Il grido e il silenzio. Un in-contro tra Celan e Heidegger 9788857520254

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Il grido e il silenzio. Un in-contro tra Celan e Heidegger
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itinerari filosofici n. 95 Collana diretta da Sandro Mancini

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Comitato scientifico: Massimo Barale (Università di Pisa), Josep Maria Bech (Universitat de Barcelona), Rossella Bonito Oliva (Università “L’Orientale” di Napoli), Silvana Borutti (Università di Pavia), Beatrice Centi (Università di Parma), Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi dell’Insubria), Massimo Marassi (Università Cattolica di Milano), José Manuel Sevilla Fernández (Universidad de Sevilla).

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LAURA DARSIÉ

IL GRIDO E IL SILENZIO

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Un in-contro fra Celan e Heidegger

Prefazione di Massimo Marassi

MIMESIS Itinerari Filosofici

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© 2013 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Itinerari Filosofici, n. 95 Isbn 9788857520254 www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected] In copertina: Giosetta Fioroni, Per Paul Celan. Papavero e memoria (particolare), 2010. Courtesy Galleria La Diagonale, Roma. Foto di Sario Manicone - Roma.

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INDICE

PREFAZIONE di Massimo Marassi

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INTRODUZIONE

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L’EVENTO 1. L’IN-CONTRO 1.1. Sotto di noi, un letto di neve... 1.2. Tradurre la lingua della sera 1.2.1. Il “salto” del pensiero poetante 1.2.2. “Viva la rosa vivente!” 1.2.3. Celan e la fenomenologia 1.3. Ombra e ultimità 1.3.1. Tenebra e oscurità

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2. LA TORSIONE 2.1. Al fondo dei ghiacciai… 2.1.1. L’ultimo soffio 2.2. La vita del poema 2.3. Il dialogo nel monologo 2.3.1. Una scrittura esiliata 2.4. Pensare e poetare a Todtnauberg 2.4.1 Nella “data” della creaturalità 2.5. “Insieme alla stella. Vicino alla terra” 2.5.1. La mano e la tecnica 2.5.2. Una conversazione “epocale” 2.6 L’enigma di un affidamento

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3. L’UNHEIMLICHE 3.1. Una dimora estraniante 3.2. La lingua luttuosa dell’amore

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4. LO STRAPPO 4.1. La cecità del cantore 4.1.1. Parola e follia 4.2. Poesia e profezia 4.2.1. Celan e Heidegger: il dio dei poeti 4.2.2. Poesia mistica e Salvezza 4.2.3. “I morti – Francesco, mendicano ancora” 4.3. Poesia e memoria 4.4. La temporalità del cuore

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5. I FIORI 5.1. Dal papavero alla rosa di Nessuno

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BIBLIOGRAFIA

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INDICE DEI NOMI

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Ai solchi che mio nonno tracciava nella terra

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Giosetta Fioroni, Paul Celan giovane (carboncino su carta), 2010.

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NOTA DELL’AUTORE

IL TUO ESSERE stanotte. Con parole, ti ho ricondotto qui, e ci sei tutto è vero e un’attesa del vero. (Paul Celan, Il tuo essere di là)

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DI LÀ

Il lavoro qui presentato è l’esito poetico di una profonda passione e di un lungo percorso di studi dedicati alla poesia di Paul Celan e al suo in-contro con il pensiero di Martin Heidegger. Una ricerca teorica che nel tempo ha comportato interruzioni e riprese sullo sfondo di quella pervasione che abita il desiderio di un soggetto, ammantandone costantemente la parola di velamenti e svelamenti – aloni di senso, scontornati dal bagliore di una costante intermittenza dove gioia e dolore possono coabitare a lungo, in un tempo dai confini illanguiditi. Nella temporalità di un incanto, dove la vita non è stata che un lungo sogno inscritto in un fuso di parole, si è svolto il filo rosso di questo testo: trama e ordito ne hanno tessuto la scrittura dell’esistenza, nell’attesa che il cielo potesse lambire la povertà della terra, transitandovi per qualche istante… Dal dono di un’irruzione inattesa ha preso dunque avvio questo lavoro, nell’anno 1996, con la tesi di laurea “Dall’oscuro all’oscuro”. Il rapporto fra parola e silenzio nella poetica di Paul Celan: un confronto paradigmatico con il pensiero di Martin Heidegger. Da allora la poesia si è fatta strada lungo le radure ombreggiate e i sentieri interrotti della parola, nell’oscuro in-contro di archi gotici e feritoie, cercandone incessantemente il respiro. Ma il suo soffio era già là, dov’è sempre stato, al fondo di quei ghiacciai che abitano la memoria, nella rievocazione di una parola desiderante che oggi, restituisce alla vita il viatico silenzioso di un approdo fiorito. Del giardino estenuante della scrittura, memore di un tempo dell’incanto, scandito dall’incedere di un lunghissimo momento, desidero porgerne i fiori a coloro che ne hanno sostenuto il desiderio.

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Il grido e il silenzio

È con affetto e ammirazione che ringrazio Giosetta Fioroni, amica di pensiero e artista raffinata la cui opera pittorica Papavero e memoria dedicata al poeta, inaugura l’apertura floreale di questo lavoro: alle sue parole di incoraggiamento va il mio grazie più vivo – all’intensità del conversare in giardino a Trastevere, nell’umiltà di un comune pensare a Celan; a Massimo Marassi vanno fiori preziosi del pensiero, cui oggi non trovo parole per esprimere la profonda gratitudine per il suo costante e imprescindibile sostegno; a Bertrand Badiou e a Eric Celan giunga la mia riconoscenza per la gentilezza, la disponibilità e l’autorizzazione alle mie traduzioni dei poemi di Paul Celan; ringrazio Rossella Minini, amica di una vita nei racconti del cuore – studiosa di Hölderlin e preziosa interlocutrice nelle traduzioni delle poesie celaniane; un fiore a Sergio Contardi per lo stile inarrivabile del suo fine ascolto e l’affetto profondo comunicati nel costante sostegno a questo lungo lavoro; a Mariapia Bobbioni, creatura di rara bellezza e amica di pensiero vanno i miei voli poetici più belli, percorsi insieme, sulle alture dell’anima; ad Antonio Carnevale, amico caro e scrittore raffinato, rivolgo la mia gratitudine per l’attenta restituzione di una viva vicinanza; a Gustavo Bonora e alla sua profondità artistica va la mia riconoscenza per i preziosi spunti sull’irrappresentabile in Celan; fiori di gratitudine ad Andrea Gori, compagno di vita cui devo il commovente e indimenticabile sostegno nello spettacolo su Celan ad Assisi: in memoria dei suoi raffinati dipinti con la luce, nell’ispirazione al tema poetico della “cecità del cantore”; al Maestro Giuseppe Magrino per le sue composizioni musicali sulla poesia di Celan ad Assisi: gioielli artistici d’inesauribile riflessione poetica; a Doris Merz, regista teatrale di grande intensità, cui rivolgo un grazie sincero in omaggio alle amabili conversazioni sul poeta bucovino; un fiore a Evelyn Paetz, angelo indimenticabile della poesia che abiterà per sempre nella memoria di un’immensa commozione e a Enrico De Dominicis per la straordinaria interpretazione celaniana di Fili di soli; all’arte di ripresa di David Fanelli e al suo sguardo sensibile sulla poesia di Celan; all’amico Alessandro Bertirotti e alle sue riflessioni poetiche sul silenzio e la parola; a Mattia Luigi Pozzi per le sue preziose indicazioni durante il lavoro di bozza; al germanista Joachim Seng, cui devo le ultime segnalazioni sui manoscritti all’Università di Harvard nel Gespräch fra Celan e Heidegger; a Helmuth Vetter, filosofo e studioso del poeta bucovino nei rapporti con la filosofia heideggeriana, cui sono debitrice dai tempi viennesi per la ricerca sulle tematiche della traduzione e della “data” nella poetica di Paul Celan; ringrazio l’amico Giampaolo Verga per le sue intuizioni musicali sul poeta e le acute osservazioni filosofiche durante i nostri incontri; grazie a Marcel Ionesco, amico celaniano le cui origini rumene, hanno condotto il mio pen-

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Nota dell’autore

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siero sui luoghi giovanili del poeta; a Mario Ajazzi Mancini, in ricordo dei laboratori condotti insieme su Celan; a Giovanna Lampugnani per la generosa competenza sui “poeti della povertà”; a Luigi Adamo, Susanna Bausi, Valeria Fiorani, Paola Macchi, Rosalba Maletta, Sonia Pestelli, Riccardo Simoni, per la loro indimenticabile vicinanza nello spettacolo teatrale Fili di soli su testi di Paul Celan, alla Basilica di San Francesco in Assisi. Ringrazio profondamente tutti i miei familiari che negli anni mi hanno amato e pazientemente tollerato nella tormentata dedizione a questo mirabile poeta. A mio nonno Alfredo, creatura fra le più semplici e intelligenti, – ai solchi da lui tracciati nella terra, cui il libro è dedicato – giunga il mio grazie più sentito, in memoria di quella poesia che dimorerà per sempre, nel suo respiro alla vita.

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Giosetta Fioroni, Paul Celan (carboncino su carta), 2010.

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MASSIMO MARASSI

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UNA SILLABA NON SI DIVIDE. A PROPOSITO DELLA SILLABA «SCHMERZ»

Di fatto un libro su due autori: Celan e Heidegger. Più a fondo un libro che sa e racconta di poesia e di filosofia, ma forse per ascoltare storie e raccontare l’invisibile agli occhi. Un libro che porta nella terra del cuore e parla di altri, per dar voce ai segreti di una scrittura altrimenti piegata su se stessa, che si nutre di parole oblique. Forse un libro con un desiderio neppure celato: di comprensione da parte dei lettori, di astensione dal riso di fronte alle ferite degli altri e ai mali del mondo. Un racconto di vita che si pone in ascolto del prossimo, perché proprio tutti hanno i loro stratagemmi per sopravvivere al dolore sordo e profondo della terra: quando genera lo fa sempre nell’attesa della morte. Perciò alcuni tacciono, altri compiangono, altri ancora sorridono. Un po’ di tolleranza però la desiderano tutti, poiché tutti soffrono. Ma nella diffrazione dell’obliquità un aspetto balza immediatamente agli occhi: innanzitutto è un libro su Celan che insegue Heidegger, cercando un incontro che in realtà non sarà mai tale e forse ottenendo solo un colloquio denso di equivoci, di parole trattenute, di ammissioni ricusate. Un dire poetico che scorge nella filosofia dei Sentieri interrotti un supporto ideale per la ricerca di un senso profondo e che tuttavia si scontra con i frammenti di una storia per Celan indimenticabile e per Heidegger inconfessabile. Ma su questa superficie del contenuto e della scrittura, questo libro insegna molte altre cose che provo a riassumere, rispettando trama e ordito delle espressioni e condividendo l’intenzione. È sufficiente leggere qualche verso dei molti che Laura Darsié ha scelto, tradotto e proposto come enigmi: Celan si aggirava tra le parole come un inquieto viaggiatore su un continente. Nelle parole credeva fino alla morte e sembrava a tal punto colpito dalla loro forza da troncarle, aggrovigliarle e torcerle fino a farne uscire l’essenza e l’umore che celavano da secoli per poi subito fuggirne via, colpito e ferito, deluso e ingannato, senza pace in qualsiasi luogo, sofferente per i loro misteri che pativa come in un incubo, con il presentimento di un futuro che non sarebbe mai accaduto. Cioran, al

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Il grido e il silenzio

quale Celan aveva tradotto Sommario di decomposizione, il suo testo forse più bello e struggente, gli riserva espressioni ammirate: «Essere segnati dalla fatalità è un’elezione o una maledizione? Entrambe le cose contemporaneamente. Questo doppio aspetto definisce la tragedia. Ora Celan era un personaggio, un essere tragico. Per questo è per noi qualcosa di più che un poeta»1. Appunto «un essere tragico» – non l’astratto soggetto della filosofia. È questo un punto che vorrei sottolineare: l’autrice, incrociando poesia e filosofia, individua l’essenza dell’uomo nel tratto più antico che lo distinse dalla pietra e dagli dèi. Ma si può trasformare l’esistenza in una tragedia solo quando l’io e la poesia sono perseguitati dal perturbante (Unheimliche), dall’estraneo e soltanto così, da esso pungolati, possono incamminarsi verso un’auspicata liberazione. Non tanto, o meglio non solo in senso freudiano, ma, più originariamente, perché l’io abitato dalla poesia convive da sempre con ciò che è costitutivo della consapevolezza della propria mancanza – dell’ombra che sta al fondo del sé e che lo condanna a un destino di perdizione – e, al contempo, con ciò che si ritrae nel segreto e in un nascondimento inarrivabili, semplicemente non disponibili, ma per questo fonti impresentabili e potenti della poesia stessa. Nell’anello della ripetizione che si distende tra il proprio e l’altro, l’io è sempre un altro io e non un io identico a se stesso, è sempre un altro che brama l’incontro. Nancy direbbe che l’essere è singolare-plurale. Lo stesso vale per la singolarità e pluralità della poesia. Al culmine del processo poetico, la poesia diventa nome proprio. Il nome e la sua assenza: il Nulla e il Nessuno dell’esperienza mistica cristiana ed ebraica2, ciò che Lévinas chiama l’unicità del nome proprio. Restano tracciati il contenuto e la via alternativa di una poesia priva di un riferimento reale, che non cattura e che nemmeno trasfigura la realtà, perché vuole insegnare in mille modi il nome per un’assenza, per un passato diventato cenere, e così continuare a sperare in un futuro. Si tratta di un passaggio dall’essere tragico all’io che cerca se stesso e scopre che il nome proprio non ha referenza, ma insegue una mancanza costitutiva e irraggiungibile. La tragedia o l’insoddisfazione della coscienza è già inscritta in questo apparire di suoni che però non permane, ma sfugge alla presa e non è 1

2

E.M. CIORAN, Rencontres avec Paul Celan, in Cahiers de l’Herne, n. 90, Cioran, dirigé par L. Tacou e V. Piednoir, Editions de l’Herne, Paris 2009, p. 321; tr. it. Incontri con Paul Celan, in Fascinazione della cenere. Scritti sparsi (1954-1991), a cura di M. A. Rigoni, il notes magico, Padova 2005, p. 49. Cfr. PAUL CELAN, Psalm/Salmo, Gesammelte Werke in fünf Bänden, hrsg. von Beda Allemann und Stefan Reichert unter Mitwirkung von Rolf Bücher, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1983 (d’ora in poi GW), Bd. I, S. 225.

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M. Marassi - Una sillaba non si divide. A proposito della sillaba «Schmerz»

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dominabile. Occorre lasciare il sogno della pienezza per rimanere toccati dalla mancanza, usare le parole come espressione a mezza voce, mediante un dire che consiste più in ciò che si fatica a intravvedere che nelle cose nominate ed esposte con chiarezza: «Da’ al tuo pensiero anche il senso: dagli l’ombra»3. Dove non c’è senso la lettera rimane muta, l’ombra stessa è il senso. Il senso: la parola con cui Heidegger ha trasformato la fenomenologia in ermeneutica. E al senso come ombra occorre conferire un peculiare rilievo. Infatti questo è quasi un imperativo, un modo di costruire ontologicamente l’identità dell’esistenza, sapendo che l’esistenza è poi sempre un invito a pensare l’estraneità: per Heidegger una tradizione, per Celan un mondo. Ma l’estraneo è anche il luogo della scoperta, finalmente non ridotto all’inaspettato e al terrificante, all’oscurità e al mostruoso. Estraneo può anche essere il segno della lontananza a cui si aspira, ciò che come linea di orizzonte insegna il limite e governa la speranza della trasformazione. Può anche essere la linea che improvvisamente si avvicina e introduce una differenza che, a poco a poco, diventa lacerazione e varco tra soggetto e storia, soggetto e mondo, tra io e altro, tra l’io e se stesso. Il senso mostra così i suoi infiniti volti. Non si pensi però come esito di questo itinerario a una coscienza mortificata. La finitezza è al riguardo una buona lezione educativa: non tutto va conquistato e ridotto alla nostra comprensione, non ogni desiderio va assecondato come se fosse la legge che ci spinge a trovare un senso a tutto, per l’appunto anche all’estraneo. Non sarebbe sete di dominio questa? Spesso la volontà di potere è ravvisabile nel tentativo mal celato di riportare tutto a sé, anche se nei contorni impalpabili del dire poetico, di una torsione della lontananza in prossimità che, nell’ambivalenza dell’esaltazione e dell’ammutolimento di tale sforzo di appropriazione, celebra una parola spezzata che sembra farsi vezzo, posa, ironia. Ma qual è il senso della celebrazione di una «torsione» del dire poetico – «non dividere il sì dal no» – , quando il dire significante dovrebbe essere sì al sì e no al no? Perché il nominare dovrebbe arretrare di fronte all’estraneità che è costitutiva del soggetto allo stesso modo di ciò che gli è più intimo e familiare? Celan sembra ritrovarsi quasi inerme: la torsione del linguaggio incontra la responsabilità del destino che si fa parola definitiva. Del resto anche Dante insegna che l’Inferno è dicibile. In definitiva, un’altra osservazione mi pare necessaria. Laura Darsié non teme di tessere e tradurre testi che prima di giungere alla parola «salvifica» 3

P. CELAN, Sprich auch du/Parla anche tu, GW, Bd. I, S. 135.

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Il grido e il silenzio

devono attraversare il dolore. Cos’è dunque questo «dolore insostenibile» o «indicibile» di fronte al quale il poeta ammutolisce? Non si rende testimonianza al dolore continuando ad esibirlo come se fosse il luogo dove l’io risulta irraggiungibile e l’altro – l’estraneo o il perduto per sempre, la cenere, oppure il non perdonabile – colui che è sempre in colpa e deve patirne all’infinito, morirne per l’eternità. Sembra esserci della finzione nella torsione poetica che non paga né piace, anzi respinge. Appare infatti un oscuro accenno a una parola di sgomento, che però cerca il conforto; che si acquieta in un passato immodificabile e rattrappito, ma ama la vertigine di un futuro liberante e di trasformazione, per il carnefice e per la vittima. Celan, forse, era tutto questo: sguardi disperati sul mondo, interminabili passeggiate e silenzi infiniti riservati a chi amava. Come in una malattia dell’anima il poeta si mostra come crocifisso ai suoi incantesimi, alle parole perdute, prigioniero di una coazione a ripetere per cui l’altro è sempre in colpa ed egli sembra destinato a una parola che non redime, né l’estraneo né se stesso. Molte parole, ma pressoché indecifrabili, chiuse in uno spazio volutamente recintato e senza entrate, dunque condannato all’incomunicabilità, se non addirittura a stimare nessuno degno di essere alla pari con quel dolore, nessuno all’altezza del segreto, nessuno interlocutore e amico, nessuno degno della confidenza e dell’abbraccio. Almeno in Heidegger – ma forse, trattandosi solo di un enunciato ontologico, anche questa è una finta mossa – il «dolore spezza», ma anche apre e segna la differenza, lascia entrare il totalmente altro, se non segno di redenzione almeno riconoscimento di una finitezza dignitosa. «Schmerz versteinerte die Schwelle»: ma né Trakl né Heidegger restano al di qua della soglia. Per quanto l’itinerario si faccia sempre più impervio, l’autrice lo compie con cautela, ma senza desistere. L’incontro tra il poeta e il pensatore non porta necessariamente a una comunanza, ma – e forse questo è il suo senso, la sua valenza più profonda – può segnare la differenza e svelare la finta: è un rapporto impossibile. È un po’ come se l’estraneo non fosse mai abbastanza estraneo e l’auspicato «colpo d’ascia nel mare ghiacciato che è in noi» (Kafka) a nulla servisse se non a rivelarsi fallato, senza scalfire affatto l’integrità di un io pietrificato e inamovibile, che non chiede nessuna trasformazione ma, limitandosi alla torsione, svela il risibile di una performance quasi attoriale. Si capirebbe allora perché Cioran parlava di Celan anche come «personaggio» della tragedia. Ciò che sorprende di questa poesia faticosamente «balbettante», esiliata dal mondo, è proprio che, almeno in apparenza, non mira a far accadere nulla: ripetuta all’infinito ma a dispetto dei fatti che neanche sfiora, detta e ri-

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M. Marassi - Una sillaba non si divide. A proposito della sillaba «Schmerz»

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detta a se stessa come un incantesimo e protesa verso una «patria abissale». Sembra un dire che segue il contorno di una storia immodificabile, quieta, quasi abbandonata indolente al lento passare delle cose che pure restano tutte uguali, si succedono tragiche ma rassicuranti, prive di incrinature:

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IL MONDO DA IMITARE BALBETTANDO, del quale sarò stato ospite: un nome, trasudato giù dal muro, dove si eleva una ferita che lambisce con la lingua. DIE NACHZUSTOTTERNDE WELT, bei der ich zu Gast gewesen sein werde, ein Name, herabgeschwizt von der Mauer, an der eine Wunde hochleckt4.

Eppure un evento accade, qualcosa nel dire avviene, la poesia è parola che fonda, è il processo che istituisce eventi duraturi, i quali in sé sarebbero travolti nel passato e non avrebbero futuro; è carne del soggetto, traccia della storia. L’evento pone fine a un’epoca e soprattutto a una coscienza che credeva di poter perdonarsi ogni azione e omissione, mentre si scopre desolatamente giunta al termine della propria insensibilità, colpevole della barbarie e della crudeltà della Shoah. La negazione del mondo e dei suoi orrori infatti non può avvenire per opera di Dio, ma solamente tramite il dire stesso dell’uomo, facitore e dicitore della malvagità della storia. Qui temo che Celan cada in un equivoco: la crisi della ragione calcolante occidentale e il subentrare al suo posto della parola dell’Essere secondo la modalità con cui Heidegger intenderebbe rinnovare la terra della sera, come possono essere confusi con la risposta all’innominabile orrore del sacrificio di un popolo per il delirio dell’assenza di ragione di fronte a cui il silenzio celebra la dignità della parola? Che rapporto c’è tra l’etica originaria di Heidegger, che dovrebbe anche sostituire la politica, e l’assenza di ogni rapporto o le relazioni di una comunità interrotte con la forza? In verità nessuno. È questo il tramite inafferrabile della consapevolezza di un accordo che non ci sarebbe mai stato. Ed è appunto qui, in questa sospensione e in tale fraintendimento, che si logora l’attesa, vana, di un’intesa impossibile. Pensare e poetare furono 4

P. CELAN, Die nachzustotternde Welt/Il mondo da imitare balbettando, GW, Bd. II, S. 349.

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Il grido e il silenzio

infatti destinati a restare isolati come sulle cime di monti lontani. Il pensare non fu mai volto al pentimento e il poetare patì il profondo imbarazzo di credere che «nessuna cosa sia dove la parola manca», perché ha perso ogni speranza che il nominare sia possibile, che raggiunga qualcosa, che designi la realtà. Semmai la parola conserva e raccoglie macerie, e di fronte a un mondo di cenere testimonia lo sforzo di un respiro oltre la morte: il grido della speranza. Le parole non dicono cose, piuttosto le serbano nascoste per un tempo a venire, le tengono in sé. Dunque nella crisi del linguaggio, che pur designa «il rapporto di tutti i rapporti», Heidegger fa esperienza dell’inutilità del «doppio», mentre Celan coglie i segni di una vita perduta e rimossa. Siamo così andati al di là della metafisica con una stretta di mano. Se la relazione sensibile-soprasensibile ha governato la metafisica dell’Occidente, Heidegger intende, con Nietzsche, contrastare l’idea di un mondo vero situato al di là di un mondo falso, questo delle copie brune ed effimere della vita; Celan va ben oltre e non accetta né la duplicità metafisica, né lo scarto tra parola e realtà, essendo questa fagocitata all’interno della parola poetica, vivificata, purificata, così restia nell’incatenarsi alla designazione da muoversi tra il puro sillabare capace di porre di fronte, nella parola, non più cose, ma cose nelle parole, puro senso, mondi di vita. La duplicità platonica genera cose mute e segni irriconoscibili: «Illeggibilità di questo mondo. Tutto doppio» (Unlesbarkeit dieser Welt. Alles doppelt)5. Ma di fronte a un mondo che perde nitidezza fino a diventare indecifrabile e a un linguaggio che cerca incessantemente il mondo che rimane lontano, indicibile proprio perché illeggibile – precisamente agli antipodi di quanto sosterrà Hans Blumenberg –, ecco una poesia che parla e significa solo all’interno del proprio ambito: non più destinata a un continuo erramento e sospesa rispetto a una realtà sbiadita, ma finalmente in grado di alimentarsi solo di ciò che è riuscita a stringere tra le mani. La parola del cuore esalta la mancanza, non ne resta vittima, vive dell’assenza e della sottrazione, resta spogliata dalla realtà e sembra evaporare, trasfigurata nell’ospitare l’estraneo e cedendo alla follia di includere, per amore, l’altro sotto il giogo antico della memoria e della nominazione, non lasciando neppure la libertà di volger via lo sguardo, di arretrare di fronte a un possesso che tutto vuole, in un’intuizione pura dell’altro che diviene io dissipato nella parola ma presente nel gesto: «Non vedo alcuna differenza fra una poesia e una stretta di mano»6. Il luogo della poesia si rivela allora un luogo essenzialmente umano, un luogo che sta raccolto e contratto nel tempo, e il linguaggio poetico 5 6

P. CELAN, Unlesbarkeit/Illeggibilità, GW, Bd. II, S. 338. P. CELAN, Brief an Hans Bender/Lettera a Hans Bender, GW, Bd. III, S. 177.

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M. Marassi - Una sillaba non si divide. A proposito della sillaba «Schmerz»

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di Celan è quindi solo apparentemente vicino alla concezione ontologica di Heidegger, secondo cui il linguaggio è la casa dell’essere e della sua verità; allora si comprende perché l’incontro doveva fallire, in quanto rappresentava solo l’occasione di dare presenza a una differenza incolmabile, a due direzioni diametralmente opposte di interpretare il mondo. Il linguaggio di Heidegger è il linguaggio dell’essere, il più lontano, che parla nell’uomo, quello di Celan è, di contro, il linguaggio della vicinanza, della stretta di mano, che va verso l’altro e apre lo spazio del riconoscimento, condensa la vita con le cose, ma patisce la cesura delle parole. Se non c’è una doppia realtà, una oggettiva e una figurata, ma solamente un tu con cui condividere il sentire, tutto è unico. La realtà è assoluta unicità e singolarità: l’immagine è la realtà: E cosa sarebbero allora le immagini? Ciò che irripetibilmente, sempre di nuovo irripetibilmente hic et nunc viene percepito e ha da essere percepito. Il poema sarebbe il luogo dove ogni sinonimica viene meno; dove tutti i tropi sono condotti ad absurdum7.

Come avrebbe detto Bachofen, la parola diviene «forma cava» – aspetto rilevante della riflessione dell’autrice – che tutto raccoglie e conserva in sé, immagine che rappresenta se stessa e nient’altro, vita e morte, amore e odio, morti e nascituri, finché regge il confronto, finché riesce a mantenere vivo il rapporto con il mondo, ridando futuro a un passato irrevocabile e incorreggibile. Qui s’inverte l’estasi temporale e il tempo da paziente misura del minuto che passa diviene l’ora «che non ha più sorelle», quando la verità appare senza incantesimi e senza promesse: È tempo che sia tempo. È tempo. Es ist Zeit, daß es Zeit wird. Es ist Zeit8.

Allora la realtà sta tutta nella parola che ora sembra in grado di sostenere il peso massiccio, la dinamica opaca, il rumore sordo della vita che cresce e che passa. Il racconto si lega con passione a queste parole più reali della stessa fatticità delle cose, tradotte in vita foriera di incontri incorruttibili: Di nuovo incontri con parole isolate come: 7 8

P. CELAN, Der Meridian/Il Meridiano, GW, Bd. III, S. 199. P. CELAN, Corona/Corona, GW, Bd. I, S. 37.

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Il grido e il silenzio

pietraia, cespo, tempo.

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Wieder Begegnungen mit vereinzelten Worten wie: Steinschlag, Hartgräser, Zeit9.

Come ultimo motivo di riflessione vorrei sottolineare come Laura Darsié giunga a tentare consapevolmente un canto in cui possono risuonare i richiami dell’eternità. L’immagine appare e i fenomeni stessi sorgono attraverso un’impressione, l’affezione dei sensi, il fiorire dei fiori. Non si tratta più di dare un nome alle cose, ma di restare in ascolto del suono che nasce dalla natura, fondamento che si esprime in papaveri dell’oblio e in rose straniere; suono che non sarà mai designazione, bensì solo pura espressione della vita non raffigurabile – il puro nome delle cose: VOLATI via i pappagalli grigi dicono la messa nella tua bocca. Senti piovere e credi, anche questa volta che sia Dio. DIE ENTSPRUNGENEN Graupapageien lesen die Messe in deinem Mund. Du hörst regnen und meinst, auch diesmal sei’s Gott10.

Il dire raccoglie, ma il dire è al contempo testimonianza che qualcosa non può essere mai ricondotto all’identità, che l’estraneo rimane tale, che ciò che è diviso non può essere ricomposto. Tranne la parola indivisibile, appena pronunciabile e udibile, la pura sillaba del nome impossibile, l’unica parola «salvifica»: «Die Silbe Schmerz. La sillaba Schmerz11. 9 10 11

P. CELAN, Sommerbericht/Resoconto sull’estate, GW, Bd. I, S. 192. P. CELAN, Die entsprungenen/Volati via, GW, Bd. II, S. 269. P. CELAN, Die Silbe Schmerz/La sillaba «Schmerz», GW, Bd. I, S. 280.

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INTRODUZIONE

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Questa è una parola che errava accanto alle parole, una parola sulla forma del silenzio, contornata da cespi di pervinca e di dolore. (Paul Celan, Ciocca di capelli)

Fra i veli di nebbia che avvolgevano le notti parigine, dimoravano gli enigmatici silenzi di Paul Celan, ai quali lui stesso non sapeva trovare spiegazione ragionevole. Nell’intento di scusarsene, un martedì sera del 1949, Celan rispondeva all’amica Diet Kloos: «In fondo sono anche uno che, se svolta all’angolo di una strada, spera di trovare un piccolo arcobaleno, non più grande di un anello. Da regalare, naturalmente. Ti piacerebbe averlo, un arcobaleno trovato? Devi cercare di ascoltare anche chi tace, Diet: egli vorrebbe avere voce, farsi sentire, solo che ancora non ci riesce»1. Paul Celan era un uomo dai lunghi silenzi2, abitato da piccoli arcobaleni nei quali restava inabissato per giorni. A volte se ne scusava, forse per timore che il suo riserbo potesse offrire accesso al fraintendimento di un solipsismo esistenziale, lontano dal cuore degli uomini, da quelle spiagge creaturali della parola cui le sue poesie erano ri-volte: speranzo-

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Il passo è tratto da una lettera che Celan scrisse nel 1949 alla cantante lirica, Diet Kloos-Barendrengt. I due si erano incontrati in quell’anno a Parigi in una comune “fuga dalla morte”. Da questa conoscenza nacque un’amicizia breve ma intensa. Le lettere dell’epistolario di quel periodo sono oggi, raccolte nel testo PAUL CELAN, «Du mußt versuchen, auch den Schweigenden zu hören», hrsg. von Paul Sars unter Mitwirkung von Laurent Sprooten, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2002; tr. it. di Carlo Mainoldi Cerca di ascoltare anche chi tace, Lettere a Diet KloosBarendrengt, Archinto, Milano 2005, p. 47. Ne è testimone Edmond Jabès: «Ha voluto fare l’impossibile con il linguaggio, ma questo impossibile non significava per lui solo desiderio di dire, ma anzi desiderio di tacere» (EDMOND JABÈS, Risposta ai relatori, in AA. VV., Il libro dell’assenza di Dio, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1988, p. 95).

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Il grido e il silenzio

si «messaggi in bottiglia»3 dimoranti nel segreto di un in-contro. Era lui stesso ad affermare: «Il poema è solo. È solo e in cammino. Chi lo scrive, gli rimane inerente. Ma allora il poema non si colloca, proprio per questa ragione, dunque già a questo punto, dentro l’incontro – dentro il segreto dell’incontro?»4. Un’autoriflessione poetica dove Celan nel 1960, in occasione del Premio Büchner, esplicitava agli uditori del suo discorso Il Meridiano l’istituzione di senso più propria al suo poetare. Una poesia sola e in cammino, in nome di un’estraneità segreta che è evento (Ereignis) silenzioso, affiorante dalle macerie della storia per offrirsi all’in-contro con la vita, nell’esperienza sconvolgente di un capovolgimento: «Chi cammina sulla testa ha il cielo come abisso sotto di sé»5 afferma ancora Celan. Nell’in-contro estraniante e silenzioso di un “cielo capovolto”, il poema si consegna alla faglia storica della scrittura nell’esperienza inaudita di un gegen – “contro” cioè, quell’andamento regolare delle rappresentazioni esistenziali, il cui meccanismo è sancito da un logico procedere di causa-effetto. Nella sconnessione con la continuità temporale, la voce del poema si fa silenziosa: enigma irriducibile e resistente all’indagine della ragione poiché isolato, sganciato dalla continuità spaziotemporale. Pervaso da un silenzio spaesante, il poeta vive una doppia estraneità: nell’abitazione di una parola esiliata è l’accadimento di un evento che crea estraniamento. L’interruzione temporale vissuta nell’esperienza spaesante di un silenzioso “fondo senza fondo”, testimonia lo svelamento della parola poetica: dimora abissale del Linguaggio da cui prenderà le mosse l’attestazione heideggeriana dell’Essere come Abgrund6, ovvero quell’abisso oscuro (dunkel) e “sfondato” dell’essere, nell’ultimità ontologica di una parola 3

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È una famosa espressione di Celan: «La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica per natura, può essere un messaggio in bottiglia, gettato in mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza – che possa essere sospinta prima o poi da qualche parte sulla terra, forse la terra del cuore», in PAUL CELAN, GW, Bd. III, S. 186. Sono alcune parole appartenenti al discorso Il Meridiano pronunciato da Celan nel 1960, in occasione del conferimento del Premio Büchner, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 198. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 195. «L’essere è nella sua essenza fondamento. Per questo l’essere non può avere ancora un ulteriore fondamento che dovrebbe fondarlo. Quindi il fondamento rimane via (weg, ab) dall’essere. Nel senso di un tale rimanere-via (Ab-bleiben) del fondamento dall’essere, l’essere è il fondo abissale, l’Ab-Grund». MARTIN HEIDEGGER, Der Satz vom Grund, Neske, Pfullingen 1957, S. 93; tr. it. di F. Volpi, Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 94.

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Introduzione

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che è via (ab) dal suo fondamento (Grund). Nei crepacci notturni della Lingua7, il cantore fa esperienza della tenebra (Dunkel), trasportando nella faglia storica della scrittura, il silenzio di un’Indicibilità: esito ontologico di uno sfondamento (Abgrund) come Gegenwort – “controparola” silenziosa che si affaccia alla scrittura del poema nel segreto di un in-contro. È nel cuore di questa muta faglia che il testo Il grido e il silenzio. Un incontro fra Celan e Heidegger, si inoltra gradualmente, disponendosi al territorio silenzioso di una parola estraniante che mette in cammino… Un arduo sentiero sul crinale fra scrittura ed esistenza si tratteggia lungo la traiettoria di un parallelo costante fra la poesia di Celan e il pensiero heideggeriano. Poetare e pensare sono inscindibilmente legati alla dimensione della vita8, in un percorso della scrittura che affiora fra le pieghe del silenzio, accostandosi allo svelamento della Parola nella scansione di sei movimenti: l’evento, l’in-contro, la torsione, l’Unheimliche, lo strappo, i fiori. È nel moto di un andirivieni definito dalla costante oscillazione di avvicinamento e allontanamento, che si articola – trasversalmente alla scansione proposta – la relazione tormentata fra Celan e Heidegger. Un cammino della scrittura che delinea il senso di un in-contro la cui cesura, posta fra “in” e “contro”, ne definisce costantemente l’accostamento nel solco di un’indicibile contrarietà. Un silenzio carico di senso affiora così dal significante “in-contro” esponendo il poetare di Celan e il pensare di Heidegger al segreto di un’oscura (dunkel) vicinanza. «Sentieri a metà – e i più lunghi»9, canterà Celan, in assonanza linguistica con quei Sentieri interrotti heideggeriani che conducono

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È lo stesso Celan ad affermare: «Poesia, questione d’abisso», in PAUL CELAN, Microliti, a cura di Dario Borso, Zandonai, Rovereto 2010, p. 139. È interessante rilevare il fatto che nel poetare di Celan e nel pensiero di Heidegger il senso autentico della loro “opera” risieda in un legame inscindibile con l’esistenza. Nel 1949 Celan scrive in una lettera all’amica Diet: «Debbo scrivere, Diet, solo così sono vivo», (P. CELAN, Cerca di ascoltare anche chi tace, p. 53). Per Celan, vita e scrittura – così come per Heidegger, pensiero ed esistenza – si riferiscono a quel senso del “tenere” o “mantenere” espresso dal verbo tedesco stehen, nella sua relazione con la verità dell’essere. Un concetto che lo stesso Heidegger aveva esposto nella Lettera sull’«umanismo» e in Segnavia. Già dal 1953 il poeta comincia a sottolineare sistematicamente e a più riprese, negli esemplari dei testi heideggeriani in suo possesso, quei passi relativi all’uso del verbo stehen nei suoi nessi con l’opera del Dasein e la verità dell’essere. Cfr. HADRIEN FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, Fayard, 2004, p. 159. «Wege, halb – und die längsten», sono versi tratti dalla poesia Schliere, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 159.

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Il grido e il silenzio

– lungo un cammino parallelo fra pensare e poetare10 – in prossimità della parola dell’Essere. Il loro in-contro è all’in-finito, cioè nel regno di «un’intersecazione che non sono esse a produrre. È grazie a tale intersezione che si delinea il profilo che ne segna l’affinità essenziale»11. Una prossimità determinata dunque, da quell’evento «in virtù del quale poetare e pensare vengono costituiti nella loro stessa essenza»12. Indicibilità di un in-contro che svela occultamente nel finito, l’infinità della parola. Nel luogo di uno sconvolgimento ontologico è l’abitazione di una terra esiliata dalla continuità storica: dimora abissale di una parola-contro che si svela silenziosa nel presente attualizzato del poema (aktualisierte Sprache)13. Pensare e poetare si consegnano così alla scrittura storica in un andamento “capovolto” rispetto a quello delle rappresentazioni temporali – nel regno enigmatico e silenzioso di una prossimità che fa affiorare sempre la distanza. Vie interrotte della parola sono quelle percorse da Celan e Heidegger nell’avvicendarsi contrappuntistico di un oscuro (dunkel) attraversamento, tanto silenzioso sul piano ontologico quanto doloroso su quello esistenziale. Nell’attraversamento di una ferita nella storia – traccia dell’indicibile nella scrittura poetica – è il percorso sofferto della parola che conduce dalla sponda della vita a quella del suo ultimo soffio, per poi riaffiorare – nell’atto di un trasferimento (Übersetzung) – al regno della lingua storica. Nell’attraversamento di una forra temporale, il poetare di Celan e il pensare di Heidegger si approssimano all’in-contro: traccia indicibile di un trasferimento (Übersetzung) come traduzione del pensiero poetante nelle silenziose “terre della sera”... Un processo, quello del tradurre, che si attua, secondo Heidegger, non a partire dalla concezione storicistica dell’essere, la cui storia si raccoglie nel congedo del suo sprofondamento, ma in quanto appartenente «all’aurora del primo mattino della terra della sera, dell’Occidente»14. Alla domanda heideggeriana: «In quale lingua tra10

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«In realtà, in forza della loro natura, poetare e pensare sono tenuti distinti l’uno dall’altro, ciascuno entro la propria oscurità, da una differenza sottile ma chiara: due parallele – in greco παρα αλληλων – che corrono l’una accanto all’altra e di cui ciascuna supera a suo modo l’altra in questo starsi di fronte». MARTIN HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 1959, S. 195; tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 154. Ibidem. Ibi, S. 195; ibi, p. 155. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 197. Cfr. MARTIN HEIDEGGER, Holzwege, Klostermann, Frankfurt am Main 1957, S. 302; tr. it. di P. Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 305306.

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Introduzione

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duce (übersetzt) la terra della sera, l’Occidente?»15, Celan risponde, nella sua copia personale di Sentieri interrotti, con sottolineature e marcature a margine del passo16; laddove il filosofo tedesco afferma che solo alla luce del pensiero poetante è possibile tradurre (übersetzen) la parola del pensiero preplatonico, ossia non come un’opinione cronologicamente lontana ma alla luce del vincolo della nostra madre-lingua17, il canto di Celan affiora dalle profondità dei mari per elevarsi alla “sera delle parole” (Abend der Worte18), verso la dimora di un’origine perduta – madre di tutte le lingue… Ed è a questo punto che l’in-contro fra Celan e Heidegger, se accostato teoricamente al vincolo della lingua-madre, comincia a vacillare; lo iato linguistico fra “in” e “contro” si spalanca alla dimensione esistenziale nell’avvertimento di un grido originario: una sofferenza infinita che in Celan si consegna al silenzio della “lingua della sera” per trasferirsi – nella maternità della lingua – alla “lingua della memoria”. La specificità della sua determinazione storica dopo gli orrori di Auschwitz costituirà per il poeta bucovino, una fonte di incolmabile distanza e di costante tormento nei confronti del filosofo del Baden. È lo stesso Otto Pöggeler, amico del poeta e seguace di Heidegger, a segnalare l’intima contrarietà di un accostamento autentico del pensiero di entrambi, che trovava il suo limite nella trasposizione all’ambito personale dell’esistenza: «Qui devo dire che per me il secondo grande stimolo a seguire Heidegger anche nella sua tarda filosofia provenne da Celan. Nei miei colloqui con Celan era sempre lui l’heideggeriano. Normalmente si interpreta questo rapporto in senso inverso: con Celan, io avrei sostenuto la posizione di Heidegger: invece era Celan ad essere assai convinto del valore della tarda filosofia heideggeriana, che a me rimase sempre alquanto estranea (diciamo quella che si esprime in Saggi e discorsi e poi anche In cammino verso il Linguaggio). Se mi pronunciavo criticamente nei confronti di questa filosofia, Celan talvolta si arrabbiava subito. Non consentiva critiche, anche se dal punto di vista politico, non ammetteva compromessi»19. Testimonianza di una fedeltà al filosofo quasi assoluta: Celan ne condivide-

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Ibi, S. 342; ibi, p. 347. Cfr. JAMES K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger. An Unresolved Conversation, 1951-1970, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 2006, p. 35. Cfr. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 302; Sentieri interrotti, pp. 305-306. È il titolo di una poesia di Celan, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 117. MASSIMO MEZZANZANICA, Intervista a Otto Pöggeler sul proprio itinerario scientifico, «Magazzino di filosofia», 5 (2001), Franco Angeli, Milano, p. 14.

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Il grido e il silenzio

va gli intenti teoretici svalutando, al contempo, il valore etico dell’uomo20. Dove il pensiero della svolta (Kehre) ravvisava nella “minaccia del pensiero calcolante” un pericolo per l’intera umanità21, Celan ne comprendeva responsabilmente gli esiti allarmistici, nella “speranza” esistenziale di una presa di posizione pubblica del pensatore nei confronti del nazionalsocialismo22. Un’attesa vana e silenziosa che, sul piano della singolarità esistenziale, fu percepita dal poeta nei termini di un “compromesso” intollerabile. Nella comune missione di “tener desto il pensiero” in un’epoca di tenebra dominata dalla tecnica, l’attesa di Celan restava così sospesa fra la delusione di una risposta mancata e il silenzio di un’Indicibilità segreta delegata al pensiero poetante, nella speranza di una Salvezza universale. Alla luce di queste acquisizioni – nell’orizzonte di un in-contro aperto sull’abisso di un silenzio così ambivalente – qualcosa d’inaccessibile resta costantemente sottratto all’indagine ermeneutica, non soltanto rispetto a quell’ultimità ontologica e silenziosa che accomuna il loro pensare e poetare, quanto relativamente all’impossibilità di un’esaustività sul piano della complessità esistenziale. Laddove l’irrisolto fra il poeta e il filosofo resta confinato all’indecifrabilità del loro complesso rapporto personale, l’indagine si arresta sulla soglia di un segreto insondabile, delineandone la marcatura di una separazione. La poetica “riga nel libro” del 1967, che Celan dedica a Heidegger23 nel taccuino degli ospiti della Hütte a Todtnauberg24, 20 21 22

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Nel 1968 Celan afferma: «Heidegger: col Suo contegno (Haltung) indebolisce in maniera determinante il poetico e, oso supporre, il teoretico nella loro seria volontà comune di responsabilità» (P. CELAN, Microliti, p. 143). Cfr. MARTIN HEIDEGGER, Gelassenheit, Neske, Pfullingen 1959, S. 27; tr. it. di Adriano Fabris, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1989, pp. 39-40. Il 2 agosto 1967 – qualche giorno dopo l’incontro con Heidegger a Todtnauberg – Celan scrive alla moglie Gisèle: «Spero che Heidegger prenderà la sua penna e scriverà qualche pagina che faccia eco, anche avvertendo, nel momento in cui il nazismo risalga al potere». PAUL CELAN - GISÈLE CELAN-LESTRANGE, Correspondance, éd. par Bertrand Badiou, Seuil, Paris 2001, tome I, p. 550. L’espressione «la riga nel libro» (geschriebene Zeile) è contenuta in un verso del poema Todtnauberg composto qualche giorno dopo la visita del poeta alla Hütte di Heidegger e testimonia con una dedica, la presenza di Celan nel libro degli ospiti. Eccone le parole: «Nello Hüttenbuch, con lo sguardo rivolto alla stella della fonte, con una speranza di una parola a venire nel cuore. 25 luglio 1967/ Paul Celan» (»Ins Hüttenbuch mit dem Blick auf den Brunnenstern mit einer Hoffnung auf eines kommendes Wort im Herzen. Am Juli 1967 / Paul Celan«). O. PÖGGELER, Spur des Worts. Zur Lyrik Paul Celans, Verlag Karl Alber, Freiburg-München 1986, S. 259. È noto che la prima visita del poeta allo chalet di Heidegger ebbe luogo nel 1967 a Todtnauberg, nella Foresta Nera. Nonostante il primo incontro fra Celan e Hei-

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Introduzione

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testimonia la speranza del poeta «di una parola a venire nel cuore» da parte di un uomo di pensiero, tratteggiandosi comunque, nel luogo di una divisione, sul confine di un solco silenzioso – una sorta di Schibboleth, per dirla con Derrida25, spalancato sull’abisso di una lacerazione, ferita sanguinante e insuturabile perché costantemente esposta all’inesauribilità della domanda. D’altro canto, resta innegabile che sul versante della ricerca speculativa, quello fra Celan e Heidegger possa definirsi “dialogo” nell’orizzonte di una comunanza ontologica, laddove cioè, questa resti confinata al regno di un procedere parallelo fra pensare e poetare nel suo originario rinvio dialogico al Gespräch hölderliniano26. Se dunque l’uomo è originariamente “colloquio”, l’esser-con-altri dell’analitica esistenziale heideggeriana diviene qui misura comune dell’in-contro fra il poeta e il pensatore, nel superamento di ogni dualità tradizionale io-tu ad opera dello stesso poema. «Con l’Io del poema è anche posto il tu»27 dirà Celan, nell’attestazione di una nuova soggettività, prendendo ispirazione proprio dal pensatore tedesco nei termini di una riappropriazione terminologica che testimonia il riconoscimento teorico di un orizzonte comune. Sarà George Steiner a interpretare questa relazione nei termini di una viva e vicendevole frequentazione sul piano del linguaggio: «Gli archivi di Marbach rivelano la meticolosità, il livello di concentrazione delle letture fatte da Celan. Annota, sottolinea, chiosa passo dopo passo i libri più importanti di Heidegger. Tutto questo

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degger avvenga soltanto nel mese di luglio del 1967 è importante precisare che il loro dialogo teorico ed epistolare ha inizio già intorno agli anni 1952-1954. Cfr. J.K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 22-55. Il termine Schibboleth era utilizzato come parola d’ordine e di riconoscimento durante la guerra fra Galaiditi e Efraimiti. Sembra infatti che per gli Efraimiti ne fosse impossibile la corretta pronuncia. Pertanto coloro che sbagliavano a pronunciare il fonema “sc”, nel tentativo di intrufolarsi nel territorio nemico, venivano riconosciuti e uccisi. Lo Schibboleth come segno linguistico in rapporto al suo utilizzo nella storia sta dunque a testimoniare la linea di una demarcazione di confine fra la vita e la morte. Per una trattazione dello Schibboleth in relazione alla poetica di Celan, cfr. JACQUES DERRIDA, Schibboleth. Pour Paul Celan, Galilée, Paris 1986; tr. it. di G. Scibilia, Schibboleth. Per Paul Celan, Gallio, Ferrara 1991. Mi riferisco ai versi di Hölderlin appartenenti al poema Versöhnender, der du ninnemgeglaubt, commentati da Heidegger: «Molto ha esperito l’uomo. / Molti celesti ha nominato / da quando siamo un colloquio / e possiamo ascoltarci l’un l’altro». MARTIN HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, Klostermann, Frankfurt am Main 19714, S. 39; tr. it. di L. Amoroso, La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, p. 47. Cfr. PAUL CELAN, Der Meridian. Endfassung, Entwürfe, Materialen, hrsg von Bernhard Böschenstein und Heino Schmull unter Mitarbeit von Michael Schwarzkopf und Christiane Wittkop, Tübinger Ausgabe, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1999, S. 15.

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Il grido e il silenzio

materiale deve ancora essere valutato in dettaglio, comunque fuga ogni dubbio sulla profondità dell’impatto, linguistico più che filosofico, avuto da Heidegger sul poeta (Lucrezio che imita e riformula Epicuro). I neologismi heideggeriani, il modo in cui il filosofo salda insieme le parole in composti ibridi, la sua brusca paratassi, l’omissione di inerti connettori qualificativi, diventano funzionali al dettato ermetico di Celan. […]. Da parte sua, Heidegger mostrava crescente interesse per alcune delle ultime poesie di Celan e per la sua enigmatica personalità»28. Le riserve steineriane relative a una parziale influenza del pensiero heideggeriano sul poeta bucovino offrono alla nostra riflessione la direzione di un confronto fra i due autori non riducibile a una sorta di “Celan heideggeriano”, ma attuabile nei termini di una prossimità linguistica che confermi l’ambito di una ricerca teorica comune. Parola del pensiero e ispirazione poetica si fanno strada parallelamente fra le zone d’ombra della tenebra storica rischiarandone i passaggi: in-contro silenzioso di un muto andirivieni che si arresta sulla soglia ontologica dell’indicibile. Un in-contro fecondo, quello fra il poeta e il pensatore, ma pur sempre enigmatico e complesso da decifrare, se si considera che il significante “in-contro” si determina linguisticamente nel regno di una problematicità, offrendo all’interpretazione lo stridente intreccio linguistico di un’articolazione silenziosa nel rinvio costante e ineludibile di una contrarietà. Dunque, Celan “contro” Heidegger nel “segreto di un in-contro”, nel luogo di un’incisione che è fenditura ontologica di un dialogo fra pensare e poetare. Lungo il passaggio di un’oscura faglia si snoda il percorso del testo cui fa da sottofondo l’evento silenzioso di una sporgenza indicibile. Il suo accadere fa irruzione nella storia del soggetto, nel rinvio metaforico di “un colpo d’ascia” di kafkiana memoria: «Un libro è un colpo d’ascia nel mare ghiacciato che è in noi»29. Metafora di un’evocazione inattesa e dall’eco dirompente, dove l’aforisma kafkiano si fa simbolo di un evento sconvolgente, sotteso a tutto il percorso del testo, svelando nell’approdo finale l’indissolubile legame con Celan: «Sento che l’ascia è fiorita»30 canterà il poeta in omaggio a Kafka, nella conclusiva e indimenticabile immagine di un fiore di poesia 28 29 30

GEORGE STEINER, The poetry of Thought. From Hellenism to Celan, New Directions Publishing, New York 2011; tr. it. di F. Conte e R. Benvenuto, La poesia del pensiero. Dall’ellenismo a Paul Celan, Garzanti, Milano 2012, pp. 216-217. Franz Kafka an Oscar Pollack, 27.1.1904, in FRANZ KAFKA, Briefe 1902-1924, hrsg. von Max Brod, Schocken Books, New York, (Fischer, Frankfurt a.M.) 1958, S. 28. È il primo verso della poesia Ich höre, die Axt hat geblüht in cui Celan, ispirato dall’immagine kafkiana dell’ascia, fa sapere a Ingeborg Bachmann di avere

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Introduzione

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– estremo saluto all’amante Ingeborg Bachmann, pochi anni prima della sua scomparsa, alludendo con la metafora kafkiana di un’ascia fiorita, alla scrittura che lo univa alla poetessa. Fioritura sospesa su un dirupo abissale: Liebeswort, parola di desiderio ed esito sconvolgente dell’in-contro, evento silenzioso che interrompe l’andamento della catena temporale per svelarsi faticosamente nel varco dello scritto. «Nelle crepe del morire», è l’approdo poetico e silenzioso a un «letto di neve»31, dove il poeta in-contra segretamente la traccia della Parola nell’oscuro abisso dell’essere… Nell’atto di un attraversamento della tenebra storica è possibile rintracciare quella via della poesia definita da Celan «di tenebra in tenebra» (Von Dunkel zu Dunkel)32 – o, per dirla nei termini heideggeriani da cui prese originariamente avvio questo lavoro, «dall’oscuro all’oscuro»33 – approdando, nella restituzione di una poetica abitazione, alla localizzazione di quel passaggio che ne definisce la faglia del trasferimento. «Di tenebra in tenebra»: dall’oscurità intesa come opacità della lingua nella storia – che Celan non esiterà a definire “lingua degli assassini” – a quella silenziosa e obliata dell’Essere, nel poetico attraversamento del suo passaggio. Von Dunkel zu Dunkel definisce così l’attestazione poetica di un affioramento faticoso dell’Origine che si svela al poeta nei passaggi esproprianti delle tenebre: pertugi dell’oscurità – quei solchi (Risse) heideggeriani del Linguaggio dove la scrittura si consegna alla vita della parola, trasportandone nel trasferimento (Übersetzung) la gravezza di un silenzio ontologico. Fra le tenebre della storia si trattiene l’ombra della parola, traghettata dal poeta nei varchi offuscati e oscuri (dunkel) della lingua, in una torsione estraniante e vertiginosa che si ri-volge all’Altro nell’affidamento a un tu creaturale. Nel segreto dell’in-contro il poema è metafora di «una stretta di mano»34 dove ha voce l’attualità storica di uno scandalo, testimonianza

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appreso della pubblicazione del suo romanzo Malina, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 342. Letto di neve (Schneebett) è il titolo di un poema di Celan, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 168. Cfr. ISRAEL CHALFEN, Paul Celan. Eine Biographie seiner Jugend, Insel Verlag, Frankfurt 1979, S. 199. Von Dunkel zu Dunkel è anche il titolo di una poesia di Celan, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 97 Mi riferisco al titolo della tesi di laurea da cui ha tratto ispirazione la stesura di questo testo. Cfr. LAURA DARSIÉ, “Dall’oscuro all’oscuro”. Il rapporto fra parola e silenzio nella poetica di Paul Celan: un confronto paradigmatico con il pensiero di Martin Heidegger. Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, A.A. 19951996. «Non vedo alcuna differenza fra una poesia e una stretta di mano», in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 177.

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Il grido e il silenzio

di un’appartenenza che disorienta perché vissuta in un territorio estraneo così come evocato dal “perturbante” (Unheimlich) freudiano. È questo il luogo estraneo e familiare del desiderio amoroso, dove per Celan il dono dell’amore si traduce nell’esperienza dolorosa di una parola trattenuta che ammutolisce di fronte allo iato spaventoso che separa i “capelli d’oro” di Margarete da quelli di Sulamith35 – compagna di eterna memoria dai “capelli di cenere”… La loro inseparabilità stridente denuncia il destino luttuoso di una scissione incolmabile dove l’unione con la donna è vissuta nel rifugio doloroso di un Altrove irraggiungibile. Ancora il senso di una contrarietà abita la Parola celaniana: l’andamento “contro” (gegen) si insinua nello spettro inscindibile della lingua amorosa nell’in-contro fra l’ariana Margarete e l’ebrea Sulamith, donna della Shoah, che rappresenta la parola amorosa della memoria di un popolo – la “controparola” (Gegenwort) che strappa il filo della storia risorgendo dalle ceneri di Auschwitz. Liebeswort, parola d’amore, singulto di cenere affiorato dallo strappo violento col reale: il verso celaniano s’incammina verso un nuovo stile del poetare, sulla scia dell’Acmeismo russo e dell’amico Mandestam, addentrandosi «nelle vicinanze dell’Essere»36. Celan irrompe così sulla scena letteraria contemporanea del dopoguerra come ultimo Orfeo di un lirismo che canta solitario il soffio tenebroso di «un discorso gravido di morte»37: nei capelli di cenere di Sulamith è il canto di una memoria luttuosa da salvare – scrittura rammemorante che trattiene angosciata il peso di un ricordo incancellabile e impossibile da sostenere. Grido disperato e parola salvifica cui il poeta si fa in-contro, nella sua atroce rammemorazione: un nuovo lirismo ne pervade il canto, nel ritmo di un verso la cui cadenza viene scandita da parole balbettate, vibrazioni, trattenimenti ed esplosioni verbali – la poesia non è mai stata tanto vicina alla vita… Nel dialogo del poema, in un corpo a corpo con l’estremo soffio (Atem) dell’esistenza, il poeta risponde alla responsabilità di un tragico destino (Geschick), nell’abitazione ontologica di una parola-contro dagli esiti storici dolorosissimi ma pur sempre speranzosi di un in-contro con i cuori. È in questa accezione creaturale di rievocazione buberiana che la direzione verso il tu, propria ai poemi celaniani, si ammanta di un’aura misti35 36 37

I nomi Margarete e Sulamith appartengono al poema Todesfuge (Fuga di morte), una fra le composizioni più note della produzione celaniana in cui viene trattato poeticamente il tema della Shoah, in P. CELAN, GW, Bd III, S. 61. Cfr. P. CELAN, Der Meridian. Endfassung, Entwürfe, Materialen, S. 112. Sono alcune parole di Celan tratte dall’Allocuzione in occasione del conferimento del Premio letterario della libera Città Anseatica di Brema, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 186.

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Introduzione

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ca, consegnandosi alla storia nella misura umanizzata di un in-contro con l’estraniante: abitazione di un “contro” eppur speranzoso, di “una parola a venire”, rinvio creaturale alla memoria della Shoah nella delimitazione esistenziale di un ultimo e inevitabile spartiacque fra Celan e Heidegger. Ancora una volta lo Schibboleth si fa testimone di una sentenza inappellabile nella circoscrizione di quel “contro” che nei due autori definisce l’area di una separazione destinata a restare irrisolta. La risposta “silenziosa” del pensatore tedesco alla speranza di Celan si riveste qui di un’opacità problematica sollevando nella parola del poeta bucovino quelle implicazioni bibliche e messianiche sottese alla sua rammemorazione. La posizione di Celan nei confronti del pensatore tedesco diviene qui fonte di perplessità e di interrogazione silenziosa sulla peculiarità del proprio destino personale, dove l’in-contro con Heidegger non si restringe più semplicemente al campo della parola dell’Essere, ma si dispone al senso di una contrarietà sul piano della singolarità esistenziale, nella testimonianza disperata della memoria di un popolo. Dolore incancellabile di una parola poetica risorta dalle ceneri di Auschwitz, nell’insostenibile impossibilità della sua dimenticanza. Salvifica rievocazione, dimora poetica di un grido che abita la cesura infuocata dell’in-contro: strappo dal soffio divino, frammento di luce sacra che libera, nella follia della visione, lo splendore di una parola che tuttavia «non vuol confortare»38. Disperazione di un folle attraversamento che espone la scrittura alle faglie della vita. L’ultima ombra della Parola si consegna all’esistenza nell’esposizione di una ferita sanguinante: esito doloroso di un dono originario, nimbo di cenere39 – nuvola di luce risorta dagli orrori della storia. Ultimità silenziosa di una svolta di respiro (Atemwende40) che si lascia dire e si espone solitaria, nell’afflizione di un’originaria limpidità. Il soffio della Parola, nella sua valenza messianica, si consegna a quell’innocente candore sospeso fra l’oblio malinconico del papavero41 – dolce ri38 39 40 41

È un verso tratto dal poema Assisi, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 108. Nimbo di cenere (Aschenglorie) è il titolo di una poesia di Celan, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 72. Atemwende è il titolo di una raccolta di poesie di Celan composte fra il 1963 e il 1965, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 11-107. Il fiore del papavero (Mohn) ispira la prima produzione poetica di Celan. In particolare si tratta della raccolta Mohn und Gedächtnis, il cui binomio “Papavero e memoria” viene desunto dalla lirica d’amore Corona (1948) che conclude il primo ciclo di poemi della raccolta. Relativamente alla simbologia del fiore del papavero nella poetica di Celan, rimando all’illuminante introduzione di Giuseppe Bevilacqua in PAUL CELAN, Poesie, a cura di Giuseppe Bevilacqua, I Meridiani, Mondadori, Milano 1998, pp. XXXIII-XLIII.

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Il grido e il silenzio

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medio a una memoria dolorosa – e la terra esiliata di una rosa di Nessuno42: «È tempo che la pietra acconsenta a fiorire»43, canterà Celan; la pietra, lapide della rammemorazione, si dispone alla fioritura di un nuovo inizio, esito rammemorante di un trasferimento nella tenebra: respiro fiorito sospeso sul mondo, poesia che sboccia nel ricordo del sangue e del dolore – messaggio in bottiglia che approda alla terra del cuore…

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Niemandsrose o Rosa di Nessuno è il titolo di una raccolta di poemi composti fra il 1959 e il 1963 e appartenenti al periodo centrale della produzione celaniana. Cfr. P. CELAN, GW, Bd. I, S. 209-291. È un verso appartenente alla poesia Corona, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 37.

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L’EVENTO Un libro è un colpo d’ascia nel mare ghiacciato che è in noi. (Franz Kafka, 1904)

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Giosetta Fioroni, Per Paul Celan. Papavero e memoria, 2010.

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1. L’IN-CONTRO

Con la metafora dell’inatteso, l’aforisma kafkiano offre al nostro pensiero una riflessione sulla scrittura poetica di Paul Celan1. L’accostamento immaginario di un «colpo d’ascia» all’incisione profonda di un varco ci invita a soggiornare nel luogo di una cesura, di una vertigine abissale che si traccia nella memoria storica di un soggetto diviso, lacerato, attraversato da un evento unico nella sua data2: irrevocabile attraversamento temporale che si fa accesso doloroso alla traduzione poetica. Tradurre, nell’etimo proprio alla lingua tedesca come über-setzen, nel senso di “trasportare” o “trasferire” qualcosa da un punto a un altro3, laddove è il poema stesso a farsi testimone dell’esperienza di un passaggio silenzioso inciso nella storia. È lo stesso Celan nel 1953 durante la lettura di un testo di Heidegger a sottolineare il valore di questo movimento:

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Celan era un profondo conoscitore dell’opera di Kafka. In particolare, l’aforisma in oggetto – che percorre il filo rosso di questo lavoro – verrà ripreso poeticamente da Celan nel poema Ich höre, die Axt hat geblüht, componimento del 20 gennaio 1968, analizzato a conclusione di questo testo. Inoltre, l’affinità profonda fra il pensiero di Celan e quello di Kafka trova un esplicito riscontro nel discorso Il Meridiano del 1960, in cui il poeta cita espressamente il saggio su Kafka di Walter Benjamin. Cfr. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 198. L’importanza della “data” nella poetica di Paul Celan – simbolicamente identificata nel 20 gennaio – sta a testimoniare l’attestazione enigmatica di una stretta correlazione fra la dimensione esistenziale incisa nell’irrevocabilità di una data e l’evento simbolico della sua traduzione poetica. Sull’enigma della data in Celan, cfr. anche J. DERRIDA, Schibboleth. Non si dimentichi tuttavia, la determinazione storica del significato ebraico sotteso a questa data: il 20 gennaio 1942 alla Conferenza del Wannsee viene decisa quella che passerà alla storia sotto il nome di Endlösung der Judenfrage, la “soluzione finale” della questione ebraica. Rispetto all’analisi del verbo über-setzen come über-tragen (portare, trasportare, trasferire) in relazione al pensiero di un’interruzione silenziosa ad opera di ciò che al poema si svela come intraducibile, cfr. JACQUES DERRIDA, Béliers, Le dialogue ininterrompu: entre deux infinis, le poème, Galilée, Paris 2003.

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Il grido e il silenzio

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Forse ora impareremo a considerare ciò che può accadere (ereignen) nel corso di una traduzione (Übersetzung). L’incontro (Begegnung) autentico e destinale (geschicklich) dei linguaggi storici è un evento (Ereignis) silenzioso4.

