Dal Petrarca all' Alfieri: saggi di letteratura comparata

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SAGGI

DI

«LETTERE XXI

ETTORE

ITALIANE»

PARATORE

DAL PETRARCA ALL' ALFIERI SAGGI

DI LETTERATURA COMPARATA

FIRENZE

LEO

5.

OLSCHKI EDITORE MCMLXXV

Ancora e sempre a te AUGUSTA unica luce della mia esistenza

A chi, se non a te, queste povere pagine piene di tante velleità, di tanti sogni, di tante ambizioni, e pur destinate, come tutto quello che ho scritto, ad affogare nella disattenzione e nell’oblio? Col tuo incomparabile affetto di eme compagna tu hai vegliato giorno per giorno le atiche, le hai illuminate e benedette con la tua assi-

diis presenza, mi hai infuso ora per ora forza e stimolo carezzandomi col magnetico sguardo dei tuoi soavi occhi azzurri. Nel dolore che ci stringe e ci consacra indissolubilmente insieme hai saputo farmi ravvisare la spinta indomabile a non rinnegare la vocazione che sola dà carattere

e dignità alla mia vita. La vita degli individui si pasce di illusioni. La mia e che, nonostante tutte le delusioni e le mortificazioni, que-

sto mio incessante lavoro, di cui raccolgo qui le ultime,

sempre piü copiose testimonianze relative all'età moder-

na, finisca per assurgere a un certo valore, a un certo significato. A te che, sia pure in nome di un affetto straripante e quindi di un calore d'adesione cieco e irragionevole per la sua intensità, hai sorretto le mie fatiche con una fede

mai vacillante, & dovuta questa testimonianza di gratitudine che & senza confini al pari del mio affetto adorante. Roma, giugno 1974.

IL DECIMO CARME BUCOLICO DEL PETRARCA *

Gli studi sull’Umanesimo

in tutti i suoi aspetti

hanno raggiunto in Italia un tale sviluppo e un cosi alto tono che possiamo considerarli una delle sezioni più floride e più attive della nostra cultura. Nomi come quelli di Giuseppe Billanovich, Umberto Bosco, Vittore Branca, Augusto Campana, Carlo Dionisotti, Eugenio Garin, Guido Martellotti, L. Minio Paluello, Giorgio Padoan, Gioacchino Paparelli, Alessandro Perosa, Antonio Enzo Quaglio, Gianvito Resta, Franco Simone, Francesco Tateo, Cesare Vasoli (e chiedo scusa delle omissioni) costituiscono un'invidiabile ac-

colta di competenze. Uno di questi illustri studiosi, Guido Martellotti,

ci ha regalato di recente l’edizione critica con versione e commento del componimento capitale di una fra le più importanti opere latine del Petrarca, il Bucolicum carmen: l’ecloga decima, quella che piange la morte di Laura, ma ne trae pretesto, proprio in base alla identificazione fra il nome della donna e quello dell'albero sacro ad Apollo, per immaginare un viaggio circolare compiuto dal poeta nel Mediterraneo alla ricerca dei mezzi atti a far rifiorire il lauro, cioè, fuor * Da « RCCM », 1970, p. 261 sgg.

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di metafora, uno sprofondamento nella conoscenza dei poeti antichi per poter acquistare esperienza di poesia sufficiente a eternare insieme il nome della donna amata e la propria fama! Infatti il viaggio è organizzato in maniera da ricordare le località natie di tutti i poeti greci e latini di cui il Petrarca aveva acquistato notizia. Perciò il carme diventa la magna charta

della cultura classica del Petrarca,

un

docu-

mento eccezionale riguardo a uno degli aspetti preminenti della personalità petrarchesca sotto il profilo storico-culturale. L’importanza epocale dell’edizione del Martellotti non è tanto nella costituzione critica del testo, che segue

di massima

l’edizione di A. Avena

(Padova,

1906) e si fonda sull’autografo vaticano (Vat. Lat. 1358), pur tenendo conto delle varianti del cod. VIII

G 7 della Nazionale di Napoli, contenente il testo quale era nell’autografo prima delle numerose e fondamentali correzioni apportatevi dal Petrarca a partire dal 1357 e specie nel 1364; trattasi spesso perciò di varianti d’autore, già presenti del resto nell’apparato dell’Avena. Ma il contributo decisivo di quest’edizione è l’uso fatto del commento contenuto nel cod.

Laur. 52, 33 e già pubblicato dall’Avena nella sua edizione. Il Martellotti (cfr. p. 12) lo ritiene opera di Benvenuto da Imola, dato che sotto il nome di Benvenuto fu stampato, con l’insostenibile data del 1416, un fascicoletto recante, per le ecloghe VI-XII, un commento eguale a quello contenuto nel codice lau1 F.

PETRARCA,

Laurea

occidens,

Bucolicum

carmen

X,

testo, traduzione e commento a cura di G. MARTELLOTTI, Roma, 1968.

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renziano; € per giunta nessun particolare del commento vieta l’attribuzione. Ma il Martellotti si limita prudentemente a denominare « commentatore laurenziano » l’autore del commento. Orbene il commento laurenziano è di grande aiuto sia all’identificazione dei poeti, introdotti spesso in forma oscura dal Petrarca nell’ecloga attraverso l’allusione al paese natio, sia al riconoscimento delle fonti della cultura petrarchesca, fra le quali il Martellotti addita come principali il Chronicon ieronimiano e l’epistola ovidiana Ex Ponto IV, 16. Prima di questa minuziosa e acuta ricerca verificatrice del Martellotti non si era in grado d’identificare con esattezza molte allusioni e d’individuare l’origine delle conoscenze petrarchesche. Ognuno quindi può misurare l’incalcolabile valore della fatica compiuta dall’illustre studioso e salutare quindi in essa una pietra miliare degli studi petrarcheschi e in

genere degli studi sulla storia e lo sviluppo dell’Umanesimo, dato il contributo ch’essa offre all’accertamento dei limiti e della genesi della cultura classica del Petrarca. Appunto perché l’edizione del Martellotti è di capitale importanza, ci permetteremo di formulare i nostri rilievi, non certo per la risibile velleità di contrapporre la nostra miserevole vanità di cattedratico alla luminosa fatica dell’insigne collega e alla sua più che rispettabile figura di studioso, e neppure — come si suol dire, con abusato eufemismo — per provare l’attenzione con cui abbiamo letto il suo lavoro.

La ragione della nostra audacia è invece nel fatto che ledizione del Martellotti è un’opera fondamentale; perciò, segnalando le poche, inevitabili sviste e proponendo motivi di discussione, c’illudiamo di perfe-

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zionarne l’esemplare utilità. Per quanto concerne la precisione ci permetteremo d’osservare che a p. 9 e a p. 51 avremmo preferito, per denominare il poeta ellenistico di Cos, alla forma Fileta la forma Filita

ch’® ormai quella consacrata dagli studiosi della classicità, e anche nel testo dei poeti latini che ne parlano? A p. 44, nel fondamentale commento a cui faremo quasi esclusivamente riferimento, notiamo che

il lemma al v. 45 fa derivare l’allusione al lago di Garda e al Mincio da Verg. Georg. III, 14-15 ed Aen. X, 205-06, ma dimentica il più famoso dei luoghi virgiliani sull'argomento, e cioè Georg. II, 160, fluctibus et fremitu adsurgens Benace marino? L’appella-

tivo petrarchesco formoso si spiega soltanto come riferimento a questo verso, celebrante l’imponenza del lago. Nel medesimo verso, in nota al v. 47, si parla,

a proposito dello pseudepitafio virgiliano, di « verso conservato da Donato e da Probo »: non credo che vi siano oggi molti studiosi disposti a riconoscere la paternità probiana della Vita tramandata sotto il nome del grammatico di Berito. Alla successiva p. 45 è da registrare la svista più rilevante: al canit hic del v. 54 il Martellotti nota che l’espressione potrebbe « significare l’essenziale liricità di Catullo » e per pro-

vare

l’attendibilità

Hor., serm.

I, 10,

di

questa

interpretazione

cita

19 doctus cantare Catullus, quasi

che il luogo significasse « Catullo abile a cantare ». 2 Ora il MARTELLOTTI, Precisazioni intorno alla decima ecloca del Petrarca, in « Italia medioevale e umanistica », 1972,

p. 339, n. 2, accetta naturalmente il rilievo, osservando che « Philite è scritto proprio nel Laur. 36, 49 (c. 39 v), e anche la storpiatura del commentatore laurenziano, Phillide, ci porta più vicino a Filita che a Fileca ».

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Ma il passo oraziano è: meque simius iste / nil praeter Calvum et doctus cantare Catullum, è cioè una frecciata contro un fanatico ammiratore di Catullo, una

« scimmia che non è buona ad altro che ad avere in bocca Calvo e Catullo » (citiamo la versione di A. Ronconi, 2* edizione, Firenze, 1970, p. 80). Il Mar-

tellotti, forse tradito dalla memoria,

ha alterato la

lezione del passo e ne ha ricavato un senso insostenibile, dimenticando che Orazio non è mai stato tenero

con la memoria di Catullo. A Catullo s'é affibbiato per tradizione l’appellativo di doctus (cfr. p. es. Ovid., Am. III, 9, 62, cum Calvo, docte Catulle, tuo) — che ha funzionato da titolo di un mio volume (Catania, 1942) —, ma in un senso ben diverso dal riconoscimento della sua « essenziale liricità », bensì co-

me lode della riposta, raffinata erudizione con cui egli arricchiva, potenziava e levigava i suoi versi? A p. 63 la menzione al v. 181 del nemus sub valle Galesi fa osservare al Martellotti ch'essa « sta ... a indicare Ta-

ranto la patria di Ennio »: e al riguardo si cita Hier., Chron. ad a. Abr. 1777, Quintus Ennius poeta Tarenti nascitur. Certo il riscontro è utile per ribadire quanto la cultura classica del Petrarca debba a S. Girolamo. Ma andava pure notato l’errore ieronimiano nel fare di Ennio un concittadino di Livio Andronico: dicendo sic et simpliciter « Taranto la patria di Ennio », il Martellotti ha taciuto che non Taranto, ma

Rudiae era il luogo natale del poeta. A p. 82, nella 3 Naturalmente il Martellotti riconosce l’errore (art. cit., p. 331);

ma non

riuscirei ad ammettere che nonostante tutto,

nei vv. 53-55 dell’ecloga, sia sempre da ravvisare, come sostiene, un richiamo al luogo oraziano.

egli

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citazione di Iuv. VII, 82-83, v'é un notevole errore di stampa: curritur ad vocem iucundam et carmine amicae | Thebaidos, invece di carmen amicae, etc. Passando ai luoghi che si prestano a un’utile discussione, notiamo sin da p. 13 che fare di un testo ovidiano, l’epistola ex Ponto IV, 16, una fonte precipua, a preferenza degli altri molti testi del poeta di Sulmona la cui eco si sorprende nel carme e che il Martellotti non manca di registrare, mi sembra for-

se non del tutto giustificabile:

l’ultima elegia del

l. I degli Amores e il 1. II dei Tristia, a tacer d’altri passi, non

possono

essere posti ad un livello in-

feriore, anche se nell’ecloga molti nomi di poeti sono derivati da Ex Ponto IV, 16. A p. 28 si potrebbe trovar da ridire sulla versione del v. 231, quem tum horrebant undique colles con « colui che a tutti i colli

intorno faceva paura ». È il luogo in cui il Petrarca, fraintendendo la testimonianza di Val. Max., III, 7,

11 che Accio non volle sorgere in piedi Iulio Caesari... in collegium

poetarum

venienti, in quanto —

come ben nota il Martellotti a p. 69 — confuseil poeta tragico Giulio Cesare Strabone col dittatore, pensó ad un atto di sprezzante superbia di Áccio verso il grande Cesare. Pertanto il nostro studioso, ispirandosi a Par. XI, 69, colui ch'a tutto ’l mondo fé paura, ha ritenuto opportuno foggiare la frase petrarchesca relativa a Cesare in una forma analoga a quella dedicata da Dante al dittatore, anche perché, secondo lui, la frase dantesca conserverebbe un tono lucaneo

che avrebbe direttamente influito sul Petrarca (cfr. p. 70). Ma nell'uso petrarchesco del verbo borreo c’è forse una più profonda finezza: come tutti sanno, il significato radicale, originario del verbo & quello di

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« essere irto, rizzarsi ». Il Petrarca, cui innumerevoli passi di autori latini testimoniavano questo significato, deve aver voluto ribadire con l’uso di questo verbo l’azione che tutti gli altri avranno compiuta all’arrivo

di Cesare e che il solo Accio non volle compiere, quella cioè di drizzarsi: perciò il verso poteva essere più accuratamente tradotto all’incirca così: « colui alla cui presenza tutti i colli d’ogni intorno si sentivano serpeggiare un fremito di reverenza ». Passando alle occasioni di riflessione offerteci dal commento, notiamo che a p. 43 l’espressione dei vv. 28-29, Sic ruris desertus bonos, et quicquid in enses / precipitat, pax parta animi, pulsique tumultus & fatta risalire dal Martellotti, per la semplice presenza del vocabolo esses, a Tib., I, 10, 1, Quis fuit, horrendos

primus qui protulit enses? Pur senza voler negare la concomitante presenza dell'eco di Tibullo, pensiamo che piü che a questo il Petrarca si sia ispirato a Virgilio, di cui il passo rappresenta un'antologia di richiami: divini gloria ruris di Georg. I, 168; semper bonos nomenque tutum laudesque manebunt di Buc. 5, 78; impositos duris crepitare incudibus enses di

Georg. II, 540 (e proprio quando si oppone la pace agli orrori della guerra); medios moriturus in enses | inferat di Aen. IX, 400-01; caecos instare tumultus di Georg. I, 464; e soprattutto vobis parta quies di Aen. III, 495; Nam mibi parta quies di Aen. VII, 598; non ullus aratro / dignus bonos di Georg. I, 506-07; vomeris buc et falcis bonos, buc omnis aratri | cessit amor; recoquont patrios fornacibus ensis di Aen. VII, 635-36; praecipitat tre volte in Virgilio (Aen. II, 9; XI, 617; XII, 699), mentre manca assolutamente in Tibullo, in cui, a parte lo esses di I, 10, 1, l'unica eco

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lontana della rielaborazione espressiva petrarchesca può ravvisarsi in ses stipes sii desertus in agris di I, 1, 11.

A p. 44, a proposito del v. virentia Martis, il Martellotti Della Corte e del Pighi che il sciuto una lezione diversa dalla mente interpretato Cat., 55, 3,

53, veronei per prata respinge l’ipotesi del Petrarca abbia cononostra o abbia malaTe Campo quaesimus

in minore (il Martellotti si attiene ancora alla lezione

dei codici quaesivimus in minore ch'è metricamente insostenibile — cfr. il mio Una nuova edizione di Catullo, in questa

rivista,

1963, pp. 450-51

—, tant'è

vero che gli editori si sono divisi nei due emendamenti quaesimus in minore

o quaesivimus

minore),

perché, secondo lui, il Petrarca aveva facilmente la possibilità d'accertarsi che Catullo era di Verona, e quanto al toponimo in questione poteva ispirarsi ad esperienza personale dettata dalla persistenza di una tradizione viva p. es. ancor oggi nel nome della chiesa di S. Polo di Campomarzo. Ma nella questione s'ingrana un problema molto piü grosso, che ha suggerito al Della Corte — anche sulla base dell'ipotesi che in Cat., 55, 3 il Petrarca leggesse diversamente da noi — il volume Due studi catulliani (Genova, 1951), po-

stulante nel Petrarca la conoscenza di un Catullus plenior. Il Martellotti fa solo un vaghissimo cenno a questo fondamentale problema nella successiva p. 45, mostrandosi indeciso addirittura fra i sostenitori del4 Il Martellotti (art. cit., p. 331, n. 1) mi obietta ch’ doveva attenersi alla lezione del Petrarca. Ma non ci sareb stato nulla di male ch'egli notasse a confronto le lezioni piü corrente attualmente

seguite.

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la conoscenza di Catullo da parte del Petrarca e quelli che la negano, almeno come possesso di tutto il Liber (U. Bosco, Il Petrarca e l’Umanesimo filologico, in « Giorn. stor. lett. ital. », 1943, p. 107 sgg.). Sarebbe

stato doveroso esaminare il problema, tanto più che il Bosco, adducendo (v. ora il saggio in Saggi sul Rinascimento italiano, Firenze,

1970, pp. 205-15) per-

suasivi argomenti contro la conoscenza petrarchesca di tutto il Liber, rinverdisce, secondo il solito procedi-

mento metodico, l’ipotesi di un florilegio, attraverso la quale, almeno in via congetturale, si potrebbe sostenere anche che il Petrarca avesse conosciuto brani di un Catullus plenior a noi non pervenuto. Da notare inoltre che tuttora, pur citando il Martellotti, il Bosco (p. 212, n. 98) ritiene spiegabile il v. 53 dell’ecloga petrarchesca sulla base delle ipotesi o del Della Corte o del Pighi, e che M.

Pastore Stocchi,

recensendo in « Lettere italiane », 1969, pp. 503-04, il lavoro

del Martellotti,

s'è associato

alla tesi del

Bosco dell’impossibilità che il Petrarca conoscesse tutto il Liber. A p. 48 dobbiamo constatare che ci separa l’atteggiamento sull’epistola a Cangrande, che il Martellotti cita come dantesca. A p. 51 torniamo al problema della conoscenza di Catullo da parte del Petrarca, a proposito di Antimaco, ricordato al v. 93 con l'ap-

pellativo Clarius e il ricordo della sua Λύδη, ma che il Martellotti ritiene che il Petrarca non fosse riuscito ad identificare precisamente con Antimaco, tant'è vero che dell’identificazione si occupò in seguito il Poliziano. Ma poi a p. 73 il Martellotti, a proposito del v. 251 (bunc nono pascebat caseus anno) relativo

ad Elvio Cinna, ritiene probabile che il Petrarca si

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sia ispirato direttamente al c. 95 di Catullo; e già a p. 67, commentando

i vv. 207-08 relativi a Licinio

Calvo (restinctam carmine flammam | flens), egli ha supposto che accanto a Prop., II, 34, 89-90 il Petrarca abbia tenuto presente il c. 96 di Catullo, suc-

cessivo a quello cui egli avrebbe attinto la menzione di Cinna. E il fatto che i due poeti ricordati dal Petrarca siano stati menzionati da Catullo in due carmi successivi autorizza l’ipotesi che proprio da Catullo il Petrarca abbia desunto il loro ricordo: ché l’ipo-

tesi di un’ignoranza del Liber catulliano da parte del Petrarca ci lascia sempre più perplessi. Orbene, proprio nell’ultimo verso del c. 95 di Catullo è contenuta la menzione di Antimaco (Af populus tumido gaudeat Antimacho); ed è strano che il Martellotti, che ha supposto per Cinna la conoscenza del c. 95 di Catullo da parte del Petrarca, se ne sia dimenticato a proposito di Antimaco. Eppure chi sa che un grammatico oppure uno scolio non abbia fatto pervenire al poeta la notizia che il tumido dell'ultimo verso del c. 95 era un’eco del giudizio espresso da Callimaco pro-

prio sulla Λύδη: παχὺ γράμμα καὶ οὐ τορόν.

Se ciò

fosse vero, potremmo supporre che il Petrarca, che anche in altre cose sembra aver precorso gli umanisti ed essere stato piü addentro di loro nelle segrete cose, abbia potuto giungere all’identificazione di Antimaco. Lo farebbe sospettare il fatto che il v. 92 relativo ad

Antimaco, ove si accenna alla Λύδη, si affianca al v. 95, che parla di Callimaco, cioè proprio del poeta di cui abbiamo supposto fosse pervenuta al Petrarca

la notizia del suo giudizio ostile alla Λύδη di Antimaco. Se l’affiancamento di Antimaco e Filita e il ricordo della patria dei due poeti deriva evidentemente

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— come nota il Martellotti — da Ovid., Trist. I, 6, 1-2, Nec tantum Clario est Lyde dilecta poetae, / nec tantum Coo Bittis amata suo est, è però sufficiente spiegazione che il successivo ricordo di Callimaco vicino a Filita derivi senz'altro da Prop., III, 1, 1 Callimachi Manes et Coi sacra Philitae? C'è di mezzo An-

timaco! E per di più al v. 93 si ricorda Callimaco Cyrenis genitum: il che può far pensare di nuovo a Catullo, all’appellativo Battiades con cui egli denomina spesso Callimaco. E taccio del fatto che il Pastore Stocchi (loc. cit., p. 506) pensa che il nome di

Filita derivi al Petrarca non da Prop., III, 1, 1, ma da una glossa marginale ad Ovid., Ars. am. III, 329-

30, come da una glossa marginale ad Ars am. I, 283 egli desunse il nome di Aristocrito (storpiato in « Aristoridem » nel commento laurenziano) per il primo

cantore del mito di Biblide®

|

Per quanto si possa concedere al Martellotti che nella poesia bucolica del Petrarca silva possa assumere il significato di « città », davvero non mi sentirei di sottoscrivere la sua opinione (p. 59) che anche

al v. 149 incola silvarum primus, detto di Orfeo, possa avere il medesimo significato: tant’® vero che il Martellotti traduce « primo abitatore delle selve ». Se il Petrarca stesso in quei versi lo vede truces cantu ... mulcere leones (dovremo dare anche ai leoni un significato allegorico?) e smuovere aeriam ... Ro5 Ora il Martellotti ribatte (art. cit., pp. 340-41) le mie

argomentazioni. Debbo osservargli anzitutto ch'io ho avanzato le mie ipotesi sempre con molta questo

particolare

non

ho

timidezza, e che quindi

espresso

alcuna

«certezza »,

su

co-

m’egli afferma. Tuttavia i dati con cui ho sostenuto la mia ipotesi sembrano conservare la loro evidenza.

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dopen e fermare precipitem ... Hebrum, se, come lo stesso Martellotti annota, la fonte del Petrarca è Hor., Ars poet. 391-93, in cui è detto che silvestris bomines sacer...

/ caedibus ... deterruit Orpheus,

/

dictus ob boc lenire tigres rabidosque leones (dove sussiste, sl, l'interpretazione allegorica, ma certo con

riferimento agli uomini selvaggi che vivevano nelle foreste), e carm. I, 12, 7-10, in cui si parla di vocalem temere insecutae / Orpbea silvae, per cui egli frenava rapidos ... fluminum lapsus, come si potrebbe dare a Silvae un significato diverso da quello suo naturale? Rimane l'appiglio che Orfeo & denominato dal Petrarca incola silvarum primus, mentre dai luoghi oraziani risulta ch'egli civilizzò silvestris bomines, il che farebbe escludere ch’egli abbia potuto essere il primo abitatore delle selve. Ma la difficoltà permarrebbe anche se dessimo a silvae il senso di « città »: che città sarebbero quelle, se avessero avuto, sia pure all’inizio, un solo abitatore, foss’egli stato il fondatore? Ritengo perciò che tutto si spieghi riferendosi all’espressione del vreso precedente, iustitia et cithara insignis: Orfeo fu il primo ad abitare le selve con gli attributi e le doti che lo ponevano in condizione di diffondere la civiltà. A p. 62 non riesco a persuadermi che la variante altisono del codice napoletano VIII G 7 possa essere ritenuta lectio difficilior di fronte al molto più naturale dulcisono dell’autografo vaticano. Se di dulciso-

nus, per quel ch’io so, si hanno solo esempi tardi (Terenziano Mauro, Sidonio Apollinare, Marziano Capella), mentre altisonus è testimoniato da Cicerone a Seneca tragico, a Giovenale, a Claudiano, è pur sempre innegabile

che, trattandosi

di poeti

bucolici,

il

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primo dei due epiteti doveva spuntar più ovvio sotto la penna del Petrarca. Ritengo perciò che anche in questo caso ci troviamo in presenza di una variante d’autore: in un primo momento il Petrarca, spinto dalla frequenza dell'epiteto altisonus, dev'essere stato indotto ad adoperarlo (ac dinanzi a vocale non poteva fargli alcuna difficoltà), senz'accorgersi di commettere

un errore metrico, con l'introduzione di un trocheo: poi persuaso che l’altro appellativo era più adatto alla poesia bucolica e accortosi soprattutto dell'erratum metrico, ripiegò sul raro e più tardo, ma più oppor-

tuno dulcisono. A p. 64, per l’esegesi dei vv. 184-85 relativi a Lucilio, il Martellotti si associa all'opinione di E. Fraenkel (Horace, Oxford, 1957, p. 151 sgg.), postu-

lante un’evoluzione del gusto e quindi del giudizio di Orazio sul suo predecessore. Sono costretto a rinviarlo al mio studio Satira e poesia in Orazio (« In memoriam E. V. Marmorale », vol. I, Napoli, 1967, p. 189

sgg.), da cui si evince che il giudizio di Orazio su Lucilio fu in fondo sempre lo stesso, tant'é vero che, divenuto legislatore delle patrie lettere, il Venosino dimenticò integralmente il suo celebre predecessore e non ne fece più il nome. La tendenza a considerare Ovid., Ex

Pont.

IV,

16 come una delle principali fonti d’informazione del Petrarca non ha reso un buon servigio al Martellotti a proposito del v. 254. Ivi, parlando dei poeti della Gallia Cisalpina, si ricorda, accanto a Cecilio Stazio (Hunc gravitas), un altro lodato da severi censori (illum censura severior effert):

il fatto che, mentre

l'identificazione del primo ci è data dal commentatore laurenziano, per il secondo egli non ci dà alcun aiuto,

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ha fatto pensare al Martellotti che « un nome Severus, scritto nel margine, poteva essere scambiato per un aggettivo e sfuggire quindi all’attenzione del commentatore ». Infatti il Martellotti pensa che nel verso petrarchesco l’aggettivo severior nasconda l’allusione a « un poeta Severus di cui il P. trovava menzione in

Ovidio, Ex ponto IV, 16, 9... e a cui sono indirizzate due delle epistole Ex Ponto (la I 8 e la IV 2)». Osservo 1) che il poeta Severus non è così ignoto come sembra ritenere il Martellotti, ma è quel Cornelio Severo di cui Seneca il vecchio ci ha tramandato un celebre brano in onore di Cicerone, del quale si deplora la morte (vedilo nella mia Antologia latina dell’età augustea, Firenze-Milano, 1969, pp. 516-19);

2) che nulla autorizza a ritenerlo un poeta della Gallia Cisalpina, sì che esso farebbe la figura di un intruso in un brano in cui si parla di Elvio Cinna, Pomponio Secondo (di cui il Petrarca poteva supporre la appartenenza alla regione in base alla notizia della sua grande amicizia col comasco Plinio il vecchio), Cecilio Stazio e — come vedremo — Furio Bibaculo;

3) che l’attributo severior concordato col sogg. censura di cui il poeta in questione (illum) è compl. ogg. scoraggia l’ipotesi che proprio in esso possa scovarsi il nome del poeta: Severo si nasconderebbe in una frase affermante che una censura severior lo esaltava?

una censura più severa di quella che il suo nome esprimeva? Mi sembra un’ipotesi troppo lambiccata. Anche il Pastore Stocchi (loc. cit., p. 501) non si asso-

cia all’ipotesi del Martellotti, e opina che qui sia da scorgere un’allusione ai Disticha Catonis, per cui la espressione sarebbe più comprensibile, in quanto la censura severior sarebbe proprio la qualità dell’autore,

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che lo renderebbe famoso. Ma non si riesce a come il ricordo di Catone possa essere inserito sto punto, violando il criterio geografico cui trarca s'è attenuto. Penserei quindi che anche

capire a queil Pequi si

nasconda il nome di un poeta della Gallia Cisalpina. Preferirei supporre l’allusione a Valerio Catone. So bene che, anche a supporre che il Petrarca leggesse la satira oraziana I, 10 in un codice contenente i famosi otto versi iniziali (Lucili, quam sis mendosus, etc.)

di discussa paternità, di lì non avrebbe potuto ricavare alcun attestato sull’attività poetica di Valerio Catone, ivi presentato solo come defensor di Lucilio ed emendator dei suoi versi. Ed è troppo arrischiato supporre che il Petrarca potesse leggere quei versi corredati di scolii, dato che — com'è noto — la scoliastica li ha trascurati, e questa è stata una delle ragioni per

cui li si è considerati non autentici. Al tempo Petrarca non si conosceva

del

ancora il De grammaticis

et rbetoribus di Suetonio, principale fonte delle nostre notizie sull’attività poetica di Valerio Catone e sui favorevoli giudizi che la confortarono. Rimane però sempre la ragionevole ipotesi della conoscenza di Catullo da parte del Petrarca. E nel c. 56 (O rem ridiculam, Cato, et iocosam) si trova un’apostrofe a

Valerio Catone — com'é opinione ormai corrente fra gli studiosi —, in cui al v. 2 la res iocosa & giudicata dignam ... auribus et tuo cacbinno: & proprio una lode, che il Petrarca poteva interpretare fatta a Catone come collega in poesia e in una poesia a carattere

comico ed aggressivo, come quella del poeta precedentemente ricordato. Del resto non ? da escludere

che su Valerio Catone fossero giunte al Petrarca altre notizie; e se può accettarsi l'ipotesi ch'egli conoscesse

22

IL DECIMO

CARME

BUCOLICO

i versi discussi della decima

DEL

PETRARCA

satira oraziana,

in cui

Catone appare come censore di poesia, si può anche comprendere il comparativo censura severior, alludente alla critica di un severo poeta, che trovava da lo' dare come poeta uno che era già un severo critico.

Per giunta al v. 250 è proprio il commentatore laurenziano a rivelarci quello Scepsius (che è poi Metrodoro di Scepsi), ricavato da Ovid., Ex Ponto IV, 14, 37-40 e ricordato nel verso. Non ci sarebbe stata quin-

di ragione, qui, che egli avesse taciuto se l’allusione all’altro poeta fosse stata ricavata dalla medesima fonte. Al massimo, invece di Valerio Catone si potrebbe pensare a Cornificio, ch’® uno dei pochi poeti ricordati da S. Girolamo di cui non s'è riuscito a trovare traccia in quest'ecloga: nel lemma ieronimiano a lui relativo c'é proprio una lode altisonante (cuius insignia extant

epigrammata), ma riferita alla sorella del poeta. E lecito supporte che il testo del lemma posseduto dal Petrarca autorizzasse uno scambio fra la sorella di Cornificio e lui stesso? Del resto in Ovid., Trist. II,

436 esiste un’onorifica menzione sia di Cornificio sia di Valerio Catone, che poteva ispirare il Petrarca per l'uno o per l’altro: e? leve Cornifici parque Catonis Opus: i due sono posti a fianco a Cinna e ad Anser. E se il Martellotti ribattesse ch'io mi preoccupo di sanare le omissioni dei poeti ricordati da S. Girolamo, ma lascio impregiudicata quella di un Severo così onorevolmente ricordato da Ovidio in quell'ep. ex Ponto IV, 16 ch'é la principale fonte del Petrarca per la « grande giunta » iniziante a v. 240, ma che fornisce spjunti anche prima e di cui il Petrarca stesso rivela la funzione a v. 189 sgg., posso rispondergli che scorgendo

Cornificio e Furio Bibaculo nei due casi del

IL DECIMO

CARME

BUCOLICO

DEL

PETRARCA

23

v. 254 e dei vv. 255-56 e postulando la confusione di Pomponio autore di atellane con Pomponio Secondo poeta tragico ai vv. 252-53, si esaurisce la serie dei poeti ricordati da S. Girolamo (e a ribadire l'unicità della fonte si noti che si tratta di poeti ricordati nel medesimo gruppo di versi), mentre dei poeti ricordati da Ovidio in Ep. ex Ponto IV, 16, a tacere di Cornelio Severo, il Petrarca omette Rabirio — lodato da Ovidio quanto Severo —, Prisco, lo uterque Numa, Sa-

bino, Turrano, Melisso e Cotta. Per il poeta ricordato ai vv. 255-56 (Hic tenui vinclo profugos qui nexuit annos / secula pyerio nisus cobibere furore) proprio il commentatore laurenziano parla di un « Furius, qui nectere studuit amores fugientes subtili carmine suo ». Eccezionalmente il Martellotti, pur trovando nel furor del verso un sottile richiamo al nome Furius, che giustificherebbe la spiegazione del commento,

trova da ridire (p. 73) sullo

scolio del commentatore, perché «i due versi di P. non sembrano alludere a poesia erotica ». Perciò non

trova da supporre di meglio che un’allusione a Furio Dionisio Filocalo, « il calligrafo di alcune iscrizioni damasiane ». A me invece — dato che ci troviamo fra i poeti della Gallia Cisalpina — sembra molto logico pensare a Furio Bibaculo, col quale si può anche giustificare l’allusione alla poesia erotica. Intanto Furio Bibaculo — una volta visto Cornificio nel poeta di v. 254 — è forse il solo dei poeti latini menzionati da S. Girolamo nel Chronicon che non abbia trovato posto nell’ecloga petrarchesca. E questo è già motivo $ Non

mi sembra

decisivo quanto

risponde in art. cit., pp. 141-43.

il Martellotti

contro-

24

IL DECIMO

CARME

BUCOLICO

DEL

PETRARCA

sufficiente perché l’ipotesi che nei vv. 255-56 si tratti di lui trovi consistenza. In fondo è lecito pensare che ai vv. 252-53 il Petrarca abbia confuso Pomponio Secondo con Pomponio autore di atellane, perché di questo S. Girolamo ha segnato la data di nascita (ad Ol. 172, 4). Va bene che lì è detto espressamente Atellanarum scriptor; ma anche il fatto che si ricordi ch’egli era di Bologna, cioè della zona in cui erano nati i poeti rammentati nel brano, oltre al fatto che

le atellane, essendo un componimento drammatico, potevano giustificare l’identificazione del loro autore con un poeta tragico, autorizza a ritener possibile la confusione. Per tornare a Furio Bibaculo, si aggiunga che la singolare espressione dei vv. 255-56 può essere stata ispirata, direttamente o indirettamente, dal luogo di Quintiliano in cui si parla di Bibaculo (X, 1, 96):

è noto che in esso la frase Iambus non sane a

Romanis celebratus est ut proprium opus, sed aliis quibusdam interpositus, è tormentatissimo dagli esegeti e di dubbia lezione; ne poteva nascere, in base a chi sa quale interpretazione del Petrarca, lo spunto per una frase (qui nexuit annos; secula... cobibere) come quella da lui dedicata al poeta; a parte altre notizie ch’egli pud aver raccattate sul poeta epigrammatico.

Oso fare quest'ipotesi perché la conoscenza del l. X dell'Instituto è durata nel Medioevo, anche se il

testo di essa noto presentava molte lacune. Ma forse non è neppure il caso di imbarcarsi nella pericolosa via dell'ipotesi di conoscenze di Quintiliano da parte del Petrarca, anche se postulare la conoscenza del l. X dell’Institutio quintilianea da parte del Petrarca potrebbe aiutarci a chiarire alcuni particolari dell'e-

IL DECIMO

CARME

BUCOLICO

DEL

PETRARCA

25

cloga: p. es. quanto & detto a vv. 241-42 di Varrone Atacino, et ignoti nichil usquam, ut prisca ferebat /

fama s’illumina esclusivamente con ciò che Quintiliano (X, 1, 87) dice del poeta:

interpres operis alieni; se

vogliamo ritenere che il Petrarca non intendesse — come di fatto non intende — la differenza fra i due Varroni, ecco Quintiliano fornirgli per il Reatino (X,

1, 95) la definizione di vir Romanorum eruditissimus, e con una denominazione

(Terentius

Varro) che non

doveva aiutare il Petrarca a distinguere i due autori; e il giudizio su Ennio (v. 180 sgg.), anche se ispirato

principalmente da Ovidio, sembra riecheggiare anche quel che Quintiliano (X, 1, 88) dice del poeta, tanto più che, come il retore di Calahorra lo avvicina ai sacri

vetustate luci, così il Petrarca

lo immagina

per...

nemus; così il multa iocans detto di Ovidio al v. 189, oltre che a tenerorum lusor amorum detto dal poeta (Trist. IV, 10, 1) di se stesso, sembra alludere a quan-

to a piü riprese ne dice Quintiliano; e quanto & detto di Lucano ai vv. 332-34 (civis e vertice nudo, cioè come oratore, come intende lo stesso Martellotti a

p. 81) riassume proprio il giudizio di Quintiliano in X, 1, 90; ardens et concitatus ... et... magis oratoribus

quam

poetis imitandus.

Il Martellotti, che natural-

mente non crede alla possibilità di supporre la cono-

scenza di questi paragrafi di Quintiliano da parte del Petrarca, vede (La difesa della poesia nel Boccaccio e

un giudizio su Lucano, in « Studi sul Boccaccio », vol. IV, Firenze,

1967, p. 279, n.

1) un

progresso, una

storicizzazione del giudizio su Lucano in Sicco Polenton, perché in esso (Scriptorum illustrium latinae linguae libri, ed. Ullman, Roma,

1928, p. 114) il giu-

dizio di Isidoro, assorbito dal Petrarca, e puntante in-

26

IL

DECIMO

CARME

BUCOLICO

DEL

PETRARCA

vece, come quello di Servio, sull’affinità di Lucano con

gli storici, si congiunge, mediante un’espressa citazione, con quello che di Lucano aveva scritto Quintiliano. Ed è un caso che a v. 177 il Petrarca dichiari di tor-

nare a casa doctior e subito s’incontri con Pacuvio, che Quintiliano (X, 1, 97) definisce doctiorem, così come

dà ad Accio virium ... plus, così come gliene dà il Petrarca ai vv. 228-233? E quanto è detto di Cecilio Stazio al v. 254 (bunc gravitas ... effert) sembra accordarsi a quanto ne dice Quintiliano (X, 1, 99): Caeci-

lium veteres laudibus ferant. Si può obiettare che, se avesse letto Quintiliano, il Petrarca ci avrebbe parlato anche di Valerio Flacco, di Rabirio, dello stesso Cornelio Severo e di tanti altri; ma — come abbiamo vi-

sto — egli tacque anche di molti poeti ricordati da Ovidio nell’epistola ex Ponto IV, 16; e per molti poeti comunemente ricordati da varie fonti egli ha trascelto lo spunto ora di una fonte, ora di un’altra, preferen-

do di solito quella che ne parlava meglio. Che nel 1350 il Petrarca abbia ricevuto finalmente da Lapo di Castiglionchio un codice mutilo dell’Institutio è risaputo (cfr. R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci, ecc., edizione anastatica a cura di E. Garin, Firenze, 1967, vol. I, p. 26; vol. II, p. 168) ed è

testimoniato dalla lettera stessa indirizzata in quell’anno dal Petrarca a Quintiliano (Fam. XXIV, 7), in

cui egli lamenta che « Oratoriarum Institutionum liber, heu, discerptus et lacer, venit ad manus meas ».

Il confronto con le testimonianze su altri codici quintilianei correnti in quell'epoca e palesanti una grave

mutilazione del l. X, e il fatto che nell’epistolario petrarchesco si notano di X, 1 solo citazioni dal $ 112 (XVIII,

14), dal $ 125

(XXI,

15) e dai

$

125-131

IL DECIMO

CARME

BUCOLICO

DEL

PETRARCA

27

(XXIV, 7-8), ha fatto stabilire l’opinione che nel co-

dice posseduto dal Petrarca la lacuna giungesse fino a X, 1, 109: cfr. U. Bosco, op. cit., p. 202, n. 70: « La

lacuna si estende per tutti i primi 107 paragrafi delle edizioni moderne, cioè comprende quasi tutto l’excursus letterario. Le citazioni del Petrarca cominciano

dal $ 109 ». Se le nostre osservazioni hanno peso, si dovrebbe arretrare la lacuna del codice petrarchesco prima del $ 85 all’incirca. Ma l’audacia della conclusione ci sembra così sgomentante che noi non osiamo insistervi.’ Ma se, ripeto, vogliamo trascurare l’ipotetico riferimento a Quintiliano a proposito di Furio Bibaculo, ecco che in Plin., nat. hist., praef. 24 si legge:

nostri graviores Antiquitatium, Exemplorum Artiumque, facetissimi Lucubrationum, puto quia Bibaculus erat et vocabatur. Macrobio (Sat. II, 1, 13) ricorda

d’aver tratto ex libro Furii Bibaculi il ricordo di un iocus di Cicerone nella difesa di Flacco, che nel testo

dell’orazione non extat. Dai commenti di Porfirione e dello Pseudacrone ad Orazio poteva il Petrarca aver tratto notizia della Memnonis e della Pragmatia belli Gallici di Bibaculo. E finalmente il Liber di Catullo, specie il c. 11, coi suoi riferimenti a Furius, che oggi

più che mai si tende a identificare con Furio Bibaculo,

poteva indurre il Petrarca a scorgere in lui il celebratore di Cesare. Da tutti questi spunti era facile al Petrarca ricavare un'immagine del poeta cremonese come cantore insieme d’amore e di memorie 7 Questo

dovrebbe

bastare

a far intendere

storiche, al Martel-

lotti che l'ipotesi non è quella « che più mi sta a cuore » (art. cit., p. 344). So benissimo che essa non appare sostenibile.

28

IL DECIMO

CARME

BUCOLICO

DEL

PETRARCA

atto cioè a nectere annos anche col tenue filo degli epigrammi (suggestivo al riguardo specie il passo di Plinio che parla all’inizio di inscriptiones) e a cobibere saecula con la forza della poesia.

A p. 81 il Martellotti afferma che al v. 341, in nominis Ausonii dederant (e l'espressione quem templa Vasati / nominis Ausonii dederant non mi sembra inec-

cepibilmente resa con « che veniva dai templi di Vasato € aveva un nome

ausonio »), « perché

la cita-

zione sia coerente con le altre, e cioé enigmaticamente allusiva, & necessario scrivere ausonii con la lettera

minuscola ». Certo nell’ecloga il maiuscolo di norma é adoperato solo per i nomi di luogo o di persona, e per gli aggettivi anche di origine etnica & adoperata la lettera minuscola (Chous e Clarius dei vv. 92-93

sono con iniziale maiuscola, perché il Petrarca li avrebbe presi erroneamente per nomi propri): peró qui l'allusione al nome è così vicina, così fuori di ogni oscura allusione, che forse non ci si deve meravigliare che in questo caso si faccia ricorso al maiuscolo. Del resto, riguardo all’alternanza delle lettere maiuscola e minuscola c’è nel testo qualche singolare contraddizione, a meno che non si tratti di errore di stampa: a vv. 117 e 120 si legge rispettivamente Musas e Musis, ma al v. 155 sacer musis. E poi che ai vv. 9293 Chous e Clarius debbano esser presi per nomi pro-

pri (e non per niente a p. 20 il Martellotti li traduce * 1] Martellotti (art. cit, pp. 341-45) non si mostra d’accordo, ma gioca un po' troppo sottilmente sul mio richiamo

a Quintiliano, quasi che io avessi fatto derivare l'ipotesi solo

dalla possibilità che il Petrarca conoscesse il testo quin Come pud constatare ogni lettore, io ho addotto anche altre fonti sicuramente note al Petrarca.

IL DECIMO

CARME

BUCOLICO

DEL

PETRARCA

29

per necessità con «il poeta di Coo... e quello di Claro ») è contraddetto dal sistema generale dell’eclo-

ga, che fa riconoscere i poeti dal nome della loro terra natia, dalla

sostemibile derivazione

del

Petrarca

an-

che da Prop., III, 1, 1, Coi... Philitae, e dal fatto che dopo Filita e Antimaco si parla di Callimaco come Cyrenis genitum:? a parte la nostra supposizione che il Petrarca abbia tratto da Catullo il nome di Antimaco.

9 Ma nota ora le art. cit., p. 336, n. 1.

acute

osservazioni

del

Martellotti

in

LE

SACRE RAPPRESENTAZIONI AQUILANE CON PARTICOLARE RIFERIMENTO A LA LEGENNA DE SANTO TOMASCIO *

Quale sia l'importanza della civiltà abruzzese quattrocentesca,

confermata

da

tante

testimonianze

let-

terarie, architettoniche e pittoriche, lo dimostra soprattutto il complesso delle sacre rappresentazioni aquilane, specialmente perché attraverso queste si conserva in maniera indubbia il carattere precipuo di quella civiltà. I disciplinati dell'Aquila sorsero subito dopo il 1266, al momento della resurrezione della recentissima città guelfa dopo la rovina inflittale da Manfredi; e rappresentarono il riprodursi in Abruzzo

del movimento delle laude umbre, di quelle compagnie di disciplinati, cui appunto Manfredi nel 1260 aveva sbarrato la via di Regno. Si riproduceva anche in questo caso il destino caratteristico della diffusione della cultura in Abruzzo. Era sempre la via della montagna, il valico di Sella di Corno, già funzionale in età preromana per il passaggio in Abruzzo delle tribù sabine portatrici del ceppo italico, a determinare l’ingresso nella nostra regione della forma più vitale, perché più popolare, della poesia religiosa. L'Abruzzo dugentesco, l'Abruzzo di Tommaso da Ce* Da

« Abruzzo»,

1971, p. 235

sgg.

32

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

lano e di Pietro del Morrone, si apriva al grande moto sorgente dall’Umbria francescana e se ne configurava il figlio primogenito, a preferenza persino della Toscana, della regione cioè in cui la lauda drammatica raggiungerà il massimo grado di maturità letteraria, configurandosi come forma in cui il nascente teatro italiano moderno aveva già conseguito una forma validamente autonoma, sì da giustificare il fa| moso rimpianto di Alessandro D'Ancona, che nelle Origini del teatro italiano aveva lamentato che la commedia d’imitazione classica avesse soffocato queste forme native del teatro popolare, che altrove, nella loro progressiva laicizzazione (basta pensare all’Avocat patelin in Francia e alla Celestina in Ispagna), avevano già prodotto monumenti d’invidiabile solidità. È questo il risultato più cospicuo conseguito dal nostro grande corregionale Vincenzo De Bartholomaeis con l’opera Origini della poesia drammatica italiana (Torino, 1952?) che modificò le conclusioni e il quadro dell’opera del D’Ancona, specialmente grazie all'aumentata conoscenza dei testi drammatici abruzzesi. Chi getta un rapido sguardo allo sviluppo della sacra rappresentazione abruzzese, ed aquilana in ispecie, non si sofferma naturalmente sul fatto che essa

raggiunge l'acme nel sec. XV, perché questo & fenomeno che si manifesta con uguale, anzi sotto certi aspetti, maggiore evidenza in Toscana. Piuttosto si impone un raffronto tra le forme che questo fenomeno assume in Toscana e quelle che assume in Abruzzo. Al riguardo basta o sviluppare alcune intuizioni del De Bartholomaeis o aggiungere alcune considerazioni inedite. Cominciamo

1) col fatto che,

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

33

come & stato debitamente messo in luce dal De Bartholomaeis, la sacra rappresentazione abruzzese, specie quella più classica della compagnia aquilana dei

Disciplinati di S. Tommaso d’Aquino, rinuncia progressivamente alle forme liriche, fa predominare l’endecasillabo, il metro classico della recitazione, salva

la presenza di versi più brevi solo in tipici casi di introduzione di forme lirico-recitative fisse come l’intervento a coppia di essi (i cosiddetti canti a coppla), incoraggia cioè forme intimamente più prosastiche di struttura drammatica, mentre la sacra rappresentazione toscana (e specie fiorentina), pur essendo più ricca di spunti comici e schiettamente realistici, ereditanti la tradizione soprattutto boccaccesca della novella, continua a far larga parte ai metri lirici, che

non sono per definizione il sottofondo degli spunti

d’effusione sentimentale, ma possono valorizzare anche movenze

e deviazioni di carattere scherzoso;

2)

va poi specificato che in Abruzzo, specie in quello che è il centro più vero e quasi esclusivo di tale produzione, cioè la città ch'è la sede della più splendida civiltà della regione in quel tempo, l’Aquila, la lauda drammatica non è più prerogativa dell’ordine francescano, che praticamente in Umbria l’aveva tenuta a battesimo, ma diventa quasi appannaggio dell’ordine rivale e concorrente dei domenicani:

la lauda coltivata

dai francescani fiorì non tanto all’Aquila e nei grandi centri, come nota il De Bartholomaeis? ma in campa-

gna, tant'é vero che i componimenti del genere da

I Op. cit., pp. 303-04. 2 Op. cit., pp. 325-35.

34

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

noi conosciuti provengono da Ocre, da Penne, da Capestrano, e per giunta mirò a sviluppare temi come

quelli proposti da Iacopone da Todi, non raggiunse mai il respiro strutturale della sacra rappresentazione domenicana; in questo la sorte di quest’attività drammatica in Abruzzo fu uguale a quella che le toccò a Siena e a Firenze, dove pure la lauda drammatica finì nelle mani di compagnie di disciplinati domenicani; 3) la lauda drammatica abruzzese — e questa mi pare osservazione finora non formulata da nessuno — non insiste, a differenza dalla lauda umbra, su episodi

della Passione o in genere della vita di Cristo, ma indugia piuttosto su argomenti relativi o ad episodi del Vecchio Testamento o delle vite dei santi fino alla sua massima espressione contenuta nella Legenna de Santo Tomascio (naturalmente non

ascrivo alla cate-

goria il planctus benedettino, di cui si sorprendono testi in volgare nel sec. XIII, nel codice celestiniano);

in questo è da notare anche una certa differenziazione dalla sacra rappresentazione toscana, che — se culmina anch’essa in sceneggiature di vite di santi, come la Leggenda di S. Onofrio e quella di S. Uliva posta in iscena nel primo Maggio fiorentino con la regia di Jacques Copeau e ospita anch’essa leggende come quella di Susanna — fa posto anche ad episodi come quello di Abramo ed Isacco, ad opera di Feo Belcari, ma più ad episodi del Nuovo Testamento, compresi quelli desunti da parabole, come la leggenda del figliol prodigo; nel teatro religioso abruzzesse le Passioni, come

del resto quasi

sempre

in Italia, spun-

tarono proprio quando la voga delle sacre rappresentazioni s'affievoll, e quindi sono tarde e limitate esclu-

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

35

sivamente ai giorni della Settimana Santa’, come dimostra la raccolta di Passioni destinate non tanto alla

rappresentazione quanto alla lettura camerale, trascritta nel 1576 da una suora di Chieti e scoperta a Sulmona, e per giunta formulata in un linguaggio che non è più l'abruzzese delle sacre rappresentazioni del sec. XV, ma il linguaggio letterario comune, improntato sul toscano; * 4) da tutto il già detto discende

— e quindi anche mentre la sacra corde al suo arco tici a toni comici

questa è osservazione inedita — che rappresentazione toscana ha molte e svaria facilmente da toni drammao scherzosi, sì da giustificare l’opi-

nione di chi la ritiene la forma più matura e più complessa di questo tipo di letteratura drammatica, anche perché alla stesura di questi componimenti contribuirono molti veri e propri letterati, la sacra rappresentazione abruzzese si mantiene sempre in un caratteri-

stico tono mediano che, se rifugge da pronunciate accensioni in senso lirico o mistico, d’altro canto non

indulge mai a compiacenze per veri e propri effetti comici e per aperte sottolineature ironiche della vita quotidiana nei suoi aspetti più costituzionalmente estranei a una consapevole esperienza religiosa. Davvero non vediamo l’ora che Anna Pensa Michelini

3 Cfr. DE BARTHOLOMAEIS, Op. cit., p. 335: Passioni

italiane si produssero

allorquando,

«Le grandi

essendo

venuta

a

cessare la costumanza delle recite quotidiane, il numero de’ giorni destinati agli spettacoli si restrinse a quelli delle feste santoriali locali e a quelli della Settimana Santa e della Pasqua »; p. 336: «L'epoca delle grandi Passioni delle nazioni

europee, va dalla metà del secolo XV alla metà o giù di lì del XVI ». 4 Cfr. De BARTHOLOMAEIS,

Op. cit., p. 336.

36

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

Tocci pubblichi insieme — com'é stato annunciato — le redazioni fiorentina e aquilana della rappresentazione di S. Susanna nella collana del centro cortonese di studi sulle origini del teatro italiano, per farci meglio toccare con mano la differenza fra la prima, che ospita persino l’episodio di una causa giudiziaria relativa a due contadini, e la seconda, che aderisce più da vicino all’argomento biblico. In altri termini, la sacra rappresentazione abruzzese, quale ci si profila nella sua fase più matura nel sec. XV, ci si mostra degnamente al culmine di una poesia che trova in Buccio di Ranallo il suo più tipico rappresentante, di una poesia cioè che nei toni epici e politici trovava il suo più tipico alimento. Essa rispecchia con incantevole freschezza la maniera tipica del popolo abruzzese di restare profondamente attaccato alla sua fede, ma sentendola come condizionante

tutta la sua vita quotidiana, sì da aderire e dar colore a tutti i suoi aspetti e a tutte le sue vicende. Quindi da un lato nessuna concessione a toni obliosamente scherzosi e ridanciani, ma dall'altro nessun eccezionale, e sia pur episodico, slancio mistico, ma un costante

avvertire ogni fase dell'esistenza, ogni vicenda della giornata come sagomate dalla coscienza di vivere costantemente a contatto con Gesü Cristo, con la Madonna, con i santi, che ti scortano per mano, ti sorreg-

gono in ogni circostanza, pronti a darti i piü efficaci avvertimenti ogni volta che tu sei sul punto di sgarrare. E che cosa & questo se non lo spirito che domina tutta la splendida arte abruzzese che comincia col sec. XII e fiorisce nel Tre e Quattrocento, che pure non si puó fare a meno di considerare l'espressione gloriosa del Basso Medioevo, dell'Umanesimo e

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

37

del primo Rinascimento nella nostra regione? Basterà citare al riguardo la magnifica serie degli amboni, il valore di riferimento alla pratica esistenza quotidiana nelle manifestazioni artistiche di S. Pietro ad Oratorium presso Capestrano, il celebre affresco sulla sorte dell’anima post mortem in S. Maria del Piano di Lo-

reto Aprutino, il calendario e tutta la prestigiosa serie di figurazioni a Bominaco, la parallela serie di S. Maria di Ronzano, la corposa e piacevolmente illustrativa struttura architettonica e decorativa della Nunziata di Sulmona, i paliotti di Nicola da Guardiagrele e soprattutto gli affreschi di Andrea Delitio nel duomo di Atri, la cui solleticante successione figurativa sembra una trasposizione in chiave di mistero religioso della vita normale di una comunità di credenti. Oggi le ricerche di Paul Oskar Kristeller, il ritorno più meditato all’interpretazione del fenomeno dell’Umanesimo proposta da Giuseppe Toffanin, la valorizzazione del potere lievitante del nominalismo e dell’averroismo, studi particolari come p. es. quelli di Ezio Raimondi? e persino ricerche come quella del Vasoli® valorizzante ancora la reazione del più essenziale Umanesimo alla dialettica scolastica e agli schemi della cultura universitaria d’allora e alla spiritualità ufficiale dei clerici mostrano quanta parte

avessero ancora nella vita culturale e spirituale del

5 Codro e l’Umanesimo a Bologna, Bologna, 1950. 6 Il

problema

dei

rapporti

tra

filosofia

e

filologia,

in

Grande antologia filosofica, vol. XI, Diano: s.d.; La didattica e la retorica dell'Umanesimo, Milano, .

38

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

Quattrocento le varie eredità religiose, teologiche, filosofiche e letterarie del più recente Medioevo, sì da obbligarci a ridimensionare il fenomeno dell’Umanesimo entro termini di maggiore equilibrio e a deprecare che buona parte della sterminata produzione quattrocentesca teologica, filosofica, letteraria in latino sia ancora inedita. Solo così si potrà intendere come nel

Cinquecento

il più

rappresentativo

Umanesimo

d'oltralpe, da Erasmo a Calvino e oltre, abbia posto in primo piano i problemi religiosi e lo studio critico

dei testi scritturali. Questa era qualità che nel secolo precedente

imparentava

senza

residui

l’Umanesimo

italiano con quello straniero, anzi faceva del primo,

anche in questo, la guida del secondo. D'altro canto gli studi più recenti vanno ponendo in chiaro come la religiosità quattrocentesca abbia ve-

nature di eccezionale profondità; non per niente l’ultimo episodio di rilievo della vita spirituale del secolo s'incentra in Gerolamo

Savonarola.

E uno

dei rap-

presentanti più cospicui di questa religiosità, S. Bernardino da Siena, era passato in Abruzzo quasi come nella zona più atta ad intenderne il messaggio senza opposizioni e senza riserve mentali, aveva chiuso gli occhi all’Aquila e qui è sepolto, a custodire lo spirito più gelosamente nativo della regione nella sua sensi-

bilità ai valori religiosi rinfocolati dai contatti con le esperienze del resto d’Italia comunicate attraverso la montagna madre. Potremmo dire che in questo episodio e in tutta la fioritura spettacolosa dell’architettura sacra aquilana, riproducente in forme originali l'eredità toscana a servizio di un prorompente empito

religioso, sia racchiuso il simbolo piü evidente del ca-

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

39

ratteristico Umanesimo quattrocentesco abruzzese,” e si giustifichi la preminenza in esso, sotto il profilo letterario, della sacra rappresentazione, che per via

autonoma perveniva a sviluppi paralleli a quelli della medesima

forma d’arte nella terra di S. Bernardino,

ma con più logica e coerente salvaguardia dei valori religiosi, sia pure assimilati con pacata sensibilità consuetudinaria entro la routine della vita quotidiana avvertita come pagina dispiegata alla lettura e al controllo delle potenze celesti. Non per niente il laudario aquilano ospita sin dal 1443 composizioni in onore di S. Bernardino come ne ha in onore di S. Pietro Celestino, l’altro santo sepolto solennemente nella città. Tutto questo si cercherebbe invano nelle pagine del De Bartholomaeis, che ancora nella seconda edizione del 1952 conservano, nella grafia e nello stile, la vernice cruschevole ed aulica di un linguaggio accademico da metà dell’Ottocento e coerentemente

non vanno al di là di un’impeccabile sistemazione del materiale documentario.

Quanto

abbiamo

asserito è

facilmente documentabile alla luce del capolavoro della sacra rappresentazione abruzzese quattrocentesca, la Legenna de Santo Tomascio. Nel citare i passi che dobbiamo riferirne ci rifaremo all’edizione del De Bar-

tholomaeis * e a quella recentissima? di Fabrizio Beg? In fondo anche il fatto che la letteratura quattrocentesca abruzzese si concluda con la poesia di Serafino Aquilano, del resto operante fuori della regione, in uno spirito che è l'eredità ancora del mondo cortese, dell'autunno del Medioevo, dimostra che l’umanesimo abruzzese era più legato al passato. 8 Il teatro abruzzese del Medio Evo, Bologna, 1924, pp. 77-113. ? Cortona,

1969.

40

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

giato, nella già ricordata collana del centro cortonese di studi sulle origini del teatro italiano. Quella del De Bar-

tholomaeis, come del resto anche la precedente del

Monaci," è più diplomatica che critica, sì che si deve lodare

il Beggiato

di averla

revisione, e lamentare

sottoposta

ad attenta

se mai che il carattere della

collana in cui il testo è stato nuovamente edito dal giovane studioso, non consenta un apparato critico e una

minuta

disamina dei casi controversi.

A chiarire

l'insieme non bastano certamente le osservazioni sulla grafia contenute nelle pp. 9-10 dell’edizione, tanto più che le variazioni non sono state introdotte dal Beggiato in maniera

costantemente

coerente:

p. es.

proprio per il titolo dell’opera non avrei sostituito a legenna delle due edizioni precedenti la forma geminata leggenna (forse per rendere più ovvio il titolo

dato il carattere dell’edizione?) proprio perché essa non è caratteristica dell'abruzzese.! Lo lodo perché nell'ultima scena ha integrato i due versi con cui l’in-

firmo pelegruso " annuncia la sua guarigione, e perché nella scena fra S. Tommaso e gli inviati del papa Gregorio X che lo invitano al concilio di Lione, nella battuta de /u commessario ha corretto in a Ludomi

10 Per la storia del dramma in Italia, in « Rend. dell'Accad. dei Lincei», Roma, 1893, p. 944 sgg. !! T] termine non è registrato nel Dizionario Abruzzese e Molisano di E. GramMmarco (Roma, 1969, vol. II), appunto perché estraneo al linguaggio popolare.

12 A confermare quanto abbiamo detto sulla non perfetta coerenza dei procedimenti grafici del to, si noti come, mentre le precedenti edizioni leggono pellegruso, il Beggiato vi sostituisce pelegruso, si comporta cio& al contrario di quanto ha fatto per legenna.

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

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l’evidente trascorso scrittorio allu domo conservato nelle precedenti edizioni; forse & da accettare anche la sua integrazione con dinanzi a ti nel canto degli angeli che accompagnano la Madonna discesa a visitare il neonato

Tommaso:

l’aplografia

supposta

col

con iniziale del verso precedente mi sembra ipotesi persuasiva.

Merito

fondamentale

dell’edizione

del

Beggiato è — come egli stesso rivendica a p. 8 d’aver ricostituito il testo del f. 128 v del codice VE 349 della Biblioteca Nazionale di Roma, che il Monaci per una meccamica distrazione aveva saltato e il

De Bartholomaeis, per un’altra distrazione molto me-

no giustificabile, aveva ugualmente omesso, evidentemente perché attento più all’edizione del Monaci che non alla presenza del manoscritto, nel costituire la sua edizione. Si tratta di ben 22 versi inizianti dalla metà del discorso del demonio, sconsigliante lo invio del giovane Tommaso a Montecassino, e contenenti la risposta del conte padre col suo Vade retro, Satana e il suo pressante invito al figlio, la battuta della madre associantesi all’invito del padre, la dichiarazione di Tommaso disposto all’obbedienza e il nuovo invito del conto al cappellano, allo zio Roberto e alla nutrice perché accompagnino il giovane. Però debbo osservare al Beggiato che, forse nello slancio di inserire il brano omesso nelle precedenti edizioni, egli non s'é accorto d’aver saltato, nel discorso del demonio, il penultimo verso prima della lacuna, quel Place ad mi plu ancora, pareme, che introduce il successivo devente Tomasci grande omo d’arme; e, quel

ch'è più grave, che della medesima scena egli ancor

prima ha saltato sei versi dopo il fondamentale discorso del conte sulla necessità che Tommaso vada a

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LE

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RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

Montecassino, cioè dopo ad ciò che pillie lu sancto fonnamiento, cioè i tre versi della richiesta della madre che un omo santificho accompagni il giovane e i tre versi della replica del conte, disposto a farlo accompagnare dal nostro prete sofitiente. Si tratta evi-

dentemente di un’aplografia tipografica nata dal fatto che sia sei versi prima sia sei versi dopo c'è una battuta introdotta da Dice LA MATRE. Debbo inoltre domandare al Beggiato perché nella battuta della madre durante la scena in cui si decide d’inviare Tommaso all’Università di Napoli, egli legga vedo invece di vegio, perché nella prima scena della seconda giornata, nel quintultimo verso del primo discorso di frate Agnelo, egli ha sostituito provvedenzia a prodenzia,

e perché nella medesima scena egli abbia in-

vertito l’ordine dei versi nella battuta di S. Tommaso che accetta il suggerimento di frate Angelo di venire a S. Domenico. L’inversione a mio parere è più che giustificata, perché è più logico che, all’invito di frate Agnelo Ad Sancto Dominico veni mo con mecho, Tommaso risponda subito Con techo, patre, vengo firmo et legero / fin che scia facto non me pare vero (e si noti il giro d’espressione tipicamente abruzzese),

e poi si rivolga al priore Pregiore, a mani ionte. Ma avvisare dell'inversione e a non so perché nella scena

dicendogli Pregoti, patre il Beggiato era tenuto ad spiegarne le ragioni. Così fra S. Tommaso e frate

Ranallo il Beggiato non avverta delle ragioni che lo hanno indotto a sostituire spreczare (el santo nome spreczare) a speczare delle precedenti edizioni.

La Legenna de Santo Tomascio è in un certo senso la naturale conclusione del fatto che proprio la compagnia domenicana dei Disciplinati di S. Tommaso

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AQUILANE

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d’Aquino assunse all’Aquila la preminenza nel coltivare le sacre rappresentazioni. In essa dunque si corona lo specifico carattere di questo fondamentale aspetto della poesia quattrocentesca abruzzese. Tralasciamoil fatto che essa segueda pressola fonte agiografica, cioè la biografia di Guglielmo da Tocco nel-

l’Avellinese. Al riguardo la cosa più interessante da notare è un'affinità di comportamento verso la fonte che la Legenna mostra. con la Devotione et Festa de sancta Susanna. Come questa, per evidenti ragioni di regia e di convenienza, modifica il testo biblico, omet-

tendo la scena di Susanna al bagno, e sostituendola con la scena in cui i vecchioni spiano la bellezza della fanciulla in un giardino, così la Legenna, per le medesime ragioni di difficoltà dell'impianto scenico, ha omesso il miracolo del fulmine che, squarciando una torre del castello, uccide una sorellina del piccolo Tommaso ma risparmia lui, e introducendo l’altro miracolo del cartiglio con le parole Ave Maria che il piccolo stringe nella mano, ha trasportato la scena dalla riva del mare, in cui si voleva fare il bagno al bimbo, in una stanza del castello, e al casuale rinve-

nimento del pezzo di carta da parte del piccolo ha sostituito una miracolosa discesa della Madonna che,

su preghiera di 5. Domenico, viene a porre nella mano del bimbo il sacro cartiglio, quasi a dare a tutti il preavviso della sua vocazione. Ciò che va notato anzitutto è piuttosto che, se-

guendo da presso la biografia anche nell’intento di non risparmiare nessun particolare atto a magnificare la figura del Santo, la Legenna, divisa in tre giornate, assume

un’estensione

fuori

del

comune,

tanto

che

Mario Bonfantini, nella sua raccolta Le sacre rappre-

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LE

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RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

sentazioni italiane," in cui fece naturalmente la parte del leone alla lauda umbra e soprattutto alla sacra rappresentazione fiorentina, ma non volle rinunciare a introdurre un documento della sacra rappresentazione abruzzese, stralciò dalla Legenna solo la terza giornata, soprattutto perché in essa la scena del pranzo offerto a S. Tommaso da S. Luigi di Francia gli sembrava offrire più ghiotta testimonianza dello speciale realismo dell’arte del poeta aquilano, e così omise proprio quella prima giornata su cui il De Bartholomaeis s'era maggiormente soffermato '* per meglio analizzare il comportamento del poeta rispetto alla fonte agiografica.^ Con questo svolgimento regolarmente continuativo della vita del Santo, quasi volumen che si srotola sistematicamente, non è solo soddisfatto quel gusto di maggior pompa che secondo il De Bartholomaeis determinò all’Aquila la trasformazione della lauda drammatica umbra, ma è anche e soprattutto appagata la volontà di celebrare senza nulla omettere il Santo cui s’intitolava la Compagnia. Dalla biografia discende la minuzia dei particolari con cui è ricordato che S. Tommaso fu discepolo di Alberto Magno, ebbe Aristotele a fondamento della sua maturazione filosofica, fu un gran maestro di logica e dialettica. Ma naturalmente non è certo il profilo del pensatore quel-

13 Milano,

1942.

14 Origini,

ecc., cit., pp.

15 Il BoNFANTINI

311-19.

dichiara d’aver riprodotto «con pochi

ritocchi il testo del De Bartholomaeis ». Uno di questi è proprio « el sancto nome dal Beggiato.

spreczare », che abbiamo

visto adottato

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AQUILANE

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lo che emerge dal dramma, bensì il colorito affresco della sua vita in un ambiente frescamente, deliziosa-

mente consono alla sua vocazione, che si presta naturalmente ad assorbirne e potenziarne tutte le risonanze. Lo spirito a un tempo medioevale e rinascimentale della pittura ad affresco coeva, quell’antico e nuovo che ne fa l'incanto, ritornano con profonda suggestione in questa lunga serie di scomparti drammatici che, come le fasce pittoriche cingenti le navate e i matronei delle nostre cattedrali, ci dipanano tutto l’edificante soggetto nelle sue successive estrinsecazioni esemplari. Si riconosce la profonda parentela fra Kunstwollen figurativo e Kunstwollen

lette-

rario che caratterizza tanta parte dell’arte del basso Medioevo di fronte al problema dell'espressione della predominante ispirazione religiosa seguìta nelle sue

tracce entro la vita dell'umana società. In fondo non diversa è la tecnica della Commedia dantesca, profilante tutta l’esperienza morale e religiosa di Dante a un tempo e dell'umanità nella forma dei successivi scomparti nei quali si fraziona la visita ai tre regni oltremondani. Segreto distintivo dello spirito e dell’arte abruzzesi è in quest'opera, come ho già detto, l'ingenuo realismo che fa toccar con mano la presenza del divino nella vita quotidiana, istintivamente intesa come ri16 DE non

eccelle

BARTHOLOMAEIS, per

profondità

Op. di

cit., p.

pensiero...

310. La

«Il

dramma

personalità

del

Dottore Angelico vi spicca tutt'altro che con la imponenza con

la quale suole offrirsi all'immaginazione di chi ne penetri le scritture. Delle sue dottrine si fa bensì l’esaltazione, ma il lettore di oggi, come lo spettatore di un tempo, resta all'oscuro

di ciò che esse importino ».

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AQUILANE

flesso della volontà di Dio, ma non trascende mai, co-

me a Firenze, nel gusto del particolare comico isolatamente considerato in una tendenza non sai quanto cosciente a smitizzare l’ideale di vita cui quella poesia s’ispirava e ad affermare i valori terreni all’infuori del legame col sovrannaturale, anche se i metri hrici si diradano di fronte all’endecasillabo, che spunta anche in certi canti a coppla. Il meglio al riguardo

mi sembra essere stato detto proprio dal Bonfantini nella sua frettolosa presentazione della terza giornata della Legenna:" « Un teatro che non sembra... dominato da una particolare grandiosità di concezione poetica, ma che appare tutto animato... da un rea-

lismo singolarmente efficace e colorito il quale non si accontenta di far parte a sé giustapponendosi ai motivi propriamente sacri..,

ma si insinua in essi e li

ricrea in un tono caldo e affettuoso che è la sua più bela caratteristica. Questa Rappresentazione... proprio nelle singole scene, e soprattutto nelle più familiari, ... è piena di tratti di toccante delicatezza... Una affettuosa bonomia che è però autentico candore, che non è mai dimentica dell’altissimo significato spirituale di tutta la vicenda ». Forse il Bonfantini non lo sapeva; ma questi sono proprio i segni distintivi dello spirito abruzzese, e non certo come mitico Volksgeist, ma come distillato di tutta la grande tradizione religiosa ed etico-sociale della regione. Certo nel dramma non si possono scorgere — e quando mai ciò è possibile nel teatro medioevale ed umanistico? — grandi figure di personaggi. La stessa

17 Op.

cit., pp. 814-15.

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contessa Teodora, madre del Santo, che il De Bartho-

lomaeis !* giudica

«la

figura più

nettamente

deli-

neata », in fondo è contraddittoria, perché da principio, quando il romito inviato dall’angelo le viene ad annunciare gravida sete per certo allo presente / d'un figliolo molto addottrinato. / Tomasci per nume

serà chiamato,

| farrasse frate de predicatori,

/ bevarrà de multi orruri / na fede! catbolica sancto adorato, essa si comporta esattamente come la Vergine al momento dell’Annunciazione: non so degna de ciò, o Deo verace: / faite de mi quello che vi place. Tutt’ad un tratto, quando le si annuncia che Tommaso vuol farsi frate, proprio secondo quanto le era stato annunciato, s’inalbera e tenta di opporsi con tutte le sue forze. Scade cioè anch’essa a mezzo esteriore di stimolo per lo svolgimento degli eventi prov-

videnziali. Ma proprio nel tono con cui questi sono sentiti germinare da tutto l’ambiente risiede il fascino

dell’opera, la sua perfetta rispondenza alla tradizione spirituale della regione. Si comincia con una singolare affermazione d’orgoglio regionale, quando S. Domenico prega la Madonna di far nascere nel suo ordine un grande dottore: d’Abruzzo, vi prego, faite che sia. Il De Bartholomaeis ? annota: « Notiamo che né Aquino né Roccasecca furono mai considerati come paesi d’Abruzzo, in nessuna delle varie accezioni geografiche da questo nome assunte nella storia. Sarà forse

da rammentare che la madre del santo era uscita dalla 18 Op. cit., p. 310. 19 Così legge il Beggiato: legge fe’.

20 Op.

cit., p. 312.

nelle

edizioni

precedenti

si

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AQUILANE

casa Caracciolo, de’ conti di Chieti; cosicché, con un po’ di sforzo, l'orgoglio ‘abruzzese poteva spingersi

fino a considerare conterraneo un uomo il quale, per quanto si sappia, non aveva mai posto piede nella regione ». Ma in realtà si può anche considerare che Roccasecca ed Aquino si trovavano allo sbocco di quella valle del Liri che aveva il suo principio nella Marsica, che si svolgeva a lungo in territorio abruzzese, che lì, a Civitella Roveto,

a Balsorano, aveva

altre sedi di notevoli stanziamenti feudali, e che specie nel periodo dela grande fioritura dell'Aquila non poteva non essere considerata una proiezione della vita del grande centro d’Abruzzo. Le accoglienze della contessa Teodora al romito sono quelle tipiche del benestante abruzzese all'ospite povero e pio che si accoglie a braccia aperte per amore di Dio:

« Acconcia,

figliolo, qui presto da mangiare ... Pareme in casa proprio Deo tenere; però non deggio io essere lenta... Poi questo panno vi do, romito caru, per una tonica e per un scapolaru ... con bui sta Deo, credo che non

mentete ». E il poeta penetra sempre più addentro alla

mentalità della dama altolocata, che per sua cristiana semplicità e dirittura, appare aureolata dalla purezza dei pauperes spiritu: « Deo lo po fare, peccatrice sono ... Leudeio rendo al fattore de tutto ». Il conte s’aflıanca alla moglie nell'espressione di questa patriarcale bonomia, vibrante a contatto con le occasioni piü luminose della vita: quando gli si annuncia che gli & nato un figlio maschio, esclama: « Per bona nuvella tal duno vi togliete », che & poi la manifestazione di un uso ancora praticato nelle buone famiglie abruzzesi, e alla vista del bimbo non puó tenersi dal dire: « Amore me stregne, figlio, ch'io te basci ». Questa

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cordiale apertura d’animo, sempre sensibilissima alle cose che inteneriscono l’esistenza, risuona ogni volta che se ne presenta lo stimolo. Nella celebre scena del miracoloso Ave Maria scritto a lettere d’oro sul pezzo di carta stretto dalla mano del bimbo, testo e didascalia fanno a gara nel diffondere commozione sul fantolino singolarmente attaccato al suo misterioso tesoro: «La criatura, patre onorevole, / plu che non sole sta contenta; piagne lo citolu; Dateme la carta, non ze po acquetare; dale la sesa (la nutrice),

appacase, addormelu, fali la croce ». Persino il demonio che s'avvicina per uccidere il bimbo sembra esprimere il suo rammarico per l'odiosa incombenza: « À mi commanda signore Lucebellu / che mo te occida così piccirellu ». Al momento d'affidare Tommaso ai monaci di Montecassino, il prete accompagnatore rac-

comanda di trattarlo con: nutrice

effonde

il suo

«carezze et appello »; la

affetto:

« ollu allevato

collu

propio petto ». Quando Tommaso si fa frate, un napoletano lo descrive così ad un castellano del padre: « vestuto s'é e pare un agnelello ». Quando il figlio le è portato a forza, la contessa Teodora affida il sollievo del suo cuore di madre a una tipica frase abruzzese, festosamente immaginosa, che è ancora in uso: «Chi mo te vede, fillio, vegia maggio! ». S. Tommaso e la sorella che tenta di persuaderlo ad abbandonare la vita monastica ed è invece convertita miracolosamente da lui a pronunciare i voti, si scambiano saluti con caldo affetto: « Se amore me porti per quello io te prego... Bene venuta sì, o sorella cara ». Tanto trasporto affettuoso per le cose semplici e pure che santificano l'esistenza trova il suo coronamento nel vagheggiare l'ardente, costante inter4

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cessione della Madonna, centro focale della religiosità popolare abruzzese, che non per niente domina sin dall’inizio lo svolgimento provvidenziale degli eventi, sempre più configurandosi come la sublimazione, sul piano metafisico, dei valori eterni, di quello ch'è l'ideale della vita terrestre nobilitata dagli affetti familiari. Ascoltiamo come all’invocazione di S. Tommaso perché voglia venire a confortargli la mente, « la quale langue et è tanto passionata », la Madonna si commuova maternamente: «a mi lui porta amore fervente, / che vada a lui un poco a parlare. / Per mi fatiga, voglio ’nci andare ». E Gesù Cristo loda il suo proposito con parole, che sono forse il più vibrante messaggio che nella poesia cristiana il Salvatore abbia reso alla Vergine madre e che sono come l'emblema sovrannaturale espresso dall'anima religiosa d'Abruzzo nel suo culto della Madre

di Dio:

« A tutti af-

flitti tu sci pretiosa ». Ma non solo nella vibrazione delle corde affettuose si palesa qui lo spirito caratteristico della società abruzzese all'antica. I cosiddetti particolari realistici spesseggiano sempre non per creare deviazioni e stonature di puro compiacimento comico, chiassose

pezze di contrastante colore in cui s'annidi un gusto autonomo di ricostruzione dal vivo della vita quoti-

diana spoglia della prospettiva che la ricollega all'aldilà, ma per confermare la salda fede nei princìpi tradizionali, marcandola con la disposizione dell'anima abruzzese a sottolineare con forza le reazioni immediate a ciò che la sconcerta e la indispone: l’angelo scaccia il demonio con una frase brutale che è tipica del nostro sermo familiaris per indicare le pene infernali: «qui non demori ma vadi a casa calla». Alle

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insistenze della moglie perché a Tommaso non manchi nulla nel soggiorno a Montecassino (« che tutto quello che li è necessario / de casa li vada a non mancare niente, / a questo te prego non essere avaro: / calzare e vestire, vevere e magnare »), il conte sbotta

con un brusco « No me plu assordare! ». La vicenda provvidenziale del Santo appare condizionata dagli usi e costumi della buona società, quasi a riconsacrarli col mostrare ch’essi possono assecondare l’esplicarsi di una vita esemplare: il conte giustifica il progetto d’inviare il figlio a Montecassino col fatto che « Nobili patri del pagese tutti quanti / de lloro figlioli sanno così fare ». Lo zio raccomanda Tommaso al priore di Montecassino in base all’orgoglio del nome familiare: « vi prego io / illoco e nome de nostro parentato, / sono ziano: isso è nepote mio. / Abbiatelo pertanto

assai? recomannato ». E ogni volta che se ne presenta l’occasione, la vita corrente si fa avvertire proprio per colorire quella che è, non a contrasto ma in

ad essa, la manifestazione provvidenziale degli eventi edificanti. Delizioso l’abbozzo della scena delle prime esperienze scolastiche di Tommaso: i compagni, che la nutrice, di ritorno da Montecassino, aveva

definito « una bella briata » alla contessa per rassicurarla sulle condizioni non tristi del figliolo, sono così presentati dalla didascalia: Li mammoli fanno festa, dice uno p’ıssı:

« Faimo, Tomasci, nui poca

de festa! », al che Tommaso risponde: « Laseteme ? leggere, ecco ὃ la testa ». E il maestro gli si rivolge

21 Il Beggiato legge molto. 2 Il Beggiato legge lassateme.

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così:

LE

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RAPPRESENTAZIONI

« Così cumpeta,

a mi puni?

AQUILANE

cura tu. Ba, be,

bi, bo, bu». Quando decide di far andare il figlio da Montecassino a Napoli, il conte s’appoggia in pieno alla vanità familiare, che così appare inconsapevolmente a servizio dell’ooculta volontà provvidenziale: « Per ti disposto ho dumilia ducati: / per spesa veruna non voglio che reste. / Tu fa che attendi aquistare onore ». Papa Innocenzo si comporta come gli

alti magistrati d’oggi, sempre scrupolosamente solleciti di sorvegliare i loro cancellieri ed esortarli a collaborare diligentemente: « O cancellero, de questo fa notitia: / quello che dico presto scriverai ». Le rare volte che scoppiano violenti contrasti, i toni realistici, nel più puro spirito d’Abruzzo, li colorano immancabilmente, ma men che mai per farne sprizzare impensate e frizzanti venature comiche, bensì per meglio sottolineare la sconvenienza della disarmonia improvvisamente verificatasi e far intendere che solo un equilibrio da riconquistare potrà sanare la lacerazione. Del resto lo stesso Gesù Cristo con patriarcale bonomia riconosce che la castità non può essere virtù naturale e perciò, ascoltando la preghiera d’aiuto di S. Tommaso, ordina agli angeli di stringergli le reni con un cinto, perché « essere casto

ottenere non se pone / per natura, de gratia li concedo mone ». L’improvviso mutamento della contessa, che inopinatamente contrasta la vocazione del figlio alla vita monastica, trova in fondo una parziale giustificazione nella timorosa sollecitudine dei padri che

23 T] Beggiato legge poni. 24 Il Beggiato

integra ad acquistare.

