Il grande disegno biocentrico 9791259810205

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Il grande disegno biocentrico
 9791259810205

Table of contents :
Copertina
Collana
Frontespizio
Sommario
Introduzione
1. Capire l'universo
2. I calcoli di Newton con la mela e le realtà alternative
3. La teoria dei quanti cambia tutto
4. Indizi di immortalità
5. Abbasso il realismo
6. La coscienza
7. Come funziona la coscienza
8. Reinterpretazione dell'esperimento di Libet
9. La coscienza animale
10. Il suicidio quantistico e l'impossibilità di essere morti
11. La freccia del tempo
12. Viaggiare in un universo senza tempo
13. Le forze della natura
14. L'osservatore definisce la realtà
15. Sogni e realtà multidimensionale
16. Il rovesciamento della visione del mondo fisiocentrica
Post scriptum. L'uomo che ci teneva
Appendice. Domance e critiche
Ringraziamenti e letture di approfondimento

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Il grande disegno biocentrico ISBN: 9791259810205

La Cultura 1577­

DELLO STESSO AUTORE Biocentrismo

Oltre il biocentrismo

Robert Lanza

con Matej Pavšič e Bob Berman

Il grande disegno biocentrico Come la vita crea la realtà Traduzione di Daniele A. Gewurz

© 2020 by Robert Lanza and Matej Pavšič

Published by arrangement with The Italian Literary Agency and Writers House © il Saggiatore S.r.l., Milano 2022

Titolo originale: The Grand Biocentric Design

Sommario

Introduzione 1. Capire l’universo 2. I calcoli di Newton con la mela e le realtà alternative 3. La teoria dei quanti cambia tutto 4. Indizi di immortalità 5. Abbasso il realismo 6. La coscienza 7. Come funziona la coscienza 8. Reinterpretazione dell’esperimento di Libet 9. La coscienza animale 10. Il suicidio quantistico e l’impossibilità

di essere morti 11. La freccia del tempo 12. Viaggiare in un universo senza tempo 13. Le forze della natura 14. L’osservatore definisce la realtà 15. Sogni e realtà multidimensionale 16. Il rovesciamento della visione del mondo fisiocentrica Post scriptum L’uomo che ci teneva Appendice Domande e critiche Ringraziamenti

Letture di approfondimento

Il grande disegno biocentrico A Eliot Stellar

l’uomo che ci teneva

(spiegazioni nel Post Scriptum)

Eliot Stellar (1919-1993): uno dei fondatori delle neuroscienze comportamentali. La foto lo ritrae nel suo studio nel 1978, quando era il relatore di Lanza. «Nei suoi ultimi anni, Stellar ha dedicato gran parte del tempo allo Human Rights Committee della National Academy of Sciences (nas); dal 1983 alla morte ne è stato il direttore. Per conto della nas si è impegnato perché in tutto il mondo gli scienziati fossero liberi di svolgere ricerche e ha preso le difese di quelli incarcerati che rischiavano la vita o grandi sofferenze.» Dagli «Eliot Stellar Papers», University Archives and Records Center, Università della Pennsylvania.

* Bruce Rosenblum e Fred Kuttner, L’enigma quantico, trad. it. di Manuel Guerrieri, Macro, Cesena 2017, p. 254. [N.d.T.] Copernico ha detronizzato l’umanità dal suo centro cosmico. La teoria quantistica suggerisce forse che, in qualche modo misterioso, in realtà siamo un centro cosmico? Bruce Rosenblum e Fred Kuttner, L’enigma quantico*

Introduzione

In ogni ambito, il paradigma scientifico attuale sfocia in enigmi insolubili e porta a conclusioni in ultima analisi irrazionali. Le due guerre mondiali sono state seguite da una serie di scoperte avvenute a ritmi frenetici, mai visti prima; i risultati fanno ritenere necessaria una trasformazione fondamentale nella maniera in cui la scienza vede il mondo. Quando la nostra concezione del mondo combacerà con i fatti, il vecchio paradigma sarà sostituito da un nuovo modello biocentrico, in cui non è l’universo a creare la vita, ma vale il contrario. Naturalmente apparirà una certa resistenza a cambiare le nostre convinzioni più fondamentali. Conosco bene il fenomeno; è tutta la vita che incontro ostilità a nuovi modi di pensare. Da bambino rimanevo sveglio di notte a immaginare la mia vita di scienziato, intento a studiare fenomeni meravigliosi al microscopio. Ma la realtà sembrava decisa a ricordarmi che era soltanto un sogno. La mia scuola primaria divideva gli studenti del primo anno in tre classi in base alle loro presunte «potenzialità»: A, B e C. La mia famiglia, appena trasferita in quel quartiere residenziale, proveniva da Roxbury, una delle zone più malfamate di Boston (tempo dopo demolita a scopo di riqualificazione urbana). Mio padre era un giocatore d’azzardo professionista (si guadagnava da vivere giocando a carte, cosa all’epoca illegale, per non parlare delle corse di cani e di cavalli), e alla mia famiglia non si attribuiva precisamente la stoffa degli studiosi. In effetti tutte e tre le mie sorelle avrebbero abbandonato il liceo. Fui inserito nella classe C, parcheggio per gente destinata a mestieri o lavori manuali, rimandata o impegnata più che altro a tirare palline di carta agli insegnanti. Il mio migliore amico era nella classe A. Quando facevo la quinta elementare, un giorno chiesi a sua madre: «Secondo lei potrei fare lo scienziato? Se mi impegno tanto, potrei fare il medico?». «Santo cielo!» disse lei, e mi spiegò che non aveva mai sentito di qualcuno della classe C che fosse diventato medico; potevo invece diventare un ottimo idraulico o falegname.

Questo è il diploma ricevuto dall’autore (Lanza) per la ricerca sugli animali svolta quando era nella classe C. Il diploma porta anche la firma di Barbara O’Donnell, sua futura insegnante di scienze alla junior high school,1 che coltivò il suo interesse per la scienza e fece altrettanto per centinaia di studenti durante cinquant’anni di insegnamento e assistenza all’orientamento scolastico. Il libro Biocentrismo è stato dedicato a lei per i suoi novant’anni.

L’indomani decisi di iscrivermi al concorso di ricerche scientifiche, in cui mi trovai a competere direttamente con la classe A. Il mio migliore amico faceva una ricerca sulle rocce; i genitori lo portarono allora ai musei e crearono una bacheca magnifica per i suoi campioni. La mia ricerca, sugli animali, era formata da quanto avevo raccolto in varie gite: insetti, piume e uova di uccello. Già allora ero convinto che fosse più interessante dedicare studi scientifici alle cose viventi, non a rocce o materia inerte. Si trattava di un vero e proprio capovolgimento della gerarchia insegnata nei libri scolastici, secondo cui il regno della fisica, con forze e atomi, costituiva i fondamenti del mondo ed era quindi più essenziale per comprenderlo; la chimica veniva dopo, seguita poi dalla biologia e dalla vita. La mia ricerca valse a me, umile membro della classe C, il secondo posto in classifica, mentre arrivò primo il mio migliore amico. I concorsi scientifici divennero per me una possibilità di rivalsa verso chi mi disprezzava per via delle mie condizioni familiari. Credevo che con autentico impegno avrei potuto migliorare la mia situazione. Al liceo mi dedicai a un tentativo ambizioso di modificare il corredo genetico delle galline bianche: volevo fare in modo che nascessero nere usando una nucleoproteina. L’ingegneria genetica era ancora di là da venire, e l’insegnante di biologia mi disse che era impossibile; l’insegnante di chimica fece un commento più brusco: «Lanza, lei finirà all’inferno». Prima del concorso scientifico un amico predisse che avrei vinto. «Ah, ah» rise tutta la classe. Ma l’amico aveva ragione. Una volta, dopo che mia sorella era stata sospesa, il preside aveva accusato mia madre di incapacità nell’allevare i figli. Quando vinsi il concorso, quel preside dovette farle i complimenti davanti a tutta la scuola.

In effetti sono poi diventato uno scienziato, e per tutta la mia carriera ho riscontrato ostilità verso le idee nuove. È possibile generare cellule staminali senza distruggere gli embrioni? Si può clonare una specie usando le cellule uovo di un’altra? Forse le scoperte a livello subatomico si possono «trasferire a scale maggiori», ottenendo indicazioni sulla vita e sulla coscienza? Agli scienziati si insegna a porre domande, ma anche a essere cauti e razionali; essi si dedicano spesso a risolvere problemi che sfociano in piccole modifiche, non in capovolgimenti del paradigma. Dopotutto gli scienziati non sono diversi dal resto della specie umana. Ci siamo evoluti nelle chiome degli alberi per raccogliere frutti e bacche, sfuggendo ai predatori e rimanendo in vita abbastanza a lungo da riprodurci; non bisognerebbe sorprendersi che questo insieme di capacità non sia sempre stato di grande aiuto per capire la natura dell’esistenza. Come disse Einstein: «Una cosa ho imparato nel corso della mia lunga vita: che tutta la nostra scienza, se paragonata alla realtà, è primitiva e infantile… eppure è il bene più prezioso di cui disponiamo».2 La scienza deve utilizzare concetti semplici che la mente umana può capire. Man mano che si accumulano gli indizi a favore del biocentrismo, tuttavia, la scienza potrebbe risultare cruciale nel risolvere problemi un tempo ritenuti fuori dalla sua portata e che ci hanno ossessionati da tempi lontanissimi, anteriori all’avvento della civiltà. Questo è l’inizio del libro, ma non l’inizio della nostra storia. Il motivo è che ci stiamo avvicinando a un’odissea già in corso, a un film già iniziato; ci mettiamo a sedere molto dopo che sono scorsi i titoli di testa. Come presto vedremo, nel Rinascimento furono rivoluzionati i tentativi umani di capire il cosmo. Mentre poco a poco la paura e la superstizione perdevano terreno, si impose una concezione che divideva nettamente due entità fondamentali: noi osservatori, vincolati alla superficie del nostro piccolo pianeta, e il vasto regno della natura, che costituiva un cosmo quasi del tutto separato. L’ipotesi che si trattasse di due cose fondamentalmente distinte si è tanto diffusa nel pensiero scientifico che, probabilmente, i lettori la danno per scontata ancora oggi, nel xxi secolo. L’opinione contraria, tuttavia, non è affatto nuova. Riguardo al cosmo, gli antichi testi sanscriti e taoisti dichiarano unanimi che «Tutto è Uno». I mistici e filosofi orientali percepivano o intuivano un’unità innata tra l’osservatore e il cosiddetto universo esterno e, nel corso dei secoli, sostennero sempre che una tale distinzione è illusoria. Anche alcuni filosofi occidentali, fra cui Berkeley e Spinoza, hanno contestato l’opinione prevalente sull’esistenza di un mondo esterno e la sua separazione dalla coscienza. Ciononostante questo

paradigma dicotomico ha continuato a prevalere, soprattutto in ambito scientifico. Ma l’opinione anticonvenzionale ha avuto una notevole risonanza un secolo fa, quando alcuni fondatori della teoria dei quanti (in primo luogo Erwin Schrödinger e Niels Bohr) conclusero che la coscienza è essenziale per capire veramente la realtà. Lo stabilirono tramite calcoli complessi, mentre elaboravano le equazioni che avrebbero formato le basi della meccanica quantistica e delle sue innumerevoli conquiste; così facendo furono anche i pionieri che spianarono la strada al biocentrismo, giunto un secolo dopo. Oggi alcune bizzarrie del mondo quantistico come la correlazione (entanglement) hanno fatto propagare sempre più le opinioni della minoranza. Se è vero che la vita e la coscienza sono essenziali per qualunque altra cosa, si chiariscono subito innumerevoli anomalie enigmatiche della scienza. Non si tratta solo di certi strani risultati di laboratorio come il famoso «esperimento della doppia fenditura», che non hanno senso a meno che la presenza dell’osservatore sia strettamente connessa ai risultati. A livello quotidiano, centinaia di costanti fisiche come l’intensità della forza gravitazionale e «alfa», costante che caratterizza la forza elettromagnetica e governa i legami di quel tipo in ogni atomo, sono identiche in tutto l’universo e «scolpite nella pietra» proprio ai valori favorevoli all’esistenza della vita. Questa potrebbe non essere che una coincidenza strabiliante. Ma la spiegazione più semplice è che le leggi e le condizioni dell’universo permettono che ci siano osservatori perché sono questi ultimi a generarle. No? Si tratta di una vicenda in corso anche perché l’abbiamo in parte già presentata in due libri precedenti sul biocentrismo; forse molti di voi ne avranno letto uno o entrambi. In tal caso sarebbe comprensibile che vi chiediate perché fosse necessario un terzo libro. La risposta breve è che qui delineiamo il biocentrismo in maniera nuova e inoltre lo ampliamo. Nei primi due libri, Biocentrismo e Oltre il biocentrismo, mostravamo che tutto sembra molto più sensato se in realtà la natura e l’osservatore sono intrecciati, o si trovano in corrispondenza; ci servivamo di un ampio spettro di strumenti: non soltanto la scienza, ma anche la logica elementare e le opinioni di grandi pensatori vissuti nel corso dei secoli. L’impostazione multidisciplinare che abbiamo adottato per spiegare e corroborare le nostre conclusioni è risultata convincente e al contempo si è diffusa, come dimostra il grande successo di quei primi libri sul biocentrismo, tradotti in una ventina di lingue e pubblicati in tutto il mondo. Eppure alcuni lettori dalla mentalità scientifica non erano soddisfatti. Ad alcuni di loro sembrava che le conclusioni del biocentrismo sulla coscienza sfiorassero la categoria della «fuffa», cioè si avvicinassero a teorie di dubbia validità scientifica e di tipo «new age». Commenti del genere ci

fecero riflettere. Era davvero possibile che le nostre conclusioni raggiunte a fatica, benché fondamentalmente basate su fredda logica e scienza valida, non fossero altro che un’interpretazione «filosofica» dei risultati sperimentali e osservativi? Sarebbe stato più corretto classificare il biocentrismo nella filosofia che non nella scienza? Secondo noi, no di certo. Eppure riconoscevamo che sarebbe stato meglio riuscire a perorare la causa del biocentrismo sulla base della sola fisica. Per di più, dalla pubblicazione dei primi due libri sono apparse nuove ricerche che portano ulteriori prove a favore del biocentrismo, e ci permettono di spiegare aspetti in precedenza vaghi del funzionamento del nostro universo biocentrico. Poiché capiamo sempre più cose, siamo riusciti a perfezionare la teoria e ad ampliarla, scoprendo nuovi principi di base che vanno inclusi in ogni presentazione completa del biocentrismo. Era giunta l’ora di una nuova descrizione generale del grande disegno biocentrico che governa il cosmo. È ciò che avete ora davanti. Come vedrete, questo volume narra la vicenda basandosi soltanto sulle scienze dure. Oltre al rigore scientifico vogliamo che questo sia un viaggio divertente per il grande pubblico: in fondo tutti ci siamo posti le domande cui il libro dà risposta, domande fondamentali sulla vita e sulla morte, sul funzionamento del mondo e sul motivo della nostra esistenza. Ciò che segue non è una trattazione esaustiva perché abbiamo omesso lunghi approfondimenti di alcuni aspetti, come l’esperimento della doppia fenditura, che sono stati chiariti nei libri precedenti. Ripercorreremo comunque la storia delle strabilianti scoperte fisiche che, inesorabilmente, conducono tutte alla conclusione curiosa e sconvolgente che la presenza degli osservatori è necessaria per la struttura fondamentale del cosmo, per esempio per lo spazio, il tempo e il modo in cui la materia si tiene insieme. Benché molti fisici definiscano l’osservatore come qualsiasi oggetto macroscopico, noi ci schieriamo tra coloro secondo cui l’osservatore deve essere dotato di coscienza. Riparleremo in seguito del motivo e del significato di questa osservazione. Man mano che presentiamo la nostra storia, vedremo che le leggi di Newton, oltre a determinare come si muovono effettivamente gli oggetti, stabiliscono anche come si sarebbero mossi al variare delle condizioni iniziali: portano quindi in sé i primi deboli accenni degli universi alternativi e fanno presagire la teoria dei quanti. Presenteremo l’ascesa di questa teoria e la scoperta di strani fenomeni quantistici, che portò a mettere in discussione l’idea che il mondo esterno esiste a prescindere da un soggetto che lo percepisca; questa idea è stata criticata da fisici e filosofi da Platone fino a Hawking. Vedremo ciò che intendeva Niels Bohr, grande fisico e vincitore del Nobel, quando disse: «Non “misuriamo” il mondo, lo creiamo».3

Spiegheremo la logica usata dalla mente per generare la nostra esperienza spaziotemporale e avremo indicazioni riguardo al cosiddetto «problema difficile» di come insorge la coscienza, esaminando regioni del cervello che presentano una correlazione quantistica reciproca e insieme formano il sistema che associamo alla sensazione unitaria del «sé». Per la prima volta in assoluto spieghiamo l’intero meccanismo che contribuisce a far apparire ciò che percepiamo come tempo, dal livello quantistico, dove tutto è ancora in una sovrapposizione di stati, agli eventi macroscopici che avvengono nei circuiti neurali del cervello. Così facendo vedremo che il superamento del limite della velocità della luce da parte delle informazioni faccia pensare che la mente sia unificata con la materia e con il mondo. Riconoscendo sempre più che la vita è un’avventura che trascende le concezioni ordinarie, intuiremo inoltre qualcosa sulla morte. Considereremo un esperimento mentale sconcertante, il cosiddetto suicidio quantistico, per spiegare perché siamo qui ora nonostante si tratti di una circostanza incredibilmente improbabile, e perché la morte non ha una vera realtà. Vedremo che la vita ha una dimensionalità non lineare, come un fiore perenne che non smette mai di sbocciare. In tutto il libro assisteremo al totale capovolgimento di innumerevoli cose date per scontate dal buon senso. Per esempio, come affermava Stephen Hawking, fisico teorico che ormai non c’è più: «Le storie dell’universo dipendono da ciò che si misura, al contrario dell’idea abituale secondo cui l’universo ha una storia obiettiva e indipendente dall’osservatore».4 Mentre la fisica classica postula che il passato esista come una serie inalterabile di eventi, la fisica quantistica obbedisce a un insieme diverso di regole in cui, secondo Hawking, «il passato […], come il futuro, è indefinito ed esiste soltanto come uno spettro di possibilità».5 E già che ci siamo, considereremo la frustrazione che da un secolo i fisici provano di fronte a questo fatto: l’«insieme diverso di regole» che governa la meccanica quantistica. Dopotutto per capire la gravità, fra le altre cose, occorre riconciliare la relatività generale di Einstein, che descrive con precisione il cosmo macroscopico, e le regole diversissime valide nel regno quantistico delle scale minuscole. Perché la scienza su vasta scala non riesce a comunicare con quella a livello subatomico? La cosa notevole è che il libro giunge a una svolta proprio nella risoluzione di questo enigma mitico per la fisica. La svolta giunge negli ultimi capitoli, dove presenteremo uno stupefacente articolo da prima pagina scritto da uno degli autori (Lanza) e Dmitriy Podolskiy, fisico teorico che lavora alla Harvard, per spiegare in che modo il tempo stesso deriva direttamente dall’osservatore. Scopriremo che il tempo non esiste «là fuori», non scorre dal passato al futuro come abbiamo sempre pensato; è

invece una proprietà emergente come una canna di bambù che cresce in fretta, e la sua esistenza dipende dalla capacità dell’osservatore di conservare informazioni sugli eventi che ha vissuto. Nel mondo del biocentrismo, non soltanto un osservatore «privo di cervello» non può percepire il tempo: senza un osservatore cosciente, il tempo non esiste in nessun modo. Ma questo libro non è soltanto una freccia che punta alle rivelazioni sconvolgenti degli ultimi capitoli, e nemmeno a tutte le strabilianti indicazioni scientifiche secondo cui semplicemente non c’è il tempo, né la realtà o alcun tipo di esistenza se non c’è l’osservatore. Il libro è invece un’odissea che intende stimolare e suscitare meraviglia mentre rivela il funzionamento del cosmo e il nostro posto al suo interno. Perciò aspettatevi senz’altro fuochi d’artificio alla fine, quando il vecchio paradigma sarà sostituito una volta per tutte da quello nuovo. Ma osservare lo svolgimento di questa storia stupefacente sarà già di grande soddisfazione, con sorprese a ogni svolta del viaggio. Esso inizia dove forse meno ce lo aspetteremmo, nell’ambito familiare benché ancora misterioso della semplice coscienza quotidiana. Robert Lanza

Introduzione

1 Grossomodo equivalente alle medie. [N.d.T.] 2 Banesh Hoffmann e Helen Dukas, Albert Einstein: creatore e ribelle, trad. it. di Mariagrazia Bianchi, Bompiani, Milano 1984, p. 5. [N.d.T.] 3  Niels Bohr,  The Philosophical Writings of Niels Bohr, Ox Bow Press, Woodbridge 1987. [N.d.T.] 4 Stephen Hawking e Thomas Hertog, «Populating the Landscape: A Top Down Approach», https://arxiv.org/pdf/hep-th/0602091.pdf. [N.d.T.] 5  Stephen Hawking e Leonard Mlodinow,  Il grande disegno, trad. it. di Tullio Cannillo, Mondadori, Milano 2011, p. 78. [N.d.T.] 6 Max Planck, Where is science going?, W.W. Norton and Company, New York 1932, epilogo. [N.d.T.] 7  J.W.N. Sullivan, «Interviews with Great Scientists», intervista a  Schrödinger, in  The Observer, 1931. [N.d.T.] 8  Werner Heisenberg,  Mutamenti nelle basi della scienza, trad. it. di Adolfo Verson, Boringhieri, Torino 1978, p. 55. [N.d.T.] 9 John Archibald Wheeler, «The participatory universe», in Science 81 (giugno 1981), pp. 6667. [N.d.T.] 10 Niels Bohr, op. cit. [N.d.T.] 11  Eugene Wigner, «Remarks on the Mind-Body Question», riprodotto in John Archibald Wheeler e Wojciech Hubert Zurek (a c. di),  Quantum Theory and Measurement, Princeton University Press, Princeton 1983, p. 169. [N.d.T.] 12 Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, op. cit., pp. 42 e 78. [N.d.T.]

1. Capire l’universo

Siamo tutti […] prigionieri del nostro indottrinamento giovanile, poiché è pressoché impossibile scrollarsi di dosso ciò che ti insegnano da bambino. Jubal, in Straniero in terra straniera di Robert Heinlein1

Per la scienza è un’epoca pericolosa, ma anche più entusiasmante che mai. Pericolosa perché, in molti paesi, sotterranee tendenze antiscientifiche minacciano di vanificare gli incredibili progressi degli ultimi decenni. Entusiasmante perché alcune fra le domande più profonde stanno infine ottenendo una risposta, e l’umanità sta per risolvere i suoi problemi più impellenti. Le trasformazioni operate dal progresso scientifico risaltano con particolare evidenza se si confronta il mondo attuale con la situazione della metà degli anni settanta, quando alcuni di noi hanno iniziato a studiare la scienza. Nessuna sonda spaziale si era avventurata oltre Marte. Nessuno sapeva che i quark formano il nucleo di ogni atomo. Internet non esisteva e mancavano anni persino all’avvento delle videocamere a cassette. In media un’automobile nuova costava 3700 dollari (circa 3100 euro) e una casa statunitense tipica poco meno di dieci volte tanto. Negli anni seguenti la scienza ha rivoluzionato il pianeta: per esempio l’ingegneria genetica riesce oggi a nutrire una popolazione globale che un tempo si riteneva insostenibile, e interventi cardiochirurgici di routine e altri progressi nella medicina hanno portato oltre gli ottant’anni la durata media della vita umana. Questo libro vuole spingere ancora più avanti i confini della scienza. Presupporremo che il lettore abbia un livello medio di

conoscenza scientifica. Forse anche superiore alla media. Di recente la National Science Foundation, che monitora la diffusione della cultura scientifica, ha pubblicato il sondaggio che svolge ogni anno sulle conoscenze di base: i risultati non sono precisamente motivo di ottimismo. Il sondaggio include nove domande con risposte vero/falso, per esempio: 1. Il centro della Terra è caldissimo. 2. La radioattività è sempre creata dagli esseri umani. 3. Gli elettroni sono più piccoli degli atomi, e così via.2 I risultati degli statunitensi in questo test sono rimasti abbastanza costanti negli ultimi quarant’anni: il punteggio medio si aggira sul 60 per cento di risposte corrette. (E contrariamente a quanto si crede spesso, gli europei non se la cavano molto meglio.) Per quanto sia scioccante il livello medio di alfabetizzazione scientifica, forse lo sono ancora di più le condizioni del pensiero critico: secondo alcuni studi una minoranza preoccupante crede a varie teorie complottistiche. Per esempio i sondaggi mostrano che secondo il 7 per cento degli statunitensi le missioni Apollo sulla Luna sono state simulate. Nel 2018 la teoria complottistica che guadagnava più consensi su Internet era quella secondo cui in realtà la Terra è piatta, e le presunte foto scattate dallo spazio sono dei falsi. Purtroppo convinzioni del genere spesso resistono a smentite che non provengono nemmeno da ragionamenti scientifici complessi o esoterici, ma dal semplice buon senso: in questo caso, per sconfessare la credenza nella Terra piatta, basta una semplice telefonata tra amici che vivono sulle due coste degli Stati Uniti, poiché il Sole tramonta in Vermont quando è ancora alto in cielo in California. Basta già questa osservazione a dimostrare che il nostro pianeta non può essere piatto. Questo libro non è destinato a persone come i «terrapiattisti» che si rifiutano di credere agli indizi che si trovano davanti. Esso si rivolge invece a lettori pronti ad accogliere notevoli rivelazioni basate su esperimenti e osservazioni: infatti il biocentrismo è proprio questo, anche se in ultima analisi il nostro obiettivo riguarda aspetti

fondamentali della vita che in precedenza sembravano misteriosi, e per cui si disperava di trovare una spiegazione scientifica. Dopo aver attraversato a fatica secoli di superstizione, a volte all’origine di repressioni violente del progresso scientifico (basta pensare a Galileo), finalmente quasi tutto il mondo moderno considera la scienza come la fonte più affidabile di conoscenze sulla natura. Essa ci dona inoltre gioielli tecnologici come l’iPhone e il gps, e ci permette di mangiare i pomodori a gennaio. Oltre a tutto ciò, il metodo scientifico è il processo più efficace mai inventato per determinare la verità. Con la sua enfasi sullo scetticismo, sull’osservazione e sulla verifica distrugge gli impostori senza pietà. Chiunque faccia un’osservazione originale e sorprendente deve tirar fuori prove valide, come nell’ipotesi che la caduta di un meteorite avesse fatto estinguere i dinosauri, sostenuta da Luis e Walter Alvarez. Questa squadra composta da padre e figlio trovò come indizio uno strato di iridio (elemento raro sulla Terra ma abbondante nella polvere di meteoriti) depositato 66 milioni di anni fa su tutto il pianeta. In seguito i due Alvarez divennero tanto celebri che altri ricercatori cercarono di «abbattere» la loro teoria, per guadagnarsi la fama a loro volta ed entrare nella storia. La scienza quindi fornisce di continuo motivazioni per proporre opinioni contrarie e analisi scettiche; si regola da sé. Sfortunatamente, come abbiamo visto nell’introduzione, gli scienziati sono fin troppo umani, e la scienza ha una propria inerzia, responsabile del fatto che in genere le idee davvero nuove rimangono ignorate non soltanto per anni, ma spesso per decenni o addirittura secoli. Un esempio triste di questo fenomeno è la teoria della deriva dei continenti, formulata nel 1912 dal meteorologo tedesco Alfred Wegener, ma rifiutata dalla maggioranza ancora negli anni cinquanta. Quando venne infine accettata, non soltanto tutti si accorsero del fatto ovvio che il profilo dei continenti si incastra come tasselli di un puzzle, facendo pensare che un tempo appartenessero tutti a un supercontinente oggi detto Pangea, ma vennero anche spiegate bizzarrie come l’espansione dei fondali oceanici in mezzo all’oceano, e la notevole somiglianza tra le rocce dell’America settentrionale e quelle dell’Irlanda. La teoria spiegò infine la «cintura

di fuoco» che circonda il Pacifico, teatro di frequente attività sismica e vulcanica. Insomma, in un colpo solo molti misteri furono risolti grazie a questa nuova concezione della crosta terrestre, secondo cui essa galleggiava come un relitto sul magma fuso e subiva annualmente uno spostamento compreso tra 2 e 10 centimetri, ma la nuova teoria impiegò decenni a imporsi. Altri frammenti collosi che a volte fanno inceppare gli ingranaggi del progresso sono gli aspetti onnipresenti della natura, cui siamo abituati a tal punto da non riuscire a esaminarli con un’analisi obiettiva. Essi sono troppo comuni per attirare l’attenzione. Una simile familiarità spiega forse come mai soltanto verso la fine del Settecento si sia capito che l’aria è composta di gas distinti, dalle caratteristiche molto diverse. Negli scritti degli antichi greci, che in genere brillano per spirito di investigazione, non si trova alcun accenno all’idea che l’aria fosse altro che una sostanza singola, e neanche in quelli dei primi geni del Rinascimento. Oggi ci troviamo forse nella stessa situazione riguardo alla coscienza. Il fatto che ogni cosa vista, sentita, ricordata o oggetto di riflessione sia in primo luogo una manifestazione della consapevolezza umana rende quest’ultima tanto nota e vicina da farla spesso ignorare. La «coscienza» è come lo schermo su cui si proietta il film: è la «cosa reale» che ci troviamo davanti al cinema, eppure la ignoriamo, proprio come non riconosciamo la profusione sfarfallante di luci e colori, creata dal proiettore, come tale. Ci concentriamo invece sulle forme create dal film, sulle figure che riconosciamo come visi degli attori o sul significato trasmesso dalle parole registrate nella colonna sonora. Ma l’analogia cinematografica non può andare lontano. Nel caso dello schermo, il telone di materiale riflettente non è necessario in sé e per sé; sarebbe bastata un’altra superficie, come una parete bianca. La coscienza è diversa. Il fenomeno della consapevolezza, della percezione, non soltanto è fondamentale per tutto ciò che sappiamo o possiamo mai sperare di sapere, ma è anche del tutto a sé stante, come natura e come origine. Poiché la conoscenza è il sine qua non della scienza, e la percezione è l’unico modo di acquisire conoscenze, per capire il

mondo la coscienza sembrerebbe più essenziale di qualsiasi tecnica di reti neurali o sottosistema neurale. Dopotutto, se la coscienza umana presenta distorsioni o bizzarrie fondamentali, queste potrebbero deformare tutto ciò che vediamo e impariamo. Vorremmo allora esserne al corrente prima di metterci a considerare i nostri innumerevoli metodi per acquisire informazioni, che riguardino la classificazione di suoni e colori o la tassonomia delle forme viventi. La coscienza è alla radice di tutto, più fondamentale del disco rigido del computer: in questa analogia, svolge piuttosto il ruolo della corrente elettrica. Inoltre, già da un secolo gli esperimenti hanno mostrato in maniera inequivocabile che la semplice presenza dell’osservatore modifica le osservazioni. All’epoca e ancora oggi questo fenomeno è considerato una stranezza o un inconveniente, ma è una forte indicazione del fatto che non siamo separati dalle cose che vediamo, udiamo e contempliamo. Noi, la natura e l’osservatore, siamo invece una sorta di entità inseparabile. Questa semplice conclusione è al cuore del biocentrismo. Ma che cos’è questa entità? Purtroppo, poiché la coscienza è stata studiata soltanto in maniera superficiale e rimane in gran parte un mistero, l’amalgama formato da «coscienza + natura» è altrettanto enigmatico o, anzi, di più. Definiamo superficiali gli studi passati perché, nonostante progressi notevoli nelle neuroscienze, che sulle prime si limitavano a determinare quali parti del cervello controllano varie funzioni motorie e sensoriali, ma ormai sono giunte addirittura ad analizzare la codifica di concetti da parte di reti complesse di neuroni, questa stessa disciplina si è occupata poco di risolvere profonde questioni basilari, come la comparsa della coscienza nella materia (è il cosiddetto «problema difficile della coscienza»). Forse non si può dare la colpa agli specialisti: come si è visto, questi problemi fondamentali resistono con testardaggine ai tentativi di chiarirli tramite gli strumenti scientifici abituali. Da che parte comincereste voi a progettare un esperimento che fornisca informazioni obiettive su questo fenomeno, il più soggettivo di tutti? Di fronte ad aspetti della natura che sfuggono alla spiegazione logica e non si prestano all’indagine sperimentale, la tradizione

consolidata della scienza è quella di ignorarli. In realtà si tratta di una reazione appropriata, perché non è auspicabile che i ricercatori tirino a indovinare, proponendo ipotesi fumose. Il silenzio ufficiale non sarà di grande aiuto, ma è rispettabile. La conseguenza è però che il semplice termine «coscienza» può sembrare fuori luogo nei libri o negli articoli scientifici, malgrado il fatto che, come vedremo, nomi famosissimi della meccanica quantistica lo considerassero un aspetto essenziale per capire il cosmo. E questo avveniva prima che, in tempi abbastanza recenti, se ne riconoscesse il ruolo non soltanto nel rivelare ciò che osserviamo, ma nel crearlo. La maniera in cui la consapevolezza umana (e probabilmente anche quella degli animali non umani) svolge nella natura questo ruolo imprevisto ma imprescindibile è l’obiettivo principale di questo libro; vari capitoli sono perciò dedicati alla coscienza. Tra l’altro, ripercorreremo i progressi compiuti da varie discipline per descrivere l’atto dell’osservazione, e vedremo come la natura apparentemente inanimata interagisce con la consapevolezza vivente, a sua volta legata ad architetture neurali complesse. Non molto tempo fa, uno degli autori (Lanza, insieme al fisico teorico Dmitriy Podolskiy) ha compiuto e pubblicato nuove scoperte su ciò che succede davvero in quel momento critico di consapevolezza/osservazione. Come vedremo è una sorta di «eureka» che, insieme ad altre scoperte scientifiche descritte nel libro, fa pensare che sia necessaria una rivoluzione di dimensioni copernicane.3 In genere i profani si rivolgono alla scienza quando cercano aiuto o risposte in tre ambiti principali, quasi costanti nel corso del tempo. La primissima categoria, naturalmente, è del tipo «che ci guadagno?»: la gente vuole che la scienza trovi cure per le malattie, strumenti che sopperiscano a carenze visive o uditive, progressi nei trasporti, come aerei di linea affidabili, e gadget personali non troppo costosi come i telefoni cellulari. Il secondo ambito che attira l’attenzione del pubblico include domande elementari sul mondo, come novità riguardo alla vita su Marte, i buchi neri, i dinosauri e così via. I giornali e, nella nostra epoca, i mezzi di comunicazione elettronici e i social network monitorano gli interessi del pubblico, e i ricercatori

tendono ad adeguarsi, come pure i finanziamenti governativi. Nel 2018 gli studi scientifici più seguiti sono stati la ricerca degli esopianeti, soprattutto i pianeti simili alla Terra che orbitano attorno ad altre stelle; la caccia al bosone di Higgs, entità subatomica fondamentale cercata a lungo e infine trovata, e, come al solito, nuove cure per vari tipi di cancro. Addentrarsi nel pantano «coscienza e natura» rientra nella terza categoria della scienza che riveste un grande interesse pubblico, categoria meglio descritta come «tutto il resto». Anche se i grandi fan di tecnologia e altri appassionati di scienza sanno da tempo che, secondo indicazioni sempre più numerose della meccanica quantistica e di altri ambiti di ricerca, sembra esserci un solido legame tra noi stessi e il cosmo, ritenuto esterno e incapace di percezioni sensoriali, inoltrarsi in questo pantano rientra nei progetti di pochissimi scienziati. La stragrande maggioranza degli studi scientifici è costituita dalla caccia a «tasselli mancanti» in aree di ricerca ben definite. Lo Higgs ne è stato un esempio, come lo sono anche la ricerca della vita aliena e di cure per problemi medici comuni. Nella scienza moltissimi problemi non sono ardui da formulare e, se si trova una risposta, è facile descrivere il risultato ottenuto. La coscienza è un argomento più insidioso, come risulta dalla prima domanda spesso posta: che cosa si intende per coscienza? Per studiare qualcosa prima di tutto sembra necessario definirlo, eppure neanche su questo c’è accordo. La maggioranza dei lettori riterranno perciò questo argomento una notevole deviazione dai problemi scientifici più in voga, spesso presenti sui mezzi di comunicazione di massa. Lo studio della coscienza richiede di abbandonare il mondo delle cose note. Per esaminare il legame tra la coscienza e la natura bisogna addentrarsi ancor più in terre incognite. In breve, invitiamo il lettore a unirsi a noi non soltanto nel separare il grano dal loglio scientifico, ma anche nel lasciare da parte la marea di domande allettanti ancora senza risposta, per tuffarsi invece proprio nel centro di ogni esperienza, nel nucleo di tutto ciò che sappiamo, allo scopo di mettere in luce verità strabilianti sul nostro ruolo nel cosmo. Vedremo che, in svariati modi, la scienza fornisce indicazioni

sempre favorevoli a un’interpretazione biocentrica dell’universo. Come descritto nel nostro primo libro, Biocentrismo, abbiamo seguito queste indicazioni per arrivare a un insieme di sette principi, riportati qui sotto, che racchiudono la teoria biocentrica della realtà. Principi del biocentrismo Primo principio del biocentrismo: Ciò che percepiamo come realtà è un processo che coinvolge la nostra coscienza. La realtà esterna, se esistesse, per definizione dovrebbe rientrare nell’ambito dello spazio e del tempo. Ma lo spazio e il tempo non sono realtà indipendenti: sono strumenti della mente umana e animale. Che crediate o meno nell’esistenza di un «mondo reale esterno», un lungo elenco di esperimenti mostra che le proprietà della materia o, anzi, la struttura stessa dello spaziotempo dipendono dall’osservatore, e in particolare dalla coscienza. Secondo principio del biocentrismo: Le nostre percezioni esterne e interne si intrecciano in maniera inestricabile. Sono due facce della stessa medaglia, inseparabili una dall’altra. A prescindere dalle scoperte sperimentali della teoria dei quanti, la biologia elementare chiarisce che quanto appare «là fuori» è in realtà una costruzione formata nel cervello, un vortice di attività neurale ed elettrica. Terzo principio del biocentrismo: Il comportamento delle particelle subatomiche, e anzi di tutte le particelle o corpi, è legato in maniera inestricabile alla presenza di un osservatore. Se manca un osservatore cosciente, al più essi esistono in uno stato indeterminato di onde di probabilità. Questa scoperta ha stupito persino i fisici che la realizzarono un secolo fa. Ma gli esperimenti hanno mostrato più volte che la posizione e la maniera in cui appaiono le particelle dipendono strettamente da come e se le si osserva. Quarto principio del biocentrismo: Senza la coscienza, la «materia» rimane in uno stato probabilistico indeterminato. Un

eventuale universo che precedesse la coscienza sarebbe esistito soltanto in uno stato probabilistico. La meccanica quantistica riesce ogni volta a prevedere con accuratezza come e dove appariranno le particelle elementari di materia, con la stupefacente rivelazione che, prima delle osservazioni, esse esistono al contempo in ogni luogo possibile, sospese in una sorta di stato probabilistico confuso che i fisici chiamano «funzione d’onda non ancora collassata». Quinto principio del biocentrismo: Soltanto con il biocentrismo si può spiegare la struttura dell’universo, che presenta una regolazione fine per la vita: ciò ha del tutto senso, perché è la vita a creare l’universo, non il contrario. L’«universo» non è che la logica spaziotemporale completa del sé. Se ne trovano forti conferme in ogni manuale scientifico che riporti una tabella delle costanti fisiche dell’universo. Tutte sono perfettamente «calibrate», entro una frazione di punto percentuale, a valori che permettono la formazione di atomi complessi necessari per la vita, il brillare di stelle che forniscono energia, e il verificarsi di tutte le numerose condizioni che vi consentono ora di leggere questo libro. Le leggi e le condizioni dell’universo permettono la presenza dell’osservatore perché è quest’ultimo a generarle. Sesto principio del biocentrismo: Il tempo non ha un’esistenza reale al di fuori della percezione sensoriale degli animali. Esso è il processo tramite cui percepiamo i cambiamenti nell’universo. Gli scienziati non sono riusciti a inserire il tempo nelle leggi di Newton, nella relatività di Einstein o nelle equazioni quantistiche. Anzi, persino i ragionamenti del tipo «prima» e «dopo» che chiamiamo tempo richiedono che un osservatore rifletta su uno specifico evento da confrontare poi con altri. Come vedremo nei capitoli successivi, il tempo non esiste «là fuori», non scorre dal passato al futuro: è invece una proprietà emergente che dipende dalla capacità dell’osservatore di conservare informazioni sugli eventi vissuti; un osservatore «privo di cervello» non può avere esperienza del tempo.

Settimo principio del biocentrismo: Lo spazio, come il tempo, non è una cosa o un oggetto. Lo spazio è un’altra forma della nostra comprensione animale, ed è privo di realtà indipendente. Ci portiamo dietro lo spazio e il tempo come fa la tartaruga con il carapace. Non esiste perciò una matrice assoluta e dotata di esistenza propria in cui gli eventi fisici avvengano indipendentemente dalla vita. Numerosi esperimenti mostrano che le distanze cambiano a seconda di una moltitudine di condizioni relativistiche: non esistono da nessuna parte distanze inviolabili fra nessuna coppia di oggetti. Anzi, la teoria dei quanti pone seriamente in dubbio la possibilità che i corpi siano davvero e del tutto separati, per quanto lontani. Gli oggetti attraversano lo spazio in un tempo nullo sfruttando l’«effetto tunnel», e possono trasmettere «informazioni» istantanee grazie al fenomeno della correlazione quantistica. Chiaramente non sarebbe possibile percorrere distanze pari a milioni di anni luce in un tempo nullo se lo spazio avesse una qualsiasi realtà fisica. Come potete vedere, ciascun principio va oltre i precedenti e tutti si rinforzano a vicenda. Nel corso del libro approfondiremo la scienza su cui si basano ma, se non li conoscete già, forse prima o poi vi converrebbe leggere le nostre spiegazioni su come ogni principio viene derivato ineluttabilmente, presentate in linguaggio non tecnico in entrambi i libri precedenti sul biocentrismo. Qui le ripercorriamo brevemente in modo da fornire ai lettori un punto di partenza per la scienza che seguirà. Sarà inoltre una preparazione per quattro principi aggiuntivi che appariranno nel seguito del volume. Ma non anticipiamo troppo. Adesso, per capire bene tutto ciò, procederemo andando a ritroso. Risaliamo nel tempo di qualche secolo e osserviamo come si notò per la prima volta che i meccanismi apparentemente indipendenti della natura sono legati a noi come osservatori.





1. Capire l’universo 1 Robert A. Heinlein, Straniero in terra straniera, trad. it. di Marco Pinna, Fanucci, Roma 2005, p. 226. [N.d.T.] 2 Se la scienza liceale fosse per voi un ricordo lontano, le risposte sono V, F e V. 3 L’episodio di pubbliche relazioni forse più eclatante del Rinascimento è quello che vide attribuire in maniera sicura e definitiva a Niccolò Copernico il «primato» nell’aver stabilito che la Terra orbita attorno al Sole e non viceversa; così, da allora Copernico è sempre onorato quale fondatore dell’eliocentrismo. In realtà questo fatto fu scoperto per la prima volta (circa milleottocento anni prima!) da un’altra persona, Aristarco di Samo, la cui ricompensa finale, stranamente, fu però l’anonimato.

2. I calcoli di Newton con la mela e le realtà alternative

La forza d’inerzia è quel principio passivo a causa del quale i corpi persistono nel loro stato di moto o di quiete[,] ne ricevono un moto proporzionale alla forza impressa e resistono tanto quanto gli altri corpi resistono loro. In conseguenza di questo solo principio però non ci sarebbe mai potuto essere nel mondo alcun movimento. Per mettere i corpi in movimento era necessario un altro principio.1 Sir Isaac Newton

In un momento o l’altro della vita, a molti è capitata la stessa fantasticheria: tornare magicamente nel passato per incontrare una figura apprezzata tra scienziati o utopisti della storia. Non sarebbe divertente chiacchierare con Jules Verne o H.G. Wells portando foto degli aerei e razzi odierni, per dimostrare che avevano ragione? Non li meraviglierebbe vedere che, con il passare del tempo, non soltanto le loro fantasticherie più audaci si sono realizzate, ma la tecnologia umana è andata molto oltre? A chi studia il funzionamento dell’universo, con l’aiuto dei computer del xxi secolo, sembra proprio che le risposte ai problemi fondamentali siano più vicine che mai. Eppure rimaniamo ancora ammirati davanti ai progressi fondamentali compiuti dalle grandi menti degli ultimi secoli. Partiamo allora per un viaggio nel tempo ed esaminiamo le scoperte che a partire da un momento specifico, quattro secoli fa, hanno iniziato a rivoluzionare la scienza.

Nel Rinascimento si era giunti ad accettare sempre meno in Europa e spesso a rifiutare anche in Asia la spiegazione che attribuiva ogni evento ai capricci di una o varie divinità. Si desiderava trovare un senso razionale nelle cose. Questi razionalisti seicenteschi, primo fra tutti René Descartes, suddividevano il cosmo in vari modi: il passo decisivo fu la separazione dell’osservatore da qualsiasi cosa stesse studiando. All’epoca questa divisione tra soggetto e oggetto sembrò un’idea buona e naturale a scienziati e filosofi, dato che gli esseri umani erano e sono tuttora famosi per creare pasticci. Eliminare l’aspetto «soggettivo» nello studio della natura sembrava un primo passo cauto per non prendere abbagli. Questa nuova impostazione per la ricerca di conoscenze era anche caratterizzata dall’ipotesi che le azioni passate siano essenziali per prevedere gli eventi futuri. È un’ipotesi utile quando si valuta una persona come possibile compagna di vita ed è anche la logica utilizzata nelle decisioni di scarcerazione; dal Cinquecento al primo Novecento fu essenziale per i fisici, che sfruttarono il fatto che la traiettoria degli oggetti in movimento era il criterio più affidabile per capire dove trovarli in futuro. Ed è proprio nel primo Seicento, epoca difficoltosa e funestata dal ricorrere della peste bubbonica, che incontriamo un genio: Isaac Newton. Quest’uomo esile e dall’aria scialba, con una pettinatura che non avrebbe stonato tra gli hippie degli anni sessanta e settanta, è una prima figura chiave della nostra trattazione, per due motivi distinti e essenziali. In primo luogo, Newton scoprì leggi naturali che rappresentarono un progresso notevole a livello fondamentale, mostrando che il moto obbedisce alle stesse leggi «quaggiù», in città e campagne, e «lassù», nelle sfere celesti; in questo modo collegò la Terra e i cieli. In secondo luogo, benché la cosa sarebbe stata capita soltanto secoli dopo, si possono anche vedere le leggi di Newton come uno squarcio verso realtà alternative, un portale verso rivelazioni stupefacenti cui ritorneremo nel seguito del libro. Le intuizioni di Newton lo avrebbero portato ancora più lontano se fosse stato capace di affrontare il mostro sotto il suo letto: il tabù che

vietava di includere la mente umana nello studio del funzionamento del cosmo. Ma in sé e per sé le leggi di Newton erano già un notevole passo avanti nella comprensione del mondo, ed egli va ancor più apprezzato perché fu tra i primissimi a riconoscere l’unità di ambiti ritenuti del tutto distinti per millenni: quello dei corpi celesti e quello delle cose terrestri. Spianò con decisione la strada all’avvento di un cosmo unificato. Due secoli dopo, una nuova generazione di pensatori brillanti come Michael Faraday e James Clerk Maxwell unificò altre entità prima ritenute separate: scoprirono che mentre l’elettricità e il magnetismo si manifestano come fenomeni distinti, ne è all’origine una singola forza più generale. Dopo altri cinquant’anni sarebbe giunto Albert Einstein, che mostrò che lo spazio e il tempo, in apparenza diversi quanto la pizza e il gas esilarante, sono due facce della stessa medaglia. Einstein riscontrò inoltre la stessa tendenza e pluribus unum2 tra materia ed energia: fu una bomba inaspettata, perché nessuno immaginava che il brillare delle stelle fosse una manifestazione di oggetti materiali che si trasformano in energia. E, ovviamente, altri progressi compiuti nel primo Novecento in fisica e in chimica includono la scoperta che tutti gli elementi sono composti di particelle subatomiche identiche disposte in varie configurazioni. Sembrava sempre più che una meravigliosa unità pervadesse tutta la natura. Era stato Newton ad avviare questa tendenza, che persiste ancora oggi e si è via via accelerata. Osservando da vicino le leggi newtoniane del moto, possiamo aprire porte che nemmeno Newton si rese conto di aver dischiuso. Se iniziamo dai suoi esempi semplici, riguardanti il lancio di un sasso o una freccia scoccata da un arco, ci rendiamo conto che quanto affermato da Newton è in realtà abbastanza intuitivo. Da bambini, tirando palle di neve ai cartelli stradali, abbiamo imparato man mano quanta forza usare, come compensare il ruolo della gravità nella traiettoria del proiettile e, quindi, la direzione esatta cui mirare per colpire il bersaglio, fino alla ricompensa: il rintocco

metallico del successo e sguardi ammirati da membri del sesso opposto che passavano di là. Quando piegavamo il braccio, contraevamo il bicipite e facevamo partire la sferetta congelata, avevamo a disposizione un gran numero di traiettorie. Questa vastissima gamma di archi possibili era il risultato della combinazione tra la forza impressa alla palla di neve e la forza di gravità. All’epoca in cui apparvero le leggi newtoniane del moto, questa seconda forza non aveva neanche un nome: Newton lo coniò a partire dal termine latino gravitas, che significa appunto «gravità, pesantezza» (oltre a vari sensi figurati). Comunque la si chiamasse, la forza che attirava gli oggetti verso la Terra aveva sempre svolto un ruolo chiave, a prescindere se l’obiettivo immediato era vincere un torneo di tiro con l’arco o orientare il lancio di palle di cannone verso un castello nemico. Se Newton cercava di capire come si muovevano gli oggetti, non lo spingeva soltanto il desiderio di fare progressi come «filosofo naturale» (il termine «scienziato» ancora non esisteva); la sua ricerca aveva obiettivi decisamente pratici e i risultati avrebbero contribuito a moltissime imprese umane.

Figura 2.1 Varie traiettorie possibili di un oggetto, come una palla di neve, lanciato dalla stessa posizione con diversi vettori velocità, cioè con velocità diverse in valore assoluto e direzione.

Lo studio del moto svolto da Newton condusse inevitabilmente a esaminare la gravità stessa. Lo scienziato mostrò che questa forza è una grandezza affidabile e invariabile, che però varia in maniera prevedibile a seconda delle circostanze: all’aumentare della distanza dal centro della Terra, cala come l’inverso del quadrato di quella distanza; in altri termini, se si raddoppia la distanza tra una mela e il

centro della Terra, la forza che attira la mela al suolo sarà quattro volte più debole. Può essere stata effettivamente una mela che cadeva ad aver spinto Newton verso lo studio della gravità, o almeno è questa la versione che lui ripeteva in giro, ma è falsa la versione da cartone animato secondo cui gliene sarebbe piombata una in testa. In ogni caso, è facile capire come mai quel frutto cruciale, che svolge un ruolo tanto sinistro nella Genesi, avrebbe potuto ispirare a Newton la sua teoria. Quando si osserva cadere una mela o qualsiasi altro oggetto che precipita liberamente, la traiettoria seguita è prevedibile. Quando si combina l’effetto della gravità con una seconda forza, come quella impressa a un sasso lanciato in orizzontale dal bordo di un precipizio, il risultato è una traiettoria incurvata come quelle della Figura 2.2. Ma continuiamo per un attimo a ragionare come Newton e immaginiamo quella mela che cade in verticale dall’albero. Poiché non l’ha lanciata nessuno, il suo moto è influenzato soltanto dalla gravità, e la mela punta esattamente verso il basso a una velocità sempre maggiore a causa della forza di gravità. Quanto va veloce? Be’, dopo un secondo la velocità della mela è di 9,8 metri al secondo. Dopo due secondi essa vale 19,6 metri al secondo. Dopo tre secondi la mela precipita a 29,4 metri al secondo, velocità sufficiente a trasformarla in un purè se dovesse spiaccicarsi su una roccia. Questo moto accelerato è semplice e prevedibile. (In pratica la resistenza dell’aria farebbe rallentare un po’ la mela, ma per il momento rimaniamo sul semplice.) Più l’oggetto si avvicina alla fonte della gravità, più intensa è questa forza e più è veloce la caduta. Nell’affermare che la gravità si indebolisce con la distanza, Newton osservò correttamente che questa forza si comporta come se tutta la massa del pianeta, da lui ritenuta fonte della gravità, si concentrasse al suo centro. Ciò significa che, dal punto di vista della gravità, la mela poggiata sulla superficie terrestre non si trova al «punto zero» del nostro pianeta, ma ha già un’altitudine di circa 6400 chilometri, pari al raggio terrestre.

Figura 2.2 Varie traiettorie possibili di un oggetto lanciato da diverse posizioni con la stessa direzione e valore assoluto della velocità.

Questa era una clausola importante, perché consentì a Newton di calcolare l’effetto della gravità terrestre sulla Luna. Grazie alla parallasse, cioè a calcoli trigonometrici, sapeva che il centro della Luna distava da quello della Terra 384 000 chilometri, circa 60 volte più della mela. Di conseguenza, sulla Luna, la gravità terrestre sarebbe stata 60 × 60 volte (cioè 3600 volte) più debole rispetto a quella «percepita» dalla mela. Ciò significa che la Luna cade molto più lentamente di quel frutto terrestre. Per di più, la Luna non si limita a cadere in verticale verso la Terra come la mela. Sin dalla sua formazione, invece, la Luna avanza a una velocità di quasi 3700 chilometri all’ora. Come una palla di neve lanciata, perciò, dovrebbe seguire la traiettoria che risulta dalla combinazione di questi due moti: quello di avanzamento alla velocità di 3700 chilometri all’ora e quello dovuto all’accelerazione di 0,00272 metri al secondo quadrato diretta verso la fonte della gravità; il risultato è che in un minuto la Luna precipita di circa 4 metri verso la Terra. Ecco la parte divertente. La combinazione di questi due moti dà luogo a una traiettoria tale che la Luna, nella sua caduta, precipita verso la Terra alla stessa identica velocità con cui la superficie terrestre, lontana sotto di essa, si incurva e recede, grazie al moto con cui avanza la Luna. Di conseguenza ogni 27,32166 giorni la Luna completa la propria caduta attorno alla Terra, tornando al punto di partenza. Quando un oggetto viene attirato dalla forza di gravità di un altro più pesante, ma al contempo avanza con velocità sufficiente da percorrere ripetutamente cerchi attorno a esso, possiamo

descrivere la situazione del primo oggetto dicendo che si trova in orbita! A seconda della velocità con cui avanza il primo corpo celeste, della sua distanza dall’altro corpo e dell’intensità della forza gravitazionale (che dipende dalla massa e perciò dal corpo), c’è un numero quasi infinito di orbite possibili che un oggetto può seguire attorno a un altro. Una notevole rivelazione di Newton fu che la Luna avrebbe potuto seguire molte traiettorie possibili attorno alla Terra, proprio come questa avrebbe potuto descrivere un percorso qualsiasi tra il numero enorme di quelli possibili attorno al Sole. Le traiettorie seguite in realtà dalla Luna e dalla Terra sono dovute alla storia passata di ciascuna. Eventi diversi avrebbero portato a orbite diverse, magari diversissime; per esempio, la Terra avrebbe potuto essere troppo vicina al Sole per l’esistenza della vita, o la Luna tanto vicina alla Terra da provocare quotidianamente maree catastrofiche, anch’esse sfavorevoli alla vita.

Figura 2.3 A sinistra: Famiglia di varie traiettorie possibili che la Terra può seguire orbitando attorno al Sole. A destra: Quando il moto di avanzamento e la gravità sono bilanciati con precisione, si ottiene un’altra famiglia di possibili traiettorie che sono circolari. E se si considerano varie distanze tra il Sole e la Terra, risultano orbite concentriche. Valgono le stesse regole per la Luna che orbita attorno alla Terra, per le stelle che orbitano attorno alle loro compagne e per ogni sorta di combinazioni celesti che si osservano ovunque nel cosmo.

Figura 2.4 Altre due famiglie possibili di traiettorie della Terra attorno al Sole:

quelle che partono dalla stessa posizione con velocità in direzioni diverse (a sinistra) e quelle che partono da posizioni diverse con la stessa velocità (a destra).

