Il desiderio che ama il lutto 9788874628834, 9788874629688

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Il desiderio che ama il lutto
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Campi della psiche

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Sarantis Thanopulos

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Il desiderio che ama il lutto

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Prima edizione: ottobre 2016 © 2016 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di pde Promozione srl presso lo stabilimento di Legodigit srl - Lavis (tn) ISBN 978-88-7462-883-4 | e-ISBN 978-88-7462-968-8

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Indice

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Nota introduttiva. Encomio della differenza

17 1. Il desiderio e il suo oggetto oltre la definizione di Freud 37 2. L’identificazione isterica 61 3. Il desiderio che ama il lutto

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Nota introduttiva Encomio della differenza

In Pulsioni e loro destini1 Freud ha definito la pulsione come misura del lavoro che la psiche deve compiere in funzione della sua connessione con il corpo. Ne L’interpretazione dei sogni2, quindici anni prima, aveva definito il desiderio come movimento esclusivamente psichico3. Seppure non lo abbia mai esplicitato, è piuttosto evidente che nella sua prospettiva il desiderio fosse il movimento che la pulsione imprime alla psiche: esso darebbe la misura della forza propulsiva della pulsione, sotto l’effetto della quale la psiche compie il suo lavoro. Pur avendo strettamente associato il desiderio alla pulsione, Freud ha optato per la loro dissociazione sul piano della loro soddisfazione. La soddisfazione del desiderio avverrebbe sul piano della rappresentazione. La soddisfazione della pulsione avverrebbe, invece, sul piano della soddisfazione del bisogno materiale: sarebbe la cessazione di una tensione corporea. Per quanto Freud abbia avuto intuizioni più complesse, orientate in tutt’altra direzione, questo schema è rimasto saldamente al centro del suo pensiero. Si vedrà, in seguito, cosa ha spinto Freud su questa strada. Resta il fatto che nel definire il desiderio l’ha separato nettamente dalla sua com1 S. Freud, Pulsioni e loro destini (1915), in Id., Opere di Sigmund Freud, 12 voll., Bollati Boringhieri, Torino 1966-1980: vol. VIII, Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti: 1915-1917, 1976. 2 S. Freud, L’interpretazione dei sogni (1900), in Id., Opere di Sigmund Freud, cit.: vol. III, 1899. L’interpretazione dei sogni, 1971. 3 Totalmente inscritto nello spazio della rappresentazione di sé e del mondo in termini di idee e di affetto.

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il desiderio che ama il lutto

ponente corporea: a) il godimento, la natura sensuale, erotica della sua soddisfazione anche nelle forme più sublimate; b) il movimento, gesto del corpo che accompagna il movimento psichico verso il godimento. Lacan ha disincarnato ulteriormente il desiderio. Definendolo come metonimia della «mancanza a essere», condannandolo a un passaggio infinito da un oggetto a un altro, l’ha collocato in una maniacalità perpetua dell’esistenza, che rifugge il lutto. Posizionando il godimento nel registro dell’animalità, del non umano, ha messo il desiderio al servizio di una ricerca affannata e affamata di un residuo di vitalità, di esperienza carnale4. Si può andare oltre Freud e Lacan, per riassegnare pienamente al desiderio il suo legame insolubile con il godimento e l’esperienza dei sensi. Il godimento non è ingordigia animalesca, volontà irrefrenabile di un piacere illimitato: può essere realizzato solo all’interno di un limite temporale (associato a ritmo, intensità, profondità, persistenza), nel rispetto della cosa goduta (che si tratti della persona desiderata, di un libro, di un brano musicale o di un piatto di pasta) e attraverso un attento «assaporare» che lo lascia sempre un po’ insaturo. Non deve necessariamente sfociare in un orgasmo, ma non può esserne dissociato. Il desiderio è sensuale. La sua sensualità sorregge l’immaginazione, il simbolo e la scena onirica. È un derivato diretto della pulsione, che non dobbiamo interpretare come spinta corporea alla scarica, istinto che aspira all’eliminazione della tensione e al ristabilirsi di un equilibrio omeostatico (meccanismo che è tipico del bisogno fisico). La pulsione erotica (fondamento dell’esistenza) mira al piacere dei sensi, cerca la persistenza gradevole della tensione che implica destabilizzazione e trasformazione della struttura psicocorporea, e tuttavia la pulsione in se stessa ignora l’alterità, perché ignora la differenza. Dove il soggetto spinto dalla pulsione incontra la differenza nasce il 4

Il cosiddetto oggetto piccolo a.

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nota introduttiva. encomio della differenza

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desiderio. Il desiderio cerca la differenza, vive nella differenza. La differenza, peraltro, non esiste senza il desiderio. Il piacere dei sensi è fondato sull’incontro con un altro corpo, in principio il corpo materno, oggetto diretto della soddisfazione della pulsione erotica. È tanto più intenso, profondo e persistente quanto più è lavorato dalla differenza dei corpi – la differenza della loro costituzione e della declinazione soggettiva delle loro esperienze – che si incontrano: l’avvicinamento, la sottrazione, l’imprevisto, l’improvvisazione, la sorpresa, la scoperta. Anche quando il piacere è sublimato in un’esperienza culturale lontana dalla contiguità carnale, la differenza è una condizione determinante. L’esperienza culturale, che è tale solo se resta sensuale, immette il soggetto in una sequenza di rapporti con modalità di esistenza eterogenee all’idioma del suo modo di essere e solo in questa maniera diventa godibile. In definitiva la sublimazione è l’ampliamento all’infinito delle possibilità di differenza tra due corpi erotici, e, anche quando è tanto lontana dalla loro congiunzione da sostituirla del tutto, ad essa sempre rimanda ed essa sempre evoca. La struttura del godimento è omogenea a quella del desiderio di cui rappresenta il compimento. Il desiderio è tensione psicocorporea verso il piacere dei sensi, insieme penosa e gradevole, che nell’anticipare in se stessa il godimento verso cui si indirizza, si lega a un’altra tensione, fatta della stessa «materia» ma diversamente declinata, presente nell’oggetto desiderato. Questo legarsi, che unisce prossimità e allontanamento, perdita di contatto e ritrovamento, annodamento e scioglimento, tensione e distensione, produce una reciprocità di coinvolgimento intenso e spinge la differenza nella complementarità. Dove il reciproco coinvolgimento raggiunge il più alto grado della sua intensità, il godimento diventa spontaneo5. 5 La congiunzione finale tra il massimo della tensione e il massimo della distensione raggiunge la forma più drammatica nell’incontro sessuale (dove più forti sono il piacere dei sensi e la reciprocità del coinvolgimento) e sfocia nell’orgasmo. L’incontro con l’altra tensione è presente nell’esperienza sublimata, perché l’oggetto culturale, pur non essendo dotato di corpo erotico, se non è dotato di una carica, tensione ero-

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il desiderio che ama il lutto

La differenza delle soggettività è un dato di partenza: se gli esseri umani sono omogenei sul piano della materia psicocorporea di cui sono fatti, sono eterogenei nel modo in cui essa prende forma, si esprime e diventa un modo di essere. Questo modo è tanto più particolare, originale nella sua differenza, quanto più si dispiega in libertà. Il desiderio cerca la differenza perché: a) è un coinvolgimento psicocorporeo profondo teso verso un contatto sensuale con il suo oggetto; b) l’oggetto può generare sensualità solo allo stato di un proprio coinvolgimento e tanto più perde questa sua capacità quanto meno è coinvolto; c) il coinvolgimento dell’oggetto non è possibile che nel dispiegamento libero della propria soggettività. Non si può avere un coinvolgimento in assenza di un altro coinvolgimento: desiderio, libertà e differenza sono indissociabili. La differenza è volta necessariamente alla relazione. Costituisce l’altro come oggetto potenziale, sessuale o sublimato, del proprio desiderio. Nel suo campo l’altro non è ἄλλος, esistente in modo generico ed estraneo al soggetto. È ἕτερος, l’altro che fa coppia con il soggetto, che lo completa. Ἕτερος indica l’altra metà in termini di opposizione (di due metà che combaciano): l’essere umano diviso dall’altro, mancante dell’altro, che è stato in origine concepito come parte di sé, è sempre alla ricerca del suo oggetto/soggetto complementare. Attraverso la differenza, la divisione si fa desiderio di ricongiungimento delle due parti separate6. tica – un coinvolgimento intenso con il piacere del vivere (anche quando mette in scena la sofferenza o il pessimismo) –, non produce nessun godimento. La tensione erotica presente nell’oggetto culturale mette il soggetto desiderante a contatto non con una singola soggettività, ma con un contesto di soggettività allargata (gruppale, collettiva), dandogli accesso più ampio allo spazio di potenzialità dell’esperienza soggettiva. Se nell’esperienza sessuale la trasformazione della materia psicocorporea è più intensa e drammatica, nell’esperienza culturale essa è più profonda e significativa, perché l’ampliamento del gioco delle differenze che la sublimazione del piacere consente (portandolo oltre la pura sensorialità) aumenta l’apertura del soggetto al mondo. Né l’esperienza sessuale né l’esperienza culturale, tuttavia, riescono a tenersi in piedi l’una in assenza dell’altra. 6 Come accadde con gli esseri umani originariamente sferici del mito che Aristofane racconta nel dialogo di Platone, il Simposio. Androgini, con due teste, quattro

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nota introduttiva. encomio della differenza

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Il combaciare di due metà separate, il loro συμβάλλειν, è anche all’origine del simbolo (σύμβολον). In greco antico il termine σύμβολον designava la metà di una tessera di terracotta (o di un anello) che, fatta combaciare con l’altra metà, serviva come mezzo di riconoscimento. Le due parti – divise tra due soggetti, due famiglie o due città – servivano come conferma, riscontro di un patto o di un’alleanza a distanza di tempo. Ognuna delle due metà rappresentava metaforicamente una delle parti contraenti il legame e il loro combaciare rappresentava il legame stesso. Per estensione ognuno dei pezzi combacianti rappresentava il pezzo mancante, manteneva vivo, nella memoria di ognuno dei contraenti, il contraente assente. La simbolizzazione, fin dal principio al servizio del desiderio, ha la sua origine nell’incontro tra differenze opposte e complementari che ha luogo nel rapporto primario tra il bambino e la madre. La sublimazione del desiderio, che diparte dal combaciare degli amanti, segue le strade della rappresentazione simbolico-metaforica. Attraverso queste strade si connettono tra di loro modalità sempre più sottili e complesse di soddisfazione sensoriale, si moltiplicano e si diversificano i legami erotici, affettivi e mentali con le persone e le cose, e si espandono infinitamente le possibilità di incontro tra le differenze desideranti. La libertà dell’oggetto desiderato, la qualità che lo rende desiderabile, implica anche la possibilità di respingere il soggetto desiderante. L’oggetto desiderato che si oppone al desiderio che gli è rivolto può ugualmente essere una persona in carne e ossa o un oggetto di piacere sensoriale, estetico, artistico, intellettuale che si dimostra particolarmente ostico al tentativo di appropriarsene. La libertà dell’oggetto desiderato crea, all’interno della relazione mani, quattro braccia, quattro gambe, due genitali, sono stati tagliati a metà da Zeus per punirli per la loro arroganza. Sarebbero morti per deperimento se Zeus non avesse spostato i loro genitali dalla parte posteriore (esterna al combaciarsi dei corpi) alla parte anteriore (interna). Nacque in questo modo l’Eros. È singolare l’analogia con l’originaria unità madre-figlio (nella percezione di quest’ultimo) e la loro successiva separazione-opposizione come soggettività reciprocamente desiderate.

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il desiderio che ama il lutto

del soggetto con l’ἕτερος, una seconda opposizione: aggiunge alla relazione con l’oggetto complementare quella con l’ἐχθρός, il nemico del proprio desiderio. Questa seconda opposizione estende la libertà dell’ἕτερος senza farlo diventare ἄλλος, un estraneo indifferente. Lo mette nella condizione di non essere indifferente al desiderio rivoltogli e di poter accoglierlo o respingerlo. Quando il rapporto tra differenze7 perde la sua apertura all’ulteriorità perpetua della differenziazione – l’apertura permanente degli opposti al «terzo», colui che rende possibile lo sciogliersi e il riannodarsi, da un’altra parte o in un’altra forma, del loro accoppiamento –, la differenza dell’uno tende necessariamente a ferire la differenza dell’altro e viceversa. Il risultato finale è l’indifferenza. Dove lo scambio non è possibile, perché la differenza ha perso la libertà del suo dispiegamento e la capacità di accoppiarsi con l’altra differenza, in termini di φιλία (amicizia) o di ἔχθρα (inimicizia), l’altro diventa straniero al nostro desiderio, ἄλλος inaccessibile al nostro sentimento e, di fatto, inconoscibile. Si può solo ignorarlo, come se non esistesse, o entrare in contatto casuale con lui in termini di conflitto preterintenzionale: pestarsi i piedi o scontrarsi in un incrocio. Più il conflitto è preterintenzionale, più prescinde dalla presenza consapevole, attenta e intenzionale all’interno di una relazione, più può diventare catastrofico. Ciò che rende più dannose le azioni intenzionalmente distruttive è la loro componente, non riconosciuta, di preterintenzionalità. Nel campo dell’indifferenza affettiva, in cui l’ἕτερος, l’altro complementare, diventa ἄλλος, l’altro ignorato, estraneo, il corrispettivo dell’ἐχθρός, nemico del proprio desiderio, è il πολέμιος, l’avversario preterintenzionale, presente in modo casuale, non desiderato ed esistente (quando esiste) in modo generico. Il conflitto con il πολέμιος scarica le tensioni in modo indifferente, privo di desiderio: ci si annienta senza un vero odio. È potenzialmente il più distruttivo e il più irreparabile dei conflitti. 7

L’unica forma di relazione umana possibile.

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nota introduttiva. encomio della differenza

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L’indifferenza affettiva sfocia nell’indifferenziazione: l’eclissi del desiderio appiattisce la vita sul bisogno materiale. Il rapporto con il mondo diventa una sequenza di tensione/scarica della tensione. L’altro non si congiunge al soggetto come accade nella relazione del desiderio: si aggiunge ad esso come protesi, strumento puro di appagamento del suo bisogno. Il coinvolgimento psicocorporeo, la tensione verso l’altro desiderato, è sostituito dall’inerzia psichica, dal funzionamento della psiche sul piano della sola stabilità, dal suo costante ripiegamento su se stessa. I vissuti del soggetto diventano impersonali: si annulla il nesso tra il particolare e l’universale, che crea l’esperienza soggettiva come sperimentazione, potenzialità, e si vive sul piano di parametri puramente universali, uniformanti. Non è «nuda vita», la vita psicocorporea che fluisce spontaneamente, estranea a ogni forma di socialità, ma «cruda vita»: corpo vivo in presenza di una morte psichica. Ci sono due forme di morte. La prima è la morte come perdita di persone care, desiderate, o di oggetti ad esse connessi, che crea o rinnova un senso di mancanza e apre la strada al lutto. La seconda è la morte che colpisce la psiche, mentre si continua ad essere fisicamente vivi. Non è direttamente esperibile perché taglia fuori la possibilità di un’esperienza soggettiva. È la fibrosi che prende il posto del tessuto vivo della nostra soggettività, che cura impropriamente le sue ferite sostituendosi al lutto e rendendolo impossibile. Odora di morte e ha bisogno di artifizi eccitatori per creare una vitalità in superficie che nasconde l’inerzia sottostante. L’obiettivo di questo libro è di restituire al legame tra il desiderio e il lutto la sua centralità nella costituzione di una vera esperienza di vita, aperta alla scoperta e capace di trarre piacere dall’inquietudine che implica il suo spostamento dal proprio centro di gravità.

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1. Il desiderio e il suo oggetto oltre la definizione di Freud

Ne L’interpretazione dei sogni Freud definisce il desiderio come moto psichico che sotto la pressione di un bisogno fisico (la fame, nell’esempio da lui scelto) insegue la riproduzione dell’immagine mnestica di un precedente appagamento di questo bisogno1. Nella concezione di Freud il desiderio è totalmente inscritto nello spazio psichico e realizza la sua soddisfazione con l’immagine dell’appagamento fisico e non con l’appagamento in se stesso. Aspira, in altre parole, all’identità di percezione (la riproduzione perfetta di una percezione) e non a una concreta sensazione piacevole. La concezione del desiderio da parte di Freud pone, di fatto, una questione: come potrebbe tenersi in piedi la riproduzione dell’immagine/percezione dell’appagamento di un bisogno, se mancasse il sollievo fisico che rappresenta il suo elemento centrale? Freud fa un’ipotesi: l’origine della soddisfazione del desiderio sta nella capacità del lattante di rappresentarsi 1 «Il bambino affamato, senza aiuto, griderà o si agiterà. […] Può esserci un cambiamento quando, in un modo qualsiasi, nel bambino, per aiuto di altre persone, si effettua l’esperienza di soddisfacimento, che sospende lo stimolo interno. Componente essenziale di quest’esperienza vissuta è la comparsa di una determinata percezione (l’alimento, nell’esempio dato), la cui immagine mnestica rimane d’ora in poi associata alla traccia mnestica dell’eccitamento di bisogno. Appena questo bisogno ricompare una seconda volta, si avrà, grazie al collegamento stabilito, un moto psichico che intende reinvestire l’immagine mnestica corrispondente a quella percezione, e riprovocare la percezione stessa; intende dunque, in fondo, ricostruire la situazione del primo soddisfacimento. È un moto di questo tipo che chiamiamo desiderio; la ricomparsa della percezione è l’appagamento del desiderio e l’investimento pieno della percezione, a partire dall’eccitamento di bisogno, è la via più breve verso l’appagamento del desiderio», S. Freud, L’interpretazione dei sogni, cit., pp. 515-516; i corsivi sono miei.

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il desiderio che ama il lutto

allucinatoriamente gli elementi percettivi che corrispondono all’appagamento reale del bisogno, quando esso non è ancora arrivato. Egli non ignora che un ritardo prolungato della realizzazione effettiva dell’appagamento fisico (coincidente con la cessazione della tensione corporea) farebbe crollare l’identità di percezione ottenuta in modo allucinatorio e con essa la soddisfazione, puramente psichica, del desiderio. Intuisce, nondimeno, il legame esistente tra l’esordio del desiderio e un funzionamento psichico onnipotente. Nella sua forma matriciale, il desiderio sarebbe la forza motrice di una psiche che sotto la pressione del bisogno fisico evoca autonomamente la scena dell’appagamento percependola come esperienza reale. Il funzionamento onnipotente è reso possibile dalle cure materne: esse, con la loro continuità e puntualità, fanno seguire prontamente l’appagamento reale del bisogno alla sua riproduzione allucinatoria che soddisfa il desiderio. In tal modo, impediscono che il protrarsi della tensione collegata al bisogno metta in crisi l’illusione del bambino di poter riprodurre l’appagamento a suo piacimento. Ciò che interessa a Freud è la definizione del desiderio nella sua forma pura, che ignora le condizioni corporee e quelle esterne della sua soddisfazione. Nella prospettiva da lui seguita, il desiderio sorgente mette in movimento una psiche che nella sua forma iniziale, destinata a diventare il suo nucleo centrale, funziona in modo autoreferenziale, avendo come suo scopo principale la propria stabilità e coesione. La concezione di Freud trova conferma nel fatto che l’essere umano nel caso di un conflitto drammatico tra il suo interesse materiale e il suo equilibrio psichico, sceglie puntualmente il secondo. Sono, del resto, innumerevoli le situazioni nelle quali gli interessi a lungo termine – quelli materiali ma anche quelli psichici evoluti che non si costituiscono in modo autoreferenziale – vengono trascurati a favore di bisogni psichici immediati2. 2 Ciò ha un peso importante in periodi di crisi sociale quando la ricerca immediata della stabilità psichica, che è sotto minaccia, conduce con costanza preoccupante a soluzioni difensive, che limitano il piacere del vivere.