LE SACRE RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

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non le fanno trovare il figlio a Napoli, in previsione dell’eventualità ch’essa se lo voglia ricondurre a casa. Ecco come essa reagisce alla delusione, con parole

che ogni madre pronuncerebbe dal fondo della sua ambascia:

« Questo

che facete sonno

cose torte:

/

non me volete al mio filliolo mostrare! / Fugito lu avete certo, / paremene forte; a Roma

^ / non pozzo plune,

vollio annare, / Tomasci

meo gire a recer-

carelo * »; la poveretta aggiunge anche: «na religione anche a confermarelo », che sembra comprovare come in un primo momento essa non intendesse con-

trastare la vocazione religiosa del figlio, e si sia inasprita solo nel constatare che da Napoli gliel’avevano sottratto spedendolo a Roma, e poi da Roma a Parigi. Uguale atteggiamento (ma naturalmente, dato il tipo e la condizione, ben più spregiudicatamente aggressivo) risuona sulla bocca di uno dei fratelli, quand’essi

strappano Tommaso

dalle mani dei frati:

« Et vui

altri, suzzi fratacchiuni, / che tanti iuveni iate sub-

ducendo, / mettete nel mundo sempre dessenzuni: / questo è lo bene che iate facendo? 7 / Presto de qua tutti vi partate, / se no volete provare che so basto-

nate! ». È evidente che, manifestandosi il male sempre in opposizione al volere provvidenziale, obbli-

gando il poeta a soffermarsi su queste brusche esplosioni di brutalità e materialità, debbono intervenire nel dramma a ogni pié sospinto le potenze superne per riequilibrare la sana medietas compromessa; ma con 3 Il Beggiato sostituisce Jo a /u, e legge pareme. 26 Il Beggiato legge cercarelo. 27 Il Beggiato legge fecendo e omette il punto interrogativo.

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SACRE

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AQUILANE

questo esse diventano elemento certo, tangibile della vita normale, secondo i dettami incrollabili della re-

ligiosità popolare. Per conseguenza trovano voce in loro i più profondi sentimenti sostenitori della Weltanschauung comune. Questa vigile coscienza dei modi realistici come specchio dell'agire comune, ma sempre nella prospettiva rigorosamente etico-religiosa che lo condiziona, ha trovato l’espressione più nota e significativa nella celebre scena del convito alla corte del re S. Luigi IX di Francia cui S. Tommaso è invitato.

Il Santo, di cui non si trascura di ammirare la geniale profondità speculativa ma che è visto soprattutto come l’anima semplice e tutta assorbita nel suo servizio alla gloria di Dio (nel dramma S. Alberto Magno lo chiama «bove muto », e con frate Ranallo egli si esprime come il più candido e il più popolare dei frati:

«e la cannela prinni ad appicciare — e de mistero spacciate cetto^ »), viene malvolentieri e si diporta con un distacco così ingenuo e radicale, tutto preso com'é nei suoi pensieri, che il povero padre priore sta sulle spine, e per fortuna il pio re non si adombra, ma

2 Il De Bartholomaeis

«e»,

il che dimostra che

nel manoscritto non v'é l’abituale forma e£ per la congiunzione

copulativa; Beggiato,

ma io non posso che seguire la lezione «e»

sì che

in fondo

la sua

norma

di

trascrivere

del

senza

consonante la et del manoscritto dinanzi a parola che comincia per consonante mi sembra, grazie a questo sintomatico indizio, obbedire all’effettiva realtà fonetica del testo. C'è piuttosto da osservare che a p. 9 il Beggiato, esponendo i suoi criteri, è caduto inavvertitamente in un'espressione che gli fa

dire il contrario di quello che ha fatto, forse per la sua poco

felice struttura: «la preposizione ad e la congiunzione e/ sono state trascritte senza consonante, caso in cui la parola successiva cominciasse

per vocale »..

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

55

anzi ammira la concentrazione del santo frate nei pensieri di Dio, e quindi tollera con la massima indulgenza i suoi piramidali scantonamenti dall'etichetta, anzi addirittura dalla buona creanza. Ai messaggeri del

re, che a coppla gli comunicano che il loro signore « vole che manduche » S. Tommaso con lui, il priore,

prevedendo la riluttanza del frate e il suo futuro contegno, risponde: « Volere studiare sempr'é in pensero:

verrà con meco ? non multo volentero », e al

Santo sente di non potersi rivolgere se non a nome della « santa obbedienza », ricevendone l'obiezione: « Vedete, patre, che sonno ” affannato », subito tem-

perata, peró, dal rassegnato « obedire vollio al vostro mannato ». E durante il pranzo la didascalia ci av-

verte assettanose a tavola e magnano e santo?! Tomasci non magna. Il re commenta subito: « Maistro Tomasci & in contemplatione et * io ne sto in grande miratione ». Sul più bello (ed è seguita da vicino la fonte biografica) S. Tommaso,

afferrata la soluzione

del travaglio di pensiero in cui era sprofondato, schioppa colle mani — come avverte la didascalia

— ed esclama:

« Io rengratio Cristo summo bene! /

Contra Manicei mo concluso ene! » Al che il povero priore non si può più tenere, fira per la cappa san

Tomasci — come avverte la didascalia — e lo ammonisce: « Como de Francia, maistro, state a menza, / alli atti nu poco che facete penza »; al che S. Tom2 Il Beggiato legge con me. % Il Beggiato legge sono. 31 Non si capisce perché il Beggiato legga san. 32 Qui è se mai da notare che

il De Bartholomaeis, forse

per eccessiva fedeltà diplomatica, legge ingiustificatamente Ed.

56

LE

SACRE

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AQUILANE

maso sente il dovere di scusarsi col re:

«a mi vil-

lano, signore, perdunate ». Dove è da osservare soprattutto come il nobile Aquinate, volutamente dimentico della sua origine, sfoggi quasi la sua umiltà di fraticello, e come il poeta contemporaneamente miri a dare la canonica lezione di cristiana modestia e insieme a compiere il solito processo di adeguamento del suo grande personaggio ai connotati abitudinari

della società sua, in cui il fratacchione era il tipico rappresentante del popolo in abito chiesastico. E va

da sé cheS. Luigi, in questa singolare comunione di spiriti che collega le due diverse ma ugualmente feconde beatitudini, rassicura S. Tommaso dicendogli di avere « multo caro » il suo comportamento. Errerebbe di grosso chi volesse trovare in questa scena uno scantonamento verso effetti comici ricercati in sé e per

sé, per la specifica carica ch'essi donano all’azione scenica; qui il contrasto fra l’etichetta di corte e la santità ingenua del frate, noncurante delle convenienze per la esclusiva dedizione a Dio, è marcato a fuoco proprio per far risaltare in tono edificante la superiorità della concezione della vita in dipendenza dai doveri religiosi, nella corroborante prospettiva che collega assiduamente la terra al cielo e fa della nostra vita quotidiana un lieto avant-goßt della vita paradisiaca. Le agiografie terminavano naturalmente col ricordo dei miracoli operati anche post mortem dal

santo di cui si narrava la vita. Era la naturale eco del processo di beatificazione. Perciò non stupisce che la Legenna termini sceneggiando i miracoli fioriti intorno al cadavere di S. Tommaso. C'é se mai da riflettere sul fatto che al momento della proclamazione della

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

57

sua santità, nel 1323, si constatò la scarsità di mira-

coli clamorosi, cioè del motivo valido perché un uomo d’indiscussa e venerata pietà fosse dichiarato santo, e che Giovanni XXII tagliò corto con la famosa formula tot articula tot miracula. Che qui perciò s’insista proprio sulle straordinarie epifanie testimonianti la pre-

senza del sovrannaturale nella vita d’ogni giorno, su quelle vistose lacerazioni dell’ordine naturale attraverso le quali la fantasia del popolo acquista Ja certezza dell’esistenza di un benefico potere superiore e di cui perciò essa è particolarmente ghiotta, è cosa

che meglio s’intende richiamandosi alle strutture tipiche della spiritualità abruzzese corrente su cui il dramma è costruito. Che S. Tommaso subito dopo la morte emani un effluvio (« quisto odore pare proprio manda,

la soa dolcezza

io nolla so dire»,

esclama

un cittadino, « spetiaria non credo mai tanto olesse, homo non ene che altro magnare volesse »), e guarisca un cieco, un podagroso e un malato di fuoco di S. Antonio è quello che alla media mentalità del popolo d’Abruzzo doveva parlare più di ogni altra cosa, per la specifica tendenza che per secoli ha vigoreggiato da noi, e sussiste tuttora nel popolino, che la vita superna appaia assiduamente e intrattenga il suo ininterrotto colloquio con l’umanità comune attraverso l'esempio e soprattutto i miracoli dei santi, che ap-

punto perché uomini ribadiscono il consolante legame fra l'umano e l’eterno, fra il regno della necessità e quello della libera esplicazione di un benefico potere provvidenziale, e quindi contribuiscono più d’ogni al-

tro valore a inquadrare la vita quotidiana in una prospettiva non euclidea, provvista di luci e colori che però ai fedeli appaiono ovviamente connaturati alla condi-

58

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

zione comune degli uomini e delle cose. Una mia zia mi raccontava d’aver ascoltato a Penne in chiesa una donnicciuola rivolgere a Cristo questa preghiera: « Gesù, diccille tu a $. Antonie ca me facisse ’ssa grazie! » Nel dramma dei miracolati da S. Tommaso uno solo dice d'essere stato sanato « per quistu sancto homo »; e si tratta per giunta, come s'é visto, di versi lacunosi. Degli altri due uno esclama:

« Laude te rendo a ti

superna altezza »; e aveva rivolto la sua preghiera a Cristo, accompagnandola con l'intercessione « per toa madre, che tanto l'amasti, / et per amore che ad To-

portasti, / per soi meriti liberato scia ».* Il secondo, che pure s'era rivolto direttamente al Santo

(« O patre sancto, mustra pietate »), dichiara dopo il miracolo « rengrazio Dio onnipotente ». Ma si tenga presente che queste sono le ultime parole del dramma, lo explicit che naturalmente doveva struttu-

rarsi nella forma di un laus Deo, di un Deo gratias. Nonostante tutto, questo finale pullulante dei miracoli del Santo ribadisce l'impostazione tipica dello spirito abruzzese quale traspare da tutto il dramma nell'interpretazione della condition bumaine. E questa è quindi anche la specifica funzione che viene ad assumere la lingua dialettale. Il De Bartholomaeis concludeva l'esame della Legenna, osservando * ch'essa « racchiudeva elementi nuovi, preannunzianti l'avvento del dramma storico

33 Del resto anche

il podagroso aveva formulato in ma-

niera uguale la sua preghiera:

« O alto Dio, Signore verace /

... per meriti de Tomasci beato / mo scia liberato». %

Op. cit., p. 324.

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

59

e, più lontanamente, della commedia di costume e di

carattere », e si rifaceva per questo* alle parole del Monaci nella premessa alla prima edizione della Legenna: « Qui... il dramma ci si mostra in una nuova fase, preludente a una evoluzione, che, se non fosse interrotta dal teatro del Rinascimento, avrebbe forse permesso anche all’Italia di avere un dramma storico

non dissimile da quello che ebbero la Spagna e l'Inghilterra ». Questa posizione critica, vincolata alle conclusioni del D'Ancona, è oggi superata e abbandonata. Basta riflettere al fatto che a partire dall’Ecerinis del Mussato il teatro trecentesco e quattrocentesco in latino aveva tratto da Seneca tragico, e particolarmente dallo Pseudoseneca dell’Octavia, la ten-

denza al dramma storico, sì che anche la prima tragedia regolare cinquecentesca in volgare, la Sofonisba del Trissino, seguita immediatamente dalla Rosmunda del Rucellai, fu un dramma storico, e il teatro inglese s'ispiró largamente a Seneca.* Nella Legenna e nelle altre rappresentazioni santoriali dell'Abruzzo quattrocentesco, s'afferma piuttosto, nella maniera più esemplare raggiunta sul piano letterario, lo speciale spirito dell’Abruzzo quattrocentesco, che nelle forme evolute trionfanti nell’architettura, nella pittura e nella drammatica, tali quindi da far favoleggiare di un preannuncio del teatro moderno, rielaborava tuttavia la sua in-

sopprimibile tradizione etico-religiosa, capace

di sa-

35 Op. cit., p. 355, n. 39.

% Mi si permetta di richiamarmi alla mia dissertazione

Nuove prospettive sull’influsso del teatro classico nel ’500, in « Atti del

cademia

vegno Il teatro classico italiano del '500 », Ac

dei Lincei, Roma,

1970

[v. ora qui p. 105 sgg.].

60

LE

SACRE

RAPPRESENTAZIONI

AQUILANE

gomare nella regione, fino all’età contemporanea, una visione del mondo saldamente ancorata ai princìpi formativi della società sorta nel passaggio dal Medicevo

all'età moderna,

cioè attenta e sensibile

alle

strutture e alle gioie della vita quotidiana, ma sempre in quanto il compito dell’uomo è visto consono alla formula servire Domino in laetitia.

L'ORLANDO

INNAMORATO

E L'ENEIDE *

Ci si domanderà perché io abbia preso a pelare la ribelle e capricciosa gatta personificante i rapporti fra Virgilio e il poema boiardesco. I molti benemeriti studiosi che si sono affaticati a studiare o soltanto a indicare le fonti dell'Orlando innamorato hanno giustamente additato come autori classici preferibilmente orecchiati dal Boiardo solo Ovidio e Apuleio. Ed era logico e naturale. I due scrittori, le cui opere fondamentali s'intitolano e s’ispirano entrambe al tema della metamorfosi, al tema cioè che Jean Rousset! definì simbolo del barocco, della tendenza espressiva che, considerata ormai

come

valore categoriale, tro-.

va nel culto e nell’ebbrezza del mutamento principio

genetico,

e per ciò stesso

il suo

si contrappone

al senso classico dei valori assoluti, non potevano non essere i prediletti dalla fantasia del Boiardo nel venerato ambito dei grandi modelli della classicità. E il primo gli suggerì anche il titolo e il numero dei libri del suo canzoniere in volgare: Amorum libri tres; del * Da

Il Boiardo

e la critica

contemporanea,

« Atti

del

Convegno di studi su Matteo Maria Boiardo », Firenze, 1970, p. 347 sgg.

I La littérature de l’äge baroque en France, Paris, 1953. Su ciò cfr. il mio saggio L'influenza della letteratura latina da Ovidio ad Apuleio nell'età del manierismo e del barocco, in Antico e nuovo, Caltanissetta, 1965, p. 243 sgg.

62

L’« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L’« ENEIDE »

secondo egli tradusse il capolavoro?

Ma

quel che

più conta è che, all’atto di comporre il poema, egli doveva avvertire quei due come i più congeniali fra tutti gli autori dell’antichità greco-romana, proprio perché l’Orlando innamorato è le mille miglia lontano dalla struttura, dallo spirito, dallo stile di un’opera come l’Eneide, è in buona parte documento non tanto di cultura umanistica e rinascimentale quanto di quella persistenza di gusto gotico fiorito ch'é tuttora presente nel nostro Quattrocento (specie nel campo delle arti figurative) e che rappresenta il lievito, ora palese ora nascosto, grazie al quale l’Anti-

rinascimento nel Rinascimento, la grande rivoluzione che volta a volta si espresse nel gusto manieristico e in quello barocco poté più facilmente svilupparsi e trovare i suoi punti d’appoggio.

Quel poema

che

— indipendentemente da ogni sforzo di rivendicazione estetica riguardo alla più o meno felice incisione dei personaggi e alla maggiore o minore presenza di sincere oasi liriche — torreggia nella nostra letteratura rinascimentale come ciclopico coacervo d’avventure accatastate con una vera ebbrezza di curiosità narra-

tive, di quello che oggi si chiamerebbe suspense nello sviluppo dei fatti, come tour de force di straripante, irrefrenabile inventiva rapsodica cui solo a tratti e molto parcamente un guizzo d’ironia (specie il richiamo a Turpino che poi l’Ariosto avrebbe ereditato) largisce quell’equilibrio e quella profondità che sono 2 Ma vedi in V. Procacci (Boiardo, Firenze, 1931, pp. 43. 44) l’opinione che la versione dell’ Asino d’oro sia solo in mi-

nima parte del Boiardo e risalga in massima a suo nonno Feltrino.

L’« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L’« ENEIDE »

63

abituali nella stupenda continuazione elaborata da messer Ludovico, quel poema conclude e porta alla massima espressione i ritorni al gusto flamboyant che occhieggia nel nostro teatro tragico latino del Quattrocento e in certe figurazioni, dalla lirica burchiellesca al Morgante del Pulci, in cui l’eredità giocosa del toscanesimo due e trecentesco s’ingagliardisce di succhi desunti dalla tradizione letteraria del mondo gotico dei fabliaux. Naturale — ripeto — che gli autori

latini che del gioco scapricciato fra apparenza e realtà, o fra mondi e stili ispiratrice precipua afrori del loro stile mente dei lettori il zante irrequietezza,

contrastanti s’eran fatta la molla e che con l’abbondanza e gli eran riusciti a imprimere nella segno di questa vorticosa e frizsvecchiando radicalmente il gu-

sto letterario nel mondo

romano,

dovessero

fornire

in copia spunti all’accesa inventiva e alle avventurose esperienze espressive del Boiardo. Del resto Ovidio — come si sta facendo sempre più evidente nella odierna coscienza critica —, grazie al fiorire della poesia in latino e in volgare nella Francia del sec. XII, e specie alla commedia elegiaca, va scorto alla radice della grande letteratura novellistica del Basso Medioevo, che per noi costituisce la tradizione boccaccesca;

e Apuleio proprio in quegli anni continuava ad essere l’autore prediletto di tutta un’autorevolissima tradizione umanistica, specie in terra molto vicina a quella in cui viveva e poetava il Boiardo: Bologna» 3 Cfr. ora C. DioNisorTI, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze, 1968, e già E. RAIMONDI, Codro e l'Umanesimo a Bologna, Bologna, 1950, specie p. 106 sgg.

64

L'« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L’« ENEIDE

»

Infatti, se si spulcia la bibliografia boiardesca, si

trova, p. es. nel Reichenbach,! che nel poema « Virgilio ... offre soprattutto riscontri nei particolari ». E quando li andiamo a cercare vediamo p. es. nel c. 6 del 1. II, nella celebre scena della tempesta che squassa la flotta di Rodamonte, e per la quale ancora una volta Ovidio e Seneca tragico fornivano al Boiardo materiale espressivo ben più evidente e corposo che non il l. I dell’Eneide, all'ottava n. 8 uno spunto derivante non dal Virgilio epico, ma dal Virgilio georgico: * La fuciletta, che nel mar non resta, ma sopra al sciutto gioca ne l’arena,

e le gavine che ho sopra alla testa e quello alto aeron che io vedo apena, mi danno annunzio certo di tempesta.

Si legga il ben noto brano del l. I delle Georgi che squadernante i segni premonitori del tempo fornitici dagli animali e dagli astri; ai vv. 360-64 si troverà: Iam sibi tum curvis male temperat unda carinis

quom medio celeres revolant ex aequore mergi clamoremque ferunt ad litora, cumque marinae in sicco ludunt fulicae notasque paludis deserit atque altam supra volat ardea nubem. 4 L’Orlando innamorato di Na M. | Boiardo, Firenze, 1936, p. 83. Precedentemente a 33 egli dice che oltre le opere di Ovidio e di Apuleio, il| Boiar ha familiare, « si capisce, l'Eneide». 5 Così nell’ottava 47 del c. 9 del 1. II («Ma quel che vince ogni omo, io dico Amore ») troviamo un palese richiamo di Omnia vincit Amor, et nos cedamus Amori di Buc., X, 69; cfr. Procaccı, Op. cit., p. 78.

L'& ORLANDO

.

INNAMORATO » E L’« ENEIDE »

65

Naturalmente non è né nostro compito né nostra possibilità andar ripescando e misurando tutti i numerosi luoghi in cui, come qui, si può sorprendere nell'Orlando innamorato il compiaciuto riecheggiamento di un particolare minuto di Virgilio e specie dell’Emeide, l’accurata, erudita lucidatura di un pic-

colo congegno espressivo mediante il voluto riferimento a una modanatura strutturale di quello ch’era il poema per eccellenza per la cultura umanistica. Tanto per fare un esempio, si noti come nel c. 6 del l. I, all'ottava 50 l’evocazione della storia di Circe,

contemplata da Orlando come « istoria nobile e distinta » effigiata sopra una loggia, della maga chiamata Circella del poeta, si concentri, nel suo particolare essenziale (la trasmutazione

di uomini

in be-

stie), in una parafrasi del celebre luogo del 1. VII dell’Eneide in cui s’introduce il mito di Circe: stavolta non è Ovidio, nonostante si tratti di un tipico mito di metamorfosi, ma Virgilio a fornire al Boiardo i modi

espressivi.

Si confronti

I, 6, 50

dell’Orlando

innamorato:

Era una giovinetta in ripa al mare, sì vivamente in viso colorita,

che, chi la vede, par che oda parlare. Questa ciascuno alla sua ripa invita, poi li fa tutti in bestia tramutare. La forma umana si vedia rapita;

chi lupo, chi leone e chi cingiale, chi diventa orso, e chi grifon con l’ale 6 Ed anche questa forma d’evocazione, richiamandosi alle pitture della saga troiana che Enea contempla nella reggia di Didone e alle raffigurazioni contenute nello scudo d’Enea, sot-

tolinea il rapporto con Virgilio. 5

66

L'« ORLANDO

con Aer. VII, Proxima

INNAMORATO »

E

L'« ENEIDE »

10-20: Circaeae

raduntur

litora

terrae,

dives inaccessos ubi Solis filia lucos adsiduo resonat cantu .

Hinc

exaudiri gemitus

iraeque leonum

vincla recusantum et sera sub nocte rudentum saetigerique sues atque in praesepibus ursi

saevire ac formae magnorum ululare luporum, quos hominum ex facie dea saeva potentibus herbis induerat Circe in voltus ac terga ferarum.

Per l'ultimo siamo pensare a medesimo libro Pico, il marito nome

(Aen.

particolare (« grifon con l'ale ») posun influsso del successivo luogo del in cui si parla della metamorfosi di di Circe, nell'uccello del medesimo

VII,

191, fecit avem

Circe

sparsitque

coloribus alas). E questo, nonostante il travestimento « romantico » in forma medioevale che la critica ha ravvisato unanime nell'episodio boiardesco. Nostro proposito é piuttosto mostrare come, nonostante tutto, cioè nonostante la già ricordata, fondamentale differenza di struttura, di spirito e di tradizione culturale fra i due poemi, nonostante l’interesse precipuo del Boiardo per le storie cavalleresche di duelli, tornei, incantagioni, avventure miracolose e straordinarie godute ed espresse col più ingenuo abbandono alla più disimpegnata Lust zum Fabulieren, l’Eneide costituisse anche per la cultura del Boiardo il poema tipico, il poema che con le sue storie di errores e di guerre (anche se non delineati coi modi dell’epopea cavalleresca), forniva il codice poetico fissato dall’ormai paradigmatica cultura classica. Di qui per il Boiardo il tacito obbligo, l’oscura tendenza a

L'« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L'« ENEIDE »

67

riportarsi alle sue formule ogni volta che ciò fosse possibile. Ognun vede che, profilato il rapporto in questa maniera, è fuor di luogo indagare se e come il Boiardo abbia potuto penetrare l’autentico, più profondo spirito dell’Ereide. Il poema virgiliano doveva costituire per lui soprattuto, se non esclusivamente, il formulario tipo, il modello formale, cui ricollegarsi nella migliore occasione, quasi ad affibbiare una patente di nobiltà a certi espedienti narrativi. Del resto non bisogna dimenticare che l’Orlando innamorato,

pur essendo l’opera massima del Boiardo, costituisce d’altro canto un unicum, una sorpresa nella sua produzione,

tutta, per il resto, orientata in senso rigo-

rosamente umanistico; e che in questo orientamento, in cui così significativo è p. es. il Timone, la presenza di Virgilio nei Pastoralia, nelle egloghe in latino e in volgare, è veramente la principale. Un riflesso di questo carattere lo si può ravvisare anche nel fatto che negli Amorum libri tres il latino non è circoscritto al titolo generale, ma torna all’inizio di singoli com-

ponimenti o per definirne il carattere (»zadrialis, « madrigale »;

capitalis,

« acrostico »; cantus

comperati-

vus; chorus simplex; chorus unisonus; cruciatus, ecc.),

o per indicare il dedicatario o l'argomento (p. es. Cum in suburbano vacaret ludis puellaribus), o addirittura per meglio indicare la struttura metrica (p. es. Cantus intercalaris

ritbmo

interfecto:

ternarius

enim

tetra-

logos dividit). Pià che naturale & quindi che, anche al momento di por mano a una ponderosa opera alle cui spalle stava una ben diversa tradizione, il Boiardo dovesse sentire oscuramente l'autorità della massima

opera virgiliana, non rinunciando

talvolta a denun-

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L’« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L’« ENEIDE »

ciarne la presenza e non solo — come abbiam visto finora — in particolani espressioni marginali.’ Per rimanere all’episodio di Rodamonte e la tempesta dal quale abbiamo preso le mosse, si possono notare nella descrizione boiardesca precisi riferimenti alla situazione e alla raffigurazione della tempesta che scuote le navi di Enea nel |. I dell’Eneide: 1) Precisi riscontri d’espressione:

Orl. inn. II,

6, 11, « Maestro alor del mare era segnore, / ma Greco a poco a poco se rinforza; / in ciascaduna nave è gran romore, / ché in un momento convien che si torza; / ma Tramontana e Libezzo ad un tratto / urtano il mare insieme a rio baratto» - Aen. I, 84-86, Incubuere mari totumque a sedibus imis / una eurusque notusque ruunt creberque procellis / africus et vastos volvont ad litora fluctus; I, 102,

stridens aquilone procella; Orl. inn. II, 6, 12, « Allor se cominciarno e cridi a odire, / e l'orribil stridor delle ritorte; / il mar cominciò negro ad apparire, /

e lui e il celo avean color di morte; / grandine e pioggia comincia a venire, / or questo vento or quel si fa piü forte; / qua par che l'onda al cel vada di sopra, / li che la terra al fondo se discopra »; II,

? Infatti, a differenza dal Reichenbach, V. Procacci (op. cit., p. 57) opina che il poeta « dai classici, e specie da Virgilio e da

Ovidio,

trasse

rimembranze

e motivi », pone

cioè

Vir-

gilio addirittura a livello di Ovidio tra le fonti antiche più sfruttate per la composizione del poema. Cfr. p. 4 sg . per

quel che concerne l'imitazione di Virgilio nelle Ripi Fine:

e a p. 117 spunti di imitazione di Virgilio n volgare, a parte l'uso dei nomi virgiliani (Titiro, ee

nalca, Coridone, Melibeo, Damone, Dafni, Galatea).

Me

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E

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6, 28, « La notte è scura e lume

non appare

/ de

alcuna stella, e manco della luna. / Altro non se ode che legni spezzare / l'un contra a l’altro per

quella onda bruna; / con gran spaventi e con alto romore:

/ grandine e pioggia cade con furore»

-

Aen. I, 87-91, Insequitur clamorque virum stridorque

rudentum. | Eripiunt subito nubes caelumque diemque / Teucrorum ex oculis; ponto nox incubat atra. / Intonuere poli et crebris micat ignibus aether | praesentemque | viris intentant omnia mortem; I, 104-07, Franguntur remi; tum prora avertit et undis

/ dat latus: insequitur cumulo praeruptus aquae mons. / Hi summo in fluctu pendent, bis unda debiscens / terram inter fluctus aperit, furit aestus barenis. 2) Il fatto che entrambe le flotte sconquassate sono sospinte verso un litorale irto di rupi e di scogli: Aen. I, 162-66, Hinc atque binc vastae rupes geminique minantur | in caelum scopuli ... fronte sub adversa scopulis pendentibus antrum; e soprattutto I, 108-12, Tris

notus

abreptas

in

saxa

latentia

torquet, ...

/

ως tris eurus ab alto / in brevia et syrtis urguet (miserabile visu) / inliditque vadis - Orl. inn. II, 6,

31, « Il vento e la tempesta ognior piü fiera / ne l'aspra rocca e nel cavato sasso / batte a traverso e legni a gran fracasso ». 3) Il fatto che, a differenza da quasi tutte le altre celebri descrizioni di naufragio, sia Virgilio sia il Boiardo si soffermano anche a sottolineare l'accoglienza da principio ostile ai naufraghi da parte degli abitanti la costa: a v. 509 sgg. Enea nella reggia di Didone scorge Anteo, Sergesto, Cloanto e Ilioneo condotti alla presenza della regina concursu... magno di locali, che

dovevano

averli

presi

come

sospetti,



70

L'« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L'« ENEIDE »

che Ilioneo giunge a supplicare la regina (v. 525) probibe infandos a navibus ignis, e Didone (vv. 56264) sente di dover giustificare l'atteggiamento ostile dei suoi: Solvite corde metum, Teucri, secludite curas. Res dura et regni novitas me talia cogunt

moliri et late finis custode tueri.

Del resto già prima (vv. 299-304) Mercurio era stato inviato da Giove a Cartagine, ne fati nescia Dido / finibus arceret, sì che ponunt ... ferocia Poeni

/ corda volente deo. Parimenti nell’Orlando innamorato gli abitanti del litorale di Monaco non possono certo che accogliere con « foco a gran pietre..., dardi e sagette con pegola accesa » (II, 6, 32) la ER

flotta saracena.

4) In Virgilio nella scena della tempesta domina isolata la figura del comandante, Enea, in ma-

niera ben diversa da tutte le altre descrizioni di naufragio, anche quella celeberrima del l. XI delle Metamorfosi

ovidiane,

in cui

campeggia

Ceice;

nei

vv.

94-101 egli dà voce alla sua ambascia, ma sempre con virile magnanimità; poi, non appena la tempesta si $ Pietro Aretino, rielaborando l'episodio virgiliano nella seconda giornata della seconda parte dei Ragionamenti,

ha ben

inteso il carattere della prima reazione dei Cartaginesi all'ar-

rivo dei Troiani, immaginando che sulla spiaggia in cui ha fatto naufragio coi suoi il barone che nel suo racconto corri-

sponde ad Enea «i villani credendolo qualche grande spagnuolo, gli stavano intorno per far di lui e de' compagni quel che in un bosco fanno i malandrini di chi senza armi ha smarrito la strada ». Cfr. il mio saggio Pietro Aretino rielaboratore di Virgilio, in Spigolature romane e romanescbe, Roma, 1967, p. 124.

L'« ORLANDO

INNAMORATO »

E

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71

placa, riassume animosamente la sua funzione di capo, di sprone per i compagni e l’oculata direzione degli avvenimenti. Nella tempesta boiardesca e nel succes-

sivo scontro con gli abitanti del litorale torreggia solitania quella forza di natura ch'è Rodamonte, impassibile, tetragono ai rischi ed ai timori. Anzi nel pieno della tempesta si erge a bestemmiare, come al solito, il cielo (II, 6, 29-30): Ciascuno è morto e non sa che si faccia:

sol Rodamonte è quel che al cel minaccia.

Gli altri fan voti con molte preghiere, ma lui minaccia

al mondo e

la natura,

e dice contra Dio parole altiere da spaventare ogni anima

sicura.’

Abbiamo quindi constatato con questo primo esem-

pio che Virgilio è stato messo a frutto dal Boiardo in un caso in cui la più essenziale topica epica, come l’Eneide aveva contribuito a fissarla, urgeva per essere introdotta nel suo poema. Questa in genere è l’occasione che si ripresenta più d’una volta nel corso del poema. Trascuriamo pertanto il fatto che la protasi, non solo confinata nel canto primo (« l’alta fatica e la mirabil prova / che fece il franco Orlando »), ma

ripresa anche all’inizio sia del 1. II (« E cantarovi la ? Potremmo arrischiarci a supporre che qui il Boiardo si sia ricordato di Aiace Oileo, di cui proprio nel luogo virgiliano è il ricordo? Cfr. Aen. I, 39-41, Pallasne exurere classem / Argivom

atque ipsos potuit submergere punto

| unius ob no-

xam et furias Aiacis Oilei? Del resto il già registrato, preciso sont fra l’episodio boiardesco e il luogo del 1. I delle Georgiche ribadisce l’esattezza della nostra ipotesi che, qui il Boiardo abbia tenuto presente in maniera particolare Virgilio.

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L'« ORLANDO

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L'« ENEIDE »

più bella istoria / ... che fusse mai nel mondo, e di più gloria, / dove odirete e degni atti e pregiati / de’ cavallier antiqui, e le contese, / che fece Orlan-

do ») sia del 1. III, sembra echeggiare quella dell’Eneide per l’esplicito riferimento al protagonista (Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris, etc.).” Esso & dominante assolutamente nella protasi del 1. I, in quella del 1. II comincia ad essere intaccato dalla compresenza « de' cavallier antiqui » accanto al protagonista (compresenza sempre giustificabile, nel modello virgiliano, dal ricordo degli arma accanto al vir), e in quella del 1. III, obbedendo al progressivo ritmo di amplificazione, si frange nell'enumerazione, accanto ad Orlando,

di Carlo,

Ruggero

e Gano

e nel

suc-

cessivo immediato ingresso di Mandricardo nella narrazione. Molto pilı importante & che là dove ritorna uno dei τόποι caratteristici della più generica struttura d'un poema epico, torna anche l'eco del passo dell’Ereide in cui quel τόπος è sviluppato. Così sia nel c. 10 del l. I, sia nel c. 22 dell. II

ci troviamo di fronte al topico motivo della rassegna dei guerrieri:

nel primo caso quelli di Sacripante, nel

secondo quelli di Agramante. Il pensiero dell'uomo colto di oggi va subito all'omerico Κατάλογος -lelle navi e alla rassegna dei Troiani e dei loro alleati nel l. II dell’Iliade. Ma se vale — come deve valere -

10 Si potrebbe obiettare che sia la protasi dell'Iliade, col

riferimento alla μῆνις del Pelide Achille, sia quella dell’Odis-

sea ("Av8pa μοι !Evvere) sono costituite nella medesima maniera, e che da loro dipende la struttura di quella dell’Eneide.

Ma

è evidente che in un’opera della fine del Quattrocento

l'uso di quella struttura doveva essere suggerito dall’Emeide.

L’« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L’« ENEIDE »

73

la considerazione già avanzata per la protasi, che per un letterato della fine del Quattrocento questa topica doveva parlare soprattutto attraverso l’esempio dellEneide, il pensiero deve ricorrere alla celebre rivista dei guerrieri italici con cui si chiude il 1. VII

del poema virgiliano. E che il richiamo non sia illegittimo lo mostra il fatto che sia la rassegna virgiliana

sia le due del Boiardo insistono sia sul ricordo delle

città, dei paesi da cui provengono i singoli eroi con le loro schiere, sia sulla consistenza e l’aspetto di queste: cfr. Aen VII, 652-53, ducit Agyllina nequiquam ex urbe secutos / mille viros; 670, Tum gemini fratres Tiburtia moenia licunt; 678-81, Nec Praene-

stinae fundator defuit urbis ... Hunc legio late comitatur agrestis; 695-98, Hi Fescenninas acies Aequosque Faliscos, / bi Soractis babent arces Flaviniaque

arva | et Cimini cum monte lacum lucosque Capenos | Ibant aequati numero; 706 sgg., Ecce Sabinorum prisco de sanguine magnum | agmen agens Clausus ... qui Nomentum urbem, qui Rosea rura Velini, etc.; 723-26, Hinc... Halaesus... mille rapit populos, vertunt felicia Baccho / Massica qui rastris, etc.; 737-38,

iam tum dicione tenebat | Sarrastis populos et quae rigat aequora Sarnus; 793-95, Insequitur nimbus peditum clipeataque totis / agmina densentur campis, Argivaque pubes / Auruncaeque manus, Rutuli veteresque Sicani, etc.; 803-04, Hos super advenit Volsca de gente Camilla / agmen agens equitum et florentis aere catervas; Orl. inn. I, 10, 37, « Questo & quel

gran segnor di Circasia, / re Sacripante, lo animoso core; / ed ha seco infinita compagnia: / sette re sono, ed uno tmperatore »; I, 10, 38-41:

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Re de Ermenia, ed ha nome Verano,

Sotto sua insegna trenta millia vano, che tutti al saettare han maestria:

e l’altro, che ha la schiera sua seconda, è l'alto imperator de Tribisonda, ed & per nome

Brunaldo

chiamato:

vintisei millia ha di fiorita gente. Il terzo è di Roase incoronato,

che ha nome Ungiano, ed cinquanta millia è il suo Poi son due re, ciascuno ogniom di loro ha molta

è molto possente: popul armato. è più valente: signoria,

l'un tien la Media, e l’altro la Turchia. Quel de la Torindo il Questo ha e il primo

Media ha nome Savarone: Turco per nome si spande. quaranta millia di persone, trentasei dalle sue bande.

Odito hai nominar la regione di Babilonia, e Baldaca la grande:

di quella gente è venuto il segnore, re Truffaldino,

il falso traditore.

E le sue gente mena tutte quante, che son ben cento millia, in una schiera.

Re di Damasco,

schiatta di gigante,

ne ha vinti millia sotto sua bandiera.

Bardacco

ha nome;

e segue Sacripante,

ottanta millia è tutta la sua gente;

II, 22, 5, « Venuto è il primo insin de Libicana, / re Dudrinaso, che è quasi un gigante: / tutta senz’arme è sua gente villana, / ricciuta e negra dal capo alle piante »; II, 22, 6, « E Sorridano è giunto per secondo, / qual signoreggia tutta la Esperia »; II, 22, 7 (« Tanfirione, il re de l’Almasilla »), 9 (« Ma-

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nilardo, il re de la Norizia »), 10 (« il re di Bolga, il quinto, è Mirabaldo), 11 (« Re Folvo è il sesto, il qual

venne di Fersa ... la feccia qua del mondo se roversa»), 12 (« Puliano, il re di Nasamona,

/ con gente

di sua terra è qua venuto. / Non trovaresti armata una persona »), 13 (« Il re de le Alvaracchie è Prusione, / che le isole Felice son chiamate / ... Ma lui

condusse alla terra persone / ignude quasi, non che disarmate »), 14 (« Venne Agrigalte, il re de la Amonia,

/ qual ha il suo regno in mezo de la arena. /

Una gran gente detro a lui seguia, / ma tutta quanta de pedocchi è piena »), 16 (« Vennevi ancora Argosto di Marmonda, / che stimato è guerrier molto soprano ... La gente de costor è de una scorza / nera »), 17

(« ma novo re fu posto alla sua gente, / la qual condotta venne da Alghezera; / questa tra l’altre è ben gagliarda e fiera »), 19 (« Il re di Normandia gli viene a lato, / forte ed ardito e nome ha Baliverzo; / ma il popol che ha condotto è sciagurato »), 21 (« Di

là vien Farurante di Maurina; / feroce è lui, ma male

accompagnato »), 22 (« Alzirdo ha nome,

e la sua

schiera è armata / di lancie e scudi, e de archi e de

saette, / e Marbalusto, la anima dannata, / che seco ha tante gente maledette »), 23 (« Un altro, che al

suo regno gli confina, / venne con gente armata con vantaggio: / ciò fu Gualciotto di Bellamarina, / forte ne l’armi e di consiglio saggio. / Poi Pinadoro, il re di Costantina »), 24 (« Pur mo se me apresenta il

re Sobrino, / che è re di Garbo, come io vi contai. / Non è di lui più savio saracino; / Tardocco, re di Alzerbe, venne apresso »), 25 (« Quel Rodamonte che

è passato in Francia, / è re di Sarza ... Ora vi venne ancora il re Branzardo / con belle gente armate a scu-

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do e lancia; / re di Bugia se appella quel vecchiardo. / Lo ultimo venne, perché più lontano, / Mulabuferso, che è re di Fizano »), 28: Il primo ha in Cosca la sua regione, Mulga se appella poi l’altro paese. Africa tutta e le sue nazione intorno de Biserta son distese, varii di lingue e strani di fazone, diversi de le veste e de lo arnese; né se numerarebbe a minor le stelle in celo o nel litto l’arena.

Chi ha letto si sarà accorto che in fondo tra i due brani boiardeschi si può cogliere una singolare differenza di tono, perché il primo, in piena, almeno ap-

parente, serietà sulla massiccia gia cioè più da Virgilio è una degli Etruschi,

enumera paesi ben noti e si sofferma entità numerica delle truppe (ormegpresso la tecnica di quella che anche in seconda rassegna di guerrieri, quella venuti in soccorso di Enea, in Aen. X,

163-214, in cui più insistente è il richiamo al numero

di guerrieri che accompagnano ogni eroe), mentre il secondo spesso se la spassa a rovesciare nomi di re o di paesi che sembrano caricaturalmente escogitati, come paiono confermare le frequenti notazioni sulla inefficienza delle soldatesche,

spesso misere, disarma-

te, inette, pidocchiose, quasi a giustificare in anticipo i massacri che delle turbe dei soldati faranno i cavalieri, gli eroi. C'è quindi da piegarsi alla tentazione di supporre che il Boiardo

si sia ispirato alla rassegna

virgiliana nei suoi più specifici caratteri (menzione della provenienza dei singoli eroi; peculiarità etnografiche dei popoli che li seguono) per farne una sot-

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tile contraffazione, quasi a sottolineare il passaggio di tono dall’aulica solennità del classico epos alla capricciosa, sognante spregiudicatezza dell’epos cavalleresco nutrito di puerili favole atte ai «cavallier... adunati per odir cose dilettose e nove ». E che nel secondo episodio boiardesco vi sia ad ogni modo un meditato riferimento all’episodio virgiliano lo conferma l’artificio con cui esso è introdotto, l’invocazione alla Fama (Fama,

seguace degli imperatori,

Ninfa, che e gesti e’ dolci versi canti,

che dopo morte ancor gli uomini onori e fai coloro eterni che

tu vanti,

ove sei giunta? A dir gli antichi amori ed a narrar battaglie de’ giganti.!!

Lascia a Parnaso quella verde pianta ché de salirvi ormai persoè il camino, e meco al basso questa istoria canta

del re Agramante, il forte saracino),

che corrisponde a quella alle Muse che nell’episodio virgiliano si trova anch’essa come iniziale consacrazione del solenne impegno della rassegna (vv. 641-46): Pandite nunc Helicona, deae, cantusque movete qui bello exciti reges, quae quemque secutae

complerint campos acies, quibus Itala iam tum floruerit terra alma viris, quibus arserit armis. Et meministis

enim,

divae, et memorare

ad nos vix tenuis famae perlabitur aura.

potestis:

ll Qui già, e nel secondo dei due versi successivi, a confermare l'esattezza della nostra interpretazione, si può registrare la coscienza nel poeta di trattare una materia molto meno degna del divino empito delle Muse riguardo a quella

delle gesta degli antichi eroi.

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A confermare il malizioso intento innovatore che qui sembra animare il Boiardo ci spinge il particolare che egli alle Muse ha sostituito la Fama (pur presentandola in fondo quale una Musa, come ribadiscono l’appellativo di Ninfa e il richiamo al Parnaso), cioè proprio quella figura simbolica contro cui in tutto il corso del poema Virgilio non risparmia biasimi e cenni ostili: cfr. per tutti IV, 174, Fama, malum qua (e si tenga presente la lezione guo del Veronese, di una correzione del Palatino e di Tib. Claudio Donato,

difesa da Servio e adottata da me nella mia edizione commentata cius ullum.

del 1. IV, Roma,

1947) mon aliut velo-

Abbiamo già accennato al fatto che nella descrizione delle battaglie l'urto delle masse & quasi trascurato e ridotto per lo più a una carneficina che i condottieri fanno dell'imbelle soldataglia, mentre la descrizione si sbriciola in una serie di duelli. La critica ha fatto il viso dell'armi a questa tecnica: « Le parti dell'imaginazione che chiameremo epica, le par-

ti che narrano duelli, battaglie, imprese d'arme, restano invece forse le parti pià deboli del poema. Sovente nelle grandi zuffe v'é molta confusione ... Gli eserciti sono per il numero, per riempire la scena e farla imponente e per farsi ammazzare dai cavalieri che soli contano. Le battaglie si risolvono perció in una serie di duelli che sembrano in verità tutti eguali e alla lunga un po’ noiosi ».? In realtà la critica ha trascurato di notare che anche stavolta il tono di stanca convenzionalità che aduggia la narrazione boiar12 Procacci,

Op.

cit., p. 66.

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desca è dovuto, purtroppo, alla pedissequa imitazione di una caratteristica che l'autorità dell’Eneide aveva reso topica. Nelle battaglie descritte nella seconda parte del poema Virgilio aveva ripreso fedelmente la topica omerica dello scontro sbriciolato in una serie

di duelli fra singoli eroi con largo sfoggio di gran colpi di lancia e poderosi fendenti. E da lui questa topica s’introduce più decisamente col Boiardo nell’epica

cavalleresca.

Basta

confrontare

i cc.

24

e 30

del 1, II con le scene belliche dell’Eneide per sincerarsene. Ferraù a Otachiero (II, 24, 8) « usbergo e

scudo tutto gli ebbe aperto, / dietro a le spalle andò di lancia un braccio »; Rodamonte (II, 24, 13) « Ugo e Raimondo trova il maledetto, / l’un sino al collo e l’altro fende al petto »; ancora Ferraü (II, 24, 16)

« il collo a l’un tagliò di netto, / volò via il capo e l'elmo col cimiero; / l’altro divise da la fronte al petto »; quando Ranaldo abbatte Mirabaldo (II, 30,

12), « tanto fu il colpo grande oltra misura, / che per traverso il fesse alla centura»; e quando incontra Argosto (II, 30, 15), « il ferì con gran possanza, / e

sino in su l’arcione il partì quase: / tre dita non se tenía della panza »; e a Marbalusto (II, 30, 29) « con sua Fusberta che giamai non falla / meza la barba gli tolse di faccia, / chè la masella pose in su la spalla, / nè elmo o barbuta lo diffese ponto, / ché ’1 viso gli tagliò, come io vi conto ». Questi gran colpi, dei quaHi, a evitare la noia delle innumerevoli ripetizioni, ho

ricordato solo pochi, trovano nei luoghi virgiliani i loro archetipi: cfr. p. es. il colpo di Turno a Pandaro

in Aen. IX, 750-55, et mediam ferro gemina inter tempora frontem | dividit inpubesque immani volnere malas. / Fit sonus, ingenti concussa est pondere

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tellus: / conlapsus artus atque arma cruenta cerebro

/ sternit humi moriens, atque illi partibus aequis | buc caput atque illuc umero ex utroque pependit; il

colpo di Pallante ai gemelli Laride e Timbro in Aen. X, 394-96, nam tibi, Tbymbre, caput Evandrius abstulit ensis, / te decisa suum, Laride, dextera quaerit | semianimesque

micant

digiti

ferrumque

retractant;

il colpo di Turno a Fegeo in Aes. XII, 381-82, imam inter galeam, summi tboracis et oras / abstulit ense caput truncumque reliquit barenae. Naturalmente bisogna tener conto anche dei grandi fendenti che gli antichi storici della prima Crociata. attribuiscono a Goffredo e a Tancredi e di quelli attribuiti ai loro eroi dai poeti cavallereschi anteriori. Già che stiamo in tema di descrizioni belliche ricordiamo che anche un altro motivo destinato a divenire topico nell’epopea rinascimentale, l’assalto a una città che forma il memorabile tema del c. 8 del l. III (in cui già vediamo infuriare quel Rodamonte che tornerà protagonista nell’altro assalto a Parigi del c. 14 dell’Orlando furioso), trae il tessuto delle sue

principali immagini dall’episodio virgiliano del 1. XII dell’Eneide in cui si descrive il breve assalto alle mura di Laurento. Anche lì è un solo eroe, Enea, a cam-

peggiare dirigendo l’assalto e infuriando sulle mura. Scalae improviso subitusque apparuit ignis. / Discurrunt alii ad portas primosque trucidant, | ferrum alii torquent et obumbrant aethera telis (vv. 576-78). Non altrimenti in Orl. inn. III, 8, 5 si legge: « Scale con rote e torre aveano assai. ... E pietre e foco tra’ dentro alla terra »; III, 8, 13, « E se sentiva un fracassar di scale, / un suon de arme spezzate, una roina, / e fumo e polve, e tenebroso velo, / come

.

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caduto il sol fosse dal celo ». E come Virgilio nella sua descrizione, per dipingere il furore con cui i Troiani tentano d’incendiare le mura della città, ricorre alla

similitudine con le api assillate dal pastore col fumo (vv. 587-92:

inclusas ut cum latebroso in pumice pa-

stor / vestigavit apes fumoque

implevit

amaro;

|

illae intus trepidae rerum per cerea castra | discurrunt magnisque acuunt stridoribus iras; | volvitur ater odor

tectis, tum

murmure

caeco

/ intus saxa sonant,

vacuas it fumus ad auras), cosi il Boiardo (III, 8, 14),

descrivendo le difese dei Cristiani contro gli assalitori, ricorre a un'analoga similitudine: Come la mosca torna a chi la scaccia, o le vespe aticciate, o i calavroni:

cotal parea la maledetta raccia, da' merli

trabuccata

e da' torroni.

Fin qui siamo stati costretti a registrare l'influsso dell'Ezeide sotto l’ingrato aspetto dell’immissione di tutta la più arida e fredda topica delle più meccaniche ed esteriori scene d'avventura e di guerra, quasi che il massimo poeta della stirpe latina si fosse avvilito a repertorio dei luoghi comuni piü risaputi e piü squallidi della letteratura epica. Ci & apparso il canovaccio piü grigio e impoetico del capolavoro virgiliano, l'impalcatura puramente esteriore su cui il poeta ha avuto il merito di tessere lo stupendo intreccio delle sue profonde variazioni psicologiche e liriche; ma di queste nessuna traccia abbiamo ravvisata finora nel Boiardo, sì che la nostra stupefatta impressione è che allora l'Eneide costituisse solo il punto di riferimento per la topica più gelidamente ufficiale del racconto epico congegnato secondo le regole. Ma c’è un punto, un punto 6

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emergente proprio nella prima parte del poema, in cui

il Boiardo ha avuto per un istante la forza di infondere una vena di poesia anche alle scene di guerra e allo spirito di uno dei suoi robot ammazzasette. Nell’episodio del duello e della morte di Agricane «la sensibilità del Boiardo tutta si ritrova in queste bellissime ottave. Il Tasso, riprendendo tutto questo episodio, perfezionerà la situazione sentimentale mettendo di fronte amante e amata nel mortale duello, ma

non raggiungerà il vigore eroico dell’episodio boiardesco, tranne qualche tratto dell’altro duello nottur-

no della Gerusalemme, quello di Argante e Tancredi. Qui dunque la fusione dei due cicli ha dato il frutto più bello ».” « Così questa figura, uscita coi carat-

teri della più cieca violenza e del più insensato orgoglio dalla mente del Boiardo, si è progressivamente accostata a uno spirito cavalleresco, che non è forse tanto dovuto al proiettarsi su di lui dell’anima dell’autore, quanto all’esito che il Boiardo aveva in mente, e per cui era necessario che essa, spogliandosi di tratti urtanti e brutali, rivelasse sotto la spinta di speciali circostanze ... una serietà e una umanità nuove. ... Per questo felice intuito, anche se la congruenza del personaggio può prestarsi a qualche obbiezione, la scena nella quale è protagonista si leva d’un colpo nei cieli dell’arte, ed è fra quelle che caratterizzano un'opera di alta poesia ».!* Ora ci si consenta di sottolineare che una volta tanto, sul punto di conquistare una delle rare espressioni di autentica poesia, il Boiardo si & un po’ fetto guidare per mano 13 Procacci, Op.

cit., p. 99.

M REICHENBACH,

Op. cit, pp. 152-53.

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da Virgilio, proprio da quel Virgilio vero e grande poeta, che nel guardare all’Eneide egli ha di solito sacrificato al maestro di fredda tecnica e casistica epica. Non che anche nell’episodio di Agricane manchino riferimenti al più convenzionale Virgilio omericheggiante: quando Agricane finge di fuggire per trarre Orlando « fuor di schiera » e poterlo più comodamente uccidere, il paladino gli rivolge (I, 18, 32-33)

una rampogna che riecheggia quella rivolta da Enea a Turno fuggito dinanzi a lui: ofr. Aen. XII, 889-93: Quae nunc deinde morast? aut quid iam, Turne, retractas? non cursu, saevis certandum est comminus armis. Verte omnis tete in facies et contrahe, quidquid

sive animis sive arte vales; opta ardua pinnis astra sequi clausumque cava te condere terra; Orl. inn. I, 18, 32-33:

Cavalier, tu sei fuggito, e sì forte mostravi e tanto ardito!

Come tanta vergogna poi soffrire a dar le spalle ad un sol cavalliero? Forse credesti la morte fuggire:

or vedi che fallito hai il pensiero. Chi morir può onorato, die’ morire;

ché spesse volte aviene e de legiero

che, per durare in questa vita trista, morte e vergogna ad un tratto s’acquista.

Nel rimprovero di Orlando si avverte però un fondo più risentito di cordialità, un’apertura di più amichevole indulgenza. Ciò deriva dal fatto che già in precedenza i due avversari e rivali avevano trovato modo di aprirsi reciprocamente lo spirito, di dialogare

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L'« ORLANDO

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con un imprevedibile

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senso di bumanitas,

secondo

quella ch'è la sconvolgente scoperta del Boiardo e di cui proprio Virgilio gli forniva lo splendido precedente. Naturalmente fra la situazione boiardesca e quelle virgiliane non v'é palese affinità. Ma quando nel €. 16 Agricane dichiara a Orlando di volergli dare un regno, né credo meglio poterlo alogare, ché non ha il mondo

cavalier sì bono,

qual di bontade ti possa avanzare (1, 16, 39);

e confessa (I, 16, 40-41) Più che omo me stimava alora quando

provata non avea la tua possanza

Questa battaglia e lo assalto sì fiero che è tra noi stato, e l’aspere percosse me hanno cangiato alquanto nel pensiero, e vedo ch’io sono om di carne e d’osse

e alla rampogna d’Orlando risponde (I, 18, 34-35) Tu sei per certo il più franco barone ch’io mai trovassi nella vita mia;

e però del tuo scampo fia cagione la tua prodezza e quella cortesia

che oggi sì grande al campo usato m'hai quando soccorso a mia gente donai.

Però te voglio la vita lasciare, ma non tornasti più per darmi inciampo! Questo la fuga mi fe’ simulare. né vi ebbi altro partito a darti scampo.

Se pur te piace meco battagliare, morto ne rimarrai su questo campo;

ma siami testimonio il cielo e il sole

che darti morte me dispiace e duole;

L’« ORLANDO

INNAMORATO »

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L’« ENEIDE »

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quando, in uno scambio di generosità, Orlando invita Agricane a farsi battezzare (I, 18, 36), perché Quanto sei — disse — più franco e soprano, più di te me ricresce in veritate, che sarai morto, e non sei cristiano, ed andarai tra l’anime dannate;

quando, sopraggiunta la notte, i due guerrieri interrompono

il duello e da buoni amici si sdraiano ac-

canto contemplando

«la

luna de argento,

e stelle

d’oro » (I, 18, 41) e sollevandosi a ragionare l’uno

della fede, l’altro del proprio passato (e lì il Boiardo raggiunge indubbiamente le vette della poesia); quando Orlando piangendo dà al nemico morente il battesimo che questi aveva prima rifiutato e ora gli ha domandato in punto di morte, noi ritroviamo nell’Orlando innamorato quell’insolita vena di umanità nel cuore dei guerrieri, quella scoperta che al di sopra dei valori della virtus eroica c'è qualche superiore corda di umana comprensione, che costituiscono la stupenda novità poetica e spirituale dell’Ereide anche nei canti che rimbombano del cozzo delle armi (cfr. il mio Virgilio, Firenze, 1954, pp. 377-79). Si pensi alle lagrime di Enea sul corpo del giovane Lauso da lui ucciso (Aen. X, 825-28, Quid tibi nunc, miserande puer,

pro laudibus istis,

/ quid pius? Aeneas tanta dabit

15 E a conferma del valore che qui assumono i concetti etico-religiosi fondamentali della fira e della missione di Enea,

si veda come

già prima,

nell'affrontare Lauso

(v. 812),

Enea avesse mostrato di apprezzare la sua pietas che lo spingeva a misurarsi con lui per difendere il padre:

fallit te incau-

tum pietas tua. Cosi, per la creazione del personaggio di Mezenzio, vedi ora F. A. SULLIVAN, Mezentius, a Virgilian Crea-

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INNAMORATO »

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L’« ENEIDE »

indole teque cura, viene Idem

dienum? / Arma, quibus laetatus, parentum | manibus et cineri, si remitto); alla reazione di Mezenzio annunciata la morte del figlio (Aen. ego, nate, tuum maculavi crimine

habe tua, qua est ea quando gli X, 851-54, nomen, |

pulsus ob invidiam solio sceptrisque paternis. / Debueram patriae poenas odiisque meorum: | omnis per mortis animam sontem ipse dedissem!); alle parole che Mezenzio rivolge ad Enea prima del duello decisivo (Aen. X, 878-81, Quid me erepto, saevissime, na-

to / terres? Haec via sola fuit, qua perdere posses. ... desine, nam venio moriturus). Studiando attentamente di appropriarsi la tecnica della narrazione epica

quale gli veniva comunicata dai libri iliaci dell’Eneide, il Boiardo trovò in essi quella miracolosa illuminazione dell'umanità nell'anima dei guerrieri, e see ne lasciò soggiogare, seguendone il potere rivelatore almeno nell’episodio di Agricane. Ma a confermarci che proprio questi libri, e particolarmente il complesso, esemplare ]. X, erano sempre presenti a lui nella delineazione delle scene di guerra, ecco il c. 31 del 1. II mostrarci il mago Atlante che, nel pieno della battaglia fra l’esercito di

Agramante e i paladini, escogita una falsa apparizione tion, in « Class. diciamo conserva TI ha dimostrato e Agricane, in «

Philol. », 1969, p. 219 il suo valore anche ora (La Spagna in rima e Lettere italiane», 1969,

sgg. Tutto quel che che A. FRANCESCHETil duello di Orlando p. 322 sgg.). un in-

flusso della redazione ferrarese della 5 pagna sull'episodio boiar-

desco:

fra l’altro sotto il profilo del sentimento fra i due epi-

sodi v'é solo la materiale analogia della richiesta di battesimo fatta dal guerriero saraceno vinto; ma tutto il tessuto di buma-

nitas che permea l’episodio sunto da Virgilio.

boiardesco

è indubbiamente

de-

L'« ORLANDO

INNAMORATO

»

E

L'« ENEIDE »

87

per evitare uno scontro fra Orlando e il suo protetto Ruggero, evoca l’immagine dei cristiani sconfitti, dell’imperatore Carlo invocante aiuto, di Oliviero incatenato, di Ranaldo ferito, perché Orlando interrom-

pa il micidiale duello con Ruggero e si lanci a seguire le ingannevoli ombre nell’illusione di recar soccorso ai suoi. Non altrimenti in Aen. X, 633-652, Giunone,

ad evitare che Turno si imbatta in Enea inferocito per la morte di Pallante, crea tenuem sine viribus umbram | in faciem Aeneae e la spinge in fuga dinanzi a Turno, dando al condottiero rutulo l’illusione

cheil suo maggior nemico sia sovrappreso da timore dinanzi a lui, cioè creandoin anticipo un falso doppione a rovescio della soena della fuga di Turno dinanzi ad

Enea, che nel 1. XII riprodurrà quella della fuga di Ettore dinanzi ad Achille nel l. XXII dell’Iliade. Fra i due episodi c'é addirittura qualche tenue assonanza verbale: Aen. X, 640, dat sine mente sonum - Orl. inn. II, 31, 34, « e molta gente finse, con romore »; Aer. X, 645, instat cui Turnus - Orl. inn. II, 31, 36, « né

prende al speronare alcun ristoro »; Aes. X, 640-42, gressusque effingit euntis: / morte obita qualis fama

est volitare figuras / aut quae sopitos deludunt somnia sensus - Orl. inn. II, 31, 36, « e proprio sembra che li porti il vento, / tanta & la forza dello incanta-

mento! »; Aen. X, 656-58, Huc sese trepida Aeneae

fugientis imago / conicit in latebras; nec Turnus segnior instat, / exsuperatque moras - Orl. inn. II, 31,

36, « né prende al speronar alcun ristoro. / Avanti ad esso fugge la canaglia ».

Con quest'ultimo canto del l. II siamo giunti alle soglie di quell’ultimo libro in cui, proprio mentre il collegamento a una sola figura di protagonista vien

88

L'« ORLANDO

meno

(come

INNAMORATO »

abbiamo

già

visto

E

L'« ENEIDE »

mediante

l’analisi

della protasi), più forte diviene il collegamento. col

tema più esteriormente ufficiale dell’Eneide, la celebrazione di Augusto e della gens Iulia, su cui si esempla la celebrazione di Ruggero e della casa degli

Estensi (di cui egli è il favoloso progenitore), la quale si affaccia come tema predominante del nuovo libro. Ma già nel corso del l. II ne abbiamo incontrato due notevoli anticipi: nel c. 21, in cui alla fine Atlante squaderna ad Agramante la serie dei gloriosi discendenti di Ruggero; 6 nel c. 27, in cui Brandilé Non

per niente l'edizione del

1486, fatta vivente il

poeta, reca all'inizio del c. 22 l'iscrizione Libro tercio de Orlando Inamorato, ecc. Anche se si è negato che l'iscrizione tesse essere di mano del Boiardo, perché in II, 31, 48, cioè nella terz'ultima ottava del libro, è detto « A questo libro è

già la lena tolta: / il terzo ascoltareti un'altra volta », e l'ottava si trova già in questa forma nell'edizione del 1486, la quale

comprende i primi due libri, e perché nell'iscrizione sono additate come argomento del terzo libro anche la morte di Ruggero e l'edificazione di Monselice, di cui non si trova traccia nel poema, tuttavia anche A. SCAGLIONE, nella sua edizione del Boiardo (Torino

munque

l'epigrafe

1951, vol. II, p. 346) riconosce che « co-

non

dovette

essere

che l'edizione uscì vivente il Poeta». difficoltà sussista tuttora anche scritta dal Boiardo e pubblicata provazione; quanto al fatto che cui non v'é parola nel poema, &

disapprovata,

essendo

Ritengo che la prima

considerando l'epigrafe non ad ogni modo con la sua apin essa si alluda a eventi di fin troppo facile riflettere al

fatto che il terzo libro, come & costituito nel Trivulziano n. 1094, e nelle prime edizioni ancora conservate, quella vene-

ziana del 1495, che lo pubblicò a parte, e altre di tutto il poema, a partire da quella veneziana del 1506, è appena un embrione (solo nove canti di fronte ai ventinove canti l. I ed ai trentuno del 1. II!), rimasto tale per la morte

del del

poeta, e che quindi i fatti ricordati nell'epigrafe potevano benissimo essere stati da lui concepiti, senza che egli avesse avuto il tempo di cantarli: si pensi che il ricordo della morte di Ruggero è anticipato proprio in II, 25, 54: « Ahi traditrice

L'« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L’« ENEIDE »

89

marte scorge raffigurate nel padiglione del re Dolistone le glorie della casa d'Aragona sfocianti nell’esaltazione di Alfonso I d’Este (nipote di Alfonso II di Napoli), che viene presentato come « duodecimo » dei grandi Alfonsi aragonesi. Come per le due rassegne di guerrieri abbiam visto il Boiardo penco-

lare fra le due corrispondenti rassegne virgiliane, quella del 1. VII e quella del 1. X, così per questo tema molto più impegnativo le due anticipatrici evocazioni

oscillano fra i due luoghi dell’Ereide in cui la celebrazione è più scopertamente sviluppata: l’episodio del 1. VI in cui Anchise nei Campi Elisi mostra ad Enea gli spiriti dei discendenti, e l'episodio del 1. VIII consistente nella descrizione dello scudo di Enea. Se,

come abbiamo visto or ora, persino per uno di quegli episodi di magla di

cui il mondo dell'epopea ca-

valleresca sembrava fornire al poeta un insieme completo, insostituibile di spunti e di suggestioni, il Boiardo ha preferito ricordarsi di un episodio virgicasa di Magancia! / Ben te sostiene il cielo in terra a torto / al fin serà Rugier poi per te morto». Sicché sembra assolutamente legittimo supporre che l’epigrafe fosse un appunto del poeta da lui lasciato passare nell'edizione veneziana del 1486 nonostante la sua contraddizione con le parole del c. 31. Infatti i due primi libri, così come

appaiono in quella edizione,

erano stati già pubblicati nell’edizione reggiana del 1483, oggi introvabile, e quindi può darsi che il poeta, pur rispettandone il testo già consacrato in questa prima edizione, avesse voluto avvertire che in realtà egli aveva già posto mano a un terzo libro e che per conseguenza meditava un nuovo ordinamento del poema, che facesse iniziare questo nuovo libro dal punto in cui

parla

della

stirpe

di Ruggero,

interesse

predominante

dell'ultima parte. Si pensi appunto che l’epigrafe scompare dalle edizioni che contengono tutto quello che ci è rimasto del poema e che furono fatte dopo la morte del poeta, cioè quando non v’era più traccia né possibilità di un nuovo definitivo ordinamento del 1. III.

90

L'« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L’« ENEIDE »

liano (forse perché si trattava di un singolare intervento nel bel mezzo di una battaglia), a maggior ra-

gione l’Eneide doveva offrirgli lo schema e la tecnica per quel caratteristico processo di congiungimento della leggenda con la storia di cui proprio essa, nella successione degli sviluppi del poema epico, costituisce l’esempio capitale, quasi con la forza caratteristica di un unicum. Oscillando fra le suggestioni dei due finali dei ll. VI

e VIII

dell’Eneide,

nel c. 21

del

l. II il Boiardo s'é attenuto di più alla struttura dell'episodio di Anchise nei Campi Elisi. Ed è naturale: come Anchise addita al figlio le ombre dei grandi del futuro, così Atlante riferisce ad Agramante nomi ed atteggiamenti che la sua mente va divinando. Come in

Virgilio

troviamo

(VI,

760-62)

un

Ille

(vides)

pura invenis qui nititur hasta | ... primus ad auras / aetherias Italo commixtus sanguine surget, così nel Boiardo (I, 21, 56) troviamo

« Io vedo di Sansogna

un Ugo Alberto," che giü discese al campo paduano. .... Odete, Italiani, io ve ne acerto:

/ costui, che

vien con quel stendardo in mano, / porta con seco ogni vostra salute; / per lui fia piena Italia di virtute »; come in Virgilio successivamente si legge (VI,

767 e 771) Proximus ille Procas. ... Qui iuvenes! quantas ostentant, aspice, vires!, così nel Boiardo (I, 21, 57) « Vedo Azzo primo e il terzo Aldovrandi-

no ..., ecco uno altro Ranaldo paladino »; come in Virgilio, a partire dall'apparizione di Romolo (VI, 777 sgg.), si squadernano i profili e le profezie di eventi

storici

(Viden

ut geminae

stant

vertice

cri-

17 E proprio qui si allude alla fondazione di Monselice,

di cui è parola

nell’epigrafe che accompagna l’inizio del c. 22.

L’« ORLANDO

stae ... ? ...En

INNAMORATO

buius...

»

E

auspiciis

L’« ENEIDE

»

91

illa incluta Roma

/ imperium terris, animos aequabit Olympo | ... Huc geminas nunc flecte acies, banc adspice gentem | Romanosque tuos. Hic Caesar et omnis Iuli / progenies ... Hic vir, bic est, ... Augustus Caesar, Divi genus, aurea condet / saecula qui rursus Latio ... /

Nec vero Alcides tantum telluris obivit, ... Quis procul ille autem

ramis insignis olivae / sacra ferens?

nosco crinis incanaque menta | regis Romani, primam

qui legibus urbem | fundabit ... Quem iuxta sequitur iactantior Ancus

| ... Illae autem, paribus quas ful-

gere cernis in armis / concordes animae nunc... Ille triumpbata Capitolia ad alta Corintbo / victor aget currum), così nelle ottave 57-59 del Boiardo si con-

tinua la presentazione

delle loro gesta: Trivisi

dei discendenti e il ricordo

«dico il segnore / di Vicenzia e

e di Verona,

/ che a Federico abatte la co-

rona ... Ecco il marchese a cui virtù non manca. / Mondo beato e felici coloro / che seran vivi a quella età sì franca! / Al tempo di costui gli zigli d’oro /

seran congionti a quella aquila bianca / che sta nel celo ... l’altro filiol de Amfitrione, / qual là si mostra in abito ducale ». E il più interessante è che, come in Virgilio, ai vv. 801-3, si evoca il mito delle im. prese di Ercole a confronto con quelle di Augusto, così il Boiardo, spinto dal nome del duca Ercole I, ricorda anche lui il mito erculeo (« se l’altro filiol de

Amfitrione »). E non è a dire quanto tutta la tecnica espressiva delle evocazioni sulla bocca di Atlante, che dai più logici « io vedo..., vedo » trascende a « costui che vien con quel stendardo in mano, ... ecco uno ..., ecco il marchese... qual là si mostra», si adatti non

tanto a una visione che Agramante

non

92

L’«

poteva

ORLANDO

INNAMORATO » E

L'« ENEIDE»

avere (perché è il solo Atlante a

riferirla),

quanto proprio alla situazione del I. VI dell’Eneide, in cui Anchise può effettivamente additare ad Enea le ombre dei discendenti, e quindi si mostri indub-

biamente condotta sulle orme dell'episodio virgiliano. Nell’episodio del c. 27 prevale invece l'influsso dell’episodio virgiliano dello scudo d’Enea:

non per

niente la serie dei principi aragonesi si presenta agli

occhi di Brandimarte effigiata in un «bel pavaglione... sì legiadro e sì polito, / che un altro

mai

tanto soprano », che un

non fu

essere soprannaturale

(come Vulcano per lo scudo d’Enea), una Sibilla, « aveva ... ordito / e tutto lavorato di sua mano».

Così la presentazione, come in Virgilio, è tutta tra-

mata con viva attenzione ai particolari figurativi: da un lato Aer. VIII, 630 sgg., Fecerat et viridi fetam

Mavortis in antro / procubuisse lupam, geminos buic ubera circum | ludere pendentis pueros, etc.; 635-37, raptas sine more Sabinas | consessu caveae ... addiderat; 639-41, reges / armati lovis ante aram

paterasque tenentes | stabant; 642 sgg., Haut procul inde citae Mettum in diversa quadrigae / distulerant;

649-50, Illum indignanti similem similemque minanti | aspiceres; 652 sgg., In summo custos Tarpeiae Manlius

arcis / stabat pro templo ..., Romuleoque recens borrebat regia culmo ..., auratis volitans argenteus anser |

porticibus ... aurea caesaries ollis atque aurea vestis, / virgatis lucent sagulis, tum lactea colla / auro innectuntur, etc.; 665 sgg., Hic exultantis Salios nudosque Lupercos ... extuderat; 671 sgg., tutta la lunga, ac-

curata descrizione della battaglia d'Azio e del trionfo d'Augusto (Haec inter tumidi late maris ibat imago / aurea, sed fluctu spumabat caerula cano, etc.); dal-

L’« ORLANDO

INNAMORATO » E L'« ENEIDE »

93

l’altro Orl. inn. II, 27, 52, « Ma sopra a tutti, dentro alle cortine, / dodici Alfonsi avea posti de intorno,

/ l’un più che l’altro nel sembiante adorno »; 54, « La Africa vinta a lui stava davante / ingenocchiata col suo popol rio; / ma lui de Italia avea preso un gran lembo, / standosi a quella con amore in grembo »; 56, « Ma l’undecimo Alfonso giovanetto, / con l’ale è armato, a guisa de Vittoria, / sí come la natura avesse eletto / uno omo a possidere ogni sua gloria ». Volendo rievocare, in due momenti vicini ma di-

versi, i due agganci più cospicui della stirpe estense all’aristocrazia regale d’Europa, quello sassone (ricavato attraverso l’origine dagli Obertenghi) e quello

aragonese, il Boiardo s’® volto dunque, con sapiente variatio, ai due luoghi virgiliani in cui la celebrazione della gens Iulia e di Augusto s’era diversamente configurata, sempre nella prospettiva delle fortune di Roma e dell’Italia, come le glorie di casa d’Este sono presentate dal poeta di Scandiano come una provvidenza per l’Italia. Ma nel secondo dei due episodi l’influsso del 1. VI riappare nell’ottava 55, dove torna il canonico

riferimento

al mito d’Ercole (« E come

Ercole già sol per amore / fo vinto da una donna lidiana, / così a lui prese Italia vinta il core»), e soprattutto alla fine (ottave 58-59), ove la raffigura-

zione conclusiva del dodicesimo Alfonso, cioè Alfonso I d’Este, è fatta con gli struggenti colori della prima giovinezza, con abbondanza d’invocazioni al miracoloso fanciullo: Il duodecimo

a questo era vicino,

di etate puerile e in fama quale seria depinto un Febo piccolino, coi raggi d’oro in atto trionfale.

L'« ORLANDO

94

INNAMORATO »

E

L'« ENEIDE »

Ne l’abito sì vago e pellegrino,

giongendovi gli strali e l'arco e l’ale, tanta beltate avea, tanto splendore, che ogniom direbbe: « Qiiesto è il dio d’Amore ». Avanti a lui si stava ingenocchiata Bona

Ventura, lieta ne’ sembianti,

e parea dire: « O alle prodezze de e alla tua stirpe onde fra tutti fa

dolce figliol, guata gli avoli tanti, al mondo nominata; che tu ti vanti

di cortesia, di senno e di valore,

sì che tu facci al tuo bel nome onore ».

Qui è evidente l’eco dell’episodio conclusivo del l. VI, il celebre brano del giovinetto Marcello, natu-

ralmente depurato di tutti i particolari tristi, allusivi alla sua immatura scomparsa, che alla lettura del passo fatta da Virgilio provocarono la svenimento della madre Ottavia immortalato dal pennello di Ingres; qui sono rimasti, ma in tutta la loro reale presenza, solo i particolari esornativi: vv. 860-61, videbat / egregium forma iuvenem et fulgentibus armis; vv.

864-65, filius anne aliquis magna de stirpe nepotum? / qui strepitus circa comitum! quantum instar in ipso!;

vv.

870-71,

Nimium

vobis

Romana

propago

/ visa potens, superi, propria haec si dona fuissent; vv. 875-77, Nec puer Iliaca quisquam de gente Latinos / in tantum spe tollet avos nec Romula quondam / ullo se tantum tellus iactabit alumno; vv. 879-80, non illi se quisquam impune tulisset / obvius armato, seu cum pedes iret in hostem | seu spumantis equi foderet calcaribus armos; vv. 883-84, tu Marcellus eris. Manibus, date lilia plenis, / purpureos spargam flores.

L'« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L'« ENEIDE »

95

Il motivo ornamentale delle memorie storiche rap-

presentate in un monumento d’arte figurativa, quale trionfa nel passo virgiliano dello scudo d’Enea, era già stato sfruttato dal Boiardo nell’episodio degli Alfonsi raffigurato nel padiglione della Sibilla, quando nel c. 2 del 1. III il poeta giunse all’episodio di un vero e proprio scudo d’antico eroe, quello di Ettore ritrovato da Mandricardo. Naturalmente non si potevano ripetere, in una sede pure più affine a quella carezzata dalla fantasia di Virgilio, le rievocazioni storiche già compiute; ma è rimasta dall’episodio virgi-

liano la tendenza a vagheggiare una gesta istoriata nello scudo, e proprio una gesta richiamante il mondo classico: la leggenda di Ganimede, il giovinetto divinizzato della stirpe regale iliaca (III, 2, 5-9). E quando dallo scudo si passa alla scoperta dell’armatura di Ettore, vi ritorna (III, 2, 25-29) il gusto dei me-

talli preziosi, il vagheggiamento dell’avorio e dell’oro che abbiamo visto predominare nella raffigurazione

virgiliana dello scudo d'Enea. L’ultima eco della genealogia troiana, che impa-

renta l'Augusto di Virgilio al Ruggero del Boiardo, è nel c. 5 del 1. III. Il cavaliere narra a Bradamante la storia dei suoi ascendenti, facendoli derivare nien-

temeno che da Astianatte, che si sarebbe sottratto alla morte nella notte fatale di Troia, perché con eroico inganno

(III, 5, 20-21)

la matre lo scampò con cotale arte: che in braccio prese un altro fanciullino, 18 E si ricordi sono

uno

dei

motivi

che proprio che

i rapti

rinfocolano

Ganymedis

il rancore

honores

di Giunone

contro Enea e i Troiani nel poema virgiliano (cfr. Aen. I, 28).

96

L'« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L'« ENEIDE »

e fuggette con esso a la disparte. Cercando i Greci per ogni confino, la ritrovarno col fanciullo in braccio,

e a l'una e a l'altro dier di morte spaccio.

Ma il vero figlio, Astianatte dico, era nascoso in una sepoltura.

Proprio a questo punto in cui sembra. voler creare per Ruggero e gli Estensi un'ascendenza troiana ancora piü illustre di quella della stirpe romana e della gens Iulia cantata da Virgilio, cioè quella diretta dalla famiglia regale di Troia, da quell’Ettore le cui memorie e le cui vestigia contemporaneamente Mandricardo

va

così ansiosamente

cercando,

il Boiardo

-

quasi a ribadire la velleità di creare una novità clamorosa, la scoperta in Italia di un’altra illustre stirpe discendente da Troia, ma di ancor più gloriosa ascendenza — mostra di distaccarsi clamorosamente da Virgilio, dando ad Astianatte e a sua madre le sorti diametralmente opposte a quelle che l'Eseide attribuisce loro: fa infatti perire Andromaca nella notte fatale per mano degli Achei, mentre nel 1. III dell’Eneide noi la incontriamo viva e, nel suo grigio terzo matrimonio con Eleno, tutta chiusa nell’appassionato ricordo del primo marito e del figlio ucciso; e di Astianatte riceviamo conferma, proprio dalla sua bocca (Aen. III, 489-91), ch’egli ha ricevuto la morte dai distruttori della città, mentre il Boiardo lo fa sopravvivere. E la versione virgiliana è quella costante, definitiva della tradizione classica, smentita poi anche dal Racine nell’Andromaque. Naturalmente si è subito pensato a sovrapposizione sulle fonti classiche della tradizione medioevale dei romanzi cortesi del ciclo

L'« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L'« ENEIDE »

97

troiano, si è pensato al Roman d’Hector o al Roman de Troye di Benoit de Sainte More; ma la critica P vi ha scoperto pochi appigli e ha dovuto ripiegare sull’ipotesi che il Boiardo abbia rielaborato originalmente

i dati delle fonti. Ma sia concesso di supporre che in questa originale rielaborazione, di cui rimangono irriducibili a fonti precostituite proprio i dati relativi alla sorte di Astianatte e di sua madre, il Boiardo si sia ispirato a un’altra fonte latina classica per il particolare che Astianatte si sarebbe salvato perché nascosto dalla madre in una sepoltura. Questo particolare rimonta evidentemente alla famosa scena delle Troades di Seneca, in cui Andromaca nasconde il fi-

glio nel sepolcro di Ettore, ma naturalmente, dopo un iniziale successo dello stratagemma,

non riesce a

sottrarlo all’abile, spietata investigazione di Ulisse. Proprio in quegli anni nelle corti rinascimentali fiorivano le rappresentazioni di drammi di Plauto e di Seneca; e nell’Orlando innamorato si sorprendono inattese reminiscenze del Miles gloriosus® e di quei Captivi* che proprio il Boiardo nel 1493 avrebbe contribuito a porre in iscena a Pavia in onore di Ludovico il Moro per volere di Ercole 1.2 19 Cfr. A. SorrENTINO, cavalleresca di M.

M.

La leggenda troiana nell'epopea

Boiardo,

in Bulletin

Italien,

REICHENBACH, Op. cit., pp. 87-88. 2 Cfr. REICHENBACH, Op. cit., pp. 68-69.

1917;

G.

