‘notte’ dallo stesso Creatore che impose alla luce il nome di ‘giorno’, deve forse essere per questo cancellata la divina autorità?115

Non è dunque possibile che un nome sia stato posto da Dio senza che sia correlato ad una creatura: se così fosse, si dovrebbe accettare che Dio possa fare cose superflue, come appunto pronunciare e quindi dare vita ad un nome che non è «signum» di niente116. È dunque compito della ragione del credente assicurare la comprensione delle verità espresse dall’autorità scritturale, il cui significare corretto non deve essere fatto oggetto di discussione, ma assunto quale indubitabile presupposto di ogni ulteriore ragionamento sul loro contenuto: Mi sono preoccupato di scrivere alla vostra grandezza e saggezza queste poche cose,messe insieme con ragione e autorità affinché, rimanendo fedeli ad esse con fermezza e coerenza, mai allettati da una falsa opinione, non possiate allontanarvi dal sentiero della verità. Ma se per caso qualcuno abbia addotto qualcosa dissentendo dalla nostra ragione, impegnatevi ad eliminare le sue stolte macchinazioni ricorrendo a questa come ad una regola con affermazioni probanti117.

4.2. Teodulfo di Orléans Nel racconto delle ultime ore di vita di Carlo Magno, il biografo Eginardo riporta dettagliatamente le volontà dell’imperatore118. 115 Ibid., p. 554,26-28: «Cum eis vocabulum noctis ab eodem conditore impressum est, qui luci appellationem diei imposuit, cassanda est divina auctoritas?». 116 Cfr. ibid., p. 554,30-35. 117 Ibid., p. 555,27-31: «Itaque haec pauca ratione simul et auctoritate congesta vestrae magnitudini atque prudentiae scribere curavi, ut eis fixe immobiliterque haerentes, nulla falsa opinione inlecti a veritatis tramite declinare possitis. Sed si forte a quocumque aliquid prolatum fuerit ab hac nostra ratione dissentiens, ad hanc veluti ad regulam recurrentes probabilibus sententiis eius stultas machinationes deicere valeatis». 118 Cfr. EINHARDUS, Vita Karoli, PL 97, [9-63], 58A.

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Dopo aver elencato le modalità secondo cui veniva regolata la suddivisione dei suoi beni materiali, le «largitiones» per le diverse città, la vendita dei libri della sua biblioteca e la distribuzione del ricavato ai poveri, Eginardo riporta un elenco di personalità presenti al testamento del sovrano: quattro abati, quindici comites ed undici vescovi, tra i quali Teodulfo, che era stato vescovo ad Orléans a partire dal 781, quindi abate di Fleury dall’801, anno in cui, incrinatisi i rapporti tra Alcuino e Carlo Magno, era diventato uno dei più stretti consiglieri dell’imperatore119. Sul versante letterario il nome di Teodulfo è legato soprattutto alla composizione dei suoi carmina120. Prima ancora che per la loro funzione encomiastica e dottrinale, questi componimenti suscitano interesse per lo stile; l’autore infatti mette in luce la sua perizia di versificatore con costruzioni ardite, metafore ed immagini tratte dalla letteratura cristiana e pagana, espedienti tecnici di grande interesse. In un lunghissimo carme dedicato a Carlo Magno, Teodulfo decanta per esempio le lodi del sovrano e della sua corte, ritagliando un breve inciso per Alcuino (che nell’accademia di sapienti raccolta attorno alla corte imperiale amava farsi chiamare «Flacco», come l’antico poeta Orazio): Sia presente anche Flacco, gloria dei nostri vati, che è capace di declamare con metro poetico. Egli che è un potente sapiente, un poeta melodico, potente per sensibilità e per capacità di fare. E tragga pii dogmi dalle sante Scritture, e sciolga i dubbi del numero in modo scherzoso. E ora sia facile, ora difficile la ricerca di Flacco, ora riprendendo l’arte mondana, ora quella divina, ed il re in persona tra i molti che lo vogliono sia l’unico a poter ben risolvere le cose di Flacco121. 119 Cfr. M. GORMAN, Theodulf of Orléans and the exegetical miscellany in Paris lat. 15679, in «Revue bénédictine», 109 (1999), pp. 278-323, in partic. p. 279; G. FOLLIET, Théodulfe d'Orléans († 821), intéressant témoin du Ps-Augustin De Incarnatione (Mai 174), in «Revue bénédictine», 108 (1998), pp. 240-244, in partic. p. 242; BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 48-57 e pp. 273-275; D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 133-134 e p. 180. 120 In relazione alla discussione sul ruolo di Teodulfo nella stesura dei Libri Carolini, cfr. cap. 2, § 2.3; e si veda: A. FREEMAN, Theodulf of Orléans: Charlemagne’s Spokesman against the Second Council of Nicea,Ashgate 2003. 121 THEODULFUS AURELIANENSIS, Ad Carolum regem, in ID., Carmina, 25, PL

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Non è questa l’unica attestazione di stima da parte di Teodulfo ad Alcuino, spesso citato nei Carmina, sempre nel ruolo di consigliere di Carlo e di difensore della cultura e della sapienza cristiane a corte. I rapporti tra i due intellettuali, improntati in un primo momento alla cordialità, e poi irrimediabilmente incrinatisi, rendono la presenza di Alcuino nei componimenti poetici di Teodulfo di particolare interesse; al di là infatti degli avvenimenti che caratterizzarono la relazione tra i due intellettuali,Teodulfo esprime proprio nella forma letteraria del carmen le sue migliori doti di scrittore, in continuità, forse inconsapevole, con la lezione alcuiniana sulla formazione del vero cristiano, che in ogni circostanza può evidenziare il proprio bagaglio tecnico contestualmente alla propria identità di credente122. La stessa formazione di Teodulfo lo indica; la lettura dei Padri emerge, dai suoi carmina, come una delle attività maggiormente utili per il cristiano: Gregorio, Agostino, Ilario, Girolamo, Ambrogio ed Isidoro costituiscono ancora il patrimonio di auctoritates più frequentate. Ma Teodulfo ammette anche letture pagane, che spesso, sotto una superficie di menzogne, celano una sostanza di verità: Si immagina Cupido fanciullo alato e nudo portare l’arco e la faretra, le frecce avvelenate, una fiaccola. Fanciullo perché è leggero, perché alato e nudo, cosa [che è segno di manifesto errore, e perché manca di una mente sagace. La malvagità è rappresentata nella faretra, le insidie nell’arco, le frecce il più potente veleno,la fiaccola il tuo ardore,o amore. Che cosa dunque è più lieve e volubile degli amanti, in che cosa più che in essi si trova una mente che vaneggia [e un corpo lieve? Chi può nascondere il delitto che l’ardente amore produce, le cui azioni si riveleranno sempre malvagie? 105, [283-377], ed. E. Dümmler, in MGH, Poetae, 1, Berlin 1881, p. 486,131-141: «Sit praesto et Flaccus nostrorum gloria vatum / Qui potis est lyrico multa boare pede. / Quique sophista potens est, quique poeta melodus, / Quique potens sensu, quique potens opere est. / Et pia de sanctis Scripturis dogmata promat, / Et solvat numeri vincla favente ioco. / Et modo sit facilis, modo scrupea quaestio Flacci, / Nunc mundanam artem, nunc redibens superam, / Solvere de multis rex ipse volentibus unus / Sit bene qui possit solvere Flaccidica». 122 Per una ricostruzione dei rapporti tra Alcuino e Teodulfo, cfr. H. NOIZET, Alcuin contre Théodulphe: un conflit producteur de normes, in «Annales de Bretagne et des pays de l’Ouest», 111 (2004), pp. 113-129.

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Chi sarà capace di legarlo con le spire della ragione, lui che è fanciullo indomabile e privo di ragione? Chi potrà penetrare nei bui e malevoli nascondigli [della faretra, quante frecce minacciose si nascondono nella cavità [malvagia? Unito a quale fiaccola scocca il colpo velenoso, che vola e ferisce, brucia e agisce annientando?123

L’aspirazione a far rivivere, e la stessa giustificazione del recupero di un sapere non nato cristiano si esprime in un più impegnativo carmen, interamente dedicato da Teodulfo alle sette arti liberali, illustrate riportando l’immagine di un grande albero della sapienza.Teodulfo descrive una non meglio precisata rappresentazione pittorica, nella quale il disco del mondo è ornato da un solo albero, la cui struttura indica i rapporti reciproci tra le «artes». Il fulcro dell’albero è costituito dalla «sophia», alla quale le diverse discipline sembrano creare una corona.A fondamento della pianta, quasi a reggerla e a darle vita, c’è la grammatica: C’era un disco formato dall’immagine tonda del mondo, che era decorato dal disegno di un unico albero. Alla sua radice sedeva la grande Grammatica, ad indicare che essa dava vita e manteneva l’albero. Pertanto si vede che tutto l’albero procede da questa, perché nessuna disciplina può essere divulgata senza di questa. La sinistra tiene la sferza, la destra una spada, affinché quella sproni i pigri, e questa elimini i vizi. E poiché la sapienza ha dovunque il primato, di conseguenza aveva ornato il suo capo con un diadema124. 123

THEODULFUS AURELIANENSIS, De libris quos legere solebam et qualiter fabulae poetarum a philosophis mystice pertractentur, in ID., Carmina, 45, p. 543,33-49: «Fingitur alatus, nudus, puer esse Cupido, / Ferre arcum et pharetram, toxica, tela, facem. / Quod levis, alatus, quod aperto est crimine, nudus, / Solertique caret quod ratione, puer. / Mens prava in pharetra, insidiae signantur in arcu, / Tela prius virus, fax tuus ardor amor. / Mobilius levius quid enim vel amantibus esse / Quid, vaga mens quorum seu leve corpus inest? / Quis facinus celare potest quod amor gerit acer, / Cuius semper erunt gesta retecta mala? / Quis rationis eum spiris vincire valebit, / Qui est puer effrenis et ratione carens? / Quis pharetrae latebras poterit penetrare malignas, / Tela latent utero quot truculenta malo? / Quo face coniunctus virosus prosilit ictus, / Qui volat, et perimens vulnerat, urit, agit?». 124 ID.,De septem liberalibus artibus in quadam pictura depictis,ibid.,46,p.544,1-10: «Discus erat tereti formatus imagine mundi, / Arboris unius quem decorabat opus. / Huius grammatica ingens in radice sedebat, / Gignere eam semet seu reti-

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Dal fusto che si diparte da questa radice, si sviluppano i primi due rami. Da un lato la retorica e la dialettica; dall’altro, le quattro virtù cardinali. La retorica, immaginata con le ali e con l’aspetto del leone, capace cioè di volare leggera e di attaccare con forza, è posta al fianco di una città, accostamento, questo, che ne sottolinea il valore eminentemente civile. La dialettica, invece, «sensus mater», appare defilata rispetto alla retorica, ed intenta ad elaborare ragionamenti utili alla ricerca del vero: Brucia dal gran desiderio di distinguere le cose vere dalle false, e sa individuare la via del vero125.

Queste due «artes» del linguaggio sono fronteggiate, come si è detto, sul ramo opposto, dalle virtù, oggetto di studio dell’Etica. Procedendo lungo l’albero, invece, si susseguono la Fisica, l’Astronomia e la Musica. Nella conclusione del carmen, Teodulfo riassume il senso e l’utilità della metafora, chiarendo perfettamente la duplice funzione dell’immagine dell’albero: Quell’albero aveva appesi foglie e pomi, e così offriva bellezza e molti significati mistici. Interpreta le parole nelle foglie, e i significati nei pomi. Quelle crescono rapidamente, questi bene utilizzati [possono nutrire. In questo albero la nostra vita si mostra nella sua interezza, affinché raggiunga le cose più alte dalle piccole: e anche l’umana sensibilità salga poco alla volta a maggiori [altezze, e si vergogni di seguire a lungo le bassezze. L’Etica si unisce alla Grammatica, e subito ad esse la Logica, e anche la Fisica siede con le arti sue sorelle: tra di loro sceglie per sé una sede nel punto più alto che contiene la legge degli astri e della terra. La benevola Logica le segua, e l’Eloquenza segua i costumi, affinché possa conoscere bene le cose della natura126.

nere monens. / Omnis ab hac ideo procedere cernitur arbos, / Ars quia proferri hac sine nulla valet. / Huius laeva tenet flagrum, seu dextra machaeram, / Pigros hoc ut agat, radat ut haec vitia. / Et quia primatum sapientia gestat ubique, / Composerat illius hinc diadema caput». 125 Ibid., p. 544,39-40: «Haec vera a falsis studio discernere magno / aestuat, et veri scit reperire viam». 126 Ibid., pp. 544,99 - 545,13: «Arbor habebat ea, et folia, et pendentia poma,

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Teodulfo attesta così, nella sua produzione, la consapevolezza del fine a cui indirizzare il proprio gusto raffinato, la capacità versificatoria, ed una evidente plurivocità di interessi e temi. Così, in un breve componimento poetico, dà prova della sua abilità nell’affrontare in una forma ludica il tema dell’esistenza del «nihil», in quegli stessi anni, come abbiamo constatato, oggetto di studio tecnicamente raffinato da parte di Alcuino e Fridugiso: Una cosa insignificante a dirsi ha un grandioso inizio allorquando tu, o grande elefante, partorisci un piccolo topo. Così un figlio riferisce i suoi sogni al padre, esprimendosi con parole futili. «O padre, ti dirò quali cose meravigliose vedevo nel sogno; tali immagini hanno commosso il mio animo. Un bue questa notte pronunciava parole umane: egli parlava, e noi stupivamo», dice. Allora il padre meravigliato così gli chiede: «Dimmi cosa diceva»; e quello risponde: «Nulla!»127.

Innumerevoli sono le espressioni letterarie, le figure retoriche e gli ornamenti con i quali Teodulfo dà forma alla sua produzione poetica, con piena coscienza, però, delle diverse funzioni che differenti tradizioni rivestono nella formazione di un cristiano. Se infatti conosce ed apprezza le immagini prodotte da un sapere pagano e pieno di compiaciute concessioni a reminiscenze mitologiche,Teodulfo sa sottolineare al contempo ruolo e dignità del sapere delle «artes», anch’esso profano, ma non destinato al semplice intrattenimento. Nella descrizione delle doti del giovane figlio di Carlo Magno, che porta il nome del padre, Teodulfo lo / Sicque venustatem et mystica plura dabat. / In foliis verba, in pomis intellige sensus, / Haec crebro accrescunt, illa bene usa cibant. / Hac patula nostra exercetur in arbore vita. / Semper ut a parvis editiora petat: / Sensus et humanus paulatim scandat ad alta, / Huncque diu pigeat inferiora sequi. / Ethica Grammaticae, Logica et mox iungitur illis, / Physica cum sociis artibus atque sedet. / Quarum suprema sedem sibi legit in arce / Quae legem astrorum continet atque poli. / Eloquium mores, Logica illas alma sequatur, / Ut naturales res bene nosse queat». 127 ID., Delusa expectatio, ibid., 3, p. 525,1-10: «Grande habet initium cum res vilissima dictu, / Tunc gignis murem, magne elephante, brevem. / Sic patri quidam retulit sua somnia natus, / Depromens animo frivola dicta suo. / ‘O pater, in somnis dicam quae mira videbam, / Moverunt animum talia visa meum. / Bos dabat humanas nostras hac nocte loquelas, / Ille loquebatur, nos stupebamus’, ait. / Tum pater attonitus rem sic inquirit ab illo, / ‘Dic quod dicebat’: intulit ille,‘Nihil’».

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mostra mitograficamente più leggiadro di un uccello, forte più di un leone, «promptus» nell’uso delle armi, ma al contempo «excellens» in quello delle «artes»128; allo stesso modo, nell’inviare a Carlo le pagine dell’opuscolo De Spiritu sancto, Teodulfo ricorda al sovrano il legame tra la difesa della fede ortodossa e gli «alimenta» che è possibile confezionare con l’uso delle «artes» liberali129. Il sapere tecnico si mostra così funzionale alla diffusione di quello sacro. In un carmen inviato ad Aiulfo,Teodulfo riassume in versi il percorso di formazione del suo destinatario, ricordando la sua evoluzione da quando era un «puer» di nobile inclinazione («nobilis indolis») sino all’età adulta e all’impegno nell’attività ecclesiastica: Infine il tuo studio consistette nell’apprendere le arti liberali, e nell’avere l’animo ingentilito da queste. Ora il tuo impegno consiste nel diffondere i dogmi [del divino Verbo, e ribadisci ai popoli i diritti del cielo. Tu che allora bevevi dalla fonte della grammatica, ora bagna bene le menti con una pioggia di miele130.

Se dunque nell’infanzia Aiulfo appare formato all’insegnamento delle arti liberali («artes ingenuae»),la maturità lo porta a dover trar frutto da questo insegnamento, ed usarlo per comprendere e illustrare ai credenti le Scritture.Come in Alcuino,le «artes» non sono dunque uno strumento inutile o,peggio,dannoso,per raggiungere una prima conoscenza di Dio;esse però non possono che venir sovrastate dalla sapienza scritturale: qualsiasi cosa si apprenda delle cose terrene grazie alle discipline tecniche («mundana arte artibus discitur»), è più facilmente raggiungibile con le Scritture («currit liberiore via»)131. La rivelazione infatti non solo esprime il grado più alto della conoscenza di sé che Dio ha concesso agli uomini, 128 Cfr. ID., Ad Carolum regem, ibid., 36, p. 527,7-8: «Altibus levior, tu fortior ipse leone, / artibus excellens, promptus in arma manus». 129 Cfr. ibid., p. 528. 130 ID., Carmen ad Aiulfum episcopum, ibid., 71, p. 561,11-16: «Ingenuas artes studium tibi discere tandem / Exstitit, et cultum his pectus habere satis. / At nunc divini tibi tradere dogmata Verbi / Est labor, et populis iura refelle poli. / Quae tunc grammatico sumebas pocula fonte, / Ambrosio mentes nunc bene rore rigas». 131 Cfr. ID., Versus Theodulfi [Praefatio bibliothecae], ibid., 41, p. 532.

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culminante nell’incarnazione del Figlio, ma costituisce la guida unica e sicura per la vita concreta e quotidiana del cristiano. Se dunque è strutturalmente impossibile che gli strumenti della ragione umana,per quanto raffinati,possano giungere a Dio,essi devono quantomeno servire ad intuire la presenza,in ogni ambito,di un ordine superiore,fondato sulla razionalità divina.Così,le «artes» ed in generale i saperi umani facilitano la promozione dell’uomo che,vergognandosi di intrattenersi tra le cose umili,tende a risalire verso le realtà più elevate («editiora»). L’ordine del creato trova la sua realizzazione, agli occhi di Teodulfo, tanto nell’organizzazione del sapere, quanto nella struttura della società, entrambe immagini della legge che regola l’universo. Così, consolando il destinatario di un suo carme per la scomparsa di un confratello,Teodulfo gli ricorda come dal primordiale «chaos» il mondo sia venuto all’essere con quell’«ordo» che non prevede modifiche e che proprio nella sua immutabile razionalità assegna a tutto un senso preciso132. Innalzando lo sguardo ad una prospettiva universale, nel De ordine baptismi questo medesimo ordine razionale giustifica ed indirizza la missione di tutti i membri di una società cristiana, che, nel rispetto della propria «virtus», possono aspirare alla perfezione del proprio ruolo133. Non c’è, infatti, nel creato, alcuna possibilità che le singole parti che lo compongono acquistino senso separatamente, al di qua della loro collocazione in un ordine superiore. Solo in quest’ottica, i talenti concessi da Dio mostrano il loro autentico valore: 132 Cfr. ID., Carmen de obitu cuiusdam fratris, ibid., 21, p. 477,1-6: «Si nova nunc fierent tantarum exordia rerum, / Iam novus usus eis nunc adhibendus erat, / Sed quia trita rei iam dudum est semita tantae, / Erga hanc maiorum prisca tenenda via est. / Mundus ab usque chao varius ordine coepit, / Et consummandus hac quoque sorte manet». 133 Cfr. ID., De ordine baptismi, PL 105, [223-240], 223B: «Quippe cui hoc semper familiare est, ut exerceat praesules ad sanctarum Scripturarum indagationem, et sanam sobriamque doctrinam, omnem clerum ad disciplinam, philosophos ad rerum divinarum humanarumque cognitionem, monachos ad religionem, omnes generaliter ad sanctitatem, primates ad consilium, iudices ad iustitiam, milites ad armorum experientiam, praelatos ad humilitatem, subditos ad oboedientiam, omnes generaliter ad prudentiam, iustitiam, fortitudinem, temperantiam atque concordiam. His et his similibus rebus ille virorum optimus, Deo sibi propitio, sanctae Ecclesiae fastigium accumulare non cessat, et admirabili in rerum ecclesiasticarum sive civilium administratione strenuus, et sapientiae fonte redundat, et virtutis exhibitione triumphat». Cfr. la medesima concezione anche nell’Epistola ad Carolum di Paolino di Aquileia, ricordata supra, alla nota 82.

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Una cosa è sapere, altra è capire: infatti molti conoscono le cose eterne, ma non sono per nulla capaci di comprenderle. Dunque la sapienza riempie la mente della speranza e della certezza delle cose eterne dove si è insediata: e l’intelletto poiché raggiunge le cose più segrete, illumina le sue tenebre, rianimando il cuore che ha toccato134.

Anche l’analisi dei rapporti reciproci tra i «dona» dello Spirito evidenzia, in Teodulfo, la necessità di rintracciare sempre, nel creato, la correlazione tra le diverse parti del progetto divino. Ciascuno fra i doni, infatti, ha sue specifiche «proprietates», ma, al di là delle loro caratteristiche precipue, essi non hanno in sé alcun senso se considerati indipendentemente gli uni dagli altri. Sono invece tutti tra loro in stretta e reciproca relazione, e solo il loro comporsi dà ordine e significato alla vita umana: Così infatti con il loro sostegno si aiutano a vicenda, affinché, mentre l’una sostiene l’altra, si componga la stabilità ordinata della vita in modo armonioso135.

4.3. Smaragdo di Saint-Mihiel Tra i componenti della delegazione inviata da Carlo Magno a papa Leone III tra la fine dell’809 e l’inizio dell’810 per discutere i temi del Filioque, a fianco di Teodulfo viene menzionato anche Smaragdo di Saint-Mihiel136. Probabilmente non ancora abate del proprio monastero, è certo però che a questa data egli avesse già composto il suo commento a Donato, risalente probabilmente all’805137. Il Liber in partibus Donati non raccoglie solo il meglio 134 THEODULFUS AURELIANENSIS, ibid., 238A: «Aliud enim est sapere, aliud intelligere: quia multi aeterna quidem sapiunt, sed haec intelligere minime possunt. Sapientia ergo mentem, quam insederit, de aeternorum spe et certitudine replet: et intellectus, eo quod secreta penetrat, cor quod tetigerit, reficiendo eius tenebras illustrat». 135 Ibid., 238B: «Sic enim quodam adminiculo suo invicem sibi succurrunt, ut dum alia aliae suffragatur, vitae ordo et status decentissime componatur». 136 Cfr. F. RÄDLE, Studien zu Smaragd von St. Mihiel, München 1974 (Medium Aevum. Philologische Studien, 29), p. 17. 137 Cfr. SMARAGDUS SANCTI MICHAELIS (SMARAGDUS VIRDUNENSIS), Liber in partibus Donati, ed. B. Löfstedt, Turnhout 1986 (CCCM, 68), praef., pp. VII-XIII; Löfstedt ricostruisce i dati biografici essenziali della vita di Smaragdo, prima di descrivere la tradizione del Liber e la sua diffusione manoscritta. Cfr. inoltre:

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della manualistica profana e delle compilazioni latine di argomento grammaticale, ma porta a compimento ed a maturazione un’operazione culturale che forse era sfuggita allo stesso Alcuino, che muore un anno prima della probabile data di composizione del Liber di Smaragdo, ma che trova in lui, sotto questo aspetto, un ideale erede e continuatore. L’analisi del Liber in partibus Donati di Smaragdo mostra infatti con chiarezza come sia giunto a maturazione, anche in un ambito tecnico come quello grammaticale, un percorso che proprio Alcuino aveva auspicato ed intrapreso ma non portato del tutto a compimento. Nel prologus dell’opera, Smaragdo illustra come alcuni alumni gli abbiano chiesto di trascrivere le sue lezioni di grammatica: Perciò, colta l’occasione, cominciarono ad insistere con discorsi persuasivi perché ampliassi la mia esposizione in modo tale da concludere con l’illustrazione delle otto parti del discorso tramite l’autorità delle Scritture e da portare alla perfetta conclusione il libro138.

L’«expositio» delle otto parti del discorso deve avvenire dunque attraverso esempi provenienti dall’auctoritas delle Scritture e da essa garantiti, e non sulla base di citazioni profane: Non ho sorretto quest’opera con l’autorità di Virgilio o di Cicerone o di altri scrittori pagani, ma l’ho arricchita con le sentenze delle divine Scritture, per offrire al mio lettore un piacevole bicchiere di arti e di Scritture, affinché possa comprendere la sottigliezza dell’arte grammaticale ed al contempo il senso delle Scritture divine139.

BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 192-197 e pp. 306-307; D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 190-191. 138 Ibid., p. 1,10-12: «Unde occasione accepta coeperunt me suasorio sermone compellere, ut expositionis nostrae ita protuleram sermonem, ut cum auctoritatibus Scripturarum octo partes exponendo concluderem et in libelli perfectione finirem». Cfr. A. DUBREUCQ, Smaragde de Saint-Mihiel et son temps: enseignement et bibliothèques à l’époque carolingienne, in «Mélanges de la Bibliothéque de la Sorbonne», 7 (1986), pp. 7-36. 139 SMARAGDUS SANCTI MICHAELIS, ibid., p. 1,15-20: «Quem libellum non Maronis aut Ciceronis vel etiam aliorum paganorum auctoritate fulcivi, sed divinarum Scripturarum sententiis adornavi, ut lectorem meum iucundo pariter artium et iucundo Scripturarum poculo propinarem, ut grammaticae artis ingenium et Scripturarum divinarum pariter valeat conprehendere sensum».

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Smaragdo vuole giustificare al lettore le motivazioni di questa scelta, ammettendo implicitamente che essa lo pone in discontinuità con la tradizione. Ci sono uomini incapaci, in quanto ciechi o malvagi, che sostengono che non ci sia alcun rapporto tra Dio e la grammatica, perché nella trattatistica profana non si parla mai di Dio140. Costoro ignorano («nescientes»), continua Smaragdo, che altro è parlare di una ars, altro è parlare di Dio. È dunque compito di chi ha intuito questa verità («intelligentes») veder raffigurata nell’immagine degli Ebrei che trafugano l’oro e l’argento prima di fuggire dall’Egitto la necessità di spogliare i pagani delle loro ricchezze per glorificare Dio. La «coniunctio» tra parola di Dio e regole delle parole umane, dunque, è utile non solo per addolcire con il miele scritturale l’«austeritas» dell’arte grammaticale: Intrecciamo le Scritture all’arte e l’arte alle Scritture affinché o schiacciato dal peso dell’arte grammaticale o gravato dalla mole delle Scritture divine, il lettore negligente non possa trovare le scappatoie di una scusa141.

Smaragdo sembra dunque accogliere ed al contempo perfezionare l’ideale alcuiniano: se infatti recepisce l’idea di un sapere circolare ed applicabile ad ogni ambito, rifiuta invece la classificazione della grammatica come semplice ars, ma le conferisce una dignità più alta di complemento essenziale del discorso teologico142. Nell’introdurre ciascuno dei capitoli dell’opera, Smaragdo compone un breve carme. In quello iniziale, prefatorio all’intero trattato, egli dichiara con chiarezza quale sia l’utilità, per il lettore, dello studio della grammatica: Questa opera è piena di sacri doni, contiene la Scrittura e profuma di grammatica. 140 Cfr. ibid., p. 1,21-26: «Sunt etenim aliqui naturali simplicitate praediti et alii sub praetextu sanctitatis occulti et alii tarditatis ignavia pressi, qui aiunt, quoniam:‘In grammatica arte Deus non legitur nec nominatur, sed paganorum tantum ibi et nomina resonant et exempla, et ideo a nobis merito calcata dimittitur et neglecta’». 141 Ibid., p. 2,40-43: «Scripturas arti, artem vero nectimus Scripturis, ne aut grammaticae artis pondere pressus aut divinarum Scripturarum mole gravatus desidiosus lector excusationis invenire possit anfractus». 142 Cfr. E. PÉREZ RODRÌGUEZ, La cristianizaciòn de la gramàtica latina (ss. V-IX), in Actas del Congreso Internacional Cristianismo y Tradiciòn Cristiana, Madrid 2001, pp. 49-74.

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Ora la Scrittura insegna a cercare il regno di Dio, a lasciare le cose terrene, ad ascendere verso i regni del cielo. Promette celesti doni a tutti i beati, cioè vivere ed essere sempre con il loro Dio. L’arte grammaticale con l’aiuto di Dio rende grandi premi al lettore affezionato e laborioso. Elimina dal nero cuore le squallide tenebre, perché la nostra pupilla non rimanga a lungo cieca, ma comprenda i sensi della legge e riconosca gli atti e tenga sempre e dovunque la retta via143.

I versi mostrano l’ormai piena coscienza, in Smaragdo, non solo della conciliabilità, ma della reciproca utilità del sapere liberale e della sapienza scritturale. I vantaggi («praemia») derivanti dallo studio della grammatica non solo sono compatibili con la formazione del vero cristiano, ma sono per completarla utilissimi, se non indispensabili: l’ars, infatti, illustra ciò che di oscuro si ritrova nella terminologia scritturale, ed aiuta a percorrere le strade della verità e non della menzogna. Applicando alla grammatica una prassi numerologica, già come si è visto oggetto di particolare attenzione in Alcuino, Smaragdo mira a certificare come la struttura stessa delle Scritture giustifichi le possibilità di un’esegesi grammaticale. La tradizione manualistica ha fissato ad otto il numero delle parti del discorso, e tuttavia alcuni fra i tardi auctores greci oscillano nell’aumentare o nel diminuire questo numero; gli studiosi cristiani devono trovare però nell’autorevolezza della rivelazione una ragione solidissima per confermare incontestabilmente il solo numero recepito dalla tradizione: «modo autem octo universali tenet ecclesia, quod divinitus inspiratum esse non dubito»144. Non poche sono infatti le occasioni, nelle pagine della Scrittura, in cui è attestata, con varie applicazioni nella narrazione sacra o in allusioni profetiche, l’importanza di questo numero145: 143 SMARAGDUS SANCTI MICHAELIS, ibid., p. 4,38-57: «Muneribus sacris plenus est iste libellus, / Scripturam retinet, grammatica redolet. / Nunc Scriptura docet Domini perquirere regnum, / linquere terrena, scandere regna poli. / Promittit cunctis caelestia dona beatis, / vivere cum Domino semper et esse suo. / Grandia retribuit caro seduloque legenti / Praemia grammatica ars miserante Deo. / Sordidulas nigro tergit de corde tenebras, / ne maneat nostra caeca pupilla diu, / sed videat sensus legis discernat et actus / et teneat rectas semper ubique vias». 144 Ibid., p. 6,18-19. 145 Cfr. ibid., p. 7,24-33: «Nam et in aquis diluvii octo per lignum salvatae sunt

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la restrizione ad otto delle parti grammaticali non è dunque ispirata ad una semplice ragione di pratica fruibilità tecnica, ma è sostenuta da un «mysticus calculus», che rende solida e incontestabile la partizione del discorso umano. Forte di certezze di questo tipo, Smaragdo dà inizio alla trattazione della grammatica, evidenziando la feconda strumentalità di una disciplina che permette, a chi la possiede, di spaziare – con una percezione autenticamente umanistica della profondità del legame sapienziale che congiunge le opere dell’uomo con la razionalità universale del creato – attraversando tradizioni culturali tra loro distanti. Così, gli esempi di Smaragdo sono sì attinti in gran numero alla tradizione scritturale, ma anche alle culture barbariche o al patrimonio della letteratura classica146. Nel trattare, ad esempio, i comparativi, Smaragdo accosta due ambiti culturalmente molto diversi congiungendo elementi devozionali cristiani a tratti tipici della sapienza profana: Più santo è maggiore di santo, santissimo è maggiore [di entrambi; quello è unito al suo genere, questo al suo. L’uno non trasferisce senza regola il suo grado all’altro, ma l’uno e l’altro conservano a sé il proprio grado147.

Se infatti la gradazione della santità richiama evidentemente una struttura di pensiero cristiana, essa viene incorniciata, con un vezzo poetico, all’interno di una prospettiva classicheggiante per mezzo di una riconoscibile reminiscenza virgiliana («alter in alterius»)148.Allo stesso modo, se il superlativo può ben venir descritto dal «copiosissimus scelus» perpetrato secondo il profeta Eze-

animae, quia et hii, qui per aquam baptismi et crucis ligno praesenti salvantur in saeculo, octo beatitudinibus evangelii futuro perfruentur in regno. Et in Ezechiel scriptum est: ‘Et mensus est vestibulum portae octo cubitorum et frontem eius duobus cubitis’ (Ez 40,9), ubi octo cubiti aeternam nobis beatitudinem, duo vero dilectionem Dei et dilectionem insinuant proximi. Nam et octavus filius Iesse, David, a Domino eligitur regnaturus, et octavo die circumcisio veros purificabat Hebraeos». 146 Cfr. ibid., p. 22,247-250. 147 Ibid., p. 32,12-15: «Sanctior exsuperat sanctum, sanctissimus ambos; / ille suo generi iungitur, iste suo. /Alter in alterius passim non transit honorem / sed sibimet proprium servat uterque gradum». 148 Cfr. VERGILIUS, Aeneis, II, v. 667: «alterum in alterius mactatos sanguine cernam?».

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chiele da Sodoma e Samaria, il comparativo «senior» è illustrato dal verso con il quale Virgilio descrive Caronte149. Con questa plurivocità di riferimenti, Smaragdo non vuole porre tutte le sue fonti sullo stesso piano: quando le testimonianze classiche o letterarie sono poco armoniche o in contrasto con quelle tratte dalle Scritture, egli propende apertamente per queste ultime150. Secondo il consueto ideale, condiviso dai maestri carolingi, anche Smaragdo è convinto che le verità insite nelle artes non siano semplicemente artificiose produzioni dell’opera dell’uomo; esse vanno dunque interpretate nell’ottica della comprensione della «machina mundi», inserite cioè nel contesto della più generale razionalità che governa l’intero creato151. Se pur con registri e finalità profondamente diverse, Fridugiso,Teodulfo e Smaragdo attestano la lenta ma constante maturazione dell’identità culturale e teologica degli intellettuali carolingi. Le loro opere documentano come un possesso sempre più consapevole e raffinato delle artes, una più ampia dimestichezza con i testi fondamentali della tradizione patristica e, infine, il porsi delle Scritture come elemento cardine della formazione dei giovani cristiani costituiscano il punto di partenza per una sperimentazione di nuovi linguaggi e nuove modalità di applicazione di questo patrimonio di saperi. Riprendendo temi e modelli alcuiniani, si amplifica, in questi autori, la coscienza delle potenzialità naturalmente insite nel sapere cristiano che, una volta metabolizzati a pieno questi elementi, può aspirare con fiducia alla conoscenza dell’ordine nel quale l’universo è stato fondato.

149 Cfr. SMARAGDUS SANCTI MICHAELIS, ibid., p. 38,152-160. I riferimenti sono: Ez 16, 49-51; e VERGILIUS, ibid.,VI, v. 304. 150 È il caso, ad esempio, di quei termini come «cortex», «radix», «silex», «finis», «stirps», «dies», «pinus» e «pampinus» che Donato indica come «nomina incerti generis», e che invece Smaragdo classifica con precisione seguendo il genere usato nelle Scritture; cfr. SANCTI MICHAELIS, ibid., p. 47,121-122: «In his omnibus Donatum non sequimur, quia fortiorem in divinis Scripturis auctoritatem tenemus». 151 Cfr. ibid., p. 65,4-5: «Numerus non est ab hominibus institutus, sed potius indagatus»; ibid., p. 73,19-20: «Casibus his constant cunctarum nomina rerum / quae totius mundi machina cuncta tenet». Cfr. supra, cap. 3, § 3.1.

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5. La razionalità al servizio della dottrina: Agobardo di Lione La fiducia assoluta manifestata da Smaragdo nella possibilità di conciliare le artes, e la grammatica in particolare, con le Scritture, può essere interpretata come un ampliamento ed un completamento dell’operato di Alcuino. Non è però possibile individuare, in questa evoluzione e nei risultati conseguiti da Fridugiso o Teodulfo un guadagno condiviso in modo complessivamente uniforme da tutta la cultura carolingia negli ultimi anni del regno di Carlo. Negli stessi anni in cui Smaragdo pubblicava il suo commento a Donato, anche l’irlandese Sedulio Scoto si dedicava alla medesima esegesi, ma con una impostazione diametralmente opposta. La grammatica appare, in Sedulio, un sapere eminentemente tecnico, da riassumere ed illustrare in modo esclusivamente manualistico; esso infatti non ha relazioni con la Scrittura, perché diversa è la sua origine: «grammatica vero est peritia recte loquendi ex poetis illustribus auctoribusque collecta»152. Per spiegare perché siano otto le parti del discorso, Sedulio – rinunciando in principio a qualsiasi incardinamento delle strutture formali delle arti sulla mistica scritturale che invece aveva rappresentato la proposta di Smaragdo – offre una risposta di tipo puramente tecnico: Perché otto sono le parti del discorso? Perché non si trovano né più né meno di otto funzioni nell’articolazione delle parole153.

Come già prima di lui Alcuino, Sedulio dedica pochissimo spazio, nella sua esposizione, alle Scritture, limitandosi a tre sole cita152

Cfr. SEDULIUS SCOTUS, In Donati artem minorem, ed. B. Löfstedt,Turnhout 1977 (CCCM, 40C), p. 6,49-50. Cfr. M. R. PUGLIARELLO, Rassegna di studi sui grammatici latini (1985-1997), in «Bollettino di studi latini. Periodico quadrimestrale d’informazione bibliografica, Napoli», 28 (1998), pp. 506-547; C. SÁNCHEZ MARTÍNEZ, La Definición Gramatical: Elemento Característico de las ‘Artes Grammaticales’ Irlandesas, in «Peritia», 16 (2002), pp. 116-130; J. MEYERS, Le classicisme lexical dans la poésie de Sedulius Scottus, Genève 1994; BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 205-221 e pp. 309-310; D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 191-192. 153 SEDULIUS SCOTUS, ibid., p. 7,39-40: «Quare octo sunt partes orationis? Quia in vocibus articulatis non plus vel minus quam octo proprietates inveniuntur».

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zioni di versetti biblici, ed aprendosi invece a numerosi riferimenti agli autori classici citati da Donato, come Ovidio, Stazio, Orazio e, su tutti,Virgilio, nonché a quelli tra i Padri che hanno esplicitamente affrontato temi grammaticali. Non emerge una motivazione consapevole di questa scelta, che non si riduca alla pura reiterazione di un canone grammaticale nato pagano e in gran parte rimasto tale. Non è dunque possibile assumere quella di Sedulio come una scelta culturale coscientemente contrapposta a quella di Smaragdo. È però probabile che, nei primi decenni del secolo IX, quando era ormai assodata l’importanza del patrimonio di conoscenze tecniche, patristiche e scritturali già poste alla base della formazione cristiana sin dall’età alcuiniana, una parte dei teologi carolingi ritenesse ormai compiuta l’identificazione tra i saperi profani e la sapienza cristiana, mentre un’altra, qui rappresentata da Sedulio, non interpretasse questo come un processo già avvenuto, e anzi ne denunciasse i rischi. Ne è un esempio l’opera e la personalità di Agobardo154. Figura complessa ed affascinante,Agobardo fu un autore prolifico, impegnato su molti e differenti fronti, ed interessato a problemi di ordine diverso. In uno dei suoi primi opuscoli, il De grandine et tonitruis, egli discute l’opinione di quegli uomini che «putant grandines et tonitrua hominum libitu posse fieri», utilizzando questo tema, apparentemente marginale, per affermare come non sia possibile ritrovare nel mondo alcuna traccia della verità se non nella piena concordia tra l’indagine dell’uomo ed il dispiegarsi nella storia del progetto di Dio. Non è la ragione che può convincere gli uomini dell’errore; solo la «veritas», mostrandosi per se stessa, ha questa capacità: Poiché è necessario che quelli che sono dotati di ragione esaminino questo errore, che così diffusamente in questa regione occupa quasi le menti di tutti, riportiamo le testimonianze scritturali, per mezzo delle quali si può esprimere un giudizio. Una volta esaminatele, non noi, ma la stessa verità abbatterà lo stoltissimo errore, e tutti quelli che giudicano

154 Cfr. M. RUBELLIN, Le Pape et l’Église de Rome vus de Lyon dans la première moitié du IXe siècle, in «Cahiers d’histoire», 30 (1985), pp. 211-230, in partic. p. 212; E. FÉDOU, Le Diocèse de Lyon, in Histoire des diocèses de France, dir. J. Gadille, vol. 16, Paris 1932, pp. 50-61.

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rettamente, ne confutino il peso, dicendo con l’Apostolo: «ogni menzogna non nasce dalla verità»155.

Agobardo fissa dunque la sua intera concezione del reale su una rigorosa contrapposizione di verità e menzogna, identificandole con l’essere ed il nulla: chi persegue la prima, e dunque tende verso l’essere, aspira a Dio; gli altri non possono che cadere nel peccato156. Non è dunque la semplice constatazione compiuta da una ragione lucida a mostrare che gli uomini non hanno il potere di suscitare grandine e tuoni: poiché nelle Scritture è chiaramente indicato che è Dio che invia questi fenomeni meteorologici sulla terra, è certamente falso che possa farlo un uomo157. Quando infatti, come è narrato in alcuni episodi biblici, ai «sancti Dei» è concesso di controllare eventi naturali, è evidente, per Agobardo, che essi acquisiscono tale potere solo in grazia delle 155 AGOBARDUS LUGDUNENSIS, De grandine et tonitruis, 3, PL 104, [147-159], 148C, ed. L. Van Acker, Opera omnia Agobardi Lugdunensis, Turnhout 1981, (CCCM, 52), pp. 3-15, in partic. p. 4,1-6: «Verum quia hic error, qui tam generaliter in hac regione pene omnium mentes possidet, ab omnibus ratione praeditis diiudicandus est, proferamus testimonia Scripturarum, per quae diiudicari possit. Quibus inspectis, non nos ipsi, sed ipsa veritas expugnet stultissimum errorem, et omnes qui cum veritate sentiunt, arguant vasa erroris, dicentes cum Apostolo:‘omne mendacium ex veritate non est’ (1Jo 2,21)». Sulla figura di Agobardo, cfr. L. VAN ACKER, ibid., Introduction, pp. V-LXVII; BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit., pp. 166-177 e pp. 301-302; D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit., pp. 145-151 e pp. 183-184. 156 Cfr. AGOBARDUS LUGDUNENSIS, ibid., 149AC, pp. 4,19 - 5,41: «Atque ut apertius loquamur, veritas essentiam habet, vel potius essentia est in propria substantia, quia subsistit; mendacium vero, quia nullam habet essentiam, nihil enim est, non subsistit. Solus ergo Deus est, quia solus verum esse habet, qui non accepit ut esset. Omnes autem res ab eo creatae, et quidem sunt; sed verum et summum illud esse non habent, quia acceperunt ut essent. Porro mendacia, quia non acceperunt ut essent, nullum esse habent. Ac per hoc, is qui mendacio adhaeret, ei rei adhaeret quae non est: quanquam nec res dicendum sit. Qui autem ei adhaeret quod non est, non solum ab eo recedit qui fecit eum, sed etiam ab eo ipso quod factus est. Quoniam non amplius quam duo esse sunt: unum summum, quod suum esse non accepit ab alio; alterum magnum, quod suum esse a Deo accepit; id est, creator, et creatura. Mendacium igitur, quia non est creator, non est summum esse; quia non est creatura, non est magnum esse; quia nullam habet essentiam, non est ullum esse. Qui ergo vult persistere in eo quod est, non recedat ab eo qui ei dedit esse. Qui autem non vult recedere ab eo qui vere est, fugiat quod omnino non est, id est mendacium. Quoniam ergo omnis mendax, falsitatis assertor est, et omnis assertor falsitatis, falsus testis est, agens contra veritatem; videamus iam, isti qui opus divinum auctore homine fieri dicunt, utrum fulciantur aliqua auctoritate». 157 Cfr. ibid., 3, 149D, p. 5,5-15.

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loro preghiere a Dio: non esiste una «scientia» tale che permetta all’uomo di governare il mondo ed i suoi eventi158. Ciò non significa tuttavia, per Agobardo, rinunciare alla lucidità della razionalità umana, ed al suo innato spirito critico. Nella conclusione del De grandine et tonitruis, egli affida tale recupero del razionalismo pragmatico al commento di un breve racconto: secondo l’opinione popolare, Grimoaldo III, principe di Benevento, nello scontro con Carlo Magno avrebbe cosparso nei campi del suo avversario una polvere che avrebbe fatto strage di buoi159. La conclusione di Agobardo è dura ed amara al contempo: Ormai una così grande stoltezza ha oppresso il misero mondo, che ora i cristiani credono a cose così assurde delle quali mai prima uno avrebbe potuto persuadere a credere i pagani, che non conoscevano il Creatore di tutte le cose160.

Da queste parole emerge implicitamente la certezza che l’essere cristiani, cioè credere nell’esistenza di un Creatore, non può indurre all’errore della credulità superstiziosa, proprio perché la scintilla della verità rivelata alimenta nella mente umana anche una diretta partecipazione alla razionalità con cui Dio governa l’universo. La vera fede accompagna infatti la mente verso la percezione di come al di fuori della verità eternamente fissata dal Padre nel suo Verbo e imposta con la sua legge all’intero creato non c’è che menzogna, e che la ragione deve vigilare per non cadere in ingenui errori. Nella conclusione del De grandine et tonitruis, dunque,Agobardo formula con chiarezza un vero e proprio principio metodologico: la verità cristiana è rappresentata soltanto da una perfetta aderenza tra Creatore e creatura, così come ogni forma di eresia risulta invece da un perverso orientamento alla negazione della 158

Cfr. ibid., 8, 152D, p. 9, 12-14, e 9, 153B, p. 10,20-27. Cfr. ibid., 16, 158A, p. 15,15-21: «Hoc ita ab omnibus credebatur, ut paene pauci essent, quibus absurdissimum videretur. Nec rationabiliter pensabant, unde fieri posset talis pulvis, de quo soli boves morerentur, non cetera animalia, aut quomodo tantus portari posset per tam latissimas regiones, quas superspargere pulveribus homines non possunt, nec si Beneventani viri et foemine, senes et iuvenes, cum ternis carris pulvere carricatis egressi de regione fuissent». 160 Ibid., 158B, p. 15,22-25: «Tanta iam stulticia oppressit miserum mundum, ut nunc sic absurde res credantur a Christianis, quales numquam antea ad credendum poterat quisquam suadere paganis, Creatorem omnium ignorantibus». 159

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possibilità stessa di questo rapporto. La fiducia espressa da Agobardo nei risultati che l’uomo può ottenere confacendosi alla parola di Dio è piena perché non esiste nel mondo qualcosa che sfugga alla creazione o al governo di Dio161. Gli strumenti della razionalità umana non sono banditi, in quanto parte integrante della natura umana ma devono sempre sottostare alle verità di fede; è lo stesso Agobardo a sostenerlo in un’epistola composta in risposta ad un polemico scritto di Fridugiso di Tours, oggi perduto, con il quale l’allievo di Alcuino aveva preso una posizione critica contro numerose affermazioni, su vari argomenti teologici, reperibili nei suoi scritti162. La replica di Agobardo consiste nel mostrare come Fridugiso utilizzi in modo inadeguato e ingiustificato gli strumenti dialettici e logici di una qualsiasi disputatio per esaminare temi e problemi che devono invece essere affrontati e risolti con il solo ricorso alla semplicità della vera fede.Agobardo ha per esempio affermato che chi è veramente umile pensa di sé cose turpi e dunque non dubita di essere in errore.Fridugiso ha applicato questo ragionamento a Cristo che era veramente umile; le affermazioni di Agobardo porterebbero alla blasfema idea che anche Cristo avesse coscienza di essere in errore163. Entrambi gli interlocutori confrontano il senso del loro messaggio con le Scritture. Se da un lato Agobardo trae dalla rivelazione l’idea che il peccatore debba umiliarsi ed in ciò riconoscere i propri limiti, Fridugiso rigetta tale conclusione proprio perché, applicata alle Scritture, introdurrebbe nel Figlio di Dio l’impensabile riconoscimento della condizione di peccatore. La contraddizione è insanabile: un ragionamento nato come diretta conseguenza di precetti scritturali sembra incompatibile con le Scritture stesse. Come nel caso del 161 Cfr. ID., Contra iudicium Dei, 5, PL 104, [249-267], 253D, ed.Van Acker, [pp. 31-49], p. 34,1-4: «Tota namque fide credere debemus, quod nihil fiat in mundo, nisi Deo aut dispensante, aut permittente, cum et capilli capitis fidelium omnes numerati sint, et unus ex duobus aut quinque passeribus non cadat in terram sine Deo». 162 Cfr. ID., Contra obiectiones Fredegisi, PL 104, 159-173, ed. Van Acker, pp. 283-300. 163 Cfr. ibid., 1, 159C, p. 283,11-14: «Et primum quidem de his quae vobis attingere libuit assumitis refragandam nostram sententiam, qua diximus:‘qui enim vere humilis est, abiecta de se sentit; et qui abiecta de se sentit, errasse se non dubitat’. Quam sententiam ut veram non esse ostendere videamini, probatis Dominum Iesum Christum vere humilem fuisse, et dicitis: ‘quia vere humilis erat, secundum vos abiecta de se sentit, et errasse se non dubitavit’».

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De nihilo, per Fridugiso non sono le artes che impongono la loro logica alla Scrittura, ma la fede stessa risponde ad una logica assoluta che è imposta al credente dall’adesione alla sua stessa verità: per questo è indispensabile per l’abate di Tours dimostrare come un ragionamento umano non corretto porti ad una alterazione illecita del significato stesso della Scrittura.Agobardo, al contrario, non ammette che un ragionamento naturale, guidato da una logica puramente umana, possa forzare alle proprie conclusioni il dato scritturale. Nella sua opinione, le Scritture rimangono un documento sempre degno di fede, grazie all’ispirazione che le ha prodotte: se il ragionamento umano concorda con esse, sarà anch’esso corretto; in caso contrario, sarà falso o solo parzialmente vero. Se è dunque impossibile pensare che Cristo,il più umile tra gli uomini, sapesse di essere un peccatore, ciò non invalida la sostanza della definizione della virtù dell’umiltà, che permane corretta e funzionale in tutti gli altri casi164. È interessante constatare come in questo dibattito entrambi gli interlocutori si ritengano depositari della metodologia corretta di interpretazione della Scrittura, e come entrambi accusino l’avversario di imperizia nella formulazione di una autentica esegesi del dato rivelato. Fridugiso proclama così di aver dovuto difendere le Scritture dall’attacco di Agobardo165. Ma anche questi risponde in modo molto articolato respingendo una accusa così grave e precisa: Affermate che noi abbiamo rimproverato gli apostoli e l’interprete, che pure noi abbiamo ritenuto che mai dovessero essere ripresi, non più di quanto ora riteniamo che debbano essere lodati i dispregiatori della verità. Infatti noi dicemmo che gli interpreti o i predicatori delle Scritture non si preoccuparono affatto di rispettare pedissequamente la regola dell’arte grammaticale; e non lo fecero per ignoranza né per malizia, ma per seguire un disegno di adattamento; cioè, come è uso della santa Scrittura abbassarsi al livello delle parole uma164 Cfr. ibid., 4, 161A, p. 285,12-17: «Si verum non est, ut his qui vere humilis est, abiecta de se sentiat, quare Abraham, cum Domino loquens, cinerem se pulveremque fatetur? Moyses quoque non se esse eloquentem testatur, et ex quo ei Dominus loqui coepit, impeditorem et tardiorem se esse linguam dicit». 165 Cfr. ibid., 7, 162D, p. 287,1-3: «Dicitis etiam tota vos intentione divinam Scripturam, cum editoribus, interpretibus atque expositoribus suis, ab imperitiae nostrae calumniis defendere».

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ne, fino al punto di abbassare, parlando alla maniera dell’uomo, la potenza di un oggetto ineffabile alla capacità della conoscenza umana, e di rendere evidenti gli straordinari misteri in termini ordinari, così i suoi interpreti, seguendone l’esempio, si impegnarono massimamente a porgerla in maniera da offrire ai lettori un senso più comprensibile, anche se contrario alla grammatica, purché tale senso concordasse con la sacra natura del mistero rivelato166.

Fridugiso aveva infatti accusato Agobardo di avere affermato che alcuni interpreti delle Scritture sono stati volutamente imprecisi nell’utilizzo dell’«ars grammatica»; a suo parere essi hanno invece utilizzato correttamente e fruttuosamente la loro perizia nella lettura del testo rivelato, ma non hanno mai per questo sacrificato, in nome della coerenza della disciplina o della preservazione delle sue «regulae», il senso profondo delle Scritture, le uniche adatte a comunicare a tutti il messaggio divino.Agobardo replica con forza che, se era utile per rendere intelligibile («condescendere») a tutti gli uomini la verità delle Scritture infrangere qualche regola grammaticale, gli esegeti hanno ben fatto; la loro non è stata né incapacità («imperitia»), né errore («malitia»), ma coscienza del proprio dovere di divulgatori. Gli interpreti delle Scritture si conformano ad una «ratio condiscensionis», un ordinamento complessivo della conoscenza secondo il quale, come i più alti misteri vengono semplificati dalle Scritture, così ai credenti più preparati è affidato il compito di semplificare il testo sacro. Non esiste «ars» la cui dignità e coerenza interna possano giustificare una mistificazione del messaggio scritturale. Non è infatti la perfezione stilistica della pagina sacra che la rende degna di fede, non è la «pompa verborum» dei filosofi a dare prestigio alle Scritture, ma la «virtus» delle affermazioni («sententiae») in esse contenu166 Ibid., 159B, p. 287,9-21: «Dicitis reprehendisse nos apostolos et interpretem, quos tantum putabimus unquam reprehendendos, quantum nunc putamus veritatis vituperatores laudandos. Diximus namque quia interpretes divinorum voluminum vel expositores non curarunt omnino tenere indeclinabiliter regulam grammaticae artis; quod utique neque imperitia, neque malitia fecerunt, sed ratione condescensionis; ut sicut usus sanctae Scripturae est verbis condescendere humanis, quatinus vim ineffabilis rei humano more loquens, ad notitiam hominum deduceret, et mysteria insolita solitis ostenderet rebus; ita et interpretes eius eam sequendo, illud studuerunt summopere transferre, unde manifestiorem sensum legentibus praeberent, etiam si contra grammaticam esset eatenus, ut sacramento rei concordaret».

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te167: «non in sermone est regnum Dei, sed in virtute», come avverte Paolo (1Cor 4, 20). L’atteggiamento di Fridugiso appare dunque ad Agobardo dettato non solo da una scarsa consapevolezza di quali debbano essere i rapporti tra sapere umano e Scrittura, ma, addirittura, da uno scarso spessore personale168. Al contrario, Agobardo loda e invita il credente ad assumere l’atteggiamento di deferenza che ogni conoscenza umana deve mantenere nei confronti del divino. La logica non può essere applicata ad un contesto, quello della trascendenza, nel quale non valgono le regole vigenti nel mondo. A chi con un ragionamento («syllogismus») afferma che solo chi viene dopo Cristo è cristiano, e che dunque i patriarchi del Vecchio Testamento non possono essere detti cristiani, è necessario ricordare che la scansione temporale umana non vale per Dio: Cristo, incarnatosi nella storia, è sempre stato, prima dei tempi. La coscienza di questa fragilità umana, che Agobardo con tanta insistenza ricorda a Fridugiso, e che conduce ad una più generale considerazione sul ruolo della razionalità umana nell’ordine dell’universo, ha delle naturali conseguenze sulla valutazione del potere che gli uomini riconoscono sulla terra ad altri individui o ad istituzioni. Se infatti il genere umano possedesse la verità, la società umana si potrebbe reggere senza re e prìncipi169. Il bene ed il male come elementi contrapposti, invece, rappresentano un dato costante nella storia dell’uomo. La gerarchia, dunque, che rispecchia l’ordine del creato, soccorre l’essere umano incapace di governarsi da solo: Ogni chierico o monaco, a cui sia stata concessa una sia pur piccola capacità di pronunciare «le parole della sapienza» o «le 167 Cfr. ibid., 12, 167A, p. 292,46-51: «Qui etiam in praefationibus Esaiae, Hieremiae, et Hiezechielis quid de differentia locutionis prophetarum eorum dixerit, diligenter perpendite, et invenietis, nobilitatem divini eloquii non, secundum vestram assertionem, more philosophorum in tumore et pompa esse verborum, sed in virtute sententiarum». 168 Cfr. ibid., 15, 169A, p. 294,2-4: «Hanc vestram interrogationem in tantum miramur, ut putemus vos illam iocando et ridendo dictasse». 169 Cfr. ID., Liber apologeticus, 2, 7, PL 104, [307-319], 351C, ed.Van Acker, pp. 309-319, in partic. p. 315,14-17: «Si ergo illa veritas, de qua et in psalmis cantamus:‘prope es tu, Domine, et omnes viae tuae veritas’ (Ps 118, 151), omnium hominum mentes possideret, etiam sine rectoribus et principibus res mundi concordi societate pacatae manerent».

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parole della scienza», e mentre parla, desidera volgere ed infiammare gli ascoltatori ad amarlo ed a lodarlo, costui predica solo se stesso, non lo sposo; e perciò deve essere espulso dal talamo, perché è un adultero170.

Il potere deve indirizzare ogni sua manifestazione, dalle azioni politiche a quelle liturgiche, alla magnificazione del Creatore171. L’operato del cristiano, ed in special modo di coloro ai quali è affidato un ruolo di prestigio, deve infatti essere sempre proiettato a far emergere, anche nel mondo, il progetto di Dio. Non è dunque inusuale la drammatica polemica, gravida di conseguenze, che vide coinvolto lo stesso Agobardo e con lui la chiesa lionese nel secondo decennio del secolo IX. Caduto in disgrazia per aver concesso il proprio appoggio a Lotario, figlio di Ludovico il Pio, contro il padre, Agobardo fu sostituito a Lione, in qualità di ‘corepiscopo’, ossia di vescovo supplente temporaneo, da Amalario, arcivescovo di Treviri, che procedette ad una riforma della liturgia della chiesa lionese, estendendo alla diocesi appena affidatagli un processo di rinnovamento di molteplici aspetti formali del culto, già avviato e sperimentato nella propria172. In una lettera indirizzata ad Amalario, Pietro, abate di Nonantola, gli chiedeva di poter ricevere e leggere i suoi testi sul battesimo e sulla liturgia173. Amalario spedì le sue opere a Pietro, sottolineando, nell’epistola dedicatoria, quale fosse il criterio da utilizzare nel leggerle:

170 ID., De modo regiminis ecclesiasticis, 11, PL 104, [189-199], 196A, ed. Van Acker, pp. 327-334, in partic. p. 332,18-22: «Omnis clericus, aut monachus, cui datus est quantuluscunque ‘sermo sapientiae’, aut ‘sermo scientiae’ (1Cor 12, 8), et dum loquitur, cupit audientes in proprium amorem et propriam laudem convertere et inflammare, iste se ipsum praedicat, non sponsum; et idcirco pellendus est de interiori thalamo, quia adulter est». 171 Cfr. ID., De antiphonario, I, PL 104, [329-339], 330A, ed.Van Acker, pp. 337351, in partic. p. 337,1-14. 172 Sulla figura di Amalario, cfr. G. MORIN, La question des deux Amalaire, in «Revue bénédictine», 8 (1891), pp. 433-442; A. CABANISS, Amalarius of Metz,Amsterdam 1954; D. IOGNA-PRAT, Lieu de culte et exégèse liturgique à l’époque carolingienne, in The Study of the Bible in the Carolingian Era, ed. C. Chazelle, Turnhout 2003, pp. 34-47. 173 Pietro fa riferimento a un viaggio compiuto con Amalario, nel corso del quale questi gli avrebbe parlato dei duo opuscula; cfr. PETRUS NONANTULANUS, Epistola ad Amalarium, PL 99, 890BC, in AMALARIUS METTENSIS (AMALARIUS SYMPHOSIUS TREVERENSIS), Epistolae, 4, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 2 (Karolini aevi, 2), Berlin 1899, p. 245, 7-19.

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Se qualcosa di degno, di onesto e di razionale si ritrova in questo opuscolo, non deve essere ascritto alla mia competenza, ma meritatamente alla vostra, grazie alle sante preghiere. Perciò vi prego, santissimo padre, che qualsiasi cosa in esso sia scritta in modo irrazionale, opera della mia temerarietà o della mia presunzione, possa essere corretta grazie alla vostra saggezza e che noi possiamo trovare indulgenza presso tutti i dottori174.

La razionalità che deve sostenere le affermazioni concernenti la dottrina, anche in ambito di fede, è dunque un punto fermo per Amalario: non esiste niente nella Chiesa che sia stato stabilito senza ragione («quod ratione careat»). I pagani, anche quando ragionano delle cose più futili, tentano di rintracciare in esse le vestigia di un ordine superiore; è a maggior ragione dovere dei cristiani stabilire norme anche di comportamento e liturgiche che si confacciano a quella ratio concessa da Dio175: Non ho proposto i pagani come esempio, perché li imitassimo. Ma se essi presentano prove sporadiche della ragione, tanto più il cristiano, che indicò in Dio, somma ragione, il suo garante, deve seguire l’insieme che è proprio della ragione176.

