Il Laboratorio di Jean-Marie Straub e Daniele Huillet

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franco Peculi

Il laboratorio ili tonine Strani ! Uèle Mei

INTRODUZIONE ALLA MUSICA (*)

D - Moses und Aron è un film per la televisione. In che rapporto è il vostro cinema con il mezzo televisivo? R - Tutti i film fino a Othon non avevano niente a che fare con la televisione. Sono andati in onda in Germania e anche in Italia con tanti anni di ritardo (n.d.r.: il Bach-film è stato trasmesso dalla TV italiana il 30-3-1972, sul primo canale alle ore 21, mentre sul «secondo» era in onda «Rischiatutto»; Nicht Versohnt è andato in onda il 7-10-1972, sul «secondo» alle ore 21, mentre sul «primo» c'era («Canzonissima») come film fatti non per la televisione. Per Othon, inve­ ce, c'era un pre-accordo con il secondo canale tedesco; un ac­ cordo non firmato prima, però: non avevamo nessun rapporto con la televisione, abbiamo preso il rischio di fare il film e di vedercelo rifiutare una volta finito, senza tenere minimamente conto della televisione. Il primo film per il quale ho pensato alla televisione era Lezioni di storia, pensando veramente a far un film come immaginavo che dovrebbero essere certi prodotti televisi, almeno in quella direzione... una specie di prodotto televisivo ideale, in ima società diversa; e per realiz­ zarlo non siamo andati noi prima a trovare la televisione, ab­ biamo finanziato il film con soldi che non avevano niente a che fare con la televisione, appunto per evitare di entrate nel meccanismo di certe discussioni; abbiamo avuto la buona sor­ presa che i tedeschi lo hanno comprato. Lo hanno buttato in onda un lunedì sera alle 10.30, ma insomma... (*) Conversazione registrata al magnetofono il 4 luglio 1975, a casa di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Mentre Danièle si occupava di alcune fotografie, Jean-Marie parlava con me.

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L'unico film che abbiamo fatto in co-produzione con la televisione era, prima di Mose e Aronne, V Introduzione. Non abbiamo detto quale sarebbe stato il film, abbiamo detto vi facciamo un film che parlerà di questo pezzo di musica di Schonberg e basta, senza far vedere una sceneggiatura: niente, e tenendo per noi tutti i diritti fuori della televisione; cioè abbiamo fatto un film che loro potevano rifiutare dopo, però che rimaneva di nostra proprietà come prodotto dei nostro lavoro. Se lo rifiutavano, non andava in onda e noi avevamo fatto un film... Era per i terzi canali tedeschi, in un quadro molto limitato, un quadro musicale di una certa trasmissione mensile e con la più piccola di tutte le stazioni tedesche, quella di Baden Baden. E’ andato finalmente in onda su tutti i terzi canali perché quello di Baden Baden, dopo la resistenza dell’intendente ecc., lo ha digerito e Io ha difeso. D - Tu hai parlato di una televisione di una società diver­ sa, come dovrebbero essere certi prodotti televisivi... R - Una televisione che manda in onda un film come Le­ zioni di storia non il lunedì sera alle dieci e mezza... D - Ecco... ma è solo una questione di orario o c’è anche un aspetto che riguarda il linguaggio usato? Il film per la tv è diverso? R - In questo senso posso dire che ho cercato di andare controcorrente, aumentando la concentrazione, aumentando la possibilità di libertà dello spettatore, facendo anche una ridu­ zione di quello che si potrebbe chiamare il messaggio, anche se il messaggio non c'è; cioè andando più avanti di quello che facevamo in altri film, praticamente andando controcor­ rente; a livello della costruzione, facendo una cosa meno «dram­ matica» dei film precedenti, e a livello ideologico, facendo una cosa più semplice e ancora più chiara... andando non nel senso di unire ma di dividere il telespettatore... non è a caso che il film più aggressivo che abbiamo fatto, ideologicamente, è proprio l’Introduzione. Avendo per la prima volta l’occasione che la tv mi veniva a cercare dicendo se volevo fare un film per loro (le altre volte eravamo sempre noi che andavamo a cercare di convincerli, magari per uno o due anni di seguito,

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di accettare un progetto nostro), abbiamo cercato di andare più avanti possibile, a livello stilistico — è proprio un film terroristico, è l’unico del quale si può dire quel che pretendeva Moravia di altri film — e anche a livello ideologico è molto chiaro; cioè prendendo il rischio massimo invece di prendere il denominatore più basso o il più comune. D - Mi pare che questa risposta sia proprio pertinente alla domanda, che era una domanda di tipo semiologico... Un altro avrebbe forse parlato di linguaggio televisivo in termini di primi piani... Adesso vorrei chiedere un’altra cosa. Che cosa pensate della popolarità, questo concetto in nome del quale si fanno i film di genere più diverso? Considerando che oggi molto cinema «impegnato» punta alla popolarità nel senso del «rea­ lismo» del messaggio, un realismo che va dalla storia di im­ pegno civile fino alla commedia italiana di derivazione neorea­ listica, si potrebbe pensare che «popolarità» debba significare «farsi capire »dal pubblico delle comunicazioni di massa... R - Credo che ci sia una confusione da parte di questa gente tra popolarità e compiacimento per la borghesia, è l’unica cosa che si può dire; son loro che ingannano se stessi e ingan­ nano l'opinione pubblica parlando di popolarità quando in realtà lavorano per la borghesia e basta. Queste commedie italiane sono evidentemente, anche se vanno oltre e incassano i loro soldi con un pubblico diverso, prodotti della borghesia per la borghesia; il resto è proprio tartufismo. D - Infatti, il vostro film più «impopolare» è YOthon... R - Hai ragione di legare Othon alla domanda. Othon non poteva incontrare che ostilità da parte di questa gente, perché è proprio fondato, costruito su una espropriazione; l’o­ perazione consiste nell'espropriare loro di Corneille, almeno ad un primo livello... D - In fondo, lo stupore è che qualcuno abbia preteso di fare un film su Corneille per la gente che Coi-neille non lo conosce... Vorrei farvi anche una domanda per la stampa, come si dice; certi registi, che sono ancora convinti di fare l’Arte, si infastidiscono molto quando gli si chiede che cosa hanno voluto dire, che cosa significa il loro film...

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R - Othon significa: finalmente, dopo tutti questi giochi, dopo tutte queste contraddizioni di questi personaggi che si distruggono l’un l’altro e che dicono una verità e poi tre fal­ sità ecc., tutti questi giochi intrighi, neanche di una classe ma di una cricca politica, il film significa finalmente spazzatemi via tutto questo e inventate voi un potere che viene da voi stessi, dal basso e non un potere che sia lì sul terrazzo del Palatino in aria; cioè non rimettete i vostri destinti ad altri ma prendeteli in mano. Questo significava Othon e loro che han­ no reagito così si sentono espropriati di un bene culturale e si sentono proprio aggrediti nella loro esistenza di classe, perché anche se non fanno parte della cricca politica borghese, appar­ tengono alla classe per la quale questa cricca fa la politica che fa, e basta. D - Molto spesso la critica si limita a raccontare i film, a riassumere la trama e mentre lo fa riformula però a suo modo il senso del film... R - E non sanno nemmeno raccontarlo. Per quanto ri­ guarda Othon, rimaniamo su Othon perché è proprio l’oggetto della discordia, non si può raccontare la storia, praticamente è inenarrabile, si vede o non si vede e poi fa appello ad espe­ rienze che lo spettatore ha avuto o non ha avuto, esperienze nella sua vita quotidiana politica, nella società nella quale vive, ricatti ecc.; oppure lo spettatore non sa che cosa sono questi rapporti e allora questa storia non significa niente per lui. Invece, quel che si può dire è proprio quel che ho detto prima. Othon significa chiaramente questo: vedete il film e fate questo cammino per arrivare a questa scoperta che dovete fare un giorno o l’altro, che sapete già ma che qui potete rifare in maniera sensoriale e concettuale insieme. Per il Bach ho parlato di contadini tedeschi. E sostengo ancora che se il Bach fosse uscito in un canale diciamo com­ merciale — ha dovuto aspettare un anno per uscire nei piccoli ghetti d'arte, è andato in onda in televisione con un anno e mezzo di ritardo, molto tardi, e soltanto dopo tre anni sul pri­ mo canale a un'ora normale — avrebbe potuto funzionare mol­ to bene nelle piccole città con popolazione contadina intorno, perché era per loro ima specie di viaggio in un passato che 16

potevano scoprire, attraverso le parrucche e i costumi per an­ dare oltre; un passato del quale loro sanno qualcosa ma non la mentalità. Invece, per Othon ho parlato di operai francesi. E’ stata un'idea che non ho avuto in modo astratto, era una cosa intuitiva, ma era proprio questa, perché appena Rivette ha visto il film in una proiezione privata — io non c'ero per­ ché non ero amnistiato e non potevo ancora andare a Parigi (n.d.r.: Straub non aveva voluto, al tempo dell’Algeria, pre­ stare servizio militare nell’esercito francese ) — ha detto a uno, che me l’ha raccontato, che vedeva Othon proprio come ima lettera aperta di un francese, da fuori, al potere, cioè a Pompidou. Se vuoi, Othon fa vedere ai francesi una galleria di Pom­ pidou a tutti i livelli: Pompidou capo di stato, Pompidou pre­ tore, Pompidou senatore, ecc. Lo stesso Rivette, che proprio non è ossessionato dalla politica (si potrebbe dire piuttosto il contrario), ha visto subito Othon, alla prima visione, come un film leninista, per l’operazione culturale di prendere Corneille e proporlo a gente che non lo conosceva, che non aveva fatto lo studio classico francese. Non a caso abbiamo dedicato il film, oltre che a Moravia e alla Betti, senza i quali non avrem­ mo mai avuto il permesso di girare sul Palatino (ci era stato rifiutato già tre volte), «al gran numero di quelli che non hanno mai avuto il privilegio di fare conoscenza con l’opera di Cor­ neille». D - Ciascun film per il suo pubblico, dunque... R - Non avrei mai fatto un film come V Introduzione per un pubblico come si dice, anzi come si poteva dire ancora dieci anni fà (adesso non esiste più, perché l’industria ha distrutto anche questo), per un pubblico che va al cinema. Introduzione è un film fatto proprio per colpire in un mezzo di comunica­ zione di massa come la televisione, che per me è una mostruo­ sità — non come tale, ma per come è usata, e forse anche come tale, però c’è e non possiamo cancellarla —. Proprio avendo per la prima volta l’occasione di un ordinativo, diciamo, abbiamo cercato di andare più avanti possibile, sia a livello del terro­ rismo estetico sia del messaggio politico; e abbiamo detto anche a loro: il film lo giriamo fuori, in Italia, e sarà il nostro 17

stabilimento, perché ci hanno anche proposto di sviluppare loro il negativo: abbiamo detto no, il negativo lo teniamo noi, andiamo allo stabilimento Luciano Vittori dove abbiamo i no­ stri negativi dei film girati in Italia, cioè Othon e Lezioni di Storia; e questo negativo è proprietà nostra, rimane in Italia e basta; a voi consegnamo, secondo il contratto, due copie col nastro magnetico perforato. Questo significava, natural­ mente, che noi pagavamo lo stabilimento. Ma volevo anche un’altra cosa, e cioè mettere dentro al film il loro apparecchio tecnico. Volevo assolutamente, senza dire a loro cosa si regi­ strava lì, registrare sia gli estratti delle due lettere di Schon­ berg sia l’estratto del testo di Brecht dentro uno studio della televisione di Baden Baden, che era il canale che aveva ordi­ nato il film. Pensavo che, alla fine, se loro rifiutavano il film, il film comunque era un film prodotto davanti a uno schermo di uno studio televisivo, con una parete di vetro di uno studio di sonorizzazione della televisione, con un fonico della televisione e con un operatore della televisione, una macchina da presa della televisione. Invece, il resto, le parti a colori, l’introdu­ zione mia, la fontana all’inizio e i documenti, sono stati girati con lo stesso operatore e lo stesso fonico di Lezioni di Storia; ma volevo avere tutti questi pezzi in bianco c nero girati proprio con i loro mezzi tecnici, per comprometterli. E alla fine, se loro rifiutavano il film io dicevo: avete rifiutato un film girato nei vostri muri, con la vostra tecnica almeno per più della metà; e potevo andare in giro col film. D - C'è poi quest’ultima inquadratura, con quell’aereo... R - Non è l’ultima, perché dopo c’è il giornale, dove dicono che hanno riconosciuto non colpevoli i due architetti che ave­ vano disegnato i crematori; è la penultima... D - Sì, quella con l’aereo... R - Son due aerei. C’è l’ultimo pezzo, che finisce con una carrellata dall'alto sulla campagna vietnamita, dove si vede l’ombra di un aereo che passa, poi si va indietro e si arriva in un fumo che è un fumo di napalm. L’ombra è l'ombra di un aereo da caccia; prima c'è un altro aereo che è un B-52, un bom­ bardiere. Tra i due c’è un pezzettino di nero: abbiamo fatto ve­ dere le bombe, poi il pezzettino di nero e subito arriva l’aereo 18

da caccia e la terra (con l’ombra di un altro aereo da caccia) e il napalm che brucia. D • Volevo sapere da dove venivano queste immagini. R - Da un materiale televisivo di Colonia, però americano. Abbiamo scelto quei pezzetti tra migliaia di metri, in cui tutto era annegato. Questa sequenza è stato un cattivo sogno, l'ab­ biamo montata indipendentemente dal film un anno prima.

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AUTOBIOGRAFIA

Sono nato sotto il segno del Capricorno (come il perso­ naggio della Vecchia Signora di Non riconciliati) la domenica dopo VEpifania, nella città natale di Paul Verlaine («Et si j’avais cent fils, ils auraient cent Chevaux/Pour vite déserter le Sergent et l’Armée») e mi è stato imposto il nome di uno dei primi obiettori di coscienza (Jean-Marie Vianney, parroco di Ars) precisamente Vanno delVavvento al potere di Hitler... Fino al 1940 ho sentito parlare solo francese e ho studiato in questa lingua, a casa e fuori. All’improvviso, sono stato costretto a parlare solo il tedesco e ad impararlo a scuola (ogni parola francese era assolutamente vietata) con il sistema diretto... Dopo la liberazione sono stato allievo, fino alla prima liceo, del Collegio dei Gesuiti «Saint-Clément» (dove ho im­ parato che l’insubordinazione non è soltanto una virtù poe­ tica), e poi un anno in un liceo statale. Al secondo anno di liceo ho partecipato ad una manifestazione contro i programmi deplorevoli delle sale cinematografiche di Metz; in questa oc­ casione ho avuto i primi contatti con la polizia francese. Dal 1950-51 al ’54-55 ho diretto un Cineclub a Metz con 200-700 soci e nello stesso tempo ho frequentato l'università di Strasburgo (1951-52) e di Nancy (’52-53, ’53-54). Nel novembre del 1954 sono arrivato a Parigi con il progetto di un film biografico a lungo metraggio: Chronik der Anna Magdalena Bach; rivolu­ zione algerina; incontro con mia moglie... Ho guardato un po’ girare qualche film come Le tour de Nesle di Gance, French 21

Can Can e Eléna et les hommes di Renoir, Le coup du berger di Rivette, Un condamné à mort s’est échappé di Bresson, Une vie di Astruc. Dal 1958 sono passato in Germania. All’inizio due anni di viaggi sulle tracce di Giovanni Sebastiano Bach. («Filmcritica», n. 204-205. 1970).

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DICHIARAZIONI DI POETICA

Non riconciliati Che significa fare dei film in Germania (ossia contro la stu­ pidità, la pigrizia mentale, la depravazione, che — come dice B.B. — sono diffuse in questo paese?). Iperione risponderebbe: significa dissanguarsi; ed io aggiungo: non riuscire a raggiun­ gere quel numeroso pubblico a cui si vuole dedicare la pro­ pria opera. Machorka-Muff, mio primo film (un cortometraggio) era la storia di una violazione di un paese al quale è stato nuova­ mente imposto un esercito, mentre esso era felice di essersene sbarazzato; Nicht Versòhnt è la storia di una frustrazione: la frustrazione della violenza (quella a cui si richiama Santa Giovanna dei Macelli quando grida: «solo violenza aiuta dove violenza regna») di un popolo che ha fallito la sua rivoluzione del 1849 e che non è riuscito a liberarsi dal fascismo, e che per questo rimane prigioniero del suo passato. Ho deliberatamente scartato tutto ciò che il romanzo di Boll comportava di pittoresco, di satirico, di aneddotico, al fine di fare, attraverso una famiglia borghese dal 1910 ai giorni nostri, una pura riflessione cinefatografica, morale e politica (l'una comporta necessariamente l’altra) sugli ultimi cinquant'anni della Ger­ mania, sotto forma di una sorta di oratorio cinematografico (...). Paradossalmente questo film, che è il più astratto del mondo, è anche il meno distanziato (così come quelli di John Ford sono i più brechtiani) e, dialetticamente, il più marziano. 23

Noja riconciliati è il film (...) in cui la Storia, tutto quello che è successo dal 1900 al 1945 in Germania, e poi dopo, è il contrario di una fatalità. Non riconciliati è un film a livello delle piccole responsabilità di una famiglia borghese; sul fatto che la fatalità non esiste perché siamo tutti responsabili. (...) La responsabilità degli operai è fuori dal film perché Non riconciliati (ho preso il sottotitolo Solo violenza aiuta do­ ve violenza regna) è proprio quella violenza che è mancata in Germania nel '33. Il fatto che non si siano accordati per uno sciopero generale, che i socialisti non hanno avuto il coraggio di intendersi coi comunisti, ecc. (...) Quando ho scritto «Solo violenza aiuta dove violenza regna», non è per il fatto della vecchia che spara ma il fatto di una violenza che è mancata, è la frustrazione di quella violenza.

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Lettera aperta al direttore del Festival di Berlino

Caro Doktor Bauer, grazie per il suo invito, ma non verrò a Berlino: — perché non ho alcuna voglia di presentarmi a un tribunale che qui stesso tre anni fa condannò a morte (a porte chiuse) il mio film precedente «Non riconciliati o solo violenza aiuta dove violenza regna»; — e perché non mi piacciono i cani poliziotti né gli ispettoridi polizia (anche se in borghese), e neppure le puttane (la maggior parte delle volte, ahimè, pubbliciste), parassiti e pro­ tettori (che brulicano attorno a festival del genere) di un'in­ dustria che fa prova di sempre minore immaginazione (anche soltanto capitalistica) e di sempre maggiore cinismo. E tuttavia mi rallegro (malgrado l'assurdità di qualsiasi competizione) che «Chronik der Anna Magdalena Bach» venga mostrato nel quadro del festival: — per i berlinesi, che possono così vederlo su un grande scher­ mo (anche se il film non ha né «Pràdikat» né distributore); — e perché credo che questo film sia (anche) una protesta, perfino uno sciopero contro la legge di aiuto di Bonn al cine­ ma e le leggi d'eccezione, e un appello a strutture sociali ed economiche che rendano ogni film accesibile a ognuno.

Con i miei migliori saluti, Jean-Marie Straub 28 giugno 1968

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L’amore per Bach

Abbiamo lavorato molto su Bach. E’ il musicista che co­ nosciamo meglio, a parte Schoengerg. Rappresenta la fine di una certa civiltà cristiana occidentale. Con la sua morte, in Germania, nel 1750, cominciava un’altra epoca. Ci interessa Bach per le stesse ragioni per cui interessava a Brecht. Brecht diceva: «una buona musica non deve fare alzare la tempera­ tura di chi la ascolta». Trovava in Bach quasi la sua musica ideale, una musica che lascia sempre l’ascoltatore, lo spetta­ tore, freddo e libero di seguire un pensiero, di usare la sua testa per seguire linee che continuano e si interrompono: un tessuto musicale dialettico. La musica di Bach è una delle musiche più dialettiche che esistano. Inoltre vi si trova, sot­ terranea, un'enorme violenza. Credo che sia importante che i ragazzi di oggi abbiano la possibilità di sentire Bach così come lui scriveva, come era eseguito nella sua epoca, perché oggi si trovano tanti dischi che cominciano con tre o quattro misure di Bach e che finiscono nella nebbia.

Da una parte ho scelto la musica in modo da avere un esempio di ogni genere, un coro iniziale, un concerto strumen­ tale, un brano d’organo, uno di clavincembalo, un minuetto, ecc., nonché uno di ogni periodo creativo — anche quello pre­ cedente il 1720 data in cui inizia la cronologia del film dev'es­ sere rappresentato; in questo senso abbiamo nel film, che è as­ solutamente classico, assolutamente lineare, una specie di flash-back! D’altra parte, «dialetticamente», abbiamo scelto la musica unicamente in rapporto al ritmo del film. So esattamente in 27

quale punto ho bisogno di una superficie piana — e quindi non ho scelto una musica che avrebbe potuto mettere tale super­ ficie piana, necessaria in quel momento, in pericolo. L’adegua­ mento tra il brano di musica scelto e il ritmo del film dev'es­ sere in ogni istante totale nella costruzione. Al di fuori di ciò, so, certo, di poter collegare direttamente un certo brano di musica con un altro e che in qualche altro punto c’è bisogno di una lacuna, di una sequenza senza musica, di un «punto di vita» diciamo, che soltanto allora siamo andati a cercare nella vita di Bach.

Non è mai esistita una «auto-biografia» di Bach. (...) Le lettere che l'attrice legge non sono state scritte da Anna Magdalena, ma da Bach. Per noi l'unico punto di vista possibile per guardare Bach era un punto esterno al musicista di cui si raccontava la vita, che fosse al tempo stesso un punto di vista contemporaneo. Un punto di distanza ma anche di simpatia, di vicinanza. Non poteva essere altro che il punto di Anna Magdalena perché era un punto d'amore.

Il nostro «découpage» si basa quasi esclusivamente su testi di Bach e su alcune frasi tratte dal Necrologio che Philipp Emanuel ha scritto l'anno della morte di Bach. Una parte del testo proviene da esso, una parte dalle lettere di Bach, e una piccola parte da me, ma solo cose come «Il Venerdì Santo dello stesso anno diresse per la prima volta la propria musica su tema della passione dal Vangelo secondo San Matteo», frasi di raccordo e indicazioni cronologiche. Nel Necrologio si riconosce Bach stesso, nello stile e anche nei racconti. Si può pensare che Philipp Emanuel scrivesse a volte come Bach raccontava. E' per questo che nel film Anna Magdalena, alla quale vengono fatti dire questi testi, parla come Bach ha scrit­ to — per quanto concerne le lettere — e come egli ha parlato — per quanto concerne il Necrologio. Per molto tempo alcuni manoscritti sono stati ritenuti autografi di Bach, mentre in verità erano di mano di Anna Magdalena. Solo la più recente 28

ricerca musicologica ha stabilito esattamente quello che pro­ viene dalla mano di Anna Magdalena, voci o intere partiture che essa ha ricopiato. E’ stato accertato che le scritture si rassomigliavano sempre di più, almeno superficialmente. Que­ sto io non l’utilizzo nel film, perché si tratta di qualcosa di ottico, e sono dell’avviso che ciò che è ottico è ciò che passa meno bene sullo schermo. Ma miro allo stesso scopo serven­ domi del fatto che Anna Magdalena parla come Bach parlava e scriveva. I tedeschi hanno rifiutato all'inizio, e quella Schola Cantorum Basiliensis per almeno due terzi è composta dalle stesse persone che fanno parte della Cappella Coloniensis; gli stessi musicisti, la stessa orchestra, ma dipendono dalla televisione di Colonia. Questi hanno sempre rifiutato di partecipare al film, soltanto Wenzinger ha detto: «Beh! se è così lo facciamo e impegniamo i musicisti dalla Svizzera». Se Wenzinger non si fosse preso il rischio di rompere le sue relazioni con Colonia, il film non sarebbe stato possibile, perché altri che suonano strumenti barocchi non ci sono. (...) Fra noi e la fine dell’epoca barocca, c’era tutto il romanticismo, cioè un’epoca che aveva snaturato la musica di Bach e non permetteva più di sentirla come Bach l’aveva scritta e sognata. Per esempio si eseguiva un coro semplice di Bach, una sua cantata o una musica da chiesa con 250 musicisti, quando Bach aveva in mente un massimo di tre ragazzi per voce. Dunque un coro semplice, che è composto di quattro voci (soprani, contralti, tenori, bassi), era eseguito all’epoca di Bach da un massimo di dodici ragazzi, e non da 250 musicisti.