21 Cfr. A. VigGILI, Comm. a stanze scelte dell’Innamorato, Firenze, 1892; REICHENBACH, Op. cit., pp. 48-51. 2 Cfr. ora ANNA Marra Coppo, Spettacoli alla corte di Ercole I, in Contributi dell’Istituto di filologia moderna, Serie Storia del Teatro, vol. I, Pubblicazioni dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 1968, p. 32. 7

98

L'« ORLANDO

INNAMORATO » E

L'« ENEIDE »

Ma se Virgilio a questo punto è quasi brutalmente smentito, ciò non toglie che la sua voce si faccia sentire per tutto il complesso dei dati relativi all’incen-

dio di Troia. Le ottave 18-19, con la sola aggravante che gli Achei avrebbero ucciso tutti i prigionieri, costituiscono un riassunto del l. II dell'Eseide: E Ἶ tradimento del caval di legno, come il condusse il perfido Sinone, e dopo molte angoscie e molti affanni

fo Troia presa ed arsa con inganni.

E come e Greci poi sol per sua boria fierno un pensier spietato ed inumano, tra lor deliberando che memoria

non se trovasse del sangue troiano.

Usando crudelmente la vittoria, tutti e prigion scanarno a mano a mano.

Forse proprio da questo rono autorizzati a formulare conclusione che naturalmente fonti classiche fu presente al

luogo i critici si sentila generica, frettolosa anche l'Eseide tra le Boiardo; ma non disce-

sero alla paziente analisi dei riscontri condotta da noi.

Se nel 1. II dell’Ereide manca il ricordo del sacrificio di Polissena con cui si chiude la diciannovesima ottava boiardesca (« ed avanti a la madre per più pena / ferno svenar la bella Polissena »), anche questo peró

è un tributo all'Ezeide, ove nel 1. III proprio al suo primo intervento Andromaca rievoca con invidia la sorte di Polissena (vv. 321-23): O felix una ante alias Priameia virgo, hostilem ad tumulum Troiae sub moenibus altis iussa mori.

L'« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L'« ENEIDE »

99

Se mai il particolare, mancante in Virgilio, ch’essa

fu sacrificata « avanti a la madre » rimonta anch’esso alle Troades di Seneca; e ciò conferma la nostra ipotesi relativa al particolare dell’occultamento di Astianatte in un sepolcro. E non si dimentichi che il figlio di Astianatte e della « dama gentile e pellegrina », regina di Saragozza (già allora l’Aragona si fonde con le sorti dei futuri Estensi!) sfuggita da Messina a Reggio a Egisto,” uccisore a tradimento di Astianatte, e alla flotta greca che riceve la sua punizione dalla tempesta, come quella reduce da Troia, il figlio di Astianatte e fondatore della nuova stirpe si chiama (III, 5, 27) Polidoro «a dritto nome » (il Boiardo non ha

rinunciato neanche a sfoggiare la sua sapienza etimologica), cioè ripete il nome del giovine figlio di Priamo

di cui l’inizio del 1. III dell’Eneide canta la tragica fine. In fondo anche in questa singolare, radicale contrapposizione a Virgilio, con cui per Ruggero e gli : Estensi egli ha escogitato un’ascendenza troiana più nobile di quella di Enea rispetto ad Augusto e per tracciarla ha rovesciato i termini tradizionali della storia della famiglia d’Ettore quali erano stati accolti anche da Virgilio, il Boiardo ha palesato a modo suo, sia

pure κατ᾽ ἀντίφρασιν, una profonda dipendenza dall'impianto ufficiale, di carattere storico-encomiastico,

del poema virgiliano. Ancora una volta dobbiamo constatare che su lui l’Eneide ha avuto un influsso pro2 Il Boiardo non poteva certo ignorare chi fosse Egisto, il drudo di Clitennestra e uccisore di Agamennone. Anche qui perciò si sorprende la capricciosa velleità di innovare i miti ci.

100

L’«

ORLANDO

INNAMORATO » E

L'« ENEIDE»

fondo esclusivamente sotto questo aspetto più esteriore e meno poetico. Dei due filoni, delle due tradizioni fuse nell’Orlando innamorato,* quella avventurosa e amorosa vo

te chiamata bretone, par-

lava evidentemente al suo sentimento e alla sua fantasia — come tutta la critica ha riconosciuto — molto più di quella guerriera, volgarmente chiamata carolingia; il fatto stesso ch’egli abbia voluto fare dell’esem-

plare eroe, che dalla Chanson de Roland in poi era stato il modello dell’epica eroica del Medioevo cristiano, uno schiavo d’Amore conferma verso quali predilezioni s’indirizzasse il suo istinto creativo. All’Eneide egli fece ricorso perciò solo per corroborare l'ingrato compito di poeta anche di belliche gesta; e perciò la sfruttò solo per la sua più superficiale strut-

tura, quella della ripetizione delle imprese iliache contenuta nella seconda parte del poema. Di tutta la prima parte, quella in cui spiccano episodi d’altissimo

^ E della rivoluzionaria novità dell'intreccio il Boiardo stesso, com'è noto, ebbe coscienza sin dall'inizio (I, 1, 2-3):

Non vi par già, signor, meraviglioso

odir cantar de Orlando inamorato. Ché qualunque nel mondo è più orgoglioso, è da Amor vinto, al tutto subiugato; né forte braccio, né ardire animoso, ne κοῦ

o maglia, iN Stando ron

tra possanza pud mai far difesa, che al fin non sia da Amor battuta e presa. Questa novella & nota a poca gente, perché Turpino istesso la nascose, credendo forse a quel conte valente esser le sue scritture dispettose, poi che contra ad Ámor pur fu perdente colui che vinse tutte l'altre cose.

L’« ORLANDO

INNAMORATO » E

L’« ENEIDE»

101

rilievo come l’addio di Creusa ad Enea, l’incontro fra Enea ed Andromaca, il libro di Didone, il lamento

delle donne troiane esuli, gl’incontri fra Enea e i trapassati agl’Inferi, egli sfruttò solo i primi due libri e il 1. VI per quelle parti che avevano più stretto rife-

rimento alla topica epica delle imprese guerresche e allo scopo celebrativo dell’opera, così come della seconda parte si lasciò sfuggire alcuni vertici poetici, come l’episodio di Evandro nel l. VIII-e il lamento di Giuturna nel l. XII. Sembrava destino dell’Eneide

di non poter servire se non come repertorio di temi guerreschi ai poeti epici della prima fase del Rinascimento: anche l’Ariosto seppe trarre effettivamente dall’Eneide solo la spinta a riprodurre da vicino un

episodio

bellico

della seconda

parte, la sortita di

Eurialo e Niso nel l. IX, rielaborandola in quella di Cloridano e Medoro, che però manifesta la sua importanza, in quanto diviene episodio chiave nell’economia, nell’ulteriore sviluppo del poema. Abbiamo visto che proprio per la stretta adesione

ai modi e alla struttura dei canti bellici dell’Eneide il Boiardo è riuscito, nell’episodio di Agricane, a sollevarsi ad altezze di poesia, facendosi suggestionare dall’bumanitas dei guerrieri virgiliani, proprio perché essa s'affacciava prepotente nel corso della narrazione. Quest'occasionale incontro fra il Boiardo e il migliore Virgilio, sorto in dipendenza dalla fedeltà del primo agli schemi esteriori del secondo, ha determinato anche la possibilità di un riflesso della poesia boiardesca nel poeta epico rappresentativo dell'età manieristica, che forse anche per questo ha nutrito il suo poema di spunti e spiriti virgiliani in maniera assolutamente incomparabile a quella che possiamo riscon-

102

L'«ORLANDO

trare nei poemi

INNAMORATO

precedenti

»

E

L’« ENEIDE »

in lingua volgare,

nel

poeta che G. B. Marino doveva additare come autentico figlio di Virgilio: Torquato Tasso. Egli del resto tornava alla concezione del poema eroico (sia pur nutrito ancora, data la sostanza medioevale del tema, di cavallereschi spiriti e forme), del poema portatore di un religioso messaggio; e verrebbe voglia di domandarsi se per caso Virgilio non dovesse attendere proprio il trionfo del manierismo per affermare in senso veramente profondo la propria influenza. Ad ogni modo, quando nell’ultimo mortale duello Argante, prima di misurarsi con Tancredi, si fa sorprendere pensoso e scosso per la caduta di Gerusalemme, quando Clorinda morente domanda a Tancredi il battesimo, il pensiero dei critici si volge alla

scena del duello e della morte di Agricane.® E in fondo, quando nel c. III della Gerusalemme, Clorinda, la riesumazione della Camilla virgiliana, rivela in piena battaglia la sua splendida femminilità (e, le chiome dorate al vento sparse, giovane donna in mezzo '| campo apparse),

ci è facile cogliere nella scena l’antecedente del c. 5 del 1. III dell’Orlando innamorato, là dove Bradamante, togliendosi l’elmo, rivela il suo sesso a Ruggero, provocando il sorgere dell'amore fra i due eroi:

Nel trar de l’elmo si sciolse la treccia, che era de color d’oro allo splendore (III, 5, 41). 5 Cfr. qui su a n. 13. Certamente solo il Boiardo poteva offrire al Tasso uno sfruttamento moderno del motivo dell’bumanitas virgiliana nell'animo dei guerrieri. L’Ariosto invece,

con « O gran bontà dei cavalieri antiqui! », non era andato al di là di un’elegente increspatura ironica. |

L’« ORLANDO

INNAMORATO »

E

L’«ENEIDE»

103

E la descrizione dello sbigottimento di Ruggero nell’ottava successiva sembra contenere alcuni spunti dell’apostrofe che il Tasso rivolge nell’episodio della Gerusalemme a Tancredi, sbigottito dall’apparizione: Ne lo apparir dello angelico aspetto Rugier rimase vinto e sbigotito, e sentissi tremare il core in

parendo a lui di foco esser

petto,

ferito.

Non sa pur che si fare il giovanetto: non era apena di parlare ardito. Con

l’elmo in testa non

l’avea temuta,

smarito è mo che in faccia l’ha veduta.

Compenetrandosi del più puro spirito virgiliano nel sottolineare assiduamente l’humanitas nel cuore dei suoi guerrieri, il Tasso non disdegnava quindi di cogliere suggestioni dai luoghi in cui il Boiardo era riuscito a riprodurre anche lui, eccezionalmente, un che del più profondo spirito di Virgilio in quelle scene

di guerra per cui il canovaccio dell’Eneide gli aveva fornito ampi

suggerimenti;

e cedendo

a queste

sug-

gestioni non disdegnava di allargare il contatto an-

che a quei luoghi in cui il Boiardo aveva più originalmente dato voce a quella ch’era la vena più spontanea della sua Musa, la commossa

rievocazione del

favoloso mondo degli amori cavallereschi.

NUOVE PROSPETTIVE SULL’INFLUSSO DEL TEATRO CLASSICO NEL ’500 *

La prospettiva tradizionale sulle origini del teatro cinquecentesco e, conseguentemente,

sull’influsso

del teatro classico & ancora legata alla non meno classica opera di Alessandro D’Ancona, Origini del teatro italiano. Per tutto il Medioevo il teatro latino non

esercita alcuna seria influenza sulla pur cospicua attività di rappresentazioni di cui le folle son ghiotte e che rivendicano legittimamente la definizione di teatro; ^ questo cosiddetto teatro medioevale s’iden* Da « Atti del Convegno sul tema: Il teatro classico italiano nel '500, Roma, p. 9 sgg.

Accademia

Nazionale

dei Lincei,

1971,

1 Torino, 1891. 2 Il caso di Roswita va ridimensionato nel suo significato esatto, perché — come

cit., vol. I, razione di non

osserva giustamente

il D'ANCONA

(op.

p . 17-18) — c'è da ritenere che « anche la rammemoTerenzio nel prologo dei sacri drammi di Roswita

abbia vera relazione con l’intrinseca natura di quelli, ma

simboleggi soltanto colla memoria del nome illustre, l'arte stessa rappresentativa ». Tuttavia va notato che, per la struttura scenica, i drammi di Roswita sono un unicum e mostrano una rela-

tiva regolarità, la cui origine non può non essere ipotizzata nella conoscenza di Terenzio da parte della dotta monacella, l’unico motivo

forse che

diografo africano.

giustifica il richiamo

dell’autrice

al comme-

Saremmo perciò in presenza di un singolare

influsso strutturale,i

siche della distinzione

, anomalo rispetto alle norme clas-

generi, del tipo di quello che più tar-

106

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

tifica con la sacra rappresentazione, di cui vengono

attentamente studiate le forme e gli sviluppi, fino a registrare la sua progressiva profanizzazione; proprio nel momento in cui da questa sua ultima evoluzione stava sorgendo un dramma profano, le cui principali

manifestazioni sono identificate da un lato coi drammi storici in latino del tipo del Fermandus servatus di Marcellino Verardi, dall’altro con l’Orfeo del Poliziano e con le altre azioni sceniche di tipo idillico® che sorgono alla fine del sec. XV, la progressiva familiarizzazione degli ambienti dotti e di corte col teatro plautino, la frequenza delle rappresentazioni delle commedie di Plauto e di Terenzio, l’approfondimento della cultura umanistica avrebbero determinato la morte del teatro d’origine popolare e la nascita del teatro regolare. Il D’Ancona — e vedremo subito come qui si nasconda il più grave punto debole della sua ricostruzione — si sofferma principalmente sul teatro comico, punta sulla Cassaria dell’Ariosto e sulla Calandria

del

Bibbiena,

mentre

al Trissino

e alla

Sofonisba fa solo un occasionale richiamo a p. 171 n. 1 del secondo volume.

Si può dire che tutta la cultura ufficiale, e natudi, nell’aetas Ovidiana, determinò il sorgere della commedia elegiaca franco-latina, sfiorante spesso il carattere di una vera e propria letteratura teatrale, ma tutta intimamente nutrita del modello di Ovidio. 3 Adopero il termine nel senso originario, classico con cui si denominano i componimenti di Teocrito. E al riguardo si veda come E. Bonora, ne Il Cinquecento, vol. IV della Storia della Letteratura italiana a cura di E. CeccHI e N. SAPEGNO, Milano,

1966, trovi (p. 627) che « ancora non più complessa di quanto potesse essere in un idillio teocriteo o in un’egloga virgiliana è

l’azione del Tirsi di Baldassare Castiglione ».

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

107

ralmente quella manualistica in primo luogo, abbia accettato in pieno il tracciato del D’Ancona, con una sola sensibile modificazione relativa all’Orfeo del Poliziano e ai successivi Favola di Cefalo di Niccolò da

Correggio, Timone di Matteo Maria Boiardo, ecc., dei quali si è generalmente attenuato il legame con la sacra rappresentazione e potenziata la sudditanza ai modelli classici dato il loro contenuto, sino al punto di farne un anticipo, a un secolo di distanza,

del dramma pastorale, e di sopravvalutare l’influsso ch’essi avrebbero esercitato sul mondo della cultura, incoraggiando il contatto dei nuovi autori colla palliata latina e col teatro tragico greco e romano per il fatto stesso che essi avrebbero contribuito a cacciare

dalla

scena ogni

collegamento

coi tradizionali

temi cristiani, sostituendovi la preminenza di temi ispirati al mondo classico. Scontata questa rettifica,

il quadro nel suo complesso rimase ligio alle linee che potevano essere tracciate solo dalla mentalità costituzionalmente romantica del filologismo ottocentesco, schiavo del preconcetto della Volksdichtung, il quale,

come coltivò per lungo tempo il mito dell’epica popolare creatrice della chanson de geste, così era stato ben lieto di rivendicare all’anonimo istinto artistico del popolo la vitalità delle forme teatrali per tutto il Medioevo, e quindi non aveva esitato a condannare in blocco tutto il teatro cinquecentesco come creazione artificiale e artificiosa di eruditi che avrebbero disseccato le linfe vitali dell’arte popolare per un malinteso pregiudizio di pseudaristotelica regolarità impo4 Vedine ora un'animosa demolizione in I. SıcıLıano, Les

chansons de geste et l'épopée, Torino, 1968.

108

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

sta dai modelli classici. Solo tardi e a stento il Ruzzante e Andrea Calmo, soprattutto per il fatto dell’uso di uno specifico dialetto, furono salutati come geniali preservatori dello spirito popolare, come generosi ideatori di un ritorno al fresco contatto con l’anima e la lingua del popolo entro il chiuso del teatro regolare d’ispirazione classica; e la commedia dell’arte venne guardata con simpatia come fermento che avrebbe determinato in forma massiccia la liquidazione della commedia regolare, come d'altro canto il dramma pa5 Non si volle capire che, nello stato in cui si dibatteva allora la questione del a lingua, e dopo le posizioni assunte dal Bembo, dal Giambullari, e soprattutto dal Trissino e dai suoi seguaci, la commedia pavana aveva un carattere regionale non più significativo e non più programmatico di quello della commedia spiccatamente, intenzionalmente toscana, fiorentina di un

Cecchi, e soprattutto di un Gelli e di un Grazzini, che pure

componevano un teatro regolare, ormeggiato su Plauto (come del resto quello del Ruzzante), anche se il D'ANcoNA (op. cit.,

vol. II, p. 36) distingue il primo dagli altri due, come autore di farse e continuatore, anzi letterario riesumatore del teatro popolare del Basso Medioevo, sia sotto l'aspetto della tematica religiosa sia sotto quello della tematica buffonesca. E non s'accorgeva che per il Cecchi non era il caso di fare una distinzione

del genere, che finiva col discriminare nel suo stesso corpus drammatico l'ennesimo cultore della commedia regolare dal ricostitutore della tradizione d'origine popolare, ma era invece ne-

cessario considerare tutto quanto il suo teatro alla luce di questa velleità di rimaner aderente allo spirito nativo della propria

terra, si che se nelle commedie a schema regolare l'influsso clas-

sico funzionava come una delle componenti, al pari della novel-

listica d'origine boccaccesca e degli allettamenti dell'eloquio be-

ceresco

e delle

situazioni

abituali

del mondo

fiorentino,

cosi

nelle farse e nelle composizioni riecheggianti la sacra rappresen-

tazione si faceva ugualmente flöche de tout bois per salvaguar-

dare lo spirito del più autoctono toscanesimo. 6 Il pregiudizio, nella sua forma rovesciata, trovò eco anche in PAoro FERRARI che, nel Goldoni e le sue sedici commedie

nuove, fece proclamare al commediografo veneziano, energico

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

109

storale acquistò una singolare dose e una singolare tonalità d’indulgenza come nuova soluzione dei rapporti fra il teatro e la tradizione classica, da cui — forse con una certa forzatura di sviluppi — veniva sentita discendente una forma teatrale, il melodramma, destinata ad acquistare un posto così preminente nella

civiltà teatrale europea.” riformatore e liquidatore della commedia dell’arte, il vanto di aver risuscitato lo spirito del teatro di Plauto e Terenzio;

era

sempre un esasperate il falso concetto che la commedia dell’arte fosse un volgare rinnegamento dei caratteri del teatro regolare d’ispirazione classica.. ? È appena il caso di ricordare come questa ricostruzione

sia disinvolta e approssimativa, sol che si pensi che prima del

1637 non sono riscotrabili una forma di rappresentazione riconducibile all’odierno melodramma e una sede di spettacoli paragonabile a quelle attuali per simil genere di rappresentazioni, sì

che tutta l’attività della Camerata dei Bardi va considerata fuori

dalle più sostanziali spinte conducenti al vero e proprio teatro

in musica e fin l'Orfeo del Monteverdi assume un carattere non del tutto remoto da quello del tanto più antico Orfeo del Poli-

ziano, giustificando in fondo chi vuol ricollegare l’idillio dram-

matico del tardo Quattrocento alla letteratura teatrale a sfondo idillico-pastorale della fine del Cinquecento e dell’inizio del Sei-

cento: cfr. nel volume miscellaneo Claudio Monteverdi, Torino, 1967, il saggio di C. GALLIco, Il teatro, pp. 151-56, e ivi la riflessione che le favole musicali della Camerata dei Bardi non

hanno nulla che vedere con la tematica, lo spirito e la struttura della tragedia greca, ma sono perfettamente in linea con l’ecloga drammatica contemporanea. Parimenti il fondamentale saggio di

DoNELLA Giacorri, Il recupero della tragedia antica a Firenze e la Cumerata dei Bardi, in Contributi dell'istituto di filologia moderna dell’Università Cattolica del S. Cuore, serie storia del teatro, vol. I, Milano, 1968, "PP. 94 sgg., Pur partendo (p. 105) dalla tesi risaputa e pregiudiziale che « il Bardi con i suoi seguaci operi un netto spostamento verso fonti greche attinte immediatamente dall'originale anziché attraverso le mediazioni dei

latini o, peggio, del Boccaccio », non fa che raccogliere una ricca documentazione dimostrante che questa tesi la sopra un equivoco e che tutte le rappresentazioni musicali dell'epoca sono

110

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

Quanto il D'Ancona procedesse alla cieca, in ob-

bedienza al pregiudizio del contrasto tra la Volksdichimparentate con l’ecloga drammatica e le sue ascendenze latine: cfr., alla medesima p. 105, il ricordo dei rapporti del Tasso, del Guarini e del Chiabrera con la Camerata e della rappresentazione a Firenze, il 5 ottobre 1600, della Contesa di Giunone e Minerva del Guarini con musica di Emilio dei Cavalieri; a p. 108 il fatto che il Bardi compiva le sue scelte specie nel campo delle favole ovidiane; a p. 110 che nel Bardi « molti spunti sono presi da Ovidio » e « le figure di dei ed eroi del primo intermezzo ... si rifanno alle descrizioni di Stazio e Virgilio »; a p. 111 n. 69 che in quell'ambiente — come ha già ricordato il D'Ancona, Op. cit., vol. II, p. 350 — l'anonima Rappresenta zione di Phebo et Phetonte Fr una fedele traduzione del corrispondente luogo del 1. I delle Metamorfosi ovidiane;

a p. 113

l'accenno « alla predilezione » di quell'ambiente « per testi dal facile patetismo tutto moderno (come il Pastor Fido guariniano) »; a p. 114 il riconoscimento che Emilio dei Cavalieri, colui

che si oppose alla Camerata piü che altro per una bega di precedenza rispetto alla Dafne del Rinuccini, esercitó « per questo suo più immediato aderire ai gusti del secolo, un'influenza contrastante e forse ben più determinante sul nascente melodramma»; ap. 122 n. 105 il fatto determinante che « Ovidio & addirittura posto in scena a dire il prologo della Dafne »; a p. 124

la constatazione che nel Rinuccini non si può certo parlare

di

tragedia; a p. 125 lo schizzo del Caccini che, musicando l'Egridice in gara col Peri, si volse a «un decorativismo tutto esteriore » e dette una più fedele testimonianza della sua personalità musicando il Rapimento di Cefalo del Chiabrera (e si noti il persistere della tematica delle ecloghe drammatiche del sec. XV: si pensi alla Favola di Cefalo di Niccolò da Correggio!);

a p. 128 la constatazione che nulla dell’antica tragedia,

ignota « nella sua essenza a questi tenaci indagatori, illusi sempre senza delusione, poté essere ricuperato. E in questo senso l’opera nuova è un inizio e insieme il segno di un fallimento »;

e a n. 124 la citazione del Peri, che nella prefazione all’Ewridice scriveva: «io non ardirei affermare questo essere il canto nelle greche e nelle romane favole usato »; a p. 130 l’ammissione che « i temi, tratti dalla mitologia greca e romana, ... sono

tutto fuorché tragici »; a p. 131 la decisiva conclusione che la

costruzione scenica del melodramma della Camerata « mutuava moltissimo ... dalla favola pastorale; e non solo tralasciava ...

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

111

tung e il presunto teatro erudito di esclusiva origine umanistica, lo dimostra una serie di contraddizioni e tutti i significati culturali e cultuali che stavan dietro lo schema drammatico classico, ma intaccava anche ciò che i tragedi cinquecenteschi . . avevano, nonché rispettato, venerato ed esaltato», sì che lo spirito ‘più affine finisce per apparire il Tasso dell’ Aminta.

Non

altrimenti il magistrale saggio di M. BOGIANCKINO,

Aspetti del teatro musicale in Italia e in Francia nell"età barocca, Roma,

1967, a p. 37 parla, rispetto alla Camerata di « mito

della rinascita della tragedia greca», e a n. 4 insiste sul rap-

porto

fra il balletto (allora ancora molto coltivato, specie da o dei Cavalieri, come poi nella Francia di Luigi XIV) con

la favola pastorale; a p. 66 mette in chiaro che «si guardò a

diverse fonti, e sempre latine, piuttosto che greche, come fu il caso dello stesso Rinuccini. Ma gli autentici modelli furono prin-

cipalmente gli autori di favore pastorali,

e quindi Tasso, Gua-

rini, Marino, Chiabrera o i loro imitatori »; a pp. 49-50, studiando come proprio nel siècle d’or, pure in ambiente molto

vicino ai grandi tragediografi, predomini nel teatro musicale la favola pastorale, cui anche Corneille sacrificherà

nella Psyche,

ricorda che G. B. Doni asseriva l'importanza della musica nella pastorale « purché vi si rappresentina Deità, Ninfe e Pastori di quell'antichissimo secolo, nel quale la Musica era naturale », e che Moliére nel Bourgeois gentilbomme trovava modo di dire: : « Lorsqu'on a des personnes à faire parler en musique, il faut

bien que, pour la vraisemblance, on donne dans la bergerie. Le chant a été de tous temps affecté aux bergers »; e finalmente pone in rilievo anch'esso (p. 44) «un altro dato che in Italia s'è affermato dal 1637; e cioè l'istituzione di teatri pubblici che inseriscono l'opera italiana in una diversa struttura e prospettiva sociale », e a p. 42 non manca di sottolineare la rivoluzione determinata nel 1642, in favore dei soggetti storici, dal libretto dell'Incoronazione di Poppea del Busenello. Il genio di Claudio Monteverdi, dopo l'Orfeo, Y Arianna, il Combattimento di Tan-

credi e Clorinda, con cui aveva recato al sommo l’originario orientamento del teatro musicale verso la favola pastorale ed eroica, seppe ergersi a un tipo di melodramma che, sterzando verso gl’ influssi del teatro tragico latino, poneva le effettive premesse del melodramma moderno in uno con l’influenza che sulla formazione ebbero i primi teatri pubblici, che ospitarono appunto l’Incoronazione di Poppea, modellata sull'Octavia pseudo-

112

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

di sviste disseminate lungo la sua amplissima e pur sempre utilissima trattazione.A p. 5 del vol. II, pree quindi segnacolo dell’ingresso nel mondo del melo-

dramans di quel Seneca che le Camerata aveva snobbato, di quel Seneca che, come nell’ Octavia, diveniva addirittura personaggio

dell’Incoronazione

e riusciva

forse

la più

perfetta

musicale di un personaggio nel mirabile melodramma.

creazione Si consi-

deri del resto l’esauriente consuntivo delle forme teatrali conducenti dagli idilli drammatici del tardo Quattrocento all’ Aminta e al Pastor fido, tracciato dal Bonora in Op. cit., pp. 627-34, nel

quale un posto particolare occupa l’Egle di G. B. Giraldi Cintio, di quattro anni posteriore all’Orbecche, in quanto mostra come la cultura cinquecentesca coltivasse ugualmente la tragedia regolare e l'ecloga drammatica, senza alcuna coscienza di contrasto

fra l'uno e l'altro tipo di attività teatrale, anzi come il suo autore avesse proprio l'intenzione di creare accanto alla tragedia un tipo di spettacolo che rappresentasse qualcosa d'intermedio

fra teatro tragico e comico; e di ciósi fece interprete nove anni dopo col Discorso sopra il comporre le satire atte alle scene. E

vero che, con quella velleità di riesumatore delle più ghiotte e piü nascoste caratteristiche della civiltà letteraria classica che lo contraddistinte specie in sede teorica, il Giraldi tenne a distinguere la sua produzione dall'ecloga drammatica e a risuscitare per essa il termine di safura in senso enniano e pacuviano,

giustificando così anche il fine lagrimevole, senza il quale la sua

fantasia di autore drammatico non sembrava potesse porsi in movimento. Ma giustamente il Bonora annota (p. 633): «In queste dichiarazioni, nonostante la prudenza di tante riserve, era ormai posta la questione del genere mistodi tragico e di comico, che avrebbe finito per trionfare nella vera e propria forma del dramma pastorale ». Del resto il trattato di architettura del Serlio, pubblicato nel 1546 (e quindi coevo a tutta l’attività di creatore e di critico del Giraldi), distingue una scena tragica,

una scena comica e una scena satirica, e per questa intende la scena del dramma satiresco e dell'ecloga drammatica, giustificando quest’ultima proprio col richiamo a una forma di teatro

greco pressoché ignota al teatro latino, ma codificata anch'essa

da Orazio nell’Ars poetica. Del resto è noto che la tripartizione del Serlio è quella classica vitruviana. È perciò probabile che il Giraldi,

sulla

fede

di Orazio,

fondesse

insieme

il dramma

greco fondato sul coro dei satiri con la satura drammatica latina e ad entrambe le forme considerate fuse insieme (su per giù.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

113

sentando il proemio della Favola di Cefalo di Niccolò da Correggio, Non vi do questa già per comedia, chè in tutto non se observa il modo loro; non voglio la crediate tragedìa,

se ben de Ninfe gli vedrete il coro. Fabula o historia quale ella si sia,

io ve la dono ...

egli annota:

«lo scrittore non sapendo né liberarsi

dagli esempj che aveva sott'occhio, né sciogliersi dalla tirannia dei modelli classici? mostra la sua titubanza fin dalle parole dell'argomento »; e non s'accorge che qui sorprendiamo già la costituzione a τόπος della rivendicazione di novità dell'opera propria che ogni autore drammatico aveva da tempo cominciato a fare sulle orme di alcuni tipici luoghi di proemi plautini

o terenziani. E il più strano è che poi, a pp. 18-19, dinanzi al prologo dell’Historia Baetica di Carlo Verardi, di solo sei anni posteriore all'ecloga drammatica di Niccoló da Correggio (Requirat autem nullus bic come nel titolo del romanzo di Petronio) tentasse di ricollegare la moderna ecloga drammatica, la cui vitalità è dimostrata anche dal prologo

della

pastorale

Hirifle

di

Leone

de'

Sommi,

in

cui é introdotto Virgilio a celebrare la superiorità di questo genere, che, ponendosi

come arbitro della contesa fra tragedia e

commedia, ne concilia e ne fonde i più lodevoli Su tutto ciò cfr. N. PirroTTA, Li due Orfei. Monteverdi, Torino, 1969, specie p. 57 sgg. e p. anche quanto in tutto il volume è detto della nente assunta nel sec. XVI dagl’intermedi. 8 E si noti l’uso dei due vocaboli ancora

aspetti stilistici. Da Poliziano a 307 sgg. E nota funzione preminella posizione

tonica dell’età dantesca, col conseguente peso del significato che allora si attribuiva ad essi.

? Si noti il caratteristico linguaggio.

114

SULL’INFLUSSO

Comoediae

DEL

TEATRO

/ leges ut observentur

CLASSICO

aut Tragoediae),

egli insiste nel dire che « si trovano quelle stesse incertezze sull’indole del proprio lavoro drammatico, che Niccold da Correggio confessava nel Prologo del Cefalo », ma poi d'un tratto, subito dopo, vi scorge una quasi battagliera coscienza di autonomia rispetto ai modelli classici:

« Tutto ciò è vero:

non soccorre-

vano al bisogno gli esempj di Grecia e di Roma; e altra cosa era trarre in sulla scena le favole pagane, tragiche o comiche: altra, que’ fatti che più colpivano l’animo delle generazioni viventi. L'immagine dell’arte antica stava in tal caso innanzi alla mente degli scrittori drammatici più per mostrar loro come dovesse farsi altrimenti, che per persuadere alla imitazione. Invece lo schema della Rappresentazione Sacra pareva meglio convenire alla verità dei fatti, alla moralità delle azioni, alla necessità di porre sulla scena avvenimenti e personaggi secondo l’ordine cronologico, e nelle loro relazioni storiche ». Per scovare in questo

prologo così nascoste e così arbitrarie prese di posizione, gli sfuggiva che l’anno dopo il nipote di Carlo Verardi, Marcellino, nella prefazione dell’analogo Fernandus servatus, affermava, chiarendo bene lo spi-

rito e l'origine

di questi

τόποι

proemiali,

Potest

enim haec nostra, ut Amphitruonem suum Plautus appellat, Tragicomoedia nuncupari." 10 Ciò non è sfuggito ad A. STÄUBLE, La commedia uma-

mistica del

Quattrocento, Firenze, 1968, p. 128, ed è stato posto

in chiaro nel

suo significato da me nella recensione che ho fatta

di questo volume in « RCCM », 1968, pp. 124 sgg. Sulla funzione d'appoggio che la Favola di Cefalo ebbe rispetto alle nascc rappresentazioni plautine, cfr. PIRROTTA, Op. cif., pp. 58-

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

115

Peggio ancora, analizzando l'Orfeo del Poliziano, il D'Ancona

(vol. II p. 3) afferma che « della Sacra

Rappresentazione il Poliziano non ritiene soltanto, nella massima parte del suo componimento, il metro dell'ottava, ma anche l’Annunziazione, la quale, non potendo essere fatta da un messo di Dio, & posta

in bocca al messaggiero degli Dei, a Mercurio». Va da sé che non puó non meravigliarci la disinvoltura d'aver dimenticato che il Poliziano, che contemporaneamente scriveva un prologo per una rappresentazione dei Menaechmi di Plauto, forse per quella fiorentina del 12 maggio 1488," doveva aver familiare la funzione di prologo assunta da Mercurio nell’Amphitruo del medesimo autore. Ma anche per quanto concerne l'uso dell'ottava è facile obiettare che — a parte il fatto che & arbitrario voler trarre restrittive illazioni dall'uso dell'ottava nel Poliziano, che di que-

sto metro si palesa maestro e fecondo innovatore nelle Stanze — fin allora la precisa discriminazione delle forme tradizionali nell'ambito della letteratura drammatica aveva necessariamente subito e continuava a subire continue oscillazioni. Nella mia già ricordata recensione al volume dello Stäuble ho posto in rilievo (p. 128) che ancora nel 1503-04 il prologo della Comedia sine titulo di Girolamo Morlini mostra incertezze sul concetto di commedia e tragedia, e che l’inserzione di Catullo, Properzio e dell’Ovidio del-

11 Cfr. A. Perosa, Teatro umanistico, Milano, 1965, p. 214. Di questa composizione del Poliziano fa ricordo lo stesso D’Ancona (op. cit., vol. II, pp. 64-65), datandola nella medesima occasione. Contro il collegamento del prologo di Mercurio alla sacra rappresentazione cfr. PIRROTTA, Op. cit., p. 22.

116

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

l’Ars amatoria nella categoria dei commediografi (onde meglio si spiegano i durevoli rapporti degli autori drammatici con Ovidio) si registra tuttora nei Genea-

logiae deorum gentilium libri del Boccaccio, quando già sembrava nettamente stabilita, col Mussato, col Trevet, con Lovato dei Lovati, con l’Epistola a Can-

grande e col Petrarca, la costituzione culturale del canone esatto degli autori di tragedie e commedie. Ed ecco perciò, proprio riguardo al particolare posto in chiaro dal D'Ancona, I due felici rivali di Jacopo Nardi, una delle prime commedie cinquecentesche di rigida derivazione da Plauto e Terenzio, ospitare frequeritemente l'ottava nelle sue scene; e anch'essa, nel prologo affidato plautinamente a un personaggio sim-

bolico, l'Improntitudine, esce nella dichiarazione: Ma la prima cagione perch'io son qua venuta é, che avendo veduta

una certa comedia, o comedia, o tragedia (dico delle moderne, ° quale il nome discerne, e non meriti o legge) condotto ho questo gregge di mimi e d'histrioni.

Dovremo dire che anche nel Nardi & il voluto ricollegamento con la sacra rappresentazione, -specie quando il suo linguaggio tecnico sfoggia termini (mimi, histrioni) della più pura tradizione teatrale classica? " 12 Anche il D'ANCONA ricorda (op. cit., vol. II, P 152) le commedie del Nardi, ma limitandosi ad annoverarlo i primi seguaci fiorentini della commedia regolare, anzi, rico:

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

117

Ma — come abbiamo già accennato — il punto più

debole della ricostruzione del D'Ancona è nell'essersi limitato quasi esclusivamente alla commedia nella sua arbitraria ricostruzione

dagli schemi avuto l’oscura un’opera come posta proprio

del teatro di gusto popolare

della sacra rappresentazione. Egli ha coscienza della smentita oppostagli da l’Ecerinide di Albertino Mussato, comalle soglie dell’età che si ritiene comu-

nemente iniziatrice del movimento

umanistico, coeva

dei commenti del Lovati e del Trevet al teatro senecano, dell’Epistola a Cangrande (ove è definitivamente fissata — ut patet per Senecam in suis tragediis — la funzione di Seneca come modello per la poesia tragica, come per la poesia comica — ut patet per Teren-

tium in suis comediis — è fissata quella di Terenzio) e degli stessi Argumenta delle tragedie di Seneca com-

posti dal Mussato nonché della trattazione su di esse

nel dialogo indirizzato dal Mussato a Marsilio da Pa(p. 153) il prologo dell'altra sua commedia, l’Amicizia, in cui si pronunciano i termini di palliata e togata, nel desiderio di accostarsi agli antiqui esempi

de’ poetici ingegni.

Ciò basta a mostrare come sia in errore il BoNORA, che (op. cit., p. 365), sulla base del fatto che le commedie

son composte

in

versi rimati, vuol minimizzare il debito del Nardi verso il teatro

classico e considerarlo come un campione della drammatica popolare. Molto più equilibrato il SANESI, che (La commedia,

2* ediz., Milano, 1954, vol. II, pp. 247-49), dopo aver ribadito i rapporti della Commedia di Amicizia col teatro latino, afferma

che coi Due felici rivali il Nardi « gettò ... nel crogiuolo delle forme classiche la materia medioevale che il Boccaccio gli of-

friva ». Sui rapporti fra le commedie del Nardi e la tradizione

classica anche

per l'inserimento

ROTTA, Op. cit., pp. 165-66.

di canti lirici, cfr. ora Pır-

118

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

dova. La nostra letteratura tragica — ora che son cadute tutte le scolastiche, fastidiose distinzioni fra

letteratura in latino e letteratura in volgare per i secoli dal Trecento al Cinquecento, e quindi tutti i fenomeni storico-letterari han cominciato ad essere con-

siderati in blocco — è apparsa per conseguenza così strettamente e integralmente vincolata sin dagli inizi al modello di Seneca ed in maniera così definitiva, che anche tutto il recente rinnovamento della problematica sul teatro, consacrato da noi dalla tendenza a ri-

dimensionare l’influsso classico come una delle componenti, costante ma pur sempre intrecciata con al-

tre, e da opere come quella di Paolo Toschi Origini del teatro italiano (Torino, 1955) — rivalutante l’ele-

mento popolare ma in un senso inedito, quello folkloristico, e magari folkloristico sacrale, a scapito di quello puramente religioso —, dalla Storia del teatro drammatico di Silvio D'Amico, dalla Storia del teatro italiano di Mario Apollonio," da Le spurie origini del nostro teatro teatro drammatico di Vito Pandolfi”

e dalle introduzioni alle raccolte di Aldo Borlenghi * e di Nino Borsellino,” ha finito per concentrarsi sulla commedia e per trascurare la storia del teatro tragico. Ebbene, il D’Ancona ha tentato di liberarsi anche dell’incomodo ostacolo costituito dall’Ecerinide del Mussato, che almeno per la tragedia gli mandava per aria tutto lo schema da lui tracciato, postulante solo agli 13 14 15 16 17

Milano, Firenze, Ne « Il Milano, Milano,

19584. 19513. Ponte », 1959. 1959. 1962.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

119

inizi del Cinquecento un’improvvisa sovrapposizione dei modelli classici a un teatro che si stava sviluppando dagli schemi della sacra rappresentazione, nel quale egli includeva arbitrariamente anche il teatro latino d’argomento storico fiorito nel Quattrocento ed evidentemente ispirato all'esempio dell’Ecerinide. Ma nel far questo non ha potuto sottrarsi a quella ch'é forse la più clamorosa contraddizione fra le non poche che

la gigantesca,

ammirevole

estensione

dell’opera

sua ha finito per provocare. A p. 18 del vol. I, riconoscendo una verità incontrovertibile, egli afferma: « ben può dirsi che, nel secolo XIV, Albertino sato non avrebbe scritto il suo Ezelino, se non proseguito di lungo studio e di grande amore l’autore drammatico, che l’età media conobbe

Musavesse quele me-

ditò sopra tutti gli altri: vo’ dire lo scrittore, o

gli

scrittori quali si siano, delle tragedie che vanno sotto

il nome di Seneca ». A parte lo stadio piuttosto approssimativo di conoscenza del problema della paternità senecana delle tragedie rivelatoci da queste pa-

role, e a parte l'inesattezza dell'opinione che per tutto il Medioevo Seneca tragico fosse stato largamente conosciuto e approfondito, va tenuto presente che nel medesimo luogo, a n. 1, il D’Ancona, appellandosi al Todeschini, dichiarò di voler tacere dell'Acbilleis,

« essendo ormai chiaro appartenere essa al vicentino Antonio Loschi ». Tutt'ad un tratto, a pp. 17-18 del vol. IT, quasi avesse dimenticato o smarrito le schede

da cui aveva ricavato quanto aveva già detto e noi abbiamo citato, egli esce a dire: « Albertino Mussato, 18 Del vero autore della tragedia L’Achille ... Lettera al prof. A. Menegbelli, Vicenza, 1832.

120

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

o chi altri si sia, che nell’Achilleide è buona scimia di Seneca, nell’Eccerrino non sa uscire dal concetto dram-

matico dell’età sua », cioè non riesce ad applicare al-

l’opera sua gli schemi della drammaturgia senecana, in quanto viola le unità di tempo e d’azione, cercando di ordinare in forma drammatica la storia di ben 64 anni della vita e delle gesta di Ezzelino e Alberico da

Romano. È fin troppo facile obiettargli che a questo punto il « chi altri precedente, esatta leis è il Loschi e quel giudizio della

si sia » è troppo affermazione che che ancora più perfetta fedeltà

tenue avanzo della autore dell'Acbilstrano è che, con di questo dramma

al modello di Seneca, il periodo è congegnato in maniera da riconoscere che, se nell’Ecerinis il Mussato è lontano

dalla tecnica senecana,

altrove le è rimasto

strettamente legato. E anche a voler ricordarsi che l’Achilleis del Loschi fu composta intorno al 1390, cioè 75 anni dopo l’Ecerinis, tuttavia nel medesimo

secolo del Mussato già sussisteva pertanto una letteratura teatrale integralmente ispirata a Seneca. Invece, puntando sulle differenze strutturali fra l'Ecerinis e il teatro di Seneca, il D'Ancona volle scovare anche nel dramma del Mussato la preminenza

della tecnica della sacra rappresentazione, che per lui era fuori discussione ogni volta che un autore drammatico si ispirasse a un fatto storico. Perciò sulla scia dell’Ecerinis egli accatastò i due drammi storici dei Verardi e il De captivitate ducis Jacobi di Laudivio da Vezzano, fino a un dramma storico in volgare, di forma irregolare, poema drammatico in quattro libri, in ottave, più che tragedia, composto dopo il 1521, il Lautrec di Francesco Mantovano, tutti nel solco della

sacra rappresentazione, come opere che con la trage-

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

121

dia classica avevano poco o punto da spartire. Abbiamo già visto invece come fino a tutto il sec. XV la cultura letteraria abbia faticato a penetrare gli stessi esatti concetti distintivi di commedia e tragedia,

e più ancora la tecnica suggerita dai modelli classici, sì che questi, pur entrando costantemente e in maniera rilevante come componente della letteratura teatrale, tardarono molto a determinare definitivamente lo schema strutturale, che fino alle soglie del Cinquecento obbedì solo in parte, in alcuni più in altri meno, alla

comoda e rigorosa suggestione strutturale del dramma antico. Proprio per questo molti tendono tuttora

a svincolare in tutto o in parte i dremmi latini di carattere storico del sec. XV dalla dipendenza rispetto all'Ecerinis: nel citato volume lo Stäuble, come gli ho

rimproverato nella mia recensione,” parla del De casu Caesenae di Ludovico da Fabriano e dei drammi dei Verardi a proposito della commedia umanistica, . e solo a pp. 126 e 167 accenna di passaggio a rapporti che potrebbero essere istituiti fra quei drammi e

l’Ecerinis e il De captivitate ducis Jacobi di Laudivio dei Nobili, che non si capisce come venga escluso dalla trattazione, quando vi è incluso il De casu Caesenae

(forse perché nei codici è chiamato ora fragoedia ora comoedia?), che in fatto di annotazione di atrocità negli eventi storici discende chiaramente dall’Ecerinis, e quindi consacra, sia pure indirettamente, la persistenza della componente senecana in ogni aspetto del

teatro tragico umanistico. Sulla sua condotta possono 19 Loc. cit., pp. 126-27.

2 A p. 126 lo STAUBLE fa l'ammissione più sintomatica

rispetto alla Historia Beatica e al Fernandus servatus:

«essi

122

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

aver influito i prologhi delle due opere dei Verardi, dei quali quello del Fernandus servatus si richiama addirittura, come abbiamo già visto, al prologo dell’Ampbitruo plautino; ma questo fenomeno andava inquadrato, come abbiamo detto, entro la generale oscillazione di tutto il Quattrocento fra schemi e forme dei

due generi teatrali, senza che perció si avesse a dimenticare l'importanza della componente senecana, megari

giustapponendole quella della sacra rappresentazione, riafliorante, al momento della prevalenza del teatro in volgare, con

l’uso dell’ottava,

come

nel Laufrec

di

Francesco Mantovano e nelle commedie del Nardi, se pure — come abbiamo visto — s'ha da dare un'importanza decisiva a questo particolare.

Di questa capitale importanza della componente senecana, sia pure con tutte le complicazioni e i dissidi nascenti dall'iniziale deficienza nell'assimilazione dello schema scenico, proprio l'Ecerinis & l'esempio e il punto di partenza decisivo. Già in linea pregiudiziale, in base a considerazioni d'ordine storico-letterario, ci

si dovrebbe soffermare sull'ambiente culturale in cui il Mussato fiori, sulla sua reiterata cura per il teatro di Seneca, sui suoi rapporti con Lovato dei Lovati, sino

al punto che i difensori di una conoscenza di Seneca

venire anche avvicinati a certe tragedie umanistiche che portano sulla scena avvenimenti della storia contemporanea, come l'Ecerinis di Albertino Mussato ed il De captivitate ducis Jacobi di Laudivio de' Nobili. Se ne parliamo qui, ció avviene soprattutto perché i limiti del genere comico non appaiono troppo chiaramente definiti ed anche perché nel corso della trattazione abbiamo anche fatto posto ad altre opere per le quali l'uso del termine commedia pud essere considerato altrettanto discutibile ».

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

123

tragico da parte di Dante e dell’autenticità dell’Epistola a Cangrande si sono fatti forti dell'ipotesi di una conoscenza acquisita dal poeta durante il peniodo ravennate, grazie ai suoi rapporti con Giovanni del Vir-

gilio, che era in corrispondenza col Mussato?! Ma a parte questo basta nichiamarsi agli Studi sul Mussato di G. Vinay,? che ha ben additato nell’opera il « gusto per il pauroso ed il macabro » come segno evidente del ricollegamento a Seneca, come sarà del resto per il periodo del capitale influsso del Cordovese sul teatro moderno, fino al dramma elisabettiano. E in-

fatti, se vogliamo

gettare un'occhiata

all’opera del

Mussato, subito all’inizio troviamo una scena, la rive-

lazione che Adeleita fa ai figli della mostruosa nascita di Ezzelino dal demonio, che congloba due motivi caratteristici dell'aspetto orroroso del teatro di Seneca, il sogno pauroso e l'apparizione proemiale di ombre infernali; e di li discende la paurosa invoca-

zione di Ezzelino al padre Lucifero. Seguono la desolata invocazione del coro a Cristo, sciorinante le orrende crudeltà di Ezzelino, e le due rbeseis finali dei nunzi, descriventi le morti atroci dei due fratelli da

Romano: siamo pienamente nella scia delle tipiche descrizioni del massacro dei figli e della moglie da parte di Ercole nell'Hercules furens, dell'uccisione di 21 Su ciò cfr. il mio Tradizione e struttura in renze, 1968, pp. 133-35), specie per l'ipotesi che il l'Epistola relativo a Seneca derivi dal commentarium nide composto nel 1317 da Guizzardo di Bologna e di Bassano che, oltre tutto, parifica la fortuna

Dante (Filuogo deldell'EceriCastellano

dell’Ecerinis

a

quella coeva delle tragedie di Seneca, oggetto dei commenti del Trevet e di Lovato dei Lovati. 2 [n « Giorn. stor. lett. it. », 1949, pp. 113-59.

124

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

Polissena e Astianatte nelle Troades e delle atrocitä di Atreo nel Thyestes. Ma non solo a questo si limita il senechismo del-

l’Ecerinis.

Se la struttura dell'opera si discosta da

quella di unità (e difficoltà tamento

Seneca per la violazione delle leggi delle tre si potrebbero aggiungere — a confermare le d'ordine strutturale insite nell’iniziale adatdel teatro moderno agli schemi senecani —

i cinque versi di carattere narrativo che introducono a

mo’ di didascalia l’invocazione di Ezzelino a Lucifero), un elemento costitutivo fondamentale del dramma è la presenza del coro, il cui carattere non è affatto riconducibile alla tecnica della sacra rappresentazione. Basta pensare al suo tono principale di riflessione etica, che lo spinge spesso

a commenti

e proposte

relative allo svolgimento dell’azione, nel più puro spirito del teatro di Seneca: si tratta dell’altro aspetto peculiare dell’influsso di Seneca sul teatro quattro e cinquecentesco, che la critica ha avutoil torto di trascurare e che spesso contraddistingue le ascendenze culturali di certo teatro, là dove manca il macabro:

si

pensi, per fare un esempio, alla Inés de Castro di Antonio Ferreira, composta intorno al 1560 e pubblicata postuma nel 1587, vertice del teatro regolare del Rinascimento portoghese; vi ho già insistito in Antico e nuovo, Caltanissetta, 1965, pp. 347-48.

Resta il problema del come l’influsso di Seneca abbia

determinato

d’argomento

all’inizio la nascita di un

storico. Qui cade in acconcio

teatro

la consi-

derazione dell'importanza assunta alla fine dell’aetas Ovidiana dall’Octavia, con la sua inserzione nella cosiddetta tradizione interpolata (A) del teatro di Se-

neca, quella preminente senza confronti come numero

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

125

di codici La presenza nel corpus drammatico senecano dell’unica praetexta superstite della letteratura latina, sceneggiante proprio un evento storico contemporaneo al suo presunto autore, anzi introducente lo stesso Seneca sulla scena come personaggio di rilievo, non poteva mancar di costituire per i letterati del Basso Medioevo un’attrattiva predominante. Di qui il facile stimolo a riprodurre i suggerimenti del teatro di Seneca proprio nella forma del dramma storico. E per questo la successione dei drammi di Ludovico da Fabriano, di Laudivio da Vezzano e dei due Ve-

rardi, di cui ora si può quindi comprendere quanto sia stato arbitrario l'inquadramento in una prospettiva storico-culturale prescindente da Seneca. E a non parlare dello Hiempsal di Leonardo Dati in cui dell’eredità di Seneca prevale l’impegno etico e filosofico — possiamo arrivare tranquillamente fino al già ricordato Lautrec di Francesco Mantovano, che, pur irreducibile a Seneca nella sua struttura fra drammatica e narrativa, tradisce la presenza della componente senecana nel suo singolare concentrarsi, sin dall’inizio, sulle rive dell’Acheronte, ove confluiscono vivi e morti a dialogare con Caronte e Plutone per

illustrare le crudeli vicende di Lombardia intorno agli anni venti del sec. XVI. Questa capricaiosa incertezza del dramma non impostato sopra una rigida obbedienza alla struttura classica perdurò per tutto il Cinquecento: nel prologo della Morte del re Acab (che prende a prestito anche tipi, come parassiti e

23 Su ciò cfr. G. pp. 125 sgg.

BrucnoLI,

in «Rend.

Lincei»,

1958,

126

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

milites gloriosi, dalla commedia) il Cecchi è arrivato a scrivere:

Quanto a tragedia, ella vuol tante parti, secondo che ne dicon questi dotti, a voler recitarla come fecero Atene

e Roma, che

io non credo che

oggi fusse possibile il condurla sì che la stesse interamente bene.

E per farla così a caso, è meglio lasciarla,

e torre una che sia

di mezzo; poiché l'una non si può e l’altra non si sa: e basta bene, che se l'istoria é antica, la maniera

sarà moderna: ché chi l'ha composta gli ha tolto via quel non so che di vecchio, per dir così, che dava lor la rima. Perché e l'ha fatta in versi sciolti, e aggiuntoci

gli intermedi * che vengon fuor; che & cosa moderna.

Abbiamo della

già notato come oggi il rinnovamento

problematica

relativa

al teatro

cinquecentesco

punti sulla commedia. Ma il fatto singolare & che 70 anni fa la conoscenza del teatro d'argomento storico, dall’Ecerinis al Lautrec,

forzó, come

abbiamo

visto,

anche i teorizzatori della nascita artificiosa di un tea-

tro regolare d'ispirazione classica nel secondo decennio del Cinquecento a cercar di rendersi ragione dell'esistenza nel sec. XV di una serie di drammi, definibili piü o meno come tragedie, che sembrava smentire la

loro costruzione.

Della

ricca

letteratura

comica

in

latino essi invece da principio non si dettero pensiero, 2 E nota qui l'importanza degl'intermedi su cui non a caso tanto insiste la già citata opera del PriRROTTA.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

127

forse perché la ignoravano:* il D’Ancona, che pure pubblicò la grande opera sua appena tre anni prima della rivelatrice opera del Bahlmann,* ignora completamente il Vergerio, Antonio Barzizza, Ugolino Pisani” e per la Chrysis di Enea Silvio Piccolomini si limita a soggiungere:? « Sarebbe desiderabile poter conoscere meglio che nel solo titolo la commedia Chrysis, di Enea Silvio, poi Pio II », facendo riferimento a G. Voigt, Enea Silvio Piccolomini, vol. II, Berlin, 1862, p. 269.

In ben diversa condizione si trovò Ireneo Sanesi nella seconda edizione della sua classica opera

sulla

commedia,” il cui secondo capitolo (Le commedia umanistiche) è anzitutto un prezioso bilancio di tutte le commedie di questo tipo progressivamente pubblicate o ancora inedite e presenta poi l’interpretazione 2 Si tenga presente che delle commedie di cui parla lo

STÄUBLE nel suo volume, l’Aetheria, le commedie del Frulovisi,

il Poliodorus di Johannes de Vallata, l’Isis di Francesco Ariosto,

il De falso bypocrita di Mercurino Ranzo sono state pubblicate di recente, e l’Armiranda del Carrara, la Comedia contra avaros, la Fraudiphila di Antonio Cornazzano, il Dolos, la Paedia e le

cosiddette commedie edificanti del Domizi sono ancora inedite. 2% Die lateinischen Dramen der Italiener im XIV. und XV. Jabrbundert, in « Centralblatt für Bibliothekswesen », 1894. A questo scritto tenne dietro Die Erneuerer des antiken Dramas

und ibre estern dramatischen Versuche, Miinster, 1896. 27 Eppure già nel 1890, a Berlino, erano state pubblicate da M. HERRMANN le opere dell'umanista Albrecht von Eyb, fra cui la sua versione tedesca della Filogenia di Ugolino Pisani e l'in-

serzione di un florilegio di passi dell’originale latino nella sua Margarita poetica.

2 Op. cit., vol. II, p. 63, n. 2. Ed effettivamentela prima edizione della commedia quella bruxellense di A. na 2 La commedia, 2° ediz., vol. I, Milano, 1954.

128

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

per me tuttora valida e indiscutibile della funzione e del significato della commedia umanistica in latino, lumeggiando all’interno di essa l’intreccio dei rapporti

col teatro classico e di quelli con le forme correnti in età medioevale e chiarendo come in essa si profili una graduale preminenza degli influssi classici che finisce per determinare l’affermazione del cosiddetto teatro regolare anche nella letteratura in volgare. Al riguardo anzi mi sembra che il tumultuario ridimensionamento

attuale della problematica sulla commedia abbia il torto di prescindere dalle conclusioni del Sanesi, rivendicante l’importanza primaria, storicamente determinabile nel suo sviluppo, della componente classica. Ma si attende ancora chi sappia tracciare per la storia del teatro tragico una linea analoga a quella tracciata dal Sanesi per la commedia, benché, come abbiamo visto, la conoscenza del teatro tragico tre

e quattrocentesco in latino, almeno di quello in argomento storico, rimonti a età più remota e abbia già sensibilmente infastidito i costruttori di una linea

interpretativa che ora si va palesando Neanche riguardo italiana tragedia del sec. storico,

arbitraria.”

il Neri e il Bertana riescono a soddisfarci al con le loro pur notevoli opere La tragedia del Cinquecento (2* ed., Torino, 1961) e La (Milano s.d.). Eppure a partire dalla fine XIV sussiste, accanto al teatro d’argomento una letteratura tragica d’argomento mitolo-

30 È sintomatico al riguardo che il Teatro umanistico di A. Perosa si limiti esclusivamente alla commedia, non ospitando neppure un’opera di carattere tragico, né d’argomento storico

né d’argomento mitologico:

il che può essere pienamente giu-

stificato sotto l’aspetto estetico, ina è pur sempre una deficienza sotto il profilo storico-culturale.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

129

gico, che più che mai prelude al foggiarsi del teatro tragico cinquecentesco in volgare sulle orme di Seneca, presentando quindi per la storia della tragedia una linea evolutiva analoga a quella fissata dal Sanesi per la storia della commedia. Della già ricordata Acbilleis di Antonio Loschi il D'Ancona ha fatto solo il cenno che abbiamo ricordato, ma nulla naturalmente

egli dice, per esempio, della Procne di Gregorio Correr, che pure era stata già edita nel 1558 e nel 1638 e tradotta nel 1561 da Lodovico Domenichi: una tragedia gremita di senecane atrocità e — a confermare la saldezza e sincerità di una fondamentale tradizione culturale — ispirata a un episodio ovidiano (né più ne meno della Favola di Cefalo di Niccolò da Correggio) secondo la linea direttiva che è spina dorsale di tutto il più moderno teatro tragico latino, e di quello di Seneca in particolare, cioè il richiamo a quell’Ovidio che

aveva

radicalmente

rinnovato

la sensibilità,

la

coscienza dell'umano, la prospettiva psicologica e la dinamica nell’ambito delle terrene passioni: cosa che rispunterà nella Canace di Sperone Speroni e che del resto l'aetas Ovidiana aveva valorizzata anche in funzione della commedia, tanto che Ezio Franceschini?! non ha esitato a pubblicare, nella sua raccolta e versione di testi teatrali medioevali, il De Babione come

esempio

di testo sostanzialmente

drammatico

fra i

31 Teatro latino medioevale, Milano, 1960, pp. 91 sgg. L’incontro fra i modi ovidiani e gli analoghi modi senecani nell’espressione artistica del mito

di Tereo e Progne è stato da me

illustrato anche in un altro dominio espressivo, in quello pittorico del Rubens, nello studio Ovidio e Seneca nella cultura e

nell'arte di Rubens, in « Bulletin de l'Institut historique belge de Rome », 1967, p. 553. 9

130

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

molti della commedia elegiaca derivanti dai modelli ovidiani. E non parliamo della Penfila del Pistoia, che è già del 1499 e sceneggia l’argomento orroroso di una delle novelle tragiche del Boccaccio e che — come ho ricordato in Antico e nuovo, cit., p. 335 — affida addirittura il prologo a Seneca. Oggi dunque è in discussione il conformistico trac-

ciato secondo cui la Cassaria dell’Ariosto e la Calandria del Bibbiena inaugurano la commedia regolare quasi ex novo: di che è facile scorgere l’arbitraria schematizzazione, sol che si pensi che la Calandria riecheggia da vicino i Menaechmi e un po’ più da lontano la Casina di Plauto, ma infarcendoli dei temi e

dei particolari del mondo boccaccesco e di quello popolare, mentre la Cassaria si tiene rigorosamente nella atmosfera della palliata, ma senza seguire da presso alcuno specifico testo plautino o terenziano; prova fra le tante della caleidoscopica varietà del teatro comico cinquecentesco sin dalle origini." Ma quando si passa al teatro tragico, benché stranamente si rinunci a sfruttare

la lunga

linea

preparatoria

costituita

dal-

l'Ecerinis del Mussato, dall’Achilleis del Loschi, dalla Procne del Correr, dalla Panfila del Pistoia e dai drem-

mi storici, che pur aveva tanto infastidito i creatori dello schema conformistico, rimane indistruttibile la

fede

nell'artificiosa,

puramente

letteraria

creazione

32 Ancora nel SaNESI (op. cit., I, pp. 221 e 269 sg .) è possibile scorgere la fedeltà al vecchio schema, mentre nel BoNORA (op. cit., pp. 334 sgg.) il fatto stesso che dell'Ariosto e del Machiavelli, per ragioni d'ordinamento dell'opera, si parla in altra parte e il predominante interesse estetico della trattazione fanno vanificare le linee della sistemazione storico-critica anche

per influenza dei nuovi fermenti innovatori.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

131

della tragedia regolare in volgare, rimane inconcusso il merito, o almeno la responsabilità di Giangiorgio Trissino con la Sofonisba. E la ragione è evidente:

se

ci soffermiamo sugli antecedenti in latino, l'influsso di Seneca appare prevalente; se invece partiamo dalla Sofonisba del Trissino, il carattere greco oltre e più che latino delle origini del teatro serio — già affermato dagli echi teocritei, teofrastei e lucianei avvertibili nell’Orfeo

dell’ellenista Poliziano

e nel Timone

del

Boiardo — emergerebbe dalla derivazione finora indiscussa della tragedia del letterato vicentino dall’Artigone di Sofocle e dall’A/cesti di Euripide. Quando nel 1953 Vittorio Gassman pose in iscena nel Teatro Valle il Thyestes di Seneca, in occasione dell'anteprima il compianto Silvio D'Amico ed io dirigemmo alla fine una discussione di studiosi sul valore e sulla eventuale attualità del teatro senecano. Perfettamente ignari delle più recenti esperienze del teatro europeo, a partire da quelle dell’Artaud, le quali rivalutavano il fermento che già nel sec. XVI Seneca aveva immes-

so sulle scene europee, i nostri valentuomini

non

fecero che rimasticare i luoghi comuni che, da Fe derico Leo in poi, hanno imperversato, determinando l'integrale svalutazione del teatro di Seneca; fra questi un Maestro della dottrina e della finezza di Augusto Mancini arrivò all’impensata ingenuità d’affermare che Seneca dovette la sua fortuna nel teatro cinquecentesco al fatto che ancora s’ignorava il teatro greco. L'affermazione suonò sbalorditiva per chi sapeva che appunto nella Sofonisba del Trissino s’av-

vertono evidenti gli echi dell’Alcesti e nel terzo coro gli echi dello stasimo dell’Antigone sofoclea inneggiante all'invincibilità d'Amore; che il tragediografo

132

SULL’INFLUSSO

sodale del Trissino,

DEL

TEATRO

Giovanni

CLASSICO

Rucellai,

strutturò

la

sua Rosmunda proprio sul contrasto tragico essenziale dell’Antigone e nell’Oreste copiò l’Ifigenia taurica di

Euripide; * che l’altro poeta fiorentino compagno del Rucellai Luigi

nell’attività di poeta

Alamanni,

scrisse

tragico e didascalico,

addirittura

un’Antigone

in

cui ormeggiò da presso la tragedia di Sofocle; che Alessandro Pazzi dei Medici tradusse da Sofocle l'Edipo re e l'Elettra e da Euripide l’Ifigenia taurica e fl Ciclope; che Ludovico Dolce ridusse da Euripide le sue tragedie Giocasta, Medea, Ifigenia, Hecuba; che finalmente il principale rappresentante dell’influsso senecano sulla tragedia cinquecentesca, Giovan Battista Giraldi Cintio, già nella lettera dedicatoria dell’Orbecche ad Ercole II duca di Ferrera parla dei « Greci,

che la tragedia trovarono » e poi dei « Latini, che togliendola da essi, senza alcun dubbio, assai più grave la fecero », e poi nell’aggiunta in versi alla tragedia, composta quando essa fu stampata e introducente la Tragedia stessa a parlare, per farle difendere la divisione in atti, fa rimontare erroneamente

questa ai tragediografi romani, dietro l’autorità della tradizione manoscritta di Seneca,

argomento

e ne trae un altro

per rivendicare la superiorità della tre-

gedia romana: E bene Seneca vide, et i Romani

antichi,

quanto vedesser torto i Greci in questo;

33 Il Bonora (op. cit., pp. 392 e 394) perpetua ancora l’improprietä di denominare questa tragedia Ifigenia in Tauride,

come il melodramma di Gluck e la tragedia di Goethe.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

133

e finalmente nel Discorso sulle commedie e sulle tragedie, stampato tredici anni dopo la rappresentazione

dell’Orbecche, pur ripetendo da Aristotele l’esaltazione dell’Edipo re sofocleo, come la tragedia « più atta alla compassione », pure esalta, sulle orme

di Erasmo,

i

caratteri dei cori senecani, a confronto di quelli della

tragedia greca” e sostiene la necessità di applicare - scrupolosamente proprio uno dei dettami più discussi e più ripugnanti del teatro senecano, cioè che il messo « devesi... estendere in narrare il caso miserabile e orribile, in mostrare

gli atti, i pianti, le parole, le

crudeltà, la disperazione, la maniera con la qual morto cadde il miserabile ». Dunque il ricollegamento a Seneca è effetto di una meditata scelta, non di ignoranza. Chi poi trascorre subito ad esaltare nella Sofonisba del Trissino il voluto ricollegamento alla tragedia greca avrebbe il dovere di tentar d'inquadrare questo filone di più pacata e più pura classicità nella genesi della tragedia regolare entro il gioco delle principali correnti culturali dell'età. Nel secondo decennio del secolo, in quella Roma di Leone X di cui il Trissino era considerato il diletto pupillo,” si andava liquidando, nella persona di G. B. Pio, la tendenza dell'umanesimo

dell'Italia settentrionale, fin allora così

preminente negl’indirizzi letterari, ad apprezzare gli scrittori latini della decadenza, e particolarmente Apu-

3 I cori

di Seneca erano « molto più degni di loda che

quelli di tutti i Greci; Legs ove questi molte volte si stendono

in novelluccie, quelli di Seneca con discorsi morali e naturali, tutti tolti dall’universale, ritornano meravigliosamente alle cose

della favola ».

134

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

leio, quella tendenza di cui — grazie agli stretti rapporti allora esistenti fra letteratura in latino e letteratura in volgare, in fatto di evoluzione del gusto,

e sempre

nel senso di guida che la letteratura nella lingua piü nobile e avita esercitava rispetto all’altra — in volgare si era avuta una manifestazione clamorosa col Polif-

lo. A tale tendenza reagiva, con meditata consapevolezza, il ciceronianismo, che prima di subire le terribili stoccate di Erasmo, si ergeva a corrispettivo, nella storia dello stile e del gusto, di quello che il Bembo avrebbe significato nell’ambito della lirica, della retorica e della prosa d’arte, il Castiglione nell’ambito del-

la letteratura etico-sociale e degli orientamenti del gusto, Bramante

nell’architettura e Raffaello

nella pit-

tura. Volendo interpretare la Sofonisba come primo 35 Quando perciò in Spigolature romanescbe, Roma,

1967,

p. 110, faccio notare che l’attività politica del Trissino in favore della consegna della città natia all'imperatore poteva irritare il papa e che perciö il saluto a lui in un'ode

di Fili ppo

dito poeta « di ostentare i suoi legami con tutti i

più illustri

Beroaldo iunior rispecchia soprattutto la sollecitudine dell’eru

scrittori del tempo », tale riflessione va ribadita con la constatazione che nonostante tutto i meriti del Trissino e specialmente i suoi tipici orientamenti culturali gli guadagnavano il favore del pontefice e che anche per questo il cortigiano Beroaldo s’affrettava a celebrarlo. % Per la storia di questo capitale momento della cultura letteraria rinascimentale cfr. ora C. DIONISOTTI, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze, 1968, e la mia recensione in « RCCM », 1968, pp. 129 sgg. Un primo tentativo d’inquadrare la drammaturgia del Trissino nell'ambiente culturale dell'età è stato ora compiuto da G. Picciorr, Gli Orti

Oricellari e le istituzioni drammaturgicbe fiorentine, in Contributi cit. dell'Univ. Cattolica, pp. 60 sgg., che fa dell'ambiente culturale degli Orti Oricellari riguardo alla poesia tragica il corrispondente di quello che nella medesima città sarebbe stata la Camerata dei Bardi, almeno teoricamente, per il teatro in mu-

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

135

esempio di poesia tragica in volgare costruito sullesempio della tragedia greca, potremo scoprire in questa singolare scelta del modello, che avrebbe trovato continuatori — come abbiamo già visto —, ma che

poi sarebbe stata sopraffatta dall’imitazione di Seneca, un impegno di gusto perfettamente in linea con l’evoluzione in senso classicista dalla cultura degli ambienti più dotti: come nella prosa latina e parallelamente in

quella in volgare si chiudevano gli occhi al richiamo di Apuleio e si severa classicità, basi del teatro diasse il fascino

risaliva a modelli di più quadrata e così si può pensare che, gettando le tragico in volgare, il Trissino ripudi Seneca, fin qui predominante nel

sica: gli antesignani, cioè di un programmatico ritorno ai modelli i. Molto giustamente il Piccioli profila la precedente vita del teatro tragico, dal Mussato fino alla Soforisba del Del Carretto e alla Canace del Falugi, come sviluppatasi sotto il di Seneca; meno giustamente propugna però anche lui, sulle orme dell’antiquato schema del D'Ancona, la preminenza della

componente

della sacra rappresentazione

(tanto

possono

ancora le constatazioni relative alla struttura esteriore dell’azione drammatica!); da ultimo pone in primo piano le discussioni teoriche negli Orti Oricellari e il teatro del Rucellai e dell’Alamanni, che direttamente ne derivò, come decisive manifestazioni del nuovo orientamento della letteratura drammatica, di cui uno

dei monumenti sarebbe la Mandragola del Machiavelli, certamente letta in quelle riunioni. Il Trissino, nelle sue visite agli Orti, molto avrebbe dato con la sua opera polemica in difesa del De vulgari eloquentia di Dante (pp. 83-84); ma come poeta drammatico egli avrebbe composto la Sofonisba un po’ a rimorchio di quello che contemporaneamente stava facendo il Rucellai con la Rosmunda e l’Oreste. Nel filone andrebbero poste senza residui le tragedie di Alessandro dei Pazzi e del Martelli. Vedremo come il rigore di questo tracciato debba soffrire sensibili attenuazioni; ma ad ogni modo non possiamo non congratularci con l’autore perché ha inteso la necessità d’inquadrare culturalmente la riforma drammatica del Trissino e perché ne ha rintracciato i rapporti forse meno discutibili.

136

SULL'INFLUSSO DEL TEATRO CLASSICD

teatro trazico im Sarno, € £ volesse ai più classico esempio della ıragecı greca Oe

truzzo così la nuova

creazione ci si presenza pi che mai distaccata da una tradizione preesistente fra corta e popolare quale che ella fosse, più che mai reısasre nel senso retoricoe dommatico insito nell'intervento fortemente arbitrario di una personacà tendente a fissare nuove norme. E nel caso particorare la sceita, così contrastante con

gli orientamenti culturali e di gusto dei due secoli precedenti, assicurava anche all'opera di un autore certamente non baciato in fronte dalla poesia una certa

possibilità d’imbocco delle vie espressive più nitide e solatie. È un fatto incontestabile che, nonostante ogni riserva formulabile sul vigore del dramma,

sull’inci-

sività dei suoi personaggi, sul valore sostanzialmente poetico

dell'insieme,

la Sofomisba

conserva,

nei con-

fronti dell’Italia liberata dai Goti e dei Simillimi, il

diritto ad essere giudicata opera non passibile di una rapida esecuzione capitale, ancora meritevole di una prova d’appello. Indubbia fu la fortuna di cui essa godette al tempo suo, una fortuna di cui avvertiamo le ripercussioni anche nella grande letteratura drammatica del siècle d'or francese, in cui le omonime tregedie del Mairet e del Corneille testimoniano la fortuna del tema dovuta proprio all’esempio del Trissino.

Pietro

Aretino,

nel dedicare

l'Orazia

a papa

Paolo III, dichiarava di averlo fatto « non per imitare: l'unico Tressino, che dedicò quella di Sofonisba e di Massinissa a Leone »; e la lode, in cui ci colpisce

quell’appellativo urico che l'Aretino sentiva risuonare e rivendicava per se stesso, era quasi doverosa nel torrenziale poligrafo che. pur avendoci dato la tragedia cinquecentesca forse più apprezzata almeno da

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

137

una parte della critica in reazione al duro giudizio del De Sanctis, in fatto di stile e di scorrevolezza del verso rimase così astralmente

lontano, così fastidio-

samente al di sotto rispetto alla tersa fluidità della Sofonisba trissiniana, che Giovanni Orsini che nel 1950 volle prepararne una ripresa sulla scena per la Scuola del Teatro drammatico di Milano fu costretto a mettere insieme un «intarsio scenico » in cui dell’originale aretiniano s'é salvato lo sviluppo scenico, ma non è rimasta quasi traccia dell’impasto linguistico, mentre molto più facilmente nel medesimo anno Giorgio Strehler poté mettere in iscena al Teatro Olimpico di Vicenza la Sofonisba, per celebrare il quarto centenario della morte dell'autore. Più interes-

sante, del resto, ricordare che il Tasso postillò con molto favore un’edizione della Sofonisba e persino Benedetto Croce la giudicò « tragedia commovente e degna di avere aperto la storia della tragedia italiana »." La scioltezza spesso soave dei versi costituisce indubbiamente l’elemento più positivo dell’opera: versi come il quartultimo e resta in tremolar l’onda marina, anche se vi appare chiaro il precedente dandesco, non

mancano di molcere l’orecchio e la fan-

7? Anche oup. ilὉ Ec Bonora (op. cit., p. 389) conferma le di

sposizioni non

li della critica, mettendo in chiaro

prio quanto abbiamo notato sui motivi di simpatia ispirati

ione che unico modello del Trissino sia stato il greco: « Il Trissino s’ispirava ad un ideale di bellezza semplice e misurata che arte fl col suo stesso modo di leggere i 1 modelli greci... A tratti, senza impeto, ... l'orecchio del attento coglie certe vibrazioni, che del resto non solo i

contemporanei ma pure i pori, per vari secoli seppero apprezzare: e specialmente che svolgono la storia dolorosa della protagonista, veramente amata dal Trissino ».

138

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

tasia del lettore, grazie anche all'originale e snodata alternanza di rime in cui si trovano inseriti. Basta pensare che il Giraldi Cintio niecheggiö il verso nel monologo di Oronte che occupa la quinta scena del terzo atto dell’Orbecche, E tutta in tremolar l'onda

marina, creando una delle rare aperture liriche nel tessuto espressivo della sua tragedia, opaco, faticoso e

contorto quasi quanto quello dell’Orazia. È il medesimo caso di un altro passo egualmente ispirato a un grande poeta, quello in cui Sofonisba si rivolge a Erminia dicendole: tu sola a questo tempo mi sei padre, fratel, sorella e madre,

che il Tasso trovava « verso sublime », e di cui piü giustamente il Bonora * ravvisa la «fonte nel discorso di Andromaca ad Ettore nel VI dell’Iliade »;

del resto già dinanzi alla scena in cui Sofonisba riceve notizia della sconfitta e della prigionia di Siface, il Tasso annotava: « Le passioni sono qui maneggiate alla maniera dei Greci »; e il Bonora (loc. cif.) più

generalmente osserva: « Questi ed altri movimenti poe. tici difficilmente sarebbero nati senza attingere alla poesia antica ». E che questa poesia antica sostanzialmente fosse quella della tragedia greca sembrano confermarlo

(ed

è opinione

corrente)

gl’intermezzi

co-

rali, ove effettivamente l’espressione raggiunge la sua sua più felice modulazione, e le famose scene finali, in cui la lenta, patetica agonia dell’eroina e il com-

pianto sulla sua sorte appaiono esemplati indiscutibilmente sull’A/cesti euripidea. 38. Op. cit., p. 390.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

139

Se però, nella fase terminale del ciclo in cui nella

tragedia in volgare l’influsso greco sembra resistere alla sempre più forte influenza di Seneca, Lodovico Dolce ci presenta il sintomatico fenomeno di ridurre le sue tragedie da Euripide ma di tradurre d’altro canto, e per intero, il teatro di Seneca, così est operae

pretium dare in breve un’occhiata più attenta alla costituzione della Sofonisba. Colpisce anzitutto il fatto che, invece di ispirarsi ad uno dei temi mitologici

cari alla tragedia greca (come faranno successivamente il Rucellai con l’Oreste, l'Alamanni e il Dolce), il Trissino si sia ispirato alla storia romana, ad una pagina

di Livio, e per giunta riprendendo l’esempio di un’altra Sofonisba composta nel 1502 da Galeotto del Car-

retto, in modi ancora remoti da quelli della tragedia regolare e più consoni a quelli del dramma storico in latino dal Mussato ai Verardi, così come ? la Canace

dello Speroni trova il suo precedente in una Canace di Giovanni Falugi, che, sebbene composta intorno al 1530, era ancora esemplata sull’arcadico modulo dei drammi del sec. XV. Cade pertanto l’ipotesi che si potrebbe formulare in base al preconcetto che il Trissino non avesse occhi che per la tragedia greca, che cioè la scelta di un tema storico gli fosse suggerita dai

Persiani di Fschilo. Il precedente del Del Carretto, collegato

con

la tradizione

che

per

tanti

aspetti

il

Trissino sembra rinnegare, ci fa intendere che la scelta di un tema della storia di Roma era pur sempre determinato dall’esempio dell’Octavia pseudosenecana matrice di tutto un filone che avrebbe moltiplicato i 9 Cfr. Bonora, Op. cit., p. 388 e G. PicciOLI, art. cit., pp. 71-72.

140

SULL’INFLUSSO

drammi

d’argomento

DEL

TEATRO

storico

CLASSICO

in tutte

le letterature

europee del XVI e XVII secolo, per non parlare delle ultime manifestazioni visibili nel teatro di Voltaire e dell’Alfieri, che fra l’altro nella Rosmunda avrebbe rimesso in iscena l’eroina del Rucellai e nella Sofonisba quella del Trissino. Cosi sin dal suo primo, esem-

plare dramma

la tragedia regolare in volgare ci si

presenta fornita quasi della medesima pluralitä e varietà di atteggiamenti e di caratteri che è ormai abituale niscontrare nella commedia; e quindi ora anche il fatto stesso che dopo la Sofonisba ci siano stati in ambiente fiorentino letterati disposti a comporre tragedie regolari sul modello di Sofocle ed Euripide testimonia proprio di questa varietà di atteggiamenti non minore di quella costituita nella commedia dall'intrecciarsi della componente plautina, di quella boccaccesca e di quella popolare. E se per la scelta del tema ci siamo permessi di puntare sull’ascendenza della tradizione senecana, spingente con l’Octavia a scegliere temi o di storia contemporanea o in genere storici (e quindi preferibilmente di storia romana),

ecco che un’analisi meno preconcetta della tragedia del Trissino ci porta a ravvisare la presenza in profondo di modi della drammaturgia di Seneca, con buona pace di chi vuol ricollegare la Sofonisba esclusivamente alle suggestioni della tragedia greca. Tralasciamo di notare che quando Scipione entra in iscene, il poeta gli fa pronunciare questi versi: Ecco i prigioni; e quel, che in piü onorato

luogo vien prima, & il misero Siface

di cui molta pietà mi giunge al cuore; e rimirando lui penso a me

che

tutti che vivem

stesso;

sopra la terra,

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

141

non siamo altro però, che polve, et ombra.

O come il vidi in gloriosa altezza

Ben quanto è più il favor de la Fortuna,a, tant'è più da temer, che non si volga: chè non fu alcun giammai sì caro a Dio, che vivesse sicuro un giorno solo.