174 AMALARIUS METTENSIS, Epistola ad Petrum nontantolanum, in ID., Epistolae, ed. Dümmler cit., 5, p. 245,32-36: «In quo [scil. parvo opusculo] si quid dignum, si quid onestum, si quid rationale reperitur, non meae nempe doctrinae, sed vestrae merito sanctis precibus deputatur. Unde oro, sanctissime pater, qucquid in eo, temeritate mea faciente ac stulta presumptione, irrationabiliter scriptum est, per vestram prudentiam correptionem habere mereatur et nos indulgentiam apud omnes doctores». 175 Cfr. ibid., p. 246,8-12: «Si enim gentiles argumentantur ludos aliquos suos allegorice promere – sicut alleatores, qui perhibent tribus tesseris suis tria tempora significari: presens, preteritum et futurum, et vias eorum senario numero distingunt propter sex aetates hominum – quanto magis christianam industriam ac rationem sibi a Deo concessam nullo modo excederet frustra aliquid statuere». Sull’immagine delle sorti, cfr. ISIDORUS HISPALENSIS, Etymologiae, XVIII, 64, PL 82, 661D, ed. Lindsay cit. (cap. 3, alla nota 116): «Quidam autem aleatores sibi videntur physiologice per allegoriam hanc artem exercere, et sub quadam rerum similitudine fingere. Nam tribus tesseris ludere perhibent propter tria saeculi tempora; praeterita, praesentia et futura, quia non stant, sed decurrunt. Sed et ipsas vias senariis locis distinctas propter aetates hominum ternariis lineis propter tempora argumentantur. Inde et tabulam ternis descriptam dicunt lineis». 176 AMALARIUS METTENSIS, ibid., p. 246,13-15: «Non ideo exemplum de gentilibus posui, ut eos imitemur. Sed si illi hoc vel illud argumentatur rationis, quanto magis totum, quod rationis est, Christianus sequi debet, qui summae rationi Deo se sponsorem fecit». – Cfr. M. CRISTIANI, Il Liber officialis di Amalario di Metz e la

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In virtù di questa certezza, Amalario insegna che il complesso delle pratiche liturgiche non può dirsi sensato se non rispecchia l’ordine dato da Dio al creato177. Ogni simbolo ed ogni gesto, all’interno della pratica religiosa, del culto e della gerarchia stessa della Chiesa, devono dunque richiamarsi a quella norma178. L’apparente vicinanza di temi e prospettive tra Amalario e Agobardo, che sembrano concordare nella difesa di una verità integralmente fondata sulla volontà di Dio espressa nelle Scritture, nasconde, invece, importanti elementi di differenziazione. Quando fece ritorno a Lione come vescovo, Agobardo non rifiutò l’eredità di Amalario per motivi di sola politica ecclesiastica; pur avendo difeso, in altre occasioni, la necessità di utilizzare le Scritture come parametro interpretativo del creato, egli intravide, nelle parole del corepiscopo dal quale si era ritenuto indegnamente sostituito, un significativo pericolo per il mantenimento nella sua diocesi della corretta dottrina religiosa. La liturgia, che può manifestarsi tanto attraverso i gesti che scandiscono la ritualità, quanto per mezzo delle parole pronunciate nelle preghiere e negli inni, è essenzialmente una simbologia, e come tale, rientra nel novero dei lin-

dottrina del corpus triforme. Simbolismo liturgico e mediazioni culturali, in Culto cristiano e politica imperiale carolingia, LII Settimana di studio della Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Todi, 9-12 ottobre 1977), 2 voll.,Todi 1979 (Convegni del Centro di Studi sulla Spiritualità medievale, 18), pp. 123-167, in partic. pp. 123-130;T. KLAUSER, Die liturgische Austauschbeziehungen zwischen der römischen und der fränkisch-deutschen Kirche vom achten bis zum elften Jahrundert, in «Historisches Jahrbuch», 52 (1933), pp. 169-189; M. ANDRIEU, Les Ordines Romani du Haut Moyen-âge, II, Les textes, Louvain 1948, pp. XVII e seqq. 177 Cfr. AMALARIUS METTENSIS, Liber officialis, I, 13, 3-4, PL 105, [985-1243], 1024C, ed. J. M. Hanssens, Amalarii episcopi opera liturgica omnia, 3 voll., Città del Vaticano 19672 (Studi e Testi, 138-140), II, pp. 91-92: «Dominus noster est agnus qui incipiente quinta decima luna traditus est, et crucem ascendit parascheve. Sequitur responsorius cum quattuor versibus, nullique dubium quin Christus homo ex quattuor elementis consisteret». – Cfr. R. MESSNER, Zur Hermeneutik allegorischer Liturgierklärung in Ost und West, in «Zeitschrift für katholische Theologie», 115 (1993), pp. 415-434. 178 Cfr. AMALARIUS METTENSIS, ibid., III, 31, 2 e IV, 3, 24, 1132AB e 1173D, pp. 140 e 173. In relazione all’ordinamento gerarchico della Chiesa, cfr. ibid., III, 20, 2, 1132A-1133B, p. 323-325. – Per i problemi sollevati dalla drammatizzazione liturgica di Amalario e, in particolare, dal tema del corpus triforme, cfr. CRISTIANI, Il Liber officialis di Amalario di Metz cit. (alla nota 176), pp. 149-167; M. A. NAVARRO GIRON, La carne de Cristo. El misterio eucaristico a la luz de la controversia entre Pascasio Radberto, Ratramno, Rabano Mauro y Godescalco, Madrid 1989 (Publicaciones de la Universidad Pontificia Comillas, Serie I, Estudios 44), pp. 137-165.

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guaggi usati dall’uomo per parlare di Dio e con Dio. Essa dunque non è esente dai pericoli insiti in ogni espressione linguistica, che è resa efficace solo dall’azione divina179. Gli uomini hanno dato vita alla pratica liturgica con gli strumenti naturali concessi dal creatore, secondo la loro volontà («arbitrio suo»); non è dunque corretto individuare, nell’insieme di simboli legati al rito, una immagine sbiadita del mistero divino («umbra alicuius aenigmatis»)180. Così facendo, infatti, si rischia di subire eccessivamente il fascino di una sapienza naturale e numerologica, frutto della incerta speculazione dei filosofi e non della stabile scienza dei dottori interpreti delle Scritture181. La lotta contro tutti i possibili fraintendimenti del messaggio scritturale è, per Agobardo, la cifra della propria missione di credente. Pochi anni prima dello scontro con Ludovico il Pio, Agobardo aveva ritrovato una schedula in forma di dialogo, nella quale Felice, il vescovo di Urgel imprigionato anni prima a Lione ma ormai defunto, sembrava aver ricusato la ritrattazione che delle proprie tesi aveva concesso in sede conciliare. Immediatamente aveva ritenuto opportuno formulare pubblicamente una decisa, rinnovata condanna della «rediviva haeresis». Qualcuno, però, tra i «fratres» lo aveva accusato di avere agito solo per vanagloria, di esseri opposto cioè all’adozionismo, di fatto scomparso, solo per ricavare, dalla ripresa di una polemica ormai sopita, maggior prestigio. Per rigettare anche questa infamante accusa, Agobardo compone dunque l’Adversus dogma Felicis, nella cui lettera dedicatoria a Ludovico il Pio informa il lettore dell’accaduto ed espone 179 Cfr. AGOBARDUS LUGDUNENSIS, Contra libros quatuor Amalarii,VII, PL 104, [339-349], 343D, ed.Van Acker, p. 360,26-31: «Nam multum differt inter verba praedicantium et uncionem Spiritus sancti. Si enim verba apostolorum facere potuissent, quod iste somniat, in cordibus auditorum, verba Domini pocius id fecissent in cordibus Iudeorum. Sed quia non est hoc opus verborum, sed divini interni muneris, sic debet intimari qui docet in doctrina». 180 Cfr. ibid., 343C, p. 360,1-11. 181 Cfr. ibid., 345A, p. 361,36-43 (in riferimento all’opinione, espressa da Amalario, che l’uomo sia naturaliter composto dai quattro elementi): «Hoc enim commentum est philosophorum, quod licet ecclesiastici doctores ex toto non evacuent, non eis tamen ex omni parte consonant, nec dicunt hoc naturale esse in exordio originis. De qua re nunc longius aliquid dicere ineptum est, quoniam auctoritas Scripturae aliter sentiendum demonstrat, illo videlicet loco, ubi omnipotens Creator hominis homini, quem de limo terrae formaverat (vel, sicut alia translatio habet, de pulvere), ait ‘Pulvis es, et in pulverem reverteris’ (Gn 3, 19)».

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le reali motivazioni del suo intervento182. Egli avverte infatti drammaticamente i pericoli da cui appare costantemente minacciata la fede cristiana, destinata a soccombere, laddove non ci sia qualcuno pronto a difenderne la corretta interpretazione183. L’iniziativa di Agobardo si iscrive nel solco dell’apologetica antiadozionista dei decenni passati, ma con l’intento dichiarato di presentare un testo leggibile, «rustica simplicitate compositum»; egli affronta la questione partendo da un aperto ridimensionamento di ogni tentativo volto a cogliere il messaggio trinitario con i soli strumenti razionali, ed al contempo ribadisce la necessità di preservare, nella lotta alle eresie, l’«unitas ecclesiae». In tal senso, la sua opera è volta non tanto e non solo a dimostrare agli uomini colti l’infondatezza delle tesi adozioniste, quanto più ad evitare che l’alone di venerabilità e rispetto che aleggia ancora attorno alla figura di Felice possa indurre alcuni «nescientes» a dimenticare come «non ex vita hominis metienda est fides, sed ex fide probanda est vita»184. Sia dunque giustificato, anche agli occhi dell’imperatore, il parlar semplice di Agobardo, che non è rozzezza, ma effetto di «puritas fidei», cioè della consapevolezza, di schietta matrice agostiniana, del dover amare maggiormente la verità che i propri «verba». La schedula di Felice, oggi perduta, è parzialmente riprodotta da Agobardo nel suo testo; essa doveva avere la forma di una ricapitolazione delle tesi del vescovo di Urgel, che infatti propone un elenco di questioni in forma di brevi domande alle quali fornisce una sintetica risposta. Agobardo mostra una particolare attenzione alla forma linguistica scelta da Felice: in perfetta aderenza al messaggio portante dell’apologetica alcuiniana, infatti, egli avverte quanto l’eretico sia pericoloso non solo per la sostanza delle sue dottrine, ma anche per la forma capziosa in cui le esprime, mediante la creazione di «nomina» inutili, perché «nova et inaudita»185. Per esempio, quando si domanda se la generazione del Figlio derivi dalla volontà del Padre o sia frutto di necessità, Felice afferma: 182 Cfr. ID., Adversus dogma Felicis ad Ludovicum, Praef. e 1, PL 104, [29-69], 29D-34A, ed.Van Acker, pp. 73, 1-26 e 74,1-24. 183 Ibid., 3, 35C, p. 75,10-12: «Ut beatus Athanasius ait, fidem catholicam nisi quis integram inviolatamque servaverit, absque dubio in aeternum peribit». 184 Cfr. ibid., 1, 30B, p. 74,7-8. 185 Cfr. ibid., 14, 42D, p. 82,7.

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Nel vero Figlio nato dalla sostanza del Padre, la volontà non può precedere la nascita, perché la natura precede la volontà, ma neppure è possibile che nasca per necessità, perché la necessità in Dio non esiste in alcun modo186.

Queste espressioni sono sostanzialmente conformi alla dottrina ortodossa. Il Figlio non è stato generato come conseguenza di un libero atto di volontà da parte del Padre, né tantomeno per necessità perché, essendo della stessa natura del Padre, non si può dire che la volontà preceda la natura, né che in essa vi sia necessità. Ciò che però sottolinea Agobardo è il pericolo che si nasconde nel modo in cui sono utilizzati i termini, in sé corretti, formulati da Felice nel parlare di Cristo: chiamando infatti «verus» il Figlio generato da Dio, egli ha implicitamente affermato, pur non dichiarandolo («licet loquendo explicare non audeat»), che quello incarnatosi è falso187. Agobardo si rivolge a questo punto direttamente al lettore, invitandolo alla prudenza188: se si accetta infatti la premessa secondo la quale è lecito distinguere tra un Figlio di Dio «verus» ed uno «falsus», si giunge ad una rischiosa duplicazione di attributi e caratteristiche del Cristo. Lo confermano, ancora implicitamente, le parole con cui lo stesso Felice dichiara che o si afferma che la natura divina è separata rispetto alla natura umana, o si accetta che la Vergine sia stata al contempo «genetrix» di entrambe le nature189. In questo caso come per tutte le altre stringate argomentazioni di Felice,Agobardo si limita a riportare il testo dell’avversario, aggiungendo un brevissimo commento di presentazione di citazioni patristiche; l’opuscolo di Agobardo si risolve dunque nella raccolta di un dossier, quasi finalizzato ad attestare l’adempimento di un dovere istituzionale190. Per rintracciare nel suo pensiero una riflessione matura sui problemi più

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Cfr. ibid., 9, 40C, p. 79,5-7: «In vero quippe Filio de substantia Patris genito, voluntas nativitatem praeire non potest, ubi natura praecedit, sed neque necessitate, quae in Deo utique non est». 187 Cfr. ibid., 10, 40D, p. 79,5-10. 188 Cfr. ibid., 16, 43D, p. 83,7-9: «In quo loco obsecro et ammoneo lectorem, si tamen fuerit qui legere dignetur, ut penset adtente quod dicitur». 189 Cfr. ibid., 13, 49CD, p. 81,1-5. 190 Cfr. M. RIU I RIU, Adversum Dogma Felicis, in Jornades Internacionals d’Estudi sobre el bisbe Feliu d’Urgerll (La Seu d’Urgell, 28-29 de setembre de 1999), Barcelona 2000, pp. 39-75.

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profondi sollevati dalla dottrina adozionista, quali quelli del rapporto tra l’«humanitas» e la «divinitas» in Cristo, è necessario integrare l’ Adversus dogma Felicis, che non ha vere finalità speculative, con il breve sermone De fidei veritate et totius boni institutione191. La verità delle fede, che dà il titolo al sermone, è documentata per Agobardo dalla serenità che solo agli autentici cristiani è dato possedere fino in fondo, e che nasce dalla coscienza che la verità stessa non è né lontana né inaccessibile, ma disponibile, a portata di mano, nell’interiorità dell’uomo: Non è necessario che migriate da un luogo ad un altro, da un regno ad un altro popolo per cercare Dio. Egli si offre a voi spontaneamente e dice: «Ecco, sono alla porta, e busso. Se qualcuno udrà la mia voce ed aprirà la porta, entrerò da lui e pranzerò da lui, ed egli con me». Quale cosa è mai tanto dolce, quale tanto lieta? Soggiunge anche dicendo: «A chi vincerà, darò la possibilità di sedere con me nel mio trono». Ecco vuole entrare da te affinché tu pranzi con lui; non ti rincresca aprire. Non solo vuole pranzare con te nella tua mente, ma ti vuole anche sollevare al suo trono perché tu possa sedere con lui. Colui al quale si promettono tali cose, che cosa deve desiderare di più?192

Questa certezza induce ad evitare inutili ragionamenti («nolite cogitare inania»), ed a rigettare false credenze («aniles fabulas devitate») perché produce l’unica scientia degna di questo nome193. Essa si ritrova nella fede nella creazione di ogni cosa da parte di 191 Cfr. AGOBARDUS LUGDUNENSIS, De fidei veritate et totius boni institutione, PL 104, [267-287], ed.Van Acker, pp. 251-279. Sui problemi di attribuzione del testo, cfr. E. BOSHOF, Erzbischof Agobard von Lyon. Leben und Werk, Köln - Wien 1969, p. 184. 192 AGOBARDUS LUGDUNENSIS, ibid., 2, 267D, p. 253, 1-10: «Non vobis necesse est transmigrare de locis ad loca, de regno ad populum alterum, ad quaerendum Dominum. Ipse se vobis ultroneus offert, et dicit: ‘Ecce sto ad ostium, et pulso. Si quis audierit vocem meam et aperuerit ianuam, introibo ad illum, et coenabo cum illo, et ipse mecum’ (Ps 133, 1). Quid unquam tam dulce? Quid tam iucundum? Adiungit etiam, et dicit: ‘Qui vicerit, dabo ei sedere mecum in throno meo’ (Ac 17, 28). Ecce vult intrare ad te, ut coenes cum illo; non te pigeat aperire. Non solum in mente tua vult coenare tecum, verum etiam te vult levare in thronum suum, ut sedeas cum illo. Cui talia promittuntur, quid amplius desiderare debet?». 193 Cfr. ibid., 249B, p. 254,29-31: «Si enim meditando de fide vestra et spe, crescitis in scientia et cognitione Dei, non vacui nec sine fructu vivitis, et ita Dominum hospitem tenetis».

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Dio, e nel messaggio salvifico portato da Cristo, che Agobardo espone in forma compendiaria, con esplicite allusioni alla polemica antiadozionista: Dunque vero Dio e vero uomo, il solo nostro Signore Gesù Cristo, giunse alla passione per sopportare tutte quelle sofferenze che furono preannunciate su di lui tramite le Scritture. Perciò catturato, e legato, flagellato ed irriso, ed appeso alla croce, giunta l’ora di deporre la propria anima per propria volontà, e stando per propria volontà per riprenderla nuovamente, disse, gridando a gran voce: «è tutto finito, e, piegato il capo, rimise l’anima». Perciò nato tramite vera nascita, sostenne la vera sofferenza della vera carne, soffrì una vera morte, resuscitò per una vera resurrezione della carne194.

È dunque ancora la sola perversione dell’eretico che determina la sua incapacità di cogliere come la semplicità e linearità del messaggio scritturale rendano superflui i tentativi di individuare, nel mistero divino, possibili variazioni o miglioramenti195. 194 Ibid., 7, 271D, p. 258,1-9: «Verus ergo Deus et verus homo, unus Dominus noster Iesus Christus, venit ad passionem, ut perferret omnia illa quae de eo praenuntiata sunt per Scripturas. Unde comprehensus, et ligatus, flagellatus, irrisus, et in cruce suspensus, cum veniret hora ut potestate propria poneret animam suam, potestate iterum eam sumpturus, clamans voce magna, dixit:‘consummatum est, et inclinato capite tradidit spiritum’ (Jo 19, 30). Natus autem vera nativitate, verae carnis sustinuit veram passionem, suscepit veram mortem, resurrexit vera carnis resurrectione». 195 Cfr. ibid., 6, 271B, p. 257,11-33: «Dominus autem summe bonus et pius, ut tam magnam ruinam repararet, tam magnum vulnus sanaret, misit Filium suum Deum Verbum, ut caro fieret, id est, homo verus, et habitaret in nobis, id est, in humanitate perfecta, quam sumpsit pro nobis ex nobis, id est, ex sancta Virgine ad hoc praeparata et custodita; habitaret autem corporaliter, non spiritaliter, ut in sanctis caeteris, id est, dono gratiae, sicut scriptum est: ‘Qui adhaeret Domino, unus spiritus est’ (1Cor 6, 17). Qui licet Domino adhaereant, et Deus in illis habitet, non tamen exinde efficitur ut dii sint naturaliter, sicut in Christo habitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter, ut Deus sit substantialiter. Quae humanitas, ex quo esse coepit, non aliud esse potuit quam Deus et unicus Filius, quia unigenitus caro factus est, ut sit verus Deus, verus homo, verus homo, verus Deus. Et licet aliud sit caro, aliud divinitas; non tamen ipse alius est in carne, alius in divinitate; sed utroque unus Christus Deus homo, permanente utriusque naturae veritate et integritate; id est, non mutata humanitate in divinitatem, neque conversa divinitate in humanitatem: qui ex utroque unus Christus Deus, ita adoratur cum Patre et Filio ab omni creatura, ut superius diximus, sicut adorabatur antequam Verbum caro fieret: quia inconvertibilis deitas, quae inconvertibiliter infirmitatem nostram, in qua mori posset, suscepit incarnatione sua, nec minui potuit, nec augeri».

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Le Scritture costituiscono dunque per Agobardo un punto di riferimento imprescindibile per lo sviluppo di qualsiasi ragionamento teologico, indispensabile per fissare il discrimine, in ogni dibattito, tra ciò che è vero e ciò che è falso. Anche nei confronti dell’ancora scottante problema della liceità del culto delle immagini, al quale dedica un opuscolo,Agobardo sembra additare la più semplice e sostanziale soluzione della delicata discussione aperta dai Libri Carolini in una pura riconduzione alle Scritture ed in generale all’auctoritas come unico possibile criterio che consente di distinguere tra iconodulia e iconoclastia il vero dal falso atteggiamento religioso. L’esordio stesso dell’opera lo testimonia: Agobardo vi riporta un lungo elenco di citazioni scritturali e patristiche, nelle quali l’adorazione delle immagini è dichiarata illecita196. Completata la confezione di questo fitto dossier biblico-patristico, introduce quindi una discussione analitica delle ragioni che sostengono la posizione contraria all’iconodulia esagerata, caratterizzata da una lucidità di giudizio assicurata proprio dalla solidità della dottrina riconoscibile nelle auctoritates appena citate. Il cristiano non può rimanere legato ai beni corporali. L’intera finalità della religione è il passaggio dal corporeo all’incorporeo, dal visibile all’invisibile; ma perché tale passaggio possa avvenire, il tramite che lo rende possibile deve essere di natura «spiritalis». In tal senso, dunque, le immagini, «quae sine anima sunt», sono inutili197.Agobardo sa che i difensori delle immagini si giustificano discolpandosi dall’accusa di pretendere di riconoscere in esse qualcosa di natura divina, ed affermando che essi le venerano per la dignità di ciò che vi è rappresentato («pro honore eius, cuius effigies est»)198. Questa affermazione, che vie196 Cfr. ID., De picturis et imaginibus, 1, PL 104, [199-227], 201B e seqq., ed.Van Acker, [pp. 149-181], p. 151,1-10. Le fonti principali sono: AURELIUS AUGUSTINUS, De civitate Dei, IX, 15 e X, 1 e 19-20, PL 41, 277, 269 e 299, ed. B. Dombart A. Kalb, 2 voll., Turnhout 1955 (CCSL, 47-48), pp. 262,1 - 263,64, 271,1 274,100 e 293,1 - 294,14; GREGORIUS I PAPA, Homiliae in Evangelia, II, 25, PL 76, 1190B, ed. Étaix cit. (cap. 2, alla nota 31), p. 206,40-54. Cfr. P. GRAMAGLIA, Culto delle immagini in Agobardo di Lione e in Claudio di Torino, in «Archivio teologico torinese», 3 (1997), pp. 84-135. 197 Cfr. AGOBARDUS LUGDUNENSIS, ibid., 16, 212B, p. 165,1-15. L’opera di Agobardo è cronologicamente posteriore al riaccendersi della disputa sulle immagini, affrontata nel paragrafo successivo; cfr. D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 151-155. 198 Cfr. ibid., 19, 214C, p. 168,1-3: «Dicit forsitan aliquis non se putare ima-

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ne utilizzata dagli iconoduli radicali per giustificare il loro culto delle immagini escludendo di equipararle a Dio, appare invece per Agobardo dirimente in un senso opposto: se come essi dicono, quelle immagini non sono Dio, non devono essere fatte oggetto di un culto simile a quello riservato ai misteri divini. Cadendo in questo errore, l’uomo adora immagini da lui stesso create, vale a dire senza vita e ragione. L’unica vera «similitudo Dei» è in effetti l’uomo: e se veramente si volesse cercare un’immagine sacra che possa essere in qualche modo significativa di ciò che rappresenta, non si dovrebbero considerare gli uomini «picti», ma i vivi, vera immagine di Dio199. Che dunque nessuno si inganni («nemo se fallat,‘nemo se seducat’, nemo se circumveniat»): chiunque adora immagini o statue di bronzo e di rame, non onora Dio, né gli angeli o i santi, ma venera falsità («simulachra»)200.

6. La seconda fase della disputa sulle immagini: Claudio, Dungal e Giona I pochi decenni che separano il concilio di Francoforte dalla stesura del De picturis et imaginibus di Agobardo segnano un mutamento nell’ atteggiamento della corte carolingia. Claudio, di origine spagnola, venne nominato vescovo di Torino tra l’817 e l’818 da Ludovico il Pio, e appena insediato nella diocesi si trovò coinvolto della nuova polemica tra iconoduli ed iconoclasti, che, in questa seconda fase, vide contrapposte non due sfere culturali differenziate e ormai storicamente distanti come la tradizione religiosa dell’impero d’Oriente e la nascente coscienza teologica dei carolingi, ma due diverse tendenze che poco a poco venivano delineandosi tra gli intellettuali ancora legati, personalmente o ufficialmente, alla corte carolingia201. Tra l’820 e l’825, Claudio gini, quam adorat, aliquid inesse divinum, sed tantummodo pro honore eius, cuius effigies est, tali eam veneratione donare». 199 Cfr. ibid., 28, 222C, p. 177,1-14. 200 Cfr. ibid., 31, 224D, p. 179,16-20. Cfr. 1Cor 3, 18. 201 Cfr. M. FERRARI, In Papia conveniant ad Dungalum, in «Italia medievale ed umanistica», 15 (1972), pp. 1-52, con relativa bibliografia, e G. ITALIANI, La tradizione esegetica nel Commento ai Re di Claudio di Torino, Firenze 1979 (Quaderni dell’Istituto di filologia classica ‘Giorgio Pasquali’ dell’Università degli Studi di Firenze, 3); P. LE MAÎTRE, Image du Christ, image de l’empereur. L’exemple du culte du Saint Sauveur sous Louis le Pieux, in «Revue d’histoire ecclésiastique française», 68

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intrattiene una fitta corrispondenza con Teudmiro, abate del monastero «in pago Nemausensi»202. La loro conversazione epistolare sembra svolgersi secondo una classica dialettica tra «petens» e «respondens»:Teudmiro chiede lumi al «pater et magister» Claudio in merito a problemi di esegesi scritturale, ed il vescovo di Torino risponde al «frater» non senza mostrare qualche difficoltà nel rispetto dei tempi di consegna delle epistulae richieste203. Nell’825, però, questa corrispondenza si interrompe di colpo204. Claudio sostiene di aver ricevuto tramite un «rusticus portitor» una lettera dell’abate, piena di «garrulitates atque stoliditates»; in particolare, Teudmiro si mostrava preoccupato della voce («rumor») secondo la quale Claudio avrebbe difeso una dottrina eretica, contraria alla fede ortodossa, diffusa come un veleno «per omnes Gallias usque ad fines Spaniae»205. Claudio rigetta l’accusa, sottolinea il proprio impegno nel combattere le eresie ed individua, proprio nella battaglia da lui condotta contro ogni eterodossia, l’origine della calunnia di cui è stato vittima. Giunto a Torino per ordine di Ludovico, vi ha infatti trovato chiese piene di immagini sacre, in contraddizione con le decisioni prese pochi anni prima a Francoforte e contro la stessa dottrina delle Scritture («contra ordinem veritatis»), e non ha esitato a distruggerle tutte; gli idolatri, «contra quos Dei ecclesia defendenda», che impegnavano le proprie parole a venerare quelle immagini, ora, non (1982), pp. 201-212; M. GORMAN, The Commentary on Genesis of Claudius of Turin and Biblical Studies under Louis the Pious, in «Speculum», 72 (1997), pp. 279-329; P. BOULHOL, Claude de Turin: un évêque iconoclaste dans l’Occident carolingien. Étude de l’édition du ‘Commentaire sur Josué’,Turnhout 2002; ID., Esegesi compilativa e propaganda iconoclastica: Claudio di Torino in bilico tra ossequio alle autorità e voglia di autogiustificazione, in Biblical Studies in the Early Middle Ages, Proceedings of the Conference on Biblical Studies in the Early middle Ages (Gargnano on lake Garda, 24-27 June 2001), Firenze 2005, pp. 155-174; BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 242-244 e pp. 322-323; D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 152-155 e pp. 185-186. 202 La si ritrova nell’edizione delle epistolae di Claudio curata da E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 2 (Karolini aevi, 2), Berlin 1895: l’epistolario di Claudio è alle pp. 586-613; la corrispondenza con Teumiro (Theudemirus abbas) è alle pp. 600613. 203 Cfr. CLAUDIUS TAURINENSIS, Epistola ad Theodemirum, in ID., Epistolae, 7, pp. 602 e 605. 204 Cfr. ID., Epistola, in Epistolae, 12, p. 610. 205 Cfr. ibid., p. 610,18. 206 Cfr. ibid., p. 611.

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sapendo fare di meglio, le usano per infangare colui il quale ha avuto il coraggio di cancellare le tracce superstiti della loro perversa idolatria. Claudio procede dunque ad illustrare le motivazioni dei suoi avversari. Essi infatti – riporta il vescovo – non affermano di desiderare immagini di Dio perché in esse ci sia qualcosa di divino, ma per onorare Dio e i suoi santi usandole come tramite206. Adorare le immagini degli apostoli e dei santi, afferma al contrario Claudio, non significa adorare apostoli e santi, ma i loro nomi; meglio sarebbe, infatti, venerare i santi e non le immagini che li rappresentano: mentre i primi sono creature di Dio, fatte cioè ad immagine e somiglianza di ciò che di più perfetto esiste, le seconde sono creature dell’uomo, e per questo mancano di vita, sensibilità e ragione207.Alcuni, continua il vescovo, hanno avuto l’ardire di trarre dal culto della croce una giustificazione per la venerazione delle altre immagini sacre. Essi non sono diversi dagli ebrei o dai pagani, perché nella croce non vedono il simbolo della resurrezione di Cristo, quanto piuttosto il segno del ricordo della sua morte: «quibus nihil aliud placet in salvatore nostro, nisi quod et impiis placuit: obproprium passionis et inrisio mortis»208. Se dunque si adora la croce non per ciò che davvero rappresenta, ma soltanto perché essa è stato lo strumento materiale attraverso il quale Cristo è stato crocifisso, è necessario tributare onori a tutti gli oggetti che hanno accompagnato Cristo nei diversi atti della sua vita terrena: Infatti rimase in croce per quasi sei ore, e fu nel ventre della madre per nove mesi lunari e undici giorni, che equivalgono a duecentosettantasei giorni solari: cioè nove mesi e sei giorni. Siano adorate dunque le fanciulle vergini, perché una vergine partorì Cristo. Siano adorate anche le mangiatoie, perché è tradizione che il nato fu deposto in una mangiatoia209. 207 Cfr. M.VAN UYTFANGHE, Le culte des saints et la prétendue ‘Aufklärung’ carolingienne, in Le culte des saints aux IXe-XIIIe siécles,Actes du colloque (Poitiers, 15-17 septembre 1993), Poitiers 1995, pp. 151-166. 208 Cfr. CLAUDIUS TAURINENSIS, ibid., p. 611, 29-30. 209 Ibid., p. 611,38-612,38-41: «Vix enim sex horis in cruce pependit, et tamen novem mensibus lunaribus et supra undecim diebus in utero virginis fuit, qui simul sunt dies solares ducenti septuaginta sex: id est novem menses et supra dies sex. Adorentur ergo puellae virgines, quia virgo peperit Christum. Adorentur et praesepia, quia mox ut natus in praesepio est reclinatus». 210 Cfr. ibid., p. 612,22-23.

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Cristo ha chiesto ai credenti non di adorare la croce, ma di portarla; chi la adora, dimostra di non avere la forza e la volontà di sopportare, «nec corporaliter nec spiritaliter», questo giogo210. Claudio dunque non esita a colpire con toni sferzanti ed ironici coloro i quali contaminano la venerazione dovuta a Dio con pratiche superstiziose.Accusato da Teudmiro di proibire anche, ai fedeli, il pellegrinaggio a Roma, Claudio specifica di non esprimere giudizi di merito; egli non approva né disapprova questa attività: a qualcuno essa giova, mentre per altri non produce alcun effetto. Del resto, conclude Claudio, lo stesso Teudmiro, che nel formulare le sue accuse sembra così convinto del valore e della funzionalità del pellegrinaggio come «poenitentia», non ha più e più volte trattenuto al proprio «servitium» monaci che avrebbero invece beneficiato molto dei tanto decantati vantaggi di un viaggio a Roma? Non è dunque scandalo peggiore il proibire ad un uomo di seguire la via che lo condurrebbe «ad gaudia sempiterna», frenandolo per tenerlo al proprio servizio? Per Claudio, coloro i quali tollerano l’adorazione delle immagini rientrano senza dubbio in un «genus hominum» che cade in errore perché «imperitum»; essi sono incapaci di cogliere la «proprietas verborum Domini» ed hanno bisogno di un supplemento visivo di informazioni211. Privi dell’illuminazione della verità, essi rimangono ciechi dinanzi al «lumen verum», il Verbo incarnato212. Claudio appare da questi documenti come un personaggio dalla pronunciata vis polemica, orgoglioso della sua azione antiereticale, nella quale la dignità della razionalità umana è assunta a criterio di discrimine tra la vera fede e quella eterodossa. Egli crede con fiducia che la scientia divina, che secondo le Scritture avrebbe riempito la terra come le acque il mare, si sia già manifestata nelle opere dei Padri, difensori della fede ortodossa213. Agostino, proposto da Claudio quale personaggio simbolo della ricchezza sapienziale della tradizione patristica, appare nella sua breve descrizione perfettamente in possesso delle doti del commentatore e dell’intellettuale che utilizza le proprie conoscenze

211

Cfr. ibid., p. 613, 2. Cfr. ibid., p. 613, 9. Cfr. Jo 1, 9. 213 Cfr. ID., Epistola, in Epistolae, 1, p. 590, 8-12; Is 11, 9. 212

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al fine di migliorare la comprensione delle verità superiori contenute nelle Scritture: «acer ingenio, suavis eloquio, saecularis litteraturae peritus». Le «voces» dei Padri non hanno certo lo stesso valore assoluto di veridicità della «vox» divina, che ha fondato creandola l’intera realtà e che ne mantiene l’ordine, ma sono le sole che permettono all’umanità, a differenza delle sterili rappresentazioni artistiche, di avvicinarsi, per quanto sia possibile, alla verità214. Il compito di rispondere alle tesi di Claudio fu affidato in prima istanza ad un teologo di origine irlandese, Dungal di Saint-Denis. La corte carolingia aveva già sfruttato, negli anni precedenti, la sua erudizione; era stato infatti interpellato da Carlo Magno, nell’801, per fornire delucidazioni sul fenomeno delle eclissi solari215. Nell’epistola scritta per rispondere a questo quesito scientifico, il «fidelis famulus et orator» Dungal offriva già alcune utili indicazioni su una precisa concezione del metodo per accostarsi alla verità ed una rassegna delle opinioni più autorevoli espresse sull’argomento dai sapienti dell’antichità, lamentando al contempo a Carlo la povertà di codici di cui soffriva la corte, e, su tutti, dei testi dei «philosophi» e di Plinio, nei quali Dungal sembrava nutrire molta fiducia216: Risposi dunque, come mi sembra, o beatissimo Augusto, secondo la richiesta proveniente dalle vostre lettere, e illustrai, a quel modo che gli antichi filosofi conobbero e previdero, secondo la loro autorità, come e quando avveniva l’eclissi solare. Quelli infatti, espertissimi di ogni disciplina, e non ignari di nessuna scuola riconosciuta come degna di fede dagli antichi, con la sapiente volontà di una mente perfezionata e purificata, e con la purissima acutezza fortificata del senso inter214 Cfr. P. BELLET, Claudio de Turin autor de los commentarios «in Genesim et Regum» del Pseudo-Euquerio, in «Estudios biblicos», 9 (1950), pp. 209-233. 215 Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, Epistola ad monachos Hibernienses, in ID., Epistolae, 280, ed. Dümmler cit. (cap. 2, alla nota 8), pp. 437-438. 216 Cfr. DUNGALUS SCOTTUS, Epistola de duplici solis eclipsi, PL 105, 447-458, in ID., Epistolae, 2, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 2 (Karolini aevi, 2), Berlin 1895, pp. 570-578. Su Dungal, cfr. C. LEONARDI, L’irlandese Dungal e l’iconoclasta Claudio, in Medioevo latino. La cultura dell’Europa cristiana, Firenze 2004, pp. 275288; BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 63-64 e p. 277; D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 140-141,152-156 e 184-185.

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no, cercarono con un metodo di ricerca naturale, con sottigliezza e insistenza, la natura, le leggi, le cause e le origini di tutte le cose, e custodirono con molta efficacia, per grazia di colui dal quale «ci viene dato quanto c’è di meglio al mondo ed ogni dono perfetto», quanto trovarono e fecero proprio217.

Se dunque gli «antiqui philosophi» hanno saputo cogliere struttura («natura»), ordine («ratio») e principio («origo») delle cose, grazie alle loro capacità intellettive, e confidando nei talenti concessi loro da Dio «naturaliter», è compito del doctor Carlo impegnarsi nella comprensione della sapienza umana e divina («ad honeste de humanis philosophandum et sapiendum reverenterque atque orthodoxe de divinis sentiendum et credendum») per orientare al meglio la comunità da lui guidata218. Per uno strano paradosso storico e dottrinale, proprio per aderire al progetto di estirpare l’eresia dai territori carolingi, inaugurato da Carlo e fatto proprio dai suoi eredi, Dungal si impegna a ribaltare le conclusioni dei Libri Carolini, voluti da Carlo, per dimostrare l’infondatezza delle tesi di Claudio. Come per il suo avversario, anche per Dungal il fondamento irrinunciabile di ogni dimostrazione è la Scrittura: essa è la vera immagine, scritta, della volontà di Dio di comunicare i suoi misteri al mondo; i «catholici» ritengano dunque l’arte una manifestazione utile perché anch’essa è votata all’educazione («eruditio») dei fedeli, al pari delle Scritture219. Superata e capovolta la prospettiva dei Libri Carolini, 217 DUNGALUS SCOTTUS, ibid., p. 575,10-14: «Respondi ergo, ut mihi videtur, beatissime Auguste, secundum vestrarum exactionem litterarum, et dixi ex eorumdem auctoritate quemadmodum antiqui philosophi et scierunt et praescierunt, quomodo fieret defectus solis, et quando fieret. Illi enim omnium disciplinarum peritissimi, et nullius sectae inscii veteribus adprobatae, sagacissima elimatae et defecatae mentis intentione, et perspicacissima purgatissimaque interni sensus acie praefixa, omnium rerum naturas, rationes, causas et origines subtilissime et instantissime naturali investigatione quaesierunt, acutissime et efficacissime – illo a quo ‘omne datum optimum est et omne donum perfectum’ (Jc 1,17) offerente – quaesita invenerunt et deprehensa diligentissime et intentissime observaverunt». 218 Cfr. ibid., p. 577,25-27: «Omnibus ergo valde necesse est attentis et assiduis praecibus rogare et postulare, ut dominus et salvator noster Iesus Christus suo populo donet et tribuat multis annis de tali et tanto principe et magistro gaudere». C. LEONARDI, Gli irlandesi in Italia. Dungal e la controversia iconoclastica, in Die Iren und Europa in früheren Mittelalter, hg. H. Löwe, Stuttgart 1982, pp. 746-757, in partic. p. 748. 219 Cfr. DUNGALUS SCOTTUS, Responsa contra perversas Claudii Taurinensis episco-

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Claudio diventa evidentemente il nuovo «haereticus», accusato di non saper distinguere coloro i quali venerano dèi e dee, pagani idolatri che credono nell’esistenza di più divinità, da quelli che si accostano alle immagini sacre con il corretto atteggiamento devozionale di chi riconosce in esse un tramite per onorare Dio: Per amare ed onorare il Salvatore e Redentore del mondo dipingono e venerano l’immagine di Cristo, dei suoi santi e dei suoi eletti, che amano ed onorano, sebbene in maniera di gran lunga inferiore, per prima cosa perché furono scelti ed amati da Dio poiché nella loro vita lo hanno servito con fedeltà, e per lui sopportarono tutto con la massima devozione, fino alla morte, non credendo in nessun altro se non nell’unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, come è prescritto nel santo credo cattolico220.

Aspetti tra loro diversi, ma tutti complementariamente utili per la comprensione della nuova ortodossia carolingia sono racchiusi in questa sintesi dottrinale di Dungal.In essa,infatti,si approva la rappresentazione e la venerazione tanto della croce, «imago Christi», quanto della memoria dei santi, venerati come eletti amati da Dio perché a lui hanno dedicato la vita,professandone la verità e difendendo l’ortodossia della fede. Dungal accetta dunque il culto della croce intesa come simbolo concreto della passione di Cristo, mutando radicalmente prospettiva rispetto al moderato rifiuto delle immagini difeso dal concilio di Francoforte221. Lo stesso ruolo dei santi, per Dungal «electi» da Dio che li ha amati come «defensores fidei», è significativamente distante dall’invito, rivolto ai fedeli dai Libri Carolini, di onorarne le «virtutes» e non le immagini, per non rischiare di chiedere salute e fortuna «per sanctorum intercessiones»¸ senza poi riconoscere a Dio, pi sententias, prol., PL 105, [465-530], 465B (il prologus è pubblicato anche tra le Epistolae di Dungal, 9, ed. Dümmler cit., pp. 583-585; in partic. p. 583,35-37). 220 Ibid., 467D: «Imaginem Christi et sanctorum eius pingunt et venerantur pro amore et honore Salvatoris et Redemptoris mundi, et suorum electorum quos et ipsos, licet longe inferius, diligunt tamen et honorant, quia prius a Deo electi ac dilecti sunt, eo quod sibi in vita sua fideliter deservierunt, et pro eo omnia devotissime usque ad mortem pertulerunt, in nullum alium credentes nisi in unum Deum Patrem, et Filium, et Spiritum sanctum, sicut in sancto symbolo et fide continetur catholica». 221 Cfr. Libri Carolini, II, 28, edd. cit. (supra, alla nota 3), LC, pp. 89,44 - 90,1 e 4-6; OC, p. 297,12-14 e 20-23.

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unico «totius sanitatis et vitae auctor», il merito di quanto eventualmente ottenuto. Nell’opinione di Dungal, dunque, sono proprio le «insanae blasphemaeque Claudii Taurinensis episcopi naeniae», che hanno provocato, nella Chiesa, quella netta divisione che Carlo Magno aveva con tanta forza combattuto: Ora, in questa regione, separato il popolo da una parte e dall’altra, e diviso in due, mormorando e discutendo dei precetti ecclesiastici, cioè dell’immagine della passione di Dio e della pittura sacra, i cattolici dicono che la pittura è buona ed utile e che giova alla erudizione tanto quanto le Scritture; l’eretico, al contrario, con i suoi seguaci, dice: non è così, ma è un traviamento ed una idolatria222.

Proprio per porsi in continuità con lo sforzo che aveva caratterizzato l’operato di Carlo Magno per preservare l’unitas ecclesiae, Dungal si rivolge direttamente a chi regna, affinché combatta l’eresia di Claudio, secondo i doveri dei regnanti cristiani223. Ad essi infatti è affidato il compito di promuovere gli studi e dunque la vera dottrina, e di difendere la comunità dagli «ignorantes». Claudio si dimostra non solo superbo e fraudolento, per aver menzionato opere dei Padri senza indicarne la provenienza, ma anche scarsamente preparato in tutte le artes224; così evidente sembra la sua imperizia che Dungal tralascia di elencare dettagliatamente tutti gli 222 DUNGALUS SCOTTUS, ibid., prol., 465B, p. 583,33-38: «Nunc sequestrato ab invicem in hac regione, ac diviso in duas partes populo, de observationibus ecclesiasticis, hoc est de imagine Dominicae passionis et sancta pictura, murmurantes et contendentes, catholici dicunt bonam et utilem esse picturam, et pene tantumdem proficere ad eruditionem, quantum et sacrae litterae; haereticus e contra cum parte a se seducta dicunt: non, sed seductio est erroris et idololatria». 223 Cfr. ibid., 467B, p. 584,40-42: «Intendat charitas vestra quid dicam, quia pertinet hoc ad reges saeculi Christianos, ut temporibus suis pacatam velint matrem suam Ecclesiam, unde spiritaliter nati sunt». 224 Cfr. ibid., 479D-480A: «Claudius igitur dum nullam liberalium didicerit disciplinarum rationem, litterarum significationes proprietatesque ignorans, verborum genera generibus, numeros numeris, casus casibus iungere rationabili nescit constructione et sic maximos ut fama est audet tractatus conficere, quos sui proprii laboris et industriae esse mentitur, cum illos glosario opere ex aliorum voluminibus transferendo, imo dissipando ac depravando excerpit, quosque illorum expositionibus auctorum, e quibus eos evellere, furarique praesumit, miserrima atque vanissima praefert elatione, neque praeter illos, alios permittit libros in sua legi civitate, auctoritatem sui nominis frontibus inscribens singulorum hoc modo: Incipit commentarium aut tractatus, vel expositio Claudii Taurinensis episcopi».

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aspetti nei quali il vescovo di Torino ha mostrato con evidenza i limiti delle sue competenze,soffermandosi solo su alcuni casi specifici,degni di menzione225.Nella «quinta obiectio» mossa a Teudmiro, Claudio individua l’etimologia dell’aggettivo «apostolicus» nella contrazione dei termini «apostolus» e «custos»,per evidenziare come i più alti tra i prelati abbiano lo stesso ruolo degli apostoli, e ne continuino l’operato226. Dungal parte proprio dall’analisi di questa etimologia proposta da Claudio per evidenziarne l’arrogante impreparazione: Tentò secondo l’arte grammaticale di discutere di ciò (scil. l’etimologia della parola «apostolicus»), seguendo il costume degli antichi dottori che, essendo eruditi in tutti gli strumenti della saggezza, quando nei libri o nelle loro esposizioni era capitato di trovare razionalmente il motivo di qualcuno di essi, lo interiorizzavano e lo esaminavano etimologicamente; così anche costui, che li prediligeva e li voleva imitare, tentò, sforzandosi, di esprimere senso e significato di quel nome, ‘apostolico’, e vedere se quello da nome intero è stato composto in modo corrotto, quasi si trattasse di ‘custode dell’apostolo’ («custos apostoli»), affermando non secondo verità e ragione, ma in maniera presuntuosa e sostenendo con arroganza cose sconosciute, definendo cose certe per il tramite di cose incerte227.

L’opinione di Claudio dunque è, per Dungal, contraria al sentire delle Scritture; per di più il vescovo torinese si mostra gravemente incompetente nell’utilizzo degli strumenti idonei alla elabora-

225 Cfr. ibid., 471D: «Ergo si excutientes persequamur et reprehendamus cuncta quae in hac expositione excutienda ac reprehendenda sunt, nimis prolongabitur ista nostra responsio. Ob hanc ergo causam et alteram, quia hominibus artis grammaticae expertis patent, illis investiganda reliquimus». 226 Cfr. CLAUDIUS TAURINENSIS, Epistola ad Theodemirum, in ID., Epistolae, ed. Dümmler cit. (alla nota 202), 12, p. 613,31. 227 DUNGALUS SCOTTUS, ibid., 486B: «Iuxta etenim artis professionem grammaticae de eo tractare conatus antiquorum more doctorum, qui cum omnibus sapientiae studiis eruditi forent, quando in libris, vel eorum expositionibus alicuius de illis causa, ratione reperiri contigisset, pleniter eam intimari atque enodare; ita et iste eorum imitator, aut etiam praelator, huius nominis quod est apostolicus sensum rationemque nitens exprimere ac si illud ex integro et corrupto est compositum, quasi apostoli custos non vere nec rationabiliter sed praesumptuose audacterque incognita affirmans, et de incertis certa diffiniens».

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zione di un corretto ragionamento. Dungal formula apertamente nei confronti di Claudio per due volte nei suoi Responsa l’accusa di non conoscere la grammatica: ciò equivale, evidentemente, a una denuncia dell’incapacità di utilizzare in modo corretto le parole del linguaggio umano, cosa tanto più grave e pericolosa quando si tratta di quelle che si leggono nel testo della Scrittura. Dungal denuncia negli scritti di Claudio anche una evidente carenza nelle competenze di dialettica: egli dunque non solo non comprende la portata dei termini che utilizza, ma ne ignora anche la corretta capacità di significare il vero228. In continuità ideale con la critica mossa da Dungal a Claudio, imperniata sulla denuncia di gravi lacune nel dominio delle arti liberali, interviene nella discussione anche Giona di Orléans229. La sua opera, anch’essa volta sostanzialmente ad una confutazione del rifiuto delle immagini propagandato da Claudio, venne però pubblicata solo nell’841, quasi un decennio dopo la stesura dei testi sin qui analizzati, quando il vescovo di Torino era già morto da tempo, il clamore suscitato dalla disputa sul valore delle immagini nei suoi successivi sviluppi si era ormai da tempo dissolto e la questione non aveva più, almeno apparentemente, una effettiva attualità230. Nella praefatio di dedica a Carlo il Calvo, regnante in Francia in quegli anni, Giona gli ricorda di essere stato personalmente incaricato da suo padre, Ludovico il Pio, di confutare per scritto un’opera di Claudio sulle immagini il cui contenuto gli veniva relazionato da Ludovico e che egli non ebbe dunque modo di leggere personalmente231. Giona ricorda però che mentre componeva la sua opera, era venuto a conoscenza della morte di Claudio, ed aveva di conseguenza sperato che, con l’eresiarca, fosse scomparsa an228 Cfr. ibid., 498B: «Sancto autem Augustino lascive blanditur, et adulatur singulari eum praeferens laude, quasi suae fautorem vecordiae, et cum sit omnium artium inscius liberalium nititur procacissime ipsius dialectica per se ipsum sine ullo uti magisterio, et ad ea quae affirmare maluerit ipsam imprudentissime detorquere». 229 Cfr. IONAS AURELIANENSIS, De cultu imaginum libri tres, PL 106, 305-387. 230 Cfr. R. SAVIGNI, Giona di Orléans: una ecclesiologia carolingia, Bologna 1989; D. F. APPLEBY, Sight and church reform in the thought of Jonas of Orléans, in «Traditio», 46 (1991), pp. 11-33. 231 Cfr. IONAS AURELIANENSIS, ibid., Praef., 306BC.

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che l’eresia. Ma scritti impuri ed opera di proselitismo dei discepoli avevano alimentato e preservato la dottrina e le idee di Claudio, sopravvissute dunque al loro autore. Giona aveva così ritenuto giusto indirizzare al figlio l’opera che aveva promesso al padre: «vobis offerendum merito iudicavi, ut quod patri vestro imperanti reddere non quivi, id vobis et illi pariter reddam»232. Come Dungal, anche Giona appare completamente in accordo con la nuova ottica iconodula decisa dalla corte carolingia, ideologia che risulta del resto pienamente armonizzabile con la sua idea dei rapporti tra religione, cultura e potere. È infatti nel De institutione regia che Giona richiama l’immagine di un sapere volto a ritrovare un ordine intelligibile in ogni manifestazione, correttamente intesa, del reale. Gli uomini ai quali è dato il compito del comando appaiono nettamente divisi, per Giona, tra «sacerdotes» e «reges»233. Ai primi è affidata, dalle Scritture, la priorità sui secondi: è tanto essenziale, infatti, il loro ministero, che se anche essi fossero «negligentes» nel compierlo, non ne pregiudicherebbero con questo senso e contenuto.Ad essi seguono i «reges», coloro ai quali, cioè, è stato affidato da Dio il compito del «regere», tenuti, proprio nell’ottica di saper compiere adeguatamente tale loro dovere, a riconoscere in Dio la vera causa dei moti del mondo: Deve anche sapere [scil. il buon governante] che non conta tanto la causa degli uomini, che amministra secondo l’incarico affidatogli, ma la causa di Dio, a cui dovrà rendere conto nel giorno tremendo del giudizio in relazione al compito che assunse234.

Dio è l’unica fonte del potere, e, al contempo, il principio di quel «divinum praeceptum» che fonda l’universo, ed al cui ossequio

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Ibid., 307B. Cfr. IONAS AURELIANENSIS, De institutione regia, 1, PL 106, [279-305], 285B, ed. e tr. fr. di A. Dubreucq, Paris 1995 (SC, 407), p. 176,5-9. E cfr. BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 155-159 e pp. 299-300; D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 154155 e p. 186. 234 IONAS AURELIANENSIS., ibid., 4, 291B, p. 198,17-19: «Scire etiam debet quod causa, quam iuxta ministerium sibi commissum administrat, non hominum sed Dei causa existit, cui pro ministerio quod suscepit, in examinis tremendi die rationem redditurus est». 233

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vanno orientate le azioni degli uomini e, dunque, su tutti, dei re235. Il giovane Carlo il Calvo è esortato a porsi in armonica continuità con la tradizione imperiale dei decenni precedenti, illustrata in particolare dalla figura dominante e dai meriti di suo nonno Carlo Magno, il quale proprio mettendo a frutto le competenze acquisite con lo studio si era impegnato in prima persona per estirpare le eresie ed aveva coinvolto in questa azione i migliori intellettuali della sua epoca236. In questo modo egli aveva personalmente potuto constatare come la penisola iberica, che aveva da sempre prodotto uomini degni di lode e di comprovata fede cattolica, fosse stata però anche teatro di grandi eresie, come quella adozionista di Elipando, arcivescovo di Toledo e Felice, vescovo di Urgel: Elipando, del quale Giona aveva conosciuto alcuni discepoli, aveva deciso di diffondere la sua dottrina «per Asturias et Galliciam»; Felice invece aveva cercato di diffondere la sua eresia «in Gallia et Germania», ma senza successo237. L’apparente235 Cfr. ibid., 7, 295D, p. 216,3-13: «Nemo regum a progenitoribus regnum sibi administrari, sed a Deo veraciter atque humiliter credere debet dari, qui dicit: ‘Meum est consilium et aequitas, mea est prudentia, mea est fortitudo. Per me reges regnant, et legum conditores iusta decernunt’ (Pv 18, 14). Quod non ab hominibus, sed a Deo regnum terrenum tribuatur, Daniel propheta testatur, dicens: ‘In sententia vigilum decretum est, et sermo sanctorum, et petitio, donec cognoscant viventes quoniam dominatur Excelsus in regno hominum, et cuicunque voluerit, dabit illud, et humillimum hominem constituet super illud’ (Dn 4, 14)». E cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, De virtutibus et vitiis liber, PL 101, [613-639], 614D; ID., Epistola ad Carolum regem, in ID., Epistolae, 188, ed. Dümmler cit. (cap. 2, alla nota 8), p. 315; SMARAGDUS SANCTI MICHAELIS, Via regia, PL 102, [931-971], 937C. 236 Cfr. IONAS AURELIANENSIS, De cultu imaginum, 305C: «Quantus dominus noster gloriosissimus genitor vester, Deo dilectissimus, Ludovicus Caesar religiosissimus, in fidei sinceritate totius bonitatis virtute, proborum morum claritudine, sapientiae ac sanctitatis dote divinique amoris ac timoris fervore exstiterit, et in ecclesiasticis negotiis, Domino adminiculante, ad honorem et cultum divinum pertinentibus augmentandis et gubernandis emicuerit; quantumque imperium paternum (quia sic Deus voluit) iure aequissimo sortitus, rectissimo iustitiae libramine tenuerit rexeritque, et contra hostium impetus militariter muniverit, et Ecclesiam Christi praetioso sanguine redemptam, suoque regimini divinitus commissam, moram patris tui, videlicet pii et homonymi viri Caroli nobilissimi Augusti, imitans, imo supergrediens, disciplinis liberalium artium educaverit, et utriusque Testamenti sancti paginis atque eximiorum Patrum dictis, ad propellenda haereticorum dogmata venenata, et instruxerit et instrui fecerit, cunctis catholicae apostolicaeque fidei filiis perspicuum esse non ambigitur, quoniam revera id quod dicitur in promptu esse cernitur». 237 Cfr. ibid., 308D-309A.

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mente puntigliosa indicazione geografica precisata tanto per Elipando quanto per Felice è utile a Giona per sottolineare le differenze con l’operato di Claudio. Felice ed Elipando avevano infatti sviluppato la loro dottrina senza altra motivazione se non l’eretica e perversa volontà di dividere la Chiesa cattolica, minandone le fondamenta teologiche; a Claudio viene invece riconosciuto di aver agito per espletare le sue funzioni vescovili. Egli stesso ha dichiarato, ricorda Giona, di aver trovato a Torino al suo arrivo una situazione di diffusa idolatria. Ma, salvato l’intento pastorale dell’iniziativa di Claudio, Giona non può approvarne il metodo: egli infatti ha agito con «immoderatus et indiscretus zelus», distruggendo le «picturae sanctarum rerum gestarum», ma anche cancellando le croci. Egli ha dunque dimenticato come queste ultime siano memoria del sacrificio di Cristo («recordationes passionis Christi»), mentre le rappresentazioni pittoriche delle vicende narrate nei Vangeli rappresentano un comodo strumento per istruire le «mentes nescientium»238. Pur nato da intenti di purificazione da esagerazioni o esasperazioni, il gesto di Claudio si è dunque manifestato in una pessima forma, pari solo alla disdicevole ignoranza che il vescovo di Torino dimostra nell’uso della tecnica scrittoria. Pur partendo da una considerazione positiva degli intenti e dell’iniziativa portata avanti da Claudio, anche Giona sottolinea dunque in modo impietoso le lacune evidenziata dalla scarsa competenza di Claudio nelle artes239. Agli occhi di Giona, sembra non esserci alcun passaggio dell’opera del suo avversario che non meriti una correzione, se si fa eccezione dei lunghi brani da lui copiati dalle opere dei Padri, che, per altro, Claudio inserisce tra le proprie pagine senza avvertire il lettore e senza riportare la fonte240:

238

Cfr. ibid., 310D. Cfr. ibid., 312B: «Unde mirari satis hominem nequeo, ut qui disciplinam recte loquendi nescit, non solum docere, verum etiam alios reprehendere, et, quod his ineptius est, in reprehensionem peritorum virorum librum praesumpserit evomere». 240 Cfr. ibid., 313A: «Enim vero si per singula monstruosorum verborum tuorum constructiones reprehendendo discutere coeperimus, magni erit operis exsecutio, opportunique temporis supervacua impensio, quas lectoris prudentissimo iudicio tempore suo reprehendendas relinquentes, quem sensum textus litterarum tuarum contineat, pro captu intelligentiae nostrae scrutari nitamur». 239

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Poiché se quelli che sono competenti nelle artes discutessero anche semplicemente delle sue opere, non vi si troverebbe quasi niente che non offenda l’arte dello scrivere e del parlare, fatta eccezione per quelle cose che egli sottrasse furtivamente alle opere degli altri, e, una volta sottratte e mutate, inserì nella sua opera come cose sue, alla maniera dei compilatori241.

Claudio ha dimostrato, nel giudizio di Giona, una imperizia estrema. Ogni espressione del vescovo di Torino appare all’impietoso critico superflua quando non scorretta242. Per quanto versato nella lettura delle Scritture, egli appare invece del tutto inesperto nell’«ars grammatica» e si serve nei suoi scritti di una «informis constructio», piena di «barbarismi ac soloecismi»243. Si evidenzia così anche in Giona un aspetto fondante dell’identità teologica carolingia. Le teorie di Claudio vengono contestate non solo nel merito teologico, perché infondate, ma anche nell’aspetto formale, perché argomentate in modo inadeguato. Così, nell’espressione utilizzata da Claudio «et quia quid homines colebant, ego destrui solus coepi», Giona individua tre livelli d’errore: uno morale, perché non è costume di un rappresentante della gerarchia pensare di essere il solo a poter estirpare il male dalla Chiesa; un secondo logico, perché il termine «homines» è un «soloecismus»244: è infatti superfluo specificare di aver combattuto l’idolatria degli uomini, visto che solo gli uomini possono adorare; e un terzo, infine, grammaticale, evidente nella scorretta costruzione logica della proposizione, in cui Claudio 241 Ibid.: «Quoniam si ab his qui litteraria arte imbuti sunt vel tenuiter discutiantur [scripta illius], pene nihil in eis reperitur quo ars recte loquendi et scribendi non offendatur, exceptis his quae de aliorum opusculis furtim subripuit, et quibusdam subtractis atque mutatis, compilatoris usus officio, ut sua, suo inseruit operi». 242 Cfr. ibid., 312D: «Quam absurdissima et ridiculosa, quamque auribus virorum peritorum tituli istius sit fastidiosa constructio, ipsorum puerorum qui adhuc liberalibus initiantur disciplinis, facile aperteque potest probari iudicio. Sed idcirco certae personae eiusdem tituli rusticitatem patenter non adscribimus, quia incertum habetur utrum dictatori an scriptori, vel certe exceptori, ascribenda sit». 243 Cfr. ibid., 314B-315D, 330CD e 350B. 244 Cfr. ISIDORUS HISPALENSIS, Etymologiae, I, PL 82, 107B, ed. Lindsay cit. (cap. 3, alla nota 116): «Soloecismus est plurimorum verborum inter se inconveniens compositio, sicut barbarismus unius verbi corruptio».

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invece di usare un «infinitum activae significationis», vale a dire «destruere», ha utilizzato «destrui», e cioè un «infinitum passivae significationis»245. Gli intenti da cui ha preso le mosse il vescovo di Torino nel suo operato sono in quanto tali apprezzabili e legittimi, e proprio in questa prospettiva è possibile a Giona recuperare e condividere la sostanza dell’atteggiamento riduttivo imposto dal concilio di Francoforte nei confronti delle immagini sacre: «nulla similitudo omnium quae in coelo, vel quae in terra, vel quae subterram sunt, facienda est»246. Dio, «inlocalis» per definizione, non può essere spazialmente rappresentato. Questa sententia, però, sulla cui verità non esiste disputa, non deve essere estesa ad una condanna sommaria e complessiva di qualsiasi rappresentazione di oggetti o avvenimenti sacri che portano testimonianza della presenza di Dio nel creato, vale a dire alle immagini dei santi o alle rappresentazioni degli avvenimenti scritturali247. Se infatti non è consentito adorare una creatura, questo divieto non si estende fino a coinvolgere genericamente qualsiasi apprezzamento per la bellezza delle opere d’arte conservate nei luoghi di culto ed esposte alla devozione dei credenti, e finalizzate a conservare memoria delle gesta dei santi e dei luoghi biblici. La «prudentia», che Giona invoca in merito a questi problemi, consiglia, se è vero che niente altro si debba adorare se non il vero Dio, di salvare tuttavia la funzione di tramite verso la spiritualità che deve poter essere accordata alle immagini sacre248: lo stesso Claudio sarebbe stato d’accordo nell’usare le immagini sacre non come oggetti da adorare in sé, ma come «typi futurorum», occasioni per orientare correttamente le anime dei credenti verso la natura interiore e soprasensibile della verità rivelata249. In tal senso, la stessa croce, il cui culto era stato il principale oggetto delle critiche e degli interventi censori promulgati da Claudio nella propria diocesi, merita di essere venerata e celebrata quale tramite operante nella storia, e quindi quale segno significante della redenzione dell’umanità:

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Cfr. IONAS AURELIANENSIS, ibid., 316D. Cfr. ibid., 318A; cfr. Ex 20, 4; 34, 17. 247 Cfr. IONAS AURELIANENSIS, ibid., 318B. 248 Cfr. ibid., 316B. 249 Cfr. ibid., 318C. 246

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per questo è corretto che i credenti si volgano a tale simbolo con la devozione dovuta alle parole o agli altri segni che esplicitano nei testi sacri o nella liturgia l’accadimento centrale della storia del cristianesimo, a differenza degli altri oggetti che Cristo ha posseduto o toccato nella sua vita mortale perché «per crucem mortis auctor superatus est, et mortalibus vita reddita est»250. Equiparare il culto della croce alla venerazione per tutti gli oggetti che Cristo ha toccato, comprese le vesti e gli animali, significa invece generalizzare banalmente la verità dei misteri fondamentali della dottrina cristiana, corredando tale vana rigidità con la formulazione di argomenti capziosi ed impropri251. Nel suo rifiuto del simbolo della croce Claudio ha dunque mancato sia nei confronti delle auctoritates patristiche che invece ne raccomandano la venerazione, sia dal punto di vista del corretto uso delle strumentazioni razionali252, da lui maldestramente applicate sino alla formulazione di conclusioni paradossali, come quando ha provocatoriamente dedotto, dal rispetto dovuto alla croce in quanto ha sorretto il corpo di Cristo durante la passione, che si dovrebbe allora rendere onore anche all’asino che lo ha portato su di sé al suo ingresso in Gerusalemme: probabilmente – chiosa Giona con ironia – Claudio aveva in mente l’immagine a lui nota degli asini spagnoli, di corporatura robusta e bell’aspetto, che attraggono su di sé l’attenzione di chi li osserva253. Al di là degli spunti polemici, e della cospicua citazione di auctoritates patristiche, nel secondo e nel terzo libro, l’analisi dell’opera di Giona contribuisce, come già la lettura degli altri interventi che si sono susseguiti in questa seconda fase del dibattito carolingio sulla questione delle immagini sacre, a confermare l’impressione dominante che tutti questi autori siano fortemente preoccupati, sia pure nel variare delle rispettive posizioni dottrinarie, 250

Cfr. ibid., 318D. Cfr. ibid., 337C: «In hoc sane libello brevitati studentes, tuam, o Claudi, absurdissimam doctrinam de crucis et asini adoratione, quam syllogistica declamatione aeque fieri docuisti, refellendam statuimus». 252 Cfr. ibid., 339C: «Verum, quanquam locutionis ignarus, quia assiduitate tamen lectionis admodum detritus es, divinorum eloquiorum paginas, et non solum sanctorum Patrum, verum etiam gentilium philosophorum accurata dicta enucleatim scrutare, et nequaquam in eis constructionum tuarum exempla valebis reperire». 253 Cfr. ibid., 337D. 251

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dall’esigenza di precisare e consolidare l’applicabilità di un metodo del lavoro teologico, atto a far emergere la verità di aspetti fondamentali della rivelazione non sufficientemente espliciti nel dettato scritturale. Pur infatti all’interno di un mutato contesto dottrinale, nel quale cioè i parametri di un moderato rifiuto delle immagini si erano tramutati in una significativa tolleranza per le immagini e per il loro culto, e pur accedendo a soluzioni apertamente contrapposte, gli autori coinvolti non mutarono il loro approccio, che rimase nella forma identico a quello espresso alcuni anni prima dai Libri Carolini. Pur con sfumature diverse, infatti, gli autori coinvolti mostrarono una grande fiducia nella possibilità di applicare una sintesi di auctoritas e artes per esplicitare ciò che è possibile all’uomo definire dei rapporti tra Dio ed il mondo, di usare cioè gli strumenti della razionalità umana per descrivere gli ambiti nei quali il credente, a partire dalla rivelazione, tenta di accedere al mistero divino e di precisarne gli aspetti dominanti254.