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1. il desiderio e il suo oggetto oltre la definizione di freud

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Freud descrive una psiche desiderante che nel suo suo nucleo centrale rifugge l’adattamento alle circostanze del mondo esterno, ricorrendo alla loro riproduzione autoreferenziale (in origine allucinatoria). Al tempo stesso, le assegna una natura conservativa perché non la connette con il piacere dei sensi e con il godimento, ma con la sensazione di sollievo che segue alla scarica di una tensione. Uno psichismo non adattativo è la condizione necessaria di una vita autentica e creativa3. Tuttavia, se la sua unica aspirazione fosse l’eliminazione della tensione che deriva dal proprio rapporto con il corpo, tenderebbe paradossalmente di più all’adattamento, alla ricerca delle condizioni esterne più sicure, quelle più prevedibili e di conseguenza meno dinamiche e passibili di evoluzione, trasformazione. Nella definizione del desiderio così come la propone ne L’interpretazione dei sogni, Freud non fa riferimento alla sessualità. Chiarirà successivamente, in Tre saggi sulla teoria sessuale4, che nell’appagamento ottenuto con la nutrizione è presente, accanto al piacere derivato dal sollievo che la cessazione dello stimolo della fame produce, una gratificazione sensuale, erotica, derivante dallo sfregamento tra la mucosa orale del bambino e il seno della madre. Tuttavia, a suo modo di vedere, il piacere erotico sarebbe subordinato inizialmente alla soddisfazione del bisogno fisico e diventerebbe autonomo solo in un secondo momento, quando la ricerca del piacere sensuale si separa dal bisogno di cibo. La sessualità nascerebbe dunque come costola del bisogno, per appoggio. Questa sovradeterminazione iniziale del piacere erotico da parte del piacere derivato dall’appagamento del bisogno, istituisce, di fatto, una gerarchia che dà la precedenza al piacere prodotto indirettamente dall’eliminazione di una sensazione sgradevole rispetto al piacere derivato da una sensazione gradevole in sé. L’apparato psichico come è 3

Che è dotata di una propria spinta propulsiva. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), in Id., Opere di Sigmund Freud cit.: vol. IV, Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti 1900-1905, 1973. 4

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il desiderio che ama il lutto

concepito da Freud, a partire da queste premesse, è statico: tende al costante recupero del suo stato iniziale. Un apparato simile, che è guidato dalla necessità di neutralizzazione degli stimoli sgradevoli che provengono dal corpo e dal mondo esterno, tende a centrarsi sulla prevedibilità dell’esperienza. Non esplora la vita, non ha carattere creativo. La frustrazione dei suoi bisogni fisici destabilizza lo psichismo del bambino e lo allontana dall’investimento del piacere sensuale, ma questo non è lo stato fisiologico del lattante: la costanza e la puntualità delle cure materne evitano una simile prospettiva. Se la madre funziona in modo appropriato, il lattante ignora il significato delle condizioni materiali della sua esistenza (che conoscerà più tardi con l’accettazione graduale del principio di realtà) e centra la sua posizione nel mondo nella sensualità della vita, ciò che gli fa sentire di esistere veramente. Il lattante non cerca il seno materno per conservarsi in vita, ma per mettere in movimento la vita che lo abita. La sensazione di fame lo mobilita, ma il sollievo che il riempimento del suo stomaco gli dà è vissuto come inganno, truffa se non è accompagnato da un autentico godimento dei suoi sensi (Winnicott)5. La spinta del bisogno fisico e la ricerca del godimento sensuale coesistono, ma è la seconda a essere centrale nella determinazione del desiderio. Freud ci ha offerto una descrizione esemplare dell’apparato psichico visto in termini di stabilità e fondato sul principio di costanza (la tendenza a ripristinare lo stato basale di un minimo necessario di investimento psichico e di tensione). Il suo modello dà perfettamente conto delle strategie difensive dell’essere umano, ma è in evidente difficoltà nel render ragione della sua apertura al mondo. Pesano sulla visuale freudiana dell’uomo la sua concezione del piacere come pura e semplice diminuzione della tensione e l’esclusione del corpo nella definizione del desiderio. Ne Il problema economico del masochi5 D.W. Winnicott, La posizione depressiva nello sviluppo emozionale normale (1954), in Id., Dalla pediatria alla psicoanalisi, G. Martinelli Editore, Firenze 1975.

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1. il desiderio e il suo oggetto oltre la definizione di freud

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smo Freud associa il piacere non più a un fattore quantitativo ma necessariamente a un fattore qualitativo: forse, dice, il ritmo: «la sequenza temporale dei cambiamenti, degli aumenti e delle diminuzioni della quantità dello stimolo»6. Purtroppo, pur riproponendola in Compendio di psicoanalisi7 (la summa finale del suo pensiero), egli non assumerà mai pienamente questa sua profonda intuizione. Nella sua insorgenza, il desiderio vale come richiamo di una scena che è la sede di un piacere composito: sollievo fisico e godimento dei sensi. L’esperienza del sollievo fisico e della successiva fase di assopimento della tensione ha un’importante funzione di stabilizzazione psichica: il suo investimento protegge l’apparato psichico da turbolenze e infrazioni eccessive8. Tuttavia il movimento psichico, che più propriamente andrebbe definito come desiderio, tende al piacere associato alla permanenza piuttosto che alla cessazione della tensione, va dunque verso la stimolazione piacevole dei sensi. Se è vero che il neonato (aiutato dalle cure materne) tende a prolungare lo stato della vita intrauterina, investendo prevalentemente sulla cessazione degli stimoli, è altrettanto vero che esiste fin dall’inizio un movimento nella direzione opposta, orientato verso le stimolazioni sensoriali gradevoli di ogni tipo, che prende ben presto il sopravvento. Questo movimento immerge l’esistenza del bambino in una «danza» ritmica, creativa, che combina tensione e rilassamento, conferendo un anda6 S. Freud, Il problema economico del masochismo (1923), in Id., Opere di Sigmund Freud, cit.: vol. X, 1924-1929. Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti, 1978, p. 6. 7 S. Freud, Compendio di psicoanalisi (1938), in Id., Opere di Sigmund Freud, cit.: vol. XI, L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti 1930-1938, 1979. 8 «[…] soltanto dopo che l’investimento libero fosse stato convenientemente legato, il principio di piacere (e quella sua modificazione che è il principio di realtà) potrebbe esplicare indisturbato il suo dominio. Fino a quel momento prevarrebbe invece l’altro compito dell’apparato psichico, il compito di domare o legare l’eccitamento, non diremo in contrasto col principio di piacere, ma indipendentemente da esso è in una certa misura senza tenerne conto», S. Freud, Al di là del principio di piacere (1921), in Id., Opere di Sigmund Freud, cit.: vol. IX, 1917-1923. L’io e l’es e altri scritti, 1977, p. 221.

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il desiderio che ama il lutto

mento ondulatorio prolungato all’eccitazione, e producendo un coinvolgimento profondo di tutta la sua struttura psicocorporea. Il piacere non è la scarica di una tensione crescente che è al limite della sua trasformazione in dispiacere, ma è il prolungamento piacevole della tensione che dà origine a un godimento molto più complesso del puro sollievo9. Qui l’esperienza sensoriale di tipo erotico assume un ruolo di guida, egemonico, per due motivi: a) Comporta un coinvolgimento corporeo, e di conseguenza anche psichico, più intenso e profondo. b) Avviene nel punto dell’incontro più sentito con un altro corpo (quello della madre), mettendo il bambino in contatto intenso con qualcosa che è fatto della sua stessa «materia». Questa altra parte di sé (come il bambino concepisce inizialmente il corpo materno, perché non è in grado di riconoscere la sua alterità) consente al soggetto di estendere, inconsapevolmente, al di là dei propri confini l’area della sua esperienza psicocorporea. Il secondo punto è di grandissima importanza: il bambino nella fase iniziale della vita, quando non concepisce ancora l’alterità della madre (pur percependola vagamente) e si muove sotto l’effetto esclusivo della spinta pulsionale, porta nel suo corpo l’impronta del corpo materno, pre-iscrizione di una relazione che non è ancora riconosciuta e assunta soggettivamente. Questa impronta, espressione di un contatto in movimento, è il centro di gravità dell’esperienza psicocorporea del bambino. Qui, a mio avviso, trova la sua applicazione più appropriata la nota affermazione di Freud: «L’Io è un’entità corporea, non è soltanto un’entità superficiale ma anche la proiezione di una superficie»10. 9 Il prolungamento del decrescere dell’eccitazione, all’interno del suo andamento ondulatorio, determina la «persistenza» della sensazione, mentre un tempo di assuefazione produce il senso di sazietà. Il piacere sensoriale, sensuale, del bambino deve essere differenziato dall’erotismo orgasmico in cui il saliscendi dell’eccitazione, organizzato attorno a un acme e a una discesa, ha una struttura più complessa. 10 S. Freud, L’Io e l’Es (1922), in Id., Opere di Sigmund Freud, cit.: vol. IX, 19171923. L’io e l’es e altri scritti, cit., p. 488.

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1. il desiderio e il suo oggetto oltre la definizione di freud

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Il bambino pulsionale si muove non solo verso la ricerca, totalmente inscritta nell’apparato psichico, di una rappresentazione corrispondente a un’esperienza di appagamento (che trova la sua massima espressione nel versante erotico), ma, principalmente, verso la ricerca di un contatto sensuale con il corpo materno, capace di coinvolgerlo totalmente. La qualità corporea dell’attività psichica in questa fase della vita è particolarmente intensa, perché l’influenza del corpo non deriva solo dalla connessione della psiche con l’eccitazione somatica ma anche dal legame stretto e immediato del desiderio con il piacere sensuale e con il movimento concreto del corpo.

La mutilazione di madre La mia riformulazione del concetto del desiderio, oltre i limiti della sua definizione da parte di Freud, porta alla sua visione come coinvolgimento psicocorporeo profondo che si muove verso il piacere sensuale attraverso la (pre)configurazione della sua scena. Questa concezione del desiderio è ancora incompiuta perché riguarda la fase originaria della vita. Il desiderio nella sua forma sorgente è desiderio di sé di un soggetto in gestazione che non comunica intenzionalmente: ha il presentimento dell’altro ma, di fatto, lo ignora e lo vive come sua estensione, come fenomeno soggettivo. In questo spazio il desiderio è movimento sicuro grazie alle cure materne. Il desiderio prende la sua forma vera e propria quando la madre torna alla sua vita precedente e riduce la costanza delle sue cure. Ha inizio in questo modo la differenziazione della madre dal bambino, che deve avvenire nel momento giusto: quando entrambi cominciano a inseguire l’affermazione della loro diversa posizione nel mondo, della loro distinta identità. A quel punto il bambino comprende non soltanto la sua mancanza di autosufficienza nella soddisfazione del proprio desiderio, ma anche, cosa più importante, che lo spazio

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della sua soggettività sta subendo una mutilazione. Ciò che è in pericolo non è l’appagamento sensuale in sé (visto che sia le cure, sia la presenza erotica della madre, che le mette in atto, restano soddisfacenti anche se non assidue e continue come prima), bensì la sua configurazione soggettiva. Prima che si compia la sua separazione dalla madre, il lattante comprende nella sua esperienza soggettiva anche ciò che oggettivamente lo trascende: vive nell’illusione di essere più di ciò che realmente è, aggiunge a sé qualità della madre. Inoltre, ciò che egli effettivamente è, esiste, per lo più, solo potenzialmente, in prospettiva, e poggia – nel presente – sulla funzione silenziosa della madre. Il bambino, che si trova tra ciò che ancora non è e la sponda che sua madre gli fornisce, sviluppa la sua esperienza come potenzialità infinita. Vive come un albero che cresce senza limiti prima di essere potato: passa attraverso limitazioni e rinunce necessarie per trovare la propria espressione reale nella complessità della vita. Il problema è come questo albero possa essere potato, come il passaggio possa compiersi, senza che venga mutilata la creatività sviluppata dal lattante nella sua singolare relazione iniziale con il mondo. Questa relazione comprende sia l’annessione illusoria della madre nello spazio della propria soggettività, sia il sentimento di onnipotenza, in un irripetibile intreccio di fiducia nella vita e di libertà. Come può il bambino accettare la sua mutilazione di madre – la sua separazione da lei come parte di se stesso – visto che ciò che egli è o potrebbe essere risulta così strettamente legato a lei? Il bambino si trova ad aver perso la madre come se fosse mutilato di una sua gamba e la vedesse trasformata in un oggetto che non gli appartiene più e desidera riavere. Diversamente da quanto sembrerebbe ovvio, il suo problema principale, nel trovarsi a fronteggiare un oggetto di desiderio da lui separato che non potrà più considerare come parte di sé, non è l’appagamento (normalmente, la madre continua a garantirlo seppure senza la stessa continuità). La sua vera apprensione nasce dalla constatazione che il proprio desiderio non gli appartiene del

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tutto, che l’altro lo co-costituisce. Senza quest’altro il proprio desiderio non potrebbe giungere a una sua vera espressione (il che toglierebbe significato alla soddisfazione). La mutilazione di madre, la sua perdita come parte di sé, configura la dimensione melanconica del soggetto, fa incombere la minaccia di una tragica, impossibile scelta tra sé e l’altro. L’identificazione narcisistica, il riflettersi nell’altro alla ricerca della precedente perfezione illusoria, è la prima via d’uscita del bambino dall’impasse. Riflettendosi nell’altro, che non è solo un’immagine, come suppone Lacan, ma una presenza viva in movimento, il bambino vuole riprendersi ciò che la comparsa dell’altro gli mostra: ciò che solo quest’altro possiede e non è più suo. La presenza viva dell’altro mostra che la perfezione narcisistica è stata drasticamente decurtata: questa presenza agisce come bisturi sul letto di Procruste, piuttosto che come immagine ingessante, com’è previsto nella prospettiva di Lacan. Il tentativo di riappropriazione, mediante identificazione narcisistica, dell’altro come parte di sé, è destinato a risolversi in un conflitto: perché si fonda sulla pretesa che l’altro debba funzionare come protesi, estensione di sé. Quest’altro, la cui immagine evidenzia una diversità rispetto all’immagine di chi vi si riflette (l’altro come specchio fa questo scherzo), se da una parte sta lì a mostrare la propria distinta esistenza, dall’altra dovrebbe stare lì anche per mostrare come ciò che lo anima, ciò che lo muove (obbligandolo al suo servizio) è il desiderio del bambino. Il conflitto con il primo soggetto altro da sé, la madre, che gradualmente si allontana dalla pretesa del bambino che funzioni come protesi del suo desiderio, rende l’identificazione narcisistica molto vulnerabile. Freud l’ha detto con chiarezza: la permanenza in questa posizione assegna al soggetto un destino melanconico11. L’identificazione narcisistica è incompatibile con l’elaborazione del lutto prodotto dalla perdita dell’altro come parte di 11 S. Freud, Lutto e melanconia (1915), in Id., Opere di Sigmund Freud, cit.: vol. VIII, Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti: 1915-1917, cit.

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sé. Secondo la prospettiva freudiana, il lutto presume una fase di prolungamento della vita dell’oggetto perduto nella psiche del soggetto e successivamente una fase di graduale distacco (pezzo per pezzo) da esso. Quando prevale l’identificazione narcisistica con l’oggetto, il distacco non è possibile. Una parte importante di sé resterebbe attaccata all’oggetto da cui ci si separa, nel quale essa continua a riflettersi. Nella visuale di Freud l’elaborazione del lutto si compie con l’identificazione con quegli aspetti dell’oggetto che consentono l’interiorizzazione della sua esistenza, la sua collocazione nel mondo psichico del soggetto. Questa interiorizzazione dell’oggetto trasforma l’altro da protesi di sé a figura diversa da sé ma familiare e conduce il soggetto oltre lo spazio del narcisismo. Tuttavia Freud non spiega il passaggio dall’identificazione narcisistica all’interiorizzazione dell’oggetto che consente una relazione differenziata con esso. Non chiarisce cosa accada esattamente con il prolungamento psichico della vita dell’oggetto né come prenda effettivamente forma il graduale distacco da esso. La dimensione melanconica della sua esperienza (la mutilazione di madre) mette il bambino in un vicolo cieco: l’oggetto emerso nella sua differenza, nella sua distinta esistenza, non può più essere riassorbito come parte di sé. L’identificazione narcisistica (l’oggetto come clonazione del soggetto) pone solo un parziale e temporaneo rimedio al problema perché non è in grado di fermare il procedere di una differenziazione destinata a crescere. Il bambino si trova a oscillare tra due prospettive nella sua sua relazione con l’oggetto vissuto come altro da sé: Questo altro non è me e questo non posso accettarlo. Oscillo tra il desiderio che lui sia null’altro che io nel suo luogo e il desiderio che io sia null’altro che lui nel mio luogo: tra il desiderio di appropriarmene in modo assoluto, e il desiderio che lui si appropri, in modo altrettanto assoluto di me.

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L’incrociarsi di queste due correnti fondamentali del desiderio – la tendenza ad annullare l’altro e la tendenza a farsi annullare da esso – che nella fase di non-distinzione dalla madre esistevano solo potenzialmente, crea uno spazio soggettivo nel quale l’altro è assunto sperimentalmente come parte di sé conservando, nondimeno, la sua distinta esistenza. L’altro è contemporaneamente interno ed esterno al soggetto, e di conseguenza oggetto sia di relazione che di identificazione. La via che segue il bambino è l’identificazione isterica: l’altro continua ad essere vissuto come parte di sé (principalmente in modo narcisistico, proiettivo) ma, al tempo stesso, è riconosciuto come altro da sé e si crea con esso una relazione e una comunicazione. Sul versante dell’identificazione, ciò che fa parte del soggetto12 – e che con la differenziazione dell’oggetto rischia di essere perduto – continua a dimorare psichicamente come parte di sé nel suo stretto legame con ciò che appartiene a entrambi (completamente, parzialmente o «simpateticamente»). Costituisce la loro «affinità elettiva»: l’estensione dell’identificazione narcisistica oltre i limiti dell’arbitrio e della proiezione. Sul versante della relazione, ciò che non fa parte del soggetto, perché esprime l’irriducibile differenza dell’oggetto, è ritrovato nello spazio esterno in termini di avere, invece che di essere. L’identificazione crea un oggetto interno, la relazione un oggetto esterno. L’elaborazione del lutto si compie in questo modo: l’oggetto si ritrova sia nel mondo interno sia in quello esterno ma non lo si trova dentro se non lo si trova fuori e viceversa. Lo si trova dentro perché la sua esistenza esterna è accettata e lo si trova fuori perché è stato interiorizzato.

