Il meraviglioso e il verosimile tra antichità e Medioevo 8822236610, 9788822236616

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Il meraviglioso e il verosimile tra antichità e Medioevo
 8822236610, 9788822236616

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BIBLIOTECA DELL'« ARCHIVUM ROMANICUM » FONDATA DA

GIULIO Serie l -

STORIA -

BERTONI

LETTERATURA - PALEOGRAFIA

Vol. 221

IL MERAVIGLIOSO E IL VEROSIMILE TRA ANTICHITÀ E MEDIOEVO a cura di DIEGO LANZA E 0DDONE LONGO

FIRENZE

LEO S. OLSCHKI EDITORE MCMLXXXIX

BIBLIOTECA DELL'« ARCHIVUM ROMANICUM » FONDATA DA

GIULIO Serie l -

STORIA -

BERTONI

LETTERATURA - PALEOGRAFIA

Vol. 221

IL MERAVIGLIOSO E IL VEROSIMILE TRA ANTICHITÀ E MEDIOEVO a cura di DIEGO LANZA E 0DDONE LONGO

FIRENZE

LEO S. OLSCHKI EDITORE MCMLXXXIX

ISBN 88 222 3661 O

PREMESSA

Meraviglioso e verosimile possono apparire e di fatto spesso appaiono come le scontate polarità costituenti un sistema comunicativo determinato; individuano cioè un campo di fenomeni e un reticolo di rapporti ben distinti dai campi posti sotto il dominio di diverse coppie polari (pur in qualche modo interagenti col campo in questione). Senza mirare ad un inventario completo, e al puro scopo di fornirne una utile enumerazione, ricorderemo coppie come vero/falso, reale/fittizio, credibile/incredibile, tutte però pertinenti a livelli di codificazione altri da quello qui considerato; oppure, intersecantisi con esso, le combinazioni verosimile/inverosimile, banale/meraviglioso, simile/diverso, e cosl via. Forse, la peculiarità della coppia polare qui esplorata va cercata nella maggiore duttilità da essa offerta rispetto alle altre, e di conseguenza nella sua fruibilità nell'indagine di un sistema comunicativo come quello « letterario », meno vincolato al rispetto di regole tassative di produzione testuale di quanto non accada ad es. nel discorso scientifico, filosofico ecc. Il valore teorico di formalizzazione cui si riconosca, come in questo caso, lo statuto di vere e proprie categorie, dovrebbe consentirne l'uso senza determinazioni o limitazioni di tempo e di spazio: e tuttavia resta da rispondere al quesito, quando questi due criteri di comunicazione si sono appunto costituiti come categorie, acquisendo quello statuto teorico che noi oggi riconosciamo loro cosl ben definito? Strettamente connesso al primo è un ulteriore problema: questa codificazione teorica, questa erezione in categoria, in che misura risulta debitrice del sistema culturale che l'ha prodotta (e dunque, trasferibile in altri sistemi)? Anche le categorie teoriche più saldamente e indiscutibilmente definite hanno infatti una loro storia, e una loro preistoria, che sarebbe colpevole dimenticare; e assai spesso sono appunto questa preistoria e questa storia che finiscono col produrre loro intorno quell'aura, quell'alone connotativo che ne accompagna quasi sempre la pur potente denotatività.

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PREMESSA

È essenzialmente questo problema, semplice da enunciare, assai meno semplice da determinare, che costituisce l'oggetto di questo libro. Va anzitutto osservato che meraviglioso e verosimile giuocano ruoli differenti nelle pratiche comunicative ed espressive a seconda che ci poniamo prima o dopo la loro rigorosa codificazione categoriale: prima e dopo cioè la grande elaborazione teorica operata da Platone e da Aristotele. Il problema della loro definizione si intreccia pertanto, e, si può dire, si confonde con la definizione della stessa riflessione teorica in quanto tale. In altre parole, le due categorie non soltanto vengono definite alla nascita di quella che si è poi divenuti soliti chiamare filosofia, ma con questa nascita hanno direttament e a che fare. Oltre a un'indagine specifica sui tempi e sui modi della codificazione categoriale, è parso necessario offrire altresi un quadro relativamente ampio, anche se non certo esauriente, di differenti pratiche del verosimile e del meraviglioso nella produzione di testi letterari. Le ricerche che compongono questo libro, al di là del settore disciplinare specifico di chi lo ha coordinato, percorrono perciò l'antichità in tutta la sua estensione, e si allargano al medioevo, concorrendo a segnare livelli sempre diversi d'integrazione nel codice della credibilità. Già una problematizzazione lessicale appare preliminarmente indispensabile: il greco eikos non è soltanto « verosimile », né thaumaston soltanto « meraviglioso ». Per il primo vale assai meglio, almeno per la fase arcaica, il valore più generale di « simile» a qualcosa d'altro già conosciuto, e conoscibile o riconoscibile dunque attraverso tale mediazione; per il secondo vale il più ampio spettro denotativo dell'ammirazione (ma non senza deviazioni in direzione di un « meraviglioso » negativo: il teratodes). Ma quel che rende particolarmente complesso il processo che conduce alla definizione categoriale è che nella Grecia arcaica e classica, nella Grecia cioè che precede ed accompagna l'elaborazione teorica platonica e aristotelica si succedono e intersecano differenti quadri culturali, pertinenti a loro volte a pratiche e forme sociali diverse. Per !imitarci ad alcuni esempi, l'aedo omerico assimila e trasforma motivi di ascendenza folclorica al codice narrativo dell'epica, il poeta tragico del quinto secolo assume tratti legati a pratiche rituali e convenzioni comunicative di antica data tramutandoli in pertinenti caratteri della drammatizzazione, l'oratore della città si appropria e fa uso di un patrimonio gnomico tradizionale e lo rende congruo all'azione politica. Si può dire che proprio questo costante riuso di materiali eterogenei