Anche se il nostro lavoro di «découpage» è consistito prin­ cipalmente nel cancellare ogni traccia di intenzioni, di espres­ sioni, posso dire per esempio quello che mia moglie ha provato battendo a macchina su matrici il «découpage», che non si tratta di altro che di un film sulla morte. Ma sarà anche— spero non sarà più dentro allora, eppure ancora dentro — un film su un «uomo libero», come direbbe Bernanos. Bach è per me uno

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degli ultimi personaggi della storia della cultura tedesca nel quale non c'è ancora separazione tra artista e intellettuale, per così dire; non c'è traccia in lui di romanticismo — si sa ciò che in parte è venuto fuori dal romanticismo tedesco; non c'è in lui la minima separazione tra l'intelligenza, l'arte e la vita, e nep­ pure alcun conflitto tra la musica «profana» e quella «sacra», in lui tutto era sullo stesso piano. Per me Bach è il contrario di Goethe.

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La scoperta di Brecht

(...) Non devi credere che lo conosca tanto bene, Brecht. Ho fatto conoscenza con le sue teorie, come lui le ha fatte, dopo. Prima sono venuto a contatto con la sua opera al Berliner Ensemble quando sono stato a Berlino nel ’58; subito dopo essere partito dalla Francia sono rimasto alcuni mesi prima a Amsterdam poi a Berlino-Est e qui ho scoperto Brecht; poi anche successivamente nella Germania Occidentale, in diverse città. In un certo senso la scoperta che lui ha fatto per il teatro io l’ho fatta a livello cinematografico. «Scavare la verità sotto il cumulo dell’ovvietà, congiungere con evidenza la cosa unica alla cosa generale, fissare nel grande processo la cosa particolare, questa è l’arte dei realisti», dice Brecht, e i nostri film credo che dovranno reinventare il rea­ lismo in tal senso.

Innanzitutto bisogna cercare che la cinepresa non sia un occhio, ma proprio uno sguardo. Questo è il lavoro. Soprattutto bisogna non avere l’impressione che sia un occhio che si sposta, ma proprio che è uno sguardo. E conoscere la distanza, morale e materiale è uguale, fra ciò che si mostra e la cine­ presa. I tedeschi intendono per inquadratura «einstellung». Einstellung vuol dire anche disposizione morale. (...). Ciò che è necessario, credo, è un’idea. Un’idea, ma che non sia un'in­ tenzione simbolica, né psicologica. Un’idea morale, dunque politica. ( ..) Lang è quello che ha il senso morale più. sicuro (...). Ha una morale di ferro, ciò si avverte in ogni sua inqua­ 31

dratura, ma si avverte anche nei suoi rapporti con i produt­ tori: è il solo che riuscì a fare una super-produzione che non fosse anche un super-prodotto. Der Tiger von Eschnapur e Das indisce Grabùal sono i soli film che siano delle superproduzioni senza essere dei superprodotti. (...) Lang in quel momento lì fece un atto di destrezza che è, diciamo, un regalo in oro per la gente, senza che sia un vitello d'oro. E' questo che è forte. Tutti gli altri avrebbero fatto un vitello d’oro. Il produttore aveva ben l'intenzione di fare un vitello d'oro. Lang ha fatto un film. I nostri film sono sempre pensati per un pubblico. E ogni nostro film è diverso da un altro perché si rivolge a un pubblico diverso (...). Non siamo sognatori totalitari, come i funzio­ nari della RAI che vogliono, con ogni film, raggiungere 20 mi­ lioni di persone. Io penso che si devono fare dei film anche per delle minoranze, perché si può sperare che esse, come dice Lenin, saranno le maggioranze di domani.

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Contro la pornografia

(...) Nicht Versòhnt si indirizzava alla gente in Germania e là io l’ho pensato e fatto «senza arte», nudo. Io credo che per il momento la cosa migliore che si possa fare, provviso­ riamente, è di fare dei -film che non si possano veramente dop­ piare, o che siano quanto è possibile difficili da doppiare. E per i quali bisogna anche battersi affinché essi non siano dop­ piati, dei film che si indirizzano a dei paesi particolari, che siano loro dedicati, perché l’industria sogna dei prodotti in­ ternazionali, e perché il meglio che si possa fare è il contrario. (...) Un film deve evitare tutta la retorica e la retorica è proprio industriale, credo. Bisogna distruggere la retorica del cinema e ricominciare sempre daccapo con ogni film che si fa, perché la retorica — quella che io chiamo pornografia — è proprio per quella che la gente dice: «E’ un film ben fatto».

(...) E’ solo un’illusione credere che si può trovare un linguaggio cinematografico universale. C’è bisogno di fare dei film che servano a gente particolare, a paesi particolari; ma adesso c’è il capitalismo che sogna dei prodotti che si possono consumare dappertutto. Possiamo anche accettare l’etichetta di film terroristici: ma i nostri film, se lo sono, non esercitano tale terrorismo con­ tro il publico, piuttosto contro l’industria cinematografica, con­ tro quella cricca di ruffiani che si arroga il diritto di decidere sui gusti del pubblico. E i film fatti per conto di questi ruffiani

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non sono mai un regalo per lo spettatore, ma un regalo per chi li fa e li produce: un profitto. Sono film disonesti che im­ pongono, con la violenza, dei sentimenti che non hanno più nulla a che fare con la reatlà e la vita quotidiana. (...) Gli spazi che tentiamo di usare (non voglio dire sfruttare, non credo che si abbia il diritto di dire: vogliamo sfruttare uno spazio) sono soprattutto i pochi spazi che lasciano le televi­ sioni. Non abbiamo invece la minima possibilità, né la minima voglia, di inserirci nell'industria della distribuzone. (...) Non ha senso, se hai in mente di fare un film sulla cultura contadina, farlo accettando un Mastroianni per la parte di un contadino italiano. (...) Noi lavoriamo fuori da quel mondo perché è un mondo marcio. Trovo anormale, immorale, mostruoso e assurdo fare un film dove non sei libero di avere il tempo ne­ cessario per lavorare con scrupolo: dove non hai la possibilità di scegliere le cose giuste; dove non puoi pagare te stesso e gli altri normalmente, con cifre che già di per sé sono molto superiori a quelle che si pagano a normali operai; dove sei costretto a pagare Marion Brando o Tonino Delti Colli con cifre che vanno alle stelle.

HUILLET — Mosè e Aronne è un film costoso che nessun produttore di cinema avrebbe accettato di realizzare. Il finan­ ziamento del film lo abbiamo costruito con pazienza e fatica, in questo modo: una piccola parte dalla televisione francese, una dal settore sperimentale della televisione italiana, circa metà dai terzi canali della televisione tedesca e un apporto, non in denaro della televisione austriaca che corrisponde a una cifra enorme perché copre le spese di registrazione a Vienna (sei settimane), il coro (66 persone) e l'orchestra (100 musi­ cisti). Il film è costato 180 milioni liquidi. Se si aggiunge l'ap­ porto degli austriaci, si arriva a 350 milioni.

STRAUB — La cifra è contenuta perché non ci sono gli stipendi che si pagano ai divi. Tutto il denaro è servito al film.

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Il direttore d'orchestra, per sei settimane a Vienna, quattro settimane in Abruzzo e una settimana per il missaggio, ha avuto sette milioni e mezzo. Tutti i tecnici erano pagati a tarif­ fa sindacale. (...) Prodotto secondo i metodi del cinema indu­ striale, Mosè e Aronne sarebbe costato più di mezzo miliardo, se si conta lo stipendio del montatore (il film lo montiamo noi) e quello del regista, sia pure di un regista-lavoratore e non di un regista-diva.

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Perché la «presa diretta»

Lo spazio-off esiste. Si scopre anche questo quando si gira con suono in diretta. Quelli che girano in muto non lo possono sapere; e qui hanno torto perché vanno contro l’essenza del cinema. Essi hanno l’impressione di fotografare solo ciò che appare loro davanti alla macchina da presa, ma non è vero, si fotografa anche ciò che si ha dietro ed intorno all'inqua­ dratura. (...) E’ il suono che dà lo spazio. Dunque, un indivi­ duo che gira in muto dimentica che sta fotografando o regi­ strando lo spazio. (...) Si dovrebbe a un certo punto e per un certo tempo lavorare con la presa diretta perché si scoprono molto meglio le cose. Quando in Non riconciliati Nettlinger dice: «... e il vecchio Trischler, Vacano stesso lo ha interrogato ma non ne ha tirato fuori nulla, nulla, e nemmeno dalla moglie...», al momento proprio in cui dice: «Vacano stesso lo ha — inter­ rogato», si sente fuori un altoparlante; c'è l’associazione con la polizia in quel momento, e questo per esempio è successo per caso. Questa è una cosa che se si facesse in studio diven­ terebbe espressionista. Lo stesso avviene in Othon, quando Galba dice: «Ni pieine liberté, ni pieine servitude — elle veut done un maitre...», si sente improvvisamente il rumore di una motocicletta che prende un’importanza enorme. E così si lavora con un materiale che è molto più espressivo senza diventare espressionista.

STRAUB — Quando giri con la presa diretta del suono, non puoi permetterti dei giochetti con le immagini: hai dei 36

blocchi che hanno una certa lunghezza e che non puoi sfor­ biciare a piacimento, alla ricerca di effetti. HUILLET — E’ proprio l'impossibilità di ingannare al montaggio che scoraggia l’uso della presa diretta. Non puoi montare come con i film doppiati: ogni immagine ha un suono, e sei obbligato a rispettarlo. Anche quando l’inquadratura si svuota, quando il personaggio esce fuori campo, non puoi ta­ gliare, perché continui a sentire il suono dei suoi passi che si allontanano. In un film doppiato si aspetta solo che l'ultima parte del piede sia uscita dall'inquadratura per poter tagliare.

STRAUB — Girando col suono diretto non puoi ingannare sullo spazio: devi rispettarlo e rispettandolo offri allo spetta­ tore la possibilità di ricostruirlo perché un film è fatto di estratti di tempi e di spazio. Puoi anche non rispettare lo spazio che filmi ma allora devi offrire allo spettatore la possibi­ lità di capire perché non lo hai rispettato e non. come si fa con i film doppiati, trasformare uno spazio reale in un labi­ rinto confuso e dare allo spettatore questa confusione in cui non può più ritrovarsi. HUILLET — (...) Se rifiuti di girare doppiato (...), se rifiuti di prendere questo o quell'attore perché pensi che fra la gente c’è tanta ricchezza e che è assurdo usare sempre le stesse maschere, è finita. Sei tagliato fuori. Infatti la ragione principale per cui si doppiano i film è una ragione industriale: solo accettando la dittatura del doppiaggio puoi infilare in un film due o tre divi di paesi diversi. STRAUB — E il risultato è un prodotto internazionale, qualcosa di privo della parola a cui, nei vari paesi, si prestano le rispettive lingue: lingue che non sono di quelle labbra, pa­ role che non appartengono a quei visi. Ma è una merce che vende bene. Tutto diventa illusione. Non c’è più nessuna verità.

Il contadino (di Lezioni di Storia) è il solo col quale io abbia lavorato in modo assolutamente opposto alle persone con le quali si era lavorato fino a questo punto, gli altri film compresi. Gli abbiamo lasciato interpretare il testo con le 37

sue proprie parole. (...) Ricostruì ogni frase col suo proprio vocabolario. E lentamente lo si è aiutato a sostituire ciascuna delle sue parole con quelle di Brecht. (...) E’ il processo inverso a quello del banchiere, che ha inizialmente appreso il testo in modo scolastico — ma non solo, egli sapeva bene ciò che c’era nel testo. Ma è solo al termine di nove mesi di lavoro, negli ùltimi tre, che incominciò ad arricchire il testo con le sue esperienze, tramite il suo modo di recitarlo. L’altro era l’inverso; ve le ha subito scaraventate dentro, al punto che ha fatto esplodere il testo (...).

(...) L’importante è di far superare agli attori degli osta­ coli. Ciò che è importante sono gli ostacoli. Sono gli ostacoli che li rivelano. Sono questi ostacoli che trasformo, che provo a trasformare in ritmo. (...) Ciò di cui sognano i produttori, come dice Renoir, è di fare film in cui non ci siano errori. Bene, il contrario è di fare film in cui non ci siano che errori... in cui gli errori, gli ostacoli sono ciò che vi è di più importante. In Nicht Versòhnt vi è qualcosa di simile, che non riguarda l’attore. E’ quando l’auto parte davanti all’abbazia, essa si ferma perché ha sbagliato la velocità. Evidentemente ciò ha fatto ridere tutti i critici tedeschi, perché si sono detti: ah-ah, non è neanche stato capace di rigirare quella scena e di ripren­ dere una buona partenza, come nelle parodie dei film poli­ zieschi americani, in cui l’auto sarebbe partita con una bella continuità. In realtà non è vero: avevo tre riprese in cui la vettura partiva veramente come nei film americani, e giusta­ mente abbiamo usato proprio quella, che era una quarta. Non solamene a causa di ciò ma anche perché c’era un aereo a rea­ zione dell’esercito tedesco che passava nel cielo sopra la chiesa e che si sente...

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Contro i ruffiani

Machorka-Muff (1963) era un film di vampyr, Nicht Versóhnt o solo violenza aiuta dove violenza regna (1965) un film mistico, Chronik der Anna Magdalena Bach (1967) un film marxista; Der Bràutigam, die Komòdiantin und der Zuhàlte è un film-film, e non è affatto una cosa minore... E' anche il più aleatorio dei miei film — e il più politico, perché: 1) è un po’ il giudizio finale di Mao o del terzo mondo sul nostro mondo («Se gli ultrareazionari del mondo — anche oggi, domani e dopodomani — ancora inflessibili — ma non forti — cacca di cane»), 2) è nato in seguito all'impossibile rivoluzione parigina di maggio ( tutta l'ultima inquadratura, e la musica iniziale e finale: «Du Tag, wann wirst du sein... Komm, stelle dich doch ein») e 3) racconta un fatto di cronaca (niente è più politico di un fatto di cronaca): gli amori di una ex-prostituta e di un negro — in rapporto con degli estratti di un testo teatrale di Ferdinand Bruckner!, scrive un uomo di legge berlinese che quindi ora esige, naturalmente — in nome dell'editore di Bruckner — la distruzione di tutte le copie e del negativo del film e la prova di tale distruzione, — nonché 5000 DM di danni e interessi. Poiché come scrive d'altronde «Filmtelegramm» (organo dei ruffiani): «è tempo di tirare un duro tratto finale...

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questo nuovo film, lungo 23 minuti, è di fatto 24 minuti troppo lungo... dev’essere il giudizio finale che Straub si è fatto di se stesso». Straub quindi lascerà finalmente la Germania per Roma dove spera di poter girare Othon quest’estate sul monte Pala­ tino.

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Contro il doppiaggio

(Lettera agli Uffici Competenti della RAI, 19 febbraio 1970, in «Filmcritica», n. 203) — Caro Dottore, i venti milioni di telespettatori italiani, l'industria culturale o la cultura di massa sono un mito totalitario, al quale rifiuto di sacrificare doppiando Les yeux ne veulent pas en tout temps se fermer (Gli occhi non vogliono in ogni tempo chiudersi). Non credo alla massa, credo agli individui, alle classi sociali e alle mino­ rità (che, come dice Lenin, saranno le maggioranze di domani). «Bisogna, dice Pierre Schaeffer della televisione francese, dap­ prima considerare il telespettatore come un uomo responsabile e intelligente. Ora, il mondo intero fa l'inverso. Una volta per tutte si è deciso che esisteva un telespettatore banale che biso­ gnasse neutralizzare per mezzo della distrazione. E' la tecnica americana del «rating». A New York, otto giorni dopo il lancio di una trasmissione, si sonda il pubblico. Se la trasmissione non ha il coefficiente voluto, essa è direttamente e semplicemente eliminata. E' il gran numero che fa la legge. E questa assurdità sta per varcare VAtlantico. Più televi­ sori ci sono, e più si vuole parlare a tutti in una volta. Però, è l'inverso che è vero. Più televisori ci sono, più bisogna diversi­ ficare i tipi di pubblico. L'obiettivo non è comunque l’anestesia!» Non soltanto in Francia, in Germania, in Olanda, in Sviz­ zera. .. ma anche nella maggior parte dei paesi dell’America del Sud, la gente è abituata a vedere dei film in lingua stranie­ ra; gli italiani sono veramente il popolo più sottosviluppato del mondo? Jorge Luis Borges scrive: «Quelli che difendono il doppiag­ gio ragionano (talvolta) che le obiezioni che gli si possono opporre possono opporsi, anche, a qualunque altro esempio

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di traduzione. Questo argomento disconosce, o elude, il difetto centrale: l'arbitrario inserto di un'altra voce e di un altro lin­ guaggio. La voce di Hepburn o di Garbo non è contingente; è, per il mondo, uno degli attributi che le definiscono. Conviene anche ricordare che la mimica dell'inglese non è quella dello Spagnolo. Più. di uno spettatore si domanda: giacché c'è usurpazione di voci, perché non anche di figure? Quando sarà perfetto il sistema? Quando vedremo direttamente Juana Gonzalez nella parte di Greta Garbo, nella parte della regina Cristina di Svezia? Sento dire che nelle provincie il doppiaggio è piaciuto. Si tratta di un semplice argomento di autorità; mentre non si pubblicano i sillogismi dei «connaisseurs» di Chilecito o di Chivilcoy, io, per lo meno, non mi lascerò intimidire. Sento an­ che dire che il doppiaggio è dilettevole, o tollerabile, per quelli che non sanno l’inglese. La mia conoscenza dell’inglese è meno perfetta della conoscenza del Russo; con tutto ciò, io non mi rassegnerei a rivedere Alexander Nevsky in un attro idioma che il primitivo e lo vedrei con fervore, per la nona o decima volta, se dessero la versione originale... Peggio del doppiaggio, peggio della sostituzione che comporta il doppiaggio, è la co­ scienza generale di una sostituzione, di un inganno». Una legge fascista (sulla difesa della lingua italiana!) ha fatto de/Z'Italia la camera a gas dei film stranieri. Perché, come dice Jean Renoir (che è l’uomo che ha meglio compreso il ci­ nema), il doppiaggio è un assassinio». «Si tratta sempre di (sor) prendere la vita. (Sor) prendere la vita è anche (sor) prendere nell’istante la voce, il rumore... Io appartengo an­ cora alla vecchia scuola della gente che crede alla sorpresa della vita, al documentario, che crede che si avrebbe torto di negligere il sospiro che una ragazza emette suo malgrado in tale circostanza, e che non è riproducibile». Il mio film Les yeux ne veulent pas... (Gli occhi) riposa precisamente su quelle cose che non sono «riproducibili» — sull’incarnazione del verbo di Corneille in ogni personaggio nell’istante, il rumore, Varia e il vento, e sullo sforzo che fanno gli attori e il rischio che essi corrono, come funamboli, da un capo all’altro di lunghi testi difficili registrati in presa

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diretta — cioè nel medesimo tempo dell'immagine: in perfetto sincronismo. Tentare di «ricostruire» questo sincronismo in studio e in italiano sarebbe non soltanto assurdo e menzognero, ma anche costerebbe settimane, forse mesi di lavoro — e si di­ mostrerebbe senza dubbio in molti casi impossibile. E chi mi garantisce che questo lavoro andrebbe in onda? Sono quasi due anni che noi abbiamo lavorato per alcune settimane in quattro al doppiaggio in italiano del commento del mio film Chronik der Anna Magdalena Bach (ho accettato di fare questo doppiaggio per la televisione e il pubblico ita­ liano, perché era possibile, trattandosi d’un commento parlato parallelamente all'immagine), e questo film non è ancora an­ dato in onda! Propongo dunque di sottoporre alla televisione in agosto una versione di Les yeux ne veulent pas... (Gli occhi...) sot­ to-titolata in italiano (che vorrei nello stesso tempo mostrare al festival di Venezia); se la televisione rifiuta questa versione sotto-titolata, io preferisco rinunciare ai quindici milioni di partecipazione della RAI al film. Come Giuseppe Bertolucci, «aspetto il tempo delle abitu­ dini nuove»; credete ai miei migliori sentimenti. (Jean-Marie Straub). P.S. «L'attività artistica meno di tutte si presta al meccanico uguagliamento, al livellamento, al dominio della maggioranza sulla minoranza». Lenin P.S. «I nostri compagni non devono credere, che qualcosa che essi stessi non capiscono, sia assolutamente incomprensibile anche alle masse». Mao Tse-Tung STRAUB — Il cinema doppiato è il cinema dell'inganno, della pigrizia mentale e della violenza perché non dà nessuno spazio allo spettatore e lo rende sempre più sordo e insensibile. In Italia la gente diventa ogni giorno più sorda, in maniera terrificante.

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HUILLET — La cosa è tanto più triste se si pensa che proprio in Italia è nata, in un certo senso, la musica occiden­ tale; diciamo, la polifonia. STRAUB — Il mondo sonoro è molto più vasto del mondo visivo. Il doppiaggio, così come viene praticato in Italia, non lavora sul suono per arricchirlo, per dare di più allo spetta­ tore. La maggior parte delle onde che un film contiene pro­ vengono dal sonoro e se questo sonoro, in rapporto alle im­ magini, è pigro, avaro e puritano, che senso ha? Allora bisogne­ rebbe avere il coraggio di fare del cinema muto. HUILLET — I grandi film muti davano agli spettatori la libertà di immaginare il suono. Invece un film doppiato non dà neppure questo. STRAUB — Le onde che il suono trasmette non sono sol­ tanto onde materialmente sonore. Le onde di idee, di movi­ menti, di sentimenti, anch’esse passano attraverso il sonoro. (...) Si può fare un film doppiato ma bisonga essere pronti a spendere cento volte più immaginazione e lavoro che per un film col sonoro in presa diretta. Infatti la realtà sonora che si registra è talmente ricca che abolirla e sostituirla con un'al­ tra realtà sonora (doppiare un film) prenderebbe un tempo tre o quattro volte superiore a quello impiegato per girarlo. Invece, normalmente, i film si doppiano in tre giorni, qualche volta in un giorno e mezzo: non c’è alcun lavoro. Può avere un senso girare muto e poi fare un lavoro sul suono di contrappunto all’immagine. Ma quello che i registi fanno di solito è attaccare a delle immagini mute dei rumori naturalistici che diano un’impressione di realtà, delle voci che non appartengono ai volti che vediamo. E’ di una noia, di una vanità e di un parassitismo terribili. HUILLET — I registi preferiscono doppiare anche per una ragione di pigrizia. Infatti, se sei deciso a fare un film con il suono in presa diretta, i luoghi che scegli devono essere giusti non soltanto in funzione dell’immagine, ma anche in funzione del suono. STRAUB — E questo si traduce in un lavoro di approfon­ dimento dell’intero film. Per esempio, il nostro ultimo film,

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Mosè e Aronne, l'opera lirica di Schoenberg, lo abbiamo girato nell'anfiteatro romano di Alba Fucens, vicino ad Avezzano, in Abruzzo. Ma noi non cercavamo un anfiteatro antico. Quello che volevamo era, semplicemente, un «plateau», un'alta pia­ nura che fosse dominata, se possibile, da una montagna. Ab­ biamo incominciato a cercare questa alta pianura quattro anni fa, con un’automobile che non era nostra, e abbiamo girato per 11 mila chilometri percorrendo più strade e viottoli di cam­ pagna che strade asfaltate, lungo tutto il Sud d'Italia, fino al centro della Sicilia. Nel corso di queste ricerche ci siamo accorti che nessuna alta pianura, per quanto bella, poteva an­ dare bene per il suono, perché quando sei su un'alta pianura tutto si perde nell'aria e nel vento. E poi, se c'è una valle, ci so­ no i rumori che salgono e ti assaltano. Così siamo stati costretti a rivedere le nostre intenzioni e abbiamo scoperto che quello che ci serviva era una buca. E alla fine ci siamo accorti che gira­ re dentro una grande buca, nel nostro caso l'anfiteatro, era più giusto, anche per l'immagine, perché avevamo uno spazio teatrale-naturale nel quale il soggetto, anziché dissolversi, si con­ centrava. (...) La necessità di girare in presa diretta, di regi­ strare tutti i cantanti che si vedevano nelle inguadrature, di prendere insieme il loro canto e il loro corpo che canta, ci ha portato a fare delle scoperte e ci ha fatto arrivare a un'idea a cui non saremmo arrivati altrimenti.