7. Rabano Mauro È indubbio che vada ascritto ad Alcuino il merito di aver calato, nella realtà carolingia,il progetto agostiniano di una paidèia cristiana, fondata sulle Scritture interpretate dei Padri con gli strumenti delle artes. La civiltà culturale nata dagli effetti di tale sforzo ha dato vita ad un panorama estremamente complesso, all’interno del 254 Negli anni in cui si concludeva la seconda fase della disputa sulle immagini, e poco prima della pubblicazione del De cultu imaginum di Giona, Eginardo di Fulda, letterato divenuto celebre come biografo di Carlo Magno, compose una Quaestio de adoranda cruce. Nel breve testo, Eginardo distingue l’«adoratio» dalla «oratio»: la prima, che coincide con ciò che le Scritture definiscono «veneratio», la si rivolge tanto agli esseri viventi quanto a quelli inanimati; la seconda, invece, non può rifersi ad altro che a «ad id quod vivit» e può esaudire le richieste di chi prega; cfr. EINHARDUS, Quaestio de adoranda cruce, ed K. Hampe, in MGH, Epistolae, 5 (Karolini aevi, 3), Berlin 1899, pp. 146-149, p. 147: «Videtur enim mihi crux adoranda; cur quod id videatur, expediam. Et eo facilius id me facturum arbitror, si differentiam atque distantiam orandi, adorandi, sicut sentio, exprimere valuero. Orare est, ut mea fert opinio, Deum invisibilem, vel si aliud aliquid est, in quo spes auxilii poni possit aut deceat, mente vel voce, vel mente pariter ac voce, sine corporis gestu precari.Adorare vero rei visibili et coram positae ac presenti vel inclinatione capitis vel incurvatione vel prostratione totius corporis vel protensione brachiorum atque expansione manuum vel alio quolibet modo ad corporis tamen gestum pertinente venerationem exhibere. Veneramur enim multa, quae nec orare possumus nec debemus».

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quale hanno vissuto a stretto contatto intellettuali maggiormente liberi nell’approccio interpretativo dei dati provenienti dall’auctoritas e pronti a facilitarne lo studio con nuove metodologie, ed altri più legati alla difesa ed alla preservazione del patrimonio così faticosamente accumulato e riorganizzato. Al punto di raccordo, in questa fase, tra diverse esigenze e tra differenti momenti dell’evoluzione della cultura carolingia si pone Rabano Mauro.Autore prolifico e longevo, diretto allievo di Alcuino, autentico protagonista dell’età di Ludovico il Pio, Rabano è stato elemento cardine di una stagione difficile ma esaltante del dibattito teologico nel secolo IX. Nell’opera di Rabano sembra pienamente concretizzarsi la consapevolezza, in buona parte già raggiunta da Alcuino, che il parlare di Dio e del creato, uomo compreso, con linguaggi diversi e tra di loro spesso contrastanti sia reso possibile proprio dall’«ordo» universalmente vigente nella creazione, sul quale si fonda la correttezza di ogni tecnica umana, ed alla cui piena conoscenza devono tendere tutte le azioni del credente. Questa circolarità dei linguaggi permette dunque a Rabano, dotato di una vastissima erudizione personale, di spaziare attraverso modalità espressive tra le più diverse. La relazione tra Rabano ed Alcuino fu di grande affetto, e lasciò nel giovane monaco di Magonza tracce significative: a partire dall’epiteto «Maurus», che ricordava quello del discepolo prediletto di san Benedetto, e che fu coniato per lui a Tours dallo stesso Alcuino; Rabano non se ne separò mai, tanto che lo usò spesso abbreviandolo in una sigla («M.») per designare nelle pagine dei propri commentari biblici le parti originali, da lui stesso elaborate, incasellate tra molteplici estratti provenienti dagli scritti dei Padri255. Rabano ha seguito, nei vari momenti della sua personale biografia, tutta la parabola dell’età carolingia: entrato in monastero sotto il regno di Carlo Magno, divenne diacono un anno dopo l’incoronazione imperiale del re; abate di Fulda al tempo di Ludovico il Pio e di suo figlio Lotario, 255 Per una breve biografia di Rabano e per i riferimenti bio-bibliografici fondamentali, cfr. M. PERRIN, Introduction all’ed. di HRABANUS MAURUS, In honorem sanctae crucis cit. (cap. 2, alla nota 1), pp. V-VII. Cfr. inoltre FERRARI, Il ‘Liber sanctae crucis’ cit. (cap. 2, alla nota 1); BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 84-98 e 282-286; D’ONOFRIO, La teologia carolingia cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 156-168 e 187-190.

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rimase fedele a quest’ultimo negli anni dello scontro interno alla dinastia carolingia. Dopo la sconfitta di Lotario a Fontenoy, si ritirò dalla vita pubblica. Nell’847, riconciliatosi con il nuovo sovrano, Ludovico il Germanico, fu da questi nominato arcivescovo di Magonza256. La sua longevità gli permise di essere testimone di diverse dispute dottrinarie, ma anche di notevoli mutamenti politici; la sua attività di esegeta, teologo, abate e vescovo trova eco nel suo epistolario, composto in massima parte di lettere dedicatorie, utili ad accompagnare il dono di un’opera, spesso di testi di esegesi scritturale. In queste epistolae, Rabano utilizza una precisa struttura letteraria. Dichiara infatti apertamente come la sua esegesi si ponga cronologicamente e speculativamente dopo tutte le grandi sintesi patristiche, e che come tale debba essere considerata. Il peso dell’auctoritas emerge infatti, dalle lettere di Rabano, come un valore intangibile, da preservare e riportare ai posteri nella sua interezza ed integrità257. Non solo le questioni politiche vanno valutate alla luce delle Scritture ed in base a quanto la tradizione consiglia, ma la stessa lettura degli avvenimenti della vita quotidiana va compiuta alla luce del messaggio scritturale. Fu sempre abitudine dei grandi uomini e dei famosissimi dotti cercare di rispondere con competenza a quelle cose attorno alle quali erano stati interrogati e, basandosi sull’autorità delle Sante Scritture e dei santi Padri, illustrare brevemente e chiaramente con parole in merito a ciò che gli era stato richiesto258.

256 Per i rapporti di Rabano con i sovrani carolingi, cfr. A. BAT-SHEVA, Raban Maur et les carolingiens, in «Revue d’histoire ecclésiastique», 86 (1991), pp. 5-44. 257 Cfr. M. ARIS, Nostrum est citare testes. Anmerkungen zum Wissenschaftsverständnis des Hrabanus Maurus, in Kloster Fulda in der Welt der Karolinger und Ottonen, Frankfurt a. Main 1996, pp. 437-464. 258 HRABANUS MAURUS (FULDENSIS ABBAS, MOGUNTINUS ARCHIEPISCOPUS), Epistola ad Hattonem abbatem Fuldensem, in ID., Epistolae, 31, PL 112, [1507-1575], ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 5 (Karolini aevi, 3), Berlin 1899, p. 455,8-11: «Magnorum virorum et clarissimorum doctorum mos semper fuit ad ea, de quibus interrogati fuerant, competenter responsum quaerere, et adnitentes auctoritati sanctarum scripturarum sanctorumque patrum sententiis ea, quae ab eis postulata fuerant, breviter dilucideque reserare».

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La sintesi di studio delle Scritture e utilizzo della ragione costituisce una garanzia per evitare gli errori. Questo vero e proprio manifesto del metodo carolingio è ormai definitivamente assunto quale unica via corretta di accostamento spirituale dell’uomo alla verità, in tutte le sue forme, teoretiche e pratiche: così, nello scrivere ad Hattone, abate di Fulda, Rabano indica i motivi per i quali va rifiutata ogni forma di pratica magica. Mediante l’esercizio di incantesimi ed evocazioni, falsi sapienti pretendono di acquisire una qualche forma di conoscenza di ciò che invece all’uomo deve rimanere oscuro («appetunt scire quod nulla ratione eis competit investigare»)259. I misteri della creazione non si apprendono infatti nel controllo di inafferrabili potenze demoniache, ma nella conoscenza ordinata e costante dei princìpi che Dio ha posto a fondamento dell’universo e che il giusto ricercatore indaga con gli strumenti della razionalità seguendo la guida sicura dei Padri che già hanno saputo studiare le verità nascoste alla luce degli orientamenti informativi provenienti dalla rivelazione. La matrice fondamentale di tale concezione generale del sapere è facilmente riconoscibile nella precisa formulazione che ne ha offerto, per tutti i sapienti cristiani,Agostino: Sono insite infatti nei corpi di tutti gli elementi del mondo alcune nascoste ragioni seminali, dalle quali, quando si presenti il momento opportuno, si sviluppano nelle specie che avevano in potenza con modalità e finalità proprie260.

Rabano si fa araldo della collocazione di tale concezione a fondamento dell’idea cristiana della realtà. Solo Dio, Creatore, conosce le cause nascoste di tutte le cose, che ha posto a fondamento del mondo: «Deus vero solus unus creator est, qui causas ipsas et rationes seminarias rebus inseruit»261. Compito dell’uomo non è dunque imporre le forme che governano l’esplicitarsi della sua razionalità alle leggi che presiedono, inalterabili e ovunque vi-

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Cfr. ibid., p. 460,12-13. Ibid., 28-30; cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, Quaestionum in Heptateuchum libri VII, II, 21, PL 42, 602, ed. J. Fraipont - D. De Bruyne,Turnhout 1958 (CCSL, 33), pp. 77,280 - 78,283: «Insunt enim rebus corporeis per omnia elementa mundi quaedam occultae seminariae rationes, quibus, cum data fuerit oportunitas temporalis, prorumpunt in species debitas suis modis et finibus». 261 Cfr. HRABANUS MAURUS, ibid., p. 455,34-35. 260

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genti, all’organizzazione del creato ma, al contrario, imparare a riconoscerne la presenza operante in ogni sia pur minima realtà che lo circonda, e in tal modo onorare, con l’esercizio della propria, la razionalità eterna con la quale Dio ha creato e governa il mondo. Rabano, dando libero sfogo già negli anni del diaconato, prima dunque della nomina ad abate ma dopo aver conosciuto Alcuino, ad una straordinaria e del tutto peculiare genialità compositiva, celebra in modo straordinariamente efficace l’idea che nel creato sussista una struttura intelligibile perché posta in essere da un supremo ente razionale, componendo le complesse ed emozionanti pagine di un’opera particolarissima, destinata a restare un unicum nell’intera storia della sapienza cristiana: l’In honorem sanctae crucis. Si tratta di una composizione ispirata al modello dei carmina figurata attestati soprattutto nella letteratura imperiale tardo-antica, che prevede la realizzazione di carmi di argomento celebrativo che vengono arditamente iscritti in reticolati geometricamente regolari dai quali emergono figure simboliche, nelle cui parti è possibile isolare incroci di lettere e parole che formano ulteriori versi. La particolarità dell’opera di Rabano consiste nel fatto che tutte le pagine contenenti i carmi da lui composti sono dedicate alla celebrazione della simbologia della croce di Cristo, che emerge sempre dalle diverse rappresentazioni che contengono i componimenti, in forma più o meno stilizzata. Leggendo esclusivamente le lettere contenute all’interno della figura, ne emergono versi che spiegano la funzione della figura stessa, e che sono poi commentati da un testo in prosa contenuto nella pagina di fronte, una «declaratio» che indica, per ogni poema, l’interpretazione più corretta dell’immagine corrispondente262. L’opera, 262 La tipologia utilizzata da Rabano viene così descritta da PERRIN, Introduction cit. (alla nota 255), p. VIII: «Le premier livre est composé de (…) carmina figurata, c’est-à-dire de poèmes contenant un dessin et nécessitant une double lecture. En effet, on peut lire sur la page de gauche le poème qui constitue le ‘champ’ de l’ensemble, et le lire comme n’importe quel poème. Mais il s’y ajoute un dessin (géométrique ou non, et souvent chargé de divers symbolismes) contenant lui-même des lettres que l’on doit lire selon un certain ordre et qui ont un sens; la plupart du temps, ces lettres composent un ou plusiers vers (le ou les versus intertexti). Certaines lettres ont donc une valeur double: pour le poème constituant le ‘champ’ de l’ensemble et pur le versus intertextus. Sur la page de droite, en face de chaque carmen figuratum, se trouve une page d’explications, dans la quelle Raban indique d’abord les raisons qui l’ont poussé à écrire le poème et en donne les

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scritta da un autore giovanissimo ma che già si mostra precocemente dotato di straordinaria cultura e competenze nell’ambito delle arti e delle scienze umane e divine, è ispirata intimamente da una piena coscienza dei rapporti esistenti tra il Creatore, la creatura, e le diverse tipologie di linguaggio – poetico, narrativo, pittorico – di cui essa dispone per esprimere e diffondere la propria comprensione del misterioso operare divino. Ogni aspetto del creato richiama dunque una simbologia estesa e complessa, immaginifica ma spesso anche di ordine numerico, geometrico, musicale, astronomico. La croce infatti, oltre che simbolo evocativo della passione di Cristo di cui fu strumento operante, è anche il segno riassuntivo della efficacia perfetta dell’ordine numerologico posto a fondamento del creato («columna est coelestis aedificii»), di cui è massimamente cifra esplicativa il numero quattro, evocato dal dipartirsi in diverse direzioni dei suoi bracci. Ed è dunque naturale articolare ogni forma di ricostruzione dell’ordine del reale partendo dalla ricerca delle vestigia di tale figura quadripartita tanto nel mondo corporeo e visibile quanto nel regno delle entità invisibili e spirituali. Perciò prego che chiunque abbia esaminato il testo di quest’opera, non lo svilisca subito disprezzandolo per la pochezza di chi lo ha scritto, ma se vuole e può, lo legga, e penetrandolo con l’occhio di una retta fede e valutandolo sulla base dell’autorità delle divine Scritture, attribuisca ogni valore di quella discussione che in essa avrà trovato condotta in modo corretto e conforme alla dottrina universale a Colui dal quale deriva ogni bene; se invece troverà qualche spiegazione condotta in modo meno esatto e sensato,lo attribuisca più alla mia incapacità che alla mia malizia, dal momento che desidero sempre ed imparo avidamente per quanto posso l’esattezza della fede cattolica, e mi impegno a conservarne i princìpi, per quanto me lo concede la grazia di Dio263. arrière-plans scripturaires ou patristiques». Cfr. G. POLARA, Le parole nella pagina: grafica e contenuti nei carmi figurati latini, in Retorica ed esegesi biblica. Il rilievo dei contenuti attraverso le forme, Atti del II seminario di antichità cristiane (Bari, 27-28 Novembre 1991), ed. M. Marin - M. Girardi, Bari 1996 (Quaderni di «Vetera Christianorum», 24), pp. 201-245. 263 HRABANUS MAURUS, In honorem sanctae crucis, A7, PL 107, [133-293], 265B, ed. Perrin, p. 18,29-39: «Quapropter rogo, ut quicunque textum huius operis perspexerit, non statim propter artificis vilitatem spernendo abiciat, sed, si velit et possit, legat, et oculo sanae fidei intuendo atque per auctoritatem divinarum

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La complessa natura dell’opera si traduce immediatamente in un invito al lettore a non fermarsi al semplice aspetto estetico di ciò che osserva, ma a lasciarsi condurre da esso a percepire la correttezza («rectitudo») della fede alla quale Rabano tende e i cui princìpi («iura») vuole difendere. Non a tutti gli uomini è però possibile una adeguata comprensione della profondità simbolica di immagini scritte e disegnate nell’In honorem: esse vanno infatti penetrate con l’occhio della fede e vagliate attraverso le Scritture, nell’ipotesi in cui il credente voglia («si velit») e sappia («si possit») leggerle. Per coloro i quali vorranno compiere questo sforzo, la stessa croce, ed il sacrificio di Cristo, opereranno secondo Rabano come una «machina», ordinata in modo da consentire il realizzarsi della salvezza dell’uomo: Certamente l’Autore di tutte le cose prevedeva per sé questo santo strumento; volle che fosse costruito per poter restaurare e riportare ad unità ogni cosa per il tramite di Cristo Nostro Signore264.

Ogni realtà creaturale rispecchia dunque l’ordine divino. Nel descrivere la settima figura del primo libro, raffigurante quattro grandi cerchi disposti secondo i punti cardinali, Rabano non esita ad individuare in essi la reiterazione del numero quattro che, nella natura, rappresenta una costante manifestazione dell’ordine superiore (le stagioni, i punti cardinali, i quattro elementi, etc.), e che è pienamente rispecchiata nella croce, stilizzata dalla posizione dei cerchi. Questo è il motivo per il quale ho disegnato nelle ruote i quattro elementi, o le quattro stagioni o le quattro parti del mondo, perché il mondo è un ingranaggio soggetto al tem-

Scripturarum diiudicando, quod in eo catholice et recte repperierit disputatum, ei hoc tribuat a quo est omne bonum; si quid autem minus recte atque inconsiderate invenerit prolatum, magis meae imperitiae quam malitiae deputet, qui catholicae fidei quantum possum rectitudinem semper desidero et inhianter disco, eiusque iura quantum superna gratia concedit servare contendo». 264 Ibid., C2, 158B, p. 40,83-85: «Omnium quippe auctor hanc sanctam sibi praevidebat machinam; hanc construi voluit, ut in ipsa restauraret et coadunaret omnia per Jesum Christum Dominum nostrum»; cfr. ID., Commentaria in Ezechielem, XVII, 41, PL 110, [497-1083], 1057D: «Arbor enim ista principaliter intelligitur Dominus Christus, propter crucem, quam pro hominum salute suscepit, quae merito lignum vitae dicitur».

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po, variabile e mutevole per una certa mescolanza degli elementi e per lo scorrere del tempo265.

Anche il mondo appare come una grande «machina»; la croce assume la duplice funzione di simbolo del sacrificio di Cristo e di schema logico utile alla comprensione dell’ordine del creato266. Rabano può dunque ripetere il medesimo ragionamento con tutte le figure proposte come rappresentazioni stilizzate dell’immagine di base della croce, le cui braccia moltiplicandosi ciascuna in tre ramificazioni portano per esempio al prodursi di una nuova simbologia numerologica relativa ai dodici venti ed ai mesi dell’anno, come dodici sono sia i patriarchi, sia gli apostoli, tutti contenuti nella figura della croce267; in modo analogo, congiungendo le quattro estremità della croce con il centro si uniscono cinque punti che simboleggiano i libri del Pentateuco, nei quali è racchiuso il senso della «sancta lex» che governa l’universo e che viene portata a compimento dalla «iustificatio legis» realizzata dal sacrificio di Cristo268. La croce diviene così una sorta di forma universale, la cui configurazione permette di individuare, nel creato, le tracce di quell’ordine che altrimenti non apparirebbe evidente. Così, nella dodicesima figura Rabano disegna i quattro estremi della croce utilizzando le stesse lettere che compongono la parola «ADAM», ad intendere che fin dall’inizio della storia dell’umanità è stato preannunciato l’avvento della croce di Cristo che redime l’umanità, peccatrice nel primo uomo269. Unica è la 265 ID., In honorem sanctae crucis, C7, 178A, p. 72,51-55: «Cur vero in rotis quatuor elementa sive quatuor tempora seu quatuor plagas mundi depinxerim, haec ratio est, quia omnis mundi machina temporalis est, et quadam permitione elementorum atque successu temporum variabilis sive mutabilis»; cfr. ID., De computo, 1, PL 107, 671D, ed. J. McCulloh - W. Stevens,Turnhout 1979 (CCCM, 44), pp. 205,19 - 206,26: «DISCIPULUS. Dic ergo quando primum inventa est ista ratio? – MAGISTER. Ex illo tempore quo factae sunt creaturae, hoc est, ab origine saeculi. Tunc enim primum numerus rebus innotuit, sicut in Genesi legitur: Et factum est vespere et mane dies unus.Tunc ergo dixit de nocte et de die quando dixit de vespere et mane. Numeri autem rationem ostendit quando dixit: Dies unus, et dies secundus, et dies tertius, sicque usque ad septimum». 266 Cfr. M. PERRIN, La représentation figurée de César-Louis le Pieux chez Raban Maur en 835: Religion et idéologie, in «Francia», 24 (1997), pp. 39-64. 267 Cfr. HRABANUS MAURUS, In honorem sanctae crucis, C8, 181A, p. 77,1-11. 268 Cfr. ibid., C11, 193AC, p. 97,1-28. 269 Cfr. ibid., C12, 197B, p. 103,14-18: «Recte enim nomen Adam in crucem configuratum ponitur, in qua omne genus humanum per Christum liberatum es-

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fonte da cui scaturisce la verità tanto del simbolo quanto degli eventi che esso annuncia e riepiloga, al punto che tra il significato del primo e la realtà dei secondi non è possibile alcuna contraddizione: Dunque i quattro evangeli scritti dai quattro evangelisti rappresentano i quattro fiumi del paradiso che nascono da un’unica sorgente, poiché come questi stessi nascendo da un’unica fonte irrigarono tutta la terra, così nascendo da una unica fonte, cioè Cristo, dal quale chi beve una volta, non avrà sete in eterno, e scorrendo per bocca dei predicatori, i quattro evangeli irrigano tutto il mondo per produrre frutti di virtù270.

La fiducia espressa da Rabano, nell’In honorem, nei confronti dell’idea che la «veritas» sia diffusa nel creato, che ad essa tutto vada riportato («quia veritas tenorem observat rectitudinis, nec deflectitur in obliqua falsitatis»271), e che l’intera realtà visibile e non visibile possa essere felicemente conosciuta, compresa e interpretata alla luce dei simboli sacri, aspirava a mettere il credente in condizione di leggere efficacemente tali simboli, mediante l’attuarsi di una adeguata pedagogia, opportunamente fondata – in armonia con il modello ormai definito nella coscienza carolingia – sul contributo convergente della sapienza esegetica e degli strumenti più raffinati della razionalità umana. Parallelamente al suo celebre interesse per l’interpretazione delle Scritture, alle quali dedicò innumerevoli commenti – costruiti, come vedremo, prevalentemente raccogliendo e componendo vari estratti dalle opere dei Padri, ma in pratica finalizzati nel loro insieme alla realizzazione di una completa sintesi, estesa a pressoché tutti i libri canonici, dei migliori contributi interpretativi del testo sacro provenienti dalla tradizione – Rabano si impegnò quindi con

se cognoscitur, nec in alia forma species redemptionis nostrae magis convenit haberi quam in illa, ubi plagae totius mundi potuere conprehendi». 270 Ibid., C15, 210A, p. 125,68-76: «Quatuor ergo Evangelia a quatuor evangelistis conscripta, quatuor flumina paradisi de uno fonte procedentia significant, quia sicut ipsa ex una matrice fontis procedentia totam terram rigaverunt, ita ab uno vero fonte,hoc est,Christo,a quo qui semel bibit,non sitiet in aeternum,quatuor Evangelia emanantia,et per praedicatorum ora diffluentia,totum mundum ad virtutum fructus germinandum irrigant». 271 Cfr. ibid., C15, 210BC, p. 126,90-92.

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particolare attenzione nella composizione di strumenti indispensabili per la formazione del cristiano che deve correttamente saper servire Dio. Risponde a questo programma soprattutto la composizione del De clericorum institutione, nel quale l’intuizione di fondo dell’In honorem, vale a dire la complessiva rilettura della verità intelligibile del creato e del suo ordine all’interno di una cornice scritturale, diviene metodo. L’opera, come emerge dalla lettera dedicatoria ad Astolfo, arcivescovo di Magonza, nasce anch’essa da una approfondita riflessione sulle Scritture («in studio sacrae lectionis»), che conduce a stabilire quali siano le regole («observationes») indispensabili per la vita di una struttura complessa come la Chiesa272. L’ascolto della parola di Dio è, per i cristiani, un dovere religioso ed etico innanzi tutto273; ma in essa Rabano intravede anche la possibilità di reperire un complesso insieme di risposte a tutte le questioni sollevate, a partire dai problemi più semplici legati alla vita quotidiana ed alla concreta attuazione delle pratiche liturgiche e cultuali. Raccogliendo anche in questo caso un ricco dossier di opinioni e suggerimenti dei Padri della Chiesa, Rabano mostra come ogni aspetto della vita ecclesiastica trovi la corretta spiegazione ed ogni quesito trovi la sua soluzione nella parola scritturale. La stessa organizzazione formale della vita ecclesiale e delle sue consuetudini, gli atti di culto, i paramenti, i riti, i tempi liturgici trovano il loro senso ultimo appunto nella pienezza della loro aderenza al canone scritturale. In particolare, nel terzo libro dell’opera, Rabano esplicita con una formulazione essenziale ed esauriente in cosa debba a suo parere correttamente risolversi lo studio di base per la formazione del sapiente cristiano: In verità il terzo libro insegna come tutto ciò che è scritto nei libri divini debba essere studiato ed appreso, ed è utile che un uomo di Chiesa indaghi le cose contenute negli studi e nelle discipline dei pagani274.

272 Cfr. HRABANUS MAURUS, De institutione clericorum libri tres, praefatio, PL 107, [293-419], 292D, ed. D. Zimpel, 2 voll., Frankfurt a. Main 1996, I, pp.106,8-20. 273 Cfr. ibid., 293D, ed. Zimpel, I, p. 126, vv. 1-2: «Cernite quid voluit, fratres, sententia legis, / quae mandat rite noscere verba Dei». 274 Ibid., 297B, ed. Zimpel, I, p. 108,19-22: «Tertius vero liber edocet quomodo omnia quae in divinis libris scripta sunt, investiganda sunt atque discenda, nec

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Pur all’interno di un’opera espressamente dedicata alla formazione degli uomini consacrati a Dio («propterea ergo dicti sunt clerici, quia de sorte sunt Domini, vel quia Domini partem habent»), Rabano non separa mai la funzione politica dalla meditazione personale. La formazione del vero cristiano, dunque, facilita coloro i quali hanno ruoli istituzionali, ma non è funzionale esclusivamente alla educazione di sovrani e prìncipi; Rabano indica semplicemente che, a chi dovesse guidare una comunità, il compito apparirà meno gravoso se sorretto dai rudimenti della vera fede275. Le Scritture rimangono, per Rabano, il «fundamentum» e costituiscono la migliore testimonianza di una verità diffusa per tutto il creato, che trova senso solo nel suo riferimento alla fonte originaria («ipsa doctrix et illuminatrix omnium veritas et sapientia eis investigare posse concessit; ac ideo ad unum terminum cuncta referenda sunt»)276. Il presupposto di questo accostamento è semplice: ciò che nelle Scritture interessa al credente non sono i «verba», che difficilmente possono essere ben interpretati perché gli uomini hanno necessariamente dovuto dare concretezza alla lingua perfetta ma impronunciabile di Dio nei loro idiomi imperfetti; è invece il «sensus», vale a dire il significato, che deve coincidere con quanto realmente espresso dal testo sacro, che è a sua volta specchio della azione ispiratrice dello Spirito Santo277. È dunque naturale che all’interno di una distinzione tra la semplice comprensione letterale e l’interpretazione del senso profondo delle Scritture Rabano inserisca una valutazione dell’utilità ermeneutica degli strumenti normativi della conoscenza fissati dagli inventori delle arti liberali, in particolar modo per coloro i quali studiano i testi sacri. Non tutte le discipline già care ai pagani sono utili; vanno infatti rigettate quelle artificiosamente create dall’uomo a scorretta imitazione delle vere arti ranon et ea quae in gentilium studiis et artibus ecclesiastico viro scrutari utilia sunt». 275 Cfr. ibid., III, 1, 377B, ed. Zimpel, II, p. 454,21-25: «Turpe est enim tunc primum quemlibet velle discere, dum debet (pastor constitutus) docere, et periculosum est eum magisterii pondus subire, qui non, scientiae praesidio suffultus, potens est illud sufferre». 276 Cfr. ibid., III, 2, 379D, ed. Zimpel, II, p, 462,3-11. 277 Cfr. ibid., III, 15, 391D, ed. Zimpel, II, p. 514-516; Rabano riprende integralmente il testo da AURELIUS AUGUSTINUS, De doctrina christiana, III, 27, 38, PL 34, 59, ed. Martin cit. (cap. 3, alla nota 90), p. 102,3-20.

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zionali e che nascono con la pretesa di interpretare le leggi del mondo a prescindere dalla volontà del suo Creatore: la capacità di realizzare oroscopi, ad esempio, pur fondandosi su una reale percezione della posizione delle stelle alla nascita degli individui, non ha come fine magnificare Colui che le ha create, ma sfruttare la credulità popolare per rendere schiavi gli uomini278. La prima delle arti, la grammatica, è il fondamento delle altre, utile a comprendere le opere degli storici e dei poeti, perché ad essa è affidata la norma dello scrivere e del parlare correttamente («recte scribendi loquendique ratio»)279. Essa dunque non è da disprezzare nemmeno quando è utile alla composizione di opere non prettamente teologiche; diversi «scriptores evangelici», tra cui Alcuino e Paolino, ne hanno utilizzato le «regulae» a tal fine. È dunque lecito anche leggerne le applicazioni non dichiaratamente teologiche; esse però devono rimanere semplice strumento nelle mani del vero cristiano280. Rabano trae da Girolamo la famosa similitudine (dedotta da Dt 21,10-13) secondo cui la sapienza mondana che i cristiani devono sottomettere al vaglio della loro fede è come la donna pagana cui i figli di Israele possono congiungersi solo dopo che sia stata spogliata della sua bellezza esteriore, ma la inserisce in un contesto di tolleranza nei confronti della cultura classica281. La retorica, ad esempio, che da secoli educa gli adolescenti a parlare in pubblico e dunque alla convivenza civile, può indirizzare al vero come al falso; è giusto allora che i cristiani sappiano difendersi proprio apprendendone preventivamente i complessi dettami da coloro i quali, abili in quell’arte, saprebbero convincere l’uditorio della fondatezza delle loro false dottrine. È dunque opportuno che essa sia in possesso dei cristiani, affinché sia al servizio del vero («ut militet verita278 Cfr. HRABANUS MAURUS, ibid., III, 16, 392D, ed. Zimpel, II, pp. 516-518; l’idea è mutuata da AURELIUS AUGUSTINUS, De doctrina christiana, II, 21, 32, PL 34, 80, ed. Martin, pp. 56,22 - 57,27. 279 Cfr. HRABANUS MAURUS, ibid., III, 18, 396AD, ed. Zimpel, II, p. 52,10-12. 280 Cfr. ibid., 396B, ed. Zimpel, II, p. 530,2-9. 281 Cfr. HIERONYMUS STRIDONIUS, Epistola ad Damasum de duobus filiis, 13, 4, in Epistolae, 21, PL 22, 385, ed. I. Hiberg, ed. alt., 4 voll., Wien - Leipzig 1996 (CSEL, 54), p. 122,5-8: «Daemonum cibus est carmina poetarum, saecularis sapientia, rhetoricorum pompa verborum. Haec sua omnes suavitate delectant: et dum aures versibus dulci modulatione currentibus capiunt, animam quoque penetrant, et pectoris interna devinciunt».

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ti»)282.Terza nell’ordine delle artes, la dialettica è invece, nella descrizione di Rabano, prima per dignità; essa infatti porta gli uomini a conoscere cosa sia la creatura, e cosa il Creatore: «per hanc intelligimus quid sit faciens bonum, et quid factum bonum; quid creator, et quid creatura»283. Esistono infatti delle «connexiones» tra le cose e, di conseguenza, tra le parole che le descrivono; rispettare questi equilibri evita all’uomo di cadere nei pericoli di una falsa sapienza. L’errore nasce da una difformità tra ciò che si dice e ciò che è nella realtà; tale difformità può essere frutto di ignoranza o di malizia. Nel primo caso va combattuta con l’educazione, nel secondo con la dialettica che, illustrando la definizione compiuta dei termini utilizzati, dimostra che tra il loro uso e la realtà che avrebbero dovuto rappresentare si è formato uno iato equivoco. In ciò è giustificato l’utilizzo, da parte dei cristiani, di questo strumento; essi infatti si fondano sulla certezza che esista, nel mondo, una congruenza tra la realtà e la sua retta rappresentazione. I cristiani, partendo dal presupposto della creazione del mondo da parte di Dio, intuiscono l’esistenza di un ordine razionale284; proprio questa ossatura del mondo garantisce dunque, come già aveva affermato Agostino, che una volta utilizzati con 282 Cfr. HRABANUS MAURUS, ibid., III, 17, 396D, ed. Zimpel, II, p. 510,10-20; cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De doctrina christiana, IV, 2, 3, PL 34, 80, ed. Martin, pp. 118,20 - 119,13. 283 Cfr. HRABANUS MAURUS, ibid., 20, 397D, 952D-953A, ed. Zimpel, II, p. 538,14-15: «‘Dialectica est disciplina rationalis quaerendi, diffiniendi et disserendi, etiam vera et a falsis discernendi potens’ (cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, De dialectica, PL 100, 952D-953A).‘Haec ergo disciplina disciplinarum est’ (cfr. CASSIODORUS SENATOR, Institutiones saec. litt., 3, PL 70, 1167D, ed. Mynors cit. [cap. 3, alla nota 88], p. 110,17-18);‘haec docet docere, haec docet discere, in hac se ipsa ratio demonstrat atque aperit quae sit, quid velit, quid videat. Scit scire sola scientes facere non solum vult, sed etiam potest’ (AURELIUS AUGUSTINUS, De ordine, II, 13, 38, PL 32, 1013, ed. Green cit. [cap. 3, alla nota 89], p. 174,8-11). In hac ratiocinantes cognoscimus quid sumus et unde sumus; per hanc intelligimus quid sit faciens bonum, et quid factum bonum; quid creator, et quid creatura; per hanc investigamus veritatem, et deprehendimus falsitatem; per hanc argumentamur, et invenimus ‘quid sit consequens, quid non consequens, et quid repugnans’ (cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De doctrina christiana, II, 34, 52, PL 34, 59, ed. Martin, p. 70,8-23) in rerum natura, quid verum, quid verisimile, et quid penitus falsum in disputationibus». 284 HRABANUS MAURUS, ibid., 22, 399D, p. 544,11-16; cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De Genesi ad litteram, IV, 7, 14, PL 34, 301, ed. Zycha cit. (cap. 3, alla nota 67), p. 103,16-19: «Non possumus dicere propterea senarium numerum esse perfectum quia sex diebus perfecit Deus omnia opera sua, sed propterea Deum sex diebus perfecisse opera sua, quia senarius numerus perfectus est». Si veda anche

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correttezza tanto il ragionamento quanto il linguaggio, non si possa cadere nell’errore285. Alla luce di questa fiducia, Rabano dedicò alle Scritture buona parte della sua produzione letteraria, impegnandosi in commenti utili a mostrare proprio la necessità del continuo riferimento, per il credente, alla pagina sacra, ed al contempo la possibilità concreta di renderla sempre più comprensibile ai suoi fruitori286. Rabano ebbe sempre coscienza, nella stesura delle sue opere, di quanto il suo sforzo dovesse porsi, quantomeno cronologicamente, alla fine di una lunga serie di commentatori, ma lo accompagnò al contempo la consapevolezza dell’utilità di uno sforzo fatto non tanto per migliorare la tradizione esegetica, ma per favorirne la diffusione e la comprensione287. Egli mostra infatti, anche nella veste di esegeta,una grande preoccupazione per i fraintendimenti che può subire la Scrittura, spesso oggetto di violenza da parte degli eretici288; il cristiano è sempre tenuto a resistere, con l’aiuto della pagina sacra, alle tentazioni di chi, con false «suasiones», vuole portarlo HRABANUS MAURUS, Commentaria in Ezechielem, XVII, 41, PL 110, 977C: «Possunt tamen in altitudine altaris, quae est trium cubitorum, mystice accipi corda electorum, quae per fidem, spem, et charitatem ad coelestia tendunt; in longitudine, quae erat duorum cubitorum, longanimitas et patientia eorum intelligi, qui exspectant regnum futurum, et exercent se bene operando in duobus praeceptis charitatis, donec perveniant ad gaudia sempiterna. Apte enim in constructione tabernaculi Dei de lignis setim, quae albae spinae similia, et esse incorruptibilia dicuntur, utrumque altare fieri praecipitur». 285 Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De doctrina christiana, II, 31-32, PL 34, 59, ed. Martin, pp. 67,10 - 69,11. 286 Cfr. R. SAVIGNI, ‘Sapientia divina’ e ‘sapientia humana’ in Rabano Mauro e Pascasio Radberto, in Gli umanesimi medievali,Atti del II congresso dell’Internationales Mittellateinerkomitee (Firenze, 11-15 settembre 1993), Firenze 1998, pp. 591-616. 287 Cfr. HRABANUS MAURUS, Expositio in Matthaeum, Praef., PL 107, [7271155], 727CD, ed. B. Löfstedt, 2 voll.,Turnhout 2000 (CCCM, 174-174A), I, p. 1,11-16: «Opus (…) non quasi pernecessarium, cum multi scriptores me in illo vestigio praecesserint, sed quasi magis commodum, cum plurimorum sensus ac sententias in unum contraxerim, ut lector pauperculus, qui librorum copiam non habet, aut cui in pluribus scrutari profundos sensus Patrum non licet, saltem in isto sufficientiam suae indigentiae inveniat». 288 Cfr. ibid., III, 8, 862D, ed. Löfstedt, I, p. 243,24-30: «Item possumus non incongrue, iuxta allegoriam per vulpes haereticos et volucres coeli malignos spiritus significatos accipere, qui in corde Iudaici populi foveas et nidos, id est domicilia, habeant; vulpes enim nihil cum virtute, sed omnia cum astutia agit; sic haeretici non in virtutibus Christi, sed in versutia sua confidentes, dolis instructi et dialectica arte callidi, quoscunque possunt seducere satagunt».

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lontano dalla via della verità289. Non esiste scientia al di fuori delle Scritture, e dunque non esiste verità al di fuori della Chiesa, che su di esse si struttura290. Si dice bene dunque che Dio allontana colui che da Moab presenta offerta ai cieli, e sacrifica ai suoi dèi, perché, caduto il regno, cessò l’abitudine dei sacrifici. Misticamente, si intende che scomparsa la setta dell’umana sapienza, cessò nello stesso tempo il suono e lo sfoggio delle parole, così che né i filosofi di questo mondo, né gli eretici fuoriusciti dall’unità della Chiesa trovano qualcosa nella loro dottrina che arrechi qualche utilità alla vita umana291.

Rabano teme la pericolosità della filosofia e in generale di quel sapere che, con il suo tecnicismo o la sua doppiezza, può sviare il credente292: 289

Cfr. ibid., I, 4, 782D, ed. Löfstedt, I, p. 99,19-23: «Nobis exemplum donans, ut quisquis imperaverit viam veritatis arctam et supernam nos ascendere, obtemperemus; si quis autem vult nos fictis suasionibus de altitudine veritatis et virtutum ad ima erroris et vitiorum praecipitare, non illum audiamus». Ibid., II, 5, 802B, ed. Löfstedt, I, p. 134,44-48: «A luce vera, quae Christus est, illuminati apostoli lux mundi appellantur, quia per ipsos luce fidei et scientiae illuminandus erat mundus. Nam quomodo superius sal terrae figuraliter iidem sunt nominati, sic nunc lux mundi esse non corporaliter, sed spiritaliter sunt intelligendi». ID., Liber de oblatione puerorum, PL 107, [419-439], 419B: «Si quis Scripturam sacram, quam per homines probos divinitus inspiratos superna sapientia humano generi contulerat, inspexerit, non aliud eam quam destructionem infidelitatis atque cupiditatis, et aedificationem fidei ac charitatis nobiscum agere reperiet». 290 Cfr. ID., Expositio in Matthaeum, II, 5, 803A, ed. Löfstedt, I, p. 135,65-74: «Civitas vero totam Ecclesiam Christi in eius fide fundatam, quae ex multis gentibus tanquam ex multis lapidibus est constructa, conglutinata autem bitumine charitatis et unitate fidei. Haec tuta fit intrantibus, sed laboriosa adeuntibus, custodit habitatores, secludit inimicos. Et contra omnes insidias inimicorum, hoc est Iudaeorum, Paganorum, sive etiam haereticorum, manet insuperabilis. Hanc civitatem praefigurabant sex urbes refugii in montibus positae, quia ipsa in monte, hoc est, palam posita veraciter refugium fit omnibus confugientibus ad se ab inimico diabolo». ID., De computo, 1, PL 107, 671C, ed. McCulloh - Stevens cit. (alla nota 265), p. 205,16-18: «DISCIPULUS. Haec ergo ratio numerorum unde primum processit? – MAGISTER. A Deo scilicet. Quia omnis sapientia a Domino Deo est, ex quo sunt omnia». 291 ID., Commentaria in Ieremiam, XV, 48, PL 111, [793-1273], 1124A; ibid., 1118AB: «Mystice autem sapientes istius mundi et haeretici, quos in Moab persona superius designatos diximus, si se a stultitia sua non correxerint, et ad veritatem fidei catholicae non converterint, ingens illis ruina veniet, et devastatio universis urbibus eius, hoc est, diversis sectis philosophorum, quae longe, sive prope, a veritate distabant, lucescente Evangelio Christi subvertentur». Cfr. ID., Commentaria in libros Machabeorum, I, 5, PL 109, [1125-1255], 1167C. 292 Cfr. ID., Expositio in Matthaeum, II, 4, PL 107, 791B, ed. Löfstedt, I, p.

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Chi trova veramente la sapienza celeste, cioè il Verbo di Dio nei cieli, disprezza tutte le ricompense della vita terrena, ogni filosofia umana, e tutta l’eloquenza degli oratori, e godrà nel dedicarsi alla sola contemplazione di Dio293.

È dunque necessario, per il credente, armarsi dell’«astutia» sapiente di cui parlano i Proverbi, per evitare di cadere nei pericoli dei «sophismata»294. Rimane saldo per Rabano il riferimento delle Scritture e dei Padri, per evitare che la convinzione nei propri mezzi svii, per superbia, il credente295. Portata alle sue estreme conseguenze, essa rende gli eretici simili agli idolatri, che costruiscono dei falsi «idola» con gli strumenti delle artes: Tutto ciò che invece si dice degli idoli può essere riferito agli eresiarchi, che compongono le loro false dottrine con l’abilità del loro animo e venerano quelle cose che sanno che da loro stessi sono state falsate, né basta loro il proprio errore, fino a quando non hanno allontanato con l’inganno dalla preghiera i più ingenui tra loro, e «ritengono un mestiere la devozione», e «divorano le case delle vedove», ed abusano dell’ignoranza del popolo, così con l’arte dialettica, quasi fosse un’ascia ben fatta, e con la lima e con la pialla, costruiscono il loro dio, e lo battono con il martello, e lo arricchiscono con la bellezza del linguaggio retorico; «il loro dio è il ventre, e nella confusione trovano gloria»296. 115,18-20: «Piscatores et illitterati mittuntur ad praedicandum, ne fides credentium non in virtute Dei, sed eloquentia atque doctrina hominum putaretur». Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De civitate Dei, XVIII, 49, PL 41, 611D, ed. Dombart Kalb cit. (alla nota 196), pp. 647,1 - 648,32. 293 HRABANUS MAURUS, Commentaria in librum Sapientiae, II, 3, PL 109, [671763], 698B: «Qui coelestem sapientiam veraciter invenit, hoc est, verbum Dei in excelsis, omnia emolumenta praesentis vitae, omnem philosophiam humanam, omnemque oratorum eloquentiam despicit, et soli theoriae divinae vacare gaudebit». 294 Cfr. ID., Expositio in proverbia Salomonis, I, 1, PL 111, [679-793], 680B: «Haec etenim rudibus est et insipientibus necessaria, per quam sophismatum dignoscere, et cavere versutiam possint, ne falsorum fraudibus argumentorum abducantur a simplicitate verae sapientiae, quae ducit ad vitam». 295 Cfr. ibid., 681A: «Nemo se de sua iactet scientia. Quia qui sapientium verba creber audire et intelligere negligit, vitam suam rite gubernare non novit, quanto magis alieno regimini perfici nequit, qui seipsum ad patrum disciplinam subiicere contempsit». 296 ID., Commentaria in librum Sapientiae, III, 3, 736A: «Quidquid autem de idolis dictum est, potest referri et ad haereseorum principes, qui simulacra dogmatum suorum atque artifici corde componunt et venerantur ea quae a se sciunt

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Dialettica e retorica – pur così apprezzate nell’ambito del progetto pedagogico rabaniano quando sono finalizzate ad un disinteressato e sincero servizio per l’ermeneutica del testo sacro – appaiono dunque armi pericolose, se affidate a chi non nutre alcun rispetto per la verità, vale a dire a chi non rispetta l’«ordo» naturale, ma aspira alla «confusio»297. La stessa descrizione del mondo, che Rabano propone in un’opera enciclopedica come il De rerum naturis, risente di questa impostazione. Non ultimo erede di una tradizione enciclopedista medievale che ha visto in Cassiodoro ed Isidoro i primi e più illustri rappresentanti, Rabano desidera compendiare, in un’unica opera, le sue competenze derivate dal sapere sacro e da quello profano298. Questo patrimonio non è però funzionale alla formazione di un intellettuale cristiano adeguatamente erudito anche in ciò che non riguarda la fede; solo l’utilità di questi saperi per una migliore meditazione delle Scritture li rende degni di attenzione: Da dove si deduce che non ti si addice anteporre niente alla meditazione della legge divina e della dottrina del verbo di Dio: né devi, in alcun modo, abbandonarle per le preoccupazioni quotidiane e per gli impegni del mondo, perché queste cose costituiscono un grandissimo impedimento all’opera divina in coloro che ne abusano. Infatti, ahimè, si trovano molti uomini oggi tra gli ecclesiastici che, abbandonato il compito di predicare e di convertire gli animi, si reputano grandi proprio in questo, se cioè sono preposti ad incarichi terreni, e sono presenti spesso a discussioni profane, così che sono a

esse simulata, nec sufficit eis error proprius, nisi simplices quosque eorum ab oratione deceperunt, et qui ‘quaestum’ putant ‘esse pietatem’ (1Tm 6,5), et ‘devorant domos viduarum’ (Mc 12,40; Lc 20,47), abutentesque vulgi imperitia, ita arte dialectica, quasi ascia tereti et lima et runcina formant deum suum, et cudunt malleo, atque inaurant sermonis rhetorici venustate,‘quorum deus venter est, et gloria in confusione eorum’ (Ph 3,19). 297 Cfr. ID., Commentarium in Ecclesiasticum libri decem, III, 4, PL 109, [7631126], 841B: «Unde totus labor eorum vanus est, quem in copia rhetoricae et dialecticae artis condendo plures libros expendunt». 298 Cfr. ID., De rerum naturis, Praef. altera, PL 111, [9-613], 12C: «Memor boni studii tui, sancte Pater, quod habuisti in puerili atque iuvenili aetate in litterarum exercitio et sacrarum Scripturarum meditatione, quando mecum legebas non solum divinos libros et sanctorum Patrum super eos expositiones, sed etiam huius mundi sapientium de rerum naturis solertes inquisitiones, quas in liberalium artium descriptione et caeterarum rerum investigatione composuerunt».

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capo dei loro conventi quasi come arbitri, e divengono giudici dei conflitti299.

In Rabano come era già stato in Alcuino, lo sforzo per incrementare le proprie competenze non rappresenta dunque un momento di esclusiva crescita personale. In entrambi, infatti, è evidente una logica più sottile; il creato vive grazie all’ordine posto da Dio, che presiede ai meccanismi di funzionamento di ogni aspetto della realtà. Esistono «regulae» per ogni ambito del sapere: il loro studio approfondito è il compito assunto dagli intellettuali, che in tal modo onorano Dio nel migliore dei modi, rendendo intelligibile a tutti i credenti la struttura razionale che regge l’universo, e che si manifesta nell’ispirazione sottesa alle Scritture, nella sagacia esegetica dei Padri, nella capacità politica dei sovrani, nella lungimiranza dottrinale della Chiesa300.

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Ibid., 13C: «Unde decet te nihil aliud praeponere meditationi divinae legis, et doctrinae verbi Dei: nec ullo modo debes ea deserere propter mundanam curam et saecularia negotia: quia haec maximum impedimentum faciunt operi divino apud eos qui his abutuntur. Nam, proh dolor! multi inveniuntur huius temporis viri in ecclesiasticis personis qui, relicto praedicandi officio et spiritali conversatione, in eo se magnos aestimant, si terrenis negotiis praeponantur, et disceptationibus saecularium saepe intersint: ita ut in eorum conventibus quasi arbitres praesideant, et eorum conflictuum iudices fiant». 300 Cfr. ibid., 14A: «Multo melius est enim laborare episcopum in doctrina verbi Dei ob salutem animarum sibi commissarum, quam in disponendis et definiendis civilibus quaestionibus; et variis hominum contentionibus vacare, qui propter terrenam cupiditatem lites et rixas incessanter movent, et unusquisque in his alterum superare contendit. Nusquam enim in Scripturis sacris legitur ipse Salvator, aut discipuli eius, hoc egisse sive docuisse».

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CAPITOLO SESTO

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Il rinascere del dibattito teologico dopo il silenzio prodottosi nella prima età dei regni romano-barbarici è stato animato, tra la fine del secolo VIII e l’inizio del IX, da intellettuali legati da vincoli personali a Carlo Magno ed impegnati nel confutare dottrine nate lontano dalla corte carolingia. In tal senso, tanto lo sforzo prodotto contro l’adozionismo di origine iberica, quanto il moderato iconoclasmo difeso in aperta polemica con le conclusioni iconodule del secondo concilio niceno, non solo furono momenti dello sviluppo di una identità teologica, ma manifestarono anche un esplicito ordine di priorità; i teologi che collaborarono con Carlo Magno preferirono infatti non soffermarsi sui contrasti pur presenti all’interno della corte,testimoniati in modo episodico dall’epistolario di Alcuino, perché avvertirono come prioritaria la necessità di difendere la cultura carolingia da pericoli esterni, negli anni in cui massima era la spinta all’ampliamento territoriale che aveva caratterizzato l’azione di Carlo Magno.Alla morte di Alcuino e di Carlo, venuta meno questa esigenza di difendere la cultura di corte, sia per una temporanea stabilizzazione degli equilibri territoriali, sia per l’affievolirsi della politica espansionistica carolingia, emerse la necessità di riflettere sul patrimonio di conoscenze organizzato e diffuso dall’insegnamento di Alcuino, dai suoi collaboratori e dai suoi contemporanei. Carmina, epistolari, manuali per lo studio delle artes, opere liturgiche ed apologetiche vennero realizzati mettendo in pratica le competenze accumulatesi nei decenni precedenti, ed introducendo al contempo piccole innovazioni linguistiche e dottrinali. In tal modo, si produsse una lenta e

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sotterranea sperimentazione, attraverso la quale gli intellettuali dell’epoca tentarono di comprendere fin dove quel ricchissimo patrimonio potesse guidare la loro speculazione. A metà del secolo IX,la cultura carolingia,ormai solida nella sua formazione di base, e maturata nella consapevolezza della reale fruibilità delle competenze acquisite negli anni, portò a compimento il percorso iniziato da Alcuino, sintetizzando i migliori elementi della propria tradizione culturale in una originale e compiuta identità. Come già nei decenni precedenti, è nel dibattito teologico che più evidenti appaiono i risultati di questa evoluzione. Le dispute coinvolsero, spesso con toni veementi, alcuni tra i più illustri rappresentanti della cultura carolingia; ciò garantì agli stessi sovrani l’elevato tenore del dibattito ed una esaustiva gamma di soluzioni ai problemi posti. Pascasio, Ratramno e tutti i teologi coinvolti in questa stimolante stagione non si limitarono ad utilizzare gli strumenti testuali messi a loro disposizione da Alcuino e dai suoi immediati successori; da quella prima età carolingia giunse ad essi anche un metodo teologico, nel quale lo studio delle auctoritates veniva consapevolmente affiancato con naturalezza a quello delle artes, e permetteva di fondare, su un patrimonio sapienziale ormai consolidatosi, una più ardita e complessa architettura teologica. In un passo del De praedestinatione, Incmaro di Reims invita i «rectores» della Chiesa a vigilare sui pericoli derivanti dalle «novitates vocum» di coloro i quali discutono di «trina deitas», del sacramento eucaristico, degli angeli, dell’anima, delle pene eterne e della visione beatifica1. Nel porre problematicamente e nello sviluppare con rigore alcuni di questi temi, gli intellettuali che vissero l’età di Carlo il Calvo diedero prova non solo delle loro capacità personali, ma anche della piena efficacia della strumentazione ereditata dalle generazioni precedenti.

1 Cfr. HINCMARUS RHEMENSIS, De praedestinatione, 31, PL 125, 296D-297A: «Videlicet quod trina sit Deitas, quod sacramenta altaris non verum corpus et verus sanguis sit Domini, sed tantum memoria veri corporis et sanguinis eius, quod angeli natura sint corporales, quod anima hominis non sit in corpore, quod non aliae poenae sint infernales, nisi tormentalis memoria conscientiae peccatorum. Et forte qui non satagunt ut post finitum universale iudicium Dominum videant, qualiter videri debeat, mordaci contentione disquirunt». Cfr. D’ONOFRIO, Discussioni teologiche nel regno di Carlo il Calvo, in Storia della Teologia nel Medioevo cit. (cap. 2, alla nota 65), I, [pp. 197-242], p. 200.

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VI. L’ETÀ DI CARLO IL CALVO

1. Pascasio Radberto di Corbie Dalla lettura del De corpore et sanguine Domini, opera dedicata da Pascasio Radberto al tema del sacramento eucaristico, emergono con chiarezza i risultati di questa evoluzione. Per Pascasio, il presupposto su cui deve fondarsi la fede è la fiducia assoluta nell’operato della volontà di Dio, creatore e custode dell’ordine che governa l’universo2. Dio infatti non solo ha voluto creare il mondo, ma ha anche stabilito complessivamente la norma in virtù della quale tutti i rapporti tra le cause e gli effetti all’interno della creazione fossero determinati in modo inderogabile3. È dunque impossibile che le creature non si conformino alla volontà di Dio: «patet igitur quod nihil extra vel contra Dei velle potest, sed cedunt illi omnia omnino»4. Questa premessa non è soltanto un invito all’umiltà dinanzi alla grandezza della volontà divina legislatrice, ma costituisce, per Pascasio, l’unica chiave interpretativa possibile dei grandi temi della fede cristiana, e in primo luogo del mistero eucaristico5. Nel Vangelo di Giovanni, Cristo risponde con chiarezza ai Giudei, che si chiedevano come egli potesse dar loro da mangiare la sua carne, non con una spiegazione di come ciò fosse possibile ma con una affermazione di principio in me2 Cfr. PASCHASIUS RADBERTUS, De corpore et sanguine Domini, 1, PL 120, 1267A, ed. Paulus cit. (cap. 2, alla nota 80), p. 12,7-15: «Nam natura omnium creaturarum non ex se est neque ex sese creat rursum omnia, quae nascuntur naturalia rerum nascentia sed voluntate Dei omnium rerum natura condita est. Propterea si quisque recte sapit, non naturam causam dicit esse rerum, sed omnium denascentia et ex natura sui generis denascentia voluntatem Dei esse confitetur». Per la figura e l’opera di Pascasio, cfr. H. PELTIER, Pascase Radbert,Abbé de Corbie, Amiens 1938; G. MATHON, Pascase Radbert et l’évolution de l’humanisme carolingien, in Corbie abbaye royale, Lille 1963, pp. 135-155; BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 125-134 e 292-295; D’ONOFRIO, Discussioni teologiche cit., pp. 201-205, 219-224 e 234-236. 3 Cfr. PASCHASIUS RADBERTUS, ibid., 1268D, p. 14,31-41: «Neque enim sic condidit omnium artifex Deus rerum naturas, ut suum velle ab his auferret, quia omnium creaturarum substantia in eadem Dei voluntate subsistit et virtute, a qua causam habet, non solum ut subsistat quidquid est, sed etiam ut sic sit sicut ipsa Dei voluntas decreverit, quae causa est omnium creaturarum.Alioquin nec subsisteret ulla creaturarum existentia, nisi in eius voluntate, a quo totius eius esse manat. Et ideo natura creaturae quotiens mutatur, aut augetur, vel subtrahitur, non ab illo esse divertitur in quo est, quia sic est, et sic fit, ut ille decernit in quo est». 4 Ibid., 1269A, p. 14,41. 5 Cfr. M. CRISTIANI, La controversia eucaristica nella cultura del secolo IX, in «Studi medievali», Ser. 3a, 9 (1968), pp. 167-233.

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rito all’assoluta necessità di riconoscere quanto ciò fosse vero6. Per Pascasio, non esiste fonte più degna di fede delle Scritture. Dio ha voluto che il mistero sacramentale si manifestasse in forme sensibili: per quanto ciò possa apparire incomprensibile per la razionalità umana, il pane ed il vino sono realmente il corpo ed il sangue di Cristo7. La ragione secondo Pascasio ha il dovere di indagare in primo luogo se stessa e comprendere le proprie, limitate potenzialità; solo argomentando, infatti, essa può convincersi che ogni suo ragionamento è inutile se applicato ai sacramenti. Le Scritture costituiscono un confine invalicabile, dinanzi al quale la ragione deve indietreggiare; in tal modo, essa può riconoscere i propri limiti gnoseologici, e di conseguenza magnificare la potenza della fede. L’uomo non può determinare, con le sue sole forze, se il sacramento debba intendersi «figurate» o «in veritate»; poiché dunque le Scritture suggeriscono che Cristo è realmente presente nel momento del sacrificio eucaristico, si deve accettare la presenza del suo reale corpo e del suo reale sangue sull’altare8. Chi infatti non riesce a comprendere la verità trascendente sotto l’apparenza delle «species» terrene, avrebbe certamente frainteso la stessa crocifissione di Cristo, se lo avesse visto condannato e messo a morte come un uomo comune: Ma veramente se qualcuno non crede a queste cose, se avesse visto Cristo in croce come uno schiavo, come avrebbe potuto pensare che quello era Dio se prima non avesse creduto per fede? Così, nel corpo [scil. presente sull’altare nel sacrificio eucaristico], dove si mostra un diverso aspetto esteriore, come potrebbe vedere la carne di Cristo, se non lo credesse veramente per fede?9 6 Cfr. Jo 6, 53-55: «Litigabant ergo Iudaei ad invicem dicentes: Quomodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducandum? Dixit ergo eis Iesus: Amen amen dico vobis, nisi manducaveritis carnem Filii hominis et biberitis eius sanguinem non habetis vitam in vobis. Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem habet vitam aeternam et ego resuscitabo eum in novissimo die». 7 Cfr. PASCHASIUS RADBERTUS, ibid., 1, 2, 1269B, p. 14,47-49: «Et quia voluit, licet figura panis et vini, haec sic esse omnino, nihil aliud quam caro Christi et sanguis post consecrationem credenda sunt». 8 Cfr. ibid., 1, 1269C, p. 15,48. 9 Ibid.,p.15,61-62:«At vero si quis ista non credit,si vidisset Christum in cruce in specie servi, quomodo Deum illum intelligeret, nisi per fidem prius credidisset? Ita et in hoc corpore,ubi species alia monstratur,quomodo carnem Christi videat, nisi per fidem veracius credat?».

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Per Pascasio, dunque, non è il sacramento a fondare la fede, ma la fede a fondare il sacramento; solo chi crede in Dio, nella sua superiore volontà e nella sua potenza «absoluta», può accettare che, proprio perché Dio lo ha prima stabilito e poi rivelato nei Vangeli, il pane e il vino eucaristici sono veramente la carne ed il sangue di Cristo. Dinanzi a questo «ordo» del creato, in cui Dio ha determinato la verità delle cose e la liceità delle azioni, l’uomo di fede può soltanto accettare l’evidente limite naturale della propria razionalità, per non rischiare di ignorare la vera «intelligentia sacramenti», fondata sulla fede: Dico che questa è la solidità della nostra fede, questa è l’unità e la comunione di vita, dove, se si ricerca l’ordine naturale, soccombe la ragione, e tuttavia permane, al di là dell’umana ragione, la verità di ciò che avviene, così che sul fondamento della fede si crede in ogni modo alla forza ed all’efficacia di Dio, perché il dubbio della mente, per quanto sia proprio di una vita morale, stimola a non voler raggiungere la comprensione di questo sacramento10.