Il processo di “traduzione” trasferisce e trasporta (übersetzt) da una lingua a un’altra, da un luogo a un altro, nella disposizione all’evento (Ereignis) silenzioso di un incontro (Begegnung) che si traccia nella storia, così come mirabilmente evocato dalla suggestione kafkiana della superficie di un mare ghiacciato: effetto illusorio di un’immutabile necessità storica che si rende scalfibile all’apertura di un varco, luogo di transito del “colpo d’ascia” che libera “nel colpo” l’accesso all’“incontro storico” con la scrittura poetica. Nello iato fra i lembi dello squarcio si attua la sconnessione con il presente storico, luogo di un’interruzione silenziosa e di un’incolmabile distanza che nel soggetto è fonte di una doppia estraneità: nell’allontanamento dalla lingua del tempo accade (ereignet) l’evento silenzioso di un ulteriore smarrimento che non offre approdo ad alcuna sponda né il sollievo di un confortante ancoraggio: è l’attestazione profonda di un fondo senza fondo, dimora di uno sfondamento (Abgrund)5 e abisso della Lingua6 che, nel processo di traduzione (Übersetzung), attraversa le tenebre oscure della propria storia per riaffacciarsi alla vita, nell’incontro di un’indicibilità inattesa. Allorché l’evento (Ereignis) si dispone all’incontro, il soggetto ne è come anticipato, l’irrompere di una pervasione profonda ne incide l’avvertimento, preannunciandosi alla vita come evento dirompente. L’intensità dell’accadimento è tale da interrompere, con la potenza di «un colpo d’ascia in un mare ghiacciato», l’andamento regolare di un’esistenza lungo il

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Il passo in oggetto è tratto dalla copia di Sentieri interrotti di Heidegger appartenente alla biblioteca personale di Paul Celan. Questo testo è stato sottolineato e commentato dal poeta in diversi passaggi teorici. Sui rapporti fra Celan e Heidegger riguardo al significato della traduzione (Übersetzung) come “trasferire e trasportare da un luogo all’altro”, cfr. l’ampia e documentata analisi di James K. Lyon, in J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger , pp. 31-41. Nell’immagine di una dimora abissale come fondo senza fondo, risuona la concezione heideggeriana dell’Abgrund inteso in relazione al pensiero dell’Essere nella storia del pensiero occidentale: «L’essere è nella sua essenza fondamento. Per questo l’essere non può avere ancora un ulteriore fondamento che dovrebbe fondarlo. Quindi il fondamento rimane via (weg, ab) dall’essere. Nel senso di un tale rimanere-via (Ab-bleiben) del fondamento dall’essere, l’essere è il fondo abissale, l’Ab-Grund». M. HEIDEGGER, Der Satz vom Grund, S. 93; Il principio di ragione, p. 94. «Poesia, questione d’abisso», dirà Celan, in P. CELAN, Microliti, p. 139.

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L’in-contro

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“meridiano”7 temporale della vita. L’immagine kafkiana dell’ascia offre qui l’idea del varco, del “passare attraverso”, come afferma Celan nel Discorso di Brema:

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Poiché il poema non è senza tempo (zeitlos). Certo, esso rivendica una pretesa di infinitezza, cerca di aprirsi un varco attraverso il tempo – attraverso (hindurch) ma non oltre (über) il tempo8.

Nell’attraversamento temporale, il poema, così come il libro della metafora kafkiana, si incide nel destino di una data unica nel suo accadere, testimoniando, nell’irrevocabilità di un «colpo d’ascia», la traccia di un evento che irrompe nella storia di un soggetto, in modo del tutto inaspettato. Nel carattere inatteso e altresì minaccioso del “colpo di un’ascia” che attraversa la storia, la lingua tedesca – nell’evocazione del lessico heideggeriano proprio al periodo della “svolta” (Kehre) – offre una prossimità etimologica fra i termini in gioco: la parola Geschichte (storia) è originariamente legata al termine Geschick come destino dell’accadere nel senso dell’evenire (ereignen) nell’invio (Schickung) di un dono (Geschenk). Nel nucleo etimologico di questa interrelazione, Heidegger riformula il percorso della storia del pensiero occidentale nei termini di un “dire” inteso come mero strumento al servizio della tecnica. Ecco perché rispetto alla storia della metafisica, il linguaggio, nel senso di “mezzo”, può dirsi «il più pericoloso dei beni», sempre che qui il pericolo venga inteso nella sua accezione di «minaccia dell’essere da parte dell’essere dell’ente»9. La minaccia è tale perché si riferisce alla storia come Geschichte nel senso di Schickung, “destinazione” e di Geschick, “destino”, ossia a quella storia dell’essere che ha condotto destinalmente il linguaggio a essere concepito non nella sua essenzialità ma nell’oblio stesso dell’Essere da parte del Dasein. Tale dimenticanza ha raggiunto il suo culmine nel tempo della tecnica: se in quest’epoca il “dire” è luogo in cui può farsi parola «la cosa più torbida e comune» e dunque inessenziale, d’altra parte è pur vero che esso è anche quella dimensione del dire poetico in cui si manifesta come “dono” (Geschenk), «la cosa più pura e più nascosta»10. Con le parole di Celan: 7 8 9 10

L’allusione è qui all’immagine poetica del “meridiano” evocata dal discorso di Celan Il Meridiano del 1960, in occasione del conferimento del premio Büchner. Cfr. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 187-202. Ansprache, anlässlich der Entgegennahme des Literaturpreis der freien Hansestadt Bremen, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 186. Cfr. M. HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, S. 35; La poesia di Hölderlin, p. 45. Ibidem.

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Il grido e il silenzio

I poemi sono anche doni (Geschenke) – doni per chi presta attenzione. Doni che portano con sé un destino11.

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Sulla natura heideggeriana del poema come “dono” (Geschenk), Celan si mostra in accordo in occasione della lettura e sottolineatura di diversi passaggi nel testo La poesia di Hölderlin, accettandone completamente il senso, quando affrontando tale tematica ne darà esplicita conferma in una lettera indirizzata a Werner Weber del 26 marzo 1960, in cui farà direttamente riferimento a Heidegger e alla sua interpretazione di Hölderlin. Nell’accostamento del concetto di “dono” a quello di un’attesa che riguarda il “parlare del Linguaggio-al poeta”, Celan riferirà questa dimensione filosofica a una propria riflessione riguardante una sua traduzione di due anni prima del poema La jeune Parque di Valéry: Mi sembra meraviglioso che ancora oggi, questa poesia venga verso di me12.

Il poema dunque, è dono (Geschenk) e in quanto dono è evento che si incide nel destino (Geschick) di un soggetto nella storia (Geschichte). Nel suo donarsi, il poema si fa evento poiché diretto a un tu che non si configura come semplice destinatario ma, prendendo parte allo stesso meridiano temporale della vita – per dirla con Kafka, “a quel mare ghiacciato che è in noi” – ne fa saltare l’ordine istituito, sfondando in modo del tutto inatteso il velo illusorio delle rappresentazioni. L’effetto è allora quello di “un colpo d’ascia” talmente dirompente da provocare una rivoluzione: il circuito logico-temporale di causa-effetto che regola l’andamento cronologico delle rappresentazioni esistenziali si interrompe. Nel Meridian, Celan si esprime così: È la contro-parola (das Gegenwort) che strappa il filo, la parola che non si inchina più di fronte alle “cariatidi e ai destrieri da parata della storia”, è un atto di libertà. È un passo13.

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Brief an Hans Bender, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 178. Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 77-78. Il riferimento a questo poema di Valéry si rivela molto prezioso in merito alla questione ardua della sua traduzione poiché già Rilke ne aveva attestato l’intraducibilità: «Ritengo che la Jeune Parque sia ancora, fino a prova contraria intraducibile: potesse mai qualcuno convincerci del contrario!». RAINER MARIA RILKE-ANDRÉ GIDE, Correspondance 1909-1926, éd. par R. Lang, Correa, Paris 1952, p. 153. Der Meridian, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 189.

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L’in-contro

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La «contro-parola strappa il filo della storia»… La sua potenza è tale da spezzare la catena illusoria dei nessi temporali, lasciando il soggetto spaesato, nel più totale disorientamento, slegato dall’anello che lo àncora al fondamento (Grund) come all’ordine cosciente e razionale del mondo. La sua esistenza abita un ritmo inesorabile, scandito dalle logiche di causa ed effetto che regolano il velo delle rappresentazioni, laddove la scrittura affiora come evento faticoso poiché il suo evenire (ereignen) scaturisce da un incessante andirivieni senza posa; è lo spaesamento di un’oscillazione dove il poeta trova esilio nell’esperienza di un incontro che è Gegenwort, parola dell’in-contro14, luogo di una cesura vertiginosa che irrompe nel dato storico scardinandone l’ordine precostituito. Ancora con Celan: L’andare insieme delle parole nella poesia: non solo un andare insieme, anche un andare contro (Gegeneinander). Anche un andare verso e un andare via. Incontro (Begegnung). Contrasto e congedo in uno15.

Nel “congedo” come “contrasto” è l’attestazione sconvolgente di un capovolgimento di prospettiva, reso da Celan nella mirabile metafora poetica: «Chi cammina sulla testa, Signore e Signori – costui ha il cielo come abisso sotto di sé»16. Così nella poesia Die Zahlen, l’evento prorompente della contro-parola (Gegenwort) fa breccia nel velo illusorio del reale, affiorando faticosamente da un turbinio di visioni che si susseguono senza posa nella «fatalità e contro-fatalità delle immagini» (Verhängnis und Gegenverhängnis): DIE ZAHLEN, im Bund mit der Bilder Verhängnis und Gegenverhängnis17. [I numeri, legati alla fatalità e controfatalità delle immagini.]

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Suggerisco a tale proposito il saggio di Vincenzo Vitiello, sull’analisi del termine Gegenwort inteso come parola-contro e parola dell’in-contro. Cfr. VINCENZO VITIELLO, Non dividere il Sì dal No. Tra filosofia e letteratura, Laterza, Bari 1996, pp. 99-115. PAUL CELAN, Microliti, p. 43. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 195. Die Zahlen, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 17.

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Il grido e il silenzio

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Rappresentazioni e contro-rappresentazioni che tornano, ri-tornano perlopiù mischiate e poi divise e di nuovo mescolate18 nell’attestazione di una confusione interiore che è impasto di senso e insensatezza, estenuante intermittenza fra parola menzognera e bagliore di verità, dove inizio e fine si confondono per lasciare spazio all’inesorabile corsa di una scrittura che, “fra le maschere della storia”, riaffiora dalla faglia come canto stridente all’incessante ritmo del mondo. L’esperienza di questo paradosso, laddove lo scorrere necessario e immutabile delle rappresentazioni temporali si scontra con le immagini della contro-fatalità (Gegen-verhängnis), si traduce poeticamente nel canto ossessivo di «un martello (Hammer)» che batte alla «tempia insonne (schlafloser Schläfe)»: Der drübergestülpte Schädel, an dessen schlafloser Schläfe ein irrlichterneder Hammer all das im Welttakt besingt19. [Ribaltato là sopra il cranio, alla sua tempia insonne un martello fatuo lucore canta tutto questo al ritmo del mondo.]

Dall’ossessiva percezione di questo risuonare il poeta – estenuato – prende congedo, ma ad attenderlo dall’esilio è il ritmo cosciente del mondo che purtroppo, non offre alcun conforto poiché il suo meccanismo, sancito da un logico procedere di causa-effetto, si è inceppato. La follia dello scarto non concede riposo e offre dimora al poeta solo in un “canto dell’impossibile” poiché il suo scandalo risorge sempre laddove la coscienza cerca, nel tentativo incessante di una sosta, le ragioni logiche di un collegamento. L’incapacità di trovare un nesso svela l’esperienza dell’estraneità nell’affioramento di un desiderio irresistibile: quello di abitarci per trovarne un senso. 18 19

Sull’ermeneutica di questo passaggio poetico cfr. le stesure preparatorie al poema Die Zahlen commentate da H.G. Gadamer. Cfr. HANS-GEORG GADAMER, Chi sono io chi sei tu. Su Paul Celan, a cura di Franco Camera, Marietti, Genova 1989, p. 111. È la seconda strofa del poema Die Zahlen, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 17.

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L’in-contro

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Nel luogo esiliato e irrevocabile di questa interruzione tuttavia qualcosa si libera e si mette in movimento20 in nome di un’estraneità che è Gegenwort, “segreto di un in-contro”21, evento silenzioso che riaffiora dal varco della cesura come differenza irriducibile, residuo enigmatico di un’esperienza inaudita poiché isolata, sganciata dalla continuità spazio-temporale, ché sembra resistere a qualsiasi domanda ragionevole e a ogni forma di interrogazione filosofica: nessun rammendo della ragione si offre alla sutura della sua sporgenza. Di questo folle resto, come attestazione filosofica dell’indeterminato, è il canto poetico a trasportarne (Übersetzen) la musica, consentendone affioramento e “bene-dicendo”22 autenticamente l’accadimento (Ereignis) di qualcosa che il poeta non sa. Poeticamente con Marina Cvetaeva: (La verità del poeta è un sentiero dove le tracce vengono subito nascoste dal verde. Non lascerebbe tracce – e conseguenze – neanche per lui, se potesse camminare dietro a se stesso). Egli non lo sa che dirà e spesso non sa neanche cosa dice. Non lo sa finché non lo dice e subito dopo averlo detto l’ha già dimenticato23.

1.1 Sotto di noi, un letto di neve… Il messaggio poetico si fa così esito enigmatico di un Dire che interrompe la memoria della catena temporale – soffio di un’escrescenza inaudita che si fa strada faticosamente nel varco dello scritto: Augen, weltblind, im Sterbegeklüft: Ich komm Hartwuchs im Herzen. Ich komm24. 20

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Illuminante al proposito è la riflessione di Derrida: «L’interruption est indécise, elle indécide. Elle donne son souffle à la question qui, loin de paralyser, met en mouvement. L’interruption libère mème un mouvement infini». Cfr. J. DERRIDA, Béliers, p. 38. «Ma allora il poema non si colloca, proprio per questa ragione, dunque già a questo punto, dentro l’incontro – dentro il segreto dell’incontro?», in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 198. Mi riferisco all’analisi della poesia Wege im Schatten-Gebräch proposta da Derrida riguardante l’interpretazione di Gadamer sul senso della benedizione nella parola poetica. Cfr. J. DERRIDA, Béliers, p. 31. MARINA CVETAEVA, Il poeta e il tempo, a cura di Serena Vitale, Adelphi, Milano 2005, p. 101. Sono i primi versi della poesia Schneebett (Letto di neve), in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 168.

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Il grido e il silenzio

[Occhi, ciechi al mondo, nelle crepe del morire: vengo dura crescita nel cuore. Vengo.]

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Nelle «crepe del morire» è il luogo della sporgenza – eccesso irriducibile – a provocare l’impatto: «dura crescita nel cuore. Vengo» canta il poeta, nell’in-contro con l’inaudito, volgendo il suo cammino alla volta del trasferimento (Übersetzung). Il poeta diviene qui traduttore di un’estraneità come “traghettatore”dell’indicibile. Con l’attenzione di Celan al pensiero heideggeriano: L’incontro (Begegnung) autentico e destinale (geschicklich) dei linguaggi storici è un evento (Ereignis) silenzioso. Ma in esso parla il destino dell’Essere25.

Nell’in-contro parla il destino dell’Essere – laddove il pensiero filosofico di un’Origine silenziosa trova nella metafora kafkiana del mare ghiacciato la sua poetica restituzione, indicando al pensiero nichilista novecentesco quel luogo freddo e desolato che testimonia l’approdo abissale (abgrundtief) del pensiero occidentale nel suo ultimo tratto. È infatti Nietzsche a mettere in relazione la fine della storia della metafisica con l’immagine paesaggistica dei ghiacciai: La filosofia, così come io l’ho intesa e vissuta fino ad oggi, è vita volontaria fra i ghiacci e le alture – ricerca di tutto ciò che l’esistenza ha di estraneo e problematico26.

La filosofia, nel suo stadio finale – Nietzsche afferma infatti: «come fino a oggi l’ho intesa e vissuta» – viene allora a identificarsi con una ricerca condotta nei ghiacciai, luoghi freddi e solitari per eccellenza che simboleggiano il punto d’arrivo, la situazione limite di una pendenza abissale in cui è caduto lo stesso pensiero metafisico. Epoca della notte del mondo – 25 26

Il passo in oggetto, sottolineato da Celan più volte, è tratto sempre dalla copia di Sentieri interrotti di Heidegger, appartenente alla biblioteca personale del poeta. Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, p. 35. F. NIETZSCHE, Ecce Homo. Wie man wird, was man ist, in Nietzsche’s Werke, vol. XV, Nachgelassene Werke, Kröner Verlag, Leipzig 19222, S. 2-3; tr. it. di R. Calasso, Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, in ID., Opere, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. VI, tomo III, Il caso Wagner, Crepuscolo degli idoli, L’Anticristo, Ecce Homo, Nietzsche contra Wagner, Adelphi, Milano 1970, p. 266.

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L’in-contro

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come afferma Heidegger a proposito dei poeti in tempo di povertà27 – dove l’abisso della Parola deve essere riconosciuto e subìto fino in fondo solo da coloro che vi accedono, in un movimento verso il basso (Hinab), in caduta libera fra i detriti della storia, nell’approdo silenzioso ai cristalli (Kristall) di un «letto di neve (Schneebett)»: SCHNEEBETT Augen, weltblind, im Sterbegeklüft: Ich komm Hartwuchs im Herzen. Ich komm.

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Mondspiegel Steilwand. Hinab (Atemgeflecktes Geleucht. Strichweise Blut. Wölkende Seele, noch einmal gestaltnah. Zehnfingerschatten – verklammert.) Augen, weltblind, Augen im Sterbegeklüft Augen Augen: Das Schneebett unter uns beiden, das Schneebett. Kristall um Kristall, zeittief gegittert, wir fallen, wir fallen und liegen und fallen. Und fallen: Wir waren. Wir sind. Wir sind ein Fleisch mit der Nacht. In den Gängen, den Gängen28. [LETTO DI NEVE Occhi, ciechi al mondo, nelle crepe del morire: vengo dura crescita nel cuore. Vengo. Specchio lunare, ardua parete. Giù! (Lume macchiato di respiro. Sangue a tratti.

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Cfr. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 248-295; Sentieri interrotti, pp. 247-297. P. CELAN, GW, Bd. I, S. 168.

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Il grido e il silenzio

A nuvola d’anima, ancora una volta quasi figura Ombra di dieci dita – avvinghiate.) Occhi ciechi al mondo, Occhi nelle crepe del morire. Occhi occhi:

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Il letto di neve sotto noi due, il letto di neve. Cristallo su cristallo, in profonda grata di tempo, cadiamo cadiamo e restiamo e cadiamo. Cadiamo: eravamo. Siamo. Siamo una carne con la notte. Nei passaggi, nei passaggi.]

Ad accogliere il poeta e la Parola è un «letto di neve (Das Schneebett unter uns beiden)», luogo raggelato ma di infinita fragilità e candore, dove lo sguardo verso la temporalità del mondo si ottunde per disporsi all’incontro di due mani avvinghiate (verklammert) che si in-contrano: ombra di dieci dita (Zehnfingerschatten), riflesso di una Parola devastata dalla storia, alone leggero di un in-contro. Nel luogo di un offuscamento, il poeta tenta arduamente di scontornarne il senso, sprofondando nella precarietà del passaggio che si spalanca alla necessità storica. Il cantore cade nell’abisso (wir fallen), nella faglia storica, in quel varco della lingua che precipita nella voragine temporale (zeittief), cristallo dopo cristallo (Kristall), offrendo accesso alle fenditure della grata (gegittert) dove è l’in-contro con la Parola nella notte. «Siamo una carne con la notte (wir sind ein Fleisch mit der Nacht)» canta il poeta, disponendosi al trasporto (Übersetzung) del suo svelamento. «Nei passaggi (in den Gängen)» – dove la preposizione “in” offre accesso al luogo illanguidito di una frapposizione paradossale – si attua l’esito poetico di una resistenza al “contro” del presente storico, così come nelle parole: «Le poesie sono passaggi: sta a te passare, vita!29». Scrittura poetica che si fa pertugio esistenziale di un’accoglienza: “letto di neve” che si staglia sul fondo della notte, visione silenziosa di un oscuro chiarore – ossimoro che si fa “carne” (Fleisch) nella tenebra, accogliendo, nel luogo di un offuscamento, l’in-contro con lo svelamento della Parola.

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P. CELAN, Microliti, p. 57.

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L’in-contro

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In molti poemi è la stessa lingua di Celan a evocare – attraverso un lessico apparentemente elementare fatto di neve, gelo, ghiaccio e cristallo – un sottofondo inquietante e oscuro (dunkel) nell’attestazione enigmatica di una parola notturna raggelata dai ghiacciai della storia30 – Eden di una terra Perduta (Land Verloren), così come cantano i mirabili versi: EIS, EDEN Es ist ein Land Verloren, da wächst ein Mond im Ried, und das mit uns entfroren, es glüht umher und sieht. Documento acquistato da () il 2023/09/20.

Es sieht, denn es hat Augen, die helle Erden sind. Die Nacht, die Nacht, die Laugen. Es sieht, das Augenkind. Es sieht, es sieht, wir sehen, ich sehe dich, du siehst. Das Eis wird auferstehen, eh sich die Stunde schließt31. [GHIACCIO, EDEN C’è una terra Perduta, vi cresce una luna nella torba, ghiacciata insieme a noi, arde intorno e vede. Vede, perché ha occhi, che sono terre chiare.

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In questa riflessione risuona la questione posta da Adorno rispetto all’attestazione dell’impossibilità di scrivere poesie dopo Auschwitz: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è diventato impossibile scrivere oggi poesie». THEODOR W. ADORNO, «Critica della cultura e società», tr. it. di C. Mainoldi, in Prismi, Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1972, p. 22. Per una trattazione approfondita dell’affermazione adorniana in relazione al pensiero di Celan, cfr. PAOLA GNANI, Scrivere poesie dopo Auschwitz, Paul Celan e Theodor W. Adorno, Giuntina, Firenze 2010, e FRANCO MARIA FONTANA, Immagini del disastro prima e dopo Auschwitz. Il “verdetto“ di Adorno e la risposta di Celan, Mimesis, Milano 2013. P. CELAN, GW, Bd. I, S. 224.

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Il grido e il silenzio

La notte, la notte, i lavacri. Vede, l’occhio fanciullo.

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Vede, vede, vediamo, ti vedo, vedi. Il ghiaccio risorgerà prima che l’ora si richiuda.]

«Il ghiaccio risorgerà/ prima che l’ora si richiuda»… Uno scenario invernale, terra Perduta (Land Verloren) di una Parola altrettanto lontana nella memoria sepolta dalla stratificazione dei ghiacci (Eis), eppur ardente, brucia con occhi di terre chiare (helle Erden); sguardo di cenere, nondimeno innocente, nella notte di una storia devastata dalla distruzione, dove la parola-ghiaccio, ancora incandescente, si scontorna nell’alone ombroso di una “luce scura”– oltre ogni tramonto. Così come nel pensiero di Zarathustra appreso da Celan: «Non soltanto un sole era tramontato per me»32, anche nelle parole del poeta, in una lettera del 1961 indirizzata all’amico Otto Pöggeler33, si evince un’esplicita vicinanza alla riflessione del profeta. Il poeta bucovino constata infatti con meraviglia la presenza di una curiosa affinità fra lui e Nietzsche rispetto all’affermazione iniziale di una prosa di Celan risalente a qualche anno prima: «Una sera che il sole, e non soltanto lui, era tramontato»34. Immagine estrema in cui il poeta ravvisa quello spirito d’inesprimibile desolazione di una civiltà giunta al suo termine, avvolta dalla luce scura (dunkel) del tramonto dopo la distruzione e la barbarie del nazismo. Tuttavia, dal silenzio delle macerie della Shoah può ancora scaturire la voce della poesia come trasferimento (Übersetzung) paradossale di un’indicibilità sorta dal grido della disperazione – esito inarrivabile di una traduzione (Übersetzung) che si fa lingua “pura” rinascendo dall’attraversamento di «mille tenebre di un discorso gravido di morte»35.

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Con le parole di Celan: «Alla pagina 292 del testo su Nietzsche di Heidegger, trovo questa parola di Zarathustra: “Non soltanto un sole era tramontato per me”». Cfr. OTTO PÖGGELER, Spur des Worts, Karl Alber Verlag, München 1986, S. 156-157. Cfr. ibidem Si tratta dell’inizio della prosa Gespräch im Gebirg (Conversazione nella montagna), in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 169. A questa affermazione Celan farà accenno anche l’anno successivo nel discorso del Meridiano, in riferimento ad un incontro mancato con Adorno a Sils Maria in Engadina. Sono queste alcune parole di Celan tratte dall’Allocuzione in occasione del conferimento del Premio letterario della libera Città Anseatica di Brema, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 186.

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L’in-contro

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1.2. Tradurre la lingua della sera Purezza di una parola emersa dal suo inabissamento, come cantano alcuni versi che Celan dedicò proprio a Heidegger nel 1961, come poetica restituzione ai due tomi su Nietzsche che il pensatore gli aveva donato36. La quartina fa da epigrafe a un esemplare del poema Sprachgitter: Stimmen vom Nesselweg her: Komm auf den Händen zu uns. Wer mit der Lampe allein ist, hat nur die Hand, draus zu lesen37. Documento acquistato da () il 2023/09/20.

[Voci venute dalla via delle ortiche: Vieni a noi sulle mani. Chi è solo con la luce, non ha che la mano, per leggervi.]

«Voci venute dalla via delle ortiche»: inaudita missione del cantore – di «chi è solo con la luce» – è quella di riesumarle dall’abisso (Ab-grund) del

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Il tema del silenzio della Shoah come luogo doloroso di un’insostenibile memoria affiancato a quello della“riesumazione” della Parola dalla tenebra della lingua Occidentale da parte del poeta, chiama qui in causa il tema della rammemorazione della Parola dell’Essere e più specificatamente quello del “tu” a cui la poesia di Celan si rivolge. Ad una prima riflessione sembrerebbe problematico affiancare questo passaggio teorico sulla rammemorazione della Parola, alla dedica che Celan manda al pensatore tedesco, considerati i suoi trascorsi rispetto all’adesione al nazismo. A tal proposito è bene anticipare che non sarà propriamente la dimensione ontologica del “tu” della Parola a costituire motivo di distacco fra i due, quanto piuttosto la sua determinazione biblica. Sarà infatti la connotazione messianica di quel “tu” e la determinazione della sua rammemorazione come “memoria del popolo ebraico” a costituire il punto di divaricazione fra la poetica di Celan e il pensiero di Heidegger. I versi della quartina che alludono al “camminare sulle mani” nelle tenebre della Parola rimandano a un tema ricorrente nella poetica di Celan. In particolare, l’immagine espressa dal verso: «Vieni a noi sulle mani», riconduce a un’espressione molto simile presente nel discorso del Meridiano in riferimento al Lenz di Büchner:«Chi cammina sulla testa, Signore e Signori – costui ha il cielo come abisso sotto di sé». È infatti accanto a questa frase che nella sua copia personale del discorso Il Meridiano, Heidegger annota: «auf den “Händen kommen”» («venire sulle mani») come rinvio alla quartina a lui dedicata. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, pp. 70-71.

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Il grido e il silenzio

linguaggio e trasferirle nelle terre della sera… Sembrerebbe proprio questo il senso delll’übersetzen sottolineato da Celan38 durante la lettura del passo heideggeriano:

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In quale lingua traduce (übersetzt) la terra della sera, l’Occidente?39.

Nel saggio Il detto di Anassimandro è ancora Heidegger a soffermarsi sul valore della traduzione (Übersetzung) del detto più antico che ci sia stato tramandato dal pensiero occidentale. Un processo – quello del tradurre – che si attua, secondo il filosofo, non certo a partire dalla concezione storicistica dell’essere, la cui storia si raccoglie nel congedo del suo sprofondamento, ma in quanto appartenente «all’aurora del primo mattino della terra della sera, dell’Occidente». Solo alla luce del pensiero poetante è possibile tradurre (übersetzen) la parola di Anassimandro, non come un’opinione lontana nel tempo – secondo l’arbitrio della storiografia e della filologia – ma rispettando innanzitutto il vincolo della lingua del detto (Gesagtes) e della nostra madre-lingua40 – come «sera delle parole” (Abend der Worte41)… Vincolo che Heidegger non esita a definire “violento”, in quanto in esso si schiude la cicatrice del tempo, in-contro alla notte della Parola che, malgré tout, si dispone a trasferire (übersetzten) negli antri oscuri della lingua storica il messaggio del canto poetico. Musica di un pensiero che trasferisce (übersetzt) il messaggio destinale dell’essere in un suono silenzioso, povero di sacralità, trasportato (übersetzt) nella storicità della scrittura poetica – canto silente di un faticoso incedere che accomuna il pensare al poetare: Un detto del pensiero può essere tradotto (übersetzt) soltanto nel colloquio del pensiero con ciò che il pensiero ha detto. Ma il pensare è poetare

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Questo passaggio appartenente a Sentieri interrotti è stato marcato a margine più volte e sottolineato da Celan nella sua copia personale. Cfr. JAMES K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, p. 35. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 342; Sentieri interrotti, p. 347. «Siamo vincolati alla lingua del detto, siamo vincolati alla nostra madrelingua e, per l’una e per l’altra, siamo vincolati essenzialmente al linguaggio e alla comprensione della sua essenza. Questo vincolo è più esteso e più rigoroso, anche se non meno appariscente, di tutti i criteri derivanti dai fatti filologici e storiografici, che, in effetti, sono debitori della loro natura di fatti al vincolo suddetto. Fin che non ci renderemo conto di tale vincolo, ogni traduzione (Übersetzung) del detto di Anassimandro apparirà come un semplice arbitrio». M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 302; Sentieri interrotti, pp. 305-306. È il titolo di una poesia di Celan, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 117.

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L’in-contro

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(Dichten); non però solo un modo della poesia (Dichtung) nel senso della poesia (Poesie) e del canto. Il pensiero dell’essere è il modo originario del poetare (Dichten)42.

Nell’agosto del 1953, Celan legge per la prima volta il testo Sentieri interrotti donatogli qualche anno prima da Ingeborg Bachmann43 e rimane positivamente colpito dalla teoria heideggeriana che vede i poeti e i pensatori impegnati nel medesimo progetto: laddove pensare e poetare abitano (wohnen) nella prossimità di un in-contro, entrambi si fanno traduttori (Übersetzer) della parola dell’Essere. Nel loro in-contro parla la muta oscurità (Dunkelheit) del destino dell’Essere dove il silenzio della sua indicibilità – propria all’indagine della ragione nella storia dell’esserci (Dasein) – riabilita il senso del pensare conferendogli una dignità poetica. L’innominabilità della Parola nella storia del pensiero occidentale induce così il filosofare proprio a una ragione «glorificata da secoli»44 ad abbandonare il pensare concettuale della scienza per affidarsi alla regione del poetare. In questo affidamento la filosofia abbandona la distinzione fra sensibile e sovrasensibile appartenente alla storia della metafisica per ritrovare l’essenza (Wesen) raccolta nella parola poetica. La traduzione di questo trasferimento (Übersetzung) che trasvola dal pensiero rappresentativo in direzione di un nuovo senso del pensare – è testimoniata da un passo contenuto in Der Satz vom Grund sottolineato da Celan45 in relazione all’ascolto e alla visione della Parola: «Il pensiero è un udire che scorge» e ancora «il pensiero è un udire e un vedere»46. Caratterizzando con una sinestesia il vero pensiero in opposizione al sapere rappresentativo della metafisica – che pone l’oggetto osservato di fronte al soggetto osservatore – Heidegger intende dire che il vedere e l’udire intesi come meri organi fisici costituiscono soltanto le condizioni necessarie del nostro “scorgere e sentire”, senza esserne tuttavia le condizioni sufficienti. Egli afferma infatti che udire per mezzo dell’orecchio non significa udire con l’orecchio, «se il ‘con’ sta qui a significare che è l’orecchio in quanto

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M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 302-303; Sentieri interrotti, p. 306. Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, p. 23. «Ma il pensiero incomincerà solo quando ci si renderà conto che la ragione glorificata da secoli è la più accanita nemica del pensiero»». M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 247; Sentieri interrotti, p. 246. Cfr J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 68-69. M. HEIDEGGER, Der Satz vom Grund, S. 87; Il principio di ragione, p. 87.

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Il grido e il silenzio

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organo sensoriale, che ci comunica ciò che udiamo»47. Ed è ancora Celan ad avvalorare questo passaggio48 laddove il filosofo tedesco articola la connessione fra l’ascolto del pensatore e ciò che “tradizionalmente” non può essere percepito nei termini di “ciò che è vinto al silenzio” (das Verschwiegene): capacità che possiede ogni essere umano, ma messa in atto adeguatamente solo dal “poeta e dal pensatore”. Nello stesso passo Celan si trova poi in accordo con la critica heideggeriana al concetto metafisico e convenzionale di “metafora” intesa come metapherein (μεταφέρω), nel senso greco di traslazione che nell’intento di trasferire (übersetzen) il senso del “vedere e del sentire” dal regno del sensibile al regno di un percepire oltre il mondo dei fenomeni, non è stata tuttavia in grado di operare una distinzione adeguata. La metafora intesa come traslazione è infatti un concetto che affonda la sua origine nella separazione fra sensibile e non sensibile, fisico e non fisico, tipica della metafisica. In questi termini, la traslazione non costituisce affatto il tratto essenziale di un’opera poetica e di ogni creazione artistica, ma è un mezzo di cui si serve la metafisica per interpretarle. Dunque, se il pensiero poetante ha colto in quest’ultima i limiti, ne segue che anche l’idea stessa di metafora, intesa come traslazione di senso, viene a cadere49. Un’articolazione teorica che viene accettata integralmente da Celan50 ed elaborata definitivamente qualche anno dopo, in relazione alla propria poetica, in un passo del Meridian: La poesia in tal modo sarebbe il luogo dove tutte le metafore e tutti i tropi vogliono essere condotti ad absurdum51.

1.2.1. Il “salto” del pensiero poetante Il tono assertivo di Celan rispetto al destino poetico della metafora, diviene comprensibile se si considera che la tradizione occidentale è accettata dal poeta come una sorta di sfida e provocazione52 nel senso offerto 47 48 49 50 51 52

Ibi, S. 87-88; ibi, p. 88. Cfr J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, p. 69. Cfr. M. HEIDEGGER, Der Satz vom Grund, S. 89-90; Il principio di ragione, pp. 89-90. Cfr J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, p. 69. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 199. Il termine Herausforderung, ossia sfida, provocazione, è stato attribuito al poeta dal filosofo Otto Pöggeler che con Celan ha avuto diversi contatti. Negli anni tra il 1936 e il 1946 Celan legge i testi delle lezioni di Heidegger su Nietzsche: il poeta

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L’in-contro

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dall’interpretazione heideggeriana del nichilismo in Nietzsche, inteso cioè come quella posizione filosofica che nella sua essenza costituisce «il movimento fondamentale della storia dell’Occidente»53. Il poeta bucovino si sente così accomunato ai due filosofi in quel tentativo di elevarsi a un nuovo senso del pensare nel superamento del dualismo metafisico fra poetare e pensare trasferendo (übersetzen) il suo canto nell’in-contro di una poetica “Oltreità” (Jenseitigkeit): FADENSONNEN über der grauschwarzen Ödnis. Ein Baumhoher Gedanke greift sich den Lichtton: es sind noch Lieder zu singen jenseits der Menschen54. [FILI DI SOLI sul deserto grigio-nero Un pensiero, alto albero afferra il tono di luce: ci sono ancora canti da cantare, oltre gli uomini.]

Su un «deserto grigio-nero (grauschwarzen Ödnis)», dove il tramonto del sole avvolge tutta la civiltà occidentale, risplende ancora un flebile lucore: «fili di soli (Fadensonnen)» che fendono la tenebra in raggi diradati. Un deserto (Ödnis)55 grigio-nero, paesaggio semi-illuminato, luogo cupo e

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si sente affine ai due filosofi nel senso che, come loro, sente di appartenere all’epoca del tramonto del pensiero occidentale. Cfr. O. PÖGGELER, Spur des Worts, S. 245-250. Cfr. il saggio heideggeriano La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”, in M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 193-247; Sentieri interrotti, pp. 191-246. La concezione nietzscheana della metafisica è inoltre trattata da Heidegger nel capitolo Nietzsches Metaphysik, in MARTIN HEIDEGGER, Nietzsche, Neske, Pfullingen 1961, Bd. II, S. 257-333; tr. it. di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, pp. 745-808. P. CELAN, GW, Bd. II, S. 26. È interessante soffermarsi sull’analisi di Pöggeler riguardo al termine Ödnis. Celan non ha infatti utilizzato per nominare il deserto, termini di uso più comune, come ad esempio, Wüste che si riferisce al deserto nel senso di luogo fisico geografico; e non ha nemmeno utilizzato termini quali Öde oppure Ödigkeit – che peraltro compaiono in una sua traduzione della poesia Die Zwölf di Alexander Blok – ma proprio il termine Ödnis. In questa accezione Ödnis non significa sem-

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Il grido e il silenzio

dimenticato dal quale si eleva un pensiero (Gedank) che, alto come un albero, protende i suoi rami verso il cielo oscurato (eingedunkelt), dirigendosi oltre le tenebre, verso il luogo del canto (Gesang): es sind/ noch Lieder zu singen, jenseits/ der Menschen, «ci sono ancora canti da cantare, oltre/ gli uomini», canta il poeta, dove l’espressione jenseits (oltre) indica il luogo in cui il poeta nel suo oscuro (dunkel) peregrinare, trasporta (übersetzt) la Parola. Un «filo di sole», tono luminoso (Lichtton)56 che traluce dalle fessure delle nubi, è poeticamente raggiunto dal pensiero che lo afferra (greift den Lichtton) ma là – oltre (jenseits) l’oscurità del deserto (Ödnis) e proteso verso il cielo – il Gedank si arresta, donandosi al canto: «greift sich den Lichtton: es sind/ noch Lieder zu singen jenseits/ der Menschen». Nel segno d’interpunzione poetica ha luogo la traduzione (Übersetzung) di un passaggio: i due punti non assolvono una funzione chiarificatrice, non ci si propone di spiegare meglio ciò che precedentemente viene enunciato; la loro valenza è anzitutto simbolica prima che grammaticale. Nella loro posizione divisoria tengono distinti due ambiti: quello del pensare e quello del poetare. Sebbene dimorino vicini, il loro punto d’in-contro si configura come l’esito di un’intersezione all’infinito fra due parallele57. I due punti divengono segno di una scrittura il cui testo si fa luogo d’affioramento di una metafora “assurda”, simbolo testuale di quell’in-contro che, al contempo, è abitazione di una cesura: «tale cesura, disgiungendo poetare e pensare, ne origina insieme la prossimità»58. È in questa faglia che si genera il salto di un trasferimento (Übersetzung) dal linguaggio storico in-contro al canto del poeta: ci sono ancora canti da cantare, oltre/ gli uomini: nel luogo dell’Oltre (Jenseits) è l’esito di un “salto” che si attua nel segreto di un in-contro come traduzione (Übersetzung) dal pensare al poetare. Così come nel Detto di Anassimandro:

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plicemente deserto, ma riassume in sé tutti i possibili deserti, acquistando dunque un senso più ampio che si riferisce ad una corrispondente disposizione d’animo dell’uomo e dunque – aggiungerei – ad una sorta di deserto interiore e universale. Cfr. O. PÖGGELER, Spur des Worts, S.168. Come sostiene Hans Georg Gadamer, il “tono di luce” (Lichtton) si riferisce qui a quella gradazione di luce che «afferrata in questo modo corrisponde però alla tonalità del canto (Lied-Ton)», ovvero quella «tonalità dei Lieder, dei “canti”, di cui si parla nel penultimo verso». HANS GEORG GADAMER, Wer bin Ich und wer bist Du? Ein Kommentar zu Paul Celans Gedichtfolge “Atemkristall”, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1973; tr. it. di Franco Camera, Chi sono io, chi sei tu? Su Paul Celan, Marietti, Genova 1989, pp. 61 e 126. M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 196; In cammino verso il linguaggio, p. 154. Ibidem; ibi, p. 155.

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L’in-contro

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Il trasferimento (Übersetzung) pensante in ciò che nel detto accede alla propria lingua, è un salto oltre un fossato59.

Paradossalità di un in-contro dove l’attestazione finale dell’Oltreità rispetto al Dasein, – «oltre / gli uomini», – testimonia l’affidamento dell’esserci alla poesia: il cantore, nel suo peregrinare trasporta (übersetzt) il canto nel punto del “salto”, laddove la Parola gli va in-contro. Il pensiero s’approssima nel luogo di un trasferimento (Übersetzung) cui s’affida un flebile filo di sole, irruzione finissima di una sporgenza irriducibile, segreto di un in-contro che si offre alla traduzione (Übersetzung) della scrittura poetica come verità di una parola-ombra: Wahr spricht, wer Schatten spricht, – «Dice vero, chi dice ombra»… canterà Celan60. Nella coltre tenebrosa della lingua occidentale, l’accesso alla parola passa per il discorso autoalienante della scienza – tenebra oscura di quel pensiero rappresentativo che ha fatto scivolare l’ombra del Linguaggio «in una risacca di parole fluttuanti»61… Tenue lucore di fili di soli (Fadensonnen) che rinasce splendente ai margini di un pensiero dimentico di sé: Fili di soli (Fadensonnen) è là dove dove finisce l’autoalienazione dell’uomo… e il discorso auto-alienante di questa stessa autoalienazione62.

Suona come una profezia questo aforisma del 1968 dove Celan indica nei fili di soli quel luogo del poetare che coincide con la fine del discorso autoalienante della parola scientifica, esito inesorabile di un pensiero rappresentativo che cede il passo all’ultimità del poetare – verità inaudita di una parola d’ombra che si dona nell’irruzione di un “salto”, nel luogo di una poetica Oltreità (Jenseitigkeit): Non c’è un ponte che conduca dalla scienza al pensiero; l’unico passaggio possibile è il salto63.

Un passaggio teorico che acquista maggiore chiarezza se affiancato alla critica di Heidegger al pensiero metafisico64 in relazione ai due di59 60 61 62 63 64

Cfr. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 303; Sentieri interrotti, p. 306. È un verso appartenente alla poesia Sprich auch du, in P. CELAN, Bd. I, S. 135. Ibidem. P. CELAN, Microliti, p. 147. MARTIN HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954, S. 134; tr. it. di G. Vattimo, Saggi e Discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 88 «Se per esempio siamo seduti in giardino e ci godiamo il profumo delle rose in fiore, non facciamo delle rose un oggetto, né ce le poniamo di fronte, cioè non

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Il grido e il silenzio

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stinti modi del dire e del pensare: un modo rappresentativo che si riferisce all’oggetto inteso nel suo essere di fronte e trattato scientificamente nella sua oggettività (Gegenstand) e un altro modo del dire che intende l’oggetto simbolicamente, aprendo la parola poetica a una dimensione di appartenenza al senso originario dell’essere. Nel passo in questione Heidegger distingue fra “la rosa” intesa come semplice oggetto che sta di fronte (Gegenstand) nel senso di un oggetto semplicemente rappresentato, e l’essere della rosa che, come tale non può essere considerato un oggetto. In questi termini, “l’essere della rosa” è das Wesen, ovvero il senso originario e da riscoprire di Wesen che nella sua radice di infinito sostantivato (das Wesen) significa “l’essere”. Tenendo fermo il concetto fondamentale per cui il linguaggio, secondo Heidegger, nel suo dire dice sempre dell’essere – e non nel senso di mezzo che ha per oggetto l’essere – si evince che “l’essere della rosa” nominato dal poeta non si riferisce alla rosa come oggetto bensì al modo abbandonato, raccolto, dell’uomo di stare all’interno dell’essere della rosa. In tale abbandono il poeta, dicendo della rosa, vive in essa come l’essere di una relazione dove può esperire – al di là di ogni rappresentazione – l’essenza delle cose, il loro senso ultimo, nel puro nominarle. Il senso di questo rapporto diviene chiaro se si considera il modo in cui la parola poetica nomina l’essenza delle cose, sulla scorta della poesia Das Wort di George commentata da Heidegger: «nessuna cosa è (sia) dove la parola manca (kein Ding sei wo das Wort gebricht)». Il significato di questo verso appare chiaro se si considera che il linguaggio in generale è parola dell’essere che si svela attraverso il dire del Dasein: il nominare chiama le cose nella loro essenza. In altri termini: l’essere delle cose dipende dalla parola in quanto «essa procura l’essere alla cosa»65; ciò, tuttavia, non significa che «una cosa, la parola, procura

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ne facciamo un qualcosa di tematicamente rappresentato. Se persino, in un dire silenzioso, sono assorto nel rosso splendente della rosa, e rifletto sul suo essere rossa, allora questo essere rossa non è oggetto, né una cosa, né qualcosa che mi sta di fronte come la rosa in fiore. La rosa sta in giardino e forse ondeggia al vento, mentre l’essere rosso della rosa non sta in giardino, né può ondeggiare al vento. Eppure, mentre lo nomino, lo penso e ne parlo. C’è dunque un pensare e un dire che in nessun modo oggettivano, né pongono di fronte». MARTIN HEIDEGGER, Phänomenologie und Theologie, in Wegmarken, Klostermann, Frankfurt am Main 1976, S. 73; tr. it. di F. Volpi, Fenomenologia e teologia, in ID., Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 29. M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 164; In cammino verso il linguaggio, p. 131.

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L’in-contro

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l’essere a un’altra cosa»66 – per cui si avvalorerebbe la tesi sostanzialistica del linguaggio che sostiene un’indifferenziazione ontologica fra parola e cosa – ma piuttosto nel senso che nulla può esserci se la parola manca, dove per cosa si intende «ogni possibile essente» e per parola si indica ciò che porta la cosa all’essere senza che per questo la parola diventi cosa a sua volta. La parola è in se stessa «il rapporto stesso»67. Rispetto all’esempio della rosa, si può così affermare che il poeta, esperendo l’essere della rosa, non si limita a dire della relazione di sé col fiore – che dice già di un raccogliersi e di un abbandonarsi del poeta in essa – ma la parola poetica, nominando l’essenza della rosa, dice di quella coappartenenza all’essere che trattiene in sé sia l’essere della rosa sia quello del poeta. In questo senso il linguaggio, in quanto linguaggio dell’essere, è «rapporto di tutti i rapporti» (das Verhältnis aller Verhältnisse)68. Un pensiero simbolico che si fonda sull’essere di una relazione originaria e contraddistinto da una parola poetica che non vuole, come il pensiero rappresentativo, definire e possedere la rosa come oggetto, ma che, vivendo nel suo essere, vuole dire dell’Essere. 1.2.2 “Viva la rosa vivente!” Si approda così al superamento del concetto tradizionale e metafisico di simbolo: il nominare poetico oltrepassa qui ogni definizione per esibire la cosa nella sua realtà e trasparenza, senza più mediazioni. È sempre Celan a citare l’amico Osip Mandelstam nella conduzione della Parola alle vicinanze dell’Essere, ispirato dallo slogan proprio all’Acmeismo che rappresentava: «Al diavolo il simbolismo, viva la rosa vivente!»69. Ancora vicino a Osip: Akm(eismo): condurre la Lingua nelle vicinanze dell’Essere70.

66 67 68 69

70

Ibi, S. 192; ibi, p. 151. Ibi, S. 187-188; ibi, p. 148. «Il linguaggio, in quanto Dire originario che imprime l’interno moto al mondo, è il rapporto di tutti i rapporti». Ibi, S. 203; ibi, p. 169. È noto che il poeta Osip Mandestam appartenesse alla corrente letteraria russa dell’Acmeismo, la cui poetica – nata in opposizione al movimento simbolista – si fondava su un nuovo stile espressivo basato sulla concretezza dei contenuti del verso poetico. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue p. 58. Questo passo appartiene alle carte preparatorie del Meridiano. Cfr. P. CELAN, Der Meridian. Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 297, S. 112.

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Il grido e il silenzio

È questo il senso della “fenomenologia poetica” di Celan che, nell’incontro con la “Parola della notte”, attraversa la tenebra del linguaggio designando la cosa per esibirla alla limpidità del suo dire. Secondo il poeta bucovino, penetrare nell’oscurità del poema, inerisce alla “fenomenalità” (Phänomenalität) del poema71 nel senso di un’apparire (Erscheinen) della cosa che lascia parlare insieme (mitsprechen lassen) «l’Incommensurabile dell’Altro»72.

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Un nominare affiorante dalla tenebra che lascia vedere da se stesso ciò che si manifesta, nel senso di un lasciarsi dire (sich sagen lassen) che mostra (zeigt), in sintonia con quella fenomenologia “verso le cose stesse” così sottolineata da Celan73 in Essere e Tempo: L’espressione fenomenologia può essere formulata come segue in greco: λέγειν τὰ φαινόμενα, dove λέγειν significa ἀποφαίνεσθαι. Fenomenologia significa dunque ἀποφαίνεσθαι τὰ φαινόμενα: lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso74.

Il tema del nominare poetico riferito a una fenomenologia del “manifestarsi” trova il proprio fondamento nuovamente in quella concezione heideggeriana del linguaggio che opera un capovolgimento della prospettiva metafisica secondo cui il soggetto, nella storia del pensiero occidentale, ha sempre inteso l’essere come oggetto d’interrogazione. Un processo reso possibile da una teoria del nominare che nel suo svolgersi storico ha considerato il linguaggio come puro mezzo di adeguazione fra parola e cosa. Nella concezione heideggeriana di “un dire che mostra” si attua invece, una sorta di ribaltamento nell’abisso (Ab-grund) che muove in-contro all’ombra di una Parola obliata dalla storia, luogo di una divaricazione che ha sempre inteso l’essere nel suo non-essere-pensato dall’esserci, confinando così l’Essere nell’oblio. In questo luogo abissale (abgrundlich) è la 71 72 73 74

Celan affronta il tema dell’oscurità nei suoi nessi con la “fenomenalità” nelle bozze preparatorie al Meridiano. Cfr. P. CELAN, Der Meridian. Endfassung, Entwürfe, Materialen, (Abschn. 36a-b), n. 57, S. 71,. «Das Inkommensurable des Anderen mitsprechen lassen». Cfr. P. CELAN, Der Meridian. Endfassung, Entwürfe, Materialen,(Abschn. 36b), n. 57, S. 71. La sottolineatura compare nella copia personale di Essere e tempo appartenente alla biblioteca di Celan. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 286. Cfr. MARTIN HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1984, S. 34; tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, pp. 55-56.

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L’in-contro

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traduzione (Übersetzung) di un’indicibilità che affiora dalle tenebre della storia per abbandonarsi – «nella notte del mondo» – all’ascolto di una silenziosa lontananza. Un mutore che si svela nella piega di un’autosottrazione dell’essere esponendo il nominare poetico a quella faglia storica di uno spalancamento silenzioso. La parola poetica lascia così la sua traccia nell’ombra di un Dire che è esso stesso sorgente dell’essere e soggetto di un appello a cui il Dasein porge il proprio ascolto. Ciò è possibile perché l’essenza del Linguaggio (die Sage) è intesa originariamente come un “mostrare” (Zeigen) nel quale il linguaggio dell’uomo trova il proprio fondamento: Perfino là dove il mostrare si realizza grazie a un nostro dire, c’è sempre un lasciarsi mostrare che precede questo nostro mostrare come additare e rilevare75.

Ne viene che l’additare dell’uomo attraverso il parlato può sì funzionare come modo per designare le cose, ma solo perché esso trae origine da un «lasciarsi mostrare» originario in cui i segni dell’uomo «acquistano la possibilità di essere segni»76. Il Dire originario rappresenta così la condizione di possibilità, la struttura trascendentale del segno stesso. Ne viene che il nuovo modo di pensare heideggeriano toglie al segno la connotazione metafisica che gli ha sempre attribuito una funzione designante. Nel corso del pensiero occidentale il rapporto fra l’indicare e l’indicato esprime infatti una relazione «stabilita per convenzione, tra un segno e il suo designato»77. La concezione del Dire come mostrare si sottrae dunque al modo di pensare puramente rappresentativo della metafisica «sospendendo determinate modalità di pensiero prima di cercare una nuova denominazione per esprimere quel che si pensa»78. Si evince che die Sage è l’ambito in cui vengono indicate la presenza e l’assenza, nel senso che il Dire originario, nel proprio mostrare (zeigen), «designa in modo inequivocabile non tanto la cosa, ma questa nella sua presenza o assenza, dice il suo essere o non-essere, porta a manifestazione tutto ciò che non appare sensibilmente come struttura esterna dell’ente, tutto ciò che non esiste come cosa o

75 76 77 78

M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 254; In cammino verso il linguaggio, p. 199. Ibidem. Ibi, S. 245; ibi, p. 192. MASSIMO MARASSI, Ermeneutica della differenza. Saggio su Heidegger, Vita e Pensiero, Milano 1990, p. 228.

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Il grido e il silenzio

non è rappresentabile come concetto»79. La condizione di possibilità del Dire come mostrare (zeigen) si fonda così nel movimento relazionale della presenza e dell’assenza in modo tale che la dimensione in cui il Dire originario si radica è a sua volta «progettata in un gioco ontologico guidato dalla presenza, che impedisce di pensarla come “l’espressione linguistica, aggiunta in un secondo momento, di ciò che appare”»80. Alla luce di questa concezione anche il significato metafisico di “simbolo” viene a cadere. La comprensione del simbolo è infatti sempre stata tale, in funzione della coincidenza di due livelli: quello sensibile e quello sovrasensibile81. Ma se, come afferma Heidegger, con il pensiero nietzscheano la metafisica è giunta alla definitiva destituzione del sovrasensibile82, ne viene che il simbolo, nella sua storicità, essendo espressione di “un al di là”, connota quest’ultimo non nella sua essenza (Wesen) ma come essere dell’ente (Dasein). In tal modo il simbolo testimonia la pretesa di scorgere in sé quel “trascendente” che di fatto, viene dimenticato. Ma in relazione al nuovo modo di pensare che intende il Dire originariamente come «mostrare», la cosa è invece per sé stessa già simbolo83. Avviene così, nel caso della parola poetica, che essa non sia semplice espressione di una dimensione che sta “oltre” la parola: la metaforicità in essa racchiusa non si limita semplicemente a indicare una dimensione “altra”. Con le parole di Celan: Il poema: oltre l’opposizione critico-gnoseologica di reale-ideale = 84.

79 80 81 82

83

84

Ibidem. Ibidem. Riguardo alla nuova concezione del simbolo della metafora e del segno nel pensiero heideggeriano cfr. ibi, pp. 330-353. «[…] non si vedono infatti altre possibilità per la metafisica, dopo che essa con Nietzsche, ha in certo modo spogliato se stessa della sua possibilità essenziale. Col capovolgimento determinato da Nietzsche, non resta più alla metafisica che il suo capovolgimento nel non-essere (Unwesen). Il soprasensibile non è che l’inconsistente prodotto del sensibile. Ma con questo svilimento del suo opposto, il sensibile rinnega il suo stesso essere. La destituzione del soprasensibile sopprime anche il puro sensibile, e perciò la loro distinzione». Cfr. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 192; Sentieri interrotti, p. 191. A questa concezione del simbolo fanno eco le parole di Luigi Pareyson: «Il simbolo, insomma, non si limita a rappresentare un oggetto attraverso un’allusione, un rinvio, ma, direttamente, lo è; esso è la realtà stessa in quanto presente e viva». LUIGI PAREYSON, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, pp. 104-105. Cfr. P. CELAN, Der Meridian. Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 946, S. 211.

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L’in-contro

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Oltre l’opposizione di reale e ideale, laddove Celan apporta il segno grafico (=), il canto poetico – come parola in cui il Dire originario risuona – si fa dimora immanente di uno svelamento che è oscillazione di presenza e assenza, il cui senso non si riduce alla pura adeguazione fra segno e significato, ma è come se portasse tutti i singoli referenti «all’assurdo» riscoprendosi nella relazione originaria del “mostrare” (zeigen). È proprio questo che Celan intende quando afferma:

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E cosa sarebbero allora le immagini (Bilder)? Ciò che irripetibilmente, sempre di nuovo irripetibilmente hic et nunc viene percepito e ha da essere percepito. Il poema sarebbe il luogo dove ogni sinonimica viene meno; dove tutti i tropi sono condotti ad absurdum85.

E ancora nelle bozze del Meridiano: «L’immagine (Bild): visione (non metafora)»86. Queste parole avvalorano poeticamente quanto sostenuto da Heidegger. Le «immagini» (Bilder) poetiche a cui Celan fa riferimento si manifestano infatti nell’hic et nunc del poema, ossia in quel luogo creaturale dell’esserci (Dasein) dove il Dire originario «viene percepito e ha da essere percepito» perché originariamente esso si “mostra” nel nominare storico dell’uomo. È infatti questo il senso del verso di Hölderlin ripreso teoricamente da Heidegger87: …Poeticamente abita l’uomo (…dichterisch wohnt der Mensch) e rielaborato da Celan nelle stesure preparatorie del Meridiano in riferimento al tema della metafora: Il poema sarebbe il luogo dove ogni sinonimica viene meno; dove tutti i tropi sono condotti ad absurdum; il poema, credo, anche quando si tratta del più immaginoso, ha un carattere antimetaforico; l’immagine (Bild) ha un tratto fenomenale, conoscibile attraverso l’intuizione (Anschauung). – Ciò che da lei ti separa, non lo superi: devi deciderti al salto88.

Il “salto” costituisce qui il punto di slancio dell’immagine (Bild) che si allontana dal concetto metafisico di simbolo-metafora per risolversi nel suo superamento come evidenza e intuizione di un’immagine-visione (Bild):

85 86 87 88

Cfr. P. CELAN, Der Meridian, GW, Bd. III, S. 199. Cfr. P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 121, S. 87. M. HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, S.187-204; Saggi e Discorsi, pp. 125-138. Cfr. P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, (Abschn. 39b), n. 384, S. 125.

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Il grido e il silenzio

esibizione del reale nel suo puro apparire, nominata nel luogo di una relazionalità originaria come mostrarsi. Con le parole di Heidegger: La parola usuale per indicare l’aspetto e l’apparenza di qualcosa è per noi Bild, «immagine». L’essenza dell’immagine è nel «far vedere» qualcosa89.

Una riflessione che Celan sottolinea nella sua copia del testo …Dichterisch wohnt der Mensch e accanto alla quale non esita ad annotare la parola Bild90, ovvero «immagine» di ciò che appare e si mostra nella sua fenomenicità.

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1.2.3. Celan e la fenomenologia Relativamente alla frequentazione celaniana del termine “fenomenologia”e nonostante le convergenze testuali offerte dai testi heideggeriani rispetto al concetto di “fenomeno” inteso come “ciò che si mostra”, non si possono tuttavia escludere dalla presente ricerca i possibili influssi della fenomenologia husserliana sulla poetica di Celan. Sebbene il poeta non commenti né analizzi direttamente il pensiero di Husserl, se ne può tuttavia, intravedere una comunanza fenomenologica laddove, nel pensiero del filosofo, le immagini non sono intese come medium di rappresentazione ma mostrandosi nella loro evidenza, hanno un immediato contenuto di verità91. Tuttavia, se è vero che da un lato la con89 90 91

M. HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, S. 201; Saggi e Discorsi, p. 135. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 49. Relativamente al concetto di “fenomeno” presente nella poetica di Celan – in rapporto alla concezione antimetaforica dell’immagine come visione-evidenza (Bild) – , si rivelano interessanti le riflessioni di Marianna Rascente rispetto ai possibili influssi husserliani sulla fenomenologia poetica di Celan. Ad analizzarne il senso è il testo Metaphora Absurda in cui l’autrice sostiene che le immagini in Husserl non sono medium di rappresentazione ma hanno un immediato contenuto di verità. Nonostante alcuni espliciti riferimenti di Celan alla fenomenologia husserliana, bisogna tuttavia, ammettere che, come afferma la stessa autrice, la concezione dell’immaginazione esposta nelle Idee risponde alle istanze che caratterizzano la fenomenologia costitutiva in cui i vari modi di datità dell’oggetto «sono reperibili nello sguardo diretto al correlato noematico, e non in quello diretto all’Erlebnis e al suo stato reale: come caratteri di un elemento, per così dire, ‘ideale’, sono anch’essi ‘ideali’ e non ‘reali’». A mio avviso, ciò comporta che in ultima istanza il concetto di fenomenologia in Celan, riferito cioè, all’aspetto storico e creaturale dell’immagine poetica nonché alla frequentazione dell’Erlebnis, non possa corrispondere completamente a quel correlato noematico e ideale husserliano

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cezione husserliana del fenomeno non contrasta con quella di immaginevisione (Bild) presente nella poetica di Celan, d’altro canto è indubbio che il concetto di fenomeno in Husserl resta pur sempre legato alla questione dell’evidenza e della sua manifestatività puramente ontica92. Concezione che trova piena corrispondenza nella nominazione celaniana rivolta al reale della “creatura” ma che sembra non giustificare l’attenzione di Celan alla parola poetica come espressione silenziosa della Parola dell’Essere nella dimensione storica. Non solo, ma la rilevanza di un’affinità fenomenologica fra Celan e Husserl – ponendo l’accento sull’ente come “ciò che si mostra” nell’evidenza della sua nominazione storica – non esclude a sua volta, anche un’attinenza con la concezione del fenomeno in Heidegger, laddove l’indagine di quest’ultimo si concentra sulla manifestatività dell’ente in rapporto all’intuizione (Anschauung) del fenomeno inteso come “ciò che si mostra”: siamo qui in una fase del pensiero heideggeriano ancora riconducibile a quello di Husserl. Infatti, se in un primo momento il concetto heideggeriano di fenomeno si accosta a quello husserliano come mostrarsi dell’ente, in un secondo momento se ne distacca, accordandone il primato al versante ontologico di una svelatezza dell’Essere nella storia93. In altri termini: in un primo momento ciò che si mostra è l’ente e in un secondo momento è l’essere che si svela. Un approdo teorico che consente una duplice lettura di Heidegger e la riconduzione di Celan e Husserl al primo modo di Heidegger, e in un secondo momento, il volgersi della poesia celaniana alla svelatezza della Parola dell’Essere. Così, quando Celan si rivolge alla parola poetica come al luogo abissale (abgrundlich) di un’espropriazione Originaria vissuta nella dimensione storica, la sua nominazione ne testimo-

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che priverebbe il nominare di Celan della sua condizione reale e creaturale. Per un’analisi del concetto di fenomenologia in Husserl rispetto alla poetica di Celan, cfr. MARIANNA RASCENTE, Metaphora absurda. Linguaggio e realtà in Paul Celan, Franco Angeli, Milano 2011, pp. 99-103. Da precisare è il fatto che Husserl miri al cominciamento assoluto, ovvero, alla fenomenologia come fondazione basata su un’intuizione originalmente offerente. Husserl nell’enunciazione del suo pensiero filosofico, resta legato alla manifestatività dell’ente e tende a una visione che rientra in un orizzonte di senso a partire dal dato reale. In questa Weltanschauung si situa il primato ontico dal quale fa derivare la visione e il senso. Per un approfondimento esaustivo relativo alle affinità e alle differenze presenti nella concezione del fenomeno in Husserl e in Heidegger, cfr. FRIEDRICH-WILHELM VON HERRMANN, Il concetto di fenomenologia in Heidegger e in Husserl, a cura di Renato Cristin, il Melangolo, Genova 1997.

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Il grido e il silenzio

nia l’Indicibilità rispetto a un velarsi e svelarsi dell’Origine. Nei termini heideggeriani dopo il pensiero della svolta (Kehre):

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Ma che significa dire (sagen)? Per esperire questo è necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già costringe a pensare con la parola sagen. “Sagan” significa: mostrare, far che qualcosa appaia, si veda, si senta94.

Se dunque, Husserl resta legato alla pura manifestatività dell’ente tendendo a una visione che rientra in un orizzonte di senso focalizzato sul reale-creaturale – in accordo con la poetica di Celan – è pur vero che l’attenzione del poeta bucovino si sposta sul fenomeno heideggeriano nel momento della sua presenza come assenza: quando cioè, la parola poetica diviene nel suo manifestarsi e apparire, luogo di una svelatezza Originaria che si “lascia mostrare” – nell’in-contro storico con la faglia della scrittura poetica – nella sua intraducibile Indicibilità. La scrittura del poema viene così ad essere espressione silente di una relazione originaria, di un’immagine che, nella sua nominazione, manifesta – in un andirivieni di presenza-assenza – l’essenza della cosa. In altri termini, la parola non essendo esauribile nel suo significato concettuale, conferisce al regno del dimorare poetico una simbolicità propria, costituita dal continuo evenire (ereignen) di presenza e assenza. Il dire della poesia si fa così espressione di un abitare che è luogo storico dell’Ereignis, cioè di quell’evento nel qui ed ora «che porta ogni cosa a essere se stessa e che perciò è “rivelazione rivelante, cioè costituente e disvelante le cose nella loro verità”»95. Nuovamente con Heidegger sull’opera d’arte: Nell’opera, invece, lo straordinario è proprio questo: che l’ente, in quanto tale, è [ist]. Non però nel senso che nell’opera continui a vibrare l’evento del suo esser-fatta; ma nel senso che essa proietta innanzi a sé ed ha costantemente proiettato intorno a sé il carattere di evento che essa è in quanto è questa opera qui96.

Nell’opera poetica dimora dunque, l’irrompere dell’evento nella cesura storica come hic et nunc della scrittura. Un dimorare tradotto (übersetzt) poeticamente da Celan nell’abitazione di una parola d’ombra, devastata

94 95 96

M. HEIDEGGER Unterwegs zur Sprache, S. 252; In cammino verso il linguaggio, p. 198. M. MARASSI, Ermeneutica della differenza, p. 350. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 54; Sentieri interrotti, p. 50.