In ogni caso, le leggi di Newton permettono di calcolare con precisione la traiettoria che seguirà l’oggetto se ne conosciamo il punto di partenza e la velocità (in valore assoluto e direzione); si tratta delle cosiddette condizioni iniziali. Queste leggi sono tuttora usate dalla nasa, dal jpl e dall’esa3 per determinare le traiettorie dei veicoli spaziali, anche se si potrebbe migliorare leggermente la precisione grazie alle equazioni di campo della relatività einsteiniana, molto più complicate. Si usano inoltre le leggi di Newton per calcolare il moto futuro della Terra e della Luna, riuscendo a determinare con precisione le date delle eclissi solari e lunari. Esse consentono infine di stabilire le posizioni future dei pianeti, prevedendo fenomeni come il transito di Mercurio o di Venere davanti al Sole. Ma a prescindere da tutte le applicazioni pratiche delle grandi scoperte di Newton, a noi interessa soprattutto che, almeno in minima parte, spianarono la strada alla meccanica quantistica che sarebbe arrivata varie generazioni dopo. All’epoca di Newton nessuno colse questa possibilità, poiché nel Settecento, nell’Ottocento e persino nel Novecento i fisici non conoscevano affatto l’essenza discontinua insita nella natura. Per capire come la meccanica quantistica affonda le radici nelle leggi che Newton elaborò secoli fa, prima schivando la peste nera che imperversava a Londra e poi rilassandosi sotto un melo nella sua casa di campagna, è meglio iniziare facendo un passo indietro: consideriamo le traiettorie nello spazio che l’oggetto seguirebbe se non subisse l’azione di nessuna forza, come nel caso di un sasso tirato nello spazio vuoto, lontano da qualsiasi stella o pianeta. È semplice. La traiettoria risulterebbe rettilinea, come nella Figura 2.5. In assenza di forze, quindi, il moto dell’oggetto è semplicissimo: esso segue una traiettoria rettilinea con velocità uniforme. Gli esempi della Figura 2.5 rappresentano due famiglie elementari di traiettorie possibili. La prima è formata da traiettorie parallele, che iniziano da posizioni diverse e hanno tutte la stessa velocità. L’altra

famiglia consiste di traiettorie che si allontanano radialmente dalla stessa posizione centrale in varie direzioni.

Figura 2.5 Traiettorie possibili in assenza di forze: velocità fissa e posizione iniziale variabile (a sinistra); posizione iniziale fissa e direzione iniziale variabile (a destra).

Figura 2.6 Onde in uno stagno calmo (a sinistra). Rappresentazione di raggi e fronti d’onda (a destra).

Se ora riprendiamo in considerazione il contributo delle forze, vediamo subito l’influenza che ne risulta sulla traiettoria dell’oggetto, ormai incurvandola; grazie all’azione della forza, il moto sarà accelerato. Ciò vale per ogni oggetto in presenza di una forza qualsiasi, che si tratti di pianeti, astronavi e così via sotto l’influenza della gravità o, come scoperto in seguito, anche di elettroni in presenza di forze elettromagnetiche. Ma torniamo allo spazio vuoto. Risulta che le traiettorie di Newton, in particolare quelle che si allontanano radialmente da un unico punto, illustrate nella parte destra della Figura 2.5, si comportano come i raggi nei fronti d’onda. Che cosa significa? Be’, per capire i fronti d’onda, immaginate uno stagno calmo in cui si tira un ciottolo. Le onde circolari che si propagano verso l’esterno allontanandosi dal punto dell’impatto determinano i cosiddetti fronti d’onda, mostrati nella Figura 2.6. Se tracciamo linee rette

immaginarie ortogonali a questi fronti d’onda circolari, cioè tali da intersecarli ad angolo retto, abbiamo creato i «raggi» mostrati nella parte destra della Figura 2.6. Un secolo dopo Newton, il matematico irlandese William Rowan Hamilton sfruttò questo legame fra traiettorie e fronti d’onda per esprimere il moto della particella come se fosse un’onda. Nacque così la riformulazione delle leggi di Newton nel cosiddetto formalismo di Hamilton-Jacobi, che prende il nome dai progressi di Hamilton e dalle modifiche apportate da Carl Gustav Jacob Jacobi, genio ottocentesco della matematica e primo ebreo in assoluto a diventare professore di matematica in un’università tedesca. Le leggi di Newton e la riformulazione di Hamilton-Jacobi permettono di determinare non soltanto la traiettoria che la particella segue o seguirà in futuro dati i parametri attuali, ma anche come avrebbe potuto muoversi se le condizioni iniziali fossero state diverse. Come vedremo più avanti, ciò è al cuore della meccanica quantistica, perché è tipico della funzione d’onda incorporare queste possibilità alternative. Toccò a pensatori giunti molto dopo affrontare un problema rimasto ignorato: come mai si realizzi soltanto una di quelle possibilità. Proseguendo il ragionamento è inevitabile concludere che senza l’osservatore non può esserci un mondo definito, quello dell’esperienza effettivamente vissuta. Dopotutto è l’osservatore a determinare le condizioni iniziali; più di preciso, la sua coscienza presenta una correlazione quantistica con certe condizioni iniziali invece di altre. Le condizioni iniziali sono quindi strettamente legate alla presenza dell’osservatore, nella cui vita appaiono certe condizioni iniziali invece di altre, corrispondenti a una realtà alternativa. Tra gli esperti sono in corso dibattiti accesi per decidere se attribuire a questi universi alternativi di «avrebbe potuto o dovuto essere così» una vera esistenza o il semplice rango di possibilità. Ma simili universi appaiono spesso sia nella scienza moderna sia nella fantascienza, e molti considerano questi «e se…?» nella vita quotidiana, come nei ricordi dell’autore Robert Lanza:

Ricordo la trentacinquesima riunione di classe del liceo: c’era Vicki, una delle mie più vecchie amiche. Mi rividi davanti immagini di sua madre, morta da tempo, come se fossero eventi di ieri. La madre di Vicki era gentile e modesta. Portava tutori alle gambe per via della poliomielite e, quando la andavo a trovare, faticava a servire il dessert in tavola. Era la madre che avevo sempre desiderato; ripeteva scherzosamente che mi avrebbe adottato. Per via della disabilità trascorreva molto tempo davanti alla televisione, guardando incontri di lotta simulati in cui gli avversari si scaraventano a terra. Ci sembrava buffo che quella donna delicata e fragile guardasse spettacoli così violenti. Conoscendo la madre di Vicki avevo avuto l’idea di lavorare con Jonas Salk dopo l’università (Salk inventò il vaccino che ha contribuito a far scomparire la poliomielite). Quando andai a prendere Vicki pensai che sua madre sarebbe stata felice di sapere che andavamo insieme alla trentacinquesima riunione di classe del liceo. Se fosse stata ancora viva, probabilmente si sarebbe messa a guardare incontri di lotta e ci avrebbe raccontato qualche barzelletta per farci ridere prima che uscissimo per la serata. L’avrebbe resa molto fiera sapere che io e Vicki siamo diventati un medico e un’avvocata. È triste che non abbia potuto vedere questo futuro. Ma a me piace pensare che in qualche altro universo ne abbia avuto la possibilità, che, mentre uscivamo quella sera per andare alla riunione, da qualche parte la madre di Vicki si adagiava sul divano e continuava a guardare l’incontro di lotta. Nel Capitolo 4 riparleremo a lungo delle realtà alternative. Quando ci arriveremo ricordate che questa idea, per quanto sembri modernissima e addirittura consona ai più audaci scenari fantascientifici, è nata invece ai tempi della peste e delle parrucche incipriate, con Newton e la sua mela.



2. I calcoli di Newton con la mela e le realtà alternative

1 Isaac Newton, Scritti di ottica, a c. di Alberto Pala, utet, Torino 1978, p. 598. [N.d.T.] 2 «Dai molti, uno»: è il motto degli Stati Uniti. [N.d.T.] 3  Rispettivamente: National Aeronautics and Space Administration, Jet Propulsion Laboratory e European Space Agency o Agenzia Spaziale Europea. [N.d.T.]

3. La teoria dei quanti cambia tutto

Se ci riuscite, cercate di non chiedervi: «Ma come può essere così?» perché entrerete in un vicolo cieco da cui nessuno è ancora uscito. Nessuno sa come possa essere così.1 Richard Feynman a proposito della meccanica quantistica

Non possiamo giungere alle rivelazioni del biocentrismo senza prima dare uno sguardo alla meccanica quantistica. Lo faremo anche se è un terreno minato, un autentico vespaio. Da una parte, la teoria dei quanti fu un progresso tanto stupefacente nella comprensione del cosmo che anche oggi, dopo un secolo, i fisici chiamano «scienza classica» tutta quella che è venuta prima: si sentono perciò obbligati a distinguere nettamente il prima e il dopo, proprio come l’ampia diffusione del cristianesimo spinse gran parte del mondo a dividere il conteggio del tempo in ciò che è avvenuto prima e dopo la nascita di Cristo. La teoria dei quanti, o tq come la chiameremo d’ora in poi, non solo ha spianato la strada al biocentrismo, ma ha anche portato uno sguardo del tutto nuovo sul mondo, ha riscritto le regole che lo governano e, così facendo, ha rivoluzionato la scienza al punto tale che quasi ogni progresso tecnologico avvenuto da allora deve qualcosa alle sue rivelazioni. Ma il «vespaio» ha numerosi aspetti. Tanto per cominciare, spesso la tq va contro la logica, tanto che Niels Bohr, uno dei suoi fondatori, disse: «Chi non rimane scioccato dal primo incontro con la teoria dei quanti non può assolutamente averla capita».2 Cinquant’anni dopo, il famoso teorico Richard Feynman andò oltre: «Credo di poter dire

con sicurezza che nessuno ancora comprende la meccanica quantistica».3 Il motivo non era la difficoltà delle equazioni o dei calcoli: il problema erano i concetti stessi. Feynman si limitava a esprimere il fatto che già un semplice tentativo di addentrarsi nella tq imponeva di rinunciare a ipotesi elementari sulla realtà. Ecco un esempio. Se si spara un fotone verso un sensore, questo ne rileverà l’arrivo senza problemi. Ma proviamo invece a inserire sul percorso un divisore di fascio o uno specchio semiriflettente: il fotone può così arrivare al sensore percorrendo due cammini possibili, che chiameremo A e B. Be’, altri rivelatori posti lungo il percorso mostrano che, prima di giungere a destinazione, il fotone non ha seguito né il cammino A né il cammino B. Non si è neppure sdoppiato in qualche modo per seguire entrambi i cammini, né è arrivato evitando sia l’uno sia l’altro. Chissà come, ha aggirato tutte le opzioni. Queste sono le sole possibilità ammesse dalla nostra logica. Se si dà credito al mondo razionale, i fotoni devono aver realizzato una di queste quattro possibilità, perché non ce ne sono altre. Eppure, per quanto sia incredibile, il fotone ha comunque fatto qualcos’altro, una cosa diversa sia da A, sia da B, sia da entrambi sia da nessuna delle due opzioni. I fisici sono ormai abituati a questo genere di comportamenti illogici, a oggetti che evadono le scelte imposte dal buon senso, e hanno trovato persino un’espressione per definirle: dicono che lo stato del fotone corrispondeva a una sovrapposizione di stati, cioè che era libero di usufruire al contempo di tutte e quattro le possibilità, benché ci paia che si escludano a vicenda. Oltre a queste apparenti impossibilità, va notato che le nostre osservazioni, o già solo la conoscenza nella nostra mente, modifica il comportamento degli oggetti fisici. Questa fu la prima indicazione valida che il ruolo dell’osservatore potesse andare oltre quello di semplice spettatore dello spettacolo della natura. E il «vespaio» della tq non finisce qui. Poiché i fenomeni quantistici sembrano avvenire istantaneamente, e non richiedono un

tempo di propagazione (neanche alla velocità della luce) perché gli effetti si diffondano da un punto all’altro, i tentativi di spiegarli evocano inevitabilmente l’idea di una connessione di tutto l’universo. Le conseguenze, che sembrano negare il tempo e la distanza, ricordano gli insegnamenti mistici dell’induismo e del buddismo. Molti ne hanno concluso che ormai la scienza e la religione si sono fuse e sono in accordo sugli aspetti fondamentali del cosmo. Benché tali riflessioni filosofiche o metafisiche non siano fuori luogo né sbagliate in sé, moltissimi documentari televisivi, libri, film e articoli mostrano di aver gravemente frainteso la tq: in breve, spesso non ci capiscono nulla. Facciamo solo un esempio. L’unità della tq era il tema centrale in un film del 2004, What the Bleep Do We Know!?,4 che incassò 10,6 milioni di dollari al botteghino. Il film presentava interviste a esperti della teoria dei quanti, che in alcuni casi espressero sciocchezze prive di qualsiasi legame con la teoria autentica. Per esempio, secondo uno di loro la tq direbbe che ciascuno può determinare ogni aspetto del proprio futuro. In realtà è vero il contrario: nella tq, ogni «previsione» degli eventi futuri è probabilistica e quindi strettamente statistica. Nessuno può controllare in maniera conscia gli eventi fisici esterni che lo riguardano, cioè quelli che per loro natura sono al di fuori della volontà umana (per esempio un macigno che rotola giù per una collina fino a schiacciare l’automobile che si sta guidando), proprio come non può controllare se al prossimo lancio della moneta uscirà testa o croce. Data l’importanza della teoria dei quanti per la nostra storia, e il fatto che la difficoltà a capire le sue bizzarrie ha dato luogo a sciocchezze numerose e diffusissime, sarà bene spendere qualche pagina per descrivere come è nata e si è evoluta, perché è riuscita a spiegare aspetti della natura in precedenza sconcertanti, e come ci ha spinti verso le nuove scoperte che vedremo nel seguito del libro. Tutto è iniziato con la luce, cioè con la radiazione emessa da oggetti caldi.5 Se si esamina lo spettro emesso da un oggetto caldo, si possono separare le diverse lunghezze d’onda dell’energia, che includeranno forse colori visibili come quelli mostrati da un

attizzatoio di ferro arroventato, ma anche radiazioni invisibili come gli infrarossi. Secondo le proprietà delle onde che formano la luce di varie frequenze e le leggi della fisica classica che governano la suddivisione dell’energia termica, ogni oggetto caldo dovrebbe emettere una certa quantità di luce rossa e infrarossa, poco energetica, una quantità maggiore di luce verde, più energetica, e una quantità quasi infinita di luce con piccola lunghezza d’onda e grande energia, nella gamma del viola e soprattutto degli ultravioletti. Ma non è ciò che succede in realtà. Viene invece emessa la quantità massima di luce a una certa lunghezza d’onda, il cui colore preciso dipende soltanto dalla temperatura dell’oggetto. La fisica classica non riusciva a spiegare questa osservazione. Nel 1900 il fisico tedesco Max Planck riuscì a riconciliare i calcoli con i risultati sperimentali grazie all’ipotesi che gli atomi dell’oggetto luminoso assorbissero ed emettessero luce di varie frequenze soltanto in multipli di una certa unità fondamentale. Così nacque il concetto di «quanto» (cioè quantità specifica; «quanto» è un termine di origine latina) di energia, prima grande pietra miliare della teoria dei quanti. Nel 1913 Niels Bohr usò l’idea dei «quanti discreti» per spiegare come mai gli atomi continuassero a esistere, mentre secondo la fisica classica avrebbero dovuto autodistruggersi tutti. In particolare, il fisico danese fece notare che, secondo le leggi classiche, gli elettroni che percorrono orbite circolari avrebbero dovuto emettere onde elettromagnetiche ogni milionesimo di milionesimo di secondo. Presto avrebbero perso tanta energia da precipitare sul nucleo atomico (formato da un solo protone nel caso dell’atomo di idrogeno) lungo una traiettoria a spirale. Ma ciò non avviene, ed è una fortuna perché ci permette di continuare a esistere come corpi umani su un pianeta stabile. Ricorderete forse dai tempi del liceo che nell’atomo viene emessa luce quando un elettrone che orbita attorno al nucleo fa un salto o una caduta verso di esso, liberando un po’ di energia nello spostamento verso un’orbita più interna. Spesso si cerca di visualizzare il fenomeno tramite l’analogia con i pianeti in orbita attorno al Sole. Se d’un tratto la Terra acquisisse più energia,

potrebbe usarla per sfuggire in parte alla gravità solare e spostarsi su un’orbita più lunga. A seconda dell’entità di questa energia «aggiuntiva», la nuova orbita potrebbe distare dal Sole appena qualche chilometro in più di quella attuale. Oppure potrebbe trovarsi un milione di chilometri più lontano, o dieci milioni di chilometri, o a qualsiasi valore intermedio della distanza. Si supponeva che valesse altrettanto per gli elettroni. Ma basandosi sull’innovazione dei quanti dovuta a Planck, Bohr ipotizzò che gli elettroni potessero trovarsi soltanto su certe orbite, a distanze fisse dal nucleo, che formavano un insieme discreto. Immaginò che all’elettrone fosse «permesso» di trovarsi soltanto a una certa distanza dal nucleo atomico, o a un’altra, ma non a qualsiasi valore intermedio.6 Se l’elettrone era colpito da una certa quantità di energia, saltava a un’orbita più esterna, ma il salto doveva essere specifico. E per compierlo poteva assorbire una certa quantità (o quanto) di energia, ma non un po’ di più o di meno. Quella quantità di energia era così sottratta alla fonte e avrebbe lasciato uno spazio vuoto nel suo spettro, una lacuna rivelatrice. L’elettrone che aveva ricevuto quell’energia poteva in seguito restituirla cadendo verso l’orbitale subito inferiore, emettendo al contempo una precisa quantità di energia, e quindi luce di un colore ben preciso. Le quantità discrete (quanti) di energia erano specificate tramite h, detta costante di Planck. E tutti i «salti» di energia dovevano essere multipli di questa costante. L’unità di energia definita da Planck non è arbitraria: è una costante osservata in tutto il cosmo. Planck stesso ne determinò il valore con precisione grazie a osservazioni ed esperimenti. Essa diventò una nuova unità fondamentale della fisica.7 Ma al contempo parve subito una cosa stranissima. Immaginate che i corpi celesti si comportassero in modo simile: la Luna potrebbe orbitare attorno alla Terra alla distanza attuale, o a una distanza doppia o tripla, ma non a distanze intermedie; non a causa dell’influenza di altri pianeti o oggetti, ma… perché sì. Ora immaginate che salti tra l’una e l’altra di queste orbite in un tempo

nullo, e senza mai attraversare lo spazio intermedio. Eppure gli elettroni si comportano proprio così: fanno salti discreti che in qualche modo evitano qualsiasi transizione nello spazio e durante i quali non trascorre del tempo. Certo, era diventato possibile spiegare lo spettro degli oggetti caldi e l’esistenza prolungata degli atomi. Ma la nuova spiegazione aveva un costo: andava contro la razionalità e l’esperienza precedente, e perfino Planck faticava ad accettarla. Anni dopo ammise: «Una nuova verità scientifica non trionfa perché i suoi oppositori si convincono e vedono la luce, quanto piuttosto perché alla fine muoiono, e nasce una nuova generazione a cui i nuovi concetti diventano familiari».8 Il quanto definito nel 1900 da Planck cambiò tutto, ed era solo l’inizio. Appena cinque anni dopo, nel 1905, Einstein applicò il principio dei quanti alla sostanza stessa della luce. In breve disse che la luce, di cui era nota da molto tempo la natura ondulatoria, è anche composta di grumi o pacchetti discreti di energia: essenzialmente particelle di luce, dette fotoni. Questa natura particellare fu confermata del tutto nel 1922 quando si dimostrò che la diffusione della luce, fenomeno che rende azzurro il cielo, poteva essere causata soltanto da un comportamento della luce non ondulatorio, ma particellare. Nel 1924, poi, il fisico francese Louis de Broglie usò le leggi quantistiche esistenti per mostrare che l’aspetto ondulatorio e anche particellare non era limitato alla luce. Ogni particella nell’universo è al contempo un’onda e mostra la stessa natura duale. De Broglie si basò sulle ricerche di Planck e Einstein per elaborare una formula che descrivesse la lunghezza d’onda e l’energia di oggetti di varie dimensioni. Appena due anni dopo, esperimenti di diffrazione sui cristalli dimostrarono la sua conclusione che tutte le particelle (come gli elettroni) hanno anche una natura ondulatoria. Purtroppo (o fortunatamente, per chi ama le scoperte strane e impreviste), le rivelazioni bizzarre si susseguivano: sembrava che la scienza stesse attraversando una serie di specchi come quelli del Paese delle meraviglie. Ogni problema da risolvere era logico, ma le

soluzioni non lo erano affatto. Negli anni venti, perciò, i fisici erano sbalorditi ed entusiasti di attraversare queste soglie nuove e strane che conducevano a nuovi progressi nella comprensione della natura. Si trovarono così a dover affrontare di nuovo argomenti che sembravano assodati, come la determinazione di dove si trova una qualsiasi particella o lampo di luce. Sembra un problema abbastanza semplice. Se un oggetto che è un’onda (cosa quindi valida per tutto nel cosmo) deve anche possedere una natura particellare, risulta indiscutibile che, come tutte le particelle, debba anche avere una posizione a ogni dato istante. Deve trovarsi in un certo punto e in nessun altro. Ma come determinare se sta qui o lì? Gli scienziati pensavano che se un atomo è un gruppo di onde, esaminando come queste interferiscono si dovrebbero poter individuare risonanze, punti dove le singole onde non si annullano a vicenda ma si rinforzano. Ciò fornisce una «distribuzione» statistica dei punti in cui è più probabile trovare una data particella. Tutte le previsioni del genere si rivelarono presto esatte. Ma «punti in cui è più probabile trovarla» era il meglio che riuscissero a fare. Nel 1927, poi, Werner Heisenberg formulò l’ormai celebre principio di indeterminazione, che spiega matematicamente come mai qualsiasi oggetto con natura ondulatoria (cioè ogni cosa, ma in particolare gli oggetti minuscoli) presenta insite limitazioni alle nostre possibilità di sapere dove sta e come si muove. Non è soltanto che l’osservatore contamina o influenza ciò che vede, benché all’inizio e anche per decenni molti interpretarono così il problema dell’indeterminazione, né che una tale incertezza è provocata da ogni interazione tra un oggetto classico e uno di dimensioni quantistiche; si tratta invece di un attributo inerente delle onde. Questa incertezza si applica a tutte le coppie di grandezze legate in un certo modo. In ultima analisi, maggiore è la precisione con cui conosciamo il moto dell’oggetto, minore è quella con cui possiamo sapere dove si trova in ogni dato istante.9 Questo fatto ha conseguenze notevoli. Ricordate che Niels Bohr usò un modello quantistico dell’atomo per spiegare perché gli elettroni non precipitassero sul nucleo, come avrebbero dovuto fare

secondo la fisica classica. Be’, il principio di indeterminazione di Heisenberg proponeva un’altra spiegazione. Se l’elettrone fosse caduto nel nucleo, avremmo saputo a quel punto che il suo moto era nullo, e avremmo anche saputo dove si trovava: proprio al centro dell’atomo! Ma siccome il principio di Heisenberg vieta di conoscere precisamente la posizione e la quantità di moto,10 si tratta di un evento che non può proprio accadere. E non accade! Abbiamo visto che nei primi trent’anni del Novecento fisici lungimiranti come Max Planck, Albert Einstein, Louis de Broglie, Niels Bohr e Werner Heisenberg, presto seguiti da figure come Erwin Schrödinger e Paul Dirac, crearono modelli matematici di inaudita efficacia predittiva che spiegavano le sconcertanti stranezze della natura e mostravano il funzionamento delle cose alle scale più piccole, quelle che comprendono il livello cellulare dell’universo. E presto tutti costoro vinsero il Nobel per le loro fatiche. Usarono metodi statistici e scoprirono stupefacenti «costanti», segno che la natura funziona in maniera diversa a livello submicroscopico o nel mondo macroscopico visibile agli occhi umani. Chiamiamo «teoria dei quanti» o «meccanica quantistica» la collezione delle loro ricerche. Nonostante la si possa chiamare «teoria», la tq ha superato ogni verifica sperimentale cui è stata sottoposta.

Figura 3.1 Il nostro desiderio di raffigurare il nucleo atomico e gli elettroni che lo circondano, per quanto comprensibile, è purtroppo inconciliabile con la realtà. Per descrivere la posizione dell’elettrone si usa il termine «orbitale», che evoca giri attorno al nucleo dell’atomo simili a orbite dei pianeti attorno al Sole. Ma in realtà

l’elettrone non segue nessuna orbita: bisogna immaginare che è più probabile un certo valore della sua distanza dal nucleo, in qualche parte di un guscio sferico. In un qualsiasi istante è impossibile individuare con precisione dove si trova su quel guscio. Se si rappresentano graficamente le probabilità associate alla posizione dell’elettrone, le zone scure corrispondono ai valori più alti, mentre è improbabile trovarlo nelle zone bianche.

Ha anche formulato varie previsioni specifiche dall’aria decisamente impossibile: proprio queste rappresentano il maggior collegamento tra la teoria dei quanti e il biocentrismo in generale, e gli ultimi perfezionamenti che vi abbiamo apportato in particolare. Una di queste previsioni ha a che fare con il fenomeno che ha preso il nome di correlazione quantistica o entanglement. Nel 1935 Einstein e due altri fisici, Nathan Rosen e Boris Podolsky, formularono una curiosa previsione quantistica su particelle o quanti di luce creati insieme: si dice che sono «correlati». Si può per esempio sparare un fotone su un cristallo di beta-borato di bario: emergeranno due fotoni, ciascuno dei quali ha una lunghezza d’onda doppia rispetto al fotone iniziale, cioè metà dell’energia, così che in complesso l’energia in uscita è uguale a quella in entrata, come impongono le leggi della fisica, quantistica o meno. La cosa curiosa è che, secondo la tq, ciascuno di questi fotoni ora correlati, benché si allontani alla velocità della luce fino a distanze enormi dall’altro, deve sempre in qualche modo «sapere» che cosa esso fa, e «reagire» con un fenomeno complementare. Per esempio, se si osserva che le onde di un fotone vibrano in direzione orizzontale, il gemello lo saprebbe e mostrerebbe la proprietà complementare, in questo caso la polarizzazione verticale. Secondo la teoria dei quanti, per di più, la «conoscenza» è istantanea anche se la distanza tra i due è dell’ordine degli anni luce. A sua volta, ciò manderebbe all’aria la regola apparentemente inflessibile scoperta da Einstein stesso, secondo cui nulla nell’universo può superare la velocità della luce. Era eccessivo accettare tutto ciò: per questo Einstein, Podolsky e Rosen ipotizzarono che tali comportamenti simultanei fossero causati da effetti locali ignoti, come una forza ancora da scoprire o qualcosa che disturbava l’esperimento, invece che una sorta di

«inquietante azione a distanza», secondo la loro espressione sprezzante. Questa previsione sollevava un secondo fatto preoccupante. Perché la sola osservazione del primo fotone dovrebbe dar luogo a un comportamento pur che sia? Che differenza fa se qualcuno dà uno sguardo a quel po’ di luce? Non ha certe proprietà (per esempio di polarizzazione) a prescindere se viene osservato o no? Sconcertati, i fisici del primo Novecento si accorsero che la risposta era: «Non proprio». Di fatto, secondo la tq, prima dell’osservazione particelle e lampi di luce esistono soltanto come una sorta di mucchietto di energia e possibilità vaghe, dotato di certe probabilità matematiche di essere una data cosa e certe probabilità di esserne un’altra. Di fatto, quando lo si osserva, un gruppo di particelle o fotoni si materializza secondo le proprie probabilità matematiche, spogliandosi della vaga natura ondulatoria per manifestarsi come oggetti discreti che si comportano come onde o particelle, a seconda dell’esperimento usato per rivelarli. Questa previsione faceva pensare che la realtà non fosse definita ma probabilistica, come un gioco d’azzardo; Einstein la detestava e giunse a commentare con scherno: «[Dio] non gioca a dadi!».11 Secondo molti «non si può ricavare qualcosa dal nulla» e ancora oggi si chiedono naturalmente che cosa sia in realtà questo «mucchietto di possibilità» ancora non realizzate: che cosa c’era prima che il protone o l’elettrone acquisissero all’improvviso un’esistenza vera e propria? L’espressione usata in passato e tuttora per definire questa «preesistenza» è che essi hanno o sono una «funzione d’onda». (Come vedremo, la cosa è subito un po’ dubbia, perché secondo molte indicazioni il fotone o la particella neanche esistevano prima dell’osservazione; essenzialmente stiamo cercando di etichettare una cosa che non esiste.) Quando un oggetto si materializza, lo fa secondo le probabilità descritte da questa funzione d’onda, che si può concepire semplicemente come una probabilità matematica. Ma la «probabilità» è una cosa reale, o soltanto un concetto umano usato per descrivere il fenomeno? Nel

prossimo capitolo parleremo a lungo di funzioni d’onda, ma basta sfogliare qualsiasi manuale moderno di fisica quantistica per accorgersi che l’etichetta rimane tuttora vaga e misteriosa, tanto che i fisici stessi non sono sicuri di che cosa sia davvero una funzione d’onda: un vero e proprio oggetto dotato di energia? Una sorta di fantomatica entità probabilistica? Sembra certa almeno una cosa: in seguito all’osservazione, la funzione d’onda dell’oggetto «collassa» (per usare il termine in voga da oltre cinquant’anni); questa è semplicemente una maniera di dire che l’oggetto diventa allora un’entità specifica con vere caratteristiche fisiche e, a partire da quel momento, continuerà indefinitamente a esistere. Il «collasso della funzione d’onda» è quindi il momento di nascita degli oggetti materiali. A quel punto, se si tratta di un elettrone, si può osservare per esempio che ha uno spin verticale. Se è un fotone, si può rilevare che ha una polarizzazione orizzontale, cioè la componente elettrica delle sue onde oscilla da un lato all’altro invece che su e giù. Il fatto importante è che, in seguito all’osservazione, l’oggetto presenta caratteristiche fisiche definite che non sono transitorie, ma permangono finché esso non viene disturbato da altre interazioni. Ma torniamo alla correlazione quantistica. La previsione sul comportamento delle particelle correlate si basa sul fatto che le «gemelle» create a partire da una sola particella avrebbero la funzione d’onda in comune. I due fotoni possono volare via alla velocità della luce e condurre vite indipendenti, magari per milioni di anni. Ma se uno viene osservato e, per esempio, mostra una polarizzazione verticale, il fotone lontano (o mucchietto di funzione d’onda o comunque lo si visualizzi) «sa» all’istante che il suo gemello è stato osservato, e anche esso collassa in un fotone con proprietà perfettamente complementari, in questo caso la polarizzazione orizzontale. I due formano una coppia che combacia. «Impossibile!» dissero Einstein, Podolsky e Rosen. Pensavano che questa previsione rivelasse un difetto della teoria dei quanti. Continuarono a studiare la correlazione in maniera tanto approfondita (e con tanto sdegno) che da allora il fenomeno ha

preso il nome di «correlazione epr», in base all’acronimo dei loro cognomi. Ma gli esperimenti svolti fin da allora per chiarire le sconcertanti previsioni sulla correlazione hanno dato torto a Einstein. In particolare citiamo quelli affascinanti ma non molto decisivi compiuti nel 1972 da Stuart Freedman e John Clauser, e nei primi anni ottanta da Vittorio Rapisarda e Alain Aspect; nel 1997, infine, un ricercatore dell’Università di Ginevra di nome Nicolas Gisin riuscì a dimostrare in maniera convincente l’esistenza del fenomeno. Creò fotoni correlati a coppie e li fece allontanare lungo fibre ottiche. Quando uno dei due incontrava uno specchio ed era obbligato a scegliere in maniera casuale la direzione da seguire, il gemello correlato, distante oltre 10 chilometri, compiva sempre all’istante la scelta complementare. È chiaramente affascinante che, come mostrato dagli esperimenti, il fotone può «decidere» che cosa essere o come agire in base al comportamento di un altro fotone lontanissimo. Ma uno degli aspetti senz’altro più notevoli dell’esperimento era l’espressione «all’istante». Ricordate che una delle critiche principali di Einstein e colleghi alla possibilità di questo fenomeno era che nulla può superare la velocità della luce. Persino quando i buchi neri si scontrano creando strabilianti increspature gravitazionali che si propagano nel cosmo, l’effetto è strettamente limitato a questo limite inviolabile di velocità, pari a circa 300 000 chilometri al secondo. Il limite non sembrava però valere nel laboratorio di Gisin. Nel 1997 la reazione dei gemelli correlati non era ritardata dal tempo che la luce avrebbe impiegato a percorrere gli oltre 10 chilometri che li separavano: si verificava almeno diecimila volte più velocemente, fattore che corrispondeva ai limiti della strumentazione usata. Si può supporre che il comportamento «a specchio» fosse simultaneo. L’accumulo di indizi sperimentali a favore della correlazione quantistica era tanto strano che altri fisici furono spinti alla frenetica ricerca di punti deboli; alcuni sostennero che gli esperimenti passati avessero introdotto una distorsione, per esempio una maggiore probabilità di rilevare eventi collegati relativi alle particelle. Queste

critiche furono messe a tacere nel 2001 quando, come riferì la rivista Nature, David Wineland chiuse la questione: con ioni di berillio e un rivelatore di altissima efficienza, questo ricercatore del National Institute of Standards and Technology osservò un’alta percentuale di eventi sincronizzati. Questo comportamento fantastico è quindi reale. Ma come è possibile? Quell’anno Wineland, che dieci anni dopo vinse il Nobel per la fisica, disse a uno degli autori: «Be’, immagino che esista davvero una sorta di inquietante azione a distanza». Naturalmente, come sapeva bene anche lui, ciò non spiega nulla. Riassumiamo: all’inizio le particelle e i fotoni (la materia e l’energia) sono entità statistiche, vaghe, probabilistiche, «funzioni d’onda» non del tutto reali, ma quando li osserviamo diventano oggetti effettivi. E possono trasmettere informazioni sullo stato appena acquisito attraverso tutto il cosmo, in modo che un «gemello» correlato assuma all’istante le proprietà complementari. O forse non è questo che succede. Forse nessuna entità «invia» informazioni, né ce n’è un’altra che le riceve: forse iniziano invece a esistere in simultanea quando l’una o l’altra viene osservata. Quali che siano i dettagli, la nostra logica fatica a tenere il passo. Ecco alcune conseguenze: a. Non esiste né lo spazio né il tempo. Perché se lo spazio avesse una qualche realtà, di certo attraversarlo richiederebbe tempo, anche se pochissimo. b. Il cosmo presenta un certo tipo di unità, una connessione al di fuori dello spazio e del tempo. c. In qualche modo l’atto di osservare è fondamentale per l’esistenza della realtà. Non c’è dubbio che, inquietante o meno, la correlazione esiste nel mondo quantistico. Ma è un altro paio di maniche stabilire se le leggi della meccanica quantistica siano «estendibili» agli oggetti macroscopici attorno a noi e, in caso positivo, come rilevarlo; i ricercatori ci riflettono da decenni. Nel 2011 un gruppo internazionale di scienziati appartenenti all’Università di Oxford, alla National University of Singapore e al National Research Council canadese ha

ideato un esperimento per verificare l’estensione del concetto di correlazione quantistica al mondo quotidiano. Si sono concentrati su una coppia di cristalli di diamante larghi 3 millimetri, grosso modo come quelli in un bel paio di orecchini: oggetti simili non sono neanche microscopici, ancor meno subatomici. Gli scienziati hanno fatto vibrare uno dei diamanti creando un fonone (unità di energia vibrazionale). Data la struttura dell’esperimento, non era possibile sapere se il fonone era stato fatto vibrare nel diamante di destra o di sinistra. Per stabilirlo i ricercatori hanno usato impulsi laser che hanno mostrato che esso proveniva da entrambi i diamanti, invece che dall’uno o dall’altro. I diamanti erano correlati! A quanto pare avevano un fonone in comune, benché fossero separati da una distanza di circa 15 centimetri. Nel 2018 un articolo su Scientific American ha riesumato la questione: «Gli scienziati si sono chiesti dove fosse esattamente il confine tra il mondo microscopico e macroscopico […] la grande domanda è se gli effetti quantistici svolgano un ruolo nel funzionamento delle cose viventi». L’articolo esaminava un risultato del 2017 ottenuto da un gruppo dell’Università di Oxford e pubblicato nella rivista Journal of Physics Communications. Studiando la fotosintesi con i microbi, il gruppo di Oxford sostiene di aver realizzato per la prima volta la correlazione di batteri e fotoni (cioè particelle di luce). Sotto la direzione della fisica Chiara Marletto, hanno studiato un esperimento svolto nel 2016 da David Coles e colleghi dell’Università di Sheffield, in cui varie centinaia di batteri fotosintetici erano isolati e confinati tra due specchi. Facendo rimbalzare la luce tra gli specchi si provocava un accoppiamento o connessione tra le molecole fotosintetiche in sei batteri. In questo caso i batteri assorbivano, emettevano e riassorbivano di continuo i fotoni che rimbalzavano, mostrando un comportamento simultaneo di tipo mai visto nella scienza classica. In breve, la scienza odierna ha trasportato le attività bizzarre del mondo quantistico, scoperte un secolo fa, nel mondo macroscopico e biologico. Il nostro mondo! Ora capite perché era necessario ripercorrere la teoria dei quanti. Oltre a rappresentare un grande progresso nella conoscenza

umana, essa ha gettato le basi grazie a cui teorici successivi sono andati ancora oltre: dal mondo quantistico al nostro e, come vedremo, dal nostro alla possibilità di molti altri.





3. La teoria dei quanti cambia tutto 1  Richard Feynman,  La legge fisica, trad. it. di Luigi Radicati di Brozolo, Boringhieri, Torino 1971, p. 146. [N.d.T.] 2  Niels Bohr,  The Philosophical Writings of Niels Bohr, Ox Bow Press, Woodbridge 1987. [N.d.T.] 3 Richard Feynman, op. cit., p. 146. [N.d.T.] 4 «Che accidenti sappiamo!?» [N.d.T.] 5  In realtà gli studi riguardavano le proprietà della «radiazione di corpo nero». Nella vita reale un oggetto illuminato da qualcos’altro, come la superficie di un pianeta immersa nella luce solare, rifletterà una parte dell’energia ricevuta: la percentuale di riflessione è chiamata  albedo  dell’oggetto e dipende da quanto è scura la superficie, se è liscia o ruvida e da altri fattori. Alcuni oggetti, come i chicchi di grandine, possono anche trasmettere una frazione dell’energia, che li attraversa da parte a parte. Ma il corpo nero è un oggetto teorico che non riflette nulla e assorbe tutto, a prescindere dall’angolazione con cui arriva l’energia o dalla frequenza delle onde che la trasportano. Emetterà l’energia ricevuta per irraggiamento in una maniera ben specifica che dipende soltanto dalla sua temperatura. A cavallo tra Ottocento e Novecento il problema era che le previsioni della fisica classica sulla natura di questa radiazione emessa dal corpo nero risultarono del tutto sbagliate; era una forte indicazione della necessità di notevoli modifiche da apportare alla fisica. 6  Questa scoperta ha consentito tra l’altro di determinare infine le dimensioni dell’atomo di idrogeno: il suo diametro vale 0,0529 nanometri, ovvero circa mezzo angstrom. 7 Questa costante vale h = 6,6261 × 10-34 J × s, dove J è il joule, unità di misura standard dell’energia. In pratica, poiché nelle equazioni h capita spesso diviso per 2 pi greco, i fisici usano in genere questa combinazione e lo indicano come «h  tagliato». Spesso moltiplicano  h  tagliato per la frequenza angolare dei raggi luminosi di un certo colore. Il prodotto «htagliato per la frequenza angolare» è uguale all’energia di un certo «pacchetto» o quantità discreta che presto Einstein avrebbe chiamato fotone, riconoscendo l’aspetto particellare della luce! Tutto iniziava a combaciare! 8 Max Planck, Autobiografia scientifica e ultimi saggi, trad. it. di Augusto Gamba, Einaudi, Torino 1956, p. 22. [N.d.T.] 9 Una semplice spiegazione biocentrica di questa incertezza si trova in entrambi i libri precedenti sul biocentrismo. 10 Grandezza legata alla velocità della particella. [N.d.T.]

11  Albert Einstein a Max Born, 4 dicembre 1926, in Albert Einstein e Max Born,  Scienza e vita: lettere 1916-1955, trad. it. di Giuseppe Scattone, Einaudi, Torino 1973, pp. 108-109. [N.d.T.]

4. Indizi di immortalità

Lo studio stesso del mondo esterno ha portato alla conclusione che il contenuto della coscienza è dotato di realtà fondamentale.1 Eugene Wigner

Da Newton alla nascita della teoria dei quanti, abbiamo esaminato le radici dell’ipotesi centrale del biocentrismo: noi, in quanto osservatori, creiamo la realtà. È giunta l’ora di approfondire che cosa significa davvero e come ciò avviene. Allo scopo dobbiamo esaminare più da vicino un concetto essenziale del capitolo precedente, il momento in cui il possibile diventa effettivo: il collasso della funzione d’onda. Abbiamo visto che la meccanica quantistica descrive il moto delle particelle in termini della funzione d’onda, che esprime la preesistenza vaga e ancora indefinita di tutte le entità quantistiche, che si tratti di particelle di materia o fotoni di luce. Poiché questo termine è importante, nonostante abbia ormai lasciato perplesse quattro generazioni di profani che cercavano di capirlo a fondo, inizieremo spezzandolo a metà per accertarci di chiarire il significato sia di «funzione» sia di «onda». Nella forma più semplice, l’onda è una perturbazione in un supporto come l’aria o l’acqua, in cui l’energia si propaga da un punto a un altro. Si possono distinguere i tipi di onda in base al modo di propagazione: su e giù come le onde dell’oceano, o da un lato all’altro come una corda agitata in orizzontale. In alternativa, si possono classificare le onde in base al mezzo in cui si propagano. Nei liquidi e nei gas possono verificarsi solo onde longitudinali (che

oscillano lungo la direzione di moto), mentre occorrono materiali solidi per quelle trasversali (che oscillano perpendicolarmente alla direzione di moto). Riparleremo di onde in seguito, ma per ora concentriamoci sull’altra metà dell’espressione «funzione d’onda» definendo che cos’è una funzione. Facile: la funzione è un modo matematico di esprimere una relazione. Considerate per esempio il grafico ben noto che mostra come varia la temperatura atmosferica con il tempo: è abbastanza semplice da interpretare e indica, per esempio, che nel pomeriggio la temperatura sarà probabilmente maggiore che di mattina. Ma la temperatura dipende anche dal luogo: varia con la zona, ed è quindi una funzione della posizione. Vale altrettanto per l’altezza della superficie di uno stagno increspato, che pure varia da un punto all’altro. I matematici usano la formula «y = senx» per descrivere l’aspetto in un momento dato dell’onda creata lanciando un sasso nello stagno. Ma poiché questa forma si muove di continuo lungo la superficie dell’acqua, che potremmo «rappresentare graficamente» o visualizzare come l’asse x, torna utile inserire il tempo nella descrizione, scrivendo «y = sen (x – t)». Non preoccupatevi per questa equazione: basta osservare che la funzione d’onda è la rappresentazione matematica di un’onda, e può descrivere il moto. In altri termini, non specifica soltanto l’aspetto dell’onda in un dato istante, ma anche i suoi cambiamenti nel tempo. Tutto ciò ci interessa perché l’universo è composto di innumerevoli particelle che, come abbiamo visto, hanno una «natura ondulatoria». Più di preciso, nell’universo il numero di particelle subatomiche come gli elettroni è pari a 10 seguito da 84 zeri. Ci sono poi i fotoni, piccole quantità di luce che possiamo concepire come quantità di energia corrispondenti. Nel cosmo i fotoni sono circa un miliardo di volte le particelle subatomiche «solide» come gli elettroni. E tutti questi numerosi oggetti puntiformi, che siano elettroni o fotoni, si muovono in maniere descrivibili tramite la funzione d’onda! Se perciò vogliamo sapere che cosa succede, dove sta un qualsiasi oggetto o come si muove, non possiamo fare a meno delle onde. Ricorderete forse dal Capitolo 2 che si può rappresentare il moto di un oggetto (come un elettrone) tramite un raggio rettilineo

perpendicolare al «fronte» dell’onda che si propaga, cioè che forma angoli retti con la curva in espansione di questo fronte. L’espressione abbastanza complicata che descrive questo tipo di movimento è la funzione d’onda, che in meccanica quantistica ha un proprio simbolo, la lettera greca minuscola psi (ψ). La funzione d’onda di una particella quantistica descrive un’onda come quella che increspa l’acqua nella figura qui sopra, e i raggi che si muovono perpendicolarmente ai fronti d’onda sono possibili traiettorie della particella.

Figura 4.1 Onde create da una goccia d’acqua (a sinistra). Raffigurazione di raggi e fronti d’onda (a destra). Nell’esempio dell’oggetto lasciato cadere nell’acqua, le onde circolari che si propagano verso l’esterno a partire dal punto di impatto determinano i cosiddetti «fronti d’onda».

La funzione d’onda di un oggetto come un elettrone descrive la probabilità di osservarlo in un certo punto; essenzialmente, è tutto ciò che potremo mai sapere sull’oggetto. In pratica, al contrario degli oggetti macroscopici che possiamo vedere e che hanno traiettorie ben definite, nel caso della miriade di particelle minuscole che formano l’universo si può specificare il moto futuro soltanto come probabilità. Così, nonostante i nostri sforzi, l’equazione della funzione d’onda non può rivelare con esattezza dove si trova l’elettrone o come si muove. Fornisce invece le probabilità per questi

parametri, cosa che abbiamo imparato ad accettare come «sufficiente». La funzione d’onda contiene quindi informazioni, per quanto vaghe, sulla posizione possibile della particella. Ma in realtà non tutte le posizioni possibili rientreranno nella nostra esperienza. Se la particella non è osservata, la sua funzione d’onda può allargarsi su una vasta gamma di posizioni possibili, ma dopo l’osservazione la funzione d’onda perde tutta questa libertà e, automaticamente, si concentra in uno spazio ristretto attorno a una posizione specifica; dopotutto, l’abbiamo appena vista. Il passaggio da una funzione d’onda «ampia» a una «ristretta» è detto collasso della funzione d’onda. E questo vero e proprio momento «eureka» nella vita della particella o di un quanto di luce, la sua nascita, avviene quando abbandona le sue proprietà strane e illogiche per assumere le vesti di un unico oggetto che si comporta bene e non è più misterioso di un panino al formaggio. Ricordate che a Quantolandia, regno delle cose minuscole, una particella come un elettrone esiste nella cosiddetta sovrapposizione di stati. Ciò significa che fa ogni cosa possibile allo stesso tempo. Si trova in contemporanea sull’autostrada A, sull’autostrada B, su entrambe e su nessuna delle due. L’elettrone in una sovrapposizione va immaginato come se avesse vari stati contraddittori in simultanea, come uno spin sia all’insù sia all’ingiù. In realtà gli orientamenti possibili dello spin, per esempio, si escludono sempre a vicenda; l’elettrone non può presentarli entrambi e, in effetti, le misure riscontrano sempre uno o l’altro orientamento. Prima della misura, tuttavia, non si può dire che l’elettrone abbia nessuna proprietà definita. Il mondo macroscopico non si comporta così. La luce della stanza è accesa o spenta, ma non entrambe le cose, e senz’altro non può trovarsi nelle condizioni di non essere accesa ma neanche spenta. In una partita di baseball, una palla colpita con forza può schizzare verso il campo esterno seguendo una traiettoria ben precisa. Non segue due traiettorie allo stesso tempo, una che rappresenta una scorrettezza e una no: la traiettoria è scorretta oppure no, ma non entrambe le cose. La palla vola molto alta oppure sfreccia bassa e

veloce, ma non segue entrambi i moti allo stesso tempo. Una possibilità del genere non avrebbe neanche senso (e lascerebbe molto perplessi gli arbitri)! Per un secolo intero, quindi, i fisici si sono chiesti come mai dopo la misura il comportamento degli oggetti passi dal mondo dei quanti, dove tutto è lecito, all’ambito della scienza classica e del buon senso. Che cosa esattamente spinge la funzione d’onda a collassare in modo che l’oggetto acquisisca caratteristiche della vita reale? Se si trovava in uno stato in cui tutto è lecito ma dopo l’osservazione diventa un oggetto reale, come minimo sembra logico immaginare che sia stata l’osservazione a far collassare la funzione d’onda… ma in tal caso, come? E d’altro canto, la corrispondenza non equivale alla causalità. L’inizio del giorno ha sempre una correlazione del 100 per cento con la fine della notte ma, nonostante questo collegamento immutabile, la notte non è la causa del giorno. Ma se non è l’osservazione a far collassare la funzione d’onda, che cosa ne è responsabile? A confondere la mente razionale sono tutti gli aspetti spinosi che insorgono nello studio di cose minuscole, fenomeni che non occorre considerare nel calcolo della posizione di oggetti come la Luna. Per esempio, l’atto di misurare o anche solo osservare un oggetto subatomico lo influenza sempre, perché qualsiasi informazione ottenuta comporta uno scambio di energia. Pensateci: se vedete qualcosa, significa che fotoni, cioè piccole quantità di energia elettromagnetica, hanno colpito le cellule della retina, i cui atomi hanno subito una forza elettromagnetica (una delle quattro forze fondamentali) così che, in ultima analisi, vengono trasmessi impulsi elettrici. Che cosa si può mai percepire senza scambi di energia? Il semplice processo di osservazione può modificare gli eventi a livello fondamentale senza che ce ne rendiamo mai conto, proprio come illuminare i topi di notte per scoprirne il comportamento al buio li influenzerà e falserà automaticamente le conclusioni ottenute. Il problema della maniera e del motivo esatti per cui «a causa» dell’osservatore le cose sono quelle che sono, quindi, è forse al contempo quello da trattare con maggior cautela e il più arduo e impegnativo da risolvere.

Abbiamo qualche indicazione grazie a innumerevoli esperimenti, tra cui quello famoso della doppia fenditura, in cui un fascio di elettroni colpisce due fenditure vicine in una barriera. Se il fascio è tanto largo che l’elettrone ha il 50 per cento di probabilità di attraversare una fenditura o l’altra, risulterà una situazione interessante. Sappiamo che, secondo le regole del mondo quantistico, ciascun elettrone del fascio esiste come funzione d’onda un po’ vaga. La sua esperienza comprende quindi allo stesso tempo tutte le possibilità: attraverserà entrambe le fenditure. Quelle varie porzioni dell’onda elettronica «interferiranno» poi l’una con l’altra e creeranno una figura di interferenza netta e ben distinguibile sullo schermo del rivelatore, all’estremità dell’esperimento. Ora entriamo in laboratorio e ripetiamo l’esperimento, aggiungendo un dispositivo che identifica la fenditura da cui è passato l’elettrone. D’improvviso, e di propria iniziativa, l’elettrone abbandona la propria esistenza vaga come onda di probabilità ampia che attraversa entrambe le fenditure; si comporta invece come una particella che attraversa una sola fenditura. Ora sullo schermo non c’è nessuna figura di interferenza. Negli ultimi 75 anni questo esperimento è stato svolto in un gran numero di varianti. L’unica variabile che realizza sempre il collasso della funzione d’onda, cioè il passaggio dell’elettrone dal comportamento vago e ondulatorio a quello di particella classica, è l’osservazione, cioè la misura compiuta dall’osservatore. In alcune varianti l’unica cosa che cambiava era la presenza dell’informazione nella mente dell’osservatore! In quest’ultimo caso, quando un computer mescolava i rilevamenti, rendendoli casuali e indecifrabili, l’elettrone conservava il comportamento quantistico e attraversava entrambe le fenditure, creando la figura di interferenza. Ma se si disattivava il mescolamento dei risultati, in modo che l’osservatore otteneva informazioni valide sull’attraversamento di una o entrambe le fenditure, in quel nanosecondo la figura di interferenza scompariva e la traiettoria dell’elettrone ritornava ad attraversare una sola fenditura, anche in maniera retroattiva! È una particella o un’onda, e la sua traiettoria si trasforma chiaramente dal tipo «entrambe le fenditure» al tipo «una fenditura» in base soltanto a ciò

che sa chi assiste all’esperimento! È un risultato abbastanza inquietante. Non è possibile evitarlo. In qualche modo, l’osservazione è la causa della transizione dal mondo quantistico a quello classico. Certo, sono state proposte moltissime spiegazioni diverse. Per esempio, la particella che si comporta in maniera quantistica può perdere le caratteristiche quantistiche, in cui tutto è lecito e possibile, per via dell’interferenza tra onde che subisce non appena è messa accanto a oggetti macroscopici, subendone l’influenza. Altri hanno ipotizzato che sia un effetto del campo gravitazionale. Ma si sono trovati difetti in ognuna di queste spiegazioni. Ancora oggi continua il dibattito se l’osservatore debba essere un organismo vivente e dotato di coscienza. Secondo molti, qualsiasi interazione o misura «obbliga» il fotone o la particella subatomica ad assumere proprietà definite, e conta come un’osservazione, facendo collassare la funzione d’onda. In realtà alcune proprietà degli osservatori bastano a far avvenire certi effetti fisici, mentre altre proprietà sfociano in altri effetti. È difficile sbrogliare la questione per vari motivi, inclusi alcuni che forse parranno ovvi: certo, possiamo fare misure grazie a una strumentazione automatica, ma per venire a sapere i risultati (anche ottenuti da dispositivi) è necessario passare dalla coscienza. Se nessuno li controlla mai, l’intero problema rimane confuso e ipotetico. Per di più, come vedremo nel Capitolo 11, risulta che occorre un osservatore dotato di memoria per stabilire una freccia del tempo e, di conseguenza, i nessi di causa ed effetto in tutto ciò che osserviamo attorno a noi. (Per chi fosse interessato, l’appendice approfondisce ulteriormente il problema dell’osservatore.) In ultima analisi, l’unica cosa che possiamo dire con certezza è che un osservatore conscio fa in effetti collassare la funzione d’onda quantistica. E ovviamente le conseguenze sono più profonde di quanto chiunque avesse immaginato all’inizio, come vedremo adesso. In genere la funzione d’onda si allarga su un’enorme estensione di posizioni possibili; dopo l’osservazione, però, la misura perde questa grande libertà e automaticamente si concentra in una zona ristretta attorno a una posizione specifica. Come abbiamo visto, questo

passaggio da una funzione d’onda «ampia» a una «ristretta» è detto collasso della funzione d’onda. Osserviamo il collasso della funzione d’onda proprio mentre si verifica. Immaginate la funzione d’onda di una sola particella, per esempio un elettrone, che si propaga come un’onda piana, rappresentata nella Figura 4.2. In caso sia utile, ripensate all’onda del tipo «increspatura in uno stagno». I piani sono come le increspature che si propagano con i fronti d’onda. I raggi, non rappresentati nella Figura 4.2, sono rette perpendicolari a quei piani. (La linea ondulata nella figura serve solo a ricordare che un’onda si avvicina allo schermo.) Se inseriamo uno schermo fluorescente sul percorso dell’elettrone, guardando lo schermo vi scorgeremo un singolo puntino da qualche parte. La probabilità di osservare l’elettrone (o la particella in esame, qualunque essa sia) in una data posizione è determinata dalla sua funzione d’onda. (In pratica, i fisici derivano la probabilità matematica elevando al quadrato la funzione d’onda.2 Ricordate che stiamo soltanto descrivendo il processo e, caro lettore, ti stiamo risparmiando la fatica di seguire i calcoli in dettaglio.) Prima di osservare l’elettrone, la probabilità che esso arrivasse in un certo punto dello schermo era uguale per tutti i punti. Se sullo schermo arriva l’onda di un altro elettrone, vedremo un altro puntino, molto probabilmente in una zona diversa dello schermo; dopo molti impatti del genere, sullo schermo apparirebbe una distribuzione uniforme di puntini. Prima che guardiamo lo schermo, quando non sappiamo ancora niente sulla posizione della particella, la funzione d’onda si estende su tutto lo spazio come un’onda piana. Ma dopo aver guardato e visto un puntino, abbiamo informazioni utili e finite per rispondere alla domanda: «Dov’è la particella?», e la funzione d’onda collassa diventando localizzata come una nuvola attorno a una certa posizione, come nella Figura 4.3.

Figura 4.2 Un’onda piana interagisce con uno schermo fluorescente. Quando l’osservatore guarda lo schermo, vede il puntino, che può trovarsi ovunque sullo schermo.

