Il brusio delle città. Le architetture raccontano. Ediz. illustrata 9788820760731, 9788820760748

La città è - come scriveva Victor Hugo - un gran libro di pietra su cui è possibile leggerne la storia, e le architettur

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Il brusio delle città. Le architetture raccontano. Ediz. illustrata
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Copertina
Frontespizio
Copyright
Indice
Le architetture raccontano
Le architetture del potere
Il consenso e la città moderno-industriale
Le architetture fra totalitarismo e democrazia
Il capitale e il Welfare
La stazione ferroviaria, monumento pratico e narrativo della modernità industriale
Il linguaggio delle stazioni
La stazione tra mito e realtà
La stazione domani
Bibliografia
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Città e dintorni 7 Scritti di sociologia, urbanistica e architettura

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Collana diretta da Giandomenico Amendola

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Giandomenico Amendola

Il brusio delle città Le architetture raccontano

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Indice

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Le architetture raccontano

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Le architetture del potere

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Il potere nascosto, dal castello alla città proibita, p. 7; Dal castello al palazzo, il potere barocco, p. 10

15

Il consenso e la città moderno-industriale La città-fabbrica e la città-monumento, p. 16; Le architetture parlano, p. 20

23

Le architetture fra totalitarismo e democrazia Le strategie architettoniche dei regimi totalitari: Hitler e Mussolini, p. 23; Le architetture della democrazia, p. 29

33

Il capitale e il Welfare I simboli del capitale, p. 33; Aeroporti e grandi eventi, p. 42; Le architetture del Welfare, p. 45

49

La stazione ferroviaria, monumento pratico e narrativo della modernità industriale La stazione e la sua gente, p. 51; Le quattro grandi stagioni delle stazioni ferroviarie, p. 54; La grande stazione segno della città capitale dello Stato nazione, p. 55

57

Il linguaggio delle stazioni Il fascino della stazione, p. 58; La stazione nell’immaginario collettivo, p. 63; La stazione e le guerre, p. 71

73

La stazione tra mito e realtà Le folle della stazione, p. 75; La stazione mito, p. 81; La stazione come terra di confine, p. 88

93

La stazione domani La rinascita delle stazioni, p. 94

101 Bibliografia www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Dedicato a Firenze ed a Bari, le mie città, ed agli amici che le rendono preziose

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Le architetture raccontano La città è un rombo lontano in fondo all’orecchio, un brusìo di voci… Documento acquistato da () il 2023/04/27.

(Italo Calvino, Un re in ascolto)

Le architetture parlano, ed hanno sempre qualcosa da raccontare. Sono pochi i critici e gli storici dell’architettura che non abbiano affrontato il problema del linguaggio degli edifici. Sono partiti da angolazioni differenziate, semiotiche, linguistiche, storiciste, ecc. ma hanno tutti raggiunto risultati non molto diversi concludendo che l’architettura trasmette informazioni non semplicemente legate alla propria funzione. E per questo utilizza qualcosa che per comodità definiamo linguaggio. Una porta indica evidentemente la via per entrare o uscire: ma da come è disegnata, adornata o collocata può anche significare tante altre cose. Può parlare di ricchezza, di potere, di sacralità, di divieti e di tanto altro ancora. Le colonne, probabilmente, malgrado il desiderio dell’Eupalino di Paul Valéry, non “cantano” ma possono raccontare; nelle pietre spesso c’è scritta una storia da raccontare. C’è qualcosa che l’architetto e, tramite suo, il committente intendono comunicare. L’architettura, sia quella per così dire progettata e canonica sia quella della tradizione vernacolare e senza architetti, ha spesso inviato messaggi ben più ampi e complessi delle semplici istruzioni d’uso

e codici di comportamento. Tanto il grande palazzo rinascimentale che la casa contadina del Mezzogiorno parlano di status, di potere e di ricchezza, di economie di sopravvivenza o di sciupio vistoso, di aspirazioni e di desideri. Talvolta anche di violenza e di paura. L’architettura vive nella gente e per la gente proprio grazie a queste narrazioni che si iscrivono nella fitta rete di scambi simbolici che innerva il mondo urbano. È anche e soprattutto grazie a queste architetture che le città parlano e diventano il libro di pietra di cui scriveva Victor Hugo. La loro voce si stacca – proprio per il dominante compito narrativo – dal brusio prodotto dalle mille voci delle persone e delle pietre della città. Vi sono alcune architetture che più di altre hanno compiti narrativi che talvolta sopravanzano quelli funzionali. Per dirlo con un lessico ormai datato, sono i casi in cui il valore semantico è superiore al valore d’uso. Questi edifici – come per la città tutta – vanno considerati, come proponeva Hugo, libri di pietra che possono, se letti con attenzione, raccontare di gente e di progetti, di potere e ricchezza, di vincitori e vinti. Grandi architetture narrative non sono solo le chiese

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Il brusio delle città

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e le grandi cattedrali che possono addirittura essere il compendio pietrificato della filosofia scolastica – come le cattedrali gotiche analizzate da Panowski – o del credo tridentino della controriforma sontuosamente riassunto dalle forme barocche. Compiti comunicativi sono esplicitamente affidati anche ad edifici di cui sembra principale ed assorbente l’efficienza funzionale: dagli uffici postali alle stazioni ferroviarie ed agli aeroporti. In particolari momenti, anzi, la capacità narrativa dell’edificio è, persino in questi casi, considerata prioritaria. L’esigenza di investire l’architettura di compiti narrativi, infatti, è sentita soprattutto nei momenti di grande accelerazione storica quando è urgente trovare nuove fonti di legittimazione. L’idea di una “architecture parlante” è stata formulata in coincidenza non casuale con la Rivoluzione Francese da Claude-Nicolas Ledoux e fatta propria dagli architetti del periodo rivoluzionario Étienne-Louis Boullée e Jean-Jacques Lequeu. L’idea che gli edifici debbano parlare e raccontare chiaramente ciò che gli architetti hanno loro affidato è stata una costante nell’Ottocento, perché secolo delle grandi rivoluzioni politiche, scientifiche e culturali. Fatta propria dal movimento Beaux Arts, è stata da questo trasmessa negli Stati Uniti dove ha trovato terreno fertile. Una “Nazione Nuova” ha infatti bisogno più di ogni altra di costruire linguaggi e media legittimatori in grado di parlare alle grandi masse. Quando non bastano gli stili o le citazioni formali possono intervenire le scritte, come nel caso del Farley Post Office Building di New York o della Union Station di Washington. 1 1

Nella scritta sull’ingresso dell’ufficio postale costruito nel 1912 campeggia una frase, proveniente da Erodoto, che inneggia alle virtù

Architetture intenzionalmente narrative sono anche quelle create per ospitare e simboleggiare il potere, sia esso quello del sovrano e di un principe o quello di una repubblica democratica. Anche i grattacieli che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento hanno segnato lo skyline delle grandi metropoli nordamericane sono architetture che, molto spesso, hanno come compito prevalente il parlare della ricchezza e del potere delle grandi corporation che in essi operano e si rappresentano in una logica non dissimile da quella che ha segnato nel medioevo il paesaggio turrito di San Gimignano. La “folie des hauteurs”2 si va diffondendo in tutto il mondo sull’onda della globalizzazione del capitalismo finanziario. Da Dubai a Shangai vengono costruite torri per uffici sempre più alte in una competizione che ha ormai anche un proprio registro ufficiale nell’Official World’s 200 Tallest High Rise Buildings3. I nuovi grattacieli che stanno sorgendo a Parigi (Tour First alla Défense, la progettata e non lontana Tour Phare, e la Tour Triangle verso Porte de Versailles) inseriscono i segni della forza, della modernità e del prestigio del grande capitale finanziario sullo skyline della capitale francese del servizio postale: “Neither snow nor rain nor heat nor gloom of night stays these couriers from the swift completion of their appointed rounds”. Chi entra nella Union Station di Washington, progettata da Burnham, è accolto da un vero peana in onore del progresso tecnologico e della scienza: “Fire: greatest of discoveries, enabling man to live in various climates, use many foods, and compel the forces of nature to do his work. Electricity: carrier of light and power, devourer of time and space, bearer of human speech over land and sea, greatest servant of man, itself unknown. Thou hast put all things under his feet”. 2 Paquot, Thierry, La folie des hauteurs. Pourquoi s’obstiner à construire des tour?, Bourin Éditeur, Parigi 2008. 3 http://www.emporis.com/statistics/worlds-tallest-buildings

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Le architetture raccontano 3

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tradizionalmente dominato dalla presenza pratica e simbolica dello Stato. La narratività si dispiega nella città contemporanea anche orizzontalmente nei nuovi spazi pubblici nei quali gli abitanti delle metropoli possono leggere la presenza dello Stato architetto o della grande corporation. Esempi di queste politiche sono l’ambizioso ma discusso programma delle “Cento Piazze” lanciato dal Comune di Roma o interventi ad effetto come la super kitch o postmodern – a seconda dei punti di vista – Piazza d’Italia progettata da Charles Moore e farcita di citazioni romane e siciliane per volere del sindaco di New Orleans che intendeva così ingraziarsi la potente comunità italo-americana4. A New York sono sempre più numerosi i grattacieli delle grandi corporation – IBM in testa – che trasformano il pianterreno in giardini d’inverno aperti al pubblico. La loro alta qualità progettuale intende conferire prestigio all’azienda che in tal modo enfatizza la propria attenzione nei confronti dei cittadini che, peraltro, possono essere potenziali clienti o azionisti. Il valore comunicativo dei grandi edifici delle banche o delle compagnie di assicurazione firmati da architetti di fama è oggi di gran lunga superiore al loro valore d’uso, e l’ingresso del logo dei committenti nei 4 Intenzioni e filosofia progettuale di Charles Moore emergono con chiarezza dalle sue stesse parole: “Gli spazi fisici e le forme degli edifici dovrebbero assistere la memoria umana nel ristrutturare nessi attraverso il tempo e lo spazio… in maniera che coloro che hanno condotto vite complicate e distaccate da un singolo luogo dove possono trovare le proprie radici, siano in grado di ricostruire qualcosa di simile a queste attraverso i ricordi e grazie all’intervento attivo dell’edificio.” Cit. in Gottdiener, Mark, Postmodern Semiotics, Blackwell, Cambridge MA., 1995, p. 125.

libri di storia dell’architettura contemporanea costituisce un asset rilevante del patrimonio aziendale proprio per la sua importanza nella costruzione dell’immagine della corporation. Un’altra categoria importante ed affatto particolare delle architetture narrative è costituita dalle stazioni ferroviarie, monumento urbano per eccellenza della città dell’Ottocento. Espressione tra le maggiori della scienza e della tecnica di un secolo che ha fatto del progresso e della razionalità il proprio principio fondante, le ferrovie hanno trasformato il mondo. Hanno di fatto unificato Paesi come gli Stati Uniti il cui sviluppo era per le enormi distanze bloccato; hanno accelerato i processi di formazione di nazioni nuove come la Germania; hanno, insieme ai battelli a vapore, prodotto la prima vera globalizzazione dei mercati; hanno reso mobile il mondo e fatto di città medie enormi metropoli. Esse hanno, soprattutto, trasformato la vita quotidiana di decine di milioni di persone. La straordinaria funzione pratica delle stazioni è indiscussa al punto da farle considerare il primo vero esempio di architettura a supporto della modernità. Incorporando le innovazioni tecniche e formali del Crystal Palace londinese, le stazioni ferroviarie hanno mostrato già dalla metà dell’Ottocento come fosse necessario e possibile il trasferimento nell’architettura delle grandi innovazioni tecniche e scientifiche del secolo e su di esse costruire un mito. Esse, inoltre, hanno unificato i localismi sostituendo i loro tempi con un tempo unico, il railway time – il tempo delle ferrovie – diventato poi l’universale GMT, il tempo medio di Greenwich. Le stazioni sono, però, anche delle straordinarie architetture narrative, probabilmente le maggiori

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Il brusio delle città

dell’Ottocento. Di questo lungo secolo, iniziato con la rivoluzione francese e terminato con la fine della seconda guerra mondiale ed il crollo degli imperi centrali, esse sono il più eloquente dei monumenti. Palazzo e fabbrica insieme, le stazioni sono state progettate non solo per svolgere una insostituibile funzione pratica ma anche per essere libri di pietra su cui il grande pubblico potesse leggere la progettualità di una città o di una intera nazione, le sue radici storiche ed il protagonismo dello Stato o delle grandi corporation. Spesso è proprio costruendo faraoniche stazioni che i proprietari delle ferrovie americane (come Crocker, Harriman, Hinde, ecc.) hanno cercato di scrollarsi di dosso la sgradevole e meritata etichetta di robber baron per proporsi, invece, come benefattori e protagonisti dello sviluppo economico e sociale. Cornelius Vanderbilt – che dei robber baron è stato l’esponente più famoso, creando un autentico impero fatto principalmente di ferrovie e piroscafi – ha avuto per questo gli onori di una statua davanti alla Gran Central Station di Manhattan realizzata dalla propria famiglia. Analogo investimento simbolico nelle stazioni è stato fatto in Gran Bretagna e Francia dalle società ferroviarie che sono così riuscite a produrre alcuni tra i maggiori monumenti pratici di Londra, Liverpool, Parigi, Lione, ecc. Anche la nazionalizzazione delle ferrovie operata in Francia nel 1936 dal governo del Fronte popolare assume perciò un significato fortemente simbolico riconsegnando alla nazione ed alla sua gente – questa fu una delle motivazioni – i simboli della modernità e del progresso. Se la pietra è per definizione il più solido degli elementi costruttivi ed è perciò garante della firmitas dell’edificio, i suoi significati sono estremamente mute-

voli. Se l’edificio deve essere, per dirla con Orazio, aere perennius, più duraturo del bronzo, le narrazioni che esso contiene e trasmette sono inevitabilmente più effimere e mutevoli. Esse cambiano in relazione alla cultura ed al punto di vista di chi guarda, vive o utilizza l’edificio. La tesi di Wittgenstein secondo cui è l’uso che attribui­ sce i significati sembra valere anche per le architetture narrative il cui racconto muta nel tempo5. Per dirla con de Certeau, «I luoghi come le parole sono articolati da migliaia di usi». Talvolta lentamente, altre volte in maniera repentina, contenuti, riferimenti e significati mutano in relazione ai cambiamenti della funzione dell’edificio, degli interessi e della cultura dei fruitori, dei codici e dei valori condivisi in un determinato momento storico. Talvolta, e sempre più spesso, è la gente che contribuisce, collettivamente, a scrivere i racconti dell’architettura. Le narrazioni cambiano così come cambia la gente: o persino più velocemente, per dirla con il verso de “Il Cigno” di Baudelaire, del «cuore di un mortale». Tentare di ripercorrere storicamente la vicenda di questi edifici non significa solo analizzarne mutamenti di forma e di usi ma anche ricostruirne narrazioni e significati. La narrazione delle architetture della città contemporanea diventa molto più difficile di quanto lo sia stata nel passato. Ciò è anche in parte dovuto a ciò che Françoise Choay definisce come il passaggio da “sistemi puri” di significato a quelli “misti”.6 La città moderna non è più 5

Leach, Neal, Erasing the Traces – The “denazification” of post-revolutionary Berlin and Bucharest, in Leach Neal ed. The Hieroglyphics of Space. Reading and experiencing the modern metropolis, Routledge, Londra 2002 p. 83. 6 Choay, Françoise, Urbanistica e semiologia in Baird, George e Jenks, Charles eds., Meaning in Architecture, The Cresset Press, Londra 1969, tr. it. Dedalo, Bari 1974, pp. 31-44.

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Le architetture raccontano 5

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culturalmente omogenea e compatta come, per esempio ricorda la Choay, il villaggio dei Bororo analizzato da Lévy Strauss in cui un solo sistema di significati legava abitanti e la forma fisica del loro villaggio e delle loro case. In questo caso «…[la struttura del villaggio] coinvolge e determina la totalità di comportamento; il sistema costruito è saturo di significato»7. Anche la cattedrale medievale può, pur con molti limiti, rappresentare un sistema spaziale urbano di significati ancora “puro” e compatto in cui cultura alta e bassa sono fondamentalmente concentriche. Già nella città barocca, però, la cosiddetta scena urbana che unanimemente la caratterizza è vissuta come tale solo da una piccola parte degli abitanti, dato che i domini di significato si stanno già moltiplicando per le grandi trasformazioni della società dell’ancien régime in cui convivono i bagliori ed i protagonisti dell’illuminismo e le grandi plebi analfabete legate al bisogno ed alle tradizioni popolari. È soprattutto nell’Ottocento – il secolo della modernizzazione e della grande rivoluzione borghese – che le architetture narrative devono affrontare la sfida della crescente complessità della città nuova. I massicci processi di urbanizzazione e di industrializzazione insieme a quelli altrettanto radicali della modernizzazione culturale e politica moltiplicano i domini di significato e rompono la loro precedente coerenza. Le architetture narrative devono adottare forme e codici più complessi in grado di parlare ad una popolazione culturalmente e socialmente sempre più differenziata. La problematicità della comunicazione spinge gli architetti a rovistare, in nome della tradizione e della nostalgia, nell’enorme repertorio della storia alla 7

Ivi, p. 33.

ricerca di segni, codici e valori capaci di rendere più accettabile e comprensibile alle grandi masse l’esperienza della modernizzazione. Anche per questa sua capacità di stabilizzare e rendere visibili valori, norme, desideri l’architettura è stata definita da Denis Hollier, sulla scia di Bataille, “il superego della società”. Nella città contemporanea i domini di significato crescono in maniera esponenziale e si trasformano continuamente. Mutano, perciò, profondamente le narrazioni degli edifici la cui architetture cambiano anche perché ciò che devono raccontare è diverso dal passato. I toni del racconto si fanno – per restare nella metafora narrativa – più amichevoli ed attenti alla domanda, alla cultura ed ai desideri della gente. In taluni casi il racconto si semplifica, in altri diventa enigmatico ed aperto a più interpretazioni riflettendo, così, la crescente segmentazione sociale e culturale della città contemporanea. L’architettura, al pari delle altre forme dell’arte contemporanea, attiva e conduce una sorta di gioco di immagini e di immaginazione con i nostri ricordi ed i nostri sogni, con i desideri o le paure presenti nel quotidiano. Il discorso delle architetture si frammenta ed accanto alle narrazioni tradizionali articolate e coerenti si fanno strada brani corti, video clip e persino enigmi che invitano l’osservatore ad indovinare il messaggio nascosto nelle pieghe delle forme elusive ed aperte delle più recenti architetture come quelle di Gehry a Bilbao o di Foster a Londra. Cambiano anche i rapporti tra l’edificio e la gente cui esso si rivolge. Oggi, le architetture del potere non si rivolgono più al suddito ma al cittadino, anche se la ‘componente suddito’ non sembra abbia mai abbandonato il cittadino di molti degli stati democratici. Le

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Il brusio delle città

stazioni ferroviarie dal canto loro cominciano oggi a parlare non più di utenti ma di clienti con cui è necessario costruire un rapporto più attento e meno asimmetrico che nel passato. La logica della seduzione e del corteggiamento – propria dell’architettura e della città postmoderne – entra anche nelle narrazioni legittimatorie sia che provengano dallo Stato che dal potere economico. Il racconto delle architetture si iscrive nel grande libro di pietra della città arricchendolo e venendone a sua volta arricchito e modificato. È ciò che, per esempio, avviene quotidianamente a New York le cui le forme architettoniche cambiano più rapidamente di qualsiasi altra metropoli o nella Parigi del bicentenario dove i grands travaux celebrativi si sono inseriti, acquisendo significati più ampi di quelli immediatamente progettuali, nel grande testo che lo Stato francese nelle sue diverse espressioni ha scritto nella e con la città. Le narrazioni degli edifici sono solo momenti del grande racconto della città che tutti noi, spesso inconsapevolmente, contribuiamo quotidianamente a scrivere. Quello urbano è oggi più che un testo coerente una sorta di geroglifico su cui coesistono – contagiandosi reciprocamente – una quantità enorme e crescente di linguaggi e di codici. Il libro di pietra urbano si è fatto confuso e persino contraddittorio come del resto sono i processi sociali che attraversano la città ed i mondi che in essa si concentrano. In questo quadro in continuo movimento anche le azioni progettuali miranti a pro-

L’enigmatica polisemia delle nuove icone della postmodernità – come il celebrato Museo Guggenheim di Frank Gehry a Bilbao – consente di rendere le narrazioni incorporate nell’edificio comprensibili al pubblico più vasto a cui è lasciato l’accattivante compito di attribuire significati alle forme architettoniche. Le nuove architetture-simbolo aprono con l’utente spettatore una sorta di gioco fatto di stimoli e comunicazioni dove citazioni mediatiche e stilemi provenienti dalla cultura di massa si alternano a forme architetturali enigmatiche aperte a cento interpretazioni.

durre un racconto comprensibile e convincente per un pubblico sempre più vasto possono subire uno scacco se ciò che intendono comunicare viene recepito in maniera difforme dalle intenzioni narrative. La consapevolezza dell’errore possibile – che costituisce un tratto comune del progettista della post-modernità – investe anche e soprattutto le architetture intenzionalmente narrative. La cui comprensione, sempre meno scontata ed univoca, costituisce una sfida straordinaria tanto per il progettista che per il cittadino.

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Le architetture del potere

Il potere nascosto, dal castello alla città proibita La città è una entità oggettiva costituita da pietre, oggetti, risorse, condizioni geografiche, relazioni e legami con l’esterno ma è anche una pluralità di voci e di sedimentazioni culturali che alle oggettività danno senso e significato. Non è quindi né una semplice oggettività, frutto, direbbe De Certeau, dell’illusorio “sguardo solare” del pianificatore, animato dalle stesse aspirazioni ed esposto agli stessi rischi di Icaro, e neppure un territorio prevalentemente simbolico farcito di significati e di segni come una nouvelle vague di semiotici va proponendo. È piuttosto un campo di oggetti, di storia, di pratiche, di processi e di voci. Una città è contemporaneamente organizzazione fisica e rappresentazione. Tra gli anni ’80 e ’90, quando il fascino del computer e dei suoi linguaggi toccò tutte le discipline, si scrisse anche della città considerata come gigantesco ed inesauribile ipertesto da penetrare ed esplorare. La vita della città e dei suoi luoghi si dispiega lungo diversi archi temporali proprio per questa pluralità complessa e dialogante per cui talvolta, come scrive

Baudelaire, la forma di una città cambia più rapidamente del cuore di un mortale, ovvero della sua cultura diffusa. Talvolta, invece, la cultura urbana – o le culture che in questa dialetticamente ed asimmetricamente convergono – muta più rapidamente della città fisica conferendo nuovi significati ai luoghi e soprattutto a quelli che venivano ritenuti, in un periodo dato, monumenti. Le architetture progettate e realizzate per essere, oltre che funzionali, soprattutto narrative, per parlare di passato e di progetti, di potere e di identità, qualche volta possono diventare mute e senza senso. O meglio, parlano ancora ma con un linguaggio che solo pochi – come storici o archeologi – riescono a comprendere. Il più delle volte esse continuano a parlare ma il loro racconto è diverso da quello che era stato solo pochi decenni prima. Ciò è dovuto spesso al cambiamento delle funzioni, altre volte a voci nuove che si sovrappongono alle antiche o a significati diversi prodotti da lessici ed aspettative nuovi. Sono architetture e luoghi che contribuiscono con i loro mutevoli significati alla continua riscrittura del libro di pietra della città che mostra con chiarezza la sua natura di palinsesto su cui

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Il brusio delle città

nuovi strati di scrittura si sovrappongono continuamente ai preesistenti. Quelle che in maniera convenzionale e sintetica vengono chiamate le architetture del potere hanno elementi sia costanti che diversi. Per questo è forse meglio utilizzare nella loro analisi la categoria della specificità piuttosto che quella diversità. La prima, infatti, riesce a dar conto delle diversità considerate come momenti all’interno della continuità e della costanza del fenomeno. Lungo la loro vicenda storica queste architetture sono rimaste, infatti, costanti ma diverse; esse sono, in altre parole, storicamente specifiche. Il potere ha bisogno di esprimersi nello spazio costruito sia quando esso è assoluto, nella forma dell’autocrazia più totalizzante, sia quando viene esercitato nelle democrazie liberali. Il potere, sia esso politico, religioso o economico, ha sempre avuto bisogno di architetture che lo comunicassero e lo legittimassero. Queste hanno assunto forme sempre nuove ed adottato tecnologie diverse ma sono restate uguali in quanto monumenti provvisti di una forte semanticità. Architetture dotate sin dalla loro nascita della parola, esse devono rivolgersi alla gente sia pure con linguaggi differenziati per parlare di grandezza, potere, identità, progetti. La modernità ed il futuro di cui da circa due secoli parlano non sono processi e scenari senza soggetto ma rinviano a protagonisti ed a classi sociali. Anche quando in primo piano appaiono scienza e tecnologia, come avviene sempre più spesso a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, nella narrazione emergono il protagonismo ed i meriti di soggetti sociali e politici. Tali riferimenti sono costanti anche quando il linguaggio con cui queste architetture parlano di forza e di potere al pubblico contemporaneo culturalmente segmentato diventa più fumoso ed elusivo.

Da sempre, l’architettura ha dispiegato la propria dimensione simbolica e narrativa per manifestare e legittimare il potere. La strategie di legittimazione del potere tramite lo spazio costruito sono sempre esistite a partire dall’antichità quando la grande differenza di scala tra gli edifici simbolici – del governo o della religione – e quelli della quotidianità mostrava e giustificava narrativamente il potere. Templi, cattedrali, castelli, palazzi, torri sono sempre stati eloquenti segni del comando comunicando con linguaggi semplici ed efficaci la presenza di un potere che si legittimava per il solo fatto di esistere e di saper realizzare tali monumenti grazie all’accumulo ed alla disponibilità del surplus sottratto ai bisogni primari della popolazione. Di queste strategie comunicative elementi ricorrenti sono stati il volume, l’altezza e gli ornamenti. L’uso dello spazio costruito nelle strategie legittimatorie si accentua, però, soprattutto all’inizio dell’età moderna in stretta relazione con l’accresciuto fabbisogno di consenso da parte di chi detiene il potere, sia esso il principe, sovrano assoluto dei nuovi stati nazione, o la chiesa. L’erosione dei tradizionali valori legittimatori ed il superamento di consolidate ovvietà culturali, avvenuti a partire dal ’500 sia in campo politico che in quello religioso, determinano l’esigenza di costruire il consenso su basi nuove. Questo non può più essere dato per scontato né bastano le armi a garantirlo; è necessario che il potere si traduca in autorità legittima sia essa, weberianamente, tradizionale, carismatica o razionale. In ciò, lo spazio costruito gioca un ruolo fondamentale. Il castello medioevale è, ad esempio, considerato elemento paradigmatico di una strategia fondata sulla paura ispirata da una costruzione massiccia da cui è

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Le architetture del potere 9

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possibile, senza essere visti, controllare tutto ciò che avviene all’esterno. Non casualmente il castello è per Kafka il simbolo stesso del potere. L’agrimensore K. del romanzo incarna l’uomo comune che tenta inutilmente di contrastare un potere che ha proprio nell’invisibilità la propria principale difesa. Il suo carattere di spazio invisibile dall’esterno e perciò misterioso ha fatto del castello il luogo ideale per favole e leggende. Il maggiore esempio dell’occultamento come principio base dell’architettura del potere è, probabilmente, quello costituito dalla Città Proibita di Pechino. Questa, pensata per essere l’axis mundi, ha rappresentato sino all’inizio del ’900 il simbolo stesso del potere divino dell’imperatore che in essa – anch’egli invisibile al mondo – abitava e governava. Città in miniatura ben stratificata secondo la distribuzione delle funzioni e del potere degli occupanti, risponde ai princìpi base del Taoismo e del Confucianesimo che costituiscono da sempre i fondamenti della cultura cinese. La città proibita era il precipitato della logica tradizionale e burocratica che reggeva l’immenso impero celeste. Secondo tutti questi princìpi chi governa non deve essere visibile ai governati e «gli strumenti del potere in uno Stato non devono essere rivelati ad alcuno»1. Anche in enfatizzata opposizione a questo principio, uno dei primi interventi di Mao sulla città di Pechino, immediatamente dopo la conquista del potere, fu la realizzazione della grande Piazza Tienanmen – 40 ettari – davanti alla Città Proibita. Egli in tal modo riproponeva, forse inconsapevolmente, la logica della 1

Dovey, Kim, Framing Places. Mediating power in built form, Routledge, Londra 1999, p. 71.

Rivoluzione Francese che opponeva la città e le sue strade aperte – gli spazi dei cittadini – ai palazzi chiusi ed inaccessibili dell’ancien régime – gli spazi della nobiltà –. La piazza aperta di Mao diventava immediatamente il maggiore monumento simbolo del nuovo regime al punto da essere riprodotta su francobolli e banconote. Su di essa insistono musei, il mausoleo dove riposa il corpo di Mao ed il massiccio obelisco in granito dedicato agli eroi del popolo. Nel 1989 la protesta degli studenti ha trasformato la Piazza Tienanmen nel simbolo della lotta al regime ed in una sorta di laboratorio aperto per costruire una nuova e reale democrazia. La sanguinosa repressione compiuta dai carri armati ha paradossalmente accentuato il carattere di simbolo mondiale della Piazza ma, nello stesso tempo, ha trasformato lo spirito del luogo. La Piazza è oggi, grazie ad uno strettissimo controllo di polizia che impedisce ogni assembramento non autorizzato, un luogo Proibito esattamente come la Città Proibita che fronteggia. Un’altra piazza che restando simbolo ha assunto un segno opposto di quello conferitogli all’inizio è la Plaza de las Tres Culturas a Città del Messico, che venne costruita all’inizio degli anni ’60 perché fosse segno visibile del grande destino che attendeva la nazione grazie ai 110 edifici modernissimi che la circondavano. Nel 1968, però, la piazza diventò un luogo insanguinato. L’esercitò intervenne per disperdere gli studenti riunitisi nella piazza per protestare per la mancanza di democrazia approfittando della visibilità mediatica assicurata dalle Olimpiadi. Durante la notte i soldati aprirono il fuoco sui ragazzi disarmati uccidendone un numero ancora imprecisato, che comunque fu valutato tra 200 e 300. Un autentico massacro. Nella stessa zona di Tlatelolco

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Il brusio delle città

La Casa del Fascio di Como progettata da Giuseppe Terragni. Raffinato architetto e fascista della prima ora, Terragni intendeva con il suo edificio enfatizzare e comunicare il cameratismo del movimento piuttosto che il carattere fortemente gerarchico assunto dal partito dopo la presa del potere. Del resto, lo stesso Mussolini ebbe ad affermare, in un discorso del ’29, che «il fascismo è una casa di vetro, nella quale tutti possono e debbono guardare».

nel 1985 un violento terremoto provocò centinaia di morti dei quali fu incolpato il governo ritenuto responsabile di scarsi controlli sulla sicurezza degli edifici. Non meraviglia, quindi, che oggi la Piazza sia considerata in Messico, dai partiti di opposizione tra cui i Verdi, simbolo di corruzione e della mancanza di democrazia. La strategia dell’invisibilità e della separatezza è anche quella del Cremlino sede e simbolo del potere autocratico prima degli zar e poi del comunismo sovietico. Anch’esso è uno spazio chiuso e murato i cui processi e soggetti interni sono assolutamente invisibili dall’esterno. Questo totale ed intenzionale occultamen-

to è enfatizzato dal carattere monumentale del gruppo degli edifici del Cremlino che emerge come un’isola nel grande mare della Piazza Rossa. Opposto al principio legittimatorio costituito dall’invisibilità ansiogena è quello della trasparenza che si ritiene possa evocare la chiarezza e la controllabilità dei processi democratici. Il nome di Palazzo di vetro, per l’edificio progettato da Oscar Niemeyer per le Nazioni Unite a New York, non è ispirato dalle sue forme architettoniche, elegantemente razionaliste, quanto dalla filosofia politica ad esso sottesa. Il legame, spesso enfatizzato, della trasparenza architettonica con la democrazia non è però scontato vista la Casa del Fascio progettata nella stessa logica da Terragni a Como. Raffinato architetto e fascista della prima ora, Terragni intendeva con il suo edificio enfatizzare e comunicare il cameratismo del movimento piuttosto che il carattere fortemente gerarchico assunto dal partito dopo la presa del potere. Del resto, lo stesso Mussolini ebbe ad affermare in un discorso del ’29: «il fascismo è una casa di vetro, nella quale tutti possono e debbono guardare»2.

Dal castello al palazzo, il potere barocco Nella città rinascimentale, ispirata non più alla civitas dei ma all’ordine matematico che della ragione è espressione massima, il focus è rappresentato dal palazzo dell’au2 Cit. in Sudjic, Deyan, The Edifice Complex. How the Rich and Powerful Shape the World, Penguin, New York 2005. Tr. it. Laterza, Bari 2011, p. 76.

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Le architetture del potere 11

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tocratico signore. L’edificio sede del potere perde, però, il carattere di fortezza chiusa per esprimere, invece, da Brunelleschi a Bramante, la cultura di chi lo abita. Mentre il castello era stato simbolo di forza e di potere, in Italia «il palazzo del Rinascimento si presenta anche come una manifestazione della “cultura” che forma la base dell’autorità aristocratica».3 Parallelamente in Europa, il castello si trasforma lentamente in castello-palazzo e la strategia del timore cede il passo a quella fondata sull’ammirazione. È la nascita dello Chateau-Palais francese con Luigi XII che inizia una tradizione di cui Luigi XIV, il Re Sole, sarà la massima espressione. Il palazzo-castello, segno dell’identità nazionale, è il concentrato dell’architettura del potere. È il cuore lontano, chiuso, visibile ma inaccessibile, del potere. Precipitato magniloquente dello Stato e del potere assoluto del sovrano questa architettura segna una svolta nei criteri di legittimazione tramite lo spazio costruito. Tutto nel palazzo-castello spinge all’ammirazione e tramite questa al riconoscimento dell’autorità divina del sovrano. I dipinti che affrescano i muri di Versailles narrano di eroi mitici e grandi personaggi storici a cui il re, sovrano per grazia di Dio, implicitamente si paragona. In età barocca, l’architettura alta – il palazzo reale o la chiesa – viene chiamata sempre più spesso a rappresentare ed a legittimare il potere; in tal modo essa getta le basi perché questo diventi autorità legittima. I due grandi sistemi dell’epoca, la chiesa cattolica e lo Stato centralizzato, trovano nell’architettura uno

straordinario strumento di rappresentazione e di persuasione. Essa «…rifugge il conflitto. Una vera sintesi non accetta il dubbio. L’architettura barocca, perciò, esprime sicurezza e vittoria».4 In piena età barocca, il grande architetto inglese Christopher Wren è esplicito sulla valenza politica dell’architettura scrivendo in Parentalia: «L’architettura ha un uso politico, gli edifici pubblici sono gli ornamenti di un Paese; essa pone le basi di una nazione, fa avanzare la popolazione ed il commercio e fa sì che la gente ami il proprio paese»5. Le fonti di consenso prevalenti in questo periodo sono la meraviglia e l’ammirazione. Il sovrano deve mostrare la propria capacità di incidere sul mondo ed abbellirlo. Il principe acquisisce ammirazione e tramite questa consenso, sia che riesca ad imitare ed a ricreare la natura nel giardino da lui voluto sia che riedifichi una città intera come accade, per esempio, in Sicilia dopo il terremoto del 1693. Il sovrano deve dimostrare di essere diverso e superiore e, quindi, di saper realizzare imprese meravigliose grazie al potere assoluto di cui dispone. Ciò avviene sia che egli realizzi un palazzo sfarzoso e senza uguali, addirittura una città in forma di palazzo – come Versailles – o un palazzo che aspira a generare una città – come la vanvitelliana reggia di Caserta, primo tassello della prevista e mai realizzata Ferdinandopoli, mai costruita per la rivoluzione napoletana del ’99. Le piazze, i corsi e tutta intera la città barocca sono segno della magnificenza del principe e risplendono di 4

3

Norberg-Schulz, Christian, Significato nell’architettura occidentale, Electa, Milano 1974, p. 233.

