Il lutto e i modi dell'amore 9791259842947

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Il lutto e i modi dell'amore
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RI-VIVERE

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a cura di Francesco Campione

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Avvertenza Per più di 20 anni il titolo di questo libro è stato Il Deserto e la Speranza. Nel 2012 è “cresciuto” di un centinaio di pagine diventando Lutto e desiderio, e ora viene aggiornato nuovamente con un altro titolo ancora (Il lutto e i modi dell’amore) più espressivo della teoria che più consapevolmente lo attraversa.

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Francesco Campione

IL LUTTO E I MODI DELL’AMORE Teoria e clinica del lutto

ARMANDO EDITORE

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ISBN: 979-12-5984-294-7 Tutti i diritti riservati – All rights reserved Copyright © 2022 Armando Armando s.r.l. Via Leon Pancaldo 26, Roma. www.armandoeditore.it [email protected] – 06/5894525

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Sommario

Introduzione La scena contemporanea del morire e le problematiche del lutto

9

Capitolo I La morte per chi resta

22

Capitolo II Il reale e l’immaginario nelle teorie del lutto

49

Capitolo III Le principali teorie del lutto e la relazione etica

75

Capitolo IV Il lutto e i “modi” dell’amore

121

Capitolo V Il lutto tra desiderio e assenza

137

Capitolo VI Il lutto tra disperazione e crescita

154

Capitolo VII Le tracce dei morti

164

Capitolo VIII Lutto e rituali funebri: verso l’inutilità

187

Capitolo IX La “cura” del lutto

210

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Capitolo X Il lutto prolungato

234

Capitolo XI Il “Progetto Rivivere”: esperienze di intervento nelle situazioni di crisi e di lutto

253

Capitolo XII Malattia, morte e lutto nelle età evolutive

259

Capitolo XIII L’aborto come lutto da elaborare all’infinito

285

Capitolo XIV Il lutto impossibile per l’impossibile suicidio

290

Capitolo XV Le tecniche di intervento nel lutto: fondamenti teorici

300

Conclusioni

307

Passaggio al di là di questo libro

319

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A tutti gli umani e ai loro desideri impossibili

E poi? «Io poi divento grande, vero mamma?» «Sì,amore, certamente» «E poi divento vecchio, vero mamma?» «Sì, amore, ma ci vorrà ancora moltissimo tempo» «E poi viene la morte, vero mamma?» «Un bambino non pensa a queste cose!». Due giorni dopo «Io poi divento grande, vero papà?» «Sì, certo» «E poi divento vecchio, vero papà?» «Sì, vecchio e saggio come il nonno» «E poi devo morire, vero papà?» «Sì, e poi?». Tacque il bimbo e si meravigliò che anche i papà fanno domande ai figli.

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Introduzione

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La scena contemporanea del morire e le problematiche del lutto

La scena contemporanea del morire somiglia a quella di un grande dramma pirandelliano. Mentre si recita sotto la guida di un abile capocomico la commedia di sempre1, irrompono sul palcoscenico Sei personaggi in cerca d’autore, ciascuno dei quali pretende di imporre agli altri la sua parte e la sua verità: sarebbe meglio dire parti e verità al plurale, poiché esse continuamente cambiano in un crescendo di alleanze e scontri che si fanno e si disfanno caoticamente. Il capocomico ha ormai perso il controllo della situazione e il pubblico è talmente disorientato che ha cominciato a pensare che tutte le verità si equivalgono e conti solo applaudire chi meglio racconta la sua e più fa divertire. I sei personaggi altri non sono che alcuni dei protagonisti di quella sorta di “istantanee” prese al capezzale del morente in quel breve periodo (se mai c’è stato) in cui sembrava si fosse realizzata, nell’attesa della morte, una sublime armonia. Quando l’avvento della contemporaneità ha dissolto l’armonia e la scena si è scomposta2, gli attori sono fuggiti alla ricerca di un nuovo palcoscenico sul quale imporsi individualmente. Ma restano legati allo stesso destino, poiché per recitare hanno tutti bisogno della morte. Ed eccoli ora ricomparire sulla scena mondiale, con abiti più moderni, qualcuno addirittura sdoppiato, a recitare, spesso nella più completa indifferenza reciproca, in barba al povero capocomico, che della morte non vorrebbe sapere niente, nonostante gli piaccia tanto dirigere il gioco delle parti in cui i soldati recitano ovviamente da assassini e i becchini, in stretta alleanza con i falegnami, recitano ovviamente da becchini. 1 La commedia che si recita nell’attacco dei Sei personaggi è II gioco delle parti dello stesso Pirandello. 2 P. Ariés, L’homme devant la mort, Seuil, Paris 1977 (trad. it., L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Laterza, Bari 1980).

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Dunque i Sei personaggi in cerca d’Autore della scena contemporanea del morire. Ci sono tutti: c’è il prete, che deve ormai dividere il ruolo di curatore d’anime con il suo più attuale alter ego, lo psicologo; c’è il familiare che sarebbe meglio chiamare in modo più antiquato famiglio (padre, madre, figli, moglie, amante, cameriere, governante, ecc.); c’è il medico; c’è ovviamente il morente; c’è in un angolo la morte; e non manca l’animale di casa (cane, gatto o leone che sia). Sono attori molto versatili e amano cambiare continuamente il copione nel loro continuo girovagare nel vecchio e nel nuovo mondo. Ma anche su questo, come su tutto, esistono oggi delle statistiche le quali ci dicono essere la tendenza dominante dei nostri sei personaggi a recitare chissà per quale misterioso tacito accordo due copioni: uno più bene accetto agli spettatori americani e che quindi, amando farsi applaudire, i nostri personaggi recitano oltre Atlantico; e un altro che riscuote più successo in Europa (ancora per poco, dicono le previsioni più attendibili). Un anonimo studioso di queste faccende è riuscito, forse con l’inganno, a trascrivere le battute finali di questi due copioni che vanno per la maggiore nel mondo occidentale. Copione americano. L’atmosfera è quella di un party. Tutti hanno un bicchiere in mano. In un angolo della grande stanza c’è perfino un sobrio buffet. Il morente giace semi assopito su un letto circondato di telecamere e monitor di ogni tipo. Il medico, senza camice bianco, tiene in una mano il bicchiere di whiskey e con l’altra manovra una macchinetta per misurare l’intensità del dolore. Si avvicina il figlio del morente, il medico alza lo sguardo e dice con tono rassicurante: «Sta bene, ora». Il familiare volge lo sguardo al morente e risponde sorridendo grato: «Grazie». Prete e psicologo si avvicinano al familiare. Il prete dice: «Bisogna pensare allo spirito». Il familiare alza le spalle, indica il morente sempre assopito e risponde: «In queste condizioni…». Quindi si volge allo psicologo, lo prende per un braccio e gli parla mentre si allontanano verso il buffet. Discutono animatamente ma non si riesce a sentire cosa si dicono. Intanto il cane di casa è riuscito a penetrare nella stanza inosservato, si è infilato sotto il letto e fa la guardia al suo padrone. La morte è già arrivata e veste i panni di un angelo diafano che si mimetizza senza difficoltà dietro le tende bianche della finestra. Ad un tratto il morente apre gli occhi, vede il party che si svolge 10 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nella stanza e si sente un estraneo, escluso. Fa per dire qualcosa poi pensa “sto sognando”, richiude gli occhi e tace. Segue un frullo d’ali dalla tenda al letto, il cane scappa precipitosamente dalla stanza e tutto è finito. Il medico spegne tutte le macchine, tutti sono sconsolatamente soddisfatti e brindano in silenzio mentre si avvicinano al buffet. È a questo punto che il capocomico, approfittando del momento, ristabilisce il suo potere e urla: «Trucco». Entra una bellissima ragazza, l’assistente del becchino, che con pochi abili tocchi trucca il morto da vivo, mentre quattro inservienti in livrea portano la bara e la fanfara suona un’allegra marcia funebre. «Può andare! Sipario!» urla il capocomico. Copione europeo. L’atmosfera è quella cupa delle vigilie tragiche. Nella stanza del morente ora c’è solo il medico che non si sa bene cosa stia facendo. Fuori dalla porta la moglie del poveretto piange, prete e psicologo cercano di confortarla. La porta si apre, esce il medico scuro in volto guardando diritto davanti a sé. La donna gli va incontro implorante. Il medico le prende la mano tra le sue e dice: «Bisogna lottare fino alla fine e sperare». Moglie, prete e psicologo entrano nella stanza. Il morente è sveglio ma sofferente, respira a fatica. La moglie gli prende la mano. Prete e psicologo parlottano tra loro animatamente come se litigassero. Il morente se ne accorge, alza a fatica una mano e con voce rotta dice: «Andate via, voglio vivere io!». Intanto non vista è arrivata la morte con la sua brava falce in pugno, seguita dal gatto di casa, l’unico che può vederla e che la segue incuriosito come dietro ad una strana maschera mai vista prima. Rientra il medico e si avvicina al letto soppesando la situazione, poi fa segno alla moglie del morente di seguirlo. Appena fuori dalla stanza il medico con aria di mistero dice alla donna: «La morte è ai piedi del letto: significa che è venuta a prenderlo. Ma possiamo fare un ultimo tentativo»3. Negli occhi della donna brilla un lampo di speranza. Il medico 3 I tentativi estremi del medico somigliano talvolta ad una procedura che era propria di una figura medioevale, Le docteur trompe la mort (Il dottor illudi-morte). Una favola dei fratelli Grimm (Comare Morte) ha immortalato questo atteggiamento medico.

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continua: «Se riusciamo ad ingannarla suo marito sarà salvo». Non capisce la donna ma il suo interlocutore non le lascia il tempo per chiedere alcunché, rientra precipitosamente nella stanza, si avvicina al morente e fa le viste di visitarlo mentre in realtà tiene sotto controllo la morte guardandola con la coda dell’occhio. Finalmente arriva il momento che il medico stava aspettando: la morte si annoia un po’ nell’attesa e si china a fare una carezza al gatto. Come un fulmine il medico fa ruotare il letto su se stesso in modo che dove c’erano i piedi ora ci sia la testa del malato. Ma la morte si accorge della manovra e in un lampo salta dalla parte opposta. Ora tutti possono vederla nella fosforescenza del suo trionfo. La morte ha vinto ancora una volta, il medico non è riuscito ad ingannarla e il malato con un ultimo più prolungato rantolo la segue. Il pianto della donna si fa lamento, prete e psicologo sono di nuovo d’accordo nel confortarla, il medico esce di scena con gli occhi bassi seguito dal gatto che non trova più alcun interesse nella stanza del morto. Anche il capocomico è commosso e non riesce a dire niente. Ma la sua direzione è ormai inutile: tutti sanno cosa devono fare: i becchini chiudono in fretta la cassa, il prete rientra un attimo in scena a benedire e poi come mosso da una forza misteriosa cala il sipario. Illustrati i due copioni più frequentemente rappresentati sulla scena del morire contemporaneo, ora lo psicologo (il particolare psicologo autore di questo libro) è davanti a voi e riflette sul dramma a due facce che si è appena concluso. Per farlo si mette dalla parte dei personaggi che avendo bisogno di lui riconoscono e confermano il suo ruolo. Dalla parte del morente che si sente escluso, estraneo e solo, dalla parte del morente che si rifiuta di accettare la morte, dalla parte del figlio che si preoccupa di assicurare al padre una morte senza dolore, dalla parte della moglie in lutto che piange la perdita del marito. Forse anche il medico che si allontana ad occhi bassi sconfitto dalla morte o il prete che nel frastuono del dramma non riesce a far sentire la voce dell’aldilà, avrebbero bisogno d’aiuto, ma forse pensare subito a loro sarebbe un lusso. Riflettiamo dunque dalla parte dei più bisognosi: come aiutarli, cosa significa aiutarli, capire di cosa hanno bisogno e venire incontro ai loro bisogni4? 4

Ho illustrato altrove approfonditamente questa problematica: F. Campione, Guida all’assistenza psicologica del malato grave (Ama il prossimo tuo come se stesso), Patron, Bologna 1986; F. Campione, Contro la morte, Clueb, Bologna 2003.

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Lo psicologo si chiede innanzitutto cosa significa e come si può superare la solitudine del morente5 americano, quello che le statistiche indicano come la condizione a cui tendono tutti i morenti dell’Occidente. E quando si mette nei suoi panni6 intuisce che forse la sua solitudine è qualcosa di universale e necessario, poiché nessuno può morire al posto di un altro, non c’è condivisione nella morte e morire è una parte che non si può scambiare. Aiutarlo non può quindi voler dire suggerirgli che è possibile in qualche modo, come sembra voler fare il medico europeo del nostro copione, ingannare la morte e indurla a prendere qualcun altro al suo posto. Né si può accettare completamente la via suggerita dal medico americano che per togliere il dolore “inganna” il morente facendogli credere che sta vivendo un sogno senza dolore. Come aiutarlo allora? Forse bisognerebbe fargli capire che chi deve morire può vincere la sua solitudine, o almeno attenuarla cercando di morire per qualcuno, in funzione di qualcuno, dando alla sua morte un senso che riguardi gli altri che restano. Solo così la sua morte non essendo per chi resta solo una “perdita” ma anche l’apertura per loro di un nuovo orizzonte di senso, sarà sì assurda per chi muore ma feconda per gli altri, e lui potrà morire consapevole di aver affidato agli altri un significato che può rendere la sua morte per loro sensata e per lui non solo necessaria ma forse anche utile, al di là di sé. D’altra parte, i familiari potranno superare senza troppe difficoltà il dolore per la sua perdita perché con la sua morte avranno acquistato tanto quanto hanno perso. In altre parole, lo psicologo può concludere che il morente americano resta solo perché la sua morte è “ridotta” ad un fenomeno meramente biologico. E ciò anche a causa della preminenza che, sulla scena americana della morte, ha acquistato la medicina palliativa. Trattare analgesicamente il morente corrisponde alla buona intenzione di tutti coloro che lo amano di assicurargli una morte senza sofferenza, ma non può essere né l’unico intervento né il più importante: si trascurerebbe il fatto che il morente non ha solo un organismo, ma anche una serie di potenzialità che fanno di questo organismo lo strumento di un’identità biografica; si trascure5 6

N. Elias, La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna 1986. Sull’immedesimazione v. il cap. 2 di F. Campione, Guida…, cit.

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rebbe, inoltre, il fatto che egli esiste, che, cioè, è un uomo in grado di avere coscienza di sé e del significato della propria vita, e che, perciò, non ha solo bisogno di essere sedato ma anche di essere consolato! Ecco allora un compito che lo psicologo dovrebbe prefiggersi nell’assistere il malato terminale: aiutarlo, mentre il medico gli toglie il dolore, ad inserire in un contesto di significati umani e storici, quelli della sua biografia, il fatto naturale della sua morte. Se si riesce a far ciò, a fare cioè in modo che il morente dia alla sua morte un senso che valga anche per chi resta, egli non sarà solo nello scacco tragico della morte, non sarà più soltanto una figura dell’uomo che ha bisogno di essere consolato e valorizzato in quanto vivente nonostante il suo stato di morente7, ma potrà diventare una figura del desiderio, desiderio che si apre agli altri lasciandogli la realizzazione del senso che ha scelto. Esempio, forse, di ciò è stato in altre epoche8 il testamento di vita. Oggi che questa forma non è più attuale bisogna forse cercarne altre all’altezza dei tempi, forme che equivalgano alla ricerca di un senso della propria morte per chi resta. Non riuscendoci, come oggi sempre più spesso accade, non si potrà che morire come nel copione americano, completamente soli ed esclusi dalla magra consolazione degli altri che brindano e fanno festa per aver fatto sì che la morte avvenisse senza dolori. Si potrà concepire l’accettazione della morte solo pensando di cadere in un sogno9 o in una specie di narcisismo primario in cui il soggetto è scomparso10, nell’impossibilità di comprendere il richiamo alla spiritualità dello spaesato prete presente; salvo, poi, rifugiarsi, per superare un lutto che non si può superare perché si è fatto finta di non aver perso niente con la morte del caro, nello spazio privato dello studio di psicologi che credono la psiche essere un’entità che può fare a meno sia del corpo che dello spirito11. Della scena europea, d’altra parte, ci colpisce la ribellione del morente contro prete e psicologo che vorrebbero fargli accettare la 7

F. Campione, Contro la morte, cit. P. Ariés, op. cit. 9 N. Elias, op. cit. 10 È la proposta di E. Kübler-Ross come ho mostrato in F. Campione, Le forme organizzative dell’assistenza psicologica del malato grave, «Zeta», 1, Cappelli, Bologna 1986. 11 Ho preso in considerazione questa problematica nei miei libri già citati. 8

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morte. In questo caso lo psicologo si trova di fronte un uomo che non vuol sapere niente della sua necessità naturale di dover morire e lotta fino alla fine contro questo dato della sua natura. Siamo, come si vede, nella dimensione opposta rispetto al morente della scena americana. Non a caso il morente europeo ha un gatto. Il morente americano ha un rapporto più stretto con la sua animalità, è più vicino alla sua animalità, il suo animale è il cane, l’animale più vicino all’uomo, che «studia» da uomo12. Il rapporto con l’animalità nel caso del morente europeo è più conflittuale, ha un animale meno domestico, il gatto, che pur essendo domestico resta “belva”. E infatti la ribellione del morente europeo («Andate via, voglio vivere io!») non ha niente di biologico, è troppo umana. Ecco che in questo caso per aiutare il morente, lo psicologo dovrebbe fargli capire che l’uomo ha un unico modo per non morire, ed è, ancora una volta, “morire per gli altri”, se agli altri morendo si lascia qualcosa di importante di sé. Cosa può essere questo quid così importante ho cercato di dirlo esplicitamente in un altro mio libro13 raccontando la morte di mio padre. Mi citerò testualmente: Mio padre quindi veniva a casa a morire. Ma non credo che per lui le cose stessero esattamente così. Egli evitava il “male” immediato dell’ospedalizzazione e si rifugiava a casa apparentemente pago del “risparmio” di sofferenza ottenuto. Nel primo periodo la cosa gli dette un reale sollievo e non chiese quasi più niente del suo futuro. Per un po’ sono stato convinto che sapesse perfettamente come stavano le cose e le accettasse pazientemente e dignitosamente. Ma quando le sue condizioni cominciarono a peggiorare e fu costretto a mettersi a letto per il venir meno delle forze, egli cominciò a chiedermi: “Ma non c’è proprio niente da fare? Devo marcire così?”. Era soprattutto straziante per mia madre che l’assisteva tutti i giorni, ma anche per me era veramente difficile poiché, essendo medico, venivo individuato come l’unico familiare in grado di rispondere a questa domanda. Pensavo con angoscia: “Che sia stato un errore portarlo a casa? Non si sentirebbe più assistito se fosse ricoverato in ospedale?”. 12

Cfr. su questo tema le pagine di J.P. Sartre in L’idiota della famiglia, Il Saggiatore, Milano 1977. 13 F. Campione, Guida…, cit. 18.1.

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Era chiaro comunque che il bisogno di capire quale atteggiamento assumere si faceva improcrastinabile. D’altra parte, mio padre esprimendo solo il desiderio d’essere aiutato a star meglio e il dubbio che ci fosse ancora qualcosa da fare, indicava chiaramente che il suo modo d’essere (caratterizzato dal tentativo di evitare la sofferenza) non gli consentiva di prendere atto fino in fondo di ciò che pure era evidente anche per lui, cioè che si avviava a morire. “Da solo non può capire, bisogna aiutarlo!” mi dissi allora. E un po’ per l’insopportabilità dell’impotente silenzio che dovevo opporre alle sue strazianti domande (“M’avete abbandonato qui! Non c’è proprio niente da fare?”), e un po’ perché intuivo che avere una parola di chiarezza l’avrebbe aiutato ad uscire dalla sua crisi esistenziale, decisi di cogliere la prima occasione e di parlargli. L’occasione si presentò qualche giorno dopo, una mattina che appena sedutomi sul suo letto come facevo tutte le volte che andavo a trovarlo, aprì gli occhi e disse con un filo di voce ma con un tono che mi sembrò terribile: “Piecura niura e piecura ianca cu mori mori e cu campa campa”. Gli dissi allora con la dolcezza della commozione che non c’era più niente da fare, ma che non l’avevamo abbandonato, che se si fosse potuto fare qualcosa sarebbe già stato fatto. Si sciolse evidentemente una tensione se mio padre quasi piangendo disse che la vita è inutile, che è inutile far del bene e pensare agli altri se bisogna poi che finisca tutto, che aveva sbagliato a sacrificarsi per gli altri, per i figli, ecc. Sembrava che mi volesse punire, ma poi aggiunse che io non avrei mai dovuto commettere lo stesso errore, che avrei dovuto pensare a me stesso finché ero in tempo. Risposi che il bene si giustifica da sé, che finché c’è un solo uomo buono sulla terra, e disinteressatamente buono… Ribatté che se non c’è niente aldilà la bontà non ha senso… E si chiese come si fa a credere in un’altra vita, come si può credere… Dissi che è proprio chi è buono e non chiede niente in cambio, chi realizza un valore in sé e per sé, la dimostrazione più evidente che qualcosa di superiore esiste. Forse fui crudele, perché non gli permisi di autocompiangersi più a lungo, e certamente molto deboli furono i miei argomenti in favore del bene e della fede, come sempre deboli e un po’ vani sono i nostri argomenti di fronte ad un personaggio 16 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tragico, ma poi gli chiesi di come passavano le sue giornate sempre a letto, con la bocca secca e amara, e i dolori. E forse volevo chiedergli: “Svela a tuo figlio com’è la morte, hai ancora valore, puoi ancora fare qualcosa per lui”. Rispose che era sempre in dormiveglia, che aveva delle visioni, che ripensava alla sua vita passata e poi si svegliava pieno di rabbia e gli veniva in mente quel proverbio siciliano che aveva dimenticato: “Piecura niura e piecura ianca cu mori mori e cu campa campa”14. Parlammo a lungo e mia madre che ogni tanto metteva la testa dentro la stanza richiudeva subito la porta rispettosa e come turbata da qualcosa che non poteva capire, a metà tra la confessione e il sacrificio. Da quel giorno e per i due mesi che lo separavano dalla morte, mio padre non fece più domande, si chiuse in un mutismo che il suo atteggiamento di risposta alle nostre sollecitazioni (che suonava così: “tutto ormai è inutile!”) non mi ha mai consentito di interpretare come un’accettazione della situazione. Mio padre è morto così come ha vissuto: in lotta perenne contro la sofferenza. La crisi di questo modo d’essere determinata dai dolori inutili (perché insuperabili) del suo cancro, è stata superata quando una comunicazione chiara ha consentito a mio padre di prendere atto della situazione e di concluderne dolorosamente che non c’era altro da fare che continuare a lottare contro il male fino alla fine. Per parte mia, l’effetto più immediato che questo colloquio ha avuto su di me… Sì, ho cominciato a pensare con terrore alla mia morte, a me che morirò senza figli nel frattempo ho avuto una figlia alla quale spero di poter insegnare a morire (come dice un aforismo di Montaigne: “Chi insegnerà agli uomini a morire, insegnerà loro a vivere”), senza un figlio che mi parli nell’ora più buia, che mi parli come io ho parlato a mio padre, con la stessa dolcezza, la stessa crudele autenticità, che mi dica condividendo il peso crudele della morte che è arrivata: “Hai ancora qualcosa da insegnarmi, sei mio padre, insegnami a morire”. C’è qui come un rovesciamento dell’idea più diffusa (e fondata) per cui solo i figli possono svolgere una funzione di difesa nei confronti della morte dei genitori15. Considero quello di mio padre un esempio eloquente 14

“Pecora nera e pecora bianca, c’è chi muore e c’è chi campa”. R. Kastembaum, Death, the Child, and the Family Soul in Modern Society, «Bulletin de la Société de Thanatologie», n. 62-63, XIX anno, 1985. 15

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della crisi in cui cade al momento della morte una persona che avendo vissuto per non soffrire, ha sempre sottovalutato il morire. Mi sembra inoltre un esempio del bisogno di capire, cioè di dare un senso alla malattia grave e alla morte, proprio mentre sembra che esse tolgano senso a tutto. Bisogno di capire non solo per chi muore, ma anche, per coloro che condividono questa situazione, e per i quali aiutare il morente a capire in che modo può uscire dalla sua crisi, vuol dire assumersi responsabilità gravose, prendere decisioni difficilissime, rischiare di sbagliare; ma facendosi sempre portatori e interpreti di valori che possono dare senso ad una situazione altrimenti non solo tragica, com’è inevitabilmente, ma anche disumana. È ovviamente solo un esempio valido per una particolare situazione ma istituisce un criterio. E se si riesce ad aiutare il morente che si ribella ad accettare la naturalità della sua morte nell’orizzonte che legarsi alla specie attraverso i figli apre, prete e psicologo smetteranno di litigare, poiché sarà chiaro che solo recuperando il desiderio dell’aldiqua e dell’aldilà di sé che l’individuo “troppo umano” può morire sereno. La ragione è che l’individuo è troppo umano perché ha spezzato vivendo il legame con la natura e con le infinite possibilità del desiderio che solo per comodità linguistica si chiamano ricerca di Dio; legame che egli potrà recuperare solo morendo. D’altra parte, il dolore e la pena di chi resta saranno compensate dal lascito di senso della scomparsa del caro. Mio padre morendo m’ha insegnato qualcosa, cioè non solo mi ha tolto, mi ha anche dato. Posso superare così più facilmente la perdita di ciò che ho perso, lasciare che mio padre si porti via con sé la parte di me che viveva in lui e constatare che la morte di mio padre ha aperto in me il desiderio dei miei figli. Per far luce ancora un poco sulla problematica fin qui illustrata lasciate che segua un metodo che gli psicologi imitando Freud hanno imparato ad usare. Come Freud si è servito di Sofocle usando la metafora di Edipo, io mi servirò di Euripide usando la metafora di Alcesti. Come si sa in questa tragedia si narra che quando la morte arriva per il giovane re Admeto, i genitori e gli amici16,17 si rifiutano 16 17

R.M. Rilke, Alcesti, Einaudi, Torino 1979. Euripide, Alcesti, in Il teatro greco, Sansoni, Firenze 1968.

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di morire per lui, e solo Alcesti, la giovane moglie, accetta di sacrificarsi e muore per Admeto. E ciò per Admeto si rivela subito assurdo, poiché la morte di Alcesti tiene sì in vita Admeto ma la sua vita non è più vita, costretto com’è a vivere nell’incancellabile ricordo della moglie che è morta per lui. In altre parole, se accetto che qualcuno muoia per me, come fa Admeto, e ammesso che ciò sia possibile come a teatro, sarò un morto vivente, non potrò più uscire dal lutto, non potrò tornare a vivere, non ne avrò né il diritto né l’ardire. Dice Rilke nella sua Alcesti: Come la brezza che si leva al largo, il dio s’avvicinò, quasi a una morta e fu lontano subito dall’uomo a cui in un breve gesto egli donava tutte le cento vite della terra. Admeto, vacillante, li rincorse per aggrapparsi, come in sogno. E loro erano già dove le donne in pianto gremivano l’uscita. Ma una volta ancora egli le vide il viso, indietro rivolto, in un sorriso chiaro come una speranza, una promessa: a lui tornare adulta dalla cupa morte, a lui vivente… Allora egli le mani premette sulla fronte, inginocchiato, per non vedere più che quel sorriso. Ed Euripide dice di Admeto dopo che Alcesti è morta: «Che se fosse morto a quest’ora non era più, ma salvo sarebbe stato anche da un dolore che più scordare non lo potrà mai». È come se Admeto continuamente dicesse: «Nessuno può morire al posto mio, ché se anche muore, come ha fatto Alcesti, non mi salva, ma mi uccide». La posizione di Alcesti è invece meno paradossale, poiché è possibile morire per un altro, al posto di un altro o dando alla propria morte un senso che riguarda il rapporto che si ha con chi resta. «Muoio dice Alcesti ad Admeto perché non volli vivere divisa da te coi figli orfani»18. La mia morte significa che non posso vivere se tu muori. Alcesti ha un senso talmente forte da dare alla sua morte che non solo riesce a morire ma riesce a scegliere la morte. In Alcesti il senso che l’amore dà alla sua vita è più forte della morte stessa. Noi che non siamo sublimi come un personaggio tragico possiamo accontentarci della possibilità che pure noi abbiamo di dare un senso alla morte che dobbiamo subire. E non è poco, non 18

Ibidem.

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è accontentarsi di poco, forse si tratta proprio di ciò che è specificamente ed essenzialmente umano: nell’impossibilità di evitare l’offesa che la morte porta alla nostra volontà di vivere e di affermarci19, possiamo ricercare una via che ci consenta di lasciare agli altri un senso nostro ma che toccherà a loro realizzare, ed abbandonare così alla morte una carcassa senza vita! Solo così chi resta potrà cercare di vincere la maledizione per noi che li abbiamo abbandonati e la colpa per esserci, loro, sopravvissuti, senza gli interminabili lamenti di un insuperabile lutto, reso meno drammatico dal fatto che noi continueremo a vivere senza il nostro corpo ma col nostro senso. Admeto non può più vivere perché la morte di Alcesti non è “naturale” (come non lo è quella di un bambino)20 ma anche perché egli non sa accettare le responsabilità che Alcesti gli affida morendo. Siamo ancora con Euripide in epoca precristiana21. E ne deriverà per tutti la consapevolezza che il destino di chi resta e quello di chi muore in fondo non sono così dissimili: infatti se a chi muore tocca abbandonare il corpo, a chi resta tocca la responsabilità di realizzare il senso di chi è morto per lui, in attesa del momento in cui una morte sensata (per altri) potrà essere ricompensa per il peso della responsabilità portata e pena per ciò che si è goduto in assenza di chi era morto. Detto tutto questo, lo psicologo può tornare in teatro e cercare di convincere il capocomico a rappresentare la seguente scena. Il morente, un attimo prima che la morte entri, riunisce attorno al letto tutti i suoi famigliari e dice loro con la voce che gli resta: «Miei cari, con la morte si può fare solo pari e patta. Vi confiderò come. Quando la gran troia arriverà verrà subito a letto con me e io morirò, ma voi potrete finché sarete vivi fare in modo che mi conduca dove desidero io. Basterà che appena avrò chiuso gli occhi voi recitiate in coro e con tutta la sincerità di cui siete capaci: “Noi l’abbiamo amato! Noi l’abbiamo amato!”. Da quel momento non avrete da fare altro che mettere alla morte un vestito adatto e capirà dove deve portarmi. Se la vestirete da becchino mi porterà sotto terra, se la vestirete da diavolo mi porterà all’inferno, se la vestirete da angelo mi porterà in paradiso. E voi sapete dove desidero andare». 19 20

E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980. W. Fuchs, Le immagini della morte nella società moderna, Einaudi, Torino

1983. 21

S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 1987.

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Detto questo, il morente spira poiché la morte è già apparsa nel letto accanto a lui. Subito i familiari seguendo le istruzioni recitano in coro: «Noi l’abbiamo amato! Noi l’abbiamo amato!». La morte fa una smorfia di rassegnazione, poi si alza dal letto e dice: «Su, vestitemi». A questo punto i familiari vengono presi dal panico: non sanno dove il morente desiderava essere condotto dalla morte! Chiamano allora a consulto il medico, il prete e lo psicologo. Il medico dice: «Si può seppellire o si può far cremare». Il prete dice: «Non so cosa desiderava, non ha voluto parlarmi». Lo psicologo dice: «Qual era il suo desiderio ve l’ha certamente detto ma a modo suo. Se l’avete amato veramente vivendo lo capirete»22. A questo punto il capocomico certamente si spazientirà e dirà irritato: «Non funziona. Teatralmente non funziona». E lo psicologo uscendo di scena un’altra volta, ribatterà: «Abbi pazienza, non è teatralmente che deve funzionare ma nella vita».

22

Il problema della comprensione va visto, come dice P. Ricoeur (Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1966) nel circolo ermeneutico, dato dal fatto che «non si può comprendere senza credere come non si può credere senza comprendere». Le conseguenze che ciò ha dato sull’immedesimazione comprendente ho cercato di illustrarle nel già citato capitolo del mio libro Guida…, dedicato all’immedesimazione e nell’articolo: F. Campione, G. Tassi, Psicodiagnosi di personalità ed ermeneutica, Atti Congresso Psichiatria, Pisa,1990.

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Capitolo I

La morte per chi resta

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1. Vita, morte, lutto Nella nostra cultura tende a prevalere un’impostazione del rapporto vita-morte nella quale i due termini sono posti in opposizione antinomica, come due poli, uno positivo, la vita, e uno negativo, la morte. Ne è derivata una lotta senza quartiere contro la morte, spesso identificata col male, lotta che è riuscita alla fine, nel presente in cui viviamo, a far sì che le nascite prevalgano sulle morti. Siamo così arrivati ad essere in 7 miliardi in un pianeta sempre più angusto, e le battaglie che abbiamo vinto contro la morte degli individui rischiano di farci perdere la guerra per la vita della specie. È accaduto, infatti, che l’umanità si è identificata con l’individuo che non vuole morire, allontanandosi sempre più dalle esigenze della specie che, invece, ha bisogno, per vivere che i singoli appartenenti ad essa muoiano. Non che fosse preferibile l’identificazione con la specie contro l’individuo: ciò avrebbe probabilmente determinato un indebolirsi eccessivo di quel desiderio legittimo di immortalità che, secondo una logica condivisibile, è alla base dell’impegno attivo dell’individuo nell’esistenza. Più semplicemente l’Umanità sembra aver smarrito le vie del genere umano, cioè di quanto è mediano in essa tra animalità e singolarità, vie che sono precisamente quelle della costruzione di un mondo in cui il bene di tutti si armonizzi col bene di ciascuno. Quando, infatti, la morte del singolo non è solo la sua irreparabile e totale sconfitta a favore della specie? Quando la morte particolare di una persona è feconda per gli altri, per chi resta, quando attraverso la sua morte l’individuo si riconcilia con la specie per gli scopi e i significati del genere (umano). E c’è una condizione esistenziale nella quale senza una siffatta 22 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mediazione non si danno per l’uomo vie di superamento. Tale condizione è la condizione dell’essere in lutto. Nel lutto, in effetti, sono presenti tutti i fattori della mediazione da operare tra individuo e specie: c’è l’individuo morto, c’è la specie che “utilizza” questa morte, ci sono coloro che restano, i quali, essendo in lutto, non appartengono né alla vita né alla morte ma rappresentano la necessità che l’Umanità in lutto ha di non morire coi propri morti mentre prende atto dell’irreparabilità di queste morti. Ora, si dice che superare il lutto significhi ritornare a vivere, come se, appunto, nell’elaborazione del lutto si trattasse ancora una volta di sconfiggere la morte che vorrebbe trascinarci con sé («Non posso più vivere, ora che non c’è più!»). E ciò sembra confermato dalle descrizioni della condizione esistenziale delle persone in lutto, le quali, una volta superata la fase in cui non si vuole quasi ammettere la morte subita, si deprimono, si disperano, non possono continuare a vivere, rischiano di morire. Si dice quindi, con Freud, che la “malinconia” derivante dal lutto si supera quando l’oggetto d’amore perduto viene introiettato e “riparato”, tanto che ora vive dentro di noi, e la nostra energia libidica può essere liberata e messa a disposizione per nuovi investimenti affettivi esterni. Detto in altri termini, la vita può ancora vincere contro la morte perché l’individuo ha la possibilità (spesso con un giusto aiuto) di trasformare un’assenza esterna in una presenza interna. E ciò metterebbe capo, inoltre, alla formazione di una nuova identità di cui l’oggetto d’amore continua a far parte essendo stato restaurato in un ricordo che presentifica. Siamo in una concezione del processo del lutto che si basa su una piena identificazione dell’uomo con l’individuo che non può accettare la morte e la vince attraverso i meccanismi riparativi dell’apparato psichico. In realtà, una elaborazione del lutto di questo genere non restaura la possibilità di vivere bensì consente soltanto di sopravvivere: continua a vivere soltanto ciò che resta oggi della vita passata attraverso il ricordo! Inoltre, l’elaborazione riparativa del lutto non consente di superare la paura per la propria morte che la morte di una persona cara determina: chi mi assicura che qualcuno si curerà di farmi vivere dentro di sé, dopo che sarò morto? E anche se ne fossi certo, basterebbe ciò a farmi vincere l’avversione e il terrore della fine? 23 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Solo assicurandosi che qualcosa di sé continuerà a vivere dopo morti si può andare oltre questi interrogativi. È la via di chi ha una fede in un ordine sovraumano, o chi mette al mondo i figli situandosi così nella continuità della specie. Neanche in quest’ultimo caso si può parlare di una conciliazione tra vita e morte. Si tratta, infatti, di un’identificazione con ciò che di sé vive nella specie, i figli, in un tentativo di diverso segno per far prevalere la vita sulla morte. Una mediazione reale tra vita e morte è, invece, in atto quando il lutto sfocia in un “superamento” della morte individuale che lungi dall’essere una sconfitta della morte (essa è irreparabile) consista nella presa d’atto del senso della morte dei singoli nella tragedia del genere umano. Il che si riscontra in tutte le espressioni collettive del lutto, le quali, più che rappresentare una lotta contro la morte avvenuta, che è ormai senza riparo, rappresentano il tentativo tragico del genere umano di dare ad essa un senso. Un esempio eloquente di ciò è stato nell’area mediterranea il pianto rituale antico, come ha dimostrato E. De Martino1. L’esigenza di riaprire nel mondo contemporaneo questa via di mediazione tra la vita e la morte, che rimetta in circolazione nella nostra cultura il “tragico” e consenta di vivere dopo una perdita e non solo di sopravvivervi, è indicata dall’angoscia di coloro che non si identificano né con la propria vita individuale incapace di accettare la morte, né con la loro appartenenza alla specie che può solo consentire dopo la morte una vita per interposta persona. Sono queste persone che con la loro crisi di fronte ai lutti indicano la necessità di riaprire nella nostra cultura la via del senso tragico che caratterizza il genere umano in quanto fatto di uomini che nelle perdite, nei lutti e nella morte possono solo salvare il loro senso. Dirò soltanto per riassumere e spiegarmi meglio che le tre vie di elaborazione del lutto a cui abbiamo fatto riferimento possono essere metaforicamente indicate come: A) la via della tomba; B) la via dell’energia vitale anonima; C) la via del trascendimento. A) La via della tomba: nessuno è mai morto, tutti i miliardi di esseri umani vissuti fin qui (qualcuno ha valutato che siano circa 36 miliardi i morti di tutta la storia umana) sono “sep1

E. De Martino, Morte e pianto rituale, Boringhieri, Torino 1975.

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pelliti vivi” nell’animo di altri uomini che continuamente li ricordano e che quando morranno troveranno a loro volta nell’animo di chi li ha amati un posticino dove essere seppelliti vivi. B) La via dell’energia vitale anonima: la vita individuale è un simulacro vuoto, una forma senza importanza di cui temporaneamente si veste l’energia vitale, la quale passa continuamente da un essere all’altro utilizzando senza scrupoli ogni singola opportunità che le si presenta. C) La via del trascendimento: l’unica cosa che può non morire è il senso di una vita umana che si costituisce (costituendo nel contempo il genere umano e rendendo ogni singola vita indispensabile) quando l’umanità accetta che l’individuo muoia purché lasci detto alla specie perché ha vissuto. 2. Il deserto e la speranza: le teorie psicologiche del lutto e la crisi contemporanea del senso della vita Dice P. Ricoeur nella chiusa di un suo piccolo saggio su Una interpretazione filosofica di Freud: In questa terribile battaglia per il senso, niente e nessuno esce indenne: la “timida” speranza deve attraversare il deserto del lutto. Per questo mi fermo sulla soglia della lotta delle interpretazioni, e mi fermo dando a me stesso questo avvertimento: al di fuori della dialettica tra archeologia e teleologia, queste interpretazioni si affrontano senza possibilità di arbitraggio o si giustappongono in fiacchi eclettismi che sono la caricatura del pensiero2. Le parole di Ricoeur, al di là del contesto in cui sono inserite, risuonano in modo particolarmente significativo nella mente di uno psicologo che si occupa della morte e delle problematiche del lutto. Infatti, io credo che la morte di una persona cara lasci in una desolazione che può semplicemente chiamarsi deserto, appunto il deserto del lutto, e determini una crisi profonda nel senso della vi2

P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977.

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ta, dalla quale si esce solo aprendo l’orizzonte di nuove speranze di senso per chi pure deve restare nei suoi panni e non rifiutare le sue origini e la sua storia. Cercherò di dimostrare l’ipotesi che la nostra contemporaneità è caratterizzata da una profonda scissione tra l’esigenza individuale che la vita abbia un senso (e che questo senso venga recuperato tutte le volte che una crisi lo incrina) e l’incapacità ormai cronica della nostra cultura di fornire risposte alle domande sul senso dell’esistenza, incapacità spesso mascherata dietro filosofie dell’illegittimità di queste domande, domande bollate come esercitazioni vane sui massimi sistemi del mondo o sulla metafisica. Nessuno è in una posizione migliore, per osservare tale scissione tra le esigenze individuali e il contesto culturale, di chi si preoccupa di capire cosa accade quando una morte importante mette in crisi il senso della vita di una persona e come questo senso possa essere recuperato. E le teorie psicologiche del lutto, che come si vedrà solo psicologiche non sono, rappresentano il bagaglio culturale col quale ci si confronta oggi sulla situazione esistenziale di una perdita grave. Riassumendo un po’ schematicamente la letteratura sull’argomento, si può dire che si possono categorizzare tre principali teorie psicologiche del lutto: la teoria biologica, la teoria psicoanalitica e la teoria esistenziale. Secondo la teoria biologica, i cui principali esponenti sono J. Bowlby3 e C.M. Parkes4, la morte (come una qualsiasi grave perdita) recide un legame di “attaccamento” mettendo in questione la sopravvivenza del soggetto. Il lutto in questa ottica è quel processo tendente a risolvere il problema della sopravvivenza non più assicurata. Ne risulterebbe così spiegato il comportamento della persona in lutto che, quando il lutto si svolge normalmente, ha pressapoco il seguente andamento: si osserva una prima fase di una ricerca spasmodica della persona scomparsa, seguita da una seconda fase in cui dominano vissuti di allarme, rabbia, colpa, depressione; si ha quindi un terzo momento caratterizzato da un allentamento dei 3 J. Bowlby, Attachment and Loss, The Hogarth Press, London 1969 (trad. it., Attaccamento e perdita, Boringhieri, Torino 1976 [vol. 1]; 1978 [vol. 2]; 1983 [vol. 3]). 4 C.M. Parkes, Il lutto, Feltrinelli, Milano 1980.

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legami con lo scomparso, momento che prelude al formarsi di una nuova “identità” ed al possibile instaurarsi di nuovi legami. In altri termini, secondo la teoria biologica, la persona in lutto, similmente all’animale, metterebbe in atto dapprima un comportamento di ricerca dello scomparso, come per accertarsi che la morte sia proprio avvenuta e assicurarsi ogni possibile recupero della perdita. Si avrebbero quindi, una volta preso atto della perdita, i sentimenti inevitabili di chi si sente minacciato e frustrato nella sua sopravvivenza, una presa di distanza da chi non è più disponibile per gli scopi della sopravvivenza e un adattamento alla situazione nuova che comporta un mutamento di atteggiamenti, che “cambia” l’identità e rende disponibili a nuovi legami di sopravvivenza. Col che il problema della perdita sarebbe risolto. I medesimi fenomeni vengono interpretati in modo differente dalla teoria psicoanalitica, secondo la quale: (a) la ricerca spasmodica della persona perduta (il tornare nei luoghi consueti di incontro, ecc.) avrebbe un carattere difensivo, sarebbe cioè un significato di “negazione” della perdita subita: quindi non si cerca il caro scomparso in un estremo tentativo di ritrovarlo, bensì si sa che non si può più trovare e ci si vuole “difendere” da questa consapevolezza; (b) anche la rabbia, la colpa e la depressione avrebbero carattere difensivo ma rappresenterebbero difese più progredite della negazione propria della fase precedente. Infatti: chi si arrabbia tenta di trovare fuori di sé un bersaglio per l’aggressività derivante dalla non accettazione della perdita dolorosa: chi si sente in colpa e si deprime è come se dicesse: «È colpa mia, la sua morte è anche la mia, perché mi svaluta e mi impoverisce»; (c) l’allentamento del legame con l’oggetto d’amore perduto, che la psicoanalisi chiama ritiro dell’investimento libidico, è possibile, per la psicoanalisi, quando, a partire dalla colpa e dalla depressione, si cominciano a concepire possibilità di “riparazione” della perdita subita, riparazione che consisterebbe nel far rivivere dentro di sé l’oggetto d’amore perduto nella realtà esterna, attraverso un’identificazione idealizzante con lo scomparso che ne rende possibile l’introiezione; (d) ora che l’oggetto d’amore vive dentro di noi possiamo accettare la morte esterna e la libido disinvestita dall’oggetto d’amore perduto diventa disponibile per altri investimenti oggettuali, mentre l’identità è cambiata nel senso che il Sé si è arricchito di un altro oggetto interiore buono, l’oggetto d’amore scomparso interiorizzato. Un esempio molto significativo perché riguarda un’etichetta 27 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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del nostro tempo è quello che si può trovare in un’intervista del cantante Sting ad un giornale. Quando gli hanno chiesto come potesse lavorare tanto allegramente in un periodo in cui aveva subito la perdita del suo più caro amico e del padre, Sting ha risposto pressapoco così: «Perché loro sono lì sempre con me, io canto insieme a loro e per loro». Insomma per la teoria psicoanalitica del lutto, la perdita si supera attraverso la riparazione, quando cioè si fa rivivere dentro di sé, nel modo che abbiamo indicato, la persona cara morta. Ancora differente è l’interpretazione dei fenomeni del lutto data dalla teoria esistenziale. La tentazione di citare a questo punto E. De Martino5 è troppo forte e cederò ad essa. “Che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care e che erano come parte di noi stessi? ‘Dimenticarli’, risponde, se pure con vario eufemismo, la saggezza della vita. ‘Dimenticarli’, conferma l’etica, ‘Via dalle tombe!’, esclamava Goethe, e a coro con lui altri spiriti magni. E l’uomo dimentica. Si dice che ciò è opera del tempo; ma troppe cose buone, e troppo ardue opere, si sogliono attribuire al tempo, cioè ad un essere che non esiste. No: quella dimenticanza non è opera del tempo; è opera nostra, che vogliamo dimenticare o dimentichiamo… Nel suo primo stadio, il dolore è follia o quasi: si è in preda a impeti che, se perdurassero, si conformerebbero in azioni come quelle di Giovanna la Pazza. Si vuol revocare l’irrevocabile, chiamare chi non può rispondere, sentire il tocco della mano che ci è sfuggita per sempre, vedere il lampo di quegli occhi che più non ci sorrideranno e dei quali la morte ha velato di tristezza tutti i sorrisi che già lampeggiarono. E noi abbiamo rimorso di vivere, ci sembra di rubare qualcosa che è di proprietà altrui, vorremmo morire con i nostri morti: codesti sentimenti, chi non li ha, purtroppo, sofferti, o amaramente assaggiati? La diversità o la varia eccellenza del lavoro differenzia gli uomini: l’amore e il dolore li accomuna; e tutti piangono ad un modo. Ma con l’esprimere il dolore, nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio, rendendolo oggettivo. Così cercando che i morti non 5

E. De Martino, op. cit.

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siano morti, cominciamo a farli effettivamente morire in noi. Né diversamente accade nell’altro modo col quale ci proponiamo di farli vivere ancora, che è di continuare l’opera a cui essi lavorarono, e che è rimasta interrotta…”. In effetti questo passo del Croce racchiude una esattissima e umanissima verità: per grande che possa essere il dolore di una perdita, subito si impone a noi, nella piena stessa del dolore e con tanto maggiore urgenza quanto più siamo prossimi alla disperazione, il compito di evitare la perdita più irreparabile e decisiva, quella di noi stessi nella situazione luttuosa. Il rischio, di non poter oltrepassare tale situazione, di restare fissati e polarizzati in essa, senza orizzonti di scelta culturale e prigionieri di immaginazioni parassitarie costituisce la seconda decisiva morte che l’evento luttuoso può trascinarsi dietro; perciò nella morte della persona cara siamo perentoriamente chiamati a farci procuratori di morte, di quella stessa morte, sia destinando ad una nuova riplasmazione formale la somma di affetti, di comportamenti, di gratitudini, di speranze e di certezza che l’estinto mobilitò in noi finché fu in vita, sia facendo nostra e continuando e accrescendo nell’opera nostra la tradizione di valori che l’estinto rappresenta. Indipendentemente dalla situazione luttuosa come tale, è appunto questa la varia fatica che ci spetta in ogni momento critico dell’esistenza, che è sempre in attivo far passare nel valore, e quindi un rinunziare e un perdere, un distacco e una morte, e al tempo stesso una opzione per la vita: ma nella perdita di una persona cara noi sperimentiamo al più alto grado l’asprezza di questa fatica, sia perché ciò che si perde è una persona che era quasi noi stessi, sia perché la morte fisica della persona cara ci pone nel modo più crudo davanti al conflitto fra ciò che passa irrevocabilmente senza di noi (la morte come fatto della “natura”) e ciò che dobbiamo far passare nel valore (la morte come condizione per l’esplicarsi della eterna forza rigenerante della “cultura”). La fatica di “far passare” la persona cara che è passata in senso naturale, cioè senza il nostro sforzo culturale, costituisce appunto quel vario dinamismo di affetti e di pensieri che va sotto il nome di cordoglio o di lutto: ed è la “varia eccellenza” del lavoro produttivo e differenziato a tramutare lo “strazio” per cui tutti gli uomini rischiano di piangere “ad un modo” in quel saper piangere.

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Come si vede, nell’ottica esistenziale, la fase in cui non si vuol prendere atto della morte viene connotata come “follia” e lo scopo del lutto è dimenticare i nostri morti piuttosto che adattarsi a nuovi attaccamenti o ripristinare nell’interiorità ciò che è passato nella realtà esterna. Poiché, secondo questa teoria, ciò che entra in crisi con la morte del caro è proprio il senso della vita: è, con la morte, la natura che mette in crisi la storia, e il lutto è una crisi della “presenza”, cioè una crisi della vita umana, considerata non come vita meramente biologica o soggettiva, ma come vita culturale fornita di un senso che noi stessi abbiamo edificato e continuiamo ad edificare culturalmente nella e con la nostra storia. Si tratta quindi nel lutto di recuperare questo senso perduto, di “far passare nel valore” la morte del caro, di dargli un senso, in definitiva non di far rivivere in noi i nostri morti ma di farli morire in noi culturalmente. Il pianto rituale, i rituali collettivi del lutto avevano, secondo De Martino, proprio questa funzione di far sì che potessimo lasciar morire i nostri morti superando la crisi del senso della storia che essi determinano. Di queste tre teorie del lutto che ho illustrato solo le prime due, la teoria biologica e la teoria psicoanalitica, possono dirsi appartenenti al bagaglio culturale della nostra epoca, mentre la teoria esistenziale è la teoria del lutto valida per quelle epoche in cui ancora si sapeva come dimenticare i propri morti. In questo senso il rapporto tra teoria biologica e teoria psicoanalitica, da una parte, e la teoria esistenziale, dall’altra, rappresenta la contraddizione, a cui abbiamo fatto cenno all’inizio di questo paragrafo, tra una cultura che tende a non porsi più il problema del senso della vita e un individuo che deve porselo se vuole vivere. Infatti, se seguiamo nell’interpretare i modi in cui viene affrontata la morte di un caro la teoria biologica o la teoria psicoanalitica, cioè le teorie che non si pongono il problema del senso, incontriamo paradossi evidentissimi ed eloquentissimi. Molto in sintesi, l’uomo evocato dalla teoria biologica del lutto è un uomo che non può dimenticare, l’uomo evocato dalla teoria psicoanalitica è un uomo che non può ricordare. L’uomo biologico non può dimenticare poiché nel lutto sostituisce un attaccamento puramente biologico ad un altro attaccamento puramente biologico, come se non si accorgesse che il tempo passa, come se supponesse un futuro illimitato, come se vivesse, al pari dell’animale, in un eterno presente senza storia, completa30 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mente identificato con i destini della specie, senza la doppiezza individuo-specie che caratterizza specificamente l’uomo di fronte alla morte6. L’uomo psicoanalitico, d’altro canto, non può ricordare, perché non può far passare il suo passato ma può tentare solo di farlo rivivere. Come è bene illustrato dalla intervista a Sting che ho già citato. La risposta completa di Sting è questa: «Perché loro, i miei amici morti, sono sempre lì con me, io canto insieme a loro e per loro. Ciò che è terribile è ricordare, ricordare mio padre sul letto di morte che mi prende la mano e riconosce finalmente che ho fatto qualcosa di buono nella musica». Poiché l’oggetto d’amore interiorizzato non è un ricordo ma una presenza, dover far rivivere vuol dire precisamente non poter collocare nel passato ciò che è passato, ma rendere il passato presente, restare nel passato, edificare il presente sui morti mai morti che si sono interiorizzati. E così l’uomo senza futuro non sa più dimenticare e perciò non può più ricordare perché è in crisi la sua storia e il senso di questa storia. Ne deriva l’osservazione clinica sempre più frequente di lutti che seguono percorsi patologici e che sono più propriamente i lutti impossibili, i lutti in cui l’individuo non è abbastanza identificato col suo corpo da cercare nuovi attaccamenti salvifici, né abbastanza identificato col suo Sé e abbastanza innamorato di sé (narcisista) da riuscire a far rivivere dentro di sé i propri morti. Bisognerebbe allora riuscire a dimenticare, ma questo è un compito storico e culturale fuori della portata della creatura indifesa che l’uomo è biologicamente e del narciso pieno di limiti che egli è psichicamente. Ecco, in sostanza, per riprendere Ricoeur, il compito che si apre per la nostra cultura: riaprire il rapporto con il futuro e con la teleologia, perché le nostre archeologie, del corpo e della psiche, non ci condannino al rischio di restare disperatamente nel deserto del lutto tutte le volte che una perdita grave ci colpisce. Certo non bisogna concepire ciò come se si affermasse che l’uomo deve dimenticare i propri morti. L’uomo dovrebbe semplicemente essere messo in grado di poterli dimenticare i suoi morti, perché così non siano più presenti e 6

E. Morin, L’homme et la mort, Seuil, Paris 1970.

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si possano ricordare, cioè collocare nel passato. E ciò perché l’uomo che può dimenticare può decidere in che misura dimenticare, dimenticare il giusto a seconda delle circostanze, mentre l’uomo che è obbligato a dimenticare non può deciderlo e può incontrare un’altra forma di alienazione, quella dell’uomo storico che mitizza le sue acquisizioni culturali e dimentica che per la vulnerabile creatura biologica la morte sarà sempre inconcepibile così come sempre insensata essa sarà per l’Io. Se ci poniamo, ad esempio, non più dal punto di vista di chi resta ma di chi deve morire e assistere alla pena per la perdita della sua propria vita, non sempre gli possiamo chiedere di lasciare la sua vita per un senso che la trascende, mentre possiamo sempre consolarlo facendogli sentire la presenza dell’amore che abbiamo per lui o aiutarlo fino all’agonia a nutrire nella sua interiorità i suoi sogni di immortalità. Possiamo, al contrario, chiedere di dimenticare ad un bambino che crescendo deve superare le perdite della sua età e ad un adulto che deve superare la “perdita” di un congiunto per la fine di un amore, a costoro possiamo chiedere di dimenticare, cioè di fissare lo sguardo speranzoso sull’orizzonte del futuro. 3. Il problema della morte nella famiglia del paziente oncologico: il lutto anticipatorio Partirò da una semplice affermazione: affrontare il problema della morte dal punto di vista della famiglia di un malato di cancro equivale ad occuparsi della tematica del lutto. Ciò resta vero nonostante la considerazione che solitamente si indica come lutto un processo che si svolge dopo la morte del paziente. Infatti la famiglia del malato grave e il malato stesso incontrano la morte come minaccia7 già nella fase terminale della malattia, ed è fin da allora che ha inizio quello che è stato indicato come lutto anticipatorio8. L’incontro della famiglia del malato oncologico (e del malato grave in generale) con la morte si svolge quindi lungo due direttrici temporali in sequenza che vanno dall’apparire della minaccia 7

E. Lindeman, Symptomatology and Management of Acute Grief, «American Journal of Psychiatry», 101, 1944, pp. 141-148. 8 T. Rando, Loss and Anticipatory Grief, Lexington Books, Toronto 1986.

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di morte attraverso il lutto anticipatorio fino alla morte, da una parte, e da subito dopo l’evento della morte attraverso il lutto propriamente detto fino al superamento della perdita, dall’altra. Mi limiterò in questa sede a tracciare una fenomenologia della prima delle due direttrici indicate, dall’ingresso della minaccia di morte nel territorio esistenziale della famiglia fino alla “cerimonia degli addii”9. Bisogna innanzitutto chiarire teoricamente il rapporto tra lutto anticipatorio e lutto propriamente detto. Nella letteratura più recente sull’argomento si confrontano due tesi contrapposte: I) la tesi di chi sostiene che è possibile parlare di lutto solo dopo la morte e preferisce dire che una morte di cui si è stati adeguatamente informati ha solitamente un lutto di esito migliore; II) la tesi di chi sostiene che è legittimo parlare di lutto prima della morte (lutto anticipatorio appunto), poiché già quando la minaccia di morte si fa reale si devono elaborare una serie di perdite immediate (come, ad esempio, la perdita dell’integrità fisica, del ruolo sociale e della posizione all’interno della famiglia), e ed è elaborando queste perdite che ci si comincia a preparare ad elaborare le perdite che si dovranno prevedibilmente affrontare dopo la morte ormai certa. Nel luglio 1988 J. Bowlby, ad un meeting ristretto svoltosi a Londra nell’ambito del congresso internazionale sul lutto, al collega che gli chiedeva un parere sull’utilità e il significato del lutto anticipatorio, ha risposto pressappoco così: «È una questione di termini. Si può ammettere che ci sia un’anticipazione o una preparazione, ma non è il lutto che si anticipa o a cui ci si prepara, dato che il lutto comincia quando la morte recide il legame che ci lega alla persona cara». La mia tesi è simile a quella di Bowlby, solo che non tralascerei di affrontare la questione terminologica. A tal proposito suggerirei l’adozione della metafora che A. Pinter usa in un suo famoso dramma10 per indicare quella parte della vita in cui una persona è 9

S. de Beauvoir, La cerimonia degli addii, Einaudi, Torino 1983. H. Pinter, Terra di nessuno,tra.it. Mondadori, Milano 1985.

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ancora viva ma è morente o sente che la vita l’abbandona. È la metafora della “terra di nessuno”. Si tratta di una metafora ricchissima di implicazioni: c’è innanzitutto la terra, metafora del principio materno da cui origina la vita, ma è una terra spopolata, terra di nessuno, deserto, metafora di abbandono, di sterilità, di morte. Ecco, direi che quando una persona sta per morire siamo in una terra di nessuno, in una situazione di vita che non produce altra vita ma si spegne pur continuando ad essere vita. Una situazione in cui la speranza ci sta abbandonando ma il deserto non è ancora totale. Ed è una situazione rispetto alla quale non si può generalizzare: per nessuno è agevole viverci ma non tutti ci vivranno nello stesso modo. In altri termini, la soluzione della controversia sul lutto anticipatorio non può essere teorica ma solo biografica: poiché, con una gamma pressoché infinita di sfumature, si può valorizzare la vita che rimane, la terra, oppure la morte che avanza, l’assenza, che ingigantendosi allenta i legami e desertifica il mondo. È quindi sulle tracce del particolare modo di vivere nella terra di nessuno di ciascun morente, di ciascun parente, di ciascuna famiglia, di ciascuna società o epoca storica che bisogna mettersi, cercando i termini adatti per ogni situazione vissuta perché risulti espressa nel suo irripetibile senso e non occultata tra le pieghe di qualche forzatura statistica. La minaccia Quando la minaccia che un congiunto muoia si materializza, in modi, forme e scansioni temporali variabilissimi a seconda delle storie cliniche, si innescano nei familiari una serie di processi emotivi, cognitivi ed esistenziali che possono essere connotati come “reazioni luttuose” concordemente con quanto già Lindeman11 aveva notato tanti anni fa. Infatti, si può osservare l’insorgere: a) di vissuti di depressione, di rabbia, di colpa, ecc.; b) di strategie cognitive tendenti ad “anticipare” l’adattamento alla situazione a cui la morte del congiunto condurrà; c) di crisi di quei significati dell’esistenza che sono legati alla presenza del congiunto. Di frequente osservazione è inoltre il tentativo di non prendere atto della minaccia di morte, cosa che richiama “in parallelo” la 11

E. Lindeman, op. cit.

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fase del processo del lutto propriamente detto in cui si cerca e brama il congiunto morto come se fosse ancora vivo, in un estremo tentativo di negare la perdita. Questo tentativo viene fatto: sul piano emotivo, mettendo in atto i più comuni meccanismi di difesa, dalla negazione alla rimozione; sul piano cognitivo, cercando dati che smentiscano la certezza o l’incombenza della minaccia; sul piano esistenziale, riaffermando in qualche modo i significati esistenziali e i modi di atteggiarsi (o mettendoli in discussione) che la minaccia tende a mettere in crisi. Molte famiglie, in altri termini, cercano di non entrare nella “terra di nessuno” di cui la minaccia di morte dischiude l’orizzonte. Citerò a mo’ di esempio il caso estremo di una figlia, unico congiunto di un’anziana signora malata di cancro, che si era spinta dapprima a negare ogni evidente peggioramento clinico della madre attribuendone sempre la responsabilità all’imperizia e agli errori dei curanti, e che aveva quindi cominciato a studiare ossessivamente i testi di medicina che era riuscita a procurarsi, nell’intento di trovare nei dati obbiettivi e di laboratorio degli elementi positivi da contrapporre agli elementi negativi indicanti il peggioramento non accettato. Questa figlia riaffermava inoltre continuamente il suo ruolo di figlia sottolineandone i doveri e i diritti nei confronti del complementare ruolo materno. Diceva: «La figlia sono io, sono io che l’assisto: ho il diritto e il dovere di difendere la vita di mia madre», tradendo così la sua difficoltà di affrontare la crisi della sua identità di figlia che l’ingresso della madre nella “terra di nessuno” aveva reso inevitabile. Se invece si prende atto della minaccia che incombe sulla vita del congiunto, ci si ritrova nella terra di nessuno e ci si addolora, ci si deprime, ci si arrabbia, ci si sente in colpa, e si comincia ad intravvedere il futuro che la perdita prepara con le crisi che porterà e i cambiamenti che imporrà. A questo punto ci sono due alternative: può esserci una crisi profonda della famiglia, oppure, nei casi più favorevoli, può cominciare il lutto anticipatorio con i suoi alti e bassi, le sue contraddizioni, i suoi vantaggi e i suoi svantaggi, i suoi ritorni di speranza e i suoi scoraggiamenti. Come si vede, abbiamo caratterizzato questa fase che coincide con la più o meno lunga fase terminale della malattia, come una fase ambivalente e piena di incertezze, nella quale la famiglia del malato si trova a dover gestire la doppia esigenza di allentare il le35 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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game col congiunto che muore mentre deve continuare ad avere con lui quel buon rapporto richiesto dalle esigenze assistenziali ed umane di questa fase.

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Le famiglie bloccate Ci sono, come abbiamo detto, realtà familiari in cui, quando si profila la morte di un congiunto, si entra in una crisi profonda. Sono quelle famiglie in cui i legami tra i membri sono così stretti da rendere impossibile l’individuazione di ciascun singolo componente fuori dall’ambito familiare. Si possono indicare questi legami come “legami di clan” (o anche “legami sistemici”), in cui però non esiste più solitamente la filosofia e l’escatologia del clan delle società primitive. Si tratta, in altri termini, di clan senza aldilà e nei quali, perciò, qualsiasi separazione è un’inconcepibile mutilazione al corpo complessivo dell’entità interattiva. In queste realtà familiari l’entrata nella “terra di nessuno” paralizza la vita di tutta la famiglia, poiché qui la morte non si può accettare come un fatto naturale, qui quando muore uno muoiono tutti. Spesso in questi casi è il morente stesso che trova una via di sblocco della situazione rendendola meno tragica, poiché si tratta quasi sempre di soluzioni che aprono l’unica prospettiva che da sempre ha reso accettabile la morte nei clan: la prospettiva dell’aldilà (anche solo di sopravvivenza del clan oltre i suoi componenti). Citerò come esempio un caso personale: il caso di mia madre. Da quando, dopo la morte di mio padre, prima con la depressione che ne è seguita e poi con l’aggravarsi delle condizioni oggettive, mia madre è entrata nella “terra di nessuno” di una lunga e incerta fase terminale, la vita della mia famiglia è stata come sospesa, almeno per quanto concerne quelle parti di essa (mio fratello, mia zia e mia madre) che non hanno accettato l’alea e l’autonomia dell’individuo irreparabilmente mortale e sono rimaste legate ad un clan in estinzione (mia figlia non faceva parte del clan) senza avere certezze sulla vita oltre questa vita. E così il futuro di questa famiglia, che è la mia di origine, è stato avvolto in una fittissima nebbia; si aveva l’impressione, a volte, che mia madre non avesse il diritto di morire, tanto questa possibilità era immetabolizzabile per mio fratello e per mia zia. Per quanto mi riguarda credo di aver cominciato a fare il lutto per la morte di mia madre prima che morisse, e forse ci sono riuscito solo perché proprio in quel periodo mi stavo trasferendo ide36 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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almente in un’altra famiglia, la mia propria, con un’altra madre, la madre dei miei figli. Un giorno però è accaduto qualcosa di nuovo: mia madre ha espresso la sua preoccupazione per non essere ancora riuscita a preparare la “roba della morte”. Ha cominciato così a riflettere se avrebbe messo il vestito marrone o un altro. Mia zia ha protestato per questi discorsi e lei ha ribattuto: «Dovete sapere cosa mettermi. Io avevo fatto così per mio marito, era tutto pronto». Poi ha aggiunto: «Vorrei che una mattina… Sì, vorrei morire nel sonno, così voi non soffrireste e io non avrei tutte le umiliazioni… Metterò il vestito marrone e ci appunterò sopra la spilla che m’ha regalato mio marito. Le scarpe, metterò quelle con la fibbia così non mi scappano dai piedi, può darsi che debba camminare di là». Mia zia ha protestato ancora e mia madre ha continuato: «Devo fare bella figura di là, mi aspettano tutti i parenti e mio marito. A proposito, c’è la camicetta bianca che forse è grande, vedete voi, se non mi va la piegate e la mettete accanto, così se devo cambiarmi di là… Non dovete dimenticarlo. Ricordo la figlia di Marianna che raccontava della madre: avevano dimenticato di mettere nella bara qualcosa che desiderava e allora le appariva la madre in sogno tutte le notti dicendole di portare quella cosa che avevano dimenticato sul tetto di casa che lei sarebbe venuta a prenderla». A questo punto mia zia si è proprio arrabbiata mentre mio fratello si è allontanato senza dir niente. Per parte mia ho dato ragione alla mamma assicurandole che avremmo fatto tutto a dovere, e poi ho aggiunto per sdrammatizzare un po’: «Vuoi anche essere truccata?». E lei seria ma rinfrancata: «No, questo no. Devo essere naturale». Sembrava contentissima, e ho capito che ora gli altri potevano guardare alla prospettiva di questa morte e al futuro con maggiore serenità; è mia madre stessa, la morente, che ha indicato un modo possibile di elaborazione del lutto: soddisfare le sue volontà alla lettera per non sentirsi in colpa ed evitare che tornasse a disturbare i sonni di chi resterà in questa vita mentre lei andrà in un’altra, un’altra vita in cui troverà altri componenti del clan e in cui tutto ciò che concerne la sua identità sociale resta valido come sempre (poiché anche di là bisogna far “come si deve” e “far bella figura”). E così il lutto anticipatorio ha potuto cominciare anche in un clan familiare come quello della mia famiglia di origine dopo che 37 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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l’imminenza della morte di uno dei membri aveva determinato un’impasse. Aggiungerò soltanto che non bisogna cadere nell’equivoco di pensare che mia madre desiderasse morire, solo che il modo di comportarsi suggerito agli altri è stato innanzitutto una soluzione per il problema dell’elaborazione del lutto che lei stessa ha dovuto fare per la propria morte. Che non desiderasse morire è dimostrato dal fatto che continuamente mi chiedeva come parlando a se stessa: «Perché devo andarmene?». Che ci sia stata alla base del suo atteggiamento una personale elaborazione del lutto per la sua propria morte apparirà chiaro se si considera il sogno che mia madre m’ha raccontato in quei giorni: Avevo tredici anni, l’età in cui tuo padre ha cominciato a guardami12. Sono passata dalla zia Carmela, quella che abitava quasi di fronte alla casa di tuo padre. Qui ho trovato mia madre e mia cugina. Mi sono seduta con loro ed ero felice di averle ritrovate, sembravano proprio vive! Poi ho voluto che ci sedessimo tutte sul balcone per cercare di vedere tuo padre senza darlo a vedere. Sul balcone della casa di fronte c’era tua nonna che stendeva il bucato. Ho pensato che mi stava togliendo la visuale e l’ho detestata. Poi guardando meglio mi sono accorta che tuo padre che si nascondeva dietro i panni stesi e anche lui cercava di scorgermi senza essere visto. Sono stata felice in quel momento. Poi mi sono svegliata e mi sono ritrovata in questa vita in cui sono tutti morti e la felicità è svanita. Togliersi dalla terra di nessuno e raggiungere di là i propri cari, di là non dalla parte della morte ma dalla parte della vita, di là dove si può ricostruire il clan e ricominciare a vivere, ecco il desiderio di mia madre. È insomma come se ci volesse dire: «Se riusciamo a vincere l’incredulità sull’esistenza di un’altra vita, non è poi così terribile che io muoia, forse è persino giusto». Non so cosa faranno mia zia e mio fratello; io, come ho detto, mi sono trasferito al di là della mia famiglia, in un’altra famiglia 12

Si allude qui alle modalità del corteggiamento tipico della Sicilia dell’epoca fatto principalmente di sguardi, tanto che per dire “mi fa la corte” si diceva “mi guarda”.

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che non è un clan, la mia, ma su questa terra. Mi è chiaro comunque che mia madre ha indicato una via, una via valida per se stessa e per gli altri membri del clan che vorranno restare nel clan.

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La terra di nessuno Una volta superati i blocchi che la separano dalla terra di nessuno, la famiglia del morente si troverà di fronte ai compiti fondamentali del lutto anticipatorio13: 1) elaborare il lutto per le perdite parziali che la situazione terminale determina; 2) allentare i legami con la persona cara che muore e contemporaneamente valorizzare gli elementi positivi di questi legami per non abbandonare il congiunto in una fase in cui ha bisogno di amore, protezione e assistenza; 3) dirsi addio. 1. L’elaborazione dei lutti parziali che la fase terminale determina si può indicare sinteticamente nel compito di gestire tutte le conseguenze determinate dal fatto che il malato di cancro (così come ogni malato in fase terminale con differenti accezioni) “non è più lui” nei più differenti aspetti riferentesi alle varie dimensioni (fisica, psichica, personale, interpersonale, economica, ecc.) dell’esistenza. Le modalità che più frequentemente si osservano nelle famiglie del malato di cancro di fronte all’esigenza di questa elaborazione sono: la modalità abbandonica e la modalità riparativa. La modalità abbandonica viene espressa più o meno consapevolmente con la formula: «non è più lui (o lei), quindi non ho più nessun obbligo nei suoi confronti». Questa modalità corrisponde: sul piano cognitivo ad un azzeramento delle speranze che vede la morte avvenuta nella morte certa; sul piano emotivo al tentativo di sciogliere l’ambiguità della terra di nessuno separando il più nettamente possibile la vita dalla morte. Esempi di una modalità del genere sono quelli delle famiglie che “abbandonano” il congiunto morente in un’istituzione (ospedale, clinica, hospice o casa di riposo), decretandone la morte sociale per conseguire una identificazione quasi piena tra morte certa e morte avvenuta. La modalità abbandonica può essere attuata anche solo nel mondo interno quando le famiglie continuano a mantenere gli obblighi esteriori nei confronti del congiunto 13

T. Rando, op. cit.

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morente, mentre interiormente l’hanno già abbandonato alla morte. La modalità riparativa si può esprimere con la formula: «non è più lui (o lei) ma posso fare molto perché per me rimanga sempre lui (o lei)». Questa modalità si riferisce cognitivamente ad un privilegio accordato al passato a scapito del futuro, e corrisponde emotivamente al desiderio di restaurare ciò che la malattia ha reso “passato”. Esempi di questa modalità riparativa sono i comportamenti delle famiglie che fanno di tutto perché il congiunto morente torni ad essere com’era prima di entrare nella fase terminale o addirittura prima di ammalarsi. E ciò avviene spesso anche in contrasto con le possibilità reali date dalla situazione, vale a dire che la modalità riparativa quando è prevalente tende ad instaurarsi a dispetto della irreparabilità della situazione. Un caso che mi ha colpito l’ho visto in un reparto di oncologia pediatrica dove la modalità riparativa è ovviamente più frequente: una madre non poteva assolutamente sopportare che il figlio non portasse la parrucca nonostante al bambino la perdita dei capelli procurasse un disagio minimo e minori problemi di adattamento rispetto ad altre conseguenze della sua malattia grave. Come si può notare, le due modalità di elaborazione dei lutti parziali della fase terminale corrispondono a due modi di temporalizzare la situazione terminale: un modo che privilegia il futuro (quello abbandonico) e un modo che privilegia il passato (quello riparativo), talché in entrambi i casi il presente del rapporto col morente non può essere vissuto (nel caso della modalità abbandonica) o può essere vissuto solo come riedizione del passato (nel caso della modalità riparativa). Come se non si scorgesse, nella maggior parte dei casi, una terza possibilità di temporalizzare la situazione terminale, possibilità che consentirebbe di non sacrificare il presente al futuro o al passato. Questa terza modalità di elaborazione (che vale sia per i lutti parziali di cui stiamo parlando sia per il lutto in generale) consiste nel capire che si può vivere il presente della terra di nessuno (la terra in cui il congiunto morente non è più lui ma c’è) appunto come presente cioè come quella dimensione del tempo che proviene dal passato ed è protesa verso il futuro. Significa, in altri termini, considerare che il morente non è più lui perché lo è stato e non ci sarà più perché c’è ancora. Vuol dire che quando era lui, 40 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cioè nel passato, non era ancora morente e quando non ci sarà più, cioè nel futuro, non sarà più vivente. Come dire che l’errore cognitivo di chi usa una modalità abbandonica di gestione del lutto anticipatorio (il malato terminale “c’è ancora ma non è più lui, non è più vivo, perché tra poco certamente non ci sarà più”) consiste nel dare al presente un significato che lo “riduce” al suo futuro, rispondendo così a questo futuro prima che sia arrivato. D’altra parte anche se fosse legittimo fare “come se uno fosse morto quando è solo certo che morirà”, si commetterebbe un altro errore cognitivo: non capire che non si può dire di uno che è morto che “non c’è”, perché, essendoci stato, di lui si può dire solo “non c’è più”. “Non c’è” si può dire solo dell’assenza astorica perché anche di chi non è nato si deve dire “non c’è ancora”. Si può, infatti, abbandonare solo chi non c’è, non si può abbandonare, anche volendo, chi non c’è più, perché c’è già stato. È questa la ragione, suppongo, per la quale la modalità abbandonica di gestione del lutto anticipatorio necessita per riuscire di particolari condizioni personali e sociali. D’altra parte, l’errore cognitivo di chi usa una modalità riparativa di gestione del lutto consiste nel pensare che la condizione di una persona malata che “c’è ancora ma non è più lui” la riduca ad una mera presenza e che, quindi, sia riparabile sulla base del ricordo. Infatti ricordare come il malato era ha senso solo perché non lo è più, irreparabilmente, e si riferisce al passato, non ad un futuro più o meno prossimo in cui si possa far sì che ritorni come prima. (Dice Casanova all’inizio dell’Histoire de ma vie: “Ora che non sono più quello che ero posso solo ricordare”). Se consideriamo allora questi due opposti errori cognitivi propri della modalità abbandonica e riparativa del lutto anticipatorio possiamo ipotizzare una via di superamento dell’abbandono e della riparazione, via che ripristini la totalità temporale spezzata dagli opposti privilegi accordati rispettivamente dalle due modalità illustrate al futuro e al passato. Potremmo dire così: «Io non posso considerare il morente già morto quando ancora è vivo perché nemmeno da morto egli sarà per me del tutto assente, in quanto c’è già stato; così come non ho bisogno di farlo ridiventare a tutti i costi ciò che egli irreparabilmente non è più, perché mi ricordo ciò che è stato. Insomma, mia madre sta morendo e non è più lei ed io per elaborare questa perdita posso evitare sia di considerarla già morta e abbando41 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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narla, sia di tentare in tutti i modi di farla tornare ad essere quello che non è più. Come? Considerando che anche quando sarà morta non sarà per me un’assenza totale e che il ricordare com’era continuerà a farla essere mia madre nonostante che non sia più lei». In tal modo potrò cominciare ad allontanarmi da lei che muore, potrò cominciare a non tenerla più presente, ad andare verso un futuro senza di lei, e così ella comincerà a passare e potrò cominciare a ricordarla. 2. Una volta iniziato il lutto per le perdite parziali che la morte incombente determina, sorge l’esigenza (che è il secondo compito della fase del lutto anticipatorio) di evitare che l’allentamento dei legami, che l’elaborazione del lutto per le perdite parziali comporta, renda impossibile continuare ad amare il morente al punto da assisterlo, proteggerlo e consolarlo come necessita nelle fasi terminali. N. Elias14 ha connotato questo problema come il problema della solitudine del morente e ha sostenuto, come si sa, che per evitare questa solitudine bisogna: «… dimostrare alle persone in punto di morte che non hanno perduto importanza per noi». Altrove15 ho cercato di mostrare come questo obbiettivo possa essere conseguito solo “amando il morente come se stesso” cioè in quanto “vivente che muore” e non come “vivente che vive”, cosa che potrà aiutarlo a dare senso alla sua morte. Aggiungerò qui per le esigenze del presente lavoro, che la possibilità di continuare ad amare, assistere, proteggere e consolare un congiunto che muore mentre lo si “affida” alla morte, è basata sul superamento, a cui abbiamo fatto appena cenno, dell’alternativa di abbandono e riparazione attraverso l’instaurazione di un dialogo che sostanzi la possibilità di trascendere l’esperienza, in sé insuperabile, della perdita di sé e della perdita di quell’altra parte di sé che muore con l’altro amato. L’osservazione di un tendenziale instaurarsi di un dialogo del genere è più frequente di quanto non si creda nell’ambito delle famiglie che affrontano la morte di un congiunto, pur essendo un dialogo precario che è il punto d’arrivo di una lunga maturazione la quale, se la malattia ne dà il tempo, si svolge attraversando la 14 15

N. Elias, op. cit. F. Campione, Guida…, cit.

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crisi dei rapporti interpersonali e dei modi d’essere personali che la morte può determinare. Dialogare in tal caso vuol dire essere gli uni di fronte agli altri (familiari di fronte al morente) percependo ciò che solo li può accomunare, un senso condiviso della morte imminente; senso che li porta al di là della loro esperienza contingente: i parenti oltre la loro angoscia, impotenza, rabbia, colpa, ecc., il morente oltre la grande pena per assistere alla fine della propria vita. Tale senso può essere “inventato” dai protagonisti o derivato dalle loro ideologie, convinzioni religiose o stati di necessità accolti, ma si basa sempre sul riuscire a guardare l’altro con gli occhi dell’altro, sul lasciarlo essere quello che è e confrontarsi con un atteggiamento reciproco, in un rapporto che diventa un incontro empatico che si può riassumere nella formula “ama il prossimo tuo come se stesso”16. Nella concreta esperienza dei rapporti morentifamiglie si possono osservare con frequenza indizi di una tendenza forte all’instaurarsi di un rapporto di dialogo empatico come quello che abbiamo schematicamente indicato. Quando ad esempio un parente non ce la fa più a tenersi la maschera che occulta i suoi sentimenti di angoscia, di rabbia, impotenza, colpa, ecc. e scoppia in pianto davanti al morente… Non è infrequente in casi del genere che sguardi e comportamenti del morente sembrino volersi scusare per la situazione in cui è stata posta la famiglia, quando non diventano addirittura francamente consolatori. Ora il morente è tutti i morenti e il parente è una figura dell’uomo vivo ma impotente di fronte al peggiore dei “mali”. Diventa allora chiaro che si è pronti ad andare al di là dei sentimenti che la morte suscita e si può cominciare a dialogare, anche balbettando, sul senso da darle. Ma quale lungo giro c’è da fare, quale dolore l’Io deve sopportare (l’Io inconsolabile del parente e quello ancora più inconsolabile del morente) prima che un tale obbiettivo possa essere conseguito! Solo allora il morente può accettare senza ribellarsi di essere “allontanato”, anzi forse è anche lui stesso che lo richiede perché diventa così più facile anche per lui accettare la necessità di allontanarsi. 16

Ibidem.

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Solo allora il morente capisce che si può essere “affidati” alla morte e non solo abbandonati ad essa o salvati da essa. Solo allora il familiare capisce quanto falsa possa essere l’alternativa di abbandono e riparazione e quanto sia più giusto affidare il caro alla morte e dirgli addio.

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Dirsi addio Nel film popolare Voglia di tenerezza c’è una scena in cui i figli della protagonista morente, due bimbetti, incontrano la madre in quella fase in cui secondo gli americani è ora di dirsi addio (To say goodbye). Non sappiamo quanto frequente sia negli USA una scena del genere, fatto sta che, una volta preso atto esplicitamente, da parte del morente o da parte della famiglia dell’imminenza e irreparabilità della morte, e una volta superate le perdite parziali che il morire comporta, la fase terminale tende a diventare dovunque, anche da noi, una “cerimonia degli addii”. Nel nostro contesto culturale, dove il non detto e il silenzio sono ancora le più frequenti conseguenze della certezza della morte, dirsi addio esplicitamente è abbastanza raro, mentre si possono incontrare situazioni terminali che sono dei lunghi addii (soprattutto nel caso di malati di cancro a lungo assistiti a domicilio o di anziani che vivono il loro morire con esplicita consapevolezza). Se analizziamo questa situazione nel suo significato esistenziale, possiamo dire che l’addio è un “lasciarsi” con un saluto che apre una speranza. È come se il morente e i suoi cari si dicessero: «Possiamo accettare il deserto che la morte sta per lasciare perché ci rivedremo in una dimensione che va oltre la vita e che indichiamo dicendo “adDio”». Una speranza e un augurio: qualcosa di cui non possiamo essere certi ma che desideriamo. Il morente può accettare di “essere affidato” alla morte e il congiunto può “affidarvelo” proprio perché riescono a dirsi “goodbye” che significa “arrivederci” ma è una contrazione di “God be with you” (Che Dio sia con te). È probabilmente perciò, per l’aprirsi di questa speranza, nel buio della morte, che Ivan Il’i? morendo vede una luce nel racconto di Tolstoj17. E la sempre più infrequente percezione di una luce 17

L. Tolstoj, La morte di Ivan Il’i?, Einaudi, Torino 1986.

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al momento della morte deriva probabilmente dalla sempre più ardua difficoltà di dirsi addio. Come spesso accade nel dominio contemporaneo del morire incontriamo anche qui un paradosso: da quando è diventato più facile dirsi che la morte è arrivata18 dirsi addio è sempre più naturale, ma ciò non significa che poi ci si riesca. Anche nella scena del film che ho sopra citato, l’addio è pieno di tensioni e c’è da dubitare che morendo la madre abbia visto una luce, c’è da dubitare cioè che l’addio con i figli abbia aperto una speranza costituendosi come “superamento” della morte. Infatti io credo che l’ordine vada ribaltato: dirsi addio è possibile se c’è già prima la speranza di un quid oltre la vita. Le testimonianze delle persone che hanno vissuto la morte di una persona cara sono concordi nell’indicare l’enorme difficoltà di dirsi addio. Ecco, allora, lo specifico della contemporaneità: dirsi addio ridiventa oggettivamente possibile, ma come riuscire ad organizzarne la “cerimonia”, in presenza della crisi profonda nella fede nell’aldilà che caratterizza questa contemporaneità? Farò cenno a questo proposito ad un’interessante inchiesta riportata da Vovelle19 secondo la quale, nonostante la maggior parte delle persone continuino a credere in Dio, sono ormai solo una minoranza coloro che credono nell’aldilà. Non so se i colleghi che lavorano in questo campo e che hanno l’occasione come me di raccogliere le testimonianze dirette o indirette di chi vive la fase terminale concordano con l’impressione che deriva dalla mia esperienza: oggi, nel nostro orizzonte culturale dirsi addio tende a diventare sempre più possibile oggettivamente (grazie al modo di comunicare più aperto che caratterizza la nostra epoca nel suo rapporto con la morte), ma resta soggettivamente impossibile a causa della persistente (anche se attenuata) incredulità sulla trascendenza ultramondana. Molto critica, pur con forti segni di ripresa, appare un’altra possibilità: la possibilità che non sia necessario aprire una speranza al deserto della morte attraverso la trascendenza che il rimando “adDio” comporta. Mi riferisco alla possibilità che si riesca a “lasciarsi” nel morire 18 19

F. Campione, Guida…, cit. M. Vovelle, La morte e l’Occidente, Laterza, Bari 1986.

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non tanto attraverso il ricorso all’aldilà quanto attraverso il ricorso all’aldiqua. È il caso di chi vive, nel suo legarsi alla specie attraverso i figli o alla storia umana attraverso le opere, in una trascendenza mondana dell’individuo, trascendenza già insita nelle sue origini e nel suo destino di essere legato alla specie e all’umanità. Costoro, morendo o vivendo la morte incombente di un caro congiunto, cercheranno di dirsi che chi resta vivrà anche per chi se ne va. In sintesi le due possibilità illustrate fin qui si possono indicare nel modo seguente: 1) Nel primo caso è come dire al caro morente: «Muori sereno, che Dio sia con te, ci rivedremo, addio!». 2) Nel secondo caso è come dirgli: «Muori sereno, la tua vita è stata importante ed ha avuto senso per noi, e questo senso non morirà, noi continueremo a vivere per te!». Ma c’è una terza possibilità, più rara nell’osservazione, in cui non c’è bisogno di dirsi addio, cioè di far ricorso ad una trascendenza oltremondana, né di riconoscersi parte di uno stesso destino umano, ovvero di ricorrere ad una trascendenza terrena. È il caso in cui non si esorcizza in nessun modo, come tutto sommato si fa nelle due modalità precedenti, la tragedia della morte, il caso in cui non si rimanda il morente ad una vita che continua attraverso un bene assoluto (Dio) o relativo (la comunanza di significati e di affetti). È il caso in cui l’amore non ha bisogno né di fondamento né di durata per riscattare la morte. Ci sono persone che non dicono al caro che muore né “addio” né “vivrò per te”, ma gli dicono semplicemente, nei mille modi in cui ciò è possibile nel linguaggio umano, “ti amo”. Il morente dice: “Muoio. Ti amo”. Il congiunto dice: “Ti amo” e nel suo viso tra le lacrime appare un sorriso. Non accade certo mai così schematicamente e chiaramente, ma è questo il senso che se ne trae. Io stesso un giorno ho scritto a mia madre senza fargliela leggere questa lettera: Mamma, non posso accettare che morirai e che non ci rivedremo più. So che anche tu dubiti che Dio esista e non ti consola affatto, o troppo poco, pensare che forse ci rivedremo. Sai anche che io ho la tua faccia e non potrò scordarti e vivrò anche per te. Ma neanche questo ci consola, lo so, lo sento. Gli unici momenti felici sono quelli in cui non abbiamo bi46 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sogno né di credere in Dio né di ricordarci che siamo madre e figlio. Sono momenti in cui ci diciamo senza dircelo: “Ti amo”. Ti amo, mamma. E so che è assurdo chiedersi se quando non ci sarai più ti amerò ancora: l’amore è al di là del tempo, non comincia e non finisce, è da sempre tutto e in eterno in questa frase così piccola e così impronunciabile: “Ti amo”.