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PREMESS A

alle nuove forme della comunicazione segni tutto lo sviluppo della cultura della polis. Ed è nell'instabile equilibrio che volta a volta viene determinandosi, in modi sempre diversi, tra elaborazione culturale alta e sapere condiviso da tutti, che meraviglioso e verosimile si vanno definendo, nelle pratiche discorsive ancora prima che nella elaborazione teorica, come tratti distinti vi di uno specifico campo comunicativo. Al di là del dominio del narrare , essi operano come selettori di un sapere, dando luogo non rarame nte a combinazioni soltanto apparentemente contraddittorie , e che confermano la duttilità di cui si diceva all'inizio: le verosimiglianze del meraviglioso e le meraviglie del verosimile. Nella loro definizione categoriale giocano d'altra parte un ruolo determinante anche suggestioni, censure, scarti metaforici di particolare potenza, altrettanto potenti coerenze analogiche. Col formarsi poi di una dimensione « letteraria » in senso stretto, e cioè a partire dalla cultura alessandrina, lo statuto della verosimiglianza e della meraviglia acquisisce un proprio specifico terreno referenziale e concorre insieme a determinarlo. La questione diventa allora una questione di letterat ura (dove letterat ura comprende ad esempio anche la storiografia): deve cioè misurarsi con la codificazione dei generi e dei linguaggi. Ed è appunt o nella specificità della letterat ura, dei suoi generi e dei suoi linguaggi, che meraviglioso e verosimile arrivano a combinarsi nella dimensione del fantastico. La struttur a del libro rispecchia nella sua essenzialità l'assunto e i percorsi della ricerca. Si sono distinte per chiarezza espositiva due sezioni, concernenti rispettivamente il processo di formulazione e rifondazione delle categorie e l'effettiva pratica discorsiva in esse convogliata. Si è preferit o cosl tenerle distinte, anziché mescolare i contrib uti in una sequenza meramente cronologica, per porre in maggiore evidenza le coerenze e gli scarti. È la discontinuità degli atteggiamenti individuali che in questo caso serve a illuminare la sostanziale continuità del processo nella sua complessa concretezza storica. Da questa scelta le due prime sezioni. La terza e la quarta, apparentemente meno integrate, costituiscono in realtà un indispensabile complemento del discorso. La terza è dedicata a quelle manifestazioni che, più legate alle forme del sapere e della fabulazione tradizionali, restano in qualche modo ai margini dell'elaborazione culturale consapevole, intenzionale, e proprio per questo ce ne forniscono un insostituibile termine di confronto. Nella quarta sezione trovano posto due esempi particolar-

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PREMESS A

mente rilevanti dell'eredità del meraviglioso in una cultura letteraria nella quale il verosimile appare divenire l'incont rasto dominatore. Le ricerche qui raccolte costituiscono il risultato di un programma portato avanti congiuntamente nel Diparti mento di scienze dell'antichità dell'Università di Pavia, e nell'Ist ituto di filologia greca dell'Università di Padova, finanziato coi fondi ministeriali 40 %. L'estensione della ricerca ad ambiti, antichi e medievali, non rientran ti nello specifico disciplinare, risponde ad un intento, sempre più diffusamente avvertito, di collaborazione interdipartimentale su tematiche di livello generale e di generale interesse. DIEGO LANZA - OnnoNE LoNGO

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SEZIO NE

I

STRATEGIE DELLA CONOSCENZA

0DDONE LONGO

IL VEROS IMILE E IL SIMILE

« Il suo nome era Licida, era capraio. Nessuno, al vederlo, non

l'avrebb e riconosciuto, perché era straordinariamente somigliante ad un capraio » (Theocr. VII 13 sgg.). Ciò che segue è l'enumerazione dei tratti caratterizzanti, nell'abbigliamento, appunto la figura del capraio (un vecchio abito ricoperto da una pelle di capra, il bastone di olivastro, e così via). Tratti visibili, iconografici, inscritti in un codice culturale, e insieme letterar io, del tutto convenzionale, che consentono il « 1riconoscimento » della qualità (se non dell'identità) del nuovo venuto. Un riconoscimento, una presa d'atto, che ha luogo, e qui sta la specificità del passo, attraver so l'individuazione di una « somiglianza». Licida viene riconosciuto per chi è in quanto egli è « simile» , eoikei: la sua immagine viene riportat a ad un modello culturale di cui si constata la pertinenza. Siamo ancora ad un livello generico; e tuttavia un elemento di specificità ci è offerto dalla presenza di un termine come eoike, ed è a questo termine che rivolgeremo la nostra attenzione: non genericamente al campo del « simile » (esprimibile in greco attraverso vari lessemi, come homoios, hikelos ecc.), ma alle « similitudini », o « non-similitudini », codificate in termini di eikos} lo stesso radicale usato in greco per esprimere i concetti di « verosimile », « plausibile », « probabile », ecc. Alcune considerazioni di carattere generale vanno tuttavia fatte prima di entrare nel merito del « simile » (o del « verosimile ») come lo intendevano i Greci. Ricorderemo brevemente che il riconoscimento di somiglianza (o di non-somiglianza), è un meccanismo che sta alla base di pro1 Non entriamo qui nel merito dell'ident ità reale che si nasconderebbe sotto le spOglie s (Arato? Callimaco? Leonida? e così via). rinviando in proposito a Theocritu Licida di University Press e, Cambridg Gow, F. S. A. by ary Comment and on Translati a with edited 1952, vol. II, p. 129 sg.

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ODDONE LONGO

cessi comportamentali universalizzati, e che, prima ancora che un fatto culturale, esso costituisce un dato etologico (e prima ancora biologico): basti pensare, in campo animale, al riconoscimento di cospecificità. In psicologia gestaltista, si è tentato di ricondur re tutti i fatti di organizzazione percettiva ad un unico principio, quello di « omogeneità massimale ». « I raggruppamenti formali che si costituiscono nel complesso campo percettivo si realizzano in modo che gli elementi parziali, i quali vengono a costituire una forma determin ata, presenta no fra loro una determin ata specie di omogeneità e risultano eterogenei con gli elementi che rimangono esclusi e distinti da quella determin ata forma ». 2 Naturalmente ci occupiamo qui di problemi alquanto diversi, e pertanto non ci concediamo più che un accenno ai più vasti orizzonti epistemici che comunque ci circondano. Mi limiterò in questa sede a proporre un ristretto campione di passi, di varia provenienza, che mi sono apparsi utili per fondare un discorso che voglia ricondurre, come si accennava all'inizio, il « verosimile » al « simile », ma anche il «non-ve rosimile » (una delle possibili definizioni del meraviglioso), al « non-simile ». La più antica definizione che possediamo, di un « meraviglioso » in senso interamente negativo, al limite del « mostruo so », come del « nonsimile a », come di ciò che non si lascia ricondur re ad un modello culturale noto, si trova in Odissea IX 198 sgg.: «Era un prodigio immane, né somigliava (eoikei) ad uomo mangiatore di pane, ma a vetta selvosa di alti monti ... ». Si tratta del Ciclope, definito già poco prima (v. 187) come un « essere immane » (pelorios): e prendere mo atto di questa insistenza su una connotazione espressa col termine pelorios, che appartiene (almeno a livello di etimologia scientifica) allo stesso gruppo radicale del più comune teras. Dunque, il «prodig ioso» come teras, il thaumaston come teratodes. Ma si deve rilevare che il teratodes del Ciclope non consiste precisamente nel suo essere di dimensioni fuori dell'ordinario, che lo fanno paragonare a montagna selvosa; il paragone è infatti epico, e lo ritroviamo applicato al primo fra gli eroi troiani, Ettore, che si lancia nella mischia « simile a montagna nevosa» , arei niphoen ti eoikos. Non è dunque di per sé la similitudine alla montagna, selvosa o nevosa che sia, che è portatrice della connotazione negativa, bensì (o assai più) il rilevamento della non-similitudine del Ciclope agli uomini « mangiatori di 2