Norberg-Schulz, op. cit., p. 316. Cit. in Lawson, Bryan, The Language of Space, Architectural Press, Oxford 2001, p. 173. 5

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Il brusio delle città

Il Panopticon, ideato alla fine del ’700 da Jeremy Bentham, intendeva essere una straordinaria ed efficiente macchina per controllare – senza essere visti – il comportamento degli ospiti dell’edificio. La sola consapevolezza di essere controllati avrebbe indotto, secondo l’ideatore, comportamenti virtuosi. Pensato come struttura ideale per i collegi, il Panopticon ha poi dominato per due secoli l’architettura carceraria.

Eye, scultura realizzata nel 2010 da Tony Tasset e collocata nel Pritzer Park di Chicago. Il gigantesco occhio di 9 metri in fibra di vetro continua ad affascinare e ad inquietare in quanto può evocare Echelon, il Grande Fratello contemporaneo, che consente all’Agenzia per la Sicurezza Nazionale di ascoltare tutte le telefonate in tutto il mondo.

questa grandezza. È la città scena barocca, palcoscenico dove il sovrano ed i potenti sfilano raccogliendo applausi ed ammirazione da parte del popolo. Uguale logica è sottesa agli interventi urbanistici ed architettonici di Sisto V, assistito da Domenico Fontana, sulla Roma del suo pontificato. Gli obelischi e le strade che li collegano alle grandi basiliche servono ad aumentare l’ammirazione delle grandi folle di fedeli che l’Anno Santo – valorizzato da questo pontefice – avrebbe richiamato a Roma. Tutto nel mondo barocco dell’ancien régime

parla di potere e di privilegi. Le forme architettoniche dei palazzi e persino i loro nomi – palais, hotel o hotel particulier – rispondevano, come spiega l’Encyclopédie, a norme precise per comunicare il rango di chi li abitava: se principe di sangue o semplicemente aristocratico. Anche l’utilizzo dell’ordine dorico o corinzio indicava chiaramente lo status del proprietario del palazzo. Della strategia legittimatoria del sovrano assoluto dell’età barocca si trovano tracce persino nella pianta di Washington D.C., capitale del primo degli stati liberal-borghesi. Qui Pierre-Charles L’Enfant, l’architetto incaricato da George Washington di disegnare una città capace di impressionare ed intimidire, nel tracciare e fissarne i nodi principali si è ispirato largamente a Versailles che rappresenta uno dei momenti

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Le architetture del potere 13

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Le Saline Reali di Arc-et-Senans, progettate tra il 1775 ed il 1778 da Claude-Nicolas Ledoux e mai completate, sono ritenute il primo consistente tentativo di creare architetture capaci di ospitare l’allora incipiente rivoluzione industriale. La loro pianta, nelle intenzioni del progettista e della sua “architecture parlante”, rinviava alla perfezione circolare delle città dell’utopia ma nei fatti essa dava alla direzione delle saline, collocata nell’edificio centrale, la possibilità di controllare il lavoro degli operai. Il Panopticon di Bentham è anticipato di una dozzina d’anni.

L’Estasi di Santa Teresa in Santa Maria della Vittoria di Roma è tra i capolavori di Gian Lorenzo Bernini e di tutta scultura barocca del ’600. Qui la strategia dell’ammirazione e del coinvolgimento della Chiesa della Controriforma tocca uno dei suoi punti più alti. L’idea della chiesa come scena è fatta propria da Bernini che pone al centro della cappella – divenuta un palcoscenico virtuale – l’altare con la sensuale statua della santa e colloca ai suoi lati dei palchetti teatrali dai quali membri ben riconoscibili della ricca e potente famiglia Cornaro osservano lo spettacolo.

architettonici più significativi del potere assoluto dell’ancien régime. Bilanciano il richiamo al potere autocratico rappresentato dalla città palazzo di Luigi XIV i volumi dei due maggiori edifici della capitale statunitense. Il Campidoglio – sede del Congresso – è con i suoi 289 piedi (88 m. circa) molto più alto ed imponente della Casa Bianca, dove vive il presidente. George Washington – nel rifiutare il progetto di L’Enfant che, secondo lo spirito dell’epoca, prevedeva un palazzo presidenziale quattro volte più grande dell’attuale – affermava che la residenza del presidente, malgrado l’enorme potere del suo inquilino, andava considerata solo una casa. A sottolineare l’assoluto primato simbolico del Campido-

glio l’Height of Buildings Act del 1899 – emendato nel 1910 – stabilì che nessun edificio della capitale potesse essere più alto della sede del Congresso. La chiesa tridentina, al pari dei sovrani dei nuovi stati nazione, deve affrontare la competizione e raccogliere la sfida della riforma. Per mantenere il controllo delle coscienze e la fedeltà dei principi la chiesa della controriforma attinge a piene mani negli strumenti di legittimazione offerti dallo spazio costruito. Il barocco fa risplendere la chiesa romana anche per giustificare la riaffermata centralità di questa nel mediare il rapporto del fedele con Dio, al contrario della chiesa luterana che è solo un grande contenitore atto ad ospitare le relazioni

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Il brusio delle città

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A coronamento della chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza, progettata da Borromini alla metà del ’600, è collocata una lanterna a forma di spirale che rimanda al Faro di Alessandria (la citazione è confermata dalla presenza di gabbiani in pietra appollaiati su di essa). La Chiesa cattolica intende con questo eloquente simbolo affermarsi come il faro che guida i fedeli verso la salvezza: contrariamente a quanto affermava la Riforma, che escludeva tale necessaria mediazione. Sant’Ivo e gran parte delle chiese barocche anticipano di almeno un secolo l’idea illuminista di una “architecture parlante”.

dirette del fedele e della comunità con la divinità. Le creazioni di Bernini e Borromini hanno per la chiesa romana un’importanza comunicativa certamente maggiore di qualsiasi libro o sermone. I gesuiti, che di questa stagione religiosa sono protagonisti, dotano la compagnia di un ingegnere che dia istruzioni ai confratelli sparsi in ogni angolo del mondo su come costruire chiese perché la gente preghi e si stupisca. Il recupero, per esempio nelle missioni in America Latina, del lessico costruttivo e degli stilemi locali da innestare nel dominante barocco universale, mira a creare un codice condiviso per consentire un’efficace comunicazione tra la chiesa dei colonizzatori ed il popolo locale. Parafrasando Le Corbusier, queste chiese della Compagnia possono essere definite macchine per pregare e per incantare o, riprendendo una frase attribuita a Napoleone a proposito della cattedrale di Amiens, per far sentire l’ateo a disagio. Una macchina per lavorare e produrre sono invece le Saline Reali di Chaux in Francia progettate da Claude Nicolas Ledoux per Luigi XV. Qui le esigenze produttive si legano ad una logica severamente gerarchica in un disegno urbano che solo lo scoppio della rivoluzione francese ha impedito che venisse portato a termine diventando una città. La logica fondante, proveniente dall’incipiente rivoluzione industriale, è dimostrare come la gerarchia del potere sia il migliore degli strumenti produttivi. Non a caso il progetto delle Saline di Ledoux è ampiamente richiamato dal quasi coevo Panopticon di Bentham e diventerà oggetto di studio da parte prima di Fourier e poi degli ingegneri tayloristi.

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Il consenso e la città moderno-industriale

Dall’Ottocento la vicenda degli edifici del potere si lega strettamente a quella della nascente città moderna che è segnata tanto dalle nuove esigenze produttive (fabbriche, scambi, mobilità, consumi) che da quelle sociali a partire dall’affermarsi della borghesia e dalla creazione della democrazia politica. Con la conquista lenta ma inarrestabile del potere politico ed economico da parte della borghesia, ha luogo l’impossessamento da parte di questa dei simboli dell’ancien régime a partire dai palazzi. Tanto negli Stati Nazione più antichi come Inghilterra e Francia che in quelli nuovi come la Germania e l’Italia le manifestazioni architettoniche del potere politico restano, infatti, costanti. A Berlino si tratta solo di ampliare l’ambito geografico del dominio – dalla Prussia alla Germania – dei palazzi degli Hoenzollern e del loro governo. In Italia il nuovo stato nazione ha anche una nuova capitale – Roma – dove per fortuna il papato ha – suo malgrado – messo a disposizione dei nuovi signori i propri magniloquenti palazzi, dal Quirinale a Montecitorio. Opera del governo del nuovo Regno d’Italia saranno necessariamente gli edifici dei ministeri la cui presenza trasformerà profondamente

la struttura urbana di Roma da Via XX settembre a Prati. La vicenda di quest’ultimo quartiere diventa in qualche modo emblematica dell’Italia a venire per lo stretto e sinergico intreccio tra una grande speculazione immobiliare privata e la realizzazione dei nuovi grandi edifici pubblici, dal monumentale Palazzo di Giustizia umbertino (il Palazzaccio) alle grandi caserme. Nel XIX secolo il potere cerca strade nuove per manifestarsi e cercare il consenso attraverso lo spazio costruito. Lo sforzo della borghesia politica ed imprenditrice di creare la propria architettura si fa intenso soprattutto verso la fine di questo secolo lungo. I nuovi edifici monumento – tra cui le stazioni ferroviarie – devono portare il segno della razionalità che, secondo l’interpretazione che questa nuova classe dà di se stessa, costituisce la maggiore virtù della borghesia trionfante. È la razionalità con la R maiuscola di diretta derivazione illuministica che, secondo Foucault, etichetta le altre e possibili razionalità come espressioni di follia e criminalità.1 Il contro monumento 1

King, Ross, Emancipating Space, The Guilford Press, New York 1996.

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Il brusio delle città

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architettonico del potere borghese è il Panopticon di Bentham destinato appunto a contrastare ed a reprimere sul nascere le razionalità “altre”. Pensato per controllare non i galeotti ma gli ospiti delle comunità scolastiche inglesi, il Panopticon è stato per oltre un secolo il modello incontrastato per le prigioni acquisendo, così, anch’esso lo status di monumento pratico.

La città-fabbrica e la città-monumento Le due facce della metropoli moderno-industriale ottocentesca sono la città-fabbrica e la città-monumento. La prima è la grigia e fuligginosa coke town dove la scuola, il carcere e l’ospedale sono tra loro simili perché, come scrive Dickens in Hard Times, tutti sono, in definitiva, uguali alla fabbrica. Le uniche architetture che dalla forma fabbrica si tengono esplicitamente distanti sono quelle del governo in rapida crescita soprattutto nella seconda metà del secolo per il consolidamento delle democrazie liberali. In Inghilterra il loro modello prevalente è quello del palazzo cinquecentesco italiano. In Francia, dove al novero dei palazzi governativi ottocenteschi vengono riportate anche prefetture, palazzi delle poste, ecc., lo stile è quello aulico definito all’epoca “ministeriale”. La seconda grande novità del secolo è la stessa città nuova – moderno-industriale – che la borghesia in ascesa ha costruito esplicitamente come monumento a se stessa. Victor Hugo può affermare in Notre Dame de Paris che il libro di carta avrebbe ucciso il libro di pietra rappresentato dalla città (Ceci tuera cela) proprio perché nel secolo in cui egli scrive è la città nuova, libro e mo-

numento insieme, il campo dove l’architettura dispiega, affinandole, tutte le proprie potenzialità semantiche. La fabbrica con le sue prime ciminiere turrite e adornate di simboli medioevali è probabilmente la maggiore delle architetture del potere nate dalla rivoluzione industriale urbana dell’Ottocento. La fabbrica dà il proprio segno alla città creando le basi per l’economia industriale i cui nuovi simboli sono palazzi, come quelli della Borsa, delle grandi corporation o delle banche, o quartieri dove si concentrano gli affari come la City di Londra o Wall Street a New York. Monumento pratico del nuovo rampante capitale industriale, la fabbrica non è solo un simbolo ma è anche il modello sia, come si è detto, per le altre architetture urbane sia per logica organizzativa della città che deve rispondere alle sue esigenze produttive e distributive. Focus economico e sociale della città nuova del XIX secolo, la fabbrica diventa, però, progressivamente invisibile. La grande innovazione progettuale e tecnologica costituita dall’immenso Crystal Palace londinese mostra come sia possibile racchiudere in un edificio un intero mondo. La lezione verrà immediatamente appresa dalla fabbrica. Le sue mura occultano i processi produttivi e la città nasconde il proletariato industriale spingendolo ai propri margini prima con gli spontanei ammassi di abitazioni malsane a ridosso degli stabilimenti poi, nella seconda metà del secolo, con i quartieri operai creati da Hausmann a Parigi. Anche nella breve stagione dei villaggi operai voluti dal capitalismo illuminato – dal Leumann di Torino a Mulhouse e Saltaire in Francia – il mondo del proletariato resterà di fatto nascosto dalla lontananza e, soprattutto, dal carattere esplicitamente eccezionale degli esperimenti. Il più grande e noto dei

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Il consenso e la città moderno-industriale 17

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Il Crystal Palace realizzato a Londra nel 1861 per ospitare l’Esposizione Universale. L’edificio, simbolo dell’avanzante modernità grazie all’impiego innovativo del ferro e del vetro, divenne rapidamente meta turistica. Era considerato anche una delle grandi meraviglie dell’Impero Britannico, le cui glorie erano riassunte dai prodigi della scienza e della tecnica in esso presentati.

villaggi operai italiani – Crespi d’Adda – può essere considerato nel suo complesso un grande esempio di architettura del potere dotata di straordinarie capacità narrative. Anche se il clima è addolcito dal diffuso verde dei giardini e dall’ordine della pianta, tutto all’interno del villaggio racconta, esaltandola, la gerarchia della fabbrica con il castello del padrone in cima alla piramide, le palazzine per i quadri intermedi ed i dormitori, lindi ma ben separati, per gli operai. Anche la grandezza e la dislocazione delle tombe nel cimitero di Crespi d’Adda sono rigidamente gerarchiche.

La borghesia, in necessario e dinamico equilibrio tra autorità e potere, deve sottolineare il proprio compito storico di portare a termine la lunga vicenda del progresso e del progetto illuministico. Per questo è necessario creare nuove architetture che facciano da ponte tra il passato storico ed identitario di una nazione e la modernità. L’eclettismo si presenta come lo strumento più flessibile ed efficace per ricollegarsi ai simboli del passato di cui la borghesia si proclama coronamento e speranza. Nuove architetture del potere diventano così le stazioni ferroviarie e le grandi esposizioni universali che assumono ed enfatizzano il loro status di monumenti e di segni della capacità di produrre storia da parte di chi detiene il potere tanto politico che economico. Le Esposizioni Universali – i grandi eventi per eccellenza del 1800 – sono tra le maggiori architetture narrative del secolo e si inseriscono coerentemente nella città ottocentesca, chiamata ad incarnare il progresso di cui sono eloquenti icone il Crystal Palace di Londra, la Torre Eiffel di Parigi o l’Esposizione Universale di Chicago del 1983. Esse intendono rappresentare con architetture eccezionali – alcune delle quali destinate a durare ed a diventare monumenti urbani permanenti – lo spirito e le speranze di un’epoca di cui la città organizzatrice si pone come capitale – ancorché provvisoria –. Lo spirito dell’epoca ed il ruolo che in essa hanno la città e la nazione ospitanti costituiscono l’oggetto della narrazione che queste architetture dispiegano con un linguaggio comprensibile per le grandi masse di visitatori che a decine di milioni accorrono ad ammirarle. Nell’Esposizione Universale di Londra del 1851 il Crystal

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Il brusio delle città

La Gare d’Orléans, divenuta successivamente Gare d’Orsay, fu costruita apposta per essere la splendente porta di Parigi in occasione dell’Esposizione Universale del 1900. Data la sua collocazione all’interno della cerchia urbana – su cui erano invece poste le altre grandi stazioni ferroviarie della città – la Gare d’Orsay venne pensata per portare i visitatori direttamente al centro di Parigi ed incantarli con le grandezze della città dopo averli meravigliati con la modernità delle attrezzature ferroviarie. Può anche essere considerata il più grande e spettacolare dei padiglioni di quella Esposizione Universale.

Palace, struttura avveniristica di ferro e di vetro, parla di scienza, tecnologia e soprattutto del dominio sul mondo dell’Impero britannico. A visitarla, restando a bocca aperta davanti alle meraviglie che il mondo intero ha portato a Londra ed ha deposto ai piedi dell’Union Jack, non sono solo le grandi personalità a partire dalla Regina Vittoria alla scrittrice Emily Brontë ma una incredibile folla di popolo. Il turismo di massa organizzato nasce allora ad opera dell’inglese Thomas Cook che inventò i primi Inclusive Tours proprio in occasione dell’esposizione universale del 1851: per soli 5 scellini si otteneva il viaggio da Leicester a Londra con vitto ed alloggio per ammirare il Crystal

Palace. Solo nella contea di York furono venduti, secondo alcune fonti, 165.000 biglietti2. L’importanza politica dell’esposizione londinese è rilevata anche da Cavour, che in un articolo scriveva: «… Non crediamo ingannarci se nella grande esposizione del 1851 scorgiamo un grande atto politico accanto a un bel concetto economico. A nostro avviso l’esposizione generale di Londra è il più bel congresso della pace che possa immaginarsi, e il primo passo nel gran problema la cui soluzione è riserbata alla seconda metà di questo secolo. Lo spettacolo di tutti i prodotti dell’umana industria messi a confronto, studiati sotto i molteplici rapporti della produzione e della consumazione, della materia prima, del capitale della mercede, della fabbrica e del mercato, non può che far sentire sempre più il bisogno del governo civile funzionante secondo i bisogni economici univoci e non contraddittori di ogni contrada e di ogni lingua, e rafforzare i sentimenti di nazionalità in Europa»3. Un capitolo importante della vicenda delle Esposizioni Universali è costituito dalla Chicago’s World Fair del 1893. Questa, voluta per celebrare la scoperta dell’America, racconta in un linguaggio semplice ed immediatamente comprensibile la capacità di una nazione e di una città – Chicago – di crescere dal nulla e di creare con la “città bianca” dell’esposizione la città ideale (il sogno rinascimentale diventato realtà). Il complesso chicagoano, splendente e massiccio esempio

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Amendola, Giandomenico, L’Onda lunga dei grandi eventi in Sociologia Urbana e Rurale, n. 96 – XXXIII-2011, pp. 35-46. 3 Villari, Lucio, Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento. Laterza, Bari-Roma 2011, p. 228.

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Ancora oggi il Museo d’Orsay porta i segni della funzione di grande rappresentanza affidata alla stazione al suo nascere in occasione dell’Esposizione Universale del 1900. I suoi saloni dorati – in cui è oggi ospitato un ristorante – sono stati anche palcoscenico di eventi importanti. La straordinaria scenografia del salone da ballo, magniloquente di ori, specchi e stucchi, fu scelta nel maggio del 1958 dal Generale De Gaulle per annunziare la disponibilità a “servire il proprio paese” ed aprire quindi la strada alla quinta repubblica francese.

dello stile Beaux-Arts, intendeva – nella espressa volontà degli organizzatori – essere una dimostrazione dell’American exceptionalism. La sua stazione ferroviaria – benché provvisoria e destinata ad essere demolita dopo la chiusura della Fiera – è stata a lungo considerata negli Stati Uniti un modello da rispettare per l’uso senza risparmio dei decori del Beaux-Arts. L’Expo del 1900 a Parigi intendeva, invece, essere, anche come

risposta europea alla World’s Fair di Chicago, il grande monumento della III Repubblica francese che voleva comunicare al mondo il proprio orgoglio per aver creato la ville lumiere, splendente di luci e di ottimismo grazie alle nuove tecnologie ed alla scienza, facendone – a detta di Walter Benjamin – la capitale del XIX secolo. Non dissimili nell’intento celebrativo di un governo o di un regime saranno quasi un secolo dopo gli expo o

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Il brusio delle città

La Chicago’s World Fair del 1893, voluta per celebrare l’anniversa­rio della scoperta dell’America, racconta in un linguaggio semplice e immediatamente comprensibile, la capacità di una nazione di crescere dal nulla e di creare la città ideale (il sogno rinascimentale diventato realtà). Quella del­l’esposizione di Chicago è una città ideale in miniatura che gli americani intendevano proporre come esito della propria capacità pionieristica e del­l’“American Exceptionalism”, come ebbero a sottolineare i suoi progettisti Daniel Burnham e Frederick Law Olmsted.

gli altri mega eventi contemporanei dalle Olimpiadi di Barcellona alla Fiera Mondiale di Shangai tutti voluti per incarnare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo.

Le architetture parlano Le stazioni – in particolar modo quelle francesi ed inglesi – sono state nell’Ottocento topos dell’immaginario collettivo ed autentici monumenti principali della città nuova. Erano il segno, per eccellenza, della modernità e del controllo su di essa che esercitava la borghesia trionfante che aveva fatto della città moderno-industriale, nella sua interezza, il proprio più grande monumento.

Sia che le ferrovie fossero opera della mano pubblica o, più spesso, come negli USA ed in Gran Bretagna espressione di iniziative private, le stazioni vanno a buon titolo considerate espressione e sintesi architettonica del potere politico e finanziario del secolo XIX. Alcune stazioni monumento possono essere assunte simboli non solo della città ma anche del paese di cui questa è capitale: Gare du Nord e Gare d’Orsay a Parigi, Victoria Station e Euston Station a Londra. Simbolo insieme del progresso e dell’industria e della storia: elementi che la nuova borghesia considera fattori della propria legittimazione politica. Coeva, nella sua stagione d’oro, al Ring di Vienna la stazione ferroviaria è della nuova città borghese il concentrato. La stazione nasce come edificio doppio e polisemico in quanto nella città esso è palazzo – simbolicamente sovraccarico e semanticamente eloquente grazie a neo classicismi, citazioni gotiche o addirittura greco doriche – e nello stesso tempo essa, nella parte che si apre sulla campagna, è moderna fabbrica, fatta di ferro e di vetro. Come edificio chiave del secolo essa rappresenta la modernità industriale e con essa l’apoteosi dello Stato nazione e della sua storia. Essa, inoltre, racchiude e rende visibili le due key machine dell’epoca: la macchina a vapore e l’orologio, i due strumenti con cui diventa possibile esercitare quel controllo dello spazio e del tempo che è principio e scopo – pratico e simbolico – dell’Ottocento. È probabile che alle grandi masse sfuggissero le citazioni ed i richiami presenti nelle eclettiche facciate delle grandi stazioni ottocentesche. A questo proposito è possibile, perciò, parlare – sulla scia di Bachelard – di due niveaux épistémologiques. Da una parte c’è una intensa semanticità che parla – grazie ad un ricco vocabolario

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Il consenso e la città moderno-industriale 21

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Il municipio, costruito in stile gotico dal 1872 al 1883 da Friedrich von Schmidt, ex-capomastro del duomo di Colonia, è un tassello del Ring di Vienna. La strada costituisce un esempio tra i più significativi delle architetture pubbliche della seconda metà dell’Ottocento dotate di grande forza semantica. Accanto al municipio, gotico per richiamare i secoli d’oro delle autonomie comunali, vennero realizzati negli stessi anni – negli stili ritenuti più adatti ad evocarne le glorie – il teatro barocco, il parlamento neoclassico in onore della Grecia di Pericle, l’università rinascimentale in omaggio all’umanesimo.

Nell’intensa narratività del Ring di Vienna spicca – tappa obbligata per i turisti e le loro macchine fotografiche – il Parlamento neoclassico realizzato tra il 1874 ed il 1883. La Commissione Imperiale messa al lavoro per decidere lo stile dell’edificio optò per quello greco perché evocasse la democrazia. I poteri legislativi del Consiglio dell’Impero di Francesco Giuseppe rimasero limitati fino al 1918 quando, caduto l’impero asburgico, la prima repubblica austriaca venne proclamata proprio sulla rampa di scale dell’edificio che da quel momento venne ribattezzato Parlamento.

simbolico – di palazzo e di fabbrica, della storia e del futuro, della capacità della borghesia di porsi come egemonica. Questo è il livello comunicativo rivolto ad un pubblico ristretto ma dotato di un capitale culturale in grado di cogliere i richiami storici e le citazioni stilistiche degli edifici. Questi destinatari sono i borghesi esattamente come lo sono i progettisti ed i committenti

della città nuova e delle sue stazioni. Per il pubblico più vasto – i milioni di viaggiatori che utilizzano il treno e, soprattutto, la popolazione urbana nel suo complesso – la comunicazione è semplice ed immediatamente comprensibile. L’obbiettivo è chiaro: suscitare ammirazione e meraviglia. Si segue, in sostanza, la stessa strategia del grande palazzo e della ricca chiesa barocca

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che cercavano di legittimare il principe o la chiesa con la ricchezza eccezionale degli edifici ed il vistoso scarto tra le loro dimensioni e le case della gente comune. Indipendentemente dal livello di comunicazione, ciò che deve essere ben visibile nelle stazioni è ciò che L. Mumford definisce « …the extra needed to sustain the spirit» o che T. Veblen chiama la «sciupio vistoso». Il segno del potere è appunto in questo “di più” rispetto al mondo quotidiano. L’investimento comunicativo sullo spazio costruito, dal singolo edificio alla città nel suo complesso, aumenta proporzionalmente al fabbisogno di consenso della borghesia in ascesa che nell’ottocento comincia ad investire in maniera massiccia nell’architettura dotata di capacità comunicative. Ciò avviene soprattutto nell’ultima parte di questo secolo lungo quando l’egemonia borghese per un verso si consolida e per l’altro deve affrontare lo scontro con un proletariato in fase di organizzazione politica. Più urgente che mai diventa, perciò, accumulare consenso per far fronte ai nuovi e più aspri conflitti sociali. L’episodio probabilmente più significativo e noto di una strategia legittimatoria spiegata attraverso lo spazio costruito è il Ring di Vienna realizzato dalla borghesia sui suoli del demanio dell’esercito, dopo che essa era riuscita a prendere il sopravvento politico sul blocco imperiale-militare uscito pesantemente indebolito dalla sconfitta di Sedowa ad opera dei prussiani del 1866. La realizzazione di un anello intorno al nucleo storico della città venne presentato – in quanto fattore di modernizzazione urbana – come la risposta austriaca ai boulevard haussmaniani. Non era però solo questo, anche se per Otto Wagner il Ring rappre-

sentava l’icona pratica della velocità e della modernità. Le nuove architetture del Ring erano state tutte dotate di un’enorme capacità narrativa in quanto dovevano collegare nell’immaginario collettivo la nuova borghesia in ascesa e la città che essa stava trasformando al passato storico della nazione e da questo attingere legittimazione. I nuovi edifici, il cui linguaggio è semplice ed essenziale e fa aggio su consolidati stereotipi, costituiscono un esempio straordinario ed integrato di spazio esplicitamente narrativo. Il ricorso eclettico ad una pluralità di stili provenienti da epoche diverse – benché quasi tutto il Ring sia stato costruito nell’ultimo quarto del secolo – è motivato dall’esigenza di comunicare immediatamente la funzione dell’edificio e la sua legittimazione storica. Il gotico del municipio e della Votiv Kirche richiama l’età d’oro delle città-stato dell’area tedesca, il neoclassico del parlamento e dell’università evoca la Grecia di Pericle e della democrazia insieme alla cultura da questa generata, il rinascimentale-barocco del Burgtheater è lo stile di Molière e di quello che era considerato il secolo d’oro del grande teatro europeo, il massiccio ed eclettico nuovo palazzo reale, è il simbolo incombente e riassuntivo del potere del re-imperatore (K. K. - Koenig und Kaiser). Gli edifici del Ring evocano tutti con un linguaggio facilmente comprensibile i momenti fondamentali del cammino della civiltà europea ed esaltano la borghesia, nuova protagonista della scena politica e culturale viennese, che della storia raccontata da queste architettura si proclama esito e coronamento4. 4

Schorske, Carl, Fin-de-Siècle Vienna, Vintage Books, New York 1961. Tr. it. Bompiani, Milano 1981.

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Le architetture fra totalitarismo e democrazia

Le strategie architettoniche dei regimi totalitari: Hitler e Mussolini Sono stati soprattutto i regimi totalitari del ’900 ad utilizzare in maniera massiccia lo spazio costruito come strumento di propaganda e legittimazione. Hitler, Mussolini e Stalin hanno tutti voluto rappresentare se stessi ed il progetto storico di cui si dichiaravano portatori nelle architetture e nelle forme urbane. Ciò che accomunava le tre strategie di comunicazione architettonica è l’estrema flessibilità ed il disinvolto eclettismo necessari per colpire i diversi segmenti del pubblico e far fronte alle mutevoli e contingenti situazioni. In tutti casi l’elemento costante è il gigantismo degli edifici, al di fuori di ogni scala nell’Unione Sovietica, che intende segnare l’incolmabile asimmetria tra lo Stato ed il cittadino-suddito. A Mosca i massicci edifici del Ministero degli esteri e dell’Università non sono molto diversi nella loro eccezionalità dimensionale dalla metropolitana, il cui lusso è stato a lungo portato come esempio narrativo della nuova società socialista (la luce, l’arte, l’accessibilità).

I progetti che Hitler affidò a Speer sono arcinoti a partire da quello mai realizzato di Germania, la città che – assorbendola – avrebbe dovuto sostituire Berlino come capitale del Reich dei mille anni e che non venne mai realizzata perché il III Reich, per nostra fortuna, è durato molto meno. La missione affidata nel 1937 ad Albert Speer, nominato per questo “Ispettore generale per l’architettura di Berlino, capitale del Reich” con pieni poteri, era molto chiara: mettere in scena il potere e la missione storica di Hitler e del nazismo. Nei documenti del piano urbanistico della capitale, messo a punto con estrema rapidità già nel ’38, non vi è perciò traccia alcuna di obbiettivi sociali. Su un sistema stradale, che ricorda in qualche maniera quello romano di Sisto V creato per enfatizzare la centralità della Basilica di San Pietro, campeggiano i grandi monumenti del regime: la Volkshalle (chiamata anche Ruhmeshalle – o Palazzo della gloria) ispirata dal Pantheon di Adriano ed alta quasi 300 metri, il palazzo del cancelliere Hitler e l’Arco di Trionfo, le grandi architettura gigantesche e fuori scala che avevano il compito di rappresentare il regime e di parlarne alle grandi masse. Nelle intenzio-

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ni di Hitler i lavori di Germania sarebbero terminati nel 1950 (dopo la sicura vittoria del Terzo Reich) e presentati al mondo con una Esposizione Universale che però, come quella mussoliniana dell’ EUR prevista per il 1942, non si tenne mai per la sconfitta dell’Asse. L’architettura, e con questa la forma stessa della città intera, vanno considerate mezzi fondamentali del nazismo per comunicare la propria missione storica e legittimare se stesso. L’architettura può e deve, secondo Hitler, esprimere la comunità che a sua volta in essa deve riconoscersi ed esaltarsi. Lo spazio costruito ha il compito, inoltre, di comunicare immediatamente la grandezza di chi lo ha voluto e di chi rappresenta. L’identificazione di Heidegger del costruire con l’esistere sembra trovare nella politica architettonica di Speer-Hitler una perversa espressione. Sempre più spesso un edificio è, innanzi tutto, chiamato a riassumere ed esaltare ciò che in esso si rappresenta. In questo Hitler è sulla stessa linea di Mussolini che considerava l’architettura, forse al pari solo del cinema, come il più efficace mezzo di comunicazione, capace oltretutto di durare nel futuro. «Quando la gente vive intensamente periodi di grandezza, essa rappresenta questi periodi in forme esteriori. La parola che proviene da queste forme è più convincente della parola parlata: è la parola di pietra» afferma Hitler nel discorso di apertura alla Mostra dell’architettura e delle arti applicate tenuta a Monaco nel 19381. Gli edifici del potere della Berlino nazista, tutti dotati di una grande forza narrativa sono 1 Ladd, Brian, The Ghosts of Berlin – Confronting German History in the Urban Landscape, The University of Chicago Press, Chicago 1997. P. 126

La Welthauptstadt Germania, la futura capitale mondiale del Reich dei Mille Anni, è restata, per nostra fortuna, solo nei plastici. Il compito che Hitler affidò al suo ministro architetto Speer era quello di creare qualcosa che impressionasse il mondo e che facesse impallidire al confronto tutti i più grandi monumenti. La cupola della Volkshalle è sedici volte più grande di quella di San Pietro. Qui è ricostruita nel film Fatherland di C. Menaul (1994) in cui s’immagina come sarebbe cambiata l’Europa se i nazisti avessero vinto la Seconda Guerra Mondiale.

snodi di una coreografia simbolica a cui il nazismo faceva continuamente ricorso con adunanze e parate. Esempio tragico e straordinario di questa architettura intenzionalmente ipnotica è il grande stadio di Norimberga pensato da Speer per ospitare il congresso annuale del partito nazista durante il quale non vi erano dibattiti ma solo parate ed assemblee oceaniche. In questo stadio di pietra, sormontato da una gigantesca aquila ed illuminato scenograficamente da 130 riflettori, duecentomila tedeschi acclamano Hitler: e – nota lo storico Shirer – «...in questa notte inondata di luce raggiungono il più alto stato di consapevolezza

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dell’essere tedeschi: la rimozione delle anime e delle menti individuali… finché sotto le luci mistiche ed il suono delle parole magiche dell’Austriaco (Hitler) esse confluiscono completamente nel gregge tedesco».2 Erano le architetture a dover rappresentare il difficilmente rappresentabile: l’identità nazionale costituita dall’Heimat (la patria non geografica) e dalla Gemeinschaft (la comunità). L’obbiettivo è, comunque, quello di stupire e segnare la storia. Anche su questo il dittatore è chiaro: «…Il percorso che va dall’Arco di Trionfo alla Cancelleria lungo i grandi viali… deve levare il respiro. Solo così riusciremo a mettere in ombra il nostro unico rivale, Roma»3. Sulla capacità dell’architettura monumentale di comunicare potenza e dominio Hitler è esplicito quando afferma: «...quando entra nella Cancelleria del Reich, uno dovrebbe avere la sensazione di visitare il signore del mondo»4. È quanto pensa e dice anche l’Hitler del Grande Dittatore di Chaplin – ribattezzato Adenoid Hynkel – che si appresta a ricevere Benzino Napaloni (Mussolini) nel suo palazzo di Tomania. Tanto Hitler che Mussolini pensavano ad un’architettura capace di parlare di loro anche dopo la morte e dopo una possibile sconfitta. Speer descrive nelle sue memorie gli incontri con Hitler per discutere il progetto di Germania, la futura capitale del Reich dei mille anni, che avvenivano anche quando le truppe sovietiche avanzavano ormai vittoriose verso le frontiere tedesche. Mussolini dal canto suo ancora nel 1941, quando le 2 Cit. in Ehrenreich, Barbara, Dancing in the Streets – A History of Collective Joy, Holt Paperback, New York 2006, p. 182. 3 Ibid. 4 Cit. in Kim Dovey, Framing Places – Mediating power in built form, Routledge, Londra 1999, p. 55.

sorti della guerra andavano già mutando con la sconfitta in Nord Africa e gli insuccessi in Unione Sovietica, approvava il progetto di Piacentini per una gigantesca Ara Pacis che celebrasse nei secoli a venire il fascismo e la sua missione di civiltà5. Più che un generico strumento di auto-rappresentazione del potere l’architettura – che Hitler pretendeva di conoscere a fondo benché la sua domanda di ammissione alla facoltà di architettura fosse stata respinta ben due volte – può essere vista come un’arma di consenso e di conquista. L’arma più potente per cui – è l’ipotesi di Deyan Sudjc nel suo brillante The Edifice Complex. How the Rich and Powerful Shape the World – l’architetto Albert Speer è rimasto in carcere a Spandau quasi fino alla morte mentre Wernher von Braun, creatore delle V1 e V2 con cui i nazisti terrorizzarono Londra, è stato accolto con tutti gli onori negli Stati Uniti per progettare e costruire “l’arsenale della democrazia”. George Orwell nello scrivere 1984 aveva ben presente l’esperienza appena conclusa di Hitler e l’uso che questi faceva dell’architettura. Nella Londra distopica del romanzo si staglia un solo splendente grattacielo piramidale alto circa 300 metri, quello del Minister of Truth, meglio conosciuto come Minitrue, il Ministero della verità con cui il Grande Fratello governava producendo la Verità – con la V maiuscola – grazie ad una continua riscrittura della storia effettuata sulla base delle esigenze contingenti del presente. Esempio certamente estremo che, però, dalla letteratura si protende pericolosamente verso la realtà. 5

Nicoloso, Paolo, Mussolini Architetto – Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Einaudi, Torino 2008-2011, p. 263.