Il desiderio rivolto all’altro L’altro emerge quasi dal nulla, al posto della precedente non consapevole espansione dell’esperienza del soggetto oltre 12

In parte in modo immediato, ma, principalmente, in modo potenziale.

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i suoi limiti corporei (attraverso il corpo materno), che era stata vissuta come fenomeno interiore, soggettivo. Quando appare in tutta la sua differenza – restando tuttavia omogeneo, nella sua materia, con il soggetto dal quale si sta distaccando –, lo attrae, lo destabilizza e tende a trascinarlo con sé. Il soggetto si inclina senza ritorno verso il fuori da sé, si sposta dal suo centro di gravità (il suo originario nucleo autoreferenziale) ed entra in una posizione eccentrica permanente. Sta scoprendo che il senso della sua esistenza ha una doppia serratura, e una delle chiavi è in mani diverse dalle sue. Il desiderio diventa movimento ineludibile, al tempo stesso intenzionale e subito, patito, della vita interna verso la vita esterna: la fondamentale estroversione del soggetto. L’estroversione che il desiderio imprime al soggetto trova la sua direzione nel gesto espressivo. Il gesto espressivo è l’erede del gesto spontaneo, cioè di ogni estrinsecazione sensomotoria del flusso iniziale della vita, della vita allo stato puro che non ha uno scopo determinato, diverso dal suo fluire, e non comunica intenzionalmente. Il gesto spontaneo, mosso dal desiderio di sé, è autoreferenziale e non concepisce l’esistenza dell’altro. Nondimeno il bambino del gesto spontaneo è già sotto l’effetto di un movimento verso il fuori da sé, senza saperlo. Il desiderio di sé non esiste senza la presenza di un altro, la madre, che, pur misconosciuta, è sempre lì e lascia un’impronta determinante. Questa impronta iscrive il desiderio di sé nel suo destino di desiderio rivolto all’altro. Il gesto espressivo nasce in corrispondenza dell’impronta che la madre lascia sul gesto spontaneo. L’emergere mutilante di lei come altro da sé fa diventare questa impronta lacerazione, ferita che sanguina e sanguinando apre il gesto in modo doloroso, ma pieno di aspettativa, verso la vita esterna. L’apertura del gesto al mondo, sotto l’effetto di una mutilazione intollerabile, è il luogo che Aldo Masullo descrive come frattura della continuità dell’essere provocata dal tempo (χρόνος), la differenza di cui è portatore l’altro,

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che colpisce il soggetto nel momento (e nel punto) opportuno (καιρός)13. Il soggetto colpito dalla differenza dell’altro, che lo mutila, diventa la sede di un terremoto interno: il desiderio come pathos, sofferenza che è presentimento della sensualità, precondizione della profondità e dell’intensità nell’incontro di godimento. Il desiderio, che trascinato insegue e inseguendo reclama, gettando il soggetto fuori da sé diventa forza espressiva, gesto che, prima di prendere forma comunicabile, è solo farsi strada, aprendosi. Il gesto espressivo è movimento del desiderio verso l’oggetto dell’esperienza sensuale quando questo comincia a essere percepito come corpo «altro», come cosa diversa da sé. Inizialmente questo movimento ha una direzione (va da qualche parte, ha attraversato il confine dell’indeterminazione totale del gesto spontaneo), ma non ha ancora uno scopo concreto, una forma definita o un significato che possa essere comunicato intenzionalmente. Il gesto assume un significato intenzionalmente comunicabile solo con la socializzazione successiva del desiderio. La configurazione di un contratto di relazione con l’oggetto desiderato, fondata sul reciproco riconoscimento, trasforma il gesto/movimento, espressione pura di desiderio, in gesto propriamente espressivo: unità linguistica preverbale dotata di significato semantico che comunica uno stato desiderante e gli consente di trovare un’espressione indirizzata alla sua soddisfazione. Tuttavia la forza espressiva del gesto non sta nel contratto sociale che rende possibile la sua definizione in forme linguistiche preverbali. L’espressività del gesto linguistico preverbale, la sua possibilità di acquisire un significato vero, origina dal gesto puramente desiderante – la dolorosa apertura del gesto spontaneo – che estroverte il soggetto. Deriva dalla passione propulsiva che esso conferisce alla comunicazione. Nella sua dimensione più compiuta, il desiderio è gesto che resta aperto, prende una direzione, che è intuizione, ma non 13

A. Masullo, Paticità e indifferenza, Il Melangolo, Genova 2003.

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si chiude in una forma. È un paradossale stare-nello-uscirefuori, per prendere in prestito un concetto di Aldo Masullo che egli elabora nel corso di una sua lettura critica del Da-sein (esser-ci) di Heidegger14:

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Per la sua costitutiva fattualità, l’esser-ci non consiste nel suo essere uscito, una volta per sempre, nello spazio dell’intenzionalità e della cura, non è uno stare-fuori-di sé, magari «nella verità dell’essere», ma un continuo andare-fuori-da-sé, lo stare nell’incessabilità dell’andarefuori15.

Quanto più significativi sono i gesti espressivi che comunicano intenzionalmente, quanto più possono assumere funzione simbolica e diventare materia del sogno, tanto più resta aperto (permane nel suo uscir-fuori) il desiderio/gesto16 estrovertente la soggettività che li ha creati17. Il desiderio è la dimensione insatura del significato, l’apertura perpetua alla differenza tra il soggetto e l’altro che lo tiene vivo.

Lo spazio della seduzione e la soddisfazione del desiderio L’apertura del desiderio alla vita, porta oltre l’annessione narcisistica dell’altro e permette al corpo di destrutturarsi e di sciogliersi, lasciandosi andare alla ricerca, che è anche attesa, dell’oggetto perduto per sempre come parte di sé. Appartiene, di conseguenza alla parte femminile del soggetto. Il desiderio femminile, nella donna come nell’uomo, si sviluppa là dove i confini tra sé e l’altro sfumano in un territorio di prossimità/affinità, nel punto in cui il narcisismo del soggetto si schiude, aprendosi all’incontro con l’oggetto deside14 Esser-ci è la verità dell’essere: ek-sistere, stare fuori di sé, proiettarsi – in avanti – presso, essere gettati, spersi nel mondo. 15 A. Masullo, Paticità e indifferenza, cit., p. 38 (i corsivi sono dell’autore). 16 Il gesto espressivo primario. 17 Questo gesto crea lo spazio onirico, l’espressività, significatività della materia del sogno.

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rato, sotto l’effetto della crescente differenza di quest’ultimo. Questa apertura è a rischio melanconico perché il venir meno dell’altro può far crollare lo spazio di attesa dell’incontro. Il fondamento del desiderio femminile è il narcisismo che si dischiude alla vita dal dentro, creando uno spazio di coinvolgimento profondo di tutta la soggettività18. Se il coinvolgimento fallisce (perché non riesce a dispiegarsi ed evolvere) si rinchiude melanconicamente in se stesso restando, al tempo stesso, dolorosamente beante. L’attesa sanguina e trova nel dolore la strada per persistere: il senso di mancanza. I confini non coincidono con la differenza: richiedono contemporaneamente l’affinità e la diversità, la prossimità e la lontananza. Esprimono dunque la distinzione tra due entità insieme simili e diverse e rendono possibile lo scambio tra di loro. Nel campo erotico lo scambio non è possibile senza l’esposizione, lo sbilanciamento di sé che costituisce la possibilità stessa del desiderio, lo sporgersi, rischiando di cadere, senza valutazioni, calcoli e garanzie preventive, nella direzione dell’altro. Proprio perché esposizione, svelamento all’altro, il desiderio nel suo sbocciare dal suo nucleo narcisistico cerca l’affinità e la prossimità e lascia sullo sfondo la differenza e la lontananza. Apre i confini, diluendoli senza dissolverli, e cerca nell’altro un legame di affinità elettiva. Questo tipo di legame con l’oggetto del desiderio non è una condizione statica di prossimità che resta chiusa in se stessa: nella misura in cui rende possibile il desiderio come sbilanciamento di sé, è anche sotto l’effetto della sua spinta. Non funge da contenimento, ma da rampa di lancio: getta, attraverso l’apertura dei confini, il soggetto desiderante fuori dal suo centro di gravità, spazio in cui patisce l’attrazione fatale della differenza dell’altro. Questa attrazione, impensabile in presenza di confini definiti, crea un coinvolgimento intenso che può diventare sconvolgimento di sé: il presupposto della profondità del godimento. La capacità di godere pro18

Nella donna questo spazio raggiunge maggiore profondità.

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fondamente del gioco erotico dipende dall’ampiezza dell’oscillazione, necessariamente destabilizzante, tra la perdita e il ritrovamento dei confini (che è anche una condizione necessaria dell’essere vivi). L’apertura femminile del desiderio porta il soggetto nello spazio della seduzione, che è il prodotto dell’incontro di due forze: a) La passione interna che proviene dal senso di mancanza e spinge il soggetto verso il fuori da sé. b) L’attrazione che l’altro esercita dall’esterno nello spazio tra la prossimità/affinità e la lontananza/differenza che il desiderio deve attraversare: percorso pericoloso dove il soggetto può cadere nel vuoto di un potenziale vortice senza sapere se troverà la mano dell’altro19. Il desiderio non è pienamente configurabile senza il sentimento di incertezza che questo spazio di spinta interna e di attrazione esterna crea. La seduzione da una parte preannuncia la soddisfazione e dall’altra avverte che non è scontata, dissuade dall’autocompiacimento. Il carattere destrutturante del desiderio è strettamente legato alla seduzione, senza la quale la soddisfazione è impossibile. Il rischio è un elemento ineliminabile, costitutivo dello spazio della seduzione: il contemporaneo abbandono e mantenimento dei confini mescola sicurezza e insicurezza, in un’esperienza di destabilizzazione che sconvolge e trasforma. Qui il perdersi è possibile perché è presentito il ritrovarsi e il ritrovarsi non ha senso se non è stato possibile perdersi compiutamente. Si è come sulle montagne russe al momento della caduta, quando si sa che i binari sono sempre lì, a tenere il veicolo in corsa, ma, al tempo stesso, si ha l’intensa sensazione che non ci siano più. In questa esperienza paradossale, oltre la quale il rischio diventa azzardo o suicidio, è il ritrovarsi che dà a posteriori senso – nel doppio significato di significazione e di direzione – all’intero percorso del de19 «Occupandosi del corpo del bambino, la madre diventa la prima seduttrice». S. Freud, Compendio di psicoanalisi (1938), cit., p. 615.

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siderio. Perché il ritrovarsi implica una trasformazione, una continuità che convive con il cambiamento, uno spostamento che non è annullabile. Il desiderio sconvolge e trasforma, il coinvolgimento di cui è fatto è cosa insieme propulsiva e profondamente patita, implica sempre un ritrovamento che ha attraversato un’esperienza di perdita: un ampliamento di spazio, di prospettiva e di orizzonte che modifica i confini, le definizioni delle posizioni e gli incontri, per conservarli vivi e vivibili. La seduzione – il campo delle forze di attrazione in cui lo sconvolgimento si compie – inizia a prendere forma dove la dimensione narcisistica del desiderio (possiedo l’altro nel suo luogo) si incrocia con la sua dimensione masochistica (mi faccio possedere dall’altro nel mio luogo), che include in parte quella narcisistica (mi faccio possedere dall’altro per possederlo). Assume la sua più intensa e evoluta configurazione dove il patire – l’invincibile combinazione della spinta interna e dell’attrazione esterna, che, rompendo la continuità dell’essere, lo estroverte – allontana il desiderio dal narcisismo, verso il compimento del suo destino: mi lascio andare, sporgendomi, inclinandomi nello spazio dell’altro, col rischio di perdermi. Gli amanti si incontrano in uno spazio intermedio, incerto, dove la seduzione reciproca diventa anfibolia (essere colpiti da due lati, presi di mezzo) convergente (andare in una direzione sotto l’effetto di forze opposte)20 e il predatore è, al tempo stesso, preda. Come si potrà notare, la configurazione del perdersi e ritrovarsi, la forma del desiderio nell’area sconvolgente della seduzione, è la stessa del godimento. In effetti il godimento non si discosta dal desiderio: ne costituisce il massimo dell’espressione e il suo naturale compimento. Il desiderio non si tiene in piedi se è avulso da una reale esperienza di godimento. Lo sconvolgente e trasformativo impegnarsi della struttura 20 La forza della spinta di appropriazione dell’altro e la forza di attrazione esercitata da lui.

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psicocorporea, che lo caratterizza, richiede l’incontro con un altro sconvolgimento. Questo incontro conduce il desiderio alla sua forma più intensa e profonda, che rende ineludibile la soddisfazione. La soddisfazione ha due forme che si completano a vicenda: a) Il piacere legato al godimento in sé, che è il più liberatorio e, al tempo stesso, il più vincolante dei vissuti. Legato alla vita interna e a quella esterna, fa sì che il soggetto possa sentirle e amarle. b) Il compimento di una trasformazione che cambia la struttura psicocorporea e separa radicalmente l’appagamento del desiderio dalla cancellazione dell’eccesso di tensione che è propria del bisogno fisico. La soddisfazione del desiderio destabilizza, trasforma; il sollievo legato alla cessazione del bisogno fisico riporta allo stato iniziale. Il godimento sensuale che appaga il desiderio è strettamente legato alla trasformazione: è godere di una profonda destabilizzazione che vive nel cambiamento continuo dei confini con l’altro. Il compimento della trasformazione attraverso il godimento lascia sempre aperto il processo trasformativo. Funziona rendendo impossibile la permanenza nello stato raggiunto: è nella natura del desiderio restare insaturo nella sua soddisfazione. Il restare insaturo della soddisfazione conserva il desiderio, amplia verso l’infinito il suo campo. Conduce il piacere dei sensi oltre gli stretti confini sensoriali, nella sua sublimazione. Attraverso la sublimazione, il desiderio si emancipa – senza rendersi indipendente – dal godimento sensuale legato alla vicinanza carnale dell’oggetto desiderato, dalla sua concreta appropriazione mediante il tatto, la sensorialità propriocettiva, l’odore, la vista e l’udito. Così il desiderio può andare verso possibilità di soddisfazione che se da una parte perdono in intensità e profondità di coinvolgimento immediato, dall’altra guadagnano in termini di esplorazione della differenza (che crea il campo in cui il desiderio si manifesta

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e vive) e di persistenza, nonché di ampiezza della soddisfazione nella sua qualità trasformativa. Tra le due modalità di soddisfazione del desiderio ci deve essere un equilibrio e una concatenazione21, ma indubbiamente la sublimazione porta il godimento a forme vicine al godere del desiderare in se stesso, della gradevolezza della trasformazione del proprio essere nel mondo.

21 La sublimazione, senza la dimensione sensuale, che la sorregge, si riduce a funzione difensiva che annulla l’incarnazione dell’esperienza e la inaridisce.

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2. L’identificazione isterica

Il fondamentale volgersi del desiderio all’altro sotto l’effetto della sua comparsa mutilante che colpisce il soggetto in pieno, il dischiudersi del narcisismo che apre i confini dell’esperienza soggettiva, il gettarsi nello spazio della seduzione e l’attraversamento dello spazio della differenza (sotto la doppia azione della spinta dell’appropriazione e dell’attrazione trascinante dell’oggetto in via di distacco), richiedono un legame di reciprocità, un ponte verso l’alterità, senza il quale l’estroversione della soggettività sarebbe destinata a crollare. Come è stato accennato in precedenza, questo ponte è l’identificazione isterica con la madre. Lo statuto dell’identificazione isterica è rimasto finora nel campo psicoanalitico piuttosto incerto. Freud ne ha parlato poco e le intuizioni più importanti che la riguardano le ha realizzate studiando i fenomeni psicopatologici noti sul piano nosografico con il termine di isteria. L’associazione tra isteria e patologia ha radici molto antiche che risalgono a Ippocrate. La resistenza di molti psicoanalisti ad accettare l’identificazione isterica come componente fisiologica dello psichismo (e come condizione di sanità psichica) è quindi comprensibile, ma non condivisibile, come cercherò di dimostrare. Isteria deriva da ὑστέρα, utero, e da ὑστερικός, che significa ciò che appartiene all’utero e, per estensione (nell’uso che ne ha fatto Ippocrate), sofferenza uterina. Parola strettamente affine è ὕστερον, che significa secondamento, placenta espulsa dopo il parto. Ὑστέρα, oltre che utero, significa

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anche posteriore, ciò che viene dopo, al femminile (ὕστερος al maschile, ὕστερον come aggettivo neutro). È evidente che gli antichi Greci stabilivano una stretta connessione tra utero e dopo, designavano dunque, come fa notare Nancy1, come ὕστερον ciò che è πρότερον (anteriore) per eccellenza. Visto in questa prospettiva, l’utero assume il significato della gestazione dell’alterità, un’alterità che verrà dopo ma alloggia già nel prima, in attesa di prendere forma. Associando l’utero alla patologia isterica (che deve a questa associazione il suo nome), Ippocrate ha colto una profonda verità, pur formulandola in modo inadeguato, fuorviante. L’isteria, come entità patologica, è in effetti derivato di un malfunzionamento dell’utero, non di un utero inteso come organo corporeo bensì come spazio psichico, in entrambi i sessi, di «gravidanza»: la nostra capacità di ospitare – prima di generarlo, riconoscendogli la sua alterità – ciò che è diverso da noi. Restituendo all’isteria la sua dimensione fisiologica, possiamo dire che essa esprime sia il legame con l’alterità che ci abita sia il riconoscimento dell’altro nella sua esteriorità come oggetto che è insieme generato (creato) e scoperto (trovato già esistente) da noi. Lo sguardo di Lévi-Strauss sulla trance e la scena di possessione, entrambe di riconosciuto significato isterico, è meno preconcetto dello sguardo dell’analista: È comodo paragonare lo sciamano in trance o il protagonista di una scena di possessione a un nevrotico. Lo abbiamo fatto noi stessi e il parallelo è legittimo nel senso che, nei due tipi di stati, intervengono verosimilmente elementi comuni. Si impongono, tuttavia, alcune limitazioni: in primo luogo, i nostri psichiatri, posti davanti a documenti cinematografici relativi a certe danze di possessione, si dichiarano incapaci di ricondurre questi comportamenti a una qualunque delle forme di nevrosi che formano l’oggetto usuale delle loro osservazioni. D’altra parte e soprattutto, gli etnografi in contatto con gli stregoni o con soggetti posseduti abitualmente o occasionalmente, negano che questi indi1 J.-L. Nancy, Dopo la tragedia, in Andreas Giannakoulas, Sarantis Thanopulos (a cura di), L’eredità della tragedia, Borla, Roma 2006.