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Il montaggio

Ho sempre avuto orrore — anche in Bresson, che pure mi piace molto — dei campi-controcampi fatti in maniera da ve­ dere, prima un personaggio di faccia, e quindi, nel controcam­ po, la nuca dello stesso personaggio. Per me questa nuca non appartiene allo stesso personaggio, diventa come un tronco d’albero; dimentico che la nuca che c’è sullo schermo è quella del personaggio ripreso di faccia nell’inquadratura precedente. Credo che in questo modo di fare il cinema ci sia una man­ canza di rivolta nei confronti di procedimenti fotografici su­ perati; ai fotografi piace molto avere dei primi piani. Per me un’inquadratura (pian) è un’inquadratura, è cioè una realtà oggettiva che costituisce un tutto, che non ha alcuna funzione: narrativa, psicologica o altro. Non bisogna credere per questo che io arrivi automaticamente a raccontare un massimo di cose con un minimo d’inquadrature. Si tratta soltanto del risul­ tato d’una lunga pazienza, senza che vi sia da parte mia all’ini­ zio una qualche volontà anticonvenzionale.

La scelta è ciò che vi è di più lungo. Montare il film, questo avviene molto in fretta, anche alla fine, quando si taglia un foto­ gramma all’inizio o alla fine di ciascun piano (si è tentati di tagliare la metà di un fotogramma, se fosse possibile), avviene molto in fretta. Prima di tutto se ne taglia un metro, due me­ tri, poi si arriva a tagliare sei fotogrammi, tre, uno: questo si fa in fretta. Ma ciò che è molto lungo è la scelta. Non so come avviene, è molto... non ci sono delle ragioni, si direbbe; biso­ gna domandare a Danièle, lei mi vede scegliere, lei forse deve saperlo, io non lo so. 46

HUILLET — Quando ci sono delle tentazioni, per esempio nella banda sonora, o nell’immagine, una nuvola che passa, che è imprevista, o un cane che si vede, che era imprevisto: è sempre sugli attori che lui sceglie. Anche se bisogna sacrificare un imprevisto sublime, una luce sublime, un suono sublime. Per esempio non l’ho mai visto prendere perché vi erano delle campane una scena che era meno buona in rapporto agli attori.

STRAUB — (...) Rivedo la ripresa magari sette volte o forse trenta, ed ogni volta finisco per eliminare le campane, se ho un’altra ripresa in cui gli attori recitano più profonda­ mente, sono più corretti; in quel caso sacrifico tutto, anche la fotografia, la luce, tutto. HUILLET — Un’altra cosa è che lui non ha mai accettato, anche quando era possibile, di prendere il suono da una ripresa per unirlo all’immagine di un’altra.

STRAUB — Il cinema consiste nel sorprendere (è ciò che gli olandesi chiamano il «Bioskoop», è la stessa cosa della «mort au travail»): qualcosa che non si ripeterà mai più. Dunque, se voi mettete il suono, anche se è un’inguadratura di tre secondi, da un'immagine ad un’altra, questo è falso. E’ meglio non farlo. Alcuni lo fanno ma non mi sembra onesto.

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Lezioni di storia

L’inverso di Othon. Per prima cosa sorge un mondo, anche se è visto attraverso un vetro, la vita nella strada, da cui i personaggi di Othon sono tagliati fuori. E ancora, in più, appa­ re un contadino, dato che gli altri tre appartengono alla stessa classe dei personaggi di Othon, ma il contadino è l’apparizione di una classe opposta. Anche in Othon si parlava dell’impero, ma non si trattava che dei giochi politici di una cricca domi­ nante; qui non si tratta che dell’imperialismo, di questioni economiche. E’ l’origine del sistema capitalistico, com’è stato costruito contro il Senato e funzionava e si sviluppava. Il film non si chiama «Lezioni di Storia» al singolare. La gente ha ricevuto una lezione di storia nella società nella quale vive: è sufficiente. Un individuo di 45 anni in Germania oggi ha anche lui avuto la sua o le sue lezioni di storia. Più è co­ sciente politicamente, più è cosciente tout court, e ancor più questo è stato per lui direttamente una lezione di storia. Ma in ogni modo, egli resta con le sue esperienze, e il film, intac­ cando queste esperienze, può liberare una coscienza politica diffusa. Ed è ciò che mi interessa.

Si vedono per prima cosa le mappe fasciste in marmo del­ l’impero Romano, quando era al massimo poi un po’ più pic­ colo, poi soltanto l’Italia. Poi si vede Cesare nel suo piedistallo (...). Lo si vede sul suo piedistallo e, dietro, il Campidoglio; da lì era governata Roma. E poi comincia l’entrata, l’immer­ sione in Roma. Per questo la passeggiata (in automobile) co­ te

mincia su un colle. Questo colle è appunto il Gianicolo, è il colle dall’altra parte del fiume, non là dove c’è la vecchia città, ma là dove vivevano gli artigiani, gli schiavi e naturalmente più tardi i cristiani. (...) Non li si vede (...) perché sono sempre nelle loro botteghe. Ma li si sente. Si sente che c’è un’attività artigianale in quelle stradine. (...) In queste pas­ seggiate in auto non c’è soltanto la storia degli artigiani, ma anche l’architettura di Roma, gli strati. Quelle case alte e le stradine strette, molto belle, ma anche opprimenti. Questo vuol dire che gli uomini ci devono vivere e ci vivono real­ mente, da secoli.

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La politica

La violenza si può utilizzare soltanto contro gli sfrutta­ tori e contro quelli che l’utilizzano per asservire la gente. La cosa più falsa che si può fare (...) è quella di utilizzare i mezzi del capitalismo, della pubblicità, del fascismo del cinema ame­ ricano, di usare mezzi del nemico contro il nemico. Utilizzando i mezzi del nemico contro il nemico, il -film non si rivolge al nemico ma al pubblico. Sentirò sempre meno il diritto di imporre alla gente non soltanto le mie piccole idee ma degli slogan, anche se li con­ divido, perché penso che un cineasta, un intellettuale non ha il diritto di imporre. In questo senso i film di Vertov, che per altro ammiro molto, sono pericolosissimi (non è un caso se Godard e Gorin hanno scelto Vertov per dare un nome al loro gruppo). Non è per fare una critica a Vertov — sarebbe un atteggiamento ingenuo oltre che antimarxista e antistorico, i suoi film erano realizzati in un certo momento con uno scopo particolare e soprattutto in una società opposta alla nostra, in un contesto rivoluzionario — ma posso dire che, almeno in questa società, non vorrei mai dire alla gente «ecco». E’ la stessa reazione che alcttni anni fa sentivo di fronte ai film con bandiere rosse, ai film cosiddetti militanti. Nella nostra epoca di svalutazione ideologica io tenterò sempre di evitare dai miei film la parola «rivoluzione», la predica rivoluzionaria. Credo che, nel momento in cui si tenta di imporre idee come quella dei trattori o dell’industrializzazione — come ne La linea generale e nei film di Vertov — il lavoro di un intellet­ ti

fattuale dovrebbe proprio essere quello di offrire alla gente la possibilità di vedere e di rifiutare anche.

Mi diceva uno ieri sera: «Perché non fa un film sullo sbloc­ co degli affitti e non lo presenta a quelli che sono in sciopero per lo sblocco degli affitti?». Questo si può fare, non c’è niente da dire, ma la gente non ha bisogno di vedere dei film sul lavoro che fa; anche questa è una maniera di paternalismo e di colonialismo. Anche la utilizzazione in certi film della bandiera rossa è proprio una maniera di colonialismo. ( ..) La gente che lavora e fa lo sciopero degli affitti, per esempio, ha bisogno di sapere che cosa succede in altre parti del mondo: cosa succedeva in Germania nella testa di un uomo vissuto prima del 1970, perché da questo si può anche im­ parare qualcosa, perché fare la rivoluzione è anche rimettere a posto delle vecchie cose dimenticate. Il mio sogno è che tutti fossero capaci di farlo, ed è vero che tutti sono capaci. Se non lo fanno, è una questione di pi­ grizia o di ideologia o di scelta industriale o culturale che glielo impedisce. Le succitate dichiarazioni di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet sono tratte da interviste e conversazioni apparse su: «Cahiers du Cinéma», n. 223, 1970 «Cinefonim», n. 95-96, 1970 «Cinema & Film», n. 1, 1966-67 «Filmcritica», nn. 203, 204-205, 1970 «Filmkritik», n. 194, 1973 «Gong», febb. 1975 «La Nouvelle Critique», nov. 1973

Per le traduzioni dei «Cahiers» e de «La Nouvelle Criti­ que», ci si è riferiti al fascicolo dedicato a J. M. Straub e D. Huillet dal «Cinestudio» di Torino, 1973/74. La traduzione di «Filmkritik» è quella del «Quaderno informativo», n. 50 della «Mostra Intemazionale del Nuovo Cinema», Pesaro 1973. 51

STRAUB/HUILLET/SCHONBERG:

INTRODUZIONE ALLA «MUSICA D’ACCOMPAGNAMENTO PER UNA SCENA DI FILM» DI ARNOLDO SCHONBERG e MOSÉ E ARONNE

Un discorso critico su un film come Moses und Aron (Mosè e Aronne) presenta il problema di trovare e mantenere la giusta distanza — distanza critica, appunto — tra il materiale da cui si parte (l’oggetto culturale a cui gli autori stessi si riferiscono per il loro lavoro) c il film come risultato di una serie di procedimenti, che non vanno certo nella direzione del mimetismo, ma si oppongono al pre-testo come polo dialettico e come presenza operativa. Dal punto di vista critico, interessa, crediamo, la struttura (qualificante) di tale presenza e cioè il senso dell’opus in quanto operazione, legata al suo riferi­ mento culturale da determinazioni storiche, da tensioni ideo­ logiche, da intenzioni politiche; e concreta, dunque, nel suo essere frutto di scelte corpose (leggibili nel corpus istituzionale che in certo modo le prevede) e nel suo travalicare — discor­ rendo — la materialità della finzione scenica (e della referenzialità che a questa si accoppia), per giungere a proporsi come alternativa pratica. In ogni film di Straub/Huillet (Jean-Marie Straub ha sem­ pre firmato la regia in coppia con Danièle Huillet, tranne che per i cortometraggi) il momento della selezione del materiale culturale segna in maniera ineguivocabile l'orientamento del regista rispetto al contesto storico; e non sembri un'owietà. Intanto, è qui uno dei maggiori ostacoli alla comprensione per chi crede il cinema una non-forma di comunicazione: di­ retta, «universale», analfabctica per natura; ostacoli alla com­ prensione di un cinema che rifiuta di ridursi ad illustrazione di un’idea o a divulgazione di una formula — idea e formula esistenti prima e fuori del film —, ma chiede allo spettatore

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di entrate nel gioco delle idee, fornendogli un'occasione di giu­ dizio, di ripensamento, di progetto: beninteso non sul nulla, non partendo da un impossibile (populistico, demagogico, pa­ dronale) zero. Una certa lucidità possiamo riscontrarla proprio in quanto non ci fermiamo alla «realtà» — oggetto prefilmico, e la rap­ portiamo, invece, ad una posizione dialettica, definita non dalla scelta in sé (da un concetto astratto di scelta) del regista, bensì dal modo specifico di rendere operante tale scelta: nel film e prima del film. In tal senso, tutti i lavori di Straub/Huillet hanno il merito di mostrare i limiti di un certo strutturalismo rigido, che vorrebbe esaurire nel testo ogni possibilità anali­ tica; e sottolineano, nello stesso tempo, la legittimità di una istanza analitica di base per un approccio critico al testo, cioè al contesto, alla storia, all’economia. Ridurre il senso del Moses und Aron alla banalità di una riformulazione del piano mitologico: l’antagonismo pensiero/ parola, idea/immagine, metafisica/storia, legge divina/comportamento umano (dalla Scrittura alla Filosofìa, fino all'opera di un artista «moderno» come Schonberg), significa ridurre a parola d’ordine («messaggio») quello che invece vuol essere discorso politico aperto alla non-soluzione; significa opaciz­ zare e chiudere quella che, nel film, è una struttura di luce e un'apertura di rigore matematico. Certo, bisognerà sapere chi è «Mosè» e chi è «Aronne»; senza però istituzionalizzare un’ignoranza per non volerne ve­ dere le contraddizioni. Di solito si rimprovera a Straub di dare per scontato un certo alfabetismo degli spettatori: come se per vedere il più normale dei film americanai non fosse necessario accedere al piano di una scrittura, di una tradizione. E’ qui che, da un punto di vista critico, ci sembra neces­ sario agganciare il discorso su Moses und Aron ad un altro grado di consapevolezza, passando prima per le vie di un rap­ porto tra due autori e due modi di concepire il proprio lavoro; e giungendo poi a cogliere la struttura del film come prova di un’interpretazione democratica del mito inscenato da Schon­ berg.

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La biografìa di Straub, ridotta ad alcuni fatti salienti, come testimoniano le poche righe con le quali il regista li ha, per suo conto, raccontati, è la storia di una resistenza ostinata alle «proposte» di un sistema che il nostro non accetta. Da parte sua, una serie di rifiuti (le dimostrazioni, a Metz, contro un certo signore, padrone delle sale cinematografiche della cit­ tadina e censore provinciale delie programmazioni parigine degli anni '50; il «viaggio» in Germania per evitare di prestare la mano all’operazione Algeria; e poi la pretesa dell’editore Witsch di distruggere Nicht Versòhnt); e per contro, una serie di scomuniche da parte della critica, che, dopo aver provato ad ostentare disprezzo, supplisce ora all’incomprensione con una specie di lasciapassare tattico, per cui Straub/Huillet, autori «difficili», «rigorosi», «impegnati», sarebbero l’eccezione che conferma la regola. Ma Straub non vuole prendere questo lasciapassare: vuole invece dare; e piuttosto che accettare il paradiso dcll’Avanguardia, preferisce far luce, ancora, sulle ragioni del proprio lavoro. E’ così che nascono i suoi film, come riflessione — pri­ ma di tutto — sui rapporti tra l’industria cinematografica e il lavoro di un intellettuale di estrazione borghese, che tenta di fare qualcosa per aprire un varco nel sistema. E’ un lavoro di analisi, in cui il film non si esaurisce in un fatto «estetico», ma è l’aspetto concreto di una prassi politica: non l’opera come eccezione, ma il discorso come lavoro. Così nasce il Moses and Aron, l’ultimo film terminato di girare nel settembre scorso; e così nasce anche Einleitung zu Arnold Schonbergs «Begleitmusik zu einer Lichtspielscene» (Introduzione alla «Musica d’accompagnamento per una scena di film» di Arnold Schonberg), che ci piace considerare una vera e propria introduzione al film successivo, non solo perché viene immediatamente prima (terminato nel settembre '72), e non certo per limitarne la portata, ma perché può effettivamente chiarire certe ragioni interne dell’interesse di un regista come Straub per l’opera di un musicista come Schonberg. Ciò che unisce Straub a Schonberg è quella certa tensione critica, quella capacità di agire secondo un orientamento, di

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rifiutare determinate offerte per continuare invece a dare se stessi, secondo un altissimo senso morale. Non è un caso che Straub abbia pensato a Schonberg e non è un caso che Schon­ berg, dopo aver riflettuto a fondo sull'importanza del cinema, abbia scritto una musica per un film da fare. Senza voler ridurre l’attività di Straub ad una specie di tentativo di «adattamento» cinematografico dell’opera altrui (si tratta piuttosto di un vero e proprio lavoro parallelo), al­ cune considerazioni di Schonberg ci possono aiutare ad evi­ denziare la pertinenza delle scelte operate da Straub per co­ struire la sceneggiatura àeWEinleitung. Come non mettere a confronto le parole di Schonberg al suo amico Kandinsky, con le quali il musicista rifiuta, nel film, l'invito a fondare al Bauhaus di Weimar (siamo nel '23) un centro artistico/intellettuale: «Questa gente, a cui la mia musica e i miei pensieri erano scomodi, questa non poteva che rallegrarsi, che adesso una possibilità in più fosse mostrata di sbarazzarsi provviso­ riamente di me»; come non confrontare queste parole con l’i­ ronia feroce di quel breve discorsetto, apparentemente di cir­ costanza, con cui Schonberg nel '34 ringraziava di essere stato «cacciato» nel paradiso americano: «Quando il serpente fu espatriato, quando fu condannato a strisciare sul ventre e a cibarsi di polvere per tutti i giorni della sua vita, quello fu un espatrio ben diverso. (...) Io invece sono venuto da un paese in un altro dove non è razionata né la polvere né nessun altro cibo migliore, e dove posso camminare sui miei piedi, do­ ve la mia testa può essere eretta, dove la gentilezza e la letizia dominano e dove vivere è una gioia, dove essere espatriato da un'altra terra è una grazia di Dio. Io sono stato cacciato nel paradiso!» (cfr. la raccolta di scritti di A.S., pubblicata da Einaudi con il titolo «Analisi e pratica musicale», Torino, 1974. Dallo stesso libro le altre citazioni, che seguono). Nel cortometraggio di Straub, il brano di lettera citato continua così: «Il mio successo artistico mi è indifferente, Lei lo sa. Ma non mi lascio offendere!». Questa saldezza morale, unita alla grande capacità di analisi, porta Schonberg a cen­ trare il problema della mancanza di una musica americana. 56

L'analisi, anche per come è condotta, richiama la posizione di Straub nei confronti del cinema tedesco, francese, italiano... Dice Schonberg in un saggio del '34: «Henderson si me­ raviglia (...) che la mia 'venuta a Boston come insegnate’ ab­ bia fatto più scalpore dell’esecuzione d una nuova composi­ zione di un compositore di Boston. E ha ragione di meravi­ gliarsi. (...) Questo scalpore infatti rovina di certo molti artisti europei che erano venuti per dare e sono invece stati costretti a 'fare scalpore’ e infime non hanno trovato altra via d'uscita che prendere quello che ha da dare l’America». Questa legge del prendere — più che del dare —, questa legge del prendere o lasciare si traduce, in musica, nell’ottene­ bramento di quello che Schonberg chiama il «pensiero speci­ fico» del singolo compositore, a vantaggio della mimesi sin­ tomatica dello «stile»: «... ammetto che si tenti, analizzando le opere compiute, di ricavarne le peculiarità dalle note (...). Ma non vedere che queste peculiarità sono gli effetti, sono solo i sintomi del pensiero specifico, e credere di ottenere risul­ tati artistici con l’imitazione dei sintomi, dello stile, questo è un errore fatale». Si tratta dello stesso errore che un regista come Straub si ostina ad evitare, facendo continua opera di distruzione dello «stile», del «linguaggio» cinematografico, così come Io aspetta il cosiddetto pubblico «internazionale», voluto e difeso dall’in­ dustria del film, in termini di vendita. Nello scarto tra com­ prensione profonda della musica e «imitazione dei sintomi» sta il problema, non solo della nascita di una musica «ameri­ cana», ma, secondo Schonberg, dell’affermazione di una società in cui il pubblico sia parte attiva e non semplice consumatore. L’esecutore, infatti, deve essere un uomo preparato a com­ prendere i fatti nuovi e a comunicare in maniera autentica con la società: «Un uomo simile — dice Schonberg — non solo saprà fare gli interessi della musica, ma sarà anche in grado di convincere il pubblico della necessità di darsi da fare» (sot­ tolineatura nostra). Un tale discorso, così anticonformista e antintegrativo, è trasferibile, ovviamente, al cinema. E’ particolarmente inte­ ressante il tentativo di Schonberg di individuare in un certo

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modo il pubblico cinematografico. Proprio perché sa che cose un discorso specifico e tecnico, egli non può ignorare, dal punto del musicista, il cinema come cultura/industria, la re­ sponsabilità dell'artista nei confronti di un mezzo così salda­ mente legato agli interessi dei grandi produttori. Sono anni in cui il cinema americano, passato attraverso una crisi di crescenza dovuta all’avvento del sonoro, consolida i suoi miti: Lubilsch, Hawks, Capra. La «Settima Arte» ha tro­ vato il suo grande alibi sociologico: la cultura di massa. La produzione si orienta non solo verso l'« imitazione dei sintomi», ma seleziona rigorosamente i «sintomi» in funzione del grosso consenso. Dentro a questo genere di prodotti (prodotti di genere) non c’è posto per illusione vere, ma solo per sogni coscienziosamente prefabbricati. E' una realtà che è giunta fino a noi e di cui registi come Straub tengono ben conto quando conducono la loro battaglia contro la «pornografia» di un certo cinema sempre «ben fatto», sempre rispondente alle attese del «pubblico», sempre in linea con il «messaggio» politico più attuale. Di fronte a questa realtà, Schonberg constatava amara­ mente come nel cinema non ci fosse posto «per l’espressione di idee religiose», per un Liszl (egli pensava al «Christus», o alla «Heilige Elisabeth»), per un Wagner (pensava al «Parsi­ fal»), né per il suo «Moses und Aron». Da questa consapevolezza traeva forza per articolare la questione del valore estetico in un realistico confronto tra la tendenza industriale a portare il cinema «verso il livello più basso di passatempo» e una certa «riluttanza» dello «strato più istruito della popolazione» ad accettare passivamente il prodotto cinematografico. «Si può e si deve trovare — dice Schonberg — una produzione di commedie e di opere liriche che soddisfi la domanda del pubblico di istruzione più elevata ed anche le esigenze dell'ar­ te». La posizione è d'avanguardia, ma non è un arroccamento aristocratico. Continuiamo a pensare, parallelamente, a Straub, al senso progressivo e dinamico (di rottura, dicono molti) che il suo cinema assume nei confronti anche di un certo «speri­ mentalismo»; etichetta che pure, generalizzando con legge­ rezza, alcuni tendono ad appioppare allo stesso Straub. 58

Si noterà, comunque, come Schonberg evitasse di parlare in termini di valore assoluto, ma si riferisse a strati del pub­ blico ben individuabili sociologicamente. Quanto all’«arte», egli era cosciente del suo valore eversivo rispetto ad una società che, appunto, tende a sopprimere «spietatamente ogni perico­ loso elemento artistico» dai propri progetti industriali. Il rap­ porto tra film e cinema (società) è visto con estrema concre­ tezza: «Non penso che l'industria che attualmente produce film possa dare inizio ad una simile svolta verso l'arte pura, o se ne preoccupi. Ciò potrebbe essere fatto (...) solo da uomini nuovi». Il problema della relazione tra arte («pura» nel senso che sappia vedere al di là del semplice «divertimento» del con­ sumatore) e «pubblico» è affrontato da Schonberg tenen­ do ben conto delle complesse rispondenze che, all'interno del fatto culturale, legano la qualità della «lettura» con la situazione produttiva. Circa la questione del profitto, arma principale del produttore contro ogni tentativo di cinema non convenzionale, molto indicative sono le osservazioni di Schon­ berg per appoggiare con argomenti «statistici» un diverso pro gramma culturale. In sostanza, sosteneva Schonberg, per ot­ tenere il cento per cento delle presenze voluto dai produttori, occorre al cinema un'enorme affluenza di pubblico, perché lo spettatore cinematografico vede il film generalmente una sola volta. A tale quantità il musicofilo a cui si proponessero film su opere musicali supplirebbe con una diversa qualità della fruizione, giacché l’appassionato di musica vuole ascoltare più volte il lavoro che gli interessa. Non si può certo pensare che Schonberg avesse in mente un futuro in cui Mickey Mouse e Parsifal sarebbero stati la stessa cosa; ma sotto l’apparente obbiettività della statistica c’è una malcelata ironia e un diverso concetto della funzione artistica, che presuppone un contesto sociale diverso; un con­ testo in cui non troverebbe posto, ad esempio, il terrorismo di un circuito (la tv) usato per bruciare in un solo passaggio molte possibilità di riflessione critica. Per venire a Straub, sarà il caso di notare che il suo film più spinto e inequivocabile dal punto di vista ideologico è appunto VEinleitung, il cortometraggio commissionato dal ter­ 59

zo programma televisivo di Baden-Baden. Straub non ha co­ munque mai escluso la possibilità di arrivare al pubblico attra­ verso la televisione; non per omogeneizzare prodotto e frui­ tore, ma per approfondire al massimo il lavoro di individua­ zione del destinatario e aprire dunque il campo di libertà del suo giudizio. Certo, la diversità di un pubblico che richiede diversi contenuti sta nel fatto che esso è disposto ad apprez­ zare tali contenuti su un piano formale diverso, almeno non riducibile a quella che Schonberg chiamava l’« abbondanza ma­ terialistica» delle grosse produzioni hollywoodiane, o a quella che oggi Straub chiama la «pornografia» del cinema «intema­ zionale». «Forse — s’augurava Schonberg — la gente arriverà a rendersi conto che l’arte è meno costosa del divertimento e più utile»; e partendo da questa speranza componeva la sua «Musica di accompagnamento per una scena di film». La stessa consapevolezza e la stessa speranza sono nel lavoro di Straub/Huillet. Se per il Bach-film (Chronik der Anna Magda­ lena Bach) il regista era arrivato a concepire come destinatario ideale il contadino tedesco, per VOthon (Les yeux ne veulent pas en tout temps se fermer ou Peut-ètre qu’un jour Rome se permei tra de Choisir à son tour) ha precisato: «perché possa raggiungere la gente per la quale l’ho fatto, bisognerà cambiare tutto da cima a fondo, fai saltare e cambiare tutto. Così, per tutto il tempo che non si farà ciò, bisogna provare a far pas­ sare i film di contrabbando». Ecco perché siamo partiti daiVEinleitung: Straub si ac­ costa alla musica con la stessa piena e lucida partecipazione con cui opera nel cinema; così come Schonberg pensò al cinema con la stessa volontà del musicista: volontà di dare all’America ciò che l’America non «offriva» a lui e agli altri.