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Il brusio delle città

Chiaramente politica e giustificatoria del presente è la pratica della distruzione/costruzione delle architetture di un passato e sgradito regime per sostituirle con nuovi simboli. Esattamente come gli addetti alla riscrittura della verità del Minitrue di Orwell, architetti ed urbanisti contemporanei tentano di riscrivere la storia cancellando le memorie in pietra del passato attraverso la loro sostituzione o la semplice e definitiva distruzione. Di questa pratica di sradicamento del passato il maggior laboratorio è stato certamente Berlino. Qui è stato necessario operare per ben due volte sulle memorie scritte negli edifici della città: dagli anni ’50 in poi c’è stata la cosiddetta denazificazione, dai ’90 la decomunistizzazione. Quel po’ che era sopravvissuto ai bombardamenti alleati è stato rapidamente eliminato o riconvertito nel tentativo di attribuirgli nuovi valori e riferimenti. Che sia soprattutto l’uso ad attribuire i significati, come afferma Wittgenstein a proposito del linguaggio, può valere anche per le architetture il cui contenuto simbolico può essere largamente determinato dalle variazioni di uso. È il caso della Neue Wache, uno dei primi edifici progettati a Berlino da Schinkel, la cui destinazione simbolica è continuamente mutata in relazione ai cambi di regime. Nata per ospitare il corpo di guardia imperiale, la Neue Wache è diventata con la repubblica di Weimar il monumento alle vittime della Prima guerra mondiale. Nel 1950 il governo comunista della DDR ne fece il «Monumento alle vittime del fascismo e del militarismo». Nel 1993, caduto il comunismo ed abbattuto il muro, la Neue Wache è stata ribattezzata dal cancelliere Kohl «Monumento alle vittime della guerra e della tirannia»6. 6

Ladd, Brian, op. cit., p. 217.

La Neue Wache è uno dei primi edifici progettati a Berlino da Schinkel. La sua funzione simbolica è continuamente mutata in relazione ai cambi di regime. Nata per ospitare il corpo di guardia imperiale, la Neu Wache è diventata con la repubblica di Weimar il monumento alle vittime della Prima guerra mondiale. Nel 1950 il governo comunista della DDR ne fece il “Monumento alle vittime del fascismo e del militarismo”. Nel 1993, caduto il comunismo ed abbattuto il muro, la Neue Wache è stata ribattezzata dal cancelliere Kohl “Monumento alle vittime della guerra e della tirannia”.

Uno straordinario esempio di recupero dell’esistente con nuove intenzionalità è costituito dal Reichstag trasformato da Norman Foster nel simbolo della nuova Germania democratica. Distrutta nel ’33 da un incendio voluto da Hitler per poter, con questa scusa, eliminare le ultime libertà costituzionali, la sede del parlamento tedesco era stata conservata dai nazisti come rudere e contro monumento del potere. Dopo aver attraversato sempre come rudere gli anni delle dittature nazista prima e comunista poi il Reichstag è tornato a vivere e ad ospitare il parlamento democratico della Repubblica Federale. La cupola di cristallo illuminata ne fa il più eloquente simbolo della nuova Germania democratica

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che, rimuovendo la memoria ed i segni dei totalitarismi nazista e comunista, intende fondare su una – ancorché breve – tradizione democratica una identità nazionale orientata al futuro. Un radicale tentativo di cancellare le memorie di pietra politicamente sgradite è avvenuto nella Berlino post comunista dove ha preso corpo un’autentica “sindrome del muro”. Tutto ciò che rappresentava il regime comunista doveva essere distrutto e nuove architetture avevano il compito indicare il cambio di rotta ed il ritorno alla democrazia ed al benessere, da Potsdamer Platz (rifatta da Renzo Piano) al Check Point Charlie (trasformato dalla Philip Johnson Haus). Nella Berlino di oggi il passato rimane come mito di un luogo – Potsdamer Platz – che viene attualizzato con l’imposizione dei due popolari marchi della Daimler Chrysler e della Sony che parlano del nuovo e scintillante mondo dei consumi in cui è entrata la Germania postcomunista. Qualcosa, salvato dalle ragioni filosofiche, è rimasto nei toponimi. È il caso della Karl-Marx-Allee, la grande arteria trasformata negli anni della DDR nel salotto buono dell’architettura del “classicismo socialista” e della cosiddetta tradizione costruttiva nazionale. Nata come Frankfurter-Allee, la strada è stata ribattezzata nel 1949 Stalin-Allee per poi divenire nel 1961, grazie al nuovo corso, Karl-MarxAllee. Nome che ha conservato anche dopo la caduta del muro malgrado qualche tiepida protesta. Una voce solitaria contraria a questa politica di totale rimozione è stata quella di Daniel Libeskind il quale ha sostenuto – tanto con le parole che con i suoi straordinari progetti – che è la memoria fisica di un orribile passato e non la sua eliminazione a costituire il più straordinario monumento al presente ed un eloquente

strumento pedagogico. È il filo rosso della memoria che rende straordinario il suo Jewish Museum di Berlino, che in un mix di effetti cognitivi e sensoriali catapulta anche il più refrattario visitatore nel mondo tragico dell’Olocausto. Citazioni bibliche, di Walter Benjamin e di Arnold Schönberg si intrecciano, rafforzandole, con le sensazioni ansiogene prodotte dai suoni, dagli angoscianti silenzi e dagli improvvisi vuoti dell’edificio. * * * Mussolini aveva ben chiaro come i due principali strumenti di propaganda per un regime totalitario, soprattutto in un paese a bassa alfabetizzazione come l’Italia, fossero il cinema e l’architettura, entrambi in grado di parlare alle masse e di esaltare la dittatura. All’architettura Mussolini dedica grande attenzione facendo ricorso ad un disinvolto ed opportunistico eclettismo passando dal retorico monumentalismo littorio al razionalismo degli uffici postali (cfr. in particolare quelli romani) e di alcune stazioni ferroviarie (tra cui la straordinaria Santa Maria Novella di Michelucci), spostandosi dal ruralismo tradizionalista delle città nuove delle Paludi Pontine allo storicismo di molti edifici pubblici. L’importante per il Duce era comunicare simultaneamente la funzione dell’edificio e, soprattutto, la capacità del regime di produrre storia. L’argomento largamente dominante nei cinegiornali e nei filmati dell’Istituto Luce (significativo acronimo che sta per L’Unione Cinematografica Educativa) è costituito dai cantieri edilizi del fascismo. Dai borghi rurali e dall’edilizia popolare dei quartieri modello agli stadi ed agli sventramenti simbolici per far posto a strade monumento come Via dei Fori Imperiali o Via

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Il brusio delle città

della Conciliazione, sullo schermo campeggia sempre il piccone del Duce. Il paese tutto, questo è il senso della martellante comunicazione del regime, è diventato, grazie a Mussolini, un gigantesco cantiere il cui scopo non è solo e tanto quello di produrre case, scuole, uffici postali, servizi quanto di costruire un’Italia nuova dove la modernità si leghi alla tradizione e da questa attinga forza. Si comprende così l’eclettismo stilistico del fascismo che utilizza in prevalenza il razionalismo per gli edifici dei servizi pubblici – p. e., stazioni e poste – ed il monumentalismo trionfale per le architetture simbolo. Per il regime, trasformare la scena urbana significa mostrare la propria capacità di fare storia e di guidare l’Italia sulla strada di un’eroica modernizzazione. In questo progetto l’architettura assume un ruolo assolutamente centrale perché «con la sua costante presenza, modifica poco a poco il carattere delle generazioni», come recita il Dizionario del fascismo.7 Il capitolo probabilmente più eloquente della strategia politica dell’architettura del regime è costituito dall’EUR che – considerazioni politiche a parte – rappresenta uno dei punti più alti dell’urbanistica e dell’architettura italiane del XX secolo. Influenzato profondamente dalle suggestioni trionfali della proclamazione dell’impero e dalla non dissimulata competizione con l’architettura celebrativa di Hitler, Mussolini intendeva fare dell’E42 – Esposizione Universale Romana, prevista per il 1942, ventennale della Rivoluzione fascista – l’occasione per creare e mostrare al mondo una città nuova, simbolo della modernità fascista, capace di dialogare con la

Mussolini intendeva fare dell’E42 (Esposizione Universale Romana, prevista per il 1942, ventennale della Rivoluzione fascista), rinominata in seguito EUR senza alcun riferimento all’anniversario, l’occasione per creare e mostrare al mondo una città nuova, simbolo della modernità fascista, capace di dialogare con la Roma storica, cara al regime ed alla sua retorica. Per questo motivo l’“esposizione-quartiere” venne dotata, intenzionalmente ed esplicitamente, di un’enorme capacità narrativa. Domina il quartiere il Palazzo della Civiltà del Lavoro, il “Colosseo quadrato” (di Guerrini, La Padula e Romano), destinato in origine ad ospitare la “Mostra della civiltà italiana da Augusto a Mussolini”, su cui campeggia indelebile, con involontaria e tragica ironia, la grande scritta che inneggia al popolo di santi, eroi, navigatori, eccetera.

Roma storica, cara al regime ed alla sua retorica. L’EUR intendeva essere «la città nuova degna di stare accanto all’antica» – secondo le parole entusiastiche di Vittorio Cini. Nello stesso senso si esprimeva il filosofo Giovanni Gentile sulla rivista bimestrale dell’esposizione. Ugo Ojetti è ancora più chiaro: «all’E42 si costruisce storia, non si costruiscono case»8.

7

Nicoloso, Paolo, Mussolini Architetto – Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Einaudi, Torino 2008-2011, p. 270.

8

Ivi, p. 206.

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L’EUR si presentava come l’eloquente monumento di quella modernità imperiale di cui il fascismo, dopo la proclamazione dell’impero e l’annessione dell’Albania, intendeva farsi promotore. A questa “esposizionequartiere”, che viene dotata, intenzionalmente ed esplicitamente, di un’enorme capacità narrativa, Mussolini affida il compito di rappresentare il progetto imperiale ed il suo legame con la storia. Per l’occasione il Duce, convinto più che mai della rilevanza propagandistica dell’architettura dopo il successo di Sabaudia, riunì i migliori progettisti italiani ponendoli sotto l’attento controllo di Marcello Piacentini che aveva meritato il suo plauso nel pilotare la realizzazione della monumentale città universitaria di Roma. L’esempio più significativo delle architetture dell’EUR è probabilmente il Palazzo della Civiltà del Lavoro, il “Colosseo quadrato” (di Guerrini, La Padula e Romano), destinato in origine ad ospitare la “Mostra della civiltà italiana da Augusto a Mussolini”, su cui campeggia indelebile, con involontaria e tragica ironia, la grande scritta che inneggia al popolo di santi, eroi, navigatori, eccetera. Che il fascismo intendesse affidare all’architettura una funzione non solo legittimatoria ma anche pedagogica – considerati il livello culturale molto basso della popolazione italiana ancora in gran parte rurale – è reso ben chiaro anche dal continuo ricorso all’eclettismo stilistico ed alla sua forte ed immediata semanticità. «In arte come nello scrivere o nel parlare bisogna essere capiti, prima di tutto capiti», afferma Mussolini9. Piacentini, influente e celebrato architetto del fascismo, è anch’egli esplicito quando scrive che l’architettura è 9

Ivi, p. 220.

«potente mezzo di educazione» delle masse e che essa «deve sempre rappresentare qualcosa».10 Esempi di questa architettura narrativa del fascismo sono numerosi a Bari – città che porta chiari i segni dell’imprinting del regime –. Qui negli anni ’30 il fascismo investì massicciamente nell’edilizia pubblica differenziandone gli stili in ragione delle diverse esigenze comunicative. Il palazzo delle poste di Narducci è elegantemente razionalista ed è simile a quelli più noti della capitale. Concentrato dell’eclettismo legittimatorio – nella stessa logica del Ring di Vienna – è il nuovo lungomare barese costruito nel ’33 per rappresentare la “visione storica dell’Adriatico” di Mussolini che lo inaugurò. Qui si allineano il comando della regione aerea di Dioguardi, razionalista in ossequio alle indicazioni di Italo Balbo che voleva che la “sua” aeronautica fosse il simbolo della modernità; le torri ed il bugnato della caserma dei carabinieri di Bazzani, enfatico bastione a presidio dell’ordine e dello Stato; il palazzo della provincia disegnato da Baffa per evocare con la sua torre i palazzi pubblici delle autonomie comunali.

Le architetture della democrazia Le strategie legittimatorie centrate sull’architettura non si limitano evidentemente ai regimi autoritari; non a caso Wright intendeva con le sue case dar vita ad una “architettura della democrazia”. La Francia tanto monarchica che repubblicana, per esempio, ha 10

Ivi, p. 223.

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Il brusio delle città

Il Presidente Giscard d’Estaing, che promosse la realizzazione sia del Museo d’Orsay che del parco de La Villette, intendeva creare un simbolo architettonico della sua politica estera tesa a ricostruire l’influenza francese sui paesi arabi dopo lo scacco della decolonizzazione. L’Institut du Monde Arabe di Parigi, affidato da una commissione presieduta dallo stesso presidente alla progettazione di Jean Nouvel, mira a rappresentare con forme e simboli immediatamente comprensibili il senso della cooperazione tra Francia e paesi arabi fondata sulla necessaria sintesi di modernità e tradizione. I disegni della facciata appartengono alla cultura araba ma racchiudono l’alta tecnologia degli “otturatori sensibili” destinati a filtrare la luce solare.

sempre ed intensamente utilizzato l’architettura come strumento di auto rappresentazione. «L’architettura è il più curioso sintomo del carattere monarchico della nostra democrazia», nota François Chaslin, critico di architettura di Le Monde.11 L’architettura della Francia – soprattutto di Parigi – può raccontare oggi con estrema chiarezza la storia politica del paese. Da Versailles 11

Chaslin, François, Les Paris de François Mitterand, Gallimard, Parigi 1985, p. 19.

e dai boulevard di Haussman alle attuali Très Grande Bibliothèque – che magari non funziona perfettamente ma che come simbolo è straordinaria – ed al rinnovato Grand Louvre il filo rosso dell’intenzione legittimatoria lega i maggiori momenti dell’architettura francese. Il progetto con le piramidi del Louvre di I.M. Pei fu scelto personalmente, senza concorso, dal presidente-sovrano Mitterand con quello che venne poi definito «l’arbitraire signé». Decisione non unanimemente accettata al punto che venne coniato per il presidente “bâtisseur”

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Il progetto con le piramidi di I.M. Pei per il Grand Louvre fu scelto personalmente, senza concorso, dal Presidente-sovrano Mitterand con quello che venne poi definito “l’arbitraire signé”. Decisione non unanimemente accettata, al punto che venne coniata per il Presidente “bâtiseur” la definizione Mitteramsés Premier. Lo stesso Presidente scrive con chiarezza provocatoria in La Paille et le grain: «In tutte le città io mi sento imperatore o architetto. Io taglio, io decido, io arbitro».

la definizione Mitteramsés Premier. Lo stesso presidente scrive con chiarezza provocatoria in La Paille et le grain: «In tutte le città io mi sento imperatore o architetto. Io taglio, io decido, io arbitro»12. Jack Lang, potente ed intelligente ministro francese della cultura, parlando dell’intensa attività del settennato mitterandiano nel promuovere e realizzare la nuova grande architettura rappresentativa di Parigi definiva il Presidente Mitterand «bâtisseur et créateur».13 Nel 1982, in un puntuale articolo su L’Architecture d’aujour­ d’hui, ribadendo che «…i poteri forti si sono espressi 12 13

Ivi, in epigrafe del volume. Ivi, p. 19.

attraverso le più grandi imprese architettoniche», Lang giustifica l’attivismo del suo presidente: «…le esperienze socialiste del 1936 in Francia ed in Cile non hanno avuto né il tempo né i mezzi per realizzare una propria architettura. Noi abbiamo quindi delle occasioni che non possiamo lasciar scappare»14. La Parigi del bicentenario si presenta, perciò, come un enorme testo nel quale i singoli episodi dei Grand Travaux costituiscono altrettanti capitoli che comunicano, affiancandosi a quelli preesistenti, il protagonismo dello Stato e l’identità nazionale. Tutti rinviano al nome di un sovrano o di un presidente (a Napoleone I l’Arc de Triomphe, la Grande Arche de la Défense e le piramidi del Louvre a Mitterand, gli Champs Elysées a Luigi XIV, l’obelisco di Place de la Concorde a Luigi Filippo) ma, soprattutto, esaltano lo Stato francese. Nella stessa logica va letta l’Opera Garnier voluta da Napoleone III per rappresentare il cuore ed il simbolo di Parigi, capitale culturale del mondo. Il sontuoso teatro dell’opera progettato Garnier esprime eloquentemente ed esalta i valori fondamentali della Francia del secondo impero: ricchezza, prosperità, cultura, ostentazione. In questo senso l’Opera parigina può essere anche considerata la traduzione architettonica dell’invito «enrichez vous», arricchitevi, lanciato nel 1848 dal primo ministro Guizot ed assunto come principio guida dalla borghesia francese per mezzo secolo alla ricerca, dopo il grande spavento della Comune, di «luxe, calme et volupté», per usare un verso di Baudelaire, poeta urbano per eccellenza. Anche il primo ministro laburista inglese Blair non ha resistito alla tentazione di lasciare su Londra un se14

Ibidem.

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gno visibile del proprio governo. Il Millennium Dome, costato – alla fine di una lunga e travagliata gestazione – quasi un miliardo di sterline, non è sembrato però né ai critici né al grande pubblico all’altezza delle intenzioni rappresentative del primo ministro e, soprattutto, della spesa. Ciò – come argomenta Sudjc – anche per la cultura architettonica di Blair e dei suoi consiglieri che era di gran lunga inferiore a quella di Mitterand e dei suoi predecessori. Anche il principe Carlo, che aveva come mentore e consigliere Krier, ha dimostrato, a partire dal famoso ed infausto discorso al RIBA in cui aveva definito le nuove architetture razionaliste un foruncolo sul volto di Londra, una quasi totale incapacità a comprendere rilevanza e senso dell’architettura nella società contemporanea. Le architetture delle democrazie contemporanee non si accontentano, come spesso avveniva nei regimi totalitari del passato, della eccezionalità della scala propria della monumentalità. Sono più attente ai contenuti della comunicazione ed alla sua capacità di essere raccolta da un pubblico diversificato. L’Assemblea Nazionale progettata a Dacca in Bangladesh da Louis Kahn rinvia, anche grazie ad un raffinato sistema di citazioni formali, ai modelli occidentali di democrazia assunti come riferimento. Commenta un architetto locale a lode di Kahn: «...here in the poorest country in the world, he gave us an institution for democracy» 15. Analoghe intenzioni di collegamento simbolico con la tradizione democratica occidentale sembrano avere – quantomeno analizzati a posteriori – gli edifici 15

Cit. in Klingmann, Anna, Brandscapes – Architecture in the Experience Economy, The MIT Press, Cambridge MA 2007 p. 178.

pubblici (Parlamento, ecc.) progettati negli anni ’50 da Le Corbusier per Chandigarh, la nuova capitale del Punjab, per rispondere all’invito del Pandit Nehru di realizzare «a temple of a new India». Nelle grandi opere pubbliche spesso la funzione simbolica sopravanza quella pratica. Un esempio clamoroso è costituito dall’annunciato e poco probabile Ponte sullo Stretto di Messina – ormai considerato unanimemente appartenente al “mito” (nel senso etimologico greco di “racconto”) – e giudicato da tutti i tecnici assolutamente inutile economicamente e funzionalmente ma che avrebbe dovuto assolvere – nelle intenzioni di Berlusconi – il compito di mostrare la capacità di un governo di lasciare un segno indelebile nel paesaggio e nella storia. Come tutte le strategie legittimatorie anche quella architettonica può, però, conseguire effetti controintuitivi se la realtà smentisce clamorosamente il discorso veicolato dal progetto. Ciò è avvenuto per il ponte sullo stretto così come è stato per la Gibellina e l’Aquila del dopo terremoto. Il carico simbolico delle grandi architetture pubbliche è rilevante ed esplicito soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Dimensioni ed attenzione progettuale di molti aeroporti di questi paesi non trovano giustificazione nei volumi del traffico ma invece nelle strategie comunicative dello Stato o del dittatore di turno. Le intenzioni dimostrative della capitale federale Brasilia voluta dal presidente Kubitschek e progettata da Oscar Niemeyer non sono molto diverse da quelle di George Washington quando affidò a Pierre Charles L’Enfant l’incarico di disegnare una capitale dell’Unione in grado di stupire ed intimidire ambasciatori e visitatori e di stimolare ammirazione e lealtà dei cittadini.

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Il capitale e il Welfare

I simboli del capitale Più complessa, anche se simile nelle intenzioni di costruire consenso, è la strategia delle grandi corporation che, soprattutto negli ultimi decenni, stanno investendo in maniera massiccia in nuove sedi di prestigio affidandone la progettazione agli archistar più famosi. La scelta del grande capitale di rappresentarsi in importanti edifici in grado di segnare lo skyline urbano non è nuova, soprattutto negli Stati Uniti. I grattacieli dall’ultimo quarto dell’Ottocento – appena cioè l’invenzione del freno automatico per gli ascensori da parte di Otis ne permise la realizzazione – agli anni ’30 del secolo successivo segnano lo skyline di Manhattan facendone la metropoli della modernità per eccellenza. “La torre del grattacielo – che si eleva libera della città, è la più potente ed unanimemente riconosciuta espressione dell’orgoglio americano” proclama l’architetto Robert Stern1. La neogotica Trinity

Church, costruita nel 1846, è stata l’edificio più alto di New York sino al 1982. Secondo alcuni commentatori dell’epoca, quando il Pulitzer Building la superò in altezza di 25 piedi, circa sette metri e mezzo, ciò che era messo in discussione era addirittura il primato di Dio. Più realisticamente, ci fu chi rilevò come finalmente il capitalismo americano avesse trovato la sua espressione artistica. Del resto, l’architetto Louis Sullivan, che dei grattacieli è considerato il padre, scrive che indipendentemente dallo stile – classico, gotico, ecc. – nel grattacielo «ogni pollice deve essere qualcosa di orgoglioso che spicca il volo»2. Comincia la “skyscraper era” durante la quale il cityscape della grandi metropoli americane si configura, per usare le parole di Sharon Zukin, come un gigantesco e dinamico «landscape of power». Il grattacielo nasce con il DNA del monumento perché «oltre una certa massa critica ogni struttura diventa un monumento, o quanto meno suscita tale aspettativa semplicemente con la propria dimensione, anche se l’insieme o la natura delle singole attività che accoglie

1

Stern, Robert A.M., Pride of Place – Building the American Dream, Houghton Mifflin Company, New York 1986, p. 251.

2

Ibidem.

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non prevederebbero un’espressione monumentale»3. Una parte dei grattacieli – tra cui il più noto è l’Empire State Building – fu esito di grandi ma tradizionali speculazioni immobiliari (l’Empire, comunque, per la sua rilevanza simbolica fu inaugurato a distanza dal Presidente Hoover che lo illuminò da Washington), un’altra – forse quella architettonicamente più rilevante – fu realizzata come simbolo pratico del potere e della forza delle grandi corporation che in quegli anni crescevano in maniera esponenziale. Il Flatiron Building del 1902, l’unica creazione di Daniel Burnham a New York, può essere considerato per sua forma innovativa e non solo per l’altezza il primo vero grattacielo di Manhattan. Forse proprio per questo l’edificio era all’epoca, con la Statua della Libertà ed il Ponte di Brooklin, l’immagine preferita delle cartoline illustrate e dei souvenir di New York. La Singer Tower, la Metropolitan Life Tower, il Woolworth Building, il Trinity Building e l’Equitable Building (pubblicizzato come «una città a sé, potendo ospitare 16.000 anime»)4 furono progettati per essere i nuovi simboli del potere delle corporation e di una città che aspirava a diventare la capitale del mondo. Il Woolworth Building fu definito non da un giornalista ma da un ecclesiastico – il reverendo Parkes Cadman – la “Cattedrale del commercio” forse anche perché come le cattedrali medioevali era stata costruita soldo su soldo. Allora, con l’obolo dei fedeli, oggi con i penny dei clienti della popolare catena di negozi a basso prezzo Woolworth. Gli anni della “skyscraper era” sono, 3 Koolhaas, Rem, Delirious New York, The Monacelli Press, New York 1997, tr. it. Electa, Milano 2002, p. 92. 4 Ivi, p. 83.

paradossalmente, anche quelli in cui il governo federale con lo Sherman Antitrust Act cerca di arginare lo strapotere delle corporation di cui i grattacieli che numerosi sorgono nelle metropoli statunitensi intendevano essere l’orgoglioso ed eloquente simbolo. Manhattan, anche per la sua natura di isola, diventa rapidamente la sede naturale e visibile del grattacielo che domina lo skyline mentre le splendide e innovative architetture verticali di Chicago, città considerata culla dello skyscraper, possono essere viste come la risposta della capitale del midwest alla sfida di New York. La grande corsa dei grattacieli aziendali prosegue a New York fino alla grande crisi del ’29 che coincise con la realizzazione dell’Empire State Building, ribattezzato Empty State Building perché gran parte dei suoi uffici rimasero a lungo vuoti. Ma sino a quella data la corsa verso il cielo delle architetture delle grandi corporation continuò e ricominciò appena l’economia statunitense riprese fiato. La prima grande architettura del potere economico del dopo crisi fu il Rockefeller Center che con i suoi 19 palazzi – tra cui l’RCA Building ed il Radio City Music Hall – era una città nella città più che un edificio. Essa era il simbolo di una potente famiglia che controllava petrolio (Standard Oil) e banche (Chase Manhattan Bank) ma soprattutto quello della forza del capitale finanziario americano di reagire alla grande crisi. Messaggio rafforzato dalla scultura dorata che sovrasta la famosa piazza incassata del Rockefeller Center e che rappresenta Prometeo che porta il fuoco ai mortali. Sul fatto che Prometeo non potesse essere altro che il capitale non potevano esserci dubbi. Diego Rivera commise la “gaffe” di inserire anche l’immagine di Lenin nel gigantesco murale che gli era stato commis-

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Completato nel 1930, il Chrysler Building a New York è uno straordinario ed elegante (art déco) esempio di come un grattacielo possa diventare l’eloquente emblema della Corporation che lo possiede. Dalla splendente corona in acciaio inossidabile Krupp alle decorazioni a forma di ruote, agli ornamenti che riproducono i tappi del radiatore, tutto è pensato per richiamare e celebrare l’auto Chrysler proiettandola nel futuro. Non a caso una compagnia aerea ha fatto del tappo del radiatore del Chrysler Building il centro del proprio messaggio pubblicitario.

sionato nel 1933 per decorare l’atrio del RCA Building. Per questo motivo il dipinto venne immediatamente distrutto dai committenti che però, per evitare commenti imbarazzanti, pagarono immediatamente e lautamente il pittore comunista messicano.

I grattacieli della Chrysler e della ex Pan Am ed il Rockefeller Center rappresentano oggi altrettanti eloquenti landmark del panorama di Manhattan. «È ironico che nel pieno del crollo degli anni ’30 il Rockfeller Center abbia fornito la grande dimostrazione che il capitalismo americano abbia conquistato monumenti durevoli paragonabili a quelli della monarchica Europa»5. Essi, tuttavia, non rivestono probabilmente la stessa importanza nella storia, o quantomeno nelle cronache dell’architettura, del newyorkese ATT Building (oggi Sony Building) progettato all’inizio degli anni ’80 da Johnson. A favore della sua incredibile fortuna mediatica ha anche giocato il mutismo simbolico che ha contraddistinto i grattacieli statunitensi nel quarto di secolo precedente: “Gli edifici alti non erano più torri orgogliose ma semplicemente edifici alti”6. Nel secondo dopoguerra l’innamoramento di Marinetti per i grattacieli e l’inno agli scheletri di acciaio degli edifici del Manifesto futurista sembrano ormai più vecchi dei loro cinquant’anni. I panorami delle metropoli nordamericane sono in questi anni segnate dalla simbolicamente silenziosa “dittatura del cubo” del movimento moderno su cui si erge eloquente nel 1958 il Seagram Building di Mies van der Rohe, straordinario monumento di una potente corporation produttrice di whiskey. Su questo deserto semantico il grattacielo ATT di Johnson carico invece di enormi potenzialità narrative ha l’effetto di una bomba. Nessun edificio ha avuto come questo l’onore della foto della copertina del Time Magazine, e della prima pagina del New York Times e, in Inghil5 6

Stern, Robert, op. cit., p. 279. Ivi, p. 282.

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terra, del Times. Battezzato dal New York Magazine “Tower of Power” in quanto simbolo della forza di una delle maggiori corporation mondiali e definito la nuova “city cathedral” di New York ed esplicito simbolo del capitale finanziario come pochi, il grattacielo di Johnson è utile per mostrare il salto comunicativo delle architetture delle grandi corporation. Il richiamo immediatamente visibile al radiatore ed ai mozzi delle proprie auto, oltre ovviamente alla sua indiscussa eleganza Déco, costituisce il tema connotante del Chrysler Building che può essere a buon titolo considerato la pubblicità più duratura di un prodotto commerciale7. Più articolata e complessa è, invece, la strategia comunicativa dell’ATT Building realizzato circa mezzo secolo dopo. Questo edificio è considerato il primo grande esempio di post modern – qualunque cosa questa espressione possa significare – per il ricorso a forme e linguaggi popolari di immediata comprensibilità per le grandi masse. Il richiamo del suo fregio Chippendale alla credenza presente in gran parte della case americane, l’uso accattivante del rosa e lo scarto di scala degli archi della base, la retorica e gigantesca statua dorata simboleggiante l’elettricità collocata nell’atrio costituiscono elementi di una ben precisa strategia comunicativa del committente – la grande società di comunicazioni telefoniche le cui azioni – blue chips per eccellenza – sono uno degli investimenti preferiti dei fondi pensione delle famiglie statunitensi. Attraverso la propria sede di Madison Avenue, la ATT – la maggiore società del mondo quotata in borsa – intendeva comunicare al grande pubblico dei clienti e dei risparmiatori 7

Philip Johnson, da molti considerato il decano degli architetti americani, è stato il primo a ricevere il prestigioso Premio Pritzker, oggi unanimemente ritenuto il Nobel dei progettisti. È stato, però, necessario il successo del suo A.T.&T. Building di New York perché Time Magazine gli dedicasse nel 1979 la cover story. La rivista aveva già ospitato in copertina architetti di grido come Lewis Mumford, Eero Saarinen, Le Corbusier, Buckminster Fuller, ma nessuno accanto a un edificio specifico come nel caso di Johnson. Il vero protagonista della copertina e della cover story, infatti, non è in questo caso il progettista ma l’A.T.&T. Building, nuovo popolare landmark di Manhattan.

Stern, Robert, op. cit., p. 266.

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Nessun edificio come il newyorkese ATT (oggi Sony Building), progettato all’inizio degli anni ’80 da Philip Johnson, ha avuto l’onore della foto della copertina del Time Magazine e della prima pagina del New York Times e, in Inghilterra, del Times. Battezzato dal New York Magazine “Tower of Power” in quanto simbolo della forza di una delle maggiori corporation mondiali e definito la nuova “City Cathedral” di New York, il grattacielo di Johnson è da molti considerato il primo maggiore esempio dell’architettura narrativa postmoderna. Esso mostra chiaramente con le sue citazioni il salto comunicativo dell’architettura contemporanea, più attenta di quella del movimento moderno alla cultura di massa ed alle sue fonti.

Il fregio Chippendale del grattacielo di Johnson risponde ad una strategia comunicativa ben precisa dell’ATT, primo proprietario dell’edificio. La società, quotata in borsa e fornitrice di servizi di telefonia, doveva trasmettere un’immagine di solidità, di familiarità e di affidabilità. Per questo non c’era nulla di meglio del richiamo alla credenza Chippendale presente nella gran parte delle case americane.

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solidità, familiarità e grandezza. Esigenze analoghe a quelle della Sony che ha successivamente acquistato l’edificio imprimendo su di esso – secondo prassi – i propri nome e logo. Nella stessa logica si è mossa la Transamerica Corporation (filiazione della Bank of America scorporata dalla legislazione antitrust statunitense) quando ha affidato a Pereira la progettazione del suo grattacielo piramide a San Francisco che doveva innanzi tutto – sono dichiarazioni dei committenti ricordate dal progettista dell’edificio – trasudare ricchezza e quindi, nel caso di una banca, affidabilità finanziaria. Alla ricerca di visibilità e consenso era anche la compagnia di assicurazioni Swiss Re proprietaria del cosiddetto Big Gherkin o Cetriolone progettato da Norman Foster nella City di Londra. Questo grattacielo è diventato immediatamente nuovo simbolo della città e protagonista assoluto delle cartoline illustrate. In questo caso nella strategia legittimatoria affidata all’edificio è enfatizzato un richiamo alla green culture (utile per conquistare la fiducia delle giovani generazioni) ed alla sostenibilità energetica di cui l’edificio si propone come la sperimentazione più avanzata. Più di un critico, tuttavia, ha rilevato come a distanza ravvicinata il cetriolone invii messaggi poco amichevoli e si riveli inaccessibile. L’enigmatica polisemia (“enigmatic signifier”8) delle nuove icone della post-modernità – dal Museo Guggenheim di Frank O. Gehry a Bilbao al Big Gherkin di Foster – consente di rendere le narrazioni incorporate nell’edificio comprensibili al pubblico più vasto a cui è 8

Jenks, Charles, Iconic Building, Rizzoli International, New York 2005, p. 24.

Il grattacielo londinese della compagnia di assicurazioni Swiss Re progettato da Norman Foster, ribattezzato affettuosamente The Big Gherkin – “il cetriolone”, è diventato immediatamente il nuovo simbolo della città e protagonista assoluto delle cartoline illustrate. Nella strategia legittimatoria affidata all’edificio c’è, enfatizzato, un richiamo alla green culture (utile per conquistare la fiducia delle giovani generazioni) ed alla sostenibilità energetica di cui l’edificio si propone come la sperimentazione più avanzata.