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2. l’identificazione isterica

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vidui, sotto tutti gli aspetti normali, al di fuori delle circostanze socialmente definite in cui si abbandonano alle loro manifestazioni, possano essere considerati come malati. Nelle società in cui hanno luogo sedute di possessione, la possessione è un comportamento aperto a tutti; le sue modalità sono fissate dalla tradizione, il suo valore è sanzionato dalla partecipazione collettiva. In nome di che cosa si dovrebbe affermare che individui, che corrispondono alla media del loro gruppo, che sono dotati, negli atti della vita ordinaria, di tutti i mezzi intellettuali e fisici, che manifestano occasionalmente un comportamento significativo e approvato, devono essere trattati come anormali? La contraddizione cui abbiamo ora accennato può essere risolta in due modi diversi. O i comportamenti descritti sotto il nome di «trance» e di «possessione» non hanno niente in comune con quelli che, nella nostra società, chiamiamo psicopatologici; o è lecito ritenerli dello stesso tipo, ma in tal caso la connessione con gli stati patologici deve essere considerata contingente e risultante da una condizione particolare alla società in cui viviamo2.

Ho citato questo passo di Lévi-Strauss per due motivi. Il primo è il riferimento alla trance e alla possessione, che rimandano rispettivamente: a) alla dimensione onirica dello stato di veglia; b) all’associazione che i Greci operavano tra utero/gravidanza e condizione isterica. Come diventerà più chiaro in seguito, si tratta delle due condizioni che determinano il significato universale dell’isteria. Il secondo motivo riguarda la particolarità del legame che nel passo si configura tra le manifestazioni fisiologiche e la psicopatologia nel campo dei fenomeni isterici. Non si tratta più di considerare l’isteria «sociale» come estrinsecazione di situazioni patologiche di cui diventano «testimonianza» gli individui più sensibili e sofferenti. Si dovrebbe, piuttosto, vedere nei rituali isterici di contesti sociali più arcaici il processo di un’elaborazione collettiva del rapporto con ciò che è altro; qualcosa di paragonabile, spostandosi sul piano di un’organizzazione sociale più evoluta, a una rappresentazione teatrale, per esempio. Senza considerare gli stregoni o i soggetti 2 C. Lévi-Strauss, Introduzione all’opera di M. Mauss, in Marcel Mauss, Teoria Generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, pp. XXIII-XXIV.

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il desiderio che ama il lutto

posseduti più malati di quanto non siano gli attori, il regista o l’autore di un testo messo in scena. La connessione della dimensione isterica del rapporto con la realtà con stati patologici non deriva dalla sua intrinseca natura, ma da irrigidimenti o complicazioni contingenti del rapporto con l’alterità sul piano sociale o su quello familiare, micro-ambientale.

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L’identificazione isterica come cerniera del rapporto con l’altro In Fantasie isteriche e la relazione con la bisessualità (1908)3, Freud, discutendo del significato bisessuale dei sintomi isterici (il loro essere espressione, al tempo stesso, sia di una fantasia inconscia maschile che di una femminile), interpreta il caso da lui osservato di una paziente che con una mano si stringe le vesti e con l’altra se le strappa. Con il primo gesto si difende dall’assalto sessuale immaginario da parte di un uomo, con il secondo si identifica con l’uomo aggressore. In un suo scritto di poco successivo, Osservazioni generali sull’attacco isterico (1908), Freud cita lo stesso caso come esempio di identificazione multipla: la tendenza del soggetto a «svolgere l’attività delle due persone che compaiono nella fantasia»4. Ne L’interpretazione dei sogni Freud dà la seguente definizione dell’identificazione isterica: Ma che significato ha l’identificazione isterica? […]. L’identificazione è un momento estremamente importante nel meccanismo dei sintomi isterici; per mezzo suo gli ammalati riescono a esprimere nei loro sintomi non soltanto le esperienze proprie, ma quelle di molte persone, a soffrire, in un certo senso, per un’intera moltitudine e a rappresentare, senza l’altrui concorso, tutte le parti della commedia5. 3 S. Freud, Fantasie isteriche e la relazione con la bisessualità (1908), in Id., Opere di Sigmund Freud, cit.: vol. VII, 1912-1914. Totem e tabù e altri scritti, 1975, p. 394. 4 S. Freud, Osservazioni generali sull’attacco isterico (1908), in Id., Opere di Sigmund Freud, cit.: vol. V, 1905-1908. Il motto di spirito e altri scritti, 1973, p. 442. 5 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, cit., p. 144.

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2. l’identificazione isterica

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Subito dopo Freud specifica che l’identificazione isterica è un atto più complesso della capacità degli isterici di imitare i sintomi altrui, riproducendoli per simpatia. Essa non sarebbe semplice imitazione, bensì appropriazione. In Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) chiarisce meglio il suo punto di vista: Sarebbe però inesatto affermare che fanno proprio il sintomo per «simpatia». Al contrario, proprio la simpatia scaturisce dall’identificazione; prova ne sia che tale infezione o imitazione ha luogo anche in circostanze in cui la simpatia preesistente tra due persone è verosimilmente ancora minore di quella che c’è di solito fra compagne di collegio. Uno dei due Io ha percepito un’analogia significativa con l’altro in un punto preciso, nel nostro esempio nella propensione a un ugual sentimento; su tale fondamento si instaura un’identificazione in quel punto e, al sopraggiungere della situazione patogena, quest’identificazione si sposta sul sintomo prodotto dal primo Io. L’identificazione tramite il sintomo attesta così che esiste fra i due Io un luogo di coincidenza che va tenuto in stato di rimozione6.

Come si può vedere, nella spiegazione dei sintomi isterici Freud descrive due meccanismi dell’identificazione isterica. Il primo, delineato nei due lavori del 1908, riguarda un soggetto che mentre è in relazione con un altro, oggetto di pulsioni sessuali, si identifica, al tempo stesso, proprio con ciò che in quell’altro rende specifica la sua partecipazione alla relazione e sottolinea una differenza rappresentante un pericolo. Ciò che viene descritto è la formazione del sintomo. Il secondo, affrontato nel suo lavoro del 1921, si riferisce all’identificazione di un soggetto con un altro, «che non è oggetto di pulsioni sessuali»7, sulla base di una analogia significativa tra di loro; l’identificazione è successivamente spostata sul sintomo al sopraggiungere di una situazione patologica. Qui è in gioco la trasmissione del sintomo da un soggetto a un altro. 6 S. Freud, Psicologie delle masse e analisi dell’Io (1921), in Id., Opere di Sigmund Freud, cit.: vol. IX, 1917-1923. L’io e l’es e altri scritti, 1977, p. 295. 7 Ivi, p. 296.

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il desiderio che ama il lutto

Se, collocando questi due meccanismi fuori dall’area dei fenomeni patologici, riprendessimo l’esempio della rappresentazione teatrale, potremmo vedere nel primo meccanismo il tipo di relazione che l’attore stabilisce con il personaggio che recita. Pur mantenendo la sua differenza dal personaggio (perché altrimenti non metterebbe sulla scena che se stesso), l’attore deve, contemporaneamente, immedesimarsi con ciò che in esso gli è più estraneo (perché diversamente la recitazione non sarebbe convincente). Il secondo meccanismo entra invece in gioco nell’identificazione dello spettatore con l’attore: il loro legame di (parziale) immedesimazione si costituisce su un’analogia di desideri, emozioni, sentimenti, nel punto in cui uno o più aspetti della condizione umana vengono messi in scena attraverso un personaggio. L’incastro tra i due meccanismi dentro di noi crea l’identificazione isterica intesa come cerniera del nostro rapporto con l’altro. La difficoltà di molti psicoanalisti di vedere nell’isteria qualcosa che va ben al di là della psicopatologia (cosa che non accade con l’identificazione narcisistica e con il narcisismo) desta perplessità. A spiegarla non basta il fatto che Freud abbia dato la definizione più chiara dell’identificazione isterica associandola alla sofferenza psichica. Penso che il progressivo spostamento di una parte importante della cultura psicoanalitica verso una visuale della cura come sostegno della soggettività abbia impropriamente prodotto una riserva nei confronti della dimensione isterica dell’esistenza. Questa dimensione rende il soggetto perennemente eccentrico a se stesso, ben lontano dall’ideale, falsamente rassicurante, di una personalità perfettamente centrata e stabile. Eppure, ciò che Freud ha descritto parlando dell’isteria è ugualmente applicabile ai sogni di tutti. Il sogno è il regno di una nostra identificazione con l’altro che è al tempo stesso una relazione con esso, esattamente come accade nella paziente isterica descritta da Freud. Il sognatore recita contemporaneamente il suo ruolo e il ruolo degli altri, rappresentan-

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2. l’identificazione isterica

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do «tutte le parti della commedia»: la sua attività onirica (nei suoi aspetti accessibili alla psicoanalisi) è il prodotto dell’attivazione della componente isterica della sua personalità. L’identificazione isterica con l’alterità non resta confinata nel sonno. Penetra nella vita del giorno, creando un’area di transizione tra la parziale sospensione dei confini nel rapporto del soggetto con la realtà, che è caratteristica della dimensione onirica nel sonno, e il campo delle relazioni compiutamente differenziate, che si ripristina con il risveglio. Nell’area in cui l’identificazione isterica penetra nella vita del giorno, prende forma un pensiero onirico di veglia in cui processo primario (pensiero di transizione che, aderendo contemporaneamente al principio di piacere e al principio di realtà, rispetta e non rispetta il principio logico della non contraddizione)8 e processo secondario (pensiero che rispetta pienamente il principio della non contraddizione e il principio di realtà) convivono, dando origine a forme di pensiero molto vicine alla sensorialità e alle emozioni. Tali forme sono sfuggenti e fluide e la loro presenza è solo vagamente percepibile (soprattutto nei momenti di rilassamento o di stanchezza): quando si cerca di metterle a fuoco, si dissolvono. Questo aspetto differenzia il pensiero onirico del giorno dal pensiero preconscio: in quest’ultimo, forme di pensiero pienamente accessibili alla coscienza sono sospese in uno stato di esistenza potenziale. La loro connessione indiretta e contingente con un impulso inconscio può a volte ostacolare la loro messa a fuoco, ma questa resta valida e prima o poi si realizza9. 8 Seguendo il modello teorico di P. Aulagnier (1976), esposto ne La violenza dell’interpretazione (Borla, Roma 1993), preferisco collocare il dominio assoluto del principio di piacere nel registro di un processo originario. In questa prospettiva, il pensiero primario basato sulle rappresentazioni di cosa sarebbe un pensiero di transizione dal «protomentale» del pittogramma (rappresentazione essenziale, schematica della superficie di contatto tra una zona sensoriale del bambino e un oggetto esterno) al pensiero vero e proprio fondato sulle rappresentazioni di parola. 9 È attraverso il pensiero onirico del giorno e della notte che nel suo ritorno il rimosso penetra, sotto forma di «propaggini», nel preconscio.

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il desiderio che ama il lutto

Il pensiero onirico del giorno è l’erede del pensiero infantile tra i due e i cinque, sei anni (tra l’acquisizione della parola e il tramonto del complesso edipico), quando il processo primario e il processo secondario coesistono, mescolandosi, fino all’affermazione definitiva di quest’ultimo10. L’affermazione del processo secondario non è mai assoluta: il pensiero misto (bi-logico secondo la definizione di Matte Blanco11), che sopravvive nel pensiero onirico di veglia, si costituisce come tessuto connettivo interstiziale del pensiero logico, ne garantisce l’esistenza stessa. Non esiste, infatti, un pensiero puramente logico. Una cosa del genere implicherebbe il distacco del pensiero dalle sue stesse radici: il desiderio e l’emozione. Il pensiero onirico del giorno garantisce la continuità dell’attività di rappresentazione. Colma silenziosamente le lacune del pensiero logico e mantiene in questo modo la sua configurazione insatura (anche nelle sue forme più astratte), aperta alla possibilità di una contraddizione. Quanto più si mantiene desiderante (dotandosi di sensi) e emotivo, tanto più il pensiero del soggetto sfuma la sua distanza dal pensiero dell’altro e si fa fecondare da esso. La presenza del sogno nella vita vigile rende la percezione del mondo sensibile e intuitiva, la predispone alla scoperta. Luogo di confluenza e di compenetrazione tra inconscio e coscienza (preconscio), l’area onirica del giorno consente al desiderio di ancorarsi nella realtà sulla strada di una sua soddisfazione oggettiva e, nella direzione opposta, di sospendere la sua effettività nella pluripotenzialità dell’inconscio, ritrovando uno spazio di esplorazione e di sperimentazione12. Se la sua trama si mantiene integra, contiene l’allucinazione nei confini del sogno di notte e contemporaneamente mantiene viva la tra10 Questo periodo è soggetto a un processo di rimozione che Freud chiama amnesia infantile (vedi S. Thanopulos, Lo spazio dell’interpretazione, Borla, Roma 2009). 11 I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti: saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino 1975. 12 In corrispondenza delle «propaggini inconsce», dove la presenza di un conflitto blocca il flusso tra inconscio e coscienza e deforma il pensiero preconscio, la trama onirica del giorno subisce una condensazione.

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2. l’identificazione isterica

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iettoria che dall’immagine visiva porta alla parola. La nostra coscienza poggia su uno stato di rêverie che si attiva in modo particolarmente efficace in alcune esperienze della vita. Penso al teatro, al cinema, alla musica (e all’arte e alla letteratura, dove si manifesta in modo più sfumato e indiretto), ma anche alla relazione erotica e alla seduta analitica stessa13.

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L’«aversi» e la «soggettività eccentrica» L’identificazione isterica nasce quando nel bambino ha già preso forma il desiderio nei confronti di un oggetto di cui inizia a riconoscere l’alterità, ed è lo strumento principale attraverso il quale l’alterità è accettata emotivamente e usata. Prima che questa evoluzione positiva si compia, il bambino deve fronteggiare una posizione particolarmente precaria, perché si trova mutilato di madre. Come è stato detto in precedenza, la ferita della mutilazione è riparata inizialmente con l’identificazione narcisistica. Il bambino pur riconoscendo l’alterità della madre, il fatto di non essere più tutt’uno con lei, si illude, nondimeno, che lei sia lì in funzione del suo desiderio e per null’altro. Questa posizione, centrata ancora sul desiderio di sé, è molto vulnerabile: la progressiva separazione della madre è destinata a metterla in crisi. L’amore oggettuale, che trasforma il desiderio di essere (desiderio di sé) in desiderio di avere (desiderio rivolto all’altro), è la posizione da raggiungere, ma questo esito felice non è scontato né automatico. Il seguente ben noto frammento del pensiero di Freud, pubblicato postumo, descrive bene la situazione nella quale si trova immerso il bambino: «Avere» ed «essere» nel bambino. Il bambino esprime volentieri la relazione oggettuale mediante l’identificazione: «Io sono l’oggetto». L’avere è [tra i due] successivo, dopo la perdita dell’oggetto ricade 13 Sull’attivazione della dimensione onirica, isterica, nella seduta analitica, vedi S. Thanopulos, Lo spazio dell’interpretazione, cit.

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il desiderio che ama il lutto

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nell’essere. Prototipo: il seno. Il seno è una parte di me, io sono il seno. Solo in seguito: io ce l’ho, dunque non lo sono14.

Freud indica qui con chiarezza, seppure in modo non esplicito e sintetico, la natura del passaggio che conduce il soggetto dall’autoreferenzialità al riconoscimento e all’uso dell’altro come cosa diversa da sé, separata. Tuttavia, nel corso della sua intera opera, non ha fornito spiegazioni dirette sul modo in cui avviene il passaggio. L’identificazione narcisistica non può reggere il peso di un investimento compiuto dell’alterità: troppo ampia la distanza da colmare. A differenza di Kohut, l’analista americano che ha centrato l’esistenza umana sul rapporto narcisistico con l’oggetto-Sé, Freud questo l’ha capito bene, ma non è andato molto oltre. La funzione dell’identificazione narcisistica è quella di preparare il terreno per l’identificazione isterica. Il bambino scopre che può entrare in relazione con l’altro continuando, al tempo stesso, a identificarsi con lui. Può usare l’affinità con l’oggetto per creare un ponte con la sua diversità, adoperare il familiare per impadronirsi dell’inconsueto. Mediante questo tipo di identificazione, che è insieme relazione, il bambino può fondare il suo desiderio di possedere, avere l’oggetto a lui diverso, sulla loro contemporanea identificazione. La differenza del bambino con la paziente osservata da Freud, il cui caso gli servì per spiegare la formazione dei sintomi isterici, ci dà la differenza tra il funzionamento fisiologico e quello patologico dell’isteria. La differenza consiste nel fatto che nell’isteria patologica l’identificazione tende a trattenere la relazione, a impedire un suo sviluppo adeguato, a causa dell’invasività dell’oggetto desiderato. L’equilibrio tra identificazione e relazione con l’altro che caratterizza l’isteria fisiologica si sposta decisamente a favore della prima. La caratteristica «promessa» isterica, promessa di un incontro destinato a non avveni14 S. Freud, Risultati, idee, problemi (1938), in Id., Opere di Sigmund Freud cit.: vol. XI, L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti 1930-1938, 1979, p. 565.

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2. l’identificazione isterica

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re, esprime proprio questo: la sovradeterminazione della relazione da parte dell’identificazione, che sfocia nel sequestro dell’altro dentro di sé. Questo sequestro interno dell’altro, tipico degli «isterici», che sostituisce in gran parte la relazione (perché la presenza esterna dell’altro come oggetto di appagamento è considerevolmente disinvestita), non è comunque identificazione pura: quest’altro mantiene la sua alterità nel mondo psichico del soggetto. L’identificazione isterica fisiologica occupa una posizione intermedia tra la posizione narcisistica (desiderio di sé) e la relazione oggettuale (desiderio rivolto all’altro) e si costituisce come desiderio di aversi (desiderio dell’altro come parte di sé). L’aversi definisce lo spazio di transizione verso il recupero in termini di avere di ciò che il soggetto deve rinunciare ad essere, dopo la fine dell’illusione che lo fosse. Grazie all’identificazione isterica, che declina l’avere come essere e l’essere come avere, il bambino può effettuare il passaggio dall’illusione onnipotente di possedere delle qualità che non gli appartengono al possesso indiretto di queste qualità tramite l’appropriazione dell’oggetto che realmente le possiede. Non penso che amiamo noi stessi negli altri, come sostiene Ferenczi15: questo sarebbe vero se persistessimo nel rivendicare come nostro ciò che non ci appartiene (vedendo nell’oggetto amato il riflesso di noi o, cosa più pericolosa, vedendo in noi il suo riflesso). Amiamo, piuttosto, negli altri ciò che ci piacerebbe essere ma non siamo, ciò che attraverso loro ci completa. Questa prima forma dell’amore oggettuale (approdo dell’identificazione nel campo della relazione) può evolvere nell’uso dell’oggetto amato. L’uso è la dimensione dell’amore in cui si ama nell’altro una qualità che non desideriamo ci completi, ma che tuttavia è indispensabile per la migliore realizzazione e espressione delle nostre qualità e per la soddisfazione dei nostri desideri. Questa dimensione dell’amore 15 «In fondo l’uomo può amare solo se stesso; se ama un oggetto lo accoglie nel proprio Io», S. Ferenczi, Il concetto di introiezione (1912), in Id., Opere, 4 voll., Raffaello Cortina, Milano 1989-2002: vol. I, 1908-1912, 1989, p. 177.