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Ecco allora le tre possibilità che l’esperienza mostra con diversa frequenza nel nostro contesto culturale: 1. Chi ha bisogno di ricorrere alla trascendenza e dice addio al congiunto che muore lo può lasciare perché gli augura (mentre lo augura a se stesso) qualcosa di meglio della vita: il bene assoluto del regno di Dio, dove ci rivedremo e vivremo una vita sublimata da questo bene in beatitudine. 2. Chi crede in una trascendenza mondana (nella specie o nell’umanità) non ha bisogno di augurare al morente un bene assoluto o un incontro di là, e riesce a lasciarlo perché è convinto che non lo lascerà mai, che vivrà per lui, come i suoi cari, a loro volta, faranno, quando sarà giunto il suo momento. 3. Chi al congiunto che muore può dire solo “ti amo” non sa sottrarsi all’impossibilità tragica di assicurargli una qualche forma di sopravvivenza, e può, al tempo stesso, rinunciare ad augurargli un bene che si realizzerà quando non ci sarà più (adDio) poiché gli dà un bene che si realizza subito e completamente a dispetto della precarietà della durata (“Ti amo”). Come sarebbe più bello se la nostra cultura non si limitasse a favorire la “cerimonia degli addii”, trovandosi così a dover promuovere nella fase terminale della vita nuovi travestimenti delle vecchie e pur sempre “umanissime” trascendenze mondane e ultramondane, ma si ricordasse quella frase che viene alla bocca di tutti gli innamorati: “Ora che ti amo posso anche morire”. Sarebbe bello cioè che la nostra cultura si ricordasse che l’uomo, amando, porta il divino e il sommo bene sulla terra, cosa che gli può consentire di vivere senza esorcizzarla, né accettarla o rifiutarla, la tragedia della morte. Significa, ad esempio, in termini più espliciti, che quando sco47 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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pre che nell’amore per il figlio c’è tutto l’amore (il sommo bene), una madre potrà amare il figlio che muore non solo in quanto suo figlio (cosa che giustifica il suo desiderio di dargli una qualche forma di trascendenza) ma in quanto bambino (in ogni bambino amato tutti i bambini) e dargli negli attimi finali tutto l’amore.

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Capitolo II

Il reale e l’immaginario nelle teorie del lutto

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1. L’antropologia implicita nelle teorie del lutto e la critica del concetto di “perdita” Come già abbiamo detto, secondo le principali modalità del lutto, la morte di una persona cara può mettere in pericolo la sopravvivenza del soggetto, il suo benessere o i suoi progetti per il futuro. Ciascuna delle concezioni illustrate sottende un’antropologia per cui l’uomo può essere concepito rispettivamente: a) come un organismo animale evoluto1; b) come un essere somatopsichico dominato dal principio del piacere2; c) come un essere storico che cerca continuamente di integrare la sua “naturalità” nella sua vicenda storica3. Di queste principali teorie del lutto che abbiamo illustrato solo quella di De Martino non utilizza il concetto di “perdita”. Laddove la più moderna letteratura sul lutto, rifacendosi alle altre due teorie, è dominata dal concetto di perdita (loss) che è entrato ormai nel linguaggio comune quasi come sinonimo di lutto. In altri termini, attraverso l’uso universale di questo concetto, la teoria biologica e la teoria psicoanalitica del lutto finiscono per affermarsi nella vita e nelle coscienze prima ancora che si comprenda cosa ci propongono di fronte all’esperienza del lutto e su quali concezioni dell’uomo si basano. Sosterrò qui che usare sempre il termine perdita per dire lutto è scorretto, poiché non tutti i lutti sono connotabili come perdite.

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C.M. Parkes, op. cit. S. Freud, Nuove lezioni introduttive alla psicoanalisi, in Opere, vol. XI, Boringhieri, Torino 1979. 2

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Partiamo da una citazione tratta da uno dei libri (tuttora) più completi e tipici della letteratura sul lutto4: I legami umani possono assumere forme diverse. Ci sono molti modi di concettualizzarli e molte diverse concezioni su quali siano le componenti fondamentali di tali legami. Le relazioni più intime ed intense sono quelle che sono associate con il maggior dolore quando si perdono, benché relazioni meno intense possono essere anch’esse fonte di dolore. Le relazioni possono naturalmente essere caratterizzate da differenti stati sentimentali, possono corrispondere a diversi modelli e vi si possono realizzare molti bisogni. Weiss indica una serie di “provvidenze” o bisogni che si possono normalmente soddisfare nelle relazioni umane. Tra questi si possono indicare: l’attaccamento, che provvede a dare un senso di sicurezza; l’integrazione sociale e l’amicizia che provvedono a soddisfare il bisogno di condividere le preoccupazioni; l’educazione, che provvede a dare il senso che gli altri hanno bisogno di noi; la rassicurazione sul valore, attestante il valore di una persona; un senso di alleanza affidabile che provvede al bisogno di un’assistenza fidata; una guida, così importante nelle situazioni di stress. Qui tutto sembra chiarissimo: si ha un lutto quando si spezza un legame, quando si “perde” una relazione interpersonale. Le relazioni inoltre vengono definite: 1) nella loro intimità e intensità sulla base della “quantità” di dolore che provoca la loro perdita; 2) nel loro contenuto come qualcosa che è atto a soddisfare una serie di bisogni. Se ne può facilmente dedurre che quando si perde una relazione si soffre perché i bisogni più o meno fondamentali che essa soddisfaceva rimangono insoddisfatti. Mancano significativamente nell’elenco di Weiss il bisogno di libertà, il bisogno di potere, il bisogno di amare e il bisogno di godere. È una lacuna che si può colmare senza che per questo cambi il senso dell’impostazione antropologica: l’uomo è un essere bisognoso che tende a soddisfare i suoi bisogni; e uno dei modi per farlo è stabilire legami interpersonali, legami che possono essere persi con la relativa sofferenza del lutto. Insomma è come se si pensasse che i legami interpersonali sia4

B. Raphael, The Anatomy of Bereavement, Hutchinson, London 1984.

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no strumenti per la soddisfazione dei bisogni e che il lutto sia quel processo psichico, biologico e biografico determinato dalla perdita di qualcuno di questi strumenti. Gli altri, in questa concezione, sono sempre “mezzi” e non “fini”, degli altri si ha sempre bisogno (e loro di noi) e, se si desiderano, si concepiscono i desideri come bisogni vaghi da precisare e soddisfare, e non, come invece sono nella loro essenza i desideri, “veicoli” della trascendenza, di quel movimento che ci porta verso gli altri non solo per farli nostri, per possederli come strumenti, per prendere loro qualcosa che ci serve, ma per donare loro generosamente e disinteressatamente il nostro affetto. Concepite così le cose, è inevitabile dire che il lutto è sempre relativo ad una perdita, poiché quando una relazione finisce o muore uno dei contraenti di essa, si perde ciò che si possiede e si usa per qualche scopo, per soddisfare qualche bisogno. Se si tiene invece conto che gli uomini possono stabilire relazioni di desiderio oltre che relazioni di bisogno, si dovrà ammettere che l’identificazione del lutto con la perdita è quanto meno parziale, riguardando solo una categoria (sebbene forse la più diffusa) di relazioni interpersonali, quelle basate sul bisogno dell’altro, sul bisogno di “prendere” l’altro per farsene strumento della soddisfazione dei propri bisogni. In questo ultimo senso è vero, come nella letteratura sul lutto si tende spesso a sostenere, che la morte di una persona cara o la separazione da essa è una perdita alla stregua della perdita della casa, del lavoro, di un ruolo sociale, di una posizione economica, ecc.5. In caso contrario, cioè nelle relazioni basate sul desiderio dell’altro, sull’altro come fine e non come mezzo, cosa accade quando si verifica una separazione? Perché non si può più parlare di mancanza e di perdita? In questo caso quando l’altro soddisfa i miei bisogni non lo fa perché mi è dovuto a causa della mia bisognosità, non lo fa per “dovere”, ma lo sceglie liberamente e disinteressatamente, cioè si assume totalmente la responsabilità di desiderare il mio bene. Tanto meglio, ovviamente, se anch’io nel contempo desidero liberamente il suo bene e l’aiuto a soddisfare i suoi bisogni: è la situazione del reciproco godimento, del vivere l’uno dell’altro, della voluttà6. 5 6

C.M. Parkes, op. cit. E. Lévinas, op. cit.

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Ma chi desidera liberamente il mio bene è “separato” da me, altrimenti sarebbe proprio il legame che lo unisce a me ad obbligarlo, a condannarlo a soddisfare i miei bisogni. Il legame di due esseri che si desiderano non è un legame che obbliga, è un legame che “scioglie”, un legame che si basa sull’assoluta libertà di ciascuno di restare o di andarsene. La persona cara con cui ho un rapporto di desiderio è separata da me sia quando sceglie liberamente di andarsene sia quando sceglie liberamente di darsi a me. E, d’altra parte, la morte dell’altro riguarda solo chi resta7: il quale può, se lo sceglie, continuare a desiderare l’assente. La morte di colui che soddisfaceva liberamente i tuoi bisogni (o ci provava) si può considerare una reale separazione, dato che egli già per sceglierti doveva essere separato da te? In che senso allora essa è una perdita? Non voglio certo dire che il problema non sussiste: voglio dire che altro è piangere la perdita di coloro che soddisfacevano i nostri bisogni perché si erano fatti, volenti o nolenti, nostri strumenti, altro è piangere l’assenza di un essere che, pur continuando ad essere separato e libero, ci desiderava e continuava a scegliere continuamente di unirsi a noi! Bisogna dire che, se prendiamo in considerazione questo tipo di relazioni interpersonali, le relazioni basate sul desiderio dell’altro, appare una dimensione della trascendenza che neppure la teoria del lutto di De Martino con la sua antropologia storicistica riesce a “comprendere”. Infatti, come abbiamo più volte visto, la morte per De Martino mette in crisi la presenza, presenza che è umana se è storica (cioè se trae il suo senso dai progetti che realizza nella storia) e che entra in crisi quando la natura interferisce con questi progetti, interrompendo con la morte del singolo la continuità del tempo storico. C’è, è vero, il riconoscimento della dimensione della trascendenza, ma attraverso di essa il singolo si perde, poiché si deve trasformare in un essere storico entrando nei rituali anonimi che la storia escogita per riannodare la continuità interrotta del suo tempo. Qui, cioè, il pianto, di cui è modello il pianto rituale antico8 è 7

Al morente compete il “morire” (cioè quel “vivere” che si conclude con la morte) ed eventualmente il suo “destino” dopo la vita. 8 E. De Martino, op. cit.

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pianto anonimo e simbolico (quello delle prefiche) tendente a restaurare nella presenza la fiducia in qualcosa di impersonale (il senso che i progetti storici danno alla vita del singolo) dopo che questa dimensione è stata messa in crisi dalla “naturale” morte, evitando così che il singolo pensi che vivere è inutile, e desideri morire o non essere mai nato. Ma la morte dell’altro è anche qualcosa di più personale, qualcosa di più che la messa in crisi del senso impersonale e storico della vita, di più personale e di altrettanto trascendente del “passaggio” a questo senso attraverso il lavoro storico per realizzarne i progetti e restaurare l’integrità dopo le crisi. La morte può essere considerata come uno degli aspetti, uno degli “eventi” della separazione, un caso particolare del generale rapporto di trascendenza, cioè di desiderio, che lega l’Io all’altro come a qualcuno che, essendo altri, è necessario che sia separato da noi anche quando è in relazione con noi. Piangere l’assenza di un essere che pur continuando ad essere separato e libero ci desiderava e sceglieva continuamente di unirsi a noi, equivale a piangere l’assenza non di qualcuno che abbiamo perso ma di qualcuno che ci è stato tolto! In questo senso si può condividere l’idea di Lévinas9, idea apparentemente”persecutoria” ma diffusissima nei vissuti di tutti coloro che amano desiderando, l’idea che la morte è sempre un omicidio. Ma chi è l’assassino? Lui voleva liberamente restare, desiderava restare, ma la morte è arrivata. L’assassino è allora la morte? L’assassino è probabilmente il fatto della nostra finitezza: un essere finito (che solo all’Infinito diventerebbe perfetto) non può realizzare l’infinito, non può soddisfare il desiderio infinito dell’altro, può solo desiderarlo. Possiamo solo desiderare di restare insieme ai nostri cari all’infinito, ma non possiamo vivere all’infinito. Il lutto è allora, nei casi in cui le relazioni siano basate sul desiderio, la reazione ad un omicidio, omicidio di cui non possiamo incolpare nessuno poiché dipende dall’esser nati, dall’esser dovuti nascere per esserci: un essere che ha bisogno di nascere per esserci non può essere immortale, l’omicidio comincia dalla nascita, l’inizio ha bisogno della fine. 9

E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, Jaca Book, Milano 1966.

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Significa che se siamo stati fatti non potevamo che essere compresi tra un inizio ed una fine, poiché solo un essere che è causa sui quando sta per “finire” si rigenera da sé. Il lutto è allora precisamente la crisi che dobbiamo affrontare per vivere la nostra congenita mortalità e recuperare la verità del fatto che siamo esseri per cui è possibile concepire un aldilà di sé ma che devono continuamente aggiornare questo superamento essendo finiti, cioè essendo sempre tra la nascita e la morte, tra il principio e la fine. Solo quando ci tolgono qualcuno che con noi voleva starci, si vive nella sua pienezza la discontinuità del tempo, la continuità si interrompe e dobbiamo ricominciare, ricominciare a vivere. Solo quando una persona che ci desiderava e che desideravamo muore, sperimentiamo dal vivo la nascita: inizio di un desiderio di vivere che non può tornare alle sue origini per farsi infinito ma solo trascendersi desiderando un altro. Un altro che proprio quando ci viene tolto ci indica che il suo desiderio di noi significava che ci aspettava all’origine della nostra vita, quando senza chiedercelo e senza chiederci nulla in cambio ce l’hanno data, la vita. Quando muore una persona che ti desiderava e che desideravi ti arrabbi come contro un assassino, ma è rabbia vana: l’assassino non si presenta, proprio come “colui” che ti dà la vita senza chiederti nulla in cambio. Siamo assassinati morendo così come siamo creati nascendo. L’assassino non è il morto che non voleva morire, non siamo noi stessi che continuiamo a desiderarlo, non è il medico che in ogni caso non poteva salvarlo in eterno. L’assassino è probabilmente quel dio, caso o necessità, che ci ha tratti dal nulla, non importa se d’un colpo o attraverso un processo evolutivo: un essere che per essere ha bisogno di essere tratto all’essere, che non è causa sui, è mortale fin dalla nascita, perché tratto alla vita. Il caro ci viene tolto e la sua assenza materializza la finitezza del nostro desiderio umano; ci sentiamo più separati perché continuiamo a desiderare in assenza dell’oggetto del nostro desiderio. Ma se l’oggetto del desiderio non fosse un altro desiderio non sarebbe un bisogno? Separati siamo sempre ed è perciò che possiamo liberamente desiderarci: la morte uccidendoci infrange il sogno di poter soddisfare i nostri desideri, cioè di trasformare i desideri in bisogni. In tal senso la morte è il correlato del carattere infinito ed eterna54 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mente, sostanzialmente, trascendente del desiderio in generale e del desiderio dell’altro in particolare. La possibilità di stabilire relazioni in cui ci si desidera all’infinito è la base della durata dei legami (che tendono invece a sciogliersi quando, essendo basati sul bisogno, non sono più in grado di soddisfarlo). Ed è forse il carattere infinito del desiderio l’unica traccia di un Dio che continuamente si sottrae. D’altra parte, vivere come se non si dovesse mai morire o se obiettivamente non si morisse mai, significherebbe poter pensare che un giorno il desiderio dell’altro sarà soddisfatto perdendo così ciò che lo distingue dal bisogno, la sua infinitudine. Anche nel caso che la separazione non sia dovuta alla morte ma alla libera scelta di separarsi bisogna tener conto della possibilità che le relazioni umane siano basate sul desiderio. Infatti, se le relazioni umane fossero basate solo sul bisogno si dovrebbe ammettere che ci si separa solo quando non si sta più bene insieme, non riuscendo a capire come mai molte persone stanno insieme malissimo e non si separano. In realtà ci si può separare anche per non uccidersi. Io pretendo che tu soddisfi i miei bisogni e tu non lo fai perché non vuoi o non sai, dopo un po’ se non mi separo ti uccido, se non mi posso separare ti odio e sto insieme a te per vederti morto. Mio padre ha bisogno di me per vivere e mi trattiene, cerca di fare di me uno strumento per la soddisfazione dei suoi bisogni: se io ho bisogno di lui per vivere non riesco a separarmi da lui, e quando crescerò e non riusciremo più a soddisfare reciprocamente i nostri bisogni, non potremo più separarci e cominceremo ad odiarci e ad ucciderci. Ma nessuno che sia già separato, cioè libero di fronte ad un altro che desidera, potrà mai ucciderlo. Si può uccidere l’altro solo come atto estremo di possesso, per possederlo totalmente: in realtà l’altro si può solo ucciderlo, cioè perderlo, nel momento stesso in cui il potere su di lui diventa totale. Ci si può chiedere a questo punto per inciso come si dà la possibilità al soggetto di separarsi e desiderare liberamente e responsabilmente. La risposta è, io credo, che chi ti mette al mondo ti separa da sé nel momento stesso in cui ti dà la vita, solo che può continuamente tentare di riprenderti e farti strumento di sé oppure no: se non lo fa tu senti che ti ama, cioè rispetta il tuo diritto di vivere la tua vita, se lo fa devi liberarti, il che non significa che devi ucciderlo ma che devi accorgerti che sei fin dall’inizio separato e che gli è impossibile in ogni caso prenderti a meno che non ti uc55 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cida. «Tu sei mio figlio!» dice il padre che vuole determinarti: «Tu sei mio padre e mettendomi al mondo hai messo al mondo un altro. In quel medesimo istante hai accettato di potermi solo desiderare e non solo di aver bisogno di me: avresti altrimenti dovuto tenermi con te, pensarmi soltanto senza generarmi». Nell’ottica del desiderio, in sostanza, cioè di quei legami che sciolgono e assolvono perché basati sulla separazione e sulla libertà assoluta di ciascuno, la morte (come la guerra di cui è l’inevitabile conclusione) è la nemica, l’assassinio di cui posso essere vittima o autore. In questa ottica non ci resterebbe, come sostiene Lévinas, che “aggiornare” continuamente la morte, cioè trattarla appunto da nemica: continuare a desiderare significa riferirsi ad un “non ancora” che rende il tempo discontinuo, un tempo in cui tutto può sempre ricominciare finché posso aggiornare la morte, finché non è ancora arrivata, fino all’ultimo istante. In questa ottica, nel lutto per una persona cara con cui si intratteneva un legame di desiderio si può continuare a desiderare chi ti desiderava e si desiderava, non come se fosse presente ma nonostante la sua assenza. Non si tratta allora più soltanto di far rivivere il morto in noi, né di sostituirlo con qualcun altro che soddisfi nello stesso modo o meglio i bisogni che egli soddisfaceva, né di dimenticarlo dopo averlo fatto passare nel valore, bensì di continuare a desiderarlo vivendo dell’idea dell’altro, disinteressatamente, cioè non perché ci può ricambiare nella reciprocità, ma nonostante l’assenza. Si potrebbe dire che l’idea dell’altro di cui viviamo e che desideriamo lo fa continuare a vivere non come la presentificazione attraverso l’interiorizzazione, ma come l’idea che non c’è una vita sufficientemente lunga da poter soddisfare il desiderio dell’altro: il mio desiderio dell’altro è più della stessa presenza fisica e storica, è infinito, e non può essere contenuto da una vita per quanto lunga essa sia. D’altra parte, il mio desiderio di te, se è un reale desiderio, non può essere appagato dalla tua presenza fisica o storica ma la può appagare soddisfacendo disinteressatamente i tuoi bisogni, così come non è la mia presenza fisica o storica che appaga il tuo desiderio di me bensì il mio desiderio di te! La differenza reale, dunque, tra l’essere presenti per una persona che ti desidera e l’essere assenti (separati o morti) sta nel fatto che non si può più godere della soddisfazione dei bisogni che l’al56 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tro disinteressatamente ti assicurava e soprattutto non si può più, nel reciproco darsi, “generare” desiderio da desiderio: la continuità del desiderio si interrompe e diventa chiaro che il desiderio non potrà essere realizzato, cioè che è infinito. È proprio la vertigine dell’infinito, impossibile da viversi, ciò per cui si piange nell’assenza di un essere che pur continuando ad essere separato e libero come è da sempre ci desiderava e sceglieva continuamente di unirsi a noi. Molti piangono per ciò che hanno perso, per la sopravvivenza in pericolo, per i bisogni insoddisfatti e il relativo malessere. Per costoro il lutto è appunto una perdita e la persona assente una mancanza. Per costoro far rivivere dentro di sé colui che manca, sostituirlo o dimenticarlo basta per ricominciare a vivere (nelle differenti accezioni di cui abbiamo parlato). Altri piangono perché la morte interrompe il desiderio e lo manifesta come infinito, infinito invisibile per un essere finito. Per costoro la morte può aprire la trascendenza e la possibilità di continuare a desiderare l’altro in sua assenza, rinunciando al dovere impossibile di continuare a vivere per lui, ma continuando a “dargli voce” contro l’assassino anonimo che l’ha eliminato. Come fa il “giovane” che mentre vive la sua vita si fa portavoce di suo padre, di sua madre o di suo nonno (che gli sono stati tolti o che è stato tentato di uccidere), senza confondersi con loro ma senza smettere di desiderarli, anche se ora ne desidera solo l’idea, senza smettere di combattere contro la morte che continua la sua opera assassina per ridurli completamente al silenzio. Nel lutto, in sostanza, la rabbia, la colpa e la depressione che si condensano nelle lacrime del dolente possono essere la rabbia, la depressione e la colpa di chi constata di essere “finito”, e possono essere gestite, vissute e superate (trasformandole talvolta in gioia) continuando a desiderare ancora coloro che non ci sono più, continuando a testimoniare per loro fino alla morte, generosamente e disinteressatamente. Perché si sa che la morte non può vincere completamente su di loro finché parleranno, finché, anche tramite altri, avrà voce la verità del fatto che di un essere che non è più non si può dire che non è perché è stato, così come di chi non è ancora non si può dire non è perché ci sarà. Perché si sa che un essere che per essere ha bisogno di qualcuno che gli doni la vita non può essere immortale, e se accetta il dono della vita con essa si abbandona alla separazione e alla morte che lo fanno libero. E, d’altra parte, quando una persona supera il lutto dando voce alle assenze del suo desiderio si accorgerà che queste assenze 57 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di cui fa l’apologia di fronte alla morte testimoniano per lui, fanno l’apologia di lui, con coloro con cui e di cui egli vive ora, testimoniano della sua fedeltà e del suo desiderio di fedeltà dell’altro, dicono che è lieto di essere “infinito” anche se è scosso (è il lutto) dalla sua impossibilità di realizzare pienamente i desideri, cioè dalla sua finitezza. Vediamo ora, quanti anni luce è lontana dalle riflessioni svolte fin qui, l’attuale letteratura sul tema del lutto.

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2. Le teorie del lutto secondo Balk* MODELLI TEORICI E APPROCCI CLINICI Nella letteratura psicologica sul lutto, si può ribadire, che esistono tre categorie di teorie psicologiche del lutto: le teorie biologiche, le teorie personalistiche e le teorie esistenziali. La definizione di lutto che tutte le teorie biologiche condividono è quella formulata da Bowlby e dal suo allievo Parkes ed è pressappoco esprimibile in questi termini: Il lutto è quel processo tendente a risolvere i problemi causati dalla morte (o di un’altra grave perdita) che, recidendo un legame di “attaccamento” con una persona o un oggetto d’amore significativo, tende a mettere in crisi il soggetto sottraendogli la sicurezza e/o mettendo in discussione la sua sopravvivenza stessa. L’approccio clinico relativo a questa definizione è quello cognitivocomportamentale. Prototipo delle teorie personalistiche del lutto è, invece, la teoria detta “del lavoro o elaborazione del lutto” che Freud illustra nel suo famoso saggio “Lutto e melanconia” (1917), dando la seguente definizione di lutto: Il lutto è “… invariabilmente la reazione alla perdita di una persona umana cara o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria, ad esempio, o la libertà o un ideale e così via”. L’approccio clinico relativo a questa definizione è quello psicoanalitico. Secondo le teorie esistenziali, i cui riferimenti più importanti sono De Martino e Binswanger (1978), il lutto sarebbe: “La fatica

* David E.Balk, Dealing with dying, death and grief during adoloscence, Routledge, New York, 2014.

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che ci spetta nel momento critico dell’esistenza rappresentato dalla perdita di una persona cara, fatica che consiste nel dare un senso umano alla perdita in modo che la morte del caro non ci faccia ritornare allo stato di natura togliendo senso alla vita stessa”; oppure il lavoro psicologico da fare affinché la morte del caro non abbia il potere di fare ammalare l’io consentendo alla morte di avere un potere che non ha (cioè il potere sul passato) e togliendogli così la possibilità, data dall’amore come trascendenza verso l’altro nel “noi”, di vincere la morte restando legato a chi non c’è più per sempre attraverso il passato che la morte non intacca. L’approccio clinico relativo a questa definizione è quello umanistico ed esistenziale. Le teorie del lutto più recenti in grande maggioranza tendono a condividere la teoria del legame come legame di attaccamento, tranne quelle di ascendenza psicoanalitica basate sul legame di assimilazione e quella detta del “legame che continua” (continuing bond) che si situa quasi a metà strada tra le altre due, in quanto attribuisce valore nel legame oltre che all’ attaccamento anche all’identificazione. Tutte queste teorie tendono, secondo l’impostazione attualmente dominante, a non approfondire la teoria del legame a cui fanno riferimento, considerando il lutto come processo di risoluzione di una situazione di crisi determinata da una o più perdite. Si focalizzano così sulla descrizione e l’approfondimento delle “fasi” del processo, dei “compiti” del processo, delle “oscillazioni” del processo, delle “corsie” del processo, e delle “mete” del processo. 1. La teoria delle fasi del lutto La pioniera di questo modo di considerare il lutto come un processo a più fasi è E. Kubler Ross che distingue la fasi che si succedono in base all’atteggiamento verso la perdita: negazione, rabbia, patteggiamento, depressione e accettazione. Nell’evoluzione della sua opera Kubler Ross ha cercato di applicare il suo modello a cinque stadi anche al processo del morire considerandolo alla stregua di un lutto per la propria morte. La ricerca e l’osservazione clinica hanno problematizzato sempre più questo modello che è stato via via abbandonato dagli studiosi nonostante la sua enorme popolarità. La teoria del legame che sottende questa teoria del lutto non è stata sufficientemente approfondita da Kubler Ross, sebbene si possa arguire, analizzando il modo di assistere i morenti che l’au59 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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trice ha attuato, che si tratti di una concezione caratterizzata dal ritenere il legame a cui si riferisce sia un legame di attaccamento. La formulazione del suo modello, che ha avuto una sua fortuna, ha indicato tre fasi del lutto: la fase della presa d’atto (il tempo necessario per “concepire” la perdita subita); la fase dei sentimenti negativi (rabbia e colpa) senza superare i quali il lutto non può essere superato, la fase della ristrutturazione del campo di vita (della ricostruzione) senza la quale non si potrebbe tornare a vivere. Nell’esperienza clinica di aiuto alle persone in lutto è stato però sempre più chiaro che il peso relativo di queste tre fasi, in termini di importanza e di tempo necessario per attraversarle, varia da caso a caso, in relazione al tipo di relazione e legame c’è tra chi muore e chi resta e che sottende la perdita (Campione, 2012). 2. Teoria dei “compiti” del lutto Questa teoria ha il suo pioniere in Lindeman e il suo principale esponente in W. Worden il quale ha compilato una lista precisa dei “compiti” del lavoro del lutto: - accettare la realtà della perdita; - elaborare il dolore del lutto; - modificare l’ambiente tenendo conto della mancanza della persona deceduta; - ritirare l’energia emotiva e reinvestirla in un’altra relazione. L’evolversi del suo pensiero ha portato Worden in una prima fase a riformulare così l’ultima voce della lista aderendo maggiormente all’impostazione freudiana: ricollocare emozionalmente il morto e continuare a vivere. Infine, Worden ha cercato di combinare insieme l’idea di Bowlby del compito del lutto consistente nel riorganizzare la vita con l’idea di Klass che sia possibile nel lutto restare legati a chi non c’è più. Quanto alla teoria del legame che vi è sottesa, Worden non la analizza specificamente, ma si può supporre che, anche questo autore, si situi a metà strada tra una teoria del legame come legame di attaccamento e una teoria del legame come legame di assimilazione. 3. Teoria “Dual process model of coping with loss (modello del processo duale di risoluzione della perdita)” Margaret Stroebe è la più importante esponente di questa teoria che, basandosi sul legame come legame di attaccamento, ha os60 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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servato che il lutto è un processo di risoluzione che “oscilla” tra due dimensioni: da una parte, e in certe fasi, il lutto è focalizzato sulle strategie di coping (loss oriented), cioè sui modi di affrontare e risolvere la grave situazione di distress provocata dalla perdita; dall’altra, in alternanza o oscillazione, il processo del lutto è focalizzato sui cambiamenti della vita che continua dopo il lutto (recovery oriented).

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4. Teoria della ricostruzione del significato Secondo il costruttivista Neimeyer la risoluzione del lutto ha come meta la ricostruzione dei significati della vita che la persona in lutto ha smarrito in seguito alla perdita subita. Si tratterebbe anche in questo caso di un processo di coping a tre dimensioni: dapprima la persona in lutto si interroga sul suo lutto, poi cerca di dare un significato al suo lutto ed infine “costruisce” un senso del suo lutto. In questa prospettiva Neimeyer è vicino alla posizione delle scuole sistemiche che considerano il legame all’interno del sistema delle relazioni familiari e vedono nel processo del lutto la via per ricostruire i significati che caratterizzano il sistema di relazioni in cui è immerso chi è in lutto. 5. La teoria del “legame che continua (continuing bond)” Dennis Klass ha contestato l’asserto della teoria dell’attaccamento secondo cui per superare un lutto bisogna innanzitutto slegarsi dal legame con la persona morta come condizione necessaria per poter stabilire nuovi legami. Si è basato sull’osservazione clinica secondo cui ci sono persone che elaborano il lutto efficacemente restando legati alle persone che hanno perso. Avvicinandosi così alla teoria psicoanalitica sul legame, propone di basare i legami amorosi sull’identificazione (interiore) con l’altro oltre che sull’attaccamento. 6. Teoria fenomenologico-esistenziale del lutto L’esponente più importante di questa teoria è Attig che fa una distinzione fondamentale tra stato del lutto (bereavement) e sofferenza del lutto (grief o grieving). Bereavement è qualcosa che ci accade, grieving può permettere una scelta attiva. Significa che il processo del lutto non è solo un evento oggettivo ma anche una presa di posizione soggettiva della persona a cui capita e che quin61 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di non la subisce soltanto. La conseguenza di ciò è che nel processo del lutto, oltre a tutte le “reazioni”, c’è da considerare la scelta soggettiva di cambiare la propria collocazione nel mondo e nella società o di mettere in discussione la stessa identità personale in seguito ad una perdita importante. Questa impostazione fenomenologico-esistenziale richiama il modo del legame che l’opera di Binswanger propone, dato che anche in questo caso è la soggettività della scelta, cioè il modo in cui il soggetto dà valore a se stesso, amandosi, che ha l’ultima parola anche sull’amore dell’altro.

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7. Modello “Twotrack model of grieving (modello del lutto a due corsie)” Simon Rubin è l’esponente principale di questa teoria del lutto che viene considerato un processo di coping multidimensionale e perciò si tende a descriverlo come un processo olistico che comprende varie “corsie” (potrebbero essere certo più di due) nelle quali si possono incontrare tutte le dimensioni del lutto privilegiate dalle altre teorie. 8. Classificazione dei lutti in base alla traiettoria che tendono a percorrere. Balk indica tre traiettorie possibili dei lutti: - la traiettoria della resilienza; - la traiettoria della risoluzione; - la traiettoria della durata variabile. La prima traiettoria consiste nel saper gestire il lutto perché esso non mette sostanzialmente in crisi, riguarda la maggioranza delle persone in lutto (50-60%) che hanno infatti le risorse per elaborarlo senza aver bisogno d’aiuto. Vi rientrano tutti i lutti che vanno spontaneamente verso la risoluzione senza sostanziali ritardi o ostacoli e che non producono richieste d’aiuto. La seconda traiettoria che consiste nel saper gestire e superare le crisi del lutto in un tempo variabile ma limitato e con bisogno variabile d’aiuto, riguarda il 25-35% delle persone in lutto. Vi rientrano tutti i lutti che incontrano ostacoli sufficienti a ritardarne lo svolgimento e che possono rischiare di bloccarsi senza un adeguata assistenza psicologica. La terza traiettoria, che consiste nel non saper gestire le crisi dei lutti che tendono a complicarsi (cioè a bloccarsi o a diventare patologici) può durare a lungo e necessitare di un aiuto speciali62 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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stico e riguarda circa il 15% delle persone in lutto. Vi rientrano i lutti di più difficile risoluzione caratterizzati da perdite vissute come perdite irreparabili (la perdita di un figlio per una madre, ad esempio), come perdite difficili da comprendere (come il lutto per il suicidio o per catastrofe) o difficili da “giustificare” (come l’omicidio di una persona cara). Si tratta ovviamente di una statistica variabile a seconda del contesto culturale e sociale, ma essa è significativa delle dimensioni del problema sociale e clinico che il lutto pone.

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3. Approfondimenti teorici: un “campione rappresentativo” della letteratura sul lutto10 Prenderò in considerazione,per mostrare la complessità dei problemi psicologici che il lutto pone,, un “campione rappresentativo” della letteratura sul lutto: I) un libro di Parkes e Weiss11, come esempio del tentativo di studiare i problemi del lutto con i metodi “empirici” delle scienze umane e della medicina; II) un libro di Beverley Raphael12, come esempio di una “summa” sistematica e quasi enciclopedica degli studi contemporanei sul lutto; III) un articolo apparso nella rivista «Omega»13 come esempio fecondo di una mediazione teorica. I. Il libro di Parkes e Weiss si intitola Recovery from Bereavement ed è interessante perché cerca di definire la “risoluzione” positiva del lutto (recovery), di individuare i fattori che la impediscono o la ostacolano, di diagnosticare l’incidenza di questi fattori come fattori di rischio indicando le più adatte modalità di intervento preventivo e terapeutico. 10 La bibliografia discussa in questo paragrafo è “rappresentativa” dal punto di vista di questo libro e delle mie esigenze argomentative. Per una bibliografia aggiornata sul lutto vedasi: L.A. De Spelder, A. Strikland, Tha last dance, MacGraw Hill, New York 20109, trad. it. a cura di F. Campione, Odoya, Bologna, 2021. 11 C.M. Parkes, R.S. Weiss, Recovery from Bereavement, Basic Book, New York 1983. 12 B. Raphael, op. cit. 13 D. Klass, John Bowlby’s model of Grief and the Problem of Identification, «Omega», vol. 18 (1), 1987-88.

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Per risoluzione positiva del lutto questi Autori intendono pressappoco che dopo circa un anno dalla “perdita” la persona in lutto abbia riconosciuto e spiegato intellettualmente la perdita stessa, sia pervenuta ad un’accettazione emozionale di essa e abbia cominciato a costruirsi una nuova identità più appropriata alla sua nuova situazione di vita. I fattori che impediscono o ostacolano una risoluzione positiva del lutto vengono indicati in:

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a) una perdita inattesa e non anticipata che ostacola il riconoscimento e la spiegazione intellettuale della perdita stessa; b) una reazione di rabbia, autorimprovero e colpa, spesso associata ad un rapporto ambivalente con la persona morta, reazione che può impedire l’accettazione emozionale della perdita; c) una reazione di intenso struggimento per la persona perduta, reazione spesso associata ad un rapporto di dipendenza con questa stessa persona e che ostacola, tenendo vivo il legame con il morto, la costruzione di una nuova identità. Per valutare questi fattori di rischio Parkes e Weiss hanno messo a punto un “Bereavement Risk Index” che si è rivelato utile, nell’applicazione fattane al St. Cristopher’s Hospice, per individuare le “persone in lutto che necessitano di un intervento” (Tavola 1). L’intervento sui casi a rischio viene indicato come preventivo (prima del lutto) o come terapeutico (dopo il lutto) e tende rispettivamente a prevenire l’instaurarsi dei fattori di rischio o a risolverne gli effetti negativi.

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Tavola 1 Indice di rischio (che il lutto sia patologico) Questionario (cerchiare un item per ogni punto. Lasciare in bianco se non si hanno informazioni)

L’indice di rischio sopra riportato è un questionario che, su indicazione di C.M. Parkes e sulla base dei suoi studi, viene somministrato alle infermiere che assistono i malati terminali al St. Christopher’s Hospice di Londra, allo scopo di prevedere come sarà il lutto della persona che ha col paziente il rapporto più importante (la persona chiave). Più specificamente, le persone con un indice di rischio di 18 o più di 18 vengono considerate a rischio e si contattano offrendo loro un aiuto. Si è cercato anche di dare ai punteggi un significato predittivo e si è visto che si può prevedere un buon esito del lutto con punteggi da 0 a 14, mentre con punteggi da 15 in su si può prevedere un esito negativo.

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L’approccio di Parkes e Weiss si può considerare un approccio “eclettico”, basandosi sull’uso di questionari, sull’analisi di singoli casi clinici, sull’applicazione di metodi “psicometrici” e interventi preventivi e terapeutici che sembrano risentire della matrice bowlbyana della formazione di Parkes14, matrice che, come si sa, è cognitivistico-evoluzionistica e psicodinamica insieme15. Infatti vediamo che in questo lavoro accanto all’uso di un questionario (somministrato ad un campione di 49 vedove e 19 vedovi una prima volta circa tre settimane dopo la morte del congiunto, una seconda volta circa 5 settimane più tardi e una terza volta circa 13 mesi dopo la morte), si adotta una modalità di codifica delle risposte tipica dei metodi psicometrici: codificatori esperti che: a) attribuiscono sulla base di istruzioni ricevute un punteggio alle risposte delle prime due interviste, per poter “prevedere” i casi di lutto con buona risoluzione e quelli con cattiva risoluzione; b) “valutano” la risoluzione effettiva del lutto (sulla base della terza intervista); per poi analizzare singoli casi di risoluzione del lutto dalle cui analisi si sono tratti i “criteri” utilizzati per istruire i codificatori a dare i punteggi; convergendo infine tutte queste operazioni verso interventi che sono: di tipo cognitivo (importanza delle informazioni e del modo di darle per prevenire i lutti improvvisi e inattesi); di tipo psicosociale (importanza del sistema familiare allargato di relazioni per affrontare l’ambivalenza dei rapporti che ostacola l’accettazione emozionale della perdita); di tipo psicodinamico (importanza della fase in cui una persona dipendente si “attacca” al terapeuta in un rapporto di transfert perché, tramite la risoluzione della nevrosi di transfert, il paziente realizzi quel grado di autonomia sufficiente per sciogliere il legame col caro morto ed aprirsi a nuovi legami). Dalla lettura dell’opera di Parkes e Weiss, che sembra coerente con la teoria dell’attaccamento che la sottende16, sorge spontanea la seguente considerazione: l’unicità e l’irripetibilità dell’esperienza individuale viene continuamente ridotta a “schemi” quasi omeostatici (il lutto tende cioè alla sua risoluzione positiva se non intervengono certi fattori di rischio che possono essere contrastati con un adeguato intervento), riducendo così l’incontro con la sin14 15 16

C.M. Parkes, op. cit. J. Bowlby, op. cit. Ibidem.

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gola persona all’interazione di un complesso quadro di fattori, di meccanismi e di feedback, quadro nel quale si possono dare solo successi (le risoluzioni positive) o insuccessi (le risoluzioni negative) più o meno completi. Nessun sospetto sembra esserci in questi Autori che la situazione del lutto possa essere una situazione di crisi che, oltre a poter essere risolta o non risolta, può determinare un’apertura verso qualcosa che è al di là o al di qua delle risoluzioni o degli insuccessi. Cosa potrebbe, ad esempio, significare nell’approccio di Parkes e Weiss dire, come abbiamo già detto, che quando muore una persona che desideriamo ci possiamo rendere conto che non sarebbero bastate cento vite per soddisfare questo desiderio? La prova che una domanda del genere nella loro ottica non avrebbe senso ce la danno gli stessi Autori quando, cercando di farci capire come intendono la formazione di una nuova identità, dicono che essa si basa sullo scoraggiare il paziente ad “attaccarsi al passato” e che consiste (come lo stesso Parkes personalmente ci ha detto in un’intervista pubblicata sulla rivista «Zeta», n. 5, 1989), «semplicemente in un ragionevolmente coerente insieme di assunzioni su se stessi». Sarebbe, infatti, sulla base di tale insieme di costrutti (corrispondenti il più possibile ai nostri desideri, potenzialità e situazioni) che facciamo le nostre scelte e i nostri piani. Ma che ne facciamo del passato? Lo dimentichiamo, perché ora abbiamo altri “costrutti” su noi stessi, una nuova identità e nuovi desideri a cui possono corrispondere nuovi attaccamenti. L’idea che i morti “tornino” forse non li sfiora nemmeno, e Parkes e Weiss sembrano dimenticare sia che essi si possono far rivivere dentro pur non vivendo più fuori, sia che si può continuamente dar loro voce anche se non si vive più di loro. II. Il libro di Beverley Raphael tenta di coniugare la teoria dell’attaccamento di Bowlby17 con una psicoanalisi alla Klein18. Vale la pena limitarsi a richiamare in questa sede l’impostazione generale del libro che sembra voler rispondere alle domande: 17 18

Ibidem. B. Raphael, op. cit.

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“il lutto di chi?”; “in quali situazioni?”; “come prendersi cura delle persone in lutto?”. Infatti, dopo aver trattato dello “sfondo del lutto”, e cioè del rapporto tra i legami umani e la morte, nonché dell’esperienza del lutto come “separazione” e come “elaborazione”, l’Autrice analizza: il lutto alle varie età; il lutto per le morti disastrose e le problematiche dell’assistenza alla persona in lutto. Anche questo libro può essere considerato in definitiva un libro eclettico, dove ad una sostanziale adesione alla teoria bowlbyana dell’attaccamento si associano le analisi dei principali approcci al lutto disponibili nella cultura anglosassone. Nessuna menzione vi si trova, al contrario, di ciò che la cultura europea continentale può fornire come suo contributo specifico, e quindi nessun accenno alle teorie esistenziali o a quelle storicistiche del lutto, anche se talvolta inconsapevolmente si utilizzano (cosa che accade anche nell’opera di Parkes) concetti in odore di “fenomenologia”. Torneremo a citare questo libro più in dettaglio nell’ultima parte quando parleremo della psicoterapia del lutto. III. La letteratura sul lutto apparsa su «Omega» negli ultimi anni presenta una maggioranza di titoli di argomento psicologico e una minoranza di titoli di argomento sociologico, quasi tutti studi “empirici” che si richiamano fondamentalmente alla teoria dell’attaccamento e alla teoria psicoanalitica del lutto. Vale la pena di riassumere a scopo documentario in questa sede un lavoro che si segnala per un carattere di generalità e per un taglio critico. Si tratta del lavoro di D. Klass19 in cui si prendono in considerazione le principali e più accreditate teorie del lutto e, soprattutto, si analizza il modello di J. Bowlby rispetto al problema dell’identificazione. La tesi che Klass sostiene è la seguente: «Il modello del lutto di J. Bowlby si rivela inadeguato nella spiegazione dei fenomeni associati alla maggior parte dei lutti. La teoria di Bowlby spiega soltanto gli squilibri che il lutto determina nell’ambiente sociale delle persone in lutto, mentre risulta inadeguata nel dar conto dello squilibrio nella relazione tra la persona in lutto e l’oggetto perduto. Alla base di questo limite del modello bowlbyano c’è, per l’Au-

19

D. Klass, op. cit.

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tore, il rifiuto del concetto freudiano di “identificazione”, rifiuto operato quando Bowlby riprende la teoria del trauma che Freud aveva abbandonato». Secondo Bowlby la morte pone l’organismo in «uno stato di squilibrio biologico determinato dall’improvviso cambiamento ambientale» che determina. «Il lutto è una complessa sequenza di processi psichici e delle loro manifestazioni, che inizia con lo struggimento e il desiderio della persona perduta, con rabbiosi sforzi di risoluzione e appelli di aiuto, seguiti da apatia e disorganizzazione del comportamento, processi che si concludono quando inizia a svilupparsi qualche forma più o meno stabile di riorganizzazione». Il modello della reazione alla perdita è in Bowlby la separazione dalla madre e viene indicato come “comportamento di attaccamento”. Le separazioni reali dalla madre, inoltre, vengono considerate da Bowlby come antecedenti importanti per comprendere le reazioni ad una perdita dell’adulto. In ciò c’è una ripresa della teoria del trauma infantile che Freud aveva abbandonato. E, aggiungeremo con un giudizio che sarà motivato più avanti, una sopravvalutazione del rapporto madre-bambino come modello di tutti i rapporti affettivi. Il “comportamento di attaccamento” segue, per Bowlby, una ben precisa sequenza. Infatti, quando il bambino è separato dalla madre egli «prima protesta e tenta di tornare dalla madre, poi dispera di poter tornare a lei e quindi perde interesse per la madre, mostrandosi emotivamente distaccato quando ella ritorna». Queste tre fasi “rimpiazzano”, in Bowlby, la metapsicologia freudiana, corrispondendo ciascuna fase all’uno o all’altro elemento della teoria freudiana. Infatti, la fase della protesta corrisponde al problema dell’ansia di separazione, la disperazione alla fase del dolore e del lutto, il distacco alla difesa. In tal modo, secondo Klass, Bowlby cerca di dar conto tramite il concetto di “attaccamento” degli stessi fenomeni che Freud tende a spiegare ricorrendo al concetto di “identificazione”. In altri termini, i fattori basilari della personalità che per Bowlby si formano tramite la qualità della risposta ambientale al comportamento di attaccamento del bambino, si sviluppano secondo Freud attraverso la risoluzione delle relazioni primarie, cioè attraverso l’identificazione con le figure parentali. Dice Klass: Freud ha parlato di un lavoro del lutto in cui ciascuna delle memorie o situazioni di attesa che dimostrano l’attacca69 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mento all’oggetto perduto incorre nel verdetto della realtà secondo il quale l’oggetto non esiste più. Lo scopo del lavoro del lutto consiste allora nel liberare l’Io dall’attaccamento al morto. Ma Freud, oltre a questo lutto “sano” per la perdita consapevole di un oggetto, prende in considerazione la depressione che deriva dal lutto per una perdita oggettuale inconscia. È proprio in questo secondo caso che entra in gioco l’identificazione: la libido libera non viene spostata su un altro oggetto ma viene ritirata e rivolta verso l’Io. Qui essa non viene impiegata in un modo aspecifico ma serve per stabilire un’identificazione dell’Io con l’oggetto abbandonato. L’identificazione narcisistica con l’oggetto diviene quindi un sostituto dell’investimento libidico, il cui risultato è che, nonostante il conflitto con la persona amata, non è necessario abbandonare la relazione d’amore. In altri termini, essendo Freud interessato ad un particolare lutto e non al lutto in generale, quando parla di oggetto inconscio si riferisce al genitore. Ne deriva che per Freud, in seguito alla separazione dal genitore, esso diventa, attraverso l’identificazione, parte dell’Io, si forma l’Io ideale, e su questo concetto di identificazione si edifica tutta la metapsicologia psicoanalitica. È proprio questo uso del concetto di “identificazione” nella metapsicologia che Bowlby respinge a favore della teoria dell’attaccamento basata sulla teoria etologica degli istinti di Lorentz. Proseguendo la sua analisi Klass cita un altro autore, Volkan20, che ha recentemente ripreso la teoria freudiana portandola alle estreme conseguenze. Lasciamo anche qui la parola a Klass: Volkan considera il lutto come un processo paradossale quando dice che il lavoro del lutto finisce quando la persona in lutto non ha più il bisogno compulsivo di restare attaccato alla rappresentazione della persona morta. Contemporaneamente, tuttavia, si vede (ecco il lato paradossale) che la persona in lutto si identifica con certi aspetti del morto e cerca di somigliargli in questi particolari. Così quando il lutto è concluso l’Io ne risulterà spesso arricchito. 20

V. Volkan, Linking Object and Linking Phenomena: A Study of the Forms, Symptoms, Metapsychology and Therapy of Complicated Mouring, International Universities Press, New York 1981.

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Per distinguere il lutto normale dal lutto patologico Volkan utilizza la distinzione di Shafer tra identificazione e introiezione. L’identificazione di sé somiglia alla rappresentazione dell’oggetto. Tale somiglianza, che può essere considerata come uno sforzo per mantenere la relazione con l’oggetto, in effetti può aprire la via all’acquisizione di un’indipendenza dall’oggetto, poiché si è raggiunta una relativa indipendenza dal modello originale quando il sé e il modello sono percepiti come un tutt’uno. L’introiezione, d’altra parte, è la diretta incorporazione dell’oggetto nel sé senza modificare la rappresentazione dell’oggetto in modo da renderla compatibile con il resto del sé. In tal modo l’Io risulta scisso in modo dannoso, poiché l’oggetto internalizzato viene vissuto come “altro” da sé e mantenuto in modo tale che il legame con la persona morta permanga identico a quando la persona era vivente. L’introiezione non si manifesta direttamente ma prende la forma di sintomi, regole interiori o ideazioni. Ciò che è stato internalizzato può essere esternalizzato e l’introiezione può essere proiettata su persone o oggetti dell’ambiente. Alcune di queste proiezioni possono assumere la forma di relazioni transferali. Di particolare interesse è per Volkan la esternalizzazione su oggetti leganti (linking objects)21, poiché sono proprio questi oggetti che, se presenti oltre i primi mesi del lutto, definiscono il lutto patologico. Il termine “oggetto” (legante) ha nell’uso di Volkan un’accezione molto ampia. Gli esempi che questo Autore fa vanno dai semplici oggetti fisici (un vestito, una pietra raccolta sul luogo di un incidente, la foto di una persona deceduta, ecc.) agli atti rituali (come un diario di notazioni su stati psicotici o come delle regole dietetiche). Tornando poi al rapporto tra l’opera di Bowlby e l’identificazione, che abbiamo visto essere il tema principale dell’articolo di Klass, questo Autore si sofferma sull’idea di Bowlby per cui l’identificazione col morto sarebbe rara e legata a processi patologici. In realtà, nota Klass, Bowlby sembra usare il termine identificazione con lo stesso significato che gli psicoanalisti attri-

21

V. Volkan, op. cit.

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buirerebbero al termine introiezione. E anche quando egli riconosce che il sentimento di una presenza della persona morta è compatibile con un lutto normale, non chiama questo vissuto “identificazione”. In un primo momento Bowlby sembra accettare l’uso del concetto di “rappresentazione interiore” per indicare la modalità di continuazione delle relazioni con l’oggetto perduto: noi abbiamo una rappresentazione interiore delle persone e quando esse muoiono dobbiamo cambiare le rappresentazioni interiori corrispondenti, potendo così la rappresentazione di una persona morta continuare a giocare un ruolo nella nostra vita psichica. In seguito (nel III volume della sua opera) Bowlby lascia cadere l’idea di un modello interiore complesso a favore dell’analogia “cognitivistica” tra mente e computer. Ne deriva ciò che Klass aveva sostenuto fin dall’inizio, e cioè che la teoria del lutto di Bowlby non spiega il rapporto tra la persona e l’oggetto perduto bensì solo: a) lo squilibrio dell’organismo che l’improvviso cambiamento ambientale (della morte) determina; b) il modo di superarlo in termini di acquisizione ed elaborazione delle informazioni necessarie per operare una riorganizzazione della relazione con l’ambiente sociale che ristabilisca l’equilibrio. Klass passa poi ad analizzare l’opera di Parkes notando che per questo Autore (quasi in tutto e per tutto seguace della teoria dell’attaccamento di Bowlby) lo scopo del lutto è l’attaccamento a nuovi oggetti piuttosto che il ristabilimento di vecchi attaccamenti. Anche Parkes, come Bowlby, concepisce la risoluzione del lutto in termini di ristabilimento di un equilibrio sociale turbato dalla perdita; tutte le volte che l’identificazione appare come una possibile spiegazione del lutto, insiste (come tutti gli allievi di Bowlby) sulla spiegazione basata sul trauma subito dall’attaccamento alla madre nelle prime fasi della vita. «Non c’è ragione» osserva Klass a tal proposito «di respingere il ruolo dell’identificazione nel lutto normale in assenza di dati che supportino la correlazione tra un trauma e i fenomeni riportati». Klass conclude il suo articolo sostenendo la necessità di una teoria del lutto che consenta di «leggere la teoria dell’attaccamento in un modo ampio, o che possa allargare l’idea del sé sociale fino ad includere le rappresentazioni interiori». Come esempi di tentativi del genere Klass cita l’opera di un fi72 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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losofo, Attig22 e l’opera di due sociologi, Lopata23 e Marris24. Interessante è, dal nostro punto di vista, accennare all’opera dei due sociologi. Lopata ha notato nel suo studio sulle vedove25 che molte vedove “santificano” il primo marito, spesso in modo permanente e compatibilmente con un nuovo rapporto matrimoniale. Ciò, secondo Klass, costituisce un esempio di quanto importante e positiva possa essere per una risoluzione del lutto una rirappresentazione interiore delle persone perdute che consente di continuare ad avere rapporti con esse senza impedire di riorganizzare l’esistenza ed avere altri rapporti. Si tratterebbe di un effetto del processo dell’identificazione. Nello stesso senso viene interpretata la posizione di Marris26 secondo cui il lutto è il lavoro per la costruzione di una nuova struttura di significato. Infatti, per Marris, il sé più che di comportamento e istinto è fatto di “strutture di significato”, le quali sarebbero «le strutture organizzate di senso e di attaccamento emotivo tramite cui gli adulti interagiscono e assimilano il loro ambiente. Diversi attaccamenti corrispondono a differenti strutture di significato». Stando così le cose, se, ad esempio, la relazione col marito è il fondamento della struttura di significato, la morte del marito sradica la struttura di significato con cui si assimila la realtà. La risposta allora consiste, per Marris, secondo il modello di Piaget, in una riorganizzazione della struttura ad un livello più astratto in modo da potersi adattare alla nuova realtà. Ecco perché lo scopo del lutto è la costituzione di una nuova struttura di senso. In questa ottica gli attaccamenti della nuova struttura di senso sono una “continuazione ad un livello più elevato” degli attaccamenti che corrispondono alla struttura di senso messa in crisi dal lutto. È proprio questa continuità che fa scorgere a Klass nella teoria di Marris la presenza dell’identificazione. Sarebbe cioè l’effetto di un processo di identificazione quanto 22

T. Attig, Grief and Personal Integrity in Priorities in Death Education and Counseling, A. Paholsk, C.A. Corr (eds.), Forum for Death. 23 H.Z. Lopata, Women as Widows, Support Systems, Elsevier, New York 1979. 24 P. Marris, Loss and Change, Anchor Books, Garden City, New York 1975. 25 H.Z. Lopata, Women as Widows, Support Systems, cit. 26 P. Marris, Loss and Change, cit.

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Marris dice del lutto e cioè che esso è «dominato non dalla cessazione del prendersi cura del morto, ma dall’astrarre dalla relazione con esso quanto c’è di fondamentalmente importante e riabilitarla».

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Capitolo III

Le principali teorie del lutto e la relazione etica

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1. Le situazioni particolari di lutto e la relazione “etica” tra chi muore e chi resta È possibile a questo punto affrontare una contraddizione ricorrente nelle riflessioni e nelle analisi condotte fin qui intorno alle modalità di superamento di un lutto. Riprendiamo testualmente due brani di questo libro che, l’uno accanto all’altro, questa contraddizione palesano in modo abbastanza esplicito. Lo psicologo si chiede innanzitutto cosa significa e come si può superare la solitudine del morente… Forse bisognerebbe fargli capire che chi deve morire può vincere la sua solitudine, o almeno attenuarla, cercando di morire per qualcuno, dando alla sua morte un senso che riguardi gli altri che restano. Solo così la sua morte non essendo per chi resta solo una “perdita” ma anche l’apertura per loro di un nuovo orizzonte di senso, sarà sì assurda per chi muore ma feconda per gli altri, e lui potrà morire consapevole di avere affidato agli altri un significato che può rendere la sua morte per loro sensata e per lui non solo necessaria ma forse anche utile, al di là di sé. D’altra parte, i familiari potranno superare senza troppe difficoltà il dolore per la sua perdita perché con la sua morte avranno acquistato tanto quanto hanno perso… Solo così chi resta potrà cercare di vincere la maledizione per noi che li abbiamo abbandonati e la colpa per esserci, loro, sopravvissuti, senza gli interminabili lamenti di un insuperabile lutto, reso meno drammatico dal fatto che noi continueremo a vivere senza il nostro corpo ma con il nostro senso… E ne deriverà per tutti la consapevolezza che il destino di chi resta e quello di chi muore in fondo non sono così dissimili: infatti se a chi muo75 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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re tocca abbandonare il corpo, a chi resta tocca realizzare il senso di chi è morto per lui, in attesa del momento in cui una morte sensata (per altri) potrà essere ricompensa per il peso della responsabilità portata e pena per ciò che si è goduto in assenza di chi era morto.

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In un altro punto però si dice: Se ci poniamo, ad esempio, non dal punto di vista di chi resta ma dal punto di vista di chi deve morire e assistere alla pena per la perdita della sua propria vita, non sempre gli possiamo chiedere di lasciare la sua vita per un senso che la trascende, mentre possiamo sempre consolarlo facendogli sentire la presenza dell’amore che abbiamo per lui o aiutarlo fino all’agonia a costruire nella sua interiorità i suoi sogni di immortalità. Sembrava, in altri termini, che volessimo sostenere essere il lutto più facile da superare aiutando il morente a lasciare agli altri qualcosa di importante, un senso da realizzare (perché la sua morte non equivalesse solo a toglier loro ciò che con lui e di lui viveva), e poi, ecco la contraddizione, arriviamo a sostenere che questa potrebbe essere per il morente una responsabilità eccessiva, e lo “difendiamo” da questo rischio dicendo che bisogna dargli un aiuto amorevole e consolatorio di segno completamente diverso. Per risolvere questo “dilemma” bisogna prendere in considerazione il lutto del morente per la morte di sé e le modalità d’aiuto che si possono fornire nella fase del morire, nell’intento di pervenire ad una morte che non sia “buona” solo per chi muore ma anche per chi resta. Ho già preso in considerazione il primo corno del dilemma in modo forse più esplicito che nel primo paragrafo di questo libro anche in un intervento dedicato al malato terminale1. Oltre a ciò sarà utile far riferimento alla letteratura esistente sul tema della “morte di sé” così come è riassunta nell’opera di B. Raphael2. Secondo questa autrice, il problema del confronto con la propria morte si fa sempre più evidente man mano che si diventa vecchi e si passa attraverso le perdite che inevitabilmente la vita por1

F. Campione, Il malato terminale nel contesto sociale, in Contro la morte, cit., p. 71. 2 B. Raphael, op. cit. 72.

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ta con sé. Talché si può giungere a dire ad un certo punto: “Sono pronto a morire”. In ogni caso, i processi di preparazione alla morte nelle età senili sono i processi del lutto anticipatorio3 così come sono stati studiati nella fase terminale da E. KüblerRoss4, da C.K. Aldrich5 e da T. Rando 3. Se ci si riferisce poi a coloro che anche nelle età senili godono di una discreta salute, si deve fare riferimento al lavoro di Marshall6 secondo il quale due fattori sono massimamente importanti: a) una sorta di “cruda forma di calcolo” (basato sui dati dello stato di salute e su quanti dei coetanei sono ancora in vita, ecc.), calcolo che il vecchio fa cercando di valutare la sua attesa di vita; b) una revisione della propria vita con i suoi aspetti positivi e negativi che sembra «avere molto in comune con i processi del lutto e che, in quanto tale, rappresenta, almeno in parte un lutto anticipatorio per la vita e il proprio sé che dovranno essere lasciati con la morte». La conclusione di B. Raphael è la seguente: […] può essere tramite questo lutto per ciò che si è perso di sé, condotto attraverso le reminiscenze della revisione della vita, che l’individuo risolve questa crisi finale dello sviluppo personale, giungendo a ciò che Erikson chiama “senso dell’integrità dell’io” invece che alla disperazione per la prossima perdita di sé. E aggiunge una citazione di Erikson che merita di essere tradotta e riportata integralmente: La mancanza o la perdita di questa maturazione che conduce all’integrità dell’io si esprime attraverso la paura della morte… La disperazione indica che si vive pensando che non c’è più tempo per ricominciare a vivere e a perfezionare vie nuove verso l’integrità… Il rapporto tra l’integrità dell’adulto 3

T. Rando, op. cit. E. Kübler-Ross, On Death and Dying, Tavistock, London 1969. 5 C.K. Aldrich, The Dying Patient’s Grief, «Journal of American Medical Association», 184 (5), pp. 329-331. 6 V. Marshall, Age and Awareness of Finitude in Developmental Gerontology, «Omega», 6 (2), pp. 113-129. 4

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e la fiducia infantile si potrebbe parafrasare dicendo che i bambini sani non avranno paura della vita se i loro vecchi avranno un’integrità tale da non temere la morte7. Infine B. Raphael cita8 l’esempio di un anziano di 75 anni che parlando col genero della sua vita ne fa un bilancio tutto sommato positivo dicendo: Ci sono cose che non ho raggiunto ma non importa. Quando guardo i miei ragazzi mi sento davvero orgoglioso. Hanno fatto bene nella vita e sono orgoglioso di loro, anche di Jim che è stato così malato. È stata una buona vita, non sempre facile, ma sono soddisfatto di come è andata. Come si può vedere, in questa letteratura sul lutto per la morte propria l’effetto che il modo di morire può avere sul lutto degli altri non viene preso in considerazione in modo esplicito, ma è intuitivo pensare che chi ha spinto la propria maturazione personale fino ad integrare nella sua vita la morte e non averne paura, o chi (come il vecchio citato) è soddisfatto della sua vita, lascia agli altri un minor dolore e minori problemi nell’elaborazione del lutto, perché lascia loro il messaggio che si può morire bene cioè soddisfatti della vita che si è avuta e maturi al punto da accettare la morte. Si potrebbe allora pensare che il modo di sanare la contraddizione che abbiamo evidenziato tra il morire come “compito” di rendere sensata la propria morte (per sé e per gli altri) e il diritto di essere consolati per la perdita della propria vita, stia proprio nell’aiutare chi muore a fare il lutto per la propria vita, a raggiungere l’ultimo stadio della maturazione personale che consisterebbe nell’accettare la morte. In questa ottica la consolazione è possibile solo se il morente arriva alla fine della sua vita con il bagaglio di esperienze e con la maturità di chi ha avuto una vita soddisfacente e piena di realizzazioni e di affetti. Se è così egli stesso si assumerà spontaneamente la responsabilità di pensare a coloro che restano e si preoccuperà di lasciarli bene cioè, come abbiamo già detto, si sentirà affidato alla morte (nell’addio se è credente, nella continuità delle generazioni se non lo è, lascerà il posto di buon grado a chi 7

E.H. Erikson, Identity and the Life Cycle, in Psychological Issues, vol. I, University International Press, New York 1959. 8 B. Raphael, op. cit.

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resta così come chi l’ha amato ha lasciato di buon grado il posto a lui). Una visione del genere sembra sottendere l’idea che ci possa essere una morte giusta (la morte del vecchio sazio d’anni che lascia la vita di buon grado a coloro che lui stesso ha generato forse proprio per potersene andare così al suo momento); l’idea che l’amore possa vincere la morte. Purtroppo l’esperienza ci pone continuamente di fronte a morti ingiuste, morti cioè che mettono in scacco l’amore e la fede di persone ben lontane dall’aver raggiunto una tale integrità dell’io da avere un rapporto pacificato con la morte. L’esperienza ci mostra bambini e giovani che muoiono prima di aver assaporato la vita, amori e fedi incrinati dalla morte delle persone care (la cui esistenza è spesso l’unica conferma delle nostre fedi un po’ infantili), vecchi che muoiono ben lungi dall’essere soddisfatti della loro vita e che accettano la morte solo nel senso che di fronte ad essa si abbandonano sopraffatti dall’estenuante lotta per l’esistenza. Dobbiamo allora essere tanto pessimisti da pensare che l’unica cosa che l’umana creatura può fare di fronte alla propria morte ed a quella dei cari sia trovare una qualche via di consolazione o qualche via, a buon mercato o a caro prezzo, per conseguire un’illusione di immortalità? È ancora all’esperienza che bisogna fare riferimento per rispondere a questa domanda: se nell’incontro con chi muore o con chi resta solo, perché il caro l’ha lasciato, il nostro sguardo non viene velato dai mille fattori di disturbo che nascondono dietro vuoti simulacri l’essenziale delle situazioni umane, vediamo quanto sia frequente il desiderio, per sé e per i cari, di una morte giusta, di una morte che non ci colga ancora immaturi e non distrugga l’amore di cui li amiamo e la fede nella vita che ci confermano esistendo. Solo che vorremmo soddisfarlo, questo desiderio, e continuamente constatiamo che esso resta insoddisfatto. Ma cosa può significare voler soddisfare il desiderio che la morte sia giusta se non voler determinare il modo della morte? Ma come possiamo, essendo mortali fin dal principio, essendo stati generati mortali, determinare la morte? Significa allora che la possiamo solo subire? Non credo. Penso che si possa, come ho già detto, “affidarsi” ad essa, cioè sfuggire all’alternativa tra l’accettarla e il rifiutarla o subirla. 79 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Ma cosa può significare affidarsi alla morte? Significa assumersi di fronte ad essa la propria responsabilità, cioè continuare a fare, accettandone tutte le conseguenze, proprio ciò che da sempre facciamo: desiderare che sia giusta con noi e con i nostri cari, continuare a desiderarlo anche quando, essendo essa arrivata, dobbiamo constatare che non siamo riusciti a determinarla (cioè a renderla giusta). In sostanza la morte ci coglie sempre impreparati, perciò è sempre prematura ed ingiusta, né l’amore dei mortali basta mai a vincerla né la fede nell’immortalità può resistere al suo urto. Ma noi possiamo continuare a desiderare che così non sia fino all’ultimo istante. Non c’è amore che possa vincere la morte, siamo soli di fronte ad essa, ma proprio per questo nessuno può morire al posto nostro, a nessuno cioè possiamo cedere la responsabilità di morire. Ma la responsabilità non è nei confronti della morte bensì nei confronti di coloro che restano. E se mi assumo fino in fondo questa responsabilità per quanto ingiusta sia la mia morte finché c’è al mondo qualcuno che mi ama l’ingiustizia può essere “ridotta”, mentre nessuno potrà continuare ad amarmi se non mi sono assunto la responsabilità di morire, cioè se muoio dominato dalla gelosiainvidia per chi resta in vita, gelosia propria di chi avrebbe voluto che qualcun altro morisse per lui. Insomma, continuando a desiderare una morte giusta fino all’ultimo istante io riesco a non interrompere completamente il filo che mi lega a coloro che restano. È come se dicessi: «So che anche quando non ci sarò più potrete continuare a portare avanti il mio desiderio di morire giustamente». Comprendo in tal modo che la vita non cessa con la cessazione della mia vita e che questa mia vita non prende senso da se stessa ma dalla vita: sicché so che potrete, se vorrete, continuare ad amarmi e desiderarmi anche quando non ci sarò più, non facendomi rivivere (che è impossibile) ma continuando a portare avanti in voi, con la vostra vita, attraverso i vostri desideri, i miei desideri. Possiamo ora ritornare alla contraddizione iniziale e dire che essa è tale se chi muore non si assume la responsabilità di morire, se non si affida agli altri nel morire, se è ancora prigioniero della falsa alternativa accettazionerifiuto. E non è proprio una trappola di questo genere quella in cui cade colui che nel morire ha solo due alternative: o essere sedato 80 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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perché subisca meglio ciò che non può accettare, o essere illuso che non morirà mai perché non si ribelli al suo destino? Solo se di fronte alla morte mi assumo le mie responsabilità (nessuno può morire al posto mio), e cioè se non arrivo a pretendere (come Admeto di fronte a coloro ai quali chiede di morire al suo posto) che la mia vita valga di più di quella degli altri che amo, solo allora posso sperare che gli altri continuino a rappresentare il mio desiderio di una morte giusta e difendermi dall’ingiustizia che morendo ho subito (desiderio che forse rappresenta il desiderio più autentico di giustizia che una creatura può rivendicare). Si può capire da quanto detto fin qui che il modo di morire è importante per il successivo processo del lutto, in quanto questo modo si basa sul rapporto tra l’io e il tu, tra l’io e gli altri. Come dice Lévinas9, essere in contatto significa «non investire altri per annullare la sua alterità e neppure sopprimermi nell’altro». E la situazione del morire è proprio una situazione in cui si rischia di perdere il contatto. Infatti: io posso investire l’altro per annullare la sua alterità quando morendo cerco di farlo morire con me o al mio posto10; oppure posso “sopprimermi” nell’altro se morendo non gli lascio niente di me, come quando per non assumermi la responsabilità del morire cerco di morire “nel sonno” (in tutte le possibili accezioni). Ovviamente anche l’atteggiamento dell’altro può determinare una perdita di contatto nel morire: l’altro può cercare di annullare la mia alterità sedandomi o coltivando le mie illusioni di immortalità; può cercare di sopprimersi in me cercando di morire con me o al mio posto. Ove, d’altra parte, si cercherà di mantenere il contatto o di recuperarlo avendolo perduto in precedenza, ne potrà derivare un diverso esito del lutto anticipatorio (proprio e altrui) e del lutto vero e proprio. La conclusione che si può trarre dalle considerazioni che precedono è la seguente: lo svolgimento e l’esito del lutto per chi resta dipendono in una certa misura dallo svolgimento e dall’esito del lutto anticipatorio del morente per la propria morte; lo svolgimento e l’esito del lutto anticipatorio del morente e del lutto anticipa9

E. Lévinas, Totalità e infinito, cit. Come abbiamo mostrato nell’Introduzione.

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torio dei parenti si influenzano reciprocamente; lo svolgimento e l’esito del lutto in generale dipendono dal rapporto tra chi muore e gli altri; il rapporto tra chi muore e gli altri può essere analizzato, seguendo Lévinas, secondo il criterio del contatto; i lutti, anticipatori e non, possono essere differenziati a seconda della ricerca o del rifiuto del contatto nei rapporti interpersonali dei contraenti particolari, cioè a seconda del modo in cui si svolge la vicenda della distribuzione delle responsabilità tra chi muore e chi resta. Ne deriva che le dinamiche intrapsichiche, le azioni e le espressioni proprie delle situazioni particolari di lutto diventano comprensibili alla luce e nel contesto della relazione “etica” tra l’io (che muore) e gli altri (che restano). Prenderemo in considerazione nel prossimo paragrafo le principali teorie del lutto alla luce di questa conclusione. Qui aggiungeremo soltanto, riferendoci ancora all’Introduzione di questo lavoro, che impostando le cose come le abbiamo impostate può sorgere il seguente problema: della responsabilità della propria morte che il morente deve essere aiutato ad assumersi fa parte anche, dato che essa fonda la “difesa” da parte di chi resta dei desideri del morente, il compito di “lasciar detto” chiaramente qual è l’oggetto dei suoi desideri, cioè come (con l’espiazione attraverso l’inferno, con la beatitudine del paradiso o con il ritorno alla terra) i suoi desideri possano essere soddisfatti, come intende che gli si faccia giustizia? Qualunque sia la risposta a questa domanda è certo che chi resta ha bisogno di sapere qual era per il congiunto una giusta morte: sapendolo si può valutare l’ingiustizia che la morte gli ha fatto e difenderlo in un modo più giusto. Purtroppo però quasi sempre chi resta è in difficoltà su questo punto. La soluzione che ho indicato di fronte a questa difficoltà è espressa nella formula: “Se l’avete amato vivendo lo capirete”. Vuol dire che vivendo, cioè desiderando a propria volta, si può capire chi ha desiderato prima di noi. Ma cosa si capisce? E perché bisogna aver amato un altro per capirlo e difenderne il desiderio di giustizia dopo morto? Ho già detto altrove11 che amare vuol dire “dar valore” e ho già indicato nella formula “ama il prossimo tuo come se stesso” la via da segui11 F. Campione, Guida all’assistenza del malato grave, cit.; F. Campione, Perpatire, Armando, Roma 2006.

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re per conoscere l’altro, per capirlo senza reificarlo, per capirlo senza ridurlo a se stessi, senza assorbirlo o farsi assorbire, senza, diremmo, oggi, “perdere il contatto” con lui. Riflettiamo sulla formula: “ama il prossimo tuo come se stesso”. C’è in essa un’ambiguità: si può intendere “ama il prossimo come lui stesso si ama” oppure “amalo in quanto se stesso”. La prima accezione conduce alle forme dell’immedesimazione come metodo di conoscenza dell’altro12. La seconda accezione di queste forme coglie i limiti poiché vuol dire: «ama il prossimo tuo, dagli valore, anche se non lo conosci, in quanto è se stesso, in se stesso, chiunque esso sia, dai valore al suo essere se stesso, altri da te». Qui ci discostiamo dalla posizione husserliana che Binswanger fa sua e secondo la quale il “se stesso” va inteso come l’insieme delle “appresentazioni” dell’altro, costituenti ciò che dell’altro possiamo conoscere e avendo in comune con lui proprio le “appresentazioni”13. Ci riferiamo invece alla posizione di Lévinas14, per la quale il “se stesso” è sempre misterioso (c’è l’infinito tra l’Io e l’altro a cui l’Io si approssima nel contatto) ed è conoscibile e valorizzabile solo in quanto se stesso, in quanto altri, qualunque sia il mondo che abbiamo o crediamo di avere in comune con lui. In questo senso solo vivendo, cioè solo vivendo altre relazioni di desiderio (relazioni in cui l’altro ci turba e suscita la nostra “difesa” disinteressata e il nostro amore, in quanto altro altrettanto indifeso, unico, responsabile e separato di quanto noi stessi lo siamo) potremo “capire” e “rappresentare” i desideri di chi ci ha lasciato, senza nasconderci dietro l’alibi dell’impossibilità di vivere in sé e per sé questi desideri. Poiché ciò che essenzialmente ci accomuna a lui è precisamente il desiderio di andare al di là di sé o al di qua di sé colmando la distanza infinita che ci separa dalla soddisfazione di questo desiderio e dalla sua “origine” (dato che il desiderio di andare al di là di sé è il desiderio di “determinare la morte”, e il desiderio di andare al di qua di sé è il desiderio di svelare il mistero dell’origine del desiderio, il mistero della nascita). Se l’avete amato, cioè se gli avete dato valore nonostante l’incolmabilità della distanza da lui che avete sperimentato nell’ap12 13 14

Ibidem. L. Binswanger, Melanconia e mania, Boringhieri, Torino 1971. 78 E. Lévinas, Totalità e infinito, cit.

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prossimarsi a lui desiderandolo, vivendo capirete dove voleva che lo portasse la morte, quale morte credeva che fosse giusta per lui. Lo capirete o piuttosto vi assumerete la responsabilità di capirlo, continuerete a chiedervelo, cioè continuerete ad amarlo anche senza averlo capito (come forse neanche da se stesso si era capito e come forse è sempre nell’amore autentico), continuerete ad amarlo in quanto se stesso, un se stesso, una monade, che avete desiderato e amato essendone desiderato ed amato o no, nonostante abbiate constatato nella vita e nella morte che è all’infinito (perché l’infinito separa ogni essere dal suo al di là e dal suo al di qua, cioè dagli oggetti più autentici del suo desiderio) l’approssimarsi reciproco di due esseri che si desiderano, di due esseri che se si avvicinano troppo si sopprimono l’uno nell’altro (l’infinito non è una distanza fisica)15, dato che il desiderio dell’altro per essere soddisfacibile deve trasformarsi in bisogno dell’altro e farsene strumento. 2. Le principali teorie del lutto e l’etica dei rapporti interpersonali Riprendiamo punto per punto la conclusione a cui siamo pervenuti nel paragrafo precedente, analizzando le principali teorie del lutto alla luce di questa conclusione. Cominciamo con la teoria psicoanalitica del lutto, facendo riferimento all’articolo più profondo di Freud sull’argomento: Lutto e melanconia16. In questo lavoro, Freud, sebbene la sua intenzione esplicita sia di chiarire l’origine della melanconia (oggi si direbbe “depressione”) come situazione psicopatologica, indica le sue principali convinzioni sul lutto e sulla differenza tra lutto normale e lutto patologico. Il lutto, dice Freud, è «invariabilmente la reazione alla perdita di una persona umana o di un’astrazione che ne ha preso il posto, 15 Ci provano gli uomini in realtà a trasformare l’infinito in una distanza fisica e annullare così la distanza che li separa, ma riescono solo, così facendo, a perdere il contatto: uccidono l’altro annullandone l’alterità, impazziscono frantumando l’Io in tanti Altri, sopprimendo così l’Io nell’Altro. 16 S. Freud, Lutto e melanconia, in Opere, vol. VIII, Boringhieri, Torino 1980.

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la patria, ad esempio, o la libertà o un ideale o così via»17. Più avanti Freud si chiede: Orbene in cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? Non credo di forzare le cose se le descrivo nel modo seguente: l’esame di realtà ha dimostrato che l’oggetto amato non c’è più e comincia ad esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un’avversione ben comprensibile; si può infatti osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica, neppure quando dispongono già di un sostituto che li inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all’oggetto, consentita dall’instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio. La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento. Tuttavia questo compito non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco alla volta e con grande dispendio di tempo e di energia d’investimento; nel frattempo l’esistenza dell’oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all’oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno ad uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi. Non è affatto facile indicare con argomentazioni di tipo economico perché tale compromesso con cui viene realizzato poco per volta il comando della realtà risulti così straordinariamente doloroso. Ed è degno di nota che questo dispiacere doloroso ci appaia assolutamente ovvio. Comunque, una volta portato a termine il lavoro del lutto, l’Io ridiventa in effetti libero e disinibito18. In che modo il lutto porti a termine il suo compito sembra di capirlo quando Freud dice: «… il lutto induce l’Io a rinunciare all’oggetto dichiarandolo morto e offrendo all’Io in cambio di questa rinuncia il premio di restare in vita»19. Sembra di capire che, in altri termini, il processo, per Freud, sia 17 18 19

Ibidem. Ibidem. Ibidem.

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pressapoco il seguente: il dolore per la perdita subita induce un sovrainvestimento dell’oggetto d’amore perduto (ciò che si è perso ha più valore proprio perché non si ha più) e un rifiuto della perdita tanto profondo da determinare il tentativo di vincerla allucinatoriamente (il desiderio che, come nel sogno, “produce” allucinazioni di quanto si è perduto). Se ora l’esame di realtà ci induce a farci dichiarare morti i cari che abbiamo perso, diventa chiaro che continuare ad amarli significa continuare a soffrire rischiando di morire a nostra volta. Sentiamo allora una sorta di ambivalenza nei confronti di chi ci ha lasciato (è vero che ha più valore ciò che non si ha più, ma è anche vero che è proprio il fatto che chi ci ha lasciato non ci sia più a farci soffrire). Cominciamo allora a capire che restare legati a chi non c’è più significa continuare ad amare loro e a distruggere noi stessi. Così il legame che ci unisce ai nostri morti si allenta e finiamo col rinunciare all’oggetto d’amore rendendoci disponibili ad altri rapporti, cosa che ci fa adire all’unico premio che da tale rinuncia può derivare, e cioè il restare in vita e continuare a vivere. Quando poi Freud estende la sua analisi, arriva a sostenere che se i processi del lutto restano inconsci si può determinare la situazione della “melanconia”. Ma perché in certi casi la perdita oggettuale viene sottratta alla coscienza? Perché, sostiene Freud, in questi casi il rapporto con l’oggetto d’amore corrisponde al tipo narcisistico di scelta oggettuale20. Significa che se io amo l’altro narcisisticamente (cioè più per amare me stesso, più nel senso dell’essere amato che dell’amare, nel senso di amarlo perché mi ama non perché io l’amo) sarò ambivalente nei confronti di colui che amo (vorrei essere autosufficiente nell’amore ma constato che ho bisogno di chi mi ama); e tale ambivalenza dovrà essere rimossa se non voglio mettere in pericolo la relazione e non voglio essere troppo angosciato. Così se amo narcisisticamente quando l’altro mi lascerà e morirà io farò molta meno fatica a staccarmi da lui perché “non ero legato a lui” ma “lo legavo a me”; e tornerò ad amarmi da me (rivolgerò la libido sull’Io). In sostanza io mi “identifico” con l’oggetto d’amore perduto: prima mi amavo in te ora torno ad amarmi in me, prima in te ama20

Ibidem.

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vo me stesso avendo da te ciò che non potevo avere da me stesso, ora torno ad amare me stesso in me e mi ritrovo impoverito, senza la soluzione (pur parziale) che legarti a me dava al mio rifiuto di non essere autosufficiente. Tu ora vivi in me, sei me, ed io continuo ad avere un rapporto con te dentro di me; ma ora mi riesce più difficile rimuovere l’ambivalenza, ora se odio te odio me stesso: potrei ucciderti, ma ucciderei me stesso! Da qui la melanconia, la depressione, la tentazione al suicidio di chi reagisce melanconicamente alla perdita; da qui quel misterioso autoincolparsi che fa dire a Freud21: Se si ascoltano con pazienza le molteplici e svariate autoaccuse del melanconico, alla fine non ci si può sottrarre all’impressione che spesso le più intense di esse si attagliano pochissimo alla persona del malato e che invece con qualche insignificante variazione si adattano perfettamente a un’altra persona che il malato ama, ha amato o dovrebbe amare. Abbiamo già visto (capitolo I) come la psicoanalisi dopo Freud abbia tentato di utilizzare i meccanismi che Freud legava solo al “processo della melanconia” e al lutto patologico anche per spiegare il lutto normale. Abbiamo anche illustrato la distinzione a cui la psicoanalisi postfreudiana è pervenuta tra “identificazione” (mediante la quale l’oggetto d’amore perduto rivivrebbe dentro di noi come parte di noi e quindi non “in quanto tale”) e “introiezione” (mediante la quale l’oggetto d’amore rivivrebbe dentro di noi non modificato dall’identificazione che lo fa “parte dell’Io” ma in quanto tale, come una specie di “cosa esterna” che invade il mondo interno). Ciò che qui ci interessava cogliere, al di là delle differenziazioni specifiche, era il nucleo essenziale della posizione psicoanalitica. Fatto ciò, possiamo procedere a confrontare questa posizione con le conclusioni a cui siamo giunti nel paragrafo precedente. Risulterà ora evidente quanto segue: I. Non c’è nella posizione psicoanalitica nessuna considerazione esplicita del ruolo che può avere, nello svolgimento e nell’esito del lutto, il lutto anticipatorio dei cari per la 21

Ibidem.

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morte imminente del congiunto e del morente per la propria morte. II. Che il lutto nel suo concreto svolgimento dipenda dalla “relazione” tra chi muore e gli altri è accettato in ambito psicoanalitico, come dimostra la definizione stessa di lutto come perdita di una persona amata o di un suo sostituto. In sostanza è come se per chiarire la natura e lo svolgimento di un lutto bastasse analizzare, attraverso l’analisi di chi resta, il modo in cui egli amava, come unico fattore di variazione di un processo (il lutto) che ha un suo normale svolgimento e che può variare nella gamma compresa tra il normale e il patologico appunto a causa dell’unico fattore di variazione ammesso: il tipo di scelta oggettuale d’amore22. È come se la fine di un rapporto ci autorizzasse a “giudicarlo” solo in base ai processi psichici di chi resta, e non fosse, invece, necessario, oltre che ricostruire il rapporto, chiarire come il modo di morire del morente la propria morte e di “vederlo” morire dei congiunti possano aver modificato (se l’hanno modificato) il rapporto stesso. A parte ciò è, tuttavia, utile tentare di analizzare il rapporto tra chi è morto e chi resta, così come la psicoanalisi lo evidenzia, alla luce di quello che abbiamo chiamato “criterio del contatto”, cioè a seconda del modo in cui si svolge nel rapporto la vicenda delle responsabilità. Si tratta, come già detto, di analizzare la singola relazione d’amore nel contesto etico particolare che la caratterizza, contesto che la psicoanalisi non ha considerato, concependo la dimensione etica come dimensione derivata23 e non come dimensione originaria. In ogni caso, si può esprimere il problema dicendo che bisogna chiarire non solo la relazione come relazione d’amore (cosa che la psicoanalisi fa benissimo nonostante la sua particolare concezione dell’amore come “scelta oggettuale”) ma anche come relazione etica, cioè come relazione a due che implica la “giustizia” di fronte agli altri e alla società. La psicoanalisi trascura questo legame tra 22

Ibidem. Per Freud il Super-Io, che rappresenta le istanze morali della personalità, “deriva” dall’Io e dall’Es, rispettivamente, attraverso il modo di rispondere alle richieste degli altri “Io” o a quelle delle realtà esterne. 23

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il rapporto d’amore e la relazione etica, trascurando così il fatto che, nonostante il rapporto d’amore, ciascun contraente è un essere separato, una monade, che si fa uomo (appartenente al genere comune Uomo) attraverso le relazioni di responsabilità, le relazioni sociali, nelle quali il singolo essere separato trae senso dalla sua umanità, pur restando una monade unica e irripetibile e non assimilabile a nessun tipo umano storico. Ed è proprio la relazione etica che fonda il desiderio di una “società giusta”, di una società consapevole “dell’offesa che la storia fa ai particolari”24 assimilandoli ai principi universali di cui la storia è portatrice. In tal senso, quando si parla del lutto, una teoria che trascura la relazione etica trascura il desiderio di una società giusta anche per i morti, quei “particolari” che la storia “offende” di più col suo stesso protendersi verso il futuro nell’oblio del passato. Tornando a Freud e alla concezione freudiana del lutto, possiamo dire che essa è sottesa da una concezione dell’amore secondo la quale il primum movens è l’amore di sé, inteso come pulsione erotica, come tendenza a scaricare le tensioni sulla base del principio del piacere («Enorme è l’amore che l’Io porta a se stesso, amore nel quale abbiamo individuato la condizione originaria della vita pulsionale»)25. A partire da questo “enorme amore di sé” la reazione originaria dell’Io rispetto agli “oggetti” del mondo esterno è una reazione che viene connotata, usando l’espressione di M. Klein26, come “identificazione proiettiva”. In termini più espliciti l’Io si formerebbe proiettando fuori di sé (e facendoli oggetto di un’ostilità distruttiva) gli oggetti che resistono alla soddisfazione dei bisogni pulsionali, e identificandosi (cioè assimilandoli a sé) con gli oggetti che soddisfano i bisogni pulsionali. In questa fase, dice Freud, «l’Io vorrebbe incorporare in sé tale oggetto e, data la fase orale o cannibalesca della propria evoluzione libidica, vorrebbe incorporarlo divorandolo»27. La scelta oggettuale narcisistica caratterizzata da questa identificazione con l’oggetto sarebbe così la prima forma d’amore (un amore incorporativo e cannibalesco) per l’altro. 24 25 26 27

E. Lévinas, Totalità e infinito, cit. S. Freud, Lutto e melanconia, cit. M. Klein, Scritti (1921-1958), Boringhieri, Torino 1978. S. Freud, Lutto e melanconia, cit.