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Il progetto con cui Adolf Loos partecipò nel 1922 al concorso internazionale per la realizzazione della sede del Chicago Tribune. Il grattacielo a forma di colonna dorica in marmo nero, benché non sia mai stato realizzato, è considerato una sorta di anticipazione dell’architettura postmoderna per l’uso – in questo caso ironico – di citazioni storiche per facilitare la comunicazione di massa.

lasciato l’accattivante compito di attribuire significati alle forme architettoniche. Le nuove architetture simbolo aprono con l’utente spettatore una sorta di gioco fatto

di stimoli e comunicazioni dove citazioni mediatiche e stilemi provenienti dalla cultura di massa si alternano a forme architetturali enigmatiche aperte a cento interpretazioni. Il soggetto si sente al centro del progetto sia che questo richieda la sua presenza per assumere vita e significato – dagli alberghi della catena Hyatt di Portman o alle Niketown pensate per essere una scena aperta a cento coreografie – sia per il ruolo centrale ed inappellabile conferitogli in tema di significati come nel caso del Guggenheim di Bilbao. Dagli Epicenter di Prada di Rem Koolhaas o di Herzog & de Meuron, al museo appena terminato dall’architetto del momento, ciò che conferisce il ricercato status di icona sono l’eccezionalità dell’oggetto architettonico e la rapidità con cui questo riesce a penetrare nell’immaginario collettivo. Oggi, la ricerca dell’eccezionalità per gli edifici, che a diverso titolo rinviano ad una qualche forma di potere, si sta facendo più intensa e difficile. Tutto lo skyline urbano, infatti, sta progressivamente diventando un panorama segnato da edifici che rappresentano il potere, sia esso politico o finanziario. Nella toscana di San Gimignano la competizione per il primato era tra le torri, nella Parigi dell’ancien régime tra i ricchi palazzi dell’aristocrazia, nella New York novecentesca tra i grattacieli; in tutte le grandi città contemporanee la gara è, invece, nell’eccezionalità delle architetture e sul loro impatto sul variegato e disincantato pubblico metropolitano. Accanto alle maestose e tradizionali architetture simbolo si moltiplicano quelle nuove, – musei, negozi, centri commerciali, festival market places, ecc. – tutte intenzionalmente user friendly. Queste, sempre leggibili ed affascinanti, vellicano e seducono il cittadino o il consumatore. Facendo anche aggio sul diffuso edonismo di

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massa si afferma una sorta di populismo progettuale che si legittima come espressione della cultura alta grazie alla firma degli archistar. Ciò che costituisce, infatti, il filo rosso delle lunga vicenda delle architetture del potere è la loro necessaria eccezionalità, voluta dal committente e fatta propria dal progettista, e la capacità di marcare il paesaggio urbano. Esemplari in questo senso sono le parole del bando del 1922 per la Chicago Tribune Tower che voleva «l’edificio per uffici più bello e più caratteristico del mondo». Adolf Loos, cogliendo appieno la volontà di auto rappresentazione del potente e miliardario editore, presentò il progetto della gigantesca colonna dorica che si innalzava su un massiccio parallelepipedo su Michigan Avenue segnando nelle intenzioni dell’architetto uno skyline già denso di grattacieli. Benché mai costruita la colonna di Loos è entrata nei libri di storia dell’architettura come esempio, ancorché virtuale, di eccezionalità simbolica. L’importante per le nuove architetture è, comunque, diventare famose e non solo per una sola giornata: cosa a cui, secondo Andy Warhol, tutti possono almeno una volta aspirare. Probabilmente, nessun edificio è stato tanto ripreso dai disegnatori umoristici come la Sydney Opera House che è stata trasfigurata come torta gelato, piatto di molluschi o come accoppiamento multiplo di tartarughe e definita persino come «un mucchio di suore» o un «incidente di auto senza sopravvissuti»9. Considerato da Nervi, che di cemento armato evidentemente se ne intendeva, una follia antieconomica, il progetto di Utzon per l’Opera di Sydney, benché 9

Jenks, Charles, op. cit., p. 33.

Considerata da Nervi, che di cemento armato ben se ne intendeva, una follia antieconomica, il progetto di Jørn Utzon per l’Opera di Sidney, benché scartato nella prima fase di concorso, fu scelto perché era la migliore delle icone possibili in quanto capace di diventare per la sua eccezionalità il simbolo stesso della metropoli australiana.

scartato nella prima fase di concorso, fu scelto perché produceva la migliore delle icone possibili capace di diventare per la sua eccezionalità il simbolo stesso della metropoli australiana. In taluni casi l’architettura di una corporation – se è eccezionale e sovrasta tutti gli altri edifici – come è avvenuto per le due torri della società petrolifera malese Petronas a Kuala Lumpur – può diventare il simbolo di una città o di un intero paese. Gli esempi delle nuove architetture del consenso possono essere numerosissimi per cui esiste solo l’imbarazzo della scelta che spazia dalla funzione simbolica dei grandi musei contemporanei – affascinanti icone della nuova economia postindustriale –, a quella degli Headquarters Building delle grandi società quotate in borsa. Di nuovo rispetto al passato c’è oggi l’enigmaticità. Lo scenario culturale attuale, infatti, è

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La Freedom Tower di Daniel Libeskind sorgerà sulle macerie delle torri del World Trade Center distrutte dall’attentato dell’11 settembre. Al grattacielo-monumento si richiede la stessa ed esplicita capacità narrativa di un memorial. I grandi spazi interni dell’edificio – chiamati Gardens of the World – richiamano nelle intenzioni del progettista la vita e la bellezza che vincono sulla morte. Tutta la Freedom Tower, splendente di cristalli e di luci, è pensata per essere un grande faro che dialoghi con la vicina torcia della Statua della Libertà che, dall’ingresso del porto sull’Hudson River, illumina – come recita il suo originario nome – il mondo: “Liberty enlightening the world”. L’obbiettivo progettuale della Freedom Tower è quello di produrre emozioni.

estremamente segmentato e fluido ed i valori di riferimento – strutture portanti delle grandi narrazioni ideologiche – non sono più generalmente condivisi. In una situazione del genere anche il potere deve nella sua comunicazione mantenersi sulle generali preferendo in molti casi battere la strada ambigua ma meno rischiosa dell’enigmaticità semantica e dell’opera aperta ad una molteplicità di interpretazioni. Ciò che importa è che la comunicazione e, quindi, l’effetto legittimatorio del monumento siano immediati. In una società fluida ed accelerata è, infatti, rischioso dover attendere anni prima che l’edificio si consolidi come icona nell’immaginario collettivo. L’edificio a funzione e rilevanza politico istituzionale deve diventare icona nel momento stesso in cui nasce. Anche prima, se è possibile, grazie ad un martellante battage giornalistico. In questa logica si inserisce il crescente ricorso da parte delle grandi corporation ad architetti famosi, gli archistar, la cui firma è sufficiente di per sé a rendere visibile e quindi efficace l’edificio. La cosiddetta signature architetture contribuisce a conferire al progetto, già intenzionalmente diverso e straordinario per volumi, altezza e forme, il necessario carattere di eccezionalità che la committenza richiede. Che ad affidare l’incarico siano le città-stato di Dubai o Singapore, il New York Times o la Hong Kong Bank ciò che importa è che gli edifici marchino lo skyline e che su questo imprimano ben visibile la presenza e la forza di chi li ha voluti e pagati. Un po’ diverso è il caso della Freedom Tower, progettata da Libeskind, che sta sorgendo al posto delle torri del World Trade Center distrutte l’11 settembre. L’attentato e le sue duemila vittime costituiscono una

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ferita troppo profonda e presente nella coscienza collettiva degli americani per essere ricordati solo da un edificio eccezionale. Al grattacielo-monumento sorto sulle macerie delle torri si richiede la stessa ed esplicita capacità narrativa di un memorial. I grandi spazi interni dell’edificio – chiamati Gardens of the World – richiamano nelle intenzioni del progettista la vita e la bellezza che vincono sulla morte. Tutta la Freedom Tower, splendente di cristalli e di luci, è pensata per essere un grande faro che dialoghi con la vicina torcia della Statua della Libertà che, dall’ingresso del porto sull’Hudson River, illumina – come recita il suo originario nome – il mondo, “Liberty enlightening the world”. L’obbiettivo progettuale della Freedom Tower è quello di produrre emozioni. L’enigmatico e provocatorio nuovo municipio di Londra progettato da Norman Foster sembra sfidare, simbolo del potere politico, sullo skyline londinese il Big Gherkin dello stesso progettista che è invece espressione del grande capitale finanziario. Il City Hall si iscrive nella grande tradizione inglese di marcare con forza il paesaggio metropolitano con i palazzi della democrazia. Nel 1943, ancora in pieno conflitto mondiale, il parlamento inglese decise di ricostruire appena possibile le Houses of Parliament distrutte dalle bombe incendiarie tedesche. Il dibattito si concluse con la decisione di ricostruire il parlamento nella sua forma originaria sia per motivi simbolici sia perché il suo layout storico esprimeva il carattere bipartitico della democrazia britannica. In quell’occasione Winston Churchill pronunziò una frase rimasta celebre: «we shape our buildings and afterwards our buildings shape us», riferendosi alla capacità dello spazio costruito di influenzarci.

Aeroporti e grandi eventi Gli aeroporti svolgono oggi una rilevante funzione simbolica in quanto rappresentano e riassumono per dimensioni, efficienza e qualità architettonica la progettualità di una città e – se questa è capitale – di un intero paese. Pionieristico in questo senso è stato l’avveniristico Charles De Gaulle di Parigi voluto e realizzato a tempo di record dal governo francese per mostrare al mondo la modernità della nazione ed ampliatosi successivamente nel tentativo di mantenere lo stato dell’arte sia come immagine che come efficienza. Sono molti gli aeroporti nei paesi diventati ricchi grazie ai petrodollari o in quelli ancora sulla faticosa via dello sviluppo la cui valenza simbolica sopravanza largamente quella pratica. A Dubai, per esempio, i marmi e le tecnologie avanzatissime dell’aeroporto rivestono la stessa funzione dimostrativa della pista innevata o del super grattacielo del ricchissimo emirato. In tal senso gli aeroporti – tanto quelli delle indiscusse città-mondo che quelli dei nuovissimi Stati-nazione – sono i diretti discendenti delle stazioni ferroviarie che – grandi ed indiscussi monumenti del XIX secolo – erano costruite per comunicare la grandezza di una nazione. Ulteriori segni architettonici della potenza e delle potenzialità dello Stato e delle città sono quelli lasciati dai cosiddetti grandi eventi come Olimpiadi, Expo o campionati mondiali di sport popolari. Alcuni di questi grandi eventi possono essere addirittura considerati monumenti creati per mostrare al mondo la grandezza di una nazione o di un regime. È il caso delle Olimpiadi di Berlino del ’36 unanimemente ritenute come il più grande spettacolo messo in scena dal nazismo per mostrare tanto al mondo

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Ormai inutilizzabile come stazione visto che le sue linee erano state spostate già nel 1939 alla Stazione d’Austerlitz, la Gare d’Orsay sembrava destinata alla demolizione. Proclamata dopo molte polemiche monumento nazionale, venne destinata dal Presidente Giscard d’Estaing alla funzione di museo. Questo, progettato da Gae Aulenti, aprì i battenti come Museo dell’Ottocento.

che ai tedeschi stessi la grandezza e la perfezione della propria razza. Lo straordinario documentario Olympia di Leni Riefenstahl può essere considerato una sorta di virtuale edificio narrativo in cui stadi, atleti e pubblico ricapitolano con l’efficacia delle immagini la missione storica di Hitler e del suo Herrenvolk. Grandi eventi assimilabili a quelli contemporanei appaiono già nell’Ottocento quando convergono alcuni fattori tra cui c’è, in primo luogo, la reale globalizzazione del mondo su cui competono economicamente, culturalmente e militarmente le grandi potenze. Gran parte del peso della competizione tra gli stati nazione viene affidata alle città capitali che dello Stato sono all’epoca precipi-

tato, vetrina e simbolo. Le grandi esposizioni mondiali del XIX secolo possono essere considerate come l’urform, la forma originaria, del grande evento attuale. Londra e Parigi nel disputarsi il titolo di capitale del XIX secolo – assegnato con ritardo e simbolicamente da Walter Benjamin a Parigi – organizzano le esposizioni universali in competizione tra di loro e le dotano di architetture iconiche simbolo di potenza e progresso. La città, e con essa la nazione che essa rappresenta, si pongono con l’Esposizione Universale al centro del palcoscenico del mondo e si offrono alla meraviglia ed all’ammirazione della propria gente e delle altre nazioni mostrando alle grandi masse, con un linguaggio accessibile, i progressi della scienza e della tecnica tutti ospitati sotto grandi architetture che possono oscillare tra l’alta tecnologia o la ridondanza del Beaux-Arts. Mentre le esposizioni di Londra del 1851 – passata alla storia soprattutto per il suo avveniristico Crystal Palace, e quella di Parigi del 1900 – per non parlare di quelle meno importanti della seconda metà del secolo – sono racchiudibili simbolicamente in iconici palazzi di cristallo o di ferro e di vetro (come il fiabesco Crystal Palace londinese, il Grand Palais e soprattutto la Gare d’Orsay di Parigi), la Fiera mondiale di Chicago del 1893 introduce nel mega evento la dimensione città e quella della competizione urbana (possibile negli Stati Uniti che sono privi, diversamente dagli Stati nazione europei, di una polarizzante città capitale). La competizione tra città per ospitare questo grande evento, di cui si individuano immediatamente i vantaggi non solo simbolici, è ben presente ne The Chicago World’s Fair del 1893, organizzata per il 400esimo anniversario della scoperta dell’America da

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Il brusio delle città

parte di Colombo. New York, Washington D.C. e St. Louis disputarono, infatti, fino all’ultimo a Chicago la possibilità di ospitare la Fiera. La rilevanza di questo megaevento non sta nei numeri pure monstre dell’esposizione – quasi 300 ettari, 200 edifici, laghi e canali artificiali e, soprattutto, 27 milioni di visitatori – all’epoca, quasi la metà della popolazione americana – La sua onda lunga fu soprattutto culturale. La Fiera, in gran parte progettata da Daniel Burnham e Frederick Law Olmsted – due tra i maggiori architetti dell’epoca –, intendeva esplicitamente produrre una sorta di prototipo di città ideale da presentare come esempio dell’“American Exceptionalism” così come il Crystal Palace lo era stato quarant’anni prima dell’Inghilterra vittoriana imperiale. Quella dell’esposizione di Chicago è una città ideale in miniatura che gli americani intendevano proporre come esito della propria capacità pionieristica di inventare il mondo pescando selettivamente nella storia. In essa è utilizzato a piene mani lo stile Beaux-Art che riprendeva alcuni princìpi dell’architettura europea. Della struttura fisica e degli edifici della Fiera di Chicago non è rimasto quasi nulla: ma la sua onda lunga, o eredità, è stata soprattutto culturale dal momento che l’esposizione ha avviato il City Beautiful Movement, e per almeno un quarto di secolo lo stile architettonico in essa utilizzato è stato negli USA il modello indiscusso della progettazione urbana ed architettonica. I megaeventi consentono ancora oggi di costruire con rapidità un’immagine forte e convincente di una città. Ciò può avvenire agendo innanzi tutto sulla leva dell’orgoglio dei cittadini – enfatizzando e mettendo in gioco l’identità ed il senso di appartenenza alla città piuttosto che alla nazione. Il successo di alcuni progetti

deriva dal fatto che Milano non è Roma, Barcellona non è Madrid, Shangai non è Pechino: esse sono, anzi, città in storica competizione con la capitale dello Stato. L’aggressività competitiva è alimentata dal loro antico e mai abbandonato ruolo di città antagonista o di seconda capitale. L’evento serve anche a sottolineare come – una volta messo in crisi il ruolo della città capitale dello Stato nazione – i giochi per il primato si possano riaprire su una scala che va ben oltre i confini nazionali. I grandi interventi sullo spazio urbano sono ancora, dopo secoli, fattori di attrazione e meraviglia – siano essi singoli edifici (qui l’architettura iconica contemporanea dà il meglio) come a Shangai o pezzi di città come a Barcellona. L’effetto finale del megaevento trascende però tanto l’occasione (Olimpiadi o Expo, per esempio) che i singoli edifici per investire, invece, la città intera. La Barcellona o la Londra del dopo-olimpiadi così come la Napoli del dopo G7 sono i segni – forse temporanei ma certamente eloquenti – della possibilità/capacità della mano pubblica sostenuta dal grande capitale di trasformare una città. Il megaevento può essere anche una preziosa occasione per rivitalizzare una città in crisi a causa della deindustrializzazione. Per questo motivo le sue architetture, previste per diventare elementi funzionali ed iconici duraturi del paesaggio urbano, diventano simboli della città – considerata Growth Machine per eccellenza – e di chi questo sviluppo governa. Grazie anche a questi eventi – ad altissimo impatto mediatico – sindaci (Maragall a Barcellona, per esempio) o lo Stato centrale (la Cina per Shangai) accrescono legittimazione e prestigio internazionale non diversamente dal principe rinascimentale che costruiva o ricostruiva una città (come Catania o Noto dopo i terremoti) o riusciva

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a trasformarla radicalmente come la Ferrara di Ercole d’Este. Oggi, la generica forza o grandezza non è però più sufficiente: fondamentale è il messaggio, che deve essere chiaro, semplice ed esplicito anche se polisemico, come in tutta l’architettura iconica. L’immediata riconoscibilità e narratività delle architetture dell’evento è indispensabile.

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Le architetture del Welfare Un nuovo e rilevante campo delle architetture significanti potere è oggi costituito da quelle definibili della quotidianità. In questo caso sarebbe probabilmente più preciso parlare di architetture civiche, anche se pure per queste è inevitabile il riferimento a chi governa la civitas facendo degli interventi sulla forma dell’urbs un importante strumento di legittimazione. Nuove e vistose architetture attribuibili al potere tendono oggi a presentarsi prevalentemente come espressioni civiche. Esse intendono essere il simbolo di una città e non più – tranne rari casi – della nazione che i processi di globalizzazione hanno fortemente indebolito. La competizione per aggiudicarsi maggiore visibilità e tramite queste crescenti quote di mercato è oggi tra città o regioni piuttosto che tra stati. Ricchezza, progettualità e internazionalità sono i tre principali messaggi che le nuove grandi architetture civiche intendono lanciare sia all’esterno che, anche e soprattutto, al pubblico dei cittadini. L’impiego massiccio, talvolta anche eccessivo, dei grandi nomi dell’architettura mondiale, che vengono chiamati persino per interventi modesti come, per esempio, la riqualificazione di un lungomare o il disegno di una piazza periferica, viene considerato necessario per

acquisire la necessaria visibilità sovralocale. La firma famosa viene ritenuta sufficiente a garantire un salto di immagine della città anche se spesso il carattere frequentemente ripetitivo dei progetti spegne con estrema rapidità la notorietà acquisita. Queste nuove architetture per raggiungere il desiderato effetto legittimatorio devono diventare esse stesse evento. L’effetto immediato sull’immaginario collettivo – conseguito grazie ad attente strategie mediatiche – è più importante di ogni altra cosa. Dei tre canonici attributi vitruviani la venustas prende il sopravvento sulla firmitas e soprattutto sulla utilitas dell’edificio. Anche e soprattutto la grande architettura civica deve, infatti, fare i conti con l’edonismo di massa contemporaneo in cui la strategia neobarocca fondata su ammirazione e meraviglia si sposa con quella della ipervisibilità imposta dalla logica mediatica. Nelle nuove architetture civiche confluiscono le intenzioni identitarie, le esigenze del marketing urbano e la pressione dei consumi per cui il potere e le sue architetture devono essere user friendly. Gli edifici federali di Portland, Oregon, disegnati da Graves sono ornati da giganteschi festoni, mentre il massiccio Federal Building di Marshall Plaza a Manhattan fu abbellito con scarso successo di pubblico dal Tilted Arc di Serra. Lo stato democratico essere vicino al cittadino e soprattutto deve piacere. Il processo di incantamento che oggi investe la città contemporanea tocca, perciò, anche le architetture del potere. Diversamente dal palazzo barocco, oggetto di ammirazione per il suddito che rimaneva in condizione di assoluta subalternità, qui è al cittadino che il nuovo potere si rivolge corteggiandolo e tentando di superare, con il ricorso a codici comunicativi popolari, l’asimmetria dei rapporti di potere.

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Oggi in Europa le architetture del potere si presentano soprattutto come architetture del welfare in quanto rappresentano lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, impegnato a soddisfare i bisogni fondamentali del cittadino dalla sanità all’istruzione, dall’assistenza alla cultura. Le architetture che ospitano e simboleggiano la politica costituiscono ormai solo una minima parte di quelle definibili del potere. In questa logica i nuovi grandi edifici civici – dall’ospedale o al museo – si pongono sia come strutture di servizio che come monumenti. Sono i più autentici monumenti del Welfare State che interviene a sostituire o a correggere il mercato per rispondere non solo ai bisogni ma anche ai desideri dei cittadini. Un capitolo importante di questa nuova generazione di architetture del potere è rappresentato dai musei a cui è affidato in misura crescente una funzione sia simbolico identitaria che promozionale. Definiti «le nuove cattedrali» nel 2007 dall’Economist, in un articolo in intitolato In Place of God, i musei costituiscono il segno fisico di una grande città esattamente come lo erano nel medio evo i grandi edifici religiosi. Per questa rilevanza simbolica e per l’indiscussa capacità declamatoria a favore della città o dello Stato che li ha realizzati, i musei sono oggi uno dei grandi campi di intervento dei grandi e celebrati architetti internazionali e destinazioni preferite dei grandi flussi del nuovo turismo culturale. Nella sola Gran Bretagna negli ultimi trent’anni ne sono stati inaugurati circa novecento. Per non parlare di quanto ha fatto in questo campo la Francia. Persino in Italia, così pigra e lenta nel produrre grandi opere civiche, l’architettura museale ha prodotto risultati di rilievo da Roma a Rovereto, da Verona a Torino.

La città contemporanea ha subìto una profonda trasformazione a causa della rapida deindustrializzazione e della globalizzazione. Il venir meno della tradizionali basi dell’economia e la competizione tra città in gara tra di loro per acquisire le risorse scarse costituite da capitali, imprese, famiglie e visitatori hanno costretto la metropoli contemporanea a reinventarsi. In uno scenario segnato da un’offerta di città largamente superiore alla domanda, la qualità urbana è diventata decisiva. Diversamente da quella moderno-industriale, nata nell’Ottocento, che era “data” e richiedeva – in nome della razionalità in essa incorporata – che fosse il cittadino ad adattarsi ad essa, la città contemporanea cerca, invece, di intercettare desideri e bisogni della gente modificando se stessa per piacere e soddisfare le crescenti aspettative dei cittadini. Cambiano le forme architettoniche, i servizi, l’organizzazione per rispondere ad una montante domanda sociale di benessere. La città è per prima volta centrata sulla domanda della gente. Un’alta qualità della vita è oggi il più importante degli asset di una città che proprio grazie a questa risorsa vede aumentare le sue chances di attrarre imprese e famiglie. A patto, però, che questa qualità sia ben visibile. Qui torna in gioco l’architettura. Nell’attuale domanda sociale rivolta alla città, diffuso è il desiderio di prender parte ad un grande spettacolo tanto nella forma straordinaria dell’evento o del mega evento che in quelli incorporati nella quotidianità dello shopping o del tempo libero. La città-spettacolo contemporanea è ben diversa, però, da quella dei secoli barocchi, quando il confine tra gli spettatori – il popolo – e gli attori – i potenti – era ben definito ed insuperabile. Oggi, ciascuno deve poter essere sui mille palcoscenici della città tanto spettatore che attore.

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Un ruolo importante nello spettacolo urbano contemporaneo ed in particolare alla sua scena è affidato all’architettura. Se gli edifici devono soddisfare i bisogni, l’architettura deve incontrare i desideri. Non solo gli edifici ma gli stessi architetti devono essere elementi dello spettacolo urbano. Gli archistar, attori della scena mondiale e protagonisti dell’estetizzazione della vita quotidiana, sono altrettanti landmark della città-scena. La forma estrema ed iconica della città spettacolo è l’evento in cui la città proietta se stessa ed i propri protagonisti sulla scena mondiale. L’architettura è spettacolo e la sua intenzionalità scenica è una costante. Il suo nuovo compito è risaltare, segnare il paesaggio urbano, piacere. Gli edifici iconici arricchiscono di significati la nuova scena urbana e non sono più, come affermava Benjamin, opere d’arte fruite in condizioni di distrazione. Il loro compito, sottolineato da un ricercata ed affascinante diversità, è quello di essere osservati. Non importa se piacciano o meno; ciò che conta è che siano visibili ed osservati. La città fordista, macchina efficiente dell’abitare collettivo fondata sullo zoning e sull’ottimizzazione delle funzioni, sembra ormai un lontano ricordo anche se dalla fine della sua stagione è passato poco più di un quarto di secolo. La lettura di New York – descritta come adrenalinica “Delirious city” – fatta nel 1978 dal geniale immigrato Rem Koolhaas non sorprende più nessuno. Che la città debba produrre shock per attrarre visitatori e soddisfare la propria gente lo sanno ormai bene tanto gli architetti che gli amministratori, entrambi imbevuti della cultura dell’eccitazione. Una città considerata e vissuta come adrenalinica costituisce, infatti, un potente fattore di legittimazione.

Città “is where the party never stops”; per cui non importa che essa sia efficiente ma che diventi spettacolo. Robert Venturi – affermando che Disneyland e Disneyworld e lo loro architetture erano un evento che la cultura progettuale avrebbe dovuto considerare con attenzione in quanto indicavano nuove direzioni per la città contemporanea – forse non si rendeva neppure conto di quanto fosse profetica la su affermazione. Si moltiplicano le aree della città dove il quotidiano diventa Disneyland ed il cittadino rapito sbarra gli occhi come Alice nel Paese delle meraviglie. Per questi nuovi scenari gli urbanisti statunitensi hanno coniato, con un termine da romanzi di fantascienza, l’etichetta urbanoid environments. Nel brusio della città contemporanea la voce più forte che sovrasta tutte le altre è quella del consumo. Le luci delle vetrine sono quelle che brillano di più e la fantasmagoria delle loro merci – di cui parlava Walter Benjamin – fa ormai parte dell’immaginario quotidiano. Il panorama urbano sembra essere ormai costituito essenzialmente dalle merci in esposizione e dalle insegne dei negozi. La sensazione è che lo spirito stesso della città tenda a concentrarsi nelle vetrine e che l’esperienza urbana stia precipitando nello shopping e nelle possibilità di consumo. Lo spirito della città si rivela più chiaramente nel suo cuore commerciale e nei suoi spazi più seduttivi, dove retail ed entertainment si fondono. Il divertimento, infatti, sembra oggi essere nel fare shopping mentre i luoghi del consumo vengono progettati per meravigliare e per divertire. Le invenzioni lessicali per indicare questa fusione si sprecano: shopertainment, retertainment o, addirittura, buyosphere, termine che gioca sulla stessa pronunzia di biosphere. Shopping malls, festival market place, strade commerciali, outlet ecc. si propongono come le

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nuove centralità urbane. Sono, in tendenza, gli effettivi spazi pubblici della città contemporanea chiamati, per necessaria supplenza e con forme fisiche nuove, a svolgere le funzioni della tradizionale agorà. La branded city, una città, cioè, fatta di marche e di insegne, si pone come modello unico per i panorami urbani contemporanei. Marchi universalmente noti da McDonald a Benetton, per la massa, da Prada a Nike per il pubblico più affluente, replicano se stessi e le proprie forme architettoniche in ogni città del mondo. Soprattutto, tendono ad imporre il linguaggio della pubblicità alla città tutta a partire dalle sue architetture. A portare una città sulla scena mediatica internazionale è molto spesso chiamata l’architettura. È l’effetto Bilbao, la cui ripresa economica, dopo un lungo periodo di crisi e di abbandono, è dovuta in larga parte alla sua nuova ed aggressiva immagine fatta di architetture di grande visibilità ed impatto firmate dalle maggiori archistar mondiali da Gehry a Foster e Calatrava. Nella speranza – rivelatasi per molti solo un’illusione – di poter battere con successo la stessa strada della capitale basca gli amministratori locali, soprattutto europei, hanno affollato gli studi dei grandi architetti cercando così di ridare energia e chances alle proprie città spesso messe in crisi – come Bilbao – dalla veloce deindustrializzazione. Gli amministratori delle città devono infatti sempre più spesso affrontare il tema della qualità – anche formale – degli spazi urbani una parte dei quali era stata profondamente segnata dallo spopolamento e dall’abbandono seguiti alla crisi industriale. Massicci progetti di rigenerazione urbana hanno trasformato le grandi metropoli industriali europee da Lille a Torino, da Genova ad Essen e Valencia, dove la Ciutat de les Arts i les Ciéncies proget-

La Ciutat de les Arts i les Ciències – Città delle arti e delle scienze – progettata a Valencia da Santiago Calatrava può essere considerata uno degli interventi meglio riusciti di rigenerazione urbana tramite l’architettura. I cinque straordinari edifici del complesso – il Palazzo dell’Arte, il Museo della Scienza, l’Humbracule, il parco oceanografico e l’Hemisferic – evocano modernità e tradizione, tecnologie avanzate ed identità mediterranea. Grazie a loro Valencia poteva, prima della crisi, contendere a Bilbao il ruolo di simbolo di una Spagna moderna e competitiva.

tata nel ’91 da Calatrava è immediatamente diventata il nuovo e potente simbolo della città. Per non parlare dei progetti che stanno oggi tentando di risollevare le città del Rust Belt statunitense da Cleveland a Detroit ed Akron dove si cerca addirittura di rendere verdi – in alcuni casi anche selvagge – le aree abbandonate dagli abitanti. Anche in questi casi gli intervento sullo e con lo spazio costruito – dai giardini agli ospedali ed ai campi da gioco – parlano di una ritrovata attenzione del soggetto pubblico, lo Stato o le amministrazioni comunali, ai bisogni ed ai desideri del cittadino. Il linguaggio è nuovo ma la ricerca del consenso è costante nelle nuove e vistose architetture, a partire da quelle destinate alla cultura – musei, teatri, arene –, che segnano gli skyline urbani d’Europa per comunicare al mondo la forza e la ritrovata progettualità delle città e le capacità di chi le governa.

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La stazione ferroviaria, monumento pratico e narrativo della modernità industriale

Le stazioni ferroviarie sono sempre state sin dalla loro nascita ottocentesca il simbolo della città nuova che la borghesia andava costruendo anche come monumento a se stessa. Quella della stazione è un’architettura tanto pratica che narrativa capace di riepilogare l’essenza stessa della città della modernità grazie alla straordinaria combinazione di nuove tecnologie e di enfatizzati ed immediatamente comprensibili richiami al passato storico assunto come insostituibile fonte di legittimazione. Con la stazione le ferrovie – simbolo concreto della tecnologia e del progresso – fanno il loro ingresso nel mondo dell’architettura trasformandolo. «...La creazione delle ferrovie è un fatto troppo importante nella storia dell’umanità, essa è destinata ad esercitare un’influenza troppo grande sui nostri costumi e sulle nostre istituzioni per non agire pesantemente sulla nostra architettura», recita il Traité d’architecture contenant des notions générales sur les principes de la construction del 18581. Eppure, non erano passati molti anni da quando Thiers, primo presidente 1

Cit. in Sauget, Stéphanie, A la recherche des pas perdus – Une histoire des gares parisiennes, Tallandier, Parigi 2009, p. 186.

della terza repubblica francese, aveva definito le ferrovie un “jouet”, null’altro che un giocattolo. Costruite prima di tutto nelle città capitali, le stazioni, sin dal loro apparire, hanno inteso rappresentare la nazione stessa di cui hanno anche ricordato le glorie facendo propri i nomi delle grandi e vittoriose battaglie: Waterloo a Londra ed Austerlitz a Parigi. Sono state il ponte visibile ed enfatizzato della nazione con la storia ed il futuro. Dalla prima sono venute le ridondanti architetture eclettiche e cariche di simboli capaci di produrre identità e legittimazione per la nuova classe dirigente; del futuro parlano invece le tecnologie ed i materiali (vetro e ferro) rivoluzionari prodotti della scienza e della tecnica di un secolo considerato tout court il secolo del progresso. Le stazioni hanno parlato alle grandi masse, con straordinaria efficacia, della potenza, della tecnologia, della ricchezza, della capacità di controllare il tempo e lo spazio presenti nelle nuove metropoli industriali. Ciò che le stazioni intendono rappresentare è soprattutto il rapporto progettuale della città con il proprio futuro e come questo abbia radici profonde nella storia. Essa intende presentarsi come esito della storia ed anticipa-

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zione del futuro. In questo senso si può anche parlare di architetture tanto identitarie che progettuali. La stazione è il simbolo per eccellenza della città del XIX secolo e della stessa rivoluzione industriale, snodo fondamentale del processo di civilizzazione globale, di cui è considerata simbolo esperibile praticamente. Sia come palazzo che nella sua forma fabbrica, la stazione è una delle icone architettoniche del secolo. Il suo eclettismo, unico ma dinamico e diversificato lungo un secolo, dà chiaramente conto delle diverse stagioni culturali e delle vicende storiche della città. È monumento centrale della città nuova, che aspira a diventare città mondo, e, grazie al suo enorme carico simbolico, essa è anche importante fattore di costruzione e di rappresentazione di identità. Essa, equivalente ottocentesco della grande cattedrale del medioevo, segna con la propria presenza il rango di una città ed il suo ruolo nella nazione e nel mondo. La stazione è, inoltre, luogo privilegiato e simbolicamente centrale della città ma è anche legame e ponte con altri luoghi. Essa è insieme piazza e porta della città verso il mondo e le sue risorse. La stazione ferroviaria è nata troppo tardi per avere una divinità che la rappresentasse e la proteggesse. Se ciò fosse stato possibile, questa divinità sarebbe stato Giano, il dio delle porte ritratto dai Romani con due facce. La prima rivolta verso la città, la seconda verso la campagna. La stazione è per questa duplice faccia un fabbricato doppio: metà palazzo (nella città) e metà fabbrica (nel territorio fuori dalla città), “mi-palais” e “mi-usine” secondo i francesi. Questa duplicità è ben presente nelle sue forme architettoniche: la stazione è, in quanto palazzo, luogo ed architettura della città mentre come fabbrica – fatta di vetro, di ferro e satura

di vapori – che si apre alla campagna ed all’“altrove” è legame con gli altri luoghi ed è soprattutto ben lontana dalle tradizionali forme urbane. La forma palazzo non era solo destinata a creare il monumento urbano ma anche a fungere da cerniera tra il mondo industriale rappresentato dalla ferrovia con il ferro ed il vetro e una città ancora premoderna. Nello sforzo di mostrare la propria natura urbana il palazzo stazione tende, perciò, a riassumere tanto nella forma che nel suo apparato simbolico le caratteristiche fondamentale della città a cui appartiene, enfatizzandone tanto le radici storiche che il processo di modernizzazione in atto. Man mano che la città intera si trasforma, un filtro che renda meno drastico il passaggio al mondo della modernizzazione diventa meno necessario e la forma architettonica cambia. L’accesso ai treni – soprattutto in Europa – diviene perciò più immediato e visibile mentre il palazzo dismette parte del suo enorme carico simbolico. Il distacco dalla storia, che costituisce l’asse portante dell’ordine simbolico del primo palazzo-stazione, diventa più evidente con l’accentuazione della modernizzazione e l’ingresso in un futuro segnato dalla grande mobilità di massa e dalla vertiginosa espansione dei mercati. Le forme architettoniche cominciano ad esprimere la nuova cultura razionalista e si registra, soprattutto in Gran Bretagna ed in Germania, una crescente attenzione agli aspetti tecnologici del progetto – con il relativo maggior peso degli ingegneri – e un crescente e più sapiente utilizzo del ferro e del vetro. La stazione ferroviaria ottocentesca è, come gran parte dell’architettura civica dell’epoca, un monumento pratico: un edificio, cioè, dove convivono sinergicamente

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funzioni pratiche – controllo e gestione della mobilità – e simboliche – monumento celebrativo della modernità e della borghesia che di questa è artefice e protagonista. La stazione, efficiente edificio-macchina e denso campo simbolico, va considerata come sistema spaziale integrato che poggia sulla coerenza tra le forme architettoniche e l’ordine simbolico in esse incorporato, uno spazio costruito che risponde alle aspettative di quanti a diverso titolo e ruolo lo fruiscono e comunica la grandezza storica del luogo dando anche informazioni, pratiche (p.e. layout e tracciati) e simboliche (gerarchia dei luoghi e destinazione degli stessi) sui comportamenti da tenere per usare al meglio l’edificio. La compattezza di questo sistema spaziale è massima nell’Ottocento e nella prima metà del secolo successivo, per allentarsi quando il numero dei viaggiatori sulla breve distanza – i pendolari – comincia a superare di molto quello di quanti intraprendono un viaggio “vero” e lungo. I primi, infatti, tendono a detematizzare l’environment architettonico della stazione collocando l’esperienza del suo veloce attraversamento nell’ovvietà della vita quotidiana sentendola non più come porta verso il mondo ma come tappa necessaria della routine metropolitana. Spogliata del suo carattere monumentale, la stazione si ripropone nella contemporaneità come macchina per la mobilità di massa facendo proprie – anche se con consistenti variazioni stilistico formali – le indicazioni efficientistiche del razionalismo. Il precedente sistema spaziale sopravvive ma con caratteristiche affatto nuove essendo cambiati le forme architettoniche, l’ordine simbolico in esse incorporato e la logica sottesa al nuovo monumento. L’appiattimento della stazione nella quotidianità è, però, oggi contrastato dal tentativo di restituirle il carattere di focus di centralità

della città e di grande monumento urbano il cui ordine simbolico è ancora alla ricerca di difficili equilibri. Oltre che icone e monumenti del secolo nuovo le stazioni possono essere anche considerate, per usare un’efficace espressione, «i sismografi delle crisi urbane». Le stazioni, infatti, sono e sono anche state rappresentazione condensata delle patologie della città moderno industriale in quanto hanno attirato ed accolto le marginalità e le diversità sociali non conciliabili rendendole visibili e non più occultabili come proponevano i primi urbanisti ottocenteschi. Campo ed espressione del simbolo di conquista del mondo e del futuro, le stazioni ferroviarie sono anche il mondo dell’emarginazione ed il territorio delle migliaia di Mr. Hyde ingoiati ed espulsi dalla metropoli contemporanea. Riproducendo anche in questo lo spirito della città moderno industriale, le stazioni ferroviarie hanno dovuto affrontare il problema del governo delle diseguaglianze e delle diversità non più occultabili fisicamente come si era sempre tentato di fare a partire dai primi quartieri operai creati da Hausmann ai margini di Parigi.