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il desiderio che ama il lutto

richiede necessariamente la reciprocità, l’uso reciproco tra due soggetti. La reciprocità rimanda ancora all’identificazione isterica, che è la sua premessa: è nella misura che l’altro è e allo stesso momento non è me, che una relazione reciproca con lui ha senso. In conclusione: l’amore oggettuale trascina con sé nel prosieguo dello sviluppo affettivo l’identificazione isterica, che, una volta conclusa come fase di transizione, resta nello psichismo come struttura permanente di articolazione tra desiderio rivolto a sé e desiderio rivolto all’altro (riconosciuto nella sua piena differenza). La conversione dell’illusione di possedere una qualità in desiderio di avere l’oggetto che la possiede, se risolve la questione della necessaria limitazione di una soggettività cresciuta inizialmente in modo onnipotente, non risolve il secondo (e più importante) problema che il bambino alle prese con la separazione dalla madre deve fronteggiare. Nell’incontro iniziale con la madre il bambino non ha una posizione passiva. Usa le sue innate qualità per creare soluzioni che accordano i suoi movimenti ai movimenti di lei (soluzioni particolarmente creative per il fatto che nascono spontaneamente). Nel creare l’incontro con la madre (creare il seno, direbbe Winnicott; creare, preferirei dire io, l’oggetto di desiderio) il bambino crea anche il nucleo originario del suo modo di essere nel mondo, la struttura essenziale della sua esperienza soggettiva e della sua creatività. Se nel momento del distacco della madre la soggettività sorgente del bambino deve subire una limitazione per assumere una forma definita e una sua espressione, la struttura essenziale di questa soggettività deve, invece, mantenersi integra. Come mantenere integra questa struttura al di fuori del suo contesto iniziale, ovvero in assenza di un adattamento quasi perfetto della madre alla creatività del figlio, che confermi la sua validità? Qui entra in azione l’altra dimensione dell’identificazione isterica, corrispondente al meccanismo dell’immedesimazione con l’altro per analogia, che Freud ha usato nel campo

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2. l’identificazione isterica

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della patologia per spiegare il meccanismo della trasmissione (contagiosità) dei sintomi isterici. Il bambino usa la parziale sospensione delle differenze (che l’identificazione isterica consente), la percezione contemporanea della madre come oggetto/soggetto insieme uguale e diverso da lui, per stabilire una condivisione con lei, in termini di comproprietà, di molti aspetti parziali dei loro modi di essere differenti. Andando in questa direzione il bambino non inventa nulla. Scopre semplicemente che la soggettività altra è fatta della sua stessa materia, seppure, essendo differentemente composta, funziona, complessivamente, in modo diverso. Attraverso il legame con la soggettività della madre, che nel trascendere la propria esperienza soggettiva, ne amplia anche i confini, il bambino mantiene integro il nucleo originario, autoreferenziale, del suo modo di essere nella sua relazione con il mondo esterno. Le aree di comproprietà con le altre soggettività (a partire da quella materna) si estendono, con il moltiplicarsi delle sue relazioni (a cui la presenza del padre apre la strada), fino al punto che tutte le singole componenti del proprio modo di essere trovano un loro corrispettivo al di fuori di sé. L’integrità della struttura essenziale della soggettività è così garantita attraverso la realizzazione di una soggettività eccentrica: La soggettività eccentrica è quella parte della soggettività, corrispondente a un elemento specifico di un modo personale di essere, che ha bisogno di un «comproprietario» per costituirsi ed esprimersi a pieno titolo, perché una o più maniere significative del suo manifestarsi non appartengono al soggetto ma sono reperibili in soggetti altri da sé. Nei confronti di questi soggetti, esiste il riconoscimento di una familiarità dovuta alla condivisione di questo specifico elemento. L’essere umano non si riconosce negli altri esseri umani solo per il fatto di rintracciare in loro (variamente distribuito) ciò che, pur desiderando, non può essere (aprendosi la possibilità di riparare la ferita narcisistica con il possesso indiretto della qualità desiderata ottenuto attraverso l’uso e possesso dell’oggetto che la detiene). Un’altra forma di riconoscimento negli altri è basata sul fatto che se nel suo insieme il modo personale di essere di un singolo soggetto è originale e unico, i singoli elementi che lo compongono sono sempre rintracciabili in una moltitudine di altri

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il desiderio che ama il lutto

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soggetti. La condivisione dei singoli elementi crea la fiducia necessaria nella totalità del proprio modo di essere, che sopperisce alla perdita del sentimento di onnipotenza originaria nel quale questo modo di essere è stato inizialmente cresciuto e cullato (nessuna delle traiettorie creative del suo essere che il bambino disegna all’inizio della sua esistenza potrebbe resistere, senza la capacità della madre di confermare passo dopo passo lo sforzo creativo del figlio che ignora il principio di realtà»)16.

Per via dell’identificazione isterica l’essere umano estende i confini della sua esistenza, rendendola insieme centrata ed eccentrica rispetto al nucleo originario della propria soggettività, che misconosce l’esistenza dell’altro. Nel luogo eccentrico, isterico, dell’esperienza, l’oggetto è trattato sia come parte di sé sia come altro da sé, e cioè come altro di sé. Il rapporto isterico con l’altro coincide temporalmente con il rapporto con l’oggetto transizionale17. Sono due esperienze complementari. L’identificazione isterica si serve dell’oggetto transizionale – un oggetto «non me», ma non, ancora, concretamente «altro» – come oggetto intermedio, che crea un ponte tra sé e l’altro e sospende la questione della loro differenza. A sua volta l’investimento dell’oggetto transizionale, oggetto non ancora soggetto, non approderebbe all’investimento di un oggetto/soggetto compiutamente separato da sé senza la spinta in questa direzione che viene dall’identificazione isterica. Quest’ultima si basa sul riconoscimento della 16

S. Thanopulos, Lo spazio dell’interpretazione cit., pp. 152-153. D.W. Winnicott (1953), Oggetti transizionali e fenomeni transizionali, in Id., Gioco e realtà, Armando, Roma 1973. L’oggetto transizionale è un oggetto, solitamente soffice (un pezzo di coperta ad esempio), usato inizialmente dal bambino in via di separazione dalla madre come difesa dall’angoscia, in particolare quella depressiva. Col tempo, bambole, orsacchiotti e oggetti duri svolgono la sua funzione. Esso è, al tempo stesso, reale e simbolico: un oggetto concretamente posseduto dal bambino (trattato con affetto, ma anche con eccitazione e crudeltà) che simbolizza il possesso della madre da parte del bambino. La combinazione dell’elemento reale e di quello simbolico consente un controllo magico del bambino sulla madre che si sta configurando come esistenza distinta, separata. Questo colloca l’oggetto transizionale in un luogo intermedio tra l’oggetto come parte di sé e l’oggetto autonomamente esistente. Il destino dell’oggetto transizionale non è la rimozione: esso viene messo da parte. La sua funzione è successivamente svolta dall’arte, dalla cultura e dalla religione. 17

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2. l’identificazione isterica

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soggettività dell’oggetto ed è protesa, all’interno della fase evolutiva di transizione che rende possibile, verso una relazione pienamente differenziata. L’altro di sé rappresenta la madre come oggetto/soggetto che è, al tempo stesso, identico e diverso rispetto al bambino. È un oggetto che è insieme interno (per via dell’identificazione) e esterno (disponibile per la relazione). L’oggetto transizionale è, invece, un oggetto intermedio, né interno né esterno. Come afferma Winnicott, «di norma l’oggetto transizionale non va dentro»18. Può stare simbolicamente per la madre, ma non è la madre19. La relazione complementare tra oggetto transizionale e l’altro di sé crea un’area di transizione, che è contemporaneamente: a) transizione tra oggetti, più precisamente dall’oggetto indifferenziato da sé (oggetto soggettivo secondo Winnicott) all’oggetto differenziato (oggetto oggettivamente percepito); b) transizione da sé all’altro; c) transizione dentro di sé dallo stato di identificazione allo stato di relazione con l’oggetto del desiderio. In quest’area di transizione i processi proiettivi (l’altro come il sé), che prevalgono nell’investimento dell’oggetto transizionale, s’incrociano e si integrano con quelli introiettivi (il sé come l’altro), che prevalgono nell’identificazione isterica. L’identificazione isterica raggiunge una sua configurazione stabile, diventando una dimensione permanente dello psichismo, solo a differenziazione stabilmente raggiunta. Come l’area transizionale, anche l’identificazione isterica è un ponte che può funzionare pienamente, in entrambi i sensi, solo quando raggiunge stabilmente l’altra sponda. Una volta costituita come dimensione psichica, assume una funzione di regolazione. L’incontro del soggetto con un soggetto diverso 18

Ivi, p. 30. «L’oggetto transizionale non è un oggetto interno (che è un concetto mentale). È un possesso. Ma non è (per il bambino) nemmeno un oggetto esterno» (ivi, p. 36, corsivo di Winnicott). 19

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il desiderio che ama il lutto

da sé attiva sempre il conflitto tra desiderio di sé e desiderio rivolto all’altro. La costante presenza di questo conflitto, che non si risolve mai una volta per tutte, costituisce l’essenza della dimensione isterica nell’essere umano. Nei suoi momenti topici il conflitto segnala che l’integrazione della soggettività ha raggiunto un punto di chiusura indesiderabile, che irrigidisce in modo preoccupante la regolazione del rapporto con ciò che è diverso. In questi momenti la riattivazione dello spazio isterico nel soggetto riapre spazi di non integrazione precedentemente chiusi, rimescola i confini tra il sé e l’altro e rimette in movimento la configurazione di un nuovo ordine interno, che allarga la prospettiva della relazione con l’oggetto del desiderio nel punto in cui questa relazione rischiava di arenarsi. L’identificazione isterica con l’altro è la colonna portante della rappresentazione della realtà secondo le modalità del processo primario, in cui tra il soggetto e l’oggetto della rappresentazione c’è e contemporaneamente non c’è differenza. Nel suo far coesistere la differenza e l’identità, si spinge oltre i confini dell’inconscio per dar vita al pensiero onirico del giorno, precedentemente citato, dove processo primario e processo secondario si compenetrano tra di loro. Questo pensiero semi-cosciente sfuma gradatamente nella rappresentazione compiutamente differenziata della realtà – il processo secondario – e nella coscienza piena. La forza dell’identificazione isterica nasce da questa sua doppia collocazione (essere immersa nell’inconscio e affacciata alla coscienza), che le consente di trasformare costantemente l’identificazione inconscia con l’altro in arricchimento dello scambio con la sua differenza, e viceversa. Per dirla in modo sintetico: l’identificazione isterica è la cerniera della logica antinomica della nostra esistenza, ugualmente fondata sul rapporto indifferenziato e sul rapporto differenziato con il mondo20. 20 L’identificazione isterica è al centro dell’«antinomia costitutiva dell’essere» descritta da Matte Blanco (L’inconscio come insiemi infiniti: saggio sulla bi-logica, cit.).

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2. l’identificazione isterica

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Genesi dell’identificazione isterica e senso di responsabilità L’esistenza iniziale del bambino richiede una costante modulazione reciproca dell’incontro del suo corpo con quello della madre che realizza in modo altrettanto costante la soddisfazione del suo desiderio e crea un sentimento di onnipotenza psichica. Quando la sponda del corpo materno inizia a venir meno, il bambino si trova esposto al rischio di una dissociazione tra la sua psiche, che continua a funzionare in modo onnipotente, e il suo corpo, che è impotente a sostenere da solo le richieste psichiche. Col venir meno della disponibilità pressoché puntuale della madre, il movimento del corpo perde una sponda immediata in lei nella soddisfazione del desiderio. In Teatri del corpo21, Joyce McDougall parla di una tendenza del bambino a reagire alla separazione dalla madre-universo cercando di fondersi di nuovo con lei. Ella sottolinea come lasciarsi scivolare verso l’ombelico della fusione contribuisca alla realizzazione di due esperienze psicosomatiche fondamentali: il sonno e l’orgasmo. La McDougall coglie un punto importante, ma in una prospettiva relativamente impropria. L’originaria esperienza fusionale con la madre, resta inscritta, come potenzialità, nella struttura psicocorporea dell’essere umano. È luogo di periodico ritorno in tutte le esperienze di abbandono del senso dei confini, che, come Milner22 ha intuito, sono condizione preliminare delle ridefinizioni più profondamente creative e trasformative del rapporto con la realtà. Una parte nucleare della soggettività resta ancorata a un tipo di relazione con il mondo che non riconosce l’alterità, il che implica una comunicazione silenziosa (non intenzionale) con il mondo, ma niente affatto immobilità. Questa dimensione esistenziale rappresenta il fluire più autentico dell’esperienza umana. La separazione del bambino dalla madre rende esplicita – consapevolmente assunta e riconosciuta – l’estro21

J. McDougall, Teatri del corpo (1989), Raffaello Cortina, Milano 1990. M. Milner, Il ruolo dell’illusione nella formazione del simbolo (1953), in M. Klein (a cura di), Nuove vie della psicoanalisi, Il Saggiatore, Milano 1966. 22

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il desiderio che ama il lutto

versione spontanea del fluire della esperienza del bambino come fatto costitutivo della sua soggettività. La reazione alla separazione/mutilazione originaria porta necessariamente il soggetto oltre il mantenimento dell’esperienza fusionale, che grazie all’assenza dei confini (che la madre con il suo iniziale costante adattamento rende possibile), non riconosceva la differenza delle soggettività di cui era debitrice. Nella sua nuova e vulnerabile posizione il soggetto non può più negare la differenza dell’oggetto di desiderio – il quale, allontanandosi, pone dei limiti spazio-temporali che configurano confini –, ma non può neppure accettare la definizione netta dei confini, che renderebbe la differenza troppo autonoma dal suo desiderio. Deve sfumare, sospendere l’effettività dei confini – ma non può cancellarli, dissolverli, senza un ripiegamento autistico in se stesso. In questa sospensione, segue due vie tra loro opposte: sconfinare nella direzione dell’altro o fare sconfinare l’altro nella propria. Il bambino mutilato di madre reagisce primariamente trasformando il suo desiderio autoreferenziale in desiderio violento, che non rispetta limiti e confini, nei confronti dell’oggetto che emerge nella sua alterità. La violenza di questo desiderio, che è la prima forma d’amore, è tanto più grande quanto meno la madre è raggiungibile. L’esigenza che dà origine all’amore del bambino in questa sua prima apparizione è la trasformazione di una parte perduta della sua esistenza nel possesso di un oggetto sottoposto in modo assoluto al suo desiderio e alla sua volontà. L’oggetto amato, in termini insieme di identificazione narcisistica (lo si ama come riflesso delle proprie qualità) e di identificazione proiettiva (è animato dal desiderio del bambino), viene trattato spietatamente e odiato tutte le volte che manifesta la sua soggettività (attraverso l’autonomia e la libertà del suo corpo, del suo pensiero, delle sue emozioni e del suo desiderio). Winnicott definisce questo amore, di cui l’odio è parte integrante, spietato (ruthless)23, e 23 Vedi S. Thanopulos, L’uso dell’oggetto in, Id., Lo spazio dell’interpretazione, cit.

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2. l’identificazione isterica

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ne sottolinea l’importanza per lo sviluppo successivo della capacità di amare in modo pieno e autentico. L’amore spietato mira ad annullare la volontà del suo oggetto e a mantenere il legame tra la psiche e il corpo, preservando la coesione narcisistica della struttura psichica. Se la madre, nel mantenere il proprio statuto di oggetto/soggetto, difendendo la sua autonomia conferma anche la sua disponibilità e la sua presenza (senza la quale l’amore spietato non potrebbe nascere), il bambino scopre gradualmente che è la soggettività odiata di lei a renderla viva e desiderabile. Inizia a capire che egli odia la madre per lo stesso motivo per cui l’ama. Ciò lo conduce progressivamente a un senso di responsabilità nei suoi confronti, a un atteggiamento di preoccupazione, rispetto e attenzione per i suoi confini e per il suo modo di essere. Conoscere la madre e accordarsi con la particolarità personale della sua presenza diventa altrettanto importante che godersela. Rispettare la sua soggettività diventa la condizione necessaria perché la si possa veramente godere. Viceversa, è il godimento reale procurato dall’incontro con un corpo materno soggettivamente vivo (e non depresso) a dare origine a sentimenti di rispetto e di cura autentici, che non sono cioè il prodotto della paura di perderla o della necessità di compiacerla. L’amore spietato convive con la tendenza opposta – l’altro modo del bambino di reagire al dramma della separazione –, sviluppata in modo più graduale sulla via della percezione crescente che la presa assoluta sull’oggetto è velleitaria: farsi possedere dal desiderio della madre, annullarsi, nei momenti dell’incontro, in lei, per perdere il senso dei propri confini e cancellare l’angosciosa percezione della sua separatezza, della sua alterità. Laddove nell’amore spietato è la soggettività della madre ad alimentare il desiderio passionale del figlio, che cerca di annullarla, nella tendenza ad abbandonarsi a un desiderio altro è il desiderio del figlio che alimenta ed esalta la soggettività della madre a scapito della propria. Questa tendenza, che

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il desiderio che ama il lutto

si costituisce come dimensione permanente della psiche umana, rappresenta, nella mia visuale, l’origine del masochismo, e può essere definita come masochismo originario. Se l’amore spietato ha il suo perno nell’esigenza della madre di uscire dalla sua piena dedizione al figlio, il masochismo originario fa leva alla tendenza possessiva di lei a ignorare la crescente diversità del desiderio di lui, travolgendolo con il proprio. Il significato dell’amore spietato e del masochismo sta nella loro integrazione e nel loro reciproco bilanciamento. Il primo spinge il corpo a sostenere l’onnipotenza psichica (afferrando e manipolando il corpo separato della madre come oggetto da plasmare privo di volontà). Il secondo porta la psiche ad assecondare l’impotenza di un corpo privo della continuità di una sponda materna, facendosi plasmare insieme ad esso dal desiderio della madre, non per soccombere a lei ma per impossessarsene. Il possedere spietatamente la madre, trasformandola in oggetto passivo delle proprie proiezioni (affermando in tal modo un’unità narcisistica di desideri e intenti, che colma lo spazio della separazione corporea) e il farsi possedere da lei (introiettando il suo desiderio e il suo modo di essere, imparando a conoscerla) convergono gradualmente verso la configurazione dell’identificazione isterica. Nell’identificazione narcisistica la soggettività della madre è ignorata e il bambino si appropria di lei come di un oggetto non-soggetto in cui proietta cose sue, pretendendo che funzioni come estensione di sé. Nell’identificazione isterica il bambino si impossessa di cose che riconosce come appartenenti alla soggettività materna facendole sue, prevalentemente mediante introiezione. Le cose introiettate diventano contemporaneamente il segno della sua somiglianza e della sua differenza dalla madre e consentono di sentirla come qualcosa che è insieme separato e non separato da sé. Non sarebbe tuttavia corretto pensare che il prevalere dell’introiezione sulla proiezione, che dà l’avvio all’identificazione isterica, sia da associare a una prevalenza del ma-