Qui è evidente l’eco della famosa notizia polibiana delle lagrime versate dall'altro Scipione, l'Emiliano,

alla caduta di Cartagine, al pensiero che anche Roma in seguito avrebbe potuto subire, come la sua grande rivale, una così rovinosa disavventura: a parte il fatto che già Livio, nel 1. XXX, nel celebre episodio del colloquio fra Annibale e Scipione prima dello scontro decisivo (cc. 24-25), aveva fatto dire al Cartaginese: Melior tutiorque est certa pax, quam sperata victoria; haec in tua, illa in deorum manu est. Sed tot annorum felicitatem in unius borae dederis discri-

men. Cum tuas vires, tum vim fortunae Martemque belli communem propone animo; utrimque ferrum, corpora bumana erunt; e aveva fatto rispondere a Scipione: quod ad me attinet, et bumanae infirmitatis memini

et vim

fortunae

reputo

et omnia,

quaecum-

que agimus subiecta esse mille casibus scio. Siamo qui nel pieno della grande tradizione etica ellenistico-romana, di cui, nel campo della poesia tragica, proprio

il teatro di Seneca era la massima espressione. E un altro aspetto tipico della dremmaturgia senecana, i grandi contrasti oratori, recanti al massimo gli spunti di ἔρις processuale già visibili nel dramma di Euripide (si pensi al grande dibattito fra Anfıtrione, Megara e Lico sui meriti di Ercole all'inizio dell'Hercules furens e al dibattito fra Ercole, Anfitrione

142

SULL’INFLUSSO

DEL TEATRO

e Teseo alla fine della medesima

CLASSICO

tragedia), & palese-

mente ripreso nel grande agone immediatamente successivo fra Scipione e Massinissa sul diritto dei Romani a mandare anche Sofonisba a Roma: il lungo discorso di Scipione che conclude vittoriosamente la controversia ‘e il termine può essere tranquillamente adoperato proprio nel significato ch’esso aveva nelle scuole di retonica) è una perfetta argomentazione oratoria evidentemente esemplata proprio nei modi dell’oratoria romana quali si rispecchiano anche nel teatro di Seneca. Ma non solo a questi modi generici si limitano gli echi senecani nella Sofonisba. Un altro elemento per il quale forse sarà addotto il riscontro con la tecnica euripidea, ma che in realtà va collegato con le

forme molto più decise che il motivo assume in Seneca, è quello della sticomitia. Nel dialogo tra Sofonisba e Massinissa, in quello tra Lelio e Massinissa e soprattutto in quello fra Lelio e il messo e in quello

finale tra Sofonisba ed Erminia si giunge al medesimo, interminabile incrocio di battute cozzanti fra loro come lame di spade, che contraddistingue in Seneca l’ultima parte del dibattito tra Anfitrione, Megara e Lico nell’Hercules furens, lo scontro fra Agamennone e Pirro nelle Troades (di cui anche lo spirito ritorna evidente nel contrasto fra Lelio e Massinissa,* il col-

Cfr. Troad., 332-35 (4c. Praeferre patriam liberis regem

decet — PYR. Lex nulla capto parcit aut poenam impedit —

Quod non vetat bic, boc vetat fieri pudor — PYR. Quodcum ue libuit facere, victori licet) e queste battute della Sofonisba: « MASS. Mandiam pur gli altri, che ’l mandar la donna / non è

se non soverchio, e l'uom ch'é saggio / non deve operar mai

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

143

loquio tra Medea e la nutrice nella Medea, quello tra Fedra e Teseo nella Phaedra, quello fra Edipo e Creonte nell'Oedipus, quelli fra Clitennestra e la nutrice, fra Agamennone e Cassandra e fra Elettra e Clitenne-

stra nell’Agamemnon, quelli infine — che è più significativo — fra Ottavia e la nutrice, fra Nerone e Se-

neca e fra Nerone e il prefetto del pretorio nell’Octavia. Erminia accanto a Sofonisba ha la medesima funzione dell'immancabile nutrice accanto all’eroina (Medea, Fedra, Clitennestra, Deianira, Ottavia) nelle

tragedie senecane. ; Ma v'é ancora di più: c’è l’evidente concessione agli aspetti più chiassosamente vistosi della drammaturgia di Seneca. L’azione si apre proprio con la narrazione di un sogno pauroso fatta da Sofonisba ad Erminia, uno degli espedienti più cari a Seneca tragico: Appresso un duro sogno mi spaventa, ch’io vidi innanzi l’apparir de l’alba.

Esser pareami in una selva oscura,"

cosa soverchia.— LEL. Sia che si voglia, i' vo mandarla al tutto. — MASS. Lelio, non fate a me sì fatta ingiuria; / che infin a Dio non è l’ingiuria grata. — LEL. Che ingiuria vi facc'io, facendo quello, / che si costuma far di gente presa? ». 4! L'eco dantesca si affianca a quella omerica già sopra notata e all'altra eco dantesca nel quart'ultimo verso della tragedia, per avvertire come il Trissino smaniasse d'infoltire la sua creazione degli echi dei pià grandi poeti sia delle letterature classiche sia di quella in volgare. Tre versi più giù oserei proporre di emendare «suo furore» in «lor furore», richiamando la rabbia lor e supponendo che suo si sia inserito "nelle stampe per

effetto del pastor ancora sei versi vece di pigliasse, sostantivo lafrar.

più giù.

che subito dopo campeggia nel racconto. E più giù propenderei a leggere pigliasser inanche se il singolare può essere riferito al Ma si noti non potran pigliarti tre versi

144

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

circondata da cani e da pastori, che avean preso e legato il mio consorte; ond’io, temendo

l’empio suo furore,

mi volsi ad un pastor, pregando lui

che

da la rabbia lor mi difendesse;

e il pietoso aperse ambe le braccia e mi raccolse; ma d’intorno udio

un si fiero latrar, ch’ebbi temenza che mi pigliasse fin dentr’al suo grembo,

onde

mostrommi

e disse:

una

spelonca

aperta

Poiché te salvar non posso,

entra costì che non potran pigliarti. Et io v'entrai; così disparve il sonno.

Proprio l’Octavia, il dramma non autentico, ma indubbiamente intriso dei modi della tecnica senecana e certamente il più attentamente adocchiato dal Trissino nella composizione del suo dramma storico, ci presenta a principio il racconto di truci sogni fatto dalla protagonista alla nutrice (vv. 115-24). Quam

saepe tristis umbra germani meis

offertur oculis, membra cum solvit quies

et fessa fletu lumina oppressit sopor;

modo facibus atris armat infirmas manus oculosque et ora fratris infestus petit,

modo trepidus idem refugit in thalamos meos; prosequitur bostis atque inbaerenti mibi violentus ensem per latus nostrum rapit — iunc tremor

et urgens

excutit somnos

pavor

renovatque luctus et metus miserae mibi.

Nel secondo coro, col ricordo delle ferite, dei morti,

delle perdite dei familiari pià cari, di « chi s'ha visto

di braccio / tor la figliuola e farne le sue voglie », dell'acque dei fiumi numidi « di sangue tinte », il motivo del truoe orrore, sempre serpeggiante in fondo alla

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

145

tragedia, fa sentire il suo cupo basso ostinato anche nella voce commentatrice delle donne di Cirta. Il lungo racconto che la serva fa del suicidio di Sofonisba, nella presentazione dell’impavida magnanimità con cui l'eroina accetta la morte per il bene suo e il bene co-

mune, scavalca ovviamente la figurazione euripidea di Alcesti e si affisa piuttosto in quella dell’eroismo di Polissena nelle Troades di Seneca, di cui il nunzio racconta l’impavida morte (vv. 1137-1154); continua così il ricollegamento con le Troades che abbiamo già scovato, ponendo a raffronto il dialogo fra Lelio e Massinissa con quello fra Agamennone e Pirro; e il riscontro è ribadito dalle espressioni di Sofonisba riferite dal messo e relative al figlioletto suo e di Siface: O se mai cura d’Africa vi punse, che vi piaccia salvar questo mio germe;

il quale e senza padre e senza madre riman, prima che giunga

al second’anno;

e fatel’uscir poi di servitute,

non già come n’esch’io, ma più felice;

e gli anni che son tolti a la mia vita siano aggiunti a la sua, ch'e' s’allievi colonna a l’infelice suo lignaggio,

Qui all’eco di Polissena si sovrappone quella della protagonista della più drammatica scena delle Troades,

quell’Andromaca destinata ad esercitare una potente suggestione su tutto il dramma europeo di questi se-

coli, fino all’Andromague del Racine:9 si rilegga il 42 Sui debiti dell’Andromague del Racine verso le Troades di Seneca proprio per il personaggio della protagonista vedi il

mio studio Osservazioni sulle fonti dell’« Andromaque » di Ra-

cine: in Studi in onore di Italo Siciliano, Firenze, 1966, pp. 917-

10

146

SULL'INFLUSSO

disperato

DEL

addio dell’eroina

TEATRO

CLASSICO

ad Astianatte

(vv.

766-

775): O dulce pignus, o decus lapsae domus summumque Troiae funus, o Danaum timor genetricis o spes vana, cui demens ego laudes parentis bellicas, annos avi medios precabar — vota destituit deus. Iliaca non tu sceptra regali potens

gestabis aula, iura nec populis dabis victasque gentes sub tuum mittes iugum,

non Graia caedes terga, non Pyrrbum trabes; non arma tenera parva tractabis manu ...

Va da sè che lo spirito sottilmente macabro ch'è insito nel teatro di Seneca fa la sua apparizione più evidente nella scena finale della morte e del compianto di Sofonisba. Il pericoloso giocherellare che il coro fa con l’immagine della donna stecchita sulla sedia, che

si vuol accuratamente trasportare entro la reggia così com'è

(Non la movete giù da questa sedia ov'é, ma via portatela con essa Tenetela dai lati: or ch'ella è dentro da l’atrio, riponetela nel mezzo

-

e racconcisi poi come ha da stare),

e l’ordine di Massinissa di scoprire il cadavere perché egli lo possa contemplare (Mass. Ove si giace l’infelice donna? coro In mezzo a l’atrio sopra d’un tappeto. Mass. Voglio vederla prima che la terra m’asconda eternamente il suo bel volto coro Levate via quel panno che la cuopre MASS. Cara consorte mia, come vi vedo ...)

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

147

richiamano il famigerato finale della Phaedra, in cui Teseo e il coro si sollazzano a raccattare e a tentar di ricomporre le sparse membra di Ippolito lagrimando sul suo scempio. Ma il suggello di questi rapporti è dato dall’allucinazione di Sofonisba morente (Che veggio qui? che nuova gente & questa? Non vedete voi questo, che mi tira? u Che fai? dove mi meni? Io so ben dove. Lasciami pur, ch’io me ne vengo teco),

che riecheggia quella terribile della Medea

senecana

! vv. 958-71) quand'essa si appresta a sgozzare i figli (Quonam ista tendit turba Furiarum impotens? Quem quaerit aut quo flammeos ictus parat, aut cui cruentas agmen infernum faces intentat? Ingens anguis excusso sonat

tortus flagello. Quen trabe infesta petit Megaera? — Cuius umbra dispersis venit

incerta membris?

Frater est, poenas petit:

dabimus, sed omnes.

Fige luminibus faces,

lania, perure, pectus en Furiis patet —

discedere a me, frater, ultrices deas manesque ad imos ire securas iube: mibi me relinque et utere bac, frater, manu,

quae strinxit ensem. Victima manes tuos placamus ista —),

e quella ancor piü fragorosa disperata d'aver provocato la vv. 1002-1021 dell’Hercules non spenderemo molte parole

e reboante di Deianira sciagura di Ercole, ai Oetaeus. Dopo di che per sottolineare come

ancora una volta l'Octavia, colla scena finale del com-

pianto del coro di fronte a Ottavia trascinata alla rele-

148

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

gazione, offra un evidente precorrimento della scena

finale della morte e del compianto di Sofonisba.* Dopo questa analisi la Soforisba ci si rivela strutturata in maniera molto più composita di quanto comunemente si crede, sì da persuaderci che anche per la tragedia cinquecentesca in volgare, come per la commedia, non si può parlare di un dramma regolare in un senso dommaticamente fisso, ma piuttosto di un intrico di componenti

diverse che emergono in una

parte più e meno altrove, determinando prodotti sensibilmente differenti l’uno dall’altro. A ben guardare, il medesimo comportamento si manifestò nel Trissino quando, 33 anni all’incirca dopo la composizione della Sofonisba, verso la fine della sua vita, volgendosi alla commedia scelse nei Simillimi il partito di seguire da ivcino un modello plautino, abbracciò cioè il partito seguito dal Bibbiena nella Calandria, dal Machiavelli nella Clizia, da Lorenzino nell’Aridosia, e che il Gelli

avrebbe seguito nella Sporta, allontanandosi dall’altro seguito dall’archegeta Ariosto e dalla maggioranza de€ Cfr., a tacer d'altro, Oct. 968-69, non invisa est / mors

ista mibi, con sor. E chi ben nasce deve, o l’onorata / vita volere, o l'onorata morte », e Oct. 924-28, Regitur fatis mortale genus /- nec sibi quicquam spondere potest / firmum et stabile -/ per quae casus volvit varios / semper nobis metuenda

dies, con la battuta del coro del Trissino, « Ben non & danno alcun, che sia maggiore / de la necessità de la Fortuna ». À questo punto si può anche registrare il Quo me frabitis di Ottavia el colmo della scena e supporre che se ne sia ricordato il Trissino 4| momento di far esclamare a Sofonisba: « Non vedete voi que sto, che mi tira? », anche se nella Sofonisba si tratta di un tasma e nell'Octavia di sgherri che trascinano la protagonista verso la nave che la trasporterà a Pandataria. C'è però da rico hoste che anche l’Alcesti di Euripide pronuncia analoghe parole.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

149

gli altri autori di commedie, ch’era invece quello di riprendere la topica della palliata ma senza ormeggiare

da vicino alcuna precisa commedia; ma nel far questo mirò a rimpolpare lo schema plautino inserendovi ele-

menti della commedia greca (né più né meno di come mella Sofonisba aveva conciliato Euripide e Sofocle con Seneca), soprattutto introducendo il coro alla maniera

della

Παλαιά

(e qui perciò si rivela più che mai l’in-

tento di ricollegarsi anche al teatro greco; e cfr. Pirrotta, op. cit., p. 171), e raddoppiando la coppia dei Menaechmi, artificio con cui aprì la strada allo Shakespeare della Comedy of errors. Se ci volgiamo al Rucellai troviamo già, nonostante il suo costante e affettuoso sodalizio col Trissino, la tendenza a intonare la tragedia in ben altri accenti e secondo altre direttive, pur ereditando scrupolosamente lo schema ormai divenuto canonico con la Sofonisba. Per questo si deve osservare fra l’altro che l'edizione a cura di Guido Mazzoni,* che — come avverte il commento 5 — & condotta sui manoscritti e sulle edizioni precedenti, presenta sia per la Rosmunda sia per l'Oreste l’arbitraria divisione in atti, evidentemente sula base delle edizioni, perché, come ci

avverte lo stesso editore, i codici del sec. XVI contenenti le due tragedie, e cioè il cart. 6, XI, 64 della Comunale senese e il Magliabechiano VII, 9, 304 per la Rosmunda, e i Magliabechiani VII, 3, 979, VII, 9,

850 e XII, 9, 303 per l'Oreste, non hanno distinzione di atti o scene. Il Rucellai, che compose e pubblicò la

^ Bologna, 1887. 45 Op. cit., pp. 261-323.

150

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

Rosmunda quasi contemporaneamente alla Sofonisba del Trissino, seguì fedelmente gli schemi dell’amico; e dato che, come abbiamo già visto testimoniato dal Giraldi Cintio, si riteneva allora che Seneca avesse diviso

in atti le sue tragedie, si può ritenere che la decisione del Trissino e del Rucellai di non praticare la divisione

in atti fosse una programmatica proclamazione di ricongiungimento alla tragedia greca. Però dobbiamo ricordarci

che

neanche

l’Ecerinis

del Mussato,

costruita

con l'alternanza di scene dialogate e intermezzi corali come le tragedie regolari di cui stiamo discorrendo, presenta divisione in atti e in iscene; il Mussato, che

certo non conosceva la tragedia greca, se strutturò così

l’Ecerinis introduoendovi gl'intermezzi corali, dovette evidentemente modellarsi sopra una tradizione manoscritta di Seneca che non contenesse divisione in atti. L’ipotesi può essere suffragata dal commento trevetano alle tragedie di Seneca, di cui recentemente V. Ussani jr. ha pubblicato quello allo Hercules furens (Roma,

1959), e il suo alunno P. Meloni quello al-

l'Acamemnon (Palermo, 1961) e quello all'Hercules Oetaeus (Palermo, 1962). Orbene, in questi tre testi

si nota la strana contraddizione che per il Furens il Trevet dioe * In prima tragedia Senece, cuius materia est furia Herculis, sunt quinque actus, cioè rivela l'esistenza per lui della ormai canonica divisione in cinque atti, a ciascuno dei quali & aggregato il coro che lo conclude, e invece per l’Agamemnon díce" Continet

ergo

bec

tragedia

% Ed. USSANI, p. 5. 4 Ed. MELONI, p. 4.

actus

octo, e per

lHercules

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

151

Oetaeus dice analogamente‘ Continet autem hec tragedia actus octo, il che prova che almeno per queste due tragedie non esisteva divisione in atti, ma solo

in iscene e che anche gl’intermezzi corali erano considerati scene a se.” Cade perciò per questo fondamentale aspetto delle tre prime tragedie regolari italiane l’ipotesi che esso sia dovuto principalmente a una voluta affermazione di superiorità del teatro greco sul teatro senecano. Essa

certamente può trovare conferma nella già ricordata affermazione del Giraldi Cintio proclamante la supe-

riorità di Seneca sui tragici greci proprio per il presunto suo uso della divisione in atti, cioè proprio un

atteggiamento polemico rispetto al Trissino e al Rucellai. Ma abbiamo già assodato che, non praticando

la divisione in atti, questi continuavano in fondo l'uso della tragedia umanistica cana, a cominciare dall’Ecerinis;

di derivazione

sene-

per giunta abbiamo

già visto come il Giraldi Cintio nella composizione delle sue tragedie tentasse di riecheggiare il meglio dello stile del Trissino: e nel Discorso sulle comme-

die e sulle tragedie” ebbe a lodare come « soave e delicato » un coro della Rosmunda. Perciò è legittimo pensare che il Giraldi Cintio non avesse intenzioni po-

lemiche rispetto a quei due suoi predecessori e che

4 Ed. MELONI, p. 4. ® Cfr. infatti per l’Agamemnon, ed. MELONI, p. 36, Tercius actus huius tragedie est applausus chori de reditu Agamenonis; per l'Hercules Oetaeus, ed. MELONI, p. 14, Secundus actus est planctus chori Etbolicarum mulierum. 50 Cfr. l'edizione del Rucellai a cura di G. MAzzoNt, p. xxx, n. 1.

152

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

la contesa sia arsa intorno al terzo o quarto decennio del secolo ad opera di coloro che, considerando ormai

canonica la struttura della Sofonisba, non volessero ammettere quella divisione in atti che i più decisi imitatori di Seneca propugnavano in base al comportamento delle edizioni. Una volta sgombrato il campo da questa presunta prova della fedeltà del Rucellai al Trissino in una pretesa rivendicazione della superio-

rità formale del dramma greco, rimane incontestabile che con la composizione dell’Oreste il Rucellai volle spingere la tragedia regolare in volgare verso forme di più decisa sudditanza verso i modelli greci: e questo, come abbiamo detto, è già un segno di grande varietà nell’essenza della cosiddetta tragedia regolare. Ma il nostro dissenso comincia là dove, rinnegando questa varietà, si vuole costringere dentro i termini di questo programma anche la Rosmunda. Basta leggere la

prefazione di Guido Mazzoni alla sua edizione,” ove insiste sulla differenza fra lo stile della Sofonisba e

della Rosmunda e quello « altosonante e ampolloso in

alcuni, rigido e scarno in altri, che... prevalse poi sulle nostre scene tragiche » e che ovviamente è quello dei più conformistici imitatori di Seneca; parla di « imitazione dei Greci », asserendo che « come nella Sofonisba il meglio è imitato dall’Alceste di Euripide

e dall’Antigone di Sofocle, così a quest'ultimo dramma deve la Rosmunda i suoi versi migliori »; conclude che «la Rosmunda non è insomma che una sorella gemella

della Sofonisba », chiarendo

anche

come

il

Rucellai si sia esemplato sul Trissino anche nell’ado-

51 Pp. XxIV-XXXxI.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

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perare per i coti le forme della canzone e della ballata, avanzando poi su quella strada coll’aggiungere la sestina e il settenario sciolto in forma monometrica. Ma al riguardo gli sfugge che quest’ultima innovazione non può essere interpretata che come un riecheggiamento dei cori monometrici senecani, specie dei monometri anapestici. Anche il Bonora * ripete che la Ro-

smunda « molto prende dall’Antigone sofoclea ». Orbene la Rosmunda, proprio apparendo sorella gemella della Sofonisba anche nella sua caratteristica di dram-

ma storico, finisce per differire profondamente dal successivo Oreste, in cui effettivamente si giunge ad un quasi integrale travaso delle forme della tragedia greca nella tragedia regolare italiana; e ben lo comprese lo Schlegel quando, in nome dei preconcetti romantici, lodò il Trissino e il Rucellai per aver sostituito il dramma storico al dramma mitologico rispettivamente nella Sofonisba e nella Rosmunda. Basta questo per offrire la più valida riprova a quanto abbiamo già osservato a proposito della Sofonisba, che cioè in essa lo stesso carattere di dramma storico con tutte le conseguenze che ne derivano finisce per creare una categoria di elementi estranea ai rapporti con la tragedia greca. Per giunta l’argomento della Sofonisba apparteneva alla storia romana; con la Rosmunda scendiamo più giù, all'alto Medioevo, e come fonte a Livio si sostituisce Paolo Diacono; si percorre almeno metà del cammino che poteva ricondurre agli argomenti dell’Ecerinis e dei drammi storici del sec. XV, cui tornò agli inizi del secolo successivo Pom-

2 Op. cit., p. 392.

154

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

ponio Torelli col Tancredi e la Vittoria, mentre gli argomenti di storia contemporanea o quasi tornavano

ad inserirsi nel teatro degli altri paesi d’Europa, con l’Enrico VIII e in un certo senso l'Orello di Shakespeare, il Diavolo bianco di Webster, il Don Carlo di Otway, lo Scisma d'Inghilterra, il Principe costante, l'Alcalde di Zalamea di Calderón de la Barca e persino il Bajazet di Racine, che nella seconda préface

alla tragedia si giustificò proprio mediante il ricordo dei Persiani di Eschilo, in nome di quel suo programmatico classicismo ellenizzante con cui forse egli voleva far dimenticare i suoi abbondanti incontri con Seneca tragico autentico o spurio in tutto il suo teatro, e specialmente nell’Andromaque, nel Britannicus e nella Phedre. Certamente

la consuetudine

col Trissino,

intrec-

ciante nella Sofonisba agl’influssi senecani quelli di Sofocle e di Euripide, dovette suggerire al Rucellai l'innegabile legame della Rosmunda con quell’ Antigone di Sofocle da cui il Trissino aveva desunto il terzo coro della Sofonisba: Rosmunda viola un ordine di Alboino dando sepoltura al cadavere del padre, quel Cuni-

mondo che nella tragedia del Rucellai diventa Comundo, come Antigone seppellisce il fratello Polinice contro il volere di Creonte; e il colloquio fra Alboino e lei dopo il suo arresto richiama da presso l’immortale scena sofoclea. Ma d’altro canto una trama drammatica sceneggiata in una cupa età di barbarie e sfociante in orrori come l’obbligo per Rosmunda di bere nel teschio del padre e l’assassinio del tiranno affidato

a uno spasimante della regina dovevano per forza scatenare le pericolose suggestioni del tragico latino

maestro di orrorose nefandezze. Sin dal primo mo-

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mento

in cui Alboino

DEL

TEATRO

compare

CLASSICO

sulla

scena,

155

i suoi

connotati sono quelli del tipico tiranno senecano, una reincarnazione dell'esemplare Atreo, il Tyrann als Unmensch secondo il titolo della nota dissertazione* in cui Ilona Opelt ha studiato il tipo nelle tragedie di Seneca: E voi, si alcun nimico fatel morire e ’l corpo a corbi, a nibbi, a lupi, Chi vuol reggere stati,

ancor ci resta, suo gittate a cani, ad orsi. imperii o regni,

li bisogna esser sopra ogni altro crudo;

perché da crudeltà nasce el timore e da timor l’obedienza nasce

per cui si regge e si governa el mondo.

Senza disturbare l’Atreo del Thyestes e l’Egisto dell’Agamemnon basta rifarsi al Lico dell’Hercules furens il cui monologo d’ingresso presenta sorprendenti nscontri coi versi ora letti:

cfr. vv. 342-45,

omnis in ferro est salus:

quod civibus tenere te invitis scias, strictus tuetur ensis, alieno in loco

haut stabile regnum est; e v. 353, Ars prima regni est nosse te invidiam pati.

La successiva presentazione del teschio di Cunimondo al re langobardo viene a creare una

situazione non

dissimile da quelle più tipiche del Thyestes, che sug-

3 Freiburg i. Br., 1951.

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SULL’INFLUSSO

DEL TEATRO

CLASSICO

gerisce all’autore variazioni di sadica ferocia non inde-

gne del truce modello senecano: Io lodo assai la vostra diligenzia. Segate el cranio e fatelo ben netto, e circundate d'or l’estreme labra;

perché ne’ piü solenni miei conviti vo’ ber con esso.

Tutte le considerazioni strategiche e politiche con cui Falisco induce Alboino a sposare Rosmunda e quelle morali con cui egli riesce a piegare la figlia del re ucciso riproducono il mondo d'idee e di sentimenti in cui respirava l'ispirazione di Seneca; e nelle seconde s'insinua anche un tocco dell'acre realismo cui s'acconciava spesso il tragedo spagnolo per meglio misurare gli eccessi dell'umana schiavitü alle passioni, anche se l'idea che Rosmunda possa esser costretta a sposare un servo richiama l’Elettra di Euripide: Ti può serva tener nel suo palazzo; e far per forza a le tue regie mani spazzar e' * pavimenti e gli alti letti spogliare e rivestir di seta e d’oro, e in altri duri officii affaticarti;

o ver per moglie al più vil servo darti con cui ti converrà torcendo el fuso miseramente guadagnarti el pane.

E a questa scena segue un lungo dialogo fra Rosmunda e la nutrice, in cui ritorna per la prima volta nella ** Correggo così lo e ancora consacrato nell'edizione del

MAZZONI. Si tenga presente che nel medesimo verso già un altro guasto è stato introdotto dalle stampe, che leggono e gli altrui etti.

SULL’INFLUSSO

DEL

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tragedia italiana il classico personaggio senecano della nutrice, nella sua precisa funzione consistente nel prodigare saggi consigli alla sua pupilla. Nel racconto che la serva fa del macabro convito in cui Rosmunda è costretta a bere dal teschio del padre, un verso, d’indi

beveo più lagrime che vino, contiene la sua brava pointe preziosistica nel più puro spirito dell’asianesimo senecano. E finalmente nella descrizione che il nunzio fa dell’uccisione di Alboino da parte di Almachilde si raggiunge l’intrusione a grande orchestra del più autentico gusto senecano dell’orrore, dandoci quindi la possibilità di rivendicare l’importanza della componente senecana in questo tragediografo del Cin-

quecento, così come l’abbiamo già rivendicata per Federico Della Valle.” È a tutti noto quel brano descrittivo dell'uccisione di Agamennone, in cui l'immagine della testa imperfettamente mozza del re sta quasi a simboleggiare i limiti addirittura raccapriccianti del gusto di Seneca quando egli indulge alla sua passione per i coloriti foschi (vv. 901-903): pendet exigua male caput amputatum parte et hinc trunco cruor exundat, illic ora cum fremitu iacent.

55 Cfr. Antico e nuovo, cit., notato che anche il Della Valle nella

p . 339-47, in cui abbiamo Iudif insiste con macabro

compiacimento sulla testa mozza di Oloferne, che nell’Adelonda

egli rielabora l'Ifigenia taurica di Euripide, prima di rivolgersi a temi che l'avrebbero familiarizzato col teatro di Seneca, e che, mentre in questo dramma ha compiuto la divisione in cinque atti pur senza introdurre gl’intermezzi corali, nei drammi successivi è tornato allo schema originario di Seneca, inserendo i quattro canonici intermezzi corali ma non praticando materialmente la divisione in atti. V'à dunque una rete di strette analogie fra il Rucellai e il Della Valle.

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Il Rucellai lo ha riecheggiato da vicino, trascendendo per giunta ad una ancor più repellente amplificazione: In quello spazio ch’io mi volsi adietro per non vederlo, gli tagliò la testa. E fatto questo, un gran fiume di sangue con maggior copia di vino e di schiuma dal singulante tronco giù versare vidi, e Ἶ petto anelar come in fornace

quando talor el gran soffiar del vento

esce Tale qual che

di fuor per le bovine pelle. appariva quella atroce testa quella de la vipera o serpente spesso l’arator col vomer fende.

Così tagliato, quello orribil teschio ci fe’ paura, perché ben tre volte

le sue sanguigne luci ne’ nostri occhi stravolse, aprì la bocca e battè i denti;

e morto ritenea quella fierezza che avea quando era vivo e quello orrore.

Almachilde la prese per la barba e dentre a certo panno la rinvolse

sol per portarla ne la tua presenzia.

Per un autore che sarebbe seguace della purezza ellenica, cultore di uno stile elegantemente fluido e pacatamente sereno, non c’è proprio male!

Nel 1541 il Giraldi Cintio compose l’Orbecche, l’anno successivo Sperone Speroni compose la Canace: la tragedia d'ispirazione senecana s’affermava dominatrice. Ma ancora nel 1546 Pietro Aretino, in

questo decennio particolarmente fecondo e veramente decisivo per la tragedia italiana, sembrava per reazione consacrare con l'Orazia la fedeltà al modello del Trissino, da lui del resto esaltato nella dedicatoria della

tragedia, come abbiamo già visto. E il fatto ch'egli taccia integralmente del Giraldi e dello Speroni auto-

SULL’INFLUSSO

DEL

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CLASSICO

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rizza a supporre che voglia proprio contrapporsi al loro esempio; né del resto mancano documenti di fiere polemiche

suscitate

specialmente

dalla

Canace.

Ma

abbiamo già visto che nella Sofonisba è fuor di luogo parlare

dell’assenza

di un

influsso

senecano

e che

esattamente alla scuola del Trissino il Rucellai con la Rosmunda ha creato proprio l'esempio più marcato del senechismo orroroso e violento. Pertanto anche

l'Orazia dell’Aretino consacra quell’equilibrio instabile fra elementi di varia provenienza che contraddistingue sin dalle origini la nostra tragedia regolare: in questo l'Aretino ha mostrato di aver ben inteso la lezione del Trissino, dal quale del resto si è distaccato riducendo quasi a zero le suggestioni della tragedia greca, forse non familiare alla sua formazione culturale. Questo è già motivo molto notevole per inserire la tra-

gedia dell’Aretino in una sensibile linea di contrastato sviluppo della tragedia regolare italiana, sol che si

pensi che in seguito il Dolce, traduttore di Seneca, scrisse riduzioni di tragedie euripidee, Giovarmi Andrea dell’Anguillara compose l’Edippo, Pomponio Torelli la Merope e la Galatea, che del resto s’avvicina al dramma pastorale, e persino uno dei principali rappresentanti del senechismo puro, lo Speroni, si volse

con la Canace ad un tema mitologico, secondo i precisi dettami, del resto, del modello senecano; e su ciò

torneremo a riflettere a proposito dell’Orbecche e della Canace, rispetto alla quale l’Orazia, composta dopo, sembra rappresentare una reazione anche per questo. Per di più nella scelta della fonte — Livio — l’Orazia sembra riprendere da vicino gl’insegnamenti della Sofonisba; e chi volesse scoprire in essa un atteggiamento polemico rispetto agli autori delle più

.

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SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

recenti tragedie di stile decisamente senecano non avrebbe che a soffermarsi sulle prime parole del prologo affidato alla Fama: Io non son’ombra uscita

di grembo in l’altra vita a gl’infernali orrori.

Del Trissino crediamo di poter avvertire un’altra eredità nella tendenza a incastonare nel tessuto drammatico ed espressivo spunti tratti da grandi autori classici di altri generi poetici, inseriti in punti di rilievo tali da far avvertire subito l’imprestito, in tutto il suo valore e il suo significato. Così quando Celia, secondo il tipico spunto

senecano (e cominciamo

ad enume-

rare i molti elementi di adesione anche dell’Aretino a questa fondamentale componente del nostro teatro tragico), dialoga a lungo con la nutrice, se da un lato

la vediamo imbarcarsi in una disquisizione sui concetti di libertà, di servitù, di superbia e di umiltà che

son tipici del clima ideologico ed espressivo del Cordovese, dall’altro vien fuori in un sospiro esprimente quel /aedium vitae che per analoga ragione era stato

consacrato dalla Giuturna virgiliana nell'ultimo libro dell’Eneide: onesta cosa e cara stata fora

che procreata non mi avesse in terra: o che nataci il fil tronco si fusse dello stame vital sul far del nodo.

Onde il mio spirito prima averebbe visto il cielo, che il mondo, e Iddio che l’uomo,

e così non sarei la più dolente, la più infelice isventurata donna che persegua tra noi stella maligna.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

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Cosi nell’atto quarto, nel dialogo fra Publio e i duumviri, sul più bello risuona un’evidente citazione del virgiliano parcere subiectis et debellare superbos: Oggi egli sol de’ punire i superbi; perdonare agli erranti.*

In questo accumulare suggestioni e spunti convogliati d’ogni parte l’Aretino, come sempre, sembra avviare anche a nuovi orientamenti e additare vie nuove: così

nell'allocuzione

che

Publio

rivolge

al

popolo

subito dopo che Orazio ha ucciso la sorella spunta il primo cenno della drammaturgia dell'essere e del parere, sia pur volta in un senso che non si comprende bene se amalogo oppure opposto a quello pirandelliano: Che inver l'esser non è quel che ne inganna perocché mai non ingannó persona; ma il parere tradisce ciascuno. Cosi quasi all'inizio del terzo atto la nutrice s'accorge della presenza di due viandanti (Questi duo, che ragionano tra loro, ascoltiam di qui dopo, e saperemo cid che fa cotal gente ove voi dite)

e l'autore ce li introduce a dialogare fra loro come uomini della strada, dandoci notizie per mezzo loro dello svolgimento dei fatti e facendoci avvertire i 56 In questo

l’Aretino rivela la medesima

familiarità con

Virgilio che ho posta in rilievo, analizzando (Spigolature, cit., pp. 115-65) la parafrasi del 1. IV dell’Eneide da lui operata nei Ragionamenti. 11

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SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

sentimenti della massa. Siamo giä nel pieno di quella che sarà la tecnica shakespeariana, in completo rinne-

gamento degli schemi e delle norme della drammatur-

gia classica. È una novità che ben s'attaglia a uno spirito culturalmente

ribelle come

l’Aretino e che po-

trebbe spingerci ad additare nell’Oraziz, entro la varietà d’acoenti della tragedia cinquecentesca, una con-

cessione allo spirito popolare, che finirebbe col farci porre l’Aretino come autore tragico nella medesima posizione ambigua

fra il letterario e il popolare in

cui lo si suol porre come

autore comico.

Ad

ogni

modo è qui uno dei tanti indizi della fecondità del nostro teatro tragico cinquecentesco, che al riguardo va considerato, rispetto al grandioso sviluppo del teatro delle altre nazioni europee, non meno ricco di stimoli e di suggestioni del teatro comico, non solo

per il deciso avvio da esso dato alla ripresa degli orrori senecani,

trionfanti nel dramma

elisabettiano,

ma anche alla scelta di temi e di coloniti, dalla già notata predilezione per gli argomenti storici a quella per temi d’origine novellistica, sino a quel culto dell’esotismo che si afferma soprattutto nel Giraldi con le tragedie più tarde,” che troverà poi uno dei suoi culmini nel Torrismondo del Tasso, e che troverà echi specie nel teatro elisabettiano, dove, per esempio, a a non parlare dell’Orello, Misura per misura di Shakespeare non si sa bene se derivi dalla quinta novella dell'ottava deca degli Ecatommiti o dall’Epitia, in cui il Giraldi rielaborò in forma drammatica questo tema

di una sua novella; e per il nostro teatro tragico basta 5! Cfr. Bonora, Op. cit., p. 405.

SULL’INFLUSSO

DEL

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pensare che nell’etä di maggior rilievo, il Settecento, tutti i migliori autori, da Scipione Maffei con la Merope all’Alfieri, riprenderanno temi dei nostri tragici del Cinquecento. Ed è singolare che il Giraldi, mentre ha evitato i temi mitologici consueti a Seneca (in questo campo non ha composto che una Didone, tema ch’egli ha in comune con Lodovico Dolce e con Alessandro Pazzi dei Medici, e che, derivando da Virgilio,

finiva per porre queste tragedie al limite fra mitologia e storia nello spirito del poema virgiliano e in affinità con le tragedie del tempo derivanti da Livio), mentre ha sacrificato anche lui con la Cleopatra al dramma storico d’argomento romano, si sia poi compiaciuto di temi che lo avviavano a esprimere nello sfondo, come dice il Bonora, « un esotismo vistoso e pittoresco ». Questi caratteni bastano a farci intendere che anche

un siffatto orientamento rientra nelle suggestioni della

componente

senecana;

è risaputo ? che uno

degli

aspetti meno graditi della drammaturgia senecana è l’orgia dell’erudizione mitologica e geografica. Da essa più che dal ricordo delle operette senecane perdute di carattere geografico esotico (De situ Indiae, De situ et sacris Aegyptiorum) o di curiosità storiconaturale (De motu terrarum, De lapidum natura, De piscium natura), delle quali non sappiamo come po-

tesse essergli pervenuto il ricordo, dovette derivare al Giraldi il gusto delle sceneggiature fascinosamente esotiche, per il quale se mai un altro valido avviamento egli dovette ricevere dalla Germania di Tacito,

58 Cfr. la mia introduzione alla versione delle tragedie di Seneca, Roma, 1956, pp. x-X1.

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SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

che la cultura del tempo doveva giustamente sentire in linea col mondo culturale ed espressivo di Seneca. Ma nell’Orazia — come abbiamo già avvertito —

la componente senecana non manca di far sentire la sua non episodica presenza. Si deve notare anzitutto che già nella prima edizione veneziana del 1546 la tragedia appare con la divisione in atti, di cui il coro

di virtù coi suoi interventi scandisce ogni volta la fine. Per un autore, che nella scelta della fonte, nell’inte-

resse per una principale figura femminile liricamente approfondita e nell’espressa citazione e lode contenuta

nel prologo intendeva rifarsi al Trissino, è sommamente significativa l’accettazione della decisa riforma del Giraldi introducente la divisione in atti come presunta eredità di Seneca. A ciò si aggiunge, in linea

generale, quell’approfondimento della psiche dei personaggi principali, che ha costituito il principale motivo di lode per tutti i critici che hanno esaltato o almeno apprezzato l’Orazia, dal Tonelli, nel Teatro italiano, a Silvio D’Amico (op. cit., vol. II). Ma, come

in Seneca, questo pregio è ampiamente condizionato, negativamente ripagato e quindi danneggiato da una enorme, palesemente sproporzionata abbondanza di sproloqui, di riflessioni, di palleggiamenti oratorii, attraverso i quali l’autore si sforza di giungere all’individuazione dei caratteri; questo difetto è stato additato dalla critica con mano sicura, come il più grave elemento deficitario dell’Orazia: ed anche per questo riteniamo che l’Orbecche del Giraldi, gonfia anch'essa di compiacenze oratorie ritardatrici e goffamente, astrusamente enfatiche, sia servita da tramite fra Se-

neca e l’Aretino. Noi ci arrischiamo a ravvisare infatti in questo aspetto anche il tributo più largo pagato dal-

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DEL

TEATRO

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l’Aretino all’influsso senecano, e per giunta con quella pesantezza e opacità di nessi espressivi che rendono

più che mai atono e sordo il profluvio delle concessioni all'impianto retorico. Un altro rilevante indizio di rapporti con Seneca è il modo con cui

l’Aretino

affronta il caso limite dell'uccisione di un personaggio

sulla scena. È risaputo — e l'Ars poetica di Orazio sta li a dimostrarlo ? — che la retorica antica vietava che si recasse sulla scena l’uccisione di un personaggio e prescriveva ch'essa fosse riferita indirettamente; e in

effetti la tragedia greca ignora violenze di questo genere sulla scena, sì che in fondo la regola s'è formulata proprio in base all’uso del teatro attico. Uno degli argomenti su cui più si è dibattuta l’annosa e addirittura fastidiosa contesa se le tragedie di Seneca fossero scritte per la recitazione o la rappresentazione

è stato proprio che alcune tragedie vialano questo precetto e arrivano addirittura, nel violarlo, a creare

difficoltà irresolubili per una messa in iscena: quando nel Furens Ercole impazzito delira sulla scena e infierisce sulla moglie e sui figli, attraverso le parole di Anfitrione apprendiamo che uno dei bimbi egli (vv. 10061007) bis ter rotatum misit; ast illi caput / sonuit,

cerebro tecta disperso madent, e che di Megara egli (vv. 1025-26) perfregit ossa, corpori trunco caput /

abest nec usquam est; è impossibile che sulla scena si potesse assistere veramente allo schizzare delle cervella fuori dal capo di uno dei figli di Ercole, che, anche se personaggio muto, doveva pure comparire

sulla scena nella sua fisica presenza di umano pargo5 Cfr. vv. 180-88.

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DEL

TEATRO

CLASSICO

letto; e altrettanto deve dirsi, a maggior ragione, del personaggio di Megara che così a lungo ha parlato fin allora nella tragedia. Parimenti nella Medea la maga uccide il secondo degli figli sulla scena sotto gli occhi del padre (vv. 997-1019), e forse glielo getta ai piedi

dall’alto del tetto dove s'è rifugiata: altro particolare irrealizzabile sulla scena. E neanche a farlo apposta questo è uno dei casi che Orazio, codificando il precetto opposto, aveva ricordati come da evitare: nec pueros coram populo Medea trucidet (v. 185),

sì che sembra che Seneca abbia voluto sfidare di proposito il precetto oraziano, come di proposito si sia

sollazzato a rendere palpitanti nel racconto del nunzio nel Thyestes, pur senza porli in iscena, i particolari

dell’altro fatto orroroso che nel verso successivo Orazio giudicava inconcepibile sceneggiare direttamente: aut humana palam coquat exta nefarius Atreus.

In realtà non è detto che Medea dovesse gettare per forza dall’alto del tempio il cadaverino ai piedi di Giasone, anche se il penultimo verso della tragedia recipe iam natos, parens, conforta quest’ipotesi: che quindi sulla scena apparisse sullo sfondo, in alto, la sua

uccisione del figlio è particolare che non poteva arre-

care nessuna difficoltà alla scenografia; e non v'é neppure una grande difficoltà a supporre che, dopo aver fatto sparire il corpo effettivo del bimbo ucciso fingendo di deporlo dietro la cimasa, essa poi gettasse sulla scena un piccolo fantoccio raffigurante il cadaverino. Sono piccoli espedienti scenografici la cui presenza non doveva costare gran che neppure ad un

SULL’INFLUSSO

DEL

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167

regista dell’antichitä, che doveva battersi, fra l’altro,

coi vari problemi spesso proposti dal deus ex machina: altrimenti non comprenderemmo neppure come

non solo la Medea di Seneca, ma anche quella di Euripide — indubbiamente rappresentata — potesse concludersi con la visione del carro alato che permette a Medea di sfuggire alla vendetta del marito e dei Corinzi.9 Similmente è facilissimo supporre che la scena del Furens in cui Ercole uccide la moglie e i figli fosse congegnata in modo che Ercole, dopo aver dato di piglio a ciascuno di essi, lo trascinasse per un attimo

dietro una quinta e Anfitrione, correndo dietro al folle, riferisse al pubblico il fatto orrendo, senza che

gli spettatori fossero obbligati a contemplarlo di persona. In altri termini, le parole di Anfitrione non avrebbero, come finora s'é ritenuto, il preciso valore di didascalia di ciò che avviene sulla scena, ma avrebbero la funzione più spiocatamente e più praticamente

teatrale di rivelare agli spettatori ciò che essi non vedevano nel breve istante in cui Ercole, agitandosi confusamente sulla scena, s’era sottratto loro alla vista.

Così, postulando la possibilità di una rappresentazione, le parole di Anfitrione non sarebbero gravate dal ri-

lievo d’essere un inutile riempitivo riguardo allo svi-

6 Con argomenti del genere nel congresso dell’Association Budé a Aix-en-Provence nel 1963 io risposi al compianto

W. BEARE, che era tornato ad addurre come prova dell’impos-

sibile destinazione del Furens alle scene il fatto che ivi compare Ercole reduce dell’Averno, trascinandosi dietro Cerbero dalle tre teste (vv. 595-604 e 807-27). Ma che al ri O potesse comparire sulla scena un fantoccio simulante l'aspetto tricipite di Cerbero è ipotesi che non presuppone alcuna difficoltà per gli scenografi antichi.

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SULL’INFLUSSO

luppo scenico, zionalitä.

ma

DEL

TEATRO

assumerebbero

CLASSICO

una

precisa

fun-

Orbene, proprio in questo senso, proprio interpretando in questa maniera la scena del Furens e risentendone l’influsso mi sembra si sia comportato l’Aretino mettendo in iscena l’uccisione di Celia da parte del fratello, e rivelandoci come dunque i problemi suscitati dalla conoscenza di Seneca nella forma dei manoscritti d’allora (divisione in atti, semiviolazio-

ne di precetti oraziani) fossero tormentosamente presenti agli autori di tragedie. Come Ercole sui figli, così anche Orazio s'avventa sulla sorella a scena aperta: Per le trecce dorate, per le chiome bionde e sottili, egli l'ha presa, e tira,

dice un'ancella, in forma di didascalia molto piü evi-

dente di quella che sembrerebbero avere le parole di Anfıtrione nella scena senecana: infatti Orazio e Celia, che pronunciano le battute successive, sono ancora in

iscena. Ma subito dopo l'ancella aggiunge: Oimè, oimè, oimé, sotto a quell’arco risospingendo ognun col guardo indietro, la trascina il crudele, e forse adesso, oimé, le toglie la vita; o Nutrice, non andare si oltre ch’ecco il crudo,

che il fier coltel, che gocciola di sangue, ripone ardito in la guaina sua.

Dunque la nutrice era corsa dietro Orazio che trescinando la sorella s'era venuto a trovare dietro un arco,

fuori della vista del pubblico; & la medesima situazione che abbiamo immaginata per la scena del Furens,

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

169

spiegando le parole illustrative di Anfitrione sul macello dei familiari di Ercole col fatto che questi avesse trascinato le sue vittime dietro un niparo che lo coprisse egli occhi degli spettatori. Ma in questo modo sia la strage compiuta da Ercole nel Furens, sia l’uccisione di Celia nell’Orazia avvengono quasi in pubblico. Così — ed è sommamente istruttivo — l’Aretino, proprio interpretando nella maniera più esatta" la

scena del Furens, si è saputo tenere a mezzo fra i due recenti esempi di tragedia di stretta osservanza senecana che, presentando fra l’altro molte novità tecniche, avevano rinfocolato le polemiche fra i dotti: l’Orbecche del Giraldi e la Canace dello Speroni. Ispirandosi rigorosamente ai precetti d’Aristotele e di Orazio, lo Speroni, pur riecheggiando largamente, sotto tutti gli aspetti, lo stile di Seneca, aveva applicato con assoluta fedeltà la norma che l’uccisione o il suicidio dei personaggi non andavano posti sulla scena ma raccontati da messi: in questo modo siamo largamente informati della morte inflitta a Canace ed al suo ‘ bimbo e del suicidio di Macareo, e l'unico particolare più macabro e forte che l’autore introduce all’ultimo, in obbedienza al dominante senechismo, è la presentazione ad Eolo della spada di Macareo stillante il sangue del suicida. Invece il Giraldi — che pure abbiamo wisto accettare la norma dei racconti del messo,

ma

salvaguardandone, sulle orme di Seneca, la minuziosa

61 Nello studio citato a n. 56 ho già posto in rilievo quanto acutamente l’Aretino ha interpretato certe cruces del testo vir-

giliano, come insomma egli fosse lettore attento e penetrante dei

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SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

atrocità — s'era ispirato alla sconcertante 9 libertà di Seneca che non solo aveva adottato, come nel Furens,

la soluzione di comodo cui abbiam rato l'Aretino nell’Orazia, ma nella cisamente fatto uccidere i figli dalla e nell'Oedipus aveva fatto avvenire

visto essersi ispiMedea aveva demaga sulla scena ugualmente sulla

scena il suicidio di Giocasta. Perció nell'Orbeccbe as-

sistiamo indirettamente all’uccisione del re Sulmone da parte della figlia ma poi direttamente al suicidio dell'eroina che dà il nome alla tragedia. Che il ritorno dello Speroni alle regole oraziane fosse stato un evidente

impegno

polemico

in opposizione

all'esempio

irregolare dell'Orbeccbe lo può far supporre l’espressa menzione e difesa della sua libertà fatta dal Giraldi nel successivo monologo finale della Tragedia, scritto all’atto della stampa del dramma: E s’avut’ha lo Stagirita duce, che tanto vide, e tanto seppe, e scrisse,

e di compor tragedie aperse l’arte,

nel darsi aperta morte la reina, ond’ ho il nom’ io, per por fine al suo male, maraviglia non è se da le leggi del Venusino in ciò partissi, e volle nel cospetto del popolo col ferro

darsi con forte man la morte in scena.

A confermarci che sulla soena avviene solo il suicidio di Orbecche sta il fatto che il Giraldi ricorda una sola delle due morti finali, cioè il suicidio di Orbecche e non

l'uccisione di Sulmone da parte della figlia: e in realtà, € Forse anche perché così apertamente ribelli al precetto oraziano le tragedie di Seneca sono state ritenute scritte non per

la scena ma per la lettura.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

171

se trascuriamo la strage dei figli compiuta da Medea sulla scena (in quanto si tratta di bimbi e personaggi muti), il suicidio di Giocasta, analogo a quello di Orbecche, è l'unico caso di morte violenta che Seneca

faccia avvenire in presenza del pubblico riguardo a un personaggio che precedentemente

abbia

campeg-

giato e parlato sulla scena. Se puó sembrar pedantesco che ci si soffermi su particolari e problemi tecnici di tale natura, a nessuno

sfuggirà, credo, che in essi s'annida anche di tastare il polso alle singole tragedie per il tono. Cosl, per insistere di passaggio stose differenze fra le due tragedie ormai

la possibilità individuarne sulle piü vicapofila del-

l'indirizzo senecano, l’Orbecche e la Canace, e sull'evi-

dente intento polemico con cui la seconda si differenzia dalla prima, si deve tornare a riflettere che — mentre l’Orbecche inaugura il gusto giraldiano dellesotismo, creando una Persia di fantasia, con

suoi

nomi stranamente e volutamente aspri e stridenti, coi suoi Orbecche e Malecche fino al goffo e per noi spassoso Allocche 9 — lo Speroni & tornato rigorosamente 6 E nel più tardo monologo finale della Tragedia il Giraldi scese in campo a difendere anche questo aspetto della sua creazione, con affermazioni gravidedi futuro, decisive per i successivi orientamenti della poesia tragica, che giustificano perciò la nostra insistenza su questi problemi e queste polemiche: Né mi dei men pregiar perch’io sia nata da cosa nuova, e non da istoria antica, che chi con occhio dritto il ver riguarda, vedrà che senza alcun biasimo lece che da nuova materia, e novi nomi nasca nova tragedia; né perch'io da gli atti porti il prologo diviso

172

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

con la Canace ai temi mitologici; che il Giraldi nell’Orbecche ha rigorosamente conservato, salvo in un discorso della nutrice nella prima scena dell’atto secondo, e in due settenari pronunciati da Orbecche poco

prima di morire, l’endecasillabo sciolto per le parti dialogate, riserbando i metri lirici agl'intermezzi corali e ormeggiando la metrica dei cori dela Sofonisba, salvo nel compianto finale, in cui, a imitazione delle

trenodie delle senecane Troades in cui Ecuba si associa al coro, la nutrice dialoga col coro in metri lirici, debbo

biasimo

aver,

però

che

i tempi

ne’ quai son nata, e la novità mia,

e qualche altro rispetto occulto fammi meco portarlo: che ben pazzo fora colui,

il qual per non por cosa in uso,

che non fusse in costume appo gli antichi, lasciasse quel, che '1 loco e '| tempo chiede senza disnor;

e s'io non sono in tutto

simile a quelle antiche, & ch'io son nata testé da padre giovane, e non posso comparir se non giovane ...

Appresso non

ti paia stran che i Ciri

meco non abbia, e i Dari e le Satipne,

quantunque i’ mi confessi esser di Persia. Che da sì fatto biasimo iscusare mi può il mio nascimento a chi ben mira.

i da p

che, Ἔν

tante urne

lo Speroni on

nella

anace il criterio di presentare il prologo separato atti. Debbo avvertire che ho conservato le oscillazioni di grafia fra nuovo e novo perché attestate dalle edizioni. A proposito del senso di novità che col suo teatro il Giraldi intendeva suscitare e quindi dei suoi influssi sul teatro inglese e francese, prezioso è P. R. Horne, The Tragedies of G. B. Cintbio Giraldi, Oxford, 1962, che però ha il torto di negare troppo asso-

lutamente i motivi anche di tono cristiano controriformista cui il Giraldi ha appoggiato il suo moralismo, e che noi mette remo

in luce più giù.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

173

e invece per lo Speroni nella Canace — in cui, salvo alla fine e in un breve dialogo tra il famiglio di Macareo 6 il coro all’inizio del quarto atto, il coro manca

e si desiderano gl’intermezzi corali conclusivi dei singoli atti — i personaggi dialogano sistematicamente in forma di strofe di canzone, con settenari e quinari alternati agli endecasillabi: cosa che suscitò contro

lo Speroni un diluvio di rilievi e di dissensi, e che può essere spiegata anche col fatto che in Seneca egli trovava la melopea in anapesti di Ippolito all’inizio della Phaedra, l’uso di ritmi lirici, con inserzione di dimetri

giambici nei trimetri e una lunga serie di versi anapestici, da parte di Medea nella scena dell’incantesimo

nella tragedia omonima, l’uso da parte di Tieste di metri anapestici nel cosiddetto brindisi delle lagrime,

il passaggio, in forma di ϑρῆνος, di Teseo al settenario trocaico alla fine della Phaedra.* Evitando di far scannare Celia dal fratello sotto gli occhi degli spettatori l’Aretino ha forse voluto inclinare, nell’aspra polemica suscitata dalle due tragedie guida, dalla parte dello Speroni, che sappiamo essere stato da lui lodato. Ma dal Giraldi ha invece ereditato, come abbiamo detto, la propensione per l’altro aspetto del teatro senecano costituito dai lunghi discorsi, dai rigiri oratorii: quella propensione che 6 Nel mio studio Sulle sigle dei personaggi nelle tragedie di Seneca, in «St. it. fil. class. », 1956, pp. 343-45, ho defini-

tivamente dimostrato che i vv. 1199-1200 precedenti la treno-

dia di Teseo vanno posti in bocca a Fedra morente. Bene vi si è adeguato il Viansino nella sua recente edizione (Torino,

1965); e suscita stupore che nella più recente edizione di G. C. GiARDINA (Bologna, 1966) si torni, sulla fede di E, ad attribuire i due versi a Teseo.

174

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

fu rimproverata al Giraldi, e che egli difende nel monologo tardivo della Tragedia, a proposito della lunga scena e dell’interminabile discorso con cui Malecche tenta di far accettare a Sulmone il matrimonio della

figlia con Oronte: E ch’io sia grande, e grandi abbia le parti, fuor de l’ordin non è de la natura;

anzi maggior beltà regna in quei corpi, che ne la spezie lor sono maggiori. E s’alcun è, cui grave sia d’udire

ragioni, ch'a pietà possin piegare© un animo disposto alla vendetta, troppo lungo parrà forse Malecche,

egli a sua voglia lo si accorci, ch'io mai perciò non verrò seco a tenzone.

In questi lunghi sproloqui l’Aretino non rinuncia neppure a tocchi di più evidente qualità senecana, come nel lungo discorso di Publio all’inizio dell’atto quarto, ove il paragone ch’egli fa di se stesso con la nave, che insieme combatton fra loro Euro, Noto ed Affrico adirati, mentre l’aere oscuro ha per lucerne i lampi spaventosi dei baleni,

richiama da vicino la famosa descrizione della tempesta squassante la flotta achea al ritorno da Troia, nell'Agamemnon senecano: cfr. i vv. 474-84: Undique incumbunt simul rapiuntque pelagus infimo eversum solo adversus Euro Zephyrus et Boreae Notus. 65 Si noti come

suoni

singolare,

nel

tessuto

faticoso e

opaco del verseggiare giraldiano, questa ricerca di raffinate allitterazioni e paronomasie.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

175

Sua quisque mittit tela et infesti fretum emoliuntur,

turbo

convolvit

mare:

Strymonius altas Aquilo contorquet nives Libyasque harenas Auster ac Syrtes agit; nec manet in Austro: fit gravis nimbis Notus, imbre auget undas, Eurus orientem movet Nabataea quatiens regna et Eoos sinus. Quid rabidus ora Corus Oceano exerens?

Così il serrato dialogo fra Orazio e Celia che precede il fratricidio s’appunta in preziosistici concettuzzi di tempra

squisitamente

senecana,

giungenti

a giocare

sull’idea che l’immagine dello sposo è racchiusa nel cuore della donna, sì che la spada di Orazio, penetrandovi, ucciderebbe una seconda volta l’amato Curiazio:

or. Chi sei che teco parli e intanto piangi?

ce. Celia, no Ἶ vedi tu? che di quel colpo che mi occidesti il buon marito, moro. or. Non t'intendo, che dici, parla, parla.

CE. Dico che Celia non essendo, sono. .

+

+

+

+ Se pur

nel core

mi porgi il ferro, l'immagine viva non toccar del mio sposo, che due volte uccider lui ti saria biasmo.5

Da ultimo due segni ancora piü tipici; nel pieno del primo atto, il canonico racconto che la protagonista fa 6 Si noti come il Corneille nell'Horace abbia saputo trasformare il motivo, nobilitandolo in accento poetico: Tigre altéré de sang, qui me défends les larmes, qui veux que dans sa mort je trouve encore des charmes, et qui jusques au ciel élevant tes exploits, moi-méme je le tue une seconde fois!

176

SULL’INFLUSSO

DEL

alla nutrice di un sogno

TEATRO

CLASSICO

pauroso, irtodi «tre faci

accese», di « tre rabbiosi... venti condensi / con volto orrido e nero, e con le chiome / dinanzi al

fronte scompigliate ed aspre, / pregne di sdegno, di fortezza e d’ira: / dalle cui bocche perigliose usciva / stridente orror di furibondo suono » e di una « scintilla amara », di cui l’eroina dice « che m’arde sì che

consumer mi sento »: e il più bello si è che nella disquisizione pronunciata dalla nutrice per toglier fede al tristo presagio s’impianta un singolare richiamo al sogno come serietà:

τόπος

tragico,

sia

pure

per

negargli

L’altrui Tragedie, come voi sapete,

per esser meco in le scienze istrutta, ancorché sieno dell’istorie fole

non ardirebber nelle scene loro . una immaginazion tener per certa.

L’altro particolare di rilievo è l’immancabile propensione al macabro che erompe sulla bocca della nutrice che descrive la morte di Celia: l'aspra ferita di sangue gemente, che in sé gorgogliava, ho rasciugata mentre errando con gli occhi pur tentava me riveder.

E a confermare la persistenza del già noto filone, si

noti come qui si sovrapponga l'eco dell'episodio ovidiano della morte di Procri (Mer., VII, 860-62).

Abbiamo già discorso di fondamentali differenze fra l’Orbecche e la Canace pur nella loro comune funzione di antesignane di un gusto senecano apertamente ostentato come mai prima d'allora, d'una fedeltà as-

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

177

soluta ai modi, alla struttura e alla tematica di Seneca.

Ora che dobbiamo tirare le somme non insisteremo naturalmente sulla vistosa presenza in entrambe le

tragedie di ciò ch'è eminentemente collegato alla drammaturgia del Cordovese. L’Orbecche, che pur abbiam visto ripudiare i temi mitologici abituali a Seneca e proclamare il proprio vanto d’essere una tragedia nuova perché sceneggiante un argomento fantastico a sfondo pseudostorico (tutti sanno che il tema è ricavato dalla novella II, 2 degli Ecatommiti) è costruita

quasi come deposito e campionario di tutti gli aspetti peculiari della drammaturgia senecana, compresa, come abbiamo visto, la violazione del precetto oraziano di non far accadere la morte violenta di personaggi direttamente sulla scena. A questo brutale colpo ad effetto s’aggiunge — e ne abbiamo già visti teorizzati nel Discorso gli scopi e i modi — l’orripilante minuzia delle descnizioni dei messi relative ad altre morti e agli scempi che le accompagnano. Così all’inizio dell’atto quarto il messo insiste sulla ferocia di Sulmone nel far svenare Oronte e i suoi figli, creando un perfetto pendant col celebre racconto del messo nel Thye-

6 V'é però da notare che la raccolta novellistica del Giraldi, pur

essendo

stata avviata

nel

1528

(almeno

a stare

a

quello che dice l'autore) è stata pubblicata solo nel 1565, cioè dopo l’Orbecche, il Discorso e altre tragedie, si che c'è sempre da dubitare

fino a che punto un tema

comune

alle novelle e

alle tragedie precedenti il 1565 possa trovare nella sua espressione

novellistica

la prima

fase.

Se dovessimo

riconoscere

il

valore di questa obiezione, si dovrebbe rovesciare per la tragedia, almeno per quella del Giraldi, il profilo costruito per la commedia, che cioè sull'attività drammatica ha influitola componente novellistica. 12

178

SULL’INFLUSSO

stes,

DEL

TEATRO

CLASSICO

che & ricordato a bella posta quando il messo

giraldiano esclama: 'almeno non

mi lece passar l'empio Acheronte,

poi che indi qua venuti son gli Atrei,

gli Atamanti, i Tiesti? 9

E la somiglianza è ribadita dalla movenza iniziale: in Seneca (vv. 623-25):

Quis me per auras turbo praecipitem vehet atraque nube involvet, ut tantum nefas eripiat oculis?; nel Giraldi:

Oh perché nei Rifei monti non sono più tosto nato, o tra le tigri ircane ne gli ermi boschi, e ne’ più alpestri campi,

ove vestigio uman non si vedesse;

dalla ripetizione delle proemiali proteste d’orrore del messo:

in Seneca (vv. 636-38): Ferte me insanae procul, illo, procellae, ferte, quo fertur dies

hinc raptus;

9 Se qui

il richiamo erudito

ha la precisa funzione di

ravvivare il ricordo del modello principale, altrove esso palesa solo il gusto, caratteristico del Giraldi, di ostentare la sua dottrina, come

là dove, nella seconda

becche, dopo aver narrato anche sogno infausto, se n’esce col dire

scena del quinto atto, Or-

lei alla nutrice il canonico

Tale il sogno già fu d’Apollodoro,

e quel d’Imeria, e quel d’Ipparco, e quello d' dro, di Crasso e d’Anniballe.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

179

nel Giraldi: O perché non mi dà Dedalo l’ali, sì, che poggiando al ciel fuggissi questa terra iniqua?;

dall’espressione con cui il coro invita il messo al racconto:

in Seneca (v. 633):

Effere, et istud pande, quodcumque est, malum; nel Giraldi: Non tenere ascosa

a noi la doglia tua;

dalla perfetta analogia del passaggio dalla prima alla seconda fase dell’orrenda descrizione:

744-47):

in Seneca (vv.

NUNT. Exborruistis? hactenus si stat nefas, pius est. CH. An ultra maius aut atrocius natura recipit?

NUNT. Sceleris bunc finem putas? gradus est. CH. Quid ultra potuit? ;

nel Giraldi: Messo — Ma che pensate voi, che qui finisca la crudeltà di così orribil mostro? Quel, che fine vi par, principio & stato Coro

a maggior male, a più scellerat’opra.

— Ma che esser può dopo la morte peggio? non è ella estrema de le cose orrende? Non è ella fin di tutti i mali al mondo?; 9

9 E si noti come qui si sovrapponga l’eco del celebre secondo coro delle Troades.

159)

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

dal canonico richiamo al sole che si nasconde o do vrebbe nascondersi:

in Seneca (vv. 784-87):

Verterit currus licet sibi ipse Titan obvius ducens iter tenebrisque facinus obruat tectrum movis

nox missa ab ortu tempore alieno gravis;

nel Giraldi: Come darci può il Sol oggi la luce? ®

Né il macabro si ferma qui: chè anzi — ed e la cosa più notevole da sottolineare — il Giraldi, fiso nel proposito di sfruttare e amplificare il rivoluzionario partito senecano di presentare direttamente sulla scena le uccisioni e gli orrori (basta pensare che mentre nell'Oedipus Seneca aveva fatto accedere sulla scena solo il suicidio di Giocasta, nell'Orbeccbe il Giraldi fa precedere il suicidio d’Orbecche dall’uoci-

sione di Sulmone che è descritta quasi avvenisse sulla scena), fonde i due motivi delle uccisioni effettuate

sulla scena e degli orrori minutamente descritti dai messi, facendo in modo che il semicoro descriva minu-

tamente lo scempio del cadavere del padre compiuto da Orbecche. Così qui le parole del coro assumono ® Il

motivo

ritorna

nel

monologo

di Orbecche

nella

terza scena del quinto atto:

O Sol, che solo il mondo orni et illustri,

perché non ti fuggisti allor dal cielo ...?; e il ritorno è anch'esso un motivo desunto da Seneca, che nel quanto intermezzo corale (vv. 789 sgg.) sviluppa il motivo ella fuga del sole registrandone e rivoltandone in tutti i sensi l'avvenuta manifestazione.

SULL’INFLUSSO

decisamente

il carattere

DEL

TEATRO

CLASSICO

di didascalia

dell’azione

181

(e

scopriamo perciò donde derivi all’Aretino il medesimo carattere che hanno le parole dell’ancella nella prima parte della scena dell’uccisione di Celia); e si

verrebbe a creare effettivamente un grosso problema di regia, se nulla permettesse di supporre che Orbecche si sia allontanata dalla scena, e quindi eromperebbe il sospetto che l'Orbeccbe sia stata concepita per la lettura e non per la recitazione, quasi a dare più decisamente a questa tragedia la funzione di massima rappresentante dell’influsso di Seneca, che, appunto, secondo la communis opinio, aveva scritto le

sue tragedie solo per la lettura; ma poi si deve fare l'ipotesi che, contrastando fra loro, Sulmone e Orbec-

che si siano spostati in maniera da rendersi invisibili e da permettere a Orbeoche di vibrare il colpo mortale, che il coro sia ancora in grado di vedere e di riferire l'uccisione del re e lo scempio del suo cadavere da parte della figlia, che le grida di Sulmone morente partano da dietro la scena: infatti l'invito di Sulmone

alla figlia « entra meco in casa» e l’esclamazione del semicoro « Che grido, oimé! che voce è questa orrenda / del re Sulmone? » giustificano l’ipotesi e più ancora la giustificano le parole del semicoro dopo il compimento dello scempio: « Ma veggio che col capo e co le mani / del crudo padre, e col coltello in mano / se ne viene di fuore ». Ma ad ogni modo, posto che

Orbecche ha ucciso e sventrato il padre in casa, rimane sempre la strana difficoltà che il semicoro, rimasto sulla scena, abbia potuto vedere e riferire così minutamente lo scempio: la fedeltà ai princìpi ed ai modelli ha fatto cadere qui il Giraldi in un’incongruenza, che rende difficile al lettore l’intendimento della scena.

182

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

Del resto la tendenza a valorizzare al massimo, o at-

traverso l’azione o attraverso le parole illustrative di un personaggio o del coro, la presenza di orrori sulla scena doveva derivare al Giraldi soprattutto dalla celebre scena del Thyestes in cui Atreo mostra al fratello gli avanzi dei suoi figli, rivelandogli l’orrenda trappola in cui l’ha fatto cadere. Questo ci aiuta a sostenere che — sebbene il Giraldi abbia desunto non dal Thyestes, ma dalla Medea e dall’Oedipus il partito della morte violenta di personaggi sulla scena — l’Orbecche appare non tanto un generico concentrato della drammaturgia senecana, quanto una trasposizione in veste moderna e volgare dei modi specifici del Thyestes. A parte ciò che abbiamo già notato, lo prova innanzi tutto l'apparizione iniziale di Nemesi e delle Furie, che è reduplicata (la solita tecnica amplificatrice del Giraldi!) dall’apparizione dell’ombra di Selina, sì da corrispondere alla prima scena del Thyestes, in cui alla Furia infernale si affianca l’ombra di un defunto membro della famiglia destinata ad essere squassata dai nuovi orrori, nella fattispecie l'ombra di Tantalo. E sia pure alla rovescia — perché in Seneca a Tantalo

ripugna insufflare la peste dell’ereditaria criminalità nella casa di Atreo, mentre nel Giraldi l’ombra di Se-

lina è ansiosa di ispirare il vento di delittuosa follia — fra i due brani si costituisce una congerie di riscontri:

Tantalo dichiara (vv. 4-17) di temer di doversi

accollare non solo la propria pena, ma quelle di Sisifo, di Issione e di Tizio o qualcosa di più atroce; Selina si compiace di pensare che i suoi parenti, giungendo all’Inferno, saranno condannati a tai supplicj,

che avranno invidia a la spietata sete

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

183

di Tantalo, e parrà lor pena lieve, che dia a l’avido ugel di se dur’esca Tizio infelice. E l’essere aggirato sempre Ision da la volubil ruota; et il portar del sasso sovra il monte di Sisifo e il cader da l’alta cima;

e qualunque altra pena sia maggiore

nel cieco carcer dell’oscuro abisso,

parrà loro un piacere et un trastullo appo il tormento ch’essi avran tra noi.

E quando l’ombra della donna, rivolgendosi a Nemesi, le dice Che furia più potente aver potevi di me? ... Portato ho anch’io questa letal facella accesa di mia mano in Flegetonte,

essa riecheggia le esortazioni senecane della Furia all'ombra di Tantalo, il penates impios furiis age (v. 24), lo odia, caedes, funera / accerse et imple Tantalo totam domum (vv. 52-53) e soprattutto il dignus adventu tuo / splendescat ignis (vv. 55-56); e vi si intrecciano reminiscenze della prima scena del.

l'Agamemnon, la tragedia che in Seneca forma dittico col Tbyestes, dell'apparizione dell'ombra dí Tieste, che appare mossa da un irrefrenabile impeto di vendetta a spirare nell'odiata casa degli avi un nuovo vento di follia omicida, esattamente come nell'Orbec-

che l’ombra di Selina appare per soffiare volontariamente nella sua casa un pestifero furore criminale. Parimenti Sulmone & raffıgurato, come l'Alboino del Rucellai e pià ancora, quale il perfetto rappresen-

tante della topica figura del tiranno. Nella prima sce-

184

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

na dell’atto quinto tutto il suo sproloquio sull’opinione che ’] timore

sia colonna dei che un re dovrebbe esser terribil sempre, risponde alle dichiarazioni del senecano Atreo in ri-

sposta alle riflessioni ed ai consigli del satelles improntati alla morale corrente: Maximum hoc regni bonum est, quod facta domini cogitur populus sui tam ferre quam laudare (vv. 205-07).

Ubicumque tantum honesta dominanti licent,

precario regnatur (vv. 214-15). Sanctitas, pietas, fides

privata bona sunt; qua iuvat, reges eant (vv. 217-18).

E un tratto ancor più vicino ad Atreo si rivela nelle parole di Sulmone E perché credi tu, che potend’io subito far morire il traditore senza dargli altra fe, glie l'abbia data? Non per altro, se non che simil fosse la vendetta a l’oltraggio;

non dissimilmente Atreo, al consiglio del satelles di uccidere Tieste col ferro aveva risposto (vv. 246-48): De fine poenae loqueris:

ego poenam

Perimat tyrannus lenis: in regno meo mors

volo.

impetratur.

L’affinità tra i due personaggi s'era già del resto pro-

filata evidente espressione

in precedenza,

prima

del personaggio di Sulmone

che

l'ultima

presentasse

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

185

così evidente affinità con la prima del personaggio di Atreo. Le subdole accoglienze che Atreo fa a Tieste ed ai figli di costui trovano palese corrispondenza

nelle parole che alla fine della scena quarta dell’atto terzo Sulmone rivolge alla figlia e ad Oronte fingendo di assentire alle loro nozze: c’è se mai da notare che

nelle parole di Sulmone c’è una più trasparente allusione ai suoi atroci propositi di vendetta, per il lettore che glieli ha già sentiti esprimere nel precedente monologo. Ma il riscontro è ribadito dall’identità della chiusa di entrambi i discorsi:

in Seneca (v. 345)

Ego destinatas victimas superis dabo;

nel Giraldi et uccider le vittime a gli altari parate già per queste nozze a’ dei.

E come il messo del Thyestes racconta il modo

con

cui Atreo ha scuoiato i corpi dei figli di Tieste e li ha posti a cuocere, così il messo dell’Orbecche racconta come Sulmone abbia dilaniato i corpi di Oronte e dei figli per collocarne le membra nel vaso d’argento da presentare ad Orbecche: esatto corrispondente della presentazione a Tieste, da parte di Atreo, degli avanzi

dei figli, anche se vi confluiscono suggestioni delle novelle tragiche del Boccaccio (e non per niente l’Or-

becche s’imparenta col tema di una novella del Giraldi). Per giunta in un particolare di rilievo il Giraldi sembra essersi avventurato a penetrare anche l’aspetto psicologicamente più valido, pur nella frenetica enormità del furore, attribuito ad Atreo dall’intuito umano

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DEL

TEATRO

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e artistico di Seneca. Alla fine del colloquio col satelles Atreo accetta il consiglio di porre i figli a parte del suo mostruoso disegno, perché così potrà sincerarsi del dubbio che lo tormenta e che è la molla del suo atroce contegno e l’unica nota che sul piano umano spiega, se non giustifica le sue atrocità: se essi siano davvero figli suoi o non siano nati piuttosto dall’adulterio di sua moglie con Tieste: Male agis, recedis, anime: si parcis tuis, parces et illis. sciens minister Menelaus adsit. ex hoc petatur

Consilii Agamemnon mei fiat et fratri cliens Prolis incertae fides scelere; si bella abnuunt

et gerere nolunt odia, si patruum vocant,

pater est (vv. 324-30).

Il Giraldi non poteva certo spingersi a questa profondità d’intuito; ma nel già ricordato monologo di Sulmone ha introdotto considerazioni affini sullo spirito dei discendenti, con cui il tiranno intende giustificare perché abbia deciso d’infierire anche contro 1 mpoti: sono innocenti i figli, e siano: sono figli di un traditore, e al padre anch'essi saranno in tutto simili, e se bene dovesser tralignar dal seme loro,

et esser i miglior del mondo, sono del ricevuto oltraggio indizj certi;

però muoiano anch'essi.

Così, ricalcando la tragedia più rappresentativa di Seneca per l’arditezza della discesa nel più tenebroso abisso degli orrori dell'umana psiche e per la raccapricciante congerie delle più immani mostruosità, il

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

187

Giraldi assicurò definitivamente la preminenza dell'influsso senecano sul teatro europeo per almeno un

secolo. Fu uno scossone brutale (ma dobbiamo put sempre tener conto di antecedenti come la Rosmunda del Rucellai), una spinta che faceva propendere il gusto teatrale dell’epoca, specie nell’Inghilterra elisabettiana, verso la predilezione per le apparizioni di spettri o per gli orrorosi massacri, come, a tacer d’altro, quello del Titus Andronicus shakespeariano. Ma nel Giraldi permaneva (e la critica ha avuto la bontà

o l'ingenuità di dargliene atto, di menargliela buona ”!) la persuasione

o almeno

l’intenzione di giustificare

esattamente come Seneca l’indulgenza per tante tetraggini e tante atrocità: il fine d’edificazione morale,

la spettroscopia e la condanna del vizio richiedevano che non si arretrasse di fronte alla raffigurazione degli orrori suscitati dall'umana malvagità. Così si spiegava anche la meditata scelta di Seneca come modello, a preferenza dei tragici greci; e si giustificava l’introduzione del prologo staccato dal corpo dell’azione

tragica, come il Giraldi stesso sottolineò e volle chiarire, di un prologo che precedeva le iniziali apparizioni infernali, di un prologo che, contro gli usi consacrati dalla tragedia classica (« Essere non vi dee di mara-

viglia, / spettatori, che qui venuto i’ sia / prima d’ognun, col prologo diviso / da le parti, che son ne la Tragedia, / a ragionar con voi fuor del costume 71 Cfr. anche Bonora,

Op. cit, p. 401:

«C'era

in lui,

sotto la retorica, una visione pessimistica della vita, ma da moralista astratto ... Si vuole osservare la sincerità del suo pessimismo, capace a ‘tratti di alimentare una vena di poesia, ma solo in qualche parte lirica, e più chiaramente in alcun dei cori ».

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/ de le tragedie e de’ poeti antichi; / senza riguardo aver a l’uso antico »), venisse ad avvertire che di

tragedia si trattava e ad informare gli spettatori nome della città ove l’azione era sceneggiata: che uso tradizionale solo per la commedia, sì che il logo stesso sente il bisogno di meravigliarsi che così bel pubblico sia venuto

sul era proun

ove non si hanno a recitar di Davo, ovver di Siro l’astute insidie verso i vecchi avari, o pronti motti, che vi muovan riso, o amorosi piaceri, o abbracciamenti

di cari amanti, o di leggiadre donne;

che è poi un riprendere in una direzione affatto nuova la tematica di tanti prologhi di tipo « terenziano » delle commedie d’allora, quella che il collega Ronconi acutamente porrà in rilievo nella sua relazione. E a confermare l’iniziale ispirazione morale, la truce scena di Nemesi sembra a principio riecheggiare e ampliare gli accenti del prologo, perché enuncia il concetto tipicamente cristiano che in terra il malvagio è risparmiato da Dio sì che l’impunità possa ispirargli la con-

versione al bene, mentre al giusto si impone il peso dei dolori « perché chi a bene oprar l’animo intende / più perfetto si fa ne’ casi avversi». Ma indubbiamente a scegliere il modello di Seneca e a concentrarsi sul suo aspetto più chiassoso, quello costituito dal Thyestes, il Giraldi doveva essere stato spinto soprattutto dall'equivoco facile a sorgere negli spiriti poco profondi, quello cioè che scambia il tragico interiore, l’intima, profonda risonanza del doloroso indugio sulla condition humaine con l’esteriore

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ostentazione dei più teatrali, dei più reboanti eccessi solo meccanicamente, superficialmente drammatici,

dall’errore grossolano di chi ritiene che tragedia significhi soltanto sangue che scorre, teste spiccate dai corpi, gente che urla e si dimena. Era cioè un ripercorrere, ma da poco intelligente imitatore, il cammino percorso da Seneca partendo dalla pregiudiziale, dalla premessa genetica d’ordine moralistico, ma facendosi poi prendere la mano per la via dalla suggestione degli effetti forti, delle passioni scatenate e dei caratteri allettanti per la loro stessa abnormità. Di tutto questo nel Giraldi rimaneva solo la feccia più rancidamente retorica, il cui tanfo era aggravato dalla contorta pesantezza di uno stile che da Seneca ripeteva solo le compiacenze della più scolastica oratoria senza adergersi

al preziosismo

spesso

solleticante, ai barbagli,

intermittenti ma corruschi e sferzanti, di quello stile tante volte ricco di seduzioni e di fermenti innovatori. La nostra decisa riduzione dell’Orbecche al modello del Thyestes, che del resto, per l'ovvia ricchezza

degl'indizi

trova già nella critica numerosi

e ampi

precedenti," potrà sempre essere peró infirmata dall’imbarazzante

constatazione

che,

nonostante

tutto,

nella tragedia di Seneca manca qualsiasi possibilità di riferimento proprio alla protagonista, a colei che dà il nome alla tragedia del Giraldi, che, nella furia con cui trascende ella sua vendetta e poi finisce per infierire contro se stessa, ricorda se mai altre eroine senecane, Medea, Fedra, Deianira, ma nula ha che 72 Cfr., per o, Bonora, Op. cit., p. 400: «è facile anche osservare CI nel Cirsldi la suggestione del Tieste di Seneca ».