La stazione e la sua gente Edificio multifunzionale e polisemico, la stazione è stata simultaneamente palazzo-monumento, porta, piazza, macchina di mobilità, campo di emozioni. Costanti nella sua storia questi aspetti hanno assunto forme e spirito diversi negli anni proprio per la capacità della stazione di incarnare e rappresentare il proprio tempo cogliendone, amplificandone ed incorporandone i mutamenti. Se in alcuni momenti la porta ha preso il sopravvento sulla piazza o se gli aspetti emozionali

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hanno sopravanzato quelli funzionali, questi aspetti sono sempre stati compresenti in questa straordinaria e dinamica architettura narrativa ma polisemica. Per cogliere le modalità ed i tempi di questi dinamici equilibri è necessario fare i conti con le trasformazioni fisiche, sociali, culturali, tecnologiche della città rilevando come – proprio per questo suo essere un precipitato della città – la stazione ed il viaggio in ferrovia ne rappresentino anche la specificità storica che spinge, per esempio, su derive affatto diverse gli edifici europei e quelli nordamericani. Negli Stati Uniti la storia delle ferrovie è diversa da quella europea in quanto queste non vengono come per il vecchio continente dopo secoli di trasporti preindustriali ma coincidono con la nascita stessa della nazione il cui sviluppo è reso possibile proprio dal nuovo trasporto su rotaia, veloce e di massa. Anche se la costruzione delle ferrovie negli Stati Uniti è iniziata con ritardo rispetto all’Europa – la linea che collegava la costa est ai Grandi Laghi fu completata solo nel 1851, quando la Gran Bretagna aveva già seimila miglia di binari operativi – in pochi decenni è stata realizzata la più estesa rete del mondo. Le stazioni americane sono, perciò, più che in Europa considerate autentici monumenti nazionali anche perché esse sono i nodi della rete di comunicazioni che ha fatto degli Stati Uniti una nazione e non un arcipelago di isole praticamente irraggiungibili. «In Europa – scrive Schivelbuch – la ferrovia ha facilitato il traffico, in America lo ha creato».2 2 Schivelbusch, Wolfgang, The Railway Journey – The Industrialization of Time and Space in the 19th Century, The University of California Press, Berkeley 1977.

Negli Usa – diversamente dall’Europa dove la stazione era oggetto tra i preferiti di pittori e romanzieri – la stazione fa il suo ingresso prima che nella cultura alta nell’immaginario collettivo e popolare attraverso le cartoline illustrate, i racconti popolari e di avventure diventando il simbolo del progresso del potere finanziario della nuova nazione. Nella folla, di cui le stazioni ferroviarie sono uno straordinario palcoscenico, c’è tutta l’umanità che nella sua varietà dà forza ad un paese particolare come gli Stati Uniti. Essa è per Walt Whitman, il grande poeta della città americana, il più importante “emblem of motion and power”3. Del resto, l’autore di Leaves of Grass ha sempre considerato, sulla scia di Emerson, la folla non antitetica all’individuo che anzi (nella logica del “the One and the Many”) da questa trae forza. La ferrovia entra con estrema rapidità a far parte del paesaggio domestico nordamericano – al contrario dell’Europa dove vi furono forti resistenze iniziali a tutti i livelli sociali. Ad essa si oppongono raffinati intellettuali come Proust ed i contadini inglesi che temevano che il rumore del treno potesse influire negativamente sulla produzione del latte. In Germania contraria fu, per esempio, anche la Facoltà di medicina della Baviera che nel 1838 affermò che la velocità dei treni avrebbe provocato lesioni cerebrali. La presenza dei binari nelle città in America era, invece, largamente tollerata malgrado i fumi ed i rumori per cui la stazioni non vennero relegate ai margini della città ma sin dall’inizio furono collocate in prossimità del centro. 3

Cit. in Richards, Jeffrey e MacKenzie John, The Railway Station – A Social History, Oxford University Press, Oxford, 1986, p. 317.

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Sugli effetti negativi, sia urbanistici che sociali, dell’ingresso delle stazioni e dei suoi treni nel centro urbano è particolarmente duro Lewis Mumford: «Tutti gli errori possibili vennero commessi dai nuovi ingegneri ferroviari per i quali il movimento dei treni era più importante degli oggetti umani che tale movimento permetteva di raggiungere»4. Sono state, infatti, le “follie degli ingegneri ferroviari” a portare le stazioni ferroviarie nel centro della città e con esse non solo fumi e rumori ma degrado sociale. L’inquinamento atmosferico e sonoro prodotto dai treni faceva si che intorno alle stazioni andassero ad abitare i marginali e quanti erano costretti – per ragioni economiche – ad accettare le pessime condizioni ambientali della aree prossime alla ferrovia. Negli Usa dove le grande distanze rendevano le ferrovie elementi costanti del panorama domestico la stazione è vista anche come un momento della quotidianità che, in quanto necessaria, deve essere resa confortevole. Alcune stazioni si promuovono sin dall’inizio per il comfort che offrono: culle, barbieri, sdraio, ecc. All’inaugurazione del Grand Central Terminal di New York un cronista scrive: «Nella preparazione dei progetti per la nuova stazione tutto è stato sacrificato alle comodità del pubblico viaggiante»5. Nella pubblicità e nei resoconti giornalistici delle stazioni nordamericane vengono esaltate non solo ampiezza, illuminazione, ecc. ma anche e soprattutto le sale di attesa, che dovevano essere il più possibile simili a 4 Mumford, Lewis, The City in History, Harcourt Brace, New York 1961; tr. it. Milano 1963-67, p. 574. 5 Taylor, William R., In Pursuit of Gotham. Culture and Commerce in New York. Oxford University Press, New York 1992; tr. it. Marsilio. Padova 1994, p. 174.

salotti domestici con divani, poltrone, specchi, ecc. Ciò anche in presenza dell’accesso alle stazioni che negli USA, diversamente da molti paesi europei, era assolutamente libero e non filtrato da biglietti di ingresso o di viaggio. La stazione, infatti, è considerata un luogo pubblico – un “grande luogo” – ed è, quindi, per sua natura accessibile anche se la sua proprietà è privata. Le numerose proteste per la pericolosa presenza di vagabondi, mendicanti e venditori ambulanti, che sin dall’inizio diventano una costante del panorama umano della stazione, sono negli Stati Uniti motivate – ufficialmente – come lamentele per la diminuzione del comfort che queste presenze determinano e per i problemi che potevano creare ai passeggeri di genere femminile a cui le società ferroviarie dedicavano grandi attenzioni. La donna americana, infatti, proprio per la identificazione del viaggio in ferrovia con il viaggio tout court, sin dall’inizio prendeva il treno con la stessa facilità dell’uomo. La sua ordinaria presenza portò anzi alla creazione di una sorta di “etichetta ferroviaria” tendente a facilitarle il viaggio. Cosa che, raccontano le cronache, metteva in difficoltà i passeggeri europei che a questo tipo di galateo non erano assolutamente abituati. Fu riportato dai giornali americani il caso del viaggiatore inglese scaraventato fuori dal treno dagli altri passeggeri perché non aveva ceduto il posto ad una signora affermando che avendo pagato il biglietto, esattamente come la signora in questione, non intendeva viaggiare in piedi.6 6 Richter, Amy G., Home on the Rails – Women, The Railroad, and The Rise of Public Domesticity, The University of North Caroline Press, Chapel Hill 2005, p. 86.

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La Grand Central di New York, considerata al suo apparire come la quintessenza della tecnologia e del comfort, aveva istituito per le donne – facendosene vanto – una sala d’aspetto separata con pavimenti di quercia e marmo di Carrara alle pareti, cameriere e guardarobiere di colore. A disposizione delle viaggiatrici per evitare orecchie e sguardi indiscreti c’erano – solo a loro riservati – un salone da parrucchiere ed un locale con cabine telefoniche. Anche l’altro sesso, del resto, poteva godere di speciali privilegi tra cui un salone da barba lussuoso in cui per un dollaro si poteva essere rasi – recitava la pubblicità –in trenta diverse lingue.

Le quattro grandi stagioni delle stazioni ferroviarie Quella della stazione ferroviaria è una storia lunga 150 anni che vede la trasformazione della stazione-palazzo ottocentesca, monumento centrale della nascente città moderno industriale, nell’icona ritrovata della città della nostra contemporaneità attenta allo shopping ed all’immagine nella imperante logica del marketing urbano. È una lunga vicenda attraversata dai fili rossi dell’immaginario collettivo, delle strategie simboliche del potere, dalle dinamiche economiche e dalle innovazioni tecnologiche. È possibile in grande approssimazione individuare quattro grandi periodi della storia delle stazioni ferroviarie: 1. La grande stagione della stazione monumento che va dalla sua nascita ottocentesca sino agli anni ’20 del secolo successivo. Superato il breve periodo dei capannoni e degli anonimi depot nordamericani, co-

minciano gli anni dei grandi investimenti simbolico comunicativi in cui la stazione diventa il più grande monumento della città anch’essa, tutta intera, monumento alla dominante borghesia. È il periodo cosiddetto della railwaymania o – nei primi due decenni del XX secolo – della megalomania progettuale. 2. La virata funzionalista della stazione tra 1930-1950 che provoca una sorta di mutismo simbolico. Esaurita la grande narrazione sulla modernità e sulla razionalità – di cui l’eclettismo magniloquente dei decenni precedenti era stato persuasivo protagonista – la razionalità di cui la stazione continua a dichiararsi simbolo assume nuove e più essenziali forme. Nell’Europa continentale la presenza dei regimi totalitari conferisce a questa stagione significati affatto particolari in quanto le nuove stazioni vengono investite di rilevanti compiti rappresentativi e legittimatori. 3. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e tra il 1950 e il 1980 si registra la perdita di centralità pratica e simbolica ed un crescente degrado delle stazioni dovuto anche alla rilevanza assunta dal trasporto aereo – con la conseguente supremazia simbolica dell’aeroporto – e dalla diffusione della motorizzazione di massa. Migliaia di stazioni vengono soppresse soprattutto in Europa. 4. Gli ultimi decenni sono quelli della rinascita della stazione e della sua trasformazione fisica (le nuove architetture-immagine) e funzionale (la sua valorizzazione di nodo intermodale della mobilità di massa). Con la crisi dello Stato nazione termina l’egemonia della città capitale dove si concentravano gli sforzi e l’immagine della nazione e si apre la fase della competizione tra città, tutte in cerca di un nuovo

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La stazione ferroviaria, monumento pratico e narrativo della modernità industriale 55

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futuro. Una nuova e splendente stazione contribuisce alla costruzione di un’immagine di città vincente ed aggressiva. Sono gli anni del cosiddetto nuovo rinascimento urbano e della ritrovata centralità del cittadino e dei suoi bisogni. La grande architettura torna ad occuparsi di stazioni ferroviarie che cercano di costruire un nuovo rapporto con il cittadino considerato ora cliente da rispettare e coccolare.

La grande stazione segno della città capitale dello Stato nazione La Francia insieme alla Gran Bretagna è il paese in cui nell’Ottocento vengono realizzate la stazioni ferroviarie più grandi ed importanti. Ciò avviene soprattutto a Parigi che contende a Londra, aggiudicandoselo secondo Walter Benjamin, il titolo di capitale del XIX secolo. Mentre la ferrovia diventa una specie di “metafora culturale” per indicare il progresso, la stazione è qualcosa di più in quanto è anche l’emblema della città nuova. Essa, per questo, è tante cose insieme: è motore della mobilità, palazzo-monumento, agorà e campo per eccellenza di esperienze nuove. È ciò che è città e che segna la differenza tra ciò che città non è, è segno visibile della città come lo erano state le mura di difesa fortificate. Nella metropoli che si apre al mondo essa è, soprattutto, porta. Questa funzione è esplicitamente evocata dall’arco imperiale della Stazione Est di Budapest e soprattutto dal più famoso arco dorico – l’Euston Arch, abbattuto tra mille proteste nel 1991 – della Euston Station di Londra (progettata nella prima metà dell’Ottocento da Hardwick.) che è collocato ben distante dall’area propriamente

Le metropoli contemporanee sembra che abbiano ancora un gran bisogno di porte. L’arco Gateway to the West di Sant Louis, progettato da Eero Saarinen e realizzato a metà degli anni ’60, è oggi considerato non solo il simbolo della città ma dell’intero Stato del Missouri. Con i suoi 192 metri di altezza intende comunicare «lo spirito pionieristico delle donne e degli uomini che vinsero il West e di quanti successivamente si impegnarono su altre frontiere». L’arco di St. Louis è entrato nell’immaginario collettivo non solo come porta dell’Ovest ma anche, raddoppiato, come logo di McDonald.

ferroviaria proprio a sottolineare la sua natura di nuova porta della città. La rilevanza della stazione intesa come porta è enorme anche perché la città ritrova una vera porta, nelle sue storiche funzioni pratiche e simboliche, dopo un vuoto di circa tre secoli. «Oggi – scrive Le Corbusier – le porte della città sono nel centro perché le vere porte sono le stazioni ferroviarie».7 Le stazioni, aggiungerà in un altro scritto, sono «il mozzo della ruota urbana». Dopo la distruzione 7

Cit. in Pike, David L., Metropolis on the Styx – the Underworlds of Urban Culture, 1800-2001, Cornell University Press, Ithaca 2007, p. 221.

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Il brusio delle città

delle mura medievali avvenuta dalla fine del ’400 in poi e determinata anche dall’avvento del cannone, la città cresce rapidamente ed è in continua espansione. Essa, di conseguenza, non ha più avuto bisogno di vere porte che segnassero il confine tra il finito e l’infinito, tra l’indeterminato del fuori ed il regolato del dentro, tra il sicuro e l’insicuro, tra ciò che è città e ciò che non lo è. Quando porte sono state costruite tra il ’600 ed il ’700 esse sono state essenzialmente archi di trionfo non vere porte il cui attraversamento significasse qualcosa. Oggi la loro vecchia funzione è scomparsa anche dalla memoria collettiva. Le numerose porte di Parigi – come, per esempio, Porte St. Denis o Porte St. Martin – o di Roma – come Porta Pia, hanno perso il significato di ingresso nella città e sono ormai solo toponimi. La stazione è invece, per usare le parole scritte da Henri Lefebvre con altro riferimento, «una porta di ingresso e di uscita tra degli spazi qualificati e lo spazio quantificato». Tra il noto e l’esperito della città e l’ignoto del mondo. La porta, scrive Simmel nel suo saggio del 1909, parla mentre il muro è silenzioso. La stazione è una porta che parla e, tanto che si arrivi o che si parta, essa rappresenta il confine – enfatizzato e reso visibile dalle forme architettoniche e dai materiali – tra due diverse realtà. La stazione rappresenta l’ingresso nel regno della modernità e della moltiplicazione delle possibilità. È la soglia del mondo del benessere e delle chance per gli immigrati che dal Belgio giungono a Parigi alla Gare du Nord o per spagnoli e portoghesi che con le stesse speranze arrivano alla Gare d’Austerlitz. È porta d’ingresso di una società ricca ed aperta per i meridionali che con le valigie di cartone sbarcano alla Centrale di Milano o a Porta Nuova a Torino.

Furono in molti ad avere la sensazione del déja-vu quando venne reso pubblico il progetto dell’arco di St. Louis. La notizia che il Gateway Arch di Saarinen fosse copiato da quello disegnato da Adalberto Libera nel 1938 per l’E42-EUR, e mai realizzato, venne pubblicata dall’Herald Tribune che mise a confronto due manifesti. Saarinen si difese dicendo che l’arco ellittico era una figura geometrica e che quindi non apparteneva ad alcuno. Oggi c’è la proposta di realizzare l’Arco di Libera, spogliato da ogni riferimento al passato, come “Porta sud” di Roma.

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Il linguaggio delle stazioni

La stazione è, soprattutto, nuova e grande icona urbana. In Francia ed in Gran Bretagna, paesi fortemente industrializzati e potenti Stati nazione sempre alla ricerca di forti segni identitari, le stazioni ferroviarie sono state nell’ottocento monumenti e simboli della città moderno-industriale e focus delle sue nuove centralità. In Europa la stazione diventa progressivamente il cuore del sistema urbano ed un assorbente toponimo: la sua presenza connota strade (Place de la Gare) ed alberghi (Terminus Hotel, Hotel de la Gare, ecc.) ma, soprattutto, rappresenta il centro pratico e simbolico della città. Dalla metà dell’Ottocento la stazione diviene snodo urbano fondamentale segnando definitivamente il primato del centro sulla periferia e della città su tutto il suo territorio che converge in maniera stellare verso la città e sulla sua stazione. Anche quando, come nel caso di Parigi, le stazioni – tranne la Gare d’Orsay, la cui funzione era soprattutto d’immagine – costituiscono una sorta di anello intorno alla città esse sono considerate – in quanto sistema unico ed integrato – centrali. Il sistema dei boulevard, anche prima di Hausmann, fu disegnato anche per servire e collegare tra di loro le non

centralissime Gare de l’Est, Gare du Nord e Gare de Lyon. La disposizione ad anello delle stazioni parigine non è, comunque, casuale o dovuta a scelte puramente urbanistiche ma fu determinata anche dagli abitanti dei quartieri borghesi più centrali che si opposero con forza alla costruzione di rumorose e devastanti stazioni sotto casa. Monumentalismo, efficienza, razionalità, separazione di classi, controllo del mondo, del tempo e dello spazio, organizzazione, serietà ed efficienza sono i fattori distintivi di questa stagione progettuale e gestionale che non a caso viene considerata l’età aurea della stazione ferroviaria. La Gare d’Orsay, costruita a tempi di record per essere funzionante in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1900, dimostra come le stazioni fossero intenzionalmente i simboli più visibili della grandezza della città capitale da esibire nella fiera di forza e di prestigio delle esposizione universali, vera vetrina della potenza mondiale del paese ospitante. Data la sua collocazione all’interno della cerchia urbana – mentre su quella esterna erano invece poste le altre grandi

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La Gare du Nord a Parigi è entrata subito nell’immaginario dell’epoca. Essa fu voluta da James de Rothschild, proprietario della compagnia concessionaria, come monumento parlante della modernità e simbolo di porta verso un mondo ormai a portata di mano. Sulla sua facciata, intorno ad un cavaliere raffigurante la città di Parigi, sono collocate tredici statue – di gran pregio visto che tutte potevano fregiarsi del Prix de Rome – raffiguranti le grandi capitali europee – Londra, Vienna, Berlino, San Pietroburgo, Bruxelles, ecc. – e le principali città francesi – Amiens, Lille, Calais, Rouen, ecc.

stazioni ferroviarie della città – la Gare d’Orsay venne pensata proprio per portare i visitatori direttamente al centro di Parigi ed incantarli con le sue grandezze. Può anche essere considerata il più grande e spettacolare dei padiglioni dell’Expo. Lo stile beaux arts utilizzato dall’architetto Laloux veniva ritenuto il più adatto per le Esposizioni Universali dell’epoca visto il suo successo alla Fiera Mondiale di Chicago del 1893 (che del Beaux Arts è stato grande palcoscenico e veicolo di diffusione per tutto il continente americano). La Gare d’Orsay è un mix di forme rétro e di soluzioni tecnologiche avan-

zate – elettrificazione, nastri trasportatori, profusione di ascensori. La straordinaria scenografia del suo salone da ballo, magniloquente di ori, specchi e stucchi, fu scelta un secolo dopo nel maggio del 1958 dal Generale De Gaulle per annunziare la disponibilità a “servire il proprio paese” ed aprire quindi la strada alla quinta repubblica francese. La Gare d’Orsay – insieme alle altre grandi monumentali stazioni parigine come la Gare de l’Est – si pone (indipendentemente dalle forme architettoniche) come porta d’ingresso per eccellenza che offre immediatamente una visione di sintesi della città e del suo spirito. Mentre, per esempio, New York o San Pietroburgo andrebbero, in questa logica, incontrate per la prima volta provenendo dal mare e Los Angeles dall’aeroporto, Parigi non può che accoglierti nelle sue stazioni dove vi sono già – ben visibili – i segni del suo perdurante mito. Roma, probabilmente, andrebbe incontrata e scoperta giungendo con la carrozza a Piazza del Popolo venendo dalla Via Flaminia, come fece nel suo viaggio in Italia Goethe con l’animo in subbuglio.

Il fascino della stazione Palazzo carico di simboli nella città e fabbrica aperta verso la non città ed il mondo, la stazione si afferma come focus urbano riassumendo nelle sue forme il rapporto che la borghesia ha con il passato ed il suo progetto per il futuro identificato con l’industria. La stazione diventa perciò campo di applicazione del neo: neo classico, neogotico. Eclettismo e Beaux Arts – stile che regna incontrastato soprattutto negli Stati Uniti grazie

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Il castello di Neuschwanstein costruito su progetto di uno scenografo nel 1869 da Ludwig II, re di Baviera, per vivere su un palcoscenico medioevale il sogno wagneriano del Lohengrin. Benché clamorosamente falso, l’edificio è vissuto come vero da milioni di turisti che ogni anno lo affollano.

alla World’s Fair di Chicago – consentono di attingere liberamente dall’enorme serbatoio stilistico del passato secondo le esigenze estetiche e soprattutto simboliche del presente. Nelle stazioni della stagione aurea c’è di tutto, essa è il regno delle architetture oniriche. Domina, soprattutto, il gotico (ribattezzato in Germania il neo gotico delle stazioni) che, oltre ad evocare – soprattutto nei paesi a base protestante – la forma delle cattedrali, si rivela utile per le maggiori possibilità di illuminazione degli interni che esso offre. Nella sua seconda metà, l’Ottocento è un secolo di sogni architettonici dove il passato spesso mitizzato è recuperato per esorcizzare un futuro pieno di incognite. Negli stessi anni in cui le stazioni citano il castello francese, la villa italiana (presa più dai quadri che dai documenti storici) o le Terme

Nel mondo contemporaneo dell’iper-realtà, la realtà è accettata solo se somiglia all’immaginario che la precede. Così, il falso castello di Ludwig di Baviera è diventato il castello per eccellenza, e Walt Disney lo ha adottato come simbolo pratico dei propri parchi a tema in tutto il mondo e come logo della Disney Corporation.

di Caracalla (la Penn Station di New York), Ludwig II di Baviera costruisce sulle Alpi a Neuschwastein il suo teatrale castello medioevale non a caso diventato, per la perfezione onirica delle sue forme, il simbolo di Disneyland. L’esasperato eclettismo consente qualsiasi operazione estetica o narrativa; è indubbiamente

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Il brusio delle città

una risorsa come nota Henry James, secondo il quale “the railway platform is a kind of compendium of that variety”1. L’eclettismo – definito correttamente “creativo” – permette di accogliere le grandi novità tecnologiche e funzionali delle stazioni. L’impatto simbolico ed estetico della stazione – palazzo sulla gente è ben descritto da Flaubert che nel Dictionaire des idées reçues scrive: «S’extasier devant elles et les donner comme modèles d’architecture». Un architetto certamente non incline a tentazioni romantiche come Erich Mendelsohn, riprendendo probabilmente quanto aveva già scritto Goethe a proposito dell’architettura in genere, definì le stazione «musica congelata».2 È probabile che alle grandi masse sfuggissero i contenuti storici delle narrazioni delle magniloquenti ed eclettiche facciate delle grandi stazioni ottocentesche. Per questo è possibile parlare della coesistenza di due livelli narrativi: uno alto e ricco di citazioni e contenuti destinato ad un pubblico colto in grado di coglierne la ricchezza, uno semplificato per chi, dotato di minori risorse culturali, riesce solo a cogliere il senso di grandezza e monumentalità dell’opera. Da una parte c’è una intensa ed articolata semanticità che parla di palazzo e di fabbrica, della storia e del futuro, della capacità della borghesia di porsi come egemonica. I destinatari di questa prima e più complessa narrazione sono un pubblico tutto sommato numericamente limitato ma dotato di adeguato capitale culturale: sono i borghesi esattamente come lo sono i comunicatori e gli artefici della città nuova e delle sue stazioni. Anche per loro, co1 2

Cit. in Richards, Jeffrey e MacKenzie John, op. cit., p. 8. Parissien, Steven, Station to Station, Phaidon, Londra 1997, p. 7.

munque, il linguaggio dell’edificio è di facile ricezione: le allegorie utilizzate sono semplici ed immediatamente comprensibili come, per esempio, gli uccelli migratori per rappresentare il viaggio o le immagini canoniche dell’industria o del commercio, simboli classici dell’economia di una città. La Gare du Nord a Parigi è espressamente voluta da James de Rothschild, proprietario della compagnia concessionaria e beneficiario di rilevanti finanziamenti da parte dello Stato, come monumento parlante della modernità e come simbolo di porta verso un mondo ormai a portata di mano. Sulla sua facciata intorno ad un cavaliere raffigurante la città di Parigi sono collocate tredici statue – di gran pregio visto che tutte potevano fregiarsi del Prix de Rome – raffiguranti le grandi capitali europee – Londra, Vienna, Berlino, San Pietroburgo, Bruxelles, ecc. – e le principali città francesi – Amiens, Lille, Calais, Rouen, ecc. –. Le decorazioni artistiche delle grandi stazioni ottocentesche sono anche abbastanza anacronistiche visto che derivano in gran parte dal Gran Tour e sono semplicemente adattate ai gusti di un pubblico nuovo e culturalmente meno sofisticato. La condivisione del codice comunicativo non era, però, necessaria per ottenere sulle grandi masse il desiderato effetto di ammirazione e meraviglia. È in sostanza la stessa strategia del grande palazzo e della ricca chiesa barocca che cercavano di legittimare il sovrano o la chiesa con la ricchezza dei palazzi ed vistoso scarto tra le loro dimensioni e gli edifici comuni. Assolutamente poco entusiasta dell’eclettismo fer­ roviario e della megalomania progettuale che durerà sino alla prima guerra mondiale è invece il più romantico dei critici, Ruskin, che può scrivere in The Stones

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of Venice: «Un’altra delle strane e diaboliche tendenze di oggi è la decorazione delle stazioni ferroviarie… È proprio il tempio della scomodità ed la sola grazie che il costruttore può farci è dimostrarci – nella maniera più semplice possibile – come andarcene al più presto… [...] C’è un solo viaggiatore disposto a pagare di più il biglietto sulla South Western perché le colonne della sua stazione sono coperti con disegni presi da Ninive?». Le stazioni – in particolar modo quelle francesi – sono state nell’Ottocento tópos dell’immaginario collettivo ed autentici nuovi monumenti della nuova città borghese in quanto simboli del progresso e dell’industrialismo avanzante. Sono il monumento per eccellenza che spicca nella città moderno-industriale anch’essa, nella sua interezza, monumento al nuovo ed al progresso. La stazione così come la città in cui si iscrive rappresenta la modernità ma, simultaneamente, fa aggio sulla tradizione per ricavarne simboli legittimatori. Coeva, nel suo periodo di massimo splendore, al Ring di Vienna – che di questo tipo di strategia legittimatoria è la massima espressione – la stazione ferroviaria è il concentrato simbolico della nuova città borghese. Come key building del secolo rappresenta la modernità industriale e con essa l’apoteosi dello Stato nazione e della sua storia. Asa Briggs presenta la stazione come «...l’edificio chiave dell’epoca»3. È monumento e edificio chiave anche perché racchiude e rende visibili le due key machine del secolo: la macchina a vapore e l’orologio. Sono i due strumenti con cui la borghesia e la 3

Briggs, Asa, Victorian Cities, Hamlyn, Londra 1963; tr. it. Editori Riuniti, Roma 1990, p. 18.

sua città possono esercitare quel controllo dello spazio e del tempo che è principio e scopo – pratico e simbolico – dell’intero secolo. Era la ferrovia che aveva permesso la prima compressione spaziotemporale della modernità. «Annihilation of space and time» era un’espressione in voga già nell’Inghilterra vittoriana per indicare gli effetti della ferrovia e della sua velocità sull’organizzazione della società e soprattutto sugli scambi.4 Altre innovazioni vennero in larga misura stimolate ed accelerate dalle ferrovie che avevano bisogno di efficienti sistemi di comunicazione. Alla rapidità dello spostamento delle persone e delle cose era indispensabile che si accompagnasse la immediatezza della trasmissione delle informazioni. Fu la Great Western Railway ad usare per prima, sia pure sperimentalmente, il telegrafo nel 1839 seguita dalla Norfolk Railway nel 1844. La compressione spaziotemporale aveva bisogno di ricomporre la frammentazione dei tempi locali imponendo un tempo unico che portasse ad unità lo spazio. L’orologio che domina le stazioni può essere considerato, in quanto segno e strumento della modernizzazione realizzato dallo Stato, simbolo dello Stato stesso. Per questo motivo, nei giorni della Comune di Parigi del 1871, gli insorti presero a fucilate gli orologi nelle strade in quanto ritenuti simboli dell’oppressione del governo borghese. Solo dopo distrussero le ghigliottine. Non era senza ragioni quest’odio dei rivoluzionari in quanto anche in Francia – soprattutto in quella del secondo impero – l’orologio era il simbolo dello Stato e lo strumento con cui unificare i tempi e tramite questi 4

May, Jon e Thrift, Nigel (a cura di), Timespace – Geographics of Temporality, Routledge, Londra 2001, p. 109.

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la vita della nazione e dei suoi territori di oltremare (a partire dall’Algeria). È proprio la ferrovia che fa dell’orologio la key machine del secolo – strumento, secondo Lewis Mumford, ben più importante della macchina a vapore. Il GMT – il tempo medio di Greenwich – che viene per lungo tempo chiamato in forma colloquiale il railway time – nel 1880 diventa il tempo ufficiale nel Regno Unito.5 Il GMT consente di armonizzare ed unificare i tempi della nazione e del suo impero. Nel 1884 l’Orario Medio di Greenwich diventa l’ora legale di riferimento di tutto il mondo. L’orario delle ferrovie britanniche è uno dei best seller del secolo e diventa anche il simbolo della razionalità assoluta. Sherlock Holmes, che di questa razionalità scientista è il protagonista letterario, ha sempre in tasca un orario ferroviario in quanto strumento indispensabile – egli afferma – di ogni criminologo. Il giro del mondo in ottanta giorni di Verne – che comincia in una stazione ferroviaria di Londra, la Charing Cross – si conclude felicemente per il protagonista grazie al Railway Time britannico che è l’unico che possa contare in una scommessa tra gentiluomini inglesi. Phileas Fogg, inoltre, porta sempre con sé, sottolinea Verne, una copia del Continental Bradshaw’s Railway Guide, l’orario ferroviario europeo, strumento indispensabile per ogni suddito di sua maestà che intendesse viaggiare in Europa. L’orologio – silenzioso e senza rintocchi a differenza di quello ormai superato delle chiese – domi5 Una qualche libertà sul GMT se la prendono solo gran parte delle stazioni parigine – quelle di proprietà della Compagnie du Nord – che ancora alla fine del secolo portavano avanti di tre minuti tutti i loro orologi esterni per spingere i viaggiatori ad affrettarsi. Sauget, Stéphanie, op. cit., p. 207.

na la stazione e tramite questa il mondo che alla stessa razionalità obbedisce. È con la ferrovia che la misura del tempo viene definitivamente fatta – anche a livello popolare – in ore e non più in giorni. La stazione è, come si è detto, edificio doppio e polisemico in quanto nella città esso è palazzo – simbolicamente sovraccarico e semanticamente eloquente – esito di neo classicismi, di citazioni gotiche o addirittura grecodoriche – e nello stesso tempo esso è fabbrica, fatta di ferro e di vetro nella parte che si apre sulla campagna ed al viaggio sui binari. Esso riflette in tal modo la sfida del secolo XIX che è il coniugare il trionfo della città nuova borghese con il progresso e l’industria da una parte e con la storia in quanto serbatoio di fattori di legittimazione. In entrambi i casi essa rappresenta l’acquisito dominio: sulla storia con il suo eclettismo narrativo e sul futuro attraverso la tecnologia. Gli ornamenti spesso neoclassici o Beaux Arts della facciata riprendono la prassi ottocentesca di richiamarsi al passato architettonico per abbellire le fabbriche – le ciminiere delle prime fabbriche sono adorne come torri medioevali – e, soprattutto, per mostrare come la grandezza della nazione affondi le radici nella storia. Uno dei maggiori esempi di questo eclettismo narrativo è probabilmente la stazione londinese di St. Pancras dell’architetto Scott considerata – anche dal Times – come uno degli edifici più belli della capitale inglese. In questa monumentale e costosissima stazione c’è un po’ di tutto: il gotico-Tudor, un po’ di Spagna e di Venezia, terrecotte italiane, oltre ad uno spruzzo di Ruskin, come scrisse un critico dell’epoca6. Sontuoso 6

Parissien, Steven, op. cit., p. 56.