C. MusATTI, in G. KANIZSA, Grammatica del vedere, Bologna, Il Mulino 1980, p. 70.

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IL VEROSIMILE E IL SIMILE

pane ». Abbiamo qui una connotazione di carattere eminentemente culturale, attraverso l'individuazione di un regime alimentare diverso da quello praticato dagli esseri «umani», che appunto di pane si nutrono. Sappiamo infatti che il Ciclope non è agricoltore, ma pastore, consuma3 tore di latticini e carne ovina, oltre che, quando capiti, di carne umana ... Il thaumaston-teratodes, meraviglioso negativo, appare qui come il nonsimile, non rapportabile ad un archetipo culturale noto, come impossibilità di far funzionare quei meccanismi di « riconoscimento » che avevamo segnalato nel brano teocriteo. Un passo più avanti, nel senso di una rielaborazione manieristica, al limite del barocco (tuttavia « scientificamente » fondato), del modello omerico, procede un altro poeta alessandrino, Apollonia Radio. Il passo odissiaco che Apollonia profondamente rielabora è la descrizione dei compagni di Odisseo trasformati da Circe in maiali (Od. X 389 sgg.), Circe che esce dal suo megaron con in mano la bacchetta magica, apre l'usciuolo del porcile e ne fa uscire i compagni d'Odisseo, « simili a maiali» (sialoisin eoikotas). Il thaumaston prodotto dall'operazione magica di Circe si esaurisce nell'assunzione, da parte di esseri umani, di una forma bestiale: ed esso è descritto, appunto, in termini di « similitudine ». Indubbiamente un prodigio, ma un prodigio che in Omero ha, per così dire, un grado ridotto di connotazione, attraverso il rilevamento della « somiglianza» ad un referente ben noto, ma senza marcatura di dissimiglianze. Nelle illustrazioni dell'episodio di Circe nella pittura vascolare studiate dalla Touchefeu-Meynier, il prodigioso è raggiunto attraverso la regolare raffigurazione di figure miste antropo-teriomorfe, corpi umani con teste o tronco e arti anteriori animali (non solo maiali, ma bovini, leoni, cavalli ecc.). Ma, a differenza di ciò che farà Apollonia, l'« ibridazione » avviene sempre fra forma umana e una forma animale .4

Il rifacimento di Apollonia Radio (IV 672 sgg.) scompagina del tutto l'assetto, fondamentalmente univoco, dell'episodio america (esseri umani trasformati in una forma bestiale), portando all'estremo il teratodes della metamorfosi; i compagni d'Odisseo non sono trasformati in maiali, né 3 Cfr. O. LoNGO, La Marsilio 1987, pp. 63-77.

dieta del Ciclope, in In., La storia, la terra, gli uomini, Venezia,

4 Cfr. O. TouCHEFEU-MEYNIER, Thèmes Odysséens dans l'art antique, Paris, De Boccard 1968, p. 81 sgg., con pl. XIII, n. 173, 174; XIX, n. 170, 171, 176, XVI, n. 187, XVII, n. 188.

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in altre specie animali, ma in esseri inediti, davvero « mostruosi », zoologicamente improponibili, compattati insieme con l'assortimento di parti assunte da specie animali diverse. Ma, ciò che a noi qui preme rilevare, tutto questo si sostiene su una duplice affermazione di non riconducibilità, di questi autentici « mostri », a criteri di rassomiglianza. « Fiere, ma non erano simili (ou eoikotes) alle fiere che mangiano crudo, e neppure ad essere umani, ma avanzavano in branco, e i loro corpi erano commisti di parti diverse ... Di tal fatta erano gli esseri che la terra fece nascere dalla fanghiglia primordiale, messi insieme con le membra più svariate ... ». Da una parte dunque il richiamo a teorie cosmo- e zoogoniche noteci da Empedocle, Democrito, Archelao, dall'altra una dissoluzione della forma specifica, a vantaggio di polimorfismi (o di teratomorfismi) che sopprimono ogni riferibilità ad un modello, appunto in quanto negano ogni articolazione omogenea, funzionale: per dirla con le parole di Ovidio, abbiamo delle formae mutatae, ma mutate così che il prodotto della metamorfosi non sono più delle formae, nel senso proprio del termine, ma dei nova corpora, degli aggregati di parti mai visti prima d'allora, se non nei processi cosmogonici in cui la vita viene faticosamente organizzandosi a partire dal caos primordiale, provando e riprovando combinazioni che avranno o meno successo ...5 Con Aristofane, Nub. 185 sgg., abbiamo ancora a che fare con dei « mostri », dei theria, e si tratta questa volta degli scolari che frequentano il phrontisterion socratico, scalzi, emaciati, mal in arnese, e per di più dediti a strane pratiche, come il cercare, natiche all'aria, le « cose di sotterra », come fossero lampascioni . . . Questa volta, nello sceneggiata comico, la ricerca di un modello di riferimento che consenta la decodificazione di questi monstra è assecondata, stimolata, dallo Scolaro, che fa da guida all'intronato visitatore del frontisterio, Strepsiade. All'esclamazione di sorpresa di questi, «ma questi, che razza di animali sono?! » (Strepsiade non riesce, a prima vista, a situare i Socratici in un quadro tassonomico plausibile), la guida, preso atto della meraviglia del visitatore (ti ethaumasas), lo induce a reperire appunto un modello (noto) di riferimento (« a chi ti sembra che assomiglino? »). Il thaumaston comporta dunque, questa volta, una similitudine positiva, anziché la registrazione di una diversità; se ciò accade, è perché il pubblico della commedia è in attesa di una battuta che scateni il riso, che è poi qui il riso s Cfr.

EMPED.

B 57 D.-K.,

DEMoc.

B 5, l e 3;

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ARCHEL. A

4.5.