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spartire col Thyestes, che, fra tutte le tragedie di Seneca, ha la singolare caratteristica di non annoverare

personaggi femminili, se si prescinde dalla Furia della scena proemiale, la quale introduce l’azione, che però

poi si svolge tutta fra personaggi maschili. A questa facile obiezione si può rispondere che in realtà, presentando, a differenza dal Thyestes, un personaggio femminile come protagonista, ma facendolo poi scatenare (e sia pure dietro la suggestione di personaggi consimili di altre tragedie di Seneca) in una reduplicazione delle atrocità commesse da Sulmone (il semicoro, co-

me abbiamo visto, indugia nel descrivere il suo scempio del cadavere del padre, creando un pendant alla descrizione che il messo aveva fatta della crudeltà di Sulmone), il Giraldi non ha fatto che indulgere alla sua tipica tendenza all’amplificazione, al raddoppio,

che era del resto una caratteristica del teatro dell’età: si ricordino i numerosi casi di raddoppio di personaggi tipici nella commedia; abbiamo già ricordato il caso dei Simillimi. Ma nel creare la seconda furia scatenata accanto a Sulmone e contro di lui il Giraldi in fondo non fece altro che ricreare a modo suo quello che avrebbe dovuto essere il comportamento di Tieste dopo l’orrenda rivelazione. Orbecche non è che un Tieste in gonnella, ma provvisto di ben più selvaggia energia; e non sembri ozioso espediente la riflessione che la donna dä il suo nome alla tragedia del Giraldi appunto come Tieste lo dà alla tragedia di Seneca. Si rileggano infatti le parole di Tieste alla rivelazione del fratello (v. 1006 sgg.): Sustines tantum nefas gestare, Tellus? non ad infernam Styga te nosque mergis, rupta et ingenti via

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ad chaos inane regna cum rege "iol stare circa Tantalum uterque iam debuimus . . quas miser voces dabo questusque quos? quae verba sufficient mibi? ;

Clusa litoribus. vagis

audite maria, vos quoque audite boc scelus,

quocumque, di, fugistis, audite inferi, audite terrae, N oxque Tartarea gravis et atra nube, vocibus nostris vaca,

e le si ponga in rapporto con quelle di Orbecche dopo

l'uccisione del padre: O Sol, che al mondo orni et illustri,

perché non ti fuggisti allor dal cielo, Come potè la tua serena luce. veder cosa sì cruda e così orrenda e non venir oscuro? O sommo Giove,

perché non fu da’ fulmini tuoi arso sì abbominevol mostro e sì nefando? E come

consentisti, Terra,

mai,

che fusse sovra te sì malign’opra commessa? Oimè, perché nel basso centro . non traghiottisti l'omicida fiero? Che di pianger mi dà cagion sì cruda, che non so qual pianger mi debba prima;

si confrontino inoltre le battute scambiate fra Atreo e Tieste al v. 1100, THY. Quid liberi muruere? ATR. Quod fuerant tui,

con quelle scambiate fra Orbecche e il padre subito dopo la rivelazione della ferocia commessa da Sul-

mone:

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ORB. Oimè, pur dovevate a’ figli almeno usar pietà. SUL. Pietä non puote, dove è ingiuria così atroce,

e si noti ancor prima come Orbecche, al momento in cui il padre le presenta l’insidioso zendado sotto cui si cela il vaso contenente le membra del marito e dei figli uccisi, si sente tremare il cuore, come Tieste subito prima della terribile rivelazione avverte un turbamento presago. La stretta affinità tra i due personaggi non potrebbe essere meglio documentata.

Se poi abbiamo addotto la riflessione sul problema costituito dal fatto che la tragedia del Giraldi si appunta sopra un personaggio femminile apparentemente non rispondente a nessuno di quelli del Thyestes, lo abbiamo fatto soprattutto per aprirci la strada all'esame di ciò che la Canace dello Speroni ha voluto essere un anno dopo l’Orbecche, anche in contrapposizione a questa. Lo strano è che anche la tragedia dello Speroni si modella, fra le tragedie senecane, soprattutto sul Thyestes. L’autore non ha voluto rimunciare neppure all’apparizione proemiale di un’ombra sorgente dall’Averno, e siccome nella casa di Eolo fin allora non erano avvenute atrocità come invece

s'erano già commesse nella casa di Sulmone e c'era quindi carenza di spiriti di trapassati da evocare, è ricorso all'espediente, disorientante in un primo momento per il lettore, di evocare in anticipo l’ombra del bimbo nato dall’amplesso incestuoso di Canace e Macareo, che sarà ucciso in seguito durante lo sviluppo della tragedia, immaginando che esso, maturato dal soggiorno nell’aldilà, torni in terra per rivivere e intendere l’atroce vicenda di cui era stato vittima inconsa-

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pevole: il che finisce per prospettare l’azione tragica sotto la forma di una ricostruzione post eventum, come una delle attuali sequenze cinematografiche rie-

vocanti un antefatto col riprodurne lo svolgimento. Eolo, di cui giä alla fine del primo atto il oonsigliere, equivalente del satelles del Thyestes senecano, ci aveva

raffigurato il temperamento

proclive ei più furiosi

abbandoni (« stare inquieto, andare / frettoloso, e voltarsi / spesso, quasi altri il chiami; / ... son cer-

tissimi segni / del conceputo suo nuovo furore »), pronuncia battute perfettamente intonate al carattere

di Atreo, dopo la nivelazione dell’incesto dei suoi figli: La vendetta in tal caso quanto fie men pietosa, tanto sarà più giusta. Qui sarebbe impietate l'aver compassione.

non basta l'ira della mia giustizia, che toglia lor la vita; ma dovrei esser oggi tal dio, che immantenente potessi far che non fosser mai nati.

E degna di Atreo & naturalmente la ferocia con cui egli escogita la morte di Canace e del bimbo. Ma è altrettanto evidente che, pur inchinandosi anche lui al predominante influsso di Seneca e sce-

gliendo un argomento che per abbondanza di atrocità giustificasse il richiamo preminente

al Tbyestes,

i ha inteso infrangere la compatta

lo

fermezza

con cui il Giraldi s'era tenuto al ricalco della più dura e spietata delle tragedie senecane. Ne possiamo rica13

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vare preziosi insegnamenti per assicurare la fondatezza della tesi che anche la tragedia cinquecentesca, come la commedia, presenta una ricca varietà di atteggiamenti e di componenti anche nell’ambito di un orientamento generalmente uniforme. Da un lato la rottura della norma fissa dell’endecasillabo sciolto nelle parti dialogate in favore dell’uso della strofa di canzone anche per i dialoghi dei personaggi, cioè un deciso allontanamento dalla fedeltà all’aspetto fondamentale della drammaturgia senecana e classica in genere, all'uso di un metro recitativo unico per le scene dialogate; a ciò si aggiunga il grosso problema storico e critico-testuale, di ardua soluzione, della mancanza dei cori alla fine di ogni atto, salvo l’ultimo, mentre,

come abbiamo visto, nella prima scena dell’atto quarto il coro dialoga col famiglio di Macareo: sì che viene anche il sospetto che, avendo esteso la metrica corale gi personaggi dialoganti, lo Speroni avesse ritenuto opportuno astenersi dagli intermezzi corali, facendo come oggi vediamo indicato nei testi pervenutici

della

Néa, che con la sigla yopoù segnano il punto

in cui dovrebbe intervenire il coro, ma di esso non riferiscono il testo. Se ciò fosse vero, avremmo un

altro serio motivo di distacco dello Speroni dalla tecnica del dramma antico in genere, e senecano in ispecie, un distacco tanto piü sensibile in quanto i cori dell’Orbecche nello spirito e nella tecnica di adesione e reazione allo svolgimento degli eventi seguono da presso il comportamento dei cori senecani. Dall'altro lato per mille piccoli indizi lo Speroni accenna invece

la tendenza a rettificare la drammaturgia giraldiana suonando una più ricca tastiera di echi classici. Pone anche lui una donna a protagonista ed eponima della

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sua tragedia, ma ne fa una pura vittima rassegnata, non una virago parricida come Orbecche, dilungandosi in questo dal tipo strutturale del Thyestes e operando anche lui, più decisamente di qualsiasi predecessore, il ricongiungimento di Seneca con Ovidio nel filone già da noi additato della poesia latina di spirito che potremmo definire decadente ante litteram: infatti, se tipicamente senecano e tiesteo è l'impianto della tragedia, il suo argomento è tratto dalle Heroides di Ovidio. Ed Ovidio è riecheggiato anche là dove nel quarto atto Deiopea — la sposa che lo Speroni assegna ad Eolo ricordandosi della promessa che Giunone

fa nell’Eneide

(I, 71-75)

al dio di dargli

in

premio questa ninfa se egli le ubbidirà scatenando i venti contro Enea (ed ecco quindi uno spunto virgiliano intrecciato nel già ricco insieme) — riprende l’ar-

gomento della quarta delle Heroides, l’epistola di Fedra a Ippolito, che ai vv. 133-34 giustifica il progetto d’incesto col ricordo delle nozze tra gli dei fratelli, Giove

e Giunone:

Iuppiter esse pium statuit, quodcumque iuvaret, et fas omne facit fratre marita soror.

L'argomento era stato ripreso da un'altra eroina ovidiana, Biblide, che, accesa da incestuosa passione

proprio per il fratello Cauno, nel suo tormentoso monologo era ricorsa (Met. IX, 497-500) alla topica riflessione:

Di melius! Di nempe suas habuere sorores: sic Saturnus Opem iunctam sibi sanguine duxit, Oceanus Tetbyn, Iunonem rector Olympi. Sunt superis sua iura.

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E nella tragedia dello Speroni la riprende pari

pari Deiopea, per giustificare di fronte al marito l'incesto dei figli, ripetendo fedelmente gli esempi ad-

dotti da Biblide:

Cosa ha fatto per viva forza, che il dio de’ dei con l’alma dea Giunone,

sua sposa e sua sorella

fe’ per elezione: e fello innanzi a loro Saturno ed Opi nell’età dell’oro

È il gran padre Oceàno della propria sorella sposo anche egli e germano.

Così alla fine della tragedia, quando Eolo, dopo il suicidio di Macareo, nimasto orbo di figli, rinsavisce e misura l’orrore della sua situazione, sulla sua bocca

alla

consueta

terminologia

e scenografta

senecana

(« Spegnete, venti, / quella face infernale / di Megera e d’Aletto, che si mostra / quasi in forma di

sole, / e ingombra il ciel di sì odiosa luce ») si alternano e s'intrecciano motivi palesemente virgiliani: quello di Giuturna nel 1. XII dell’Eneide, che maledice la propria immortalità perché costretta a sopravvivere

all’amato fratello, come ora Eolo la maledice perché, in quanto dio, deve sopravvivere ai figli (« Misera lei! ma tanto / men misera di me, quanto il suo male / finirà seco, e il mio / sarà meco immortale. / O infelice giorno, / giorno crudel natal della mia morte / morte

d'ogni mio ben »; ” quello di Didone nel I. IV, quando 3 Vediamo

iò donde

l'Aretino ha tratto per la sua

Celia il motivo di Giuturna, che in lei abbiamo già notato.

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Eolo sfogandosi della persecuzione di Venere contro la sua casa, riprende il motivo dell’eterna maledizione scagliata dalla morente regina di Cartagine contro la

stirpe di Enea e afferma di voler perseguitare in seguito le flotte romane. Così alla fine il motivo del rancore di Venere contro Eolo si ricongiungeva a quello che era stato l’ingegnoso prologo della tragedia. Infatti per risolvere il problema del prologo lo Speroni aveva ripreso dal Giraldi la novità, o meglio l’applicazione alla tragedia di un motivo ormai familiare alla commedia, cioè la creazione di un prologo sepa-

rato dal contesto dell’azione tragica e ad esso precedente, ma lo aveva rettificato, sempre nel senso di più accurata e complessa inserzione di varie suggestioni letterarie classiche con cui egli aveva inteso reagire al senechismo esclusivamente integrale del Giraldi. Nell’Orbecche il prologo era un personaggio anonimo venuto sulla scena ad annunciare all’uditorio che si poneva in iscena una luttuosa tragedia invece di

una commedia e ad indicare dovela tragedia era sceneggiata: una tecnica, cioè, molto vicina a quella dei prologhi indipendenti di commedie. Con la sua letteraria pretenziosità di erudito lo Speroni volle dare una lezione al rivale, rinfacciandogli copertamente di non aver saputo sfruttare proprio i suggerimenti del suo Seneca.

Creò infatti un prologo

squisitamente senecano,

affidandolo alla dea nemica di Eolo, Venere, esatta-

mente come nell’Hercules furens, Seneca aveva affidato la funzione del prologo ^ alla dea nemica di Ercole, 74 Com'è risaputo, si tratta di libera creazione di Seneca, perché

nell’Eracle di Euripide,

modello costante del Furens,

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Giunone: e si trattava dell'unico caso in cui Seneca aveva fatto ricorso a questo partito, in confronto dei

molti di Euripide. Ma l'affinità fra il prologo del Furens e quello della Canace & troppo stretta perché si possa negare che lo Speroni si sia affisato proprio in questo unicum del teatro senecano, introducendo al. linizio della sua tragedia il pià cospicuo tributo a Seneca, e proprio a una tragedia che non era il T byestes e proprio per rettificare quello che nella tiestea Orbeccbe gli doveva sembrare una contravvenzione alle

norme del decoro tragico. Va da sé che così egli finì per creare una fastidiosa reduplicazione di movenze iniziali, perché un prologo del genere poteva giustificarsi solo se, come nel Furens, avesse preceduto immediatamente il principio dell'azione tragica: ma nella Canace esso precede l'apparizione dell'ombra del bimbo, prima scena dell'atto primo, come nell’Orbecche le due prime scene sono costituite dall'apparizione di

Nemesi e delle Furie e poi dall'apparizione dell'ombra di Selina. Il Giraldi aveva ben inteso, dietro l'esempio delle scene iniziali dell'Agamemnon e del Tbyestes, che un'apparizione infernale non poteva non essere il primo assaggio scenico della tragedia; perció aveva dato al precedente prologo un carattere speciale di manca un prologo del genere, mentre Euripide nei suoi drammi ha creato prologhi illustrativi dell'azione, affidandoli a divi-

nità determinatrici

di essa:

basta pensare

all'Ippolito e alle

Baccanti. Seneca, perció, s'é mostrato, in questo caso, piü euri-

pideo di Euripide. Va da sé poi che il vero significato di Giunone nel prologo del Furens & ben diverso da quello delle divinità introdotte da Euripide nei prologhi, come io mi sono

sforzato di mostrare nello scritto Il prologo dello « Hercules furens » di Seneca e l’« Eracle » di Euripide, in « Annali del Liceo classico G. Garibaldi di Palermo », 1965, pp. 277-308.

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avanspettacolo, se possiamo adoperare questo termine ormai fornito di un significato particolare da teatro leggero; lo Speroni invece, volendo ridare al prologo un impegno di più letteraria ed aulica tradizionalità, creò una fastidiosa e assurda doppia partenza, presentandoci prima col prologo di Venere un avvio già strettamente connesso con l’azione, come appunto avviene col prologo di Giunone nel Furens, ma ritor-

nando poi indietro mediante il già notato, complicatissimo spostamento di prospettiva dell’insieme, determinato dall’apparizione dell'ombra del bimbo che fa apparire tutta l'azione tragica come la ripetizione in retrospettiva degli eventi. Mai apparizione avernale è apparsa quindi più fuori tempo, più innaturalmente disturbatrice, e l’azione tragica, apparendo in un primo momento come effetto del rancore di Venere, in un secondo momento,

invece, come rievocazione e

interpretazione post eventum dei fatti, viene duarsi e disporsi in due momenti consecutivi, due ordine ideali e logici radicalmente diversi, vede con quale vantaggio dell’ordinata struttura l’efficacia artistica dell’insieme. Ad

ogni

modo, che

lo Speroni,

a graentro ognun e del-

nel costruire

il

prologo in base all’idea della vendetta di Venere, avesse in mente il prologo di Giunone nell’Hercules furens di Seneca, lo dimostra proprio il fatto che alla regina dei celesti egli ha pensato di opporre la dea che da Virgilio a Silio Italico l’epica latina aveva abi-

tuato i lettori a considerare sistematicamente avversa a Giunone. E proprio perciò vien naturale ora riflettere sul fatto che egli ha introdotto ancora un altro richiamo a Virgilio — innestato al solito sul tessuto degl’imprestiti diretti o indiretti da Seneca -- il ri-

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chiamo più forte che dava di tutto il mito di Canace un’inquadratura inedita, facendone dipendere lo sviluppo dall’intento di Venere di far pagare ad Eolo l'intervento ai danni della flotta di Enea, operato proprio per compiacere a Giunone; e di farglielo pa-

gare colpendolo nella famiglia, nel frutto dei suoi amori con quella Deiopea che Giunone gli aveva promesso per disporlo ad obbedirle: era un’ingegnosa ripercussione del 1. I dell’Ereide che si veniva a creare,

quasi a dare ai poeti tragici una lezione sul modo con cui si potevano abilmente intrecciare le suggestioni delle fonti più autorevoli della sacra tradizione latina. Era in fondo un'affermazione di quella novità più di particolari e di ritoochi che non d’impianto generale (come

invece

intendeva

il Giraldi),

che lo Speroni

si sarebbe adoperato a difendere nell’Apologia e nelle Lezioni relative alla tragedia. E ciò era tanto più intenzionale in quanto poi nella sostanza dell’azione tragica (la scoperta del frutto della colpa, la morte inflitta al bimbo e a sua madre) lo Speroni ricalcava il contenuto

ribadendo

dell’undecima

delle Heroides

ovidiane,

l'opportunità di riprodurre non

tanto lo

sviluppo di una tragedia di Seneca ma trasportandolo in tutt'altra sede e tutt'altra epoca, come aveva fatto il Giraldi, quanto lo sviluppo di un tema di quel poeta che specie con le Heroides (si pensi alla Phaedra e all’episodio di Deianira nell'Oetaeus) aveva of-

ferto così profondi stimoli alla fantasia di Seneca tragico.

Così, pur nell’ambito di un teatro fiso nei modelli latini, si venivano a determinare sensibili differenze,

e lo Speroni, proprio in forza di un complesso sistema

di spunti attinti molto al di là dell'unico modello

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formalmente tragico offerto dalla letteratura romana, trovava

modo

d’affermare

un

teatro

mirante

a un

insieme espressivo più equilibratamente calibrato e sfumato, che, già grazie al singolare assorbimento dei metri lirici d’origine petrarchesca nel dialogo e poi grazie a uno stile di più liquida scioltezza, forniva un insieme meno greve e faticoso di quella squallida serie di versi martellati da un orecchio così sordo e rozzo e grigiamente costipati in laboriose

volute oratorie,

quale era quello che costituiva la quasi esasperante impalcatura stilistica dell’Orbecche. E ciò sia detto, naturalmente, senza alcuna velleità di scusare le infi

nite, e già da noi parzialmente denunciate deficienze di condotta e di approfondimento psicologico e artistico della Canace, gravi soprattutto per l’abituale coscienza critica odierna che per le opere drammatiche o narrative fa consistere il valore d’arte essenzialmente nella robustezza e coerenza della presentazione dei

personaggi.

Con questa netta differenziazione d’indirizzi 1’Or-

becche e la Canace finirono l’ulteriore sviluppo del teatro, più dell’altra sia sul teatro italiano. Abbiamo già visto

per determinare tutto la prima influendo forse d'oltralpe sia su quello che l’Orazia dell’Are-

tino accetta la divisione in atti ormai consacrata da

entrambe le tragedie guida, segue del Giraldi l’or75 Si tenga petò presente che non certo per ribellione all'influsso senecano, palese anche in lui, ma forse per influsso di una più sagace tradizione

manoscritta di Seneca o per una

marginale velleità di ripristinare almeno in questo l’uso greco, il Della Valle, che pure aveva applicato la riforma nell’Adelonda, è tornato poi a scrivere tragedie senza divisione in atti, secondo lo schema della Sofonisba del Trissino e della Rosmunda e dell’Oreste del Rucellai.

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ganizzazione scenica fondata sopra una pesante coltrice di oratorie verbosità per giunta contorte e scolorite, ma ne rifiuta l’esclusivo collegamento con Seneca in fatto d’influssi classici,’ mirando, nella scelta della fonte e nell’intreccio di spunti virgiliani, a seguire lo Speroni nella sua energica costituzione di una tragedia aspirante a succhiare il meglio di tutta quanta la tradizione latina, anche fuori della poesia drammatica. Se mai l’Aretino appare più vicino al Giraldi che

non allo Speroni nell’uso del prologo distaccato dagli atti, in quanto per esso rinuncia a introdurre un per-

sonaggio chiaramente qualificato per trama e pronunciante parole atte (come aveva fatto lo Speroni nella il prologo a Venere), ma introduce

lo sviluppo della a porlo in moto Canace, affidando piuttosto, con la

Fama, una di quelle figurazioni simboliche solite a incontrarsi nei prologhi delle commedie, e così s’avvi-

cina allo spirito del prologo dell’Orbecche, tanto più che la Fama indugia sulle circostanze esterne alla tragedia, con l’esaltazione di papa Paolo III, dedicatario della tragedia, della casa Farnese e di tutti i sovrani dell’epoca, dai signorotti italiani a Carlo V e Francesco I. Perciò quando la Fama, come abbiamo visto, mostra disdegno per l’evocazione di ombre infernali, quest’ironia, se colpisce ugualmente le scene proemiali 76 Proprio

a contrasto

con

questo

integrale

senechismo

l’Orbecche valorizzava poi componenti non classiche destinate ad avere anch’esse molta fortuna nel teatro europeo, insieme col senechismo,

e cioè il gusto dell'esotismo e l'influsso della

novellistica. Analizzando tutta l’opera del Giraldi si tenga pre sente che il titolo Ecatommiti della raccolta novellistica rinnova il ritorno al greco già presente nel titolo boccaccesco Decameron e lo modella riprendendo d'altro canto in forma greca la tipologia del titolo sacchettiano.

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tanto dell’Orbecche quanto della Canace, finisce per appuntarsi soprattutto contro la seconda, nella quale abbiamo visto come la scena dell’apparizione dell’ombra del bimbo, creando un secondo prologo in dire-

zione del tutto diversa da quella del primo, introduca uno

sconcertante disordine, una confusa

e disturba-

trice reduplicazione. In realtà negli ultimi decenni del secolo anche in Italia l'esempio giraldiano sembra piü fecondo. Anche il Groto con la Hadriana e il Torelli col Tancredi si volgevano a temi novellistici, e il Groto fondeva questa suggestione giraldiana con l'altra dell'esotismo, in quanto nella Hadriana trasferiva l'azione in tempi

leggendari; l'esotismo era ansiosamente coltivato dal Decio

con

l’Acripanda,

da

Muzio

Manfredi

con

la

Semiramis, e particolarmente da Lodovico Dolce con

la Marianne,

che eprirà la strada all'Herodes

und

Marianna di Federico Hebbel; e finalmente l'influsso

di Seneca assurgeva al carattere di fermento corrosivo e snaturatore di quasi tutti i temi svolti: nella Dido in Cartagine di Alessandro Pazzi dei Medici, di colui cioè che aveva tradotto Sofocle ed Euripide, l'intro-

duzione dell'ombra di Sicheo, la descrizione della spietata vendetta su Pigmalione, la larga parte fatta alle furie gelose di Iarba gettavano la cupa coltre del tenebroso gusto di Seneca tragico sulla mirabile poesia del 1. IV dell’Eneide;

nella Marianne

del Dolce

la

gelosia di Erode spingeva l'azione tragica agli orrori senecani; persino il Torelli nel Tancredi indulgeva alle considerazioni di carattere politico, così abituali nelle tragedie di Seneca, e nella Merope non sapeva rinunziare a dare a Polifonte i tratti del tiranno incline alla crudeltà per necessità di dominio, come il Lico e

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l’Atreo di Seneca, e ad architettare una macabra scena

di uccisione con tanto di testa mozza. Era proprio il contrario di quello che lo Speroni aveva proclamato e tentato di additare, consertando agli spunti senecani spunti

di altri poeti allo stato puro:

in

tutti

questi altri casi, invece, era lo spirito di Seneca ad alterare gli spunti degli altri poeti classici, persino del venerato Virgilio.

Ma se ho esitato a riconoscere integralmente al Giraldi l'ufficio di ispiratore di tutto il nostro ultimo teatro cinquecentesco e ho lasciato un cantuccio all’influsso dello Speroni, si è perché questo si rivela operante nella tragedia che non foss’altro che per la sta-

tura del suo autore, ci appare la più notevole conclusione del nostro teatro cinquecentesco (e si pensi tra l’altro che fu compiuta nel 1587): il Torrismondo

del Tasso. L'essenza del fatto tragico (l'incesto dei due fratelli e il suicidio con cui essi scontano

il fallo)

discende pari pari dalla Canace. Si potrà dire che il Giraldi si fa avvertire nella larga fascia di esotiche sug-

gestioni che circonda tutta la tragedia col suo sfondo nordico, per cui il Tasso attinse addirittura ad Olao

Magno, specie nel lungo racconto che il protagonista fa nell’atto primo della tempesta che, sbattendo lui e Alvida sopra una spiaggia deserta, suscitò fra i due giovani, ignari del loro vincolo di sangue, la colpevole passione; si fa avvertire nella vasta frangia dell’opera dedicata alle riflessioni di carattere politico e

morale, frequenti specie là dove s'inserisce il topico personaggio del consigliere, immancabile come l’altro topico personaggio della nutrice; si fa avvertire nello sdoppiamento delle funzioni fra i due personaggi femminili di Alvida e di Rosmonda, portatrici entrambi

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di un tormento amoroso e quindi complementari fra loro,” e distribuentisi fra loro il posto sulla scena, in

maniera che Alvida, sebbene effettiva protagonista, campeggia solo nella patetica scena dell'atto terzo con la nutrice, mentre Rosmonda compare più a lungo, così come nell’Horace del Corneille l'effettiva protagonista Camilla occupa minore spazio di tempo della complementare Sabina. Ma basta partire dalla constatazione che gli orrori senecani sono completamente assenti, che tutto, salvo il colpo di gong del duplice suicidio, si svolge in chiave di elegiaca malinconia e commossa, lirica introspezione, per scoprire nella tragedia la più pura indole del Tasso, sì da giustificare la

riflessione di G. Getto” che « se l’Aminta rappresentava il fiorire della dolce illusione d’amore, custodito

in una cornice di primaverile natura, il Torrismondo raffigura il crollare di cotesta illusione, riflesso su uno sfondo notturno tra nuvole e lampi »: il che, se teniamo conto delle date (anche a considerare che il

Torrismondo è uno sviluppo del giovanile Galealto),

può indurci alla legittima conclusione che la gentile, raffinata sensuosità dell’ Armzini4 esprime il primo contatto del Tasso uomo e poeta coll’arduo problema della vita, mentre il Torrismondo ne esprime il desolato, e

pur sempre signorilmente rattenuto, dignitoso e musi-

ΤΙ È il medesimo processo per cui più tardi il Corneille nell’Horace sdoppiò il personaggio di Celia nelle due cognate Sabina e Camilla, di cui la prima domina la scena almeno fino

ἃ tutto l’atto terzo, mentre è Camilla a corrispondere al personaggio dell’Aretino e a creare la catastrofe, provocando nell’atto quarto il fratello vincitore fino a farsi uccidere.

18 Interpretazione del Tasso, Napoli, 1967, p. 207.

206

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

cale consuntivo, pur tenendo conto delle evidenti e fin troppo duramente sottolineate deficienze della condotta scenica, della sua incoerenza, della maniera su-

perficiale e approssimativa con cui è presentata l'intima natura dei personaggi.

Quest'intimo alimento che la più profonda personalità del Tasso ha fornito allo sviluppo espressivo della tragedia ci potrebbe, anzi ci dovrebbe dispensare da ogni forse troppo pedantesca ed esteriore ricerca di rapporti con la tradizione letteraria, in quanto proprio la purezza dei tipici connotati tasseschi ravvisa-

bile nella tragedia sarebbe sufficiente a una sia pur parziale rivendicazione del suo valore e del posto che essa

occupa

nella

storia

spirituale

e

artistica

del-

l’autore. Ma è un fatto che proprio la Canace dello Speroni, nella maniera con cui vi era trattato l’iden-

tico tema dell’incesto tra fratelli in contrapposizione all'ancor più accesa reboanza d’effetti dell’Orbecche giraldiana, deve aver offerto al Tasso l’occasione di penetrare le sue componenti genetiche, tanto più che dell’opera dello Speroni, attento e rigoroso critico del suo poema, il nostro Torquato doveva tenere necessariamente conto. La prima cosa che ci colpisce è che a paragone nel Torrismondo aumenta ancora l’umanizzazione della trama iniziata dallo Speroni fuori dagli effetti brutalmente forti cari al Giraldi, in quanto la pur tragica conclusione dell’incesto è un’autopunizione che i protagonisti s’infliggono appena ne vengono a conoscenza, mentre all’origine della colpa l’ignoranza dei loro rapporti familiari li rendeva innocenti almeno rispetto alla volontarietà del fallo. Sembra che il Tasso abbia sentito l’influenza del Giudizio forse di Bartolomeo

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

207

Cavalcanti espresso l'anno dopo la pubblicazione della Canace, che cioè essendo ll i due fratelli consapevoli e responsabili della consumazione dell'incesto, la loro sorte non poteva suscitare terrore e pietà, non poteva

cioé conferire alla tragedia quelle caratteristiche che secondo Aristotele sono obbligatorie per far definire tale un'azione drammatica; gli eroi tasseschi, essendo

inconsapevoli al momento di cadere nella colpa, hanno invece tutti

i numeri

per provocare i sentimenti

che dovrebbero andar sempre connessi con la natura della tragedia. Perciò nel loro caso non c'è la dura,

sfrenata volontà d’un punitore a infierire su di loro, a determinare la loro sorte, non c'è un Eolo che ne imponga o ne provochi la morte; ma è proprio la

mortale angoscia di Torrismondo dopo l’atroce rivelazione a spingerlo al suicidio, sovrapponendo al suo già tormentoso rimorso per l’infedeltà verso l’amico Germondo l’orrore per un peccato molto più grave ch'egli non sapeva d’avere commesso insieme col primo. Per conseguenza la tragedia che comincia in mediis rebus senza ingombro di prologhi e che dello Speroni ripudia l’uso della strofe di canzone per i dialoghi, tornando all’uso rigoroso dell’endecasillabo sciolto per le parti dialogate, dà la massima importanza e

la parte principale all’effusione dei sentimenti dei personaggi

più

nobili,

creandone

un'elegante

casistica,

quella ad esempio del contrasto fra amore e amicizia,

che suggerisce al Getto” il paragone coll’Eroflomachiadi Sforza Oddi,da lui ritenuta « una delle più fresche composizioni teatrali del nostro secondo Cin-

7 Op. cit., p. 204.

208

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

quecento »," e addensando nei cori l’espressione più tipicamente lirica della coscienza dell’autore di fronte a eventi e stati d’animo che sembrano toccarlo da vicino,

fino

all’ultimo

stasimo,

che

ancora

al

Getto ®! appare « l’ultima voce autenticamente lirica del Tasso ».

Ma nel nutrire questa vena il Tasso seguiva l’esempio dello Speroni coll’addensare insieme spunti e suggestioni varie di autori classici, lungi dall’influsso prepotentemente accentratore di Seneca. La suggestione

d’amore cui soggiacciono Torrismondo e Alvida nel rifugio marino che li ospita è una lontana eco dell’elegia II, 26 di Properzio, cui si sovrappone con maggiore evidenza la situazione dell’episodio centrale del I. IV dell'Eseide, quella cioè del primo amplesso fra Didone ed Enea sospinti in una grotta a causa di una tempesta,

anche

se nel Torrismondo

la tempesta

è

descritta coi coloriti e le espressioni dell’Agamemnon di Seneca, in quello che è forse il luogo in cui l'influsso senecano è più palese nella tragedia." Parimenti 9 Masi tratta di una commedia, che però, per la prev» lenza data all’elemento romanzesco, precorre già anch’essa tempi nuovi (fu pubblicata nel 1572), come ha giustamente posto in chiaro il SANESI (op. cit., I, p . 406-07), notando quale importanza abbia Sforza Oddi nell’avviare al grave e al serio la struttura della commedia, portando all'estremo un orientamento di cui il primo esempio s'è voluto riscontrare nell’ Ansor costante del Piccolomini. 81 Op. cit., pp. 208-09. Questa diffusa opinione è avallata ancora dal Bonora, Op. cit., p. 800.

& Basta richiamare il passo dell’Agamemnon

da noi

addotto a proposito di un luogo dell’Orazia dell’Aretino e

gi

risuonare a confronto queste espressioni del racconto di Torrismondo:

e ci turbaro il corso gli altri fremendo, et Aquilone et Austro

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

209

nella seconda parte tutto il critico sviluppo culminante nella rivelazione che Torrismondo ha dell’incesto, e per cui parte essenziale & riservata a Rosmonda, & evidentemente esemplato nientemeno che sull’Edipo re di Sofocle, quasi a confermare il proposito di tenersi stretti alle vedute sul terrore e sulla pietà espresse da quell’Aristotele che nella tragedia sofoclea ora nicordata aveva additato l'esempio supremo dei caratteri dello stile tragico. In questo modo, al di là dello Speroni, si risaliva all'esempio del Rucellei (e seppiamo quanto

il Tasso

avesse

amorosamente

commentato,

annotandone un esemplare, la Sofonisba del Trissino, tragedia parallela alla Rosmunda del Rucellai), che

nella Rosmunda s'era ispirato, per il congegno basilare del dramma, all’Antigone di Sofocle. Così lo stimolo dello Speroni a spaziare largamente entro l’ambito degli spunti classici determinava, quinci soffiaro impetuosi e quindi,

e Zefiro con Euro urtossi in giostra, e diventò di nembi e di procelle

il mar turbato un periglioso campo. Cinta l’aria di nubi, intorno intorno

una improvvisa nacque horribil notte,

che quasi parve

un spaventoso inferno,

sol da baleni havendo il lume incerto. E s'inalzar al ciel bianchi e spumanti mille gran monti di volubil onda, et altrettante in mezo al mar profondo

voragini apparir valli e caverne. E tra l’acque apparir foreste e selve, horribilmente, e tenebrosi abissi.

Almeno in questo caso l’orrida cupezza dello sfondo non è vuta a gusto esotistico di riproduzione di un clima, di temperie nordica — come insistono a ritenere i critici —, è molto più semplicemente e letterariamente un effetto costante influsso del solito Seneca.

14

douna ma del

210

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

in questa tragedia che pur tanto si distingue dalle altre del tardo Cinquecento per una più intima aderenza al più profondo spirito dell’autore, addirittura un ricongiungimento ai primi specimina del nostro teatro tragico regolare: prova suprema, fra le tante, della strabocchevole varietà di toni e d’atteggiamenti, anche nell’ambito di un solo autore e di un solo dram-

ma, della nostra tragedia cinquecentesca, per la quale abbiamo quindi tentato di fondare tutta una nuova problematica, la cui validità permane integralmente in piena autonomia rispetto ai risultati già raggiunti

da P. Grimal nel volume Les Tragédies de Sénèque et le Theätre de la Renaissance (Paris, 1964) e da J. Jacquot e molti altri studiosi nel volume miscella-

neo dedicato dal « Centre National de Recherches » all’influsso di Seneca sui vari teatri nazionali del Rinascimento (Paris, 1968). È stato già detto e ridetto

che per tanti aspetti il Tasso costituisce la massima affermazione del manierismo nel campo delle lettere. Se a questo termine, specie dopo gli studi del Hocke, dobbiamo dare un valore categoriale o anche solo un ampio significato storico-culturale, il Torrismondo, che rappresenta l’ultima manifestazione del pathos tassesco, della sua problematica interpretazione della vita espressa mediante il personale riecheggiamento di suggestioni letterarie, costituisce proprio uno dei

fenomeni più risentiti di questo orientamento, nella sua stilizzazione di un contenuto largamente desunto da esempi classici, ma filtrato e tendenziosamente fissato attraverso le più intime reazioni della personalità del rielaboratore. Ma in fondo tutta la sistemazione del teatro tragico italiano del secondo Cinquecento

può essere racchiusa entro la storia di quel fenomeno,

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

211

perché in realtà, tutti quegli autori, dietro l’esempio del Giraldi e dello Speroni che possono essere considerati i Pontorno e i Rosso del genere, mirarono a risuscitare

suggestioni

della letteratura

classica,

ma

obbedendo a un profilo innovatore e spesso snaturatore abbondantemente delineato, in cui si rispecchiava una mentalità che, sia pur spesso obbedendo

a sollecitazioni niente più che retoriche, esprimeva, come

la pittura manierista,

uno spirito e un modo

sottilmente e dottamente ansiosi e perturbati, e insieme

tipicamente stilizzatori, nel proporsi

gli ango-

sciosi problemi della vita. Abbiamo

già

accennato

in

rinnovamento della problematica commedia. Esso si è risolto in di un’intuizione del Sanesi, che, - come abbiamo visto — da un

maniera

cursoria

al

già avvenuto per la un deciso sviluppo dopo esser partito attento esame della

commedia umanistica e averne scoperto la varietà di atteggiamenti e di confluenze di tradizioni letterarie,

ebbe la felice idea di riconoscere una non dissimile situazione anche nella commedia cinquecentesca in volgare, distinguendo, accanto alla componente clas-

sica, quella novellistica e quella consistente nell’adesione alla realtà contemporanea." Ma ad ogni modo

egli tenne fermo a una netta distinzione fra « commedia erudita » e « drammatica popolare », componendo due diversi, lunghi capitoli per le due forme e non esitando a iscrivere nella seconda categoria il Ruzzante

e il Calmo, separandoli dagli autori della cosiddetta commedia erudita. 85 Op. cit., vol. V., pp. 423-28.

212

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

In seguito il movimento

CLASSICO

s'é accentrato tutto nel

senso di una rivalutazione di ciò che sembrava più vivo della commedia cinquecentesca, allo scopo di rivendicare la vitalità del nostro teatro comico anche prima del Goldoni. Quindi, se anche si è assistito alla

riesumazione sulle scene di commedie come la Calandria del Bibbiena, Gli straccioni di Annibal Caro, e persino la Clizia del Machiavelli e il Candelaio di Giordano Bruno, ciò s’® dovuto anzitutto al fatto che

per esempio nella struttura de Gli straccioni s'è ravvi-

sata una parziale ribellione agli schemi, in nome di un più amorevole accostamento alla realtà vissuta della Roma contemporanea (quasi nel medesimo senso con cui s'é sentita la Cortigiana dell'Aretino), e poi al

fatto che commedie, come quelle del Bibbiena e del Machiavelli, ispirantisi ai Menaechmi e ala Casina di Plauto, ospitavano per ciò stesso una tale carica di comicità, rafforzata dalle attrattive del sapido eloquio cinquecentesco, che a teatro nessuno avrebbe potuto

avvertire il peso degli antecedenti letterarii.

Ma

in realtà l'attenzione degli studiosi e degli

uomini di teatro prese le mosse dalla Mandragola, la commedia ripresa per prima e piü di frequente considerata sempre, per lunga tradizione critica, come l’unicum luminoso di una vera e spregiudicata creazione nell'ambito della cosiddetta commedia erudita.

La persuasione ch'essa si nutra, quanto alle fonti, esclusivamente della componente novellistica, boccaccesca, ^ contribuì a indirizzare l’orientamento mo% Cfr. anche L. BLasucci, in I] Cinquecento, cit., pp. ^ sgg. Ma cfr. anche, se pure nella forma polemica in cui espresso, ciò che

dice S. D'AMtco

in Teatro

italiano, vol. I,

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

213

derno verso una quasi sprezzante preterizione della componente classica nella commedia cinquecentesca, verso una rivendicazione di questa nel senso di una scoperta e di una valorizzazionedi tutto ciò che in

essa non era dovuto all’imitazione classica. A ciò contribuì il concentrarsi dell’attenzione di tutti sul Ruzzante, che, grazie anche al carattere dialettale del suo teatro, cominciò ad esser considerato una specie di precursore della commedia dell’arte, tanto cara allo spirito della cultura teatrale contemporanea, portata ad esaltare l’opera del regista a scapito del testo sce-

Milano, 1955, pp. 285-86:

« Alla stregua dei superficiali... la

trama de La andragola si ridurrebbe a nientr'altro che alla solita variazione sulla vecchia commedia greco-romana, dove si vede

il solito

giovine

che,

per

arrivare

alla

solita

femmina,

architetta con l’aiuto del solito lestofante la solita beffa contro il solito vecchio rivale: con la solita aggiunta della novellistica contemporanea,

il motivo

per cui il beffato

è il marito

(si sa che dio a teatro è una voga moderna, i poeti comici latini non lo prediligevano! ». Al che si può aggiungere che però, alle origini stesse della novellistica, il motivo dell’adulterio aveva già trovato consacrazione nella commedia elegiaca, grazie all’influsso dell'Ovidio dell’Ars amatoria, ritenuto commediografo minore e proprio dal Boccaccio — come abbiamo visto; e si ricordi quanto i! Boccaccio nei Ninfali mostra di dovere ad Ovidio, che ci appare anche in lui, come nell'aetas Ovidiana, l’ispiratore di tutta la tematica, quando non addirittura di certe fondamentali strutture. E se ne ricorda ancora Alessandro Piccolomini, nella seconda scena del terzo atto dell’Amor costante, dove Ligdonio afferma che quando Margherita gli sarà vicina, « e io me le faraggio nante pallido e mal contento, come vole Ovidio », citando appunto Palleat omnis amans, bic est color aptus amanti, di Ars am. I, 727. Già Mathieu de Vendóme

nel

Miles gloriosus aveva imperniato il suo

comico racconto sulla beffa a un marito, nel più puro spirito di quegli ovidiani componimenti: sin d'allora alla remota suggestione di Plauto s'era sovrapposta quella di Ovidio, materia di tanta tematica novellistica.

214

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

neggiato, e quindi a porre l'improvvisazione,

l'estro

subitaneo al posto d’onore. Ricordo ancora un memo-

rabile contrasto fra il compianto Anton Giulio Bragaglia e me, al congresso di storia del teatro di Venezia nel 1957, in merito ai diritti del testo fissato dall’auto-

re di fronte alla recitazione degli attori. A questo movimento in favore del Ruzzante e del teatro veneto contribuì, con la potenza di un’eruzione, la scoperta nel 1928 della Venexiana ad opera del benemerito Emilio Lovarini, la folgorante apparizione di una commedia giudicata risalente agli inizi del secolo, in cui predominano cadenze dialettali veneziane e dell’entroterra fino al bergamasco (vi si affermava,

quindi,

e con più risentito rilievo, ciò che sarebbe poi avvenuto nella commedia dell’arte con le maschere di Arlecchino e Brighella), che anch’essa sembra prescindere quasi interamente dallo schema della commedia classica e sembra mordere con aperto impegno

etico-sa-

tirico il flaccido tessuto della realtà sociale contempo-

ranea, come la Mandragola, e come questa affidandosi soprattutto alla più aggressiva vivezza nella delineazione dei personaggi. Di qui le frequenti recite sia della Venexiana sia di commedie del Ruzzante. Non si tenne presente, per la prima, che nonostante tutto il Lovarini non aveva ritenuto disdicevole proporre ® la paternità nientemeno che di Girolamo Fracastoro, il letterato che, tra le frequenti allusioni a scrittori contemporanei melle commedie cinquecentesche, appare ricordato, insieme coi classici, nel prologo del Ragazzo del Dolce, ove, accanto alla menzione della « santità 5 « Nuova

E.

Lovarini,

Una

commedia

Antologia », settembre

1946.

in

cerca

d'autore,

in

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

215

d’Ilario », della « eloquenza di Marco Tullio » e della « dottrina di Platone», si trova modo di affermare « che insino quel male celebrato immortalmente dal

Fracastoro, il quale era, un tempo, così bestiale, oggi s'è domesticato e infratellito con noi »: e la proposta trova ancora considerazione. Né s’è riflettuto al fatto che nel manoscritto i personaggi sono elencati come personae in latino e in latino sono tutte le sigle e le rubriche di scena, comprese indicazioni come primus actus, ecc.,

e che questa nascosta tendenza a

tener d’occhio la commedia latina magari come campione cui contrapporre un altro tipo di commedia regolare riecheggiante alla lontana la medesima generica tematica, è stata individuata

da Silvio D’Amico



dove egli ha scritto: « ma anche qui ci si aggira intorno al solito argomento, di giovani impegnati a cavarsi le voglie amorose con l'aiuto di servi o mezzani. E non ci sembra che la psicologia di queste femmine e di questi maschi, così riportati allo stato di semplice animalità, sia indagata e ritratta con maggior profondità, o originalità, di quella che si incontra in

tanta novellistica, precedente o contemporanea ». Che è poi posizione che anche il Bonora sembra aver riconosciuta ponendo 7 la Venexiana accanto alla Calandria alle origini della commedia letteraria, dalla quale, sulle orme del Sanesi, si ostina anche lui a separare il Ruzzante, ancora considerato rappresentante del teatro

popolare.

Eppure gli studiosi che hanno dedicato di recente la loro fervida attività alla Venexiana e al Ruzzante 86 Op. cit., vol. I, p. 506. V Op. cit., pp. 334 sgg.

216

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

congiuntamente, il Lovarini e Giorgio Padoan,® hanno contribuito a ricollegare questi due momenti del teatro veneto sotto il segno della comune sensibilità, sta pur libera e vivacemente reattiva, a un clima letterario; specie il Padoan, che ha proposto anche lui una seducente ipotesi sulla paternità della Venexiana, quella di Girolamo Zanetti, amico del Ruzzante, non

ha mancato di notare” ch’essa « è introdotta da due distici, di un latino ... inelegante », e quindi « la singolarità della predilezione dell'autore di quella commedia per il distico sentenzioso »; e quanto al Ruz-

zante, studiandone i rapporti con Alvise Cornaro, ha avuto modo di ribadirne anche l'evoluzione come commediografo, gli stretti contatti col mondo erudito, fino agli evidenti imprestiti da Plauto, ricordando al riguardo? gli studi di A. Böhm” e soprattutto di F.

Vitali Per conseguenza il Padoan” non ha mancato di collegare il Ruzzante alla Venexiana,

sia perché

8 Dei suoi studi sul Ruzzante e sulla letteratura pavana cfr. Antichi testi di letteratura pavana, Bologna, 1894; Studi sul Ruzzante e la letteratura pavana, a cura di G. FOLENA, Padova, 1965. 9 Cfr. La Veniexiana: «non fabula, non comedia, ma vera historia », in Lettere Italiane », 1967, pp. 1-54; Angelo Beolco da Ruzante a Perduocimo, ibid., 1968, pp. 121-200; Ruzante e le « merdolagie » di Domenico Grimani, ibid., 1968, pp. 485-94.

99 Angelo

Beolco

da

Ruzante

a

Perduocimo,

p.

141,

n. 45.

91 Ibidem, p. 179, n. 249. ?? Fonti plautine del Ruzante, in « Giorn. stor. lett. it. », 1896, pp. 101-14. 93 La « Piovana» di Ruzante e la « Rudens » di Plauto, in « Boll. Museo Civico di Padova », 1956, pp. 143-82. % La Veniexiana cit., p. 50..

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

217

questa sarebbe stata opera di un suo amico, sia soprattutto perché il Ruzzante, portando sulle scene la

raffigurazione del chiuso mondo

contadino, inaugu-

rava un indirizzo che la Venexiana avrebbe notevolmente allargato, includendo la realistica raffigurazione del mondo cittadino. Spostando a dopo il 1535” la datazione della commedia, egli l’ha fatta rientrare nel particolare clima culturale di Venezia dopo la guerra della lega di Cambrai, quando era cessata la sua funzione di custode dei valori classici, da essa esercitata

alla pari con Roma, e subentrava l’interesse per la realtà, anche sotto l’influsso dell’Aretino, sì che la Vene-

xiana, ospitando allusioni a personaggi viventi anzi presentandone addirittura alcuni sulla scena, si riallacciava alla Cortigiana del poligrafo toscano, portandone a più canora esplicazione le tendenze. Ma * non si giustifica più l’ipotesi del Sanesi che nell’autore di essa vedeva un ritardatario, legato al ‘teatro umanistico quattrocentesco: « la Venexiana si pone dopo il trionfo della commedia regolare, con la quale, pur portandone innanzi alcuni degli spunti più vitali, la sua apparente semplicità, frutto in realtà di deliberata scelta culturale, è anzi in evidente, anche se non dichiarata polemica. Della commedia regolare conserva la consueta partizione in cinque atti, del teatro dotto riprende, per vezzo di cultura, le didascalie in latino », ma rifiuta l’armamentario dei colpi di scena e delle agnizioni, abituali nel teatro classico e in quello che più servilmente ne discende. Non meno netta la riven-

% Ibidem, pp. 1-19.

% Ibidem, p. 49.

218

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

dicazione della parentela, sia pur polemica, delle Venexiana con la commedia regolare nel Borlenghi:” « questa commedia che al suo apparire era stata esal-

tata come frutto del tutto spontaneo e antiletterario, d'un

immediato

realismo,

si rivela invece sostenuta

da sottile dottrina e condotta con accorta arte teatrele e retorica...

Poche

commedie

del secolo

sembrano,

come la Venexiana, prossime ancora allo schema tredizionale della novella»: col che si finisce per farla rientrare nel solco fondamentale della commedia regolare, per la quale oggi la componente novellistica & vista come preminente.

Conseguenza di ció & che fra la Venexiana e il

Ruzzante non è stato più veduto il taglio netto che separerebbe la commedia regolare dal teatro popolare, e che piuttosto si è voluto cominciare a individuare l'ormai indiscutibile sincerità e maggiore originalità e verità della commedia cinquecentesca, postulando la possibilità di raggruppare i prodotti a seconda delle regioni in cui essi sono stati composti e pubblicati e della nascita e della vita dei loro autori, quasi alla stessa maniera con cui nella pittura di quel secolo si distingue una scuola fiorentina, una scuola romana, una scuola emiliana,

una

scuola lombarda

e una

scuola

veneta. Principale rappresentante di questa tendenza è stato il Borsellino, nell’introduzione e nella disposizione della sua già citata raccolta di commedie: pertanto nel primo volume egli ha raccolto tutte le commedie indubbiamente e tipicamente toscane, da una esercitazione erudita come I/ vecchio amoroso del

9! Op. cit., vol. II, p. 495.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

219

Giannotti alle commedie del Grazzini e del Cecchi e a quelle degl’Intronati di Siena, presentati quasi come il parallelo regolare, erudito di quelle farsesche dei Rozzi della medesima città studiate dall’Alonge. Ne è

venuto di conseguenza che il battagliero fiorentinismo militante di un Cecchi e soprattutto di un Grazzini ha finito giustamente per rivestire quasi il medesimo carattere e scopo della commedia pavana e del dialettismo caratterizzante la Venexiana, sì che al massimo

ci si deve meravigliare che il volume, invece di aprirsi con la troppo letterania commedia del Giannotti, non certo insaporita dal dichiarato tono beceresco di quelle dei due noti commediografi fiorentini della seconda metà del secolo, non si sia aperta con una delle commedie di Jacopo Nardi, che più a buon diritto potevano aspirare al ruolo di iniziatrici di questa tendenza, anche per quel tanto di non regolare che contengono, e non abbia racchiuso quella Sporta del Geli che, pur essendo una riproduzione abbastanza fedele dell’Aulularia, & forse, delle commedie toscane

(Mandragola a parte), la pià godibile per l'incanto veramente eccezionale dell'eloquio e la freschezza dei continui riferimenti a cose fiorentine. Similmente nel secondo volume il Borsellino ha tentato di abbozzare l'esistenza di una scuola romana, dalla Calandria

del Bibbiena agli Straccioni di Annibal Caro, attraverso il Pedante del Belo, e di una scuola napoletana, rappresentata dal Bruno e dal Della Porta; nel terzo volume ha trovato posto la scuola veneta. L'idea é indubbiamente feconda e per tanti rispetti e per tanti autori e commedie coglie nel segno: a parte il mirabile esempio a sé costituito dalla Sporta del Gelli, le commedie del Grazzini e del Cecchi costituiscono un

.

220

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

autentico campionario di teatro dialettale (alla pari di

quello veneto), in cui la predominante componente movellistica ruota senza stridori perché si colora di una viva aderenza alla più immediata mentalità locale. E in questo va da sé che, nonostante la sua Dichiarazione di molti proverbi, detti e parole della nostra lingua e il rapporto spesso ricostruibile fra quest’opera e il testodi molte sue commedie, il Cecchi rimane

indietro al Grazzini — non per niente autore delle Cene accanto alle commedie —, il quale ha veramente saputo conservare il sapore nativo del mondo della beffa, del lazzo, della burla e giunteria che sembra

caratterizzare la più scapricciata vita fiorentina e trova la sua più spontanea espressione nella novellistica.* Ma — a parte il solito inconveniente provocato dalle ragioni

editoriali

che

hanno

obbligato

a escludere

anche da questa raccolta l’Ariosto, il Machiavelli e l’Aretino — quando si scende ai particolari anche la ricostruzione del Borsellino presenta difficoltà insormontabili. Indubbiamente un aiuto gli giunge dall’introduzione alla raccolta del Borlenghi, che ha il me-

rito ? di porre in rilievo come, se il Borghini,in nome di una tradizione della lingua patria e non vernacola, cioè del volgare illustre che nel Cinquecento aveva cominciato ad affermarsi ad opera degli scrittori non toscani e aveva trovato la sua codificazione teorica nel

% Molto

appropriatamente

pp. 367-68 e 385) ha favorevole formulato « spigliata e arguta delle commedie del 9 Op. cit., vol.

il SANESI

(op.

cir, vol. I,

ridimensionato il giudizio eccessivamente sul Cecchi e ha esaltato a confronto la e disinvolta intonazione popolaresca » Grazzini. I, pp. 36-38.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

221

Trissino (e nella commedia aveva giä dato prova non

allettante di sé nella primitiva redazione in prosa della Cassaria e dei Suppositi dell’Ariosto), trovava da ridire sul Ruzzante, sul Calmo e insieme sullo stile

dei comici fiorentini, al contrario il Doni, proprio in nome di un battagliero fiorentinismo, dichiarasse nei Marmi che il Calmo e il Ruzzante facevano « onore a sé e alla patria » e niprendendo le idee del prologo della Mandragola (che anche in questo fa scuola), dichiarasse che il « buon suono » derivava « dal Boccaccio, dal Petrarca e da Dante », soggiungendo: « Chi

sono o furon costoro? Fiorentini. Quando voi favellerete, adunque, cicalerete per bocca di costoro ...; non saranno, adunque, quando scrivete bene, le vo-

stre composizioni composte altrimenti in lingua italiana, ma in fiorentina... Io ho quell'Andrea Calmo

per un bravo intelletto, che almanco egli ha scritto mirabilmente nella sua lingua ... Perché s'ha da vergognare uno di favellare natio? è egli ladro per questo? Ruzzante m'é riuscito un Platone:

ma mettiamo

che fosse stato un villano proprio, che avesse favellato nella sua lingua (ma egli fu un Tullio); l’avrei lodato similmente di questa professione. Ma chi non vuole o non sa scriver bene nella fiorentina fa bene a scriver bene nella sua, più tosto che male in quella d’altri ».

Quando da questa prosa, che se fosse stata meditata a tempo avrebbe risparmiato le arbitrarie e preconcette distinzioni del Ruzzante dagli altri commediografı del tempo, si passa alle opere dei comici fioren-

tini, ecco a prima vista brani che suonano conferma.

Ecco nella dedicatoria de La sporta del Gelli espressioni che sembrano richiamare quelle del Davanzati

222

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

nel proemio alla sua versione di Tacito contro i detrattori del fiorentino in nome di un trissiniano culto di un comune volgare italiano illustre (su ciò vedi il mio studio I/ ritratto finale di Tiberio in Tacito e nel Davanzati, in « Atti dell'Arcadia », 1967, pp. 300-02): «questa mis lingua non è vera toscana o cortigiana

che se la voglin chiamare que’ forestieri che ci hanno voluto terminare le parole e insegnarci parlare la lin-

gua nostra, faccendoci prima Italiani e Toscani che Fiorentini stessi, e non s’accorgendo quanto sieno da esser giustamente ripresi a biasimare il vulgare fiorentino, e ingegnarsi il più che possono di scrivere sempre in quello ... E finalmente, quanto alla lingua, ho risposto che io ho usato quelle parole ch’io ho sentito parlar tutto il giorno a quelle persone che io ho introdotte; e, s’elle non si ritruovono in Dante

o nel

Petrarca," nasce che altra lingua è quella che si scrive nelle cose alte e leggiadre,

e altra è quella che si

parla familiarmente; sì che non sia alcuno che creda che quella nella quale scrisse Tullio sia quella ch'egli parlava giornalmente.!" E se elleno non si trovano

10 Qui dunque si fa un passo avanti rispetto alla posizione del Doni, nel senso che mentre questi fa ancora tutt'uno del fiorentino vivente e della tradizione dei grandi trecentisti, il Gelli avverte

invece come

questa sia sbandierata anche dai

sostenitori del volgare illustre, che dei grandi nomi si facevano bandiera e riparo per dar addosso all'uso del vernacolo in riva d'Arno, e perciò s'imbarca nella difesa di ciò ch'è più vivo e corrente di questo. Troveremo in seguito i nomi dei trecentisti assunti nell'una e nell'altra direzione. 101 Qui il Gelli ha dietro le spalle addirittura le teorie di Leonardo Bruni; da ció si puó quindi trarre la conclusione che nella questione della lingua le dispute sul latino e quelle sul volgare continuavano ad andare di conserva.

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ancora tutte nel Boccaccio, il quale pur molte volte scrisse nelle sue novelle cose familiari, avviene per-

ché le lingue, insieme con tutte l'altre cose naturali, continuamente, senza corrompersi al tutto, si variano e mutano ».

Se passiamo al Grazzini, troviamo le idee espresse non tanto nei prologhi delle commedie, quanto nelle Rime burlesche. E qui attira la nostra attenzione in primo luogo il n. IX che, dopo aver lodato il Lotto calzaiuolo come autore di commedie esemplate sul Boccaccio, considerato maestro supremo (la compo-

nente novellistica è quindi consapevolmente come preminente

sentita

da questi autori!), ne trae la con-

seguenza che, proprio avendo l’occhio al Boccaccio, le commedie

vanno

scritte in prosa:

e se poesia mai sotto le stelle

si debbe in prosa in questa lingua fare è dessa veramente la commedia,

chè troppo in versi altri rincresce e tedia. Il Machiavello e ’l cardinal Bibbiena, Lodovico Ariosto e ’l Firenzuola,

e gl’Intronati famosi da Siena, di cui la fama in fin sopra il ciel vola; con quei, ch’ebber sì dolce e pura vena, coppia gentil che tutto il mondo onora, che fero il secol lor beato e chiaro,

lo fero in prosa, il padre Varchi e '1 Caro. Ma questi, che le regole hanno in pronto. allegando Aristofane e Terenzio, non fan delle commedie in prosa conto, parendo loro amare più che assenzio. Io col parer di costor non m’affronto,

ma seguo volentieri Arno e Bisenzio: e più che in versi, con parole sciolte mi piaccion le commedie mille volte.

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CLASSICO

In fino ad oggi non s'è recitata commedia in versi mai, che sia piaciuta: e la Cassaria, in versi trasmutata, nel recitarsi non fu conosciuta.

Brano d’importanza eccezionale, che è stato finora trascurato perché, con la repugnanza che tuttora la critica conserva per certe questioni che appaiono troppo esteriormente storico-letteranie, non s'é avver-

tita la necessità di studiare a fondo il fenomeno per cui in Italia, a differenza dalla tragedia che dai modelli classici aveva accettato senza discutere l’obbligo del verso, la commedia aveva recalcitrato all’esempio della commedia

in versi di Aristofane, Plauto e Te-

renzio, cui s’erano adeguati solo gli scrittori più aulici ed eruditi, come

in un secondo

momento

l’Ariosto,

con l’infelicissimo partito di riprodurre il senario con l'endecasillabo sdrucciolo sciolto, e poi il Trissino: proprio cioè i rappresentanti del volgare patrio, italiano, cui i beceri fiorentini si contrapponevano. Così la commedia italiana fu definitivamente indirizzata alla prosa, salvo le singolari eccezioni della Fiera e della Tancia di Michelangelo Buonarroti il giovane, che son proprio commedie rusticali, mentre quella francese, che non condivideva la repugnanza del Grazzini per l'uso della poesia in questo genere d’arte, avrebbe al ternato alle grandi creazioni in prosa i vertici poetici del Menteur di Corneille, dei Plaideurs di Racine, dell’Ecole des femmes, del Misanthrope, del Tartuffe e delle Femmes savantes di Molière, e delle commedie

di Regnard. Oggi ci & possibile affiancare al brano del Grazzini la pagina del primo dei Quattro dialogbi in materia di rappresentazioni sceniche di Leone de’ Sommi, ora pubblicati da Ferruccio Marotti (Milano,

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225

1967). Leggiamo a pp. 20-21 dell’edizione: « Il dotto Bibiena, che per aventura fu il primo che desse alla scena comedia volgare, che si potesse veramente chiamar comedia, compose la sua ‘ Calandra ’ in prosa, et non senza ragione, però che, se tanto sarà tenuta più bella una comedia ..., quanto più sarà imitatrice del naturale ...; tanto più dunque sarà suo proprio l’esser tessuta in prosa che in versi... Il giudicioso et veramente unico Ariosto poi (le cui comedie hanno forse il primo loco tra le composte in questa lingua, ancor che non siano molto ridiculose, come par che

solo apetisca oggidì il vulgo), benché stesse un tempo in questa opinione, cangiò poi consiglio; e tutte le sue comedie, già in prosa composte, ridusse in versi sciol-

ti... Ma, venendo a più particolare investigazione, dico che bisogna discorrere di che natura fossero o siano i versi di quelle lingue, et quelli particolarmente co i quali sono descritte le lor comedie, et da l’altra parte, essaminare di che qualità siano i nostri volgari;

et questo veduto, si conoscerà manifesto che quelli sono comodissimi a’ componimenti comici, et che i nostri

sono troppo mal atti a tal poema »:

e questo

spiegherebbe anche l’espediente del ricorso all’endecasillabo sdrucciolo, « il quale ha più del languido nel fine et, legandosi con più tenerezza al seguente, par più conforme alla prosa et al ragionare comune ». Ma intanto nel brano ora trascritto il fiorentinismo

polemico del Grazzini — e questo è da notare in rapporto alla tesi che stiamo discutendo — trovava modo di lodare, accanto al Machiavelli e al Varchi (del resto

biasimato al numero 7, perché nella Suocera aveva seguito troppo da vicino l'Hecyra di Terenzio, lo aveva derubato, come il Gelli 15

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CLASSICO

che fece anch’egli una commedia nuova, ch’avea prima composto il Machiavello X2), anche l’Ariosto, il cardinal Bibbiena e il Caro, cioè

un emiliano e due rappresentanti di quella che il Borsellino considera la scuola romana. Parimenti

nel n. IV il Grazzini, ma affermando

proprio il culto per i grandi trecentisti e appellandosi al Varchi, si scaglia contro i « letteratuzzi », che concedon gli onori tutti a i Latini, ed ai Greci scrittori!

Ma certo i lor migliori, Virgilio, Orazio, Pindaro ed Omero

appetto a Dante Del Petrarca non né del Boccaccio darien lor trenta

non vagliono un zero. chiero, dir, che per mia fede, e la caccia sul piede!

E rincara la dose nel n. VI, prendendo col Varchi le difese di Annibal Caro contro il Castelvetro, cui

rinfaccia: Non

in Modena

Ebbene,

questo

dunque né in Piacenza,

la lingua, che saper ti glori e vanti, ma sol s'impara e favella in Fiorenza.

medesimo

Grazzini

(che quindi

apparirebbe in possesso di tutti i numeri

per assu-

102 Va notato un errore del BorLENGHI, che, nel commento al brano (op. cit., vol. I, p. 1063), sulla base dell'ammissione del Gelli d'essersi incontrato nell'Errore con la Clizia del Ma chiavelli, ha pensato che la diceria calunniosa fosse che nella Sporta il Gelli avesse copiato «frammenti del Machiavelli,

della Clizia », mentre l’accusa era che il Gelli si fosse avvalso di una riduzione dell’Aulularia cui il Machiavelli aveva posto mano. Ma la diceria è esposta in maniera esatta a p. 612, nella presentazione della Sporta.

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DEL

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mere la posizione del Doni e far la parte di un comico pari a Firenze ai modi rappresentati nel Veneto

dal Ruzzante, dal Calmo e da quella Venexiana, in cui il facchino bergamasco Bernardo è già un anticipo di Brighella e Arlecchino — come ne Le tre sorelle di Leone de’ Sommi il « servitor di villa » Bertoldo parla in dialetto, introducendo

toni da commedia

del-

l'arte —, e giustificherebbe quindi la posizione del Borghini), nel n. II e nel n. XI si scaglia contro le « commediacce rattoppate » dei Zanni, coi quali mai belle, o gentili cose non s’odon, ma plebee e sporche;

ritorna cioè il commediografo aggraziato, che nelle due redazioni de La Gelosia aveva accompagnato ogni atto con madrigali o intermezzi lirici.!® In fondo nelle sue commedie mai o quasi mai s’incontra lo sfruttamento costante di tipi già fossilizzati nella commedia classica, come il miles gloriosus, il parassita, la malmaritata, la cortigiana, che invece compaiono

frequentemente

nel

Ruzzante,

anche

se

rivestiti o riadattati in più popolaresca aderenza a una realtà sociale energicamente incombente; egli stesso ha teorizzato quest’atteggiamento nel dialogo fra Prologo e Argomento, che costituisce il singolare, capriccioso proemio de La strega come anche quello dei

103 E nota come il PırroTTA intitoli (op. cit., p. 225) il quinto capitolo della sua già citata opera con un verso del madrigale del Grazzini La Comedia che si duol degli Intermezzi, in cui si parla della « meraviglia ... degli intermedi »; e in op. cit., p. 110 sgg. vedi inoltre la presenza di arie in musica già nella Mandragola del Machiavelli e nelle commedie dell’Aretino.

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Parentadi: « Aristotile e Orazio videro i tempi loro, ma i nostri sono d’un’altra maniera: abbiamo altri costumi, altra religione e altro modo di vivere, e però bisogna far le commedie in altro modo; in Firenze non si vive come si viveva già in Atene o in Roma: non ci sono schiavi, non ci si usano figtiuoli adottivi, non

ci vengono i rufftani a vender le fanciulle, né i soldati del dì d’oggi nei sacchi delle città o de’ castelli pigliano più le bambine in fascia, e allevandole per loro figliuole, fanno loro la dote, ma ettendono a rubare quanto più possono, e se per sorte capitasser loro nelle mani, o fanciulle grandicelle o donne maritate (se già non pensassero cavarne buona taglia), torrebbero loro la virginità e l’onore ». Ma se nelle sue commedie è quasi impossibile scoprire il ricalco di una comme-

dia classica, per contro gli altri due maggiori rappresentanti della commedia fiorentina di tipo schiettamente vernacolo, il Gelli e il Cecchi, s’ispirano aper-

tamente ai modelli plautini e terenziani. Il Gelli nella Sporta

ricalca, come

abbiamo

già detto, l'Aulularia,

e nell’Errore la Casina (già ormeggiata dal Machiavelli nella Clizia *), il Cecchi ne La moglie s'ispira ai Menaechmi, nel Martello all'Asinaria

, ne Gl'incan-

1% Da notare che il BorLENGHI (op. cit., vol. I, p. 33) s'accorge cbe il Marescalco dell'Aretino si avvicina alla Clizia, ma non avverte che ciò dipende dal fatto che entrambe le commedie s’ispirano alla Casina. 16 Lo dichiara l'autore stesso nel prologo, pur con la solita rivendicazione della sua libera opera di rielaboratore: Quel buon compagno, uditor nobilissimi. amico tanto caro e tanto intrinseco

di quei che son tenuti miglior comici; quel che dà lor se stesso in corpo e anima

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DEL

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tesimi alla Cistellaria,'® ne La stiava al Mercator (e

spuntava quel personaggio della schiava che il Grazzini aveva ricordato come introvabile al di d’oggi), ne La dote al Trinummus, nella Majana allo Heautonti-

per arricchirli tutti; io dico Plauto; vuol trattenervi, si com'è "1 suo solito, con

l’invenzion

di quella

sua commedia

che fu da lui chiamata l’Asinaria; la quale ha oggi l'autor medesimo

che vi diede anco ano il Donzello... rimbustata a suo dosso, e su compostovi (aggiungendo e levando, come meglio gli è parso; e ciò, non per corregger Plauto, ma per accomodarsi ai tempi e uomini che ci sono oggidì), questa sua favola. Ove fra l’altro va notato come nel prologo il Cecchi non si periti di adoperare quell’endecasillabo sciolto sdrucciolo d’ariostesca derivazione, che il Grazzini aveva condannato. 16 Anche nel prologo di questa commedia il debito è apertamente proclamato: «speravo che voi debbiate dar grato

silenzio alla nuova commedia, alla qual Plauto per subbietto dato ha la Cistellaria ... Plauto... oggidì... non può

in pub-

blico uscire a viso scoperto, che intendere a pena lo sapre ’1

quinto degli uomini ... E perché gli ha ΠΟΤΑΜΟῚ buon compagno sempre questo autor delli Incantesimi, egliha contratta seco una amicizia sì fatta, chee' non dà mai fuori commedia che

Plauto non voglia sempre mettervi la parte sua; ed egli, che

desidera imperar da chi sa glie ne ha quell'obbligo che aver si debbe a chi ci fa servizio».

107 E si veda anche qui il prologo, nuovamente in endecasillabi sdruccioli: Egli ha tolto da Plauto l'argumento in gran parte della favola; e vi protesta, che farà il simile sempre in tutte le sue, perché il medesimo ved’egli hanno fatto li più nobili comici che vi sieno; e chi ha in pratica Terenzio e Plauto, ne sia testimonio

zu

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DEL

TEATRO

CLASSICO

morumenos e nei Dissimili agli Adelphoe. V'era dunque, nell'ambito della commedia fiorentina programmaticamente

vernacola,

una

sensibile

differenza

di

atteggiamenti che vieta di additare una scuola coee dica se da'

non non non che

Greci le lor trassono

. . e confessa Terenzio si i poter dir cosa, la qual dettasi sia dell'altre fiate. O se Terenzio si potette non servir del vecchio, meraviglia & se un uomo servesi

del vecchio?

E nel prologo de L’ammalata il Cecchi i commediografi classici e non risparmia truo di Plauto, proprio in nome di un commedia e proprio in un prologo in cui ciolo s'alterna a quello piano e a quello per appellarsi all'esempio plautino allo una propria

scomoda quasi tutti una critica all’Ampbiconcetto rigoroso di l'endecasillabo sdructronco, ma in fondo scopo di giustificare

licenza:

Ed avvertite, se per avventura

la medicina vi paresse

ch'udirete a l'ultimo,

una

cosa

da commedia,

che quest’Autore ha volsuto aver più rispetto questa volta al luogo, che allo stile, ancorché, se con giudizio discreto

sarà

il tutto esaminato,

null’ora

d’Aristofane

e’ si vedrà che questo non lo cava però del sesto sì delle commedie, che Plauto o Terenzio, per non dire Lavinio, sonarli

possin

che

come

farli ceffo, o dietro

le predelle;

fé ne l'Anfitrion

o di Luscio ancor

che

certe cosette,

s'e' volesse biasimarci

non

osservanti

e’ se li potre' dire:

Plauto

punto

del stil comico, Attendi

ad altro.

E il Gelli, nella dedicatoria della Sporta, afferma a sua volta:

« scusinmi gl’infiniti esempi di Plauto, il quale io ho il più ch'io posso immitato », e nel prologo, con una certa confusione nel

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

231

rentemente profilata; ed oltre tutto va considerato che

l’aggressiva freschezza del tono vernacolo sia nella commedia fiorentina, sia in quella veneta era pure una non so quanto volontaria riproduzione dell’altrettanto aggressiva freschezza dell’eloquio plautino, di cui tutti quegli autori dovevano avvertire il fascino e lo stimolo.

Del resto, se dal Cecchi, dal Gelli e dal

Grazzini risaliamo ai commediografi toscani della prima metà del secolo, troviamo che il Nardi, facendo reci-

tare I due felici rivali alla presenza del cardinal Giuliano dei Medici e di Lorenzo duca d’Urbino, faceva seguire alla commedia stanze in cui, a paragone con la Firenze d’allora, si scomodava la Roma di « Augu-

sto, Mecenate e Pollione »; che già il Giannotti nel prologo del Vecchio amoroso, dove l’imitazione plau-

tina non è certo riscattata dagl’intingoli del vernacolo cecchiano, confessava analogamente il suo debito, pur con la topica rivendicazione finale delle sue parziali porre a suo luogo Cecilio Stazio:

« ma vuol ben rispondere a

quegli che dicessero che egli ha tolto a Plauto e

Terenzio la

maggior parte delle cose che ci sono, ch'è tutto quello ch’egli

ha imparato da loro, e a fatto quello a loro che eglino similmente fecero

a Menandro e a Cecilio e a quegli altri comici an-

tichi ». Strano è invece che nel prologo dell’Assiuolo, la commedia più lodata proprio per la sua più tipica aderenza ad un

tema novellistico, la sesta novella della terza giornata del Deca-

meron (fonte, in fondo, anche della Mandragola), il Cecchi abbia ripreso l’ostentazione di novità con cui l’Ariosto aveva inaugurato la commedia regolare in volgare nel prologo della prima redazione

della Cassaria,

ma

appunto

per questo

travestendo

l'imprestito dal Boccaccio in forma di riproduzione di un fatto realmente accaduto: « vogliono fare spettacolo d’una commedia nuova nuova, fatta a posta da uno di loro, per loro, e per voi; non cavata né di Terenzio, né di Plauto, ma da un caso nuovamente accaduto in Pisa tra certi giovani studenti, e certe gentildonne ».

232

SULL’INFLUSSO

libertà

(« Plauto,

DEL

TEATRO

antichissimo

CLASSICO

poeta

romano,

fece

una comedia chiamata I] mercatante ... Le cui prime parti il nostro poeta ha trasferite nella sua comedia. Nel restante, parendogli che molto semplicemente fusse tessuto s'è molto

da Plauto discostato »;

ma

in

realtà, come nota il Borsellino," egli non ha fatto che sostituire all’influsso del Mercator

quello della

Mostellaria); che infine Lorenzino dei Medici, in quel-

l'Aridosia che può essere veramente

considerata

il

segnacolo della vera commedia erudita, ed entro que sti limiti è una delle più leggibili fra le nostre commedie cinquecentesche, ammetteva copertamente nel prologo i suoi debiti all’Aulularia, proclamando, di contro gi tanto più o meno sinceri rivendicatori della novità, la superiorità delle vecchie cose: « L’argomento va in stampa, perché il mondo è stato sempre a un modo; e lui dice che non è possibile trovare cose nuove; sì che bisogna facciate colle vecchie. E, quando bene se ne trovassi, dimolte cose vecchie son migliori

che le nuove: le monete, le spade, le sculture, le galline. Ecci chi dice anche che le donne vecchie son come le galline ». Ove si avverte vivissima l’eco del prologo della Casina. In una storia della commedia toscana del Cinquecento dove porremo dunque il Giannotti e Lorenzino? li potremo porre accanto al Gelli

e al Grazzini? e il Cecchi non finirà per occupare un posto intermedio? Ecco dunque tramontare la possibilità di una caratterizzazione di una scuola con i suoi connotati vernacoli. Risorge quella prestigiosa varietà d'atteggiamenti che abbiamo già riconosciuta nell'am-

108 Op.

cit., vol. I, p. 4.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

233

bito della tragedia anche in seno a une coppia di poeti gemelli, quali il Trissino e il Rucellai, anche in seno all'opera di uno solo dei due. In peggiori condizioni ci si viene a trovare se vo-

gliamo avallare, per esempio, la tesi dell’esistenza di una scuola napoletana puntando su Giordano Bruno e su quel Della Porta, le cui caratteristiche e il cui significato costituiscono tuttora uno dei più tormentosi

problemi della critica.!” Se tralasciamo l'esame della topica dei temi, che si presterebbe, sia nel Candelaio sia nel teatro del Della Porta, a ribadire le strette af-

finità di queste commedie con altre di ambienti ben diversi, e ci soffermiamo solo sulla topica di personaggi o meglio tipi la cui caratterizzazione dev'essere fondata di necessità sul linguaggio e poniamo mente all'im-

portanza che il linguaggio ha nello stile comico del Bruno e del Della Porta, allora ci verrà facile dimostrare l’impossibilità di stringere questi due autori sotto un profilo autonomo, individuabile a parte, solo constatando che nel Candelaio il pedante Manfurio nel suo caratteristico linguaggio trova antecedenti nel Pedante del Belo, nel Marco Terenzio pedante finto

de La Pellegrina del Bargagli, nel messer Piero pedante de Gl’ingannati, nel pedante del Ragazzo del Dolce, che il falso alchimista Cencio trova i suoi predecessori nel Negromante ariostesco e nel Ruffo negromante della Calandria, che lo sfruttamento delle cadenze napoletane, che certo in questa commedia è 1 R. Sırı RuBES, in Schede per il teatro del Rinasci-

mento, Napoli, 1965, ha impiegato un intero capitolo a esaminare la bibliografia dellaportiana senza riuscire a centrare una formula critica valida.

234

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

piü giustificato dal fatto ch'essa & sceneggiata proprio a Napoli, trova peró un precedente nel linguaggio del poetastro Ligdonio nell'A;or costante del Piccolomini; e cosi, se per il Della Porta ci fermiamo a La fantesca, anche lì, a tacere del solito parassita Morfeo, troviamo un pedante, col solito linguaggio, e poi ben due spagnoli, capitan Dante e capitan Pantaleone, che screziano la commedia di battute castigliane, come i loro connazionali

ne Gl’ingannati,

nell’ Amor

costante

(in cui,

secondo una delle tante capnicciose variazioni in uso per la tecnica del prologo, lo spagnolo è introdotto a dialogare proprio col Prologo), e ne I rivali del Cecchi." I due autori ci appaiono perciò come rianimatori di espedienti tecnici, scenici e scenico-linguistici, ormai abituali delle commedie di tutte le regioni. E se proprio αἱ vorremo sforzare di profilarli come

costi-

tuenti un patrimonio artistico locale, dovremo

anzi-

tutto osservare come in loro l’ambiente napoletano appaia colto in certe sue peculiari caratteristiche con

non minore freschezza di quella che informa la fiorentinità delle commedie del Gelli e del Grazzini, come

d’altro canto nello spingere spesso fino agli estremi kmiti

le risorse,

specie

linguistiche,

dei

τόποι

da

110 E anche a tal proposito, a far notare le fondamentali differenze fra il Cecchi e il suo compagno di gusti e di tendenze Grazzini, questi, nel prologo de La spiritata, ha trovato modo di assestare un colpo al τόπος dello spagnolo imperversante sulle scene con la sua lingua: « Bastivi che in questa sua favola non saranno di quei ragionamenti lunghi e rincre-

scevoli, né di quei ritrovamenti, nei tempi nostri impossibili e sciocchi, di che l’altre commedie sogliono essere quasi tutte piene; né ci si udiranno né Tedeschi, né Spagnoli, né Franciosi cinguettare in lingua pappagallesca, odiosa, e da voi non

intesa ».