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L’in-contro

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dalla storia dove ha voce l’oscuro destino dell’Essere come evento (Ereignis) silenzioso che affiora in prossimità dell’in-contro fra pensare e poetare97. L’accadimento genera la sporgenza inaudita di un’indicibilità – segreto di un in-contro che riaffiora dalla cesura come eccedenza scandalosa per il pensiero occidentale, tenue «filo di sole» che si protende disperato verso le faglie storiche della scrittura, nell’abitazione simbolica di un ottenebramento. Un soggiornare nella notte della Parola che si dispone alla comprensione del Dasein in un universo infinito di definizioni, pur sempre insufficiente a esaurirne l’indicibilità: lo scarto ne atterrisce la ragione elevandola al regno oscuro (dunkel) del simbolico. La poesia si presenta così, rispetto al pensiero oggettivante della scienza, come assurda, ascientifica poiché nell’esperienza dell’abitare (wohnen) richiama in sé la caratteristica della polisemia evocando – in nome di un’indicibilità – la contemporaneità di innumerevoli significati: un assunto inconcepibile per il pensiero razionale. È sempre Celan a intendere la poesia come apertura (Entwurf) di un universo infinitamente polisemico. Contrariamente a quanti vollero vedere il pensiero di Heidegger come ermetico e oscuro, il poeta bucovino lo difese fino in fondo attribuendogli il merito di avere riportato la lingua alla sua limpidità98. Le dichiarazioni del poeta al riguardo – nonostante la complessità del loro rapporto e le distanze irrisolte fra i due – sono molto esplicite99. Secondo Celan, la poesia annuncia l’infinità e la luce nell’oscura esperienza della mortalità e della vanità100. Pur senza rinunciare all’«irrevocabile polivalenza» del suo linguaggio poetico101, il poeta bucovino vede nella poesia un momento di realismo: il linguaggio della lirica tedesca a lui contemporanea «si è fatto più sobrio, più attento ai fatti»102 e diffidando del bello, la poesia «tenta di essere vera. […]. Si tratta di un linguaggio più grigio la cui 97

Il concetto heideggeriano di Ereignis viene accettato consapevolmente da Celan nel senso in cui viene articolato nel testo La poesia di Hölderlin, in relazione all’andamento dialogante fra pensare e poetare. Cfr J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, p. 85. 98 Cfr. O. PÖGGELER, Spur des Worts, S. 250. 99 La dichiarazione di Celan riguardo alla concezione del Linguaggio in Heidegger, appartiene a un discorso fra il poeta e Clemens Graf Podewils, riportato dall’amico Otto Pöggeler. Cfr. O. PÖGGELER, Spur des Worts, S. 250. 100 «La poesia, Signore e Signori: questa portatrice d’infinito data a quanto di semplicemente mortale e vano». P. CELAN, GW, Bd III, S. 200. 101 P. CELAN, GW, Bd. III, S. 167-168. 102 P. CELAN, Antwort auf eine Umfrage der Librairie Flinker, Paris (1958), in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 167.

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Il grido e il silenzio

musicalità è situata in un luogo dove non ha più nulla da spartire con quella “melodiosità” che ancora andava risuonando, più o meno imperturbata, assieme o accanto agli eventi più orrendi. Ciò che preme a questo linguaggio è di essere preciso. Esso non trasfigura, non poetizza, ma nomina e instaura, cerca di circoscrivere il campo del dato e del possibile»103, nell’ultimità di un dire del qui ed ora, come esito proprio all’intento di smantellare il tetto del linguaggio mondano nell’arduo accesso alla parola dell’Essere.

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1.3. Ombra e ultimità «Tegola dopo tegola, sillaba dopo sillaba (Schiefer um Schiefer, Silbe um Silbe)»104, il verso poetico si fa portatore (Übersetzer) di un’ultimità che è sporgenza di un’irruzione nel “tetto” delle rappresentazioni, esito cristallino di una polivalenza poetica, purezza inarrivabile calata nella storia, nell’in-contro con la tenebra. Enigma dell’evento, sporgenza di un’ombra irriducibile: mistero di una verità che affiora dai fondali (unten) della storia, dove il poeta è “l’ultimo a parlare”: SPRICH AUCH DU Sprich auch du, sprich als letzter, sag deinen Spruch. Sprich – Doch scheide das Nein nicht vom Ja. Gib deinem Spruch auch den Sinn: gib ihm den Schatten.

103 Ibidem. 104 Le espressioni poetiche «Schiefer um Schiefer, Silbe um Silbe», compaiono nella poesia In die Rillen, in P. CELAN, GW, Bd III, S.13. Preziosa al proposito si rivela l’interpretazione di Gadamer: «Infatti, noi tutti viviamo sotto il tetto del linguaggio. Forse anche ciascuno di noi avrebbe il desiderio di demolire il tetto che protegge insieme tutti noi perché ci impedisce di vedere oltre e di vedere lontano, per potere rivolgere lo sguardo in alto verso l’aperto. Prima di ogni altro è certamente il poeta a dire qui di se stesso ciò che forse vale per tutti noi. Il manto delle parole è simile ad “un tetto sopra di noi” che protegge quanto ci è familiare. Ma circondandoci interamente con familiarità, le parole ci impediscono di rivolgere lo sguardo verso ciò che non ci è familiare. Il poeta – o noi tutti? – cerca “sillaba per sillaba (Silbe um Silbe)”, ossia faticosamente e insistentemente, di demolire questa copertura» (H.G. GADAMER, Chi sono io, chi sei tu?, pp.21-22).

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L’in-contro

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Gib ihm Schatten genug, gib ihm so viel, als du um dich verteilt weißt zwischen Mittnacht und Mittag und Mittnacht.

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Blicke umher: sieh, wie‘s lebendig wird rings – Beim Tode! Lebendig! Wahr spricht, wer Schatten spricht. Nun aber schrumpft der Ort, wo du stehst: Wohin jetzt, Schattenentblößter, wohin? Steige. Taste empor. Dünner wirst du, unkenntlicher, feiner! Feiner: ein Faden, an dem er herabwill, der Stern: um unten zu schwimmen, unten, wo er sich schimmern sieht: in der Dünung wandernder Worte105. [PARLA ANCHE TU Parla anche tu, parla per ultimo, dì il tuo pensiero. Parla – Ma non dividere il No dal Sì. Dà al tuo pensiero anche il senso: dagli l’ombra. Dagli ombra abbastanza, così tanta, che intorno a te tu la sappia divisa tra mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte. Guardati intorno: vedi come in giro c’è vita – Per la morte! C’è vita! Dice il vero, chi dice ombra. Ma ora si restringe il luogo dove stai:

105 P. CELAN, GW, Bd. I, S. 135.

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Il grido e il silenzio

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dove vai ora, spogliato dell’ombra, dove? Sali. Tastoni verso l’alto. Divieni più sottile, quasi altro, più fine! Più fine: un filo, lungo il quale vuole scendere la stella: per nuotare giù, giù in fondo, dove si vede brillare: nella risacca di parole fluttuanti.]

«Parla anche tu, parla per ultimo»… nell’attestazione di un’ultimità poetica, che risale dai crepacci della storia, in direzione del cielo, affinandosi come un filo (Faden) lungo il quale vuole scendere la stella (Stern), il poeta si autoesorta alla frequentazione dell’ombra: Gib deinem Spruch auch den Sinn:/ gib ihm den Schatten, «dà al tuo pensiero anche il senso», conferisci al tuo “detto” il suo senso; il cantore si fa testimone di un poetare che abita il margine dell’ombra (Schatten) nella terra della sera – affinché l’ombra intorno a lui, sia divisa fra mezzanotte, mezzogiorno e mezzanotte, (als du um dich verteilt weißt zwischen /Mittnacht und Mittag und Mittnacht), faglia di uno stretto temporale dove il cantore stesso si assottiglia, si fa più irriconoscibile (unkenntlicher), quasi altro. Nella «risacca (Dünung)» – come ritorno dell’onda marina respinta da un ostacolo – le parole fluttuano nel luogo riflesso dell’onda, nomadi di senso (Sinn), errando senza meta nello smarrimento della propria ombra (Schatten). È qui, nel luogo riflesso di un’erranza, l’in-contro di un’elevazione che «vuole scendere (herabwill)» nel luogo devastato della storia. «Giù (unten)», nel fondo oscuro (dunkel) dell’insensatezza e della barbarie, «la stella (Stern) si vede brillare (sich schimmern)»: eccedenza di un dire come istituzione di senso (Sinn) al pensiero poetante nel quale il poeta stesso canta l’ombra della parola. Verità del dire poetico che, nell’in-contro abissale (unten) con la risacca (Dünung) della storia, partecipa del silenzio dell’Essere… È in questo in-contro, nella piega di un silenzio ontologico – come inchino del tramonto del pensiero occidentale all’alba del pensiero poetante – che il varco dello scritto poetico si fa luogo disvelante dell’ombra: esito silenzioso di un’ulteriorità di senso resistente alla traduzione (Übersetzung) storica, nell’abitazione del Gegenwort. È nel luogo di questa resistenza – attestazione silenziosa del segreto di un in-contro – che si chiarisce il senso dell’interesse di Celan per la domanda: «In quale lingua traduce (übersetzt) la terra della sera, l’Occidente?106», laddove il testo heideggeriano – in rife106 M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 342; Sentieri interrotti, p. 347.

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L’in-contro

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rimento all’intraducibilità del detto di Anassimandro secondo l’arbitrio dei criteri metafisici – risponde:

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La traduzione (Übersetzung) può essere ripensata solo nel pensamento del detto. Ma il pensiero è la poesia (Dichten) della verità dell’essere nel dialogo storico dei pensanti107.

«Il pensiero è la poesia della verità dell’essere nel dialogo storico dei pensanti»… ovvero nel luogo di quel processo di traduzione (Übersetzung) che si attua nell’in-contro autentico e destinale (geschicklich) dei linguaggi storici108: atto di modestia della ragione, dove il pensare procede in-contro al poetare in direzione del mistero della verità. Una sorta di affidamento alla svelatezza ombrosa di un’intraducibilità, il cui trasporto (Übersetzung) nella “terra della sera” è possibile solo nell’orizzonte di un’ultimità pre-metafisica, nei termini in cui viene formulata dal pensiero di Anassimandro. La poesia di Celan e il pensiero di Heidegger si in-contrano così nel luogo di un’ombra silenziosa, traduzione (Übersetzung) di una “terra della sera” come approdo del pensiero poetante a un orizzonte premetafisico comune: il loro cammino parallelo attesta un andamento in cui poetare e pensare, pur correndo l’uno accanto all’altro, si in-contrano nel luogo storico di uno sconvolgimento nel senso di un volgersi (sich kehren) che attesta nell’interiorità dell’uomo quel movimento dell’Essere che svolta su se stesso. È solo in questo luogo ritratto e capovolto (gekehrt) su di sé che la Parola, nel senso di Wort, è esperita come Gegenwort – controparola. Il movimento intrinseco al gegen, oltre a conferire un senso di espropriazione al Dasein, consente altresì di porre “poetare e pensare” l’uno contro l’altro, dove quel contro rimanda a una prossimità che fa affiorare sempre la distanza. Varco di un’indicibilità che soltanto i poeti, nell’abitazione del Gegenwort, possono colmare, trasportandone (übersetzen) l’ultima ombra, nella faglia temporale della scrittura – eco kafkiana di un colpo d’ascia, evento sconvolgente di un in-contro con i ghiacciai della storia: nello iato del varco è il luogo di un “salto” nell’abisso, ad opera del pensiero poetante. Il suo evenire (ereignen) si fa traccia di un’irruzione nella contiguità spazio-temporale dell’esistenza (Dasein) scardinandone l’illusorietà 107 Ibidem. 108 Cfr. ibidem.

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Il grido e il silenzio

dei fondamenti per spingersi a fondo, nell’abitazione della sua oscurità (Dunkelheit).

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1.3.1. Tenebra e oscurità Siamo così approdati al senso di un oscuro attraversamento la cui tenebra (Dunkel) non si lascia esaurire in quel significato di “oscurità” (Dunkelheit) proprio al pensiero metafisico, relativo cioè, a un’assenza di intelleggibilità “congenita” allo stesso verso poetico. L’esperienza di questa “oscurità” si riferirebbe, in tal caso, soltanto a quella cripticità connaturata all’esteriorità linguistica del poetare. Un’attribuzione rintracciabile nella lirica simbolista di fine Ottocento e in particolare nell’ultimo tratto della poetica di Mallarmé che quasi un secolo prima di Celan, esprimeva nell’invenzione poetica del ptyx109 l’immagine autoreferenziale della poesia. Una concezione poetica che trae origine da una visione demiurgica del linguaggio, dove il verso diviene espressione di una costruzione linguistica: assemblaggio di parole110 che ravvisa nella creazione linguistica del ptyx l’espressione oscura (dunkel) di un silenzio metafisico. Nell’espressione poetica di un’assenza di Parola, l’autoriflessione del verso definisce il senso della poesia come “nullo”, perché riflesso su di sé come in un gioco di specchi. In questa operazione autoreferenziale, la poesia si trova collocata fuori dall’orbita del linguaggio definitorio, in un esaurimento quantitativo riferito alla sterilità del suo enunciato, ovvero, più semplicemente, alla nullificazione del suo dire. Ci troviamo qui su un piano di oscurità (Dunkelheit) che conserva il suo aspetto sensibile ed em109 Il ptyx è una sorta di artificio poetico formato dalla combinazione di lettere intenzionalmente casuali che, nell’ultima fase della produzione del poeta simbolista, sta a significare l’inesprimibilità dell’indicibile congenita allo stesso verso poetico. Cfr. FRANCESCO PISELLI, Mallarmé e l’estetica, Mursia, Milano 1969, p. 100. 110 La diversità di ricerca linguistica fra Celan e Mallarmé è ben descritta da George Steiner: «In una lirica breve, irrealmente fitta, Celan parla di “ombre reticolari scritte da pietre”. La letteratura moderna è spinta dall’esigenza di scovare questa ‘litografia’ e questa écriture d’ombres. Esse si trovano al di fuori della chiarezza e dell’andamento consequenziale dell’idioma pubblico. Per chi scrive dopo Mallarmé, il linguaggio fa violenza al significato, appiattendolo, distruggendolo, come una creatura viva degli abissi è distrutta quando viene portata alla luce del sole e alle basse pressioni della superficie marina». GEORGE STEINER, After Babel. Aspects of Language and Translation; Oxford University Press, Oxford-New York, 1975, 19983; tr. it. di R. Bianchi e C. Béguin, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Garzanti, Milano 2004, p. 228.

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L’in-contro

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pirico all’interno della distinzione metafisica fra finito e infinito espressa dalla coscienza di un’inadeguatezza fra significato ed espressione poetica. Nella constatazione metafisica di un’attribuzione sempre più inadeguata, il poetare fa esperienza del limite della definizione rispetto a un piano ideale della Parola: il linguaggio inteso come mezzo di attribuzione alla cosa è insufficiente ad esprimere l’inesprimibile. Nella parola di Mallarmé si attua il senso di un’oscurità (Dunkelheit) connaturata (Kongenital) allo stesso dire poetico come esito consapevole di una metafisica giunta al limite di sé stessa – al limite della chiacchiera (Gesagtes) – nella consapevole assenza della Parola come espressione di uno scarto fra reale e ideale, che si fa immanente nell’aspetto semantico del verso. Da qui il concetto di una “purezza assoluta” della poesia che non passa per l’in-contro irrevocabile fra la data storica e la sua enigmaticità, ma rimane confinato al silenzio di un’assenza originaria. Il raggiungimento della “purezza” è qui ascrivibile a quella corrispondenza (Entsprechung) assoluta fra parola e cosa dalla quale Celan prende le distanze111 poiché la ricerca poetica di una parola assoluta e autonoma non appartiene alla vera natura del poema ma si situa all’interno della storia della metafisica riproducendone il movimento nella creazione di quel “doppio” come «elevazione simbolica del reale» e privando l’uomo della sua condizione creaturale. Con le parole del poeta: Nel poema: non credo consista, o meglio – non più – non si dispiaccia Mallarmé, in una di quelle indifferenziate costruzioni linguistiche, aggregati di “parole” o più esattamente di “termini” fonetici, semantici e sintattici. Non è nel poema che si comprende come “Musica della parole” né in alcuno spazio di atmosfera poetica messa in atto dalla “risonanza delle tonalità”. Né si comprende nel poema come l’esito di creazioni della parola, di assemblaggi di parole, di disgregazioni di termini, di giochi di parole. Non è in alcuno spazio di nuova “arte d’espressione”. Come nel poema, non vi è nemmeno una “seconda” realtà intesa come elevazione simbolica del reale. – Ma nel poema in quanto poema di colui il quale sa di parlare dall’angolo d’inclinazione della propria esistenza, vi è molto di più, poiché la lingua del suo poema non è “corrispondenza” (Entsprechung), né parola pura e semplice, ma parola attualizzata (aktualizierte Sprache)112.

Nel cuore di una parola attualizzata (aktualizierte Sprache) e oltre ogni corrispondenza (Entsprechung) fra parola e cosa, s’inscrive la domanda di 111 Il termine Entsprechung in riferimento al concetto di poesia assoluta viene articolato da Celan nelle carte preparatorie del Meridiano. Cfr. P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, (Abschn. 33a-c), S. 34. 112 Cfr P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, (Abschn. 30b), n. 17, S. 55.

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Il grido e il silenzio

Celan: «Ci incombe forse il compito di portare alle sue estreme conseguenze il pensiero di Mallarmé?»113, laddove, nell’abitazione del Gegenwort – come esito di una riformulazione simbolica vissuta nel capovolgimento oscuro (dunkel) della Parola – ne attuerà il superamento. Nel poema Ein Blatt, il poeta bucovino cita un verso di Bertolt Brecht114: EIN BLATT, baumlos, für Bertolt Brecht:

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Was sind das für Zeiten, wo ein Gespräch beinah ein Verbrechen ist, weil es soviel Gesagtes mit einschließt?115 [UNA FOGLIA, disalberata per Bertolt Brecht: Che tempi sono questi, dove un discorso è quasi un delitto perché comporta tanto già-detto?]

Il tema dominante è quello del linguaggio inteso come Gesagtes, ovvero quella ridondanza e stratificazione del “già detto” che sottende ogni nostra parola quotidiana. Vale a dire che “questi tempi” sono caratterizzati da espressioni linguistiche non più pure e autentiche, ma derivanti da ammassi di parole e chiacchiere che hanno saturato di oscurità (Dunkelheit) l’accesso a un linguaggio veritiero e originario. Nei versi del poema di Brecht An die Nachgeborenen, «A coloro che verranno», il drammaturgo tedesco oltre a constatare il senso di oscurità proprio a un «discorrere d’alberi» – in quanto vuoto aggregato di parole, di frasi già dette e già fatte, di clichés e slogans che non si rivolgono più alla vera realtà – ne denuncia politicamente il crimine (Verbrechen) poiché interno a un linguaggio che 113 Cfr. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 193. 114 I versi dai quali Celan trae spunto appartengono alla seconda strofa della lirica An die Nachgeborenen: BERTOLD BRECHT, in Gesammelte Werke, Bd. IV, Gedichte, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1961, S. 143: «Was sind das für Zeiten, wo/ ein Gespräch über Bäume fast ein Verbrechen ist/ – Weil es ein Schweigen über so viele Untaten einschließt!». 115 Questa poesia fa parte del ciclo Schneepart; P. CELAN, GW, Bd. II, S. 385.

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L’in-contro

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Celan stesso non esiterà a definire “lingua degli assassini”: Wirklich, ich lebe in finsteren Zeiten! «Davvero, vivo in tempi oscuri!» – dirà poeticamente Brecht negli anni dell’ascesa del nazionalsocialismo, tempo in cui la poesia ha perso la sua innocenza perché il silenzio del suo vuoto si fa espressione disperata delle crudeltà della storia: «Che tempi sono questi, dove/discorrere d’alberi è quasi un delitto/perché implica un silenzio su tanti crimini!» Una strofa che si sostiene sul crinale linguistico di un’impossibilità, grido disperato che si eleva dal luogo paradossale di un dolore insostenbile, rammentando nuovamente al nostro ascolto l’asserzione adorniana sull’impossibilità di scrivere poesie dopo Auschwitz. Oscurità di un tramonto occidentale gravido di atrocità e crimini che si stagliano stridenti sulla «variopinta chiacchiera del vissuto» (das bunte Gerede des Anerlebten)116 – poesia «menzognera» tuttavia pur disposta a ritrovare in una «foglia (ein Blatt)» ormai «disalberata (baumlos)», sradicata dal suo albero (Baum), il senso del Genicht117 – «niente-di-poesia» – esito oscuro (dunkel) ed estremo di una “parola-foglia”. Ein Blatt, baumlos/ für Bertolt Brecht, «Una foglia, disalberata/ per Bertolt Brecht», omaggio di Celan al drammaturgo e al silenzio disperato della Parola che in lui si dispone al trasferimento (Übersetzung) dalla “terra della sera”, nell’attraversamento della sua tenebra (Dunkel). Ein Blatt, baumlos – «Parola-foglia, disalberata», poiché il suo dire (Gespräch) non è semplicemente l’esito di un silenzio che si stende sulla parola vuota e criminale: nel suo disancoramento non è più radicata al fondamento (Grund) di una linfa menzognera. La “parolafoglia” è parola sradicata che rinasce dalla tenebra (Dunkel), disancorata e disalberata, dove lo smarrimento delle sue radici ne comporta l’elevazione e la Salvezza, nella mancata assicurazione di ogni “certezza e chiarezza” della lingua. Ancora con Celan in un passo del Meridiano: «Questa è credo, la – seppur non congenita (Kongenital) – oscurità (Dunkelheit) che appartiene alla Poesia, in vista di un in-contro (Begegnung) che muove da una distanza o estraneità (Fremde) che essa stessa, forse, ha inteso progettare»118. Una poetica che Celan avvalora nel riferimento a un pensiero che Pascal aveva rivolto a Cartesio: «Ne nous reprocher pas le manque de clarté

116 Questa espressione compare nella poesia Weggebeizt appartenente al ciclo Atemkristall, P. CELAN, GW, Bd. II, S. 31. 117 Cfr. ibidem. 118 P. CELAN, GW, Bd. III, S. 195.

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Il grido e il silenzio

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puisque nous en faison profession!»119 – e che il poeta bucovino cita indirettamente da un saggio di Lev Šestov120 ponendo l’accento sulla differenza delle due visioni filosofiche: «To Descartes’gay “clare et distincte” he answered brusquely, gloomily, and surlily: I want no clarity,” and qu’on ne nous reprocher pas le manque de clarté puisque nous en faison profession”»121. Si tratta di un’indiretta allusione di Celan alle Meditazioni metafisiche di Cartesio e alla critica di Pascal all’assunto teorico di una certezza indubitabile propria al pensiero dell’ego cogito, come esito inesorabile del pensiero rappresentativo – espressione di una costante presenza dell’oggetto (Gegenstand) come certezza dell’essere dell’ente. In questa assicurazione, come conservazione del tenere-per-vero della certezza, si attua l’espressione della volontà di potenza nel pensiero occidentale, così come viene formulato dal pensiero nietzscheano. Con le parole di Heidegger: Pertanto, secondo Nietzsche, la certezza, quale principio della metafisica moderna, è propriamente fondata nella volontà di potenza: sul presupposto che la verità è un valore necessario e che la certezza è la forma assunta dalla verità nel Mondo Moderno122.

La parola poetica si istituisce così nuovamente come “contro-parola” (Gegenwort)123 contro cioè quella certezza che è forma assunta dalla verità come mondo di credenze stabilite in omaggio a «quella maestà che testimonia della presenza dell’umano alla maestà dell’assurdo»124. Nell’abitazione del Gegenwort la poetica celaniana può così condurre “ogni metafora ad absurdum”, nel canto di una contro-parola che dice dell’oscurità dell’Essere nella restituzione storica della sua ombra silenziosa. Nel luogo ontologico di un ottenebramento, il poeta diviene così traghettatore, timoniere dell’indicibile che – sulle sponde del fiume del silenzio – si avventura nei pertugi della lingua storica, lasciando affiorare il bagliore (Licht) ineffabile di un’oscurità (Dunkelheit) abissale:

119 «Non si rimproveri a noi la mancanza di chiarezza giacché ne facciamo una professione», in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 195. 120 LEV ŠESTOV, A Shestov Anthology, edited with an introduction by Bernard Martin, Ohio University Press, Athens 1970, pp. 215-243. 121 Ibi, p. 220. 122 M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 220; Sentieri interrotti, p. 219. 123 Cfr. P. CELAN, Der Meridian, in GW, Bd. III, S. 189. 124 Ibi, S. 190.

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L’in-contro

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VON DUNKEL ZU DUNKEL Du schlugst die Augen auf – ich sehe mein Dunkel leben. Ich seh ihm auf den Grund: auch da ists mein und lebt. Setzt solches über? Und erwacht dabei? Wes Licht folgt auf dem Fuß mir, dass sich ein Ferge fand?125

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[DI TENEBRA IN TENEBRA Hai aperto gli occhi - vedo vivere la mia tenebra. La vedo fino in fondo: anche là è mia e vive. Come tale, trasferisce? E nel farlo si risveglia? Di chi è la luce che mi segue passo passo tanto che si è trovato un passatore?]

«Di tenebra in tenebra (Von Dunkel zu Dunkel)»: manifesto di un’autoriflessione poetica come attestazione di un dimorare simbolico che si attua nella traduzione (Übersetzung) di un trasferimento fra l’oscurità delle tenebre (Dunkel); nei passaggi esproprianti di un costante offuscamento è l’attraversamento spaesante di un doppio movimento. È lo stesso Celan ad avvalorare l’andamento di questo andirivieni in una lettera del 2 agosto 1942 scritta dal campo di lavoro forzato. Qui il poeta definisce le sue poesie come la via «di tenebra in tenebra» (Von Dunkel zu Dunkel)126. È la testimonianza di un attraversamento tenebroso che procede dall’oscurità della storia per accedere alla luce (Licht) di una Parola vinta al silenzio dell’Essere, traccia di un’ombra che si risveglia (erwacht) – traducendosi – nell’inaudita richiesta di passaggio su un fiume, offerta da un passatore (Ferge). È il poeta bucovino, in occasione di una traduzione (Übersetzung) di un’opera teatrale di Picasso, ad abitarne ancora la metafora nell’esplicito riferimento a Heidegger: Una prima bozza è appena terminata. Una prima bozza: il testo [di Picasso] non vuole essere soltanto tradotto (übersetzt). Piuttosto – se posso abusare di un’espressione di Heidegger – può essere trasferito (übergesetzt). Si noti: si tratta fra me e me, dell’arte propria al servizio del traghettatore 125 P. CELAN, GW, Bd. I, S. 97. 126 Cfr. I. CHALFEN, Paul Celan. Eine Biographie seiner Jugend, S. 199.

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Il grido e il silenzio

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(Fergendienst). Posso allora sperare, che per l’onorario del mio lavoro possa essere calcolato non solo il numero delle righe ma anche quello delle remate (Ruderschläge)?127.

127 Si tratta di una lettera di Celan del 1 maggio 1954, indirizzata all’editore Peter Schifferli di Zurigo per il quale il poeta stava traducendo l’opera teatrale di Picasso Le desir attrapé par la queue. È importante rilevare che quest’ultimo passo insieme alla poesia Von Dunkel zu Dunkel e alle letture di Celan di Sentieri interrotti in riferimento al termine übersetzen, appartengono tutti allo stesso periodo (1954) e attestano una chiara ed esplicita adesione del poeta alla concezione heideggeriana della traduzione nel suo doppio senso di “tradurre” e “trasferire”. Un’acquisizione che influenzerà la sua poetica per tutti gli anni successivi. Cfr J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 34-37.

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2. LA TORSIONE

Il poeta si fa così messaggero, traghettatore di un’estraneità, trasferita dai suoi profondi abissi per essere trasportata, tradotta e ri-volta al linguaggio della storia. È in questo ri-volgimento che la scrittura di Paul Celan si pone nel suo stesso procedere, come attestazione di un continuo spossessamento, torsione implacabile nel suo espropriante andirivieni, unica testimonianza silenziosa di un’estraneità che non si lascia dire se non nei termini di “uno spaventoso ammutolire” che risale dalle profondità del crepaccio dei tempi (Zeitenschrunde)1. Di questa esperienza (Erfahrung) espropriante si dà testimonianza solo nell’accadere della scrittura, traccia visibile di un estenuante permanere senza posa che in Celan trova segretamente approdo a nord del futuro2. 2.1 Al fondo dei ghiacciai… Da quel luogo esiliato che è intervallo sospeso sulla storia, la scrittura del testo si sporge coraggiosamente dal crinale dell’abisso (Abgrund) in un movimento arrischiante, simile a quello dello stare in “bilico”. Luogo di una vertigine che richiama nuovamente il pensiero dell’Essere inteso da Heidegger come quell’Abgrund – “fondo senza fondo” – che si accompagna all’immagine di uno sbilanciamento, di uno sporgersi vertiginoso sull’orlo di un abisso che abbandona e rimette l’ente al rischio. L’essere dell’ente determinato da Heidegger come volontà, essendo a sua volta rischio, si vuole esso stesso come arrischiante. Il poeta che si getta nell’abisso – poiché “vuole” gettarsi in esso – esperisce uno spazio senza circoscrizione e senza limiti, delineando in quest’atto, l’“Aperto” (Öffenheit),

1 2

È un’espressione di Celan appartenente alla poesia Weggebeizt, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 31. Nördlich der Zukunft, (A Nord del futuro) è una metafora poetica di Celan appartenente alla poesia In den Flüßen, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 14.

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Il grido e il silenzio

metafora di rilkiana memoria che è spazio arrischiante in cui l’esserci si vuole come tale: ovvero, volontà che vuole se stessa come essere dell’ente.

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Si evince così, che il poeta – essendo l’ente più arrischiato e dunque più volenteroso – esperisce fino in fondo il rischio, “volendosi”, in tal modo, più arrischiante del rischio stesso. Ma se il rischio è l’essere dell’ente, il poeta è «più essente dell’essere dell’ente» stesso. E se «l’essere è il fondamento (Grund) dell’ente», si evince che chi è più arrischiante del fondamento si arrischia là dove il fondamento difetta, nell’abisso senza fondamento (Abgrund)3. Sarà poi lo stesso Celan a far propria la formulazione filosofica di questo movimento arrischiante, sottolineando nel testo heideggeriano4, proprio la metafora del bilico (Wage): La parola “bilico” significava ancora nel Medioevo qualcosa come “pericolo”. “In bilico” significava quello stato in cui qualcosa può risolversi in un modo o in un altro. Ecco perché lo strumento che si muove in modo tale da poter pendere da una parte o dall’altra si chiama il bilico, la bilancia. La bilancia gioca e entra in gioco. Il termine Wage, tanto nel significato di pericolo che di strumento, deriva da wägen, wegen, fare un Weg, un cammino, cioè andare, essere in movimento5.

Il senso del bilico come “bilancia”, nella sua ambivalenza etimologica di “pericolo” e del “fare un cammino”, è testimoniato poeticamente da alcuni versi del poema Mit dem Buch von Tarussa, dove Celan cita in epigrafe il verso del Poema della fine di Marina Cvetaeva: «Tutti i poeti sono ebrei», identificando così il luogo del poetare con lo stato di una costante erranza, sospensione e disappartenenza, non soltanto peculiare all’esilio della condizione ebraica, ma innanzitutto propria al dimorare poetico. Nel corso di tutto il poema, il canto di Celan traccia una nuova mappatura dei luoghi della parola poetica, dove la condizione esiliata del “bilico” viene resa nel verso dalla ripetizione di una sospensione: «[…] nel più vasto degli Imperi/ nella

3 4 5

Per una fondazione della volontà heideggeriana intesa come essere dell’ente cfr. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 193-247; Sentieri interrotti, pp. 191-246. Il passo in oggetto è stato marcatamente sottolineato da Celan nella sua copia personale del testo Sentieri interrotti di Heidegger. Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, p. 85. Cfr. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 259; Sentieri interrotti, pp. 258-259

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La torsione

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Grande Rima Interna/ al di là/ della zona delle genti mute/ in te/ bilancia del linguaggio, bilancia della parola,/ bilancia della patria, esilio…»6. Nel luogo esiliato del bilico, “l’essere in movimento”, nell’erranza sospesa di un cammino, ci riporta nuovamente in direzione di quel “varco” kafkiano aperto dall’ascia. Il cammino da essa tracciato si fa evento nella scrittura, si dona cioè proprio in quel passaggio della fenditura (Riss) che è spazio arrischiante fra i ghiacciai della storia, ebbrezza nietzscheana di una sconfinata libertà dove il poeta subisce ed esperisce fino in fondo la vertigine di un respiro (Atem) nell’Aperto:

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Il ghiacciaio è vicino, la solitudine immensa; ma come riposano quietamente tutte le cose nella luce (Licht)! Come si respira (atmet) liberamente (frei)!7.

L’abisso, l’Aperto (das Offene8) – luogo sfondato ed espropriante di uno smarrimento – consente al nominare del linguaggio lo svelamento della cosa nella sua originaria purezza e libertà, così come sottolineato dal poeta9 nel testo heideggeriano:

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9

Sono questi alcuni versi della poesia Und mit dem Buch aus Tarussa, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 283. Suggerisco a questo proposito, la lettura del bel saggio di Camilla Miglio sulla condizione della dimora esiliata del poeta in relazione alla poesia citata: «C’è un luogo dove abitare, un Grande Impero, ed è quello della Gran Rima Interna. La rima va cercata nel testo tedesco: Heim(at) – Reim. Rimano patria e rima, ma solo nella lingua, nella scrittura, nei suoni, nel ritmo, nella musica che dal baratro si leva verso le stelle. Scagliata contro i popoli muti, paradossalmente ma nella loro lingua: in tedesco. Nello spazio dell’esilio si apre la costellazione della Bilancia: la costellazione di un equilibrio fatto di una doppia appartenenza, un doppio pensiero, mai conciliato, che in momenti di sospensione può trovare una via d’espressione». CAMILLA MIGLIO, E con il libro di Tarussa, [Online: www.lerotte.net/download/ article/articolo-221.pdf]. F. NIETZSCHE, Ecce Homo, S. 2-3; Ecce Homo, p. 266. L’Aperto (das Offene) è un termine che Heidegger ereditò da Rilke prendendo spunto da alcuni versi appartenenti a una poesia senza titolo. Come lo stesso Heidegger attesta, ciò è dovuto al fatto che lo stesso Rilke non aveva intenzione di pubblicarli, dato che egli stesso li definiva «versi improvvisati». La metafora dell’Aperto in Rilke è associata a quel luogo in cui i poeti sono gli esseri più arrischianti, «talvolta anche più arrischianti… della vita stessa, arrischianti per un soffio». L’argomento è trattato da Heidegger in M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 287; Sentieri interrotti, p. 286. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 61.

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Il grido e il silenzio

Esso (il linguaggio) non si limita a trasmettere in parole e frasi ciò che è già rivelato o nascosto, ma, per prima cosa, porta nell’Aperto (ins Offene) l’ente in quanto ente10.

L’esperienza del nominare poetico traccia così, un sentiero (Weg) nella neve attraverso il vissuto (An-erlebten) della storia e si fa soffio (Atem) affiorante dall’abisso che trasporta (über-setzt) l’essere della cosa nel luogo sconfinato di un respiro originario. È l’approdo poetico al favo di ghiaccio (Wabeneis): in questo luogo utopico e raggelato, un cristallo di respiro (Atenkristall) ospita l’attesa di una testimonianza irrefutabile (unumstößliches Zeugnis):

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WEGGEBEIZT vom Strahlenwind deiner Sprache das bunte Gerede des Anerlebten – das hundertzüngige Meingedicht, das Genicht. Aus gewirbelt, frei der Weg durch den menschengestaltigen Schnee, den Büßerschnee, zu den gastliche Gletscherstuben und -tischen. Tief in den Zeitenschrunde, beim Wabeneis wartet, ein Atemkristall, dein unumstößliches Zeugnis11. [EROSA dal vento radiante della tua lingua la chiacchiera variopinta del vissuto – di cento lingue Miapoesia, Niente-sia. 10 11

Cfr. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 60; Sentieri interrotti, p. 57. P. CELAN, GW, vol. II, S. 31.

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La torsione

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Sgombrato dal turbine libero il sentiero nella neve dalla forma umana la neve dei penitenti, verso le stanze ospitali e le tavole dei ghiacciai. Al fondo del crepaccio dei tempi accanto al favo di ghiaccio attende, un cristallo di respiro la tua irrefutabile testimonianza.]

2.1.1. L’ultimo soffio Lo spirare di un ineffabile soffio (Atem) si libera nel luogo capovolto (gekehrt) della storia, cristallo di respiro (Atemkristall) sporgente sull’abisso di un pensiero che langue nel suo tratto finale, disponendo l’uomo all’apertura dell’in-contro con l’ignoto – torsione esistenziale che si volge a quella dimensione di rilkiana memoria come parte della vita a noi opposta e per noi non illuminata. Abitazione poetica di uno spazio inaudito che è respiro vitale nell’anticipazione della morte come esperienza della totalità d’essere nel poter-essere-tutto nell’Aperto; un dimorare privo di circoscrizione e limite, in una dimensione «senza ostacoli», senza protezioni, come libera dimensione dell’Aperto stesso. Con le parole di Celan all’amica Nelly Sachs: Nelly, ora lo vedi, lo vedi che sei nell’aperto, alla luce, con noi, tra amici? Si, tu lo vedi Nelly, come me, come noi: possiamo respirare (atmen) ed esistere senza ostacoli, tu e io e gli amici attorno a noi, i tanti amici12.

L’Aperto, das Offene, offre così al cantore – nella testimonianza estrema di un soffio di morte – l’esperienza del tragico: rivolgimento (Wendung) della vita nel suo rapporto con il nulla come anticipazione della morte 12

È un passo tratto da una lettera di Celan indirizzata a Nelly Sachs il 9 Agosto 1960, in PAUL CELAN-NELLY SACHS, Briefwechsel, hrsg von Barbara Wiedemann, Frankfurt a. M. 1996; tr.it. di A. Ruchat, P. CELAN-N. SACHS, Corrispondenza, a cura di Anna Ruchat, il Nuovo Melangolo, Genova 1996, p. 46.

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Il grido e il silenzio

nell’assunzione liberante del nulla. Nel corpo a corpo con la morte, la parola si fa “niente di poesia”, “Niente-sia” (Genicht), ritraendosi come voce storica nell’esposizione arrischiante del soffio. Non si ha infatti esperienza della morte, quanto piuttosto del morire nella sua possibilità estrema e insuperabile perché è per l’uomo la possibilità di “non-esserci-più”. Il Dasein, nell’anticipazione della morte, si trova di fronte alla minaccia del nulla come estrema possibilità dell’impossibilità della propria esistenza13; minaccia che diventa angoscia e abitazione del nulla quando l’esserci, come ciò che si espone alla totalità del suo poter-essere, si autocomprende nel suo stesso fondamento14. Il fondamento si identifica qui con un «essergettato nella morte»15 da parte del Dasein stesso, cosicché questo viene a comprendersi in una sorta di “fondamento abissale” (Abgrund) che lo espone all’esperienza del nulla nel suo soffio liberante. Il respiro si fa assunzione della totalità della vita nell’abisso della poesia. Insieme a Celan: Wir waren tot und konnten atmen16.

Eravamo morti e potevamo respirare. Nelle crepe del morire, abisso della scrittura, è l’esperienza del respiro come ultimità di un dire che libera la totalità della vita nel nulla di una vertigine paradossale. Nell’abisso (Abgrund) capovolto dell’esistenza, il poeta in-contra se stesso come potere-essere-tutto nel trasporto (Übersetztung) ineffabile di un soffio fuggevole. Nel discorso del Meridiano, Celan individua nel Lenz di Büchner la figura metaforica di una contro-parola (Gegenwort), la cui «morte liberatrice non si fece attendere a lungo»17. Il 20 gennaio Lenz attraversa (durch) la montagna, percorrendo le aperture delle sue faglie – metafora di una scrittura attraversata dall’in-contro di un’anticipazione: per quante volte Lenz incontra se stesso attraversando i monti?: «In un caso come nell’altro avevo scritto la mia sorte (ich hatte mich hergeschrieben) da un “20 gennaio”, dal mio “20 gennaio”. E ho incontrato me stesso»18.

13 14 15 16 17 18

Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, S. 266; Essere e tempo, p. 323. Cfr. ibidem. Ibi, S. 251; ibi, p. 306. È l’ultimo verso della poesia Erinnerung an Frankreich, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 28. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 194. Ibi, S. 201.

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La torsione

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Nell’in-contro del poeta con la scrittura della propria vita, così come della propria sorte (sich hergeschrieben)19, si in-scrive l’unicità di un enigma che si attua all’infinito: scrivere un poema per morire infinite volte. Così come nella poetica di Osip Mandelstam, amico fraterno di Celan, che nel 1915 scrisse: «La morte dell’artista non è la fine, bensì l’ultimo atto creativo»20. Scivolando nella tenebra (Dunkel) del morire, il canto poetico riaffiora dal nulla per trattenersi nella grata (Gitter) temporale dello scritto. Esito paradossale di un Gegenwort come rivolgimento (Wendung) espropriante della vita che respira (atmet) nella libera dimora dell’Aperto:

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Poesia: ciò può significare una svolta di respiro21.

Atemwende, Svolta di respiro – svelamento capovolto (gekehrt) della Parola nell’esperienza spirante (atmend) del nulla, cifra ontologica di quell’esser toccato dal soffio (Atem) nella dimensione storica e destinale dell’esistenza: Respiro: ciò significa direzione e destino22.

Destino del soffio (Atem): espirazione di un’inspirazione trattenuta nella storia di un dire che langue, il cui ultimo respiro trova dimora nello scritto poetico quale voce di uno spossessamento poiché proveniente dall’altro lato della vita: «come tu vai morendo in me»23, nell’ultimo soffio di vita del nominare poetico è l’inesprimibile lutto di un inabissamento – ultimo atto di un’invocazione espropriante che si dispone al paradosso di un affidamento: EINMAL, der Tod hatte Zulauf, verbargst du dich in mir24. [UNA VOLTA, la morte ha avuto accesso, ti sei celata in me.]

19

20 21 22 23 24

In questa riflessione, volta ad evidenziare il nesso esistenziale fra il tema della morte e quello del 20 gennaio come data “attualizzata” del poema (aktualisierte Sprache), risuona la sua determinazione storica nel rinvio alla “soluzione finale” per le vittime dell’Olocausto. OSSIP MANDELSTAM, Wahrheit, Dunkelheit, in HORST BIENEK, Solschenitzyn und andere, Hanser, München 1972, S. 55. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 195. Ibi, S.188. È il primo verso della poesia Wie du, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 261. Ibi, S. 249.

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Il grido e il silenzio

Nella parola scritta si schiude l’assunzione della totalità della vita nell’offuscamento espropriante di una parola che proviene dal nulla: il cantore si fa custode di una disappartenenza che tuttavia, protegge nel luogo di uno spaesamento. Attestazione paradossale di una tutela dell’indicibile perché protezione dell’altro in uno spazio senza circoscrizioni. L’Aperto si svela così come quell’abisso (Abgrund) del nulla che è estrema possibilità dell’essere dell’ente senza protezioni, nella creazione paradossale di quella “sicurezza” che si espone al nulla della morte come salvaguardia della Parola: «in quanto scrigno del nulla, la morte è il riparo dell’essere»25. Sostenuto da un soffio, il poeta come ente più arrischiante della vita stessa, esperisce fino in fondo l’esserci, nell’espressione di un’ultimità anch’essa arrischiante: quella di un soffio che si fa vita nel passaggio della fenditura (Riss) attraverso cui il soggetto trasporta (übersetzt) estenuato, la parola al di là, traducendosi nella lingua dell’Altro: Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore26.

2.2. La vita del poema L’idea del “passare attraverso” come atto del trasportare (übertragen), del traghettare da una lingua all’altra, da un io che si dirige a un tu, avviene in un affidamento all’Altro che è spossessamento luttuoso, direzione espropriante dove la poesia di Celan prende vie arrischianti, espone la parola al suo abisso e – nell’approdo silenzioso a una terra straniera (fremd) – si rivolge all’Altro concedendosi segretamente come dono. Un dono invisibile eppure non rivolto all’Altro fuori (über) dal tempo: come reduce da un esilio estenuante, attraversa la faglia temporale ferendosi di un presente effettivo e reale (wirklich). Celan ne canta mirabilmente il tragitto: DEIN VOM WACHEN stößiger Traum. Mit der zwölfmal schraubenförmig in sein Horn gekerbten Wortspur. Der letzte Stoß, den er führt.

25 26

M. HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, S. 51; Saggi e Discorsi, p. 119. Ibi, GW, Bd. III, S. 198.

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La torsione

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Die in der senkrechten, schmalen Tagschlucht nach oben stakende Fähre: sie setzt Wundgelesenes über27.

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[IL TUO SOGNO scosso dalla veglia. Con la traccia di parola dodici volte incisa a spirale nel suo corno. L’ultimo colpo che porta. Il traghetto nella verticale e angusta forra del giorno in su spinge: trasporta una lettura ferita.]

Nello stretto passaggio della forra del giorno (Tagschlucht) lo scritto si fa traccia dell’indicibile che volge il suo nostalgico sguardo alla fragilità del creaturale (Kreaturlichkeit). È il ri-volgimento di una torsione che trasvolando dal regno del sogno – contro-parola (Gegenwort) dell’invisibile – si apre una strada, traducendosi, durante il tragitto, nel trasporto (Übersetzung) di un “manufatto” (Handwerk): Un manufatto – è questione di mani. E quelle mani poi appartengono soltanto a un uomo, cioè a un’unica mortale creatura, la quale con la voce e con il suo silenzio cerca di aprirsi una strada28.

Nel passo tratto dalla lettera a Hans Bender, Celan attribuisce al termine Handwerk un significato ambivalente. Prendendo le mosse dalla definizione del poeta come “artista” nel senso di Künstler, Celan si sofferma ironicamente sull’accezione sbrigativa di “artigianato” (Handwerk) avvalorandone tuttavia il senso del suo “fare creaturale”. Secondo quanto 27 28

P. CELAN, GW, Bd. II, S. 24. Brief an Hans Bender, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 177.

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Il grido e il silenzio

espresso nella lettera a Bender, il termine Handwerk come manufatto non deve essere inteso nella sua accezione metafisica di poiein29 – laddove la lirica corrisponde a «quell’andar sperimentando con il cosiddetto materiale verbale» (Herumexperiementieren mit dem sogenannten Wortmaterial)30 – quanto piuttosto, rispetto al suo legame inscindibile con la dimensione storica. La “direzione creaturale” del manufatto di «un’unica mortale creatura» si dispone così alla torsione verso la storia, svelando nella scrittura poetica l’enigma della sua “veracità”:

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Soltanto mani veraci scrivono poesie veraci31.

Nella veracità del legame fra “mano” e “poesia” è la testimonianza di un’intimità e di un’unicità silenziosa che cerca «di aprirsi una strada»: è la creaturalità del manufatto (Handwerk) che si fa poema (Gedicht) nella cesura temporale. È prezioso rilevare che l’immagine poetica del “manufatto” (Handwerk) presente nella lettera indirizzata a Hans Bender sia stata assimilata da Celan dopo la lettura dei testi heideggeriani Sentieri interrotti e Che cosa significa pensare?32. In alcuni passaggi, Heidegger rintraccia infatti, nel concetto di “manufatto” una qualità essenziale della poesia, restituendo l’accezione materiale del suo significato metafisico a quella appartenente alla sfera del pensiero33 nell’individuazione di una connessione teorica fra i termini esistenziali “mano” e “cuore”. Un nesso storicamente determinato che, trasposto in ambito poetico, restituisce al Gedicht quella limpidità di una parola “reale e attualizzata” che in Celan risorge fra i detriti della storia. Nelle carte preparatorie del Meridiano: Si discute persino volentieri e in modo molto spensierato di manufatto (Handwerk) della poesia – senza prima essersi lavati le mani, in ogni caso non

29 30 31 32 33

Cfr. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 177. Mi riferisco qui alla concezione metafisica della lirica novecentesca propria alla poetica di Mallarmé criticata da Celan e già trattata nel paragrafo 1.3.1. di questo lavoro. Ibidem. Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 51-52. «Ma i gesti della mano trapassano ovunque attraverso il linguaggio, e questo avviene nel modo più puro quando l’uomo parla tacendo. Infatti è solo in quanto parla, che l’uomo pensa; non il contrario, come crede la metafisica». MARTIN HEIDEGGER, Was heißt Denken?, Niemeyer, Tübingen 1954, S. 51; tr. it. di G. Vattimo, Che cosa significa pensare?, Sugarco, Varese 1971, p. 109.

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La torsione

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con acqua di parole reali (wirklicher). Il manufatto è una questione di mani pulite (reiner Hände)34.

“Fare poesia” è dunque, una questione di mani pulite, “lavate” dal poeta con acqua di parole reali (wirklicher) e perciò attualizzate perché purificate dal processo di traduzione (Übersetzung) della storia. È in questa accezione “purificata” come passaggio dell’indicibile nella dimensione storica che Celan associa il manufatto della poesia (Gedicht) a una stretta di mano:

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Non vedo alcuna differenza fra una poesia e una stretta di mano35.

Un candore inarrivabile e sconosciuto (eppur reale!) giunge da questa metafora creaturale e silenziosa, dove il poema, in quel varco aperto fra io e tu, si fa gesto silente di un in-contro come progetto di vita. Il senso del suo trasportare (übertragen) si attua all’interno della lingua stessa, laddove il soggetto parlante si flette sulla piega della torsione. Nel ri-piegamento sulla dimensione storica, si attua una costante ri-flessione esistenziale sul verso poetico. Si legge nel Meridiano: Le poesie sono […] vie sulle quali la lingua si fa sonora, sono incontri, vie che una voce percorre incontro a un tu che la percepisce, vie creaturali, forse progetti esistenziali (Daseinsentwürfe), un proiettarsi oltre sé per trovare se stessi, una ricerca di sé stessi36.

Parole che nella loro aderenza alla dimensione esistenziale portano il pensiero in direzione di un accostamento del Dasein del poeta alla dimora del Linguaggio, dove la scrittura poetica accede alla vita assumendone il senso e schiudendolo alla dimensione dell’immediato (hic et nunc). Con il pensiero di Celan: Ancora nell’Hic et nunc del poema – il quale, di per sé, possiede sempre codesto unico, irripetibile e puntuale presente –, ancora in questa immediatezza e contiguità il poema consente che abbia voce quanto, all’Altro, è più proprio: ossia il suo tempo37.

Nell’attualità del poema, il soggetto si trova per così dire a fare tutt’uno con la parola poetica in un solipsismo di sublime estraneità: qui la scrittura 34 35 36 37

P. CELAN, Der Meridian. Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 562, S. 154. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 177. Ibi, S. 201. Ibi, S. 199.

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Il grido e il silenzio

si fa scandalo irrimediabile che giustifica la vita rendendole ragione e legittimità, tanto da elevare il poema a soggetto della relazione:

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Il poema è solo. È solo e in cammino. Chi lo scrive, gli rimane inerente38.

Nel carattere solitario della scrittura come testimonianza di una soggettività che inerisce al poema, riecheggiano nuovamente le risonanze heideggeriane39 di quella concezione del linguaggio, inteso non più come facoltà umana che ha semplicemente per oggetto l’essere, bensì come luogo dove la Parola ne diviene essa stessa sorgente: il linguaggio è fonte di verità solo quando è il Dire che parla. Se in tale sovvertimento prospettico si afferma il primato della Parola, d’altro canto si configura per l’uomo il destino di un ente che si pone in umile ascolto rispetto a un evento (Ereignis) che lo sovrasta e lo comprende. Il Dasein si trova per così dire, irretito nel linguaggio stesso, in quanto ciò che dice non è mai originario ma è sempre un ri-dire qualcosa di precedentemente ascoltato. Ne viene che la parola poetica, in quanto «parola pura» è luogo del Dasein in cui il dire del Linguaggio ri-suona40. Il poema diviene così luogo di un appello originario a cui il poeta cor-risponde (entspricht), parlando dal luogo esistenziale (Dasein) del suo svelamento. Il ri-dire ha dunque come presupposto il fatto fondamentale che il linguaggio è originariamente accadimento, evento (Ereignis) di un qualcosa che «ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e trasforma»41. In questo

38 39

40

41

Ibi, S. 198. Sulla relazione fra la poetica di Celan e il pensiero heideggeriano sul Linguaggio, si è svolto sino ad oggi un interessante lavoro ermeneutico – in particolare, riguardante la prossimità e la lontananza di pensiero fra i due autori che vede come esito vari testi; citiamo qui i più rilevanti: H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue; J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger e FELIX DUQUE-VINCENZO VITIELLO, Celan-Heidegger, Mimesis, Milano 2011. Secondo la concezione heideggeriana del linguaggio, “il risuonare” è possibile grazie a una relazionalità in cui dimora lo stesso poeta. Tale relazionalità – che ha la sua condizione ultima nell’Ereignis, o relazione di tutte le relazioni – è contraddistinta da una continua tensione tra cielo e terra, parola mortale e immortale. La parola è così essa stessa rapporto, espressione di una relazione originaria, ossia quella dimora ontologica dell’uomo inteso come Dasein, dove quel “ci” dell’esserci definisce l’aspetto situazionale e storico in cui la Parola dell’essere si manifesta. M. HEIDEGGER Unterwegs zur Sprache, S. 149; In cammino verso il linguaggio, p. 127.

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La torsione

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sconvolgimento l’uomo, tuttavia, non può circoscrivere con lo sguardo il Linguaggio, per il fatto che rientra egli stesso nel dominio del suo Dire42. In questa prospettiva sembrerebbe che il Dasein venga per così dire, inglobato nel Linguaggio stesso il quale a sua volta, includerebbe in sé sia i parlanti, sia la stessa condizione di possibilità di un loro ascolto. Con ciò il parlare del Linguaggio nel pensiero heideggeriano, assumerebbe un carattere “impersonale”: «È come se i parlanti entrassero nel discorso solo come ascoltatori del linguaggio, come se essi fossero meri risultati, benché non meccanici, del parlare del linguaggio. Quando Heidegger scrive, ad esempio, che il linguaggio “non è nulla di umano”, egli vede i parlanti più come esseri che vengono parlati che come esseri che parlano per loro diritto»43. Il linguaggio assume poi tutta la sua impersonalità quando Heidegger afferma che – in quanto contraddistinto da un mostrare (zeigen) – il Linguaggio è un lasciarsi dire (sich sagenlassen): noi porgiamo ascolto al linguaggio in modo da lasciarci dire da esso il suo Dire. Quale che sia il modo con cui ascoltiamo, ogniqualvolta ascoltiamo qualcosa, sempre l’ascoltare è quel lasciarsi dire (sich sagenlassen) che già racchiude ogni percepire e rappresentare44.

L’enfasi che in questo passo viene conferita alla forma riflessivo-passiva del sich sagenlassen (lasciarsi dire) consente di notare che in queste parole l’accento non venga posto sulla parola, ma sull’ascolto, non sulla risposta ma su un “Dire che parla”. Sembra poi che, avendo prima il linguaggio mosso un appello all’uomo, la sua risposta non si diriga a un tu parlante ma al linguaggio impersonale stesso, ossia a quel Dire monologico destinato a rimanere confinato al suo aspetto solipsistico. È proprio a questo proposito che il monologo, inteso anche come termine di riferimento di una risposta del parlante, potrebbe costituire a un primo livello d’indagine, un punto di distacco fra il pensare di Heidegger e la poesia creaturale di Celan, laddove la natura celaniana del poema è quella di svelarsi nel luogo della storia come progetto di vita nel mistero dell’in-contro.

42 43 44

Cfr. ibi, p. 265; ibi, p. 209. EUGEN BAER, Ernesto Grassi e la parola poetica di Paul Celan, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, a cura di Massimo Marassi e Emilio HidalgoSerna, La Città del Sole, Napoli 1996, vol. 2, p. 699. M. HEIDEGGER Unterwegs zur Sprache, S. 243; In cammino verso il linguaggio, p. 200.

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Il grido e il silenzio

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Tuttavia, è pur vero che ad un’analisi testuale, la questione della riflessività del Linguaggio – come relazione di un cor-rispondere (entsprechen) a un Dire originario – non sia affatto estranea alla concezione estetica di Celan. Il termine entsprechen era già infatti presente nella prosa del 1948 Edgar Jené und der Traum vom Traume45 dove Celan, già diversi anni prima e autonomamente rispetto al confronto con il pensiero heideggeriano, aveva connotato il termine “corrispondere” (entsprechen) con un nuovo senso del vedere e del sentire da parte del poeta, elevandone la funzione a quella di “mediatore del Linguaggio originario”46. Una mediazione che, in sede filosofica, è resa possibile dall’asserzione di un Linguaggio che parla47, laddove il dire poetico ri-dice attraverso l’esperienza dell’ascolto ciò che è detto originariamente. Inoltre, pochi anni prima della stesura definitiva del Meridiano e durante la lettura di un passo in Der Satz vom Grund dove Heidegger fa esplicito riferimento a «Il parlare-a-noi-dell’Essere», Celan non si accontenta di rilevarne il carattere originario, ma annota a margine: «Conversazione e Parlare a noi [dell’Essere]»48, ponendo l’accento sulla forma dialogica del Linguaggio, laddove il poeta si focalizza “sull’entrare in conversazione” con la parola dell’Essere. In altri termini: se da un lato Celan sostiene il carattere solitario della poesia affermando una cooriginarietà fra io e tu nell’inerenza del soggetto alla scrittura poetica come atto di un cor-rispondere49 45

46

47 48 49

Il testo in prosa Edgar Jené e il sogno del sogno è dedicato al pittore surrealista Edgar Jené e appartiene alla produzione viennese di Paul Celan. Durante la sua permanenza a Vienna fra il 1947 e il 1948, il poeta è ospite di Jené presso la casa dell’artista. Cfr. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 155-161. Il concetto del corrispondere (entsprechen) verrà teorizzato anche da Heidegger soltanto più tardi nel 1957, nel testo Il Principio di ragione. Celan lo rielaborerà nuovamente – alla luce delle nuove cognizioni del filosofo – nel discorso del Meridiano del 1960. Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 70-77. M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 13; In cammino verso il linguaggio, p. 29. Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 72-80. È importante precisare che il termine entsprechen presente nella poetica di Celan ha dato origine a differenti interpretazioni, soprattutto in merito alla questione del distacco fra il pensare di Heidegger e il poetare di Celan. Al centro della diatriba è appunto il termine Entsprechung presente in un passo contenuto nel Meridiano: «Questo Pur-sempre tuttavia, non può che essere soltanto un parlare (Sprechen). Dunque, non linguaggio assoluto e verosimilmente neppure soltanto a partire dal termine “corrispondenza” (Entesprechung)». Cfr. P. CELAN, Der Meridian, GW, Bd. III, S. 197. Come afferma Hadrein France-Lanord, la questione del termine entsprechen ruota intorno a un grosso malinteso. Infatti, secondo l’autore francese la forma

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La torsione

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(ent-sprechen), d’altro canto è pur vero che il poeta ne espone la riflessività all’apertura del dialogo: Le poesie sono anche in questo senso in cammino: esse hanno una meta. Quale? Qualcosa di accessibile, di acquisibile, forse un tu, o una realtà, aperti al dialogo50.

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2.3. Il dialogo nel monologo La poesia celaniana muovendo da una Parola-ombra vinta alle tenebre silenziose della storia, si dirige così verso una parola dialogica, divergendo in tal modo, dal monologo heideggeriano. Tuttavia, se si presta bene attenzione a quanto affermato dal pensatore tedesco, si scopre che, laddove Heidegger parla della solitudine del monologo, questa non è da intendersi letteralmente come tale: Ma il linguaggio è monologo. Ciò significa a questo punto due cose. È il linguaggio, lui solo, quello che propriamente parla. E il linguaggio è solitario. Senonché solitario può essere soltanto colui che non è solo: vale a dire che non è separato, isolato, senza alcun rapporto [Solitario è così lontano dall’esser sinonimo di solo che] proprio nell’esser solitario ha realtà la mancanza della comunione, cioè il rapporto più vincolante nei confronti di questa. [Einsam: solitario] Sam è il gotico sama, il greco ἅμα. Einsam significa; idem et unum

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sostantivata del verbo “entsprechen” come Entsprechung (corrispondenza), presente nell’elaborazione del discorso del Meridiano, ha un’importanza fondamentale poiché ad un confronto testuale non ne risulterebbe un disaccordo fra il poeta e il pensatore. Infatti, la presa di distanza del poeta dal termine “Entsprechung” non si riferirebbe al pensiero di Heidegger e al rifiuto teorico di un “corrispondere” della parola poetica a un ascolto originario, quanto piuttosto alla questione della corrispondenza (Entsprechung) intesa come adeguazione fra parola e cosa appartenente alla poesia simbolista ancora dipendente dal concetto metafisico di “metafora”. A testimonianza di questo maliteso è anche un appunto di Heidegger che, nella sua copia personale del Meridiano, accanto al termine Entsprechung, annota il verbo ent-sagen, precisandone il senso come “rinunciare” o “dis-dire”. Un’espressione teorica che rinviava alla sua trattazione del Linguaggio nel testo In cammino verso il linguaggio, in riferimento al celebre verso di George: «nessuna cosa è (sia) dove la parola manca (kein Ding sei wo das Wort gebricht) e non rispetto al termine “corrispondere” inteso come risposta del poeta al Dire originario». Cfr. H. FRANCELANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, pp. 264-266. P. CELAN, GW, Bd. III, p. 186.

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Il grido e il silenzio

nel potere unificante della coappartenenza. Il Dire originario nel suo mostrare apre la via ed è via al parlare dell’uomo51.

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Da questo passo parrebbe tuttavia, che il carattere monologico e riflessivo del Dire originario si apra – in virtù di un potere unificante che gli è proprio – una strada, poiché la solitudine (Einsamkeit) in cui si ritrae, spiana pur sempre una «via al parlare dell’uomo». Il monologo heideggeriano, nell’atto del mostrarsi, costituirebbe così lo stesso punto di partenza di quella “via” celaniana in direzione della creatura come disposizione a un movimento che conduce alla stessa meta. Riformulando alcuni versi di Hölderlin52, Heidegger afferma: L’essere dell’uomo si fonda nel linguaggio (Sprache); ma questo accade (geschieht) autenticamente solo nel colloquio (Gespräch). […] Ma che cosa significa allora un «colloquio»? Evidentemente il parlare insieme di qualcosa. È in tal modo che il parlare rende possibile l’incontro. Ma Hölderlin dice: «da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l’un l’altro». Il poter ascoltare non è una conseguenza che derivi dal parlare insieme, ma è piuttosto, al contrario, il presupposto53.

In questo passo si apprende che il colloquio come «ascoltarsi l’un l’altro» non è «conseguenza che derivi dal parlare insieme» ma piuttosto, il suo attuarsi è possibile originariamente in virtù di un ascolto. Se dunque la possibilità del «parlare insieme» risiede nell’ascolto – e l’ascolto qui si riferisce evidentemente al fatto che il Linguaggio originariamente muove un appello all’uomo54 –, il linguaggio degli uomini sembrerebbe trovare nuovamente il suo senso solo in relazione al carattere “impersonale” e monologico del Linguaggio. In altre parole ciò significa che, posto in questi termini, il dialogo sarebbe secondario rispetto all’ascolto di quel Dire monologico e “solitario” che, inglobando in sé i parlanti stessi, confinerebbe il tutto a un solipsismo indifferenziato. Eppure, se ascoltiamo nuovamente Heidegger scopriamo che le cose non stanno proprio così:

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M. HEIDEGGER Unterwegs zur Sprache, S. 265-266; In cammino verso il linguaggio, pp. 209-210. I versi in questione suonano: «Molto ha esperito l’uomo. / Molti celesti ha nominato / da quando siamo un colloquio / e possiamo ascoltarci l’un l’altro». M. HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, S. 39; La poesia di Hölderlin, p. 47. Ibidem. M. HEIDEGGER Unterwegs zur Sprache, S. 13; In cammino verso il linguaggio, p. 29.

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Ma anche il poter ascoltare è in sé a sua volta orientato in relazione alla possibilità della parola e di essa ha bisogno. Poter discorrere e poter ascoltare sono cooriginari55.

Ciò significa allora che il Dire non potrebbe parlare se a sua volta non fosse parlato. È ancora Celan a sottolineare nella sua copia personale di Essere e Tempo56: «L’ascolto è costitutivo della parola»57, laddove anche Heidegger riformulando il pensiero di Hölderlin, si sofferma in particolare sul verso: «da quando siamo un colloquio (Gespräch)»58. Ora, il “da quando” non si riferisce al fatto che «questo colloquio che noi siamo sarebbe cominciato in un certo momento del tempo, in un certo periodo della storia»59; esso indica piuttosto la dimensione esistenziale dell’uomo come Dasein. Vale a dire che, come insegna l’analitica esistenziale, l’uomo non è solo “nella” storia, ma prima di tutto è egli stesso storia60. Si evince così che «noi siamo colloquio» in quanto esseri storici. Questa affermazione trasporta (über-setzt) la nostra riflessione nel luogo storico della differenza (Dasein), ossia quella dimensione in cui tutte le relazioni si in-contrano. In tale frammezzo definito da Heidegger con il termine Geviert, cielo, terra, parola mortale e immortale giungono a raccoglimento in virtù di quella sacralità attraverso cui il medesimo si dispiega61. Una medesimezza che attraversa i Quattro laddove «ognuno dei Quattro rispecchia (spiegelt) a suo modo l’essenza degli altri»62. È nel gioco di questo 55 56 57 58

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M. HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, S. 36; La poesia di Hölderlin, p. 47. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 266 Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, S. 163; Essere e tempo, p. 206. Mi riferisco al poema di Hölderlin Versöhnender, der du nimmergeglaubt, commentato da Heidegger: «Molto ha esperito l’uomo. / Molti celesti ha nominato / da quando siamo un colloquio / e possiamo ascoltarci l’un l’altro». (M. HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, S. 39; La poesia di Hölderlin, p. 47). LEONARDO AMOROSO, Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg & Sellier, Torino 1993, p. 206. Cfr. ibidem. M. HEIDEGGER, Platons Lehre von der Wahrheit. Mit einen Brief über den “Humanismus”, Francke, Bern 19542, S. 351; tr. it. di F. Volpi, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995, p. 85 «Terra e cielo, i divini e i mortali sono reciprocamente connessi, di per se stessi uniti, a partire dalla semplicità dell’unica Quadratura. Ognuno dei quattro rispecchia (spiegelt) a suo modo l’essenza degli altri. Così facendo, ognuno si rispecchia a modo suo in ciò che gli è proprio entro la semplicità dei Quattro.