ir * * Alla sua «Musica di accompagnamento» Schonberg diede un titolo: «Pericolo minacciante, paura, catastrofe»; solo que­ sto titolo e nessuna indicazione di scena; mentre invece, come autore di opere musicali, aveva precisato — contro i «nuovi dominatori dell’arte teatrale» (registi, il cui «dispotismo» e la cui «mancanza di coscienza» egli giudicava inferiori sol­ 60

tanto alla loro «mancanza dì cultura» e «impotenza») — ogni dettaglio, persino i rumori. Questa non-rappresentazione è rispettata da Straub fino in fondo. La musica resta priva di esplicite e dirette referenze fi­ gurative per tutta la sua durata e il film acquista una cadenza spiccatamente ideologica, tratteggiata da undici momenti di «nero» (pochi fotogrammi ogni volta), che mantengono Io spet­ tatore a stretto contatto con la sostanza della composizione di Schonberg. L'ideologia costruita da Straub svela per la settima volta (è il settimo film del regista) e più chiaramente, se possi­ bile, il tema della violenza nei suoi caratteri salienti (la con­ tinuità tematica è anche sottolineata con una sorta di auto­ citazione all'inizio del film, quando appare il mascherone di via Giulia, quello che sputa acqua: lo stesso che, in chiusura del film precedente, aveva dato un volto alla cantata di Bach: «Apri l'abisso infiammato o inferno; / Rovina, corrompi, in­ ghiottisci, spezza / con furore improvviso / Il falso traditore, il sangue assassino!»). Le ragioni della violenza nazista, che costrinse Schonberg a trasferirsi in America, traspaiono dalla risposta del musicista a Kandinsky e sono chiarite dalla precisazione di Brecht a pro­ posito di «quelli che sono contro il fascismo senza essere contro il capitalismo»; il confronto dei due brani, così pieni di inter­ rogativi e di certezze, così densi di sferzanti ironie, sventra dal­ l'interno il cliché televisivo dcll’«inchiesta». Oltre il significato delle parole, lette da due «attori» negli studi televisivi come si dovrebbe leggere il telegiornale, la portata semantica della musica è colta non nelle note in sé, ma nella loro costituzionale repulsione a servire da «commento». Il fatto che la musica di Schonberg — quello che aveva ammonito: «neanche la geo­ metria, Kandinsky può averla in comune con loro!» (i nazisti) — si oda mentre Peter Nestler legge Brecht: «a loro la demo­ crazia rende ancora i servizi, per i quali altri devono tirar fuori fuori la violenza, cioè la garanzia della proprietà dei mezzi di produzione»; e si oda mentre Guenter Peter Straschek legge la lettera di Schonberg che dice no alla proposta di andare a Weimar; questo è il senso dialettico di una musica che non vuole copiare la «barbarie», né lamentarsene, ma vuole invitare

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qualcuno a trovare il perché di tanta «paura», di tanta «cata­ strofe». Il discorso brechtiano sulla «proprietà dei mezzi di produzione» non è certo fatto sul «naso ricurvo» di Schonberg, ma sulla reale condizione produttiva dello stesso film, all’interno del quale Straub usa tutti i mezzi, linguistici/economici, per evidenziare le contraddizioni del sistema. Nella seconda inquadratura, dopo quella iniziale del mascherone, appare lo stesso Straub a dire la premessa metodologica del lavoro di Schonberg; ma già dal terzo stacco la presenza del regista diventa semplice voce ed emergono, con i dati biografici, il volto del musicista e poi la sua immagine. A questo punto, 20 fotogrammi di nero preannunciano la contraddizione. L’iden­ tificazione dell’«inchiesta» con la figura del personaggio si tramuta e dilacera nel rapporto antitetico tra mezzo di comu­ nicazione e contenuto della comunicazione: Straschek, in una sala di sincronizzazione della televisione tedesca, legge su un foglio di carta le parole di Schonberg: «... non sono né un tedesco, né un Europeo, sì forse appena un uomo ..». L’ana­ lisi si precisa più avanti, quando, dopo un altro stacco nero, Danièle Huillet, in casa con la gatta, cita Brecht: «come vuole qualcuno adesso dire la verità sul fascismo, contro cui egli è, se non vuole dire niente contro il capitalismo, che lo produ­ ce?»; niente di così fulminante è mai stato detto con tanta dolcezza, e tuttavia subito s’interrompe l’«inch:esta» ed ecco la precisazione del procedimento; ecco di nuovo la sala di sincronizzazione tv, ma questa volta, del lettore, che è Nestler, viene dichiarata esplicitamente la distanza tecnica: una pano­ ramica dal tavolo di missaggio attraverso il vetro fino al per­ sonaggio che legge — seguitando Brecht (sulla proprietà dei mezzi di produzione) — rivela il luogo e ne indica i limiti al pubblico. A questo punto, la violenza può assumere il suo aspetto «eccezionale»: la verità del napalm (14 brevissime in­ quadrature costituiscono il film più esauriente che si sia visto in tv sulla guerra nel Vietnam) si confronta con la menzogna del processo di Auschwitz contro i costruttori dei forni cre­ matori (assolti). Mai musica fu così televisiva come questo film di Jean-Marie Straub, tanto poco «televisivo» da non essere riconoscibile altro che per alcuni particolari (il tavolo di mis­

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saggio, il vetro, il microfono). C’è da chiedersi, paradossal­ mente, se sia stato girato davvero negli studi della tv tedesca.. Una cosa è certa: il negativo è a Roma, proprietà di Straub. Il significato della messa in scena si traduce nel senso di un lavoro e cioè nei rapporti concreti del regista con i mecca­ nismi produttivi con cui egli ha a che fare. L’accostamento alla musica di Schonberg, in questo modo, non può essere sempli­ cemente una scelta di gusto, una preferenza estetica; si fonda, invece, su un confronto di metodo, che è un’esauriente doman­ da alle risposte precostituite che vengono da una certa tradi­ zione estetica e da una cultura sclerotizzata intorno agli inte­ ressi della classe dominante. * * * La realizzazione del cortometraggio sulla «Musica d’ac­ compagnamento. ..» funziona, per come è condotta, da inda­ gine conoscitiva e da introduzione alla musica di Schonberg, cioè ad una pratica significante che, storicamente individuata, non accetta obbiettivazioni e neutralismi, ma richiede giudizi critici e scelte ideologiche. Da questo punto di vista, la corre­ lazione a una determinata sostanza comporta per la forma fìlmica un precisarsi progressivo, fino ad una trasparenza di­ dattica del procedimento. L’identificazione con l’oggetto culturale, se è dialetticamente negata dall’esibizione delle contradizioni che abbiamo visto neWEinleitung, è ancor più chiaramente rifiutata nel Moses und Aron, che, sotto l’aspetto musicale, costituisce una specie di controprova del cortometraggio. Il fatto che al mo­ mento di girare VEinieitung Straub stesse già pensando all’o­ pera di Schonberg indica come il riferimento al piano pre­ filmico non sia qualcosa di statico, legato ad un significato dell’oggetto preso nella sua dimensione «documentaria» o, peggio, «universale»; bensì vada concretizzandosi secondo un rapporto funzionale-dinamico, in cui tutto ciò che è fuori del film resta presenza attiva in ogni momento della messa in scena, in ogni fase dell'operazione. Che è un’operazione di veri­ fica: non di una «verità», ma di una progressività dell’idea, di una pertinenza astrattiva rispetto ad un oggetto dato, ad un discorso già fatto.

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Mancando la «rappresentazione», la musica dell’Einleitung era servita da traccia per una verifica del metodo altrui; col Moses und Aron la situazione è ribaltata: la musica è già rap­ presentata, non resta quindi che mettere a prova, rispetto ad essa, il proprio metodo. Mettere cioè in un circuito dialettico l’oggetto( l’opera di Schonberg, presa appunto nella sua oggettualità) e la nuova prassi (il film), che ad esso si correla in forma di un'analisi critica talmente sostanziosa da poter fun­ zionare essa stessa da contenuto (il cortometraggio, appunto). Il soggetto del film è dunque solo apparentemente costitui­ to dai «significati» del Moses und Aron di Schonberg; o meglio, questi significati hanno un valore originario, rappresentano un punto di partenza per un nuovo orientamento della materia. Il Moses und Aron è un film che ci fornisce i dati per tra­ sformare la violenza della Legge divina nel progetto di un fun­ zionamento dialettico, in cui i rapporti democratici tra gli uomini siano rappresentabili senza vergogna. Dalla mistificante verticalità del mito (la tua voce passerà per la bocca di Aronne, come la mia passa attraverso di te, dice Dio a Mosè che si dichiara incapace di parlare), su cui si fonda l'« elezione» di un popolo a popolo di Dio, si passa, nel film di Straub/Huillet, ad una orizzontabilità ellittica, e al suo interno viene costruita una serie di rapporti geometrici (neanche la geometria può avere qualcosa in comune con il fascismo) per sfidarne i limiti e per provocarne, col rispetto di una legge, la ricerca delle ragioni: dalla nuca di Mosè, pano­ ramica sul giro d’orizzonte dell'anfiteatro entro cui è conte­ nuta la scena. Ma in alto, oltre il ciglio dell'imbuto rovesciato, il cielo produce vuoto: la politica si fa sul terreno e la m.d.p. è pronta a raccogliere la luce del terreno e ogni altra luce che definisca oggetti, rapporti, trasparenze, ritmi. La verifica del proprio metodo consiste nella messa a prova di una severa organizzazione scenica contro il rischio continuo dell'evanescenza, che proviene dall'alto. — Straub stesso ci ha fornito le misure dell'anfiteatro romano di Alba Fucens, presso Avezzano, dove è stato girato quasi tutto il film: 64 metri per 37 al suolo, 101 per 79 nella parte alta. Uno spazio «vuoto», senza «sfondi» —. Per un verso, cioè, siamo scesi dal Palatino

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{Othon e le trame sentimentali-politiche della classe al potere) al suolo, sul cui livello comune s’incontrano e si scontrano gli interessi di Mosè e Aronne e del Coro (il popolo); questo suolo non è però generico e metaforico in sé, in quanto suolo, base del dramma. Il dramma e le sue metafore vengono definite da una stretta coerenza della costruzione scenica, per cui la metafora del film consiste nella sua matematica; è la «matematica» del film che ha una dimensione metaforica: nel senso che non è soltanto lo strumento per costruire il film, ben­ sì è anche il discorso stesso del film. Dato lo stretto rapporto con la musica e con la luce, la matematica si dichiara essa stessa come programma di lavoro. Giustamente, Louis Seguin ha notato, seguendo Starobinski, che l’idea deH’emiciclo si addice alla vita parlamentare, con l’opposizione destra-sinistra. Mentre invece, l’arena designa il campo del conflitto con una dialettica brechtiana. Sicché, con Straub/Huillet, il «teatro» da politico diventa democratico, restituito al popolo (coro), che ne occupa uno dei centri (l’el­ lisse ha due fuochi). Il rapporto tra i personaggi è un rapporto democratico in quanto dettato da una dichiarata necessità operativa, la quale coincide con una finalità analitica applicata alla sostanza stessa dell’opera schònberghiana. Basti pensare, intanto, che il sonoro del film è registrato in tre momenti diversi: in una prima fase, fuori dalle riprese, si è fatta la registrazione com­ pleta, come per un primo contatto con la materia. Poi, l’or­ chestra è stata chiamata a suonare la partitura senza le voci; dopo di che, questo materiale pre-organizzato è stato utilizzato come base per le voci sul set, in diretta (due registratori in sincrono con la m.d.p.: dal primo partiva la musica, che i can­ tanti potevano ascoltare tramite un auricolare nascosto sotto i costumi; il secondo registrava le voci, da missare poi con ulteriore elaborazione). E si pensi anche alla suddivisione rigo­ rosa dello spazio secondo relazioni tali che, una volta decisa la prima inquadratura, tutto il resto si inserisce in un sistema geometrico che rende dimostrativo e antinaturalistico il rap­ porto tra i personaggi. Sia i percorsi della m.d.p., in panora­ mica e in carrello, sia gli stacchi, sono concepiti in modo

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da coprire ogni volta una certa porzione della base ellittica senza mai sovrapporre alcun settore, neppure parzialmente. Un personaggio (o un gruppo) non appaiono prima che il precedente non sia scomparso. L’ottica usata per le riprese è, dunque, scelta in funzione dello spazio assegnato a ciascuno. Suono e spazio sono relazionati secondo un principio antina­ turalistico, per cui sempre, tra il cantante (o il coro) e il perso­ naggio (o il gruppo) che ascolta, c’è il direttore d’orchestra (che dirige, fuori-campo, leggermente spostato rispetto all’asse di riferimento naturalistico), il quale funziona da terzo polo, asimmetrico. Moses und Aron è un film completamente indifeso: mostra tutta la sua luce, tutta la sua geometria, tutta la sua quantità (tempo, spazio, musica). L’obbiettivo sembra ridarci non l'im­ magine di un materiale plastico, significativo in quanto illu­ minato in un certo modo, bensì lo stesso processo chimico della luce sulla pellicola. Quando vediamo, all’inizio, Mosè di spalle e un po’ di terreno, non è il terreno, ma la luce del ter­ reno; e così non le nubi né la montagna, ma la luce delle nubi, la luce della montagna, ecc. Quel tanto di disvelamento dell’im­ magine per escludere ogni rischio di stile luministico. Tale «evacuazione» della materialità deH’immagine a vantaggio della consistenza del procedimento sembra dare già ragione ad uno dei personaggi-poli del dramma (Mosè). Senonché, mentre vediamo il film, abbiamo la sensazione precisa della pellicola che scorre nel proiettore: si sente proprio il tempo di scorri­ mento, che è in relazione col tempo della musica (le inqua­ drature sono costruite sulle misure musicali c gli stacchi non si ritagliano mai su un certo codice — pornografico, direbbe Straub — della narrazione cinematografica) e con la geometria scenica. Da tutto questo deriva la sensazione continua che il film può finire nel buio da un momento all'altro. E' la nega­ zione interna, dialettica, operata sulla sostanza e correlata ovviamente alla forma, di possibili simmetrie, che nella scan­ sione in atti e scene, come nella ripartizione in piani e tempi, troverebbero il modo, altrimenti, di cristallizzarsi in «messag­ gio» ed assumere l’autorità di un esclusivismo o la neutralità di un'equidistanza. 66

La voce di Dio, intanto, entra nell’ellisse dell’anfiteatro come una delle voci del dramma: per essa non c'è uno spazio privilegiato. Dio è reso terreno con l’inserimento nella scan­ sione geometrica della scena. Mosè e Aronne, le due facce di Dio, costruiscono inizialmente una simmetria, che, nello stesso modo in cui nasce, viene negata. Prendiamo l'inquadratura in cui i due «fratelli» annun­ ciano al popolo che «Dio vuole dare ad esso tutta la sua gra­ zia»: Mosè ha ricevuto il «messaggio» direttamente da Dio; Arone lo comunica alla gente; l’idea e la parola si sdoppiano per assumere una dimensione umana. Mosè c Aronne hanno facce complementari: li vediamo prima di 3/4 profilo destro, poi, in seguito a carrello combinato con panoramica, nella po­ sizione opposta (3/4 profilo sinistro); quindi, mentre il coropopolo esprime (fuori-campo) i suoi dubbi sul Dio che non si può vedere né sentire, la m.d.p. ritorna sulla posizione ini­ ziale: il «viaggio» è stato un fallimento, la simmetria non ha funzionato. C’è l’altro polo che attrae l'asse della panoramica irresistibilmente. Infatti, l'obbiettivo lascia Mosè e Aronne per arrivare, con movimento verso destra (rapido, perentorio), al coro: «Vai lontano col tuo Dio, che non si può vedere. Non vogliamo essere liberati da lui!». La crisi di questa simmetria è la forma del dubbio che si impone nella mente di Mosè: «Mio Dio, la mia idea è impo­ tente nella parola di Aronne!». Il dramma è ora in pieno svol­ gimento, ma il rigore delle divisioni all'interno dell’ellisse bloc­ ca ogni tentazione di «esplosione» naturalistica dei sentimenti e libera, invece, le possibilità dialettiche dei personaggi (coro compreso), proprio perché la loro voce, il loro comportamento, la loro posizione sono tutt’uno con il senso complessivo brech­ tianamente distaccato, tipico del modo di «girare» di Straub/ Huillet. Ciò aiuta, in modo determinante, l'opposizione musicaparola a risolversi in una dimensione discorsiva, e a far emer­ gere tutta la tensione interna del lavoro di Schonberg; esso viene dunque rispettato nel suo profondo e proprio per questo può venir ribaltato nelle sue simmetrie. La dialettica dei con­ tenuti è possibile giacché è il cinema ad esporsi, a rischiare tutto se stesso. Per il cinema di Straub/Huillet niente è nor­ 67

male, pacifico, scontato; siamo perfino colpiti dai miracoli di Aronne (il bastone di Mosè che diventa serpente, la sua mano che si copre di piaghe), perché essi non ci sono mostrati come se fosse normale per il cinema mostrarli; i piani, gli stacchi, le durate non cercano mai la via della mistificazione: la geo­ grafia ideale — concetto classico del cinema — non diventa geografia naturale, ma resta ciò che fotograficamente è — ot­ tica, geometria, convenzione, giudizio. Il secondo atto è, da questo punto di vista, molto signifi­ cativo. Nell'iniziale scontro con il Coro, Aronne tenta di impo­ stare un discorso teorico: «Non aspettate la forma innanzi al­ l'idea, essa sarà lì nello stesso tempo»; ma la «teoria» di Aron­ ne non tiene, di fronte all’aggressività del popolo che aspetta da quaranta giorni il ritorno di Mosè dalla Montagna della Rivelazione. Chi prevarrà? Un certo cinema ci ha insegnato ad attendere la vittoria di un personaggio sull’altro saltando di­ rettamente a cavallo della scopa (m.d.p.), alienandoci nei pro­ cedimenti della ripresa e del montaggio che vogliono darci ad intendere che le cose sono andate veramente così. Nel Moses und Aron di Straub/Huillet lo svolgimento del dramma è affidato al giudizio dell’ottica, della geometria e del tempo cinematografici. Il vitello d’oro, dunque, non è una so­ luzione: né come metafora, né come presenza concreta, giac­ ché esso scaturisce sì, nel film, dal prevalere del Coro, ma tale vantaggio è povero di sostanza: il suono, gradualmente più forte fino a fortissimo, si è dissolto in luce e lo schermo, al momento della «scelta» («Fatti povero, fai ricchi i tuoi dèi; gioisci, Israele!»), s'è fatto bianco. Un popolo di povera gente lascia i suoi doni, tutto se stesso, i suoi stracci, ai piedi del vitello: l’immagine che ha di se stesso è falsa e questa falsità si misura ancora nell’astra­ zione dell'inquadratura. Impassibilmente la m.d.p. registra il prezzo dell’oro (le uccisioni, la danza dei macellai) propo­ nendo il tempo della pellicola come alternativa ad ogni surrea­ lismo, espressionismo, simbolismo. La malata in barella arriva sotto al Vitello — prega — esce di campo, ma lo stacco si fa attendere: resta per qualche attimo lo scalino di pietra, il tem­ po per misurare la nudità del film e per proiettare il giudizio

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sulla falsa libertà del Potere, concessa al popolo in nome dei falsi dèi e col benestare dell’Efremita (i dodici capi-tribù da­ vanti al Vitello, inginocchiati, e fuori-campo lo slogan del Coro: «Liberi sotto i nostri signori»). Per la via dell'inganno, il mito dcH'oro conduce, attraverso il rito dei sensi, a frantumare altre simmetrie. Le scene not­ turne del piacere e dei beni materiali, dei riti della ricchezza e della potenza, del sangue sacrificato all'oro conducono al cieco suicidio dei corpi, delle anime, degli oggetti, delle imma­ gini: il fuori-campo è in agguato e risucchia verso di sé ogni possibilità di bilanciamento, ogni contraltare della materialità. Torna, con Mosè, ad affacciarsi la simmetria (Vitello - immagine/Legge - ineffabilità), ridiventa attuale lo scontro. Questa volta il fuori-campo assume funzione attiva e, tenendo per sé Mosè, riduce Aronne a simulacro di una falsa tesi: «Ho dovuto dare al popolo un'immagine da contemplare»; mentre, inver­ tendo le posizioni e venendo in campo Mosè, ecco affermarsi l'inadeguatezza del Concetto, l’efficacia del segno. Il concetto, rispetto al segno, può esistere solo in assenza (fuori-campo) e viceversa. Mosè è un’immagine, è la «terra promessa», ma che cos’è la «terra promessa?» E chi ha il diritto di accettare sotto questo segno l’adesione del popolo? Il popolo (fuori-campo) crede alle promesse dei padri ed è pronto a seguire Aronne: a Mosè mancano le parole. Col terzo atto, l’opposizione Mosè/Aronne si scioglie. Ve­ nuta a mancare la musica (l’opera di Schonberg è notoriamente incompiuta), ecco in primo piano, con tutto il loro potere astrat­ tivo, la parola parlata e i rumori d’ambiente. Ora non è più possibile alcuna simmetria, ma solo una finale apertura del senso. «Tu lo dici peggio di come lo capisci»: è un teorema che apre un abisso, è il deserto sconfinato a confronto delle «basse gioie» e dell’«abuso». Dunque, «se egli può, che viva». La pano­ ramica su Mosè, fuori dell’ellisse, non traccia alcuna geometria, ma solo una prospettiva per il Coro. Il lago è aperto.