Un modo facile di capire l’intera faccenda è perciò considerare la funzione d’onda come un metodo per trasmettere informazioni sulle probabilità. Essa ci dice in che punto sono maggiori le probabilità che si materializzi la particella e, al contrario, dov’è che non vale la pena di mettersi a cercarla. Quando la funzione d’onda non è più vagamente estesa su tutto lo spazio, in una situazione di onda piana del tipo «(praticamente) tutto è possibile», ma invece è localizzata in maniera utile, come mostrato prima, sappiamo che ci stiamo avvicinando alla risposta per la domanda: «Dov’è questa particella?». Finora abbiamo considerato la funzione d’onda di una sola particella. Ma se si descrive un sistema di due, tre o molte particelle, per non parlare dell’intero universo, la funzione d’onda esprime la posizione di tutte queste particelle. Se abbiamo una potenza di calcolo sufficiente per fare i conti, una tale funzione d’onda fornirà allora informazioni sull’aspetto dell’universo cui assistiamo, e su che cosa è più probabile che avverrà nell’istante successivo. La funzione d’onda rappresenta quindi il mondo quale rientra nell’esperienza di un osservatore come voi. Ma il mondo contiene anche altri osservatori. Abbiamo visto che la funzione d’onda descrive le probabilità. Ma considerando il mondo reale, che include numerosi osservatori,

bisogna ampliare la concezione di «probabilità». Dopotutto, la probabilità è davvero la stessa per ciascuno? Non necessariamente. Come sa chiunque giochi a carte, le probabilità che un altro giocatore abbia una certa carta variano a seconda delle informazioni ottenute durante la partita. E siccome i giocatori hanno in mano carte diverse, il calcolo delle probabilità non è uguale per tutti. Capire quale situazione si verifica, quali particelle si manifestano o quali traiettorie interagiscono diventa quindi ben più difficile se consideriamo la molteplicità tipica della realtà effettiva attorno a noi, e d’un tratto la semplice espressione «funzione d’onda» richiede calcoli complessi e computer potentissimi. (Chiaramente il lettore non sarà obbligato ad affrontare tutte queste difficoltà matematiche.) La presenza di vari osservatori ci porta infine a esaminare la «teoria dei molti mondi». In un esperimento come quello mostrato nella Figura 4.2, prima di guardare lo schermo, tutte le posizioni del puntino erano possibili, e la funzione d’onda dello schermo era una sovrapposizione di tutte quelle possibilità. Quando si guarda lo schermo e si vede il puntino che rappresenta l’impatto dell’elettrone, quella funzione d’onda di probabilità collassa.

Figura 4.3 Forma della densità di probabilità calcolata a partire da una funzione d’onda localizzata in un punto. Una tale funzione d’onda fornisce l’informazione che la maggior probabilità di trovare la particella corrisponde al centro della «nuvola».

Ora immaginate di non guardare lo schermo; in laboratorio c’è anche la vostra amica Alice, e lo guarda soltanto lei. Alice vede un risultato ben definito dell’esperimento, cioè un puntino da qualche parte sullo schermo. Rispetto ad Alice la funzione d’onda è collassata. Rispetto a voi, però, la funzione d’onda non ha ancora subito il collasso, cioè corrisponde ancora a una sovrapposizione di tutti i possibili punti di impatto sullo schermo. E poiché lo ha guardato, Alice è ormai

correlata con il risultato specifico che corrisponde al puntino sullo schermo. Ciò significa che, una volta che Alice ha visto il puntino, il mondo di cui lei ha esperienza è cambiato in diverse maniere irrevocabili. Alice ricorderà la sua osservazione e, se quel giorno ci sono poche notizie e non le è successo niente di speciale, racconterà ad alcuni amici che cosa ha visto e il significato che lei gli attribuisce. Essi potrebbero raccontarlo ad altri, e forse uno di loro scriverà in merito un tweet letto da 251 persone, cinque delle quali troveranno la notizia tanto importante da cambiare alcune scelte di vita. Una di loro, Emma, stimolata dall’esperimento descritto nel tweet, decide di riprendere gli studi universitari di fisica teorica. Ma sei mesi dopo, diretta alla prima lezione, fa un leggero tamponamento nel parcheggio dell’università. Così incontra Michael, l’altro conducente, che è professore di fisica; in quell’occasione Emma gli urla di guardare dove va, ma finiscono per sposarsi e, in collaborazione, apportano miglioramenti essenziali alle armi nucleari. Tempo dopo quella tecnologia viene rubata da un gruppo terroristico che si oppone con violenza allo hip-hop, e fa esplodere l’arma alla Rock and Roll Hall of Fame. Tutti questi eventi, inclusa la distruzione di Cleveland, sono strettamente legati al puntino visto da Alice sullo schermo. Essi si verificano oppure no proprio in conseguenza della comparsa o meno del puntino. Presi insieme, rappresentano un «mondo» che è una possibilità, oppure, secondo l’interpretazione della teoria dei quanti che prevede molti mondi, formulata negli anni cinquanta dal fisico Hugh Everett, una situazione esistente che corrisponde a una sorta di realtà alternativa. Rispetto a voi, però, la funzione d’onda sullo schermo e Alice che vede un puntino nero, insieme alla sua vita e a quella dei suoi amici, rimangono in una sovrapposizione di stati. Questa sovrapposizione contiene molte versioni di Alice, ciascuna delle quali vede il puntino in una zona diversa dello schermo, o non lo vede affatto. Quando anche voi guardate lo schermo, vedete un puntino ben definito e sentite Alice dire che anche lei vede il puntino nello stesso posto. Prima della misura c’erano molte possibilità, che avremmo definito

come molti mondi possibili, ma dopo la misura la vostra coscienza è «sospesa» a uno di questi mondi. Secondo l’interpretazione della meccanica quantistica formulata da Everett, questi molti mondi non sono soltanto ipotetici: esistono davvero come componenti di una funzione d’onda universale, che si evolve come un albero ramificato e non collassa mai. Invece di un collasso che elimina tutte le possibilità (tranne una) sul posto e sul momento, ogni misura fa ramificare la funzione d’onda; ogni ramo risultante contiene una copia dell’osservatore che ha un ricordo ben preciso di aver osservato uno specifico risultato (Figura 4.4). Per esempio, in un ramo voi e Alice vedete un puntino nero nell’angolo in alto a sinistra dello schermo, mentre in un altro lo vedete nell’angolo in basso a destra, e così via. Ogni ramo è un «mondo» di cui ha esperienza una copia di voi e di Alice. Dal punto di vista di ciascuna vostra copia, la funzione d’onda è collassata: non racchiude più la sovrapposizione di molti risultati possibili della misura, ma un risultato solo. L’altro fatto essenziale è che, dal punto di vista di un osservatore diverso che non ha guardato lo schermo, la funzione d’onda non è ancora collassata e contiene molte copie dello schermo e di voi. Per esempio, se Alice non guarda lo schermo, percepisce una funzione d’onda con molte copie dello schermo e di voi. Allo stesso modo, se voi non guardate, percepite una funzione d’onda che contiene molte copie dello schermo e di Alice. Gli esempi appena fatti con voi e Alice chiariscono che una funzione d’onda comprendente un insieme ristretto di possibilità è sempre relativa a un certo osservatore. È la prima dimostrazione, e la più facile, del fatto che la funzione d’onda dipende dall’osservatore, e chiarisce che questo asserto non è affatto vago o interpretabile in vari modi, né in alcun modo un tentativo mistico di trasformare la fisica in un ritiro yoga, come alcuni hanno cercato di sottintendere. Per chiarirlo ancora, consideriamo un altro esempio di un insieme limitato di possibilità che modifica la funzione d’onda: consideriamo che cosa succede se, per esempio, all’inizio l’elettrone è confinato in una scatola. L’elettrone si trova in qualche punto della scatola, e la

funzione d’onda indica questo fatto. Se però l’elettrone non fosse rinchiuso, potrebbe trovarsi in qualsiasi punto dell’universo. E anche adesso, il valore della funzione d’onda può cambiare in maniera flessibile a seconda delle nostre azioni: se apriamo la scatola, la funzione d’onda dell’elettrone inizia ad allargarsi e, dopo un tempo abbastanza lungo, la probabilità è distribuita in maniera uniforme su tutto l’universo. Se non confiniamo un insieme di particelle, quindi, la funzione d’onda include tutte le configurazioni possibili. Nella stessa logica, se la funzione d’onda non è distribuita uniformemente su tutte le configurazioni possibili, ciò significa che deve essere stata osservata o misurata, o un osservatore deve aver interferito con essa. In tal caso una simile funzione d’onda è relativa a quell’osservatore. Se la funzione d’onda descrive un insieme limitato di configurazioni possibili, è necessario che sia stata osservata, e che quindi sia relativa a un certo osservatore. Vale altrettanto per la funzione d’onda dell’universo: essa rappresenta l’universo quale ne ha esperienza quell’osservatore, per esempio Bob, e contiene altri osservatori, come Alice.

Figura 4.4 Funzione d’onda rappresentata come albero che si ramifica. La linea spessa corrisponde al percorso della coscienza. Gli altri percorsi non appartengono all’esperienza mia, ma a quella delle mie copie.

In base a questo ragionamento, quando cerchiamo di capire la teoria dei molti mondi, vogliamo assicurarci di evitare l’errore comune che visualizza la «funzione d’onda universale» come se aleggiasse da

qualche parte, permeando tutto l’universo e funzionando in maniera indipendente. Se immaginassimo una cosa del genere, dovremmo anche immaginare noi stessi come testimoni superflui. Bisogna invece ricordare una cosa essenziale per includere tutte le possibilità, tutte le configurazioni, persino tutti i possibili universi: le particelle, gli oggetti e le energie di qualsiasi tipo non si manifesteranno a meno di essere stati percepiti da qualche osservatore, o di aver subito una qualche interferenza da parte sua; sono quindi relativi a quell’osservatore. Nessuna configurazione dei contenuti del cosmo si evolve quindi indipendentemente da noi. In altri termini, benché a volte la funzione d’onda generale o universale è immaginata come sinonimo di tutti i mondi possibili, inclusa la situazione precedente e anche successiva all’interferenza da parte di qualcuno, bisogna evitare di credere ai fantasmi: senza l’osservazione e la sua stretta correlazione con la coscienza, abbiamo solo cose fittizie. Caro lettore, se ti sembra di non avere ancora una presa salda su tutto ciò, non preoccuparti. Sei in ottima compagnia, inclusi molti fisici che hanno affrontato queste idee per la prima volta. Abbiamo visto che queste rivelazioni scaturiscono direttamente e indirettamente dalla meccanica quantistica, ma va chiarito che, in realtà, i fisici «osservano» il funzionamento delle leggi quantistiche esclusivamente tramite gli occhi della matematica, mentre noi stiamo cercando di farlo con goffe analogie e descrizioni a parole. Tieni duro: abbiamo gettato basi importanti, che però sono soltanto la rampa di lancio per la nostra esplorazione di Come Funziona Tutto. Il tuo investimento nel capire tutto a fondo restituirà dividendi tali da far crollare la realtà. In questo capitolo abbiamo rivelato come l’effettivo nasce dal possibile, e che ruolo svolgono in tutto ciò la funzione d’onda e gli osservatori. Abbiamo anche visto che, mentre in genere si liquidano gli «universi multipli» della fantascienza come nient’altro che finzione, questo tema ricorrente può contenere molto più di una briciola di verità scientifica. È ben possibile che le realtà alternative accennate nel Capitolo 2 non si limitino a «e se…?». In tal caso, e se tutto ciò che può mai accadere davvero accade in

qualche universo di Everett, ovviamente la morte non ha alcuna esistenza reale, perché la coscienza e l’esperienza si perpetuano sempre senza attenuarsi (ne riparleremo nel Capitolo 10). Tutti gli universi possibili esistono in simultanea, a prescindere da ciò che succede in uno qualsiasi di essi. In alcuni mondi, perciò, Napoleone non è stato sconfitto a Waterloo, oppure Alessandro Magno non è nato. E al liceo vi siete davvero messi con la reginetta delle ex alunne o il quarterback promettente.



4. Indizi di immortalità 1  Eugene Wigner, «Remarks on the Mind-Body Question», riprodotto in John Archibald Wheeler e Wojciech Hubert Zurek (a c. di),  Quantum Theory and Measurement, Princeton University Press, Princeton 1983, p. 169. [N.d.T.] 2 Più di preciso, la funzione d’onda è un oggetto a due componenti (ψ , ψ ) che 1

2

si può scrivere come un numero complesso ψ = ψ1 + iψ2; la probabilità è data dal quadrato del valore assoluto |ψ|2 = ψ12 + ψ22.

5. Abbasso il realismo

Non percepiamo altro che le nostre idee o sensazioni.1 vescovo George Berkeley

Nella storia ininterrotta dei tentativi umani di capire le realtà alla base della vita, nel primo Novecento insorse una grave difficoltà, con l’avvento della teoria dei quanti. Fino ad allora la scienza era stata in accordo con il buon senso, secondo cui la percezione della natura da parte di ciascuno era molto meno importante della natura stessa. Dopotutto la composizione e la localizzazione di una roccia erano fatti affidabili, mentre le misure svolte da qualcuno su di essa erano dubbie e passibili di revisione. Questa concezione classica, di buon senso, ha preso il nome di «realismo»; essa riflette ciò che credono ancora molti profani: il mondo oggettivo «là fuori» è reale, mentre «l’opinione» che ne ha ciascuno è provvisoria. Persino il linguaggio riflette questa distinzione: diciamo «cerca di essere obiettivo» e «mentre scrivi un rapporto sull’esperimento, non farti influenzare dalla tua soggettività». Gli statistici e gli scienziati parlano spesso di modelli che sono «sbagliati in modo utile».2 Nella vita quotidiana, i principi consoni al realismo hanno un’evidente utilità: è cruciale essere consci dei pregiudizi e della soggettività nel valutare ciò che dicono gli altri, e nessuno cerca di attraversare una porta senza averla aperta (o, se lo fa, non ripeterà più lo stesso errore). Ma fermiamoci a considerare la definizione di «realismo» accettata dalla fisica. Nella letteratura scientifica il realismo è per esempio definito così: «Dottrina che crede nell’esistenza in sé degli oggetti materiali, separata dalla

consapevolezza che ne ha la mente».3 Un’altra fonte sostiene che il realismo è il principio secondo cui «la materia ha un’esistenza propria che prescinde dalla mente», mentre secondo una terza definizione il realismo è «la qualità dell’universo che esiste indipendentemente da noi». Un’altra autrice chiama realismo «l’opinione che la realtà esista e abbia proprietà ben definite anche quando non la si osserva».4 Se avete letto con attenzione sia pur minima gli ultimi capitoli, noterete dov’è il problema. A livello quantistico, i dati sperimentali e osservativi hanno smentito del tutto l’ipotesi che le entità della natura abbiano proprietà oggettive come il moto e la posizione, esistenti a prescindere da qualsiasi misura. Oggi è diffusa l’opinione biocentrista secondo cui la natura e l’osservatore sono correlati, e molti membri della comunità dei fisici contestano l’idea di un universo materiale definito che esista in maniera indipendente dalla coscienza, benché essa prevalga ancora tra i profani. Mentre è lecito aspettarsi che la porta sarà presente in maniera dolorosa se cercate di attraversarla, la posizione delle singole particelle che la compongono rimane un fatto probabilistico. Può essere di consolazione ricordare che Einstein si opponeva a tutto ciò non meno di quanto faccia oggi il profano medio; senza il realismo, viviamo in quella partita a dadi che irritava tanto il grande scienziato. Ma il realismo non è la sola porzione di costa scientifica distrutta dallo tsunami della teoria dei quanti nei primi decenni del Novecento. Anche la «località» scompariva a vista d’occhio. Era un’altra antica convinzione nata dal buon senso, secondo cui una cosa può essere urtata, spostata o influenzata soltanto da un’altra che si trova nelle immediate vicinanze o in contatto diretto con essa. Tutti sapevano perciò che lo sventolio della bandiera fuori della finestra era senz’altro un moto dovuto all’azione di una sostanza materiale vicina, benché fosse impossibile vedere il «corpo che agiva», in questo caso il vento. L’erosione della località iniziò nientedimeno che con il nostro vecchio amico Isaac Newton che, come abbiamo visto nel Capitolo 2, ottenne la prima descrizione affidabile di come si muovono gli

oggetti, e ci fece conoscere la «forza» cui diede il nome tratto dalla parola latina gravitas, che influenza oggetti sia grandi sia piccoli allungando i suoi artigli invisibili. Ma qualcosa lasciava insoddisfatto Newton nella descrizione della gravità creata da lui stesso. Era la questione della località, anche se questo termine non sarebbe stato coniato che due secoli dopo. Come si vede in alcune lettere scritte verso il 1692, lo tormentava l’idea di aver definito una cosiddetta forza che faceva spostare gli oggetti senza che nulla li toccasse, al contrario di una bandiera toccata dal vento. Scrisse: «[…] che un corpo potesse estendere la sua azione ad un altro discosto senza l’interposizione di qualche altra cosa diversa […] a me pare cotanto assurda cosa, che mi credo nissun uomo, il quale abbia […] una competente attitudine al meditare, possa incapparvi».5 Così Newton, in una sorta di introspezione travagliata rara per l’epoca, esprimeva un profondo timore che le sue rivelazioni fossero in qualche modo impossibili, benché la validità delle sue «leggi» fosse confermata ogni volta. Certo, la gravità era solo la prima delle forze invisibili scoperte dai fisici. Alcune di queste agiscono tramite «campi»: viene così introdotto il concetto di forze che si spandono nell’etereo spazio circostante lungo tentacoli delicati e invisibili. Tutto ciò era molto strano, eppure riusciva in effetti a spiegare fenomeni fisici altrimenti misteriosi: per esempio, grazie ai campi magnetici si possono controllare le calamite facendole muovere senza toccarle, oppure dotandole di una ferrea resistenza al movimento. Oggi si usano i campi magnetici nei sistemi di chiusura automatica per i cancelli, cui non può resistere nessuna forza ragionevole. Einstein, iconoclasta come sempre, sostenne comunque fermamente il principio di località per tutta la vita. Poco meno di due secoli dopo le esitazioni di Newton, Einstein formulò le sue teorie della relatività in totale aderenza ai principi di località, cui aggiunse un’importante modifica: l’effetto di qualunque cosa, campo o quantità di energia è vincolato da una velocità di propagazione specifica,

quella della luce. In altri termini, l’influenza istantanea era impossibile. Ciò significava che, nel calcolare gli effetti di un evento, si poteva essere sicuri che le conseguenze più veloci mai osservate sarebbero giunte con un ritardo di un secondo per ogni 299792,458 chilometri di distanza. Quindi, se una stella esplodeva trasformandosi in una supernova, gli astrofili terrestri avrebbero osservato l’evento dopo un ritardo esattamente uguale alla distanza della stella in anni luce. Il brillio di una supernova che esplode ora, a cento anni luce di distanza, illuminerebbe il nostro cielo per la prima volta nel quarto iniziale del prossimo secolo. Einstein impose anche alla gravità di rispettare la località, così che le increspature gravitazionali dovute all’incontro e alla fusione di due buchi neri ultradensi distanti 1,3 miliardi di anni luce, che nel 2015 hanno raggiunto i rivelatori ligo, costruiti in Louisiana e nello stato di Washington e appena perfezionati, avevano avuto origine 1,3 miliardi di anni fa. Alle piccole distanze abituali qui sulla Terra, i ritardi tra causa ed effetto sono trascurabili; eppure, almeno al giorno d’oggi, è possibile misurarli. Secondo le regole della località e il vincolo einsteiniano sulla velocità (che non può superare quella della luce), il ritardo equivale a un trecentomilionesimo di secondo per ogni metro di distanza. Così, quando fate un cenno di saluto a un’amica scorta a 15 metri di distanza dal lato opposto della strada, la sua reazione o esclamazione di «ciao!» è ritardata di 50 nanosecondi (cioè 50 miliardesimi di secondo), pari al tempo impiegato dalla vostra immagine a raggiungere i suoi occhi, benché questa esitazione ineliminabile non abbia mai creato disagi nei rapporti sociali. La vera fonte di disagio, almeno per molti fisici, è stata l’avvento della meccanica quantistica, dalle cui equazioni derivava incredibilmente che gli effetti e le influenze su scale minuscole sarebbero stati del tutto liberi da simili vincoli e ritardi dovuti alla velocità della luce. Ricordate che questo era uno dei motivi per cui le previsioni della teoria dei quanti sulla correlazione erano inaccettabili per Einstein e i suoi amici Nathan Rosen e Boris Podolsky, che nel 1935 scrissero

sull’argomento un fondamentale articolo descritto in uno dei capitoli precedenti. Secondo la teoria dei quanti, la particella correlata «rileva» lo stato della sua gemella e reagisce all’istante, senza ritardi. L’«informazione» sul collasso della funzione d’onda iniziale non impiega un miliardo di anni a propagarsi nello spazio e a raggiungere la gemella, anche se questa si trova in una galassia distante un miliardo di anni luce. Al contrario: la gemella è informata e reagisce all’istante. Addio località. E siccome la particella correlata assume la sua proprietà definita solo in reazione alla misura svolta sulla gemella, la correlazione forniva altri indizi che anche il realismo aveva abbandonato il campo. Ma la località e il realismo avevano governato il pensiero umano da quando i Neanderthal giravano in mutande di pelliccia, e i fisici non vi avrebbero rinunciato senza opporre resistenza. In un angolo c’erano Einstein, Rosen e Podolsky, i famosi «epr», aiutanti dello sceriffo che montavano di guardia davanti alla prigione della fisica classica. I tre affermarono chiaro e tondo che se gli effetti di correlazione previsti avessero davvero ricevuto conferma, la causa avrebbe dovuto essere qualche variabile nascosta ancora ignota, o perturbazioni subite dall’esperimento. Einstein & Co. continuarono a credere che nulla potesse influenzare nient’altro in assenza di un contatto diretto di qualche tipo (sia pur soltanto tramite campi che trasportano energia), che la velocità della luce fosse il limite assoluto e, soprattutto, che ogni cosa succedesse indipendentemente dalla presenza di qualcuno che la osservasse. (Com’è noto, Einstein chiese in privato a un collega: «Veramente è convinto […] che la Luna esista solo se la si guarda?».6) Questi fisici famosi difesero la concezione dettata dal buon senso, perché credevano con tutta l’anima che, comunque andasse, si sarebbero dovuti preservare il realismo e la località. Correva l’anno 1935; c’era la Grande Depressione, la gente non poteva permettersi di comprare scarpe. E poco dopo si dovettero affrontare le potenze dell’Asse che volevano conquistare il mondo. Pochi sapevano che nelle università infuriava uno scontro epico per

stabilire se i caccia Messerschmitt esistevano quando nessuno li guardava. La questione non era ancora del tutto chiusa ai tempi in cui andavano a scuola gli autori. Nel 1964, poi, John Bell svolse studi teorici per stabilire quanto fossero probabili varie misure di oggetti correlati in base a diverse impostazioni dei rivelatori. La dimostrazione matematica è troppo complicata per descriverla qui, ma il risultato finale è che le probabilità non corrispondono a quanto ci si aspetterebbe se lo strano fenomeno della correlazione quantistica fosse dovuto a qualche variabile locale nascosta. Esperimenti svolti nei vent’anni successivi, in particolare da Alain Aspect, hanno sferrato colpi fatali all’ipotesi della variabile locale sostenuta da Einstein, Podolsky e Rosen. Questi esperimenti avevano tuttavia punti deboli, dovuti soprattutto alle limitazioni dei dispositivi di misura; soltanto a cavallo del xxi secolo si è riusciti a dimostrare in maniera convincente la sconfitta del realismo locale. La prima dimostrazione cruciale, portata dall’esperimento svolto nel 1997 da Nicolas Gisin e descritto nello scorso capitolo, usava dispositivi capaci di misurare ritardi brevissimi, migliaia di volte più del ventiseimillesimo di secondo necessario alla luce per percorrere 11 chilometri, distanza che separava i gemelli correlati nel laboratorio svizzero di Gisin. Questa trasmissione di informazioni a velocità maggiore della luce, appena certificata, fu rivoluzionaria: il limite di velocità della luce era morto.7 Ma comunque gli appassionati di scienza si chiedevano: questa correlazione si verifica un po’ più velocemente della luce, o è proprio istantanea? Infrangere la barriera della velocità della luce bastava a sgominare la difesa della fisica classica sostenuta da epr, ma i viaggi in un tempo nullo avevano conseguenze inaudite sulla natura stessa della realtà. Si sa come sono i ricercatori: se c’è qualcosa da mettere in cifre, faranno di tutto per quantificarlo. Nel 2013, così, alcuni scienziati cinesi hanno correlato coppie di fotoni, poi hanno inviato un fotone della coppia a unità riceventi disposte a una distanza di circa 15 chilometri lungo un asse est-ovest, per ridurre al minimo il disturbo causato dalla rotazione della Terra, che procede a 1674 chilometri

all’ora. Essenzialmente si trattava di misurare un membro della coppia correlata e vedere quanto tempo impiegava l’altro ad assumere lo stato complementare, ripetendo la procedura per ben 12 ore, corrispondenti a varie misure, così che i dati bastassero a scartare i casi anomali e determinare con precisione quanto tempo trascorreva tra la misura di un fotone e la reazione dell’altro. Alla fine della giornata di misure, il gruppo cinese trovò che la correlazione quantistica scambia informazioni a circa 30 milioni di chilometri al secondo, circa 10 000 volte la velocità della luce. Questa velocità vertiginosa, che permetterebbe di andare e tornare 4000 volte tra la Terra e la Luna in un secondo, finì sulle prime pagine. Ma benché sostenga la trasmissione «istantanea» nell’ambito della teoria dei quanti, non la dimostra in maniera definitiva. Quella cifra era il limite inferiore delle possibilità della strumentazione; è quasi certo che la velocità autentica sarà maggiore. E la previsione che nella teoria dei quanti si viaggi in «zero tempo» è salva, visto che ha superato senza problemi ogni verifica sperimentale che tentava di metterla in dubbio. Anzi, al giorno d’oggi vengono annunciati regolarmente esperimenti che mostrano sia violazioni della località (effetti istantanei da fonti lontane e in assenza di contatto) sia del realismo (l’idea che gli oggetti esistono con proprietà definite anche quando non li si osserva). Visto che si accumulano le prove sperimentali delle previsioni della tq e il castello del realismo locale è franato per sempre, scienziati, filosofi e metafisici sono sorpresi di trovarsi in reciproca compagnia, e per qualche tempo uniscono le forze per capire cosa implica tutto ciò a un livello più profondo e per il significato della vita. Di certo è stata ormai stabilita un’interconnessione di qualche tipo in tutto l’universo, una proprietà ancora ignota di non separazione tra gli oggetti, a prescindere dalla distanza presunta a cui si trovano. La credenza nell’«unità» non caratterizza più soltanto i mistici. Come ha detto il fisico Bernard d’Espagnat: «La non separabilità è oggi uno dei concetti generali della fisica più assodati».8 Questa è stata una passerella importante verso il modello

biocentrico e, al contempo, un ulteriore chiodo nella bara dello spazio e del tempo. Certo, questi concetti risultano ancora utili quando sono fusi nell’amalgama matematico dello «spaziotempo» einsteiniano, che permette di calcolare il moto degli oggetti classici nell’universo e la maniera in cui gli osservatori in un certo «sistema di riferimento», con certi valori di velocità e forza gravitazionale, osservano gli oggetti e gli eventi di un altro riferimento; in uno dei prossimi capitoli riparleremo dello spaziotempo. Ma il «tempo» e lo «spazio» come componenti distinti e affidabili di una certa matrice esterna? Be’, per quei due è morta e sepolta qualsiasi pretesa di una realtà innata e indipendente. (La cosa curiosa è che Einstein stesso è stato il primo a metterli in crisi, mostrando nelle sue teorie della relatività che sia lo spazio sia il tempo possono deformarsi, contrarsi e addirittura collassare fino ad annullarsi, a seconda delle circostanze locali.) Ma se lo spazio e il tempo non sono più entità affidabili e indipendenti, come dovremmo visualizzare l’universo e il nostro posto in esso? In che luogo e istante dovremmo immaginare che si svolgono gli eventi? Ogni volta che viene fuori il termine «solipsismo», lo si indica sempre come un vicolo cieco pericoloso da evitare in qualsiasi discussione scientifica. Eppure non è difficile capire come mai ricompaia periodicamente. Un esame approfondito delle conseguenze della teoria dei quanti è un’escursione su un sentiero che rasenta i confini scivolosi del solipsismo. Il Random House Webster’s Dictionary definisce il solipsismo come «la convinzione che esiste soltanto il sé, o che soltanto di esso si può dimostrare l’esistenza». In genere chi legge questa definizione per la prima volta reagisce esclamando: «Ma è ridicolo». A uno sguardo più attento, però, si smette presto di liquidare il concetto con tanta superficialità. Tutti hanno sentito l’affermazione più famosa di René Descartes: Cogito, ergo sum, cioè «penso, dunque sono».9 È meno nota un’altra sua frase: «La prima [regola] era di non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi evidentemente per tale».10

Descartes desiderava ossessivamente essere certo che fossero affidabili gli indizi usati per costruire la sua visione del mondo. La sua era una domanda elementare, alla base di qualsiasi ricerca sulla natura della realtà: in effetti, di cosa si può essere totalmente sicuri? Nel corso della storia, sono state sfoggiate e presentate al pubblico quali verità assolute affermazioni sulla realtà di ogni sorta, in apparenza inattaccabili, ma c’erano sempre punti deboli o incoerenze. Nella Francia seicentesca, Descartes era circondato da una comunità di pensatori intenti a delineare un universo oggettivo e basato sulla materia, eliminando dall’equazione l’osservatore soggettivo. Eppure, nonostante fosse immerso in quell’ambiente, Descartes si rese conto che non avrebbe mai potuto avere certezze assolute sulla natura del cosmo materiale. Ragionava: come essere sicuri che tutto quanto percepito non si trovasse soltanto nella mente? Al contrario, non poteva fare altro che dipendere per intero dai fatti forniti dalla sua stessa esperienza. Descartes non era affatto l’unico a ragionare in questo modo, né l’ultimo a raggiungere le stesse conclusioni. Nel Settecento il vescovo George Berkeley ebbe intuizioni simili. Com’è noto, disse: «Non percepiamo altro che le nostre idee o sensazioni»,11 affermando che la corrispondenza tra le percezioni e un mondo effettivo di oggetti esterni è soltanto un’ipotesi. Negando l’esistenza indipendente delle sostanze materiali, o almeno qualsiasi certezza al loro riguardo, Berkeley realizzò un completo distacco dalla filosofia razionale in voga all’epoca, e mandò su tutte le furie parecchi contemporanei. Naturalmente, non avere la certezza che qualcosa sia reale non equivale a dimostrare che non lo è. Ma con l’avvento della tq e le dimostrazioni sperimentali che, almeno nel mondo quantistico, gli oggetti materiali non esistono con proprietà definite prima di essere osservati, all’improvviso l’idea che l’universo non sia una realtà esterna oggettiva è sostenuta dalla scienza, non soltanto da filosofi che inseguono la logica giù per la tana del Bianconiglio. E come ha detto Heinz Pagels, stimato fisico teorico: «Se negate l’oggettività del mondo, a meno che non lo osserviate e ne siate consapevoli,

finirete per cadere nel solipsismo (cioè nella convinzione che la vostra coscienza sia l’unica al mondo)».12 La conclusione di Pagels era giusta. Bisogna solo notare che, secondo il biocentrismo, l’unica coscienza al mondo non è la vostra, è la nostra. La separatezza individuale è un’illusione. Dopotutto, se lo spazio e il tempo non esistono in nessun senso assoluto, in che modo possiamo immaginare che le cose siano separate? C’è una sola coscienza. Ciò che è «focale» (ciò che viviamo come la nostra identità) è questa singola coscienza che si manifesta in vari modi. Allora, questo è davvero solipsismo o il suo contrario? Il solipsismo e la credenza nell’unità del tutto, il «soltanto sé» e il «nessun sé» non sono facili da distinguere quanto si potrebbe immaginare. Dopotutto, in un certo senso uno conduce all’altro; sono come i filamenti attorcigliati di una singola fune. Come osservato in precedenza, questo tipo di ragionamento aveva già una storia rispettabile quando venne considerato nell’Europa rinascimentale. Nel vi secolo a.C. il filosofo Parmenide aveva concluso che una sola essenza immortale fosse la natura dell’universo e che questo cosmo, identico alla nostra coscienza e non separato in nessun modo da noi stessi, non avesse mai avuto una nascita né sarebbe mai morto. Esso era anche immune al cambiamento, almeno a livello fondamentale. Secoli prima di Descartes, nel poema Sulla natura Parmenide aveva affermato il primato assoluto della coscienza: «[…] Infatti lo stesso è pensare ed essere».13 Eppure non era stato neanche lui a concepire l’idea di «una sola mente». Ancora prima, Shankara e altri autori indù avevano sostenuto che «tutto è uno», e che questa unità era identica al sé. Tempo dopo l’idea fu ripresa da varie scuole filosofiche buddiste, soprattutto lo zen, secondo cui la cosiddetta esperienza dell’illuminazione si riduce alla percezione diretta dell’unità. Avere questa specifica esperienza divenne l’obiettivo principale dei seguaci delle religioni orientali, e lo rimane oggi sia per gli aderenti di quelle religioni sia per i devoti della meditazione, pratica sempre più

comune. In questa percezione della «verità», chi medita percepisce che, in realtà, non esiste un «sé» e non ci sono «altri». E se si cerca un matematico abbastanza moderno che sarebbe d’accordo, basta fermarsi a Schrödinger, che è stato al contempo tra i fondatori della teoria dei quanti e, come vedremo nel prossimo capitolo, uno dei suoi critici più severi. Era anche molto più avanti della media riguardo al nesso tra la teoria dei quanti e la coscienza; colse presto un legame fondamentale tra la fisica elementare dell’universo e i fondamenti della realtà percettiva: «Ogni mente conscia che abbia mai detto o sentito la parola “io” [è quella] che controlla il “movimento degli atomi”».14 Era anche avanti riguardo alla non separabilità. Fin dall’inizio c’era il problema che il paradigma «tutto è uno» sembrava contraddire gravemente la percezione fornita dall’esperienza quotidiana che esistano varie coscienze separate. Dopotutto i miei sogni non sono quelli di un altro, né posso muovere le dita altrui. Questa impressione dettata dal buon senso era condivisa da quasi tutti nel modello occidentale, che dava per scontati innumerevoli punti di controllo, almeno controllo corporeo distinto,15 da cui conseguono a loro volta molteplici isole di coscienza indipendente. In scritti che avrebbero entusiasmato i sacerdoti di Varanasi, Schrödinger affermò che era un’illusione: «Ciò che sembra essere una pluralità è semplicemente una serie di differenti aspetti di questa sola cosa, prodotti da un’illusione».16 Continuò spiegando: «La molteplicità percepita è solo apparenza, essa non ha esistenza reale»,17 e anche: «Direi: il numero totale di menti è soltanto uno. Mi azzardo a chiamarla indistruttibile perché ha una temporalità particolare: la mente è sempre adesso. Non c’è affatto un prima e un dopo per la mente, c’è solo un adesso che include ricordi e aspettative».18 Scrisse inoltre: «La coscienza è un singolare, il plurale della quale ci è ignoto».19 Ed ecco qua: siamo tornati al solipsismo, o almeno alla sua intersezione con l’idea di un’unità onnicomprensiva. La cosa interessante è che sempre più spesso la fantascienza cattura l’attenzione del pubblico con trame solipsistiche, pur non

usando il termine specifico. Nei film Matrix, di grande successo, il protagonista Neo è presentato essenzialmente come un «cervello in una vasca» le cui apparenti avventure in un vasto mondo esterno sono di fatto prodotte in maniera artificiale, e in realtà si verificano soltanto nella mente. (In quel caso c’era un ulteriore mondo esterno che in gran parte era ignoto agli esseri umani e li teneva prigionieri.) Nel modello olografico dell’universo, sempre più spesso presentato nelle riviste di divulgazione scientifica, la natura è spiegata come un progetto artificiale simile a un ologramma sulla carta di credito; nell’ologramma percepiamo colori, dimensionalità e la presenza di varie persone e altri organismi viventi, dotati inoltre di storie complesse e intrecciate, ma tutto ciò è soltanto un codice informatico. In questo contesto, i modelli di «una sola mente» o basati sulla coscienza non sembreranno forse più tanto stravaganti. Non c’è dubbio che, nell’ultimo secolo e mezzo, le scienze abbiano avuto la tendenza generale a cercare spiegazioni unificate, realizzando così varie semplificazioni. A partire dall’Ottocento, quando si scoprì che l’elettricità e il magnetismo erano aspetti di un solo fenomeno, si è spalancato il vaso di Pandora dell’unificazione nelle scienze, attraendo ulteriori adepti. Agli albori del Novecento Einstein fu il primo a unificare la materia e l’energia, poi anche lo spazio e il tempo; in seguito, a metà del secolo, i teorici che studiavano le condizioni in vigore nei minuti e nei secondi dopo il Big Bang scoprirono che, in origine, tre delle quattro forze fondamentali presenti nell’universo erano unificate, invece di esistere come entità distinte. Oggi molti fisici non considerano più separate la «forza debole» e la «forza elettromagnetica», ma parlano invece della cosiddetta «forza elettrodebole». È innegabile che l’unità di base implicata dai progressi quantomeccanici della scienza, obiettivo fondamentale nel passato e ancora oggi, non sia ancora del tutto completata. È compito della scienza dimostrare o smentire il ruolo dell’osservatore, e considerare le conseguenze dell’unità indicate dai risultati sperimentali dell’ultimo secolo e mezzo. E la scienza deve fare tutto ciò senza tirarsi indietro, deve seguire

le indicazioni sperimentali anche se contraddicono le convinzioni più antiche e fondamentali dell’umanità. Tra le macerie del realismo locale, man mano che si accumulano indizi a favore di una vera interconnessione, che per di più coinvolge in maniera esplicita la mente e la coscienza, si scopre che il nostro cosmo è semplice e unito tanto quanto si può immaginare, e che condivide la sua identità più intima con quella di noi stessi.





5. Abbasso il realismo 1  George Berkeley,  Opere filosofiche, a c. di Silvia Parigi, Mondadori, Milano 2009, p. 200. [N.d.T.] 2 Più di preciso si tratta di un aforisma di George Box, statistico britannico: «Tutti i modelli sono sbagliati, ma alcuni sono utili». [N.d.T.] 3 Werner Heisenberg, «The Representation of Nature in Contemporary Physics», in Daedalus 87, 1958, p. 100. [N.d.T.] 4  Lisa Zyga, «Physicists close two loopholes while violating local realism», in Phys.org, 30 novembre 2010. [N.d.T.] 5 Isaac Newton, Quattro lettere a Ricciardo Bentley contenenti alcune prove della esistenza di Dio, trad. it. di Antonino De Luca, Tipografia delle Belle Arti, Roma 1834, p. 31. [N.d.T.] 6  Abraham Pais,  Sottile è il signore…, trad. it. di Lanfranco Belloni e Tullio Cannillo, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 15. [N.d.T.] 7  L’informazione qui considerata riguarda lo stato quantistico del gemello correlato. La correlazione quantistica non permette a due persone di comunicare scambiando messaggi a velocità maggiore della luce. 8  In Jagdish Mehra (a c. di),  The Physicist’s Conception of Nature, D. Reidel Publishing Company, Boston 1973, p. 734. [N.d.T.] 9 Cartesio, Discorso sul metodo, in Vita, pensiero, opere scelte, a c. di Armando Massarenti, Il Sole 24 ore, Milano 2006, p. 418. [N.d.T.] 10 Ivi, p. 410. [N.d.T.] 11 George Berkeley, op. cit., p. 200. [N.d.T.] 12  Heinz Pagels,  Il codice cosmico, trad. it. di Emilio Panaitescu, a c. di Tullio Cannillo, Bollati Boringhieri, Torino 2016, p. 172. [N.d.T.] 13  Parmenide,  Sulla natura, a c. di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2016, frammento 3, p. 45. [N.d.T.] 14 Erwin Schrödinger, Che cos’è la vita?, trad. it. di Mario Ageno, Adelphi, Milano 2012, p. 148. [N.d.T.] 15 Gli autori si riferiscono al controllo della propria volontà esercitato per esempio quando si muovono le dita. [N.d.T.] 16 Erwin Schrödinger, Che cos’è la vita?, cit., p. 151. [N.d.T.] 17 Erwin Schrödinger, La mia visione del mondo, a c. di Bruno Bertotti, Garzanti, Milano 1987, p. 32. [N.d.T.]

18  Erwin Schrödinger, Mind and Matter (The Tarner Lectures), Cambridge University Press, Cambridge 1959, Capitolo 4. [N.d.T.] 19 Erwin Schrödinger, Che cos’è la vita?, cit., p. 151. [N.d.T.]

6. La coscienza

Ritengo

che fondamentale.1

la

coscienza

sia

Max Planck

Nel Novecento i fisici sono rimasti sbalorditi dall’improvvisa consapevolezza della «consapevolezza», aspetto più fondamentale di tutti nella vita umana. Da una parte, la consapevolezza o coscienza ha una realtà indiscutibile, forse anche più delle conclusioni sull’universo materiale basate sui calcoli più rigorosi, che erano il punto focale delle loro ricerche. D’altro canto, la coscienza sembrava fuori posto nei dibattiti scientifici; era un po’ come parlare di amore, rapporti umani, o cose imponderabili del genere. Il motivo era in parte che gli scienziati, ispirandosi a figure come Pierre-Simon de Laplace nel secolo precedente, erano più o meno riusciti a far somigliare l’universo a un enorme macchinario dal funzionamento autonomo. Una volta scoperte le leggi del moto e della probabilità, e la natura delle forze che tirano e spingono le cose, si poteva prevedere tutto nel cosmo meccanico. Non c’era affatto bisogno di tirare in ballo la coscienza. Eppure i progressi nella fisica compiuti negli anni venti continuavano a portare in primo piano l’osservatore e la coscienza. E le menti brillanti che insieme crearono e perfezionarono la meccanica quantistica, fra cui Max Planck, Werner Heisenberg, Niels Bohr, Erwin Schrödinger, Wolfgang Pauli, Albert Einstein, Paul Dirac e, successivamente, Eugene Wigner, arrivarono a capire che c’era un enorme ostacolo a un modello strettamente oggettivo che eliminasse ogni osservatore umano, fonte di disturbo. Così lo descrive Heisenberg: «Il passaggio dal “possibile” al “reale” ha luogo

durante l’atto d’osservazione. Se desideriamo descrivere ciò che accade in un evento atomico, dobbiamo aver ben presente che la parola “accade” può essere applicata soltanto all’osservazione».2 La teoria dei quanti continuava a mostrare che, quando si svolgeva una qualsiasi misura, un oggetto come un elettrone o un fotone poteva essere un’onda o una particella ma non entrambi, oppure poteva avere uno spin orientato verso l’alto o verso il basso, o ancora una polarizzazione orizzontale o verticale, oppure poteva essere qui invece che lì, e che le proprietà osservate non si potevano mai prevedere in anticipo. Il processo con cui l’oggetto si materializzava o appariva in un modo invece che in un altro comportava una modifica istantanea nella sua funzione d’onda; questa, come abbiamo visto, era una strana preesistenza, una sorta di potenzialità o probabilità vaga, non ancora «collassata» in un oggetto effettivo con proprietà tangibili. La domanda all’ordine del giorno era: che cosa fa collassare la funzione d’onda e apparire l’oggetto come entità effettiva e persistente? E, secondo ricerche come il famoso esperimento della doppia fenditura, il fattore cruciale sembrava essere l’osservatore, la persona che svolgeva la misura. Nel corso del tempo, il ruolo dell’osservatore si è dimostrato sempre più centrale, al contrario di quanto si immaginava all’inizio. A seconda della presenza o assenza di informazioni nella mente dello spettatore, non soltanto mutano le proprietà concrete ed effettive della realtà, come per esempio il fatto se l’elettrone si manifesta come un’onda invece che come una particella; prima dell’osservazione, inoltre, non ha neanche senso dire che i fotoni o le particelle subatomiche hanno certi attributi! Anzi, oggi rientra nella fisica del tutto convenzionale dire che, se si prescinde dall’osservatore, l’elettrone non ha neanche una vera posizione nello spazio o un moto effettivo. Come ha detto una volta John Wheeler, grande fisico di Princeton: «Nessun fenomeno è un fenomeno finché non è un fenomeno osservato».3 Ciò significa che il termine «osservazione», benché sembri implicare il processo passivo di chi si limita ad assistere, è in realtà la pratica di creazione della realtà.

Così, circa un secolo fa, quando gli sperimentatori stavano iniziando a mostrare che il cosiddetto mondo esterno si modificava fisicamente a seconda delle nostre osservazioni, Heisenberg scrisse: «Il mutamento discontinuo della funzione di probabilità ha luogo, tuttavia, con l’atto di registrazione, poiché è il mutamento discontinuo del nostro conoscere all’istante della registrazione che si rispecchia nel mutamento discontinuo della funzione di probabilità».4 E come spiegava Schrödinger: «L’osservatore non è mai sostituito del tutto dagli strumenti; in caso contrario, ovviamente, non potrebbe ottenere alcuna conoscenza. […] Ma [gli strumenti] vanno letti! Prima o poi devono entrare in gioco i sensi dell’osservatore. La registrazione più accurata non ci dice nulla se non la esamina nessuno».5 In breve, come già detto, possiamo conoscere qualsiasi osservazione (persino le misure fatte da strumenti) soltanto tramite la coscienza, e così, grazie al ruolo dell’osservazione, scoperto da poco, la coscienza divenne un punto focale imprevisto per studi seri di fisica. Gli esperti di leggi naturali dovevano affrontare l’argomento: ormai si percepiva chiaramente che non soltanto questo fenomeno inglobava il cosmo e ne modificava fisicamente il contenuto, ma che era il meccanismo responsabile di ogni sua manifestazione. Così, verso la fine della Prima guerra mondiale, d’un tratto i maggiori fisici del mondo si erano messi a parlare di un’entità in precedenza relegata in soffitta e considerata soltanto da metafisici, filosofi, mistici e religiosi. Avventurarsi in quel regno misterioso deve essere stato al contempo strano e frustrante, perché da molto si sapeva che la coscienza era un argomento sfuggente, che opponeva una resistenza estrema alle analisi svolte con i soliti metodi scientifici. Sembra comunque che ogni fisico teorico del primo Novecento si unisse al coro in lode della consapevolezza. Come disse Bohr: «Tutto ciò che chiamiamo reale è fatto di cose che non si possono considerare reali. Un fisico è soltanto un modo in cui l’atomo guarda se stesso».6 E Pauli: «Non supponiamo più che l’osservatore sia isolato […] ma

pensiamo a un osservatore che attraverso le sue azioni indeterminabili produce una nuova situazione […] un nuovo stato del sistema osservato».7 La coscienza era infettiva e li stava contagiando tutti. Tra i fondatori della meccanica quantistica, persino i più ossessionati dalle equazioni vedevano che la loro maniera di investigare il mondo submicroscopico, di efficacia appena dimostrata, li obbligava a considerare l’osservatore stesso. Come scrisse Max Planck, in tono sicuro e che non ammetteva obiezioni, a mo’ di Discorso della montagna: «Ritengo che la coscienza sia fondamentale. Considero che la materia derivi dalla coscienza».8 E non bisogna pensare che quei primi fisici quantistici fossero semplicemente vittime di una sorta di mania della coscienza che imperversava nell’Europa postbellica: in seguito altri geni si unirono allo stesso coro. Come spiegò nel 1961 il Nobel Eugene Wigner, fisico unghereseamericano: «Fino a pochi anni fa, l’“esistenza” di una mente o anima sarebbe stata negata con veemenza dalla maggioranza dei fisici. I successi brillanti della fisica meccanicistica e […] macroscopica […] facevano dimenticare il fatto ovvio che i pensieri, i desideri e le emozioni non sono fatti di materia, e tra i fisici era quasi universalmente accettato che non c’è nulla oltre la materia. La massima espressione di questa idea era la credenza che, conoscendo le posizioni e le velocità di tutti gli atomi in un certo istante, avremmo potuto calcolare il fato dell’universo per tutto il futuro. […] [Ma dopo l’avvento della teoria dei quanti] il concetto della coscienza è tornato in primo piano: non era possibile formulare le leggi della meccanica quantistica in maniera del tutto coerente senza far riferimento alla coscienza».9 Riassunse inoltre il suo pensiero così: «Lo studio stesso del mondo esterno ha portato alla conclusione che il contenuto della coscienza è dotato di realtà fondamentale».10 Qualche anno dopo il fisico nordirlandese John Bell elaborò il teorema che, com’è noto, fornì una base matematica per la

correlazione quantistica, che viola la località; Bell riprese le idee di Wigner: «Per quanto riguarda la mente, sono veramente convinto che essa occupi un posto centrale nella natura ultima della realtà».11 Come vedremo più avanti, nei decenni seguenti vari fisici, da Hawking a Wheeler, sono andati ancora oltre, formulando concetti come l’«universo partecipativo», in cui non creiamo soltanto il presente ma anche il passato. Come ha detto Martin Rees, famoso cosmologo britannico e Astronomo Reale: «L’universo può aver iniziato a esistere soltanto se osservato da qualcuno. Non importa se l’osservatore è comparso vari miliardi di anni dopo. L’universo esiste perché ne siamo consapevoli».12 Be’, proprio stravagante! Ma per ora bisogna notare che, a partire da circa un secolo fa, la fisica ha compiuto una svolta brusca e ha iniziato a considerare seriamente la possibilità che, senza la coscienza, il solo universo materiale non potesse costituire l’immagine vera o completa della realtà. La più famosa confutazione di questa conclusione secondo cui «le osservazioni modificano la realtà» venne presto da Erwin Schrödinger: pur essendo convintissimo che il cosmo fosse pervaso da una coscienza eterna, del tipo «tutto è uno», era contrario a quelle che gli sembravano implicazioni illogiche della teoria dei quanti nella forma data dall’interpretazione di Copenaghen. Facciamo di nuovo un breve riepilogo: come abbiamo visto nei capitoli precedenti, l’interpretazione di Copenaghen, così chiamata in onore di Niels Bohr, celebre fisico danese, era la più accettata per la tq. In questa ottica un sistema quantistico, per esempio un atomo, insieme a eventuali osservatori che lo studiano o sono influenzati da esso, assumerà decisamente uno stato o un altro soltanto nel momento dell’osservazione. Prima di allora, tutte le possibilità continuano a coesistere e sono ugualmente reali. In altri termini, la particella può essere in due luoghi allo stesso tempo, o il fotone può avere una polarizzazione sia orizzontale sia verticale, e le cose rimangono così finché qualcuno non dà uno sguardo. Poi uno stato si materializza e l’altro svanisce senza lasciare tracce. Poiché questo tipo di comportamento non ha senso nel mondo

classico (ripensate all’esempio fatto in un capitolo precedente, secondo cui un tiro di baseball può essere scorretto oppure no, ma non entrambe le cose), il gruppo di Copenaghen ipotizzò che ci fosse un insieme di leggi per il mondo quantistico e uno diverso per quello classico, e che i due non dovessero incontrarsi mai. Per far scoppiare questo palloncino, Schrödinger immaginò una situazione che poteva collegare i due mondi e che definì «del tutto ridicola». Nel 1935 scrisse sulla rivista tedesca Die Naturwissenschaften: «Un gatto è rinchiuso in una camera d’acciaio, insieme al seguente dispositivo infernale (con cui il gatto non deve poter interagire): in un contatore Geiger c’è una minuscola quantità di una sostanza radioattiva, tanto piccola che nel corso di un’ora è possibile che uno degli atomi decada, ma anche, con uguale probabilità, che non ne decada nessuno; se succede, il contatore si attiva e attraverso un relè rilascia un martelletto che frantuma un piccolo contenitore di acido cianidrico. Se si lascia tutto il sistema indisturbato per un’ora, si potrà dire che il gatto vive ancora se nel frattempo nessun atomo è decaduto. Il primo decadimento atomico l’avrebbe avvelenato. La [funzione d’onda] dell’intero sistema direbbe che al suo interno il gatto vivo e quello morto siano (sit venia verbo) mischiati o spalmati in parti uguali».13 In breve, la teoria dei quanti diceva che l’atomo radioattivo nella scatola sarebbe esistito in una sovrapposizione prima di essere osservato: ciò significava che, fino all’apertura della scatola, il povero gatto sarebbe stato simultaneamente vivo e morto, cosa che tutti ritenevano impossibile. (Almeno in un solo mondo… ma i rami di Everett erano di là da venire!) Schrödinger voleva far notare che l’interpretazione di Copenaghen sembrava rendere inevitabile questa conclusione assurda, e perciò doveva essere sbagliata. Il gatto di Schrödinger è diventato l’esperimento mentale più famoso della storia, ma non era del tutto originale. Ben quindici anni prima, nel 1920, Albert Einstein era stato il primo a sottolineare l’illogicità di questa interpretazione della tq, trovando una maniera di correlare il mondo quantistico submicroscopico e quello classico,

visibile e quotidiano: aveva concepito un esperimento mentale molto simile, in cui il decadimento atomico faceva esplodere una bomba. Ora, su una cosa non si può che essere d’accordo con Schrödinger o Einstein: la previsione della teoria dei quanti che la realtà dipende dall’osservatore è molto bizzarra. Ma il fatto è che gli esperimenti la confermano ogni volta. Sessant’anni fa, nel 1961, Eugene Wigner immaginò un altro esperimento mentale famoso. La situazione somiglia molto a quella descritta nel Capitolo 4: un osservatore, per esempio Wigner, fa un esperimento in laboratorio, mentre un suo amico ne è informato in seguito. L’esperimento doveva esaminare il processo di misura e l’esistenza o meno di fatti oggettivi. Se, per l’osservatore fuori dal laboratorio ancora ignaro del risultato sperimentale, lo stato dell’oggetto rimane in una sovrapposizione, ma «collassa» al momento della misura per l’osservatore nel laboratorio, quali sono le conseguenze per la realtà e il ruolo che vi gioca l’osservatore? Congetture come questa riflettono il sospetto a lungo nutrito dai fisici che la meccanica quantistica permetta a due osservatori di vivere due realtà diverse e contraddittorie. Progressi recenti nelle tecnologie quantistiche hanno permesso infine di compiere verifiche in laboratorio, tramite la correlazione quantistica. In un esperimento sofisticato pubblicato nel 2019 sulla rivista Science Advances, Massimiliano Proietti e colleghi della Heriot-Watt University di Edimburgo hanno confrontato realtà differenti, più di preciso due realtà alternative create con sei fotoni correlati; si veda la Figura 6.1.