IL VEROSIMIL E E IL SIMILE

trionfante dei vincitori, degli Ateniesi che hanno condotto in Atene ed esibiti sull'agorà, ad un pubblico che è lo stesso della commedia, i 120 Spartiati presi, anche per fame, a Sfacteria ... A noi preme comunque rilevare la sequenza « mostro »-« meraviglia »-« simile » (theria-thaumaston-eikenai). Nel caso delle Nuvole si abbandonava, probabilmente per ragioni di genere letterario, lo schema abituale del thaumaston come me eikos. A questo schema si ritorna con le Tesmoforiazuse, vv. 839 sgg., dove ci è proposta una situazione, un comportamento, che appare del tutto incompatibile con le regole sociali accettate. L'ipotesi incredibile è che la madre di Iperbolo, il demagogo sbeffeggiato dalla commedia per la sua viltà come combatten te, sieda in pubblico a fianco della madre di Lamaco, il coraggioso stratego caduto davanti alle mura di Siracusa, vestita come questa d'abiti bianchi, e per di più con le chiome disciolte, essa che dovrebbe sedere in ultima fila e col capo rasato. Abbiamo qui la proposizione di una situazione socialmente ed eticamente inammissibile, quale l'equiparazione a livello di cerimoniale pubblico di vili e valorosi; ma l'espressione linguistica di questa incompatibilità coi modelli e l'ideologia correnti, introduce significativamente il richiamo ad una relazione di similarità, anzi di non-somiglianza (non confrontabilità): « a che cosa sarebbe simile » (toi gar eikos) una situazione come quella ipotizzata? Si tratta infatti di un quadro talmente inedito, improponibile, che non è possibile fornire alcun termine di paragone, alcun precedente o modello cui fare riferimento. (Abbiamo probabilmente a che fare con un'espressione di carattere idiomatico). In realtà, l'essere « dissimile » da quanto altro vi è di noto, l'eccezionalità e non raffrontabilità di un soggetto, può venire anche, in modo assai singolare (almeno per la nostra sensibilità linguistica), espresso accentuando e portando all'estremo l'identità di quel soggetto con se medesimo (che comporta la non-identità, o non-similarità, con altri). In termini logici, il percorso si può schematizzare come A =F A, A =F B, A =F C, ecc. Si tratta, nel passo ippocratico a cui ci riferiamo (Aer. 19), di una connotazione di non-similarità di carattere antropologico, o etnografico, che concerne i popoli Sciti. Questa « diversità » è duplicemente espressa, in rapporto alle altre etnìe note (« la stirpe scitica si differenzia sommamente da tutti gli altri uomini») , e nel rapporto con se medesima ( « ed è simile a se stessa »). Le peculiarità antropiche e culturali di questo popolo escludono dunque ogni sua rapportabilità ad altri popoli: è un'etnia, se vogliamo, chiusa ad ogni processo di acculturazione dal-

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l'esterno, di comunicazione e interscambio, che continua a riprodurre se stessa sempre identica a se stessa ... Mi avvio a concludere l'esposizione di questa sequenza, abbastanza eterogenea, di esempi tutti più o meno « non-simili » fra loro, con l'esame di tre luoghi erodotei, dei luoghi erodotei che si prestano fruttuosame nte ad una escussione. VI 125.4 abbiamo una «dissomigl ianza» che produce il riso. Alcmeone, invitato da Creso ad entrare nel suo caveau con facoltà di prelevarne tutto l'oro che egli riuscisse a portare sulla sua persona (ma senza disporre di alcun recipiente), ne esce dopo essersi imbottito d'oro i calzari, le pieghe delle vesti, i capelli, persino la bocca: dopo aver cioè adibito ad uso improprio, di contenitori, « strumenti » o parti del corpo nati con tutt'altra destinazione. Il che, trasgredendo i correnti codici, anche visivi, non può che scatenare il riso: « usd dunque dal thesauròs trascinando a stento i calzari, simile a qualsiasi essere fuor che ad un essere umano. Si era infatti rimpinzato d'oro anche la bocca, e il suo corpo era tutto imbottito e rigonfio ... Al vederlo, Creso fu preso da un accesso di risa ». Con Erodoto IV 31 ci allontaniamo alquanto dai sentieri fin qui battuti. Non tanto perché il racconto ci accompagni, come ci accompagna, in terre remote, poco frequentate e mal conosciute come l'estremo settentrione, quanto perché l'autore ricorre qui al criterio di verosimiglianza - usato passando attraverso al principio di similarità - proprio per « smontare » quello che nella tradizione popolare riportata si connota appunto come « prodigioso ». Secondo questa leggenda scitica, il thaumaston risiederebbe nell'esistenza, ancora più a settentrione del territorio abitato da quel popolo, di una perenne condizione di non-visibilità, oltre che di non-penetrabilità, inaccessibilità, dovuta al fatto che l'aria è «piena d'ali ». Ora questo apparente «prodigio » si lascia, secondo Erodoto, spiegare abbastanza facilmente: quelle regioni sono infatti costantemente afflitte da precipitazioni nevose, « com'è d'altronde plausibile» (oikos), aggiunge lo storico. Si comprende dunque facilmente come dietro la leggenda delle ali si nasconda una realtà climatico-meteorologica. Il passaggio dalla realtà obbiettiva alla codificazione leggendaria avviene attraverso la mediazione di un rapporto di similarità: « la neve è infatti simile ad ali » (oike ... pteroisi), i fiocchi di neve che scendono a larghe falde dal cielo boreale, possono apparire come una pioggia d'ali, e si deve dunque ritenere che gli Sciti, attraverso l'immagine delle ali, alludano in realtà alle interminabili nevicate. Questa volta è l'eikasmos folclorico, la similitudine neve/ ali, che genera il « prodigio », ma un

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IL VEROSIMILE E IL SIMILE

prodigio che si lascia facilmente smontare con gli stessi mezzi con cui è costruito ... Con IV 19 5 abbiamo, infine, la riduzione di un apparente « prodigio » a qualcosa che, se non propriamente « vero », è almeno qualificabile come « possibile » o «verosimile », o, per usare le parole stesse di Erodoto, come « simile a verità » (oikota aletheiei). Narrano i Cartaginesi di un'isola sita presso le coste africane, dove esisterebbe una laguna, o uno stagno, dove le fanciulle del luogo, munite di penne d'uccello unte di pece, estraggono dal fango polvere d'oro, che è indubbiamente un modo inconsueto di cercare il prezioso metallo. Ma, paese che vai, cercatori d'oro che trovi. Erodoto si rifiuta comunque, almeno in prima istanza, di assumersi la piena responsabilità del racconto. « Se ciò accada veramente (aletheos) io non so: tutto quel che faccio è di mandare per iscritto ciò che gli altri raccontano ». Potrebbe dunque trattarsi di racconto, non solo prodigioso, ma anche inattendibile; e tuttavia Erodoto, forte di altre e più dirette esperienze, non ritiene di dovergli negare ogni credibilità. «Ma tutto può succedere, se si pensa che io ho visto coi miei stessi occhi a Zacinto estrarre da uno stagno la pece ». E ancor oggi, il turista che abbia la pazienza di cercarlo, può a Zante visitare questo stagno da cui si estraeva il bitume (e ciò sia detto a garanzia dell'attendibilità di Erodoto). « Allora, conclude lo storico, anche i racconti che ci vengono da quell'isola adiacente alla Libia saranno simili a verità » (oikota aletheiei). Con « verità» (aletheie) Erodoto sembra intendere qui ciò che è, o è stato, oggetto di accertamento diretto; fra la « verità » sperimentata in prima persona da Erodoto (la «pesca del bitume » nello stagno di Zante), e quello che si narra dell'isola africana (la «pesca» dell'oro con le penne intinte nel bitume) sussiste un rapporto di similarità che consente di allineare i due fenomeni in una medesima serie, di assegnarli ad una medesima classe di reali. Anche in questo caso un rapporto di somiglianza è usato per « smontare » ciò che altrimenti andrebbe iscritto nella categoria dei « prodigi » (e dunque degli « incredibili »). Il « prodigioso », sia esso teras, thaumaston o altro, ha diritto d'esistenza come tale solo finché non intervenga, a sottrargli la sua peculiarità (e insieme la sua specialissima« credibilità»), un rapporto di « similari tà », di « similitudine ». Il simile, riconducendo l'ignoto al noto, declassa a verosimile un « prodigioso» che si reggeva per intero sulla propria « inverosimiglianza ».