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2. l’identificazione isterica

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sochismo originario sull’amore spietato. È la trasformazione dell’amore spietato in amore responsabile, il quale riconosce che è la differenza della madre a renderla realmente desiderabile, a far diventare il masochismo originario – sottomissione che si fa impossessamento dell’altro – meccanismo di assimilazione interiore dell’alterità. Nella direzione opposta non sarebbe corretto associare il senso di responsabilità alla sola evoluzione dell’amore spietato: la conoscenza intima della madre, prodotta dal masochismo originario, favorisce il volgersi della passione spietata verso un approccio desiderante responsabile. L’identificazione isterica consente l’articolazione, nel mondo interno del bambino, tra l’investimento passionale della madre come oggetto totalmente sottomesso al proprio desiderio e alla propria volontà e l’investimento di lei come soggetto, persona. La congiunzione implica il riconoscimento che è la seconda condizione, e non la prima, a render desiderabile la madre. Grazie all’identificazione isterica, la passione diventa la linfa del senso di responsabilità che, a sua volta, rende la passione capace di preservare e valorizzare il suo oggetto. Questo non sarebbe possibile senza la presenza del masochismo originario che non solo informa il bambino spietato sulla natura del desiderio materno che andrebbe rispettato, ma gli fa anche comprendere l’interdipendenza dei loro desideri nella realizzazione del piacere e l’importanza dell’accogliere il desiderio «straniero» dentro di sé. La presenza contemporanea di due diversi equilibri nell’intreccio tra amore spietato e masochismo originario dà origine alla percezione, caratteristica della dimensione isterica dell’esperienza, di essere insieme separati e non separati dall’oggetto desiderato (riconosciuto come soggetto), e colloca il bambino nel doppio registro della relazione e dell’identificazione con l’alterità. Sul primo versante il possedere l’oggetto e il farsi possedere da esso convergono verso l’appropriazione interiore della sua alterità; sul secondo versante la loro conver-

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il desiderio che ama il lutto

genza è finalizzata alla sua conoscenza come cosa inconsueta e diversa con cui stabilire un rapporto di comunicazione e di scambio. A partire dalla costituzione dell’identificazione isterica il masochismo originario e l’amore spietato vengono declinati rispettivamente come capacità alterne di perdersi e di ritrovarsi. Il perdersi è l’usufruire di spazi di allentamento significativo dell’integrazione della propria esperienza, che consentono l’esplorazione di nuove possibilità di relazione con il mondo. Il ritrovarsi è il riemergere verso nuove forme di integrazione che conservano l’apertura della precedente esperienza di allentamento dell’integrazione. L’incontro erotico tra il corpo del bambino e quello della madre nei momenti della loro ricongiunzione fisica resta il perno fondamentale di questa nuova organizzazione psicocorporea del bambino. Da una parte, il lasciarsi andare nel piacere indotto da un corpo diverso dal proprio, dà forma all’esperienza di un rilassamento esistenziale, che non è il risultato di un ritorno allo stato di non integrazione dell’esperienza, ma della capacità di sostare in aree intermedie tra integrazione e non integrazione. Dall’altra, il possesso passionale di questo altro corpo prefigura il ritorno a uno stato di presenza piena in sé e di integrazione. In questo contesto il corpo materno assume una duplice funzione: per un verso è la fonte di un movimento che de-costruisce l’organizzazione del desiderio del bambino e per un altro è il punto di ancoraggio che consente la sua ricostruzione. Da quel momento il piacere si stabilisce nella sua forma compiuta, che non è quella di una soddisfazione lineare del desiderio, ma di un movimento della sua decostruzionericostruzione. Questo movimento raggiunge la sua piena realizzazione in epoca adulta nell’esperienza dell’orgasmo, in cui il corpo del partner erotico ha la stessa funzione che ha avuto all’inizio il corpo della madre. Il legame erotico del bambino con il corpo materno nello spazio dell’identificazione isterica, struttura un presentimen-

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2. l’identificazione isterica

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to, pre-concezione della scena primaria, fondato nella capacità di coinvolgimento profondo della madre24. L’oscillazione della madre, all’interno di questa sua funzione significante, tra l’adattamento alle esigenze e ai tempi del bambino e gli inevitabili sconfinamenti autoreferenziali, che invadono il desiderio di lui, determina anche una prefigurazione delle scene di castrazione e di seduzione25.

24 Questa capacità della madre è strettamente associata alla presenza in lei di una passione responsabile nei confronti del suo oggetto di desiderio. 25 Secondo il mio punto di vista la generazione dei fantasmi originari (scena primaria, seduzione, castrazione) avviene qui, non è l’attuazione automatica e precostituita di schemi filogenetici. La concezione filogenetica dei fantasmi originari da parte di Freud è nata dalla sua erronea adesione alla teoria di una trasmissione ereditaria di caratteri acquisiti culturalmente e dalla necessità di uscire dall’imbarazzo in cui lo portò la constatazione che nel caso dell’uomo dei lupi le scene della seduzione erano immancabilmente legate a figure femminili e non alla figura del padre, come egli pretendeva. Non può restare inosservata una contraddizione tra due concezioni di fatto contemporanee nello sviluppo del suo pensiero: la concezione filogenetica, biologicista, dei fantasmi originari e la concezione della pulsione come concetto limite che emancipa la psicoanalisi dal corpo biologico e dalla medicina (e, per altri versi, dalla psicologia). La schematicità della prima concezione tradisce l’eleganza e il rigore della seconda.

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3. Il desiderio che ama il lutto

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L’identificazione isterica e l’elaborazione del lutto La riparazione della mutilazione originaria, prototipo di tutte le perdite e separazioni successive, è contemporaneamente riparazione di sé e dell’altro e costituisce il modello di ogni elaborazione del lutto. Sul piano dell’autoriparazione (che ha la precedenza), il bambino trasforma l’essere in avere: ciò che non può più illudersi di essere (identificazione con l’oggetto) lo può recuperare in termini di avere (relazione oggettuale). Sul piano della riparazione dell’oggetto, il bambino lo deve proteggere dalla primissima forma dell’avere: l’appropriazione spietata dell’oggetto che non bada ad altro che al suo possesso senza preoccupazione e senza limiti. Il bambino diventa capace di proteggere l’oggetto quando diventa capace di sviluppare nei suoi confronti un senso di responsabilità. L’identificazione narcisistica con l’oggetto, la prima reazione del bambino alla sua perdita, è una soluzione precaria. Spinge verso l’identificazione proiettiva1 e quindi verso un possesso spietato dell’oggetto che aspira a colonizzare il suo mondo interno, ad abitarlo e muoverlo secondo il proprio desiderio. Affidati alla sola identificazione narcisistica il processo di riparazione e l’elaborazione della perdita non sarebbero possibili. Per due motivi: 1

L’attribuzione all’oggetto dei propri desideri e bisogni: il sé nell’altro.

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il desiderio che ama il lutto

a) L’identificazione narcisistica e il possesso spietato dell’oggetto non reggono a lungo di fronte allo sviluppo naturale del distacco della madre dal bambino, un distacco che è destinato a progredire. b) Se il possesso narcisistico e spietato persistesse, non si svilupperebbe un senso di preoccupazione e di responsabilità, e la riparazione del soggetto comporterebbe il danno dell’oggetto e quindi una conferma della sua perdita. Come è già stato sottolineato, l’elaborazione del lutto richiede un passaggio successivo: l’identificazione isterica. In Lutto e melanconia Freud riprende la caratteristica dell’identificazione isterica di essere, contemporaneamente, relazione con l’oggetto, e la usa per differenziarla dall’identificazione narcisistica2: Tuttavia, la differenza fra l’identificazione narcisistica e quella isterica può essere ravvisata in questo: mentre nella prima l’investimento oggettuale viene abbandonato, nella seconda esso permane…3.

Il tratto distintivo dell’identificazione isterica, il suo essere insieme identificazione e relazione con l’oggetto, le assegna un ruolo centrale nell’elaborazione del lutto. Questo ruolo trova un importante, seppur indiretto, riscontro in alcune riflessioni di Freud ne L’Io e l’Es che estendono il raggio d’azione del meccanismo di sostituzione di un investimento oggettuale da un’identificazione, che era stato precedentemente descritto come tipico della melanconia: Eravamo riusciti a chiarire la sofferenza dolorosa della melanconia supponendo che (in chi ne è colpito) un oggetto perduto tornasse a ergersi nell’Io, che cioè un investimento oggettuale venisse sostituito da un’identificazione. Allora però non conoscevamo ancora tutto il significato di questo processo e non sapevamo quanto frequente e tipico esso sia. In seguito abbiamo compreso che una tale sostituzione concorre 2 Qui Freud parla dell’identificazione isterica come aspetto fisiologico dello psichismo umano. 3 S. Freud, Lutto e melanconia (1915), cit., p. 109.

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3. il desiderio che ama il lutto

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in misura notevole alla configurazione dell’Io, contribuendo in modo essenziale a produrre ciò che viene chiamato suo «carattere»4.

Per Freud l’identificazione con l’oggetto è, forse, l’unica condizione che consente la rinuncia ad esso. In realtà egli non si preoccupa di affrontare la contraddizione contenuta nel suo discorso: il meccanismo della sostituzione dell’investimento oggettuale dall’identificazione appare funzionale sia all’emergere della melanconia (con l’introversione degli attacchi distruttivi e dell’odio) sia all’elaborazione del lutto (con l’interiorizzazione dell’oggetto e il suo inserimento nel processo di consolidamento dell’Io). La difficoltà è superata se facciamo riferimento a due tipi di identificazione: nella melanconia l’identificazione è narcisistica, mentre nel movimento che porta all’elaborazione del lutto e alla sedimentazione degli investimenti oggettuali abbandonati nel carattere dell’Io, l’identificazione è isterica. Di fatto, è questo secondo tipo di identificazione che Freud descrive quando afferma: Capita anche di osservare una contemporaneità di investimento oggettuale e di identificazione, e cioè un’alterazione del carattere che interviene ancor prima che l’oggetto sia abbandonato. In tal caso l’alterazione potrebbe sopravvivere alla relazione oggettuale e in certo senso tenerla in vita5.

Bisogna avere chiaro in mente che in origine l’identificazione precede l’investimento dell’oggetto come cosa separata da sé. La sostituzione descritta da Freud si realizza successivamente, in forma di regressione, tutte le volte che diventa necessario abbandonare degli investimenti oggettuali. Se il bambino non riesce ad appropriarsi adeguatamente della madre, che si sta separando da lui, la configurazione psichica e l’investimento di lei come entità esterna sono precari e l’identi4 S. Freud, Io e Es (1922), in Id., Opere di Sigmund Freud, cit.: vol. IX, 19171923. L’Io e l’Es e altri scritti, cit., p. 491. 5 Ivi, p. 492 (i corsivi sono miei).

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il desiderio che ama il lutto

ficazione con l’oggetto desiderato permane essenzialmente narcisistica. La sedimentazione dell’oggetto nell’Io resta priva di un’adeguata sponda nella realtà. Piuttosto che rinforzare l’Io, rendendolo più libero e autonomo, rischia di trascinarlo nella catastrofe ad ogni perdita dell’oggetto. A causa dello statuto iniziale precario dell’oggetto, ogni volta che è necessario difendersi dalla sua perdita interiorizzando la sua esistenza, la precarietà si diffonde all’interno dell’Io. Quando la madre resta sufficientemente accessibile nella sua separatezza, il bambino riesce a investirla contemporaneamente come parte di sé e come altro da sé, cioè in termini di identificazione isterica, e uscire dall’impasse narcisistica. Ciò consente il prolungamento psichico dell’esistenza della madre come oggetto separato, esterno, anche quando non è fisicamente disponibile. Grazie a questo prolungamento iniziale, che si costituisce nella psiche come snodo permanente tra l’esistenza interna e quella esterna dell’altro, gli oggetti esterni (non più vissuti come fenomeni soggettivi) perduti nel corso successivo della vita possono continuare a vivere, dopo la loro perdita, nel mondo psichico. Il soggetto li tratta sul piano del desiderio, delle emozioni e dei pensieri, come se fossero ancora presenti, nonostante sia consapevole della loro assenza, che percepisce. Questo può accadere sia in forma temporanea, come avviene nelle esperienze di lutto, sia in forma stabile attraverso la sedimentazione degli oggetti perduti nell’Io. Riformulando il discorso di Freud, si può dire che la costituzione isterica dell’Io si realizza prima dell’abbandono dell’investimento esclusivamente passionale dell’oggetto, gli sopravvive e lo mantiene in vita (sia in termini di esistenza interna sia come potenzialità di una sua riedizione nella realtà esterna). Se le cose vanno per il verso giusto, l’identificazione isterica si attiva fortemente tutte le volte che si verifica una perdita, un abbandono necessario di un investimento oggettuale. Essa media sia il prolungamento dell’esistenza psichica dell’oggetto perduto, già costituito come cosa separata da sé, sia il gra-

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3. il desiderio che ama il lutto

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duale distacco successivo da esso, la presa d’atto del fatto che non è più concretamente, materialmente disponibile. Accolto in un luogo psichico in cui non è interno né esterno, ma entrambe le cose, l’oggetto può avviarsi a un duplice destino: essere progressivamente interiorizzato lungo la via dell’identificazione; essere altrettanto progressivamente ri-esteriorizzato, in forme nuove, lungo la via della relazione. Identificandosi istericamente con l’oggetto perduto, il soggetto si muove tra affinità e differenza. Sul versante dell’affinità il soggetto riattiva, intensifica e affina l’identificazione con le qualità desiderate dell’oggetto, che consentono di mantenerlo vivo dentro di sé come oggetto interno6. Sul versante della differenza, le qualità desiderate e perdute dell’oggetto sono gradualmente riconosciute, confermate nella loro alterità e non assimilabilità, e cercate nel (restituite al) mondo esterno. Interiorizzazione e esteriorizzazione dell’oggetto vanno di pari passo, strettamente collegate tra di loro, di modo che tra l’oggetto interno e l’oggetto esterno si stabilisca una relazione di interdipendenza. L’oggetto interno non sarà mai veramente vivo se l’oggetto esterno non è disponibile (anche nell’ambito delle sostituzioni e delle differenti possibilità che l’ambiente offre), e l’oggetto esterno non è raggiungibile se l’oggetto interno non è vivo, se l’oggetto ritrovato dentro di sé non è rivolto alla vita7. Grazie al fatto che, una volta pienamente costituita, l’identificazione isterica diventa una cerniera permanente dello psichismo, oggetto interno (prodotto dell’identificazione) e oggetto esterno (prodotto della differenziazione) restano perennemente collegati tra di loro in termini di relazione complementare. Il primo, ciò che noi condividiamo con l’altro, si compenetra con il secondo, ciò dell’altro che, non 6 L’identificazione consente al bambino di ritrovare, re-interiorizzare, in modo più stabile e definito, le qualità dell’oggetto perduto che fanno pure parte di sé, almeno parzialmente, ma hanno bisogno di una sponda esterna per crescere e consolidarsi. In questa maniera il bambino introietta, assieme all’oggetto, anche una relazione di contiguità, di reciproca risonanza. 7 L’elaborazione del lutto non è compiuta finché essa non determina un arricchimento contemporaneo del mondo interno e delle relazioni esterne.

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il desiderio che ama il lutto

condividendolo come comune proprietà, desideriamo avere. Si riproduce tra l’oggetto interno e l’oggetto esterno una parte della nostra relazione di desiderio con l’altro, che in tal modo viene introiettata. Questo ci consente oltre che riconoscere ciò che si cerca nella vita e la strada per accedervi, anche di vivere, perfino a lungo, in assenza di una relazione di desiderio stabile, senza deprimersi. Nell’identificarsi istericamente con la madre, il bambino assume in transizione dentro di sé l’alterità di lei8. L’identificazione transizionale del bambino con le qualità materne di cui non è in possesso, incastra tra di loro il processo di introiezione e quello di esteriorizzazione dell’oggetto. La cosa importante non è la permanenza in transito della madre come oggetto altro dentro di sé, ma la tensione interna tra due modi di essere prodotta da questa permanenza, e l’apertura della soggettività che la tensione favorisce. Quando la perdita (temporanea o permanente) di un oggetto, il venir meno della sua disponibilità sul piano della relazione e dell’uso, fa parte di un processo evolutivo fisiologico nella vita del soggetto, il lavoro del lutto è aiutato dal fatto che la perdita si verifica in relazione o in concomitanza con la comparsa di nuovi oggetti. Se la perdita è invece improvvisa e imprevista (come nel caso della morte precoce di una persona cara o della rottura di un legame erotico), il lavoro del lutto è più complicato perché la disponibilità di nuovi oggetti non è immediata. La stessa condizione si verifica con le perdite che accadono durante il percorso evolutivo se i nuovi oggetti presenti non sono facilmente accessibili (come succede, in particolare, nell’adolescenza). L’elaborazione del lutto sul versante della ri-esteriorizzazione dell’oggetto avviene allora sul piano di investimenti oggettuali potenziali, capaci di sospendere la loro realizzazione in attesa del momento e del luogo giusto. Prende gradualmente forma e si afferma un desiderio dell’alterità, che, 8 L’introiezione delle sue qualità, in cui lui si riconosce come soggetto, non abolisce la differenza di lei, il movimento di «importazione» è riconosciuto. La madre è e non è lui.

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3. il desiderio che ama il lutto

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non avendo una sponda a portata di mano, è costretto ad allargare il suo orizzonte per cercare legami più profondi e duraturi con la realtà esterna. La capacità di mantenere l’investimento (che è sempre anche re-investimento) di un oggetto nuovo allo stato potenziale, dandosi il tempo di trovare quello giusto (e di arrivarci quando si è nella condizione di riconoscerlo), fa la differenza tra l’elaborazione del lutto e la consolazione. Quest’ultima cerca oggetti narcisistici di uso immediato. L’elaborazione compiuta del lutto è strettamente correlata alla capacità di identificazione isterica. Solo se l’oggetto perduto può essere collocato in uno spazio psichico in cui è, al tempo stesso, interno ed esterno al soggetto, il versante soggettivo può mantenere allo stato potenziale la sua esistenza esterna, in attesa di una forma che lo faccia rivivere nella realtà oggettivamente. L’elaborazione del lutto non è possibile se si è costretti a scegliere tra l’oggetto interno e l’oggetto esterno, perché, privo della sua esteriorità, l’oggetto non sopravvive interiormente. Questo è il problema che il bambino deve fronteggiare all’inizio della sua separazione dalla madre, quando si trova esposto alla scelta impossibile tra l’oggetto che fino a quel momento è stato parte di sé e l’oggetto che emerge nella sua ineludibile differenza.