La solidità della fede cristiana è corroborata, per Pascasio, dall’impegno della ragione che sa rintracciare l’ordine presente nell’universo, per poi sottomettere ad esso proprio la sua capacità inquirente. La «ratio fidei», ciò su cui la fede si fonda, non dialoga con 10 Ibid., I, 1272B, p. 19, 164-170: «Haec est, inquam, firmitas fidei nostrae, haec unitas et vitae communicatio. Ubi si naturae ordo requiritur, succumbit ratio, et tamen manet extra humanam rationem facti veritas, ita ut in ratione fidei vis Deitatis et potestas efficax modis omnibus credatur, quia dubietas mentis, licet bonae vitae sit qui accipit, excludit, ne ad huius sacramenti intelligentiam pertingat». Per il tema della «ratio fidei», cfr. Rm 12, 6 e, inoltre, AURELIUS AUGUSTINUS, Contra Fortunatum Manichaeum, I, 1, PL 42, [111-130], 114: «His rebus credimus, et haec est ratio fidei nostrae, et pro viribus animi nostri mandatis eius obtemperare, unam fidem sectantes huius Trinitatis, Patris et Filii et Spiritus sancti»; SMARAGDUS SANCTI MICHAELIS (SMARAGDUS VIRDUNENSIS), Collectio in epistolas beati Pauli apostoli, PL 102, [508-510], 510C; SEDULIUS SCOTUS, Collectanea in omnes beati Pauli epistolas, PL 103, [9-270], 99D; HRABANUS MAURUS, Enarrationes in epistolas beati Pauli, PL 111, [1273-1616], 1517A: «Et dicitur quia apostolorum Christi in omnem quidem terram (…) verba pervenerint: quod ita intelligi potest, quia terram imperitos quosque et indocibiles omnes dicat, ad quos non verba, in quibus ratio fidei commonetur et explanatio sapientiae, sed sonus fidei communi et simplici praedicatione pervenerit»; AGOBARDUS LUGDUNENSIS, De baptismo Iudaicorum mancipiorum, PL 104, [99-106], 106A, ed.Van Acker cit. (cap. 5 alla nota 155), p. 117,79-85: «Neque dignetur felix mansuetudo vestra mihi irasci, quia importunus vobis existo talia flagitando; sed considerate quia causa est Ecclesiae, ratio fidei, et opus divinum».

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l’«humana ratio» quando questa pretende di indagare ambiti che non le competono. Accettare il sacramento non implica dunque, per Pascasio, rinunciare radicalmente alla capacità dell’uomo di ragionare; se così fosse, credere non sarebbe più un’attività umana. È fondamentale invece comprendere cosa competa alla fede, e cosa invece alla ragione11. Quest’ultima, nel suo procedere argomentativo, parte sempre dalla definizione degli oggetti che studia. Se si applica questa metodologia al sacramento eucaristico, lo si può definire come un’azione grazie alla quale, all’interno di una celebrazione, si giunge a ciò che è invisibile attraverso ciò che è visibile12. In tal modo, e proprio partendo dalla sua capacità di creare definizioni, la ragione, correttamente, fornirebbe per negazione un adeguato contributo alla comprensione del mistero sacramentale: rientra nelle normali capacità dell’uomo conoscere ciò che è possibile vedere; il sacramento è invece una comprensione del mistero che avviene senza passare né attraverso l’elaborazione razionale né attraverso i sensi; essa è dunque più completa e perfetta di qualsiasi altra conoscenza13. Il rito sacramentale assume così la stessa funzione delle «litterae», che nella «infantia» abituano lentamente l’occhio alla lettura, accompagnandolo sino a cimentarsi con opere sempre più elaborate, per poi condurlo alla comprensione dei testi sacri. In egual modo, l’umanità del Figlio è «figura» della divinità del Padre: non coincide con ciò che rappresenta, ma non è per questo falsa o ambigua, come non lo sono le «litterae» rispetto a ciò che indicano. Nel sacramento, pane e vino non sono simboli; pur conservando l’aspetto che avevano prima della consacrazione, essi diventano, grazie alla potenza di Dio che può realizzare anche ciò che ad una logica umana appare impossibile, corpo e sangue di Cristo14. Non è dunque consentito alla ragione riportare l’operato di Dio, in particolar

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Cfr. PASCHASIUS RADBERTUS, ibid., 2, 1272D, p. 20,4-8. Cfr. ibid., 3, 1275B, pp. 23-24,1-7: «Sacramentum igitur est quidquid in aliqua celebratione divina nobis quasi pignus salutis traditur, cum res gesta visibilis longe aliud invisibile intus operatur, quod sancte accipiendum sit. Unde et sacramenta dicuntur aut a secreto, eo quod in re visibili divinitas intus aliquid ultra secretius efficit per speciem corporalem». 13 Cfr. ibid.: «Magis igitur vis divina ex hoc mentes credentium ad invisibilia instruit, ac si visibiliter ea monstraret quae interius praestat ad effectum salutis». 14 Cfr. ibid., 4, 1278C, p. 29, 62-66. 12

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modo in ambito sacramentale, all’«ordo naturae», che Dio stesso ha posto: Non meravigliarti, uomo, e non cercare qui [scil. nel sacramento] l’ordine della natura. Ma se credi veramente che quella carne è stata creata nel suo utero senza seme per potere dello Spirito Santo dalla sola Maria Vergine, perché il Verbo diventasse carne, credi veramente anche che ciò che è fatto attraverso la parola di Cristo per mezzo dello Spirito Santo è il corpo di quello stesso, nato dalla Vergine. E se di questo ne domandi ragione, chi potrà spiegarlo o racchiuderlo in parole? Anzi sappi, ti prego, che la ragione sta nella virtù di Cristo, la scienza nella fede e la causa nel potere, e gli effetti nella volontà; che la potenza di Dio opera efficacemente contro natura oltre la nostra capacità di comprensione razionale. Perciò la scienza sia rappresentata dalla dottrina della salvezza, e la fede sia nel mistero della verità, poiché «procediamo», in queste cose, «per fede e non tramite le apparenze sensibili»15.

Corpo e sangue di Cristo sono, per Pascasio, reali ma non materiali. La materia rimane legata agli accidenti del pane e del vino, la cui sostanza diviene realmente corpo e sangue di Cristo solo in virtù della grazia di Dio; nessun ruolo deve essere attribuito al potere umano del celebrante, che non potrebbe, da creatura, modificare così profondamente nella realtà sostanziale un’altra creatura16. Per Pascasio il vero credente deve dunque anteporre sempre la verità alla propria ragione17; gli stessi Padri della Chiesa 15 Ibid., 1279C, p. 30,86-98: «Et ne mireris, o homo, neque requiras naturae ordinem. Sed si carnem illam vere credis de Maria virgine in utero sine semine potestate Spiritus sancti creatam, ut Verbum caro fieret, vere crede et hoc quod conficitur in verbo Christi per Spiritum sanctum corpus ipsius esse ex Virgine. Ubi si rationem quaeris, quis explicare poterit aut verbis comprehendere? Immo scias, quaeso, quia ratio in virtute Christi est, scientia in fide, causa in potestate, effectus vero in voluntate; quod potentia Divinitatis contra naturam ultra nostrae rationis capacitatem efficaciter operatur. Idcirco habeatur scientia in doctrina salutis, teneatur fides in mysterio veritatis, quoniam in his omnibus ‘per fidem ambulamus et non per speciem’ (2Cor 5, 7)». 16 Cfr. ibid., 12, 1313A e seqq., pp. 83 e seqq. – Cfr. A. RODENAS, El sacrificio de la Misa en dos célebres controversias eucarísticas de la Edad Media, in «Analecta Calasanctiana», 22 (1980), pp. 313-440, in partic. p. 327; A. GAUDEL, Le sacrifice de la messe dans l’église latine du IVe siècle jusqu’à la veille de la Reforme, in Dictionnaire de Théologie Catholique, 1, Paris 1928, p. 1010. 17 Cfr. PASCHASIUS RADBERTUS, Expositio in Matthaeo libri XII, Prol., PL 120, [31-994], 33B, ed. B. Paulus, 2 voll., Turnhout 1984 (CCCM, 56-56A), vol. I,

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hanno approvato che il desiderio tipicamente umano di indagare e descrivere la verità si concretizzasse nella produzione di opere di generi letterari tra di loro diversi, purché tutte coerenti con le verità della fede. La funzione di questo ideale corpus di testi non è infatti letteraria; anche se spesso nutrita della conoscenza delle arti liberali e per questo ricca ed elegante, l’opera di un credente ha sempre una finalità esegetica: non può trovare, agli occhi di Pascasio, il suo senso ultimo se non nel riferimento continuo alle Scritture18. Raccogliendo qua e là molte cose dai loro [scil. dei Padri] libri, ho realizzato quest’opera per i confratelli da leggere con devozione; perlomeno affinché i fanciulli, che sin dall’infanzia il rigore dello studio aveva istruito nelle arti liberali, abbiano truppe di rinforzo dai cui incitamenti apprendano con più sollecitudine a combattere nel campo delle sante Scritture, ed a impegnarsi in esse con maggiore operosità19.

Nell’opera di Pascasio emerge la consapevolezza che la verità sovrasta l’uomo, è per lui incomprensibile nel suo «mysterium», e deve essere accettata senza tentare di renderla comprensibile con gli strumenti della ragione; proprio la loro inadeguatezza è indispensabile per confermare questo iato e per mostrare, per difetto, la trascendenza di Dio e la necessità del credere. Per Pascasio, le potenzialità della fede sono inversamente proporzionali ai limiti della ragione: solo chi sottovaluta le prime ed ignora i secondi può pensare di costringere il discorso teologico entro gli schemi della razionalità umana. La polemica sulla nascip. 3,76-81: «Unde, si praeferenda est omnibus nostrorum auctoritas, noverint quod veritas doctrinae commendat eos auctores, et non utique ipsi veritatem. Quia ‘non disputatio’ doctoris ingenio subnixa ‘veritate, sed veritas disputatione’ quaeritur.Veritas quippe per se solida est; disputatio loquentis vero servit, ut per eam veritas obscuritate velata reseretur». La citazione è da AURELIUS AUGUSTINUS, Quaestionum in Heptateuchum libri VII, I, Prooem., PL 34, 547, ed. Fraipont De Bruyne cit. (cap. 5, alla nota 260), p. 1,18-19. 18 Cfr. A. MATTER, The Bible in early medieval saints’ lives, in The Study of the Bible in the Carolingian era, ed. C. Chazelle,Turnhout 2003 (Medieval Church Studies, 3), pp. 155-165. 19 PASCHASIUS RADBERTUS, ibid., 33D, p. 4,104-108: «Unde et ex eorum libris sparsim plura colligens, hoc opus devote ad legendum fratribus confeci; saltem ut pueri, quos ab ineunte aetate liberalibus saecularis censura erudierat disciplinis, habeant quasi recentia, quorum incitamentis addiscant sollicitius in campo Scripturarum sanctarum currere, atque in his operosius desudare».

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ta verginale di Cristo, alla quale è dedicato il suo De partu Virginis, appare dunque a Pascasio come una evidente confusione tra diversi ambiti gnoseologici. Alcuni affermano che Cristo è nato naturaliter; se così non fosse, essi concludono, non sarebbe stato un vero uomo20. Infatti dicono che la beata vergine Maria non avrebbe potuto né dovuto partorire altrimenti che in conformità alla legge di natura comune a tutti gli uomini e come è consuetudine di ogni donna, perché si possa parlare di vera natività di Cristo. In altro modo dicono che se non fosse nato come nascono tutti gli altri bambini, la sua non sarebbe una vera natività21.

L’opinione dei «phisiologi» è che l’unico modo conosciuto agli uomini per il venire al mondo degli esseri viventi, l’unica «nativitas» è quella che è sottomessa alla «lex naturalis»; se dunque si sostiene che Cristo non è venuto al mondo in quel modo, si afferma che, la sua, «vera nativitas non est». Il fulcro di tale argomentazione è evidentemente il concetto di «lex naturalis». In quanto tale, essa dovrebbe avere il compito di governare la natura e non potrebbe essere artificiosamente costruita dall’uomo, anch’egli ente naturale; dovrebbe dunque identificarsi con l’effetto eternamente vero e necessario della volontà imperscrutabile di Dio22. La modalità attraverso la quale tutte le donne partoriscono, però, pur essendo «naturalis», non può per Pascasio definirsi «lex», perché deriva dal peccato di Adamo ed Eva. Essa è dunque una «maledictio», una «culpa», e come tale non applicabile alla Vergine, che invece è «benedicta». Ma, se da un lato è impossibile che Cristo si sia incarnato con le stesse modalità di ogni altro uomo, perché queste sono frutto dell’errore di Adamo23, dall’altro 20 Cfr. S. BONANO, The Divine Maternity and the Eucharistic Body in the Doctrine of Paschasius Radbertus, in «Ephemerides Marianae», 1 (1951), pp. 379-394. 21 PASCHASIUS RADBERTUS, De partu Virginis, 1, PL 120, 1367D, ed. Matter cit. (cap. 2, alla nota 81), p. 48,21-25: «Dicunt enim non aliter beatam Virginem Mariam parere potuisse, neque aliter debuisse quam communi lege naturae, et sicut mos est omnium foeminarum, ut vera nativitas Christi dici possit. Alias autem, inquiunt, si non ita natus est ut caeteri nascuntur infantes, vera nativitas non est». 22 Cfr. ibid., 1368D, p. 48,46-49: «Quapropter cogitent isti disputatores, naturarum leges cogitent et divinarum rerum iura, quia non ex natura rerum divinae leges pendent, sed ex divinis legibus naturarum rerum leges manare probantur». 23 Cfr. ibid., 1372C, p. 54,225-230: «Hinc ergo colligitur quod superstitiosa sit

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non è possibile impedire a Dio, che ha dato vita all’ordine dell’universo, di infrangere tale ordine. Ciò infatti rappresenterebbe un limite impropriamente imposto alla sua onnipotenza: Perché anche questa ineffabile natività della carne è miracolosa e non deriva, come sostengono questi, che non interpretano bene, da una legge di natura comune a tutti gli uomini, ma dal sacramento della grazia. Infatti che nasca un uomo Dio da una Vergine non è consuetudine, ma mistero; non è naturale, ma deriva dalla capacità e dalla grandezza; non è la regola della nascita, ma un segno di potenza24.

Proprio l’assoluta trascendenza di Dio, rispetto tanto agli uomini quanto all’ordine stesso da lui posto, rende inutile, secondo Pascasio, ogni tentativo creaturale di comprendere la potenza del Creatore25. Egli infatti, laddove decida di infrangere le norme esistenti nel creato, può liberamente porre un nuovo ordine, per dare seguito alle sue decisioni26; in ciò è completamente libero rispetto alle necessità imposte dalla logica umana, per la quale la nascita verginale di Cristo rimane un mistero insondabile: nella sua trascendenza, Dio non può incarnarsi seguendo le modalità di ogni altro parto; nella sua onnipotenza, non può però al contempo sottomettersi a vincoli creaturali27. Se dunque è dato, per fede istorum cunctatio et superflua disputatio, quia dicunt ostia ventris et vulvae eum aperuisse, et colluvionem sanguinis ut caeteri omnes, et fecundarum spurcitias post se traxisse, in quibus omnibus ‘gemitus et dolor multiplicatur, tristitia et aerumnae’ (Gn 3, 16) augentur, ut nemo sine his pariat filium». 24 Ibid., I, 1373B, p. 55,248-252: «Quia et ista ineffabilis est mira nativitas carnis, non sicut isti caecutiunt communis ex lege naturae, sed sacramento gratiae. Nam quod nascitur Deus homo ex Virgine non est consuetudo, sed mysterium; non est natura, sed virtus, sed dignatio; non est ordo nascendi, sed potestas». 25 Cfr. ibid., 1373B, p. 55,252-258: «Et ideo non est quod requirat humana sapientia in hac nativitate, nisi quia ‘Verbum caro factum est’ (Jo 1, 14) et natus est ut voluit, vel quando et quomodo voluit.Alioquin quis capiat quod inauditum et ineffabile est, vel quid intelligentia carnis iure in eo requirit, ubi totum et divinum et incomprehensibile quod narratur?». 26 Cfr. ibid., 1374B, p. 57,300-304: «Quod si utique novum fuit et admirabile quod virgo concepit sine semine et sine corruptione viri, vetustas esse non potuit in partu, et ideo nihilominus credendum quod simili modo, novo et admirabili ordine natus sit in mundo sine dolore, et sine gemitu, et sine ulla corruptione carnis». 27 Cfr. ID., Expositio in Mattheo, VIII, 573B, ed. Paulus cit., II, p. 822,822-826: «‘Qui perdiderit animam suam propter me, inveniet eam’ (Mt 16, 25) seu reliqua. Quod si hoc quisque noluerit, et lucratus fuerit hunc mundum cum detrimento

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fondata sulle Scritture, che Cristo è nato da una Vergine, la contraddittorietà dei due princìpi che da questa affermazione derivano impone non che tale nascita non sia verginale, ma che essa rimanga insondabile da parte delle semplici capacità razionali dell’uomo. L’apparente sfiducia di Pascasio nei confronti di tali capacità, quando non sono umilmente rispettose del soprannaturale, supportate, nell’accostarsi ad esso, da un attento studio e da una profonda meditazione sulle Scritture, non nasce dalla mancanza di competenze specifiche nelle tecniche delle arti liberali. Pascasio dimostra al contrario di essere in possesso di una notevole capacità argomentativa; ciò che lo spinge ad evidenziare con costanza i limiti naturali della ragione è piuttosto il timore che il ricco insieme di testi e competenze accumulate dalla tradizione carolingia, ed ormai patrimonio solidamente acquisito del mondo culturale cui appartiene, induca i più capaci tra gli uomini a credere che la sapienza umana possa fare a meno di quella divina, dalla quale invece tra origine e fondamento28. Pascasio sembra allora voler mostrare quale sia il metodo più corretto per sfruttare conoscenze la cui origine è pagana, ma che possono adeguatamente essere messe al servizio del sapere cristiano. Già Cicerone denunciava quanto fosse dannosa una competenza separata dalla corretta coscienza dei limiti imposti al suo utilizzo29; solo gli uoanimae suae, quia perdidit eum mundum lucrando, quam dabit commutationem pro anima sua, cui mundus est lucrum, et sibi anima detrimentum? Ac per hoc non lege dialecticae artis, sed lege divina, qua cuncta sapienter disponit, et sic omnes concludit, ut universi intelligant quod mundus homini aut in lucrum erit, et anima sibi in detrimentum; aut, quod magis optandum, anima Deo ac sibi in lucrum, mundus vero in detrimentum». 28 Cfr. ID., De fide, spe et caritate, 13, 3, PL 120, [1387-1489], 1486C, ed. B. Paulus, Turnhout 1990 (CCCM, 97), p. 139,1289-1292: «Cum ad diversas artes, etiam quas liberales vocant, dum se his illiciunt, non principale bonum intendunt; quoniam animi virtutes ex ipso intelligantur, ex quo sunt». – Cfr. W. OTTEN, Between Augustinian Sign and Carolingian Reality – The Presence of Ambrose and Augustine in the Eucharistic Debate between Paschasius Radbertus and Ratramnus of Corbie, in «Nederlands Archief voor Kerkgeschiedenis», 80 (2000), pp. 127-156. 29 Cfr. PASCASIUS RADBERTUS, Expositio in Mattheo, ibid., 555B, ed. Paulus, II, p. 797,3-8: «Notum est omnibus, etiam qui saeculares litteras legunt, plus esse sectandam sapientiam maxime divinam, quam eloquentiam humanam; quoniam, sicut ait Cicero, totius saeculi eloquentiae rex et magister:‘si quis omissis rectissimis atque honestissimis studiis rationis et officii, consumit omnem operam in exercitatione dicendi, is inutilis sibi, perniciosus patriae civis alitur’». Cfr. CICERO,

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mini che al contrario usano i loro talenti per difendere ciò che è utile e non per combatterlo, sono a loro volta utili a sé ed agli altri30. Nel riportare questo brano dal De inventione ciceroniano, Pascasio ne omette la conclusione. In questo testo, in effetti, citato anche da Alcuino per discutere i problemi legati alla dignità civile della retorica, Cicerone precisa l’utilità del saper ben parlare al fine di difendere le cose «commoda patriae»31; in Pascasio invece, questo riferimento politico è assente, perché l’ambito nel quale è necessario utilizzare correttamente le proprie competenze non è sociale, ma resta propriamente quello scritturale. Il contributo di Cicerone viene in tal modo estrapolato dal suo contesto retorico-politico, ed utilizzato in un’ottica cristiana: è infatti per una migliore intelligenza del testo sacro, e non per la semplice promozione della vita comunitaria, che l’esegeta compone le sue opere32. In ciò è giustificata l’imperizia di un interprete, così come la scarsa comprensibilità o il linguaggio non forbito di alcuni passi della Bibbia. Come i profeti che hanno scritto sotto dettatura divina il testo sacro, così anche gli esegeti che lo illustrano non sono affatto tenuti all’applicazione delle regole del parlare ornato o del ragionamento corretto, perché ad essi è richiesta la semplice illustrazione della parola di Dio33. Se infatti è tipicamente umano voler descrivere con parole appropriate ciò che si è conosciuto, è impossibile parlare con proprietà di cose che non si De inventione, I, 1, 1, ed. Friedrich cit. (alla nota 104), p. 117,17-20; ed. Stroebel cit. (ibid.), p. 2,5-8. 30 PASCHASIUS RADBERTUS, ibid., p. 797,8-11: «Qui vero, inquit, ita sese armat eloquentia, ut non oppugnare commoda, sed pro his propugnare possit, is mihi videtur suis et publicis rationibus utilissimus». 31 Cfr. ALCUINUS, De rhetorica et virtutibus, PL 101, 920D; cfr. inoltre supra, cap. 3, § 3.2. 32 Cfr. PASCHASIUS RADBERTUS, ibid., 555C, p. 797, 12-17: «Unde et mihi licet non habeam tantam loquendi facundiam, quia intelligentia ex parte divinarum Scripturarum praestita est, nemo me, quaeso, reprehendat, quia volui fratribus, quibus me totum debeo, in hoc negotio deservire, et fugaces sententiarum sensus, saltem his qui minus intelligunt, eorum ad incitanda ingenia, litteris alligare». 33 Cfr. ibid., 556C, p. 798,48-54: «Suisque, ut ita loquar, utens argumentis,‘non in humana sapientia persuasibilibus verbis’ (1Cor 2, 4), nec secundum introductiones dialecticae artis, quas Graeci Isagogas vocant, sed miro et ineffabili modo introducit ad se, nunc inspirationibus ad divina intelligenda, nunc quae humanitatis eius sunt demonstranda, nunc se venturum repromittens ‘in gloria Patris’ (Mt 17,1-2)».

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possono conoscere se non quando vengono manifestate dall’alto34. La verità di fede, che nelle parole di Pascasio è posta laddove la ragione si ferma, non è un possesso frutto di argomentazione, e divulgabile con assoluta precisione e rigore; proprio infatti quando tenta con i suoi strumenti di parlare della fede e dunque di circoscriverla, la mente razionale la perde irrimediabilmente35: Non c’è dubbio che è qualcosa di estremamente alto discutere di quelle cose che «nessuno» conosce «se non colui che le riceve»: e possono essere ricevute non dall’arte o dall’eloquenza; soprattutto dal momento che, come l’apostolo Giacomo dice, «ogni dato ottimo ed ogni dono perfetto viene dal cielo»36.

2. Ratramno di Corbie Nella poco nota Epistola de cynocephalis, Ratramno di Corbie si impegna a rispondere al presbyter Rimberto che in diverse occasioni gli aveva domandato se gli esseri dalla testa canina – di cui si parlava nelle antiche storie mitologiche, secondo una notizia riportata da Isidoro di Siviglia – dovessero ritenersi animali o uomini deformi37. L’epistola, pur nella sua sinteticità, evidenzia chiaramente il talento speculativo del suo autore38. Secondo l’opinione 34

Cfr. ID., De fide, spe et caritate, 12, 2, 1423B, ed. Paulus, p. 50,1519-1523: «Nam quocunque ratio deficit, vel intellectus, fides succrescit, nosque sinu materno complectitur, et nutrit, donec perveniamus ad speciem, quam ardenter in mente tenemus per fidem. Alioquin multum desipit, qui totum de Deo, ratione, vel intellectu dumtaxat comprehendere credit». 35 Cfr. ibid., 12, 2, 1423C, p. 50,1425-1530: «Profecto, quia ratio fide inferius agit, dum ubi ratio succumbit, fides divinitus inspirata succedit. Qua de causa multi ratione humana, vel artis eloquentia fisi, et volentes omnia Deitatis arcana temere comprehendere, longius recesserunt a fide: atque ita, dum fidem conati sunt per rationem excludere, alieni facti sunt a fide; et dum altiora se humanis sensibus conantur circumscribere, multa sine fide, de fide sunt locuti». 36 Ibid., Praef., 1387D, p. 3,23-26: «Nec dubium quin altissimum est de his disserere quae ‘nemo’ novit nisi ‘qui accipit’ (Ap 2, 17): accipi autem non arte, vel eloquentia queunt; praesertim cum apostolus Iacobus dicat:‘Omne datum optimum et omne donum perfectum desursum esse’ (Jc 1, 17)». 37 Cfr. ISIDORUS HISPALENSIS, Etymologiae, XI, 3, 12, PL 82, 421A, ed. Lindsay cit. (cap. 3, alla nota 116): «Sicut autem in singulis gentibus quaedam monstra sunt hominum, ita in universo genere humano quaedam monstra sunt gentium, ut Gigantes, Cynocephali, Cyclopes, etc.». 38 Cfr. RATRAMNUS CORBEIENSIS, Epistola de cynocephalis, in ID., Epistolae, 12,

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dei Padri, ed in base al senso comune, osserva Ratramno, i cinocefali non dovrebbero essere considerati uomini; nelle lettere con le quali Rimberto da tempo gli sollecitava una risposta essi vengono però descritti come esseri sociali, dediti alla coltivazione, in possesso di leggi e di norme di comportamento39; ciò li avvicina agli uomini, perché da queste attività si inferisce la razionalità indispensabile al loro espletamento40.Per Ratramno,evidentemente,si è uomini non semplicemente perché nati da una donna, ma perché si possiede e si esercita la caratteristica propriamente umana, la differenza specifica dell’essere uomo, la razionalità. Il suo utilizzo rende l’essere umano tale, perché a ciò essa è stata deputata all’interno della «dispositio divinitatis» che fonda la «lex naturae»41. Ratramno dunque non solo suggerisce al suo interlocutore che i cinocefali possono legittimamente essere considerati uomini, perché usano la ragione, ma lo invita al contempo ad una più generale riflessione sull’idea di normalità,che,in una prospettiva teologica, deve coincidere con la normatività divina: anche ciò che apparentemente non rientra nei canoni interpretativi del reale comunemente condivisi dagli uomini, è parte dell’ordine stabilito dalla volontà creatrice di Dio. ed. E. Dümmler, MGH, Epistolae, 6 (Karolini aevi, 4), Berlin 1925, [pp. 149-158], p. 155,16-20: «Quaeritis enim quid de Cenocephalis credere debeatis, videlicet utrum de Adaes sint styrpe progeniti an bestiarum habent animas, quae quaestio compendiose ita potest determinari: si hominum generi deputandi sunt, nulli dubium debet videri, quod primi hominis de propagine descenderunt». Per un quadro complessivo dell’opera e della figura di Ratramno, cfr. BOUHOT, Ratramne de Corbie cit. (cap. 2, alla nota 90); BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 134-137 e 295-296; D’ONOFRIO, Discussioni teologiche cit. (alla nota 1), pp. 201-205, 219-224 e 236-237. 39 Cfr. RATRAMNUS CORBEIENSIS, ibid., p. 155, 27-37. 40 Cfr. ibid., p. 156,1-11: «Etenim rationis est causam requirere singularum actionum, ubi causa quae res pingues efficiat terras, quae causa sementis ubertatem producat; quarum sine scientia agricultura nunquam digne poterit exerceri. Porro tegumenta nosse conficere, vel pelle, vel lana linoque, studium est rationalis animae. Nisi enim artificio quodam haec parari non possunt, et artis scientia nonnisi rationali conceditur animae. At pudenda velari, honestatis est signum, quod non quaeritur nisi ab animo inter turpe et honestum habente distinctionis iudicium. Erubescere namque nemo potest de turpitudine, nisi cui contigit quaedam honestatis cognitio. Haec autem omnia rationalis animae esse propria, nemo nisi ratione carens negabit. Inter honestum turpeque discernere, artisque scientia pollere, iura pacis concordiaeque condere, nec sine iudicio rationis nec praeter acumen ingenii, fieri possunt». 41 Cfr. ibid., p. 156, 28-29.

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Dalle conclusioni del ragionamento proposto da Ratramno a Rimberto nell’Epistola de cynocephalis emergono insieme, come colonne portanti della sua concezione del reale, la dignità della razionalità umana e il carattere fondativo dell’ordine imposto da Dio all’intero creato. Questi due princìpi, condivisi da tutta la teologia carolingia, guidano l’intera speculazione di Ratramno, attivamente impegnato, e spesso in diretto contrasto con le posizioni di Pascasio, nel dibattito sui temi della nascita verginale di Cristo e del sacramento eucaristico, spinto dal timore che dottrine false o travisate possano indebolire quella fede che dà senso alla comunità dei credenti42. Come aveva già sostenuto Alcuino, i rapporti di affetto e di stima personali devono sempre essere subordinati alla condivisione di una medesima fede, che all’interno di una comunità unisce ben più della semplice benevolenza, e che si difende da chiunque la minacci dall’esterno: È noto, e lo apprendemmo da fonte certa, che attraverso alcune parti della Germania l’antico serpente diffonde i veleni di una nuova eresia, e tenta di sovvertire la fede nella natività del Salvatore con non so quale sottile inganno, affermando che l’infanzia di Cristo attraverso la porta della vulva verginale non avrebbe avuto origine da una vera nascita umana, ma che egli sarebbe venuto alla luce mostruosamente dall’oscuro incerto passaggio del ventre, cosa che non significa nascere, ma esser gettato fuori43.

È per difendere la vera fede che Ratramno si impegna contro la dottrina, diffusasi «per partes Germaniae», che non accetta che Cristo sia nato da una Vergine, ma afferma che sia venuto alla lu42

Cfr. ID., De nativitate Christi, 1, PL 121, 81C: «Si uno sub magistro Christo omnes Christiani censemur, si uno coelesti Patre universi credentes gloriamur, si unius Spiritus foedere in unius charitatis compage solidamur, non est quod me a tua dignatione seiunctum verear, quominus religioni tuae familiaria scripta procudam». Cfr. BOUHOT, Ratramne de Corbie cit., p. 50. 43 RATRAMNUS CORBEIENSIS, ibid., 83A: «Fama est, et quorumdam non contemnenda cognovimus relatione, quod per Germaniae partes serpens antiquus perfidiae novae venena diffundat, et catholicam super nativitate Salvatoris fidem, nescio qua fraudis subtilitate subvertere molitur; dogmatizans Christi infantiam per virginalis ianuam vulvae, humanae nativitatis verum non habuisse ortum, sed monstruose de secreto ventris incerto tramite luminis in auras exisse, quod non est nasci, sed erumpi».

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ce in modo misterioso; non nascendo, dunque, ma erompendo «de secreto ventris». Per Ratramno, il credente deve fondamentalmente e preliminarmente accettare per fede che la nascita di Cristo non può aver compromesso l’integrità della persona naturale di Maria, e tuttavia non è ammissibile per la ragione illuminata dalla fede che la «genitrix divinitatis de conceptu gloriosa» possa avere subito l’onta della corruzione fisica prodotta dal parto naturale («de partu inhonora»)44. Per portare la mente umana a riconoscere che Cristo è realmente nato da una donna che si è conservata vergine non soltanto nel concepimento ma anche nel parto, contravvenendo alla «regula» che caratterizza ogni nascita di esseri viventi, occorre, anche per Ratramno, chiarire la definizione di «lex naturalis». Pascasio aveva affermato che essa non solo non è una vera «lex», in quanto frutto del peccato dei progenitori, ma che, ammesso la si debba considerare una norma valida e necessaria degli accadimenti consueti, è comunque giusto riconoscerla come tale solo perché è stata voluta e fissata da Dio, al cui potere spetta comunque sempre la possibilità di infrangerla o ignorarla liberamente. La superiore veridicità della fede impone comunque alla ragione di accettare la tesi di una nascita verginale. Per Ratramno, in particolare, la fede deve credere senza avere conferme, senza fondarsi su una dimostrazione razionale o su evidenze sensibili; ma, perché ciò avvenga, è necessario riaffermare la piena normatività della legge di natura, proprio affinché la verità della fede possa imporsi al di sopra dei limiti da essa fissati. Il mistero dell’incarnazione di Cristo risiede di fatto nella divina capacità di assecondare la legge di natura proprio superandone i limiti, e ciò riguarda in modo particolare la verità del parto, avvenuto secondo le regole consuete ma senza minimamente intaccare la dignità verginale di Maria. Come per Pascasio, è la ragione a mostrare a se stessa la necessità di conformarsi alle verità di fede; ciò però non equivale a svalutare l’ordine naturale, che invece, per Ratramno, va preservato proprio per poter sostenere che Cristo sia effettivamente nato come uomo, ma, miracolosamente, da una vergine «praeter inviolatum integritatis pudorem». Se infatti si nega che esista una norma naturale che la volontà divina ha infranto, implicitamente si contesta la verità stessa del miracolo del44

Cfr. ibid., 83B.

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l’incarnazione. È dunque inutile, ironizza Ratramno, tentare di comparare o assimilare la nascita di Cristo a diverse modalità di concezione e di parto che si compiono nel mondo animale per via diversa da quella uterina, come alcuni ritengono che accada per i serpenti o per alcuni mammiferi («viperina aut mustelina»), per tentare una spiegazione scientifica di qualcosa che esula dall’ambito della ragione argomentativa45. Questa infatti può solo limitarsi ad illustrare i termini nei quali il problema si presenta, e mostrare il limite oltre il quale non è possibile indagare. Le Scritture e la dottrina stabilita dalla Chiesa affermano che Cristo è nato da una Vergine; l’esperienza insegna che ogni parto produce corruzione dell’integrità. Dinanzi a questa apparente contraddizione, la razionalità ha due alternative: sostenere che Cristo non è nato «naturaliter», per preservare la verginità del parto; ribadire che è nato secondo natura, nonostante la legge che regola ogni parto imponga di ammettere nella madre una corruttela dell’integrità fisica. Nel primo caso, si sottolinea maggiormente che Cristo, nel farsi uomo, abbia dovuto sottomettersi alla legge di natura; nel secondo, si afferma che la trascendenza di Dio rispetto all’ordine naturale gli permette di rispettarlo infrangendolo. Chi contesta la naturalità del parto di Maria afferma che, se Cristo fosse nato come ogni altro essere umano, avrebbe inevitabilmente leso l’integrità della madre, e dunque nega che Cristo «uteri portam exivit». Ratramno è contrario a questa conclusione e, per confutarla, isola al suo interno due elementi di verità, vale a dire che Cristo è certamente nato da Maria, e che ogni nascita è una corruzione, così da poter sviluppare una argomentazione che prenda le mosse da punti condivisi anche dai suoi interlocutori. Se Cristo è nato da Maria, ma non ne ha violato la verginità, è necessario che sia venuto al mondo attraversando altre parti del suo corpo. Questa conclusione è contraria tanto alle Scritture quanto alla ragione stessa: nel testo sacro non c’è traccia di alcuna lacerazione del corpo di Maria. Ciò significa che, se Cristo fosse nato attraverso altre parti del suo corpo, lo avrebbe fatto senza lacerarle; cosa impedisce dunque che abbia potuto far45 Cfr. ibid., 83D: «Viperae priusquam parturitionis ad tempus perveniant catuli, traditur quod maturam naturae completionem non exspectantes, corrosis matris lateribus, exeunt cum genitricis interitu. Est quoque vulgaris opinio mustelam ore concipere, aure partum effundere».

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lo «ex utero»?46 Procedendo come nell’Epistola a Rimberto, Ratramno invita i lettori del De nativitate a non interpretare la nascita di Cristo secondo un parametro razionale, che tenda a riportare gli avvenimenti sacri entro il quadro di una normalità che, proprio in quanto sacri, non li riguarda. Ciò che è turpe lo è o per natura o per peccato. Ma, per natura, niente è turpe; attesta infatti la lettura della Genesi che ogni creatura è buona. Ciò che è buono è anche onesto; e ciò che è onesto non è turpe. Pertanto ogni creatura, per il fatto stesso che è creata, non è mai turpe47.

Se ciò che non è turpe è onesto, e ciò che è onesto è buono, e nella Genesi si legge che tutto ciò che esiste è buono, sono le stesse Scritture a respingere l’idea che una parte del corpo umano possa dirsi turpe: «igitur et mulieris vulva non turpis, sed honesta; siquidem partes omnes creaturae honestae»48. Il corpo, ed in generale ogni creatura, non sono di per sé qualcosa di negativo, fino a che agiscono in modo conforme all’ordine del creato: Infine non c’è parte della creatura o membro che non sia bello; è reso invece indecente quando un moto disordinato ed irregolare lo abbia deturpato49.

Solo chi si affida ai sensi, ingannatori, piuttosto che al proprio «iudicium», può pensare che ciò che è stato creato da Dio possa essere malvagio o indecoroso in sé. Secondo Ratramno, il vero credente non ha alcuna difficoltà ad accettare che Cristo sia nato attraverso la stessa «lex» naturale che regola ogni altro parto perché tale legge, in quanto parte della creazione, ha un ruolo fondativo essenziale all’interno dell’ordine voluto da Dio; Cristo è 46

Cfr. ibid., 84CD. Ibid., 85A: «Turpe hoc aut de natura aut de peccato. Sed per naturam nihil turpe; testatur enim Geneseos lectio quod omnis creatura bona. Quod bonum, et honestum est; quodque honestum est, non turpe. Igitur omnis creatura secundum quod creata est, nequaquam turpis»; Ratramno utilizza in questa argomentazione il tipico modello del sillogismo categorico nel secondo modo della prima figura, seguendo quasi alla lettera il modello di Marziano Capella e delle altre fonti dialettiche tardo-antiche; cfr. D’ONOFRIO, Fons scientiae cit. (cap. 3 alla nota 115), p. 227 e nota 16. 48 Cfr. RATRAMNUS CORBEIENSIS, ibid. 49 Ibid., 85B: «Nulla denique creaturae pars, aut membrum, ni pulchrum est; redditur autem indecens, cum inordinatus et illicitus eum motus deturpaverit». 47

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dunque nato secondo natura, preservando, grazie alla misteriosa potenza del suo essere divino, anche l’integrità della Vergine. Ratramno evidenza la radicalità della sua fiducia nella possibilità di interpretare il messaggio scritturale senza disconoscere le norme del corretto ragionamento, fondata sull’ipotesi che tali regole siano strutturalmente conformi alla verità, e capaci di illustrarne almeno in parte i contenuti50. Ma nel dedicare a Carlo il Calvo il De corpore et sanguine Domini composto in risposta, ancora una volta, alle tesi formulate da Pascasio sul mistero sacramentale, Ratramno illustra come anche il problema eucaristico costituisca un utile banco di prova per determinare l’efficacia di questi strumenti51: Glorioso principe, mi avete ordinato di manifestare alla vostra magnificenza cosa io pensi del mistero del sangue e del corpo di Cristo: ordine che, degno della vostra magnifica potenza, riesce difficilissimo alle forze della nostra piccolezza. (…) Infatti, mentre alcuni dei devoti del corpo e del sangue di Cristo, che è celebrato ogni giorno in Chiesa, dicono che non accade niente simbolicamente ed occultamente, ma si compie con la diretta manifestazione della verità stessa, altri attestano che ciò sia racchiuso sotto un simbolo del mistero, ed altro è ciò che appare ai sensi umani, altro è ciò che la fede intravede: si comprende come ci sia una differenza di non poco conto tra di loro52.

50 Cfr. ID., Contra Graecorum opposita, III, 6, PL 121, [223-345], 303AB: «Quapropter videant Spiritus sancti calumniatores ne nolentes recipere sapientiae disciplinam, illis comparentur, qui suam praeferre volunt insipientiam sanctarum regulis Scripturarum. Hos tamen modernos, non disputatores, quia nihil ex ratione vel redargunt, vel astruunt, sed novitatis assertores, quibus similes esse dicamus?». 51 Cfr. J. F. FAHEY, The eucaristic teaching of Ratramne de Corbie, Mundelein 1951; J. M. CANAL, La virginidad de Maria según Ratramno y Radberto, monjes de Corbie, in «Marianum», 30 (1968), pp. 53-160. 52 RATRAMNUS CORBEIENSIS, De corpore et sanguine Domini, Ep. dedic., PL 121, [125-170], 125D-129A: «Iussistis, gloriose princeps, ut quid de sanguinis et corporis Christi mysterio sentiam, vestrae magnificentiae significem: imperium quam, magnifico vestro principatu dignum, tam nostrae parvitatis viribus constat difficillimum. (…) Dum enim quidam fidelium corporis sanguinisque Christi, quod in Ecclesia quotidie celebratur, dicant quod nulla sub figura, nulla sub obvelatione fiat, sed ipsius veritatis nuda manifestatione peragatur; quidam vero testentur quod haec sub mysterii figura contineantur, et aliud sit quod corporeis sensibus appareat, aliud autem quod fides aspiciat: non parva diversitas inter eos

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Rivolgendosi direttamente al sovrano, Ratramno al contempo riconosce a lui il merito di aver posto al centro del dibattito teologico il problema del mysterium eucaristico, ed implicitamente, descrivendo le due alternative contrapposte, attesta come sia possibile il prodursi, anche su un tema come i sacramenti, di diverse e contrastanti argomentazioni. Da parte sua, Ratramno procede, nell’analisi del problema, prendendo le mosse dalla definizione dei termini «figura», «veritas» e «mysterium»53. La prima è un velo allegorico, che mostra nascondendolo ciò che vuole indicare; la «veritas», al contrario, è un manifestarsi della cosa senza intermediari54; il «mysterium», infine, può essere definito solo per negazione: esso infatti sussiste soltanto quando ciò che lo rappresenta non lo nasconde ai sensi o lo copre di veli55. Poste queste definizioni, è impossibile non ammettere che il sacrificio eucaristico si manifesti in un dato concreto, rappresentato dal pane e dal vino, ma concretizzi un significato mistico, realizzando insieme le proprietà della «figura» e del «mysterium»: Anche il vino, che con la consacrazione del sacerdote diventa sacramento del sangue di Cristo, altro appare in superficie, altro è intimamente. Infatti cos’altro si vede in superficie se non la sostanza del vino? Gustalo, sa di vino; odoralo, profuma di vino; guarda dentro, si vede il colore del vino. Se però consideri più in profondità, per le menti dei credenti non ha il sapore del vino ma del sangue di Cristo quando viene gudignoscitur». – Cfr. J. GEISELMANN, Die Eucharisielehre der Vorscholastik, Paderborn 1926, p. 161. 53 Cfr. RATRAMNUS CORBEIENSIS, ibid., 6, 130A: «Harum duarum quaestionum primam inspiciamus; et ne dubietatis ambage detineamur, definiamus quid sit figura, quid veritas, ut certum aliquid contuentes, noverimus quo rationis iter contendere debeamus». 54 Cfr. ibid., 6-7, 130AB: «Figura est obumbratio quaedam quibusdam velaminibus quod intendit ostendens; verbi gratia,Verbum volentes dicere, panem nuncupamus: sicut in Oratione Dominica panem quotidianum dari nobis expostulamus (Lc 11, 3); vel cum Christus in Evangelio loquitur dicens: ‘Ego sum panis vivus, qui de coelo descendi’ (Jo 6, 41); vel cum seipsum vitem, discipulos autem palmites appellat: ‘Ego sum vitis vera, vos autem palmites’ (Jo 15, 5).Veritas vero est rei manifesta demonstratio, nullis umbrarum imaginibus obvelatae, sed puris et apertis, utque planius eloquamur, naturalibus significationibus insinuatae; ut pote cum dicitur Christus natus de Virgine, passus, crucifixus, mortuus et sepultus». 55 Cfr. ibid., 9, 131A: «Mysterium dici non potest, in quo nihil est abditum, nihil a corporalibus sensibus remotum, nihil aliquo velamine contectum».

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stato, ed è riconosciuto mentre lo si guarda e quando lo si annusa. Mentre nessuno può negare che le cose stanno così, è evidente che quel pane ed il vino rappresentano il corpo ed il sangue di Cristo. Infatti secondo ciò che si vede non si riconosce in quel pane l’aspetto della carne, o in quel vino il sangue; benché, dopo la consacrazione mistica, non si parla né del pane né del vino, ma del corpo e del sangue di Cristo56.

È la ragione, nella sua strutturale incapacità di comprendere ciò che non vede, a far trapelare l’impossibilità di pensare ad un sacramento che sia accessibile «in veritate», al contrario della fede che, come afferma Paolo, non si concretizza se non nella tensione alle cose non visibili57: «non ergo sunt idem quod cernuntur, et quod creduntur»58. La ragione non è lo strumento per comprendere la «veritas» del divino: può solo mostrare la logicità interna delle manifestazioni esteriori. Per Ratramno, essa deve fermarsi dinanzi ai significati spirituali di queste manifestazioni, ed anche in ciò magnifica chi l’ha creata; indietreggiando infatti dinanzi al confine del mistero di Dio, ne certifica l’esistenza. Se ad esempio si cercasse una spiegazione razionale dell’affermazione paolina secondo la quale Cristo fu il nutrimento ricevuto dai padri nel deserto, ci si scontrerebbe con i vincoli della razionalità, che impedisce di ammettere che un evento posteriore possa avere efficacia su ciò che lo precede. Accettare invece che ciò possa accadere, nonostante la ragione non lo comprenda, costituisce, per Ratramno, il senso della fede: «non isthic ratio qua fieri potuerit, disquirenda; sed fides quod factum sit, adhibenda»59. Ogni 56 Ibid., 10, 131C: «Vinum quoque, quod sacerdotali consecratione Christi sanguinis efficitur sacramentum, aliud superficietenus ostendit, aliud interius continet. Quid enim aliud in superficie quam substantia vini conspicitur? Gusta, vinum sapit; odora, vinum redolet; inspice, vini color intuetur.At interius si consideres, iam non liquor vini, sed liquor sanguinis Christi credentium mentibus et sapit dum gustatur, et agnoscitur dum conspicitur, et probatur dum odoratur. Haec ita esse dum nemo potest abnegare, claret quia panis ille vinumque figurate Christi corpus et sanguis existit. Non enim secundum quod videtur vel carnis species in illo pane cognoscitur, vel in illo vino cruoris unda monstratur; cum tamen post mysticam consecrationem nec panis iam dicitur nec vinum, sed Christi corpus et sanguis». 57 È la famosa definizione paolina della fede, in Heb 11, 1: «Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium». 58 Cfr. RATRAMNUS CORBEIENSIS, ibid., 19, 136A. 59 Cfr. ibid., 25, 138B.

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qual volta la ragione, che parte dal dato sensibile e poi opera sulle informazioni raccolte, tenta di applicare questo schema alle verità scritturali, non può che fallire. Secondo una osservazione razionale, il corpo storico di Cristo rispettò tutte le caratteristiche della fisiologia umana60; fu dunque un composto identico a quello che caratterizza l’esistenza concreta di ogni altro uomo, ossa e nervi, membra tra di loro distinte, vivificate da un’anima razionale. Se il pane sacramentale fosse «in veritate», il corpo storico di Cristo dovrebbe mostrare traccia della struttura di tale corpo61. Il pane non è dunque la realtà del corpo mistico di Cristo, ma ne è «figura»: «exterius igitur quod apparet, non est ipsa res, sed imago rei; mente vero quod sentitur et intelligitur, veritas rei»62. Ratramno condivide dunque con Pascasio l’idea che la fede sia l’unica possibilità per l’uomo di giungere alla verità. In Pascasio ciò avviene già nel rito eucaristico: l’occhio sensibile vede pane e vino, ma l’occhio spirituale sa che sono corpo e sangue di Cristo. In Ratramno, al contrario, la trascendenza divina è assoluta, e dunque, mentre si colgono con i sensi le apparenze del pane e del vino, ci si proietta, spiritualmente, a ciò che esse rappresentano. L’apparenza rende per Ratramno possibile l’esistenza di una fede non perché, guardando il sensibile, si colga già la verità in esso espressa, ma perché proprio l’assenza di ciò che i simboli rappresentano spinge l’uomo a tendere ad un livello di conoscenza più alto, oltre la necessità umana del «tangere»63. Parlare di pane e vino come di simboli non significa infatti deprezzarne il valore, o trasformare il rito eucaristico in una mera pratica esteriore. È al contrario proprio la semplice esteriorità del rito ad imporre all’uomo di abbandonare, dinanzi ad essa, gli strumenti della ragio60 Cfr. ibid., 72, 159A: «Illa namque caro quae crucifixa est, de Virginis carne facta est, ossibus et nervis compacta, et humanorum membrorum lineamentis distincta, rationalis animae spiritu vivificata in propriam vitam et congruentes motus». 61 Cfr. ibid.: «At vero caro spiritualis quae populum credentem spiritualiter pascit, secundum speciem quam gerit exterius, frumenti granis manu artificis consistit, nullis nervis ossibusque compacta, nulla membrorum varietate distincta, nulla rationali substantia vegetata, nullos proprios motus potens exercere». 62 Ibid., 77, 160C. 63 Cfr. ibid., 69, 156B: «At nunc sanguis Christi quem credentes ebibunt, et corpus quod comedunt, aliud sunt in specie et aliud in significatione: aliud, quod pascunt corpus esca corporea; et aliud, quod saginant mentes aeternae vitae substantia».

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ne, e tentare di accedere ad un più alto ordine di verità con la sola potenza della fede. Le «species» corporee coinvolte nel rito devono essere diverse dalla «veritas» delle cose; se infatti la conoscenza è possesso di un oggetto, l’uomo coglierà la verità del sacramento soltanto nel futuro, post mortem, laddove alle rappresentazioni si sostituirà una visione diretta che le renderà inutili64.

3. L’anima e la visione beatifica Le riflessioni di Pascasio e Ratramno sulla intelligibilità del significato spirituale del sacramento eucaristico aggiunsero nuovi elementi alla speculazione, soggiacente a tutta la speculazione teologica carolingia, sul rapporto tra la trascendenza di Dio e i mezzi imperfetti concessi agli uomini per conoscerlo. Un maggiore e più consapevole possesso degli strumenti razionali, e la necessità di collocare questo tema all’interno di una più vasta prospettiva filosofica, alimentarono inoltre, sempre negli anni di regno di Carlo il Calvo, anche un particolare interesse tanto per lo studio della natura dell’anima, deputata ad accogliere le competenze che rendono l’uomo pienamente razionale, quanto per il confronto tra l’imperfetta conoscenza dell’uomo e la condizione futura della «aeterna beatitudo», la compiuta felicità che si potrà conseguire solo dopo la morte. Lungo tutta l’evoluzione della teologia carolingia rimane costante l’idea che l’uomo desideri naturalmente il bene e la felicità nel loro massimo grado; egli dunque tende per natura, consapevolmente o meno, a Dio, che è l’unico vero bene65. Poiché sulla terra non è possibile la perfetta conoscenza di Dio, essa potrà realizzarsi pienamente soltanto quando la «virtus» propria dell’uomo, la razionalità e in generale la sua capacità di conoscere, potrà raggiungere il suo compimento. Come è già chiaro nella riflessione di Alcuino, all’anima sarà dunque richiesto di possedere 64 Cfr. ibid., 88, 165A: «Et hoc corpus pignus est et species; illud vero ipsa veritas. Hoc enim geretur donec ad illud perveniantur; ubi vero ad illud perventum fuerit, hoc removebitur». 65 Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, De animae ratione, PL 101, [639-649], 639B: «Si naturale est omni homini bonum amare, naturale est etiam Deum amare, quia Deus summum bonum est sine quo bono, nihil boni quisquam habere poterit. Ille est indeficiens bonum, plena pulchritudo, totius felicitatis abundantia».

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prudenza, giustizia, fortezza e temperanza; l’uso di queste virtù, in unione con la carità, rende infatti l’anima degna di divenire, dopo la morte, «proxima Deo»66. Non c’è altra possibilità, per l’uomo, di avvicinarsi («haerere») a Dio, se non con la «dilectio» («quia nihil aliud est optimum hominis, cui haerere beatissimum sit, nisi Deus: cui haerere certe non valemus, nisi dilectione»)67.A causa dei limiti della sua natura imperfetta, l’uomo non può aspirare a niente di più che conformarsi ad un ordine superiore, che coincide con Dio («ita tandem ordinate vivit anima, si eum diligit qui supra se est, id est, Deum»)68. L’anima, infatti, pur essendo immagine di Dio, ed essendo dotata di diversi talenti che le permettono di elaborare con rigore ciò che riceve dai sensi elevandosi ad un alto grado, nell’ambito delle possibilità concesse alle creature, di conoscenza soprasensoriale, non può ascendere fino alla conoscenza di Dio69; decaduto a causa del peccato, l’uomo può solo aspirare a ritrovare nel mondo le vestigia della sapienza del suo creatore, senza coglierlo pienamente. Per quanto dunque si impegni con devozione, il suo sforzo conoscitivo è destinato, nelle sue finalità più alte, a rimanere incompiuto70: se la vera «scientia» scaturisce dal possesso di un oggetto che non muta, essa non sarà mai appannaggio delle mutevoli facoltà dell’uomo decaduto71. Sulla terra, si potrà aspirare al solo «gaudium», che si realizza nella piena conformità tra le opzioni della condotta morale personale e le

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Cfr. ibid., 640A. Cfr. ibid., 640B. 68 Cfr. ibid., 641B. 69 Cfr. ibid., 642A-642D. 70 Cfr. ID., Epistola ad Arnonem archiepipscopum, in ID., Epistolae, 239, ed Dümmler cit. (cap. 2 alla nota 8), p. 384,17-20: «Ideo animo spiritaliter Deus inspiciendus est, non oculis carnalibus,quos communes habemus cum vermiculis:cuius visio vera est beatitudo,quae sanctis promittitur in sempiterna gloria,a qua tolluntur impii,ne videant gloriam Dei».Cfr.AUGUSTINUS,De Genesi contra Manichaeos,I,3,6,PL 34,[171-219],176. 71 Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, Commentarium super Ecclesiasten, PL 100, 637AB: «Nullatenus valet sermo explicare causas naturasque rerum; nec oculus saturari, ut rei possit dignitatem intueri; nec auris, instituente doctore, ad summam rerum notitiam pervenire. Nam modo omnia in aenigmate cernuntur, et ex parte intelliguntur, donec perfecta veniat scientia, quae in hoc mortali corpore esse non poterit.Tamen haec sententia maxime contra eos agit qui, sine labore et discendi studio, sanctarum Scripturarum sibi notitiam promittunt, aestimantes se sapientes, cum sunt insipientes». Cfr. HIERONIMUS STRIDONIUS, Commentarius in Ecclesiasten, PL 23, 1018B. 67

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proporzioni con le quali Dio ha creato l’universo; la «beatitudo» premierà poi dopo la morte chi meglio avrà rispettato tale ordine universale. Alcuino eredita dalla tradizione patristica questa prospettiva, che magnifica le doti dell’anima ma ne sottolinea le incertezze gnoseologiche, indicando come obiettivo immediato la vita virtuosa, e come traguardo ultimo la perfezione che sarà possibile raggiungere solo dopo la morte. Grazie al suo magistero, questa idea si diffonde in tutta la cultura teologica dei decenni successivi. Nel suo De videndo Deo, de puritate cordis, de modo poenitentiae, Rabano Mauro riprende ed approfondisce gli insegnamenti del maestro72. Le Scritture indicano che è dovere dell’uomo conoscere con «sobrietas», e non eccedere l’ambito normativo della fede: «apostolica nos admonet sententia ut ‘non plus velimus sapere quam oportet sapere’ (Rm 12, 3) sed sapere ad sobrietatem, et secundum rationem fidei»73. Esiste infatti un ordine prestabilito che presiede anche alla conoscenza delle cose, come ancora avverte con chiarezza l’apostolo Paolo: «omnia vestra honeste et secundum ordinem fiant» (1Cor 14, 40); ed è dunque sconveniente, agli occhi di Rabano, che si parli con leggerezza della visione beatifica di Dio, soprattutto senza una accurata e preventiva conoscenza delle Scritture74. Come in Alcuino, anche in Rabano è forte la coscienza dei rischi che corre l’uomo che per superbia dimentica di non poter aspirare a conoscere Dio post mortem senza prima aver meritato questo premio («quisquis illius lucis contemplatione frui desiderat in aeterna beatitudine, necesse est ut mundet cor in huius vitae peregrinatione»)75. In questo cammino, la fede guida l’azione del credente: se la scientia umana si fonda sui sensi, perché l’uomo conosce solo ciò che avverte, per accedere a ciò che

72 Cfr. HRABANUS MAURUS, De videndo Deo, de puritate cordis et modo poenitentiae, PL 112, [261-1335], 1263B. 73 Cfr. ibid., 1262C. 74 Cfr. ibid., 1262D: «Unde miror quod quidam ex nostris, non tempus nec modum observantes, de secretis Dei et coelestibus mysteriis in conviviis suis inter pocula disputant, qualiter post hanc vitam electi visuri sunt Dominum in regno coelesti; quasi idem officium sit cauponis et contemplationis, et quasi poculum vini amatoribus suis hoc una hora possit conferre quod illi antea longe in Scripturis sacris intente noluerunt meditari?». 75 Cfr. ibid., 1263D.

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non percepisce, e che gli sarà pienamente manifesto solo dopo la morte, non può che credere76. Per Pascasio Radberto, nel trattato sull’eucarestia, il credente avverte la misticità del mistero sacramentale perché sa che il pane ed il vino consacrati sono realmente corpo e sangue di Cristo; ciò equivale a dire che il sacramento si compie nonostante l’uomo sia incapace di cogliere con i sensi ciò che la fede accetta interiormente. Per Ratramno, al contrario, proprio l’incapacità dell’uomo di cogliere Dio sulla terra lo induce ad utilizzare la fede per tendere ad un piano trascendente del mistero. Per quanto divisi sulla funzione della simbologia, Pascasio e Ratramno condividono dunque l’idea che la visione completa della verità, l’unica che può concedere all’uomo la «beatitudo», non possa compiersi sulla terra come un’evidenza sensibile o una conoscenza argomentativa,ma che vada riconosciuta come un termine di arrivo delle aspirazioni conoscitive creaturali al quale tendere indefinitamente77. In un originale opuscolo in forma epistolare, noto con il titolo Num Christus corporeis oculis Deum videre potuerit, Bruun, monaco di Fulda conosciuto anche come Candido, tentò di dare nuova forma a questa lunga riflessione sulla visione beatifica, domandandosi se Cristo, in quanto uomo, abbia avuto la possibilità di vedere Dio con occhi corporei78. Per Bruun, secondo un’idea 76 Cfr. ibid., 1264D-1265A: «Inter videre quoque et credere hoc distare dicamus, quia praesentia videntur, creduntur absentia, plane forsitan satis est, si praesentia illa hoc loco intelligamus dicta, quae praesto sunt sensibus, sive animi sive corporis, unde etiam ducto vocabulo praesentia nominantur. Sic enim hanc lucem corporis sensu, sic et meam voluntatem plane video, quia praesto est animi mei sensibus, atque intus mihi praesens est. Si quis vero mihi indicet voluntatem suam, cuius os et vox mihi praesens est, tamen quia ipsa voluntas quam mihi indicat, latet sensum corporis et animi mei, credo, non video, aut si eum mentiri existimo, non credo; et si forte, ut dicit, ita sit. Creduntur ergo illa quae absunt a sensibus nostris, si videtur idoneus qui de eis testimonium perhibet, videntur autem quae praesto sunt, unde et praesentia nominantur, vel animi vel corporis sensibus». 77 Cfr. RATRAMNUS CORBEIENSIS, De corpore et sanguine Domini, 11, PL 121, 131C-132A; PASCHASIUS RADBERTUS, De corpore et sanguine Domini, 9, 1-3, 1293C-1295D, ed. Paulus cit. (alla nota 2), p. 52,3-10. 78 Cfr. CANDIDUS (BRUUN) FULDENSIS, Num Christus corporeis oculis Deum videre potuerit, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 6 (Karolini aevi, 4), Berlin 1895, pp. 557-561. Per la figura di Bruun, che deve essere distinto dal Candido discepolo di Alcuino, autore di uno dei Dicta (supra, cap. 5, § 2), cfr. H. DE LAVALETTE, Candide, théologien méconnu de la vision béatifique du Christ, in «Recherches de science religieuse», 49 (1961), pp. 426-429; C. INEICHEN-EDER, Candidus – Bruun

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condivisa da tutta la speculazione altomedievale, ogni essere conosce la realtà secondo modalità conformi alle proprie capacità gnoseologiche, ed ogni diversa facoltà è destinata a cogliere oggetti specifici e non altri che non rientrano sotto la sua giurisdizione; l’uomo dunque può aspirare a comprendere solo ciò che realmente è in condizione di recepire79. Non è possibile, come aveva già evidenziato Alcuino, conoscere Dio «cum corporeis oculis», perché essi non sono strumenti adatti a quella visione. Se Cristo fu veramente uomo, anche a lui fu impossibile conoscere Dio attraverso la sensibilità: Anche Cristo non volle vedere Dio altrimenti se non come può essere visto. Né vuole o volle qualcosa se non ciò che poté; né può qualcosa se non ciò che vuole: perché la volontà ed il potere di Dio sono Dio stesso, non qualcosa d’altro. E perciò Cristo solo in se stesso in quanto spirito, e nello stesso spirito che riempì, assumendola, la natura umana, in se stesso, dico nello stesso spirito che riempì quella natura, vede Dio; invece egli, che è sommo spirito, se non mi inganno, non volle vedere Dio con gli occhi perché non poté, e del resto non poté perché non volle. Infatti vuole tutto ciò che può e può tutto ciò che vuole80.

Cristo, in quanto uomo e proprio perché uomo, non può aver visto il Padre; per conoscerlo, si affidò dunque al tramite del potere conoscitivo della sua natura divina, capace di cogliere pienamente quell’oggetto superiore. Se avesse la possibilità di acquisire conoscenza senza affidarsi alla decodifica di simboli, l’uomo rinuncerebbe ad essi ben volentieri:

von Fulda: Maler, Lehrer und Schrifsteller, in Hrabanus Maurus und seine Schule. Festschrift der Hrabanus-Maurus-Schule, hg.W. Böhne, Fulda 1980, pp. 182-192. 79 Cfr. CANDIDUS FULDENSIS, ibid., p. 558,29-31: «Nam si interrogas, utrum Christus corporalibus oculis Deum videret? Et ego interrogo, utrum tu modo aut possis, aut si possis, velis veritatem corporalibus oculis videre?». 80 Ibid., p. 558,31-38: «Et Christus Deum nec aliter voluit videre, nisi sicut videri potest. Nec aliquid vult, aut voluit, nisi quod potuit; nec aliquid potest, nisi quod vult: quia voluntas et potestas Dei ipse Deus sunt, non aliud aliquid. Ideoque Christus seipso, quo spiritus est, et ipso spiritu, quem implevit, hominem assumens, seipso, inquam et ipso spiritu, quem implevit, Deum vidit; corporalibus autem eum cernere oculis, qui summus spiritus est, ideo, ni fallor, noluit, quia non potuit; et ideo non potuit, quia noluit.Vult enim omnia, ut dixi, quae potest, et potest omnia quae vult».