Figura 6.1 Struttura dell’esperimento descritto nell’articolo pubblicato nel 2019 su Science Advances (Massimiliano Proietti et al., Sci Adv 2019;5:eaaw9832). Coppie di fotoni correlati emessi dalla sorgente (S0) erano usati per creare due realtà alternative, distribuite all’amica di Alice (scatola di sinistra) e all’amico di Bob (scatola di destra); costoro misurano i fotoni rispettivi per determinare se la misura e il fotone si trovano in una sovrapposizione di stati.14

Malgrado l’uso di tecnologie quantistiche avanzate, i ricercatori

hanno impiegato varie settimane a raccogliere dati sufficienti perché fossero significativi dal punto di vista statistico. Ma alla fine l’esperimento ha fornito un risultato inequivocabile: entrambe le realtà possono coesistere benché sfocino in conseguenze inconciliabili, come aveva previsto Wigner. Si possono rendere le realtà incompatibili così che diventa impossibile concordare su fatti oggettivi riguardanti l’esperimento. Questi risultati fanno pensare che la realtà oggettiva non esista. Come scrivono gli autori: «Questo risultato spinge a interpretare la teoria dei quanti in maniera dipendente dall’osservatore […] Il metodo scientifico si basa su fatti stabiliti in base a esperimenti ripetuti e universalmente accettati, a prescindere da chi li abbia osservati. Eppure, nel [nostro] articolo, [gli osservatori] screditano quest’idea, forse in maniera definitiva». Benché nell’esperimento gli osservatori fossero rappresentati da fotoni correlati,15 lo stesso principio si applica anche a rivelatori macroscopici, compresi gli osservatori dotati di coscienza. Questi risultati forniscono una conferma sperimentale del concetto spiegato in questo capitolo, colto per la prima volta nel secolo scorso: ciò di cui l’osservatore è consapevole, e cioè la coscienza, modifica la realtà. La coscienza è quindi importante (questa frase vince forse il gran premio per la minimizzazione), ma trabocchetti spiacevoli hanno sempre insidiato i tentativi di studiarla. Tanto per cominciare, che cos’è esattamente? Benché la sua definizione sia tuttora controversa, in genere la si intende come lo stato in cui si è consapevoli e si percepiscono le cose, lo stato di veglia in cui si hanno emozioni ed esperienze. Nel tentativo di precisare che cos’è la coscienza, l’aspetto più sfuggente è che capirla non significa soltanto indagare la natura o la qualità dei pensieri ma, a livello ancora più elementare, che cosa si prova ad avere pensieri. Di recente si è usato il termine «qualia» per indicare queste sensazioni o esperienze individuali o soggettive che definiscono la coscienza. Il filosofo David Chalmers ha coniato l’espressione «problema difficile della coscienza» per indicare le difficoltà incontrate dalla scienza per spiegare come la materia, tra cui gli atomi di carbonio, di

idrogeno e di ossigeno, o i tessuti neurali, o gli elettroni (le correnti elettriche) che percorrono i neuroni, possano dar luogo all’esperienza soggettiva del cielo infuocato al tramonto o dell’odore dell’erba appena tagliata. A oggi tutti i tentativi di spiegazione si sono rivelati futili. Facendo un passo indietro, è ancora più difficile spiegare in che modo possa comparire un qualsiasi qualia o sensazione di percezione. Si riaccendono dibattiti vecchi di secoli sulla distinzione o collegamento tra la materia e la coscienza e, se le due entità sono separate, su quale sia la più fondamentale. A volte l’intera disciplina sembra un rompicapo elaborato. La consapevolezza è forse l’aspetto più intimo ed evidente della realtà; ciò rende paradossale il fatto che rimanga impossibile spiegarla e persino arduo dibattere l’argomento. Il suo studio riesce a essere semplice come bere un bicchier d’acqua e al contempo difficile a livelli inconcepibili. Questo specifico impedimento nasce dalla contraddizione tra la nostra incapacità di spiegare come insorga ciò che permette agli animali di avere la consapevolezza, qualunque cosa sia, e il fatto che i qualia sono evidenti, fino al punto di risultare inesprimibili. La coscienza ci fa percepire il cielo come azzurro: i ciechi non riescono a concepire questa esperienza, per quanto essa sia semplice e inequivocabile e per quanto tempo si dedichi a cercare di trasmetterla a livello intellettuale. L’esperienza dell’azzurro è evidente e diversa da qualsiasi altra cosa. È anche completa in maniera gratificante. Quando vediamo il cielo sappiamo benissimo che aspetto ha e non c’è nient’altro da aggiungere. La percezione è quindi onnicomprensiva, non le manca nulla. Se quindi ci si propone di esplorare l’universo, di esaminarne le caratteristiche tramite il sapere, si potrebbe benissimo considerare la coscienza come l’aspetto iniziale e più sicuro della vita. Se c’è una pietra angolare, un punto di partenza, un elemento delle fondamenta, si tratta della coscienza. Ma benché i pionieri della teoria dei quanti fossero d’accordo sulla sua importanza e l’avessero dimostrata, molti scienziati vedono un’incompatibilità analoga a quella tra olio e acqua nei tentativi di affrontare con equazioni matematiche e fisiche i classici aspetti imponderabili della vita. E così oggi, un secolo dopo, la maggioranza

degli scienziati cambia argomento ogni volta che si nomina la coscienza, e persino chi la studia continua a farlo in maniera superficiale, forse perché, come detto in precedenza, non ha la capacità o l’intenzione di ampliare i confini della scienza per farvi rientrare questo tipo di fenomeni di natura soggettiva. Un esempio è il cognitivista Daniel Dennett, autore di Coscienza: Che cosa è, che in originale si intitola Consciousness Explained, cioè «La coscienza spiegata». Secondo Dennett i qualia non sarebbero neanche un concetto utile. Di fatto il suo libro, nonostante il titolo promettente, ignora il «problema difficile» e dedica piuttosto centinaia di pagine a descrivere quali parti del cervello controllano funzioni specifiche come la visione; di conseguenza molti liquidano l’opera e la chiamano «La coscienza ignorata». I presunti effetti della coscienza, insieme alla domanda più vasta se la fisica debba occuparsene o lasciarla ai filosofi e metafisici, rimangono tuttora controversi. Oggi la maggioranza dei fisici relega l’argomento nello stesso calderone dei fantasmi, di Dio o della vita dopo la morte. Chi vuole tenere la fisica isolata dai problemi più grandi della vita incontra però una resistenza notevole e costante. Nel 2018, per esempio, il fisico teorico Carlo Rovelli ha scritto che la fisica deve occuparsi dei problemi irrisolti più profondi, anche se possono sembrare filosofici. Così si è espresso in un articolo su un blog della rivista Scientific American: «Ecco una lista di argomenti oggi dibattuti nella fisica teorica: che cos’è lo spazio? Che cos’è il tempo? Il mondo è deterministico? Bisogna tener conto dell’osservatore per descrivere la natura?». Il problema della coscienza non sparirà. La grande flotta di domande basilari e ponderose varata dai pionieri della teoria dei quanti continua a veleggiare, e gli scafi rimangono profondamente nascosti sott’acqua, non meno di quanto lo fossero all’epoca. Ma tra i mari più burrascosi sembrano infine far capolino porti soleggiati, proprio davanti a noi.





6. La coscienza 1 Intervista a Max Planck su The Observer (25 gennaio 1931), p. 17. [N.d.T.] 2  Werner Heisenberg,  Fisica e filosofia, trad. it. di Giulio Gnoli, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 69. [N.d.T.] 3  John Archibald Wheeler, «The “Past” and the “Delayed-Choice” Double-Slit Experiment», in A.R. Marlow (a c. di),  Mathematical Foundations of Quantum Theory, Academic Press, Cambridge 1978, pp. 9-48. [N.d.T.] 4 Werner Heisenberg, Fisica e filosofia, cit., p. 69. [N.d.T.] 5  Erwin Schrödinger,  Mind and matter (The Tarner Lectures), Cambridge University Press, Cambridge 1959, Capitolo 6. [N.d.T.] 6  Niels Bohr,  The Philosophical Writings of Niels Bohr, Ox Bow Press, Woodbridge 1987. [N.d.T.] 7 Wolfgang Pauli, Fisica e conoscenza, trad. it. di Ingeborg Dennerlein, Giuseppe Perna e Augusto Gamba, Bollati Boringhieri, Torino 2016, p. 10. [N.d.T.] 8 Intervista a Max Planck su The Observer (25 gennaio 1931), p. 17. [N.d.T.] 9  Eugene Wigner, «Remarks on the Mind-Body Question», riprodotto in John Archibald Wheeler e Wojciech Hubert Zurek (a c. di),  Quantum Theory and Measurement, Princeton University Press, Princeton 1983, p. 168 e 169. [N.d.T.] 10 Ivi, p. 169. [N.d.T.] 11 John S. Bell, Dicibile e indicibile in meccanica quantistica, trad. it. di Gabriele Lorenzini, Adelphi, Milano 2010, p. 258. [N.d.T.] 12  Martin Rees, «The Anthropic Universe», in  New Scientist, 6 agosto 1987, p. 46. [N.d.T.] 13  Erwin Schrödinger, «Die gegenwärtige Situation in der Quantenmechanik», Die Naturwissenschaften 48, 29 novembre 1935, pp. 807-812 (questo passo: p. 812). [N.d.T.] 14  Il copyright (2019) appartiene agli autori, alcuni diritti sono riservati; il licenziatario esclusivo è la American Association for the Advancement of Science. Non vengono fatti riferimenti a materiale originale del governo statunitense. Distribuito in base alla Creative Commons Attribution License 4.0 (cc by). 15 Questo sarà ulteriormente chiarito nel prossimo capitolo quando definiremo la gerarchia delle rappresentazioni, in base alla quale, dal punto di vista della prima persona, gli altri osservatori (come i rivelatori) sono una sorta di immagini («rappresentazioni») nella coscienza.

7. Come funziona la coscienza

Il celebre problema concernente la comunanza fra pensiero ed estensione […] verrebbe dunque a ridursi esclusivamente al compito di spiegare come in un soggetto pensante in generale sia possibile l’intuizione esterna ossia dello spazio (di ciò che lo riempie, figura e movimento). Ma nessuno è in grado di dare una risposta a tale domanda.1 Immanuel Kant

Continuate a fissare il tecnico. Iniziate a capire le sue parole: è necessaria una grossa riparazione al vostro generatore meraviglioso e costosissimo, acquistato qualche anno fa per non rimanere al buio durante i temporali e quando va via la corrente. «La guarnizione della testata?» Ripetete quel che ha appena detto lui, temendo che implichi grosse spese. «Che cosa diavolo sarebbe esattamente?» Ascoltate con interesse le spiegazioni del tecnico sulle basi dei motori a quattro tempi, e sul motivo per cui le due sezioni grandi del monoblocco del motore richiedono uno stato compressibile che impedisce le perdite di olio e gas. L’ingegneria moderna è davvero una meraviglia. Ma l’autentica meraviglia viene ancora prima: come possa avvenire l’esperienza di una realtà anche ordinaria come la visita del tecnico. Come avviene che percepite la persona davanti a voi con tanti dettagli tridimensionali, capendo le sue parole (o almeno, quasi tutte), e che sia lui sia voi percepite gli eventi in maniera soggettiva, riuscendo

tuttavia a comunicare nell’ambito di una realtà condivisa che sembra completamente reale? Come funziona la vostra coscienza? Abbiamo visto che il problema di che cosa sia la coscienza, di quale sia in ultima analisi la sua origine, non è un buon punto di partenza. Il motivo è che la coscienza ingloba l’intera realtà, anzi: di fatto le due sono sinonimi; la domanda equivale perciò a chiedersi l’origine di tutto. Per rendere l’impresa ancora più fondamentalmente disperata, il tempo non esiste affatto come entità indipendente al di fuori della coscienza, in modo che non c’è una matrice esterna da cui potrebbe derivare la coscienza/realtà e che fornisca un punto di vista da cui studiarla. Il funzionamento della coscienza, invece, è tutta un’altra cosa. Per fortuna siamo arrivati al punto del groviglio della coscienza in cui gli scienziati riescono davvero a fornire risposte, perché i «processi» sono proprio il tipo di studi che la mente (e gli strumenti della scienza) riescono ad affrontare in concreto. Il funzionamento della coscienza rimane tuttavia un po’ più complesso rispetto alla guarnizione della testata, perché la scienza classica che governa il motore a quattro tempi non può affrontare i fenomeni quantistici come le sovrapposizioni, in cui numerosi risultati rimangono sospesi finché il collasso della funzione d’onda non spinge tutto l’insieme a collaborare per produrre un solo risultato percepito. E risulta che la coscienza è un fenomeno quantistico. Iniziamo l’analisi del «come» della coscienza fermandoci a un semaforo. Siamo tutti d’accordo che il semaforo è «rosso», benché non potremo mai dimostrare che l’esatta esperienza visiva che io chiamo «rosso» sia identica alla vostra. Non ha importanza perché, qualunque sia, essa rimane invariata nel tempo, e così ha fatto dalla prima volta in cui si sono dati nomi ai colori. Uno dei grandi enigmi della consapevolezza, ovviamente, viene anche prima: come e perché abbiamo l’esperienza di qualcosa detto «rosso». Per capire il problema, considerate che la luce fa parte dello spettro elettromagnetico, un gradiente continuo di radiazione elettromagnetica lungo cui diminuisce il valore della lunghezza d’onda. Potremmo percepire soltanto la luminosità dello spettro visivo, che ci apparirebbe come un continuum di grigi più o meno

chiari. Potrebbe essere una semplice esperienza quantitativa, ma per gli esseri umani e per altri animali non lo è. Abbiamo invece una specifica esperienza qualitativa. Perché mai, quando la luce ricade in precisi intervalli dello spettro visivo, abbiamo l’esperienza soggettiva di una specifica sensazione che chiamiamo «rosso» invece che, per esempio, «verde»? Nel 1965 si sono scoperti nell’occhio tre tipi di cellule a forma di cono che, se stimolate, sono poi associate alle sensazioni visive di rosso, verde e blu. La stimolazione di ogni tipo di cono è associata a un’esperienza specifica. Ma come e perché? È significativo il fatto che ben due terzi di queste cellule sono i cosiddetti «coni L», responsabili della sensazione del rosso. Questa maggioranza sbilanciata fa pensare che, da subito, percepire la luce nella gamma dello spettro visivo corrispondente al «rosso» sia più importante rispetto alle altre lunghezze d’onda; la nostra percezione dei colori ha perciò uno scopo. In termini evolutivi, è probabile che il rosso attiri di più l’attenzione del cervello perché è associato a fenomeni importanti e preoccupanti come lesioni e incendi, e al sangue. Nella vita, in genere la presenza improvvisa di quel colore nella coscienza significa che la bicicletta è uscita di strada finendo in un campo di begonie o, cosa più inquietante e, agli albori dell’umanità, più probabile, che ci si era feriti al braccio e bisognava subito correre ai ripari. La possibilità di trovarsi in pericolo di vita ha trasformato il rosso nel segnale tradizionale per cattive notizie da non ignorare. Lo sappiamo a livello istintivo; per questo non verrebbe in mente a nessuno che apprezzi un ambiente domestico sereno, tranne che a bastian contrari adolescenti, di tinteggiare la stanza da letto con un rosso acceso. Ciò spiega come mai per convenzione universale il rosso sia diventato il colore degli avvertimenti e dei segnali di «stop» lungo le ferrovie e, tempo dopo, lungo le strade. Questa regola non è contestata neanche in culture diverse e tanto critiche dell’Occidente da voler ignorare le convenzioni moderne. È chiaro che l’esperienza qualitativa chiamata «rosso», in grado di attirare l’attenzione, è associata a un insieme profondamente innato di emozioni e connessioni neurali.

Un insieme di circuiti analogo ma distinto, che include gruppi intricati di cellule, è associato agli altri colori e coni, ognuno connesso ad aree separate del cervello. Se queste architetture cellulari sono stimolate tramite i coni rispettivi presenti nella retina, abbiamo esperienze specifiche: l’azzurro evoca la vastità del cielo e dà una sensazione di calma, molto più del rosso, mentre il verde richiama piante e vegetali vissuti in innumerevoli secoli passati ed è un tranquillizzante inno alla vita. Riteniamo che questi tre colori elementari e le loro svariate combinazioni debbano essere stati particolarmente importanti per la sopravvivenza all’inizio dell’evoluzione; per questo motivo sono associati a vie funzionali specifiche nel cervello. Quando la complessa logica relazionale di questi gruppi distinti di cellule giunge nella regione del cervello associata alla coscienza e in attiva correlazione quantistica, abbiamo sensazioni specifiche, anche se in genere non ci soffermiamo a riflettere su come giungiamo a percepire ciascuno di questi colori, proprio come non riusciamo a distinguere gli ingredienti nella maionese o in snack per la colazione a base di fiocchi d’avena. Questo è soltanto un rapido sguardo al funzionamento dei processi che si svolgono dietro le quinte delle percezioni consce e della formulazione delle decisioni. Per capire quelle di cui siamo consapevoli, bisogna tornare alla nuvola di attività quantistica che circonda gli innumerevoli eventi neurali ed elettrici del cervello. È del tutto naturale desiderare una spiegazione più completa di che cosa esattamente innesca il collasso della funzione d’onda. Se ne è responsabile un’osservazione svolta in maniera consapevole, perché non dovrebbe poterlo causare anche un evento subconscio, come un improvviso nervosismo che ci coglie senza che ci venga in mente di attribuirlo alle strane pareti rosse del locale in cui siamo appena entrati? Dopotutto il subconscio è spesso il fattore decisivo in eventi del genere, proprio come lo è in molti riflessi involontari. La risposta è che le attività a livello subconscio sono in una sovrapposizione quantistica, cioè tutte le possibilità coesistono in simultanea. Ma nel momento in cui i risultati diventano reali ed entrano nella consapevolezza conscia, viene compiuta una «scelta»

percettibile. Questo è cruciale, perché esistono sempre molte catene possibili di attività cerebrale (in molti possibili rami di Everett). Ma quando la coscienza è sospesa a uno di loro, percepito soggettivamente come la consapevolezza di un risultato definito, la cosa si può allora descrivere matematicamente come il collasso della funzione d’onda. Sarà forse utile richiamare il capitolo precedente, e nello specifico il riepilogo dell’esperimento mentale di Schrödinger sul gatto più famoso nella storia della fisica. In quell’esempio, una catena di eventi iniziava con una sostanza radioattiva monitorata da un contatore Geiger. La funzione d’onda della sostanza era una sovrapposizione di due stati, in uno solo dei quali avviene il decadimento. Semplifichiamo la situazione trasferendola in un laboratorio moderno, ed eliminiamo ogni rischio di eutanasia del gatto che ci attirerebbe noie da parte di associazioni animaliste. Se avviene il decadimento, il contatore rileva un fotone di alta energia ed emette un breve ticchettio che entra nelle orecchie del tecnico di laboratorio. A quel punto il suono, che in sé è soltanto un’onda di pressione transitoria nell’aria, è trasformato in un segnale elettrochimico trasmesso dai nervi al cervello, che inizia a elaborare l’informazione, dapprima a livello subconscio. Poi l’informazione viene decodificata nella coscienza come «un ticchettio del contatore Geiger», e segue una cascata di giudizi interpretativi nella corteccia cerebrale. L’intera sequenza di eventi comprende una catena possibile di attività cerebrale, ma osservate che il fenomeno strettamente fisico, cioè il decadimento radioattivo, e le reazioni neurali sono tutti legati inesorabilmente in un singolo risultato! L’altro caso, in cui non avviene il decadimento, corrisponde a una catena diversissima di attività cerebrale che porta nella coscienza la consapevolezza che non ci sono stati ticchettii. Ci sono quindi due rami possibili, uno che termina nella consapevolezza cosciente di un ticchettio e uno in cui c’è solo silenzio; secondo la teoria dei quanti, entrambi erano ugualmente reali (in sovrapposizione) fino al momento della percezione. Dal mio punto di vista personale, tuttavia, non posso essere in una sovrapposizione di questi due stati di consapevolezza, che si escludono a vicenda: ovviamente non

posso sentire un ticchettio e al contempo non sentirlo. Mi trovo perciò esattamente in uno di questi due stati di consapevolezza. Il collasso della funzione d’onda è quindi effettivamente innescato dalla mia percezione dell’una o dell’altra cosa. Ma forse il lettore non sapeva che i due rami si estendono fino a includere la sostanza radioattiva, lo strumento, l’altoparlante che funziona oscillando, la membrana del timpano che vibra nell’orecchio e gli innumerevoli neuroni cerebrali. Tutte queste cose sono inesorabilmente parte di un solo ramo di Everett e sono inseparabili. Il modo in cui varie aree cerebrali sono coinvolte in una sovrapposizione e il collasso di quest’ultima in una singola esperienza è legato ai dettagli di come il cervello elabora le informazioni; a questo punto, perciò, occorre qualche dettaglio tecnico. Tutti i neuroni cerebrali elaborano le informazioni tramite segnali elettrici e chimici. I neuroni possono essere eccitati tramite impulsi elettrici; «pompe ioniche» mantengono differenze di potenziale su lati opposti delle loro membrane. Gli ioni nel cervello sono atomi di sodio, potassio, cloro e calcio che hanno perso o acquisito elettroni e quindi hanno una piccola carica elettrica. Attraversano la membrana cellulare tramite canali ionici che vi sono presenti; appaiono così differenze nella concentrazione di ioni tra l’esterno e l’interno della cellula. Se varia la differenza di potenziale tra i lati opposti della membrana questi canali ionici, sensibili all’elettricità, possono funzionare in maniera diversa. Se la differenza di potenziale varia abbastanza, allora e solo allora si genera un impulso elettrochimico detto potenziale d’azione (o anche «impulso nervoso» o «spike»), che sfreccia lungo l’assone della cellula a una velocità che può andare da 110 a 400 chilometri all’ora, e può in seguito attivare le connessioni sinaptiche con altre cellule. In ultima analisi, perciò, nel cervello tutte le informazioni sono mediate dalla dinamica degli ioni. Questi ioni sono molto piccoli, così come i canali tramite cui entrano o escono dalla cellula. Come ha fatto notare Henry Stapp, fisico matematico americano: in accordo con il principio di indeterminazione di Heisenberg, compare allora un’incertezza altrettanto grande riguardo alla direzione di moto dello ione. Ciò

significa che, durante il percorso dal canale ionico al sito della sinapsi, il pacchetto d’onda quantistico che descrive la posizione dello ione si allarga e diventa molto più grande di quel sito.2 «Di conseguenza, il problema se uno ione calcio, insieme ad altri ioni calcio, produca o no una esocitosi (cioè esca dalla cellula) è di natura quantistica ed è essenzialmente analogo al problema se una particella quantistica attraversi una o l’altra fenditura nell’esperimento della doppia fenditura. Secondo la teoria dei quanti, la risposta è entrambe.»3 Benché Stapp si concentrasse sull’apertura e chiusura dei canali ionici del calcio, il meccanismo non si riduce a questo caso. Per esempio, sonde elettrofisiologiche permettono di studiare il movimento di vari tipi di ioni nell’ambito delle cellule cerebrali. Se l’elettrodo è abbastanza piccolo, cioè ha un diametro dell’ordine dei micrometri, è possibile osservare e registrare direttamente l’attività elettrica all’interno di singole cellule. Riusciamo quindi a cogliere l’intero meccanismo che contribuisce alla comparsa del tempo, dal livello quantistico (dove tutto è ancora in una sovrapposizione) agli eventi macroscopici che si verificano nei circuiti cerebrali (si veda il Capitolo 11 per maggiori informazioni sul cervello e la comparsa del tempo). Parlare di apertura e chiusura dei canali del calcio non basta: quando si include nel meccanismo la dinamica ionica che contribuisce all’intera sequenza temporale degli eventi, da modifiche nei gradienti ionici nella cellula alla comparsa di impulsi nervosi nell’assone, l’equazione si riduce soltanto a una nuvola di informazioni quantistiche. E se da un lato le sonde appropriate e le tecnologie attuali permettono di monitorare come si genera e si trasmette il potenziale d’azione lungo l’assone, il fenomeno di base riguarda le informazioni quantistiche che appaiono tutt’a un tratto quando si include nel processo la dinamica degli ioni e le loro sovrapposizioni. Il motivo è che se ogni parte del sistema informativo associato alla coscienza, la sensazione unitaria di «sé», è simultaneamente

interconnessa, il merito è della modulazione della dinamica ionica a livello quantistico. Questo è il punto centrale. La cosa rilevante in questa fase (e nell’intero libro, ogni volta che si parla di coscienza e di funzione d’onda) è che le regioni quantisticamente correlate del cervello, che prese insieme costituiscono il sistema percepito come coscienza in tutte le sue manifestazioni, si presentano come tali perché un senso del «tempo», cioè lo scorrere sequenziale degli eventi, emerge simultaneamente in tutti gli algoritmi spaziali e nei circuiti cerebrali che generano un’esperienza conscia e di vita reale (spaziotemporale). È importante notare che la separazione spaziale tra neuroni nel cervello non ha significato prima che si verifichi questo processo. È un fenomeno che avviene oppure no, senza possibilità intermedie. In un qualsiasi momento dato, c’è una nuvola di attività quantistica associata alla coscienza. Le cose esatte che percepite e di cui avete esperienza in maniera conscia varieranno a seconda dei ricordi e delle emozioni richiamate dal sistema in quel momento, corrispondenti a varie reti di circuiti cerebrali. Si può ampliare ulteriormente questa logica spaziotemporale al resto del cervello, al sistema nervoso periferico e addirittura al mondo intero che si osserva in quel momento. Si trovano altre conferme in chi soffre di disturbo dissociativo dell’identità: questi pazienti hanno identità distinte o dissociate, due o più sé, come nel famoso caso di Sybil. Lo stesso cervello può quindi avere varie regioni che hanno ciascuna un’esperienza diversa dell’identità. In simili casi, una vasta parte dei circuiti cerebrali associati a ogni sistema correlato può sovrapporsi, e la separatezza (cioè le identità diverse) può insorgere perché in vari istanti vengono richiamati diversi ricordi e aree di emozioni. Sybil può essere «Peggy» adesso, «Vicki» stasera e «Sybil Ann» domani, a seconda delle aree del cervello correlate in un istante qualsiasi. Si può anzi osservare il processo, perché sono stati svolti esperimenti analoghi che illustrano alla perfezione le sovrapposizioni. In un esperimento del 2007 pubblicato sulla rivista Science, alcuni fotoni venivano sparati in uno strumento e si mostrava che era

possibile modificare in maniera retroattiva se questi fotoni si comportavano come particelle o come onde. I fotoni dovevano «decidere» che cosa fare quando arrivavano a una biforcazione del dispositivo. In seguito, dopo che si erano allontanati di quasi 50 metri dalla biforcazione, lo sperimentatore poteva azionare un interruttore… e che lo facesse o meno determinava il comportamento della particella alla biforcazione incontrata in passato. Questo tipo di esperimento «a scelta rinviata» è stato proposto per la prima volta, decenni prima che fosse possibile realizzarlo, da John Wheeler; questo insigne fisico di Princeton e collega di Einstein ha inoltre diffuso l’espressione «buco nero» e coniato il termine «wormhole». La prossima figura mostra come funziona l’esperimento. I fotoni partono dall’angolo in basso a sinistra e per prima cosa incontrano un divisore di fascio. Quest’ultimo è la «biforcazione»: se i fotoni del fascio luminoso si comportano come particelle, metà va dritta e metà viene deflessa verso l’alto. Se invece il fotone si comporta come un’onda, esso seguirà entrambi i cammini, come detto nei capitoli precedenti. Dopo il divisore di fascio, c’è una probabilità identica che ciascun fotone arrivi all’uno o l’altro dei rivelatori all’estremo dell’esperimento. Se molti lampi di luce vengono sparati sul dispositivo, quando si comportano come particelle metà di loro arriverà a un rivelatore e metà all’altro. Ma un secondo divisore di fascio (rappresentato dalla riga tratteggiata in alto a destra) ricombina i cammini, ottenendo un solo fascio luminoso che mostra effetti di interferenza tipici della natura ondulatoria della luce. A seconda se lo sperimentatore sceglie di attivare questo secondo divisore di fascio, i fotoni escono dal dispositivo in maniere diverse; in altri termini, questa scelta determina in maniera retroattiva la decisione presa dal fotone in precedenza sul cammino da intraprendere e sul comportamento ondulatorio o particellare: ne segue che azioni e osservazioni compiute nel futuro possono modificare eventi già avvenuti. Wheeler stesso, però, trovava un po’ fuorviante l’interpretazione «retroattiva» dell’esperimento sulla scelta rinviata. A suo parere, invece, l’esperimento mostra soltanto che la logica di ciò che avviene alla

biforcazione (cioè gli eventi avvenuti nel passato all’interno del dispositivo) dipende dall’attivazione o meno del secondo divisore di fascio; in altri termini, nulla è collassato finché nel presente non si compie la seconda scelta/osservazione.

Figura 7.1 Realizzazione sperimentale dell’esperimento di Wheeler sulla scelta rinviata. Nel 2007 i ricercatori hanno sparato fotoni su un dispositivo (freccia in basso a sinistra) e hanno dimostrato di poter far variare in maniera retroattiva il comportamento dei fotoni tra ondulatorio e particellare. Alla biforcazione del dispositivo, le particelle dovevano «decidere» se seguire il «cammino n. 1» o il «cammino n. 2». In seguito (quasi 50 metri dopo la biforcazione), azionando un interruttore lo scienziato poteva accendere o spegnere un secondo divisore di fascio («scelta dell’osservatore», in alto a destra). Risulta che le azioni dell’osservatore in quel punto determinano il comportamento passato della particella alla biforcazione.

Comunque lo si interpreti, l’esperimento del 2007 e altri simili mettono seriamente in discussione l’esistenza di un «passato fisso». In effetti, sin dagli anni sessanta, fisici teorici come Wheeler hanno espresso la ferma convinzione che il passato non si formi finché gli oggetti coinvolti non sono osservati nel presente (ne riparleremo nel Capitolo 12). Simili effetti quantistici nel cervello sono una forte indicazione del fatto che le decisioni, e già la semplice consapevolezza, provochino un’intera cascata di conseguenze quantistiche, in apparenza capaci di «sovrascrivere» le configurazioni precedenti. La cosa importante da notare è che il contenuto attuale della coscienza fa collassare la logica spaziotemporale di quanto avvenuto in passato. Prima di concludere l’analisi dei meccanismi della coscienza, bisogna citare un ultimo vespaio: la difficoltà di descrivere la coscienza di una persona in base all’attività dei suoi circuiti cerebrali. Se uno scienziato esamina l’attività cerebrale di un’altra persona, per esempio Alice, il cervello di lei e il suo funzionamento sono rappresentati nel cervello e nella coscienza dello scienziato. Questo

tentativo di studiare il mondo esterno, che include il funzionamento mentale di Alice, rimane quindi interamente compreso nella coscienza dello scienziato. È vero che si possono ottenere indicazioni significative sul modo in cui la coscienza di Alice (o, più di preciso, la nostra percezione della sua coscienza) interagisce con l’attività cerebrale dello scienziato. Ma per quanto ci si sforzi di capire la coscienza di Alice e la percezione che lei ha del mondo esterno, si ottiene comunque solo un’immagine o rappresentazione del cervello di Alice. Nel tentativo di capire la coscienza di un altro essere umano o di un animale, a volte si cerca di mettersi mentalmente «al posto loro». Ma le mie emozioni e pensieri rimangono comunque legate unicamente all’unica coscienza che mi è familiare e che ho sempre conosciuto come «io stesso». Non abbiamo mai l’esperienza di coscienze multiple, la nostra e quella di qualcun altro. Per quanto siano complete le informazioni che abbiamo riguardo alla coscienza altrui, possiamo al massimo vedere un’immagine dentro un’immagine, uno spettacolo dentro uno spettacolo: una mente che è soltanto rappresentata dentro la nostra. La vita permette così diversi livelli gerarchici di rappresentazione. Al livello più alto c’è una rappresentazione o «immagine» del mondo quale lo percepisce la coscienza, che si può concepire come uno stato delocalizzato (l’esperienza dell’unità assoluta) o lo stato che nella mia esperienza è centrato nel mio cervello. Nell’ambito di questa immagine di livello più alto ce ne sono altre di livello inferiore associate ad altri osservatori. Tutto ciò è illustrato nella Figura 7.2.

Figura 7.2 La rappresentazione del mondo («immagine») che ha Alice è soltanto

una rappresentazione all’interno della rappresentazione del mondo di Bob.

Il «problema difficile della coscienza» insorge quando non teniamo conto di questi vari livelli di rappresentazione e non li distinguiamo. Nell’ambito del paradigma materialistico standard, che mette al primo posto la materia, il problema difficile è la nostra incapacità di capire come l’esperienza, la percezione o le emozioni possano insorgere da oggetti materiali non senzienti come le molecole o il tessuto cerebrale, o anche dagli impulsi elettrici che lo percorrono. Il paradigma biocentrico alternativo, tuttavia, ritiene fondamentale la coscienza: il suo assioma è che il mondo «esterno» (e quindi la materia) sono una rappresentazione nella coscienza; non esiste quindi il problema di come derivare la coscienza dalla materia. Fatichiamo a capire come la coscienza insorga nel cervello della persona studiata, ma qualsiasi consapevolezza o rappresentazione del mondo che studiamo è già presente nella coscienza.

Figura 7.3 Raffigurazione di due livelli diversi di rappresentazione: nella stanza c’è un topo sulla poltrona e un gatto nel quadro. Un ragazzo filma la scena, compreso lo schermo sul tavolo, e il segnale della telecamera è trasmesso al computer che visualizza l’immagine sullo schermo. Il risultato di un simile circolo autoreferenziale è una ripetizione infinita dell’immagine dentro l’immagine. Si avrebbe una situazione analoga se una persona osservasse il funzionamento del proprio cervello.

Non è mai possibile spiegare del tutto la coscienza come

l’«esperienza in prima persona» che tutti riconosciamo come senso più intimo e familiare della nostra identità. La mia coscienza (la mia esperienza in prima persona) è a un livello diverso rispetto all’immagine della coscienza di qualcun altro che posso osservare studiando i processi neurali nel cervello di quella persona. Per me, la sua coscienza è come un’immagine dentro un’immagine, come mostra la figura precedente. Non è l’autentica esperienza della propria identità. Tutte le ricerche del genere, quindi, non si avvicinano alla vera sensazione enigmatica dell’identità. Dopotutto, il gatto rappresentato in un quadro non può mangiare un topo nella stanza. O forse sì? Gödel, Escher, Bach: Un’Eterna Ghirlanda Brillante, libro affascinante di Douglas Hofstadter, analizza a lungo la gerarchia intricata delle rappresentazioni, facendo l’esempio di una famosa litografia di Escher, Galleria di stampe, in cui un uomo osserva la raffigurazione di una città che ospita la galleria, dove si trova l’uomo stesso. Se studio i miei stessi processi neurali e, per esempio, li osservo visualizzati su uno schermo, finisco in un circolo autoreferenziale, in cui vedo la mia stessa coscienza mutare secondo quei processi neurali. Ho quindi l’esperienza della mia coscienza che ha l’esperienza della mia coscienza. È un po’ un serpente che si morde la coda, simbolo proveniente dall’iconografia dell’antico Egitto. Nella prima versione occidentale nota, il serpente racchiude le parole greche hen to pan (ἓν τὸ πᾶν), che significano «il tutto [è] uno». Presumibilmente le sue metà bianca e nera rappresentano la dualità gnostica dell’esistenza. Ma per il momento usciamo da questa sala degli specchi. Lasceremo da parte l’iconografia egizia e la saggezza degli antichi greci nel concludere «il tutto è uno»; riassumiamo quanto scoperto finora ricapitolando i sette principi fondatori del biocentrismo. Ora ne aggiungeremo un altro, l’ottavo, il primo dei quattro nuovi principi svelati da questo libro. Principi del biocentrismo Primo principio del biocentrismo: Ciò che percepiamo come

realtà è un processo che coinvolge la nostra coscienza. La realtà esterna, se esistesse, per definizione dovrebbe rientrare nell’ambito dello spazio e del tempo. Ma lo spazio e il tempo non sono realtà indipendenti: sono strumenti della mente umana e animale. Secondo principio del biocentrismo: Le nostre percezioni esterne e interne si intrecciano in maniera inestricabile. Sono due facce della stessa medaglia, inseparabili una dall’altra. Terzo principio del biocentrismo: Il comportamento delle particelle subatomiche, e anzi di tutte le particelle o corpi, è legato in maniera inestricabile alla presenza di un osservatore. Se manca un osservatore cosciente, al più essi esistono in uno stato indeterminato di onde di probabilità. Quarto principio del biocentrismo: Senza la coscienza, la «materia» rimane in uno stato probabilistico indeterminato. Un eventuale universo che precedesse la coscienza sarebbe esistito soltanto in uno stato probabilistico. Quinto principio del biocentrismo: Soltanto con il biocentrismo si può spiegare la struttura dell’universo, che presenta una regolazione fine per la vita: ciò ha del tutto senso, perché è la vita a creare l’universo, non il contrario. L’«universo» non è che la logica spaziotemporale completa del sé. Sesto principio del biocentrismo: Il tempo non ha un’esistenza reale al di fuori della percezione sensoriale degli animali. Esso è il processo tramite cui percepiamo i cambiamenti nell’universo. Settimo principio del biocentrismo: Lo spazio, come il tempo, non è una cosa o un oggetto. Lo spazio è un’altra forma della nostra comprensione animale, ed è privo di realtà indipendente. Ci portiamo dietro lo spazio e il tempo come fa la tartaruga con il carapace. Non esiste perciò una matrice assoluta e dotata di esistenza propria in cui gli eventi fisici avvengano indipendentemente dalla vita. Ottavo principio del biocentrismo: Il biocentrismo è l’unica teoria che sappia spiegare come la mente si unifica con la materia e il mondo; essa mostra che, nel cervello, la modulazione della dinamica ionica a livello quantistico permette

di interconnettere allo stesso tempo tutte le parti del sistema informativo che associamo alla coscienza.



7. Come funziona la coscienza 1 Immanuel Kant, Critica della ragion pura, a c. di Piero Chiodi, utet-De Agostini, Torino-Novara 2013, pp. 392-393. [N.d.T.] 2  Henry Stapp,  Mind, Matter and Quantum Mechanics, Springer, Berlin 2004. [N.d.T.] 3  Evan Thompson, Morris Moscovitch e Philip David Zelazo (a c. di),  The Cambridge Handbook of Consciousness, Cambridge University Press, Cambridge 2004. [N.d.T.]

8. Reinterpretazione dell’esperimento di Libet

Non sono un uccello, e nessuna rete potrà intrappolarmi; sono un essere umano libero con una mia volontà.1 Charlotte Brontë, Jane Eyre

Ora affronteremo una delle domande più antiche e fondamentali dell’esistenza umana: se esista o no il libero arbitrio. A molti lettori sembrerà forse una perdita di tempo, perché… certo, ognuno di noi ha il libero arbitrio! Non abbiamo appena deciso di ordinare il toast al tonno invece che pomodori e mozzarella? Ma diamo uno sguardo più attento. Ricordate che, dall’epoca di Descartes, la maggioranza degli scienziati pensava che il mondo fosse controllato non dai capricci delle divinità, ma da leggi e forze fisiche come l’inerzia e la gravità e, tempo dopo, a livello subatomico, dalle leggi quantistiche. A prescindere dalle convinzioni sulla nascita del cosmo, si riteneva che ormai esso funzionasse come un enorme macchinario governato dalle leggi di causa ed effetto. Queste leggi valgono anche all’interno del corpo umano. Ma allora, se non è possibile controllare personalmente le scariche elettriche nei neuroni del nostro stesso cervello, in che senso avete «deciso» di ordinare il tonno? Se ci pensate bene, per quanto abbiate considerato vantaggi e svantaggi, in un certo senso la decisione finale non vi è semplicemente apparsa in testa all’improvviso? Vi sarà capitato almeno qualche volta di avere questa impressione quando prendevate decisioni. E se non sapete davvero come le avete prese, o perché sia andata così, come potete affermare di aver esercitato il vostro libero arbitrio? D’accordo, ma se iniziamo a credere che in genere le cose

accadono di propria iniziativa, come possiamo attribuire ai criminali la responsabilità delle loro azioni? O stimolare chicchessia a compiere grandi imprese? Che fine faranno le nostre idee sulla morale e sull’umanità in genere? Ovviamente il problema è molto più complesso e profondo di quanto sembrava forse a prima vista. Fece spesso perdere il sonno anche a Einstein, che citava volentieri il filosofo ottocentesco Arthur Schopenhauer. Questi a sua volta amava ripetere: «Un uomo può fare ciò che vuole, ma non può volere ciò che vuole».2 Il fatto che stiamo tirando in ballo tutto questo groviglio, senza legami apparenti con il resto, potrebbe farvi immaginare che la meccanica quantistica o il biocentrismo entreranno in gioco per fornire qualche notevole chiarimento. E avreste ragione. In particolare, ci aiuteranno quando passeremo a considerare i famosi risultati di Libet, in genere interpretati come dimostrazione dell’assenza di libero arbitrio. Questa conclusione era derivata da quanto mostravano i suoi esperimenti ingegnosi: il rilevamento dei segnali elettrici creati dall’attività cerebrale aveva indicato più volte che le decisioni erano prese ancor prima che i soggetti dello studio ne fossero consapevoli! Quasi quarant’anni fa, Benjamin Libet si era riproposto di scoprire se i circuiti elettrici autonomi del cervello governassero la nostra vita «da soli», al contempo informandoci delle loro decisioni, che in genere ci sembrano prese da una cosa che percepiamo come «sé», cui le attribuiamo. O forse ai comandi si trovava davvero il senso del «sé», come quasi tutti hanno sempre pensato. Libet sapeva che i suoi risultati avrebbero potuto avere conseguenze profonde e, forse, avrebbero persino risolto una volta per tutte antichi dibattiti sul libero arbitrio individuale. Il primo esperimento, svolto da Libet nel 1983, comprendeva tre elementi essenziali: una scelta da fare, una misura dell’attività cerebrale durante il processo decisionale e un orologio. Ai soggetti si diceva che la scelta riguardava se fare un movimento con il braccio sinistro o destro, più di preciso compiendo uno scatto del polso o alzando un dito. Ricevevano l’istruzione di «lasciare che

l’impulso [di muoversi] apparisse da sé in un istante qualsiasi, senza averlo pianificato in anticipo e senza concentrarsi sul momento di agire. L’istante preciso in cui vi muovete è rilevato a partire dai muscoli del vostro braccio».

Figura 8.1 In genere si interpreta il famoso esperimento di Benjamin Libet come dimostrazione che non disponiamo di libero arbitrio. Questa conclusione era basata sul momento in cui si rilevava il segnale elettrico tipico dell’attività cerebrale, deducendo che la decisione venisse presa prima che il soggetto ne fosse consapevole. Come vedremo, tuttavia, il biocentrismo arriva a interpretare questo esperimento in una maniera opposta a quella tradizionale e generalmente accettata.

Il secondo elemento, la misura dell’attività cerebrale, era realizzato tramite elettrodi posti sul cuoio capelluto. Per fortuna, rilevare separatamente l’impulso a muoversi e il movimento vero e proprio nel lato destro o sinistro rientrava ampiamente nelle possibilità tecniche dell’esperimento: se si pongono elettrodi lungo la parte centrale della testa, sopra la corteccia motoria, appaiono segnali elettrici caratteristici quando il soggetto pianifica ed esegue un movimento da un lato o dall’altro del corpo. L’orologio era uno strumento specifico che visualizzava le frazioni di secondo; i partecipanti dovevano usarlo per riferire esattamente quando avevano deciso di muoversi. Già da decenni i fisiologi sapevano che, una frazione di secondo prima che venga effettuato il movimento, variano i segnali elettrici del cervello. Non era quindi sorprendente che in effetti, nell’esperimento di Libet, gli elettrodi rilevassero sempre una modifica nell’attività cerebrale una frazione di secondo prima che i partecipanti si muovessero. Fin qui tutto bene.

Il risultato sconvolgente era quanto riscontrato dai ricercatori nell’esame degli orari forniti dai partecipanti per la decisione di muoversi. Il gruppo di Libet scoprì che l’orario di questa «decisione» rientrava sempre nell’intervallo tra la modifica dell’attività elettrica del cervello (il potenziale di prontezza, secondo l’espressione tecnica) e il movimento vero e proprio. Scoprirono che la «sensazione» di aver deciso non poteva affatto essere una comunicazione di ciò che era davvero all’origine della decisione di muoversi. In genere gli elettrodi rilevavano una variazione dei segnali cerebrali fino a tre decimi di secondo prima dell’esperienza soggettiva di aver preso la decisione. E i segnali rilevati dagli elettrodi erano in effetti precisi: esaminandoli, gli studiosi riuscivano sempre a prevedere quale braccio, polso o mano il soggetto avrebbe effettivamente alzato, ancora prima che lo sapesse la persona stessa! Questi risultati sembravano mostrare chiaramente che le decisioni sono prese nei circuiti cerebrali ancora prima che la persona ne sia consapevole; non esiste quindi il libero arbitrio. In breve, il cervello decide qualcosa e poco dopo si diventa consapevoli della decisione, attribuita (a torto) al proprio libero arbitrio. Questo studio, e altre conferme sperimentali ottenute in seguito, suscitò molto scalpore: nel corso degli anni successivi il New York Times pubblicò in prima pagina tre articoli sull’argomento divulgandolo così a un pubblico più vasto. Gli articoli sul New York Times concludevano che probabilmente non esiste il libero arbitrio, ma che la società deve far finta che esista per mantenere la legalità, attribuire agli esseri umani la responsabilità delle loro azioni e così via. In alcuni ambienti gli esperimenti di Libet suscitarono a malapena uno sbadiglio: se una parte del cervello o della mente prende una decisione, benché i circuiti dell’identità che formano la sensazione di essere Nancy o George ne siano soltanto informati passivamente, ciò non rappresenta comunque una forma di autogoverno? Dopotutto a comandare è sempre il cervello. Ma per molte persone, che vedono nel sé l’unico senso di identità, i risultati di Libet erano una lezione di umiltà, se non decisamente sconvolgenti. Sembrava

che lo stato presunto di capitani a bordo della nostra vita fosse illusorio: i reni purificano il sangue, il fegato svolge le sue cinquecento funzioni e il cervello riesce a prendere in autonomia ogni decisione, incluse valutazioni quotidiane sul ristorante da frequentare e sui piatti da ordinare quando ci si va. D’improvviso non c’era più posto per Nancy o George, per il nostro senso del sé come controllore cosciente. Ma fermate le rotative e mettete via gli antidepressivi. C’è una buona notizia per chi non vuole dire addio al controllo conscio: il biocentrismo fornisce un’efficace clausola di recesso.

Figura 8.3 Rami della funzione d’onda rispetto a un terzo osservatore che non ha guardato gli strumenti (a sinistra). Rispetto allo sperimentatore (a destra), dopo che ha controllato la registrazione del potenziale di prontezza, la funzione d’onda ramificata è collassata in un solo ramo in cui il potenziale di prontezza ha preceduto il movimento del polso (illustrato nella figura dalla freccia verso l’alto).

L’interpretazione dei molti mondi della teoria dei quanti, insieme al collegamento tra il collasso della funzione d’onda e la coscienza, rappresenta l’ossatura del biocentrismo e fornisce un’interpretazione alternativa dei risultati di Libet. Non saremmo marionette le cui azioni sono determinate da atomi e proteine, ma agenti attivi. Da questo punto di vista, è soltanto la mia scelta cosciente a far collassare la funzione d’onda, e lo fa nel momento in cui sono conscio della decisione di muovere la mano destra o sinistra. In altri termini, il collasso della funzione d’onda non avviene quando appare il potenziale di prontezza rilevato dagli elettrodi. In quell’istante c’è ancora una sovrapposizione di possibilità, illustrata nella Figura 8.2 da cammini diversi.

Figura 8.2 Collasso della funzione d’onda quale viene percepito dalla persona soggetta a un esperimento simile a quello di Libet. Dopo aver mosso il polso, si trova nel Mondo 1; il Mondo 2 scompare dalla sua percezione.

Chi deduce da questi esperimenti l’assenza del libero arbitrio si basa sull’ipotesi che non ci sia distinzione tra i punti di vista dello sperimentatore o del soggetto. Ovviamente, l’ordine temporale degli eventi visto da un osservatore esterno (lo sperimentatore) indica che il soggetto dello studio, quale lo percepisce lo sperimentatore, non ha compiuto scelte: sembra che la decisione fosse del tutto presa al momento in cui l’elettrodo rileva la comparsa del potenziale di prontezza. Ma quest’ultimo apparteneva a uno soltanto dei rami possibili e, dal punto di vista della persona studiata, la funzione d’onda è collassata in quel ramo particolare soltanto al momento in cui lei era conscia di aver preso la decisione. A quel punto tutti gli altri rami sono scomparsi dalla sua percezione. Dal punto di vista dello sperimentatore, la situazione è diversa. Gli sembra che la funzione d’onda sia collassata quando lui ha visto il risultato dell’esperimento. In precedenza c’erano varie possibilità; dopo che ha controllato i risultati, invece, ciò che accade nell’esperimento è determinato dalla comparsa (o meno) di un potenziale di prontezza specifico. Dal punto di vista di ciascun osservatore, il cammino che seguirà la sua consapevolezza non è predeterminato. Vale altrettanto se è coinvolta una terza persona (simile all’«amico di Wigner» citato nel Capitolo 6). Rispetto a lui l’intera struttura, compresa la persona studiata, lo sperimentatore e quanto visualizzato sullo schermo, è in una sovrapposizione finché lui non vede il risultato (Figure 8.3 e 8.4).

La domanda se il dato cammino seguito dalla mia consapevolezza rappresenti una scelta conscia e sia frutto del libero arbitrio è un problema di definizione. Dal mio punto di vista, se sono la persona studiata in questo esperimento, la mia decisione di muovere il polso o sollevare un dito è una decisione libera. Se decido in questo momento di muovere il polso sinistro, la funzione d’onda del mondo (che include il mio cervello) collassa ora nello stato in cui, una frazione di secondo prima, è comparso il potenziale di prontezza corrispondente. Se avessi deciso di non muovermi affatto, la mia funzione d’onda sarebbe rimasta nello stato che include entrambe le possibilità riguardo al potenziale di prontezza (Figura 8.2). L’interpretazione tradizionale che deduce dall’esperimento di Libet l’assenza del libero arbitrio rientra nel paradigma del determinismo. Questo è il paradigma citato all’inizio del capitolo e tuttora sostenuto da molti scienziati; in esso l’universo è un grande macchinario avviato all’inizio del tempo e i cui ingranaggi e rotelle obbediscono a leggi indipendenti da noi. Come ha detto Einstein: «Tutto, l’inizio quanto la fine, è determinato da forze su cui non abbiamo alcun controllo. È determinato per gli insetti e anche per le stelle. Tutti, esseri umani, piante o polvere cosmica, balliamo seguendo una musica misteriosa, suonata da un pifferaio lontano e invisibile».3 In questa interpretazione del risultato di Libet, ogni pensiero, emozione e azione umana è il risultato automatico e meccanico di forze preesistenti; il cervello è una macchina deterministica il cui sottoprodotto è la coscienza.

Figura 8.4 Illustrazione di come appare l’esperimento di Libet a una terza persona (fuori dalla finestra). Finché lui non vede il risultato, gli sembra che sia in una sovrapposizione l’intero esperimento, inclusa la persona studiata, lo sperimentatore e il grafico mostrato sullo schermo.

Anche molti che riconoscono la realtà non deterministica della meccanica quantistica sono d’accordo, perché tale mancanza di determinismo sarebbe a tutti gli effetti confinata ai fenomeni microscopici. Altri sostengono invece che l’indeterminazione quantistica si limiti a far sì che le azioni siano un risultato della casualità quantistica; a sua volta ciò implicherebbe l’assenza del libero arbitrio tradizionale, perché queste azioni non possono essere controllate da scelte consce e indipendenti. Nello scorso capitolo abbiamo considerato l’idea che la sovrapposizione quantistica includa il funzionamento del cervello, citando in particolare le teorie di Henry Stapp. Anche questi, fra gli altri, sosteneva che l’indeterminazione quantistica dei processi cerebrali consentisse di interpretare l’esperimento di Libet in maniera compatibile con il libero arbitrio. Contrariamente alla nostra interpretazione, quella di Stapp non si basa sulla teoria dei molti mondi, ma su un meccanismo dettagliato dei processi cerebrali all’origine del potenziale di prontezza e poi della decisione conscia di muovere un dito. Stapp fornisce una bella spiegazione del perché il cervello non può essere una macchina deterministica e chiarisce che i suoi processi si trovano in una sovrapposizione quantistica. Nella comunità scientifica non c’è ancora accordo se il cervello possa davvero essere in una sovrapposizione di stati. Stapp ha però fatto notare che la coerenza quantistica nel cervello è una cosa, ma che esso, insieme all’ambiente, è in uno stato quantistico puro (cioè sovrapposto). E, di fatto, l’«ambiente» si estende all’intero universo. Di conseguenza, seppure risulta che la sovrapposizione quantistica non si verifica a livello dei processi cerebrali, questo stato puro significa che il sistema quantistico formato dal cervello e dall’ambiente include molte esperienze possibili dell’osservatore, «aggiornate» poi in un’esperienza definita dal collasso della funzione d’onda. Quando compare il potenziale di prontezza, la persona studiata non può decidere quale esperienza avere tra quelle disponibili (e perciò quale ramo), poiché essa non è neanche consapevole di ciò che sta accadendo: in quel momento la funzione d’onda è ancora in una sovrapposizione di stati. La decisione è presa in realtà un po’ dopo, quando la funzione d’onda collassa.

Riepiloghiamo: nell’interpretazione biocentrica dell’esperimento di Libet descritta in questo capitolo, voi siete l’agente che fa collassare gli eventi. Determinate il cammino seguito nell’albero ramificato dei molti possibili cammini, come mostrato nella Figura 4.4 del Capitolo 4 e nelle figure di questo capitolo. E contrariamente alle conclusioni di Libet, il responsabile non è neanche il subconscio. Proprio come indica il termine, il subconscio si trova sotto la coscienza o, secondo una definizione reperibile su internet, è «l’elaborazione mentale che si svolge sotto il livello della consapevolezza, come l’emersione di elementi inconsci nella coscienza, o si riferisce ad associazioni ed elementi sottostanti alla consapevolezza conscia ma che possono ridiventare consci». Ovviamente il corpo fa diverse cose in maniera subconscia e senza pensarci, svolge molte azioni involontarie e automatiche o riflessi in reazione a stimoli, come quando si ritrae di scatto la mano da una padella in cui sfrigola olio bollente. Ma ciò non significa che tutto il nostro comportamento sia il risultato di un’attività subconscia e che la coscienza non abbia niente da dire. Nell’interpretazione biocentrica dell’esperimento di Libet, è la consapevolezza conscia a scegliere solo uno dei cammini disponibili, che poi si trasforma nell’esperienza del soggetto. Va così in fumo la vostra scusa per essere arrivati a casa così tardi che l’arrosto è freddo da tempo. «Proprio non ce l’ho fatta, mi sono fermato al bar» non funzionerà più. In passato magari cercavate di incolpare il potenziale di prontezza, visto che non avevate alcun libero arbitrio, ma ora che vostra moglie ha letto questo capitolo, sa che cosa aspettarsi. Con le mani sui fianchi vi inchioda alle vostre responsabilità: «… E adesso magari darai tutta la colpa a una funzione d’onda che è collassata mentre pensavi ad altro, vero? Be’, non provarci nemmeno!»



8. Reinterpretazione dell’esperimento di Libet

1  Charlotte Brontë, Jane Eyre, trad. it. di Monica Pareschi, Neri Pozza Editore, Vicenza 2014, p. 363. [N.d.T.] 2  Questa è la riformulazione che ne dà Einstein in Carl Seelig (a c. di),  Idee e opinioni, trad. it. di Franco Fortini, Schwarz, Milano 1958, p.  20, probabilmente ispirandosi a: «Tu puoifare  quello che  vuoi; ma in ogni momento dato della tua vita, puoi  volere  solo una cosa determinata e assolutamente niente altro che quest’unica cosa» (Arthur Schopenhauer, Sulla libertà del volere, in I due problemi fondamentali dell’etica, a c. di Sossio Giametta, Bompiani, Milano 2019, questo passo: p. 175). [N.d.T.] 3  Da un’intervista di G.S. Viereck, «What Life Means to Einstein», in  Saturday Evening Post, 26 ottobre 1929. [N.d.T.]