Il desiderio che ama il lutto Il desiderio è il gesto nella sua forma essenziale: la tensione interna che sta diventando espressione, il movimento del corpo prima di prendere forma e significato definito, lo stato del corpo in cui il sentire profondo diventa espressività, non ancora un’azione motoria, un movimento finalizzato, ma pronto a diventarlo; è il coinvolgimento psicocorporeo nel suo divenire direzione. Lo schiudersi della soggettività, la sua fondamentale apertura al mondo, ha la sua sponda costitutiva nell’incontro sen-

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il desiderio che ama il lutto

suale con un un’altra soggettività. Tuttavia, questo incontro non potrebbe scatenare lo sbilanciamento sconvolgente della soggettività desiderante verso l’alterità se permanesse in un fluire senza discontinuità, se la differenza dell’altra soggettività non colpisse nel cuore l’illusione dell’autoreferenzialità e non facesse sentire, non mostrasse all’essere cullato nella stabilità la sua mutilazione, la sua mancanza. Il vissuto della mutilazione, scava un fossato tra il desiderio e l’immediatezza della sua meta. Farebbe sprofondare il soggetto nel vuoto, nel momento dell’estroversione manifesta della sua esistenza, se l’altro, la madre, non si mantenesse come sponda, nella distanza opportuna che afferma la necessaria differenza ma garantisce anche la sua accessibilità. L’oscillazione tra lontananza e prossimità (tra perdita e ritrovamento) trasforma il dolore melanconico della mutilazione, che è perdita inesorabile di una parte di sé, in dolore luttuoso di mancanza dell’oggetto in cui riappare quella parte perduta di sé. Il lutto, il dolore della mancanza dell’altro, la cui perdita senza ritorno riaprirebbe la ferita della mutilazione, implica la possibilità di un ritrovamento che non è un dato di partenza, ma qualcosa da costruire. L’altro che manca non può essere richiamato come e quando lo si desidera, la sua disponibilità non può essere data per scontata: è necessario un lavoro di trasformazione che è l’elaborazione del lutto. Nella prima e fondante delle sue esperienze di lutto il soggetto in gestazione fa esperienza del fatto che il suo oggetto, la madre, non è parte di sé e non può essere più trovata dove lui l’aspetta. Può ritrovarla solo a condizione di una trasformazione del proprio modo di essere, che trasforma la sua percezione di lei. Il dolore per la mancanza della madre dà la misura della distanza che il desiderio deve percorrere per ritrovarla. La mancanza luttuosa è l’approdo finale della mancanza originaria, che non è mancanza di essere (Sartre) né mancanza a essere (Lacan), cioè un’incompiutezza costitutiva dell’essere: l’essere della soggettività non è chiuso in sé, compiutamente o

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incompiutamente, ma è un fluire in perpetua relazione/estroversione con il fuori da sé. La mancanza originaria consiste nel fatto che l’estroversione del fluire dell’esistenza soggettiva verso il fuori da sé è costitutivamente esposta a discontinuità che nessun tipo di relazione e nessuna rete di relazioni può impedire. L’iniziale puntualità delle cure materne crea un sentimento di autoreferenzialità, l’illusione originaria di una unitaria totalità, mai esente da crepe, che funziona come scudo protettivo di una soggettività sorgente troppo vulnerabile per potersi riconoscere nella dipendenza dalle sue condizioni esteriori. Tuttavia l’illusione originaria, fondamento narcisistico della coesione del Sé (il senso di appartenenza a se stessi), non potrebbe reggere, neppure per il tempo provvisorio che un’elementare maturazione della soggettività richiede, se l’intensità dell’incontro con la madre non creasse una tensione positiva dell’intera struttura psicocorporea del bambino verso di lei, un altrove da sé non ancora concepito come tale. L’illusione dell’autoreferenzialità argina e contiene l’angoscia della mancanza originaria, ma è l’intensità del contatto, del coinvolgimento sensuale con la madre ad imprimere nel bambino la spinta che lo porterà a sfidare la discontinuità, gettandosi nella vita. Nel momento della separazione, della rottura dell’illusione dell’unitaria totalità, che rivela l’esistenza di discontinuità nel fluire dell’essere nel mondo, si producono due opposte tendenze. È l’assenza o la presenza di una sponda materna adeguata a decidere a favore dell’una o dell’altra. Tutte le volte che la sponda materna viene a mancare, il bambino resta nell’ombra dell’illusione di un’unitaria totalità e ripiegando difensivamente, costruisce, a posteriori, il mito di una compiutezza perduta. Prevale un narcisismo negativo, la tendenza di ritorno all’autoreferenzialità, che fa dissociare l’illusione dalla ricerca della sensualità dell’esperienza vissuta e porta alla percezione della vita reale come menomazione, mancanza di/a essere che ferisce permanentemente. La costanza della sponda materna, invece, trasforma il movimento verso l’altro-

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ve della sensualità – il piacere profondo che coinvolge l’intera struttura psicocorporea – in dolore luttuoso di mancanza non irreversibile dell’altro, che crea una spinta verso il suo possesso, spietato e masochistico al tempo stesso. La spinta alla relazione di possesso reciproco con l’altro, se da una parte fa riemergere la mancanza originaria sotto forma di mutilazione, dall’altra la trasforma in mancanza di possesso (nel doppio senso di possedere ed essere posseduti). Si passa dalla mancanza originaria, la discontinuità di una sponda per l’essere nel suo fuoriuscire, all’essere nella mancanza: la tensione primaria del vivere, inizialmente percepita illusoriamente come chiusa nella soggettività, diventa tensione verso l’alterità che la apre al mondo. L’illusione originaria, che crea l’altro come parte di sé, resta legata all’estroversione della soggettività e si estroverte a sua volta. Sotto l’effetto della mancanza luttuosa, l’illusione creativa, espressione di un narcisismo positivo, si trasforma in presentimento, intuizione della presenza dell’altro, di cui si ha già la più intima delle conoscenze9, nel fuori da sé. Diventa immaginazione creativa, anticipazione delle possibilità che offre lo spazio della vita. L’illusione, nella sua qualità di immaginazione del mondo, orienta il desiderio nell’attraversamento dello spazio della differenza (dove la prossimità gioca con la lontananza), al quale lo impegna la mancanza dell’altro (la sua indisponibilità a essere impiegato come protesi di sé). La mancanza si risolve nel dispiegamento del desiderio in una molteplicità di configurazioni che, guidate dall’illusione/immaginazione, presentono l’incontro nella sua potenzialità, supplendo alla periodica assenza, nella sua concreta materialità e sensualità, dell’oggetto desiderato. In questo modo la soddisfazione del 9 Conoscenza tanto più intima quanto più di questo primo altro, con cui si è in contatto nella sua totalità, è ignorata la diversa esistenza. Nella fase originaria indifferenziata della vita, tutto ciò che la madre è si mette in gioco nella sua relazione con il bambino, anche se la loro intimissima conoscenza, basata sulla contiguità, non si declinerà nelle sue più complesse possibilità che a partire dall’emergere della loro differenza.

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desiderio si estende al di là della sua concretezza sensuale, verso le infinite possibilità di esperienza/conoscenza vissuta, e goduta, nel saper gustare l’attesa. Ciò mantiene viva e desiderante la materia psicocorporea di cui è fatta la soggettività anche in assenza di una soddisfazione a portata di mano. Tuttavia, tra l’essere nella mancanza e l’inseguimento della potenzialità, in cui la soggettività gode del suo stesso movimento, resta sempre una discrepanza. La mancanza originaria non è mai contenuta in modo completo, la discontinuità nel fluire dell’esistenza non è mai del tutto legata alla continuità nella produzione di un movimento trasformativo. Nel viaggio dell’essere umano verso Itaca (l’approdo che prolunga il viaggio e il suo orizzonte) resta sempre un quoziente di angoscia ineliminabile. Questa angoscia, anche quando non erompe precocemente in maniera catastrofica10, resta sempre come orizzonte melanconico dell’esistenza (la ferita, mai del tutto guarita, della mutilazione)11. Nel lutto il dolore della mancanza misura la spinta verso l’oggetto che manca e, al tempo stesso, l’attrazione che esercita: decide la sua importanza e l’estensione dell’esposizione, dell’apertura ad esso. Il pathos del lutto è contemporaneamente senso di mancanza che spinge e attrazione che è subita, movimento psicocorporeo irreversibile, desiderio che converge sotto l’effetto di due forze verso l’oggetto che sfugge. Il dolore della mancanza afferra la materia della soggettività nel punto della più intima connessione del corpo con la psiche. Destruttura l’ordine dell’esperienza psicocorporea, la spinge nell’inseguimento di ciò che manca e l’orienta nello spazio in cui l’oggetto desiderato può essere presentito, preso nell’immaginazione. Il desiderio plasmato dal dolore, che 10

Sotto forma di follia psicotica o di depressione. Sotto l’effetto dell’angoscia, una parte dell’illusione si sospende nella sua funzione esplorativa del mondo, congelandosi sotto forma di posticipazione perpetua della vita vissuta, come accade nel sentimento religioso, o permane sullo sfondo della ricerca conoscitiva come tensione immaginifica che cerca di inquadrare il mondo dal punto di osservazione di un ipotetico sguardo di Dio. 11

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a sua volta plasma, trasforma in strumento esplorativo, si muove con sapienza intuitiva. Diventa direzione e pregusta, nell’esitare che lo arricchisce di declinazioni e sfumature, il proprio compimento. La tensione primaria verso la vita oltrepassa i confini del corpo, e il desiderio permea la materia della soggettività nella sua totalità, nel mentre, travalicandola, la trascina con sé e la espande. La forza trasformativa del desiderio raggiunge il suo apice nella soddisfazione, nel godimento. In esso il coinvolgimento/sconvolgimento della struttura psicocorporea del soggetto, compenetrandosi con un altro coinvolgimento, raggiunge la sua massima intensità e profondità. Il godimento ha andamento ondulatorio, durata, persistenza e profondità variabili ma definite. Il suo apice non esaurisce il suo effetto sul soggetto: sfocia in un piacevole stato di distensione e di disponibilità che si apre in un’intuizione sensibile del mondo. È nella natura del desiderio inseguire la differenza, restare sempre insaturo rispetto all’oggetto e alle modalità della sua soddisfazione. L’arrestarsi dell’esplorazione delle differenze produce assuefazione. Inseguendo la differenza, il desiderio si sublima. La sublimazione espande il godimento verso le infinite possibilità dell’esperienza umana, portando il piacere dei sensi oltre la pura sensorialità, la contiguità carnale. Anche la più intellettuale delle soddisfazioni ha un nucleo di sensualità, un fondamento erotico di passione. A partire dal legame sensuale diretto con l’oggetto desiderato, la sublimazione porta il godimento vicino al godere del desiderare in se stesso, al piacere ricavato dalla trasformazione della propria posizione nel mondo. Il desiderio nella sua forma vera e propria è fondato sulla differenza dell’oggetto desiderato e, contemporaneamente, sulla sua accessibilità e sulla sua omogeneità al soggetto desiderante (il suo essere della stessa materia). L’altro, anelato, inseguito, nel mancare rende manifesto che si trova lì dove il suo desiderio, secondo il suo modo di essere, lo colloca e non dove il soggetto desiderante pretende che stia. Il dolore

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di ogni sua perdita/allontanamento rende conoscibile e misurabile la sua differenza, che orienta il suo ritrovamento. Contestualmente ogni suo ritrovamento, che è sempre anche un incontro nuovo, ne conferma la differenza irreversibile, segnalando una nuova prospettiva di perdita. La differenza (foriera della temporalità, del tempo – χρόνος – che scorre) scava la perdita come fossato nel campo dell’omogeneità (dove il tempo – ἐποχή – è sospeso, non passa), nel momento opportuno (καιρός) in cui la presenza in sé deve appellarsi all’alterità per potersi configurare come movimento verso il fuori da sé e assumere la sua piena espressione12. Il fossato nel campo dell’omogeneità è la matrice patica del desiderio. Il patire (soffrire, ma anche esperire, sperimentare) anela il ritrovamento dell’oggetto, perduto a causa del suo diverso modo di essere. Si sente, tuttavia, ingannato se lo ritrova identico a prima, assimilato all’interno dell’intesa e quindi oggetto consueto, rassicurante. Ovviamente l’oggetto desiderato deve essere assimilato a una consuetudine d’intesa, per essere riconosciuto e accessibile. Deve, nondimeno, al tempo stesso, rifuggire l’assimilazione, restare inafferrabile nel suo modo di essere, essere inseguito in tutte le sue trasformazioni che aprono al desiderio la strada dell’inconsueto e mantengono costante l’apertura estrovertente dell’essere. Il movimento del desiderio tra l’assimilazione dell’altro al proprio modo di concepirlo e il riconoscimento della sua irriducibile differenza, che scoraggia ogni sua collocazione prevedibile, non è, tuttavia, riducibile al solo gioco tra il consueto e l’inconsueto. Il posizionamento dell’oggetto ritrovato sul solo piano del consueto, dell’esperienza che si ripete, è una tentazione costante: riduce il pathos e il coinvolgimento e quindi il rischio di cui essi sono forieri. L’assuefazione conseguente del desiderio è contrastata con il ricorso a mezzi e situazioni puramente eccitanti. Quando la riduzione preventiva, difensiva, dell’investimento 12 Nel rapporto madre-bambino il καιρός della differenza arriva nel momento in cui entrambi i soggetti desideranti vedono nella differenza dell’altro l’affermazione del proprio modo originale di essere.

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diventa costante e patologica, l’oggetto desiderato può essere trattato come materiale inerte e manipolabile (fino all’estremo della sua appropriazione necrofila). Ciò che dell’accessibilità e della disponibilità dell’oggetto non è utilizzabile in modo compulsivo, nella sostanza consolatorio, come fonte di eccitazione da cui si dipende, è confinato nel registro del desueto. L’oggetto desueto, messo da parte, persiste e resiste all’appiattimento: la sua presenza/assenza mantiene viva la tensione/pathos tra la perdita e l’incontro con il nuovo, con l’inconsueto. Nel desueto si mantiene presente ciò che resta nel tempo come sedimentazione permanente, invariante, dell’esposizione all’altro e impedisce che l’apertura dell’essere alle trasformazioni sfumi nell’«attrazione per il nuovo», nella ricerca reiterata di stimoli (sostanzialmente: nella ripetizione proteiforme del medesimo). La dialettica tra il consueto (il ritrovamento dell’oggetto com’era) e l’inconsueto (l’oggetto trovato per la prima volta) definisce lo spazio della destabilizzazione dell’esperienza. La dialettica tra il desueto e l’inconsueto definisce lo spazio patico della perdita, che dà ampiezza, profondità, intensità e persistenza alla destabilizzazione, perché il dolore della mancanza da una parte espande il desiderio verso l’alterità e dall’altra lo radica nel senso di continuità dell’esistenza. Sotto l’effetto del lutto il desiderio si muove tra la permanenza dell’oggetto e la sua trasformazione (e tra identità/affinità con esso e differenza), ha uno statuto isterico: richiede la contemporanea identificazione e differenziazione con l’oggetto desiderato (perduto, ritrovato, trasformato). Si desidera l’altro perché è parte di sé (parte della propria esperienza sensoriale/sensuale) – altrimenti ciò che dà sarebbe privo di piacere, di interesse – e perché è altro da sé – altrimenti non avrebbe nulla da dare. Desiderare significa patire l’altro (possedendo la sua differenza ed essendo posseduti da essa) ma anche patire con lui, compatire, riconoscersi in un comune modo di sentire e di vivere. È nella tragedia greca che l’identificazione/relazione isterica con l’altro rivela nel modo più chiaro e intenso la sua

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importanza nel determinare la posizione del soggetto desiderante13 nel mondo. Ἔλεος, compassione, e φόβος, terrore, sono, secondo Aristotele, i due sentimenti con cui lo spettatore reagisce al πάθημα, alla sofferenza, alla sfortuna che colpisce il suo simile sulla scena. Il coinvolgimento che questi sentimenti provocano nel mondo interno dello spettatore porta alla κάθαρσις: l’effetto calmante e piacevole di alleggerimento (simile a quello provocato dalla musica14) che risana, purifica dall’ingorgo emotivo determinato dalla sofferenza che si dispiega nel dramma. Come intendesse esattamente Aristotele il funzionamento della κάθαρσις non lo sappiamo. È evidente però, dalle sue brevi e concise affermazioni, che ἔλεος e φόβος risolvono un’impasse psichica associata a una catastrofica esperienza di perdita del legame con l’altro, nella quale lo spettatore si identifica. Il superamento di questa impasse richiede una trasformazione del proprio modo di sentire e di vedere: la κάθαρσις è uno sconvolgimento del mondo interno che conduce a un equilibrio nuovo, producendo un alleggerimento psichico. La compassione è il punto più sentito del comune dolore, è un’immedesimazione profonda che fa sentire l’altro come parte di sé, mentre il terrore misura la differenza, lo spazio dell’incomprensione che, allontanando le due parti, fa incombere sul legame lo spettro di un’interruzione irreparabile. Il poeta tragico porta il suo lettore/spettatore a una doppia identificazione isterica: con il personaggio sulla scena e con l’oggetto di desiderio che questo personaggio ha perduto, a causa dell’errore preterintenzionale – ἁμαρτία – nella gestione della loro relazione, in cui l’ha indotto il fatto di non aver tenuto sufficientemente conto delle ragioni dell’altro – ὕβρις. Compatendo il personaggio tragico che va verso la cattiva sorte, lo spettatore riconosce che si sarebbe potuto trovare nella sua condizione, ma il terrore con cui si differenzia dalla sua 13 Nella rappresentazione tragica lo spettatore, tramite la funzione mediatrice dell’autore e della messa in scena. 14 Aristotele, Politica, 1341 b.