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l’annesso hotel ed ammiratissimi da viaggiatori e dalle centinaia di semplici visitatori – che ogni giorno entravano solo per stupirsi – gli affreschi e la monumentale scalinata sospesa. La tecnologia avanzata tanto dei treni che dello stesso edificio proietta il dominio della città e della nazione nel futuro. La stazione è simbolo del conquistato controllo sul tempo e sullo spazio e dell’ingresso della civiltà nei secoli del progresso. La stazione ferroviaria – come luogo eccezionale della città – beneficiò di due grandi innovazioni tecnologiche che sembravano appunto i simboli di questo progresso: l’uso del ferro e del vetro e della luce artificiale. I nuovi materiali consentirono l’irruzione di quantità mai viste di luce nei grandi edifici mentre la luce artificiale, soprattutto negli Stati Uniti, affrancò la vita della città dai vincoli del giorno e la notte. La luce elettrica rappresenta nella cultura popolare il simbolo stesso del secolo del progresso; la lampadina è centrale nel retorico ma significativo Ballo Excelsior mentre le strade di Chicago illuminate dalla luce elettrica sono il vero oggetto della meraviglia e dello stordimento della protagonista del popolare romanzo Sister Carrie scritto nel 1900 da Theodore Dreiser. L’uso del vetro in architettura inaugurato e reso popolare dal Crystal Palace londinese rese visibile l’idea del viaggio verso l’infinito, evanescente. Nota Schiwelbusch come «... procedendo dalla città verso l’esterno della stazione il viaggiatore poteva avere l’impressione di andare verso un progressivo allargamento dello spazio». La forma a fabbrica della parte “ferroviaria” della stazione rinvia – sempre secondo Schiwelbush – ad una raggiunta «industrializzazione dello spazio».

La stazione nell’immaginario collettivo Le stazioni sono state più volte definite le nuove cattedrali della modernità, come suggerisce Gautier nel celebre articolo scritto in occasione dell’inaugurazione della parigina Gare du Nord. «Degli archi della campata immensa, delle tettoie enormi… Paragonando a questi le chiese costruite di recente ci si accorge chiaramente che la religione del secolo è la religione delle ferrovie. L’esame dei saloni, degli hangar, dei depositi, dei magazzini, tutti di grande bellezza e di perfetta adeguatezza, può confermare facilmente ciò che abbiamo appena dichiarato»7. Ed aggiunge: «Queste cattedrali della nuova umanità costituiscono i punti di incontro delle nazioni, il centro dove tutto converge, il nucleo di grandi stelle i cui raggi di ferro si estendono sino ai limiti della terra».8 L’estrema verticalizzazione delle stazioni esprime anche questa spinta. A questa si aggiunge l’uso del vetro – sperimentato con successo nel Crystal Palace di Londra alla cui impresa di costruzioni Fox, Henderson e C. venne anche affidato il compito di costruire la stazione di Paddington, anch’essa di vetro e ferro – che fa della luce un elemento costitutivo ed essenziale dell’architettura come era stato – pure con le diverse modalità offerte dal vetro piombato – con le mistiche finestre delle cattedrali gotiche. La stazione ottocentesca fatta di vetro e di acciaio è il primo capitolo del lungo cammino dell’architettura e della scienza delle costruzioni teso a liberare gli edifici 7

Cit. in Suget, Stéphanie, op. cit., p. 186. Richards, Jeffrey e MacKenzie John, The Railway Station – A Social History, Oxford University Press, Oxford, 1986 p. 3. 8

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Il brusio delle città

dal peso e a presentarli come sospesi nell’aria. Successivamente, la luce elettrica amplificherà le possibilità operative e prestazionali offerte dal vetro ma soprattutto quelle emozionali. I passages parigini hanno portato le nuove tecnologie del vetro e del ferro alla scala della strada e del flâneur: la stazione ferroviaria, forte anche dell’esperienza del Crystal Palace, le ha riportate alla scala della città e dei grandi spazi. Non diversamente scrive Chesterton, secondo il quale la stazione è un luogo dove ci si può raccogliere, trovando in essa «la quiete e la consolazione di una cattedrale»9. Le forme architettoniche, del resto, aiutavano in questa direzione. Il gotico – associato dal senso comune alla elevazione mistica delle grandi cattedrali europee – e la citazioni sacre (il grande atrio dell’ormai demolita Euston Station di Londra riprendeva le forme della basilica di San Pietro Fuori le Mura di Roma). Il riferimento alla cattedrale, che è frequente soprattutto nei giornali dell’epoca, non deriva solo dalle sue enormi navate di vetro ma anche dall’incommensurabile grandezza del monumento che sovrasta l’individuo mentre lo accoglie. La cattedrale, inoltre – in quanto chiesa per eccellenza –, è pervasa dalla magia propria della porta che si apre su un mondo sconosciuto quale è il viaggio, 9

«L’unica maniera di prendere un treno è quella di arrivare in ritardo sul precedente. Facendo così voi potrete trovare nella stazione ferroviaria molto della quiete e della consolazione di una cattedrale. Essa possiede molte delle caratteristiche di un grande edificio ecclesiastico; ha grandi archi, vasti spazi vuoti, luci colorate e, soprattutto, possiede la ricorrenza propria dei riti. Essa è dedicata alla celebrazione dell’acqua e del fuoco, i due elementi fondamentali di tutti i cerimoniali umani. Infine, una stazione è più simile alle vecchie religioni che alle nuove nel senso che la gente ci va». G. K., Chesterton, Tremendous Trifles in The Project Gutenberg EBook.

evento che nell’Ottocento è vissuto come eccezionale ed avventuroso. Nel viaggio si condensano tanto la ricerca della conoscenza scientifica che la possibilità di trovare nell’esplorazione ciò che a questa conoscenza sfugge, il magico. La letteratura di viaggio del secolo contiene entrambe queste spinte. La stazione è porta come quella di Alice nel Paese delle Meraviglie – caposaldo della cultura vittoriana che può essere ben considerato letteratura di viaggio – che si apre in un mondo sconosciuto romantico e tecnologico, sconosciuto e fiabesco. «Alice aprì la porta e scoprì che conduceva ad un passaggio stretto non più grande di una tana di topi; si inginocchiò ed attraverso il passaggio poté guardare il più bel giardino che avesse mai visto». La stazione ferroviaria non è solo un transito neutro per iniziare il viaggio in treno, e ciò che su di essa si riverbera è la magia del viaggio. La stazione è anche vissuta come il luogo della sospensione dell’ovvietà del quotidiano; qui è permessa la liberazione dei sentimenti – gli abbracci, le lacrime, i saluti urlati. Nella stazione – anche nella rigida società vittoriana – vige una sorta di nuova etichetta emozionale che consente la messa in visibilità dei sentimenti che altrove devono invece restare assolutamente privati e nascosti. Entrata prepotentemente nell’immaginario collettivo sin dalla sua nascita, la stazione ferroviaria non poteva non essere vista e narrata come “grande luogo” o luogo speciale in quanto campo di emozioni. La letteratura, la pittura ed il cinema l’hanno celebrata passandosi il testimone narrativo nelle diverse stagioni della stazioni. Ancora oggi, del resto, non c’è nulla di meglio delle stazioni per rendere l’idea della Francia o dell’Inghilterra dell’Ottocento o del primo Novecento:

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Hugo Cabret, il film del 2011 di Scorsese, è uno straordinario omaggio alla magia della stazione ferroviaria. La Gare Montparnasse del film è chiamata a rappresentare l’età d’oro delle stazioni anche se nell’immaginario dei parigini era più nota per la locomotiva che nel 1895 sfondò il muro della stazione piombando dopo un volo di dieci metri su rue de Rennes. Il piccolo Hugo, cinema nel cinema, assiste alla proiezione del primo film dei Fratelli Lumière, L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat.

la stazione ritrova la magia nei film di Harry Potter con la londinese King’s Cross e di Hugo Cabret con la Paris Montparnasse. Alla King’s Cross c’è una fila di turisti che fotografa le banchine dei binari 9 e 10 dove fu girato il film. La Paris Montparnasse è chiamata nel film di Scorsese a rappresentare l’età d’oro delle stazioni anche se nell’immaginario dei parigini era più nota per la locomotiva che nel 1895 sfondò il muro della stazione piombando dopo un volo di dieci metri su Rue de Rennes. O anche per essere la stazione dei treni per le vacanze al mare che erano anche chiamati, con riferimento ai mariti che raggiungevano le famiglie nel fine settimana, “train des cocus”.10 10

Lamming, Clive, Paris au temps des gares, Parigramme, Parigi 2011.

In particolare, dalla metà dell’Ottocento alla prima guerra mondiale, l’aura che ha circondato la stazione è ben visibile tanto nella letteratura e nella pittura che nell’immaginario collettivo. All’inizio del ’900 vengono prodotte in Francia circa 600 milioni di cartoline illustrate, una gran parte delle quali riproducono le stazioni ferroviarie di Parigi. Il loro successo è grande e sono acquistate soprattutto da «provinciali e stranieri in viaggio per Parigi». «Esse mostrano come le stazioni siano diventate dei “monumenti” capaci di simboleggiare la città, una sorta di icone urbane»11. La stazione, tanto come luogo di eventi che come impareggiabile campo emotivo, diventa rapidamente un tópos classico della letteratura ottocentesca da Flaubert a Proust e dello stesso Hugo che, pur non avendola mai presentata nei suoi romanzi, dichiarava nei suoi articoli di trovarla estremamente bella ed attraente. Delle stazioni e dei treni era grande ammiratore ed esperto Charles Dickens, ma più per motivi pratici che estetici. La sua complicata relazione con Nelly Ternan lo costringeva infatti a spostarsi continuamente e, come testimoniano le sue lettere, l’orario ferroviario era indispensabile per organizzare gli incontri amorosi. In Anna Karenina di Tolstoj la stazione non è solo il luogo in cui la vicenda comincia – con l’incontro con il Conte Vronskij – e in cui finisce tragicamente con il suicidio della protagonista che si lancia sotto un treno. È anche un simbolo che torna ad Anna Karenina in sogno diventando un incubo. Nella prima versione cinematografica con la Garbo è proprio la stazione, con la sua soverchiante vitalità, la vera protagonista 11

Sauget, Stephanie, op. cit., p. 131.

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della vicenda. Per Tolstoj, invece, la stazione è solo la scena dove il destino distribuisce le carte; proprio nella piccola stazione di Astapovo il romanziere moriva per un attacco di polmonite mentre cercava di “svignarsela” da una quotidianità ritenuta insopportabile. Per Zola la stazione, da lui considerata nell’aprile del 1858 “bella”12, non è solo scena. Ne La bestia umana – il primo vero romanzo ferroviario – la stazione è vista come un insieme di sensazioni, stimoli ed atmosfere. Scena tragica nella commedia della vita nella Recherche di Proust, la stazione torna campo di sensazioni in Morte a Venezia di Thomas Mann in cui riappare il destino che spinge il protagonista, privato del bagaglio, a tornare a Venezia dove morirà. In Italia – dove le stazioni ottocentesche erano modeste e non avevano toccato l’immaginario collettivo e popolare – ferrovia e stazioni interessano solo marginalmente gli scrittori. Sono soprattutto i toscani come Carducci e Carlo Lorenzini, più noto come Collodi, ad essere attratti da questa nuova presenza. Oltre l’arcinoto Inno a Satana dedicato alla locomotiva più che alla ferrovia, Carducci ha raccontato l’atmosfera fumosa e segnata tristemente dagli addii della stazione in Alla stazione in una mattina d’autunno. Anche Lorenzini quando parla di ferrovia – Romanzo in vapore – lo fa in riferimento al mondo rurale e non alla grande città che gli era fondamentalmente sconosciuta. Bisognerà aspettare il ’900 per vedere entrare con prepotenza 12 «… vous, poète moderne, vous détestez la vie moderne. Vous allez contre vos dieux, vous n’acceptez pas franchement votre âge. Alors peignez-en un autre. Pourquoi trouver une gare laide? C’est très beau une gare.», cit. in Baroli, Marc, Le train dans la littérature française, Editions N.M., Parigi 1962, p. 153.

Immagine per eccellenza della nuova città moderno-industriale, di cui sintetizza dinamicità ed atmosfere, la stazione è dipinta da Manet e, soprattutto, da Monet (1877) nella sua celeberrima serie sulla Gare Saint-Lazare esaltata da Zola. Il nuovo alloggio parigino del pittore dopo la partenza da Argenteuil è nel quartiere di Nouvelle Athènes, al cui margine si trova la stazione.

la stazione nella letteratura italiana. Sono i futuristi da Marinetti a Severini e Carrà a descrivere più che la stazione l’effetto – dinamico e conturbante – della modernità veloce ed industriale incarnata nella stazione ferroviaria. È di Carrà il manifesto “Pittura dei suoni, dei rumori e degli odori” in cui si esalta una pittura capace di esprimere sulla tela il rumore delle stazioni ferroviarie. Controcorrente va Giorgio De Chirico che nel 1914 – in piena tempesta futurista – dipinge una immobile e struggente Gare Montparnasse in un quadro a cui dà il titolo “Mélancolie du départ”. Non è neppure un caso che il più importante progettista italiano di stazioni ferroviarie ed architetto capo delle

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The Railway Station, tela monumentale dipinta nel 1862 da William Powell Frith, mostra la varietà umana di una stazione inglese della metà dell’Ottocento. Nel quadro non sono presenti solo scene di vita quotidiana ma anche personaggi reali come due famosi detective di Scotland Yard – Haydon e Brett – che arrestano un criminale che si appresta a prendere il treno e scomparire.

Ferrovie Italiane – Angiolo Mazzoni – prendesse parte attiva al movimento futurista e fosse amico di Marinetti. Con Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore la stazione torna ad essere protagonista come campo di atmosfere e di emozioni. «…in una stazione ferroviaria, sbuffa una locomotiva, uno sfiatare di stantuffo copre l’apertura del capitolo, una nuvola di fumo nasconde parte del primo capoverso. Nell’odore di stazione passa una ventata d’odore di buffet della stazione. C’è qualcuno che sta guardando attraverso i vetri appannati, apre la porta a vetri del bar, tutto è nebbioso, anche dentro, come visto da occhi di miope, oppure occhi irritati da granelli di carbone». Sempre da una stazione – quella di

Bologna – inizia il viaggio di Elio Vittorini in Conversazione in Sicilia. Questi, figlio di un ferroviere costretto a continui trasferimenti, aveva con treni e stazioni un legame particolare ed intenso avendo trascorso l’infanzia, come egli stesso scrive, «in piccole stazioni ferroviarie con reti metalliche alle finestre e il deserto intorno». Quella della stazione è una bellezza perturbante immediatamente assunta, in Francia più che in Gran Bretagna, come oggetto privilegiato degli scrittori attenti ed affascinati dalla grande trasformazione della modernizzazione e dai pittori impressionisti che vedono in questo nuovo luogo il concentrato di emozioni nuove. Paul Verlaine nel suo poema Charleroi, echeggiando in

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qualche maniera i versi di Baudelaire sui fumi della nuova Parigi, scrive: «…Des gares tonnent / Les yeux s’étonnent / Où Charleroi ? / …Sites brutaux ! / Oh ! votre haleine,/ Sueur humaine, / Cris des métaux !»13. Immagine per eccellenza della nuova città modernoindustriale, di cui sintetizza la dinamicità, la stazione è dipinta quasi negli stessi anni da Manet (1873) – in La Gare Saint-Lazare – e da Monet (1877) nella sua celeberrima omonima serie esaltata da Zola14. Il grande dipinto di William Powell Frith del 1860 “The Railway Station” immortalò la Paddington Station mentre “La Stazione Centrale di Milano nel 1889” è il quadro con cui Angelo Morbelli ritrae, con ricchezza di particolari, quello che si avvia a diventare il maggiore scalo ferroviario italiano. Non sono solo i treni ed i loro perturbanti vapori ad incantare i pittori; sono affascinati anche dalla stazione-palazzo. Gustave Courbet arriva a considerarla addirittura il museo ideale: «...le stazioni ferroviarie che sono già le chiese del progresso diventeranno presto templi dell’arte. Entrate nelle sale d’attesa ed osservate questi luoghi grandi, ariosi, luminosi ed ammirevoli; sarete d’accordo che avrete solo bisogno di appendervi i quadri per farne senza spesa alcuna il più impareggiabile dei musei, l’unico dove l’arte può realmente vivere. Dove c’è la folla, lì c’è la vita»15. È sempre e solo la letteratura che dà conto dei suoni della stazione: come fa Verlaine che dalla sua 13

Cit. in Baroli, Marc, Le train dans la littérature française, Editions N.M., Parigi 1969, p. 158. 14 “I nostri artisti devono trovare la poesia delle stazioni così come i loro padri l’hanno trovata nelle foreste e nei fiumi” cit. In Sauget, Stéphanie, cit., p. 274. 15 Cit. in Richards, Jeffrey e MacKenzie John, op. cit., p. 334.

cella della prigione di Mons racconta in due poemetti – Réversibilité e Tantalized – dei rumori di una vicina stazione16. La stazione, invece, è assente dalla musica dell’Ottocento ma soprattutto per motivi che potremmo definire tecnici più che culturali. La musica del secolo XIX, infatti, era tutta legata all’armonia e non aveva strumenti per rappresentare ciò che era immediatamente avvertito come dissonante. Non c’era quindi spazio nel grande sinfonismo ottocentesco per le toniche della stazione e della ferrovia. L’operetta, più attenta alle situazioni ambientali, non tardò ad accorgersi del rilievo narrativo della stazione con Offenbach che nel 1866 ambientò La Vie Parisienne alla Gare de l’Ouest ed alla Gare Saint-Lazare (che era considerata il punto d’incontro dei nobili – come il conte di Talleyrand – e della gente di teatro)17 senza che, però, del suo paesaggio sonoro vi fosse traccia alcuna nella musica. Messi a punto gli strumenti tecnici per far propria una realtà dissonante, la musica riscopre le stazioni ferroviarie. Alle piccole stazioni dell’Appennino bolognese (Casalecchio, Sasso Marconi, Marzabotto, Vergato, Grizzana Morandi, Monzuno, Porretta Terme oltre a Bologna) è dedicato l’happening del 2008 di John Cage (Take the Cage Train). È il cinema ad essere il grande medium narrativo delle stazioni che sembrano pensate proprio per apparire sullo schermo. Non a caso nel 1895 il primo film dei fratelli Lumière era Arrivo del treno alla stazione di La Ciotat. È impossibile fare un elenco dei film in cui 16

Baroli, Marc. op. cit., p. 162. Sauget, Stéphanie, À la recherche des pas perdus – Une histoire des gares parisiennes, Tallandier, Parigi 2009, p. 126. 17

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Vittorio De Sica ha dedicato alla Stazione Termini di Roma uno suoi pochi insuccessi nonostante gli interpreti fossero Jennifer Jones e Montgomery Clift, malgrado il soggetto fosse di Zavattini e i dialoghi fossero di Truman Capote. La Stazione Termini, esempio rilevante del razionalismo italiano del secondo dopoguerra, interpreta anch’essa un ruolo, ma secondario, di anonimo e silenzioso contenitore.

la stazione sia stata protagonista prima che scena: da quelli popolari a quelli d’autore. La distruzione della stazione di Atlanta in Via col Vento, la Gare de Lyon in Casablanca ed infine la stazione londinese di Waterloo. Quest’ultima è stata protagonista di tre remake dello strappalacrime Waterloo Bridge, interpretato da Vivien Leigh e Robert Taylor. Orson Welles ha utilizzato la Gare d’Orsay, già da tempo in disuso, come scena – anch’essa da incubo – del suo “Il Processo” tratto dal romanzo di Kafka. Molti i grandi registi che l’hanno scelta come set o addirittura come tema conduttore. Chaplin vi ha girato per Il grande dittatore la scena del benvenuto di Adenoid Hynkel (Hitler) a Benzino Napaloni (Mussolini). De Sica ha dedicato alla Stazione Termini il suo film omonimo, con Jennifer Jones e Montgomery Clift: uno suoi pochi insuccessi nonostan-

La Grand Central di New York è un tópos non solo della vita quotidiana degli abitanti della metropoli ma anche dell’immaginario collettivo. Il suo successo nell’universo dei media è di lungo periodo ed è testimoniato dai trenta importanti film che l’hanno avuta come scena e persino come simbolica protagonista. Sul sito web della stazione ne sono indicati 32: con l’avvertenza, però, che si tratta solo di quelli considerati più importanti. Nella foto una scena del film Labirinto Mortale (House on Carrol Street) del 1988.

te il soggetto fosse di Zavattini ed i dialoghi di Truman Capote. Fellini ha scelto la Stazione Termini affollata di barboni ed immigrati per rappresentare il degrado della Roma contemporanea in Ginger e Fred. Visconti, infine, gira alla Stazione Centrale l’inizio di Rocco e i suoi fratelli che giungono emigranti dalla Basilicata per tentare la fortuna nella Milano del miracolo economico. Anche nel cinema si riflette la diversa tradizione americana ed europea. Mentre nei film europei la stazione tende ad essere rappresentata come campo di emozioni e di sentimenti, in quelli americani – da Labirinto mortale (The House on Carrol Street), Intrigo internazionale (North by Northwest) di Hitchcock, Gli intoccabili

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Fellini ha scelto nel 1985 in Ginger e Fred la Stazione Termini, affollata di barboni ed immigrati, per rappresentare il degrado della Roma contemporanea. Sono lontani gli anni della stazioncina romagnola da cui nel 1953 il Moraldo de I vitelloni partiva per cercare fortuna in un’Italia che si stava riprendendo dalla guerra e guardava al futuro con speranza ed ottimismo.

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(The Untouchables) di De Palma – la stazione è il campo dell’azione e dell’imprevedibile per eccellenza. Nel cinema statunitense nella stazione si concentra l’anima stessa della città fatta di azione, imprevedibilità, movimento, anonimato. Essa è luogo classico della fuga e del ritorno mentre nel cinema europeo, dagli anni trenta alla nouvelle vague, le piattaforme dei binari sono prevalentemente luogo di addii, di rimpianti e di emozioni. Diversi sono i casi in cui le grandi e storiche stazioni come la Euston di Londra o la Penn di New York sono state usate come set rispettivamente per Batman e Superman. Nel primo caso per la cupa atmosfera gotica del suo albergo, nel secondo come lussuoso monumento abbandonato convertito a residenza di un criminale.

La stazione e le guerre Al mito ottocentesco della stazione ferroviaria hanno contribuito anche le guerre. Anche se nella quasi coeva II Guerra d’indipendenza italiana la Francia spostò in treno oltre mezzo milione di uomini sul fronte veneto, la vera nascita della ferrovia come strumento indispensabile nella guerra moderna avviene con la Guerra civile americana. Mezzo indispensabile per muovere le truppe sulle grandi distanze statunitensi, la ferrovia modifica anche i propri vagoni per rispondere alle esigenze belliche. Per trasportare la cavalleria assume come modello i vagoni ad apertura laterale del Circo Barnum mentre vengono progettate carrozze apposite per le cucine da campo. Come conseguenza le stazioni diventano uno dei bersagli centrali della Guerra civile. Per il generale dell’Unione Sherman, «la stazione

ferroviaria in quanto cuore delle moderne arterie degli affari era seconda come importanza solo agli edifici ed alle stesse istituzioni del governo della Confederazione ed in quanto tale destinata alla eliminazione»18. La distruzione della stazione di Atlanta, il più importante nodo logistico e ferroviario delle truppe confederate, ha costituito un momento cruciale della guerra ed è stato consegnato al mito popolare dal film Via col Vento. La partenza dei soldati per il fronte nella prima Guerra mondiale, i vagoni delle tradotte e gli addii nella stazione diventano rapidamente miti che producono immagini e canzoni. Negli Usa sono i porti, in Europa le stazioni, adorne di bandiere e rimbombanti di fanfare, da cui si parte pieni di speranze per la vittoria. In Francia è dalla Gare de l’Est che partono per il fronte i soldati durante le tre guerre contro i tedeschi mentre sempre nella stazione si torna vittoriosi o più spesso feriti e stanchi dal fronte o dai campi di prigionia. Le stazioni trovano così nella memoria collettiva un nuovo posto ben diverso da quello occupato nella Belle Époque. Durante l’assedio prussiano di Parigi del 1870, quando le mongolfiere erano gli unici mezzi di comunicazione con l’esterno, la stazione di Austerlitz, privata del traffico ferroviario, fu utilizzata come fabbrica per i grandi palloni diventando così per i parigini il simbolo del collegamento – questa volta aereo – con il mondo. La monumentale Euston Station di Londra venne illuminata per tutta una notte per festeggiare la vittoria della guerra di Crimea nel 1856 conferendo al suo arco – nato per essere porta della città – lo status imprevisto di arco di trionfo. 18

Cit. in Richards, Jeffrey e MacKenzie John, op. cit., p. 245.

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Il brusio delle città

Il ritorno di gran parte dei prigionieri francesi e degli ebrei superstiti dai campi di concentramento tedeschi avvenne alla Gare d’Orsay di Parigi, scelta forse per il suo essere appartata e non più utilizzata dai viaggiatori. Questo ritorno è ricordato da una targa che il museo subentrato alla stazione ha mantenuto conferendole un valore aggiuntivo proprio per la sua nuova funzione di serbatoio di memorie.

Nella seconda Guerra mondiale la stazione ferroviaria ha un peso minore ma incide sempre sull’immaginario collettivo. Questa volta, dato il carattere realmente mondiale del conflitto, un ruolo maggiore nella movimentazione delle truppe è svolto da porti, aeroporti e dalla rete stradale. Nella guerra lampo

tedesca in Europa gli eserciti come quello francese, che all’inizio si muovono attraverso le stazioni, sono sconfitti dalla velocità dei nemici che usano gli aerei ed i carri armati. Ciononostante, le stazioni ferroviarie saranno ancora gli obbiettivi principali dei bombardamenti a tappeto in Francia, Italia, Germania, Unione Sovietica e Gran Bretagna. Targhe commemorative ricordano, invece, come le stazioni fossero sempre il punto di partenza per i campi di sterminio per gli ebrei europei. Santa Maria Novella a Firenze o la Tiburtina a Roma, la Centrale di Milano al binario 21 da dove sono partiti gli ebrei italiani per Auschwitz sono luoghi tragici dell’Olocausto. Nella stessa vicenda si iscrive il ritorno dei prigionieri francesi e degli ebrei superstiti dai campi tedeschi alla Gare d’Orsay di Parigi, scelta forse per il suo essere appartata e poco utilizzata dai viaggiatori per la sua localizzazione. Questo doloroso ritorno è ricordato da una targa che il museo succeduto alla stazione ha mantenuto, conferendo ad esse un valore aggiuntivo proprio per la sua nuova funzione di serbatoio della memoria.

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La stazione tra mito e realtà

Alcune stazioni-monumento possono essere considerate simboli non solo della città ma anche del paese di cui questa è capitale. Le Gare du Nord e la Gare d’Orsay a Parigi, Victoria Station e Euston Station a Londra sono simboli dello Stato nazione e del suo impero. La Gare du Nord di Hittorf intendeva essere un grande monumento celebrativo a Napoleone III. Luigi Napoleone, anche prima di diventare imperatore, aveva fatto delle stazioni parigine il proprio palcoscenico preferito a partire dalla Gare de l’Est da lui inaugurata. Successivamente, ogni occasione – partenza per un viaggio o ricevimento di sovrani stranieri – era buona per Napoleone III per mostrarsi nelle stazioni trasformate per l’avvenimento da sontuose scenografie. Al suo giovane ed effimero impero sono dedicate le citazioni della Roma imperiale presenti nella magniloquente facciata della Gare du Nord, definita – forse proprio per questo – da Burckhardt «una delle maggiori infamie architettoniche del secolo».1 In Inghilterra – che vive intorno al 1840 un’autentica ‘Railway-Mania’ – la stazione diventa anche il 1

Parissien, Steven, op. cit., p. 100.

monumento del dominio mondiale dell’Union Jack. Il maggior segno dell’Impero Britannico nella sua più importante colonia – l’India – è rappresentato più che dal Gateway to India, eretto a Bombay per ricordare la visita nella colonia di Re Giorgio V, dalla Victoria Terminus costruita nella stessa città nel 1887 – oggi Chhatrapati Shivaji Terminus, dopo la “nazionalizzazione” del 1996 dei nomi dati dagli inglesi – che è icona dell’impero e del suo rapporto con le colonie. La sua logica stilistica complessiva è quella del cosiddetto gotico vittoriano (che ricorda, non casualmente, anche il gotico della Stazione londinese di St. Pancras) in cui, però, sono inserite anche citazioni dell’architettura indiana con le tipiche torrette. Il nome della regina Vittoria, prima grande utilizzatrice del treno, è associato ad almeno una decina di stazioni ferroviarie da Londra a Manchester sino al Victoria Terminal di Bombay. Proprio per il loro voler essere i simboli dell’impero le stazioni indiane vennero prese di mira nei numerosi moti contro il dominio inglese. I moti per l’indipendenza indiana nel 41-42 videro l’attacco ad oltre 200 stazioni. Il movimento non violento portava i

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rappresentanti del partito del congresso a bloccare i treni sedendosi sui binari delle stazioni. Anche in Francia la stazione è chiamata ad assolvere il compito di rappresentare la grandezza della nazione. Il più grande monumento-stazione del secolo fu probabilmente la Gare d’Orsay di Parigi, che proprio per questo suo status di monumento epocale è stata trasformata nel museo dedicato all’Ottocento – secolo che essa rappresenta in pieno. La stazione di Victor Laloux, costruita a tempo di record, fu inaugurata per la grande esposizione universale del 1900 di cui divenne immediatamente una delle principali attrazioni e, benché esterna, anche il principale “padiglione” della Francia. Un rapporto con la nazione esiste anche dove lo Stato unitario non c’è ancora o si appresta a nascere tardivamente come in Germania ed in Italia. Qui la rete ferroviaria e con essa la stazione sono un annunzio di questa prossima e necessaria nascita. La costruzione della rete ferroviaria è considerata sia in Italia che in Germania, come nota Goethe, un fattore di accelerazione dell’unità nazionale. La ferrovia era fondamentale soprattutto in quest’ultimo paese vista la collocazione fortemente decentrata di Berlino, la futura capitale. In Italia la stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova venne costruita nel 1861 proprio per celebrare l’appena raggiunta unità nazionale. Le stazioni italiane ottocentesche non sono assolutamente paragonabili a quelle francesi ed inglesi né per volume di traffico né – soprattutto – per la rilevanza architettonica. L’Italia è arretrata come sviluppo industriale, la sua armatura urbana è complessivamente debole e lo Stato unitario è ancora troppo giovane. Solo

Icona dell’Impero Britannico e del suo rapporto con le colonie è la stazione Victoria Terminus costruita a Bombay nel 1887 – oggi Chhatrapati Shivaji Terminus, dopo la “nazionalizzazione” del 1996 dei nomi inglesi – . La logica stilistica complessiva è quella del cosiddetto gotico vittoriano (che ricorda, non casualmente, anche il gotico della stazione londinese di St. Pancras) in cui, però, sono inserite anche citazioni dell’architettura indiana, come le tipiche torrette.

nel 1867 venne istituito al Politecnico di Milano un corso specifico di ingegneria ferroviaria. Le prime stazioni, tra cui quella di Torino Porta Nuova, pur avendo esplicitamente intenti celebrativi sono architettonicamente troppo modeste per assumere il rango di monumenti ed entrare nell’immaginario collettivo. Ad impressionare un paese ancora fondamentalmente agricolo sarà piuttosto la ferrovia ed in particolare la locomotiva, assunta spesso, a partire da Carducci, come simbolo del progresso che avanza. Sarà necessario aspettare il secolo successivo – ed in particolare i decenni tra le due guerre – per le belle stazioni razionaliste (p.e. a Firenze Santa Maria Novella ed a Venezia Santa Lucia), monu-

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del Levante o con altri treni dai nomi altisonanti. Nella capitale industriale dell’Italia arrivano dalla campagna non solo i personaggi tragici di Visconti ma anche i buffi Fratelli Capone, impersonati da Totò e Peppino De Filippo. Tutti, appena scesi dal treno, fanno correre lo sguardo smarrito – insieme all’obbiettivo della macchina da presa – sulla grandezza delle tettoie di vetro e sull’imponenza della colonne di ferro che le sostengono. Il cinema italiano è troppo intriso di realismo perché qualcuno dei nuovi arrivati possa – novello Rastignac – sfidare la città dai binari della stazione proclamando «A noi due, Milano!». La Stazione Centrale di Milano di Totò e Peppino è un’immagine di culto, rimasta nell’immaginario degli italiani molto più di quella di Rocco e i suoi fratelli che Visconti fa sbarcare, emigranti, in Lombardia da un “treno della speranza” proveniente dalla Basilicata.

menti questa volta del regime fascista. Con i consueti tempi lunghissimi delle opere pubbliche italiane vengono realizzate nel secondo dopoguerra le due grandi stazioni, ultima coda della stagione razionalista – la Termini di Roma (eccezionalmente celebrata anche da un francobollo da 700 lire) e la Napoli Centrale. Nell’immaginario collettivo italiano la stazione entra a partire dagli anni ’50 come porta d’ingresso delle città lombarde e piemontesi verso cui si dirigono milioni di emigranti meridionali. Se la piccola stazione di campagna è la partenza per l’emigrante in Toscana ne La vita agra di Lizzani o in Romagna ne I Vitelloni di Fellini, la Stazione Centrale di Milano, vera protagonista del cinema italiano degli anni ’50 e ’60, è la Ellis Island dei meridionali che giungono al nord con l’Espresso

Le folle della stazione Le stazioni sono sempre state sin dall’inizio della loro storia il precipitato della città: esse sono, anzi, il concentrato dell’autorappresentazione della città, della sua potenza, della sua tecnologia e soprattutto del suo futuro. «La stazione ferroviaria è una società in miniatura, è il teatro di mille scene, di mille intrighi ed anche di mille inganni»: scriveva così nel 1861 Benjamin Gastineau nel suo Les Romans du voyage. La vie en chemin de fer2. Sono state anche la summa dello spirito della città nuova e della sua gente anch’essa nuova e corticale descritta da Simmel e Wirth. Appaiono nella stazione – entrando immediatamente nell’immaginario della nuova cultura metropolitana – figure singolari come il borseggiatore, il vagabondo, la « dame qui ne part jamais » o la venditrice abusiva di fazzoletti o dolciumi. La presenza di una folla 2

Cit. in Sauget, Stephanie, op. cit., p. 168.