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ELISA AVEZZU

THAUMASTO N ED EIKOS NELLA LOGOGRAFI A GIUDIZIARI A

A proposito di Tisia e di Gorgia, Platone (Phaedr. 267a) fa dire a Socrate che costoro 1tpÒ -rwv cXÀYJ&wv -rt:X dx6't'tt dùov Ùlç -rLtJ.YJ-rÉcx tJ.ii.ÀÀov. Nella dimensione della retorica, dunque, si affermava una gerarchia tra la sfera dell'alethes e quella dell'eikos. Nello stesso dialogo platonico (272d-e), Socrate definisce ulteriormente i termini dell'opposizione, riferendosi in modo esplicito alla pratica giudiziaria e al luogo deputato alla performance retorica: «nei tribunali, a nessuno di costoro importa alcunché della verità, quanto piuttosto del pithanon: -ro\ho ù'dvcxL -rò dx6ç». L'antinomia poggia, questa volta, su aletheia e pithanon: ma pithanon è il regno dell'eikos, o, meglio, è il fine perseguito per il tramite dell'eikos. Il discorso di Socrate, generalizzato alla pratica dei tribunali, si fonda sulle notevoli affinità delle tecniche argomentative dei logografi; partendo dal presupposto che ogni argomento si sviluppi in funzione di un uditorio, le affinità, a loro volta, si spiegano col fatto che tale uditorio ri1 mane sostanzialmente invariato nella storia istituzionale di Atene. Il termine' verosimile' con cui noi traduciamo eikos ci porta un po' fuori strada; dire ' simile al vero ' (ma il greco dice meglio 8[1-otov -réi) cXÀ"f)&e:i:) richiama in noi l'idea di una approssimazione di verità, di una verità approssimata, di una tensione al vero; e ci fa presumere che l'eikos abbia come fine il raggiungimento dell'aletheia. Specifichiamo quindi subito - e l'antinomia platonica parla chiaro - che l'aletheia non è il limite cui tende l'oratore che argomenta. In altri termini, l'eikos non è strumento di ' verità': è, invece, contiguo al vero, come ci dice Arista1 Dai tempi soloniani dell'istituzione dell'Eliea ci è dato di assistere, semmai, ad una evoluzione dei rapporti intercorrenti tra i tribunali popolari e i tribunali speciali: gradualmente, la funzione giudicante di questi ultimi, che all'origine era affidata a collegi in qualche modo selezionati, e ridotti nel numero, passa nelle mani delle giurie popolari. Con l'eccezione, s'intende, dell'Areopago. Ai tempi di Socrate, questo processo s'era già concluso.

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tele (Rhet. 1355a), appartenendo « alla stessa facoltà scoprire il vero e

il simile al vero, e gli uomini sono sufficientemente disposti per natura verso la verità e il più delle volte riescono a coglierla: perciò l'essere perspicaci intorno alle cose probabili (endoxa) 2 è proprio di chi è allo stesso modo perspicace intorno al vero ». Ed è proprio per questa contiguità che la logografìa giudiziaria risulta essere una singolare mistura di vero, verosimile e falso; mistura che contraddistingue la costruzione semantica del discorso. Nel mondo dell'aletheia stanno, incontrovertibili, i fatti; 3 ma, in sede di dibattimento giudiziario, dobbiamo distinguere tra un gegenemenon, ciò di cui si discute, e tutta una serie di pragmata che il plaideur esibisce alla giuria per consentire la valutazione di ciò che è accaduto. Ricordiamo certamente le formule non accidentali, dominate dalla convenzione, con le quali l'oratore procede all'esposizione dei fatti: ci limitiamo ad osservare (basti per tutti Lys. 1.5) come le espressioni &ç &:px1)ç e &mxv-rcx. -r~ 7tp&.yflcx.'t"cx. intendano garantire una ' completezza ' - è la verità, tutta la verità - e allo stesso tempo una evidenza, laddove è sufficiente l'eco, la risonanza, della tesi avversa a mostrare come il materiale sia stato preselezionato. E che i ' fatti ' vengano preliminarmente manipolati lo dimostra altresl una norma processuale ateniese, in base alla quale le parti giuravano di attenersi alla causa (Arist., Ath. Resp. 67.1); davanti all'Areopago, inoltre (Arist., Rhet. 1355a), viene fatto esplicito divieto di addurre argomenti extra causam. Tale norma non avrebbe alcun senso se la diegesis comportasse, nella pratica forense, una mera registrazione dei fatti (e dei fatti attinenti). Dionigi di Alicarnasso attribuiva a Lisia (Dem. 2) la capacità di klepsai ta pragmata, e, ancora (Lys. 18), l'abilità nel confondere ciò che è alethes con ciò che è peplasmenon; già Platone (Phaedr. 263a) rimproverava al medesimo logografo di non focalizzare i termini della questione. A dispetto della protesta di concretezza e di completezza dell'esposizione, il momento diegetico si muove ben fuori dell'ambito della verità, e risponde invece all'esigenza di ricostruire

2 L'endoxon rientra propriamente nella dialettica; per i rapporti e le analogie tra questa disciplina e la retorica si v. C. A. VIANO, La logica di Aristotele, Torino, Taylor 1955, p. 280 sgg. 3 I tre generi di discorso (deliberativo, giudiziario, epidittico) si definiscono in base alla funzione svolta dall'ascoltatore; nel genere giudiziario, questi è il giudice, il cui ruolo specifico è di essere krites ton gegenemenon (ARIST., Rhet. 1358b).