9. La coscienza animale

Guardiamo gli animali con condiscendenza per la loro incompletezza, per il tragico destino di aver preso una forma tanto inferiore alla nostra. Ma è un errore marchiano.1 Henry Beston

È naturale concentrarsi sugli esseri umani quando si studia la coscienza. Siamo tutti attirati dalle cose familiari. E come già visto, stiamo appena iniziando a capire la stessa coscienza umana; senz’altro indagare quella di un polipo, per esempio, è ancora più difficile. Ma in effetti anche in creature diversissime da noi avvengono esperienze soggettive e i processi vari e sofisticati che facilitano la percezione. Simili creature hanno magari un’architettura neurale ben diversa dalle strutture del cervello umano, eppure chiaramente fatta in modo che la coscienza possa esservi centrata o localizzata. Le strutture neurali della coscienza si sono evolute per consentire esperienze individuali adattate a situazioni e habitat specifici. Quanto alle manifestazioni dell’esperienza cosciente nelle forme di vita non umane, una differenza importante è forse già nota grazie agli ultimi sviluppi nell’istruzione elementare: l’enfasi sulla «mindfulness» o piena consapevolezza, pratica che risale ad antiche tecniche meditative; visto che secondo alcuni dati essa aiuta a migliorare la concentrazione, a volte si consiglia oggi agli insegnanti di proporla agli studenti. Chi non ha mai sentito il termine potrebbe immaginare che si riferisca a un periodo di riflessione, ma in realtà la mindfulness richiede l’opposto. L’idea è porre attenzione alle

esperienze sensoriali immediate, invece di rimuginare su questo o quello. Se gli studenti riescono a osservare semplicemente ciò che vedono o sentono, facendo caso agli infiniti dettagli che caratterizzano il momento attuale invece di fantasticare, saranno più svegli e presenti e trarranno maggiori benefici dal qui e ora, incluse le esperienze vissute in classe. In conclusione: gli enormi cervelli che abbiamo ricevuto possono essere una distrazione non meno che un dono. Questo «essere nell’istante» è il tipo di coscienza che, per quanto ne sappiamo, corrisponde meglio a quella degli altri organismi coscienti. Con questa espressione intendiamo gli animali (inclusi gli uccelli e gli insetti) dotati di cervelli, organi sensoriali ed estremità che permettono di spostarsi e percorrere lo spazio, ma anche animali e piante che, pur non muovendosi, possono immagazzinare ricordi e reagire all’ambiente circostante. La mindfulness potrebbe renderci più sincronizzati con il vissuto degli animali non umani, ma di certo le differenze tra l’esperienza conscia nostra e loro non si limitano affatto alla tendenza prettamente umana alle fantasticherie. Alcuni organismi usano informazioni sensoriali che sono del tutto assenti dalla nostra coscienza o che, se presenti, nel corso del tempo si sono indebolite poco a poco, fino a svolgere ormai un ruolo trascurabile nella vita quotidiana. Iniziando a considerare la coscienza animale, si apre un’analisi quasi infinita di strani, nuovi mondi. Ricordate che la realtà esiste rispetto a un osservatore particolare; la coscienza animale, come quella umana, comporta il collasso della funzione d’onda. E la struttura fisiologica specifica degli altri animali fa sì che le loro scelte e il collasso delle loro funzioni d’onda si svolga su percorsi che differiscono dai nostri in maniere straordinariamente creative e utili. Chiunque abbia mai avuto un cane sa dove si concentra perlopiù l’attenzione canina: sugli odori, certo. E non occorre chiedersi se questa tendenza sia una mera abitudine o derivi da vincoli genetici e ambientali più profondi. Basta osservare la faccia di Rover, e in particolare quel naso! Inizia poco sotto gli occhi come il nostro, ma poi arriva fin quasi alla Florida. È allora tanto sorprendente che il 90

per cento dell’attenzione di Rover sia dedicato alla chimica ambientale? Si percepisce l’odore di una sostanza quando almeno una sua molecola arriva alla mucosa umida che riveste il naso, e vi aderisce. (Ecco perché alcune molecole molto grandi, come le tetracicline e il dna, non hanno affatto odore: viste le loro dimensioni non possono aderire al nostro naso.) Con la loro altissima sensibilità olfattiva, i cani riescono a percepire anche solo poche molecole che aleggiano nell’aria. Si stima che il naso dei segugi contenga 230 milioni di cellule olfattive, quaranta volte tanto rispetto agli esseri umani. E mentre nel nostro cervello il centro olfattivo è grande quanto un francobollo, nel cane può raggiungere le dimensioni di una busta da lettere. Tutta questa architettura sensoriale non si limita a permettere di rilevare odori appena percettibili: addirittura, il cane se ne delizia. Il suo mondo è un miscuglio di affascinanti escrezioni biochimiche che trasmettono le molteplici vicende di creature passate da poco nelle vicinanze. Perché mai il cane dovrebbe allora condividere la nostra concentrazione sugli aspetti visivi? In effetti, rispetto a lui l’essere umano percepisce una gamma di colori più vasta: nella sola parte verde dello spettro, dove è maggiore la nostra sensibilità, riusciamo a distinguere cinquanta sfumature diverse. Al contrario i cani non riescono a distinguere affatto il verde, il rosso e il giallo: per loro è sempre la stessa tonalità; vedono una differenza evidente soltanto con l’azzurro. Molti animali sono dotati di una coscienza che crea esperienze visive enormemente diverse rispetto agli esseri umani, la cui acuità visiva è quasi la migliore in assoluto. Lo illustra la figura seguente: noi vediamo la Casa Bianca come la rappresenta l’immagine superiore (benché di solito a colori!), mentre per alcuni insetti la realtà collasserebbe collettivamente in qualcosa di più vicino all’immagine inferiore. Se il suo campo visivo è così poco vario, perché mai Rover dovrebbe spalancare gli occhi quando può annusare? Il fatto è che le differenze fra la nostra coscienza e quella del nostro cane vanno

ben oltre il contrasto tra vista e olfatto. Di recente si è dimostrato che i cani percepiscono i campi magnetici! Si sa da tempo che alcuni animali si orientano allineandosi con la debole magnetosfera terrestre, la cui intensità è minima, appena 0,5 gauss. Tra questi ci sono api, uccelli, termiti, formiche, galline, molluschi, molti batteri, piccioni viaggiatori, salmoni reali, anguille europee, salamandre, rospi, tartarughe… L’elenco è lungo. Queste creature hanno capacità magnetotattiche, a volte dovute al fatto che presentano catene dei cosiddetti magnetosomi, in cui pagliuzze di minerali ricchi di ferro come la magnetite sono circondati da membrane di acidi grassi e, tipicamente, da oltre venti proteine. Questa struttura meravigliosa fornisce una tale sensibilità che alcuni animali creano una mappa mentale di minime variazioni nel campo magnetico terrestre, deducendo così dove si trovano. In altri casi, il magnetismo rappresenta un sistema aggiuntivo per orientarsi, sfruttato per esempio dagli uccelli quando le nuvole oscurano il Sole o le stelle.

Figura 9.1 L’immagine superiore mostra come vedono la Casa Bianca gli esseri umani, con la loro visione acuta; l’immagine inferiore mostra come potrebbe apparire agli insetti.

Il fatto che anche i cani possono mostrare un simile talento magnetico era sospettato molto prima di riuscire a dimostrarlo, perché hanno una curiosa tendenza ad allineare il corpo in direzione nord-sud quando fanno i bisogni. Per di più si è osservato da secoli che anche le volpi, loro parenti canini, mostrano una strana preferenza direzionale quando balzano sulla preda. Avete mai visto una volpe che compie il suo notevole salto caratteristico su un topo o un’arvicola, o su un punto apparentemente vuoto e ricoperto di neve, in cui ha sentito un suono proveniente dall’interstizio tra il suolo e il manto nevoso? Non avete forse controllato l’orientamento geografico… ma se l’aveste fatto, probabilmente avreste visto che la volpe salta in direzione nord-est. A prescindere dal bioma o ambiente in cui vive una certa specie, la natura sembra mostrare innovazioni quasi infinite per consentirle di affrontare le difficoltà relative e fornirle alcuni vantaggi. Consideriamo per esempio il rilevamento della radiazione infrarossa, cioè del calore. La pelle umana percepisce quando un oggetto vicino è caldo, ma soltanto se la sua temperatura supera i 43  ºC. Al contrario, i pipistrelli vampiro riescono a percepire il calore fino a una distanza di 20 centimetri e già a temperature di 30 ºC: questo intervallo copre la temperatura della pelle di quasi ogni mammifero che potrebbero desiderare di sottoporre ai loro interventi in stile Dracula. Ovviamente i pipistrelli sono famosi soprattutto per una capacità sensoriale diversa, per noi ancora più esotica: il loro meccanismo sonar. Emettono una serie continua di suoni e poi rilevano le onde riflesse, deducendo la distanza da una preda volante o da ostacoli come la parete della grotta. Riescono addirittura a ottenere informazioni sui movimenti del bersaglio cogliendo lo spostamento Doppler dell’eco: sfruttano così lo stesso effetto che modifica la tonalità del clacson di un’automobile o della sirena di un’ambulanza in movimento rispetto a noi. Queste capacità sofisticate sono già impressionanti, ma l’ecolocalizzazione è perfezionata a livelli stupefacenti nei delfini e altri cetacei dello stesso sottordine: i loro impulsi sonori riescono a penetrare i tessuti molli, così che si formano un’immagine mentale dell’oggetto simile a una radiografia.

I delfini hanno altri assi nelle loro piccole maniche. Sono capaci di riprodurre i segnali sonar ricevuti: quando trovano qualcosa di interessante, come un banco di pesci saporiti, possono replicare i suoni per «dire» agli altri delfini che cosa hanno scoperto. Non usano perciò la goffa comunicazione simbolica degli esseri umani, che procede con una parola alla volta. Creano invece nelle menti degli altri delfini una raffigurazione visiva di quanto appena osservato, forse addirittura facendo «risaltare» gli aspetti più meritevoli di attenzione. Un’altra capacità percettiva preclusa a noi poveri umani è quella di percepire i campi elettrici. Si è parlato molto dei presunti rischi sanitari per chi abita vicino agli elettrodotti ad alta tensione, circondati da campi elettrici e magnetici intensissimi. I campi elettrici circondano i cavi elettrici (e anche gli elettrodomestici e i computer casalinghi) a prescindere se viene acceso o meno un dispositivo che consuma elettricità, mentre i campi magnetici appaiono soltanto quando passa corrente. I cavi elettrici più grandi producono sempre campi magnetici perché sono sempre percorsi da corrente. È facile schermare i campi elettrici o indebolirli frapponendo vari oggetti come le pareti, mentre i campi magnetici possono attraversare gli edifici e la maggioranza dei materiali, oltre che i corpi viventi. Molti hanno riflettuto sulle possibili conseguenze per corpi umani immersi quasi di continuo in un campo così intenso. Benché non ci sia accordo fra le ricerche, sembra che nelle persone esposte ai campi più intensi (oltre i 3 o 4 microtesla) si osservi un piccolo aumento del rischio di alcune forme di cancro. A prescindere dai dettagli, si sa che i nostri corpi animali risentono dei campi elettromagnetici, che non si limitano ad attraversarci senza fare danni come i neutrini. Ha quindi senso che creature con un’architettura fisiologica evolutasi allo scopo riescano a rilevare questi campi in maniera conscia. In altri termini, non bisognerebbe sorprendersi di scoprire che gli squali hanno organi detti ampolle di Lorenzini, capaci di rilevare i campi elettrici. Si trova questa capacità di elettroricezione in varie altre creature marine, ma in un solo mammifero: l’ornitorinco. Anche le api percepiscono i campi elettrici, ma in maniera indiretta: durante il volo accumulano una carica elettrica positiva, poi quella negativa

spesso presente nei fiori fa drizzare i peli sulle loro zampe e le informa della presenza del polline. (Le api sono inoltre aiutate da occhi che, al contrario dei nostri, riescono a vedere nell’ultravioletto. Risulta che molti fiori sfoggiano decorazioni complesse e sfarzose visibili soltanto alla luce ultravioletta.) Finora abbiamo esaminato più che altro le maniere in cui la coscienza animale può funzionare rilevando informazioni per noi impercettibili. Ma che dire della rilevazione di stimoli più immediati e tangibili, come vere e proprie sostanze che colpiscono l’animale? Un meccanismo del genere dà luogo a ciò che noi percepiamo come suono. Molti continuano a fraintendere la natura basilare dell’esperienza acustica. Se ne è avuta una prova alla fine di una conferenza per il grande pubblico, quando uno degli autori ha posto la domanda sulla coscienza che è forse la più antica ed elementare di tutte: «Se un albero cade in una foresta priva di persone o animali che possono sentirlo, la caduta fa comunque un suono?». Il pubblico doveva votare sì o no semplicemente alzando la mano. Il risultato è che circa tre quarti dei presenti ha votato sì: secondo la maggioranza, la caduta dell’albero fa rumore anche se nelle vicinanze non ci sono esseri senzienti. Questa risposta è sbagliata, ma illustra bene la confusione diffusa nel pubblico riguardo al suono e, anzi, riguardo alla coscienza in generale. Quando un albero cade, il fenomeno fisico del tronco massiccio e del gran numero di rami che colpiscono il terreno disturba l’aria circostante. In ogni direzione si propagano nell’aria pulsazioni rapide e complesse di pressione che si attenuano con la distanza. Se l’evento coinvolge oggetti abbastanza pesanti (come alberi) o una forza sufficiente (come un’esplosione), si possono addirittura percepire sulla pelle queste variazioni di pressione dell’aria come rapidi sbuffi di vento; per questo motivo, i sordi possono avere un’esperienza sensoriale non irrilevante se a un concerto rock si siedono vicino al palco, davanti agli altoparlanti principali. Questi sbuffi d’aria sono la conseguenza fisica della caduta dell’albero. In sé e per sé sono silenziosi.

Ma quando incontrano i timpani nelle orecchie degli esseri umani o degli animali, mettono fisicamente in moto questo straterello di tessuto. I neuroni collegati reagiscono alle vibrazioni inviando segnali elettrici al cervello, dove molti miliardi di cellule sono spinte a produrre ciò che nell’esperienza degli esseri umani o degli animali sono suoni specifici. Così, il suono proviene dall’interno. I rumori sono prodotti dai nostri stessi neuroni che manifestano la propria esperienza conscia. Il rumore della caduta dell’albero è il risultato finale di variazioni nella pressione dell’aria che agiscono sui timpani, progettati per reagire vibrando, ma chiaramente se quel giorno nessuno è andato nei boschi non avviene nulla di tutto ciò, a parte la perturbazione dell’aria, in sé silenziosa. Questa non è una lezione di filosofia, ma un fatto elementare di fisica e della natura: l’albero caduto, in sé e per sé, non può produrre suoni, perché per definizione il suono è un’esperienza cosciente. Ciò che ogni organismo cosciente fa con un insieme dato di sbuffi di vento che producono vibrazioni è un’altra questione. Gli esseri umani sono sensibili a suoni di frequenza compresa tra 20 e 20 000 hertz; la percezione del suono da parte di organismi sensibili a gamme di frequenza più ampie o diverse può somigliare assai poco alla nostra. Non c’è modo di sapere se ciò che nella nostra esperienza è il rombo basso e profondo di un tuono lontano sia un sibilo acuto per un gatto. L’indiscutibilità della natura soggettiva dell’esperienza conscia dimostra ancora una volta che si tratta di un fenomeno simbiotico, di un amalgama tra la natura «esterna» e noi stessi. Chiaramente, per essere del tutto precisi, neanche il mondo «esterno» degli stimoli ha un’esistenza definita e indipendente al di fuori della coscienza. Sia gli esseri umani sia gli animali non hanno esistenza a prescindere da un osservatore conscio, benché possano essere essi stessi quell’osservatore. Ma torniamo al suono. Benché ci siano molte cose che non possiamo sapere sull’esperienza soggettiva del suono negli altri animali, poco a poco l’osservazione, con l’aiuto della tecnologia, ci insegna come gli altri organismi usano il suono. Molti lo producono appositamente per comunicare, come noi. Si è scoperto che gli

insetti sociali come le api e le formiche usano in genere tra 10 e 20 vocalizzazioni distinte e riconoscibili, mentre i vertebrati sociali come i lupi e i primati arrivano al triplo o al quadruplo. E come la percezione dei suoni è variabile, lo sono i metodi per produrli. Mentre svariati organismi comunicano tramite la voce, altri, come i grilli, si servono di suoni prodotti in un altro modo, per esempio strofinando le ali. Un secolo fa Amos Dolbear, professore della Tufts University, fece scalpore (visto che non era il suo campo) pubblicando su American Naturalist un articolo secondo cui, per dedurre la temperatura atmosferica, basta contare i friniti dei grilli. Questa legge di Dolbear, come venne presto chiamata, si diffuse subito tra i campeggiatori e i naturalisti. I dettagli ci porterebbero decisamente fuori strada, ma forse in tutto il quartiere sarete le sole persone dotate di questa singolare capacità di stabilire la temperatura. Pronti? Basta contare il numero dei friniti in 8 secondi e aggiungere 5; il risultato è la temperatura attuale in gradi Celsius. Semplicissimo! E non solo: la legge di Dolbear fornisce il valore preciso entro un solo grado. Se invece volete risolvere la vecchia discussione da bar su quale organismo abbia l’udito migliore (cosa? Forse non frequentate i bar giusti…), la risposta è: la falena. Le falene riescono a rilevare suoni anche più acuti dei pipistrelli; è notevole, dato che il pipistrello è proprio la creatura cui cercano di sfuggire più disperatamente. Esso è il secondo classificato per l’udito più acuto; lo segue il gufo, poi l’elefante e il cane, e solo dopo viene il gatto. Il peggior udito? Appartiene probabilmente ai serpenti: è naturale e comprensibile che la loro coscienza sia più in sintonia con le vibrazioni del suolo che con le fluttuazioni nella pressione dell’aria. Ormai la conclusione dovrebbe essere chiara: la consapevolezza degli organismi è regolata con precisione per essere sensibile in una miriade di modi, utilizzando una gran varietà di strutture fisiologiche. A ciascuno rimane la libertà teorica di considerare la realtà tramite esperienze molto eterogenee ma, di fatto, quelle libertà sono concentrate e filtrate dalle forze complementari dell’ambiente e dell’evoluzione; in pratica, quindi, è probabile che in un dato istante

l’attenzione dell’organismo sia occupata da una selezione molto più ristretta di informazioni in arrivo. In tutto ciò, è bene ricordare che benché il corpo animale sia lo strumento della percezione sensoriale (come una grande antenna neuronale), alla fine tutti i dati sensoriali sono elaborati nel cervello. Questo non riceve altro che impulsi, un tick-tick-tick di segnali elettrici trasmessi dai sensi ai nervi. Il cervello ottiene informazioni spezzettate e riunisce questa massa disgregata di dati obbedendo a leggi molto specifiche. Ricompone i dati sensoriali secondo le leggi del tempo e dello spazio, la logica del cervello. Il tempo e lo spazio sono proiezioni create nel cervello, dove hanno inizio la percezione, le sensazioni e l’esperienza. Questi sono gli strumenti della vita, le rappresentazioni dell’intelletto e dei sensi che persino la più piccola tartaruga neonata deve imparare a usare, subito dopo aver aperto per la prima volta gli occhi luccicanti. Non appena uscita dall’uovo, vaga solitaria sulla terraferma tra foglie di Comptonia peregrina e steli di Andropogon gerardii carichi di semi, a volte per oltre una settimana, fino a stabilirsi in uno stagno o una palude; per orientarsi nel mondo deve affidarsi a questi strumenti. Tutti gli animali dotati di un sistema nervoso condividono almeno in parte gli stessi meccanismi elementari. Non è una coincidenza. Di certo, oltre agli esseri umani, altri animali hanno una comprensione dello spazio e del tempo, malgrado possibili differenze nel «wattaggio» e nella «strumentazione» dei sensi. Si può concepire il «wattaggio» come l’acutezza o meno della percezione sensoriale: il falco ha una vista acuta, capace di elaborare enormi quantità di informazioni sensoriali; alcune specie di ratto-talpa sono cieche e, come accade a molte creature che vivono nelle grotte, i loro organi non rilevano la luce. La percezione visiva del falco «brucia» quindi ad alto wattaggio, mentre quella di certi ratti-talpa è debole o nulla. La vista, l’odorato, l’udito, il tatto e gusto sono i familiari «strumenti» sensoriali umani. Diverse specie animali condividono alcuni di questi cinque sensi a diversi «wattaggi» e, come abbiamo visto, certe usano anche altri sensi che noi fatichiamo a concepire. Molti insetti, per esempio, non odono come gli esseri umani ma percepiscono le vibrazioni come tremori costanti, spesso tramite

organi sensoriali nelle estremità delle zampe. Nel grillo campestre, le «orecchie» sensibili alle vibrazioni sono situate nelle ginocchia. Abbiamo già visto che alcune specie di pipistrelli si orientano nel mondo non grazie alla visione o all’odorato, ma tramite l’ecolocalizzazione. I pesci che formano banchi sono molto sensibili alla pressione dell’acqua lungo una «linea laterale» da entrambi i lati del ventre: riescono così a sincronizzare i movimenti con quelli dei conspecifici nelle vicinanze immediate e a muoversi perciò come un’unica entità fluida. In termini biologici, la logica espressa dai circuiti del cervello è legata alla logica del sistema nervoso periferico; le due sono coordinate. Le differenze di wattaggio e strumentazione tra specie animali circoscrivono l’universo in maniera specifica per ciascuna. Gli animali e gli esseri umani riescono a riconoscere che sono presenti allo stesso tempo varie percezioni sensoriali: le osservano come oggetti esterni che si verificano nello spazio. Un essere umano, per esempio, può percepire il profumo di lillà emesso da sgargianti grappoli di fiori che, a primavera, fanno capolino dalla rete che separa un giardino rigoglioso e un vicolo, dove cassonetti traboccanti di immondizie marcite puzzano nella luce pallida di un cielo coperto in cui romba un aereo. Ma nonostante tutte queste esperienze consce mediate dei sensi, un miscuglio di sensazioni infinite, a volte gli esseri umani si calano in un rumore bianco e non si concentrano su nessun senso, persi nel mondo interno dei pensieri finché non si rendono conto all’improvviso che un amico stava parlando… e si chiedono se quella faccenda della «piena consapevolezza» non sarebbe dopotutto una buona idea. Per quanto ne sappiamo, gli esseri umani sono gli unici animali che smettono in questo modo di far caso alla propria consapevolezza esterna, concentrandosi invece sui propri pensieri o, addirittura, come fate nel leggere questo libro, pensando al pensare. Non c’è dubbio che la coscienza degli animali sia diversa dalla nostra, forse in maniere che riusciamo appena a intuire. Di conseguenza, sono diverse anche le loro realtà, derivate in fin dei conti dalla loro prospettiva individuale di osservatori. Eppure in un certo senso queste differenze sono illusorie. Nella nostra esperienza la

coscienza e la funzione d’onda sono localizzate nel nostro cervello individuale, che crea il senso del «sé», la cosiddetta «sensazione dell’identità»; come abbiamo scoperto nel Capitolo 5, tuttavia, l’assenza di separazione dimostrata dagli esperimenti sulla correlazione quantistica fa pensare che la mia coscienza e la vostra, o la vostra e quella del vostro cane Rover, siano in realtà manifestazioni di un’unica coscienza. Uno degli autori, Lanza, ricorda di aver riflettuto sulle conseguenze di questa unione: Ricordo una tiepida sera estiva in cui sono andato a pescare. Ogni tanto le vibrazioni percepite lungo la lenza mi collegavano alla vita che si aggirava sul fondo dello stagno. A un certo punto tirai fuori dall’acqua un pesce persico che gemeva e boccheggiava. Vari esperimenti hanno mostrato che una singola particella può essere due cose allo stesso tempo. Il fisico Nicolas Gisin ha inviato fotoni correlati lungo fibre ottiche finché erano distanti oltre 10 chilometri, poi ne ha misurato uno e ha scoperto che l’altro «sapeva» il risultato all’istante; ciò fa pensare che tra loro esista un intimo legame, possibile soltanto se non li separa nessuno spazio, e nessun tempo limita la velocità delle loro comunicazioni. Oggi nessuno mette in dubbio il collegamento tra quanti di luce o di materia, o addirittura tra interi gruppi di atomi. Osservate la strolaga sull’acqua, il tarassaco nel campo. Quanto è illusorio lo spazio che li separa e li fa sembrare solitari! Allo stesso modo, una parte di noi è collegata al tarassaco, alla strolaga, al pesce nello stagno. È la parte che ha esperienza della coscienza, non la nostra incarnazione esterna ma il nostro essere interno. Secondo il biocentrismo, la nostra separatezza individuale è un’illusione. Tutto ciò di cui avete esperienza è un vortice di informazioni che compare nel cervello. Lo spazio e il tempo sono soltanto gli strumenti con cui la mente interpreta tutto ciò. Per quanto sembrino solide e reali le pareti dello spazio e del tempo, l’inseparabilità significa che una parte di noi non è umana più di quanto sia animale. E in quanto parti di un tale intero, c’è

giustizia. L’uccello e la preda sono una sola cosa. Siatene certi: sarete voi a guardare attraverso gli occhi della vostra vittima. Oppure potete essere i destinatari di un gesto premuroso; sta a voi scegliere. Questo è il mondo che mi trovavo di fronte in quella tiepida sera estiva. Il pesce e io, vittima e predatore, eravamo una sola e unica cosa. Quella sera percepii l’unione tra ogni creatura e ogni altra. Come recita un’antica poesia indù: «Conosci in te e nel Tutto una sola anima identica; scaccia il sogno che scinde la parte dall’intero». La coscienza dietro il giovane che sono stato e l’uomo che sono diventato si trovava anche dietro la mente di ogni animale e persona esistente nello spazio e nel tempo. Forse ciò non vi turberà, a meno che in una tiepida sera illuminata dalla luna un pesce boccheggi morente all’estremità della vostra lenza. «Noi siamo tutt’uno» ha scritto il celebre antropologo Loren Eiseley, «tutti fusi insieme.»2 Ho liberato il pesce, che ha agitato la coda ed è scomparso nello stagno.



9. La coscienza animale 1  Henry Beston, La casa estrema, trad. it. di Anna Maria Biavasco e Giuseppe Iacobaci, Ponte alle Grazie, Milano 2018, p. 47. [N.d.T.] 2  Loren Eiseley,  Il secolo di Darwin, trad. it. di Libero Sosio, Feltrinelli, Milano 1975, p.  306. La seconda parte della frase si rifà a quanto scritto da Darwin nel Taccuino B, frammento 232. [N.d.T.]

10. Il suicidio quantistico e l’impossibilità

di essere morti

In principio c’erano solo probabilità. L’universo può aver iniziato a esistere soltanto se osservato da qualcuno. Non importa se l’osservatore è comparso vari miliardi di anni dopo. L’universo esiste perché ne siamo consapevoli.1 Martin Rees

Perché sono qui? È una domanda che quasi tutti ci siamo posti una volta o l’altra, spesso a tarda notte o nelle primissime ore del mattino. Può non sembrare l’argomento del tipo più adatto a un’indagine scientifica, ma in realtà la domanda sul perché esistiamo invece di non esistere è intimamente legata alla fisica di cui parliamo in questo libro. Nei tentativi di decifrare il funzionamento dell’universo al livello più fondamentale, istante per istante, da tempo si trova difficoltà nello spiegare perché si verifica un evento piuttosto che un altro. Con l’avvento della meccanica quantistica, è divenuto chiaro che uno sperimentatore aveva la stessa probabilità di osservare, per lo spin di un elettrone, il valore «su» oppure «giù». Ma sembrava impossibile determinare perché l’esperimento avesse avuto un certo esito e non l’altro. Niels Bohr, negli anni venti, descrisse quella che oggi chiamiamo interpretazione di Copenaghen: come abbiamo visto, in sostanza dice che tutte le possibilità aleggiano invisibili sopra lo sperimentatore e il suo laboratorio, sotto forma di una «funzione d’onda». L’atto di osservare, disse Bohr, fa collassare questa

funzione d’onda; a quel punto le molteplici possibilità svaniscono improvvisamente a favore di un unico risultato definito. Ma, nonostante il modo rivoluzionario di descrivere come l’incerto mondo quantistico diventa realtà definita, questa interpretazione non spiegava perché, se esistono due realtà ugualmente probabili, ne debba emergere una invece di un’altra. Poi, nel 1957, nella tesi per il dottorato che frequentava a Yale, Hugh Everett propose un’alternativa notevole in cui non è necessario che avvenga uno specifico collasso, perché in realtà si verifica ogni opzione. Everett postulò che invece del collasso della funzione d’onda, l’universo si dirama nelle varie possibilità distinte, in modo che tutte abbiano luogo. L’osservatore fa parte del ramo in cui osserva l’elettrone con spin «su», ma una sua copia distinta osserva uno spin «giù» e continua a vivere con questo ricordo. Riconoscerete l’interpretazione dei molti mondi (imm), che abbiamo già trattato a lungo in altri capitoli. Ma dato che il biocentrismo offre essenzialmente un miglioramento rispetto all’interpretazione originale di Everett, è importante continuare la nostra indagine su questa innovazione radicale nel modo di vedere il cosmo. Anche perché, come vedremo in questo capitolo, è la chiave per districarci nelle questioni sulla vita e sulla morte. Iniziamo dal fatto evidente che la coscienza non è una cosa provvisoria, che può andare e venire. La coscienza, secondo il biocentrismo, è fondamentale per il cosmo e le due cose sono impossibili da separare. Lo vediamo in prima persona: la nostra esperienza cognitiva non scompare mai. Si potrebbe chiedere: «E quando moriamo?». Ma percepire l’«essere morti» è un paradosso logico: non possiamo «essere» e al contempo «non essere». La coscienza ha tra l’altro la proprietà che non è mai soggettivamente discontinua. Non possiamo percepire il nulla, poiché anche le parole «percepire» e «nulla» si escludono a vicenda. Un modello di come funziona tutto ciò nel contesto dell’imm è ben illustrato dal cosiddetto scenario del «suicidio quantistico», in cui un giocatore d’azzardo che prende parte a una roulette russa quantistica ha sempre la percezione di sopravvivere. Immaginiamo questo esperimento, ben spiegato dal teorico Max

Tegmark. Poiché l’interpretazione dei molti mondi della meccanica quantistica lo convince appieno, un professore dà alla sua assistente una speciale pistola quantistica e le ordina di sparargli vari colpi. Ogni specifica pressione del grilletto porrà subito fine alla sua esistenza, oppure farà emettere alla pistola soltanto un forte «clic». Se, invece di sparare, la pistola fa solo «clic», l’assistente deve sparare di nuovo, e così via fino a quando non esce il proiettile. Si può vedere l’esperimento da due punti di vista: quello dell’assistente o del professore. Dopo alcune prove, dal proprio punto di vista l’assistente inorridirà nel rendersi conto di aver ucciso il professore. Ma dal punto di vista di quest’ultimo, la pistola non fa mai fuoco: a ogni tentativo c’è solo uno scatto a vuoto. Deve essere così, perché a differenza della vera roulette russa, che usa una normale rivoltella con un singolo proiettile, nella versione quantistica la pistola funziona secondo il principio della sovrapposizione quantistica. Prima di ogni pressione del grilletto, la pistola è in una sovrapposizione degli stati «clic» e «fuoco». Poiché il professore è strettamente legato a tutto ciò, lo stato iniziale è composto dalla pistola nella sovrapposizione e dal professore in uno stato in cui è ben definito il fatto che è vivo. Dopo il primo colpo, questo stato iniziale si evolve in un’altra sovrapposizione di stati con queste due componenti, uno stato con «clic» e «professore vivo» e l’altro con «fuoco» e «professore morto». In simboli: (|clic 〉 + |fuoco 〉) |vivo 〉 → |clic 〉 |vivo 〉 + |fuoco 〉 |morto 〉 Questi due stati – uno in cui la pistola scatta a vuoto e il professore rimane in vita, e uno in cui la pistola spara e il professore è morto –   sono entrambi rami della funzione d’onda sovrapposta e costituiscono due mondi di Everett. La coscienza del professore, per definizione, non può entrare nel mondo in cui è morto, e così a ogni sparo salta nel ramo/mondo in cui il suo cervello è intatto, cioè in cui la pistola non ha fatto fuoco. L’idea di un simile esperimento affascinava lo stesso Everett, che però non lo mise in pratica: osservò che anche se dal suo punto di vista fosse rimasto in vita, in molti altri mondi i suoi parenti sarebbero stati addolorati dalla sua morte.

In un certo senso, ognuno di noi gioca una versione della roulette quantistica ogni giorno, in ogni momento della vita. Vale a dire, la funzione d’onda contiene molti possibili esiti (interpretazione di Copenaghen) o rami (molti mondi). Dal nostro punto di vista soggettivo, ogni volta che ci sono vari risultati possibili e la funzione d’onda collassa in modo da rivelarne uno solo, esiste sempre un mondo che ammette la coscienza, e noi ci troviamo in esso; infatti, siamo perennemente consapevoli di qualcosa, senza interruzioni invadenti in cui compare l’oblio. Anche la nostra memoria, quando la evochiamo per farle riprodurre le sue amate registrazioni di ricordi, contiene filmini amatoriali via via più vecchi  –  e in genere via via meno dettagliati  –  di periodi sempre più vicini all’inizio della nostra vita. A un certo punto del passato non riusciamo più a visualizzare nulla, ma questo non significa che in quel momento non ci fosse nulla: è solo che i cervelli molto giovani non hanno la capacità di conservare ricordi distinti. Quindi i ricordi non sono indicatori affidabili dell’esperienza cosciente; è di particolare interesse considerare i momenti in cui, secondo altri, siamo rimasti incoscienti per qualche tempo, perché eravamo svenuti o simili. Ma in tali esperienze per noi il tempo non passava affatto; ci siamo sentiti mancare e la cosa successiva che sappiamo è che stavamo «riemergendo». Per noi l’esperienza non si è interrotta mai. E se questo è vero persino durante il coma profondo, perché tanti temono che la morte porti all’arrivo del nulla? È stato osservato nella letteratura scientifica che, se l’imm è valida, dal punto di vista di qualsiasi individuo ci si trova sempre vivi fin tanto che è disponibile un ramo/mondo in cui la struttura del proprio corpo ammette la coscienza. Durante l’arco della vita percepita soggettivamente, però, man mano che si segue uno specifico ramo della vita, diminuisce il numero di ulteriori rami o mondi ammessi da una configurazione cerebrale in cui si è più vecchi. Se una persona ha 140 anni, per esempio, può non esistere un mondo di Everett che la porti a sentirsi diventare ancora più vecchia. Quando non rimane nessun ramo «vivo» di questo tipo, la funzione d’onda, insieme alla coscienza a cui è associata, non può più essere localizzata/centrata in quella particolare configurazione cerebrale, ma non può neppure

cessare di esistere, poiché la funzione d’onda, come tutti gli altri componenti fondamentali della natura, non può svanire. Secondo l’interpretazione dei molti mondi di Everett, sono e saranno sempre disponibili molte altre possibili configurazioni che ammettono una coscienza, tra cui un mondo in cui si ritorni all’età di due anni e si abbia una vita leggermente diversa: una storia alternativa.2 Nella meccanica quantistica una funzione d’onda localizzata, se non la si osserva, si allarga all’intero universo. Anzi, secondo l’interpretazione dei molti mondi, si allarga al multiverso, perché contiene tutte le possibili posizioni della particella, e ogni posizione appartiene a un diverso mondo di Everett. Secondo la meccanica quantistica, però, se subito dopo aver osservato una particella ne osserviamo di nuovo la posizione, la particella rimane localizzata in quella posizione o in un punto vicino. Pertanto, se si osserva di continuo il «pacchetto d’onda», esso rimane focalizzato in una posizione. Deve accadere altrettanto con un «grande pacchetto d’onde» che, più nello specifico, corrisponde al macromondo di una coscienza umana. Questa funzione d’onda contiene molti gradi di libertà che corrispondono a numerose particelle, atomi, molecole, proteine, organi e così via, il tutto accoppiato a gradi di libertà «esterni», come quelli che costituiscono l’ambiente. Queste funzioni d’onda sono sistemi in correlazione quantistica che svolgono di continuo misurazioni o osservazioni. Ma quando tutta questa maestosa struttura, associata alla coscienza attuale, viene infranta da un esito in cui non esiste un mondo di Everett appropriato, in cui la coscienza possa continuare a funzionare all’interno di quella particolare configurazione corpo/cervello, allora misurazioni, osservazioni e autoriflessioni non sono più possibili lungo il percorso attuale, e la funzione d’onda si allarga in modo analogo al pacchetto d’onda di una singola particella non osservata. Così come un pacchetto di onde solitario collassa in una posizione ben definita dopo la riosservazione, perciò, il nostro pacchetto di onde quantistico associato al cervello collassa in un altro mondo di esperienza ben definita. Potrebbe essere la stessa

persona a un’età diversa, o un diverso mondo di Everett in cui ha preso decisioni alternative. L’enigmatica questione della morte andrebbe quindi compresa ricordando la tesi che la funzione d’onda relativa a un osservatore, che rappresenta le sue esperienze del mondo in cui vive, non può mai cessare di esistere, e che dal punto di vista soggettivo dell’osservatore non c’è alcuna morte. L’osservatore è sempre consapevole di qualcosa.

Figura 10.1 Esempi di possibili storie personali. In un ramo c’è un evento tragico (a sinistra: incidente stradale, a destra: morte per cancro), mentre in altri rami la persona sopravvive. A ogni bivio la coscienza è sospesa a uno dei rami in cui la vita è possibile. Per esempio, una sorella di uno degli autori è morta in un incidente d’auto, ma secondo l’IMM non è stata la fine della sua coscienza, che persiste lungo uno degli altri rami.

Nella visione del mondo adottata qui c’è solo una coscienza, che può essere localizzata/centrata in una particolare configurazione del cervello e quindi percepire il mondo da quel punto di vista specifico. In alternativa, può essere localizzata/centrata in una diversa configurazione del cervello e sperimentare il mondo da quella prospettiva. La localizzazione della coscienza in uno specifico cervello è il risultato del collasso della funzione d’onda dipendente dall’osservatore. Proprio come la coscienza si trova in uno dei rami di Everett (ma avrebbe potuto trovarsi in qualche altro ramo che ammette la coscienza), così si trova in un particolare cervello (ma avrebbe potuto trovarsi in qualche altro cervello e percepire il mondo da quel punto di vista diverso). La coscienza localizzata/collassata in un’altra persona percepisce un mondo diverso dalla coscienza collassata in me, perché differisce quanto a pensieri, esperienza del movimento corporeo, dettagli dell’ambiente e così via. Lo scarto tra i mondi percepiti da due persone si può considerare analogo a quella tra i mondi percepiti

dalle diverse versioni everettiane della stessa persona. Il mondo vissuto dal me attuale è per molti aspetti praticamente uguale al mondo che sarebbe vissuto da una diversa versione everettiana di me stesso: gli stessi Terra, Sole, continenti, città, rapporti e così via. A seconda delle somiglianze dell’ambiente e così via, lo stesso si potrebbe dire per i mondi di altri osservatori. In altre parole, i mondi associati a diversi osservatori sono analoghi ai mondi di Everett. Ora, se adottiamo l’idea che i mondi alternativi di Everett siano reali (qualunque cosa ciò significhi), ne consegue che lo sono anche i mondi in cui la funzione d’onda è collassata in cervelli diversi (compresi quelli degli animali). In tal modo evitiamo il solipsismo. La realtà è effettivamente creata dall’osservatore, ma ci sono moltissime realtà, ciascuna dipendente dall’osservatore. Se assumiamo che i nostri mondi alternativi di Everett siano solo possibilità e che il mondo reale sia solo quello della nostra esperienza attuale, ciò implica che i rami della funzione d’onda universale localizzati/centrati in altri cervelli siano allo stesso modo non reali, ma semplicemente possibilità. Pertanto, negare la realtà dei molti mondi di Everett significa accettare il solipsismo, mentre accettarla porta a confutarlo. Qui si presenta un ultimo punto importante. Sembrerà forse che stiamo dicendo che la consapevolezza può «saltare» da un cervello all’altro. Ma nel contesto abituale «saltare» implica che il tempo e lo spazio siano cose assolute, esterne. In verità, tranne quello che stiamo vivendo ora, tutto il resto esiste per noi in una sovrapposizione. Il «tempo» o lo «spazio» si possono percepire solo rispetto a un singolo osservatore. Se si prescinde dalla coscienza dell’osservatore, lo spazio e il tempo sono inesistenti, perciò non esistono connessioni lineari al di fuori della coscienza. Tutti i rami sono sovrapposizioni all’interno della coscienza, e al collasso della funzione d’onda la coscienza si trova in uno dei rami. Oltre a darci uno sguardo nuovo sullo svolgimento delle nostre vite, le idee relative alla funzione d’onda, ai molti mondi e alla coscienza che abbiamo visto in questo capitolo permettono anche di visualizzare l’evoluzione dell’universo in generale, e la vita sulla Terra in particolare, da un’angolazione unica, che spiega perché tutti

noi esistiamo qui e ora nonostante le schiaccianti probabilità contrarie. Come vedremo, al riguardo un’argomentazione simile al suicidio quantistico funziona molto meglio dell’abituale modello dell’«universo stupido», secondo cui un cosmo addormentato e insensibile come un sasso avrebbe creato persone e colibrì solo per caso. Oltre ai circa duecento parametri fisici che devono assumere un certo esatto valore affinché, a livelli elementari di chimica e fisica, intorno a noi ci siano condizioni favorevoli per la vita, c’è in primo luogo l’intera faccenda della creazione della vita, con un lungo insieme di requisiti che non siano eccessivi in alcun verso, come per esempio un pianeta né troppo caldo né troppo freddo. Né, tanto per dirne una, pieno di radiazioni. Persino sulla Terra la vita sarebbe quasi impossibile se non avessimo vicino un’enorme luna: senza di essa l’inclinazione assiale del nostro pianeta subirebbe notevoli oscillazioni, a volte puntando direttamente verso il Sole e dando luogo a temperature invivibili. La Terra riesce ad evitare un caos simile solo grazie alla Luna. E come l’abbiamo ottenuta? Grazie alla collisione perfettamente sincronizzata di un corpo delle dimensioni di Marte, che proveniva da una direzione ben specifica e alla giusta velocità, né veloce o grosso al punto di distruggerci, né così piccolo da non servire allo scopo. La direzione è importante perché, a differenza di tutte le altre principali lune del Sistema solare, la nostra non orbita attorno all’equatore del pianeta. Se orbitasse «normalmente», non eserciterebbe la sua coppia nell’allineamento necessario per stabilizzare il nostro asse. Un’altra comoda casualità. L’interpretazione convenzionale e materialistica sostiene che il nostro universo è nato nel Big Bang e ha funzionato «per conto suo» per miliardi di anni fino a quando, per caso, sul pianeta che chiamiamo Terra, ha iniziato a svilupparsi la vita, e gli eventi sono continuati in un modo che alla fine ha portato al fenomeno della mia consapevolezza di quell’universo. Se fosse davvero così, il fatto che io sono vivo e cosciente (lasciando da parte il difficile problema di come la coscienza nasca dalla materia, discusso in precedenza) sarebbe il risultato di una lunga catena di eventi straordinariamente ben sintonizzati tra loro. Se quella catena fosse stata leggermente

diversa in un singolo anello, non ci saremmo io e la mia coscienza. Non solo molte cose sulla scala cosmologica devono essere successe proprio come sono successe, ma una volta che la vita è apparsa sulla Terra, deve anche essersi evoluta proprio in quel modo esatto, e tutti i miei antenati, non solo umani, devono essere sopravvissuti a tutti i conflitti, le malattie, gli incidenti, i disastri naturali, gli incendi, i terremoti e così via; devono essere stati vincitori in tutti gli scontri, sopravvissuti in tutte le guerre e in ogni altra occasione, riuscendo a trasferire i geni ai discendenti finché la catena non ha dato vita al mio corpo. Se i miei genitori non si fossero incontrati, io non esisterei. Se avessero vissuto in modo appena diverso, non sarei nato io, ma un fratello o una sorella. Il tipico maschio genera oltre cinquecento miliardi di spermatozoi nel corso della vita, mentre la tipica femmina genera centinaia di migliaia di uova. Solo una fra questi milioni di miliardi di combinazioni avrebbe portato alla mia nascita. Eppure, ho avuto l’indicibile fortuna di vincere questa lotteria biologica. Secondo questo punto di vista, io sono qui cosciente perché questa lunga catena di eventi si è svolta proprio così; se si fosse svolta in modo diverso, il mio corpo non esisterebbe, e quindi nemmeno la mia coscienza. Esisterebbe un mondo esterno con altre persone, ma io non ne sarei consapevole. E, se l’evoluzione cosmologica fosse stata appena un po’ diversa, non ci sarebbe affatto una Terra abitabile, e forse nessun altro luogo abitabile nell’universo. Ci sarebbe un universo, ma nessuno se ne accorgerebbe. Abbiamo visto che l’universo non funziona secondo il convenzionale scenario materialistico abbozzato qui, ma al contrario. La materia e un universo nascono da un collasso della funzione d’onda universale in un mondo ben definito di esperienze coscienti. È qui che il ragionamento alla base dell’esperimento del suicidio quantistico e dell’interpretazione dei molti mondi offre chiarezza: l’universo ospita la coscienza di una certa persona perché deve. La catena di fortunati eventi improbabili che la porta a vivere nell’universo è uno dei rami della funzione d’onda sovrapposta, collassata rispetto a quell’osservatore. Così come il professore che sperimenta il «suicidio quantistico» non può trovarsi in un ramo in cui

la pistola fa fuoco, l’osservatore non si può trovare in un ramo privo di una catena di eventi che alla fine ne rendono possibile la coscienza. In altre parole, l’universo visto dalla prospettiva di un osservatore è la sua coscienza. Ciò che un osservatore percepisce come mondo esterno è descritto in fisica dalla funzione d’onda; la funzione d’onda è una rappresentazione della consapevolezza che un osservatore ha dell’universo, non direttamente dell’universo stesso, che di fatto non esiste senza coscienza. Possiamo passeggiare in un campo e notare i fiori spontanei, di colore giallo brillante, rosso e viola iridescente. Questo mondo colorato costituisce la nostra realtà. Naturalmente per un topo o un cane questo mondo di rossi, verdi e blu non esiste più di quanto esista per noi il mondo dell’ultravioletto e dell’infrarosso percepito dalle api e dai serpenti. Come abbiamo visto in questo libro, la realtà non è una cosa fredda e neutra, ma un processo attivo che coinvolge la nostra coscienza. Lo spazio e il tempo sono semplicemente gli strumenti che la nostra mente usa per riunire le informazioni in un’esperienza coerente: sono il linguaggio della consapevolezza. Al di là delle differenze nella percezione (molte delle quali sono descritte nel capitolo precedente), tutte le creature basate sul genoma condividono una capacità di elaborare l’informazione biologica che consente di organizzare queste percezioni in una realtà spaziotemporale. «Rimarrà degno di nota» ha detto il fisico Nobel Eugene Wigner, riferendosi a un lungo elenco di esperimenti scientifici, «che lo studio stesso del mondo esterno ha portato alla conclusione che il contenuto della coscienza è dotato di realtà fondamentale.»3

Figura 10.2 Evoluzione dell’universo come viene percepita da un osservatore cosciente. La catena di «fortunate coincidenze» che porta l’osservatore a

percepire l’universo è uno dei rami della funzione d’onda sovrapposta, collassata rispetto a quell’osservatore.

La funzione d’onda, il multiverso, il fatto che il ramificarsi delle possibilità porta avanti per sempre il cosmo vivente, e soprattutto l’aggiunta dell’osservatore cosciente portano in maniera inevitabile a una non cessazione dell’esperienza cosciente. Quando moriamo, lo facciamo all’interno di una matrice di vita inevitabile. La vita trascende il nostro modo di pensare normale e lineare, anche se ci svantaggia la nostra capacità di percepire solo il nostro «mondo» attuale, il nostro singolo ramo. E allora che cosa succede quando moriamo? In un suo articolo Lanza propone una metafora per la chiusura di un capitolo della vita, e la useremo qui per chiudere questo capitolo del libro: Durante la vita ci affezioniamo tutti alle persone che conosciamo e a cui vogliamo bene, e non riusciamo a immaginare un momento in cui saremo senza di loro. Sono abbonato a Netflix e qualche anno fa ho visto tutte e nove le stagioni della serie televisiva Smallville. Ogni sera, per mesi, guardavo due o tre episodi. Ho visto Clark Kent attraversare tutte le solite difficoltà dell’adolescenza, i primi amori, i problemi in famiglia. Lui, sua madre adottiva Martha Kent e gli altri personaggi erano diventati parte della mia vita. Una sera dopo l’altra vedevo Clark combattere il crimine con i superpoteri che padroneggiava sempre meglio e nel frattempo maturare, finire le superiori e frequentare l’università. L’ho visto innamorarsi di Lana Lang e diventare nemico del suo ex amico Lex Luthor. Quando ho finito l’ultimo episodio, era come se tutte queste persone fossero morte: la storia del loro mondo era finita. Nonostante il dispiacere, ho provato con riluttanza qualche altra serie, approdando alla fine a Grey’s Anatomy. Il ciclo è ricominciato da capo, con persone ben diverse. Una volta finite tutte e sette le stagioni, Meredith Gray e i suoi colleghi medici al Seattle Grace Hospital avevano sostituito Clark Kent e soci come centro del mio mondo. Ero completamente preso dal vortice delle loro passioni personali e professionali.

In un senso molto reale, la morte all’interno del multiverso descritto dal biocentrismo è davvero simile alla fine di una bella serie televisiva, che si tratti di Grey’s Anatomy, Smallville o Dallas, tranne per il fatto che il multiverso ha una collezione di serie molto più ampia di Netflix. Alla morte, cambiamo punti di riferimento. Siamo sempre noi, ma proviamo vite diverse, amici diversi e persino mondi diversi. Ci sarà addirittura qualche remake: magari in uno avremo quel meraviglioso abito da sposa che avevamo sempre desiderato, o avranno trovato la cura per la malattia che, in questa vita, ha accorciato il tempo sulla Terra della persona amata. Alla morte c’è un’interruzione nel nostro flusso lineare di coscienza, e quindi un’interruzione nella connessione lineare di tempi e luoghi, ma il biocentrismo suggerisce che la coscienza sia molteplice e comprenda molti rami di possibilità. La morte non esiste veramente in nessuno di essi; tutti i rami esistono in contemporanea e continuano a esistere indipendentemente da ciò che accade in ciascuno di essi. La sensazione dell’identità è l’energia in azione nel cervello. Ma l’energia non muore mai; non può essere distrutta. La storia continua anche dopo che hanno sparato a J.R. La nostra percezione lineare del tempo non significa nulla per la natura. Per quanto mi riguarda, quando la funzione d’onda della mia vita collasserà, so che avrò ancora da pregustare l’ottava stagione di Grey’s Anatomy.



10. Il suicidio quantistico e l’impossibilità di essere morti 1 Martin Rees, «The Anthropic Universe», in New Scientist, 6 agosto 1987, p. 46. [N.d.T.] 2 Si può trovare una rappresentazione di fantasia di tutto ciò nell’affascinante film tedesco del 1998 Lola corre, descritto in questo contesto in Biocentrismo. 3  Eugene Wigner, «Remarks on the Mind-Body Question», riprodotto in John Archibald Wheeler e Wojciech Hubert Zurek (a c. di),  Quantum Theory and

Measurement, Princeton University Press, Princeton 1983, p. 169. [N.d.T.]

11. La freccia del tempo

Sei tu a fare il tempo! Son i sensi le sfere dell’orologio.1 Angelus Silesius

A ogni storia, comprese le narrazioni epiche delle nostre vite, occorre una struttura, uno scheletro. E ogni storia avvincente ha bisogno di un antagonista. Il tempo soddisfa entrambi i requisiti: sicuramente ci dovrà essere un colpevole, nella tragedia che trasforma la bellezza e la vitalità della giovinezza nella pelle increspata e nelle articolazioni scricchiolanti della vecchiaia. Per molto tempo l’autore di questo crimine scandaloso fu considerato un’entità reale. Anche grandi menti come quella di Newton ritenevano il tempo una caratteristica fissa della realtà, una dimensione effettiva attraverso la quale passa tutto il resto. Questo concetto di tempo come cosa assoluta, che trascorre inesorabile al di fuori di noi, non ha mai completamente abbandonato la mente umana. Nel 2014 è uscito il film di fantascienza Lucy la cui omonima protagonista, interpretata da Scarlett Johansson, è in grado di trascendere molti vincoli fisici e mentali grazie a un farmaco che le è finito nel sangue; al culmine del film un brillante scienziato (interpretato da Morgan Freeman) ci informa pomposamente che solo il tempo è reale. Ma l’autore della sceneggiatura non può aver basato questa dichiarazione su qualcosa che si possa trovare in un moderno testo di fisica. L’irrealtà del tempo è anzi in un certo senso una notizia vecchia, che risale almeno alle rivelazioni da capogiro della relatività. Secondo la teoria di Einstein, infatti, esiste un continuum quadridimensionale, con tre dimensioni spaziali e un’ulteriore

dimensione che chiamiamo «tempo». Questo collegamento tra le dimensioni spaziali e la componente temporale mette in crisi molta gente, perché nella vita quotidiana il tempo sembra del tutto distinto dai tre ambiti spaziali. Rivediamo in breve questi ultimi pensando alla geometria elementare: le rette sono unidimensionali; figure piane come i quadrati e i triangoli hanno due dimensioni, mentre una figura solida come una sfera o un cubo ne ha tre. Tuttavia, un oggetto reale  –  per esempio sferico come un’arancia  –  richiede una dimensione aggiuntiva perché persiste e può anche cambiare. Ciò significa che oltre alle coordinate spaziali qualcos’altro fa parte della sua esistenza: lo designiamo «tempo». Questo continuum spaziotemporale quadridimensionale viene spesso definito «universo-blocco» e contiene ogni possibile punto dello spazio e del tempo, cioè ogni cosa in esso esiste simultaneamente; nel caso dell’arancia quadridimensionale, i vari momenti della sua esistenza, da acerba a marcia, sono tutti punti dello spaziotempo. Non esiste alcunché di simile all’esperienza soggettiva del «divenire» o al senso degli eventi che si succedono in un ordine temporale. Come molti scienziati e filosofi, Einstein riteneva la coscienza un ingrediente in più, fuori dalla fisica tradizionale e dal mondo che essa descrive: quindi la coscienza non fa parte dello spaziotempo, ma si muove nel suo interno. La coscienza di un osservatore percorre una curva nell’universo-blocco. Questa curva, chiamata «linea di universo», si estende dalla nascita alla morte dell’osservatore. Spesso all’insaputa dei profani, quindi, la parola «tempo» ha un doppio significato. Il tempo della relatività di Einstein, come abbiamo visto, è il «tempo come coordinata», una delle dimensioni dello spaziotempo. Se parliamo dell’anno in cui Colombo scoprì l’America, o di un appuntamento con il nostro capo una settimana fa, o di qualsiasi evento nel passato o nel futuro prevedibile, abbiamo in mente il tempo come coordinata di un evento nello spaziotempo. Questo evento, o punto, comprende l’ora e il luogo dell’incontro con il capo, o l’ora e la fermata a cui abbiamo preso un autobus. Il tempo come coordinata non si sposta; ogni momento è un punto che esiste nello spaziotempo. Ma nella nostra esperienza quotidiana il «tempo» è tutt’altro che

statico: è un flusso inarrestabile. Quando le persone parlano di tempo, normalmente hanno in mente questo: una sequenza di eventi che cambia di momento in momento nella nostra consapevolezza. È il «tempo come evoluzione», quello percepito dalla coscienza, l’«adesso» in continuo mutamento. Per Einstein questo tempo era immaginario. Quando nel 1955 seppe della morte di Michele Besso, suo amico di una vita, scrisse alla famiglia frasi rimaste famose: «Ora è partito da questo strano mondo un po’ prima di me. Questo non significa niente. Per noi che crediamo nella fisica la distinzione tra passato, presente e futuro non ha che l’importanza di una illusione, per quanto tenace». Einstein chiarì la natura relativa della percezione del tempo con uno dei suoi famosi esperimenti mentali. Immaginiamo di essere seduti al centro di un treno mentre un amico sta fuori, vicino al binario, e guarda il treno che sfreccia. Se due fulmini colpiscono entrambe le estremità del treno proprio mentre il punto medio del treno sta passando all’altezza dell’amico, lui li vedrebbe simultaneamente, perché sono alla stessa distanza da lui, l’osservatore. Se glielo chiedessero, direbbe che essi sono caduti nello stesso momento, rappresentando in modo preciso la sua percezione del tempo. Tuttavia, dal nostro punto di vista, poiché siamo seduti al centro del treno in movimento, vedremo prima il fulmine che colpisce la locomotiva, perché la luce di quello sull’ultimo vagone deve percorrere una distanza leggermente maggiore per raggiungerci. Di conseguenza, se ce lo chiedessero, diremmo che i fulmini non sono stati simultanei e che quello davanti è caduto per primo, rappresentando in modo preciso la nostra percezione del tempo. In questo e in altri esperimenti mentali Einstein dimostrò che il tempo in realtà scorre in modo diverso per un osservatore in movimento rispetto a uno a riposo, ed esiste solo in relazione a ciascun osservatore. Nel caso del treno e del fulmine, né la nostra osservazione né quella dell’amico è «più giusta» dell’altra: non esiste un punto di vista oggettivo, ma solo due percezioni diverse. Il biocentrismo fa un ulteriore passo avanti, ipotizzando che l’osservatore non si limiti a percepire il tempo, ma lo crei

letteralmente. In genere le persone danno per scontata la realtà di ciò che coglie la mente. Comprendiamo che i sogni sono un costrutto mentale, ma quando si tratta della vita che viviamo, accettiamo la nostra percezione del tempo e dello spazio come assolutamente reale. In realtà, però, come abbiamo visto finora, lo spazio e il tempo non sono oggetti. Il tempo è semplicemente la costruzione ordinata, che avviene all’interno della mente, di ciò che osserviamo nello spazio, come succede per i fotogrammi di un film. Secondo il biocentrismo questi costrutti mentali si basano su algoritmi, complesse relazioni matematiche la cui logica fisica è contenuta nei circuiti neurali del cervello. Gli algoritmi specifici che il cervello usa per tradurre il turbinio di percezioni che inondano i sensi in un’esperienza vissuta coerente sono la chiave della coscienza, e spiegano anche perché il tempo e lo spazio, e anzi le stesse proprietà della materia, sono relativi all’osservatore. In definitiva, la vita è movimento e cambiamento, ed entrambi sono possibili solo attraverso la rappresentazione del tempo. In ogni istante siamo sull’orlo del cosiddetto paradosso della freccia, descritto per la prima volta 2500 anni fa da Zenone di Elea. Poiché nulla può essere in due posti contemporaneamente, Zenone dedusse che, in un dato istante del volo, la freccia è in una sola posizione. Se in ogni momento della traiettoria è presente in un punto specifico, ne consegue che in quell’istante la freccia dev’essere ferma. Se ne deduce quindi che, mentre la freccia vola dall’arco al bersaglio, ciò che accade non è un vero movimento, ma una serie di eventi statici distinti. Il procedere del tempo, incarnato dal movimento della freccia, non è una caratteristica del mondo esterno, ma una proiezione di qualcosa dentro di noi che lega insieme ciò che osserviamo. Nel 2016, uno degli autori (Lanza) ha pubblicato un articolo scientifico con Dmitriy Podolskiy, fisico teorico che all’epoca lavorava alla Harvard. L’articolo è apparso sulla rivista Annalen der Physik, che gli ha dedicato la copertina di quel numero e che aveva pubblicato tempo prima le teorie della relatività ristretta e generale di Einstein. L’articolo spiega che la freccia del tempo e il tempo stesso emergono direttamente dall’osservatore, cioè da noi. Il tempo,

sostiene, non esiste «da qualche parte», non procede dal passato al futuro, ma è una proprietà emergente che dipende dalla capacità di un osservatore di preservare le informazioni sugli eventi vissuti. Il tempo è indiscutibilmente un concetto relazionale, collega un certo evento rispetto a un altro. Il tempo come lo percepiamo non ha significato se non si fa riferimento a un altro punto, e quindi richiede un osservatore con memoria; in sua assenza non si può avere il concetto relazionale al cuore di una «freccia del tempo».