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mobile ed eterogenea è uno degli aspetti e dei problemi costanti della vita delle stazioni. Il fatto che nella stazioni affluiscano simultaneamente enormi quantità di persone diverse per livello sociale, cultura, genere e scopo della presenza (shopping o viaggio, arrivare o partire, accogliere o ripararsi, ecc.) crea grandi problemi sia di progettazione che di gestione. Il primo tratto distintivo della stazione che in questo presenta, amplificata e ben visibile, una delle maggiori caratteristiche della città nuova della modernità è l’anonimato. L’uomo corticale di Simmel, indifferente ed impermeabile alla folla ed agli stimoli che da questa provengono, può essere considerato l’uomo delle stazioni per eccellenza. In nessun altro luogo come in questo, infatti, l’individualità incontra la folla e con questa deve stabilire una relazione difensiva e collaborativa nello stesso tempo. La folla richiede all’individuo modalità di comportamento che consentano di muoversi in essa senza esserne schiacciato né fisicamente né psicologicamente. La descrizione che della folla della Grand Central di New York fa Mark Kingwell è estremamente suggestiva e mostra come – in una logica analoga a quella dello sciame – i viaggiatori in arrivo o in partenza abbiano interiorizzato i segnali e le indicazioni del sistema spaziale e cognitivo della stazione. «Provate a fermarvi sopra il Grand Concourse (il salone centrale) della Grand Central in un’ora di punta e guardate la gente che si muove in tutte le direzioni. La quasi anarchica ma in qualche modo funzionale massa di ondeggianti vettori – tutta quella gente che si muove tutta in direzioni leggermente diverse, passando avanti, dietro ed intorno agli altri, sgusciando, scartando

La Grand Central di New York è stata costruita per essere un grande monumento urbano ed oggetto di immediata ammirazione da parte del grande pubblico. Si noti la maestosità dell’edificio, i cui spazi interni sono di scala inusitata e senza alcuna ragione funzionale: tranne che quella, neppure dissimulata, di stupire e d’incantare.

di colpo e negoziando gli arresti ed i cambiamenti di direzione e gli arretramenti andando verso gli altri con una velocità da videogame. La pressione del movimento è regolata come da una valvola che si apre ad intermittenza, da brevi accelerate e segnali con le sopracciglia in maniera che il numero delle collisioni si riduce ad un minimo incredibile»3. Gli utenti della stazione hanno dovuto incorporare indicazioni e norme del grande artefatto cognitivo per poterne fruire quotidianamente. Definibile come “railroad station etiquette” o la sapienza del viaggiatore, la diffusa capacità di muoversi correttamente nella folla rappresenta la condizione per il funzionamento della grande stazione 3

Kingwell, Marc, Concrete Reveries – Consciousness and the City, Viking, New York 2008, p. 38.

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intermodale contemporanea così come l’aeroporto richiede al viaggiatore un minimo di competenza per comprendere ed adeguarsi ai segnali che quel sistema spaziale produce. La concentrazione di folla rende gli incontri aleatori, superficiali e non previsti normali ed anzi tipici del luogo stazione. La stazione diviene il campo naturale del “breve incontro”, modalità di interazione propria e tipica della modernità come aveva intuito Baudelaire nel poemetto “Ad una passante”. Qui, il flâneur che scivola sulla folla senza esserne toccato è a casa propria più che nello stesso boulevard. È sempre in una stazione, fra treni che partono ed arrivano, che nel 1935 Noel Coward ambienta la sua commedia Brief Encounter, portata sullo schermo in una versione strappalacrime circa dieci anni dopo da David Lean. Nella stazione e nel viaggio in treno, che è spazio dove il rapporto con l’altro è presupposto, si struttura una nuova etichetta per le relazioni con gli sconosciuti. Nasce la gentile e civile disattenzione dei viaggiatori, anche nello stesso scompartimento, che solo oggi è infranta dall’uso invasivo ed indiscriminato del cellulare. L’anonimato rappresenta, però, solo il versante per così dire letterario della stazione e per questo è diventato anche un tópos cinematografico. Il miglior set per tutti i numerosi “volti nella folla” dello schermo è stato perciò sempre la stazione ferroviaria, persino più dei Boulevard parigini raccontati dalla Nouvelle Vague cinematografica di Malle o Godard. L’anonimo contenitore della folla anch’essa anonima è ciò che emerge con maggiore forza una volta che la stazione – come nota Roland Barthes nell’Impero dei segni – venga «depurata del carattere sacrale che contraddistingue di solito i

grandi punti di riferimento delle nostre città: cattedrali, chiese, municipi, monumenti storici». Il maggior problema è quello della naturale eterogeneità sociale della folla, questione particolarmente sentita nelle metropoli ottocentesche dove il più diffuso ed efficace strumento per regolare le enormi diseguaglianze sociali era il distanziamento fisico per cui maggiore era la distanza sociale, più distante era la collocazione urbana. La stazione ferroviaria è in questo senso uno spazio pubblico straordinario e controcorrente perché nasce, con l’immediato status di monumento, proprio nel cuore della nuova città borghese aveva fatto del distanziamento fisico delle classi principio e condizione della gestione politica delle sue contraddizioni sociali. Uno dei princìpi base di organizzazione spaziale e politica della città dell’Ottocento era, infatti, il distanziamento fisico degli estremi della piramide sociale. Mentre nella città barocca il ricco ed il povero vivevano spesso nello stesso isolato se non nello stesso edificio, nella città moderno-industriale essi vengono distanziati e collocati in aree della città – centro e periferie – che essi connotano. Sono le “due nazioni”, descritte dallo scrittore-primo ministro Disraeli, che vivono lontane nella stessa città senza incontrarsi mai. Lo stesso Engels confessa di aver vissuto a Manchester per anni senza mai attraversare un quartiere popolare benché andasse giornalmente in ufficio. Le stazioni ferroviarie costituiscono perciò sin dal loro apparire un nuovo ed inedito spazio pubblico dove le classi sociali che le nuove politiche urbane di distanziamento abitativo cercavano di rendere invisibili tornano ad incontrarsi in numeri mai registrati prima. Qui insieme agli “altri”, che negli stessi anni vengono

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definiti “dangerous classes”, classi pericolose, appare il crimine ed il rischio. È indicativo come la prima polizia ferroviaria inglese sia stata istituita già nel 1830 su iniziativa di compagnie ferroviarie private. A Londra ed a Parigi è proprio la ferrovia che rende visibili ai borghesi gli spaccati dell’habitat urbano dell’altra “nazione”. I nuovi viadotti ferroviari tagliano la città e costituiscono per il viaggiatore un punto di osservazione da cui è possibile far correre l’occhio su quartieri sino a quel momento inaccessibili e pericolosi. Gli archi in mattoni dei nuovi viadotti londinesi, i cugini poveri delle scintillanti Arcade dello shopping, ospitano marginali ed esclusi ed entrano a far parte del panorama del lumpen proletariat, il proletariato degli stracci ritratto nelle planches di Doré. Le prime stazioni ferroviarie devono fare i conti con la folla da due punti di vista: l’anonimato e l’eterogeneità sociale – compresa quella di genere che avrà un trattamento diverso in Europa e negli Stati Uniti –. Vengono sperimentate nelle stazioni le nuove strategie di controllo dell’ordine sociale. Thomas Cook, il primo ad inventare il viaggio tutto incluso in treno da Leicester a Londra per visitare l’esposizione universale del 1851, dichiarava: «Railway travelling is travelling for the Millions: the humble may travel, the rich may travel»4. Alcuni – quanto meno a parole – vedevano in questa “democratizzazione” del viaggio un occasione di incontro e quindi di integrazione delle diverse classi sociali. In questa visione la stazione era chiamata a svolgere una funzione analoga a quella au4

Cit. in Urry, John, Mobilities, Polity Press, Cambridge 2007, p. 104.

spicata da Olmsted per il suo Central Park di New York che avrebbe dovuto essere il campo di incontro della borghesia con le classi popolari ed una sorta di aula in cui quest’ultime avrebbero assimilato i valori, gli stili di vita ed i modelli di comportamento dei ceti superiori. Le cose in Europa, almeno sino alla prima guerra mondiale, vanno in maniera diversa da quanto sognavano quanti consideravano la stazione un efficace meccanismo di integrazione sociale. Sono le tariffe differenziate che riproducono anche nel mondo ferroviario le differenze sociali che, anzi, vengono accentuate ancora una volta dal distanziamento fisico dei passeggeri. In Gran Bretagna c’erano addirittura treni per poveri, i cosiddetti Parliamentary Services, che erano stati istituiti grazie ad una legge promossa nel 1844 dal primo ministro liberale Gladstone. Il treno rendeva le classi sociali più visibili che mai, come notano immediatamente i pittori. Daumier crea un quadro straordinario sul proletariato francese del secondo impero nel suo “Vagone di terza classe”, mentre la tela del londinese Augustus Leopold Egg “Compagne di viaggio” del 1862 ci consegna l’immagine di fanciulle borghesi dell’età vittoriana che, leggendo o appisolate, vivono serene – come se fossero in un salotto – l’esperienza del treno. L’appena successivo “Gentiluomo in un vagone ferroviario” di James Tissot mostra invece il lusso della prima classe inglese. Nella maggior parte delle stazioni di Parigi vi sono autentiche barriere che separano i passeggeri delle diverse classi: nella Gare de Lyon le reti divisorie sono alte sino a due metri. A separare fisicamente i passeggeri di diversa estrazione sociale intervengono le guardie di sorveglianza che le compagnie ferroviarie arruolano

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tra il personale militare. Bisognerà aspettare gli anni ’30 del ’900 perché in Francia – in coincidenza con la nazionalizzazione delle ferrovie da parte del governo del Fronte Popolare – venisse rispolverata la visione delle stazioni come importanti campi di formazione del cittadino delle moderne democrazie in quanto in esse era possibile incontrare le diversità etniche e sociali proprie delle nuove società socialmente articolate e cosmopolite. In Gran Bretagna la stazione ferroviaria, punto di transito di milioni di persone di tutti i livelli sociali, divenne rapidamente un importante snodo della diffusione della cultura di massa grazie ai punti di vendita dove era possibile acquistare libri. Milioni di persone potevano essere avvicinate ai libri proprio grazie ai chioschi collocati nelle principali stazioni dalla W.H. Smith diventata in seguito una delle maggiori catene di librerie del mondo. Il viaggio in ferrovia si presentò come una preziosa occasione per leggere anche per quanti sino a quel momento ne avevano avuto minori possibilità. Nel 1849 George Routledge lanciò, con grande successo, in Inghilterra una collana di libri economici e di facile lettura battezzata “Railway Library”; in Francia Louis Hachette negli stessi anni mise sul mercato, soprattutto nei punti di vendita delle stazioni, la sua “Bibliothèque des chemins de fer”, dando vita a quella che venne poi chiamata la Littérature de gare. In Francia i chioschi di vendita di libri e giornali nelle stazioni avevano un regime speciale. Probabilmente perché rivolti ad un pubblico che si avvicinava spesso per la prima volta al libro, quelli messi in vendita da Hachette nelle stazioni ferroviarie dovevano essere preventivamente approvati da una commissione di censura che invece non poteva

operare sui cataloghi delle librerie. Furono molti i titoli di cui era vietata la vendita nelle stazioni: sotto la scure delle censura che intendeva così pilotare l’accesso alla lettura delle grandi masse caddero, tra l’altro, Il Rosso e il Nero e La Certosa di Parma di Stendhal5. I regimi totalitari europei – soprattutto il fascismo – tentarono proprio attraverso il viaggio in ferrovia di avvalorare un’immagine di Stato efficiente (con Mussolini, si scriveva, i treni arrivano in orario) ed egalitario (l’invenzione fascista dei “treni popolari “a prezzo ridotto). Ma, soprattutto in Europa, la speranza di fare del viaggio in ferrovia uno strumento di uguaglianza sociale si rivelò un’illusione che venne vanificata dall’avvento delle diverse classi di viaggio e persino dalla divisione delle sale d’aspetto (eliminate nella maggior parte dei paesi europei solo alla fine degli anni ’50). L’incontro con gli altri – vagheggiato dagli scrittori riformatori ottocenteschi – è rimasto confinato all’interno della stessa classe sociale. Al di fuori di questa cerchia – ritenuta socialmente ed anche “fisicamente” sicura – si sviluppano in forme diverse le strategie progettuali e poliziesche di controllo dell’ordine sociale. Alla Grand Central di New York vengono allestite sale separate per gli immigrati in attesa di disperdersi – dopo il controllo di Ellis Island – per gli Stati Uniti. La logica e lo scopo di questi ambienti è chiara già nelle indicazioni per l’allestimento: «Deve essere fuori mano ed anche in un diverso edificio. Dovrebbe avere una completa attrezzatura sanitaria e, se possibile, lavatoi ed asciugatoi per gli indumenti. È auspicabile una stanza da pranzo per gli emigranti con del cibo a 5

Sauget, Stéphanie, op. cit., p. 252.

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basso prezzo. I locali per gli emigranti devono essere ben ventilati e gli interni progettati in maniera tale da poter essere facilmente puliti»6. Le leggi Jim Crow furono delle leggi locali e dei singoli stati del sud degli USA emanate, malgrado gli esiti della guerra civile, tra il 1876 ed il 1965. Di fatto servirono a creare e mantenere la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, istituendo uno status definito di “separati ma uguali” per i neri americani e per i membri di altri gruppi razziali diversi dai bianchi. Le stazioni e più ancora i treni furono tra i primi campi dove la segregazione venne organizzata ed applicata in nome di un maggiore confort per alcune classi di passeggeri. Per giustificare la segregazione ormai illegale, le Compagnie Ferroviarie degli Stati del Sud – in questo caso la Georgia Railroad Company nel 1887 – sostenevano che «La differenza – ove dovesse esserci, tra le carrozze per i passeggeri bianchi e quelli per quelli di colore – è solo estetica e consiste in maggiori ornamenti e roba del genere»7. La ferrovia, inoltre, ha agito come potente acceleratore di differenziazione e segregazione sociale della città moderno-industriale. Il trasporto rapido su rotaia ha consentito la fuga dalla città, considerata pericolosa ed insalubre, del ceto medio bianco (il “white flight” statunitense) che ha potuto trasferirsi verso i sobborghi divenuti aree socialmente e culturalmente omogenee mantenendo i necessari rapporti con il proprio posto di lavoro urbano.

6

Cit. in Richards, Jeffrey e MacKenzie John, op. cit., p. 147. Richter, Amy G., Home on the Rails – Women, The Railroad, and The Rise of Public Domesticity, The University of North Caroline Press, Chapel Hill 2005, p. 85. 7

Le ferrovie modificano radicalmente sin dal loro apparire la vita di milioni di individui non solo consentendo una mobilità impensata solo pochi anni prima e riavvicinando, in tempi di percorrenza, abitazione e lavoro che la rivoluzione industriale aveva – sembrava definitivamente – separato. Il treno riesce a trasformare anche il mondo quotidiano di chi non deve prenderlo. Nella Londra vittoriana il “railway milk” è un’autentica rivoluzione per le abitudini delle famiglie. Finalmente il latte fresco può raggiungere la città partendo alle sei del mattino dalle contee di Devon, Dorset e Somerset in tempo per essere sulle tavole dei londinesi per la prima colazione. Il latte del treno veniva considerato persino più fresco e sano di quello proveniente dalle putride stalle ubicate nei quartieri poveri di Londra. Alcuni storici dell’alimentazione sostengono che fu proprio questa rivoluzione – resa possibile dal treno – a creare il Great British Breakfast i cui pilastri sono notoriamente cereali, latte, uova e pancetta danese8. Lo stesso avvenne a New York che solo dopo il 1841 – anno di completamento della linea ferroviaria New York-Erie – poté finalmente ricevere giornalmente latte fresco dagli allevamenti della Orange County9. La ferrovia non serve però solo a portare cibo fresco sulla tavola dei londinesi per la prima colazione ma anche a fare arrivare i domestici in tempo per servirla. «Le ferrovie fecero quanto era in loro potere per incoraggiare le classi che avevano al loro servizio molta servitù

8

Steel, Carolyn, Hungry City. How Food Shapes our Lives. Vintage Books, Londra 2009, p. 91. 9 Wolmar, Christian. Blood, Iron & Gold, Atlantic Books, Londra 2009, tr. it. EDT, Torino 2011, p. 301.

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a risiedere lungo le loro linee, realizzando nuove tratte competitive attraverso i dintorni… e facendo arrivare quante più linee possibili a due capolinea londinesi, uno per la City ed uno per il West End». Inoltre, «Per questo vennero istituiti i treni di terza classe» anche se – con l’eccezione della Great Eastern – «le ferrovie erano riluttanti a introdurre servizi di treni operai prima che ve ne fosse effettiva richiesta»10. Mentre le esperienze di Francia e Gran Bretagna – per quanto riguarda le stazioni ferroviarie – sono simili, diverse sono le vicende statunitensi. Negli USA l’elemento determinante è costituito dalle grandi distanze che rapidamente fanno della ferrovia una costante della scena quotidiana per milioni di cittadini che vivono il treno con familiarità domestica in nome della quale erano persino accettati, senza molte proteste, i rumori ed i fumi dei treni che attraversavano le città. È grazie allo sviluppo della rete ferroviaria che in Europa ma soprattutto negli Stati Uniti le città possono crescere con ritmi spesso esponenziali. Il treno, infatti, libera le città dalle cosiddette catene del cibo; la ferrovia, in grado di trasportare con rapidità enormi quantità di derrate alimentari, può alimentare le nuove metropoli moderno-industriali. Il grano delle praterie americane può finalmente raggiungere con facilità le grandi città dell’Est e consentirne la crescita. Negli Stati uniti la storia delle ferrovie e della stazione è diversa da quella europea anche perché non viene dopo secoli di trasporti preindustriali ma coincide con 10 Olsen, J. Donald, The City ad a Work of Art. London-Paris-Vienna, Yale University Press, New Haven 1986, tr. it. Serra e Riva Editori, Milano 1987, p. 181.

la nascita stessa della nazione e della sua necessaria accessibilità. In Europa il treno permette di collegare rapidamente città ed aree abitate già esistenti; negli Stati Uniti, invece, è la ferrovia che trasforma immensi spazi ancora selvaggi in città e territori produttivi. L’evoluzione da deposito a stazione negli Stati Uniti è accompagnata dalla nascita del mito del treno (il viaggio in ferrovia è – a partire dalla fine dell’Ottocento – un tópos della letteratura della nuova frontiera americana di cui Jack London e John Steinbeck sono tra i più noti esponenti).

La stazione mito Anche negli Stati Uniti a cavallo tra Ottocento e Novecento si ha quello che viene comunemente chiamata la stagione della megalomania delle stazioni che vengono progettate e costruite con il chiaro scopo di diventare monumenti urbani in onore sia della città che del capitale finanziario. L’omaggio a quest’ultimo si spiega con il fatto che le reti ferroviarie statunitensi a differenza di gran parte di quelle europee erano costruite da società private che intendevano così comunicare tramite le stazioni monumentali la propria solidità finanziaria e la rilevanza pubblica del proprio agire. A Baltimora lo stile Beaux-Arts della Penn Station dell’architetto Kenneth MacKenzie Murchison venne acclamato dal pubblico che ringraziò per questo la Pennsylvania Railroad. A Washington D.C., capitale federale, la progettazione della Union Station viene affidata al più prestigioso degli architetti americani dell’epoca – Daniel

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Burnham – che, imparando la lezione della Euston Station di Londra, interpreta la stazione come porta della città ispirandosi per la facciata all’Arco di Costantino intorno al quale, in una logica assolutamente eclettica, chiama a raccolta tutti i riferimenti storici possibili a partire dalle romane Terme di Diocleziano. Sugli affreschi interni, dedicati al trionfo del progresso ferroviario, campeggiano figure mitologiche da Prometeo a Themis. Anche per la natura di città capitale di Washington la Union Station venne sin dall’inizio dotata di un grande ristorante, di una suite presidenziale, di sale da barba e persino di una sala mortuaria. La Grand Central di Chicago era anch’essa voluta per restare impressa grazie alle vetrate che richiamavano la solennità di una cattedrale, i pavimenti di marmo ed uno scalone che per il suo carattere monumentale è stato utilizzato nel 1987 dal regista Brian De Palma per la scena finale del suo The Untouchables (Gli Intoccabili) in cui viene ironicamente citata la famosa sequenza della Corazzata Potiomkin. Queste scene erano state girata da Eisenstein sulla grandiosa scalinata di Odessa chiamata per la sua grandiosità ‘Boulevard a gradini’ o ‘Gradinata Richelieu’. Analogo investimento funzionale e simbolico avviene a New York per il Grand Central Terminal e per la Pennsylvania Station. Soprattutto la Grand Central, come è comunemente chiamata dai newyorkesi, è esplicitamente ed enfaticamente progettata per essere un landmark urbano ed entrare immediatamente nell’immaginario collettivo anche per la sua collocazione assolutamente centrale in Manhattan dettata da motivi pratici e non da sofisticati criteri urbanistici. La stazione è, infatti, sulla 42esima perché un’ordinanza municipale vietava il tran-

La Union Station di Chicago è la cornice delle scene finali de Gli Intoccabili (The Untouchables, 1987) di Brian De Palma. La citazione è quella della carrozzina de La Corazzata Potiomkin, ma l’atmosfera è quella rarefatta e tuttavia vissuta di una grande stazione di notte.

sito dei veicoli a vapore oltre quella strada, dopo la quale i vagoni dovevano essere trainati dai cavalli. Ubicazione a parte, la Grand Central è stata costruita per essere monumento ed oggetto di immediata ammirazione da parte del grande pubblico: le vetrate sono di Tiffany e l’orologio in opale a quattro facce del salone centrale – il Main Concourse – sembra sia costato in valori attuali circa 30 milioni di dollari. Il grandioso cielo stellato dipinto sul soffitto del Main Concourse ne rafforza l’atmosfera da sogno e suscita ammirazione a condizione, però, che l’osservatore non sappia nulla di astronomia. La mappa stellare – redatta ad hoc dalla Columbia University di New York – è stata infatti riprodotta a rovescio come se le stelle fossero osservate dall’alto e non dalla terra. Più precisi, invece, sono i riferimenti architettonici come la

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grande scalinata che è ispirata allo scalone dell’Opéra Garnier di Parigi. Il Grand Central Terminal, che per i suoi numerosi alberghi, ristoranti, ecc. era considerato una città nella città – all’inizio venne chiamato addirittura Terminal City11. Alla sua inaugurazione avvenuta nel 1913 il New York Times dedicò un inserto speciale in cui la stazione viene definita «un monumento, un centro civico o, se si vuole, una città». I termini usati per descriverlo – nobile, maestoso, impressionante, sublime – erano gli stessi utilizzati per i grandi fenomeni della natura come le Cascate del Niagara.12 Impressionava la maestosità dell’edificio, i cui spazi interni erano di scala inusitata e senza alcuna ragione funzionale tranne quella – neppure dissimulata – di stupire e di incantare. Gli affreschi del soffitto che richiamavano la volta celeste stimolavano l’orgoglio nazionale del pubblico ma incutevano anche timore e rispetto per chi aveva realizzato quel monumento: la famiglia Vanderbilt, proprietaria della compagnia ferroviaria e della stazione. Al suo fondatore – il Commodoro Vanderbilt – era dedicata la statua che campeggiava imponente davanti alla facciata nord. Il successo del Grand Central Terminal nell’universo dei media è di lungo periodo ed è testimoniato dai trenta importanti film che lo hanno avuto come scena e persino come simbolico protagonista. Sul sito della stazione ne vengono indicati 32 con l’avvertenza, però, che si tratta solo di quelli considerati più importanti.

11

Taylor, William R., In Pursuit of Gotham. Culture and Commerce in New York. Oxford University Press, New York 1992; tr. it. New York. Le origini di un mito. Marsilio, Padova 1994, p. 74. 12 Ivi, p. 75.

Dopo un periodo di difficoltà e di oscurità soprattutto simbolica, comune anche all’Europa, le stazioni nordamericane hanno vissuto prima ancora di quelle europee una stagione di rinascita. Di grande rilievo è il processo di riqualificazione e ristrutturazione che negli ultimi decenni ha investito le grandi stazioni statunitensi aprendo una tendenza generalizzata che ha poi toccato anche l’Europa. La loro centralità e l’enorme valore dei suoli non potevano essere trascurati dai proprietari degli impianti e dai grandi investitori immobiliari. La storica Penn Station di Baltimora ha arricchito il programma di riqualificazione con l’installazione di una grande scultura di 15 metri intitolata “Male/Female” di Jonathan Borofsky valorizzando l’intera area della stazione. L’omonima Penn Station di New York è stata invece oggetto di un intervento assolutamente radicale (e per questo molto discusso): è stata demolita nel 1963 e ricostruita in maniera da ospitare nelle sue torri il Madison Square Garden oltre ad uffici e negozi. Il progetto di rinnovo non è ancora concluso visto che nel 2010 sono stati stanziati dal governo federale e da altre fonti altri 250 milioni di dollari. Il mito della Penn Station è profondamente radicato tra gli Americani tanto nella cultura alta che in quella popolare. La grande stazione newyorkese, monumento indiscusso dello stile beaux arts negli Stati Uniti, è entrata immediatamente nell’immaginario collettivo restandovi salda per circa mezzo secolo. Quando, perciò, all’inizio degli anni ’60 venne deciso di abbatterla per costruirne una nuova che, sfruttando al massimo la grande area al centro di Manhattan, risolvesse le difficoltà finanziarie della proprietaria Pennsylvania Railroad Corporation, ci fu una levata di scudi generale. Robert Venturi, pro-

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clamando che la stazione era «era uno dei più grandi ed importanti spazi interni del continente», prese parte nel 1962 al fianco di Jane Jacobs, ormai ottantasettenne, e di centinaia di cittadini al picchettaggio davanti alla stazione per impedirne la distruzione. Il commento dell’anziana urbanista a proposito della protesta fu lapidario: «Non c’è nulla di divertente. È stata come una sveglia. La città sta rendendo a tutti la vita assurda con le sue decisioni cretine». Al loro fianco non c’erano solo personaggi come Lewis Mumford, che aveva a lungo protestato per la scarsa manutenzione della stazione e per l’uso della vernice in alluminio per ricoprire la colonne di ferro («l’equivalente estetico del sostituire una gamba sana con una di legno»), Norman Mailer, Charles Abrams ma anche Philip Johnson, non sospettabile per la sua adesione al Movimento Moderno di eccessive simpatie per il passato. «I Newyorkesi meritano questi pezzi di grandeur nelle loro vite», scriveva, aggiungendo che stando dentro la Penn Station «ti rendi conto che l’uomo può costruire in maniera nobile»13. L’abbattimento e la ricostruzione della storica stazione, possibili per la mancanza – all’epoca – di norme e di istituzioni in grado di proteggerla, ha provocato un duro scontro nell’opinione pubblica gran parte della quale si è schierata contro la distruzione anche con sit in e manifestazioni. Tra i più tenaci avversari dell’abbattimento fu il New York Times che, prendendo atto della decisione finale favorevole alla distruzione della stazione-monumento, scrisse: «una città ha ciò 13 Cit. in Stern, A.M. Robert, Mellins, Thomas, Fishman, David, New York 1960 – Architecture and Urbanism Between the Second World War and the Bicentennial, The Monacelli Press, New York 1995, p. 1117.

che vuole, ciò che è disposta a pagare e, in definitiva, ciò che si merita» (a city gets what it wants, is willing to pay for, and ultimately deserves) in Farewell to Penn Station. The New York Times, 30 ottobre 1963 (l’editoriale prosegue dicendo che «noi saremo probabilmente giudicati non per i monumenti che costruiamo ma per quelli che abbiamo distrutto»). La controversa distruzione della Penn Station è anche al centro di una storia di Batman: “Death by Design” di Chip Kidd. Nel fumetto la Penn Station di New York diventa la Wayne Central Station di Gotham City che rischia di essere abbattuta benché – per usare le parole di Batman – essa costituisca «the single best example of Patri-monumental Modernism in America». A progettare la grande e moderna stazione che prenderà il suo posto viene chiamato nella storia a fumetti un architetto europeo, Ken Roomhaus – è più che evidente a chi l’autore della storia si riferisca – il cui stile viene alternativamente definito “Maxi-minimalism” and “Mini-maximalism”.14 Edifici monumento della nuova città borghese, le stazioni ferroviarie sono state nell’Ottocento una delle maggiori emergenze urbane dotate di un forte carico simbolico ed ammantate da un’aura magica entrando nell’immaginario collettivo e ponendosi come il precipitato, visibile ed esperibile, dell’avanzata modernità. La città moderno-industriale fa delle stazioni ferroviarie il simbolo della propria rilevanza economica e politica ed insieme l’asse centrale della propria infrastruttura urbana. A questa fase – che può anche essere conside14

Kidd, Chip, Batman: Death by Design, DC Comics, New York 2012.

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rata come la stagione aurea della stazione ferroviaria europea – succede un lungo letargo simbolico dovuto in gran parte al dominio della cultura progettuale del movimento moderno e funzionalista – che va grosso modo dagli anni ’30 ai ’70 del ’900 e che si sviluppa soprattutto in Italia durante il fascismo. Nella stagione tra le due guerre il razionalismo, sia pure declinato con forme e culture diverse, viene adottato su larga scala in tutti i paesi. Sembra di assistere ad una sorta di rivincita degli ingegneri, messi in un angolo dall’ondata di piena dell’eclettismo e dalle beaux arts ottocenteschi. A loro – in una sorta di divisione del lavoro – era lasciato il solo compito di progettare le grandi arcate destinate ad ospitare i treni ed i binari mentre agli architetti toccava il prestigioso e visibile ruolo di “progettista” tout court. L’investimento narrativo della tradizione del beaux arts si rivela a posteriori paradossalmente maggiore dell’anonimato delle stazioni del movimento moderno che sulla carta dichiaravano di interpretare lo zeigeist della modernità. La logica unificante del movimento moderno e le sue pretese di omogeneizzazione transnazionale in nome di una razionalità unificatrice lasciano, però, varchi per strategie identitarie soprattutto ad opera di regimi apertamente o velatamente autoritari che in quegli anni si diffondono in Europa. Il nazionalismo fiorito tra le due guerre è ben visibile in molte delle stazioni europee: il castello danese ispira la Stazione Centrale di Copenhagen mentre la statua che domina l’ingresso della stazione di Helsinki di Eliel Saarinen richiama la cultura scandinava e la sua mitologia. Analoghi richiami alle culture nazionali sono presenti nelle stazioni razionaliste costruite in Scozia e Spagna nello

stesso periodo. Nella futura e per fortuna mai realizzata capitale del Reich dei mille anni, Hitler voleva che fosse costruita la più grande e monumentale delle stazioni ferroviarie – ne voleva una simile anche a Monaco che considerava la capitale del “movimento”–. Albert Speer a cui venne conferito l’incarico ne era entusiasta e lavorò ad un progetto in cui la sterminata piazza della stazione – paragonata per la sua capacità di impressionare al tempio di Karnak a Luxor – avrebbe contenuto anche l’arco di trionfo per Hitler. Anche in Italia le stazioni ferroviarie divennero tra le due guerre monumenti del regime fascista che affidava all’architettura un’esplicita funzione propagandistica e, addirittura, pedagogica. La varietà stilistica che contraddistingue le stazioni italiane del ventennio – la Centrale di Milano del 1930 e la quasi coeva Firenze SMN del ’36 – va ascritta non solo e non tanto all’ondeggiare stilistico di Mussolini sempre in bilico tra il razionalismo ed il monumentalismo eclettico quanto ai tempi lunghi – tipicamente italiani – necessari per la realizzazione delle stazioni. La Stazione Centrale di Milano cominciata nel 1920, ancora sull’onda della megalomania eclettica dell’inizio del secolo, fu completata solo dieci anni dopo. È quindi ascrivibile operativamente al ventennio fascista mentre progettualmente e simbolicamente appartiene alla stagione precedente. Ben diverso è il caso della splendida stazione di Santa Maria Novella, con la quale Michelucci riesce nella difficile operazione di inserire senza frizioni un progetto razionalista nel contesto di una città speciale e fragile come Firenze, alla cui eccezionalità storica, artistica e soprattutto simbolica il fascismo era per questioni di

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Con la stazione di Santa Maria Novella, Giovanni Michelucci riesce nella difficile operazione di inserire senza frizioni un progetto razionalista nel contesto di una città speciale e fragile come Firenze, alla cui eccezionalità storica, artistica e soprattutto simbolica il fascismo era per questioni d’immagine particolarmente attento. Proprio per questo suo rilevante carattere simbolico la nuova stazione diventa immediatamente un fattore di scontro non solo culturale ma anche e soprattutto politico. In parlamento, nel ’34, Roberto Farinacci – certamente più noto per le gesta squadristiche che per le sue doti culturali – urlava tra gli applausi di molti deputati: «…La stazione di Firenze! Ricordatevela e vergognatevi!». Egli cavalcava in tal modo la protesta, tipicamente fiorentina, guidata da Ugo Ojetti, contro la stazione. Mussolini, sempre in bilico nei gusti architettonici tra il moderno razionalismo e l’eclettico trionfalismo littorio, sposò il progetto Michelucci anche perché – sembra – che notasse una somiglianza tra l’edificio visto dall’alto ed il fascio littorio, come la cartolina d’epoca lascia intravedere.

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immagine ovviamente attento. Proprio per questo suo rilevante carattere simbolico la nuova stazione diventa immediatamente un fattore di scontro non solo culturale ma anche e soprattutto politico. In parlamento, nel ’34, Roberto Farinacci – certamente più noto per le sue gesta squadristiche che per le doti culturali – urlava, tra gli applausi di molti deputati, «...La stazione di Firenze!!! Ricordatevela e vergognatevi»15. Egli cavalcava in tal modo la protesta, tipicamente fiorentina, guidata da Ugo Ojetti, contro la stazione. Mussolini, sempre in bilico nei gusti architettonici tra il moderno razionalismo e l’eclettico trionfalismo littorio, sposò il progetto del gruppo Michelucci. Se ciò sia dipeso – come sostengono alcuni – dall’intervento della sua amante e musa ispiratrice Margherita Sarfatti che avrebbe fatto notare al Duce che la nuova stazione vista dall’alto «sembrava un fascio littorio» non è sicuro. Certo è che Mussolini affermò: «non abbiate timore di essere lapidati o di vedervi la stazione demolita a furia di popolo… La Stazione di Firenze è bellissima ed al popolo italiano la Stazione di Firenze piacerà»16. Quelli che iniziano nel dopoguerra – terminata la ricostruzione delle numerose stazione europee distrutte dai bombardamenti – sono gli anni del progressivo degrado fisico e sociale delle stazioni. Inizia anche il declino simbolico su cui agiscono simultaneamente la vertiginosa crescita della motorizzazione privata, lo sviluppo esponenziale del traffico aereo ed il conseguente affermarsi dell’aeroporto come nuovo monumento non solo della città ma anche della nazione stessa. L’aeroporto eredita dalla grande stazione ferroviaria che lo ha preceduta il 15 16

Nicoloso, op. cit., p. 3. Nicoloso, op. cit., p. 51.

compito di rappresentare la città mostrandone la natura orientata al futuro. Gli architetti cominciano, perciò, a dedicare le proprie attenzioni agli aeroporti che costituiscono un campo progettuale più semplice di quello delle stazioni ferroviarie. L’aeroporto, infatti, essendo lontano dalla città non deve stabilire alcun raccordo formale o simbolico con questa e le sue architetture. È una sorta di tabula rasa su cui, fatti salvi i vincoli tecnici e funzionali, il progettista può creare liberamente avendo come uniche esigenze da considerare quelle celebrative e simboliche. La prima funzione, quella celebrativa, è immediatamente visibile sia che sia destinata ad una compagnia aerea – come il terminal TWA ad ala di gabbiano progettato da Eero Saarinen al Kennedy di New York – che ad uno Stato come l’avveniristico Charles De Gaulle a Parigi o gli innumerevoli e magniloquenti aeroporti di prestigio realizzati in Africa o in America Latina. Un esempio in tal senso è quello dell’Aeroporto romano di Fiumicino del 1960 che viene enfaticamente presentato – insieme alle Olimpiadi dello stesso anno – come il simbolo del ritorno dell’Italia del “Miracolo economico” sulla scena internazionale. Lo stesso aeroporto produsse, però, anche per il grande battage politico e mediatico con cui venne presentato, uno dei primi grandi scandali immobiliari dell’Italia del dopoguerra e forse anche per questo tardò ad entrare nell’immaginario collettivo. Fiumicino appare nei cinegiornali e nelle riviste illustrate dell’epoca non come simbolo della nuova Italia industriale ma per gli arrivi delle stelle del cinema che giungevano a Roma, ribattezzata Hollywood sul Tevere. Sono gli anni in cui in Italia il destino dei due grandi monumenti della mobilità si divarica: l’aeroporto è il

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Il brusio delle città

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ponte dell’Italia con il mondo mentre la stazione ferroviaria entra nella quotidianità di milioni di pendolari e soprattutto diventa la porta verso un sognato benessere di milioni di emigranti che si spostano dal sud al nord con quelli che vengono immediatamente battezzati i treni della speranza. Nomi suggestivi – come Espresso del Levante, Treno dell’Etna, Conca d’oro, Freccia del Sud – per carrozze malandate ed affollate, piene di sogni, rimpianti e valigie di cartone.