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rispecchiamento che si attua l’abitazione espropriante di una cesura che è in-contro della Parola nella sua nominazione. Nel doppio movimento di un evenire (ereignen) che transita nella storia, il poetare di Celan e il pensare di Heidegger si approssimano nello spazio utopico di una Quadratura: «Questo espropriante traspropriare è il gioco di specchi della Quadratura»63 laddove l’in-contro fra cielo e terra, mortali e immortali si attua come “colloquio” (Gespräch) in virtù di una medesimezza che li attraversa. Potrebbe essere tuttavia, che tale medesimezza, seppur diversamente partecipata, conferisca al colloquio una tale unità da farlo nuovamente ricadere nell’uniformità e nell’indifferenziazione, ovverosia, nuovamente in quel carattere “impersonale” proprio al Linguaggio stesso. Ma nuovamente Heidegger smentisce questo dubbio: Il medesimo [das selbe] non si identifica mai con l’uguale [das gleiche] e neppure con la vuota uniformità del puramente identico. L’uguale si volge sempre verso il senza-differenze [das Unterschiedlose], affinché tutto si accordi in esso. Il medesimo, invece, è la reciproca appartenenza al differente a partire dalla riunione operata dalla differenza. Il medesimo si lascia dire solo quando è pensata la differenza. Nel determinarsi [Austrag] del differente viene in luce l’essenza riunente [versammelnd] del medesimo. Il medesimo esclude ogni ansia di risolvere il differente sempre solo nell’uguale. Il medesimo riunisce il differente in una unione [Einigkeit] originaria. L’uguale, per contro, disperde nell’insipida unità dell’uno storicamente uniforme64.

In questo passo ogni dubbio sul carattere “impersonale” e “indifferenziato” del Dire originario viene a cadere, se si considera che è la differenza (Dasein) a costituire il presupposto affinché il medesimo, nella sua solitu-

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Questo rispecchiare non è la presentazione di un’immagine. Portando alla luce ognuno dei Quattro, il rispecchiare fa avvenire in una reciproca appropriazione (zueinanderereignet) la loro propria essenza nella semplicità del traspropriare (einfältige Vereinigung)». M. HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, S. 178; Saggi e Discorsi, p.119. Questo passaggio tratto dal testo La cosa di Heidegger è stato sottolineato più volte da Celan nella sua copia personale del testo. In questo esemplare compaiono sottolineature frequenti al concetto di Geviert e annotazioni che riprendono integralmente il riferimento all’articolazione concettuale del Quadrato heideggeriano. Cfr. il fac-simile in H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 183. Cfr. al proposito anche il testo di Axel Gellhaus, «Seit ein Gespräch wir sind», dove l’autore individua le possibili influenze del concetto heideggeriano di Geviert nella poesia Todtnauberg, in AXEL GELLHAUS,» ... seit ein Gespräch wir sind»: Paul Celan bei Martin Heidegger in Todtnauberg, Deutsche Schillergesellschaft, Marbach am Neckar 2002, S. 12-15. M. HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, S.187; Saggi e Discorsi, pp. 129.

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dine, si lasci dire. È dunque il luogo storico della differenza che consente di fondare la cooriginarietà di “poter discorrere e poter ascoltare”. Con le parole di Celan: È solo entro lo spazio di questo colloquio che si costituisce l’entità interlocutoria (das Angesprochene), la quale si aduna attorno all’Io che l’appella e la nomina65.

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2.3.1. Una scrittura esiliata Il discorrere tra i mortali si costituisce così nel «colloquio» come duplice movimento di una torsione che è risposta storica a un appello Originario (Anspruch): il suo evenire (ereignen) non potrebbe giungere a parola nella scrittura se non si disvelasse nella storicità dell’esistenza (Dasein): Se si fissa l’attenzione esclusivamente al parlare umano, se si considera questo semplicemente come la manifestazione dell’interiorità dell’uomo, se si considera il parlare così concepito come la vera realtà del linguaggio, certo allora l’essenza del linguaggio può continuare ad apparire soltanto come espressione e attività dell’uomo66.

A queste parole del pensatore fanno nuovamente eco quelle di Celan. In una nota preparatoria al Meridiano afferma: Lingua come lingua del parlante // il parlante come parlante della Lingua = in questa antinomica – priva di sintesi – si trattiene (steht) il poema67.

La natura antinomica è qui da intendersi in relazione al movimento di una torsione che si rivolge al carattere creaturale del linguaggio laddove la parola poetica si trattiene (steht)68 storicamente come traccia silente di un cor-rispondere (entsprechen) a una risposta destinale: 65 66 67 68

P. CELAN, Der Meridian, GW, vol. III, p. 198. M. HEIDEGGER Unterwegs zur Sprache, S. 31; In cammino verso il linguaggio, p. 42. Cfr. P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 248, S. 105. Relativamente alla traduzione del verbo stehen nella poetica celaniana, mi sono ispirata alle riflessioni di Ilana Shmueli, amica intima del poeta: «”Stehen” è una parola significativa che esigeva di figurare sempre in tutte le sue poesie, le sue lettere e i nostri colloqui. Vuol dire: star fisso, star contro, stare dentro, entrare dentro qualcosa, stare per sé oppure stare per l’altro. E significa anche: “stare scritto”». (ILANA SHMUELI,”Di’ che Gerusalemme è”. Su Paul Celan: ottobre 1969-aprile 1970, Quodlibet, Macerata 2002, p. 37). Questa testimonianza, volta a rintracciare

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Questa risposta ha origine di volta in volta dalla responsabilità di un destino69.

Riecheggia qui nuovamente la questione del Linguaggio originario che in quanto parola dell’Essere, si sottrae destinalmente alla storia della metafisica venendo a manifestarsi nel Dasein come Ereignis – evento silente, Parola esiliata di un ritrarsi destinale. Si può così affermare che il Dire originario è sia Einfalt, inteso come medesimezza che conferisce unità al colloquio ritraendosi monologicamente nel proprio silenzio, sia Zwiefalt, ossia medesimezza che parla nella duplicità70 come dialogo. In questo ultimo senso la Parola si manifesta nella piega di un ritrarsi come evento (Ereignis) di un esilio che si attua nel nominare storico. Se in tale dimensione la parola del Dasein si configura come ri-dire, ossia quella duplicità del Dire che è espressione di un corrispondere (entsprechen) fra il dire dell’uomo e il Linguaggio originario, il movimento dell’entsprechen trova a sua volta la propria condizione in

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un’area semantica compresa fra lo “stare-dentro, -contro, entrare-dentro, stareper sé, o -per l’altro, e infine, stare-scritto”, rinvia, nella sua inafferrabilità, alla questione dell’enigma intraducibile che si svela nella cesura storica della scrittura, laddove l’ineffabile della parola si “trattiene” – nel senso che “sta-dentro, -contro, entra-dentro, sta-per sé o -per l’altro, e infine sta scritto” – nel poema. In tal senso, la traduzione di stehen come “trattenere”rappresenta a mio avviso, un buon compromesso linguistico che restituisce alla scrittura quel “sostare” fuggevole dell’enigma nella sua traduzione alla vita. Non si dimentichi inoltre che per Celan vita e scrittura – così come per Heidegger, pensiero ed esistenza – si riferiscono a quel senso del “tenere” o “mantenere” espresso dal verbo tedesco stehen, nella sua relazione con la verità dell’essere. Un concetto che lo stesso Heidegger aveva esposto nella Lettera sull’«umanismo» e in Segnavia. Già dal 1953 il poeta comincia a sottolineare sistematicamente e a più riprese, negli esemplari dei testi heideggeriani in suo possesso, quei passi relativi all’uso del verbo stehen nei suoi nessi con l’opera del Dasein e la verità dell’essere. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 159. M. HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, S. 37; La poesia di Hölderlin, p. 49. Non si fraintenda qui la questione della “duplicità” come Zwiefalt relativa cioè, alla riproduzione del movimento del ritrarsi dell’Essere nella storia della metafisica – nel senso di quel ripiegamento del Dire originario su sé stesso che si ri-volge alla storia nel disegno di una torsione – con quella relativa alla duplicità intesa come Zweimaligkeit da cui Celan prende le distanze contrapponendola a quell’unicità – nel senso di univoltità (Einmailgkeit) – del poema riguardante l’enigma della sua data. Infatti, come è stato già affrontato nel primo capitolo di questo lavoro, secondo il pensiero di Derrida l’unicità/univoltità del poema riguarda l’enigmaticità di un evento indicibile che testimonia il mistero e l’irrevocabilità del suo in-contro – e non il movimento della torsione che ne descrive, piuttosto, l’intima tensione.

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una reciproca appartenenza d’essere, ovvero, in quella medesimezza che in sé rimane indicibile come Einfalt, ma che nella differenza (Dasein) si dispiega come duplicità (Zwiefalt) di una relazionalità Originaria. Se poi la differenza è la dimensione in cui tutte le relazioni si incontrano, ne viene che la parola poetica, essendo a sua volta espressa nel regno del Dasein, è specchio di una relazionalità Originaria che, nell’atto del nominare, diventa duplicità, dialogo, risposta. Nelle carte preparatorie del Meridiano Celan si esprime così:

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Io parlo alternativamente nella prima e nella seconda persona; intendo che nominando tanto l’uno quanto l’altro, io dico il medesimo (dasselbe)71.

Così, la poesia, come medesimezza che si dispiega in una continua oscillazione come dialogo fra io e tu, assume – nella direzione storico-creaturale in cui si inscrive – un carattere destinale, poiché nel ri-dire l’evento di un ritrarsi come Zwiefalt, ne svela storicamente (geschichtlich), e dunque destinalmente (geschicklich), la traccia silente del suo oblio. Poeticamente offerta alla cesura della vita come ombra della tenebra storica, o come soffio (Atem) liberante nella piega oscura dell’Essere, il suo evenire (ereignen) si traduce (übersetzt) pur sempre nella torsione destinale di un dono: Le poesie, sono altresì dei doni – doni per chi sta all’erta. Doni che implicano destino72.

Nell’ottica del donare è il senso dell’ent-sprechen: espressione dialogica di un doppio movimento come tensione della Parola che si ri-volge (sich kehrt), nella scrittura, alla direzione creaturale del poema. È lo stesso Celan a indicarne l’intima oscillazione: Si tratta del superamento di una dualità; con l’Io del poema è posto anche il Tu; si tratta di una sorta di [essere-Uno (Einssein)] vedere-in-uno (In-einsSehen); si tratta di una congruenza; qui il concetto di ciò che si definisce artistico (Künstlerischen) non è più sufficiente; e nemmeno quello di ciò che si definisce “fatto con arte” (Artistisch)73. 71 72 73

Cfr. P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, (Abschn. 31a), n. 34, S. 64. P. CELAN, Brief an Hans Bender, in GW, S. 178. Cfr. P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 546, S. 152. In questo passo Celan focalizza la sua attenzione sui termini Künstlerisch e Artistisch, riferendoli al componimento poetico inteso come poiein, ovvero come quel “fare“ dell’arte che ricondurrebbe il concetto di “poema“ alla sua accezione

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Il grido e il silenzio

Nella riflessione del poeta bucovino, l’opposizione fra soggetto e oggetto propria alla storia del pensiero metafisico viene totalmente abolita per risolversi in un inabissamento della Parola nella sua aderenza alla storia, come passaggio fra le sue tenebre. Nel transito creaturale è il dono affiorante dall’atto di una torsione, che si espone alla vita del poema come scrittura di un esilio. Ne viene che il soggetto appartenente alla poetica celaniana non può più definirsi come “soggetto metafisico” del poema in quanto il suo poetare – come atto del «vedere-in-Uno» – suppone il tu della relazione nell’adesione dell’io al tu, liberando nella torsione, l’esposizione della Parola alla vita. Ancora con Celan poeticamente: «Ich bin du, wenn ich, ich bin, – Io sono tu, quando io sono io»74. La parola si dispone così al suo affioramento nella torsione espropriante di un io che si affida a un tu nell’orizzonte silenzioso e oscuro (dunkel) dell’Essere. Dalle sue tenebre è la risposta storica del poema come traduzione (Übersetzung) silenziosa di un dialogo nell’oscurità dell’Origine: indicibilità dell’enigma che si traduce (übersetzt) nello spazio dialogante del creaturale.

2.4. Pensare e poetare a Todtnauberg La portata ontologica delle ultime acquisizioni teoriche consente così, di situare il poetare di Celan e il pensare di Heidegger nel regno di un’affinità teorica che definisce la loro prossimità entro l’orizzonte dialogico e oscuro della Parola originaria: un dialogo nella tenebra dell’Essere dove pensare e poetare si approssimano l’uno all’altro a partire dall’Impensato nella storia. Nell’andirivieni silenzioso di una vicinanza-lontananza è l’affiorare del segreto indicibile di un in-contro che si attua nel luogo di un’oscillazione esistenziale propria sia al poeta che al pensatore. È sullo sfondo di questa tenebra storica che la concordanza teorica rispetto a un dialogo nell’oscurità fra pensare e poetare getta nuova luce

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metafisica di “elevazione“ come raddoppimento di una “seconda realtà“ – nel conseguente allontanamento dalla sua dimensione “attualizzata“. Come già affrontato nel paragrafo 1.3.1. di questo lavoro, secondo Celan il poema «Non è in alcuno spazio di nuova “arte d’espressione”. Come nel poema, non vi è nemmeno una “seconda” realtà intesa come elevazione simbolica del reale». P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, (Abschn. 30b), n. 17, S. 55. È un verso di Celan appartenente al poema Lob der Ferne, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 33.

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sugli incontri fra i due autori rispetto alle differenti interpretazioni75 che hanno visto Celan e Heidegger protagonisti di un rapporto tormentato e destinato a restare irrisolto. Il 25 luglio del 1967 a Todtnauberg, durante la visita di Celan allo chalet del filosofo tedesco76, il poeta scrive nel libro degli ospiti della Hütte:

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Nello Hüttenbuch, con lo sguardo rivolto alla stella della fonte, con una speranza di una parola a venire una parola a venire (kommendes Wort) nel cuore. 25 luglio 1967/ Paul Celan77.

Intorno a questa dedica e relativamente alla speranza nel cuore da parte di Celan, di una parola a venire (ein kommendes Wort) del pensatore, si è concentrata gran parte della critica letteraria e dell’ermeneutica contemporanea. Tuttavia, rispetto alle differenti interpretazioni che attribuiscono alla vana attesa di Celan il significato di una definitiva inconciliabilità fra i due78, si rivela interessante per la nostra analisi, focalizzare il silenzio del

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Sulla relazione irrisolta fra Celan e Heidegger si è svolto sino ad oggi un interessante lavoro ermeneutico. In particolare, fra i testi ampiamente documentati da facsimili dei loro epistolari e dei libri di entrambi, nell’attestazione di un dialogo intellettuale in corso fra i due, si sono rivelati utili alla consultazione: H. FRANCELANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue e J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, così come per gli epistolari e i documenti biografici (cfr. la corrispondenza fra Celan e Gisèle Lestrange in P. CELAN - G. CELAN-LESTRANGE, Correspondance). È opportuno precisare che, sebbene il primo incontro fra Celan e Heidegger avvenga soltanto nel mese di luglio del 1967, il loro dialogo epistolare e teorico ha inizio già intorno agli anni 1952-54 (Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 22-55). È noto che Celan e Heidegger si siano incontrati tre volte e precisamente: nel luglio del 1967, dopo la prima lettura a Friburgo conclusasi con la visita a Todtnauberg; il 26 giugno 1968, giorno in cui il poeta incontra il filosofo nuovamente a Friburgo; e infine il 26 marzo 1970, durante una lettura privata delle poesie di Celan a casa di Gerhart Baumann. «Ins Hüttenbuch, mit dem Blick auf den Brunnenstern, mit einer Hoffnung auf eines kommendes Wort im Herzen. Am Juli 1967 / Paul Celan». PAUL CELAN-GISÈLE CELAN-LESTRANGE, Corrispondance, tome II, p. 570. Per un approfondimento della questione riguardante il rapporto tormentato fra Celan e Heidegger in relazione alla speranza del poeta e alla risposta silenziosa del pensatore, si rivela preziosa la consultazione delle differenti posizioni in: PHILIPPE LACOUE-LABARTHE, La poésie comme expérience, Bourgois, Paris 1986; JEAN BOLLACK, Il Monte della morte: il senso di un incontro tra Celan e Heidegger, in ID., La Grecia di nessuno, a cura di R. Saetta Cottone, Sellerio, Palermo 2007; H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue e J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 95-106.

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loro in-contro nuovamente a partire da quel dialogo fra poetare e pensare79, possibile soltanto nella tenebra silenziosa dell’Essere. Nell’abitazione di una prossimità che ne fa affiorare sempre la distanza, il loro silenzio, seppur originato dalla medesima fonte ontologica, assumerà, lungo il nostro cammino, differenti determinazioni sul piano del pensiero, alla luce della singolarità dell’esistenza80. Nella dedica di Celan, così come nella poesia Todtnauberg composta qualche giorno dopo la visita alla Hütte di Heidegger, si fa riferimento nuovamente alla speranza di una «parola a venire» (kommendes Wort). Ascoltiamone i versi: Documento acquistato da () il 2023/09/20.

TODTNAUBERG Arnika, Augentrost, der Trunk aus dem Brunnen mit dem Sternwürfel drauf, in der Hütte, die in das Buch – wessen Namen nahms auf 79

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È di questo avviso anche il poeta Andrea Zanzotto, il quale suppone che la conversazione fra Celan e Heidegger a Todtnauberg abbia riguardato soltanto questioni poetiche. Cfr. ANDREA ZANZOTTO, Écrire dans la langue de l’ennemi, «Le Monde», 31 juillet 1992. In questa luce si situa anche la riflessione di Lacoue-Labarthe nel testo La poésie comme experience, dove l’autore – analizzando la questione del silenzio heideggeriano in relazione alla Shoah e l’avversione di Celan verso il filosofo per tale ragione – afferma che il dialogo con Heidegger a Todtnauberg è stato decisivo per Celan «almeno per la questione dell’essenza della poesia» ed è per questa ragione che il loro incontro è stato di importanza fondamentale (cfr. PHILIPPE LACOUE-LABARTHE, La poésie comme expérience, p. 150). Mi riferisco qui al motivo del reale distacco fra Celan e Heidegger rintracciabile, a mio avviso, non tanto nel silenzio dialogico e creaturale di una segretezza ontologica che li accomuna, quanto piuttosto nella determinazione storica della Parola rispetto alle sue implicazioni bibliche e messianiche nel suo rinvio alla “memoria” della Shoah, dalle cui ceneri sorge la Parola-soffio di Celan – espressione biblica dell’esilio e del tragico destino del popolo ebraico. È nello statuto poetico della “memoria di un popolo” che la speranza di una “parola a venire” esprime – su un piano ideologico ma pur sempre esistenziale e attualizzato del poema (aktualisierte Sprache) – l’implicita richiesta di Celan a Heidegger di rompere pubblicamente il suo silenzio in merito ai suoi trascorsi nazisti. Questo argomento verrà affrontato approfonditamente nel paragrafo 2.5.2. di questo lavoro.

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La torsione

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vor der meinen? – die in dies Buch geschriebene Zeile von einer Hoffnung, heute, auf eines Denkenden kommendes Wort im Herzen, Waldwasen, uneingeebnet, Orchis und Orchis, einzeln, Krudes, später, im Fahren, deutlich, Documento acquistato da () il 2023/09/20.

der uns fährt, der Mensch, der’s mit anhört, die halbbeschrittenen Knüppelpfade im Hochmoor, Feuchtes, viel.81 [TODTNAUBERG Arnica, eufrasia, il sorso dalla fonte con il dado stellato, sopra, nella Hütte, la riga nel libro – quali nomi ha accolto prima del mio? – la riga in questo libro inscritta di una speranza, oggi, dentro il cuore, per una parola a venire di un uomo di pensiero,

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P. CELAN, GW, Bd. II, S. 255.

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Il grido e il silenzio

prati silvestri, umidi e in dislivello, orchidea e orchidea, una ad una, parole crude, più tardi, in viaggio, senza veli, chi ci guida, l’uomo, ascolta anche lui,

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percorsi a metà i sentieri di tronchi nell’alta torbiera, umido, molto.]

Dal canto di questi versi affiora un dolore indicibile. È l’enigma del suo silenzio a suscitarne lo sgomento. Un’indicibilità che fa breccia costantemente in un crescendo continuo di accostamenti stridenti. Dalle piante officinali e curative osservate durante la passeggiata nella Foresta Nera82 (Arnica e Eufrasia), al ricordo ambivalente dell’Augentrost, di quell’eufrasia che nella memoria del poeta rinviava al suo “potere curativo” e al suo utilizzo nei campi di lavoro nazisti. Così come per quei Knüppelpfade “sentieri di tronchi”– che in una stesura precedente erano definiti Knüppelwege in assonanza terminologica con gli Holzwege di Heidegger – dai quali erompe una forte carica aggressiva rispetto al termine Knüppel nel suo significato violento di “manganello”83. E così anche l’umidore forte dei prati silvestri

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È noto che Celan e Heidegger si fossero avviati a fare una passeggiata nella Foresta Nera: un percorso nell’alta torbiera vicino a Horbach, durante il quale Celan, profondo conoscitore di botanica, colse fiori lungo il cammino. I due s’intrattennero in una conversazione che venne poi interrotta dalla pioggia. Cfr. GERHART BAUMANN, Erinnerungen an Paul Celan, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986, S. 27. Jean Bollack, definendo la poesia Todtnauberg come una vera e propria “discesa agli inferi”, fa notare come nel termine Knüppelpfade risuonino i sentieri che conducono ai percorsi di randelli: «i prigionieri venivano picchiati con questi bastoni. Restiamo nel campo della costituzione dell’idioma. Le parole portano la traccia dei colpi. Quando la discesa ha avuto luogo, ci fermiamo a una stazione che non riconduce al mondo dei morti, ma più indietro nei luoghi della sofferenza e delle torture, nei paesi delle paludi dove erano stati installati i campi» (J. BOLLACK, Il Monte della morte: il senso di un incontro tra Celan e Heidegger, pp. 275-276).

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(Waldwasen)84 e dell’alta torbiera (Hochmoor) della Foresta Nera che rinviano alla chiusa del poema espressa dai versi feuchtes/viel – umido/molto – restituendo all’ascolto l’inesprimibilità di un pianto trattenuto, così come quello di un dolore consumato altrettanto in silenzio ma pur sempre ri-volto – nel movimento di una torsione creaturale – alla “speranza di una parola a venire”, del pensatore. Dunque, un’apertura esistenziale disposta alla “speranza di una parola a venire” che irrompe nel poema come folgore inaspettata, direzione creaturale di una speranza sorta fra l’ambivalenza dei suoi termini, nello stridore di un’affinità così profonda da capovolgersi in modo inappellabile nel suo opposto: sul filo di un bilico sottilissimo, offerto dall’opposizione interna ai significanti del poema, Todtnauberg dispone il proprio cuore (Herzen) alla speranza di “una parola a venire” di per sé già inattuabile, poiché l’impossibilità della risposta è già contenuta nell’ambivalenza strutturale dei termini in gioco. Tuttavia, l’equivocità della parola si fa qui carico del tormento interiore di Celan e di un’attrazione-repulsione nei confronti di Heidegger, tali da testimoniare l’andamento oscillatorio di una sospensione e da offrire così, lo spazio per l’insorgenza del dubbio. La doppiezza oscillatoria dei significanti85 – laddove alcune parole nel poema suggeriscono sia assonanze con il pensiero heideggeriano sia riferimenti alla Shoah – conferma l’attestazione di un’ambivalenza di senso, nell’esplicitazione poetica di quel conflitto interiore che da anni abitava l’anima tormentata di Celan. Come si è analizzato teoreticamente nel corso di questo lavoro, la posizione di Celan nei riguardi del pensiero del filosofo era di profonda affinità rispetto alla parola dell’Essere nel dialogo (Gespräch) fra pensare e poetare. Restava tuttavia, per Celan, un dubbio da sciogliere relativamente alle implicazioni che la “parola attualizzata” del poema poteva evocare, rispetto alla sua determinazione storica nel rinvio alla memoria dell’Olocausto. 84

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Preziosa al riguardo si rivela anche la riflessione di Bollack sull’etimologia del termine appartenente all’alto tedesco Wasen che, nel senso riportato dai fratelli Grimm, significava “tomba”; cfr. J. BOLLACK, Il Monte della morte: il senso di un incontro tra Celan e Heidegger, p. 271. In polemica con Otto Pöggeler, che tende ad «unire i contrari» evocati dai termini del poema, Jean Bollack – pur non negando una frequentazione intellettuale fra il poeta e il filosofo – ritiene che il “fossato” esistente fra Celan e Heidegger sia insuperabile. Procedendo lungo una linea di netta contrapposizione fra il poeta e il filosofo, rispetto al termine Waldwasen (prati silvestri) contenuto nel poema Todtnauberg, egli afferma: «Io avevo detto che con Waldwasen il luogo del supplizio che contiene i resti dei morti prendeva il posto della radura, che per Heidegger era la figura del non-occultamento dell’Essere». (J. BOLLACK, Il Monte della morte: il senso di un incontro tra Celan e Heidegger, p. 291).

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Il grido e il silenzio

Laddove il processo creativo del poema si attuava nel cor-rispondere della parola poetica all’ascolto della Parola dell’Essere, l’articolazione storica del loro in-contro – pur svelandosi come dialogo (Gespräch) fra pensare e poetare nella dimensione creaturale del poema – si traduceva poi, in Celan, nella testimonianza attualizzata del ricordo dei morti, vittime della Shoah. Sta dunque nella declinazione di questa ulteriore traduzione (Übersetzung) il punto di demarcazione del loro in-contro, laddove cioè, la cesura interna al significante “in-contro” delinea la traccia di un “fossato”, nella testimonianza di un’incolmabile separazione: una distanza che, nella poesia Todtnauberg e nella dedica della Hütte, si concretizza nell’apertura di Celan alla “speranza di una parola a venire”; parola dell’Essere che si articola creaturalmente nel colloquio del Gespräch nella determinazione storica di una tragica memoria in cui Heidegger aveva parte in causa86 e alla quale, durante l’in-contro di Todtnauberg, non poteva più sfuggire. Ecco perché il poema Todtnauberg, pur non esprimendo alcuna richiesta di riconciliazione da parte di Celan nei confronti del filosofo, non ne esplicita nemmeno la condanna, né tantomeno si può riduttivamente semplificare a una mera critica di Celan al pensiero heideggeriano. Piuttosto, si tratta di focalizzare l’interpretazione sul senso “attualizzato” del poema che, nella sua “creaturalità”, testimonia l’attestazione strettamente storica di un’ambivalenza esistenziale, unita a sua volta a una richiesta impossibile, nella quale tuttavia Celan continuava “creaturalmente” a sperare. Nella convivenza stridente degli accostamenti trova così dimora il senso ambivalente di una prossimità che si “attualizza” soltanto nel costante affioramento di una lontananza. Il segreto del loro in-contro si consegna a una “stretta di mano” dai toni ambivalenti che non ha come finalità quella di scioglierne le contraddizioni: l’in-contro delle “mani” non si dispone a una conciliazione degli opposti, ma semmai ne porta alla luce le complessità, così come testimoniato dalle parole di Otto Pöggeler a proposito della contrarietà terminologica presente in Todtnauberg: «La parola doveva parlare allo stesso tempo [allo stesso tempo di altro] del 1933»87. 86

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Mi riferisco qui alle scelte politiche di Heidegger e al 1933, anno in cui il pensatore aderisce al nazismo con il Discorso del rettorato. In questo testo il professore fa appello alla “missione spirituale” che attiene al “destino del popolo tedesco” e che trova la guida nell’Università tedesca. Cfr. al proposito anche l’analisi offerta da Derrida in J. DERRIDA, De l’Esprit. Heidegger et la question, Galilée, Paris 1987; tr. it. di G. Zaccaria, Dello spirito. Heidegger e la questione, Feltrinelli, Milano 1989. Cfr. OTTO PÖGGELER, Der Gang ins Moor. Celans Begegnung mit Heidegger, «Neue Zürcher Zeitung», 2. Dezember 1988. È a questo testo di Pöggeler che Jean

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2.4.1 Nella “data” della creaturalità Come sostiene un’ampia documentazione al riguardo, sembrerebbe che subito dopo la visita a Todtnauberg, Celan apparisse rinfrancato88 e che fra

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Bollack si riferisce quando critica la volontà dell’interprete di conciliare a tutti i costi gli opposti nel poema Todtnauberg; cfr. J. BOLLACK, Il Monte della morte: il senso di un incontro tra Celan e Heidegger, p. 291. Relativamente alla documentazione pervenuta è interessante rilevare che tutte le testimonianze inerenti a un riscontro positivo dell’incontro fra Celan e Heidegger a Todtnauberg siano convergenti. Fra i pochi documenti che ne attestano il contrario, si ricorda la testimonianza di Jean Bollack che dipinge la Hütte di Todtnauberg come un luogo di tortura per il poeta, definendo l’esito dell’incontro come una vera e propria “discesa agli inferi”. La divergenza – seppur in misura minore – di alcune testimonianze negative sull’in-contro solleva il dubbio rispetto all’alternanza umorale di Celan che negli anni ’60 si era aggravata a tal punto da comportare diversi ricoveri psichiatrici. Ad attestare l’incoerenza di certi atteggiamenti del poeta negli ultimi tre anni della sua vita è anche l’analisi di James K. Lyon che rileva una certa concordanza di comportamento nelle alterazioni umorali di Celan ogni volta che il poeta usciva dalla clinica di Sant’Anna a Parigi, per rientrarvi dopo un incontro importante. Un esempio è offerto dal felice incontro amoroso, avvenuto a Gerusalemme nel 1969, con Ilana Shmueli, amica d’infanzia del poeta. Durante il soggiorno in Israele, Celan appare ringiovanito e rinfrancato: a Gerusalemme il poeta ritrova molti amici sopravvissuti all’Olocausto e l’entusiasmo e la gratitudine di quei giorni traspaiono anche dal discorso tenuto all’Associazione Ebraica degli scrittori a Tel Aviv. Tornato a Parigi prematuramente per questioni d’instabilità psichica, Celan scriverà comunque a Ilana: «Gerusalemme mi ha confortato e fortificato. Parigi mi deprime, mi consuma». Ma poco tempo dopo aver comunicato a Ilana le sue impressioni positive – così come aveva fatto una volta tornato a Parigi, dopo la visita a Todtnauberg – racconterà all’amico intimo Yves Bonnefoy che il suo viaggio a Israele si era rivelato «una catastrofe poiché là si era sentito completamente estraniato». (Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 174-175). Da questa testimonianza diventa estremamente complesso rintracciare una coerenza di pensiero rispetto a una prossimità che, anche nel caso di un grande amore, poteva repentinamente capovolgersi nel suo opposto. Un altro episodio che attesta l’oscillazione del comportamento di Celan è offerto dai racconti di Baumann e riguarda l’invito al poeta di essere fotografato all’Università di Friburgo – prima dell’incontro di Todtnauberg – insieme a Heidegger. A questa eventualità, Celan risponderà con un rifiuto deciso per poi, dopo soli pochi minuti, ritornare sui propri passi; cfr. GERHART BAUMANN, Celan e Heidegger, «Leggere», 26 (1990), 11, pp. 20-21. Anche George Steiner – che inizialmente aveva inteso l’incontro di Todtnauberg come un fallimento – rettificò queste posizione, scusandosi pubblicamente in occasione della pubblicazione della corrispondenza fra Franz Wurm e Paul Celan dove, in una lettera del poeta a Wurm datata 7 agosto 1967, il poeta parlava della visita a Todtnauberg come di un «incontro soddisfacente e amichevole”». La stessa atmosfera di cordialità ci viene poi trasmessa da testimo-

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Il grido e il silenzio

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i due si fosse instaurata una certa cordialità e confidenza tali da lasciar pensare che ci fossero tutti i presupposti per l’apertura alla speranza nel cuore di una parola a venire (kommendes Wort). Tuttavia, non si può dimenticare che le testimonianze biografiche di una loro prossimità si spalancano pur sempre su un abisso di interrogazioni, laddove una mancata risposta del pensatore al poeta si rende viva restituzione di un silenzio che ne fa affiorare la distanza, nella consegna del poema alla sospensione di un enigma inesprimibile e così arduo da portare a parola. In un’oscillazione di prossimità e lontananza propria al tentativo di una decifrabilità di senso interno alla poesia Todtnauberg, si ridisegna l’ambivalenza di un Dire silenzioso ma pur carico di significato che converge poeticamente nella linea di demarcazione di un in-contro, testimoniandone l’irrevocabilità: «la riga nel libro/ – quali nomi ha accolto/ prima del mio? – la riga/ in questo libro/ inscritta di/ una speranza, oggi,/ dentro il cuore, per una/ parola/ a venire/ di un uomo di pensiero». È in quella “riga” dello Hüttenbuch che si ridefinisce nella scrittura il luogo dell’in-contro, lo spartiacque, lo Schibboleth – direbbe Derrida89 – nell’attestazione enigmatica di una stretta correlazione fra la dimensione esistenziale incisa nell’irrevocabilità di una data e l’evento simbolico della sua traduzione (Übersetzung) poeti-

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nianze dirette e più vicine a Celan, come quella di una lettera della moglie Gisèle del 5 agosto 1967: «È stata una grande gioia sapere che la tua lettura, l’incontro con Heidegger e quello con Unseld sono andati bene… così bene» (Cfr. Cfr. P. CELAN - G. CELAN-LESTRANGE, Correspondance, tome I, p. 553.); non ultima la testimonianza di Marie Luise Kaschnitz, un’amica cara del poeta, che al suo arrivo a Francoforte dopo l’incontro con Heidegger, si meravigliò dello stato psichico del poeta affermando che l’amico non sembrava più lo stesso, in quanto cambiato e rinfrancato. Riguardo alle testimonianze biografiche dell’incontro di Todtnauberg, cfr. anche l’ampia e dettagliata documentazione di H. France-Lanord, in H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, pp. 95-107. Schibboleth è una parola ebraica che significa “fiume”, “torrente” o anche “spiga”. Celan, intitolandone un poema (cfr. P. CELAN, GW, Bd. I, S. 131), è interessato al significato storico-linguistico del termine, nell’evocazione poetica di una cesura che si fa traccia di una netta demarcazione. Il termine Schibboleth veniva utilizzato come parola d’ordine e di riconoscimento durante la guerra fra Galaiditi e Efraimiti. Per questi ultimi era impossibile la corretta pronuncia. Pertanto, coloro che sbagliavano a pronunciare il fonema “sc”, nel tentativo di intrufolarsi nel territorio nemico venivano riconosciuti e uccisi. Lo Schibboleth come segno linguistico in rapporto al suo utilizzo nella storia sta dunque a testimoniare la linea di una demarcazione di confine fra la vita e la morte. Per un approfondimento del suo significato storico-linguistico nella poetica celaniana, cfr. J. DERRIDA, Schibboleth.

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ca. Unicità dell’evento che si dona alla scrittura nell’in-contro irrefutabile di una data affatto cronologica ma inscritta nella storicità di un’individuazione attualizzata90. La data Originaria del poema svanisce nel silenzio per riaffacciarsi, nella sua “univoltità”, alla vita. L’autentica data del poema non corrisponde dunque, alla sua data di composizione, così come attestato da Celan in una richiesta di traduzione dove non voleva inscrivere le date dei poemi: «Le date di composizione complicano troppo le cose, sono anche troppo autobiografiche…»91; il vero senso della data è racchiuso piuttosto nella sua indicibilità come ri-volgimento storico a un numero illimitato di date a venire (kommendes). La data del poema si estranea così dal tempo della sua calendarizzazione per affacciarsi a un tempo cosmico e universale ri-volto all’esigenza di un senso ripetibile nella sua storicità: Il poetare non sta tanto in rapporto al tempo, quanto a un tempo universale (Weltzeit)92.

Nella testimonianza scritta dello Hüttenbuch, la riga nel libro (geschriebene Zeile) è linea dell’in-contro, punto di convergenza di unicità e ripetizione storica nel senso di geschichtlich, come l’etimologia suggerisce nel suo rinvio alla stessa radice di Geschenk: evenire di un dono destinale (Schickung) nella storia, di un protendersi al “tu” con una speranza nel cuore… È nella stessa direzionalità che va interpretata l’espressione poetica dello Hüttenbuch «con lo sguardo rivolto alla stella della fonte (Brunnenstern) con la speranza di una parola a venire nel cuore». Una fonte (Brunnen) che in forma di poema ritorna nella sua ripetizione, come “sorso” (Trunk) bevuta dalla fonte (aus dem Brunnen), nella poetica restituzione di un pensiero comune che si abbevera appunto, alla stessa fonte. Il poema Todtnauberg diviene esso stesso luogo utopico dell’in-contro fra pensare e poetare dentro la Parola, come se la sua torsione al creaturale fosse ripeti90

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Per “data” non si intende qui l’anno di composizione del poema nella sua calendarizzazione. È Bertrand Badiou ad affermare che quella di Celan si può definire una “scrittura autobiografica” in un senso del tutto singolare poiché – nella totale aderenza della sua scrittura ai fatti biografici del poema – vi è una volontà di seppellire la biografia per lasciare parlare la scrittura, essendone la traccia più reale e più violenta. Secondo Badiou, nella poesia di Celan non si ha infatti, più alcun bisogno di conoscere i fatti reali che ne hanno presieduto l’ispirazione: «In un certo senso la scrittura autobiografica del poema congeda la sua biografia». Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 148. Cfr. ibi, p. 164. P. CELAN, Microliti, p. 43.

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Il grido e il silenzio

bile all’infinito ma ricondotta ogni volta, alla data della sua irrevocabilità. La fonte (Brunnen) come luogo poetico dell’in-contro, testimonia così nel poema Todtnauberg il luogo di un vacillamento che, nel suo accostamento alla stella93 (Stern), tratteggia l’abisso incolmabile di una distanza94 per poi ri-volgersi poeticamente al suo punto di orientamento luminoso. Già nel poema Engführung, Celan cantava:

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Also stehen noch Tempel. Ein Stern hat wohl noch Licht. Nichts, nichts ist verloren95. [Così ci sono ancora templi. Una stella, certo splende ancora. Nulla, nulla è perduto.]

Nell’attraversamento della tenebra, la luce della stella ri-emerge dalla profondità della notte, nella reciproca approssimazione di pensare e poetare. Con il pensiero poetante di Heidegger: Die Verdüsterung der Welt erreicht nie das Licht des Seyns. Wir kommen für die Götter zu spät und zu früh

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Come viene rilevato in diversi testi di germanistica, la fonte (Brunnen) sembrerebbe qui riferirsi fisicamente a una piccola fontana – posta sotto agli alberi sul lato destro della Hütte – sormontata a sua volta da una grossa stella (Stern) intagliata nel legno. Una stella che seppur associabile a un simbolo caratteristico della religione pietistica, potrebbe rinviare come afferma Bollack alla stella di David. Cfr. J. BOLLACK, Il Monte della morte: il senso di un incontro tra Celan e Heidegger, p. 291. È preziosa, al riguardo, la riflessione che Jean Bollack offre sulla simbologia della “stella” (Stern) nella poetica di Celan. La stella (Stern) rappresenta quel punto di orientamento-guida della poesia, il cui carico si conduce dalla negazione e dal non-essere qui dei morti, preparandosi a una «possibile progressione (Progression)». Cfr. JEAN BOLLACK, Herzstein, Hanser, München-Wien 1993, S. 51. È una strofa appartenente al poema Stretto (Engführung), in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 195.

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La torsione

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für das Seyn. Dessen angefangenes Gedicht ist der Mensch. Auf einen Stern zu gehen, nur dieses96. [L’offuscamento del mondo non raggiunge mai la luce dell’Essere. Troppo tardi veniamo per gli dei e troppo presto per l’Essere. L’uomo ne è la poesia iniziata.

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Salire a una stella, solo questo.]

«Salire a una stella, solo questo». E ancora – nell’approssimazione fra pensiero e poesia – il pensatore afferma: «Il pensiero mortale deve lasciarsi cadere nell’oscura profondità della fonte (Brunnen), per poter vedere di giorno la stella»97.

“La stella (Stern) del giorno” diviene così esito di una torsione, ossimoro di un ri-volgimento silenzioso verso la parola oscura dell’essere, vinta all’oblio della storia. Un evento possibile solo se «il pensiero mortale» si lascia cadere nelle tenebre della profondità della sua fonte… Approdo del pensiero poetante che rinvia nuovamente alla dimensione mortale come conditio sine qua non per l’affioramento di un evento luminoso: Parola esiliata dalla tenebra storica che si svela nel luogo di una torsione creaturale come dialogo silenzioso. È ancora nel silenzio il segreto del loro in-contro. Così Heidegger si ri-volge al poeta: 96 97

M. HEIDEGGER, Aus der Erfahrung des Denkens, Neske, Pfullingen, 1954, S. 7. Questo passo è tratto dal testo Grundsätze des Denkens – rielaborazione rimaneggiata appartenente alla prima di una serie di conferenze, dal titolo omonimo, tenute a Friburgo nel 1957 (cfr. MARTIN HEIDEGGER, Gesamtausgabe, Bd. 79, Bremer und Freiburger Vorträge, hrsg. von Petra Jaeger, Klostermann 1994, S. 81-96, qui S. 93; tr. it. di G. Gurisatti, Conferenze di Brema e Friburgo, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2002, pp. 111-127, qui p. 124) – che fu pubblicato nel 1958 nell’annuario «Jahrbuch für Psychologie und Psychotherapie» (Nr. VI, Heft. 1-3, S. 33-41) come omaggio di ringraziamento fatto da Heidegger a Viktor von Gebsattel (a cui il quaderno dello «Jahrbuch» è infatti dedicato come Festsschrift), lo psichiatra che lo aveva assistito in sanatorio. Il ricovero del pensatore si era reso necessario dopo un collasso che lo aveva colto improvvisamente mentre si trovava di fronte al comitato di denazificazione. Cfr. O. PÖGGELER, Spur des Worts, S. 262-263 (che, però, riporta erroneamente il 1968 come data di pubblicazione dello «Jahrbuch»).

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Il grido e il silenzio

Da allora ci siamo detti l’un l’altro molte cose in silenzio (zugeschwiegen). Penso che ancora altre cose andranno un giorno a risolversi nel colloquio (Gespräch) a partire dall’inespresso (Ungesprochenen)98.

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Sono parole di ringraziamento alla poesia Todtnauberg dove il senso del colloquio – nella sua rievocazione hölderliniana del Gespräch – è racchiuso nel verbo zugeschwiegen: «quante cose ci siamo detti in silenzio». Il “dire silenzioso” è offerto qui dalla traduzione (Übersetzung) del segreto intraducibile dell’in-contro, esito creaturale di una torsione che si schiude all’ascolto nel termine «zugeschwiegen». Un verbo che non esprime privazione o sottrazione ma semmai l’inespresso di un’indicibilità99 che – nel trattenimento della sua segretezza – ha ancora “da venire” a mostrarsi. È ancora il pensatore a descriverne la dinamica: Quando noi perveniamo nel trarre del sottrarre, siamo già in marcia verso ciò che ci attrae in quanto si sottrae100.

Trarre la sottrazione di un inabissamento sta già nel luogo oscillante del bilico come affioramento silenzioso di un “essere in marcia”. È ancora questo il senso racchiuso nella lettera di ringraziamento di Heidegger al poema Todtnauberg. Eccone un altro passo: Quanto ai miei auguri? Che nell’ora donata (gegebene Stunde) Lei ascolti la Lingua in cui la poesia che sta per farsi si rivolgerà a Lei101.

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«Seitdem haben wir Vieles einander zugeschwiegen. Ich denke, daß einiges noch eines Tages im Gespräch aus dem Ungesprochenen gelöst wird». È un passo tratto dalla lettera di Heidegger a Celan in risposta alla poesia Todtnauberg, datata Friburgo, 30 gennaio 1968. Cfr. P. CELAN - G. CELAN-LESTRANGE, Correspondance, tome II, p. 576. 99 «Il non espresso (das Ungesprochene) non è soltanto ciò cui è mancata l’espressione fonica, bensì il non detto, il non ancora mostrato, il non ancora giunto a manifestarsi. Ciò che deve di necessità restare inespresso viene trattenuto nel non detto, rimane – in quanto inattingibile a ogni mostrare – nel nascosto (Geheimnis)». M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 253; In cammino verso il linguaggio, p.198. 100 M. HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, S. 135; Saggi e discorsi, p. 89. Si tratta di un passo che Celan lesse, sottolineò e analizzò a più riprese, a partire dall’autunno del 1954. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 138. 101 «Und meine Wünsche? Daß Sie zur gegebenen Stunde die Sprache hören, in der sich Ihnen das zu Dichtende zusagt» Cfr. il facsimile in H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 242.

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La torsione

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Nel ri-volgimento al poeta dell’ora donata (gegebene) risuona quel corrispondere come “parlare al poeta” del Linguaggio102 che si attua nella cesura del tempo, ovvero in quell’ora (Stunde) cui il cantore si dispone all’ascolto. “Un’ora donata” (gegebene Stunde) in quanto dono (Gabe) poetico di un evento destinale (Schickung) e storico (geschichtlich) che si attua creaturalmente in quell’“andare verso” come svelamento silenzioso nel dialogo con l’altro, che Celan aveva già portato a parola – proprio nel verbo «zugeschwiegen» – in una dedica alla moglie presente nella prima stesura della Rosa di Nessuno:

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Weißt du, nur was ich dir zuschwieg, hebt uns hinweg in die Tiefe103. [Sai, solo ciò che ti ho detto in silenzio ci sradica nel profondo.]

Parole di un colloquio amoroso che svelano nel dire silenzioso, il segreto (Geheimnis) di un in-contro nel ri-volgimento al tu creaturale come espropriazione da sé: nel colloquio silente dell’amore è l’espropriazione di un ascendere – nel senso di un “sollevare” proprio al verbo heben – via (hinweg) dal fondamento, come esilio di uno sradicamento che si attua nell’in-contro, in profondità (in die Tiefe). Colloquio ed espropriazione interagiscono così nel luogo disancorato dell’in-contro, così come nei primi versi della prima prima versione di Todtnauberg: Seit ein Gespräch wir sind, an dem wir würgen, an dem ich würge, das mich 102 È di questo avviso anche Lyon, il quale afferma che quando Heidegger fa riferimento a «il-parlare-a-lui del Linguaggio», intende annoverare Celan fra i grandi poeti da lui analizzati nelle sue opere, come Hölderlin, Trakl e Rilke. Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, p. 191. 103 Si tratta di una lettera del 21.11.1965 in cui Celan dedica la poesia Das Wort vom Zur-Tiefe-gehn del 5.3.1959 alla moglie Gisèle. Gli ultimi versi di questa versione sono differenti da quelli del poema appartenente alla raccolta definitiva della Rosa di nessuno. Inoltre, il poema contenuto nella lettera è preceduto dalla parole : «Per ritrovare il nostro amore. Paul». P. CELAN - G. CELAN-LESTRANGE, Correspondance, tome I, p. 320.

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Il grido e il silenzio

aus mir hinausstieß, dreimal, viermal […]104.

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[Da quando siamo un colloquio nel quale ci estenuiamo nel quale mi estenuo, che mi espropria da me, tre volte, quattro volte …]

Sono i versi di Celan ad attestare poeticamente l’attuazione faticosa di un colloquio fra poetare e pensare in corso con il pensatore. Ed è ancora nel verbo würgen che è contenuta tutta l’ambivalenza di una prossimità che ne fa affiorare la distanza: un andirivieni che si esplicita nell’atto di un restringimento gutturale come effetto dello “strozzare”, proprio al significato primario di würgen, laddove la preposizione «an» ne definisce la tensione interna di un costante affaticamento. Una parola quasi spenta eppur sforzata e tuttavia, sempre disposta – nel bilico di un’oscillazione faticosa ri-volta all’in-contro con l’altro – al movimento di una “spinta fuori” (hinaustieß) da sé. Una sorta di esplosione nell’atto soffocato di un’espropriazione dolorosa di “un colpo di glottide”, che rammenta all’ascolto la cantante kafkiana Josefine del Popolo dei topi, nella stretta finale del poema Francoforte settembre105: «Il colpo di glottide /canta»106, soffio ineffabile 104 Ibi, tome II, p. 382. La lettera è datata 1.8.1967 e fu scritta a Francoforte pochi giorni dopo l’incontro di Todtnauberg. Da questi primi versi non è difficile cogliere il rinvio poetico ai versi di Hölderlin appartenenti al poema Versöhnender, der du ninnemgeglaubt, commentati da Heidegger: «Molto ha esperito l’uomo. / Molti celesti ha nominato / da quando siamo un colloquio / e possiamo ascoltarci l’un l’altro». MARTIN HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, Klostermann, Frankfurt am Main 19714, S. 39; tr. it. di L. Amoroso, La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, p. 47. 105 Cfr. P. CELAN, GW, Bd. II, s 114. Nell’ultimo verso del poema Frankfurt September, l’ispirazione celaniana si rivolge a Kafka nel rimando letterario all’opera Il popolo dei topi e al canto sublimato di Josefine, cfr. PAUL CELAN, Die Gedichte, Kommentierte Gesamtausgabe in einem Band, hrsg. von Barbara Wiedemann, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2003, S. 752. 106 «Der Kehlkopfverschlußlaut/ singt», sono gli ultimi versi del poema Francoforte settembre, in P. CELAN, GW, Bd. II, s 114. Mi accosto qui alla traduzione di Rosalba Maletta e all’analisi filologica che ne offre: «Ed eccoci arrivati alla stretta del “singt” che da sola copre tutto un verso a far fluire con lucida, pervia stringatezza l’affanno dell’esplosione gutturale. La presenza occlusiva è data dall’accumulo in crescendo di consonanti sorde forti. Inciampando nel “singt” esse provocano un istantaneo aumento dell’intensità sonora che si scioglie in un lessema – “Kehlkopfverschlußlaut” appunto – atto a indicare la laringe muta e

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La torsione

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di un canto sublime che, nell’estenuazione di un trattenimento soffocante, libera, nello sforzo – l’Indicibile. Nella cesura dell’in-contro, fra arresto ed espropriazione, è l’esito doloroso del Gespräch come colloquio estenuante fra pensare e poetare nei passaggi della tenebra storica. Poesia e pensiero convivono così, nel colloquio di un’espropriazione che avvicina, nella percezione di un’ultimità dolorosa scampata all’oblio della storia. Nel colloquio (Gespräch) è l’evento di una liberazione così ardua da portare a parola, tanto da sublimarsi nell’atto di un’occlusione estenuante: un’immagine estrema restituita da un corpo a corpo con la scrittura. Un’aderenza incondizionata che affida il corpo alla parola dello scritto, così come intimamente svelato dall’agonia di alcuni primi versi di Celan. Così il poeta bucovino, negli anni Quaranta, cantava già nel verbo würgen107 la chiusa poetica all’Elogio della lontananza, ispirato dall’amore per Ingeborg Bachmann: Im Quell deiner Augen erwürgt ein Gehenkter den Strang108. [Nella sorgente dei tuoi occhi un impiccato strozza il cappio.]

2.5. “Insieme alla stella. Vicino alla terra” La Parola “strozzata” (erwürgt) – parola del cuore vinta faticosamente al silenzio di una lontananza – definisce così l’esito di una torsione estenuante che si ri-volge e si affida al tu, nell’espropriazione dall’io come inferita a morte di Kafka (Kehlkopf) come pure il colpo di glottide, ovverosia un repentino accostamento delle corde vocali con brusco arresto del flusso d’aria proveniente dai polmoni». Per un’analisi dettagliata della poesia Francoforte settembre, in accostamento alle sue risonanze kafkiane e freudiane, cfr. ROSALBA MALETTA, Paul Celan: poesia come resilienza. Francoforte settembre: “Un sogno di maggiolini”, in STEFANO RAIMONDI-GABRIELE SCARAMUZZA (a cura di), La parola in udienza. Paul Celan e George Steiner, Cuem, Milano 2008, pp. 31-106. 107 Un’acuta analisi del verbo würgen, inteso nel suo significato di “soffocare” – presente nella lirica celaniana giovanile in continuità con l’ultima produzione poetica –, è offerta dal testo di Massimo Baldi, in MASSIMO BALDI, Paul Celan. Una monografia filosofica, Carocci editore, Roma 2013, pp. 26-31. In queste pagine, l’impiego del verbo würgen nella poetica di Celan viene messo a confronto con il suo utilizzo nella lirica rilkiana. 108 Sono gli ultimi versi della poesia Lob der Ferne, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 33.

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Il grido e il silenzio

termittenza di un andirivieni spossante: nell’atto di un’occlusione si libera la fuggevolezza di un soffio nel suo innocente candore. Arresto doloroso che libera, nella gravezza della ferita, il soffio di un’inarrivabile chiarezza. Nell’accostamento stridente di “gravezza” e “chiarezza”, la scrittura consegna al tu della storia il segreto del Gespräch. Nell’alone scontornato di questa “luce scura” si schiudono le parole stridenti di Celan alla moglie Gisèle, qualche giorno dopo la visita a Todtnauberg:

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All’indomani della mia lettura sono stato con M. Neumann, l’amico di Elmar, allo chalet di Heidegger nella Foresta Nera. Poi, in macchina c’è stato un dialogo molto serio con parole chiare da parte mia109.

Nel resoconto del suo incontro con Heidegger la “chiarezza” esistenziale cui allude Celan – in relazione alla “gravezza” come serietà del dialogo – restituisce ancora una volta all’ascolto il senso di un affaticamento già reso poeticamente dai versi di Todtnauberg: «parole crude, più tardi, in viaggio, / senza veli». L’espressione poetica “senza veli” (deutlich) in accostamento alla “crudezza” (Krudes) delle parole fa qui risuonare quella limpidità e trasparenza di una nominazione chiara e “senza veli” che ha attraversato faticosamente la tenebra storica «di un discorso gravido di morte»110 per svelarsi – in una torsione silenziosa – nella dimensione creaturale dell’esistenza (Dasein). È ancora il poeta a restituirne testualmente il senso nella sua frequentazione silente della parola dell’Essere. Celan ne sottolinea un passo in Sein und Zeit: Il silenzio, come modo del discorso, articola così originariamente la comprensibilità dell’Esserci (des Daseins) che da esso trae origine il poter ascoltare genuino e l’essere-assieme trasparente111.

Il silenzio diviene qui cifra del colloquio fra poeta e pensatore: Parola limpida del dialogo che in-contra, nella dimensione storica dell’Esserci (Dasein), lo svelamento di un poter «ascoltare genuino» e «dell’essere insieme trasparente». Una limpidità possibile soltanto nell’attraversamento 109 PAUL CELAN-GISÈLE CELAN-LESTRANGE, Correspondance, tome I, p. 550. 110 P. CELAN, GW, Bd. III, S. 186. 111 Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, S. 165; Essere e tempo, pp. 208-209. Questo passo è sottolineato da Celan nella sua copia personale di Sein und Zeit. Nel paragrafo di riferimento compaiono inoltre, diverse annotazioni di Celan, a testimonianza di un vivo interesse del poeta per l’argomento in oggetto. Cfr. il facsimile della pagina in H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 297.

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La torsione

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di un’espropriazione dolorosa, così come attestato dal poeta nella prima versione di Todtnauberg. Ascoltiamola integralmente: Seit ein Gespräch wir sind, an dem wir würgen, an dem ich würge, das mich aus mir hinausstieß, dreimal, viermal , ____________

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Im Ohr Wirbel(t)nde Schläfenasche, die eine, letzte Gedankenfrist duldend, Feuchtes viel112] [Da quando siamo un colloquio nel quale ci estenuiamo, nel quale mi estenuo, che mi espropria da me, tre volte, quattro volte, ____________ Ronzante nell’orecchio cenere dei tempi, unica, ultima meta del pensiero sofferente, umido molto]

Nuovamente risuona, nella rievocazione hölderliniana del Gespräch, l’attestazione propria al silenzio estenuante di un’espropriazione declinata nel colloquio fra il poeta e il pensatore, possibile solo nell’ascolto silenzioso e ronzante (Wirbel(t)nde) delle ceneri (Schläfenasche) della storia: l’«unica, ultima /meta del pensiero/ sofferente» che nell’ultimità di uno

112 Questa prima versione di Todtnauberg, già analizzata in parte nel paragrafo precedente, compare in versione integrale nel fac-simile di H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 239.

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Il grido e il silenzio

spossessamento, spinge tuttavia, «a interrogare oltre». Così Celan scriveva a un suo studente nel 1955: Interrogare, rivolto a un partner di colloquio (Gesprächspartner) silenzioso il cui silenzio spinge a interrogare oltre113.

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Allo stesso modo, nel 1971, un anno dopo la scomparsa di Celan, il poeta nuovamente “interrogava” il suo partner silenzioso con un atto postumo: il più estremo degli spossessamenti che si “attualizzava”, dopo la sua morte, nella delega all’amico Klaus Demus di un ultimo “messaggio in bottiglia” al pensatore di Todtnauberg. Così, l’ombra della Parola celaniana si estenuava ancora una volta nella terra silenziosa di un ultimo poema inviato a Heidegger da Klaus Demus114: WIRK NICHT VORAUS sende nicht aus, steh herein: durgründet vom Nichts, ledig allen Gebets, feinfügig, nach der Vor-Schrift, unüberholbar, nehm ich dich auf,

113 P. CELAN, Microliti, p. 49. 114 Devo al germanista Joachim Seng questa segnalazione del contatto fra Klaus Demus e Martin Heidegger dopo la morte di Celan in riferimento al poema Wirk nicht voraus; in merito cfr. JOACHIM SENG, “Seit ein Gespräch wir sind, an der wir würgen”. Paul Celan und Martin Heidegger im Geheimnis der Begegnung, «Literaturkritik.de», (Mai 2008), Nr. 5, S. 3 (Online: www.literaturkritik.de/public/ rezension.php?rez_id=11816); e soprattutto PAUL CELAN - KLAUS und NANI DEMUS, Briefwechsel, hrsg. von Joachim Seng und Barbara Wiedemann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2009, S. 656-657 (si tratta del Kommentar curato dallo stesso Seng alla lettera che Celan inviò a Demus il 24.11.1969, contenente appunto il poema; per il testo della lettera, la n. 372 nella catalogazione Seng-Wiedemann, cfr. ibi, S. 469 f.). La corrispondenza in corso fra Heidegger e Klaus Demus dopo la morte di Celan è riportata anche dal testo di J.K. Lyon dove si apprende che, nell’ultimo periodo della vita di Celan, il poeta avrebbe incoraggiato Demus a inviare alcuni poemi a Heidegger. Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 211-214.

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La torsione

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statt aller Ruhe115.

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[Non agire in anticipo non sfuggire, trattieniti dentro: penetrato dal nulla, liberato da ogni preghiera, finemente congiunto alla Pre-scrittura inarrivabile, ti accolgo in luogo di ogni quiete.]

Un candore inarrivabile (unüberholbar) si dispone al nostro ascolto, nella limpida attestazione di un’esposizione del poema alla Pre-scrittura cui il cantore aderisce con innocenza, nell’ascolto della sua Voce: silenziosa e mite (fein) disposizione alla sua accoglienza – con-giunzione cui il poeta si affida assottigliandosi, quasi a sparire. Nel trattenimento della Parola – «trattieniti dentro (steh/ herein)», canta il poeta – è l’esito della torsione estenuante: ordinamento di un arresto che si affranca da ogni preghiera. Siamo al libero ri-volgimento del Dasein come accoglienza di un enigma silenzioso che si ri-volge alla scrittura storica nell’attestazione creaturale di un Gespräch, in corso con il pensatore, fra poetare e pensare. Nel ricevere questi versi scritti a mano da Celan, Heidegger si illumina nello sguardo e non manca di confessarlo a Demus nella lettera del 24 aprile 1971: Quando ho aperto la Sua lettera la domenica di Pasqua, il mio sguardo è andato subito al foglio di quella calligrafia (Handschrift) che mi è familiare, di quella stessa “inarrivabile” poesia di Paul Celan, che conosco a memoria (auswendig), o per meglio dire, par coeur116.

115 Il poema Wirk nicht voraus del 6 dicembre 1967 – cinque mesi dopo la visita a Todtnauberg – viene posto da Celan a conclusione della raccolta Lichtzwang, di cui fa parte anche la poesia Todtnauberg, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 80. 116 J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, p. 212; cfr. anche P. CELAN - K. und N. DEMUS, Briefwechsel, S. 656-657.

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Il grido e il silenzio

Par coeur, scrive Heidegger, per meglio dire “a memoria”, o letteralmente “dal cuore”. Ad accompagnare la lettera sono altre parole del pensatore: «in questi giorni in cui ricorre l’anniversario del giorno della morte del poeta», cui fa seguito un pensiero poetante preceduto dalla dedica “In memoria di Paul Celan”: Pesa il silenzio Arresta la pesa

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Ascolta quaggiù Taci lassù Non esitare più Ringrazia e rifletti Arresta la pesa Pesa il silenzio117.

«Pesa il silenzio, arresta la pesa (Wage die Stille/ Stille die Waage)»: nei significanti di una sospensione in gioco riecheggia la riflessione heideggeriana sulla “bilancia” come “bilico” – Wage e Waage – del “fare un cammino” (wägen, wegen): La parola “bilico” significava ancora nel Medioevo qualcosa come “pericolo”. “In bilico” significava quello stato in cui qualcosa può risolversi in un modo o in un altro. Ecco perché lo strumento che si muove in modo tale da poter pendere da una parte o dall’altra si chiama il bilico, la bilancia. La bilancia gioca e entra in gioco. Il termine Wage, tanto nel significato di pericolo che

117 «Wage die Stille/ Stille die Waage// Höre das Her/ Schweige das Hin/ Schwanke nicht mehr/ Danke und sinn’// Stille die Waage/ Wage die Stille». Questi versi, pubblicati nell’opera completa di Heidegger (cfr. M. HEIDEGGER, Gesamtausgabe, Bd. 81, Gedachtes, hrsg. von P.-L. Coriando, Klostermann, Frankfurt am Main 2007, S. 45), sono associati alle poesie dedicate a Imma von Bodmershof, la fidanzata dell’editore di Hölderlin Norbert von Hellingrath, e – secondo la testimonianza del germanista Joachim Seng – figurerebbero su un foglio a sé stante preceduti dalla dedica: “im Andenken an Paul Celan” – In memoria di Paul Celan” (cfr. J. SENG, “Seit ein Gespräch wir sind, an der wir würgen”. Paul Celan und Martin Heidegger im Geheimnis der Begegnung, S. 3). La dedica, presente nella serie dei manoscritti celaniani raccolti da Klaus Demus e ora posseduti dalla Houghton Library della Harvard University (cfr. P. CELAN - K. und N. DEMUS, Briefwechsel, S. 656-657 e 664), non compare tuttavia nel Bd. 81 della Gesamtausgabe heideggeriana. Per queste precisazioni, ringrazio ancora Joachim Seng.

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La torsione

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di strumento, deriva da wägen, wegen, fare un Weg, un cammino, cioè andare, essere in movimento118.

«Pesa il silenzio, arresta la pesa»: attestazione di un pensiero poetante in direzione del “fare un cammino” verso il Linguaggio, che testimonia quanto il pensiero di Heidegger fosse ancora “in movimento” verso il poetare di Celan. Prossimità di una lontananza che si svela nella scrittura storica come ri-volgimento al tu creaturale, esito silenzioso di un’agonia, cammino estenuante fra poetare e pensare nel silenzio soffocato (erwürgt) del Gespräch: qui è il colloquio dell’esser-con-altri nell’affioramento di una Parola fra le ceneri della storia. L’esser-con-altri risuona così nell’esito indicibile di una torsione spossante e dolorosa, luogo di abbandono e affioramento di una chiarezza che si espropria nella gravezza della tenebra – cenere dei tempi, ferita della storia, così chiara e gravosa nell’invisibile in-contro dei cuori. Così Heidegger cita Pascal: Nell’invisibile ultrainteriorità del cuore, l’uomo è prima di tutto sospinto verso ciò che deve essere amato: gli avi, i morti, l’infanzia, i nascituri119.