Figura 11.1 L’articolo di Podolskiy e Lanza sulla freccia del tempo apparve sulla copertina di Annalen der Physik, che aveva pubblicato le teorie di Einstein sulla relatività ristretta e generale. Negli scritti sulla relatività Einstein dimostrò che il tempo era relativo all’osservatore; questo nuovo articolo fa un ulteriore passo avanti, sostenendo che l’osservatore lo crea. La freccia del tempo dipende dalle proprietà dell’osservatore e, in particolare, dal modo in cui elaboriamo e ricordiamo le informazioni.2

Il tempo concepito come freccia è una metafora che risale a millenni fa. L’espressione «freccia del tempo» nasce perché il tempo, per come lo percepiamo, mostra una direzionalità, la capacità di variare in un certo verso ma non in quello opposto. La carrozzeria di un’auto può ammaccarsi e deformarsi in un tamponamento, ma una volta danneggiata non può tornare come nuova facendo retromarcia. Per i primi iconografi una freccia in volo era l’unico oggetto che rappresentasse alla perfezione questa caratteristica e limite del tempo, la sua natura di strada rigorosamente a senso unico. Avrebbero potuto scegliere l’immagine di un cavallo o di un pesce rivolto in una certa direzione, perché è raro vederli muoversi all’indietro, ma «raro» non significa «impossibile». Altri oggetti naturali sarebbero stati ancora più problematici; il fulmine può

andare da una nuvola al suolo o viceversa, e in ogni caso è arduo distinguerne il fronte dal retro. Per fortuna le frecce sono dispositivi evidentemente unidirezionali, la cui punta indica sempre il verso; persino quando se ne lancia una verso l’alto, si capovolge appena inizia a ricadere. Ma il tempo – quello inteso come evoluzione, simile a una freccia, che percepiamo – è un’idea o una realtà? La realtà del tempo appare indispensabile per tutto ciò che implica un cambiamento, come la crescita delle stalattiti nelle grotte, anche se in quel caso il processo è così lento che la crescita di pochi centimetri può richiedere mezzo millennio. Ma ciò che generazioni di fisici indicherebbero con maggior probabilità come prova della realtà del tempo è il secondo principio della termodinamica, che descrive l’entropia, il calo di struttura e ordine, come quello che accade al cassetto della biancheria nel corso di una settimana. Immaginiamo un bicchiere di acqua gassata con cubetti di ghiaccio. All’inizio è palese che esiste una struttura definita: il ghiaccio galleggia in superficie e si mantiene un po’ separato dal liquido. Le bolle appaiono e scoppiano. Il ghiaccio e il liquido hanno temperature diverse. Se però torniamo dopo qualche tempo, scopriremo che la bevanda ha perso l’effervescenza, il ghiaccio si è sciolto e il contenuto del bicchiere è diventato omogeneo e senza struttura. Se la temperatura è uniforme, a livello atomico i trasferimenti di energia si sono più o meno fermati. Sembra che la festa sia finita, perché è finita. Oltre all’evaporazione, non accadrà nient’altro. L’aumento dell’entropia misura il procedere dalla struttura, dall’ordine e dall’attività verso l’uniformità, la casualità e l’inerzia. È uno dei concetti più basilari e importanti della fisica; pervade l’universo e sul lungo termine può anche dettare legge in ambito cosmologico. Oggi osserviamo singoli punti caldi come il nostro Sole che emettono calore e ioni nei dintorni gelidi, ma questa organizzazione sta lentamente venendo meno. La perdita complessiva di struttura è un processo a senso unico. Come descrive il secondo principio della termodinamica, l’aumento dell’entropia, come l’accartocciarsi dell’automobile nel

tamponamento, è un meccanismo irreversibile e quindi non ha senso senza una direzionalità del tempo. Anzi, definisce la freccia del tempo. Senza entropia, essa non avrebbe bisogno di esistere. Un fatto affascinante è che, nonostante da tempo i fisici indicassero l’entropia come prova dell’esistenza del tempo, lo stesso Ludwig Boltzmann, lo scienziato che di fatto scoprì e sviluppò i tre principi della termodinamica, non condivideva questo punto di vista. Usando la logica scrupolosa che caratterizza la meccanica statistica, il suo campo, Boltzmann fece osservare che è inevitabile osservare che l’entropia aumenta sempre e non diminuisce mai, poiché nel nostro mondo gli stati disordinati sono i più probabili. Uno stato ordinato dinamicamente, con molecole che abbiano «la stessa velocità e uguale direzione» è «il caso più improbabile che si possa immaginare»;3 concludeva Boltzmann: «Il caso in cui tutti gli atomi si muovano nella stessa direzione […] corrisponde a una configurazione energetica infinitamente improbabile».4 Immaginiamo di ricevere un mazzo di carte con i semi separati e tutti i numeri in sequenza, come se fosse appena uscito dalla scatola. Riusciremmo a convincerci che qualcuno l’abbia appena mescolato, e che si sia ritrovato in quel particolare ordine piuttosto che in una qualsiasi delle altre possibili configurazioni? Dato che le condizioni disordinate possibili sono molte più di quelle ordinate, uno stato di massimo disordine ha semplicemente la maggior probabilità di manifestarsi. Il fatto è che l’ordine da qualche parte del cosmo è così singolare che richiede sempre un meccanismo o un processo esplicativo, mentre la casualità non richiede chiarimenti: è semplicemente il modo in cui vanno le cose. Quando le particelle possono agire in modo casuale, che si tratti del contenuto di un bicchiere di acqua gassata con ghiaccio o degli innumerevoli atomi che compongono l’aria in una stanza, esse collidono tra loro, scambiandosi energia fino a che le loro posizioni e velocità sono del tutto casuali. Quindi non occorre alcuna «freccia». L’aumento di entropia deriva semplicemente dal normale comportamento casuale. Il secondo principio della termodinamica, secondo cui l’entropia non diminuisce

mai, è una conseguenza automatica della probabilità statistica. Non richiede qualche entità esterna che ne detti la direzione. Allo stesso modo, i geniali scienziati che hanno messo a punto le spiegazioni fondamentali del funzionamento del nostro mondo naturale – i principi della dinamica di Newton, la relatività ristretta e generale e la meccanica quantistica  –  hanno scoperto che le loro equazioni funzionano tutte indipendentemente dal concetto del passaggio del tempo! Sono «simmetriche rispetto al tempo», cioè funzionano altrettanto bene sia all’indietro sia in avanti. Non c’è posto per la freccia del tempo.5 Anche i metafisici, seguendo strade completamente diverse, hanno messo in dubbio la realtà del tempo. Il passato, dicono, è solo un’idea nella mente di una persona; non è altro che un insieme di pensieri, ognuno dei quali si verifica solo nel momento dato. Allo stesso modo, il futuro non è altro che un costrutto mentale, un’anticipazione. Il pensiero di per sé si verifica rigorosamente nell’«adesso»: e allora dov’è il flusso del tempo? Statistica, equazioni e metafisica a parte, non dovrebbe sorprendere troppo il fatto che il tempo non esista come entità indipendente, esterna agli osservatori. Infatti, a parte questi ultimi, chi percepisce alcun cambiamento? Come abbiamo visto, senza osservatori la realtà non esisterebbe affatto, ma a maggior ragione non potrebbe esistere come una serie di eventi intrecciati in uno svolgimento lineare. Tuttavia, noi creature consce viviamo il tempo come una marcia in avanti apparentemente inarrestabile. Da sempre gli esseri umani sono affascinati da questa marcia e fantasticano di capovolgerla. Qualsiasi processo a senso unico non può non evocare conseguenze bizzarre se in qualche modo lo si facesse svolgere nella direzione «sbagliata». Come il tempo, la gravità è un fenomeno a senso unico: è sempre attrattiva e mai repulsiva. Questa sua rigida direzionalità è così radicata nell’esperienza umana che in ambito fantascientifico è facile dare un’impressione di stranezza mostrando l’acqua che fuoriesce a spirale da uno scarico; alla fine degli anni cinquanta la nasa si convinse che invertire o annullare l’attrazione

gravitazionale avrebbe potuto avere conseguenze serie o addirittura letali sugli esseri umani, motivo per cui nei voli di prova lanciarono scimpanzé prima di azzardarsi a inviare astronauti nello spazio. Ci sono stati molti dibattiti scientifici sui potenziali effetti dell’inversione della freccia del tempo; per esempio, l’effetto può mai precedere la causa? Che cosa significherebbe? Come abbiamo osservato all’inizio di questo capitolo, la freccia del tempo è spesso considerata il «cattivo» della vita, colpevole di rubarci la giovinezza; la possibilità di sconfiggerlo è stata esplorata nel film Il curioso caso di Benjamin Button, uscito nel 2008 e basato sull’omonimo racconto del 1922. Nel film, Brad Pitt nasce anziano e al passare degli anni ringiovanisce. Il film ha avuto un grande successo e ha fatto riflettere molti sulla freccia del tempo e sulle sue implicazioni. Abbiamo visto che, come scoprirono con sconcerto gli scienziati, le leggi fondamentali della fisica non hanno preferenze per una direzione nel tempo e funzionano altrettanto bene per gli eventi che vanno indietro come in avanti. Eppure, nel mondo reale, il caffè si raffredda e capitano guasti alle automobili. Possiamo guardarci allo specchio finché vogliamo, non ci vedremo mai ringiovanire. Rimane un’enorme contraddizione tra ciò che percepiamo abitualmente e ciò che la scienza ritiene vero. Se il tempo è un’illusione, vi chiederete, perché invecchiamo? Se le leggi della fisica funzionano altrettanto bene in entrambi i versi, perché ci allontaniamo dalla giovinezza? La risposta, ancora una volta, sta in noi osservatori, e in particolare nella nostra memoria. Se il tempo è veramente simmetrico in tutte le equazioni, da Newton alla moderna meccanica quantistica, sembra che secondo la scienza si debba essere in grado di «ricordare» il futuro quanto il passato. Ma le traiettorie della meccanica quantistica «dal futuro al passato» sarebbero associate alla cancellazione dei ricordi, a una diminuzione dell’entropia che riduce la correlazione quantistica tra la nostra memoria e gli eventi osservati. Quindi non possiamo tornare indietro nel tempo senza che dal cervello vengano cancellate informazioni; se percepiamo il futuro, non siamo in grado di immagazzinare ricordi di queste percezioni per poterle «ricordare» nel presente. Se invece viviamo il futuro percorrendo la solita strada

a senso unico «passato → presente → futuro», continuano i fenomeni casuali che fanno aumentare l’entropia e continuiamo ad accumulare solo ricordi. Quindi anche l’invecchiamento non offre alcuna prova della freccia del tempo come forza esterna. Sembra che davvero il tempo non esista al di fuori della coscienza; è essa stessa, accompagnata da meccanismi che rendono possibili i confronti (come la memoria), che porta alla comparsa del tempo, così come l’alba dissipa la notte. Nel mondo del biocentrismo un osservatore «senza cervello», cioè senza la capacità di immagazzinare ricordi degli eventi osservati, non percepirebbe un mondo in cui invecchiamo. Ma in realtà le cose sono ancora più profonde; un osservatore senza cervello non si limiterebbe a non percepire il tempo: per lui il tempo non esisterebbe in alcun senso. Senza un osservatore cosciente, la freccia del tempo, e anzi il tempo stesso, non appare proprio. In altre parole, l’invecchiamento è davvero solo dentro di noi.



11. La freccia del tempo 1  Angelus Silesius,  Il pellegrino cherubico, a c. di Giovanna Fozzer e Marco Vannini, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1989, p. 175. [N.d.T.] 2  Dmitriy Podolskiy e Robert Lanza, in  Annalen der Physik, vol. 528, n. 9-10, 2016, pp. 663-676. Copyright Wiley-VCH Verlag GmbH & Co. KGaA. Riproduzione autorizzata. 3  Ludwig Boltzmann,  Modelli matematici, fisica e filosofia, a c. di Carlo Cercignani, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 36. [N.d.T.] 4 Ivi, p. 39. [N.d.T.] 5 Il «tempo» in queste equazioni non è il tempo come evoluzione, è solo il tempo come coordinata. Nella relatività generale anche il tempo come coordinata perde il suo ruolo, il che porta al famoso «problema del tempo» nella gravità quantistica, di cui parleremo nel Capitolo 14.

12. Viaggiare in un universo senza tempo

Il tempo e lo spazio non sono che dei colori fisiologici per l’occhio.1 Ralph Waldo Emerson

Siamo tutti viaggiatori nel tempo. Dal risveglio mattutino al momento di coricarci la sera; dall’arrivo al lavoro all’orario di uscita; dalla partenza per le vacanze ad agosto al ritorno, quando nell’aria si coglie il primo sentore dell’autunno. Viaggiamo nel tempo dalla nascita alla morte. Nell’allegra serie televisiva cult Doctor Who, un «Signore del Tempo» dell’età di duemila anni proveniente dal pianeta Gallifrey attraversa il tempo e lo spazio su un’astronave chiamata tardis (acronimo di Time and Relative Dimension in Space). Essa ha l’aspetto esteriore di un’ordinaria cabina telefonica della polizia britannica, un po’ antiquata, mentre il vasto interno è una meraviglia tecnologica che, a quel che pare, distorce le leggi della fisica permettendo di raggiungere mete remote come la Londra del 1814, il Giurassico e persino città future su pianeti lontani. Ma noi saremo mai in grado di viaggiare avanti e indietro nel tempo come il Dottore? Sapremo costruire un veicolo che possa trasportarci in giro per l’universo non solo in tre dimensioni, ma in quattro? Quando parliamo di simili «viaggi nel tempo», ovviamente, li riferiamo al tempo come coordinata, distinto dal consueto viaggio quotidiano della coscienza dal mattino alla sera e così via, che procede sempre avanti nel corso della vita. Questo viaggio della coscienza è spesso chiamato «passare del tempo», nonostante il fatto che il tempo non passa: è la nostra consapevolezza che si muove lungo la coordinata temporale.

Nella scienza classica gli esseri umani hanno collocato tutte le cose nel tempo su un continuum lineare. L’universo ha quasi quattordici miliardi di anni, la Terra circa quattro o cinque, e ognuno di noi ha qualche anno o qualche decina di anni. Nella concezione comune di un universo meccanicistico esterno, il tempo è un orologio che ticchetta indipendentemente da noi. Non è così, dice il biocentrismo. Come ha sottolineato il fisico Stephen Hawking: «Non c’è modo di eliminare l’osservatore  –  cioè noi  –  dalla nostra percezione del mondo».2 Il mondo che percepiamo è creato da noi. E Hawking riteneva che non creiamo solo la nostra realtà presente, ma che, allo stesso modo, l’universo avesse molte storie possibili e molti futuri possibili. Ricordiamo: «Nella teoria newtoniana» disse, «si assume che il passato esista come serie definita di eventi. […] La fisica quantistica ci dice che […] il passato […] come il futuro, è indefinito ed esiste soltanto come uno spettro di possibilità».3 Ci è stato insegnato che la coscienza umana  –  e tutto il resto al mondo – scorre come una freccia in una stessa direzione dalla culla alla tomba. Ma nel capitolo precedente abbiamo visto che questa freccia non è qualcosa di esterno alla nostra coscienza: è quest’ultima che la crea. E una straordinaria serie di esperimenti fa ritenere che il passato, il presente e il futuro siano intrecciati e che le decisioni prese ora possano influenzare eventi passati. Ci riferiamo, ovviamente, agli esperimenti di «scelta rinviata» del tipo descritto nel Capitolo 7. Come ricorderete, furono immaginati originariamente dal nostro amico Wheeler; nel 2007, infine, un esperimento del genere è stato realizzato e pubblicato sulla rivista Science. Non sarebbe una cattiva idea tornare al Capitolo 7 per riguardare l’illustrazione e i dettagli della configurazione sperimentale ma, in poche parole, i ricercatori hanno inviato fotoni in un dispositivo e dimostrato che potevano alterare retroattivamente il comportamento ondulatorio o particellare di questi fotoni. Quando arrivavano a una biforcazione nel dispositivo, i fotoni dovevano «decidere» che cosa fare, ma in seguito, dopo che i fotoni avevano percorso quasi cinquanta metri, un interruttore attivato dallo

sperimentatore poteva determinare come si erano comportati in precedenza. I risultati di questo esperimento e di altri simili sono stati una rivelazione non da poco. Quasi tutti possono impiegare un po’ di tempo a comprendere appieno che il passato non è inviolabile e che, come il futuro, è determinato dagli eventi attuali. Dopodiché, seguire questa logica porta a un’ulteriore conclusione: ciò che è accaduto in passato potrebbe dipendere non solo da quanto si decide adesso, ma anche da azioni non ancora intraprese. Come affermò Wheeler: «Il principio quantistico mostra che in un certo senso ciò che un osservatore farà in futuro definisce ciò che accade nel passato».4 La fisica quantistica dice che gli oggetti esistono in uno stato sospeso fino a quando non vengono osservati, e a quel punto collassano in una realtà ben definita. Wheeler sottolineò che, quando osserviamo la luce proveniente da un quasar lontano e deflessa da una galassia, abbiamo di fatto allestito un’osservazione quantistica su scala enorme. In altre parole, diceva, le misurazioni effettuate sulla luce in arrivo ora determinano il percorso che la luce seguì miliardi di anni fa. Ciò rispecchia i risultati dell’esperimento descritto nel Capitolo 7, in cui un’osservazione presente determina il comportamento passato del gemello di una certa particella. Nel 2002 la rivista Discover inviò un giornalista nel Maine per parlare con Wheeler in persona. Questi affermò di essere sicuro che l’universo fosse pieno di enormi nuvole di incertezza che non hanno ancora interagito con nulla. In tutti questi luoghi il cosmo sarebbe una vasta arena contenente lande in cui il passato non è ancora passato.5 In tutto ciò che non è stato esplicitamente osservato permane una fluidità, un certo grado di incertezza. Parte del passato viene fissata quando osserviamo il mondo che ci circonda nel presente e le onde di probabilità collassano. Ma c’è ancora qualche incertezza, per esempio su ciò che abbiamo sotto i piedi. Prima di fare osservazioni al riguardo, le particelle che compongono quello che si trova sotto di noi hanno una varietà di possibili stati, e solo dopo l’osservazione

assumono proprietà reali. Quindi, finché il presente non è determinato, come può esserci un passato? Se scaviamo una buca, c’è una certa probabilità di trovare un masso. Se ciò avviene, si fisseranno nella certezza i movimenti geologici del passato che portano la roccia a trovarsi esattamente in quel punto. Il passato non è altro che la logica spaziotemporale del presente, compresa la storia geologica che corrisponde al ramo della realtà in cui collassa la nostra coscienza. In conclusione: la realtà inizia e finisce con l’osservatore, che si stia parlando di quella attuale o di quella di un eone fa. Per dirla con Wheeler: «Noi partecipiamo alla realizzazione di certi aspetti dell’universo in un lontano passato». Come il masso in cortile e la luce del quasar di Wheeler, anche avvenimenti storici come l’assassinio di Kennedy potrebbero dipendere da eventi che non si sono ancora verificati. Al riguardo possediamo solo frammenti di informazioni; c’è un’incertezza sufficiente perché possa trattarsi di una persona in una serie di circostanze e di un’altra persona in un’altra. La storia è un fenomeno biologico. È la logica di ciò che noi, osservatori animali, percepiamo. Abbiamo numerosi futuri possibili, ognuno con una storia diversa. Man mano che viviamo, osservando e acquisendo informazioni, facciamo collassare sempre di più la realtà. Forse le scelte che compiamo oggi influenzeranno eventi molto anteriori alla nostra nascita, riorganizzando la realtà degli eventi da quando nacque Cristo o furono costruite le piramidi. Aristotele ovviamente non riuscì a prevedere la meccanica quantistica quando scrisse: di una sola cosa infatti anche Dio è privo, di rendere non avvenute le cose che sono state fatte.6 Tuttavia, alterare il passato è una cosa, ma potremo mai sperare di andarci? Viviamo e moriamo nel mondo del qui e ora. Questo, però, potrebbe cambiare quando la scienza capirà appieno gli algoritmi che utilizziamo per costruire la realtà del tempo e dello spazio. Sebbene il tempo non esista di per sé, il viaggio in universi passati e

futuri è forse possibile se saremo in grado di generare una realtà basata sulla coscienza. A quel punto, se modificassimo gli algoritmi, in modo che invece di essere lineare il tempo fosse tridimensionale, come lo spazio, la coscienza sarebbe in grado di muoversi attraverso il multiverso. (Una rappresentazione vivida di un possibile esempio di tali viaggi nel multiverso si trova nell’affascinante romanzo di fantascienza I mondi dell’impero - Parte seconda [The Other Side of Time] di Keith Laumer.) La letteratura scientifica ha preso in considerazione varie teorie che implicano ulteriori dimensioni del tempo. Tuttavia, l’opinione prevalente è che il tempo multidimensionale sia impossibile perché, implicando la possibilità di viaggi nel passato, darebbe luogo a paradossi causali; e si dà per scontato che qualsiasi teoria che li genera non sia fisicamente possibile e vada quindi respinta. È stato il destino della teoria dei tachioni (particelle più veloci della luce). La relatività ristretta si può estendere includendo anche velocità superiori a quella della luce, ma curiosamente la formulazione risultante funziona solo se si postula che sia tridimensionale non solo lo spazio, ma anche il tempo. Quindi il tempo tridimensionale consentirebbe viaggi temporali, ma in genere proprio questo fatto lo rende inaccettabile, poiché il viaggio nel tempo sfocerebbe di per sé in contraddizioni come il classico «paradosso del nonno». In questo noto esempio, una persona viaggia indietro nel tempo e uccide il proprio nonno prima del concepimento della madre o del padre. Quindi la persona non sarebbe mai nata e non avrebbe potuto viaggiare nel passato per uccidere il nonno. Ci sono molti altri paradossi e incongruenze equivalenti che potrebbero emergere cambiando il passato, come la (im)possibilità di tornare indietro nel tempo e uccidersi da bambini, o il famoso «paradosso di Hitler», in cui l’assassinio di Adolf Hitler farebbe sparire il motivo per tornare indietro nel tempo per assassinarlo. Paradossi a parte, uccidere Hitler nel passato avrebbe conseguenze immani per tutti gli esseri umani attuali, specialmente per le persone nate dopo la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto. Se uccidessimo Hitler, nessuna delle sue azioni avrebbe avuto

conseguenze negli anni successivi, nel bene come nel male. Milioni di vittime sarebbero invece sopravvissute, ma ci sarebbero innumerevoli altri cambiamenti difficili da prevedere: coppie che si sono conosciute e hanno avuto figli potrebbero non essersi mai incontrate, intere nazioni potrebbero esistere in forme diverse o per niente, e forse non si sarebbe mai inventata la bomba atomica, ma anche varie altre tecnologie. L’intero corso della storia sarebbe stato stravolto. Questo problema viene considerato in un episodio di Doctor Who che si intitola proprio «Uccidiamo Hitler». Il tardis precipita nella Germania nazista mentre un robot umanoide sta per uccidere Hitler, e il Dottore e i suoi compagni lo salvano nel passato per salvare il proprio futuro. Problemi simili ispirano le trame di Terminator e di Ritorno al futuro, dove la visita nel passato minaccia continuamente di alterare il futuro da cui provengono i viaggiatori. Nonostante gli ingegnosi tentativi per aggirare questi ostacoli, le incongruenze della linea temporale sono davvero un problema per il viaggio nel tempo così come è concepito classicamente. Ma tutti questi paradossi scompaiono se applichiamo al mondo macroscopico le regole della meccanica quantistica, che prevede l’assenza di un passato singolo e molteplici futuri possibili. Secondo l’interpretazione dei molti mondi, se viaggiassimo indietro nel tempo ci limiteremmo a creare una linea temporale alternativa o un universo parallelo. Che si tratti di premere un interruttore (come nell’esperimento della scelta rinviata descritto nel Capitolo 7) o di manovrare i comandi di una macchina del tempo, l’esperienza la viviamo sempre noi. Non ci possono essere paradossi, perché qualsiasi evento che modifichiamo nel passato genererà un universo alternativo in armonia con le leggi note della meccanica quantistica. Qualunque sia l’universo in cui ci troviamo, siamo lì in quanto noi stessi. Naturalmente, il viaggio nel tempo verso il futuro è tutta un’altra questione e, poiché evita fastidiosi paradossi come quelli appena descritti, i suoi meccanismi teorici sono relativamente semplici anche nella fisica classica. La teoria della relatività ristretta insegna che il tempo scorre a ritmi diversi a seconda della velocità a cui si

muovono gli oggetti. Questa «dilatazione del tempo» diventa enorme man mano che ci si avvicina alla velocità della luce. Per esempio, qualcuno che viaggiasse a circa 930 milioni di chilometri all’ora misurerebbe intervalli di tempo dimezzati rispetto a quanto misura un orologio a riposo. Quindi, per avanzare nel tempo velocemente, cioè senza invecchiare molto, basterebbe procedere per un po’ a una velocità prossima a quella della luce e poi voltarsi indietro per un «ritorno al futuro» verso cui si è diretti. Sebbene in teoria sia possibile (con l’attrezzatura giusta) viaggiare nel futuro in questo modo, ci sono alcuni, ehm, «piccoli» intoppi. Per esempio, Einstein dimostrò che nessun ente dotato di massa può raggiungere la velocità della luce, perché la sua massa crescerebbe fino al punto in cui, avvicinandosi a quella velocità, anche una piuma peserebbe più di una galassia. La forza necessaria per accelerare ulteriormente una massa così enorme, vicino alla velocità della luce, sarebbe impossibile da ottenere: supererebbe tutta l’energia nell’universo. Anzi, appena al di sotto della velocità della luce, la massa di un granello di senape che sfreccia supererebbe quella dell’intero cosmo. Il viaggio nel tempo in avanti si potrebbe realizzare, in teoria, anche sfruttando le proprietà della gravità. La teoria della relatività generale ci dice che non è solo il movimento a influenzare la velocità del tempo; gli orologi ticchettano più lentamente anche in campi gravitazionali più intensi. Un orologio sulla Terra, come quello del Controllo Missione di Houston, funziona un po’ più lentamente di uno sulla Luna. Ci sono luoghi nell’universo in cui trascorre un singolo secondo mentre l’intervallo temporale corrispondente sulla Terra è pari a un milione di anni. Purtroppo, muoversi anche di poco nel futuro usando la dilatazione gravitazionale del tempo richiederebbe misure estreme (e, ahimè, probabilmente letali), come orbitare vicino a un buco nero a velocità immani o raggiungere una stella di neutroni. Naturalmente quest’ultima esperienza richiederebbe un veicolo con un guscio sferico pesante un milione di volte più della Terra. Stando in piedi su una stella di neutroni, ammesso di riuscire a costruire un’astronave per arrivarci, verremo appiattiti con la

stessa efficacia di uno degli enormi massi che cadono su Willy il Coyote nel corso della sua caccia a Beep Beep. Tra le più note possibilità teoriche di viaggio nel tempo proposte dagli scienziati c’è anche l’uso di strane configurazioni dello spaziotempo come i wormhole, in cui le cosiddette «curve di tipo tempo chiuse» permetterebbero a una particella di viaggiare indietro nel tempo e di incontrare se stessa. Tuttavia, malgrado le equazioni della relatività generale li consentano, la costruzione dei wormhole non è possibile senza materiali esotici esistenti solo in teoria e mai rinvenuti in natura, almeno finora. E, naturalmente, la maggior parte di queste teorie non prevede un modo per tornare indietro nel tempo, fino a prima che fosse stata costruita la «macchina del tempo» stessa. Riepilogando, la fisica classica vieta di costruire una macchina per viaggiare nel tempo come fa il Dottore in Doctor Who, per i paradossi causali e per le difficoltà pratiche. I risultati della meccanica quantistica suggeriscono soluzioni promettenti ad alcuni di questi problemi, ma anche il fatto in sé che il passato e il futuro non sono le realtà definite e separate che sembrano. Le cose si fanno però davvero interessanti quando incorporiamo pienamente i principi del biocentrismo, cambiando la nostra visione del mondo in maniera da aggiungere la vita ai termini della questione. Accettando lo spazio e il tempo come forme dell’intelletto animale (cioè come biologico) piuttosto che come oggetti fisici esterni, possiamo spalancare un punto di vista completamente nuovo per il viaggio nel tempo. Abbiamo visto che, nel multiverso delle molte possibili storie e universi paralleli, una configurazione in cui i paradossi causali semplicemente non esistono, sarebbero forse possibili i viaggi nel tempo. Ma la stessa parola «viaggio» implica il movimento verso un luogo distinto e separato da noi stessi, con la sfida di spostare fisicamente masse (il corpo) e menti (la coscienza) in una nuova posizione nello spazio e nel tempo. E se scoprissimo che il viaggio nel tempo non richiede uno spostamento in qualche punto «là», ma piuttosto la semplice esperienza di un altro aspetto del «qui»? Secondo il biocentrismo, lo spazio e il tempo sono relativi al

singolo osservatore: ce li portiamo in giro come fanno le tartarughe con il carapace. Se accettiamo che né lo spazio né il tempo hanno un’esistenza autonoma, che entrambi sono invece funzioni inseparabili degli algoritmi che compongono la nostra coscienza, dovrebbe essere ovvio che in definitiva il «viaggio» attraverso l’una o l’altra dimensione potrebbe non implicare alcun tipo di spostamento fisico. Quando la tecnologia sfrutterà il nuovo paradigma biocentrico, quindi, il viaggio nel tempo potrebbe rivelarsi molto più semplice di quanto sembri.



12. Viaggiare in un universo senza tempo 1 Ralph Waldo Emerson, L’anima, la natura e la saggezza: Saggi, 1. e 2. serie, trad. it. di Mauro Cossa, Laterza, Bari 1911, p. 45. [N.d.T.] 2  Stephen Hawking e Leonard Mlodinow,  Il grande disegno, trad. it. di Tullio Cannillo, Mondadori, Milano 2011, p. 42. [N.d.T.] 3 Ivi, p. 78. [N.d.T.] 4  John Archibald Wheeler, «Genesis and ownership», in Robert E. Butts e Jaakko Hintikka (a c. di),  Foundational Problems in the Special Sciences, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht 1977, p. 3. [N.d.T.] 5  Tim Folger, «Does the Universe Exist if We’re Not Looking?», in  Discover, 1º giugno 2002. [N.d.T.] 6 Aristotele, Etica nicomachea, in Etiche, a c. di Lucia Caiani, utet, Torino 1996, p. 345. [N.d.T.]

13. Le forze della natura

L’Universo è l’esternarsi dell’anima. Ovunque vi è la vita, quella vi si precipita attorno.1 Ralph Waldo Emerson

Nel riflettere sull’universo ci troviamo di fronte a incredibili «coincidenze», che però si trasformano da inspiegabili stranezze in profonde rivelazioni una volta che cogliamo appieno l’intima connessione tra il cosmo apparentemente smisurato e distante e le nostre menti. Abbiamo detto che l’universo è un sistema informativo che di fatto non è né più né meno che la logica spaziotemporale dell’osservatore, cioè il sé. Questo basta a spiegare perché le leggi e le forze della natura, che potrebbero assumere qualsiasi valore o quasi, sono tutte bilanciate con precisione a favore della nostra esistenza. Ecco perché, per esempio, il valore della forza nucleare forte ricade nell’intervallo ristretto che consente ai nuclei atomici nei nostri corpi di restare uniti, senza che i protoni si attraggano a vicenda in modo disastroso. Spiega come mai la forza gravitazionale è esattamente come deve essere perché il Sole si accenda e perché la fusione nucleare proceda, generando le forze necessarie a creare gli atomi di carbonio che sono alla base della vita stessa. Quando Emerson si chiese: «L’occhio dell’embrione umano non predice la luce?»,2 percepiva questo legame intimo. Per questo, tentare di capire come funziona l’universo nel complesso è, in un certo senso, come tentare altrettanto per gli algoritmi in una calcolatrice, tranne che in questo caso vogliamo comprendere la logica interna della nostra mente, il modo in cui i suoi meccanismi

invisibili e spontanei costruiscono i vari mattoni della realtà spaziotemporale. Abbiamo visto nei capitoli precedenti come funziona la coscienza, partendo dalla dinamica ionica a livello quantistico nei circuiti neurali del cervello, e che il processo della coscienza fa collassare il mondo fisico che osserviamo. Poiché la realtà è dipendente dall’osservatore, il meccanismo spaziotemporale tramite cui la coscienza si manifesta sotto forma di oggetti ed eventi tridimensionali della vita vera si può di fatto estrapolare nello spazio, dall’ambito quantistico fino ai confini dell’universo, e nel tempo, finché le orme dei nostri antenati scompaiono nel mare. Naturalmente i cosmologi hanno ripercorso la storia della Terra quando era ancora fusa e ne hanno seguito l’evoluzione a ritroso nel tempo fino a un passato incomprensibile: dai minerali, via via indietro attraverso le forme inferiori della materia (il plasma, i nuclei, i quark) e oltre, fino al Big Bang. In effetti, se potessimo viaggiare indietro nel tempo, probabilmente osserveremmo la maggior parte se non tutti gli eventi previsti dai cosmologi. Ma, come abbiamo visto, la realtà fisica inizia e finisce con l’osservatore. Ciò che si osserva è reale; tutti gli altri tempi e luoghi, tutti gli altri oggetti ed eventi sono prodotti dell’immaginazione e servono solo a unire la conoscenza in un tutto logico. Pensiamo all’universo come a un mappamondo: è semplicemente una rappresentazione di tutto ciò che è teoricamente possibile percepire (supponendo, ovviamente, di essere in grado di arrivare sul posto e sopravvivere abbastanza a lungo da osservare il fenomeno). Uno degli obiettivi di questo capitolo è analizzare la logica usata dalla mente per generare una simile esperienza spaziotemporale. Mentre si sente conscia, la mente impiega un algoritmo, una regola matematica che fornisce la precisa logica relazionale per definire e animare la costruzione. Potremmo iniziare con la logica dell’onda elettromagnetica, che definisce in modo matematico preciso l’interrelazione tra spazio e tempo. Lanciamoci. Nel suo fondamentale articolo «Zur Elektrodynamik bewegter Körper» (Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento), Einstein mostrò come giustificare la discrepanza tra il moto dei corpi materiali

e quello delle onde elettromagnetiche. Costruì la teoria della relatività ristretta, che unificava da una parte lo spazio e il tempo, e dall’altra la materia e l’energia. Le scoperte di Einstein si condensano nella famosa formula E = mc2, secondo cui, a prescindere dalle unità di misura usate (per esempio, erg per l’energia, grammi per la massa e c  –  che esprime la velocità della luce – in centimetri al secondo), si troverà che l’energia di un oggetto è esattamente uguale alla sua massa moltiplicata per il quadrato della velocità della luce. Che questo non sia solo elegante da un punto di vista matematico, ma anche perfettamente corretto, fu chiarito in modo vivido durante la Seconda guerra mondiale dalle esplosioni delle prime bombe atomiche. Per pura coincidenza, sia nella bomba del test Trinity sia in quella di Nagasaki, solo un grammo degli oltre sei chilogrammi di plutonio fu convertito in energia e svanì. Eppure questo singolo grammo fu sufficiente per creare un’esplosione titanica che fece impallidire tutto ciò che si era visto fino ad allora nel mondo. Fu anche una potente dimostrazione pratica: ponendo 1 come valore di m nella formula E = mc2, otterremo che un singolo grammo deve convertirsi nell’equivalente energetico di 21 000 tonnellate di tritolo, proprio l’energia della bomba di Nagasaki. L’unificazione compiuta da Einstein tra le equazioni che descrivono l’elettromagnetismo (le cosiddette equazioni di Maxwell) e il moto della materia richiedeva di introdurre un continuum quadridimensionale che combinasse spazio e tempo. Portando i postulati di Einstein alla loro rigorosa conclusione matematica, Hermann Minkowski introdusse il concetto di spaziotempo, uno spazio quadridimensionale in cui le coordinate di ogni punto sono costituite da quattro numeri: tre coordinate spaziali e una per il tempo. Formulata all’interno di una simile struttura quadridimensionale, la teoria congiunta della luce e della materia diventava coerente. Quindi ogni evento nello spaziotempo è descritto da tre coordinate che denotano la sua posizione spaziale più una coordinata aggiuntiva chiamata «tempo». Così, quando fissiamo un

appuntamento con qualcuno, non specifichiamo solo un luogo, ma anche un orario. Ma, ahimè, nel chiamare la quarta coordinata «tempo», Einstein e Minkowski hanno usato un concetto tradizionalmente legato alla nostra sensazione soggettiva di «divenire», cioè alla nostra esperienza che gli eventi si verifichino in sequenza. Come spiegato nel Capitolo 11, però, il nostro «tempo» soggettivo non è lo stesso tempo della quarta coordinata del continuum spaziotemporale, fonte di eterna confusione tra i profani che cercano di capire Einstein. Ricorderete che nell’«universo-blocco» del continuum spaziotemporale tutto esiste simultaneamente; non c’è una dinamica o un’esperienza soggettiva del «divenire», né eventi che si svolgono in un ordine temporale. Pertanto, l’universo-blocco della relatività ristretta non è coerente con ciò che osserviamo di fatto noi esseri umani. Non vediamo il passato, il presente e il futuro tutto in una volta, bensì assistiamo nella nostra coscienza allo svolgersi del tempo un tratto alla volta, un evento dopo l’altro. I fisici considerano questo dispiegarsi del tempo un’«illusione» che si verifica solo nella coscienza, non ritenuta parte della fisica. Eppure, benché non se ne accorgano, questa formulazione arriva al punto più fondamentale dell’esistenza. Per essere più chiari, la parola «illusione» – che ricorre più volte in questo capitolo  –  denota in realtà il profondo intreccio tra il ruolo della coscienza e i meccanismi dell’universo, e l’insufficienza dell’universo-blocco. Si scopre che il funzionamento della scienza richiede un ulteriore ingrediente, a prima vista inquietante perché non era una parte tradizionale della fisica: la coscienza. I fisici lo intuivano già all’inizio del Novecento, anche se è diventato sempre più chiaro con l’avvento della meccanica quantistica, la quale non ha molto senso a meno che non si faccia scendere in campo la coscienza. Molti scienziati sono riluttanti ad accettarlo, ancora adesso, a distanza di un secolo. A quel che pare, la nostra cultura scientifica resiste ai cambiamenti radicali dei suoi paradigmi, oggi non meno che ai tempi di Copernico e Galileo. Secondo la meccanica quantistica non solo lo svolgersi del tempo, ma l’esistenza di eventi esterni, e quindi dell’universo nel suo

insieme, si riduce in un certo senso a un’illusione dell’osservatore. Come sottolinea il biocentrismo, l’esito di un esperimento o di un’osservazione è una consapevolezza nella mente dell’osservatore. In un certo senso, la parola «esterno» è un termine vuoto, poiché nulla è esterno alla coscienza o alla mente dell’osservatore. Quindi l’«illusione» appare in diversi modi. Anche il «tempo» utilizzato dalla relatività ristretta come quarta coordinata del continuum spaziotemporale è in un certo senso illusorio, poiché come abbiamo visto non è affatto tempo vero. È «tempo» solo nella misura in cui lo rappresenta la posizione delle lancette di un orologio. Questi indicatori mobili possono assumere qualsiasi posizione sul quadrante dell’orologio, ma nello spaziotempo tutte le configurazioni esistono in simultanea. È la coscienza che determina la posizione assunta dalle lancette dell’orologio in un momento dato. Questa lacuna – il fatto che la relatività ristretta necessita di qualche modifica per introdurre un parametro che spieghi la nostra esperienza soggettiva del «divenire» – è stata compresa e studiata a fondo da molti fisici, a partire da una proposta iniziale di Ernst Stueckelberg. Lawrence Horwitz ha introdotto la distinzione (vista nel Capitolo 11) tra il tempo come coordinata che costituisce la quarta dimensione dello spaziotempo, e il tempo come evoluzione, associato a un parametro aggiuntivo. Come abbiamo detto, i punti dello spaziotempo sono associati a eventi. Ma che cosa sono di preciso questi ultimi? Un evento può essere il luogo e l’ora in cui una particella ne colpisce un’altra. Per esempio, un fotone è emesso da un atomo e arriva nell’occhio dell’osservatore, portandogli così informazioni sulla posizione dell’atomo. Ma secondo la teoria dei quanti la posizione dell’atomo è «sfocata», in quanto sovrapposizione di molte posizioni possibili. È compito della coscienza determinare quale di queste diventa la posizione effettiva nella consapevolezza dell’osservatore. Mediante l’atto dell’osservazione, la mente dell’osservatore crea la consapevolezza che, in una certa posizione e a un certo tempo come coordinata, il fotone è stato emesso dall’atomo. Potrebbe arrivare un secondo fotone, seguito da un altro ancora. La successione di eventi nello spaziotempo corrisponde a un

susseguirsi di esperienze nella coscienza dell’osservatore. Ma senza un meccanismo mentale che ponga gli eventi in ordine e consenta di percepirli in modo distinto, tutte queste esperienze esisterebbero simultaneamente: passato, presente e futuro. Uno stato coerente di molti fotoni si manifesta su scala macroscopica come campo elettromagnetico, che può assumere la forma di onde elettromagnetiche come le onde radio, la luce infrarossa e così via. Le onde elettromagnetiche in cui due creste successive distano tra 400 e 700 nanometri costituiscono la luce visibile e sono il nostro strumento principale per indagare gli oggetti circostanti. E rilevando le loro posizioni siamo in grado di visualizzare, una porzione alla volta, l’intero universo come esistente nello spaziotempo.

Figura 13.1 Un’onda elettromagnetica che si propaga nel vuoto nella direzione +z. Il campo elettrico (frecce nere) oscilla nella direzione ±x e il campo magnetico (frecce grigie) oscilla in fase con il campo elettrico, ma nella direzione ±y.

In un certo senso, le onde di energia elettromagnetica sono le fibre della logica usata dalla mente per tessere un arazzo quadridimensionale. È una relazione matematica che non solo definisce le quattro dimensioni dello spaziotempo, ma anche il modo in cui il tempo come evoluzione viene inserito in questo costrutto spaziale: è la logica che genera l’esperienza che chiamiamo «movimento». Attraverso l’incorporazione dei ricordi, la mente usa questa logica per generare il complesso sistema di informazioni che percepiamo come coscienza o realtà. La semplice consapevolezza quotidiana implica meccanismi soggiacenti di sorprendente complessità. È un atto che rasenta la magia, considerando le innumerevoli «alterazioni» che in teoria potrebbero verificarsi in ogni punto dello spazio tridimensionale. Così come potenziamo i sensi con i radiotelescopi per scrutare attraverso le nuvole di polvere opache della Via Lattea, abbiamo strumenti scientifici che ci permettono di analizzare che cosa accade

nel cuore invisibile di tutti gli eventi fisici. Come descrivono le equazioni di Maxwell, risulta che le componenti elettriche e magnetiche di un’onda elettromagnetica rispettano certe relazioni temporali, in cui ciascuna dipende dalla velocità di variazione dell’altra. Il campo elettrico variabile in un punto dello spazio genera un campo magnetico perpendicolare, che ne genera a sua volta uno elettrico, e così via: il fenomeno si propaga a distanze illimitate alla velocità della luce, che ha il valore invariabile di 299 792 chilometri al secondo (si veda la Figura 13.1). Quando ci troviamo di fronte qualcosa, vediamo la luce riflettersi su ogni superficie come se l’oggetto fosse indipendente e se ne stesse fuori e separato da noi. Nessun microscopio potrebbe trovare il cordone ombelicale che collega l’oggetto alla mente di chi lo osserva, eppure la forma, il suono, il movimento, la resistenza, tutte queste cose sono solo energia che si imprime sui nostri organi sensoriali. Ma nonostante i tentativi di definire o spiegare questa energia, analizzando a fondo i risultati degli esperimenti è sempre rimasto questo residuo irrisolvibile. È un enigma la cui fonte è nascosta. Infatti, quando David Ben Gurion gli chiese se credeva in Dio, Einstein rispose che «ci deve essere qualcosa dietro l’energia». Questo qualcosa, però, non va cercato nel mondo materiale. L’energia non è che una rappresentazione della mente, una regola del suo comprendere. Nella mente, se fossimo in grado di aprirla, vedremmo la logica interna dell’universo. È qui che le sensazioni diventano apparenze e le componenti delle onde elettromagnetiche generano le relazioni spaziotemporali necessarie per capire e percepire il contenuto empirico del mondo fisico. Solo comprendendo le cose in questo modo possiamo riconoscere la continuità nella connessione dei tempi e degli spazi. La risposta non sta in una definizione isolata ed esterna di «natura», ma in noi stessi; la mente modella il corpo, come disse il poeta Spenser: Così ogni spirito, che è assai puro, Avendo in sé più luce celestiale, Si procura il corpo più bello

In cui dimorare, e lo adorna di più splendore Con lieta grazia e amabile aspetto. Il corpo assume infatti la forma dell’anima, Poiché l’anima è forma, e il corpo modella.3 In altre parole, stavolta in quelle di Emerson: «L’Universo è l’esternarsi dell’anima. Ovunque vi è la vita, quella vi si precipita attorno».4 Non dobbiamo cercare le leggi e le forze originarie della fisica nella natura, ma piuttosto nella nostra mente, nel modo in cui il cervello, operando attraverso i sistemi del corpo, genera la conoscenza dell’ambiente sensoriale. Il mondo materiale e spaziale ha radici nella mente, non meno dei testi di Eschilo o di Ovidio. Quando analizziamo gli oggetti intorno a noi, in definitiva non troviamo altro che energia: essa si imprime sui nostri organi sensoriali o si oppone alle azioni dei nostri arti. Non c’è oggetto che non si possa ridurre a questo residuo. Siamo quindi più che semplici spettatori degli eventi. Come mostrano senza ambiguità gli esperimenti di fisica quantistica, l’osservatore interagisce con il sistema a tal punto che non si può attribuire a quest’ultimo un’esistenza indipendente. La difficoltà nel rendersi conto di tutto ciò deriva dall’impressione che la consapevolezza della nostra stessa esistenza sia legata agli oggetti circostanti. Andiamo all’edicola e, con un’occhiata al giornale, determiniamo la nostra posizione nel tempo. Gli occhi sono immersi in luci e forme, le orecchie nel rombo delle auto e nel chiacchiericcio dei pedoni. Possiamo determinare la nostra posizione in un istante. Eppure ciò in realtà non richiede nulla di autonomo o permanente. Ci dev’essere tuttavia nella mente una regola secondo cui uno stato ne determina un altro e anche, all’inverso, la posizione di un evento nel tempo e nello spazio. Studiamo le trasformazioni dell’energia in materia. Ci ritroviamo in laboratorio e osserviamo ricercatori che creano coppie particella-antiparticella dall’energia elettromagnetica. Passiamo accanto alle camere a nebbia e osserviamo la materia appena creata lasciare come scie sottili linee transitorie di vapore bianco. In definitiva, rimane l’invisibile cordone ombelicale tra mente e materia.

Emerson aveva ragione: «Un uomo è un fascio di relazioni, un [nodo] di radici, il cui fiore e frutto è il mondo».5 È sorprendente rendersi conto che non solo gli oggetti sono mera apparenza: anche il loro aspetto non è altro che una forma della mente. Eppure questi oggetti che percepiamo intorno a noi sono diversissimi dai nostri pensieri e sentimenti, dall’amore e dall’ansia, dalla gioia e dal dolore. I nostri pensieri e aspirazioni, le trame della nostra esperienza, non si potranno mai trovare tra gli atomi e gli oggetti del mondo esterno. Eppure anch’essi sono collegati tra loro attraverso le relazioni temporali dell’energia elettromagnetica, rendendo quest’ultima un’entità che di fatto unifica la mente con la materia e il mondo. Mente, materia: la realtà è un processo curioso. Viene coordinata di continuo nella nostra testa. Non passa attimo senza che la mente incolli il passato al presente. Sentiamo suonare il telefono o il campanello, ma in realtà ciò non può accadere finché il suono non è nel passato, finché la mente non lo paragona al silenzio di qualche momento prima. Anche adesso, non potete leggere questa frase finché la mente non paragona il bianco qui al nero là, ora una lettera, ora una parola, mettendo tutto insieme in una sorta di ordine scandito da contrasti. Il fatto è che sia la realtà temporale dello svolgersi degli eventi (nel senso del tempo come evoluzione sopra menzionato) sia la realtà spaziale del mondo esterno esistono solo attraverso un esercizio attivo della mente. Funzionano in perfetto unisono come un singolo orologio. Che abilità mostra la mente nell’inventare la propria rete! Pensiamo alla mente la quale, attaccata all’energia con la levità di fili sottilissimi che fluttuano nella calma aria autunnale, sfrutta le componenti elettrica e magnetica che interagiscono periodicamente e definiscono lo spazio attraversato. E poi meravigliamoci di questa impalcatura, del fatto che al di sotto non c’è alcuna struttura portante nota; è solo una rete di informazioni che fluttua sopra il vuoto del non essere. Ma l’elettromagnetismo è solo una delle numerose relazioni fondamentali  –  comunemente chiamate «forze» o «interazioni»  –

 che la mente usa per costruire la realtà a partire dall’insieme delle possibilità implicate dalla meccanica quantistica. Le altre tre interazioni fondamentali sono la forza forte, la forza debole e la gravitazione. Non entreremo nei dettagli di ognuna; basti dire che anch’esse affondano le radici nella logica con cui i vari componenti del sistema informativo interagiscono tra loro per creare l’esperienza tridimensionale che chiamiamo coscienza o realtà. Ciascuna forza descrive come interagiscono a diversi livelli i quanti di energia, a partire dalla base: le forze forte e debole descrivono il modo in cui si tengono insieme o si disgregano le particelle all’interno del nucleo atomico, mentre l’elettromagnetismo e la gravità hanno un raggio d’azione infinito, ma è la seconda a predominare nelle interazioni su scala astronomica, come il comportamento dei sistemi stellari e delle galassie.

Figura 13.2 La mente costruisce la realtà usando varie relazioni fondamentali, di solito chiamate «forze» o «interazioni». Ogni forza descrive come interagiscono a diversi livelli i quanti di energia, a partire dalle forze forte e debole e passando all’elettromagnetismo e alla gravità. In teoria si potrebbe aggiungere un altro algoritmo che descrive le interazioni delle unità (universi) del multiverso.

Sono questi gli algoritmi che definiscono il nostro universo. In teoria se ne potrebbe aggiungere un altro, quello che descrive le interazioni delle unità (universi) del multiverso (si veda la Figura 13.2), questa volta nel senso dello scenario inflazionario,6 in cui il nostro universo è solo uno degli universi bolla e ciascuno degli altri contiene una storia leggermente diversa. In uno, per esempio, un gatto morto potrebbe essere ancora vivo o gli attentati dell’11 settembre non si sarebbero mai verificati. Oppure si potrebbero cambiare gli algoritmi della mente in modo che, invece di essere

lineare, il tempo sia tridimensionale, come lo spazio. La coscienza potrebbe quindi muoversi attraverso il multiverso inflazionario. Che possiamo dire del multiverso di Everett, un concetto distinto dal multiverso inflazionario? Come abbiamo visto in un capitolo precedente, dopo la morte la coscienza può di fatto spaziare nel multiverso di Everett. La tecnologia futura potrebbe fornirci gli strumenti per esercitare un controllo su questi spostamenti. Se sarà così, potremo camminare nel tempo così come camminiamo nello spazio. In ogni caso, dopo essersi trascinata strisciando per miliardi di anni, la vita uscirebbe infine dalla sua gabbia corporea. E così possiamo aggiungere un nono principio del biocentrismo: Primo principio del biocentrismo: Ciò che percepiamo come realtà è un processo che coinvolge la nostra coscienza. La realtà esterna, se esistesse, per definizione dovrebbe rientrare nell’ambito dello spazio e del tempo. Ma lo spazio e il tempo non sono realtà indipendenti: sono strumenti della mente umana e animale. Secondo principio del biocentrismo: Le nostre percezioni esterne e interne si intrecciano in maniera inestricabile. Sono due facce della stessa medaglia, inseparabili una dall’altra. Terzo principio del biocentrismo: Il comportamento delle particelle subatomiche, e anzi di tutte le particelle o corpi, è legato in maniera inestricabile alla presenza di un osservatore. Se manca un osservatore cosciente, al più essi esistono in uno stato indeterminato di onde di probabilità. Quarto principio del biocentrismo: Senza la coscienza, la «materia» rimane in uno stato probabilistico indeterminato. Un eventuale universo che precedesse la coscienza sarebbe esistito soltanto in uno stato probabilistico. Quinto principio del biocentrismo: Soltanto con il biocentrismo si può spiegare la struttura dell’universo, che presenta una regolazione fine per la vita: ciò ha del tutto senso, perché è la vita a creare l’universo, non il contrario. L’«universo» non è che la logica spaziotemporale completa del sé.

Sesto principio del biocentrismo: Il tempo non ha un’esistenza reale al di fuori della percezione sensoriale degli animali. Esso è il processo tramite cui percepiamo i cambiamenti nell’universo. Settimo principio del biocentrismo: Lo spazio, come il tempo, non è una cosa o un oggetto. Lo spazio è un’altra forma della nostra comprensione animale, ed è privo di realtà indipendente. Ci portiamo dietro lo spazio e il tempo come fa la tartaruga con il carapace. Non esiste perciò una matrice assoluta e dotata di esistenza propria in cui gli eventi fisici avvengano indipendentemente dalla vita. Ottavo principio del biocentrismo: Il biocentrismo è l’unica teoria che sappia spiegare come la mente si unifica con la materia e il mondo; essa mostra che, nel cervello, la modulazione della dinamica ionica a livello quantistico permette di interconnettere allo stesso tempo tutte le parti del sistema informativo che associamo alla coscienza. Nono principio del biocentrismo: Ci sono diverse relazioni fondamentali  –  le cosiddette «forze»  –  che la mente usa per costruire la realtà. Affondano le radici nella logica con cui i vari componenti del sistema informativo interagiscono tra loro per creare l’esperienza tridimensionale che chiamiamo coscienza o realtà. Ciascuna forza descrive come interagiscono a diversi livelli i quanti di energia, a partire dalle forze forte e debole (che descrivono il modo in cui si tengono insieme o si disgregano le particelle all’interno dei nuclei degli atomi) fino all’elettromagnetismo e poi alla gravità (che predomina nelle interazioni su scala astronomica, come il comportamento dei sistemi stellari e delle galassie).



13. Le forze della natura 1 Ralph Waldo Emerson, L’anima, la natura e la saggezza: saggi, 1. e 2. serie, trad. it. di Mauro Cossa, Laterza, Bari 1911, p. 269. [N.d.T.] 2 Ivi, p. 26. [N.d.T.]