FRANCO PECORI 69

IL LABORATORIO DI STRAUB/HUILLET

La non-riconciliazione permanente Siamo nella Germania degli anni '60. Robert Fahmel, un uomo sui quaranta, gioca al biliardo da solo, in una sala del lussuoso albergo « Prinz Heinrich». Robert racconta a Hugo, giovane inserviente, la propria storia. In «flash-back», Schrella, studente di 15 anni, racconta la congiura degli «Agnelli», una storia di violenze patite dagli antinazisti nella Colonia del '34. Al presente, la parodia: la setta dei «Lavoratori a maglia», che credono di doversene stare buoni e in disparte. Continuano i ricordi. L’azione della polizia ausiliaria contro la «teppa co­ munista»: Ferdi Progulske, studente di 17 anni, decapitato per un «attentato» contro Vacano, insegnante di ginnastica. Lo stesso Robert, che si era messo con gli «Agnelli», dovette fug­ gire perché scoperto da Nettlinger, un altro «ausiliario». E proprio Nettlinger lo viene a cercare ora, mentre sta raccon­ tando la sua storia, ma Robert lo evita e continua il ricordo; pensa alla sua «vendetta» contro il nazismo, quando fece saltare l'abbazia di S. Anonio, costruita dal padre, e ad altri atti dinamitardi durante la guerra. Intanto, vediamo Schrella, che vent'anni prima era fuggito per gli stessi motivi di Robert, ma era stato preso, uscire di prigione. Ha 35 anni, lo accom­ pagna Nettlinger, che ora è un pezzo grosso del governo e lo invita a cena. Ma Schrella non lo trova cambiato e continua ad odiarlo. Il racconto si sposta sui genitori di Robert. Il vecchio Fahmel (80 anni), al caffè con la segretaria ed figlio, ricorda la propria giovinezza. Il progetto per costruire S. An­ tonio, il matrimonio con Johanna, la guerra. Mentre la moglie ha avvertito la rovina nazista, se non altro perché ha perduto una bambina e due fratelli («quel pazzo del Kaiser»), lui, Hein-

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rich, è rimasto passivo. Eppure, un figlio piccolo gli morì deli­ rando mentre recitava i versi imparati a scuola: «Dio eterno sarà con noi...); e un altro figlio, Otto, fu attratto dalla carriera di Vacano e Nettlinger: «egli avrebbe consegnato sua madre al boia». Johanna, più umana del marito, che chiama «il mio piccolo David», parla con tono impersonale di una società fatta di onore, fedeltà, persone per bene, portatori di berretti bevitori di birra, guardiani della legge. E’ stata lei ad ottenere l'amnistia per Robert. Ora Robert, con sua figlia Ruth e col vecchio Heinrich sono alla stazione: vanno a trovare l’altro figlio di Robert, Joseph. Mentre Heinrich parla al figlio: «Io ridevo delle vostre congiure fanciullesche ... più tardi seppi che quello era stato ancora un fatto quasi umano»; il nipote, alla stazione d’arrivo, parla di suo padre alla fidanzata, con la mentalità di un ventenne che non ha fatto la guerra. Tutti insieme vanno poi a trovare l’abate della ricostruita abbazia di S. Antonio. Anche Schrella torna sui luoghi di quando era ragazzo, ma si rifiuta di riconoscere la Germania così come è oggi; incontra la sorella di Ferdi, ma non la saluta. Somiglia in questo un po’ a Robert, il quale, nonostante abbia usato la dinamite contro la vecchia Germania, è pur sempre diventato un fascista. Torniamo all’albergo « Prinz Heinrich». Alcuni uo­ mini politici organizzano la sfilata dei combattenti. Johanna s’è prenotata una stanza per assistere meglio. Nella sala da biliardo, Robert e Schrella. A quest’ultimo la Germania non sembra migliore di prima: e anche più facile oggi essere so­ spettati di comuniSmo. Intano, dal balcone, Johanna vuole spa­ rare a Vacano, responsabile della morte di Ferdi e della «car­ riera» di Otto, ma suo marito le indica una minaccia più perico­ losa perché riguarda il futuro: l’assassino di suo nipote (può essere uno degli uomini politici di cui parlavano poco prima Robert e Schrella: «se quello è una speranza, vorrei sapere che cosa potrebbe essere una disperazione»). Il film si chiude con una frase di Heinrich: «Non posso farci niente figlioli, non posso essere triste. Lei ritornerà e resterà con noi; Lui non è stato ferito mortalmente e spero che dal suo viso non si dile­ gui mai il grande stupore». 72

Questa è la traccia di Nicht Versohnt oder Es hilft nur Gewalt, wo Gewalt herrscht («Non riconciliati o solo violenza aiuta dove violenza regna»), il film che Jean-Marie Straub e Danièle Huillet hanno tratto dal romanzo di Heinrich Boll Billard um Halbzehn (tradotto da Mondadori col titolo «Biliar­ do alle nove e mezzo»), dopo averlo spogliato di ogni espediente letterario e di ogni carattere psicologico, di ogni stile narrativo. Un film realizzato con i soldi propri (117000 marchi, pari a 18 milioni di lire) e affrontando l’accanita ostilità della Cultura tedesca: l’autore del libro, l’editore, buona parte della critica cinematografica. Nel 1965, la presentazione di Nicht Versohnt al festival di Berlino suscitò aspre polemiche. Boll si lamentò pei' come era stato trattato il suo romanzo e l’editore Witsch avrebbe preteso addirittura la distruzione del film. Un gruppo di critici tedeschi e stranieri manifestò con un telegramma l’avversione per la «barbarie», ma ciò non significa che il film fosse bene accolto. La critica, specialmente tedesca, si schierò contro Nicht Versdhnt, giudicandolo tutt’al più come uno stimolante «esperi­ mento», adatto a far riflettere le nuove generazioni di registi: uno di quegli errori ai quali un’arte come il cinema, che si batte per rinnovarsi, non può rinunciare; un lavoro «radicale» di un outsider come ce ne erano stati in Germania negli ultimi anni, destinati a non aver seguito. D’altra parte, soprattutto presso i francesi, Nicht Versohnt fu molto apprezzato; Michel Delahaye, critico dei «Cahiers du cinéma», arrivò a dire che si trattava del più grande film tedesco dai tempi di Murnau e Lang. Le ragioni deH’atteggiamento ostile della critica tedesca erano profonde, tanto da lasciar affiorare giudizi pienamente sintomatici, come quello secondo cui Nicht Versohnt sarebbe stato un film «naif», una cosa da dilettanti e dunque non degno di affrontare una tematica così impegnativa, che toccava il triste passato della Germania nei suoi risvolti anche attuali. Tale giudizio contiene, in forma schematica e rozza, il nodo delle incomprensioni a cui andrà poi inconrto il cinema di Straub/Huillet. Si tratta di una certa difficoltà di fondo ad accettare metodi di lavoro che sono fuori dalle norme indu­ 73

striali del cinema commerciale. Per Nicht Versòhnt ci si scagliò contro il dilettantismo degli attori, contro quel loro modo di non-recitare che, anche se presentato come ispirato a Brecht, non offriva, secondo certi critici, sufficienti garanzie di «arti­ sticità». Nei film successivi, specialmente in Les yeux ne veulent pas en tout temps se fermer ou Peut-ètre quun jour Rome se permettra de choisir a son tour («Gli occhi non vogliono in ogni tempo chiudersi o Forse un giorno Roma si permetterà di scegliere a sua volta»), l'avversione divenne più esplicita­ mente un rifiuto della «presa diretta»: un metodo che intro­ duceva nel film elementi estranei alla normale prassi del dop­ piaggio industriale e lo rendeva inutilizzabile, sempre secondo la mentalità da «esercente» di certi critici, per il grosso pub­ blico (e per il pubblico intemazionale). Restava, poi, lo sdegno per il maltrattamento della materia, troppo nobile (Corneille!) — come importante era quella di Nicht Versòhnt — per essere ridotta all’esibizione di un incomprensibile imparaticcio lin­ guistico e di un irritante sottofondo ambientale (le automobili, i rumori della città moderna, ma anche lo scorrere dell’acqua della fontana di villa Pamphilij). Ed ecco la non-riconciliazione di Straub/Huillet divenire perniante. La forma dei loro lavori non discende, infatti, dalla necessità e universalità di un’ispi­ razione, ma si misura costantemente con il contesto socio­ politico e culturale ed è dovuta alla necessità obbiettiva, av­ vertita da soggetti pensanti e discorrenti, di concretizzare l’a­ nalisi storica in una prassi che, per quanto possibile, assuma appunto la forma di una non-riconciliazione. Non-riconcilia­ zione con un sistema produttivo (il cinema dell’industria e della distribuzione), che impone con la violenza dei capitali una visione stravolta e irreale della vita quotidiana, oltre che della storia. Fin dall'inizio, Straub ha avvertito la necessità di rigene­ rare nello spettatore l'interesse per la realtà. Per questo ha cer­ cato di non immergere l’obbiettivo direttamente nell’«obbiettività», ma di trovare il modo per evidenziare la gestione padro­ nale di una convenzionalità («storia», «cultura»), che invece deve appartenere a tutti. Specialmente oggi, in piena civiltà di massa, con il cinema, con la televisione, noi conosciamo il 74

mondo in quanto ce lo raccontano. La mediazione tra la realtà dei fatti e il giudizio sui fatti (come sono e come dovrebbero essere) è nelle mani della «cultura». La realtà a cui Straub e Huillet si sentono, dunque, di rivolgersi con più pertinenza è questa: per smascherare una certa cultura e per cercare non di dire direttamente, con una frase fatta, come dovrebbero andare le cose, ma di proporre un discorso politico sul modo di giudicare i fatti, di partecipare a tale giudizio. E’ questo anche il senso di una ricerca che si rivolge, per ogni film, ad opere già realizzate da altri in altri campi (per Machorka-Muff, una novella di Heinrich Boll, «Hanptstàdtisches»; per Nicht Versòhnt, il romanzo «Billard um Halbzehn»; per il Bach-film, la musica di Bach; per il Bràutigam, la pièce teatrale di Ferdi­ nand Bruckner, «Krankheit der Jugend»; per VOthon, la tra­ gedia di Corneille; per Geschichtsunterricht, il romanzo di Brecht, «Die Geschàfte des Herrn Julius Caesar»; per VEinleitung, la breve composizione di Schonberg; per il Moses und Aron, l'omonima opera musicale): non per trovare l'«ispira­ zione» o per tradurre in cinema un racconto, un romanzo, una musica, ma per misurare il proprio lavoro con una «realtà» già elaborata, già codificata e quindi ideologicamente e politi­ camente più significativa. Per muoversi in tale dimensione, la prima necessità è di non fare discorsi indifferenziati, buoni — programmaticamen­ te — per tutti; ma rivolgersi ogni volta ad un pubblico deter­ minato. A cominciare da Machorka-Muff (1963), un cortome­ traggio di circa 17 minuti contro il riarmo tedesco, in cui il generale Eric von Machorka-Muff (militare, non militarista), ammiratore di se stesso sul proprio piedistallo, è ridicolizzato dal piccolo brano di Bach (dall’«Offerta musicale» a Federico di Prussia...) — un brano di cui Straub sceglie un’interpreta­ zione pomposa, proprio per accentuarne il significato origi­ nario. che era invece ironico, giacché tutto quel gioco di pedali era riferito al grande Federico —; e la sua figura è gettata in pasto allo spettatore, come provocazione, nel finale, con quella frase detta da Inn (Inniga von Zaster-Pehnunz), l’amante «di giovane nobiltà ma di vecchia razza»: «alla nostra famiglia nessuno ha ancora resistito»; sin dall’inizio, dicevamo, Straub 75

si era impegnato in un lavoro spiccatamente politico ed aveva voluto fare dei film non generici. E dunque, dei film che, per forza di cose, dovevano contrastare un certo «linguaggio» buo­ no per tutte le occasioni (occasioni di vendita). La lezione di Brecht è utilizzata con pertinenza. Se per fare un film antimilitarista Straub avesse preso un attore pro­ fessionista, legato a certi clichés di recitazione, avremmo avuto appunto V interpretazione del militarismo e non la verità del militare-uomo così come risulta dal «dilettantismo» del signor Erch Kuby, giornalista tedesco. L’orecchio necessario per apprezzare fino in fondo il senso di una scena come quella citata di Machorka-Muff è lo stesso di cui abbiamo bisogno per cogliere il senso che deriva a tutti i film di Straub/Huillet dal ritmo impresso alle riprese e al montaggio. E’ attraverso questo carattere formale che passa, principalmente, la prospettiva ideologica di un lavoro che, avendo eliminato le ragioni psicologiche, la rappresentazione naturalistica dell'azione, la progressione drammatica del rac­ conto e la costruzione pornografica dell’inquadratura (per cui di un film il pubblico di tutte le capitali dice solitamente che è «ben fatto»), non può che mostrare il ritmo di una coscienza morale, la traccia di un rapporto chiaro e approfondito con la materia. Tale ritmo cinematografico deriva essenzialmente dalla confluenza di due elementi: la «presa diretta» del suono e la non-recitazione degli «attori», di cui il film tende a non nascon­ dere le difficoltà, anche quelle incontrate davanti alla m.d.p.. Un’inquadratura girata con suono in «diretta» deve essere trat­ tata, in sede di montaggio, in maniera che una certa logica dei suoni, dei rumori (anche di quelli fuori-campo) venga rispetta­ ta; possono venirsi a creare degli intervalli nell’azione, i quali necessariamente acquistano un senso forte e finiscono per dare alla scena una dimensione più ampia, più riflessiva. Si pensi all'inquadratura di Nicht Versohnt, verso la fine, quando si vede Johanna sul balcone tirare fuori la pistola e sparare. Il gesto della donna, nell’abbassare lentamente il braccio e re­ stare per un po’ come attonita dopo lo sparo, non è dettato dal regista in funzione narrativa-psicologica, ma è spontaneo,

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venuto all'attrice in aggiunta alle indicazioni del copione; ed è misurato dal montatore (gli stessi Straub e Huillet) sul ritmo di una riflessione, appunto. Una riflessione che ci porta a rivedere complessivamente il film e a coglierne il pensiero che si realizza in linguaggio, che si organizza, adeguandosi ai rela­ tivi limiti, in segno. Dalla visione sincronica possiamo così desumere il racconto-discorso e dall’ultima inquadratura tor­ nare alla prima per una verifica del contenuto, in-discreta, funzionale, esauriente. Una verifica la cui traccia, non diciamo letteraria, ma «scritta» (o «detta») sarà in ogni caso ben lon­ tana dal restituirci un «messaggio» compiuto; intanto, perché il «racconto» di Nicht Versòhnt è come messo tra parentesi, e perché proprio in tale «assenza» si fonda l’organicità della costruzione, l’anti-retorica del procedimento, la non-riconci­ liazione anche «stilistica» con il genere.

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Il Bach-Film

Lo schermo bianco con cui si chiude Nicht Versòhnt la­ scia agli spettatori ancora un'occasione per riflettere. E non solo: definisce anche, con la delusione che procura a livello di retorica del contenuto, il valore del film come presenza di un lavoro (evidenziando le difficoltà della critica dei grossi mezzi d’«informazione», costretta a dar conto, come in una cronaca sportiva, del contenuto e della forma di centinaia di film tutti uguali); e confenna, insomma, il potere corrosivo e le ragioni dell’avversione profonda che un cinema come quello di StraubHuillet suscita a livello politico, direttamente o indirettamente. Anche nel caso di un film in apparenza del tutto privo di riferimenti espliciti alla «politica», come Chronik der Anna Magdalena Bach («Cronaca di Anna Magdalena Bach»), Straub e Huillet hanno incontrato resistenze notevoli; infatti non è vero che l’ideologia borghese consideri la musica come l’arte pura per eccellenza; ossia una certa estetica maschera sotto la categoria del disinteresse un radicale egocentrismo: lo stesso che può portare agli stermini più atroci. Una ricerca che punti a mettere a nudo il carattere conclusivo della musica di Bach — il segno della fine di un’epoca —, è una ricerca mal tollerabile da chi, invece, tiene alla consacrazione definitiva del genio e quindi alla utilizzabilità discreta del patrimonio (culturale, si capisce!) che esso rappresenta. L’«atonalità» del costrutto di Nicht Versòhnt si traduce nella perfetta compenetrazione e organicità di rapporti tra gli elementi che formano la sostanza del Bach-film. Un certo valore documentario del cinema sul lavoro di fare un film viene approfondito per sottolineare con la maggior forza l’intenzione

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di voler strappare il manto di sacralità di una certa musica e farla uscire allo scoperto, metterla a contatto con una realtà diversa da quella della sala da concerto. Quando diciamo «documentario» non intendiamo affatto qualcosa di simile ad un genere cinematografico, secondo cui sarebbe bastato raccogliere con la m.d.p. un insieme di docu­ menti della vita di Bach e della sua attività musicale: fotogra­ fare cioè una realtà già esauriente fuori dal film. Il cinema di Straub/Huillet è, prima di tutto, un rifiuto esplicito dell’e­ quivoco che il cinema si porta dietro dalla nascita. L’immagine sullo schermo non è un dato semplice, ma il risultato di ope­ razioni complesse ed eterogenee, unite da un’intenzione cul­ turale e non da una «significante» (naturale e perciò irrever­ sibile) materialità. Dunque, la ricerca del realismo è condotta a livello di discorso e non privilegiando una sintomatologia dello stile, che porterebbe al formalismo. Lo «stile», in tutti i lavori di Straub e Huillet, è assente, poiché il film è qualcosa di completamente funzionale rispetto ad un intento comuni­ cativo antiuniversalistico e obbiettivante. La precisione con cui questo qualcosa si propone all’attenzione dello spettatore distruggere dall’interno proprio quell'insieme di funzionalità sclerotizzate per cui si parla in genere di spettatore, ponendo in crisi la passività di un rapporto con lo «spettacolo» e co­ stringendo l'anonimo ad identificarsi: a cercare tutte le ragioni di quel discorso particolare, di queU’insieme minuto e artico­ lato, scavato e costruito, interrogante perché interrogato, non epidermico, non casuale, ma sensibile e ragionato; quell’insie­ me di tagli e giunture, di tempi sfrontatamente purificati, che non lasciano spazi se non alla risposta, alla coscienza, alla chiarezza di un’ulteriore domanda. Oppure andarsene. Lo stile c’è, ma come confronto di discorsi, di fatti (la costruzione del film), come contestazione di mitologie (i «fat­ ti») e recupero delle occasioni culturali. Il realismo c’è, ma come disconoscimento della «realtà»: quella proprietà (appro­ priazione) che fa comodo ad alcuni chiamare realtà. Perciò, risulta sempre poco significativa la lettura dei film di Straub/ Huillet come ricostruzione in termini di «messaggio» (a livello di «fabula» o anche a livello di «estetica»). Ciò che conta, in­

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vece, è l'arte di controllare il senso del proprio lavoro: è que­ st’arte che va individuata, all’interno del sistema produttivo in cui opera il regista, con intenti suoi propri; e nell'organiz­ zazione di quel lavoro particolare — il film —, così come si manifesta e si dichiara allo spettatore. L'analogia va applicata, se mai, nei confronti del metodo di lavoro inteso globalmente e in rapporto al contesto socio-economico. Un film di Straub/ Huillet è sempre il risultato di un'analisi della «realtà» (pro­ prietà, capitale, industria, cultura) e l'esibizione del concre­ tizzarsi di questo lavoro in strutture significative, in tratti sin­ tattici, in «proposizioni», in discorsi fìlmici, in forme cono­ scitive. Cercare il «significato» di quel certo momento della vita di Bach è dare un senso alla precisa selezione di dati, fuori e dentro al film, che porta alla composizione e alla durata di quella determinata inquadratura. La «vita» di una persona è sempre una mitologia, il problema è di restituire a questa mito­ logia la forma del discorso. Il Bach-film, prima di raccontarci la vita di Bach, ci dice tutto sul lavoro del regista nei confronti di un materiale che egli aveva a disposizione bello e confezio­ nato dalle stratificazioni di una tradizione che considera la cultura un patrimonio da offrire in maniera esclusiva: pren­ dere o lasciare. Il senso del messaggio è appunto il lavoro del regista; anzi: il rapporto tra un lavoro e una mitologia. Il film è il risultato di una ricerca approfondita, condotta con metodo marxista su documenti (musica, testi originali, let­ tere), sui quali non sempre è stato facile mettere le mani, e durata alcuni anni (almeno dal novembre '54 fino al '67). Straub e Huillet si sono essenzialmente preoccupati di sfondare il muro di protezione costruito intorno all'opera di Bach dall'uf­ ficialità culturale e di dare al materiale una dimensione umana, che andasse oltre il «documentario»; di offrire un'identità vera all'immagine astratta di Bach, filtrata fino a noi da mille me­ diazioni e opportunismi (si pensi alla faccenda della «reli­ giosità» di una musica destinata alla chiesa e ritrasmessa, per esempio dalla radio, immancabilmente ad ogni ritorno pa­ squale) 80

Ne è venuto fuori un documentario non sulla musica o sulla vita di Bach (il termine «cronaca», usato nel titolo, che potrebbe far pensare ad un vero e proprio «diario» di Anna Magdalena, non è che una Unzione antinaturalistica), ma sulla fatica di alcuni musicisti (e attori), tra cui l'olandese Gustav Leonhardt, il quale, alle prese con l’esecuzione dei brani di Bach, rappresenta se stesso: non il «personaggio» Bach, ma se stesso che, con una parrucca sulla testa, cerca di suonare il meglio possibile su uno strumento vero una musica vera, con una durata reale. Anche in questo caso, la «presa diretta» ha risolto in modo unitario il pericolo che la musica di Bach diventasse una volta di più la «bella» musica di Bach: è invece la musica vera di Bach. Rispetto al tempo del concerto, ascoltato in una sala «da concerto», il cinema ha il potere, in questo caso, di attri­ buire alle misure musicali la durata della pellicola e di avver­ tire gli ascoltatori che quelle note non scaturiscono direttamente dal sentimento dell’esecutore. E’ in questa prospettiva che acquistano senso i rapporti tra Bach, i suoi «datori di la­ voro» e tutta la società contemporanea, «narrati» con distacco brechtiano da Anna Magdalena; ed anche l'estrema dolcezza e umanità di cui si sostanzia la vita del musicista come vita quotidiana e familiare del Cantore di San Tommaso di Lipsia. L’ultima inquadratura definisce l’universo del film con un’im­ magine che si chiude in se stessa: malato agli occhi, prossimo a morire, Bach guarda fuori della finestra. Una finestra chiusa e tagliata quasi via dalla m.d.p., che sceglie panoramicando il volto del musicista. «Fuori, il vento agita i rami degli alberi», dice la sceneggiatura.

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Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano

Con il movimento di macchina verso la finestra, nel finale di Der Brautigam, die Komodiantin und der Zuhàlter («Il fi­ danzato, l’attrice e il ruffiano»), l’occhio si riapre al futuro: la finestra è aperta, il ruffiano è morto, la sua provocazione («Alla nostra famiglia non si sfugge tanto semplicemente, Lilith»), è raccolta dall'«attrice», che gli spara. Il Brautigam sta, nella produzione di Straub, come un nodo centrale e giustamente l’autore non Io considera una cosa «minore». Tutta l’energia di questo secondo cortome­ traggio (23', m. 630) è nella sua inenarrabilità: «quando un film è film — ha detto Straub polemicamente — la critica non ha più niente da scrivere». Converrà, allora, sottolineare la data delle riprese: 1968, il giorno di pasqua e dal 3 al 6 agosto. In mezzo c’è il maggio, il maggio della «impossibile rivoluzione parigina» (parole di Straub). Nel ’67, dunque, un film che l’autore ha definito «marxista», il Bach-film; nel '69 l'esproprio leninista deWOthon; in mezzo, un momento di espressione pie­ na, rabbiosa, limpida nella sua organicità interna. La «vita», il «teatro», il «cinema» si confrontano pren­ dendo una dimensione complessiva che non è più solo docu­ mento, né sola messa in scena, né film soltanto, ma, come dice Straub, «film-film». La prima sequenza — diciamo così anche se il termine suona improprio — è un senso di scorrimento, un’indagine im­ pietosa e umanissima, che cancella, nell’inesorabile continuità/ successione di anonimati e di apparizioni-sparizioni consunte, una realtà odiata, denunciata come alla lavagna: «Stupida» — Vecchia Germania» — «Odio Tutto qui» — «Spero di poter­ 82

mene andare via presto» (è la scritta che appare in dettagli all'inizio del film). Il carrello, nel suo tempo reale, allude ad un confronto possibile fuori di sé, ad un giudizio e ad un pro­ getto; ed ecco mostrarsi la sintesi precostituita (tre atti di Ferdinand Bruckner — «Krankheit der Jugend»: «Malattia della gioventù» — in 10’35”) e denunciare la necessità dì un progresso, di un’articolazione del discorso in una realtà di­ versa: il «teatro» chiama la «vita». In entrambi i casi è il tempo del film a far concreta la presenza dell’uno e dell’altra e a rendere possibile l’apertura verso un ritmo e un montaggio alternativi. La terza parte (il film dell’amore, della fuga, della giustizia e della poesia) indica esplicitamente fuori di sé il luogo di un’aspirazione pura e di una rivoluzione possibile. «Nel giardino, un albero agitato dal vento. Pioggia», dice la sceneggiatura; ma di queste «parole» non una traccia: la m.d.p. punta diritta all’esterno. L’esterno non è ancora la libertà: la libertà è nella storia e la storia non è mai allo scoperto. Qui sta il grande valore dialettico del Brautigam come di tutto il ci­ nema di Straub: in questo rimando ad una prova ulteriore, alla scoperta continua di altre verità.