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ὕβρις (la mancanza del senso dei limiti nella propria passione) lo preserva dall’ἁμαρτία, la possibilità di cadere nello stesso errore. Lo spettatore entra nell’agone tragico, vive la stessa impasse del protagonista e la risolve dentro di sé. Identificandosi con lui, vive la medesima passione che non sente ragioni, che lo induce a trattare l’altro, l’antagonista, come protesi di sé priva di autodeterminazione. Terrorizzato dal procedere della catastrofica evoluzione degli eventi sulla scena, si disidentifica dal protagonista e riconosce al loro comune oggetto di desiderio, l’antagonista, il diritto alla differenza. La compassione, che è indulgente con la passione nella sua forma irriducibile alla ragione (la radice del desiderio), e il terrore, che ne riconosce la potenziale distruttività, si regolano reciprocamente di modo che la prima non diventi (auto)compiacimento e il secondo non sfoci in un rispetto dell’altro in cui la preoccupazione di danneggiarlo finisca per svilire il desiderio. Il legame tra ἔλεος e φόβος non è, tuttavia, pienamente comprensibile senza un terzo sentimento. Nell’Encomio di Elena di Gorgia, scritto decenni prima della Poetica (tramandataci incompiuta), che condensa il pensiero di Aristotele sulla tragedia, l’analisi dell’effetto che l’opera tragica esercita sull’animo dello spettatore raggiunge una profondità che resta insuperata a tutt’oggi: D’altra parte bisogna spiegarlo al giudizio degli uditori: la poesia nelle sue varie forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l’ascolta è invaso da un brivido pieno di terrore (φρίκη περίφοβος), da una compassione che strappa le lacrime (ἔλεος πολύδακρυς), da un desiderio struggente che asseconda, ama il lutto (πόθος φιλοπενθής), e l’anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone straniere15. 15 δεῖ δὲ καὶ δόξῃ δεῖξαι τοῖς ἀκούουσι· τὴν ποίησιν ἅπασαν καὶ νομίζω καὶ ὀνομάζω λόγον ἔχοντα μέτρον· ἧς τοὺς ἀκούοντας εἰσῆλθε καὶ φρίκη περίφοβος καὶ ἔλεος πολύδακρυς καὶ πόθος φιλοπενθής, ἐπ᾽ ἀλλοτρίων τε πραγμάτων καὶ σωμάτων εὐτυχίαις καὶ δυσπραγίαις ἴδιόν τι πάθημα διὰ τῶν λόγων ἔπαθεν ἡ ψυχή, Gorgia Fr. B11(9) Diels-Kranz, traduzione – qui modificata da me – di Maria Timpanaro Cardini da I Presocratici. Frammenti e testimonianze, Laterza, Bari-Roma 1990, pp. 930-931.

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Il πόθος φιλοπενθής, il desiderio struggente, intenso, che asseconda, ama il lutto, lega tra di loro la compassione e il terrore. La compassione nei confronti della passione irrefrenabile, che ignora le conseguenze della sua irruenza, rende accessibile nel mondo interno dello spettatore, il quale non può dirsi estraneo ad essa, il sentimento di mutilazione che precede il lutto: la soggettività desiderante che sanguina, spinta da un dolore cieco che non conosce ancora la mancanza dell’altro. Il terrore, l’angoscia ammonitrice che segnala un limite invalicabile, oltre il quale l’oggetto inseguito può essere distrutto (a causa dell’amore spietato) o diventare distruttivo (a causa del masochismo), riporta in campo il senso di responsabilità e di preoccupazione nei confronti di sé e dell’altro. La preoccupazione protegge la differenza dell’oggetto desiderato perduto e garantisce la trasformazione del dolore di mutilazione, che dà origine alla passione senza limiti, al dolore della mancanza dell’altro, che dà origine alla passione responsabile e all’esperienza del lutto. L’opera tragica colloca lo spettatore nella medesima posizione del personaggio sulla scena e gli consente, nel ripercorrere emotivamente la stressa strada, di differenziarsi ed evitare un approdo infausto per sé e per l’altro, attraverso la rimessa in movimento nel suo mondo interno del desiderio che ama il lutto. Questo desiderio, nella situazione sulla scena – l’impasse tragica –, è bloccato. Il desiderio che asseconda, struggendosi, il lutto, è passione interiore che subisce l’attrazione dell’oggetto distaccato da sé, sentimento doloroso e, al tempo stesso, avvincente, che pre-sente, intuisce la sensualità e la cerca in uno stato misto di inquietudine e di aspettativa, che lo apre alla vita. Inquietudine e aspettativa impregnano l’esperienza soggettiva nella sua totalità, e l’eccitazione erotica e pulsionale che le smuove si diffonde insieme a loro in ampiezza e profondità. L’intenso, estrovertente movimento e il coinvolgimento profondo si uniscono in uno sconvol-

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gimento della struttura psicocorporea che la destabilizza e la trasforma conducendo il desiderio alla sua forma più compiuta. Lo sconvolgimento e la trasformazione danno all’eccitazione una singolare intensità che non è vissuta come tensione pressante perché esprime la conversione della profondità del coinvolgimento nella complessità dell’esperienza sensuale/sensoriale. Il desiderio nella sua forma compiuta ama il lutto perché è il lutto che lo fa nascere e lo mantiene vivo. Si dispiega nello stesso spazio in cui avviene l’elaborazione della perdita attraverso la quale il soggetto ritrova insieme identico e diverso l’oggetto perduto. Non può che trovarlo identico a come l’aveva intravisto, intuito, e non può che riconoscerlo come diverso, perché questa diversità dà la misura della perdita come differenza necessaria, che apre al mondo. «Nello stesso fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo» (Eraclito Fr. 22 B 49a DK): la legge del desiderio che ama il lutto. L’elaborazione del lutto, che apre la strada al desiderio, si conclude in modo soddisfacente solo quando il soggetto che ha subito la perdita riesce finalmente a trarre dall’elaborazione dei suoi sentimenti di amore e di odio nei confronti dell’oggetto perduto una riaffermazione del suo senso di responsabilità, che gli consente di uscire dalla dimensione narcisistica della sua sofferenza e dell’uso strumentale, antidepressivo, dell’altro. Rispettandone la soggettività, accetta l’alterità irriducibile dell’oggetto perduto, il quale solo in parte può essere interiorizzato, e così riafferma anche la propria identità e può rinnovare il suo contratto con la vita. L’oggetto perduto resta vivo internamente nella sua distinta identità, senza fondersi con noi perché esso non è mai del tutto assimilabile né al nostro mondo interno né al mondo esterno. Ha bisogno dell’esteriorità da cui proviene per restare fuori dall’autoreferenzialità della nostra identifica-

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zione con esso e deve essere illuminato dalla particolarità del nostro modo soggettivo di accoglierlo e di interpretarlo come parte di noi per non essere confuso con l’oggetto esterno che lo sostituisce. Irriducibile sia a una sua assimilazione interna sia a una sua sostituzione piena, è sempre perduto e sempre ritrovato in forma nuova. Ci radica nel passato spingendosi verso il futuro.

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analisi filosofiche

Massimo Dell’Utri (a cura di), Olismo Rosaria Egidi, Massimo Dell’Utri e Mario De Caro (a cura di), Normatività, fatti, valori Massimo Dell’Utri, L’inganno assurdo. Linguaggio e conoscenza tra realismo e fallibilismo Giacomo Romano, Essere per. Il concetto di «funzione» tra scienze, filosofia e senso comune Sandro Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente Giancarlo Zanet, Le radici del naturalismo. W.V. Quine tra eredità empirista e pragmatismo Rosa M. Calcaterra (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e interazioni Georg Henrik von Wright, Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003 Elio Franzini, Marcello La Matina (a cura di), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi Erica Cosentino, Il tempo della mente. Linguaggio, evoluzione e identità personale Francesca Ervas, Uguale ma diverso. Il mito dell’equivalenza nella traduzione Jlenia Quartarone, Causazione e intenzionalità. Modelli di spiegazione causale nella filosofia dell’azione contemporanea Arianna Bernardi, Intenzionalità e semantica logica in Edmund Husserl e Anton Marty Maria Primo, Alle radici della parola. L’origine del linguaggio tra evoluzione e scienze cognitive

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Antonio Rainone, Quale realismo, quale verità. Saggio su W. V. Quine Giovanni Tuzet, La pratica dei valori. Nodi fra conoscenza e azione Imre Toth, La filosofia della matematica di Frege. Una restaurazione filosofica, una controrivoluzione scientifica Robert Audi, Epistemologia. Un’introduzione alla teoria della conoscenza

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campi della psiche

Francesco Napolitano, Sete. Appunti di filosofia e psicoanalisi sulla passione di conoscere Felice Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza Stefania Napolitano, Dal rapport al transfert. Il femminile alle origini della psicoanalisi Luca Zendri, La fabbrica delle psicosi Stefania Napolitano, Clinica della differenza sessuale. Fantasma, sintomo, transfert

campi della psiche. lacaniana

Jacques-Alain Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan Éric Laurent, Lost in cognition. Psicoanalisi e scienze cognitive Jacques-Alain Miller (a cura di), L’anti-libro nero della psicoanalisi Antonio Di Ciaccia (a cura di), Scilicet. Gli oggetti a nell’esperienza psico-analitica Lucilla Albano e Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie Céline Menghi, Chiara Mangiarotti, Martin Egge, Invenzioni nella psicosi. Unica Zürn, Vaslav Nijinsky, Glenn Gould Noëlle De Smet, In classe come al fronte. Un piccolo, nuovo sentiero nell’impossibile dell’insegnare Yves Depelsenaire, Un’analisi con Dio. L’appuntamento di Lacan con Kierkegaard François Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane Luisella Mambrini, Lacan e il femminismo contemporaneo Rosamaria Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psicoanalisi Jacques-Alain Miller, Commento al caso clinico dell’Uomo dei lupi

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Nicolas Floury, Il reale insensato. Introduzione al pensiero di Jacques-Alain Miller Chiara Mangiarotti (a cura di), Il mondo visto attraverso una fessura. A scuola con i bambini autistici Roberto Cavasola, L’isteria, la depressione e Lacan François Ansermet, Ariane Giacobino, Autismo A ciascuno il suo genoma Éric Laurent, La battaglia dell’autismo. Dalla clinica alla politica Fabio Galimberti, Il corpo e l’opera. Volontà di godimento e sublimazione

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campi della psiche. filosofie dell’inconscio

Felice Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte

dietro lo specchio

Andrea Zucchinali, Jacques-André Boiffard. Storia di un occhio fotografico

discipline filosofiche

Riccardo Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap Luca Guidetti, La realtà e la coscienza. Studio sulla «Metafisica della conoscenza» di Nicolai Hartmann Michele Carenini e Maurizio Matteuzzi (a cura di), Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei Circoli di Monaco e Gottinga Roberto Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psicoanalisi Girolamo De Michele, Felicità e storia Annalisa Coliva and Elisabetta Sacchi, Singular Thoughts. Perceptual Demonstrative Thoughts and I-Thoughts Vittorio De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il problema fenomenologico del trascendentale

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Carmelo Colangelo, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski Giovanni Matteucci (a cura di), Studi sul De antiquissima Italorum sapientia di Vico Massimo De Carolis e Arturo Martone (a cura di), Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein Stefano Besoli, Massimo Ferrari e Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle «fratture» del Moderno Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin Paolo Di Lucia, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive Michele Gardini e Giovanni Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive Luca Guidetti, L’ontologia del pensiero. Il «nuovo neokantismo» di Richard Hönigswald e Wolfgang Cramer Michele Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger Giulio Raio, L’io, il tu e l’Es. Saggio sulla Metafisica delle forme simboliche di Ernst Cassirer Marco Mazzeo, Storia naturale della sinestesia. Dal caso Molyneux a Jakobson Lorenzo Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto giuridico e teoria della catogorizzazione Felice Ciro Papparo, Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong Silvia Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831) Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz Stefano Besoli (a cura di), Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas

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Barnaba Maj, Il volto e l’allegoria della storia. L’angolo d’inclinazione del creaturale Mariannina Failla, Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo Luca Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen» Mariateresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia Daniele Cozzoli, Il metodo di Descartes Francesco Bianchini, Concetti analogici. L’approccio subcognitivo allo studio della mente Marco Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza Vincenzo Costa, I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica Aldo Trucchio (a cura di), Anatomia del corpo, anatomia dell’anima. Mecca-nismo, senso e linguaggio Roberto Frega, Le voci della ragione. Teorie della razionalità nella filosofia americana contemporanea Carmen Metta, Forma e figura. Una riflessione sul problema della rappresentazione tra Ernst Cassirer e Paul Klee Felice Masi, Emil Lask. Il pathos della forma Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli (a cura di), L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere Adriano Ardovino, Interpretazioni fenomenologiche di Eraclito Mariannina Failla, Dell’esistenza. Glosse allo scritto kantiano del 1762 Caterina Zanfi, Bergson e la filosofia tedesca 1907-1932 Marco Tedeschini, Adolf Reinach. La fenomenologia, il realismo Mariapaola Fimiani, L’etica oltre l’evento Luigi Azzariti Fumaroli, Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin Roberto Redaelli, Emil Lak. Il soggetto e la forma

estetica e critica

Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea Daniela Angelucci (a cura di), Arte e daimon Silvia Vizzardelli, Battere il Tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’«amoroso regno»

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Daniela Angelucci, L’oggetto poetico. Waldemar Conrad, Roman Ingarden, Nicolai Hartmann Hansmichael Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio Samuel Lublinski, Saggi sul Moderno (a cura di Maurizio Pirro) Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili Raffaele Bruno e Silvia Vizzardelli (a cura di), Forma e memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan Clemens-Carl Härle (a cura di), Ai limiti dell’immagine Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma Paolo D’Angelo (a cura di), Le arti nell’estetica analitica Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault Giovanni Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin Clemens-Carl Härle (a cura di), Confini del racconto Paolo D’Angelo, Filosofia del paesaggio Francesca Iannelli, Dissonanze contemporanee. Arte e vita in un tempo inconciliato Aldo Marroni, Estetiche dell’eccesso. Quando il sentire estremo diventa «grande stile» Daniela Angelucci, Deleuze e i concetti del cinema Marco Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente Rita Messori, Poetiche del sensibile. Le parole e i fenomeni tra esperienza estetica e figurazione Dario Cecchi, La costituzione tecnica dell’umano Francesca Iannelli (a cura di), Vita dell’arte. Risonanze dell’estetica di Hegel Paolo D’Angelo, Il problema Croce Amelia Valtolina, Il sogno della forma Un’idea tedesca nel Novecento di Gottfried Benn

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filosofia e politica

Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi, Antonio Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione Paolo B. Vernaglione, Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umana nel ventunesimo secolo Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida Mauro Farnesi Camellone, La politica e l’immagine. Saggio su Ernst Bloch Le vie della distruzione. A partire da «Il carattere distruttivo» di Walter Benjamin, a cura del Seminario di studi benjaminiani Ferdinando G. Menga, L’appuntamento mancato. Il giovane Heidegger e i sentieri interrotti della democrazia Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura Laboratorio Verlan (a cura di), Dire, fare, pensare il presente Mario Barenghi, Matteo Bonazzi (a cura di), L’immaginario leghista. L’irruzione delle pulsioni nella politica contemporanea Mauro Farnesi Camellone, Indocili soggetti. La politica teologica di Thomas Hobbes Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700) Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700) Laura Bazzicalupo, Salvo Vaccaro (a cura di), Vita, politica, contingenza Leo Strauss, Una nuova interpretazione della filosofia politica di Platone Marco Mazzeo, Il bambino e l’operaio. Wittgenstein filosofo dell’uso

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filosofia e psicoanalisi

Silvia Vizzardelli e Felice Cimatti (a cura di), Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi Felice Cimatti e Alberto Luchetti (a cura di), Corpo, linguaggio e psicoanalisi Silvia Vizzardelli, Io mi lascio cadere. Estetica e psicoanalisi

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il pensiero etico e religioso

Isabella Adinolfi, Giuseppe Goisis (a cura di), I volti moderni di Gesù. Arte Filosofia Storia

lettere Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo Filippo Davoli, Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo

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Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto Angela Borghesi, Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George Vito Santoro, Calvino e il cinema Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del xx secolo Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre Camilla Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini Annelisa Alleva, Lo spettacolo della memoria. Saggi e ricordi Mario Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti Romano Luperini, Tramonto e resistenza della critica Susanna Spero, L’invenzione di una forma. Poetica dei generi nell’opera di Samuel Beckett Marcella Biasi, Potenza della lirica. La filosofia della poesia moderna e il paradigma Celan Matteo Marchesini, Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia Paola Laura Gorla, Sei diversioni nel Chisciotte Davide Colussi, Paolo Zublena (a cura di), Giorgio Caproni. Lingua, stile, figure Fabrizio Scrivano, Diario e narrazione Barbara Ronchetti, Caleidoscopio russo. Studi di letteratura contemporanea

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Eloisa Morra, Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja Paolo Amalfitano, L’armonia di Babele. Varietà dell’esperienza e polifonia delle forme nel romanzo inglese Emanuele Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana Massimo Giuliani, Per un’etica della resistenza. Rileggere Primo Levi Angela Borghesi, Una storia invisibile. Morante Ortese Weil Franco Nasi, Traduzioni estreme Valentino Baldi, Il sole e la morte. Saggio sulla teoria letteraria di Francesco Orlando Antonella Ottai, Ridere rende liberi. Comici nei campi nazisti Marco Gatto, Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento Valerio Camarotto, Leopardi traduttore. La poesia (1815-1817) Valerio Camarotto, Leopardi traduttore. La prosa (1816-1817)

lettere. ultracontemporanea

Matteo Majorano (a cura di), Nuove solitudini. Mutamenti delle relazioni nell’ultima narrativa francese Matteo Majorano (a cura di), Il ritorno dei sentimenti Marinella Termite, Le sentiment végétal. Feuillages d’extrême contemporain Gianfranco Rubino e Dominique Viart (a cura di), Le roman français contemporain face à l’Histoire Gianfranco Rubino (a cura di), Le sujet et l’Histoire dans le roman français contemporain Matteo Majorano (a cura di), La giostra dei sentimenti

lingua, didattica, società

Alejandro Patat e Andrea Villarini (a cura di), Gli italianismi in Argentina Alejandro Patat (a cura di), Vida nueva. La lingua e la cultura italiana in America Latina Ilaria Tani, Lingua e legame sociale. La nozione di comunità linguistica e le sue trasformazioni

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scienze del linguaggio

John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio Franco Lorenzi, Alejandro Marcaccio (a cura di), Testualità e metafora

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scienze della cultura

Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna Francesco Fiorentino (a cura di), Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura Guglielmi Marina, Giulio Iacoli (a cura di), Piani sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria Fiorentino Francesco, Carla Solivetti (a cura di), Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture Alessandro Bosco, Il romanzo indiscreto. Epistemologia del privato nei «Promessi Sposi» Maria Carolina Foi, La giurisdizione delle scene. I drammi politici di Schiller Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Lessico mitologico goethiano. Letteratura, cultura visuale, performance Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Critica/crisi. Una questione degli studi culturali Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Rappresentanza/ rappresentazione. Una questione degli studi culturali Michele Cometa, Roberta Coglitore (a cura di), Fototesti. Letteratura e cultura visuale

scienze umane e sociali

Franco Bianco, Studi su Max Weber 1980-2002 Franco Bianco, Il giovane Dilthey. La genesi della critica storica della ragione

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teoria delle arti e cultura visuale

Laura Iamurri, Lionelli Venturi e la modernità dell’impressionismo Andrea Pinotti e Maria Luisa Roli (a cura di), La formazione del vedere. Lo sguardo di Jacob Burckhardt Giovanni Gurisatti, Scacco alla realtà. Dialettica ed estetica della derealizzazione mediatica Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale Luca Pietro Nicoletti, Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore d’arte a Parigi Pietro Conte, In carne e cera. Estetica e fenomenologia dell’iperrealismo Laura Iamurri, Un margine che sfugge. Carla Lonzi e l’arte in Italia. 1995-1970

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