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Infatti se tutte le cose che tu avessi voluto sapere le potessi conoscere e ricordare senza le lettere, dimmi, ti saresti preoccupato di avere dimestichezza con esse?81

Allo stesso modo, il Verbo incarnato non ha fatto affidamento sulle capacità gnoseologiche umane, che sapeva imperfette. Se la stessa incarnazione di Cristo conferma come, per natura, l’uomo non possa conoscere Dio, anche per Bruun, come era stato per Alcuino e Rabano, l’anima deve quantomeno aspirare a vivere rispettando i precetti della fede: «o anima, te ipsam fide munda, corpori dominare, et ad bona utere; Deo, ut fruaris, stude»82. Come l’«oculus» guarda la «littera» e pensa alla verità di cui essa è «signum», così la «fides» osserva i simboli nel mondo per riferirsi alla sapienza che li fonda. Bruun commenta tale soluzione dottrinale concludendo l’epistola con dei versi ispirati dalla consapevolezza che la felicità per i credenti non può che realizzarsi post mortem: Ci sarà un tempo, in cui il fratello parlerà al fratello. Ci sarà un tempo, in cui quelli che gioiscono lo faranno [insieme. «Ogni cosa ha un suo tempo»: la carità non avrà mai fine. Nutri gli anziani ed i giovani con Cristo, che te lo chiede [affettuosamente, cosicché possano gustare le dolci parole83.

La «visio beatifica», tanto nelle opere di Alcuino e di Rabano, quanto nei testi di Ratramno, Pascasio o Bruun, si presenta strettamente correlata all’analisi delle caratteristiche proprie dell’anima umana. La conoscenza perfetta della verità, che coincide con la piena felicità, può avvenire solo post mortem perché, proprio dall’osservazione delle capacità naturali dell’anima umana si conclude che essa non può raggiungere, pro statu isto, quella conoscenza superiore. 81 Ibid., pp. 558-559,45-1: «Nam dic mihi si litteras aut habere aut videre curasses, si omnia, quae scire voluisses, sine litteris scires et memoria retineres?». 82 Ibid., p. 559,39-40. 83 Ibid., p. 561,12-16: «Tempus erit, quando frater cum fratre loquetur. / Tempus erit, quando gaudens gaudente fruetur. / ‘Omnia tempus habent’ (Ec 3,1): caritas sine fine valeto. / Pasce iubente pio patres iuvenesque novellos / Christo, quo valeant dulces gustare loquelas».

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In tutto lo sviluppo della teologia carolingia, la descrizione delle parti e delle funzioni dell’anima ricalca con scarsa originalità dottrine patristiche. Tanto Alcuino quanto Rabano si ispirarono ad Agostino e Cassiodoro, descrivendo l’anima come sostanza incorporea, imprigionata nel corpo che vivifica, e priva di altre determinazioni. Creata ad immagine di Dio, l’anima esprime una similitudine con quella Trinità che l’ha posta in essere: essa infatti sa di volere e ricordare, vuole ricordare e capire, ricorda di volere e sapere84. A questa tradizione, che aveva recepito il modello psicologico patristico e lo aveva semplicemente preservato e reiterato, i nuovi trattatisti dell’epoca di Carlo il Calvo non portarono significative modificazioni. Tanto il De anima di Ratramno quanto il De diversa et multiplici animae ratione di Incmaro arcivescovo di Reims e le Quaestiones de anima del monaco Godescalco di Orbais ripresero in massima parte le auctoritates già accolte da Alcuino e Rabano, e non ampliarono lo spettro di problemi psicologici già affrontati85. In questo contesto dottrinale già consolidato rimase marginale, se pur di grande interesse, una riflessione sorta negli stessi anni sul tema dell’origine dell’anima, lungamente discusso in epoca patristica e che Alcuino ed i suoi discepoli avevano volutamente tralasciato perché eccessivamente complesso86. 84 Cfr. ALCUINUS EBORACENSIS, De animae ratione, PL 101, 641D: «Nam memoria alicuius est memoria, et intelligentia alicuius est intelligentia, et voluntas alicuius est voluntas: et haec ad se invicem referuntur. Sed in his tribus unitas quaedam est: intelligo me intelligere, velle et meminisse; et volo me intelligere et meminisse et velle; et memini me intelligere et velle et meminisse. Et sic in singulis singula capiuntur». E cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De Trinitate, X, 11, 18, PL 42, 983-984, ed. Mountain cit. (cap. 3 alla nota 62), II, pp. 330,29 - 331,63; ibid., XV, 7, 12, 1065-1066, pp. 475-476, e 17, 28, 1080-1081, pp. 502-503. 85 Cfr. HINCMARUS RHEMENSIS, De diversa et multiplici animae ratione, PL 125, 932A-936C; GODESCHALCUS ORBACENSIS, Quaestiones de anima, ed. Lambot cit. (cap. 2, alla nota 85), pp. 283-294. Da questa edizione sono tratte tutte le successive citazioni da testi di Godescalco. In merito ai rapporti tra le tre opere, ed alle diverse attribuzioni, a partire dalla edizione moderna del De anima di Ratramno, cfr. A. WILMART, L’opuscule inédit de Ratramne sur la nature de l’âme, in «Revue bénédictine», 43 (1931), p. 208; M. CAPPUYNS, Jean Scot Érigène. Sa vie, son oeuvre, sa pensée, Louvain - Paris 1933, pp. 91-93; G. MATHON, L’anthropologie chrétienne en Occident de saint-Augustin à Jean Scot Érigène. Recherches sur le sort des thèses de l’anthropologie augustinienne durant le haut Moyen-Âge, 2 voll., Lille 1964, II, pp. 241-332. 86 Cfr. P. DELHAYE, Une controverse sur l’âme universelle au IXe siècle, Namur 1950 (Analecta Mediaevalia Namurcensia, 1).

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Godescalco, nelle sue Quaestiones, suggerisce per questo problema una soluzione particolarmente complessa: le anime deriverebbero le une dalle altre, quasi per divisione. Lo stesso Agostino, ricordava Godescalco, aveva incontrato diverse difficoltà nell’individuare nelle Scritture elementi utili ad una migliore comprensione del problema87. Nel De quantitate animae, in particolare, Agostino racconta ad Evodio di quando alcuni studenti gli avevano mostrato un millepiedi che, sezionato più e più volte, continuava a vivere, ed anzi ogni parte tagliata sembrava avere attività propria. Questa circostanza, confessa Agostino, aumentò i suoi dubbi sulla natura dell’anima che, da quel piccolo esperimento, sembrava essere corporea perché divisibile in parti88. Nelle pagine successive a questo racconto, Agostino illustra ad Evodio con un esempio come non sia possibile che l’anima, divisa, produca altre anime autonome: come il significato di un nome, per esempio «Lucifer», anch’essa persiste solo fino a quando le parti di cui si compone sono unite. Quando le parti del nome si separano, esse continuano ad avere senso proprio («lux», «fero»), ma il loro significato comune, che è per così dire l’anima del nome «Lucifer», è perso. Godescalco omette il paragone proposto da Agostino, e riporta nelle sue Quaestiones esclusivamente il racconto degli alunni e del millepiedi, per confermare la propria ipotesi; Dio dunque darebbe vita ad un’anima sezionando un’altra anima, in modo da preservare tanto il principio della singola creazione di ciascuna anima (in quanto non si può pensare ad una generazione fisiologica delle anime), quanto quello che assicura dall’anima del genitore a quella del figlio la trasmissione della colpa originale e delle sue conseguenze: Se gli uomini, da un millepiedi, che per natura ha un solo corpo ed una sola anima, possono produrre, dividendo e tagliando, tanti piccoli vermi, tanti piccoli corpi, tante piccole anime, anzi, tanti vermi, tanti corpi, tante anime, è evidente senza timore di smentita, è manifesto senza dubbio alcuno ed 87

Cfr. GODESCHALCUS ORBACENSIS, Quaestiones de anima, ed. Lambot cit. (alla nota 85), p. 286,1-14. Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, Epistola (De origine animarum hominis liber), 1-3, in ID., Epistolae, 166, PL 33, 720-724, ed. A. Goldbacher, I, Praha - Wien - Leipzig 1895 (CSEL, 34/2), pp. 545-557. 88 Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De quantitate animae, 31, PL 32, [1035-1080], 1070-1071, ed.W. Hörmann,Wien 1986 (CSEL, 89), pp. 208,13 - 212,13.

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è chiaro senza oscurità che ancor di più Dio, Signore onnipotente, come si trasmette la vita attraverso l’intreccio dei tralci di una pianta di vite, può creare un’anima da un’altra anima e darla a ciascuno di quelli che nascono, come già ha fatto, fa e farà89.

Godescalco intuisce quanto la sua tesi sia complessa ed inconsueta, e chiede al suo anonimo interlocutore di non diffonderla. Il breve testo delle Quaestiones mostra così come i teologi carolingi dell’età di Carlo il Calvo avvertissero il pieno possesso degli strumenti a loro disposizione, tanto da utilizzare un dubbio espresso da una auctoritas del prestigio di Agostino, isolandolo però da un più generale contesto, per proporre una propria interpretazione del problema rimasto così irrisolto nella fonte. La tradizione patristica, in Godescalco, non appare dunque come un valore che è necessario preservare e reiterare, lasciandola intatta e sempre uguale a se stessa; essa vale, anche quando esprime incertezza, soprattutto come fondamento per l’avvio di un ulteriore, personale approfondimento speculativo, in nome del quale sacrificare, quando opportuno, anche lo stesso rispetto che si ritiene di dover di solito osservare in modo assoluto nei confronti della fonte90. Negli stessi anni, e sempre in riferimento al tema dell’origine delle anime, il De quantitate animae è al centro di un altro dibattito che vede nuovamente quale principale agonista e testimone il monaco Ratramno di Corbie. Nel passaggio del dialogo immediatamente successivo a quello che abbiamo appena ricordato, dopo aver illustrato al personaggio di Evodio, con l’esempio del nome «lucifer», come l’anima non si divida nelle parti di un corpo se questo viene sezionato, Agostino affronta il problema del 89 GODESCHALCUS ORBACENSIS, ibid., p. 290,14-21: «Si homines de uno multipede naturaliter verme unum scilicet corpus et unam animam habente tot vermiculos tot corpuscula tot animulas immo tot vermes tot corpora tot animas dividendo et secando potuerunt facere, profecto patet sine scrupolo liquet sine ambiguo claret sine nubilo quod dominus Deus omnipotens multo magis potest sicut et fecit et facit et faciet tamquam de traduce animam de anima creare et singulis nascentibus dare». La traduzione perifrastica dell’espressione «de traduce» (equivalente a «ex traduce», più frequente in Agostino), allude al significato originario del termine «tradux», che è in latino il nome botanico del tralcio della vite. 90 Cfr. D. E. NINEHAM, Godescalk of Orbais: Reactionary or Precursor of the Reformation?, in «The Journal of Ecclesiastical History», 40 (1989), pp. 40-69.

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«numerus animarum», ossia la domanda relativa a quante anime debbano essere concepite come proprie della specie umana, dal momento che ogni specie è composta di individui proprio come un corpo può dividersi in parti: se la molteplicità non è introdotta nell’anima dal numero delle parti di un corpo, qual è la situazione del numero delle anime nei confronti di una specie composta di molteplici individui? Anche in questo caso Agostino si dichiara incerto su quale sia la soluzione più vicina al vero, limitandosi ad elencare tre possibili ipotesi: o le anime sono molteplici, o ne esiste solo una universale, o, infine, esiste un’anima universale ed al contempo una molteplicità di anime91. Il vescovo Odone di Beauvais, divenuto abate del monastero di Fly sotto Carlo il Calvo, aveva saputo che un anonimo monaco del suo cenobio si dichiarava discepolo di un non meglio identificato maestro, chiamato Macario Scoto, che affermava di aver compreso, relativamente al breve testo del De quantitate, quale fosse la vera opinione di Agostino, nascosta, per le difficoltà insite nel problema, dietro un’apparente aporeticità. Macario si diceva infatti convinto che Agostino avesse indicato, tra le tre possibilità, quella intermedia, secondo cui sarebbe vera ad un tempo l’esistenza tanto di un’anima universale unica, propria dell’intera specie umana, quanto quella delle singole e molteplici anime individuali92. Agostino, a suo parere, non sarebbe stato in ciò più chiaro per timore di non essere compreso al meglio. Ra91

Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De quantitate animae, 32, 69, PL 32, 1073, ed. Hörmann cit. (alla nota 88), p. 217,1-12: «De numero vero animarum, nescio quid tibi respondeam, cum hoc ad istam quaestionem pertinere putaveris: citius enim dixerim non esse omnino quaerendum, aut certe tibi nunc differendum, quam vel numerum ac multitudinem non pertinere ad quantitatem, vel tam involutam quaestionem modo a me tibi posse expediri. Si enim dixero unam esse animam, conturbaberis, quod in altero beata est, in altero misera; nec una res simul et beata et misera potest esse. Si unam simul et multas dicam esse, ridebis, nec mihi facile, unde tuum risum comprimam, suppetit. Si multas tantummodo esse dixero, ipse me ridebo, minusque me mihi displicentem, quam tibi, perferam». 92 Cfr. il testo di Macario riportato in RATRAMNUS CORBEIENSIS, Liber de anima ad Odonem Bellovacensem, ed. C. Lambot, Namur 1951 (Analecta Mediaevalia Namurcensia, 2), p. 36,6-13 (e ibid., p. 17): «Haec autem ideo proposui, frater, ut sapias quod voluit Augustinus. Unam animam noluit, multas animas noluit; quod in medio posuit hoc voluit, hoc est, ut sit una anima et multa, quamvis ille dicit: ‘Ridebis, nec mihi facile unde tuum risum comprimam suppetit’. Non est mirum quia istam quaestionem difficillimam suadere vix potuit, quanto magis neque nos possumus».

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tramno, sollecitato una prima volta da Odone per confutare Macario, aveva composto un parvus libellus, che non aveva però esaurito il dibattito. Il monaco di Fly sedicente discepolo di Macario, del quale non è pervenuto il nome, aveva allora indirizzato a Ratramno una epistola dai toni fortemente polemici, per ribadire e difendere le tesi del suo maestro. A questo attacco personale Ratramno rispose con un’opera, inviata ad Odone ma rivolta all’anonimo monaco, il De anima ad Odonem Bellovacensem. Per illustrare al meglio l’iter complessivo della disputa, Ratramno riportò nel testo di questo opuscolo il breve commento di Macario al passaggio in oggetto del De quantitate animae di Agostino, il proprio parvus libellus scritto per confutarne la tesi, e l’epistola di replica del monaco, assicurando in questo modo la conservazione dell’intera documentazione, altrimenti perduta93. Nella sua ricostruzione, Ratramno ricorda ad Odone di essersi già impegnato, nel parvus libellus, a mostrare come il tema del «numerus animarum», posto da Agostino nel De quantitate animae, potesse esser interpretato come un caso particolare di un più generale problema di logica della predicazione. Definire il rapporto tra universale e particolare, infatti, significa per Ratramno comprendere come sia possibile che un termine, a seconda del contesto nel quale è inserito, possa mutare la propria funzione. Il nome «anima» infatti può tanto indicare un concetto generale, nel quale riassumere tutte le anime particolari («l’anima dell’uomo»), quanto essere utilizzato nella predicazione di un singolo individuo («questa anima»). È dunque infondata, agli occhi di Ratramno, l’interpretazione del passo del De quantitate proposta da Macario; come è possibile, infatti, che l’anima sia al contempo una e molte? Il termine «anima» può indicare sia la complessità dell’universale, sia la particolarità dell’individuo, ma solo in momenti diversi, con funzioni ed in contesti differenti94. 93 Cyril Lambot ha riportato anche separatamente e in forma continua, nella prefazione alla propria edizione del De anima ad Odonem (cfr. alla nota precedente), il breve commento di Macario, gli estratti del parvus libellus e l’epistola del monaco, raccogliendoli dal testo dell’opera dove sono presentati e discussi in ordine sparso: cfr. ed cit. (alla nota 91), pp. 15-20 per i primi due testi e pp. 20-24 per l’epistola. 94 Per una ricostruzione interpretativa della polemica, cfr. il mio saggio «Omnis anima una anima est per substantiam»: una disputa sugli universali in età carolingia, in «Schola Salernitana», 12 (2008), pp. 59-79.

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Nell’epistola inviata a Ratramno, l’anonimo monaco di Fly coglie pienamente il senso delle critiche sollevate contro Macario Scoto. È infatti evidente, anche agli occhi del monaco, che se il problema del «numerus animarum» rimane legato ad una dimensione esclusivamente logica, non si pongono alternative, e a seconda del tipo di predicazione nel quale il termine «anima» è coinvolto, esso cambierà la propria funzione. È dunque necessario trasferire la discussione su un piano del tutto diverso, per comprendere le motivazioni che avevano spinto Macario ad affermare – con il sostegno dell’autorevole parere di Agostino – che le anime sono una e molte al contempo. A suo dire, il maestro non avrebbe parlato di anime particolari e di un’anima universale distinguendo semplicemente un genere dagli individui di cui si predica; l’anima universale è infatti una «species substantificata», vale a dire dotata di un’esistenza propria, prioritaria rispetto agli individui, che da essa concretamente derivano ed alla quale vanno logicamente riportati con un’operazione astrattiva. Se pur con un linguaggio spesso impreciso ed approssimativo, ed un utilizzo talvolta improprio di un lessico di evidente origine boeziana, l’anonimo sostiene dunque un marcato realismo delle essenze, secondo cui agli universali spetterebbe una duplice funzione. Astratti dal sensibile, essi conservano la funzione di designare unitariamente e collettivamente tutti gli aspetti comuni ad una moltitudine di individui della stessa specie diversi per numero ed accidenti; considerati come preesistenti alle cose, gli universali le fondano e le riassumono metafisicamente, perché ogni ente da essi deriva, e ad essi tende a ritornare. Dopo aver riassunto questo lungo iter, Ratramno dedica la parte conclusiva del De anima ad Odonem a confutare definitivamente tanto l’interpretazione di Agostino fornita da Macario, quanto le tesi espresse dal monaco di Fly in difesa del suo maestro. A tal fine, Ratramno sintetizza l’opinione dei suoi avversari in una formula assente nei loro scritti, ma utile ai fini di una più semplice ricapitolazione: «dicit [monachus] namque quod omnis homo unus homo sit per substantiam, et omnis anima rationalis una sit anima per substantiam»95. L’anima, dunque, considerata 95 RATRAMNUS CORBEIENSIS, Liber de anima ad Odonem Bellovacensem, ed. Lambot, p. 27,20-22.

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come «species substantificata», secondo l’espressione dell’anonimo monaco, riunirebbe in una tutte le anime particolari, perché in essa tutte trovano la loro effettiva sostanzialità. Procedendo con la metodicità di un maestro che illustra agli alunni i loro errori, per evidenziare l’ambiguità di questa affermazione Ratramno procede all’analisi dei singoli termini che la compongono: «unus», «omnis» e «substantia». I primi due sono evidentemente opposti: con «omnis» infatti si descrive ciò che si predica universalmente, con «unus» si introduce una predicazione concernente l’individuo96. Essi sono «epitheti»: legati ad un nome, possono indicare nell’ambito semantico ad esso corrispondente rispettivamente un insieme onnicomprensivo o un ente particolare. La «substantia», invece, può anche essere impropriamente predicata di un genere o di una specie, ma, come con chiarezza è insegnato dalle fonti dialettiche, la sua definizione precisa la identifica con l’individuo97. È dunque scorretto porre un’uguaglianza tra le espressioni «unus homo» ed «omnis homo», perché esse indicano rispettivamente la singolarità (ossia la «substantia» individuale) e l’universalità (ossia la specie), né è possibile giustificare questa identificazione con l’espressione «per substantiam»98; se infatti con il termine substantia si intendono in primo luogo gli individui, è impossibile affermare che i singoli uomini siano uniti proprio per mezzo di ciò che li rende differenti. Certamente esiste, tra gli uomini, una natura condivisa, ma essa non si definisce sostanza, bensì «essentia» o «natura». Secondo Ratramno il monaco 96 Cfr. ibid., p. 28,4-6: «Manifestum igitur quod omnis universitatem significat, unus vero singularitatem». 97 Cfr. ibid., p. 29,6-12: «Dicitur quidem, sicut iam dictum est, et substantia de multis, quando de genere sive de specie pronunciatur: de genere sicut est ‘animal’; de specie sicut est ‘homo’. Sed substantia proprie nuncupatur quando de uno individuo ac singulari et quod digito ostendi potest vel aspectui subiacet pronunciatio fit». Cfr. Categoriae decem, PL 32, 1435, ed. Minio-Paluello cit. (cap. 5 alla nota 28), p. 165,27-28: «Usia habet hoc proprium, ut singularis atque una numero, contraria in se suscipiat»; questo passaggio è ripreso alla lettera e ulteriormente precisato in ALCUINUS EBORACENSIS, De dialectica, PL 101, 961A: «Nam usiae proprium est, ut sit singularis atque una numero, et contraria in se suscipiat, ut puta, homo singularis usia est atque unius numeri et susceptibilis contrarietatis». 98 Cfr. RATRAMNUS CORBEIENSIS, ibid., p. 29,34-39: «Cernitis ergo repugnans esse ut omnis homo sit unus homo et omnis anima sit una anima; quoniam quod omnis non unus et quod unus non omnis. Unus denique singularitatem, omnis vero universitatem significat: et simul esse in eodem subiecto cernitis esse non posse».

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di Fly ha dunque completamente frainteso la definizione dei termini che utilizza, e di conseguenza ne confonde i campi di applicazione ed ignora quale sia il loro più corretto utilizzo.Abbandonata infatti la rigida ma sicura normatività della tradizione («relicta regula Boethii»), che avrebbe dovuto suggerirgli un linguaggio più rigoroso e gli avrebbe impedito interpretazioni fantasiose, egli ha invece piegato Boezio e tutto il suo vocabolario logico e teologico alla propria dottrina, trasferendo il problema, in modo improprio, sul piano metafisico, perché incapace di giustificarlo su quello logico. Il De anima ad Odonem ed il dibattito che con esso si conclude possono a pieno titolo essere accolti quali testimoni diretti del clima culturale proprio dell’epoca. Per un verso, un teologo competente e raffinato come Ratramno tenta, con l’ausilio della sola auctoritas boeziana, di dimostrare l’infondatezza delle tesi dei suoi avversari; tutto il De anima ad Odonem è una breve introduzione allo studio di Boezio, al modo in cui la sua terminologia va utilizzata, ed alle conseguenze delle sue affermazioni; nel piccolo compendio che sembra voler proporre al suo avversario, Ratramno difende l’idea che l’approccio ad un corpus speculativo complesso come quello di Boezio richieda un rigore, una disciplina ed una costanza non usuali, per far sì che la ragione, arricchita da questo patrimonio, non danneggi l’uomo e lo allontani dalla verità.Al contrario, il monaco di Fly, e probabilmente lo stesso Macario, si fanno sostenitori – sia pure mediante un utilizzo delle fonti, in particolar modo di Boezio, più approssimativo ed impreciso di quello di Ratramno – di un uso strumentale dell’auctoritas: non più e non soltanto patrimonio comune della civiltà cristiana, da utilizzare per rendere più salda e credibile la propria tesi, ma deposito di conoscenze acquisite, da sfruttare, anche modificandone il senso, per renderle funzionali alle nuove esigenze del proprio percorso speculativo.

4. Godescalco di Orbais e i suoi avversari 4.1. Godescalco e Rabano Mauro Negli anni trascorsi a Corbie e ad Orbais, Godescalco aveva elaborato una particolare tesi sulla divina predestinazione, e predi-

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candola pubblicamente nel corso delle sue peregrinazioni per l’Italia aveva suscitato, come si è visto, le preoccupazioni prima del vescovo di Verona, Noting, e poi del conte del Friuli99. Preoccupati che le novità insite nella sua dottrina potessero essere portatrici di eresia e diffondersi raccogliendo proseliti nei loro territori, entrambi si rivolsero a Rabano Mauro perché intervenisse con la propria autorità sul suo sottoposto, esprimendo un parere sulla sua dottrina. Già sessantenne e ormai da tempo vescovo di Magonza, Rabano compose un breve trattato sulla predestinazione in cui prendeva posizione contro le linee portanti delle affermazioni di Godescalco sull’argomento100. Nella lettera indirizzata a Noting in occasione della stesura di questo testo, Rabano sostiene come gli eretici vadano convertiti con l’uso dei Padri e delle Scritture, ed in tal modo riportati ad una corretta consapevolezza della propria natura101: il cattivo interprete della fede è un uomo che cade in errore, non riuscendo a comprendere convenientemente, per propria incapacità o per i tranelli che gli tende il maligno, quale sia la propria naturale «virtus» conoscitiva e in quale modo essa sia in grado di cogliere la relazione che unisce l’intero creato con Dio. Se l’uomo razionale conoscesse la forza della sua natura, e comprendesse perfettamente la potenza del suo Creatore, non si lascerebbe affatto coinvolgere in stolte questioni, e non si applicherebbe a ciò che è contrario alla religione, né lo divulgherebbe a parole. Ma l’antico nemico, che sin dall’inizio ha cercato di contrastare l’umana salvezza, poiché mai cessa di seminare zizzania nella messe di Cristo, diffonde discorsi non solo oziosi ma dannosi e blasfemi servendosi di uomini bugiardi e millantatori102. 99 Per una ricostruzione generale ed un’analisi complessiva della disputa, la sua origine ed il suo sviluppo, cfr. supra, cap. 2, § 3. 100 Cfr. HRABANUS MAURUS, De praedestinatione, PL 112,1531A-1553C. 101 Cfr. ID., Epistola ad Notingum, PL 112, 1530D, ed. Dümmler cit. (cap. 2, alla nota 83), p. 428,18-20: «Convenit inter nos ut e divinis Scripturis, et de orthodoxorum Patrum sententiis, aliquod opusculum conficerem, ad convincendum errorem eorum qui de Deo bono et iusto tam nequiter sentiunt, ut dicant eius praedestinationem facere, quod nec homo ad vitam praedestinatus possit in mortem incidere, nec ad mortem praedestinatus ullo modo se possit ad vitam recuperare». 102 ID., De praedestinatione, 1531B: «Si homo rationalis vim suae agnosceret naturae, et Creatoris sui potentiam rite intelligeret, nequaquam stultis se implicaret

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Alcuni uomini (e tra essi, per Rabano, è Godescalco) sono incapaci di riconoscere i limiti della propria natura, e nascondono la loro arroganza dietro discorsi inutili e fumosi, densi di argomentazioni con cui vanamente rifiutano la dottrina che la Chiesa trae dalle Scritture e corrobora con l’ausilio dell’esegesi dei Padri: Rabano al contrario ribadisce quanto le sante auctoritates costituiscano una ricchezza inesauribile, e rappresentino l’ineludibile principio e vaglio di verificabilità di ogni argomentazione teologica. Così, in particolare, a proposito del delicato tema della predestinazione divina, le Scritture e i Padri attestano che Dio è «iudex iustus»; la sana ragione ne inferisce che le azioni degli uomini, tanto di quelli meritevoli di lode quanto dei malvagi, sono senza ombra di dubbio libere: se così non fosse, il giudizio di premio o di condanna da parte di Dio non sarebbe in alcun caso equo103. Se dunque la giustizia è un attributo teologico accertato dalla rivelazione ne consegue che Dio, che ha fondato l’ordine dell’universo ed è giusto, giudica gli uomini sempre in base ad una «ratio» che riflette pienamente la sua assoluta volontà vigente nell’intero universo: il vincolo morale coincide dunque per il credente con il vincolo naturale, e rispettarlo equivale da parte dell’essere umano a portare a compimento quanto da Dio è stato per lui prestabilito fin dalla creazione104. La comprensione della volontà divina appartiene tuttavia ad un livello di conoscenza al quale gli uomini non possono arrivare con i soli mezzi della ragione creata105; secondo la fondamenquaestionibus, et quae Christianae religioni sunt contraria, nec sensu teneret, nec voce proferret. Sed quia antiquus hostis, qui ab initio humanae invidit saluti, nunquam desinit in segete Christi superseminare zizania, ideo per vaniloquos non solum otiosa, sed et noxia, et blasphemiis plena profert eloquia». 103 Cfr. ibid., 1531B. 104 Cfr. ibid., 1532B: «Non est necesse mihi ut laborem pro requie et salute mea, quia si praedestinatus sum a Deo ad vitam aeternam, velim nolim illuc perveniam: si autem praedestinatus non sum, nihil mihi proficit bene operari ac virtutibus operam dare, quia aeternae beatitudinis praemia non possidebo». 105 Cfr. ibid., 1553C: «Occulta autem atque secreta Dei, quae soli patent cognitioni divinae,neminem scrutari debere,ne plus volens ‘sapere quam oportet sapere’ (Rm 12,3),pro veritate falsitatem et pro recta fide maximum errorem sequendo,in interitum decidant sempiternum».E cfr.ibid.,1533C:«Omnis enim lex divina hoc docet, ut per obedientiam mandatorum Dei perveniamus ad creatorem nostrum: nec ullus ratione vigens sine fide recta et bonis operibus Deo placere potest. Unde et prophetica atque apostolica eloquia hoc resonant, ad hoc exhortantur, ut recto cursu sanctae conversationis perveniamus ad creatorem nostrum».

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tale regola del sapere teologico fissata dall’apostolo Paolo, Rabano, come scrive al conte Eberardo, avverte che proprio in questo senso non è impossibile da parte dell’uomo il «sapere», ma è invece sempre illecito voler «plus sapere», aspirare cioè ad una impossibile comprensione del senso profondo di quei misteri («occulta secreta») – tra i quali si colloca evidentemente soprattutto il senso inconoscibile della predestinazione del destino degli uomini da parte divina – che, proprio in quanto tali, devono rimanere inaccessibili: Nell’esame accurato e profondo delle sacre Scritture e nella meditazione di esse, bisogna che il lettore si attenga ad una estrema prudenza, cioè che non voglia «sapere più di quanto è giusto sapere, ma sapere con moderazione» e «secondo la misura della fede»106.

Gli uomini che hanno avuto in dono dei talenti spirituali, devono conciliare, nel loro studio, il rispetto per il mistero divino e prestare attenzione alle diverse capacità degli individui ai quali si rivolgono. Anche il poeta pagano avvertiva: «non enim omnia possumus omnes»107; e Rabano postilla: «sed unusquisque nostrum proprium habet donum ex Deo, alius sic, alius vero sic»108. Anche san Paolo del resto insegna come i misteri della sapienza non siano accessibili a tutti con semplicità (cfr. 1Cor 2, 6-8); e Gregorio Magno, nei Moralia, invita quei credenti che hanno avuto in dono la capacità di interpretare il messaggio scritturale a preoccuparsi di come i fedeli più deboli possano averne conoscenza109. È dunque dovere del vero credente, conclude Rabano, 106 HRABANUS MAURUS, Epistola ad Heberardum comitem, ed Dümmler cit. (cap, 2, alla nota 84), p. 486,24-25: «In scrutando autem et meditando Scripturas sacras oportet lectorem caute et prudenter agere, ne forte velit ‘plus sapere quam oportet sapere, sed sapere ad sobrietatem’ (Rm 12, 3) et ‘secundum rationem fidei’ (Rm 12, 6)». 107 VERGILIUS, Bucolicae, ecl.VIII, v. 83. 108 HRABANUS MAURUS, ibid., p. 487,5-6. 109 Cfr. GREGORIUS I PAPA, Moralia in Job, XVII, 26, 38, PL 76, 28BC, ed. Adriaen cit. (cap. 4, alla nota 11), II, p. 872,60-68: «Id est qui in sacro eloquio iam alta intelligit, sublimes sensus coram non capientibus per silentium tegat, ne per scandalum mentis aut fidelem parvulum, aut infidelem qui credere potuisset, interimat. Ex morte enim iumentorum debet praetium, qui illud scilicet admisisse convincitur, unde ad agendam poenitentiam reus tenetur. Quisquis namque ad alta scientiae fluenta perveniens, cum haec apud bruta audientium corda non

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confutare coloro i quali, con una predicazione non basata sull’autentica lettura delle autorità scritturali, si rendono invece colpevoli di confondere e corrompere le menti dei semplici110. 4.2. Le tesi di Godescalco Le preoccupazioni di Rabano, e l’insistenza con la quale, nel De praedestinatione e nelle epistolae, egli sottolinea la priorità assoluta dell’auctoritas, trovano giustificazione nella lettura delle opere di Godescalco; il monaco ostenta una erudizione messa a frutto nella elaborazione e nella difesa di alcune particolari tesi dottrinali111. Le sue conoscenze patristiche sono vaste, così come ricchi sono i riferimenti alle artes, in particolare alla grammatica ed alla dialettica. Il suo metodo argomentativo sfrutta pienamente, e spesso liberamente, il patrimonio di testi patristici condiviso da tutta la sua generazione di intellettuali, utilizzando il bagaglio di conoscenze tecniche messe a sua disposizione dal lavoro dei primi carolingi per elaborare soluzioni linguisticamente inusuali dei diversi problemi teologici affrontati112. La sua riflessione sulla predestinazione divina è pienamente coerente con la tradizione carolingia, e si sviluppa a partire dall’icontexerit, poenae reus addicitur, si per verba eius in scandalum, seu munda, seu mens immunda capiatur. Operienda est itaque cisterna: quia coram parvulis mentibus tegenda est alta scientia, ne unde cor docentium ad summa attollitur, inde infirmitas auditorum ad ima dilabatur». 110 Cfr. HRABANUS MAURUS, ibid., p. 487,17-24: «Haec ergo, amice charissime, ideo tibi scripsi, ut cognosceres quale scandalum de illis partibus opinio veniens in hoc populo generaverit, et si quis manens apud te docet quae rectae fidei sunt contraria, prohibeas eum, ut cesset ab hac secta, dicasque ei:Vide, frater, ne hac licentia tua in praedicando offendiculum fiat infirmis, et tuo dogmate ne perdas eum pro quo Christus mortuus est, quia sanguis eius requiretur de manu tua. Confido enim te, vir venerande, bene esse Christianum, nec aliquid te habere velle in tua mansione quod Evangelio Christi adversetur: sed magis hoc quod placeat Deo, et ad salutem pertinet animarum. In qua voluntate et in quo studio divinitas Domini nostri Iesu Christi incolumem in aeternum te conservare dignetur». 111 Per la figura e l’opera di Godescalco, cfr. J. JOLIVET, Godescalc d’Orbais et la Trinité. La méthode de la théologie à l’époque carolingienne, Paris 1958 (Études de philosophie médiévale, 47); BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 115-120 e p. 290; D’ONOFRIO, Discussioni teologiche cit. (alla nota 1), pp. 204-214, 224-226 e pp. 241-242. 112 Cfr. GODESCHALCUS ORBACENSIS, Responsa de diversis, 5, ed. Lambot cit. (cap. 2, alla nota 85), [pp. 132-179], p. 146,11-15.

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dea fondamentale di un Dio che è al tempo stesso creatore e ordinatore dell’universo: «ubicumque semper totus, cum ipso procul dubio sumus et quando ‘ex ipso per ipsum in ipso’ (Rm 11,36) ad ipsum tendimus»113. Se dunque Dio è «ubique», la «civitas Dei», costituita dall’insieme degli uomini giusti, si è già realizzata, ed è contrapposta alla «civitas diaboli»114. In questo ordine gli equilibri sono già fissati, da sempre: la predestinazione di Dio non può dunque che comprendere tutti gli uomini, tanto i malvagi, destinati al male e alla dannazione, quanto i buoni, ai quali è riservata con la predestinazione al bene anche l’«electio»115. Essi sono infatti divenuti oggetto della grazia divina, che è per le creature razionali come l’anima per il corpo, e la luce per gli occhi116: Infatti come Dio immutabile «prima della creazione del mondo» predestinò alla vita eterna immutabilmente tutti i suoi eletti per sua gratuita grazia, allo stesso modo senza eccezione quello stesso Dio predestinò immutabilmente tutti i

113 Cfr. ID., De praedestinatione, ed. Lambot, [pp. 180-257], p. 180,7-8. Godescalco utilizza Rm 11, 36 («quoniam ex ipso, et per ipsum, et in ipso sunt omnia») ma modifica la tripartizione paolina in una quadripartizione; tale modificazione è presente anche in Giovanni Scoto, che la trae da Dionigi, cfr. D’ONOFRIO, Über die Natur der Einteilung cit. (cap. 5, alla nota 44), pp. 20-21 e nota 18. Godescalco sembra invece autonomamente modificare il testo scritturale. 114 Cfr. GODESCHALCUS ORBACENSIS, ibid., p. 206,8-16: «‘In ipso enim vivimus et movemur et sumus’ (Ac 17, 28). Civitas namque Dei una est, in sola manet ipse qui totus ubique est. Igitur in ipsa civitate currimus in qua sumus et quae civitas nos ipsi sumus et ob id apud dominum Deum nostrum domum nostram locum nostrum gradimur in quo ‘vivimus movemur et sumus’ ut ab Apostolo dicitur.At e contrario reprobi non sunt civitas Dei sed civitas diaboli ac per hoc nisi fallaciter se dicere nequeunt apud Deum gradi». 115 Cfr. ibid., p. 202,1-13: «Deus qui nescit et nequit errare fallive sue fallere nihil aliud umquam debuit debet debebit quod absit agere, nisi quemadmodum semel simul sempiternaliter praescitum praedestinatum praefixum praeparatum praefinitum praeordinatum super electos gratuitum gratiae suae beneficium superque reprobos iustum iustitiae suae iudicium semper ‘secundum consilium suae voluntatis’ (Eph 1, 11) incommutabiliter disposuit facere, miserens cui vult magna bonitate indurans et deserens damnansque consequenter quem vult nulla iniquitate sed summa prorsus ut iustum iudicem decet aequitate, electis gratiam tribuens reprobis iustitiam iudicium poenamque retribuens». 116 Cfr. ibid., p. 234,5-10: «Quemadmodum corpus indiget animae quo possit vivere, et sicut oculi simul et aer indigent lucis ut et illi valeant videre et iste lucere, et sicut palmites indigent vitis ut fructum queant ferre, sic profecto rationalis creatura non modo humana sed prorsus et angelica semper divinae gratiae cognoscitur indigere quo per illam possit deo placere».

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malvagi che nel giorno del giudizio saranno condannati per le loro colpe ad una morte giustamente eterna117.

Le scelte terminologiche rivelano, in Godescalco, una profonda competenza linguistica. Dio prima di ogni tempo («ante mundi constitutionem», ripresa di una formula paolina) ha posto le fondamenta della creazione in virtù della sua non mutevolezza («incommutabiliter»); ciò significa che, nell’eterno istante presente della sua creazione, e dunque nella semplicità della sua essenza, non ha voluto compiere distinzioni: la sua predestinazione ha coinvolto ogni essere umano, tanto i buoni quanto i malvagi118. La dialettica dimostra che nella semplice ed atemporale creazione di Dio non è possibile ipotizzare una distinzione nella predestinazione; è invece compito della grammatica individuare i termini con i quali l’imperfetta capacità umana di conoscere ed illustrare Dio possa almeno parzialmente avvicinarsi a descrivere la contraddizione emergente dagli esiti temporali di una sola eterna predestinazione dalle molteplici implicazioni. La ragione distingue la semplicità della causa divina dalle conseguenze diversificate della sua unitaria potenza e volontà. Per poter parlare al contempo della natura di Dio, che è semplice, e della pluralità che essa genera, la grammatica suggerisce allora a Godescalco il ricorso al termine «gemina» (gemella, e quindi duplice pur nell’identità sostanziale): pur essendo singolare, e dunque predicabile anche della «praedestinatio» come attributo eterno e semplice dell’essenza stessa di Dio, tale aggettivo infatti esprime adeguatamente la pluralità di ciò che da tale predestinazione deriva.

117 Ibid., p. 138,10-30: «Quia sicut Deus incommutabilis ‘ante mundi constitutionem’ (Eph 1, 4) omnes electos suos incommutabiliter per gratuitam gratiam suam praedestinavit ad vitam aeternam; similiter omnino omnes reprobos qui in die iudicii damnabuntur propter ipsorum mala merita, idem ipse incommutabiliter Deus per iustum iudicium suum incommutabiliter praedestinavit ad mortem merito sempiternam». 118 Cfr. ID., Confessio brevior, ed. Lambot, [pp. 52-54], p. 52: «Credo et confiteor Deum omnipotentem et incommutabilem praescisse et praedestinasse angelos sanctos, et homines electos ad vitam gratis aeternam, et ipsum diabolum caput omnium daemoniorum cum omnibus suis apostaticis, et cum ipsis quoque hominibus reprobis, membris videlicet suis, propter praescita certissime ipsorum propria futura mala merita praedestinasse pariter per iustissimum iudicium suum in mortem merito sempiternam».

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Certamente a nessuno di quanti sono religiosamente saggi deve sembrare assurdo se si crede e si attesta una doppia (gemina) predestinazione e se si sostiene senza ombra di dubbio che in te nostro Dio esiste una sola natura ma allo stesso tempo una Trinità di persone: tu infatti secondo questa doppia predestinazione (come il tuo Agostino fedelmente crede e altrettanto fedelmente asserisce) sei buono nel beneficare i fedeli, giusto nel condannare tutti gli altri119.

Lo strumento linguistico diviene in tal modo pienamente funzionale alla descrizione dei risultati di una speculazione teologica. Nella sua essenza, Dio è semplice e, come aveva sostenuto Rabano, giusto. Se deve esser al contempo semplice e giusto, e deve premiare i buoni e condannare i peccatori, occorre però necessariamente distinguere la sua natura da ciò che da essa si produce. Ciò non implica che in Dio ci sia una sussistenza sostanziale del male legato alla punizione; sono infatti i limitati intelletti degli uomini che, non avendo la capacità di cogliere anche nella pena gli effetti della giustizia divina, la indicano come un male120. La doppia predestinazione di Dio non è né generata da un sillogismo, né costruita grammaticalmente; l’utilizzo delle normative delle artes liberali è puramente strumentale al discorso teologico, e non ha in Godescalco altro compito che quello di rendere manifesta una verità già esistente, a prescindere dalla capacità e dalla volontà degli uomini di coglierla121. Per questo motivo, Godescalco non ha alcuna difficoltà nell’utilizzare citazioni scritturali per costruire premesse e conclusioni di un sillogismo122. Dio ha creato tutto in un eterno istante presente, e non è possibile pensare che il suo progetto possa modificarsi nel tempo. Se dunque si sostiene che i peccatori, in origine, non sono stati predestinati alla 119 ID., Confessio prolixior, PL 121, [pp. 349-365], 358B, ed. Lambot, [pp. 5578], p. 61: «Nec sane cuiquam pie sapientium videri debet absurdum, si gemina praedestinatio creditur, et cognoscitur, et incunctanter esse dicitur apud te Dominum nostrum naturaliter quidem unum, sed simul etiam personaliter trinum: qui certe secundum hanc geminam praedestinationem tuam (quemadmodum Augustinus tuus fideliter credit, et fidenter asserit) bonus es in beneficio certorum, iustus in supplicio caeterorum». 120 Cfr. ID., De praedestinatione, p. 183,9-21. 121 Cfr. ibid., p. 206,20-21: «Syllogismus est argumentum et sententia cornuata satisque prudenter et inevitabiliter captiosa». 122 Cfr. ibid., p. 206,22-25.

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perdizione, questa condizione non potrà cambiare in futuro: se non sono condannati alla morte eterna, non lo saranno stati sin dal principio; se in futuro lo saranno, lo sono stati da sempre. Nei Salmi Dio stesso è descritto nell’atto di sprofondare i peccatori nell’abisso del male: «tu vero Deus deduces eos in puteum interitus» (Ps 54, 25). Se ne deve dunque concludere che i peccatori sono destinati alla morte da Dio, e che, poiché Dio non può mutare, lo sono da sempre123.

4.3. Godescalco e Incmaro di Reims All’indomani della condanna subita da Godescalco a Quierzy, il ruolo della difesa di una corretta interpretazione delle dottrine agostiniane sulla predestinazione divina, che era stato di Rabano nei primi anni della disputa sulla predestinazione, fu assunto dall’arcivescovo di Reims Incmaro. Dopo aver tentato con scarso successo di raccogliere adesioni contro la dottrina di Godescalco presso alcuni tra gli intellettuali più illustri dell’epoca, Incmaro intervenne in prima persona, facendo sue le antiche preoccupazioni di Rabano. Questi aveva esplicitamente chiesto che fossero arginati i pericoli legati alla dottrina di Godescalco che, diffondendo l’idea di una universale predestinazione di ciascun individuo alla pena o al premio eternamente fissati da Dio prima dell’inizio stesso della storia del mondo, rischiava di indurre i fedeli ad un pericoloso scetticismo e fatalismo etico. Rispetto a Rabano, Incmaro non evidenzia la sola pericolosità sociale di Godescalco124. Le teorie predestinazioniste hanno una lunga storia, che Incmaro riassume brevemente, quasi a sottolineare la continuità tra l’operato di Godescalco e coloro i quali, in passato, hanno tentato di distruggere l’unità della Chiesa, la cui universalità rimane per Incmaro un valore da preservare125. Gli eretici, e Godescalco 123

Cfr. GODESCHALCUS ORBACENSIS, ibid., p. 207,25-26. Cfr. G. POTESTÀ, Ordine ed eresia nella controversia sulla predestinazione, in Giovanni Scoto nel suo tempo. L’organizzazione del sapere in età carolingia, Atti del XXIV Convegno storico internazionale (Todi, 11-14 ottobre 1987), Spoleto 1989, pp. 383-414, in partic. p. 389. 125 Cfr. HINCMARUS RHEMENSIS, De praedestinatione, 4, PL 125, 88C: «Sequimur autem quae catholica et apostolica nos docet sancta Romana Ecclesia, quae nos in fide genuit, catholico lacte aluit, uberibus coelo plenis ad solidum cibum 124

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in particolare, conoscono gli strumenti per costruire ragionamenti formalmente corretti, ed utilizzano spregiudicatamente l’auctoritas, che non esitano a citare in modo parziale e spesso capzioso126. Incmaro comprende infatti che il contesto culturale nel quale Godescalco elabora la sua speculazione è identico a quello di tutta la tradizione carolingia, nella quale lui stesso si è formato; medesime sono le fonti, identici i modelli speculativi utilizzati, ed è proprio tale prossimità che rende le tesi del suo avversario pericolose. Esse non nascono di fatto in un contesto culturale e religioso diverso, che possa venir rifiutato in toto da Incmaro; lo sforzo dell’arcivescovo di Reims è invece orientato a rintracciare, proprio nel patrimonio di conoscenze condivise con Godescalco, il criterio di una loro corretta applicazione. È dunque a suo parere necessario operare una distinzione, anche nell’analisi di argomentazioni inaccettabili per un vero credente, come quella che ha condotto Godescalco a definire la predestinazione divina «gemina»127. L’uso di tale termine è improprio, se con esso si sostiene che Dio decide, prima dei tempi, chi siano i giusti e chi i peccatori; lo si utilizza invece in modo adeguato quando si sottolinea, in Dio, la duplice predestinazione che premia coloro che hanno saputo mantenersi giusti, e commina le pene a quanti volontariamente si sono resi peccatori128: «electis dat gratia quod nutrivit, disciplina orthodoxa ad perfectum virum perduxit, et ad alios instruendum sua probatione instituit, atque in doctrinali cathedra fautore et adiuvante Domino sublimando constituit». Per la figura e l’opera di Incmaro, cfr. J. DEVISSE, Hincmar, archevêque de Reims, Droz 1967; BRUNHÖLZL, Histoire de la littérature latine cit. (cap. 2, alla nota 65), pp. 199-205 e pp. 307-308; D’ONOFRIO, Discussioni teologiche cit. (alla nota 1), pp. 204-214, 226-229 e pp. 238-240. 126 Cfr. HINCMARUS RHEMENSIS, ibid., 5, 89A: «Praemonemus etiam Gothescalci et complicium eius fore consuetudinem, ut catholicorum testimonia, praelatis doctorum atque librorum nominibus, excerpta detruncent, et ad suos sensus, sicut et Scripturarum sententias, inflectere curent, quatenus auditorum sibi sensus, si minus cauti fuerint, conciliare praevaleant». 127 Cfr. ibid., 19, 173D: «Quoniam Gothescalcus et sui complices geminam praedestinationem dicunt, non per totum neque in toto hoc refutare debemus, sed sensum catholicae fidei contrarium in hoc dicto, quo praedestinationem Dei geminam astruunt, fidei catholicae filii abominari et anathematizare debemus. Dicunt enim, ut praemisimus, quia sicut electi a Deo praedestinantur ad vitam, ita reprobi a Deo praedestinantur ad mortem». 128 Cfr. ibid., 174BC: «Qui vero in sinu catholicae matris Ecclesiae positus, ita Dei praedestinationem voluerit dicere geminam, ut in effectu operum Dei, qui fecit quae futura sunt, hoc recto sensu intelligat; scilicet ut ad electos donum gratiae pertinere, et secundum superiorem sensum ad reprobos retributionem iusti-

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non meretur malitia, relictis autem reddit aequitas quod meretur iniquitas»129. Questa considerazione, di ordine più generale, non cancella l’errore di Godescalco, che anzi appare ingigantito; non sono infatti i termini che egli ha utilizzato ad essere in sé perversi, ma la sua decisione, cosciente, di adoperarli in modo non conforme alla dottrina ufficiale130. Egli è dunque assimilabile ad Erostrato, che ad Efeso incendiò il tempio di Diana solo per diventare celebre131: senza il supporto dei Padri e privo di riferimenti scritturali convincenti, Godescalco ha solo voluto distorcere il senso della dottrina ortodossa per acquisire fama personale. Se dunque Rabano temeva le conseguenze delle dottrine di Godescalco all’interno di vulnerabili comunità religiose in cui potessero attecchire, Incmaro avverte invece in esse un rischio ben più profondo: Godescalco rappresenta, ai suoi occhi, il portato di una lettura deviante del patrimonio di auctoritates e competenze ereditato dalla tradizione carolingia, e che ancora costituiva un essenziale modello educativo. In virtù della medesima preoccupazione, Incmaro si oppose anche alle teorie formulate da Godescalco sulla «trina deitas». Come già è stato possibile constatare a proposito della predestinazione, Godescalco anche nel dominio della teologia trinitaria impernia tutta l’articolazione del proprio pensiero su di una centrale riflessione sull’immutabilità, sulla semplicità e sull’unitarietà

tiae fateatur, ut dono gratiae electi sint praedestinati ad vitam, et illis vita sit praedestinata aeterna, reprobi autem non a Deo praedestinentur ad poenam, sed retributione iustitiae illis poena praedestinetur aeterna, non discordat a vero, si hanc Dei praedestinationem sic dicit geminam, sicut catholici doctores charitatem geminam dicunt, quae una est, et in praeceptis duobus, dilectione videlicet Dei et proximi, gemina dicitur». E cfr. ibid., 196A: «Nam et isdem qui praefatum contra nos scripsit libellum, quantum datur intelligi, si artem sciret qua votum suum ad effectum quod desideraverat perducere valuisset, ut innotescere posset voluntarie haereticus esset». 129 Ibid., 177C. 130 Cfr. ibid, Praef., 69B: «Si autem et pertinaciter contradixerit veritati, ipse infidelitate sua et contentionis suae vecordia, haeretici sibi nomen imponet: quia non statim est haereticum quod ignoranter a fide sentitur diversum si non fiat pertinaci contentione haereticum». 131 Cfr. ibid., 22, 196A: «Sicut de quodam fertur adolescente rumores captante inutiles, cum templum magnae Dianae apud Ephesum incendisset, comprehensus et interrogatus cur talia praesumpsisset, dicitur respondisse: Quia bonis, inquit, non potui innotescere, saltem vel malis innotescerem».

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della natura divina quali verità inconfutabili e presupposto irrinunciabile per ogni dimostrazione. Con il termine «natura» Godescalco specifica di voler indicare ciò che non muta132; essa, in Dio, si definisce comunemente «essentia» ma Godescalco utilizza indifferentemente anche il termine «substantia»133. Godescalco indica l’esistenza da un lato di una «generalis, communis, atque universalis substantia», comune a tutte e tre le persone; dall’altra, invece, di una «individua singulorum substantia»134.I confini tra ciò che è possibile predicare di Dio in relazione alla sua natura e ciò che invece si attribuisce alle tre persone appaiono, in tal senso, complessi da determinare; così, se naturaliter si sostiene che Dio è uno, si può ammettere che personaliter sia trino135. Non sussiste differenza alcuna tra la natura della divinità e quella delle persone, tanto che anche terminologicamente non è possibile distinguere tra ciò che è essenza (o natura) e ciò che è sostanza (o persona). Questo, che è un corollario della semplicità divina, impone all’uomo che voglia descrivere, con il proprio linguaggio limitato, il mistero di una natura unica ma che si manifesta in tre persone, di individuare un termine che si possa predicare della divinità, e dunque sia singolare, ma che mostri la pluralità delle persone: come dunque la predestinazione è «gemina», così la natura divina è «trina». Il ragionamento e la scelta di termini specifici rimane per Godescalco il dovere del teologo che, illustrati con questi strumenti i punti più oscuri della dottrina, può lasciar parlare le Scritture. Dopo aver riportato il suo ragionamento, Godescalco cita passi biblici opportuni e non aggiunge altro commento: è inutile affaticarsi («non opus est») per convincere chi non vorrà credere nemmeno alla «sententia Domini»136. Pur difendendo una dottrina trinitaria inconsueta e distante da quella della tradizione carolingia, è proprio in quel patrimonio di testi ed argomentazioni che Godescal132 Cfr. GODESCHALCUS ORBACENSIS, De corpore et sanguine Domini, ed. Lambot cit., [pp. 324-337], p. 336,7-14. – Cfr. JOLIVET, Godescalc d’Orbais cit., p. 36. 133 Cfr. GODESCHALCUS ORBACENSIS, De Trinitate, [pp. 259-279], p. 270,26-28: «In harum trium personarum natura substantia vel essentia vel in sapientia vel in gloriae ceu maiestatis excellentia, nulla est nec umquam potest esse differentia»; ID., De diversis, [pp. 294-324], pp. 310, 2 e 316,14. 134 Cfr. JOLIVET, ibid., p. 39. 135 Cfr. GODESCHALCUS ORBACENSIS, De Trinitate, p. 259,6-10. 136 Cfr. ibid., p. 262,14-20.

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co ritrova l’idea che il mondo sia, in qualche modo, immagine di Dio, specchio dell’ordine razionale, e che sia possibile intendere, attraverso la retta comprensione degli equilibri del mondo persino l’armonica relazione che vige tra le persone trinitarie137. Diversi excerpta patristici, numerose citazioni scritturali e, soprattutto, un uso delle proprie competenze dialettiche e grammaticali al servizio della migliore interpretazione della dottrina: Godescalco utilizza con grande dimestichezza e con solida competenza gli strumenti della grammatica e della dialettica, e ne concilia metodi 137 Cfr. ID., De diversis, p. 318,10-15: «De Deo Trinitate et unitate in hoc veritas patet. Super omnia siquidem nobis necesse est ut hinc nostra gratis divinitus inlustrata gaudeat paupertas quod nobis licet indignis penitus in singulis personis integra perfecta pariter et plena demostrata est divinitatis ubertas, atque ob id unus Deus est Trinitas quia in his tribus personis inseparabilis est unitas». Ibid., p. 302,14-17: «In solis similitudine eiusque splendoris et caloris, quod et de igne similiter valet dici, potest trinitas unus deus intellegi pariter et ostendi. Pariliter id quoque similitudine cognoscitur animae videlicet memoria intellegentia voluntate». ID., Horarium, in Carmina, ed. L.Traube, in MGH, Poetae Latini Aevi Karolini, 3, Berlin 1897, pp. 705-737 (edizioni successive: K. Strecker, ibid., 4, Berlin 1923, pp. 934-936; N. Fickermann, ibid., 6,Weimar 1951, pp. 86-106, p. 97,1-34): «Cursum mundi sol vergentis pariterque hominis / Designans et metas orbis ac spherae volubilis / Circumlustrans mutat acta conficit et tempora / Annorum necnon inmensa peragit curricula, / Momenta volvens alterna per aetatum milia. / Vectus aureo figmento, et curru quadriiugo, / Lucidus in poli centro corporali radio, / Via regia libratim per menses duodecim / Horas fingit, dies agit, oritur et occidit, / Bisque secat zodiacum, binis aequinoctium / Tangens punctis quadruplatum reddit emisferium. / Hominis sunt ista, deus, ordinata dotibus, / Qui fungit vita diebus pariter et noctibus; / Iussus, quatuor ditatus te duce virtutibus / Bina pulsat caelum luce: intellectu, opere. / Ergo, creator aeterne, pater potentissime, / Qui per filium tam magnam construxisti machinam / Atque hominem qui tuam condis ad imaginem / Quique nobis pignus sanctum dedisti paraclitum, / Miseris in nostra morte sis volens succurrere, / Quam occasu solis huius anxie recolimus. / Sed in solis magni morte plurimum confidimus. / Da nobis te invenire placatum, piissime, / Cum tibi reddemus flatum singulari vespere, / Qui tempus ad vespertinum post actum diluvium / Oleae misisti ramum, homini presagium: / Nam quando misisti tuum filium carissimum, / Tale tunc nobis et tantum contulisti oleum, / Quod omnes preoccuparet balsamorum guttulas / Et aromatum fraglaret super omnes virgulas. / Ad cuius iam pedes iacet devicta mortalitas, / Cuiusque dono sanatur nostra nunc infirmitas, / Et a quo prostrata morte regnat inmortalitas. / Gloria sit Deo patri, proli, quin spiritui, / Deo trino necnon uni, paci, vite, lumini, / Nomini nimirum dulci divinoque numini». Cfr. anche RATRAMNUS CORBEIENSIS, De praedestinatione Dei ad regem Carolum Calvum, PL 121, 15D: «Et sicut nihil novi est apud illum, ita in aeterna dispositione consistunt immobiliter fixa qualiter creaturarum ordo per successiones temporum agatur: in qua sempiternitatis dispositione et electorum finem et reproborum cognovit, et de singulis quid agendum sit sempiterno consilio immutabiliter determinatum est».

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e conclusioni con lo studio delle auctoritates, in perfetta sintonia con quanto già indicato da Alcuino come il dovere del vero credente. Come già Smaragdo, Godescalco non teme di utilizzare esempi terminologici provenienti dalla tradizione letteraria pagana138. Lo stesso mistero dell’incarnazione può essere letto, a suo parere, come una sorta di sillogismo, che mostri la liceità dell’utilizzo dell’aggettivo «trina» applicato alla natura divina. Se, al contrario di quanto io dico, non esiste la trina divinità, allora fu assunta l’umanità non solo dal Figlio, ma anche dal Padre e dallo Spirito Santo, perché la divinità assunse l’umanità proprio per nobilitarla. Non fu assunta l’umanità dal Padre e dallo Spirito santo, cosa del tutto sconveniente, ma solo dal Figlio. Dunque la divinità è trina139.

Godescalco ha mostrato di saper difendere le proprie dottrine utilizzando gli stessi strumenti che, in tutta la tradizione carolingia, avevano costituito il solido bagaglio di formazione dell’intellettuale cristiano. Incmaro, nell’impegno per dimostrare l’infondatezza delle tesi di Godescalco, intravede al contrario nella sua opera il tentativo di annullare proprio i migliori risultati, sul piano culturale e teologico,di quella tradizione,introducendo quelle innovazioni della dottrina che già Alcuino indicava come la prima e più pericolosa caratteristica dell’azione degli eretici140. Incmaro afferma che non esiste una dottrina che non contenga parte di verità, e, proprio in nome del fascino che quella parte di vero suscita negli uomini, Godescalco «non solum religioso habitu monachi, sed et falsi nominis scientia, aliquandiu se contegens plures decepit»141. 138 Cfr. GODESCHALCUS ORBACENSIS, Schedula quod trina deitas dici possit, ed. Lambot cit., [pp. 20-26], p. 25,23-27; ID., De trina deitate, [pp. 81-105], p. 82,4-16. Cfr. K. ZEUMER, Formulae Merowingici et Karolini aevi, in MGH, Leges, 5 (Formulae, 1), Hannover 1886. Su Smaragdo, cfr. supra, cap. 5, § 4.3. 139 GODESCHALCUS ORBACENSIS, De trina deitate, p. 85,17-20: «Si non est ut ego dico trina divinitas, ergo non a solo Filio sed etiam simul a Patre et Spiritu sancto est adsunta humanitas, quia prorsus ut claret humanitatem adsumpsit divinitas. Non est autem a Patre et ab Spiritu sancto quod absit ullo modo sed a solo tantum Filio adsumpta humanitas. Est ergo trina divinitas». 140 Cfr. H. SCHRORS, Hinkmar, Erzbischof von Reims, Freiburg i. B. 1884, p. 156; DEVISSE, Hincmar cit. (alla nota 125), p. 163; M. CRISTIANI, La civiltà carolingia e i suoi protagonisti. A proposito di uno studio su Incmaro di Reims, in «Aevum», 53 (1979), pp. 245-251. 141 HINCMARUS RHEMENSIS, De una et non trina deitate, PL 125, 1, 485D-486A.

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Incmaro identifica nell’ignoranza e nella superbia che da essa deriva i difetti peggiori del suo avversario.Godescalco inveisce contro i suoi interlocutori,incapaci a suo dire di intendere il valore teologico della «trina deitas» e della predestinazione «gemina» perché a digiuno di artes. Anche coloro che sono sia pur minimamente educati ai rudimenti della grammatica, egli ha proclamato, non dovrebbero avere difficoltà a intendere il valore di termini singolari dal significato plurale, che permettono di indicare la differenza delle persone senza introdurre pluralità in Dio142.Incmaro rovescia l’accusa; è invece proprio Godescalco che si mostra ignorante dei più semplici elementi di grammatica.Donato individua diversi tipi di nomi nei quali la forma grammaticale è diversa dal significato;alcuni di questi termini, pur essendo grammaticalmente singolari, hanno significato plurale,come «gens»,ed in quanto tali sono invariabili. Esistono, poi, aggettivi che possiedono le stesse caratteristiche dei nomi già citati,vale a dire implicano,pur nella forma singolare, un significato plurale, come «tertia» e «trina»; accostati a sostantivi singolari, conferiscono loro un senso plurale143. E dunque, così come la terza ora indica una «multiplicatio» delle ore per tre,e una «trigama mulier» descrive una donna che ha avuto «plures viri», allo stesso modo, l’espressione «trina deitas» non può indicare altro che una moltiplicazione del numero o delle proprietà del sostantivo singolare, in virtù della pluralità insita nell’aggettivo144; in tal senso, essa indicherebbe o più «deitates» o una «deitas» divisa: non c’è quindi alcuna possibilità di utilizzare questi «nomina» predicandoli della semplice e indivisibile natura divina145.Gli aggettivi usati per indicare molteplicità trasferiscono la «varietas accidentium» in essi significata ai sostantivi ai quali vengono congiunti146. 142

Cfr. le parole di Godescalco riportate da Incmaro, ibid., 8, 540CD: «Superest ut illi qui sunt grammatici, si nolunt esse simul et haeretici, non praesumant fateri in Ecclesia veracis Dei, veritatis Dei, veri Dei, quod triqeotei`a id est trina deitas, ulla ratione pluralis existat numeri, cum sit ut claret utique singularis, velut noverunt universi qui vel mediocriter artis grammaticae sunt periti». 143 Cfr. ibid., 540D-541A. 144 Cfr. ibid., 541A. 145 Cfr. ibid., 542A: «Quia trina et trinitas sono singularis sunt numeri, et intellectu pluralis. Deitas autem, qua Patrem Deum dicimus, Filium Deum dicimus, Spiritum sanctum Deum dicimus, et sono et intellectu singularis est numeri, et adiectionem pluralitatem significantem non recipit». 146 Cfr. ibid., 537D-538B.