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In seguito il “principio della realtà” introduce gradualmente la necessità dell’autonomia dell’Io rendendo sempre più chiaro che assimilando l’altro a sé si rischia di annullarlo e di distruggerlo distruggendo di converso l’Io che vi si è identificato. Ne deriva la possibilità, passando attraverso la fase intermedia dell’ideale dell’Io (fase in cui si proietta fuori di sé un ideale di sé per potersi amare “in esteriorità” e sfuggire così ai rischi distruttivi della scelta oggettuale narcisistica), di introiettare l’altro come istanza normativa (il SuperIo), potendosi ora identificare con l’altro come altro da sé e pervenire così alla possibilità di una scelta oggettuale matura, cioè ad amare l’altro come altro e non come “sé”, ma sempre attraverso di sé, essendo l’altro amato non in quanto se stesso ma attraverso le istanze superegoiche. Si tratta, come si vede, di una concezione dell’amore inteso come relazione di bisogno, il bisogno di scaricare le tensioni, il bisogno di “godere”. Per poter portare avanti questa concezione però Freud e i suoi seguaci devono analizzare la relazione d’amore sempre dal punto di vista che gli è più favorevole, cioè dal punto di vista dell’Io, mai dal punto di vista dell’Altro, e ciò perché tra l’Io e l’Altro hanno fin dall’inizio senza avvedersene già scelto l’Io. In altri termini, gli psicoanalisti non si riferiscono alla relazione d’amore ma a come questa appare dal punto di vista della sua genesi nell’Io. E infatti ne parlano sempre nei termini egoici della scelta oggettuale. Non si avvedono così di tutti quegli elementi, importantissimi, che nella relazione amorosa non sono “scelti” ma “accolti” cioè “dati”. Il salto nella concezione psicoanalitica è proprio tra il livello della pulsione e il livello della scelta. Se all’inizio domina l’Es, una pura attività pulsionale, come si può poi analizzare tutto ciò che avviene nella psiche in termini di “scelta” oggettuale, senza aver supposto come un assioma che “Dov’era l’Es deve avvenire l’Io?”. Il punto debole dell’analisi psicoanalitica sembra essere proprio qui: come e quando nasce l’Io dall’Es28? Le cose forse possono cominciare a chiarirsi un poco se analizziamo la relazione d’amore non solo dal punto di vista dell’Io ma anche dal punto di vista dell’Altro. Come reagisce il genitore al tentativo narcisistico che il bambino fa di assimilarlo a sé per il suo piacere immediato? 28

S. Freud, L’Io e l’Es, in Opere, vol. IX, Boringhieri, Torino 1986.

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Il senso comune insegna che, se l’ama, ragionerà pressappoco così: «Quando sono piccoli non capiscono che tendono ad annullare gli altri, hanno troppi bisogni». Ma spera, il genitore, che il bambino crescendo capirà che «Io amo pienamente solo se altri mi ama»29, cioè che non basta, per amare, legare gli altri a sé per i propri bisogni ma che è necessario che anche gli altri si leghino a noi. Il che significa che per amare non basta avere bisogno degli altri, ma è necessario che gli altri di cui abbiamo bisogno desiderino soddisfare i nostri bisogni. Ecco perché l’amore del genitore per il figlio è amore vero mentre quello del figlio lo diventerà: perché l’amore maturo non può basarsi solo sul bisogno ma deve essere completato dal desiderio. Ecco perché, come dice Lévinas, «Amare significa temere per altri, dare aiuto alla sua debolezza»30. Ma da dove proviene questo carattere dell’amore maturo, come si passa dall’amore narcisistico del bimbo pieno di bisogni a quello dell’adulto che desidera soddisfare i bisogni di colui che ama? Deriva da ciò che è “dato”, da ciò che è non scelto nella pulsione originaria. Io ho bisogno, in altri termini, non perché voglio avere bisogno, io nasco bisognoso, e perciò il desiderio d’essere amato da qualcuno che mi dia aiuto nella mia debolezza sta proprio nel carattere innato, dato, non voluto, del bisogno. La psicoanalisi non ha visto ciò perché probabilmente ha condiviso l’ideologia del suo tempo (che è in parte anche il nostro): costatando l’impossibilità di un godimento e di una felicità totali la psicoanalisi finisce per ritenere impossibile la felicità («la felicità», dice Freud, «non è inscritta nel destino umano») e arriva ad identificare nella morte (come cessazione delle tensioni provocate dai bisogni e come raggiungimento di una quiete assoluta) lo scopo della vita. Donde la sottolineatura in ambito psicoanalitico delle caratteristiche negative del bisogno e della pulsione: la mancanza, nell’Io, dell’oggetto del bisogno (con la relativa dipendenza dall’oggetto della soddisfazione) e la tensione sempre rinnovantesi della vita pulsionale. In realtà la pulsione e il bisogno comprendono qualcosa di positivo che è probabilmente l’essenza della vita stessa: il desiderio e l’attesa dell’oggetto della soddisfazione e della felicità, che rappre29 30

E. Lévinas, Totalità e infinito, cit. Ibidem.

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sentano nei vissuti la possibilità stessa del godimento e della felicità. Stando così le cose l’Altro come oggetto del bisogno risulta, nella relazione d’amore, sempre subordinato al soggetto del bisogno e non potremmo stabilire con esso altri rapporti che quelli genialmente esplorati da Freud. L’Altro dipende in questa ottica dalle scelte oggettuali dell’Io, laddove invece la pulsione può essere considerata non solo mancanza che tende al riempimento e tensione che tende alla sua scarica, ma anche desiderio che, venendo al mondo con la vita ed essendoci “dato” come possibilità del godimento e della felicità, ci fa fin dall’inizio responsabili del godimento e della felicità che avremo concretamente, poiché, in quanto attesa di qualcosa che incontriamo solo nell’amore dell’altro, non è attesa di un oggetto ma di un altro soggetto. Tutto ciò può risultare più chiaro se ci riferiamo nuovamente a quanto detto più sopra. Il genitore dice: «Quando sono piccoli non capiscono che tendono ad annullare gli altri, hanno troppi bisogni». Questo genitore sembra voler giustificare il narcisismo del bambino come inevitabile in una certa fase, come se crescendo fosse poi più facile rispettare gli altri e amarli di un amore vero, “equivoco” insieme di bisogno e di desiderio. In realtà questo genitore non lo difende abbastanza il suo bambino, poiché nella bisognosità infantile c’è già il desiderio dell’altro: è solo quando la tensione del bisogno insoddisfatto diventa eccessiva che l’Io tende a subordinare l’altro a sé, come sa ogni osservatore attento delle età infantili quando si chiede: «È più felice, il bambino, dopo che ha mangiato e non ha tensioni o quando desidera mangiare e non ha ancora tanta fame da non poter più aspettare?». E non è una difesa sufficiente del bambino perché nella soddisfazione del bisogno del figlio ogni genitore può trovare la soddisfazione di un proprio bisogno. Più difficile, quando si ama protestando per gli aspetti negativi delle pulsioni, è capire la madre che dice: «Com’è bello sapere che tuo figlio t’aspetta, il difficile è non arrivare in ritardo!». Come dire che è bello sapere che mio figlio mi desidera e che solo se non arriverò in tempo i suoi bisogni diventeranno troppo impellenti e “pretenderà” che io sia lì e mi faccia “usare” per soddisfarli! In sostanza il neonato desidera, la pulsione non è solo mancan92 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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za e tensione alla scarica ma anche desiderio e attesa; e non si sa se è più felice quando attende la soddisfazione o quando è soddisfatto. Egli ovviamente fino ad un certo punto non sa chi desidera o cosa desidera, ma chi sa veramente cosa e chi desidera prima di aver incontrato l’oggetto del suo desiderio? E se è così in che senso si può ancora parlare di oggetto di un desiderio e non si deve invece parlare di un oggetto-soggetto del desiderio? Certo non basta perché ci sia l’amore maturo neanche il solo desiderare, il puro tendere, l’attesa. C’è amore, e l’abbiamo già detto, quando desiderio e bisogno si coniugano senza mai prevalere l’uno sull’altro. Ecco perché, come dice Lévinas «io amo pienamente solo altri che mi ama»31. Se, infatti, io amassi non riamato, inevitabilmente sarebbe impossibile il desiderio e l’attesa di te e io sarei dominato dal bisogno di te, così come, se tu mi amassi non riamato sarebbe impossibile il tuo desiderio di me e tu saresti dominato dal bisogno di me. Con la conseguenza di ricadere nel caso illustrato dalla psicoanalisi, la quale quindi può essere criticata perché ha preso in considerazione l’amore dell’Io senza chiedersi se e come esso sia riamato. La psicoanalisi sembra quindi valere per un caso particolare: quello in cui si concepisce l’amore come bisogno, come cioè indifferente all’amore altrui, poiché si parte da una concezione della pulsione in cui se ne sopravvalutano gli aspetti negativi (mancanza e tensione) e se ne sottovalutano gli aspetti positivi (attesa e desiderio come possibilità del godimento e della felicità). Ed è ovvio altresì che l’analisi freudiana si attaglia di più e meglio all’amore del bimbo per la madre, essendo questo proprio quell’amore più esposto a sbilanciarsi dalla parte del bisogno: la domanda sull’essere o meno riamati dalla madre è difficile da porre per il bimbo, anche perché non sembra concepibile (come invece spessissimo accade) che una madre non ami suo figlio. Possiamo ora comprendere cosa significhi affermare che la concezione psicoanalitica dell’amore trascura la dimensione etica delle relazioni interumane. Essendo per Freud la pulsione caratterizzata dalla mancanza e dalla tensione (pulsione che tende all’oggetto del bisogno e alla relativa soddisfazione), il suo punto di partenza argomentativo è la 31

Ibidem.

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condizione naturale di “bisognosità” dell’uomo (bisognosità che rispetto alle altre specie animali si caratterizza come una condizione di maggiore “immaturità” alla nascita). Tale bisognosità determina la “necessità” di uno sviluppo dell’Io come “attore” di “scelte oggettuali” sempre più mature cioè meno nevrotiche e difensivamente più soddisfacenti. Con ciò viene meno l’aspetto di libertà e responsabilità che viene al mondo con la pulsione se la concepiamo invece come desiderio e come attesa. Infatti, solo se c’è l’aspetto positivo del desiderio e dell’attesa che rendono possibili (prefigurandoli) il godimento e la felicità, c’è fin dall’inizio libertà e responsabilità. La domanda ora è: a quale punto il desiderio cessa di essere tale, cioè di essere godimento e felicità dell’attesa fiduciosa e paziente del benessere, per trasformarsi nel bisogno ansioso e impaziente di una soddisfazione incerta? Saremmo tentati di rispondere, e forse coglieremmo in parte nel segno, che il passaggio si determina quando si constata che l’oggetto-soggetto del desiderio (la madre ad esempio) arriva sempre in ritardo e si diventa insicuri sulla possibilità di soddisfare i bisogni. E tuttavia si tratta di cosa estremamente difficile da dimostrare. Risulta invece evidente la grande variabilità interindividuale e intraindividuale del rapporto tra la pazienza del desiderio e l’impazienza del bisogno. Ogni bambino è differente da ogni altro e anche da se stesso, da caso a caso, nella capacità di aspettare pazientemente la soddisfazione del bisogno. In ciò egli è fin dall’inizio libero e responsabile, vale a dire che il bambino sembra riconoscersi molto precocemente il diritto di “decidere” come gestire la frustazione del bisogno: ci sono quelli che aspettano beati e pazienti il ritorno della madre e sembrano non dare segni di impazienza anche se dovrebbero ormai aver fame, e quelli che, finita la poppata, ricominciano subito ad agitarsi come se si preoccupassero già della poppata successiva. Cosa ha imparato all’inizio il bambino dal suo ambiente intorno alle modalità di gestione dei suoi bisogni? Per quanto gli stili degli altri possano essere importanti bisogna riconoscere al neonato un margine di libertà nel gestire il “tutto e subito” che ne caratterizza la vita pulsionale. Ma da dove può derivargli questa sorta di relativa libertà di gestione della sua vita pulsionale se non dal fatto che la pulsione non è solo (come Freud la connota) un tendere verso una meta predeterminata, ma anche 94 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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un desiderare ed un attendere tanto più liberi quanto meno esperienza hanno fatto dei loro oggetti-soggetti? Siamo ora in grado di distinguere nella pulsione due aspetti che sembravano tutt’uno: un aspetto istintivo e preordinato (il bisogno di nutrirsi incontra il seno come suo oggetto senza bisogno di apprendimento); un aspetto innato ma non preordinato (il desiderio dell’altro da sé che dà benessere e felicità necessita della soddisfazione e della felicità specificamente derivati da esso per darsi). Dopo aver fatto istintivamente per la prima volta l’esperienza della soddisfazione dei bisogni, la pulsione non è solo mancanza ma anche attesa e desiderio. Ma se è anche attesa e desiderio, è già in parte non più determinata nel suo “come” della pazienza o dell’impazienza. Posso cioè ora attendere il ripetersi dell’esperienza (e in tal caso vivrò l’esperienza come “donata”), oppure viverla come “dovuta”, necessaria, inevitabile conseguenza del mio bisogno, determinata da esso, “pretesa”. In ciò il bambino è “libero” fin dall’inizio di considerarsi più o meno in grado di attendere la soddisfazione del bisogno. Quando è più paziente è più libero e più responsabile, quando è più impaziente è meno libero e quindi meno responsabile. In altri termini già in una fase precocissima il bambino può cercare di “sfuggire alle sue responsabilità” (è come se dicesse: “Ho fame: si deve mangiare!”), e allora sarà più determinato dal bisogno, meno libero, più impaziente. Oppure sarà più paziente cioè più libero e responsabile. Nel primo caso egli tenderà ad instaurare con gli altri dei rapporti basati sul determinismo del bisogno, quei rapporti che la psicoanalisi col suo incrollabile determinismo ha così bene illustrato e compreso. Nel secondo caso il bambino tenderà a stabilire con gli altri dei rapporti d’amore in cui, come abbiamo detto, ci sarà una compresenza di bisogno e di desiderio, rapporti in cui gli altri non rappresentano solo gli oggetti che soddisfano i bisogni ma anche i soggetti che, se e quando vogliono, soddisfano i bisogni. Ecco perché la psicoanalisi ha trascurato la relazione etica, perché nella sua antropologia l’uomo è originariamente determinato, non libero, irresponsabile, e se diventa responsabile lo diventa per non soffrire, per sopravvivere alla guerra di tutti contro tutti che sortirebbe come conseguenza inevitabile dallo stato di natura se non intervenisse la “convenienza” della civiltà. Ed ecco perché la 95 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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psicoanalisi ha concepito la morte o la scomparsa dell’oggetto d’amore come una mancanza o una perdita a cui esita un processo, quello del lutto, concepito come un cammino a ritroso rispetto a quello che ha portato nel corso dello sviluppo allo stabilirsi delle relazioni oggettuali. Quanto a ritroso sia questo cammino varia, come abbiamo visto, per Freud, a seconda del tipo di scelta oggettuale. Nel caso di una scelta oggettuale di tipo narcisistico l’esito del lutto può essere patologico e possiamo avere un fatto melanconico (una depressione grave), dato che il cammino a ritroso giunge in questo caso fino all’identificazione ambivalente con l’oggetto d’amore propria delle prime fasi narcisistiche della scelta oggettuale. Nel caso di una scelta oggettuale matura (genitale), invece, si avrà il lutto normale, cioè colpa, depressione e rabbia potranno essere superate grazie all’identificazione matura con le figure genitoriali concrete, dalle quali derivano le istanze normative che nel rappresentare “gli altri in noi” sono Io anche quando sono SuperIo. Come dire che, in fondo, se ho stabilito una relazione oggettuale matura io il caro l’ho già “lasciato”: egli vive in me sotto forma di SuperIo. E quindi quando morirà, potrà soltanto “vacillare” il riferimento esteriore di qualcuno che vive ormai una vita sostanzialmente interiore con l’unica conseguenza di un indebolimento dell’istanza introiettata. In tal caso gli autorimproveri per la morte del caro non sono rivolti a sé e contemporaneamente (a causa dell’ambivalenza) all’altro (come sono gli autorimproveri del “melanconico”), bensì sono rivolti a sé da parte di una parte di sé che “rappresenta” l’altro in sé. Quindi, quando il proprio padre morirà ci si sentirà in colpa nei confronti del proprio padre interno e basterà rafforzare quest’ultimo (cioè “ripararlo”) per superare il lutto, come fanno coloro che dopo la morte del padre ne rispettano alla lettera valori che avevano fino a quel momento osteggiato, appunto per non sentirsi più in colpa. Altrettanto dicasi, per fare un altro esempio, della rabbia: essa sarà rivolta al padre interiore e bisognerà, per superare questa rabbia, “assolverlo”, trovargli delle “ragioni” accettabili per ciò che costituisce il motivo del nostro astio. In sostanza la psicoanalisi, essendosi preclusa la possibilità di considerare la relazione d’amore una relazione di desiderio fondata sulla responsabilità e sulla libertà, cioè sull’etica, è costretta a considerare la morte più che un “caso particolare dell’assenza”, un 96 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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caso particolare della mancanza. La conseguenza più grave di ciò è l’impossibilità per la psicoanalisi di concepire la morte come “feconda”, come un lascito, il passaggio di un “testimone” del desiderio, attraverso il senso che gli altri amati e che ci amano si trovano a realizzare, hanno la responsabilità di realizzare, dopo la nostra morte. Il legame tra la morte e la fecondità si stabilisce tramite l’amore, sempre “fecondo” quando è vero amore32. Dice Lévinas a questo proposito33: Io amo pienamente solo se altri mi ama, non perché abbia bisogno del riconoscimento d’Altri, ma perché la mia voluttà si compiace della sua voluttà e perché in questa congiuntura, che non va confusa con l’identificazione, in questa transustanziazione, il Medesimo e l’Altro non si confondono, ma, appunto al di là di ogni progetto possibile, al di là di ogni potere sensato e intelligente generano il figlio. Se amare significa amare l’amore che mi è offerto dall’amata, amare significa anche amarsi nell’amore e ritornare così a sé. L’amore non trascende senza equivoci, si compiace, è piacere ed egoismo a due. Ma in questo compiacimento si allontana altrettanto da sé; si mantiene in una vertigine che sta al di sopra di una profondità di alterità che non può più essere illuminata da nessun significato-profondità esibita e profanata. La relazione con il figlio il desiderio smodato di possedere il figlio ad un tempo altro e me stesso si delinea già nella voluttà per attuarsi nel figlio stesso (come può attuarsi un Desiderio che non si spegne nel suo fine, e non è appagato dalla sua soddisfazione). Eccoci di fronte ad una nuova categoria: di fronte a ciò che sta dietro le porte dell’essere, di fronte al men che nulla che l’eroe sottrae alla sua negatività e che profana. Si tratta di un nulla distinto dal nulla dell’angoscia: nulla dell’avvenire sepolto nel segreto del men che nulla. Al di là dell’apparente “ermetismo” di questo passo che per essere chiarito implicherebbe il rimando a tutta l’opera di Lévinas, si può sottolineare il fatto che l’amore maturo, questo “equivoco” 32 33

Ibidem. Ibidem.

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equilibrio di desiderio e di bisogno, è tale perché nella vertigine dell’amore si apre un nulla (un men che nulla) che è il desiderio del figlio (“figlio” che va inteso come sé al di là di sé e non necessariamente come figlio biologico). Si costituisce così quella “società naturale e soprannaturale”, cioè la famiglia, nell’ambito della quale la morte può mettere in crisi il desiderio solo in quanto caso particolare dell’assenza e della separazione. Che faccio ora che l’amato è morto? Continuo ad amarlo e a desiderarlo, cioè ad aspettarlo pur sapendo che a causa della sua assenza non potrà più soddisfare i miei bisogni? So che non tornerà (ma lo so poi per certo?) e so che lo desidero, sono libero di continuare a desiderarlo pur sapendo che non soddisferà più i miei bisogni; e sono quindi responsabile per lui: se continuerò a desiderarlo potrò continuare a “difenderlo”, parlando di lui, presentandolo agli altri, tenendolo in mezzo alla società dei vivi, cercando di essere giusto con lui, cioè non escludendolo dalla vita che continua, e non permettendogli nel contempo di invadere il mondo dei vivi con la “pretesa” che io possa ancora vivere di lui, che io possa ancora soddisfare attraverso di lui i miei bisogni. In tal modo il rapporto col morto può continuare ad essere un rapporto d’amore, un rapporto che può essere fecondo in modo particolare (cioè in quanto io posso ritrovare me al di là di me facendo del morto una specie di figlio e amandolo, vale a dire “difendendolo nella sua debolezza”, e difendendo così me stesso, quel “men che nulla” di me che vive nell’altro morto e passato ma che presento all’oggi e all’avvenire evitandogli così le invidie e le ritorsioni). La psicoanalisi ignora questa possibile fecondità della morte: essa è, infatti, come già abbiamo detto, una “via della tomba”: bisogna decretare la morte dello scomparso (seppellirlo nell’interiorità attraverso l’identificazione) e impedirgli così di tornare per ottenere (da parte di chi resta) il premio di restare in vita (mors tua vita mea). Che la fecondità della morte possa derivare dall’inserimento dei morti in una società che sia “giusta” anche con loro non tocca la psicoanalisi, la quale considera l’aldilà e le credenze attorno all’aldilà un derivato difensivo della paura di morire noi stessi che la morte nel caro suscita in noi34. 34 S. Freud, Considerazioni sulla guerra e la morte, in Opere, vol. VIII, Boringhieri, Torino 1980.

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Passiamo ora a confrontare la nostra conclusione con la teoria biologico-evoluzionistico-cognitivista di Bowlby e Parkes35. Noteremo innanzitutto che in questa teoria: I. Non si prende in considerazione l’influenza che il modo di morire e il lutto anticipatorio per la morte di sé possono esercitare sullo svolgimento e l’esito del lutto di chi resta; II. Si attribuisce una certa influenza sul lutto di chi resta al “modo” della perdita in quanto una mancata anticipazione della morte potrà «ostacolare il riconoscimento e la spiegazione intellettuale della perdita stessa»; III. Si attribuisce una notevole influenza sull’esito del lutto al rapporto tra chi muore e chi resta, sottolineando innanzitutto, come abbiamo visto più sopra, il peso che possono avere: a) l’ambivalenza, che può impedire l’accettazione emozionale della perdita attraverso le reazioni di rabbia, autorimproveri e colpa; b) la dipendenza che può ostacolare (attraverso lo struggimento intenso per la persona perduta) lo scioglimento del legame con il defunto e la costruzione di nuovi legami e di una nuova identità. Anche per comprendere la concezione di Bowlby e Parkes, come abbiamo fatto per la psicoanalisi, bisognerà risalire alla teoria dell’amore che sottende questa concezione ed ai suoi legami con il modo di intendere il “contatto” tra l’Io e l’Altro in termini di “distribuzione di responsabilità”. In questo ambito, per la verità, di amore non si parla nemmeno e ci si riferisce ai legami (quei legami perdendo i quali si ha il lutto) come a “legami di attaccamento”. Essi, si potrebbe dire semplificando un po’, si stabiliscono fin dall’infanzia sulla base di necessità biologiche e sul modello etologico. Il prototipo di questi legami di attaccamento è il legame bambino-madre, che corrisponde, sia nell’uomo che nel mondo animale, ai bisogni della specie. Quando questi legami per qualche ragione (morte, allontanamento, separazione) si rompono, si hanno le “reazioni di attaccamento” che sono relative allo squilibrio che la perdita comporta per l’ambiente sociale ed al tentativo di superare questo squilibrio instaurando nuovi legami di attaccamento, tali da determinare il formarsi di un ambiente sociale nuovo, ma altrettanto favorevole alla soddisfazione dei bisogni del singolo e della specie rispetto a quello che la perdita ha compromesso. 35

Vedasi capp. I e II.

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Nella teoria di Bowlby la libertà riconosciuta all’Io è ancora minore che per la psicoanalisi, nel cui ambito, come abbiamo visto, si ammette almeno la possibilità di concepire i legami come “scelte oggettuali”, nonostante che queste scelte siano sempre da considerare inserite in un contesto di bisognosità, che è quello della pulsionalità inconscia dalla quale siamo determinati. Per Bowlby l’Io è talmente determinato biologicamente che non può neanche fare il “tentativo” (che è il tentativo psicoanalitico) di andare al di là degli “ordini” che gli dà il suo padrone più potente (l’Es), alleandosi con un altro dei suoi padroni (la Realtà) per edificare un mondo interno che, anche se lo domina (il SuperIo è il terzo padrone dell’Io) è pur sempre Io. E quando qualcosa del genere si verificasse, cioè quando trovassimo tra le “reazioni di attaccamento” l’identificazione, dovremmo, secondo Bowlby, connotare questa reazione come “anormalità” e dovremmo cercare di scoprire cosa non ha funzionato nel complesso meccanismo che dall’attaccamento biologicamente determinato alla madre porta al costituirsi dell’ambiente sociale (cioè dell’insieme dei legami tra gli individui) e all’adattamento che ne deriva. La reazione “normale” ad una perdita in questa ottica consiste nell’elaborare adeguatamente le informazioni a disposizione per recuperare l’adattamento perduto mediante la costituzione di un ambiente altrettanto favorevole a quello che precedeva la perdita, sulla base di un distacco dai vecchi legami e lo stabilirsi di nuovi. Come si vede, non c’è qui alcuno spazio di scelta, c’è solo un processo che ha i suoi “meccanismi” di funzionamento, meccanismi che possono funzionare o non funzionare a prescindere dalle scelte individuali, le quali, in questa prospettiva etologico-cognitivista, sono da considerare sempre “determinate” da un meccanismo “oggettivo”. Ad esempio: a) non accetterò la perdita se avevo con lo scomparso un legame ambivalente, cioè perché egli era per me sia fonte di soddisfazioni che di insoddisfazioni: per accettare la perdita dovrò superare questa ambivalenza, dovrò “imparare” a legarmi solo a chi mi dà soddisfazioni; b) posso non riuscire a distaccarmi da chi mi ha lasciato o è morto perché avevo con lui un rapporto di dipendenza, cioè ero attaccato a lui eccessivamente, al di là dei miei reali bisogni: per distaccarmi da coloro che ho perso e stabilire nuovi legami dovrò “imparare” a valutare meglio i miei reali bisogni. E queste “cause” 100 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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della difficoltà di superare un lutto non sono mai cause soggettive, poiché si può sempre rintracciare una serie di “fatti” che possono aver determinato l’ambivalenza (ad esempio, la concorrenza tra i figli per le cure materne od un distacco precoce dalla madre) o la dipendenza (ad esempio, una malattia del figlio nell’infanzia). Se ci riferiamo all’idea di una compresenza nell’amore di bisogno e di desiderio, possiamo dire: mentre nella psicoanalisi si antepone il bisogno al desiderio ma il desiderio è presente come tentativo costante dell’Io di sfuggire alla bisognosità che lo determina (cosa che caratterizza la direzione dello sviluppo come una direzione dall’Es all’Io, portando ad una certa concezione dei rapporti sociali e dell’amore), nella teoria biologica il bisogno viene concepito più ottimisticamente come soddisfacibile, attraverso la costruzione evolutivamente determinata di un ambiente “etologico” positivo. Per conseguenza logica, nella teoria di Bowlby, il modello del rapporto amoroso è il modello figlio-madre, essendo abbastanza vero che nel rapporto figlio-madre, sia nell’uomo che nell’animale, i legami di attaccamento sono “obbligatori” e corrispondono ad una “struttura” determinata evolutivamente sulla base delle spinte adattative. Ma sono tutti i rapporti d’amore “analoghi” a quello del bambino con la madre, cioè determinati evolutivamente e corrispondenti allo scopo dell’adattamento? Per sostenerlo bisognerebbe presupporre che l’amore adulto che ha come scopo la fecondità, cioè il generare i figli, fosse un legame di tipo adattivo36. Come si spiegherebbe allora il “dato” umano per cui fare i figli spesso porta a notevole disadattamento (sia l’individuo che la specie)? Come non riconoscere che la fecondità umana può essere sganciata da qualsiasi progetto della specie e che il malthusianesimo può essere un assoluto controsenso? I figli, in sostanza, si fanno anche per amore, e non solo sulla base di meccanismi evolutivoambientali come sembra accadere nel mondo animale, supposto che accada sempre così fino al gradino della scala evolutiva immediatamente precedente alla comparsa dell’Homo sapiens. Dice Lévinas (già citato precedentemente): 36

Come considerare, ad esempio, adattivo l’imprinting materno di un’oca a Lorenz dato che i bisogni biologici dell’oca difficilmente potranno essere soddisfatti “naturalmente” da Lorenz?

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Io amo pienamente solo se altri mi ama, non perché abbia bisogno del riconoscimento d’Altri, ma perché la mia voluttà si compiace della sua voluttà e perché, in questa congiuntura che non va confusa con l’identificazione, in questa transustanziazione, il Medesimo e l’Altro non si confondono, ma, appunto, al di là di ogni progetto possibile, al di là di ogni potere sensato e intelligente, generano il figlio. Dimenticano Bowlby e Parkes che il bambino può attaccarsi a chi non l’ama, e in tal caso attaccamento e amore non coincidono. Ancora di più ciò vale per l’amore tra adulti, altrimenti bisognerebbe fare l’ipotesi che solo l’amore materno sia amore e che ogni amore tra adulti sia un derivato dell’amore materno, relegando nella categoria degli “errori” tutte le altre forme del rapporto amoroso. Oggi che l’esperienza dell’amore tra adulti ci dice che è frequentissimo osservare l’attaccamento di un individuo a chi non l’ama, con tutto il carico di infelicità che ciò comporta, come si può arrivare senza ammettere una certa possibilità di scelta, ad una indispensabile, perché salvifica, separazione? Non sarebbe più semplice ammettere una certa libertà dell’uomo di fronte alle possibilità di attaccamento? Quando un bambino non ha madre o sua madre non l’ama, perché non dovrebbe, questo bambino, correre il rischio di “sbagliare”, legandosi ad altre figure, prima di sapere se il legame sarà o meno soddisfacente? E, nella vita adulta, si può aspettare di aver raggiunto l’impossibile conoscenza completa dei proprii bisogni, prima di legarsi a qualcuno? Senza il desiderio che qualcuno, di cui non so niente prima di incontrarlo, arrivi, e desideri liberamente soddisfare i miei bisogni, si darebbe mai amore? Da quanto detto fin qui risulta chiaro che non basta, come abbiamo visto fare a Klass, dire che la teoria del lutto di Bowlby spiega ciò che avviene nell’ambiente sociale in seguito ad una perdita e non spiega ciò che avviene nel mondo interiore, nel rapporto vissuto tra l’Io e l’oggetto d’amore perduto. Ciò è, beninteso, abbastanza vero ma non può costituire un’obiezione valida nei confronti di questa teoria per la quale il mondo psichico “deriva” dai fatti biologici evolutivi e sociali, salvo per ciò che concerne la capacità cognitiva di elaborazione dell’esperienza e delle informazioni che 102 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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da questa derivano. La soggettività originaria (irriducibile ai fatti oggettivi) è in questa ottica la mente come apparato di elaborazione cognitiva delle informazioni, apparato connotato alla stregua di un (super) computer. Come dire che l’Io nel rapporto con l’Altro è una “mente” che elabora informazioni (le informazioni che derivano dalle sensazioni, dalle percezioni e da quelle sensazioni percezioni più complesse che sono le emozioni), mente che nell’attaccarsi ad un Altro forse ha “calcolato” che era possibile farlo, salvo poi poter correggere i suoi errori, se ne ha fatti, o riorganizzare i dati a disposizione e rifare i “calcoli” se intervengono fatti (separazione, morte) che portano nuove informazioni. Ne deriva che quando entra in rapporto con l’Altro l’unica libertà che l’Io ha consiste nella possibilità di elaborare le informazioni che gli derivano dall’esperienza del rapporto con l’altro. Ma come si stabilisce questa esperienza di rapporto tra l’Io e l’Altro? In gran parte “irresponsabilmente” (cioè secondo “meccanismi” biologici) e in parte “responsabilmente” per quanto attiene alle possibilità cognitive della mente. Si potrebbe dire che l’unica libertà che si riconosce all’Io, in questa ottica, è la libertà di conoscere, libertà “data” alla nascita strutturalmente, cioè in relazione alla posizione che l’uomo ha nella scala evolutiva. In tal senso, si potrebbe dire che nella teoria etologica c’è, rispetto alla teoria psicoanalitica, una sorta di inversione: laddove per la psicoanalisi prima viene la bisognosità pulsionale e poi la scelta oggettuale, prima viene l’Es e poi l’Io, sicchè solo crescendo l’uomo si umanizza e diventa “soggetto”; per la teoria etologica l’uomo viene al mondo col suo patrimonio evolutivo (l’uomo è uomo fin dall’inizio, essendo la sua mente un elaboratore di informazioni con competenze più ampie di quelle dell’animale) ma vive come un animale, cioè dominato dagli stessi bisogni e dalle stesse leggi di adattamento che dominano l’animale: l’ambiente e le società umane sono diverse dall’ambiente e dalle società animali perché l’uomo è un animale più evoluto. Torna qui il contrasto tra il pessimismo psicoanalitico, per il quale l’uomo è un essere di natura che tenta invano di trascendere la sua bisognosità naturale, e l’ottimismo evoluzionistico, per il quale l’uomo è un essere di natura ma più evoluto di tutti gli altri, tanto evoluto da poter costruire il suo ambiente e la sua società, le quali, pur restando l’ambiente e la società di un animale, sono costruite con lo strumento più potente che l’evoluzione animale abbia prodotto, il cervello e le sue competenze cognitive. 103 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Tradotto nei termini dell’amore, del rapporto bisognodesiderio nell’amore e del peso che responsabilità e libertà hanno nelle relazioni interumane, tutto ciò significa:

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a) l’uomo è un essere bisognoso che desidera soddisfare tutti i suoi bisogni; b) l’uomo nasce con uno strumento potentissimo di elaborazione delle informazioni e può essere certo che, se lo utilizza al meglio, potrà soddisfare i suoi bisogni più e meglio degli altri animali. Bisogna, in altri termini, considerare fondato il detto per cui “sapere è potere”, e perseguire il desiderio di conoscenza alla stregua di un bisogno che si soddisferà sempre di più, facendo sì che si commettano sempre meno errori e si organizzino i rapporti umani in modo da produrre la massima soddisfazione del maggior numero di bisogni. È come se l’evoluzione avesse (per chi condivide la teoria evolutiva) materializzato il sogno dell’Io di poter piegare ai suoi fini la natura mediante quell’esame di realtà raffinatissimo che è la scienza, così come è resa possibile dalle capacità cognitive del cervello umano. Ma quanto estese sono le capacità di elaborazione che l’evoluzione ci ha regalato dandoci il cervello che ci ha dato? Fin dove si può spingere il bisogno di conoscenza e fin dove, invece, il desiderio di conoscenza deve rimanere un desiderio? Ecco rispuntare allora il desiderio: chi ci autorizza a sperare che un giorno conosceremo tanto da realizzare tutti i nostri bisogni? Di fronte allo spettacolo dei nostri “errori” non dobbiamo decidere liberamente e responsabilmente fino a che punto considerarli frutto della nostra ignoranza? Torniamo al lutto. Abbiamo detto che la difficoltà di superarlo può essere dovuta al fatto che sapevamo poco della imminenza della morte del caro, e quindi non abbiamo potuto ancora “elaborare” la perdita, cioè riconoscerla e spiegarla. E così commettiamo degli errori che avremmo potuto evitare o potremo evitare elaborando più adeguatamente l’esperienza per la prossima volta. Ma una volta che la perdita è stata riconosciuta e spiegata intellettualmente, il desiderio dell’Altro che abbiamo amato e che non potrà più soddisfare i nostri bisogni, cioè non si presenterà 104 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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più, diventerà chiaramente tale, diventerà un’attesa che può anche non finire: di fronte al desiderio dell’amato dovremo liberamente e responsabilmente prendere posizione senza che possano menomamente venirci in aiuto la più razionale spiegazione e la più razionale presa d’atto di ciò che è avvenuto. La decisione di aspettarlo ancora (ad esempio fino all’aldilà), o di “presentarlo” agli altri attraverso il ricordo, ha solo a che fare, infatti, con il modo di vivere l’esperienza del desiderio di chi non c’è più, e non può essere presa in considerazione dalla teoria biologica del lutto. Come dimostra la sottovalutazione che questa teoria opera dell’importanza, per l’elaborazione del lutto, dei rituali funerari37, considerando il superamento del lutto alla stregua di una “ristrutturazione dell’ambiente”, come se l’assenza di chi si ama fosse un’assenza fisica che basta assodare, spiegare e poi colmare con altre presenze, per mettere a posto le cose. In verità, altri attaccamenti non escludono il rapporto con chi è assente, perché chi è assente non può più soddisfare bisogni ma può continuare a suscitare desideri. D’altra parte, si potrebbe pensare che l’accettazione emozionale sia difficoltosa quando il rapporto con lo scomparso era un rapporto ambivalente, perché in tal caso ci sentiamo in colpa nei suoi confronti o siamo arrabbiati con lui perché crediamo di avergli fatto del male e che ce ne abbia fatto. Ma siamo proprio certi di ciò? Quali informazioni positive abbiamo per arrivare a questa conclusione? Non potrebbe essere tutto un “errore” dovuto al fatto, ad esempio, di ignorare fino a che punto, quando abbiamo desiderato la morte del caro, potevamo fare altrimenti, o di ignorare fino a che punto egli “sapeva quel che si faceva” quando ci ha abbandonati ancora piccoli e indifesi? Potrebbe darsi una cosa e il suo contrario, ma siamo sempre noi che “scegliamo” quanto a fondo andare alla ricerca di questi errori. E poi, perché continuiamo a farli questi errori? Non dovremmo supporre che sia possibile non farli, che la perfezione sia cosa diversa da una tendenza alla perfezione, che sia cioè perfettibilità? Solo se ci poniamo dal punto di vista di chi “crede” nelle capa37

C.M. Parkes, op. cit.

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cità di elaborazione del cervello umano andremo a fondo nella ricerca delle “cause” degli errori commessi da noi o dai nostri cari scomparsi. Altrimenti accetteremo rabbia e colpa cercando di gestirle (cioè di far sbollire la prima e di “espiare” per la seconda), oppure, come suggerisce la psicoanalisi, ci “difenderemo dalla rabbia e dalla colpa” (cioè cercheremo un modo per non sentirle o sentirle meno). Potremo inoltre pensare che l’ostacolo (la dipendenza) allo scioglimento del legame col defunto, e quindi allo stabilirsi di nuovi rapporti e di una nuova identità, si possa rimuovere migliorando le nostre capacità e superando l’errore che ci faceva “calcolare” come più adattivo un rapporto di dipendenza rispetto ad un rapporto di autonomia. Bisognerà, in altri termini, andare alla ricerca dell’errore di elaborazione che ci fa valutare più basse di quanto non siano le nostre possibilità di gestirci autonomamente. Ma anche stavolta dovremo “decidere” fino a che punto cercarlo il nostro “errore”. In conclusione sembra di poter dire che per Bowlby e i suoi allievi la monade umana è un elaboratore di informazioni al servizio di una bisognosità biologica, la quale nel “contatto” con le altre monadi non si pone affatto il problema del “rispetto” di sé e dell’altra monade (il problema di evitare di assimilare l’altro a sé o di assimilarsi all’altro), bensì si pone solo il problema dell’adattamento e della soddisfazione dei bisogni. Ne derivano legami di “attaccamento” che si stabiliscono sulla base del modello del rapporto bambino-madre, legami che danno luogo a qualcosa che più che una società è un ambiente sociale (una società tutta “esteriore”, l’unico elemento di interiorità che Bowlby e l’evoluzionismo riconoscono essendo la “rappresentazione” interiore dell’Altro). Quando poi questi legami si perdono o sono in pericolo, l’elaboratore di informazioni (la mente, cioè il cervello) cerca le “ragioni” del pericolo che il suo ambiente sociale corre e le “soluzioni” per superarlo, correggendo gli errori fatti e cercando di prevenire quelli che si potrebbero fare. Se si accetta che la monade umana si possa concepire in questo modo, si capirà perché nella teoria biologica del lutto: 1) non si ha nessuna considerazione del modo di ciascuno di elaborare la morte di sé nella prospettiva dell’assenza e nell’amore degli altri; 106 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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2) non si analizza, conseguentemente, il rapporto tra il lutto anticipatorio di sé e quello dei cari; 3) non si riconosce alcuna “responsabilità” a chi muore nel determinare il lutto di chi resta, e, in generale, non si prende affatto in considerazione lo sfondo etico per comprendere i rapporti interumani e la loro fine. Tale considerazione non è possibile, dato che il contesto, ciò che è primario per Bowlby, non è né il rapporto di desiderio con l’altro (cioè la relazione etica) né la pulsionalità aspecifica che tende a negarsi attraverso la morte e incontra il desiderio dell’altro come il bisogno interiore (che è la posizione psicoanalitica), bensì il “paradosso” di un’animalità che si è superata evolutivamente senza potersi trascendere, attuandosi il superamento evolutivo dell’animalità tramite un organo, il cervello, che è un elaboratore di informazioni incapace di comprendere se stesso senza le sue protesi, gli strumenti che ha costruito, le macchine (fino ai computers) che ha costruito e costruirà sulla base di modelli astratti del suo funzionamento. E arriviamo infine ad analizzare, alla luce delle conclusioni del paragrafo 1 di questa parte del libro, quella che abbiamo un po’ schematicamente chiamato teoria fenomenologico-esistenziale del cordoglio (cap.I). Bisogna nuovamente fare riferimento in questo ambito all’opera di due autori, E. De Martino e L. Binswanger. Cominciamo con De Martino. I. Né il lutto anticipatorio per la morte di sé né il lutto anticipatorio per la morte dell’altro (né, di conseguenza il rapporto tra i due) vengono presi in considerazione da De Martino. II. Importante è, invece, per De Martino, la relazione tra il morto e chi resta, ma tale relazione non viene considerata una relazione d’amore tra un Io e un Tu bensì una relazione sociale-storica. E sono proprio, come si ricorderà, la Cultura e la Storia ad essere messe in crisi dalla morte. Sembra credere, De Martino, che l’essere naturale, la monade biologica, dia un senso alla sua esistenza edificando la Storia e la Cultura e diventando così una “presenza”. Ed è proprio tale “presenza”, cioè l’identità che l’individuo ha acquistato inserendosi nella sua Storia e nella sua Cultura, che viene messa in crisi dalla morte. Il lavoro del lutto consisterà, per conseguenza, nel tentativo di impedire che da essere culturale-storico qual è l’uomo ridiventi essere di natura, e la sua esistenza tor107 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ni ad essere senza “senso”, e senza risposte storico-culturali siano nuovamente i suoi problemi e le sue esigenze. Si comprende, allora, se analizziamo in termini di responsabilità e libertà questo rapporto tra l’Io e gli Altri, che, nell’ottica di De Martino, libertà e responsabilità sono dimensioni “derivate”, dimensioni che hanno senso solo se l’essere non è solo un essere di “natura” ma è inserito in una Cultura, in una Storia. Dell’amore non si fa qui cenno, trascurando il fatto che non si piange per chiunque ad un modo, né rischiamo per la morte di un estraneo o di un nemico di regredire allo stato di natura perdendo i contatti con la Storia e con la Cultura. È il pianto per la morte dell’essere amato (l’unico “prossimo” veramente prossimo) che determina la “crisi della presenza”. Dove, poi, De Martino tocca il tema della perdita come perdita della persona cara, sembra considerarla un caso particolare, il caso più grave, di quella «… varia fatica che ci spetta in ogni momento critico dell’esistenza, che è sempre un attivo far passare nel valore, e quindi un rinunziare ed un perdere, un distacco ed una morte, e al tempo stesso un’opzione per la vita»38. Ed è il caso più grave perché «… nella perdita di una persona cara noi sperimentiamo al più alto grado l’asprezza di questa fatica, sia perché ciò che si perde è una persona che era quasi noi stessi, sia perché la morte fisica della persona cara ci pone nel modo più crudo davanti al conflitto fra ciò che passa irrevocabilmente senza di noi (la morte come fatto della “natura”) e ciò che dobbiamo far passare nel valore (la morte come condizione per l’esplicarsi della eterna forza rigenerante della “cultura”)». Sembra di capire che è perché non si è più esseri naturali ma esseri culturali e storici che ci si ama, e non che si costituisce la società a partire dal rapporto di desiderio e di bisogno che “approssima” l’Io all’Altro e che conduce alla fecondità e alla famiglia. Come non pensare allora che sia proprio il rapporto con le persone care a rappresentare il “motivo” del passaggio dallo stato di natura allo stato di cultura, se proprio la morte delle persone care ci può far regredire in massimo grado allo stato di natura? Ma come si spiega l’amore tra esseri allo stato di natura? La società e la storia presupporrebbero l’amore da cui sono fondate! È precisamente il problema che C. Ginzburg ha cercato di ri38

E. De Martino, op. cit.

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solvere nel suo bel libro sul sabba39: i miti e i riti che le culture di tutti i tempi hanno “utilizzato” per sistemare il rapporto dei vivi coi morti, per far passare i morti nel valore, per farli morire in noi (in sostanza per placare i morti e impedirgli di nuocere ai vivi), si spiegano, nelle loro analogie e nelle loro variazioni, sulla base di una derivazione unica (lo sciamanesimo delle società nomadi siberiane), pur con una continua “variazione sul tema” originario; oppure derivano dalle esperienze “corporee” delle perdite, esperienze delle morti vissute analogamente in tutte le epoche e sotto tutte le latitudini, essendo la monade uomo identica in tutti gli ambienti, i quali si limitano ad “incanalare” in modo differente le esperienze individuali? Al di là del tentativo più o meno riuscito di Ginzburg e delle domande che il suo “romanzo” scientifico continua a suscitare, ci importa sottolineare, per gli scopi del nostro lavoro, come De Martino, da buon storicista, cerchi di risolvere il problema postulando una lotta tra natura e cultura nella quale si innesterebbe il farsi “uomo culturale” dell’essere di natura, senza un tertium non datur che limiti l’irriducibile “opposizione” tra i due termini antitetici (natura e cultura). Si comprende ora il perché della critica serrata di De Martino alla concezione psicoanalitica del lutto. Si dice in un punto40: Le teorie psicoanalitiche del cordoglio hanno in comune il limite fondamentale di restare essenzialmente al di fuori della grande tradizione culturale che riconduce il lavoro del cordoglio al “far morire i nostri morti in noi”, cioè al far passare i morti nel valore, trascendendo con ciò la situazione luttuosa. La vicenda della libido oggettuale che nel cordoglio sarebbe impegnata a distaccarsi dall’oggetto perduto e ad impiegarsi in un nuovo oggetto parrebbe adombrare in qualche modo ciò che abbiamo chiamato “trascendimento della situazione luttuosa”: ma in realtà la libido (o vitalità) non va oltre la polarità del piacere e del dolore e delle corrispondenti reazioni, e l’oggettivazione secondo forme di coerenza culturale non è opera della vitalità, ma dell’ethos del trascendimento. Anzi il chiudersi della vitalità in se stessa, la sua recessione adialetti39 40

C. Ginzburg, Storia notturna, Einaudi, Torino 1989. E. De Martino, op. cit.

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ca, costituisce il rischio del cordoglio e la minaccia di una crisi nella quale possono apparire, degradati sul piano meramente vitale e in una vicenda impropria e irrisolvente, i compiti ai quali l’ethos del trascendimento sta venendo meno; una crisi in cui il far morire ideale e interiore può scadere nell’impulso materialmente distruttivo, l’interiorizzazione del morto smarrirsi nel mangiare il morto, la necessità della ripresa e della liberazione degradarsi nello scoppio irrefrenabile di riso, nell’erotismo e nella fame, e infine il complesso degli scacchi del trascendimento essere avvertito come estrema abiezione e colpa radicale. Si può comprendere ora lo scarso peso attribuito da De Martino alla vicenda “interiore” del lutto di fronte all’importanza attribuita, invece, al cordoglio come crisi della “presenza” umana nella cultura e nella storia: crisi che se non viene superata diventa “malattia psichica” e, come ogni malattia psichica per De Martino, “rischio di non potersi inserire in nessuna storia umana”. Donde l’interesse predominante per i rituali collettivi del lutto, via maestra per chiarire come … la cultura nel suo complesso appresta le forze che sono a disposizione dell’uomo per oltrepassare il momento critico dell’evento luttuoso e per ricacciare sempre più lontano e sempre più facilmente le tendenze della crisi: in questo senso, e cioè come momento negativo del riscatto culturale, il cordoglio come malattia entra nella storia. Nelle antiche civiltà mediterranee, prima che il cristianesimo inaugurasse il nuovo ethos della vita e della morte, una delle più importanti forze culturali per combattere la crisi del cordoglio fu l’istituto del lamento funebre rituale…41. Se, in sintesi, per Freud la monade umana è pulsionalità aspecifica (Es) che entra nella civiltà attraverso il tentativo mai del tutto riuscito di costruire un Io (quell’Io il cui nucleo sta nel rifiuto narcisistico di ciò che manca e nell’amore “cannibalesco” per ciò che provoca piacere) ed edifica una società che si basa su ciò che è dell’Altro nell’Io, il SuperIo; se per Bowlby e i suoi allievi la mo41

Ibidem.

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nade umana, questo paradosso di animalità che si è superata evolutivamente (col cervello) senza potersi trascendere perché al massimo può creare cervelli meno complicati del suo, incontra l’Altro sulla via della soddisfazione dei bisogni e si “attacca” a lui se il “calcolo” gli fa prevedere un adattamento positivo, costituendo una società che sarebbe solo una società animale e naturale più evoluta; per De Martino la monade naturale nascendo trova una Storia e una Cultura nel rapporto con il cui ethos (e i suoi valori) si umanizza potendo così amare ed essere libero e responsabile, potendo cioè non essere più completamente determinato dai bisogni ma desiderare. Resta non chiarito in quest’ultima ottica come si intende la costituzione della società che la monade umana nascendo trova, salvo poi sostenere che proprio la morte del caro è l’attentato più grave alla società e rappresenta il rischio più grave di tornare allo stato di natura. Come se, sembra di capire, proprio sul desiderio di immortalità si edificasse in definitiva la società. Sembra un modo di vedere molto simile a quello della psicoanalisi solo più ottimistico: il desiderio di trascendere la propria naturalità (che è la bisognosità deterministica) ha fin dalla nascita nella storia la possibilità di edificazione di un qualcosa, la Società e la Cultura, che duri oltre la vita del singolo; non è attraverso un viaggio “tremendo” (la crescita secondo la psicoanalisi) per farsi una “vita interiore” che la bisognosità può essere combattuta, ma assimilando i valori che già si trovano “pronti” nella storia in cui si nasce. Non già, quindi, “dov’era l’Es deve avvenire l’Io”, bensì dov’era l’Es devono avvenire i valori collettivi, l’ethos dell’epoca, che rendono più facile all’Io il compito della sua costituzione, benché siano frequenti le crisi che minacciano questo compito, di cui la più grave è la crisi del cordoglio. Risulta a questo punto chiaro che nella “distribuzione” di responsabilità tra l’Io e gli Altri, la maggiore responsabilità (e quindi la maggiore libertà) nel superamento del lutto, così come nel dar senso alla vita del singolo, ce l’hanno gli Altri, come Società, come Storia e come Cultura. Superare un lutto non è quindi più solo un fatto individuale ma un fatto individuale che se resta tale diventa una “malattia”, una malattia individuale curabile, se grazie ai riti e ai miti della Società e della Cultura, si danno all’individuo in cordoglio gli strumenti culturali per non ricadere nello stato di natura, cioè per continuare a far parte della Storia umana. 111 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Passando poi a Binswanger si deve fare riferimento, per capire la sua teoria del lutto, a quanto egli dice in Melanconia e mania42 e alla sua concezione dell’amore. Per comprendere la posizione di questo Autore è inoltre necessario fare riferimento alla sua ripresa della V meditazione cartesiana di Husserl in cui si illustra la concezione dell’uomo come “intersoggettività monadologica”. Avendo presenti questi riferimenti, cercheremo ora di cogliere l’essenziale della posizione di Binswanger riconducendola alla nostra conclusione del paragrafo precedente. Se l’Altro si costituisce nell’Io mediante l’atto intenzionale di renderlo copresente, cioè mediante l’appresentazione, e se tramite l’azione dell’appresentazione si costituisce il mondo comune, il rapporto tra l’Io e l’Altro è il rapporto tra il mio Io, che costituisce in sé quell’Io che per lui è l’Altro cioè l’alter ego, e questo alterego. Tutto ciò inizia quando mi rendo conto che un corpo fisico che assomiglia al mio deve logicamente acquistare senso dal mio, è analogo al mio, è corpo organico come il mio. Sicché se, oltre a ciò che mi appartiene in modo esclusivo, che è presente a me stesso, cioè la mia “vita interiore”, io considero ciò che è co-presente, ciò che la coscienza intenziona per analogia come presente a se stesso, si costituisce il mondo comune, che è l’insieme delle appresentazioni che le monadi hanno in comune. È come se io mi specchiassi nell’altro e dicessi: «Lui è come se io fossi là, è presente a se stesso, come io sono presente a me stesso e siamo copresenti l’uno all’altro secondo modalità che si rendono note progressivamente solo nel comportamento esteriore»43. Nella concezione binswangeriana, in sostanza, il rapporto tra l’Io e l’Altro viene considerato, secondo la formula husserliana un’“intersoggettività monadica”, dove abbiamo cioè un mondo comune che non è presente in modo diretto né all’Io né all’Altro, essendo l’altro sempre altro ma sempre io (alterego). Alla base di questa concezione c’è l’idea che tutto, e quindi anche l’Altro, esista come “fenomeno” della coscienza intenzionale dell’Io. L’unica certezza in questa ottica è l’esistenza dell’Io, io sono, e se vogliamo fondare davvero la conoscenza dobbiamo chiarire come si costituisce l’Io, e solo a partire dalla costituzione dell’Io 42 43

L. Binswanger, Melanconia e mania, cit. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1970.

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chiarire come si costituisce il mondo comune, il mondo degli oggetti, ecc. Dice Husserl in un punto44: «… tutto ciò che è per me, lo è grazie alla mia coscienza conoscente, è per me esperito del mio esperire, pensato del mio pensare, teorizzato del mio teorizzare, intuito del mio intuire». In altri termini, tutto ciò che esiste, esiste per me “nella coscienza”, come “fenomeno”. Inoltre, l’ego, chiarito nella sua costituzione, è temporalità. Possiamo ora capire ciò che sostiene Binswanger: se la costituzione intenzionale dell’io non è anormale nella sua struttura temporale, il soggetto accetta la perdita e la supera, altrimenti ha una reazione melanconica! Se, in altri termini, considero “avvenuta”, “irreparabile” e “precedente” cioè ignara delle conseguenze, la decisione di fare la gita che ha portato mio marito alla morte (Il riferimento è al caso della moglie il cui marito è stato da lei convinto a fare una gita in montagna durante la quale è morto), avrò una retentio (un riferimento al passato) non inquinata dalla protentio (il riferimento al futuro) e una normale praesentatio (cioè un normale riferimento al presente). Nelle parole di Binswanger45: … nel dolore (leggasi lutto), e questo è il suo carattere tipico, si accetta proprio il dato di fatto della perdita di un congiunto in tutta la sua crudeltà e brutalità. In questo riconoscimento dell’irreparabilità del dato di fatto della morte del congiunto e dell’irrevocabilità della proposta di una gita come occasione del tutto casuale di tale morte, l’ego puro può “acquietarsi”, può, in altri termini, realizzare la sua funzione costitutiva non diversamente che nella rassegnazione. Come dire che se l’ego puro è ben costituito nella sua temporalità (cioè può contare sulla normalità dell’io empirico e dell’io trascendentale di cui è la sintesi), non si avranno nel lutto colpevolizzazioni gravi e autoaccuse e la morte del caro col tempo sarà superata. 44 45

Ibidem. L. Binswanger, Melanconia e mania, cit.

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Nel caso, invece, che ci siano anormalità nella costituzione dell’ego e si attribuisce un futuro a ciò che è passato attraverso il “se non” («“se non” avessi proposto la gita mio marito sarebbe vivo»), l’ego non può “acquetarsi” e si avrà la reazione malinconica, reazione che, come si vede, a differenza di quanto fa Freud, non viene esplicata a partire dallo stato d’animo che la caratterizza (l’auto-incolparsi), ma a partire da ciò che si pensa sia alla base di questo stato d’animo, un’anormale costituzione dell’Io. Se ci chiediamo poi in cosa consista tale anormalità nella costituzione dell’Io possiamo rispondere che consiste in un’alterazione del “mondo comune”. Il mondo comune che, come abbiamo visto, si costituisce sulla base delle “appresentazioni”, si basa sul mondo reale, il quale «esiste solo nella presunzione costantemente prescritta che l’esperienza continui costantemente nel medesimo stile costitutivo»46. Ed è proprio questa costanza dello stile costitutivo dell’esperienza che viene messa in crisi dalle anormalità costitutive dell’Io. Se l’Io, in altri termini, costituisce se stesso anormalmente turbando la struttura temporale della sua intenzionalità, il mondo reale non esiste più e le appresentazioni che costituiscono il mondo comune non saranno più comuni, l’Altro abiterà, così, in un “altro mondo”, diverso affatto dal mondo comune e non ci capiremo più. Quanto poi al rapporto tra il tipo di relazione e il processo del lutto, bisogna prendere in considerazione la concezione che Binswanger ha dell’amore. Nell’amore, per Binswanger, l’Io e il Tu costituiscono un Noi che va oltre il tempo degli orologi e oltre lo spazio della res extensa, costituiscono una dimensione che è una dimensione di eternità e di trasparenza. E perciò, come dice Cargnello47: L’essere dell’amore sa di sopravvivere alla caducità delle cose terrene, appunto perché è un modo di essere che trascende l’individuo. È come al di là della speranza e della tema, della felicità e del dolore: non nel senso che sia insensibile a queste istanze, ma per il fatto che le dette antinomie sono in lui soppresse o conciliate. 46 47

Ibidem. D. Cargnello, Alienità e alterità, Feltrinelli, Milano 1972.

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«L’amore», dice Nietzsche, «non pensa alla lunghezza del tempo ma all’istante e all’eternità». Il costituirsi dell’attimo del presente non ha nulla a che vedere con il costituirsi nell’attimo dell’amore: mentre nel primo caso il momento è adoperato come occasione per o contro qualcosa o qualcuno, nel secondo caso esso rappresenta il quando l’io con te e il tu con me, fusi nella dualità, si sottraggono ad ogni determinazione mondana e, in particolare, al tempo delle lancette dell’orologio. L’amore pertanto è indipendente dall’età cronologica; ed è quindi anche un sottrarsi alla morte che a questa è connaturale. Ciò è testimoniato chiaramente dal fatto che il modus amoris sopravvive alla morte fisica di uno dei due. La circostanza che tu amato/a muoia non significa che muoia il nostro amore; se io amato/a muoio, la mia morte non è presentita da me come distruzione del nostro essere insieme. L’attimo dell’amore, appunto perché non iscrivibile nel tempo cronologico e sottraentesi a ogni designazione di brevità o lunghezza, è eternità (Ewigkeit der Liebe) concetto che non dev’essere naturalmente confuso con quello di tempo eterno: distinzione che certi mistici conoscevano assai bene.. Un altro brano che può far capire meglio il modus amoris rispetto alla morte di sé nell’ottica binswangeriana è quello che, nell’omonimo saggio48, si riferisce ad Ellen West e alla sua morte. Come si possa stabilire un rapporto Io-Tu che porti al Noi dell’eternità e della trasparenza del modus amoris sulla base della premessa husserliana dell’intersoggettività monadologica a cui Binswanger si riferirà in seguito (Il caso Ellen West è del 1944 e Melanconia e mania del 1960) non si riesce a capire, fatto sta che avremo nelle due ottiche due diverse concezioni del lutto che si possono far risalire all’opera di Binswanger. Abbiamo infatti due tipi di temporalità: I. Una temporalità mondana per cui la morte è in grado di provocare dolore e l’Io deve “acquetarsi”; e può farlo solo se la sua costituzione a priori è normale, fondandosi il mondo reale e il mondo comune proprio sulla normale co-

48

L. Binswanger, Il caso Ellen West e altri saggi, Bompiani, Milano 1973.

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stituzione dell’Io. Si tratterà allora, nel caso della morte del caro, di accettarla e superarla “semplicemente” ponendo nel passato ciò che è irreparabile e ormai impossibile, la perdita e ciò che l’ha provocata, e potendo così continuare a vivere e a sperare: una normale retentio non turba la praesentatio e la protentio, e garantisce la stabilità del mondo reale e del mondo comune, i quali costituendosi nell’Io e per l’Io, non necessitano della presenza fisica di tutti gli uomini in ogni momento ma ne sono il presupposto egoico trascendentale a priori. II. Quanto alla temporalità dell’amore, nella Noità la morte non ha diritto di cittadinanza, poiché nell’amore l’individuo (l’unico mortale) e il tempo (che nell’amore è “eterno”) sono superati. Nella concezione binswangeriana dell’amore non si può quindi, a rigore, parlare di perdita dell’oggetto d’amore, dato che nell’amore non c’è un tu “altro” dall’Io, bensì l’Io e il Tu trovano nell’amore un superamento della singolarità opaca e finita nel tempo e costituiscono un Noi che afferma la trasparenza e l’eternità. Possiamo in sintesi riassumere la concezione fenomenologicoesistenziale del lutto nei due seguenti punti: a) L’Altro è un altro Io (alterego) la cui costituzione è intenzionale cioè dipende dall’Io; pertanto il significato della perdita dell’altro dipende dalla costituzione intenzionale dell’Io. Come dire che a seconda di come l’Io intenzionale costituisce se stesso intenziona e costituisce l’Altro e il mondo comune; donde l’idea che per capire il lutto non bisogna partire dagli stati d’animo (Stimmungen), bensì dai modi in cui si costituiscono l’Io empirico (oggetto della psicologia) e l’Io trascendentale (oggetto della filosofia fenomenologica) nell’atto puro che costituisce l’Io puro come sintesi dell’Io empirico e dell’Io trascendentale. b) L’Io e l’Altro possono trascendersi nell’unità eterna e trasparente della Noità, mettendosi così al riparo dalla morte. Quanto al problema della responsabilità e della libertà, in questa ottica l’Io è solo libero di essere se stesso e autoresponsabile, non nel senso che si dà da sé il suo fondamento, ma nel senso che tutto esiste nella coscienza intenziona116 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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le come “fenomeno”: l’Io è l’a priori al di là del quale non è possibile andare.

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In ciò la fenomenologia, che con Husserl si basa su Cartesio, non segue Cartesio che aveva basato la certezza del cogito e del sum (cogito ergo sum) sulla bontà divina, ammettendo così la possibilità di andare oltre l’a priori egoico. Si può comprendere a tal proposito il significato di un’esplicita affermazione di Binswanger, il quale, opponendosi all’ipotesi freudiana che il fondamento della coscienza siano le «tendenze istintive inconsce e le pulsioni naturali», dice49: […] la presenza non ha posto da se stessa il suo fondamento, ma per contro sa di una libertà per il fondamento (Freiheit zum Grunde), di una libertà nel senso di autoresponsabilità (come riconosce tutta una tradizione da Platone a Nietzsche), nel senso di un libero atteggiamento dell’uomo anche di fronte al suo “carattere” (Le Senne), e sa della grazia del libero incontro di Io e di Tu nell’amore. Comunque si voglia intendere questa libertà, in senso metafisico o religioso, l’antropoanalisi si attiene al fatto che l’essere umano non è soltanto un doveressere, ma anche un poteressere e un aver la facoltà di essere, un essere al sicuro nell’essere in quanto totalità. Pertanto, essa non si attiene solo al mondo etereo dei desideri e delle fantasie e alla sua “sottostruttura”, il mondo sepolcrale dell’appetire, ma anche all’Io stesso autentico e al Noi che si configura nell’eternità dell’amore, all’esistenza e all’amore, al potere e all’aver la facoltà e perciò all’essere nella verità, nella bellezza e nella bontà. Poiché Freud ha ricavato la sua immagine dell’uomo dalla nevrosi, trascurando completamente l’essere esemplare che gli è proprio, era fatale che il suo sguardo, uno sguardo in ogni caso tipico dello scienziato della natura, s’indirizzasse al doveressere. Ma poiché anche il nevrotico non è soltanto un nevrotico, e l’uomo in generale non è soltanto un essere coatto, siamo qui di fronte ad una deformazione unilaterale dell’immagine del49

Ibidem.

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l’uomo entro le strette di una teoria scientifica dell’uomo. Di conseguenza anche la psicoanalisi può divenire “scienza dell’uomo” soltanto alla luce dell’intera scienza dell’umana presenza; o antropologia. Ci si potrebbe allora chiedere: come continuare a considerare l’Io trascendentale un insuperabile a priori, avendo ammesso che la presenza non può aver posto da sé il proprio fondamento? Da dove provengono questo “sapere” della propria libertà e questa “grazia” dell’amore che vince la morte? Come può incontrare la libertà e l’amore chi avendo scelto, con Husserl, la “certezza dell’evidenza”, ha dovuto “rifugiarsi” nell’unica certezza, quella dell’Io sono, che è o la certezza di Dio (Dio concepito come Io puro e trascendentale) o è condannata a mettere tra parentesi una volta per tutte l’esteriorità del mondo rispetto all’Io? Come si fa, ad esempio, a pensare che l’anormalità della costituzione dell’Io (come quella che può portare alla mania o alla melanconia) possa essere posta intenzionalmente dall’Io stesso? E infatti Binswanger non lo pensa, ed è però costretto, parlando di costituzione del mondo comune e di anormalità, a ricorrere a “meccanismi” anteriori all’Io, esteriori rispetto all’Io, sembrando in certo modo mutuare posizioni innatiste, cognitiviste o evoluzioniste. Basti riferirsi per capire al fatto che Binswanger ha postulato per spiegare la patologia mentale un non meglio precisato “esperimento della natura”. Pare proprio d’essere di fronte, con la fenomenologia, ad un altro tentativo di far conseguire alla monade umana qualcosa che desidera, di trasformare un desiderio in bisogno. Non sarà stata la certezza assoluta (e l’assoluta evidenza) un desiderio talmente forte in Husserl da aver potuto “motivare” il suo grandioso tentativo di fondare certezza ed evidenza sull’esistenza a priori dell’Io sono? Se così fosse, si spiegherebbero le analisi all’infinito della fenomenologia, e la necessità, che Lévinas ha indicato50, di tornare a Cartesio e tornare a considerare con Cartesio ciò che Husserl sembra aver trascurato: che il cammino a ritroso dell’analisi trascendentale della costituzione dell’Ego tramite l’epoché è un cammino 50

E. Lévinas, Altrimenti che essere, Jaka Book, Milano 1983.

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all’infinito (come anche Husserl talvolta avverte), e che questo “Infinito” più che “essere” Dio ne indica la necessità logica e il desiderio esistenziale. Ed è proprio ciò in cui Cartesio va anche superato: non è la bontà di Dio ma Dio come bontà che fonda l’Io sono. Io sono, ci sono, grazie alla bontà, bontà che è Dio, Dio di cui, tramite l’infinito della libertà e dell’amore, io posso avere solo un’idea, Dio che posso solo desiderare. Tradotto nei termini dei rapporti interumani: l’Altro non potrà mai diventare un Tu, non è possibile l’assoluta trasparenza perché l’Altro è per l’Io mortale come l’Io stesso. E tuttavia il rapporto con l’Altro è un approssimarsi dell’Io caratterizzato dal desiderio di farne un Tu, desiderio che di fronte alla separazione o alla morte del caro si mostra tale, cioè desiderio non soddisfacibile, desiderio all’infinito. Mentre per Binswanger la società più alta è quella dell’amore, dove la morte è bandita perché non c’è individualità e non c’è scambio, per Heidegger51, nel mondo della Cura e degli “utilizzabili” cioè nel mondo che l’Io costituisce come suo mondo e nel quale l’autenticità si consegue solo nell’essere per la morte attraverso l’angoscia, l’altro sarà “strumento” dell’Io (preso in uno dei tanti modi in cui la mano prende, il cervello comprende e la tecnica trasforma) e nella morte sarà intercambiabile per l’Io, ristabilendo così la posizione husserliana per cui ogni Io individuale partecipa dell’Io puro ma non si identifica con esso. Ribadiamo ancora una volta i due aspetti della posizione fenomenologica: a) Se l’esistenza dell’Altro “dipende” dall’Io, quando l’Altro muore non muore l’Io, ecco perché, come sostiene Binswanger, se l’Io è normalmente costituito la morte dell’Altro non può costituire un problema per l’Io. b) Se l’Io e l’Altro “ricevono” la grazia dell’amore, la morte stessa è superata attraverso il conseguimento dell’eternità “atemporale” del Noi. Ci sembra di poter dire che sia nel primo che nel secondo caso l’Io “risale” a qualcosa (la libertà del suo fondamento e la grazia 51

M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1980. 112.

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dell’amore) che sembrano condurlo inevitabilmente al di qua e al di là di sé, dato che non può darsi da sé ciò che desidera (la certezza dell’evidenza e l’eternità) in questo movimento verso il suo al di qua e al di là. Significa forse che l’Io può acquietarsi di fronte alla morte del caro se si apre all’al di qua di sé della libertà del suo fondamento, cioè si assume la responsabilità (possibilità che gli è data) di aver pazienza e accettare l’irreparabile? Significa che l’Io vince la morte se si apre al desiderio dell’Altro nell’approssimarsi infinito nell’amore, nonostante ciò gli prospetti la tragedia dell’infinito tendere e attendere?

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Capitolo IV

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Il lutto e i “modi” dell’amore

Possiamo ora riprendere in considerazione la risoluzione del lutto che abbiamo indicato all’inizio («Se l’avete amato, vivendo lo capirete») con la consapevolezza che il “giusto senso” da dare alla morte del caro dipende (oltre che dall’averlo amato, cosa implicita nell’esserci egli “caro”) dal tipo d’amore di cui l’abbiamo amato e di cui siamo stati amati; tipo d’amore che, a sua volta, è in relazione con il modo di vivere se stessi e l’uomo in generale. E abbiamo visto per ciascun approccio quale relazione ci sia tra il modo di vivere e di amare e tra il modo di amare e il processo del lutto. In altri termini, ora sappiamo che il lutto può essere un processo con almeno altrettante forme quanti sono i modi di concepire e di vivere il rapporto con se stessi e con gli altri nell’amore. Ne deriva che a seconda di come abbiamo vissuto e di come ci siamo amati faremo lutti differenti per la morte del caro. Sosterrò qui che tutte le possibili modalità sono modalità legittime ma parziali di fare il lutto, così come le modalità di vivere e di amare sono modalità legittime ma parziali di vivere e di amare. E la considerazione delle varie concezioni del lutto che abbiamo analizzato nel terzo capitolo potrebbe essere una semplice descrizione giustapponente, se i vari modi di fare il lutto (così come i vari modi di vivere e di amare) non fossero connessi in una “struttura gerarchica” nell’ambito di una totalità umana. Anzi ciascuna concezione del lutto (così come ogni concezione della vita e dell’amore) implica le altre, nel senso di contenere implicitamente in essa una modalità di esclusione delle altre, lasciando in ombra proprio ciò che le altre cercano di dimostrare. Ad esempio, la teoria psicoanalitica del lutto lascia nell’ombra (e al tempo stesso lo implica) il significato evolutivo-adattativo della pulsionalità umana innata, escludendo così la possibilità di una concezione come quella biologistica che parte proprio da un’interpretazione evolutivo-adattativa di questa pulsionalità. D’al121 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tra parte, la teoria di De Martino lascia nell’ombra (e al tempo stesso lo implica) il problema dell’origine della storia, escludendo così la teoria che si basa proprio sull’idea che la storia derivi dalla costituzione della famiglia naturale attraverso l’amore; e ammettendo, invece, analogie e differenze sia con la concezione etologica che con quella psicoanalitica. Ciascuna teoria del lutto rappresenta in definitiva nella concezione esposta in questo libro un limite per ciascun’altra, come risulta da quelli che ritengo i miei personali e originali (ma di derivazione levinasiana) contributi: a) l’analisi critica delle teorie del lutto alla luce delle concezioni della vita e dell’amore che le sottendono; b) il tentativo, non so quanto riuscito, di correlare le teorie del lutto sulla base della priorità attribuita alla relazione etica; cosa che conduce ad una concezione dell’amore per cui il bisogno dell’altro si coniughi con il desiderio dell’altro in una relazione di reale contatto tra l’Io e l’altro, relazione che nemmeno la tragedia della morte può definitivamente sconfiggere, essendo la morte nient’altro che quel caso particolare dell’assenza, tramite il quale si dimostra che il desiderio dell’altro non è trasformabile in bisogno ma può generare altro desiderio, nella fecondità, all’infinito. Fatte queste premesse sperabilmente chiarificatrici, torneremo ora, per riassumere la nostra posizione e cercare di chiarirla in tutte le sue conseguenze, alla soluzione proposta: “Se l’avete amato, vivendo lo capirete”. 1. L’amore nella concezione psicoanalitica corrisponde pressappoco alla formula: “Ama il prossimo tuo in quanto te stesso”. 2. L’amore nella concezione etologico-evolutiva corrisponde pressappoco alla formula: “Ama il prossimo tuo pensando a te stesso”. 3. L’amore nella concezione di De Martino sembra corrispondere ad un’accezione della formula: “Ama il prossimo tuo come se stesso”. 4. L’amore nella concezione binswangheriana (e fenomelogica in generale) sembra corrispondere ad un’accezione della formula: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. 5. L’amore nella concezione lévinasiana sembra corri122 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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spondere alla formula: “Ama il prossimo tuo in quanto se stesso”1. E così, quando colui che si ama muore, a seconda di come ci si è amati si capirà, vivendo, come affrontare e superare il lutto rispettando la “volontà” del caro. Vediamo in dettaglio.

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1. “Ama il prossimo tuo in quanto te stesso” Avendo amato l’altro in quanto me stesso, cioè proiettando su di lui parti di me e identificandomi con esse, ovvero “vedendo” in lui un’incarnazione esteriore delle mie identificazioni con le figure genitoriali diventate parti di me, quando egli muore comprenderò vivendo che non mi resta altra alternativa che fare a ritroso il cammino da me all’altro della proiezione identificante, e cioè il cammino dell’identificazione introiettiva. Precisamente quel cammino che ho già fatto per “staccarmi” dalle figure genitoriali e interiorizzarle, facendo sì che alla fine del processo le persone care scomparse vivano in me come parti di me. Ciò ovviamente vale per coloro che hanno conseguito con lo sviluppo la possibilità di stabilire relazioni oggettuali mature (cioè “genitali”, nell’accezione psicoanalitica). Quando le relazioni oggettuali sono, al contrario, di tipo narcisistico o mediate da un astratto ideale dell’Io, si potrà prevedere rispettivamente alla morte del caro o una reazione melanconica (come abbiamo visto analizzando il lavoro di Freud) oppure una reazione di rabbia nei suoi confronti, dato che un oggetto d’amore ideale meno di tutto può permettersi di assentarsi e/o scomparire. In ogni caso, quando ami l’altro in quanto te stesso, si è in presenza di una reazione al lutto che dipende da un amore in cui prevale il bisogno sul desiderio, come dimostra il fatto che in ogni fase dello sviluppo secondo la psicoanalisi si tende in forme diverse ad annullare la distanza tra l’Io e l’altro, proprio tramite il tentativo di ricondurre sempre il desiderio dell’altro al bisogno dell’altro. Dai bisogni dell’Es nasce il desiderio dell’Io, dai bisogni dell’Io na1 La “filosofia” di questa classificazione è stata sviluppata nel volume: F. Campione, Perpatire, cit.