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Gli occhi non vogliono in ogni tempo chiudersi

E' perfettamente inutile, in film come VOthon, per esempio, andare a cercare i significati nelle singole vicende o situazioni, se non arriviamo ad astrarre da queste il senso del lavoro, che non è certo di riproporre delle «pagine di storia» Dovremo stare attenti, invece, alla relazione — molto intensa e determi­ nata secondo un angolo di visuale ben chiarito — che intercorre tra la «storia» (l'impero del dopo-Nerone visto con l’occhio «artistico» di Corneille) e l’intenzionalità del regista, il quale vuole dare al proprio film il senso di un rapporto di produ­ zione. Non la produzione di un «messaggio» trovato nella «storia» e ritrasmesso ai contemporanei tramite il cinema; bensì la spoliazione di un valore d’uso tramandato come «mes­ saggio» e rivalutato nei secoli secondo un ordine prioritario sfavorevole agli ignoranti, qualunque fosse la causa della loro ignoranza: tramandato, cioè, dal gruppo per il gruppo, in for­ ma chiusa, fuori dal tempo. I problemi di Galba e di Camilla mostrano, neH'Ot/ion di Straub/Huillet, tutto il loro tempo; sono cioè esposti secondo una valutazione dichiaratamente aggiornata: per questo è pos­ sibile misurare la distanza che li unisce a noi e leggere dunque un rapporto di lavoro laddove si era soliti cercare la «verità» dei fatti. Qui ora c’è la verità del film; un film che partecipa la sua finzione allo spettatore, non tanto per il palese sma­ scheramento delle maschere (la lingua di Corneille detta da «stranieri» e secondo la tecnica straniantc di Brecht; la con­ tinua presenza sonora della città moderna; il comportamento moderno degli attori dentro i loro costumi romani), quanto per l’impressionante concretezza del procedimento, che nel film traspare assumendo il senso di un vero esproprio (così 84

Straub ha definito Othon e lo ha dedicato «al grandissimo nu­ mero di coloro nati nella lingua francese che non hanno mai avuto il privilegio di fare conoscenza con l'opera di Corneille»): a cominciare dalla terrazza di Settimio Severo sul Palatino e dalla villa Doria Pamphilij, luoghi «sacri» aperti al cinema solo per intercessione della Cultura (Moravia). Gli intrighi di gabinetto, i raggiri matrimoniali, le beghe per la successione all’impero non sono che il referente di una incomprensione liceale di fronte alla delucidazione di una vio­ lenza, di un amore che urla, inventato (Corneille) e reinven­ tato (Straub/Huillet), la speranza di una giustizia: «Forse un giorno Roma si permetterà di scegliere a sua volta». Siamo nel 69, dinanzi allo sfacelo dell’impero romano. In un anno si susseguono una quindicina di consoli e dal 9 giugno '69 al 1 gennaio '70, si va dal suicidio di Nerone agli onori a Vespasiano, passando per i brevi regni di Galba, di Ottone (3 mesi, dal 14 marzo al 15 aprile), di Vitellio. A Roma la situa­ zione, molto confusa, è in mano ai pretoriani che spadroneg­ giano e scelgono gli imperatori, mentre il Senato si limita a mettersi a disposizione di ogni nuovo arrivato. Sperperi e ru­ berie, conflitti di sangue e adulazioni di massa; il popolo vive immerso nell’orgiastico susseguirsi di morti e di trionfi, in cui circo, teatro e vita quotidiana si confondono. Ottone è figura particolarmente ambigua (Tacito: «... Othonem, cui compositis rebus nulla spes, omne in turbido consilium, multa simul extimulabant. luxuria etiam principi onerosa, inopia vix pri­ vato toleranda, in Galbam ira, in Pisonem invidia...» — «... Ottone, nessuna speranza da una situazione tranquilla, tutti nel disordine i suoi progetti, molte cose lo stimolavano, lus­ suria anche per un principe onerosa, povertà tollerabile ap­ pena da un privato, contro Galba l'ira, contro Pisone l’invi­ dia. . .»). Aspirante alla successione, entra in piena crisi quando Galba, imperatore in carica, adotta Pisone; Per arrivare al­ l'impero, fa uccidere entrambi dai pretoriani. Innalzato dalla congiura, mostra a corte molte qualità e molti vizi. Intorno a lui prospera la corruzione di stato. Si può capire come, secoli più avanti, la tradizione abbia potuto vestire questo brano di

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storia dei panni della poesia e riproporlo, mutato in tragedia di alto tono, alle corti di altri imperi. Il 3 agosto 1664 a Fontainbleau, Pierre Corneille presentava il suo «Othon»; nei versi curatissimi una significativa trasformazione «culturale»: la corruzione di stato mostra il suo lato più comprensibile alle nuove classi dominanti: Othon si dimena in intrighi d’amore, tra Plautina, figlia del console Vinio, e Camilla, nipote di Galba inventata dal poeta. Plautina è la prospettiva di Ottone all’Impero: il padre può indirizzare Galba nella scelta del successore. Dunque: «Quelli che si vede meravigliarsi di questo nuovo amore / Non hanno mai ben concepito ciò che è la corte. / Un uomo quale me mal se ne distacca; / Non c’è ritiro od om­ bra che lo nasconda; / E se del sovrano il favore non è per lui, / Bisogna, o che perisca, o che prenda un appoggio». Ca­ milla non ha speranza. I suoi sentimenti sono sconfitti dalla sete di potere di chi le è intorno. E’ in questo gioco di perso­ naggi che trova spazio, per un solo attimo, la speranza di una forza nuova, assente dalla scena ma presente obbiettivamente nella tragedia: «Forse un giorno...». In questo spiraglio epico s’impianta l’operazione di Straub/ Huillet: per arrivare alla storia e spezzare quella catena che unisce il ruffiano del Bràutigam al Lacone dell’Ot/ion alla Inn di Machorka-Muff. Occorre appropriarsi del mito, destituirlo della sua intangibilità, rivelarne la parzialità. Il popolo era lontano dalla congiura di Ottone ed è lontano dagli amori di Othon; dunque, converrà far parlare la storia in prima persona. Nel film, la Camilla del terzo atto è un personaggio che dice la storia; in lei non c’è più traccia di psicologia (eppure si trattava di una storia d'amore!). La m.d.p. filma piani fissi, corretti al massimo con leggeri spostamenti indietro, ma sem­ pre sull’asse. Il cinema scopre, esibisce il teatro per contrad­ dire il realismo dei personaggi, delle loro figure fìsiche, dei loro movimenti; e da questo rapporto tra finzione e vita emerge la storia. In questo senso Straub ha definito VOthon un film politico («perché è proprio il contrario di un film d’agitazio­ ne»). Tolto il simbolo, tolta la psicologia, rimane la politica; fuori-campo, giacché il campo è riservato ai «fatti». Ma «il fuori-campo esiste», dice Straub, basta saperlo. 86

Brecht lo sa, per questo Straub e Huillet si rivolgono a lui. E mentre pensano al futuro, affondano la loro ricerca nel passato, fino a trovare l’origine deH’imperialismo, l’inqui­ namento capitalistico della democrazia. Incontriamo Giulio Cesare, lucido nella sua corruzione, esemplare, didattico; e lo mettiamo a confronto, per stacco con un popolo di ex-arti­ giani, sommersi dalle automobili in una città-cimitero in cui non c’è più respiro per un ritmo antico di traffici.

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Straub/Huillet/Brecht: Lezioni di storia

L'ultimo film di Straub/Huillet mette in gioco più direttamente la poetica brechtiana, se non altro perché il pre-testo è «Die Geschàfte des Hernn Julius Caesar» (Gli affari del signor Giulio Cesare), appunto di Brecht. Vale la pena di fermarsi un momento a cogliere il senso di certe notazioni dello scrittore tedesco a proposito del suo romanzo, al tempo in cui stava lavorandoci sopra (e che poi resterà un frammento di romanzo). Brecht svolge come al solito un intenso lavoro di ricerca per approfondire la coscien­ za di certi dati «reali» ed arrivare al suo livello di realismo, a mostrare le cose «come realmente dovrebbero essere». La scel­ ta della forma letteraria, il romanzo assume un carattere pole­ mico nei confronti di una certa «teoria» del realismo basata sull'analisi del romanzo borghese dell’ottocento. «La mia attività, almeno a quel che credo, è molto più po­ liedrica di quanto non pensino i nostri teorici del realismo. Essi mi presentano in maniera assolutamente unilaterale. (...) Per il lavoro interno a questo romanzo, Gli affari del signor Giulio Cesare, non riesco a ricavare da loro la benché minima indicazione (...)». Non a caso le considerazioni di Lukàcs sul cinema sono, ancor oggi, centrate su un valore «atmosferico» della riprodu­ zione fotografica del raeale (cfr. G. L., Estetica I, Torino, 1970, pp. 1258 e segg.), per cui allo spettatore verrebbe una specie di attestato d’autenticità del messaggio. Brecht si dichiara, pole­ micamente, un formalista: «Mentre sfoglio un mucchio di li­ broni di storia (sono redatti in quattro lingue, per non parlare delle traduzioni da due lingue antiche) e cerco di andare a

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fondo delle circostanze di un dato avvenimento — e intanto sono pieno di scetticismo e per così dire non faccio che toglier­ mi di continuo la sabbia dagli occhi —, nella parte posteriore della mia testa sorgono indistinte immagini di colori, impres­ sioni di determinate stagioni, sento delle cadenze senza pa­ role, vedo dei gesti senza significato, penso ad auspicabili rag­ gruppamenti di figure prive di nome e così via. Le immagini sono molto indistinte, per nulla eccitanti, piuttosto superficiali, a quel che mi sembra. Ma esistono, il formalista, che è in me, è al lavoro. Mentre vado lentamente scoprendo il significato delle corporazioni delle mutue mortuarie di Clodio e già mi invade una certa gioia della scoperta, penso: se una buona volta si riuscisse a scrivere un capitolo lunghissimo, limpido, autunnale, cristallino, con una curva irregolare, una sorta di rossa linea ondulata che l'attraversasse tutto!». (Cfr. B. B., «Scritti sulla letteratura e sull'arte», Torino, 1973). Brecht si schiera contro un certo tipo di riconoscibilità dell’immagine artistica, che postula autoritariamente una sorta di omogeneità della forma — a livello di contenuto — non ne­ cessariamente rispondente alla effettiva situazione produttiva dell'artista, ma solo rispondente all’espressione di una prefe­ renza in direzione della norma. Ciò che a Brecht preme di sal­ vare è la possibilità del discorso, proprio nel senso di un con­ fronto dialettico, riscontrabile, esso sì, nella polarità degli elementi in gioco, interni al contesto o chiamati da questo a confermare il grado di apertura del confronto stesso. A tutto questo devono aver anche pensato Straub e Huillet quando hanno definito la struttura di Geschichtsunterricht («Lezioni di storia»): non una «lezione», ma un modo di ri­ flettere sui rapporti tra chi indaga e la materia indagata, una riflessione sul modo di fare un film, di essere nella storia. Se per Brecht si trattava di «togliersi la sabbia dagli occhi», per Straub e Huillet il problema era di non restituire tali e quali (naturalisticamente) le argomentazioni brechtiane. Bisognava fare attenzione che i «personaggi» storici non venissero im­ mediatamente investiti dal procedimento cinematografico, ma fossero come tenuti fuori, e acquistassero così una consistenza, una rappresentatività contestabile. Al limite, risulterà legittimo 89

ridurre (illegittimamente) Lezioni di storia a mera dialettizzazione di una tesi ideologico-politica e, chiudendo per così dire gli occhi, assumere i «significati» del film solo attraverso le parole degli attori. L’operazione sembrerebbe suggerita, in termini strutturali, dal film stesso, quando al pieno delle lunghe inquadratura fisse, col dialogo del Banchiere e del Giovane, oppone il vuoto dei fotogrammi neri. Ma questo pieno-vuoto non è altro, al limite, che il susseguirsi dei pezzi di pellicola giuntati per fare il film. In Lezioni di storia lo «stacco assume un valore formale molto forte, ben oltre la scansione lineare dei blocchi «narrativi». Lo «stacco» in questo film non è mai in funzione di un montaggio «narrativo», non ha intenti uni­ versalistici, né attinge le sue ragioni in metaforizzazioni extrafilmiche; più che assumere valori sintetici, segna quella che Tynjanov (un altro formalista!) chiamerebbe la «successione differenziale» delle inquadrature, ponendo allo scoperto una materialità del cinema, che non esclude ma anzi sottende la dialettica del procedimento. Lezioni di storia è così svuotato di ogni illusione di continuità e restituito allo spettatore in tutta la sua carica contestativa. Registrazione (in «presa di­ reta») di una realtà «inverosimile» (il giovane a noi contempo­ raneo che, in automobile, va ad incontrare, nella Roma e in altri luoghi d’oggi, personaggi di tanti secoli fà: un banchiere, un contadino, un avvocato, uno scrittore, uomini anch’essi del nostro tempo ma vestiti di panni antichi...) e sua organizza­ zione dialettica (pieno-vuoto/fissa-stacco); documentario di una realtà autentica (tutto il materiale profilmico, che davanti alla m.d.p. non può non mostrare la sua piena attualità), rea­ lizzato con strumenti analiticamente esibiti per tali: il tempo dei «pieni» e dei «vuoti», la lunghezza delle battute, i silenzi. E comunque, non un film sul cinema, bensì un laboratorio che usa il cinema. II testo di Brecht è sempre in primo piano. Straub/Huillet lo rivelano nella sua autenticità utilizzandolo come polo della ricerca. In questo senso, possiamo parlare di uso specifico del cinema, poiché qui la parola acquista una correlatività, una apertura verso un «fuori», che è precisamente il suo attestato di appartenenza ad una sfera formale. E’ la «pienezza» del mez­

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zo a legittimarne la «lettura» e dunque a svincolarlo dalla pura e insignificante materialità. La pienezza del filmato risulta, non come in moltissimi casi di cinema pseudo-impegnato, da una sorta di compattezza del referente, misurata a volte sulla presenza stessa del personaggio — che anzi, ciò che risalta di più in Lezioni di storia è l'assenza del personaggio e il crudo affermarsi del lavoro delle persone davanti alla m.d.p. —, bensì dalla inequivocabile funzionalizzazione del procedimento. Ciò, ovviamente, non vuol dire univocità del significato. La pro­ duzione del senso coincide con il flusso proiettivo del film pro­ prio in quanto i fotogrammi, sfruttando al massimo una loro materiale capacità di registrazione (si pensi alla fissità dell’obbiettivo, al tipo di focale usato: non vengono mai oltrepas­ sate le soglie del 9 e del 25; e alla presa diretta del sonoro), correlano questa loro disponibilità alla sua stessa negazione: la serie «vuota» del film. Esempio, l’inquadratura della ter­ razza della villa Aldobrandini a Frascati, con la voce del Banchiedere fuori-campo. Qui il «pieno» del procedimento si iden­ tifica, in un certo senso, con il «vuoto» referenziale. II «fuori­ campo», rispetto al centenuto, produce uno spazio d’intervento per lo spettatore, che c dilatato al massimo. L’immagine, ta­ gliata trasversalmente da una fila di vasi fioriti, resiste per 1’20” al «bombardamento» semantico del testo brechtiano e, al tempo stesso, lo esalta nei suoi valori di contenuto: è una vera c propria denuncia contro tanti film che troppe volte negano allo spettatore il diritto all’interpretazione; c contro l’inade­ guatezza anche di un cinema di intervento diretto. «I nostri appaltatori doganali organizzavano sotto la protezione delle aquile romane in piena pace regolari cacce agli schiavi nelle Province dell'Asia Minore»: «Il fogliame è giallo in autunno», direbbe Brecht. Un altro esempio della struttura dialettica del film è dato dall'inquadratura che chiude il discorso del Banchiere. In questa immagine confluiscono, quasi sommandosi, quattro precedenti serie di fotogrammi neri, finché il volto del Ban­ chiere si blocca in un’attesa significativa, che si romperà solo col successivo fragore del torrente dell'inquadratura succes­ siva. «Cicerone fece del resto allora il suo discorso di debutto.

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Parlò per l’attribuzione del comando supremo a Pompeo. Da dove ottenesse l’onorario, Lei lo può calcolare». Su questa battuta, il Banchiere rimane immobile fissando Io sguardo e consegnando la problematica alla nostra interpretazione. La stessa cosa era accaduta al termine della passeggiata sul sen­ tiero dietro alla villa, quando il Giovane, accompagnato dalla «macchina a mano» con passi dell’operatore all’indietro, aveva dato la versione libresca della storia, offrendola alla contesta­ zione del Banchiere, ma anche, col suo attimo di silenzio, alla nostra verifica. E la stessa cosa accadrà nell'ultima inqua­ dratura, che è tutto meno che un’inquadratura «finale». L’apertura strutturale di Lezioni di storia non è, del resto, carattere esclusivo di una certa linearità sintagmatica. Tale linearità è anzi esplicitamente interrotta dalle tre sequenzetravelling del trasferimento del Giovane in automobile per le vie di Roma, e non certo per isolare il film in tanti blocchi «belli e fatti». Anche il suono, col suo parlato antinaturalistico opposto alla registrazione dell'ambiente, non ammette alcuna passività contemplativa; esso richiede un ascolto attento e un continuo lavoro sull’asse della selezione, rispetto a se stesso e rispetto al visivo. Anche il sonoro, cioè, non sopporta riduzioni in termini di «contenuto» né di concretezza fìsica, giacché la sostanza auditiva discorre già di per sé, e a suo modo, col proprio riferimento iconico. Ce lo dimostrano ap­ punto le tre sequenze dell’automobile, dove in funzione sin­ cronica interagiscono tutti gli elementi strutturali del film. L’affabulazione tocca il suo livello minimo e il senso del film è affidato quasi esclusivamente all’autenticità del procedimento. L'automobile è mezzo di trasporto c insieme veicolo cinemato­ grafico, non semplicemente perché la macchina da presa che vi è installata, oltre che inquadrare il Giovane alla guida, ripren­ dere i luoghi del percorso; ma soprattutto perché non riprende tutto ciò che, sincronicamente e diacronicamente, ad essi si oppone: compreso il sonoro, il cui campo di registrazione non può coincidere con il limite dell’inquadratura. L’esibizione ca­ parbia dei contorni materiali del filmato, suggerisce il loro sconfinamento nel momento stesso in cui ne esalta le difficoltà o quasi-impossibilità. E’ come un progetto di un altro film. La 92

pienezza prospettica dello sguardo (obbiettivo 9) e la sua insi­ stenza (durata delle tre sequenze: 8'45”, 10'20”, 10’39”) svuo­ tano l'inquadratura della propria referenzialità, progressiva­ mente, fino a ridurla completamente disponibile ad altri per­ corsi e ricerche, in altri tempi e spazi. Quali? Quelli di Roma antica, degli artigiani e degli schiavi tenuti fuori dalla mappa marmorea dell’impero, ma vivi e sempre risorgenti come l’ac­ qua che sgorga da una duratura fontana? Da un discorso ne nasce un altro, basta sapere che un film non è un'automobile — e non fregarsi le mani preannunciando l’incomprensione del­ le masse. FRANCO PECORI

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ANTOLOGIA CRITICA

Una lettera su «Machorka-Muff»

Voi stessi sapete bene che avete preso il cammino diffi­ cile. E’ perciò che vi scrivo, affinché sappiate che avete com­ piuto un buon lavoro. Nel campo dello spirito non conta l’ab­ bondanza, ma la verità e l’efficacia creatrice. Il soggetto è preso dal nostro presente. E' vero, preciso, universalmente valido. Colui che biasima la eccessiva acutezza non sa nulla della necessità artistica, di affidare un’idea all’estremo, affinché essa tocchi veramente. Date a dei tali brontoloni dei drammi greci o Shakespeare da leggere. Ciò che nel vostro film mi ha interessato soprattutto è la composizione del tempo proprio al film come alla musica. Avete realizzato delle buone propor­ zioni di durata fra le scene dove gli avvenimenti sono quasi senza movimento — sorprendente, in un tale film ristretto su una durata relativamente corta, il coraggio delle pause, dei tempi lenti! E quelle dove essi sono estremamente rapidi — scintillante l’idea di scegliere giustamente per quello scopo gli estratti di giornali in tutte le posizioni angolari sulla verti­ calità dello schermo. In più, la relativa densità dei cambiamenti nei tempi è veramente buona... Lasciare venire ogni elemento al suo momento insostituibile, che sarebbe impensabile di to­ gliere; nessun ornamento. «Tutto è essenziale», diceva Webern in simili casi (soltanto ogni cosa nel suo tempo, si dovrebbe aggiungere). Altrettanto buone la franchezza, la riflessione che continua nella testa dello spettatore, la rinuncia a ogni atto d'apertura e atto finale. Potrei aggiungere ancora molto: nessuna pretesa di «insegnare», migliorare il mondo, illudere, simbolizzare, falsamente «Come se»: non ne avete avuto biso­ gno e al loro posto avete scelto dei fatti; non certo quelli di

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un piatto reportage, ma giustamente per questo affinamento, questa condotta stranamente folgorante della macchina da presa nelle strade, l'hotel (benissimo, i muri della camera d’al­ bergo che restano lungamente vuoti, dalla cui nudità non ci si può staccare), alla finestra... E ancora la condensazione «irreale» del tempo, senza che si abbia fretta, in questa linea tagliente fra la verità, la concentrazione e l'affinamento (che penetra bruciando nella percezione del reale), il progresso sarà possibile. Da nessuna parte altrove. Oggi sappiamo bene che anche l'illusione fatta a pezzi è un'illusione. Voi non volete «cambiare» il mondo, ma incidere in esso la traccia della vostra presenza e da lì dire che avete visto, che avete aperto una parte di questo mondo, come essa vi si dà. Questo mi è piaciuto. Aspetto con impazienza il vostro lavoro a venire...

Karlheinz Stockhausen, Colonia, 2 Maggio 1963. (Da «Film» 2, giugno-luglio 1963)

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Polemica per un film su Boell

(...) «Nicht Versòhnt» è un film unico nel suo genere. L’autore-regista ha compiuto questa acrobazia senza rete, senza un produttore e senza possibilità di noleggio del film, rovinato finanziariamente, per quanto ci fosse ancora da rovinarsi; si si parla di una spesa di produzione di 12.000 marchi. E’ diffi­ cile dare un giudizio su ciò che colpisce di più: se il fatto che Straub sia riuscito a mettere insieme il denaro, o il crudo an­ tagonismo che caratterizza la collaborazione tra l’editore e l’au­ tore del film, o ancora il dilettantismo ostinatamente ambi­ zioso dell’opera. Chi non conosce il romanzo di Boell deve faticare non poco per capire qualcosa del film; è necessario che vada alla ricerca dei frammenti del filo conduttore. Coerente con lo stile di Boell, Straub ha distrutto il tipo di racconto «e poi, e poi, e poi», ma non alla maniera di Vlado Kristel che in «Der Damm» ha unito solamente dei frammenti di scene, dis­ solvendo anche l’abituale coerenza tra immagine e suono. In questo Straub è stato più rispettoso: le sue scene sono sempre organicamente complete e finite. Egli sottolinea perfino la fine delle scene, continuando a girare ad azione terminata, quando i personaggi hanno ormai abbandonato la scena. Lo spettatore non viene trascinato da una scena nell’altra, le seguenze di tipo classico sono rarissime, lo spettatore non viene impegnato, il film lo lascia freddo, e ciò accade volutamente. L’intenzione di­ chiarata da Straub è quella di presentare il contrario del film di illusione (...). Se «Nicht Versòhnt» fosse un film muto e Io si potesse vedere senza colonna sonora, non si potrebbe negare un certo

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rispetto a questo esperimento audace, a questa ribellione al­ l'ondata sdolcinata di film senza impegno. Ma Straub purtrop­ po fa parlare i suoi attori dilettanti. E' la storia di tre gene­ razioni di una famiglia di architetti di Colonia, nonno, padre e figlio. Costruiscono un'abbazia, la fanno saltare durante la guerra per liberare il campo di tiro, la ricostruiscono dopo la guerra; la storia di una famiglia borghese, cattolica, antina­ zista, che non accetta la morale corrente: la storia di Schrella, amico della generazione di mezzo che si considera dalla parte degli «agnelli» ed è perseguitato dai nazisti prima e dopo il '45; la storia della vecchia nonna un po' matta, che torna agli onori dela cronaca quando uccide un nazista ridiventato po­ tente e rispettabile. Questa storia non può fare a meno delle parole, del dialogo. E i dialoghi sono di Boell. E Straub rimane fedele al suo concetto estetico e conduce il dialogo e la rappresentazione come fa con la macchina da presa ed il taglio delle scene. Gli attori non agiscono. Anche qui è lo spettatore che deve completare il film. Straub si ri­ chiama a Brecht e dichiara che i suoi attori non devono rap­ presentare il dialogo ma «citarlo». Alla fine questo sembra un pretesto, anche se il citato di Brecht è già contenuto nel titolo del film. Per «citare» nel senso di Brecht, senza rappresentare, bisognerebbe però prima essere in grado di rappresentare. Gli attori di Straub non lo sanno fare, si limitano a leggere il testo. Ed è qui che Straub ha rovinato il suo film, se dobbia­ mo credergli quando dice che questa ingenuità è voluta. Se qualcuno avesse avuto intenzione di fare apparire vuoto, in­ sensato e patetico il linguaggio di Boell, non avrebbe potuto farlo meglio di Straub (...). Nonostante tutto, «Nicht Ver­ sohnt» fa parte di quelle opere non riuscite alle quali un’arte che si batte per rinnovarsi, non può rinunciare. Peter W. Jansen, «Frankfurter Allgemeine», 16 luglio 1965.