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Per questo motivo, applicando alla «deitas» l’aggettivo «trina», Godescalco ottiene inevitabilmente una moltiplicazione accidentale di ciò che invece è uno perché è semplice e inalterabile per natura: A noi latini, che non conosciamo la lingua greca, non è necessario per questo affaticarci più a lungo, dal momento che nei libri dei Padri, che furono esperti dell’una e dell’altra lingua, troviamo a sufficienza come dobbiamo credere e professare, e anche sapere e predicare in merito alla santa ed inseparabile Trinità dell’unica divinità147.

Incmaro non risponde a Godescalco semplicemente deprezzandone le argomentazioni o mostrando la capziosità delle sue citazioni patristiche; così facendo, infatti, rischierebbe di porre in discussione il valore stesso di quella metodologia e di quel patrimonio di auctoritates cui egli stesso, allineandosi alla tradizione alcuiniana, attribuisce un valore strumentale preziosissimo per la corretta conduzione del discorso teologico. Preferisce dunque in primo luogo affrontare Godescalco proprio dimostrando come non sia l’utilizzo delle artes a produrre necessariamente l’errore teologico,e evidenziando anzi come un corretto uso di queste tecniche consenta di evitare tali pericoli.Non è la competenza linguistica che fonda la fede; molti di coloro i quali dichiarano essere esperti conoscitori della lingua e della grammatica, che sanno distinguere la punteggiatura e le regole dell’accentazione,spesso non comprendono ciò che leggono,confondendo i termini,sbagliando le definizioni, traendo conclusioni erronee, ed ignorando l’ineludibile riferimento alle Scritture: Questo è il culmine della sua bestemmia che in queste pagine espresse con un discorso eccessivo, in cui rotolandosi per irrequietudine come un pesce o un uccello o un qualsivoglia animale, si annodò avviluppandosi sempre di più nelle tristi maglie delle bestemmie e nei troppo stretti nodi, volendo sostenere con le proprie motivazioni, senza testimonianze scritturali, e senza le espressioni dei Padri, che come Dio è uno

147 Ibid., 538A: «Nobis autem Latinis, et Graecae linguae ignaris, non est hinc necesse diutius laborare, cum satis in orthodoxorum libris, qui utriusque linguae fuere periti, inveniamus qualiter secundum catholicam fidem credere et confiteri, tenere quoque ac praedicare, de sancta et inseparabili unius deitatis Trinitate debeamus».

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per natura e trino nelle persone, così debba dirsi che la divinità è per natura una e trina nelle persone148.

Godescalco, come gli animali che, presi nella rete, tentano di liberarsene divincolandosi ed ottengono soltanto di restare avviluppati in modo ancor più soffocante, rimane stritolato nella pretesa di liberarsi dal rispetto al dettato scritturale e patristico. Senza il supporto delle Scritture, senza l’avallo e la guida dei Padri, egli ha indebitamente creduto che l’attributo di Dio, «unus et trinus», si potesse riferire direttamente alla sostanzialità divina, ossia alla «deitas». Ma è proprio il riferimento alle Scritture a garantire, secondo Incmaro, il fatto che non siano i termini, ma il loro uso spropositato ad essere causa di inimmaginabili pericoli per la fede: se infatti si afferma che Dio è «personaliter» trino e «naturaliter» uno, si sostiene il vero; se invece si afferma che è la «deitas» ad essere al contempo trina ed una, si cade in errore. Essa, infatti, in quanto natura, è in sé una: «deitas ipsa est natura pluralitate carens et numero»149, vale a dire priva di molteplicità e divisione150. Anche in Incmaro, l’eretico è dunque il mendax, colui il quale distorce e mal interpreta «nomina et verba» e che è tanto più colpevole nel commettere intenzionalmente tali errori quanto maggiori sono le sue conoscenze dialettico-grammaticali. Godescalco ha peccato di quella «praesumptio» che lo ha indotto a credere così tanto nei propri mezzi da sentirsi quasi libero di creare nuovi dèi151.Volutamente collocatosi tra i superbi interessati solo a creare «nova nomina» inutili, egli si presenta agli occhi di Inc148 Ibid., 484A: «Haec est summa totius suae blasphemiae, quam hinc prolixo sermone confecit, in quo ut piscis, vel avis, aut quodlibet animal, per inquietudinem se volvens, amplius pessimis blasphemiarum maculis et nodis strictioribus irretiendo semet innexuit, volens proprii sensus assertionibus, sine Scripturae testimoniis, sineque catholicorum sententiis, allegare quia sicut Deus naturaliter unus et personaliter dicitur trinus, ita deitas naturaliter una et personaliter trina dici debeat». 149 Cfr. ibid., 484C. 150 Cfr. ibid., 484D. 151 Cfr. ibid., 480A: «Hactenus haereseos, abhinc suae inchoationis verba sunt Gothescalci. Quod haereseos mortiferum virus idololatriae scilicet matris, qua plures dii, imo daemonia in simulacris coluntur, diabolus scindens se a charitatis unitate, verba Dei dicentis: ‘Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram’ (Gn 1, 16), male, ut solet, interpretans adinvenit, et sua invidia, qua mors in orbem terrarum intravit, in succo pomi ligni vetiti primis hominibus propinavit, dicens:‘Eritis sicut dii’ (Gn 3, 5)». Cfr. anche ibid., 560C.

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maro come ultimo erede di una progenie malvagia, nata con il serpente che ha tentato Adamo e che ha visto Ario tra i più arditi e temibili condottieri delle sue armate152. L’utilizzo dell’auctoritas, la difesa della «universalis ecclesia», l’attenzione per la corruttela filologica restano, nell’opera di Incmaro, princìpi metodologici saldamente ancorati alla tradizione carolingia, della quale l’arcivescovo di Reims, coscientemente, si propone quale rappresentante e difensore. Quasi per sminuire la comunanza di testi e fonti della loro formazione, Incmaro sottolineò la sua appartenenza ad una ortodossia carolingia di origine alcuiniana, ricacciando invece Godescalco tra le fila di una lunga tradizione di nemici della fede che, da Nestorio, arriva fino a Felice d’Urgel153. In questa valutazione, Incmaro sottovalutò forse la portata effettiva della speculazione di Godescalco. La prossimità di conoscenze e di referenti culturali avrebbe dovuto suggerire infatti non una critica così radicale, ma una riflessione sugli esiti possibili di una tanto vasta e complessa erudizione, la cui estensione e potenzialità non furono recepite nella loro interezza ed approfondite. Le polemiche sollevate da Godescalco non furono dunque colte dai suoi avversari come occasione preziosa per verificare quali trasformazioni avesse subito o fosse sul punto di subire la cultura teologica della civiltà cui appartenevano, e come essa sfruttasse appieno l’eredità accumulata in diversi decenni dai teologi carolingi. Godescalco, Incmaro e Rabano erano evidentemente prodotti della stessa identità culturale la cui evoluzione, rapida ed inevitabile, impediva loro di rintracciare i tanti punti di contatto che li univano, e li poneva invece contrapposti a difesa di fronti solo all’apparenza discordi.

152 Cfr. ibid., 530B: «Hoc quod dictum est a Deo in creatione primi hominis, ‘Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram’ (Gn 1, 26), diabolus male interpretans, assumpta parabola, primis parentibus dixit:‘Eritis sicut dii’ (Gn 3, 5). Quem secutus Arius, gradus in sancta Trinitate faciens contra praeceptum Domini in lege dicentis:‘Non ascendatis per gradus ad altare meum’ (Ex 20, 26), tres deitates in sancta Trinitate dogmatizavit. Nunc Gothescalcus e diverso unam deitatem in tribus personis sanctae Trinitatis partitur». Cfr. inoltre ibid., 554A: «More suo novitates vocum, quibus semper delectatus est, et exquisivit ut sapiens videatur ad eludendam fidei simplicitatem, et in hac causa, ut suam pravam confirmare posset sententiam adinvenit»; e cfr. ibid., 512B. 153 Cfr. ibid., 474B, 526B-527C.

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CAPITOLO SETTIMO

LA MATURAZIONE DEL METODO: GIOVANNI SCOTO ERIUGENA

La composizione delle opere speculative di Giovanni Scoto segna, nel tracciato dell’evoluzione della teologia carolingia, un momento tanto unico per competenze e capacità speculative dell’autore, quanto pienamente coerente con il contesto in cui egli visse e con la tradizione nel rispetto della quale venne educato1. La formazione di Giovanni Scoto si fondò sul patrimonio di testi raccolti e sistematizzati dalle prime generazioni di intellettuali carolingi, ma si sviluppò raggiungendo nuovi esiti grazie agli stimoli culturali provenienti dalla tradizione teologica greca, ed in particolare dal corpus areopagiticum che egli stesso aveva tradotto in latino e commentato. La coesistenza di competenze così diverse, unite ad una notevole cifra filosofica personale, permette di evidenziare l’indubbia grandezza di Giovanni Scoto, senza sottovalutare l’importanza del suo rapporto con il contesto culturale nel quale la sua personalità intellettuale ebbe modo di formarsi ed esprimersi. Pur distinguendosi per capacità personali e varietà di interessi e conoscenze, l’Eriugena non solo fece proprie le istanze culturali della tradizione carolingia in relazione allo studio delle auctoritates ed all’utilizzo delle artes, ma ebbe, nonostante le peculiarità che il rapporto con le fonti greche introduceva nella sua produzione, la capacità di inserire adeguatamente il proprio contributo all’interno della trama del dibattito teologico sviluppato1

Per un’analisi complessiva della figura e dell’opera di Giovanni Scoto, cfr. Scoto Eriugena, in Storia della Teologia nel Medioevo cit. (cap. 2, alla nota 65), I, pp. 243-303, con relativa bibliografia, aggiornata fino al 1995.

D’ONOFRIO, Giovanni

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si nella prima fase dell’età di Carlo il Calvo, operando in sintonia con le esigenze metodologiche che lo avevano caratterizzato.

1. Il De praedestinatione liber La sua riconosciuta competenza nelle arti e nella dottrina teologica è testimoniata dall’intervento sollecitatogli da Incmaro e Pardulo contro la dottrina della «gemina praedestinatio» di Godescalco2. Nell’epistola introduttiva al De praedestinatione liber composto per l’occasione, Giovanni Scoto ricorda ai suoi committenti la necessità che i credenti, «in asserenda veritate», realizzino una piena convergenza tra il piano della contemplazione e quello dell’azione: Certamente il vostro impegno in parte si eleva per diversi stadi di contemplazione alla speculazione della verità,in parte piega verso il basso in attività pratiche per il governo della Chiesa3.

Giovanni Scoto, pur dichiarando di non essere «impos» di grandi competenze ma «compos» della sola fede, accetta di offrire ad Incmaro e Pardulo le «astipulationes» delle sue argomentazioni e a tal fine segue un preciso ordine espositivo: indicare preliminarmente quanti e quali siano i problemi legati al tema della doppia predestinazione divina, per poi illustrare il metodo di indagine. Come premessa argomentativa, egli individua due irrinunciabili princìpi teologici implicitamente evocati dalle elucubrazioni di Godescalco. Per avviare qualsiasi tentativo di approfondimento razionale sul mistero della «praedestinatio» divina, infatti, è necessario muovere da una parte dall’assoluta semplicità ed indivisibilità della sostanza divina, e, dall’altra, dall’impossibilità di ammettere che Dio, in quanto «verum esse», possa conoscere o causare il male4. La complessità di questi pro2 Per la ricostruzione del contesto della disputa, e per le tesi di Godescalco e di Incmaro, cfr. supra, cap. 2, § 3, e cap. 6, § 4. 3 IOHANNES SCOTUS ERIUGENA (in seguito IOHANNES SCOTUS), De praedestinatione liber, Praef., PL 122, 355AB, ed. Madec cit. (cap. 2, alla nota 91), p. 3,1618; ed. Mainoldi cit. (cap. 2, alla nota 82), p. 2,16-17: «Studium quippe vestrum partim sursum versus contemplative erigitur ad speculandam veritatem, partim vero deorsum versus active reprimitur ad regendam ecclesiam». 4 Cfr. ibid., 357B, ed. Madec, p. 4,56-65; ed. Mainoldi, p. 4,16-23: «Deinde suppliciter vestram exoramus clementiam, ut, quotienscumque reperiatis nos

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blemi impone l’individuazione di un metodo di indagine rigoroso, che coniughi la fede, della quale Giovanni Scoto si definisce difensore nella stessa lettera prefatoria («in defendenda omnium nostrorum salute, quae est professio catholica»), e le competenze tecniche nelle quali, con retorica modestia, si dichiara ancora apprendista5. «Philosophia» è, ai suoi occhi, il termine che meglio descrive l’incontro tra questi due saperi, perché rappresenta l’insieme di tutti i «modus» con i quali si raggiunge della «doctrina» una conoscenza perfetta e rispettosa della fede («pia»). Così intesa, la «philosophia» ricorda quella tensione della ragione a Dio, guidata dalla fede, che l’intera tradizione carolingia aveva già da tempo posto a fondamento della propria speculazione, ed aveva descritto come uno dei «signa» della conoscibilità del creatore attraverso la rigorosa indagine della struttura del creato. In quest’ottica, attraverso l’interazione feconda di argomentazioni razionali («rationabiliter investigatur») e di una devozione completa («humiliter colitur»), la ‘vera filosofia’ può essere identificata senza difficoltà con la ‘vera religione’6. È naturale che esse possano dixisse aequalitatem divinae praescientiae atque praedestinationis, quantum ad unitatem divinae substantiae, in qua unum sunt, non sensisse sciatis. Item quod diximus ea quae non sunt nec a Deo sciri nec praesciri posse, non ea pravitate qua quidam praescientiam Dei auferre conantur, dixisse nos arbitremini, sed ea ratione qua docemur nesciri quae non sunt et scientiam Dei esse substantiam, substantiam autem eius non in nihilo sed in aliquo esse». 5 Cfr.ibid.,355A,ed.Madec,p.3,9-15;ed.Mainoldi,p.2,10-16:«Fari non possum quantas qualesque gratiarum actiones vobis rependere debeam in eo quod vestrae dilectionis copiosissima sublimitas me, tamquam aliquid valentem in defendenda omnium nostrum salute, quae est professio catholica, non est dedignata cooperatorem eligere, impos quidem longe virium vestrarum sermone atque intelligentia, compos vero fide et devotione in asserendae veritatis fiducia». 6 Cfr. ibid. 1, 1, 357C-358A, ed. Madec, p. 5,4-18; ed. Mainoldi, p. 6,10-21: «Cum omnis piae perfectaeque doctrinae modus, quo omnium rerum ratio et studiosissime quaeritur et apertissime invenitur, in ea disciplina, quae a grecis philosophia solet vocari, sit constitutus, de eius divisionibus seu particionibus quaedam breviter disserere necessarium duximus. Si enim, ut ait sanctus Augustinus, ‘creditur et docetur, quod est humanae salutis caput, non aliam esse philosophiam, id est sapientiae studium, et aliam religionem, cum hi quorum doctrinam non approbamus nec sacramenta nobiscum communicant’, quid est aliud de philosophia tractare, nisi verae religionis, qua summa et principalis omnium rerum causa, Deus, et humiliter colitur et rationabiliter investigatur, regulas exponere? Conficitur inde veram esse philosophiam veram religionem conversimque veram religionem esse veram philosophiam». La citazione agostiniana integrata in questo brano è da AURELIUS AUGUSTINUS, De vera religione, 5, 8, 126, ed. K.-D. Daur,Turnhout 1962 (CCSL, 32), p. 193,12-16.

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coincidere: una adeguata conoscenza del vero è assicurata solo dall’efficace convergenza tra le certezze della fede nell’esistenza di un principio divino che si manifesta attraverso la religione e la tensione della ragione che desidera approssimarsi ad esso e alla sua verità quanto più possibile. La filosofia, in questo suo tendere ad un oggetto che in sé non potrà mai possedere, ma della cui esistenza e superiorità non dubita in virtù del supporto della fede, può usare «diversi modus», ossia diverse vie o procedure di approccio; quando deve risolvere una diatriba, si avvale in particolare di due coppie di discipline, che Giovanni Scoto trae – per tramiti che non sono del tutto chiari – dalla tradizione filosofica e dalla terminologia del tardo platonismo greco («bis binae partes ad omnem quaestionem solvendam necessariae»): la divisione, la definizione, la dimostrazione e la ricomposizione7. È infatti questo «quadrivium», con le sue diverse applicazioni, che guida l’uomo alla verità, il cui conseguimento per Giovanni Scoto coincide esplicitamente con la «disputandi disciplina»8. Questa identificazione tra la dialettica e la conoscenza del vero non equivale ad una riduzione del sapere teologico alla semplice competenza nell’uso delle artes. La «disputandi disciplina» non è infatti la perfetta conoscenza di Dio, ma lo strumento concesso ai «defensores veritatis» per mostrare come ogni parte dell’universo, dal corretto procedimento conoscitivo, umano o angelico, agli equilibri naturali, sia governato da una norma. L’errore di Godescalco, conclude Giovanni Scoto, si rivela proprio nell’incapacità di cogliere l’incidenza assoluta di questa norma tanto nei percorsi della razionalità quanto in tutte le altre leggi che per volontà divina ordinano e governano la realtà; e nella perversa volontà di falsificare a suo piacimento ciò che si mostra in sé come vero, vale a dire come caratterizzato dal rispetto naturale di una forma ordinata la cui efficacia risale direttamente all’opera creatrice divina9. 7 Cfr. IOHANNES SCOTUS, ibid., 357D, pp. 5,16 e 6,19-27. Cfr. D’ONOFRIO, Fons scientiae cit. (cap. 3 alla nota 115), pp. 287-289. 8 Cfr. IOHANNES SCOTUS, ibid., 1, 2, ed. Madec, 358B, p. 6,31-33; ed. Mainoldi, p. 8,8-10: «His enim, tanquam utili quodam honestoque quadrivio, ad ipsam disputandi disciplinam, quae est veritas, omnis in ea eruditus perveniri non dubitat». 9 Giovanni Scoto definisce Godescalco «saprophilus», che letteralmente indica colui il quale ama vivere nel putrido. Il termine, nell’accezione filosofica di

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Argomento, metodologia e finalità dell’opera vengono così indicati preliminarmente da Giovanni Scoto. La «vera religio» coincide con la «vera philosophia» perché entrambe derivano da una medesima fonte. In questa identificazione è agevole ritrovare gli elementi portanti della metodologia consolidatasi nella letteratura apologetica carolingia: respingere («refellere») le eresie con l’auctoritas scritturale e renderle inoffensive («annullare») con le «verae rationis regulae»10. Se si accetta per fede e si capisce con la ragione che la volontà di Dio è la sola e prima causa dell’universo, invano in essa o prima di essa si immagina una necessità11.

Se il credere e l’argomentare non si differenziano rispetto all’oggetto della loro indagine, ma solo per il linguaggio e la metodologia utilizzati, è possibile partire dai dati condivisi da entrambi, e svilupparli in modo coerente. Tanto la fede crede con fiducia («pie») quanto la ragione sa con precisione («recte») che Dio è l’unica causa. Nel caso di una verità condivisa e che è necessario esclusivamente rendere evidente, anche gli strumenti più tecnici del sapere argomentativo possono dimostrarsi efficaci: Se tutto ciò che è in Dio è Dio, se la volontà di Dio è in Dio, dunque Dio è la volontà di Dio. Infatti egli non ha separati l’essere e la volontà, ma ciò che in lui costituisce l’essere, costituisce anche la volontà12.

«amante del disordine e di ciò che non ha forma», è tratto dal De musica di Agostino; cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De musica,VI, 13, 38, PL 32 [1074-1194], 1184: «Dic, oro te, num possumus amare nisi pulchra? Nam etsi quidam videntur amare deformia, quos vulgo Graeci saprofivlou~ vocant, interest tamen quanto minus pulchra sint quam illa quae pluribus placent. Nam ea neminem amare manifestum est, quorum foeditate sensus offenditur». 10 Cfr IOHANNES SCOTUS, ibid., 1, 4, 360A, ed. Madec, p. 9,105-107; ed. Mainoldi, p. 12,14-15: «Quae stultissima crudelissimaque insania primo auctoritate divina refellitur, deinde verae rationis regulis annullatur». 11 Ibid., II, 1, 360BC, ed. Madec, p. 10,14-17; ed. Mainoldi, p. 14,7-9: «Si vero una et principalis totius universitatis causa voluntas Dei et pie creditur et recte intelligitur, frustra in ipsa vel ante ipsam necessitas fingitur». 12 Ibid., 2, 1, 360C, ed. Madec, p. 10,17-20, ed. Mainoldi, p. 14,9-11: «Si omne quod in Deo est Deus est, voluntas autem Dei in Deo est, Deus est igitur Dei voluntas. Non enim aliud est ei esse et velle; sed quod est ei esse, hoc est et velle».

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Volontà ed essere, posta la semplicità della sua sostanza, in Dio coincidono; in questa unità indifferenziata è impossibile ipotizzare una pluralità e, di conseguenza, una duplicità di predestinazioni. Dio dunque non predestina i malvagi al peccato né alla dannazione. In ciò che è semplice, tutti gli attributi non possono che sovrapporsi; non può esistere in Dio una doppia predestinazione. Proprio in virtù della sua struttura dialettica, questa argomentazione permette a Giovanni Scoto di confutare la tesi di Godescalco, e di illustrare quali siano i limiti entro i quali è consentito l’utilizzo, nel discorso teologico, degli strumenti della logica. Predicare della sostanza di Dio l’unità non significa, infatti, affermare che si possano sempre applicare con coerenza le norme del ragionamento umano quando si descrivono le proprietà di ciò che non ricade sotto i sensi. Una corretta argomentazione parte da premesse certe, e ne deduce conseguenze necessarie. Nel parlare di Dio l’uomo non trova altra premessa che quella posta dal testo sacro, «in quo sunt omnes thesauri scientiae et sapientiae asconditi»13. Fidandosi invece delle sue sole forze, l’uomo può descrivere Dio con espressioni spesso contraddittorie pur se coerentemente motivate: così, si potrà giungere a predicare, come ha fatto Giovanni Scoto, l’unità e la semplicità della sostanza divina, o, al contrario, precisare tramite la categoria della relazione il rapporto che lega Padre, Figlio e Spirito Santo. Dinanzi a tali insolubili opposizioni, l’uomo deve accettare che non potrà mai tendere ad una piena conoscenza del suo oggetto. Nonostante sia stato creato razionale proprio per ricercare ciò che lo trascende, e tentare, con nomi e definizioni diverse, di descriverlo, l’uomo non può veramente giungere a Dio che rimane, distante, «in se ipso unus atque idem»14. Nel costruire la complessa argomentazione del De praedestinatione, Giovanni Scoto dunque assegna alla razionalità umana una duplice funzione. Per un verso, l’esistenza dell’attività razionale dimostra l’impossibilità di una doppia predestinazione: se l’uomo è stato creato razionale e dotato di libero 13

È alla lettera una citazione da Col 2, 3, integralmente riprodotta da Giovanni Scoto, ibid., 2, 2, 361A, ed. Madec, p. 12,44-45; ed. Mainoldi, p. 16,4-5. 14 Cfr. ibid., 361B, ed. Madec, p. 12,49-53; ed. Mainoldi, p. 16,8-11: «Summus enim ille intellectus, in quo sunt universa, immo ipse est universa, quamvis diversis significationibus nominum ab ipsa rationali natura, quae ad inquirendum eum creata est, appelletur, ipse tamen in se ipso unus atque idem est».

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arbitrio, ha la capacità e la possibilità di scegliere; Dio ha fornito agli uomini questi strumenti, e quindi non può aver già predestinato una parte dell’umanità alla dannazione ed un’altra alla beatitudine: ciò, infatti, renderebbe completamente inutile ogni scelta dell’uomo. Per un altro verso, l’irrequietezza della razionalità umana ben esprime, secondo Giovanni Scoto, nella creatura, il desiderio, frutto dell’unione del volere e del sapere, di tendere alla conoscenza del suo creatore15. Se l’anima è razionale, non solo può scegliere con il proprio libero arbitrio, e non può essere predestinata al male (come invece sarebbe conseguente alla tesi di Godescalco), ma è anche dotata degli strumenti necessari per giungere, argomentando, a tale conclusione; l’uomo è dunque libero, pienamente responsabile delle proprie azioni, e, unico tra le creature, capace di giungere a questa conclusione grazie ad un ragionamento e con il conforto dell’autorità («auctoritate creditur et ratione videtur»)16. La centralità morale e gnoseologica che Giovanni Scoto attribuisce nel De praedestinatione alla razionalità umana, lo induce ad evidenziare con forza i pericoli insiti in un suo incauto utilizzo. La libertà dell’uomo, che è confermata dall’esistenza della sua razionalità, è infatti simile all’ars dialettica, che di quella razionalità è lo strumento essenziale.Tutti i talenti di cui è dotata la natura dell’uomo sono dei beni, perché derivano da Dio. Alcune virtù, come la prudenza o il coraggio, quando vengono male utilizzate, vengono meno. Giovanni Scoto introduce a questo proposito una classificazione che distingue «magna», «me15 Per Giovanni Scoto, la libertà non è solo liberazione dal male. Se anche Dio costringesse gli uomini a fare il bene, ne annullerebbe comunque la libertà; cfr. ibid., 5, 4. 377A, ed. Madec, p. 37,88-93; ed. Mainoldi, p. 56,3-7: «Ubi intendendum est nullius voluntatis esse veram libertatem, si aliqua causa eam coegerit. Igitur si humanam voluntatem aliqua causa praecedit, quae eam invitam extorqueat ad bona malave vel cogitando vel agenda, sequitur non solum non esse eam vere liberam, sed penitus eam non esse». 16 Cfr. ibid., 5, 1, 375B, ed. Madec, p. 35,20-21; ed. Mainoldi, p. 52,3. Cfr. inoltre: ibid., 5, 9, 379CD, ed. Madec, p. 41,205-215; ed. Mainoldi, p. 62,12-20: «Quae cum ita sint, nullus Christianorum dubitare debet Deum universitatis conditorem dedisse homini liberum arbitrium, id est electionem sive boni sive mali, nec aliter eum dare debuisse nisi omnino liberum, eo scilicet monstraturus quid in nomine praevaleret natura sine gratia, quid gratia posset in natura, quid iustitiae meritum, quid peccati, quid deinde suae ineffabilis largitatis domum, in tantum ut quisquis libertati arbitrii deroget aut minuendo aut penitus auferendo aut blasfemando, eum totius Christianae disciplinae procul dubio inimicum et divina et humana convincat auctoritas».

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dia» e «minima bona». I primi (come le quattro virtù cardinali) possono essere utilizzati soltanto per finalità anch’esse assolutamente buone. Dei beni medi e soprattutto di quelli minimi (come tutte le specie corporee) si può fare invece anche un uso inappropriato, ossia malvagio. Il libero arbitrio appartiene alla categoria dei beni di tipo intermedio, come la stessa «dialectica»17: di essi, infatti, l’uomo può servirsi per avvicinarsi a Dio ma anche per allontanarsene cadendo nell’errore. In quanto doni, entrambe – sia la dialettica sia la libertà – sono per origine divine, dignità, questa, immutabile; il loro valore varia solo in relazione all’uso che ne fanno gli uomini: se la ragione è ciò che permette e garantisce la tensione dell’uomo a Dio, la libertà, quando non pone limiti a se stessa, rischia di compromettere ogni sua buona potenzialità. Una ragione slegata dalla auctoritas non può infatti, per Giovanni Scoto, comprendere l’ordine creato da Dio e perfettamente descritto dalle Scritture e dai Padri, ma può essere tentata di volersi sostituire ad esso. L’«industria» umana e quella divina, vale a dire l’ingegno razionale e naturale dei più grandi esegeti e la parola di Dio rivelata ed affidata alla forza espressiva del linguaggio dei Profeti, hanno sfruttato due tipologie diverse di termini per parlare di Dio. La prima è adeguata in quanto rispetta l’ordine posto nel creato; non è improprio affermare che Dio è essere, verità o sapienza, perché ciò equivale a predicare del Creatore le migliori caratteristiche della sua creatura: Pertanto, dell’uso dei segni verbali, dei quali l’ingegno umano e divino si serve per esprimere Dio stesso o il suo governo su tutto il creato, alcuni sono adeguati (per esempio tra i verbi: sono, è, era, essere, e altresì tra i nomi: essenza, verità, virtù, sapienza, scienza, destinazione, ed altri dello stesso tipo, che ad essi si connettono); e questi, poiché indicano tutto ciò che nella nostra natura occupa il primo posto ed il sommo grado, cioè

17 Cfr. ibid., 7, 1, 382AD, ed. Madec, pp. 44,5 - 45,37; ed. Mainoldi, pp. 68,23 70,20; per la dialectica cfr. in partic. ibid., 382C, ed. Madec, p. 45,17-24; ed. Mainoldi, p. 70,3-9: «Potest enim aliquis in disciplina verbi causa disputandi quae dicitur dialectica peritus (…) si voluerit bene uti, quoniam ad hoc certissime data est, dum ea ignorantes eam erudit, vera falsaque discernit, confusa dividit, separata colligit, in omnibus veritatem inquirit. Potest e contrario perniciose vivere, ad quod non est data, dum falsa pro veris approbans alios in errorem mittat».

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la stessa sostanza e le sue migliori caratteristiche (senza le quali essa non sarebbe immortale), non impropriamente si riferiscono al solo ed ottimo principio di tutti i beni, che è Dio18.

Accanto a questa terminologia,i Padri e le Scritture utilizzano «nomina translata», termini che a seconda che vengano riferiti a Dio o agli uomini acquisiscono un significato diverso. Queste espressioni indicano il soggetto per «contrarietas»19. Essa può essere assoluta o congiunta: nel primo caso, si indica il soggetto con un’espressione che si riferisce al suo contrario; nel secondo, alla «contrarietas» si unisce una analogia.La prescienza e la predestinazione di Dio sono analoghe alla capacità umana di prevedere il futuro,ed al contempo sono ad essa opposte in quanto in Dio è impossibile che si verifichi una successione cronologica,cioè il precedere della conoscenza rispetto al manifestarsi degli avvenimenti20: O incredibile anzi miserevole cecità di coloro che non vogliono capire per antitesi, se talvolta negli scritti di ispirazione divina o umana leggono che Dio previde o predestinò i peccati, la morte, i tormenti, che in fondo non sono niente, perché sono mancanze21.

Se fraintesi, i termini con i quali, per analogia, le Scritture o i Padri parlano di Dio, conducono a pericolose storture («nulla etenim scriptura est de qua non facile non intelligentes eam prava possint 18 Ibid., 9, 2, 390B, ed. Madec, p. 56,25-35; ed. Mainoldi, p. 90,9-18: «Proinde signorum verbalium quibus humanae locutionis consuetudine ad significandum ipsum Deum aut eius administrationem in universa creatura utitur divina humanaque industria, quaedam sunt quasi propria, quorum exempla sunt in verbis quidam: sum, est, erat, esse, in nominibus vero: essentia, veritas, virus, sapientia, scientia, destinatio, ceteraque huiusmodi, quae – quoniam in natura nostra quicquid primum optimumque sit significant, id est ipsam substantiam et eius optima, sine quibus immortalis esse non potest, accidentia – non absurde referuntur ad unum optimumque principium omnium bonorum, quod est Deus». 19 Cfr. D’ONOFRIO, Fons scientiae cit. (cap. 3 alla nota 115), p. 293 e note. 20 Cfr. IOHANNES SCOTUS, ibid., 10, 2, 394B, ed. Madec, p. 62,27-32; ed. Mainoldi, p. 100,17-21: «Cum ergo audimus: praescivit Deus vel praedestinavit vel praeparavit peccata seu mortem sive poenas eorum quos iuste deseruit, id est sua propria perversitate puniri permissit, omnino e contrario intelligere debemus, ne nos eretica pravitas seducat quae talibus verbis male utens originem sumpsit». 21 Ibid., 10, 5, 396D-397A, ed. Madec, p. 66,134-138; ed. Mainoldi, p. 106,1922: «O miranda immo dolenda caecitas eorum qui e contrario intelligere nolunt, si quando in divina seu humana legerint auctoritate Deum praesciisse vel praedestinasse peccata, mortem, supplicia, quae penitus nihil sunt, quia defectus sunt».

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sentire»)22; la ragione umana, che emerge dal De praedestinatione come strumento apologetico e filosofico, deve al contrario essere utile a comprendere come, nei discorsi su Dio, non si possa procedere che per approssimazione. Questo tema, destinato ad ampliarsi nelle opere della maturità di Giovanni Scoto con l’intensificarsi della sua dipendenza dalla dottrina teologica dello pseudo-Dionigi Areopagita, è qui, nel De praedestinatione, compiutamente dedotto dall’insegnamento di Agostino il quale incarna, nelle sue parole, il modello del perfetto teologo23. Dotato di una vastissima conoscenza delle Scritture e di un’ottima competenza dialetticolinguistica,Agostino, con il suo contributo speculativo, realizza la sintesi virtuosa tra le capacità indagative dell’uomo e la fede nell’esistenza dell’oggetto trascendente della sua indagine24. In quest’ottica,Agostino è descritto ed analizzato come un’auctoritas alla quale deve essere riservato da parte del credente razionale un trattamento simile a quello che è indispensabile osservare nei confronti delle Scritture stesse. Non si può infatti intendere la verità del suo messaggio fondandosi sui diversi «modi locutionis» da lui utilizzati, e con i quali di volta in volta, indulgendo ad una terminologia di uso comune, discute di inferno e di punizioni25; occorre invece sciogliere il complesso insieme dei suoi ragionamenti e partire dalla definizione dei termini utilizzati per descrivere la capacità divina di prevedere e preordinare gli avvenimenti futuri26. È così possibile, sulla base di queste precisazioni strumentali, perve22

Ibid., 11, 2, 396B, ed. Madec, p. 68,49-50; ed. Mainoldi, p. 110,20-21. Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De doctrina christiana, IV, 6, 10 e II, 40, 60-61, PL 34, 93 e 63, ed. Martin cit. (cap. 3, alla nota 90), pp. 124,7-24 e 75,9 - 76,26; IOHANNES SCOTUS, ibid., 11, 4, 399B, ed. Madec, p. 69,89-100; ed. Mainoldi, pp. 112,23 - 114,1: «Quoniam vero sanctus pater Aurelius Augustinus eloquentiae Christianae copiosissimus auctor, solertissimus veritatis inquisitor, propriae translataeque locutionis ad exercitium eorum qui eum lecturi essent nobilissimus doctor, aliquotiens in suorum librorum serie invenitur dixisse Deum praedestinasse impios ad interitum seu poenas, ac per hoc intelligentibus eum, ut ait apostolus, ‘factus est odor vitae in vitam’, non intelligentibus vero ‘odor mortis in mortem’ (2Cor 2, 16), praesentis causae ratio postulat ipsius verba quasi sibimet repugnantia ponamus, uti lector intelligens facilius intendat, quo genere locutionis dixerit praedestinationem divinam utrique hominum generi convenire». 24 Cfr. ibid., 11, 5, 399D-400B, ed. Madec, pp. 70,105 - 71,133; ed. Mainoldi, pp. 114,6 - 116,2. 25 Cfr. ibid., 11, 6, 400C-401A, ed. Madec, pp. 71, 134 - 72,159; ed. Mainoldi, p. 116,3-23. 26 Cfr. ibid., 11, 7, 401AD, pp. 72,160 - 73,191; ed. Mainoldi, pp. 116,24 23

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nire alla chiarificazione risolutiva di tutti i problemi connessi alla corretta dottrina cristiana sulla predestinazione, in quanto la capacità definitoria della razionalità applicata alle formule della fede consente di introdurre una precisa distinzione tra due diverse forme di prescienza; esse non sono evidentemente entrambe sussistenti in Dio, che è semplicità assoluta, ma appaiono come tali nella rappresentazione umana dell’azione divina. Si parla infatti di prescienza divina sia in riferimento all’eterno presente nel quale Dio conosce le cose che ha fatto e che farà, sia in relazione alla conoscenza che Egli possiede delle cose che non ha e che non avrebbe mai creato. In un caso, la prescienza è unita alla predestinazione di Dio, ed è riferita solo alle cose buone, delle quali, come di tutte le cose vere e da lui volute, Egli è creatore e dunque anche causa predestinatrice; nell’altro si riferisce alla conoscenza (ma non alla creazione) anche di quelle cattive27. Se la verità è propria delle cose vere, e non sono vere se non quelle cose che esistono, la prescienza e la predestinazione divina al di là di ogni dubbio sono verità di cose vere. Dunque, chi potrebbe dubitare che i peccati siano cose false, se non chi dubita che non derivino dalla verità? Ne consegue che non può esserci né predestinazione né prescienza di essi28.

118,19: brano in cui viene alla lettera riprodotta una fondamentale regola della «diffinitio» dedotta da AURELIUS AUGUSTINUS, De quantitate animae, 25, 47, PL 32, 1062, ed. Hörmann cit. (cap. 6 alla nota 88), p. 190,7-8: «Diffinitio nihil minus, nihil amplius continet quam id quod susceptum est ad explicandum; aliter omnino vitiosa est». 27 Cfr. IOHANNES SCOTUS, ibid., 11, 7, 401BC, ed. Madec, p. 72,163-170; ed. Mainoldi, pp. 116,27 - 118,2: «Praescientia nanque ipsa qua Deus praescivit ea quae fuerat ipse facturus praedestinatio vere specialiterque dicitur. Ea vero praescientia quae ea quae non facit praescivit, id est peccata eorumque poenas, praescientia absolute placuit vocari, ita ut ea tantummodo praescientia, quae dicitur praedestinatio, in bono sempre intelligatur; sola vero praescientia sine praedestinatione omnino malorum est quae Deus non facit». E cfr. ibid. 13, 2, 407C, ed. Madec, p. 80,44-47; ed. Mainoldi, p. 132,15-17: «Quatenus et summae sapientiae, quae in eis loquebatur, vestigia non desererent, et suam eloquentiam lecturis exemplo futuram pretiosissimis figuratae pronuntiationis lapidibus ornarent». 28 Ibid., 15, 5, 415A, ed. Madec, p. 90,114-119; ed. Mainoldi, pp. 150,26 152,2: «Si veritas verorum est, vera autem plane non nisi quae sunt, praescientia et praedestinatio divina procul dubio veritas verorum. Igitur peccata quis ambigat falsa esse, nisi qui ambigit a veritate non esse? Conficitur eorum neque praescientiam neque praedestinationem fieri posse».

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Pur caratterizzata da evidenti limiti naturali, la dialettica e le sue argomentazioni non rappresentano per Giovanni Scoto un semplice metodo d’indagine; in armonia con l’impostazione di fondo che caratterizza la concezione alcuiniana dell’intero sapere liberale, per lui è in particolare proprio la dialectica l’arte razionale deputata a descrivere gli equilibri interni alle creature, e a risalire da essi alla causa che le ha poste: la ragione infatti sa che la verità si predica solo di ciò che è vero, e che si può definire vero solo ciò che esiste; Dio non può conoscere né creare che cose vere; quindi, Dio non può che prevedere o predestinare cose vere.Tra le cose che non esistono, seguendo il modello agostiniano, Giovanni Scoto colloca anche il male, privazione di bene e di essere; Dio dunque non può compiere il male29. La stessa punizione dei malvagi non può che coincidere con un’assenza di felicità («in magno itaque aeterni ignis ardore nihil aliud sit poenalis miseria quam beatae felicitatis absentia»30). È infatti «verissimus, piissimus et caritatis et catholicae fidei plenissimus» quel sillogismo che distingue tra la natura creata da Dio e la tensione dell’uomo a compiere il male: Ogni bene o è Dio o è fatto da Dio; tutto ciò che è stato fatto da Dio non produce alcuna mancanza di bene; dunque ogni bene non può produrre alcuna mancanza di bene; invertendo i termini, quindi, nessuna mancanza di bene proviene dal bene. Ogni peccato, poiché è male, è una mancanza di bene; ogni mancanza di bene non deriva dal bene; perciò, ogni peccato, perché è male, non può derivare dal bene31.

Esiste dunque per Giovanni Scoto un «ordo» universale, uno «status pulchritudinis» realizzato da Dio nella creazione: 29 Cfr. ibid., 15, 8, 424C-425A, ed. Madec, pp. 91,157 - 92,184; ed. Mainoldi, p. 154,4-26. All’inizio del paragrafo successivo, l’Eriugena interpreta alla luce di questa dottrina il versetto da Ps 18, 13: «Delicta quis intelligit?». Cfr. inoltre: J.TROUILLARD, La ‘virtus gnostica’ selon Jean Scot Érigène, in «Revue de théologie et de philosophie», 115 (1938), pp. 331-354, in partic. p. 336. 30 Cfr. IOHANNES SCOTUS, ibid., 16, 1, 417C, ed. Madec, p. 93,4-5; ed. Mainoldi, p. 158,11-12. 31 Ibid., 16, 4, 420CD, ed. Madec, p. 97,119-126; ed. Mainoldi, p. 164,22-27: «Omne bonum aut Deus est aut ex Deo factum est; omne quod ex Deo factum est nullum vitium boni efficit; omne igitur bonum nullum vitium boni efficere potest; et reflexim: nullum igitur vitium boni ex bono est. Omne peccatum, quia malum est, vitium boni est; omne vitium boni ex bono non est; omne igitur peccatum, quia malum est, ex bono esse non potest».

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Non è permesso che la bruttezza o la cattiveria o l’errore o la pochezza di qualcuno turbi l’ordine naturale delle cose scritto prima dei tempi32.

Dio ha creato l’«ordo universitatis», nel quale rientra anche il giudizio inarrivabile ma giusto («occultissimus et iustissimus») che fin dall’inizio dei tempi ha fissato la condanna inevitabile dei peccatori33. I nemici della fede, nell’ottica di Giovanni Scoto, sono dunque coloro i quali ignorano i princìpi sui quali Dio ha fondato il mondo, quell’«ordo» al cui interno non può essere attribuita alcuna dignità ontologica al male; essi tralasciano infatti le arti liberali, «comites investigatricesque» della sapienza. Giovanni Scoto non si allontana, nella stesura del De praedestinatione, da una metodologia apologetica consolidatasi nei decen32 Ibid.,17, 1, 4, 426B, p. ed. Madec, 104,16-18; ed. Mainoldi, p. 178,2-4: «Nullius enim turpitudo vel malitia vel error seu miseria praedestinatum ante secula naturalem ordinem dehonestare permittitur». 33 Cfr. ibid., 17, 5, 427C-428B, ed. Madec, pp. 106,69 - 107,103; ed. Mainoldi, p. 180,14-182,12: «Ut enim quadam similitudine fungamur. Quid si pater multarum familiarum, qui per artem suam voluit amplissimam sibi domum construere, longitudine, latitudine, profunditatisque capacitate spatiosam, laterum, angulorum, absidarum, diversorumque schematum varietate numerosam, altitudine fundamentorum stabilitam, basium, stilorum, capitellorumque tramitibus ordinatam, arcuum, tectorumque multiformium elata proceritate eminentissimam, excellentissimo turrium acumine consummatam, exterius interiusque innumerabilium colorum formarumque pulchritudine in tanta picturarum varietate decoram, omnium metallorum, pretiosissimorumque lapidum honestate refertam, per varias multimodasque fenestrarum species copiosa luminis effusione illustratam, ceteraque ad perfectissimam pulchritudinis gloriam pertinentia, quae numerare longum est, ita ut nullum in ea inveniatur spatium, quod non omnes habitatores eius amplitudine sui capiat, nulla pars, quae non omnium aspicientium oculos pulchritudine sui pascat, nullus locus, quem praeclarissima lux ubique diffusa, auri gemmarumque honor a superficie resultans, eorumque mirabiles colores trahens non profundat, nulla in ea sedes, quae non sit regia, honoribus quietique apta; in tanta deinde ac tam mirabili aede, ut diximus, pater ipse, auctor videlicet eius et ordinator, aliter in ea filios suos disponeret, aliter servos, aliter gratia perpetuae sanitatis muneratos, aliter inopia malarum cupiditatum, quas intemperantia suae libidinis traxerant, cruciatos, dentibus stridentes, vermibus scatentes, diversis perennis tristitiae generibus laborantes: nunquid recte aestimaretur durissimus punitor, qui laudaretur iustissimus ordinator? Neque enim honestatem domus suae debuit confundere, ne videretur perverse intuentibus eos, quos ordinat, punire. Aut quam formam poenarum fecisse convinceretur, qui omnia, quae fecit, non in usus miseriarum, sed in universitatis plenitudinem, pulchritudinisque eius gratiam fieri voluit?». – Cfr. anche ibid., 18, 6, 433C, ed. Madec, p. 114,124-126; ed. Mainoldi, p. 194,27-29: «Termini autem omnium naturarum constituti sunt in arte omnipotentis artificis quae est patris sapientia, in qua et per quam cuncta sunt condita».

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ni precedenti. L’impiego metodico delle artes o il fondarsi su premesse provenienti dalle opere dei Padri, e lo stesso costante riferimento al testo sacro, imprescindibile per ogni cristiano ancor prima che per ogni teologo, non possono certo essere indicati come peculiarità del suo argomentare. Questi sono invece elementi di evidente continuità con criteri e procedimenti tipici della speculazione carolingia dalla prima metà del secolo IX; Giovanni Scoto mostra una profonda assimilazione di questa metodologia, che risulta pienamente funzionale non solo a fini apologetici, ma anche per l’elaborazione di una originale pars costruens speculativa. La razionalità umana, educata alle artes e capace di studiare le auctoritates, nel De praedestinatione non è soltanto una capacità umana; essa riveste invece un ruolo ben preciso nel complesso ordinamento dell’universo, al punto che la sua sola esistenza ed attività forniscono la prova della piena libertà concessa da Dio all’uomo.

2. I limiti della ratio: le critiche di Prudenzio di Troyes Proprio da una critica alla fiducia incondizionata manifestata da Giovanni Scoto nei confronti delle artes prende le mosse l’aspra e circostanziata critica al testo eriugeniano realizzata da Prudenzio di Troyes, che si preoccupò di commentare analiticamente i vari passaggi del De praedestinatione, fornendo per ogni errore riscontrato un’interpretazione alternativa. Il «quadrivium», vale a dire la dialettica, avrebbe guidato, agli occhi di Prudenzio, il maestro irlandese a costruire delle «blasphemiae», nate da un intenzionale fraintendimento tanto del testo sacro quanto dell’esegesi dei Padri34. Prudenzio dunque contrappone ai sofismi di Giovanni Scoto una «pura fides», semplice e lontana da una critica alla fiducia 34 Cfr. PRUDENTIUS TRECENSIS, De praedestinatione contra Iohannem Scotum, PL 115, 1012D-1013A: «Blasphemias tuas, Ioannes, atque impudentias, quibus in Dei gratuitam gratiam iustitiamque inflexibilem procax inveheris, percurso tuae perversitatis libro, quem sub nomine cuiusdam Gottescalchi adversus omnes catholicos effudisti, eo molestius accepi, quo te familiarius amplectebar, peculiarius diligebam: quippe qui in tantum vesaniae proruperis, ut gravissimam sanctarum Scripturarum auctoritatem tuis pravis interpretationibus detorqueres, sensaque catholicorum Patrum perversis invertenda sensibus edoceres».

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incondizionata manifestata da Giovanni Scoto nei confronti delle artes35. Se la scientia dialettica, segno di presunzione («iactantia»), fosse stata sufficiente a raggiungere una conoscenza perfetta, i filosofi 35 Cfr. ibid., 1013AB: «Nimirum quadrivium quoddam nobis intelligendi Scripturas affingens, quod patres nostri, videlicet omnes catholici tractatores, divina humanaque sapientia praefulgentes, cum multa eruditissime luculentissimeque coelitus imbuti exponendo, atque intelligendi regulas modosque locutionum multiplices aperiendo reliquerint, in quibus nullam tui quadrivii mentionem fecisse probantur, penitus contempserunt: proponentes nobis videlicet et multo meliores, sanctiores doctioresque vias, quarum opitulatione subnixi, et stropharum tuarum faeculentias evitare, et puritatem simplicissimae fidei clarissimis ac suavissimis fontibus haurire et propinare in nomine et adiutorio auxiliatricis, imo praeventricis, gratiae Dei possimus». Nel corso della sua argomentazione, Prudenzio si riferirà talvolta a Giovanni Scoto utilizzando le sue competenze logiche come epiteto offensivo; cfr. inoltre: ibid., 1110B: «Quid, o dialectice, facis?»; ibid., 1124C: «In quo dum inservis dialecticis ac rhetoricis, prorsus a veritate desereris»; ibid., 1169C: «Hoc ipsum definitionis ratione moliens affirmare, transis ad conglutinatas tibi consuetissimasque ratiocinatiunculas, quibus veritatis munimenta confringere machinaris, eaque ab alio disputationis initio ordiris»; ibid., 1172D-1173A: «O regule de radice colubri egrediens (cfr. Is 14,29), (…)»; ibid., 1174D: «Quapropter frivola prorsus convincitur argumentatio tua, cum id conaris evertere quod et auctoritas et ratio perspicue persuadent»; ibid., 1212B: «Quamvis satis, ut aestimo, iam ex his quae praemisimus evacuatum sit, tamen quia de contrariis tua confirmare satagis, miror dialecticorum subtilissimum nullatenus perspexisse animae naturam tam boni quam mali esse capacem, et ex voluntate quae ab ea procedit, vel malum, vel bonum sive cogitari, sive dici, seu perfici»; ibid., 1234B: «O disputationem vanissimam!»; ibid., 1259A: «Syllogismus tuus non verissimus, sed mendosissimus; non piissimus, sed impiissimus, et charitatis et catholicae fidei non plenissimus, sed inanissimus, cassatur»; ibid., 1294AB: «Nam ille tuus Capella, exceptis aliis, vel maxime te in hunc labyrinthum induxisse creditur, cuius meditationi magis quam veritati evangelicae animum appulisti: quin etiam cum legeres beati Augustini libros, quos De Civitate Dei adversus paganorum fallacissimas falsissimasque opiniones mirabili affluentia digessit, invenisti eum posuisse ac destruxisse quaedam ex libris Varronis, quibus, quoniam Capellae tuo consona videbantur, potius assentiri quam veridici Augustini allegationibus fidem adhibere delegisti»; ibid., 1013D-1014A: «Nam quemadmodum gestorum ordine Patrumque litteris fideliter edocemur: cum et apud Nicaeam et penes Chalcedonem, Ephesum, Constantinopolim,Antiochiam, Mesopotamiam, Africam, Romam, aliaque loca quamplurima, adversus catholicae fidei impugnatores, diversis quidem modis, sed eadem fidei sinceritate unanimiter ageretur, et inter conflictandum pars adversa dialecticis, imo sophisticis conclusionibus niteretur, sancti procul dubio Spiritus incordatione a Patribus cautum est ut defensores propugnatoresque simplicis fidei, nequaquam sophisticis illusionibus, sed Scripturarum sanctarum evidentissimis allegationibus uterentur». Cfr. G. SCHRIMPF, Johannes Scottus Eriugena und die Rezeption des Martianus Capella im karolingischen Bildungswesen, in Eriugena: Studien zu seinen Quellen,Vorträge des III. Internationalen Eriugena-Colloquiums (Freiburg/Br. 27.-30. August 1979), ed. W. Beierwaltes, Heidelberg 1980, pp. 135-148.

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che maggiormente si sono avvicinati al mistero divino lo avrebbero colto; essi invece non sono giunti alla pienezza del sapere perché privi della luce della legge divina36. Proprio nell’applicazione di quel metodo, che aveva ereditato dalla tradizione carolingia, Prudenzio rivolge a Giovanni Scoto gli stessi appellativi utilizzati da Alcuino per identificare gli eretici che non accettano di fermare la loro presunzione indagativa all’interno dei limiti («regulae») imposti dall’auctoritas della Scrittura e dei Padri, legittimi interpreti, e che invece creano «nova nomina», modificabili e plasmabili a loro piacimento, per designare gli inavvicinabili contenuti dei misteri37. Prudenzio condivide, senza avvertirlo, la stessa preoccupazione di Giovanni Scoto: riconosce l’utilità dell’esortazione alcuiniana a spogliare i pagani dei loro saperi e portarli all’interno della cultura cristiana, ma auspica che l’uso delle loro competenze sia circoscritto, anche nel tempo, limitato agli ambiti naturali, legittimamente indagabili da parte della ragione creata, e sempre ricondotto in materia di fede ai termini sicuri dell’insegnamento dei Padri38. Quelli che esaminarono diligentemente, a nostro vantaggio, le parole dei profeti e degli apostoli, le compresero intuitivamente, fedelmente le spiegarono, chiarendo le astrusità, ornando le cose semplici, sciogliendo tutti i nodi, rendendo manifesti i significati allegorici, si preoccuparono soprattutto di usare quanto più possibile quel genere di eloquenza grazie al quale potessero essere comprese anche dalle persone sem36 Cfr. PRUDENTIUS TRECENSIS, ibid., 1119AB: «Licet namque quidam philosophorum de Deo, quantum ab ipso tacti sunt, quaedam competenter protulerint, nunquam tamen ante divinae legis promulgationem tantae rei sublimitatem perspicere aut suis ratiocinationibus invenire valuerunt». 37 Cfr. ibid., 1161BC: «Iste quippe mos cunctis haereticis fuisse dignoscitur, ut quaecunque prophetica et apostolica Patrumque orthodoxorum dicta suis figmentis contraria, aut de suis codicibus eraderent, aut eosdem libros exauctorarent, aut certe perversis interpretationibus depravarent, suisque erroribus confirmandis quocunque colludio agglutinare satagerent: cui te vitio ultra caeteros inservisse, nullus, qui tua legit, ignorat». Cfr. inoltre ibid., 1260A: «haereticis semper fuisse moris ut rectitudinem sanctae Scripturae ad suos detorquerent errores»; e ibid., 1119D: «relictis enim catholicorum Patrum regulis, quas divinorum eloquiorum perscrutationibus prudenter ac congrue praefixerunt, dum nova fingis, ita in ipsis deficis, ut quibus approbes minime nanciscaris». 38 Cfr. ibid., 1016C. La fonte principale cui si ispira Prudenzio nell’assumere tale atteggiamento è AURELIUS AUGUSTINUS, De doctrina christiana, II, 40, 60, PL 34, 63, ed. Martin cit. (cap. 3, alla nota 90), pp. 75,9 - 76,8.

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plici e senza grande difficoltà le cose che questi udivano o leggevano39.

Le stesse Scritture autorizzano l’uso delle artes e di un metodo argomentativo40; ciò però non deve indurre l’uomo a pensare di poter raggiungere, con le sue sole forze, una conoscenza piena della verità che solo la rivelazione gli consente di acquisire e fare propria. Riconoscendone l’ascendenza agostiniana, Prudenzio ammette la correttezza dell’identificazione invocata da Giovanni Scoto, in apertura del suo libro, tra «vera philosophia» e «vera religio»,ma rimprovera al maestro irlandese di avere presunto di poter individuare nella dialettica uno strumento utile ad entrambe41. Prudenzio procede quindi ad illustrare come un distorto utilizzo di questa ars, applicata alla speculazione teologica, porti solo alla creazione di «adinventiones» che non contribuiscono, nemmeno in minima parte, ad una migliore comprensione della verità. Partendo dalla semplicità della sostanza di Dio, Giovanni Scoto aveva negato la possibilità di ammettere tanto la predestinazione divina del male, perché il male non è, quanto la prescienza di esso, perché Dio non può conoscere ciò che non esiste. Prudenzio, al contrario, mantenendo chiara la distinzione tra il bene, del quale Dio è «auctor», ed il male, che nasce dall’arbitrio umano ribellatosi al Creatore («voluntas creaturae rationalis a suo auctore deflexa»), non intende porre limiti ‘ontologici’ alla prescienza divina, capace di cogliere la verità tanto del bene quanto del male rimanendo però intatta nella pace della propria eterna immutabilità e senza patire alcuna affezione dall’imperfezione del male che prevede, esamina e condanna, senza mai esserne causa o corresponsabile42: 39 PRUDENTIUS TRECENSIS, ibid., 1017A: «Quicunque enim propheticas vel apostolicas nobis litteras diligenter scrutati sunt, vivaciter intellexerunt, fideliter enodarunt, abstrusa aperientes, plana exornantes, nodosissima enucleantes, allegorica detegentes, hoc potissimum sategerunt, ut illo loquendi genere quam maxime uterentur, quo etiam a simplicioribus absque gravi difficultate, quae vel audirent, vel legerent, caperentur». 40 Cfr. ibid., 1020CD. 41 Cfr. ibid., 1020D-1021A: «Igitur per copiosam praefationis tuae disputationem, qua veram philosophiam veram esse religionem veraciter astruis, sed inveniendam disciplinarum saecularium eruditione fallaciter affirmas, cum vera religio fide et Dei gratia, non humanis adinventionibus assequatur atque approbetur, ponis sententiam Gotteschalchi». 42 Cfr. ibid., 1022B: «Proinde bonorum omnium auctor est Deus; malorum

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Certamente si dice che la volontà di Dio sia la sua essenza, e si parla anche delle sue volontà al plurale, né tuttavia si potrà mai parlare, al plurale, di sue essenze: ma rimanendo immutabile e lontana da ogni possibilità di essere molteplice la sua essenza, la sua volontà ha una pluralità di effetti; non nel senso che la sua essenza si moltiplichi, ma perché gli effetti della sua volontà si rivelano molteplici conformemente all’armonia e alla specificità delle sue manifestazioni43.

Se davvero, come aveva affermato Giovanni Scoto, dinanzi alle contraddizioni della ragione ciò che deve guidare la speculazione è la fede, e dunque la Scrittura, non si può affermare, secondo Prudenzio, che Dio non abbia prescienza del male. Nel testo sacro si ritrovano infatti numerose attestazioni di come Dio, semplice per definizione, possa generare effetti molteplici. Se così non fosse, sarebbe impossibile per l’intero progetto divino della creazione il realizzarsi nella molteplicità degli effetti44. È dunque proprio nell’ottica, coerente con la comune concezione di tutti gli esponenti del sapere teologico in età carolingia, di un universo sensibile analizzato dalla razionalità che tende a comprenderne l’ordine intelligibile, che Prudenzio fonda la possibilità di parlare di Dio pluraliter, utilizzando una formula integralmente desunta da Gregorio Magno: «Forse non conosci l’ordine del cielo, e poni la sua regola sulla terra?» Conoscere l’ordine («ordo») del cielo è vedere i progetti nascosti delle celesti disposizioni. Porre sulla terra la

autem, id est vitiorum atque peccatorum auctor Deus non est, sed praescitor providentissimus, examinator sapientissimus, iudex potentissimus atque iustissimus». 43 Ibid., 1026B: «Dicitur quippe voluntas Dei essentia eius, dicuntur etiam voluntates eius pluraliter, nec tamen essentiae eius pluraliter proferuntur, sed manente incommutabiliter remotaque ab omni multiplicitatis capacitate essentia illius, voluntas eius pluraliter effertur; non ut ipsa essentia multiplicetur, sed ut voluntatis eius effectus pro distributionum eius congruentiis atque diversitatibus multiplices declarentur». 44 Cfr. ibid., 1028A: «Ordinem coeli nosse est supernarum dispositionum occultas praedestinationes videre. Rationem vero eius in terra ponere, est ante humana corda talium secretorum causas aperire. Rationem videlicet coeli in terra ponere, est supernorum iudiciorum mysteria vel considerando discutere, vel loquendo manifestare». Cfr., inoltre, ibid., 1038D: «Substantia Dei nunquam pluraliter effertur. Praedestinationes eius, sicut dispositiones, dispensationes, ordinationes, operationes, distributiones eius, pluraliter enuntiari et ostendimus, et ubi commodum fuerit, favente Domino, ostendemus».

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loro norma («ratio»), significa scoprire tali misteri dinanzi agli occhi dei cuori umani. Senza dubbio porre sulla terra la norma («ratio») del cielo è discutere i misteri dei giudizi divini tendendo ad essi, o rivelarli parlandone45.

Non c’è contraddizione alcuna, secondo Prudenzio, tra la semplicità dell’essenza divina e la molteplicità degli effetti: e questo risulta evidente anche alla mente dell’uomo, purché la riflessione su Dio sia compiuta con rigore46. Giovanni Scoto ha invece negato che Dio possa avere conoscenza dei peccati perché la sua volontà, che è in Lui un predicato sostanziale, coincide con l’essenza, che è semplice e dunque una. Prudenzio inverte viceversa proprio i termini del rapporto tra la realtà in sé degli attributi divini e la forma di comprensione che può averne l’uomo formulando predicazioni ad essi relative: Infatti nessuno che abbia raggiunto una certa esperienza ignora che destinare e predestinare, come fare, creare, disporre, distribuire, ordinare, amministrare, governare, giudicare, condannare ed altri termini simili sono detti secondo la categoria della relazione47.

Gli uomini possono parlare di Dio in due modi diversi, «substantialiter» o «relative». Della sostanza divina l’uomo non può conoscere alcuna proprietà a partire dalle proprie indagini, ma può ricondurre ad essa tutte le predicazioni assolute che parlano di Dio in quanto tale nelle Scritture: «magnus, «bonus», «omnipotens», «sapiens», «iustus», «sempiternus». La predicazione secondo relazione, invece, può essere indicativa del rapporto tra le tre persone 45 Ibid., 1028AB; GREGORIUS I PAPA [MAGNUS], Moralia in Iob, XXIX, 33, PL 76, 521B, ed.Adriaen cit. (cap. 4, alla nota 11), p. 303,50-56: «‘Nunquid nosti ordinem coeli, et pones rationem eius in terra?’ (Jb 38, 33) Ordinem coeli nosse est supernarum dispositionum occultas praedestinationes videre. Rationem vero eius in terra ponere, est ante humana corda talium secretorum causas aperire. Rationem videlicet coeli in terra ponere, est supernorum iudiciorum mysteria vel considerando discutere, vel loquendo manifestare». 46 Cfr. ibid., 1030B: «Negas similiter operationem in Deo pluraliter efferri, id est multiplicari vel geminari, vel caetera huiusmodi: et quid est quod omnes Scripturae operationes, vel opera divina decantant?». 47 Ibid., 1037B: «Nam destinare et praedestinare, sicut facere, creare, disponere, dispensare, ordinare, administrare, gubernare, iudicare, damnare, et caetera similia relative dici nullus, qui horum aliquantulum assecutus est peritiam, prorsus ignorat».

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della Trinità, oppure di quello tra Dio e le creature. Dio dunque sarà «creator» e «praedestinator» solo perché come tale è conosciuto dall’uomo, che è stato creato e predestinato, quando riflette sulla propria relazione con Lui. Nella sua sostanza, Dio, semplicemente, è; gli si attribuiscono proprietà come la creazione e la predestinazione solo nelle definizioni che sono frutto delle limitate capacità umane48: Allo stesso modo pur avendo sempre avuto nel progetto della sua volontà cosa, quando, come o dove avrebbe creato, destinato e disposto, non fu definito creatore, destinatore e dispositore prima che facesse, destinasse e disponesse49.