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sce il desiderio dell’altro, ma il desiderio dell’altro per essere soddisfatto deve essere trasformato in bisogno dell’altro. E l’unico modo per poter concepire il desiderio dell’altro come soddisfacibile, cioè come bisogno, è di far dipendere l’altro dall’Io: senza il movimento proiettivo dell’Io all’esterno verso l’altro, l’altro resterebbe ad una distanza abissale; senza il movimento identificativo dell’Io con l’altro questo resterebbe sempre estraneo e potrebbe essere solo e sempre oggetto di un desiderio all’infinito. In questa concezione dell’amore l’Io non desidera il bene dell’Altro bensì che l’altro soddisfi i suoi bisogni, e perciò tenta sempre di “ridurlo” all’Io per via di identificazione o di proiezione. E l’amore è ciò che l’Io sente per l’altro quando l’altro è “ridotto” dall’Io, quando la distanza tra l’Io e l’altro è annullata, perché l’Io ha “agganciato” l’altro proiettivamente o ne ha ridotto l’estraneità tramite l’identificazione. Ecco perché quando l’altro muore noi pensiamo che egli “voglia” diventare parte di noi e così non lasciarci mai nonostante la sua morte fisica. Basta allora che ci riprendiamo ciò che vi abbiamo proiettato di noi perché egli diventi identico a noi benché distinto da noi, come lo sono gli oggetti interni che di noi fanno parte pur essendo “altri”. In questa concezione dell’amore non sembra importare tanto, tutto sommato, se anche l’altro ci abbia amato nello stesso modo; e, d’altra parte, se non ci avesse amato nello stesso modo avremmo certo avuto molti problemi di rapporto che avrebbero segnato anche la fase critica del morire, la fase terminale. Ad esempio, non avremmo potuto fare ciò che le persone che si amano in questo modo fanno nella fase terminale, e cioè aiutarsi reciprocamente a coltivare fino alle ultime fasi dell’agonia la certezza che il desiderio di immortalità possa essere soddisfatto, trasformandosi in bisogno tramite l’amore dell’altro in quanto parte di sé, risvolto nei vissuti dell’idea che “non ci separeremo mai”. Essendo assicurata la possibilità di colmare la distanza che separa l’Io dall’altro, avendo fatto dell’altro un “oggetto” d’amore (che vive in me o fuori di me ma è sempre “oggetto” di una mia scelta) la morte dell’altro è sì una mancanza (una mancanza nel luogo delle mie proiezioni identificatorie, una mancanza da colmare con una presenza nel luogo delle mie identificazioni) ma non è mai un’assenza, non essendo mai stato l’altro una “presenza”, un altro Io di fronte al mio, bensì un oggetto (d’amore), un altro che tramite il mio amore si fa parte di me. 124 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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«Tu fai parte di me, ti ho amato in quanto parte di me. E finché ci sono io sarai sempre parte di me, continuerai a vivere nel mio cuore come sempre». Somiglia molto, come si vede, a quella che abbiamo chiamato “via della tomba”, via per la quale, come abbiamo già detto “non muore mai nessuno”, e lungo la quale l’Io ha il valore massimo assimilando proiettivamente a sé il prossimo (il Tu), difendendosi dall’estraneo (l’Egli) o identificandosi con esso cioè assimilando anch’esso a sé. In sostanza non si tratta in questo tipo d’amore di ricordare2 il morto (che se ami l’altro in quanto te stesso non puoi ricordare: dovresti altrimenti ammettere l’avvenuta morte come fatto totale, esterno e interno), ma di “tener presente” il caro estinto in sé come “parte viva” di sé. 2. “Ama il prossimo tuo pensando a te stesso” Nel caso dell’impostazione evoluzionistica, avendo amato l’altro “pensando” a sé, cioè con il “calcolo” adattivo che l’evoluzione del cervello consente, quando l’altro amato muore l’elaborazione cognitiva della nuova situazione ci fa capire che non è più “conveniente” continuare ad amarlo e non ci resta che “riorganizzare” questa nuova situazione ambientale per conseguire un recupero dell’adattamento perduto con la morte del caro. Si tratta, in questa ottica, di un processo oggettivo e l’altro farebbe lo stesso se fosse al nostro posto, dato che appunto oggettivo e non soggettivo è il “ragionamento” che il nostro apparato cognitivo ci consente in presenza di una crisi di adattamento come quella del lutto. Non si tratta qui tanto di dimenticare (l’abbiamo già spiegato, cap. II, paragrafo 2) quanto di conseguire un distacco da coloro che non ci sono più e stabilire nuove relazioni di attaccamento. È la via che abbiamo chiamato “via dell’energia vitale anonima”, caratterizzata dal “calcolo” per cui nuovi attaccamenti con significato adattivo si equivalgono ai vecchi attaccamenti non più possibili perché la morte li ha spezzati. In questa ottica l’Io pensa a sé e cerca di organizzare il suo 2

V. cap. I, paragrafo 2.

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mondo in base alle informazioni che ne trae in modo da ottenere, tramite attaccamenti adeguati, il massimo di adattamento. Ne consegue la concezione dell’amore: si amano coloro che aiutano a vivere, coloro che soddisfano i bisogni dell’Io. La distanza tra l’Io e l’altro è annullata dal legame stabilito con esso sulla base del bisogno, e il desiderio dell’altro dipende dal fatto che l’Io sa essere l’altro un altro in grado di soddisfare i suoi bisogni. E se così non è (come quando una madre non è adeguata, quando una relazione non è sufficientemente supportiva e protettiva o quando la morte “elimina” l’altro dal campo) bisogna elaborare una nuova strutturazione dell’ambiente sociale e delle sue relazioni in modo da soddisfare il più possibile i bisogni insoddisfatti. Il desiderio in questa concezione è “sintomo” di insoddisfazione da colmare, e gli oggetti del desiderio non sono mai “scelti” né sono mai “soggetti” di esso, ma sono dati (anche quando si tratta di persone), sono oggetti anonimi intercambiabili e di pari valore purché siano in grado di far quadrare il conto dell’energia vitale, cioè della migliore sopravvivenza nelle condizioni evolutive date. Ciò che “autorizza” l’Io ad anteporre i suoi bisogni a quelli dell’altro nell’attaccamento e nel distacco non è la considerazione della superiorità etica dell’Io sull’altro, bensì la “razionalità oggettiva” del “calcolo” cognitivo reso possibile dall’apparato cognitivo che la natura nel suo processo evolutivo ha “regalato” all’uomo. Peccato che tale concezione sia indebolita dalla circolarità insita nel pensare come “oggettive” le conclusioni di un apparato cognitivo come il cervello mediante l’a priori per cui esso rappresenta l’ultima fase di una storia evolutiva che si basa sulla sopravvivenza del più adatto. Come dire che il “calcolo” razionale è oggettivo perché si basa sul cervello umano, la cui superiorità si spiega tramite l’oggettività della sua logica. In sintesi, quindi, non ci si chiede mai in questa ottica cosa vuole il caro che facciamo di lui dopo la morte, dato che lo si ama “pensando a se stessi”. E allora si può concludere che non conviene continuare ad amare chi non c’è più, e che il lutto normale è solo un processo tendente a far sì che le ragioni della convenienza e del calcolo adattivo (che spingono ad abbandonare i vecchi legami per nuovi legami adattivi) vincano sull’emotività (che è la parte meno evolutiva dell’uomo, e che può spingere a mantenere i legami con chi non c’è più, senza tener conto sufficientemente delle informazioni che la situazione determinatasi in seguito alla morte porta con sé). 126 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Si spiega in tal senso la scarsa attenzione che autori come Bowlby e Parkes dedicano ai rituali funerari e la loro propensione per interventi di aiuto alle persone in lutto che sono interventi di tipo prevalentemente cognitivo e/o pratico. È come dire che se hai amato il prossimo tuo “pensando a te stesso” quando egli morirà tu continuerai a pensare a te stesso e sarà bene che impari a distaccarti da lui, cioè che non lo ami più, cosa, come abbiamo visto, tanto più facile quanto meno avranno agito i fattori di rischio (morte imprevista, legami ambivalenti o di dipendenza). D’altra parte, il tuo “caro” morto non c’è più e ciò non gli dà più alcun “diritto”: ormai ha perso la battaglia per la vita! Quanto a “noi”, tutti insieme, faremo bene ad organizzare le cose in modo da aiutare le persone ad uniformarsi al criterio dell’adattamento sulla base del calcolo cognitivo, criterio che varrà anche se ci saranno “interessi vitali” in conflitto, poiché l’adattamento di livello superiore è quello che contempla la maggior complessità possibile dei fattori in campo e cioè l’adattamento sociale. Ecco perché l’approccio evoluzionistico al lutto è il più “egoistico” e anche il meno “soggettivo”, basandosi l’egoismo umano, in questa concezione, sull’“oggettività” dei processi cognitivi. 3. “Ama il prossimo tuo come se stesso” Se hai amato il prossimo tuo come se stesso, cioè per quello che egli era veramente, e se per sapere qual è il suo valore e il suo senso ti sei riferito alla cultura del tuo tempo, quando il tuo prossimo morirà la tua appartenenza alla cultura e alla storia umana saranno messe in pericolo e tu dovrai dare, per evitare il rischio di “ammalarti” e ricadere nello stato di natura, un senso alla sua morte. È, come abbiamo già detto, la “via del trascendimento attraverso il senso”, via tramite la quale i nostri morti possono “morire in noi”, anzi “debbono” morire e lasciarci continuare la nostra storia umana. Come dire che l’Io per continuare a vivere dopo la morte del caro deve procurargli un “lasciapassare” per il regno dei morti, in modo da non ricadere nella bisognosità naturale dalla quale si era elevato (che aveva trasceso) attraverso la storia, bisognosità che è quella propria dell’essere di natura prima di diventare parte di una cultura e di una storia umana. In questa ottica la distanza tra l’Io e l’altro resta grande anche 127 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nell’amore, dato che l’amore è reso possibile e mediato dalla cultura che fa dell’altro un essere anonimo, non un oggetto anonimo (come nel caso della teoria evoluzionistica), né un oggetto interno o esterno che è uscito dall’anonimato tramite le identificazioni che l’hanno fatto diventare parte dell’Io (come nel caso della teoria psicoanalitica), bensì un soggetto anonimo, un soggetto il cui senso non deriva dal desiderio dell’altro che dà senso all’Io, un soggetto, al contrario, il cui senso come essere storico-culturale rende possibile il desiderio dell’Io per l’altro cioè l’amore come desiderio e non solo come bisogno. L’essere umano è concepito qui come “elevazione” al di sopra della “naturalità” tramite l’edificazione della cultura e della storia, e l’Io come essere storico-culturale non ha solo bisogno dell’altro ma anche desiderio di lui, solo che il desiderio dell’altro non è connaturato all’Io, non è originario, ma è derivato proprio dalla costruzione della storia e della cultura tramite cui l’Io trascende la sua naturalità. Ecco allora che l’amore è possibile all’Io tramite un processo di trascendimento, un andare al di là di sé che immette i propri bisogni individuali nel flusso della storia facendone prima una “biografia” e poi una “storia” il cui senso deriva dalla cultura complessiva dell’epoca e dai suoi valori (l’ethos). E così quando la morte arriva essa mette in crisi questo amore dell’Io storico-culturale per il soggetto anonimo che è il prossimo, tendendo a ridurre l’Io ad un Io-natura, cioè all’insieme dei suoi bisogni naturali. Non resta allora, perché la natura non ci ricatturi, che “far morire i nostri morti in noi”. Gli altri morti, i cari, sono quindi già da prima amati di un amore il cui senso deriva dal far parte la nostra biografia personale di una storia che la trascende, e il senso che hanno per noi non deriva né da noi stessi né da loro ma dalla Storia che abbiamo in comune; essi non sono estranei per noi ma il loro senso e il senso del nostro amore non è un senso individuale ma è un senso storico-culturale. Quindi dobbiamo lasciar morire i nostri morti non perché un calcolo razionale oggettivamente ce lo indica, e così sopravvivere come esseri di natura, ma perché non ci resterebbe che “ridurci” ad esseri di natura cioè ai nostri bisogni di adattamento e di sopravvivenza se i nostri morti continuassero a vivere in noi. Non dobbiamo distaccarci dai nostri morti ma solo dalle loro tombe, dobbiamo accompagnarli di là e fare in modo che ci ri128 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mangano, che siano placati, che non ci invidino per essergli sopravvissuti. Non conseguire il distacco dell’Io dall’altro prossimo per avere altri attaccamenti più adattativi perché reali, ma operare (è il processo del cordoglio nella concezione di De Martino) in modo che la morte sia sensata per noi e per loro, evitando così il rischio che vengano a turbare i nostri sonni, che tornino continuamente a rammentarci quanto è inutile lo sforzo di edificazione della cultura e della storia se poi si deve morire. Tu ami il prossimo tuo come se stesso perché c’è un senso (il senso della nostra storia) che ci trascende e ci accomuna e noi esseri storici siamo parti di una realtà (la realtà storica appunto) rispetto alla quale il valore del nostro Io è minimo essendo il suo senso derivato dal “noi” storico, e non viceversa la storia comune basata sui bisogni delle monadi che la fanno. Ecco perché in questa ottica il lutto non è faccenda individuale ma problema culturale: la storia che si difende dalla crisi più terribile che la minaccia, la morte del caro come evento in grado di far uscire l’individuo dalla storia riducendolo ad Ionatura. Ecco perché i rituali collettivi in questa concezione hanno grande significato e il loro venir meno può essere considerato alla stregua del venir meno di un meccanismo di autoregolazione storico-culturale. 4. “Ama il prossimo tuo come te stesso” Nell’ottica fenomenologica la concezione dell’amore si riassume nella formula: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Una sfumatura di differenza rispetto alla formula che riassume la concezione psicoanalitica dell’amore: “Ama il prossimo tuo in quanto te stesso”. Infatti ora il rapporto con l’altro è concepito non come se l’altro fosse parte dell’Io (amalo quindi in quanto te stesso), ma in “analogia” con sé (come alterego che l’ego costituisce e valorizza come valorizza se stesso). In questo caso, quando l’altro amato muore l’Io ben costituito “si acqueta” collocando nel passato (retentio) il suo rapporto con il caro scomparso e lo “ricorda” come ricorda tutto ciò che è passato senza che ciò turbi il suo presente (praesantatio) e il suo futuro (protentio). A meno che (l’abbiamo già visto) l’ego sia, per qualche “esperimento della natura”, non ben costituito nella sua 129 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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struttura temporale, tanto che retentio, praesantatio e protentio si “inquinino” reciprocamente. Si potrebbe dire alla luce di questa premessa che le altre teorie del lutto (psicoanalitica, evoluzionistica e storicistica) non rappresentino altro che tre differenti modalità del costituirsi dell’alterego nell’ego. Schematicamente: a) Per la psicoanalisi quando l’altro amato muore l’Io colloca nel passato il suo rapporto con il caro ma solo per ciò che concerne la dimensione esterna, mentre colloca nel presente il caro come oggetto interno. Come dire che egli non è più un mio oggetto esterno ma continua ad essere un mio oggetto interno nonostante la morte e attraverso il processo del lutto. Ecco perché chi pratica questa modalità di elaborazione del lutto può ricordare solo gli oggetti esterni scomparsi ma ne sopporta la scomparsa perché come oggetti interni essi continuano a vivere nel presente della vita interiore. b) Nella teoria evoluzionistico-etologica l’altro è sempre “esteriore” rispetto all’Io (e la sua rappresentazione interiore deriva dalla sua esteriorità materiale); ciò è dovuto al fatto che vi prevale la praesentatio (prevalenza resa possibile dal considerare il tempo evolutivo fermo all’ultimo stadio del suo sviluppo): l’uomo, nella considerazione realistica di se stesso dal punto di vista evolutivo, è in un “presente” continuo, poiché il tempo non è quello della storia biografica ed umana bensì quello della storia biologica. Ne consegue, come abbiamo già detto, che l’uomo biologico non può dimenticare (cioè collocarsi nel futuro rispetto ad un rapporto finito né, conseguentemente, ricordare, cioè collocare nel passato un rapporto finito) poiché nel lutto sostituisce un attaccamento puramente biologico ad un altro attaccamento puramente biologico, come se non si accorgesse che il tempo passa, come se supponesse un futuro illimitato, come se vivesse, al pari dell’animale, in un eterno presente senza storia, completamente identificato con i destini della specie, senza la doppiezza individuo-specie (l’individuo deve morire perché la specie viva) che caratterizza specificamente l’uomo di fronte alla morte. c) Per la teoria storicistica del lutto l’Io “deve” collocare nel passato il caro scomparso ma può riuscirci soltanto se dà 130 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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un senso a tale collocazione, senso che è reso possibile dall’essere l’Io immerso in una storia con i suoi rituali e la sua cultura. L’altro che muore deve “passare nel valore”: come dire che l’ego individuale non potrebbe collocare nel passato ciò che è passato (la retentio sarebbe ostacolata) se non fosse già fin dall’inizio inserito in un tempo sovraindividuale, quello storico-culturale appunto. In altri termini, senza la storia e il suo ethos (l’insieme dei valori storico-culturali dell’epoca in cui l’individuo è immerso fin dalla nascita) l’Io costituirebbe se stesso, l’alterego e il mondo come esseri naturali e si ricadrebbe nel caso precedente (evoluzionismo e biologismo). Se si considera poi come si costituisce il “mondo comune” tramite l’insieme delle “appresentazioni” che le monadi hanno in comune, cioè tramite i modi consapevoli di presentarsi agli altri (tramite i loro ruoli sociali si potrebbe dire), si possono comprendere le analogie esplicite tra la posizione storicistica e la posizione fenomenologica. In quest’ultimo senso può essere utile e interessante accostare per analogia le tre modalità di costituzione dell’ego e dell’alterego proprie delle tre teorie testé richiamate con i modi di essere a priori che Binswanger distingue3: il modo della singolarità sembra corrispondere alla posizione psicoanalitica; il modo della pluralità sembra corrispondere alla posizione evoluzionistico-biologistica; i modi dell’amore e dell’amicizia sembrano corrispondere alla posizione storicistica. Se poi, a parte queste analogie che sono da approfondire, ci riferiamo alla posizione specifica di Binswanger, la formula è, lo ripetiamo, “ama il prossimo tuo come te stesso”. E se tu ami il prossimo tuo così si determina tra l’Io e il Tu quella “trasparenza” che è alla base della “noità”, nell’ambito della quale la morte non ha diritto di cittadinanza, poiché ogni parte della “noità” contiene tutta la “noità”: talché se una parte si stacca e/o muore resta integra la “noità”. Qui le barriere tra l’Io e il Tu si considerano interamente abbattute e il desiderio dell’altro interamente soddisfatto in ogni istante, cosicché la “noità” dell’amore (e in parte anche dell’amicizia) risulta indipendente dalla durata e dall’esistenza fisica dell’amato. 3

L. Binswanger, Essere nel mondo, Astrolabio Ubaldini, Roma 1973.

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L’Io in questa concezione trascende se stesso non solo rispetto alla naturalità dei suoi bisogni, ma anche rispetto alla durata della storia e ad i suoi elementi essenziali compreso il linguaggio (“Linguaggio dell’amore è il silenzio”)4. Il Noi dell’amore è reso possibile dalla storia, cioè dal trascendimento dell’animalità e della biologia, ma va oltre nel trascendimento, oltre l’uomo storico-culturale, verso l’uomo spirituale che guarda dall’alto non solo l’uomo biologico con i suoi bisogni ma anche l’uomo storico con i suoi desideri e la sua durata, dato che nel Noi è realizzato il desiderio più alto dell’uomo, il superamento dei suoi limiti di spazio (con la trasparenza) e di tempo (con l’eternità dell’istante). 5. “Ama il prossimo tuo in quanto se stesso” Ma tu puoi amare il prossimo tuo “in quanto se stesso”, cioè in quanto “altri” che ti turba e che desideri. In questo caso tra l’Io e l’altro c’è l’infinito del desiderio, desiderio che non deriva dal bisogno ma ne è contemporaneo, desiderio che non è solo attesa della soddisfazione del bisogno, attesa dell’oggetto del bisogno, che non è solo un elevarsi storico-culturale al di sopra dell’impellenza impaziente del bisogno, che non è solo un trascendimento nella dimensione spirituale sovrastorica, ma che è tutto questo e in più quel tendere innato che non si placa nella soddisfazione del bisogno ma si autogenera all’infinito nell’irragiungibilità di ciò che è esteriore e turba, cioè dell’altro nel mistero che lo rende degno di essere rispettato, di essere amato in quanto altro, in quanto se stesso, in quanto altro impossibile da ridurre e da sottomettere all’Io. Se ci amiamo così, secondo un desiderio all’infinito, la morte dell’altro è solo un caso particolare della sua assenza, quel caso che rende irreparabile l’impossibilità di soddisfare il desiderio e di raggiungere l’altro trasformandolo da fine a mezzo, da soggetto di desiderio a oggetto di bisogno. La morte non è una “novità” per noi che sappiamo essere l’altro separato da noi da un desiderio infinito, per noi che lo amiamo “in quanto se stesso” cioè anche se non lo conosciamo. La mor4

Ibidem.

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te approfondisce l’abisso tra l’Io e l’altro ma al tempo stesso lo rende irreparabile: non poter più fare dell’altro strumento della propria vita, per poter più godere di lui significa che ora l’Io può approssimarsi all’altro solo desiderandolo. Così di fronte all’altro amato che muore ciò che bisogna affrontare (ecco il lutto) è la “vertigine dell’infinito” che da sempre separa l’Io dall’altro, ma che ora la morte ha reso non più esorcizzabile. Noi lo sapevamo fin dal principio, sapevamo che il Tu non è riducibile all’Io essendo un altro Io. Nell’emozione positiva del desiderio frammisto con il senso di vuoto dell’insoddisfazione, l’altro si annuncia fin dall’inizio come non determinabile dal desiderio e questo come non soddisfacibile dall’altro. Amare significa volere il tuo bene, temere per te e difenderti nella tua bisognosità e vulnerabilità, ma come è possibile farlo senza averti dato valore “in quanto te stesso”, a prescindere cioè dal “sapere” chi sei, a prescindere dal sapere se mi conviene aiutarti e se riesco o meno a far di te strumento dei miei bisogni? E come è possibile darti valore “in quanto te stesso” senza la libertà e la responsabilità iniziali che caratterizzano il desiderio della creatura imperfetta? Se fossimo perfetti non desidereremmo nulla, ma non si può dare una vita senza desideri. Si può dare al massimo il desiderio della fine delle tensioni, il desiderio di non desiderare più che solo nella morte può trovare il suo punto finale. Ma ciò è vero solo se, al pari di Freud, vediamo nel desiderare solo negatività (la tensione inestinguibile del “frastuono dell’eros”). In sostanza, noi non siamo all’inizio solo bisognosità aspecifica che genera per negazione il desiderio dell’Io, né solo bisognosità che tende attraverso l’evoluzione a perfezionare la sua soddisfazione, né desiderio che nasce dal bisogno come elevazione storicoculturale che porta al superamento della naturalità, né solo desiderio che si può soddisfare al massimo livello grazie al fatto innato della nostra “natura” spirituale. Siamo anche fin dal principio desiderio che non tende alla sua soddisfazione, desiderio che tende a generare altro desiderio. E ciò trova nel rapporto tra l’Io e l’altro la sua espansione più piena, tramite la possibilità di porre l’Io e l’altro sullo stesso piano nel “contatto”, nella libertà reciproca che rende possibile la incedibile responsabilità per l’altro che fa da contesto all’amore vero: l’amore di un Io che può dedicarsi disinteressatamente ai bisogni dell’altro perché non dipende dall’altro e non ha bisogno di ridurlo a sé, perché si è assunta la responsabilità di sé e dei suoi limiti; un amore 133 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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che è veramente tale quindi quando l’Io è riamato, cioè quando l’altro liberamente si assume la responsabilità di sé e può quindi disinteressatamente cercare di soddisfare i bisogni dell’Io di un altro. Si determina così quella situazione in cui si possono soddisfare i bisogni (l’Io soddisfa i bisogni dell’altro e l’altro i bisogni dell’Io) ma nella quale il desiderio può solo crescere. Ne deriva un legame che non obbliga ma scioglie, un legame che rafforza l’Io nella sua irrinunciabile responsabilità, in un continuo approssimarsi all’altro che procede ma diventa al tempo stesso sempre più consapevole di essere un approssimarsi all’infinito. Approssimarsi all’infinito che rende i rapporti “esteriori” e che culmina nella morte dell’altro come momento di maggiore consapevolezza dell’infinito che separa gli esseri fin dalla nascita e li rende unici e irriducibili gli uni agli altri. La morte del caro ci dà quindi quella “vertigine dell’infinito” che ci mette al cospetto con l’insoddisfacibilità del nostro desiderio, desiderio che perciò non cessa con la tragedia della morte del prossimo ma viene confermato ed esaltato. Ciò che va in crisi con la morte del caro è la nostra illusione di poter “contenere” (comprendere) nel nostro essere finito l’infinito del desiderio dell’altro. E non ci resterà allora quando egli muore che prendere atto che non potremo generare insieme altro desiderio nell’unico modo in cui si esprime la fecondità dell’amore, mettendo al mondo qualcosa che ci sia “figlio”, cioè che sia noi e al tempo stesso ci trascenda. Ma capiremo vivendo che egli, il caro estinto, vuole che noi continuiamo ad approssimarci a lui dal nostro lato continuando a desiderarlo e aiutandolo a venirci incontro dal suo nell’unico modo possibile: attraverso il nostro continuare a “presentarlo” agli altri. È vero che i vivi, come diceva Sartre, possono fare dei morti ciò che vogliono, compreso (bisogna aggiungere) il continuare a farli vivere nell’unico modo possibile dopo morti: continuando a difendere il loro diritto di vivere, continuando a combattere contro l’ingiustizia della loro morte. Ora il caro defunto non è più solo presente nell’interiorità come parte di noi, né il rapporto con lui va abbandonato essendo disadattivo per un vivo il rapporto con un morto, né presente solo nel ricordo come per gli storicisti o nella noità. Ora egli è in verità assente, ma io posso ripresentarlo, “riportarlo in vita” parlandone agli altri, ora la responsabilità per lui è veramente tutta mia, ora egli non può più difendersi, ma se io lo desidero posso conti134 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nuare a rispettarlo ed amarlo “in quanto se stesso”; a maggior ragione oggi che è assente. Ma egli è solo un poco più assente, totalmente assente come oggetto del mio bisogno, totalmente assente come soggetto dei miei desideri, ma altrettanto presente come oggetto dei miei desideri. Se per la psicoanalisi quando l’amato muore bisogna ripercorrere a ritroso il processo che va dall’interiorità all’esteriorità (per abbandonare il morto “fuori” e farlo vivere “dentro”), se per gli evoluzionisti bisogna riorganizzare il quadro delle relazioni di attaccamento che costituiscono l’ambiente sociale, se per De Martino bisogna ripercorrere il processo di trascendimento che ha portato dall’uomo-natura all’uomo storico-culturale, se per i fenomenologi basta collocare nel passato il rapporto col caro, in questa concezione dell’amore come “equivoca” composizione di bisogni e desideri (concezione che possiamo indicare come lévinasiana) il desiderio dell’altro amato fa sì che possiamo farlo rivivere, o meglio farlo rinascere in modo nuovo ancora e ancora in una dimensione che non è né quella interiore, né quella esteriore, né nella storia, né fuori o al di sopra di essa, bensì in quella dimensione che possiamo quasi definire “religiosa”, in cui i cari vivono amati in quanto se stessi (cioè con il pieno rispetto del loro modo d’essere, dato che nessuno chiede loro di fare qualcosa) difesi nella loro specifica vulnerabilità di creature morte. Essi, i morti, diventano così una specie di Lari, di spiriti del focolare, con cui si continua ad avere il rapporto che si aveva in vita, desiderandoli cioè di un desiderio che mentre li approssima si mostra come infinito. Unica possibilità di continuare ad amarli disinteressatamente generando desiderio da desiderio. Si parla agli spiriti del focolare come a qualcuno che si desidera ti risponda ma si sa che questo desiderio potrà solo generare se stesso. Amandoli in questo modo capiremo cosa volevano dalla loro morte o meglio continueremo a desiderare di capirlo, e continueremo a desiderarli nonostante che essi non possano più desiderarci: potremo essere “giusti” con i nostri morti, e cioè, come abbiamo già detto, saremo in grado di “poterli” dimenticare, perché così non siano più presenti e si possano ricordare, cioè collocare nel passato. E ciò perché l’uomo che può dimenticare può decidere in che misura dimenticare, dimenticare il giusto a seconda delle circostanze, mentre l’uomo che è obbligato a dimenticare non può deciderlo e può incontrare un’altra forma di alienazione, quella dell’uomo storico che mitizza le sue acquisizioni culturali e dimen135 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tica che per la vulnerabile creatura biologica la morte sarà sempre inconcepibile, così come sempre insensata essa sarà per l’Io. Potremo infine, amando il nostro prossimo “in quanto se stesso”, essere giusti al punto da capire che non può averci detto perché ha vissuto e quale senso voleva dare alla sua morte, senza dimenticare che se ci desiderava deve aver capito che avevamo bisogno di capirlo e aver desiderato dircelo.

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Capitolo V

Il lutto tra desiderio e assenza

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1. La repressione del lutto nella cultura occidentale1 Le strategie di elaborazione del lutto che si sono venute sempre più affermando nella cultura occidentale si basano sul tentativo di “ridurre” le emozioni del lutto alla “misura” dei provvedimenti possibili nelle situazioni date in vista del superamento della “crisi del cordoglio” (come l’ha chiamata E. De Martino)2. Infatti: I. Allorché, come accade oggi in modo preponderante, l’uomo si identifica come essere biologico impegnato a conseguire un adattamento nell’ambiente che procuri sempre maggiore benessere, e il lutto viene considerato una crisi dell’adattamento, la via di elaborazione specifica di questo modo di essere nel mondo sarà quella che nella prima parte di questo libro abbiamo chiamato la “via dell’energia vitale anonima” per cui «… la vita individuale è un simulacro vuoto, una forma senza importanza di cui temporaneamente si veste l’energia vitale, la quale passa continuamente da un essere all’altro utilizzando senza scrupoli ogni singola opportunità che le si presenta». Lungo questa via la meta dell’elaborazione del lutto è la “sostituzione” dell’essere amato che non c’è più con un altro essere amato, per avere un’altra opportunità di adattarsi e conseguire il benessere perduto tramite l’utilizzazione dell’energia vitale di un altro essere biologico a cui ci si attacca. L’ostacolo che bisogna superare è la “misura” del dolore per il 1 Questo lavoro è un ampliamento di un saggio che ha già visto la luce con un titolo un po’ diverso (F. Campione, Contro la morte, cit.). L’impostazione antropologica che contiene ne giustifica la ripubblicazione ampliata in questo libro. 2 E. De Martino, Morte e pianto rituale, cit.

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legame che si è spezzato, poiché se la perdita ci spezza il cuore non ci saranno altre opportunità di legame con altri, così come accade se non si è superata la “rigidità” degli impulsi attraverso il “sapere” dell’intercambiabilità dei legami, e si resta bloccati nel rimpianto della perdita che preclude la ricerca di altri “acquisti”. Ecco perché è importantissimo nella maggior parte dei lutti, al giorno d’oggi, avere a disposizione qualche forma di “anestesia” che attenui il dolore del cordoglio, come ad esempio il distrarsi tornando al più presto alle necessità delle occupazioni o abbandonandosi a qualche nuova esperienza di “piacere forzato”. Ecco perché è importante legarsi “pensando a se stessi” cioè ragionando su ciò che potrebbe accadere se il legame si spezzasse e riservandosi vie di fuga: si pensi ai contratti prematrimoniali con relativa assicurazione sulla vita, o alla fretta di stabilire legami affettivi adulti per non dipendere dai genitori che prima o poi moriranno e ti lasceranno in lutto. La misura quindi: una qualche “distrazione” che impedisca al dolore di superare una certa soglia, oppure l’applicazione ai legami affettivi delle regole della ragione calcolante in grado di prevedere fin dall’inizio vie di “sostituzione” dell’essere amato quando si materializzi il rischio della perdita; per non parlare delle prescrizioni di “costume” a chi è in lutto, consistenti fondamentalmente, per essere considerati normali e moderni, nel “contenersi” nell’espressione delle emozioni. II. Nel caso di quella parte di Umanità che si identifica con gli scopi della “persona” (l’essere se stessi, distinti dagli altri perché unici e irripetibili) e che tende in Occidente ad essere sempre più in crisi sebbene resti una maggioranza, il lutto sarà una crisi della persona che è costretta a ritirare gli investimenti affettivi che aveva diretto sui cari morti e la via di elaborazione avrà come scopo “far vivere dentro di sé” come parte di sé coloro che non ci sono più. È quella che ho chiamato sopra “via della tomba”, per cui nessuno muore se viene sepolto vivo nell’animo dei suoi cari, che a loro volta morendo troveranno un posticino dove essere seppelliti vivi nell’animo di chi li ha amati. Anche questa via di elaborazione del lutto, come ha dimostrato Freud in Lutto e melanconia3, trova la sua meta se l’angoscia del3

S. Freud, Lutto e melanconia, cit.

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la propria morte che la morte del caro provoca viene vinta e “limitata” dal “calcolo” per cui “conviene” accettare la morte del caro per non perdere la propria vita. Egli era una parte di me e quando muore mi sento morire poiché muore una parte di me, ma poi “ragiono” e mi dico che è meglio lasciar morire una parte di me per non perdere tutto me stesso. È l’economia psichica che deve prevalere: l’investimento affettivo che avevo posto sul caro portandomelo dentro e facendolo diventare parte di me non darà più frutti, la parte di me che ne era derivata ne risulterà impoverita e tenderà ad impoverirmi e a limitare gli investimenti affettivi futuri; ma ci sono ancora le altre parti di me e le pulsioni ad acquistarne altre ancora investendo affettivamente altri: se “ragiono” e accetto la perdita mi salvo e dopo basterà lasciare un piccolo investimento affettivo sulla parte di me impoverita per seppellirla viva dentro di me, cioè perché nessuno me la possa mai togliere. In questo modo questa nuova parte di me si aggiungerà a ciò che nessuno mi può togliere e mi rafforzerà nei nuovi investimenti affettivi, proprio perché le parti di me che sono riuscito a far vivere dentro di me nonostante la perdita esterna subita sono ciò che di più stabile io possegga. Anche in questa modalità di elaborazione del lutto, quindi, la meta si può raggiungere solo nella “misura” in cui l’angoscia della perdita si limita tramite un calcolo razionale, benché si tratti di una “ragione altra” rispetto a quella biologica, la ragione economica dell’apparato psichico che per Freud è talmente dominata dal principio del piacere da farci scegliere la vita ogni volta che un “dispiacere” (come quello della perdita e del lutto) ci fa desiderare di tornare allo stato inorganico, lo stato della morte in cui si pensa che cessi ogni tensione. III. Infine per quell’Umanità oggi apparentemente in piena crisi che identifica l’umano con la relazionalità, la socialità e la storicità, il lutto costituisce una crisi della costruzione di quanto è prettamente umano. A che servono tanti affanni, tanti sacrifici e tante lotte per costruire un passato migliore del presente se la nostra morte accelera l’avvento di un futuro che appartiene solo a coloro che ci sopravviveranno per il breve volgere del loro precario tempo di vita? Ora la via di elaborazione del lutto dovrà essere necessariamente una via del trascendimento: qualcosa non deve morire di ciò che è appartenuto a coloro che non ci sono più, il senso del sin139 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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golo morente dovrà trovare una continuità nelle opere e nella memoria in coloro che restano. Se l’individuo muore lasciando detto perché ha vissuto e qualcuno raccoglie il testimone la crisi del cordoglio può esser superata. Morendo i nostri cari hanno affidato a noi il compito di proseguire nella loro opera di donazione di senso all’esistenza e noi perseguiamo il senso della nostra lungo una linea di continuità rispetto ai “lasciti” di chi non c’è più, e procurando di lasciare un’eredità degna di essere ricordata a coloro che ci sopravviveranno. Come ha mostrato E. De Martino4, ora sono i rituali collettivi che indicano la strada per superare la crisi del cordoglio, se sono efficaci a far sì che non si superi una certa soglia di sofferenza, al di là della quale saremmo destinati, a causa della morte dei cari, a ripiombare nella barbarie, al di là della quale cioè prenderebbe il sopravvento la disperazione, e con essa l’Umanità cesserebbe di edificare Storia e Cultura regredendo allo stato di Natura. Siamo ancora una volta di fronte alla necessità di non superare un limite, bisogna ridurre il nonsenso che la morte introduce col lutto nella storia umana alla “misura” della storia e della cultura attraverso qualcosa di culturale e di storico che sono i rituali collettivi. Ma ci sono coloro che piangono, come dice Lévinas5 “a dismisura”. “Lei non mi può aiutare”, mi ha detto una delle mie prime pazienti (una signora che aveva perso il marito in un incidente d’auto), “perché non mi può restituire mio marito”. “Vivo solo quando mi chiudo nella stanza di mio figlio e immagino che sia vivo”, mi ha detto la madre di un bimbo morto di leucemia a 9 anni, “ma poi vado a letto e sogno solo la sua lunga agonia”. “Come faccio a vivere pensando che le mie figlie e mio marito sono morti e io sono sopravvissuta?”, mi ha chiesto una signora sopravvissuta ad un incidente nel quale sono periti tutti i suoi familiari. Ci sono gli inconsolabili, e ci sono per ogni modalità di elabo4 5

E. De Martino, Morte e pianto rituale, cit. E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, cit.

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razione del lutto, ci sono gli inconsolabili sulla via dell’energia vitale anonima, gli inconsolabili sulla via della tomba e gli inconsolabili sulla via del trascendimento. Lévinas pensa che la ragione di questa inconsolabilità stia nel fatto che la morte è “fonte di emozione contraria ad ogni sforzo di consolazione”6. Sono propenso a seguirlo quanto all’esistenza di una tale emozione ma non credo che ogni inconsolabilità ne derivi, perché non credo che tutte le inconsolabilità e quindi tutti gli eccessi di fronte alla morte siano autentici e irriducibili. La signora che voleva le restituissi il marito, ad esempio, alcuni anni dopo lo ha felicemente sostituito con un altro marito: è stata inconsolabile per un po’ e poi si è consolata, ergo non era inconsolabile! La madre del bimbo morto di leucemia ha smesso di sognare il figlio durante la sua lunga agonia quando ha superato il senso di colpa nei suoi confronti per averlo messo al mondo senza desiderarlo e ha potuto farlo vivere dentro di sé senza angoscia. È stata anche lei inconsolabile per un po’, ma la sua colpa era attenuabile e si è consolata. Solo la donna che è sopravvissuta alla sua famiglia resta inconsolabile nonostante abbia accettato in qualche modo di continuare a vivere: lei sì che è inconsolabile, perché la morte le lascia un’emozione insuperabile, un’inquetudine inestinguibile derivante dal fatto che non è possibile per lei farsi una “ragione” dell’essere sopravvissuta ai suoi cari e dare così una misura e un termine al suo cordoglio. Chi vive per soddisfare i propri bisogni biologici o per essere se stesso può prima o poi, rispettivamente, consolarsi di non poter godere di un caro morto sostituendolo con qualcun altro, oppure facendo in modo che la morte del caro si trasformi in un arricchimento del sé che ora ha acquistato un’altra parte che nessuno può togliergli. Chi vive con e per gli altri non può trovare consolazione alla loro morte nemmeno nella memoria poiché la memoria può intrecciare il senso di chi resta con quello di chi non c’è più ma non toglie che i cari morti tu li chiami ma loro non ti rispondono, tu li consulti nei momenti difficili ma loro non ti rispondono. 6

Ibidem.

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Ma che emozione è questa emozione contraria ad ogni sforzo di consolazione? Dice Lévinas7: «Il rapporto alla morte nella sua eccezione e qualunque sia il suo significato rispetto all’essere e al nulla, essa è un’eccezione eccezione che conferisce alla morte la sua profondità, non è vedere e neppure mirare (non è vedere l’essere come in Platone, né mirare il nulla come in Heidegger), rapporto puramente emozionale, commovente di una commozione che non è fatta della ripercussione, sulla nostra sensibilità e sul nostro intelletto, di un precedente sapere. È un’emozione, un movimento, un’inquietudine nell’ignoto». Significa che quando tu chiami i tuoi cari morti ed essi non ti rispondono tu ti inquieti come quando sei di fronte ad una domanda senza risposta: sono ancora qualcosa o sono nulla? Dove sono andati? Perché si deve morire? È un’emozione che deriva da interrogativi che nessun sapere può chiarire mai, un’emozione eccezionale e perciò non “misurabile”, smisurata, un’emozione rispetto alla quale tutti i procedimenti della ragione sono destinati a fallire e quindi un’emozione che non può essere limitata e controllata, né con la logica dell’intercambiabilità dei legami, né con la logica dell’assimilazione dell’altro a sé per impedire che qualcuno te lo tolga, né con la logica della ritualità che ti “guida” in modo da limitarti e non smarrirti nel dolore. Ecco da dove deriva l’atteggiamento della cultura occidentale rispetto a coloro che non sanno contenersi nel dolore, essi devono essere allontanati, espulsi dal mondo comune. Cosa ce ne facciamo di qualcuno che ha bisogno di piangere e disperarsi per sei mesi e non si sa se finirà? Ecco da dove deriva la repressione del lutto nella cultura occidentale. Chi piange a dismisura, chi non piange a misura delle difese biologiche, personali e storicoculturali deve essere allontanato, come le donne e Apollodoro vengono allontanati alla morte di Socrate. Citiamo testualmente dal Fedone8 cominciando dal punto in cui Socrate beve la cicuta: 7 8

Ibidem. Platone, Fedone, in Opere complete, Laterza, Bari 1982-84.

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E, detto ciò, accostò il bicchiere alle labbra e, tutto d’un fiato, senza un segno di disgusto, lo vuotò lietamente. Sino a quel punto i più tra noi erano riusciti alla meglio a trattenere il pianto, ma come lo vedemmo bere, e aver bevuto, non ne potemmo più, e a me le lacrime, mio malgrado, vennero giù a fiotti; sicché, copertomi il viso, piansi, oh!, non certo lui, ma la sventura mia, che rimanevo privo d’un tale amico. Critone, dal canto suo, incapace di frenare il pianto anche prima di me s’era levato per allontanarsi, mentre Apollodoro che anche per l’innanzi non aveva cessato di piangere, allora, gettato un urlo, proruppe in tali lamenti e gemiti, che non ci fu tra i presenti chi non si sentisse spezzare il cuore, ad eccezione di lui, Socrate. Il quale: “Che cosa fate”, disse “miei buoni amici? Se ho mandato via le donne l’ho fatto soprattutto perché non s’abbandonassero a codesti eccessi. E poi ho sentito che si deve finire tra voci di augurio. Siate dunque calmi e forti”. Ecco, è “come se l’Umanità non si esaurisse nella misura, come se nella morte ci fosse un eccesso”, che la nostra cultura da Socrate in poi non sopporta ed espelle. Qual è il pericolo che la nostra cultura avverte in quest’eccesso? Il pericolo deriva dal dover ammettere che c’è una situazione, quella della morte, quella del lutto, che è al di là del sapere e quindi del fare. Se la morte è il “senza risposta”9, se è l’inquietudine nell’ignoto, essa mette in pericolo una cultura che si basa sul sapere e sulle risposte che dal sapere si possono ottenere. Ma c’è di più: la morte irrompe nella vita introducendovi un’interrogazione senza risposta e quindi “intacca” perfino la coscienza e la sua intenzionalità: se la morte è il “senza risposta”, la coscienza della morte non è la coscienza di qualcosa, per la prima volta si può avere una coscienza che non è coscienza di qualcosa. Ma una coscienza senza coscienza di qualcosa è una coscienza senza intenzionalità, una coscienza passiva. E niente è più contrario della passività ad un mondo edificato sull’azione come è il mondo fisico e psichico della cultura occidentale. La morte quindi talvolta è inquietudine nell’ignoto e quindi è non-sapere, cioè impotenza. Al tempo stesso essa “intacca” la coscienza senza poter essere 9

E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, cit.

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presa di mira: non si sa come intenzionarla, come prenderla, come averne coscienza, come pensarla, come comprenderla. La morte ci inquieta non perché ricorda conoscenze passate, né perché è un’esperienza attuale, né perché è attesa di qualcosa che deve avvenire nel futuro. E se è così, il tempo nella morte cessa di scorrere perché ci vuole qualcosa che scorre perché il tempo scorra (le lancette scorrono sul quadrante dell’orologio, gli eventi dell’esistenza scorrono nell’avvicendarsi degli anni). Ma se di fronte al “senza risposta” della morte il tempo cessa di scorrere, il tempo diventa, come dice Lévinas, “durata”. “La vita scorre e l’uom non se n’accorge”, diceva un malinconico poeta di paese che ha “allietato” la mia infanzia. Ed è altrettanto vero, da un altro punto di vista, che “la vita dura e l’uom non se n’accorge”. Ma forse sarebbe meglio dire che l’uomo si accorge della durata della vita solo quando piange sconsolatamente la morte di un caro. Passo davanti alla foto di mio padre e gli chiedo consiglio come al solito e lui come al solito non mi risponde: l’inquietudine del “senza risposta” mi assale e mi rendo conto che il tempo non scorre tra un’inquietudine e l’altra di fronte alla foto dei miei cari morti. L’emozione è sempre quella della prima volta, sono totalmente passivo rispetto a quest’emozione, non posso fare niente, non voglio fare niente, non c’è niente da fare. Nell’emozione eccessiva di chi piange a dismisura per i suoi cari si scopre che il tempo non passa, che il tempo è paziente, si scopre la pazienza di sentire un’emozione senza consolazione e di guarire, in questa pazienza, dell’ansia di sostituire i morti, dell’angoscia della propria morte, del nonsenso della crisi del cordoglio. Ecco cosa perde la cultura occidentale allontanando e reprimendo il lutto di coloro che sono inconsolabili: per evitare l’impotenza del fare e salvare l’intenzionalità del pensare e del comprendere, abbiamo bandito dal mondo la pazienza. Non si possono sostituire i cari morti, né si possono far vivere dentro di noi, né è vivere per loro il nostro farli vivere in una memoria sempre in forse e che durerà al massimo, quando va bene, qualche generazione. E quindi non c’è modo di consolarsi e bisogna continuare a piangere all’infinito e a dismisura. Ma non soccomberemo in questo eccesso perché attraverso di esso accederemo alla pazienza. Se il tempo dell’emozione del lutto non può finire, sarà un tempo che dura, un tempo che durando senza scor144 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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rere ci farà sentire la nostra durata, che stiamo durando nonostante il “senza risposta” della morte. Fino a quando? Anche a questo non c’è risposta e allora possiamo sospendere la domanda e rimandarla a domani, tanto sarà sempre la stessa domanda. Diventeremo, in tal modo, pazienti, e senza volerlo potremo anche scordarci di piangere i nostri cari, per tornare a piangerli non appena li chiameremo non ricevendo risposta. Se smettessimo di allontanare coloro che piangono a dismisura, cioè non reprimessimo più l’emozione più autentica del lutto, potremmo scoprire che si può vivere senza i propri cari proprio perché attraverso l’emozione inconsolabile che la loro morte ci provoca li si può continuare a desiderare e a difendere dall’ingiustizia della morte. “Non è giusto”, “non è giusto”, mi viene sempre da mormorare di fronte alla foto dei miei cari morti. Ma cosa non è giusto? Non è giusto che non mi rispondano più, sia che ci siano da qualche parte o che non ci siano più per niente. Ma posso smettere di chiedermelo? Devo richiedermelo sempre, ma con pazienza perché nessuno mi risponderà. Qual è il “positivo” di questa modalità di concepire l’emozione del lutto? Il positivo è la possibilità della pazienza, che è la pazienza stessa del tempo, cioè la durata. Senza pazienza, infatti, nell’impazienza del fare e dominare, non è sempre troppo breve la vita? E se la vita non scorre alla velocità supersonica delle lancette dell’orologio o delle pagine del calendario, se la vita è paziente e ha durata, è possibile anche la spensieratezza. Se della morte non si sa nulla, se sia essere o sia nulla, non si sa nemmeno quando arriverà e allora, come dice Lévinas10, «l’io fa degli assegni a vuoto come se disponesse dell’eternità. In questo la non conoscenza e la spensieratezza non devono essere interpretate come divertimento o come caduta nella decadenza». Vuol dire che se il tuo modo di superare il lutto consiste nel far finta di niente e sostituire chi non c’è più, ti dovrai distrarre dal dolore perché esso non ti distrugga impedendoti di tornare a vivere legandoti ad altri. Se il tuo modo di superare il lutto consiste nello scegliere di salvarti di fronte al caro morto che minaccia la tua vita per poi farlo vivere dentro di te come parte di te, dovrai rafforzare sempre più il tuo Io (una sofferenza continua che procura il disagio della ci10

Ibidem.

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viltà e che ha fatto dire pessimisticamente a Freud che lo scopo della vita è la morte cioè la cessazione delle tensioni), per assimilare la realtà e gli altri sempre meglio in modo da evitare sempre meglio i limiti al principio del piacere. Se il tuo modo di superare il lutto consiste nel tentare di costruire un senso che trascenda l’individuo, quando ciò non sarà possibile e sarai inconsolabile potrai sentire l’emozione dell’ignoto e l’inquietudine per l’ingiustizia che chi è morto ha subito nel morire, e accedere così alla pazienza che dà la possibilità della spensieratezza anche nell’inconsolabilità. Si può scoprire in altri termini che «Il tempo non è la limitazione dell’essere, ma la sua relazione con l’infinito. La morte non è annullamento, ma questione necessaria affinché tale relazione con l’infinito o tempo si produca»11. Invece che il “non ci vedremo più” prevale il “non smetterò mai di piangere per te”. Sei morto e lungi dal sapere se ciò equivale ad un tuo annullamento e all’annuncio del mio annullamento prossimo venturo12, il non poterlo sapere è un non-sapere che non cessando di interrogarsi apre la mia vita attraverso la pazienza ad una dimensione del tempo che è l’Infinito. Resta da chiarire un’ultima cosa: che bisogno ha la pazienza dell’eccesso? Non si può esser pazienti perché si ragiona che non c’è niente da fare né nel mondo esterno né nel mondo interno, e quando muore una persona cara conviene sopportare pazientemente? Dice Lévinas13: È necessaria un’apertura su una dimensione che è un rivelarsi che ridicolizza la nobiltà o la purezza della pazienza stessa,intaccandola.Se la pazienza ha un senso in quanto obbligazione inevitabile,allora questo senso stesso senza sospetto di non senso,diventa sufficienzaq e istituzione. Bisogna quindi che nell’ogoità dell’io ci sia il rischio di un non senso,di una follia.Se tale rischio non vi fosse,allora la pazienza avrebbe uno statuto,perderebbe la sua passività.. Provate a dire ad una persona inconsolabile che “bisogna” avere pazienza e vi risponderà che la pazienza non è qualcosa che si 11

Ibidem. Tutto il pensiero psicoanalitico sulla morte si basa sull’apparente banale osservazione di Freud per cui vedendo i cari morti nasce il pensiero della propria morte. 13 E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, cit. 12

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può decidere di avere. Essa è infatti una passività che può sorgere solo da un rischio sempre presente di inattività, come quando qualunque cosa facciamo potrebbe non avere senso o potrebbe essere folle. Ecco perché la pazienza ha bisogno dell’eccesso e si alimenta dell’emozione eccessiva che prende coloro che piangono a dismisura. Le donne piangono a dismisura quasi dappertutto e quasi sempre bisogna allontanarle, ma sono quasi sempre le vedove che incarnano la pazienza di chi continua piangere i propri morti, di chi non smette mai il lutto ma non rifiuta la vita e “dura” più a lungo di altri che piangono più misuratamente. È risaputo che le vedove sopravvivono dunque più a lungo dei vedovi. In sintesi, la nostra cultura ci propone una via di elaborazione del lutto: distrarsi dalla morte dei cari e sostituirli il più efficacemente possibile nella loro “utilità”. La teoria dell’attaccamento di J. Bowlby e della sua scuola14 ha approfondito questa modalità di elaborazione del lutto che si è via via venuta trasformando in una specie di “senso comune” della psicologia del lutto, al punto che la teoria dell’attaccamento è stata ecletticamente e superficialmente mutuata con la medesima denominazione anche da recenti scuole di psicoanalisi. Questa modalità funziona ovviamente se “distrazione” e “sostituzione” sono contenute e misurate in modo da non creare altri problemi che possono rendere irrisolvibile il lutto. Distrarsi infatti, dopo un po’, non basta più e bisogna sostituire il caro defunto o perduto. E se non ci si riesce? Cosa accade tutte le volte, e sono tante, che qualcuno non riesce a sostituire i suoi cari morti in un tempo ragionevole recuperando l’adattamento perduto nell’ambiente e il relativo benessere? Bisognerà rilanciare sull’unico altro piano che la nostra cultura della tecnica consente: la distrazione. Ma quando basterà? Se per distrarsi efficacemente bisogna “drogarsi” si è risolto il problema? In altri termini, le soluzioni “tecniche” (la ricerca di altri legami dopo il distacco dal caro perduto e la distrazione necessaria dal dolore della perdita che consente la ricerca di nuovi attaccamenti) possono incontrare i loro limiti e il lutto più che risolversi esiterà in un continuo rimando al rialzo da una tecnica all’altra delle due a disposizione (distrazione 14

J. Bowlby, Attaccamento e perdita, cit.

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e sostituzione). Sono le figure del fallimento della modalità dominante di elaborazione del lutto nella nostra cultura: coloro che non riuscendo a trovare nuovi attaccamenti da sostituire a quelli perduti soffrono sempre di più, e finiranno per “drogarsi di qualcosa” che solo a dosi sempre più alte potrà alleviare il loro dolore. Solo se riescono a mettere in crisi, con l’aiuto giusto, la loro identificazione biologica15 e il loro scopo del benessere attraverso l’adattamento nell’ambiente che gli aveva fatto concepire i legami come legami di attaccamento strumentali alla soddisfazione dei bisogni, coloro che non riescono ad elaborare il lutto con la modalità suggerita dalla nostra cultura possono avere una speranza di uscire dai loro lutti e tornare a vivere. Altrimenti andranno ad ingrossare le file dell’emarginazione che la cultura occidentale produce. Se invece “crescono” accederanno alla possibilità personale di elaborazione del lutto che consiste, l’abbiamo detto ripetutamente, nel far vivere dentro di sé come parti di sé i cari morti per poi farli rivivere tutte le volte che è possibile negli altri. I quali, in tal modo, vengono “scelti” e riconosciuti sulla base delle proiezioni tranferali di coloro che non ci sono più ma che vivono nel nostro mondo interno e premono continuamente per “rivivere”. L’opera di Freud (soprattutto Lutto e melanconia e Al di là del principio di piacere16) e molta psicoanalisi sono i luoghi di approfondimento di questa modalità di elaborazione del lutto. Come ha mostrato Derrida17 nelle sue splendide analisi su Al di là del principio del piacere di Freud, questo saggio freudiano “appartiene alla tradizione del Filebo” che è il dialogo platonico18 nel quale Socrate dimostra che il primo bene per l’uomo non è il piacere bensì che «il primo (posto) spetti in qualche modo alla misura, al giusto mezzo, all’opportuno e a quant’altro convien credere che contenga in sé la natura de l’eterno»19. E cos’altro sarebbe se non il giusto mezzo ciò che persegue l’Io di fronte alla perdita di una persona cara? Il massimo sarebbe che i cari non morissero mai, ma se voglio tutto soccomberò col caro. 15

F. Campione, Perpatire, cit. Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere, vol. IX, Boringhieri, Torino 1986. 17 J. Derrida, Speculer sur “Freud”, Flammarion, Paris 1980 (trad. it., Speculare su “Freud”, Raffaello Cortina, Milano 2000). 18 Platone, Filebo, in Opere complete, cit. 19 Ivi, p. 415. 16 S.

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“E se il piacere come dice Derrida non si producesse che differendo se stesso?”. Se alla morte del caro non si desse una misura alle proprie pretese e si volesse non solo il caro come parte di sé ma anche la sua presenza nella realtà esterna anche quando essa non c’è più, si negherebbe la realtà, e il principio del piacere non potrebbe più servirsi del principio di realtà. Limitando le proprie pretese, invece, si potrà proiettare su altri il desiderio del caro morto e fare come se “rivivesse” in loro. Il principio del piacere si è salvato limitandosi, cosa che dimostrerebbe, a detta di Derrida, che in Freud non c’è passo al di là del principio del piacere (“pas au de là”, dice giocando col doppio significato di “pas”). Vuol dire che Freud introducendo la pulsione di morte in contrapposizione alle pulsioni di vita e per poter andare “al di là del principio del piacere”, in realtà riesce solo a fare come il nipotino Ernst col gioco del rocchetto: ci si potrebbe consolare alla morte del caro dicendo che essa corrisponde ad una necessità, cioè ad una tendenza a tornare allo stato inorganico secondo il principio del Nirvana, la tendenza all’azzeramento delle tensioni cioè alla stabilità, stabilità che si realizzerebbe solo nella morte. Ma in realtà alla morte dei nostri cari faremmo come fa Ernst all’assentarsi della madre: per non subirla preferiremmo “provocarla simbolicamente”, cosa che ci darebbe la sensazione di padroneggiarla. Cos’altro sarebbe il ritiro della libido dall’oggetto d’amore perduto se non una specie di “fort” (via!) che consente di investire la parte di sé che deriva dall’altro in modo di sentirlo dentro cioè qui (“da”)? Insomma, il lutto in questa ottica si supera nella misura in cui ci si accontenta di padroneggiare quel che si può, cioè gli oggetti interni. Ancora una volta la moderazione e il giusto mezzo sono alla base del trionfo e della sconfitta del principio del piacere nella situazione del lutto. Ma si può non riuscirci se la moderazione non riesce, ad esempio quando l’ambivalenza dei rapporti è tale che alla morte del caro lo si incolpa di averci lasciati oppure ci si incolpa di averne desiderato la morte. Sono coloro che restano bloccati dopo un lutto in una condizione di distruttività (autodistruttività se prevale la colpa verso se stessi, eterodistruttività se prevale la rabbia verso chi è morto). Ma anche costoro con l’aiuto giusto potrebbero “crescere” accedendo alla modalità relazionale e sociale di elaborare il lutto. 149 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Arriviamo così alla possibilità più evoluta di elaborare un lutto, consistente nel continuare la vita di chi è scomparso raccogliendone l’eredità dopo aver attenuato la crisi del cordoglio, che può far ripiombare nello stato di natura, attraverso i rituali collettivi. È la modalità oggi più esposta al rischio della crisi e perciò abbastanza minoritaria proprio a causa della crisi dei rituali collettivi. Per la prima volta nella storia viviamo in una Società che lascia soli gli individui con i loro lutti, ed è proprio per questo che, alla morte del caro, appare il rischio del nonsenso senza ritorno, e della follia. La proposta propria di questa modalità consiste nel tentare di ripristinare i rituali collettivi del cordoglio per far sì che gli alluttati non superino la soglia oltre la quale il non senso e la ragione non possono essere più recuperati. L’opera di De Martino20 a tal proposito è molto istruttiva sulla scia di quella dello Storicismo e di Benedetto Croce in particolare. Ma c’è, come abbiamo visto, un’altra alternativa, l’alternativa proposta da Lévinas, l’unica in grado a mio modo di vedere di evitare l’inevitabile repressione delle emozioni del lutto quando si è riusciti ad accedere alla modalità più evoluta di elaborarlo. Ora dobbiamo ammettere che non c’è possibile sostituzione dei propri cari se non al prezzo di legarsi a loro in modo strumentale, né si può accontentarsi di far vivere i propri cari morti nel proprio animo senza pagare il prezzo di legarsi a loro non per quello che sono in quanto loro stessi ma per quello che diventano portandoseli dentro, cioè assimilandoli a sé. D’altra parte, ogni ritualizzazione che riduca la crisi del cordoglio evitando nonsenso e follia paga il prezzo di una repressione delle emozioni del cordoglio dei singoli sempre insita nella riduzione del singolo alle sue appartenenze, cioè al prezzo dell’alienazione della “persona”. L’unica via che consente di fronte alla perdita dei cari di aprirsi, proprio tramite essa, ad una nuova dimensione del tempo, la durata, e attraverso di questa alla pazienza e alla spensieratezza perfino nella tragedia, è quella proposta da Lévinas e che si basa, tra l’altro, sulla possibilità di vivere, senza cadere nel nonsenso e nella follia ma nel costante rischio di caderci, continuando a desiderare coloro che non ci sono più e a difenderli dall’ingiustizia della morte che hanno subito. L’unica via che di fronte alla morte dei cari rende possibile cercare di sostituirsi a loro assumendosi la re-

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E. De Martino, cit.

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sponsabilità di vivere anche per loro, invece che dimenticarli e sostituirli o invece di praticare vie per padroneggiare la loro morte che passano necessariamente attraverso l’assimilazione dell’altro all’Io. La prospettiva sul lutto che è stata fin qui delineata può essere espressa brevemente come segue. La morte si porta via le persone care lasciandoci il desiderio che tornino non lasciandoci più. Così dapprima le aspettiamo, poi cominciamo a vederle dove le abbiamo viste in vita, e infine ne sentiamo la mancanza più o meno continuativamente. Il lutto è quel tempo di crisi che ognuno di noi attraversa con i suoi mezzi al fine di non sentire più il desiderio struggente dei morti e poter fare posto ad altri vivi nel nostro cuore. Nella stragrande maggioranza dei casi ci riusciamo, mostrando l’impotenza della morte quando ci colpisce per interposta persona. Ci differenziamo come uomini nei vari modi di conseguire questo risultato, modi che dipendono fondamentalmente da tre fattori: chi siamo, come ci leghiamo agli altri e come la morte degli altri ci colpisce. E abbiamo già visto che possiamo identificarci come esseri biologici, come esseri personali e come esseri umani. Nel primo caso seguiremo la via dell’energia vitale anonima, nel secondo caso la via della tomba e nel terzo quella del trascendimento. Abbiamo anche visto che possiamo legarci attaccandoci all’altro, assimilandolo a noi o approssimandoci. Il colpo della morte del caro infine, può essere dolce o traumatico e sorprenderci in un momento di solitudine o in un momento di socialità. In sostanza, l’assenza del caro estinto, e il vuoto che determina nella nostra esistenza, avrà conseguenze diverse a seconda del destino che toccherà a ciò che la morte non può portarsi via: il desiderio dell’amato. Ma il destino del desiderio, come di ogni cosa umana, dipende da come viene concepito, dal significato che gli si conferisce. I. Dal punto di vista biologico, il desiderio di chi non c’è più corrisponde al sentimento di mancanza per la perdita della soddisfazione dei bisogni che consentiva, e motiva la ricerca adattativa di altri legami attraverso cui tornare a soddisfare i bisogni insoddisfatti. Quando l’identità dell’individuo in lutto è un’identità prevalentemente biologica, il desiderio ha la funzione di spinta verso la sostituzione dell’amato: la mancanza fa pensare a sé e trasforma il desiderio di chi non c’è più in desiderio di un altro che abbia la sua stessa funzione. Ciò, naturalmente, è possibile solo dopo aver sciolto il legame con il defunto, cosa fattibile per151 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ché nel legame biologico non ci si lega ad un altro bensì alle sue “risorse”. II. Dal punto di vista personale, il desiderio di chi non c’è più corrisponde al sentimento di mancanza per la perdita di un alterego (un altro se stesso fuori di sé) che confermava e nutriva un egoalter (un altro dentro di sé trasformato in una parte di sé), e motiva la ricerca di un’autosufficienza in grado di fare a meno dell’alterego esterno perché l’alter continua a vivere nell’ego-alter. Quando l’identità dell’individuo in lutto è un’identità prevalentemente personale, il desiderio di chi non c’è più ha la funzione di incrementare il desiderio di un sé in grado di far vivere l’altro dentro di sé sconfiggendo la morte. Ciò non implica che il legame col defunto venga sciolto ma basta che si trasformi incrementandone l’interiorità (i morti possono vivere dentro chi li ama tanto più quanto meno si è legati loro all’esterno). III. Dal punto di vista umano il desiderio di chi non c’è più corrisponde al sentimento di mancanza e di perdita, ma non per la propria biologia e la propria persona, bensì per la biologia e la persona dell’altro. Il desiderio ora è che l’altro che non c’è più possa continuare a soddisfare i propri bisogni e incontrare fuori di sé i propri alterego, e ciò equivale a difendere l’altro dalla morte e motiva quei tentativi di sostituirsi ai defunti che consolano chi morendo lascia qualcuno che l’ama (ma non per sé) a sostituirlo nella vita. Quando l’identità dell’individuo in lutto è un’identità prevalentemente umana, il desiderio che chi non c’è più continui ad amare ed essere amato ha la funzione di indurre chi resta a mettersi al servizio di chi non c’è più per sostituirlo nella vita, tentativo che può riuscire solo all’infinito, tentativo che dimostra l’impossibilità che la vita vinca la morte ma al tempo stesso che la morte vinca la vita. Via del desiderio che è resa possibile dal legame di approssimazione, un legarsi all’altro per l’altro e non per sé, che trova nel continuare a vivere per l’altro del lutto umano la sua piena realizzazione: sarebbe ancora un legame “per” l’altro un legame che la morte avesse il potere di sciogliere o di impedirne la trasformazione? Diventa ora evidente che quando si dice la cosa ovvia che la morte dei cari tutto elimina tranne il desiderio che nutriamo per loro, ci si riferisce al desiderio che nutre chi si identifica come essere umano quando perde una persona cara. Il desiderio di chi è in lutto di tornare a soddisfare i bisogni soddisfatti con la persona amata che si è persa (identificazione biologica) e quello di torna152 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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re a riconoscersi con un alterego esterno a sé (identificazione personale), sono infatti desideri effimeri: il primo si estingue quando sostituiamo il defunto e il secondo quando sentiamo vivere l’altro perduto dentro di noi e ci sembra che non sia mai morto. Solo con il tentativo sempre in forse e sempre rinnovantesi di sostituirsi a chi non c’è più, il desiderio dell’altro viene continuamente alimentato tendendo all’infinito. Tutti i lutti particolari che possiamo incontrare nell’esperienza nostra e degli altri sono varianti di una di queste tre categorie di lutto ciascuna con la sua “via del desiderio”. E ognuna può scorrere liscia verso la sua meta o incontrare difficoltà determinando la complessa fenomenologia del lutto della scena contemporanea dell’esistenza. Cominceremo ora a riflettere su alcuni aspetti di questa fenomenologia del lutto con la seguente premessa: la dinamica del desiderio così come emerge attraverso la riflessione sul lutto che abbiamo svolto fin qui determina la dinamica della vita sociale e culturale facendo di volta in volta prevalere nell’educazione una o un’altra modalità del lutto. L’identità biologica e l’identità personale sono state evidentemente finora padrone della scena, ma forse è arrivato il momento di far prevalere l’identità umana, promuovendo un’educazione sentimentale che si basi sul desiderio più autentico di tutti e di ciascuno: amare ed essere amati in modo umano, per il bene dell’amato prima che per il bene di chi ama, in modo da potere continuare ad essere amati anche dopo morti, conseguendo un doppio risultato: chi muore sa che qualcuno continuerà ad amarlo e desidererà sostituirsi a lui/lei; chi resta sa che il desiderio infinito che l’altro viva, il continuare a difenderlo dalla morte, può impedire alla morte di vincere anche quando ha inevitabilmente vinto, perché tutto si porta via tranne il desiderio dell’altro da sé che va oltre la morte dell’altro, e anche oltre la propria se si lasciano altri che a loro volta continuano a desiderarci. Riportiamo ora nei capitoli seguenti le ricerche, le riflessioni e i testi prodotti negli ultimi anni in questa prospettiva su situazioni emblematiche di lutto.

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Capitolo VI

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Il lutto tra disperazione e crescita

Appartiene all’esperienza comune l’osservazione per cui ci sono lutti che producono una disperazione invincibile bloccando la vita e lutti che rappresentano importanti passaggi di crescita personale e umana. Si sa, in altri termini, che il lutto è una crisi che, come tutte le crisi, può perdere l’esistenza o può farle fare un salto di qualità. È ovvio quindi che tutte le culture promuovano un’educazione all’elaborazione del lutto che mira, di fronte ad una perdita, a favorire le possibilità di uscirne cresciuti sulle possibilità di uscirne distrutti o bloccati. Anche volendosi limitare alla cultura occidentale di cui siamo parte sarebbe troppo lungo e impegnativo sia per chi scrive che per chi legge analizzare le linee evolutive che hanno portato attraverso trenta secoli di storia alla situazione attuale. Mi limiterò quindi a delineare i connotati dell’attualità in riferimento al punto che parlando di lutto mi sembra centrale: l’interpretazione delle emozioni del lutto. La concezione della buona morte (dell’altro e nostra) indica in tutte le epoche quale si pensa che sia l’ostacolo che può impedire di “crescere” di fronte al lutto e con quali strategie questo ostacolo possa essere superato. La concezione della “buona morte” dominante oggi in Occidente1 appare nelle inchieste nelle quali si chiede di rispondere alla domanda “Come vorresti morire?”. Quasi tutti, giovani e vecchi, rispondono pressappoco così: “Vorrei morire alla fine di una lunga vita spesa bene in modo istantaneo e indolore”. Una piccola ma consistente minoranza risponde: “Vorrei che di 1

F. Campione, La buona morte e il lutto, Clueb, Bologna 2021.

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fronte alla morte fosse sempre viva la speranza di non morire o qualcosa di simile”. Una sparuta minoranza risponde: “Vorrei morire dando senso alla mia morte”. Gli ostacoli fondamentali da superare per vivere bene la morte (l’altrui e la propria) ed elaborarne il lutto senza esserne distrutti sono quindi: - in primo luogo i rimpianti per non aver vissuto o non aver vissuto bene e la pessima qualità della vita delle fasi terminali; - in secondo luogo la difficoltà di sperare che morire non significhi un totale annullamento di sé; - in terzo luogo il timore che la morte non abbia senso e tolga senso alla vita. L’analisi delle reazioni alla perdita di una persona cara in relazione al “come” della sua morte fa intuire perché la nostra cultura ci educa più o meno esplicitamente ad elaborare i lutti in modo da potere dimenticare i cari e sostituirli con altri. E ci fa capire perché invece veniamo ormai poco educati alla speranza di non morire mai e di ricontrarci nell’aldilà, o perché meno ancora veniamo educati a pensare che si possa dare un senso alla propria morte. Quando muore un vecchio che ha vissuto abbastanza bene ed è morto senza grandi sofferenze ci consoliamo facilmente dicendo: “Non ha sofferto troppo, e poi aveva vissuto la sua vita”. Se muore un bambino anche se non ha sofferto diciamo: “Aveva ancora tutto da vivere”, ma tendiamo ad aggiungere: “almeno non ha sofferto”. Altre volte ma meno frequentemente la morte di un caro che era per noi inconcepibile ci piomba in uno stato di disperazione totale, a cui può seguire una grande angoscia al pensiero che se sono morte le persone che sostenevano la nostra vita anche noi moriremo. Meno frequentemente ancora, pensando ad un nostro caro che nel morire ha cercato di organizzare le cose in modo da “morire come aveva vissuto” riuscendo a dare un senso alla propria morte (come fa ad esempio uno che prima di morire dona gli organi, cerca di parlare coi cari chiedendo loro perdono o lasciando detto loro cosa vorrebbe che facessero per lui), ci consoliamo dicendo: “Ha vissuto ed è morto a suo modo, riuscendo a dare senso anche alla sua morte”. Ecco perché siamo sempre più attrezzati a combattere la morte precoce e il dolore, sempre meno ad aprirci vie di speranza e di senso. 155 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Ed ecco perché l’interpretazione dominante delle emozioni del lutto è che esse siano caratterizzate fondamentalmente dal dolore per la perdita di qualcuno che ci aiutava a vivere cioè a soddisfare i nostri bisogni. Laddove la morte del caro suscita invece disperazione e angoscia per il nulla che ci si prospetta, o vissuti di nonsenso di fronte a qualcuno che muore nell’insensatezza, le difficoltà di ascolto delle persone in lutto diventano gravissime anche da parte degli psicologi e finisce che si teorizzi, come fa la medicina palliativa, che la disperazione angosciata della persona in lutto o i suoi vissuti di non senso possano essere interpretati come rispettivamente un “dolore psichico” o un “dolore spirituale”2. Si spiega allora perché le filosofie che concepiscono l’uomo come un conatus (uno sforzo) di esistere o di permanere nell’essere, che si oppone strenuamente al nulla della morte, si ritengono sempre più idonee nella nostra contemporaneità a “leggere” i sentimenti di disperazione e di angoscia dell’uomo di fronte alla morte (propria e del caro ma pur sempre propria). Così come le religioni o le pseudoreligioni della cosiddetta New Age si ritengono più idonee ad aiutare chi è in lutto ad affrontare i vissuti di nonsenso che la morte introduce nell’esistenza di chi la sperimenta. Questo tentativo destinato a fallire ma sempre rinnovantesi della contemporaneità di scotomizzare l’angoscia del nulla che fa disperare e il nonsenso della morte, riducendoli a “dolori” (psichico e spirituale), ha anche un altro grave effetto accecante: sono le intuizioni dell’esperienza clinica che la moderna diagnostica (DSM V) occulta, come ad esempio le disperazioni, le angosce del nulla e i vissuti di nonsenso che si intravvedono dietro molte tossicomanie, molti suicidi e molti lutti impossibili da elaborare. E tuttavia non credo che basti dire che esiste una strategia dominante della nostra cultura di fronte al lutto che non può conquistare tutti perché si basa sul tentativo di ridurre l’uomo alla sua biologia (cioè all’adattamento nell’ambiente allo scopo del conseguimento del benessere attraverso il bilanciamento di gratificazioni e frustrazioni). È cioè vero che oggi quel che conta è non soffrire, soffrire meno o smettere di soffrire, ma resta qualcosa in comune tra chi basa la sua vita sulla ricerca del piacere e l’evitamento del dolore e chi basa la sua vita sulla ricerca della speranza di vita e l’evitamento dell’angoscia del nulla da una parte, e chi la ba2

F. Campione, Contro la morte, cit.

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sa sulla ricerca del senso della vita e l’evitamento del nonsenso, dall’altra. Hanno in comune la logica e la razionalità: chi negherebbe la legittimità sul piano razionale del combattere il dolore, l’angoscia e il nonsenso? Ma sappiamo anche che ci sono dolori che non si superano, angosce incedibili e insensatezze senza rimedio. Ora io credo, d’accordo con Lévinas3, che la cultura occidentale si è andata evolvendo in una direzione che presuppone l’occultamento dei dolori, delle angosce e delle mancanze di senso che non si possono superare; e che se si è passati da un’epoca in cui la ricerca di senso attraverso le religioni e la metafisica era dominante e vi dominava la ricerca della speranza ad una come l’attuale in cui domina la ricerca del piacere, è perché solo riducendo le negatività della vita a qualcosa (di biologico e misurabile) come il dolore si potrà dispiegare al massimo l’idea dominante in Occidente che risolvere un problema vuol dire “fare qualcosa”, escogitare una tecnica per risolverlo. E naturalmente solo se nell’umano tutto è riducibile a qualcosa che si possa “manipolare”, si potrà perseguire il progetto di una tecnica che si evolva incessantemente su se stessa. Il prezzo di questo “controllo” attraverso la riduzione dell’umano a ciò che si può tradurre in termini tecnici è la progressiva “espulsione” di tutto ciò che eccede un controllo tecnico. La storia della Follia così come l’ha delineata Foucault4 ne è un esempio, anche se c’è un modo più ottimistico di affrontare il problema che consiste nell’affrontarlo alla Dostoevskij, allorché nelle memorie dal sottosuolo5 dice pressappoco che è nella follia che può rifugiarsi il desiderio di libertà e di autenticità dell’uomo. Sosterrò allora che non riusciamo nella nostra contemporaneità a prenderci cura di certi lutti (quelli insuperabili che portano al suicidio, alle tossicomanie, all’omicidio, all’aborto, ecc.) fallendo il compito sociale e culturale di aiutare a crescere coloro che sono in lutto (e non si identificano con l’umano così come è concepito dalla nostra cultura). Proprio perché pensiamo che l’unica possibilità di aiutare chi è in lutto consiste nel fare qualcosa per fargli supe3 4 5

E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, cit. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1963. F. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, Einaudi, Torino 2005.

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rare il dolore, l’angoscia, la disperazione e il nonsenso. E interpretando le emozioni del lutto dal punto di vista di chi intende fare qualcosa per aiutare, finiamo per “allontanare” dallo sguardo quegli aspetti di queste emozioni che non potrebbero essere affrontati con questa impostazione. Il gesto fondante di questo “allontanamento” è probabilmente, come suggerisce Lévinas6, e come abbiamo visto nel paragrafo precedente, nella nostra cultura, il gesto di Socrate di allontanare le donne dalla scena della sua morte. Torno a citare testualmente dal Fedone cominciando dal punto in cui Socrate beve la cicuta7: E, detto ciò, accostò il bicchiere alle labbra e, tutto d’un fiato, senza un segno di disgusto, lo vuotò lietamente. Sino a quel punto i più tra noi erano alla meglio riusciti a trattenere il pianto; ma come lo vedemmo bere e aver bevuto, non ne potemmo più, e a me le lacrime, mio malgrado, vennero giù a fiotti; sicché, copertomi il viso, piansi me stesso, oh! non certo lui, ma la sventura mia, che rimanevo privo d’una tale amico. Critone, dal canto suo, incapace di frenare il pianto anche prima di me s’era levato in piedi per allontanarsi, mentre Apollodoro, che anche per l’innanzi non aveva cessato di piangere, allora, gittato un urlo, proruppe in tali lamenti e gemiti, che non ci fu tra i presenti chi non si sentisse spezzare il cuore, ad eccezione di lui, Socrate. Il quale: “Che cosa fate, disse, miei buoni amici? Se ho mandato via le donne l’ho fatto soprattutto perché non s’abbandonassero a codesti eccessi. E poi ho anche sentito che si deve finire tra voci di augurio. Siate dunque calmi e forti”. Ha cominciato Socrate ma abbiamo continuato a farlo sempre meglio: l’eccesso di dolore va evitato, e chi eccede, solitamente sono le donne anche oggi, va allontanato. E se fossero proprio quelli che piangono in modo eccessivo, proprio quelli che vengono allontanati, che poi, proprio perché non c’è posto per loro, cadono in situazioni di lutto insuperabile e la loro vita si blocca? 6 7

E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, cit. Platone, Fedone, cit.

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L’esperienza clinica di chi come me assiste da anni le persone in lutto dice che la maggior parte dei lutti si bloccano proprio perché l’espressione dei sentimenti negativi viene ostacolata, proprio perché chi piange a dismisura deve essere fermato: si esige “misura” nel dolore, nella disperazione e nel nonsenso. L’esperienza dice anche che spessissimo dietro gli esiti distruttivi o autodistruttivi (dalle tossicomanie, all’anoressia, al suicidio o all’omicidio) di un lutto c’è un eccesso che è stato “allontanato”, un eccesso che non ha potuto esprimersi, che era ritenuto illegittimo e immotivato perché metteva in discussione le unità di misura rassicuranti di chi voleva a tutti costi fare qualcosa per aiutare (se avessi bisogno di piangere sconsolatamente per anni questo eccesso sarebbe permesso?). E se proprio in questi eccessi, nel dolore folle, nell’angoscia folle e nel nonsenso senza rimedio delle donne e di Apollodoro, ci fosse qualcosa che, portato alla luce, ci consentisse di interpretare l’emozione del lutto in modo differente? E se piangessimo nell’emozione del lutto non per una perdita insopportabile, non per l’insormontabile angoscia che il nostro essere sia gettato nel nulla, non per l’impossibilità di dare senso alla morte, ma per essere, di fronte alla morte, di fronte a qualcosa che non si può ridurre né alla perdita dolorosa, né al nulla né al nonsenso? Riprendiamo ancora una volta Lévinas8: «Il rapporto alla morte… rapporto puramente emozionale, commovente di una commozione che non è fatta della ripercussione, sulla nostra sensibilità e sul nostro intelletto, di un precedente sapere. È un’emozione, un movimento, un’inquietudine all’ignoto». In altri termini, noi intrerpretiamo la morte come perdita dolorosa, come nulla che angoscia l’essere che vuole vivere, come irruzione del nonsenso nella vita, ma non abbiamo dati per farlo, perché noi in realtà vediamo soltanto che il caro non ci risponde più, ma non sappiamo dove è “andato”: non sappiamo se è irrimediabilmente perso ciò che ci dava, se è nulla ciò che egli era, se non ha più senso la sua vita. Potrebbe essere tutto questo ma lo ignoriamo. Certo, se abbiamo “deciso” che siamo esseri biologici i quali morendo entrano nel ciclo dell’azoto, possiamo di fronte al caro

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E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, cit.

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che non ci risponde più credere di sapere che si decomporrà contribuendo anonimamente al perpetuarsi del ciclo della vita, ma se questo sapere non ci acqueta e continuiamo a piangere, sentendo di essere entrati in una dimensione che non ci ricorda niente di ciò che abbiamo sperimentato prima? Certo, se abbiamo “deciso” che siamo esseri personali e che tutto esiste finché ci siamo e nulla esiste quando non ci siamo più, di fronte alla morte l’angoscia e la disperazione ci domineranno e potremo decidere di lottare fino all’ultimo istante per non cadere nel nulla facendo del nostro saperlo, come suggerisce Heidegger9, la fonte e l’alimento della nostra autenticità. Ma se neanche questo può acquetarci, se cioè non possiamo riuscire a vincere l’angoscia, allora possiamo scorgere in essa un orizzonte: c’è dell’altro oltre me se non riesco a vivere ogni istante come se fosse l’ultimo istante; il tempo limitato dell’esserci risveglia il tempo infinito, un tempo che ignoriamo se sia un altro essere, un non-essere o un “altrimenti che essere o non-essere”. Certo, se abbiamo deciso che siamo esseri umani e non leghiamo il bene al nostro esserci perché abbiamo scoperto che si può essere anche “per altri”, di fronte alla morte del caro possiamo scegliere di vivere per lui o per lei, di sostituirci a lui e far sì in tal modo che la morte non tolga senso né alla vita di chi è morto né alla nostra che restiamo. Ma il caro può non averci lasciato detto chiaramente cosa voleva che facessimo per lui dopo morto, e allora restiamo con l’eccesso della nostra libertà di scegliere di assumerci o meno per chi non c’è più una responsabilità così infinita da provocarci una strana vertigine, la “vertigine dell’infinito”. Ecco dunque in ogni caso il “positivo” dell’eccesso, di quell’eccesso che la nostra cultura allontana perché mette in crisi tutte le sue tecniche mettendo in crisi il sentimento di onnipotenza di ogni tecnica: il dolore folle, la disperazione folle, il nonsenso folle aprono una dimensione dell’oltre sé di chi soffre un lutto che lo trasforma in un’emozione pura, un’emozione che non sa di cosa è emozionata, perché di fronte alla morte si trova di fronte non ad esperienze o a ricordi o a conoscenze, ma alla pura interrogazione sull’ignoto, su ciò per cui non si danno esperienze, conoscenze, ricordi. Ed ecco perché questo eccesso non bisognerebbe solo temerlo: esso, lungi dall’essere alla base di ciò che temiamo di più di fron9

M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005.

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te ad un lutto (l’insuperabilità distruttiva di esso con tutte le sue conseguenze nella vita), rappresenta pur sempre un’apertura verso qualcosa di desiderabile. Se di fronte alla morte non so cosa mi addolora al punto da perdere la ragione (dolore folle), se non so cosa m’angoscia al punto da perdere la ragione (angoscia folle), se non so cosa rende insensata la mia vita alla tua morte (nonsenso folle), sono già ” fuori di me”, cioè quindi anche fuori dal dolore, dall’angoscia e dal nonsenso. Finché non avremo imparato che ci sono dolori, disperazioni e insensatezze che si superano rischiando la follia attraverso l’eccesso, e allontaneremo (alienazione) o reprimeremo gli eccessi perché abbiamo paura della follia (perché ci identifichiamo come esseri che con la loro ragione possono risolvere tutti i problemi e rispondere a tutte le domande), continuerà a crescere ai margini del nostro lavoro di medici, psicologi e psicoterapeuti un residuo di Umanità che potrà solo essere allontanata e alienata e repressa, ma che forse resta depositaria di ciò che è autenticamente umano al di là del conato di esistere: il consegnarsi come paziente ostaggio all’altro che fa appello a te nella nudità del suo volto, cioè nella sua nudità inerme e indifesa anche quando egli è morto. O forse bisognerebbe dire soprattutto quando è morto, cioè quando nel rispondergli chi resta può essere veramente disinteressato, non potendo più ottenere nulla da lui in cambio, e quando nessuno può sostituirci nel sostituirci a lui per vivere non solo per se stessi ma anche per lui, che non può più né chiedere né rispondere, e quindi chiede al di là del chiedere e risponde al di là del rispondere. Sulla base di quanto detto fin qui vorrei accennare al tema dell’aiuto per crescere a chi è nella crisi del lutto. I. Mi sembra che nella strategia moderna di aiuto alle persone in lutto ci si preoccupi poco o niente che superino il lutto crescendo: l’importanza è riservata al recupero di un adattamento nell’ambiente che consenta di tornare ad un relativo benessere dopo la perdita. Al massimo, in quest’ottica, che abbiamo chiamato “biologica”, si tende a promuovere una crescita intesa come affinamento delle strategie di adattamento. II. In piena crisi sono le strategie di aiuto, quella psicoanalitica e quella del viaggio di vita che trovava spesso nella letteratura i suoi modelli, per coloro che nel lutto hanno lo scopo di far vivere dentro di sé le persone care scomparse. Ciò, fondamentalmente, perché i tempi dell’attuazione di una strategia interiore (psi161 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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coanalitica o letteraria) sono tempi sempre meno compatibili con ritmi di vita che impongono la ricerca, nel tornare a vivere dopo una perdita, di un’efficienza non rispettosa dei tempi della soggettività. Ecco la ragione per la quale si incontrano oggi sempre più persone che, lasciate senza aiuto nelle ricerca di se stesse, dopo un lutto grave prendono direzioni “alternative”, talvolta spesso con sfumature “parapsicologiche” più che psicologiche e sempre più spesso sfocianti in situazioni di crisi bloccate o in vera e propria follia. III. Sotterranee (movimenti underground del new age) o deviate verso modi di vita particolari (naturismi, ecologismi, femminismi, ecc.) sono le vie di aiuto a coloro che cercano di dare un senso alla morte e di fronte al lutto incontrano la crisi dei rituali collettivi (quelli funebri in primo luogo), facendo di conseguenza tentativi più o meno riusciti di riritualizzare l’aiuto collettivo alle persone in lutto. In sostanza, penso che uscire da un lutto cresciuti significa qualcosa di diverso a seconda del modo in cui si concepisce l’uomo e ci si identifica come uomini ciascuno con il suo particolare “Io”. Per chi identifica l’uomo come un essere biologico e si identifica come tale, uscire cresciuti da un lutto significa avere acquisito tramite esso esperienze e conoscenze che renderanno più facile affrontare altri lutti. Per chi identifica l’uomo come persona unica e irripetibile e si identifica come tale, crescere attraverso un lutto significa uscirne con nuovi oggetti interni positivi (le persone care morte che ora vivono nell’interiorità arricchendola). Per chi identifica l’uomo come essere umano e si identifica come tale, crescere attraverso un lutto significa uscirne con una vita più sensata o con un nuovo superiore senso. Ma un essere biologico, un essere personale e un essere umano possono anche attraverso un lutto entrare in crisi nella loro particolare e specifica identificazione. L’impossibilità di sostituire qualcuno che si è perso può far capire ad un essere biologico che c’è qualcosa di insostituibile in ciascuno di noi, e farlo accedere alla dimensione di persona; l’impossibilità di far vivere dentro di sé una persona cara morta e di non cercarla più fuori di sé, può far capire ad un essere personale che c’è un’irriducibilità dell’altro a sé, e farlo accedere alla dimensione 162 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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umana; l’impossibilità di dare senso alla morte di un altro integrandola nella propria vita può far entrare in crisi l’umanità dell’essere umano, che restando solo si può trovare di fronte all’ignoto e aprirsi ad una dimensione “sovraumana”, nella quale si può vivere nell’eccesso di chi chiama chi non può rispondere e continua a rispondere a chi ormai non può più chiedere. Sono propenso a ritenere che quest’ultima crescita sia la reale crescita che l’uomo può conseguire nel superamento di un lutto. Attraverso l’emozione che l’inquietudine all’ignoto propria del lutto determina, allorché esso eccede le misure dell’Io, delle conoscenze e delle istituzioni (i rituali), l’uomo scorge l’oltre sé di un tempo che non è il tempo della sua vita, nel quale questo tempo di vita è inserito e non può contenerlo, tempo che può dargli la possibilità di superare un lutto non perché ha sostituito né perché ha fatto vivere dentro di sé o ha dato un senso alla morte, ma perché continua a desiderare e a piangere senza misura, all’infinito, chi non c’è più.