SULL ‘INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

23)

loro sfruttati in un impasto singolarmente solleticante, essi possano essere additati anche loro come campioni di gusto manieristico nell'ambiente del teatro. Quella del Borsellino era una teoria audacemente

innovatrice, non priva di fondamento sotto parecchi aspetti e pur sempre mossa da intenti puramente storico-letterari, volti a niscattare la cosiddetta comme-

dia regolare dal peso della sua sudditanza ai modelli classici considerata come carattere fondamentale e mortificante. Ma più di recente anche nel campo della commedia cinquecentesca il moto di rinnovamento critico s'é vestito coi suoi rappresentanti dei panni monocromi delle istanze sociali del marxismo. Queste hanno alimentato nei suoi caratteri l'attuale ripresa del Candelaio sulle scene, e hanno colorito dei loro

fermenti polemici le ultime riprese del Ruzzante, presentato come voce del proletariato agricolo conculcato, sì che anche la recente grande edizione di I. Zorzi non é sembrata estranea a questo moto di rivendicazione

sociale;

e dell’interesse

esclusivamente

reali-

stico della Venexiana nella riproduzione spregiudicata dei costumi cittadini hanno ravvisato un altro motivo di satira e protesta (o meglio contestazione) quasi da lotta di classe, e persino nel Pedante del Belo han voluto scovare un nascosto intento di rivolta classista con spirito anticulturale, nella figura del servo Malfatto, e naturalmente

hanno

caricato il teatro

comico

dell'Aretino di un insieme di velleità di recare volutamente entro gli schemi della commedia regolare la voce

di ceti trascurati, di classi cittadine

irregolari,

reprobe, che appunto per questo anelavano oscuramente a farsi sentire nel coro discordante degli appe-

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SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

titi e delle vicende. S’intende che di questa tonificazione della commedia cinquecentesca apparentemente più avanzata secondo un profilo che le regalava intenti sociali mai prima individuati, l'elemento che più ha dovuto soffrire è stato al solito quello odiato e vituperato della fedeltà totale o parziale di quella com-

media agli schemi classici. Ma a questo punto, pur riconoscendo la piena legittimità di una problematica che svincoli la commedia cinquecentesca dalla catena del pregiudizio fıssante la sua paralizzante dipendenza dalla commedia classica, è ora di sottoporre la sua innegabile, insop-

primibile componente classica a uno spostamento di prospettive che riesca a porla al suo giusto livello. Ci

limiteremo ad additare alcuni criteri. Volgiamoci anzitutto alla commedia che nel 1508 inaugurò il teatro regolare (se prescindiamo dalla Commedia di Amicizia del Nardi, forse anteriore), cioè alla prima redazione, quella in prosa, della Cassaria dell’Ariosto. Ivi,

adoperando per il prologo i versi, ma non ancora l’endecasillabo sdrucciolo, bensì la terzina adoperata costantemente per le Satire, l'Ariosto proclamò orgogliosamente:

Nova comedia v’appresento piena di varii giochi, che né mai latine né greche lingue recitaro in scena. Parmi veder che la più parte incline a riprenderla, subito c'ho detto nova, senza ascoltare mezo o fine;

che tale impresa non li par suggetto de li moderni ingegni, e solo estima quel che li antiqui han detto esser perfetto.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

237

Ma egli ritiene che anche il volgare, benché Engua « barbara e mal culta », sia capacedi rivestire creazioni originali. Era una ripresa dello sviluppo semantico che già la commedia umanistica aveva tracciato sulle orme della palliata romana: nova doveva esser considerata la commedia che non vertebat da presso

un modello, almeno un modello già portato sulle scene.

Perciò questa ostentazione di novità, che però era destinata a gonftarsi e ad assumere ben altro significato in autori come il Grazzini veramente insofferenti dell'influsso plautino e terenziano e volti a coltivare quasi esclusivamente quello del Boccaccio, aveva un suo si-

gnificato particolare, quasi iniziatico, destinato solo ad affermare la dipendenza della commedia da un tipo, da una struttura generica, ma non da un copione determinato. Indubbiamente nei versi sopra citati v'è anche il vanto d’aver istituito in volgare un teatro che si pensava potesse essere composto, come prima, solo in latino. Ma questo vanto ha un senso solo se si avverte che l’Ariosto partiva dal compiacimento d'aver creato in volgare una commedia che nella sua struttura ripeteva quella delle commedie latine. In realtà, infatti, la commedia, anche se la trama è stata inventata

dall’autore, procede per intero sulla base dei soliti τόποι della palliata, può apparire effettivamente una nuova commedia di Plauto, dosante in un diverso ingranaggio i soliti ingredienti. E gli echi delle commedie plautine non mancano: la Rudens fornisce il motivo centrale, sì che il mezzano Lucrano finisce per corri-

spondere a Labrace e per subirne la stessa fine; vi si intrecciano echi della Mostellaria e del Poenulus. Ma le

dipendenze non finiscono qui: quando nella terza scena del terzo atto Trappola (il servo il cui nome il Gol-

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SULL’INFLUSSO

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CLASSICO

doni riprenderà nella Bottega del caffè) obbliga Lucrano a riconoscere che tutti gli epiteti ingiuriosi si attagliano a lui fino al punto da fargli confessare ch'egli é la

persona ricercata, abbiamo l’eco precisa della celeberrima scena dello Pseudolus in cui Pseudolo e Calidoro coprono il lenone Ballione di vituperi ch'egh accetta tranquillamente; così quando nell’ottava scena del quarto atto Fulvio arzigogola e scarta via via sen-

za formularli vari progetti e poi nella quarta scena del quinto atto celebra il trionfo, noi avvertiamo vivissima l’eco della scena del Miles in cui Periplecomeno osserva Palestrione che si lambicca il cervello fino ad escogitare un piano, delle scene dello Pseudolus in cui Pseudolo formula un progetto senza comu-

nicarcelo e poi lo abbandona all’arrivo di Harpax, o in cui celebra il suo trionfo, e della proclamazione della propria vittoria fatta da Crisalo nelle Bacchides.!! 111 Sono procedimenti contaminatorii frequenti nelle commedie successive: così già nel Negromante, commedia piuttosto remota dalla topica classica più minuta, l'Áriosto tut-

tavia ricalca la terza scena dell'atto secondo, quella della lettura della falsa lettera di Emilia da parte di Camillo, sulla prima scena dello Psewdolus, la lettura della lettera di Fenicio

arte di Calidoro;; nel Ragazzo del Dolce, che pure deriva al Ag Casina, la scena di messer Cesare e il parassita dal dantesco nome di Ciacco (del resto rinverdito dal Boccaccio nella novella di Biondello — IX, 8 —) s'inizia come la celebre prima scena del Miles fra Pirgopolinice e il parassita Artotrogo, com-

prese le correzioni che l’anziano credulone fa delle sbardellate smancerie del parassita; ne gl’Ingannati il monologo di Pasquella nella quinta scena dell’atto quarto riproduce la scena delle « nozze maschie » della Casinu: nella Fantesca del Della Porta la quinta scena dell'atto secondo, il dialogo fra Panurgo e Morfeo, riecheggia anch'essa la già ricordata scena fra Calidoro, Pseudolo e Ballione nello seudolus, oltre al contrasto fra Tossilo e Dordalo nel Persa, la nona e decima scena del-

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

239

E il fatto che nella commedia l’abilità giuntatrice si sdoppi nei due servi Volpino e Fulcio è uno sviluppo del tema plautino (si pensi alle Bacchides e alla Mostellaria) della fulminea reduplicazione di trappole di un

solo servo. Parimenti dopo a Urbino

l’altra

commedia

rappresentata

poco

nel 1513, la Calandria del Bibbiena,

che pure discende dai Menaechmi non senza qualche spunto

della Casina,"

e quindi

presenta,

quanto

a

struttura, una libertà di movimenti inferiore a quella della Cassaria, fu provvista dal Castiglione di un proloro che inizia con le parole: « Voi sarete oggi spettatori d’una commedia intitulata Calandria: in prosa, non in versi; " moderna, non antiqua; vulgare, non l’atto quarto riecheggiano da vicino quella della finta pazzia di Menecmo II nei Menaechmi, e il racconto di Gerasto nella quarta scena dell’atto quinto è l’ennesima variazione della

scena delle « nozze maschie » della Casina; così nell’Astrologo

del medesimo autore, che pure non è esemplato su alcun preciso modello classico, la settima scena del quarto atto riprende per intero dalll’Amphitruo la grande scena fra Mercurio e Sosia.

112 Eppure, a confermarci quanto ormai la critica sia restla a riconoscere la componente classica, il BoRLENGHI (Op. cit., vol. I, p. 56) s'è avventurato ad affermare: «La Calandria

è

la commedia

del

Cinquecento

più

fedelmente

stretta

al modello boccaccesco e in cui tale modello risulta più congeniale:

proprio

in tale aspetto essa rappresenta

un carattere

costante non solo ma il più spontaneo del teatro comico del secolo ». Va da sé però, che, proprio per i suoi particolari non

rimontanti dere

a Plauto, la commedia

nel più

tardo Negromante

stimolò l’Ariosto a ripren-

le trappoleric

del mago,

pre

sente nella Calandria sotto il nome di Ruffo. 113 E a modifica in anticipo della ricostruzione del BorSELLINO, il BORLENGHI, spinto invece dalla nascita toscana del-

l’autore, rileva il contrasto che si viene così a creare con quella che sarà l’ulteriore scelta della poesia da parte dell’Ariosto,

240

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

latina ». Era una proclamazione solenne ben naturale in commedie ch’erano le prime di classica struttura ad essere scritte in volgare. Ma il legame ai modelli classici ciò nonostante era così stretto che per giustificare la presenza di un lenone possessore di una ragazza l’Ariosto era costretto a sceneggiare l’azione della Cassaria a Mitilene, in un'età ch'era ancora quella tipica della palliata: situazione che egli avrebbe, non si sa perché, modificata nella seconda versione in en-

decasillabi rappresentata a Ferrara nel 1531, ove, pur senza alterare la situazione del lenone e della sua schiava, egli la rendeva anacronistica ponendo la scena a Sibari in età moderna, sì da poter parlare, nella quinta scena dell’atto primo, di un viaggio per mare

da Genova con la mercanzia. Nei Suppositi già si faceva macchina indietro, parlando, sì, e in un prologo anch'esso in prosa, ancora « d’una nuova comedia », ma poi ammettendo: « E vi confessa l’autore avere in questo e Plauto e Terenzio seguitato, de li quali l'un fece Cherea per Doro, e l’altro Filocrate per Tindaro, e Tindaro per Filocrate, l'uno ne lo Eunuco, l'altro ne li Captivi, supponersi:

perché non solo ne li costumi, ma ne li argumenti ancora de le fabule vuole essere de li antichi o celebrati poeti,

a tutta

sua

possanza,

imitatore;

e come

essi

Menandro e Apollodoro e li altri Greci ne le lor latine comedie seguitaro, egli così ne le sue vulgari i modi e processi de’ latini scrittori schifar non vuole. Come io vi dico, da lo Eunuco

di Terenzio e da li

come (op. cit., vol.I, p. 59) « prima dichiarazione polemica

in accordo con la tradizione del teatro fiorentino di gusto vernacolo».

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

241

Captivi di Plauto ha parte de lo argumento de li suoi Suppositi transunto, ma sì modestamente però che

Terenzio e Plauto medesimo, risapendolo, non l’arebbono a male, e di poetica imitazione, che di furto più tosto, li darebbono nome ». La commedia, sì, non ripeteva a puntino un solo modello classico; ma non c'era più quell’ingegnosità nel mettere insieme una nuova trama coi ferri vecchi della palliata, che fa della prima redazione della Cassaria, nonostante l’opaca pesantezza della veste espressiva, un esempio vera-

mente felice di nuova commedia modellata secondo gli schemi classici. Oltre ai due principali modelli plautino e terenziano intrecciati, basta consultare il Sanesi''* per sincerarsi quali e quanti altri echi di commedie plautine e terenziane, oltre a reminiscenze del Boccaccio e della commedia umanistica, s’intreccino nei Suppositi.

Ma quasi ad esaurire tutte le possibilità insite nella sua coraggiosa impresa di pioniere l’Ariosto successivamente con la Lena e col Negromante allentava i vincoli alla topica della palliata; e allora anche il prologo si adattava a questo nuovo carattere, ostentando baldanza: in entrambe le redazioni del Negromante (quella del 1520 progettata per Leone X e in cui quindi si fanno le lodi « del splendor inclito, / de la somma

virtùdi Leon decimo», e in quella del 1528, in cui il doloroso mutamento della situazione, l’incubo dell'avvenuto

sacco di Roma

si riflette nei vv. 37-38,

« se Francia o Spagna abbia condutti i Svizari, / © pur i Lanzchenech al suo stipendio ») si proclama alta-

114 Cfr. Op. 16

cit., vol. I, p. 232.

242

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

mente che si tratta di una commedia nuova. Ma nella seconda redazione la baldanza della novità si tramuta

all’ultimo anche in scherzo scurrile, quasi a meglio esprimere l’orgogliosa sicurezza dell’autore: Non aspettate argomento né prologo,

che farlo sempre dinanzi fastidia. Il variare, e qualche volta metterlo

di dietro, giovar suol; ne la comedia

dico. S’alcuno è, che pur lo desideri

aver or ora, può in un tratto correre al special qui di corte, e farsel mettere,

che sempre ha schizzi e decozioni in ordine.

Era quindi già vigorosamente fissato il rapporto

che potremmo quasi chiamare d’odio-amore fra i commediografi cinquecenteschi e i modelli classici di cui, nonostante ogni velleità di ribellione, si avvertiva l’insopprimibile forza di suggestione e cooperazione organizzativa. Perciò ad un critico che sia anche un filologo classico, pur competendo l’obbligo perentorio di riconoscere il valore sempre relativo della componente classica, rimane il compito di richiamare l’attenzione su motivi che a quella componente si riconnettono anche se a prima vista possono sembrare ad essa estranei e che, riconosciuti nella loro vera natura, pos-

sono contribuire proprio a far meglio valutare la varietà del quadro costituito dalla commedia cinquecentesca. Abbiamo già notato la sordità in cui gli italianisti rimangono di fronte a fenomeni che tradiscono l’ori gine classica. Potremmo fare altri esempi; per esempio il personaggio Maco della Cortigiana dell’Aretino (un autore in cui la componente classica appare relegata

nello sfondo, operante da lungi) è stato esaminato dal

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

243

Borlenghi !5 solo in rapporto con la sua natura di senese: « tradizionale dei senesi, nella novellistica di tra-

dizione fiorentina (sempre la componente novellistica in primo piano!) ...è non solo l'attributo di gente vana, ma, proprio, stolta e goffa. Per questo lo fa senese l'Aretino, senza che si debban cercare difficili riscontri con qualche reale Machus, e senese ». Invece il Padoan !!* pensa proprio che si tratti, come per il Rosso della medesima commedia, di persona effettivamente esistente con quel nome. Io oserei supporre che qui ci sia una forma alterata del nome Maccus, trasmesso all'autore da Plauto in Asin. 11 e Merc. 10 e proprio come suo nome e interpretato esattamente come nome d'arte scelto in riferimento alla maschera Maccus dell’atellana, di cui non doveva es-

sere ignota all'Aretino la natura: di qui il ricollegamento con la stolta natura dei Senesi. Non starò certo a spigolare gl'innumerevoli casi in cui nelle commedie cinquecentesche v'é ricordo di autori classici, e non solo comici. Spesso le citazioni

sono facilitate dal fatto che son poste in bocca ai pedanti, che debbono sfoggiare la loro erudizione accanto al loro insopportabile sproloquiare nella lingua dei padri. Cosi il pedante della Pellegrina, nella quarta scena dell'atto secondo, cita una frase del v. 57 degli Adelphoe; il pedante dell'omonima commedia del Belo fa augurare al prologo « che si abrusciassi e Diomede e Prisciano », fa prorompere persino l'innamorato Curzio, nella quarta scena dell'atto quinto, in un

erudito

ricordo della

νὺξ

μακρά

115 Cfr. Op. cit., vol. I, p. 32. 116 La Veniexiana

cit., p. 51.

dell'Ampbitruo

e

244

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

finalmente fa escogitare all’alunno Luzio, nella settima scena del medesimo atto, un ingegnoso centone virgi-

liano." Nel Candelaio, la figura del pedante stimola il Bruno a una vera dite e appare spesso irrefrenabile sfoggio l'atto terzo udiamo

e propria orgia per lui un vero di cultura: nella risuonare sulla

di citazioni erupretesto per un sesta scena delsua bocca frasi

dell’Andria di Terenzio e di Quintiliano, nella settima

scena una citazione dell’Ars poetica, nella sedicesima scena dell’atto quarto addirittura una dissertazione sul proemio dell’Eneide, sul problema di Ille ego qui quondam. Nella Fantesca del Della Porta Narticoforo nell’ottava scena dell’atto terzo allude al lemma geronimiano su Lucrezio componente il suo poema per intervalla insaniae (« Tu veramente deliri e patisci di lucidi intervalli ») e nella scena del medesimo atto enumera opere latine e umanistiche, e un commento

dei Disticha Catonis nella seconda scena dell’atto quarto; ma non gli è da meno quel briccone del servo Panurgo dal significativo nome. che nell'ultima scena del primo atto per vantare la propria ribalderia apostrofa il padroncino chiedendogli: « Pensi che sieno finitele stampe di quei Davi e Sosi e di quei Pseudoli delle antiche comedie? »; e nella sesta scena del terzo atto, alludendo alle Nuvole di Aristofane, esce a dire: « Sto

nel pensatoio ». E l'autore s'irreggimenta egli stesso 17 Da notare un'altra singolare reminiscenza goldoniana di commedie cinquecentesche nella Bortega del caffé. Alla fine del secondo atto, quando il biscazziere Pandolfo & preso dai birri, don Marzio si allontana esclamando Rumores fuge: que sta è una versione ritoccata del Rumores cave dei Disticha Catonis (I, 12). Orbene, questo ritocco risuona sulla bocca del pedante nella commedia del Belo, in questa scena.

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

245

in quest'ordine quando, affidando il prologo al personaggio

simbolico di Gelosia, le fa citare i prologhi

plautini per Lar dell’Aulularia, Arcturus della Rudens e Luxuria del Trinummus. Da ultimo ricorderemo il pedante del Ragazzo, che, nella sesta scena dell'atto

secondo, facendo la lezione a Flamminio, cita Virgilio e Terenzio. Tralasceremo un problema particolare nascente dal fatto che come nella letteratura latina del periodo arcaico vi sono poeti (Livio Andronico, Nevio, Ennio)

che coltivano ugualmente la tragedia e la commedia, ma per la seconda delle due attività poetiche, salvo

forse Nevio, non sono i più notevoli dell'età, così nel nostro Cinquecento v'é una piccola aliquota (Trissino, Pietro Aretino, Dolce) di cultori di tragedia e com-

media insieme, di cui forse solo l’Aretino si distingue fra gli autori comici. Ci volgeremo piuttosto ad uno degli aspetti più seri della questione fondamentale, che è la creazione di una nuova, insistente topica di tipi costanti. Il collega Ronconi vi mostrerà come, sulla scorta dei prologhi terenziani, ci siano autori di commedie che hanno coscienza della formazione di questa topica e mostrano di disdegnarla. A noi premedi assodare che essa (a parte i personaggi indispensabili del giovane innamorato, del vecchio gonzo e del servo ribaldo) si riduce per lo più ai tipi del miles gloriosus, di cui è un’appendice il soldataccio spagnolo loquace, gradasso e vigliacco, del parassita e del pedante. I primi due tipi sono evidentemente derivati dalla com-

media latina con tutto il suo armamentario di luoghi comuni; il terzo sembrerebbe invece il portato nuovo,

riflesso in senso comico della specifica società umanistica in cui s'erano formate la commedia umanistica

246

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

latina e quella volgare cinquecentesca. In realtä anche a non voler negare l’importanza di questa interpretazione storica — non si può negare neppure che

il personaggio del pedagogo (si pensi al Lido delle Bacchides), doublé da personaggi come i petroniani Eumolpo e Agamennone, doveva fornire ai commediografi un abbondante materiale di critica e di beffa, an-

che se poi in loro il tipo s'è strutturato nella caratteristica forma dell’esibizione del gergo professorale, che è tipicamente rinascimentale. Il principio che anche un solo caso (qui quello di Lido) può servire da appoggio a un’ipotesi storico-culturale mirante a porre in rilievo l'influsso classico è vittoriosamente confermato dalla soluzione di un altro problema, di cui la

stessa letteratura comica ci offre la chiave. Abbiamo definito appendice del tipo del miles gloriosus (così diffuso da passare anche alla commedia dell’arte, come quello del parassita finì in fondo per trasferirsi mella maschera di Arlecchino e quello del pedante in quella del Dottor Balanzoni) il tipo del soldataccio spagnolo, parlante la sua lingua. In questo caso ogni ipotesi d’influenza di modelli classici sembra esclusa a prima vista e la spinta offerta dalla realtà sociale e

politica contemporanea, specie nella seconda metà del Cinquecento (alla quale risalgono le commedie in cui il tipo compare), dopo il sacco di Roma, l’assedio di Firenze, lo stabilirsi della dominazione spagnola in Italia, sembra campeggiare in esclusiva come motivo creatore. Ma si guardi il prologo de I rivali del Cecchi: Quei che c’intervengono

son forestieri; ma però parrannovi

fiorentini, sì han presa la dolcissima lingua di quella città illustrissima;

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

247

eccetto uno Spagnuolo, il qual, per essere un bravazzon, non ha trovato, credomi,

chi gli dia lingua; ond'é la sua restatagli:

forse per farvi ancor con essa ridere. Né è questo peccato; poiché Plauto fece questo medesimo nel Penolo;

e "1 divino Ariosto anco, a chi cedono Greci, Latini e Toscan,

tutti i comici,

nella Cassaria.

Nella Cassaria Furba, il servo del ruffiano (Furbo nella

seconda

redazione),

pronuncia

due

sole battute

di

idioma misterioso, la seconda volta nell’atto terzo di

tutte e due le redazioni, rispettivamente nella scena settima e nella scena nona, e la prima nella scena

settima dell’atto primo (e in risposta ad una analoga

del padrone) nella prima redazione, e nella seconda redazione nella prima scena dell’atto secondo, dove l’Ariosto ha fatto rivolgere dal ruffiano alle sue corti-

gianelle un discorso che lo imparenta visibilmente col Ballione dello Pseudolus nella grande scena della sua sortita. Ma la rispettosa citazione dell’archegeta della nuova tradizione, insieme con quella del massimo rappresentante della paradigmatica tradizione classica, ci mostra a quale disciplina, di puro carattere retorico,

sentisse di dover sottostare la maggioranza dei commediografi cinquecenteschi. E infatti il caso del Poenulus è molto più ampio ed eloquente di quello della Cassaria, tale da poter assurgere a motivo determinante:

si pensi al monologo di Annone in punico al-

l'inizio di quello ch’è ora l'atto quinto, alla successiva scena in cui il vecchio s'indirizza ín punico ad Agorastocle e Milfione e alle battute puniche che la nutrice Giddenis scambia con suo figlio. Dunque, nonostante

248

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO.

l’ovvia riflessione che il tipo del soldato spagnolo fosse dovuto al preciso influsso di una massiccia circostanza storica contemporanea, la testimonianza del Cecchi ci assicura che è stata proprio l’esistenza di un comportamento analogo nel massimo modello latino a costituire la spinta principale. Tale constatazione è il più solido risultato della nostra indagine rivalutante l’importanza della componente classica. Perciò, se nella commedia cinquecentesca assistiamo a originali manifestazioni isolate come la già ricordata presenza del coro nei Simillimi del Trissino,

dobbiamo andar cauti prima di interpretare fenomeni isolati della tematica come dovuti esclusivamente alla tendenza all’originalità nella commedia cinquecentesca,

sotto l'impulso di componenti costituite da categorie eccitanti alla libertà di concezione, come

la novelli

stica e il realismo popolare. Abbiamo visto che l’incon sueta conclusione del Pedante

del Belo, consacrante

il trionfo del personaggio odioso e ribaldo, è stata in-

terpretata come una singolare manifestazione di un intento sociale nutrito senza dubbio dal fondo realistico che imparenterebbe molte commedie a quelle della letteratura pavana e della scuola veneta. Ma se è vero che, come abbiamo constatato, basta un solo

esempio di Plauto per coonestare l’origine classica di un particolare tecnico della nostra letteratura comica — ecco presentarcisi in Plauto un clamoroso esempio di trionfo della ribalderia :il Truculentus, in cui la sfrontata cortigiana Fronesio rimane vantaggiosamente a

galla, grazie ai suoi trucchi e alle sue perfide macchinazioni. Grazie a questa considerazione, volgendoci alla Mandragola — a parte il carattere greco, da palliata, di quasi tutta la sua onomastica — non possiamo non ri-

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

249

conoscere che Callimaco riprende dalla palliata il tipo del giovane innamorato, Messer Nicia quello del vec-

chio gonzo, Sostrata quello della mezzana, Lucrezia quello della giovane donna ch'é in cima ei pensieri del giovane ardente, e Ligurio quello del parassita disposto, come Curculio, a compiacere con le sue trappolerie alle voglie del suo protettore. La constatazione che anche motivi tecnici diffusi, apparentemente suggeriti da situazioni contemporanee, vanno ricondotti

invece a stimoli della commedia classica c'incoraggia a considerare sotto una nuova luce due ultimi aspetti del mondo espressivo insito nella commedia cinquecentesca. In essa troviamo molte frequenti allusioni al mondo letterario e artistico contemporaneo o dei secoli precedenti. Per esempio c'é un ricordo di Cimabue nell’ultima scena dell'atto secondo della Pinzochera del Grazzini; il Petrarca & ricordato nell'ultima scena

del primo atto della Pellegrina, nella quinta scena del primo atto del Ragazzo, in cui il pedante (ed & sintomatico), accanto a « lo ingenioso Nasone » e a « quel mantuano che modulò Tytire tu patulae », cita «le optime e saluberrime opere di quella tuba angelica, di quel profeta veridico, di quel flagellum principum Petrus Aretinus » e, storpiandone l'inizio, la canzone all’Italia del « limpido e laureato Francisco Petrarca poeta florentinus », nell'ultima scena del secondo atto della Pinzochera, e tre volte nel Candelaio, nella terza scena del primo atto, nella settima scena, insieme con

l'Ariosto, e nella settima del terzo atto, quando il pedante Manfurio cita un esametro delle Epistulae ex Ponto ovidiane e insieme i vv. I, 17-18 del Trionfo d'Amore. Non & da meno il Boccaccio, di cui il Gelli

250

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

nella quarta scena dell’atto quinto della Sporta ricorda la prima novella della settima giornata del Decameron (« e 'nterverragli come alla fantasima di mona Tessa »),

mentre il Dolce, nella prima scena del secondo atto del Ragazzo, fa dire al giovanissimo Giacchetto « io mi diletto di leggere il Boccaccio e l’ho tutto a mente ». Nella medesima commedia, nella quinta soena del ter20 atto, si parla del Molza come frequentatore di una casa d’amici; e il medesimo letterato è ricordato nella

settima scena del terzo atto de Gl’Ingannati. All'inizio della Strega, nel dialogo fra Prologo e Argomento, il Grazzini

trova

modo

di

dichiarare

«ch'è

morta »,

che « è restata come mosca senza capo » la nostra lingua « con monsignor della Casa, il Varchi e Annibal Caro », e nella prima scena dell’atto secondo fa raccontare da Taddeo vicende letterarie (« Che parli tu

d’Accademia? egli è un tempo che io ne sarei stato, ' se 4o avessi voluto: lo Stradino mi pregò cento volte che io volessi entrare negli Umidi, allora che ella era

favorita daddovero, ma non v’ebbi mai il capo »), che son proprio quelle dell’autore. Nella quinta scena del quinto atto della Sporta il Gelli riprende una battuta dell'ottava scena del quarto atto della Mandragola, e

nella seconda scena del medesimo atto col ricordo di « mona Appollonia » cita la settima scena del terzo atto della Clizia. Nella quinta scena del primo atto del Candelaio il pedante arriva a ricordare grammatici contemporanei.

Spesseggiano

poi, specie nei comme-

diografi fiorentini della seconda metà del secolo, le citazioni del poema cavalleresco e specie dell’Ariosto, che non per niente era l’inventor della commedia regolare: nella nona scena dell’atto quarto dell’Assiuolo

del

Cecchi,

Giannella

dice

scherzosamente:

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

251

« vedrete se io sarò un Morgante furioso »; e già nella prima scena dell’atto terzo della medesima commedia si legge: « Fate come disse Gradasso ». Nella terza scena del quarto atto del Ragazzo messer Cesare dice: « Sono novelle quelle di Riciardetto e di Bradamante che scorive l’Ariosto »; nella quarta soena del secondo atto de La gelosia il servo Muciatto ricorda: « l’anello di Angelica », e le citazioni dell’Orlando Furioso si ripetono nelle commedie del Grazzini: nella seconda scena del quarto atto de La strega, Farfanicchio dice a Taddeo: « Voi mi parete, non vo’ dire un Orlando furioso, un Rodomonte bizzarro, ma lo Iddio Marte stesso », e nell’ottava soena del

quinto atto de La pinzochera si parla del giovane Riccardo che « era tornato allora allora in casa per portare il Furioso a un suo compagno ».

Ora possiamo arnischiarci a ricordare che i prologhi terenziani entravano nel vivo delle polemiche letterarie relative alla palliata: ai vv. 18-19 dell’Andria si legge:

Qui quom bunc accusant, Naevium Plautum

Ennium | accusant, quos bic noster auctores babet; nei vv. 4-16 dell’Eunuchus si polemizza con Luscio Lanuvino, esprimendo giudizi sull'opera sua, ricordando le sue commedie Phasma e Thensaurus, e al v. 25 si

ricordano Nevio e Plauto per il Colax; nel secondo prologo dell'Hecyra l'attore Ambivio Turpione ricorda (v. 6 sgg.) l'aiuto da lui dato a Cecilio Stazio, recitando sue commedie; al v. 7 del prologo degli Adelphoe si ricordano i Commorientes di Plauto. E non parliamo dei puntuali riferimenti ai modelli greci, che son ricordati spesso anche nei prologhi plautini. Né agli eruditi autori cinquecenteschi potevano sfuggire le parodie di Ennio introdotte da Plauto nelle sue

252

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

commedie, quella dell’Achilles Aristarchi all’inizio del Poenulus e quella dell’Andromacha aechmalotis nel

monologo di Crisalo ai vv. 925-78 delle Bacchides, e nei vv. 621-24 della Casina; e tanto meno

poteva

loro sfuggire la protesta contro la prigionia di Nevio nel celebre passo di Mil. 211-12. Ce n’è quindi abbastanza per concludere che anche per le frequenti citazioni di autori di poco precedenti o contemporanei i commediografi cinquecenteschi avevano la loro brava pezza d'appoggio nei modelli classici.

Altrettanto, anzi più a cuor leggero ciò si può affermare per le frequentissime allusioni alla realtà presente, sia che si tratti di situazioni politiche, sia

chesi tratti di luoghi, sia che si tratti di vicende storiche che hanno determinato la sorte dei personaggi. Nella Sporta del Gelli spesseggiano le allusioni a luoghi di Firenze, a S. Maria del Fiore nella sesta scena del quarto atto, alla cappella Brancacci e a Porta alla

Croce nella prima scena del quinto atto. Nella seconda soena del secondo atto del Ragazzo il Dolce introduce un’allusione alle donne di Ponte Sisto e nella quinta scena del quinto atto non può trattenersi dall’intonare le lodi della sua Venezia. Per le determinazioni della scena frequenti nei prologhi (a parte il problema del rapporto con la scenografia !*), basti citare il passo de La strega del Grazzini: « Primieramente la scena si conosce benissimo esser Firenze; non vedi tu la Cu-

pola ...? ». Nell’ottava scena del terzo atto del Candelaio c'è un’allusione a una celebre taverna napole118 Vedi ora una trattazione completa di questi problemi

nell’appendice di ELENA PIRROTTA

(p. 371 sgg.).

PovoLEpo

alla già citata opera del

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

253

tana, « l’osteria del Cerriglio », destinata a grande fortuna nella poesia vernacola napoletana del secolo successivo, dal Basile, che le dedicò la terza egloga delle Muse, a Giulio Cesare Cortese, che la ricordò spesso nella Vaiasseide e nel Micco Passaro e vi costruì sopra

un intero poema, Lo Cerriglio ’ncantato. Nella prima scema del secondo atto della Pellegrina si leggono le lodi del duomo di Pisa. Molto più frequenti le allusioni alla situazione politica. Apre il fuoco lo stesso Ariosto, che nei Suppositi"? parla di un’ambasceria di ferraresi a Napoli nella prima scena dell’atto secondo, e nella terza scena dell’atto quarto fa narrare da Filogono un viaggio attraverso l’Italia, nella quarta scena dell’atto quarto insiste a parlare di Catania e Ferrara, nella quinta soena dell’atto quinto allude alle scorrerie dei Turchi contro le coste italiane, compresa la tragica impresa d’Otranto: successivamente nella

prima scena dell'atto secondo del Negromante Ὁ al. lude alla cacciata degli Ebrei dalla Spagna, nella scena 119 Mi

riferisco

naturalmente

prosa. 120 Altrettanto naturalmente, che saranno intesi soprattutto dagli la seconda delle due redazioni in 1528. Si tenga presente, fra l’altro, zioni in prosa della Cassaria e dei

alla

prima

redazione

in

in base a criteri metodici studiosi dell’Ariosto, seguo versi, quella definitiva del che, mentre le prime redaSuppositi furono entrambe

rappresentate e pubblicate come testo definitivo, la prima redazione in versi del Negromante non fu rappresentata e va considerata come provvisoria, sì che anche le sue otto edizioni che sono state ritrovate sanno di arbitrario e di capricciosamente scorretto, compresa l’editio princeps del 1535, pubblicata dopo la recita della seconda edizione, della quale l’editio princeps del 1551 ha invece la solidità stessa del a redazione defintiva: cfr. M. CarALANO,

Introduzione

all'edizione critica delle com-

medie dell'Ariosto, 2" ed., Bologna, 1940, voL I, pp. xxxiv-Lr.

254

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

seconda dell’atto primo allude alle « pubbliche gravezze » che affliggono Firenze, nella terza scena dell'atto quinto ricorda le guerre dei Veneziani nell'Italia settentrionale, compresa quella della lega di Cambrai. Il Giannotti, nella scena quinta del quarto atto del Veccbio amoroso, parla dei « vecchi, i quali co' loro ambiziosi e sciaurati governi, hanno ruinato questa bella provincia della Toscana »; nella prima scena degl'Ingannati Gherardo dice a Virginio: « ché ben so che Ἰ tutto perdesti nel miserabil sacco di Roma ». Il luttuoso evento, destinato

a mutare la faccia del-

l'Italia rinascimentale, pesa sul teatro comico come su tutta la letteratura del Cinquecento: si ricordi che il famoso episodio dei Ragionamenti in cui si traveste il 1. IV dell'Ezeide & strutturato dall'Aretino in maniera che il sacco di Roma corrisponde a quello ch'è l'incendio di Troia nel poema virgiliano; gli Ecatommiti del Giraldi prendono le mosse dal medesimo evento, che quindi viene a corrispondere a quello che è la peste del 1348 a Firenze nel Decameron; e fra le commedie il sacco é ricordato ancora negl’Ingannati, in cui nella scena seconda del primo atto Lelia ricorda: « gli spagnuoli che mi tenner prigioniera a Roma ». Nella medesima commedia — mentre nella settima scena dell'atto quarto dell’Assiuolo del Cecchi Giorgetto do-

manda più innocentemente a Giannella:

« E che sol-

dato se’ tu? del tempo di Bartolommeo? » — il ricordo di Bartolomeo Colleoni è formulato, nell’ultima scena

del primo atto, con maliziosa scurrilità, accennando alla fama di straordinaria possanza virile che circondava il celebre capitano di ventura: « que’ buoni uomini del tempo antico di Bartolommeo Coglioni »; e nella prima scena del secondo atto de La strega del Graz-

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

255

zini Farfanicchio parla di cose che « dovevano usarsi già al tempo di Nicolò Piccinino, o al tempo di Bartolomeo Coglioni ». L’Amor costante del Piccolomini

è addirittura prima scena attese di una vita è quella

gremito v’è una rifonma di voi

di allusioni a fatti storici: nella battuta polemica risonante delle religiosa: « la più libera e felice preti ed è per esser ogni dì più

se un concilio non ci ripara »; e in successive com-

medie il Concilio ormai funzionante e altri problemi morali curati dai papi non mancano d’esser ricordati: così nella quarta scena del quinto atto della Pellegrina: « oggi i matrimoni clandestini non sono approvati dal Concilio »; nella diciottesima scena del quinto atto del Candelaio a proposito delle cortigiane si fa un discorso comparativo sulle loro condizioni nelle principali città d’Italia, facendo per Napoli una

pianta dei luoghi in cui esse dimorano, parlando della longanimità della nepubblica di Venezia e ricordando per Roma, con tanto di anno, un provvedimento

di

S. Pio V: « In Roma, perché erano disperse, nell’anno 1569 Sua Santità ordinò che tutte si riducessero in uno, sotto pena della frusta, e li destinò una contrada

determinata, la quale di notte si fermava a chiave ». Tornando

all’Amor costante, ecco nella scena quinta

dell’atto primo il ricordo del duca Valentino, nella scena tredicesima quello di papa Adriano VI e un’allusione alla venuta a Siena di Carlo V, alla cui presenza la commedia fu recitata nel 1536; nella prima scena del secondo atto messer Consalvo annuncia a capitan Francisco che suo padre e sua madre « os mattaron,

el afio passado,

en

Affrica,

a la tomada

de la Goletta » e il capitano accenna a « el stado del

256

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

duque Alessandro »,"' nella terza scena del secondo atto v'é, in onore di Carlo V, un ricordo della presa di Tunisi, nell'ottava scena del quarto atto Roberto parla del « tempo che papa Paulo endó in Civitavecchia a benedire l'armata », quella appunto della spedizione tunisina; dopo tanti ricordi celebranti Carlo V, provocati dal fatto che l'imperatore assisteva alla prima rappresentazione della commedia, e stimolava perciò a introdurre in essa sì gran copia di allusioni politiche, suscita maggiore meraviglia il fatto che nell’ottava scena del quinto atto si ricordi con sollievo che il marchese di Saluzzo, comandante delle truppe di Francesco I, avesse cacciato da Montalcino le truppe imperiali e si adombri come una iattura la presenza delle truppe spagnole. Proseguendo nel parziale excursus su questi motivi, ricordiamo che nella sesta scena del quarto atto della Pellegrina Casandro parla della sua intenzione di andarsi a gettare ai piedi del granduca Cosimo I; che nella quarta scena del terzo atto del Pedante il Belo arriva alla singolarità di nominare se stesso, accennando ai benefici ricevuti dall'abate di Farfa; che

l’Aridosia di Lorenzino nella terza scena del quarto atto allude alle guerre del ducato di Milano; che il Grazzini nel prologo del Frate dichiara: « questa che recitar vedrete non è favola ma cosa seguìta in effetto nel tempo dello Assedio », nella terza scena del quarto atto de La strega allude alle guerre di Pisa, e nella 121 Sarà errore dello stampatore o trascuratezza dello scrittore, che adotta spesso una grafia e una pronuncia intermedie fra lo spagnolo e l’italiano, che qui non si legga Alejandro?

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

257

decima scena del quarto atto de La pinzochera arriva a ricordare i Vestri come simbolo di un grave perturbemento (« Va’ là, che tu sentirai il Vespro siciliano! »).

Il Cecchi nella quarta scena del terzo atto dell’Assiuolo esorta a lasciar fare le commedie al granduca Cosimo «e alla compagnia de’ Cardinali» e nella quinta scena del medesimo atto ricorda « come si di-

ceva nel '32 la notte per Firenze:

Chies aglià? ».!2

Il Candelaio nella prima scena dell’atto terzo allude a provvedimenti monetari nel regno di Napoli, nella quinta scena dell’atto quarto alla presa di Cipro da parte dei Turchi e in genere ai contrastanti giudizi sulla Francia, la Spagna e la repubblica di Venezia, nellottava scena del medesimo atto a Innocenzo VIII e nella nona alla battaglia di Pavia, nell’ottava scena del quinto atto ad Adriano VI e nella ventesima a un nolano morto assassinato, di cui l’autore ricorda un

epitaffio da lui composto parlando di sé con l’appellativo « il Fastidito »: che è poi il suggello della costante presenza nella commedia della smania erudita del Bruno, emersa sin dall'indirizzo proemiale in versi A gli abbeverati del Fonte Caballino, ove è evidente l’eco dei choliambi di Persio. Il Della Porta nella prima

scena

della Fantesca

accenna

alla celebre

famiglia

12 «4732 » è correzione del BonsELLINO invece di «'23» delle altre edizioni, perché si ritiene più probabile che qui si

alluda alla situazione posteriore all'assedio. Si potrebbe difendere

la lezione

tradizionale

ricordando

che il 1523

fu l'anno

del massimo sforzo delle truppe spagnole di Carlo V per cacciare i Francesi dalla Lombardia e che il Guicciardini ci narra

della loro traversata della Penisola per arrivare nella pianura lombarda

attraverso

l'Emilia.

Ma

il facile

emendamento

del

Borsellino restaura indubbiamente la data più naturale della presenza di truppe spagnole a Firenze. 17

258

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

Fregoso di Genova, cui appartiene Essandro, uno dei principali personaggi della commedia, e ribadisce poi il cenno con una battuta salace, facendo dire a Essan-

dro da Nepita: « Or credo che sei de’ Fregosi, poiché

l’hai posta in tanta frega »; nella nona scena del terzo atto accenna a molti luoghi della Campania, nell’ottava scena del quinto atto a vicende della repubblica di Genova. Frequenti le allusioni storiche anche quando i personaggi accennano a vicende personali. All’inizio degl’Ingannati Virgilio parla « d’un traffico che aveamo insieme messere Buonaparte Ghisilieri, il cavalier Da Casio ed io »: e i primi due sono nomi di personaggi non ignoti alle memorie storiche bolognesi; nella terza

scena del primo atto Lelia ricorda l’amicizia di suo padre col conte Guido Rangone; nella seconda scena del quarto atto, nella rivelazione che Virgilio riceve delle vicende del figlio, si parla ancora una volta del sacco di Roma nel quale il giovane era stato preso e poi trasferito in custodia del principe di Piombino. E non parliamo del Marescalco dell’Aretino — altra commedia rimessa in iscena ai giorni nostri, in nome del preconcetto del carattere popolare del teatro aretiniano —, in cui, per il fatto stesso che l’azione è condotta tutta in rapporto col duca di Mantova, spesseg-

giano le allusioni a personaggi e fatti del giorno, fra cui ve n’è anche una allo stesso autore. Indubbiamente questa larghissima messe di spunti, che ha il solo torto di essere incompleta, è evidentemente e profondamente nutrita degli stimoli della nealtà contemporanea, cioè di quello sfondo costante e fecondo da cui la commedia cinquecentesca deriva anche la varietà dei suoi toni e dei suoi atteggiamenti.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

259

Ma come in fondo la tematica abituale delle commedie, anche là dove sembra

che a prestargliela sia la

novellistica, si niconduce alla topica fondamentale della palliata, e se ne riflette nell’insieme dei caratteri di questo teatro un’insopprimibile componente letteraria che appare anche nei suggerimenti che esso fornì al teatro delle altre nazioni europee, così al fondo di questa interminabile serie di riferimenti alla realtà

contemporanea, che ci sembra così ovviamente suggerita da quella stessa realtà, è postulabile l’influsso dei precedenti offerti dal teatro plautino. Possiamo affermarlo

tranquillamente

ora che

abbiamo

visto come

anche per altri aspetti, cui esso sembrava completamente

estraneo,

l’influsso

classico

ha

costituito

la

pezza d’appoggio giustificativa. È risaputo con quanta frequenza nella palliata le agnizioni risolutive siano determinate da complicate vicende subite dai personaggi, specie di giovane età, in seguito ad avvenimenti bellici, spesso ricordati nella loro storica concretezza. Inoltre nella prima scena del Miles gloriosus Pirgopolinice parla del re Seleuco che lo ha incaricato ut sibi latrones agerem et conscriberem. L’allusione del

123 Per esempio la Notte dell’Epifania consacra l’abbandono apparente del proprio per

amore

da uno

dei

personaggi,

cioè un

di Shakespeare sesso compiuto motivo

frequente

nelle nostre commedie cinquecentesche, che era in fondo un’elaborazione

degli scambi

l’Ampbitruo,

base

della

o confusioni

di persona

dai Captivi e dai Menaechmi

commedia

in cui

il romanzesco

suggeriti

dal-

di Plauto. E alla finiva

per

deter-

minare una spinta verso il tonn serioso non c’era in fondo anche l'ilarotragedia costituita dall’Ampbitruo (si pensi, oltre tutto, al celebre

monologo

di Alcmena),

di cui abbiam

visto

quanto i prologhi del teatro umanistico mostrassero di avvertire il peso?

260

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

protagonista del Curculio all’assedio di Sicione del 303 a.C. (vv. 394-95) ha suscitato tutta una letteratura; e per limitarci a questa commedia, i vv. 509-10,

col loro accenno alle rogitationes plurumae del popolo contro i banchieri, hanno ispirato molti tentativi di

datazione in riferimento a eventi e decreti della repubblica romana negli anni della vita di Plauto. Del resto chi avesse voglia d’istruirsi al riguardo non avrebbe che a leggere l’opera di K. H. E. Schutter, Quibus annis comoediae Plautinae primum actae sint quaeritur," per sincerarsi come non vi sia commedia plautina che non abbia dato occasione a dibattiti sul suo anno di composizione in base ad allusioni più o meno evidenti a eventi contemporanei in essa contenute. E basta ricordare l’allusione a Ierone II ai vv. 411-12 dei Menaechmi, o l’allusione alla battaglia di Zama che s'é voluta riscontrare nel racconto che Sosia fa della vittoria sui Teleboi nell’Ampbitruo, o l'allusione del v. 888 dei Captivi alla vittoria dei Romani sui Galli Boi, o l’allusione del v. 980 della Casina al senatusconsultum de Bacchanalibus, decisiva per la datazione della commedia), o le allusioni del Trinummus a

un recente censimento e ad edili eletti di necente. E se nel Candelaio abbiamo trovato un ricordo di provvedimenti monetari, ecco che i vv. 9-10 della Casina, col loro accenno ai nummi novi, mostrano che anche

il teatro plautino conteneva problematici riferimenti a

questioni monetarie, dai quali avrà tratto ispirazione il coltissimo Giordano Bruno per il suo analogo cenno; e al riguardo si può aggiungere il ricordo di ciò

124 Groningen, 1952.

SULL’INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

261

che si trova in Plauto in riferimento ai pbilippi, con la relativa necessità di accertare se si tratti delle monete di Filippo II o di Filippo V di Macedonia. Così in Bacch. 214-15 Plauto critica Pellione come interprete dell’Epidicus, fa cioè qualcosa di simile a quello che farà il Cecchi nell'Assiuolo parlando della « compagnia de’ Cardinali ». E come il Belo nel Pedante e il Grazzini nella Strega introducono sorprendenti al-

lusioni a se stessi, così Plauto nel gioco di parole di Tranione in Most. 770, quid, Sarsinatis ecqua est, si

Umbram non habes?, fa altrettanto. È poi a tutti noto che i vv. 87-88 della Casina, i vv. 197-98 e soprattutto i vv. 201-02 della Cistellaria perdite perduellis, parite laudem et lauream, ut vobis victi Poeni poenas sufferant

consacrano la gioia per la vittoria nella seconda guerra punica. Ed è altrettanto noto a tutti che Plauto turba spesso l’illusione scenica con impensati riferimenti a cose romane, culminanti nella famosa scena

del choragus nel Curculio, contenente una singolare pianta di Roma, in cui ogni quartiere è collegato con

la coltivazione di un tenor di vita o addirittura di un vizio: vi scopriamo subito donde Giordano Bruno abbia ricevuto lo stimolo a collegare nel Candelaio con la prostituzione certi quartieri di Napoli.

Ce n'é abbastanza per concludere che il teatro plautino offriva ai commediografi cinquecenteschi larghi

incoraggiamenti

per il costante contatto

con

la

realtà sociale e politica contemporanea. Dall'analisi di tutti questi elementi possiamo perciò ricavare che, se da un lato non è più il caso di tenere in piedi la vecchia, insostenibile teoria dell’esistenza nel Cinque-

262

SULL'INFLUSSO

DEL

TEATRO

CLASSICO

cento di una commedia erudita discendente in toto dal teatro classico, se bisogna dare un posto di grande rilievo alla componente novellistica e, in connessione con questa, al preminente interesse per la realtà contemporanea, se quindi oggi è giusto e necessario ap-

profondite e godere la varietà e ricchezza di toni della commedia cinquecentesca, tuttavia bisogna anche persuadersi che il teatro comico classico, anche se ridotto

solo a una componente pari, se non addirittura inferiore, alle altre, entra come il prezzemolo un po’ dappertutto, incoraggiando gli autori cinquecenteschi anche a istituire certi tipi di contatto con la realtà. PosTILLA.

— Sull'inintelligente e faziosa recensione

che di questo studio ha pubblicata un tal G. Ferroni in « Rassegna della letteratura italiana », 1973, p. 161, cfr.

la mia prefazione a G. Cucchetti, Quasi un secolo, Rapallo, 1974, pp. XIII-XIV.

ERCOLE

CIOFANO *

Di questo umanista sulmonese, attaccatissimo alla sua patria e al poeta che ne costituisce la gloria maggiore, ignoriamo l’anno di nascita. Sappiamo ch’era

di nobile famiglia, figlio di Giovanni Ciofano, com'è testimoniato dal rogito del 12 maggio 1584 presso il notar Giulio Campana, in cui egli compare a Sulmona, per parte propria e della sorella Lucia, per consegnare la dote di costei a suo marito, Ferdinando

Ginetti ἀϊ Sulmona. Già una diecina di anni prima egli doveva essere assurto a gran fama nel mondo degli studiosi. Nelle Memorie istoriche della città di Solmona del P.D.

Ignazio Di Pietro, si legge:

«In questi tempi

[la

seconda metà del sec. XVI] fiorì il celebre Solmonese Ercole Ciofano, uno de’ miglioni Letterati d’Italia. Dopo aver egli appreso ogni sorte di Scienza in Roma, in Venezia, in Milano, ed in Padova, si applicò tutto

a commendare l’intiera opera di Ovidio suo Concittadino,

e l’eruditissime

osservazioni,

che vi compose

viddero galantemente la pubblica luce in Venezia nel 1578. Nel trattarsi di questo insigne soggetto tra gli * Voce del Dizionario biografico degli Italiani. 1 Napoli, 1805, Andrea Raimondi: ora ristampate anastaticamente presso l'editore Forni di Bologna nel 1971, per il decennale del Lions Club della città, pp. 332-33.

264

ERCOLE

CIOFANO

Uomini illustri si dirà il di più, che riguarda la sua Persona ed i suoi Parti. Basta qui rammentare, che per di lui opera s'introdusse nella sua Patria la stampa nel 1582. Di quanta lode però rendessesi degno

non vi è chi nol comprenda, se per poco rifletta ai veri vantaggi che la Repubblica Letteraria ha ritratto da si nobile invenzione... In tale occasione fu im-

presso il seguente Distico, che può supporsi parto dell’istesso famoso Concittadino Ad Sulmonem De Typographia Arte Quam advehendam curavit

Hercolanus Ciofanus Sulmonensis

|

Sulmo tibi gaude, miram quod conspicis artem, Quae

nomen

toto

sparget

in orbe

tuum.

S.M.P.E. Ä Sulmone | Ex officina Marini de Alexandri MDLXXXII

».

Nelle preannunciate Memorie storiche degli uomini illustri della città di Solmona del Di Pietro, sotto l'anno 1575, si legge: « Ercole Ciofano — Necque egli in Solmona da Giovanni Ciofano Uomo ricco, e molto civile, di cui parlando esso Ercole nelle sue osservazioni (Observat.

ad IV

Trist.) scrive:

* Cum

Ovidius Parentem suum nonaginta annos complesse sigrrificat, peropportunam hoc loco ansam mihi dat, 2 Stamperia Grossiana

dell'Aquila,

1806, pp.

145-46.

ERCOLE

CIOFANO

265

qui id ipsum fere de Parente meo Joanne liquido testari possum. Duodeviginti enim lustra firmis sane corporis et mentis vinibus Celestium beneficio agit '. Sin dai piü teneri anni applicossi agli studi delle lettere Umane, della Filosofia, e della lingua Greca, e Latina, e vi profittó tento, che in breve divenne uno

de' migliori Letterati del Regno di Napoli, nonché dell’Italia. Per vieppiù profittare non fe’ a meno di essere in Roma, in Venezia, in Mileno, in Padova, ed

in altri luoghi cospicui, ne’ quali tutti lasciò fama grande della sua vasta dottrina. Così prese stretta amicizia coi più dotti del suo tempo, e vi mantenne in appresso una nobile letteraria corrispondenza. E fra gli altri col noto Cardinal Sirleto, con Fulvio Orsini, con Achille Stazio, con Paolo e Aldo Manuzio, col P. Torsellino, col. P. Bencio, col. P. Clavio, col Vittori, col Bargeo, col Mureto, da lui chiamato suo mae-

stro. Scrisse molte poesie, che il tempo edace ci ha

tolte? Illustró a meraviglia le Metamorfosi d'Ovidio colle scelte sue osservazioni tanto rinomate, ed approvate cotanto da Paolo Manuzio, che in questa guisa scrisse, come

riferito dall'istesso

Ciofano

nella De-

dica della descrizione di Solmona el di lei Magistrato: * Lectis diligenter et examinatis Herculis Ciofani Sulmonensis in Ovidii Metamorphosin Observationibus, ita statuo praestanti doctrina refertas esse, ex Latinis Graecisque Poetis collecta scriptis, autem Latino sermone puro eleganti ornato, ut Lector summa cum utilitate non mediocrem capere voluptatem possit. De 3 E si cita l'epistolario del Mureto, tomo II, edit. Roboreti 1757: Versus tui non insuaves sunt, et erit mibi gratum, si te, cum

licebit, in boc quoque

genere

exerceas.

266

ERCOLE

CIOFANO

quo iudici mei testimonium, non tam eius amicitiae, quae mihi cum ipso Ciofano intercecht, quam veritatis gratia extare volui: minime dubitans, quin omnes,

qui recte de litteris existimant, mecum sentiant '. Ed il Mureto

soggiunse:

' Idem quod

Paulus

Manutius

de his observationibus iudico atque eas pluribus verbis laudarem, nisi in eis tam saepe ipse laudarer '. Questa opera fu la prima, che vide la pubbfica luce colle stampe di Venezia presso Aldo nel 1575, e tale edizione, che fu in ottavo, & la migliore di quante altre se ne sono fatte di poi. Dopo quasi due lustri di seria applicazione per formare i Commentari sull'opera intiera del menzionato Concittadino Ovidio, pubblicó in fine le sue rilevanti fatiche in due anni dal

1578

al 1580 con premettervi non solo una nuova vita del famoso Poeta, ma benanche diverse osservazioni sulla

bellezza di quei componimenti, nonché molte difese ad alcune imposture fatte allo stesso di lor Autore, come si legge nella Prefazione, che fa all'opera sua.

Il titolo è il seguente: ‘ Herculis Ciofani Sulmonensis in omnia P. Ovidii Nasonis opera observationes; una cum ipsius Ovidii vita et descriptione Sulmonis '; impressa galantemente in Venezia presso Aldo nel 1578, e poi ristampata piü volte in Anversa nel Brabante da Cristoforo Plantino nel 1583, e in Francfort dal Vachel nel 1605 in fogl. con le note non meno di esso Ciofano, che di altri. Diede anche alla luce le seguenti opere riferite dal Toppi (Bibliot. Napolit.,

pp. 77 e 182), e da altri scrittori: ‘ Antiquissimae

ac nobilissimae

Urbis

Sulmonis

De-

scriptio una cum Ovidii vita et effigie. Aquilae ex Officina Josephi Cacchi

1578 in 8.

ERCOLE

CIOFANO

267

‘ Halieuticon, sive de Piscibus fragmentum P. Ovidii cum

observationibus Herculis Ciofani

1580 '.

* Adverbia localia. Sulmone apud Marinum de Alexandris 1584 '. * Locuzioni latine e volgari di Cicerone scelte da Ercole Ciofano. In Venezia presso il Ziletti 1584 in 8 '. * Observationes in libros De Officiis M. Tullii Ciceronis (il medesimo Ciofano dà notizia di quest'altra sua opera nelle Osservazioni al Libro II delle ex Ponto)”.

* Observationes in P. Ovidii Nasonis Elegia de Nuce.

Sulmone apud Marinum de Alexandris 1583 in 4 '. "Epigramma '.

Fanno fra gli altri lodevolissima menzione di questo illustre

Oratore

e Poeta

Paolo

Sagrato

(nelle

sue

Epist. Lat. 1. I, p. 27, l. II, p. 73, 1. III, pp. 137 e 187, 1. IV, pp. 201 e 242), il Manuzio (Epist. 1. IX,

X e XI) e tanti altri (Scaligero p. 72 nella sua Scaligerana dell'ed. del 1666). ... Conservasi presso il Giureconsulto D. Filippo Sardi una copia delle Osservazioni su le Metamorfosi di Ovidio date in luce dal Ciofano colle stampe di Cristofaro Plantini nel 1583, in cui di carattere dello stesso autore si

trovano formate varie aggiunzioni e correzioni alla sua opera, e con frequenti note marginali, e sarebbe dell'interesse

del Pubblico, che tali note marginali vedessero la luce in una nuova edizione ».

Tale copia & ancora in possesso del barone Sardi di Sulmona, e noi l'abbiamo consultata, dovi postille di mano dell'autore.

riscontran-

Vaghe notizie circolanti sulla vita difficilmente ricostruibile dell'umanista fanno balenare suoi sforzi per essere introdotto, durante il suo soggiorno a Roma, come

precettore nelle case Orsini e Farnese.



esclude che per alcuni anni egli vi sia riuscito.

si

268

ERCOLE

Nella Biblioteca

CIOFANO

Vaticana

si conservano

(Reg.

lat.

2023), e ne debbo l’indicazione alla dottrina e alla cortesia di mons. J. Ruysschaert, 24 lettere del Ciofano: 1) a

Carlo Sigonio da Roma, del 13 novembre 1577; 2) al principe Vespasiano Gonzaga (il futuro dedicatario del com-

mento a tutto Ovidio) da Roma, del 27 ottobre 1578; 3)

a Cristoforo Plantin da Roma, del 2 ottobre 1579; 4) a Paolo Melisso da Roma, del 2 dicembre 1579; 5) a Paolo Vesanski da Roma, del Capodanno

1580; 6) a Pietro Vet-

tori da Roma, del 13 gennaio 1580; 7) a Paolo Melisso da Roma, del 27 febbraio 1580; 8) a Giovanni Francesco

Uranio da Roma, del 3 marzo 1580; 9) a Giovanni Angelo Papi da Roma, del 3 marzo 1580; 10) a Carlo Sigonio da Roma, del 3 marzo

1580;

11) a Orazio Cardaneto da Ro-

ma, del 5 marzo 1580; 12) a Paolo Sacrato da Roma. del 5 marzo 1580; 13) a Cristoforo Plantin da Roma, del 15 marzo 1580; 14) a Cristoforo Plantin da Roma, del 22 marzo

1580; 15) a Benito Arias Montano da Roma, del 5 aprile 1580; 16) a Pietro Vettori da Roma, del 7 aprile 17) a Paolo Sacrato da Roma, del 9 aprile 1580;

1580; 18) a

Orazio Cardaneto da Roma, del 10 aprile 1580; 19) a Paolo Vesanski da Roma, del 14 aprile 1580; 20) senza il nome

del destinatario da Venezia, del 22 ottobre

1580;

21) a

Federico Ranaldo da Venezia, del 9 novembre 1580; 22) ad Aldo Manuzio da Venezia, della vigilia di Natale del 1580; 23) senza il nome del destinatario (ma a Federico Ranaldo), del 28 gennaio 1581; 24) senza il nome del desti-

natario (ma a Federico Ranaldo), da Sulmona, del 14 gennaio 1590.

Di queste lettere, la n. 6 è pubblicata in Clarorum Italorum et Germanorum epistolae ad Petrum Victorium, t. II; * le nn. 3, 12 e 13, cioè quelle a Cristo-

foro Plantin, sono edite da A. Fayen? Tutte le altre so4 Florentiae,

5 «Revue des 1905, pp. 445-58.

1760,

p. 136.

bibliothèques

et archives

de

Belgique »,

ERCOLE

CIOFANO

269

no inedite; le ultime cinque sono autografe, e mi hanno consentito di verificare che le postille nella copia dell'edizione ovidiana posseduta dal barone Sardi sono di mano dell’autore. La lettera a Vespasiano Gonzaga offre la descriptio di Sulmona con la Vita di Ovidio; ed è notevole l’asserzione che il legame al principe è fondato anche sul fatto che il principe ha mostrato di Sulmonem ipsum amare carumque habere. La lettera al Plantin del 1579, com'è prevedibile, raccomanda l'edizione del commento a Ovidio, appellandosi al giudizio del Mureto, dell’Orsini e di altri viri in Urbe doctissimi. Nella lettera al Melisso del 1579, il Cio-

fano si congratula con lui di un onore attribuitogli dall'imperatore e gli parla del suo commento ai Fasti,

che ci blicata 1580, aveva

appare spesso in queste lettere come opera puba parte. Nella lettera el Vettori del gennaio alludendo alla presentazione che il Melisso gli fatta di lui (e di cui si perla anche nella let-

tera precedente), gli si sottopone il quesito nascente

dal v. 29 di Trist. IV, 10, induiturque umeris cum lato purpura clavo, dato che nella medesima elegia il poeta aveva affermato di appertenere all'ordine equestre,

mentre

latum

clavum ... proprium

insigne

Senatorum fuisse perspicuum est. La lettera al Vesan-

ski del Capodanno 1580 gli preannuncia l'offerta del commento ai Fasti e gli raccomanda di parlare di lui

a Stefano Báthory, re di Polonia. La lettera al Cardaneto del marzo 1580 ci rivela che il Ciofeno non conosceva di persona il suo corrispondente, e ci parla non solo dell'elaborazione del commento a tutto Ovidio e delle speranze riposte per esso in Paolo Melisso, ma anche di studi di diritto civile cui l'autore si e dedicato

da un

anno

Mureto

nostro

auctore

atque

270

ERCOLE

CIOFANO

impulsore. La lettera all'Uranio annuncia l’invio del commento ai Fasti e contiene una richiesta d’amicizia. La lettera al Papi accompagna l’invio del commento ai Fasti. La lettera al Sigonio del 1580 ha il medesimo scopo, ma accenna anche al desiderio di estendere il commento alle altre opere di Ovidio e trovare in Paolo Melisso chi possa facilitarne l’edizione; vi si raccomanda anche di sorvegliare l’invio delle opere al Papi. Uguale argomento ha anche la lettera al Sacrato del marzo

1580, ove si denomina

anche con devozione il Mureto virum doctissimum atque inter eloquentes facile principem. La lettera al Melisso del febbraio 1580 contiene un’ardentissima preghiera perché egli ottenga la stampa del commento di tutto Ovidio dal Plantin, che a parole si mostra dispostissimo a compierla. Le due lettere al Plantin

del marzo 1580 sono un’insistente supplica perché egli si decida a pubblicare il commento

la seconda

a tutto Ovidio;

ci fa intravvedere che una delle ragioni

addotte dal celebre editore per soprassedere era che intanto il Ciofano aveva pubblicato molto di ovidiano presso il Manuzio. La lettera all’Arias Montano mira

a due scopi:

ottenere da Filippo II qualcosa in fa-

vore del fratello; ottenere dal destinatario quel deci-

sivo del tore care

intervento presso il Plantin che valse la stampa commento di tutto Ovidio presso il grande edifiammingo. Si affaccia anche il proposito di dedil’opera a Filippo II. La lettera dell’aprile 1580

al Vettori, definito aetatis nostrae decus unicum

ac

singulare, € in ringraziamento di una speditagli da lui, alla quale il Ciofano risponde con espressioni d’illimitata devozione e con la promessa dell'invio delle sue opere. Molto caratteristica & la lettera al Sacrato del-

ERCOLE

CIOFANO

271

l’aprile 1580, in cui si esprime tutto lo sconforto del Ciofano per non essere riuscito ad emergere nel mondo dei dotti; sbalordito che l’amico abbia voluto inviargli il recente volume delle sue epistole, egli si dichiara incapace di ricambiare degnamente, pur decidendosi a spedirgli i suoi scholiola in Halieuticon Ovidii. L’altra lettera al Cardaneto è il ringraziamento per una lettera da lui speditagli; da essa apprendiamo che il corrispondente da venti anni insegnava con successo politiores litteras a Perugia. La seconda lettera al Vesanski accenna a una legazione da lui compiuta in

maniera da farlo accogliere benevolmente dal re di Polonia al suo ritorno; registra che il corrispondente ha ricevuto a Venezia dal Manuzio una copia del commento ai Fasti e aggiunge a questa l'invio degli scolii

agli Halieutica. La lettera del 1577 al Sigonio contiene un'interessante discussione sulla lezione di passi dei ἢ. XXVIII e XXXVI di Livio, com'era appunto negli interessi del grande studioso di storia antica cui la lettera è indirizzata. Le ultime cinque lettere autografe sono in italiano. La lettera al Manuzio è un tipico documento delle relazioni non certo soddisfa-

centi fra il Ciofano e l’editore veneziano: lo studioso si mostra

servizievole,

dice d’essere

andato

persino

« alle prigioni di S. Marco » per tentar di parlare con un carcerato che stava a cuore al Manuzio, si lamenta delle sue condizioni (« Hora mi trovo come Dio sa,

che fo fatiche da facchino dalla matina ἃ sei hore di notte, incontrare libri antichi, et scrivere, copiare, et

fare altri imbrogli »), e soprattutto di non ricevere quattrini dai suoi protettori (si parla anche di una pensione promessagli dal card. Sirleto). E dire che la precedente lettera del 22 ottobre 1580 esprimeva

272

ERCOLE

CIOFANO

piena soddisfazione per le accoglienze ricevute a Ve-

nezia da Aldo Manuzio, e descrivendo il viaggio da Roma a Venezia, parlava della generosa ospitalità ricevuta dal Vettori a Villa San Casciano, dal Sigonio a Bologna e dal Sacrato a Ferrara! La lettera al Ranaldo del 9 novembre 1580 già ci introduce nelle ristrettezze finanziarie che cominciavano a gravarlo a Venezia, accenna alla richiesta di una pensione e alla intercessione di illustri polacchi (il Vesanski? o il card. Osio, dato che si parla proprio dell’ambasciatore?). La lettera del 1581 ci informa del nome del

carcerato nelle prigioni della Serenissima: è un tal Desiderio, accusato d’omicidio, al quale gli amministratori della giustizia sembrano riserbare una certa benevolenza, ma non tanto da risparmiargli il supplizio della corda. Ma la lettera è importante soprattutto perché ci illustra la crisi di sconforto del Ciofano che

maledice il giorno e l’ora in cui si è trasferito da Roma a Venezia, lamenta che della promessa pensione non si parla più, esprime il propositodi ritirarsia Sulmona, dove troverebbe da vivene meglio, e accenna persino a singolani dissapori con Aldo Manuzio: « Ho fatte alcune fatiche sopra li officii di Cicerone, delle quali mi sodisfaccio honestamente, che con occasione le farò stampare, et alcune d’esse fatiche il buon Aldo, al quale quando fu in Roma prestai il mio libro delli Officii, se le copiò, le ha già quasi tutte stampate sotto il suo nome et non ha mutato pur una parola, ne me

pur una volta nominato ». Alle note

del Ciofano egli avrebbe aggiunto cose « di tramontani, heretici, che noi non potemo legere: et così scrive sotto suo nome, et vole parer esser dotto con le fatiche d’altri. Ma io son risoluto già di far stam-

ERCOLE

CIOFANO

273

pare da per se tutte queste cose ch’io gli prestai,et egli ha stampate sotto suo nome: accid ch'un'altra

volta impari, se serà possibile: et smorzi la sua sfacciatagine, di torre le cose altrui ». L'ultima lettera esprime il desiderio d'aver notizie del Plantin, nella speranza ch'egli voglia fare una nuova edizione del commento a Ovidio, per la quale l’autore dice di aver « aggiunto, e ‘mutato qualche cosa, come spero, di buono» (le postille autografe nella copia in possesso del barone Sardi?). Si aggiunge il progetto di un'edizione del De officiis di Cicerone, per la quale il Ciofano dice di aver consultato anche manoscritti della locale «libraria di S.to Nicola». Ma la lettera è importante soprattutto in quanto ci offre uno specimen degli epigrammi latini che si endava ora dedicando a comporre il Ciofano, « persona di povera vena in

versi latini, e quasi privo di inventione, si per colpa del mio bass'ingegno, si per le continue e moleste occupationi, et intrichi domestichi ». Dal fatto che uno degli epigra & in lodemmi di Federico Ranaldo (e il Ciofano avverte che fra i suoi distici «& uno à V.S. la quale so che merita ogni gran precomio») si è potuto stabilire che la lettera, in cui manca il nome del destinatario, è indirizzata a lui. Ecco i sette epigrammi: Ad D. Luciam

Diva Deo dilecta nimis, cui lumina adempta Reddidit: hinc lucis nomen adepta novae es. Ad B. Mariam sine peccato conceptam Corporis, atque animi Virgo sine labe creata Eripe me caeco turbine cum patria. 18

274

ERCOLE

CIOFANO

In Christi nativitatem, de eadem Virgine Iam fieri quod negat Natura, probavit Ipse Deus fieri posse puerperio. Ad D. Stephanum Felix, cui primum licuit iam cernere caelos, Est Christo primum quos aperire datum.

De Divo Johanne Apostolo et Evangelista Non moritur, sed vivit adhuc, cui contigit-uni Haurire e vivo mystica facta Deo. De innocentibus martyribus Insontes pueros, asper quos perdere tentat Herodes, tollit lucida ad astra Deus. Ad Federicum Ranaldum, bibliothecae Vaticanae Ti

em

Ingenium mirer ne tuum, mores ne Ranalde,

An ne fidem, in cunctos officium ne pium!

In Iter Italicum, IL P. O. Kristeller parla del codice Chigiano latino, IV,

116 della Vaticana, in

cui esistono lettere di Paolo Manuzio e del Mureto al Ciofano e ad altri amici, e sei lettere del Ciofano a

vari personaggi. Le due lettere del Manuzio da Roma, che risalgono al 1569, segnano l’inizio dell’attività dedicata a Ovidio dal Ciofano, che vi è esortato ἃ

proseguire, con espressioni di lode a proposito di emendamenti da lui proposti alle lezioni di Raphael Regius (Milano, 1510): fu si perges ut coepisti, poetam ingeniosum, civem tuum, a mendaci labe, non

mediocriter in laudem vindicabis ... Tu longe certiora sequeris:

itaque

tibi libenter

$ London-Leiden,

assentior.

1967, p. 475.

Le

due let

ERCOLE

CIOFANO

275

tere del Mureto sono le medesime del 12 marzo e del 12 maggio 1569 che vedremo esistenti anche nel cod. Vat. lat. 1159: il che conferma che esse sono state copiate piü volte. Le lettere scritte dal Ciofano sono autografe e importantissime, perché rimontano

agli anni 1561-62, cioè ai primordi della sua attività.

La prima, indirizzata a Pompeo Zambiccario, il celebre vescovo di Sulmona che partecipò al Concilio di Trento, è l’unica che rechi il nome del mittente, ma è senza data; la quarta è senza nome di destinatario e senza data; la quinta, ad Antonio Maria Graziano,

e la sesta, ad Anselmo Dandolo Abati, sono entrambe senza data. Solo la seconda, al cardinale Alfonso Ca-

rafa, e la terza, al cardinale Osio, recano il nome della città da cui la lettera è stata inviata: Roma. La seconda è del 18 luglio

1562;

la terza del 15 marzo

1561. La lettera al vescovo Zambiccanio è la prima della lunga serie di richieste per sé e per il fratello. La lettera al cardinale Carafa è una abile recusatio di uno scritto in onore del defunto e universalmente odiato papa Paolo IV, richiestogli dal porporato;

lumanista oppone un sacco di pretesti per sottrarsi al compito. La lettera al cardinale Osio è gratulatoria proprio per la sua nomina a cardinale, e maturalmente mira ad assicurarsi il suo appoggio. La successiva lettera sine titulo è indirizzata a un seguace del cardinale Carafa e mira a conservare la benevolenza della casa, alludendo ancora allo scritto in lode di Paolo IV, di cui si cerca di prorogare la stesura, pur non negando di volerlo scrivere. La lettera al Graziano è anch’essa una singolarmente

ti che

gli

delle solite autoraccomandazioni, ma animata dall’astio contro gli indoc-

contendono a Roma

l’ascesa nel

campo

276

5

ERCOLE

CIOFANO

degli studiosi della latinità. Finalmente la lettera ad Anselmo Dandolo sembrerebe scritta in periodo posteriore, perché parla di un bonestus le bor del Ciofano di cui il corrispondente si è gratulatus e accenna anche ai suoi studi su Cicerone.

P. O. Kristeller” ci dà notizia anche di un codice della Biblioteca Ambrosiana (E 34 inf.) del sec. XVI,

contenente lettere in italiano ad Aldo Manuzio il giovane di vari personaggi, tra cui il Ciofano. Le lettere sono ventisette; per come ne parla E. Pastorello, L'epistolario manuziano; inventario cronologico analitico 1483-1597, Firenze, 1957, p. 120, sembra che

il codice sia inedito. Sempre il Kristeller ci dà notizia del codice 531 del sec. XVI dell'Archivum Pontificiae Universitatis Gregorianae (Iter Italicum, II, 137-38)

contenente lettere al Bencio indirizzate da vari personaggi, tra cui il Ciofano. Tutto questo corpus epistolare ci aiuta a confi gurarci la personalità del Ciofano come uno di quegli studiosi che, per la loro origine da un ambiente poco atto a spingerli in alto, si son dovuti avvilire costantemente al ruolo di postulanti. Anzi & suo titolo di merito essere riuscito ad emergere come commentatore di Ovidio, sino a farsi pubblicare l'opera dal Plantin.

Ma il suo atteggiamento è sempre quello del querulo ricercatore di protezione; nella lettera al Vettori del gennaio 1580 egli arriva a scrivere: Admissus igitur in tuam fidem, ac clientelam (sic enim appellare volo

ac debeo) te rogo atque obtestor. D'altra parte l'epistolario & d'estrema utilità ver farci tracciare la bio-

7 Iter Italicum,

I, 1963, p. 289.

ERCOLE

CIOFANO

277

grafia dell'umanista nelle sue principali vicende. Il ritardo del Plantin nello stampergli l'opera e il favore dimostratogli dai Manuzio dovettero spingerlo all'infeloe trasferimento da Roma a Venezia, che si palesò rovinoso, specie dopo l'urto con Aldo il giovane per le chiose al De officiis. Ciò è tanto vero che intorno

al 1585 egli provvide a stampare direttamente, come abbiamo già visto, i suoi scolii all'opera ciceroniana;

ma ignoriamo s'egli l'abbia fatto presso un altro stampatore veneziano o più probabilmente a Sulmona, come risulterebbe dall’ultima lettera al Ranaldo. La stampa presso il Plantin lo recò al vertice della fama;

ma,

forse anche per la sopraggiunta morte del Mureto, la sua fortuna andò progressivamente decrescendo sino a

forzarlo a ritirarsi nella natia Sulmona. La sua forza in quegli anni fu soprattutto l’ami-

cizia del Mureto, che insegnava in Italia. Nell’epistolanio di questo, come abbiamo visto, vi sono lettere

al Ciofano. Sette lettere del Mureto al Ciofano esistono nella Biblioteca Vaticana;

e sono

state

tutte

edite. Esse sono del 12 marzo 1569, del 12 maggio 1569, del 7 novembre 1569, del 10 giugno 1576, del 25 ottobre 1576, del 7 dioembre 1576 e dell’8 luglio 1578, appartengono cioè, le prime tre, al periodo di formazione

della

fama

del

Ciofano,

anteriore

alla

pubblicazione della sua prima grande opera, il commento manuziano alle Metamorfosi, e le altre quattro al periodo intercorrente fra quella pubblicazione e la pubblicazione della seconda e della terza opera,

la urbis Sulmonis descriptio e il commento a tutto Ovidio. Le sette lettere appartengono al cod. Vat. Lat. 1169; la prima è nel f. 259”, le altre nelle due facciate dei ff. 255-256. Ma il fatto singolare è che

278

ERCOLE

CIOFANO

la più antica si trova in un foglio più avanzato ed è scritta evidentemente di pugno dell’autore, con can-

cellature, e reca in fondo una sigla autografa; le altre invece si trovano in fogli antecedenti e sono scritte

in bella copia da altra mano, senza correzioni, salvo nel primo rigo del f. 255", ove, al posto di esse? can-

cellato, nella terza lettera (quella del 7 novembre 1569),

è stato

sostituito

un

esf, evidentemente

di

mano del Mureto, perché con carattere uguale a quello della lettera del f. 259". Viene il sospetto che le sei

lettere siano state trascritte e poste in ordine per la futura edizione;

ciò è avvalorato

dal fatto che

nel

f. 256" la lettera dell’8 luglio 1578 è seguita da una lettera al Ciofano anch’essa già edita (Epist. t. IV, 61, p. 358). Proprio la prima lettera, quella evidentemente di pugno dell’autore, reca l’espressione Versus tui non insuaves sunt: et erit mibi gratum, si te,

cum licebit, in boc quoque genere exerceas, che ebbiamo già visto citata dal Di Pietro come appartenente a lettera del Mureto edita nel 1757. La prima lettera è edita da C. H. Frotscher; ® la seconda da P. Laz-

zati? e dal Frotscher, pp. 405-6; la terza dal Lazzari (pp. 270-71) e dal Frotscher (pp. 406-07); la quarta dal Lazzari (p. 372) e dal Frotscher (p. 407); la quinta dal Lazzari (pp. 372-73) e dal Frotscher (p. 407); la

sesta dal Lazzari (pp. 373-74) e dal Frotscher (pp. 407408); la settima dal Lazzari (p. 374) e dal Frotscher

8 M. A. Mureti opera omnia, I, Lipsiae, 1834, p. 136.

9 Miscellaneorum ex mss. libris Bibliothecae Collegii Romani Nr ia lesu, I, Romae, 1754, II, Romae, 1757, -70. pp..

ERCOLE

CIOFANO

279

(p. 408); l’ottava, che abbiamo già visto edita prima,

dal Frotscher (p. 200). Queste lettere, scritte tutte da Roma, ci testimo-

miano l'assiduo e trepido ufficio di cliens esercitato dal Ciofano presso il famoso Mureto. Quella del 12 marzo 1569 ci parla dei suoi versi, lasciandoci intendere che

in un primo momento egli cercava ancora la sua via, mentre solo nella vecchiaia sarebbe tornato ai versi. La maggior parte delle lettere ci testimonia la sua sollecitudine di far avere al Mureto codici da lui desiderati; in quella del 12 marzo 1569 l’umanista francese lo ringrazia per aver ricevuto volumen orationum. In quella del 12 maggio 1569 lo ringrazia di avergli fatto avere uno Stazio e un Prisciano, che maximo usui erit, e gli raccomanda di procurargli Gellio, accennando

di attendere

aiuto anche

da G.

Battista Stampa; in quella del 7 novembre 1569 si lamenta di non aver ricevuto un promesso Virgilio e neanche quaedam in Tibullum, quae te misisse significas (osservazioni dello stesso Ciofano al poeta elegiaco?). Nella lettera del 7 dicembre 1576 ringrazia il Ciofano di avergli inviato le opere dell’umanista bizantino Demetrio Cidone. Interessante è la lettera del 10 giugno 1576, in cui si accenna a una oratio dello stesso Mureto composta per l’erogazione dell'editto Beaulieu di quell’anno, con cui Enrico III, ampliando i termini della pace di Saint Germair-enLaye del 1570, concedeva agli Ugonotti l'esercizio del culto e otto piazze di sicurezza; vi si dice che di quelle 10 Debbo queste indicazioni a Codices Vaticani Latini, codices 11414-11709, schedis Henrici Carusi adhibitis rec. J. RuvsscHAERT, in Bibliotheca Vaticana, 1959, pp. 357-58.

280

ERCOLE

CIOFANO

parole il pontefice, etsi publice dici permisit, divulganda tamen non iudicavit. Lutetiae tamen, et Lugduni sine ulla dubitatione excudetur; e si aggiunge che, se il Ciofano ne desidera una copia, egli gliela invierà subito. Nella lettera del 25 ottobre 1576 lo si esorta a levarsi dalla testa che Cristoforo Plantin — proprio l'editore che sette anni pià tardi ristamperà la sua edizione commentata di tutto Ovidio — voglia pensare a lui, onde si conclude: Aliud igitur agamus

censeo. Ne nasce il sospetto che l'edizione manuziana di due anni dopo sia sorta per l’intercessione del Mureto, del quale — come abbiamo visto — & riportato in essa il giudizio, accanto a quello di Paolo Manuzio, che del resto aveva già pubblicato il commento alle Metamorfosi nel 1575, l'anno prima della lettera. In quella lettera

le esortazioni

(urge

studia)

hanno

an-

cora il tono del maestro al discepolo. Citando il pro-

logo della Casina plautina, e proprio la parte sovrap-

posta ma ricordata come se fosse anch'essa opera di Plauto (Vino

qui utuntur vetere, Plautus

sapientes

putat), lo si esorta a studiare assiduamente le opere

dell’antichitä, trascurando scritti più recenti: Inutilium ciborum esu corpora, inutilium librorum lectione ingenia corrumpuntur. Nella lettera del 7 dicembre 1576 si torna a parlare degli sforzi del Ciofano per farsi pubblicare il commento a Ovidio dal Plantin, anche grazie all’intercessione dello Arias Montano, alla quale si dovette effettivamente la stampa plantiniana degli anni 1581-83. Il Mureto testimonia che, a dir del Ciofano, il Plantin iussus est ... ab Aria Montano, e aggiunge: An putas Montano eam esse vim, ut iubeat?