Sul piano del pensiero poetante, il passo di Heidegger circoscrive qui il regno del tu, alla dimensione ultrainteriore dell’anima: nella creaturalità del cuore risuona la flebile voce di una Parola esiliata come eco di un’invisibile prossimità che il pensatore porgerà alla moglie Elfride nella forma di un pensiero poetante, ispirato dal poema Todtnauberg. È quanto il pensatore scriverà intorno a Todtnauberg alla moglie Efride: la Hütte: silenzio e mondo istituiti tramite te (durch dich). // Quando le chiacchiere diventano Parola? / Quando dicono, / – non significano / – non qualificano. / Quando, mostrando, portano ai luoghi / della pura appartenenza […] 120. 118 Cfr. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 259; Sentieri interrotti, pp. 258-259. 119 M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 283; Sentieri interrotti, p. 282. 120 Sono alcuni pensieri poetanti di Heidegger che vanno a costituire una sorta di premessa all’ascolto del poema celaniano Todtnauberg. Non è dato sapere in quale data il pensatore compose questi versi ma è certa la sua donazione alla moglie pochi giorni prima della morte, insieme all’edizione del poema Todtnauberg inviatagli dal poeta. Questa premessa al poema Todtnauberg (Vorwort zum Gedicht “Todtnauberg”) è stata integralmente pubblicata per la prima volta da Baumann nella riedizione tascabile del suo libro nel 1992. Cfr. GERHART BAUMANN, Erinnerungen an Paul Celan, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1992, S. 147-148. Secondo J. K. Lyon (cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, p. 187) e France Lanord (cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un

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Il grido e il silenzio

Parole poetanti del pensatore donate alla moglie insieme al poema celaniano Todtnauberg, pochi giorni prima della sua morte, nella viva restituzione di un atto d’amore destinato a custodire nella Hütte – che la sposa Elfride aveva fatto costruire nell’estate del 1922 – il luogo utopico e poetico di un’istituzione di senso. «La Hütte: silenzio e mondo istituiti tramite te (dich)»: dono simbolico al tu creaturale nell’in-contro con la sposa Elfride che, in accostamento al dono del poema Todtnauberg, si traspone sul piano del Gespräch, per elevarsi al “tu” del dialogo fra poetare e pensare. Lo chalet heideggeriano qui non assolve più soltanto alla sua funzione designante di “casa” ma diviene essa stessa dimora simbolica e invisibile del cuore, dove il mondo, come istituzione di senso della Quadratura, viene a Parola nell’in-contro fra cielo e terra, mortali e immortali121. Nella congiunzione è l’attraversamento poetico della tenebra che si eleva all’in-contro di due cuori ri-volti alla dimora della Parola. In-contro di due ‘lingue’ (Sprache und Sprache ) – gravezza che si trattiene nell’accadimento silenzioso di un risveglio espropriante: «la pietra è uscita dalla montagna», canterà Celan, nel sacro congiungimento di “un sentirsi a casa” (Heimatlch) – intimo soffio di un leggero approdo. Con il canto di Celan: WAS GESCHAH? Der Stein trat aus der Berge. Wer erwachte? Du und ich. Sprache, Sprache. Mit-Stern. Neben-Erde. Ärmer. Offen. Heimatlich.

dialogue, p. 187), questa premessa sarebbe una risposta diretta di Heidegger alla pubblicazione del poema Todtnauberg, scritta quando apparve per la prima volta in edizione limitata per bibliofili il 12 gennaio 1968. In quell’occasione, Celan provvide a mandarne una copia in omaggio al pensatore (cfr. P. CELAN-G. CELANLESTRANGE, Correspondance, tome II, p. 575). 121 Come si è già analizzato altrove, la posizione di Celan nei confronti del Geviert heideggeriano era di profondo interesse. Cfr. al proposito anche il testo di Axel Gellhaus, «Seit ein Gespräch wir sind», in cui l’autore elabora la propria interpretazione del poema Todtnauberg a partire dal concetto heideggeriano di Geviert. In questo saggio Gellhaus osserva che tre degli elementi del Quadrato trovano esplicita corrispondenza nel poema: il “cielo” verrebbe simbolizzato dalla stella (Stern) sopra la fontana; la “terra” sarebbe rappresentata dai fiori, dalle piante e da altri elementi del paesaggio; la dimensione “mortale” riguarderebbe la nominazione dell’«uomo che ci guida» nel poema: «der uns fährt, der Mensch»; la dimensione “immortale” apparentemente assente, riguarderebbe invece «coloro che sono sotto terra” ossia, i morti della Shoah cui Celan farebbe costantemente allusione nel corso di tutto il poema. Cfr. AXEL GELLHAUS,“ ... seit ein Gespräch wir sind“: Paul Celan bei Martin Heidegger in Todtnauberg, S. 12-15.

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La torsione

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Wohin gings? Gen Unverklungen. Mit dem Stein gings, mit uns zwein. Herz und Herz. Zu schwer befunden. Schwerer werden. Leichter sein122. [COS’È SUCCESSO? La pietra è uscita dalla montagna. Chi si è svegliato? Tu e io. Lingua, lingua. Insieme alla stella. Vicino alla terra. Più povero. Aperto. Di casa.

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Dove si andava? Verso l’eco lontana. Si andava con la pietra, con noi due. Cuore e cuore. Trovata troppo pesante. Diventare più pesanti. Essere più leggeri.]

Nella dimora invisibile dei cuori è l’esito di un in-contro come ascolto di un’eco lontana, non ancora spenta (Unverklungen). Il risuonare di un’amorosa lontananza custodisce l’affaticamento di un procedere insieme a una parola-pietra (Mit dem Stein gings) sempre più grave e pesante (schwerer), nell’acquisizione finale di una poetica sublimazione. La scrittura schiude così il passaggio di un trasporto (Übersetzung) faticoso nell’evocazione di un accostamento stridente di pesantezza/leggerezza – già incontrato nel nominare “grave (krudes)/senza veli (deutlich)” presente nella lettera di Celan a Gisèle Lestrange e nel poema Todtnauberg – svelato qui dal verso «Cuore e cuore. Trovata troppo pesante», nella restituzione all’ascolto di un totale corpo a corpo del poeta con la scrittura e con la sua interpunzione. Nel segno grafico del punto è l’abitazione di un pertugio come cesura – trattenimento di un’unione amorosa nel regno di un’intercapedine storica. Nella pausa di un vuoto sottratto alla lingua della vita è la delega di un resto silenzioso ri-volto – nell’atto della torsione – all’intraducibile. Nell’incedere a singhiozzo del verso, in luogo di un trattenimento scandito dal segno di interpunzione – «Cuore e cuore. Trovata troppo pesante» – è l’atto di un’interruzione silenziosa che si fa pausa musicale di un’insostenibilità «trovata troppo pesante». Il segno grafico del punto segna così, il limite del passaggio: nella faglia storica è l’esperienza faticosa dell’incontro, come presa in carico esistenziale della scrittura che libera, nella torsione di un’espropriazione, l’indicibile di una sublimazione. «Diventare più pesanti. Essere più leggeri»: di nuovo l’ossimoro viene offerto dall’intervallo della scrittura posto fra parola e silenzio; nella loro frapposizione invisibile, scandita dal segno di interpunzione, è la restituzione poetica di 122 P. CELAN, GW, Bd. I, S. 269.

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Il grido e il silenzio

un secondo ineffabile passaggio. La pausa del punto ne custodisce intimamente il segreto dell’elevazione: siamo nel soffio leggero del “colloquio” (Gespräch) – restituzione creaturale di un in-contro originario e silenzioso, alla sua innocente semplicità. 2.5.1. La mano e la tecnica

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Nel colloquio è la disposizione di un’accoglienza al “tu” come luogo d’instaurazione del senso – custodia creaturale e silenziosa del pensiero poetante. È ancora Celan a sottolinearne l’intento heideggeriano laddove il pensatore teorizza che ”il pensiero è opera della mano”123, esponendo l’inesprimibilità del pensare all’in-contro creaturale con il “tu” autentico dell’arte: Forse pensare è semplicemente la stessa cosa che costruire un armadio. È comunque un mestiere (Hand-Werk), un’opera della mano. […] Ma l’opera della mano è più ricca di quanto non siamo disposti a credere usualmente. La mano non soltanto afferra e prende, non soltanto prende e urta. La mano porge e riceve, e non soltanto le cose, ma anche porge se stessa e riceve se stessa nell’altra mano. La mano trattiene. La mano regge. La mano traccia dei segni perché probabilmente l’uomo è un segno. Due mani si congiungono quando questo gesto dell’uomo deve condurre alla grande semplicità124.

È nel cuore di una “segreta” ma altresì dialogica «semplicità» ritrovata nella “congiunzione fra due mani”, che si attua il culmine della critica heideggeriana al pensiero metafisico nella sua accezione tradizionale di “pensiero scientifico”, nell’affidamento a quell’interpretazione “tecnica” del pensiero come processo teorico al servizio del “fare”. In accordo con i termini del pensatore rispetto a una critica al “fare” – come espressione dell’era della tecnica dominata dalla logica dell’efficienza, nell’allontanamento dalla sua dimensione creaturale come «opera della mano» (Handwerk) – è anche il pensiero di Celan contenuto nella rubrica Kunstfeindlich123 Come è stato rilevato da France-Lanord, il pensiero heideggeriano sotteso a questa espressione viene più volte sottolineato e commentato da Celan nei suoi testi personali Che cosa significa pensare? e L’origine dell’opera d’arte. Nel fac-simile riportato da H. France-Lanord, Celan annota e accosta più volte il concetto di Handwerk (manufatto/opera della mano) a quello di Herzwerk (opera del cuore). Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 138. 124 M. HEIDEGGER, Was heißt Denken?, S. 50-51; Che cosa significa pensare?, pp. 108-109.

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La torsione

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keit125 – «Ostilità all’arte» – appartenente alle carte preparatorie al discorso del Meridiano. Eccone un passo: La fattura (Machart) non spiega il poema; ma non è poi così sorprendente il fatto che oggi ci si occupi soprattutto di questioni di produzione e confezione126.

Nello stesso anno del Meridiano Celan scriveva ancora, in una lettera indirizzata a Hans Bender:

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Per qualche tempo, anni fa, ho potuto vedere e più tardi osservare esattamente da una certa distanza come “il fare” (das Machen) diventi prima fattura (Mache) e poi fattucchiera (Machenschaft)127.

In questi passi non è difficile intravedere un’affinità teorica fra Celan e Heidegger relativamente a una concezione dell’arte come espressione dell’essere della tecnica al servizio graduale di una “fattucchiera” (Machenschaft) della storia, nel contemporaneo allontanamento dal suo essere creaturale come manufatto (Hand-Werk)128. Ma è proprio nel solco di questo in-contro teorico con il pensatore – situato nella profonda faglia del pensiero metafisico occidentale, come luogo di una messa in questione radicale dei tempi moderni e del loro significato storico – che la posizione di Celan nei confronti di Heidegger, diviene fonte di interrogazione silenziosa sulla singolarità del proprio destino personale, laddove la metafisica dell’Essere – nel processo di distruzione ad opera della tecnica come manfestazione dell’oblio dell’Essere del Dasein nella storia – sembrerebbe giustificare le catastrofi del XX secolo. Così, il poeta ne sottolinea il passo heideggeriano: C’è il pericolo che il pensiero dell’uomo attuale intorno alle decisioni future, della cui particolare forma storica non possiamo sapere nulla, sia troppo limitato, che quindi esso cerchi tali decisioni là dove esse non potranno mai farsi trovare. Che cosa ha deciso in fondo la seconda guerra mondiale, per non parlare delle terribili conseguenze che ha lasciato nella nostra patria, in particolare la frattura che ne attraversa il centro? Questa guerra mondiale non

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Cfr. P. CELAN, Der Meridian. Endfassung, Entwürfe, Materialen, S. 149-160. Ibi, S. 153. Brief an Hans Bender, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 178. Il tema del “manufatto” (Handwerk), così come viene interpretato dal pensiero di Celan, è stato trattato nel paragrafo 2.2, intitolato La vita del poema, del presente lavoro.

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ha deciso nulla, se con la parola decisione intendiamo qualcosa di tanto alto ed esteso da toccare unicamente il destino essenziale dell’uomo sulla terra. Solo ciò che è rimasto indeciso sembra in una certa misura più chiaro. Ma anche qui c’è nuovamente il pericolo che quanto in questo margine indeciso si prepara alla decisione volgendosi al dominio della terra intera, che quanto attende una decisione venga costretto ancora una volta entro categorie politico-sociali e morali di portata troppo limitata e dal fiato corto, venendo così escluso dalla possibilità di una comprensione sufficientemente vasta129.

Un pensiero dai contenuti inequivocabili che attirarono indubbiamente l’attenzione del poeta bucovino, poiché incentrati sul «pericolo» e sul destino «indeciso» dell’umanità in rapporto alla dimensione metafisica dell’Essere e al cominciamento altrettanto “indeciso” di un nuovo senso del pensare. Per Celan la questione della «decisione» in Heidegger, non poteva che rivelarsi di importanza cruciale poiché in essa ravvisava il simbolo di una cesura, il luogo storico di un affioramento Originario relativo alla missione poetica che lo accomunava al pensatore, di riportare la lingua alla sua limpidità. Tuttavia, per il poeta, quel modo genuino del discorso che si articolava nell’«essere-assieme trasparente» – implicando la preoccupazione sull’avvenire dell’uomo occidentale – ne evocava il riflesso sul proprio destino personale in relazione ai recenti avvenimenti storici che lo riguardavano direttamente. La segretezza dell’in-contro fra poetare e pensare – restituita dall’immagine simbolica di due mani che si congiungono in un dialogo silenzioso – custodiva a sua volta, il seme di una preoccupazione esistenziale riguardante la singolarità del destino personale di Celan. Un dubbio esistenziale del tutto comprensibile che trovava la sua legittimità teorica nel movimento di sottrazione dell’Essere ad opera della tecnica, come possibile giustificazione della storia della metafisica europea in rapporto al destino (Geschick) e all’avvenire storico (geschichtlich) dell’Occidente nei suoi tragici epiloghi della “soluzione finale” e della Shoah. 2.5.2 Una conversazione “epocale” Il movimento del ritrarsi dell’Essere nell’epoca della tecnica rappresentava per Heidegger l’espressione massima della volontà di potenza del Dasein, coincidendo a sua volta, con le manifestazioni storiche più atroci della

129 M. HEIDEGGER, Was heißt Denken?, S. 65; Che cosa significa pensare?, pp. 125126. Il passo in questione è sottolineato e commentato da Celan nella sua copia personale del testo. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 110.

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modernità. In un tempo di povertà dominata dalla tenebra della tecnica e dalla volontà di potenza dell’esserci, Heidegger rintracciava il culmine delle manifestazioni distruttive più terribili del nichilismo contemporaneo, nella «fabbricazione dei cadaveri delle camere a gas e dei campi di sterminio»130. Nonostante Celan non ebbe mai notizia di queste dichiarazioni del pensatore, il dubbio di una contraddizione teorica insita nel suo pensiero a causa della sua adesione al nazismo nel ’33, continuò a oscillare in una costante sospensione del giudizio non priva di tensioni131 ma sorretta a sua 130 Queste dichiarazioni di Heidegger compaiono nella conferenza Das Ge-stell tenuta a Brema nel 1949 (seconda conferenza del ciclo Einblick in das was ist) e pubblicata interamente soltanto nel 1994 (cfr. M. HEIDEGGER, Das Ge-stell, in ID., Bremer und Freiburger Vorträge, S. 24-45, qui S. 27; tr. it. di G. Gurisatti, L’impianto, in Conferenze di Brema e Friburgo, pp. 45-70, qui p. 50). Purtroppo Celan, finché fu in vita, non seppe mai alcunché dell’esistenza di questi scritti. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 109. 131 Mi riferisco qui a diverse occasioni che testimoniano la presenza di tensioni irrisolte nel rapporto fra Celan e Heidegger. Fra queste la più nota e incongruente rispetto alle sue conseguenze, fu quella dell’episodio di una fotografia di gruppo a Friburgo il giorno prima dell’incontro a Todtnauberg e cioè, in data 24 luglio all’Auditorium Maximum dell’Università di Friburgo, in occasione del quale Celan era stato invitato a leggere alcune sue poesie. Ascoltiamo al proposito una testimonianza di Gerhart Baumann riferita a quella giornata: «Un’ora prima della memorabile lettura si venne a creare una situazione in cui un’esperienza destinale si intrecciò alle tensioni inaudite a cui Celan era esposto, tensioni che talora si scatenavano in modo del tutto inaspettato. Nel pomeriggio egli si era ritirato nella sua stanza d’albergo, per provare quelle poesie che pensava di leggere a sera. Assieme a Martin Heidegger ci disponemmo per accompagnare il poeta nel cammino fino alla vicina università. Arrivati ben in orario, ci ritrovammo in una conversazione nella hall dell’albergo che si liberò presto del suo iniziale tenore formale per rivolgersi a questioni personali. La configurazione significativa quanto rara si prestava bene a una fotografia; ma prima ancora che si fosse giunti a una richiesta esplicita, Celan si era alzato di scatto dal suo posto per spiegare nel modo più deciso che non desiderava esser ripreso assieme a Heidegger. Heidegger non si mostrò in alcun modo sorpreso da questa svolta improvvisa; essa non lo toccava, o perlomeno egli non lo dava a vedere. Tranquillo e misurato, si volse da una parte, come per notare incidentalmente: “Non vuole – allora lasciamo stare”, e senza ulteriori interruzioni continuò a trattare il tema del discorso nel solito tono di voce. Tutti noi, anche Celan, ci sforzavamo di sorvolare sull’accaduto e di dedicare la nostra attenzione alla conversazione. Celan si era allontanato per breve tempo senza che nessuno ci facesse caso. Dopo che, esitante, era ritornato tra noi, egli fece capire che le sue obiezioni a essere ripreso insieme a Heidegger erano cadute. Con voce bassa ma determinata, riferiva di aver cambiato parere, ma questa risposta tardiva non trovò alcuna risposta, con troppa insistenza agiva il precedente rifiuto

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volta, dallo spiraglio di una “speranza” (Hoffnung) di una parola a venire (kommendes Wort). Un’aspettativa nata dall’innocenza creaturale del colloquio (Gespräch) del poeta con il pensatore, poiché poggiante comunque, sul fronte di una ricerca teorica comune condotta sul piano ontologico del Linguaggio intorno al pensiero poetante. In questo ambito si affacciava un nuovo senso del “decidere” operante nella storia:

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Questa guerra mondiale non ha deciso nulla, se con la parola decisione intendiamo qualcosa di tanto alto ed esteso da toccare unicamente il destino essenziale dell’uomo sulla terra132.

Il riferimento alla “decisione” sottolineato da Celan nel passo heideggeriano133 – scritto dopo più di sette anni dalla fine della guerra – non riguardava l’accezione corrente del “decidere”, nel senso della “messa in opera di una qualche particolare azione”; il significato heideggeriano si rapportava in tal caso, all’avvenire dell’essenza dell’essere umano avvolta dal pericolo di un annientamento del pensiero e nella marcatura di una cesura che ne tracciasse la separazione dal pensare metafisico, in direzione di un nuovo cominciamento. Nel 1959 il pensatore scriveva: Nell’era atomica che sta iniziando, un pericolo ancora più grave ci minaccia – e proprio quando pare scongiurato il pericolo di una terza guerra mondiale. Un’affermazione certamente singolare, questa, ma che resta tale solo fino a che non pensiamo. In che modo deve essere intesa questa frase? In questo modo: la rivoluzione della tecnica che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare, a incantare, ad accecare l’uomo, così che un giorno il pensiero calcolante sarebbe l’unico ad avere ancora valore, ad essere effettivamente esercitato. Quale grande pericolo si starebbe allora avvicinando? Si troverebbero accoppiati l’acume intellettuale più efficace e produttivo, che è proprio dell’invenzione e della pianificazione calcolante, e la completa indifferenza verso il pensiero, la totale assenza di pensiero. E allora? Allora l’uomo avrebbe rinnegato, avrebbe gettato via il suo carattere più proprio: la

– ora era lo stesso Celan a mostrare di esserne colpito». L’episodio raccontato da Baumann fa ulteriormente riflettere se si considera che l’invito a Todtnauberg il giorno dopo, giunse direttamente dal pensatore e Celan accettò senza riserve. Cfr. GERHART BAUMANN, Celan e Heidegger, pp. 20-21. Il saggio, volto ad analizzare gli incontri biografici fra Paul Celan e Martin Heidegger, appare in versione originale in GERHART BAUMANN, Erinnerungen an Paul Celan, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986, S. 59-79. 132 M. HEIDEGGER, Was heißt Denken?, S. 65; Che cosa significa pensare?, p. 126. 133 Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 110.

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sua essenza pensante. È necessario pertanto salvare l’essenza dell’uomo, è necessario tener desto il pensiero134.

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È nello iato fra la minaccia del «pensiero calcolante» e la «speranza di una Salvezza» dell’uomo, che si definisce il luogo di una cesura, nella marcatura di un «tener desto il pensiero». Nel pericolo di una «totale assenza di pensiero» inscritta nel destino del Dasein, si svela il senso della Salvezza del Dasein, nonché la torsione a un nuovo “cominciamento”. Questa speranza ne definisce la svolta a un nuovo senso del pensare come in-contro – dialogo silenzioso fra pensare e poetare – da cui prende avvio il senso della domanda speranzosa di Celan, illuminando di luce nuova l’incontro di Todtnauberg. Nel seguito della lettera alla moglie Gisèle, il poeta scrive: Poi, in macchina c’è stato un dialogo molto serio con parole chiare da parte mia. M. Neumann che ne è stato testimone, mi ha detto subito che per lui questa conversazione ha avuto un carattere epocale. Spero che Heidegger prenderà la sua penna e scriverà qualche pagina che faccia eco, anche avvertendo, nel momento in cui il nazismo risalga al potere135.

Il carattere «epocale» della conversazione a cui Neumann si riferisce136, si rivela in tutta la sua portata se accostato alla questione dell’epoca della 134 MARTIN HEIDEGGER, Gelassenheit, Neske, Pfullingen 1959, S. 27; tr.it. di Adriano Fabris, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1989, pp. 39-40. 135 Cfr. P. CELAN - G. CELAN-LESTRANGE, Correspondance, tome I, p. 550. 136 La testimonianza di Neumann in merito all’incontro di Todtnauberg è divenuta celebre per la sua presenza nel poema omonimo. Alla sua figura sono attribuiti i versi: «chi ci guida, l’uomo, / ascolta anche lui, //». Dalle testimonianze di Jean Bollack si apprende che Neumann si sentì lusingato per aver partecipato come uditore a quella conversazione e per essere stato citato dal poeta in Todtnauberg. In una lettera indirizzata a Celan del 17 ottobre 1967, Neumann ne evoca il ricordo: «”Non dimenticherò mai questa conversazione; probabilmente, conversazioni di questo tipo si producono una sola volta nel corso di una serie di decine di anni”. Egli aggiunge tuttavia, un riferimento più preciso agli eventi del passato, per quanto particolarmente vago – forse imbarazzato: “Ho fatto un esame di coscienza sul fatto di aver potuto assistere a questa conversazione; mi creda, cerco di continuare questo esame in me stesso”» . (JEAN BOLLACK, Il Monte della morte: il senso di un incontro tra Celan e Heidegger, p. 282). Nel seguito della lettera, Neumann si dice turbato per essere stato citato da Celan nel poema ed essendo stato chiamato implicitamente dal poeta alla parola, teme di non essere all’altezza del compito. Così, commenta ancora Bollack: «Sembra che il giovane chieda il permesso di ritirarsi e di sottrarsi alle conseguenze di una faccenda nella quale non voleva essere coinvolto». (ibi, p. 283). In seguito, fra Neumann e Celan na-

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tecnica e della modernità come manifestazione del ritrarsi dell’Essere nella storia della metafisica. Una questione che – al di là delle modalità esistenziali in cui venne affrontata137 – fu senz’altro al centro dell’in-contro di Todtnauberg.

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Nella lettera del poeta alla moglie Gisèle, emerge chiara l’esplicitazione di una conversazione in corso con il pensatore proprio su tali argomenti sullo sfondo di una comune cordialità che ne giustifica i toni della fiducia, a sua volta sorretta da una viva speranza: «Spero che Heidegger prenderà la sua penna e scriverà qualche pagina che faccia eco, anche avvertendo, nel momento in cui il nazismo risalga al potere». Parole che restituiscono all’ascolto il senso di un pericolo imminente altresì giustificato dalle riflessioni heideggeriane: Ma anche qui c’è nuovamente il pericolo che quanto in questo margine indeciso si prepara alla decisione volgendosi al dominio della terra intera138.

Il senso di allarmismo comunicato da questo passo – pur facendo eco alla “decisione” relativa al destino dell’Essere nell’avvenire storico dell’esserci – si dispone comunque, al senso di una preoccupazione storica. Un passo che ricevette tutto il consenso teorico di Celan nella contemporanea sollevazione di preoccupazioni relative alla singolarità del proprio destino sceranno una serie di incomprensioni che porteranno alla definitiva chiusura dei rapporti. 137 È ancora Baumann a comunicare il senso stridente delle atmosfere altalenanti che caratterizzavano gli incontri fra il poeta e il pensatore. A proposito di questa alternanza esistenziale, Baumann narra: «Nel frattempo gli incontri proseguirono senza mai interrompersi. Senza pronunciar parola al riguardo, Celan considerava cosa ovvia che Heidegger fosse presente a tutte le letture e incontri: Heidegger da parte sua non poteva fare a meno di ascoltare Celan, di accompagnarlo, di fargli avere i suoi incoraggiamenti e di riceverne. Gli premeva molto fare da guida a Celan per il paesaggio di Hölderlin, nella regione al tempo stesso delle sue origini; pensava a una visita della parte superiore della valle del Danubio, le regioni attorno al lago di Costanza e Hauptwil. La visita era prevista per quella tarda estate, alla quale Celan non doveva arrivare. Di tanto in tanto egli prendeva il poeta da parte, per conversare con lui sulle nuove correnti filosofiche francesi, su Camus, Althusser, Merleau-Ponty. Celan a Todtnauberg aveva scoperto in Heidegger il contadino, l’osservatore della natura e il mistico: in modo sempre più chiaro gli si disvelava il “carattere poetico del pensiero”. Lo stesso Celan amava a volte definirsi “contadino della Bucovina”, e così i due, su vie distanti, arrivavano sempre a essere vicini, senza che questo impedisse a Celan di uscire con espressioni di indignazione verso Heidegger». G. BAUMANN, Celan e Heidegger, p. 21. 138 M. HEIDEGGER, Was heißt Denken?, S. 65; Che cosa significa pensare?, p. 126.

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personale in rapporto alle persecuzioni dell’Olocausto. A fare leva sul senso persecutorio del proprio destino era dunque, in Celan, il costante timore di una rimonta del nazismo sul quale premeva anche la vicenda dell’“affare Goll”139, interpretata dal poeta come un’azione di antisemitismo nei suoi confronti. Il senso di persecuzione derivante da questa triste vicenda, abitava da anni la mente di Celan, ossessionato dal risveglio dello spirito hitleriano in Germania. Nelle carte preparatorie al Meridiano afferma:

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Il tono nazista sopravvive al vocabolario nazista; l’aria viziata nazista (Nazimief)140.

«L’aria viziata nazista…» tormentava senza tregua Celan, dominato da un senso di persecuzione che ne aveva compromesso l’equilibrio psichico, facendogli apparire l’affare Goll come una macchinazione diffamatoria, interpretata a sua volta – nella logica della metafisica dell’essere – come una delle manifestazioni sintomatiche del nichilismo all’epoca della tecnica. Nonostante le condizioni psichiche di Celan fossero in costante peggiora139 Si tratta dell’accusa di plagio ricevuta da Claire Goll – la vedova del poeta Yvan Goll – che nel 1951, dopo la morte del marito, decise di non fare più pubblicare le traduzioni di Celan (alcune delle quali già approvate quando Goll era ancora in vita), poiché a suo avviso risultavano troppo marcatamente celaniane. Precedentemente alla morte di Goll, i rapporti fra Celan e i coniugi Goll erano sempre stati soddisfacenti e di stima reciproca. Ecco perché il senso di questa vicenda verrà ricondotto dalla critica a motivazioni esclusivamente personali poiché sembra che la vedova Goll temesse che la fama e il talento di Celan, potessero offuscarne la memoria del marito. Claire Goll decise così di rifiutare il lavoro di traduzione di Celan per il quale non venne nemmeno retribuito, e di tradurre personalmente le poesie del marito. In seguito alla rottura di Celan con la vedova, le infamie si susseguirono nel corso degli anni Cinquanta fino a culminare nel 1960, nella pubblicazione di una lettera aperta di Claire Goll intitolata: Unbekanntes über Paul Celan – «Cose ignote su Paul Celan» nella quale Paul Celan veniva accusato di avere plagiato Yvan Goll nella raccolta giovanile di Celan Papavero e memoria. Le testimonianze pervenute sulla risonanza di questa lettera e sulla conseguente reazione di Celan – che interpretò l’atto come un vero e proprio oltraggio alla memoria dei suoi genitori uccisi nei campi di sterminio – fanno comprendere come da quel momento il poeta portasse su di sé il carico di un destino tragico, di un essere senza patria, destinato a percepire l’insieme del mondo letterario e delle sue macchinazioni, come un complotto nazista. Come afferma Barbara Wiedemann: «La vita di Celan resta marcata in maniera essenziale dall’affare Goll e senza spiegare quel che è successo, la sua opera non è realmente comprensibile». Per una trattazione completa e documentata dell’affare Goll, cfr. BARBARA WIEDEMANN (hrsg.), Paul Celan, Die Goll-Affäre. Dokumente zu einer ‘Infamie’, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2000. 140 Cfr. P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 682, S. 173.

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mento141, sarebbe del tutto semplicistico e approssimativo – in considerazione delle tensioni e delle implicazioni esistenziali sollevate da una ricerca teorica comune intorno al destino della metafisica dell’Essere – ricondurre l’effettivo motivo di distacco del poeta da Heidegger a ragioni puramente psichiche. Malgrado i continui ricoveri degli ultimi anni, Celan, nei rari momenti di lucidità, si mostrava ancora in grado di discernere il filosofo dall’essere umano, laddove, proprio nel condividerne gli intenti teoretici, svalutava al contempo il valore etico dell’uomo. Un anno dopo l’incontro di Todtnauberg, Celan scriveva:

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Heidegger: col Suo contegno (Haltung) indebolisce in maniera determinante il poetico e, oso supporre, il teoretico nella loro seria volontà comune di responsabilità142.

Parole di duro rimprovero nella severa asserzione di un “contegno” che – nel contemporaneo riconoscimento di un pensiero poetante carico di “seria volontà di responsabilità” – resituisce, senza riserve, la cruda realtà di una parola mancata in ambito esistenziale. Si è visto come sul versante ontologico di una prossimità fra pensare e poetare, Heidegger avesse risposto alla speranza del poema Todtnauberg nei termini di un’Inesprimibilità. Un approdo teorico che ridefinisce i termini del loro distacco, laddove questo non è rintracciabile in una mancata “parola a venire” del pensatore rispetto a un nuovo “cominciamento” attuabile cioè, sul piano del destino della storia della metafisica: in questo ambito la Parola è destinata ai cuori in una prossimità silenziosa; il suo “essere a venire” ne definisce intimamente il segreto della sua speranza. Tuttavia, è pur vero che se “la speranza di una Parola a venire” sposta il proprio accento sul versante della privazione, nel senso di una “parola mancata” in ambito esistenziale, la risposta diviene complessa da decifrare e la sua articolazione non si declina più nell’orizzonte ontologico della Parola, ma ne chiama in causa le determinazioni storiche della sua negazione

141 È noto che al tempo dell’incontro di Todtnauberg, Celan fosse già ricoverato nella clinica psichiatrica di Sant’Anna dal 13 febbraio 1967, dopo avere tentato il suicidio e dopo avere aggredito e cercato di uccidere la moglie Gisèle. In occasione di letture pubbliche e di incontri intellettuali come quello di Todtnauberg, gli veniva accordato il permesso di uscire. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 96. 142 P. CELAN, Microliti, p. 143.

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sollevando nella parola poetica di Celan quelle implicazioni esistenziali sottese alla sua rammemorazione143. Senza dubbio la ferita lacerante dell’Olocausto aveva lasciato una traccia indelebile nella lingua e nella vita di Celan144 e il peso costante del suo dolore ebbe parte determinante nei suoi comportamenti oscillatori e poco decifrabili verso il pensatore; ma nonostante le tensioni, resta pur vero che il colloquio (Gespräch) di portata «epocale» intorno al pensiero poetante – già in atto da diversi anni di frequetazione intellettuale – restava aperto su un’altra questione di portata storica per l’intera umanità. A illuminare questa riflessione sono alcuni scambi epistolari avvenuti dopo la prima pubblicazione di Todtnauberg, in edizione limitata il 12 gennaio 1968. Fu dopo questa uscita che Celan inviò a Heidegger una copia omaggio del poema. Pochi giorni dopo, Celan scriverà all’amico Franz Wurm per chiedergli consiglio sul fatto se sia il caso di mandare il poema Todtnauberg all’editore del Neue Zürcher Zeitung per la pubblicazione, oppure se sia meglio attendere prima una risposta dal pensatore: Devo darla a lui (l’editore)? Oppure attendere una parola da “quello della montagna (dem vom Berge)”?145

143 Si vedrà più avanti nel corso di questo lavoro, come l’opacità della risposta heideggeriana nei confronti di Celan, si articoli non tanto nell’aspetto dialogico di “conversazione” con la Parola dell’Essere, quanto nel suo accostamento alle determinazioni bibliche che il suo carattere silenzioso implica nel rinvio poetico alla tragica memoria della Shoah e alle sue implicazioni bibliche. 144 Una lingua marcata dal dolore e dalla contraddizione, poiché come afferma George Steiner: «era in quella lingua tedesca che i suoi genitori e milioni di ebrei come lui erano stati massacrati. Il fatto che fosse sopravvissuta dopo la Shoà e la coscienza che egli contribuiva ad arricchire il prestigio e l’avvenire, riempiva Celan di sensi di colpa, a volte di disgusto (si guadagnava stentatamente da vivere insegnando tedesco). Ospite saltuario e a malapena tollerato di sé stesso, Celan attraversò, cercandovi forse un rifugio, gravi crisi di disordine mentale, di Umnachtung, paragonabili a quelle di Hölderlin. Quasi tutti quelli di cui si fidava, a cui aveva concesso una certa intimità, si videro respinti, aspramente condannati perché non avevano saputo condividere interamente la sua angoscia, la sua disperata lettura della condizione da braccato che viveva l’ebreo. O per non aver abbracciato pubblicamente con sufficiente slancio, la battaglia di Celan contro le ridicole accuse di plagio (“il caso Goll”)». Cfr. GEORGE STEINER, La poesia del pensiero, p. 215. 145 La lettera a Franz Wurm è datata 24 gennaio 1968. Cfr. BARBARA WIEDEMANN (hrsg.), Paul Celan - Franz Wurm, Briefwechsel, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1995, S.130-131.

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Il senso di attesa per una “parola” appare qui inequivocabile. Quanto ai contenuti di quella “parola”, si rivela preziosa al riguardo, l’interpretazione di J.K. Lyon, in particolare rispetto all’analisi dell’espressione “quello della montagna” contenuta in questo passo. Sembrerebbe infatti che in questa locuzione risuoni qualcosa di sinistro. Lyon fa notare che “quello della montagna”, oltre a riferirsi a Heidegger e al luogo della Hütte situata fra le montagne, si richiamerebbe quasi sicuramente a un termine in voga nel periodo nazista: è infatti noto che il gruppo ristretto della Cancelleria del Terzo Reich si autodefinisse con l’espressione “quelli della montagna”, in allusione alla posizione privilegiata che permetteva loro di stare vicino a Hitler durante i suoi soggiorni in alta montagna nel suo Berghof, vicino al cosidetto Nido delle Aquile, nei dintorni di Berchtesgaden146. “Quello della montagna” alludeva dunque a un’attesa del poeta, dal tono evidentemente sarcastico poiché il contenuto era storico-politico. Ad avvalorare questa aspettativa sono ancora le parole speranzose di Celan alla moglie, pochi giorni dopo la visita a Todtnauberg: Spero che Heidegger prenderà la sua penna e scriverà qualche pagina che faccia eco, anche avvertendo, nel momento in cui il nazismo risalga al potere147.

Dunque, la conversazione (Gespräch) condotta sul piano ontologico del pensiero poetante veniva così ad attualizzarsi, rispetto alle sue implicazioni esistenziali, nella speranza di un’ulteriore apertura: “la parola a venire nel cuore” riguardava qui anche l’eventualità che Heidegger potesse rendere noto pubblicamente quel senso di “pericolo” che trovava la sua corrispondenza più “attualizzata” nella realtà storica del nazismo. Il rischio di una sua “rimonta al potere” rappresentava per Celan la traduzione storicamente determinata di quella “minaccia del pensiero calcolante”, cui il mondo – secondo il pensiero heideggeriano – era inesorabilmente esposto. Da quel piano del pensiero condiviso da entrambi, Celan si attendeva evidentemente che il pensatore avrebbe traslato sul piano attualizzato del presente il frutto teorico della loro conversazione in corso, rispetto a quel «pericolo» imminente che riguardava il destino «indeciso» dell’umanità nella dimensione metafisica delll’Essere148. In questi termini, il pensiero teoretico e la 146 Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, p. 175. 147 Cfr. P. CELAN – G. CELAN-LESTRANGE, Correspondance, tome I, p. 550. 148 «Nell’era atomica che sta iniziando, un pericolo ancora più grave ci minaccia – e proprio quando pare scongiurato il pericolo di una terza guerra mondiale. […] Quale grande pericolo si starebbe allora avvicinando? Si troverebbero accoppiati

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dimensione poetica in Heidegger esprimevano «una seria volontà comune di responsabilità»149. Nel movimento di sottrazione dell’Essere ad opera della tecnica, il pericolo più incombente era infatti rappresentato dal dominio della pianificazione calcolante, nella completa indifferenza verso il pensiero. L’oblio dell’Essere nell’epoca delle tenebre assumeva così il volto di una giustificazione teorica rispetto al destino (Geschick) e all’avvenire storico (geschichtlich) dell’Occidente, nelle sue espressioni più terribili. Un’articolazione teorica senz’altro presente nel pensiero di Celan che – in nome di un’onestà intellettuale – si sarebbe aspettato un atto pubblico da parte del pensatore, nella chiara esplicitazione di una presa di posizione nei confronti del nazismo. La “parola a venire” veniva così ad articolarsi sul piano esistenziale, nella speranza di una “parola pubblica” da parte di Heidegger e nella viva certezza che una presa di posizione di tale portata avrebbe senz’altro avuto un’eco molto ampia anche in Germania. A questa speranza Celan rimase aggrappato per qualche tempo, tanto da non ritenersi ancora pronto a pubblicare il poema Todtnauberg sul Neue Zürcher Zeitung. Il 30 gennaio 1968 Celan scriveva così, all’editore Werner Weber: Ho mandato una copia del poema a Martin Heidegger – se risponderà resta una questione. Ma credo che con una pubblicazione nel Neue Zürcher Zeitung – forse, nonostante tutto, prematura – interromperei l’immediatezza (Unmittelbarkeit) del discorso150.

Affiora dalle parole di Celan il chiaro timore di compromettere l’immediatezza (Unmittelbarkeit) del discorso con il pensatore. Un’esitazione che, nella consapevolezza di una precarietà – «se risponderà resta una questione», scrive il poeta –, attesta il presupposto di un dialogo già in corso con Heidegger. Non vi sarebbe stata infatti alcuna ragione di sperare se fra i due non si fosse instaurata una qualche sintonia, tale da far ritenere che una “risposta” sarebbe stata possibile. Una speranza che trovava spazio nell’articolazione del pensiero heideggeriano, laddove questo si rendeva vivo testimone di una seria responsabilità di cui Heidegger avrebbe dovuto – secondo il poeta – farsi storicamente carico. Celan evidentemente ne attendeva la restituzione attualizzata, laddove il pensiero avrebbe dovuto l’acume intellettuale più efficace e produttivo, che è proprio dell’invenzione e della pianificazione calcolante, e la completa indifferenza verso il pensiero, la totale assenza di pensiero […] ». MARTIN HEIDEGGER, Gelassenheit, S. 27; tr.it. L’abbandono, pp. 39-40. 149 P. CELAN, Microliti, p. 143. 150 J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger , pp. 187-188.

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Il grido e il silenzio

rendersi espressione di una preoccupazione universale e farsi portavoce – insieme alla poesia – di una responsabilità etica cui facesse eco, fra le tenebre della storia, la possibilità di Salvezza per l’intera umanità. Un’attesa testimoniata poeticamente dalla prima versione del poema Todtnauberg del 1968. Nell’edizione a tiratura limitata donata anche a Heidegger la speranza di una parola a venire (ein kommendes Wort) viene cantata così:

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ungesäumt kommendes Wort im Herzen151.

Una speranza nel cuore «per una parola a venire, senza indugi». Il termine un-gesäumt, – senza indugi – viene posto fra la fine di un verso e l’inizio di quello successivo. È prezioso osservare come il trattino posto fra “un” e “gesäumt”, costituisca qui nuovamente quella cesura simbolica di una contrarietà che si incide nel luogo di un-contro. La posizione della particella di negazione un- alla fine del verso ne sospende la musicalità, istituendo, nell’arresto, la riflessione sulla negazione. Sul bilico della negazione il poema si apre all’eventualità di un’attesa – nell’indugio (gesäumt) – che nel prefisso “un” (“senza”) restituisce il senso di urgenza: una parola a venire “senza indugi” è proposta nel poema in forma di possibilità “speranzosa”. Tuttavia, nel trattino che accompagna la particella di negazione un- posto alla fine del verso, viene comunicata tutta l’incertezza dell’eventualità che la “parola” di Heidegger possa anche non sopraggiungere. Dunque, la scrittura poetica, nella sua profonda aderenza alla storia – pur restando aperta senza alcuna esitazione (un- gesäumt), all’accoglienza del cuore (im Herzen) –, anticipa già, nella faglia del suo arresto, l’ambivalenza di un’attesa che verrà disattesa. Non è infatti un caso che soltanto due anni dopo la prima edizione di Todtnauberg, il termine un- gesäumt scompaia dall’edizione definitiva152. Un’eliminazione che nel poema assume il valore linguistico di un’amputazione al corpo della scrittura: esito poetico di una parola negata, delusione per una parola disattesa nel regno dell’esistenza. Eppure, nel silenzio espresso dalla negazione, il poema continua a trattenere l’integrità del Gespräch in corso con il pensatore: testimonianza eternamente viva di un enigma silenzioso. Così, Todtnauberg, al di là delle sue vissute determina151 Ibi, p. 188. 152 Mi riferisco alla versione definitiva di Todtnauberg pubblicata nella raccolta Lichtzwang, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 255.

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La torsione

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zioni, si dispone comunque all’accoglienza dell’enigma – eterno “messaggio in bottiglia” nel libero affidamento dei cuori:

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La parola in un poema è occupata solo parzialmente dai vissuti (Erlebnissen) dell’autore; un’altra parte viene occupata con vissuti dalla poesia; un’altra ancora resta libera, ossia disponibile (besetzbar)153.

Nell’orizzonte di una libera disponibilità (Besetzbarkeit) che restituisce al poema Todtnauberg l’integrità e la segretezza del suo enigma, le acquisizioni sull’ambivalenza di Celan e sull’opacità della risposta heideggeriana, seppur aleggianti nella sospensione di un rapporto destinato a restare irrisolto, offrono comunque all’interpretazione la possibilità di definire con più precisione i confini del loro in-contro. Una definizione che si traccia nel cuore della lingua, internamente al significante “in-contro”, nell’atto di un raccogliersi intorno al luogo simbolico di un’incisione – quella cesura della scrittura posta fra “in” e “contro”. Il significante in-contro si circoscrive così, nel regno di una problematicità articolandosi intorno al senso di una contrarietà, intesa come “contro”. Dunque, Celan “contro” Heidegger nella cesura di un in-contro che ne illumina nuovamente la linea di demarcazione. Nell’abitazione simbolica di una parola-contro, di un Gegenwort – per dirla insieme a Celan – si gioca la prossimità dell’in-contro fra pensare e poetare nell’atto di una torsione storica come risposta alla responsabilità di un destino (Geschick), ma con esiti esistenziali contraddittori (gegensätzlich) e affatto complessi da decifrare.

2.6. L’enigma di un affidamento Da una testimonianza di Hans-Georg Gadamer, che aveva discusso dell’incontro di Todtnauberg con Heidegger, apprendiamo che il pensatore avesse molto a cuore il dialogo con Celan154. Un colloquio che – pur nelle sue problematiche declinazioni personali – non mancò di elevarsi al piano del pensiero, configurandosi simbolicamente nella dimora indicibile del Gespräch: luogo silenzioso del dialogo fra pensare e poetare nella tutela storica di un’intima segretezza. È dunque nel “tu” del Gespräch che si racchiude la dimensione raccolta della Parola come enigma rivolto all’altro del poema, nella viva anticipazione di un segreto. Dai Microliti di Celan:

153 P. CELAN, Microliti, p. 45 (traduzione leggermente modificata) 154 Cfr. HANS-GEORG GADAMER - SILVIO VIETTA, Im Gespräch, Fink, München 2002, S. 82.

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Il grido e il silenzio

Gli enigmi non si sciolgono; si sciogliessero, non sarebbero tali155.

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L’enigma dunque, non si scioglie e non si risolve perché il suo mistero è racchiuso nel destino esistenziale del Gespräch così come evocato dalla radice etimologica del termine “destino” (Geschick): Geschick richiama qui, alla sua dimora storica di Geschichte, laddove l’enigma si svela nel creaturale come mistero di un dialogo fra pensare e poetare, assegnato dunque, alla sua destinazione nel regno del Dasein. Un segreto che, trasposto sul piano dell’in-contro fra il poeta e il filosofo – nonostante le tensioni costanti di un rapporto dai toni ambivalenti – è altrettanto destinato a restare intatto, sia in quelle implicazioni esistenziali156 che lo caratterizzano, sia nel tratto dialogico di quell’indicibilità tenebrosa dell’Essere che tanto li approssimava. Così Heidegger si riferiva al poetare di Hölderlin: Il detto della poesia e il detto del pensiero non sono mai uguali; a volte però sono la stessa cosa, quando cioè l’abisso che separa poesia e pensiero si spalanca in tutta la sua chiarezza e decisione. Il che può accadere se la poesia è alta e il pensiero è profondo157.

In un’apertura di rilkiana memoria è l’abisso (Ab-grund) che separa poetare e pensare: faglia profonda e disancorata che si dispone al loro incontro. Prossimità di una distanza che ne attesta la dimora espropriante: qui il poema si dispone all’attesa dell’enigma, nel luogo di un’intercapedine temporale riconducendosi dal suo «Ormai-non-più al suo pur-sempre»158 155 P. CELAN, Microliti, p. 89. 156 Nonostante le diverse occasioni di incomprensione e di tensione fra Celan e Heidegger, è doveroso rilevare che i loro rapporti restarono ininterrotti fino all’ultimo incontro nel 1970 – un mese prima della morte del poeta –, durante il quale Celan si irritò con Heidegger dopo averlo ascoltato nella ripetizione di un suo poema. Tuttavia, trascorso qualche giorno dall’episodio spiacevole, Celan scrisse all’amico Franz Wurm dicendo che la sua lettura inedita di Lichtzwang era andata piuttosto bene e che lui stesso aveva appreso molto dall’incontro poiché tutti i presenti (la signora Baumann, il Professor Baumann, il suo assistente e Heidegger) avevano ascoltato con grande attenzione e interesse la sua lettura (cfr. G. BAUMANN, Celan e Heidegger). Come si è già rilevato altrove, non è la prima volta che in Celan si verifichi un cambiamento di umore tale da offuscare ogni tentativo di chiarezza interpretativa. Si è infatti a conoscenza di altri fatti biografici che testimoniano un’analoga oscillazione di comportamento, come già riportato nell’episodio della foto all’Università di Friburgo così come in quello dopo l’incontro di Todtnauberg e, ancora una volta, dopo l’incontro amoroso con Ilana Shmueli a Gerusalemme. 157 M. HEIDEGGER, Was heißt Denken?, S. 9; Che cosa significa pensare?, p. 48. 158 Der Meridian, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 197. Sarà lo stesso Heidegger a sottolineare nella sua copia personale del discorso del Meridiano questo passo di Celan.

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La torsione

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– nell’anticipazione della sua segretezza. Ma nell’enigma è nuovamente la tensione di una speranza verso una parola a venire (kommendes Wort) che si staglia nell’aperto. L’apertura dell’abisso definisce qui il luogo di un in-contro segreto fra pensare e poetare. Nella loro cesura è l’esito di un ri-volgimento che si affida al tu come progetto di vita (Daseinsentwurf), esito esistenziale dell’affidamento dell’io all’Indicibile del poema, nella sua traduzione (Übersetzung) storica:

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Le poesie sono progetti esistenziali: il poeta vi modella la sua vita159.

Nell’aderenza dell’io al tu del poema si svela la cooriginarietà di io e tu nell’«essere-insieme trasparente» – già incontrato da Celan nell’analitca esistenziale – come enigma inesprimibile di un affidamento. Nell’abbandono a un segreto indicibile è la congiunzione di due mani che si uniscono: nuovo cominciamento di un pensiero poetante – folgore dell’Essere «lontano da ogni cielo» nell’abbandono di ogni dualità. Con il canto d’amore di Celan: ZU BEIDEN HÄNDEN, da wo die Sterne mir wuchsen, fern allen Himmeln, nah allen Himmeln: Wie wacht es sich da! Wie tut sich die Welt uns auf, mitten durch uns! Du bist, wo dein Aug ist, du bist oben, bist unten, ich finde hinaus. O diese wandernde leere gastliche Mitte. Getrennt, fall ich dir zu, fällst du mir zu, einander

Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 84. 159 PAUL CELAN, La poesia di Osip Mandelstam, in PAUL CELAN, La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, p. 56.

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Il grido e il silenzio

entfallen, sehn wir hindurch:

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Das Selbe hat uns verloren, das Selbe hat uns vergessen, das Selbe hat uns – – [A ENTRAMBE LE MANI, là dove mi sono cresciute le stelle, lontano da ogni cielo, vicino a ogni cielo. Come si veglia, là! Come si apre il mondo a noi, in mezzo a noi! Sei, dove è il tuo occhio, sei sopra, sei sotto, io trovo come uscire. Oh questo centro errante vuoto, accogliente. Separàti, cado in te, cadi in me, sfuggiti l’uno all’altro, guardiamo attraverso: Lo Stesso ci ha perduti, lo Stesso ci ha dimenticati, lo Stesso ci ha – –]

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La torsione

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Nel segreto innominabile della dimenticanza dello “Stesso” come “Medesimo” (das Selbe) – svelato nella chiusa del poema, dai segni grafici (– –) come aderenza della scrittura storica all’Inesprimibile – si attua l’unione di due mani. Atto di una congiunzione che tuttavia, separa: siamo «separàti», canta il poeta, definendosi nell’affidamento reciproco e destinale di un io che tocca in sorte a un tu – «io cado in te, tu cadi in me», – nell’abolizione di ogni dualità. La co-abitazione di un centro errante vuoto (leer) ma pur sempre accogliente (gastlich) si costituisce in un’approssimazione fra io e tu che ne definisce la distanza, possibile solo nell’attuazione di uno scavalcamento come medesimezza che li attraversa entrambi: «Lo Stesso/ ci ha/ perduti, lo/ Stesso/ ci ha dimenticati, lo/ Stesso/ ci ha – –». Nell’oblio della Medesimezza che attraversa io e tu, è consacrato l’affidamento al Tu come segretezza svelata nella storicità della scrittura poetica. Ancora più chiaro diviene ora il passo di Celan: Io parlo alternativamente nella prima e nella seconda persona; nel senso che nominando tanto l’uno quanto l’altro, io dico il medesimo (dasselbe)160.

Il soggetto del poema come attraversamento silenzioso di una Medesimezza, si dà così nella scrittura in quanto entità dialogica oltre ogni opposizione metafisica fra soggetto e oggetto. È l’esito di un viraggio nella tenebra, appartenente a una nuova soggettività, dove l’io s’inabissa nel tu del poema, deviando verso l’estraneità della Parola: Queste poesie sono le poesie di uno che percepisce e osserva, uno che volge la sua intenzione a quanto appare, lo interroga e gli parla: esse sono dialogo. Entro lo spazio di questo dialogo si costituisce il soggetto cui è rivolto il discorso, esso si rende presente, si raggruma intorno all’io che gli rivolge la parola e lo nomina. Ma in questa presenza, ciò che attraverso la nominazione e l’interlocuzione è diventato praticamente un Tu, introduce la propria alterità ed estraneità161.

Nello statuto del dialogo si costituisce dunque, la nuova soggettività del poema che, nella consegna alla sua nominazione, «è diventato praticamente un Tu». Nella torsione di un viraggio nel regno del creaturale è lo svelamento della sua estraneità come segretezza di un’alterità. Un affidamento reso possibile dalla nominazione, nella creaturalità della scrittura

160 Cfr. P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, (Abschn. 31a) n. 34, S. 64. 161 P. CELAN, La poesia di Osip Mandelstam, p. 49.

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Il grido e il silenzio

poetica, laddove la soggettività tradizionale viene superata, scavalcata in nome di un Tu: piega storica di un’apertura abissale, «disponibilità» creaturale all’enigma del poema. Con le parole di Celan:

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-i- Disponibilità (Besetzbarkeit) La forma – vuota forma-cava (Leer Hohl-form), – del poema, è il cuore del poeta in attesa del poema162.

Il cuore del poeta si istituisce qui come luogo utopico e invisibile del dialogo per eccellenza, spazio vuoto (leer), dalla forma cava (Hohl-form), in attesa di essere riempita, occupata (besetzt) da una parola a venire nel cuore (kommendes Wort im Herzen)… La disponibilità (Besetzbarkeit) all’evento non indica, dunque, soltanto l’evenire (ereignen) come accadimento del poema nella sua singolarità e unicità, ma il senso ultimo della sua “data” è racchiuso altresì, nel dono anticipato della sua attesa. Disponibilità del cuore alla segretezza: il Tu è già donato «ancor prima che il poema sia giunto». Con le parole di Celan, intorno al poema dialogico163: In altre parole: il poema non è attuale, ma piuttosto attualizzabile. Ciò significa, anche temporalmente, la “disponibilità” (Besetzbarkeit) del poema: il Tu, al quale esso si rivolge, è già donato al poema nel cammino verso questo Tu. Il tu è (ist) qui, ancor prima che il poema sia giunto. [Anche questo è progetto d’esistenza (Daseinsentwurf)]164.

“L’essere già qui (da) del tu” richiama, nella sua disponibilità (Besetzbarkeit), all’apertura di un’attesa, all’abitazione poetica di uno spazio inaudito verso il quale il poema si mette in cammino. Nel tu donato è l’ultimo soffio vitale che si svela nel “ci” (da) dell’Esserci come disponibilità del «cuore del poeta» – nell’anticipazione della morte quale esperienza della totalità d’essere nel poter-essere-tutto nell’Aperto165. L’esser-gettati nella morte del Dasein si traduce (übersetzt) qui, nella disponibilità (Besetzbarkeit) estrema del cuore del poeta all’attesa del dono, come viva anticipazione di un segreto. Ancora con Celan:

162 Cfr. P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 777, S. 188 163 Mi riferisco alla sezione intitolata Il poema dialogico appartenente alle carte preparatorie del Meridian, in P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, S. 142-148. 164 Cfr. P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 490, S. 142. 165 Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, S. 251; Essere e tempo, p. 306.

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La torsione

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«Il poema attende (= tiene aperto) il suo assente-a venire e perciò prossimo – Tu166.

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Nell’invisibilità del cuore è così racchiuso il segreto del Tu come «speranza di una parola a venire», un’attesa che si costituisce nella sua assenza (abwesendes-kommendes Du). In una dinamica di allontanamento e avvicinamento è l’atto abbandonato del poetare come disponibilità dialogica al pensiero. Un approdo teorico che trasposto sul piano della singolarità dell’esistenza nell’in-contro fra Celan e Heidegger, ha il merito di spostare l’attenzione dal senso di una mancata parola del pensatore al poeta, verso quello dell’enigma come mistero dell’in-contro fra poetare e pensare. L’opacità dell’atteggiamento di Heidegger – fonte inesauribile di dubbi e perplessità esistenziali – declina qui, verso il silenzio di un’Indicibilità, cedendo il passo alla questione teorica in gioco fra il filosofo e il poeta: la speranza (Hoffnung) del poeta di una parola-a-venire (kommendes Wort) si circoscrive in tal senso, alla disponibilità del suo cuore come avvertimento di un dono assente-a venire, in quanto prossimo “tu”. Nel regno di questa apertura si svela così il senso silenzioso del loro In-contro, attualizzabile utopicamente in quella quella “contrada” definita poeticamente, sia da Celan che da Heidegger, come Gegend. Un termine che, nella riflessione heideggeriana, si riferisce a quella regione utopica di un in-contro fra pensare e poetare167 già indicata da Celan «alla luce dell’utopia»168, nella sua ricerca topologica verso il «Meridiano»: Cerco la contrada (Gegend) da cui vengono Reinhold Lenz e Karl Emil Franzos, che mi si sono fatti incontro sia sulla strada percorsa fin qui, sia in Georg Büchner. E cerco anche, giacché mi ritrovo di nuovo qui, il luogo della mia propria origine169.

166 «Das Gedicht wartet (= steht offen) auf sein abwesendes – kommendes und damit künftiges – Du» Cfr. P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 457, S. 136. 167 Il termine Gegend indica sia in Celan che in Heidegger, la circoscrizione della dimensione utopica di un in-contro. In particolare, nell’opera heieggeriana In cammino verso il linguaggio, il termine Gegend indica la regione del farsi-incontro fra pensare e poetare. 168 P. CELAN, GW, Bd. III, S. 202. 169 Ibidem.

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Il grido e il silenzio

Nella sua copia personale del discorso del Meridiano, Heidegger sottolinea in questo passo di Celan la parola Gegend e annota a margine170: «In cammino verso il linguaggio 1959», alludendo alla quarta sezione del testo intitolata L’essenza del linguaggio, dove il pensatore si mette in cammino verso la Parola nella contrada (Gegend) dell’Essere, quella regione utopica e silenziosa in cui si dispiega la vicinanza fra la poesia e il pensiero171. Ancora con Celan in riferimento alla regione come Gegend, nell’approdo topologico al Meridiano:

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Signore e Signori, trovo qualcosa che mi consola anche un po’ del fatto di essermi messo alla Loro presenza, su questa strada impossibile, su questa strada dell’impossibile. Trovo ciò che unisce e ciò che può avviare il poema all’incontro172.

Nell’orizzonte dell’Impossibile, l’immagine di un “meridiano” che unisce e che ritorna a se stesso (zurückkehrendes)173, rimanda nuovamente alla contrada (Gegend) heideggeriana: Lei parla di una“contrada”, in cui tutto ritorna a se stesso (zu sich zurückkehrt). […] E la magia di questa contrada è proprio il dispiegarsi della sua essenza, il suo farsi-incontro174.

È dunque nella «magia della contrada» che si attua lo svelamento dell’enigmaticità di un tu già donato. Nel dispiegamento del suo tornare a sé stessa come in un “meridiano”, è l’atto di una torsione silenziosa che va in-contro alla disponibilità del poeta. La sua traduzione (Übersetzung) esistenziale è quella di una tensione “disponibile” che si ri-volge nell’attesa, all’anticipazione di una risposta. In questo colloquio (Gespräch) oltre ogni opposta dualità, è custodito il segreto dell’in-contro fra pensare e poetare nella sparizione del soggetto metafisico come fondamento del dialogo. Ancora con Celan: 170 Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 164. 171 Cfr. M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 159-216; In cammino verso il linguaggio, pp. 127-171. 172 P. CELAN, GW, Bd. III, S. 202. 173 «Trovo qualcosa che è – come la lingua – immateriale, ma planetario, terrestre, qualcosa di circolare, che ritorna a se stesso (zurückkehrendes) attraversando entrambi i poli e facendo questo interseca – è divertente! – persino i tropici – : trovo… un Meridiano». Cfr. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 202. 174 M. HEIDEGGER, Gelassenheit, S. 40-41; L’abbandono, p. 53.

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Interrogare, rivolto a un partner di colloquio (Gesprächspartner) silenzioso il cui silenzio spinge a interrogare oltre175.

Nel Gespräch del poema, in un corpo a corpo con l’ultimo soffio di una Medesimezza innominabile, il vero soggetto del poema è “tu”, ma la parola poetica come scrittura che «parla sotto l’angolo d’incidenza della sua creaturalità»176 si fa Nessuno, ritirandosi come voce (Stimme) nella viva restituzione storica di un enigma che si fa dono di una vibrazione sonora nel suo muto ascolto:

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In ogni poema la lingua attende come voce il sonoro-senzavoce (das Sitmmlos-stimmhafte) del poema – = il Chiamare (Anrufen)177.

La sonorità di un appello, di un Chiamare afono – cui il poeta si dispone all’ascolto – si trova così racchiusa nella “risposta” storica della parola poetica come scavalcamento di ogni dualità. Con Marina Cvetaeva, poetessa amata da Celan: Tutta l’arte non è che risposta. Così nel Festino in tempo di peste, l’arte ha risposto ancora prima che io domandassi, mi ha tempestato di domande. Tutta la nostra arte è nel riuscire (fare in tempo) a contrapporre ad ogni risposta, finché non si è ancora dileguata, la nostra domanda. Proprio questo continuo scavalcarci delle risposte è l’ispirazione178.

Nello scavalcamento della risposta in relazione alla dimensione dell’ascolto come ispirazione, risuona nuovamente la disposizione (Besetzbarkeit) del soggetto all’avvertimento di un dono. Una posizione esistenziale che, nella propria aderenza alla dimensione dell’ascolto, rende possibile un accostamento fra linguaggio poetico e linguaggio psicanalitico in quel campo del pensiero dove la parola si fa portatrice di un discorso proveniente dall’esilio dell’Altro. Nella trattazione del talento artistico in rapporto alla vocazione poetica, Freud179 – dopo aver consegnato l’essenza del talento dell’artista all’inac175 176 177 178 179

P. CELAN, Microliti, p. 49. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 197. Cfr. P. CELAN, Der Meridian. Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 508, S. 145. M. CVETAEVA, Il poeta e il tempo, p. 82 Cfr. SIGMUND FREUD, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, in ID., Gesammelte Werke, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1940-1950; Opere, a cura di Ce-

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Il grido e il silenzio

cessibilità della ricerca psicanalitica – suggerisce un’apertura di senso, laddove il termine tedesco Begabung, inteso come “talento”, offre la possibilità di evocarne il suo significato etimologico di “disposizione” e altresì di “dono” (Gabe), ovvero quella stessa Parola silenziosa che nell’ambito della vocazione poetica si traduce nella disposizione (Begabung) all’abbandono, propria all’ispirazione poetica180. Ispirazione possibile dunque, solo in virtù di una disposizione (Begabung) alla domanda che, nell’ascolto di una Parola indicibile ed esiliata, si dispone allo spaesamento come esposizione alla risposta storica:

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Giacché udire, per il poeta, è già rispondere, e rispondere181.

La dimensione poetico-esistenziale propria alla storicità della parola svela l’esito della torsione laddove – per dirla ancora con Kafka – la vita del soggetto si dispiega nel luogo in cui lo scritto emerge dalla piega, cioè in quel varco aperto dall’ascia, dove il parlante si dispone – «nel segreto dell’in-contro» – all’ascolto di un appello. L’appello, il dono silenzioso, è qui interrogazione, provocazione di una parola che risale le crepe del morire per ri-volgersi alla vita, luogo storico di una torsione cui il cantore si volge (sich wendet) per esserne abitato poeticamente: il poeta si fa tutt’uno con il poema nello scandalo di un’appartenenza che disorienta, vissuta in un territorio spaesante, poiché dimora dalla quale l’uomo è attratto nel costante avvertimento di un’espropriazione.

sare Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1976-1987, vol. 6, pp. 213-284. 180 Il rinvio poetico di questa acquisizione relativa alla “vocazione” del poeta è offerto dalla mirabile lirica di Hölderlin Dichterberuf (cfr. FRIEDRICH HÖLDERLIN, Sämtliche Werke. Große Stuttgarter Ausgabe, hrsg. von Friedrich Beissner und Adolf Beck, J. G. Cotta, Stuttgart 1943-1974, Bd. IX, S. 146; tr. it. Le liriche, a cura di Enzo Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993, p. 448), dove, a mio avviso, il termine Beruf si articola sia intorno al significato di “professione”, intesa cioè come mestiere del poeta nel suo “fare creaturale” di “artigianato” (Handwerk) – ovvero nei termini in cui viene elaborato da Celan nella lettera a Hans Bender (cfr. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 77) – sia intorno a quello di “vocazione” come sacra disposizione del poeta alla risposta esistenziale di una Chiamata del Divino. 181 M. CVETAEVA, Il poeta e il tempo, p. 105

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3. L’UNHEIMLICHE

Ciò che si schiude all’uomo nell’esperienza ambivalente della disappartenenza è molto vicino al senso di quanto Freud ha rintracciato nel termine Unheimliche, il perturbante. Se l’abitazione espropriante del verso poetico apre il poema alla domanda sul vissuto esistenziale – cioè in quello spazio teorico che definisce la psicanalisi come letteratura –, mi sia concesso un accostamento dell’analisi etimologica del termine tedesco operata da Freud con quanto afferma Celan a proposito del poema come luogo in cui risiede l’Unheimliche: Forse – è solo una domanda – forse, la Poesia come l’Arte raggiunge assieme a un Io dimentico di sé, quell’alcunché di perturbante (Unheimlichen) e di estraneo (Fremden) e si rende – ma dove? Ma in che luogo? Ma con cosa e in quanto che cosa? – si rende nuovamente libera?1.

Libertà della poesia nell’affioramento segreto di un senso che è tale solo nell’affrancamento di un «Io dimentico di sé» straniato da sé e diretto a un tu che lo percepisce. Un approdo teorico possibile solo alla luce di una nuova soggettività oltre ogni dualità, nell’orizzonte poetico di un Tu già donato. Con l’abolizione del soggetto metafisico, nel totale affrancamento dall’assetto tradizionale di soggetto e oggetto, il pensiero poetante si trova a dimorare in un luogo privo di circoscrizioni, abissale (abgrundlich), di assoluta libertà. La disponibilità (Besetzbarkeit) come apertura del poeta al tu del poema, ne evoca la sua trasposizione psicanalitica, laddove Freud vede l’istanza psichica e cosciente dell’Io, dominata inconsciamente dall’Es2. Con Celan, citando Freud: Freud, Il disagio (Unbehagen) S. 49: “La scrittura è originariamente la Lingua dell’assente” 1 2

Der Meridian, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 193. Cfr. SIGMUND FREUD, L’Io e l’Es (1923), in, Opere, vol. 9, pp. 475-520.