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Capitolo VII

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Le tracce dei morti

Resta traccia di coloro che possono essere desiderati e pianti all’infinito? I morti vanno a finire in niente o resta qualcosa di loro da qualche parte? Comincerò col dire che certamente i morti lasciano dietro di sé molte tracce: opere incompiute, ricordi, oggetti che portano il loro segno, eredità biologiche (come somiglianze o figli), personali ed umane, ecc. Tutto questo significa che qualcosa di loro resta, ma si potrebbe dire che si tratta di un “passato”, che magari fa fatica a passare e che influenza il presente e il futuro di chi resta, ma che prima o dopo passerà del tutto senza lasciare altra traccia che la nostalgia. Insomma ci sono tracce dei morti che ci mettono un po’ di tempo a diventare niente indicando che forse la morte di una persona è qualcosa di molto più lento della morte del suo corpo, una morte lunga, graduale, non identificabile con il preciso momento del trapasso. Ma dietro la domanda sulle tracce dei morti c’è l’idea che ci potrebbe essere nel morire qualcosa che non passa, qualcosa che resta, un essere e non un nulla. Tre sono le possibilità: la morte non lascia niente del nostro sé tranne la materia organica del cadavere destinato a contribuire al ciclo della vita (la morte lascia qualcosa di materiale ma il nulla di chi esisteva, la morte è un nulla per sé ma un essere per la Natura), la morte lascia un’altra vita (un essere), la morte lascia qualcosa che non si sa cosa sia (né essere né nulla). La prima alternativa sembra essere oggi la più probabile e la più fondata scientificamente. La seconda alternativa ha pochi ma agguerriti sostenitori in chi crede ad un qualche aldilà e in chi sente o crede di sentire le voci dei morti. La terza alternativa s’impone se nessuna delle prime due riesce chiaramente a prevalere. 164 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Ora chi sostiene che i morti parlano cerca di farlo portando prove scientifiche, cioè cercando di far constatare oggettivamente che i morti parlano e dicono cose sensate e chiaramente ascrivibili ad una dimensione non riducibile a quella della vita corrente. Con grande fatica e grande dedizione molte madri che hanno perso un figlio e non potevano sopportare che dopo la sua vita non ci fosse nulla si sono dedicate con vari mezzi (scrittura automatica di medium tra la madre e il morto; registrazione di nastri vuoti o riascolto di nastri su cui erano registrate trasmissioni in lingua straniera, ecc.) ad ascoltare la voce dei morti. Cos’hanno sentito? I morti parlano? Ebbene, devo dire che ci sono casi in cui non si può negare che si ascolti qualcosa di sensato (una risposta ad una domanda che gli è stata posta; un avvertimento di un avvenimento che ancora non è avvenuto; l’uso di parole che solo il morto e chi ascolta poteva conoscere). Sono proprio le voci dei morti o fenomeni di registrazione di “energie” ancora sconosciute che tentiamo di interpretare per renderle sensate? Il desiderio di una mamma che non vivrebbe più senza la convinzione di poter ancora comunicare col figlio morto tende a rendere sensate anche le registrazioni più dubbie e quindi si potrebbe pensare che sia una “proiezione” del desiderio a “produrre” le voci dei morti: forse che tutti i morti che comunicano con chi li sa ascoltare non dicono sempre che stanno benissimo di là, proprio come ogni mamma vorrebbe che il suo figlio morto stesse? Ma le cose non sono così semplici, poiché le voci possono essere ascoltate o decifrate nello stesso modo anche da persone che non hanno legami di parentela e desideri da proiettare. Io stesso da scettico ho ascoltato qualche “voce” molto chiara. Che si tratti delle voci dei morti è allora dimostrato? No, se si considera che le voci diventano più chiare dopo la prima volta che si è attribuito loro un significato, cioè quando si cerca di sentire qualcosa che già si conosce. Potrebbe significare che, come dopo aver visto l’immagine di un uomo in una nuvola è più probabile che la si riveda, così è più probabile sentire una voce dire qualcosa dopo che si è creduto di sentirlo la prima volta. Si tratterebbe allora di stimoli ambigui che possono essere “letti” in un modo o in un altro a seconda dell’atteggiamento assunto. Ho sentito quello che sembra una voce e se sto cercando mio figlio, la prendo per la voce di mio figlio morto, se non lo sto cer165 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cando posso ammettere che sembra proprio una voce umana ma potrebbe essere qualcosa che “sembra” una voce umana. E siccome ciò che sembra qualcosa è in un certo senso quel qualcosa, ciò che sembra la voce di un morto è in un certo senso la sua voce. Ma non tutto è veramente ciò che sembra. Allora possiamo uscirne solo se ci mettiamo d’accordo sull’atteggiamento da assumere nel guardare ciò che stiamo guardando, altrimenti a me “sembrerà” una voce umana e per te “sarà” la voce di tuo figlio. Ma come possono mettersi d’accordo sul modo di guardare il mondo chi può accettare la morte di qualcuno e chi non può accettarla? La questione appare allora come indecidibile: quanto sembra qualcosa è ciò che sembra, ma ciò non esclude che non sia quello che sembra! Che il morto resti in qualche modo vivo e possa parlarci è altrettanto probabile quanto che esso sia morto anche quando sembra vivo. Che dopo la morte ci sia un essere è altrettanto probabile che non ci sia nulla. Si fa strada allora la terza alternativa: ignoriamo cosa ci sia di là! Né essere né nulla! Ma non sarà proprio questa ignoranza e il mistero che porta con sé che cerchiamo di evitare quando ci accaniamo a voler dimostrare “scientificamente” che il morto è vivo o che il morto è proprio morto? Siamo proprio sicuri che non si possa vivere e vivere meglio la morte di qualcuno, ignorando se ne è rimasto qualcosa o non è rimasto niente? Perché sempre ci fanno tanta paura il mistero e le domande che porta con sé? Perché pensiamo che si risolverebbe tutto se sapessimo come stanno veramente le cose? E se invece non ci fosse niente da sapere? E se invece il sapere non fosse tutto? E se ci fossero misteri inaccessibili di fronte ai quali conviene fermarsi rispettosamente interrogandosi senza aspettarsi risposta? Ammettere finalmente i limiti della conoscenza migliorerebbe o peggiorerebbe l’Umanità? Sono domande che vanno approfondite. 1. Un cuore che sembra un sasso La morte è la fonte delle domande senza risposta: perché si muore? Che succede dopo la morte? Dove vanno a finire i morti? Finisce tutto o si passa ad un’altra vita? 166 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Sono le domande che alimentano le filosofie, le religioni e le concezioni del mondo di tutti tempi, senza che le risposte finora a disposizione possano ambire a presentarsi come definitive. Le stesse domande se le fanno le persone che hanno perso una persona cara e soprattutto un figlio piccolo o giovane. Ora però la difficoltà di trovare risposte convincenti più che essere la linfa vitale di ogni ricerca spirituale equivale a non riuscire a “rivivere” dopo un grave lutto. È per ciò che non si può più evitare di confrontarsi seriamente con coloro che sostengono di avere risposte certe, cioè con coloro che dicono di riuscire a mettersi in contatto con i morti e comunicare con loro. Se avessero ragione loro, infatti, sapremmo che non si muore, che dopo la morte si passa ad un’altra dimensione dell’esistenza dalla quale i morti ci parlano. L’idea che i morti parlano cioè che non sono morti corrisponde (a suo modo) ad una delle più antiche risposte alla domanda sulla natura della morte: la morte è un passaggio ad un’altra forma di vita. Le altre due risposte culturali a disposizione dell’Umanità sono: la morte è un passaggio verso il nulla o verso il tutto, la morte è un passaggio verso il mistero. Ci sarebbe per la verità una terza risposta (la morte è un “passaggio agli altri” che restano) ma è molto problematica nella cultura contemporanea. La prima risposta è ovviamente la più consolante per chi deve tornare a vivere dopo la morte di una persona cara, purché non si creda solo per fede che morendo si passa ad un’altra vita ma ci siano delle prove certe. Precisamente ciò che sostengono coloro che parlano con i morti. Ma come arrivano a parlarci? Per rispondere a questa domanda ho fatto un’intervista in profondità ad una persona che dopo la morte del figlio si è dedicata a registrare le voci dell’aldilà. La storia che ha raccontato somiglia a tante altre storie del genere e può essere considerata emblematica con il vantaggio di non essere un resoconto giornalistico ma di essere stata raccolta direttamente da chi ve la trasmette. Si tratta di una donna di circa sessant’anni ormai abbastanza nota e ricercata per “comunicare con l’aldilà”. È una persona di poca cultura ma intelligente e con un buon contatto interpersonale. Ne riporterò di seguito la testimonianza in prima persona così come l’ho trascritta in un pomeriggio che ho passato con lei. 167 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Quando è morto mio figlio (a diciassette anni!) rifiutai che era morto, mai ho voluto usare la parola morte. Sapevo che dovevo cercarlo da qualche parte. Pregai Dio di aiutarmi a vedere dove era andato a finire. Anche il cimitero l’ho rifiutato, mio figlio non poteva essere lì. La mente mi diceva che potevo cercarlo nell’aldilà e ho pensato alla Bibbia dove S. Paolo dice che un chicco di grano deve morire per rinascere. Cominciai a sentire che mio figlio esisteva ancora. Poi una sera, due mesi dopo dissi senza sapere perché a mia madre e a mio marito che potevano accendere la TV che prima non sopportavo. La accendono e c’era la Giovetti che presentava un libro, Alla ricerca del Paradiso. Mi procuro il libro e ci trovo dei contatti delle mamme coi trapassati. Quella stessa settimana esce su «Gente» un articolo su come si può comunicare con l’aldilà. Chiamo il 12, mi faccio dare l’indirizzo e il numero di telefono, chiamo e spiego la mia disperazione. La risposta fu: “Stai tranquilla, tuo figlio è un angelo. Si è ammazzato lui per non ammazzare due persone”. Una bici con una mamma e un bambino gli ha tagliato la strada in moto e lui per scansarli si è buttato tutto da una parte ed è andato a schiantarsi. Tutti l’hanno detto che si è ammazzato lui per non ucciderne due. Sei mesi dopo ho ricevuto l’invito ad un convegno a Cattolica ma l’esperienza è stata negativa, non mi interessavano le relazioni ma come si registravano le voci. C’era una signora che faceva sentire delle registrazioni ma erano così chiare che non ci credevo. Mi sono anche meravigliata che durante il pranzo tutte quelle madri che avevano perso un figlio scherzavano e ridevano su quello che gli era capitato. Fu in quel convegno che qualcuno mi consigliò di prendere un registratore, delle cuffie e una cassetta vergine, di accendere, fare delle domande e poi riascoltare. Mia madre non voleva perché pensava che potevo disturbare i morti, io al convegno avevo visto dei preti e l’ho minacciata di mandarla via se non mi lasciava fare, lei si è offesa ed è andata via. Così comincio a registrare ma niente. Chiedo a chi m’aveva dato il consiglio e dice di insistere che prima o poi le voci sarebbero venute. Passa un anno senza esito, solo la mia voce, uno strazio. Mi rivolgevo ai morti e pregavo (Ti prego, Cristo, mandamelo) ma non rispondevano. 168 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Un giovedì sera, come il giorno in cui era morto mio figlio, mio marito dice che deve andare al lavoro e per la prima volta in più di un anno mi lascia sola di notte. Ceno, guardo un po’ di TV e poi vado a letto. Verso l’una di notte, l’ora in cui mio figlio rientrava e io mi alzavo per parlare con lui, mi alzo, prendo un caffè e mi fumo una sigaretta. Poi torno a letto e mi dico il Rosario. Ad un certo punto sento un respiro dalla parte di mio marito, quella sera non mi ero messa i tappi perché non c’era mio marito che russava. Salto giù dal letto e vado in cucina spaventata. Quella notte non sono più tornata in stanza. Il giovedì successivo mio marito lavora nuovamente di notte. Stavolta mi sento abbracciare da dietro le spalle molto forte. La prima impressione fu che mio marito era tornato a farmi uno scherzo ma no… era di giugno. Il terzo giovedì durante il Rosario e in dormiveglia come le altre volte mi vedo di spalle tra due ali di folla con una camicetta gialla (un colore che non mi piace). Chiedo cosa accade e mi dicono che deve passare il Cristo che va al Calvario. Mi porto avanti e sono in uno spiazzo. Pensai che ci doveva essere anche la Madonna, la strada era antica (come la via Appia), alla destra vidi il Cristo con la Croce vestito di bianco. Faceva fatica. Quando arriva alla mia altezza si ferma, si gira dalla mia parte e mi dice: Vedi che tuo figlio ti deve parlare. Dove? chiedo. In Oratorio abbassa la testa e prosegue. Mi ha guardato in un modo come dire ti aiuto a portare la croce (questo è il pensiero che mi è venuto). Sudavo freddo e il cuore mi batteva forte. Scappai dal letto per andare in cucina a registrare i fatti dei tre giovedì. Erano le due di notte e in casa non c’era nessuno. Poi riascolto quello che ho registrato e nel bel mezzo sento la voce di un uomo giovane (una voce perfetta, limpida ma non era di mio figlio) che dice: “Massimo tu gloriven”. Non sono andata oltre quella notte. Il nastro non l’ho più riascoltato e non so più nemmeno dove è finito. Dopo di allora ho registrato sempre delle voci. Se chiedevo se disturbavo rispondevano “parla” o “telefona”. Col registratore possono dire solo una parola o due. Ho un quaderno pieno di queste parole, i nastri si sono tutti smagnetizzati tranne uno. Per esempio una volta ho detto: “La mamma ti pensa sempre”, la risposta è stata: “cuore”. Un giorno ho registrato un’amica che aveva l’angoscia di sa169 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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pere come stava il figlio morto Vittorio. Le parole registrate sono state: Con Vittorio Mamma tu. Seguiva un respiro fortissimo ed è stato allora che ho pensato che di là hanno i polmoni. Ormai registravo tutte le notti e a volte anche di giorno. Mio marito che non ci credeva mi rimproverava per essermi persa dietro alle registrazioni. Allora ho chiesto a mio figlio di dirmi il suo nome (Giovanni si chiamava) per farlo sentire a suo padre. Quando ho riascoltato ho sentito: Giovanni tuo oppure tuo Giovanni ti dico. L’ho fatto sentire a mio marito e lui mi ha regalato uno stereo. Mi ricordo di altre voci che ho registrato e ho appuntato nel mio quaderno. Una era: Qui tutti più giovani. Una volta dovevamo andare con mio marito a pescare e io ho registrato questa voce: Io verrò gita. Un’altra volta che mio marito stava male perché aveva mangiato i funghi ed è allergico, ho registrato due voci: Nino all’ospedale e poi: Problemi di lì. Piano piano anche mia madre c’ha creduto e io sono stata sempre più convinta. Pensa che una volta ho registrato questa voce: Adesso mamma fa fiamma e un momento dopo mi sono accesa una sigaretta. Mi aveva letto nel pensiero. Certe cose si possono capire e altre non si capiscono bene. Una volta ho registrato: O ma’, sono in cielo ed era chiaro. Un’altra volta la voce era: Che quaggiù son tutte anime, via c’è un cavallo, i critici fratelli. Oppure: Non c’è, su innanzi a Dio, su come vuole Dio può fare mari azzurri. Questo l’ho capito meno. Però cominciavo a stare meglio. Se non entravo in queste cose per la grande disperazione e il dolore disumano mi sarei uccisa anche se sono cattolica. Quando me ne sono resa conto ho pensato: cosa faccio? Cosa ne è della mia vita? La voce che ho registrato allora è stata: Piuttosto devi stare qua perché diverso (o dimesso) è il clima, qui lo stesso è vita. Ma ho pensato: un attimo ragazzi, andiamoci piano. È seguita una fase dove ho registrato giorno e notte anche se mi dicevano che i miei strumenti erano antiquati. Le voci che ho registrato sono state: Scelta è la Luisa (il mio nome) con strumenti da conservatore; Sono solo con Dio; ciao, ma’. Ero sempre più certa che fosse mio figlio a parlare perché in molte registrazioni c’era il suo nome, il mio e anche il co170 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gnome. Mandai i pezzetti di voci registrate ad un esperto che mi rispose così: Sono stupende voci paranormali. Io e te siamo come Jurgenson, non tutti prendono queste voci così chiare col registratore. Avevo passato tre anni di solo registratore, poi su consiglio di questo stesso esperto che mi incoraggiò passo alla radio e mi sintonizzo su una stazione straniera (per lo più slovene e russe, evito spagnolo e francese perché un po’ li capisco). Si aziona il registratore e si fa una domanda. Quando si riascolta si sente la risposta in italiano in mezzo al testo straniero. Ho segnato molte di queste registrazioni sul mio quaderno. Voce: Giovanni è primo angelo. Per me significa questo: Cristo dice che chi salva un’altra vita (come mio figlio) salva la sua. Voce: L’ermete ha angeli in purezza. Prima al mondo noi siamo quelli che di qui diventare uomini. Genitori da anemici figli di omini avanti camera. Siamo qui per darvi dei messaggi e senza litigare nel turbo annaffiato tutti per te discesi. Può ignorare diversi ponti. Assurgeva da nubi compiuto ha il tempo. Significa che si doveva purificare dalle scorie che è il purgatorio. Poi la voce continua: Tutto nuovo a tempi normali. Intanto da oggi i tempi sono diversi. Dispone Gesù. È alto il padre, semu vivi, semu un ordine, tante vite avere avanti. L’ermete è quello che parla. Di questa voce faccio sentire solo il primo pezzo perché la seconda parte non la capisco nemmeno io. Ho registrato la registrazione cancellando il pezzo che non si capisce. Un giorno ho chiesto a mio figlio: Perché non ho sentito nemmeno te?. Voce registrata: Sono un po’ lento mamma. Mi sono fermato con Ugo (il migliore amico trapassato cinque anni dopo di lui). Da quando uso la radio ho cominciato ad aiutare altre persone che hanno perso i figli. C’è tensione in questo lavoro, ventiquattro ore su ventiquattro con le cuffie, sono diventata ipertesa. Ma non sono stata in grado di dire di no. Perché, come dice un’amica che usa la scrittura ispirata: Le persone entrano con le lacrime agli occhi ed escono serene, perché sentono i loro ragazzi. 171 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Una mamma chiede: È lì Valentina?. La voce della registrazione risponde: Essa è di Dio, ha le ali. Una persona chiede: C’è la possibilità di comunicare con Gabriele? La voce risponde: Oggi tocca a Bestini Riccardo. La persona insiste: Potete darmi notizie di Gabriele? La voce: Gabriele canta, Gabriele si trova (segue un pezzo non decifrabile). Gabriele mi puoi dire il tuo nome? Risposta: Sempre quassù rimango. Due genitori interrogano: Ciao, Domè, siamo qui io e papà. Risposta: Io non muoio, io assunto Gesù. Altri dicono: C’è qui la tua mamma e la tua ragazza. Risposta: Stesse tranquille (il loro modo di parlare), presto ritorno. La ragazza chiede: Vorrei sapere se sta bene. Risposta: Su già le tende. La ragazza chiede: Dove sei? Come stai? E, un’altra cosa, sei tu che fai giochi con la macchina del Babbo? Risposta: Parecchi. Il cosmo è affascinante. Io non mi trovavo preparato e mi sentivo privo aldilà amico buono consolarmi. La ragazza chiede ancora: Sei lì con Giovanni? Risposta: Qui da fare per le vie del mondo, ognuno di noi va in uno spazio adatto. Un’altra madre chiede alla figlia morta: Come stai piccola? Risposta: Libera. Indietro nostra casetta, c’è lì sempre un gran spazio. Madre: In più ho tanta voglia di vederti. Risposta: Contatto è possibile. Io sono con te vicina senti passi ma non vedermi. (La mamma dopo sentirà i passi). Baba è con te (la ragazza aveva un medaglione di Saibaba). Mamma: Oggi non sono venuta al cimitero a cambiarti i fiori. Verrò domani. Risposta: E tra l’altro non vorrei farti spendo. Ho altra vita. Essere qui su per rendersi conto. Mamma: Domenica è il tuo compleanno. Risposta: Io ho sì la nostalgia ed è per te, ma sta’ tranquilla io sono a casa con te. Questa è verità. Mamma: Mi manchi tanto amore. Risposta: Grande verità e anche a me tu mi manchi. Una voce rivolta a me mi ha detto: Luisa ti sei fatta gli anni, ma non stare oltre nell’ombra. Qui avremo compagnia. Quanto vivere è compagnia negli altri e con noi confrontarsi. Mi volevano dire di andare da Costanzo ma se poi lì non si presentano, no, no… Preferisco fare tutto in casa. Un’amica che ha perso il fratello gli dice: Ti ringrazio per 172 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tutti i segnali che mi dai nei sogni. Risposta: Mal di testa violento. Ostacolo (il fratello è morto di tumore cerebrale). Una madre che non voleva che sua figlia donasse gli organi chiede: Ho perso una figlia di trent’anni. Vorrei sapere come sta. Risposta della voce registrata: Qua dice che è bellina e intera. Fin qui l’intervista. Poi chiedo a Luisa di farmi ascoltare qualche registrazione per constatare direttamente se effettivamente si sente qualche cosa che somigli ad un messaggio dal punto di vista di chi non ha niente da chiedere a qualcuno, cioè dal punto di vista oggettivo di chi non ha interesse a sentire una riposta consolante. Ci trasferiamo allora in una rudimentale sala di registrazione e Luisa mi spiega come lavora. Innanzitutto ascolta e riascolta le registrazioni finché non ha decifrato il messaggio, dopo di che lo riascolta ancora constatando che esso diventa sempre più chiaro. Allora lo stacca dal resto e constata che lo sente ancora più chiaramente. A questo punto chiedo di poter ascoltare qualcuno di questi messaggi, mi metto le cuffie e sento chiaramente due o tre brevi frasi fornite di significato ma ormai registrate a parte cioè non insieme alle parole della stazione radio russa o slovena. Confermo a Luisa che non mi sembrano certo allucinazioni (Ci sono anche queste dice) e la ringrazio per la collaborazione. La letteratura del campo1 conferma che siamo di fronte con Luisa ad un caso emblematico del tentativo di dimostrare a se stessi e agli altri che i morti ci parlano e quindi non muoiono. Vi ricorrono infatti tutte le caratteristiche salienti: I. una persona che perde un figlio (o un’altra persona cara prematuramente e/o traumaticamente) e non riesce in alcun modo ad accettarlo, anzi che si ucciderebbe se non trovasse una soluzione; II. succede qualcosa nella vita di questa persona, un incontro, un sogno, un’esperienza paranormale, che la convince che il figlio non è morto e si può comunicare con lui; III. da allora la persona dedica la sua vita alla comunicazione con l’aldilà e si sente meglio, cioè ricomincia ad aver voglia di vivere; 1

F. Brune, I morti ci parlano, Edizioni Mediterranee, Roma 2009.

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IV. si convince al punto della possibilità di comunicare con i morti che lo fa anche per altri.

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Analizziamo la situazione punto per punto alla luce di quanto ci ha detto Luisa. 1. La perdita di un figlio o di una persona cara, soprattutto se prematura, inaspettata e traumatica, può complicare, ritardare o bloccare l’elaborazione del lutto. Ma non accadendo così per tutte le persone, si può dire che la difficoltà di elaborazione del lutto non è dovuta solo all’evento tragico ma anche alle caratteristiche di personalità di chi lo subisce e al conseguente legame con il morto2. Se ho maturato la possibilità di una vita autonoma, quando muore mio figlio resterà la mia vita, ed elaborare il lutto significherà trovare altri affetti o vivere per altri figli, o far vivere il figlio dentro di me, oppure vivere per continuare la sua vita. Se non ho maturato la possibilità di una vita autonoma e mio figlio era “tutta” la mia vita mi sembrerà che della mia vita non resti niente e le soluzioni saranno più difficili: sostituire qualcuno che era tutta la mia vita può apparire improbabile; farlo vivere dentro di sè potrà sembrare un’illusione e continuare a vivere per lui un paradosso se era lui che faceva vivere me. Per Luisa il figlio era tutta la sua vita, era l’unico figlio ed è stato logicamente inconcepibile per lei pensare di averne un altro alla sua età, accontentarsi di averlo dentro e non poterlo più toccare e parlarci, o ancora peggio pensare di sostituirsi a lui, lei che voleva fargli da mamma e così aiutarlo a vivere la sua vita. In altri termini per Luisa e per molti altri come lei e legati al figlio come lei, quando un figlio muore sorge il sentimento di essere morti e di doverli raggiungere. Di fronte a questa inevitabile reazione le persone come Luisa nel nostro contesto non hanno altra alternativa per non soccombere che di aprirsi una via per pensare che i morti non muoiono. Infatti, nella nostra cultura di fronte alla morte ci sono solo due alternative: o accettazione o rifiuto! Sicché l’unica cosa che si dice a chi si ritrova nella condizione di Luisa è che devono arrivare ad accettare quello che è loro acca2

F. Campione, Perpatire, cit.

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duto, altrimenti non potranno fare altro che rifiutarlo, con le conseguenze relative (impossibilità di tornare a vivere soprattutto). In altri termini, se si hanno motivi per accettare la morte di un figlio, prima o dopo se ne elabora la perdita in uno dei modi che abbiamo indicato e si torna a vivere; in caso contrario la morte si rifiuta e il lutto diventa impossibile da elaborare. Bisognerebbe che la nostra cultura si aprisse ad una terza alternativa, in altre epoche aperta, e cioè all’alternativa del “tragico”: tragico è ciò che non si può accettare in quanto evento ma che non si può rifiutare in quanto esperienza! Vale a dire che le cose andrebbero in modo diverso e avremmo altre possibilità di aiutare coloro che non accettano la morte di un figlio se non avessimo da proporgli soltanto l’accettazione impossibile per loro, ma la possibilità umana di convivere con le tragedie che in tutti i tempi consiste nell’associare ad un evento l’impossibilità di accettarlo con l’impossibilità di rifiutarlo! Cosa farebbe una mamma a cui è morto un figlio se le si dicesse che non si può accettare la morte del figlio ma che non si può neanche rifiutarla? Forse per prima e più importante conseguenza si potrebbe rendere conto che l’evento tragico della morte del figlio è già avvenuto e rifiutarlo equivale a non riconoscere che “per lui” non si può più tornare indietro, cioè quasi a “proibirgli” di morire (“Non doveva morire!” si dice infatti). Nessuno può rifiutare la morte di un altro perché essa appartiene solo a lui! D’altra parte, si potrebbe rendere conto, quella mamma, che ha il diritto di non accettare la morte del figlio in quanto morte che la riguarda, in quanto le toglie la vita essendo tutta la sua vita, ma che questa è l’esperienza della morte del figlio non dal punto di vista del figlio ma dal punto di vista di chi viveva grazie a lui! Nessuno può essere obbligato ad accettare la morte di qualcuno che lo fa vivere perché questa morte lo riguarda profondamente, ma bisogna assumersi la responsabilità anche dell’altro che non c’è più per avere il diritto di soffrirne la perdita (come dimostra l’invincibile senso di colpa dei sopravvissuti!). Il senso del tragico (ci sono cose che non si possono accettare ma che al tempo stesso non si possono rifiutare) che sembra aver abbandonato una cultura in cui tutto tende a trasformarsi in commedia per essere vivibile, potrebbe far distinguere quanto nella morte di un figlio è la “sua” tragedia (di chi non voleva morire e senza colpa ha dovuto andarsene) e quanto è invece la tragedia di 175 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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coloro che restano (di chi non riesce a vivere senza coloro che non ci sono più e ha bisogno di negare in qualche modo la loro morte, ma potrebbe proprio per questo continuare a dare valore alla vita di chi non c’è più anche dopo, cioè anche quando non ha più niente da dare). È passato un anno prima che Luisa riuscisse a registrare qualcosa. Se in questo anno le fosse stato offerto un aiuto diverso da quello tendente a farle accettare l’inaccettabile, sarebbe andata nella direzione in cui è andata a cercare una soluzione? Le cose non sono andate così e Luisa inevitabilmente, dato il suo modo d’essere e il suo legame col figlio, ha preso un’altra strada. 2. La strada imboccata da Luisa si è aperta, attraverso un’esperienza della presenza del figlio e attraverso l’intervento del “divino”. Si tratta di risposte puntuali alle sue domande e alle sue preghiere: “Dov’è andato a finire mio figlio? Cristo, mandamelo”. Un giovedì, il giorno della morte del figlio, all’una di notte, l’ora in cui si alzava per parlare col figlio, è sola nel suo letto in stato di dormiveglia, senza i tappi che metteva alle orecchie quando accanto a lei russava il marito, e sente chiaramente un respiro. Chi non avrebbe pensato che fosse il respiro del figlio? Si spaventa e non torna più a letto quella notte. Il giovedì successivo sempre in dormiveglia si sente abbracciare da dietro: non può essere il marito a farle uno scherzo perché è fuori per lavoro, e quindi sarà nuovamente il figlio. Il giovedì dopo ancora, durante un altro dormiveglia vede Cristo che si volta verso di lei mentre si avvia al Calvario e le dice che il figlio è in oratorio e le vuole parlare. Lei va a registrare e finalmente una voce (probabilmente la stessa voce di Cristo) appare per dire qualcosa: “Massimo tu gloriven”. Il primo pensiero che viene in mente è che sono tutte cose che si è sognata (o ha allucinato). Ammettiamo che sia così: significa che non sono vere? Quello che sperimentiamo nei sogni è meno vero di quello che sperimentiamo da svegli o meno vivido e impressionante? Certo, se, come dice la canzone, “i sogni son desideri”, Luisa si è sognata le risposte alle sue domande e alle sue preghiere. Cioè sono risposte che ha “prodotto” lei stessa ponendole in una realtà altra apparentemente fuori di sé, quella del sogno, perché era l’unico modo per convincersi che fossero risposte vere. Forse Luisa non distingue bene tra il sogno e la realtà e si con176 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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vince per questo che le risposte avute in sogno siano vere, ma come la mettiamo con la voce registrata quella notte sul nastro? Il nastro non è nel sogno e può essere riascoltato da altri, ma dov’è finito il nastro? Luisa dice di non averlo più ascoltato e di non sapere più dove è andato a finire. Ha però annotato il contenuto Massimo tu glorien. Che significa questo contenuto? Si può solo dire che esso è talmente ambiguo che la sua “verità” e “realtà” dipendono dall’interpretazione che se ne dà. Per esempio, si potrebbe pensare che significhi per te viene la massima gloria e sarebbe qualcosa di significativo rispetto all’accaduto di quella notte. Ma cosa autorizza a darne una siffatta interpretazione? Diversamente stanno le cose dal punto di vista di Luisa. Quei giovedì ha ricevuto le risposte che voleva e l’ultimo giovedì è riuscita finalmente a registrare qualcosa che non fosse la sua propria voce: questo è quello che conta per lei, perché questo è quello che le fa intravedere una soluzione al problema esistenziale dell’accettabilità della vita dopo la morte del figlio. Una soluzione “magica”, da bambina, cioè di una persona che non distingue ancora tra i sogni e la realtà e quindi può produrre nei suoi sogni le risposte che le servono nella realtà pensando che valgano anche in essa. E se i bambini avessero per vivere soluzioni che gli adulti si possono solo “sognare”? D’altra parte, se qualcosa sembra un respiro, sembra un abbraccio, sembra una frase significativa, non ha almeno formalmente qualcosa che corrisponde a ciò che sembra? Mia figlia Sofì, anni 3 e mezzo, un giorno indicando la ghiaia del cortile ha detto: “Papà, guarda: un cuore che sembra un sasso!”. Ho guardato il sassolino che effettivamente aveva la forma di un cuore e mi è venuto voglia di correggerla precisando che si trattava piuttosto di un sasso che sembrava un cuore, ma poi ho riflettuto e non ho avuto cuore di farlo perché mi è apparso un terribile problema filosofico: perché dovrebbe prevalere nella percezione e quindi nell’esperienza di un oggetto la considerazione della sostanza sulla considerazione della sua forma? Mia figlia ha visto la forma di un cuore e ha fatto l’esperienza del sassolino attraverso la sua forma, indicando che la cosa più vera (l’essere proprio della cosa) per lei era la forma mentre l’accidente era la sostanza: un cuore che sembra un sasso. Non è forse un fatto convenzionale far prevalere la realtà, in quanto a verità di fatto, sul sogno? E se la nostra vita fosse tutto un sogno e avessero ragione Luisa e mia figlia e tutti i bambini? 177 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Nel caso di Luisa per esempio potrebbe significare che anche quando era vivo suo figlio era un suo sogno (come lei lo desiderava e lo vedeva e non come effettivamente era): significa che così come l’ha “prodotto” lei da vivo attraverso il suo desiderio, può riprodurlo da morto e vincere la morte. Anzi, forse non è mai morto e l’incidente nel quale è morto è solo un brutto sogno da cui bisogna imparare a svegliarsi. Donde si evincerebbe che anche nei sogni il potere dei desideri è limitato, altrimenti ci sarebbero solo bei sogni. 3. Quindi Luisa “scopre” che col figlio ci può parlare ergo che non è morto. Così sta sempre meglio, ma per convincersene davvero si deve dedicare completamente alla comunicazione con l’aldilà. La cosa le riempie la vita e ora non pensa più al suicidio. Ma come ottiene i messaggi? In che senso essi sono prove che i morti parlano? Quali sono i contenuti di questi messaggi? Qual è la loro significatività e il loro grado di verità? Ascolta e riascolta le registrazioni di trasmissioni in sloveno e in russo finché non le sembra di cogliere qualcosa di significativo. Quando si convince di una decifrazione riascolta il messaggio alla luce di ciò che è emerso di significativo e scopre che il messaggio diventa più chiaro. Allora isola il messaggio dal resto e lo registra su un nastro vuoto. Ora la voce dell’aldilà è stata colta e si può interpretare come una risposta alle domande poste. Dal punto di vista della psicologia della percezione si potrebbe dire che gli stimoli di una comunicazione complessa possono essere organizzati in vari modi a seconda della pregnanza. Vale a dire che ascoltando qualsiasi testo teoricamente incomprensibile potrebbero apparire elementi comprensibili per chi ascolta sulla base delle somiglianze che ci sono sempre tra le lingue umane. Cioè, qualche elemento incomprensibile del testo unendosi con altri elementi incomprensibili dello stesso testo potrebbe dare luogo a qualcosa di pregnante, cioè di significativo, per chi ascolta: da quel momento i due elementi sarebbero letti come appartenenti allo stesso insieme ed emergere come parola, frase o insieme di frasi, venire in primo piano e acquistare un significato che il parlante sloveno o russo non aveva alcuna intenzione di produrre. Ma come si spiegherebbe allora che i messaggi sembrano essere spesso proprio delle risposte alle domande di chi registra? La risposta è che questa osservazione più che il problema è la soluzio178 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ne. Infatti, è proprio sulla base delle sue domande che Luisa ascolta il testo: ciò che è pregnante nel testo deriva proprio dalle domande che fa. Il testo percepito, direbbero i fenomenologici o i gestaltisti, viene “organizzato” e reso pregnante in base alle intenzionalità di chi lo percepisce. Ecco perché non ci si deve meravigliare che i messaggi decifrati sembrano rispondere più o meno alle domande: quelle domande non possono che produrre in un testo ambiguo le pregnanze corrispondenti! Ci sono almeno due esempi significativi nella testimonianza di Luisa: I esempio. Le dicevano che i suoi strumenti erano antiquati e lei decifra questo messaggio: Scelta è Luisa con strumenti da conservatore. II messaggio. L’avevano invitata da Costanzo e lei decifra: Luisa ti sei fatta gli anni ma non stare nell’ombra. Ci sono addirittura casi in cui il messaggio sembra chiaramente decifrato in base ad un proprio pensiero: Adesso mamma fa fiamma, ma siccome l’ipotesi è che il messaggio viene da qualcuno ecco che diventa lettura del pensiero (siccome subito dopo mi sono accesa una sigaretta mio figlio mi aveva letto nel pensiero). Ci sono anche casi in cui traspare come un dialogo interiore tra Luisa che si fa le domande e i messaggi che decifra: pensava che se non si fosse accostata a queste cose, cioè alla comunicazione con l’aldilà, si sarebbe uccisa nonostante fosse cattolica, e decifra questo messaggio: Piuttosto devi stare qua perché diverso (o dimesso) è il clima, qui lo stesso è vita. Interpreta il messaggio come un invito dei morti a raggiungerla e aggiunge un “andiamoci piano ragazzi”. Ma comunque vengano prodotti i messaggi (tramite una riorganizzazione percettiva di un materiale ambiguo in base a ciò che è pregnante per le domande che si fa chi ascolta; oppure perché i morti parlano e la loro voce si registra) il problema principale sta nel significato della maggior parte dei messaggi: essi una volta decifrati sono ancora da interpretare! La letteratura sull’argomento3 conferma ciò che si osserva analizzando la testimonianza di Luisa: la maggior parte dei “messaggi” che i morti ci mandano sono frammentari, contraddittori, poco chiari o addirittura ermetici. L’esempio più evidente nella produzione di Luisa è il messag3

F. Brune, I morti ci parlano, cit.

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gio che dice: L’ermete ha angeli in purezza… l’ermete è quello che parla (rileggere dal testo precedente). Le spiegazioni possibili sono due: o non sappiamo ancora decifrare bene i messaggi dei morti; o sono fenomeni percettivi complessi che producono messaggi più o meno decifrabili a seconda dei fattori in campo (se ad esempio so chiaramente cosa ascoltare in un testo ambiguo è più probabile che lo decifri come un messaggio maggiormente comprensibile di quando non so cosa ascoltarvi). Nel primo caso l’aldilà esiste, i morti non muoiono, ma non capiamo bene cosa vogliono dirci; nel secondo caso l’aldilà non esiste ma se interroghiamo un testo incomprensibile chiedendogli che ci dica cosa ne è di un morto, qualcosa decifreremo ma sarà ancora una volta qualcosa da interpretare. Stando così le cose possiamo ipotizzare che parlare coi morti costituisce soluzione per chi non può accettare che siano morti, non per quello che comunicano ma per il fatto stesso che ci sembra che comunichino con noi. E se ce ne convinciamo possiamo fare come si fa quando si vuole comunicare con qualcuno di cui non si capisce la lingua ma che è chiaramente esistente: si prova a capirsi e si può passare tutta la vita a cercare di capirsi! Mi pare quindi che ciò che consola Luisa è più la convinzione che suo figlio non sia morto che non il poter dire che i suoi messaggi siano facilmente comprensibili: ogni tanto affiora qualche parola chiara che illumina, avvalora la presenza dell’assente, fa sperare di poterlo capire sempre di più e motiva il dedicarsi a decifrarne i messaggi. 4. Dopo un po’ Luisa si è messa ad aiutare anche gli altri e ne ha ricevuto una nuova motivazione a continuare: entrano con le lacrime agli occhi ed escono raggianti per aver comunicato con i loro ragazzi! Chi si è esercitato per anni a riorganizzare un materiale percettivo incomprensibile facendone emergere isole di decifrabilità può aiutare chi comincia a pensare di poter risolvere il proprio lutto comunicando con i propri morti. Oppure, nell’altra ipotesi esplicativa, chi cerca di decifrare da anni le voci dei morti più aiutare coloro che ancora non lo sanno fare. Luisa testimonia della possibilità di comunicare coi morti a chi ne ha bisogno e li guida verso la sua medesima soluzione. Ma per molti non funziona. Per chi si accosta alla pratica della 180 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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comunicazione con i morti la difficoltà di decifrare i messaggi a cui abbiamo fatto riferimento può rappresentare una fonte di dubbio e di delusione, oppure una momentanea consolazione nella transizione verso un’altra soluzione. Ci sono molti che si accostano alla comunicazione coi morti e vanno da Luisa finché non fanno un altro figlio o non trovano un altro modo per elaborare il lutto (ad esempio un’Associazione per ricordare il figlio morto e farlo vivere in un altro modo). In sostanza la via proposta da chi pensa possibile comunicare coi morti funziona solo per coloro che vi si dedicano per tutta la vita. Per tanti altri può essere solo una “stazione di transito” verso altre soluzioni o una soluzione estrema dopo averne tentate altre. La conclusione provvisoria che mi sembra di poter delineare è la seguente. Se l’unica soluzione di fronte alla morte di un figlio è di accettare questa morte, ci sono coloro che non possono accedervi essendo impossibile per loro una tale accettazione. Per costoro ci sono due possibilità: riuscire a convivere con la tragedia (cioè non accettare e non rifiutare la morte del figlio) attraverso l’aiuto degli altri; negare che il figlio sia morto e aprirsi vie di comunicazioni con l’aldilà. La prima soluzione sarebbe quella più auspicabile ma nella nostra cultura è più improbabile della seconda. Quando quest’ultima viene praticata e permette ad una madre, come nel caso di Luisa, di non uccidersi e tornare a vivere dovrebbe essere considerata accettabile come soluzione esistenziale. Essa incontra il suo limite quando si cerca di praticarla da parte di altri e non ci si riesce perché l’esistenza dell’aldilà non è così chiara né i messaggi dei morti sono così facilmente decifrabili. In tali casi bisogna complicare le cose ed introdurre una possibile spiegazione linguistica della situazione. Cosa s’intende per aldilà, cosa s’intende quando si dice che i morti ci parlano? L’aldilà non è forse anche ciò che resta senza risposta come per esempio la domanda sul perché si muore e su dove vanno a finire i morti? E in questo senso non è un aldilà anche l’oltre che resta dietro ogni nostra ignoranza? Se anche si trattasse solo del fatto che non possiamo sapere nulla della morte e di fronte ad essa restiamo incapaci di vivere perché non riusciamo in alcun modo a controllarne il significato, non si tratterebbe pur sempre di un aldilà e di un mistero? 181 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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E se il passaggio della morte fosse destinato ad essere un “passaggio nell’ignoto”, come dice Lévinas4? E se anche i morti ci parlassero attraverso ciò che di essi resta in noi, cioè se anche parlassero attraverso di noi, sarebbe meno misteriosa la loro voce? Non sarà che dovremmo smettere di voler interpretare la voce dei morti perché essi esistono lo stesso anche se non li capiamo e dovremmo smettere di volerli riportare in vita perché non esisterebbero lo stesso anche se comunicassimo con loro? È precisamente la soluzione alternativa già indicata: per sé i morti muoiono definitivamente ed è vano volerli rianimare, ma per chi resta essi sono vivissimi ed è solo sostituendosi a loro nel vivere che si possono cercare di capire. Il punto più alto della cultura greca è stato raggiunto dalla proposta di Anassagora5 di abituarsi alla morte (anche a quella dei figli) e quindi mantenere di fronte ad essa la compostezza. Non potremmo renderci conto dopo qualche millennio che l’unico modo di far vivere i morti è vivere per loro (per farli ancora vivere sostituendoci a loro) così come loro sono morti per noi (cioè assumendosi la responsabilità che toccava a loro per lasciarci il posto nella vita)? Ma come potremmo dire ad una mamma come Luisa che suo figlio è morto per lei e lei deve vivere per lui? O non c’è altra risorsa che tornare a credere nell’aldilà? La crisi della fede nell’aldilà sembra ormai irreversibile anche se il sentimento religioso a cui si accompagnava ha un revival non effimero nella contemporaneità. Anche quelli che vorrebbero crederci o pensano che sarebbe bello che ci fosse ne dubitano, perché provarne l’esistenza coi criteri vigenti, cioè quelli della scienza moderna, risulta molto arduo. In realtà basterebbe togliere al “dopomorte” il suo carattere immaginario e magico per accorgersi che noi stessi siamo il “dopomorte” di quelli che non ci sono più, cioè che c’è un oltre che non necessita di prove: noi moriamo e restano gli altri, così come altri sono morti e siamo restati noi. Ma ora non è più dell’aldilà che si tratta bensì di ciò che resta, di ciò che c’è al di là della vita di ciascuno, gli altri. 4

E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, cit. F. Campione, Meditare sulla morte oggi. Dialogo immaginario con Carlo Diano, in L’esilio del Sapiente. Carlo Diano a cent’anni dalla nascita, Padova, 23 ottobre 2002 (a cura di Oddone Longo), Esedra, Padova 2002. 5

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Certo coloro che non vogliono morire preferiscono l’aldilà, immaginare che non si muore del tutto e si passa nell’aldilà, piuttosto che si muore e al di là restano solo gli altri. Ma è proprio vero che al di là restano solo gli altri? Sarebbe vero se ciascuno fosse fatto solo di ciò che gli appartiene e non anche di ciò che appartiene ad altri. Come sarebbe la morte se sapessimo che anche da vivi non siamo solo noi stessi ma siamo anche “altri”? Non significherebbe forse che anche da vivi siamo un po’ morti? Che siamo non solo noi stessi ma anche l’aldilà degli altri che non ci sono più? Dovremmo, seguendo questa linea, cercare di capire che significa che siamo fatti di ciò che gli altri ci hanno lasciato oltre che di ciò che siamo per noi stessi. Significa che i morti vivono in noi o che noi viviamo anche per loro? Se i nostri morti vivessero in noi, significherebbe che abbiamo il potere di trasformarli in parti di noi e così di sottrarli alla morte. Ma sono ancora loro a vivere in noi o tratteniamo di loro, facendole diventare parti di noi, solo le parti che vogliamo noi? Farli vivere in noi non significa allora “tradirli”, una specie di assimilazione a noi, cioè come se ce li mangiassimo e li digerissimo trasformandoli in sangue nostro, in vita nostra? È quello che vorremmo facessero di noi gli altri che restano al di là di noi? Se invece essere l’aldilà di chi non c’è più significasse vivere anche per i nostri morti, sostituirsi a loro, sarebbero loro a vivere ma grazie ad altri, per interposta persona. Sarebbe una vita per loro ma sempre una vita di altri. Insomma, se rinunciamo ad un aldilà incerto per un aldilà certo rinunciamo a rinascere e ci dobbiamo accontentare di vivere sotto forma d’altri o “ispirando” altri a vivere per noi. E vale la pena di rinunciare tutte le volte che si rinuncia a qualcosa per qualcos’altro di maggior valore. Ora, cosa ha più valore (dove c’è più Bene): la propria vita o la vita degli altri? L’Umanità che privilegia la vita dell’individuo che vive per se stesso aborrisce giustamente la sua fine (il massimo dell’umanità in questo caso è lo sforzo di esistere) e preferisce l’aldilà nel quale la vita individuale risorge e si eternizza. L’Umanità che privilegia la vita dell’individuo che vive per l’altro aborrisce la fine dell’altro (il massimo dell’umanità in questo caso è il “non uccidere”) e preferisce l’aldilà nel quale l’individuo si affida all’altro fecondandone l’esistenza ma lasciandogli il posto. 183 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Difendere la propria vita o lasciare bene gli altri diventano rispettivamente gli scopi dominanti del morire. La difesa della vita propria a tutti costi giustifica la paura e l’angoscia e alimenta l’uccisione d’altri e la guerra; pensare agli altri nel morire (sia nel senso di difendere la loro vita sia nel senso di morire pensando a loro) giustifica il desiderio di morire e alimenta la responsabilità per gli altri e la pace. L’atteggiamento verso la morte determina la storia dell’Umanità e questa storia è anche la storia dei rituali funebri che ogni cultura sviluppa di fronte alle crisi individuali e collettive che la morte della persona cara determina. Ma prima di affrontare il tema dei rituali funebri dobbiamo soffermarci brevemente sulle cosiddette esperienze di “vicinanza alla morte” (near death experience), dette anche impropriamente “pre-morte”. 2. I morti sono vivi che non hanno interesse ad esistere Ogni tanto qualcuno esce dal coma e racconta di aver incontrato i morti e di aver parlato con loro in una atmosfera di pace e di armonia6. Il fatto si spiega solo ipotizzando che essi siano ancora vivi, ma che non interessi loro tornare tra noi; altrimenti sarebbero scontenti della propria condizione, si aggrapperebbero al comatoso che li incontra e vorrebbero tornare insieme a lui nella vita comune. Sono vivi, ma disinteressati ad esistere. Diversamente stavano le cose nell’antichità, come dimostra ciò che Achille dice pressappoco ad Ulisse incontrandolo nell’Ade: «Meglio sarebbe essere un servo tra uomini in terra piuttosto che Achille tra i morti». Una volta chi viaggiava tra i morti testimoniava che essi avrebbero voluto vivere, oggi chi ha l’opportunità di incontrarli (o “pretende” di averli incontrati) constata che stanno bene dove sono. In entrambi i casi, però, i morti sembrano lieti di intrattenersi con i vivi e di parlar loro della propria condizione. Sia che abbiano o meno interesse a tornare a vivere sulla terra, sono contenti di poter parlare con qualcuno che appartiene a quel mondo cui anche loro prima appartenevano. Cosa vuol dire? Potrebbe voler forse significare che continuano a condividere con i vivi una “forma” di vita? 6 Ho affrontato questo tema in modo approfondito in un mio scritto “autobiografico”: F. Campione, Quale Amore. Quale Morte, Apocrifi, Bologna 2010.

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Potrebbe essere che i morti non appartengono più alla vita (sia quando ne hanno nostalgia, sia quando non hanno alcun interesse a tornare nel mondo), ma che la vita li riguardi in quanto sono stati in vita e quando “incontrano” un vivo ci vedono qualcosa di ciò che sono stati. Che però la vita riguardi anche i morti, e non solo i vivi, è qualcosa che interessa i vivi. Infatti ci vogliono dei vivi che viaggino nell’aldilà (come immaginava la mitologia greca e come ha immaginato Dante nella Divina Commedia) o che incontrino i defunti in particolari condizioni di vita (il coma o altre in cui qualcuno non è pienamente in possesso della propria “lucidità”: il sogno, l’ipnosi…). In sostanza, perché la vita riguardi anche i morti è necessario che i vivi “si sostituiscano” ad essi e diano testimonianza della propria condizione. Possono farlo solo se qualcosa della morte riguarda i vivi, solo se essere vivi significa anche essere un po’ morti (così come essere morti vuol dire condividere una forma di vita). Ma qual è la forma di morte che i vivi condividono con i defunti? Forse il desiderio di fare esperienza della morte svelandone il mistero, cioè sapere cosa c’era prima di nascere (nel non-essere ancora) e cosa ci sarà dopo esser morti (nel non-essere più). Ecco perché in tutti tempi i morti riguardano i vivi e i vivi immaginano di incontrarli o li incontrano per davvero. E come immaginano di incontrarli e li incontrano dipende da come rispondono al desiderio di fare esperienza della morte. Nell’antichità si rispondeva trasformandolo (questo desiderio) nel bisogno di immortalità, cioè di morire diventando “dei” (cioè immortali) o almeno “eroi” (cioè immortali nella memoria). I morti in questa accezione sono vivi (e possono perciò comunicare con i vivi) perché non smettono di desiderare di essere vivi. Nelle culture originate dalle religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo, islamismo) si è risposto e si risponde al desiderio di fare esperienza della morte trasformandolo nel bisogno di eternità, cioè di morire “non morendo” o “rinascendo per grazia divina”. I morti in questa accezione sono vivi (e possono perciò comunicare coi vivi) perché una volta arrivati di là una forza benefica (l’amore di Dio) li ha fatti rinascere ad un’altra vita. Nella cultura attuale il bisogno di immortalità e di eternità sono bisogni ritenuti impossibili. Si concepiscono invece tre possibilità: o morire è qualcosa di biologico e non riguarda il vivente bensì ciò che del vivente è collegato con i cicli della vita in generale; 185 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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o morire significa “entrare nel nulla” e di questo nulla non si può fare esperienza (con la conseguenza dell’angoscia), oppure tutte le soluzioni di tutti i tempi sono buone a seconda degli individui per sedare l’angoscia del nulla (il bricolage tipico delle culture new age). I morti sono morti in senso biologico e con loro non si può comunicare, perché comunicare implica sempre che viva il sistema nervoso (sicché gli incontri dei comatosi con i morti devono essere spiegati su base neurologica). Oppure i morti non sono più niente e quando crediamo di parlare con i morti ciò accade perché attacchiamo l’etichetta di “morto” a qualcosa che invece è vivo. Oppure i morti possono essere dei, demoni, nulla, energia, fantasie individuali, entità spirituali misteriose, illusioni che alludono al Tutto. A seconda di cosa ciascuno ha bisogno, può fare un “bricolage” adatto e procurarsi ciò che gli serve per stare meglio. A meno che il desiderio di fare esperienza della morte non sia effettivamente impossibile, non perché con la morte si entra nel nulla, ma proprio perché si può fare esperienza solo di ciò che ci appartiene e non di ciò che ci riguarda ma che appartiene ad altri. Il nulla (di prima di nascere e di dopo la morte) non ci appartiene e in quanto tale non ne possiamo fare esperienza. Ma esso ci riguarda e in quanto tale è “qualcosa” pur non esistendo. Come qualcuno che ci chiama alla vita prima di nascere e che continua ad aspettarci dopo che siamo morti. I morti sono vivi non perché esistono o perché interessi loro esistere, ma perché ci riguardano: li aspettiamo senza sapere perché, li amiamo anche se non ci risponderanno. Quando parliamo con i morti la loro voce è quella che noi abbiamo prestato loro, ma non è la nostra voce, è la loro voce come l’abbiamo “ospitata” in noi per sostituirci a loro. E quando li incontriamo, il nostro desiderio di fare esperienza della loro condizione, invece di trasformarsi nel bisogno di immortalità e di eternità, nell’angoscia del nulla o in bricolage new age, può trasformarsi nel desiderio infinito che tornino non per appartenerci o per riappartenere alla vita (cosa impossibile), ma perché se uno è stato vivo non potrà mai morire finché c’è qualcuno che vive e che desidera fare esperienza del nulla che appartiene ai suoi cari. I morti, in sostanza, rappresenterebbero il desiderio puro e disinteressato dell’altro, al di là delle risposte che si ricevono dal mondo dei morti.

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Capitolo VIII

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Lutto e rituali funebri: verso l’inutilità

Lo psicologo clinico che lavora nell’assistenza ai morenti e alle persone in lutto sente la responsabilità di provare ad aiutare tutti coloro che gli chiedono aiuto qualunque sia la loro prospettiva antropologica. E bisogna sapere in quale contesto culturale si opera. Allora ci si informa e si apprende che viviamo in una Modernità, che tenderebbe a “decostruire la mortalità”, mentre corre verso una Postmodernità che vorrebbe, invece, “decostruire l’immortalità”. Detto con le parole di Bauman, “decostuire la mortalità” significa convincersi che «La morte come tale è inevitabile; ma ogni esempio concreto di morte è contingente»1. Con la conseguenza che ci possiamo “distrarre” dalla normalità che ci angoscia dedicandoci a lottare contro le cause della nostra particolare morte. «Anche i dottori aggiunge Bauman che si frappongono fra me e la mia morte non combattono la mortalità, ma combattono valentemente e abilmente ciascuna delle sue cause particolari»2. Quanto al tentativo postmoderno di “decostruire l’immortalità”, esso si basa sul gioco dell’apparire e dello scomparire, per cui “ogni cosa diventa immortale e nulla lo è”3. Come in TV, dove si può apparire, scomparire e poi riapparire. Tutto è transitorio e solo questa transitorietà è immortale. La morte è diventata scomparsa, l’immortalità riapparizione, al prezzo della trasformazione degli uomini in “cose animate”, le immagini. 1

S. Bauman, Il teatro dell’immortalità, Il Mulino, Bologna 1995, p. 182. Ivi, p. 184. Prova di ciò è il fatto che si parla tanto di cause di morte anche se non si parla di morte. 3 Ivi, p. 231. 2

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Le immagini dei nostri cari morti che scorrono nei video che abbiamo registrato non li fanno apparire a volte quasi più “vivi” di quando erano in vita? Si spiega allora il perché si contendono il campo in Occidente due concezioni del lutto che possiamo illustrare attraverso i comportamenti individuali e collettivi. I. Se siamo “moderni”, se siamo cioè impegnati a combattere le cause della nostra particolare morte, allorché l’angoscia della “mortalità” ci toccherà attraverso l’esperienza della morte di un caro, dovremo cercare altre modalità di distrazione, altre modalità di “decostruzione della mortalità”. Quale migliore occasione per trasformare la morte del caro in una possibile causa della nostra stessa morte? L’elaborazione del lutto in questa prospettiva avrà finalità di riadattamento e di sopravvivenza e se sarà efficace il dolente non correrà più il rischio di essere annientato dal dolore della perdita. La vita di chi è ancora in vita avrà trionfato sulla morte di chi non c’è più ancora per un po’, e la distrazione dalla mortalità sarà efficace fino ad una nuova malattia mortale od a un nuovo lutto. Dal punto di vista dell’aiuto ai dolenti l’elaborazione del lutto sarà concepita come una “terapia” per coloro che per qualche ragione hanno un “lutto patologico”, cioè per coloro che non riescono a distrarsi dalla consapevolezza della mortalità che il lutto ha risvegliato. In questa prospettiva i rituali funebri diventano sempre più vuoti o restano al massimo “uno strumento tra gli altri”, una specie di “rituali di passaggio”4 per favorire la sopravvivenza e il riadattamento dopo una perdita. II. Se siamo, invece, già post-moderni, allorché il caro morirà ci sembrerà che egli si sottragga inaspettatamente alle regole del gioco di apparizione e scomparsa nel quale siamo immersi, e cercheremo di riportarlo nei ranghi. Infatti, quando qualcuno muore nell’era postmoderna è come se da “cosa inanimata” manipolabile nella sua intenzionalità qual è (un’immagine che tende a riapparire tanto più quanto più regolarmente alla sua apparizione segue la sua scomparsa) diventasse qualcosa (il cadavere) senza intenzionalità e quindi al di là di ogni manipolazione. Cominceremo allora a chiuderci in una stanza a vedere i video che avevamo registrato e nei quali il morto “è” vivo, rilanceremo 4

A. Van Gennep, Riti di passaggio, Boringhieri, Torino 2002.

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facendoci fecondare dai suoi spermatozoi che avevamo prudentemente conservato in una banca del seme, poi ci guarderemo allo specchio e ci ricorderemo che siamo stati clonati a immagine e somiglianza del nostro caro, infine potremo credere di ascoltare la voce del nostro caro nel gracchiare di una registrazione radiofonica di un niente con sottofondo slavo, come fanno da noi (l’abbiamo visto) quelli che sostengono la possibilità di parlare con i morti. L’elaborazione del lutto consisterà ora nell’indurre il morto a rispettare di nuovo le regole del gioco di apparizione e scomparsa a cui aveva cercato di sottrarsi, e l’aiuto ai dolenti che non ce la fanno da soli sarà rappresentato da una serie di tecniche in grado di far apparire il morto come cosa animata, cioè fornita di intenzionalità, sebbene nella forma dei suoi “doppi” (visivi, biologici o parapsicologici o virtuali). Si intuisce che dei rituali funebri tradizionali, quando il Postmoderno avrà soppiantato del tutto la Modernità, si perderà persino la memoria, a meno che non si tratti di “magie” mediatiche o informatiche in grado di far “riapparire” il morto. Viviamo quindi in un contesto in cui dominano strategie verso la morte (la decostruzione della mortalità e la decostruzione dell’immortalità) che tendono a far scomparire e a rendere inutili i rituali funebri, intesi nell’accezione più ampia di pratiche simboliche (funerale, pianto rituale, culto dei morti, feste dei morti, ecc.) tendenti a risolvere i problemi che la morte pone agli individui e alla società tutte le volte che qualcuno muore. E tuttavia, le cose non sono così semplici, perché il passato non passa mai del tutto o ritorna sotto altre forme, comprese le forme di altre culture. Infatti, nel nostro contesto possiamo incontrare: il passato sempre presente della ritualità cristiana; il passato recente dell’illuminismo, dello storicismo e del materialismo che si prolungano nelle moderne ideologie scientiste; il passato remoto del paganesimo che si prolunga nella cosiddetta new age o post new age e si traveste tramite le maschere delle filosofie più o meno “orientali”. Per non parlare del futuro, alluso dalla multiculturalità e multietnicità che la cosiddetta globalizzazione induce invitandoci ad uscire tutti dalle nostre ristrette prospettive, magari per recuperarle nella consapevolezza della loro particolarità che rende possibile il rispetto reciproco. E così nella pratica clinica si incontrano le più varie modalità di elaborare il lutto e di concepire e praticare i rituali funerari, a di189 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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spetto delle tendenze indicate dalle sintesi sociologiche, fino al sospetto che la cultura sia pluristratificata in un modo talmente complesso che solo a partire dal confronto tra chi deve elaborare un lutto e chi lo aiuta in questo si possa cogliere la complessità delle risposte culturali alla morte; facendo chiarezza e individuando altre soluzioni che vadano ad aggiungersi nel futuro agli strati fin qui sedimentati come contributo specifico di questa epoca alla crescita dell’Umanità e dell’Umano. Se ci riferiamo a questo confronto tra chi li aiuta e i dolenti che devono elaborare il lutto, possiamo individuare alcune tipologie di elaborazione del lutto, ciascuna delle quali corrisponde ad una concezione dell’uomo, e quindi della natura umana (coi suoi rituali, i suoi miti, credenze, ideologie, tecniche, ecc.) e delle sue funzioni rispetto alla morte. C’è la modalità di elaborazione che ha come scopo del lavoro del lutto la sostituzione della perdita (che è la modalità biologica), la modalità che ha come scopo del lutto il far vivere il morto in un’altra dimensione (ad esempio la dimensione interiore, che è la modalità personale), la modalità che ha come scopo di dare senso alla morte sia per chi muore sia per chi resta (che è la modalità umana). Come si vede, queste modalità sono caratterizzate dal porre l’accento quanto alle finalità del lutto rispettivamente: sulle necessità di chi resta, sulle necessità del morto, sulle necessità di entrambi. Propongo di parlare dei rituali funebri nell’ottica del lutto individuale e quindi di distinguere i rituali in base al criterio del beneficiario. Bisogna in altri termini chiedersi ogni volta che si analizzano i rituali funebri: chi ne è il beneficiario? Per chi sono i rituali? Per i dolenti, per i morti o per tutti? Analizzerò alcune situazioni tratte dalla mia esperienza clinica, luogo nel quale si svolge un’esperienza fondamentale a cui abbiamo attribuito il carattere di rivelatore delle problematiche della ritualizzazione del morire, il “faccia a faccia” (incontro e confronto) tra chi deve elaborare un lutto e chi ha la funzione di aiutarlo. Esempio: Alla messa funebre della figlia morta in un incidente automobilistico una madre sente di non poter accettare l’invito del sacerdote a considerare la morte della figlia una “chiamata del Signore”. 190 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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“Come può Dio volere la morte di una ragazza ancora così giovane?”. Un semplice approfondimento mostra come questa donna pur partecipando al rituale funebre cristiano non ha la consapevolezza della sua funzione. È come se fosse in ascolto di una parola di consolazione da parte delle sua appartenenza religiosa, dimenticando che questa consolazione può essere resa possibile da cristiani solo partecipando al sacrificio dell’eucarestia. “Come può Dio volere una cosa così violenta come la morte di una ragazza nel fiore degli anni?”. R. Girard5 risponderebbe che non è che Dio vuole la violenza ma che piuttosto Dio è violenza (La violenza e il sacro s’intitola il libro più famoso di Girard, libro nel quale egli sostiene che non c’è differenza tra il dire “la violenza e il sacro” e il dire “la violenza o il sacro”). Anche Dio (il dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani) come tutti gli dei si manifesta attraverso la violenza, la violenza dell’Essere, un essere diverso da quello dell’uomo perché senza attributi, un essere che non ha bisogno di essere qualcosa in particolare per essere. Un dio che dice a Mosé sul Sinai: “Io sono colui che è, io sono Io Sono”. La madre che si presentasse davanti a Dio per chiedergli conto della morte del figlio non riceverebbe altra risposta che quella ricevuta da Giobbe: “Chi sei tu per farmi una simile domanda? Dov’eri tu quando creavo il mondo?”. Non è quindi questa la soluzione alla violenza del sacro, secondo Girard6, rintracciabile invece nelle religioni di tutti i tempi che si costituiscono attraverso una delle tante possibili varianti di uno stesso meccanismo: la scelta e il sacrificio di un capro espiatorio che attira tutta la violenza su di sé e la ripetizione rituale di questo sacrificio espiatorio. La madre che assiste alla messa funebre per la figlia può condividere l’idea che la morte della figlia è una chiamata divina solo se partecipa al rituale dell’eucarestia, il quale altro non è che la ripetizione rituale nella messa del sacrificio di Cristo, venuto sulla terra per accollarsi tutti i peccati, tutto il male e tutta la violenza. «Consolati della violenza che Dio ti ha fatto chiamando a sé tua figlia prima del tempo, Cristo è morto e si è sacrificato perché tut5 6

R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1992. Ibidem.

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ti quelli che hanno subito questa violenza risorgano. Tua figlia è stata chiamata da Dio a sé prematuramente ma grazie al Sacrificio di Cristo ella risorgerà». E perché questo avvenga tu devi partecipare al sacrificio sebbene in forma rituale, devi anche tu bere il sangue di Cristo e mangiarne il corpo, solo così Cristo sarà il capro espiatorio per tutti, solo se tutti unanimamente lo avranno, sebbene ritualmente, scelto come capro espiatorio e sacrificato. Si può notare a questo punto come il rituale funebre cristiano, la messa funebre, sia al tempo stesso un rituale “per il morto”, in quanto gli propizia attraverso il sacrificio di Cristo la resurrezione; e per i dolenti, in quanto li consola della perdita subita. Ma non si tratta di una resurrezione e di una consolazione gratuite: per avere la resurrezione del morto i cari devono partecipare al sacrificio rituale, devono prendere su di sé la responsabilità di aver scelto Cristo come capro espiatorio e di averlo sacrificato! Forse ora non è più così ma un tempo anche i morenti dovevano fare qualcosa per avere la consolazione cristiana nel morire, cioè la promessa della resurrezione: dovevano morire “in grazia di Dio”, cioè pentirsi dei propri peccati e affidarsi al padre celeste come Cristo stesso ha fatto sulla Croce dopo un notevole e “umanissimo” travaglio. Nel caso di questa madre, quindi il rituale funebre cristiano tende a non funzionare. Ma perché non funziona? Credo che si possano rintracciare fattori culturali e fattori soggettivi. I primi sono relativi al fatto che nemmeno per i cristiani è facile nel mondo di oggi risolvere il problema della violenza attraverso la religione, cioè nell’interpretazione di Girard, attraverso la scelta di un capro espiatorio, il suo sacrificio e la ritualizzazione susseguente. Chi si convincerebbe, infatti, che la morte è una delle manifestazioni del sacro, cioè della violenza gratuita, violenza che non si può eliminare ma solo attenuare facendo tutti insieme violenza a qualche capro espiatorio che in tal modo espelle la morte dal mondo trasferendola in qualche aldilà? Ci sono anche ragioni individuali per le quali questa madre non accetta e al contempo non può rifiutare del tutto la soluzione cristiana. Quali conseguenze hanno le crisi dei rituali collettivi e la coscienza della loro probabile inutilità? 192 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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1. Ritualizzazione e deritualizzazione funeraria in Occidente Comincerò col proporre, da psicologo, una considerazione storica sulla cosiddetta e tanto dibattuta “crisi dei rituali funerari” come tratto peculiare della contemporaneità in Occidente. Parlando di crisi dei rituali funebri mi riferisco al fatto di osservazione comune per cui, di fronte alla morte di un congiunto e col “bagaglio” delle nostre reazioni individuali a questa morte, non sappiamo cosa fare e non ci riconosciamo completamente in nessuna delle proposte “rituali” (dai funerali religiosi alle cerimonie laiche di più varia composizione e invenzione) a disposizione nella nostra cultura. Ora, mi pare di poter affermare che storicamente questa crisi non è così recente come si tende a sostenere, altrimenti bisognerebbe dimostrare che sia esistita un’epoca mitica della nostra storia in cui alla morte dei cari si sapesse cosa fare, perché nella cultura vigeva una tradizione rituale da tutti condivisa con la conseguenza che tutti vi si riconoscevano, in una perfetta traduzione dalla dimensione individuale alla dimensione collettiva del lavoro del lutto. Se ci riferiamo ad esempio al lavoro più volte citato di E. De Martino7, sul pianto rituale antico constatiamo come egli (e anche tutti gli autori che cita) lavori su materiali frammentari che spesso sono solo residui folklorici di epoche rituali tutte da ricostruire in base ad ipotesi ideologiche a priori. Lo studioso dei rituali funerari, in altri termini, lavora su elementi di una storia sempre in evoluzione, comprensibile solo a partire da un principio evolutivo a priori che organizza un materiale caratterizzato da continua compresenza di analogie e contraddizioni. In particolare De Martino parte da un’affermazione di Croce secondo cui il lavoro collettivo del lutto consiste nel far morire i nostri morti in modo culturale, in modo che il loro morire naturale (casuale e astorico) non distrugga l’opera storica che l’Umanità edifica. Su questa base analizza il pianto rituale antico, nei residui folklorici che rintraccia in Lucania e nelle analogie che riscontra in tutto il bacino del Mediterraneo dal mondo antico (greco-mesopotamico-egizio) ai nostri giorni, come tecnica sociale volta a trasformare i rischi che la morte di un caro determina (non riusci7

E. De Martino, Morte e pianto rituale, cit.

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re più a vivere, avere comportamenti autodistruttivi, vendicarsi, ecc.) in una specie di trasposizione rituale, un recitare questi rischi in modo da viverli simbolicamente e quindi poterli superare. Su questa strada De Martino introduce una serie di concezioni psicologiche e filosofiche ad hoc dandole a priori per universali e per dimostrate. Da storicista sostiene che lo scopo dell’Umanità è di far passare nel valore ciò che passa con la morte contro la storia, e attribuisce questo scopo a tutta l’Umanità, di tutti tempi e di tutte le epoche. Con la conseguenza di interpretare il quadro mitico-rituale nel quale il lamento funebre antico si inserisce come una proiezione del bisogno umano di far passare nel valore ciò che passa. Se, cioè, ad esempio, un rituale si spiega come iterazione più o meno simbolica di un sacrificio ad una divinità, la divinità sarà la proiezione di un ordine naturale che si potrebbe offendere e che bisogna propiziarsi. Come quando stabilisce un nesso tra il lamento funebre e i lamenti presenti al momento della semina e del raccolto. Ma nel quadro mitico-rituale il nesso può essere rappresentato dal credere che in tutti i casi, la morte del caro (con il rischio di morire a propria volta), la morte del seme (con il rischio che non ne spunti niente) e la morte del raccolto (con il rischio che sia l’ultimo), è per l’intervento di un dio che tutto questo accade e quindi bisogna fare un rituale per ingraziarsi il dio. E se al dio bisogna sempre sacrificare qualcosa o qualcuno, il pianto rituale in questa ottica potrebbe essere interpretato non tanto come una tecnica per dominare il rischio della “perdita della presenza”, quanto come una tecnica per fugare il rischio della perdita dell’appoggio del dio o della potenza a cui si deve sacrificare il caro, una parte del seme e una parte del raccolto. Si tratterebbe allora di confrontarsi nella morte con un dominio che attraverso di essa si esercita, piuttosto che di conseguire un dominio sulla morte immettendola nell’orizzonte storico. Senza le ipotesi a priori su cui si basa, l’analisi che De Martino fa del pianto rituale e del suo contesto mitico-rituale potrebbe essere condotta in direzioni totalmente differenti. Ad esempio, invece di interpretare i comportamenti prescritti dal rituale come una serie di rappresentazioni, di “come se” (come se non potessi più smettere di piangere ma solo per il tempo necessario e nel modo attenuato prescritto dal rituale; come se dovessi morire anch’io ma mi posso limitare a ferite o mutilazioni parziali, o posso solo co194 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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spargermi il capo di cenere come nella cremazione o di terra come nell’inumazione, ecc.) che trasferiscono sul piano simbolico i rischi rendendoli vivibili; essi si potrebbero interpretare come rituali di passaggio, di sacrifici di sé alla potenza divina che bisogna propiziarsi (mi lamento e piango per quella parte di me che devo lasciar morire insieme al caro perché il dio mi lasci in vita; mi mutilo perché solo così il morto potrà trasferirsi e restare vivo nel mondo dei morti; mi cospargo di cenere o di terra perché devo morire anch’io col morto perché il dio mi lasci vivere). Ma chi stabilisce qual è il motore evolutivo di una storia? Non sono sempre i contemporanei che guardano al passato dal loro punto di vista, storicizzandolo in modi diversi a seconda dei punti di vista? Non è allora tutto sommato più corretto partire da ciò che si osserva nella contemporaneità e leggere la storia in base a come si descrive questa contemporaneità? In altri termini, mi sembra abbastanza fondato sostenere che situare nel presente la crisi dei rituali funerari potrebbe essere un artefatto del tentativo di attribuire alla storia dei rituali funerari un senso univoco, dato che questo tentativo può “produrre” il mito di un’epoca in cui i rituali funerari (così come tutti i rituali) non siano stati in crisi. Mi piacerebbe di più quindi se partissimo dall’osservazione comune oggi per cui non sappiamo cosa fare di fronte a qualcuno che muore e siamo insoddisfatti dei risultati che otteniamo quando ci atteniamo ai rituali che la nostra cultura attuale ci propone. Considerando che la continua evoluzione dei rituali funerari da una cultura all’altra e all’interno di una stessa cultura indica forse che in tutte le epoche in base ai paradigmi culturali dominanti l’uomo tenta di “saper fare” qualcosa (i rituali come tecniche) di fronte alle minacce che la morte di un altro materializza. E questo lavoro è precisamente il lavoro della cultura umana che non vale la pena di fissare in epoche d’oro, dato che è abbastanza evidente che finora non è ancora riuscito, questo lavoro, a porre fine alla tragedia della morte. La cultura umana quindi come tentativo sempre frustrato, cioè sempre in crisi, ma sempre rinnovantesi di predisporre orizzonti mitico-rituali e filosofico-religiosi nel cui contesto ritualizzare il rapporto con la morte per attenuarne la tragedia. E se alla fine si prendesse atto dell’inanità di questo sforzo? Ci sarebbe come unica alternativa la fine dell’umanità, o lo sguardo dell’uomo si può spingere oltre le minacce e la 195 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cultura per scorgere altre dimensioni che non sono culturali e che non possono essere toccate dalle minacce? Poter rispondere affermativamente a queste domande significherebbe non considerare come segno di imbarbarimento il processo di deritualizzazione del nostro rapporto con la morte in atto in tutta la nostra cultura (e forse presente in tutte le culture nella luce obliqua dei casi in cui la crisi della presenza non può esser evitata con le ritualizzazioni culturali prescritte). La deritualizzazione funebre cioè potrebbe essere l’espressione della presa d’atto che di fronte alla morte ogni cultura umana è illusoria e potrebbe cominciare l’elaborazione del lutto per la morte della cultura (con le sue prescrizioni e i suoi rituali) come unica difesa contro la morte. Potremmo cominciare a prendere atto che il problema della morte non lo risolveremo mai, che ogni orizzonte mitico-rituale o filosofico-religioso è destinato a rivelarsi illusorio come illusori si sono rivelati tutti gli orizzonti mitico-rituali e filoso-ficoreligiosi fin qui succedutisi nel corso della Storia umana. Potremmo alla fine scoprire che, senza alcun possibile mezzo per dominare la morte o ingraziarci le potenze che la dominano, nella assoluta nudità della nostra tragica impotenza di fronte a ciò che minaccia la vita, l’unica possibilità che ci resta è amarci l’un l’altro al di là di ogni cultura, cioè di ogni rituale e di ogni prescrizione comportamentale. Quale brillante soluzione per il problema del conflitto tra culture: andiamo oltre le ritualizzazioni culturali che ci caratterizzano e interagiremo specchiandoci reciprocamente nell’essenzialità del nostro essere irrimediabilmente vulnerabili di fronte alla morte! Un’altra Umanità è possibile allora senza cultura umana? Fine della Storia o un’altra Storia? Ucronia (uso il termine di G.A. Borghese per intendere una concezione del tempo senza sincronia) o Utopia? L’individuo in lutto solo con le crisi che esso determina può fare a meno dei rituali funebri pubblici o bisogna reinventarne di nuovi per aiutarlo ad elaborare il lutto? 2. Lutto e rituali funerari nella prospettiva psicologica della fine del mondo Siamo di fronte ad una realtà sempre più frammentata in singolarità individuali o di gruppo (tribù piccole o grandi) ciascuna delle quali tende a sviluppare antropologie autonome e modalità 196 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di elaborazione del lutto particolari. La ritualità che ne consegue è caratterizzata da un eclettismo senza limiti in cui possono essere mescolati tutti gli arcaismi e tutte le tecnologie, da un’inventività così autoreferenziale da sembrare spesso una proiezione del mondo interiore, e da un rifiuto della normatività di protocolli e chiese che sembra trasgressione. Una ritualità in cui è permesso tutto e il contrario di tutto, che Maffesoli propone di chiamare “bricolage” e di ricollegare alla generale tendenza della nostra epoca (la postmodernità o la ipermodernità)8 di trovare un “accomodamento” con una realtà che non si crede più di poter “dominare” indicandone le finalità attraverso qualche escatologia. È in questo contesto che a ciascuna singolarità individuale o gruppale è permesso “identificarsi” come vuole, rifiutando in tutto o in parte i punti di riferimento o accogliendoli insieme anche quando sono in contraddizione. Sembra di poter affermare a questo punto, senza cadere nello psicologismo, che lo sguardo più adatto a cogliere un mondo frammentato in singolarità è lo sguardo della psicologia. Sembra cioè che sia legittimo interrogare le singole identificazioni per capire cosa sta succedendo. Tornando al nostro tema dell’elaborazione del lutto la prospettiva psicologica ci dice che per superare la crisi del lutto ogni individuo (singolare o plurale) si riferisce alla sua identificazione, identificazione attraverso la quale ciascuno diventa antropologo e filosofo, identificazione svelabile attraverso l’espressione delle finalità esistenziali del soggetto. E se le identificazioni di sé sono tante quanti sono gli individui, di numero ben più limitato sono le categorizzazioni a cui tutti gli individui fanno riferimento (le filosofie e le antropologie dell’epoca in cui vivono) anche se resta la soggettività irriducibile del modo individuale di “fare” questo riferimento. I “tipi ideali” di weberiana memoria o le tipologie in genere mi sembra che restino ancora il “mediatore” più adeguato tra l’illimitato numero di identificazioni individuali e i “materali” limitati con cui ciascuna identificazione si costruisce. È per questa ragione che mi sono sentito “legittimato” a proporre, sulla base di una trentennale esperienza di aiuto ai morenti e ai dolenti, una tipologia delle modalità di elaborazione del lutto che equivale ad una 8

M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano 2010.

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descrizione che può mettere un po’ d’ordine nella frammentata realtà psicologica della nostra attualità. Ho indicato ripetutamente, anche in questo libro, tre “tipi ideali” di elaborazione del lutto indicandoli come: modalità “biologica”, modalità “personale” e modalità “umana”. Cosa accade quando la crisi dell’Umanità è così profonda da far sorgere la “paura della fine del mondo” rendendo così “critici” tutti i contesti delle crisi individuali, lutto compreso? Vorrei ora provare ad affrontare il tema nuovamente così attuale (come ai tempi di Cristo) della “fine del mondo” nella prospettiva di queste tre modalità di elaborazione del lutto e delle loro relative ritualità. I. La modalità biologica dell’elaborazione del lutto e la fine del mondo La modalità biologica dell’elaborazione del lutto caratterizza chi si identifica come “essere biologico”, cioè chi ha come scopo esistenziale il benessere conseguito attraverso l’adattamento nell’ambiente: scopo di ogni animale che l’animale uomo mantiene pur potendolo perseguire con strategie cognitive più raffinate grazie alla sua maggiore evoluzione cerebrale. Scopo dell’elaborazione biologica del lutto è la restaurazione dell’adattamento che va in crisi attraverso la rottura dei legami di attaccamento che la morte determina, restaurazione che si attua attraverso la “sostituzione” dei legami perduti con altri legami altrettanto validi. Ne consegue che l’essere biologico consapevole è interessato al mondo in quanto “ambiente” del suo vivere pienamente la vita, cioè del suo benessere. Egli vuole sì sopravvivere ma finché la sua qualità di vita non scende al di sotto di una certa soglia, finché non soffre troppo. Altrimenti cerca la morte (dandosela nel suicidio o facendosela dare attraverso l’eutanasia), altrimenti “fa finire il mondo”. Il mondo per l’essere biologico “può” finire, anzi, se vivere è un “morire”, è giusto che finisca (fino alla concezione di un’eutanasia dell’Umanità che non meriterebbe di vivere propria di certe filosofie edonistiche e pessimistiche). Perché l’essere biologico identifica la morte col morire, cioè con una vita non più vivibile, con una vita che non è più vita! Per l’essere biologico la morte non apre nessun “oltre” la vita, e del “dopo” non gliene importa al punto da poter “usare” la morte, il 198 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dopo appunto, per sottrarsi ad una vita che non è più vita, ma morte!

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II. La modalità personale dell’elaborazione del lutto e la fine del mondo La modalità personale dell’elaborazione del lutto caratterizza chi si identifica come “essere personale”, cioè chi ha come scopo esistenziale il benessere conseguito attraverso la realizzazione di sé come persona unica e irripetibile: scopo propriamente umano che si svela nel suo essere determinato, oltre che dalla biologia che lo subordina alla realtà esterna, soprattutto dalla sua storia personale che tende a subordinare la realtà esterna all’interiorità. Scopo dell’elaborazione personale del lutto è, come è stato detto e ridetto dalla psicoanalisi, trasformare le assenze esterne in presenze interne, trasformando così le perdite che potrebbero impoverire in legami interiori che arricchiscono il sé. L’essere personale è interessato al mondo in quanto proiezione di sé, sua creazione, sua oggettivazione e sua storia. Non è quindi questo o quel mondo che gli interessa, bensì il “suo” mondo, il mondo che più è dominato e segnato dalla sua “presenza”. L’essere personale si vive come unico e irripetibile e quindi sa che solo finché è vivo il mondo sarà segnato dalla sua presenza: anche quando, infatti, il mondo si sottrae all’Io con la morte, attraverso l’elaborazione personale del lutto si potrà trasformare ciò che non c’è più all’esterno in “oggetti interni”. Ma se scompare il sé tutto ciò non è più possibile: il mondo vive come mio mondo finché sono vivo, quando morirò morirà il mondo! La fine del mondo per l’essere personale è la fine del mondo proprio, il mondo finisce ogni volta che una persona unica e irripetibile muore! La fine del mondo in questa identificazione è già avvenuta miliardi di volte e continuerà ad avvenire alla morte di ogni persona. Ora la fine del mondo è qualcosa di individuale, è sempre ingiusta e tragica, e non c’è bisogno di identificarla in qualche apocalisse cosmica o collettiva. Ora la fine del mondo è qualcosa di irreparabile che avviene con la morte dell’individuo, a meno che egli, prima, contemporaneamente o dopo la morte, non si sia “trasferito” in un altro mondo. Alcuni esempi tra gli altri: nel buddismo questo trasferimento altrove si fa in vita attraverso le “tecniche” di liberazione dal sé, nella Grecia classica si fa contemporaneamente o poco dopo la 199 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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morte grazie a Mercurio che accompagna l’anima nell’Ade, nel cristianesimo si fa tramite un “processo” che si conclude alla fine dei tempi con la reincarnazione. Ma c’è anche un esempio di questo trasferirsi altrove della persona per non morire che è proprio della nostra attualità: tutti i movimenti della cosiddetta new age condividono il “trasferimento” delle caratteristiche dell’anima individuale nell’anima mundi, proponendoci un mondo che non teme più la sua fine perché ha ormai le caratteristiche di una “persona” diffusa e universale. Elementi caratterizzanti della new age sono infatti9: a) la realizzazione del sé attraverso la trasformazione della coscienza (scopo chiaramente personalistico); b) l’armonia verso il mondo, verso gli altri e verso tutte le religioni tramite una concezione della natura come sistema vivente e intelligente (che è una sorta di personalizzazione della natura e del cosmo); c) la responsabilità storica che ogni new ager è invitato a coltivare verso il destino dell’umanità (il cosiddetto “cospirare con e per gli altri”, che non è altro che il partecipare “personalmente” ad una cospirazione della Terra intera, la cosiddetta cospirazione dell’Acquario); d) un millenarismo ottimistico che vede arrivare più che la fine del mondo la nascita di un mondo nuovo, un nuovo Rinascimento intriso di benessere e di armonia col tutto, l’era dell’Acquario, appunto; e) l’espansione della coscienza («La perfezione spirituale non consiste né nel perfezionamento etico, né nel compimento della volontà divina, ma nel prendere sempre più coscienza del proprio posto nell’universo e del proprio Sé divino che trascende e unisce tra loro tutte le cose»)10. In sintesi, per l’essere personale che mette il valore nel Sé il problema della fine del mondo si ripropone ad ogni morte individuale e le svolte epocali con i loro millenarismi ottimistici o pessimistici possono al massimo segnare la fine di una modalità culturale di trasferirsi altrove per “non farsi trovare” dalla morte o per rinascere. III. La modalità umana di elaborazione del lutto e la fine del mondo La modalità umana di elaborazione del lutto caratterizza chi si identifica come “essere umano”, cioè chi ha come scopo esistenzia9

L. Berzano, New Age, Il Mulino, Bologna 1999. Una versione complessa e da non sottovalutare filosoficamente di questa impo-stazione è la filosofia di Steiner. Vedasi F. Campione, Dialogo immaginario tra Steiner e Levinas. 10

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le il “bene conseguito” attraverso la relazione con gli altri, un benessere non determinato solo dai fattori biologici oggettivi né solo dai fattori biografici soggettivi e interiori, bensì ricercato e giustificato nel faccia a faccia con l’altro della responsabilità l’uno per l’altro. Scopo prettamente umano in cui il riferimento a sé non si accontenta del riferimento alla separatezza della propria interiorità, ma fa derivare l’unicità e irripetibilità della persona dalla responsabilità esclusiva e incedibile rispetto all’altro che fa appello a lui e solo a lui. Scopo della modalità umana dell’elaborazione del lutto è vivere per chi non c’è più continuando ad assumersi la responsabilità di difenderlo dall’ingiustizia subita con la morte, continuando a desiderarlo nonostante il suo non poter più rispondere e quindi non poter più dare niente in cambio, nonostante il nonsenso insuperabile dell’inquietudine dell’ignoto che la sua morte procura alla nostra stessa vita. Chi è morto, in questa ottica, non è sostituibile perché non era un “utilizzabile” (uno strumento) a nostra disposizione ma un soggetto sovrano a cui continuamente chiedevamo il “permesso” di amarlo, né è trasformabile in una presenza interna perché non sarebbe più l’altro che amavamo ma la parte di noi in cui l’avevamo trasformato interiorizzandolo. Quando perdiamo una persona amata, se ci identifichiamo come esseri umani nel senso che ho cercato di delineare, non possiamo sostituirla né possiamo farla vivere altrove (nell’interiorità o in qualche sua proiezione nell’aldilà), possiamo solo assumerci la responsabilità di vivere per essa così come lei è morta per noi allorché è morta non rimproverandoci di restare al mondo, oppure la responsabilità di cancellarla dalla nostra vita perché morendo ci ha rimproverato di restare al mondo. Questa modalità di elaborazione del lutto deriva nella mia formulazione dall’opera di Lévinas11 ma si osserva, sebbene raramente nel nostro contesto culturale, nell’esperienza di coloro che nel morire pensano a chi resta e non a sé e nell’esperienza di chi sopravvivendo non vive solo per sé ma anche per chi non c’è più, portando anche per lui il peso della domanda senza risposta sul senso della morte. Attraverso questa modalità umana di elaborazione del lutto ap11

E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, cit.

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pare una forma di trascendenza terrena che sembra metter capo ad un Umanesimo in grado di contenere in sé la morte senza ridurla al morire (come si fa nell’identificazione biologica) e potendo fare a meno delle consolazioni sempre più difficili da attuare che si basano sulle proiezioni all’esterno, nell’aldiqua o nell’aldilà, dei bisogni personali (come si fa nell’identificazione personale). Se interpretiamo così le cose ci renderemo immediatamente conto che questa assunzione di responsabilità per coloro che non ci sono più, questo vivere anche per loro e per difenderli dall’ingiustizia della morte hanno senso finché c’è un’Umanità. E se il mondo finisce? Se per l’essere biologico può essere addirittura “giusto” che il mondo finisca allorché esso non è più un ambiente favorevole ad una vita vivibile, se per l’essere personale importa che il mondo finisca solo se è la fine del mondo proprio, per l’essere umano il mondo non “deve” finire. Perché per l’essere umano il mondo è precisamente l’Umano! Il mondo è il luogo dell’Umano, e solo se domani ci sarà qualche umano che mi sopravviverà potrà avere senso affidarsi a chi resta perché continui a piangere per la mia morte, perché senta la responsabilità di continuare a difendermi dall’ingiustizia della morte, viva anche per me, continui a desiderarmi e a presentarmi agli altri. Solo nel caso dell’identificazione umana la fine del mondo coinciderà con la fine dell’Umanità, sarà qualcosa di estremamente terrorizzante e tutte le profezie millenaristiche di fine del mondo o tutte le minacce reali (meteoriti, disastro ecologico, catastrofe nucleare, esaurimento del sole, ecc.) della fine del mondo risveglieranno un’inquietudine dell’ignoto12 che ci farà riformulare le domande di sempre su ciò che ci attende al di là della vita, e innescherà la ricerca di soluzioni filosofiche, religiose o scientifiche per attenuare l’inquietudine che trasformandosi in angoscia può minare nel profondo la nostra volontà di vivere. Tornando ai rituali funebri, se si considera che l’identificazione biologica tende a prevalere nel contesto della cultura occidentale (almeno nei “discorsi” ufficiali) alimentando il processo di “animalizzazione” dell’uomo, si comprende come siano sempre più inutili i rituali funebri tradizionali, prevalentemente basati su uno scambio simbolico tra i viventi e i morti allo scopo di collocare i 12

Ibidem.

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morti nel ruolo di antenati e così dar loro una “nuova vita” dopo la morte, consentendo al tempo stesso ai vivi di continuare a vivere senza temere il ritorno malefico e vendicativo dei morti. Infatti, ora che lo scopo è di distrarsi dal passato e sostituire i legami ormai spezzati dalla morte, molto più utile è non indugiare in inutili ritualità e, attraverso le attività della vita, allontanarsi il più rapidamente possibile dalla morte, potendo così stabilire nuovi legami. Abbiamo visto sopra come a questa “distrazione” corrispondano le varie modalità della decostruzione della morte che caratterizzano la modernità. D’altra parte, l’identificazione personale è in crisi ma mostra segni di rivincita attraverso il fiorire di modi sempre nuovi per far riapparire da un’altra parte chi è scomparso altrove. La new age con i suoi tentativi di mettersi in contatto con la morte attraverso l’esperienza di coloro che si svegliano dal coma (near death experiences), attraverso pratiche sciamaniche risorgenti o attraverso la parapsicologia, rappresenta, insieme alle ritualità funerarie di tutte le religioni tradizionali in crisi ma pur sempre presenti, quella ritualità “bricolage” di cui parla Maffesoli e che sembra caratterizzare la nostra contemporaneità postmoderna o ipermoderna. Solo nella prospettiva dell’identificazione umana i rituali funebri, in quanto parte integrante del lavoro del lutto, potranno forse essere riproposti e/o reinventati in un’ottica che non sia di scambio tra i vivi e i morti, perché non c’è possibile reciprocità nel rapporto tra un morto che non può più rispondere e un vivo a cui tocca in esclusiva di assumersi disinteressatamente la responsabilità di vivere anche per chi non c’è più. Ma ormai siamo consapevoli che la fine del mondo come fine dell’Umano incombe come possibilità concreta e non ci possiamo così facilmente consolare istituendo un collegamento ideale tra chi non c’è più e chi non si sa se ci sarà ancora. Nessuno, infatti piangerà alla fine del mondo! Il mondo finisce, l’Umanità finisce e cosa resta, resta il nulla o resta qualcosa? Il pensiero di Lévinas13 sulla morte è, come abbiamo visto, il tentativo di proporci una possibilità di sfuggire all’alternativa tra l’essere e il nulla. L’umanità finisce e c’è il nulla per l’Umano, e non ci si può certo consolare pensando che restano miliardi di stelle, 13

Ibidem.