3 Edmund Spenser, I quattro inni e il Prothalamion, trad. it. di Marcello Corrente, La quercia fiorita, Gorgonzola, di prossima pubblicazione. Il traduttore desidera ringraziare Marcello Corrente per avergli anticipato la traduzione di questi versi. [N.d.T.] 4 Ralph Waldo Emerson, op. cit., p. 269. [N.d.T.] 5 Ivi, p. 25. [N.d.T.] 6 Il multiverso inflazionario è un concetto derivato dall’idea che, poco dopo il Big Bang, l’universo cominciò a gonfiarsi in modo esponenziale come un palloncino; la sua velocità di espansione variò da luogo a luogo, dando vita a nuovi «palloncini», cioè nuovi universi.

14. L’osservatore definisce la realtà

Non siamo soltanto osservatori. Siamo partecipanti.1 John Wheeler

La fisica è in mutazione. Anzi, il più grande cambiamento mai visto in questo ambito è forse in corso proprio adesso. Finora, la nostra indagine sul biocentrismo e sulle prove che lo sostengono si è concentrata principalmente su questioni interpretative riguardanti la meccanica quantistica, la cui comprensione ultima sembra rendere necessaria la coscienza. In questo capitolo la scienza alla base del biocentrismo fa un salto: invece di limitarsi a «congiungere i puntini» di concetti preesistenti, arriva a fornire nuove prove concrete scoperte di recente all’interno della fisica tradizionale e approvata da tutti. E ci riesce tramite la domanda più impellente di tutta la fisica: come riconciliare la meccanica quantistica e la relatività generale. Per richiamare i termini della questione, la meccanica quantistica funziona in modo eccellente nel descrivere il comportamento della natura a un certo livello, mentre la relatività generale è impareggiabile nel rivelare il comportamento cosmico sulla scala al di là della portata dei quanti. Purtroppo le due teorie sono incompatibili in modo fondamentale. Il problema non è un semplice «questo strumento funziona solo su piccola scala, mentre quest’altro opera su larga scala». Dopotutto, non ci sarebbe niente di male nel fatto che la scienza abbia una cassetta degli attrezzi con vari strumenti utili. Il problema non è che occorrono strumenti matematici diversi per spiegare i sistemi quantistici e macroscopici, ma che pur essendo apparentemente

connessi all’interno di un’entità più grande, il cosmo, questi sistemi sembrano funzionare in base a due gruppi completamente diversi di regole e non possono comunicare tra loro. Per esempio, per capire dove sarà la Luna domani a mezzogiorno bisogna conoscere le leggi della gravità, la forma dell’orbita lunare, la massa della Luna e informazioni su dove è stata osservata in passato. Il comportamento della Luna procede secondo le stesse leggi e logiche che prevalgono nel moto degli oggetti quotidiani, come le chiavi dell’automobile lanciate da un amico che sta dall’altra parte della stanza. Ma poniamo di voler sapere dove si troverà a mezzogiorno uno specifico elettrone. Ci accorgeremo che la scienza classica non è di alcun aiuto. C’è di peggio: la logica del comportamento degli elettroni non è la stessa degli oggetti visibili che ci circondano, Luna inclusa. Scopriamo invece che l’elettrone, in qualche modo, occupa più posizioni contemporaneamente, malgrado sia una particella fondamentale che non può in nessun caso scindersi. Per rispondere al quesito dobbiamo usare equazioni che dicono solo le probabilità che l’elettrone appaia qui o là, senza che si possa accertare una posizione futura ben definita. C’è un ulteriore aspetto frustrante: persino a mezzogiorno ciò che accade e dove appare l’elettrone dipende dal modo in cui l’osservatore intende osservarlo. Si può individuare precisamente la posizione della Luna con un’osservazione ottica, usando un radar o persino misurando l’effetto della sua gravità sui satelliti in transito. Per l’elettrone, invece, il modo in cui effettuiamo la misurazione modifica il punto in cui si trova. Quando si sono cominciate a studiare le particelle e i quanti di energia che costituiscono le strutture più grandi intorno a noi, è stata una rivelazione non da poco il fatto che, a seconda del tipo di oggetto studiato, occorressero strumenti fisici e matematici distinti, ora detti scienza classica e meccanica quantistica. La realtà sembrava avere una natura inconciliabilmente duale, in cui la relatività generale appariva come la descrizione quantitativa corretta del mondo nel suo complesso  –  anche sulle scale enormi delle distanze tra stelle e tra galassie  –  e la meccanica quantistica

come la teoria che descrive la realtà alla scala delle singole molecole e all’interno degli atomi. Per un po’ lo si è accettato con un’alzata di spalle. La meccanica quantistica era nuova: prima o poi, si pensava, avremmo capito come stavano le cose. Oggi comprendiamo in modo sempre più dettagliato questi due pilastri della fisica moderna, giunti alla matura età di quasi un secolo; innumerevoli esperimenti ne hanno confermato le previsioni teoriche. Entrambe le teorie hanno numerose applicazioni pratiche nella vita quotidiana, come il gps nel caso della relatività ristretta, e i transistor e i microprocessori per la meccanica quantistica. Ma persino dopo un secolo di continui progressi teorici ed esperimenti non ci siamo avvicinati a capire come siano compatibili la meccanica quantistica e la relatività generale, come esattamente «parlino» tra loro la fisica in grande e la fisica in piccolo. Vederci chiaro avrebbe molti vantaggi, tra cui quello di spiegare la più enigmatica delle quattro forze fondamentali: la gravità. Tre delle quattro forze fondamentali si possono esprimere in termini della meccanica quantistica; solo la gravità fa eccezione: la si può descrivere soltanto attraverso la fisica classica della relatività generale, e comunque in modo imperfetto. Riconciliando quest’ultima teoria con la meccanica quantistica si capirebbe forse come far rientrare nelle regole quantistiche, che sembrano funzionare su ogni altra scala, anche la gravità, questa forza dalla portata infinita, che ha l’effetto più concreto nella vita quotidiana, tenendoci incollati al nostro pianeta o provocando ogni tanto lesioni alle persone goffe e sfortunate che cadono. Nell’agosto del 2019, durante la stesura di questo capitolo, un nuovo studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Science ha confermato la teoria einsteiniana della gravità (ancora una volta!). In questo caso i ricercatori hanno usato il buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea per verificare la relatività generale, che è uno dei grandi successi del Novecento e la descrizione attualmente accettata della gravitazione. «Einstein ha ragione, almeno per ora» ha commentato Andrea Ghez, autrice principale dell’articolo. «Le nostre osservazioni sono coerenti con la relatività generale. La teoria di Einstein mostra però

sicuramente qualche punto debole. Non può spiegare completamente la gravità all’interno dei buchi neri, e a un certo punto dovremo andare oltre, verso una teoria più completa.» Un intero campo della fisica è dedicato al tentativo di spiegare la gravità attraverso la meccanica quantistica: la cosiddetta gravità quantistica. Al centro dell’incompatibilità tra questi due pilastri della fisica teorica moderna c’è la «non rinormalizzabilità» della gravità quantistica. E, colpo di scena, si scopre che per affrontare questo problema è necessario incorporare una cosa finora ampiamente ignorata dagli specialisti moderni. Sì, avete indovinato: gli osservatori. «Non rinormalizzabilità» è un’espressione tecnica della fisica più avanzata: il concetto è complesso, ma si riduce comunque al fatto che la fisica e la matematica relative a una certa scala non funzionano per niente su una scala diversa. Una teoria è non rinormalizzabile se, su una data scala spaziale (per esempio piccola), il fenomeno o gruppo di fenomeni che descrive rimane per bene sotto controllo dal punto di vista matematico, mentre su una scala diversa (diciamo, più grande) può non esserci più alcun controllo, cioè la matematica e la fisica smettono di funzionare. Una teoria non rinormalizzabile ricorda un po’ una lente d’ingrandimento. Immaginiamo un naturalista che la usa per studiare un oggetto: alla giusta distanza, questo potente strumento gli consente di vedere più dettagli dell’oggetto. Quando allontana la lente, però, l’immagine dell’oggetto risulta un po’ distorta. Se la si sposta ancora, l’immagine diventa irriconoscibile. Allo stesso modo, non sappiamo davvero quale sia la struttura corretta della realtà se a descriverla è una teoria non rinormalizzabile, secondo cui questa struttura cambia drasticamente se varia la scala su cui si svolge lo studio. Infatti lo stesso linguaggio usato per spiegare ciò che vediamo, cioè la fisica e la matematica, si complica sempre più, fino a livelli di complicazione infiniti e ingestibili su una scala sufficientemente ampia. Il comportamento della forza gravitazionale è spiegato molto bene dalla relatività generale, ma il continuum uniforme dello spaziotempo relativistico e il mondo discreto della fisica quantistica non

collaborano bene. Quando proviamo a usare il linguaggio della meccanica quantistica per descrivere la gravità, tutto ciò che possiamo misurare come osservatori (per esempio la curvatura dello spaziotempo o l’energia racchiusa in un volume unitario di materia) tende all’infinito in modo incontrollabile, e presto ci perdiamo negli infiniti matematici, senza possibilità di formulare previsioni sensate o di definire grandezze misurabili. Per cogliere meglio la frustrazione dei fisici che hanno incontrato questo problema insolubile nel corso dell’ultimo secolo, immaginiamo come andrebbero le cose se succedesse altrettanto agli oggetti di uso quotidiano. Alla fine dell’Ottocento gli pneumatici per biciclette furono inventati dal genio scozzese John Dunlop, che conosceva a menadito le proprietà della gomma. Ma immaginiamo che le sue ruote funzionassero come previsto solo finché la bici procedeva a meno di dieci chilometri all’ora. E che, nel momento in cui un ciclista avesse superato questa pacata velocità, la gomma si fosse irrigidita e fosse diventata improvvisamente tanto appiccicosa da incollare la ruota alla strada. E che nessuna indagine scientifica fosse riuscita a spiegare questa incredibile transizione dalla funzionalità all’inutilità al variare di condizioni apparentemente prive di qualsiasi rilevanza. Immaginiamo lo sconcerto del povero John! Ebbene, i più grandi fisici teorici sono rimasti perplessi allo stesso modo nel vedere che le teorie della gravità quantistica passano all’inutilità, ma solo a certe scale. Ora, tuttavia, una nuova ricerca2 del fisico teorico Dmitriy Podolskiy, in collaborazione con uno degli autori (Lanza) e Andrei Barvinsky (uno dei maggiori esperti al mondo di gravità quantistica e cosmologia quantistica) ha rivelato qualcosa di straordinario, e cioè che questa esasperante incompatibilità tra meccanica quantistica e relatività generale viene meno se si tiene conto delle proprietà degli osservatori: noi. La fisica classica assume di poter misurare lo stato fisico di un oggetto senza perturbarlo in alcun modo. Ciò suona ragionevole se seguiamo l’intuito quotidiano. Quando osserviamo un aereo e ne vogliamo determinare la posizione rispetto al suolo (è già decollato?

sta atterrando?), non abbiamo alcuna influenza sul suo stato, a meno di non essere il pilota o un controllore di volo. Se gli stati degli oggetti fisici non sono modificati dalle nostre misure, sondare loro o le loro reazioni a qualche influenza esterna ci consente di creare una teoria fisica che li descriva con precisione. Ma nel regno dei quanti, come abbiamo visto diverse volte, le cose sono ben più complesse: le proprietà fisiche hanno un valore solo probabilistico e le misurazioni e osservazioni non solo influenzano la realtà, ma la creano. La gravità quantistica non fa eccezione. Il nostro amico Wheeler ha coniato il termine «schiuma quantistica» (o «schiuma spaziotemporale») per riferirsi all’aspetto che potrebbe avere lo spaziotempo a livello quantistico, pieno di minuscole fluttuazioni piuttosto che dotato dell’apparente omogeneità osservata su scale più grandi. Tali fluttuazioni alterano leggermente i percorsi delle particelle e, cercando le modifiche, gli scienziati possono misurare questo spaziotempo gravitazionale quantistico. Se molti osservatori misurano di continuo lo stato di questa traballante schiuma spaziotemporale gravitazionale quantistica (magari per determinare la curvatura dello spaziotempo) e poi si scambiano informazioni sui risultati, si scopre che la presenza degli osservatori stessi perturba in modo significativo la struttura degli stati fisici della materia e dello spaziotempo stesso. In un linguaggio grossolanamente semplificato: ha un’enorme influenza sulle leggi percepite della realtà il numero di persone impegnate a studiarla o sondarla, e che cosa si comunicano a vicenda sui risultati delle misurazioni. La natura di questo insolito fenomeno si ricollega a un’importante scoperta fatta alla fine degli anni settanta dal fisico italiano Giorgio Parisi e dal suo collaboratore greco Nicolas Sourlas. Nell’arduo linguaggio tecnico usato dagli autori, un sistema fisico in D + 2 dimensioni spaziotemporali con un disturbo che ne influenza gli stati è in buona misura equivalente a un sistema simile in D dimensioni spaziotemporali senza alcun disturbo. In termini più semplici, quando a un sistema fisico si aggiungono componenti di disordine/caos, la

sua complessità aumenta.3 Ma qual è il vero significato di tutto ciò e che cosa ci dice? Innanzitutto, chiariamo il concetto di «disordine». Parisi e Sourlas lo intendono come l’applicazione di una forza esterna casuale al sistema fisico studiato, in diversi punti dello spaziotempo. Un caso analogo di «disordine» si verifica quando un certo numero di osservatori si limita a misurare in punti casuali lo stato del sistema fisico in esame (per esempio, la quantità di moto, la densità di energia o, quando il sistema è lo spaziotempo stesso, la sua curvatura). In secondo luogo, ricordiamo che la dimensione di un oggetto o di uno spazio è il numero di direzioni indipendenti che si possono percorrere lungo l’oggetto o nello spazio. Per esempio, un filo molto stretto è di fatto un oggetto unidimensionale, poiché offre un’unica direzione lungo cui muoversi, la lunghezza. Un foglio di carta è bidimensionale (ha una lunghezza e una larghezza), mentre un cubo o un cilindro sono tridimensionali (sono caratterizzati dalla loro altezza, larghezza e profondità). Come ci ha insegnato Einstein, lo spaziotempo in cui viviamo è quadridimensionale; il ruolo della quarta dimensione è svolto dal tempo. Possiamo ora formulare in modo più chiaro la conclusione di Parisi e Sourlas: in generale, qualsiasi presenza di osservatori distribuiti nello spaziotempo e che misurano in modo casuale lo stato della realtà porta a un aumento di fatto della dimensione dello spaziotempo che ospita il sistema studiato. D’accordo, ma come si ricollega tutto questo alla «non rinormalizzabilità» della gravità e ai tentativi di unificare i due pilastri della fisica? Be’, si scopre che la «non rinormalizzabilità» e la «dimensione dello spaziotempo» sono intimamente correlate. Tipicamente, maggiore è la dimensione dello spaziotempo su cui si basa una teoria, più è raro che questa teoria sia rinormalizzabile. Consideriamo per esempio l’«elettrodinamica quantistica», che studia la dinamica quantistica dei campi elettromagnetici e la loro interazione con le cariche elettriche. La teoria dell’elettrodinamica

quantistica, che descrive il 95 per cento di tutti i fenomeni fisici che vediamo intorno a noi, è stata sviluppata da Richard Feynman e da altri fisici negli anni cinquanta, e rimane perfettamente sotto controllo su tutte le scale spaziali (cioè è rinormalizzabile) purché la dimensione dello spaziotempo sia due, tre o quattro. Cessa di comportarsi bene (diventa non rinormalizzabile) se il numero di dimensioni dello spaziotempo è cinque o più.4 Allo stesso modo, il Modello standard della fisica delle alte energie, che include le interazioni deboli, forti ed elettromagnetiche alla base di varie strutture quotidiane, non funziona più se il numero di dimensioni diventa superiore a quattro. I fisici hanno coniato un termine specifico per questa soglia: la dimensione critica superiore. Una teoria diventa non rinormalizzabile (cioè, non è più applicabile e la parte matematica non funziona in modo coerente) se la dimensione dello spaziotempo in cui è definita oltrepassa questa dimensione critica superiore. Per la maggior parte delle interazioni fisiche (debole, forte ed elettromagnetica), la dimensione critica superiore è pari a quattro, che coincide esattamente con la dimensione dello spaziotempo in cui viviamo! In definitiva, è per questo che la fisica teorica ha avuto tanto successo nel descrivere numerosi fenomeni fisici che si verificano nel mondo quantistico delle alte energie. Abbiamo però meno fortuna per quanto riguarda la gravità quantistica. Le sue teorie iniziano a fallire in modo incontrollabile oltre un numero critico di dimensioni spaziotemporali pari a due: una dimensione per il tempo e un’altra per lo spazio. Poiché la dimensione dello spaziotempo in cui viviamo è quattro, ci sono due dimensioni in eccesso perché la teoria della gravità quantistica sia controllabile. Ora, se seguiamo la logica di Parisi e Sourlas accennata sopra  –  secondo cui un sistema nello spaziotempo con dimensione D + 2 in cui è presente disordine si traduce grosso modo in un sistema nello spaziotempo con dimensione D privo di disordine  –  vediamo che la gravità quantistica in quattro dimensioni spaziotemporali, in presenza di un gran numero di osservatori (disordine), è di fatto

equivalente alla gravità quantistica in uno spaziotempo con due dimensioni in meno, cioè solo due. Abbiamo un controllo perfetto su una teoria simile, sappiamo benissimo come funziona su tutte le scale, e allora questo risolve l’annoso paradosso dell’incompatibilità tra relatività generale e meccanica quantistica. Esaminiamo ora le affascinanti conseguenze di questa rivelazione, oltre alle prove scientifiche del fatto che la presenza di osservatori non solo influenza ma definisce la realtà fisica stessa. Innanzi tutto, se si crede che una combinazione di relatività generale (che opera su grandi scale spaziotemporali) e meccanica quantistica (che opera su piccole scale) descriva la realtà e il suo funzionamento senza intoppi, questa realtà deve contenere anche osservatori, in una forma o in un’altra. Senza una rete di osservatori che misurino di continuo le proprietà dello spaziotempo, la combinazione di quelle due teorie smette completamente di funzionare. Quindi è addirittura inerente alla struttura della realtà il fatto che gli osservatori immersi in un universo gravitazionale quantistico condividano informazioni sui risultati delle loro misurazioni e, inoltre, ne creino un modello cognitivo concordato in maniera globale. Ricordiamo: una volta misurato qualcosa (per esempio la posizione di un elettrone in un esperimento di fisica delle particelle, la lunghezza d’onda di un’onda elettromagnetica o la curvatura dello spaziotempo in cui due corpi subiscono una certa attrazione gravitazionale reciproca), l’onda di probabilità di misurare lo stesso valore per la grandezza fisica già esaminata si «localizza» o più semplicemente «collassa» (si veda la Figura 14.1). Quindi, se si continua a misurare la stessa grandezza più e più volte, tenendo presente l’esito della prima misurazione, si continuerà a vedere un risultato simile. Lo si può visualizzare in maniera semplicissima con un celebre esperimento mentale di Richard Feynman: pensiamo a una parete con due fenditure oltre la quale ci sono due rivelatori di elettroni (per esempio, lastre fotografiche). Se inviamo continuamente elettroni verso la parete, alla fine entrambe le lastre fotografiche riporteranno segni degli impatti; una volta che un elettrone si è impresso sulla lastra fotografica, il segno lasciato

rimane per sempre e continueremo a vederlo ogni altra volta che guardiamo la lastra. I fisici affermano che la funzione d’onda dell’elettrone «collassa» nel momento in cui esso colpisce la lastra fotografica o, in altre parole, che avviene allora il processo di «decoerenza». Sebbene questo risultato sembri deterministico, rispetto al modo probabilistico in cui sappiamo che opera la meccanica quantistica, la sua natura quantistica appare in realtà nella figura di interferenza non omogenea formata sulle lastre colpite da più elettroni in successione. Se consideriamo le onde che indicano la probabilità che varie grandezze osservabili (come la curvatura dello spaziotempo) possiedano specifici valori fissati, in assenza di misurazioni queste onde saranno incerte, collideranno e subiranno una diffusione reciproca, in un modo che mantiene la realtà fisica traballante e indeterminata: la schiuma quantistica alla base del tutto. La misurazione o una sequenza di misurazioni fa collassare queste onde di probabilità e le estrae dalla sfocatura quantistica. Se qualcuno ci comunica i risultati delle sue misurazioni di una grandezza fisica, conoscere questi risultati influenzerà anche quelli delle nostre misurazioni, congelando la realtà in modo che ci sia accordo tra quanto misurato da noi e da altri. In questo senso, un’omogeneità di opinioni diverse sulla struttura della realtà ne definisce la forma stessa. Ricordiamo che anche il tempo in sé, nonché la direzione della sua freccia, viene definito grazie al processo di collasso (o decoerenza) della funzione d’onda. Una volta che si verifica tale collasso temporale, possiamo iniziare a porci domande sulle dinamiche del processo di decoerenza per altre grandezze fisiche accessibili alle nostre misure in quanto osservatori. Queste dinamiche – la velocità con cui si verifica il collasso della sfocatura quantistica verso una specifica realizzazione di grandezze misurabili, il tempo in cui rimane collassata, la struttura dettagliata delle onde di probabilità che definiscono la realtà osservata  –  dipendono fortemente da come sono distribuite nello spaziotempo le misurazioni da parte di vari osservatori. Se essi sono molti, come pure le loro osservazioni, le onde di probabilità della misurazione di una grandezza

macroscopica rimangono in gran parte «localizzate», non si allargano molto, la realtà è in gran parte fissa, e solo ogni tanto devia leggermente dal consenso generale. (Al riguardo, un grossolano criterio quantitativo è che la scala spaziotemporale caratteristica di un oggetto o di un processo dovrebbe essere maggiore di un intervallo caratteristico tra eventi di misurazione; per esempio, se si misura l’attrazione gravitazionale del nostro pianeta, dovremmo effettuare misurazioni a intervalli più brevi del tempo necessario per percorrere il diametro della Terra alla velocità della luce, che è anche quella della gravità.) Fra un punto e un altro dello spaziotempo, variano leggermente due cose: la velocità a cui la struttura probabilistica dell’universo collassa verso il consenso e la possibilità di deviazioni da esso; tali variazioni dipendono da quanto sono densi gli eventi di osservazione, dal numero di osservatori presenti, dalla velocità a cui si scambiano le informazioni e dall’intensità con cui interagiscono con le parti della realtà oggettiva che essi cercano di misurare (Figura 14.1). Questa variazione si può sottoporre a esami sperimentali, simulati al computer o effettivamente svolti, per vari sistemi quantomeccanici: è già stata verificata con simulazioni numeriche e a breve si svolgeranno verifiche sperimentali.

Figura 14.1 Consenso che definisce la realtà: la probabilità di misurare un dato valore della curvatura dello spaziotempo per quattro osservatori situati l’uno vicino all’altro. Gli osservatori 1 e 2 ignorano l’esistenza reciproca e si trovano probabilmente a grande distanza; di conseguenza, i risultati delle loro misurazioni sono leggermente diversi. Gli osservatori 3 e 4 si scambiano informazioni sulle misure rispettive (questi due punti potrebbero descrivere addirittura lo stesso osservatore) e avranno verosimilmente la stessa probabilità di misurare una certa curvatura dello spaziotempo.

Le simulazioni numeriche sfruttate per valutare la fisica di questi

fenomeni sono i «metodi Monte Carlo», usati spesso per problemi fisici e matematici, specialmente quando è difficile o impossibile impiegare altri approcci sperimentali. Questo metodo fu delineato per la prima volta e utilizzato con successo durante il Progetto Manhattan nello sviluppo di armi nucleari, tra l’altro per studiare se i neutroni attraversano la schermatura contro le radiazioni. Nel caso degli odierni problemi di fisica ad alta complessità, i metodi Monte Carlo consentono di simulare sistemi con molti gradi di libertà accoppiati, come fluidi, materiali disordinati, solidi fortemente accoppiati e strutture cellulari; l’unico inconveniente è l’enorme potenza di calcolo necessaria. Le simulazioni usate nel nuovo studio Podolskiy-Barvinsky-Lanza sono state svolte usando il grande cluster di computer dell’mit. Vi potreste chiedere che cosa accadrebbe se nell’intero universo fosse presente un solo osservatore. Come cambierebbe l’immagine fisica appena descritta? Anche in quel caso collassano le onde probabilistiche che descrivono la realtà fisica del nostro universo? La gravità quantistica diventa una teoria praticabile? La risposta dipende da vari fattori: se l’osservatore è cosciente, se ha memoria dei risultati dell’indagine sulla struttura della realtà oggettiva e se ne costruisce un modello cognitivo. Per un osservatore cosciente, la sequenza di misurazioni che svolge è simile a una rete casuale di eventi di misurazione in cui le informazioni che descrivono i risultati vengono scambiate tra eventi: la linea di universo di un singolo osservatore non è altro che una sequenza di punti/eventi molto vicini nello spaziotempo. In altre parole, un singolo osservatore cosciente può definire completamente questa struttura, portando a un collasso delle onde di probabilità, descrivendola come una specifica realizzazione della sfocatura quantistica in gran parte localizzata nelle vicinanze del modello cognitivo costruito nella sua mente nel corso della vita. Man mano che i risultati sperimentali lo confermeranno, rimodelleremo ciò che capiamo della realtà in un modo che si è fatto attendere anche troppo: capiremo quanto siamo intimamente connessi con le strutture dell’universo a ogni livello. Con questo nuovo studio di Podolskiy-Barvinsky-Lanza, sembra

che siano finalmente arrivate solide prove del fatto che in ultima analisi gli osservatori definiscono la struttura della realtà fisica stessa. Cosa ancor più significativa, questo studio parte, per superarle, dalle teorie scientifiche esistenti e all’avanguardia accettate da quasi tutti i fisici. Eppure queste teorie fisiche sull’universo ben accreditate, che vanno da Einstein a Hawking e alla teoria delle stringhe, si basano sull’esistenza di qualcosa di esterno, al di là di noi stessi, che si tratti di campi, schiuma quantistica, fotoni che sfrecciano o altro. La conclusione  –  alla quale conduce inesorabilmente non solo questo intero libro, ma anche la lunga storia della fisica  –  è che il mondo è definito dall’osservatore indipendentemente dal fatto che si creda in universi multipli o nel semplice collasso della funzione d’onda, che si abbracci l’interpretazione di Copenaghen, si sia attratti o respinti dalla teoria delle stringhe e tutto il resto. Non si può davvero ignorare il fatto che il cosmo è biocentrico. Stiamo vivendo un profondo cambiamento nella visione del mondo, dalla vecchia concezione del mondo fisico come entità preesistente che si trova «là fuori», completamente formata, a quella in cui esso appartiene all’osservatore vivente. A noi. E così possiamo aggiungere un decimo e un undicesimo principio del biocentrismo: Primo principio del biocentrismo: Ciò che percepiamo come realtà è un processo che coinvolge la nostra coscienza. La realtà esterna, se esistesse, per definizione dovrebbe rientrare nell’ambito dello spazio e del tempo. Ma lo spazio e il tempo non sono realtà indipendenti: sono strumenti della mente umana e animale. Secondo principio del biocentrismo: Le nostre percezioni esterne e interne si intrecciano in maniera inestricabile. Sono due facce della stessa medaglia, inseparabili una dall’altra. Terzo principio del biocentrismo: Il comportamento delle particelle subatomiche, e anzi di tutte le particelle o corpi, è legato in maniera inestricabile alla presenza di un osservatore. Se manca un

osservatore cosciente, al più essi esistono in uno stato indeterminato di onde di probabilità. Quarto principio del biocentrismo: Senza la coscienza, la «materia» rimane in uno stato probabilistico indeterminato. Un eventuale universo che precedesse la coscienza sarebbe esistito soltanto in uno stato probabilistico. Quinto principio del biocentrismo: Soltanto con il biocentrismo si può spiegare la struttura dell’universo, che presenta una regolazione fine per la vita: ciò ha del tutto senso, perché è la vita a creare l’universo, non il contrario. L’«universo» non è che la logica spaziotemporale completa del sé. Sesto principio del biocentrismo: Il tempo non ha un’esistenza reale al di fuori della percezione sensoriale degli animali. Esso è il processo tramite cui percepiamo i cambiamenti nell’universo. Settimo principio del biocentrismo: Lo spazio, come il tempo, non è una cosa o un oggetto. Lo spazio è un’altra forma della nostra comprensione animale, ed è privo di realtà indipendente. Ci portiamo dietro lo spazio e il tempo come fa la tartaruga con il carapace. Non esiste perciò una matrice assoluta e dotata di esistenza propria in cui gli eventi fisici avvengano indipendentemente dalla vita. Ottavo principio del biocentrismo: Il biocentrismo è l’unica teoria che sappia spiegare come la mente si unifica con la materia e il mondo; essa mostra che, nel cervello, la modulazione della dinamica ionica a livello quantistico permette di interconnettere allo stesso tempo tutte le parti del sistema informativo che associamo alla coscienza. Nono principio del biocentrismo: Ci sono diverse relazioni fondamentali  –  le cosiddette «forze»  –  che la mente usa per costruire la realtà. Affondano le radici nella logica con cui i vari componenti del sistema informativo interagiscono tra loro per creare l’esperienza tridimensionale che chiamiamo coscienza o realtà. Ciascuna forza descrive come interagiscono a diversi livelli i quanti di energia, a partire dalle forze forte e debole (che descrivono il modo in cui si tengono insieme o si disgregano le particelle

all’interno del nucleo atomico) fino all’elettromagnetismo e poi alla gravità (che predomina nelle interazioni su scala astronomica, come il comportamento dei sistemi stellari e delle galassie). Decimo principio del biocentrismo: È possibile conciliare i due pilastri della fisica  –  la meccanica quantistica e la relatività generale – solo tenendo conto degli osservatori, noi. Undicesimo principio del biocentrismo: Gli osservatori definiscono in ultima analisi la struttura della realtà fisica, degli stati della materia e dello spaziotempo, anche se c’è un «mondo reale esterno» al di là di noi, che sia fatto di campi, di schiuma quantistica o di qualche altra entità.



14. L’osservatore definisce la realtà 1  John Archibald Wheeler, «The participatory universe», in  Science  81 (giugno 1981), pp. 66-67. [N.d.T.] 2  «Parisi-Sourlas-like dimensional reduction of quantum gravity in the presence of observers», in Journal of Cosmology and Astroparticle Physics, vol. 2021, n. 05, 18 maggio 2021, id.048, p.  29, https://iopscience.iop.org/article/10.1088/14757516/2021/05/048. 3 Sorprendentemente, come apprendiamo in fisica da tanti esempi, i sistemi con poche dimensioni sono quasi sempre più complicati di quelli con un maggior numero di dimensioni, e in particolare hanno una dinamica molto più complessa. 4 Una nota a latere: come può la dimensione dello spaziotempo essere maggiore di quattro? Per immaginarlo bisogna ragionare in modo un po’ astratto. Consideriamo ancora una volta un foglio di carta piatto (un oggetto bidimensionale), posto da qualche parte in uno spazio tridimensionale (per esempio, su un tavolo). Una formica che si muove sul foglio non saprebbe di essere circondata da un mondo tridimensionale (in realtà quadridimensionale, se teniamo conto del tempo). La stessa logica potrebbe valere per noi: è possibile dimostrare che il nostro mondo quadridimensionale si può immergere in uno a cinque dimensioni, e noi non percepiremmo la differenza.

15. Sogni e realtà multidimensionale

Era solo un sogno, ma così reale che la vita poteva trarne insegnamento. Matej Bor

Ora che siamo quasi alla fine della nostra storia e abbiamo visto le prove concrete del biocentrismo, prendiamoci una pausa da concetti come la «rinormalizzabilità», che ammazzerebbero qualsiasi conversazione fra amici, e guardiamo invece che cosa significa tutto questo per un fenomeno familiare vissuto tutti i giorni (o tutte le notti) e che tuttavia ha implicazioni affascinanti per il nostro studio della coscienza: i sogni. I segreti che i sogni possono contribuire a svelare derivano in ultima analisi dal fatto fondamentale e ovvio sottolineato dal biocentrismo: la realtà è sempre un processo che coinvolge la nostra coscienza. Si ritiene in genere che il mondo quotidiano sia «là fuori» in un senso più reale o indipendente rispetto al mondo dei sogni, e che noi contribuiamo di meno alla sua struttura. Eppure gli esperimenti mostrano che la realtà quotidiana dipende dall’osservatore tanto quanto i sogni. Come abbiamo detto più volte in questo libro, tutto quello che percepiamo è soltanto un vortice di informazioni che si verifica nella nostra testa. E per «tutto», intendiamo letteralmente e assolutamente tutto. Questo non lascia spazio a strutture esterne. Infatti, come abbiamo visto, il biocentrismo dice che spazio e tempo non sono entità reali, ma termini che designano gli strumenti usati dalla mente per assemblare le informazioni. Sono tra gli aspetti più essenziali per la

coscienza e diventa quindi chiaro perché, negli esperimenti riguardanti le particelle e le proprietà della materia stessa, essi siano sempre relativi all’osservatore, invece che assoluti oggettivi e a sé stanti. Nel corso della vita diamo per scontato il modo in cui la mente riunisce ogni cosa, perché è un’attività che viene spontanea e i suoi meccanismi sono innati, nascosti e automatici. Ma forse non avrete sospettato che questo processo di modellazione di una realtà tridimensionale apparentemente esterna è anche alla base dei sogni. Poiché l’ambito dei sogni e quello della percezione da svegli sono in genere ritenuti distinti, e solo uno dei due è considerato «reale», di rado vengono trattati insieme. Ma alcuni punti in comune interessanti danno indizi su come opera la nostra coscienza. Sia quando siamo svegli sia quando sogniamo viviamo lo stesso processo, benché esso produca realtà qualitativamente diverse. Durante i sogni e durante le ore di veglia la nostra mente fa collassare le onde di probabilità per generare una realtà fisica che comprende un corpo funzionante. Il risultato di questa magnifica orchestrazione è la nostra capacità sconfinata di provare sensazioni in un mondo quadridimensionale. Questa genesi dell’ambito dei sogni inizia con la semplice considerazione che tutti gli organismi dormono. Non possiamo vivere la vita da svegli senza dormire ogni tanto; gli esperimenti mostrano che sarebbe fatale. Il sonno è composto da periodi in cui si sogna, il cosiddetto sonno rem,1 e periodi senza sogni, non-rem. Quando ci svegliamo, spesso ricordiamo i sogni, mentre non abbiamo memoria di quello che succedeva durante il periodo non-rem. Ciò accade perché in quest’ultimo il pacchetto d’onde è diffuso in maniera ampia, tanto che la maggior parte dei suoi rami sono disaccoppiati, senza interazioni o correlazioni quantistiche reciproche. Al risveglio ci ritroviamo in uno di quei rami e percepiamo il mondo che ci è familiare. Durante i sogni, invece, i rami della funzione d’onda che si allarga non sono totalmente indipendenti e disaccoppiati; una volta tornata nella realtà consensuale, quindi, la memoria ha accesso a quegli altri rami/mondi.

Abbiamo tutti avuto l’esperienza di svegliarci da un sogno che sembrava reale quanto la vita quotidiana, sebbene i luoghi e le esperienze fossero completamente sconosciuti al nostro io sveglio. Come racconta uno degli autori (Lanza) in un articolo sull’Huffington Post: «Ricordo che guardavo un porto affollato con alcune persone in primo piano. In lontananza c’erano navi che ingaggiavano una battaglia. E ancora più in là c’era una corazzata con un’antenna radar che ruotava. La mia mente aveva creato in qualche modo questa esperienza spaziotemporale a partire da informazioni elettrochimiche. Sentivo persino i sassolini sotto i piedi: il mondo tridimensionale si fondeva con le mie sensazioni “interiori”. La vita come la conosciamo è definita da questa logica spaziotemporale, che ci intrappola nell’universo a noi familiare. Come il mio sogno, i risultati sperimentali della teoria dei quanti confermano che anche le proprietà delle particelle nel mondo “reale” sono determinate dall’osservatore». Trascuriamo i sogni perché finiscono quando ci svegliamo, e anche perché sono in gran parte enigmatici. I ricercatori, nonostante decenni di studi, non riescono ancora a spiegare perché i sogni delle prime ore della notte abbiano a che fare con gli eventi del giorno precedente, mentre i sogni successivi hanno un contenuto molto più surreale. Non si capisce ancora del tutto perché sogniamo solo per circa due ore in totale, o perché le emozioni vissute durante i sogni siano estremamente negative. O perché ai sogni di cinque minuti tipici delle 23 si sostituiscono prima dell’alba protratte fantasticherie, che durano dieci volte tanto. Tuttavia, la durata transitoria di un’esperienza non è un buon motivo per ignorarla. Di certo non pensiamo che la nostra esperienza della vita quotidiana sia meno reale perché finisce quando ci addormentiamo o moriamo. È vero che non ricordiamo gli eventi dei nostri sogni quanto quelli che si verificano nelle ore di veglia, ma il fatto che i malati di Alzheimer possano ricordare male ciò che succede non significa che le loro esperienze siano meno reali. O che chi assume droghe psichedeliche non percepisca la realtà fisica durante i «viaggi», sebbene gli eventi spaziotemporali

che percepisce siano distorti oppure spesso dimenticati quando viene meno l’effetto della droga. Potremmo anche liquidare i sogni come irreali perché si è scoperto che sono strettamente associati a schemi specifici di attività cerebrale. Ma le ore di veglia sono irreali perché sono collegate in modo analogo all’attività neurale del nostro cervello? Certo, durante un sogno o durante le ore di veglia, la logica biofisica della coscienza si può sempre ricondurre a qualcos’altro, spazialmente fino ai neuroni e temporalmente fino al Big Bang. I sogni devono essere ben più dell’attivazione spontanea e casuale dei neuroni, come sostengono alcuni. Allo stesso modo, devono essere ben più dell’attivazione di ricordi casuali già contenuti nei circuiti neurali del cervello. È vero, i sogni contengono spesso una miscela di emozioni e cose vissute in precedenza, ma come abbiamo già sottolineato, nei sogni ci sono spesso persone, volti e interazioni che il sognatore non ha mai percepito prima. Un sogno è una narrazione istantanea e ininterrotta che spesso sembra reale quanto la vita stessa. Come potrebbe questo arazzo di interazioni e scenari complessissimi risultare da nient’altro che scariche elettriche casuali? Nei sogni non ci limitiamo a osservare un «mondo esterno» e imprimere passivamente ricordi nei circuiti neurali. Come può riuscirci il cervello? Come vengono fabbricate da zero tutte le componenti dell’esperienza? Mentre sogniamo, non osserviamo eventi né percepiamo stimoli. Siamo a letto, addormentati, eppure la mente è del tutto in grado di creare nuove persone e ambienti e far interagire il tutto alla perfezione in quattro dimensioni. Assistiamo a un evento straordinario: la capacità della mente di trasformare informazioni pure in una realtà multidimensionale dinamica. Di fatto stiamo creando lo spazio e il tempo, non solo operando al loro interno come un personaggio di un videogioco. È più facile apprezzare la natura sbalorditiva di questo processo quando si tratta dei sogni, ma tutto il libro descrive lo stesso processo per la vita non onirica. Secondo il biocentrismo, non limitarci a osservare la realtà, ma crearla, è quello che facciamo sempre. E, come nella vita «reale», nei sogni il collasso delle onde di

probabilità è una componente critica delle realtà multidimensionali create dalla mente. Facciamo collassare le onde di probabilità nei nostri sogni proprio come quando siamo svegli. Durante i sogni, tuttavia, il cervello ha meno vincoli poiché non è tenuto a obbedire a informazioni sensoriali che a loro volta sono limitati dalle leggi fisiche, e quindi la mente può generare esperienze diverse dal mondo consensuale di cui siamo consapevoli durante il giorno. Nel Capitolo 14 abbiamo visto che la presenza di estese reti di osservatori definisce la struttura della realtà fisica stessa. Nei sogni abbandoniamo l’universo del consenso e possiamo percepire un altro modello cognitivo della realtà, del tutto diverso da quello condiviso con altri osservatori quando siamo svegli. Nei sogni, la struttura dettagliata della funzione d’onda dell’universo che ci circonda è delocalizzata e quindi molto instabile. Questo spiega perché spesso abbiamo più potere nei sogni; i valori delle osservabili che rappresentano la base della realtà sono più fluidi. Come discusso anche nel Capitolo 14, la presenza o meno di una rete di osservatori influenza il numero stesso di dimensioni dell’universo. Nei sogni, anche questo numero può cambiare, a seconda delle informazioni specifiche incorporate nella costruzione mentale. I sogni sono spesso molto vividi, ma Lanza ne ricorda uno, in particolare, che si distingue da tutti gli altri. La risoluzione di questo sogno non aveva eguali in tutto ciò che aveva provato prima: era come passare da un vecchio film sgranato a uno in altissima definizione. Nel sogno percepiva una dimensione spaziale ulteriore che gli permetteva di vedere (con chiarezza cristallina) sia l’interno sia l’esterno degli oggetti che osservava da tutte le direzioni nello stesso istante. Per circa due o tre minuti dopo essersi svegliato, prima che il sogno svanisse completamente dalla sua mente, fu in grado di andare avanti e indietro tra l’esperienza della costruzione quadridimensionale (una temporale + tre spaziali) della sua realtà da sveglio e la costruzione a cinque dimensioni (una temporale + quattro spaziali) del sogno. Sebbene riesca ancora a richiamare alla mente alcuni ricordi di quel periodo di transizione, questo mondo «a 5D» non si può percepire nella realtà consensuale a quattro dimensioni di cui facciamo tutti parte collettivamente.

Secondo il biocentrismo lo spazio e il tempo sono strumenti della mente, e i sogni sembrano esserne un’ulteriore conferma. Infatti, se lo spazio e il tempo fossero realmente esterni e fisici come si crede in genere, come sarebbe possibile creare qualcosa di assolutamente indistinguibile da essi all’interno del proprio cervello durante il sogno? Nei capitoli precedenti abbiamo spiegato che ciò che percepiamo come realtà è il risultato del collasso della funzione d’onda. La funzione d’onda è una descrizione matematica dell’esperienza cosciente associata alle misurazioni fisiche e alle osservazioni del mondo. Facciamo collassare la funzione d’onda durante l’osservazione, usando i sensi: vista, udito, tatto e così via. Durante le ore di veglia svolgiamo osservazioni spessissimo, quasi di continuo, e quindi facciamo collassare ripetutamente la funzione d’onda, che altrimenti (cioè in assenza di osservazioni) inizierebbe ad allargarsi nello «spazio di Hilbert»2 astratto delle possibilità. Un modello semplice di tutto ciò è l’esempio da manuale dell’allargamento del pacchetto d’onda descritto nel Capitolo 10. Quando andiamo a dormire, smettiamo di svolgere osservazioni o misure e la funzione d’onda inizia ad allargarsi, finendo per incorporare molti possibili «mondi» o esperienze. Abbiamo quindi la possibilità di «creare» uno di questi mondi facendo collassare opportunamente la funzione d’onda. Nel sonno vaghiamo nello spazio di Hilbert e viviamo il collasso della funzione d’onda in svariati modi. Alla fine, la funzione d’onda delle nostre esperienze collassa in modo tale che ci ritroviamo svegli nello stesso letto e nella stessa stanza in cui ricordiamo di esserci coricati la sera prima. Ricordiamo chi siamo, il nostro nome e gli eventi passati della nostra vita. Pensiamo che la nostra esperienza notturna sia stata solo un sogno e che non fosse reale. Ma, come spiegato sopra, i sogni e ciò che percepiamo come realtà hanno fondamentalmente la stessa natura. E questa visione delle cose è sostenuta dalla meccanica quantistica.

Figura 15.1 Com’è vivere in una realtà a cinque dimensioni (una temporale + quattro spaziali)? I sogni mostrano la capacità della mente di costruire realtà multidimensionali, sia 4D (una temporale + tre spaziali) sia, a volte, persino 5D (una temporale + quattro spaziali). Quest’ultimo caso permetterebbe di vedere simultaneamente l’interno e l’esterno di un oggetto da tutte le prospettive spaziali in ogni istante del tempo.

Mi sveglio quindi al mattino nelle vesti di questa persona, che vive in questa casa, città, nazione. Ma il mio risveglio è stato solo un possibile collasso della funzione d’onda universale verso un mondo definito della mia esperienza, come spiegato nel Capitolo 7. La funzione d’onda universale può collassare in vari altri modi. Può allora diventare una funzione che descrive le esperienze della persona A, oppure quelle della persona B o di chiunque altro, compreso un animale, un uccello, un pesce o qualsiasi creatura vivente. Questo non ha nulla a che fare con le distinte coscienze multiple che esistono nello stesso mondo. Ogni collasso della funzione d’onda porta a un mondo diverso con una singola coscienza. In uno di questi mondi la coscienza vive l’esistenza della persona A mentre tutte le altre persone sono percepite come «esterne» ad A, come descritto nel Capitolo 7. In un altro mondo la stessa coscienza vive l’esistenza della persona B, mentre tutte le altre persone e gli animali sono, come gli alberi, le case e le altre cose inanimate, percepiti come «esterni» a B. «Che effetto fa essere un pipistrello?» è il titolo di un articolo di Thomas Nagel pubblicato nel 1974 sulla Philosophical Review. Nagel scrive: «Il fatto che un organismo abbia in qualche modo esperienza conscia significa, fondamentalmente, che fa un certo

effetto essere quell’organismo. […] Ma, fondamentalmente, un organismo ha stati mentali coscienti se e solo se fa un certo effetto essere quell’organismo – un certo effetto per l’organismo».3 In tutto questo libro stiamo adottando la tesi che questo «certo effetto» sia una funzione d’onda interpretata come descrizione matematica della coscienza. La funzione d’onda collassata che descrive le esperienze della persona A corrisponde al «certo effetto [che fa] essere [la persona A]», come scrive Nagel. Da svegli percepiamo la realtà consensuale; poi andiamo a letto, ci addormentiamo e iniziamo a sognare. E quando ci svegliamo, ci ritroviamo di nuovo a esistere come persona in una realtà consensuale. I sogni ci fanno entrare in mondi alternativi e passare da una realtà consensuale all’altra, dall’esperienza di un organismo a quella di un altro. Una volta svegli, possiamo ritrovarci a essere qualsiasi persona, in qualsiasi momento, senza ricordi di essere mai stati un’altra persona o animale. Possiamo persino ritrovarci a essere un neonato, senza alcuna idea della realtà che stiamo vivendo. In tal caso, gradualmente, pezzo per pezzo, scopriamo la nostra realtà, il nostro mondo. Osservandolo, continuiamo a far collassare le onde di probabilità e, quindi, creiamo in maniera spontanea un mondo sempre più dettagliato che include ricordi generali capaci di corroborarlo. Le osservazioni comprendono anche i racconti degli altri sul mondo e sulla sua storia, e così costruiamo la nostra realtà consensuale. È sorprendente il punto a cui siamo arrivati seguendo in modo imparziale le conseguenze della meccanica quantistica. Adottando l’idea che la funzione d’onda è una descrizione matematica dell’esperienza, arriviamo all’unificazione della realtà quotidiana e dei sogni. E questi forniscono un ulteriore sostegno vivido a ciò che abbiamo detto sul progressivo collasso dell’onda che si manifesta come esperienza cosciente senza fine. Gli aspetti enigmatici che permangono circa la meccanica quantistica, i molti mondi e il collasso della funzione d’onda, circa la coscienza, la realtà e le nostre stesse vite e morti, svaniscono tutti.





15. Sogni e realtà multidimensionale 1 rem sta per rapid eye movement, «movimento oculare rapido». 2 In matematica e fisica, il concetto di «spazio» può avere un significato astratto che va ben oltre quello consueto. In meccanica quantistica si fa uso del concetto di spazio di Hilbert, che è lo spazio di tutte le possibili funzioni d’onda, comprese quelle collassate corrispondenti a esperienze ben definite. 3  Thomas Nagel,  Questioni mortali, trad. it. di Antonella Besussi, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 242. [N.d.T.]

16. Il rovesciamento della visione del mondo fisiocentrica

Ogni arte falsa, ogni vana saggezza fa il suo tempo: poi si distrugge da sé.1 Immanuel Kant

È stato un bel viaggio, per te lettore come per gli esseri umani in generale, che hanno arrancato per secoli cercando di capire l’universo. Noi esseri umani siamo partiti dalla semplice superstizione, stimolati dall’apparenza preziosa ma fragile della vita, e dal fatto che un’alluvione o qualche malattia improvvisa poteva strapparci via bruscamente i piaceri quotidiani. Quindi è stato naturale implorare prima gli dèi, e poi un solo Dio, di essere misericordiosi e di risparmiarci; di fatto questa strategia di lamentele, piagnucolii e contrattazioni con le invisibili superpotenze che comandavano e che si diceva fossero tutt’intorno a noi rappresentava la nostra visione del mondo collettiva. Sono passati millenni, e col tempo gli antichi greci e poi le menti geniali del Rinascimento hanno iniziato a percepire che il mondo era governato da qualcosa di più di capricci soprannaturali; la natura funzionava in modo razionale, secondo leggi che le nostre menti potevano decifrare. Questo ha cambiato tutto e la nostra conoscenza ha iniziato così a espandersi a una velocità smodata e con conseguenze impressionanti. Fu un risultato non da poco, quando Keplero mostrò che la Terra, la Luna e i pianeti si muovevano tutti lungo orbite ellittiche e che le loro posizioni future non erano solo comprensibili,

ma prevedibili con un alto grado di precisione. Saremmo addirittura riusciti a prevedere quando le eclissi avrebbero oscurato la Terra. A quel punto si percepiva che a governare la natura era un ordine grandioso, e fu una meraviglia. Ma rimaneva una potente dicotomia. Dapprima era stata posta una divisione tra i cieli e noi mortali sulla Terra; poi, tra noi e la natura. Nel Seicento René Descartes asseriva che mente e materia erano fondamentalmente differenti, nel senso che la coscienza o la percezione si distinguevano dal resto della natura. Questa separazione tra noial­tri e il grosso dell’universo era vista con favore sia dalla scienza sia dal clero. Dovendo studiare il cosmo, aveva senso separare dal resto le nostre fallibili percezioni. E la religione, ovviamente, approvava l’idea che noi esseri umani fossimo qualcosa di più che semplice materia. Man mano che l’universo si ingrandiva, in corrispondenza il nostro posto in esso si faceva più piccolo. Mentre si affannavano per allontanare le masse dalla religione e dalla superstizione, gli scienziati erano ben lieti di diffondere una visione del mondo in cui la scienza era in grado di fornire risposte e la pura oggettività era possibile; in altre parole, in cui noi osservatori non eravamo poi così importanti. E quando Edwin Hubble dimostrò nel 1930 che l’universo è costituito da miliardi di galassie, ognuna contenente miliardi di stelle come il Sole, con pianeti comuni come fiocchi di neve in una bufera, la nostra nuova mentalità collettiva divenne: Come siamo minuscoli! Come siamo irrilevanti! Così, durante i primi decenni del Novecento, essere piccoli era «in». L’insignificanza andava di moda. Noi singoli osservatori ci consideravamo men che inutili. Saremmo potuti svanire tutti, e il cosmo avrebbe proseguito immutato. E questa visione delle cose non è forse tuttora abbracciata da quasi tutti quelli che conoscete? È il motivo per cui gli strani risultati sperimentali osservati dai creatori della teoria dei quanti erano fonte di profondo turbamento: più e più volte, dimostravano che i parametri fisici come la posizione e il moto degli oggetti dipendevano dall’osservatore. Naturalmente, da secoli c’erano accenni al fatto che gli osservatori

svolgessero qualche ruolo nella realtà. Già negli Scritti di ottica Isaac Newton sottolineava il fatto che la luminosità e le tonalità di colore non sono intrinseche, ma che in realtà ogni osservatore crea tutti i colori della visione nella propria mente. «[I] raggi, parlando con proprietà, non sono colorati»,2 scrisse. Altri scienziati dimostrarono che Newton aveva ragione. All’inizio del Novecento i fisici avevano stabilito che la luce è costituita dagli impulsi periodici dei campi elettrici e magnetici. Dal momento che né il magnetismo né l’elettricità sono visibili agli esseri umani, una foresta verdeggiante non deve presentare caratteristiche intrinseche ai nostri occhi. Il fatto che la vediamo verde smeraldo significa che da qualche parte nei vasti circuiti neurali magici del cervello appare una sensazione di «verde», e poi, per qualche evento mentale altrettanto mirabile, la «posiamo» davanti a noi, in quello che consideriamo il «mondo esterno». Così molti scienziati si rendevano sempre più conto che la distinzione tra interno ed esterno era artificiale e che tutto ciò che si percepiva, che fosse un semaforo o un prurito, a rigore si manifestava nella mente. La mente, o percezione, o coscienza, o consapevolezza, non è né interna né esterna. È invece essa a racchiudere ogni cosa, qualsiasi esperienza. Negli anni venti, tuttavia, molti ideatori della teoria dei quanti erano rimasti sbalorditi dalla scoperta che il ruolo dell’osservatore andava ben oltre la semplice percezione. C’erano prove crescenti del fatto che non era solo quanto visto a dipendere dall’osservatore; si scoprì che l’atto dell’osservazione è ciò che spinge i piccoli oggetti fisici a comportarsi come si comportano, e persino a esistere. I fisici si stavano improvvisamente rendendo conto del ruolo della coscienza nel funzionamento della natura sulle scale più piccole. Tuttavia, in molti ambienti scientifici queste rivelazioni non attecchirono, soprattutto perché sembrava tutto molto vicino alla filosofia o alla metafisica. Il confronto non era ingiustificato; le nuove concezioni quantistiche dell’osservatore e della coscienza erano in realtà affini a molti concetti orientali. Alcuni teorici quantistici, come Erwin Schrödinger, andarono ancora più avanti in questa direzione,

chiedendosi dove sia il confine tra la coscienza di una persona e di un’altra. Ricordiamo che disse: «La coscienza è un singolare, il plurale della quale ci è ignoto».3 La scienza standard era consapevole che percorrere questa strada avrebbe potuto mettere in crisi la visione del mondo quasi ufficiale, esposta nei libri di testo, che ancora accoglieva la ferma separazione cartesiana tra mente e materia, natura e noi osservatori coscienti. Ma la marea poteva essere trattenuta solo temporaneamente. Continuava a manifestarsi l’importanza dell’osservatore in un esperimento dopo l’altro, come quello famoso sulla doppia fenditura, quello della «scelta rinviata» e innumerevoli altri. I risultati erano sconcertanti ma innegabili, dopo decenni di conferme sempre più numerose. Per questo John Wheeler, famoso fisico di Princeton, poté affermare con tanta sicurezza: «Nessun fenomeno è un fenomeno finché non è un fenomeno osservato».4 E questo ci porta ai giorni nostri. Come abbiamo visto, non ci siamo arrivati di punto in bianco. I capitoli di questo volume raccontano fedelmente l’evolversi della conoscenza che ci ha fatto progredire, ripercorrendo la storia della fisica sin dal genio di Isaac Newton, considerando poi i principali cambiamenti di prospettiva del xviii e xix secolo, quando si iniziarono a scoprire inaspettati punti di vista unificati in ogni pertugio del cosmo. Mentre proseguiva la marcia della scienza, «ciò che sappiamo per certo» veniva capovolto più e più volte, con le relazioni tra spazio e tempo e tra materia ed energia svelate da Albert Einstein, e poi con le scoperte ancora più rivoluzionarie dei geni della meccanica quantistica. E tutto questo ha portato al logico passo successivo: il biocentrismo. Esso identifica la vita e la coscienza come realtà centrali dell’esistenza, non per un meschino desiderio o un bisogno dogmatico di elevare il nostro status, ma perché secoli di conoscenza scientifica e dati sperimentali faticosamente ottenuti mostrano che è l’unica spiegazione coerente di ciò che vediamo intorno a noi. Purtroppo, per come è fatta la natura umana, la scienza ufficiale continua a resistere a un cambiamento su larga scala della sua

antiquata visione del mondo, in cui gli osservatori godono più o meno dello stesso status delle cavie di laboratorio, malgrado i fisici riconoscano la verità della teoria dei quanti e scoprano esempi sempre più strani di fenomeni che ne confermano le previsioni, come la correlazione quantistica. Ancor oggi, per molti nella comunità scientifica la sola parola «coscienza» è un segnale d’allarme, come se tutti i risultati sperimentali collegati all’osservatore si richiamassero in qualche modo al soprannaturale, o fossero ricerche ai limiti dell’accettabile, un po’ come quelle di nicchia degli anni sessanta sulla psichedelia. Allo stesso tempo, una popolazione globale sempre più istruita si rivolge con frequenza crescente alla scienza per trovare risposte ai misteri senza tempo che ci affliggono. La realtà è reale? Siamo esseri coscienti riducibili al cervello fisico? C’è vita dopo la morte? Perché l’universo funziona come funziona? Qual è il mio posto nell’universo? La scienza ufficiale ha avuto scarso successo nell’affrontare queste domande, mentre il paradigma biocentrico fornisce effettivamente delle risposte. Quello che serviva per sbloccare il corpus del sistema scientifico e cambiare una volta per tutte l’opinione generale erano prove concrete a sostegno delle conclusioni biocentriche. Al servizio di queste conclusioni, i primi due libri sul biocentrismo invocavano la logica, le argomentazioni filosofiche di grandi pensatori dei tempi sia antichi sia moderni e resoconti dettagliati di esperimenti scientifici. Questo libro rafforza il tutto offrendo spiegazioni più dettagliate degli aspetti scientifici alla base della teoria. Molte prove indirette o secondarie sostengono da tempo una visione biocentrica del cosmo. Per esempio, è difficile ignorare che circa duecento parametri fisici fondamentali e invariabili in tutto l’universo, come la costante alfa, che determina l’intensità dell’interazione elettromagnetica, hanno tutti esattamente i valori necessari per consentire l’esistenza della vita. Certo, potrebbe essere una pura coincidenza. Ma gli scienziati amano giustamente invocare il «rasoio di Occam», il principio secondo cui la spiegazione più semplice di solito è quella corretta. Quindi, è vero che potrebbe

essere una coincidenza – e la scienza ufficiale continua a spiegarlo proprio così o, in altre parole, come «evento casuale»! – che tutte e duecento queste costanti fisiche siano perfettamente configurate perché splendano le stelle, esistano numerosi tipi di atomi e appaia la vita, ma accettare alla leggera un insieme di fatti così improbabile lascerebbe un bel po’ di brufoli sul viso della scienza. Se invece accettiamo la teoria biocentrica, secondo cui la vita è centrale, queste costanti fisiche non avrebbero mai potuto assumere alcun altro valore: fine della storia. Che cosa potrebbe essere più semplice e più approvato da Occam? Ahimè, come potrebbe fare la scienza a organizzare un esperimento in cui un sistema fisico è posto in presenza della coscienza, mentre un altro è tenuto separato dalla consapevolezza dell’osservatore, per poter svolgere un classico confronto A/B necessario a stabilire l’influenza dell’osservazione?