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un ambiente, una situazione, una personalità. 4 Nella scelta delle premesse retoriche prevale pertanto il carattere emozionale del rapporto tra oratore e uditorio; la natura propriamente psicologica di tale rapporto precede e domina qualunque altro argomento sia pure poggiante su prove precostituite e ' concrete '.5 Aristotele (Poe. 1461a) osserva come un giudizio moralmente corretto su parole e azioni scaturisca solo da una previa conoscenza del contesto. Lisi a (31.11) delinea un meccanismo universale (z-3-oç a(x~Xwv 1t.iow &v-&p~7toLç) di sdegno-indulgenza al riguardo di uno stesso reato (-ra ~Xù-ra &aLx~!LIX'riX), che di volta in volta andrà compatito o condannato a seconda di chi lo compie e della posizione sociale di questi. Anche l'adikema perde di concretezza, di oggettività; può essere facilmente amplificato o ridotto. E non è male ricordare come, al di fuori del tribunale, non si possa contare sull'oggettività di un reato: sappiamo bene come in Grecia il reato prenda corpo, e con esso una fisionomia giuridica, solo nel caso di una contestazione, e non in quanto trasgressione di per sé ad una legge. Il caso-limite (cfr. Dem. 59.54) lo abbiamo allorché la macchina della giustizia cessa di procedere davanti al sopravvenuto accordo tra le parti, benché il reato sia già stato notificato ai magistrati competenti. La trasgressione alla legge, insomma, non vale a configurare il reato, e nella legge il reato non trova un punto di riferimento obiettivo. Anzi,6 l'assenza di una legge specifica in materia può stare a significare l'enormità di un reato! Laddove nel nostro sistema legislativo si presume la completezza del sistema stesso, i Greci sono ben lontani dal ritenere regolati tutti i rapporti giuridici, e, in particolare, che essi siano regolati dalla legge. La consapevolezza di un vuoto legislativo, nonché di una pluralità di fonti del diritto - pluralità cui la polis cercò di ovviare in molti modi - permette al logografo di angolare, in maniera del tutto soggettiva, il reato, al limite, di ' inventario ', e di indicare ai giudici il punto di osservazione più appropriato per valutare 4 Aristotele (Rhet. 1356a) insiste sulle tre specie di argomentazioni procurate col discorso: quelle che si fondano sul carattere di chi parla, quelle che consistono nel disporre l'uditorio in un certo modo; le ultime, infine, che perseguono lo scopo attraverso il discorso stesso, più in particolare attraverso la dimostrazione o la parvenza di dimostrazione. s Rimontando al primo logografo che pubblicò i suoi discorsi, Antifonte, un esempio palmare può essere rintracciato nella IIP tetralogia, in cui è evidente la secondarietà del tema della provocazione, laddove l'argomento principale è occupato dalle probabilità derivanti dalla psicologia dell'età. 6 LYS. 31.27: 8Là. 't'Ò (.LÉ:ye:&oç 't'Ou &8LX~(.L~'t'oç oùadç 1te:pl ~Ù't'ou èyp&~'YJ v6(.Loç.

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la causa.7 Soggettività da intendersi come ' altro' da una oggettività, di cui specificheremo meglio; nel contempo, l'oratore, che cerca il consenso dell'uditorio, si richiama alle convenzioni che caratterizzano, o dovrebbero caratterizzare, l'uditorio stesso. L'efficacia degli argomenti dipende per larga parte dalla coincidenza e dall'armonizzarsi di questi con le passioni collettive. Si è parlato di legge. Aristotele (Rhet. 1375a) la colloca tra i cinque tipi di prove atee hnoi (potremmo dire ' naturali ', di contro a quelle entechnoi, tecniche, che derivano dall'arte retorica): leggi, testimonianze, contratti, tortura degli schiavi, giuramento. Le prove, in teoria, dovrebbero dare consistenza ai fatti, non plausibilità, bensl quella realtà, quella concretezza di verità che sinora non abbiamo rintracciato; ma la definizione antica di ' extratecniche' ci spiazza, e la loro eterogenea natura vieta a ciascuna di esse prove di diventare un punto di riferimento ultimo e definitivo. Riprendiamo per un attimo la legge: già si è visto come si possa 'inventare' un reato senza una legge che valga a delinearlo. Viceversa, capita anche di appellarsi ad una legge che non esiste: questo traspare da una precisa norma processuale (Lys. 30.2-3; Dem. 26.24) che prevede la condanna a morte per chi citi una legge inesistente. Ancora, sempre nella questione di fatto, in cui riveste carattere probatorio, la legge viene discussa e interpretata in sede di dibattimento (cfr. Lys. 10.15-20, 14.5): riferirsi allo ' spirito ' del legislatore comporta di lasciare aperto il campo ad una continua ridefinizione di ' reato '. In ciascuno di questi tre casi esaminati (vuoto legislativo, legge inesistente, esigenza di interpretazione della legge) emerge l'impossibilità di dare contorni obiettivi al reato, ma emerge anche l'insufficienza della legge in quanto prova. Di più: da taluni luoghi pare trasparire, alla fin fine, un discredito della prova in quanto tale: Lisia, che è esplicito in questo senso a proposito della tortura degli schiavi,8 ci lascia intendere che l'avversario adduce come prova a carico il fatto di non avere testimoni da produrre (7 .23)! Iseo (4 .12) richiama i giudici sulla scarsa attendibilità dei testimoni - non di' quei' testimoni, ma dei testimoni in genere in un certo tipo di cause. 7 Si veda come Aristotele (Rhet. 1354a-b) contrapponga legislatore e giudice, l'uno rivolto all'universale, l'altro al particolare, e come lamenti nel contempo la sovranità del giudice conseguente alla scarsa determinazione della legge. 8 LYs. 4.16. L'argomento mostra delle oscillazioni: in 7.34-35 è l'avversario che contesta l'attendibilità della tortura.

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La I tetralogia di Antifon te (o' 10) ci offre, enumer ati, tutta una serie di strumen ti che sorreggono l'argomentazione: fra questi, la testimonianza e la tortura sono mezzi per un verso bastant i per se stessi, per un altro innescano un meccanismo di controllo che produce conferma o confutazione. A chi credere (pisteuein) allora? Che cosa è eikos mallon? Cosl Lisia (7 .38) si interrog a e interrog a i giudici. Sfumando i contorn i della prova, la sua oggettiv ità, sfumano i fatti stessi. A questo si aggiunga il tempo che dissolve le tracce: molte azioni (basti pensare all'Areopagitico di Lisia, ma anche alle azioni successorie di Iseo) venivano esperite a9 distanza d'anni. L'opposizione altamente formalizzata di logos ed ergon, che tanta parte ha nell'ora toria (e non solo giudiziaria) segnala la mancanza di oggettiv ità del fatto, e l'ampio spettro di possibilità occulte assegnate alla parola: nel ' fatto ' non è insita l'evidenza, e sarà il discorso a costruir e fatto ed evidenza insieme. Qui entrano in gioco altri tipi di prove, quelle entechnoi. Antifonte (I tetralogia, o' l O) elenca ciò che è verosimile (eikota), le presunzioni (tekmer ia), i segni (semeia), mezzi dell'argomentazione difficilmente isolabili e distinguibili tra loro quanto a natura. Più chiaro, e unitario, il principio che presied e alloro funzionamento: in tutti e tre i casi si tratta di un processo induttiv o, a partire da dati materiali o dall'analisi di probabilità rispond enti ad una psicologia astratta. In senso ampio, al di là di distinzioni ambigue, tutto pare ricondursi all'eikos, come estrema forma di prova tecnica, l'eikos teorizzato da Corace, cui Tisia aggiunge 0 il support o della topica/ di quelle norme universalmente valide che regolano i meccanismi di sdegno e di indulgenza. Aristote le (Rhet. 1357a-b) definisce il ' verosimile ' come « ciò che avviene per lo più, ma non in senso assoluto ... bensl limitatamente a quelle cose che possono essere altrime nti e, verso ciò di cui è verosimile, è come l'univer sale rispetto al partico lare». E ancora (An. pr. 70a): «il verosimile è una proposizione probabi le: infatti ciò che si sa avvenire o non avvenire, essere o non essere per lo più in una certa maniera, questo è il verosimile ». Di qui base In 12.33, Lisia richiama la corte sul fatto che essa dovrà pronunciarsi sulla che i 7.30: LYS. Cfr. J..6j'NV). -r&v (èx discorsi dei non e ~pj'CùV) -rwv (èx delle azioni discorsi non siano più attendibili (pistoteroi) dei fatti. « CQ », to Cfr. D. A. HrNKs, Tisias and Corax and the Invention of Rhetorik,ento, cfr. XXXIV, 1940, pp. 61-69. Per la tradizione, che fa rimontare a Corace l'insegnam ARIST., Rhet. 1402a e PL., Phaedr. 273b. 9