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un Universo forse finito forse infinito, a meno che non gli si attribuisca qualcosa di umano divinizzando la nostra mente (come fa la new age), a meno che l’immensità del cielo stellato non ci faccia “venire Dio all’idea”14. La proposta di Lévinas è un’altra: che ci sia qualcosa di buono oltre l’essere, che anche se l’Umanità non c’è più non importa, c’è ancora qualcosa di buono. Significa che dovremmo cogliere nel vivere qualcosa che allude ad un bene “al di là dell’essere”. Secondo Lévinas questa possibilità è data proprio dall’inquietudine nell’ignoto che la morte dell’altro introduce nella vita. La morte ci fa iniziare una ricerca, ci fa porre delle domande a cui non riusciamo a trovare risposta, non c’è conoscenza possibile della morte, incontriamo l’ignoto ed esso ci inquieta. Fortunatamente attraverso questa apertura si apre la dimensione dell’Infinito: se tutte le risposte sono possibili, se nessuna risposta alle domande che la morte pone è la risposta definitiva, entriamo in una dimensione, dice Lévinas, della “non conoscenza”, una dimensione che è l’oltre noi, ciò che non può essere compreso da noi. Una vertigine, la “vertigine dell’infinito”, ci prende, ed è la stessa vertigine che apre l’infinito dell’altro che ci chiede di non ucciderlo nel suo morire, di salvarlo dalla morte e ci chiede di giustificare il nostro non esserci riusciti, la stessa “vertigine d’infinito” che sentiamo noi che non ci riusciamo ma nonostante questo, nonostante che l’altro sia morto continuiamo a volerlo salvare, desideriamo che torni in vita pur sapendo che è morto. Un morto può essere pianto all’infinito, rimpianto all’infinito, può essere desiderato all’infinito. Ma perché è un “bene” questo quid, l’Infinito, che si apre alludendo a tutto ciò che non può essere compreso nella nostra vita, a tutto ciò che è “al di là dell’essere”? Risponde Lévinas che è un bene perché risveglia e mantiene la diacronia del tempo. Significa che non sapere niente della morte ci consente di situarci in un tempo non più pensato a partire dalla morte, cioè dalla fine, in un tempo che non si vive più in quanto limitato bensì in quanto illimitato, eterno. Dice Lévinas testualmente parlando del non sapere della morte: «Non sapere che si traduce nella mia esperienza attraverso la mia non 14

E. Lévinas, Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1986.

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conoscenza del giorno della morte non conoscenza attraverso la quale l’io fa degli assegni a vuoto come se disponesse dell’eternità. In questo la non conoscenza e la spensieratezza non devono essere interpretate come divertimento o come caduta nella decadenza»15. L’apertura dell’Infinito che l’accettazione disinteressata dell’affidarsi totale dell’altro a chi resta (chiamandolo alla responsabilità incedibile di difenderlo dalla morte) nella sua morte apre, rende possibile subordinare la morte al tempo, sicché la morte non è il tempo che si ferma e finisce ma l’affacciarsi della vita sul tempo che non passa perché non scorre. E l’affacciarsi su questo tempo è l’affacciarsi alla dimensione nella quale non è dato sapere nulla all’uomo, la dimensione dell’ignoto, della non conoscenza, della pura domanda che continuamente si pone alla morte di qualcuno ma che apre l’Infinito alludendo solo all’al di là dell’essere. Seguendo lo spunto di Lévinas riferito all’esperienza della vita, il bene di questo risvegliarsi all’Infinito sta nel fatto che non sapendo nulla della morte, non ne sappiamo nemmeno il giorno, cosa per cui anche nella vita possiamo non interrompere la diacronia del tempo e vivere spensierati come se il tempo a disposizione fosse eterno. Non perché ci inganniamo, non perché non sappiamo che un giorno moriremo ma perché, non sapendo cosa pensare della morte (non è qualcosa e non è nulla ma apre la terza alternativa dell’Infinito), possiamo continuare a vivere senza che la domanda sulla morte ci faccia cadere nell’angoscia prefigurando la fine del tempo. Pensare alla morte nella forma interrogativa del non sapere (sfuggendo all’alternativa tra l’essere e il nulla e cogliendo l’alternativa dell’Infinito) rende possibile la spensieratezza. Di fronte alla fine del mondo in quanto fine dell’Umano si può quindi aprire una possibilità differente sia da quella dell’angoscia e del terrore che caratterizza quasi sempre i millenarismi, che dall’indifferenza dell’uomo biologico e dalle alienazioni autoillusorie della persona. Cosa possiamo sapere della fine del mondo se non che prima o dopo avverrà? 15

E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 61.

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Ma resterà qualcosa dell’Umanità o sarà cancellata ogni sua traccia? Quando avverrà? In un tempo che non si è ancora fermato le possibilità sono infinite. Di fronte all’Infinito possiamo pensare alla fine dell’Umanità, continuare ad interrogarci su come finirà, chiederci quando finirà e tutto il resto senza angosciarci, in un modo che, per riprendere Lévinas, non è distrazione o decadenza ma spensieratezza che si basa sul non sapere. Una domanda all’infinito può essere sospesa senza essere rimossa, perché c’è un’eternità per riproporsela! La rimozione della morte può essere rimossa perché è proprio l’inquietudine dell’ignoto derivante dalle domande sulla morte che, invece di trasformarsi in paura dell’aldilà o in angoscia del nulla, conduce alla possibilità della spensieratezza, attraverso la non conoscenza all’Infinito e al tempo che cessa di scorrere e non passa. Il tempo del godere può introdursi al ritmo giusto in una vita che può essere spensierata non perché non pensa alla fine ma proprio in conseguenza di questo pensarci! Ci vorrà allora, forse, un rituale funebre che renda palese ciò che si nasconde nella morte di un uomo, l’apertura all’Infinito e la responsabilità incedibile di chi resta, che proprio grazie a questa apertura può restaurare la spensieratezza del suo vivere senza doversi distrarre per poter dimenticare. E l’Umanità potrà sbizzarrirsi ad inventare un rituale del genere. Mi sono anche chiesto se per caso nella ritualità ebraica, ambito culturale nel quale ha le sue radici la proposta di Lévinas, non ci sia qualche indizio della direzione da prendere. Mi è sembrato di poter scorgere nella festa ebraica delle capanne (Sukkot) alcuni indizi a cui ispirarsi per questa nuova ritualità funebre. Sukkot viene in autunno dopo il Capodanno e il Perdono e rievoca i 40 anni del peregrinare del popolo ebraico nel deserto durante l’Esodo. Sukkot riporta dunque al tempo del deserto, al passaggio da una vita ad un’altra vita, dalla schiavitù in Egitto alla Terra promessa. E il deserto è una “terra di nessuno” che simboleggia, l’abbiamo visto, abbastanza bene il lutto. A Sukkot si va quindi ad abitare nel deserto per sette giorni in 206 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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una capanna per ripetere ritualmente ciò che si è vissuto nel deserto. Stando nel deserto gli Ebrei si sono sentiti circondati dal trascendente, da ciò che si trova al di là, e da questo quid si sono sentiti abbracciati, come nel grembo di Dio. Senza la fede in Dio il problema dell’aldilà da cui ci si sente circondati si porrebbe come il problema del terrore e dell’angoscia e bisognerebbe risolverlo in un altro modo da quello proposto dalla festa ebraica. Il problema comunque è sempre lo stesso: l’uomo avverte che qualcosa lo trascende, ma “che cosa ha in comune l’uomo con ciò che lo trascende?”. La proposta della festa ebraica è che ciò che ci trascende non si può interiorizzare ma ci influenza ugualmente, ci influenza in un modo globale, come un’atmosfera che ci circonda (maqif). Ci sentiamo abbracciati e amati da ciò che sta al di là del cerchio che circonda il mondo: è come se Dio mi abbracciasse, secondo il Cantico dei Cantici: “La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi stringe”. La festa delle capanne è quindi la festa dell’Amore di Dio che possiamo sentire quando siamo nel deserto del lutto. E sentiamo precisamente ciò che sta al di là del finito, sentiamo Dio (in ebraico EnSof, Dio Infinito). Lo sentiamo, ci sentiamo abbracciati dall’Infinito senza aver fatto nulla, è qualcosa che viene a noi gratuitamente. Non senza chiedere niente, non senza domanda (o preghiera). E cosa chiediamo nel deserto? Chiediamo la pioggia, così come nel lutto chiediamo che qualcosa torni a vivificare il nostro animo affranto dal dolore della morte. Ma la festa delle capanne non è la festa per invocare la pioggia; infatti, secondo la liturgia della festa ebraica, noi invochiamo la pioggia e invece arriva la rugiada. La differenza tra la pioggia e la rugiada è la differenza tra la misericordia e l’amore disinteressato. Noi chiediamo a Dio misericordia e Dio ci risponde con l’amore gratuito. È perciò che la rugiada nell’ebraismo è collegata con la resurrezione dei morti (nella preghiera del Sabbath si parla della “rugiada che risusciterà i morti”). Ecco ancora una volta la proposta della festa ebraica per chi è in lutto: l’amore disinteressato di Dio “resuscita i morti”. Nel deserto del lutto avvertiamo l’aldilà e invece di essere terrorizzati o angosciarci sentiamo l’abbraccio di Dio, sentiamo che c’è un Infi207 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nito che circonda la nostra vita finita, che c’è un tempo che non finisce che circonda il tempo della vita che finisce. Ma non è che noi non dobbiamo fare proprio niente: nella festa delle capanne ognuno dei sette giorni dobbiamo invitare un pastore, farci nutrire e nutrirlo, affinché il Dio Infinito che è inconoscibile si riveli. Sette pastori che sono sette saggi (Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosé, ecc.) ognuno dei quali media una virtù (Abramo l’amore gratuito, Isacco il timore, Giacobbe la Misericordia, Mosé la conoscenza, ecc.), le sefirot attraverso le quali i cabalisti dicono che il Dio Infinito si manifesta. Sembra proprio la proposta di Lévinas sulla morte: l’amore disinteressato per chi non ci può più rispondere e dare niente in cambio è precisamente uno dei modi del manifestarsi dell’Infinito! Ma Sukkot è anche la festa delle Messi, la festa in cui si ripongono i raccolti, la festa del riposo e della pienezza del vivere. Abbiamo attraversato il deserto del lutto, siamo entrati in vista dell’Infinito e ci siamo sentiti abbracciati dall’amore di Dio, ora possiamo godere di questa pienezza, ora possiamo vivere spensieratamente. Anche i nemici possibili nel Sukkot sono invitati alla festa, essa è infatti la meno ebraica delle feste e si portavano al tempio durante i sette giorni settanta sacrifici per tutta l’Umanità (le settanta nazioni della terra). Sukkot, insomma, è la festa della pace universale e della pienezza del vivere, permesse dall’aver attraversato il deserto del lutto grazie all’amore gratuito che ci ha dato accesso all’Infinito. Infine Sukkot è la festa dell’adunanza e del racconto: la festa in cui si convocano tutti gli uomini di tutte le nazioni e in cui i pastori col loro esempio ci nutrono delle “virtù” attraverso cui si manifesta il Dio Infinito; la festa in cui ci riraccontiamo la vita paragonandola a quella dei saggi, in tal modo “nutrendo” le virtù senza le quali Dio Infinito non si manifesterebbe. Come dire che Sukkot è un rituale del desertolutto attraverso cui si rende palese che la manifestazione della trascendenza, che la morte determina, non porta necessariamente alle immagini tradizionali del divino (violenza, terrore e panico) ma può portare pace e pienezza di vita se, attraverso l’amore disinteressato per chi resta, si “nutre” la possibilità che l’Infinito sia l’abbraccio che Dio fa scendere sul finito come la rugiada del mattino che pacifica la notte alludendo ad un nuovo inizio. 208 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Mi chiedo se la pace dei cimiteri e il sentimento di felicità sacrale che qualcuno piangendo i suoi morti ha l’ardire di esprimere non rappresentino più quotidianamente questa possibilità, aprendo o riaprendo per l’Umanità un destino di “bene al di là dell’essere”16.

16

Ho trattato più approfonditamente ed esplicitamente questo tema in un altro mio lavoro: F. Campione, Il tabù del verbo essere. Diario clinico di una follia senza violenza (www.clinicacrisi.it - cliccare Apocrifi).

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Capitolo IX

La “cura” del lutto

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1. Psicodiagnosi e psicoterapia del lutto patologico Ci occuperemo in questo capitolo della “cura” del lutto, cura nel senso generale del “prendersi cura” e nel senso medico di curare per guarire. Se ci riferiamo alla prima accezione, possiamo dire che l’assistenza delle persone in lutto comincia col conforto e la consolazione dei parenti del morente e con l’aiuto psicologico del morente stesso al fine di assicurargli una “buona morte”. Questa assistenza avrà un significato preventivo rispetto al rischio che il processo del lutto non si svolga normalmente e conduca a patologie psichiche che implichino un vero e proprio trattamento psicoterapeutico o psichiatrico. Si arriva così alla seconda accezione del termine “cura”, che concerne l’intervento sulle patologie del lutto o lutti patologici. Di tutto ciò abbiamo già parlato più o meno direttamente affrontando l’analisi delle varie teorie del lutto, ma ora è giunto il momento di affrontare queste problematiche in relazione al “che fare” assistenziale. Cominciamo con l’analizzare la letteratura sull’argomento riferendoci a quella parte dell’opera di Beverly Raphael1 che ne tratta. Quando viene data la “brutta notizia” della morte che deve avvenire nella fase terminale e della morte avvenuta, le persone sembrano reagire con un comportamento che è stato chiamato “comportamento che suscita assistenza” (care eliciting behavior)2. Si tratta di un comportamento verbale e non verbale che è una 1

B. Raphael, op. cit., uno dei trattati sul lutto più rappresentativi sul panorama internazionale. 2 Ibidem.

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specie di messaggio che suonerebbe così: «Sono stato colpito da un dolore, sostenetemi, aiutatemi, confortatemi». Ed è proprio di conforto che la persona sembra aver bisogno nella fase acuta (la fase iniziale del lutto) e non di essere sedata (come spesso si crede)3. Il conforto può andare dal prendere la mano della persona e farle coraggio all’aiuto che le si può dare per capire ciò che è accaduto, prendere commiato dalla persona cara o andare a vederne il corpo subito dopo la morte. Segue la fase della consolazione intesa come lo sforzo di chi assiste di «aiutare la persona in lutto a sopportare il dolore della separazione»4. La protesta per la perdita e lo struggimento per il morto, a cui molto spesso abbiamo fatto riferimento, rappresentano proprio il tentativo di non affrontare l’angoscia della separazione e possono essere protratti da sentimenti di rabbia e/o di colpa. Ora chi assiste deve favorire l’esame di realtà (la morte è avvenuta, la perdita è irreversibile) e l’espressione dei sentimenti (rabbia, colpa, senso di abbandono, ambivalenza, ecc.) allo scopo di allentare il legame con la persona morta. In questa fase (tra le prime settimane e i tre mesi) si deve aiutare la persona in lutto a superare la crisi (di stress grave da perdita in cui si trova) sostenendola nei compiti del lutto. Si può notare, e ci torneremo, quanto differente sia la concezione della consolazione che si esprime in queste pagine di Beverly Raphael che ho riassunto e la concezione cui aderisce l’autore di questo libro. Non si capisce, infatti, come potrebbe risultare consolatorio aiutare la persona a considerare definitiva la perdita e ad esprimere i suoi sentimenti (soprattutto quelli negativi) nei confronti del morto (allentando così il legame con lui), se nella relazione d’aiuto e tramite essa non ci fosse la possibilità, che abbiamo visto essere insita in un certo modo di dialogare, di “trascendere” l’esperienza in sé insuperabile della perdita di una persona amata. Passando al lutto patologico, B. Raphael usa un ampio questionario che mira a valutare se il lutto sta procedendo normalmente, 3 F. Campione, N. Crotti, Short-term Psychoterapy and Crisis Intervention in Bereavement, in A Safer Death (Multidisciplinary Aspects of Terminal Care), Edited by Anne Gilmore and Stan Gilmore, Plenum Press, London 1988. 4 B. Raphael, op. cit.

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se ci sono dei rischi che non si risolva bene, se ci sono dei segni patologici. Per mettere a punto questo questionario l’Autrice dice5 di aver fatto riferimento a quei fattori che secondo la letteratura influenzano l’esito, normale o patologico, del lutto. L’Autrice considera inoltre il questionario come uno strumento di valutazione in sé terapeutico perché è costruito in modo da dare «compiti che facilitano l’espressione degli affetti del cordoglio e promuovono i processi dell’elaborazione del lutto»6. Riporteremo di seguito integralmente per il loro notevole interesse, con una traduzione di cui ci assumiamo tutta la responsabilità, le domande del questionario di B. Raphael7 e il commento che l’Autrice vi aggiunge. 1. Può parlarmi della morte? Che cosa è accaduto? Cosa è accaduto quel giorno? Chi assiste dà alla persona in lutto una chiara indicazione della sua intenzione di parlare della morte, del fatto che è interessato ad essa e la considera molto importante per la persona in lutto. Lo stesso uso della parola morte o il riferirsi direttamente ad essa spesso rassicurano la persona in lutto. Questa, infatti, può aver avuto molto bisogno di parlare della morte ma può aver trovato che la maggior parte delle altre persone evitano l’argomento o ne parlano in termini eufemistici. L’esplorazione di questa area serve a molti scopi, oltre ad indicare alla persona in lutto che si tratta di una tematica di discussione naturale e appropriata. Essa fornisce informazioni sulla natura e sulle circostanze della morte nonché sul coinvolgimento in essa della persona in lutto: come ha appreso la notizia della morte; se era attesa o inattesa; se per la persona è arrivata al momento giusto o se è stata prematura o tardiva; se le circostanze della morte sono state particolari o shockanti; come si può essere prodotta una sindrome da stress traumatico; se la presenza o assenza al momento della morte può aver generato sentimenti di colpa; se la morte è avvenuta quando la relazione con la persona cara era conflittuale o logorata in modo tale da costituire una complicazio5 6 7

Ibidem. Ibidem. Ibidem.

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ne per la risoluzione del lutto. Possono quindi diventare evidenti la capacità della persona in lutto e i suoi modelli di reazione emotiva, indicanti questi ultimi la sua rabbia, la sua disperazione o qualche personale paura di vulnerabilità che vi si può essere associata. Possono evidenziarsi inoltre difese del tipo negazione o evitamento. Apprendiamo anche attraverso questa domanda se la persona in lutto è stata in grado di vedere il cadavere della persona come esso effettivamente era cioè come il corpo di una persona morta, e se è stata in grado di darle il suo addio privato. Nelle risposte a questa domanda si riscontrano i sentimenti sul funerale, sull’accettazione e sul coinvolgimento, potendo così valutare anche se il modo di vivere il funerale abbia facilitato una normale risoluzione ed elaborazione del lutto o l’abbia bloccata. Si possono infine rilevare particolari circostanze che possono aver determinato reazioni emotive responsabili di un rifiuto (denial) o di un blocco, oppure di una facilitazione del lutto stesso. CASO CLINICO Aaron aveva 19 anni. Le sue risposte alla prima area di indagine sulla morte della sorella fornirono una grande quantità di informazioni. Disse: «È morta in un incidente d’auto. È stato uno shock inaspettato e terribile per l’intera famiglia». Passò quindi rapidamente ad insistere su quanto fosse positivo il suo modo di affrontare la perdita ora, e su che meravigliosa ragazza era stata sua sorella. Quando l’intervistatore gli ha chiesto di parlare un po’ di più della morte della sorella, ha detto: «Bene. È stata proprio fatta a pezzi, è tutto». E l’ha detto di nuovo senza mostrare alcuna emozione. Poi cambia argomento. L’intervistatore, dal canto suo, procede a discutere con lui del funerale. La risposta è: «Ho assistito, e l’ho affrontato molto bene». Gli viene chiesto gentilmente di parlare del giorno della morte, di cosa ha fatto, del posto che la sorella occupava in macchina e di dove stavano andando. Egli allora rabbiosamente chiede: «Non le ho detto abbastanza?» E poi comincia a piangere e aggiunge: «Credo che possa essere bene che io dica tutto, sarebbe un gran sollievo parlarne con qualcuno. Abbiamo avuto uno scontro terribile quella mattina. Avevamo già litigato altre volte ma quel gior213 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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no fu peggio. Le avevo detto che lei era solo un gran peso per la famiglia, veramente non volevo dire questo, era solo una gran monella da sempre. Bene, lei si precipitò fuori, salì in macchina, la mia vecchia bomba, e partì. Pensai che non avrebbe dovuto guidarla, sapevo che i freni non erano del tutto a posto, ma pensai dentro di me: “Di cosa devo preoccuparmi? Se ha un bombardamento8 se l’è meritato”. Non avrei mai pensato che avesse veramente uno scontro e che morisse davvero. Non dimenticherò mai il rumore di quando andò a sbattere contro quel camion appena fuori. Mi precipitai fuori della porta e fu come un incubo, tentai di tirarla fuori ma lei stava morendo, ne sono certo. Mi sentii come paralizzato. Non potevo tirarla fuori, non potevo fermare il suo morire. E questo è stato il mio errore». Le circostanze shockanti della morte, la colpa e l’ambivalenza accresciutesi al momento della morte si rivelarono tutti fattori di rischio per una buona risoluzione del lutto. L’apparente mancanza di affettività nelle prime fasi del colloquio fa pensare in questo caso ad un certo blocco del lutto, e l’inchiesta è servita, in una certa misura, agli scopi terapeutici permettendo di discutere della morte e di ottenere una certa catarsi. 2. Può parlarmi di lui (o di lei) e di come erano i vostri rapporti fin dall’inizio? Questo secondo tema dell’inchiesta si riferisce all’intenzione di aprire il discorso sulla storia della relazione. Chi assiste indaga sulla storia della relazione risalendo fino alle sue fasi iniziali: le attese, le speranze e le disillusioni determinate dal farsi stesso della relazione nonché le immagini e le interazioni che essa ha implicato. Con questa domanda si comunica alle persone in lutto il fatto che l’intervistatore considera questa come un’area di vitale importanza per le persone in lutto, che è preparato a parlarne e a condividere le relative emozioni. Ciò implicherà difficoltà e contraddizioni per coloro che sono soliti sorvolare su questo argomento, impauriti da ciò che bisogna dire o perché hanno paura dello struggimento e della rabbia della persona in lutto. Anche questa domanda serve ad ottenere informazioni. Essa può rilevare, ad esempio, la qualità della relazione preesistente col 8

Espressione idiomatica.

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morto, il livello di ambivalenza e di dipendenza presenti in questa relazione. Ciò indicherà in che misura la risoluzione del lutto può essere a rischio a causa della relazione, rischio che può essere, in tali casi, di reazioni luttuose distorte e croniche con conseguente depressione. Può allora diventare evidente in che misura la persona nega la perdita, sia in base al modo con cui fa l’esperienza dell’assenza della persona perduta, sia in base al grado di allentamento del legame che ad essa lo lega. Così attraverso le risposte a questa domanda, il comportamento che ne deriva e l’uso del (verbo) presente, può risultare evidente il nesso tra lo struggimento per la persona perduta e la speranza di un suo ritorno. Evitare di menzionare la persona morta e l’emozione che il pronunciare il suo nome implica, possono fornire indizi sullo stadio del processo di risoluzione del lutto, e se questo stadio è appropriato per la persona in lutto in queste circostanze di vita e per questo periodo… Nella misura in cui la persona in lutto può parlare del congiunto in termini reali, avrà memoria sia positiva che negativa, ricorderà sia gli aspetti felici che quegli infelici. Ciò ovviamente sarà meno probabile nelle prime settimane del lutto e diventerà sempre più probabile man mano che il lutto procede. Quando invece vengano presentati solo gli aspetti positivi della relazione, si possono indagare anche quelli negativi chiedendo con delicatezza: «Lei mi ha parlato dei periodi felici che avete condiviso. Può parlarmi dei periodi che non sono stati tanto positivi?». La risposta a questa domanda può indicare l’esistenza di blocchi oppure la domanda può corrispondere all’esigenza terapeutica di aprire una discussione su questo argomento. Possono anche essere valutati in questa fase gli “affetti” associati con il lutto. I livelli di tristezza, di rabbia, le colpe particolari o i livelli anormali di colpa possono essere notati e può essere valutata la loro influenza sulle difficoltà di risoluzione del lutto. Questa parte della valutazione può fornire dati sui fattori di rischio derivanti dalla relazione oltre che indicazioni sui progressi e sulla qualità dell’elaborazione del lutto contestualmente con lo stadio del lutto stesso. Al tempo stesso si può ottenere un’analisi della relazione fin dalle sue fasi iniziali sia nei suoi aspetti positivi che in quelli negativi, agendo così terapeuticamente nel senso di una facilitazione dei processi del lutto.

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CASO CLINICO Quando fu intervistata su suo figlio Steven, morto cinque settimane prima a nove anni di un tumore cerebrale, Cynthia R. insistette solo sul fatto che egli fosse il bambino più perfetto, perfetto in ogni senso. Egli era gioioso e felice e mai la sua malattia l’aveva buttato giù. Era stato di buon umore fino alla fine ed ella l’aveva curato ed amato ogni attimo di ogni giorno. Non sapeva come fare ora che lui non c’era più e ancora non poteva crederci. Più le si chiedeva di parlare di Steven più intensa diventava la sua idealizzazione, e diventava sempre più chiaro che ci si trovava di fronte ad una formazione reattiva. L’intervistatore allora indagò indietro fino al tempo della sua gravidanza e dei primi anni di vita di Steven, incoraggiandola a parlare dei dettagli quotidiani della loro vita. Divenne ben presto ovvio che Steven era stato concepito in un periodo di gravi conflitti matrimoniali. La signora R. aveva preso in considerazione la possibilità di abortire e aveva avuto grandi difficoltà a legarsi a Steven nei primi mesi. I loro temperamenti non si erano adattati l’un l’altro e lei spesso gli aveva detto di essere come suo padre nei confronti del quale nutriva un astio intenso. Con il procedere della malattia lei si era sentita estremamente in colpa e aveva ipercompensato con un coinvolgimento intenso, iperprotettivo e talvolta artificiale nella cura del figlio. Questa valutazione raggiunge gli scopi di comprendere l’ambivalenza della relazione e di promuovere un’elaborazione del lutto più realistica, lutto per la relazione reale e non per quella idealizzata. 3. Cosa è accaduto dopo la morte? Come sono andate le cose nel suo intimo, con la sua famiglia e con gli amici? Questa parte dell’inchiesta esplora le modalità interiori di risposta alla morte, e quale supporto si è percepito come disponibile per la persona in lutto da parte della famiglia e della rete di interazioni sociali in generale. La domanda dà alla persona in lutto una chiara indicazione al tempo stesso dell’importanza dei suoi sentimenti e delle sue relazioni sociali nella fase che sussegue alla morte. Questa parte dell’inchiesta può fornire informazioni sull’esperienza della persona in lutto (inclusa l’influenza che può avere sulla risoluzione del lutto il livello della sua reazione emozionale), 216 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sul modo in cui viene percepita l’assenza della persona perduta; ci dice in che misura la morte viene percepita come definitiva e rivela i problemi della vita di relazione. Si possono inoltre esplorare ora aspetti particolari allo scopo di valutare in che misura il soggetto percepisce la sua rete di relazioni sociali come facilitante nell’analizzare la relazione perduta e nell’espressione del dolore, oltre che nel provvedere un appoggio per il coping e per gli altri bisogni. Possono essere indagati nella loro rilevanza aspetti specifici come, ad esempio, il modo in cui la famiglia e gli amici possono consentire, incoraggiare o bloccare la rassegna degli aspetti negativi della relazione oltre che l’espressione di rabbia e colpa, specialmente nei casi in cui la relazione sia stata una relazione ambivalente. Questa parte dell’inchiesta può anche fornire dati sui fattori di rischio, come l’inadeguatezza dell’appoggio sociale o altre crisi e stress che possono essersi verificati. Possono infine evidenziarsi blocchi nella risoluzione del lutto o un modello di lutto ritardato, inibito o distorto. CASO CLINICO La signora Joyce B. aveva 29 anni quando suo marito Evan morì. Aveva avuto una grave malattia renale durante la quale la moglie lo aveva curato devotamente per molti anni. La sua morte arrivò inaspettata nonostante la sua cronica e debilitante malattia. L’esplorazione di questa area con la signora B. rivelò che lei sentiva di aver affrontato la situazione ragionevolmente, cosa, in verità, confermata dai suoi amici. Ma era stata incapace di piangere e si era ritrovata a pensare che il marito sarebbe presto tornato a casa dall’ospedale. I suoi amici, diceva, erano stati molto gentili e così anche sua sorella e suo fratello. E lei sapeva che ciò era bene. Tuttavia avevano cominciato a dirle che avrebbe dovuto sentirsi compiaciuta per il fatto di non aver più il peso della malattia del marito. Le avevano detto che doveva dimenticare il passato e pensare solo al futuro, poiché era giovane e si sarebbe presto risposata, perché doveva accettare la morte del marito come si accetta la volontà di Dio. Lei aveva trovato tali commenti molto stressanti. Lei e il marito erano stati particolarmente legati a causa del fatto che la malattia lo teneva molto di più in casa. I suoi amici le dicevano anche che doveva ricordare del marito solo le cose positive e 217 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gli aspetti positivi della loro relazione. Lei ricordava qualche infelicità dovuta alla instabilità e bisognosità del marito e in conseguenza si sentiva in colpa e cattiva. Sapeva che la sua famiglia e i suoi amici le erano d’aiuto, ma, in effetti, ad un esame accurato, percepiva l’interazione con loro come non sufficientemente d’appoggio e come se interferisse sul lutto. Questa valutazione raggiunge lo scopo di cogliere i possibili fattori del rischio di una nonrisoluzione del lutto, e mostra che c’è un blocco nel lutto e alcune insufficienze di famiglia ed amici nel favorirne l’elaborazione. La stessa intervista ha un significato terapeutico in quanto fornisce l’opportunità di lavorare su questi elementi. 4. Ha avuto, recentemente o da giovane, brutti periodi come questo? Questa parte dell’inchiesta mira a ricercare segni più specifici di altre crisi o altri eventi stressanti che possono concorrere come fattori di rischio di una mal risoluzione del lutto. Ciò permette di valutare i lutti precoci, specialmente i lutti dell’infanzia e il loro possibile potenziale patogeno. Non si tratta di variabili necessariamente e frequentemente presenti, ma esse sono molto importanti quando si presentano. CASO CLINICO Il signor C. aveva perduto il suo lavoro cinque settimane prima della morte di sua moglie. Aveva avuto anche un’accusa di guida in stato d’ebbrezza che l’aveva molto umiliato. La sua infanzia era stata costellata di frequenti separazioni e sua madre era morta tragicamente quando aveva cinque anni. Era molto vulnerabile alle perdite e per conseguenza aveva cercato di evitare i rapporti intimi, benché alla fine avesse ceduto al calore e all’amore della moglie. Questa perdita, la morte della moglie, richiamò tutta l’angoscia non risolta del suicidio della madre. Si rilevò che il suo attuale lutto era a rischio e la valutazione di tale rischio mise in grado coloro che lavorarono con lui di fornirgli un’assistenza specifica, sensibile e competente. Il tipo di “valutazione terapeutica” attraverso il questionario che abbiamo riportato sopra può servire fondamentalmente ai seguenti scopi: 218 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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I. Può facilitare e consolidare una soddisfacente risoluzione del lutto; II. Può fornire un quadro di riferimento per interventi preventivi nei confronti di processi luttuosi che rischiano di non avere una buona risoluzione; III. Può fornire un quadro di riferimento per interventi terapeutici specifici nei casi di lutto patologico, allo scopo di piegare questi ultimi ad un corso più adattivo. Sulla base di questa valutazione (che mostra come B. Raphael condivida l’approccio al lutto di Bowlby, Parkes e Worden, aderendo anche al loro uso eclettico di una terminologia un po’ derivata dalla teoria cognitivista dello stress e un po’ di matrice psicodinamica), l’Autrice passa ad analizzare i punti che ora riassumeremo: a) la prevenzione del lutto e la sua efficacia; b) la terapia del lutto patologico; c) la preparazione dei counselors cioè dei “valutatori” o dei professionisti preposti a questi compiti di prevenzione e terapia. a) La prevenzione dei lutti a rischio e la sua efficacia Sulla base del “profilo di rischio” che, tramite le domande dell’inchiesta soprariferita viene tracciato, B. Raphael suggerisce un intervento preventivo ispirandosi al modello di Caplan9. Si tratta di un intervento di crisi del tipo della psicoterapia focale breve10 che l’esperienza ha fatto ritenere più efficace iniziare tra la terza settimana (essendo le prime due occupate da situazioni pratiche troppo assorbenti) e la dodicesima settimana dopo il decesso. Il focus è sui fattori di rischio individuati tramite il “profilo” e si fanno da sei agli otto incontri a casa della persona in lutto, durando ogni incontro un’ora e mezza o due. Dalla descrizione che B. Raphael fa di questi interventi si può trarre la considerazione che essi si ispirano alla psicoterapia psicodinamica breve, facendo di questo intervento preventivo un intervento molto simile a quello suggerito da Parkes11 e al quale si può attribuire il giudizio di “eclettismo” che gli abbiamo attribuito in altra parte del libro. Infatti, accanto alla impostazione “cognitivista” per cui in questa fase si aiuta il pa9

Vedasi: W.V. Flegenheimer, Techniques of Brief Psychotherapy, J. Aronson, New York 1982 (trad. it. Psicoterapia breve. Teorie e tecniche di trattamento, Raffaello Cortina, Milano 1986). 10 Ibidem. 11 C.M. Parkes, R.S. Weiss, op. cit.

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ziente a superare la situazione di stress in cui si trova, c’è l’invito ad interpretare il transfert e le resistenze, con un’impostazione ora francamente psicodinamica. Di particolare interesse è la proposta di fare molta attenzione alla conclusione di queste sessioni di psicoterapia breve in quanto sarebbe proprio alla conclusione che, attraverso il transfert, “possono essere espressi e interamente accettati” lo struggimento e la protesta per la morte del caro. Quanto alle conclusioni che ci si propongono, esse sono intuibili: aiutare la persona a superare la crisi (cioè il grave distress); affrontare e attenuare i fattori di rischio che possono ostacolare o bloccare il lutto (fattori che sono: la difficoltà di esprimere gli affetti negativi come rabbia e colpa, l’ambivalenza e la dipendenza, l’insufficenza dell’appoggio sociale a disposizione, le circostanze della morte, i lutti o le crisi precedenti e/o concomitanti); infine iniziare l’aiuto per un allentamento del legame col defunto. Come si vede, si tratta di un’impostazione sostanzialmente coincidente con quella di Parkes12 e Worden13. Quanto all’efficacia di tali interventi preventivi, B. Raphael cita una ricerca che dimostra come un intervento specifico come quello descritto sopra, risulti significativamente efficace nel prevenire la morbilità del paziente in lutto al confronto con la morbilità dei pazienti che non avevano avuto tale trattamento. La ricerca inoltre ha dimostrato che l’adattamento e la salute delle persone in lutto trattate sono significativamente migliori di quelli delle persone non trattate, soprattutto se si considera il fattore di rischio rappresentato dall’insufficiente appoggio ricevuto tramite la rete delle relazioni sociali. Altri studi14 confermano sostanzialmente questi dati, tranne il lavoro di Polak15 che però, come sostiene B. Raphael, non fa testo poiché il programma di intervento per le famiglie in lutto non era specifico e inoltre le persone non erano selezionate preventivamente per categorie di rischio. b) La terapia del lutto patologico Le tecniche terapeutiche che B. Raphael analizza sono: 12 13 14 15

C.M. Parkes, op. cit. J.W. Worden, op. cit. B. Raphael, op. cit. Ibidem.

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la psicoterapia focale a breve termine; la “Regrief therapy”; i trattamenti comportamentistici; l’approccio esistenziale ed altri approcci minori.

La psicoterapia focale a breve termine si può utilizzare oltre che preventivamente, come abbiamo visto, anche terapeuticamente nei casi in cui il lutto sia inibito, soppresso, assente o distorto. Nei primi tre casi manca l’espressione degli affetti appropriati al lutto, nel lutto distorto si ha l’espressione di sentimenti negativi (soprattutto rabbia e colpa) che ne distorcono e bloccano l’elaborazione. Non si tratta ovviamente di un intervento “diretto”, cioè mirante a far acquisire all’alluttato una consapevolezza esplicita di ciò che blocca e distorce il processo del lutto, bensì di portarlo a parlare delle relazioni col morto, nel modo che abbiamo illustrato parlando della valutazione e con lo scopo di portare in luce gli atteggiamenti difensivi che devono essere modificati perché il lutto proceda. Tutto ciò va visto psicodinamicamente nell’ambito di una relazione di transfert e presenta tutti i vantaggi e i problemi di una psicoterapia focale breve, con la differenza di avere un diverso focus16. La “Regrief therapy”, che si potrebbe letteralmente tradurre “terapia del rilutto”, è un trattamento psicoanalitico che si deve a Volkan17 ed ha lo scopo di far completare al paziente il lutto che non ha ultimato a causa del consolidarsi nel tempo di difese patologiche. Si tratta di una vera e propria terapia analitica con sedute di frequenza intensa (34 volte per settimana specie nelle fasi iniziali) nella quale si distinguono due fasi principali: la fase della “demarcazione” e la fase degli “oggetti di legame”. La fase della “demarcazione”, che dura circa tre mesi, è così detta poiché mira a far sì che il paziente “esternalizzi” la persona perduta tracciando i “confini affettivi” che lo differenziano da essa. La demarcazione del morto viene effettuata mediante una storia dettagliata di esso e delle sue relazioni interpersonali. Si può utilizzare in questa fase anche una foto del morto per facilitare la 16 17

Ibidem. V. Volkan, op. cit.

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differenziazione da lui. Tale fase mira ad aiutare il paziente a riconoscere che l’esperienza di rapporto con questa persona da cui egli è distinto è finita. Quindi segue la fase in cui il paziente viene incoraggiato a parlare degli oggetti che “simboleggiano” il morto e che lo legano a lui, gli “oggetti di legame” appunto, oggetti che egli può addirittura essere indotto a portare con sé. In tal modo nel paziente possono essere risvegliate emozioni inibite e fare in modo che egli diventi capace di sperimentare nuovamente gli “affetti” della perdita. Ne consegue che interpretando i simboli rappresentati dagli oggetti di legame e con l’aiuto delle emozioni mobilitate, il terapeuta può aiutare il paziente ad allentare il legame con la persona scomparsa. In questo trattamento, come in ogni trattamento analitico, si interpretano anche i sogni e la risoluzione del lutto è affidata all’attività interpretativa mirante a rendere consapevoli le difese che hanno bloccato il lutto, lutto che viene ovviamente concepito nei termini da noi già analizzati nel cap. IV. B. Raphael osserva a questo punto che non sempre la risoluzione del lutto è facile con quest’approccio, dato che i processi difensivi patologici possono essersi consolidati nel tempo e può non esserci da parte del paziente una sufficiente motivazione al cambiamento. In tal caso bisogna pensare (come suggerisce Barry)18 a disturbi della personalità precedenti il lutto, disturbi che bisogna affrontare e superare per ottenere una buona risoluzione del lutto. Le terapie comportamentali si basano sulla premessa che «le reazioni patologiche al lutto equivalgono ad una risposta fobica di evitamento»19. Ne deriva l’applicazione della classica terapia comportamentale consistente in un confronto forzato con i fatti del lutto e con ciò che esso porta con sé, allo scopo di sconfiggere il rifiuto fobico che il paziente oppone alla perdita. Tra gli altri20 B. Raphael cita uno studio controllato sul “lutto guidato” che merita di essere menzionato un po’ in dettaglio. Sono state eseguite con la guida di uno psichiatra o di un’infermiera terapista sedute nelle quali i pazienti veniva18 19 20

In B. Raphael, op. cit. Ibidem. Ibidem.

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no esposti sia immaginativamente che realisticamente, a memorie, idee, situazioni dolorose ed evitate. Ovviamente il paziente aveva reazioni emozionali (depressione, colpa, rabbia e molta ansia) dovute al non poter usare la risposta fobica di evitamento che rappresentava proprio la patologia del lutto da curare. Per quanto stressante ciò potesse essere, il paziente veniva incoraggiato a descrivere la situazione ripetutamente e a confrontarsi ripetutamente con essa finché il distress non diminuiva. Lo scopo era, ovviamente, come in ogni terapia comportamentale, di favorire una estinzione del comportamento fobico utilizzando come rinforzo negativo il distress provocato proprio dall’essere forzatamente tenuti nella situazione che si cerca di evitare con la reazione fobica. Si utilizzano a questo scopo anche istruzioni scritte come, ad esempio quella di guardare tutti i giorni le foto delle persone morte. In questo studio comparativo il metodo del “lutto guidato” ha mostrato un miglioramento dei lutti patologici trattati fino ad un periodo che va dalle 10 alle 28 settimane. Sia gli Autori di questo studio sia B. Raphael sono d’accordo nell’affermare che le terapie comportamentali sono indicate nei lutti patologici in cui sia presente una qualche forma di evitamento fobico. Le altre forme di trattamento del lutto citate da Raphael nel suo libro meriterebbero un approfondimento specifico, soprattutto per ciò che concerne l’applicazione della tecnica gestaltica della “terza sedia”21. c) La formazione del personale preposto all’assistenza per il lutto Da quanto detto fin qui sulla prevenzione, sul lutto patologico e sulla terapia del lutto patologico, si può inferire il seguente criterio: la formazione del personale va pensata e attuata in modo diverso a seconda dell’approccio preventivo e terapeutico preferito. Per i problemi generali di questo campo allo stato attuale delle conoscenze e in riferimento alla letteratura più accreditata, citeremo testualmente le conclusioni di Raphael: 21

Ibidem.

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Sono molte le persone che vengono a contatto con la persona in lutto e che possono confortarla e consolarla. Queste persone possono essere chiamate ad assolvere anche altri ruoli per i quali necessitano di un training. Ciò, come Parkes ha notato22, richiede un certo tempo: ci vuole circa un anno perché non professionisti e volontari acquisiscano capacità adeguate per lavorare con le persone in lutto… È anche abbastanza chiaro in base alla nostra propria esperienza che affrontare ciò che un lutto dischiude richiede notevoli capacità terapeutiche. Punti critici sono la conoscenza delle modalità del lutto e delle dinamiche associate ad esse, così come un addestramento sulle capacità specificamente richieste per affrontarle. Importante è anche in questo campo una supervisione sui casi per favorire uno sviluppo e un miglioramento della competenza professionale. Tale supervisione aiuta il counselor ad affrontare lo stress del suo lavoro e ad evitare i problemi indotti dalle vulnerabilità che possono derivare dalle dinamiche inconsce dello stesso counselor. I lutti ad alto rischio o quelli che mostrano segni patologici non possono essere affidati a chiunque ma richiedono l’intervento di counselors capaci e ben addestrati. Questo ruolo può essere assolto da un’infermiera, da un assistente sociale, da un sacerdote, da uno psicologo, da uno psichiatra, da un medico o da altri professionisti che abbiano le capacità adeguate. Il principale attributo, tuttavia, di chiunque fornisca un’assistenza alle persone in lutto è la capacità di atteggiarsi empaticamente. Ciò determina per il counselor particolari difficoltà, poiché l’empatia con la persona in lutto nel suo incontro con la perdita e con la morte fa esplodere in ciascuno di noi i terrori più personali. Noi tutti dobbiamo imparare a vivere con la perdita, ma le persone che lavorano in questo ambito devono confrontarsi con essa ogni giorno. 2. Rilievi critici e analisi di situazioni “tipiche” Si può constatare a questo punto come i principali approcci terapeutici per il lutto corrispondano alla teoria psicoanalitica, alla teoria evoluzionistico-biologico-cognitivista o ad una “contamina22

C.M. Parkes, op. cit.

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zione” delle due, in quella specie di “senso comune” psicologico che mescola disinvoltamente i punti di vista che sono maggiormente penetrati nella nostra cultura accademica e la dominano. Manca, a parte qualche eccezione23, la considerazione dell’utilità dei rituali funerari collettivi per la “cura” del lutto, anche se, per la verità, nel modo di “condurre” i funerali una certa consapevolezza di ciò finisce per passare proprio nelle zone della nostra cultura in cui meno radicate sono le antiche tradizioni (si pensi al funerale americano)24. Scarsa considerazione viene riservata al legame che abbiamo riscontrato essere importante tra l’andamento della fase terminale e l’elaborazione del lutto, mentre si tende a dare importanza al tipo di relazione che la persona in lutto intratteneva col defunto, considerando però la relazione solo nei termini dell’amore come è inteso in senso psicoanalitico o in senso evoluzionistico adattivo. In sostanza si può dire che i principali approcci terapeutici proposti corrispondano quasi perfettamente a due delle cinque concezioni che abbiamo dettagliatamente analizzato nel capitolo IV: l’approccio psicoanalitico e l’approccio biologistico cognitivistico, i quali finiscono per proporsi, e qui è il loro limite, come esaustivi di tutte le possibilità esistenziali. La conseguenza più vistosa di questa parzialità che si ritiene totalità e addirittura “buon senso comune” è che tutte le modalità del lutto inconcepibili nelle ottiche predominanti tendono a diventare “automaticamente” modalità patologiche. Ad esempio, essendo la finalità principale dell’elaborazione del lutto, per le teorie dominanti, l’allentamento del legame (del legame esterno col morto per la psicoanalisi, del legame esterno e del legame interno per la teoria biologica del lutto) chi davanti alla tomba o in un luogo particolare della casa “parlasse” con i suoi morti starebbe attuando una modalità patologica di fare il lutto, dato che non si può certo dire che parlare coi defunti come se potessero rispondere vada nella direzione di un allentamento del legame che ci unisce a loro. Si tratterebbe di una modalità disadattante per la teoria biologica del lutto; di un tentativo di continuare a far vivere fuori di noi chi è morto tenendo “bloccata” la libido, per la psicoanalisi, la 23

G. Gorer, Death, Grief and Mourning, Arno Press, New York 1977. R. Huntington, P. Metcalf, Gli usi funerari americani, in Celebrazioni della morte, Il Mulino, Bologna 1985. 24

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quale è disposta al massimo a concedere che si parli solo coi morti interiorizzati dopo averli resi “oggetti interni buoni”. La via che si suggerisce qui per ovviare a “questo grave inconveniente” è di considerare le cinque possibili modalità del lutto illustrate nel cap. IV altrettanto legittime in quanto corrispondenti ad altrettante modalità di esistere e di amare. Solo all’interno di ciascuna modalità si potrà distinguere tra lutto normale e lutto patologico, evitando così il rischio di attribuire a tutte le possibili modalità esistenziali criteri di normalità validi solo per alcune di esse. Sul piano pratico basterà adottare il “questionario” di B. Raphael aggiungendovi due direzioni di approfondimento che l’Autrice non ha previsto: I. L’approfondimento, attraverso la prima area dell’inchiesta, di ciò che è accaduto nella fase terminale, cercando in specifico di capire: a) se il morente si è assunto la responsabilità della sua morte nel senso che abbiano ampiamente specificato; b) in che misura la fase terminale (dal momento della certezza della morte fino alla fine) ha modificato il progetto esistenziale del morente (“era sempre lui o non era più lui?”); c) se c’è stato e come è stato gestito il lutto anticipatorio in tutte le sue componenti. II. L’approfondimento, tramite la seconda area di indagine, non solo delle caratteristiche della relazione (come si fa quando si dà per scontato che amarsi vuol dire una certa “cosa”) ma anche del tipo d’amore (quale dei 5 tipi d’amore a cui abbiamo fatto riferimento era quello che ci legava al caro estinto?). Solo dopo aver attuato questi due approfondimenti sarà legittimo porsi la domanda sulla modalità o patologia del lutto, perché solo all’interno di ciascuna modalità tale domanda acquisterà senso. E sarà proprio la patologia del lutto nella sua “specificità intramodale” a riportare in campo il rapporto di ciascuna modalità (di esistere, amare e fare il lutto) con le altre. Se, ad esempio, l’elaborazione psicoanalitica del lutto non va a buon fine a causa di scelte oggettuali narcisistiche, si avrà la reazione “melanconica”, reazione che può essere considerata indice di una “crisi” della modalità esistenziale che vi è sottesa, crisi che, come in ogni crisi, indi226 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ca i limiti di un certo modo di esistere e chiama in campo possibilità esistenziali diverse. In sintesi la patologia da rilevare in questo campo non è connotabile come “patologia del lutto” bensì come “patologia della modalità specifica di fare il lutto”. Ecco perché è necessario che chi assiste le persone in lutto sia consapevole di tutte le possibilità esistenziali di “fare” il lutto e di essere in lutto, in modo da aiutare le persone a trovare non solo nell’ambito della loro modalità esistenziale le vie di superamento della crisi, ma anche attraverso l’apertura alle altre modalità esistenziali possibili ma finora fuori dell’orizzonte della persona. Analizzeremo ora alla luce di questa impostazione alcuni esempi (casi clinici o situazioni emblematiche). 1. La donna si sveglia dopo un difficile parto cesareo. Accanto al letto c’è il marito. Lo sguardo della moglie incrocia quello del marito. Il marito dice: “Il bambino è nato morto”. La moglie senza esitazione risponde: “Non importa, ne faremo un altro”. In casi del genere, che chiameremo “lutti accelerati”, la presa d’atto della perdita, la sua accettazione, sono rese possibili dal processo “cognitivo” tramite il quale la perdita di un bambino particolare diventa la perdita generica di un bambino, perdita riparabile tramite il progetto di un altro generico bambino. In altri termini, il bambino morto può essere subito abbandonato alla morte e subito fatto rinascere perché questa madre, favorita dall’assenza di una storia di rapporto col figlio morto che non ha neanche voluto vedere, sembra pensare che tutti i bambini sono uguali purché siano vivi. Se ci riferiamo ancora al piano cognitivo, possiamo considerare che ella trascura il fatto che essendole nato morto una volta un figlio potrebbe rinascerle morto. D’altra parte, un figlio nato vivo dopo uno nato morto non è come un figlio nato vivo dopo un figlio nato vivo o dopo nessun figlio, dato che un figlio nato vivo dopo un figlio nato morto ha un fratello morto da “riparare e rimpiazzare”. 2. Una considerazione particolare merita il caso di coloro che vanno al cimitero a parlare con i loro morti “come se fossero vivi”, informandoli degli eventi familiari, chiedendo loro consigli, intercessioni, ecc. È, culturalmente, il caso più semplice del tentativo di tenere 227 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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una “porta aperta” tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, tentativo proprio di tutte le culture di tutti i tempi (Bachofen25, Ginzburg26). Dal punto di vista dell’elaborazione del lutto significa considerare i morti come viventi in un “altro mondo”, mondo con cui si può comunicare (benché con difficoltà) a senso unico o senza sapere come potrebbe arrivare una risposta. Qui bisogna distinguere tra i casi in cui c’è il desiderio che il caro continui ad essere “presente” nella nostra vita (e quindi si continua a porgli domande pur sapendo che non risponderà), e i casi in cui si ha bisogno che il caro continui ad essere presente nella nostra vita (in questo caso ci si aspetterà che risponda alle nostre domande o si tenderà ad interpretare come risposte i più vari segni, dal “venire in sogno” dei defunti alla sicumera con cui si collegano ai morti situazioni “paranormali”). 3. Un amico m’ha fatto questo racconto. La cosa m’ha incuriosito perché di solito le donne che parlano con i loro morti davanti alle tombe parlano a bassa voce, a parte l’acuto di qualche singhiozzo. Quella voce era invece alta e forte e senza alcuna sfumatura di commozione. Ho esitato un po’ prima di fermarmi dietro una tomba ad ascoltare, ma poi la curiosità ha vinto ogni resistenza. Diceva: “Oggi ho preso i soldi della pensione e ho pensato che mi comprerò un letto nuovo. E anche un bel vestito a fiori che ho visto esposto, mi comprerò anche quello! Alla faccia tua che non mi davi una lira e mi chiudevi in casa. Ora con la tua pensione faccio quello che voglio!”. A questo punto la donna si è voltata, m’ha visto e con mio massimo stupore m’ha fatto cenno di avvicinarmi, sembrava contenta d’essere stata ascoltata e m’ha raccontato, come a giustificare il suo comportamento, una storia di oppressione familiare. Si potrebbe prendere questo racconto come una tipica manifestazione di un lutto patologico se si tenesse in considerazione so25 26

I.J. Bachofen, Il Matriarcato, Einaudi, Torino 1988. C. Ginzburg, op. cit.

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lo il fatto che questa donna ha bisogno di non allentare il legame col marito morto: per poter continuare a sfogare il suo risentimento il marito deve sentire, essere vivo! In realtà, più semplicemente, questa donna non amava il marito (e forse lo odiava) e aveva con lui un rapporto di sopraffazione che continua oltre la morte a parti invertite. Il marito per lei continua a vivere sottoterra cioè in una condizione di estrema debolezza, non le può più nuocere, e lei ne approfitta per prendersi una rivincita. È una “via della tomba” (il morto per me vive) dove la tomba è proiettata nello spazio esterno. Dal punto di vista psicoanalitico sarebbe un lutto patologico, ma la persona in questione ha una modalità di esistere e di amare come quella che sottende la psicoanalisi? Bisognerebbe approfondire il caso oltre una testimonianza indiretta: si potrebbe però sostenere che quando si odia una persona senza poterci fare niente si aspetta che muoia per “rifarsi”. Non potrebbe essere solo il risvolto nei vissuti personali della gratificazione di chi constata d’essere il più adatto a vivere perché è sopravvissuto? Non si esaurirà tutto ciò quando questa persona avrà soddisfatto il bisogno di esprimere la sua rabbia nei confronti del marito e potrà distogliersi dalla sua tomba, come il predatore si distoglie dalla sua preda quando si è saziato del suo sangue? E a quel punto non dovrà trovare questa donna qualcun altro da cui essere oppressa e di cui poi vendicarsi? Eppure cerca di giustificarsi con chi l’ascolta: c’è da chiedersi se l’aiuto, nonostante l’assenza apparente di crisi in questa donna, non possa consistere proprio nel farle capire che la sua vendetta “giustifica” l’oppressività del marito essendone l’esatto risvolto dialettico? Si sentirebbe allora questa donna in colpa, ma non sarebbe una colpa solo da esprimere (come sembrano credere coloro che si occupano delle colpe delle persone in lutto) ma anche da “espiare” cercando di instaurare con gli altri rapporti più “giusti”. 4. Un militare viene trovato morto in caserma con accanto la sua pistola d’ordinanza. L’inchiesta dice: suicidio. Il padre non crede al suicidio e comincia a far tentativi per riaprire l’inchiesta sulla base della convinzione che il figlio amava la vita e non può essersela tolta. Visita numerosi medici legali nessuno dei quali ammette di ravvisare nella documentazione ufficiale gli estremi per tentare una riapertura del caso. Passano gli anni e il padre continua a girare, niente sembra 229 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scalfire la sua certezza dell’impossibilità del suicidio del figlio. Quando per caso parlo con lui dico: «Prima o dopo bisognerà rassegnarsi per questa morte?». Risposta: «Non posso rassegnarmi, devo prima trovare i colpevoli. Ho dei sospetti, ma non posso da solo uccidere tutti. Bisogna riaprire l’inchiesta». Mi chiede di trovare un medico legale che lo aiuti a riaprire il caso e penso che forse l’unico che lo potrebbe aiutare sarebbe un medico legale tanto coraggioso da “provare” nonostante tutto ad andare fino in fondo sulla strada che il padre ha intrapreso. Dovrei dirgli, da medico e da psicologo, che il suo modo di reagire si basa sull’impossibilità di accettare la perdita del figlio, ma non glielo dico poiché l’impossibilità di fare il lutto in questo caso si basa sì sulla non accettazione della morte ma questa non accettazione è a sua volta una conseguenza. Quando la morte del caro avviene non per caso ma in seguito ad un atto che ha un “soggetto”, se siamo nell’ottica del desiderio, se amiamo l’altro in quanto se stesso, tutto si complica poiché il colpevole sembra presentarsi e il rischio che la 5a modalità del lutto incontri la sua forma patologica si fa fortissimo. Ed è proprio il caso che abbiamo appena citato: un esempio lampante di patologia della 5a modalità del lutto. Questo padre non è la morte del figlio che non accetta bensì l’ingiustizia di questa morte, ingiustizia consistente nell’imputare al figlio stesso la volontà suicida. Tutto perché crede di sapere quale sia il modo giusto di morire: è giusto che muoia prima il padre del figlio, è più giusto morire per fatalità, ma se c’è colpa che si sappia chi è il colpevole! È una persona che si sente “creatura” e ha la pazienza della creatura finché il creatore lo aiuta e lo favorisce, ma quando, senza fargli capire il suo disegno gli manda una disgrazia, tende a trasformarsi in giudice, in giustiziere, in Dio stesso! E così non “difende” il figlio dall’ingiustizia della morte nell’unico modo in cui si può difendere dopo che è morto, cioè continuando a desiderarlo e presentandolo agli altri o ponendolo sull’altare di famiglia; bensì lo fa per sé, per non subire l’ingiustizia della morte impunita del figlio, come se una volta trovato un colpevole il desiderio del padre che il figlio sia vivo possa acquetarsi e collocare l’assenza del figlio nel passato. Come aiutare questa persona? È possibile “curare” questo lutto patologico? È possibile solo ad una condizione: che la persona percepisca la crisi irreversibile della sua modalità esistenziale prodottasi in 230 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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seguito alla morte del figlio e ristabilisca l’ordine delle cose: prima si piange e poi si fa giustizia, una giustizia non preceduta dalle lacrime è per definizione una giustizia “ingiusta”! Egli pensava che nessuno vuole morire ed è sempre ingiusto morire, ma è un po’ più giusto morire dopo i genitori e per fatalità. E si aspettava questo per sé e per i suoi cari. Così non è stato, e le sue attese sono andate in crisi, cosicché invece di perseguire la “giustizia” difendendo il figlio morto, egli si accanisce alla ricerca di una via di ritorno al di qua del già avvenuto. L’unico modo per tornare a vivere nel presente e guardare al futuro è per questa persona “farsi giustizia”: precisamente ciò che non è possibile, perché ormai l’ingiustizia vera, la morte del figlio che muore prima del padre, è irreparabile27. Se fosse consapevole di ciò questa persona andrebbe in crisi e potrebbe essere aiutata a trovare una via d’uscita o all’interno della sua modalità esistenziale (sarebbe la via di Giobbe dell’affidarsi alla volontà di Dio) o all’esterno, in una modalità esistenziale diversa (una delle altre quattro: far vivere il figlio dentro di sé; sciogliere il legame con lui per sopravvivere e riadattarsi al mondo; far morire il figlio dentro di sé e farlo vivere in un aldilà con il quale si possa comunicare; collocare nel passato l’esistenza del figlio o “negarne” la morte attraverso l’amore che ci fa vivere alla prima persona plurale anche quando siamo rimasti soli). 5. Un bambino, figlio unico, muore di leucemia a 11 anni e prima di morire “detta” ai giovani genitori le sue “volontà”: «Non dovete avere altri figli, dovete venire al cimitero a visitarmi tutti i giorni e non dovete trasferirvi, così non potrete dimenticarmi e anche se io sarò morto resterò sempre con voi». I genitori obbediscono in tutto per circa un anno, poi la madre resta di nuovo incinta (non si sa se per caso o intenzionalmente), e cominciano a sentirsi liberi dall’obbligo di obbedire al figlio che non c’è più. In questo caso è chiaro “cosa voleva” il defunto da chi è restato in vita: voleva continuare a vivere nonostante gli altri, cioè non facendosi alcun carico delle conseguenze di ciò sulla vita degli altri. 27

L’hanno capito i genitori del giudice Livatino, assassinato in Sicilia, quando hanno commentato l’arresto dei presunti assassini del figlio dicendo: “La vendetta non serve, nostro figlio non torna!”.

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Si tratta di un bambino e si può ritenere che sia stato tanto “crudele” con i suoi in buona fede, innocentemente. Non solo. La morte di un bambino è così ingiusta che qualsiasi tentennamento nel contrastarla procura colpe troppo insopportabili. Ma come si amavano questi genitori e questo bambino? È coerente la modalità di lutto che egli “detta” loro con il loro modo di essere e di amare? Solo se lo ami in quanto te stesso puoi (l’abbiamo dimostrato) accontentarti che qualcuno che ami sia vivo solo nell’interiorità (come oggetto interno) anche quando è morto nell’esteriorità (nel mondo oggettivo). Sembra chiaro che questo bambino avrebbe voluto essere amato così dai suoi genitori. E sarebbe stato accontentato se anche loro l’avessero amato così: avrebbero vissuto paghi della presenza “spirituale” del figlio (rinunciando al desiderio di altri figli e organizzando l’esistenza in funzione della “memoria” del figlio morto). E sono frequenti gli esempi di genitori che si “seppelliscono” con i figli morti, spesso “uccidendo” (cioè non riconoscendo loro il diritto di vivere la loro vita) anche gli altri eventuali figli. Ma evidentemente non è questo il caso se questi genitori “si permettono” di mettere al mondo un altro figlio. Cosa significherà dal punto di vista della modalità di amare di queste persone solo il futuro potrà dirlo. Infatti, si possono fare tre ipotesi: I. Se una volta avuto il secondo figlio lo considereranno una “riparazione” per la perdita del primo, ciò può significare: o che “amano i figli pensando a se stessi”, oppure che l’unico modo per continuare ad “obbedire” al figlio morto era di farne un altro che vivesse al suo posto (ora la loro vita non sarà più un inferno, non sono più “seppelliti” ma vivono sempre per lui, perché a questo secondo figlio chiedono di vivere “per” il primo, di vivere la vita che il primo non ha potuto vivere). II. Se hanno potuto decidere di avere il secondo figlio perché pur rispettando la sua volontà non confondono la loro vita con la sua, lo amavano “in quanto se stesso” e potranno continuare a “difenderlo” cioè a rispettarne la volontà (dal suo punto di vista aveva ragione) senza confondere questa volontà con la loro cioè senza perdere il rispetto di se stesse. 232 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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III. Se hanno potuto decidere di avere il secondo figlio perché hanno capito che seguivano il diktat del primo solo in quanto l’accecamento del dolore li aveva indotti ad identificarsi col suo punto di vista, amavano il primo figlio come loro stessi (il valore del figlio dipendeva da loro e solo ora che si sono resi conto che non c’è più capiscono che fare ciò che diceva era giusto dal punto di vista del figlio ma sbagliato dal loro). E, dato che sono loro a decidere, ora che sono più sereni e distaccati, quale punto di vista adottare, capiscono che ciò che il figlio diceva di fare è giusto solo se loro lo “considerano” giusto, e non in assoluto. La conclusione in questo caso è: è giusto dal suo punto di vista prescriverci ciò che ci ha prescritto, è giusto dal nostro punto di vista continuare a vivere. Non ci si può esimere a questo punto di sottacere per completezza la più recente impostazione psichiatrica sul lutto che tende a complicarsi. Ne analizzerò di seguito criticamente gli aspetti sostanziali attraverso l’analisi di due casi clinici e di un dibattito.

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Capitolo X

Il lutto prolungato

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1. Una madre perde un figlio: teoria e clinica di un lutto con tutte le complicazioni Quando il legame tra le persone amate va in crisi a causa della morte di qualcuno di loro,si determina la condizione esistenziale che chiamiamo lutto (bereavement) e si innesca un processo più o meno lungo e dagli esisti molteplici (mourning) accompagnato da una particolare sofferenza emotiva (grief). Cercherò di mostrare come il particolare approccio clinico al lutto approfondito in questo libro possa contribuire alla formulazione di una teoria del lutto e delle sue vie di risoluzione. I premessa Il lutto si risolve spontaneamente in un tempo variabile nella maggior parte dei casi (secondo quella che è stata indicata sopra come una “traiettoria di resilienza”). In una minoranza di casi invece il lutto persiste e si complica con maggiore o minore gravità fino poter essere classificato come “Lutto persistente e complicato” secondo la nota proposta del DSMV (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, R. Cortina Editore, Milano). Ma perchè un lutto persiste e si complica?A questa domanda si tende a rispondere pressappoco così: tendono a complicarsi più facilmente i lutti determinati da morti traumatiche, cioè da morti inaspettate e violente. L’omicidio, il suicidio, gli incidenti stradali, la guerra, le malattie letali acute o le catastrofi in genere sono la cause in cima alla lista, ma altrettanto traumatica può essere la morte di un genitore per un bambino e quella di un figlio per una madre o per un padre. Nella mia esperienza pluridecennale il lutto che tende a complicarsi maggiormente (ma più o meno a seconda dell’età del figlio) è quello di una madre che perde un figlio. 234 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Ma non basta, perchè un lutto si complichi, che sia traumatica la sua causa, vale a dire che la complicazione non dipende soltanto dal trauma della morte. Dalla clinica ho tratto la seguente convinzione: se il lutto è traumatico è più probabile che esso si complichi, ma ciò dipende anche dal particolare legame affettivo che il trauma spezza o mette in crisi, dato che ad un particolare legame corrisponde una diversa elaborazione psicologica del lutto. II premessa Molto in breve quello che chiamiamo “legame affettivo” e che va in crisi nel lutto è sempre un intrecciarsi in vario grado in ogni legame affettivo particolare di tre diversi tipi di legame: - Un legame di attaccamento, così come l’hanno studiato Bowlby (Attaccamento e perdita, Boringhieri), la sua scuola e i suoi epigoni contemporanei (quasi tutti gli studiosi attuali del lutto che si rifanno,come abbiamo visto, alla psicologia cognitivocomportamentale e sistemico-relazionale) è un legame di adattamento che quando si spezza mette capo ad un processo di distacco e di riadattamento sostitutivo del legame stesso e che viene complicato dalla morte traumatica rendendo più difficile il distacco e la sostituzione del legame stesso. Si tratta di un legame biologico simile a quello tra gli animali, che ho indicato sopra nel suo lutto come “via dell’energia vitale anonima”: consistendo nel legarsi dell’energia vitale in modo anonimo a chi soddisfa i bisogni biologici allo scopo di conseguire un buon adattamento.La formula che ho proposto per descrivere questa modalità di legame è: ama il prossimo tuo pensando a te stesso; - Un legame di assimilazione o “amore oggettuale”, teorizzato da Freud (Lutto e melanconia, Opere, Boringhieri, op.cit) e dalla psicoanalisi che consiste nel portarsi dentro l’oggetto d’amore facendolo diventare una parte di sè, e che quando si spezza mette capo ad un processo tendente a trasformare l’assenza esterna in una presenza interna o in una presenza in qualche aldilà, processo che la morte traumatica può ostacolare a causa dei sentimenti di rabbia e colpa che suscita. Si tratta di un legame personale che ho indicato nel suo lutto come “via della Tomba”, dato che il lutto si elabora quando si spezza un legame di questo tipo sentendo il morto come simbolicamente vivo nel proprio cuore o immaginandoselo vivo nell’aldilà perchè risorto grazie ad un Dio. Per descrivere questa modalità di legame ho proposto la formula” ama il prossimo tuo in quanto te stesso”; 235 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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- Un legame di approssimazione (F. Campione, Perpatire, Armando Editore, op.cit.) basato sul desiderio dell’altro non sostituibile nè assimilabile a sè, che si ritrova quando la morte è traumatica a dover elaborare un lutto sfavorito dal non trovare più nel mondo esterno il destinatario dei propri desideri e dei doni che gli si offrono.Si tratta di un legame umano che nel suo lutto ho proposto di chiamare “via della trascendenza”, consistendo la sua elaborazione nel “sostituirsi” al morto per continuare a desiderarlo disinteressatamente vivendo per lui-lei. La formula che ho proposto per indicare questa modalità di legame è: “ama il prossimo tuo in quanto se stesso”. Ogni legame e quindi anche il legame con un figlio è sempre una mescolanza di queste tre modalità di legame (attaccamento, assimilazione, approssimazione), ma con una prevalenza specifica in ogni caso particolare. Significa che un figlio è sempre: - Un altro staccato da me, un altro che ho con me e per me, un altro da nutrire essendone nutriti; - Un altro che è parte di me, un altro che sono, che mi fa essere me stesso e diventa sè stesso attraverso di me; - Un altro che non posso avere e che non sono ma di cui desidero il bene qualunque cosa sia, anche quando non ce l’ho con me e per me e anche quando non c’è; anche quando non è ancora nato e anche quando è già morto. Un figlio è sempre tutto questo ma quale dimensione del legame prevale nel tempo? È nel permanere di questo intreccio e nel mutare delle prevalenze che la crisi di un lutto può imboccare la sua specifica via di risoluzione. Sulla base di queste premesse si può osservare che il fattore “morte traumatica” influenza l’elaborazione del lutto e la complica in modo differente a seconda che il legame affettivo in crisi in ogni particolare lutto sia prevalentemente un legame di attaccamento, un legame di assimilazione o un legame di approssimazione. Vediamo come stanno le cose e con quali conseguenze teoriche e cliniche nel caso emblematico che ora analizzerò nelle sue linee essenziali per lo scopo di questo lavoro. G. è una Signora di poco più di 40 anni che ha perso il figlio S. (9 anni) per una leucemia che non si è riusciti a curare. Il lutto è chiaramente “persistente e complicato” dato che dopo 12 mesi so236 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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no presenti i principali criteri indicati nel DSMV per classificarlo in tal modo: - rifiuto della morte del figlio; - persistenza di un enorme strazio per la mancanza del figlio perduto; - profonda disperazione che mette a rischio il desiderio di vivere suscitando un forte desiderio di morire della madre per riunirsi al figlio morto; - profonda preoccupazione per il destino di S. (dov’è andato S. morendo?); - profonda difficoltà a volgersi ai ricordi positivi della vita col figlio; - profondo senso di colpa per non aver salvato il figlio e per essergli sopravvissuta, con relativa perdita del senso del proprio valore; - profondo senso di ingiustizia e di rabbia per la perdita del figlio; - profondo senso di solitudine e di invidia verso le altre mamme che hanno i figli ancora vivi; - profonda sfiducia nella possibilità che gli altri possano capirla nel suo dolore e aiutarla; - profondo senso di vuoto e di perdita di senso della vita; - profonda sfiducia nel futuro con relativa presenza di fasi depressive; - compromissione del funzionamento sociale ed esistenziale (problemi sul lavoro e nella relazione col marito). Ma come ha cercato G. di far fronte a tutto questo? E quali indizi se ne possono trarre per capire in quale intreccio le modalità di legame col figlio sono presenti in modo da orientare l’intervento psicologico in senso idiopatico e senza ingiustificate forzature? Finita la fase di angosciata incredulità, nei momenti di più profonda disperazione la tentazione della madre è stata di distaccarsi dal figlio morto per non morire a propria volta di dolore e poter riprovare a sentire l’amore per un figlio prendendo in affidamento un altro bambino.Il pensiero è stato pressappoco questo: “Devo cercare di non pensarci e piano piano dimenticare, così potrò rispondere alle richieste d’amore di un altro bambino e tornare come prima”. È un chiaro indizio della modalità di legame che abbiamo indicato come “modalità di attaccamento” caratterizzata propriamen237 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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te dal poter elaborare il lutto sostituendo il caro perduto in quanto l’energia vitale è anonima e può trasferirsi da un figlio ad un altro, da un amore ad un altro. G. allora ha tentato di prendere in affidamento un bambino e tutte le volte che c’è riuscita è stata un pò meglio ma subito dopo si è sentita straziata dal senso di colpa: non equivaleva forse, staccarsi dal figlio e dimenticarlo per non soffrire la mancanza e poi soddisfare nuovamente il suo bisogno di essere madre,a tradire e ad abbandonare il figlio suo? E così si è detta con strazio: “Non posso sostituire il mio bambino con un altro, mi sento troppo in colpa”. E subito le è salito alla mente il lamento classico delle madri che perdono un figlio: “Non doveva succedere! Mio figlio non doveva morire!” Che fare? Si può ribaltare il destino e far tornare un figlio dalla morte? Se hai fede e pensi che un giorno tutti risorgeremo, puoi sperare che un giorno lo incontrerai nuovamente in qualche modo o in qualche forma. C’è chi suggerisce alle madri disperate per la perdita di un figlio che i bambini morti diventano subito angeli e proteggono dall’alto, o chi dice loro che i morti vivono in un’altra dimensione e con l’aiuto di buone guide ci si può mettere in contatto con loro. Ma G, non ha fede nella resurrezione nè crede che i morti siano “altrimenti vivi” e non può contare su queste risorse di “fede”. Nel suo cuore però il figlio morto lo sente sempre presente e allora ha provato a dirsi che è questo il modo S. di non morire: vivere nel cuore di sua madre! Purtroppo però non le è bastato perchè non avrebbe più potuto incontrare il figlio nella realtà esterna: “Ci riuscirei a farmi bastare che S. è vivo dentro di me se non dovessi rinunciare a vederlo e ad abbracciarlo. Ci riuscirei se non incontrassi le mamme dei compagni di mio figlio con i loro bambini vivi e vegeti e non mi montasse una rabbia esplosiva e un’invidia velenosa”. G. è stretta tra due impossibilità e non sa come uscirne:potrebbe distaccarsi dal figlio morto e attaccarsi ad un altro bambino che la potrebbe scegliere come madre ma si sente in colpa per dover abbandonare suo figlio all’oblio; potrebbe certo far vivere suo figlio dentro di sè come parte di sè ma la rabbia di constatare che solo a lei è impedito di abbracciare il suo bambino come le altre mamme continuano a fare glielo impedisce. Il legame di G con il figlio S. è un intreccio di attaccamento e di assimilazione che sembrano avere pari forza e non le danno vie 238 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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d’uscita facendola oscillare tra due modalità di elaborazione altrettanto problematiche. Ma dov’è finita la modalità di elaborazione del lutto che abbiamo chiamato “approssimazione” e che secondo la premessa teorica dovrebbe essere presente anch’essa nell’intreccio del legame di G. con il figlio? Non sarà proprio nella dimensione dell’approssimazione apparentemente inesistente che si può trovare la via della risoluzione del lutto di G.? G. è stretta tra Niobe e Demetra senza poter essere Maria di Nazareth. Le soluzioni che la nostra cultura suggerisce a una madre che ha perso un figlio sono impersonate da due figure centrali della mitologia greca (Niobe e Demetra, appunto) e dalla “vergine madre figlia del suo figlio” figura centrale del Cristianesimo. Niobe è la madre di 14 figli di cui gli Dei puniscono l’orgoglio per essersi sentita più madre della Dea Latona che ha generato solo due figli sebbene divini, Artemide e Apollo,al punto che gli uomini hanno cominciato ad adorare più lei che la Dea. La punizione di Giove, richiesta dalla stessa Niobe, consiste nel trasformarla in una roccia da cui sgorgherà una sorgente (forse di lacrime perenni). E non è lo stesso destino che G. ha temuto di dover incontrare staccandosi dal figlio morto per non morire di dolore? Essere condannata a diventare di pietra, cioè insensibile al dolore per la perdita del figlio ma sapendo di non poter smettere di piangere? Demetra,pur essendo la Dea della Terra subisce il rapimento della figlia Core (o Persefone) da parte del più potente Dio Plutone, che regna sull’Ade, il regno dei morti. Demetra come tutte le madri rifiuta la morte ingiusta della figlia e per convincere Giove a farsi aiutare a far tornare in vita Persefone rende la Terra un deserto in modo che gli uomini non abbiano più niente da sacrificare agli Dei disconoscendone il culto. Giove allora raggiunge un accordo col fratello Plutone: Persefone tornerà nel mondo dei vivi per metà dell’anno in modo che Demetra faccia tornare la Terra feconda almeno in primavera e in estate. E non è simile al compromesso che si propone a G. allorchè intuisce che può far vivere il figlio morto dentro di sè (la via della Tomba!) a patto che rinunci a vederlo e ad abbracciarlo nella realtà esterna? Non potrebbe il mito dell’alternanza vita morte di Persefone richiamare la compresenza di vita e morte di chi fa vivere i morti dentro di sè ma può farlo solo se rinuncia a farli vivere fuori di sè? E poi c’è Maria che avendo messo al mondo il figlio di un Dio sa che risorgerà e quando muore sa come superare la sua dispera239 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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zione: prega per avere in grembo il figlio morto, come indicano le posture delle Pietà alludendo alla possibilità che la morte sarà una rinascita grazie al Padre e tramite un altro passaggio nel grembo materno. G., nonostante che possa, grazie alla dimensione di assimilazione del suo legame col figlio, farlo vivere nel suo cuore, non può essere come Maria. Perchè non l’ha messo al mondo per obbedire ad un annuncio divino, l’ha messo al mondo, l’ha desiderato (lo dichiara esplicitamente) per realizzare se stessa, per generare qualcuno da sè che andasse oltre sè, cioè da lasciare in vita dopo la propria morte allo scopo di essere ancora in vita attraverso la continuità della famiglia. G. infatti dice di aver sempre pensato che la morte di un figlio non è ingiusta in sè,ma che la morte del figlio è stata ingiusta in quanto prematura, l’essere morto prima di sua madre e prima di poter a sua volta lasciare in vita un figlio suo.G. sapeva che il figlio sarebbe morto anche lui alla fine della sua vita ma non ha potuto sopportare che sia morto non conformemente col suo desiderio di far vivere qualcuno di “suo” dopo la propria morte. Ha messo al mondo il figlio per assicurarsi una forma di immortalità, per un bisogno di sopravvivenza dopo la morte. Ma come fa una madre che mette al mondo un figlio con questo desiderio ad essere sicura che metterà al mondo qualcuno che lo realizzerà? G. non ha tenuto conto che una madre mette al mondo qualcuno di cui non si conosce il destino e quindi non si può pensare che realizzerà con certezza il desiderio per cui lo mette al mondo chi lo genera. Come accade nella stragrande maggioranza dei casi:non si tiene conto di questo “ignoto” che appare quando si mette al mondo un altro, perchè, altrimenti, si dovrebbe ammettere che si genera un figlio senza sapere cosa si sta facendo, si genera un “mistero” che solo vivendo si chiarirà ma potrebbe non chiarirsi mai, come accade certamente quando un figlio muore prima di un genitore. La morte di un figlio ci può “insegnare” che forse desiderare un figlio significa desiderare un bene che non si conosce, un bene che nel desiderio è tale anche se potrà derivarne un male (come la sua perdita) e soprattutto che non si sa “cosa” sarà. Sembra tragico e lo è, ma al tempo stesso, ha una conseguenza che potrebbe far uscire una madre che ha perso un figlio dal vicolo cieco nel quale abbiamo visto essersi cacciata G. Significa che oltre a quelle prospettate da Niobe, Demetra e 240 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Maria, c’è un’altra alternativa che ancora non ha un nome che la personifichi, forse perchè l’Umanità non ha ancora codificato appieno questa sua straordinaria possibilità. Essa consiste, per una madre nel continuare a desiderare il figlio che non c’è più non aspettandosi niente da lui, come avrebbe dovuto desiderarlo e come forse l’ha già desiderato prima che nascesse se si fosse assunta la responsabilità del fatto che sempre si mette al mondo un figlio che non si sa chi sarà, quale sarà il suo destino e se corrisponderà o meno ai desideri di chi lo genera. Come una madre dovrebbe o come ha già desiderato il figlio prima di nascere, senza sapere cosa aspettarsi,senza aspettarsi niente in cambio (cioè disinteressatamente), un figlio si può continuare a desiderare disinteressatamente anche da morto. Dopo tre anni di terapia ho potuto prospettare a G. questa possibilità con queste parole: “La soluzione potrebbe essere continuare a voler bene a S. senza aspettarsi niente in cambio. In tal modo vivrebbe tramite la madre che non dovrebbe più nè cercare di sostituirlo nè doversi accontentare di averlo vivo solo nel cuore”. “Così” ha risposto G. “sarebbe volergli bene come gli volevo bene prima che nascesse. Ma poi è nato ed è anche morto. Non so se riesco a voler bene senza volere niente in cambio”. “Se ha messo al mondo S. come «mistero» cioè desiderandolo disinteressatamente come bene a prescindere dal sapere cosa produrrà la sua vita”, ho ribattuto, “ora che è morto potrà continuare a desiderarlo nello stesso modo, rendendo così ‘misteriosa’ anche la morte e potendo così desiderare, per lui che non c’è più, tutto il «bene» del volergli bene, a prescindere che sia niente, un’altra vita o qualunque altra cosa indicibile”. Questa conversazione con altre parole e in una specie di corpo a corpo con G. si è ripetuta e si sta continuando a ripetersi conferendo una specie di orizzonte alla crisi del suo lutto complicato anche se sembra andare all’infinito. Per fortuna un giorno G. ha detto. “Non capisco e forse non capirò mai questo amore disinteressato che dovrebbe risolvere il mio lutto.Però intuisco che sarebbe bello se riuscissi ad amare mio figlio in questo modo anche da morto”. La dimensione del legame di approssimazione ha fatto questo punto capolino indicando la necessità di una sua prevalenza sulla dimensione dell’attaccamento e su quella dell’assimilazione, perchè un lutto così complicato come quello di una madre che perde un figlio possa avere una prospettiva di risoluzione. 241 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Forse ha ragione Derrida quando nell’elogio funebre di E. Levinas sostiene che nessun lutto si risolve mai, a maggior ragione, potremmo aggiungere, quando si tratta del lutto di una madre che ha perso un figlio. Tuttavia, come abbiamo visto, la possibilità dell’amore disinteressato apre un orizzonte di fronte all’impossibile: se nessuno può fare a meno di un figlio perduto e nessun tentativo di sostituirlo o di farlo sopravvivere in qualche modo può mai riuscire del tutto, solo il mistero aperto dal desiderio disinteressato davanti alla morte può far sì che di fronte al “mai possibile” del lutto (la vita è finita e i morti non sono sostituibili e non risorgeranno) ci sia per l’uomo la possibilità del “sempre desiderabile”:la vita è finita, i morti non sono sostituibili e non risorgeranno, ma continuando a volergli bene disinteressatamente si vive qualcosa che va al di là dell’essere e del non essere e al di la della vita stessa. Si tratta del desiderio di un Bene infinito (E. Levinas, Totalità e infinito, Jaca Book) forse antecedente alla vita stessa (il bene che si vuole a chi non è ancora nato e che ciascuno eredita con essa nascendo), e che si può nutrire volendo bene a coloro che non ci sono più e così facendoli ancora vivere attraverso chi non smette di amarli. 2. Un lutto può farci impazzire? Quando un lutto si prolunga per un tempo indefinito e la persona in lutto continua ad avvertire un desiderio struggente per la persona amata che non c’è più fino a “bramarla”, siamo di fronte ad un “disturbo mentale” che possiamo affrontare con gli strumenti della psichiatria compresi gli psicofarmaci? Gli psichiatri che hanno compilato l’ultimo manuale diagnostico dell’Associazione Americana di Psichiatria (APA) noto come DSM sembrano crederlo. Infatti un lutto che si prolunga oltre un anno dalla morte del caro viene classificato come “disorder” (disturbo mentale) proprio quando è accompagnato da un desiderio intenso e prolungato equivalente a struggersi per il caro e a bramarlo intensamente. Il razionale di questa classificazione consiste nel considerare un desiderio siffatto come “sintomo di dipendenza” al punto da considerare chi è in lutto prolungato come una specie di “drogato ” e di concepire un trattamento farmacologico simile a quello in uso per la disassuefazione alcolica. Questa posizione ha suscitato negli Stati Uniti un forte dibatti242 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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to, come mostra l’articolo riportato di seguito di Donna Schuurman, una delle più note studiose americane del lutto e delle sue modalità assitenziali e autrice del libro: “Mai più come prima”, trad.it. Armando Editore, Roma. Il dibattito, sebbene ancora confinato quasi soltanto in una nicchia professionale, è arrivato anche in Italia, come abbiamo mostrato in questo blog (31/03/2022) pubblicando un articolo dello psicoanalista Thanopulos e un mio intervento ad un convegno romano. L’articolo di Donna Schuurman e il mio commento rappresentano l’odierno contributo che vogliamo dare a questo dibattito. La pillola per il lutto sta arrivando! Donna Schuurman 5 Aprile 2022 Secondo la nuova revisione del DSM, se il tuo bambino, il tuo partner o un tuo amico sono morti e ti struggi per loro o ti mancano troppo a lungo puoi essere un “drogato” di lutto. Ellen Barry ha suscitato un fuoco di fila di commenti col suo articolo sul New York Times intitolato: “Quanto tempo ci vuole per elaborare un lutto? La psichiatria ha trovato una risposta”. Questa “risposta” consiste per l’APA (American Psychiatric Association) nell’aggiungere una nuova malattia mentale al DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder): “Disturbo da lutto prolungato” (PGD). Mentre i sostenitori dell’inclusione nel DSM di questa “condizione patologica” affermano di poterla prevedere nelle persone in lutto 6 mesi dopo la morte, l’APA spinge per spostare il limite temporale ad 1 anno. Perché? “Per evitare un contraccolpo pubblico”, secondo Holly Prigerson, professore di sociologia medica al Weill Cornell Medical College e uno dei più espliciti sostenitori del movimento di patologizzazione del lutto. Il contraccolpo non è stato evitato. I ricercatori affermano che una piccola percentuale di persone in lutto per la morte di una persona cara vive un’esperienza intensa che è patologica e potrebbe trovare giovamento in un trattamento medico. E il trattamento medico si scopre essere una pillola. Barry nota che questa nuova diagnosi “produrrà molto probabilmente un flusso di finanziamenti per la ricerca sui trattamenti del lutto suscitando una competizione per far approvare delle medicine al Food and Drug Administration”. 243 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Si tratta di qualcosa che sta già succedendo e non per “trattare” le normali, naturali, e comuni risposte alla morte di qualcuno come depressione o ansia. Prigerson e colleghi hanno altri piani con trials clinici già in elaborazione. La loro ipotesi di studio è che il PGD (Disturbo da lutto prolungato) è un disturbo di “dipendenza” e affermano che “il sintomo di ingresso primario per la diagnosi è la brama: un desiderio persistente e struggente per il defunto”. La descrizione continua così: “ In questo modo i pazienti con PGD continuano a “desiderare” i loro cari dopo che sono morti a causa dei rinforzi positivi determinati dai ricordi che li riguardano”. Ed è, presumibilmente, allo scopo di spezzare la dipendenza causata dai ricordi delle persone care defunte che questi ricercatori stanno testando un farmaco già usato per trattare la dipendenza dall’alcool, il Naltrexone. Come accade per gli idilliaci farmaci commerciali che vediamo pubblicizzati dalla televisione americana, le avvertenze sugli effetti collaterali del Naltrexone sono brevemente menzionati nello studio condotto da Prigerson e colleghi e includono: nausea, vomito, dolori addominali, mal di testa e stanchezza. Notano anche che il Naltrexone ha un “avviso di scatola nera”, ma non dicono che questo avviso è l’etichettamento più severo della Food and Drug Administration e ha lo scopo di allertare i consumatori sul fatto che il farmaco può avere l’effetto collaterale di essere potenzialmente letale (in questo caso per la sua epatotossicità). Si può notare en passant che gli USA e la Nuova Zelanda sono i soli paesi al mondo in cui è permessa la pubblicità dell’industria farmaceutica diretta ai consumatori. Per questa pubblicità sono stati sborsati più di 6,5 bilioni di dollari a cui si devono aggiungere altri 20 bilioni del 2019 per la pubblicità diretta ai medici. È altresì degno di nota (Cosgrove et all 2014) che il 69% dei membri della task force del DSM5 hanno legami finanziari con le case farmaceutiche con un aumento del 21% rispetto al DSM4. Si può scommettere che questa nuova diagnosi susciterà una competizione per l’approvazione delle medicine relative (il Naltrexone) come terapia del lutto prolungato da parte della FDA e si potrebbe già immaginare la pubblicità: Il lutto della pandemia ti ha depresso? Siamo qui per te. Prevedo che questo trattamento sarà un’altra totale delusione nella lunga serie di inganni del marketing farmaceutico, andando ad aggiungersi a quella della Torazina (“la droga della meravi244 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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glia”, 1954), il Meprobamato (“la pillola della felicità”, 1955), il Prozac (“un farmaco rivoluzionario per la depressione”, 1987) e più recentemente l’intera classe degli oppioidi. Sono poche le persone che traggono sollievo dal sapere che la loro sofferenza ha un “nome” che sfilerà nella parata degli esempi delle droghe di successo farmacologico nel trattamento della loro “condizione patologica”. Le implicazioni del trattamento farmacologico del “Disordine da lutto prolungato” sono preoccupanti per molte ragioni incluso il tentativo di trasformare le esperienze umane in stati mentali più o meno patologici. È da tanto tempo che il DSM pretende di essere un manuale scientifico, mentre non fa altro che creare nuove malattie mentali col consenso degli psichiatri e di altri professionisti della salute mentale, a prescindere dal fatto che queste “condizioni patologiche” esistano o meno. Ogni “disturbo mentale” del DSM è un costrutto sociale, come conferma ciò che dice Thomas Insell, (direttore dell’Istituto Nazionale della Salute Mentale dal 2022 al 2015): “Il DSM è stato descritto come la «Bibbia» della salute mentale mentre è, al massimo, un dizionario… e la sua debolezza è la sua mancanza di validità”. Non tutti sono stati così gentili nel giudicare il DSM. In “Passato, presente e futuro del DSM” lo psichiatra dell’Università di Harvard S.Nassir Ghaemi descrive il DSM così: “È talmente popolare che è diventato una «bibbia». Abbiamo creato un grappolo di termini la gran parte dei quali creati dal nulla senza un razionale scientifico, solo perché desideravamo un accordo di tutti sulle definizioni. E ora ci comportiamo come se questi termini ci fossero stati comunicati da Dio stesso e non possono essere cambiati. È questo che è essenzialmente accaduto negli ultimi 40 anni”. Nello stesso articolo il professore di psichiatria di Toronto Edward Shorter scava ancor più in profondità: “… uno degli strani aspetti di non scientificità del DSM è in larga parte il prodotto di un «commercio di cervelli»: la gente si siede attorno a un tavolo e dice – vi darò la vostra diagnosi se mi darete la mia”. E, per mettere insieme infortunio e insulto, Barry cita lo psichiatra Paul Appelbaum, capo del Comitato di Supervisione del DSM5, le cui parole sono un insulto per ogni genitore quando descrive quelli che hanno un “disturbo da lutto prolungato” in questo modo: “Sono i genitori che non superano mail il lutto per la morte dei loro bambini”. 245 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Chi ha detto che lo scopo finale di un lutto per la morte di un bambino è “superarlo”? C’è chiaramente ancora molto da fare perché la gente sia informata sul lutto e ci capisca qualcosa. Come professionista che ha lavorato per più di 30 anni con bambini, adolescenti, giovani adulti, genitori e caregivers, al “Centro Nazionale sul lutto per bambini e famiglie”, e che ha ascoltato i genitori di bambini uccisi in sparatorie scolastiche, per atti inconsulti di altri, per incidenti stradali e disastri naturali, sono scoraggiata e profondamente disturbata da questa nuova diagnosi e sono più che determinata a parlare per conto di coloro che dopo la morte vogliono essere ricordati, desiderati e persino essere oggetto di struggimento. E anche per quelli di noi che si risentono quando gli viene detto che hanno un “disturbo mentale”. Donna L. Schuurmann, EdD, FT is the Senior Director of Advocacy & Training at Dougy Center, and Executive Director Emeritus (1991-2015). Dr. Schuurman is an internationally recognized authority on grief and children, teens, families who are bereaved, and the author of Never the Same: Coming to Terms with the Death of a Parent (2015), among other publications. COMMENTO La polemica sulla leggittimità o meno di classificare come un disturbo mentale il “lutto prolungato” deriva, a mio avviso, da una carenza di analisi psicologica che induce ad attribuire il medesimo significato in tutti lutti al sentire di chi avverte “brama per il defunto:un desiderio persistente e prolungato (anche dopo un anno dalla morte)”. In altri termini, si può descrivere questo sentire come un sintomo di “dipendenza”, classificandolo come un disturbo mentale e arrivando a proporne un trattamento farmacologico, perché non ci avvede (tericamente e clinicamente) che il particolare intreccio delle dimensioni del legame affettivo (legame di attaccamento o di adattamento, legame di assimilazione e legame di approssimazione) è suscettibile di attribuire, in ogni lutto particolare, a questo “desiderio persistente e prolungato del defunto” diversi significati in interazione anche evolutiva tra loro. Ciò è stato sostenuto teoricamente in appare nella clinica ed è attraverso l’esemplificazione di un caso clinico che cercherò di renderlo evidente. 246 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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IL CASO S. S. ha quasi 50 anni e tre figli quando un giorno torna a casa e trova sua figlia G. di 27 anni agonizzante:ha cercato di suicidarsi con un sacchetto in testa. Si dispera ed è scioccata e nonostante tutto cerca insieme al marito come può di soccorrere la figlia per salvarla, ma non ci riesce. Il trauma la domina completamente e rifiuta di prendere atto dell’accaduto attuando un tentativo di rifiuto che si esprime con una ribellione di tutte le sue fibre. Urla e urla in preda ad una disperazione che la porterebbe ad autodistruggersi se il marito e i figli non la facessero ricoverare in una clinica psichiatrica dove resta per quattro mesi sotto terapia. Ne esce come scissa in due:una parte di sè in grado di tornare a lavorare (in un ospedale della città) perchè lo fa per la figlia, e un’altra parte che torna a casa e si sente morta, come pensa di meritare perchè non è riuscita a salvare la figlia. Sembra non esserci via d’uscita da questa scissione che naturalmente ha conseguenze gravissime sulla sua vita (prima fra tutte la rovina del rapporto col marito il quale ha reagito alla morte della figlia in modo totalmente differente, cioè cercando di distaccarsi e di trovare altre vie per riadattarsi alla vita, dal buddismo alla danza, che propone senza successo anche alla moglie). Sono stato fin dall’inizio il suo psicologo scelto dagli psichiatri per aiutarla ad elaborare il lutto e l’ho seguita come si segue un lutto complicato dal trauma che l’ha provocato ma cercando di non medicalizzare troppo la sua difesa dissociativa, anzi lavorando per indurla a far dialogare le due parti che convivono in lei in modo da ristabilire l’integrità identitaria. Si è stabilito tra noi un buon rapporto anche perchè un pò l’ho seguita nelle sue oscillazioni tra una metà e l’altra della sua identità (stando dalla sua parte nei conflitti che ha avuto sul lavoro e promuovendo nonostante le difficoltà un confronto tra la sua modalità di elaborazione complicata del lutto e quella più efficace del marito). La crisi che ha portato la figlia a togliersi la vita può esser riassunta così nelle sue linee essenziali: G., che a detta della madre è una ragazza carina e intelligente (carina e sveglia lo sembra anche dalle foto),mostra un cambiamento inaspettato dopo un pò che ha trovato lavoro:un giorno torna a casa dicendo che qualcuno in azienda ce l’ha con lei ma non vuole dire chi. Il sospetto della madre è che non sia stata corrisposta amorosamente da un’altra o un’altro e non è riuscita a sopportarlo. A partire da quel momen247 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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to si sviluppa in lei una specie di delirio di persecuzione che via via coinvolge tutti,compresi i genitori. Viene portata da una psichiatra che le prescrive una terapia farmacologica a cui la ragazza resiste coinvolgendo il medico nel delirio paranoide. Viene allora ricoverata in ambiente psichiatrico e quando esce viene mandata da una psicologa alla quale tende a legarsi perchè, dice,“mi piace”. La sofferenza derivata dalla paranoia però permane e talvolta si acuisce tanto che G. comincia ad avere ideazioni suicidiarie. Quando sono passati più di due anni dal primo incontro S. mi racconta un episodio della crisi che la figlia ha vissuto prima di suicidarsi proprio a questo punto della sua storia clinica. I genitori la stanno accompagnando in macchina dalla psicologa quando improvvisamente G. apre lo sportello cercando di buttarsi. Il padre riesce a bloccare subito l’auto e il rischio viene evitato. Quando l’episodio viene riferito alla psicologa questa si spaventa, dichiara di fronte a G. che deve consultarsi con gli psichiatri prima di continuare a seguirla e poi, di lì a qualche giorno, effettivamente decide di non seguirla più. G. che a detta della madre, ci resta molto male e le sue condizioni peggiorano. La storia a questo punto prosegue in un modo che sapevo già: viene presa in considerazione da parte della psichiatra la possibilità di un nuovo ricovero ma alla fine però decide di lasciarla a casa cambiando la terapia. G. a casa rifiuta i farmaci e qualche giorno dopo si uccide. Ciò che è significativo di questo episodio raccontatomi dopo due anni di psicoterapia è che favorisce una nuova presa di coscienza da parte della madre delle responsabilità di coloro che hanno avuto in cura (psichiatra e psicologa) la figlia. S. ha sempre incolpato i curanti per non aver saputo curare G. ma finora le principali responsabilità del suicidio della figlia le ha attribuite a se stessa e alla figlia stessa, cosa che ha rappresentato l’ostacolo principale all’elaborazione di un lutto che, avendo come scopo di far vivere dentro di sè la figlia morta (lutto personale), non può essere portato a termine se non si supera l’eventuale senso di colpa presente o la rabbia che fa rifiutare l’evento luttuoso impedendo la presa d’atto della perdita. S. è stata dominata fin qui dal senso di colpa per non aver saputo salvare sua figlia e dalla rabbia verso sua figlia per aver rifiutato la vita e chi l’ha messa al mondo. Perciò non ha potuto far “vivere nel suo cuore” la figlia essendo dentro di sè portatrice di un’atroce senso di colpa per la propria inadeguatezza salvifica e di 248 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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una rabbia altrettanto forte per la decisione della figlia di suicidarsi. È vero che anche la rabbia verso chi non è riuscito a curarla ha contribuito al blocco di questo lutto, ma si è trattato di un apporto secondario. Come dimostra la difesa dissociativa di S. che è stata interamente basata sull’oscillazione tra l’essere (a casa) “una madre che non vive più” perchè non merita di vivere non avendo saputo salvare sua figlia, e (al lavoro) una madre che, non riesce a farla vivere dentro di sè, e può solo cercare di vivere per sua figlia. Questa difesa infatti fa “vivere” il senso di colpa di S. facendola “morire con Lei” e il rifiuto del suicidio con la relativa rabbia verso la figlia “vivendo per lei”, sostituendosi a lei e così mostrandole che non può morire. Non c’è traccia fin qui in questa difesa dissociativa della rabbia di S. contro i curanti che non hanno saputo impedire ad G. di uccidersi. Quali possono essere le conseguenze di una nuova consapevolezza del fatto che le responsabilità dei curanti (segnatamente l’abbandono da parte dell’unica curante a cui G. si era affidata, cioè la psicologa) sono probabilmente superiori, se mancano, a quelle di una madre che quando non riesce a salvare sua figlia avrebbe bisogno di un un “grembo materno” altro in grado di sommarsi a quello che non ce la fa a sostenere la vita? Ho intuito che una conseguenza potesse essere questa:stabilendo una distribuzione delle responsabilità più “giusta”, cioè non sentendosi l’unica colpevole di non aver salvato la figlia perchè si tratta di una responsabilità che ha condiviso con i curanti, il peso del suo senso di colpa si può attenuare contribuendo a far sì che S. riesca ad ascoltare la parte di sè più positiva, cioè quella di madre che vive per sua figlia, scoprendo che è proprio in questo modo (vivendo anche per la figlia) che si può “salvare”, anche dopo che è morto, qualcuno che non si è riuscito a salvare. Si tratterebbe in sostanza della possibilità di S. di avere accesso ad un modo nuovo di pensare a se stessa, non più come essere personale che quando perde una persona cara non può fare altro che farla vivere dentro di sè, ma come essere umano che quando una persona cara muore può continuare a volerle bene e perciò sostituirsi a lei nella vita scoprendo un altro modo di non far morire i nostri morti, cioè non più di non farli morire perchè sono vivi nel nostro cuore (via della tomba) ma di non farli morire perchè restiamo noi a volergli bene e viviamo anche per loro (via della trascendenza). Da questo momento, di conseguenza, ho cercato di suggerire a 249 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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S. l’aprirsi di questa possibilità con la sorpresa di una risposta per la prima volta interlocutoria (non cioè così decisa come fino a questo punto nel pensare che l’unica soluzione di fronte ad una figlia che non si riesce a salvare è seguirla nella morte per punirsi del senso di colpa e vivere per lei non perché è un modo per vincere la morte ma perchè è un modo per rimproverare chi ha rifiutato la vita). Vedremo dove porterà la nuova fase che si apre nel lutto di S. ma intanto una nuova prospettiva si è aperta. V. passa i primi quattro mesi dalla morte della figlia urlando il suo nome e rifiutandone l’accaduto. Il cervello di V. sembra cedere di fronte al trauma perché lo rifiuta cercando di “rendere possibile il desiderio impossibile” che la figlia sia viva, cioè di adattarsi alla morte di una persona a cui era “attaccata” per soddisfare bisogni biologici fondamentali (sopravvivenza e benessere). “Non posso sopportarlo che Rosa sia morta e quindi non doveva morire, dico no! e la chiamo come se pensassi che sia possibile farla tornare”. Come si può constatare non è la brama eccessiva della figlia che non c’è più che determina i disturbi mentali di S. rendendoli rappresentabili come “dipendenza”, ma la diversa “reazione” a questo desiderio struggente in base alla prevalenza di una delle tre modalità di legame compresenti in ogni legame. S. viene allora considerata “pazza” e viene ricoverata in ospedale: il tentativo di “rendere possibile il desiderio impossibile” che la figlia torni è un “disturbo mentale” da trattare psichiatricamente anche se più che di una dipendenza si tratta di una “psicosi” determinata dal rifiuto della realtà dolorosa della morte della figlia. Una classificazione di questa reazione come “disturbo mentale” (causato dal lutto traumatico ma non specifico del lutto traumatico) e di un suo trattamento psichiatrico sono ragionevoli rientrando però in quella categoria di sindromi psichiatriche determinate dall’incapacità del cervello di favorire un adattamento (sopravvivenza e benessere) in certe situazioni traumatiche. S. viene giustamente trattata psicofarmacologicamente durante la sua lunga degenza in ospedale, la sua “psicosi” viene controllata negli effetti nefasti che potrebbe avere (suicidio soprattutto) ed emerge la reazione esistenziale all’esperienza del lutto traumatico della figlia che mostra la presenza di una dimensione “assimilatoria” del legame: S. cerca di modificare il desiderio struggente che la figlia sia viva per “renderlo possibile”. Si racconta allora che 250 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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la figlia si è uccisa per colpa della madre che non l’ha capita o per colpa dei medici che non hanno saputo curarla o per colpa della figlia stessa che uccidendosi non ha pensato al dolore della madre. La figlia che l’accusa le appare in sogno o ne sente la voce allucinatoriamente, e intuisce che è in un certo senso ancora viva per i sentimenti che suscita. Rabbia e colpa le fanno intuire che perdonando (la figlia e i medici) e facendosi perdonare (dalla figlia), potrebbe rappresentarsela come viva dentro di sé, ma non riesce del tutto (riesce piano piano a perdonare ma non riesce a farsi perdonare), cioè a modificare il suo desiderio per accontentarsi di farla vivere nel suo cuore. Ora S. non è più “pazza” (non urla più in continuazione il nome della figlia aggiungendo un “no!” perentorio) perché riesce a rappresentarsi la figlia come viva nelle sue “preghiere”, nei suoi sogni, nelle sue allucinazioni. Il lutto prolungato non può essere considerato un disturbo mentale ma piuttosto un tentativo non riuscito di “modificare il desiderio che il defunto sia vivo,accontentandosi di sentirlo vivo attraverso il proprio modo di sentirlo in sè”. Ma c’è un’altra dimensione del legame con la figlia che emerge, determinando una “dissociazione” che consente di continuare a sperare che S. possa ancora essere aiutata. Nelle ore di lavoro S. riesce a funzionare come una persona quasi normale mentre a casa passa il tempo a disperarsi tornando al suo rifiuto del primo periodo (per rendere possibile il desiderio impossibile che la figlia torni) o ad inventare “preghiere” (come le chiama), una specie di filastrocche a mo’ di confessioni e di richiesta di perdono, che ripete per ore (per modificare il desiderio che la figlia viva allo scopo di renderlo possibile). E al lavoro ci riesce perché”non può far fare brutta figura a sua figlia: lo fa per lei, è per la figlia che si controlla e non si dispera. Ora S. desidera la figlia “sostituendosi a lei”, rendendo così possibile il desiderio impossibile che viva perché passa attraverso di lei e non potrà mai smettere di desiderarla anche se non si presenta. Ora il desiderio che la figlia viva è vissuto come “possibile all’infinito” sulla base della dimensione del legame che è l’approssimazione all’altro all’infinito e si basa proprio sul desiderio disinteressato che le consente di andarle incontro aprendo un futuro nel rapporto con lei che non sia dominato nè dal rifiuto della sua morte né dal tentativo di accontentarsi di sentirla viva nel suo cuore. Ora S. non è “matta” perché riesce in parte sostituendosi alla 251 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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figlia e vivendo per lei a “rendere possibile all’infinito il desiderio impossibile che torni”. In sostanza nel caso di S. la tre dimensioni del legame sono compresenti in modo dinamico e stanno rendendo possibile l’aiuto che le viene fornito senza dover classificare il desiderio struggente della figlia come dipendenza e trattarla solo psichiatricamente, ma potendo seguire l’evoluzione del caso favorendo di volta in volta gli effetti della prevalenza che di volta in volta si instaura nell’intreccio tra le varie dimensioni del legame. Quando prevale la dimensione di attaccamento e il cervello non ce la fa, si sviluppa una “psicosi” che bisogna trattare farmacologicamente; quando prevale la dimensione di assimilazione e il paziente non ce la fa a rappresentarsi come vivo il defunto che desidera vivo, lo si può aiutare a trovare vie alternative (psicodinamiche e simboliche) per riuscirci; quando prevale la dimensione di approssimazione ed è l’unico modo per uscire dall’impasse, l’aiuto consisterà nel cercare di far prevalere questa dimensione sulle altre due con la conseguenza che S. potrà “crescere” sul trauma della morte della figlia imparando a sostituirsi a lei volendole bene oltre il suo destino e le sue conseguenze, cioè “rendendo possibile perché all’infinito il desiderio impossibile che torni in vita”. Tornando alla brama o desiderio prolungato e struggente che caratterizza certi lutti,solo quando prevale il legame di attaccamento col defunto, esso può equivalere ad un desiderio impossibile ed essere alla base di una forma di psicosi che rappresenterà un “rischio di follia” tutto da studiare psicologicamente senza ridurlo ad una forma di “dipendenza”. Quando prevalgono le dimensioni dell’assimilazione e dell’approssimazione non sarà possibile classificare come “disturbo mentale” il desiderio che il defunto sia vivo neanche se è uno struggimento determinato dal non riuscire a far vivere in qualche modo il defunto o determinato dal non riuscire a sostituirsi al defunto vivendo per lui/lei.