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Il grido e il silenzio

[…] Nel poema, e il poema è, in quanto “scrittura, “Lingua di un assente”, ti si avvicina un assente, che si avvicina [più] assente3.

È l’attestazione psicanalitica di un dialogo con il silenzio dell’inconscio: l’affidamento del soggetto all’Altro assente (Abwesenden) come Es, si costituisce in un «proiettarsi oltre sé per trovare se stessi», nell’ascolto di un tu. Ancora insieme a Paul Celan:

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un proiettarsi oltre sé per trovare se stessi, una ricerca di se stessi. Una sorta di rimpatrio (Heimkehr)4.

In questo passo del Meridian Celan utilizza il termine Heimkehr, indicando nel poema il luogo di una progettualità esistenziale: nel percorrimento di una via-sviamento – “nell’avvicinamento di un Assente” – si svela segretamente un senso dal quale si diparte la via per il “rimpatrio” (Heimkehr)5. Il significato del sostantivo Heim come casa, “il familiare”, diventa interessante se accostato all’analisi condotta da Freud sul termine heimlich. Procedendo dal significato proprio al suo uso comune, inteso cioè come “ciò che è intimo e familiare”, Freud scopre che heimlich nelle sue diverse sfumature di significato, ne ha una identica al suo opposto. Dal dizionario dei fratelli Grimm, il professore viennese rileva che: «Dal significato di “natale” (heimatlichen), domestico (häuslichen) si sviluppa inoltre il concetto di sottratto agli occhi estranei, celato (verborgen), segreto (geheimen)» 6. Ciò che allora è familiare e intimo (heimlich), pare qui sfociare nel suo rovesciamento come nascondimento e segretezza. Freud sottolinea poi che, se le cose stanno in questo modo, non si spiega il motivo per cui il prefisso “un”, che nella lingua tedesca ha il valore di negazione, vada ad unirsi al termine heimlich, dal momento che quest’ultimo dovrebbe già contenere un’ambivalenza di significato. Si scopre così che il termine Unheimlich contiene una doppia valenza semantica, una sorta di ambiguità etimologica. Ecco perché il termine Unheimliche – dove il valore 3

4 5 6

«Freud. Unbehagen S. 49: “Die Schrift ist urprungl. Die Sprache des Abwesenden”. […] . Im Gedicht, und das Gedicht ist als Schrift, “Sprache eines Abwesenden”, tritt ein Abwesender an dich, den [noch[ Abwesenderen, heran […]». In questo passo Celan fa riferimento a un testo di Freud abbreviandone il titolo di una famosa opera: Das Unbehagen in der Kultur (Il disagio della civiltà). Cfr. P. CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 458, S. 136. Der Meridian, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 201. Cfr. ibidem. Cfr. SIGMUND FREUD, Il perturbante, in Opere, vol.9, p. 87.

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L’Unheimliche

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oppositivo espresso dal prefisso un dovrebbe semplicemente indicarne la negazione – significa con Schelling «tutto ciò che dovrebbe restare segreto, nascosto e che invece è affiorato»7. La constatazione di questa scoperta svela che il termine Unheimliche implica una negazione, non di ciò che è noto e familiare (heimlich), bensì della segretezza, ossia una negazione del suo nascondimento. Si evince così che un movimento di nascondimento e affioramento appartiene all’Unheimliche. Laddove il termine heimlich agisce semanticamente in un moto di avvicinamento rispetto a ciò che è noto e familiare, esso, subitamente, se ne allontana lasciando segretamente il posto a qualcos’altro. È in questo “qualcos’altro”, come effetto di un arretramento, che si racchiude il senso del prefisso un, lasciando affiorare, nello svelamento, l’accesso a una dimensione segreta (heimlich). Il velo si alza, si ripiega su se stesso e si “svela”. Svelandosi, si scopre. Scoprendosi, genera una “scoperta”: la scoperta colpisce e crea spaesamento. Come afferma Benjamin: «I doni devono colpire chi li riceve tanto profondamente da spaventarlo»8.

3.1. Una dimora estraniante Dallo squarcio creato da un colpo “spaventoso” risuona nuovamente l’eco dell’ascia kafkiana, risonanza lontana di quell’evento (Ereignis) sotteso al percorso di questo lavoro. Nell’arretramento dell’ascia, la sua lama riemerge, prendendo congedo dal varco tracciato nelle profondità del “mare ghiacciato che è in noi“. Ne affiora la traccia indelebile di un evento dirompente: un poema, un libro, una parola mai udita fino a quel momento... La sua voce giunge come dono, erompendo da un doppio movimento di velamento e svelamento: è questo il luogo dello “spavento”, accesso a un’inquietudine profonda dove si è segretamente svelato lo heim, il “familiare”, la casa, dimora originaria del nostro “romanzo familiare”. Con le parole di Freud: il perturbante (Unheimliche) è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare9.

7 8 9

Ibidem. WALTER BENJAMIN, Einbahnstrasse, in Gesammelte Schriften, Bd. II, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1955, S. 580; Strada a senso unico, a cura di Giulio Schiavoni, Einaudi, Torino 2006. Cfr. S. FREUD, Il perturbante, p. 82.

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Il grido e il silenzio

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Il senso del prefisso ‘un’ si riferisce allora all’evento di una parola estranea (Unheimliche) appartenente a quel familiare che è stato rimosso. Il movimento di arretramento dell’ascia kafkiana lascia così il posto al ricordo spaesante di ciò che era stato dimenticato. La dimora del soggetto, uscendo dal suo nascondimento, si lascia rammemorare come dono, nell’atto destinale di una scoperta spaesante: la nostra casa (Heim), pur essendo luogo del nostro dimorare, non coincide con il conosciuto (heim) e il consueto. Così cantano alcuni versi di Stefan George: «là, nel focolare (Herd), non dimora la gioia (eine Freude wohnt dort nicht)»: Mein Herd ist gut, mein Dach ist dicht. Doch eine Freude wohnt dort nicht. Die Netze hab Ich all geflickt Und Küch und Kammer sind beschickt10. [Buono è il mio focolare, sicuro è il mio tetto, Eppure non vi dimora la gioia. Le reti ho tutte rammendate Camera e cucina sono sistemate.]

Versi stridenti di un’inquietudine profonda che nel pensiero heideggeriano si articolano nuovamente intorno all’etimologia della parola “dono”, resa dal termine Schickung, ossia “destinazione”, legata etimologicamente alla parola Geschick (destino) nella sua derivazione dal verbo schicken che «significa originariamente preparare, ordinare, mettere qualcosa al suo posto, quindi anche disporre (einräumen), assegnare, indirizzare (einweisen). Sistemare (beschicken) una casa, o una camera, significa metterla nel giusto ordine, tenerla ordinata e ben disposta»11. Ma il canto di George, nell’atto di una rassicurazione, emette una nota stonata: «Eppure non vi dimora la gioia», un senso di estraneità (Unheimliche) pervade la nostra casa; per un verso ci spaventa nel suo essere “altro” e, al contempo, in quanto dimora originaria, ci appartiene e ci attrae. Nell’attrazione di un ordine apparente che crea estraneità perturbante, irrompono nuovamente le parole creaturali di Celan: «La camicia di forza della comodità»12. Nella sinistra sicurezza del familiare ha dunque voce qualcosa di inquietante «che estromette dalla tranquillità». Con il pensiero di Heidegger: 10 11 12

Si tratta di una strofa della poesia Seelied (Canto del mare) commentata da Heidegger nel testo Der Satz vom Grund. M. HEIDEGGER, Der Satz vom Grund, S. 91; Il principio di ragione, p. 110. Ibidem P. CELAN, Microliti, p. 135.

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L’Unheimliche

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Ma noi non consideriamo l’inquietante (das Unheimliche) nel senso di ciò che impressiona la nostra sensibilità. Noi consideriamo l’inquietante (das Un-heimliche) come quello che estromette dalla “tranquillità” (aus dem “Heimlichen”), ovverossia dal nostro elemento (Heimischen), dall’abituale, dal familiare, dalla sicurezza inconcussa. Ciò che è insolito, non familiare (das Unheimische), non ci permette di rimanere nel nostro elemento (einheimische sein)13.

L’Unheimliche si riconduce dunque in Heidegger, non tanto a un’impressione del soggetto, quanto piuttosto a qualcosa che lo «estromette» dalla sua dimensione più familiare, costringendolo a uscire dai confini rassicuranti della “propria casa” e sbalzandolo fuori dalla “quiete” che il focolare gli garantisce. Nell’atto dell’abitare come contatto con il familiare della “regola quotidiana prestabilita” è infatti inevitabile l’in-contro con lo spaesante che sporge, impedendo al soggetto di padroneggiare la sua dimora e di sentirla completamente come propria. Anche l’analisi teorica di Jacques Lacan in relazione al perturbante freudiano richiama l’attenzione sul termine Heim, articolandone il significante in relazione alla casa dell’uomo, dimora che tuttavia, «è situata nel luogo dell’Altro14». Elaborando teoricamente il concetto di estraneità nel pensiero di Freud – svelato dal complesso rapporto tra Heim e Unheim – l’indagine di Lacan si incentra sulla trasformazione della struttura stessa della “casa” intesa come labirinto di specchi, dove il soggetto è sempre situato paradossalmente altrove rispetto al luogo in cui si vede e si pensa. Il suo dimorare si precisa in un gioco di scarti e di spostamenti dove l’immagine in cui il soggetto generalmente si identifica – e che ritiene di padroneggiare – si svela in una sorta di doppiezza che lo cattura, pur essendo in realtà la dimora della sua assenza: L’uomo trova la propria casa in un punto situato nell’Altro, al di là dell’immagine di cui siamo fatti, e questo luogo rappresenta l’assenza in cui siamo. Supponendo – cosa che accade – che essa si riveli per ciò che è: la presenza altrove che rende questo luogo un’assenza, allora essa è la regina del gioco. Essa si impadronisce dell’immagine che la supporta, e l’immagine speculare diviene l’immagine del doppio, con l’estraneità radicale che comporta, e, per impiegare

13 14

MARTIN HEIDEGGER, Einführung in die Metaphysik, Niemeyer, Tübingen 1953, S. 115-116; tr.it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1986, p. 159. Cfr. JACQUES. LACAN, Il Seminario. Libro X, L’angoscia 1962-1963, a cura di Jacques-Alain Miller e Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007, p. 52.

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Il grido e il silenzio

dei termini che assumono il loro significato dell’opporsi ai termini hegeliani, facendoci apparire come oggetto ci rivela la non-autonomia del soggetto15.

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L’immagine speculare del proprio corpo in cui l’Io normalmente riconosce se stesso nella percezione illusoria di un’unità, restituisce al soggetto il senso di un disorientamento: il suo nucleo si scinde, va in frammenti. La rappresentazione si sfalda e l’oggetto in essa contenuto libera una dimensione di estraneità: «la casa dell’uomo è situata nel luogo dell’Altro», in quella dimensione del linguaggio che è registro del simbolico, rete di significanti che precede e attende il soggetto. Una dimora in cui l’«Io è dimentico di sé», come affermava Celan16 – ma dove esso, tuttavia, si posiziona circoscrivendosi in un luogo che di fatto non c’è se non come assenza ed estraneità. Di nuovo con Freud: L’Io non è padrone in casa propria17.

Ed è in luogo di questa estraneità dell’Io che l’ovvietà del sentirsi-acasa-propria perde la sua “familiarità”, nello spaesamento angosciante di «un’intimità quotidiana che si dissolve». Con il pensiero di Heidegger: Nell’angoscia ci si sente spaesati (unheimlich). […] L’angoscia, al contrario, va a riprendere l’Esserci dalla sua immedesimazione deiettiva col “mondo”. L’intimità quotidiana si dissolve. L’Esserci resta isolato, ma tuttavia come essere-nel-mondo. L’in-essere assume il “modo” esistenziale del non-sentirsia-casa-propria. A null’altro si allude quando si parla di spaesamento18.

3.2. La lingua luttuosa dell’amore Ed è nei termini di questo spaesamento che i versi d’amore della poesia celaniana In Ägypten, dedicati a Ingeborg Bachmann19, testimoniano un’estraneità familiare (Unheimliche) sentita come Altra, espressa con le parole di ciò che inquieta e spaventa poiché vissuta nel luogo di un affidamento 15 16 17 18 19

Ibi, pp. 52- 53. Der Meridian, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 193. Cfr. SIGMUND FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, vol. 8, p. 446. Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, S. 188-189; Essere e tempo, pp. 236-237. La poesia venne inviata da Celan alla Bachmann nell’anno 1948, durante il periodo della loro relazione viennese, come dono per il ventiduesimo compleanno della poetessa. Cfr. INGEBORG BACHMANN, PAUL CELAN, Herzzeit. Briefwechsel, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2008, S. 7.

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L’Unheimliche

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all’Altro avvertito come spossessamento silenzioso e perturbante nell’incontro amoroso20. La sua dimora appartiene a una familiarità intollerabile ed estranea (fremd), incisa in una lingua (Sprache) che è quella materna pur essendo “lingua degli assassini”21. Non si dimentichi infatti che la lingua tedesca, oltre ad essere la lingua materna, rappresenta per Celan quella dimora veritiera22 in cui viene alla luce il nodo di articolazione dolorosa fra l’amore e la morte della madre uccisa in un campo di concentramento tedesco in Ucraina. Tale scissione spaventosa e originaria, incisa nello stesso destino della lingua-madre, provoca, nella sua insostenibile paradossalità, una sospensione dal mondo e dalla vita; uno iato esistenziale che svela l’incapacità di abbandonarsi alla dimensione amorosa se non nella concessione ad un amore impossibile, segnato a sua volta dallo spaesante incontro con un Altro luttuoso. Ascoltiamone i versi: IN ÄGYPTEN Du sollst zum Aug der Fremden sagen: Sei das Wasser. Du sollst, die du im Wasser weißt, im Aug der Fremden suchen. 20

21

22

Rispetto alle risonanze ebraiche evocate dalla poesia In Ägypten è interessante rilevare come nell’Antico Testamento i termini “Egitto” (Ägypt) e “straniero” (Fremd), vengano entrambi tradotti in lingua ebraica con la parola Mizraim. Ciò è probabilmente da attribuire al fatto che Mizraim, come antico nome biblico dell’Egitto, o terra dei discendenti di Ham, significhi anche terra straniera. Nei racconti della Genesi l’Egitto è infatti indicato come luogo in cui il popolo di Israele vive da “forestiero” (Genesi 47,4). A ciò si aggiunge il fatto che la parola “Ham” nelle Scritture corrisponde all’ebraico Kemt, ovvero terra di Kemt o “terra nera”, indicando nel colore “nero” la stretta correlazione con lo stanziamento degli ebrei dalla “pelle scura”, ai tempi della schiavitù, in terra egiziana. Suona terribile come una profezia la Lamentazione: «La nostra pelle è nera come un forno a causa della terribile carestia» (Lamentazioni 5:10). Non ultima la testimonianza resa dalla poesia di Celan Terra nera (Schwarzerde), i cui primi versi cantano: «Terra nera, nera/ terra, tu, madre/delle ore/ disperazione», in Niemandsrose, P. CELAN, GW, Bd. I, S. 241. Riguardo al rapporto irrinunciabile fra la parola poetica di Celan e la lingua tedesca come “lingua degli assassini”, si rivela preziosa una riflessione del poeta Zanzotto: «Ma sebbene tutto il suo lavoro si fosse svolto a stretto contatto con le più varie forme di sperimentalismo, anche col più profanizzante, favorito dal suo aver voluto Parigi come città di elezione per la sua vita quotidiana, egli aveva dimora esclusiva in una sua fedeltà incatenata a una Parola che, per di più, si configurava per lui nella materna/assassina lingua tedesca». ANDREA ZANZOTTO, Per Paul Celan, in PAUL CELAN, Poesie sparse pubblicate in vita, a cura di Dario Borso, con un saggio di Andrea Zanzotto, nottetempo, Roma 2011, pp. 144-145. «Non si può esprimere la verità che vi è propria se non nella lingua materna: in una lingua straniera, il poeta mente». Cfr. I. CHALFEN, Paul Celan. Eine Biographie seiner Jugend, S. VIII.

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Il grido e il silenzio

Du sollst sie rufen aus dem Wasser: Ruth! Noemi! Mirjam! Du sollst sie schmücken, wenn du bei der Fremden liegst. Du sollst sie schmücken mit dem Wolkenhaar der Fremden. Du sollst zu Ruth und Mirjam und Noemi sagen: Seht, ich schlaf bei ihr! Du sollst die Fremde neben dir am schönsten schmücken. Du sollst sie schmücken mit dem Schmerz um Ruth, um Mirjam und Noemi Du sollst zur Fremden sagen: Sieh, ich schlief bei diesen! 23

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[IN EGITTO Devi dire all’occhio della straniera: sii l’acqua. Devi, quelle che sai nell’acqua, cercarle nell’occhio della straniera. Devi evocarle dall’acqua: Ruth! Noemi! Miriam! Devi adornarle, se giaci con la straniera, Devi adornarle con i capelli a nube della straniera Devi dire a Ruth e Miriam e Noemi: Guardate, dormo con lei! Devi ornare la straniera accanto a te nel modo più bello. Devi ornarla con il dolore per Ruth, per Miriam e per Noemi. Devi dire alla straniera: Guarda, ho dormito con loro!]

Nell’autoesortazione propria al procedere anaforico del “tu devi” (du sollst) è espressa tutta l’ambiguità e la tensione contenuta nel termine Unheimlich. Il “tu devi” testimonia la cifra del “perturbante” (Unheimlich) rispetto al faticoso tentativo di uscire da un’attrazione irresistibile avvertita come spaventosa e perciò insostenibile. La sua presa di coscienza produce un’autoesortazione al “dovere” (sollen)24: il poeta deve (soll) amare la “straniera” (fremd) Ingeborg, appartenente alla dimensione della passione e della vita, senza dimenticare le sorelle di Sulamith, donne di cenere, morte nei campi di sterminio. Amore di vita e amore di morte legati da una doppia estraneità: quella spaesante dell’incontro amoroso, incisa nella memoria luttuosa della lingua materna.

23 24

P. CELAN, GW, Bd. I, S. 46. Il verbo sollen nella lingua tedesca richiama qui il suo uso biblico nell’esprimere il divieto contenuto nei comandamenti: ne è un esempio du sollst nicht rauben, “non devi rubare”, dove l’aspetto morale del dovere – a differenza del verbo müssen che si riferisce a un semplice comando esterno e risolto nella sua perentorietà – esorta all’autoriflessione e alla presa di coscienza.

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L’Unheimliche

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L’attorcigliamento di un doppio fantasma è dunque fonte di tormento infinito che annebbia, nello spettro inscindibile della lingua (Sprache), il volto materno accanto a quello dell’amante: tanto vicini quanto irrimediabilmente lontani. Amarli entrambi nella dimensione reale, diventa possibile solo nel paradosso di una scelta che si risolve nel dovere morale (sollen) di non escluderne coscientemente alcuno. Ma l’apertura al totalizzante che comprende l’amante straniera (fremd) insieme alle donne bibliche, Miriam Ruth e Noemi, è dolorosa e possibile solo “nell’acqua dell’occhio della straniera”, nelle sue lacrime, unica dimora dolorosa da cui il poeta deve (soll) ricordare per non dimenticare. Sarà infatti lo stesso Celan, nove anni più tardi, a rammemorare la poesia In Ägypten a conferma di un ritorno ineluttabile – eppur sempre vivo e reale (wirklich) – di una parola straniera (fremd) mai davvero spenta: Mi accade così spesso di rileggere questa poesia, che è come se ti vedessi camminare dentro. Anche per questo tu sei la ragione della mia vita, poiché sei e rimani la giustificazione della mia lingua (Sprache)25.

L’amore per la parola straniera (fremd), al contempo così intima e familiare, giustifica il dolore di una lingua segnata a sua volta da una perdita incolmabile. Il timore di tradire Sulamith, ignorandone la sofferenza nell’incontro con la straniera, si traduce nel dovere morale (sollen) di comprenderne la memoria. L’amore non nasconde il dolore, ma lo esibisce al folle tentativo di includere l’Altro in maniera totale. O tutto o niente: l’amore non può escludere le sue ombre. Nel soggiornare di una scissione, è l’impedimento disperato del soggetto alla possibilità dell’abbandono che libera nella scrittura poetica il rifugio di un altrove irraggiungibile. Di questa esperienza unica (einmalig) e irripetibile, nel tentativo disperato di fissarne l’unità, si fa testimonianza la lingua della poesia. Una lingua, il cui destino è segnato costantemente da desiderio e privazione, da luce e oscurità (Dunkelheit). Con le parole della Bachmann: Lo straniero (Der Fremde) l’avvolse nel suo mantello nero, in modo che nessuno potesse vederla. […] Ma lui si volse e scomparve nella notte26.

L’estraneità (Fremdheit) “avvolgente” è totalizzante, ma possibile soltanto nella sottrazione dell’Altro. È il senso di questa stridente ambivalenza 25 26

INGEBORG BACHMANN, PAUL CELAN, Herzzeit, S. 64. INGEBORG BACHMANN, Malina, tr. it. di M.G. Manucci, Adelphi, Milano 1973, pp. 59-60.

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Il grido e il silenzio

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a pervadere la Todesfuge27 nella descrizione della bella Margarete, donna degli assassini che, nel fulgore vitale e abbagliante dei suoi “capelli d’oro”, (dein aschenes Haar Margarete) è pur sempre affiancata all’ombra di Sulamith, compagna eterna della memoria dai “capelli di cenere” (dein aschenes Haar Sulamith). La loro inseparabilità denuncia la tragedia perturbante (unheimlich) di uno iato insostenibile: quello di un destino (Geschick) luttuoso che diviene richiamo irresistibile nella dimensione amorosa. Il poeta può così soggiornare solo in una “terra del cuore” da cui subitamente prendere congedo: il suo è un sostare sul bilico, su quel crinale dell’impossibile che trova dimora solo nell’evenire (ereignen) della scrittura. Nel transito della sua traccia si svela la testimonianza di una memoria insostenibile nella determinazione storica e tremenda della Shoah. La scrittura celaniana si definisce qui nel suo statuto esistenziale, nella demarcazione di una memoria imprescindibile. Connotandosi di cenere e di dolore, la parola-ombra attraversa tutte le sfumature del grigio nell’evocazione ultimativa di luoghi freddi e silenziosi – eppur costantemente dimoranti in una “terra del cuore”. Nella parola amorosa di Celan si custodisce la coraggiosa attestazione di una creaturalità sgomenta eppur speranzosa, nella costante evocazione di una memoria dolorosa e impossibile da sostenere nella sua dicibilità. L’indicibile della parola celaniana si declina così nella determinazione della sua creaturalità, disponendosi al suo in-contro in un’apertura incondizionata ma pur sempre dimorante nel ricordo e nella rammemorazione dell’impossibile. Il nominare di Celan si porge così all’ascolto, come poesia della memoria: evento funambolico che si concede all’altro con innocenza incondizionata, ma attuandosi destinalmente nella scrittura come ombra di un doloroso arretramento. Nell’atto del sottrarsi, si svela silenziosamente – come sporgenza ombrosa – il segreto dell’in-contro nella sua Indicibilità. La poesia celaniana si fa così accesso al creaturale, nel muto attraversamento di quell’ombra, traccia silente di un desiderio amoroso – accesso a una parola poetica transitata dall’amore, ma costantemente marcata da un desiderio che ammutolisce di fronte all’impossibile. È questo il luogo del taglio, di quella “cesura” inferta dall’ascia kafkiana che rompe il cristallo precario del ghiaccio, librando nel varco dello scritto 27

Todesfuge (Fuga di morte) è il titolo di una fra le poesie più note della produzione celaniana in cui viene trattato poeticamente il tema della Shoah, in P. CELAN, GW, Bd III, S. 61.

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L’Unheimliche

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quel passaggio lacerante del desiderio che si dispone al creaturale come scrittura ferita. È da Cioran che apprendiamo la cifra di quel dolore: «Celan non era un uomo ma una ferita sanguinante»28.

28

PETER HAMM, Wer bin Ich und wer bist du?, «Die Zeit», (21. August 2008), n. 35, S. 49-50.

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4. LO STRAPPO

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È nel luogo della sporgenza, dell’eccedenza di un sanguinare che l’arretramento silenzioso dalla Parola celaniana diviene, nel canto del fiore (Blume), luogo eletto di evocazione amorosa e dolorosa espropriazione: Colui che accanto alla notte, strappa il suo cuore dal petto, si protende verso la rosa1.

Nell’atto espropriante dello strappo, il dire amoroso soggiorna accanto alla notte (zur Nacht): nella breccia, infiamma la brama della “rosa” che lascia affiorare, nel varco dello scritto, il folle anelito alla Parola. Con il pensiero poetante di Heidegger: “Fiameggiando” il dolore strappa via. Il suo strappo inscrive l’anima peregrinante nel contesto del turbine che, dando l’assalto al cielo, vorrebbe conquistare Dio2.

È Derrida, nella sua analisi del pensiero heideggeriano3, a immetterci nel luogo infuocato dello strappo, laddove il dolore si configura come l’essenza stessa dell’anima poetica affiorando nell’in-contro con lo spirito (dem Geist entgegen). In-contro è qui da intendersi nel senso intrinseco alla preposizione ent-gegen, ovvero, a ciò che, nel proprio movimento, incontra una contrarietà, un’estraneità (Fremdheit) avvertita dolorosamente nel luogo di una divisione, di uno strappo. In direzione di un in-contro, il dolore si incide nello strappo della fiamma, poiché è esso stesso ad avere «in proprio, un’es1

2 3

«WER SEIN HERZ aus der Brust reißt zur Nacht, der langt nach der Rose» è il primo verso del poema celaniano Wer sein Herz, dedicato – fra le altre ventitre poesie appartenenti alla raccolta Mohn und Gedächtnis – a Ingeborg Bachmann nel 1957, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 51. M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 61; In cammino verso il linguaggio, p. 64. Cfr. J. DERRIDA, De l’Esprit; Dello spirito.

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Il grido e il silenzio

senza di contrarietà (dem Schmerz eignet in sich gegenwendiges Wesen). È nel tratto, nello squarcio (Riß), della fiamma che il dolore travolge e lacera»4. Una lacerazione che, a sua volta, consente allo spirito (Geist) di mettersi in rapporto con l’anima, spingendola errante sulla scia del suo fuoco: DAS FEUER dies Feuer von neuem entfacht hinter der verschlossenen Erde ich Schließe die weiße Tür

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der Lufthauch der dem Feld entsteigt das Licht der Zügel5. [IL FUOCO questo fuoco che si riaccende dietro la terra sorda chiudo la porta bianca il soffio che si leva dal campo la luce la briglia.]

Nell’oscillare di una migrazione, la Parola, spirito fiammeggiante (Geist)6, si riaccende dietro la terra sorda (hinter der verschlossenen Erde), 4 5 6

Ibi, pp. 173-174; ibi, p. 122. Si tratta della poesia Le feu di André du Bouchet tradotta da Celan: «Le feu// ce feu/ qui reprend/ derrière la terre fermée// je referme la porte blanche//le souffle/ qui sort du champ// la lumière// la bride. P. CELAN, GW, Bd. IV, S. 181. L’accostamento dell’articolazione derridiana del Geist alla Parola di Celan, trova la sua giustificazione in quell’ambito dove la poesia diviene dimora di svelamento

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Lo strappo

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indifferente al suo ascolto. Nello strappo dal reale, in un movimento di doloroso abbandono, la parola si fa insostenibile: «chiudo la porta bianca (ich schließe die weiße Tür)» – canta Celan – la porta dell’innocenza, luogo d’indicibile candore e di assoluta estraneità (Unheimlich), soglia del ricordo di una pervasione dolorosa7 dalla quale il poeta, suo malgrado, prende congedo, per chiamarsi nel luogo della vita come soffio che «si leva dal campo (Lufthauch)». «Il soffio si leva dal campo// la luce // la briglia» – il poeta approda alla lingua degli uomini trovando, nel luogo di una scrittura infuocata, “la briglia” (der Zügel) di un ancoraggio: paradosso di una parola che offre Salvezza nella vertigine di uno strappo come soffio dell’Origine.

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4.1. La cecità del cantore Nella faglia di un ancoramento originario ed espropriante è la svolta di respiro (Atemwende)8 dell’ultimo soffio, esito ineffabile di un ripiegamento che si fa luce, torsione della poesia che trasporta (übersetzt) la parola luminosa al di qua del passaggio, disponendosi alla storia (Dasein) nel luogo di una duplicità (Zwiefalt)9: piega della scrittura che – nell’incontro – è illuminata da una doppia estraneità. Con Celan:

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di un fuoco originario, la cui determinazione trova parte della sua ispirazione nelle risonanze bibliche di cui la poesia stessa si fa testimonianza. Mi riferisco in particolare, al Geist nella sua possibile accezione pneumatologica di ruah. Quest’ultima contraddistingue «una parte del pensiero ebraico come inesauribile pensiero di fuoco». Cfr. J. DERRIDA, De l’Esprit, p. 165; Dello spirito, p. 119. Per fare un esempio, nel poema Benedicta l’originarietà della Parola può essere individuata nel termine Pneuma. Questa parola può ben identificarsi con quella ruah infuocata che, portata a Parola nel messaggio messianico dei profeti dell’Antico Testamento, indica l’Origine delle origini, quel luogo innominabile che sta oltre i Padri stessi (Jenseits der Vätern). Cfr. P. CELAN, GW, Bd. I, S. 249. Nell’immagine di una porta bianca chiusa dal poeta, rispetto all’ascolto di una Parola il cui dolore si fa intollerabile, risuona il noto verso di Trakl: Schmerz versteinerte die Schwelle («Il dolore ha pietrificato la soglia»), commentato da Heidegger. GEORG TRAKL, Ein Winterabend, Die Dichtungen, Müller Verlag, Salzburg 1938, S. 124. Sulla soglia la parola poetica permane come dolore: «Il dolore permane nella soglia come dolore. Ma che è dolore? Il dolore spezza; è lo spezzamento». M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 27; tr. it. In cammino verso il linguaggio, p. 39. È lo stesso Celan ad associare la poesia a una «svolta di respiro (Atemwende)» come direzione e destino della poesia stessa. Cfr. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 195. Alla luce degli approdi teorici già affrontati in questo lavoro, si può meglio comprendere il senso del pensiero heideggeriano, laddove il pensatore sostiene che il dire poetico è luogo di quell’evento (Ereignis) «che porta ogni cosa a essere se

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Il grido e il silenzio

e quando essi, nella folle corsa, si incontrano (wenn sie einander begegnen) quando scatta la scintilla del meraviglioso, perché estraneità viene sposata a estrema estraneità, allora il mio sguardo si figge nello sguardo della nuova Chiarità10.

Chiarità nel senso di Lichtung, scintilla del meraviglioso che trafigge lo sguardo del poeta, lucore originario e radura ombreggiata che si schiude nel fitto della foresta diradandone i tenebrosi antri – eco di un pensiero heideggeriano che ne irradia le ombre:

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… l’ombra della notte» – la notte stessa è l’ombra, quel buio che non può mai divenire pura e semplice tenebra, perché in quanto ombra resta sempre in intimità con la luce e da questa proiettata11.

Una tenebra intimamente abitata dalla luce che Celan accetterà integralmente12, dopo avere formulato qualche anno prima l’intuizione poetica di una “Luce scura” in riferimento al Linguaggio originario. Nel 1948, nella prosa dedicata a Edgar Jené – quindi diversi anni prima di leggere i testi heideggeriani – il tema della luce nell’opera di Celan si fa prorompente, quasi al punto da rappresentare una vera e propria ossessione. Innumerevoli sinonimi luminosi, infatti, abiteranno successivamente la poesia celaniana nella frequentazione poetica di fili di soli (Fadensonenn) e bagliori a intermittenza (Schimmer): testimonianza silenziosa di una presenza-assenza che si accosterà gradualmente – nella prossimità alla parola dell’Essere – al senso equivalente di ciò che Heidegger intenderà per Aletheia (ἀλήθεια)13. Eccone un passo significativo: la sua luce non è luce del giorno ed è popolata di figure che io non riconosco ma che conosco in una visione della prima volta. Il suo peso obbedisce ad altra gravità, il suo colore parla a un nuovo paio d’occhi in cui le mie palpebre si chiudono donandosi a vicenda, il mio udito si è trasferito nel mio

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stessa e perciò “rivelazione rivelante, cioè costituente e disvelante le cose nella loro verità”». Verità che si svela simbolicamente nella differenza come dualità (Zwiefalt) di un dire che a sua volta, si costituisce nel continuo movimento di presenza e assenza. Cfr. M. MARASSI, Ermeneutica della differenza, p. 350. P. CELAN, GW, Bd. III, p. 158. M. HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, S. 201; Saggi e Discorsi, p. 135. Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 195-197. È noto che il termine Aletheia in Heidegger, rimandi etimologicamente al senso di uno svelamento nel suo rapporto con la verità. A questo concetto Celan si accosterà gradualmente in riferimento alla luce poetica della Parola. Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, p.196.

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Lo strappo

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tatto dove esso impara a vedere; il mio cuore, giacché abita la mia mente, apprende le leggi di un nuovo, incessante e libero moto. Seguendo i miei sensi errabondi giungo nel nuovo mondo dello spirito (in die neue Welt des Geistes) e vi conosco la libertà14.

Una luce «che non è luce del giorno» trafigge lo sguardo del poeta costretto a «chiudere le palpebre»: la cecità del cantore diviene condizione dell’in-contro storico di una “luce scura”15 che si schiude nell’andirivieni di un movimento di presenza e assenza, di prossimità e allontanamento – disponendo il poeta al disvelamento di un «nuovo mondo dello spirito (neue Welt des Geistes)». Come afferma Blanchot, il poeta «è in attesa di uno sguardo più ampio, di una possibilità per vedere, per vedere senza le stesse parole che significano la vista»16. Nel suo allontanamento dal reale, il cantore è cieco, non nel senso della privazione della vista, ma in quanto soggetto a un vacillamento che, nel suo andirivieni, lo espropria dello sguardo, nell’attesa «di uno sguardo più ampio». Una sorta di esteriorizzazione della visione che espone la lingua storica del poeta all’illuminazione dei suoi varchi, scorgendo – in uno sguardo altro – l’estraneità che lo abita. L’occhio non è dunque il luogo di irradiazione della luce ma ne è piuttosto riempito, colmato fino all’eccesso quasi da non poterla nemmeno contenere del tutto, tanto da doversi addirittura difendere dalla sua esuberanza. È Jacques Lacan ad individuarne la valenza psicanalitica in relazione alla pulsione scopica del soggetto e del suo occhio come «coppa oculare»17 : Senza dubbio la luce si propaga in linea retta, ma si rifrange, si diffonde, inonda, riempie – non dimentichiamo quella coppa che è il nostro occhio – trabocca anche, e necessita, attorno alla coppa oculare, di tutta una serie di organi, di apparecchi, di difese18. 14 15

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P. CELAN, GW, Bd. III, S. 158. «La Lichtung è al tempo stesso Lichtung dell’essere e Lichtung dell’esserci, in quanto l’esserci, come rapporto all’essere, è il luogo stesso dell’avvento di quest’ultimo: il “ci” dell’esser-ci è la Lichtung dell’essere; LEONARDO AMOROSO, La Lichtung di Heidegger come lucus a (non) lucendo, in Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, Milano 1995, p. 145. MAURICE BLANCHOT, Le dernier à parler, Fata Morgana, Saint Clément 1984, p. 6. JACQUES LACAN, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti della psicanalisi 1964, tr. it. di Adele Succetti, a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, p. 93. Qui Lacan si riferisce all’analisi condotta da Merleau-Ponty su Il visibile e l’invisibile (Cfr. MAURICE MERLEAU-PONTY, Le visible et l’invisible, text établi par Claude Lefort, Gallimard, Paris 1964; tr. it. di Andrea Bonomi, Il visibile e l’invisibile, a cura di Mauro Carbone, Bompiani, Milano 2007). Ibidem.

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Il grido e il silenzio

Alla luce – che è stata ormai sottratta alla padronanza dell’occhio – di una Parola esiliata dalla storia, appartiene lo sguardo stesso. Con il pensiero di Celan:

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Come nel sogno – parlo malvolentieri di ciò –, il poeta è implicato nell’accadere, partecipa, manca dunque di ogni distanza rispetto al guardato19.

Lo sguardo dimora nel fascio luminoso che le cose riflettono e che abbaglia il cantore andandogli in-contro. Lichtung è qui “luce scura” di un’indicibilità che investe il dire poetico nell’in-contro con la scrittura, dove l’atto del vedere è preceduto e reso possibile da un esser-guardato. Attraverso lo sguardo, il cantore è “strappato” dalla posizione di vedente nell’offuscamento della visione storica e risucchiato in una visibilità che non può dominare: enigma di un chiarore originario che affiora dalla tenebra storica (Lichtung), nella persuasione di una cecità (Blindheit): Zur Blindheit überredete Augen. Ihre – «ein Rätsel ist Reinentsprungenes» –, ihre Erinnerung an schwimmende Hölderlintürme, möwenumschwirrt»20. [Occhi persuasi a cecità Il loro – «enigma è un puro originarsi» –, il loro ricordo di torri hölderliniane riflesse, in un frullo di gabbiani.]

«Zur Blindheit über-/ redete Augen, Occhi persuasi/ a cecità», canta Celan, dove l’allusione è all’ode Der blinde Sänger di Hölderlin, nell’attrazione irresistibile di una rammemorazione (Erinnerung) che è sguardo “altro” – «puro originarsi (Rein-entsprungenes)», possibile solo nel tempo ineffabile di un battito d’ali – «frullo di gabbiani (möwen-/umschwirrt)».

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P. CELAN, Microliti, p. 45. È la prima strofa del poema Tübingen Jänner in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 226.

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Lo strappo

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Strappata dalla luce reale, la visione del “cantore cieco” non si rapporta più alla luce del giorno – nel suo senso fisico di densità e spessore – ma in un’ottica – come afferma Lacan – «alla portata dei ciechi»21; chiarore che non ha bisogno del “vedere” per essere pensato, ché altrimenti non si donerebbe nella sua Lichtung, ma come luce diurna che si manifesta fisicamente nella sua chiara “misurabilità”. Un approdo teorico in cui riecheggia nuovamente la concezione heideggeriana della storia del pensiero occidentale come espressione della Tecnica – storia dell’essere dell’ente che nell’illusoria padronanza del Linguaggio ha inteso impiegare il suo dire come mezzo di adeguazione fra parola e cosa, confinando l’Essere nel suo oblio. Ma come afferma Lacan: «quando dico impiego del linguaggio non voglio dire che noi lo impieghiamo. Siamo noi a essere suoi impiegati»22. Formulazione teorica che fa appello all’originarietà di una parola svelata nel luogo esiliato del Dasein come luce silente di un oblio, nel tratteggiamento di una posizione soggettiva che Lacan non esita a riferire alla coscienza in quanto “scotoma” perché, non solo metaforicamente ma anche letteralmente, essa è coscienza come struttura rovesciata dello sguardo: difetto del campo visivo23, restringimento della facoltà di percezione, luogo di misconoscimento e di mascheramento perché costruita sull’illusione di un addomesticamento della luce proprio a una pupilla che la “padroneggia”, dosandone consapevolmente l’ingresso. Ci troviamo qui nella schisi fra l’occhio e lo sguardo,24 dove la coscienza si costituisce come anestesia e difesa dallo sguardo, poiché è espressione di quel pensiero “esatto” del cogito, il cui illusorio fondamento (Grund) poggia su imprescindibili asserzioni di chiarezza ed evidenza. Nella condizione soggettiva della cecità poetica, la luce scura (Lichtung) prelude all’in-contro con il pensiero poetante come “salto oltre il fossato”, cioè oltre quell’assicurazione fasulla di certezze prestabilite della scienza, nella divaricazione ed apertura illuminata (gelichtet) dell’esserci alla storia illuminante (lichtend) dell’essere25. Illuminazione di un esilio: sguardo del cielo che investe il poeta richiamandolo nell’abisso illuminato ed espropriante di un enigma che “ritorna alla luce”, schiudendosi nel Dasein come Lichtung rischiarante dello scritto. Con le parole di Rilke: 21 22 23 24 25

Cfr. J. LACAN, Il seminario. Libro XI. p. 91. JACQUES LACAN, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi 1969-1970, tr. it. di C. Viganò e R.E. Manzetti, a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 2001, p. 77 Cfr. J. LACAN, Il seminario. Libro XI. pp. 81-83. Cfr. ibi, pp. 67-77. Cfr. L. AMOROSO, La Lichtung di Heidegger, p. 145.

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Il grido e il silenzio

Io imparo a vedere. Non so perché tutto penetra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva. Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accada26.

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«Non so cosa vi accada»… – confessa il poeta. Nella preclusione al conoscere ragionevole come allucinazione della rappresentazione, il dimorare poetico “scopre” l’offuscamento di un’apparizione de-allucinata nell’esperienza espropriante di un disorientamento che nasce dall’irruzione di uno sguardo notturno come visione contro (gegen) – nel senso di “contraria” (entgegen) – alla direzione della necessità storica. Così, nel testo in prosa Controluce (Gegenlicht) Celan smaschera il lato quotidiano del “fare luce”, nell’avvertimento poetico di un capovolgimento paradossale: Non illuderti: non è che questa ultima (letzte) lampada emetta più luce – è la tenebra (Dunkel) intorno ad essersi inabissata in se stessa27.

È dunque l’urto violento della luce nell’esperienza storica di uno sprofondamento tenebroso, a trasformare e a turbare «profondamente il soggetto che ne è raggiunto fino al limite della catastrofe»28. Nuovamente si avverte qui l’eco kafkiana di un “colpo d’ascia” che erompe dai ghiacciai della storia, spalancando davanti a sé, il dirupo di una vertigine: feritoia luminosa incisa nell’oscurità (Dunkelheit) dell’abisso – strappo della luce storica allo sguardo esiliato della verità. Nell’urto della sua ombra con la luce diurna si genera lo strappo, la ferita di una contrarietà: anarchia della visione sottratta a ogni controllabilità. 4.1.1. Parola e follia Nel testo in prosa Edgar Jené e il sogno del sogno, Celan scrive: «Seguendo i miei sensi errabondi giungo nel nuovo mondo dello spirito (in die neue Welt des Geistes) e vi conosco la libertà»29; una sorta di autoconfessione poetica che parla dal “punto cieco” dello strappo. Nel parossismo dei sensi è l’esperienza di un “nuovo mondo dello spirito” come follia della cecità. Con il canto di Hölderlin:

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RAINER MARIA RILKE, Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, in Sämtliche Werke, Bd. VI, Insel Verlag, Frankfurt a.M. 1966, S. 710. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 165. WALTER BENJAMIN, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, Saggi e Frammenti, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino, pp.94-97 P. CELAN, GW, Bd. III, S. 158.

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Lo strappo

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Da folle io parlo: è la gioia30.

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Follia e cecità di una luce scura, nell’eperienza poetica della gioia, laddove il chiarore non conduce tuttavia, allo stordimento ché – se fosse dato nella sua purezza – inghiottirebbe tutto e sarebbe «più scuro dello scuro»31: il senso della tenebra celaniana come Dunkelheit ne sarebbe così compromesso, perdendosi nel suo «eccesso di chiarore»32; la voce del cantore non canterebbe affatto, sprofondando per sempre nei meandri di quel buio indefinibile e privo di luce, inteso come Finsternis. L’effetto della luce non deve dunque ubriacare, ma semmai, rendere ebbri33: L’ebbrezza è quella disposizione (Stimmung) sublime nella quale viene percepita unicamente la voce (Stimme) di ciò che determina tale disposizione, affinché coloro che sono così disposti siano decisi per l’estremamente altro da sé. Decisi (entschieden), non lo sono certo in virtù di una risoluzione calcolata, ma perché la loro essenza è assegnata (beschieden) con la considerazione in cui sono stati presi dalla voce di ciò che determina quella disposizione. […]. L’ebbrezza solleva nella luminosa chiarezza in cui si apre la profondità del nascosto e l’oscurità (Dunkelheit) appare come sorella della chiarezza34.

L’esperienza dell’ebbrezza del chiarore (Lichtung) è disposizione: apertura alla quale lo stesso poeta è chiamato. Chiamata, voce (Stimme) silenziosa che ne decide (entscheidet) l’assegnazione destinando l’ascolto del poeta all’esperienza gioiosa della luce nello strappo dalla storia. Nell’intercapedine storica di una frapposizione – dove «l’oscurità appare come sorella della chiarezza» – la perdita della vista coincide qui con lo spezzarsi dello scudo difensivo del soggetto, ovvero, con quella «breccia inferta nella barriera protettiva (Reizabhaltung)» che Freud definisce “trauma”35 – shock di un’irruzione luminosa come verità esiliata dalla storia, urto (gegen) spaventoso che sconvolge il soggetto, interrompendone il torpore della coscienza, laddove questa sorge sempre come difesa storica 30

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È questo un verso tratto dall’elegia Heimkunft, di Friederich Hölderlin. L’analisi di questo verso è stata svolta da Heidegger in relazione alla cecità del cantore, in M. HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, S. 24; La poesia di Hölderlin, p. 30. Ibi, S. 112; tr. it. p. 142. «La luce scura non nega la chiarezza, ma piuttosto l’eccesso di chiarore perché questo, quanto più è chiaro, tanto più decisamente impedisce la vista». M. HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, S. 112; tr. it. La poesia di Hölderlin, p. 142. Cfr. ibi, S. 113; ibi, p. 143. Ibidem. SIGMUND FREUD, Al di là del principio di piacere, in Opere, vol. 9, p. 212.

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Il grido e il silenzio

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al posto di una traccia mnestica36. Rammemorazione di un oblio che nel Dasein rompe l’anestesia della coscienza nella paradossalità di un evento (Ereignis) che sfugge – nell’irruzione inattesa di un chiarore non padroneggiato, non consumato: trauma, ferita, deflagrazione dell’Essere37. La Lichtung celaniana si definisce così, come folgore di un pensiero rammemorante, cui si abbandona, inerme, il cantore – traccia luminosa della parola che ha varcato la soglia dell’indicibile per strapparsi, nel suo affioramento, dal dolore di una contrarietà. La fiamma della sua traccia frange contro (gegen) la dimensione storica e si dispone al Geist di un’oscillante migrazione: il suo è un tempo della precipitazione o dell’anticipazione (wo sich ein Worauswandern begibt), secondo quella temporalità che fa apparire la fine prima dell’inizio38. Parole che evocano nella poesia le condizioni temporali della sua stessa sussistenza. Con Celan: Il poema – dopo tante formulazioni radicali mi concedano ora pure questa – si afferma al margine di se stesso; per poter sussistere esso incessantemente si evoca e si riconduce dal suo Ormai-non-più al suo Pur-sempre39.

Nel suo divampare, l’andirivieni precipita nel suo Ormai-non-più anticipandone il Pur-sempre, affiorando nel luogo di una lacerazione temporale come scrittura infuocata. È la fiamma stessa a tracciarsi come scrittura che divampa, esito di un attraversamento doloroso dell’anima – che si dispone alla risposta storica come follia (Wahn) del poetare: ICH KENNE DICH, du bist die tief Gebeugte, ich, der Durchbohrte, bin dir untertan Wo flammt ein Wort, das für uns beide zeugte? Du – ganz, ganz wirklich. Ich – ganz Wahn40. [TI CONOSCO, sei la profondamente piegata Io, il trafitto, ti sono sottomesso Dove divampa una parola che testimoni di entrambi? Tu – tutta, tutta reale. Io – tutta follia.]

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Ibi, p. 211 “Deflagrazione dell’Essere” è un’espressione di Merleau-Ponty ricorrente nella riflessione lacaniana in rapporto all’irruzione dello sguardo nella coscienza del soggetto. Cfr. J. LACAN, Il seminario. Libro XI, pp. 91-92. Cfr. J. DERRIDA, De l’Esprit. p. 173; Dello spirito, p. 121. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 197. P. CELAN, GW, Bd. II, S. 30.

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Lo strappo

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Nel luogo dello strappo di un espropriante fiammeggiare, la parola è «profondamente piegata (die tief Gebeugte)», prostrata all’ascolto del poeta a lei sottomesso: testimonianza di una reciprocità che nell’immagine di una parola piegata (gebeugt) alla dimensione storica, richiama nuovamente quella duplicità heideggeriana riguardante la piega dell’Essere nel linguaggio, ovvero quell’unità che parla nella duplicità dispiegandosi nella differenza come Zwiefalt. Un rilievo teorico che conferma al pensiero una cooriginarietà fra il Dire originario del linguaggio e il rispondere dell’uomo, in quanto l’uno non potrebbe sussistere senza l’altro. Appello della Parola e risposta poetica convivono qui in una reciprocità filosofica fondando – nell’illanguidimento dei confini del reale – l’esperienza del poetare e consegnandosi alla scrittura nell’intreccio disperato di una sovrapposizione fra realtà e follia. «Tu – tutta tutta reale. Io – tutta follia», canta il poeta trafitto (durchbohrte) dalla Parola nell’esperienza infiammata di una dolorosa follia (Wahn): violenza di un sacrificio che sulla scia del dolore, trasporta (übersetzt) la Parola nel reale (Du – ganz, ganz wirklich), al di qua del passaggio. Testimonianza di un viaggio folle, la cui direzione è così attestata dall’etimologia dei termini in gioco: Follia (Wahnsinn) non vuol dire un pensare che fantastica cose insensate. Wahn deriva dall’antico alto tedesco wana e significa: senza. Il folle pensa (sinnt); anzi pensa come nessun altro: non però con la logica degli altri. Egli ha un altro modo di pensare. Sinnen significa originariamente: viaggiare, tendere a, prendere una direzione41.

Follia di un tragitto che si traduce (übersetzt) in una tensione all’affioramento: dimora espropriante di un dolore che ammanta la parola poetica, affiorando dallo scritto come connessura infiammata dello strappo. Nel luogo del frammezzo è l’avvertimento di una profonda sconnessione col presente storico. L’espropriazione è implacabile: il suo andirivieni frange contro lo strappo dal reale (Wirklichkeit) adunando – nell’anima del cantore – ciò che il tempo mantiene infranto. Il cuore del poeta, come luogo di svelamento di un’unità in cui risuona la voce della Parola, richiama qui nuovamente il pensiero heideggeriano in relazione all’ascolto della parola dell’Essere, così come è stato affrontato

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M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 53; In cammino verso il linguaggio, p. 57.

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Il grido e il silenzio

e acquisito da Celan42 in relazione al concetto di Geviert: un ascolto che si attua nel regno dell’abitare poetico, quella linea mediana del Dasein in cui il cantore, attraverso il proprio nominare, porta a raccoglimento il mondo come unità dei Quattro. I quattro, come cielo, terra, divini e mortali vengono così a incontrarsi nel regno della differenza, quel “tra” che poi è il mondo stesso. Si evince così, che il linguaggio poetico viene a essere lo stesso luogo della differenza, ovvero quel punto in cui il mondo – come intreccio di relazioni fra cielo e terra, parola divina e parola mortale – giunge a unità. L’unità di tutte le relazioni è tale solo in virtù del Sacro, quel dispiegamento dell’essere che si attua nelle regioni del Geviert e che si raccoglie sacralmente nella dimensione della quiete. Una quiete che in Celan ben si accosta a quel carattere povero di sacralità di un bagliore a intermittenza, “filo di sole” che attraversa la tenebra storica, “mezzanotte del mondo” che canta la povertà del Sacro nell’evocazione di una Parola divina esiliata dalla storia. È ancora Celan a sottolineare il passo heideggeriano43: Ma la notte del mondo va intesa come un destino che sopravvive al di fuori dell’alternativa di ottimismo e pessimismo. Forse siamo nel momento in cui la notte del mondo va verso la sua mezzanotte44.

4.2. Poesia e profezia Il tema del Sacro nella poetica di Celan, riconduce inevitabilmente a quegli influssi della mistica ebraica sottesi ai suoi poemi e tramandati dai racconti chassidici di Martin Buber. Rispetto alla tradizione ebraica, la posizione di Celan fu, soprattutto in gioventù, di freddo distacco nei confronti di tutte le forme di ortodossia ritualistica, del sionismo, del territorialismo e degli eccessi mistici del Chassidismo. Eppure, nonostante la polemica esteriore diretta contro quest’ultimo, la sua produzione artistica è segnata, e nel profondo, dalla tradizione mistica della Qabbalà e del Chassidismo tramandati da Buber: 42

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Celan apprende il concetto heideggeriano di Geviert, accettandone la formulazione, nel 1959, in occasione della lettura del saggio “La cosa”, contenuto nel testo Saggi e discorsi. Nella copia del poeta compaiono sottolineature frequenti al concetto di Geviert e annotazioni che riprendono integralmente il riferimento all’articolazione concettuale fra uomini e mortali (Die Menschen=die Sterblichen). Cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 110-111. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 219. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 250; Sentieri interrotti, p. 249.

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Lo strappo

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Il paesaggio dal quale io vengo a voi (attraverso quali deviazioni [Umwege]! Ma esistono poi veramente delle deviazioni?), questo paesaggio dovrebbe essere ignoto alla maggior parte di voi; si tratta di uno di quei paesaggi in cui era familiare una parte non trascurabile dei racconti chassidici rinarratici in tedesco da Martin Buber45.

Dal seguito di questo discorso, pronunciato in occasione del conferimento del premio letterario “Città di Brema” del 1958, si evince che il paesaggio (Landschaft) a cui Celan si riferisce è la contrada dello Shtetl, cittadella integra di una piccola comunità ebraica, dove i libri erano sentiti viventi come gli uomini e il raccontare chassidico aveva senso; quella stessa contrada dell’Europa Orientale pre-moderna (Russia, Polonia, Lituania e la parte orientale dell’impero Austro-ungarico) in cui anche l’Impero Austro-Ungarico aveva trapiantato radici, trasmettendovi l’illusione che la storia potesse continuare a trascorrere senza incrinarsi46. Fu questo un sogno infranto dalla diffusione delle leggi antisemite, a causa delle quali gli Ostjuden furono costretti a una fuga senza tregua, mettendo alla prova l’immagine dell’anima errabonda propria dell’uomo ebreo. L’esilio dallo Shtetl come simbolo dell’oblio dell’origine e di ciò che ormai è irraggiungibile, è per Celan legato analogicamente al tema dell’esilio della Parola e del suo continuo occultamento che costringe il poeta a inerpicarsi attraverso quel paesaggio linguistico oscuro (dunkel), irto di deviazioni (Umwege), illuminato com’è in modo incostante e intermittente. Si tratta di una deviazione (Umweg) rispetto ai nomi autentici della tradizione chassidica che sono «stati bruciati» e dunque irrimedialmente perduti: Alle die Namen, alle die Mitverbrannten Namen. Soviel zu segnende Asche47. [Tutti i nomi, tutti i nomi arsi insieme. Quanta cenere da benedire.] 45 46

47

P. CELAN, GW, Bd. III, S. 185. «Era una contrada in cui vivevano uomini e libri. Fu in quella vecchia provincia della monarchia degli Asburgo, […] che Brema acquistò per me i suoi contorni, sotto la forma delle pubblicazioni della Bremer Presse». P. CELAN, GW, Bd. III, S. 185. Sono alcuni versi appartenenti alla lirica Chymisch, in P. CELAN, GW, Bd I, S. 227.

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Il grido e il silenzio

La ricerca poetica di Celan si dirige così, verso un paesaggio molto simile a quello dello Shtetl, eppure irraggiungibile perché «bruciato» dalla storia. Così, l’unico luogo vissuto temporalmente dal poeta, in grado di evocare, anche solo lontanamente, l’atmosfera dello Shtetl, rimane Brema:

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Ma Brema, per quanto resa più vicino dai libri e dal nome di coloro che libri scrivevano e libri pubblicavano, manteneva la risonanza dell’irraggiungibile48.

In questo passo, il libro stampato viene evidentemente messo in relazione alla lontananza della Parola e alla tradizione dei chassidim. Nella sua storicità, il libro stampato non è che un riflesso del linguaggio autentico, eterno, e pertanto la caducità dei libri stampati – nonostante in essi si mantenga «la risonanza dell’irraggiungibile» – resta comunque distante dalla sfera incontaminata dei “santi nomi”49, della Parola, la cui luminosità rimane accessibile solo agli iniziati, ovvero a coloro che, come il poeta o il profeta, ri-nominano il divino ponendosi nella dimensione dell’ascolto. Nell’accostamento di poesia e profezia, proprio allo statuto della poesia celaniana, si insinua nuovamente il dubbio di una prossimità con il pensiero heideggeriano, rispetto a quell’orizzonte ontologico che li accomunerebbe in relazione al dire poetico come espressione silenziosa nell’ascolto della Parola. A tentare di sciogliere questo nodo teorico è una tesi interessante riguardante i possibili influssi ebraici sul pensiero di Heidegger di Marlène Zarader50, dove l’autrice ritiene che la figura del profeta, inteso come me48 49

50

Cfr. P. CELAN, Ansprache, in GW, Bd. III, S. 185. Cfr. a tal proposito GERSHOM SCHOLEM, Die jüdische Mystik in ihren Hauptströmungen, Alfred Metzner Verlag, Frankfurt am Main 1957, S. 146; tr. it. di G. Russo, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Melangolo, Genova 1986, p. 146. Alla rabbinica «via della Sefiròth» praticata dai quabalisti del suo tempo, il profeta Abulafia Avrahàm fa seguire, nel XIII sec. d.C., «la via profetica dei nomi». Il mondo delle lettere è per Abulafia il vero luogo della beatitudine; ogni lettera rappresenta, per il mistico che sprofonda nella contemplazione di essa, un universo: «Tutte le lingue parlate consentono la mistica arte combinatoria della lingua santa e dei santi nomi, dal momento che tutte le lingue, derivando da una corruzione della lingua originaria, cioè dall’ebraica, restano affini a questa». Mi riferisco in particolare al testo di MARLÈNE ZARADER, Le dette impensée. Heidegger et l’héritage hébraïque, Éditions du Seuil, Paris 1990; tr. it. di Massimo Marassi, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, Vita e Pensiero, Milano 1995. La tesi centrale del libro, secondo il traduttore e curatore Massimo Marassi, è quella per cui «Heidegger ha costantemente nascosto la presenza della fonte ebraica, il suo “debito impensato”, ha sempre voluto opporre all’es-

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Lo strappo

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diatore della parola divina nella tradizione biblica, ben si accosta alla concezione heideggeriana del poeta51. Tale analogia si rende possibile secondo la Zarader, grazie a un debito che Heidegger avrebbe, non nei confronti della tradizione greca, bensì di quella ebraica; l’autrice sostiene infatti, che il pensatore tedesco – affermando esplicitamente che il poeta è profeta ma non nel senso giudaico-cristiano del termine – «oltrepassi i diritti dell’interpretazione»52. Infatti, attraverso un’accurata analisi che tiene conto delle differenze fra le caratteristiche della profezia greca e di quella biblica, la Zarader ritiene che Heidegger pur negando una cosa, di fatto poi l’afferma. Ascoltiamo Heidegger: La loro parola (quella dei poeti) è parola che preannunzia nel senso rigoroso del propheteuein […] (i poeti) non sono ‘profeti’ nel significato giudaico-cristiano del termine […]. Non si prostri l’essenza di questa missione poetica facendo del poeta un ‘veggente’ nel senso dell’indovino […]. L’essenza di questo poeta non va pensata in analogia a quei ‘profeti’ (i profeti biblici)53.

Qui il pensatore tedesco precisa che il poeta non deve essere profeta nel senso di indovino, come lo sono i profeti biblici. Ma secondo la Zarader, considerare i profeti biblici degli indovini è un errore; infatti, la sua analisi dimostra che semmai è la figura del mantis greco, come per esempio, Cassandra o Tiresia ad essere «un Veggente, un autentico ispirato»54, andando così a identificarsi proprio con la figura dell’indovino negata da Heidegger; il nabi, o profeta biblico, è al contrario, colui che non pone il proprio accento sulla visione ma sulla parola divina, facendosene intermediario. Se allora, il compito fondamentale del mantis è quello di predire il futuro, quello del nabi consiste nel decifrare il senso invisibile del visibile: egli an-

51 52 53 54

senza della metafisica un’altra essenza considerata più originale e rimasta nello svolgimento della storia occidentale, impensata, inaudita, obliata. Riprendendo un’osservazione di Paul Ricoeur, la Zarader distingue tra ciò che Heidegger dice dell’eredità ebraica e l’uso che ritiene di farne. Da una parte, infatti, il pensatore tedesco afferma che la Bibbia e la sua eredità nulla possono insegnarci che abbia qualche utilità per il pensiero filosofico, e dall’altra fa dipendere proprio da questa tradizione, così sconfessata, tutto ciò che di innovativo ritiene di poter dire in prima persona. L’impensato che governa in greco l’Occidente – secondo Heidegger – andrebbe dunque risituato e ripensato a partire – secondo la Zarader – dall’eredità ebraica», (Cfr. MASSIMO MARASSI, Introduzione, p. XXV). Ibi, p. 64; ibi, p. 61. Ibi, p. 65; ibi, p. 62 M. HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, S. 114; La poesia di Hölderlin, p. 137. M. ZARADER, La dette impensée, p. 65; Il debito impensato, p. 62.

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Il grido e il silenzio

nuncia il senso invisibile delle cose. Alla luce di queste considerazioni, le determinazioni heideggeriane del poeta qui analizzate, non appartengono alla grecità bensì alla tradizione ebraica55. Un’acquisizione che, nel confermare la prossimità fra Celan e Heidegger in un dimorare ontologico comune, ne conferisce al contempo l’aura di una mistica attesa, laddove il nominare poetico si fa esito silenzioso di un corrispondere all’ascolto profetico di una Parola originaria. È in questa luce che la celebre epigrafe «Tutti i poeti sono ebrei» di Marina Cvetaeva citata da Celan56, si ammanta di un’aura mistica. Affermare che «tutti i poeti sono ebrei» è come dire infatti, che «tutti i poeti sono profeti». Così il poeta-profeta si fa portavoce di una parola divina che in un tempo di povertà del Sacro, si contraddistingue per il suo carattere di annuncio e di speranza. In virtù di un corrispondere, il poeta – come il profeta – riceve l’appello divino che a sua volta ripete nella nominazione, accettando comunque, «di attraversare la notte perché raramente la voce divina è chiara»57. Un attraversamento della tenebra (Dunkel) che in Celan si configura nell’attesa di uno svelamento originario connotato dalle sue risonanze bibliche, e che in Heidegger assume i tratti del Dio a venire58. Un dio che per il poeta-profeta è Messia, e che presso Heidegger si identifica nel dio dei poeti59 rifuggendo così – nonostante le comunanze accennate – «da ogni complesso dogmatico di norme, e ancor più, oserei dire, da una concezione della vita che incarna delle dottrine […]»60. Un rilievo che necessita di essere ulteriormente chiarito, alla luce di quel debito heideggeriano che il filosofo avrebbe nei confronti della tradizione ebraica. Un debito, que55 56 57 58

59

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Cfr. ibi, pp. 65-66; ibi, pp. 62-64. Questa frase della Cvetaeva fa da epigrafe al poema Und mit dem Buch aus Tarussa, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 283. M. ZARADER, La dette impensée, p. 67; Il debito impensato, p. 65. Un’analisi approfondita di questo argomento nel periodo tardomoderno ci giunge da MANFRED FRANK, Der kommende Gott. Vorlesungen über die neue Mythologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1982; tr. it. di F. Cuniberto, Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia, Einaudi, Torino 1994. Mi riferisco, in particolare, a una nota dichiarazione di Heidegger su cosa debba nominare la parola Dio presente nella Lettera sull’«umanismo», in cui egli afferma: «Il passaggio della Lettera sull’Umanesimo parla esclusivamente del Dio dei poeti e non del Dio della rivelazione». HERMANN NOACK, Gespräch mit Martin Heidegger, in Anstösse, «Berichte aus der Arbeit der Evangelischen Akademie Hofgeismar», 1954, Bd. I, S. 33. M. MARASSI, Introduzione a M. ZARADER, Il debito impensato, p. XXVII.

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sto, “impensato”, ma a partire dal quale potrebbe essere risituato tutto il pensiero occidentale nei termini in cui l’oblio dell’Essere si pone come sua condizione iniziale. L’impensato sarebbe allora l’obliato, cioè l’essere in quanto essere, che a partire dal pensiero preplatonico e pre-metafisico, viene caratterizzato dal suo non-essere-pensato61. Così, tutta la storia dell’Occidente non si risolve che in una lunga notte tenebrosa, caratterizzata dalla povertà dell’essere in cui il poeta si avventura, andando alla ricerca di una Parola che permane nella sua aura di luce inafferrabile. La sua flebile voce viene ascoltata e ri-nominata dal profeta con la promessa ossessiva e folle di un “quando mai” indefinito, ri-volto al giorno che non verrà. Con il canto di Celan: Wann, wannwann, Wahnwann, ja Wahn62. [Quando, quandoquando, folle-quando, sì folle]

La Parola poetica appare così sospesa fra la perdita infinita e l’ipotetico avvento di un Dio a venire, ovvero di colui che si approssimerebbe «sotto la data del giorno di Nessuno (unterm/ Datum des Nimmermenschtags)63», oltre il tempo degli «dei fuggiti»64. 4.2.1 Celan e Heidegger: il dio dei poeti Nella concezione di una metafisica giunta al suo compimento si declina anche la poesia celaniana dell’attesa che – nella determinazione ultimativa di un’aura squisitamente mistico-ebraica – richiama nei suoi fondamenti teoretici, l’orizzonte premetafisico di un “Dio a venire”. Avvento di un’ultimità che Celan profetizzava nell’invocazione poetica di «un’ora che non ha sorelle»: Geh, deine Stunde hat keine Schwestern, du bist – bist zuhause. Ein Rad, langsam, rollt aus sich selber, die Speichen klettern, 61 62 63 64

Cfr. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 243; Sentieri interrotti, pp. 242-243. Sono alcuni versi della poesia Huhediblu, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 275. Cfr. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 243; Sentieri interrotti, pp. 242-243. Cfr. ibi, S. 248; ibi, p. 247.