Lo scambio di argomentazioni tra Giovanni Scoto e Prudenzio sulla dottrina della «gemina praedestinatio» di Godescalco mostra con tutta evidenza quale e quanta sia la dimestichezza ormai raggiunta dai teologi carolingi con tutti gli elementi che costituiscono il bagaglio di competenze di un intellettuale cristiano. La conoscenza delle Scritture, dei Padri e delle artes costituisce un patrimonio personale ed al contempo condiviso, ed è proprio nella coesistenza di questa duplice dimensione che si aprono ampi margini di dibattito tra i diversi teologi. Pur formati dalle stesse dottrine, ed anzi partendo proprio dalla comune esigenza di assicurare una difesa dei fondamenti ortodossi della fede, Giovanni Scoto e Prudenzio utilizzano tutto il loro bagaglio di competenze per argomentare con rigore tesi contrapposte, supportando le loro conclusioni con diverse citazioni di auctoritates patristiche o utilizzandone il contenuto come premesse per articolare una dimostrazione plausibile a vantaggio delle rispettive tesi interpretative del dogma. Questa metodologia, e le conoscenze che il suo utilizzo richiedeva, sono insomma divenuti elementi talmente costitutivi della preparazione e dei procedimenti speculativi condivisi dagli intellettuali carolingi, da poter dare luogo anche allo

48 Cfr. ibid., 1038A: «Quapropter cum ipse essentialiter semper fuerit, tamen nunquam antea Dominus appellatus est quam ipse faceret cuius Dominus diceretur». 49 Ibid.: «Similiter cum semper habuerit in aeterno voluntatis suae consilio quid, quando et quomodo, vel ubi faceret, destinaret atque disponeret, non prius factor, destinator atque dispositor dictus est, quam faceret, destinaret atque disponeret».

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svilupparsi in modo parallelo di due argomentazioni contrapposte, ma scaturite dallo stesso presupposto metodologico. Come aveva affermato Rabano, non si può comprendere il problema della predestinazione divina se non si crede, preliminarmente, che Dio è certamente un «iudex iustus». Giovanni Scoto sostiene che, posta questa verità di fede, se ne inferisce la libertà dell’arbitrio umano, necessariamente dotato di razionalità, in quanto creato ad immagine di Dio, perché un arbitrio servile renderebbe infondata l’equità del giudizio divino. Ciò implica che il «velle» e lo «scire» siano connaturati all’essere umano, che ha la possibilità di decidere razionalmente, e dare concretamente seguito alle sue decisioni.Adamo, che era fin dall’origine costituito, come ogni altro uomo dopo di lui, da una trinità di «esse, velle et scire», nella sua caduta non ha perso queste caratteristiche («quamvis enim beatam vitam peccando perdidit, substantiam suam non amisit, quae est esse, velle, scire»)50. Se esse fossero venute meno, sarebbe stata in lui la stessa natura umana, creata da Dio, a corrompersi, il che è impossibile. La libertà del volere non si è dunque annullata a causa del peccato; si sono invece affievoliti il «vigor» e la «potestas», virtù concesse da Dio all’uomo non per natura, ma per grazia. Anche Prudenzio parte dalla fede nell’equità del giudizio divino; ma, proprio per riaffermarne in modo radicale il senso, sostiene che la libera volontà dell’uomo non può essere connaturata alla sostanza: se infatti «esse» e «velle bonum» (o «malum») coincidessero, l’uomo dovrebbe naturaliter volere o il bene o il male, e dunque non sarebbe libero. La volontà invece è un dono divino, da utilizzare in relazione alla razionalità, che si identifica in ultima analisi con la stessa natura dell’uomo51. Prudenzio di-

50 Cfr. IOHANNES SCOTUS, De praedestinatione liber, 4, 6, PL 122, 373B, ed. Madec, p. 31,166-168; ed. Mainoldi, p. 46,10-11. 51 Cfr. PRUDENTIUS TRECENSIS, ibid., 1051CD: «Igitur velle naturae, bonum autem vel malum velle, non est naturae, sed motus quidam et officium naturae. Nam si natura nobis esset bonum velle, vel malum velle, in utramlibet partem aliud esse non posset, sic nec ipsa animi natura aliud esse potest, essetque nobis tam naturale bene velle aut male velle, quam naturale est nobis ipsum velle: atque hoc modo iam ipsum bene velle, vel male velle, non esset in nobis virtus, aut vitium, sed natura: nec iam ullo modo esse possemus nisi aut tantummodo boni, aut solummodo mali; nec deberetur nobis iuste vel in bono praemium, vel in malo supplicium: cum aliud esse minime possemus, nec ullum esset meritum no-

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stingue allora, nell’uomo, la razionalità, che è sostanza, dalla volontà e dalla conoscenza, che invece sono «dona» di Dio. Dopo il peccato adamico, l’uomo ha perso la possibilità di fare il bene52. Giovanni Scoto aveva sostenuto la piena consustanzialità, nell’uomo, di essere e volontà, ipotizzando che il peccato originale avesse affievolito, nell’uomo, solo il «vigor» necessario a non compiere il male. Prudenzio rifiutava al contrario l’idea che la volontà fosse connaturata all’uomo, e che dunque in Adamo si fosse corrotta la natura stessa dell’uomo. Riprendendo e facendo propria la distinzione introdotta da Giovanni Scoto, anche Prudenzio considera la volontà come un bene non assoluto ma il cui valore muta a seconda del suo utilizzo. Se la volontà fosse stata fin dalla creazione tale, ossia un bene intermedio che può venire orientato anche a fini distorti, Dio stesso, in quanto creatore di tale volontà nella sua creatura sarebbe responsabile di avere posto la possibilità di peccare nell’uomo53. Dio ha invece creato la natura dell’uomo in uno stato di perfezione, nel quale l’ha corredata di una volontà puramente libera, ed è stato soltanto in seguito all’avere usato in modo scorretto tale dono che l’uomo ha deviato dall’ordine prestabilito da Dio ed è stato punito giustamente54. Non è dunque corretto distinguere la libera volontà, secondo

strum, vel bonum vel malum, sed sola Conditoris aut gratia, aut (quod absit) culpa, qui talem naturam in utrolibet inconvertibilem condidisset». 52 Cfr. ibid., 1058B: «Perdidit ergo non substantiam, sed libertatem creavit, nec ipsam ex toto, sed ex aliquo, videlicet, ut bonum velle non posset absque gratia, et malum posset ex natura, quam non perdidit, sed in deterius commutavit. Proinde post peccatum remansit ei libertas malum et volendi et faciendi; nec tamen remansit libertas per se a malo recedendi, atque ad bonum se convertendi». Cfr. AURELIUS AUGUSTINUS, De gratia et libero arbitrio,V, 12, PL 44, [875-911], 889. 53 Cfr. PRUDENTIUS TRECENSIS, ibid., 111B: «Tu econtra, quia mortem corpori atque animae propter imperfectionem sui obvenisse dicis, causam mortis Deo assignas, qui hominem fecerit imperfectum. Si enim secundum te imperfectus est conditus, sequitur ut lapsus eius de imperfectione veniens, non ipsi deputetur, sed Deo: quod quam sit impium et a veritate alienum, perfecto nulli dubitare permittitur». 54 Cfr. ibid., 1258B: «Falsum est igitur quod proponis, ut ideo sequatur peccatum esse ex Deo quod est ex natura, quod natura ex Deo sit. Non enim iuste Deo nostra facinora ascribuntur, ex quo nos, id est naturam nostram, esse non dubitatur. Certe libertatem arbitrii Deus homini largitus est, et eadem arbitrii libertate homo peccavit: nunquid ideo deputabitur Deo vitium liberae voluntatis, quia donator eius, id est liberae voluntatis, certissime creditur? Est igitur natura omnis ex Deo, vitium vero ex natura, cuius merito natura punitur».

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Giovanni Scoto connaturata all’essere umano, dal libero arbitrio, frutto di grazia; entrambi sono invece dei «donata» di Dio: La fede cattolica sa con fermezza e predica che l’umana natura fu creata retta e perfetta dal Creatore, che solo è straordinariamente buono, e arricchita di tutti quei beni che giudicò servissero per renderla salda secondo entrambe le sostanze: certamente ad essa non mancò niente di decoroso riguardo al corpo, e riguardo all’anima niente di bello, cosicché essendogli stata data una volontà del tutto libera poteva liberamente rimanere fedele al Creatore, se avesse custodito obbedientemente il comando impostogli: perciò non peccò per necessità, ma per propria libera volontà, che in nessun modo poté evitare, perché secondo te era stato creato imperfetto: dunque la stessa imperfezione lo spinse necessariamente a peccare. Infatti si deve dire che chi è spinto a trasgredire l’ordine del Creatore per imperfezione cadde non per libera volontà, ma per costrizione della sua imperfezione55.

L’argomentare di Prudenzio è serrato, e si avvale di una verifica dei medesimi princìpi e criteri logici messi in opera da Giovanni Scoto56; non è l’utilizzo della dialettica a costituire il discrimine tra una corretta ed una falsa argomentazione. La «regula», che Prudenzio accusa Giovanni Scoto di aver violato, non è quella del giusto ragionamento, ma la devozione dovuta in primo luogo al 55

Ibid., 1111C-1112A: «Fides autem catholica inconcusse tenet et praedicat, humanam naturam rectam atque perfectam a Creatore summe et singulariter bono conditam, omnibusque, quibus eam secundum utramque substantiam consistere iudicavit, bonis donatam: quippe cui secundum corpus nihil honesti defuit, et secundum animam nihil decoris abfuit, adeo ut liberrima voluntate donata semper haberet liberum inhaerere Conditori, si mandati custodiam obedienter servavisset: ac per hoc nulla necessitate, sed voluntatis propria libertate peccavit, quam nullatenus potuit evitare, quia secundum te imperfectus est conditus: imperfectio ergo ipsa necessario impulit ad peccandum: qui enim imperfectione mandatum auctoris transgredi compulsus est, iam non libertate voluntatis, sed necessitate imperfectionis lapsus esse dicendus est». 56 Cfr. ibid., 1112AB: «Si enim imperfecta libertas voluntatis est data, prorsus nec libera est dicenda: omnis enim liber aut perfecte liber est, aut si non perfecte, profecto nec liber: quomodo enim liber est, qui aliqua sui parte est imperfectus? Non est igitur dubitandum perfectum primum hominem conditum, nulli adhuc morti obnoxium, quae illi ob peccati admissionem iuste est retribuita». Cfr. ibid., 1202B: «Sicut ergo iusti beatitudinem veraciter consequentur, ita impii poenis debitis veraciter addicentur. Falsum est igitur, quod mundanarum legum similitudine nihil aliud appeti earum severitate dixisti, quam pronos ad peccandum suppliciorum atrocitate territos cohiberi».

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testo sacro e, successivamente, ai Padri. Nel Genesi, Dio preannuncia a Noè il diluvio come castigo per l’umanità corrotta57. Egli dunque distingue tra giusti e malvagi prima di punire e anzi punisce proprio in seguito alla conoscenza di tale distinzione; non è dunque la sola logica che stabilisce come Dio, giudice equanime, debba premiare i virtuosi e punire i malvagi58. Essa, senza il conforto del dato scritturale e l’avallo dei Padri, assume l’aspetto dell’«impudentia» superba tipica di ogni eretico.

3. Giovanni Scoto e il neoplatonismo dionisiano Uno dei connotati che, a partire da un determinato momento della sua biografia intellettuale, maggiormente caratterizzarono la formazione di Giovanni Scoto fu, come si è più volte ricordato, la traduzione ed il commento del corpus del «summus rhetor» Dionigi l’Areopagita59. L’incontro con la tradizione greca, perfezionato attraverso la lettura e la traduzione di alcune opere di Gregorio di Nissa e di Massimo il Confessore, diede ad alcuni temi già presenti nell’opusculum sulla predestinazione uno spessore speculativo maturo e compiuto. [L’illuminazione della divina bontà] è infatti una fonte che non viene meno e che sfocia con infiniti rigagnoli in tutte le cose che sono. E non solo si diffonde abbondantemente in ogni cosa, affinché esista; in verità tutte le cose che sussistono da essa, in essa e per essa, le adatta in una ineffabile armonia, cosicché sia molteplice nella totalità per un’infinita moltiplicazione, ed in essa stessa tutte le cose costituiscano un’unità per un’incomprensibile sintesi60.

57 Cfr. ibid., 1130A: «Ecce et peccatum eius arguitur, et poena a Domino irrogatur: si Dominus nec mortem nec poenam praescivit, quis aquas diluvii, quibus praeter arcam omnis caro deleretur, induxit?». 58 Cfr. ibid., 1208A. 59 Cfr. IOHANNES SCOTUS, Expositiones in ierarchiam coelestem, 4, 2, ed. J. Barbet, Turnhout 1985 (CCCM, 31), p. 72,269-272: «Saepe repetit caelestium essentiarum laudes eisdem rationibus, mutatis tamen copiose verbis usu retorico, quondam non solum theologus erat, verum etiam et summus rhetor». 60 Ibid., 1, 1, 127AB, p. 1,11-17: «Est enim fons non deficiens et, in omnia quae sunt, infinita numerositate profluens. Et non solum in omnia manat et provenit, ut subsistant, verum etiam universa quae, ex ipsa, et in ipsa, et per ipsam subsistunt, in unam ineffabilem armoniam coaptat, ita ut, et in universitate mul-

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L’idea, maturatasi nel mondo carolingio, di un compiuto «ordo universitatis», già assunto da Giovanni Scoto quale tema portante dell’intera discussione teologica sulla predestinazione, si perfeziona ora, incastonandosi naturalmente nel ben più perfezionato quadro ontologico attingibile alla tradizione neoplatonico-cristiana orientale, trasformandosi nella visione assolutamente sistematica e coerente di una universale «armonia» indicibile, nella quale trova senso tanto la divisione dell’uno nel molteplice, quanto il ritorno del molteplice all’uno. Giovanni Scoto intuisce quanto proprio la fondazione dell’universo su questa armonia superiore lo renda intelligibile per la mente creata: Questa pietra e questo legno per me sono lume; e se chiedi come, per risponderti, la ragione mi soccorre; e mentre prendo in considerazione questa o quella pietra, mi si fanno incontro molte cose che illuminano il mio animo: certamente mi rendo conto che essa è buona e bella, che esiste secondo la proporzione che le compete («secundum propriam analogiam»), che nel genere e nella specie è separata per differenza da tutti gli altri generi e specie delle cose, che è contenuta nella singolarità dell’individuo in cui è stata fatta come qualcosa di unico, che non oltrepassa la sua misura («ordo»), che cerca il suo luogo secondo la qualità del suo peso61.

Ogni aspetto conoscibile del creato, dal più ampio e comprensivo al più specifico e determinato, è indizio del superiore ordinamento costitutivo dell’universo62; la struttura complessivamente tiplex sit per infinitam multiplicationem, et in ipsa omnia unum sint per incomprehensibilem adunationem». 61 Ibid., 129B, p. 4,108-116: «Lapis iste vel hoc lignum mihi lumen est; et si quaeris quomodo, ut tibi respondeam, ratio me admonet; hunc vel hunc lapidem considerans, multa mihi occurrunt quae animum meum illuminant: eum quippe animadverto subsistere bonum et pulchrum, secundum propriam analogiam esse, genere specieque per differentiam a ceteris rerum generibus et speciebus segregari, numero suo, quo unum aliquid fit, contineri, ordinem suum non excedere, locum suum iuxta sui ponderis qualitatem petere». 62 Cfr. ibid., 130C-131A, p. 5,171-180: «Si quaeris nomen illud, audi. In utraque lingua, graeca videlicet latinaque, Pater vocatur; et graece quidam componitur PATHR, hoc est PANTA THRWN, omnia servans. Num tibi videtur recte moveri, ut custodiat omnia, qui servat et salvat omnia quae in unigenito suo fecit? Audi etiam illud: Pater et Deus vocatur, hoc est QEOÇ, currens, nomen ex QEW verbo, id est curro, derivatum. Currit enim per omnia, implens et substantificans omnia». Questo discorso di Giovanni Scoto sul significato del nome «deus» in greco (cfr. anche, infra, la nota 82), non è, evidentemente, volto ad un semplice

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ordinata del creato può dunque essere descritta con proprietà pur usando linguaggi tra di loro diversi. Le arti liberali («septem disciplinae quas philosophi liberales appellant») sono dette dallo stesso pseudo-Dionigi «perviae», in quanto aprono le strade migliori attraverso le quali è possibile all’uomo giungere a questa conoscenza63; ma, se l’universo intero è immagine del progetto del suo creatore, ogni linguaggio, da quello letterario dei carmina a quello sacro delle Scritture, può rappresentarne con correttezza almeno un aspetto64. Tale incommensurabile estensione della capacità di comunicare la verità da parte del linguaggio creaturale è direttamente proporzionale al fondamentale principio che governa l’intero impianto teologico dell’universo dionisiano, secondo cui ogni creatura, visibile o invisibile, è manifestazione di Dio («theophania»)65. In tale ordo, eternamente fissato dalla «proformalismo etimologico: i nomina e la loro origine profonda sono infatti symbola utili alla conoscenza del divino; cfr. ibid., 1, 2, 152CD, p. 8,258-264: «Per ipsas divinorum eloquiorum illuminationes, in mentibus propheticis a Deo traditas, non per se ipsas, verum per symbola, hoc est per signa sensibilibus rebus similia, aliquando pura, aliquando dissimilia et confusa, et per anagogen, hoc est per ascensionem mentis in divina mysteria, contemplabimur, quantum nobis sinitur, manifestatas coelestium intellectuum dispositiones». 63 Cfr. ibid., 1, 3, 139C, p. 16, 542-548: «Septem disciplinas quas philosophi liberales appellant, intellegibilis contemplationis plenitudinis, qua Deus et creatura purissime cognoscitur, significationes esse [scil. Dionysius] astruit. Ipsas autem sacras disciplinas DIEXODIKAÇ nominat, hoc est ‘pervias’, quoniam intelligentibus eas perviae sunt et planae, vel quoniam quaedam viae sunt per quas ingredimur rerum scientiam». 64 Cfr. ibid., 2, 1, 146BC, p. 24,146-158: «Theologia, veluti quaedam poetria, sanctam scripturam fictis imaginationibs ad consultum nostri animi et reductionem a corporalibus sensibus exterioribus, velut ex quadam imperfecta pueritia, in rerum intellegibilium perfectam cognitionem, tamquam in quamdam interioris hominis grandaevitatem conformat. Non enim animus humanus propter divinam scripturam factus est, cuius nullo modo indigeret si non peccaret, sed propter animum humanum sancta scriptura in diversis symbolis atque doctrinis contexta, ut per ipsius introductionem rationabilis nostra natura, quae praevaricando ex contemplatione veritatis lapsa est, iterum ad pristinam purae contemplationis reduceretur altititudinem». 65 Cfr. ibid., 4, 1, p. 72,297-299: «Omnis siquidem creatura, sive visibilis sive invisibilis, ratione approbante, theophania, hoc est Dei apparitio, et est et dicitur»; ibid. 4, 2, p. 73,301-305: «Non tamen aequaliter theophaniae sunt; copiosius enim coelestes essentiae et manifestius, quoniam proximae sunt et immediatae post Deum, deinde gradatim descendunt usque ad extremum universalis creaturae ordinem, quo corpora continentur». Questo ordine è l’oggetto specifico, secondo Giovanni Scoto, di una divina scientia; cfr. ibid., 7, 3, 186B, p. 108,642-647: «Declarant, inquit, apertissime theologi, prophetae videlicet, in visionibus suis hoc quod

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videntia» divina, angeli ed uomini hanno un ruolo particolare. Essi ne sono infatti elementi costitutivi in quanto ordine, ma hanno il privilegio di poter tendere, in misura maggiore o minore a seconda della loro dignità gerarchica, alla conoscenza del principio ordinativo. L’animo umano in particolare contempla, nella sua costituzione, tre tipologie di virtù («humano animo has tres virtutes inesse contemplamur»): quelle intellettuali, che superando i limiti naturali («supernaturaliter») si occupano esclusivamente di Dio inteso come causa di ogni cosa; le virtù razionali, che tendono alla conoscenza («cognitio») di tutto quanto è stato creato; e infine le naturali, che si occupano dei moti interni all’animo stesso66. La gerarchia delle virtù è immagine della gerarchia degli oggetti; riflettendo la classica divisione tripartita della filosofia, lo pseudo-Dionigi suggerisce al suo commentatore che la conoscenza si articola in teologica, fisica e morale, in diretta relazione alla dignità delle realtà a cui essa, per vie diverse, tende67.

4. L’Omelia sul Prologo di Giovanni Pur riconoscendo la distanza che separa creatura e Creatore, Giovanni Scoto esprime, come tutta la teologia carolingia, la fi-

in coelestium essentiarum dispositionibus, ordinationibus plane, suppositi ordines a superfirmatis, hoc est excelsioribus, ordinata lege erudiuntur in deificis scientiis, in divinorum scilicet intellectuum multiplicibus disciplinis, quae eos deificant». E cfr. ibid., 8, 2, 198D-199A, p. 123,190-192: «Hoc autem dicit ut intelligamus mirabilem rerum dispositionem per quam divina providentia universitatis conditae plenitudinem ineffabili processione disponit». 66 Cfr. ibid., 10, 3, 227C, p. 157,189-195: «Humano animo has tres virtutes inesse contemplamur. Cuius primae virtutes sunt intellectuales, quae supernaturaliter solummodo circa omnium causam, quae Deus est, versantur; mediae vero rationales, quae circa rerum omnium conditarum naturae cognitionem vim suam exercent; ultimae, quae circa naturales animi motus operationes suas impendunt». 67 Cfr. ibid., 227C-228A, p. 157,195-205: «Has quoque virtutes coelestibus animis inesse, non facile crediderim ullum recte philosophantium dubitare, dum coelestes animi et circa Deum intelligibiliter et circa rerum naturas rationabiliter et circa naturales suos motus interiori sensu praediti volvantur. Et primae quidem virtutes, sive in coelesti sive in humano animo, theologicae, mediae physicae, ultimae morales a theosophis appellantur. Et primae quidem propterea primae quia circa Deum, mediae vero quia circa naturam conditam, ultimae quia circa mores qui naturam sequuntur, virium suarum peragunt officia, non incongrue vocatae sunt».

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ducia che il grado inferiore possa accedere in parte al grado superiore, rispettando l’ordine che fonda ogni aspetto del creato. In tal senso, l’idea di un complessivo ordinamento dell’universo, così perfezionatasi nella mente del teologo irlandese grazie alla traduzione ed alla meditazione del sistema dionisiano, resta comunque perfettamente coerente con l’impostazione culturale che attraversa per lungo e per largo la tradizione scolastica carolingia, nella quale egli si era formato allo studio delle artes, alla lettura del testo sacro e all’approfondimento della letteratura patristica. Il contributo originale di Giovanni Scoto rispetto a questo solido contesto culturale non risiede infatti in una più spregiudicata applicazione delle competenze ereditate dai suoi predecessori, ma nell’ampliamento del perimetro speculativo all’interno del quale esse appaiono lecite e valide. Così, la stessa esegesi biblica, nella quale si erano impegnati Alcuino, Rabano ed altri grandi intellettuali, e che trovava nella tradizione patristica un solido referente, diviene in Giovanni Scoto l’occasione per evidenziare ulteriormente la complessiva coerenza del sistema, una armonia tra gli elementi più schiettamente ‘carolingi’ della sua formazione e i nuovi stimoli provenienti da differenti tradizioni culturali. Nell’Omelia composta per commentare il prologo del Vangelo di Giovanni, confluiscono e si amalgamano con naturalezza le diverse istanze culturali che convivono nell’identità teologica di Giovanni Scoto, e che gli permettono di accostarsi al testo sacro con il vigore necessario a cogliere, al di là delle parole spesso complesse e non immediatamente intelligibili, la traccia di una sapienza più vasta e più profonda. L’evangelista Giovanni, secondo l’ispirata interpretazione teologica della sua figura qui proposta dall’Eriugena, è simbolo di una forma di conoscenza che è ad un tempo la più alta possibile e insieme, in quanto superiore ad ogni limite creaturale, la più impossibile fra tutte le conoscenze, e tuttavia in questo unico e singolarissimo caso resa operante da un intervento gratuito con cui Dio ha attirato e congiunto a sé il proprio discepolo. Superando il confine delle cose comprensibili all’uomo e di quelle all’uomo nascoste, l’evangelista è spinto («exaltatur») alla conoscenza diretta dei più reconditi contenuti della teologia superlativa. Come «vox spiritualis aquilae» si rivolge con forza («pulsat») tanto all’uomo esteriore quanto a quello

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spirituale68. Nell’evangelista, dunque, Giovanni Scoto sembra veder rappresentata una comunicazione tra due piani, lo sforzo di ridurre gli elementi indicibili di una conoscenza frutto di una «deificatio» nella limitatezza delle parole umane. L’Eriugena invoca così, tra i protagonisti dell’Omelia, le Scritture stesse. Dinanzi al sepolcro di Cristo scoperchiato, che evoca l’idea del testo sacro reso intelligibile proprio dall’incarnazione e dalla resurrezione del Figlio di Dio, secondo il racconto dello stesso quarto Vangelo, giunge prima Giovanni, ma entra per primo Pietro (Jo 20, 3-8). Con l’efficace simbologia da lui applicata all’immagine dei due apostoli, Giovanni Scoto tenta di introdurre il lettore in un ben più complesso universo filosofico e, dunque, teologico. Nell’esegesi profondamente mistica dell’Omelia, Pietro e Giovanni rappresentano infatti due distinte attività: la «fides», che si mostra nell’azione, e l’«intellectus», che invece si manifesta nella teoresi. La conoscenza indagativa e argomentativa giunge ad accostarsi alle verità racchiuse nel testo sacro con più acribia e rapidità («acutius atque velocius»), ma non entra per prima perché non è attraverso il sepolcro, cioè, per mezzo della Scrittura che essa accede alla verità. Pietro, invece, allude alle incertezze della fede che rendono spesso complessa l’azione, legate al mondo, alla sua fragilità, alla sua mancanza di stabilità, e che ben si esprimono nello sforzo umano di descrivere a parole la verità. La fede, che si accosta all’interpretazione della pagina sacra, rischia dunque continuamente di ingannarsi; l’intelletto, invece, quando riesce ad accedere alla verità che supera il mondo della corruzione sensibile, non teme l’errore: Pertanto Pietro, vale a dire l’azione delle virtù, guarda il Figlio di Dio, racchiuso nella carne in modo ineffabile e mirabile, per virtù della fede e dell’azione. Invece Giovanni, cioè l’altissima contemplazione della verità, guarda il Verbo di Dio assoluto, in se stesso, prima della carne, ed infinito nel suo principio, vale a dire nel Padre suo. Pietro, per divina rivela68 Cfr. ID., Omelia super Prologum Iohannis, 1, PL 122 [283-296], ed. e trad. fr. a c. di È. JEAUNEAU, Homélie sur le Prologue de Jean, Paris 1969 (SC, 151); ed. e tr. it. a c. di M. CRISTIANI, Omelia sul Prologo di Giovanni, Milano 1987 (Fondazione Lorenzo Valla). Cfr. inoltre: G. D’ONOFRIO, Oltre la teologia. Per una lettura dell’‘Omelia’ di Giovanni Scoto Eriugena sul Prologo del Quarto Vangelo, in «Studi Medievali» (1990), pp. 285-356, in partic. pp. 290-294.

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zione, vede al contempo le cose eterne e quelle temporali diventate una sola cosa in Cristo. Giovanni porta alla conoscenza delle anime dei fedeli le sole sue caratteristiche eterne69.

Giovanni, fermo dinanzi al sepolcro in attesa che entri Pietro, sembra dunque limitato perché soggetto di una conoscenza che, accedendo direttamente all’eterno e all’immutabile, non conosce parole adatte per formulare e determinare i propri contenuti, ed è dunque più lontana dall’efficacia comunicativa che è invece propria delle Scritture. La fede rappresentata da Pietro, al contrario, pur conscia dell’ineluttabile inadeguatezza della parola che vuole descrivere il divino, entra nel sepolcro del testo sacro, e tenta di contemplare, per quanto possibile, il mistero. L’ottica di Giovanni Scoto è qui ancora una volta palesemente dionisiana: Poiché quanto più ci avviciniamo alle cose superiori, tanto più restringiamo le parole relative alle contemplazioni delle cose invisibili: così anche ora, cadendo nella stessa oscurità al di sopra dell’intelletto, non useremo un discorso breve, ma l’assenza di discorso e di parole. E lì discendendo il discorso alle ultime cose viene ritrovato secondo la sua estensione, che è universalmente in relazione alla moltitudine. Ora invece salendo da quelle cose inferiori a ciò che è superiore, (il discorso) si restringe secondo la misura di ciò che è indicibile, e dopo tutto l’indicibile (ogni discorso) sarà muto, e tutto (il discorso) sarà riunito a Colui che è del tutto privo di suono70.

69 IOHANNES SCOTUS, ibid., 3, 285B, ed. Jeauneau, p. 216,28-35; ed. Cristiani, p. 14,27-34: «Petrus itaque, hoc est actio virtutum, Dei Filium mirabili et ineffabili modo carne circumscriptum per virtutem fidei et actionis conspicatur. Iohannes vero, hoc est altissima veritatis contemplatio, Dei Verbum per se ante carnem absolutum et infinitum in principio suo, hoc est in Patre suo miratur. Petrus aeterna simul ac temporalia in Christo unum facta, divina revelatione introductus, inspicit. Iohannes sola aeterna eius in notitiam fidelium animarum introducit». 70 DIONYSIUS PS.AREOPAGITA, De mystica theologia, 3, 2, PG 3, 1033BC; versione latina di Giovanni Scoto, PL 122, 1175AB: «Quoniam quidem quantum ad superiora respicimus, tantum verba contemplationibus invisibilium coartantur: sicut et nunc in ipsam super intellectum occidentes caliginem, non brevem sermonem, sed sermonis defectum et nominationis inveniemus. Et ibi quidem desursum ad novissima descendens sermo, iuxta quantitatem eius, quae est universaliter ad proportionalem multitudinem, inventus est. Nunc autem ab his, quae deorsum sunt, ad superpositum ascendens, secundum mensuram invii corripitur, et post omne invium totus sine voce erit, et totus adunabitur sono carenti».

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Il mondo creaturale, per la sua lontananza dall’ineffabile principio di ogni cosa, è il luogo della parola, anche scritturale, e l’ambito della fede e dell’azione, incerte e sempre insicure. L’intuizione noetica, sperimentata la visione diretta di Dio («deificatio»), non entra nel sepolcro scritturale perché conosce della verità ciò che si comunica nell’assoluto silenzio, lontano dalle pur raffinate incertezze del linguaggio umano e scritturale. Giovanni l’evangelista nel cogliere il Verbo attraverso il quale ogni cosa è stata creata acquisisce, nell’interpretazione eriugeniana, una duplice funzione: da un lato, mostra la possibilità che dal mondo delle creature l’intelletto raggiunga, e dunque conosca, il divino; dall’altro, manifesta la difficoltà di esprimere, nel mondo della ragione, anche gli elementi più superficiali di questa visione. L’evangelista, infatti, nella sua contemplazione noetica del Verbo «absolutum ed infinitum», colto «per se ante carnem», non solo supera la fede rappresentata da Pietro, legato alla conoscenza dell’unione terrena di umano e divino in Cristo («Petrus aeterna simul ac temporalia in Christo unum facta, divina revelatione introductus, inspicit»), ma si innalza, in un’immagine ancora una volta splendidamente descritta da Giovanni Scoto, anche oltre la razionalità umana, che, come l’apostolo Paolo durante l’estasi da lui stesso descritta, non può giungere «super omnem caelum et paradisum»71. Le facoltà umane, disposte dunque secondo un preciso ordine gerarchico, possono accedere alla conoscenza esclusivamente di un oggetto confacente alla loro virtus. Per questo motivo, l’evangelista che supera, nell’interpretazione di Giovanni Scoto, anche se stesso («seipsum superavit»), vale a dire la parte razionale che lo rende uomo, per effetto della sua conoscenza teologica viene sottoposto al processo di divinizzazione, che è inverso a quello di incarnazione del Verbo72. L’uno, nonostante la sua umanità, è infatti rapito alla 71 Cfr. IOHANNES SCOTUS, Omelia, 4, 285BC, ed. Jeauneau, p. 218,1-9; ed. Cristiani, p. 14,1-8: «Spirituale igitur petasum, citivolum, deividum – Iohannem dico theologum – omnem visibilem et invisibilem creaturam superat, omnem intellectum penetrat, et deificatum in Deum intrat se deificantem. O beate Paule, raptus es, ut tu ipse asseris, ‘in tertium caelum’ (cfr. 2Cor 12, 2-4), in paradisum, sed non es raptus super omne caelum et paradisum. Iohannes omne caelum conditum, omnemque creatum paradisum, hoc est, omnem humanam angelicamque transgreditur naturam». 72 Cfr. ibid., 5, 286AB, ed. Jeauneau, p. 219; ed. Cristiani, p. 18,22-25: «De-

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conoscenza dell’inconoscibile; l’altro, nonostante la sua divinità, si incarna nella storia per comunicare direttamente il divino. Le parole non sono capaci di rendere questo duplice mistero; esse infatti non sanno che descrivere gli avvenimenti nella loro successione cronologica, lontano dalla condizione di eterno presente nel quale si muove la ierostoria. Ogni linguaggio umano non può che accostarsi per analogia alla descrizione del divino. Per questo motivo, quando Giovanni l’evangelista utilizza un tempo cronologicamente passato nel versetto «in principio era il Verbo», non indica una priorità cronologica, ma una primalità di dignità: come il Padre precede il Figlio nell’ordine delle cause, così, nella struttura stessa della natura, il Figlio precede il mondo. Affermo che il Padre precede il Figlio nell’ordine delle cause; il Figlio precede tutte le cose che sono state fatte per mezzo di lui nell’ordine della natura. La sostanza del Figlio è coeterna a quella del Padre. La sostanza di quelle cose che per mezzo di lui sono state fatte cominciò ad essere in lui prima dei tempi, non nel tempo, ma con i tempi. Infatti il tempo fu creato egualmente tra le cose che furono create, non fu fatto prima, non fu preposto, ma creato insieme73.

Nel suo volo, che Giovanni Scoto sembra seguire nel comporre l’Omelia, l’evangelista Giovanni, «aquila spiritualis», ascende all’assoluta indicibilità del Verbo, per poi ritornare tra gli uomini, mostrando loro come l’ordine dell’universo manifesti, almeno in parte, la grandezza di chi lo ha creato. Allontanatasi dall’uomo dopo il peccato, la luce divina torna nel mondo attraverso l’incarnazione del Verbo, e si manifesta nella Scrittura e nella teofania74. scendit evangelizans Deum Verbum hominem factum supernaturaliter inter omnia ex virgine; ascendit proclamans idem Verbum superessentialiter genitum ex Patre ante et ultra omnia». 73 Ibid., 7, 287BC, ed. Jeauneau, pp. 234,22 - 236,29; ed. Cristiani, pp. 22,20 24,28: «Praecedit, inquam, Pater Filium causaliter; praecedit Filius omnia quae per ipsum facta sunt naturaliter. Substantia Filii Patri est coaeterna. Substantia eorum quae per ipsum facta sunt inchoavit in ipso esse ante tempora saecularia, non in tempore, sed cum temporibus.Tempus siquidem inter caetera quae facta sunt, factum est, non ante factum, non praelatum, sed concreatum». 74 Cfr.ibid.,11,289C,ed.Jeauneau,p.254,11-13;ed.Cristiani,p.32,11-13:«Lux divinae cognitionis de mundo recessit,dum homo Deum deseruit.Dupliciter ergo lux aeterna seipsam mundo declarat,per scripturam videlicet et creaturam».

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Infatti in noi non si rinnova diversamente la conoscenza del divino, se non per mezzo delle parole della divina Scrittura e delle specie creaturali. Impara le parole divine, e concepisci dentro di te la loro comprensione, nella quale conoscerai il Verbo. Con i sensi osserva le forme e la bellezza delle cose sensibili, ed in esse comprenderai il Verbo di Dio75.

Quasi seguendo, nel processo discensivo, il percorso che dal Creatore giunge alle creature, l’evangelista ripercorre la gerarchia delle teofanie e la struttura delle Scritture che illustrano l’opera del Verbo, così come la bellezza di un manufatto riporta alla perizia dell’artefice. La natura, nelle sue «species», è dunque immagine di «pulchritudo»: di quella bellezza che, nel commentare Dionigi, l’Eriugena attribuiva all’armonia prodotta nel creato dall’incontro di razionalità e non razionalità; similmente Giovanni l’evangelista, ridisceso dalle vette mistiche, indica la possibilità di conoscere il Verbo grazie ai suoi effetti, laddove cioè non c’è più la perfezione del silenzio divino, ma lo scontro tra la luce e le tenebre. L’uomo stesso è infatti una «tenebrosa substantia», capace di accogliere la luce della sapienza, ma impossibilitato a farsi trasformare, da questa, in luce76. Giovanni Scoto segue quindi Giovanni l’evangelista sulla terra, nella storia, sino all’incontro con Giovanni Battista, quasi a descrivere, agli occhi del lettore, un insieme di tre voci che, in modi diversi, palesano le difficoltà insite nel discorso teologico77. Se infatti l’evangelista esprime la difficoltà della parola di rendere la visione della verità, e Giovanni Scoto la voce che, accolta la parola incerta delle Scritture, tenta di renderla intelligibile, il Battista simboleggia la capacità di credere senza vedere; egli infatti è l’uomo che, senza perdere la sua umanità, ma solo tramite una visione («propheticum visus») è diventato precursore del Verbo78. Cre75

Ibid., ed. Jeauneau, p. 254,13-18; ed. Cristiani, pp. 32 - 34,13-17: «Non enim aliter in nobis divina cognitio renovatur, nisi per divinae scripturae apices et creaturae species. Eloquia disce divina, et in animo tuo eorum concipe intellectum, in quo cognosces verbum. Sensu corporeo formas ac pulchritudines rerum perspice sensibilium, et in eis intelliges Dei Verbum». 76 Cfr. ibid., 13, 290C, ed. Jeauneau, p. 264,7-9; ed. Cristiani, p. 38,7-9: «Nostra natura, dum per seipsam consideratur, quaedam tenebrosa substantia est, capax ac particeps lucis sapientiae». 77 Cfr. ibid., 15, 291D, ed. Jeauneau, p. 274,9-11; ed. Cristiani, p. 44,9-10: «Ut segregaret vocem transeuntem a verbo semper et incommutabiliter manente». 78 Cfr. ibid., 16, 292B, ed. Jeauneau, p. 278,7-10; ed. Cristiani, p. 46,6-10.

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dere svela all’uomo ciò che rimane nascosto alla ragione che o non riesce a cogliere argomentativamente ed a rendere linguisticamente il mistero intuito dall’intelletto, o presume di poter giungere, sola, alla verità, e in ciò smarrisce la fede, che invece crede senza vedere79.

5. Il Periphyseon Identificare in Giovanni Scoto e, in particolare, nel suo Periphyseon l’unico esito degno di interesse di tutto il secolo carolingio è consuetudine tanto diffusa quanto ingenerosa. Se infatti è incontestabile la cifra speculativa dell’Eriugena, ed è evidente che un’opera come il Periphyseon costituisca la summa del suo pensiero e di un’intera epoca, appare decisamente improprio, almeno alla luce dell’analisi fin qui condotta, isolare entrambi dal contesto in cui tale riflessione si sviluppò e si diffuse. La maggiore ricchezza di fonti e di competenze accumulata da Giovanni Scoto rispetto all’intera tradizione carolingia non deve indurre ad una considerazione della sua statura intellettuale come avulsa dal contesto ed estranea agli esiti della produzione speculativa del suo tempo; i temi che egli fece propri traendoli dalla tradizione teologica greca, e in particolare dallo pseudo-Dionigi e da Massimo il Confessore, non vengono da lui proposti a fondamento rivoluzionario di un nuovo parametro culturale che soppianti il vecchio, ma vengono armonizzati con gli elementi che il lavoro di preservazione, divulgazione e comprensione realizzato nei decenni che lo precedettero aveva realizzato. È dunque ora utile evidenziare alcuni elementi che esemplifichino i temi che il Periphyseon trae dalla tradizione del suo tempo per esprimerli con un più ricco vocabolario ed una nuova sensibilità filosofica. All’inizio del dialogo tra «Nutritor» ed «Alumnus» che si sviluppa lungo i cinque libri dell’opera, il termine «natura» appare il più adatto per considerare unitariamente anche ciò che sfugge all’umana comprensione. Pur essendo infatti intuito solo sul piano noetico, esso può essere interpretato anche attraverso schemi razionali, vale a dire come un genere, perché contiene al suo inter79 Cfr. ibid., 19, 293D-294A, ed. Jeauneau, pp. 290,1 - 292,8; ed. Cristiani, p. 54,1-7.

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no diverse specie. Per individuarle, il «Nutritor» applica al genere «natura» una differenza specifica che, immediatamente, trasferisce il discorso dal piano logico a quello teologico-metafisico. Per un cristiano, infatti, l’elemento utile per mostrare la divisione in specie del termine «natura» non può che fondarsi sul concetto di creazione; l’atto del creare è la prima caratteristica con la quale Dio è indicato nel Genesi, e ‘creatura’ è il termine che meglio di altri esprime la subordinazione dell’universo a Dio. Ci sarà dunque, come è noto, una prima natura, che crea e che non è creata; una seconda, che crea ed è creata; una terza, che non crea ed è creata e, infine, una quarta, che non crea e non è creata.Apparentemente, questa argomentazione razionale annulla, nella descrizione dell’onnicomprensivo termine «natura», la distanza tra Creatore e creatura che è a fondamento di tutta la teologia carolingia, e che lo stesso Giovanni Scoto difende nelle sue opere. Ciò che invece si evince da una analisi attenta del linguaggio di Giovanni Scoto è la piena maturazione di un tema già presente nella riflessione degli intellettuali delle generazioni immediatamente precedenti. L’uomo conosce solo ciò che è commisurato alle sue capacità; è infatti cieco rispetto a ciò che lo trascende, perché non possiede l’organo adatto a raggiungere autonomamente tale conoscenza. La sensibilità osserva ed indaga il mondo fisico; la ragione produce invece dimostrazioni che illustrano il creato nella sua struttura ordinata. Nel parlare umano, però, è impossibile descrivere razionalmente ciò che compete all’intelletto; è necessario dunque procedere alla descrizione delle «species» della «natura» per giungere ad una conoscenza adatta pro statu isto. Solo in virtù di questi presupposti è possibile introdurre regole grammaticali, analisi etimologiche e strumenti dialettici nel discorso teologico. Dio è in primo luogo creatore.Alcuni Padri della Chiesa, sottolinea però il personaggio dell’«Alumnus», hanno affermato che Dio non solo crea, ma, nel creare, crea se stesso80. Se dunque si deve procedere all’analisi di un linguaggio umano, quale è quello dei Padri, è necessario utilizzare tutti gli strumenti a disposizione 80 Cfr. ID., Periphyseon, I, PL 122, [439-1023], 453C, ed. É. Jeauneau, 5 voll., Turnhout 1996-2003 (CCCM, 161-165), I, p. 20,484-488 (nelle note seguenti il volume dell’ed. Jeauneau corrisponde al numero del libro dell’opera). Cfr. TROUILLARD, La ‘virtus gnostica’, cit. (alla nota 29), p. 337.

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della ratio81. Ciò non significa che la ragione possa procedere da sola, ma che qualsivoglia contraddizione del linguaggio umano può essere sciolta solo grazie alla razionalità che è a fondamento di quel linguaggio. Se però in questa analisi si procedesse a ritroso, per giustificare con parole umane altre parole umane, si rischierebbe di non giungere mai ad una conclusione inconfutabile e universalmente condivisa; occorre dunque partire dalle espressioni che, nella loro imperfezione, sono state ispirate da Dio, e dunque appaiono meno incerte delle altre. Applicando infatti alle Scritture gli strumenti dell’indagine razionale, si può dare una definizione dei termini con i quali il testo sacro descrive il creatore. Giovanni Scoto parte proprio dal termine più semplice; «deus», infatti, deriva, nella ricostruzione etimologica proposta nel Periphyseon, dai due verbi greci qevw e qewrevw, vale a dire ‘correre’ e ‘vedere’, e cela, dietro la duplicità dell’etimo, un «unus intellectus». Dio infatti non solo conosce, e dunque vede, tutto, ma corre in tutto, vale a dire tutto è fatto per mezzo suo. Se tutto è conosciuto e creato da Dio, Dio è presente in tutte le cose in un «mirabili modo», e dunque è in esse creato82. Questa affermazione sembrerebbe contraddire la prima distinzione della «natura», secondo la quale Dio crea e non è creato. Il maestro chiede dunque un altro sforzo al suo discepolo; se infatti si sostiene che Dio sia creato in quanto il suo potere si esplica nella chiamata all’esistenza delle cose che di lui partecipano, è evidente che Egli è creato da se stesso, che pone quelle cose. Ciò che è indicato con il termine «omnia», con il quale il maestro aveva inteso gli effetti della creazione di Dio, sono evidentemente le «naturae rerum», nelle quali Dio si manifesta. Egli dunque le crea e creandole si autopone manifestandosi83. Già alla luce di queste prime distinzioni, l’«Alumnus» chiede al maestro se e quanto sia lecito parlare propriamente di Dio, e 81

Cfr. IOHANNES SCOTUS, ibid., I, 452C-454D, pp. 20,489 - 21,533. E cfr. AUAUGUSTINUS, Enarrationes in Psalmos, 77, 17, PL 36, 995, ed. E. Dekkers J. Fraipont, 3 voll., Turnhout 1956 (CCSL 38-39-40), II, p. 1081,45-64; ID., De Genesi ad litteram,VIII, 27, 50, PL 34, 392, ed. Zycha cit. (cap. 3, alla nota 67), pp. 267,3 - 268,40. 82 Cfr. IOHANNES SCOTUS, Periphyseon, I, 452BD, I, pp. 18,436 - 19,453. 83 Cfr. J. MOREAU, Le Verbe et la création selon S.Augustin et J. Scot Érigène, in Jean Scot Érigène et l’histoire de la philosophie,Actes du Colloque international (Laon, 712 juillet 1975), ed. R. Roques, Paris 1977, pp. 201-209. RELIUS

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dunque accedere a quella «theologia» che esprime nel miglior modo possibile le caratteristiche della prima natura. Il «Nutritor» gli ricorda allora quanto limitate siano le possibilità gnoseologiche della ragione umana84. Essa coglie l’esistenza di Dio, perché esistono le cose che Egli ha creato; desume che è vivente, perché l’universo ha vita; dichiara che è sapiente, perché le creature hanno un loro ordine, in virtù del quale possono essere descritte con rigore secondo essenza, genere, specie, differenza e numero. La ragione non può andare oltre questa teologia naturale, che inferisce dall’ordine dell’universo l’esistenza della mente ordinatrice. La capacità di cogliere la struttura logica del creato vale per Giovanni Scoto quale fondamentale garanzia dell’esistenza di un principio ordinatore; proprio sulla conoscenza di tale principio come radice dell’essere di ogni cosa si fonda per l’uomo la possibilità stessa di classificare con rigore tutte le creature che «post Deum sunt» mediante l’applicazione della griglia semantico-definitoria delle dieci categorie85. L’uso di questo strumento logico conduce alla conoscenza di Dio «translative», non solo perché individua proprietà che almeno analogicamente possono essere predicate di Dio («nulla igitur categoria proprie Deum significare potest»), ma soprattutto perché, intuito grazie al loro utilizzo l’ordine del creato, l’uomo trasferisce la propria indagine dalla constatazione di tale razionalità delle cose alla magnificazione di chi l’ha posta86. Al di là di quanto si esprime in queste due funzioni, la logica, pur utilissima, non può descrivere nulla di Dio87; anche laddove essa sembra coglierne un aspetto intrinseco, quando illustra tramite la categoria della relazione i rapporti tra le tre persone della Trinità, descrive solo ciò che all’uomo appare del84 Cfr. IOHANNES SCOTUS, ibid., 455B, p. 22,562-566: «Nonne ab ipsa quam nominasti Theologia, quae aut solummodo aut maxime erga divinam naturam versatur, satis ac plane veritatem intuentibus suasum est ex his quae ab ipsa creata sunt, solummodo ipsam essentialiter subsistere, non autem qud sit ipsa essentia intelligi». 85 Cfr. ibid., 458A e 463A, p. 26,669-673, p. 32,887-891; e cfr. Categoriae decem, 50-54, ed. Minio-Paluello cit. (cap. 5, alla nota 28), pp. 144,26 - 145,30. – Cfr. J. MARENBON, John Scottus and the ‘Categoriae decem’, in Eriugena: Studien zu seinen Quellen, cit. (alla nota 35), pp. 116-134. 86 Cfr. IOHANNES SCOTUS, ibid., 463C, p. 33,919-920. 87 Cfr. ibid., 475AB, pp. 47,1399 - 48,1419.

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l’inconoscibile essenza di Dio, che «a nullo namque definitur, sed omnia definit»88. L’idea che l’uomo possa conoscere solo oggetti proporzionati alle sue capacità diviene esplicita nel secondo libro del Periphyseon, dedicato alla trattazione della natura che crea ed è creata. La distinzione delle quattro specie del genere «natura» era avvenuta, nel primo libro, grazie alla differenza specifica posta dal concetto di creazione, e desunta dalla Genesi. Presupposto del ragionamento del «Nutritor» sono dunque le Scritture («ratiocinationis exordium ex divinis eloquiis assumendum esse aestimo»)89: seguendo i primi versi del Genesi, infatti, «Deus fecit» indica il ruolo della prima natura, «coelum et terram» indicano invece le cause create «in principio», vale a dire nel Verbo, e portate all’effetto tramite l’azione vivificante dello Spirito Santo90. «Primordiales rerum causae», «exempla», «praedestinationes», «voluntates», «ideae» sono le espressioni con le quali Giovanni Scoto indica questi princìpi primi, nei quali risiedevano le «rationes» del creato prima che il creato esistesse91. L’«artifex» conosce ogni cosa prima che le cose stesse esistano («in mente artificis,qui omnia,priusquam fierent,in seipso cognovit»)92.Tutte le cose sono dunque al contempo «aeterna» e «facta»,pensate eideticamente da Dio in un livello progettuale, e poi calate nella storicità mutevole: il peccato originale ha infatti allontanato l’uomo da Dio, ed ha dato vita al «mundus», vale a dire all’universo della «multiplicitas». L’eterna ed onnicomprensiva presenza, nelle idee di Dio, del progetto del creato, implica che anche la caduta dell’uomo e la sua vita nel mondo sensibile siano state previste dal Creatore93; ciò garantisce all’uomo la possi88

Cfr. ibid., 468D e 465A, pp. 39,1140-1141 e 34,960-968. Cfr. ibid., II, 545B, p. 27,578-579. 90 Cfr. ibid., 546A, pp. 28,606 - 29,614: «Mihi autem multorum sensus consideranti nihil probabilius, nihil verisimilius occurrit, quam ut in praedictis sacrae Scripturae verbis, significatione videlicet caeli et terrae, primordiales totius creaturae causas, quas Pater in unigenito suo Filio, qui principii appellatione nominatur, ante omnia, quae condita sunt, creaverat, intelligamus, et caeli nomine rerum intelligibilium caelestiumque essentiarum, terrae vero appellatione sensibilium rerum, quibus universitas huius mundi corporalis completur, principales causas significatas esse accipiamus». 91 Cfr. ibid., 529AB, pp. 8,134 - 9,142. 92 Ibid., IV, 768B, p. 40,1067-1068. 93 Cfr. ibid., II, 540A, p. 21,425-431: «Ut ratio edocet, mundus iste in varias sensibilesque species, diversasque partium suarum multiplicitates non erumperet, 89

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bilità della salvezza: è la ragione infatti che mostra come alla «divina bonitas» non possa inerire, come accidente, la «cupiditas vindicandi»,e che quindi Dio ha concesso all’uomo la possibilità di tornare a Lui, seguendo i «divina praecepta»94. La creazione del mondo sensibile, vale a dire la manifestazione nella molteplicità degli effetti di ciò che era, eideticamente, nel Verbo, rispetta dunque un «ordo ineffabilis incomprehensibilisque» ad ogni essere umano95; le cause che lo fondano, nel loro essere interamente estranee al tempo («primitivae»), rimangono incontemplabili dall’occhio umano, abituato a conoscere solo ciò che si presenta con una sua corporeità («corporea crassitudo»)96. L’indagine che l’uomo può compiere per conoscere Dio deve dunque partire non dal desiderio di accedere a ciò che non potrà mai cogliere, ma dalla tensione a quelle vestigia di Dio che a Lui riportano. Lo studio, ad esempio, dell’anima umana, «imago Dei», è in tal senso utilissima. Nella capacità conoscitiva dell’uomo si ritrovano tre «motus»: «secundum animum», «secundum rationem» e «secundum sensum», gerarchicamente disposte in relazione ai propri oggetti. La prima supera ogni natura, al di là dell’interpretazione razionale; è a questa condizione che gli uomini aspirano, dopo la morte97. La seconda riconosce Dio come causa; la terza riceve dal senso esterno le «phantasiae» e le elabora98. In si Deus casum et interitum primi hominis, unitatem suae naturae deserentis, non praevideret». 94 Cfr. ibid., 540BC, p. 22,440-450: «Non enim credendum est, divinissimam conditoris clementiam peccantem hominem in hunc mundum retrusisse quasi quadam indignatione commotam, aut quodam vindicandi motu cupidam; his enim accidentibus divinam bonitatem carere vera ratio indicat: sed modo quodam ineffabilis doctrinae incomprehensibilisque misericordiae, ut homo, qui liberae voluntatis arbitrio in suae naturae dignitate se custodire noluerat, conditoris sui gratiam suis poenis eruditus quaereret, et per eam divinis praeceptis obediens, quae prius superbiendo neglexerat, ad suum pristinum statum cautus providusque pristinae suae negligentiae superbique casus humilis atque memor rediret, unde iterum gratia ac libero suae voluntatis arbitrio custoditus non caderet, nec cadere vellet, nec posset». 95 Cfr. ibid., 553B, p. 37,864-874. 96 Cfr. ibid., 554D, p. 39,910-913. 97 Cfr. B. STOCK, The Philosophical Anthropology of Johannes Scottus Eriugena, in «Studi Medievali», Ser. 3a, 8 (1967), pp. 1-57; J. C. FOUSSARD, La notion de ‘phantasia’ chez Jean Scot, in Jean Scot Érigène et l’histoire de la philosophie, cit. (alla nota 83), pp. 337-348, in partic. pp. 340-341. 98 Cfr. IOHANNES SCOTUS, ibid., 573B, p. 64,1487-1493: «Primo siquidem

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questa tripartizione si riflette, come in uno specchio, l’azione delle tre persone della Trinità, ad immagine della quale l’anima è capace di conoscere intellettualmente, argomentare razionalmente, e preservare, nella memoria, tale elaborazione99. L’idea che l’universo risponda ad un ordine complessivo e divino, già fortemente radicata nella tradizione carolingia, diviene in Giovanni Scoto il naturale presupposto della lettura neoplatonica degli equilibri dell’universo. È possibile, per speculum, intuire e mostrare, attraverso parole ed argomentazioni umane, l’ordine teofanico del creato. Gli elementi che, nei primi decenni dell’età carolingia, hanno costituito l’ossatura di una formazione condivisa, per un verso rimangono, anche in Giovanni Scoto, testimonianze dei molteplici linguaggi con i quali è possibile esprimere la medesima struttura metafisica che fonda l’universo, e che lo rendono non solo conoscibile, ma anche funzionale alla salvezza dell’uomo; per un altro, vengono assorbiti in un più generale disegno speculativo, che li rinnova non nelle forme ma nella funzione. L’interpretazione del testo sacro, o la devozione nei conphantasias ipsarum rerum per exteriorem sensum quinquepertitum secundum numerum instrumentorum corporalium, in quibus et per quae operatur, accipiens, easque secum colligens, dividens, ordinans disponit; deinde per ipsas ad rationes earum, quarum phantasiae sunt, perveniens, intra seipsam eas, rationes dico, tractat atque conformat». Cfr. MAXIMUS CONFESSOR, Ambigua ad Iohannem, 6, 3, PG 91, 1112D-1113A; versione latina di Giovanni Scoto, ed. É. Jeauneau, Turnhout 1988 (CCSG, 18), p. 48,118-131. 99 Cfr. IOHANNES SCOTUS, ibid., 579AC, pp. 72,1670 - 73,1688: «Intuere itaque, acieque mentis, tota ambiguitatis caligine depulsa, cognosce, quam clare, quam expresse divinae bonitatis substantialis trinitas in motibus humanae naturae recte eos intuentibus arridet, seque ipsam pie quaerentibus se, veluti in quodam proprio speculo ad imaginem suam facto, limpidissime manifestat, et cum sit ab omni creatura remota, omnique intellectui incognita, per imaginem suam et similitudinem veluti cognitam et comprehensibilem intellectualibus oculis, ac veluti praesentem seipsam depromit, ultroque specillam, in qua relucet, purificat, ut in ea clarissime resplendescat una essentialis bonitas in tribus substantiis, quae unitas et trinitas in seipsa per seipsam non appareret, quia omnem intellectum effugit eximia suae claritatis infinitate, nisi in sua imagine vestigia cognitionis suae imprimeret: Patris siquidem in animo, Filii in ratione, sancti Spiritus in sensu apertissima lucescit similitudo. Nam quemadmodum Filium artem omnipotentis artificis vocitamus, nec immerito, quoniam in ipso, sua quippe sapientia, artifex omnipotens Pater ipse omnia, quaecunque voluit, fecit, aeternaliterque et incommutabiliter custodit: ita etiam humanus intellectus, quodcunque de Deo, deque omnium rerum principiis purissime incunctanterque percipit, veluti in quadam arte sua, in ratione dico, mirabili quadam operatione scientiae creat per cognitionem, inque secretissimis sinibus ipsius recondit per memoriam».

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fronti dell’auctoritas scritturale, condivise con Alcuino e con tutti i teologi carolingi, conservano, per Giovanni Scoto, il loro valore all’interno del progetto educativo cristiano; ma, supportata da quel neoplatonismo dionisiano che per la prima volta si affacciava nella cultura occidentale, la speculazione eriugeniana riesce ad esaltare il miglior portato della tradizione carolingia, armonizzandolo con un più complesso e compiuto sistema di pensiero. Il sapere tecnico, ad esempio, che in tutta la tradizione carolingia aveva acquisito significato perché dotato di norme che rispecchiavano il più complesso ordine dell’universo, acquisisce, in Giovanni Scoto, anche la funzione di immagine riflessa di quell’ordine. Lo studio delle artes acquista senso esclusivamente se coerente con il più generale ordine dell’universo; non andranno studiate con la stessa dedizione tutte le artes, ma, in maggior misura, quelle che non nascono «ab humanis machinationibus» ma che sono state poste dall’«auctor» nella natura delle cose100. Esse sono infatti utili o a seguire il movimento che dal molteplice risale all’unità, come nel caso della dialettica, o ad illustrare, per analogia, la struttura stessa dell’universo: così, l’«ars arithmetica», vale a dire la «numerorum scientia, non quos sed secundum quos numeramus», aiuta a comprendere come il Verbo fosse al contempo progetto e luogo della creazione divina101. È invece opportuno, chiosa Giovanni Scoto, tenere in minor considerazione altre discipline, come la retorica o la grammatica, che si occupano di entità artificiali come il linguaggio102. 100

Cfr. ibid., IV, 748D-749A, p. 12,283-288. Cfr. ibid., 651B, p. 48,1353-1354; e 621C, p. 6,101-104: «Nam et monas principium numerorum est, primaque progressio, et ab ea omnium numerorum pluralitas inchoat, eorundemque reditus atque collectio in ea consummatur». E cfr. DIONYSIUS PS. AREOPAGITA, De divinis nominibus, 5, 6, PG 3, 819C-821A, ed. B. Suchla, Berlin 1990, pp. 184, 21 - 185,11; versione latina di Giovanni Scoto, PL 122, 1149AB. 102 Cfr. IOHANNES SCOTUS, ibid.,V, 868D-869C, pp. 14,360 - 15,396: «Quid tibi videtur? Nonne ars illa, quae a Graecis dicitur Dialectica, et definitur bene disputandi scientia, primo omnium circa OUÇIAN, veluti circa proprium sui principium versatur, ex qua omnis divisio et multiplicatio eorum, de quibus ars ipsa disputat, inchoat per genera generalissima mediaque genera usque ad formas et species specialissimas descendens, et iterum complicationis regulis per eosdem gradus, per quos degreditur, donec ad ipsam OUÇIAN, ex qua egressa est, perveniat, non desinit redire in eam, qua semper appetit quiescere, et circa eam vel solum vel maxime intelligibili motu convolvi? Quid de Arithmetica dicendum? Nunquid et ipsa a monade incipiens, perque diversas numerorum species disce101

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Lungo il complesso ed affascinante sviluppo metafisico del Periphyseon, Giovanni Scoto dispiega tutte le sue competenze, e sfrutta il vasto bagaglio filosofico acquisito dalla lettura e dalla meditazione dei testi della tradizione teologica bizantina e latina per costruire una narrazione ordinata degli elementi che, in una costante «proportio», danno vita all’universo frutto dell’azione creatrice del Padre, della ricchezza eidetica del Figlio, della «virtus» operativa dello Spirito, e che appare costruito secondo un ordine gerarchico utile, all’uomo, per ripristinare la sua condizione di «notio intellectualis» presente da sempre nella mente divina, e parzialmente decaduta dopo il peccato originale103. Tutti i temi della speculazione carolingia, dalle indagini su natura e coldens, iterum facta resolutione ad eandem monada redit, ultra quam ascendere nescit? Nec immerito, cum omnes numeri numerorumque species ab ea incipiant, et in eam desinant, et in ea vi et potestate subsistant, quemadmodum omnia genera omnesque species rerum continentur in OUÇIA atque salvantur. Non aliter in Geometria sentiendum, quae eadem ratione a principio sui, quod Graeci ÇHMEION, Latini signum vocant, incipiens, per plana solidaque schemata, superficies, et latera, angulos quoque componens, longitudinis et latitudinis, profunditatis etiam spatia perficit. Quibus omnibus resolutis ad proprium sui principium, quod est signum, in quo tota virtus artis consistit, regreditur. Quid de Musica? Nonne et ipsa a principio sui incipit, quod vocant tonum, et circa symphonias, sive simplices, sive compositas, movetur, quas denuo resolvens, tonum sui, videlicet principium, repetit, quoniam in ipso ipsa tota vi et potestate subsistit? Quis autem ignorat Astrologiam, cuius maxima vis est, motus siderum per loca et tempora considerare, ab atomo cursum suum incipere, inque ipsum resolutis temporum spatiis suum recursum terminare? Videsne itaque, quomodo praedictae rationabilis animi conceptiones principia sua repetunt, in quibus finem motus sui constituunt? Principium quippe et finis in his omnibus, ut praedictum est, id ipsum est». 103 Cfr. ibid., 630D-631A, p. 19,510-529:« Et quemadmodum in proportionibus numerorum proportionalitates sunt, hoc est, proportionum similes rationes, eodem modo in naturalium ordinationum participationibus mirabiles atque ineffabiles harmonias constituit creatrix omnium sapientia, quibus omnia in unam quandam concordiam, seu amicitiam, seu pacem, seu amorem, seu quocunque modo rerum omnium adunatio significari possit, conveniunt. Sicut enim numerorum concordia, proportionis; proportionum vero collatio, proportionalitatis: sic ordinum naturalium distributio, participationis nomen, distributionum vero copulatio, amoris generalis accepit, qui omnia ineffabili quadam amicitia in unum colligit. Est igitur participatior non cuiusdam partis assumptio, sed divinarum dationum et donationum a summo usque deorsum per superiores ordines inferioribus distributio. Primum siquidem primo ordini immediate a summo omnium bono et datur, et donatur; verbi gratia, datur esse, donatur bene esse: ipse vero primus ordo sequenti se distribuit esse et bene esse; ac sic distributio essendi, et bene essendi, a summo omnium bonorum datorum vel donationum fonte gradatim per superiores in inferiores usque ad extremos ordines defluit».