Suadebit, hortabitur: credo. Iussurum non puto. Est enim alienum a modestia ipsius. At significat Plan-

ERCOLE

CIOFANO

281

tinus, se veterum auctorum opera notis eruditorum bominum illustrata libenter editurum: credo. Itaque ipsam Ovidii Metamorpbosin, ac notulas etiam quasdam e libro tuo sumptas, non invitus, ut ego quidem arbitror, recudet. Librum ipsum tuum non puto ab eo excusum iri. Falli tamen me velim: neque impedio,

quo minus eur, si videbitur, urgeas. Nella lettera delI'8 luglio 1578, che pure è l'anno dell'edizione manuziana di tutto Ovidio col giudizio del Mureto, sono le tracce di una vera crisi di scoraggiamento nell'animo del Ciofano, che aveva inviato al Mureto una lettera

di rimprovero, lamentandosi ch'egh non avesse risposto a una sua lettera precedente e facendo appello all'antica amicizia. Al che il grande umanista francese risponde con un leggero tono di fastidio: Ego te Ciojane mi amo ex animo: idque tibi, quoties se offeret

occasio, re ipsa declaraturus sum, non in tuis tantum, sed in omnium qui mibi a te commendabuntur nego-

tiis. Hoc amplius praestare nibil possum. Forse il Mureto, come spesso accade, s'era ingelosito che un altro, Benito Arias Montano, il principe. degli

umanisti

spagnoli

viventi, protetto

da Filippo

IT, teologo al concilio di Trento e rappresentante del re al concilio di Toledo del 1582-83, fondatore nel

1566 della biblioteca dell'Escurial, avesse preso sotto le sue ali il Ciofano. Ed è un fatto che l'agognato onore d'essere stampato dal Plantin, il grande editore ch'era divenuto l'autorevole diffusore delle opere di scienza, quell'onore appetto al quale essere stampato dal Manuzio gli sembrava ormai poca cosa, il Ciofano lo ebbe grazie allo Arias Montano, che col Plantin ad Anversa aveva stampato dal 1569 al 1573

la celebre Bibbia regia, che gli varrà una denunoia al-

282

ERCOLE

CIOFANO

l’Inquisizione, messa a tacere per la protezione di Filippo II. Però -- benché lo Arias Montano sia morto nel 1598, cioè quasi certamente dopo il Ciofano — è un fatto che la morte del Mureto, nel 1585, sembra

aver segnato la fine della fortuna dell’umanista sulmonese. Tutte le sue opere videro la luce prima di quella data, e a partire da quell’anno, per quel po’ che si può sapere della sua vita, lo si vede vegetare a Sulmona. Notizie da me faticosamente raccolte a Sulmona, da fonti di cui non mi è stato possibile assodare l’attendibilità, parlano del fatto che dal 30 novembre 1589 il Ciofano insegnò ai ragazzi della città. La sua presenza in città è testimoniata dal protocollo del notaio Giulio Campana

(1557-1611), conservato

nell’Archivio di Stato di Sulmona, nel quale Ercole Ciofano compare testimone non solo nel già ricordato atto del 12 maggio 1584, ma anche in un atto del 22 novembre 1583 e in uno del 16 novembre 1587. Il notaio Campana sembra essere stato il rappresentante di tutta la famiglia Ciofano, dato che un suo atto del 17 dicembre 1591 consiste nel testamento di notar Giangiacomo Ciofano, che nomina esecutori la moglie Dea del Lando da Anversa e il fratello Donato Ciofano, mentre è testimone Don Marco Antonio Ciofano, zio di Ercole; e in due atti del 28

luglio 1594 e del 10 novembre 1595 si accenma al notaio Ciofano come già morto. Ma quel ch'é più è che

Lucrezia

Trombetta,

moglie

di Ercole

Ciofano,

dopo la morte del marito, avrebbe sposato in seconde nozze proprio il notaio Giulio Campana, che il 22 settembre 1609 redigeva l’atto di matrimonio della

figliastra Isabella con Alvisio Fabrizio De Rainaldis.

Infatti dal registro dei battesimi (1580-1590) conser-

ERCOLE

CIOFANO

283

vato nella cattedrale di Sulmona risulta che Ercole Ciofano ebbe il figlio Giovanni Vincenzo il 26 no-

vembre 1586, la figlia di nome Isabella il 14 aprile 1587 e la figlia di nome Ortensia il 9 ottobre 1588. Dobbiamo perciò immaginare che al suo definitivo stabilirsi nella città natia abbia contribuito il suo matrimonio. Della sua attività in patria in questo periodo rimane anche la notizia ch’egli avrebbe identificato un «diruto marmo» ovidiano nel busto che ornava una nicchia sovrastante la porta del Salvatore. Questo busto, che è del Quattrocento, di scuola del Laurana, si trova ora al Louvre, e la sua identificazione

con Ovidio obbedisce alla mania degli umanisti di ravvisare dappertutto a Sulmona ritratti del poeta. Dal già ricordato atto matrimoniale di Isabella Ciofano del 22 settembre 1609 risulta che le proprietà di Ercole Ciofano, ch’essa porta come dote, consiste-

vano «in una Casa alle Case pente et quindeci opere in circa di terre site alle padule, a sant'Eramo, et alle Canale divise in ciascun luoco con d. Marcantonio et Cesare suoi ziani con il peso che se ritrova in detta Eredità ». Segue l’elenco dei beni mobili che si estende per ben quattro fogli, registrando i più minuti oggetti. Le già ricordate, ma non precisamente accer-

tate fonti da me raccolte a Sulmona indicano 1’8 novembre 1592 come data di morte del Ciofano. Questo

dato sembra contraddetto da quanto si legge in L. Rivera:"

«Si

trova

menzione

del Ciofani

(sic) nel

1597, quando fu governatore di Sulmona Cesare Ri1 La cultura e l'arte in Abruzzo ispirate a Publio Ovidio Nasone, in « Bull. Dep. abruzzese di storia patria », L'Aquila, 1962, p. 374, n. 1.

284

ERCOLE

CIOFANO

vera (già Rettore dello Studio bolognese), per una lettera a costui. ? »

Per quel che riguarda l’opera del Ciofano, all’elenco del Di Pietro già trascritto vanno aggiunte le correzioni di G. Pansa. Ivi il noto studioso sulmonese parte dal Di Pietro, ricorda il proprio Saggio critico sulle tipografie abruzzesi dal sec. XV al XVIII, non tace che la descrizione dell’edizione plantiniana dell’Ovidio del Ciofano data dal Minieri-Riccio nella Bi-

blioteca stor. topogr. degli Abruzzi, n. 1103 differisce dalla copia da lui posseduta dell’opera, rettifica al 1601 la data dell’edizione francofortese del Wechel, e si diffonde a parlare dell’edizione sulmonese del 1583: della Nux, insistendo su « quello che inesattamente ne riferisceil Di Pietro». Ma in realtà il Di Pietro concorda con lui nell’indicazione dell’anno e del luogo di pubblicazione e della persona dell’editore. Strana è certo la struttura contraddittoria del libro,

che contiene De Lectis e Il Pansa lo Sulmona. Va d’Ovidio in

prima una dedica al giovane Giuseppe poi una dedica a Livia Beccaria di Pavia. ritiene il primo prodotto della stampa a poi tenuto presente che la celebre edizione quattro volumi, edita ad Amsterdam

(Changiuon) nel 1727, a cura di P. Burmann, contiene,

accanto ai commenti di J. Micyllus, e D. e N. Heînsius, anche quello di Ercole Ciofano. 12 Cfr. A. L. AwrINORI, Raccolta di memorie istoriche delle tre provincie degli Abruzzi, Napoli, Campo, 1783, t. IV, p. 247; L. Rivera, Cesare Rivera, Rettore Generale dello Studio bolognese nel III centenario della sua morte, nel «Boll. della Soc. di storia patria negli Abruzzi », 1902, pp. 289-96. 13 Um’edizione sulmonese del sec. XVI, ignota ai bibliograf, in «Rassegna abruzzese di storia ed arte», 1900, p. 92 sgg.

ERCOLE

CIOFANO

285

Per valutare l’importanza dell’edizione del Ciofano nella storia del testo ovidiano, il meglio è consultare l’opera di F. Peeters, Les « Fastes » d'Ovide, Histoire du texte, Bruxelles, 1939. A pp. 192-93 lo studioso belga, che dà sempre Ciofani come forma del cognome dell'umanista, osserva che «ce n'est pas à proprement parler une édition que le travail d’Hercule Ciofani », ma anche ad ogni modo si può pensare che « le titre méme (Observationes in omnia Ovidii opera), fort attirant, ait valu à cette impression

la faveur presque immédiate d'une seconde édition,

en 1583 ». Cita come preziosa indicazione sul metodo di lavoro dell'umanista la lettera al lettore: In fastorum volumine emendando duodecim libris manuscriptis veteribus usus sum quorum octo in summi Pontificis bibliotheca ... adservantur (i nn. 32-29 di Merkel), in borum duobus postremus liber deside-

ratur. Alii duo sunt eruditissimorum virorum Achillis Statii (n.

9 Merkel) et Fulvii Ursini (Ursinianus, n. 8,

Merkel: E. H. Alton ^ pensa che Orsini mostró U al Ciofano, ma gli prestó il Vat. 3265), qui omnium anti-

quissimi esse videntur; ad borum praestantiam et antiquitatem unus ex illis quos dixi, Vaticanis accedit (il Peeters suppone che sia A). Alius ex bibl. Maffeiorum, alius quem frater meus, M. Antonius, cum impresso diligentissime coluit, quem librum fratris in scboliis voco (nn. 30-31

Merkel).

Col Ciofano pertanto, i cui scolii permettono di identificare almeno 4 su 12 dei suoi manoscritti e sono sempre precisi nell’alludere alle lezioni codice 14 The mediaeval commentators on Ovid's Fasti, in « Her-

mathena », 1929,p. 384, n. 22.

per codice, anche se non possono soddisfare le esigenze moderne, « se clöt une époque dans l'histoire des éditions ».

Per le Metamorfosi il Ciofano dice che, finché ha lavorato a Sulmona, si è valso di sei manoscritti, uno

di Francesco Saneo, uno dei padri domenicani, due conservati

nel

cenobio

celestiniano,

due

suoi,

qui

omnium, quos mibi videre contigit, antiquissimi ac praestantissimi videntur. A Roma, specie per l'aiuto di Paolo Manuzio e del Mureto, ha consultato altri otto

manoscritti della Vaticana, e poi uno di Fulvio Orsini, due di Mario Maffei, uno della biblioteca Capranicense, uno della biblioteca del card. Alessandro Farnese.

Nell'edizione plantiniana del 1583 precedono poesie laudatorie di molti eruditi: una alcaica di Paolo Melisso in lode del fratello poeta Antonio, che aveva

mandato a Paolo Manuzio un tripode d'oro (Tristium / te corrigi censore libros / incolumes ope Vaticana); endecasillabi falecii di Giano Pelusio crotoniate (poeta Naso

/ Sulmo

patria

quem

creavit

olim

/

tantas

divitias opesque tantas / dat nobis Ciofanus [in] urbe natus / eadem proavis potens, et idem | rbetor optimus optimusque vates / illi restituit suum nitorem

/ civem civis ab borridis tenebris / mendisque eripiens); distici di G. Francesco Ferrario di Modena e di Gerolamo

Catena

(Ciofane,

et binc doctos

versus

lepidosque refundis, ... / nasutusque tui Nasonis menda libellis / aufers, et nasos rumpis et invidiam); distici di Bernardino Leone di Priverno (Quantum Nasoni communis patria Sulmo, / tantundem debet, Ciofane, Naso tibi. / Nam, quibus is patriam illustrat, tu versibus alte / verba suo ingenio sensaque vera refers);

ERCOLE

CIOFANO

287

distici di Giacomo Guerriero di Cefalù (Quis dedit boc munus? clari Sulmonis alumnus), e ancora di Paolo Melisso distici (quam [barbariem] clava domitat tuus ille Ciofanus, an non / Pelignum bunc

scribes Amphitryoniaden?). Nell’edizione grandeggia la dedica a Vespasiano Gonzaga Colonna, duca di Sabbioneta. Ma per quanto nella dedicatoria sia detto Sexcentos enim locos ... emendatos suaeque integritati restitutos esse certo scio, il valore dell’opera — come

abbiamo

già visto attraverso il Peeters — è soprat-

tutto nelle observationes, che si riducono per lo più a richiamare le altre fonti sui singoli miti. A parte il relativo valore che l’edizione e il commento del Ciofano hanno per la costituzione e l’interpretazione del testo, il loro posto precipuo nella sto-

ria della cultura è dato dal contributo offerto al tentativo di collegare più strettamente la poesia di Ovidio alla patria del poeta. Su ciò cfr. E. Paratore, Le tradizioni popolari abruzzesi su Ovidio alla luce delle

nuove esperienze, in « Atti del VII Congresso naziomale delle tradizioni popolari », Chieti, 1957, pp. 4547. Il commento agli Amores (all’opera, cioè, che, per essere la prima, per essere di carattere erotico e per contenere spunti interpretabili come sceneggiatura degli amori con la donna amata nella terra natia, meglio si prestava a tentativi del genere) è tutto uno sforzo

per valorizzare la localizzazione della poesia ovidiana nell’agro sulmonese. A parte il fatto che il giudizio di Quintiliano (I, 93) su Ovidio, utroque (Tibullo et

Propertio) lascivior, per la solita tendenza laudatoria è interpretato non come « più scollacciato », ma

come

« più

nota ad Am.

molle»

e quindi

«più

originale », in

II, 1 per Pelignis aquosis si parla del

288

ERCOLE

CIOFANO

Gizio qui Anversam oppidum (e manca il predicato), del Vella non longe a caenobio Sancti Spiritus, qui ab Amoris fonte... fluere incipit (e si comincia così

a creare la leggenda della fonte d’Amore come con-

nessa con gli amori ovidiani, anzi da essa denominata) e di altri due fiumi che sboccano a tre stadi da Po-

poli, di cui uno è l’Aterno, qui omnibus bis, quos dixi, fluviis mirandum in modum auctus. A proposito di Am. II, 16, quamvis operosi vitibus agri, si annota che le viti nell'agro sulmonese dovevano essere allora

innumerabiles come ai tempi del commentatore. Ad Am. III, 6, 7 si ricorda ció ch'era già stato ennotato

a Met. VIII, 556, Multa quoque bic torrens nivibus

de monte solutis (p. 170 della 2* edizione), e che è oltremodo significativo, dato che in quel luogo non si parla affatto di cose abruzzesi: Ita etiam loquitur lib. III Elegiarum,

ubi de alio torrente scribit, qui

prope muros Patriae labitur; quique nunc vulgo Vella

dicitur; Ovidii vero tempestate, ut ipse ibi significat, nullum. babebat nomen... Incipit fluere ab altissimi montis radicibus, qui Itala lingua ab omnibus Maiella noncupatur. Ubi perpetuo est satis nivis. Nel com-

mento al passo degli Amores si aggiunge: Amnis, de quo bic agit poéta, is est, qui prope Sulmonis moenia labitur, quem nostro idiomate Vellam dicimus. E dopo aver detto che all'inizio dell’autunno esso si gonfia

ita ut nemo binc vel inde eum transire possit, si aggiunge:

Tale nactus impedimentum Ovidius, qui non

longe ab Amoris domum,

cuius

fonte, ingentia

ad Moroni adbuc

montis

vestigia

radices

supersunt,

quaeque le botteghe d'Ovidio vulgo vocantur, babuisse

dicitur, Sulmonem ad amicam proficiscens, banc pulcberrimam et venustissimam indignatus scripsit. C'è

ERCOLE

CIOFANO

289

in pieno la creazione della leggenda che, sfruttando l'appellativo di poteche d’Ovidie attribuito ai ruderi là sorgenti, vi poneva una casa d’Ovidio che, sorgente presso il corso del Vella, gli avrebbe fatto attribuire il denominativo di fonte d’Amore e sarebbe servita da

dimora a Corinna nei giorni in cui il poeta l’avrebbe condotta nell’agro natio. Ora i recenti scavi ci hanno rivelato che le poteche d’Ovidie facevano parte del grande santuario di Ercole Curino, di cui s'è potuta ricostruire la struttura:

cfr. V. Cianfarani,

Santuari

nel Sannio, Chieti, 1960, pp. 7-16, e Culture adriaticbe d'Italia, Roma,

1970, pp. 84-87:

si che sembra

stranamente preannunciatrice la già ricordata allusione di Paolo Melisso ad Ercole. A proposito di de monte il Ciofano annota: Hunc montem iam dixi Maiellam vocari, qui adeo altus et sublimis est, ut cum altissi-

mis quibusque Italiae montibus de sublimitate certare possit, in quo nix perpetuo servatur. Il Ciofano ricorda

d'aver condotto spesso i suoi alunni alle botteghe d'Ovidio. Finalmente delle due Vitae di Ovidio che si accompagnano alla Descriptio di Sulmona, mentre quella di Aldo Pio Manuzio ricorda quanto di Solimo, il leggendario fondatore della città, dice lo stesso Ovidio nel l..IV dei Fasti (vv. 79-81), e accenna all’ipo-

tesi che Ovidio ebbia cantato sotto lo pseudonimo di Corinna i suoi amori con la figlia di Augusto, e gli attribuisce la Consolatio ad Liviam, mentre dice che il poeta fortasse puer composuit la Nux e i Medicamina

faciei, quella del Ciofano proclama che Ovidio & nato uno eodemque die, quo Tib:illus e riferisce tutte le leg-

gende sul suo sepolcro. Nella Descriptio il Ciofano cita il 1. IX delle Puniche di Silio Italico per l'origine della 19

290

ERCOLE

CIOFANO

città da Solimo, compagno di Enea (onde Sulmona sa

rebbe stata fondata prima di Roma) e per le informazioni fornite ai Romani sull’impresa di Annibale dal sulmonese Satrico, prigioniero dei Cartaginesi sin dal tempo di Regolo. Si ripete che la Maiella è il monte più alto della regione; si dice che la zona peligna è deno minata vulgo nunc Valva. L'autore ricorda che la sua casa era denominata Le case pente e che vi era attaccata una delle catene affisse per la città ad equites et arcendos et impediendos; loda la produzione dei gelsi e dello zafferano. Depreca la feroce repressione di Silla,e afferma che Sulmona fu favorevole a Cesare, perché Cesare aveva seguito le parti di Mario, mentre Pompeo

aveva seguito quelle di Silla.

DE LVCANO

ET TORQVATO

TASSO *

Inter omnes constat Lucanum, utpote qui ratione

scribendi usus esset admodum inflate ac tumida, plu-

rimis anxii sensus oblectamentis atque illecebris resiliente, multos imitatores invenisse aetate quae renatarum litterarum cultum novis recentioribusque sensibus immutavit multosque poetas, qui nonnullis locis eius versus ac scribendi genus resonarent. Inter quos princeps locus principi poetae XVI saeculi occidentis tribuendus est, ilh scilicet Torquato Tasso, in cuius opere multi Latini poetae recinunt

adsidue in longum aevum exculti ac retractati. Communis omnium opinio alitur Torquatum illum tamquam postremum Vergili filium existimandum esse, ut apud Ioannem Baptistam Marino scriptum legimus,

qui, cum ad Francogalicum scriptorem ac poetam Ioannem Chapelain scriberet, auctorem prooemii ad opus quod ab eodem Marino compositum Adone inscribitur, haec aperte professus est, ingenium Tor-

quati Vergilianum fuisse, sui ipsius ingenium contra Ovidianum. Quae tamen minime prohibere possunt quin in Torquati versibus et Lucani imaginem ac * Da

«Latinitas », 1971,

p. 25 sgg.

! Cf. studium a me scriptum, quod L'influenza della letteratura latina da Ovidio ad ipie, nell'età del manierismo e del barocco inscribitur quodque in opere cui titulus est Antico e nuovo (Nissae, 1965, p. 232 sqq.) rursus editum est.

292

DE

LVCANO

ET

TORQVATO

TASSO

vocem resonantem inveniamus. Quod ceterum ab Ita-

licarum litterarum initiis facile colligi potest: nam et Dantes ille, qui et tempore et ingenio princeps nostrorum poetarum procul dubio duoendus est, cum Vergiium magistrum ec fontem retineret atque ap-

pellaret, facere non potuit quin et a Lucano multa depromeret eumque magnum

poetam existimaret at-

que palam denomineret? Multa a Lucano Torquatum deprompsisse omnes iampridem consentiunt. Vide exempli causa quee post multos auctores vir doctissimus L. Paoletti recentioribus temporibus scripsit in commentariorum Atene e Roma inscriptorum exemplari, quod anno 1962 editum est, ubi, cum illius opusculum La fortuna di

Lucano dal Medioevo al romanticismo inscriptum pertractaveris, haec p. 151 leges: « Pharsaliae tamen poetarum studium, illorum quidem qui eminerent, ac consensus non defuit. Quod opus et sollicitum maceratumque Torquati Tasso sensum excitavit, quem eius

memoria in nonnullis locis subiit illius operis, quod Gerusalemme Liberata inscribitur; qui enim poeta saepius ili horridularum rerum amoti indulsit, cui multa et Lucanus et scaenica Senecae opera coloribus atque perornato dicendi genere attulerunt ? ». 2 Liceat mihi rursus meum opus Antico e nuovo inscriptum commemorare, in quo caput inest, cui titulus est Lucano e Dante

(cf. p. 165

sqq.).

3 Quo melius res perpendantur, quae vir doctus primitus Italice scripsit ad verbum rerefam: « Alla Farsaglia non mancarono peró il favore e la simpatia dei poeti, anche dei giori. Piacque infatti alla tormentata fantasia del Tasso che se ne ricordò in più luoghi della Liberata, indulgendo spesso ... ad un certo gusto per l'orrido che si avvaleva anche dei colori e della abilità retorica di Lucano e del teatro senecano ».

DE LVCANO

ET TORQVATO

TASSO

293

Quae si attentius oonstituere ac circumscribere volueris, veteris Tassiani operis commentationes tibi erunt recensendae. Quse omnes Lucani vocem in XIII eiusdem operis libro praecipue resonare censuerunt,

illius scilicet loci gratia, in quo de silva agitur a mago Ismeno effascinata. Confer exempli causa commenta-

rium Tassiani operis a Guidone Falorsi exaratum:* ibi (p. 425) scriptum invenies silvam atque fascinationem ab Ismeno confectam coloribus effictas atque formatas esse quibus Lucanus effusiore cultu in tertio Pharsaliae libro usus est, cum eloquentissimum tumidissimumque sermonem ad lucum verteret prope moenia Massiliae situm a quo bellica robora Caesar sumere statuit (v. 399 sqq.). Et quidem

si Torquati versus

in principio huius libri attente rependas (Sorge non lungi alle cristiane tende tra solitarie valli alta foresta, foltissima di piante antiche, orrende,

che spargon d’ogni intorno ombra funesta. Qui nell'ora che’] sol più chiaro splende è luce incerta e scolorita e mesta;

quale in nubilo ciel dubbia si vede,

se il di alla notte, o s’ella a lui succede.

Ma quando parte il sol, qui tosto adombra notte, nube, caligine ed orrore, che rassembra infernal, che gli ‘occhi ingombra di cecità, ch’empie di tema il core. Né qui greggi od armenti a’ paschi, all'ombra

guida bifolco mai, guida pastore;

né v’entra peregrin, se non smarrito;

ma lunge passa, e la dimostra a dito.

4 Hunc et reliquos locos ab editione depromo anno 1919 Florentiae confecta.

294

DE LVCANO

ET TORQVATO

TASSO

Qui le streghe s’adunano, e’l suo vago con ciascuna

di lor notturno viene;

e chi forma

d'un irco informe tiene.

vien sopra i nembi, e chi d'un fero drago, Cosi credeasi; ed abitante alcuno del fero bosco mai ramo non svelse;),

facile in mentem reducere possis versus quibus Lucanus Massiliensem silvam horrore formidolosoque pavore redundantem paene iisdem verbis effinxit: Lucus erat longo numquam violatus ab aevo,

obscurum cingens conexis aera ramis

et gelidas alte summotis solibus umbras. Hunc non ruricolae Panes nemorumque potentes Silvani Nymphaeque tenent sed barbara ritu sacra deum;

structae diris altaribus

arae,

omnisque humanis lustrata cruoribus arbor.

Si qua fidem meruit superos mirata vetustas, illis et volucres metuunt insistere ramis et lustris recubare

ferae;

nec ventus

in illas

incubuit silvas excusaque nubibus atris fulgura; non ulli frondem praebentibus aurae? arboribus suus horror inest. Tunc plurima nigris fontibus unda cadit, simulacraque maesta deorum arte carent caesisque exstant informia truncis.

Ipse situs putrique facit iam robore pallor

attonitos; non volgatis sacrata numina sic metuunt: tantum terroribus addit, quos timeant, non nosse deos. Iam fama ferebat saepe cavas motu terrae mugire cavernas

et procumbentis iterum consurgere taxos,

et non ardentis fulgere incendia silvae, roboraque amplexos circumfluxisse dracones.

5 Notum est hic multos codices atque editores mom ullis frondem praebentibus auris legisse.

DE LVCANO

ET TORQVATO

TASSO

295

Non illum $ cultu populi propiore frequentant, sed cessere deis. Medio cum Phoebus in axe est aut caelum nox atra tenet, pavet ipse sacerdos accessus dominumque timet deprendere luci.

Idem

solis lucisque

aera ... summotis

defectus

solibus

=

(obscurum

cingens ...

che spargon d’ogni in-

torno ombra funesta, | ... è luce incerta e scolorita e mesta, etc.), idem arborum aérisque putris pallor at-

que caligo (Ipse situs putrique facit iam robore pallor / attonitos — Ma quando parte il sol, qui tosto adombra | notte, nube, caligine ed orrore), idem hominum beluatumque pavidum fastidium, eadem fuga atque adeundi ademptio (illis / et volucres metuunt insistere ramis / ct lustris recubare ferae ...

Non

illum cultu populi propiore frequentant

=

ne

qui greggi od armenti a’ paschi, all'ombra / guida bifolco mai, guida pastore; / né v’entra peregrin, se non smarrito; | ma lunge passa, e la dimostra a dito),

eadem fama in silvam metuendas potestates colligi atque locum atrocioribus fascinationibus impleri (Iarz fama

ferebat

/ saepe,

etc.

=

Così credeasi;

pavet

ipse sacerdos / accessus dominumque timet deprendere luci = ed abitante alcuno / del fero bosco mai ramo non svelse), eadem abditorum foedorumque sacrorum mentio (sed barbara ritu / sacra deum; struc-

lae diris altaribus arae, / omnisque bumanis lustrata cruoribus arbor... simulacraque maesta deorum | arte carent ... non volgatis sacrata figuris / numina sic

metuunt:

tantum

$ Masculinum

dum est. Sunt qui

terroribus addit

/ quos

timeant,

us certe ad illud v. 414 situs referen-

/ucum intellegere malint.

296

DE

LVCANO

ET

TORQVATO

TASSO

non nosse deos = qui le streghe s’adunano '), eadem draconum horribilis involutio (roboraque amplexos circumfluxisse dracones = e chi d'un fero drago ... forma ... tiene).

Addit insuper Torquati interpres eandem horridae silvae imaginem a Lucano in libro sexto effictam esse,

cum zristis Erichto vim facit fatis — ut poetae verbis utar —, umbram evocatura modo mortui militis (cf.

v. 642 sqq.) Et illic inest pallida promis / ... silva comis, in qua nullo vertice caelum | suspiciens Pboebo non pervia taxus opacat, in qua marcentes intus tene-

brae pallensque sub antris | longa nocte situs numquam nisi carmine [actum | lumen babet. Nec desinit duorum poetarum consensus; nam Ismeni fascinantis sermo Orci potestates minantis, quod morantur atque tarditatem concursui inferunt Spirti invocanti, or non venite ancora?

Onde tanto indugiar? forse attendete voci ancor più potenti e più secrete?

7 Loquitur Lucanus de ignotis dis, de croeatis verifica

Druidarum

fortasse horrida

sacra commemorans;

Torquatus

contra noster, qui de Christianorum religionibus ac falsis opinionibus agebat, qui vitam iis temporibus degebat quibus cotidie magae ac strigae ac divinae arguebantur et comburebantur, res ad has vulgatas fabulstiones transtulit. f Est operae pretium haec perpendere, Torquatum a Lucanea fictione obsessum ac pertractum strigas et malefica veneficia in silva ab origine collocasse,

antequam

Ismenus

suam

fascinationem

induceret:

quare utriusque silvae eadem ostenditur formidolosa facies naturali parta defectu. De magis magni momenti habitis co praecipue tempore quo Torquatus scribebat vide quae Atilius MoMIGLIANO scripsit in suo commentario Florentiae anno 1946 edito, p. 193: qui tamen nullam de Lucaneis locis in compars-

tionem adducendis mentionem fecit.

DE LVCANO ET TORQVATO

TASSO

297

E so con lingua anch’io di sangue lorda quel nome profferir grande e temuto, a cui né Dite mai ritrosa o sorda né trascurato in ubbidir fu Pluto.

Che sì? che sì? », volea più dir; ma intanto conobbe ch'eseguito ero lo ’ncanto),

eadem aggerat — ut vir doctus probat — quae Erictho Eumenides ceterasque Stygias... canes compellens moraeque crimen in eas deferens (v. 742 sqq.): Tibi, pessime mundi arbiter, immittam ruptis Titana cavernis, et subito feriere die. Paretis, an ille

conpellandus erit, quo numquam terra vocato non concussa tremit, qui Gorgona cernit apertam

verberibusque

suis trepidam castigat Erinyn,

indespecta tenet vobis qui Tartara, cuius

vos estis superi, Stygias qui peierat undas?

Vox Lucani assidue resonat dum Ismeni incantamentum perficitur; Ericthus devotiones et carmina pone Ismeni veneficia semper audiuntur. Cum fascinatio ad exitum adducitur (Esce allor de la selva un suon repente, che par rimbombo di terren che treme;* e 1 pe] i gli "— in lui si sente, e Ἶ pianto d'onda che fra scogli geme.

Come rugge il leon, fischia il serpente, come urla il lupo, e come l'orso freme

v'odi, e v'odi le trombe, e v'odi il tuono),

5 Jam in Massiliensis silvae deformatione, quam

in Pher-

saliae libro tertio legimus, haec (vv. 417-18) invenimus: lam fama ferebat | saepe cavas motu terrae mugire cavernas.

298

DE LVCANO

ET TORQVATO

TASSO

recte Guido Falorsi locum libri sexti Pharsaliae revocat, qui magam excantantem describit (v. 685 sqq.): Tum vox Lethaeos cunctis pollentior herbis excantare deos confundit murmura primum dissona et humanae multum discordia linguae. Latratus habet illa canum gemitusque luporum,

quod trepidus bubo, quod strix nocturna queruntur,

quod strident ululantque ferae, quod sibilat anguis; exprimit et planctus inlisae cautibus undae

silvarumque sonum fractaeque tonitrua nubis.

Patet procul dubio Italicum poetam conlegae enarrationem

paene

ad

verbum

trenstulisse,

daemones advenientes effingit, cum magam adhuc fescinantem: nam

etsi

Lucanus

ipse

contra

e 'l pianto d'onda cbe fra scogli geme v. 691

Lucani

recinit,

et planctus inlisae cautibus undae; item come rugge il leon, fischia il serpente v. 690 vertit,

quod strident ululantque ferae, quod sibilat anguis;

come urla il lupo finem v. 688, gemitusque luporum iterat; e v'odi il tuono eandem conclusionem exhibet,

quam Lucani locus v. 692,

fractaeque tonitrua nubis.

Hoc subtile artificium detegere potes, Torquatum, cum locum Lucaneum recineret, rerum ordinem immutasse,

priora in sequens postponentem, at in fine cum Latino poeta congruentem. Quam similitudinem in postremo

DE LVCANO

ET TORQVATO

TASSO

299

strophae versu iterum affirmatam invenimus: nam tanti e sì fatti suoni esprime un suono eadem exprimit, quae Lucani

v. 693, Tot rerum

vox una fuit,

Erichthus fascinationem peragens; nec nos effugere potest, cum in decimo octavo libro Rainaldus in fascinatam silvam ingreditur, quae, ut illi blandiatur, musicas pandit illecebras, poetam eodem versu unum tantum verbum de pristino loco amoventem uti: tanti e sì fatti suoni

un

suono

esprime.

Attamen duorum poetarum comparationem longius produci posse idem interpres admonet, cum locum decimi tertii in Tassiano opere libri, qui sitim virorum miülitiae sacnae addictorum ob aquarum penuriam effingit, cum loco quarti Phersaliae libri (v. 292 sqq.) confert, in quo de pernicioso aquarum defectu in Hispania apud llerdam agitur? Confer enim or di tepide linfe appena il fondo

arido copre, e dà scarso ristoro cum vv. 308-12 Lucani

$i mollius arvum prodidit exprimit conluvies certatim

umorem, pinguis manus utraque glaebas ora super; nigro si turbida limo immota iacet, cadit omnis in baustus obscaenos miles,

9 Ut aptius perpendas quae sit veterum poetarum inscientia wa viros qui Italicis litteris incumbunt, respice quid

praefatus A. MoMiGLIANO de Tassiano loco p. 201 scripserit,

illum cum carmine tetrastropho poetae Hieronymi Fontanella saeculo XVII florentis comparans,sed nullam ingerens Lucani mentionem, quod contra ante illum obscuriores, sed diligentiores interpretes fecerant.

300

DE LVCANO

ET TORQVATO

TASSO

necnon

Vedi le membra de' guerrier robuste,

ch'or risolute, e dal calore aduste

giacciono a sé medesime inutil peso cum Lucani vv. 306-307 (Nec languida fessi / corpora sustentant) ;

memoria Padi vel Nili vel Gangis, qua Christianus exercitus, siti oppressus

apud Torquatum

cruciatur

atque exagitatur cum illis Lucaneis versibus (532-36) conferri potest, quibus insolitum portentum inducitur sitientes exercitus non super arentem Meroen torqueri, sed inter / stagnantem Sicorim et rapidum ... Hiberum, ut spectare cogantur vicinos ... amnes. Duo denique praecipua considera: Lucaneam iuncturam rituque ferarum (v. 313) Torquatum impulisse ad duas strophas condendas, in quibus de beluarum siti agitur (Langue il corsier, etc.; languisce il fido cane, etc.); Lucaneam

meditationem (vv. 321-24) sitientes

milites, immodico ardore permotos, et latices sanie venenoque infectos dementer hausturos a Torquato affabre in magi Ismeni insidias conversam esse, qui con veneni e con succbi aspri e mortali più de l'inferna Stige e d’Acheronte torbido fece e livido ogni fonte.

Patet ergo decimum

tertium

Tassiani

operis

li-

brum paene, ut ita dicam, florilegium haberi posse locorum Lucani spiritu inflatorum.

Neminem tamen fugit harum rerum fundamentum

atque informationem longioribus explicationibus indi-

DE LVCANO

ET TORQVATO TASSO

301

gentia in alios quoque Tassiani operis libros producta esse. Decimus octavus liber, in quo Rainaldus silvam fascinatione solvit atque ex ea robora iubet extrahi ut Hierosolymae moenia oppugnentur, is praecipue est, qui Lucani vocem etiamnunc recinere possit. Sed Guido Falorsi unum tantum huius libri

locum (p. 568) secernit ac seorsum adnotat, qui nihil de fascinata silva tangit sed Hierosolymae oppugnationem describit, quacum tamen loci de silva coniuncti sunt. muros

Nam

octoni

versus

immanis

arietis

ictum

in

describentes

(Qual gran sasso talor, cb'o la veccbiezza solve da un monte, o svelle ira de' venti, rüinoso dirupa, e porta e spezza le selve, e con le case anco gli armenti;

tal giù traea da la sublime altezza l'orribil trave e merli ed arme e genti)

paene ad verbum vertit quae Lucanus (III, 469 sqq.) de eadem in Massiliensia moenia offensione dicit: at saxum quotiens ingentis verberis actu excutitur, qualis rupes, quam vertice montis

abscidit impulsa ventorum adiuta vetustas,

frangit cuncta ruens nec tantum corpora pressa exanimat, totos cum sanguine dissipat artus.

Nam, cum Torquatus arietem inducat, saxum, de quo Lucanus loquitur, fit imago similitdinis (qual gran sasso), in cuius vicem apud Lucanum rupes suppositum invenitur. Sed reliqua integra manent (quam vertice montis / abscidit impulsu ventorum adiuta vetustas = o la vecchiezza / solve da un monte, o svelle ira de’ venti; frangit cuncta ruens =

e... $pezza). Unum tantum immutatur:

ruinoso dirupa,

horrenda cae-

302

DE LVCANO

des, in qua

Lucanus

ET TORQVATO

suo

more

TASSO

moratur

(aucupium

verborum dimittat vel, si licet, ignoscat mihi clemens lector), sanguinem una cum fractis artibus confingens,

apud Torquatum in silvarum, domorum atque armentorum eversionem vertitur, haud aliter atque in decimi tertii libri loco, in quo de gregibus et pastoribus agitur pro volucribus et feris, de quibus Lucanus loquitur, et in alio eiusdem libri loco, sitim equorum et canum accurate describente, cum Lucanus in comparationem ad feras tantum spectans rursus appareat. Poterisne fortasse haec ad Vergilianum spiritum con-

ferre, quo Torquatum omnes inflatum censent?.? Cum

parvas similitudines in Torquati opere pas-

sim occurrentes omittamus, quarum in Pharsalia origo inveniri potest, et breviter Godefridi orationem in vicesimi libri principio pertractemus, in qua verba leguntur peritiam ducis exprimentia de uniuscuiusque militis ingenio et illa septimi libri Lucanei

(v. 285

544.) resonantia, quibus Caesar ostenditur ante Pharsalicam pugnam

milites tamquam veteres perspectos-

que comites exhortans, hoc firmare possumus, fascinatae

silvae

Ismenigue

magi

unum esse quod Torquatum

excantantis cum

historiam

Lucano coniungat.

10 At mentio volucrium et ferarum silvae perturbatae rumores fugientium ini fine tertii libri invenitur, in primo loco mentionem nemoris ob belli necessitates inducente: Altri i tassi, e le querci altri percote, che mille volte minnovár le chiome,

e mille volte ad ogni incontro immote lire de’ venti han rintuzzate e dome; ed altri impone a le stridenti rote d’orni e di cedri l’odorate some.

Lasciano al suon de l’arme, al vario grido, e le fere e gli augei la tana e ’l nido.

DE LVCANO ET TORQVATO

TASSO

303

Sed in hac imagine condenda Lucani sonitus longe amplius protrahitur atque attollitur. Nam cum formidolosi nemoris natura primum ostenditur, et ille primi Pharsaliae libri locus inducitur, in quo prodigia et portenta exaggerantur bellum civile iam intumescens praemonentia. Vide exempli causa vv. 569-70: Tunc fragor armorum auditae nemorum

magnaeque per avia voces

et venientes comminus

umbrae.

Haud aliter in decimo tertio Hierosolymae liberatae libro locus, quem iam rettulimus, silvam infernis larvis repletam effingens iisdem imaginibus compactus videtur. Nec te effugere potest v. 578 Lucani, Insonuere tubae, qui Torquato praefatum locum componenti singularem speciem tubarum suasit atque subiecit tonitruum fragori ad Erichthus vocem resonanti adiectam. Sed hoc nos praecipue movet atque stupore af-

ficit, comparationem

inter Lucanum

et Torquatum

intermissam ac derelictam esse ab interpretibus, cum de militum timore ageretur. Nam et illic duorum poetarum consensus necessario efficitur. In tertio Pbarsaliae Hbro (v. 429 sqq.) milites Caesaris pavore afficiuntur cum iubentur sivam. procumbere ferro: Sed fortes tremuere manus, motique verenda - maiestate loci, si robora sacra ferirent, in sua credebant redituras membra securis.

Longam horum versuum explicationem, etsi minore acumine, tenuiore imaginum felicitate praeditam, Torquatus in decimo tertio libro peregit, cum Christianorum militum metum arbores proscindere conantium effingeret:

304

DE LVCANO ET TORQVATO TASSO

In tutti allor s’impallidir le gote, e la temenza a mille segni apparse: né disciplina tanto, o ragion puote,

ch’osin di gire innanzi, o di fermarse.

Et verba militis ad Godefridum, fugam omnium de silva excusantis, fremitum in sectores ex arboribus desilientem eodem modo exprimit: non

Er

è di noi chi più si vante

RA ei) chela È sbcquavdum ον in quelle piante

Eadem firmanda sunt de decimo octavo Hierosolymae liberatae libro, cum

tandem

Rainaldus in silvam in-

greditur et intrepido animo arbores prosternit, falserum imaginum oblectamenta aeque ac minas contemnens et ad nihilum redigens.

Recte Ioannes Getto in libro, qui Nel mondo della « Gerusalemme » inscribitur et Florentiae anno 1968 editus est, p. 289

adnotavit

certas

adfinitates

quae

librum tertium decimum cum decimo octavo coniungunt, « qui non solum rebus generatim et procul dubio versuum sono stiloque inter se nexi sunt, sed etiam

studio compagis atque ordinis cosequandi ».! Sed, cum

ad indolem utriusque libri perspiciendam ven-

tum

est, peracute

alterius libri arcanam

tristemque

modorum flexionem (p. 214 sqq.), insequentis quidem libri suavitatem in Armida ante oculos occurrente, in

blandis sonorum atque imaginum illecebris insidentem distinxit etque illustravit (p. 302 sqq.), sed nul1! Haec Italice: «i quali hanno un rapporto non solo di astratto contenuto e di evidente tono poetico, ma anche di stu-

diata analogia strutturale ».

DE LVCANO

lam

mentionem

quam

ET TORQVATO TASSO

305

fecit de Lucano, cuius nomen

in eius libro invenitur.

num-

Quin etiam Ovidium

et Angelum Politianum (cf. p. 214) in comparationem

adducit ob verborum ad herbarum scientiam spectantium

copiam,

et fascinatae

silvae amatoria

oblecta-

menta in Rainaldum cum musica Richardi Wagner suavitate în dramate per sonorum gradus composito, quod Parsifal inscribitur, et cum Gabrielis D'Annunzio carminibus, quae rerum naturae amoenitatem pingunt, componit (cf. pp. 304-05), sed ne verbum quidem dimittit in silvae horrida specie inspicienda et reliquis poetis, qui eadem effinxerunt, commemorandis.

Ad haec tanta sollertia tantaque subtilitate perspecta multa eiusdem libri addenda sunt, quae ad fascinationis solutionem et tormentorum comparationem pertinent. Constanter et intrepide ferrum in arbores Rainaldus admovet, precibus profecto neglectis larvae speciem Armidae praebentis et variis formidolosisque portentorum minis nullo timore repulsis: « Egli alza il ferro, e '| suo pregar non cura ... Ma pur mai colpo il cavalier non erra, / né per tanto furor punto s'arresta: / tronca la noce ». Haud aliter in tertio Pharsaliae libro (cf. vv. 432-37) Caesar metum militum reli-

gione

vinctorum

contemnit

sacrasque

quercus

pro-

scindere non dubitat: Inplicitas magno

Caesar torpore cohortes

ut vidit, primus raptam

librare !? bipennem

12 Retinendum est nonnullos editores vibrare legisse auctoritatem multorum codicum secutos. Comparatio cum Torquati loco testimonium adhibere potest et Italicum poetam librare in Lucaneo textu a se adhibito invenisse, cum Pbarsaliae locum recinens alza il ferro scripserit. 20

306

DE LVCANO

ET TORQVATO

TASSO

ausus et aeriam ferro proscindere quercum effatur merso violata in robora ferro:! « Iam ne quis vestrum dubitet subvertere silvam, credite me fecisse nefas ».

Cum Caesar ipse tantam audaciam apud Lucanum

ostendisset ut secras arbores proscindere auderet

et

religionis vinculum ut falsum fictumque finderet, libenter Torquatus dilectissimo Rainaldo suo eandem strenuam confidentiam eundemque fictarum religionum

contemptum

tribuenda

censuit, cum

et rerum

ordo idem fieret; itaque virum suum pari audentia tanti nominis instar fieri statuit. Neque his solum rebus Torquatus contentus fuit: nam, cum Lucanus iuxta silvae intercisionem a Caesare initam tormentorum comparationem ad Massiliam oppugnandam posuisset, statuit Torquatus pulcherrimum Rainaldi facinus cum machinarum et vinearum exstructione eodem modo coniungere. Cum

apud

Lucanum

(vv.

450-51)

utque

satis

caesi nemoris, quaesita per agros | plaustra ferunt, sic apud Torquatum (st. 41) « vassi a l'antica selva, e quindi è tolta / materia tal, qual buon

giudácio

elesse », et Saraceni obsessi bellicos eventus a Hiero-

solymae moenibus spectantes (st. 46) « gran salmerie d’orni e di pini / vedean dal bosco esser condotte a l’oste ». Nec satis est:

Lucanus enim

tormenta

exstructa

13 Singularem verbi ferrum iterationem considera, qua inductus Torquatus et ipse eodem verbo semel et iterum usus est: « e stringe il ferro ignudo (st. 33);deponi il ferro (st. 34); egli alza il ferro (st. 35)».

DE LVCANO

ET TORQVATO

TASSO

307

statim ad moenia urbis accedentia describit (cf. v. 455 sqq.), turrim praecipue aliam in progressu parientem: Stellatis axibus agger erigitur geminasque aequantis moenia turris accipit, hae nullo fixerunt robore terram,

sed per iter longum causa repsere ἸΜΕΡΗ, Cum tantum nutaret onus . Illinc tela cadunt ‘excelsas urbis in arces.

Quid ergo quod ad Torquatum attinet? Longius tur-

nim effingit in varias partes solubilem atque nutantem, quae adversa moenia variis offensionibus vexare possit:

Ma fece opra maggior, mirabil torre Si scommette la mole, e ricompone

con sottili giunture in un congiunta

Lancia dal mezzo un ponte; e spesso il pone su l'opposta muraglia a prima giunta; e fuor da lei su per la cima n'esce

torre minor, che in suso & spinta e cresce.

In hostes apud utrumque poetam et milites obsessi muka infesta arma machinantur. Versus quidem 498

sqq. Lucanei libri lege: Ultro acies inferre parant armisque coruscas nocturni texere faces, audaxque iuventus erupit omne suum

Nec non et Graia. iuventus fatis voluit committere robur

grandaevosque senes mixtis armavit ephebis.

308

DE

LVCANO

ET

TORQVATO

TASSO

Vide nunc decimi octavi Hierosolymae libri str. 47: Fan lor macchine anch’essi; e con molt’arte rinforzano le torri e la mureglia;

Ma sopra ogni ‘difesa Ismen prepara copia di fochi inusitata e rara.

In utroque libro faces et ignis praecipuum obsessi exercitus sunt adiumentum. Cum proelium committitur, et Massiliae et Hierosolymae defensores balista utuntur, quae vires hostium excutit et traicit. Legimus

enim apud Sed maior vis inerat. lancea, sed haut unum

Lucanum

(v. 463

sqq.):

Graio Romana in corpora ferro Nec ^ enim solis excussa lacertis tenso balistae turbine rapta contenta latus transire quiescit;

sed pandens perque arma viam perque ossa o relicta morte fugit .

Apud Torquatum Saraceni balista utuntur ut Christianorum turrim perrumpant: Sul muro aveano i Siri un tronco alzato, ch'antenna un tempo esser solea di nave,

e sovra lui col capo aspro e ferrato

per traverso sospesa è grossa trave Urtò la trave immensa; € così dure. ne la torre addoppiò de sue percosse, che le ben teste in lei salde giunture lentando aperse, e la respinse e scosse.

14 Hic inest solita particularum infinitarum in codicibus Lucaneis mobilitas: multi enim codices seque legunt.

DE LVCANO

ET TORQVATO

TASSO

309

Hunc vehementem balistae ictum in utroque libro locus iam a Guidone Falorsi relatus consequitur, in quo de saxo ventis vetustateque impulso agitur. Iteratur profecto duorum librorum consensus cum ignis taedarumque effusio describitur, qua milites obsessi utuntur ut hostium impetum propellant. Apud Lucanum vv. 503 sqq. haec sonant: Nec, quamvis viridi luctetur robore, lentas ignis agit vires, taeda sed raptus ob omni

consequitur nigri spatiosa volumina fumi nec solum silvas , sed saxa ingentia solvit, et crudae putri fluxerunt pulvere cautes.

Pari calliditate Ismenus Godefridum eiusque milites iam moenibus atque detinet:

insistentes dammarum

globis impedit

Ma fiamme allora fetide e fumanti lanciarsi incontra immantinente ei vede:

qual fiamma nera, e qual sanguigna igns splende: l’odore spesse, assorda il rombo e Ἶ tuono, accieca il fumo, il foco arde e s’apprende.

Liber Pharsaliae in pugna navali describenda longius

moratur,

in qua varia apparent

atrocis genera

mortis, quibus apud Torquatum nostrum illud respondet Ismeni in medio adversorum militum impetu ingentis saxi subito ictu correpti cum duabus magis ipsum adiuvantibus: e tra lor colse sì, ch'una percossa sparse di tutti insieme il sangue e l’ossa.

In si

di

i minutissimi e sanguigni così le inique teste.

310

DE LVCANO

ET TORQVATO

TASSO

Haud aliter apud Lucanum membris solutis procumbentem Lycidam conspicimus adversarum navium collisione obtritum (v. 656 sqq.): nec prohibere valent obtritis ossibus artus, quo minus aera sonent, eliso ventre per ora eiectat saniem permixtus viscere sanguis.

Illic quoque glans funditoris manu emissa caput disicit hostis (cf. v. 709 sqq.): Stantem sublimi Tyrrhenum culmine prorae Lygdamus

excussa Balearis tortor habenae

πέτα petens solido fregit cava tempora plumbo. ibus expulsi, postquam cruor omnia rupit

vincula, procurrunt oculi.

Haec tandem considera: Gulielmus, Ligurum dux, a Torquato inducitur dum arma vineasque ad oppu-

gnationem urbis exstruenda curat: quare in stropha 47 hos versus legimus: Costui non solo incominciò a comporre catapulte, baliste ed arieti.5

Facere non possumus quin magna admiratione con-

citati eadem verba in Massiliensi oppugnatione describenda apud Lucanum inveniri adnotemus: vide £emso balistae turbine (v. 465), tormenti mutare modum (v. 480), nunc aries suspenso fortior ictu (v. 490). 15 Eadem

iterata in stropha 64: e in numero infinito anco son viste

catapulte, monton, gatti e baliste. Nec neglegendus est ultimus strophae 71 versus, cozza il monton con la ferrata fronte.

DE LVCANO ET TORQVATO TASSO

311

Neque haec sufficiunt: nam quae Lucanus dicit vv. 474 sqq., testudinem effingens, qua oppugnatores murorum robur temptant (U? tamen bostiles densa testu-

dine muros / tecta subit virtus... Tunc adoperta levi procedit vinea terra, / sub cuius pluteis et tecta fronte latentes / moliri nunc una parant et vertere ferro / moenia), Torquatus noster paene ad verbum recinit, cum Rainaldus aeque ac Romani duces in

Pharsalia testudinem innecti iubet: Moviam la guerra, e contro ai colpi crudi facciam densa testuggine di scudi. Giunsersi tutti seco a questo detto; tutti gli scudi alzar sovra la testa, e gli uniron così che ferreo tetto

facean contro l'orribile tempesta.

Sotto il coperchio il ferreo stuol ristretto va di gran corso; e nulla il corso arresta:

ché la soda testuggine sostiene ciò che di ruinoso in giù ne viene.

In medio pugnae sic de lancearum ictibus loquitur Torquatus: Non si ferma la lancia alla ferita; dopo il colpo, del corso avanza molto; entra da un lato, e fuor per l'altro passa

fuggendo, e nel fuggir la morte lassa.

At quid de his versibus dicere possumus,

nisi

haec: Torquatum Lucani verba vertisse videri? Considera enim tertii Pharsaliae libri vv. 464 sqq.: Nec enim solis excussa lacertis lancea, sed tenso balistae turbine rapta

haut unum contenta latus transire quiescit;

312

DE LVCANO

ET TORQVATO

TASSO

sed pandens perque arma viam perque ossa relicta morte fugit, superest telo post vulnera cursus.

. Quibus locis attente perspectis facile colliges non in effingenda tantum fascinatione silvae sed in omnibus bellicis rebus ad machinas comparandas et ad moenia Hierosolymae oppugnanda spectantibus Torquatum ante oculos Lucanum tam constanter habuisse ut decimus octavus liber aeque ac tertius decimus florilegium Lucani habendus sit in rebus, quae ad silvae fascinationem adimendam, ad mechinas comparandas et ad moenia diruenda pertinent. Inter omnes constat Torquatum nostrum subtiliter epicum carmen ad modos vertisse illius litteratorum

virorum rationis atque inclinationis quae vulgari vulgatoque verbo manierismo nuncupatur, qua maximorum Latinorum poetarum patrimonium novarum rerum cupidine mutabatur atque corrumpebatur. Qui-

bus cogitationibus freti facile intelligere possumus quid causae sit cur illi proximus factus sit Lucanus ille, qui iis temporibus floruit, quibus et Romae maximorum testimonia atque exempla poetarum ad arbitrium novabantur et retractabantur ut inaudita nondum vulgatae artis oblectamenta quaererentur.

SENECA TRAGICO E LA POESIA TRAGICA FRANCESE DEL SIECLE D’OR *

Emilio

Cecchi,

recensendo

nel

« Corriere

della

Sera » del 4 novembre 1956 la mia versione delle tragedie di Seneca, ebbe a nidimensionare l’influsso di Seneca sul teatro elisabettiano, il fondamentale, indi-

scutibile evento

storico-letterario

sul quale anch'io

avevo insistito nell’introduzione, e affermò

che «la

scoperta del Seneca che conta per il lettore moderno

forse avvenne in Francia », soprattutto per le linfe che riguardo alla concezione della condition bumaine il Racine desunse dal tenebroso teatro del Cordovese. Nella mia Storia del teatro latino (Milano, 1957, pp. 277-78) replicai mostrando come, a parte il richiamo al Racine, il Cecchi avesse valorizzato soprattutto l’aneddotica delle conversazioni salottiere e come i modi con cui i tragici francesi riprendono le suggestioni

di

Seneca

coincidono,

nonostante

la radicale

diversità di gusto, di stile e di tecnica, con quelli adoperati dai drammaturghi elisabettiani: sì che le reazioni francesi e inglesi all’influsso di Seneca finiscono per apparire aspetti di un medesimo grandioso feno-

* Da «Studi Urbinati », 1973, p. 32 sgg.

314

SENECA TRAGICO

meno della storia della cultura e del teatro. Ma ad ogni modo l’affermazione del Cecchi ha avuto un peso notevole nel dibattito che agita tuttora il mondo degli studiosi del siècle d’or, riguardo ai rapporti che la poetica dei suoi maggiori autori palesa col gusto barocco predominante nel Seicento e con le sue tipiche

ascendenze. È risaputo come, a partire dalla stessa coscienza letteraria di quell’età (e basta fare i nomi del Boileau e del La Bruyère, oltre a considerare, come dovremo fare spesso, le préfaces dello stesso Racine), la letteratura del siècle d’or si affermi come

restaurazione del classicismo di fronte alle storture e agli abusi

del

gusto

gotico

(con

questo

termine

erano definite allora anche le caratteristiche del gusto barocco) e quindi come orgoglioso distacco dalle mode

letterarie imperversanti presso le altre principali nazioni nella stacco sto e

europee. Tale concezione & rimasta consacrata cultura tradizionale francese, che in questo diha scorto il segreto del rapido trionfo del gudella cultura francese nel secolo dell'Arcadia

e del neoclassicismo, che nelle tendenze del siècle d'or

avrebbe scorto a buon diritto la spinta decisive per la nascita delle sue più tipiche tendenze. E si arriva ancora al recente saggio di Pierre Francastel, Limites chronologiques, limites géograpbiques et limites so-

ciales du Baroque (in « Atti del III congresso internazionale di Studi umanistici », Venezia-Roma,

1954-

55), affermante che, mentre l'Italia e l'Europa centrale sono conquistate dal gusto barocco, altrettanto non puó dirsi di altre nazioni, e soprattutto della Francia. Di recente la critica, in Francia e in Italia, ha co-

minciato ad agitarsi per porre sotto altra prospettiva

SENECA

TRAGICO

315

il problema dei rapporti fra il siècle d’or e il gusto barocco. Sulle orme di un codificatore delle caratteristiche del gusto barocco della forza di Jean Rousset, cioè proprio di uno studioso francese, ci si è accorti

anche della presenza d’influssi di quel gusto nella poesia del siècle d’or; e ne son venute fuori tra l’altro le Trois conférences sul barocco francese tenute a To-

rino da critici come lo stesso Rousset — che vi ha rievocato la sua Anthologie de la poésie baroque francaise (Paris, 1961) —, V. L. Tapié e Odette de Mour-

gues, e pubblicate nel 1964, nel supplemento al n. 21 di « Studi francesi ». Ne ho analizzato i risultati nello studio Osservazioni sulle fonti dell’« Andromaque » di Racine, pubblicato negli Studi in onore di Italo Siciliano (Firenze, 1966), uno di quelli con cui ho tentato di chiarire il fenomeno fondamentale, sotto

il profilo storico-culturale, della formazione del gusto barocco, cioè l'influsso predominante di Ovidio e di Seneca:

cfr. anche L'influenza della letteratura latina

da Ovidio ad Apuleio nell’età del manierismo e del barocco, sgg.; bens, Rome

in Antico e nuovo, Caltanissetta, 1965, p. 243 Ovidio e Seneca nella cultura e nell'arte di Ruin « Bulletin de l’Institut historique belge de », 1967, p. 533 sgg. E tralasciamo il fatto che,

nei riguardi di Seneca tragico, questo fenomeno è stato poi da me più attentamente collegato all’altro della precisa funzione che questo autore ha esercitato per la nascita del teatro tragico moderno, sin dall’età dell’Umanesimo e del Rinascimento: cfr. Nuove prospettive sull’influsso del teatro classico nel ’500, in « Atti del convegno sul tema Il teatro classico italiano nel ’500, Accademia Nazionale dei Lincei », Roma, 1970,

p. 1 sgg. [cfr. qui p. 105 sgg.]. Nello studio sul-

316

SENECA

TRAGICO

l'Andromaque ho posto in rilievo come in fondo le tre conferenze abbiano finito per scantonare nella considerazione di particolari decorativi secondari, e quella della de Mourgues abbia finito per resuscitare la contrapposizione

del gusto classicista del siècle d'or al

gusto barocco, sia pur concedendo che col suo rigoroso spirito di disciplina e di rispetto per invalicabili convenzioni il classicismo Luigi XIV abbia finito per sacrificare quel lirismo acceso e spericolato che trovava pur sempre nel gusto barocco la sua tutela. Come che vadano interpretati e circoscritti, gl’influssi di Seneca tragico sul teatro del siècle d’or sono tuttavia indiscutibili. E le cose non sono mai andate soggette a discussione,

si sono

sempre

agevolmente

chiarite per quanto concerne il Corneille, dato che la tragedia in cui egli ha palesato più apertamente l’influsso di Seneca, la Médée, è del 1635, precede il Cid,

appartiene al periodo in cui il poeta, per adoperare l’abusata frase fatta, cercava ancora se stesso, respirava cioè l’aria di quella che ho definita la « Francia

ancora picaresca, moschettiera, spagnolesca di Luigi XIII », nella quale la presenza dell’autore prediletto dal gusto barocco non può suscitare meraviglia. Nello examen che più tardi il Corneille prepose alla tragedia si dichiara esplicitamente che i modelli sono stati le omonime tragedie di Euripide e di Seneca, ma all’ultimo la dipendenza dal secondo è chiaramente confessata a proposito dello stile, del quale si legge:

«ce

que j'y ai mélé du mien approche si peu de ce que jai traduit de Sénèque, qu'il n'est point besoin d'en mettre le texte en marge pour faire discerner au lecteur ce qui est de lui ou de moi ».

Certo, con la smania di strafare che sin dall'inizio

SENECA

TRAGICO

317

contraddistingue il Corneille quand’egli rielabora modelli già costituiti, anche la Médée presenta inaudite novità che con la loro stessa stravaganza palesano la

velleità di distinguersi, di far del nuovo: la prigionia di Egeo, il suicidio finale di Giasone. Ma per non pec-

care di prolissità sin da questo primo esempio, ci limitiamo a indicare la fedeltà al modello senecano nei particolari fondamentali. Una delle scene più tipicamente senecane, per il gusto del tenebroso e dell’orrido che vi celebra i suoi fasti a piena orchestra, è quella dei sortilegi operati dalla maga: come sfogo del tipico gusto del drammaturgo nel ricorso a temi del genere, essa fa il paio con quella dell’Oedipus in cui si descriveil sacrificio del toro coi presagi che ne ricavano Tiresia e Manto. Sin dalla quarta scena del primo atto corneliano, ὁ] lungo monologo di Medea, si affacciano frasi e spunti compresi nelle grandi scene senecane del sortilegio e dell’infanticidio. Quando si leggono i versi: Apportez-moi

.

.

queicie chose de pis pour mon períde Jason

S'il

me

répudie!

a manqué

on

d'amour,

manque-til

époux

de mémoire?

Sachant ce que ie puis, ayant vu ce que j'ose, croit-il que m'offenser ce soit si peu de chose? Quoi! mon pere trahi, les éléments forcés,

d'un frére dans la mer les membres dispersés, lui font-ils présumer mon audace épuisée? Tu t 'abuses,

Jason, je suis

encor moi-méme.

Tout ce qu'en ta faveur fit mon amour extréme, je le ferai par haine; et je veux pour le moins

qu'un forfait nous sépare, ainsi qu'il nous a joints;

318

SENECA

TRAGICO

que mon sangland divorce,

en meurtres, en carnage,

s@gale aux premiers jours de notre mariage Déchirer par morceaux l'enfant aux yeux du pére n'est que le moindre effet qui suivra ma colere;

des crimes il faut bien il faut faire surpasse de

si légers furent mes autrement montrer un chef d'oeuvre, et bien loin ce faible

coups d'essai: ce que je sai; qu'un dernier ouvrage apprentissage,

si avverte il riecheggiamento e talvolta versione dei versi del lungo monologo neca, ricevuta la notizia della compiuta tro Creonte e la figlia, Medea si decide dei figli. Cfr. v. 895 sgg.: Quid, anime, cessas?

eddirittura la con cui in Sevendetta conper l’uccisione

sequere felicem impetum,

Pars ultionis ista, qua gaudes, quota est? Amas adhuc, furiose,! si satis est tibi caelebs Iason. Quaere poenarum genus haut usitatum iamque sic temet para: fas omne cedat, abeat expulsus pudor; vindicta levis est quam ferunt purae manus.

Incumbe in iras teque languentem excita penitusque veteres pectore ex imo impetus violentus hauri. Quidquid admissum est adhuc, pietas vocetur. Hoc age et faxo sciant quam levia fuerint quamque vulgaris notae quae commodavi scelera. Prolusit dolor

per ista noster: quid manus poterant rudes audere magnum? quid puellaris furor? Medea

nunc

sum:

crevit ingenium

malis.

Iuvat, iuvat rapuisse fraternum caput; artus iuvat secuisse et arcano patrem

1 £ l'emendamento del Bentley a furiosa dei codici, con

riferimento ad anime di due versi prima. Il Leo se ne attribuisce la paternità.

SENECA

TRAGICO

319

spoliasse sacro, iuvat in exitium senis armasse natas. (Quaere materiam, dolor: ad omne facinus non rudem dextram afferes.

Il rapporto fra le due scene è confermato dal fatto che nel Corneille il magniloquente sfogo si apre con

un’invocazione alle Furie: Et vous, troupe savante en noires barbaries, filles de l’Achéron, pestes, larves, furies, fieres SOCUrS . . . . . . . . . . . . sortez de vos cachots avec les mémes flammes et les mémes tourments dont vous génez les ámes.

Sono le medesime espressioni pronunciate dalla Medea di Seneca nell'allucinazione che l'ottenebra mentre pone mano alla spada per uccidere i figli (v. 958 sgg.): Quonam ista tendit turba Furiarum impotens? quem quaerit aut quo flammeos ictus parat

aut cui cruentas agmen infernum

faces

intentant? ingens anguis excusso sonat tortus flagello. Quem trabe infesta petit Megaera?

Ma la Medea di Seneca, a differenza da quella di Eunipide, non attende lo sviluppo degli eventi per palesarsi in tutta la spaventosa veemenza dei suoi furori, a parte il ritardo nel progetto dell'uccisione dei figli. Sin dalla prima scena, dai primi versi, essa evoca le Furie infernali e pregusta la vendetta. Il monologo del primo atto corneliano deve essere ricollegato anche ai vv. 13 sgg.: Nunc, nunc adeste, sceleris ultrices deae, crinem

solutis squalidae

serpentibus,

320

_

atram

SENECA

cruentis

manibus

TRAGICO

amplexae

facem,

adeste, thalamis horridae quondam meis

quales stetistis: coniugi letum novae letumque socero et regiae stirpi date.

Il rapporto è provato dal fatto che nel monologo del Corneille i versi or ora citati si continuano con questa coppia: Apportez-moi du fond des antres de Mégère la mort de ma rivale, et celle de son pere. E una ancor piü chiara conferma & fornita dal fatto

che lo sfogo

iniziale di Medea in Seneca continua

(v. 19 sgg.) immaginando

la successiva sorte di Gia-

sone: Mihi

peius aliquid, quod precer sponso malum:

vivat. Per urbes erret ignotas egens

exul pavens invisus incerti laris; me coniugem

optet, limen

iam notus hospes

.

alienum expetat

La Medea del Corneille prosegue rielaborendo proprio queste parole: Et si vous voulez mal servir mon courroux,

quelque chose de pis pour mon perfide époux: qu'il coure vagabond de province en province, qu'il fasse láchement la cour à chaque prince; banni de tous cótés, sans bien et sans appui, accablé de fraveur, de misére, d'ennui,

qu'à ses plus grands malheurs aucun ne compatisse; qu'il ait regret à moi pour son dernier supplice.

Naturalmente la successiva soena quinta fra Medea e Nerina rielabora fedelmente quella che in Se

SENECA

TRAGICO

321

neca tiene dietro, dopo

l’intermezzo corale, al mono-

logo iniziale di Medea

ora ricordato.

È la scena su

cui tutta la critica si è soffermata al momento di fis-

sare i contatti fra Seneca e il Corneille. Nella scena senecana la nutrice allo sfogo di Medea risponde (v. 150 sgg.): Sile, obsecro, questusque secreto abditos manda dolori. Gravia quisquis vulnera patiente et aequo mutus animo pertulit, referre potuit: ira quae tegitur nocet; professa

perdunt

odia

vindictae

locum.

Esattamente lo stesso osserva Nerina: Modéréz les bouillons de cette violence,

et laissez déguiser vos douleurs en silence

les plus ardents transsports d'une haine connue ne sont qu'autant d'éclairs avortés dans la nue, qu'autant d'avis à ceux que vous voulez punir Qui peut, sans S'émouvoir, supporter une ı » offense,

peut mieux prendre à son point le temps de sa ven[geance.

Medea risponde in Seneca: Levis est dolor qui capere consilium potest et clepere sese:

magna non latitant mala;

nel Corneille: Tu veux que je me taise et que je dissimule!

L'àmeen est incapable en de moindres malheurs, et n'a point où cacher de pareilles douleurs.

21

322

SENECA

TRAGICO

La nutrice consiglia in Seneca: Siste furialem impetum vix te tacita defendit quies;

alumnia:

Nerina nel Corneille: Madame, pensez mieux à l’éclat que vous faites: quelque juste qu'il soit, regardez où vous étes; considérez qu'à peine un esprit plus remis vous tient en süreté parmi vos ennemis.

Medea replica lapidariamente in Seneca: Fortuna fortes metuit, ignavos premit;

nel Corneille la risposta è più stemperata, ma non fa che rielaborare la battuta senecana: L'áme doit se roidir plus elle est menacéee, et contre le fortune aller téte baissée. Cette láche ‘ennemie

a peur

des grands Courages à; ;

et sur ceux qu'elle abat redouble

ses outrages.

La nutrice in Seneca controbatte: Tunc est probanda, si locum virtus habet;

a cui Medea risponde: Numquam

potest non esse virtuti locus.

Il Corneille finisce per adeguarsi all'andatura sticomitica del dialogo senecano, e i suoi due versi riproducono così quelli del modello: Nerine

— Que

sert ce grand courage où l’on est sans

[ pouvoir?

Médée — Il trouve toujours lieu de se faire valoir.

SENECA

Successivamente,

mentre

TRAGICO

in Seneca

323

i quattro

versi

sucoessivi si ordinano in un ulteriore scambio sticomitico fra la nutrice e Medea cui tengon dietro altri due versi posti in bocca alla nutrice, nel Corneille i quattro versi successivi sono pronunciati tutti da Nerina, ma riproducono ciò che la nutrice esprime in tre dei quattro versi senecani. Cfr. Spes nulla rebus monstrat adflictis viam.

Abiere Colchi, coniugis nulla est fides nihilque superest opibus e tantis tibi con

Forcez l’aveuglement dont vous étes séduite, pour voir en quel état le sort vous a réduite. Votre poys vous hait, votre époux est sans foi: dans un si grand revers que vous reste-t-il?

A questo punto scatta il riscontro più sonoro e più famoso, ch’è rimasto per tutti i critici significativo della dipendenza del Corneille da Seneca. In Seneca all’inizio del successivo v. 166 l’eroina proclama il terribile motivo conduttore della tragedia: Medea superest. Il Corneille riesce stavolta a essere più incisivo del modello, con quel tonante Moi che esplode alla fine del verso finora pronunciato da Nerina. Ma è innegabile che il drammaturgo francese ha ribattuto la stringata formulazione del tema presentata da Seneca. Nella Storia del teatro latino (pp. 27578) ho posto in rilievo come quest'incontro si inquadri in uno degli aspetti più vistosi dell’organizzazione tecnica della tragedia moderna sulle orme del teatro di Seneca: la tendenza, cioè, a racchiudere e distillare

324

SENECA

TRAGICO

lo spirito di un dramma in una battuta particolarmente significativa che ne custodisca la carica ideale. Questa è caratteristica precipua del teatro senecano (basti citare per tutti lo gnatos ecquid agnoscis tuos? - Agnosco fratrem del Thyestes), che trova numerose corrispondenze nel teatro elisabettiano e specie shakespeariano (e anche per questo basti un solo esempio, il To be or not to be dell’Amleto); l'incontro ora no-

tato fra le Medee di Seneca e del Corneille basta a chiarire come il fenomeno si ripeta anche nell’ambito del teatro classico francese, confermando quanto abbiamo accennato sull’affinità dei modi con cui Seneca è rivissuto in Inghilterra e in Francia. Potremmo continuare nell’analisi comparativa delle due scene. Ma ci tarda passare finalmente alla scena del sortilegio, la prima dell’atto quarto nella Médée corneliana. Com'è noto, nella corrispondente scena senecana la descrizione dei truci riti delle maghe si scinde in due fasi, l'una posta in booca alla nutrice, l’altra a Medea. Il Corneille ha posto anch’egli Nerina accanto a Medea; ma le parole della confidente servo-

no solo da commento o da freno; la paurosa descrizione è affidata tutta alla maga stessa che opera la fosca pratica: Vois combien de serpents ἃ mon commandement d’Afrique

jusqu’ici

et contraints

d’obéir

n’ont ἃ mes

tardé

qu’un

charmes

moment, funestes,

ont sur ce don fatal vomi toutes leurs pestes. La nutrice in Seneca aveva detto:

Tracta magicis cantibus squamifera latebris turba desertis adest. Hic saeva serpens corpus immensum trahit

SENECA

TRAGICO

325

triidamque linguam exertat et quaerit quibus mortifera veniat: carmine audito stupet tumidumque nodis corpus aggestis plicat cogitque in orbes.

Si scopre in Comeille la velleità di restringere e rendere più concisa l’ostentazione d’orrori in cui Se-

neca tanto si diffonde secondo il suo gusto. Ma tutti i perticolari evocati dalla protagonista nel testo francese discendono dalla scena senecana: Ces herbes ne sont pas d’une vertu commune

ripete neca; pálir luna

il mortifera carpit gramina del v. 731 di Seil successivo « moi-méme en les cueillant je fis la lune» riassume il rito dell’oscuramento della descritto in Seneca da Medea ai vv. 787-807

(e già ai vv. 750-51 si legge nunc meis vocata sacris,

noctium sidus, veni / pessimos induta vultus). La rappresentazione che la maga dà di se stessa: (les cheveux flottants, le bras et le pied nu, jen dépouillai jadis un climat inconnu)

ripete quella che esprime Medea stessa in Seneca ai vv. 752-56: vinculo solvens comam secreta nudo nemora lustravi pede, etc.

Cosi cette li méle du sang de l'hydre avec celui de

cr Nesse

congiunge ció che Medea dice in Seneca ai vv. 775-76 (vectoris istic perfidi sanguis inest,

quem Nessus expirans dedit)

326

SENECA

TRAGICO

ed ai vv. 783-84 (his adice pennas sauciae Stymphalidos Lernaea passae spicula):

e già ai vv. 701-02 si legge, sulla bocca della nutrice, et Hydra et omnis redeat Herculea manu | succisa serpens. Col successivo « Python eut cette langue» si salta a ciò che riferisce la nutrice ai vv. 699-700 come scongiuro già promunciato da Medea: lacessere

ausus

adsit ad cantus meos gemina Python numina.

Indi si torna a sfruttarela serie degli esempi mitologici accumulati in Seneca da Medea durante il suo lungo formulario incantatore: et ce plumage noir

est celui qu’une harpie en fuyant laissa choir

riproduce i vv. 781-82: Reliquit istas invio plumas specu Harpyia, dum Zeten fugit; così Par ce tison Althée

assouvit sa colère,

trop pitoyable soeur et trop cruelle mère

riproduce da vicino i vv. 779-80: piae sororis, impiae matris, facem ultricis

Altheae

vides;

SENECA

TRAGICO

0

327

cosi

ce feu tomba du ciel avecque Phaéton sposta la derivazione ei vv. 827-28: et vivacis fulgura flammae de cognato Phaethonte

tuli.

Persino il tocco seguente cet autre vient des flots du pierreux Phlégéthon,

che non trova corrispondenza precisa in Seneca (spe-

aie per il nome del fiume infernale) ci appare come un abile sommario di tocchi senecani: dal v. 707, quaecumque generat invius saxis Eryx, che ha sugge-

rito al Corneille il pierreux, ai vv. 740-41, inizianti lo scongiuro di Medea: et chaos caecum atque opacam Ditis umbrosi domum

(ed evitiamo di riferire il locus desperatus del successivo v. 742), ai vv. 804-5, tibi iactatur tristis Stygia / ramus ab unda.

Ma esiste nella Médée un altro riscontro decisivo da registrare. Come è stato già posto in rilievo,” la Medea di Seneca, a differenza da quella di Euripide, non ha chiaro sin dall’inizio l’atroce disegno dell’uc-

cisione dei figli: solo quando Giasone, nel suo colloquio con lei, le rivela che i figli sono tutto per lui, ch’egli non può concederle di portarseli con sé 2 Cfr. l’introduzione alla mia versione deile tragedie di Se-

neca (Roma, 1956, p. xxvII).

328

SENECA

(pietas vetat: namque non ipse memet cogat Haec causa vitae est, curis levamen. Spiritu

TRAGICO

istud ut possim pati, et rex et socer. hoc perusti pectoris citius queam

carere, membris, luce) (vv. 545-49),

essa avendo scoperto che è lì il punto debole in cui si può aver ragione di lui, pensa di punirlo atrocemente proprio nei figli: Sic natos amat? Bene

est, tenetur,

vulneri

patuit

locus (459-50).

Proprio in questo che, dal lato dell'originale impianto psicologico, & il punto fondamentale della tragedia senecana,

il Corneille

segue

fedelmente

il modello.

Nella terza scena dell'atto terzo Giasone dichiara a Medea: M'enlever mes enfants, c'est m’arracher le coeur;

et Jupiter tout prét à m'écraser du foudre, mon trépas à la main, ne pourrait m'y résoudre, C'est pour eux que je change; et la Parque, sans eux,

seule de notre hymen pourrait rompre les noeuds.

Rimasta sola con Nerina, e non già in una battuta a parte durante il colloquio con Giasone (questa è l’unica differenza rispetto a Seneca), Medea nella scena successiva commenta:

Il aime ses enfants, ce courage inflexible: son faible est découvert; par eux il est sensible; par eux mon bras, armé d’une juste rigueur,

va trouver des chemins & lui percer le coeur.

Questo è dunque il caso più classico dell’influsso di Seneca sul teatro francese del siècle d’or, tale da

SENECA

TRAGICO

329

esimerci dal soffermarci sull’Hercule mourant del Rotrou, che tre anni prima, nel 1632, aveva imitato l'Hercules Oetaeus. Lo stesso Corneille nei tre discours comparsi ciescuno all'inizio di uno dei tre volumi in cui si ripartì l'edizione dei suoi drammi, da Mélite a

Oedipe, pubblicata nel 1660 da A. Coubert e G. de Luyne,

ha ricordato

Seneca

solo due volte;

una

è

stata quella compresa nel Discours des trois unités, in cui egli ragiona sulla critica di Aristotele ad Euripide per aver fatto intervenire alla fine della Medea il carro

alato che pone in salvo la maga, e trova che Seneca e lui stesso se la son saputa cavare meglio, l’uno facendo dire da Medea alla nutrice (vv. 974-75) Perge

tu mecum mecum

comes. / Tuum

avebam,

quoque ipsa corpus binc

l’altro facendo

dire da Medea

ad

Egeo, nella quinta scena dell'atto quarto, « je vous suivrai demain par un chemin nouveau ». E la dichiarazione che all'ultimo Medea

fa al marito, nell'atto

di ascendere sul carro alato (Vois les chemins de l'air qui me sont tous ouverts; c'est par là que je fuis, et que je t'abandonne

Suis-moi, Jason, et trouve en ces lieux désolés des postillons pareils à mes dragons ailés)

ripete fedelmente quella che ai vv. 1021-24 la maga

fa in Seneca: (ingrate Iason. Coniugem agnoscis tuam? Sic fugere soleo. Patuit in caelum via: squamosa gemini colla serpentes iugo summissa

praebent),

3 Avrebbe potuto citare anche il pià conclusivo v. 1025,

ego inter auras aliti curru vebar.

330

SENECA

confermando

TRAGICO

come il poeta

francese si sia tenuto

stretto a quello latino anche per la conclusione, an-

che se si è distaccato da lui nell'introdurre il personaggio euripideo di Egeo, ignorato da Seneca, che del resto egli ha inquadrato in uno sviluppo scenico radicalmente diverso da quello di Euripide. La seconda volta nei Discours in cui vi è una menzione di Seneca è per il secondo caso d'incontro fra

il testo del Cordovese e quello del Corneille:

il caso

dell'Oedipe. Nel Discours du poème dramatique a proposito di Forbante il Corneile dice di averlo fatto intervenire all’ultimo, come Sofocle e Seneca. Ciò

prova (e lo conferma già l'analogo accostamento dei due autori come modelli nell’examen preposto alla tragedia) che per la composizione della sua tragedia

egli non guardó solo al dramma esemplare del poeta di Colono, ma anche alla discussa e molto poco apprezzata rielaborazione del poeta di Cordova, una delle

tragedie che il Richter * giudicò apocrife e il Leo’ composte in età giovanile, da un Seneca adulescente, scorgendovi pueri manum ... qui nec Sopboclem nec Aeschylum insistere

intellexerit. Ma sui

difetti

se si può a buon diritto

dell'Oedipus

di

Seneca,

non

si

saprebbe in realtà che discorso tenere sull'Oedipe del Corneille, che proprio non si puó capire come sia riuscito a costituire, nel 1659, il fortunato ritorno del

poeta di Rouen sulle scene, dopo lo scacco di Pertbarite che nel 1652 lo aveva spinto a un lungo ritiro. Nella tragedia domina purtroppo la trovata — uno * De Seneca tragoediarum auctore, Bonn, 1862, p. 32. 5 De Senecae tragoediis observationes criticae, Berlin, 1868, p. 133.