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Il grido e il silenzio

klettern auf schwärzlichem Feld, die Nacht braucht keine Sterne, nirgends fragt es nach dir65.

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[Và, la tua ora non ha sorelle, sei – sei a casa. Una ruota, lentamente fuoriesce da sé, i raggi si arrampicano, si arrampicano sul campo nerastro, la notte non chiede stelle, in nessun luogo si domanda di te.]

Versi inarcati sullo sfondo di una notte chinata su se stessa: l’andamento curvo è quello proprio alla torsione di un orizzonte che sta volgendo al suo termine. «Una ruota, lentamente fuoriesce da sé («Ein Rad, langsam, / rollt aus sich selber,)», i suoi raggi – non più inseriti nell’armonia di una ruota che li tiene insieme – si sfilano dal loro consueto ancoraggio arrampicandosi liberi, sul campo nerastro (auf schwärzlichem Feld) di una notte che ha rinunciato alle stelle... Secondo l’interpretazione di Otto Pöggeler66, questa strofa costituirebbe una riformulazione poetica del discorso Le tre metamorfosi del testo nietzscheano Così parlò Zarathustra67. Il tema della ruota che fuorisce da sé, si riferirebbe così, alla dottrina dell’eterno ritorno. Una concezione che, secondo un’annotazione autobiografica contenuta in Ecce Homo, prese forma in Nietzsche durante una passeggiata lungo il lago di Silvaplana, in Alta Engadina. Il filosofo afferma: «6000 piedi al di là dell’uomo e del tempo». Questa asserzione del pensiero – che suona come una sorta di profezia e che in Nietzsche allude a Zarathustra e alla dottrina dell’Oltreuomo – secondo l’interpretazione heideggeriana, viene formulata all’interno di un orizzonte nichilista che, nel decretare la fine della metafisica, si trova ad esserne inglobato. 65 66 67

Si tratta della la terza strofa appartenente alla poesia Engführung, in P. CELAN, GW, Bd. I, S.197. Come già anticipato nel primo capitolo di questo lavoro, fra il 1936 e il 1946, Celan poté leggere le lezioni di Heidegger su Nietzsche donategli dal filosofo. Cfr. O. PÖGGELER, Spur des Worts, S. 248. Le parole di Zarathustra suonano: «Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì». FRIEDRICH NIETZSCHE, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, Reclam, Stuttgart 1987, p. 21; tr. it. di G. Colli e M. Montinari, Così Parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1988, p. 25.

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Lo strappo

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Una convinzione condivisa dallo stesso Celan che ripensa l’eterno ritorno nel rimando poetico e circolare del “meridiano”, simbolo di una poesia giunta ai margini di se stessa poiché formulata all’interno dell’ultimo tratto della storia della metafisica68. I versi: «Una ruota, lentamente/ ruota fuori da sé», suggerirebbero allora, l’andamento concentrico di una poesia consapevole di fomularsi entro una notte che non chiede alcuna luce (keine Sterne) poiché il suo destino si attua nell’ultimità di un tempo che non ha sorelle (deine Stunde / hat keine Schwestern). La poesia esce da se stessa, ruotando fuori da sé come una ruota i cui raggi, privati di un loro fondamento (Ab-grund), s’arrampicano (klettern) per elevarsi oltre un tempo in cui «Dio è morto»69, e a un luogo in cui nessuno più domanda di lui (nirgends / fragt es nach dir). Le affinità rintracciate qui fra il poeta bucovino e la concezione heideggeriana del pensiero nietzscheano, riferite cioè, a un luogo e a un tempo notturno in cui gli «dei e Dio sono fuggiti» poiché «si è spento lo splendore di Dio nella storia universale»70, consentono alla nostra ricerca di approfondire il senso teoretico dell’affermazione nietzscheana «Dio è morto», e di indagarne i confini della comunanza con Celan, all’interno di un pensiero metafisico giunto ai margini di se stesso. Secondo Heidegger, il significato dell’affermazione nietzscheana «Dio è morto» non è causato da una semplice forma di miscredenza71. Anzi, il senso dell’espressione «Dio è morto» si riferisce al dio inteso come valore, secondo il modo di intendere proprio della metafisica tradizionale che, ponendo la volontà di potenza come essere dell’ente e principio reale dei valori, ha finito per decretare il proprio compimento; ovvero, il pensare per valori colpisce l’ente nel suo essere in sé, non lasciando più spazio al sorgere dell’essere72: 68 69

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72

Cfr. O. PÖGGELER, Spur des Worts, S. 248-249. Cfr. F. NIETZSCHE, Die Fröhliche Wissenschaft, in Werke, Naumann, Leipzig 1889, 1905, vol. V, p. 163; tr. it. di F. Masini, La gaia scienza, in ID., Opere, vol. V, tomo II, Idilli di Messina, La gaia scienza e Frammenti postumi (1881-1882), Adelphi, Milano 1965, p. 129. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 248; Sentieri interrotti, pp. 247. «Fin che noi intendiamo l’espressione “Dio è morto” soltanto come la formula della miscredenza, non facciamo che pensare in modo teologico-apologetico, rinunciando a ciò verso cui mirava il pensiero di Nietzsche, e precisamente alla riflessione che tende a pensare ciò che è già accaduto alla verità del mondo sovrasensibile e al suo rapporto col mondo sensibile». M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 202; Sentieri interrotti, pp. 200-201. Per un approfondimento riguardante l’interpretazione heideggeriana della sentenza di Nietzsche «Dio è morto» cfr. ibi, S. 193-247; ibi, pp. 191-246.

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Il grido e il silenzio

L’essere non entra nella luce della propria essenza. Nell’apparire dell’ente come tale, l’essere rimane escluso. La verità dell’essere sfugge: è dimenticata73.

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Nell’oblio e nella dimenticanza dell’Essere a partire dal pensiero preplatonico74 nei confronti un una Parola originaria, intesa heideggerianamente nel suo non-essere-pensata – condizione questa, di tutta la storia della metafisica occidentale –, dimora il suo stesso destino (Geschick). Il non-essere-pensato dell’essere consente qui di definire ulteriormente il senso dell’attesa nei termini di un “avvento” che non si concede se non attraverso il carattere costante della negazione e dell’occultamento di sé da parte dell’essere stesso. Se questo è il senso dell’affermazione «Dio è morto», ne viene che quello appartenente all’espressione «Cerco Dio» – presente nello stesso brano della Gaia Scienza – si riferisce all’avvento di un Dio non più inteso come valore, ma proprio per questo non ancora dicibile dall’uomo contemporaneo. Infatti, nella consapevolezza che l’essere dell’ente è esso stesso il principio dei valori, l’uomo contemporaneo è certamente giunto all’ultimo stadio della metafisica, ma restandone pur tuttavia, irretito. Ecco allora perché l’espressione «Cerco Dio» è propria di un «uomo folle»75, fuori dalla norma, e dunque trasgressore della tradizione che non può più appartenere all’epoca degli «dei fuggiti»: al contrario, l’uomo folle è già oltre quel tempo, «è al di là dell’uomo di prima». Invece, per l’uomo che dimora in un tempo di povertà76, il destino (Geschick) dell’essere in quanto tale riposa ancora nel Dasein che, giunto all’ultimo stadio della soggettività – come consapevolezza di essere egli stesso principio dei valori –, si trova ancora irretito nelle tenebre di un tempo povero, dove l’essenza dell’essere si manifesta soltanto attraverso la sottrazione del proprio svelamento.

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Ibi, S. 244; ibi, p. 243. «L’essere non è pensato neppur là dove il pensiero preplatonico dà inizio al pensiero occidentale, preparando lo sviluppo della metafisica ad opera di Platone ed Aristotele. L’ἔστιν (ἐὸν) γὰρ εἶναι nomina certamente l’essere stesso. Ma non pensa il suo esser-presente a partire dalla sua verità. La storia dell’essere ha inizio, e certo necessariamente, con l’oblio dell’essere». Ibi, S. 243; ibi, p. 242. L’espressione «L’uomo folle» costituisce propriamente il titolo del brano nietzscheano in questione. A questo proposito Heidegger afferma: «La notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla «mancanza di Dio». M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 248; Sentieri interrotti, p. 247.

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Un approdo teorico che decreta l’affidamento del Dasein all’annuncio dei poeti: nell’abitazione della tenebra (Dunkel), l’uomo attende e indietreggia di fronte alla grandezza di uno Spirito (Geist) destinato a restare indicibile. L’annuncio poetico di questo avvento veniva già cantato mirabilmente due secoli prima di Celan, da Heinrich von Kleist:

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Ich trete vor einem zurück, der noch nicht da ist, und beuge mich, ein Jahrtausend im voraus, vor seinem Geiste77. [Indietreggio di fronte a uno che non c’è ancora e mi inchino un millennio in anticipo, davanti al suo Spirito.]

Non c’è dunque, altro Dio se non «mancante», se non nascosto, così come non si dà Parola dell’essere se non segnata nel proprio destino (Geschick) dal carattere della «sottrazione»: L’essere si destina a noi nel momento stesso in cui sottrae la sua essenza, celandola nella sua sottrazione78.

Se quindi, le modalità manifestative dell’Essere e quelle di un avvento ultimativo cantato poeticamente da Von Kleist, sono pressoché le stesse, sorge il dubbio riguardo a una loro possibile affinità. In altri termini, l’Essere nel pensiero heideggeriano è il Dio a venire dei poeti? Una risposta esaustiva a questa domanda implicherebbe certamente un’analisi complessa e dettagliata delle componenti filosofiche e teologiche presenti nelle oscillazioni del linguaggio del pensatore tedesco in considerazione delle polemiche rivolte all’ontoteologia. Tuttavia, ai fini della nostra ricerca, è sufficiente riferirsi a quanto espresso da Heidegger nell’edizione definitiva della Lettera sull’«umanismo». Nel testo del 1949, Heidegger risale dalla domanda metafisica a quella sull’Essere o meglio: dalla teologia alla filosofia. Con le parole del pensatore:

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Questi versi sono tratti da una dichiarazione di Martin Heidegger inserita nell’intervista televisiva del 24 settembre 1969. Cfr. RICHARD WISSER (hrsg.), Martin Heidegger im Gespräch, Alber, Freiburg-München 1970, S. 77. M. HEIDEGGER, Der Satz vom Grund, S. 110; Il principio di ragione, p. 112.

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Il grido e il silenzio

Solo a partire dalla verità dell’Essere si può pensare l’essenza del sacro. Solo a partire dall’essenza del sacro si può pensare l’essenza della divinità. Solo alla luce dell’essenza della divinità si può pensare e dire che cosa debba nominare la parola “Dio”79.

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Pochi anni più tardi, nel 1953, rispondendo ai dubbi avanzati da coloro che si interrogavano sulla portata teologica di questo passo, il pensatore affermerà: «Il passaggio della Lettera sull’«umanismo», parla esclusivamente del dio dei poeti e non del dio della rivelazione»80. Parole che svelano non solo la propensione di Heidegger verso una scelta di tipo mistico ma suggeriscono soprattutto che «non ci troviamo più nella sfera della vita cristiana né tantomeno religiosa»81. Infatti, la confusione fra Dio ed Essere propria al pensiero dell’ontologia viene ora sostituita da un orizzonte non più appartenente alla metafisica ma a una costellazione totalmente diversa «dove ciascun termine risuona in modo nuovo, cioè non metafisico»82. Il disoccultamento dell’essere, inteso non più come Grund ma come Abgrund, apre alla stessa possibilità dell’avvento di un Dio: Che Dio sia Dio avviene a partire dalla costellazione dell’essere e dentro di essa83.

Il legame fra la filosofia e il Dio a venire è dunque tale solo in relazione al pensiero che oltrepassa la metafisica tradizionale, nel senso stesso in cui tale pensiero costituisce soltanto l’apertura, la possibilità della venuta di un Dio. Ecco perché non ci si può spingere oltre questo pensiero se non attraverso e a condizione del “pensiero” stesso. Ma la condizione del pensiero sta a sua volta nello stesso occultarsi e disvelarsi dell’essere, dove ciò rimanda nuovamente al carattere della sottrazione come unica modalità costitutiva al dispiegamento dell’essere stesso. Pertanto, se il pensiero costituisce la possibilità dell’avvento e se l’essere nell’evento del ritrarsi è condizione del pensiero, allora l’Essere è caratterizzato dall’oblio. Infatti, la storia della metafisica occidentale non solo ha dimenticato l’essere in sé, ma nell’atto di questo oblio, ha ucciso anche 79 80 81 82 83

M. HEIDEGGER, Platons Lehre von der Wahrheit. Mit einen Brief über den “Humanismus”, p. 351; Lettera sull’«umanismo», pp. 85-86. H. NOACK, Gespräch mit Martin Heidegger, Bd. I, S. 33. M. ZARADER, La dette impensée, p. 136; Il debito impensato, p. 141. Ibidem. MARTIN HEIDEGGER, Die Technik und die Kehre, Neske, Pfullingen 1959, S. 46; tr.it. di M. Ferraris, La svolta, Il melangolo, Genova 1990, p. 31.

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Dio nel suo essere in sé84. Il grido nietzscheano «cerco Dio» continuerà così, a non essere ascoltato «fin che non si incomincerà a pensare. Ma il pensiero incomincerà solo quando ci si renderà conto che la ragione glorificata da secoli è la più accanita nemica del pensiero»85. Ma allora tutto ciò che rimane da fare alla filosofia è «preparare questa disposizione a tenersi aperti per l’avvento o la contumacia di un Dio»86. Un approdo teorico che definisce ultimativamente la Parola dell’essere e l’avvento di un dio a venire, nell’orizzonte di un’attesa che si dispone misticamente allo svelamento di una sottrazione. Nella conferma di un in-contro fra Heidegger e Celan sul piano ontologico del regno di un nuovo cominciamento del pensiero, si è rilevato come lo svelamento silenzioso della Parola avvenga pur sempre in quella dinamica di vicinanza e lontananza che ne definisce il carattere di una sottrazione speranzosa. Se da un lato questa acquisizione teorica circoscrive la prossimità fra il poeta e il pensatore al regno di un’attesa della Parola che ha luogo nel dialogo fra poetare e pensare, d’altro canto non si dimentichi la sua declinazione esistenziale in quella «speranza di una parola a venire» che, nel poema Todtnauberg, testimoniava l’urgenza della sua attualizzazione storica in relazione alla questione del Nazionasocialismo87. In questa luce l’avvento di un “Dio a venire” assumeva in Celan il volto di una “parola a venire”88 che – nella missione in comune col filosofo di “tener desto il pensiero” in un’epoca di tenebra dominata dalla tecnica – si traduceva pur sempre nella speranza attualizzata di una “parola” carica di responsabi84 85 86 87 88

Cfr. M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 193-247; Sentieri interrotti, pp. 191-246. Ibi, p. 247; ibi, p. 246. Questa dichiarazione è contenuta nell’intervista di Heidegger allo Spiegel, 31 maggio 1976; Cfr. ALFREDO MARINI (a cura di) Ormai solo un Dio ci può salvare, Intervista con lo Spiegel/ Martin Heidegger, Guanda, Parma 1987, p. 139. Questo argomento è stato trattato nel paragrafo 2.5.2. del presente lavoro. A rilevare questa connessione fra il Dio a venire e la “parola a venire” del poema Todtnauberg è l’analisi di James K. Lyon. Nel suo testo Lyon fa notare come il concetto del Dio a venire sia stato appreso da Celan non solo attarverso la lettura dei testi heideggeriani nei primi anni Cinquanta, ma anche grazie al libro di Karl Löwith Heidegger: pensatore in tempo di povertà (KARL LÖWITH, Heidegger: Denker in dürftiger Zeit, Fischer, Frankfurt am Main 1953; zweite vermehrte Auflage, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1960; tr.it. di C. Cases e A. Mazzone, Heidegger: pensatore in tempo di povertà, in ID., Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino 1966). Nella sua copia personale Celan sottolinea infatti le pagine riferite al concetto del Dio a venire e quelle riguardanti il passato nazista di Heidegger in relazione al Discorso del rettorato tenuto all’Università di Friburgo nel 1933 (cfr. J. K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger, pp. 56-57).

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Il grido e il silenzio

lità, perché destinata alla Salvezza dell’umanità. Su questo piano, la “parola a venire” significava per il poeta bucovino la speranza che il “cuore del pensatore”89 si disponesse a una presa di posizione sul suo passato nazista in nome di una nuova sacralità propria al pensare poetante, nell’attesa di una redenzione universale – oltre il tempo degli dei fuggiti. Nell’attestazione di una sacra attualizzazione del pensiero dai tratti specificatamente mistici si tracciano così, ulteriormente i confini di quella contrarietà irrisolta che circoscrive l’in-contro fra Celan e Heidegger. Se infatti nel pensiero del filosofo, il Dio a venire assume esclusivamente i tratti del dio dei poeti, ciò non si può dire per il poetare di Celan, dove la disposizione mistica dell’attesa è tale sia in relazione al silenzio della Parola dell’essere, sia alla sua sacra connotazione teologica di un incontro con i cuori90, che conferisce alla sottrazione divina in un’epoca di tenebra, l’aura di una redenzione universale specificatamente biblica. 4.2.2 Poesia mistica e Salvezza Così, Celan al pari di un mistico è colui che nella notte più tenebrosa di tutti i tempi, si appresta a combinare i nomi della tradizione in modo da relativizzare le apparenti integrità del linguaggio quotidiano91, andando

89 90 91

Sono i versi stessi di Todtnauberg a testimoniarlo: «una speranza, oggi, / dentro il cuore, per una / parola / a venire / di un uomo di pensiero» (P. CELAN, GW, Bd. II, S. 255). Mi riferisco qui alle risonanze mistico-ebraiche presenti nella poetica di Celan apprese dai racconti chassidici di Martin Buber. È lo stesso poeta a testimoniarlo nel discorso del Meridiano. Cfr. P. CELAN, GW, vol. III, p. 185. A questo atto mistico di Celan è sottesa la concezione filosofica di Benjamin, per il quale la lingua di Adamo prima della caduta consisteva solo nei “nomi” da lui dati alle cose. Questo linguaggio dei nomi sarebbe quello della conoscenza pura, cioè il linguaggio autentico coincidente con la verità. Con la caduta il linguaggio autentico sarebbe stato corrotto e moltiplicato in varie lingue dalla capacità di giudicare in base alle astrazioni del «bene» e del «male». (Cfr. WALTER BENJAMIN, Ursprung des deutschen Trauerspiels, in Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1955, Bd. I, S. 141-361). Da quel momento si sarebbe instaurato un rapporto dialettico per cui la lingua conoscerebbe «soltanto parole (Wörter)» per gli oggetti «nei quali i nomi (die Namen) sono nascosti (verborgen)» (Cfr. ROLF TIEDEMANN, Studien zur philosophie Walter Benjamin, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt am Main 1965, S. 29). Questa tesi è ripresa e sviluppata da Benjamin nella premessa gnoseologica (Erkenntniskritische Vorrede) a Ursprung des deutschen Trauerspiels, in cui i «nomi» ricompaiono come «Idee» (Ideen) che il filosofo deve ritrovare e pronunciare come un secondo Adamo, essendo suo compito quello di rappresentare la verità.

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Lo strappo

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alla ricerca del suo senso ultimo e nascosto; un atto che, in tempi oscuri e poveri di sacralità, avvicina il poeta all’esperienza mistica dell’estasi, ovvero a quella teologia del linguaggio che è frutto di una geniale rimeditazione della Qabbalà da parte di Abulafia92. Il poeta allora, si rivela colui che attraverso l’esplorazione dell’abisso profondo del linguaggio, (Gesagtes), ritrova quel nome autentico ma ineffabile – il non-nome, appunto – che nella sua indicibilità, resta pur sempre e paradossalmente condizione di ogni nostro dire. Il cantore della Parola viene per così dire, investito da una luce estatica talmente intensa da appartenere – per rimanere fedeli alla tradizione chassidica – allo splendore di un Dio silenzioso, immanente a tutte le cose, ma che non parla se non nel modo di un folgorante, e perciò tacito, apparire della sua immensa gloria93. Un bagliore silenzioso si dispone alla visione di una “luce scura” (Lichtung) che non appartiene tanto a un «Dio che si rivela, ma al Dio che si sta nascondendo»94; lucore a intermittenza, frammentato, sbriciolato (bröckelt) dalla storia, dove la presenza del divino è luogo di frammentazione e nascondimento dell’Origine: TAU. Und Ich lag mit dir, du, im Gemülle, ein matschiger Mond bewarf uns mit Antwort, wir bröckelten auseinander und bröselten wieder in eins:

92

93 94

Secondo la Qabbalà di Abulafia, l’anima umana «pur vivendo in questo mondo, ne rifiuta le immagini esterne e si concentra solo nella contemplazione del nome di Dio»; in tal modo, l’anima si prepara in modo retto all’ultima trasformazione. Prima di questo momento, corrispondente al settimo stadio dell’ascensione mistica, i sigilli che normalmente precludono la luce celeste del puro intelletto si allentano e infine si dischiudono del tutto. Tuttavia, l’estasi a cui l’uomo perviene non lo coglie mai improvvisamente – lo stesso Abulafia mette in guardia dai pericoli derivanti da una meditazione priva di metodo – ma, attraverso la combinazione dei santi nomi, egli può partecipare degli ineffabili segreti del nome di Dio, restando «pienamente cosciente nel mondo della luce divina che lo illumina e lo guarisce», G. SCHOLEM, Die jüdische Mystik, S. 149-150; Le grandi correnti della mistica ebraica, p. 148. Sul concetto del Dio silenzioso nel chassidismo medioevale cfr. ibi, S. 119; ibi, pp. 119-120. ANDRÉ NEHER, L’essence du prophétisme, Calmann-Lévy, Paris 1972, p. 300; tr. it. di E. Piattelli, L’essenza del profetismo, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 265.

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Il grido e il silenzio

des Herr brach das Brot, das Brot brach den Herrn95. [TAU. E giacevo con te, tu, fra le rovine, una luna marcia ci ha scagliato addosso una risposta ci siamo sbriciolati e dalle briciole riunificati:

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il Signore ha spezzato il pane, il pane ha spezzato il Signore.]

Risuona in questo poema il richiamo al divino come povertà del Sacro nella declinazione propria alla tradizione della mistica ebraica. «E giacevo con te, tu fra le rovine», canta il poeta evocando in questi versi un’originaria unità con la Parola la cui sacralità è guastata dalla storia – «luna marcia (matschiger Mond)» scagliata addosso alla Parola, in-contro al suo dire, nell’urto violento di uno sbriciolamento. È qui evocata la frammentazione del divino che tanto rammenta la figura mistica della Shekhinah96, parolaluna (Wortmond)97, emersa dalla acque dopo un’esplosione cosmica. Volto femminile di Dio, scintilla luminosa che percorre esiliata le contrade dell’Universo. Lei, che aveva folgorato con la stessa intensità del Sole, ora brilla soltanto di una pallida e bianca luce riflessa, come «la sacra luna»98 della notte, menomata, rimpicciolita, coperta di ombre e di mac95 96

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P. CELAN, GW, Bd. II, S. 191. Schekhinah significa in ebraico presenza. Nella mistica, indica la presenza divina o l’immanenza di Dio nel mondo rappresentandone il suo volto femminile. Sebbene Shekhinah fosse un termine usato spesso come sinonimo di Dio, è stata considerata da alcuni filosofi ebrei un’entità separata, un essere creato di luce con cui l’uomo viene in contatto. Il tabernacolo nel deserto e il primo Tempio a Gerusalemme erano i luoghi di dimora della Shekhinah, ma Dio non abitò nel secondo Tempio: l’esilio di Israele provocò l’esilio della Shekhinah, perché essa dimora con la comunità di Israele anche nella sua impurità. La Shekhinah veglia sul popolo di Israele e ispira anche gli individui, in particolare quelli che servono Dio con gioia. Importanti le considerazioni svolte da ALAN UNTERMAN, in Dictionary of Jewish Lore and Legend, Thames and Hudson, London 1991, p. 257; tr. it. di M. Consonni e S. Foà, Dizionario di usi e leggende ebraiche, a cura di Anna Foa, Laterza, Bari 1994, p. 269. Cfr. O. PÖGGELER, Spur des Worts, S. 179-245, in particolare S. 211-217. Al momento della Creazione del mondo la Luna era luminosa come il Sole, ma dopo la creazione la sua luce fu attenuata. Soltanto in età messianica, quando

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Lo strappo

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chie. Vagando per il mondo, si avvicina agli uomini addormentati – perché avvolti nel sonno e nell’ebrezza della colpa – per tentare di svegliarli, ma invano99. Allora la Shekhinah100 piange tutto il suo pianto, addolorandosi per le colpe del mondo, quelle stesse colpe di cui essa stessa è macchiata, oscurata (eingedunkelt). La Schekhinah è come le tenebre della notte, sacralità dell’ombra, esiliata nel luogo di una lontananza come strappo da un’Origine perduta: «und bröselten wieder in eins, e dalle briciole riunificati», canta Celan, nella nostalgia di un approdo alla restituzione di un’unità divina. E ancora: «il Signore ha spezzato il pane», dove il riferimento religioso evoca l’ultima cena e l’atto eucaristico dello spezzare del pane101 come offerta sacrificale della vita per la redenzione degli uomini; Salvezza di una Parola che si svela nel corso della storia Occidentale come dolore di uno spezzamento: «das Brot brach den Herrn, il pane ha spezzato il signore», canta infine il poeta, alludendo all’eletto come a colui che è “salvo” in quanto sacrificato alla Parola. Nella sua condizione veterotestamentaria di lontananza dall’Origine, “l’eletto” è parola spezzata, frammento del divino costantemente esiliato nell’immensa malinconia di uno strappo dall’Origine. Nostalgia della Salvezza come Tau – letteralmente “rugiada”, nella sua accezione simbolica e mistica di redenzione – evocata da Celan nel titolo del poema. Nel termine Tau è contenuta tutta l’indicibilità e la malinconia del divino nell’invocazione di una Parola che salva. Il Tau, sia nella sua accezione storica che nella sua pregnanza simbolica, evoca in sé la questione dell’Origine. La Croce del Tau prende infatti il nome dalla lettera “T” greca e la storia del suo simbolo risale agli albori della civiltà attraversando gran parte della cultura e della fede occidentale. Il Tau, inizialmente, si identifica con l’isoletta di Patmos cantata da Omero, luogo in cui Dio si è manifestato avverrà la redenzione e la ricostituzione del Tiqqùn (tutto originario), essa diverrà nuovamente luminosa come il Sole. Cfr. A. UNTERMAN, Dictionary, p. 142; Dizionario, p. 170. 99 MARTIN BUBER, Die Erzählungen der Chassidim, Manesse Verlag, Zürich 1949, S. 92; tr. it. di G. Bemporad, I racconti dei ‘hassidim, Guanda, Parma 1992, p. 80. 100 Nella lirica di Celan la Shekhinah va a raccogliersi poeticamente attorno a un’immagine esemplare di «sorella», alla quale l’aura sacrale della mistica aggiunge un’immensa malinconia; ne sono testimonianza alcuni versi tratti dal poema Engführung già analizzati in questo lavoro, a partire dallo sfondo ontologico di un’ultimità: Geh, deine Stunde / hat keine Schwestern, du bist – bist zu hause, «Va’, la tua ora / non ha sorelle, sei – / sei a casa». P. CELAN, GW, Bd. I, S. 197. 101 Sull’atto eucaristico dello spezzare del pane in relazione al poema Tau, cfr. P. CELAN, Die Gedichte, S. 777.

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Il grido e il silenzio

– Dio come “Alfa e Omega”, principio e fine di tutte le cose e origine della vita. Anche nell’Apocalisse di Giovanni, l’alfa e l’omega rappresentano l’inizio e la fine. L’omega si riferisce alla conclusione di tutta l’opera divina e la stessa funzione si ritrova nell’ultima lettera dell’alfabeto ebraico: il Tw. Questa lettera si trova già nell’Antico Testamento con Ezechiele: «Il Signore disse: passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna con il Tw sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per le malvagità che vengono commesse» (Ezechiele 9, 1-6). E più avanti: «Percorrete la città dietro di lui e colpite senza pietà. Ma quelli che portano il Tw sulla fronte, quelli non toccateli». Al Tw viene così assegnato il significato di riconoscimento di un’elezione e di una protezione divina. Un sigillo che viene identificato in epoca medioevale con il segno della croce precedente al Tutulus, ossia a quel cartello con la scritta I.N.R.I. che indicava il capo d’imputazione del Salvatore. Il Tau diverrà così nel tempo segno di Salvezza e di pace assunto a simbolo di “vera croce” da San Francesco d’Assisi102 e riproposto, nell’eleganza intellettuale del santo, come segno della passione di Cristo ante litteram, in maniera cioè, quasi elitaria, vicina alle parole di Ezechiele e come indice di appartenenza alla schiera dei prescelti dal Padre103. 4.2.3. “I morti – Francesco, mendicano ancora” Il riferimento a San Francesco non è qui casuale poiché nella vita di Celan il legame con il Santo è profondo ed esplicito. Nel novembre del 1953, Celan si reca ad Assisi, insieme alla moglie Gisèle, dopo la morte del figlio François, il cui nome svela già un nesso profondo con la memoria del Santo. Ad attestarlo sono anche le letture di Celan di alcune agiografie di Francesco, in particolare quelle di G.K. Chesterton e di Tommaso da Celano – dal quale deriva per sua stessa ammissione lo pseudonimo “Celan”. Ma c’è di più: fra i numerosi riferimenti alle vicende francescane, di cui il poema Assisi104 è evidente testimonianza, Celan viene affascinato dalla figura di un ulteriore biografo, seguace di Francesco fino alla fine dei suoi

102 Per un approfondimento della storia del Tau in relazione alle sue origini francescane, cfr. ENRICO SCIAMANNA, Il Tau, Origine e tradizione francescana del simbolo, Minerva, Assisi 2004. 103 Sull’ipotesi riguardante l’appartenenza di San Francesco all’etnia ebraica, in quanto figlio di un “convertito”, cfr. GEMMA FORTINI, Francesco d’Assisi ebreo?, Carucci, Roma 1978. 104 P. CELAN, GW, Bd. I, S. 108.

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Lo strappo

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giorni, il cui nome è Angelo105. Sarà la dicitura della forma italiana a suggerire a Celan un’assonanza destinale con il proprio nome originario rumeno “Antschel”– successivamente anagrammato in “Celan” – e a legarlo poeticamente alla memoria del santo. Un legame indissolubile, quello fra Celan e Francesco106, che fa appello all’origine della nominazione e all’innocenza della creaturalità (Kreatürlichkeit) sullo sfondo del Tau, simbolo della pace e della speranza in una redenzione universale in nome di una poesia che è frammento esiliato – «messaggio in bottiglia»107 diretto a un “tu” – nell’invocazione al conforto e alla consolazione:

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ASSISI Umbrische Nacht Umbrische Nacht mit dem Silber von Glocke und Ölblatt. Umbrische Nacht mit dem Stein, den du hertrugst. Umbrische Nacht mit dem Stein. Stumm, was ins Leben stieg, stumm. Füll die Krüge um.

105 Riguardo al legame poetico fra Celan e Francesco in riferimento alla figura dell’angelo e al poema Assisi, cfr. ALFRED KELLETAT, Celans Assisi, «Studi Urbinati. Studi in onore di Leone Traverso», 45 (1971), Nuova Terra, nn. 1-2, p. 703. 106 Rispetto a un approfondimento del legame fra Celan e Francesco riguardante la dimensione creaturale della poesia, rimando ai contenuti drammaturgici dello spettacolo teatrale “Fili di soli nel silenzio della notte”, messo in scena ad Assisi, nel chiostro della Basilica di San Francesco, nel settembre 2010. La performance ha inteso mettere in scena la complessità della relazione fra l’uomo della modernità e l’Angelo della poesia, dove l’effetto scenico è quello di una continua intermittenza fra silenzio e parola, lungo il filo di una tensione costante che mette in scena i bisogni e le paure dell’uomo contemporaneo, per svelarne il destino solitario di anima fragile e tormentata. Filo di sole è parola tragica e salvifica ad un tempo, in un’epoca di povertà – una povertà tutta francescana dove proprio la parola più nuda si fa stella della sera di rilkiana memoria. Fra quelle pieghe silenziose di ombra, tenebra e oscurità, affiora una poesia solitaria e “creaturale” che – come afferma Celan – «può divenire dialogo – spesso un dialogo disperato». Cfr. lo spettacolo teatrale “Fili di soli” nel silenzio della notte, a cura di Laura Darsié, regia di Doris Merz – 10-11 Settembre 2010 – Chiostro della Basilica Papale di San Francesco d’Assisi. 107 «La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica per natura, può essere un messaggio in bottiglia, gettato in mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza – che possa essere sospinta prima o poi da qualche parte sulla terra, forse la terra del cuore». P. CELAN, GW, Bd. III, S. 186.

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Il grido e il silenzio

Irdener Krug. Irdener Krug, dran die Töpferhand festwuchs. Irdener Krug, den die Hand eines Schattens für immer verschloß. Irdener Krug mit dem Siegel des Schattens. Stein, wo du hinsiehst, Stein. Laß das Grautier ein.

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Trottendes Tier. Trottendese Tier im Schnee, den die nackteste Hand streut. Trottendes Tier vor dem Wort, das ins Schloß fiel. Trottendes Tier, das den Schlaf aus der Hand frißt. Glanz, der nicht trösten will, Glanz. Die Toten – sie betteln noch, Franz108. [ASSISI Notte umbra Notte umbra con l’argento di campana e ulivo. Notte umbra con la pietra che hai portato fin qui. Notte umbra con la pietra. Muto, ciò che è salito nella vita, muto. Travasa le urne. Urna di terra. Urna di terra, solida vi è cresciuta la mano del vasaio. Urna di terra, che la mano di un’ombra ha serrato per sempre. Urna di terra col sigillo dell’ombra. Pietra, ovunque guardi, pietra. Lascia entrare l’asinello. Trotterellante creatura Trotterellante creatura nella neve, che sparse la mano più nuda. Trotterellante creatura, davanti alla parola, che si richiuse da sé. Trotterellante creatura che bruca il sonno dalla mano. Splendore che non vuol confortare, splendore. I morti – Francesco, mendicano ancora.]

108 P. CELAN, GW, Bd. I, S. 108.

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Canto notturno che si eleva nel silenzio spirituale della Notte umbra – “notte delle ombre” per eccellenza – dove il gioco di parole latine umbraumbrae rimanda originariamente alle “ombre dell’Umbria”, aloni scontornati di una parola obliata e affiorata flebilmente fra le tenebre della storia. Da qui, l’ispirazione di un poema i cui temi ricorrenti sono riconducibili a una sorta di cantico creaturale rivolto a una fratellanza cosmica, dove il mònito all’asinello (Grautier), simbolo ricorrente nell’agiografia di San Francesco, suona come esortazione ad avvicinarsi, al farsi strada a stento nella neve (im Schnee), in-contro alla sacralità di una parola-ombra vinta al silenzio (das erschwiegene Wort)109 della notte: la sua voce si appella disperata al conforto dello splendore (Glanz) francescano. Uno splendore che, tuttavia, non vuol confortare (Glanz, der nicht trösten will) poiché, come canta l’ultimo verso: «I morti – Francesco, mendicano ancora (Die Toten – sie betteln noch, Franz). Il Tau ritorna qui tacito, come simbolo di una Salvezza universale, invocazione all’amore dei viventi che possa placare il tormento dei morti (die Toten): celebrazione del Sacro che affiora dalle tenebre di una Parola dal destino insensato perché devastata dai disastri della storia. Nella memoria terribile della Shoah «i morti mendicano ancora»: le anime penitenti dei perseguitati “mendicano” la ricerca di un senso introvabile, nell’invocazione costante della Salvezza come speranza di una Parola a venire (ein kommendes Wort). Ancora insieme a Celan: Io poi scrivo non per i morti, ma per i vivi – certo, per quanti sanno che ci sono anche i morti110.

4.3. Poesia e memoria Il tema della Salvezza nella poetica di Celan, rimanda nuovamente all’avvento di un Dio e di una Parola a venire in un’epoca di tenebra. Nel giorno più oscuro di tutti i tempi il poeta esperisce la minaccia del “giorno tecnico” appartenente a un’epoca di non-salvezza, poiché povera di sacralità. E se il Sacro è inteso come evocazione di ciò che salva, ne viene che il tempo della tecnica è quel tempo della «non-salvezza»111 in cui il poeta – nell’esperienza donante di una Parola che si sottrae – rimemora pur sempre la Salvezza: 109 Questa espressione celaniana appartiene alla poesia Argumentum e silentio, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 138. 110 P. CELAN, Microliti, p. 141. 111 M. HEIDEGGER, Holzwege, S. 251; Sentieri interrotti, p. 250.

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Il grido e il silenzio

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Poeti del genere dei più arrischianti sono quelli che, rendendosi conto della mancanza di salvezza, della perdizione, si incamminano verso la traccia del Sacro. Il loro canto, al di sopra della Terra, salva. Il loro canto celebra l’integrità della sfera dell’essere. La non-salvezza in quanto non-salvezza ci dà la traccia della salvezza. La salvezza evoca il Sacro. Il Sacro congiunge il Divino. Il Divino avvicina a Dio112.

Nello svelamento di una sottrazione, il canto dei poeti è l’ultimo soffio salvifico di un oblio. Paradosso di una parola che offre Salvezza nel nominare poetico come rammemorazione di una dimenticanza. Memoria di una Parola che salva, in un tempo di non-salvezza: la sua rievocazione si costituisce nello strappo di una vertigine arrischiante che trasporta (übersetzt) nella breccia della storia, il ricordo di un esilio. Qui è lo svelamento dell’ultimo soffio: esito storico di un poter-essere-tutto del Dasein nella torsione al tu della Parola. Atto di una consacrazione che, nel nominare poetico, diviene esito di uno strappo dall’esperienza della morte come possibilità dell’impossibilità dell’esistenza, quel poter-essere-tutto di cui non v’è più memoria, cosicché – nella parola nominata – «il pensiero rimemorante è espressione appunto dell’oblio di questa esperienza “originaria”»113. Nel cammino del poeta verso l’Origine dimenticata, la «notte del mondo» diviene «notte sacra» che prepara, nell’esperienza della totalità dell’essere – quale possibilità, «qualcosa che viene»: La notte è il tempo che serba il divino trascorso (das «Vergangengöttliche») e nasconde gli dèi che vengono. Giacché la notte, in tale annottare che serba e nasconde (bergend-verbegend) non è «niente», essa possiede anche la sua propria, ampia chiarezza (Klarheit) e la quiete (das «Ruhige») della tacita preparazione di un qualcosa che viene. […] Ma la notte, come madre del giorno che porta il sacro, è notte sacra114.

Nella notte più oscura di tutti i tempi, la dimensione arrischiante del poter-essere-tutto del cantore diviene così misura del salvifico nel senso di «qualcosa che viene» ma che si ritrae pur sempre nello svelamento notturno del soffio (Atem) di un oblio. La sua rammemorazione nella notte sacra, si traduce (sich übersetzt) nella chiarezza tacita che «prepara qualcosa che viene»: nella sacra preparazione di un avvento, il poetare di Celan e il pen112 Ibi, S. 297; ibi, p. 296. 113 VINCENZO VITIELLO, Utopia del nichilismo. Tra Nietzsche e Heidegger, Guida, Napoli 1983, p. 112. 114 M. HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, S. 104; La poesia di Hölderlin, p. 132-133.

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sare di Heidegger si avvicinano nuovamente – nella sacralità di un comune raccoglimento – alla memoria di un’Origine perduta. Con le parole del pensatore:

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La memoria, la raccolta rimemorazione volta verso il da-pensare, è il terreno da cui sgorga la poesia. Per questo, l’essenza della poesia risiede nel pensiero115.

Questo passo dedicato alla memoria come sorgente della poesia nel suo rivolgersi all’essenza del pensiero poetante, ha ricevuto l’attenzione di Celan116. Se è vero che il cominciamento di un nuovo pensiero può avere luogo sia in Heidegger che in Celan a partire dalla sacra rammemorazione di una Parola obliata, d’altra parte non si può fare a meno di rilevare che la determinazione di questa memoria rappresenta altresì il punto di massima distanza fra il poeta e il pensatore. Nella bozza di una lettera dell’autunno del 1954, Celan scrive a Heidegger parole di ringraziamento, nel richiamo poetico al poema Andenken – Ricordo di Hölderlin: A Martin Heidegger questo timido saluto, messo in risonanza dal desiderio, animato dall’augurio di una vicinanza dal tempo del mare questo segno di ammirazione messo in risonanza dall’augurio di una modesta lontana vicinanza A Martin Heidegger maestro di pensiero in cammino oltre la baia degli angeli117.

115 M. HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, S. 137; tr.it. Saggi e discorsi, p. 91. 116 Come appurato da France-Lanord, il tema della rammemorazione in Heidegger affascinava molto Celan che ne aveva sottolineato ogni passaggio al riguardo, nei suoi testi personali. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 201. 117 «An Martin Heidegger/ dieser schüchterne Gruß aus einer wunschdurchklungenen,/wunschbeseelten Nachbarschaft// vom Meer her/ dieses Zeichen der Verehrung/aus einer kleinen fernen/ wunschdurchklungenen/ Nachbarschaft// Herrn Martin Heidegger/ dem Denk-Herrn// auf dem Weg über die Engelsbucht». Il testo di questa lettera compare come fac-simile nel testo di H. France-Lanord in, H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue p. 225.

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Il grido e il silenzio

Un timido e nobile saluto del poeta al pensatore nell’augurio di una «modesta lontana vicinanza» e nell’avvertimento di una meta comune: «in cammino oltre la baia degli angeli» – conclude poeticamente Celan. Prossimità di una vicinanza (Nachbarschaft) che viene dal «tempo del mare (vom Meer her)»… è l’augurio celaniano. Non è difficile ascoltarne la rievocazione hölderliniana quando, nel poema Andenken commentato da Heidegger, il poeta canta:

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Ma toglie e dà memoria il mare118.

Il mare, togliendo all’erranza del navigatore il pensiero che rammemora la patria, «ne dispiega al tempo stesso la ricchezza»119. Il mare, metafora del viaggio del poeta verso la Parola, si fa così dimora temporale di un’espropriazione rammemorante che toglie la memoria consentendone il dono. Con le parole di Heidegger: La rotta marina è pervasa da un pensiero rammemorante che pensa indietro, alla patria lasciata e, in avanti, alla patria da conquistare. Tuttavia questo pensiero dei naviganti non può mai essere un puro pensiero rammemorante, perché esso esige sempre un dimenticare. Ma anche questo pensiero rammemorante riporta già nell’a casa propria e vi mantiene saldamente coloro che pensano120.

In questo passo sottolineato da Celan121, il pensiero rammemorante è posto in relazione alla patria, a quel “riportare a casa propria” che, nell’abitazione storica del verso poetico, costituisce l’esito di un’espropriazione esiliata. La scrittura poetica si fa così dimora espropriante di un pensiero rammemorante che – nel trattenimento dell’estraneo – esige sempre un dimenticare. Atto di uno spaesamento necessario che dimora nello strappo dall’adesione all’estraneo, nella consegna dolorosa di una memoria obliata al luogo della storia. È nell’oscillazione di un pensiero rammemorante – «che pensa indietro, alla patria lasciata e in avanti, alla patria da conquistare» – che si attua lo strappo della dimenticanza.

118 M. HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, S. 142; La poesia di Hölderlin, p. 169. 119 Ibidem. 120 Ibidem. 121 Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 201.

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Lo strappo

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Un andirivieni che nella poetica di Celan si fa insostenibile perché la determinazione del suo “rammemorare” non è confinata come in Heidegger, esclusivamente alla dimora del pensiero dell’Essere, ma si articola storicamente nella patria esiliata del popolo ebraico. L’avvento di «qualcosa che viene» assume in Celan i tratti rammemoranti di una parola Originaria determinata biblicamente. Nella poetica celaniana la memoria della patria, come rievocazione di una Parola a venire in un’epoca povera di sacralità, si declina così – sullo sfondo di un’individuazione esistenziale – nella parola di Auschwitz: ricordo della Shoah come rievocazione poetica di un’origine perduta. La scrittura poetica si fa qui carico del destino di un popolo nell’impossibilità insostenibile della sua dimenticanza. È in questo senso che va interpretato il poema Andenken di Celan laddove la citazione hölderliniana122 fa da ispirazione – nella declinazione celaniana – all’articolazione biblica della memoria. Come osserva FranceLanord123, a evocarne la differenza dello statuto poetico, è il simbolo di una «pianta di fico» (Feigerbaum) che nel poema Andenken di Hölderlin si fa ricordo luminoso della grecità – memoria di un albero che nel poema Mnémosyne rimanda al fico accanto al quale è morto Achille – e nel poema Andenken di Celan124 si fa memore invece, di un altro popolo: quello ebraico. Il ricordo del “fico” (Feigen) in Celan si consacra così alla memoria di un’altra morte più orrenda – connotata da un occhio a forma “mandorla” (Mandelauge des Toten): Feigengenährt sei der Herz darin sich die Stunde besinnt auf das Mandelauge des Toten. Feigengenährt125. [Nutrito di fichi sia il cuore dove l’ora si ricorda dell’occhio a mandorla del Morto. Nutrito di fichi.]

122 Le risonanze hölderliniane nel poema Andenken di Celan sono state messe in rilievo da Barbara Wiedemann in P. CELAN, Die Gedichte, S. 634. 123 Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue, p. 201. 124 È noto che il fico insieme all’olivo e alla vite, sia nell’Antico Testamento simbolo di abbondanza e di serenità. Con l’olivo e la vite, il fico è anche simbolo d’Israele. 125 È la prima strofa del poema Andenken, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 121.

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Il grido e il silenzio

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L’albero del fico diviene qui simbolo di Israele, ovvero, di quella Parola salvifica che, in un tempo di non-salvezza, assume i tratti specificatamente ebraici di una sacra simbologia, spalancandosi sulla vertigine esistenziale di un’apertura che restituisce storicamente la memoria di un orrore. Nell’abitazione dello strappo è il paradosso di un ricordo così doloroso, da consegnare al regno del nominare poetico, il carico di una memoria sofferente, nel trattenimento impossibile della sua Salvezza. È alla luce di questo orizzonte salvifico che il poetare di Celan si approssima, ancora una volta, all’in-contro con la terminologia heideggeriana – laddove il rammemorare è anche un ringraziare126: Denken (pensare) e Danken (ringraziare) hanno nella nostra lingua la stessa identica origine. Chi ricerca il loro significato si porta nel campo semantico di: gedenken (richiamare alla memoria), eingedenk sein (essere memori), Andenken (ricordo), Andacht (devozione). Mi permettano di prendere le mosse da qui, per ringraziare127.

Nella dimora poetica di un ringraziamento rammemorante ma con accenti specificatamente ebraici, soggiorna il poema celaniano Es stand del 1969, dedicato all’amica d’infanzia Ilana Schmueli – ritrovata in Israele128 dopo anni di separazione. Composto al ritorno da Israele, il poema si fa portatore di un messaggio di serenità e di Salvezza, nell’inno alla città Santa come canto a una Parola ritrovata, dimora sacra in cui il poeta si trattiene. «Mi trattenevo in te (Ich stand in dir), canta Celan all’amata, nell’evocazione creaturale delle sue labbra (Lippe), dimora accogliente e spaesante di una stridente ed ebraica «scheggia di fico (Feigensplitter)»: ES STAND der Feigensplitter auf deiner Lippe, es stand Jerusalem um uns,

126 Relativamente alla comunanza etimologica rintracciata da Heidegger nei termini denken, danken, Gedächtnis e Andenken, i passaggi teorici del pensatore sottolineati da Celan, si trovano principalmente nel corso Che cosa significa pensare? e nella conferenza che porta lo stesso titolo contenuta nel testo Saggi e discorsi. Cfr. H. FRANCE-LANORD, Paul Celan et Martin Heidegger, le sens d’un dialogue p. 202. 127 P. CELAN, Bd. III, S. 185. 128 Per una consultazione dell’epistolario fra Celan e Ilana Shmueli, cfr. ILANA SHMUELI,”Di’ che Gerusalemme è”.

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Lo strappo

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es stand der Helkiefernduft überm Dänenschiff, dem wir dankten, ich stand in dir129. [SI TRATTENEVA la scheggia di fico sulle tue labbra,

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si tratteneva Gerusalemme intorno a noi, si tratteneva l’odore di pino chiaro sopra la nave danese, cui eravamo grati mi trattenevo in te.]

«Si tratteneva – es stand»… Nella reiterazione all’inizio di ogni strofa è l’insistenza di un “trattenere” (stehen) che tiene il passo al tu di una Parola fuggevole eppur salvifica. Nell’evocazione aromatica del pino chiaro (Helkiefernduft), il canto si trattiene nell’in-contro con l’amata nella risonanza poetica di un monumento alla «nave danese (Dänenschiff)». Celan ne rammemora il ringraziamento: «Si tratteneva/ l’odore di pino chiaro/ sopra la nave danese, / cui eravamo grati». Il riferimento storico si lega qui all’incontro con Ilana a Kikar Dania, nella piazza dove è situato il monumento della nave danese130, eretto dalla città di Gerusalemme in ringraziamento al re di Danimarca e al popolo danese; la storia narra che nel 1943 si esposero a grave pericolo, salvando molti ebrei, imbarcandoli su navi danesi dirette in Svezia: testimonianza di una Parola attualizzata e storicizzata nel ringraziamento poetico della sua rammemorazione. Un’acquisizione che conferma alla nostra ricerca l’accezione biblica della Parola celaniana, laddove il suo annuncio salvifico «di qualcosa che viene» si fa portatore di un messaggio messianico. È nel cuore di questa determinazione vetero-testamentaria che nuovamente risuonano quelle implicazioni personali ed esistenziali presenti nella tormentata relazione fra

129 P. CELAN, GW, Bd. III, S. 96. 130 Cfr. P. CELAN, Die Gedichte, S. 871.

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Il grido e il silenzio

Celan e Heidegger. Come viene attestato da Otto Pöggeler131, sembrerebbe che a partire dal 1962, la possibilità che fra il poeta e il pensatore potesse instaurarsi un dialogo limpido e scevro da tensioni personali, fosse già preclusa. Pöggeler afferma che se a quell’epoca Heidegger poteva entusiasmarsi davanti a una poesia come Argumentum e silentio132, lo stesso non poteva dirsi per poesie inerenti all’argomento biblico, riferite cioè, a una Parola con una connotazione vetero-testamentaria. In particolare, Pöggeler riporta un episodio al riguardo, del quale fu testimone diretto. In occasione della lettura di una poesia di Mandelstamm tradotta da Celan133 e attinente al tema della Parola biblica, Heidegger ebbe un gesto di stizza eliminandola bruscamente dal tavolo; non solo, ma in tale circostanza, il pensatore aggiunse che le problematiche riguardanti la sua concezione del linguaggio «venivano sviluppate a partire dalla tragedia greca e da Hölderlin e non dall’Antico Testamento, la cui lingua era stata da lui appresa solo in modo rudimentale attraverso i suoi studi di teologia»134. Le asserzioni heideggeriane sulla poesia di Celan – laddove questa si fa espressione di una determinazione della Parola specificatamente biblica – consentono di chiarificare il senso ultimativo di quella «speranza di una parola a venire» che il poeta rivolgeva al pensatore. Se il loro colloquio come Gespräch si svolgeva nell’orizzonte ontologico di un dialogo fra poetare e pensare nel regno di un nuovo cominciamento del pensiero, è pur vero che la loro prossimità – circoscrivendosi alla dimensione meramente dialogica tracciata nell’orizzonte silenzioso della tenebra dell’Essere – ne svelava la distanza intorno all’eco delle sue ultime determinazioni, chiamando in causa la memoria della Shoah. In questa luce, il poema si fa così testimonianza di una speranza estrema, nella determinazione storica della propria ultimità: parola-ombra di una memoria che si trattiene nel ricordo indelebile delle «proprie macerie». Insieme a Celan: Sulle proprie macerie si trattiene (steht) e spera (hofft) il poema135.

131 Cfr. O. PÖGGELER, Spur des Worts, p. 249 132 La poesia Argumentum e silentio non contiene riferimenti esplicitamente biblici ma il suo canto si rivolge a una Parola originaria vinta al silenzio (das erschwiegene Wort), in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 138. 133 Si tratta della poesia Die priester. Und inmitten er, in P. CELAN, GW, Bd. IV, S. 101. 134 Cfr. O. PÖGGELER, Spur des Worts, p. 249. 135 P. CELAN, Microliti, p. 101 (traduzione leggermente modificata).

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Lo strappo

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La rammemorazione della Parola dispone così, la poesia di Celan al messaggio di una Salvezza che risorge disperatamente dalle ceneri di Auschwitz. Il suo annuncio poetico e colmo di dolore si fa qui carico di un peso insostenibile, attualizzato nella dimensione della “data” di un incontro. Nella marcatura della cesura si definisce l’attuazione storica della rammemorazione come ripetizione del suo ricordo. Una precisazione che restituisce all’ascolto, l’angolazione di un nuovo sguardo rivolto alla dedica del poeta al pensatore, nello Hüttenbuch di Todtnauberg:

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Nello Hüttenbuch, con lo sguardo rivolto alla stella della fonte, con la speranza dentro il cuore per una parola a venire (kommendes Wort). 25 luglio 1967/ Paul Celan136.

Come già rilevato, nella testimonianza scritta dello Hüttenbuch, la riga nel libro (geschriebene Zeile) rappresenta la linea dell’in-contro, faglia esistenziale da cui affiora silenziosa la Parola, punto di convergenza di unicità e ripetizione storica: unicità dell’evento che si dona alla scrittura nell’in-contro irrefutabile di una data, testimoniando la presenza silenziosa dell’enigma inscritto nella storicità di un’individuazione attualizzata. Nella ripetizione creaturale e attualizzata della testimonianza poetica come sua rammemorazione, è racchiuso il senso del “commemorare” appartenente alla data del poema. Come sostiene Derrida, la data sta ad indicare la linea di demarcazione dello Schibboleth – poeticamente espresso nello Hüttenbuch, dalla “riga nel libro”. Una premessa teorica dalla quale prende avvio una nuova riflessione riguardante la memoria espressa proprio dalla data di quel particolare in-contro a Todtnauberg. Seguendo il pensiero del filosofo francese la data si riferisce al fatto che nell’evento della commemorazione, essa indica sia ciò che si commemora, sia qualcosa che commemora. Ecco che si affaccia all’interpretazione la domanda sul senso e sulla determinazione del commemorare rispetto a quanto scritto nel poema: «la riga nel libro / – quali nomi ha accolto / prima del mio? – la riga / in questo libro / inscritta di / una speranza, oggi, / dentro il cuore, per una / parola / a venire / di un uomo di pensiero»137. Il senso della data di questa dedica – sebbene riferito all’attualizzazione dell’enigma 136 Si tratta della dedica di Celan scritta nello Hüttenbuch di Heidegger dopo la visita del poeta a Todtnauberg, al cottage del filosofo nel 1967. Cfr. O. PÖGGELER, Spur des Worts, S. 259 137 «die in das Buch/ wessen/Namen nahms auf/ vor der meinen? –/ die in dies Buch/ geschriebene Zeile von/ einer Hoffnung, heute,/ auf eines Denkenden/ kommen-

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Il grido e il silenzio

silenzioso dell’in-contro – consente altresì la formulazione di una domanda riferita al quid storico e determinato della sua commemorazione. È infatti la connotazione temporale del termine “heute” – oggi – a introdurre nella lirica Todtnauberg il «tempo presente di una ri-collezione»138, attestata a sua volta dalla ripresa, nel poema, della frase già scritta qualche giorno prima nel libro della Hütte. In altri termini, la Parola rammemorata assume qui una particolare determinazione storica nel farsi voce stridente del poeta al pensatore, di un messaggio esistenziale carico di tensione. L’espressione «la riga nel libro / – quali nomi ha accolto / prima del mio?» si riferirebbe così, alla memoria della Shoah139 e ai nomi di coloro che nel ’33 durante il rettorato di Heidegger a Friburgo, si recarono a Todtnauberg a far visita a un sostenitore del nazismo. In questa dimensione biografica, la “riga nel libro” restituisce il quid della data, nella viva testimonianza dello Schibbolet: scrittura che si fa carico della vita nella demarcazione di un confine non transitabile. Attestazione di un in-contro che delinea la cesura temporale di un limite invalicabile: la presenza scritta della “riga” si pone qui, “contro” la continuità storica140 di quei “nomi” (wessen Namen) che hanno precedudes/ Wort im Herzen», sono versi appartenenti al poema Todtnauberg, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 255. 138 È un’espressione di Jean Bollack riguardante l’analisi della dedica di Celan a Heidegger nel libro della Hütte. In un passo egli infatti, afferma: «Il presente di questo giorno “oggi” è messo in rilievo. In questo giorno (…, heute, …) la relazione dell’incontro è stata inscritta, è stata estesa ai criminali i cui nomi si trovano nel libro, in paese di morte, cosicché il “pensatore” della Forest Nera si è messo a pensare, suo malgrado, alla memoria che egli nega» (J. BOLLACK, Il Monte della morte: il senso di un incontro tra Celan e Heidegger, p. 286). 139 È l’analisi di George Steiner a porre l’accento sul fatto che «l’interpretazione di Todtnauberg come ricordo di una delusione abissale, di una non-comunicazione invasa dalle presenze della Shoà, è del tutto evidente. Rimanda al fallimento dell’ospite di ottenere dal padrone di casa la parola sperata, la frase che proviene dal cuore e arriva al cuore dell’altro.» E più avanti: «Durante le lunghe passeggiate su quel molle altipiano qualcosa fu detto? Una scuola di pensiero propende a dire che tutti e due si limitarono a condividere quel silenzio in cui entrambi erano maestri. Non lo sappiamo e non lo sapremo mai. C’è da aggiungere che poco dopo la prima pubblicazione della poesia, Celan informa sua moglie Gisèle e l’amico Franz Wurm a Zurigo che la sua tre giorni con Heidegger si era rivelata positiva e soddisfacente. Non c’è ragione di pensare che questa fosse una macabra battuta. Ma qual era lo stato mentale di Celan nel fare questo resoconto che nessuno gli aveva chiesto? Anche in questo caso non abbiamo modo di saperlo». Cfr. GEORGE STEINER, La poesia del pensiero, p. 218. 140 Una preziosa riflessione al riguardo è offerta dall’analisi di Anja Lemke in ANJA LEMKE, Konstellation ohne Sterne: zur poetischen und geschichtlichen Zäsur bei Martin Heidegger und Paul Celan, Fink, München 2002, S. 329-331.

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Lo strappo

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to quello di Celan. Nell’interruzione della “riga” è l’apertura della faglia che dispone la ferita della scrittura alla commemorazione attualizzata della Shoah. Un’acquisizione che, nell’attestazione temporale di un quid – cui l’enigma della data rinvia nella sua determinazione rammemorante –, si fa espressione di una declinazione attualizzata della “parola a venire”: esito poetico di una meditazione del poeta sulla singolarità del proprio destino personale legato a quel senso di persecuzione crescente che lo tormentava rispetto a una rimonta al potere del nazismo141. L’effetto stridente suscitato dalla dedica scritta nello Hüttenbuch ha dunque il merito di tracciare ancor più nettamente i confini del Gespräch fra Celan e Heidegger, connotato esistenzialmente da un silenzio sempre più estenuante. La cifra estrema della sua estenuazione trova dimora in quell’indicibilità del colloquio che in Celan si articola nel cuore della lingua come “lingua degli assassini”– nella cesura esistenziale di uno strappo doloroso altrettanto “indicibile” e destinato a restare senza conforto. In questa luce, l’atmosfera silenziosa di Todtnauberg, che ammanta la Parola del würgende Gespräch come “dialogo estenuante”, si traduce nel vissuto di una sospensione espropriante, nella costante attualità (heute) di una memoria impossibile da sostenere. L’espressione «la riga nel libro / – quali nomi ha accolto / prima del mio? – accostata “alla speranza di una parola a venire” – porge all’ascolto la percezione di una stonatura, restituendo all’attenzione il senso irrisolto di un’ambivalenza esistenziale e di una domanda carica di tensione, entrambe destinate a restare in sospeso.

4.4 La temporalità del cuore All’approdo ultimativo di una Parola commemorata biblicamente, fanno eco quelle risonanze mistico-ebraiche presenti nella poetica di Celan apprese dai racconti chassidici di Martin Buber142. Nella tradizione di una viva spiritualità, la parola celaniana assume così una connotazione biblica, traducendo la sua “direzione verso i cuori” squisitamente poetica, in quella 141 Com’è stato analizzato altrove, Celan – sulla scorta del Gespräch fra poetare e pensare, in corso con il pensatore – si aspettava da Heidegger una presa di posizione pubblica sul nazismo, rispetto a un pericolo che – secondo il pensiero di entrambi – stava minacciando l’intera umanità. Questo argomento è stato affrontato nel paragrafo 2.5.2. di questo lavoro. 142 Cfr. P. CELAN, GW, vol. III, p. 185.

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Il grido e il silenzio

via mistica della Qabbalà che è costante ricerca di frammenti creaturali finalizzati alla ricostituzione del Tiqqùn originario. In tal senso, la direzione della Parola nella poesia celaniana viene a essere espressione di un dialogo creaturale attualizzato nella memoria di una ricostituzione originaria, nella viva speranza di approdare prima o poi, alla terra del cuore:

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La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica per natura, può essere un messaggio in bottiglia, gettato in mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza – che possa essere sospinta prima o poi da qualche parte sulla terra, forse la terra del cuore143.

Nel messaggio in bottiglia rivolto alla terra del cuore è espressa l’ultimità dell’approdo creaturale di Paul Celan. La parola poetica offerta ai cuori è soffio ineffabile del divino diretto ai “tu” della creaturalità. Respiro silenzioso che affiora dal varco dello scritto: scintilla del Sacro di un’origine divina obliata dalla storia. Una poetica del frammento esiliato che si ammanta di un’aura spirituale nella sua consegna alla mistica luriana dello Tsimtsùm144. È nel segno di questa “ritrazione” originaria che l’uomo è inteso come frammento del divino costantemente esiliato dal tutto originario (Tiqqùn), quella stessa Parola a venire (ein kommendes Wort) e salvifica che potrà essere realizzata storicamente soltanto quando tutti i frammenti, ovvero tutti i “tu” sparsi nel mondo, saranno riuniti145. La parola celaniana assume così, in questa accezione, il volto della gloria e della presenza operante di un Dio che si nasconde, nella speranza di una Salvezza attuabile nella storia. Un nascondimento divino che conserva, nell’atto del suo sottrarsi, la condizione del suo svelamento. Quello stes143 P. CELAN, GW, Bd. III, S. 186. 144 L’influsso della dottrina luriana sul Chassidismo avviene soltanto dal 1550 in poi – periodo questo di massima diffusione della Qabbalà luriana ad opera dei discepoli Vital, Tabul e del qabbalista Sarùg e in cui la Qabbalà si inserisce attivamente e profondamente nella letteratura popolare; fino a quel momento, il proposito della Qabbalà non era stato quello di influire sulla comuntà per predisporla alla redenzione messianica. Anzi, tale messaggio veniva rivolto solo a pochi iniziati. Cfr. G. SCHOLEM, Die Jüdische Mystik, S. 275-282; Le grandi correnti della mistica ebraica, pp. 263-269. 145 È importante precisare che carattere peculiare al giudaismo è sempre stato quello di considerare la Parola come un evento pubblico destinato a verificarsi sulla scena della storia e all’interno della comunità giudaica. Al contrario, il cristianesimo ritiene che la dimensione escatologica della Parola sia da intendersi come evento che si verifica in una sfera spirituale e invisibile, «un evento che si produce nell’anima, in altri termini nell’universo personale dell’individuo»; HENRI CAZELLES, Le Messie de la Bible, Desclée, Paris 1979; tr. it. di A. Mastrandrea, Il messia della Bibbia, Borla, Roma 1981, p. 14.

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Lo strappo

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so Dio incontrato da Mosé sulla montagna che non solo tiene la distanza dall’uomo, ma ne scava l’abisso; e quanto più sono profondi l’indegnità e il timore, tanto più risalta lo splendore della sua gloria:

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Quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere146.

Il volto di Dio si nasconde. Ma se il suo ottundimento getta l’uomo nello sconforto – che nel silenzio del divino non si capacita dell’insensata contradditorietà del reale – d’altro canto, la presenza in lui del negativo non fa che attestare la continua ricerca di un senso ultimativo e la costante attesa di un disvelamento. È dunque in questa possibilità che riposa il senso di ciò che nella rappresentazione appare insensato e senza risposta. Se tutto ciò che si manifesta nella storia appare all’indagine della ragione come rovesciato e contrastante, ossia gegensäztlich – nel senso che il movimento intrinseco al gegen suggerisce – allora si può affermare, insieme a Buber, che questa facciata è “la schiena di Dio147”, nel senso di Gegenwort, ossia il rovescio di una Presenza che nell’esistenza si fa Parola silente di una sottrazione. È il senso di un non-senso che si fa evento (Ereignis) nello scritto poetico come esito dell’ascolto mistico di un Deus Absconditus, Nome dei nomi o ineffabile nome di Dio148. Con le parole di Celan: Il Dio della poesia è inconfutabilmente un deus absconditus149.