La stazione come terra di confine Dalla fine della seconda guerra mondiale le stazioni iniziano un periodo di declino. Sono marginalizzate soprattutto dagli aeroporti che assumono, in progressione, un peso assolutamente centrale nei trasporti sia nazionali che internazionali e fanno propria la funzione simbolica delle stazioni nel rappresentare insieme modernità ed identità nazionale. Le stazioni sono fatte oggetto solo marginalmente dell’attenzione progettuale e gli investimenti su di loro sono drasticamente ridotti. La diffusione dell’auto anche in Europa e la conseguente politica di crescita esponenziale della rete autostradale fanno si che le stazioni vedano diminuire il loro peso tanto pratico che simbolico. Gli anni ’60 e ’70 sono decenni neri per le stazioni ferroviarie europee: secondo il Rapporto Beeching solo in Gran Bretagna tra il 1963 e il 1977 sono stati chiusi 3.539 impianti, e circa 20.000 ne vennero eliminate nello stesso periodo negli USA.17 Qualcuno 17

Parissien, Steven, op. cit., p. 197.

– considerando l’enorme numero di stazioni dismesse – ha potuto legittimamente parlare di specie a rischio. Non è solo una crisi quantitativa in quanto sono anni contrassegnati, soprattutto in Italia ed in Francia, da un forte degrado fisico e sociale che si polarizza nei quartieri delle stazioni che perdono progressivamente la loro rilevanza simbolica per essere vissute prevalentemente come snodo, simbolicamente muto, del traffico su rotaia e come area di abbandono sociale. È in questi anni che le stazioni rendono – malgrado gli schermi fisici e simbolici approntati – visibili “gli altri” ed in tal modo diventano luoghi ansiogeni. I senzatetto e le talpe umane – The Mole People che vive nei tunnel ferroviari nelle viscere di New York – sono respinti ai margini della città e cercano riparo ed habitat nelle stazioni. Qui la loro presenza filtra ugualmente ed inquieta, superando le barriere fisiche ed i continui controlli umani, viaggiatori e cittadini. Spogliati della leggenda letteraria che negli Stati Uniti è stata costruita sui vagabondi delle ferrovie – soprattutto durante la crisi del ’29 –, i senzacasa sono una presenza drammatica che connota le stazioni delle grandi città abitate da migliaia di homeless statunitensi, dagli immigrati e dai barboni in Italia e dagli SDF - Sans Domicile Fixe – francesi. È la “clochardisation” della stazione ferroviaria scelta nel 2002 dalla Fondation Abbé-Pierre come simbolo stesso dell’esclusione e della marginalizzazione sociale. Una delle conseguenze è la riduzione delle stazioni – nell’immaginario collettivo – a semplici luoghi di transito e campo delle diversità e dell’insicurezza. Le aree circostanti tendono progressivamente a degradarsi e ad ospitare i segmenti più deboli della popolazione soprattutto nelle grandi città.

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La stazione è simultaneamente luogo della mobilità ma anche della quotidianità. I due corrispondenti aspetti del nodo stazione – elemento sia del viaggio che della città – richiedono, come si è detto, approcci e proposte diversi anche se collegati. Il problema, tradizionalmente enfatizzato, della sicurezza nel viaggio è cruciale perché tocca direttamente la praticabilità della ferrovia che costituisce un mezzo di comunicazione ancora insostituibile nell’economia europea. Il problema della sicurezza e della paura nella stazione ferroviaria porta alla questione, oggi cruciale nelle azioni di recupero e di valorizzazione, della stazione come luogo quotidiano della città e dei cittadini. Nel primo caso l’obbiettivo è restituire affidabilità e sicurezza a tutto il viaggio – stazione compresa; nel secondo ridare affidabilità e sicurezza a tutta la città di cui la stazione torna a far parte a tutto titolo. Gli sforzi attuali di fare della stazione una sorta di aeroporto urbano, luogo sottomesso quindi a norme e controlli propri dell’aeroporto, si scontrano con la doppia natura della stazione, con il suo essere, cioè, non solo momento di un viaggio ma anche luogo, importante, della città. Monumento urbano per eccellenza, la stazione ha perciò dovuto sin dalla sua nascita fare i conti con il suo particolare status di spazio eccezionale ed anche liminale, e pertanto non interamente controllabile e prevedibile. Già nel secolo scorso veniva rilevata da Auguste Perdonnet l’esistenza in Francia di una «répulsion des habitants des villes pour les gares»18. Da cui scaturiva, sempre in

18

Auguste Perdonnet, Traité élémentaire des chemins de fer, Parigi 1865, cit. in Wolfgang Schivelbush, Geschichte der Eisenbahnreise, Hanser Verlag, Monaco 1977, tr. ingl. The Railway Journey, University of California Press, Berkeley 1986, p. 172.

Francia, rapidamente imitata dall’Italia, una concezione del sistema ferroviario come mondo separato, chiuso e difeso. Questa caratteristica porta in Francia alla fine dell’Ottocento a parlare della stazione come bastione da difendere con barriere fisiche e regolamentari tra cui gli ingressi presidiati dalla polizia. La stazione era un universo fragile e pericoloso, molto spesso circondato da cancellate, dove il biglietto di viaggio o d’ingresso – quest’ultimo è stato in uso in Italia sino agli anni ’50 – svolgeva fondamentalmente una funzione di passaporto. La stazione, punto critico della catena del viaggio in cui il viaggiatore si sente indifeso ed avverte maggiormente la propria fragilità, diventa naturalmente un bastione da difendere con la conseguenza di accentuare ulteriormente distanza e differenza rispetto alla città di cui però non può che essere parte. Fino all’inizio del ’900 è chiara la tendenza, soprattutto in Francia, a costruire le stazioni ferroviarie al confine urbano proprio per tenere lontano dal cuore della città un corpo magico ma estraneo, portatore di progresso ma anche di inquinamento fisico e di rischi sociali. Oggi, le grandi aree periferiche delle stazioni e dei loro grandi impianti sono diventate centrali ed il loro valore è salito alle stelle. Le stazioni, inoltre, dopo aver subìto l’attacco dell’ondata della motorizzazione privata hanno trovato una nuova centralità pratica come nodo intermodale (treno, auto, trasporti pubblici urbani) diventando uno snodo centrale della quotidianità di ogni grande città. Di qui una generalizzata tendenza al recupero della stazione nel suo doppio ruolo di nodo di una crescente mobilità intermodale e di luogo della quotidianità degli abitanti.

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Il brusio delle città

Da una parte va registrato, sotto la spinta di una generalizzata domanda di una città più vivibile senza residui soggettivi (la città per tutti), spaziali (tutta la città per tutti) e temporali (tutta la città per tutti ed in qualsiasi ora), uno sforzo di restituire all’uso quotidiano e collettivo lo spazio della stazione conferendogli nuovamente lo status di luogo centrale e simbolico della città. Dall’altra parte questa tendenza al riuso si scontra e deve fare i conti con la funzione che la stazione ha assunto soprattutto nell’ultimo decennio sia in Europa che negli Stati Uniti di luogo della marginalità sociale. Il primo è dato dalla varietà di popolazione che le affolla. La stazione – dalla Grand Central di New York alla Centrale di Milano – è il luogo dove la marginalità degli espulsi e dei drop-outs si concentra e diventa visibile. Le strade prossime ad importanti stazioni sono divenute concentrato e sinonimo della marginalità sociale: la King’s Cross di Londra, la Gare d’Austerlitz di Parigi, le Stazioni Centrali di Basilea o di Stoccarda, la Napoli Centrale, solo per citarne alcune. Indipendentemente dal pericolo reale, si tratta di zone urbane fortemente ansiogene considerate, soprattutto la sera, pericolose perché a rischio criminalità. È il mondo della diversità con cui si entra in conflitto perché esso occupa e connota un luogo non evitabile né praticamente né simbolicamente. Il sovraccarico e la concentrazione di persone “altre” e “diverse” mette in crisi nella stazione tanto la funzione di luogo di transito che quella, antica ed oggi recuperata, di vetrina e di porta della città. Vengono anche investite le possibilità, come sta avvenendo nelle principali metropoli, di fare della stazione uno spazio del commercio.

Aeroporti e stazioni ferroviarie tendono a somigliarsi in quanto accomunati nello sforzo di piacere e di sedurre il pubblico. Il Terminal 3 dell’aeroporto Changi di Singapore è stato progettato per incantare i passeggeri con giardini, cascate d’acqua e muri di verde. Il tetto di cristallo disegnato da Skidmore, Owings e Merrill inonda le sale di attesa e di imbarco con la luce naturale che a sera è perfettamente mimata da un avanzato sistema di illuminazione artificiale. Il nuovo scalo, considerato tra i migliori dell’Asia e divenuto esso stesso attrazione turistica, contribuisce all’immagine aggressiva e vincente della città-stato di Singapore.

Lo spazio pubblico della stazione rappresenta il terreno di confine della città che viene progressivamente sottratto al controllo ed alla fruizione collettiva per la presenza degli “altri” (sbandati, senza casa, tossicodipendenti, immigrati non inseriti, ecc.) che accorgimenti progettuali e politiche dissuasive cercano di allontanare. Esiste una tensione crescente nella stazione tra il suo essere spazio provvisorio di tutti, spazio di transito dell’esperienza provvisoria del viaggio e spazio liminale da attraversare rapidamente, ed

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La stazione di Atocha, la maggiore di Madrid, è stata ridisegnata nel 1992 da Rafael Moneo per essere la nuova straordinaria porta (Puerta de Atocha) della capitale spagnola. Il suo interno, trasformato in una grande serra con fontane, piante tropicali ed animali acquatici, è diventato un prezioso spazio pubblico della città dove riposano anche le memorie delle 191 vittime dell’attentato terroristico del 2004.

il tentativo di alcuni – marginali e sbandati – di fare della stazione uno spazio proprio e permanente. È la tensione costante tra luogo di passaggio e luogo di vita. Il problema della stazione non è tanto la presenza dei “diversi”, quanto piuttosto il fatto che non ci sia più la distanza fisica che normalmente utilizziamo – a partire dall’Ottocento – fra noi e la diversità, per gestire questa coesistenza. Nella stazione le due presenze si toccano e lo fanno anche con fragore vista la crescente domanda sociale di trasformare un luogo eccezionale di transito in luogo ordinario di uso collettivo. L’accresciuta domanda di recupero della stazione per assegnarle nuove funzioni urbane e la crescente concentrazione in essa di popolazione per diversi

motivi marginale e diversa, fa sì che i conflitti aventi come posta tale spazio aumentino. La funzione di luogo di transito è stata in genere garantita dalla strategia adottata dai viaggiatori di attraversare – in condizione di impermeabilità emotiva – la zona indesiderata ed uscire dalla stazione il più presto possibile. Tale pratica diventa più difficile se lo spazio dell’attraversamento indifferente è saturo di presenze “diverse” che impongono attenzione. Talvolta il disagio e la paura di chi attraversa la stazione sono dovuti alla difficoltà di sopportare a livello emotivo presenze che forano le nostre difese di indifferenza. Di qui la diffusa messa in campo di politiche spaziali dissuasive tendenti a respingere o a isolare – rendendoli invisibili – gli ospiti indesiderabili.

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Il brusio delle città

Uno dei motivi della minore paura nell’aeroporto rispetto alla stazione ferroviaria, oltre al fatto che il primo è uno spazio socialmente filtrato i cui accessi sono regolati nella logica del bastione, è nella sensazione diffusa tra i passeggeri di poter ricevere assistenza immediata in caso di necessità. Nell’aeroporto nessuno si sente solo. Il sentirsi soli non va riferito solo a possibili aggressioni: in aeroporto non ci si sente soli perché si è continuamente bombardati da informazioni, avvisi, istruzioni in uno spazio capace di parlare a tutti con codici largamente condivisi e di orientare i comportamenti. L’aeroporto, artefatto cognitivo tra i più perfetti, è uno spazio saturo di segnali capaci di guidare, ammonire e rassicurare. Uno spazio efficiente ed amico. Qualcosa di simile a quanto avviene nei grandi centri commerciali, dagli shopping mall agli ipermercati. Ciò che nella stazione ferroviaria contemporanea abbiamo davanti non è tanto l’alternativa tra politica securitaria e politica non securitaria, scelta che resta importante in altri campi, ma quella tra politica di isolamento dalla città e politica di integrazione con la città. In questa logica vanno anche rimossi tutti i segnali ansiogeni: dai graffiti, sostituiti da opere della Public Art che – in quanto tematizzate e presentate come tali – diventano segnali rassicuranti, agli esiti delle frequenti vandalizzazioni. La via oggi più battuta è quella di una sorta di “integrazione protetta”: della realizzazione, cioè, di un continuum tra stazione e città ma, nello stesso tempo, di misure discrete di protezione dei visitatori. È possibile creare dentro

Anche le grandi stazioni possono morire. È il caso della Michigan Central Station di Detroit, costruita nel 1913 su progetto degli stessi architetti della Grand Central di New York, che era considerata all’epoca uno dei migliori esempi dello stile Beaux Arts negli Stati Uniti. Oggi, abbandonata e vandalizzata, attende di essere recuperata, probabilmente come Convention Center con annesso casinò o, forse peggio, come centrale di polizia.

gli spazi del viaggio veri luoghi urbani come quelli, per esempio, di Boston, Madrid o Kansas City. Dall’esperienza del trasporto aereo viene in questo senso un utile esempio. Si tratta dell’aeroporto che ha realizzato Norman Foster ad Hong Kong. Qui, sfruttando anche la immediata vicinanza dello scalo con la città, il progettista ha trasformato gli spazi commerciali dell’aeroporto in piazza della città tout court con negozi, locali pubblici e spazi di semplice relax capaci di servire simultaneamente viaggiatori e cittadini senza biglietti aerei di sorta, offrendo loro uno spazio pubblico vario, attraente e sicuro.

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La stazione domani

Nonostante le enormi trasformazioni architettoniche, tecnologiche e funzionali la stazione ferroviaria deve ancora confrontarsi con alcuni dei problemi che sorti alla sua nascita sono oggi, benché trasformati in intensità e modalità, ancora presenti. La stazione, probabilmente, è concentrato e metafora estrema della città in quanto accoglie domande d’uso diverse e popolazione che si muove secondo logiche diverse che, però, devono essere rese compatibili. Come suggerisce Isaac Joseph, nel labirinto di questi spazi e della stazione in particolare non è solo Arianna a dover essere furba o intelligente, ma intelligente lo deve diventare lo stesso edificio1. La stazione – prendendo esempio dall’aeroporto i cui problemi riceve in maniera enormemente amplificata – tende a diventare “un artefatto cognitivo” che deve comunicare istruzioni alle diverse fasce di utenti ed ai loro diversi obbiettivi di presenza e di attraversamento. Essa è stata pensata

sin dalla sua nascita come dispositivo pratico destinato ad un’utenza altamente differenziata per scopo della presenza, per capitale e strumenti culturali e per status. Per questo motivo la stazione è progettata come dispositivo pratico che incorpora codici e segnali diversificati per garantire il proprio corretto uso. Il rapporto con gli aeroporti è fortissimo ed è culminato – dal punto di vista architettonico – con la crescente integrazione della stazione ferroviaria nell’aeroporto (Parigi, Zurigo, ecc.). Più che la stazione nell’aeroporto, lo scenario attuale è segnato dall’aeroporto che è entrato con la sua logica progettuale ed organizzativa nella stazione. Con gli aeroporti le stazioni condividono ormai la filosofia progettuale2, parte dei sistemi di sicurezza, la crescita della presenza commerciale, la ricerca di un efficace sistema di comunicazione universalmente comprensibile, la razionalità della dislocazione degli spazi funzionalmente diversi.

1 Joseph, Isaac, Ariane e l’opportunisme méthodique, in AA.VV., Gares en Mouvements, Les Annales de la Recherche Urbaine, n. 71, 1996, pp. 5-16.

2 La nuova Euston Station, sorta al posto di quella storica abbattuta con il suo famoso Arco Dorico nel 1962, è stata esplicitamente progettata dalle British Railways sui modelli aeroportuali.

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Il brusio delle città

Al contrario degli aeroporti, però, le stazioni devono fare i conti con la presenza di un traffico disordinato ed aleatorio – sostanzialmente non prevedibile. Perno di una nuova e dinamica rete di centralità che innervano la quotidianità, la nuova stazione ferroviaria è snodo intermodale dei molteplici network della mobilità urbana e metropolitana. Punto di incontro non solo di diversità sociali – come era stato sin dall’inizio – ma anche di traiettorie diverse dei suoi utenti portatori di progetti d’uso diversi. Il progetto sia architettonico che gestionale tende alla mediazione ed alla messa in equilibrio delle diverse domande. La folla delle stazioni non è solo precipitato di diseguaglianze e di possibili conflitti sociali: è anche, e soprattutto, moltitudine di persone portatrici di culture e di obbiettivi diversi. Chi arriva e chi parte, chi aspetta e chi compra, chi parte con il Metro e chi con il TGV, chi passa il tempo e chi ci lavora. Al contrario degli aeroporti, le stazioni devono fare i conti con la presenza di un traffico disordinato ed aleatorio, sostanzialmente non prevedibile. Gli ingegneri francesi si interrogano operativamente da anni sulla diversa velocità dei viaggiatori che arrivano e di quelli che partono, veloci i primi, lenti i secondi. La molteplicità della popolazione presente – molto più diversificata di quella di un aeroporto dove la varietà è linguistica ma la logica delle azioni è costante – crea problemi rilevanti al sistema di comunicazione e di orientamento. La complessità della stazione contemporanea è enormemente superiore – soprattutto le sue funzioni intermodali – a quella della stazione classica ottocentesca. Notevoli passi in avanti ha fatto il sistema di comunicazione interno destinato ai passeggeri che, imparata la lezione

dagli aeroporti, ha spostato l’attenzione sui messaggi visivi – veicolati soprattutto dai poco costosi schermi televisivi – riducendo quelli sonori di scarsa efficacia vista la varietà linguistica dei destinatari ed i pesanti ed ineliminabili rumori di fondo. Minore successo hanno avuto sino a questo momento le strategie fondate su percorsi a diverse velocità. In alcuni casi, per esempio nella Centrale di Milano, il viaggiatore incanalato sui nastri trasportatori può – grazie alla lentezza di questi ed al loro lungo percorso – godersi le vetrine dei negozi ma rischia di perdere il treno.

La rinascita delle stazioni A partire dalla fine degli anni ’70, anche in coincidenza non casuale con la fase del cosiddetto Nuovo Rinascimento Urbano, le stazioni ferroviarie sono tornate al centro delle politiche urbanistiche riproponendosi come nuove e rilevanti icone della città della contemporaneità. In questa fase l’espansione fisica delle città ha subìto un forte rallentamento sia per la fuga di consistenti quote di popolazione che si sono spostate nello sprawl alla ricerca di condizioni di vita migliori e più economiche sia per le trasformazioni interne alla città dovute, in parte, alla rapida e massiccia deindustrializzazione. La logica di crescita della maggior parte delle città è oggi quella del riuso. Nuove destinazioni vengono trovate per le aree una volta occupate dalle fabbriche e dai depositi, e popolazione dotata di potere d’acquisto superiore sostituisce i vecchi abitanti dei quartieri popolari divenuti appetibili per la loro localizzazione. Le enormi estensioni delle stazioni ferroviarie e delle

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Sta nascendo una nuova generazione di stazioni ferroviarie con funzioni di snodo intermodale e, soprattutto, di immagine di città dinamiche impegnate nella difficile competizione urbana imposta dalla globalizzazione. La stazione di Strasburgo, totalmente ridisegnata nel 2007, è oggi uno dei modelli della nuova architettura ferroviaria francese.

loro aree di servizio (depositi, officine, ecc.) collocate al centro delle città e molto spesso ad immediato ridosso dei quartieri degli affari costituiscono un’enorme risorsa sia, ovviamente, per i proprietari – tra cui, spesso, lo Stato – che per la città nel suo complesso. La valorizzazione delle aree ferroviarie e limitrofe è avvenuta anche grazie ad un rilevante investimento progettuale tendente a fare delle stazioni le nuove iconiche centralità della città della contemporaneità. Le nuove stazioni, spesso affidate alla matita degli archistar, sono diventate strategiche nelle operazioni di costruzione dell’immagine di una città orientata al futuro e nel marketing urbano. Il loro ritorno – pratico e simbolico – sulla scena urbana è stato anche possibile concentrando nelle nuove stazioni funzioni urbane considerate centrali – in particolare quelle del commercio e del tempo libero – e spingendo in

alto – anche grazie a queste – il valore dei suoli dei grandi scali. Nell’ultimo quarto di secolo le stazioni sono perciò tornate di attualità grazie a pesanti operazioni di rinnovo urbano che hanno restituito loro un ruolo di centralità pratica e simbolica. Centralità pratica, arricchendo le stazioni di funzioni commerciali superiori (centri commerciali, ristoranti, ecc.) e simbolica grazie a grandi architetture griffate (p.e. Lilla, Strasburgo, Lione). In tal modo la stazione palazzo è stata restituita alla città investendo anche l’immaginario collettivo e proponendosi come riassunto architettonico della nuova progettualità della città impegnata nel difficile sforzo di reinventarsi per affrontare difficili competizioni. Dopo oltre centocinquant’anni la stazione ferroviaria è tornata, così, a essere simbolo della grandezza di una città nel vecchio e nel nuovo continente: dalla

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Il brusio delle città

Hauptbhanhof di Berlino alla Shanghai Railway Station ed alla Beijing South Railway. Quest’ultima viene proposta come l’immagine stessa della grandezza della capitale cinese in quanto essa dichiara di essere la maggiore stazione ferroviaria del continente in grado di movimentare 30mila passeggeri ogni ora fra treni ad alta velocità e convogli ordinari a medio raggio. Così come l’illuminazione elettrica era stata il simbolo della modernità nelle stazioni della fine dell’Ottocento, all’inizio del nuovo millennio la tecnologia avanzata deve coniugarsi con il risparmio energetico ed il rispetto per l’ambiente. Per questo le autorità cinesi enfatizzano i 3.200 pannelli solari che collocati sul tetto di vetro alimenteranno la stazione. A creare l’immagine necessaria alla crescente competizione urbana contribuiscono anche gli archistar: Beijing South è di Terry Farrell che ha firmato anche il progetto per Nuova Delhi, Norman Foster ha disegnato le nuove stazioni in Arabia Saudita, Santiago Calatrava la stazione di Liegi. Cominciano a mutare tanto la logica di funzionamento delle stazioni – diventate non solo nodi di trasporto intermodali ma anche spazi pubblici dotati di forte centralità simbolica – quanto il loro status di luoghi eccezionali nel panorama urbano. Cambia soprattutto la natura di superluogo – di monumento aperto all’uso da parte della città – assunta dalla stazione sin dalla sua nascita ottocentesca. Oggi, la stazione ferroviaria sta rinascendo come luogo centrale di una città della cui quotidianità condivide caratteristiche e logiche di funzionamento. La stazione oggi non è più il margine – talvolta monumentale – della città e la sua porta – ancorché centrale. È parte integrante e centrale della città ai cui bisogni pratici e simbolici deve servire. Per gli abitanti

delle grandi galassie urbane dello sprawl, costituite da un susseguirsi ininterrotto di centralità e di sobborghi, le stazioni, perduto – nella percezione collettiva – gran parte del loro significato monumentale diventano gli snodi della quotidianità. Venuto meno il loro carattere di porta verso l’ignoto e verso l’avventura costruito da quasi un secolo e mezzo di narrazioni cinematografiche e letterarie, le stazioni ferroviarie diventano in una nuova ritualità collettiva lo spazio-ponte tra la vita privata dell’habitat suburbano e l’esperienza pubblica, di lavoro e di consumo, della città. L’attuale stazione ferroviaria, i cui tratti di novità rispetto al passato sono rilevanti, dispiega al pari della città della contemporaneità la strategia dell’incantamento seduttivo e le finalità del mercato. La stazione madrilena di Atocha, dopo un lungo periodo di degrado, è divenuta una serra di oltre quattromila mq con 250 specie di piante tra cui le carnivore: una sorta di museo della riscoperta della natura, tornando ad essere “luogo” seducente ed attrattivo della città. Per i meno interessati alla flora c’è anche un night club. Nel 2008 la stazione di Zurigo è stata trasformata in teatro con la rappresentazione della Traviata di Verdi che peraltro era già stata rappresentata nella londinese Paddington Station dalla BBC. Non diversamente dai grandi centri commerciali o dai negozi di grido – che segnano oggi il brandscape urbano – le stazioni devono attrarre il visitatore, mantenerlo e farlo tornare. I bisogni e la domanda di questi passano in primo piano, per cui si trasforma anche il lessico: dall’utente (user) si passa al cliente (customer). Il visitatore e il passeggero sono diventati clienti e come tali vanno attirati, sedotti e coccolati. Che poi questo avvenga in alcuni paesi come l’Italia è ancora da verificare.

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Andando incontro ai bisogni del cittadino, sia viaggiatore che non, la stazione guarda nuovamente alla città. C’è da organizzare il consumo, il cibo, il tempo dell’attesa. Si tratta anche di superare lo scarto – visibile ed esperibile – fra treni sempre più confortevoli e stazioni inospitali e pericolose da attraversare il più rapidamente possibile. La restituzione della stazione alla vita quotidiana della città sta avvenendo anche attraverso l’inserimento in essa di spazi del commercio, del tempo libero ed anche – come avviene in alcune città francesi ed inglesi – dell’amministrazione pubblica. Nell’avvicinamento alla città, all’interno delle stazioni non è raro vedere anche uffici amministrativi come in Olanda a Leiden quelli del comune o di assistenza sociale ai giovani in difficoltà a King’s Cross di Londra. Negli ultimi dieci anni, a partire dagli Stati Uniti e poi con effetto di rimbalzo in tutta Europa, la situazione di degrado della stazione sembra stia radicalmente cambiando. Grande emergenza della città della modernità, la stazione ha conservato nella città contemporanea, anche quando la sua funzione è diminuita, una centralità non solo pratica ma anche simbolica. Oggi, la stazione, anche a causa dello sviluppo del trasporto sotterraneo collegato alla stazione stessa, ha modificato sensibilmente il suo ruolo di porta a favore di quello di relé del sistema dei trasporti ed è ancora – secondo Kevin Lynch in Image of the City – uno dei più diffusi e condivisi punti nodali nella lettura della città. Oltre, ovviamente, ad essere sempre un momento fondamentale in ogni grande città nell’esperienza quotidiana di milioni di persone. Specchio della città della modernità avanzata e sintesi dei suoi tratti fondamentali, la nuova stazione

ferroviaria, nodo della mobilità intermodale e grande ed animato luogo della città, esprime il neonomadismo che contraddistingue la società urbana contemporanea. L’accresciuta mobilità è entrata come elemento costante della quotidianità urbana superando anche la tradizionale tensione tra stabilità e mobilità che in qualche maniera aveva sempre segnato l’esperienza di ciascuno. L’antinomia, a lungo enfatizzata, tra geografia dei luoghi e geografia dei flussi tende a scomparire nella stazione ferroviaria contemporanea che è sempre più nodo della moltiplicazione dei flussi intermodali a diverse scale di prossimità ed è anche, simultaneamente, luogo centrale della quotidianità urbana ricco di incontri, eventi ed attrazioni. I nastri trasportatori che obliqui spostano visitatori e viaggiatori attraverso i negozi ed i ristoranti verso l’uscita o verso i binari dei treni o della metropolitana costituiscono una metafora della città contemporanea dove ciascuno, Leopold Bloom e flâneur del XXI secolo, è in continuo viaggio, sia che esso si snodi attraverso i luoghi della propria città sia che da questi si spinga verso il mondo. Nuove grandi e vitali centralità sono state realizzate intorno o a ridosso di tradizionali scali ferroviari: Paddington Station e Boadgate Complex a Londra, Parc de Bercy a Parigi, Eurallile a Lille, solo per fare alcuni esempi. Un caso esemplare e ben noto di questo processo di riuso e di riappropriazione della stazione da parte della città è rappresentato dalla South Station di Boston. Questa, raffinato esempio di Art Nouveau, è stata a lungo la stazione più utilizzata degli Stati Uniti: già nel 1900, solo un anno dopo la sua inaugurazione, era attraversata da circa 50 milioni di viaggiatori. Boston, infatti, era dove si incrociavano le due grandi linee ferroviarie della nazione,

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Un caso esemplare di riuso della stazione da parte della città è rappresentato dalla South Station di Boston. Questa, raffinato esempio di Art Nouveau, è stata a lungo la stazione più utilizzata degli Stati Uniti: già nel 1900, solo un anno dopo la sua inaugurazione, era attraversata da circa 50 milioni di viaggiatori. Dopo un lungo e costante declino, oggi la South Station è stata recuperata e restituita alla città non solo come efficiente stazione ma anche come piazza coperta del nevralgico ed affollato Central Business District.

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La stazione domani 99

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La stazione Liège-Guillemins di Calatrava è diventata, come molte icone della post-modernità, oggetto di discussione sui suoi possibili significati. Secondo alcuni le sue forme evocano quelle femminili mentre per altri ricordano lo scheletro di una balena. C’è anche chi ritiene che il leitmotiv della sua architettura siano le onde del fiume Mosa che attraversa Liegi. La sua polisemia, forse voluta, accresce il fascino della stazione che si è imposta come uno dei più efficaci simboli del Belgio crocevia dell’Europa.

quella verticale e quella transcontinentale, e, soprattutto, era nella seconda guerra mondiale, il grande porto di imbarco delle truppe per l’Europa. Dopo un lungo e costante declino, oggi la South Station di Boston è stata recuperata e restituita alla città non solo come efficiente stazione ma anche come piazza coperta del nevralgico ed affollato Central Business District. A ben guardare, però, si tratta di un recupero – effettuato con le più seducenti tecniche di marketing – di un’antica e mai dismessa funzione della stazione ferroviaria e delle aree urbane ad essa limitrofe. Lo sviluppo del trasporto rapido su rotaia ha rotto definitivamente lo

stretto nesso tra luogo di residenza e luogo di lavoro, che la rivoluzione industriale aveva già attaccato. I lavoratori provenienti dai sobborghi o dai più lontani comuni dell’area metropolitana non sono in grado di tornare a casa per mangiare per cui la città deve sviluppare una fitta rete di luoghi per l’alimentazione – dai ristoranti ai carretti per gli hot dogs – gran parte dei quali sono localizzati nel business district ed intorno agli snodi dei trasporti, a partire dalle stazioni ferroviarie. L’intervento di riqualificazione ha richiesto massicci interventi finanziari –in parte provenienti dalla mano pubblica ma in prevalenza di investitori privati – che sono stati remunerati da ritorni altissimi. Oggi la stazione, proprio per la sua altissima redditività, è stata comprata da un fondo pensioni. La South Station ha mantenuto il proprio carico enorme di passeggeri, ma è diventata un luogo assolutamente centrale della quotidianità di tutto il centro finanziario della città grazie ad un ricco sistema, differenziato per genere o prezzi, di ristoranti che vendono migliaia di pasti ogni mattina, di negozi e luoghi di sosta con musicisti, mostre di pittura, ecc. Uno dei risultati è quello, apparentemente paradossale, di portare all’interno della città proprio il modello dell’aeroporto che era fondato sull’imitazione della città (creazione di shopping mall, di simulacri di strade e di “piazzette” – cfr. il caso di Fiumicino). Dopo avere invaso gli aeroporti gli spazi dello shopping si sono trasferiti nelle grandi stazioni visto che, secondo un calcolo recente, circa il 40% della superficie delle stazioni e degli aeroporti moderni è oggi destinato al commercio. In attesa che il volume delle vendite dei loro negozi “ferroviari” si avvicini a quello altissimo degli scali aeroportuali, le grandi marche utilizzano le stazioni

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100 Il brusio delle città

Brasilia, nata nel 1960 per diventare la capitale federale del Brasile, è la più recente versione della città ideale progettata per meravigliare e stupire. Voluta dal presidente Juscelino Kubitschek nel 1956, è stata realizzata in soli quarantuno mesi su progetto di Oscar Niemeyer al quale era stato affidato l’incarico di creare nel nulla di un territorio deserto una città perfetta che potesse rappresentare la nazione ed il suo grande destino. Come le città dell’antichità costruivano miti per attribuire a dèi o ad eroi la propria fondazione, anche Brasilia dichiara un’origine divina grazie a una visione di don Giovanni Bosco che nel 1883 sembra abbia predetto addirittura latitudine e longitudine della città. Forse anche in omaggio alla profezia, Lucio Costa, autore del piano urbanistico, volle che la pianta della città derivasse simbolicamente da una croce. Perfetta sulla carta come tutte le utopie, Brasilia ha rapidamente perso la sua natura di città ideale per diventare una delle metropoli dove maggiore è la marginalizzazione sociale e spaziale delle fasce più deboli della popolazione.

come palcoscenico su cui esibire la propria immagine. In pochi altri posti è possibile avere un pubblico così ampio e disponibile all’osservazione come nelle grandi stazioni. In alcuni momenti della giornata le vetrine dei negozi costituiscono l’unico diversivo per le migliaia di passeggeri in attesa dei treni soprattutto locali. Il fast food – che sembra inventato apposta per viaggiatori frettolosi – ha invaso le stazioni richiamando anche molta clientela esterna. Sempre riguardo al rapporto con l’aeroporto, una cosa che nelle ricerche sulla sicurezza viene evidenziata è che anche negli scali aerei c’è una zona dove maggiori sono paura e pericolo, e che questa si trova

all’uscita dall’aeroporto, mai all’entrata. Il pericolo lo si può incontrare soprattutto nel momento in cui si esce dalla “non città” protetta e si torna nella città vera ed imprevedibile. Paradossalmente, l’elemento ansiogeno nel viaggio aereo è oggi proprio la città. Una conferma si ha osservando i più grandi aeroporti, in cui la maggiore concentrazione di polizia non è all’ingresso, dove con la sorveglianza a vista prima, e con il metal detector poi, avviene il filtraggio ed il controllo dei passeggeri, ma all’uscita. È qui che inizia lo spazio, non più controllato dalle procedure e dai mezzi dell’aeroporto, in cui può ripresentarsi il pericolo.

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Bibliografia 103

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Città e dintorni Scritti di sociologia urbanistica e architettura

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Collana diretta da Giandomenico Amendola

La città vetrina, a cura di G. Amendola G. Paolucci, Il libro di pietra. La città come testo del tempo Donne, tempi e spazi. Contributi per una diversa cultura dell’abitare, a cura di G. Paolucci D. Frenchman, G. Amendola, A. Beamish, W. J. Mitchell, L’immaginazione Tecnologica e la Città d’Arte: Firenze. Technological Imagination and the Historic City: Florence 5. L. Chiesi, Il doppio spazio dell’architettura. Ricerca sociologica e progettazione 6. R. Galdini, Palcoscenici urbani. Il turista contemporaneo e le sue architetture 7. G. Amendola, Il brusio delle città. Le architetture raccontano 1. 2. 3. 4.

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