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si evince che l' eikos è una generalizzazione tratta da cose accidentali e fondata su supposizioni che non vanno oltre la probabilità. Il convincimento (pithanon), di cui l'eikos è strume nto- e come tale, sottop ostodipende dal grado di probabilità esibito. Il frequen te richiamo ai giudici a eu phronein e sophronein non è altro che la richiesta di adeguarsi correttame nte alle generalizzazioni prodott e, ad un eikos, insomma, che viene così ad acquisire una vera e propria ' sostanzialità ', che si assimila o si oppone, indifferentemente, al ' reale '. Ma come il plaideur esibisce la propria vita, la propria condott a, alla giuria, mirando alla costruzione di un orizzonte morale nel quale i giudici possano riconoscersi, e che coincida con quello di chi parla/ 1 così l'operat o del giudice, il verdetto di assoluzione o di condanna, sarà a sua volta oggetto del giudizio della città: se la condott a individuale deve dimostrare di rispondere a sequenze universalmente riconosciute, e riconoscibili da parte dei giudici, così la sentenza di questi dovrà ottemperare ai medesimi criteri. Pertant o, i meccanismi di sdegno-indulgenza funzionano per i giudici nel momento del verdett o, ma funzionano altresì per la città che assiste, quale megagiuria, alla causa; 12 e di tale giudizio superiore il logografo si fa sovente portavoce, ponend o i giudici nel ruolo di imputati. La trasgressione ai meccanismi riconosciuti costituisce il thaumaston. Thaumaston non sarà mai detto del reato, per quanto grande e inaudit o possa essere; si tratterà, in tale caso, di un megiston adikema, ma non sarà mai di per sé motivo di stupore. T haumaston non è dei fatti, ma dell'argomentazione, ed è lo stupore che consegue ad una sequenza paradossale, ad una deviazione da certe premesse: il compor tamento di Diogitane, che pure è formalmente illegale, ' stupisce ' in quanto disattende le aspettative implicite nel doppio rapport o di parente la che lo lega ai pupilli (Lys. 32.24); ancora, è stupefacente che la licenza venga autorizzata da chi detiene un potere ufficiale (Lys. 15.6), non già il fatto che uno si prenda libertà discutibili. 11 Ricordiamo che i collegi giudicanti erano molto affollati e comprend di varia estrazione: era quindi più facile ottenere l'identificazione nel bassoevano cittadini l'alto. Comune è pertanto l'argomento sullo stato economico precario, sulla che non nelpovertà, sulla debolezza dell'imputato. 12 LYs. 12.91: «Vi consiglio di non condanna re voi stessi assolvend illudetevi all'idea ' il voto è segreto'; proprio voi rendete chiari alla cittào costoro: non i vostri sentimenti». Più spazio ai sentimenti religiosi, portato di una filosofia popolare, invece da Antifonte (la tetralogia, y' 9): «Non è a noi che verrà a chiedere è concesso ragione, ma è contro di voi che si avventerà l'ombra furiosa della vittima».

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Thaumaston si configura come trasgressione non ad una legge ma ad un eikos: e si realizza attraverso una forzatura delle sequenze plausibili, una forzatura che non a caso è spesso detta tolman (p. es. Lys. 13.73), ' aver l'audacia ', ' osare ', in senso chiaramente negativo, e che spesso si accompagna a giudizi morali (p. es. aischron, anaischyntia, ecc.). In quel parallelismo di cui s'è detto tra plaideur e collegio giudicante in relazione, rispettivamente, l'uno al collegio, l'altro alla città (superiore organo di controllo morale), l'eikos sta a segnare la ricostruzione di chi offre la propria immagine di sé, laddove il thaumaston è proposto come immagine dell'avversario ed equivale a squalificarlo: riducendo tutto al comune denominatore dell' eikos, le due parti si muovono proponendo un verosimile-probabile che supera quello dell'avversario, e opponendo pertanto ad un eikos un eikoteron, al ' probabile ' un ' più probabile '. In tal modo vengono ad essere ambigui i confini che separano il ' meno probabile ' dal thaumaston. Cosl, eikos e thaumaston sono le due alternative, le uniche due, entro le quali si muove il giudice: non accettare ciò che è mallon eikos significa trasgredire all' eikos in quanto tale e porsi in una situazione di thaumaston di fronte alla città. « Non merita stupore il loro (scil. della parte avversa) comportamento, bensl il vostro (scil. dei giudici) » dice Lisia (25 .32): di contro alla più frequente captatio benevolentiae del plaideur che, tra i tanti argomenti, trova spesso il modo di lodare e dare per scontato il buon senso del giudice, c'è anche l'attacco diretto al collegio giudicante; il punto terminale di questa parabola del thaumaston, con cui si infierisce sistematicamente sull'avversario, ricade proprio sul collegio stesso. Riassumendo pertanto i singoli punti, la logografia giudiziaria si trova a rispondere su tre fronti diversi. Da un lato, all'obiettività (la cui controparte è la 'menzogna '), che viene promessa e protestata, ma i cui contorni sfumano, e con questi anche il reale dilegua. Come osservava Socrate, i tribunali non sono il luogo deputato alla ' verità ', a ciò che è o a ciò che fu - e nessuno strumento vale a recuperarla -, bensl sono il luogo dell'eikos. Esso consiste nell'esibire il fatto, con le sue premesse, in base a ciò che dovrebbe essere, o si dice e si pensa che sia, secondo meccanismi noti a tutti e universali; consiste nell'attribuire alla concatenazione degli eventi, e al fatto stesso, un'evidenza che non poggia su un'obiettivi tà dimostrabile con prove materiali, bensl sul fatto del