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Capitolo XI

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Il “Progetto Rivivere”: esperienze di intervento nelle situazioni di crisi e nel lutto

Le esperienze cliniche di assistenza al lutto, le ricerche e le riflessioni che abbiamo illustrato nelle parti precedenti del libro sono sfociate in un progetto assistenziale nazionale con la sua sede centrale a Bologna. L’abbiamo chiamato “Progetto Rivivere” e dentro ci sono quattro servizi di aiuto psicosociale: il Servizio Niobe (per il lutto traumatico), il Servizio Apollodoro (per il lutto naturale), il Servizio Alcesti (per il lutto dei bambini) e il Servizio Primomaggio (per chi ha perso il lavoro). Avevamo tempo prima attivato un servizio per il lutto nei due Hospice di Bologna per assistere le famiglie dei malati di cancro dopo la morte dei loro cari, rendendoci conto velocemente dell’insufficienza di questo servizio rispetto ai bisogni della città. Nella nostra cultura in generale viviamo come se non dovessimo morire mai o almeno cercando di non pensarci, pertanto, non c’è niente a cui ci dobbiamo preparare né si capisce cosa voglia dire aiutare le persone dopo la morte dei cari: basta continuare a non pensarci! Ci siamo chiesti: cosa significa aiutare le persone non allineate con la cultura dominante, ossia quelle che non riescono (o non riescono più) a non pensare alla morte? Bisogna prima di tutto differenziare coloro che riescono ad elaborare il lutto riuscendo in fretta a distrarsi, come suggerisce la nostra cultura, da coloro che non ci riescono (sviluppando comportamenti e vissuti negativi con esiti che a volte sono psicopatologici). Abbiamo individuato, sulla base di quanto detto sopra,tre grandi tipologie di difficoltà nel superare il lutto: I. la difficoltà di sostituire la persona cara perduta; II. la difficoltà di far vivere dentro di sé la persona cara perduta; 253 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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III. la difficoltà di continuare a mantenere un legame affettivo con la persona cara morta “sostituendosi” a questa. Ci è apparso chiaro che l’elaborazione del lutto non ha sempre la stessa finalità: per chi ha difficoltà a sostituire la persona cara perduta, ed elaborare il lutto significa staccarsi dalla persona cara morta e legarsi con un’altra; per chi ha difficoltà a far vivere dentro di sé il morto,ed elaborare il lutto significa trasformare l’assenza esterna in una presenza interna; per chi ha difficoltà a mantenere una continuità di legame affettivo con chi non c’è più sostituendosi a lui, ed elaborare il lutto significa far sì che la morte non interrompa il legame tra chi è morto e chi è rimasto in vita, cercando di vivere anche per chi non c’è più, continuandone la vita. Quindi il nostro metodo è caratterizzato da un primo passo che consiste in una valutazione accurata del tipo di legame che si è spezzato poiché in base a questa specificità cambierà lo scopo del lutto e si potrà comprendere perché esso può essere raggiunto oppure no. Il legame che legava il superstite alla persona cara morta era (prevalentemente,dato che come sappiamo in ogni legame sono presenti sempre le tre dimensioni sotto indicate in una diversa composizione): 1. Un legame di attaccamento (stare “fisicamente” insieme con l’altro) per soddisfare i bisogni oggettivi che solo attaccandosi ad un altro si possono soddisfare? 2. Un legame di assimilazione (portarsi dentro l’altro trasformandolo in una parte di sé) per soddisfare i bisogni soggettivi e sentirsi se stessi, riconosciuti dall’altro nel proprio modo di essere? 3. Un legame di approssimazione (andare incontro all’altro) per soddisfare i suoi bisogni oggettivi e soggettivi e desiderando che l’altro desideri soddisfare i propri? I quattro Servizi del Progetto Rivivere corrispondono alla necessità di aiutare le persone in lutto facendo riferimento alle modalità e al tipo di lutto nonché allo scopo specifico dell’elaborazione del lutto che stanno vivendo, evitando la standardizzazione dell’aiuto. Il Servizio Niobe è dedicato a coloro che avrebbero come scopo del loro lutto di “recuperare” ciò che hanno perso ma non sanno come riuscirci, vivendo il lutto in modo traumatico. Come Niobe (a cui una dea invidiosa fa morire i suoi 14 figli e che gli altri dei trasformano in una sorgente perenne di lacrime). Per attuare que254 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sto servizio collaboriamo con varie istituzioni: Polizia Stradale, Croce Rossa, Protezione Civile, 118 e Pronto Soccorso, le istituzioni oncologiche, i servizi sociali, le istituzioni riabilitative. In particolare, con la Scuola di Polizia Stradale di Cesena abbiamo attuato negli anni scorsi una convenzione per la formazione degli operatori della Polizia Stradale. A propostito della Polizia Stradale, racconterò un episodio: un signore e sua figlia rimangono coinvolti in un incidente stradale; la figlia muore. Quando il padre si rende conto dell’accaduto, vorrebbe suicidarsi, ma i poliziotti, per fermarlo, lo ammanettano. E lui dopo li denuncia per il loro comportamento. A lezione questi poliziotti hanno detto che la prossima volta, se capita loro un potenziale suicida, non lo fermeranno, per evitare denunce. È chiaro che si tratta di un problema di formazione senza la quale un lutto traumatico rischia di partire male proprio perché chi soccorre non sa come farlo. Il Servizio Alcesti è dedicato a coloro che, come Alcesti (che si offre,come abbiamo visto sopra, di morire al posto del marito Admeto per “non restare sola coi figli orfani”), avrebbero come scopo del loro lutto di far vivere per sempre chi muore per non restare soli, e perciò restano orfani a qualunque età perdano le persone care. È il servizio per gli orfani, cioè innanzitutto per i bambini ma anche per coloro che nel lutto non sono ancora pronti a restare soli, come i bambini! Per attuare questo servizio (uno dei primi in Italia) abbiamo attrezzato una sala per la ludoterapia individuale e di gruppo. Il Servizio Apollodoro è dedicato a coloro, che come l’amico di Socrate (che, come abbiamo visto, alla morte del filosofo non riesce a smettere di piangere, nonostante la tranquillità del morire di Socrate stesso, perché piange “non per sé che ha perso Socrate, ma per Socrate che ha perso la vita”) piangono alla morte dei cari perché temono di non riuscire a mantenere la continuità del legame con loro considerando più tragica la morte di chi muore che la perdita di chi resta. E possono non riuscire a smettere di piangere, possono piangere in eccesso. È l’eccesso di chi non riesce a smettere di piangere per te. Sono trent’anni che mia mamma è morta, ma quando passo di fronte alla sua foto piango: non significa che non ho elaborato il lutto per me perché mia mamma non mi manca più; il fatto è che quando passo davanti alla sua immagine mi dico che a mia mamma manca la vita e piango per lei. Si può smettere di piangere per sé ma non per chi non c’è più! Poi c’è anche l’eccesso di chi non riesce a smettere di piangere neanche per sé 255 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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perché non riesce in nessun modo a colmare la mancanza. Ma di quale aiuto ha bisogno chi piange all’eccesso? Innanzitutto ha bisogno di essere legittimato nel suo piangere, quando invece nella nostra cultura se uno piange più di due ore tutti pensano che si tratta di un pianto patologico. E poi si dovrebbe imparare a distinguere il piangere per sé (cioè per la propria mancanza) e il piangere per chi è morto (cioè perché a chi non c’è più manca la vita). Nel primo caso bisogna aiutare chi è in lutto a piangere tutte le lacrime, nel secondo caso a trovare lacrime sufficienti per piangere all’infinito. Il Servizio Primomaggio è dedicato a coloro che perdono il lavoro o rischiano di perderlo (vedasi il libro: F. Campione, Non lavoro, Edizioni Paoline), cadendo in una crisi che può minare la loro autostima, far perdere la sicurezza nel futuro, incrinare le relazioni affettive, far deprimere e far sentire senza via di uscita con l’esito di comportamenti distruttivi (rabbia e aggressione nei confronti di coloro che sono ritenuti responsabili) o autodistruttivi (dall’alcolismo all’uso di droghe o addirittura al suicidio). Infine ci siamo noi, noi che aiutiamo le persone in lutto. Chi aiuta noi? Io, per esempio, sono supervisore in un Hospice e spesso vado a fare la supervisione dopo essere stato ore con persone traumatizzate da lutti terribili. Arrivo e chiedo ai partecipanti al gruppo di supervisione come stanno. Mi rispondono in vari modi, ma come sto io non me lo chiedono mai. Chi aiuta noi che aiutiamo? Ma di cosa avremmo bisogno? Avremmo bisogno di tutti, avremmo bisogno di essere “coccolati” da tutti. Perché i traumi possono essere contagiosi anche per chi li affronta dal punto di vista di un ruolo di aiuto. Ma chi vorrebbe coccolarci ha paura di essere contagiato dal trauma a sua volta. Come se ne esce? Abbiamo messo a punto un piccolo metodo per formare alla gestione del coinvolgimento nelle situazioni critiche, partendo dall’osservazione che ci sono fondamentalmente tre modi di coinvolgersi nelle relazioni d’aiuto: il coinvolgimento tecnico, il coinvolgimento personale e il coinvolgimento umano. Nel coinvolgimento tecnico il dramma che si affronta appartiene e riguarda chi aiuta come appartiene e riguarda tutti, cioè in modo oggettivo, ed è caratterizzato dal punto di vista “etico” dall’indifferenza tecnica necessaria ad affrontare la situazione “profes256 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sionalmente”, vale a dire con l’unico scopo di risolverla a prescindere da chi ne è stato colpito. Nel coinvolgimento personale il dramma che si affronta appartiene a chi aiuta in modo esclusivo in base all’interesse che suscita. Si tratta di una modalità soggettiva di personalizzare, cioè di trattare la situazione dell’altro come se fosse la propria, modalità che è positiva se coincide con la modalità soggettiva di chi subisce il trauma o è negativa se non coincide con essa, cioè se la personalizzazione di chi aiuta non coincide con quella di chi è aiutato (come avviene ad es. quando chi aiuta vede la situazione come accettabile o superabile, al contrario di chi la subisce). Nel coinvolgimento umano il dramma che si affronta appartiene in modo esclusivo a chi lo subisce ma riguarda in modo esclusivo chi aiuta. Si tratta di una modalità di aiuto basata su una nonindifferenza che porta a coinvolgersi in modo disinteressato, cioè come in qualcosa di cui si ha una responsabilità esclusiva (che ci riguarda) ma “per” l’altro, cioè per modificare ciò che appartiene in modo esclusivo al destinatario dell’aiuto. Il nostro metodo formativo al coinvolgimento mira a far sì che il coinvolgimento tecnico e quello personale siano inseriti nel contesto di un “primario coinvolgimento umano”. Ci si può riuscire essendo “educati” a tenere ferma, sempre, la distinzione tra ciò che ci riguarda e ciò che appartiene all’altro, in modo da far prevalere il coinvolgimento umano. La difficoltà principale su questa strada consiste nella tendenza a far proprio ciò che appartiene ad un altro allorché esso determina in noi una sofferenza. Il caso del trauma che traumatizza è in questo senso emblematico: il trauma che appartiene all’altro può traumatizzare anche me che sto cercando di aiutarlo, e da questo momento esso tende a diventare il “mio” trauma. In realtà c’è sempre la possibilità di distinguere la sofferenza che si subisce in prima persona dalla sofferenza della sofferenza altrui, cioè da quella che deriva dall’essere “toccati” dalla sofferenza altrui. Si tratta infatti di due sofferenze diverse (la sofferenza propria più insopportabile, la sofferenza della sofferenza altrui più sopportabile) come dimostrano i seguenti esempi. I esempio: I medici e gli infermieri che lavorano in rianimazione dicono spesso di essere stanchi di vivere i drammi che devono affrontare. Ma vivere il dramma del coma o della morte è lo stesso che esserne toccati emotivamente senza essere in coma o morti? La soluzione potrebbe allora essere insegnare a mantenere 257 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sempre il coinvolgimento tecnico, cioè l’indifferenza che consente di non farsi contagiare. Ma dice l’esperienza che ci sono traumi che ci traumatizzano inevitabilmente essendo situazioni nelle quali ogni possibilità di controllo della situazione viene meno. Non è allora meglio imparare a “ospitare” in sé il trauma senza impadronirsene? II esempio: In un’oncologia pediatrica muore un bambino a cui tutti eravamo affezionati e tutti piangiamo come se fosse morto il nostro bambino. La mamma però mi convoca per dirmi che non se l’aspettava da me che piangessi come se il bambino fosse mio; dagli altri sì, ma dallo psicologo no. Non potevo piangere, allora? No, potevo, ma avrei dovuto piangere in un altro modo: avrei dovuto piangere per il bambino e per la mamma non per me, poiché il dolore mi riguardava ma non mi apparteneva. Avrei dovuto piangere umanamente e non personalmente, come tutti gli esseri umani devono piangere quando muore un bambino, non come piange chi quel bambino l’ha messo al mondo. Solo così, cioè coinvolgendosi “umanamente” si potranno aiutare nel lutto tutti a prescindere dal “tipo di lutto” che devono elaborare, perché solo chi si coinvolge umanamente può entrare in empatia con tutti qualunque sia il loro particolare coinvolgimento nella situazione1.

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F. Campione, Ospitare il trauma, Clueb, Bologna 2008.

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Capitolo XII

Malattia, morte e lutto nelle età evolutive

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1. Malattia, morte e lutto nell’infanzia La malattia, la morte e le crisi del lutto irrompono nella mente e nel cuore dei bambini con le domande, le emozioni e i comportamenti che suscitano durante la loro esperienza concreta così come si presenta nel corso dello sviluppo (1, 2). Le domande che i bambini fanno agli adulti sulla malattia,sulla morte e sul lutto sono tra quelle che mettono più in difficoltà. La malattia Quando un bambino si ammala gravemente o quando si ammala gravemente un suo caro (nonno, genitore fratello o compagno che sia), egli si trova a dover padroneggiare i limiti della malattia,variabili da malattia a malattia,ma che mettono il bambino sempre di fronte allo stesso problema irrisolvibile per lui, in grado variabile a seconda del suo grado di sviluppo intellettivo ed emotivo: rinunciare ad alcune delle possibilità della vita essendo bambini, cioè in quell’età della vita in cui si pensa di poterle realizzare tutte. Ne deriva al tempo stesso la massima frustrazione dell’essere bambini (essere limitati nei propri bisogni e desideri) e una precoce opportunità di crescita (come mostra l’osservazione che i bambini malati crescono più in fretta, soprattutto imparando prima a procrastinare la gratificazione nel tempo, cioè a non “voler tutto e subito”). La morte Di fronte alle domande dei bambini (tra i 2 gli 11 anni) sulla morte, gli adulti le ascoltano e rispondono con le difficoltà e le opportunità che ne derivano. Ci sono domande tipiche e domande originali o “strane”, ma, 259 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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come tutte le domande dei bambini, anche quelle sulla morte e sul lutto cambiano con l’età e il relativo sviluppo intellettivo, emotivo e sociale. Le categorie di domande più tipiche e diffuse, pur nelle più diverse formulazioni che dipendono dai “modi d’essere” singoli bambini e dall’ambiente culturale in cui vivono,sono (tra i 2 e gli 11 anni): “Che significa morire?” “Che succede quando si muore?” “Dove vanno i morti?” “Quando tornano?” “Possiamo andarli a trovare?” “Non tornano più?” “Sono vivi da un’altra parte?” “Chi li fa morire?” “È colpa mia se sono morti?” “Perché si muore?” “Tutti muoiono?” “Anche i bambini muoiono? Gli adulti dovrebbero aspettare le domande dei bambini per parlare loro della morte, ma non sempre è possibile o corretto. Dovrebbero aspettare perché le loro risposte siano più rispettose dei tempi e delle esigenze dei bambini, ma spesso è più forte di loro, cioè gli adulti hanno a loro volta tempi ed esigenze che si impongono prima di essere consapevoli che potrebbero non coincidere con quelli dei loro figli, nipoti o alunni. Quando ad esempio la mamma di Emma,una bambina di tre anni, si è tolta la vita dopo una lunga storia di depressione che non si è riusciti a guarire, il padre ha sentito l’esigenza di spiegare alla figlia perché la madre non tornava più a casa e le ha detto: “La mamma era molto malata e non torna più, perché i medici non sono riusciti a guarirla”. Emma ha ascoltato e capito ma dopo qualche giorno ha chiesto: “Quando torna la mamma?” Il padre allora le ha rispiegato che la mamma non poteva più tornare ma che la guardava e continuava a volerle bene dal cielo. La bambina sembrava aver capito ma qualche tempo dopo ha detto: “Voglio la mamma. Quando torna?” Il padre le ha ripetuto che non sarebbe tornata, ma non è servito perché Emma ha di nuovo richiesto quando sarebbe tornata e così via per più di sei mesi. Finchè lo psicologo chiamato dalla 260 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scuola per seguire e supportare gli insegnanti nel lutto di Emma non ha comunicato al padre che un bambino fino a circa 4 anni, cioè finchè non ha acquisito completamente il senso del tempo,considera la morte reversibile ed è per questo che è inutile dirgli che chi è morto non tornerà. Il senso del tempo non si è ancora interamente sviluppato, il bambino vive fondamentalmente nel presente e non può capire cosa significa “non tornare”. Finchè non lega gli eventi al tempo che “passa”, intuisce il tempo passato e il tempo futuro, e comincia a sospettare (e poi impara) che esso è tanto più irreversibile quanto più dura. Il tempo passa e i morti non tornano, e si comincia a concepire la possibilità che non tornino più. Comincia ad apparire nel bambino la consapevolezza del fatto che il tempo vada sempre verso il futuro e mai verso il passato, anche se resterà sempre la possibilità di tornare indietro con la memoria. Il padre, in questo caso, aveva bisogno di spiegare alla sua bambina l’assenza della madre e gliela spiegava senza tener conto del suo livello di sviluppo intellettivo. Se il padre avesse aspettato Emma avrebbe probabilmente chiesto: “Perché la mamma non torna?”. Il padre avrebbe potuto rispondere: “Perché non è guarita ed è morta”, aspettando la successiva domanda di Emma: “Cos’è morta?”. A questo punto il padre, che già stava tenendo conto dell’età della figlia, non avrebbe potuto rispondere “quando uno muore non c’è più”, dato che, di nuovo, la bimba non avrebbe capito. Il padre allora avrebbe dovuto decidere la seconda cosa che un adulto deve decidere di fronte alle domande sulla morte sul lutto dei bambini: a quale tipo di morte educare? Nasce così l’esigenza per il genitore di riflettere su cos’è la morte per me, e se voglio (come è probabile) che anche mio figlio di fronte ad essa pensi la stessa cosa che penso io. Questo aspetto nella risposta del padre si manifesta nel caso citato sopra quando egli dice che la mamma guarda dal cielo e continua a voler bene alla figlia da lì. Si tratta di una risposta quasi di senso comune nel nostro contesto culturale,che però è resa più probabile se si parla ai bambini della morte prima che ci facciano la fatidica domanda su cosa essa sia. Altrimenti si può avere il tempo di chiedersi: “A quale morte vorrei educare il mio bambino?” Allora si “incontrano” nel nostro contesto culturale diverse alternative: quella religiosa (che il padre ha dato a Emma spontaneamente) e quelle immaginarie o fiabesche, che consistono fon261 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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damentalmente nel dire che morire vuol dire essere vivi da un’altra parte (in cielo, o in qualche altra dimensione fantastica); quella scientifica che consiste nella descrizione del cadavere e del suo destino (inumazione o cremazione, e rientro nel ciclo della vita); quella dell’evitamento che consiste nel “distrarre” in qualche modo il bambino dal pensiero della morte; quella del mistero che consiste nel comunicare al bambino che non si sa cosa significa morire sebbene si facciano tutte le precedenti ipotesi o ci siano tante convinzioni religiose o non religiose,cioè immaginarie o fiabesche. L’adulto dovrebbe,in altri termini,ecco una delle opportunità educative di questa interazione bambino-adulto, prima di rispondere alle domande che i bambini fanno su cosa sia la morte,operare una piccola ricognizione su cosa pensa lui o lei e tradurre l’idea della morte che vuole insegnargli, in termini comprensibili per il bambino alla sua età intellettiva-emotiva-sociale. Ciò che concretamente l’adulto dirà dipenderà tuttavia non solo dalle sue convinzioni ma anche dall’atteggiamento che pensa sia giusto tenere col bambino riguardo alla morte. Se l’idea della morte che l’adulto vuole trasmettere al bambino è che morire significa “passare ad un’altra vita” che potrebbe essere migliore di quella di prima della morte, avrà un argomento positivo e consolante per parlarne e accetterà volentieri di parlare della morte con il bambino. Se l’idea della morte che gli vuole trasmettere è che morendo “non c’è più niente”, potrebbe per il momento non parlargliene temendo che possa essere troppo angosciante, e allora potrà optare per fornire qualche rassicurazione o gratificazione in grado di “distrarre” il bambino da un’idea che ancora non padroneggia,oppure per raccontargli delle favole in grado di fornire al bambino metafore alla sua altezza per cominciare a comprendere il fenomeno della fine della vita. Se l’idea della morte dell’adulto è derivata dalla biologia ed egli pensa che morire significa “diventare cadavere e poi trasformarsi e rientrare nel ciclo della vita”, opterà per parlare al bambino senza distrarlo dandogli una descrizione realistica del destino del cadavere e della trasformazione della sua materia organica in materia inorganica fino alla produzione dell’azoto che alimenta le piante favorendo la fotosintesi clorofilliana, la produzione di ossigeno e dando così un contributo alla continuazione della vita. Se l’idea dell’adulto è che la morte potrebbe essere tutte queste cose (passaggio ad altra vita, passaggio al nulla, trasformazione del262 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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la materia) ma cela un mistero insondabile dovuto al fatto che di ciò che sarà dopo non c’è possibile esperienza tranne quella dell’assenza del morto, parlerà al bambino della morte come di “un mistero che si può desiderare svelare ma che ci vorrà tempo e una lunga ricerca per cominciare a riuscirci e forse non se potrà venire a capo”. Ora l’unica cosa certa sarà che la morte è un passaggio agli altri, cioè che quando qualcuno muore restano gli altri e quello che conta quindi è come chi muore ci lascia e come noi continuiamo a pensare a chi non c’è più dopo che è morto. Le domande dei bambini sulla morte esprimono le emozioni che essa suscita loro e annunciano i comportamenti che ne derivano. Ad esempio, la domanda “Quando tornano?” esprime l’emozione della paura che non tornino derivante dalla loro mancanza. D’altra parte, la domanda “possiamo andarli a trovare?” annuncia tutti i comportamenti di ricerca attiva di chi non c’è più che si innescano nel bambino che si propone di superare la sua mancanza. Ecco un’indicazione per gli adulti:di fronte ad ogni domanda dei bambini sulla morte dovrebbero chiedersi quale emozione stanno esprimendo e quale comportamento stanno annunciando. Il lutto Le domande dei bambini sul lutto derivano dall’osservazione del comportamento degli adulti quando muore qualcuno. Ad esempio: - c’è la veglia funebre (in certi posti c’è ancora): perché non si prepara il pranzo e portano da mangiare i parenti? - c’è il funerale: Perché la mamma non vuole che partecipi? Perché mi ha chiesto se ci volevo andare? Perché mi ci ha portato senza chiedermelo? Che significa quello che fanno al funerale? Ci sono quelli che piangono e quelli che non piangono: perché? La mamma dice che il papà non c’è più ma dobbiamo sempre tenerlo nel nostro cuore: che significa? Quando è morto lo zio P. mi è mancato, ma poi ho pensato che ho tanti altri zii e sono stato meglio. Ma perché papà ha detto che non va bene sostituire subito i morti con quelli che sono vivi? Papà è morto e la mamma dice che dobbiamo essere buoni e fare quello avrebbe voluto da noi, e inoltre che dobbiamo vivere anche per lui: che significa?

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2. Malattia, morte e lutto nell’adolescenza

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Nell’adolescenza si cerca (in modi diversissimi attraverso le epoche, le culture e le biografie personali) di acquisire un’identità personale per diventare adulti. Malattia, morte e lutto possono interessare anche questa fase della vita interferendo con i suoi processi psicoesistenziali. La malattia Quando un’adolescente si ammala o vive la malattia di un suo caro, i suoi modi di affrontare l’esperienza del male si esprimono attraverso le domande che pone al gruppo dei pari e agli educatori o attraverso emozioni e i comportamenti della vita quotidiana. In ogni caso, la malattia in adolescenza può rallentare, distorcere o bloccare il processo di costruzione del sé personale, interferendo anche con i processi socializzazione, e influendo sulle impostazioni esistenziali e sugli scopi della vita. Basti pensare a mo’ di esempio quanto può contare, nella vita di un adolescente impegnato a scoprire “ciò che vuol fare da grande”, la riduzione delle possibilità esistenziali determinate da una malattia fisica o psichica. La morte Per pensare alla morte l’adolescente non ha bisogno necessariamente di vivere una minaccia di morte alla propria vita o di sperimentare la morte dei cari,dato che il processo stesso di acquisizione dell’identità personale si accompagna (o addirittura, come sosteneva Hegel, si identifica) con l’acquisizione di una piena consapevolezza della propria morte. Ne fa fede il fatto che,come abbiamo accennato sopra e come vedremo più approfonditamente nel I capitolo, l’ultimo gradino dell’evoluzione (verso i 9 anni) della consapevolezza di morte del bambino si esprime proprio con la domanda: “anche i bambini muoiono?”, che significa palesemente per ciascun bambino chiedere se anche lui morirà. Nelle interminabili discussioni “filosofiche” degli adolescenti infatti la premessa più o meno esplicita ad ogni riflessione su chi si è, si vuole essere o gli altri vogliono che si diventi, è che comunque si è esseri che nascono, si sviluppano diventando qualcuno e poi invecchiano e muoiono. Senza il rapporto col tempo, dato dalla consapevolezza del processo che dalla nascita va alla mor264 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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te, crescere e diventare qualcuno,crescere non avrebbe “senso” poiché si potrebbe rinviare all’infinito. Naturalmente se la morte interessa concretamente la vita dell’adolescente (se la morte lo minaccia direttamente attraverso una malattia mortale o una tentazione suicidi aria, o se vive la morte di una persona cara) le cose si complicano e bisogna osservare quali emozioni e quali comportamenti l’esperienza di morte suscita in questa età della vita nell’adolescente stesso e in coloro che condividono con lui l’esistenza. Il Lutto la morte di una persona cara nelle età adolescenziali può interferire a tal punto con il processo della costruzione dell’identità personale,da rallentarlo, distorcerlo o addirittura bloccarlo. Sono gli esempi degli adolescenti che incolpano il genitore morto di non aver “aspettato” a morire che la sua crescita personale fosse completata o di quelli che si incolpano della morte degli altri significativi per averli considerati in vita un ostacolo alla libera scelta di un’identità personale propria. D’altra parte, però, la morte di una persona cara in età adolescenziale può costituire per certi adolescenti un’opportunità di crescita più rapida e più libera allorchè ci si trova a costruire la propria identità senza i condizionamenti di modelli identitari adulti non corrispondenti alla personalità profonda dell’individuo o ai suoi desideri. L’elaborazione del lutto in adolescenza può di conseguenza essere: o ostacolata (nel caso che esso interferisca negativamente col processo di acquisizione dell’identità), oppure favorita (nel caso che la perdita di una persona cara interferisca positivamente con la costruzione del sé). In sostanza, le riflessioni, le emozioni e i comportamenti adolescenziali diventano più comprensibili se si mettono in relazione con i modi in cui malattie, morte e lutto interferiscono con i processi della costruzione dell’identità personale. Se poi si pensa che in adolescenza queste interferenze vengono elaborate immaginativamente, si può intuire quale importanza abbia, per aiutarli, conoscere le modalità con cui si esprimono culturalmente (comunicazione in rete, letteratura, cinema, musica,etc.) o esperenzialmente (ad esempio nei comportamenti di sfida, in quelli autodistruttivi, di contestazione, utopistici, etc.).

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3. Muore un bambino In tutti i campi, da quello sanitario a quello funerario, gestire la morte di un bambino è coinvolgente e difficile. Quasi come in famiglia o sui media. I bambini non dovrebbero morire, è assurdo che muoiano. Eppure anche i bambini muoiono, da che mondo è mondo. E la morte di un bambino non sempre è stata giudicata così assurda come oggi, anche se ha posto problemi ad ogni cultura. È per questo che le principali difese contro la morte di un bambino sono da una parte la svalutazione della vita infantile come vita ancora incompiuta e quindi perdibile, dall’altra la procreazione di un altro bambino. È però arrivato un momento nel corso della modernità nel quale il valore attribuito al bambino è cresciuto fino a considerarlo portatore di caratteri quali la “naturale felicità”, desiderata da tutti perché spontanea e innocente, e l’apertura verso il futuro, cioè la possibilità di una immortalità biologica dei genitori realizzata attraverso la trasmissione del patrimonio genetico. La morte del bambino è diventata così l’espressione del trionfo della morte sulla vita e salvare dalla morte prematura è diventato il compito più nobile della medicina moderna. E dal momento che si è valorizzata tanto la vita del bambino è diventato sempre più difficile scambiare questo valore e pensarlo come sostituibile da un altro bambino. È probabilmente per questo che la fede nell’aldilà persiste coriacea quando si tratta di affrontare la morte di un bambino anche in un’epoca, come la nostra, caratterizzata da una profonda crisi della fede in una vita dopo la morte. Non tendono infatti anche i più incalliti miscredenti a dire ancora oggi che i bambini vanno in cielo o che sono angeli? C’è anche, per la verità, chi sostiene che bisognerebbe recuperare la saggezza pagana e prepararsi alla morte dei figli come fece il filosofo Anassagora1 che, alla morte del figlioletto, non pianse e mantenne la sua dignità proprio perché per tutta la vita si era preparato a questo evento. Ma è una via che non trova molto seguito tra i genitori che perdono un figlio piccolo i quali cercano a tutti costi di negare la morte del figlio nei mille modi in cui ciò è possibile, credendo che il figlio morto in realtà li aspetta sotto un’altra forma di vita nell’aldilà o che vive ancora come prima ma 1

F. Campione, Meditare sulla morte oggi, cit.

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in un’altra dimensione con la quale è possibile comunicare (vedi capitolo). Nessuna di questa difese sembra funzionare oggi, se è vero che quando muore un bambino tutti vanno in profonda crisi e tendono a pensare di essere in presenza del male assoluto, un male senza rimedio che fa perdere la sicurezza di vivere. Se anche un bambino può morire, infatti, di cosa si può più essere certi? Quando la vita del bambino era ancora considerata una vita incompiuta gli adulti non le attribuivano un grande valore e potevano viversela la morte di un bambino, poi l’infanzia è diventata la fase più importante della vita e ogni bambino ha acquistato un valore immenso, tanto da dover lottare strenuamente per salvarlo da una morte precoce, dall’avere difficoltà a sostituirlo con un altro bambino e dal dover farlo sopravvivere da qualche altra parte. Così gli adulti si sono identificati con i bambini e ogni bambino è diventato parte del sé degli adulti: si spiega così il fatto che di fronte alla morte di un bambino la maggior parte delle persone oggi si sente come di fronte alla morte del “proprio” bambino (“proprio” sia nel senso del bambino che vorrebbero ancora essere, sia dei bambini in carne ed ossa che hanno eventualmente messo al mondo). Ma quando muore un bambino non muore il proprio bambino, muore un bambino “altro” sia dal bambino che ciascuno di noi vuole essere che dai bambini che ciascuno di noi ha generato. È quello che intravedono coloro che alla morte di un bambino dicono: «Non è per me che piango, ma per il mio bambino che non potrà più vivere». Ecco, questo pianto, il pianto per il bambino morto e non per il “proprio bambino” che si sente minacciato di morte, è il pianto che potrebbe consentire di affrontare la morte di un bambino sfuggendo alle alternative talvolta altrettanto “impossibili” di svalutarlo per abbandonarlo al suo destino, di sostituirlo con un altro bambino o di doverlo far vivere altrove perché è impossibile far morire qualcosa di “proprio”. Ma perché molti di fronte ad un bambino morto non riescono a far prevalere il piangere per l’altro, il perpatire, sul piangere per sé, ed hanno più compassione per la minaccia che la morte del bambino porta al “proprio” bambino piuttosto che per il bambino “altro” che non potrà più vivere? La ragione sembra abbastanza semplice: la morte del bambino “tocca” il “proprio bambino” e traumatizza. La sofferenza che ne deriva a chi è toccato fa dimenticare che non tutto ciò che tocca e fa soffrire ci appartiene. L’uomo ha la possibilità, soffrendo per un 267 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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bambino morto, di ospitare in sé (sentire in sé) la sofferenza per questa morte non impadronendosene come di una propria sofferenza, se di fronte alla sofferenza è in grado di non pensare solo a sé, cioè di essere sufficientemente uscito dall’egocentrismo infantile da non scambiare la morte di un bambino con la morte del “proprio” bambino. In sintesi alla morte di un bambino solo chi non è più un bambino riesce a commuoversi umanamente senza esserne distrutto come se avesse perso il proprio bambino.

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1. L’ora degli orfani Quindi anche i bambini muoiono. E si sa che elaborare il lutto per la loro perdita è impresa ardua per i loro genitori e persino per i loro concittadini (vedi capitolo), in un’epoca che tende a considerare la morte prematura come la morte più tragica e assurda, mentre sempre più “buona” tende ad essere considerata (nonostante la sua persistente rimozione come pornografia) la morte “naturale”, la morte dolce, biologicamente dolce, che arriva alla fine del ciclo vitale. In realtà, la morte è tanto più tragica quanto più sono “bambini”, a qualunque età anagrafica, quelli che lascia. Vorrei sostenere che la tragicità della morte si “misura” in base a come lascia i superstiti. Ed è tanto più tragica quanto più lascia orfani. Il significato della parola orfano, come si sa è connesso con il latino orbus che significa privo. Se ci lascia orfani la morte a qualunque età è una privazione per eccellenza. Ed è per questo che il lutto dei bambini per la morte di un caro può essere considerato il lutto per eccellenza, il lutto per il quale si entra in una condizione che tutte le Società, tutte le Culture e tutte le Religioni hanno considerato una condizione da accogliere, da proteggere, da difendere e da aiutare insieme a quella del povero e della vedova. Viviamo però in un’epoca in cui l’aiuto agli orfani è subordinato all’aiuto ai poveri e alle vedove, come se l’aiuto agli orfani fosse in realtà affidato o agli adulti della famiglia, i quali si ritiene possano aiutarli tanto più quanto meno sono poveri e quanto più in fretta ed efficacemente si rifanno una famiglia, oppure a quegli altri adulti cui si affidano gli orfani in adozione. Un’espressione di questa impostazione è l’impreparazione pressoché totale nel nostro contesto delle agenzie educative private e pubbliche (la scuola in primo luogo) ad assumersi assieme 268 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ai superstiti la responsabilità di aiutare i bambini a superare un lutto. Può ancora capitare nelle nostre scuole che un bambino che ha perso un genitore disegni per la festa della mamma o quella del papà la sua famiglia comprendendovi il genitore morto come se fosse vivo, ed esprimendo così l’impossibilità di parlarne in termini realistici con qualcuno che ne sappia parlare. Il dubbio è che a forza di difendere i nostri bambini dalla morte facendo finta che essa sia niente, li abbandoniamo a se stessi nelle perdite più difficili e traumatiche, perché nessuno ci ha insegnato come ascoltarli, come parlare loro e come aiutarli nel lutto senza cadere in un’angoscia che temiamo potrebbe essere distruttiva per tutti. Non che l’aiuto dato agli orfani attraverso i sostegni economici, attraverso l’aiuto a superare la vedovanza o attraverso l’adozione per fornire al bambino una nuova famiglia non siano aiuti giusti. Solo, essi rappresentano la prevalenza nel nostro contesto culturale di una modalità biologica ed adattiva di superare il lutto, basata sulla “sostituzione” del genitore o dei genitori morti, ma che non sempre equivale ad un superamento “in crescita” del lutto. Il limite di questa modalità d’aiuto agli orfani è dato: a) dalla premessa indimostrata che la morte renda orfani solo i bambini e non anche gli adulti, cosa che invece avviene allorché i genitori superstiti sono “bambini” e rimangono a loro volta orfani dell’altro genitore; b) dal pensare che i genitori si possano sempre sostituire; c) dal pensare che ogni “buona” famiglia adottiva sia composta da adulti in grado di “sostituirsi” ai genitori perduti. Un esempio del primo tipo di limite è quello di Alcesti (il personaggio dell’omonima tragedia di Euripide), che, quando il giovane marito Admeto deve morire, si offre, unica, di morire al suo posto, letteralmente “per non restare sola coi figli orfani”. Alcesti preferisce morire piuttosto che restare sola (orfana del marito) con i figli orfani! Se non si sentisse orfana a sua volta, non si rafforzerebbe in lei il desiderio di vivere, dato che ora deve assumersi da sola (cioè senza nessuno che la possa sostituire, nell’elezione ad essere indispensabile) la responsabilità di aiutare i suoi figli a superare il lutto per la morte del padre? Un esempio del secondo tipo è quello di coloro che, avendo perso un genitore o entrambi da piccoli, passano la vita a cercare senza riuscirci genitori sostitutivi. 269 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Un esempio del terzo tipo sono i tanti genitori adottivi che devono affrontare i problemi che l’essere orfani determina nella vita dei loro figli adottivi e si pentono di averli adottati, perché riconoscono come “propria” la vita del figlio adottivo dal momento dell’adozione, ma non riescono ad assumersi la responsabilità delle negatività che i figli si portano dietro dalla vita precedente. Ma a cosa è dovuta questa impostazione così prevalentemente adattiva dell’aiuto agli orfani? L’ipotesi che abbiamo fatto è la seguente: Veniamo lasciati soli nell’arduo compito di imparare ad elaborare i lutti di cui è costellata la nostra infanzia perché, invece di essere aiutati a crescere attraverso le perdite, veniamo aiutati ad esorcizzarle, a negarle o a sublimarle, con la conseguenza che quando ne sperimentiamo una (come la morte di un genitore) che non possiamo esorcizzare, negare o sublimare, cadiamo in una condizione di “orfani” dalla quale non possiamo uscire, e che ci fa diventare, a nostra volta, genitori non in grado di aiutare i nostri figli a crescere superando le perdite, dato che nemmeno noi abbiamo mai imparato a superarle. L’esempio più significativo a questo proposito è dato dalla superficialità con cui affrontiamo con i nostri bambini la domanda su “dove” sono andati i morti, superficialità che si manifesta sia quando rispondiamo loro che sono andati in cielo senza accettare di approfondire la “natura” del cielo, sia quando rispondiamo loro che la morte non è niente senza far intuire loro la “complessità” del nulla. Ma ne siamo sempre più consapevoli e capiamo che non possiamo continuare a lasciare soli i bambini e i superstiti a gestire i loro lutti, costretti come siamo a constatare, che la loro vita non sarà “più come prima”2. La domanda che sorge allora è: può diventare la vita di un bambino in lutto migliore di prima se non lo si abbandona al suo destino? Ho approfondito questa problematica nel mio volume dal titolo La domanda che vola. E così che si fa sempre più strada, di fronte alle difficoltà di aiutare i bambini a superare la condizione di orfani, l’idea che debbano essere dei professionisti preparati ad hoc ad aiutarci a farlo. Si passa così, e anche in Italia stiamo cominciando a farlo col 2 D. Schuurman, Mai più come prima (trad. it. a cura di F. Campione), Armando, Roma 2007.

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Servizio Alcesti (vedi sopra), dalla responsabilità personale e collettiva di ognuno e di tutta una cultura verso gli orfani ad una responsabilità professionale. Si tratta di una responsabilità che è professionale, tendente cioè al sapersela assumere imparando ciò che bisogna imparare da coloro che già lo sanno fare, ma che è innanzitutto una responsabilità morale, una responsabilità a cercare, insieme agli orfani di tutte le età, vie di risposta alla condizione di orfano che non la releghino nell’insuperabilità come spesso è, ma ne facciano un’occasione di crescita. Occasione in grado di ribaltare il rischio che alla condizione di orfano ci si può solo adattare cercando di limitarne i danni, per promuovere, al contrario, una cultura in grado di “riscattare” questa umana condizione facendone una sorta di “iniziazione” a diventare (da parte dei bambini orfani), a propria volta, genitori in grado di parlare con i loro figli della morte in modo più profondo, genitori che non restano orfani come i loro figli quando un genitore muore, perché hanno superato la loro condizione di orfani prima di diventare genitori. Pensiamo, in altri termini che sia arrivata, nell’assistenza al lutto, dopo l’ora dei vedovi, l’ora degli orfani. Cioè a dire l’ora di assumersi la responsabilità di aiutarli, dopo aver trovato vie di superamento della nostra propria condizione di orfani, aiutati dai bambini stessi allorché si riesca a parlare con loro della morte senza complessi di superiorità né di inferiorità. Come accade quando un bambino ci chiede che ne è dei morti e, invece di affrettarci a dare la risposta che le nostre credenze e i nostri pregiudizi ci suggeriscono per liberarci al più presto di un ingrato compito, ne parliamo apertamente con lui per ricercare insieme quella saggezza che di fronte alla morte tante filosofie e tante religioni sono oramai purtroppo impotenti a fornirci. Pensiamo di poter basare questo lavoro su quanto abbiamo appreso nei lunghi anni di assistenza ai morenti di qualunque età e delle loro famiglie: chiunque non sia ancora “adulto”, cioè non sia in grado di “ospitare3 in sé” il trauma della perdita dell’altro assumendosi la responsabilità dell’aiuto ma senza fare proprio il trauma, di fronte al lutto di un bambino si identificherà col bambino diventando a sua volta bambino e bisognoso d’aiuto come il bambino stesso. 3

F. Campione, Ospitare il trauma, cit.

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Sarà, di conseguenza, necessario (lo sanno tutti coloro che sanno quanto coinvolgente e difficile sia assistere un bambino in lutto) impostare una corretta formazione di tutti coloro che questa responsabilità di aiutare i bambini in lutto finalmente volessero assumersela. Una formazione che abbia come caposaldo, sì la conoscenza dei processi evolutivi, sì la giusta preparazione tanatologica teorica e pratica, ma, soprattutto, che fondi la capacità di “coinvolgersi umanamente” nell’aiuto ai bambini in lutto. Cioè a dire, non tanto e non solo sostituendo i genitori o i fratelli perduti (come si tende a fare quando ci si identifica con i bambini come se fossero figli propri) o solo applicando tecniche di rafforzamento dell’innata reattività adattiva (come accade quando si pensa che basti solo rafforzare la resilienza)4, ma in primo luogo “sostituendosi” all’Umanità tutta, dato che solo se se ci assume la responsabilità di aiutare un bambino in lutto come se si fosse gli unici uomini al mondo e quindi in nome e per conto di tutta l’Umanità, si potrà sperare di far superare loro la situazione in crescita. Solo chi è in grado di andare incontro ad un bambino in lutto donandogli un amore che solo tutta l’umanità potrebbe donargli, tutto l’amore in un amore solo, può riscattare il male della perdita di un genitore o di un fratello facendo crescere questo bambino “grazie” all’esperienza inevitabile del lutto e mettendolo così in condizione di poter aiutare a sua volta altri bambini in lutto (i propri o quelli degli altri). Lévinas in un luogo molto arduo5 dice: «Il Bene, come l’Infinito, non ha altro; non perché sarebbe il tutto, ma perché è il Bene e niente sfugge alla sua bontà». Ecco: se la sofferenza di un bambino in lutto non si riscatta con la saggezza di un amore che è l’amore di tutti in ognuno, l’amore infinito e non quello professionale o personale (che pure sono necessari ma che dipendono nella loro stessa efficacia dall’amore infinito), nessun genitore sostitutivo può bastare né nessuna tecnica di rafforzamento delle reazioni adattive potrà essere in grado di combattere il male assoluto, cioè il dolore invincibile e assurdo di un bambino che perde un genitore o un fratello e l’inevitabile rovina della sua esistenza di adulto.

4 Sulla

resilienza vedasi B. Cyrulnik, F. Malaguti, Costruire la resilienza, Centro Studi Erikson, Trento 2005. 5 E. Lévinas, Altrimenti che essere, Jaca Book, Milano 1983.

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2. Premesse educative dell’aiuto psicologico ai bambini in lutto Quando un bambino deve elaborare il lutto per la perdita di una persona cara (solitamente un genitore, ma anche un fratellino o un adulto di riferimento) si trova di fronte ad un compito più o meno arduo che può essere portato avanti con successo o interferire con i processi di sviluppo determinando disturbi affettivi, cognitivi e/o comportamentali. La letteratura internazionale6 sul tema è ormai concorde nel ritenere che le valutazioni delle modalità di elaborazione del lutto nel bambino debbano essere condotte in riferimento al suo livello di sviluppo e all’evoluzione relativa del suo concetto di morte, in modo da individuare nello specifico il tipo di aiuto di volta in volta necessario perché il lutto venga superato. Sebbene i punti controversi siano ancora tanti, le ricerche sul lutto7, sull’evoluzione del concetto di morte8, sui modi in cui l’elaborazione del lutto può influenzare lo sviluppo psichico del bambino9 e sugli interventi clinici per prevenire i danni da lutto nello sviluppo infantile e per superarne i disturbi psicologici10, hanno conseguito risultati ricchi e utili a cui si può fare riferimento ogni volta che ci si trova di fronte al compito di assistere un bambino in situazione di lutto. Anche il Progetto Alcesti, che svolge la sua attività a Bologna per assistere i bambini in lutto (vedi cap. X) e le loro famiglie, si ispira naturalmente a questa letteratura a partire dalla traduzione italiana (nell’ambito della collana dell’Editore Armando dedicata al lutto) del libro11 di Donna Shuurman, direttrice del Dougy Center di Portland in Oregon (USA), specificamente dedicato all’assistenza ai bambini in lutto e alle loro famiglie, e probabilmente, con i suoi 14.000 bambini assistiti all’anno, l’esperienza più consistente esistente nel settore. La specificità del Servizio Alcesti risiede nel suo farsi carico in modo esplicito di una “debolezza” insita nella letteratura sul lutto

6

L.A. DeSpelder, H. Strickland, op. cit. A.F. Lieberman et al., Il lutto infantile, Il Mulino, Bologna 2007. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 Ibidem. 11 D. Schuurman, Never the Same, MacMillan, New York 2004, trad. it. Mai più come prima, cit. 7

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infantile. Si tratta del fatto che tutti gli approcci sull’aiuto ai bambini in lutto trascurano di chiarire le premesse educative (forse perché pensano di non averne o perché danno per scontata la correttezza delle proprie) su cui basano le loro scelte di intervento psicologico. Farò un esempio tratto da un volume ora tradotto anche in italiano e già citato nei riferimenti bibliografici fatti sopra12. L’esempio si riferisce all’esigenza che può sorgere ad un certo punto dell’assistenza ai bambini in lutto di spiegare loro l’idea della morte, idea che, come abbiamo visto e come è confermato da tutta la letteratura, è alla base del modo in cui in bambino vive la perdita di una persona cara. Dicono le Autrici del libro13: «È difficile definire la morte e spesso le persone cercano analogie quali “riposare per sempre” o “andare molto lontano”. È preferibile evitare simili analogie che possono solo creare confusione; i bambini piccoli pensano concretamente, prendono queste spiegazioni alla lettera e potrebbero sviluppare la paura di andare a dormire o la preoccupazione che le persone non torneranno quando vanno via. È preferibile dare al bambino una semplice spiegazione di cosa sia accaduto al genitore (una malattia importante o un grave incidente) e dirgli che la sua morte è la conseguenza della malattia e o dell’incidente e che per questo non tornerà più». L’osservazione che s’impone immediatamente è la seguente: la spiegazione più concreta e meno analogica che secondo le Autrici è preferibile sarebbe più semplice solo nel caso che il bambino condividesse l’idea che la morte è qualcosa di naturale e di irreversibile. Ma il bambino può (a seconda dell’età) considerare la morte come ancora reversibile o non necessariamente legata a cause naturali (nella fase del pensiero magico, ad esempio, è più probabile che il bambino interpreti la morte come il risultato dell’intervento di un orco o di una strega che come l’effetto di una causa naturale). E anche se con l’età capirà che la morte può essere naturale e “per sempre”, può essere stato educato a pensare che la natura può essere vinta e qualcosa di “soprannaturale” possa intervenire a contrastare il corso della natura facendo tornare in vita (un miracolo), oppure che essa sia un sonno da cui l’amore di una divinità benefica ci risveglierà.

12 13

A.F. Lieberman et al., op. cit. Ibidem.

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In ogni caso, la spiegazione dell’adulto sulla morte incontra l’idea che il bambino si è fatta in base alle sue capacità e in base alle sue esperienze, un’idea che è in fieri, cioè ancora suscettibile di essere modificata poiché lo sviluppo non è ancora completato e probabilmente per l’idea di morte non finisce mai (dato che l’idea di morte può evolversi a qualunque età e suscitare altre idee che come quella di infinito e di eternità alludono ad un aldilà dell’esperienza e perciò hanno un significato sempre “aperto”). Di conseguenza, pensare che sia più semplice per un bambino “capire” la morte tramite una spiegazione che la lega ad una causa naturale e la rende irreversibile è un’opinione che può essere contraddetta, se si considera il particolare bambino (allo stadio particolare di sviluppo nel quale si incontra) e la particolare educazione che ha ricevuto. Appare così la dimensione educativa e si può fare in prima approssimazione l’ipotesi che le Autrici del brano citato preferiscano la spiegazione dell’idea di morte come morte naturale e irreversibile perché vogliono educare il bambino ad interiorizzare questa idea di morte. Così come si potrebbe supporre che col dire al bambino che il caro morto è andato lontano o sta riposando per sempre, si voglia educarlo ad un’idea di morte simile ma più “edulcorata” cioè con un intento protettivo rispetto alla crudezza della spiegazione naturale. Ci dobbiamo allora continuare a chiedere quale spiegazione sia preferibile tenendo conto che attraverso la spiegazione che daremo educheremo il bambino in un modo o un altro. Ma qual è la migliore “educazione alla morte” del bambino? Ogni contesto culturale lo decide quasi automaticamente sulla base delle premesse profonde su cui si fonda. Nel nostro contesto, ad esempio, la spiegazione che tende a prevalere è quella religiosa, tant’è che al bambino si dice quasi sempre per spiegare la morte che il caro è andato in cielo o in paradiso. Ora tanti psicologi, come le Autrici del libro citato, dicono che sarebbe una spiegazione sbagliata perché meno semplice di quella naturale. In realtà a nostro avviso si tratta semplicemente di due scelte educative diverse sulle quali lo psicologo dovrebbe mantenere un atteggiamento neutrale e limitarsi a suggerire soltanto le modalità più adeguate per educare i bambini alla morte in un modo o nell’altro. Chi deve fare allora la scelta educativa? La devono fare i genitori? E se la responsabilità di questa scelta è dei genitori, come 275 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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possono aiutarli gli psicologi ad assumersi adeguatamente questa responsabilità? E, infine, quali sono le conseguenze di questa assunzione di responsabilità sui fattori per i quali l’elaborazione del lutto va a buon fine o si blocca? Nel lavoro concreto di aiuto del Servizio Alcesti, questi interrogativi e le risposte da darne vengono gestiti nel seguente modo: a) quando un bambino viene portato al Servizio perché venga aiutato nel lutto per la perdita di una figura affettivamente significativa, accanto alla valutazione specifica sulla storia del lutto, sulle sue modalità e sul suo andamento, si affronta con il genitore superstite o col caregiver di riferimento il problema educativo che le spiegazioni eventuali da dare al bambino possono porre. Ovviamente ci si può trovare di fronte a situazioni in cui la scelta educativa è stata già fatta, dando più o meno consapevolmente spiegazioni di qualche tipo. In questi casi si discute della necessità di prendere coscienza piena delle conseguenze che si possono determinare. Nel caso, invece, in cui le spiegazioni non sono già state date (e sono la maggioranza le persone in difficoltà sulle spiegazioni da dare o sul modo di modificare le spiegazioni che non funzionano), si aiutano gli adulti di riferimento ad assumersi responsabilmente il compito di scegliere in quale contesto di educazione alla morte vogliono che il bambino in lutto sia aiutato. Ciò equivale a cominciare ad aiutare gli adulti di riferimento ad assumersi i compiti necessari a dare al bambino in lutto un aiuto efficace; b) questa assunzione di responsabilità dell’adulto di riferimento è, naturalmente, un processo che si svolge nel tempo e che necessita di un supporto adeguato potendo complicare l’elaborazione del lutto nel quale l’adulto di riferimento può essere, a sua volta, impegnato (come accade quando è un “congiunto” della persona cara che il bambino ha perduto: l’altro genitore, un nonno, un fratello o un amico). Un’altra conseguenza pratica di questa specificità del Servizio Alcesti (farsi carico in prima istanza della dimensione educativa dell’aiuto psicologico ai bambini in lutto, dato che tutto ciò che si fa con o si dice ad un bambino ha una valenza educativa, cioè ne può “indirizzare” più o meno incisivamente lo sviluppo ancora in corso) è la preparazione dello psicoterapeuta ad assumere la responsabilità dell’inevitabile ruolo educativo che in una certa misura sempre ha chi assiste. 276 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Per il trattamento dei bambini in lutto si utilizza una stanza clinica per il gioco che, come si fa in tutto il mondo14,15, consenta al bambino di scegliere liberamente un’attività ludica tra tante a disposizione, e di svelare così attraverso l’espressione libera delle emozioni le modalità del suo lutto. Si svelano in tal modo al terapeuta le modalità di elaborazione del lutto che il bambino sta mettendo in atto consentendogli di guidarlo verso la soluzione migliore (sia perché può farlo soffrire meno nel presente sia perché può avere minori conseguenze sulla sua crescita e sulla sua vita futura). Ma dovendosi proiettare in una dimensione futura che per definizione è “ignota” le modalità che il bambino spontaneamente esibisce nel presente contemplano una “pluralità” di sbocchi che non dipendono soltanto dalla situazione presente espressa con le emozioni e i comportamenti (del bambino e dell’ambiente) ma sono suscettibili di essere influenzate anche dalle scelte educative. Ecco perché un terapeuta deve diventare consapevole attraverso la sua preparazione del ruolo educativo che può svolgere in una fase di vulnerabilità del bambino e della famiglia per la crisi del lutto, in modo da potersi spostare elasticamente (grazie alle scelte educative concordate con la famiglia e attuate in collaborazione con essa) lungo la gamma di soluzioni possibili che ogni situazione ammette, passando dall’una all’altra quando l’aiuto al bambino in lutto lo impone. Riferirò brevemente, a scopo esemplificativo, il caso di una bambina di 6 anni e mezzo che alla morte del padre manifesta un bisogno nuovo di coccole nel bel mezzo delle attività scolastiche e senza preavviso alcuno (alle 10 del mattino, qualsiasi attività stia svolgendo si alza, va dalla maestra e le chiede un bacio o una carezza). La maestra chiama la madre mostrando preoccupazione per la “regressione” della bambina e la madre si rivolge al Servizio Alcesti per una consultazione. Nei colloqui iniziali la madre riferisce di dubitare che i problemi della bambina siano tutta colpa sua poiché dopo la morte del marito è diventata con la figlia sempre più “fisica”, a causa del suo crescente bisogno di “stringersi” alla figlia per consolarsi. Non ha però alcun dubbio che abbia ragione la maestra a preoccuparsi del fatto che la ricerca di coccole della bambina possa ostacolare la sua crescita.

14 15

L.A. DeSpelder, H. Strickland, The Last Dance, cit. Lieberman et al., op. cit.

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Siamo chiaramente di fronte ad un classico conflitto tra l’educazione che deriva dalle reazioni spontanee agli eventi della vita e quella che deriva dalle prese di posizione pedagogiche. Chiarito con la maestra quale si riteneva fosse la “giusta” educazione di fronte alla perdita di una persona cara (bisogna stringersi agli altri e farsi consolare o bisogna diventare sempre più autonomi e forti? Si sono chieste insieme la madre e la maestra e si sono accordate sulla prima alternativa), la richiesta di coccole della bambina presumibilmente legata alla reazione della madre alla morte del marito può essere considerata addirittura un’espressione di buona “resilienza”16 e supportata, mentre sarebbe stata certamente considerata, se al contrario la scelta educativa fosse stata opposta, espressione di una cattiva resilienza e sarebbe stata ostacolata. 3. Riflessioni Oltre alle due possibilità antropologiche che si contendono il campo nella nostra cultura (l’uomo come essere biologico e come essere personale), c’è n’è un’altra che l’autore ha cercato di portare all’attenzione in questo libro e che si basa su una concezione “umanistica” dell’umano. In questa ottica si coniugano le due modalità precedenti di legarsi nell’amore, lo “stare vicino” all’altro di significato protettivo proprio del comportamento di attaccamento, e “il portarsi dentro l’altro” delle “ relazioni oggettuali” tendente a mantenere l’integrità dell’io (trasformando i suoi oggetti d’amore in parti di sé interiori). Per poter avvertire la minaccia ambientale che porta al comportamento istintivo di attaccamento,il bambino deve avere la possibilità fin dalla nascita di “tendere verso il bene” prima ancora di sapere cosa sia, e di “sottrarsi al male” prima ancora di sapere cosa sia. L’attrazione per ciò che “fa sentire bene” e la repulsione per ciò che “fa sentire male” non a caso sono considerati il primum movens della vita. Si può supporre ragionevolmente che, nascendo dall’uomo, ogni essere umano abbia fin dalla nascita il “senso” di sé come uomo e lo avverta in presenza di un altro uomo come avviene nelle 16

B. Cyrulnik, F. Malaguti, op. cit.

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esperienze precoci della vita intrauterina (P. Sloterdick,17) e dell’essere messo sul seno materno alla nascita. Lo “stare vicino” ad un uomo o a un sostituto (Harlow,18) non sarebbe più quindi un comportamento di attaccamento che basta una minaccia esterna ad elicitare, ma la minaccia stessa non dovrebbe essere considerata primigeniamente come una minaccia per la sopravvivenza (che il bambino non sa cosa sia), bensì un’assenza di “umanità” (l’assenza nell’ambiente di qualcuno che sia nonindifferente all’altro). D’altra parte, non basta che ci sia un altro umano per rassicurarsi, ma bisogna riconoscerlo come portatore di “bene” e non di “male”. Ecco perché bisogna, oltre che avvicinarsi alla madre, anche riconoscerla come tale, ma non basta, perché potrebbe essere una “mamma cattiva”. In sostanza il comportamento di attaccamento non sarebbe all’inizio solo un avvicinarsi per proteggersi ma un avvicinarsi per capire se l’umano più vicino è protettivo o meno, cioè per “provarlo” stabilendo una relazione oggettuale. Ma come potrebbe avvicinarsi il bambino non sapendo se l’umano più vicino è protettivo o meno se non si avvicinasse “senza sapere cosa aspettarsi” cioè disinteressatamente, avvicinandosi per avvicinarsi a chi è “in quanto umano, cioè in quanto non indifferente all’altro, avvicinabile” (la reazione del sorriso che si elicita nel bambino di fronte alla gestalt fronte-occhi-naso ne potrebbe essere un’espressione come mostra il lavoro di Spitz,19), e solo dopo poter scoprire se si tratta di un umano (qualcuno che non è indifferente) a cui poter chiedere protezione (facendone dentro di sé un oggetto d’amore) o a cui attaccarsi in presenza di una minaccia (facendolo oggetto di un comportamento di attaccamento)? Potendo stare così le cose, si può ipotizzare una modalità di legame all’altro più precoce di quella determinata dal comportamento di attaccamento “esteriore” o dalle relazioni oggettuali “interiori” e assimilatorie dell’altro a sé, un legarsi che consiste nell’approssimarsi all’altro prima di sapere qualcosa della sua biologia (con le caratteristiche protettive oggettive) e della sua biografia (con le caratteristiche soggettive della persona riconoscibile), un approssimarsi alla sua “umanità”, alla espressione della sua non indifferenza al-

17

P.Sloterdijk, Sfere, trad.it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2009. H.F. Harlow, The nature of love, in American Psychologist, 13 (12) 1958 pp. 673-685. 19 R. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Giunti Editore, 2009. 18

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l’altro, senza sapere se è capace di proteggere e se è interessato personalmente a proteggere, qualcosa senza di cui non ci si avvicinerebbe affatto e non si potrebbe scoprire né l’oggettività positiva (la capacità di proteggere) né quella soggettiva (l’interesse personale a proteggere il proprio cucciolo). In questa ottica il prototipo dei legami non è quello del bambino con la madre (di attaccamento od oggettuale che sia) ma quello della madre con il bambino: è la madre infatti che si avvicina al suo bambino prima (ad esempio attaccando il suo bambino al seno) di sapere se saprà proteggerlo e prima di riconoscerlo come proprio, sol perché il bambino non le è indifferente! Sicchè il bambino quando la madre muore non perde innanzitutto l’oggetto di attaccamento o la relazione oggettuale ma la “condizione umana” (la maternità, la non indifferenza della madre per il bambino prima e a prescindere che sia “suo”) che li rende possibili attraverso un movimento di avvicinamento disinteressato e potenzialmente indipendente dalle risposte del bambino e quindi in grado di suscitarle. La risoluzione del lutto ora consisterà nell’avvicinarsi di qualcun altro (un’altra “madre” non indifferente) che si avvicina al bambino prima ancora di sapere se sarà in grado di proteggerlo e di essere riconosciuto come oggetto d’amore privilegiato. Qualcuno che non sarà sostituito dal bambino ma che “si sostituirà” alla madre. Indicherò anche in questo caso un libro20 nel quali si approfondisce questo punto di vista e se ne affrontano le trasformazioni nel corso dello sviluppo. Nell’ottica di chi scrive, le tre modalità del lutto analizzate brevemente sono sempre presenti in ogni lutto particolare con la differenza che in ogni caso, se si tengono in conto le tre dimensioni antropologiche (biologica, personale e umana) che vi corrispondono,si dovrà favorire la prevalenza di una o dell’altra modalità a seconda del prevalente senso che nella singola storia tende a prevalere non indipendentemente dalla fase dello sviluppo ma “ al di là di essa”, come si può accertare empaticamente21. Riprendiamo ora criticamente alla luce di questa impostazione quanto abbiamo detto nei paragrafi precedenti dell’evoluzione del bambino e dell’adolescente di fronte alla malattia, alla morte e al lutto. 20 21

F. Campione, La domanda che vola, op.cit. Ibidem.

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Ogni analisi dello sviluppo umano si svolge in modo particolare a seconda dal movimento iniziale da cui si parte. Non fa eccezione lo sviluppo del rapporto dell’uomo con la morte dall’infanzia all’adolescenza. Nella concezione biologica dell’uomo si parte dall’osservazione dei comportamenti del bambino pensando che in essi siano inscritti tutti i significati. Per alcuni psicologi (Bowlby22), ad esempio, tutto comincia con i comportamenti di attaccamento che corrispondono ad esigenze evolutive di sopravvivenza di cui solo la specie “sa” mentre il bambino non è necessario che sappia, perché gli basta l’istinto. Il bambino quindi all’inizio reagisce alla minaccia alla sopravvivenza senza sapere niente della morte,attraverso il “dettame” istintivo della specie che lo ha dotato del comportamento di attaccamento. Il suo pensiero,la sua azione e i suoi sentimenti verso la morte corrispondono per tutta la vita a questa difesa innata dalle minacce alla sopravvivenza a cui non ci si può sottrarre e che si attuano, come abbiamo visto, secondo le linee evolutive del pensiero che porta all’azione, ne viene modificato per feedback dagli effetti dell’azione,e che prelude ad una gestione sempre migliore dei sentimenti, con lo scopo della sopravvivenza e del benessere, che sono gli scopi prettamente biologici della vita. In questa prospettiva il rapporto con la morte è all’interno del rapporto “spaziale” tra l’organismo e l’ambiente che interagiscono nello spazio ecologico, e anche il tempo della vita così come il “fine vita” sono misurati in modo spaziale col tempo degli orologi. Nell’ottica personalisticabiografica della psicoanalisi si parte diversamente dal racconto dei vissuti individuali,in cui domina la “rappresentazione” conscia o inconscia di questi vissuti,i vissuti dei bisogni personali. La morte ora può essere anche solo “vissuta” e non reale, come quando il bambino attende la madre per la prima volta, lei non si presenta e il bambino si trova a vivere la possibilità dell’impossibilità che la madre si ripresenti cioè che continui ad esistere, analogo della morte nella terminologia di Heidegger (che parla della morte come della “della possibilità dell’impossibilità di esistere”23. La morte ora è sempre “fuori” ma è come viene “rappresentata” nello spazio interiore che conta maggiormente. Essa infatti in 22 23

J. Bowlby, Attaccamento e perdita, op.cit M. Heidegger, Essere e tempo, trad.it. Pietro Chiodi, Longanesi, 2005

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questa ottica è angoscia di castrazione o ansia di separazione (come è per la Psicoanalisi). Di conseguenza ora sopravvivere vorrà dire sopravvivere interiormente: il tempo della vita sarà il tempo dei vissuti individuali e il “fine vita” esterno può essere ribaltato interiormente facendo vivere, come abbiamo visto, i morti nell’interiorità, nel cuore (trasformando l’assenza esterna in una presenza interna). Nell’ottica “umanistica”, infine, tutto comincia da “vissuti che non sono tali perché non si sa di cosa siano vissuti”, tutto comincia con la non-indifferenza, tutto comincia cioè con l’aspecifico e misterioso tendere nella direzione del “bene” (desiderare tutto e subito) e nella direzione opposta del male (desiderare l’annullamento istantaneo di ogni malessere), ma senza sapere cosa siano,avvertendone la presenza fin dalle prime sensazioni. All’inizio spazio e tempo sono “cominciati” per l’uomo ma egli ne avverte solo il “senso”, dato che ogni sensibilità è (Kant24) sensibilità dell’esterno (spaziale) e dell’interno (temporale). La vita è cominciata e l’uomo nascendo è già in contatto con lo spazio (sente l’ambiente senza sapere che è esterno a sè) e col tempo (sente se stesso senza sapere niente di sè). Il tempo passa da subito e subito l’uomo comincia a morire (è morituro) ma è scarsa la coscienza dell’esperienza e di conseguenza scarsa ne è la memoria: il tempo non ha ancora acquistato la sua freccia verso il futuro, scorre ma per l’uomo è ancora immoto, presente. Quando, verso i tre anni, muore qualcuno questi prima c’è e poi non c’è. Cosa capisce il bambino? “Non c’è più” non si può ancora dire. “Non c’è per me” invece già si può dire ma in questo la morte non si distingue dall’assenza perché sono umano e mi caratterizza la non-indifferenza (ora non più generica, ma per me stesso e per l’altro). Dopo un po’ si può cominciare a dire di qualcuno che “non c’è più” perché “c’era”: la memoria fa nascere il tempo dello spazio interno in quanto “sé”, il tempo personale. Bisogna aspettare, come abbiamo visto, l’adolescenza perché sorga la prima consapevolezza di un tempo che esiste fin dall’inizio, il tempo del desiderio: di nuovo il tendere nella direzione del bene e nella direzione opposta del male. Ora bene è vita,male è morte. La domanda era già apparsa ma ora diventa esplicita ontologica e/o metafisica: perché il male, perché la morte? 24

E. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. Pietro Chiodi Utet, Torino,

2013.