Figura 16.1 L’universo come lo conosciamo non esisterebbe, e noi non saremmo qui, se alcune costanti fisiche (e molto probabilmente tutte) non avessero subito una regolazione fine (perlopiù entro l’1-2 per cento) sui valori attuali. L’immagine mostra alcune di queste costanti. Un elenco più completo ed esempi di descrizioni di ciò che accadrebbe all’universo se alcune fossero leggermente diverse si possono trovare in Biocentrismo di R. Lanza e B. Berman (trad. it. di Valentina Schettini, il Saggiatore, Milano 2015).

Fortunatamente, l’esperimento della doppia fenditura e le sue innumerevoli varianti, ripetute migliaia di volte per decenni, ci hanno già fornito proprio questo confronto. I risultati mostrano ogni volta in maniera coerente che la presenza di un osservatore e il modo in cui effettua una misurazione determinano in modo univoco la sorte di un oggetto fisico. Se lo misuriamo in un certo punto, un elettrone è un’onda. Se ci posizioniamo un po’ prima, portando la nostra consapevolezza sulla scena in un punto intermedio  –  la fessura piuttosto che il sito di rilevamento finale – l’elettrone ha un’esistenza da particella. Caso chiuso. Un caso particolare: modificare c, ħ, G, ε0 Le costanti c (la velocità della luce), ħ (la costante di Planck ridotta), G (la costante gravitazionale) e ε0 (la costante dielettrica del vuoto) sono costanti fondamentali nel senso che i loro valori possono essere scelti arbitrariamente. In altre parole, esistono sistemi di unità di misura in cui queste quattro costanti hanno valori arbitrari, mentre altre grandezze fisiche e costanti misurate vengono espresse come multipli delle unità, definite in termini di c, ħ, G e ε0. Esempi di tali sistemi sono il famoso sistema di unità di Planck in cui c = ħ = G = 1, e la sua estensione, in cui c = ħ = G = 4πε0 = 1. L’unità di lunghezza, cioè il metro, è attualmente definita in termini di velocità della luce, a cui si attribuisce un valore fisso vicino a 3 × 108 metri al secondo. Quindi oggi il valore numerico della velocità della luce è fissato e non più ritenuto una grandezza misurabile. (Per ulteriori informazioni, vedere l’articolo «Metro» della Wikipedia.) La velocità della luce compare nell’espressione della costante alfa, che determina l’intensità dell’interazione elettromagnetica: α = e2/(4πε0ħc). Come si vede, se c fosse diversa, a parità delle tre altre costanti fondamentali, varierebbe anche α, e di conseguenza tutta la fisica atomica, compresa la possibilità della vita come la conosciamo. D’altra parte, sarebbe possibile cambiare c e al contempo anche ε0, ħ e G, in modo che α rimanga uguale. In tal modo non avremmo

cambiato la fisica, ma solo le unità in cui sono espresse le grandezze fisiche. Naturalmente, tra i circa duecento parametri e costanti ce ne potrebbero essere alcuni i cui valori non sono di importanza decisiva per la struttura del nostro universo. È però molto probabile che dietro di esse ci sia una teoria fondamentale, una relazione che le spieghi tutte. Se è così, cambiarne uno modificherebbe la struttura stessa dell’universo. Mentre ci sforziamo di offrire alla scienza le prove concrete che brama, un’altra possibile strategia consiste nell’indagare quando e come inizia ad esistere il tempo (come evoluzione). Sì, è un’idea sbalorditiva, ma se «tempo» è l’etichetta che attribuiamo a una sequenza di eventi che si svolgono prima o dopo, il verificarsi fisico di conseguenze misurabili non può avvenire senza il tempo. E se, come abbiamo visto, le menti degli osservatori con la loro capacità di ricordare il passato forniscono il meccanismo indispensabile per la memoria e quindi i confronti, il tempo ci fornisce un’esemplificazione perfetta della necessità del biocentrismo. Abbiamo già visto la storia di Zenone di Elea, risalente a 2500 anni fa, secondo cui una freccia doveva trovarsi in un solo punto durante ogni istante del volo. Ma, continuava, se la freccia è in un solo punto, essa deve essere immobile, per quanto istantaneamente. In ogni momento della traiettoria, la freccia deve essere presente da qualche parte, in una posizione specifica. Logicamente, quindi, ciò che sta accadendo non è un vero e proprio moto, ma piuttosto una serie di eventi distinti. Allo stesso modo, l’avanzamento del tempo –  di cui il moto della freccia è un’incarnazione – non è una proprietà del mondo esterno ma una proiezione che nasce dentro di noi quando leghiamo insieme gli eventi che osserviamo. Il tempo non ha significato se non in relazione con un altro punto. È un concetto relazionale: un evento relativo a un altro. Quindi, per avere una freccia o una direzionalità del tempo, ci deve essere un osservatore dotato di memoria. Siamo tornati all’ineludibilità dell’osservatore cosciente. Parlando di tempo, è giunto quello di concludere il riepilogo delle

nostre rivelazioni e, cosa altrettanto importante, vedere come possano cambiare la percezione delle nostre vite, del nostro futuro e della natura stessa della nostra realtà quotidiana. È ben comprensibile che il lettore desideri ulteriori chiarimenti su come possano applicarsi in concreto alla sua vita la teoria dei quanti (notoriamente esoterica) o i dettagli del modo in cui gli osservatori causano il comportamento delle particelle subatomiche. Ora che si avvicina la fine del libro, chi ha abbastanza chiaro, anche se magari non del tutto, che cos’è il biocentrismo, che cosa esso rivela e le prove che lo sostengono ha diverse possibilità: è bene che presti attenzione alla panoramica in queste ultime pagine. E può anche apprezzare la nostra presentazione (in appendice) di alcune delle domande poste spesso dai critici del biocentrismo e delle nostre risposte e confutazioni, che possono rispondere a eventuali dubbi rimasti. Ma prima esaminiamo di nuovo tutti e undici i principi del biocentrismo. Se qualcuno vi incuriosisce in modo particolare, sappiate che a ognuno dei primi sette è dedicato un capitolo nel primo libro Biocentrismo, con spiegazioni estese accompagnate da illustrazioni; gli ultimi quattro si basano sul materiale del libro che avete in mano. Dopo aver riaffermato i principi, esamineremo che cosa significano per il cosmo, per la vita in generale e per le nostre vite come individui. Primo principio del biocentrismo: Ciò che percepiamo come realtà è un processo che coinvolge la nostra coscienza. La realtà esterna, se esistesse, per definizione dovrebbe rientrare nell’ambito dello spazio e del tempo. Ma lo spazio e il tempo non sono realtà indipendenti: sono strumenti della mente umana e animale. Secondo principio del biocentrismo: Le nostre percezioni esterne e interne si intrecciano in maniera inestricabile. Sono due facce della stessa medaglia, inseparabili una dall’altra. Terzo principio del biocentrismo: Il comportamento delle particelle subatomiche, e anzi di tutte le particelle o corpi, è legato in maniera inestricabile alla presenza di un osservatore. Se manca un

osservatore cosciente, al più essi esistono in uno stato indeterminato di onde di probabilità. Quarto principio del biocentrismo: Senza la coscienza, la «materia» rimane in uno stato probabilistico indeterminato. Un eventuale universo che precedesse la coscienza sarebbe esistito soltanto in uno stato probabilistico. Quinto principio del biocentrismo: Soltanto con il biocentrismo si può spiegare la struttura dell’universo, che presenta una regolazione fine per la vita: ciò ha del tutto senso, perché è la vita a creare l’universo, non il contrario. L’«universo» non è che la logica spaziotemporale completa del sé. Sesto principio del biocentrismo: Il tempo non ha un’esistenza reale al di fuori della percezione sensoriale degli animali. Esso è il processo tramite cui percepiamo i cambiamenti nell’universo. Settimo principio del biocentrismo: Lo spazio, come il tempo, non è una cosa o un oggetto. Lo spazio è un’altra forma della nostra comprensione animale, ed è privo di realtà indipendente. Ci portiamo dietro lo spazio e il tempo come fa la tartaruga con il carapace. Non esiste perciò una matrice assoluta e dotata di esistenza propria in cui gli eventi fisici avvengano indipendentemente dalla vita. Ottavo principio del biocentrismo: Il biocentrismo è l’unica teoria che sappia spiegare come la mente si unifica con la materia e il mondo; essa mostra che, nel cervello, la modulazione della dinamica ionica a livello quantistico permette di interconnettere allo stesso tempo tutte le parti del sistema informativo che associamo alla coscienza. Nono principio del biocentrismo: Ci sono diverse relazioni fondamentali  –  le cosiddette «forze»  –  che la mente usa per costruire la realtà. Affondano le radici nella logica con cui i vari componenti del sistema informativo interagiscono tra loro per creare l’esperienza tridimensionale che chiamiamo coscienza o realtà. Ciascuna forza descrive come interagiscono a diversi livelli i quanti di energia, a partire dalle forze forte e debole (che descrivono il modo in cui si tengono insieme o si disgregano le particelle

all’interno del nucleo atomico) fino all’elettromagnetismo e poi alla gravità (che predomina nelle interazioni su scala astronomica, come il comportamento dei sistemi stellari e delle galassie). Decimo principio del biocentrismo: È possibile conciliare i due pilastri della fisica  –  la meccanica quantistica e la relatività generale – solo tenendo conto degli osservatori, noi. Undicesimo principio del biocentrismo: Gli osservatori definiscono in ultima analisi la struttura della realtà fisica, degli stati della materia e dello spaziotempo, anche se c’è un «mondo reale esterno» al di là di noi, che sia fatto di campi, di schiuma quantistica o di qualche altra entità. Dopo aver esaminato questi principi per l’ultima volta, il lettore potrebbe comprenderli e persino esserne entusiasta, pur non cogliendo appieno come pervadono le nostre vite. Quindi approfondiamone le implicazioni. Immaginiamo che le recentissime questioni scientifiche discusse in questo libro siano semplicemente l’inizio di indagini rigorose che, infine, giungeranno a fare del biocentrismo il modello standard globale di come funziona l’universo. Poniamo che esso diventi la realtà scientifica accettata, la visione del mondo in base a cui la maggior parte dell’umanità considera il cosmo e il proprio posto in esso. Che cosa significherebbe davvero? Innanzi tutto, significherebbe che lo stato fondamentale dell’universo non è più lo spazio vuoto, né particelle mute che collidono casualmente. Tutto ciò sarebbe sostituito dalla consapevolezza che la base dell’universo è la vita cosciente. A sua volta, anche se non ci siamo soffermati a dirlo esplicitamente, in essa è presente una squisita intelligenza. In altre parole, questo significherebbe che il cosmo non è qualcosa di insensato; se non è questa una buona notizia, quale mai lo sarà? Vorrebbe anche dire che il presunto vuoto infinito del cosmo non è reale. Immagino che anche questa deduzione vi rallegrerà. Chi è affezionato al nulla? Quindi il cosmo perde l’aspetto «Club dei Cuori Solitari». E il Big Bang, la «spiegazione» fornita dalla scienza classica per la genesi di

ogni cosa, torna a essere una bizzarria vuota e insensata, un non chiarimento; non è del tutto una sorpresa, dal momento che l’idea che tutto nasca misteriosamente dal «nulla» non è mai parsa degna di una sufficienza a scuola. Loren Eiseley, grande naturalista, disse che gli scienziati «non sono sempre riusciti ad accorgersi che una vecchia teoria, se la si modifica appena appena, può spalancare alla ragione umana visuali completamente nuove». L’evoluzione cosmica ne è un esempio perfetto. Sorprendentemente, tutto ha senso se assumiamo che il Big Bang sia la fine della catena della causalità fisica, non l’inizio. L’osservatore è la causa prima, la forza vitale che fa collassare non solo il presente, ma il succedersi di eventi spaziotemporali che chiamiamo passato. Stephen Hawking aveva ragione quando disse: «Il passato […], come il futuro, è indefinito ed esiste soltanto come uno spettro di possibilità».5 In secondo luogo, la «mente» o «coscienza» diventa l’essenza o matrice del cosmo, il che, ancora una volta, significa che la vita è centrale per ogni cosa. Parlare degli «inizi» non riveste più interesse, poiché il tempo non è mai esistito al di fuori della coscienza. A questo proposito, se la coscienza è ovunque e mai discontinua, non proveremo mai la morte. Certo, quel cane morto in mezzo alla strada non si rialzerà e non ci rimetterà le zampe infangate sui pantaloni. Ma, in termini di consapevolezza, non è mai accaduto che non percepissimo la coscienza e la sua miriade di impressioni sensoriali, né tutto ciò cesserà mai. Possiamo farci affidamento. Quindi, il biocentrismo ci distribuisce la carta «non si muore»: è improbabile che vi venga mai voglia di scambiarla ancora con qualcos’altro. Se vi secca che non sia sempre possibile percepire le vostre esperienze con gli occhi presenti nel vostro corpo attuale, be’, così stanno le cose. C’è un ulteriore vantaggio: una volta che abbiamo compreso a fondo il fatto rigoroso che tutte le esperienze si verificano nella mente, e quindi che i cieli azzurri e i bei fiori che vediamo non sono fisicamente fuori, separati da noi, ne consegue un senso di unità che spesso rende sereni e porta a un profondo senso di pace. Che

abbiate personalmente aspirato alla «pace della mente» o meno, molti attestano che è un obiettivo degno. Infine, naturalmente, c’è la danza accattivante delle possibilità future. Una volta che il tempo e lo spazio sono fermamente riconosciuti come proprietà «interne» delle percezioni, gli sviluppi tecnologici biocentrici potrebbero consentire di viaggiare nel tempo, in modi che sarebbero impossibili se quelle dimensioni fossero vere barriere esterne. Ma al di là di tutto questo, l’accettazione del biocentrismo darebbe non solo una visione del mondo che ci unisce tutti in modo più stretto di quanto possa fare qualsiasi iniziativa pubblica, ma un modello scientifico che, facendo sue le scoperte descritte in questo libro e conquistate a fatica nel corso dei secoli, finalmente ha senso.



16. Il rovesciamento della visione del mondo fisiocentrica 1  Immanuel Kant,  Prolegomeni ad ogni metafisica futura, trad. it. di Piero Martinetti, Rusconi, Milano 1995, p. 249. [N.d.T.] 2 Isaac Newton, Scritti di ottica, a c. di Alberto Pala, utet, Torino 1978, p. 394. [N.d.T.] 3 Erwin Schrödinger, Che cos’è la vita?, trad. it. di Mario Ageno, Adelphi, Milano 2012, p. 151. [N.d.T.] 4  John Archibald Wheeler, «The “Past” and the “Delayed-Choice”  DoubleSlit  Experiment», in A.R. Marlow (a c. di),  Mathematical foundations of quantum theory, Academic Press, Cambridge 1978, pp. 9-48. [N.d.T.] 5  Stephen Hawking e Leonard Mlodinow,  Il grande disegno, trad. it. di Tullio Cannillo, Mondadori, Milano 2011, p. 78. [N.d.T.]

Post scriptum L’uomo che ci teneva

A volte un problema, che sia una questione personale o scientifica, sembra insolubile a causa dell’inerzia o della semplice riluttanza a valutare circostanze nuove con flessibilità. È il punto a cui si trovava la fisica prima della Prima guerra mondiale; l’ostacolo fu infine spazzato via da un piccolo gruppo di trasgressori di regole. Uno degli autori, Robert Lanza, trova che questo esempio rispecchi la sua situazione di mezzo secolo fa, anch’essa risolta da un eroe. James Watson, scopritore della doppia elica del dna, osservò: «A volte devi essere pronto a fare cose per cui la gente non ti considera qualificato». Disse anche: «Poiché sai che ti metterai nei guai, devi avere qualcuno che ti salvi quando sarai nella merda. Quindi farai bene ad avere sempre qualcuno che crede in te». Per me questa persona è stata Eliot Stellar, provost1 dell’Università della Pennsylvania e presidente del Comitato per i diritti umani della prestigiosa National Academy of Sciences. Quand’ero studente mi sono cacciato più volte in qualche guaio, ma ciò non mi ha mai distolto dalla mia strada, che pure mi aveva messo in pericolo, perché sapevo che Eliot Stellar mi avrebbe salvato. Ero giovane e idealista; non solo ero scontento di come la scienza descriveva l’universo, ma anche della sua incapacità di utilizzare i risultati e le conoscenze disponibili per migliorare la condizione umana in ampie parti del mondo.2 Quando frequentavo la facoltà di medicina decisi di compilare un libro nella speranza di colmare questa lacuna, offrendo un quadro dettagliato degli ultimi risultati delle scienze e della medicina e dei loro obiettivi, composto

da contributi di eminenti scienziati di varie discipline che inoltre si sarebbero espressi sui cambiamenti necessari in futuro. Non fu facile scegliere tra le molte persone che avrebbero potuto fornire un contributo, e non ero affatto sicuro di come avrebbero reagito alla mia richiesta. Alla fine contattai, tra gli altri, il pioniere dei trapianti di cuore Christiaan Barnard, nonché il Direttore generale federale della sanità statunitense, il Direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità e vari vincitori di premi Nobel e Lenin per la pace. Le reazioni furono superiori alle aspettative e molto gratificanti; dissiparono ogni mio dubbio sulla necessità e sull’importanza delle valutazioni e dei commenti che intendevo offrire con il libro. Ma fu così che insorse un problema. Nelle lettere di invito avevo usato l’indirizzo postale della mia facoltà di medicina. L’ufficio del preside cominciò a ricevere telefonate che chiedevano di me… per esempio dal Direttore generale federale della sanità. Ciò indignò il preside, che voleva che inviassi nuove lettere in cui spiegavo alle persone contattate che ero uno studente. Temeva che il progetto potesse fallire, e quindi infastidire un sacco di gente importantissima. Aveva ragione, certo. Ritenevo però che inviare queste lettere avrebbe minato la fiducia dei miei auspicati collaboratori; cosa più importante, secondo me il libro era un mio progetto personale, e quindi non erano affari del preside. Fu proprio ciò che gli dissi quando mi convocò nel suo ufficio e mi ordinò di inviare le lettere. Di fronte al mio rifiuto, mi minacciò che non avrei ricevuto la laurea in medicina. Al che gli dissi che avevo già ottenuto quello per cui ero venuto lì: un’istruzione in campo medico. Non ero venuto per un pezzo di carta. Sembrò preso alla sprovvista. L’atmosfera si riscaldò e alla fine il preside mi disse: «Nessuno studente mi ha mai rivolto la parola in questo modo!». Mi alzai, gli puntai l’indice contro e dissi: «Le sto parlando come un essere umano a un altro». Stavamo facendo parecchio rumore, e proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta e disse: «Tutto bene, Fred? Faremo tardi alla riunione». «Arriverò in ritardo, non aspettarmi» rispose il preside. Concluse il

nostro confronto dicendo che avrei fatto meglio ad avere un buon relatore. Ovviamente andai subito da Eliot Stellar e gli spiegai come stavano le cose. «Chi è il tuo relatore?» mi chiese. Gli risposi che non ce l’avevo. Si appoggiò allo schienale della sedia e sembrò un po’ perplesso. Alla fine disse: «Tutto sommato non c’è niente di male se vuoi farti da solo da relatore». Il giorno dopo fui chiamato di nuovo nell’ufficio del preside. Questa volta il preside mi accolse con un caloroso sorriso e disse: «Avresti dovuto dirmi che il tuo relatore è Eliot Stellar». Tuttavia rifiutai ancora di soddisfare le richieste del preside, che mi convocò di fronte allo Student Standards Committee. Con questa commissione le cose andarono più o meno come con il preside, cioè male. Mi inviarono una lettera che diceva: Tenga presente che se non si adeguerà alla linea d’azione richiesta dallo Student Standards Committee, la sottocommissione ha la possibilità di non dare parere positivo per la sua laurea. Le sanzioni che potranno essere applicate includono la sospensione o l’espulsione, ma non si limitano a queste. A causa della gravità dei problemi rilevati dallo Student Standards Committee e dato il rischio di espulsione dalla Facoltà di Medicina […] le raccomando di parlare con il suo relatore, il dottor Eliot Stellar, per sincerarsi di comprendere a fondo le conseguenze della sua situazione. Ero veramente nella m… Ma Eliot Stellar era dalla mia parte: «Non puoi affrontare tutto questo da solo». Nei mesi successivi non cedetti; il preside e lo Student Standards Committee continuarono a disapprovare la mia inflessibilità. «Sono burocrati» spiegava Stellar. «Proprio non capiscono.» Gli anni sessanta erano finiti da una decina d’anni, ma lui continuava ad apprezzarne ideali come l’individualità e la creatività, e a battersi in loro favore. Ho sempre pensato che senza gli interventi di Stellar dietro le quinte non mi sarei mai laureato in medicina. Non sarei mai

diventato un medico. Una sera, dopo che avevo inviato una lettera particolarmente provocatoria al preside, Eliot Stellar mi telefonò. Cercava di spegnere gli incendi appiccati dalla mia testardaggine, e mi chiese di non mandare altre lettere al preside senza parlarne con lui. Durante la conversazione mi disse che avevo lavorato sodo, e che me l’ero guadagnata, la laurea in medicina. «Il titolo non è importante» ribattei. «Ho ottenuto quello per cui sono venuto all’università: un’istruzione in campo medico». Più o meno a quel punto sentii sua moglie Betty in sottofondo: «Digli di chiederlo a sua madre!». «Shhh!» disse Eliot. «È una decisione sua». Sembrava che non avessi alleati tranne Eliot, e andavo spesso da lui quando le cose si complicavano. Il giorno in cui fu raggiunto un accordo, ero nel suo studio. Mentre parlavamo squillò il telefono. Dopo aver ascoltato l’interlocutore in silenzio per un minuto o due, alla fine gli disse: «L’emergenza è finita». In seguito l’ho ringraziato per la comprensione, per non essersi schierato con il preside. Rispose: «Mi piace pensare di aver portato un po’ di giustizia». Alcuni anni dopo presi un tram verso il centro e mi sedetti accanto a una donna ben vestita, che dopo qualche minuto si voltò verso di me: «Lei è Robert Lanza, vero?». Sì, risposi, perché? La donna spiegò che aveva lavorato nell’ufficio del preside, e ricordava bene il giorno del mio litigio con lui. Tutto il personale dell’ufficio era rimasto fuori dalla porta ad ascoltare, mi raccontò, e tutti esultarono in silenzio quando gliene dissi quattro. Il libro che avevo compilato, Medical Science and the Advancement of World Health, è stato pubblicato nel 1985. La dedica recita: «A Eliot Stellar, esemplare per la sua gentilezza umana e la sua vita virtuosa e illuminata, nonché coraggioso e pionieristico creatore dello University Scholars Program presso l’Università della Pennsylvania, che modifica il sistema didattico per favorire la creatività e la crescita personale, cambiamenti essenziali perché le generazioni future possano affrontare con successo le sfide che minacciano l’esistenza stessa dell’umanità». Se il mio tono nel narrare questa vicenda sembra distaccato,

anche questo è un omaggio a Eliot Stellar, che una volta mi disse: «Lascia parlare i fatti». Eliot Stellar, il mio mentore, uno dei più grandi psicologi fisiologici mai esistiti e probabilmente la persona migliore che abbia mai incontrato, morì nel 1993. Sento la sua mancanza. Molti anni dopo la laurea, in un corridoio mi sono imbattuto nel preside, che mi strinse la mano e disse: «Da un essere umano a un altro» (ripetendo, ovviamente, la frase che gli avevo detto nel suo ufficio). Poi si congratulò con me per tutto quello che avevo compiuto da quando mi ero laureato. Eliot Stellar sarebbe stato molto felice di vedere quell’incontro.

Post scriptum 1 Sorta di vicepresidente. [N.d.T.] 2 In una referenza per me, Stellar una volta scrisse: «È un po’ un ribelle, ma lo era anche Einstein». Non sono sicuro che il paragone con Einstein fosse meritato, ma la mia reputazione di ribelle o piantagrane lo era certamente.

Appendice Domande e critiche

Domanda: Se è la coscienza a creare la realtà, da dove viene la coscienza? In risposta a un’intervista del 2007 a uno degli autori (Lanza) pubblicata su Wired,1 il divulgatore scientifico Adam Rogers affermò in un post: «La conclusione di Lanza è che dobbiamo comprendere i misteri della coscienza per poter spiegare come i singoli gruppi di neuroni producono  –  non dice da cosa  –  piccoli frammenti di universo illusorio. Mi sembra un po’ il problema dell’uovo e della gallina. Forse la storia di come emerge la coscienza (direi che anche questo sta nella categoria “ciò che non sappiamo”) non finisce con quei neuroni, che però sono almeno un inizio». Risposta: Il presunto «problema dell’uovo e della gallina» non esiste. Rogers guarda il nuovo paradigma con gli occhi di quello vecchio. Il tempo non ticchetta «là fuori» come un orologio. «Prima» e «dopo» non hanno un significato assoluto indipendente dall’osservatore. Quindi la domanda su ciò che è venuto prima della coscienza è priva di significato e si pone solo a causa di una comprensione incompleta della fisica. Il mondo che percepiamo è definito da noi (si vedano i Capitoli 11 e 14). Domanda: C’è differenza tra il cervello fisico e la mente? Una critica ampiamente citata al biocentrismo, pubblicata sul sito nirmukta.com, afferma: «Come può esistere la “creatura vivente e biologica” se l’universo non è stato ancora creato? È chiaro che Lanza tratta in modo confuso il significato della parola “coscienza”. A volte la identifica con l’esperienza soggettiva legata a un cervello

fisico. Altre volte, invece, assegna alla coscienza una logica spaziotemporale che esiste al di fuori delle manifestazioni fisiche». Risposta: Il biocentrismo mostra che il mondo esterno è in realtà all’interno della mente, non «dentro» il cervello. Il cervello è un oggetto fisico reale che occupa una posizione specifica. Esiste come costruzione spaziotemporale. Anche altri oggetti, come tavoli e sedie, sono costruzioni, e si trovano al di fuori del cervello. Tuttavia, cervelli, tavoli e sedie esistono tutti allo stesso modo nella «mente»: proprio essa genera la costruzione spaziotemporale. Così, la mente si riferisce al pre-spaziotemporale e il cervello al post-spaziotemporale. Percepiamo l’immagine che la mente ha del corpo, compreso il cervello, così come percepiamo gli alberi e le galassie. La mente è ovunque, è tutto ciò che vediamo, ascoltiamo e sentiamo. Il cervello è dove si trova il cervello e l’albero è dove si trova l’albero. Ma la mente non ha luogo. È ovunque osserviamo, odoriamo o udiamo qualcosa. Domanda: In che senso il biocentrismo è una teoria? È possibile falsificarlo? Diversi critici affermano che il biocentrismo, come la teoria delle stringhe, non sia falsificabile (cioè non si possa confutare) e quindi non possa essere considerato propriamente una teoria scientifica. Risposta: Questo è palesemente falso. Il biocentrismo si può mettere alla prova con vari esperimenti, per esempio sull’estensione della sovrapposizione di stati su scale maggiori di quelle quantistiche. Anzi, sono possibili verifiche sperimentali anche per le varianti legate all’osservatore descritte nel lavoro più recente di Podolskiy, Barvinsky e Lanza (si veda il Capitolo 14). Si possono sfruttare esperimenti sia reali sia simulati su vari sistemi quantomeccanici. Anzi, la teoria è già stata verificata con simulazioni numeriche mentre a breve si svolgeranno verifiche sperimentali. Durante la stesura di questo libro, inoltre, è giunta la conferma sperimentale di un’altra previsione biocentrica. Massimiliano Proietti

e colleghi della Heriot-Watt University di Edimburgo hanno svolto un esperimento quantistico che mostra che non esiste una realtà oggettiva («Experimental Test of Local Observer Independence», Science Advances, 20 settembre 2019). I fisici sospettavano da tempo che la meccanica quantistica permettesse a due osservatori di percepire realtà diverse e contraddittorie. «Se ci si attiene alle ipotesi di località e di libera scelta» scrivono gli autori, «questo risultato spinge a interpretare la teoria dei quanti in maniera dipendente dall’osservatore». È probabile che futuri esperimenti in questo senso mettano alla prova ulteriori principi del biocentrismo. Ma è difficile che i risultati sorprenderanno i suoi fautori. Come disse una volta Eugene Wigner in persona: «Lo studio stesso del mondo esterno ha portato alla conclusione che il contenuto della coscienza è dotato di realtà fondamentale».2 Domanda: Il biocentrismo afferma che i colori che vediamo esistono solo nella nostra testa. Ma come può essere vero se nel mondo esterno esistono particelle di luce3 che corrispondono ai vari colori? Il sito nirmukta.com lo esprime in questo modo: Se si esamina a fondo ciò che dice Lanza, si capisce che lui presenta la natura relativistica della realtà in modo da farla sembrare incongrua con la sua esistenza oggettiva. Il suo ragionamento si basa su una sottile confusione dei concetti di soggettività e oggettività. Vediamo per esempio questa sua argomentazione: «Consideriamo il colore e la luminosità di tutto ciò che vediamo “là fuori”. Di per sé, la luce non ha alcun colore o luminosità. La realtà indiscutibile è che senza la coscienza non potrebbe esserci nulla di lontanamente simile a ciò che vediamo. Pensiamo al tempo atmosferico: usciamo e vediamo un cielo azzurro, ma sarebbe facile modificare le cellule del nostro cervello in modo che “vedano” invece il rosso o il verde. Pensiamo che sia caldo e umido, ma a una rana tropicale sembrerebbe freddo e secco. In

ogni caso, il senso è chiaro. Questa logica si applica praticamente a tutto». C’è solo una parte di verità nelle affermazioni di Lanza. Il colore è una verità esperienziale, cioè è un fenomeno descrittivo che sta al di fuori della realtà oggettiva. Nessun fisico lo negherà. Tuttavia, le proprietà fisiche della luce responsabili del colore sono caratteristiche dell’universo naturale. Pertanto, l’esperienza sensoriale del colore è soggettiva, ma le proprietà della luce responsabili di tale esperienza sensoriale sono oggettivamente vere. La mente non crea il fenomeno naturale stesso; crea un’esperienza soggettiva o una rappresentazione del fenomeno. Risposta: L’argomentazione del sito nirmukta.com è viziata su più livelli. Le «proprietà» di qualsiasi fotone, l’unità della radiazione elettromagnetica, sono la lunghezza d’onda e la frequenza, ovvero le oscillazioni dei campi magnetici ed elettrici. La luce visibile rappresenta solo una piccola porzione dello spettro elettromagnetico, che è un gradiente continuo che va da lunghezze d’onda più lunghe a più corte e comprende il radar, le onde radio, le microonde e i raggi gamma (nessuno dei quali percepiamo come «colore»). Questi campi non sono «responsabili» della percezione del colore; in sé, anzi, sono del tutto invisibili. Nella migliore delle ipotesi, dovremmo percepire lo spettro visivo come nient’altro che un continuum di grigi più o meno chiari; dovrebbe essere a tutti gli effetti una semplice esperienza quantitativa. Tuttavia non è così. Abbiamo invece un’esperienza qualitativa unica che percepiamo soggettivamente come colori distinti quando la luce rientra in un intervallo molto specifico dello spettro visivo (si veda il Capitolo 7). In realtà, la «responsabilità» o la causa dei colori risiede nel modo in cui la mente animale reagisce alle energie invisibili creando l’esperienza, per esempio, del «rosso» o del «blu». E, in effetti, a un livello più fondamentale, i fotoni stessi appaiono solo dopo l’osservazione e il collasso della funzione d’onda; gli esperimenti mostrano chiaramente che le particelle di luce stesse non esistono con proprietà reali finché non vengono effettivamente osservate.

Niente di tutto questo è controverso. Il fatto che i colori non esistano «là fuori» da soli è chiaro da secoli, come dimostra l’affermazione di Isaac Newton nell’Ottica secondo cui «[I] raggi […] non sono colorati».4 Come scrive il fisico canadese Roy Bishop in ogni edizione annuale del suo popolare Observer’s Handbook: «Non è l’occhio che rileva i colori dell’arcobaleno; è il cervello che li crea». Domanda: E tutte le prove che documentano l’evoluzione della vita e dell’universo? Il sito nirmukta.com chiede: «Lanza può forse negare tutte le prove che, mentre noi umani siamo apparsi poco tempo fa, la Terra, il Sistema solare e l’universo in generale esistono da molto prima? Che dire di tutte le prove oggettive della comparsa delle forme di vita e della loro evoluzione verso una complessità sempre maggiore, che ha fatto comparire la specie umana in una certa fase della storia evolutiva della Terra? E di tutte le prove fossili dell’evoluzione delle forme complesse, in biologia e non solo? Come possono gli esseri umani arrogarsi il potere di creare la realtà oggettiva?». Risposta: Il problema è come interpretare queste «prove» in termini di realtà fisica, cioè se si debba restare aggrappati al vecchio quadro deterministico. L’evoluzione classica svolge un ottimo lavoro nell’aiutarci a comprendere il passato, ma non riesce a spiegare la forza trainante dell’evoluzione. Allo scopo occorre aggiungere l’osservatore all’equazione. Molti credono che, fino a tempi recenti, l’universo fosse un insieme senza vita di particelle che rimbalzavano l’una contro l’altra, che esistevano e interagivano tra loro senza di noi. L’universo viene presentato come un orologio che in qualche modo si è caricato da solo e che funzionerà in modo semiprevedibile. Ma siamo noi osservatori che creiamo la freccia del tempo (si veda il Capitolo 11). Come disse Stephen Hawking: «Non c’è modo di eliminare l’osservatore  –  cioè noi  –  dalla nostra percezione del mondo […] Nella teoria newtoniana si assume che il passato esista come serie

definita di eventi. […] La fisica quantistica ci dice che […] il passato […] come il futuro, è indefinito ed esiste soltanto come uno spettro di possibilità».5 Se siamo noi, l’osservatore, a far collassare queste possibilità (cioè il passato e il futuro), che cosa ne segue per la teoria evoluzionistica come viene descritta nei libri scolastici? Finché il presente non è determinato, come può esserci un passato? Il fatto è che l’universo non funziona meccanicamente come un orologio, indipendente da noi, e non ha mai funzionato così. Il passato inizia con l’osservatore, non viceversa. Il sito nirmukta.com chiede: «E tutte le prove fossili?». Ma i fossili, in realtà, non sono diversi dal resto della natura. Gli atomi di carbonio nel corpo, per esempio, sono «fossili» creati nel cuore di supernovae esplose tempo fa. La conclusione è che tutta la realtà fisica inizia e finisce con l’osservatore. Come disse Wheeler: «Noi partecipiamo alla realizzazione di certi aspetti dell’universo in un lontano passato». L’osservatore è la causa prima, la forza vitale che fa collassare non solo il presente, ma anche la cascata di eventi spaziotemporali passati che chiamiamo evoluzione. Domanda: Possiamo cambiare il mondo circostante con i «poteri mentali»? In risposta a un articolo pubblicato da uno degli autori (Lanza) su Humanist,6 il fisico Victor Stenger ha scritto: «Il mondo sarebbe un posto molto diverso per tutti noi se tutto esistesse solo nella nostra testa, se potessimo davvero creare la nostra realtà come credono i seguaci della New Age. Che il mondo raramente sia come lo desideriamo è la prova migliore del fatto che abbiamo poca voce in capitolo. Il mito della coscienza quantistica va relegato insieme agli dèi, agli unicorni e ai draghi tra i prodotti della fantasia di persone riluttanti ad accettare ciò che la scienza, la ragione e gli occhi dicono riguardo al mondo». Risposta: Il biocentrismo non sostiene in alcun modo che possiamo

semplicemente «creare la realtà» secondo i nostri desideri. Nell’intervista di Wired già menzionata in questa appendice, l’intervistatore chiede: «Ti aspetti che qualcuno legga il tuo articolo e pensi che secondo te ci si può sedere sulla cima di una montagna e meditare per cambiare il mondo grazie ai poteri mentali?». Lanza risponde: «Non possiamo decidere di saltare giù da un tetto e non farci male. Per quanto lo desideriamo, non possiamo violare le regole della logica spaziotemporale». Se andiamo al supermercato e compriamo una scatola di muesli o di fiocchi d’avena, non è che l’indomani troviamo in cucina una confezione di riso soffiato, per quanto ci possa fare piacere. Domanda: Interpretazione di Copenaghen o dei molti mondi? Un recensore, riferendosi a Biocentrismo (p. 68), ha scritto: Lei dice: «Se cercassimo qualche alternativa all’idea che la funzione d’onda di un corpo collassi solo perché qualcuno sta guardando, e aggirassimo così quel tipo di azione fantomatica a distanza, potremmo sposare la teoria concorrente a quella di Copenaghen, l’“interpretazione a molti mondi” (imm), secondo cui tutto quello che può accadere accade. […] Secondo tale visione, condivisa da alcuni teorici di oggi, come Stephen Hawking, il nostro universo non ammetterebbe nessuna sovrapposizione o contraddizione». Ma aggiunge: «Tutti gli esperimenti sull’entanglement fatti nei decenni passati confermano l’interpretazione di Copenaghen più di qualsiasi altro approccio. E tale visione, lo ripetiamo, supporta fortemente il biocentrismo». Quale punto di vista trova più convincente? E se uno o l’altro fosse effettivamente corretto, quali sarebbero le conseguenze per il biocentrismo? Risposta: Secondo il biocentrismo, l’interpretazione di Copenaghen è più o meno corretta, ma richiede importanti modifiche: I sistemi fisici non hanno proprietà definite prima di essere misurati e inoltre il collasso della funzione d’onda ha luogo

solo con misurazioni effettuate da un osservatore vivente, non da un oggetto inanimato come un apparecchio fotografico o un altro dispositivo che registra le informazioni (si veda la domanda successiva). Queste informazioni si trovano in una sovrapposizione finché non vengono osservate da una coscienza. La funzione d’onda che collassa non è una cosa «reale»: è una mera interpretazione statistica. La sovrapposizione non è una cosa «reale»: rappresenta una possibilità statistica. Anche l’idea generale di «molti mondi» e di «multiverso» è compatibile con il biocentrismo. Purtroppo, vanno modificati anche diversi elementi chiave dell’imm formale: La maggior parte delle versioni dell’interpretazione dei molti mondi include questa idea: le equazioni della fisica che modellano l’evoluzione temporale dei sistemi senza osservatori bastano anche per descrivere sistemi che contengono osservatori; in particolare, non esiste un collasso della funzione d’onda innescato esclusivamente dalle misure, del tipo proposto dall’interpretazione di Copenaghen. Naturalmente, secondo il biocentrismo, questo non è corretto. Tutte le storie e i futuri alternativi «possibili» sono effettivamente reali e ciascuno rappresenta un mondo/universo reale. Tuttavia è della massima importanza sottolineare che nessun mondo o universo può esistere a prescindere da un osservatore cosciente. La «funzione d’onda universale» di partenza non ha una realtà oggettiva: è semplicemente una descrizione statistica delle possibilità. Domanda: La decoerenza e il collasso della funzione d’onda richiedono un osservatore cosciente? «L’evoluzione non ha bisogno di un osservatore» afferma Steven Novella, professore associato di neurologia alla Yale, noto

soprattutto per i suoi post scettici. «Non c’è nulla del genere nel processo di evoluzione, e nessuna osservazione della natura che lo richieda. Bohr parla del collasso dell’onda di probabilità come fenomeno quantistico, che però non richiede un osservatore letterale, ma solo l’interazione con l’ambiente circostante […] l’universo può benissimo osservarsi da solo senza di noi». Risposta: Alcuni scienziati credono che per far collassare la funzione d’onda di una particella basti già l’incontro con un’altra, cioè che lo possa fare l’ambiente stesso. Ma altri, come noi, pensano che la decoerenza di uno stato quantistico probabilistico può essere causata soltanto da qualcosa di molto più macroscopico, cioè un osservatore vivente. Sappiamo che non tutte le misurazioni portano alla perdita della coerenza quantistica (ovvero al collasso della funzione d’onda). Nel regno subatomico, per esempio, le particelle elementari non subiscono la decoerenza quantistica, nonostante il fatto che interagiscano di continuo (in un certo senso misurando ciascuna lo stato dell’altra). Affinché la funzione d’onda collassi, il dispositivo che misura lo stato di un oggetto quantistico deve essere macroscopico. A lungo si è pensato che ciò spiegasse perché la fisica del mondo microscopico è così drasticamente diversa da quella degli eventi e degli oggetti che ci circondano nella vita di tutti i giorni. Perché si verifica il collasso, quando il dispositivo o l’oggetto che effettua l’osservazione è macroscopico? Queste dimensioni dell’oggetto implicano che non tutte le sue parti vengono osservate in contemporanea, e quindi le loro proprietà sono sconosciute. È noto che tale incompletezza causa la decoerenza e il collasso della funzione d’onda. Per esempio, se abbiamo due elettroni in uno stato correlato, misurare le proprietà di un solo elettrone senza avere informazioni sull’altro porterà a un’apparente decoerenza, una perdita della correlazione tra le due particelle. D’altra parte, se si ottengono informazioni sugli stati di entrambe le particelle correlate, gli esperimenti mostrano che viene ristabilita la correlazione tra le due. Se potessimo misurare contemporaneamente gli stati quantistici di

tutte le particelle dell’universo, non percepiremmo mai il mondo deterministico in cui viviamo, in cui ognuno è o vivo o morto, ma solo la sfocatura probabilistica della meccanica quantistica. Ma, naturalmente, per noi il mondo è deterministico, semplicemente a causa di come funzionano i sensi e il cervello. Per esempio, gli occhi non sono in grado di rilevare i raggi cosmici ad altissima energia, la radiazione cosmica di fondo a microonde o i minuscoli movimenti delle particelle subatomiche. I sensi sono limitati e il cervello non può elaborare tutti gli eventi che accadono simultaneamente nell’universo. In definitiva, poiché non siamo in grado di vedere e percepire l’universo completo, ci sembra che il suo stato abbia perduto la coerenza quantistica. Il nostro articolo «On Decoherence in Quantum Gravity»7 mostra chiaramente che, da sole, le proprietà intrinseche della gravità quantistica e della materia non possono spiegare l’enorme efficacia dell’emergere del tempo e dell’assenza di correlazione quantistica nel mondo quotidiano. La decoerenza quantistica gravitazionale è troppo inefficiente per garantire l’emergere della freccia del tempo e la transizione da quantistico a classico che avviene sulle scale di interesse fisico. Il nostro articolo sostiene che l’emergere della freccia del tempo sia direttamente correlato alla natura e alle proprietà dell’osservatore fisico; un osservatore «senza cervello» non percepisce il tempo e/o la decoerenza in nessuno dei suoi gradi di libertà. Discussione finale Nella primavera del 2007 uno degli autori (Lanza) espose per la prima volta il biocentrismo nel saggio «A New Theory of the Universe  –  Biocentrism Builds on Quantum Physics by Putting Life into the Equation», pubblicato su American Scholar. L’astrofisico e divulgatore scientifico David Lindley rispose con un articolo su usa Today:8 Sono in disaccordo con le opinioni [di Lanza] sulla fisica. Vuole sostenere che tutta la realtà fisica risiede nella nostra mente, ma

le sue interpretazioni della relatività e della meccanica quantistica sono fuorvianti. Innanzi tutto, afferma che Einstein ha reso lo spazio e il tempo dipendenti dall’osservatore e quindi soggettivi; di conseguenza, lo spazio e il tempo non esistono se non nella misura in cui li percepiamo. Non sono d’accordo. È vero che Einstein si è sbarazzato dei vecchi assoluti newtoniani e ha mostrato che le misurazioni dello spazio e del tempo non sono le stesse per tutti gli osservatori. Ma, e questo è di importanza cruciale, ha costruito un nuovo sistema spaziotemporale che mostra come si possono conciliare queste diverse misurazioni. Cioè, la relatività conserva un quadro fisico oggettivo chiamato spaziotempo, con una struttura geometrica specifica, ma consente agli osservatori di mappare lo spaziotempo in modi diversi. Lindley aggiunge: «Lanza parte con l’idea che sia necessaria la coscienza per “creare” la realtà. Questa opinione ha avuto alcuni sostenitori nel corso degli anni, ma è sempre stato un atteggiamento bizzarro che oggi non viene preso sul serio». Conclude dicendo: «Infine, non posso fare a meno di pensare che c’è un enorme sfoggio di vanità nei ragionamenti di Lanza: secondo lui, l’universo esiste soltanto perché siamo qui a osservarlo e a farne parte. Io sono all’estremo opposto. Penso che l’universo fosse una cosa fisica reale ben prima che apparissimo, e che noi esseri umani siamo solo briciole di materia organica attaccate sulla superficie di un minuscolo sasso. Cosmicamente, non siamo più significativi della muffa su una tenda da doccia». Risposta di Lanza: In tutto il suo articolo David Lindley travisa e semplifica eccessivamente la posizione biocentrica. Per esempio, secondo lui io sostengo che Einstein abbia reso lo spazio e il tempo soggettivi. Questo è semplicemente falso. Lo spaziotempo concepito da Einstein nella relatività ristretta è una realtà indipendente, con una propria esistenza e una propria struttura. È un «ingranaggio» che gira a prescindere dalla presenza o meno di un osservatore. È reale in ugual misura per un oggetto inanimato, come un pianeta o una stella, quanto per una creatura vivente come una marmotta o un

essere umano. La teoria di Einstein attribuisce una realtà oggettiva allo spaziotempo indipendentemente dalla presenza di eventi che accadano nella sua arena. Solo con il senno di poi ci rendiamo conto che Einstein ha semplicemente sostituito un’entità assoluta tridimensionale con una quadridimensionale. All’inizio dell’articolo sulla relatività generale, infatti, Einstein stesso citò questa preoccupazione circa la teoria della relatività ristretta. I fisici credono di poter basare le proprie ricerche sulla natura senza includere gli esseri viventi. Ma se davvero c’è un posto in cui la scienza può porre le sue fondamenta in modo sicuro, non è dove essi immaginano. I fisici, ovviamente, sono ossessionati dalla matematica e dalle equazioni, dai buchi neri e dai fotoni. Di conseguenza, non colgono molte cose appena fuori dalla loro visuale. Vivono in una nuvola che aleggia sul mondo. Tuttavia la farfalla e il lupo, le anatre e i cormorani che nuotano là nello stagno oltre le ninfee e le tife… tutto ciò è una parte importante della risposta. In ambito scientifico molti devono ancora imparare che l’universo non si può scindere dalla vita presente all’interno delle sue mura. Lindley cita anche la riga del mio saggio secondo cui «la cucina scompare quando siamo in bagno», rispondendo: «Com’è possibile? Bisogna davvero immaginare che la cucina se ne vada quando non ci siamo dentro, e che ricompaia nella stessa identica forma quando torniamo?». Naturalmente la funzione d’onda della cucina collassa quando la osserviamo per la prima volta e conserviamo nella memoria una traccia di questo collasso. Infine, Lindley afferma: «Lanza parte con l’idea che sia necessaria la coscienza per “creare” la realtà […] è sempre stato un atteggiamento bizzarro che oggi non viene preso sul serio». Forse non da Lindley, ma sicuramente è preso sul serio da molti. Persino Werner Heisenberg, premio Nobel e fondatore della meccanica quantistica, affermò: «La scienza odierna, più che la precedente, è stata imposta dalla natura, e l’antico problema della possibilità di afferrare la realtà mediante il pensiero deve esser posto di nuovo e risolto in maniera alquanto differente».9 Eugene Wigner, un altro

grande fisico del Novecento, ha addirittura affermato che non è «possibile formulare le leggi [della fisica] in maniera del tutto coerente senza far riferimento alla coscienza [dell’osservatore]». Se vogliamo esempi più recenti, ripensiamo allo stimolante esperimento del 2007, pubblicato su Science (si veda il Capitolo 7).10 Questo esperimento fondamentale ha mostrato che una scelta fatta ora può avere effetti retroattivi, cioè influenzare un evento che si era già verificato nel passato. Questo e altri esperimenti mostrano chiaramente che lo spazio e il tempo sono relativi all’osservatore. Anche altri esperimenti continuano a dimostrare che le proprietà stesse della materia sono determinate dall’osservatore. In questi esperimenti una particella, se la guardiamo, passa attraverso una fenditura, mentre se non la guardiamo attraversa più fenditure in contemporanea. La scienza finora non ha offerto alcuna spiegazione su come il mondo possa essere così. La teoria che sto proponendo, secondo cui la vita e la realtà sono centrate sulla coscienza, è la prima a offrire una descrizione scientifica convincente. Dobbiamo tenere conto di tutti gli esperimenti che sono stati svolti. Non possiamo continuare a dire solo: «Perbacco, che stranezza» e poi rimettere la testa ben piantata nella sabbia. L’obiettivo della scienza è spiegare il mondo che ci circonda. Eppure, nonostante tutte le indicazioni sperimentali, gli scienziati continuano a considerare l’osservatore come qualcosa di scomodo e gli effetti legati a esso come una stranezza che intralcia le loro teorie. La nostra teoria attribuisce la risposta all’osservatore, alla creatura biologica, piuttosto che alla materia. E grazie a ciò, per la prima volta, tutte le bizzarre scoperte della relatività e della teoria dei quanti acquistano un senso. Da oltre un secolo le autorità della fisica consolidata non sono riuscite a eliminare le incoerenze nei fondamenti della scienza. È tempo di aprire la discussione sulla natura dell’universo, non solo all’intera comunità scientifica, ma a tutta la società. È tempo di un ripensamento.



Appendice 1 Aaron Rowe, «Will Biology Solve the Universe?», in Wired, 8 marzo 2007. 2  Eugene Wigner, «Remarks on the Mind-Body Question», riprodotto in John Archibald Wheeler e Wojciech Hubert Zurek (a c. di),  Quantum Theory and Measurement, Princeton University Press, Princeton 1983, p. 169. [N.d.T.] 3 Cioè fotoni. [N.d.T.] 4 Isaac Newton, Scritti di ottica, a c. di Alberto Pala, utet, Torino 1978, p. 394. [N.d.T.] 5  Stephen Hawking e Leonard Mlodinow,  Il grande disegno, trad. it. di Tullio Cannillo, Mondadori, Milano 2011, pp. 42 e 78. [N.d.T.] 6 In «The Wise Silence», novembre/dicembre 1992. 7  Dmitriy Podolskiy e Robert Lanza, «On decoherence in quantum gravity», in Annalen der Physik, vol. 528, n. 9. [N.d.T.] 8 «Exclusive: Response to Robert Lanza’s Essay», in usa Today, 8 marzo 2007. 9  Werner Heisenberg,  Mutamenti nelle basi della scienza, trad. it. di Adolfo Verson, Boringhieri, Torino 1978, p. 55. [N.d.T.] 10  Jacques  et al., «Experimental Realization of Wheeler’s Delayed-Choice Gedanken Experiment», in Science 315, 2007, pp. 966-968.

Ringraziamenti

Gli autori desiderano ringraziare l’editore Glenn Yeffeth, nonché Alexa Stevenson e Pate Steele per l’eccellente assistenza editoriale. Vorremmo anche ringraziare Jacqueline Rogers per le illustrazioni in tutto il libro e Dmitriy Podolskiy per l’aiuto sui Capitoli 11 e 14. Varie parti del materiale in questo libro erano già apparse in Huffington Post, Omni, Discover e Psychology.

Letture di approfondimento*

Robert Lanza, con Bob Berman, Biocentrismo, trad. it. di Valentina Schettini, il Saggiatore, Milano 2015 [Introduzione]. —, Oltre il biocentrismo, trad. it. di Chiara Roglieri, il Saggiatore, Milano 2016 [Introduzione]. Matej Pavšič, The Landscape of Theoretical Physics: A Global View, Kluwer Academic, New York 2001 [2, 7, 10]. Hugh Everett III, «The Theory of the Universal Wave Function», in The Many Worlds Interpretation of Quantum Mechanics, B.S. DeWitt e N. Graham (a c. di), Princeton University Press, Princeton 1973 [2, 8, 10, 12]. Myron Tribus, Edward C. McIrvine, «Energy and Information», in Scientific American, vol. 224, pp.  179-88; ed. italiana, «Energia e informazione», in Le Scienze, vol. 40, dicembre 1971, pp.  142 e sgg. [4]. Henry Stapp, «Quantum Approaches to Consciousness», in The Cambridge Handbook of Consciousness, P.D. Zelazo (a c. di), Cambridge University Press, Cambridge 2007 [7]. Douglas R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: Un’Eterna Ghirlanda Brillante, trad. it. di Giuseppe Trautteur et al., Adelphi, Milano 1979 [7]. Hervé Zwirn, «The Measurement Problem: Decoherence and Convivial Solipsism», in Foundations of Physics, vol. 46, 2016, pp. 635-667 [7]. Benjamin Libet, «Time of Conscious Intention to Act in Relation to Onset of Cerebral Activity (Readiness-Potential)», in Brain, vol. 106, pp. 623-642, 1983 [8]. David Deutsch, «Quantum Mechanics Near Closed Timelike Lines», in Physical Review D, vol. 44, 1991, pp. 3197-3217 [8, 12].

Max Tegmark, «The Multiverse Hierarchy», in Universe or Multiverse?, B. Carr (a c. di), Cambridge University Press, Cambridge 2007 [10]. Richard P.  Feynman, «Mathematical Formulation of the Quantum Theory of Electromagnetic Interaction», in Physical Review, vol. 80, 1950, pp. 440-457 [11]. Ernst C.G. Stueckelberg, «La signification du temps propre en mécanique ondulatoire», in Helvetica Physica Acta, vol. 14, 1941, pp. 322-323 [11, 12]. Silvan S. Schweber, «Feynman and the visualization of spacetime process», in Reviews of Modern Physics, vol. 58, 1986, pp.  449505 [11, 12]. Lawrence P. Horwitz, Fritz Rohrlich, «Constraint relativistic quantum dynamics», in Physical Review D, vol. 24, 1981, pp. 1528-1542 [11, 12]. John R. Fanchi, Parametrized Relativistic Quantum Theory, Kluwer Academic, Dordrecht 1993 [11, 12]. E.A.B. Cole, «Particle Decay in Six-Dimensional Relativity», in Journal of Physics A, vol. 13, 1980, pp. 109-115 [11, 12]. Matej Pavšič, «On the Quantization of Gravity by Embedding Spacetime in a Higher Dimensional Space», in Classical and Quantum Gravity, vol. 2, 1985, pp. 869-889 [12, 15]. * I numeri tra parentesi quadre indicano i capitoli di questo libro a cui si riferisce il testo citato.