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consenso universale. Tutti ne sono al corrente, pantes isasi: 13 tutto si svolge sotto gli occhi altrui (Lys. 7.18); l'eikos permette a chi parla di integrarsi, individuo, nella collettività attraverso il passaggio obbligato della affollata giuria, ed è quindi, sempre, argomento a discarico. Quanto al thaumaston, più che oppositivo rispetto all' eikos, del quale è pur sempre negazione, potremmo dire che gli è complementare al negativo. Come l'eikos delinea l'immagine del plaideur, così il thaumaston delinea l'immagine dell'avversario, connotandosi sul piano etico (e non giudiziario, come si è detto) : in altre parole, nel discorso del logografo una tesi riveste un massimo di eikos con un minimo di thaumaston per quello che concerne la propria condotta, e un minimo di eikos con un massimo di thaumaston per l'avversario. Però thaumaston non è oppositivo rispetto all'eikos, in quanto è sì deviazione da sequenze universalmente riconosciute, ma, mentre queste preesistono alla trasgressione, e non trovano nella trasgressione il loro motivo di esistenza, non vale invece la relazione inversa. Insomma, in teoria, può esserci eikos senza thaumaston, ma non può esserci thaumaston senza eikos. L'arte dellogograf o presuppone la conoscenza delle sequenze probabili, e la loro esibizione alla giuria: disciplina che non afferisce a nessuna scienza particolare e non richiede il supporto dei principi primi (Arist., Rhet. 1354a), la retorica sconfina meglio nella politica, come vuole Aristotele, ma anche nella psicologia dei comportamenti di massa, dandoci infine un prodotto di natura emozionale, e proprio per questo effimero. 14 La sequenza paradossale diventa in tal modo un argomento ' a più forte ragione '; eliminata la verità, come poco feconda ai fini del pithanon, e irraggiungibile con i mezzi predisposti dalla prassi giudiziaria, al logografo non resta che muoversi nel campo delle sequenze probabili; e il thaumaston è espediente atto a polarizzare l'eikos e ad opporre radi13 E, viceversa, mancando chi possa testimoniare del fatto, questo viene dato come infondato; è il caso del matrimonio di Pirro nella terza orazione di Iseo. 14 Plutarco (Mor. 504c) racconta di un cliente di Lisia, che, acquistato il discorso preparatogli da questi, l'indomani si recò dallogografo: letto la prima volta, il discorso era splendido, ma riletto successivamente, mostrava dei cedimenti. Lisia rispose: « Ma tu non devi leggerlo una volta sola davanti ai giudici?». Da questo aneddoto risulta evidente come lo scopo sia quello di costruire un discorso che produca dei convincimenti, e non che regga alla discussione: immediato, occasionale, quindi, di contro ad una dimostrazione rigorosa che si situa invece nell'atemporalità.

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calmente le due parti e le due tesi, tra le quali la giuria è chiamata a dare un si o un no senza alcuna possibilità di mediazione e di integrazione. Eu phronein e paraphronein sono quindi le alternative offerte ai giudici nel momen to della valutazione; il primo implica il rispetto dell'eikos, laddove il secondo significa disattenderne le esigenze. La dikaiotate gnome, alla quale i logografi richiamano il collegio giudicante, altro non è se non la richiesta di adeguarsi alle convenzioni; disattenderla comporta lo scadere nel thaumaston non già in un'aula di tribunale bensl in quel processo più ampio e meno formalizzato in cui la città si fa spettatrice e giudice. E la dottrin a dell' eikos segna ad un tempo la tipicità del discorso giudiziario e la riproposta, nel microcosmo del tribunale, delle struttur e più elementari della vita sociale.

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PATRIZIA PrNOTTI

ARISTOTELE, PLATONE E LA MERAVIGLIA DEL FILOSOFO La colorata meraviglia sta prima di ogni metafisica e da questa è digerita ed espulsa. (M. Brusatin) Né alla filosofia, né al diritto, né alla scienza, per amore del concreto, piace sprecare energie in ciò che chiamiamo sogni. Si dicono sveglie. (M. Serres) Dinanzi ad una rosa. ci comportiamo in modo incomprensibile. Conquistati dalla sua bellezza, con un gesto di meraviglia, le togliamo la vita. (E. Jabès)

Dall'inaugurale passo del Teeteto alle celebri considerazioni espresse nel primo libro della Metafisica, la meraviglia ('t'Ò 8cxu!J.&~e:~v) non sembra costituire problema teorico né assurgere a oggetto di teoria. Benché le sia riconosciuta, come vedremo, una certa dignità epistemica, non è fatta segno della stessa attenzione speculativa che altre passioni, prima fra tutte quella del desiderio, ricevono da parte della riflessione filosofica. Questo dato non può non sorprendere, non solo se ricondotto alla funzione che ad essa viene attribuita nei due testi citati, ma anche in considerazione del fatto che entro l'orizzonte linguistico e concettuale di 8cxu[.Lcx-8cxu!J.cxcr't'6vecxu!1-&~e:Lv s'inscrive un compleSSO intreccio di problemi psicologici, estetici e cognitivi tutt'altro che marginali nella cultura ateniese del quinto e del quarto secolo e senz'altro presenti alla riflessione filosofica. Questo stato di presenza/assenza indica all'indagine un duplice ordine di problemi da affrontare preliminarmente. In prima istanza va de-

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PATRIZIA PINOTTI

lineata, almeno nei tratti di più certa e rilevante attestazione e senza pretesa di esaustività, quell'area semantica e concettuale della meraviglia che al pensiero filosofico è mediata da altri ambiti di pensiero. Su tale sfondo è possibile mettere più efficacemente a fuoco il valore e il senso che la relazione fra meraviglia, filosofo e teoria acquista all'interno della riflessione platonica ed aristotelica. Il punto d'avvio della presente indagine si pone al crocevia di questi due livelli: sull'indeterminatezza teorica della meraviglia filosofica si proietta il cono d'ombra di una categoria dai bordi incerti che, imbrigliata nella trama analogica visione/emozione, avanza o arretra nei significati e nei valori a seconda dei soggetti che la provano e dell'ordine di fenomeni, oggetti e dispositivi che la suscitano. Lo spettro dei significati registrati nell'uso linguistico del campo lessematico e(X.uf.La.-8(X.u[J.a.crT6v-8(X.ufJ.&~~~v (di cui stupore, meraviglia e ammirazione spesso appaiono inscindibili flessioni) ne indica la costante funzione di connotatore del regime percettivo della visione. Altissima risulta infatti la frequenza dei sintagmi 8(X.Uf.J.