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Attacco filmistico a Heinrich Boell

Il francese Jean-Marie Straub ha tratto dal romanzo di Boell «Billard um halbzehn» un film dal titolo «Nicht Ver­ sòhnt». Il film è stato proiettato per la prima volta alla Berli­ nale, ed ha avuto un’eco piuttosto controversa. Come è apparso dalla discussione che è seguita, «Nicht Versòhnt» è dispiaciuto alla maggioranza dei cineasti convenuti. Così pure a me. Vo­ lendo essere cattivi, si potrebbe dire, che questo film (che all’infuori della nazionalità del suo regista è tutto tedesco) è un atto di vendetta contro coloro che fino ad oggi hanno conside­ rato significativo questo autore di Colonia. Infatti, ciò che del testo originale di Boell ci viene propinato da premurosi pro­ fani, è di tale ovvia banalità da avere un effetto addirittura shockante. In questa luce, si potrebbe dire che Straub ha contribuito ad un giudizio più obbiettivo della letteratura te­ desca contemporanea. E questo merita un certo riconosci­ mento. Come contributo al film contemporaneo tedesco, invece, «Nicht Versòhnt» ha una certa importanza soltanto perché dimostra ancora una volta che il solo dichiarare guerra alla routine non è sufficiente per creare un buon film. Certo questo 32enne francese possiede delle doti espressive, dà prova di talento creando delle scene ottime dal punto di vista ottico e drammatico, ma a cosa gli serve tutto ciò se poi dimostra di non essere all'altezza della materia trattata? Con le sue doti figurative, egli passa accanto all’opera di Boell, e senza riuscire a tradurre la trama complessa, ne illu­ stra qualche scena a caso. Il modo con cui si serve della lingua tedesca poi, rasenta addirittura l’offesa. Certo, lo stile di Boell

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non è cristallino, ma in questo modo si possono distruggere anche Goethe e Proust. Enunciato alla maniera della scola­ retta che recita una poesia, qualsiasi testo perde la sua fun­ zione. Può essere che il signor Straub non abbia orecchio per la cadenza del tedesco e non si accorga assolutametne della tortura alla quale sottopone l’ascoltatore. Egli ha comunque portato una novità nel cinema: il sadismo acustico.

M. CK., «Berliner Morgenpost», 6 Luglio 1965.

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Autentico cine-saggio su Bach

(...) Si tratta di un film profano, su un Bach terreno, o forse meglio sulla vita terrena di un musicista profano. La re­ ligione, o la religiosità bachiana, quando c’è, non è abiurata, stiamo tranquilli. Ma è il frutto di un lavoro, di un’attività di composizione, con precisi rapporti di produzione alle spalle, e semmai ne risente. Questo, fra altri, è il discorso di Straub che più mi ha colpito. Passato, tuttavia, attraverso i documenti, musicali e biografici, usati senza un retroterra di eventuali ricostruzioni storiche o ambientali generalizzanti. Non si tratta però, di un qualche oggettivismo; il loro impiego, anzi, è for­ temente tendenzioso. Per esempio — ed è fondamentale — Straub si comporta così: quando c’è un brano musicale (ma si susseguono per tutta la durata del film) esso è dato completo, come in una ese­ cuzione normale. Ciò significa che la musica è la struttura del film. Le stesse situazioni esecutive, della musica, sono date con puntigliosa fedeltà. Gli esecutori, al clavicembalo, all’or­ gano, strumentisti, coristi, siano quelli della chiesa di San Tommaso a Lipsia, o sia Anna Magdalena, o Bach, appaiono mentre eseguono. Si arriva fino a quasi dieci minuti di musica di filato. E la macchina da presa, immobile, che abbraccia l'intera situazione musicale, senza sovrapporre la sua interpre­ tazione, ricompone lo status della musica bachiana, proprio nel suo ambiente di esecuzione. Il cinema, allora, appare, ma appare soltanto, come una cornice, che scandisce lo spazio e il tempo ambientale, storico, biografico della musica. Con­ sente, d’altra parte, al racconto sulla vita di intrecciarsi alla musica, ancorandola a un senso preciso. Si capovolge, in ef101

fetti, il rapporto. La musica assimila il significato della fe­ deltà cinematografica che ne dà una riproduzione esatta, e acquista il carattere di un oggetto fotografato visivamente e sonoramente, che diviene parte del principale contesto bio­ grafico, storico, ambientale. In realtà si ha uno scambio, una integrazione fra cinema e musica, che provoca un'operazione di reciproco straniamento. La musica strania il cinema vincolandolo al proprio rigore, mentre il cinema strania la musica e la sua dimensione di ascolto, soprattutto. Sembra un concerto, e non Io è in asso­ luto; sembra un film, e anche qui, in assoluto, non lo è. Agisce infatti una continua negazione, portata peraltro su un piano (ancora brechtianamente) di epicità espositiva, da cui discende il contenuto voluto. Per così dire, sullo schermo, l’operazione di straniamento fa sì che in sé, questo sorprendente fatto di musica-cinema, e viceversa, mimi ciò che poi viene ricondotto a Bach, alla sua vita. Si mette così in moto un meccanismo appunto epicizzante, ovvero un processo che gradualmente e impietosamente, dis­ socia e contrappone l'evidenza della grandezza musicale, sem­ pre maggiore, del lavoro bachiano, dalla sua progressiva e sempre più chiara prigionia in un ordine di rapporti produt­ tivi, che tendono a ridurlo a routine, a mero esercizio. La scis­ sione è dunque, però, fra prassi e teoria della libertà del lavoro artistico, e insomma fra teoria e prassi della libertà tout court. Emerge cioè il conflitto di fondo, insanabile, della so­ cietà capitalistica, evidenziato dalla vita e dall’opera di Bach nella fase in cui viene emergendo attraverso la meccanica mer­ cantile dello scambio, ormai dominatrice delle relazioni so­ ciali stesse. Allora, nella misura in cui ciò viene fuori dalla struttura straniante del film, il commento parlato assume un carattere di didascalia, a sua volta con funzioni di straniamento. Si con gela in esso, tramite la proiezione del ricordo che prende le distanze, l’esemplare testimonianza dell’itinerario bachiano. Il piano riandare di Anna Mgdalena alla vita di Bach, al suo operare, alle sue difficoltà, ai rapporti difficili e spesso umilianti con i signori al cui servizio si pone o con la municipalità di

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Lipsia da cui dipende, e per altro verso i momenti liberatori dell’intimità familiare, le inquietudini, le depressioni, le ras­ segnazioni, diventano i vari lati di un’autentica cronaca che restituisce l'idea di un’attività musicale davvero allo stato puro, ma naturalmente in una prospettiva concreta, di lavoro determinato dalla condizione sociale e la suprema qualità musicale di esso, si astrae in una propria dimensione di auto­ nomia artistica, che però, di nuovo in concreto, evidenzia la contraddizione fondamentale con la riduzione mercificante im­ posta alla musica bachiana. Se mai si voglia una spiegazione esemplare della funzione di mero godimento, di contorno al limite piacevolmente decorativo, o di semplice adempimento a scopi rituali, religiosi, che la musica ha avuto nel Settecento (per cui lo stesso Bach non veniva riconosciuto al di là delle pur eccelse doti di artigiano, che soltanto gli si ammetteva), ecco, qui, nel film di Straub, la spiegazione è chiara e ine­ quivocabile. Il versamento su cui si conduce questa cronaca è dunque materialistico, attento ai limiti terreni di un'attività di musi­ cista che ne mette in luce l’aspetto profano, di lavoro in ultima analisi minacciato dalla reificazione. L’opposto di essa, certo, è la coscienza di Bach, rivissuta tramite la moglie, non già del proprio valore ma del valore del lavoro musicale, oltre le barriere del limitato scopo sociale cui veniva destinato. In altre parole, è proprio la musica bachiana, posta da Straub in primo piano, come un oggetto avulso dai contesto che la impoverisce, a cessare di essere un oggetto per diventare il soggetto di un discorso critico su ciò che mira al suo declassa­ mento, la società per cui veniva prodotta e dalla quale era esclusivamente consumata. Semmai, la concentrazione indivi­ dualistica del racconto di Straub, da cui peraltro emerge pie­ namente il genio che vive nella musica bachiana, inclina al­ l’esperienza esistenziale, all’angoscia ma altresì all’apologià dell'isolamento, alla scadenza della sconfitta. Anche tramite ciò, tuttavia, esce il paradosso, o la contraddizione, perfetta­ mente attuale del resto, fra autonomia dell’arte e sua riduzione a cosa, essa sì inevitabile nella società che appunto mercifica

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il lavoro artistico nel momento in cui gli nega l’autonomia. Il Settecento rappresentato tramite la cronaca di Anna Magda­ lena è insomma l'inverso del secolo in cui per il musicista, nel nostro caso, fare musica sarebbe stato un lieto svolgere la pro­ pria attività, sotto la protezione di magnanimi protettori. Così ci viene abitualmente presentato. Invece il lavoro musicale vive perfettamente la negazione che lo contrassegna nell'ambito storico del capitalismo, da cui pure fu determinato alla ipotesi di una propria autonomia, ma in quanto investito dalla logica mercantile. Da essa, lo stesso Bach ha avuto in cambio la dura prova della propria vita di compositore. Chi avrà visto Chronik der Anna Magdalena Bach alla tele­ visione, l’avrà probabilmente seguito con qualche fatica. L'im­ pietosa intransigenza con cui Straub ha trattato il suo tema, non ha certo badato a tale conseguenza. Appartiene, d’altra parte, alla lucida dialettica di un film che probabilmente è an­ che il primo caso di un autentico saggio su un argomento mu­ sicale, scritto attraverso e con il cinema. Luigi Pestalozza, «Rinascita», n. 14, 1972.

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Tema, variazioni e fuga: opus 4

L’ultimo film di Straub segna una tappa essenziale del cinema finalmente considerato come linguaggio responsabile, generatore del proprio materiale e delle proprie strutture da una parte, dei suoi echi e ripercussioni dall’altra. La finzione d'origine di Jl fidanzato, l'attrice e il ruffiano è circoscritta dal titolo stesso del film. Consiste nell’enunciazione di un rap­ porto fra tre personaggi (chiamiamoli così, provvisoriamente): rapporto che viene presentato al livello della tradizionale «real­ tà» nel piano 4 e nel piano 12 (*), unici piani dove questi personaggi si esprimono direttamente (nel piano 4 il fidan­ zato e l’attrice, nel piano 12 il ruffiano), situato fuori di qualsiasi cronologia abituale — e, negli altri dieci piani, am­ plificato, moltiplicato, contraddetto, ribaltato, sommerso e su­ perato, quando questi «personaggi» prendono in carica e og­ gettivano le metafore e altre figure della retorica espressiva, deliberatamente rifiutate dall’«autore» (qui è presa di mira l'accusa d’inibizione espressiva mossa contro Straub) come qualificazione della sua autorità. Assistiamo nel film di Straub all’esplorazione sistematica dei poteri della citazione e delle sue multiple significazioni. E’ facile vedere — Godard ha fatto le prime manipolazioni in questo senso — che la citazione, interrompendo il tempo tra­ dizionale della narrazione, gli sostituisce un tempo e uno spa­ zio espressivo che non è più ormai della realtà, ma del cinema. Solo dopo la prima metà del film appare il piano — brevis­ simo — in cui sono riuniti gli elementi motori della finzione, mentre il titolo ha fissato all'inizio la ipotesi di una realtà che il film si applica a contraddire: il fidanzato (è in seguito che 105

diventa lo sposo) e l'attrice (la si è, prima, vista recitare), due porte, l’allusione a una minaccia (il ruffiano) e la risposta in americano (ipotesi — anche qui — del negro americano — è l’accento che lo dice — integrato: «O.K., Baby»). Ora il nucleo — così discretamente presentato — genera una variazione che dura più di un terzo del film. Il piano di variazione rinvia l’immagine del nostro nucleo d’origine, svi­ luppando una situazione simile, anticipando uno scioglimento inversamente parallelo a quello che avrà, ma essendo i ruoli spostati, questa immagine sarebbe falsata e dunque inganna­ trice, se il teatro che dà qui alla finzione un secondo grado, rinforzandola perfino di dettagli realistici, non vi si trovasse confuso con la durata e lo spazio del piano che, registrando spazio e durata teatrali, si libera esso stesso di ogni simboli­ smo. Ora questa immagine si trova ugualmente amplificata dalla sua insolita durata. Ecco che questa realtà (il piano 4 — nucleo del film), lungi da proporre una qualsiasi profondità o ricchezza, alla quale farebbe allusione, confermando lo spet­ tatore nella sua ideologia e nel desiderio che egli avrebbe di ricondurvi tutto, si svuota al contrario di tutto ciò che non è segno, al fine di permettere la combinazione di spazi inediti che non si riferiscono a nessun’altra realtà che non essa stessa, tangibile e relativa del piano 4. Così la commedia, i poemi di San Juan de la Cruz e le pa­ role rituali del matrimonio sono ricondotti al rango di cita­ zioni indifferenziate che sviluppano una finzione dove i «per­ sonaggi» perdono ogni spessore per essere aspirati ora in uno spazio, ora in un altro, spazio di una parola — individuale o collettiva, poco importa — che presta loro, il tempo di un piano, un certo numero di segni grazie al quale si istituisce un gioco in cui la coscienza, di essere attinta, diventa intercam­ biabile, perde ogni individualità, polverizza i residui psicolo­ gici, scopre le carte della società borghese (il ruffiano minaccia: «alla nostra famiglia non si sfugge» — la polizia fa parte della famiglia; la sfilata muta, ostinata e incantatrice delle prostitute, seguita dall’appello alla liberazione del coro di Bach — strano capovolgimento in Straub del rigorismo ini­ ziale in mobile e feconda dialettica delle forme). 106

E’ dunque la finzione che crea la propria dinamica: non c’è necessità se non cinematografica, aleatoria e poetica (pra­ tica) a che il piano 11, in cui l'attrice, tramite i versi di San Juan de la Cruz, enuncia la reclusione per amore, riprenda così i temi del piano 9 (il matrimonio e il suo contratto di ineguaglianza) e annunci il piano 12 (il colpo di pistola, libe­ razione relativa): le parole, lungo tutto il film, sono punteg­ giate qua e là da aperture e da chiusure di porte, che liberano e chiudono relativamente. Il solo referente esplicito è la morte, cantata, punto finale del film, alla luce della liberazione asso­ luta. Un rinvio così sistematico dello spettatore alla sola rela­ zione di scambio testuale con un film non è forse, come in Mallarmé o Webern, l'atto più rivoluzionario di cui sia capace e debitore il cinema?

(Jean-Claude Biette, in Cinema e Film N. 7-8, 1969)(*)

(*) Il piano 4 nella sceneggiatura: 4. Piano americano (14”). Notte. Un pianerottolo con la porta di un appartamento c un ascensore. Lilith (la Marie della commedia) c James (un negro) escono dalla porta di un appartamento. Lilith: Sii prudente. James: O.K. baby. Scende con l’ascensore. Lilith rientra e chiude la porta. II piano 12: 12. Panoramica e carrellata (T 35"). Il ruffiano — il Freder della commedia — siede accanto alla finestra con una pistola. Il ruffiano: Alla nostra famiglia non si sfugge tanto semplicemente, Lilith. Adesso ti riporterò a Monaco; del tuo cavalleresco amico si occupa già la polizia, di essa non si sbarazzerà così facilmente come del fedele Willi. La m.d.p. panoramica verso la porta, dove stanno Lilith e James. Lilith va verso il ruffiano, gli prende la pistola di mano e gli spara; passa davanti a lui e alla finestra c va verso una porta che è aperta sul giardino. Lilith: se dalla mia bassa sorte le fiamme dell'amore sì forti fossero che assorbissero la morte, e tanto più crescessero che le acque del mare anche ardessero;

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c se di là passassero tanto che le altre macchine (del mondo) gonfiassero, e così le accendessero, che in loro stesse le convertissero, e tutte queste fiamme d’amore fossero: non penso che potrei, secondo la viva sete d'amore che sento, amare come vorrei; né le fiamme che racconto, soddisfare la mia sete per un momento. Poiché esse, comparate con quel fuoco eterno senza pari, non sono più grandi di un atomo del mondo, o di una sola goccia nel profondo. (Lilith esce di campo. Musica: Bach BWV 11 - solo le ultime battute dell’orchestra). Lilith: il mio cuore d'argilla, che non soffre calore né permane più del fiore del campo, l'aria lo apassisce e indebolisce; come mai potrebbe ardere, tanto che montassero i suoi barlumi come esso vorrebbe, fino alle alte cime di qucll’etemo padre delle luci.

Nel giardino, un albero agitato dal vento. Pioggia.

(Traduzione dal tedesco e dallo spagnolo di Adriano Asprà e Rita Ehrhardt).

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Superamento del realismo e orrore per la realtà

(...) A prima vista, il risultato di Straub è strepitoso (...). Dice Straub, non è possibile immaginare che la macchina da presa sia stata veramente là, sul Palatino, tanti secoli fà. In Othon, attraverso la sottrazione drastica di tutti gli elementi suggestivi, si arriva alla dichiarazione e strumentalizzazione della irriducibilità fotografica e naturalistica, e quindi a una migliore assimilazione della stessa, alla sua quasi completa omogeneizzazione (...). Il sospetto che affiora è (...) che anche la visione di Straub sia a-dialettica, e porti ancora fautore all'inseguimento della propria ombra. Infatti il gusto-dellascoperta-del-trucco assurge a una tale importanza da diven­ tare invadente. La presenza dell’autore, invece che postulata dialetticamente di fronte all'oggetto che dovrebbe essere rap­ presentato, diventa oggetto di rappresentazione, narcisismo (...).

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(...)

La fuga dell’oggetto

Questa paura del verosimile, questa fuga dall'oggetto, cosi tese a bilanciare e a esorcizzare la caduta verticale del­ l’uomo sulle cose, l’impatto e la frantumazione della ragione sul mondo bruto degli oggetti, questa lotta che dura nelle arti da più di mezzo secolo contro la suggestione della riproduzione fotografica non mediata, non razionale della realtà, queste tensioni che si configurano nel loro insieme come un supera­ mento del naturalismo e che sono sacrosante finché servono a strutture portanti per una possibile nuova visione dialet­ tica della realtà, non rappresentano poi, come risultato gene­ rale, poiché questa nuova visione non è stata raggiunta, una fuga aH'indietro? non tradiscono il sintomo di una più na­ scosta e viscerale paura del mondo da parte dell’uomo con­ temporaneo? Non rappresentano una spia di quella più grande paura del reale che si è impossessata dell'uomo da quando egli — entrate in crisi le certezze religiose e metafisiche — ha cominciato a vivere come problematico, e non più come mito­ logico e rassicurante e romantico anche il più grande tentativo moderno di interpretazione-trasformazione del reale, cioè il marxismo? Il tentativo ossessivo, nevrotico di torturare e distruggere il linguaggio pur di sfuggire alla soggezione dell'oggetto, pur di sottrarsi al dominio dell’oggetto sull’uomo, pur di imprigio­ nare quell’oggetto (e comprenderne il senso profondo e «comu­ nicare» con esso) in una intelaiatura pseudo razionale tanto più importante quanto più intelletualistica, e il conseguente grido di disperazione per il mancato «contatto» col reale, per il proprio solipsismo, non è il rituale che fa da paravento al

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sostanziale orrore per un mondo sempre più condizionato dalle tre grandi catastrofi che si profilano all’orizzonte, quella atomica, quella ecologica e quella demografica? Se è vero che l’arte è progetto, è ipotesi sul futuro, è strategia di forme, è tentativo di risposta totale alle domande informi che la realtà nel suo movimento ci rovescia addosso, non è vero anche che l’artista si trova paralizzato, in questa operazione di progetto, in questo suo tentativo di visione strategica e non unidimen­ sionale della realtà, perché come uomo, e non come uomo astratto, ma perfino come uomo radicato in una classe e in una classe rivoluzionaria (ma quale? gli operai? i contadini? e quali operai? quali contadini? quelli del mondo capitalistico? o delle zone depresse di questo mondo? o quelli dei paesi in via di sviluppo? o quelli che stanno continuando la lotta di classe all’interno dei paesi socialisti? o quelli che stanno facendo la guerriglia? ...) non è perché come uomo di classe, dicevo, e rivoluzionario, è incerto, frustrato, incapace di pro­ gettare una strategia generale della rivoluzione, o di indivi­ duare almeno quella fra le tante (rivoluzione culturale? ca­ strismo? titoismo? rivoluzione permanente?) che sia la più giusta da seguire? (E se non crede in tutto ciò, non si tratta in definitiva di un uomo che sfugge quanto meno ai rischi di una visione eroicamente fenomenologica del mondo?) E se è vero che il filo rosso della soggezione alle cose (le cose sempre più verosimili, come mito naturalistico, o le cose come prevaricatrici, come orrore, come incubo) sottende ininterrotto tutta la parabola che dal naturalismo porta all’a­ vanguardia, non è vero forse che solo spezzando questo filo — interrompendo il corto circuito che ha portato l’occhio in un presunto contatto diretto col reale, accecandolo, in una ultima parossistica cupidigia di «assoluto» e di metafìsica —, si potranno prendere le distanze, rifondare le basi di un rap­ porto razionale e dialettico tra l’uomo e il mondo, tra l’artista e la realtà? E intraprendere questa strada, ricominciare a tes­ sere la tela di una visione globale progettante, da lanciare come una sonda nello spazio storico che ci è intorno e verso il futuro non significa forse per l’artista riprendere la strada del realismo critico? Certo, nessuno sa dove comincia (o dove 111

ri-comincia) questa strada, ma è certo che per intraprenderla bisognerà liberarsi oltre che del fardello naturalistico, anche di quello sempre più ingombrante dell'artificio avanguardi­ sta, con tutto il suo corredo barocco di cerimoniali stremanti, con tutto il suo fondamentale orrore per il mondo. (E perché tutto questo si verifichi, bisognerà che scatti almeno una opzio­ ne: quella fiducia nella sopravvivenza della vita alla catastrofe ecologica, biologica e atomica). Carlo Lizzani, «Cinema Nuovo», n. 209, gennaio febbraio 1971

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Cinema dell’abbondanza e film della povertà

(...) Ogni regia di Straub/Huillet (qui 56 inquadrature montate, contro un mezzo migliaio presumibilmente girate) si compone di un numero di riprese equivalente a quelle d’un normale film sonoro, ma la maggior parte di queste riprese sono fuori del film, fanno parte del cinema che Straub/Huillet fanno, ma non dei loro film. L'abbondanza esorbitante e pertinace dello scarto, per una scelta che è dettata spesso anche da un caso felice (cfr. i rumori), rende dunque il cinema di Straub/Huille il cinema dell’abbondanza, e i loro film i film della povertà (...). Il banchiere, l’avvocato, lo scrittore, diventano riflessione incarnata sulla c della Storia nello spazio della solitudine e nell'orrore dei suoi «ammaestramenti» in uno sfondo assente o di verdura aliena, intenti a parlare con se stessi o con fanta­ smi, nel vuoto di ima alienazione totale. Il giovane, ascolta. Il piano n. 39, un semi-totale, ce lo mostra di spalle, un po' dal basso, mentre ode come uno sco­ laretto colto in fallo, quasi sull’attenti, il discorso dell’avvo­ cato sul sangue sparso, sui morti per la causa democratica... discorso terroristico, che sospende quello dialettico e non lascia spazio al distanziamento. Il banchiere ha una faccia simpatica (si tratta di Gottfried Bold, sindacalista e giornalista, molto amico di Straub) e sembra quasi che voglia stabilire un certo contatto, una certa complicità, col giovane. E’ forse assalito da una nostalgia di partecipazione, svela gli intrighi di Cesare e si aspetta di essere capito da uno della sua stessa classe: invece, proprio quando sembra farsi complice (beve il vino, ecc.) la nausea del giovane comincia a manifestarsi, in

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coincidenza con un discorso di acqua da parte del banchiere (le coorti romane spazzate via dall'alta marea in Spagna), il il suo sguardo si fa critico, alla fine vomiterà per interposto mascherone e interposto Bach. Inconsapevolmente, il ban­ chiere (la storia in lui) cerca un figlio, ed un padre che il gio­ vane infine (nel mascherone e in Bach) decisamente rifiuta. Rifiuta il padre, e quinda la sua storia. Se, parlando, si «esprimono concetti», si «assume una «espressione», comunque muovendo le labbra, pronunciando parole, si compie un lavoro davanti alla m.d.p., si sfugge in certo senso aH’implacabilità del suo occhio, al nucleo mortale deH’immobilità ispezionata; mentre il piano prolungato oltre il parlato, oltre il «dovuto», mette a nudo il morire, l’imba­ razzo di essere, troppo a lungo e indiscretamente, visti morire. Così, il testo brechtiano sulla Storia, non è ideologia esterna al film, è semmai l’esterno irriducibile, interno all'alienazione del film degli attori recitanti, di Straub/Huillet e di tutti noi spettatori. Inversamente, questa esternità è storica, non antropolo­ gica né metafisica, e in ogni caso strettamente collegata ai rapporti di classe. Sono i rapporti di classe, sotto la loro spe­ cie fisica, a stabilire una corrispondenza sottile e profonda tra i capitalisti e il giovane, corrispondenza di cui quest’ulti­ mo potrà liberarsi solo volontaristicamente, attraverso lo sfor­ zo deiettivo che gonfia le gote di marmo del mascherone. Sono i rapporti di classe a stabilire la distanza, che il film non pre­ tende di colmare, tra il giovane Zulauf e il contadino Unterpertinger, o meglio, tra le loro rispettive tracce filmiche. Sono gli stessi rapporti di classe a rendere così problematico il loro rapporto, a far sì che le risposte del contadino siano scheletri­ che, come il suo aspetto, ed eludano costantemente le «richie­ ste» implicite nelle «domande» dell’interlocutore. Sono i rapporti di classe a far sì che il tempo-della-morte che oscura di quando in quando i discorsi del banchiere, sia molto diverso da quello che si istalla, fisiognomicamente, nella magrezza ossuta del contadino: si tratta in ogni caso, di «morti» ben diverse, che non enunciano tanto un destino esistenziale quanto diversi «destini» storici. Sono i rapporti di classe, in­ 114

fine, ad inibire, per ora, ad un'altra coppia di discenti (J. M. Straub e D. Huillet) la possibilità di «far parlare gli operai» (...). (...) L'organizzazione del materiale profilmico è minuzio­ samente preordinata, ma l'intenzionalità ultima di questo or­ dine è proprio quella di lasciare che, attraverso le ripetizioni, e senza dirigismo, affiori spontaneamente la configurazione più significativa. Si situano qui, a nostro parere, le più preziose indicazioni metologiche che i film di Straub/Hullet offrono alla discus­ sione sul rapporto problematico ideologia-cinema: nel pieno di una prassi generalizzata di manipolazione della realtà, di pseudo-risposte, anche di sinistra, che saltano a pié pari le domande stesse in fideistici (acritici) slanci, di accentuazione del drammatico tramite l’ideologico e dell’ideologico tramite il drammatico, in un puntellamento reciproco di strutture in se stesse sbilenche, questo cinema iscrive invece il proprio lavoro di paziente indagine anti-autoritaria, di interrogazione incalzante ma discreta del reale; e il reale risponde, alle do­ mande ostinate dei film-makers, in un ordine del discorso che attiene sia alla loro pervicacia tendenziosa che al libero confi­ gurarsi d’un suo disegno interno (...). Alessandro Cappabianca, «Filmcritica», nn. 242-242, 1974.