Traccia silente del divino, flebile schiudersi di una “parola-ombra” che affiora dalle ceneri della storia. Nella faglia esistenziale del creaturale è l’esito di un’ultimità della Parola che si fa Nessuno, ritraendosi come voce silenziosa nella donazione luminosa della sua ombra. «Nimbo di cenere (Aschenglorie)150», canta Celan, nell’ultimità di una splendente sacralità come testimonianza “segreta di un in-contro”, dove, al confine con l’indicibile, si custodisce l’esperienza ineluttabile di una contra146 Es 33, 22-23. 147 M. BUBER, Die Erzählungen der Chassidim,.p. 783; I racconti dei ‘hassidim, p. 552. 148 Cfr. G. SCHOLEM, Die Jüdische Mystik, S. 119; Le grandi correnti della mistica ebraica, pp. 119-120. 149 «Der Gott des Gedichts ist unstreitig ein deus absconditus». Cfr. P. CELAN. Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, n. 114, S. 86. 150 È il titolo di una poesia appartenente al ciclo Atemwende in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 72.

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Il grido e il silenzio

rietà (entgegen) che genera dolore, cifra tragica della finitezza umana; nello spezzamento è lo strappo alla sacralità del cielo cantata sulla terra all’ombra di un’amorosa lontananza. Nell’esperienza dello strappo è l’ascolto di un grido silenzioso – parola spezzata, frammentata, portata ad unità e quiete, nel luogo dispiegante della sacralità dell’essere: il cuore del poeta.

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Cuore significa ciò in cui si raccoglie l’essenza più propria di questi poeti: la quiete del loro appartenere all’abbraccio del sacro151.

Nella temporalità del cuore152 soggiorna la quiete di un sacro avvolgimento dove si attua l’unità della Parola come riunione di una dualità (Zwiefalt) – svelando nell’in-contro con la data storica, il senso di un’unicità come “univoltità” (Einmaligkeit)153. La poesia si delinea così, in un fiammeggiare estenuante che ritorna a sé in un tempo dell’immediato per farsi carico di uno squarcio: lacerazione storica che nel suo cammino (unterwegs) muove in-contro (ent-gegen) allo spirito (Geist). Nell’accostamento silenzioso si riunisce «all’Uno (in das Eine)» – a quel «mattino più aurorale»154 di un “renitente domani” (sperriges Morgen): SPERRIGES MORGEN ich beiße mich in dich, ich schweige mich an dich, wir tönen, allein,

151 MARTIN HEIDEGGER, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, S. 69; La poesia di Hölderlin, p. 87. 152 Il tema della temporalità del cuore richiama nuovamente il pensiero heideggeriano laddove l’anima del poeta viene identificata con il luogo in cui divampa il «fuoco celeste», inteso appunto come quel Geist originario che divampa sacralmente, destandosi nel suo cuore; un destarsi che, come dice Heidegger, si è acceso nell’animo del poeta «prima della nascita del canto». Questa precisazione del pensatore tedesco, relativa a un tempo del cuore anteriore alla «nascita del canto» poetico, si riferisce a quella dimensione “immediata”, e “iniziale” del Sacro che lo pone in relazione con il carattere originario del Geist: «Ciò che essi colgono nella canzone è l’ispirazione che si desta, il chiarore che arde: «fuoco celeste». Questa espressione […] non significa il fulmine, ma quel “fuoco” che prima della nascita del canto “ora s’è acceso nell’anima dei poeti”: il sacro». Ibi, S. 68; ibi., p. 86. 153 «Poesia – ciò significa fatalmente unicità (Einmalige) della lingua», P. CELAN, GW, Bd. III, S. 175. 154 J . DERRIDA, De l’esprit, p. 175; Dello spirito p. 123.

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Lo strappo

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pastos vertropfen die Ewigkeitsklänge, durchqüackt von heutigem Gestern, wir fahren,

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groß nimmt uns der letzte Schallbecher auf: den beschleunigten Herzschritt draußen im Raum, bei ihr, der Erdachse155. [RENITENTE DOMANI a me ti trattengo, silente ti accosto, con-soniamo, soli, pastosi gocciano i rintocchi di Eternità, nel frammezzo geme l’odierno ieri andiamo, ampia ci accoglie l’ultima cavità acustica: passo accelerato del cuore fuori, nello spazio, accanto all’asse della terra.]

155 P. CELAN, GW, Bd. II, S. 320.

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Il grido e il silenzio

L’in-contro della Parola si fa evento (Ereignis) nella temporalità di un domani renitente (sperriges Morgen) che nella disposizione al trattenimento del poeta (Ich beiße mich in dich), muove in-contro (entgegen) a lui, resistente (sperriges). Nell’impatto, la solitudine del poeta inerisce alla parola, in una musica dell’in-contro: «con-soniamo/soli», dove i rintocchi di Eternità gocciano (die Ewigkeitsklänge vertropfen) pastosi (pastos) e pesanti poiché trattenuti nel luogo di una resistenza, in un tempo contratto della memoria: nel frammezzo di un affiorante domani (Morgen), geme e lacrima l’odierno ieri. Ieri, oggi, domani non sono qui evocati in ordine cronologico ma il loro sostare poetico si attua nel tempo indeterminato di una Parola che si strappa dal reale come interruzione di una successione temporale, nello smarrimento logico di ogni collegamento, per ritrovarsi nel passaggio come unicità (Einmaligkeit) di un evento (Ereignis) che soggiorna nel nominare poetico. Il suo sostare è un viaggiare solitario, espropriazione irragionevole in un tempo dell’esilio che in un fiammeggiante contemplare, dirige il suo passo errante verso il «mattino primordiale»156. Una “terra straniera157” che sporge dalla cesura temporale per ritmarsi in un tempo del cuore (Herzzeit) situato fra il Pur-sempre e l’Ormai-non-più, – memoria infuocata di una parola che si dispone al desiderio dell’unità nel luogo di una costante separazione: DEINE AUGEN IM ARM, die auseinandergebrannten, dich weiterwiegen, im fliegenden Herzschatten, dich. Wo? Mach den Ort aus, machs Wort aus. Lösch. Miß. Aschen-helle, Aschen-Elle – geschluckt.

156 M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 55; In cammino verso il linguaggio, p. 58. 157 Nell’immagine di un mattino primordiale come luogo espropriante di svelamento dell’origine, risuona il noto verso di Trakl commentato da Heidegger: «È l’anima straniera sulla terra», in ibi, S. 55; ibi, p. 58.

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Lo strappo

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Vermessen, entmessen, verortet, entwortet entwo Aschen Schluckauf, deine Augen im Arm immer158.

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[TENERE IN BRACCIO i tuoi occhi, arsi e separati, continuare a cullarti, nel volo dell’ombra del cuore, cullare te. Dove? Fissa il luogo, fissa la parola. Spegni. Misura. Bagliore di cenere, gomito di cenere – inghiottita. Misurata, demisurata, dissaldata, sfaldata sfal singulto di cenere, tenere in braccio i tuoi occhi sempre.]

ll poema si fa così testimonianza di un’unità come connessura dolorosa dello strappo159, traccia indelebile di una lacerazione straziante, «singulto 158 P. CELAN, GW, Bd. II, S. 123. 159 È possibile ravvisare qui, ancora un’assonanza terminologica con il pensiero heideggeriano nella definizione del dolore: «Ma che è dolore? Il dolore spezza; è lo spezzamento. Ma esso non schianta in schegge dirompenti in tutte le direzioni. Il dolore, sì spezza, divide, però in modo che anche insieme tutto attira a sé e raccoglie in sé. Il suo spezzare, in quanto dividere che riunisce, è al tempo stesso quel trascinare, teso in opposte direzioni, che diversifica e congiunge ciò che nello stacco è tenuto distinto. Il dolore è ciò che congiunge nello spezzamento che di-

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Il grido e il silenzio

di cenere (Aschen Schluckauf)» affiorato nel dire poetico e trattenuto per sempre (immer) nel varco di una scrittura ferita. «Occhi arsi e separati (die auseinandergebrannten)» cullati (die weiterwiegen) nel luogo paradossale di un conforto che ad un tempo, si fa peso di un sostegno: l’abbraccio (deine Augen im Arm). L’andirivieni del “cullare” sostiene la dimora di un’espropriazione costante, ospitando il trattenimento della parola: fuggevolezza di un tentativo impossibile che ne fissa la misurazione (Miß): «Fissa il luogo, fissa la parola./ Spegni. Misura», canta il poeta, laddove, «nel volo dell’ombra del cuore (im fliegenden Herzschatten)» si libra l’ineffabile resto di una lacerazione dolorante, inscritta nel luogo dello strappo. Qui si espone lo sfaldamento del nominare, l’eco di una tenuta non più salda (verortet) dove la Parola non ha più un luogo in cui sostare: «dissaldata, sfaldata, // sfal», canta il poeta – con una scrittura che si arresta sul bilico del suo sgretolamento, in un abbandono che ne abbrevia inesorabilmente la sosta. Esposta alla cesura della vita come “cicatrice nell’aria” (Wundenmal in der Luft)160 l’ombra della Parola, sorta dalle ceneri di Auschwitz, si offre al canto di un “sempre” (immer) nella dimora disancorata di un’insostabile quiete: «Singulto/ di cenere,/ tenere in braccio/ i tuoi occhi/ sempre». Un sostare espropriante e paradossale i cui presupposti teorici – scevri, tuttavia, da qualsiasi implicazione ebraica – trovano ancora riscontro nel pensiero poetante: Tale es-propriazione non sottrae nulla alla cosa: la solleva anzi a ciò che è proprio di essa: fermare presso di sé il mondo161.

Fermare presso di sé il mondo nell’atto espropriante del poetare, riporta il nostro pensiero in direzione dell’ascia kafkiana: il colpo inferto dalla sua lama risuona fra i lembi dello strappo: vi accede l’ombra della parola, ricordo indelebile di un tempo del cuore che si libra nel soffio (Atem) della vertigine come fiore inaudito.

vide e aduna. Il dolore è la connessura dello strappo». M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 27; In cammino verso il linguaggio, p. 39. 160 Si tratta di un’espressione di Celan appartenente alla poesia Stehen, in P. CELAN, GW, Bd.II, S. 23 161 M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 29; In cammino verso il linguaggio, p. 40.

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5. I FIORI

Nel varco aperto della ferita, il lutto si fa vita, il cielo si fa terra, sostando nel “mondo” della parola. Nel loro folle in-contro accade l’evento (Ereignis) paradossale, fioritura della parola che si dispone al desiderio, nel conforto della notte amorosa. Ecco alcuni versi della poesia Nachts: NACHTS wenn das Pendel der Liebe schwingt zwischen Immer und Nie, stößt dein Wort zu den Monden des Herzens und dein gewitterhaft blaues Aug reicht der Erde den Himmel1. [La notte, quando il pendolo dell’amore oscilla fra sempre e mai la tua parola si congiunge alle lune del cuore e di un azzurro temporalesco, il tuo occhio porge il cielo alla terra.]

Nella notte amorosa, la parola si congiunge alle lune del cuore (Monden des Herzens). Una consacrazione in cui «l’occhio (Aug)» dell’amata «porge il cielo alla terra»: il suo sguardo si volge alla cesura dolorosa che li divide, consentendo nella giuntura, la fioritura della parola. In quell’intervallo insostenibile, posto fra «sempre e mai (Immer und Nie)», nell’istante che precede lo scoppio di un temporale (gewitterhaft), la parola può trattenersi nel fiore della terra, dimorare (das Wohnen) nel mondo e sostarvi poeticamente. In tale movimento, laddove il cielo canta, la sua azzurreità (blaues) si protende verso la terra. Ma il canto del cielo è tale solo nel raggiungimento della terra poiché nel luogo dello scritto è chiamato a quel nominare che si accosta al Dasein del poeta: «il canto è l’esserci (Da-

1

Sono questi alcuni versi tratti dalla poesia Nachts, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 57.

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Il grido e il silenzio

sein)», cantano i celebri versi di Rilke: «Gesang ist Dasein»2, luogo di una cesura esistenziale che si esibisce al canto di una relazione poiché in esso risuona l’esser-presente del canto del cielo nel luogo dell’esser-presente della terra. Il poetare si fa così esito di una relazione, luogo simbolico3 di una fioritura celeste che si schiude nei fiori della terra dove l’atto del poeta si traduce (übersetzt) nell’impossibile compito di far fiorire la terra aprendola al cielo che lo sovrasta4. Il fiore si fa canto di un espropriante permanere nella sporgenza ombrosa del suo sfiorimento. Ferita d’amore che – in una «parola di cieco (Blindenwort)» – canta il transito del cielo nella povertà della terra:

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BLUME Der Stein. Der Stein in der Luft, dem ich folgte. Dein Aug, so blind wie der Stein. Wir waren Hände, wir schöpften die Finsternis leer, wir fanden das Wort, das den Sommer heraufkam: Blume. Blume – ein Blindenwort. Dein Aug und mein Aug: sie sorgen für Wasser.

2 3

4

Cfr. RAINER MARIA RILKE, Die Sonette an Orpheus, I, 3, in Werke, Insel Verlag, Frankfurt am Main 1980, vol. II, S. 98; tr. it. di F. Rella, Sonetti a Orfeo, Feltrinelli, Milano 1991, p. 23. Rispetto al pensiero heideggeriano, la parola “simbolo” si riferisce qui a quella struttura segnica della realtà finita in cui la dimensione infinita dell’immortalità si raccoglie: «La totalità del reale appare come segno e quindi ogni ente è insieme apparizione di sé e dell’essere». M. MARASSI, Ermeneutica della differenza, p. 376. Infatti «la regione terra del Geviert è segno: è proprio “questa” terra e insieme molto di più, questa realtà colta nella sua dimensione simbolica che perciò trasfigura il reale di cui è espressione raccogliendolo in un grado d’essere maggiore. Il dire poetico ha fatto comprendere che la terra e il cielo non sono da intendere in un senso soltanto sensibile, quasi che l’uomo, poetando, si riferisca unicamente a “questa” terra e a “questo” cielo. Tuttavia “questa” terra e “questo” cielo permettono la fioritura del linguaggio, il suo portar frutti, il sostentamento dei mortali e l’apertura ai divini». M. MARASSI, Ermeneutica della differenza, p. 376.

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I fiori

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Wachstum. Herwand um Herzwand blättert hinzu. Ein Wort noch, wie dies, und die Hämmer schwingen im Freien5. [FIORE

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La pietra. La pietra nell’aria, che ho inseguito. Il tuo occhio, così cieco come la pietra. Eravamo mani abbiamo attinto alla tenebra sino a vuotarla, abbiamo trovato la parola che risaliva l’estate: fiore. Fiore – una parola di cieco Il tuo occhio e il mio occhio provvedono all’acqua. Crescita parete di cuore attorno a parete di cuore si aggiunge foglia a foglia. Una parola ancora, come questa, e i martelli vibrano all’Aperto.]

Una «parola-fiore» – vibra nell’Aperto (im Freien) – dimensione inaudita di libertà assoluta che si fa cesura di un’interruzione temporale: vertigine cieca di un in-contro nella sporgenza della sua fioritura. Fiore, “parola-pietra” – trovata negli abissi e vuotata delle sue tenebre – pietra luttuosa che copre il ricordo dei morti, fiore della memoria che risale dalle profondità della notte storica6, traducendosi nel «fiore/parola di cieco (Blindenwort)», visione di uno sguardo più ampio, dove due occhi si in-contrano per la sua 5 6

P. CELAN, GW, Bd. I, S. 164. Come già rilevato dall’analisi di Jean Bollack (cfr. il paragrafo 2.4.1. di questo lavoro), il significato della “pietra” (Stein) nella poesia Blume è da associare a quello della stella (Stern) che, nella poetica di Celan, sta a significare il punto di orientamento-guida della poesia. Cfr. J. BOLLACK, Herzstein, S. 51.

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Il grido e il silenzio

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crescita (Wachstum). «Il tuo occhio e il mio occhio/ provvedono/ all’acqua», nella nostalgia di un nutrimento, ferita della memoria che trasporta (übersetzt) il poeta nel varco dello scritto, nel permanere di un’ombra fuggevole: espropriazione di un’apertura celeste all’oscurità (Dunkelheit) della terra. A partire dalla produzione giovanile celaniana, il tema del fiore (Blume) – nella costante evocazione di papaveri dell’oblio (Mohn des Vergessen) e rose straniere (Rosen der Fremde) – diviene il luogo eletto di un “canto dell’impossibile”, accesso a una fioritura inaudita, dove cielo e terra risuonano. Il dire poetico è «fiore della bocca»7, o fiore della terra, nel senso che la parola del cielo non trasvola fantasticamente oltre (über) il reale (Wirklichkeit) ma porge (reicht) la sua ombra alla terra, schiudendosi al desiderio nel varco dello scritto: Aus meiner Hand nimmst du die große Blume: sie ist nicht weiß, nicht rot, nicht blau – doch nimmst du sie. Wo sie nie war, da wird sie immer bleiben. Wir waren nie, so bleiben wir bei ihr8. [Dalla mia mano cogli il grande fiore: non è bianco, non è rosso, non è blu – eppure lo cogli. Dove non è mai stato, là resterà per sempre. Noi non siamo mai stati, così gli restiamo accanto.]

Dalla fioritura del canto, all’eco nostalgico della Sehnsucht di novalisiana memoria, quella meta impossibile del Blaue Blume, tanto follemente anelata quanto dolorosamente sospirata nel regno del visibile. Del profondo iato se ne fa testimone l’origine etimologica: il verbo sehnen, nel senso di “anelare nostalgicamente” è qui legato al termine Sucht, come “brama” (Suche) intesa nella sua prossimità etimologica con Seu7

8

Secondo il pensiero di Heidegger, la parola poetica è “fiore della bocca” nel senso di “fiore della terra” perché il linguaggio poetico delinea l’evento della differenza in modo essenzialmente storico. Il luogo in cui la relazionalità originaria viene a parola è infatti la terra: «nei diversi dialetti è la regione, cioè la terra, che diversamente parla. La bocca, del resto, non è soltanto un organo facente parte del corpo inteso come organismo; bocca e corpo rientrano nel fluire e crescere della terra, nel quale noi, i mortali, abbiamo vita; della terra dalla quale riceviamo la solidità del radicamento. Perdendo la terra, noi perdiamo anche il radicamento». M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 205; In cammino verso il linguaggio, p.161. Sono alcuni versi tratti dalla poesia Der Tauben weißeste, in P. CELAN, GW, Bd. I, S. 61.

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I fiori

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che nel senso di “malattia”, “morbo”. Più semplicemente: Sehnsucht – “morbo della nostalgia”, lasciando affiorare nel legame fra i due termini, la tensione indicibile di un’interdipendenza concettuale fra il morbo del desiderio (Suche) e il sentimento espropriante di una memoria d’origine (sehnen), ovverosia quella stessa ambivalenza etimologica svelata dall’Unheimliche9. Nella poetica celaniana è il fiore del papavero (Mohn) a testimoniare il legame indissolubile fra la concezione perturbante della dimensione amorosa e il suo rapporto paradossale con la memoria (Gedächtnis10). Il 20 maggio 1948, pochi giorni dopo aver conosciuto Celan, Ingeborg Bachmann11, in una lettera ai genitori, scrive che in quel periodo la propria stanza si era trasformata in «un campo di papaveri (Mohnfeld) poiché il poeta amava ricolmarla di questi fiori»12. È facilmente intuibile il fatto che nelle poesie del periodo, il papavero – fiore dell’oblio (Mohn des Vergessens) che rosseggia nei prati della Romania – venisse evocato in riferimento tanto alla passione per la vita quanto alla nostalgia della memoria. Ne è illuminante testimonianza una lettera del 1949 spedita dal poeta alla Bachmann in occasione del suo compleanno. Per la ricorrenza, Celan le manda gli auguri in ritardo di un mese: Quest’anno arrivo “impreciso” (“ungenau”) e in ritardo. Tuttavia, ciò è solo perché vorrei che nessuno ti fosse accanto nel momento in cui poso sul tavolo del tuo compleanno, dei papaveri (Mohn), moltissimi papaveri, e memoria (Gedächtnis), altrettanta memoria, due grandi mazzi splendenti13.

Nuovamente approdati al binomio perturbante erotico-narcotico, la rosseità del papavero apre la via parossistica dell’amore all’esperienza estranea (fremd) di un “cuore nero di malinconia” (Herz, das Schwarz von Schwermut ist):

9 10 11

12 13

Il tema dell’Unheimliche nella poetica di Celan è stato trattato nel capitolo III del presente lavoro. PETER GROSSENS UND MARCUS G. PARKA (hrsg.), Displaced. Paul Celan in Wien 1947-1948, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2001, S.114. Paul Celan e Ingeborg Bachmann, si conobbero nel 1948 a casa del pittore surrealista Edgar Jené, durante il periodo in cui Celan soggiornò a Vienna. Cfr. HANS HÖLLER, La follia dell’assoluto. Vita di Ingeborg Bachmann, tr.it. di S. Albesano e C. Cappelli, Guanda, Parma 2010, p. 61. I. BACHMANN-P. CELAN, Herzzeit, S. 11. Ibidem.

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Il grido e il silenzio

MOHN Die Nacht mit fremden Feuern zu versehen, die unterwerfen, was in Sternen schlug, darf meine Sehnsucht als ein Brand bestehen, der neunmal weht aus deinem runden Krug. Du mußt der Pracht des heißen Mohns vertrauen, der stolz verschwendet, was der Sommer bot, und lebt, daß er am Bogen deiner Brauen errät, ob deine Seele träumt im Rot.

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Er fürchtet nur, wenn seine Flammen fallen, weil ihn der Hauch der Gärten seltsam schreckt, daß er dem Aug der süßesten von allen sein Herz, das schwarz von Schwermut ist, entdeckt14. [PAPAVERO Rivestire la notte di fuochi stranieri che opprimono quanto pulsava in stelle, la mia nostalgia può sopportarlo come incendio che spira nove volte dalla tua brocca tonda. Devi fidare nello sfarzo del caldo papavero, che spreca fiero i doni dell’estate, e vive, che ti imporpora l’arco delle tue sopracciglia se la tua anima sogna in rosso. Teme solo, la caduta delle fiamme, poiché lo spaura stranamente il soffio dei giardini, che ne svela all’occhio, più dolce fra tutte, il cuor suo, nero di malinconia.]

Ebbrezza della fiamma: il cuore (Herz) del papavero libera il “soffio” (Hauch) spaurito poiché il suo “colore nero” (schwarz) è fonte perturbante di luttuosa estraneità. È nel romanzo Malina che la Bachmann evocherà il papavero in direzione dell’in-contro: Nel buio più fitto si accese una luce davanti a lei, ed ella sapendo che non poteva essere una luce umana, ma solo la luce di uno spirito si avvicinò, presa da un’angoscia mortale, ma incantata, ammaliata. Non era una luce ma era un fiore, cresciuto nella notte scatenata, più rosso del rosso, e non venuto dalla 14

P. CELAN, GW, Bd. III, S. 17.

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I fiori

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terra. Tese la mano verso il fiore e allora la sua mano toccò insieme con il fiore un’altra mano15.

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La luce si schiude nell’oscurità: fioritura di una parola notturna che si fa dono segreto al creaturale di una mano che l’accoglie. «Non c’è alcuna differenza di principio fra una poesia e una stretta di mano»16 – afferma Celan, intendendo che non si dà in-contro senza spossessamento: non si dà evento se non nell’attraversamento estenuante di un’intera notte permeata di «forza e di dolore (Und Kraft und Schmerz)»17, poiché come afferma Heidegger, l’«animo» che corrisponde al dolore, l’animo affettivamente improntato dal e al dolore, è la gravezza18. Nell’esperienza perturbante dell’amore, il peso del fiore, ferita nostalgica del ricordo, si dispone alla scrittura nella costante sottrazione di un segreto: il suo luttuoso permanere si inscrive fra la spinta e il suo trattenimento, scrittura di una parola che sboccia all’ombra di un fiore difficile da sostenere. Con le parole del poeta: Il suo amore per lei era stato così grande, che lei avrebbe potuto sollevare il coperchio della bara di lui – se il fiore che lei vi aveva deposto non fosse stato così pesante19.

L’insostenibilità del fiore si fa lapide di una parola che “acconsente alla fioritura”, così come canta la poesia: CORONA Aus der Hand frißt der Herbst mir sein Blatt: wir sind Freunde. Wir schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren sie gehn: die Zeit kehrt zurück in die Schale. Im Spiegel ist Sonntag, im Traum wird geschlafen, der Mund redet wahr.

15 16 17 18 19

I. BACHMANN, Malina, p. 62 Brief an Hans Bender, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 177. È il titolo di una poesia di Celan, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 98. M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 235; In cammino verso il linguaggio, p. 185. Gegenlicht, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 163.

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Il grido e il silenzio

Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der Geliebten: wir sehen uns an, wir sagen uns Dunkles, wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis, wir schlafen wie Wein in den Muscheln, wie das Meer im Blustrahl des Mondes. Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns zu von der Straße: es ist Zeit, daß man weiß! Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt, daß der Unrast ein Herz schlägt. Es ist Zeit, daß es Zeit wird.

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Es ist Zeit20. [CORONA L’autunno bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici. Sgusciamo il tempo dalle noci e gli insegniamo a camminare: lui ritorna nel guscio. Nello specchio è domenica, nel sogno si dorme la bocca dice il vero. Il mio occhio scende al sesso dell’amata: ci guardiamo, ci diciamo cose oscure, ci amiamo come papavero e memoria, dormiamo come vino nelle conchiglie, come il mare nel raggio sanguigno della luna. Stiamo affacciati alla finestra, dalla strada ci guardano: è tempo che si sappia! È tempo che la pietra acconsenta a fiorire, che l’inquietudine abbia un cuore che batte. È tempo che sia tempo. È tempo.]

Gravezza del dolore che si dispone all’accadimento dell’incontro: «è tempo che la pietra acconsenta a fiorire». La pietra, lapide della rammemo20

P. CELAN, GW, Bd. I, S. 37.

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I fiori

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razione21, copre i ricordi dei morti, speranzosa e perturbante Liebeswort di papavero e memoria. «È tempo che sia tempo (Es ist Zeit das es Zeit wird)» che accada un nuovo inizio. Lo sguardo del poeta scende fino al grembo (Geschlecht) dell’amata, simbolo del desiderio ma altresì dell’Origine, luogo di generazione che è disappartenenza, né patria né esilio e per questo continua trasformazione e metamorfosi.

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5.1. Dal papavero alla rosa di Nessuno «Wann wann blühen, wann, wann blühen die, hühediblüh, huhediblu, ja sie, die Septemberrosen?»22. [Quando quando fioriscono, quando, quando fioriscono quelle hühediblüh, huhediblu, sì loro, le rose di settembre?]

«Oh, quand refleuriront, oh roses, vos septembres?» È l’evocazione di un verso di Paul Verlaine a fare da chiusa al poema celaniano Huhediblu: – Quando rifioriranno quelle huhediblu, sì loro, le rose di settembre?23 È nella speranza di un nuovo inizio cantato al tempo autunnale di un rifiorire delle rose, che lo sfiorimento del papavero (Mohn) attraversa un Nulla (Nichts) sorto all’ombra di mille rovine: nell’alone indelebile di una memoria insostenibile è il fiorire di un canto silenzioso che dimora nell’intervallo esiliato del ritorno (Heimkehr). Un sortire da sé che si eleva 21

22 23

L’immagine della pietra in relazione al tema della rammemorazione ha un’importanza fondamentale nella poetica celaniana e, come ha sottolineato Giuseppe Bevilacqua, rappresenta «la metonimia per tutto quello che il genocidio ha sepolto», in GIUSEPPE BEVILACQUA, Introduzione, in P. CELAN, La verità della poesia. Il Meridiano e altre prose, Einaudi, Torino 1993, p. XXX. Sono alcuni versi tratti dalla poesia Huhediblu appartenente alla raccolta Rosa di Nessuno, in PAUL CELAN, GW, Bd. I, S. 275. Il verso poetico riportato in lingua francese da Celan «Oh, quand refleuriront, oh roses, vos septembres?» a conclusione della poesia Huhediblu, evoca la poesia Sagesse di Paul Verlaine «Ah, quand refleuriront les roses de septembre!» ed era già stata tradotta in tedesco da Celan ai tempi di Czernowitz: «Wann blühen wieder die Septemberosen?» Cfr. P. CELAN, Die Gedichte, S. 705.

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Il grido e il silenzio

estenuato «sopra la spina (über dem Dorn)» di una «rosa di Nessuno (Niemandsrose)»: PSALM Niemand knetet uns wieder aus Erde und Lehm, niemand bespricht unsern Staub. Niemand.

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Gelobt seist du, Niemand. Dir zulieb wollen wir blühn. Dir entgegen. Ein Nichts waren wir, sind wir, werden wir bleiben, blühend: die Nichts-, die Niemandsrose. Mit dem Griffel seelenhell, dem Staubfaden himmelswüst, der Krone rot vom Purpurwort, das wir sangen über, o über dem Dorn24. [SALMO Nessuno più c’impasta da terra e argilla Nessuno benedice la nostra polvere Nessuno. Che tu sia lodato, Nessuno. Per amor tuo vogliamo fiorire. Incontro a te. Un Nulla eravamo, siamo, 24

P. CELAN, GW, Bd. I, S. 225.

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I fiori

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resteremo, fiorendo: la rosa di Nulla, la rosa di Nessuno.

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Con il pistillo anima-chiara il filamento cielo-deserto la corona rossa della parola purpurea, che abbiamo cantato sopra, oh sopra la spina.]

Nella pausa silente di una sovrapposizione temporale («eravamo, siamo,/ resteremo, fiorendo») dove la cesura irrevocabile di una data unica testimonia l’attualità della lingua (aktualisierte Sprache25), si apre il varco di un percorso esiliante mai concluso. Nel suo passaggio, l’evenire (ereignen) dell’accadimento si fa “Nulla” (Nichts) di una disappartenenza: nel luogo del non-luogo si tratteggia il cammino verso la rosa di Nessuno (Niemandsrose), approdo creaturale a una patria abissale (abgrundlich), luogo di generazione e di respiro (Atem) che schiude le sue vie alla svolta dolorosa di un soggetto nuovo. Nel segreto dell’in-contro, il fiorire della Rosa è poesia che sboccia nel ricordo del sangue e del dolore26: parola purpurea (Purpurwort), parola dell’Anti-Notte (Aber-Nacht) che si fa destinazione emblematica di una totale espropriazione. La sua radice notturna si protende verso la dimora abissale di uno sradicamento che soggiorna nella patria del Nulla: dalle profondità sconfinate di un fondo senza fondo (Abgrund), si leva un canto d’amore sublime, destinazione abissale di un “selvaggio fiorire” (Wildblühend): RADIX, MATRIX Wie man zum Stein spricht, wie du, mir vom Abgrund her, von einer Heimat her Verschwisterte, Zugeschleuderte, du, 25 26

È un’espressione di Celan appartenente al discorso Der Meridian, in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 197. Si veda al proposito anche il bel saggio Margini per Zanzotto di Antonio Prete, rispetto all’analogia fra Celan e Zanzotto in merito alla poetica della rosa: un fiorire che non abolisce le tracce e il ricordo del sangue. Cfr. ANTONIO PRETE, Margini per Zanzotto, in «Nuova Corrente», XLVII (2000), pp. 33-42.

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Il grido e il silenzio

du mir vorzeiten, du mir im Nichts einer Nacht, du in der Aber-Nacht Begegnete, du Aber-Du –: Damals, da ich nicht da war, damals, da du den Acker abschrittst, allein:

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Wer, wer wars, jenes Geschlecht, jenes gemordete, jenes schwarz in den Himmel stehende: Rute und Hode –? (Wurzel, Wurzel Abrahms. Wurzel Jesse. Niemandes Wurzel – o unser.) Ja, wie man zum Stein spricht, wie du mit meinen Händen dorthin und ins Nichts greiftst, so ist, was hier ist: auch dieser Fruchtboden klafft, dieses Hinab ist die eine der wildblühenden Kronen27. [RADIX, MATRIX Come si parla alla pietra, come tu a me dal fondo di un abisso, 27

P. CELAN, Bd. I, S. 239. È interessante ricordare che la poesia Radix matrix, scritta l’11 maggio del 1961, sia stata dedicata a un altro degli amori impossibili di Paul Celan: l’austriaca Brigitta Eisenreich con la quale ebbe a Parigi una relazione clandestina ma felice dal 1952 al 1961. Cfr. BRIGITTA EISENREICH, Celans Kreidestern, Suhrkamp, Berlin 2010, S. 211-212.

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I fiori

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di una Patria assorellata, scagliata via, tu, tu a me un tempo, tu a me nel Nulla di una notte, tu, incontrata nell’Anti-Notte tu Anti-Tu –:

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Allora, quando non c’ero, allora, quando da sola, misuravi il campo a passi: Chi chi era, quella stirpe, quella assassinata, quella nera scritta nel cielo: verga e testicolo – ? (Radice. Radice di Abramo. Radice di Jesse, Radice di Nessuno – oh nostra.) Sì, come si parla alla pietra, come tu con le mie mani laggiù tocchi nel Nulla, e così è, ciò che qui è: anche questo talamo si spalanca, questo All’in-giù non è che una delle corone del selvaggio fiorire.]

Il talamo del fiore, disposto alla fecondità, si spalanca (der Fruchtboden klafft) offrendo la sua fioritura da “un fondo senza fondo” (Abgrund) – dimora di uno sfondamento che erompe dalle profondità di un abisso: non si dà qui alcuna catena temporale a giustificarne il fondamento, così come canta il detto mistico di Angelus Silesius: La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce, di sé non gliene cale, non chiede d’esser vista.

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Il grido e il silenzio

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«La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce», nel senso che – secondo il pensiero poetante di Heidegger – «alla rosa accade il fiorire e in tale fiorire essa si risolve tutta, senza curarsi di ciò che, come qualcosa di diverso, vale a dire come causa e condizione del fiorire, potrebbe produrre quest’ultimo soltanto come effetto»28. Il suo fiorire accade come semplice schiudersi da sé, oltre il regno degli oggetti del nostro rappresentare. Il suo mostrarsi come destinazione di un dono inaspettato che si svela nell’attraversamento temporale di un varco, non suppone ragioni che lo ancorino alla catena illusoria dei nessi temporali di causa-effetto. La rosa è fiore di poesia, luogo storico di un disvelamento Originario che dice di sé – nel senso di un lasciarsi dire (sichsagenlassen) che in sé è mostrare (zeigen). Riecheggia qui nuovamente quella forma riflessivo-passiva del sich sagenlassen (lasciarsi dire), entro il regno di un Gespräch fra pensare e poetare, oltre ogni dualismo metaforico, nel rinvio a quel carattere originario del linguaggio come luogo di svelamento dell’Essere che è mostrare (zeigen) in quanto lasciarsi dire (sich sagenlassen)29. La poésie ne s’impose plus, elle s’expose30, canterà Celan, richiamando in questo passo, l’attenzione sull’ascolto di una parola abissale che erompe da un fondo senza fondo (Abgrund), oltre ogni percepire e rappresentare: noi porgiamo ascolto al linguaggio in modo da lasciarci dire da esso il suo Dire. Quale che sia il modo con cui ascoltiamo, ogniqualvolta ascoltiamo qualcosa, sempre l’ascoltare è quel lasciarsi dire che già racchiude ogni percepire e rappresentare31.

La patria abissale (abgrundlich) della rosa, seppur nell’evenire (ereignen) di una parola poetica incisa nella storia, delinea, nel suo mostrarsi, l’approdo disancorato di un lungo itinerario verso il Nulla che nell’ultima 28 29 30

31

M. HEIDEGGER, Der Satz vom Grund, S. 56-57; Il principio di ragione, p. 71. M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 243; In cammino verso il linguaggio, p. 200. P. CELAN, GW, Bd. III, S. 181. «La poesia non si impone più. Si espone». Questo aforisma, scritto il 29 marzo 1969, fu pubblicato dalla moglie del poeta Gisèle Lestrange dopo la morte di Celan. Il senso di questa frase suggerisce una riflessione sullo stato attuale della poesia, rispetto alla coscienza storica di un cambio di direzione espresso dalla lingua stessa attraverso i prefissi “im” ed “ex”. Cfr. MARKUS MAY - PETER GROSSENS - JÜRGEN LEHMANN (hrsg.), Celan Handbuch. Leben-WerkWirkung, Metzler, Stuttgart 2008, S. 160. M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, S. 243; tr. it. In cammino verso il linguaggio, p. 200.

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I fiori

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produzione poetica di Celan, si fa transito ideale a una meta sempre più distante dal mondo: UNLESBARKEIT dieser Welt. Alles doppelt32.

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[ILLEGGIBILITÀ di questo mondo. Tutto doppio.]

Nel raddoppiamento che illanguidisce i confini del reale, il poeta fatica a sostare nel luogo del mondo, avvertendone il suono in lontananza: gravezza di un nominare che si traspone poeticamente nel fiore leggero di una parola sospesa sul reale. «Il mondo è perduto, devo portarti»33, canta Celan in un altro poema, e sarà questo lo stato d’animo con cui deciderà nel 1961 di interrompere ogni rapporto con Ingeborg Bachmann, sebbene nei loro testi successivi ritorni costantemente l’allusione alla loro relazione. Sarà infatti con un poema postumo datato «20 gennaio 1968»34 che il poeta, ispirato dalla nota immagine kafkiana dell’ascia35: «Un libro è un colpo d’ascia nel mare ghiacciato che è in noi» – farà sapere alla Bachmann di aver appreso della pubblicazione di Malina36: ICH HÖRE, DIE AXT HAT GEBLÜHT, ich höre, der Ort ist nicht nennbar,

32 33

34 35

36

Sono questi i primi versi del poema Unlesbarkeit, appartenente alla raccolta Schneepart, in P. CELAN, GW, Bd. II, S. 338. Die Welt ist fort, ich muß dich tragen, è l’ultimo verso della poesia Große Glühende Wölbung, in P. CELAN, GW, Bd II, S. 97. Rispetto al nesso profondo esistente fra la gravezza e la lontananza della parola poetica, rimando anche alla trattazione di Derrida riguardante la prossimità etimologica fra “penser” e “peser” (pensare e pesare), fra il pensiero e la gravezza, svelata dal verso in oggetto, J. DERRIDA, Béliers, Le dialogue ininterrompu, pp. 27-29. Come si è già sottolineato altrove, il “20 gennaio” è una data simbolica ricorrente nella produzione celaniana: «Forse si può dire che a ogni poema rimane inscritto il suo 20 gennaio?», in P. CELAN, GW, Bd. III, S. 196. Sulla citazione celaniana di Kafka in riferimento alla poesia da essa ispirata e indirizzata alla Bachmann, cfr. JÜRGEN LÜTZ, Die Name der Blume. Über den Celan-Bachmann-Diskurs, dargestellt am Zeugen “Ich höre die Axt hat geblüht”, in AXEL GELLHAUS - ANDREAS LOHR (hrsg.) Lesarten. Beiträge zum Werk Paul Celans, Böhlau, Köln-Weimar-Wien 1996, S. 49-80. Per notizie più precise riguardanti i riferimenti intertestuali ricorrenti nell’ultima produzione poetica di Celan e il romanzo Malina di Ingeborg Bachmann, cfr. P. GROSSENS - M. G. PARKA, Displaced, S. 117-118.

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Il grido e il silenzio

ich höre, das Brot, das ihn ansieht, heilt den Erhängten, das Brot, das ihm die Frau buk, ich höre, sie nennen das Leben die einzige Zuflucht37. [SENTO CHE L’ASCIA È FIORITA sento che il luogo non è nominabile,

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sento che il pane, guardandolo guarisce l’impiccato, il pane, che la sua donna gli ha cotto, sento che nominano la vita come unico rifugio.]

Il luogo del mondo non è nominabile (nicht nennbar). Il poeta gli è estraneo (fremd): “sente da lontano” (hört), sente da un luogo lontano dal mondo che non appartiene al nominare (nennen) mondano. Il pane come simbolo di nutrimento non solo fisico ma anche spirituale, guarisce l’impiccato (Erhängten) da una fuga dalla vita. La donna, nella dedizione al focolare, nutre attraverso il pane la parola del poeta che lo chiama nel “qui” (da) del mondo. Ma Celan, ora straniero (fremd) più che mai, sente solo nominare (sie nennen) da altri la vita come “unico rifugio” (der einzige Zuflucht). A questo nominare (nennen) non partecipa in prima persona poiché il luogo del suo abitare non consente “nominazione”: il poeta è altrove, via dal mondo (fort), ma il “colpo dell’ascia”, quel dolore lacerante inferto dalla sua lama, può sostare e trattenersi (stehen) ancora nella cesura della vita come “scrittura” affiorata nel varco dello scritto – consegnata alla sua fioritura. Riecheggia da lontano il colpo dell’ascia kafkiana. Il libro, dopo anni di attesa, giunge come segno possibile di un Liebeswort, parola di desiderio38: 37 38

P. CELAN, GW, Bd. II, S. 342. Il nodo poetico che trattiene il tema del desiderio amoroso all’immagine dell’ascia sospesa sul reale è ben espresso in un saggio su Celan di Andrea Zanzotto, dove si afferma che durante la vita del poeta bucovino non venne mai meno «la violenza di un amore, assoluto proprio perché sempre più “senza oggetto”. Celan non poteva uscire da questo atteggiamento potentemente, paurosamente monocorde, per entrare in quelli che dovettero apparirgli come doppi giochi, non poté superarsi (se

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il solco da essa tracciato ha reso, nell’attesa, il germoglio faticoso di una scrittura che si è fatta “lama fiorita”. Il “selvaggio fiorire” (wildblühende Krone) della rosa di Nessuno (Niemandsrose) si è sfogliato (abgeblüht) negli abissi dell’Anti-notte (Aber-Nacht) per riaffiorare con atto ineffabile dalla “lama”, quel crinale arrischiante che è “respiro fiorito” sospeso sul mondo. Da quel luogo fort, la cesura è visibile ma il dolore della vita è lontano. Nel mondo non c’è catarsi ma solo nostalgia di un nutrimento che potrebbe salvare. Unico testimone: la scrittura, fiore di poesia, parola salvifica di un “colpo d’ascia fiorita”.

pur ne fosse valsa la pena) in quella pulsione a una forma di sublimità, per quanto più volte sconfessata, quale si ritrovava nelle “sue” tradizioni sopraccennate, della linea “hölderliniana” e di quella ebraica, specie chassidica, fino ad appiattirsi nella realtà, pur se “la“ realtà egli fin dall’inizio si era imposto di voler perseguire e aveva fatta propria fino ad arrivare all’ultimo sacrificio di sé». A. ZANZOTTO, Per Paul Celan, in P. CELAN, Poesie sparse pubblicate in vita, p. 146.

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BIBLIOGRAFIA

Nella presente bibliografia sono indicati, oltre ai testi di Paul Celan, gli epistolari e i principali scritti critici sull’autore. L’elenco dei titoli qui esposti non è stato interamente citato nel presente lavoro, in quanto la loro presenza è piuttosto finalizzata a fornire una sorta di bibliografia generale sull’argomento trattato. Così come, in ultima sezione, sono state riportate anche le opere, i trattati e i saggi di consultazione generale che, in diverso modo, hanno contribuito alla formazione delle tesi qui esposte.

I. Testi di Celan PAUL CELAN, Gesammelte Werke in fünf Bänden, hrsg. von Beda Allemann und Stefan Reichert unter Mitwirkung von Rolf Bücher, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983. Erster Band. Gedichte 1: Mohn und Gedächtnis, Von Schwelle zu Schwelle, Sprachgitter, Die Niemandsrose. Zweiter Band. Gedichte 2: Atemwende, Fadensonnen, Lichtzwang, Schneepart. Dritter Band. Gedichte 3, Prosa, Reden: Der Land aus den Urnen (1948), Zeitgehöft, Versträute Gedichte, Prosa, Reden. Vierter Band. Übertragungen 1, Zweisprächig: Übertragungen aus dem Französischen. Fünfter Band. Übertragungen 2, Zweisprächig: Übertragungen aus dem Russischen, Englischen und Amerikanischen, Italienischen, Rumänischen, Portugiesischen, Hebräischen. PAUL CELAN, Ansprache vor dem Hebräischer Schriftsteller verband in Tel Aviv, «Die Horen», 165 (1971), n. 83. PAUL CELAN, Der Meridian, Endfassung, Entwürfe, Materialen, hrsg. von Bernhard Böschenstein und Heino Schmull unter Mitarbeit von Michael Schwarzkopf und Christiane Wittkop, Tübinger Ausgabe, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1999. PAUL CELAN, Die Gedichte. Kommentierte Gesamtausgabe in einem Band, hrsg. von Barbara Wiedemann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2003.

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Il grido e il silenzio

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Le poesie, oltre alle prose reperibili in traduzione italiana: PAUL CELAN, Poesie, a cura di Moshe Kahn e Marcella Bagnasco, Mondadori, Milano 1976. PAUL CELAN, Luce coatta, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1983. PAUL CELAN, La verità della poesia. Il Meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993. PAUL CELAN, Scritti rumeni, tr. it. di Fulvio Del Fabbro, a cura di Marin Mincu, Campanotto, Udine 1994. PAUL CELAN, Di soglia in soglia, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1996. PAUL CELAN, Poesie, a cura di Giuseppe Bevilacqua, I Meridiani, Mondadori, Milano 1998. PAUL CELAN, Conseguito silenzio, a cura di Michele Ranchetti, Einaudi Torino 1998. PAUL CELAN, Sotto il tiro di presagi, Poesie inedite 1948-1969, a cura di Michele Ranchetti, Einaudi, Torino 2001. PAUL CELAN, Microliti, a cura di Dario Borso, Zandonai, Rovereto 2010. PAUL CELAN, Oscurato, con un saggio di Giorgio Orelli, a cura di Dario Borso, Einaudi, Torino 2010. PAUL CELAN, Poesie sparse pubblicate in vita, con un saggio di Andrea Zanzotto, a cura di Dario Borso, nottetempo, Roma 2011.

II. Scritti, epistolari, saggi e articoli su Celan AA.VV., Text und Rezeption: Wirkungsanalyse Zeitgenosses. Lyrik am Beispiel des Gedichtes “Fadensonnen” von Paul Celan, in Ars Poetica. Studien, Athenæum Verlag, Frankfurt am Main 1972, vol. 14. AA.VV., Paul Celan, «La Revue de Belles-Lettres», (1972), nn. 2-3. AA.VV., Paul Celan, hrsg. von Heinz Ludwig Arnold, Edition Text und Kritik, München 1980. AA.VV., Psalm und Hawdalah: zum Werk Paul Celan. Akten d. Internat. Paul Celan Killoquiums, New York 1985, hrsg. von Joseph P. Strelka, Peter Lang, Bern-New York 1987. AA.VV., The Poetry of Paul Celan: Papers from the Conference at the State University of New York at Binghamton, October 28-29, 1988, ed. by Haskell M. Block, Peter Lang, New York-Bern-Frankfurt am Main 1991. WULF H. AHLBRECHT, Paul Celans späte Gedichte: Versuch an den Grenzen eurozentrischer Wirklichkeit, Bouvier, Bonn 1985. BEDA ALLEMANN, Rilke und Mallarmé: Entwicklung einer Grundfrage der symbolistischen Poetik, in KARL RÜDINGER (hrsg. von), Wort und Gestalt. Fünf Kapitel deutscher Dichtung, Bayerischer Schulbuch-Verlag, München 1962. ID., Paul Celan, in KLAUS NONNENMANN (hrsg. von), Schriftsteller der Gegenwart. Deutsche Literatur. 53 Porträts, Walter-Verlag, Olten 1963.

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Bibliografia

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Il grido e il silenzio

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INDICE DEI NOMI

Adorno Theodor Wilhelm, 47 Albesano Silvia, 209 Alighieri Dante, 15 Allemann Beda, 14 Althusser Louis, 128 Amoroso Leonardo, 27, 93, 112, 161, 163 Avrahàm Abulafia, 170, 181 Bachmann Ingeborg, 28, 29, 51, 113, 150, 153, 157, 209, 210, 211, 219 Bachofen Johann Jakob, 19 Badiou Bertrand, 10, 26, 107 Baer Eugen, 89 Baldi Massimo, 113 Baumann Gerhart, 99, 102, 105, 119, 125, 126, 128, 136 Béguin Claude, 70 Bemporad Gabriella, 183 Bender Hans, 18, 40, 85, 86, 97, 123, 144, 211 Benjamin Walter, 37, 147, 164, 180 Benvenuto Renato, 28 Bevilacqua Giuseppe, 31, 137, 213 Bianchi Ruggero, 70 Blanchot Maurice, 161 Blok Alexander, 53 Blumenberg Hans, 18 Bodmershof Imma von, 118 Bollack Jean, 99, 102, 103, 105, 108, 127, 196, 207 Bonomi Andrea, 161 Borso Dario, 23, 151 Böschenstein Bernhard, 27 Bouchet André du, 158

Brecht Bertold, 72, 73 Brod Max, 28 Buber Martin, 168, 169, 180, 183, 197 Bücher Rolf, 14 Büchner Georg, 22, 39, 49, 82, 141 Calasso Roberto, 24, 44 Camera Franco, 42, 54 Camus Albert, 128 Cappelli Cinzia, 209 Caracciolo Alberto, 24 Caracciolo Perotti Maria, 24 Carbone Mauro, 161 Cases Cesare, 179 Cazelles Henri, 198 Chalfen Israel, 29, 75, 151 Chesterton Gilbert Keith, 184 Chiodi Pietro, 24, 58 Cioran Emil Michel, 13, 14, 16, 155 Colli Giorgio, 44, 174 Consonni Manuela, 182 Conte Fiorenza, 28 Coriando Paola-Ludovika, 118 Cristin Renato, 63 Cuniberto Flavio, 172 Cvetaeva Marina, 43, 78, 143, 144, 172 Darsié Laura, 13, 15, 29, 185 Demus Klaus, 116, 117, 118, Derrida Jacques, 27, 37, 43, 96,104, 106, 157, 159, 166, 195, 200, 219 Descartes René (Cartesio), 73, 74 Di Ciaccia Antonio, 149, 161, 163 Duque Feliz, 88

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Eisenreich Brigitta, 216 Elmar Tophoven, 114 Fabris Adriano, 26, 127 Ferraris Maurizio, 178 Foa Anna, 182 Foà Simona, 182 Fontana Franco Maria, 47 Fortini Gemma, 184 France-Lanord Hadrien, 23, 49, 57, 58, 62, 79, 88, 90, 93, 94, 96, 99, 106, 107, 110, 114, 115, 119, 122, 124, 125, 126, 130, 137, 142, 168, 189,190, 191, 192 Francesco d’Assisi, 184, 185, 186 Frank Manfred, 172 Franzos Karl Emil, 141 Freud Sigmund, 143, 145, 146, 147, 149, 150, 165 Gadamer Hans-Georg, 42, 43, 54, 66, 135 Gebsattel Viktor von, 109 Gellhaus Axel, 94, 120, 219 George Stefan, 56, 91, 148 Gide André, 40 Gnani Paola, 47 Goll Claire, 129 Goll Yvan, 129, 131 Grossens (Großens) Peter, 209, 218, 219 Gurisatti Giovanni, 109, 125 Hamm Peter, 155 Heidegger Elfride, 119, 120 Hellingrath Norbert von, 119 Herrmann Friederich-Wilhelm von, 63 Hidalgo-Serna Emilio, 89 Hölderlin Friedrich, 27, 39, 40, 61, 65, 92, 93, 96, 111, 112, 118, 128, 131, 136, 144, 162, 164, 165, 171, 188, 189, 190, 191, 194, 200 Höller Hans, 209 Jabès Edmond, 21 Jaeger Petra, 109 Jené Edgar, 90, 160, 164, 209

Il grido e il silenzio

Kafka Franz, 16, 28, 33, 37, 40, 112, 113, 144, 219 Kaschnitz Marie-Luise, 106 Kelletat Alfred, 185 Kloos-Barendrengt Diet , 21 Lacan Jacques, 149, 161, 163, 166 Lacoue-Labarthe Philippe, 99, 100 Lang Renee, 40 Lefort Claude, 161 Lehman Jürgen, 218 Lemke Anja, 196 Lenz Jacob Michael Reinhold, 49, 82, 141 Leonardo da Vinci, 143 Lestrange (poi Celan-Lestrange) Gisèle, 26, 99, 106, 111, 114, 121, 127, 128, 130, 184, 196, 218 Lévinas Emmanuel, 14 Lohr Andreas, 219 Löwith Karl, 179 Lütz Jürgen, 219 Lyon James K., 25, 27, 38, 40, 44, 50, 51, 52, 65, 76, 78, 86, 88, 90, 99, 105, 111, 116, 117, 119, 132, 133, 160, 168, 179 Mainoldi Carlo, 21, 47 Maletta Rosalba, 112, 113 Mallarmé Stéphane, 70, 71, 72, 86 Mandelstam Osip, 57, 83, 137, 139, 194 Mandruzzato Enzo, 144 Manucci Maria Grazia, 153 Manzetti Rosa Elena, 163 Marassi Massimo, 13, 59, 89, 170, 171 Marini Alfredo, 179 Martin Bernard, 74, Masi Giuseppe, 149, 175 Masini Ferruccio, 175 Mastrandrea Antonia, 198 May Markus, 218 Mazzone Alessandro, 179 Merleau-Ponty Maurice, 128, 161, 166 Merz Doris, 185 Mezzanzanica Massimo, 25

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Indice dei nomi

Miglio Camilla, 79 Miller Jacques-Alain, 149 Montinari Mazzino, 44, 174 Musatti Cesare, 144

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Nancy Jean-Luc, 14 Neher André, 181 Neumann Gerhard, 114, 127 Nietzsche Friedrich, 18, 44, 48, 49, 52, 53, 60, 74, 79, 174, 175, 188 Noack Hermann, 172, 178 Pareyson Luigi, 60 Parka Marcus G., 209, 219 Pascal Blaise, 73, 74, 119 Piattelli Elio, 181 Picasso Pablo, 75, 76 Piednoir Vincent, 14 Piselli Francesco, 70 Podewils Clemens Graf, 65 Pöggeler Otto, 25, 26, 48, 52, 53, 54, 65, 103, 104, 109, 174, 175, 182, 194, 195 Pollack Oscar, 28 Prete Antonio, 215 Raimondi Stefano, 113 Rascente Marianna, 62, 63 Rella Franco, 206 Reichert Stefan, 14 Ricoeur Paul, 171 Rigoni Mario Andrea, 14 Rilke Rainer Maria, 40, 79, 111, 163, 164, 206 Rovatti Pier Aldo, 161 Ruchat Anna, 81 Russo Guido, 170 Sachs Nelly, 81 Saetta Cottone Rossella, 99 Scaramuzza Gabriele, 113 Schelling Friedrich, 147

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Schifferli Peter, 76 Schmull Heino, 27 Scholem Gershom, 170, 181, 198, 199 Schwarzkopf Michael, 27 Sciamanna Enrico, 184 Scibilia Giovanni, 27 Seng Joachim, 116, 118 Šestov Lev, 74 Shmueli Ilana, 95, 105, 136, 192, 193, Solmi Renato, 164 Steiner George, 27, 28, 70, 105, 113, 131, 196 Succetti Adele, 161 Tacou Laurence, 14 Tiedemann Rolf, 180 Tommaso da Celano, 184 Trakl Georg, 16, 111, 159, 202, Unseld Siegfried, 106 Unterman Alan, 182, 183 Valéry Paul, 40 Vattimo Gianni, 161 Viano Cristina, 103 Vietta Silvio, 135 Viganò Carlo, 163 Vitale Serena, 43 Vitiello Vincenzo, 41, 88, 188 Volpi Franco, 22, 53, 56, 93 Weber Werner, 40, 133 Wiedemann Barbara, 81, 112, 116, 129, 131, 191 Wisser Richard, 177 Wittkop Christane, 27 Wurm Franz, 105, 131, 136, 196 Zaccaria Gino, 104 Zanzotto Andrea, 100, 151, 215, 220, 221 Zarader Marlène, 170, 171, 172, 178

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ITINERARI FILOSOFICI Collana diretta da Sandro Mancini 1 3 4

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Emiliano Bazzanella, Spazio e potere. Heidegger, Foucault, la televisione Giuliano Compagno, Troppo vicino, troppo lontano. Appunti sull’esperienza estetica nel pensiero contemporaneo Sandro Mancini, Umano e non-umano tra vita e storia. Lévi-Strauss, Jonas e la ragione dialettica Gabriella Stanchina, La filosofia di Luce Irigaray. Pensare e abitare un corpo di donna Italo Bologna, Oltre i sigilli dell’apparenza Aldo Marroni, Filosofie dell’intensità. Quattro maestri occulti del pensiero italiano contemporaneo Marco Fortunato, Il mondo giudicato. L’immediato e la distanza nel pensiero di Rensi e Kierkegaard, prefazione di Carlo Sini Giovambattista Vaccaro, La ragione sobria. Modelli di razionalità minore nel Novecento Giovanni Chimirri (a cura di), L’etica dell’idealismo. La filosofia morale italiana tra neohegelismo, attualismo e spiritualismo Chiara Di Marco (a cura di), Percorsi dell’etica contemporanea Luisa Bonesio, Caterina Resta, Passaggi al Bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani Silvana Borutti (a cura di), Memoria e scrittura della filosofia. Studi offerti a Fulvio Papi in occasione del suo settantesimo compleanno Flavio Cassinari, Dalla differenza al soggetto. Note per un’antropologia metafisica della storia Sandro Mancini, La sfera infinita. Identità e differenza nel pensiero di Giordano Bruno Bruno Accarino, Daedalus. Le digressioni del male da Kant a Blumenberg, con un inedito di Hans Blumenberg Angela Ales Bello, Francesca Brezzi (a cura di), Il filo(sofare) di Arianna. Percorsi del pensiero femminile nel Novecento Pierandrea Amato, Lo sguardo sul nulla. Ernst Jünger e la questione del nichilismo Luisa Bonesio, Geofilosofia del paesaggio Giovanni Chimirri, Lineamenti di estetica. Filosofia dell’opera d’arte Paolo Godani, Estasi e divenire. Un’estetica delle vie di scampo Maurizio Guerri (a cura di), Le arti nell’età della tecnica Hans Ulrich Gumbrecht, Corpo e forma Sandro Mancini, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione Giuseppe Patella, Bellezza, arte e vita. L’estetica mediterranea di George Santayana Gabriele Piana, Le scene della scrittura nell’opera di Jacques Derrida, 2001 Gabriele Piana, Le scritture del fuori. Tracciati sul pensiero francese contemporaneo Andrea Pinotti, Il corpo dello stile. Storia dell’arte come storia dell’estetica a partire da Semper, Riegl, Wölfflin Andrea Pinotti, Memorie del neutro. Morfologia dell’immagine in Aby Warburg Luca Vanzago, Modi del tempo. Simultaneità, processualità, relazionalità tra Whitehead e Merleau-Ponty

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30 Andrea Zhok, Il concetto di valore: dall’etica all’economia 31 Sandro Gorgone, Cristallografie dell’invisibile. Dolore, eros e temporalità in Ernst Jünger 32 Giovanni Invitto, La tessitura di Merleau-Ponty 33 Marini Alfredo, Husserl Heidegger Libertà Europa 34 Vittorio Morfino, Incursioni spinoziste, prefazione di Fulvio Papi 35 Fulvio Papi, Figure del tempo 36 Augusto Ponzio, Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nella filosofia di Adam Schaff 37 Vozza Marco, I confini fluidi della reciprocità. Saggio su Simmel 38 Luciano Arcella, Oltre la storia. Nietzsche 39 Ettore Bonessio di Terzet, Il problema dell’arte. Poesia e pittura contro la civiltà dell’inutile 40 Bossi Giovanni, Immaginario utopico e immaginario di viaggio. Dal sogno del paradiso in terra al mito del buon selvaggio 41 Enrico Castelli Gattinara, Strane alleanze. Storici, filosofi e scienziati a confronto nel Novecento 42 Patrizia Cipolletta (a cura di), Ereditare e sperare. Un confronto con il pensiero di Ernst Bloch 43 Claudia Dovolich (a cura di), Etica come responsabilità. Prospettive a confronto 44 Pierpaolo Marrone, Un’introduzione alle teorie della giustizia 45 Marco Vozza (a cura di), Lo sguardo di Eros con un saggio di Jean-Luc Nancy 46 Slavoj Žižek, L’isterico sublime. Psicanalisi e filosofia 47 Theodor Wiesengrund Adorno, Metacritica della teoria della conoscenza. Studi su Husserl e sulle antinomie fenomenologiche, con un saggio introduttivo di Franco Riccio 48 Emiliano Bazzanella, Trattato di echologia 49 Adriano Bugliani, La discrezione dello spirito. La psicanalisi e Hegel 50 Chiara Di Marco (a cura di), Un mondo altro è possibile 51 Raffaela Giovagnoli, Razionalità espressiva. Scorekeeping: inferenzialismo, pratiche sociali e autonomia 52 Sergio Moravia, Adorno. Filosofia dialettico-negativa e teoria critica della società 53 Augusto Ponzio, Elogio dell’infunzionale. Critica dell’ideologica della produttività 54 Alice Pugliese, La dimensione dell’intersoggettività. Fenomenologia dell’estraneo nella filosofia di Edmund Husserl 55 Stelio Zeppi, Letture machiavelliane 56 Bruno Accarino, Le del senso. Da Kant a Weber: male radicale e razionalità moderna 57 Michail Bachtin, Freud e il freudismo. Studio critico, a cura di Augusto Ponzio 58 Stefano Bracaletti, Filosofia analitica e materialismo storico. Individualismo metodologico, spiegazione funzionale e teoria dei giochi nel marxismo analitico anglosassone 59 Roberto Fineschi (a cura di), Karl Marx. Rivisitazioni e prospettive 60 Andrea Gilardoni, Potere e dominio. Esercizi arendtiani 61 Giovanni Invitto, L’occhio tecnologico. I filosofi e il cinema 62 Sandro Mancini, L’orizzonte del senso. Verità e mondo in Bloch, Merleau-Ponty, Paci 63 Fulvio Papi (a cura di), Il dono sapiente. Pagine su Giosuè Bonfanti

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64 Fulvio Papi, Sulla ontologia. Fenomenologie et exempla 65 Luca Vanzago, L’evento del tempo. Saggio sulla filosofia del processo di A. N. Whitehead 66 Stefano Biancu, La poesia e le cose. Su Leopardi 67 Luca Bisin, La fenomenologia come critica della ragione. Motivi kantiani nel razionalismo di Husserl 68 Daniela Calabrò, Dis-piegamenti. Soggetto, corpo e comunità in Jean-Luc Nancy, con un’intervista al filosofo 69 Carmelo Meazza, Sulla soglia etica del pulchrum. Materiali per variazioni sull’attualismo 70 Salvatore Patriarca, Dall’assoluto alla realtà. Teodicea e ontogenesi nella Weltarterphilosophie schellingiana 71 Alessio Scarlato, L’immagine di Cristo, le parole del romanzo. Dostoevskij e la filosofia russa 72 Vaccaro Giovambattista, Persona e comunità umana in Paul L. Landsberg 73 Pierpaolo Marrone, Nomi comuni. Esplorazioni di filosofia morale 74 Ingrid Basso, Kierkegaard uditore di Schelling 75 Grazia Tagliavia, Critica della parvenza. Kant, Hegel, Schelling 76 Giuseppina Santucci, Librarsi oltrepassando. L’ascolto nell’experimentum musicae di Ernst Bloch 77 Markus Ophälders (a cura di), Etica della filosofia. Per una funzione etica della cultura. Studi su T.W. Adorno 78 Enrica Lisciani Petrini, Risonanze. Ascolto Corpo Mondo 79 Edmund Husserl, Lezioni sulla sintesi attiva. Estratto dalle lezioni sulla «logica trascendentale» (1920/1921) 80 Eleonora De Conciliis (a cura di), La provincia filosofica. Saggi su Elias Canetti 81 Leonardo Messinese, L’apparire del mondo. Dialogo con Emanuele Severino sulla “struttura originaria” del sapere 82 Stefano Monetti, Jacques Lacan e la filosofia 83 Laura Bazzicalupo (a cura di), Impersonale. In dialogo con Roberto Esposito 84 Roberto Franzini Tibaldeo, La rivoluzione ontologica di Hans Jonas. Uno studio sulla genesi e il significato 85 Alice Pugliese, Unicità e relazione. Intersoggettività, genesi e io puro in Husserl 86 Malknecht Ludovica, Un’etica di suoni. Musica, morale e metafisica in Thomas Mann 87 Lodovica Maria Zanet, Decifrare l’esperienza. Atti e vissuti in fenomenologia, prefazione di Roberta De Monticelli 88 Chiara Agnello, Cura di sé e filosofia. Interpretazioni fenomenologiche di Platone 89 Attilio Bruzzone, Georg Simmel e il tragico disincanto 90 Marchetto Monica, Materia, qualità, organismo. La filosofia schellinghiana della natura e il primo sorgere della filosofia dell’identità 91 Igor Tavilla, Senso tipico e profezia in Søren Kierkegaard. Verso una definizione del fondamento biblico della categoria di Gjentagelse 92 Maurizio Guerri (a cura di), Le arti nell’età della tecnica, Seconda Edizione 93 Riccardo Caporali, Vittorio Morfino e Stefano Visentin (a cura di), Machiavelli: tempo e conflitto 94 L. Basso, S. Bracaletti, M. Farnesi Camellone, F. Frosini, A. Illuminati, N. Marcucci, V. Morfino, L. Pinzolo, P.D. Thomas, M. Tomba, Tempora multa. Il governo del tempo

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Finito di stampare settembre 2013 da Digital Team - Fano (PU)

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