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Nessuno sa rispondere e risorge il “non sapere” (il mistero) dell’inizio della vita (quando si apprende che si è nati si è già nati): si può acquisire il senso del tempo se non si sa se il tempo finisce? E cos’è la morte se il tempo continua oltre la vita? Il tempo c’era prima della vita e continuerà ad esserci dopo la vita. Ora la morte diventa solo l’interruzione del rapporto dell’uomo col tempo (Levinas25), ma se il tempo continua da prima e anche dopo, se il tempo non comincia e non finisce, che vuol dire morire? È la fine della vita o è la vita che non finisce mai perché ha in sé il tempo infinito che non comincia e non finisce? Le domande senza risposta si lanciano, oltre il tempo della vita individuale, agli altri che verranno (sostituendosi a noi senza sostituirci) perché continuino a viverle nel tempo infinito ciascuno per la sua porzione. Un paradosso: vivere è una porzione del tempo infinito, ma si può fare una porzione di questo tempo (frazionarlo) o si può fare solo del tempo spaziale (esterno e interno che sia)? Possiamo insegnarlo ai bambini questo mistero della morte, sapendo che alla fine dello sviluppo, alla fine dell’adolescenza, alle soglie della maturità si faranno, come abbiamo visto queste domande sulla morte? Perché continuare a pensare che l’idea di morte abbia uno sviluppo che si può completare e non insegnare ai bambini che ciò non è possibile insegnando loro, invece, ad appassionarsi al mistero? Le conseguenze positive di questa possibilità chi scrive le ha illustrate in un altro libro26. Nella letteratura sul lutto c’è un Autore (Leighton27) che si preoccupa in modo esplicito della dimensione temporale del lutto analizzando nel lutto adolescenziale quello che chiama lo “spessore temporale” attraverso “la sezione del momento”. Significa che ogni momento del lutto dovrebbe essere “sezionato” per valutarne lo “spessore” cioè per capire quanto sia influenzato dal passato individuale, dalle circostanze del presente e dalle anticipazioni del futuro. Si potrebbe considerare questa valutazione dello “spessore temporale” come un semplice esempio dell’esplorazione del mistero della morte, che ad ogni età e con le possibilità di essa, si inne25 26 27

E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, op.cit. F. Campione, La domanda che vola, op.cit. Leighton.

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sca ogni volta che si incontra la possibilità della fine propria della vita o di quella dei cari (nella malattia grave) o la realtà della morte (dovendo elaborare il lutto per la morte di un altro)? Che si tratti di un mistero è reso evidente dalle infinite interpretazioni e racconti possibili del passato individuale, dall’infinita precarietà del presente e dal numero infinito delle possibili anticipazioni del futuro. Solo se il desiderio del bene, espresso dall’infantile “voler tutto e subito” prima ancora di sapere cosa significhi “tutto” e cosa significhi “subito”, si mantiene vivo lungo l’arco dello sviluppo e in tutti cicli della vita,il lutto per la fine di una vita (la propria o l’altrui) si può elaborare come un mistero da svelare nonostante la sua inarrivabilità, e quindi come un’apertura all’infinito del desiderio del Bene e non come la fine di un bene. Le conseguenze educative di ciò sono state analizzate più in dettaglio altrove28.

28

F. Campione, La domanda che vola, op.cit.

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Capitolo XIII

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L’aborto come lutto da elaborare all’infinito

Partirò da quello che due strane femministe dicono nel loro libro Madri selvagge1: «Essendo inorridite a suo tempo per i riti macabri del Movimento per la vita che celebrava i funerali dei feti, non abbiamo cercato elaborazioni collettive della perdita che molte provavano dopo un aborto. Non era possibile fare altro che metterla da parte, nell’ipotesi migliore piangere con le amiche. Il timore di lasciare spazio all’avversario ci paralizzava, e anche quando non era del tutto così, e si esprimevano angosce implacabili e nere depressioni, non se ne faceva un discorso pubblico, non di fronte a quella parte della sinistra che sventolava la bandiera dell’aborto libero come battaglia imperniata su un diritto, senza dare ascolto alla complessa, scomoda riflessione del femminismo della differenza»2. Dell’aborto non si parla quindi in termini di perdita e di lutto per ragioni ideologiche, eppure è uno dei lutti più difficili da elaborare anche quando si è trattato di una scelta consapevole soggettivamente e motivata oggettivamente. E quando se ne parla in termini di lutto tutte le donne (molti uomini e tutti gli psicologi clinici) sono d’accordo nel considerare che l’aborto è qualcosa di tragico, una risposta come mi pare che abbia detto Luisa Muraro “violenta e mortifera” a difficili problemi sociali, individuali, relazionali e sessuali; risposta che, come tutte le violenze portatrici di morte, si configura come evento traumatico da considerare, alla stregua di tutti gli eventi traumatici, come una ferita che si rimargina col tempo o non si rimargina affatto. In questa ottica è facile dire, come anche molte donne di sinistra che hanno abortito dicono, che l’aborto, come tutte la tragedie, “dovrebbe essere evitato”. 1 2

A. Di Pietro, P. Tavella, Madri selvagge, Einaudi, Torino 2006. Ivi, p. 99.

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Da qui a pensare che l’aborto non si dovrebbe “fare” perché riprovevole come tutte le violenze mortifere, rientrando nel comandamento di “non uccidere”, il passo è breve. È vero però che non necessariamente l’obbligo etico di non fare una violenza dovrebbe tradursi in proibizioni sancite per legge o in abolizioni di leggi come la 194 che sanciscono e regolano la possibilità della “violenza mortifera” dell’aborto. I riferimenti a questa posizione si trovano esplicitati in Luisa Muraro3 quando dice che “l’aborto esorbita dalle cose che il diritto può regolare”, pur ribadendo che esso è una violenza mortifera eticamente riprovevole. Un altro pertinente riferimento si può fare anche alla critica che Foucault muove alla pervasività dello stato moderno, che pretende di regolare con le sue leggi, e riaffermando il monopolio della violenza statale, anche la “nuda vita”4. Ma l’invito ad evitare l’aborto perché moralmente riprovevole senza regolarne per legge la possibilità di farlo (cioè senza leggi come la 194) o la proibizione (senza le leggi che vorrebbero fare coloro che vorrebbero abolire la 194) rischia di essere, come tutti gli appelli disarmati contro la violenza mortifera, voce clamante nel deserto. A meno che non si riesca a ridare fondamento alle virtù più screditate della nostra cultura, la bontà e la pazienza. E ciò perché l’aborto, come tutte le violenze mortifere, è una tragedia inevitabile ed eterna, affondando le sue radici nella natura (si fa l’aborto imitando l’aborto spontaneo), ed essendo, quando viene scelto, solo l’ultimo atto di un processo a cui uomini e donne mai rinunceranno e mai sarebbe giusto che rinunciassero: fare o non fare figli in modo intenzionale! Si uccide o non si uccide un embrione o un feto, così come si uccide un uomo, quando non è possibile fare altro per essere se stessi, quando mettere al mondo un figlio impedirebbe di essere come si vorrebbe essere in un dato momento della vita, quando il figlio incarna in sé un limite del sé autodeterminantesi (ad esempio, il limite di una sessualità che si vuole libera e ispirata al principio del piacere e si scopre legata alla riproduzione, come quando si voleva solo fare una “scopata” e ci si trova ad aspettare un figlio; oppure il limite di un corpo che si vuole a propria esclusiva 3

L. Muraro, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995. 4

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disposizione o puro e si scopre violabile e impuro, come quando a porsi il problema dell’aborto sono una donna libera e rispettivamente una suora che sono state violentate). Sento già l’obiezione: l’idea che l’aborto sia un lutto che deriva da una violenza mortifera che può mettere in crisi anche nei casi di aborto più “pulito”, si basa sulla premessa indimostrata che il feto sia un essere umano, e quindi che abortendo si uccide nel sangue un essere umano. Credo che si annidi in questa obiezione una trappola linguistica che forse bisogna cercare di evitare una volta per sempre. Che il feto sia un essere vivente non credo si possa negare, né che lo siano le otto cellule dell’embrione all’inizio, né che lo sia ogni singola cellula o ogni singolo essere unicellulare (virus e batteri, ad esempio). Allo stesso modo credo non si possa sostenere che basti essere un essere vivente, anche già nato, autonomo e in grado di intendere e di volere, per essere anche un essere umano. Ci sono infatti tanti che chiamiamo esseri umani perché scelgono autonomamente le loro azioni ma ci sorge qualche dubbio allorché constatiamo che queste azioni sono disumane, inumane o antiumane. Non pretendo di sanare in poche battute questo disaccordo ma almeno spero di poter dire che sarebbe meglio non considerare tutti gli “umanoidi” a cuor leggero come esseri umani (come fanno certi cattolici) né svalutare gli esseri viventi quando non sono umani (come fanno certi laici). Se uno è un uomo è sempre in dubbio fino alla sua morte e oltre, che siano esseri viventi perfino le singole cellule non ci dovrebbe essere dubbio. Se questa trappola linguistica non scatta, si può rispondere all’obiezione così: la premessa dell’idea che l’aborto sia un lutto deriva da una violenza mortifera che può mettere in crisi anche nei casi di aborto più “puliti”, è che abortendo si uccide violentemente un essere vivente, qualcosa che le donne da sempre dall’interno hanno considerato in modo vago dicendo, indicandolo come “qualcosa che vive dentro di me”. È vero, qualcosa che potenzialmente è un essere umano ma anche alla nascita e ad ogni età si è esseri umani solo potenzialmente! Ecco allora la specificità dell’aborto: si deve elaborare il lutto per l’uccisione violenta di un essere vivente e non di un essere umano, donde la difficoltà di considerare l’aborto alla stregua dell’omicidio. Noterò, per inciso, che anche nel caso dell’omicidio, si discute della specificità di ciascuno di essi cercando di stabilire “chi” si è ucciso. E anche in questo caso un omicida ha sempre uc287 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ciso un essere vivente ma potrebbe non aver ucciso un essere umano (se, ad esempio, gli attentati alla vita di Hitler o di Stalin fossero riusciti la storia li avrebbe giudicati non come uccisioni violente di esseri umani bensì come uccisioni violente di esseri viventi malefici cioè nemici dell’umanità). Se le cose stanno in questo modo, ci si può chiedere legittimamente perché e quando il lutto per l’uccisione violenta di un essere vivente sia moralmente riprovevole e quindi da evitare. Credo si possano rintracciare almeno due processi. Il primo è relativo all’amore di sé della donna che porta in grembo “qualcosa di vivente”. Ci sono donne che per il fatto stesso di immaginare di poter creare qualcosa di vivente si amano e valorizzano, e il loro amore di sé aumenta quando sentono di avere già dentro questo “qualcosa di vivente”. Per queste donne non importa sapere se si tratta di un essere umano o meno (donde il proverbio, per cui ogni scarrafone è bello per la sua mamma), quello che importa è essere “fattrici” di vita. Il secondo deriva dall’esperienza clinica per cui il lutto per l’aborto si riattiva in una donna tutte le volte che si ha un altro lutto, soprattutto per la morte della madre o per la morte di un altro figlio. Una donna di 45 anni alla morte della madre mi ha detto pressappoco: «credevo di avere superato l’aborto, ma ora che mia madre non c’è più mi rendo conto che non potrò più essere madre e mi pento di avere abortito». Una donna di 52 anni alla morte del figlio diciottenne in un incidente ha detto: «Se non avessi abortito ora avrei un altro figlio. È un pensiero che mi fa sentire doppiamente in colpa: perché non ho messo al mondo un figlio che potevo fare e perché ci penso solo ora che è morto il figlio che avevo voluto». L’aborto diventa quindi per la maggior parte delle donne eticamente riprovevole e diventa spesso evidente che sarebbe stato da evitare non quando lo hanno fatto, ma quando un altro lutto lo riattiva. Non è uccidere un essere vivente la cosa grave (può essere ad esempio giusto uccidere un essere vivente come un virus per impedire che uccida un essere umano). La cosa grave sono le conseguenze che può avere a breve o lunga scadenza sull’Umanità. È uno dei casi in cui ci si sente responsabili ora per allora, cosa che svela una dimensione etica solitamente nascosta: sapremo nel futuro, in base alle sue conseguenze, se una nostra azione è morale o è eticamente riprovevole! E non è proprio questa la tragedia dell’etica: siamo responsabi288 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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li, ma non sappiamo mai fino in fondo di cosa, se dobbiamo aspettare che si producano nel futuro le conseguenze delle nostre azioni per sapere se abbiamo fatto bene o male? Ecco allora una piccola conclusione possibile: l’aborto è la tragedia della uccisione violenta di un essere vivente che deriva dalle scelte innocenti che abbiamo fatto prima (volevamo solo ottenere un piacere dal sesso; volevamo che il nostro corpo fosse puro; volevamo un figlio dell’amore; volevamo un figlio che ci aiutasse a vivere e non che ci mettesse in difficoltà economicamente, personalmente o socialmente) e mette capo ad una serie di conseguenze che ignoriamo perché sono collocate nel futuro. Esso è un lutto che deve essere rielaborato, un lutto infinito, tutte le volte che una conseguenza non ancora maturata matura nel futuro. E per questo è una delle esperienze umane che pone il problema etico non certo nei termini oggi dominanti. Tutte le scelte etiche ignorano le loro conseguenze future e quindi sono, come diceva Derrida5 “incalcolabili” e per questo e solo per questo sono libere. Ciò che non si ignora è che in un futuro non precisabile una scelta moralmente ineccepibile potrebbe rivelarsi immorale. Ma siccome non si può smettere di scegliere, si continuerà a scegliere, ma si potrebbe cominciare a farlo sapendo che c’è un aspetto tragico in ogni scelta, cioè assumendosi la responsabilità di tutte le conseguenze che oggi si ignorano. Ciò ci renderebbe più prudenti, più pazienti e più buoni. Non potrei a cuor leggero uccidere un essere vivente che potrebbe produrre del bene, ma posso scegliere di ucciderlo se credo di produrre un bene, purché mi assuma la responsabilità del male che potrei scoprire nel futuro di aver prodotto. Ma come potrei sopportare senza essere paziente l’inquietudine costante di un libera scelta del genere? E come si potrebbe alimentare questa pazienza senza la bontà nostra nei confronti degli altri (e degli altri nei nostri), allorché il constatare di aver fatto irreparabilmente un male che si credeva un bene fa vacillare il senso stesso della via? E le stesse leggi che pure si devono fare, gestire e migliorare anche nei casi in cui come nell’aborto si esorbita dalle cose che il diritto può regolare, non potrebbero essere ispirate a questa prudenza, a questa pazienza e a questa bontà, piuttosto che a verità contrapposte che nel conflitto dimenticano di essere l’una il limite dell’altra? 5 F. Garritano (a cura di), Luoghi dell’indecidibile e Jacques Derrida, «Ou. Riflessioni e provocazioni», vol. 17, 2007.

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Capitolo XIV

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Il lutto impossibile per l’impossibile suicidio

Chi si uccide vuole annullarsi, e se l’atto autodistruttivo produce un cadavere si ritiene dimostrato in via di fatto che il suicidio è avvenuto. In realtà nel suicidio l’intenzionalità incontra il suo scacco più estremo, riuscendo l’intenzionalità suicida solo ad annullare se stessa. Infatti, il suicidio lascia un corpo inerte che non può prendere posizione rispetto al mondo, cioè che non può più volere niente, e che, più che essere un niente, è un essere che non appartiene più a qualcuno, un “essere anonimo”, ma pur sempre un essere se i “vermi se lo possono mangiare”. Il suicidio non è un annullamento anche in un altro senso: nel senso che produce effetti (e che effetti!) in chi resta. Se col suicidio si raggiungesse il nulla, come sembra essere intenzione dei suicidi, esso non potrebbe lasciare materia organica destinata a rientrare nel ciclo dell’azoto, né potrebbe influenzare chi resta altrimenti che procurando, al pari di ogni morte, l’angoscia del nulla. Invece, il suicidio, come ogni morte, lascia un essere biologicamente utile al rinnovarsi della vita, oltre che essere il modo migliore per non morire negli altri (mio nonno materno si è ucciso vent’anni prima che io nascessi ma è più vivo nella mia mente di molti altri parenti che ho conosciuto). Uno si suicida e più che raggiungere l’oggetto della sua intenzione, annullarsi, riesce soltanto ad eliminare il soggetto di ogni intenzione, la possibilità stessa di volere qualcosa. Detto in altri termini, il suicidio è l’intenzione dell’essere “per sé” di imporsi sull’essere “in sé” e sull’essere “per altri”, poiché suicidandosi si decide che “per sé” non vale più la pena di vivere cercando di annullare del vivere anche ciò che non appartiene al sé, ciò che in ciascuno è involontario e anonimo, e ciò che in ciascu290 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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no riguarda gli altri. Ma suicidandosi si può annullare solo l’essere “per sé”, non si può annullare l’essere “in sé” e l’essere “per gli altri”. Possiamo uccidere solo ciò che appartiene al nostro Io, alla nostra soggettività, ciò che ci appartiene perché deriva dalla posizione che grazie al nostro corpo abbiamo preso rispetto al mondo. Non abbiamo alcun potere, e quindi non possiamo ucciderlo, su tutto ciò che di noi non possiamo modificare con le nostre scelte soggettive: cioè a dire, da una parte la fisicochimica del nostro corpo che un atto intenzionale può solo trasformare e mai eliminare (ci uccidiamo e non cancelliamo la nostra materia organica ma ne cambiamo solo la forma); dall’altra ciò che di noi riguarda gli altri e che non possiamo eliminare ma solo modificare (ci uccidiamo e non eliminiamo ciò che siamo per gli altri ma trasformiamo il nostro modo di essere per loro). La prima conclusione che se ne può trarre è che il suicidio è impossibile, poiché siamo obbligati ad essere anche quando scegliamo di non essere più. Al massimo possiamo rinunciare a volere. Lévinas (parlando della sua concezione dell’essere come qualcosa che “c’è” senza appartenere a nessuno, dell’essere come essere anonimo, l’essere che resta anche quando qualcuno decide di mettere fine alla sua vita suicidandosi) dice che questa concezione consiste nello: «sviluppare una nozione di essere senza nulla, che non lascia aperture, che non permette di sfuggire. E questa impossibilità del nulla toglie al suicidio, che è l’ultima forma di dominio che si possa esercitare sull’essere, la sua funzione di dominio. Non si è padroni di nulla perciò si è nell’assurdo, proprio per questo Amleto è al di là della tragedia o è la tragedia della tragedia. Egli sa che il “non-essere” è probabilmente impossibile, e non è più in grado di dominare l’assurdo, neppure col suicidio. La nozione dell’essere irremissibile e senza uscita costituisce l’assurdità irremissibile dell’essere»1. Ma Amleto2 rappresenta solo una faccia di questa impossibilità del suicidio. Egli infatti “sa che il nulla è probabilmente impossibile” perché avverte l’orrore dell’essere anonimo che emana dal mistero della morte. 1 2

E. Lévinas, Totalità e infinito, cit.; Dio, la morte e il tempo, cit. W. Shakespeare, Amleto, Einaudi, Torino 2005.

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«Morire, dormire dormire, sognare forse ah, qui è l’incaglio: perché nel sonno della morte quali sogni possono venire, quando ci siamo districati da questo groviglio funesto, è la domanda che ci ferma ed è questo il dubbio che dà una vita così lunga alla nostra sciagura. Perché, chi sopporterebbe le frustate e le ingiurie del tempo, il torto dell’oppressore, l’oltraggio del superbo, le angosce dell’amore disprezzato, le lentezze della legge, l’insolenza delle autorità, le umiliazioni che il merito paziente riceve dagli indegni, quando, da sé, potrebbe darsi quietanza con un semplice colpo di punta? Chi accetterebbe di accollarsi quelle some, e grugnire e sudare sotto il peso della vita, se non fosse il terrore di qualcosa dopo la morte, la terra sconosciuta da dove non torna mai nessuno, a paralizzarci la volontà, e farci preferire i mali che abbiamo ad altri di cui non sappiamo niente?». Amleto non si uccide perché non sa cosa lo aspetta di là e teme che possa essere peggio del male per cui vuole morire. L’altra faccia dell’impossibilità del suicidio è rappresentata da tutti coloro che, pur meditando concretamente il suicidio o pur tentandolo, non riescono a suicidarsi perché sanno che la loro morte riguarderebbe anche qualcun altro, che volenti o nolenti lo farebbero non solo per sé ma anche per altri. Sono quelli che non si uccidono per non “dar soddisfazione” ad altri o per non “far del male” a qualcuno. C’è nella mia esperienza clinica un caso che mi sembra significativo per esemplificare il suicidio impossibile in questa seconda accezione. L. aveva goduto pienamente la sua infanzia ignorando le minacce della vita perché si era sentita totalmente protetta dai genitori. Poi a 7 anni le era nato un fratellino che aveva monopolizzato le attenzioni della madre a causa di un handicap congenito. La madre le aveva chiesto da subito di aiutarla a tirar su il fratello, e da quel momento L. aveva avuto il dubbio di aver perso agli occhi della madre il diritto di godersi la sua vita senza preoccuparsi di niente. Aveva lottato per restare padrona della sua vita e a 17 anni, con l’aiuto del padre che aveva continuato a preoccuparsi anche per lei oltre che per l’altro figlio, si era fatta la convinzione che con la volontà si possono superare i limiti della realtà e realizzare i propri desideri. Le piaceva molto la montagna e amava sfidarla con spirito di intraprendenza facendo lunghe scalate solitarie e dormendo nei ri292 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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fugi. Fu in uno di questi rifugi di montagna che una notte tentarono di violentarla. Ne fu talmente shockata che la realtà di quella esperienza le si confuse nella mente e cominciò a chiedersi se veramente era accaduta. “Te lo sei inventato” disse la madre quando le raccontò come si sentiva. Il dubbio che per la madre non avesse diritto di vivere diventò per lei certezza ed L. tentò il suicidio. “Vuoi attirare l’attenzione” disse la madre; ed L. tentò di uccidersi nuovamente. La cosa si ripeté varie volte con una dinamica analoga: L. sentiva che la madre non le riconosceva il diritto di vivere e in lei sembrava prevalere il desiderio di morire; ma non riusciva a portarlo fino in fondo ad effetto forse proprio perché la madre non credeva che l’avrebbe fatto. Si ha bisogno d’altri per venire al mondo, altri ci danno il diritto di vivere e se altri non riconoscono il nostro desiderio di morire non riusciamo ad ucciderci! Quando suo padre morì L. aveva poco più di vent’anni e una serie di tentati suicidi alle spalle. Il senso di colpa per essergli sopravvissuta la stava devastando quando incontrò F. e si sposò. Ebbero subito un figlio e ad L. cominciò a non importargliene più niente che la madre non le riconoscesse il diritto di vivere. Perché si sentiva abbastanza autorizzata a vivere dall’amore del marito per lei e da quello di lei per il figlio. Da allora L. non ha più tentato il suicidio. Tuttavia, il desiderio di morire e la tentazione del suicidio sembrano destinati a non abbandonarla mai. Poiché L. pensa che forse sarebbe meglio morire ogni volta che incontra un limite grave alla sua volontà di vivere e di vivere a modo suo. Due sono stati finora nella vita di L. i limiti più rischiosi con cui ha dovuto confrontarsi: il cancro al seno di cui si è ammalata a poco più di 40 anni e il senso di colpa che la opprime da quando, non dipendendo più dalla madre per riconoscersi il diritto di vivere, la madre l’accusa di averla abbandonata. Quando vive le limitazioni che la malattia oppone al suo progetto di vita (il senso di perdita dell’integrità fisica, i sintomi dolorosi derivanti dalla mastectomia, il terrore delle recidive e di morire in preda ai dolori) 293 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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L. ripensa al suicidio. Così come ci pensa ogni volta che la vecchia madre le chiede un aiuto a cui il suo senso di colpa le impedisce di opporre un rifiuto. Ma ora ciò che le rende impossibile il suicidio è il pensiero dell’effetto che uccidersi avrebbe sulla vita del figlio. L’aiuto che L. ha chiesto è stato proprio questo: come riuscire a suicidarsi per sfuggire ai doveri asfissianti verso la madre e prima di cadere preda dei dolori del cancro, senza lasciare suo figlio con la pesante eredità del suicidio della madre, cioè lasciandolo in un lutto secondo lei insuperabile. Insomma mi sono trovato di fronte ad una persona che voleva essere aiutata a suicidarsi senza suicidarsi, cioè ad applicare il potere della sua volontà per evadere dalla vita tutelando al contempo la vita del figlio. L. voleva uccidersi “per sé” ma non “per altri”, e ci si può uccidere solo per sé, si può evadere solo dalla propria vita; ma se la propria vita riguarda anche altri non ci si può più uccidere! Il risultato del lavoro psicoterapeutico fatto con L. ne è una conferma: L. non poteva suicidarsi perché riteneva impossibile da parte del figlio superare la crisi del lutto per la sua morte se questa fosse avvenuta per intenzionale e fattivo rifiuto della vita (cioè suicidandosi). Significa che L. non è riuscita ad essere padrona della sua vita e quindi il suicidio per lei è stato impossibile: prima perché aveva una madre che non gliene riconosceva il diritto, poi perché ha avuto un figlio di fronte al quale lei stessa non se ne è riconosciuto il diritto. In altre parole, il diritto di vivere e di morire di L. ha incontrato il suo limite nei suoi doveri verso chi ha messo al mondo lei e verso chi da lei è stato generato. La psicoterapia ha evidenziato anche che la causa del suo volersi uccidere ogni volta che incontra un limite derivava per L. dalla sua volontà di permanere nella posizione di chi vuole una vita senza limitazioni. È stato chiaro inoltre che L. non è riuscita ad uccidersi proprio perché la sua volontà non è mai stata sovrana: finché ha provato ad uccidersi la sua dipendenza dal riconoscimento della madre le ha impedito di scegliere vie di suicidio senza ritorno; poi non ha più potuto neanche provarci, perché tutte le volte che le limitazioni della vita l’hanno fatta pensare al suicidio, la sua non indifferenza rispetto alla vita del figlio ha trasformato il suo diritto di uccidersi nel dovere di non nuocere a suo figlio. 294 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Si tratta di un caso emblematico dell’impossibilità del suicidio nella seconda delle due accezioni indicate all’inizio: l’impossibilità dell’intenzionalità (il “per sé”) di imporsi sulla non indifferenza per altri. Sulla base di quanto detto fin qui possiamo ora riflettere un poco su coloro che non ritengono impossibile il suicidio e si uccidono. Si può notare innanzitutto che a coloro che riescono ad uccidersi pensando di lasciare dietro di sé solo un cadavere sembrano mancare due cose: I. La percezione del rischio amletico per cui l’aldilà invece che essere nulla potrebbe essere qualcosa di orrendo. II. La non-indifferenza per altri che trasforma i diritti dell’Io per sé (il diritto di vivere e di morire a modo proprio) in doveri dell’Io per gli altri. Si riesce a suicidarsi, in altri termini: o perché non si avverte l’orrore del nulla d’essere che lascia Amleto nel dubbio se essere o non essere; o perché non si avverte l’amore che trasforma l’alterità abissale e minacciosa dell’altro in “essere per” l’altro, vivere per l’altro, morire per l’altro, e non solo in sé e per sé. Senza il terrore dell’impossibilità del nulla e senza l’amore disinteressato per il bene dell’altro, il desiderio di morire sarebbe destinato nell’uomo a prevalere e a sfociare in atti autodistruttivi, poiché apparirebbe logicamente come l’unica soluzione al peso, all’assurdità, al non senso e alla disperazione di cui la vita così facilmente e così frequentemente si ammala. Senza il terrore dell’impossibilità del nulla e senza l’amore disinteressato per il bene dell’altro, il desiderio della morte diventerebbe il desiderio del Nirvana di cui parla Freud allorché osserva che morendo si raggiunge uno “stato di costanza” nel quale è completamente cessato “il frastuono dell’eros”, cioè le tensioni che infelicitano la vita. La fascinazione del nulla allora prevarrebbe e il suicidio diventerebbe un atto “naturale”, quasi un’indicazione medica prescrivibile come medicina per i mali insuperabili della vita. Si deve aggiungere che questi due fattori che ostacolano il suicidio rendendolo impossibile nella vita della maggior parte degli umani (la paura dell’impossibilità del nulla e l’amore disinteressato per chi resta) vanno tenuti ben distinti nella loro profonda differenza. I. La paura che il nulla non sia nulla ma orrore, significa la condanna ad essere qualcosa anche quando non si è più nessuno, e di 295 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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fronte ad essa il suicidio può apparire il nobile desiderio di evadere da un’insopportabile prigione, la prigione che è la vita quando il suo peso, la sua assurdità, il suo non senso e la sua disperazione sono insopportabili. In questo senso si può comprendere il fascino che il suicidio esercita su tanti spiriti liberi. Ma il tentativo di evadere dall’essere anonimo e orrendo del nulla suicidandosi è vano, nonostante la sbrigativa intenzione dei moderni di liberarsi dall’inferno che ci può attendere dopo morti, trasformandolo in uno spauracchio che i potenti ci pongono continuamente dinnanzi agli occhi per farci accettare qualunque vita, cioè il loro dominio su di noi, senza ribellarci. Se nessuna conoscenza certa è possibile sull’aldilà, l’inferno resta possibile per molti seppure solo come fobia e continuerà sempre a salvare dal suicidio i tanti che, come Amleto, finiscono per “preferire i mali che abbiamo ad altri di cui non sappiamo niente”. Per chi vive per sé, il suicidio è l’estrema risorsa e l’estremo potere di sfuggire al peso della propria vita e all’orrore dell’individuo di essere nessuno. Ma bisogna essere sicuri che ne conseguirà il nulla; è uno scacco cocente se il nulla si popola di spettri. II. L’amore disinteressato per altri che ci obbliga a vivere per loro anche quando la nostra vita sia diventata insopportabile, significa la dimostrazione che le ragioni della vita di qualcuno possono risiedere nella vita di qualcun altro, faccia a faccia con il quale ci assumiamo la responsabilità di tenerci pazientemente ciò che ci tocca vivere e ci sentiamo obbligati a continuare a vivere nonostante tutto. Per chi vive immerso in questo amore il suicidio può apparire una fuga ignominiosa dalla responsabilità di assolvere i doveri che si hanno verso gli altri. Si comprende in questo senso la pesante censura morale che accompagna il suicidio in quasi tutte le culture: “chi si uccide con le sue mani nessuno lo piange”, dice un proverbio siciliano; lo stesso termine suicidio lo qualifica come un omicidio. Per chi vive immerso in questo amore disinteressato per l’altro non basta avere una vita di sofferenze insopportabili, assurda, senza senso e disperata per uccidersi, perché evadere dalla prigione della propria vita può essere una violenza terribile per altri. Per chi vive per gli altri, insomma, il suicidio è la via di fuga per sottrarsi al dovere di offrirsi di soffrire al loro posto, lasciandoli in un lutto accompagnato dalle angosce più difficili da superare, quelle che Amleto chiama “le angosce dell’amore disprezzato”. Chi vive per altri non si uccide pur soffrendo insopportabilmen296 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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te, proprio perché l’amore si esprime proprio quando qualcuno sacrifica la propria vita per il bene di un altro. Ci sono quindi due categorie di persone che non si uccidono: “Se avessi il coraggio mi ucciderei”, dicono coloro che non si uccidono per paura dell’inferno che paventano. “Non posso uccidermi, non posso fare questo alle persone a cui voglio bene”, dicono coloro che non si uccidono assumendosi la responsabilità della vita degli altri. Sarebbe ovviamente preferibile che chi non si uccide appartenesse alla seconda categoria, poiché la prima è la categoria di coloro che non si uccidono perché constatando che non si può evadere sono obbligati a restare in vita per un “cattivo” motivo (la paura di ritrovarsi morendo in un inferno peggiore della vita che rifiutano); mentre la seconda è quella di coloro che non si uccidono perché constatando che non si può evadere sono obbligati a restare in vita per un “buon” motivo (assumersi la responsabilità di sopportare pazientemente il peso della vita per evitare di lasciare gli altri nell’inferno di un lutto impossibile). Chi appartiene alla prima categoria è un personaggio tragico, Amleto appunto; chi appartiene alla seconda categoria incarna l’involontaria bontà di chi è immerso nell’amore per altri. Ma torniamo a coloro che si uccidono. Costoro non hanno paura dell’inferno che il nulla può aprire o non sono stati toccati dall’amore disinteressato per l’altro al punto da sopportare per altri qualunque vita. Costoro si suicidano ma il loro suicidio resta impossibile, solo che questa impossibilità si può esprimere solo nella vita di chi resta. Nessun evento umano viene sottoposto a tante negazioni, distorsioni e mascheramenti come accade per il suicidio. Sono tantissimi i superstiti di un suicidio che negano si tratti di suicidio, cercano di distorcenerne il senso cercando di trasformarlo in omicidio o lo mascherano attribuendolo alla follia o al desiderio di trascendersi verso un oltre sé ideale o spirituale. Così come sono tantissimi coloro che restano segnati per tutta la vita dal suicidio di una persona cara o si suicidano a loro volta. Il lutto per il suicidio è spessissimo inelaborabile o viene elaborato in modi patologici tendendo a rendere impossibile la vita di coloro che restano (cosa che conferma la verità suprema dell’impossibilità di suicidarsi senza far del male a chi resta). 297 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Se sai di lasciare al mondo qualcuno che ami e di cui vuoi il bene non ti uccidi. Se ti uccidi lasciando al mondo qualcuno che ti ama lo fai, in buona o in cattiva fede, “contro” di lui, muori per te stesso, cioè amando più te stesso che coloro che lasci (e l’amore di sé tradisce la sua non autosufficienza, cioè l’impossibilità della sua supposta indifferenza per gli altri, quando produce l’autodistruzione dell’Io). Rabbia (per essere stati abbandonati) e colpa (perché il proprio amore non è stato sufficiente per fare accettare al suicida la vita) sono destinati a dominare la vita dei superstiti di un tale suicidio frutto paradossale dell’amore di sé; impedendo un’elaborazione positiva del lutto e dando luogo a tutte le difese (negazioni, distorsioni e mascheramenti) a cui abbiamo accennato e che possono dare più problemi di quelli che non risolvono. Solo nei pochi casi in cui chi resta ama il suicida di un amore disinteressato, il lutto per il suicidio non è così tragico. Ma in questi casi non si può propriamente parlare di superamento del lutto, poiché se chi resta ama disinteressatamente chi non c’è più certo non gli rimprovera di essersene andato sbattendo la porta (cioè suicidandosi), ma continua a piangere per lui, per lui che è stato vinto dalla disperazione, e riscattando, proprio attraverso il pianto senza fine di qualcuno che non lo abbandona per la vita nel suo annullarsi, lo scacco del suicidio. Sono i casi, pochissimi, in cui non è vero che, come dice il già citato proverbio siciliano, chi si uccide con le sue mani nessuno lo piange. Il proverbio viene smentito e anche se si è ucciso con le sue mani il suicida ha qualcuno che piange per lui per tutta la vita, qualcuno che continua a difenderlo dall’assurda situazione in cui si è messo volendo fare qualcosa di impossibile. La tragedia del suicidio resta insormontabile, e il lutto di chi resta invece di essere il processo di superamento di una crisi diventa per chi resta l’assunzione della responsabilità perenne di continuare a difendere chi è morto da se stesso che si è voluto morto. In questo senso il lutto per il suicidio invita a considerare la possibilità che: non solo ci sono i lutti elaborabili sciogliendo i legami che spezzandosi li hanno provocati (i lutti di chi muore di una morte naturale cioè che sarebbe giusto accettare); non solo ci sono i lutti che si possono elaborare solo piangendo per chi non c’è più per tutta la vita (i lutti di chi muore di una morte assurda o prematura); ma ci sono anche i lutti non elaborabili (i lutti per i suicidi), nei quali, piangendo tutta la vita per chi non c’è più e ac298 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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collandosi la responsabilità incancellabile che vi porta, l’uomo dimostra di avere la possibilità di trascendere la tragedia convivendo con essa, tramite un amore per il bene dell’altro talmente disinteressato da accollarsi pazientemente l’inferno in cui il suicidio dell’altro lo ha lasciato.

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Capitolo XV

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Le tecniche di intervento nel lutto: fondamenti teorici

Abbiamo analizzato nel capitolo IX le più accreditate tecniche psicoterapeutiche di intervento nella cura del lutto senza menzionare quelle più in uso attualmente: L’EMDR e le tecniche di “ricostruzione del senso”. Ci limiteremo qui in riferimento a queste ultime ad illustrarene i fondamenti teorici per colmare almeno in parte la lacuna e rimandando a tre testi fondamentali della letteratura (Shapiro1, e Neymeir2). Le tecniche d’intervento nell’assistenza al lutto vengono considerate solitamente da chi le propone come “universalmente valide”, con il rischio di indicarne l’applicazione anche a chi avrebbe bisogno di tecniche differenti per la specificità “antropologica” del suo caso. Queste tecniche, infatti, derivano fondamentalmente nella loro specificità dal modo di concepire l’esperienza psicologica in generale e l’esperienza del lutto in particolare. E, come abbiamo sostenuto, in questo libro, si possono individuare tre diverse “specificità antropologiche (biologica, personale e umana) ad ognuna delle quali corrisponde una diversa concezione dell’esperienza del lutto. I. L’esperienza “oggettiva” L’esempio più chiaro è quello della psicologa americana Francine Shapiro, che ha messo a punto una delle tecniche più usate attualmente nell’assistenza al lutto: l’EMDR o, come l’Autrice stessa preferisce chiamarla, “terapia di rielaborazione”.

1

F. Shapiro, Lasciare il passato nel passato, trad. it. a cura di Isabel Fernandez, Astrolabio, 2012. 2 R.A. Neimeyer, Techniques of Grief Therapy, Routledge. N.Y., London 2016.

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Shapiro, come ribadisce continuamente nei suoi scritti, afferma che tra gli individui ci sono più somiglianze che differenze, tendendo di conseguenza a considerare l’esperienza psicologica sempre la medesima per tutti nei suoi “processi”. Significa che si concepisce l’esperienza del lutto come un’esperienza “oggettiva” ovvero come il risultato dei modi in cui le strutture cerebrali la registrano e la immagazzinano mnemonicamente. L’esperienza del lutto, in sostanza deriverebbe da qualcosa di “oggettivo” (la morte di una persona cara, la cessazione delle sue funzioni vitali, il suo cadavere, etc.),che viene interpretata dal cervello come “perdita dolorosa” in base al modo in cui viene registrata e immagazzinata nelle reti neurali. Da questo momento il fatto oggettivo della morte viene “rappresentato” da chi ne fa esperienza come un ricordo “elaborato” come una “perdita dolorosa”, accompagnata da tutte le possibili sequele sintomatologiche dell’esperienza sempre dettate dal cervello. Tale “rappresentazione oggettiva” del lutto verrebbe collegata inconsciamente, nota Shapiro, alle reti neurali cerebrali in cui sono registrate e immagazzinate le altre esperienze del soggetto in modo da determinare (il cervello sarebbe come “programmato” per questo scopo) una “composizione adattiva” delle esperienze, cioè congegnata in modo da non mettere in pericolo la sopravvivenza e produrre benessere. Si tratta, come si può constatare attraverso i resoconti dei casi pubblicati da Shapiro (1), di una modalità biologica di determinare, elaborandola, l’esperienza del lutto,esperienza che si può effettivamente osservare in tanti lutti il cui scopo evidente è di non mettere in pericolo la sopravvivenza e il benessere di chi resta. Sempre Shapiro (1) pensa, coerentemente con questa prospettiva biologica, che quando un lutto mette in pericolo sopravvivenza e benessere di chi è in lutto (ad esempio quando non si riesce a tornare a vivere perchè si soffre troppo per la perdita e si può concepire anche la possibilità di togliersi la vita; oppure quando si è oppressi da sentimenti di rabbia e colpa che tolgono il benessere), il ricordo dell’esperienza non è stato sufficientemente “elaborato” (perchè c’è una disfunzione cerebrale o perchè il lutto è traumatico, cioè sempre per cause “oggettive”),il che significa che il cervello non è riuscito a registrare e ad immagazzinare l’esperienza in modo adattivo cioè senza mettere in pericolo la sopravvivenza e il benessere. E se il ricordo non è “elaborato” esso viene riattivato da 301 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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esperienze “trigger” di natura simile (ad esempio un altro lutto) ed è necessario fornire al cervello un supporto perchè questa sorta di “elaborazione” avvenga e il ricordo negativo venga immagazzinato in modo più adattivo. La tecnica che Shapiro ha proposto con queste basi teoriche è propriamente l’EMDR o “terapia di rielaborazione” come la stessa Autrice la denomina. Shapiro e i suoi allievi l’hanno messa a punto negli anni a partire dall’osservazione casuale dell’Autrice della concomitanza tra i movimenti oculari rapidi attuati durante una corsa o un viaggio in treno e la scomparsa di un pensiero assillante.Si è fatta notare anche, in seguito, un’analogia tra l’EMDR e la supposta funzione del sonno REM (Rapid Eyes Mouvement) che si sostiene abbia proprio la funzione di rendere, grazie ai movimenti rapidi degli occhi, più adattiva l’elaborazione cerebrale delle esperienze quotidiane. La tecnica, per il cui approfondito studio rimandiamo alla letteratura specialistica, funziona pressappoco così: - Se la persona in lutto elabora autonomamente l’accaduto nel modo adattivo a cui l’attività cerebrale è preposta, supera il lutto, cioè vi sopravvive con relativo benessere, e lo psicologo non propone la terapia di rielaborazione con l’EMDR; - Se il lutto è traumatico o per qualche ragione intrinseca al funzionamento cerebrale (anche geneticamente determinata) l’elaborazione adattiva non viene attuata e si manifestano sintomi di malessere che inducono a chiedere aiuto allorché una nuova esperienza dello stesso tipo di quella non elaborata fa soffrire si propone l’EMDR; - Il terapeuta individua con un’accurata anamnesi l’esperienza che ha scatenato il malessere nel presente, facendo l’ipotesi che si tratti della conseguenza di un ricordo non elaborato in modo adattivo che si attiva di fronte ad un’esperienza simile; - Con un certo numero (anche una sola) di sedute di movimenti oculari rapidi guidati o di tecniche assimilabili, si cerca di indurre una modificazione delle reti neurali risalendo al ricordo negativo non “elaborato”, collegandolo così alle reti neurali di registrazione e di immagazzinamento mnemonico di altri ricordi positivi della stessa esperienza ma immagazzinati separatamente e in modo adattivo; - La situazione si risolve nel senso di poter ora collegare il ricordo dell’evento (il lutto) sperimentato come negativo e disadattante con i ricordi positivi dello stesso evento, ripristi302 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nando il tal modo l’adattamento (sicurezza di sopravvivere e benessere).

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II. L’esperienza “soggettiva” L’esperienza del lutto può essere esperita da altri (coloro che si identificano prevalentemente come “persone”) come “esperienza soggettiva”. Significa che la “rappresentazione” dell’esperienza del lutto, oltre che derivare da come l’evento viene registrato e immagazzinato nelle reti neurali come se fosse “qualcosa” che esiste a prescindere da chi ne fa esperienza, può derivare in modo prevalente dal modo in cui chi la vive soggettivamente la “prende” o, meglio ancora, da come “assimila” il fatto a sé, rappresentandoselo, più che come un processo di immagazzinamento nella memoria, in base ai simboli e alla metafore che sceglie per farlo suo, per interiorizzarlo come parte di sè, vissuto o modificazione del suo essere stesso. In altri termini, ora l’evento luttuoso non sarà più qualcosa di oggettivo a cui adattarsi per sopravvivere e stare bene ma da adattare a sè, da assimilare, al proprio modo d’essere. Ad esempio oltre ad interpretare la morte del caro come una perdita che mette in pericolo la mia sopravvivenza e il mio benessere, la posso interpretare prevalentemente come qualcosa che rischia di cambiarmi e che devo cambiare per restare me stesso. Il lutto diventa,ad esempio, qualcosa che mi rappresento come tormentoso e posso sognarmelo come un “mostro” che mi assale quando mi sento in colpa verso il morto o sono arrabbiato con lui,temendo più che di perdere la vita di perdere l’innocenza e potendo vivere solo se supero la colpa e la rabbia. Anche la tomba può essere un modo in cui le “persone” si rappresentano simbolicamente la morte del caro sulla base di come lo sentono dentro di sè: seppellito vivo! Anche nel caso che io esperisca il lutto come esperienza soggettiva da interpretare simbolicamente, posso farcela da solo o avere bisogno d’aiuto quando le situazioni si complicano. Le tecniche di assistenza al lutto saranno ora quelle psicodinamiche, antropologiche, etc dell’intepretazione dei simboli, dei sogni, dei miti e delle espressioni simboliche in genere. Ora nell’aiuto alle persone in lutto non si tratterà più, come abbiamo visto essere nella dimensione biologica, di elaborare dei ricordi di fatti oggettivi aiutando il cervello a richiamarli alla men303 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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te in modo più adattivo, ma di elaborare il significato di simbologie soggettive che sono il risultato dell’assimilazione a sè del fatto del lutto più che dell’adattamento di sè al fatto del lutto. All’origine della sofferenza di chi è in lutto c’è ora la difficoltà di rappresentarsi simbolicamente, assimilandola a sé, l’esperienza del lutto, che, in questa ottica, consiste nel gestire la “presenza” simbolica in sè della persona defunta più che il suo ricordo. Ora prevale nella rappresentazione il modo di rappresentarsi il fatto (perdita, cadavere,etc.) come qualcosa che pur avendo una sua esistenza autonoma vive prevalentemente nell’assimilazione simbolica a sè di chi la vive soggettivamente. Siamo passati da un significato del lutto che è adattivo oggettivante biologico, ad un significato che è assimilatorio-soggettivante-personale. Possiamo ora distinguere su questa base in che senso e in che misura le tecniche costruttivistiche3 e sistemiche4 che vengono proposte nell’assistenza al lutto come “ricostruzione” dei significati che si perdono col lutto, siano rivolte alla ricostruzione di significati adattivi-oggettivanti-biologici o di significati assimilatorisoggettivanti-personali. Con la positiva conseguenza di superare una possibile confusione tra le due dimensioni alla base di tanti insuccessi terapeutici che non si avvedono di fare proposte tecniche di assistenza a chi è in lutto non correlate al bisogno specifico della “ricostruzione” di senso (adattivo nel caso degli esseri biologici e assimilatori nel caso degli esseri personali). III. L’esperienza intersoggettiva L’esperienza del lutto può essere infine esperita come esperienza intersoggettiva, cioè nè come fatto oggettivo a cui adattarsi per non morire e non soffrire a propria volta, né come il risultato di un’interpretazione simbolica di un fatto che senza questa rappresentazione resterebbe solo qualcosa a cui adattarsi per non morire e non soffrire e non qualcosa che ha senso per chi la vive nel modo in cui la vive. C’è infatti anche chi nel lutto avverte che la dimensione della 3 4

R.M. Solomon, Lutto e EMDR, Raffaello Cortina, Milano, 2022. J.W. Nadeau, Families making sense of death, Sage pubblication, 1998.

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relazione con chi non c’è più non può essere ridotta né all’adattarsi ad una perdita né ad assimilare a sé simbolicamente chi è morto per non pagare, per vivere e non soffrire, il prezzo di relegarlo nel ricordo. Comunque si ricordi, infatti, il morto per adattarsi alla sua fine (cioè che sia elaborato o non elaborato cerebralmente il suo ricordo), e comunque si simbolizzi la sua fine per assimilarla alla vita di chi resta (per renderla una presenza costante nel sé), restano il desiderio impossibile di vanificare la morte del caro sostituendolo e quello altrettanto impossibile di farlo tornare in vita rappresentandoselo simbolicamente. Appare attraverso questi desideri l’impossibilità di ricordarsi com’era il morto veramente (nell’insieme l’insieme dei bisogni che poteva soddisfare e dei desideri che suscitava per la sua imperfezione) e l’impossibilità di farlo resuscitare per farlo partecipare al futuro in presenza (è possibile solo simbolicamente dentro di sé o per fede nell’aldilà). Con due semplici conseguenze: il passato non è rimemorabile né trasformabile in presenza attuale e il futuro si può prendere di mira solo nell’orizzonte del desiderio. Lo dimostra il modo di esperire l’esperienza del lutto come esperienza del trauma (che è precisamente ciò che si esperisce prima di sapere cos’è): non si può infatti scordare e ricordare per scelta, né far rinascere ciò che si esperisce, non sapendo cosa sia. In sostanza la morte del caro, quando si continua a desiderarlo e a desiderare la sua vita non è rappresentabile attraverso il ricordo (che al massimo funziona da palliativo), né rappresentabile attraverso i simboli che consentono di assimilarlo a sé (al massimo se ne può sentire la presenza nelle emozioni del cuore ma non si potrà abbracciare e si continuerà a desiderarlo), e il futuro senza di lui non è immaginabile né attraverso i ricordi elaborati dal cervello né con qualche poetica metafora. L’unica cosa che può farci superare la barriera del passato smemorabile immemorabile, del presente illusorio e del futuro sempre avenire, è il desiderio umano di chi non smette mai di desiderare i propri cari morti pur sapendo che potrà solo continuare a desiderarli all’infinito. Abbiamo visto (cap. X) illustrando il caso di una madre che ha perso un figio, come esperire il lutto in questo modo possa costituire la “risorsa” prettamente umana per elaborare all’infinito un lutto “impossibile”. Dirò per concludere, che sappiamo ormai che i tre modi di esperire l’esperienza del lutto (oggettivamente, soggettivamente e inter305 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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soggettivamente) sono tutti tre compresenti in ogni lutto cosrrispondendo alle tre modalità esistenziali (biologica, personale ed umana) che caratterizzano il nostro essere nel mondo. Ne consegue che le tecniche di aiuto al lutto dovrebbero essere calibrate sulla prevalenza della modalità di legame corrispondente (attaccamento-adattamento, assimilazione, approssimazione) di volta in volta rilevata in ogni lutto particolare evitando così di proporre a tutti, come oggi si tende a fare stadardizzando l’aiuto, la medesima modalità di aiuto. Significa più semplicemente, che: I. Le tecniche (come l’EMDR e quelle di ricostruzione dei significati)che sarebbero in grado di modificare il modo di immagazzinare l’esperienza oggettiva del lutto nelle reti neurali rendendola piàù adattattiva vanno bene quando in chi è in lutto prevale lo scopo esistenziale dell’essere biologico: sopravvivenza e benessere; II. Le tecniche di interpretazione simbolica (cap.X) per rendere più efficace l’assimilazione soggettiva a ciascuna persona della sua esperienza soggettiva del luttto, vanno bene quando in chi è in lutto prevale lo scopo esistenziale degli esseri personali: essere se stessi!; III. Le tecniche (che forse non si possono neanche chiamare tecniche perchè sono da inventare di volta in volta) tendenti a favorire il desiderio del bene di chi non c’è più come desiderio puro e disinteressato che apre l’infinito, vanno bene per chi avverte una prevalenza nel lutto del desiderio del bene per chi non c’è più e non del proprio,cioè quando lo scopo esistenziale è mantenere la relazione col caro anche quando non c’è più.

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Conclusioni

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Premessa La problematica del lutto per la morte di una persona cara che abbiamo affrontato nel corso di tutta la trattazione precedente, richiama un tema più generale nel quale rientra e che illumina: il tema della separazione, come processo psichico considerato in tutte le sue accezioni e corrispondenti ciascuna a una differente situazione della vita, e come tema che sfugge alle tematizzazioni1. È per questa ragione che il modo più opportuno di concludere un libro sul lutto ci è sembrato quello di riprendere tutte le tematiche specifiche trattate, riconsiderandole alla luce delle dimensioni esistenziali della separazione. Il nesso tra lutto e separazione ci consentirà tra l’altro di indicare il naturale sbocco delle ricerche e delle riflessioni del presente libro: affrontare il problema di come una persona consegue nelle varie situazioni di crisi della vita quel grado di “separazione” che può consentirle di superare tali crisi, nel senso della crescita piuttosto che nel senso della regressione e della nevrosi. Separarsi È largamente condivisa nel contesto culturale contemporaneo l’idea che l’unità sia uno stato originario e la separazione uno stato secondo. 1

E. Lévinas (Altrimenti che essere, cit.) sostiene che è proprio l’irreparabile “separazione” dell’Io dall’altro a farci intravedere che oltre ad affrontare l’altro facendolo diventare “tema” di indagine conoscitiva, possiamo “affidargli” un significato che deriva dal renderci responsabili nei suoi confronti “prima” di sapere chi mai l’altro sia.

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La mia ipotesi è che si tratti di un luogo comune derivato dal pregiudizio antidialettico secondo il quale per conciliare gli opposti bisogna far derivare uno dei termini dell’antinomia dall’altro termine supposto dominante. Così, ad esempio, l’opposizione vita-morte potrà essere superata considerando la vita come un antecedente più ampio e “comprensivo” da cui la morte deriverebbe come temporaneo e reversibile cedere della vita. Come pure si potrà superare l’opposizione maschile-femminile (che implica, tra l’altro, l’opposizione padre-madre) facendo derivare il femminile dal maschile (Eva deriva dalla costola di Adamo), oppure il maschile dal femminile (l’elemento originale essendo una qualche mitologica Grande Madre o più modernamente Madre natura). Ma come si forma e si consolida il pregiudizio per cui la separazione deriva dall’unità senza che l’unità implichi una precedente separazione? Per tentare di rispondere a questa domanda bisogna riferisi al linguaggio ed ai vissuti. Al linguaggio: per cui unità è sinonimo di conciliazione e separazione sinonimo di diversità e contrasto. Ai vissuti: per cui unità equivale a senso di integrità e separazione a senso di mancanza. Esempi di quanto il rapporto “gerarchico” istituito dal senso comune tra unità e separazione possa essere radicato nell’esperienza vissuta, sono i seguenti: I. prima di nascere ciascuno è “unito” alla madre in perfetta e felice (dicono) simbiosi, e la nascita stessa può essere concepita (come l’ha concepita, ad esempio, O. Rank)2 come un trauma che spezza l’unità simbiotica dando luogo alla vita separata dell’individuo singolo, il quale vivrà sempre alla ricerca dell’unità e della felicità perduta, dato che la nascita stessa ha inaugurato nella psiche una sequela di vissuti di mancanza, incompletezza e limite che sarebbero la fonte stessa dell’infelicità e del patire umani; II. nell’amore sembra realizzata una forma di unità che, se non è così simbolica e perfetta come quella dell’unione con la madre nella vita intrauterina, determina un abbatti2 O. Rank, Il trauma della nascita, (trad. it. a cura di F. Manchiaro), SugarCo, Milano 1990.

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mento delle barriere che separano l’Io dall’Altro, i quali amandosi vivono in una tale “prossimità” da poter “sentire” come superata la separazione (e i relativi vissuti di mancanza e limite) che la morte aveva inaugurato. Ma l’amore può finire od essere troncato dalla morte, e l’individuo rivive le lacerazioni dell’essere che non è più unito, dell’essere separato, rivive nel “lutto” quel dolore che è propriamente il dolore della separazione. Proprio sulla concezione della nascita come “separazione infelice che interrompe un’unità felice” si basa l’idea freudiana per cui la tendenza principale dell’essere è di tornare allo stato precedente (allo stato di indistinzione e di unità con la madre o con un suo sostituto simbolico come potrebbe essere la Madre Terra). Più in generale Freud è arrivato a sostenere che lo scopo stesso della vita è la morte, cioè lo stato di costanza e di quiete che antecede la “nascita” della vita. D’altra parte, se condividiamo la concezione dell’Amore come una sorta di restaurazione dell’unità anteriore alla nascita, di fronte alla perdita di una persona cara (per la fine di un amore o a causa della morte) non ci resterà che cercare una via per tornare ad amare (nelle diverse accezioni che abbiamo già analizzato), cioè per restaurare, nell’unico modo possibile per chi è già nato, l’unità tra l’Io e l’Altro che la separazione o la morte hanno infranto. Se così stessero le cose, avrebbe ragione F. García Lorca quando afferma: “El peor delito es haber nacido”. E la nascita stessa, con la conseguente separazione tra la vita dell’Io e la vita dell’Altro, sarebbe la dimostrazione inconfutabile del fatto che la natura è una perfida matrigna, che ci sottrae con la nascita allo stato beato della simbiosi con la madre e che, quando crediamo di aver superato l’infelicità dell’esser nati nell’unione amorosa, ci insinua (col decadimento fisico e l’esperienza della morte altrui) la consapevolezza che il tempo a nostra disposizione per amare è limitato e ci attende un’altra dolorosa separazione da noi stessi e da coloro che amiamo, la separazione della morte. Di fronte a questa catastrofica conclusione l’uomo va in crisi e si sforza di trovare una diversa soluzione. Si tenta allora la via della dialettica e si comincia a ragionare così: supponiamo che non solo sia vero che per separarsi bisogna prima essere stati uniti, ma che anche per unirsi bisogna prima essere stati separati; che, cioè, il rapporto tra unità e separazione non sia un rapporto gerarchico bensì un rapporto dialettico. 309 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Riprendiamo ora sulla base di questa supposizione i due esempi che abbiamo fatto e chiediamoci: a) quale separazione implica l’unità simbiotica madre-bambino?; b) quale separazione implica l’unità amorosa tra l’Io e l’Altro? L’unità simbiotica madre-bambino implica la separazione maschile-femminile che solo trasformandosi nell’unità dell’Amore dà luogo alla simbiosi madre-bambino. L’unità amorosa tra l’Io e l’Altro, d’altronde, implica la separazione tra due esseri estranei e anonimi (Io-Altro, maschio-femmina) che solo unendosi nell’amore possono pervenire all’unità della prima persona plurale, il Noi che caratterizza l’amore. In questa visione dialettica, non solo ogni separazione implica una precedente unità e ogni unità una precedente separazione, ma tutte le volte che si passa dall’uno all’altro dei due termini, il primo non scompare annullato nel secondo ma permane ad un livello superiore. L’unità simbiotica madre-bambino implica la separazione maschile-femminile, ma questa separazione non si annulla nella unità madre-bambino, dato che, dal momento in cui l’unità madrebambino si è stabilita la separazione maschile-femminile permane nella separazione di livello superiore (superiore perché implica l’unione madre-bambino) che è la separazione padre-madre. Lo stesso dicasi per l’unità del Noi che si stabilisce nell’amore: l’Io e l’Altro non sono più separati in quanto tali ma permangono separati in quanto Io-Tu; prima erano due “Egli” separati che non potevano formare insieme un Noi, poi l’amore li unisce, ma nella “Noità” dell’amore permane una separazione di livello superiore che è la separazione Io-Tu propria della pluralità della prima persona plurale. Non altrimenti stanno le cose se viste dalla prospettiva della separazione: quando un’unità si spezza, nella separazione permane l’unità ad un livello superiore. Infatti: 1) nasco e mi separo dall’unità madre-bambino ma nel mio essere separato sono “figlio” di mia madre e mio padre, condivido qualcosa dell’unità che si è formata cioè “unifico” la separazione madre-padre; 2) l’amore finisce o l’amato muore, l’unità del Noi è spezzata, ma io non sono più solo separato (e unito) come “figlio”, cioè come chi si è separato nascendo solo da sua madre, ma come chi può continuare ad approssimarsi all’Altro e unirsi con lui non solo per necessità ma anche per scelta e desiderio. Cioè io, ora, proprio perché mi sono separato da chi ho amato, 310 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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da colui al quale mi ero unito liberamente, posso continuare ad amare sia chi non c’è più sia chi verrà: solo potendosi separare si dimostra che non c’era “obbligo” nell’unirsi. Se questa concezione dialettica del rapporto unitàseparazione ci convince, la nostra visione delle cose non sarà più così tragica: ora la nascita sarà sì una separazione ma proprio quella separazione senza la quale non ci sarebbe amore; ora la fine dell’amore e la morte dell’amato saranno sì separazioni dolorose che danno luogo a gravi “perdite”, ma sono proprio quelle separazioni e quelle perdite senza le quali non ci sarebbe crescita (è quando l’amore finisce che ci è possibile valutarne appieno valori e limiti e constatare che l’amore finisce tanto più facilmente quanto più è imperfetto, quanto meno è maturo) né vita (nessun amore sarebbe più fecondo, non nascerebbero più figli, se l’Io e il Tu del Noi non morissero mai: semmai, il problema non è che l’amato muore, ma che muore sempre troppo precocemente rispetto alle potenzialità di crescita dell’amore: quanto vecchio dev’essere un genitore perché l’amore che lo lega ai figli abbia espresso tutte le sue potenzialità? Quanto vecchia dev’essere una persona amata quando muore perché l’unità del Noi che ci lega abbia colmato l’abisso che separa un Io da un altro Io?). Possiamo renderci conto ora che separazione e morte non solo rappresentano il tragico dell’esistenza ma sono anche “giuste”. In altri termini ora potremo sostenere che è giusto separarsi quando l’amore finisce, che è giusto morire quando la vita si è esaurita. Separazione e morte quindi oltre ad essere “necessità” dolorose e inaccettabili (il male e il brutto dell’esistenza) devono essere considerate alla stregua di implicazioni dell’amore e della vita, amore e vita che sarebbero impossibili senza separazione e morte: la vita dei figli sarebbe impossibile senza la morte dei genitori, l’amore sarebbe impossibile senza la separazione della nascita. Ma perché, ci si potrebbe chiedere allora, l’amore finisce e la vita si esaurisce? L’amore finisce perché la vita non è eterna e la vita si esaurisce perché l’amore è eterno. Infatti, solo se la vita fosse eterna l’Io e il Tu potrebbero continuare ad approssimarsi l’uno all’altro all’infinito e colmare la distanza infinita che li separa perfino nell’unità sublime del Noi che è l’amore. Essendo la vita limitata nel tempo, l’unico modo che hanno l’Io e il Tu di continuare ad approssimarsi oltre la morte è di unirsi dando luogo ad un altro essere, che è figlio di entrambi e 311 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gli può consentire di continuare ad amare nell’unità dei Noi che, a sua volta, costituirà con altri nella sua altrettanto breve vita. D’altra parte, la vita si esaurisce perché l’individuo è sempre “figlio” di qualcuno, non si genera da sé ma è generato. E chi non si è generato da sé è necessariamente mortale, altrimenti sarebbe immortale, potendosi sempre rigenerare, come si è generato la prima volta. La vita individuale è il risultato dell’unione nell’amore di due esseri separati che sono stati generati a loro volta nello stesso modo: come non supporre allora che ogni vita sia un breve capitolo di una storia più lunga, forse eterna e infinita, la storia dell’amore? Si comprende come qualcuno possa aver pensato che Dio sia Amore. Ma chiunque sia Dio, o che la vita umana sia o meno il capitolo provvisoriamente finale di una lunga e casuale linea evolutiva, l’uomo sa che non si è fatto da sé, altrimenti si sarebbe fatto perfetto e immortale. L’uomo si sente “figlio”, anche se può sentirsi figlio di una Natura eterna e immortale che porta in sé ab initio il germe della vita (una specie di madre che non ha bisogno di padre, cioè di essere fecondata per generare), oppure figlio di un artefice, un Dio, che col suo “soffio” ha fecondato la materia bruta (una specie di padre che ha solo bisogno di una madre così come la forma ha bisogno della materia per manifestarsi). Sarebbe un ulteriore esempio del tentativo di eliminare uno dei due termini di un’antinomia (l’antinomia padre-madre) facendo prevalere l’altro termine: siamo figli di Madre Natura e siamo come siamo per evoluzione spontanea della materia, oppure siamo figli di Dio-padre (per il soffio vitale che ha infuso all’argilla con cui ha modellato Adamo). Forse ancora una volta l’impostazione più giusta è quella dialettica, comunque sia è certo che l’uomo non si è fatto da sé, non è nato per sua decisione ma si “ritrova” a vivere, la vita gli “arriva” da qualche parte senza che né la Natura né Dio (o chi per loro) gli abbiano chiesto se la voleva; e gli arriva come vita separata, vita di “figlio”, cioè vita che non è stata sempre nella condizione della separazione e perciò porta in sé la potenzialità dell’unità. Ora che sappiamo perché l’amore finisce e perché la vita si esaurisce (ora cioè che sappiamo il massimo che possiamo sapere) possiamo dedicarci a realizzare al massimo le possibilità dell’Amore fino alla morte e oltre. Nel rapporto con l’amore e con la morte l’uomo incontra l’Infinito, dato che non ci si può mai approssimare ad un altro tanto da 312 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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fondersi con lui. Si può: a) mettere al mondo un figlio che è un’unione dei due che si amano ma è anche un Altro; b) assimilare l’Altro a sé fino ad ucciderlo e nel momento in cui lo si uccide perderlo; dato che non ci si avvicina mai tanto alla morte da viverla interamente (quando muore una persona cara muore una “parte” di me, quando muoio io il morire è pur sempre un vivere e io resto vivo fino all’ultimo istante). Significa che si può amare all’infinito e morire all’infinito. Non si finisce mai di amare (e di nascere), non si finisce mai di morire. Ed è in questa idea dell’infinito in noi che è la chiave del carattere precipuo dell’umano, la trascendenza. Vuol dire che posso essere separato da te e desiderarti, andare oltre me verso di te, e desiderarti è possibile all’infinito, poiché il desiderio, diversamente dal bisogno, quando si realizza non produce soddisfazione ma altro desiderio. Vuol dire, tra l’altro, che posso continuare a desiderarti all’infinito anche quando non ci sei più: così come posso desiderare di vivere all’infinito fino all’ultimo istante, e perfino prefigurarmi un aldilà eterno. Conseguenze: un Io che resta legato ad un Tu quando l’amore è finito, cioè quando non si desidera più approssimarsi all’altro per approfondire il Noi, è un Io che muore prima del tempo, che resta prigioniero della sua separatezza, che non riesce più a trascendersi oltre sé verso l’Altro nell’amore. E ciò accade perché prevale la dimensione del bisogno, cioè l’Io tiene legato a sé il Tu, che è ormai un Egli quasi anonimo, perché questo Egli soddisfa i suoi bisogni materiali, i suoi bisogni di sopravvivenza. In altri termini, spesso nel mondo umano accade come nel mondo animale: il maschio più forte tiene legata a sé la femmina e perciò riesce a riprodursi. Il figlio non è figlio dell’amore; il figlio è cucciolo d’uomo, risultato anonimo di una “tecnica” di sopravvivenza della specie. Ma il più delle volte l’individuo umano non si identifica con la specie, e accetta di farne parte, cioè di morire perché essa viva, solo se riesce a “prolungare” la sua vita oltre sé, ad esempio tramite i figli, che sono ora il frutto dell’amore fecondo, cioè dell’unione di due opposti che superano la loro separazione e accettano la loro morte perché vivono nel figlio come padre e madre (il figlio è il padre e la madre oltre ad essere un altro), al di là di loro stessi. E quando tra gli uomini qualcuno tiene legato a sé qualcun altro per farne strumento della soddisfazione dei suoi bisogni, egli lo “uccide”, lo condanna a restare separato, poiché per tornare ad 313 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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essere unito nell’amore chi non ama più deve separarsi da chi lo tiene legato a sé per soddisfare i suoi bisogni. E la reazione di chi è ridotto a strumento dei bisogni altrui è il tentativo più o meno subdolo di “uccidere” a propria volta. Sono i rapporti in cui si ingaggia una guerra a morte per la sopravvivenza e l’unica cosa che unisca i contraenti di questo tipo di rapporti è ciò che unisce i nemici tra loro: l’intento di uccidersi o il piacere di vedersi morire. In altri termini, quando l’unione dell’amore è fallita e si è di fatto separati, bisogna separarsi anche di diritto, per non uccidersi, per non farsi una guerra a morte, perché l’Io non faccia una guerra a morte al Tu che è ormai un Egli e perché possa ricercare l’unità del Noi con altri Tu. Solo chi ha rinunciato all’amore non si separa quando l’amore è finito, solo chi ha scelto la guerra come inevitabile tra coloro che non riescono ad unirsi resta legato a chi non ama più, rinunciando così a percorrere ancora un po’ di cammino nell’infinito approssimarsi all’altro. Non si parlano più, non si toccano più (non possono più farlo) ma continuano a vivere insieme: per uccidersi o per vedersi morire! Fa meraviglia che la Chiesa cattolica non si avveda di ciò e sostenga spesso le unioni di fatto anche quando l’amore non c’è più o non si fa più. Salvo poi esortare a non odiarsi e a non uccidersi. Come non avvedersi che la pace tra coloro che non riescono ad unirsi si basa proprio sulla possibilità di separarsi? Un altro punto va sottolineato, riprendendo la tematica della responsabilità a cui più volte abbiamo fatto riferimento in questo lavoro: spesso non si riesce a separarsi perché si ritiene insopportabile la responsabilità incedibile di assumere sulle proprie spalle il peso della vita, talché si finisce per preferire una situazione di guerra endemica ad una situazione che implica una quota più o meno grande di solitudine. Basterà ricordare a questo proposito che la responsabilità è la condizione della libertà: non si può cedere a nessuno la propria responsabilità di esseri separati che solo nell’amore possono trovare per il breve tempo della vita la possibilità dell’unione, ma proprio questa responsabilità fonda la libertà. In sintesi è giusto separarsi quando l’amore è finito, non per sancire l’impossibilità dell’amore, ma per separarsi pacificamente da chi non si ama più e potersi unire responsabilmente e liberamente nell’amore con “Altri”. 314 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Quando dobbiamo morire o quando muore una persona con cui eravamo in un rapporto d’amore, una persona cioè che desiderava soddisfare i nostri bisogni mentre noi desideravamo soddisfare i suoi in un reciproco approssimarsi all’infinito, è giusto separarsi da chi muore e lasciarlo morire non rimproverandogli di averci lasciato. Non perché sia bello o sia bene avere un lutto, ma perché l’amore non può vincere la morte, basandosi al contrario la sua infinitezza sulla morte del singolo. E ci avvedremo, così, che neanche la morte può vincere l’amore, poiché non appena la morte interrompe un amore si apre la possibilità di altri amori, i quali, lungi dall’essere una sostituzione del primo, ne costituiscono una continuazione e un perfezionamento. Nell’amore adulto, ad esempio, viene a compimento l’amore infantile, passando per la separazione “giusta” dai genitori. Chi ci amava ci poteva amare finché era vivo, ma egli però non voleva lasciarci, desiderava restare unito a noi, ora ci è stato tolto. La morte, l’abbiamo già detto, è sempre un’assassinio, è sempre ingiusta e prematura, ciò che è giusto è accettarla dopo che è avvenuta. Dopo che è avvenuta ci rendiamo conto, tornando ad amare, che essa è la condizione dell’amore infinito. Resta l’ombra dell’assassinio: ora che amiamo altri capiamo che è proprio la morte di coloro che amavamo prima la condizione di questo nuovo e più maturo amore, ma l’assassinio reclama giustizia: c’è qualcuno che voleva restare ed è stato portato via, qualcuno, colui che è morto, nei cui confronti è stata commessa una grave ingiustizia, l’ingiustizia della morte. L’assassino però è la vita stessa del figlio che per essere implica la morte del genitore. Le teorie del lutto che abbiamo analizzato non tengono in gran considerazione questo debito che per tornare a vivere bisogna pagare: fare giustizia ai morti! La psicoanalisi suggerisce di far vivere il caro dentro di noi, ma deve pagare il pesante prezzo consistente nell’attribuire un maggior valore al mondo interno rispetto al mondo esterno, cioè il prezzo di un’alienazione dalla sensibilità materiale (l’altro, anche quando è vivo, vive ed è amato perché vive dentro di me e la sua vita esterna è una “proiezione” della sua vita interiore: possiamo superare il lutto perché non c’è bisogno che l’altro sia fisicamente fuori di me, basta che sia “parte” di me). Secondo le teorie cognitivo-evoluzionistiche possiamo allentare il legame che avevamo con la persona cara morta e “sostituirla” quale “strumento” di soddisfazione dei nostri bisogni, mediante 315 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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una riorganizzazione dell’ambiente di vita basata sull’informazione che questa persona non c’è più e che altri possono sostituirla. E per questo pensiamo di non commettere alcuna ingiustizia nei confronti di chi muore, seguiamo soltanto una legge di natura, la legge della sopravvivenza, così come si configura nella specie umana in seguito allo sviluppo delle funzioni cerebrali superiori. Il prezzo che paghiamo in questo caso è il prezzo di un’alienazione della nostra possibilità di trascendenza: ora, infatti, l’uomo è completamente determinato dal quadro ambientale ed evolutivo dei bisogni specifici senza alcuna responsabilità e libertà; ora il rapporto Io-Tu è ridotto al rapporto tra un soggetto di bisogni e un oggetto di soddisfazione. La teoria storicistica del lutto indica come scopo del lutto il “far morire i nostri morti in noi” e “il farli passare nel valore”, ricollegandosi ai valori collettivi storicamente costituiti allo scopo di impedire che la “presenza” ricada nello stato di natura tutte le volte che la morte la minaccia. Il prezzo che si paga è il prezzo di una separazione netta tra il mondo dei morti e quello dei vivi, ottenuta relegando i morti nelle tombe e abbandonandoceli (via dalle tombe!). Si dimentica qui che il morto non è anonimo, che egli non è solo una minaccia per la storia e i suoi valori, ma è colui che unendosi a me nell’amore mi aveva consentito di vincere la separazione della mia nascita e aveva tentato di vincere la sua. Non basta quindi tenerli a bada i morti, con efficaci rituali collettivi (il pianto rituale antico ne è un esempio) perché non ritornino e mettano in pericolo il valore di ciò che la storia ha costruito: e non basta perché l’amore, l’unione di un Io e di un Tu nel Noi dell’amore, non deriva dalla storia, o almeno bisognerebbe dimostrarlo, dato che la storia appare come la vicenda della forza e del potere più che quella dell’amore. In ambito fenomenologico si possono trovare due possibilità: a) se consideriamo la noità come acquisibile una volta per tutte nella sua “perfezione”, temporalizzeremo l’esistenza nella noità in modo che ogni istante sia eterno e “annulleremo” la morte; b) se gerarchizziamo adialetticamente l’antinomia Io-Altro dando sempre la prevalenza all’Io nel rapporto con l’Altro (l’altro è sempre un alterego), la morte dell’altro si potrà superare facilmente in quanto è sempre l’Io che vi attribuisce un valore, in base alle sue modalità esistenziali e alle sue leggi trascendentali di conoscenza e costituzione del mondo. Il prezzo che si paga in questo caso è appunto una ricaduta in una gerarchizzazione antidialettica per cui il problema stesso del316 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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la morte sembra diventare un problema del soggetto che “domina e costituisce” e non, come invece è sommamente nel caso di morire, un problema del soggetto che “subisce” un’ingiustizia. In questo libro abbiamo suggerito un’altra possibilità: possiamo sfuggire alla falsa alternativa tra il tenere in vita i nostri morti e l’espellerli come se non ci fossero mai stati, separandoci da loro in pace, cioè rinunciando a ciò che non ci possono più dare (la soddisfazione dei bisogni che ci soddisfacevano) ma continuando a dargli ciò che non possiamo togliergli (il desiderio con cui abbiamo continuato ad approssimarci a loro amandoli). Potremo così essere giusti con loro: farli partecipare il giusto alla nostra vita e continuare ad approssimarci a loro, spendendo l’eredità che ci ha lasciato l’averli amati e l’essere stati amati da loro, eredità a cui non è indifferente l’amore che ci unirà ad altri. Ognuno infatti ama in base alla distanza che ha percorso dell’infinito che ci separa ognuno più o meno dall’amore perfetto. Resta, per concludere, da fare un’annotazione sulla differenza che ormai dovrebbe essere chiara tra la separazione per la fine di un amore e la separazione per la fine di una vita. Quando un amore finisce resta solo il bisogno dell’Altro come “strumento” asservito all’Io, e rinunciare a soddisfare questo bisogno è la condizione per tornare ad amare, cioè ad approssimarsi a qualcuno che si unisce a te e soddisfa i tuoi bisogni perché desidera soddisfarli non perché qualcosa lo obbliga a farlo. Senza tale rinuncia si resta insieme per uccidersi o per vedersi morire. Quando una persona amata muore (o muore l’amato Io) resta solo il desiderio dell’altro (o del proprio Io) purificato dalla “vertigine d’infinito” che l’assenza della morte sempre provoca in chi ama. E questo desiderio testimonia della possibilità di unirsi ad altri nell’amore oltre la separazione della morte. Questo desiderio rende possibile continuare a sperare nell’amore, cioè che qualcuno soddisfi liberamente e disinteressatamente (per desiderio) i tuoi bisogni mentre tu fai altrettanto coi suoi. E ciò senza suscitare né la gelosia dei morti né la ripulsa dei vivi, dato che: non può dar fastidio ai vivi un caro che è stato affidato alla morte, cioè che si desidera sapendo che ci è stato tolto e non potrà più soddisfare i nostri bisogni; né può far ingelosire un morto un vivente che non ha preso il suo posto ma ci ama approssimandosi a noi responsabilmente e liberamente cioè da una prospettiva tutta sua. Senza contare che possiamo amare coloro che sono venuti dopo proprio perché abbiamo amato coloro che non ci sono più. Se 317 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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abbiamo cominciato ad amare i nostri genitori e siamo riusciti ad affidarli alla morte, ed a continuare a desiderarli pur non soddisfacendo loro oramai alcun nostro bisogno, potremo amare disinteressatamente (cioè non solo perché soddisfano i nostri bisogni) coloro che incontreremo in seguito. Se i nostri genitori, e i nostri cari morti in genere, ci hanno amati disinteressatamente, cioè non solo perché soddisfacevano i loro bisogni ma anche perché desideravano soddisfare i nostri, saranno morti pensando a noi oltre che a loro stessi e lasciandoci il messaggio che si può continuare ad amare all’infinito nonostante il fatto che non si vive all’infinito, lasciando a chi resta il compito di continuare ad amare senza smettere di amarli.

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Passaggio al di là di questo libro

Nessun libro può essere “finito”, tanto meno un libro come il presente che allude alla possibilità dell’amore oltre la morte attraverso la “sostituzione” incedibile e insostituibile di chi resta rispetto a chi non c’è più. Il desiderio e il bene rivolti a chi è morto e non può più rispondere realizzato attraverso la responsabilità per la sua vita e la sostituzione che ne deriva, si possono rappresentare solo all’infinito cioè attraverso “narrazioni” uniche che possono e devono essere rinarrate restando sempre nuove. Ecco di seguito una di queste possibili “rappresentazioni”, quella dell’autore di questo libro che finchè vivrà spera di poterne fare tante altre anche in altre forme, ispirato dall’ascolto delle persone in lutto a cui ha dedicato e continuerà a dedicare la vita.

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LA TELEFONATA Atto unico

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Soggiorno di casa borghese. Una donna tra i cinquanta e i sessanta siede in poltrona fissando il telefono poggiato sul cuscino accanto a lei come in attesa di una chiamata. Per un bel po’ non succede niente. Si sente il ronzio di un moscone. La donna alza la testa, gira lo sguardo intorno e torna a fissare il telefono. Altri attimi eterni. Il telefono resta sempre muto,ma improvvisamente la donna come in trance alza la cornetta. Pronto? Filippo? Pronto? Pronto! Pronto! Pronto! Pronto! Pronto! (sempre più perentoria) Poi scaglia furiosamente il telefono sulla poltrona,si prende la testa tra le mani e si dispera. Figlio mio, dove sei? Perché non mi rispondi? Dove sei? Dove sei? (singhiozzando) Lo sai che sei tutta la mia vita per me! Eppure non sono pazza. Sei vicino. Ti sento. So che mi chiamerai. Il telefono suonerà e sentirò la tua risata di sempre. Mi chiamerai! Una madre non sbaglia! Si alza, apre la finestra, si siede nuovamente,accende la TV che trasmette la notizia di un padre che uccide moglie e figli e si uccide. Spegne la TV. Si rialza e si mette a guardare le foto incorniciate sulla libreria. Qui avevi sette anni e ti era caduto il primo dente. Ci vuol poco a far felice un bambino. Credevi ancora alle favole. Basta una moneta portata da un topo in cambio di un dente. Hai alzato la moneta come un trofeo e qualcuno ha scattato la foto. C’era ancora tuo padre. È l’ultima foto che hai con lui. Poi c’ha lasciati e sei diventato tutta la mia vita. (pausa) Sei morto a trent’un anni. Perché? Si risiede in poltrona e rimette a posto il telefono. Sembra rasserenarsi e le spunta un lieve sorriso. Poi le sembra che il telefono suoni e alza nuovamente la cornetta. 320 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Pronto? Pronto? Pronto? Filippo sei tu? Pronto? Pronto! Pronto! Pronto! (sempre più perentoria)

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Si affloscia sul divano come una marionetta staccata dal suo filo e la cornetta le cade in grembo. Ora è completamente senz’anima, bloccata nella sua implosione. Lentamente scende la notte e si sente una musica lontana (un requiem). All’alba la donna dorme in posizione fetale abbracciata alla cornetta del telefono. Sogna e ride. Sogna e piange. I singhiozzi la svegliano e si accorge che il telefono è staccato,si dispera e rimette subito a posto la cornetta. Povero Filippo,avrai chiamato la tua mamma tutta la notte. I morti chiamano di notte, proprio quando i vivi staccano il telefono per dormire. Ma io ti ho sentito lo stesso… in sogno. Le mamme non hanno bisogno del telefono per sentire la voce dei figli morti. Povero Filippo, vorresti parlarmi ma non sai come fare. Come faccio a dirti che la tua mamma lo sa che sei ancora qui attorno? Poi le sembra di sentir suonare nuovamente il telefono e rialza la cornetta. Pronto? Sono la tua mamma. Pronto? Filippo? Lo so che sei lì e qualcosa t’impedisce di parlare. Pronto? Pronto? Te ne sei andato? Pronto? Pronto! Pronto! Pronto! (sempre più perentoria) Piange sommessamente rimettendo a posto la cornetta. E subito dopo il telefono suona veramente. La donna sembra incredula e forse è anche un pò impaurita. Esita a rispondere. Si asciuga le lacrime,sospira e lentamente alza la cornetta. Filippo? Riattacca spaventata dalla risposta ricevuta. Il telefono risuona e la donna risponde subito. Niente… Come dovrei stare? Filippo mi manca. Da quando è morto la vita non ha più senso… Lo so che non è morto del tutto. Nessuno lo sa meglio di me. Non l’ho mai sentito tanto vicino. Ma non posso toccarlo e non so più cosa significa sentirlo vicino… No, non è solo un ricordo; sono sicura che vorrebbe dirmi qualcosa e non ci riesce… I morti non possono dire niente? E allora perché non se ne vanno?...Filippo mi chiama al telefono continuamente, mi viene in sogno tutte le not321 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ti, si mescola tra la gente per strada e mi viene così vicino che sento il suo profumo… Se pensi che sono pazza è meglio che non m i telefoni più!... Filippo è più vivo di tutti noi messi insieme!... Non mi puoi capire. Solo Filippo mi capisce e mi sta vicino anche se è morto… Puoi anche non chiamarmi più. Se nessuno mi chiama è meglio, così il telefono resta libero e Filippo mi può chiamare quando vuole… Lo so bene che sei suo padre, ma tuo figlio non ti manca. Lo stai abbandonando da morto come l’hai abbandonato da vivo! Pronto? Pronto? Pronto? Riattacca come se fosse rimasta senza forze. Poi si alza e si avvicina di nuovo alle fotografie. Alza una delle cornici, si tocca le labbra con una mano e stampa un bacio sulla foto. Poi rivolge la parola all’immagine del figlio. Perché fai così? Non sei riuscito a parlarmi e te ne sei andato. Ti sei arrabbiato? Da vivo non facevi mai così. Anche quando qualcosa non ti riusciva o ti facevo arrabbiare non te ne andavi mai. Nemmeno con la malattia e con la morte ti sei arrabbiato. Per vivere ti bastava voler bene a qualcuno. Eri tu l’adulto, non io. Davi tutte le risposte con un sorriso. Ora invece non dici più niente. Perché? Lo so che ci sei. Dove sei, Filippo? Dove sei? Perché non mi rispondi più? Ho bisogno delle tue risposte! Perché non mi dici come faccio ad aver fame in questo momento? Tu non ci sei più e io ho fame! Perché? Rispondimi, Filippo. Perché? Come un automa la donna esce dalla stanza e torna con un pezzo di pane. Si siede in poltrona e accende la TV (trasmettono il “Grande Fratello”). Fa per dare un morso al pane ma le sembra di sentir suonare nuovamente il telefono. Filippo? Finalmente. Pronto? Pronto? Dai, rispondimi stavolta. Non vedi come soffro? Aiutami. Pronto? Non t’arrabbiare. Pronto? Pronto? Pronto! Pronto! Pronto! (sempre più perentoria). Rimette giù la cornetta e guarda il pane. Hai ragione, figlio mio. Hai ragione ad arrabbiarti. Tu sei morto e io ho fame! Tu sei morto e io vivo! Io dovevo morire, non tu! Fa per rimettere a posto la cornetta ma poi se la porta nuovamente all’orecchio come per accertarsi che dall’altra parte ci sia ancora il figlio morto. 322 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Pronto? Ah, sei ancora lì. Perdonami, Filippo, perdonami. Non ho solo fame. È ancora peggio. Da quando non ci sei più nessuno mi ama e io desidero ancora essere amata. Potrai mai perdonarmi? Tu sei morto e io desidero ancora qualcosa per me! Sono un’egoista… come sempre. Io dovevo morire, non tu! Attacca la cornetta e piange. Poi in un ultimo sussulto riparla al telefono.

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Pronto? Ci sei ancora? Lo so che non potrai mai perdonarmi. Ma almeno aiutami,non chiamarmi più. Mi vergogno… tanto. Piange a lungo, poi inaspettatamente si alza in piedi e si mette a ballare ridendo di gioia. Torna verso il telefono, alza la cornetta e senza più sedersi ricomincia a parlare al figlio. Filippo? Ciao… Scusami se non ho capito prima… Ora so cosa devo fare… Poverino! Aspettavi e aspettavi e io non capivo! Se un figlio non può parlare una mamma che fa? Parla per lui! Ricominciamo d’accapo. Tu non mi puoi chiamare e allora ti chiamo io. Ti dico “ciao”, e so che tu, potendo, avresti detto “ciao mamma”. Ma tu non puoi e allora lo dico io per te: “ciao mamma”… Ti chiedo perdono per aver voglia di vivere e di essere amata anche se tu non ci sei più e so che tu, potendo, avresti risposto: “non ho niente da perdonarti, sii felice mamma”. Ma devo dirlo io per te: “non ho niente da perdonarti, sii felice mamma!”… Poi ti chiedo: “e tu? Come farai, tu, a non vivere più?” E so che, potendo, diresti così: “io vivo, mamma, tutte le volte che tu parli di me e vivi per me. Se tutte le volte che non posso rispondere tu mi sostituisci, io vivo. Mi fido di te, so che dirai proprio quello che avrei detto io”. Ma so che devo dirlo io e lo dico: “io vivo, mamma, tutte le volte che tu parli di me e vivi per me. Seure per me, ma non scordarti mai di ridere come ridevo io”. Ma so che tocca a me e lo dirò io: “Mamma, piangi pure per me, ma non scordarti di ridere come ridevo io”. La donna mette a posto la cornetta, alza il telefono e lo sposta dalla poltrona al tavolino del salotto. Poi si mette davanti al grande specchio con la cornice dorata attaccato alla parete dietro la poltrona e si esercita a piangere mentre ride e a ridere mentre piange.

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Finito di stampare nel mese di

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