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locazione dell’anima alle descrizioni delle sue facoltà, dalla inconoscibilità logica di Dio all’interpretazione scritturale, dai diversi atteggiamenti assunti nel dare corpo alla relazione con le opere dei Padri alle ricerche sui contraddittori temi della prescienza divina e della libertà umana, sul problema dell’uomo come imago Dei e su quello della rappresentabilità del divino, dalla discussione sui limiti consentiti nel ricorso agli strumenti delle artes alla discussione su realizzabilità e condizioni della visione beatifica, tutti appaiono presenti in un’opera che mostra, alla fine di un percorso, il completo sviluppo di una identità teologica. È innegabile che la formazione di Giovanni Scoto sia caratterizzata dalla presenza fortemente incisiva di elementi diversi da quelli presenti nella cultura dei suoi contemporanei. È però indispensabile, proprio per collocarne adeguatamente il contributo speculativo sul corretto fondale storico, comprendere quale sia il clima culturale nel quale l’Eriugena poté esprimere la propria personalità speculativa. La teologia carolingia aveva recuperato il tema agostiniano del rapporto tra saperi profani e formazione cristiana, riflettendo prima sulla pericolosità di un sapere estraneo ad un contesto teologico, e, successivamente, sulla sua utilità. Sfruttato spesso come arma da opporre ad eretici ritenuti abilissimi nell’uso mistificatorio delle artes in ambito teologico, questo sapere divenne, lentamente, un patrimonio acquisito, tanto da poterlo facilmente conciliare, in talune occasioni, con l’auctoritas scritturale e con quella patristica. Questo processo, che certamente non fu condiviso da tutti gli intellettuali carolingi, produsse un corpus di testi e dottrine il cui possesso fornì uno strumento ricchissimo, grazie al quale sperimentare nuove soluzioni teologiche. Giovanni Scoto si inserisce naturalmente in questo contesto, divenendone al contempo simbolo ed esito maturo, impegnandosi cioè tanto nella preservazione di una ricca e variegata eredità culturale, quanto nella singolare costruzione di uno dei più compiuti e solidi fra i sistemi speculativi mai concepiti nella storia intellettuale dell’Occidente.

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Tra il 1798 ed il 1815, lo scrittore americano Charles Brockden Brown diede alle stampe un breve romanzo, nel quale il protagonista, un maestro di nome Alcuin, dialogava con una benestante interlocutrice sulla condizione delle donne nell’America della fine del secolo XVIII, ed immaginava i tratti di un paese ideale nel quale esse potessero esercitare gli stessi diritti degli uomini. Alcuin o il paradiso delle donne è dunque un tipico esempio di letteratura utopica, ma è anche l’occasione per verificare come, dopo esattamente dieci secoli, la cultura occidentale pensasse ancora ad Alcuino di York, al cui nome ed alla cui figura Brown si era ispirato, come al prototipo del magister. In vita come negli anni immediatamente successivi alla sua morte, Alcuino venne ricordato da discepoli, amici ed avversari come il consigliere di Carlo Magno, impegnato nella creazione di un corpus di opere e dottrine condiviso. Ciò che agli occhi di tutti ne caratterizzava l’operato era un vasto progetto di cultura cristiana e condivisa, che aveva nell’universitas il suo obiettivo, e nell’unanimitas il suo fondamento, e che non poteva che attuarsi all’interno di un più vasto disegno politico e militare, come quello realizzato da Carlo Magno e, in parte, dai suoi successori. Storiograficamente, il ruolo di «magister Karoli», orgogliosamente rivendicato da Alcuino, ne ha invece a lungo sminuito l’importanza: l’impegno profuso nell’educare il sovrano e la sua corte hanno fatto di lui il prototipo dell’intellettuale completamente assorbito nella elaborazione di strumenti didattici utili allo studio ed alla meditazione, ma assolutamente neutri dal punto di vista

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speculativo. Questa interpretazione, pur evidenziando a ragione il ruolo di Alcuino come di un grande sistematizzatore di un patrimonio di conoscenze vasto e complesso da dominare, non solo è spesso frutto di pregiudizi, ma, sempre, tende a decontestualizzarne la figura storica – e, con la sua, quella della quasi totalità dei teologi carolingi – dalle fasi significative del lungo processo di formazione del pensiero medievale. Ciò che invece rende la speculazione filosofico-teologica che in questa età si sviluppò degna di figurare tra le tappe essenziali della storia del pensiero occidentale è la costruzione, nel corso dei pochi decenni che ne videro la nascita, lo sviluppo ed il lento scomparire, di un universo culturale, di una rete di conoscenze e competenze, di un insieme omogeneo ed organico di saperi, di una comune visione delle motivazioni e delle finalità di una formazione cristiana, nella elaborazione di un metodo che caratterizzasse un’identità teologica. In quest’ottica, la dialettica culturale interna all’epoca carolingia, l’incontro di diverse sensibilità e lo scontro di differenti posizioni esegetiche e dottrinali mostra, il più delle volte, proprio la persistenza di una ampia condivisione di valori e di strumentazioni. Fidando tutti sul potere persuasivo del testo sacro, assegnando alle opere dei Padri il compito di indicarne la più corretta esegesi e nutrendosi di artes liberali e di letteratura profana, i maestri carolingi declinarono, spesso con originalità, questo stabile patrimonio nei più diversi generi letterari, dalle opere apologetiche ai carmina, dagli epistolari alle agiografie, convinti che le «regulae» poste a fondamento di ciascun ambito del reale, sia che presiedessero alla metrica in poesia, che al calcolo dei moti lunari in astronomia, dimostrassero l’esistenza di un «ordo» metafisico, vestigio della volontà creatrice di Dio. L’identità teologica carolingia, nata grazie alla dedizione ed alla costanza paterna di Alcuino, mosse i primi passi autonomi già tra i suoi discepoli e successori, che tentarono, in buona parte, di applicare i suoi insegnamenti a temi e in contesti diversi da quelli già affrontati dal maestro. Gli stessi intellettuali che, rispetto a questo tentativo di parziale innovazione, vollero maggiormente legarsi alla tradizione alcuiniana e, con essa, alla speculazione patristica, dimostrarono, nel modo stesso in cui difesero questa loro posizione, che il metodo di indagine era ormai universalmente

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condiviso ed accettato. Divenuta adulta, l’identità teologica carolingia avrebbe prodotto poco a poco frutti speculativi più perfezionati e, nel loro contesto, innovativi, sino a trovare, nella grande esperienza intellettuale eriugeniana, una completa ed originale sintesi.

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— Epistolae, PL 33, coll. 720-724, ed. A. Goldbacher, 5 voll., Praha Wien - Leipzig 1895-1923 (CSEL, 34/1-2, 44, 57, 58). — In Ioannis Evangelium tractatus, PL 35, coll. 1379-1977, ed. R.Willems,Turnhout 1959 (CCSL, 36). — Quaestionum in Heptateuchum libri VII, PL 42, coll. 545-825, ed. J. Fraipont - D. De Bruyne,Turnhout 1958 (CCSL, 33). — Retractationes, PL 32, coll. 581-656, ed.A. Mutzenbecher,Turnhout 1984 (CCSL, 57). — Sermones, PL 38-39. BEDA VENERABILIS, Expositio in Ioannis Evangelium, PL 92, coll. 633938. BOETHIUS, ANICIUS MANLIUS SEVERINUS, Consolatio Philosophiae, PL 63, coll. 580-869, ed. C. Moreschini, München - Leipzig 2000. — In Categorias Aristotelis libri quatuor, PL 64, coll. 159-593. — In Isagogen Porphyrii commentarium. Editio secunda, PL 64, coll. 71159, ed. S. Brandt,Wien - Leipzig 1906. — In librum Aristotelis Periermeneias vel De interpretatione, Editio prima, PL 64, coll. 293-392, ed. C. Meiser, Leipzig 1877. CASSIODORUS SENATOR, Expositio Psalmorum, PL 70, coll. 25-1055, ed. M.Adriaen, 2 voll.,Turnhout 1968 (CCSL, 97-98). — Institutiones libri duo, II, Institutiones saecularium litterarum, PL 70, coll. 1149-1219, ed. R.A. B. Mynors, Oxford 1937. Categoriae decem [= PSEUDO-AUGUSTINI Categoriae decem ex Aristotele decerptae vel ANONYMI Paraphrasis Themistiana], PL 32, coll. 14191440, ed. L. Minio-Paluello, Bruges - Paris 1961 («Aristoteles latinus», I, 5). CICERO, MARCUS TULLIUS, De inventione, ed.W. Friedrich (De inventione rhetorica, in M.T. Ciceronis Opera rhetorica, I), Leipzig 1884; ed. E. Stroebel (Rhetorici libri duo), Stuttgard 1965. — De officiis, ed. C. F. W. Müller, Scripta, IV/3, Leipzig 1888, pp. 1-130; ed. C.Atzert, Leipzig 1949. PS.-DIONYSIUS AREOPAGITA, De divinis nominibus, PL 3, coll. 585-984, ed. B. Suchla, Berlin 1990 (latina interpr. Iohannis Scoti Eriugenae, PL 122, coll. 1111-1172). — De mystica theologia, PG 3, coll. 997-1048 (latina interpr. Iohannis Scoti Eriugenae, PL 122, coll. 1171-1176). GREGORIUS I PAPA [MAGNUS], Epistolae, PL 77, coll. 441-1328, ed. D. Norberg (Registrum Epistolarum), 2 voll., Turnhout 1982 (CCSL 140-140A).

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BIBLIOGRAFIA

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ALCUINUS EBORACENSIS, Adversus Elipandum Toletanum libri quatuor, PL 101, coll. 231-299. — Carmina, ed. E. Dümmler, in MGH, Poetae Latini Aevi Karolini, 1, Berlin 1881, pp. 169-206. — Commentarium in Evangelium Ioannis, PL 100, coll. 738-1007. — Contra Felicem Urgellitanum episcopum libri septem, PL 101, coll. 11C230. — De animae ratione, PL 100, coll. 639-649. — De dialectica, PL 101, coll. 949-975. — De fide sanctae et individuae Trinitatis, PL 101, coll. 9-63. — De grammatica, PL 101, coll. 854-902. — De rhetorica et virtutibus, PL 101, coll. 919-949. — Disputatio de vera philosophia, PL 101, coll. 849-854. — Epistolae, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 4 (Karolini aevi, 2), Hannover 1895, pp. 1-494. — Interrogationes et responsiones in Genesin, PL 101, coll. 515-569. — Liber contra haeresin Felicis, PL 101, coll. 85-119, ed. G. B. Blumenshine, Città del Vaticano 1980 (Studi e Testi, 285). — Pippini regali seu nobilissimi iuvenis disputatio cum Albino scolastico, PL 101, coll. 975-979. — Vita Sancti Willibrodi, PL 101, coll. 693-723. AMALARIUS METTENSIS (AMALARIUS SYMPHOSIUS TREVERENSIS), Epistolae, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 2 (Karolini aevi, 2), Berlin 1899. — Liber officialis, PL 105, coll. 985-1243, ed. J. M. Hanssens, Amalarii episcopi opera liturgica omnia, 3 voll., Città del Vaticano 19672 (Studi e Testi, 138-140). BEATUS LIEBANENSIS, Commentarius in Apocalypsin, ed. E. Romero-Pose, 2 voll., Roma 1985 (Scriptores Graeci et Latini Consilio Academiae Lynceorum Editi); ed. J. G. Echegaray - A. Del Campo - L. G. Freeman, Obras completas de Beato de Lievana, Madrid 1995. BEATUS LIEBANENSIS - ETERIUS OXOMENSIS, Adversus Elipandum libri duo, PL 96, coll. 893-1030, ed. B. Löfstedt, Turnhout 1984 (CCCM, 59). CANDIDUS (BRUUN) FULDENSIS, Num Christus corporeis oculis Deum videre potuerit, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 6 (Karolini aevi, 4), Berlin 1895, pp. 557-561. CLAUDIUS TAURINENSIS, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 2 (Karolini aevi, 2), Berlin 1895, pp. 586-613.

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HRABANUS MAURUS, Commentaria in Ezechielem, PL 110, coll. 4971083. — Commentaria in Ieremiam, PL 111, coll. 793-1273. — Commentaria in libros Machabeorum, PL 109, coll. 1125-1255. — Commentaria in librum Sapientiae, PL 109, coll. 671-763. — Commentarium in Ecclesiasticum libri decem, PL 109, coll. 763-1126. — De computo, PL 107, coll. 669B-727C, ed. J. McCulloh - W. Stevens, Turnhout 1979 (CCCM, 44). — De institutione clericorum, PL 107, coll. 293-418, ed. D. Zimpel - P. Lang, Frankfurt a. Main 1996. — De praedestinatione, PL 112, coll. 1531-1553. — De rerum naturis, PL 111, coll. 9-613. — De videndo Deo, de puritate cordis et modo poenitentiae, PL 112, coll. 261-1335. — Enarrationes in epistolas beati Pauli, PL 111, coll. 1273-1616. — Epistolae, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 5 (Karolini aevi, 3), Berlin 1899 (1978), [pp. 381-516 (e pp. 517-530, Epistolarum Fuldensium fragmenta)]. — Expositio in Matthaeum, PL 107, coll. 727-1155, ed. B. Löfstedt, Turnhout 2000 (CCCM, 174). — Expositio in proverbia Salomonis, PL 111, coll. 679-793. — In honorem sanctae crucis, PL 107, coll. 133-293, ed. M. Perrin, Turnhout 1997 (CCCM, 100). — Liber de oblatione puerorum, PL 107, coll. 419-439. IOHANNES SCOTUS ERIUGENA, De praedestinatione liber, PL 122, coll. 347-438, ed. G. Madec (De divina praedestinatione liber), Turnhout 1978 (CCCM, 50); ed. E. S. MAINOLDI, De praedestinatione liber. Dialettica e teologia all’apogeo della rinascenza carolingia, Firenze 2003. — Expositiones in ierarchiam coelestem, PL 122, coll. 125-266 (parz.), ed. J. Barbet,Turnhout 1985 (CCCM, 31). — Omelia super Prologum Iohannis, 1, PL 122, coll. 283-296, ed. e trad. fr. a c. di È. Jeauneau, Homélie sur le Prologue de Jean, Paris 1969 (SC, 151); ed. e tr. it. a c. di M. Cristiani, Omelia sul Prologo di Giovanni, Milano 1987 (Fondazione Lorenzo Valla). — Periphyseon, PL 122, coll. 439-1023, ed. É. Jeauneau, 5 voll., Turnhout 1996-2003 (CCCM, 161-165). IONAS AURELIANENSIS, De cultu imaginum libri tres, PL 106, coll. 305387. — De institutione regia, PL 106, coll. 279-305, ed. e tr. fr. di A. Dubreucq, Paris 1995 (SC, 407).

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INDICE DEI NOMI

I riferimenti numerici sono alle pagine del testo. Una lettera n dopo il numero di pagina rinvia ad una nota presente in quella pagina. I numeri in corsivo indicano una trattazione ampia e articolata del lemma corrispondente.Tra parentesi vengono collocate eventuali varianti formali dei nomi propri e, per gli autori, i corrispondenti nomi in lingua latina. Abele (bib.) 122n Abramo, patriarca (bib.) 107, 243n Adamo (bib.) 20, 105, 106, 107n, 154n, 182, 278, 278n, 297, 341, 363, 364 Adosinda, regina delle Asturie 52n Adriaen, M. 140n, 191n, 327n, 361n Adriano I, papa (Hadrianus I papa) 43, 44, 45, 46, 63, 64, 64n, 66, 70, 209; Epistolae 43n, 66n, 395 Aelberto di York, maestro di Alcuino 98 Aertsen, J.A. 114n Aginone (Agino, Egino), vescovo di Costanza 82n Agobardo di Lione (Agobardus Lugdunensis) 22, 47, 238-255, 393; Adversus dogma Felicis ad Ludovicum 47, 47n, 250n, 252; Contra iudicium Dei 242n; Contra libros quatuor Amalarii 249; Contra obiectiones Fredegisi 242-

245; De antiphonario 246n; De baptismo Iudaicorum mancipiorum 293n; De fidei veritate et totius boni institutione 252-254; De grandine et tonitruis 239-242; De modo regiminis ecclesiasticis 246n; De picturis et imaginibus 254n; Liber apologeticus 245n Agostino d’Ippona (Aurelius Augustinus, Augustinus Hipponensis) 19, 22, 26, 28, 31, 91, 92, 110, 132, 144, 156n, 162, 163n, 169, 171, 174n, 226, 258, 264n, 283, 317, 318, 319, 319n, 320, 320n, 322, 331, 331n, 352; Contra Fortunatum Manichaeum 293n, 391; De civitate Dei 21n, 254n, 286n, 357n, 391; De diversis quaestionibus 186, 186n, 391; De doctrina christiana 116n, 281n, 282n, 283n, 284n, 352n, 358n, 391; De Genesi ad litteram 105n, 141n, 182n, 283n, 378n, 391;

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De Genesi contra Manichaeos 312n, 391; De gratia et libero arbitrio 364n, 391; De musica 347n, 391; De ordine 115, 115n, 118n, 127n, 283n, 391; De quantitate animae 318, 318n, 319, 320n, 321, 353n, 391; De Trinitate 104n, 128n, 204n, 317n, 391; De vera religione 345n, 391; Enarrationes in Psalmos 378n, 391; Epistolae 318n, 391; In Ioannis Evangelium tractatus 109, 110n, 140n, 391; Quaestionum in Heptateuchum libri septem 274n, 296n, 392; Retractationes 21, 392; Sermones 182n, 392 Agostino (pseudo), vide Categoriae decem Ahner, M. 217n, 399 Aiulfo (Agiulfo, Aigulfo), vescovo di Bourges 230 Alberi, M. 116n, 410 Alberto Magno (di Colonia;Albertus Magnus) 17, 18n, 25 Alcuino di York (Alcuinus Eboracensis) 14, 21, 21, 22n, 23, 23n, 24, 26, 26n, 27, 29, 30, 31, 32, 32n, 33, 33n, 34, 36, 37, 47, 48, 66, 69, 79-176, 178, 198, 203, 204, 205, 209, 210, 211, 212, 213, 214, 214n, 215, 216, 217, 225, 226, 226n, 229, 230, 233, 235, 239, 242, 271, 272, 275, 282, 288, 289, 290, 300, 303, 311, 313, 314n, 315, 316, 317, 337, 358, 370, 383, 387, 388; Adversus Elipandum Toletanum libri quatuor 35, 47, 47n, 80n, 135, 162-169, 393; Carmina 79n, 393; Commentarium super Ecclesiasten 145n, 312n; Commentarium in Evangelium Ioannis ad Gislam et Rothrudam (sive Rothrudem) 22, 108, 109n, 130n, 135, 135n, 393; Contra Felicem Urgellitanum libri septem 23n, 47n, 80n, 91, 91n, 135, 142162, 169n, 393; De animae ratio-

ne 311n, 317n, 393; De dialectica 112, 126-133, 183n, 204, 212, 219, 219n, 283n, 323n, 393; De fide sanctae Trinitatis 22, 26n, 47, 47n, 135, 146n, 169-176, 204, 204n, 393; De grammatica 116120, 122, 126, 201, 201n, 212, 212n (vide etiam: Disputatio de vera philosophia), 393; De orthographia 112, 394; De rhetorica et virtutibus 22, 112, 120-126, 300n, 394; Disputatio de vera philosophia 112-116, 394; De virtutibus et vitiis 22, 266n, 394; Disputatio Pippini 220, 221n, 394; Enchiridion in Psalmos poenitentiales et graduales ad Arnonem episcopum 23n, 108, 110, 394; Epistolae 45n, 47n, 79-101, 103n, 104n, 108n, 111n, 112n, 143n, 166n, 204n, 214n, 266n, 312n, 394; Expositio in (vel Commentaria super) Ecclesiasten ad Oniam sacerdotem, Candidum presbyterum et Athanaelem diaconum 108, 394; In Evangelium Ioannis vel Expositio in Evangelium Ioannis, vide Commentarius in Evangelium Ioannis; Interrogationes et responsiones in Genesin 22, 23n, 103, 104n, 109, 121n, 394; Liber contra haeresin Felicis 47n, 135, 136-142, 394; Vita Sancti Willibrodi 180n, 394; Vita Sancti Vedasti 111, 394 Alessandro di Afrodisia 18n Alessandro di Hales (Alexander Halensis) 25 Alfarabi, vide al-Farabi Alfredo il Grande, re del Wessex 29 Allgeier,A. 66, 67, 67n, 401 Allott, S. 79n, 403 Amalario di Metz (Amalarius Mettensis, Amalarius Symphosius Treverensis) 22, 246, 246n; Epistolae 246n, 247n, 394; Liber officialis 248n, 394 Ambrogini,Angelo, vide Poliziano

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INDICE DEI NOMI

Ambrogio di Milano (Ambrosius Mediolanensis) 22, 31, 92, 162, 163, 163n, 164, 226; De fide 147n; De incarnationis Dominicae sacramento 164n, 391 Ammonio d’Ermia, neoplatonico 18n Andrieu, M. 248n, 401 Angilberto di Saint-Riquier (Angilberto di Centula) 66 Ansprenger, F. 136n, 402 Appleby, D. F. 264n, 407 Ario di Alessandria, arianesimo 42, 58, 131, 131n, 162, 163n, 216, 216n, 341, 341n Aris, M. 273n, 408 Aristotele di Stagira (Aristoteles), aristotelismo 18n, 19, 20, 21, 31, 201; De interpretatione (Peri hermeneias) 131n, 193, 196, 201n, 391 Arnaldi, G. 178n, 404 Arnone (Arno) di Salisburgo 214n Ascarico di Braga 43, 45, 53 Assalonne (bib.) 122n Astolfo di Magonza 280 Atanasio di Alessandria 250n Attone di Fulda, vide Hattone Atzert, C. 96n Auzèpy, M. F. 66n, 409 Avempace (Ibn Baggia) 18n Averroè (Averroës, Ibn Rushd) 18n Avicenna (Ibn Sina) 18n Baldo, I. F. 15n, 406 Bale, John (Johannes Baleus) 32; Scriptorium illustrium maioris Brytanniae 32n, 397 Barbero,A. 46n, 410 Barbet, J. 366n Barnard, L.W. 60n, 403 Basilide, gnostico 58 Basnage, Jacob (Jacobus Basnage) 34; Thesaurus monumentorum ecclesiasticorum et historicorum 34n, 399 Bastgen, H. 65n, 67n, 179n, 400 Bat-Sheva,A. 273n, 406

Bayless, M. 221n, 411 Beato di Libana (Beatus Liebanensis) 45, 48, 51-60, 150, 150n, 162, 163n, 163; Liber adversus Elipandum 34, 45, 48, 51-60, 394; Commentarius in Apocalypsin 52n, 394 Beda il Venerabile (Beda Venerabilis) 21, 22, 23, 23n, 26, 26n, 35, 36, 91, 92, 107n, 144; Expositio in Ioannis Evangelium 110 Beierwaltes,W. 357n Bellet, P. 259n, 401 Belting, H., 194, 407 Benedetto d’Aniane (Benedictus Anianensis) 46, 166; Disputatio Benedicti levitae adversus Felicianam impietatem 47n Benedetto da Norcia (Benedictus Nursinus) 272 Berndt, R. 66n Bernhard, M. 69n Berschin,W. 65n, 405 Bianco, B. 15n, 408 Bigne, Marguerin de la (Marguerinus de La Bigne, Binius, Bignaeus) 22; Sacra bibliotheca 22 Bischoff, B. 65n, 113n, 401 Bisogno,A. 321n, 412 Blume, C. 77n, 400 Blumenshine, G. B. 47n, 136n, 142n, 405 Blumenthal, U. R. 80n Boezio (Anicius Manlius Severinus Boethius) 17, 132, 171, 324; Consolatio Philosophiae 114n, 147n, 392; In Categorias Aristotelis libri quatuor 132n, 183n, 392; In Isagogen Porphyrii commentarium editio secunda 132n, 392; In librum Aristotelis Periermeneias vel De interpretatione editio prima 219, 219n, 392; tr. lat. di Aristotele, De interpretatione 201n, 392 Böhne,W. 315n Bolduan, Paolo (Paulus Bolduanus) 28; Bibliotheca philosophica sive

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elenchus philosophicorum atque philologicorum illustrium 28n,398 Bolton,W. F. 89n, 404 Bonano, S. 297n, 401 Bonaventura da Bagnoregio (Bonaventura de Balneoregio) 220n Bonoso di Sardica 58 Boshof, E. 252n, , 403 Bottin, F. 15n, 405 Bouhot, P. 75n, 302n, 303n, 405 Boulhol, P. 256n, 411, 412 Brandt, S. 132n Braulio di Saragozza 43n Breviarum gothicum 77n Brezzi, P. 42n, 62n, 404 Brockden Brown, C. 387n Brucker, Johann Jacob 32, 33, 36; Historia critica philosophiae 32n, 399 Brunhölzl, F. 65n, 79, 113n, 204n, 209n, 218n, 225n, 233n, 238n, 239n, 256n, 259n, 272n, 291n, 302n, 328n, 333n, 402, 403 Bruun (Candido) di Fulda (Candidus [Bruun] Fuldensis) 82n, 314-316; Epistolae 314, 314n, 315n, 394 Bucchi, F. 182n Budde, Johann Franz (Johann Franz Buddeus, Johannes Franciscus Buddeus) 30, 32; Compendium historiae philosophicae 30n, 399 Bullough, D. A. 79n, 80n, 89n, 136n, 407, 408, 409 Buoninsegni, Giovanni Battista (Iohannes Baptista Buoninsegni) 16n; Epistola de nobilioribus philosophorum sectis et de eorum inter se differentia 16n, 397 Cabaniss,A. 136n, 246n, 401 Caino (bib.) 122n Canal, J. M. 307n, 403 Candido, v.Wizo Canisio, Pietro (Petrus Canisius) 34; Lectiones antiquae 34n

Cantimori, U. 25n Capasso, Giambattista (Iohannes Baptista Capasso) 31, 32, 36; Historiae philosophiae synopsis 32n, 399 Cappuyns, M. 317n, 400 Carlo il Calvo, re di Francia e imperatore 38, 41, 70, 73, 76, 264, 266, 289, 290, 307, 311, 319, 320, 344 Carlo Magno (Karolus I Magnus), re e imperatore 14, 15, 23, 23n, 24, 26, 26n, 27, 30, 32, 33, 34, 36, 37, 38, 41, 45, 46, 46n, 56, 62, 65, 66, 68, 69, 71, 79, 80, 80n, 81, 85n, 91, 92, 92n, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101, 108, 120, 121, 122n, 143, 144, 145, 146, 147, 149, 165, 167, 170, 171, 178, 179, 186, 209, 210, 213, 214n, 224, 225, 229, 232, 239, 241, 259, 260, 262, 266, 266n, 272, 289, 387; Admonitio generalis, 103 Carlo V d’Asburgo, imperatore 24, 25 Cassiodoro (Cassiodorus Senator) 129, 317; Expositio Psalmorum 191, 191n, 392; Institutiones libri duo 115n, 129n, 183n, 283n, 392 Categoriae decem 187, 187n, 204, 323, 379n, 392 Cavadini, J. C. 44n, 45n, 48n, 49n, 80n, 169n, 174n, 404, 407, 408 Cesa, C. 15n, 411 Chase, C. 81n, 404 Chazelle, C. 246n, 296n Chenu, M.-D. 147n, 403 Chesnius, vide Duchesne Cheynet, J. C. 62n, 407 Cicerone (Marcus Tullius Cicero) 233, 233n, 298n, 299, 299n, 300; De officiis 96n, 392; De inventione rhetorica 121, 121n, 124n, 300, 300n, 392 Cirillo d’Alessandria (Cyrillus Alexandrinus) 91, 144

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Claramunt, S. 61n, 408 Claudio di Torino (Claudius Taurinensis) 22, 23n, 255-271; Epistolae 256-259, 263n, 394 Coccia, E. 79n, 403 Colish, M. L. 218n, 405 Contreni, J. J. 146n, 407 Corvino, F. 222n Costantino V Copronimo, imperatore bizantino 62, 64, 70 Costantino VI, imperatore bizantino 62 Courcelle, P. 114n, 403 Crispo, Giovan Battista (Iohannes Baptista Crispus) 20, 21; De ethnicis philosophis caute legendis 20n, 398 Cristiani, M. 89n, 100n, 247n, 248n, 291n, 337n, 371-376, 403, 404, 408 Cupido (mit.) 226 Cusai l’Archita (bib.) 122n d’Onofrio, G. 23n, 25n, 65n, 79n, 92n, 111n, 127n, 129n, 156n, 172n, 193n, 201n, 204n, 208, 209n, 218n, 220n, 221n, 225n, 233n, 238n, 239n, 254n, 256n, 259n, 265n, 272n, 290n, 291n, 302n, 306n, 328n, 329n, 333n, 343n, 346n, 351n, 371n, 405, 406, 407, 409, 412 Dal Pra, M. 15n, 408 Damascio di Damasco, neoplatonico 18n Daniele, profeta (bib.) 266n Daur, K. D. Davide, re d’Israele (bib.) 43, 44, 44n, 49n, 122n, 152, 152n De Abadol y de Vynyals, R. 44n, 404 De Boor, C. 61n De Bruyne, D. 67, 67n, 274n, 296n, 401 De divinis officiis 24n, 25n De Lavalette, H., 314n, 402 De Wries,W. 64n, 403

De Wulf, M. 13, 14; Histoire de la Philosophie Médiévale 13n, 401 Dechant, F. 116n, 407 Dekkers, E. 378n Del Campo,A. 52n Del Torre, M.A. 14n, 15n, 404 Delhaye, P. 317n, 401 Denzinger, H. 42n Deug-Su, I 89n, 405 Devisse, J. 333n, 403 Diana (mit.) 334, 334n Dick,A. 118n, 127n Dicta (circolo di Alcuino) 203-209 Dionigi Areopagita (Dionysius Areopagita, pseudo) 31, 329n, 352, 366-369, 376; De divinis nominibus 21, 383n, 392; De mystica theologia 372n, 392 Disthica Catonis 54n Dobschütz, E.V. 185n, 400 Doelger, F. 63n, 404 Dombart, B. 254n, 286n Donato, Elio (Donatus Grammaticus) 119, 232, 237n, 238, 239, 338 Dozy, R. 43n, 401 Dubreucq,A. 233n, 265n, 406 Duchesne, André (Andreas Chesnius sive Quercetanus) 29, 30, 32, 34; Beati Flacci Albini sive Alchuini abbatis (…) opera 29n, 399 Duckett, E. S. 79n, 85n, 101n, 402 Dümmler, E. 45n, 47n, 74n, 75n, 79n, 82n, 103n, 108n, 111n, 112n, 143n, 166n, 204n, 210n, 214n, 218n, 226n, 246n, 247n, 256n, 259n, 261n, 263n, 266n, 273n, 302, 312n, 314n, 325n, 327n Dungal di Saint-Denis (Dungalus Scottus sive Sancti Dionysii) 259-264, 265; Epistolae 259n, 261n, 394; Responsa contra perversas Claudii Taurinensis episcopi sententias 260-264 , 394 Duns Scoto, Giovanni (Iohannes Duns Scotus) 17, 18n, 26, 26n

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Durando di San Porziano (Durandus a Sancto Portiano) 25 Eanbaldo di York (Eanbaldus Eboracensis) 93n, 94 Eardulfo, re della Northumbria 94 Eberardo, conte del Friuli 74, 75, 327 Echegaray, J. G. 52n Egberto di York (Egbertus Eboracensis) 30, 79 Egidio Romano (Egidio Colonna; Aegidius Romanus) 17, 18n Egila, legato di papa Adriano I 43 Eginardo di Fulda (Einhardus, Eginhardus) 224, 225; Quaestio de adoranda cruce 271n; Vita Karoli 224n, 394 Elipando di Toledo (Elipandus Toletanus) 43-60, 65, 66, 150, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 172, 210, 314, 266, 267; Epistolae 49-51, 163n, 394 Enrico di Gand (Henricus de Gandavo) 17, 18n Eraclio, imperatore bizantino 60 Ermia di Alessandria, neoplatonico 18n Étaix, R. 51n, 254n Eterio di Osma (Heterius sive Hitherius Uxamensis) 51, 52n, 150, 150n Eugenio II, papa 70 Eusebio di Cesarea 70 Eutiche di Costantinopoli 151, 158 Eva (bib.) 105n, 297 Evodio di Uzala, compagno di Agostino 318, 319 Ezechiele, profeta (bib.) 236n, 245n Fahey, J. F. 307n, 402 Faller, O. 164n al-Farabi (Alfarabi;Alfarabius) 18n Fedalto, G. 209n, 409 Fedele, abate nelle Asturie 45, 53 Fédou, E. 239n, 401 Felice, Marco Antonio, procuratore della Giudea (bib.) 122n

Felice di Urgel (Felix Urgellitanus) 32, 45, 45n, 46, 47, 47n, 98. 99, 99n, 143, 144, 147, 148, 150, 152, 153, 154, 155, 157, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 167, 169n, 172, 213, 214, 215, 249, 250, 251, 251n, 266, 267, 341; Confessio fidei 47, 47n, 394 Ferdinando I d’Asburgo, imperatore 24 Ferrari, M. 255n, 403 Ferrari, M. C. 41n, 410 Ficino, Marsilio (Marsilius Ficinus) 16, 17, 20, 31; Epistola Martino Uranio Praenygero 17n, 397; De quatuor sectis philosophorum 16n, 397 Fickermann, N. 336n Fischer, B. 92n, 401 Florèz, H. 52n Floro di Lione (Florus Lugdunensis) 22; Adversus Iohannis Scoti Erigenae erroneas definitiones liber 76, 76n, 394; Folliet, G. 225n, 410 Fornasier, G. 209n Forster, Froben (Frobenius) 34, 35; Beati Flacci Albini seu Alcuini Opera 35n, 399 Foussard, J. C. 381n Fraipont, J. 274n, 296n , 378n Freeman, A. 52n, 65n, 67, 67n, 68, 69n, 179n, 225n, 393, 402, 403, 406, 411 Freeman, L. G. 52n Freshfield, E. H. 61n, 401 Fridugiso di Tours (Fridugisus sive Fredegisus Turonensis) 36, 90n, 92n, 217-224, 237, 239, 242, 243, 244; Epistula de substantia nihili et tenebrarum 218-224, 243, 394 Fried, J. 128n Friedrich,W. 121n, 124n, 300n Frisius, Johann Jacob (Johannes J. Frisius) 28; Bibliotheca philosophorum classicorum cronologica, 28n, 398

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INDICE DEI NOMI

Frobenius, vide Forster Fuhrmann, H. 42n, 402 Gabriele, arcangelo (bib.) 153 Ganshof, F. L. 92n, 178n, 401 Garcia, J. L. 42n, 411 Garin, E. 17n Gaudel,A. 295n, 401 Gaunilone di Sens 76 Geiselmann, J. 308n Gennaro, C. 217n, 402 Geremia, profeta (bib.) 245n Giacomo, apostolo (bib.) 301 Giamblico di Calcide (Iamblichus Calcidensis) 18n Gilson, É. 14, 14n, 400 Giona d’Orléans (Ionas Aurelianensis) 14, 22, 23n, 264-271; De cultu imaginum 264n , 266-271, 396; De institutione regia 265, 265n, 396 Giovanni Battista (bib.) 20, 375 Giovanni Damasceno (Iohannes Damascenus) 35, 60n Giovanni Evangelista, apostolo (bib.) 58, 108, 130, 370-375 Giovanni V il Magnanimo, re del Portogallo 31 Giovanni Scoto Eriugena (Iohannes Scotus Eriugena) 14, 23n, 29, 31, 32, 33, 35, 36, 37, 74n, 329n, 343-385; De praedestinatione liber 76, 76n, 344-366, 396; Expositiones in ierarchiam coelestem 366-369, 396; Omelia super Prologum Iohannis 369376, 396; Periphyseon 33, 376385, 396 Gisla, sorella di Carlo Magno 108 Giuditta (bib.) 83 Giuliano, conte bizantino 42n Giuliano di Toledo (Iulianus Toletanus) 172n; Apologeticum de tribus capitulis 172n Giuseppe, patriarca (bib.) 104 Giustiniano II Rinotmeto, imperatore bizantino 61

Gesner, Conrad (Conradus Gesnerus) 28; Bibliotheca universalis sive catalogus omnium scriptorum locupletissimus 28n, 398 Girardi, M. 276n Girolamo di Stridone (Hieronymus Stridonius) 22, 129, 144, 162, 163n, 226, 282; Commentaria in epistolam ad Titum, 182n, 392; Commentarius in Ecclesiasten 312n, 392; Epistolae, 129n, 282n, 392 Godescalco d’Orbais (Godescalcus Saxonicus sive Orbacensis) 36, 73, 74n, 76, 77, 78, 318, 319, 324-341, 344, 346, 346n, 348, 349, 356n, 359n, 362; Carmina 336n, 395; Confessio brevior 330n, 395; Confessio prolixior 75n, 331n, 395; De corpore et sanguine Domini 335n, 395; De diversis 335n, 336n, 395; De praedestinatione 329n, 331n, 395; De Trinitate 335n, 395; De trina deitate 77, 77n, 337n, 395; Quaestiones de anima 317, 317n, 318n, 395; Responsa de diversis 77, 77n, 328n, 395; Schedula quod trina deitas dici possit 77, 77n, 337n, 395 Godman, P. 21n, 79n, 81n, 405, 408 Goldbacher,A. 318n Gòmez Moreno, E. 43n, 400 Gonzàlez Palencia,A. 43n, 401 Gonzàlez, M. 61n Gorman, M. 23n, 108, 225n, 256n, 410 Gouillard, J. 61n, 62n, 402 Gramaglia, P. 254n, 409 Green, W. M. 115n, 118n, 127n, 283n Gregorio, vescovo di Neocesarea 199 Gregorio I Magno, papa (Gregorius Magnus) 25, 43n, 51, 60n, 70, 91, 92, 144, 22, 360; Epistolae 60n; Homiliae in Evangelia

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51n, 392, 254n; Liber responsalis seu antiphonarius 77n, 392; Moralia in Iob 140n, 327, 327n, 361n, 392 Gregorio di Nazianzo (Gregorius Nazianzenus) 21 Gregorio di Nissa (Gregorius Nyssenus) 21, 366 Gregorio VII, papa (Ildebrando di Soana) 28 Grimoaldo III, principe di Benevento 241n Grün, Johann (Johannes Grunius) 27n; Philosophiae origo, progressus, definitio, divisio, dignitas, utilitates, quas vitae humanae et Ecclesiae confert 27n, 398 Guglielmo di Ockham (Guilhelmus de Ockham) 35

290n, 332n, 395; Epistolae 75n, 395; Opusculum LV capitulorum 65n, 395 Ineichen-Eder, C. 314n, 405 Iogna-Prat, D. 246n, 411 Irene, imperatrice bizantina 62, 63, 63n, 64, 69, 70 Isaia, profeta (bib.) 245n Isidoro di Siviglia (Isidorus Hispalensis) 36, 129, 162, 163, 163n, 164, 187, 198n, 226; Differentiae 172n, 392; Etymologiarum sive Originum libri XX 128n, 129n, 164, 164n, 165n, 183n, 187n, 247n, 268n, 301n, 392; Liber numerorum qui in sanctis scripturis occurrunt 198n, 392; Sententiae 75, 75n, 174n, 392 Italiani, G. 255n, 404

Hadot, P. 171n, 402 Hampe, K. 271n Hanssens, J. M. 248n Hattone (Attone) di Fulda 74, 274 Hauréau, J. B. 37; Histoire de la philosophie scolastique 37n, 399 Head, C. 61n, 403 Hegel, G. W. F. 36; Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie 36n, 399 Heil,W. 150n, 403 Herold, J. 23n, 398 Hiberg, I. 129n, 282n Hillgarth, N. 172n Hofmann, G. 63n Hörmann,W. 318n, 320n, 353n Horn, Georg (Georgius Hornius) 29; Historia philosophica 29n, 399

Jaffé, P. 43n Jeauneau, É. 371-377, 382n Jiménez Garcia A. 15n Jolivet, J. 328n, 335n, 402

Ilario di Poitiers (Hilarius Pictaviensis) 91, 144, 226; Sermo de dedicatione ecclesiae 51n, 392 Incmaro di Reims (Hincmarus Rhemensis) 36, 74, 75, 77, 344; De diversa et multiplici animae ratione 317, 317n, 395; De una ac non trina deitate 78n, 337n, 395; De praedestinatione 76, 76n, 290,

Kalb,A. 254n, 286n Keßler, N. 22; Homiliarius Doctorum 22, 22n, 398 Klauser,T. 248n, 401 Klibansky, R. 17n Krämer, S. 69n Lambeck, Peter (Petrus Lambecius) 28; Prodromus historiae litterariae 28n, 399 Lambot, C. 74n, 75n, 77n, 317n, 318n, 320n, 321n, 322n, 328n, 329n, 330n, 331n, 335n, 337n Lanfranco di Pavia (Lanfrancus Cantuarensis) 25, 25n Lang, P. 103n Law,V. 114n Laz, Wolfgang (Wolfgang Lazius) 24, 25; Fragmenta quaedam Caroli Magni imp. Rom. aliorumque incerti nominis de veteris ecclesiae ritibus ac ceremonijs 24n, 398 Lazius, vide Laz

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Le Maître, P. 255n, 405 Leidrado di Lione (Leidradus Lugdunensis 47, 47n, 166 Leonardi, C. 89n, 259n, 260n, 404, 405, 411 Leone III Isaurico, imperatore bizantino) 61 Leone III, papa 47n, 213 Leone IV Chazaro, imperatore bizantino 62, 63, 64 Leone I Magno, papa (Leo Magnus) 91, 144 Leone V Armeno, imperatore bizantino 69 Leone XIII, papa (Vincenzo Gioacchino Pecci) 36 Leovigildo, re visigoto 42n Leudre,Y. 62n Libri Carolini vide Opus Caroli contra Synodum Lindsay, W. M. 128n, 129n, 165n, 183n, 187n, 247n, 268n, 301n Lipen, Martin (Martinus Lipenius) 28; Bibliotheca realis 28n, 399 Löfstedt, B. 53n, 209n, 232n, 238n, 284n, 285n, 408 Longo, M. 15n Lotario I, imperatore 71, 246, 272 Löwe, H. 204n, 260n, 401 Ludovico il Germanico, re di Germania 71, 273 Ludovico I il Pio, imperatore 46n, 60, 69, 70, 71, 246, 249, 255, 256, 264, 266n, 272 Lupo di Ferrières (Lupus Ferrariensis) 73, 74, 75; Collectaneum de tribus quaestionibus 75n, 396; De tribus quaestionibus 75n, 396; Luscombe, D. E. 128n, 409 Lutero, Martin (Martinus Lutherus) 25 Macario Scoto (Macarius Scotus) 320, 320n, 321, 321n, 322, 324 Madec, G. 76n, 344-356, 363n Maghioros, D. 181n, 410 Magnig, E. 43n, 400

Mainoldi, E. S. 73n, 76n, 344-356, 363n Malusa, L. 15n, 29n Mansi, J. D. 63n, 198n Marcione, eretico 58 Marenbon, J. 80n, 100n, 204n, 379n, 405, 410 Marguerinus de La Bigne, vide Bigne Marin, M. 276n Martin, J. 281n, 282n, 283n, 284n, 358n Martino Uranio, vide Prenninger Marziano Capella (Martianus Capella) 306n, 357n; De Nuptiis Philologiae et Mercurii libri novem 118, 118n, 127n, 390 Massimiliano, duca di Baviera 34 Massimo il Confessore (Maximus Confessor) 366, 376; Ambigua ad Iohannem 382n, 390 Mathon, G. 291n, 317n, 402 Matteo, apostolo ed evangelista (bib.) 96 Matter, E. A. 81n, 104n, 169n, 296n, 297n, 407, 409, 411 McCulloh, J. 278n, 285n Meiser, C. 219n Melantone, Filippo (Philipp Schwarzerd sive Schwarzerdt; Phillipp Melanchthon sive Melanthon) 25 Melloni,A. 68n, 406 Messner, R. 248n, 408 Meyers, J. 238n, 408 Meyvaert, P. 67n, 69n, 404 Miano,V. 13n Michele I Rangabe, imperatore bizantino 69 Michele II il Balbo, imperatore bizantino 69, 70 Migezio (Migetius) 43-51 Millet-Gerard, D. 49n, 405 Minio-Paluello, L. 187n, 323n, 379n Mitre, E. 61n Moorhead, J. 62n, 406

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Mor, C. G. 209n, 406 Moreau, J. 378n Moreschini, C. 114n, 147n Morin, G. 246n, 400 Mosè (bib.) 243n Mountain, W. J. 104n, 128n, 204n, 317n Müller, C. F.W. 96n Mutzenbecher,A. 186n Mynors,A. B. 115n, 129n, 283n Navarro Giron, M.A. 248n, 406 Nefridio di Narbona (Nefridius sive Nimfridius sive Nibridius Narbonensis) 166 Nestorio di Costantinopoli 136n, 341 Niceforo I, imperatore bizantino 69 Nichols, S. G. 169n Nineham, D. E. 319n, 407 Noè, patriarca (bib.) 20, 51, 107, 366 Noizet, H. 226n, 411 Norberg, D. 47n, 60n, 214n Noting di Verona (Notingus Veronensis) 74, 75, 325 O’Brien O’Keeffe, K. 107n, 404 O’Callaghan, J. F. 42n, 404 Odone di Beauvais (Odo Bellovacensis) 320, 321 Olimpiodoro il Giovane, neoplatonico 18n Oloferne (bib.) 83 Omero (Homerus) 31 Ommundsen,A. 190n, 411 Onorio I, papa 43n Onorio III, papa (Cencio Savelli) 33 Opus Caroli contra synodum sive Libri Carolini 65-71, 178-203, 206, 253, 261, 261n, 271 Orazio Flacco, Quinto (Horatius) 225 Origene (Origenes Alexandrinus) 91, 144

Ortiz,A.D. 42 Otten,W. 299n, 410 Ovidio Nasone, Publio (Ovidius) 239 Paolino di Aquileia (Paulinus Aquileiensis) 23n, 46, 84, 85, 85n, 101, 209-217, 282; Contra Felicem Urgellitanum 47, 47n, 213, 214n, 396; De salutaribus documentis 217n; Epistolae 210n, 231n; Liber sacrosyllabus contra Elipandum 46, 46n, 210, 211, 211n, 212, 214, 397 Paolo di Tarso (Paolo Apostolo; bib.) 43, 122n, 185, 144n, 155n, 164, 211, 245, 309, 313, 327, 373, 373n Paolo Diacono (Paulus Diaconus) 101 Paolo III, papa (Alessandro Farnese) 19 Paolo IV, patriarca di Costantinopoli 63 Pardulo di Lione (Pardulus Lugdunensis) 344 Pascasio Radberto di Corbie (Paschasius Radbertus) 22, 36, 71, 72, 73, 290, 291-301, 303, 304, 311, 314, 316; De corpore et sanguine Domini 72, 72n, 291-295, 314n, 396; De fide, spe et caritate 299, 301n, 396; De partu virginis, 396, 72, 72n, 297-299; Expositio in Matthaeo, 295n, 298n, 299n, 396 Paschini, P. 209n, 404 Passalacqua, M. 210n, 411 Paulus, B. 291n, 295n, 299n, 299n, 301n Pansa, Muzio (Pausius, Mutius Pausius sive Mutius Pansa) 18; De osculo ethnicae et christianae philosophiae 18n, 398 Pausius, vide Pansa Peltier, H. 291n, 401 Perels, E. 75n

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Pérez Rodríguez, E. 234n, 411 Perrin, M. 41n, 272n, 275n, 276n, 278n, 410 Petrarca, Francesco (Franciscus Petrarcha) 37 Peucer, Kaspar (Casparus Peucerus) 25; Chronicon Carionis 25n, 398 Phidas,V. 62n, 406 Piaia, G. 15n Pico della Mirandola, Giovanfrancesco sive Gianfrancesco (Picus e Mirandola, Iohannes Franciscus) 19, 20; Examen vanitatis doctrinae gentium 19n, 398 Pico della Mirandola, Giovanni (Picus e Mirandola, Iohannes) 17, 31; Oratio de hominis dignitate 17n, 398 Pier Damiani (Petrus Damianus) 25n Pietro, apostolo (bib.) 57n, 185, 371, 372, 372n, 373, 373n Pietro di Pisa (Petrus Pisanus) 101 Pietro di Nonantola (Petrus Nonantulanus) 246; Epistola ad Amalarium 246n Pipino il Breve, re dei Franchi 79, 209 Pipino, figlio di Carlo Magno 221 Platone (Plato), platonismo 17, 18n, 19, 20, 21 Plotino (di Licopoli) (Plotinus) 18n, 20 Polara, G. 276n, 409 Poliziano, Angelo Ambrogini (Angelus Politianus) 31 Porfirio di Tiro (Porphyrius Tyrius) 18n, 20 Porro, P. 129n Portela, E. 61n Potestà, G. 332n, 407 Préaux, J. 118n, 127n Prenninger, Martin (Martino Uranio; Martinus Uranius) 16 Prisciano di Cesarea (Priscianus Caesariensis) 119 Proclo di Atene (Proclus Philosophus sive Atheniensis) 18n, 20

Prudenzio di Troyes (Prudentius Trecensis) 74, 76, 356-366; De praedestinatione contra Iohannem Scotum 76n, 397; Epistolae 75n, 397 Pugliarello, M. R. 238n, 409 Quercetanus, vide Duchesne Quiroga (de), Gaspar (Gasperius de Quiroga) 26n; Index librorum proibitorum 26n, 398 Rabano Mauro (Hrabanus Maurus) 14, 24, 31, 32, 36, 41, 73, 74, 75, 271-288, 313, 316, 317, 325, 326, 327, 328, 331, 332, 334, 341, 363, 370; Commentarium in Ecclesiasticum libri X 287n, 395; Commentaria in Ezechielem 277n, 284n, 395; Commentaria in Ieremiam 285n, 395; Commentaria in libros Machabeorum 285n, 395; Commentaria in librum Sapientiae 286n, 395; De clericorum institutione 280-284, 395; De computo 285n, 395; De institutione clericorum 103, 103n, 395; De praedestinatione 74n, 325n, 328, 395; De rerum naturis 287n, 395; De videndo Deo, de puritate cordis et modo poenitentiae 313, 313n, 395; Enarrationes in epistolas beati Pauli 293n, 396; Epistolae 74n, 75n, 273n, 325, 327n, 328, 396; Expositio in Matthaeum 284n, 285n, 396; Expositio in proverbia Salomonis 286n, 396; In honorem sanctae crucis 41n, 272n, 275-280, 396; Liber de oblatione puerorum 285n, 396 Rädle, F. 232n, 403 Radone, abate di San Vedasto 111 Ratramno di Corbie (Ratramnnus Corbeiensis) 22, 71, 72, 73, 75, 78, 290, 301-311, 314, 316, 319, 322; Contra Graecorum opposita 307n, 397; De anima 317,

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317n, 397; De corpore et sanguine Domini 72, 72n, 307-311, 314n, 397; De nativitate Christi 72, 72n, 303-306, 397; De praedestinatione Dei ad regem Carolum Calvum 75n, 336n, 397; Epistolae, 301n, 397; Liber de anima ad Odonem Bellovacensem 320-324, 397 Recaredo, re visigoto 42n, 43n Reinhold, E. 36; Handbuch der allgemeinen Geschichte der Philosophie 36n, 399 Reinhold, K.L. 36 Richelieu,Armand-Jean du Plessis, duca di 29 Riestra,A. 136n, 408 Riestra, I.A. 136n Rimberto, prete (corrispondente di Ratramno di Corbie) 301, 302, 303, 306 Riu i Riu, M. 251n, 411 Rivera Recio, J. F. 49n, 405 Rochow, I. 71n, 408 Rodenas,A. 295n, 405 Romero-Pose, E. 52n Rotrude (sive Rotruda), figlia di Carlo Magno 62, 108 Rubellin, M. 239n, 406 Ryan, J. J. 25n Sabellio (Sabellius) 58 Sahas, D. J. 186n, 405 Sánchez Martínez, C. 238n, 411 Santinello, G. Savigni, R. 264n, 284n, 407, 410 Schenk, K. 61n, 400 Schrimpf, G. 357n Schrors, H. 337n, 400 Schwartz, E. 179n, 401 Sedulio Scoto (Sedulius Scotus) 238, 239; Collectanea in omnes beati Pauli epistolas 293n, 397; In Donati artem minorem 239n, 397 Senofonte di Atene 123, 124n Severino, G. 15n, 410 Silvestro I, papa 70

Simplicio di Cilicia, neoplatonico 18n Smaragdo di Saint-Mihiel (Smaragdus Sancti Michaelis sive Smaragdus Virdunensis) 232238, 239, 337, 337n; Collectio in epistolas beati Pauli apostoli 293n, 397; Liber in partibus Donati 232-238, 397; Via regia 266n, 397 Socrate di Atene (Socrates) 124n Speck, P. 71n, 403 Speer,A. 114n Spinoza (de), Bento (Baruch, Benedictus) 33 Stanley,T. History of Philosophy 28 Stazio, Publio Papinio (Statius Papinius) 239 Stein, L. 16n Stella, F. 209n, 410 Steuco, Agostino (Augustinus Steuchus sive Eugubinus) 19, 20, 21; De perenni philosophia 20n, 398 Stevens,W. 278n, 285n Stewart, Peter (Petrus Stewartius) 34 Stock, B. 381n Stöckl, A. 36; Geschichte der Philosophie des Mittelalters 36n, 399 Strecker, K. 336n Stroebel, E. 121n, 124n, 300n Suchla, B. 383n Tarasio, patriarca di Costantinopoli 63, 64, 64n Tavard, G. H. 77n, 409 Temistio, commentatore di Aristotele 18n Tenneman, W. G. 35, 36; Geschichte der Philosophie 35n, 399 Teodosio III, imperatore bizantino 61 Teodulfo d’Orléans (Theodulphus Aurelianensis) 22, 67, 68, 224232, 237, 239; Carmina 225231, 397; De ordine baptismi 231,

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INDICE DEI NOMI

231n, 397; De spiritu sancto 230, 397 Teofane (Theophanes), cronografo bizantino 61n; Chronographia 61n Teofrasto di Efeso (Theophrastus) 18n Tertulliano (Tertullianus) 21 Tertullo, retore (bib.) 122n Teudmiro di Nîmes (Teudimirus Nemausensis) 256, 258, 263 Tommaso d’Aquino (Thomas Aquinas) 17, 18n, 26, 26n; Summa theologica 21 Trapezunzio, Giorgio (Giorgio da Trebisonda; Georgius Trapezuntius) 17; Adversus Theodorum Gazam in perversione problematum Aristotelis 17n, 397 Traube, L. 336n Tribbechow, Adam (Adam Tribbechovius) 28; De doctoribus scholasticis et corrupta per eos divinarum humanarumque rerum scientia liber singularis 28n, 399 Trithème, Jean (Tritemio; Iohannes Trithemius) 23, 24, 31; De scriptoribus ecclesiasticis 23n, 398 Tritemio, vide Trithème Trouillard, J. 354n, 377n

Van Acker, L. 239n, 242n, 245n, 246n, 249n, 250n, 252n, 254n, 293n Van Uytfanghe, M. 257n, 408 Varnalidis, S. 63n, 406 Varrone, Marco Terenzio (Varro, Marcus Terentius) 126n, 357n Vineis, E. 117n, 406 Virgilio Marone, Publio (Vergiulius) 79, 88, 89n, 233, 233n, 236n, 237, 237n, 239, 327n Vita Sancti Beati Abbatis Hispanici, 52n Vitizia (Witiza), re visigoto 42n

Ugo di San Vittore (Hugo de Sancto Victore) 26, 26n Ullmann,W. 66n, 403

Zeumer, K. 337n Zimpel, D. 103n, 280n, 281n, 212n, 283n Zycha, J. 105n, 141n, 182n, 283n, 378n

Vamba (Wamba), re visigoto 42n

Walafrido Strabone (Walahfridus Strabo sive Augiensis) 73 Wallach, L. 66, 66n, 67, 67n, 89n, 402, 403, 404 Weijers, O. 89n Weiss, R. 65n, 404 Wenzel, S. 169n Werminghoff,A. 70n, 178n Werner, H. J. 114n, 410 West,A. F. 90, 403 Wilcario di Sens 43 Willems, R. 110n, 140n Willis, J. 118n, 127n Wilmart,A. 317n, 401 Wizo (Candido; Candidus Wizo) 204, 314n

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INDICE BIBLICO

Libri o autori biblici Cantico dei Cantici 128, 129n Ecclesiaste (Quoelet) 128, 128n Efesini 155n Genesi 105, 108, 128, 128n, 223, 278n, 306, 306n, 366, 377, 380

Giovanni 370 Isaia 99, 192 Proverbi 115n, 128, 129n, 266 Salmi 332 Tito 155n

Citazioni bibliche Gn 1,2 Gn 1,16 Gn 1, 26 Gn 3,5 Gn 3,16 Gn 3,19 Gn 4,4-5 Gn 6,6 Ex 3,2 Ex 20,4 Ex 20,26 Ex 25,3 Ex 25,10 Ex 27,1 Ex 34,17 Lv 8,3 Lv 26,1 Dt 21,10-13 3Rg (1Rg) 7,1-29

221 340n 341n 341n 298n 249n 122n 106n 195n 269n 341n 188n 188n 188n 269n 182n 180 282 188

2Rg (2Sm) 17 Jdt 13,4 Ps 15,10 Ps 18,13 Ps 33,15 Ps 44,2 Ps 50,7 Ps 50,10 Ps 54,25 Ps 56,8 Ps 113,23 Ps 118,1 Ps 118,151 Ps 133,1 Pro 9,9 Pro 18,14 Qo (Ec) 2,17-19 Qo (Ec) 3,1 Ct 1,3

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122n 83n 49n 354n 94n 49n 49n 85n 332 166n 139n 188n 245n 252n 147 266n 145n 316n 119n

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IL METODO CAROLINGIO

Sap 4,1 Sir (Ecli) 9,14 Is 7,9 Is 7,14 Is 11,1-3 Is 11,9 Is 14,29 Ez 16,49-51 Ez 18,13 Ez 40,9 Dn 3,2 Dn 4,14 Dn 12,3 Ml 3,8 2Mc 2,13 Mt 3,16-17 Mt 4,3 Mt 4,5 Mt 5,15 Mt 11,7 Mt 11,28-29 Mt 13,41 Mt 14,15-21 Mt 15,34-37 Mt 16,16 Mt 16,25 Mt 17,1-2 Mt 19,6 Mt 28,19 Mc 12,40 Lc 11,3 Lc 12,35 Lc 20,47 Jo 1,9 113n, Jo 1,14 Jo 4,6 Jo 4,14 Jo 5,30 Jo 6,53-55 Jo 11,44 Jo 15,5 Jo 19,30 Jo 20,3-8 Jo 20,31 Ac 17,28 Ac 24

188n 87n 57n 153 99n 258n 357n 237n 214n 236n 182n 266n 101n 153 188n 151n 157 156 93n 93n 84n 51n 144 91n 57n 298n 300n 159n 96 287n 308n 83n 287n 258n 298n 182n 119n 55n 292n 85n 308n 253n 371 166n 252n, 329n 122n

Rm 7,23 Rm 8,17 Rm 9,5 Rm 9,19 Rm 11,36 Rm 12,3 Rm 12,6 Rm 12,19 1Cor 2,2 1Cor 2,4 1Cor 2,6-8 1Cor 3,18 1Cor 4,20 1Cor 6,17 1Cor 11,3 1Cor 11,19 1Cor 12,8 1Cor 14,30 1Cor 14,40 2Cor 1,17 2Cor 2,16 2Cor 2,17 2 Cor 3,6 2Cor 5,7 2Cor 12,2-4 Gal 1,9 Gal 4,5 Eph 1,4 Eph 1,11 Eph 5,27 Eph 5,36 Ph 3,19 Col 2,3 1Th 1,19 1Tm 3,15 1Tm 6,5 Tt 3,5 Heb 11,1 Heb 11,6 Jc 1,17 1Jo 2,1 1Jo 2,21 1Jo 4,9 Ap 2,17

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105n 182n 135n 139n 329, 329n 313, 326n, 327n 293n, 327n 180n 188n 300n 327 255n 245 253n 188n 211 246n 54n 119n, 313 110 352n 59n 110 295n 373n 179n 165n 330n 329n 51n 155n 287n 348n 164n 93n 287n 155n 309n 101n 260n, 301n 212 240n 175n 301n

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NUTRI X

STUDIES IN LATE ANTIQUE MEDIEVAL AND RENAISSANCE THOUGHT STUDI SUL PENSIERO TARDOANTICO MEDIEVALE E UMANISTICO

Nutrix is a series directed by Giulio d’Onofrio which aims at deepening critical knowledge of the history of philosophical, theological and scientific thought in the Late Ancient, Medieval, and Humanistic ages. Its scope embraces studies, monographs, editions and translations of texts with commentary, collections of articles (anthologies of collective or personal works, acts of conferences, etc.) on themes and problems connected with speculation in Europe and the Mediterranean – Latin, Greek, Arabic and Hebrew – during the chronological sweep between the works of the Council of Nicea (325) and those of the Council of Trent (1545-1563). La collana Nutrix, diretta da Giulio d’Onofrio, ha lo scopo di approfondire la conoscenza critica della storia del pensiero filosofico, teologico e scientifico nell’età tardoantica, medievale e umanistica. È concepita per abbracciare saggi, monografie, edizioni e traduzioni di testi con commento, raccolte di articoli (antologie di studi personali o collettivi, atti di convegni, etc.) su argomenti e problemi collegati alla speculazione in area europea e nel bacino del Mediterraneo, con riferimento alle culture latina, greca, araba ed ebraica, nell’arco temporale che va dal Concilio di Nicea (325) a quello di Trento (1545-1563).

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TITLES IN SERIES TITOLI DELLA COLLANA

1. Giulio d’Onofrio, Vera philosophia. Studies in Late Antique, Early Medieval and Renaissance Christian Thought (English text by John Gavin) 2. Luigi Catalani, I Porretani. Una scuola di pensiero tra alto e basso Medioevo 3.Armando Bisogno, Il metodo carolingio. Identità culturale e dibattito teologico nel secolo nono 4. The Medieval Paradigm, Papers of the Congress (Rome, LUMSA, 31 oct. - 3 nov. 2005), ed. G. d’Onofrio

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