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Cesare stacca uno cheque

Dopo «Othon», ecco un altro film «romano» di Jean-Marie Straub «Lezione di Storia» ricavato dal romanzo «Gli affari del signor Giulio Cesare» di Bertold Brecht. Perché di nuovo Roma antica nel cinema di Straub? Prima di tutto, crediamo, per il semplice motivo che Straub vive a Roma da molti anni e che per un uomo come lui, di cultura prevalentemente tede­ sca, Roma antica è una tentazione romantica quasi irresistibile. Poi per un secondo motivo più sottile. Ciò che più importa a Straub è il mondo moderno o se si preferisce l’attualità. Ma la sua paura del realismo, il suo terrorizzato terrorismo gli impediscono di parlare direttamente e lo spingono a cercare degli schermi allontananti cd estranianti. Come che sia, l’approccio romantico, dopo aver consentito a Straub, in «Othon», un’evocazione in chiave estetizzante e decadente della romanità, adesso gli permette in «Lezione di Storia» il recupero eroico del personaggio più emblematico di Roma antica, Giulio Cesare. Sappiamo benissimo che Brecht, nel suo romanzo, ha voluto tratteggiare il ritratto marxista di un aristocratico romano, capitano d’industria, schiavista, de­ magogo e ladro. Ma se Brecht voleva distruggere il mito di Giulio Cesare, doveva allora negare il ruolo della personalità nella storia. Nel suo romanzo, invece, a quanto pare, ha sempli­ cemente capovolto il mito cesareo senza però diminuirne l’im­ portanza storica. Di qui al film di Straub, in cui quest’impor­ tanza storica. Di qui al film di Straub, in cui quest’importanza, tanza, sia pure in maniera ironica, è riconosciuta fin dal titolo, il passo è breve. «Lezione di Storia» è un film molto bello a causa della solita mescolanza propria di tutti i film di Straub, di rigore

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e di sentimento. Ma è anche un film la cui singolare comples­ sità vale la pena di esaminare. Dungue si tratta di una lezione di storia romana impartita ad un certo giovane (forse imo studente, forse semplicemente «qualcuno che vuol sapere») vestito di panni moderni. Così la vicenda non riguarda tanto Giulio Cesare quanto una lezione su Giulio Cesare nella quale, però, di fronte allo studente non si trovano i soliti professori bensì alcuni personaggi, un banchiere, un contadino, un giu­ rista, uno scrittore, contemporanei del dittatore romano. In altri termini, sullo schermo agiscono insieme e nello stesso tempo cinematografico, personaggi di oggi e personaggi di duemila anni fa. Perché questo? Perché, in realtà «Lezione di Storia» non è come si potrebbe pensare, un film didattico ma una metafora sulla storia e i suoi insegnamenti che con­ sente a Straub un approccio poetico alla figura di Giulio Cesare. E che questo sia vero, lo dimostra la funzione che ha nel film Roma moderna. Straub, tra un brano e l’altro della lezione su Giulio Cesare, inserisce alcune sequenze molto lunghe e insistite nelle quali vediamo il suddetto «giovane» avido di sapere che guida interminabilmente l’automobile per le strade affollate, ingombre e rumorose della Roma di oggi. Non suc­ cede nulla: l’automobile avanza tra i marciapiedi stretti, tra le tante macchine parcheggiate, da una strada all’altra, e poi, alla fine, dopo qualche minuto di questa scorribanda senza scopo apparente, la lezione di storia romana riprende. Sarebbe troppo facile dire che Straub ha voluto mostrarci cosa è diven­ tata col tempo, a che cosa si è ridotta la capitale del mondo. Semmai come in «Othon», Straub ha voluto accostare la Roma di oggi, col suo traffico automobilistico e la sua folla moderna alla Roma antica. Il motivo, poi, di questo accostamento ap­ parirà chiaro allorché lo chiameremo col suo nome: collage. E’ in questo procedimento tecnico, da «objet retrouvé», che in fondo consiste tutta la differenza tra Straub e Brecht. Sen­ za la corsa della macchina per le strade della Roma moderna, «Lezione di Storia» sarebbe rimasto nei limiti ideologici e formali di «Gli affari del signor Giulio Cesare». Grazie all’inse­ rimento della gigantesca anche se sordida figura di Giulio 117

Cesare nel quadro della Roma di oggi, la polemica marxista di Brecht passa in seconda linea e resta solo un ritratto di Cesa­ re, l'ultimo. Alberto Moravia, «L’Espresso», 17 giugno 1973.

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Fur J.-M. und D.

«die Befreiung der Arbeiterklasse kann nur das Werk der Arbeiterklasse selbst sein»

ich babe die musik Arnold Schoenbergs sofort verstanden ich hattc sie noch nie gehòrt, weder Moses und Aron noch eine andere komposition es stimmt, ich habe keine ahnung von musik, es stimmt ich habc diese musik nicht strukturell, nicht bewusst gehòrt mein ohr war nicht bei der musik, auf der suche nach kompositionsverfahren die es erkennen konnle es war eine dramatische erfahrung, die worte wurden gesungen aber das war nicht schlecht: es erhòhte ihre Plausibilitàt, ihre Verstehbarkeit ohne diesen film hatte ich die musik nie gekannt, ihr nie zugehòrt? die geduld hatte mir einen streich gespielt, so war ich gefesselt, von meinem Verstehen, das sich vollzog, das mich immer weiter trieb, zu verstehen, ich konnte nicht aufhòren ich weiss nicht ob es die bilder waren die mir halfen vielleicht waren es weniger die bilder als die schnitte vielleicht spannungen, unsichtbarer noch als die schnitte die einstellungen trennen ich habe nie jemand so deutlich hòren sehen wie Moses wahrend das Volk zu ihm spricht, seine stimme kommt von jenseits des bildes Das Sprechen ging durch den Raum! die bewegung der blickc wurde sichtbar durch die Kamera die bewegung der gedanken wurde sichtbar die visionen, ein Vorauseilen der gedanken

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Jemand der zerrisen war zwischen dieserò Vorauseilen befliigelt von der «Allmacht der Gedanken» ihrem unendlich schnellen Lauf Und der verzweifeiten Starre, wenn dcr Blick sich richtet auf das was ist dem die gedanken vorausfliegen, das aber nicht iiberschritten wird ausser in Kampf Ich habe das Volk von hcute gesehn Ich habe die Zweifel der Verstehenden gesehn Und die Ungeniertheit derer die wenig genung kapieren um neue Techniken der Manipulation zu erfinden, mit denen sie das Volk befreien wollen Ich hab begriffen dass es eine Verantwortung gibt der man sich nicht entziehen darf Ja, die Schwierigkeiten sind gross Wie sollten wir sie aushalten ohne diese Moral, die «Moses» ausspricht: dass das Volk unterwegs ist, das es jedenfalls aufbrechen kann, dass es unbedingt reifen wird; die Schwierigkeiten, die auftreten miissen, werden es dazu zwingen, die Wiiste wird das Volk zwingen, die okonomischen Krisen, die verseuchte Natur, die Verknappung der Rohstoffe, die Gefahr eines Weltkriegs, der Hunger der Volker wird zum wachwerden zwingen, zum Abschiitteln der falschen Wiinsche, der Gòtzen sodass es falsch ist, sie dahin manipulieren zu wollen In etwas anderes, das nur wieder eine Herrschaft uber sie sein kann Im Name nund mittels Verfalschung eines Gedanken den sie verwirklichen miissen einer Freiheit, die sie leben, die sie entdecken miissen sie selber in ihrem eigenen Kampf

V.V.V. 2.4.75

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Per J.-M. e D. La liberazione della classe operaia non può essere che l’opera della classe operaia stessa.

Ho subito capito la musica di Arnold Schoenberg non l'avevo ancora mai sentita, né Mosè e Aronne né un’altra composizione è giusto, io non conosco niente della musica, è giusto non ho sentito questa musica strutturalmente, non coscientemente il mio orecchio non era vicino a questa musica, alla ricerca di procedimenti di composizione che avrebbe potuto riconoscere

era un’esperienza drammatica, le parole furono cantate ma ciò non era brutto; aumentava la loro plausibilità, la loro intellegibilità

senza questo film non avrei mai conosciuto la musica, non l’avrei mai ascoltata? la pazienza mi avrebbe giocato uno scherzo, così ero legato, dalla mia comprensione, che si realizzava, che mi spingeva sempre più a comprendere, non mi potevo fermare io non so se erano le immagini che mi aiutavano forse erano meno le immagini che i tagli, forse tensioni, più invisibili ancora dei tagli che separano i piani non ho mai visto qualcuno ascoltare così distintamente come Mosè mentre il popolo gli parla, la sua voce viene dall'altra parte dell'immagine Il parlare traversava lo spazio! il movimento degli sguardi diveniva visibile attraverso la cine­ presa il movimento delle idee diveniva visibile

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le visioni, una fretta in avanti delle idee

Qualcuno che era lacerato tra questa fretta in avanti alata dalla «onnipotenza delle idee» il suo corso infinatemente rapido E la fissità disperata, quando lo sguardo si dirige su ciò che è che le idee precedono volando, ma che non è oltrepassato fuori della lotta Ho visto il popolo d’oggi Ho visto i dubbi di quelli che comprendono E la sfacciataggine di coloro che comprendono sufficientemente poco per inventare nuove tecniche di manipolazione, con le quali vogliono liberare il popolo Ho afferrato che c’è una responsabilità alla quale non si ha il diritto di sottrarsi Sì, le difficoltà sono grandi Come dovremmo noi sopportarle senza questa morale, che «Mosè» esprime: che il popolo è in marcia, che in ogni caso esso può partire, che senza dubbio maturerà; le difficoltà, che devono presentarsi, ve lo costringe­ ranno, il deserto costringerà il popolo, le crisi economiche, la natura infettata, la rarefazione delle materie prime, il pericolo d’una guerra mondiale, la fame dei popoli costringerà al risveglio, a scuotere i falsi desideri, gli idoli

in modo tale che è falso, manipolarli in quella direzione, In direzione di qualche cos’altro, che non può essere che di nuovo una dominazione su di essi In nome e per mezzo della falsificazione d'un’idea ch'essi devono realizzare d’una libertà, ch’essi vivono, che devono scoprire essi stessi nella loro propria lotta 2 aprile 1975 Andreas Weiland

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La politica del coro

L'andamento, di cui Jean-Marie Straub e Daniele Huillet spostano e rigirano, di film in film, i problemi, non è, come si sottintende d’abitudine, un’affare di virtù e fedeltà, di coinci­ denza tra la «materia» della rappresentazione e lo «spirito» dell'opera, ma di messa in scena. La messa in scena mette ai voti e mette in (disordine: essa è democratica e libertaria. Il suo apporto è, insomma, semplicemente la sua messa in gioco: una scelta e una detrazione. La ripetizione moltiplica la posta. Così il Moses und Aron di Arnold Schoenberg, quando il cine­ ma lo riprende, non è soltanto carico delle «intenzioni», scritte o attribuite, del musicista ma anche di tutta una tradizione, giacché l’opera «irrappresentabile» ha conosciuto finora, salvo errore da parte mia, cinque serie di rappresentazioni. Punti comuni: prima di tutto, la loro decisione, sottomessa all'ideo­ logia della «maledizione» dell’artista, di attenersi all’opera in­ compiuta, privata del terzo atto; poi, l’esegesi che ne fa un dramma dell'interiorità e deH’inesprimibile; infine la loro sim­ patia per un Mosè integro e il loro disprezzo per un Aronne demagogico. E qui, poi, proprio prima del film, un ultimo sup­ plemento. Il direttore d’orchestra Michael Gielen tenta di ope­ rare una conversione «marxista»: «Penso che, politicamente, Aronne ha ragione... (e che) Mosè ha torto. E’ questo che fa la crudeltà della storia».

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La politica

Restituendoci, grazie a un'utilizzazione ingegnosa dello «Sprechgesang» (1), il terzo atto, Jean-Marie Straub e Danielle Huillet invitano a riconsiderare la maledizione e il cambia­ mento. Il dialogo di Mosè e Aronne nella prima scena di questo terzo atto non è una rivincita dell’inesprimibile sul dicibile. Esso espone, da vincitore a vinto, la «filosofia politica» di Schoenberg. «Moses und Aron» vuole affermare, per la via tra­ versa della teocrazia, l’originalità e la potenza del popolo ebreo di fronte alla crescita del pericolo nazista (2) ma si inscrive anche nella corrente di un ritorno all'hegelismo. Aronne so­ stiene di parlare «per immagini» («in Bildem»), «al cuore» («zum Herzen»), mentre Mosé parla «per concetti» («in Be­ griffen»), al cervello» («zum Him»). Mosé si guarda dal repli­ cargli direttamente; egli aggira la sua proposizione: Aronne rinnega «l’origine, il pensiero» («dem Ursprung, dem Gedan­ ken») tanto che né la «parola» («Wort») e nemmeno ^imma­ gine» («Bild») possono soddisfarlo. Egli tradisce il pensiero. Pone un falso problema. In breve, è «alienato» («entfremdet»). Schoenberg, all'inizio degli anni trenta, riprende a sua volta il discorso «infausto» di questa «metafìsica» (Heidegger ha potuto scrivere che Hegel era l'«ultimo metafisico») dove prima parla, con Aronne, il dissidio, e poi, contro di lui, la riconci­ liazione della Coscienza del Mondo. Seguendo fino alla fine questa dialettica, il film lascia l’ultima parola a Mosé. Non si ferma alla disperazione del secondo atto dove «manca» la «Pa­ rola» ma, allo scioglimento del terzo, alla serenità «politica» delI'«Alleanza con Dio» («vereinigt mit Gott»). La restituzione del terzo atto è anche ima provocazione formale. Essa sembra sopprimere ogni possibilità di apertura e sfidare un’opera che si fa merito della sua densità. Schoen­ berg aveva una concezione quasi «totalitaria» del suo lavoro. Diceva ad Alban Berg: «Scrìvo direttamente la partitura com­ pleta». E anche: «Il testo non è pronto definitivamente che nel 124

corso della composizione, talvolta solo dopo». Con una con­ traddizione necessaria, temeva che l’opera non venisse mai rap­ presentata ma ne prevedeva rigorosamente la messa in scena. Il libretto contiene numerose indicazioni sul dispositivo e i movimenti. Più ancora, Schoenberg si vantava di moltiplicare gli ostacoli e le ingiunzioni. A Webem: «Volevo lasciare ai nuovi signori dell’arte teatrale, cioè ai registi, il meno cose possibile e volevo anche pensare e prevedere la coreografia il più lontano possibile..La chiusura del racconto, della sua metafìsica e della sua politica era raddoppiata dalla chiusura del testo, dell'accordo e della scenografia. Schoenberg aveva persino dato la chiave che chiudeva il suo spazio. Confessava di pensare al neo-baroco di Cecil B. De Mille (la prima versione dei «Dieci Comandamenti» è del 1923), a un’estetica, dunque, dell’accumulazione e della fissità: ancora altrettante barriere. Jean-Marie Straub e Danielle Huillet danno al «Moses und Aron» un altro teatro. Essi sostituiscono al fasto «orientale» che si augurava Schoengerg e in cui si può vedere l'ultima meta­ morfosi, hollywoodiana, di una moda esotica che coincide, nell’Europa della fine del XIX secolo, con l'apogeo della po­ tenza borghese, un’arena il cui spazio curvo (ellittico) cancella le rigidità della ribalta, delle quinte e del trompe-l’oeil. Questa liberazione è una tappa decisiva. La nettezza «romana» degli esterni (sabbia, montagna, vegetazione arida e pietre rigoro­ samente sistemate, senza decorazioni) reinventa, per un «caso» ben riuscito dove intervengono la semplicità «arcaica» dei costumi e la gestualità «declamatoria» dell’opera, la tematica del neo-classicismo (3). Essa si riallaccia allo spettacolo gia­ cobino che riuniva, scrive Starobinski, «gli uomini nello spazio uno e indivisibile dell'ardore civico e della trasparenza dei cuori». Questo spettacolo è ancora univoco e edificante; non propone che un «didattismo del pieno» (4) ma ha il merito principale di denunciare la politica della sua topografia. Staro­ binski ricorda anche come l’architettura neo-classica ha adat­ tato «per la vita parlamentare gli emicicli dove più tardi s’inventerà, in virtù del diametro, l’opposizione classica della destra e della sinistra». L’arena curva disegna, al di là dell’en­ tusiasmo, il campo del conflitto e della rottura, della dialettica brechtiana.

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La democrazia

Jean-Marie Straub e Danielle Huillet fanno allora un passo in più; trasformano il teatro politico in teatro democratico. Essi mettono in scena una politica di questo coro che Schoen­ berg stesso aveva reinventato vent’anni prima, al modo del coro antico, in «Die gliickliche Hand». Raggruppato al centro della scena, in uno dei fuochi dell’ellisse, oppure ancora diviso e disperso, fa esplodere lo spazio «chiuso» del sacro. Prende il biblico in contropiede. Poiché Mosé c’è, bisogna ricordare che la legislazione di cui egli è, dall’Esodo al Deuteronomio, il messaggero e l'interprete, completa il suo formulario con una prescrizione «teatrale» dei luoghi, dei riti e dei costumi. Ora, il film disvela a questo teatro, che la tradizione del «Moses und Aron» (la «giudaità» di Schoenberg) asso­ ciava ancora all'uso del divino, una funzione laica. I truc­ chi, per esempio, abbandonano la magia (la rappresentazione del Roveto Ardente è sostituita da un ammirevole movimento circolare che riproduce, sull’apertura del paesaggio, la geo­ metria del recinto, nella scena I dell’Atto I) per limitarsi alla «grossolanità» (nel senso in cui Walter Benjamin parla della «grossolanità» brechtiana) deH’illusionismo (i «miracoli» di Aronne, nella scena 4 dell’Atto I). E questo spostamento non è in niente riduttore. Esso esalta al contrario, con un ritorno sorprendente all'equilibrio materiale (al «missaggio») dei suo­ ni, del canto registrato in diretta, dell’orchestra e dei rumori, ciò che regola l’opera, che ne tesse e ne rinnova il testo, e cioè la musica. E' allora possibile, in questa scena democratica e laica, ridistribuire i ruoli. Michael Gielen aveva, malgrado l’errore

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meccanicistico della sua tesi, strappato le figure di Mosé e Aronne alla loro interiorità e trasformato il duello dell’inesprimibilc e della retorica in un confronto di tipo nuovo. JeanMarie Straub e Danielle Huillet fanno di più: riportano gli eroi a misura della Storia. Essi riprendono, in un modo critico vicino alla problematica leninista dei «Cahiers» il discorso hegeliano che perseguita, come abbiamo visto, l’opera di di Schoenberg. Nella «causalità» alla quale «Hegel sussume «interamente» la Storia» (Lenin), l’«aneddoto» fa meno la fi­ gura di «causa» che di «pretesto». Gli eroi della Storia sono degli eroi marginali. «Questi arabeschi... che fanno da un debole stelo uscire una grande figura sono... un processo spi­ rituale ma molto superficiale». Il film riprende questa suggestione «mistica ma molto profonda» (Lenin) e ne materializza la dialettica. Il popolo occupa la parte alta della scene e si appropria dell’esaltazione; i panorami lirici che, alla fine dcll’Atto I, accompagnano il suo canto di liberazione («Wir werden frei sein, frei! ») gli sono riservati allo stesso titolo della festa infame ma anche trasgres­ siva che segue l’apparizione del Vitello d’Oro. Mosé e Aronne sono, essi, filmati dall’alto, inchiodati al suolo fin dalla loro apparizione nelle scene 1 e 2 dell’Atto 1; la loro lotta metafisi­ ca per il potere è una contraddizione secondaria che non ha senso, fosse pure «tragico», che in raporto alla contraddizione principale che li distingue dal popolo. Jean-Marie Straub e Daniele Huillet abbandonano le indicazioni di Schoenberg, che, nella scena 4 dell’Atto 1, scavava tra Mosé e Aronne degli effetti di profondità per una «direzione» quasi langhiana (alla quale si può ricollegare anche una «modestia» provocante dell’inquadratura) dove gli attori si cancellano a beneficio delle loro relazioni. In «Moses und Aron», le masse «fanno la Sto­ ria», e la loro messa in scena è un apprendistato della libertà. (1) L’interprete di Mosé, Gunther Reich, è considerato il migliore specialista attuale di questo «Sprechgesang», come è anche confermato dal suo lavoro vocale nei «Gurrelicder» diretti da Pierre Boulez. (2) «Moses und Aron» prolunga così l'«angoscia» della «Musica di accompagnamento per una scena di film», composta all’inizio degli anni

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30 e da cui Straub ha anche tratto un film. (3) Prima ancora dell’età di questo neo-classicismo Poussin scri­ veva a Jacques Stella, a proposito della sua «Manne»: «Ho trovato una certa disposizione per il quadro di M. de Chantelou, e certi atteggia­ menti naturali che fanno vedere nel popolo ebreo la miseria e la fame in cui era ridotto, e anche la gioia e l'esultanza in cui si trova, l'am­ mirazione da cui è toccato, il rispetto e la riverenza che ha per il suo legislatore, con un miscuglio di donne, di bambini e di uomini anziani e di temperamenti defferenti; cose, che io credo, non dispia­ ceranno a coloro che le sapranno leggere bene». (4) Judith E. Schlanger. Teatro rivoluzionario e rappresentazione del Bene. «Poétique», n. 22.

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