SENECA

TRAGICO

331

dei soliti espedienti stravaganti con cui il Corneille si sentiva in dovere di variare i modelli nei casi in cui se ne trovava davanti di famosi — dell’amore di Teseo per Dirce, la sorella di Edipo. Proprio un autore

cui è stato rimproverato — specie in base al confronto col Racine — d’aver trascurato il tema dell'amore a favore di preoccupazioni ideologiche di natura prevalentemente

politica, ora, al momento

d'affrontare

il

più celebre tema di problematica morale e religiosa offerto dal teatro greco, s'é smarrito e distratto ad architettare di testa sua una vicenda amorosa che assorbe ogni attenzione su di sé e fa sparire la vicenda di Edipo come un’azione di sfondo buona solo a determinare la felice conclusione della vicenda amorosa. Persino Giocasta, quando decide di uccidersi dopo la

scoperta dell’orrenda verità concernente il figlio-marito, nel trafiggersi evita di parlare di lui, ma pensa solo ai due innamorati, a Dirce e a Teseo, come riferisce

proprio a Dirce la sua confidente Nerina (di nuovo questo nome

in una tragedia derivante da Seneca!),

affermando che riguardo ad Edipo essa craignait d’en emporter la honteuse mémoire; et n’osant le nommer son fils ni son époux, sa dernière tendresse a tout été pour vous.

Pure la scena del suicidio di Giocasta è evidentemente esemplata su quella corrispondente dell’Oedipus di Seneca, anche se il Corneille non ha seguito il Cordovese nell’eccezionale audacia di far eseguire il suicidio sulla scena, ma ce lo ha fatto riferire da Nerina nella

penultima scena dell’ultimo atto. Infatti la Giocasta di Sofocle si uccide impiccandosi, mentre sia quella di Seneca sia quella del Corneille si trafiggono con una

332

SENECA

TRAGICO

spada. E mentre in Sofocle il suicidio di Giocasta precede l’autoaccecamento di Edipo, in Seneca gli tien dietro e nel Comeille avviene contemporaneamente e tien dietro al suicidio chi Forbante che ispira alla donna

l’analogo atto insano,

come in Seneca essa vi è

spinta alla vista di Edipo che s’® mutilato. E proprio nelle due parallele motivazionisi scorge il legame fra Seneca e il Corneille. La Giocasta di Seneca esclama (vv. 1024-25) socia cur scelerum poenas recusas?;

dare

di quella del Corneille si dice che du mort qu'elle contemple elle imite la rage;

in Seneca, scorgendo la spada di Edipo che ha trafitto Laio, essa esclama rapiatur ensis e dichiara pectori infgam meo / telum; nel Corneille si dice ch'essa se saisit du poignard, et de sa propre main à nos yeux comme

lui s'en traverse le sein.

Un altro spunto tratto da Seneca è, nella seconda scena dell'atto terzo, il ricordo del sacrificio di una vit-

tima che Tiresia deve immolare. A differenza da Seneca, che — come abbiamo già ricordato — si diffonde sulla scena del sacrificio e dell'extispicio, il Corneille

immagina che Edipo lo differisca, e proprio per riguardo a Dirce, divenuta l'inattesa protagonista dell'azione tragica. Ma ad ogni modo il particolare del sacrificio, che manca assolutamente in Sofocle, è certamente suggerito dalla sua massiccia presenza in Seneca

Ma forse ancora un altro spunto deve richiamare

SENECA

TRAGICO

333

la nostra attenzione. È stato già posto in chiaro ® che la nota più originale dell’Oedipus di Seneca è costituita dal fatto che sin dall’inizio Edipo avverte che, come uomo che l’oracolo ha additato come patricida e incestuoso, egli deve recare sciagure ovunque si aggiri,

e che perciò la peste che affligge il suo nuovo regno dev’essere in parte originata dalla sua presenza. Un accenno di questa poetica intuizione è stato conser-

vato dal Corneille nella quinta scena del primo atto, quando Dimante riferisce ad Edipo che i responsi degli dei son muti ed Edipo ne ricava il segno che la divinità è irritata per il fatto che la regina, esponendo il figho di cui essi avevano predetto un delitto e quindi cercando di non farglielo compiere, aveva osato

porsi di traverso al compimento dei fati: Les Dieux, qui töt ou tard savent se ressentir,

dédaignent de répondre ἃ qui les fait mentir. Ce fils dont ils avaient prédit les aventures,

exposé par votre ordre, a trompé leurs augures, et ce sang innocent, et ces Dieux irrités, se vengent maintenant de vos impiétés.

Siamo riusciti, credo, a individuare i punti in cui l'influenza di Seneca s'é esercitata sull'Oedipe corneliano, incoraggiandolo a battere audacemente una via di radicale innovazione del classico, venerato schema

dell’Edipo re sofocleo. Gli abbondanti e persuasivi riscontri che abbiamo elencati fra Seneca e il Corneille non debbono però 6 Cfr. U. Morıcca in « Riv. fil. class. », 1918, pp. 434-38, ed E. ParatoRE, La poesia nell'uOedipus» di Seneca, in « Giorn. it. filol. », 1956, pp. 115-16.

334

SENECA

TRAGICO

indurci alla fallace conclusione che l’influsso senecano sul siècle d’or abbia avuto consistenza solo in un autore, che, per essersi formato in un'età ancora preclassica, era legato al gusto spagnolesco che dominava

in tutta l’Europa nel periodo della sua giovinezza, tant'è vero che il suo primo capolavoro, il Cid, è èspirato dalla Spagna e gronda di motivi e di toni collegati con la mentalità del culto castigliano della honra, della magnanimità e della passionalità; l’autore che più tardi, nel Don Sanche d’Aragon, l’opera forse più rappresentativa della mentalità secentesca, ha saputo dare la testimonianza più favolosa di queste sue ascendenze. Le prospettive non si spostano affatto passando al Racine, che in realtà nella Phèdre (che per giunta è un capolavoro, non un cowp d’essai come la

Médée del Corneille) ci presenta un documento egualmente significativo e caratteristico dell’influsso di Seneca, a parte tracce che ne possiamo ravvisare altrove. Il guaio è che col Racine ci troviamo in presenza di una coscienza, o meglio di una tendenzialità critica

che, a differenza dal Corneille, ha orrore o vergogna di confessare di dovere un tributo all'arte di Seneca,

l'autore caro al gusto barocco, a quello che la battagliera generazione degli anni sessanta riteneva appendice dell’aborrito gotico, giudicando solo i tragici greci come modelli da seguire e da riconoscere espressamente. Il Racine, lo si tenga ben presente, fece le sue prime armi proprio sulle orme di Seneca, elaborando la sua prima tragedia, La Thebaide ou les frères ennemis,

anche

sulle orme

delle Phoenissae

di

Seneca,

tant'é vero che il primo dei due titoli riproduce quello, Thebais, che la tragedia di Seneca presenta nella tra-

SENECA

dizione A, come

TRAGICO

nella préface all’Andromaque,

335

par-

lando di « Sénèque, dans sa Troade », egli mostra di adottare il titolo Troas che la tradizione A dä alle Troades. Ma le sue prevenzioni classicistiche si palesano già nella préface all’Andromaque, in cui egli ha

il fegato di addurre a testo ispiratore solo il brano del l. III dell’Eneide in cui Andromaca ricorda ad Enea ka sua triste vicenda dopo la caduta di Troia, e solo occasionalmente, per alcuni particolari, trova modo di parlare dell’Andromaca di Euripide — che pure nel contrasto fra Andromaca ed Ermione e nei rapporti delle due donne con Pirro gli ha offerto il telaio fondamentale — e delle Troades di Seneca, ma solo per notare di aver rafligurato un Pirro meno feroce di quello della tragedia senecana. Nel già ricordato saggio sulle fonti dell' Andromaque ho posto in chiaro come, fatta la debita parte agl'incontri con l’Andromaca e le Troiane di Euripide, la tregedia debba la sua vitalità proprio agl’influssi che sui suoi due complementari motivi conduttoni (l'amor materno di Andromaca e la passione di Ermione per Pirro) hanno avuto

i due maggiori potenziatori latini del gusto barocco, cioé rispettivamente Seneca con la grande scena delle Troades fra Andromaca e Ulisse, e Ovidio per l'ottava

delle Heroides, l'epistola di Ermione ad Oreste, che ha ispirato al Racine quell’innovazione del tema tragico in senso insistentemente amoroso, che nell'Oedipe aveva forse determinato il successo del ritorno del Corneile alle scene. Alla mia ricerca si potrà muovere l'obiezione che i testi latini addotti a confronto presentano situazioni opposte a quelle sviluppate dal Racine, e cioè Andromaca che non riesce a salvare Astianatte (mentre nell’Andromague questi appare su-

336

SENECA

TRAGICO

perstite all’eccidio), ed Ermione innamorata proprio

di Oreste e insofferente di Pirro.

Ma anche il luogo

virgiliano citato dal Racine come fonte presenta l’opposta situazione di un’Andromaca disperata per aver perso Astianatte e concentrata nel suo ricordo; e anche l’altra indiscutibile fonte, l’ Andromaca di Euri-

pide, presenta una situazione che poteva suggerire, per le sue affinità, modi e circostanze al tragico francese, ma che era ad ogni modo diversa, cioè la nuova maternità di Andromaca, quella di Molosso avuto da Pirro, ch’essa difende contro Ermione e Menelao. Ti-

pica è infatti del Racine la capacità di piegare a situazioni diverse od opposte anche suggestioni provenienti da testi di specifico e ben squadrato carattere. Nel mio saggio ho fatto presente (pp. 930-31, n. 17) che nella Phèdre, a parte le scene di più diretto e preciso incontro con la Phaedra di Seneca, egli s'è ricordato dell’invettiva senecana di Teseo contro Ippolito sia quando ha fatto dire dall’eroe ateniese al figlio che «le transport d'un amour plein d'horreur / jusqu'au fit de ton pére a porté sa fureur » — il che & un riprendere i vv. 924-25 della Phaedra, a meo primum toro / et scelere tanto placuit ordiri virum? — sia — ed & piü caratteristico e interessante — in ció che concerne

l'amore di Ippolito e Aricia, dalla prima scena dell'atto primo alla prima e alla seconda dell'atto secondo, ove « avec son lait une mére amazone / m’eit fait sucer

encor cet orgueil qui t'étonne » discende dal ricordo di Antiope nell'apostrofe senecana di Teseo, dal sanguis che stirpem ... primam ... refert, dal gentis armigerae furor, dove «ce superbe Hippolyte, / implacable ennemi des amoureuses lois », come lo dipinge

Aricia ignara del suo amore, «un

coeur si fier, si

SENECA

TRAGICO

337

dédaigneux », com’egli dipinge se stesso a Teramene, « d'un téméraire orgueil exemple mémorable ..., con-

tre l'amour fierement révolté », com'egli si raffigura con Aricia, discendono da vultus ille et ... maiestas viri

/ atque babitus borrens, prisca et antiqua appetens, / morumque senium triste et affectus graves ..., silva-

rum incola / ille efferatus, castus, intactus, rudis della

sua raffigurazione da parte di Teseo in Seneca. In fondo, introducendo nella sua tragedia la sconcertante novità di un Ippolito innamorato, cioè anticipando nel mito greco il carattere sovrapposto nella leggenda latina, che, dopo la resurrezione di Ippolito, introducevale sue nozze con Aricia nel Lazio, il Racine con-

tinuava la tendenza del Corneille, già ravvisata da noi nella Médée e nell'Oedipe, a variare in forma inattesa

i temi più noti della tragedia classica; ma ciò facendo l'uno e l’altro non rinunciavano a sfruttare quei modelli per tutto ciò ch’essi potevano fornire anche ai fini delle innovazioni. Ciò spingeva il Racine a estendere la ricerca degl’imprestiti anche a testi degli autori preferiti che non riguardassero direttamente l’argomento della tragedia. Così, proprio nella Phèdre, quando, nella sesta scena dell’atto quarto, Fedra, sconvolta dalla rivelazione che Ippolito ama Aricia, grida: et je vis? et je soutiens la vue

de ce sacré soleil dont je suis descendue?

J'ai pour aieul le pére et le maitre des Dieux; le ciel, tout l'univers est plein de mes aîeux.



me cacher?

Fuyons

dans la nuit infernale,

subito, con una specie di allucinazione, si corregge: Mais que dis-je? mon pére y tient l'urne fatale; le sort, dit-on, l'a mise en ses sévéres mains:

338

SENECA

TRAGICO

Minos juge aux enfers tous les päles humains. Ah! combien frémira son ombre épouvantée. lorsqu’il verra sa fille ἃ ses yeux présentée,

ba iu nn Je crois voir de ta

ieri linde tomber l'urne terrible;

main Je crois te voir, cherchant un supplice nouveau, toi-méme de ton sang devenir le bourreau.

In ciò noi non ci limitiamo

a scorgere col Lanson

l’eco dei vv. 144 sgg. della Phaedra di Seneca, delle parole che la nutrice rivolge alla regina, ma più ancora quello

delle

allucinazioni

che

nei

momenti

della crisi colgono in Seneca sia Medea

capitali

sia Deianira

dell’Dezaeus. Del primo luogo ricordiamo ancora una

volta

i vv. 958

sgg., ma specialmente

i successivi

963 sgg.: cuius umbra dispersis venit incerta membris? Dabimus,

sed

frater est, poenas petit.

omnes.

Fige

luminibus

faces,

lania, perure, pectus en Furiis patet. Discedere

a me,

frater, ultrices deas

manesque ad imos ire securas iube;

del secondo l’uguale allucinazione che sorprende Deianira ai vv. 1002 sgg.: Quaenam

ista torquens

verberum crepuit sonus.

angue

vipereo comam

temporibus atras squalidis primas quatit? Quid me flagranti dira persequeris face,

Megaera? Iamne

poenas poscis Alcidae?

inferorum,

dira,

sedere

dabo.

arbitri?

sed ecce diras? carceris video fores. 7 Poiché nell'espressione non si parla di porte aperte, ci si è inclinati verso l'emendamento /axas o apertas del Gronov,

SENECA TRAGICO

339

Hic ecce pallens dira Tisiphone stetit, causam

reposcit;

parce verberibus, precor,

Megaera, parce, etc.

Ciò ho già osservato nel mio studio Les préjugés les plus pernicieux à l'égard de la littérature latine (in « Bulletin de l'Association G. Budé », 1964, pp. 32641), dove ho anche posto in nilievo i debiti che il Mitbridate, nella prima scena del terzo atto, ha con le Phoenissae, e soprattutto quanto le due scene ora ricordate della Medea e dell’Detaeus siano state co-

stantemente presenti alla fantasia del Racine, sia nel Bajazet, dove hanno largamente ispirato gli sfoghi della passione di Rossana, sia già nell’Andromaque, dove

già G. Mav

(D'Ovide

à Racine,

Paris,

1949,

41-42) ha scorto ciò che ai vv. 958-64 della Medea di Seneca deve l’ultima scena dell’Andromague per l’allucinazione di Oreste, ed io ho scorto l’influsso della Medea, della scena in cui la maga chiede a Creonte il differimento d’un giorno per il matrimonio, nella

quinta scena dell’atto quarto in cui Ermione dice a Pirro: Achevez votre hymen, j’y consens. Mais du moins ne forcez pas mes yeux d'en étre les témoins.

Différezle d'un jour; e a partire dal Leo si & segnato il verso con la crux. La sua di-

fesa è stata condotta proprio dall'AxgLsoN (Korruptelenkult, Lund, 1967, pp. 53-54), ma per trarne la prova che l'Oetaeus è opera di un «Poetaster», che « den Begriff ‘offen’ nicht

ausgedrückt hat». In realtà il verso va benissimo sia sotto

l’aspetto metrico sia sotto quello dell’usus scribendi senecano, e non c'è nessuna ragione di sospettarlo e di emendarlo. La frequenza di dira è una prova della bontà della lezione.

340

SENECA

TRAGICO

e ho scorto l’influsso dello sfogo di Deianira ai vv. 307 sgg. dell'Oetaeus nella terza e quarta scena del quarto atto, specie per la derivazione di Tant qu'il vrivra craignez que je ne lui pardonne, doutez jusqu'à sa mort d'un courroux incertain; s'il ne meurt aujourd'hui, je puis l'aimer demain,

da Quid hoc? recedit animus et ponit minas; iam cessit ira — quid miser langues dolor? perdis furorem, coniugis tacitae fidem mihi reddis iterum — quid vetas flammas ali? e di

Quel plaisir de venger moi — méme mon injure, de retirer mon bras teint du sang du parjure da Felix iacet quicumque

quos

odit premit.

Nel già più volte ricordato studio sulle fonti dell’Andromaque, ho ricordato (pp. 936-41) quanto il Lanson (Theätre

choisi

de

Racine,

Paris,

1946)

abbia

diligentemente registrato le innumerevoli derivazioni dalle Troades, sia nella scena del contrasto tra Pirro

ed Agamennone sia in quella grandissima fra Andro-

maca e Ulisse, palesi in tutte le scene della tragedia raciniana in contro fra atto, alla quarta del ché in un scena del

cui si Pirro quinta terzo luogo quarto

discute di Astianatte, dal primo ine Oreste alla quarta scena del primo del secondo atto, alla prima e alla atto, alla prima del quarto atto; nonin cui è di scena Ermione, la quinta atto. Al che io ho aggiunto la sesta

SENECA

TRAGICO

341

scena del terzö atto, dove la struggente invocazione alla memoria di Ettore (Pardonne, cher Hector, à ma crédulité. Je n’ai pu soupgonner ton ennemi d’un crime; lui-méme enfin je l'ai cru magnanime.

Ah! S'il l'était assez pour nous laisser du moins au tombeau qu'à la cendre ont élevé nos soins, et que

finissant là sa haine et nos misères,

il ne séparát point des dépouilles si chères!)

è praticamente un riferimento complessivo alla scena senecana fra Andromaca e Ulisse.

Dopo

quanto

abbiamo

osservato,

è giocoforza

che, in base alla constatazione dei rapporti con Seneca visibili sin dai primordi dell’attività drammatica del Racine, noi ci soffermiamo anche sul Britannicus, che inaugura la serie delle quattro tragedie di carattere storico frapponentisi tra l’Andromague e l’Iphigénie e avvicinanti quindi il tipo della drammaturgia raciniana a quello della corneliana, anche se i drammi storici del

tragedo più giovane non prescindono mai dall’amore come elemento fondamentale,

mentre il Corneille lo

trascura spesso; e ciò tanto più in quanto dei quattro drammi storici ben tre hanno per argomento o per sfondo la storta romana, quella prediletta dal Corneille. Orbene, il fatto che ad inaugurare la serie sia proprio il Britannicus non mi sembra di poco peso per la valutazione dell’importanza dell’influsso di Se-

neca sul Racine, dato che in questa tragedia non è possibile misconoscere l’ispirazione dall'Oc/avia pseudosenecana, di cui allora nessuno negava l’autenticità. E ciò anche se, al solito, il Racine nella préface s'é

ben guardato dal riconoscere questa derivazione, limitandosi ad additare in Tacito la sua esclusiva fonte

342

SENECA

TRAGICO

d’ispirazione, nello stesso spirito con cui, giustificando nella préface al Bajazet l’uso di un tema storico contemporaneo, egli s’® appellato classicisticamente

all'esempio dei Persiani di Eschilo, dimenticando quel lo dell’Oczavia che lo aveva precedentemente ispirato; e che Tacito sia fonte fondamentale non lo si puó contestare.

Il Lanson registra due luoghi in cui l'eco dell’Octavia si avverte evidente nel Britannicus: il primo è la prima scena dell’atto terzo in cui Burro vuole esortare Nerone a richiamare al suo spirito « la mémoire / des vertus d’Octavie », a rinunciare al suo capriccio

per Giunia, condludendo croyez. -moi, quelque amour qui semble vous charmer, on n'aime point, Seigneur, si l'on ne veut aimer.

Già Paul Mesnard nella sua edizione (Paris, 1865-70)

ha additato la derivazione dai vv. 561-65 dell'Octavia, in cui Seneca, sforzandosi di guarire Nerone dalla sua passione per Poppea, gli dice: vis magna mentis blandus atque animi calor Amor est; iuventa gignitur, luxu otio nutritur inter leata Fortunae bona.

Quem si fovere atque alere desistas, cadit brevique vires perdidit exstinctus suas. Così nell'ottava scena del medesimo atto, nel conci tato scambio sticomitico di battute fra Nerone e Britannico, là dove il secondo ricorda Chacum devoit bénir le bonheur de son règne e il primo ribatte Heureux ou malheureux, il suffit qu'on me craigne,

SENECA

il Lanson propende cordato

della

TRAGICO

343

a ritenere che il Racine si sia ri-

famosa

battuta

dell'A;reus

Oderint dum metuant, resa famosa e biografia d'età imperiale, ma non altri vi hanno scorto l'eco della già dell’Octavia fra Nerone e Seneca, e

di Accio,

dalla storiografia tace del fatto che citata lunga scena più precisamente

dei vv. 457-59: Nero — Decet Nero

timeri Caesarem.

— Metuant

Seneca — At plus diligi. necesse est...

iussisque nostris pareant.

E in realtà si possono postulare ugualmente entrambi gl’influssi insieme congiunti.

Ma ciò che si può più legittimamente postulare, al di sopra di singole coincidenze particolari, è che il Britannicus sia debitore all'Octavia della sua struttura complessiva. In entrambe le tragedie il giovane autocrate romano compie un delitto sotto lo stimolo di una insana passione amorosa; nella tragedia romana manda

a morte la moglie che & anche la sua sorellastra, in quella francese fa morire il fratellastro, il fratello di Ottavia, sua vittima nell’altra tragedia; e in entrambi i casi le vittime sono gli ostacoli al trionfo della sua

passione. L'unica differenza è che, mentre nell'Octavia la donna di cui egli è incapricdeto, Poppea, asseconda per ambizione il suo proposito, nel Britannicus la sua fiamma, Gtunia, resta fedele a Britannico.

E ora che abbiamo scoperto la genesi volutamente antifrastica di molte innovazioni introdotte dai tragici

francesi nella struttura dei temi classici, possiamo anche arrischiarci a supporre che proprio il contegno di Poppea nell’Octavia abbia ispirato al Racine l'op-

344

SENECA

TRAGICO

posto contegno di Giunia. Ma non basta. Come nell'Octavia il dominio sullo spirito di Nerone è con-

teso fra il moralista Seneca, che tenta di guarirlo dalla malefica inclinazione, e il praefectus (indubbiamente Tigellino) che lo asseconda, così il Racine ha fatto combattere fra loro, per conquistare lo spirito dell’imperatore, l’austero Burro e il malvagio Narcisso, il pedagogo di Britannico che lo tradisce per ingraziarsi l’imperatore. E sarebbe interessante tema d’indagine studiare la sostituzione di Burro a Seneca operata dal Racine nel compito di tutore della virtù: sostituzione tanto più inattesa in quanto è stato sempre ben noto che Agrip-

pina aveva collocato proprio Seneca accanto a Nerone per educarlo e consigliarlo. Effetto della programmatica tendenza del Racine a mostrarsi indipendente da Seneca o influsso di Tacito, che presenta Burro forse più coerente e saldo di Seneca nel preservare i bomi mores nell’intricata situazione politica in cui l’inframmettenza di Agrippina gettava Nerone, che in Annal. XIV, 7 aveva fatto proporre da Seneca an militi imperanda caedes esset ai danni di Agrippina, e aveva fatto respingere la proposta da Burro, e in XIV, 52 afferma che mors Burri infregit Senecae potentiam, quia nec bonis artibus idem virium erat altero velut duce amoto, influsso cioè dello storico che aveva rappresentato quella corrente poco tenera per Seneca, di cui il Racine era ben lieto di raccogliere l’eredità per non farsi accusare di eccessiva simpatia verso l’autore biasimato dai classicisti per la sua tenebrosa gonfiezza? Da ultimo non si può dimenticare che nell'Octavia appare l'ombra di Agrippina, già eliminata

dal figlio, ad esprimere tutto il biasimo per le sue malefatte,

predicendo

la

sua

prossima

rovina;

nel

SENECA

TRAGICO

345

Britannicus ha gran parte il personaggio di Agrippina, ancora viva, che cerca di contrastare le funeste propensioni del figlio, e finisce per predire i disastri del regno, e che, per la sua raffigurazione, ha richiesto al Racine lo sfruttamento sistematico del testo di Tacito. Su queste basi è fin troppo facile ricostruire quanto la Phèdre debba all'omonima tragedia di Seneca. Ciò che deve richiamare la nostra attenzione è se mai il fatto che ancor una volta nella préface il Racine ha avuto l’improntitudine di tacere il suo debito verso il tragico latino, affermando: « voici encore une tragédie dont le sujet est pris d’Euripide ». Una sola volta nella préface egli ricorda la Phaedra di Seneca,

per citarne il v. 892, adoperando, al solito, per designarla il titolo della tradizione A, cioè Hippolytus. Quanto sia enorme questa dimenticanza lo dimostra il

fatto che, lungi dall’adeguarsi al contegno e alle vicende della Fedra euripidea, la sua Fedra si diporta proprio come quella di Seneca, confessa direttamente la sua passione al figliastro e si uccide solo dopo ch'egli è morto, pronunciando le ultime parole in presenza del suo cadavere. Una lunga analisi comparativa della scena tra Fedra e Ippolito ai vv. 598-718 della Phaedra di Seneca e della scena quinta dell’atto secondo della Phèdre raciniana non aggiungerebbe nulla a quanto è già ampiamente accertato dalla critica. Si

può al massimo osservare che l’Ippolito raciniano, il finto cacciatore insensibile e figlio dell’Amazzone che è intimamente il sospiroso damerino infervorato di Aricia, non poteva reagire alla confessione di Fedra come l’Ippolito di Seneca, non le scaglia contro parole offensive, non snuda la spada. Ma essa non trascura d'invitarlo a colpire

346

SENECA

TRAGICO

(Voilà mon coeur. C'est là que ta main doitAsta Frappe)

come la Fedra senecana si mostra felice del suo gesto di sguainare la spada e colpirla: Hippolyte, nunc me compotem voti facis; sanas furentem.

Maius

hoc voto meo

salvo ut pudore manibus immoriar

est,

tuis.

Così nell’avvicinarsi a lui sente che un ostacolo indo-

mabile le fa svanire le parole (Vers mon coeur tout mon sang se retire J'oublie, en le voyant, ce que je viens lui dire)

come la Fedra di Seneca osserva Sed ora coeptis transitum verbis negant; vis magna vocem

mittit et maior tenet;

così, quando Ippolito in tutti e due i testi esprime l'augurio e la speranza che il padre torni vivo, la donna risponde ugualmente:

in Seneca

Regni tenacis dominus et tacitae Stygis nullam

relictos fecit ad superos viam,

nel Racine

On ne voit point deux fois le rivage des morts, Seigneur. Puisque Thésée a vu les sombres bords, en vain vous espérez qu'un Dieu vous le renvoie;

et l'avare Achéron ne läche point sa proie;

cosi infine tutto lo sviluppo decisivo della confessione

& modellato nel Racine sul testo di Seneca, dall'afferma-

SENECA

TRAGICO

347

zione ch'essa ama il volto di Teseo ma quello di quendo egli era giovane (Oui, Prince, je languis, je brüle pour Thésée, / mais ... charmant, jeune ... tel qu'on dépeint nos dieux, ou tel que je vous voi — Hippolyte, sic est: Thesei vultus amo / illos priores, quos tulit quondam puer... tuaeve Phoebes vultus, aut Phoebi mei, / tuusve potius), al rimpianto che Ippolito non sia giunto a Creta col padre (Pourquoi,

trop jeune

encor, ne pütes-vous alors / entrer dans le vaisseau qui le mit sur nos bords? / Par vous aurait péri le monstre de la Créte. — Si cum parente Creticum intrasses fretum, / tibi fila potius nevisset soror). Parimenti la descrizione della morte d’Ippolito, nel-

la sesta scena del'ultimo atto, accanto ad Euripide sfrutta anche il testo di Seneca. Questi così dipinge il mostro: Pontus suumque

monstrum

sequitur

in terras ruit

A

Coerula taurus colla sublimis gerens

erexit altam fronte viridanti iubam. Stant hispidae aures. Cornibus variis color oculi

0. hinc flammam vomit, reluent . . .

hinc

squamosa

.

.

ingens belua immensam

trahit

partem;

il Racine:

L'onde approche, se brise, et vomit à nos yeux i des flots d'écume, un monstre furieux. front large est armé de cornes menagantes;

tout son corps est couvert d'écailles jaunissantes; indomptable

taureau,

dragon

impétueux,

sa croupe se recourbe en replis tortueux. Ses longs mugissements font trembler le rivage.

348

SENECA

TRAGICO

Parimenti i due poeti ci presentano Ippolito che solo eroicamente aftronta il mostro, Seneca: Solus immunis metu Hippolytus artis continet frenis equos,

il Racine: Hippolyte lui seul, digne fils d’un heros, te ses coursiers.

Uguale la descrizione dello smarrimento dei cavalli, in Seneca Inobsequentes protinus frenis equi rapuere currum iamque derrantes via quaecumque rabidos pavidus evexit furor

hac ire pergunt; nel Racine:

La frayeurs les emporte; et sourds è cette fois, ils ne connoissent plus ni le frein ni la voix.

Uguale la descrizione dello schianto del cocchio e della morte d’Ippolito; in Seneca: seque per scopulos agunt.

praeceps in ora fusus (gnatus A) implicuit cadens laqueo tenaci corpus et quanto magis pugnat, sequaces hoc magis nodos ligat. Late cruentat arva et inlisum caput scopulis resultat;

auferunt

dumi comas,

et ora durus pulcra populatur lapis;

nel Racine: A travers les rochers la peur les précipite;

SENECA

TRAGICO

_

349

Dans les rénes lui-m&me il tombe embarrassé.

.

. Tout son corps n'est bientét qui "une plaie

De son généreux sang la trace nous conduit: les rochers en sont teints; les ronces dégouttantes

portent de ses cheveux les dépouilles sanglantes.

Il Racine s'é distaccato dalla molto più sobria descrizione euripidea e ha seguito da presso quella più mi-

nuta e pomposa di Seneca, di cui spesso si sorprende l’attenta parafrasi. La morte di Fedra assume toni diversi in Seneca

e nel Racine. Il tragico latino tocca uno dei vertici facendo esprimere a Fedra tutto l’impeto travolgente del suo amore dinanzi al cadavere di Ippolito; il giansenista Racine ha concentrato la crisi della donna nell’abominazione del suo peccato, nella proclamazione (vi è forse in questo anche un’eco dell’atteggiamento dell’Edipo senecano?) ch’essa costituisce una profanazione

della purità del giorno, una macchia da cancellare. Ma al momento in cui la donna proclama l’innocenza d’Ippolito il Racine niprende in pieno la formulazione di Seneca:

|

11 faut & votre fils rendre son innocence. Il n'étoit point coupable . C'est moi qui sur ce fils chaste et respectueux osai jeter un oeil profane, incestueux.

E. evidente la rielaborazione del testo latino: falsa memoravi et nefas,

quod ipsa demens pectore insano hauseram, mentita finxi. Vana punisti pater,

350

SENECA

TRAGICO

iuvenisque castus crimine incesto iacet,

pudicus, insons.

C'è dunque una sovrabbondante documentazione atta a provarci che anche presso il massimo campione

del classicismo Lowis XIV l’influsso di Seneca perdurava in forma cospicua. Ed esso non venne mai meno. Alla conclusione del periodo, nel 1707, l'Atrée et Thyeste di Prosper de Crébillon appariva nel complesso una parafrasi del Thyestes di Seneca, rimpolpata per

giungere al canonico sviluppo in cinque atti; tipica

la scena capitale del riconoscimento delle ossa dei figli imposto da Atreo al fratello, ove la frase incisiva che nella tragedia di Seneca dà il tono essenziale è lette ralmente tradotta, tanto più che può formare comodamente il suo bravo alessandrino: Reconnais-tu tes fils? — Je reconnais mon frere!

Così, alle soglie del sec. XVIII, questo persistente influsso di Seneca tragico stava quasi a significare che la cultura e la letteratura della gloriosa e orgogliosa sede del classicismo, con lo sviluppo di quella particolare appendice del gusto barocco che fu il rococò, con lo sviluppo della narrativa impegnata in senso di sovversione etica, sociale e psicologica, da Prévost e Diderot a Choderlosde Laclos e al marchese de Sade, era capace anche di trasmettere e consegnare alla rivoluzione romantica le eredità più feconde dell'avventurosa e tumultuaria età barocca.

SENECA E IL DRAMMA SPAGNOLO DEL SIGLO DE ORO *

Quando mi son visto giungere il volumetto di Carlo Ortigoza-Vieyra! con richiesta di recensione, sono rimasto interdetto, perché, dato il suo argomento, esso non mi sembrava potesse essere ricordato nella nostra rivista. Ma leggendolo vi ho scoperto un motivo che richiamava la nostra attenzione nel quadro dei rap-

porti fra letteratura classica e letterature moderne, quel tema cioè che costituisce uno degli stimoli più frequenti della nostra attività.

L'illustre autore, che è uno dei più validi testimoni del vivo interesse che tuttora si dedica alla letteratura spagnola classica nei paesi sud-americani e negli Stati Uniti d’America (egli stesso è passato dall’Università del Messico all’Università dell’Indiana), si è fatta una

rinomanza internazionale coi due primi tomi dell’opera Los Möviles de la Comedia, in cui ha studiato la tema-

tica della commedia del siglo de oro da Lope a Moreto. Proprio per quest’ultimo scrittore, che è considerato

* Da « RCCM », 1969, p. 273 sgg. 1 Aniquilamiento del móvil bonor en Antíoco y Seleuco de Moreto respecto El castigo sin venganza de Lope, in Homenaye al III centenario de la muerte de D. Augustín Moreto, tomo III de Los móviles de la comedia, Bloomington, Indiana,

1969, pp. 48.

352

SENECA

E

IL

DRAMMA

SPAGNOLO

tuttora un epigono dei grandi, privo di qualsiasi originalitä nel rielaborarne i temi, egli si adopera da tempo a rivendicarne la personalità. In quest’ultima ripresa della sua opera maggiore, pubblicata come omaggio proprio al Moreto in occasione del terzo centenario della sua morte (il drammaturgo morì a Toledo nel 1669), egli ha voluto coronare la sua rivendicazione

mostrando noto tema, l’amore di rivelazione

come in Antioco y Seleuco (che riprende il immortalato dal pennello di Ingres, delAntioco per la matrigna Stratonice e della che il medico Erasistrato ne fa al re Se-

leuco) il Moreto, pur tenendo d’occhio molto

atten-

tamente una delle opere maggiori di Lope de Vega, El castigo sin venganza, ne ha annullato l'impostazione fondamentale, cioè la considerazione dell’amore ince-

stuoso del figliastro come offesa alla legge dell’onore e quindi come motivo per scatenare le sanzioni della sacra legge della borra, fondamento della mentalità nazionale in quell’età e conseguente cardine del suo teatro classico. Inserendosi in un campo già illustrato da opere famose,” l'Ortigoza-Vieyra dimostra che, pur prendendo le mosse da Lope (EI castigo sin venganza),

il Moreto ha eliminato del tutto la preponderanza del2 « El castigo sin venganza ». Un oscuro problema de bonor di R. Men£npez Pinar (Madrid, 1958), The relation of Moreto's El desdén

con

1924) di MABEL

el desdén

to suggested

MARGARET

HARLAN,

sources (Bloomington,

The comic

elements in

Moreto's « comedias » (Boulder, 1958) di ANNE MarıE LoTTMANN, Il teatro di Moreto di E. CALDERA (Pisa, 1960), Tbe

dramatic craftmanship of Moreto di F. P. Casa (Cambridge Mass., 1966), The dramatic art of Moreto di RuTH LEE Ken NEDY (Northampton Mass., 1931-32), Alarcón y Moreto di S. G. Mortey (Univ. of California, 1918), El castigo sin venganza di C. F. A. Van Dam (Groningen, 1928).

SENECA

E IL DRAMMA

SPAGNOLO

353

la legge della borra con le sue tragiche conseguenze,

imprimendo allo sviluppo drammatico una svolta decisiva, in direzione dello studio amorevole della psiche dei personaggi e distnaendo « a espectadores y lectores con una tupida senie de cambios anfmicos y un serio conflicto en el alma de cada uno de los tres personajes principales que les satisfacfa plenamente sin que se preocuparan por el honor » (p. 31). Così fra l’altro si è raggiunto anche il risultato di spostare l’attenzione della critica da Εἰ desdén con el desdén, ritenuto fino-

ra il dramma più significativo di Moreto, ad Antioco y Seleuco, documento di un più consapevole affrancamento dalla tematica di Lope, ostentato proprio con l’iniziale aggancio a uno dei suoi più noti drammi per poi condurre uno sviluppo autonomo in una direzione nuova, che sembra rinnovare la problematica del teatro spagnolo. La dimostrazione dell’Ortigoza-Vieyra mi sembra convincente. Ma ora viene il bello. Leggendo che in Antioco y Seleuco il Moreto si è volto all’esame delle passioni dei singoli personaggi, uno studioso del teatro di Seneca come il sottoscritto ha drizzato gli orecchi, sospettando che in questo cambio di marcia il drammaturgo spagnolo fosse stato guidato da quel poeta tragico antico che in fondo ha ispirato tutto il teatro del Cinque e Seicento, e che anche in Ispagna — nonostante la scarsa tenerezza per i modelli classici imposta dall’originale personalità di Lope — doveva pur suscitare simpatia, non foss’altro perché nativo di Cordova. Ed effettivamente leggendo l’analisi dell’Ortigoza-Vieyra, a pp. 34-36 (anche se lo studioso messicano non ha sentore di questa possibilità), ho consta23

354

SENECA

E IL DRAMMA

SPAGNOLO

tato che i miei sospetti erano fondati. Già l’espressione di Antioco EI respecto de mi padre es quien los labios me sella,

ci fa subito incamminare dietro il personaggio di Ippolito, il personaggio classico dei drammi imperniati

sul tema dell’incesto, anche se qui vengono alla memoria l’Ippolito di Euripide e quello del Racine, piuttosto che quello di Seneca, che non ha il tempo di manifestare il suo rispetto per il padre dopo la folle confessione della matrigna e la sua ancor più folle e falsa denuncia a Teseo. Ma anche in Seneca, nel suo

colloquio con Fedra, si tocca con mano il suo profondo rispetto per il padre (v. 624, aderit sospes actutum parens; v. 629, Illum quidem aequi caelites reducem

dabunt; v. 633, ac tibi parentis ipse supplebo locum; v. 645, Amore nempe Thesei casto furis?). Ma che il Moreto abbia tenuto d'occhio la Phaedra di Seneca,

proprio per ricavare spunti allo scopo di sostituire alla topica casistica della legge dell'onore un attento studio delle passioni dei personaggi, lo dimostra lo sfogo di Seleuco dopo che il medico ha rivelato la passione del figlio per la matrigna (caso inverso a quello del mito di Fedra, ma non per questo inadatto ad attingerne suggerimenti). Il Seleuco del Moreto echeggia il Teseo di Seneca.

La domanda con cui egli incalza il medico

(equé has dicho? que bas hecho?) corrispondono a quelle in cui prorompe Teseo scorgendo la spada d'Ippolito accanto alla moglie (v. 898, Quod facinus, beu me, cerno? quod monstrum intuor?). Le laceranti riflessioni dell’eroe ateniese (vv. 924-25, Mibi te reser-

SENECA

vas?

a meo

E IL DRAMMA

primum

toro

SPAGNOLO

| et scelere

355

tanto

placuit

ordiri virum?) trovano sia pur pallidi echi nelle parole del Seleuco di Moreto (;Ah bijo traidor! ;Ab bijo aleve!... Yo te envío por mi esposa / y tá,

atrevido

y soberbio,

/ los

ojos osas poner

quien ba de ser mi duefio?). Ma

/ en

l'accostamento più

evidente, che toglie ogni dubbio, & quello alla lapidaria frase che il Teseo senecano pronuncia (vv. 99899) quando gli si annuncia la morte di Ippolito: Natum parens abisse iam pridem scio: nunc raptor obiit.

Il Moreto l’ha sfruttata nella scena in cui Seleuco agita angosciosamente il quesito se uccidere o no il

figlio ch'egli giudica traditore (cYo a mi bijo be de matar?); egli conclude che Antioco non è più suo figlio, sino (a) un enemigo fiero: / pues muera el traidor

mil veces. Siamo grati all'Ortigoza-Vieyra di averci offerto l'occasione di scoprire anche nel dramma del siglo de oro spagnolo una palese testimonianza dell'influsso di quel Seneca tragico che dominó tutto il teatro

serio

dell'epoca,

confermando

che,

come

in

Francia il Crebillon documenta che gli echi senecani ebbero una vigorosa ripresa proprio alla conclusione del ciclo del teatro classico, così in Ispagna essi sono risorti nel periodo finale del siglo de oro. E ciò che più ci ha soddisfatti è stata la constatazione che Seneca — a riprova dell’importanza e complessità della sua figura e del suo influsso — non s'é fatto sentire per lo stimolo verso il macabro e l’orroroso (a cui la critica vuol limitare il suo peso, aggravando e consacrando la condanna del suo teatro), ma proprio per

356

SENECA

quell’amorevole

E IL DRAMMA

analisi

SPAGNOLO

della psiche

dei

personaggi

sotto la frusta della passione, che & il segreto della libera scelta con cui lo spirito dei drammaturghi moderni si accostò a lui, a preferenza di altri più insigni modelli del teatro classico.

L’ANDROMAQUE DEL RACINE E LA DIDONE ABBANDONATA DEL METASTASIO * Una delle vioende piü interessanti e singolari del teatro italiano & che nel Cinquecento la nascita del teatro regolare — anche se oggi vi si distinguono, almeno fra le commedie, perle come la Mandragola del Machiavelli e La venexiana d’ancor incerto autore — non determinò la netta prevalenza del dramma della Penisola, sì che nel secolo successivo si affer-

marono in perfetta autonomia il teatro inglese, il teatro spagnolo e il teatro francese (per non parlare di

manifestazioni di minore eco, come il teatro portoghese e quello olandese) e alla fine del Seicento il siècle d’or determinò in Francia il trionfo di un teatro tragico (e comico) divenuto ben presto così esemplare per la coscienza europea da oscurare persino quel teatro tragico greco di cui proprio allora s’andava diffondendo una seria conoscenza. Viceversa, proprio nel momento in cui la tragedia francese stava assumendo un valore paradigmatico per tutti i cultori e gli amatori del genere, a qualsiasi nazione appartenessero,

il dramma

italiano riuscì a conseguire

fama ed autorità in Europa nella prima metà del Set* Dagli « Studi in onore di Luigi Ronga », Milano-Napoli, 1973, p. 515 sgg.

358

RACINE E METASTASIO

tecento, ma nella forma ibrida ed equivoca del melodramma, grazie a Pietro Metastasio. Chi però studi la fortuna del Metastasio — e ripeto cose di dominio comune — si acconge che mai i suoi innumerevoli esaltatori tennero conto del carattere originariamente ambiguo, non riconducibile a quello di un Corneille o di un Racine, da cui il dramma metastasiano era gravato, per il fatto stesso d'essere un dramma scritto per musica, ripartito in recitativi ed ariette. Il poeta

romano e poi viennese d'elezione fu sempre considerato un modello di stile tragico, fino al giorno in cui gli fu offerta la famosa medaglia con la dedica Sopbocli Italico. Se il Baretti, cosi poco tenero con un vero

fondatore del teatro italiano moderno come il Gol. doni, seppe intuire l’effettiva grandezza del Metastasio

proprio nella singolare, irripetibile eccezionalità del suo tipo lirico-drammatico di teatro e lo celebrò come colui che aveva esaurito ogni possibilità offerta dalla caratteristica, acrobatica ambivalenza

della sua

drammaturgia, sappiamo quale sforzo l’Alfieri dovette compiere per vincere l'equivoco creato dall'esempio del Metastasio e per dare alla Musa italiana quella foglia dell'alloro tragico che unica le mancava, a giu-

dizio, o meglio ad augurio proprio di quel Parini cui il Metastasio non aveva lesinato le lodi. Eppure — forse anche perché, alle soglie dell'età romantica, la tragedia regolare

cominciava

ad entrare in agonia — mentre

la posticcia tragicità melodrammatica del Metastasio (in cui fra l'altro trionfava il lieto fine) aveva ridato fama ed autorità al teatro italiano —, la tragedia alfie-

riana rimase episodio puramente nazionale, non riuscì mai a varcare i confini d’Italia. Ciò naturalmente si spiega anche col fatto che, es-

RACINE E METASTASIO

359

sendo il teatro in musica un frutto specifico della cultura italiana ed essendo la sua vita in tutta Europa ancora strettamente legata all’attività e alla capacità di autori, strumentisti, impresari e cantanti (specie i castrati) italiani, chi in esso riusciva ad emergere

aveva facilitata in sommo grado la possibilità d’acqui-

stare fama ed autorità nel continente. È fra le più ovvie e diffuse conoscenze quella che la terminologia dei tempi musicali (adagio, andante, allegro, presto, ecc.) è ancora essenzialmente di conio italiano: e an-

che i meno informati sanno che il fiorentino Lulli suscitò alla corte di Luigi XIV il teatro musicale francese, alle cui origini altri italiani contesero il favore ai primi grandi musicisti francesi, fino al Rameau (per

non parlare della contesa fra gusto francese e gusto italiano che arse in Francia, riguardo al melodramma, per tutto il Settecento, come ci testimonia fra l’altro

Le neveu de Rameau

del Diderot); che a Londra lo

Haendel dovette battersi a morte contro la concorrenza degli operisti italiani; che finalmente a Vienna,

proprio nella Vienna in cui dominava il Metastasio, il teatro musicale vantò a lungo la sua vitalità in mano ad italiani sta musicisti (il Porpora, al quale il Me-

tastasio avrebbe presentato il giovane Haydn; lo Jommelli, che vi trascorse il significativo anno 1749-1750

proprio collaborando col Metastasio; il Paisiello e il Cimarosa, nella loro effimera presenza alla corte absburgica; il Salieri, che invece vi si stabilì e divenne uno dei dittatori della vita musicale), sia librettisti,

continuatori del pupillo del Gravina e del Caloprese, come il Casti e il Da Ponte; e basta leggere le Memorie di Lorenzo Da Ponte per misurare quale importanza avesse ancora, negli ultimi decenni del se-

360

RACINE E METASTASIO

colo, il teatro musicale in lingua italiana, che eHora oftriva a Wolfango Amedeo Mozart, coi libretti delle Nozze di Figaro, del Don Giovanni e di Così fan tutte, i mezzi più acconci per l'affermazione del suo genio, per non parlare dell’abate Varesco, autore del metastasiano libretto del prodigioso Idomeneo. D’altro canto proprio chi sappia che alla fine del Seicento, con la reazione del gusto arcadico (di quell’Arcadia di cui il Metastasio fu socio e sommo interprete) e dell’incipiente classicismo del Milizia (a non parlare del Teatro alla moda di Benedetto Marcello), le follie sce-

nografiche e vocalmente virtuosistiche del teatro mu-

sicale barocco stavano cedendo il campo a una conce zione

più

razionalisticamente

equilibrata

e

sobria

del teatro musicale, può meglio spiegarsi perché proprio allora, prima con lo Zeno e poi col Metastasio (e proprio in concomitanza coi tentativi di potenzismento in senso classico del teatro tragico vero e proprio, col Gravina, col Martello e con la Merope di Scipione Maffei), il dramma musicale tornasse ad

aspirare a un’alta dignità letteraria. E poiché lungo tutto il corso del Settecento la lotta fra una conce zione classicamente severa dell’opera in musica e le concessioni alla frivolezza dei virtuosi non venne mai meno, si spiega come in fondo il teatro metastasiano,

anche se la Clemenza di Tito fu musicata dal Mozart alla fine dei suoi giorni, non abbia quasi mai costituito il supporto del melodramma più vitale ed evoluto sotto l’aspetto musicale, mentre delle sue opere la più assiduamente musicata fu proprio l’Artilio Regolo, quella cioè che più mirava all’affermazione di una poco compiacente serietà, strutturata col maggiore rispetto delle regole.

RACINE E METASTASIO

361

Poste queste premesse, & evidente dover seguire con maggiore attenzione come l’esperienza dello Zeno e specie del Metastasio tendesse a ingranarsi nella recente affermazione e caratteristica del teatro tragico

francese.

Un recente saggio di M. Bogianckino! ha

posto in chiaro come il balletto, molto coltivato nella Firenze della Camerata dei Bardi (basta pensare ad Emilio dei Cavalieri), si presenti come strettamente legato alla favola pastorale e in questa medesima connessione fiorisca anche nella Francia di Luigi XIV. Ivi infatti addirittura il Corneille vi sacrificava nella Psyche, per non parlare di drammi come Andromède e La toison d’or che si avvicinano molto al tipo. Il principale autore di drammi musicali del siècle d’or, ἢ Quinault,

la cui Armide

ebbe l’onore

d’esser ri-

presa come libretto dal Gluck, fu anche cultore di tragedie, e non si ritenne mai autore d’un genere drammatico

inferiore o ibrido. Lo stesso Racine, al

culmine della sua arte, quando tornò a coltivare l’attività di poeta tragico, componendo i cori dell’Esther e dell’Arhalie stabilì palesemente un rapporto col dram-

ma musicale, tant'è vero che anche per questo il Metastasio si sentì spinto a riecheggiarc l’Arhalie nel Gioas. Del resto sin dai suoi primordi, con l’Orfeo del Poliziano, il Timone del Boiardo? e il Cefalo di

Nicolò da Correggio, il dramma italiano in volgare 1 Aspetti del teatro musicale in Italia e in Francia nell'età barocca, Roma, 1967.

2 Su questo dramma cfr. ora il largo saggio di M. AuriGEMMA,

Il «Timone » di M.

M.

Boiardo,

in Il Boiardo

e la

critica contemporanea, « Atti del Convegno di studi su Matteo Maria Boiardo », Firenze, 1974, p. 29 sgg., ove ogni tanto affiora la consapevolezza della componente idillica.

362

si orientò

RACINE E METASTASIO

nella

forma

dell’idillio

drammatico,

che

fiorì a lungo per tutto il Cinquecento — come ha posto sapientemente in chiaro E. Bonora ne Il Cinquecento, vol. IX della Storia della Letteratura italiana

a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, 1966, pp. 627-34 — fino a raggiungere il culmine alla fine con la favola pastorale, con l’Aminta del Tasso e il Pastor fido del Guarini (cui l'Orfeo e l’Arianna del Monteverdi finiscono per palesarsi strettamente imparentati), mentre intanto uno dei suoi cultori, il Giraldi

Cintio autore dell’Egle, ne codificava la dignità lette raria col Discorso sopra il comporre le satire atte alle scene, e il Serlio, col suo trattato di architettura del 1546, riprendendo la classica tripartizione vitruviana,

poneva, accanto alla scena tragica e alla scena comica, la scena satirica, cioè quella del dramma

dell’ecloga drammatica.

Così

nel prologo

satiresco e

della pa-

storale Hirifile di Leone de’ Sommi era introdotto Vir-

gilio a celebrare la superiorità del genere; e l'Eroflomachia di Sforza Oddi creava un altro singolare punto di contatto fra il mondo della commedia e certe costanti espressive dell’ecloga drammatica. Ed è punto di capitale importanza, da tener sempre presente, che

l’inizio del dramma musicale fu determinato in larga misura dal tentativo della Camerata dei Bardi di

risuscitare ab integro le caratteristiche della tragedia greca, e quindi anche l’unione di musica e poesia, col classico presupposto che la seconda dovesse tenere a guinzaglio la prima, e in fondo tenendo d’occhio so-

prattutto i modi e i temi dell’ecloga drammatica. Quali che siano i limiti e le modifiche da arrecare al-

l'opinione tradizionale che il nostro teatro musicale discenda recta via dai tentativi della Camerata dei

RACINE E METASTASIO

363

Bardi,’ è un fatto che specie nella coscienza dei poeti che dettero opera alla creazione della forma letteraria del dramma musicale, a cominciare dal Rinuccini, non

dovette mai venir meno la persuasione o almeno la velleità di lavorare ad maiorem Melpomenes gloriam ^ Se tutto ciò è vero, l'inserzione dei nostri più celebri autori di drammi musicali, agl’inizi del Settecento, nel solco del movimento

determinato

dal tea-

tro del siècle d’or deve apparire un portato naturale dello sviluppo culturale. Pur nel loro fermo proposito

di restaurare la preminenza della poesia, il valore letterario del dramma per musica, lo Zeno e il Metastasio dovevano porre necessariamente in primo piano tutto

ciò che contribuisse a far emergere l’elemento lirico, l’effusione patetica che col tessuto dell’arietta consentisse alla musica d’intervenire e assimilare lo spirito del dramma, colorandone l'azione coi suoi modi. In3 Su questo, e specie sul giro di boa costituito da L’incoro-

nazione di Poppea del Monteverdi, cfr. la mia memoria Nuove prospettive sull’influsso del teatro classico del ’500, in « Atti del convegno

sul tema Il teatro classico italiano nel '500 », Acca-

demia Nazionale dei Lincei, Roma, 1970, pp. 3-5, n. 7. E cfr. ivi quanto deduco dal volume di N. PIRROTTA, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi, Torino, 1969 [vedi ora qui p. 109 sgg.]. 4 Cfr. del resto il giudizio di un celebre autore francese nutrito di cultura musicale, Romain RoLLanp (L'Histoire de l'Opéra en Europe avant Lulli et Scarlatti, Paris, 1895, p. 261),

sull'evoluzione della tragedia del viècle d'or verso l'opera, come lo riporta

C.

VARESE,

Saggio

sul Metastasio,

Firenze,

1950,

p. 44: « D'elle méme la tragédie francaise marchait vers l'opéra.

Ses dialogues balancés, ses périodes cadencées, ses phrases qui

se répondent, ses nobles proportions, la logique de ses développements, se prétaient naturellement à l'eurythmie ». 5 Nelle Osservazioni al teatro greco il Metastasio rivendica il rapporto dell'aria col coro greco, come suo diretto residuo;

364

RACINE E METASTASIO

fatti la critica metastasiana odierna s’è trovata unanime a trovare nelle canzonette, nelle pure liriche il centro poetico, il fuoco ispiratore dell’opera del Metastasio, che avrebbe successivamente strutturato i suoi

melodrammi

intorno all’illuminante situazione origi-

naria di stampo lirioo: che a me sembra un sostituire un pregiudiziale schema fondato sul genere letterario (che è la solita disavventura che tocca con singolare

frequenza proprio alla critica di tipo crociano!) a considerazioni suggerite da una stretta aderenza alla vita e alla storia delle forme. Una conciliazione fra i due opposti metodi di giudizio, tale da poter costituire un ottimo punto di partenza per la nostra indagine, è da ravvisare a p. 37 del citato saggio del Va-

rese: « In realtà il dramma metastasiano fu un genere misto, cioè una nuova opera letteraria, non tragedia e non commedia, ma dramma di una patetica eppur felice situazione umana, con uno sfondo di contrasto e di

lotta, vicino talvolta nel linguaggio e nella situazione, non soltanto all’idillio, ma a un dramma o a una commedia, nel senso moderno della parola, come si

sarebbe annunciata nella commedia lacrimosa francese ». In altri termini il dramma metastasiano appare il continuatore dell’ecloga drammatica e della favola pastorale del Rinascimento,

secondo la linea che ab-

biamo già tracciata. A questo punto si cominci col notare che il maestro del Metastasio, il Gravina, nel

c. 19 della sua Ragion poetica, discorrendo di Eurie questo è contributo capitale alla nostra ricostruzione dei rap-

porti mai intermessi fra l’età della Camerata dei Bardi e il Settecento dei migliori poeti di drammi musicali, in perenne colle

gamento con la tragedia francese, di cui il Quinault era consi-

derato la naturale appendice.

RACINE E METASTASIO

pide, aveva osservato:

365

« Portö egli dalla natura tal

fecondità di vena e facilità di espressione, che poté mescolare tragica la persona e passioni e

senza offesa del decoro, con la grandezza comica gentilezza e grazia. Quasi di ogni di ogni condizione esprime a meraviglia le i costumi ... In tutti gli affetti Euripide valse

assai, ma in quelli di compassione è sopra tutto efficace». Il Gravina,

rigorosamente

limitato

alle

tre

grandi letterature tradizionali per la cultura italiana e severamente classicista, non poteva andare più in là; ma è già sintomatica la sua intuizione e rivendi-

cazione del patetico in Euripide. Proprio da questo riconoscimento prende le mosse il Metastasio, il quale, pur allontanandosi dal Gravina in quanto si dei tragici greci — come ha messo in chiaro W. Binni nel suo splendido volume L’Arcadia e il Metastasio ® — parte tuttavia dalla necessità di considerare la tragedia greca come termine di riferimento per il melodramma e dal giudizio graviniano su Euripide per

esaltare” nel tragedo di Salamina* il « superior talento drammatico », specie nella

« continua

fluttua-

zione dell’animo » dei personaggi e nell’« artificio col

quale si succedono i timori e le speranze ». Il Gravina, a parte il già ricordato giudizio su Euripide, aveva anche riconosciuto in linea generale che « i poeti esprimono i punti più minuti delle passioni » e aveva teorizzato la presenza dell'incertezza nel carattere del $ 7 8 su cui

Firenze, 1963, p. 291, n. 2. Osservazioni zul teatro greco, in Opere, II, pp. 1140-41. Cfr. anche la lettera all'abate N. N. del 16 giugno 1775, vedi BrNNI, Op. cit., p. 292, n. 2.

366

RACINE E METASTASIO

personaggio?

Questo,

che

nel teorico

calabrese

era

solo la registrazione di una caratteristica da inquadrare entro lo schema aristotelico del terrore e della catarsi, diveniva nel Metastasio fondamento per il suo

legame coi modelli della tragedia proprio allo scopo

d’incrementare il culto del patetico, indispensabile per il lirismo melodrammatico.

E ciò lo portava

subito

ad aderire anche alla tragedia francese, erede del patetismo euripideo, e specie al Racine, che nell’Andromaque, nell’Iphigenie en Aulide, nella Phèdre aveva rinnovato temi e spiriti di Eunipide, palesandosene il moderno

continuatore, e in altri drammi

come

Béré-

nice, pur scegliendo temi estranei al teatro euripideo, ne aveva rinnovato il gusto per la casistica psicologica sottilmente affettiva, con le medesime concessioni al-

l’azione incruenta e pacifica, che quello si era permesse nell’Elena, nello Ione e nell’Ifigenia taurica: di qui l’esplicita lode metastasiana del Racine, nella lettera al Mastraca del 21 marzo 1739.!° Come abbiamo già ricordato, il teatro del siècle d’or aveva lungamente fornicato con l’ecloga drammatica,

che

si af-

faccia nell’opera del Corneille e popola anche quella del maggiore dei commediografi: ché di Molière noi conosciamo la Pastorale comique, Mélicerte, La princesse d’Elide, Les amants magnifiques. E se andiamo a consultare le vicende dell’annosa querelle fra critici italiani e francesi agl’inizi del Settecento, quando da noisi tentò di contrastare il recente predominio con-

quistato dalle lettere della potente sorella latina, ecco p. es. l'atteggiamento di Eustacchio Manfredi, l'auto9 Cfr. VARESE, Op. cit., pp 28-29. 10 Cfr. BINNI, Op. cit., p. 292, n. 3,

RACINE E METASTASIO

367

revole socio d’Arcadia, rimproverante alla letteratura francese del siècle d’or d’aver abbandonato le vette della Hrica (come se la letteratura italiana del Rina-

scimento vi si fosse conservata!) e d’esser quindi regredita verso la prosa, sì che nella parte migliore di sé, nella drammatica, il cui « principale artificio dee consistere nel rappresentar vivamente i costumi e le

passioni degli uomini », si poteva parlar senz’altro

di opera prosastica.!! Che i nostri grandi autori di dramma per musica degl’inizi

del

Settecento

avvertissero

apertamente

e

anche con piena coscienza critica il contatto col recente teatro francese, è cosa che la critica ha sottolineato

da un pezzo. Più genericamente il Binni ! ha osservato che il Metastasio equilibrava « la scuola del Gravina, la gara con lo Zeno e il teatro francese » e serbava dietro le spalle « l’eroismo di Corneille, del Racine del Mi-

thridate ».” Il Varese * ricorda che sulla penna del Metastasio ricorre spesso il nome del Corneille; il nostro poeta difende « soprattutto lo sviluppo del dramma corneliano verso la tragicommedia ed anche verso il melodramma », cioè proprio quel carattere prosa11 Cfr. G. TOFFANIN, L'eredità del Rinascimento in Árcadia, Bologna, 1923, pp. 94-98. 12 Op. cit., p. 403. 13 E indubbio che questa che non è fra le maggiori

tragedie raciniane godè in Italia di uma fortuna particolare,

forse per esser l’unica ispirata al alorioso periodo della storia e delle conquiste della repubblica romana, cui invece il Corneille aveva sacrificato spesso, con Horace, con La mort de Pompée,

con Nicomède, con Sertorius, con Sophonisbe. Ed era la tragedia

del Racine prediletta da Luigi XIV. Fu la prima tragedia francese rappresentata in Italia, nel 1684. E ad essa si ispirò proprio il Metastasio nel 1744, con l’Antigono. 14 Op. cit., p. 30.

368

RACINE E METASTASIO

stico che il Manfredi

ravvisava nel teatro

francese,

quell’eredità dell’ecloga drammatica, quella tendenza alleuritmia

musicale

denunciata

dal

Rolland,

l’orecchio esperto del Metastasio doveva

che

già avver-

tire nella produzione drammatica del siècle d’or. Però,

se fra i drammaturghi di quel periodo uno dev'essere meno considerato come precursore della nota patetica, sentimentale e in genere lirica del melodramma metastasiano e dev'essere piuttosto ricordato come suo sostegno per l'altro aspetto tendente alla magniloquenza eroica, insomma come preannuncio e modello dell’Attilio Regolo, questi mi sembra essere proprio quel Corneille, che, se coltivò la commedia o la tragi-

commedia eroica, con Psyché e quel Don Sanche d'Aragon che è stato accostato fin troppo al melodramma metastasiano, in realtà, in quella che fu la specialità da lui principalmente coltivata, la tragedis,

si guardò dal sangue solo in Cinna, in Agésilas e in Tite et Bérénice (qui per obbligo di tema), e anche il pià delle volte in cui giunse al lieto fine, come nel Cid, in Horace, in Polyeucte, nella Mort de Pompee, in Héraclius, in Nicomède, in Otbon, lo conquistò a

prezzo di cadaveri, per non parlare di trame funeree e macabre, come — per citarne una sola — quella Rodogune, che era proprio la prediletta dell'autore. Il Corneille &, ripeto, il principale ispiratore delle trame metastasiane faticosamente tendenti all'esaltazione della magnanimità romana, della virtus eroica: dietro la Clemenza di Tito c'è evidente l’ombra di Cinna; Attilio Regolo è della medesima pasta di Horace, 15 Nota quanto ha giustamente osservato L. Russo, Metsstasio, Bari, 1945, p. 133, sulla differenza fra i personaggi corne-

RACINE E METASTASIO

369

a parte la derivazione dal Régulus del Pradon. Più esatta e illuminante è la notazione del fatto che lo Zeno, a sua stessa confessione, deriva il suo Astarte

dall'omonima opera del Quinault, avverte cioè la necessità di ricollegarsi al neonato dramma musicale francese, anche nei suoi stretti rapporti con la tragedia coeva nella medesima lingua. E ancor più attentamente

va considerato,

rispetto a questo

fonda-

mentale precursore e modello del Metastasio, il fatto ch’egli ha composto una Andromaca, in cui ha posto

a frutto l’Andromaque

e lIpbigénie

del Racine,"

e in cui è giunto all’inverosimile soluzione del lieto fine, concludendo con le nozze di Ermione con Pirro,

rovesciando cioè quello ch’era stato il tragicissimo e psicologicamente così felice epilogo del Racine. Sug-

gestione dei toni crepuscolari, borghesi o almeno salottieri, visibili ogni tanto nel teatro raciniano, pro-

prio per la prevalente cura delle sfumature psicologiche? Non per niente all’Andromague del grande tragico di La Ferté-Milon !o Zeno affiancò quell’Iphigénie, che, salvo il personale sacrificio di Erifile sull'ara (per cui certamente nessun lettore o spettatore liani e quelli metastasiani, specie con riferimento all'Enea della Didone abbandonata: che & particolare di grande utilità per la nostra indagine. 16 Nel ricordare che già il Marmontel nei suoi Eléments de Litérature notava queste derivazioni del melodramma dello Zeno, il VARESE (op. cit., p. 45) registra anche le derivazioni da « l'Héracle di Corneille ». Una tragedia di questo titolo (che per giunta non mi sembra corretto) non esiste né nel teatro del Corneille né in quello del fratello Thomas. Evidentemente il Varese

ha fatto confusione

col titolo della tragedia Héraclius

del Corneille, che peró, essendo fondata sopra una vicenda di storia bizantina in cui l'amore non ha una pire perpondenis non so quanto potesse ispirare l’ Andromaca Zeno. 24

370

RACINE E METASTASIO

ha un moto di commozione), pud esser considerato un

modello di tragedia a lieto fine, di dramma tutto rivolto a carezzare i moti interni, teneri e soavi, del-

l'animo, come quell’incruenta Berenice, che — molto più di quanto la contrapposta Tite et Bérénice del Corneille per le effettive caratteristiche del drammaturgo normanno — può acquistare un valore emblematico per la caratterizzazione del teatro raciniano: di quel teatro

che, se nel Bajazet presenta un massacro quasi shakespeariano e nel Britannicus e nella Phèdre addensa profonde ombre di morte, è di solito piuttosto parco di cadaveri e si conclude con soluzioni felici o blande non solo nelle due tragedie sopra ricordate, ma anche nelle due più tarde di argomento biblico, in cui, se Aman, Atalia e Mathan subiscono il castigo che Jahve destina agli empi persecutori del popolo eletto,

la trionfale conclusione è fatta apposta non solo per far intonare al coro il suo religioso peana, ma anche per diffondere luce di letizia nello spirito di tutti. Orbene nell’Andromaca lo Zeno, come annota il Varese

nella sua felice analisi,” trova modo di far pronunciare a Pirro, nel suo decisivo dialogo con Andromaca, una strofetta fra le più carezzevolmente melodrammatiche e madrigalesche: No; non mi basterà, bocca vezzosa,

che tu mi dica allor « Amami e spera ». Ti chiederò in mercè fede di sposa, e amante ti vorrò, non lusinghiera.

È in fondo un riprendere l’impressione che il Pirro del Racine suscitò in parecchi contemporanei come

17 Op. cit., p. 49.

RACINE E METASTASIO

371

di un « héros à la Scudery », e uno sfruttare in senso sempre

più

galante

caratteristici

accenti

del

perso-

naggio raciniano, come quelli della soena quarta dell’atto primo: Mais que vos yeux sur moi se sont bien exercés! Qu’ils m’ont vendu bien cher les pleurs qu’ils ont [ versés!

De combien de remords m’ont-ils rendu la proie!

Je souffre tous les maux que j'ai faits devant Troie. Vaincu, chargé de fers, de regrets consumé,

brülé de plus de feux que je n'en allumai, tant de soins, tant de pleurs,

tant d'ardeurs

in-

[quiétes ... Hélas! fus-je jamais si cruel que vous l'étes?

Ora, quando si tien conto di ciò che il Varese! osserva sugl'influssi che il melodramma dello Zeno esercitó su quello del Metastasio proprio per gli accenti madrigaleschi, per i toni sottolineanti il patetico, lo sfumato, il dubbioso quali abbiamo già rinvenuti nell’Andromaca (p. es. un'arietta della S/atira « prelude 15 Su questo cfr. il mio studio Osservazioni sulle fonti dell'« Andromaque » di Racine, in « Studi in onore di Italo Siciliano », Firenze, 1966, p. 934 sgg. Ivi sono già anche molte delle considerazioni qui espresse sulla parentela fra la tragedia fran-

cese e il melodramma e sui drammi del Corneille e specie del Racine in cui manca la piü tipica tensione tragica, e soprattutto

sui limiti che già allora s'avvertivano nel teatro tragico del siecle d'or riguardo ai temi ed ai modi di una poesia di tono più universale, quel rimprovero di sacrificare tutto alle necessità psicologiche e sceniche che gli muoveva allora il p. Rapin nelle

Réflexions sur la poétique d'Aristote et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes del 1674, e di cui riconosce, sulle

sue orme, la sostenibilità OpgrTE De Mounzcuzs, Poésie baro-

que,

poésie classique,

nelle Trois conférences

frangais, Torino, 1964, p. 76 sgg. 19 Op. cit., pp. 51-52.

sur le baroque

372

RACINE E METASTASIO

alla famosa perplessità di Enea nella Didone Abbandonata »), abbiamo la possibilità di tracciare la linea percorsa da quell’influsso su cui richiama l’attenzione il titolo del nostro studio. Che in fondo il Racine fra gli autori drammatici moderni costituisse il principale amore del Metastasio, proprio per l’analisi delle fluttuazioni del cuore e il gusto del patetico, destinato a esercitare una funzione essenziale nell'opera di un autore di drammi per

musica, è cosa che il Binni ? ha già notata ed espressa chiaramente. Ma i più, essendosi soffermati sui melodrammi in cui l’influsso raciniano è facilmente riscontrabile grazie all’affinità o identità del tema, hanno finito per scorgere la traccia del tragico di La Ferté Milon soprattutto nel Metastasio più maturo. Ciò potrebbe sostenersi pensando che la ricordata lettera al Mastraca è del 1739 e che del medesimo decennio è il Gioas re di Giuda, esplicitamente ricavato dall’Athalie, che, come nota il Varese, introduce il coro anche a imitazione di ciò che aveva fatto il poeta fran-

cese nella sua tragedia. E la lettera del Metastasio al fratello, da Vienna, del 25 giugno 1735 perla apertamente della derivazione: « In quanto poi al volermi persuadere a scrivere soggetti già scritti, suderete poco,

perché non vi ho la minima repugnanza. Vedetelo dal Gioas, che è un archetipo di Mr. Racine, e non mi ha spaventato ». Ma ciò che più deve trattenere la nostra attenzione è quel ch’egli dice subito dopo: « Quelli che non iscrivo volentieri sono i soggetti trattati dallo Zeno. Mi sono incontrato già due volte con lui: e 2 Op. cit., p. 292.

21 Op. cit., p. 89.

RACINE E METASTASIO

373

non è mancato chi ha subito voluto attribuirmi la debolezza d’averlo fatto a bello. studio, che mai non

mi è caduto in pensiero. Questo non mi piace per non dare occasione o di rammarico o di trionfo». Cominciamo a comprendere come mai, pur dopo l'esempio dello Zeno, il Metastasio, che si sarebbe ispirato all’Arhalie, 2 abbia evitato di dar forma melodrammatica a quella fra le tragedie del Racine che

più doveva attirarlo per il gusto del patetico, per la preminenza data ai sottili ravvolgimenti della passione d’amore e per la conseguente analisi delle anime sempre fluttuanti e indecise dei personaggi innamorati: l’Andromaque. Ma il proposito di non riprendere un argomento già trattato dallo Zeno e insieme l'influsso che, nonostante tutto, lo Zeno esercitò su di lui ci

fanno intendere anche come nel medesimo anno 1735 2 Veramente AURORA TRIGIANI, Il teatro raciniano e i melodrammi di Pietro Metastasio, Torino, 1951, p. 50, che cita la lettera del 25 giugno 1735, ricorda che il Metastasio « si servì dell’Eumene zeniano per l’Astilio Regolo, del Temistocle per il suo melodramma

omonimo, e... nella stessa drammatica

sacra,

il Giuseppe riconosciuto del Metastasio è il rifacimento del Giuseppe zeniano, a soli 11 anni di distanza »; ma, quel ch'è più, ci rammenta che «un Gioaz fu scritto dallo Zeno, sette anni prima che dal Metastasio; un Gioaz imitato anch'esso dal Racine, come lo stesso Zeno dichiara nella nota introduttiva alla

sua sacra rappresentazione ». Ma la studiosa riconosce che il melodramma metastasiano è imitato direttamente dal Racine senza l’intermediario dello Zeno.. Il bello si è che nella precedente lettera del 5 marzo 1735, sempre al fratello, il Metastasio aveva il foupet di scrivere: «L'oratorio che ho terminato è il Gioas re di Giuda. Mons. Racine ha trattato eccellentemente questo soggetto sotto il nome d’Athalia. Il mio lor impeè stato di non incontrarmi in cosa alcuna con lui ». Basta at le pp. 47-59 del saggio della Trigiani, in cui s'istituisce il raffronto fra l'Atbalie e il Gioas, per sincerarsi quanto il Metastasio mentisse sapendo di mentire.

374

RACINE

E METASTASIO

il Metastasio, scrivendo, come introduzione a un ballo cinese, un saggio teatrale in forma di scherzo, in cui s’alternavano un soggetto eroico, uno pastorale e uno

comico, scelse per il primo soggetto proprio l’Andromaca. « Nel soggetto eroico — annota il Varese? — lo scrittore amabilmente ironizza lo schema teatrale dell'errore, della esitazione e del contrasto

melodram-

matico:

troppa Eccomi... Oh dei, che fo? Pietà, consiglio.

Che barbaro dolor! L’empio dimanda amor, lo sposo fedeltà, soccorso il figlio ».

Proprio il fatto che lo Zeno avesse già sfruttato l'Andromaque del Racine esasperandone i toni melodrammatici può far sospettare che il Metastasio avesse ma-

liziosamente ripreso appunto quel soggetto per satireggiare i giochi di contrasti e di chiaroscuri sentimen-

tali che contraddistinguevano il teatro occidentale contemporaneo proprio a partire dall’affermazione del Racine, e in un modo che allora si estendeva anche fuori dai limiti del teatro tragico, come mostrava p. es. la commedia del Marivaux. Ma quelli erano né più né meno che i modi su cui il Metastasio stesso aveva fondato il successo del suo teatro. Vale perciò

la pena frugare se per caso quella tragedia raciniana, di cui egli ufficialmente ci ha lasciato solo una parodia

23 Op. cit., p. 58.

RACINE E METASTASIO

375

(a parte gli echi che se ne son voluti vedere nella Clemenza di Tito) non gli abbia acceso lo spirito sin dai primordi della sua attività teatrale, proprio quando la ricerca e la valorizzazione del patetico e delle fluttuazioni sentimentali avevano il sopravvento anche a scapito della ben calibrata quadratura che più tardi avrebbe formato il fascino e il merito del Demetrio, del Demofoonte e soprattutto dell’Olimpiade. E quindi il fatto ch’egli abbia scelto proprio l'Asdromaque a bersaglio della sua parodia del genere tragico può significare che sin dagl'inizi egli l'ha considerata la più rappresentativa. E proprio agl’inizi, nella Didone abbandonata, noi

osiatno scovarne le tracce. Le analisi che la critica piü accreditata ha condotte di questo primo grande melodramma

del Metastasio, radice della sua fortune, sia

quella del Varese sia quella del Binni, hanno posto energicamente in chiaro che esso non esaurisce i pregi più caratteristici e più solidi dell'arte metastasiana, quel razionalismo equilibratore e lucidamente analitico che dà le maggiori prove di sé nell’Olimpiade, ma ad ogni modo (e forse in questo è la chiave della fortuna che d’allora in poi non abbandonerà più l’autore) avvia decisamente

quel gusto del patetico,

della melodrammatica cura delle fluttuazioni e delle sfumature,

che fa del teatro metastasiano

un mira-

bile concentrato di tutte le possibili tonalità dell’azione

teatrale, dalla vicenda

fortemente

drammatica

a

quella improntata di così quotidiana familiarità da sfiorare il comico. Al riguardo tutti i critici hanno na2 Op. cit., p. 60 sgg. 3 Op. cit., p. 326 sgg.

376

RACINE E METASTASIO

turalmente infierito sul personaggio di Enea, che certamente merita le ironie di tutti i fedeli all’ideale della dignitas tragica più dell’Enea di Virgilio su cui pure molti studiosi si sono accaniti, compreso il Croce. E il Varese non ha mancato di notare esplicitamente che nella Didone abbandonata « affiorano elementi e momenti di una situazione e di un linguaggio della vita quotidiana, che tocca la commedia... Non solo vi era questa tendenza nel Corneille, che il Metastasio molto lesse e amò,

ma anche nel Quinault, il quale scrisse

alcune commedie, tra le quali famosa La mere coquette, dove l'argomento comico già raccoglie fila di sfumature sentimentali ». Se ineccepibile & il richiamo al Quinault,

creatore nella poesia

drammatica

fran-

cese di ció che lo Zeno e il Metastasio stavano apprestando in quella italiana e che in fondo va visto nel solco della riforma dello stile drammatico operata dal Racine, non mi persuade l'orientamento che fra i grandi tragici della nazione confinante dà la preminenza

proprio all'eroico Corneille nella simpatia per i toni quotidiani, pericolosamente sfumanti verso il comico. * 2% La TRIGIANI, Op. cit., p. 4, n. 1, ricorda che sugl’influssi del Corneille sul Metastasio hanno scritto G. Meresazzı, Le tragedie di Pierre Corneille nelle traduzioni e imitazioni ite liane del secolo. XVIII, Bergamo, 1906, e A. DE SANTIS, Le imitazioni del Metastasio dal Corneille, Gaeta, 1914, e riconosce che « più numerosi sono i debiti del Trapassi verso il Corneille ». Ma finisce per ammettere che il poeta sembra « condividere la predilezione che pur in mezzo alle vivaci polemiche il XVIII secolo italiano manifestò per il Racine », e giustifica quest’opinione con la lettera dell’11 gennaio 1770 da Vienna a don Giuseppe Aurelio Morani in cui è scritto: «quello [il Corneille] riempie di idee più luminose la mente dello spettatore, e questo [il Racine] sa agitare il cuore con affetti più veri». Mi meravi-

glia pertanto che a p. 6, n. 1 essa giudichi immeritevole di

RACINE E METASTASIO

377

Piuttosto il grande poeta tragico della passione, il Racine, appunto perché affascinato dalla ricerca del patetico, degli ondeggiamenti e delle fluttuazioni di un’anima signoreggiata da un sentimento, osa sfidare il rischio d’imprimere a talune scene modi echeggianti, sta pur da lontano, quelli della commedia. Abbiamo già visto come nel Pirro dell’Andromague sia stato visto, sin dalla prima apparizione della tragedia, un tono semiserio, quasi eroicomico; e in fondo anche le affannose, imprevedibili contraddizioni della condotta di Ermione che, trascinata dalla sua cieca passione per Pirro, gioca con l’amore di Oreste, se ne avvale in tutti i più opposti modi, ne fa scempio senza

ritegno, caricandolo d’incombenze spesso imbarazzanti e assurde, sviluppa un'azione scenica che si riproduce tal quale nella commedta, s'intende nell'atmosfera apertamente ridanciana in cui 11 si profilano quelle flagranti

contraddizioni e smentite.” Nel Britannicus la scena in cui Nerone nascosto spia il colloquio fra Giunia e

Britannico, dopo aver imposto alta fanciulla il con-

tegno da assumere con l’innamorato, è un espediente di cui il teatro comico ci offre numerosi esempi ^ È considerazione il motivo addotto da CH. Deyos, Etudes sur la tragédie, Paris, 1896, p. 147, per giustificare la maggiore frequenza degl’imprestiti dal Corneille, « probablement parce que l'énergie cornélienne lui paraisseit plus propre à le retenir sur la pente oü l’entrainait la gracieuse facilité de son talent ». 7! Su tutto questo cfr. H. WEINREICH, Tragische und komische Elemente in Racine's Andromaque. Eine Interpretation, Münster, 1958.

75 Su questo cfr. quanto ho scritto nel mio già citato studio Osservazioni sulle fonti dell’« Andromaque » di Racine, pp. 942943: « Pirro è infatti il personaggio più debole della pur sor-

vegliatissima e mirabilmente strutturata Andromaque; quel suo

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RACINE E METASTASIO

superfluo intrattenersi sul tono da commedia elegiaca che caratterizza Bérénice. Persino nella Phèdre lo stra-

ordinario ritrovato di presentare proprio Ippolito vinto da amore e confessante ad Aricia il proprio sentimento in una forma clamorosamente rococò: (Vous voyez devant vous un prince deplorable. Asservi maintenant sous la commune loi, par quel trouble me vois-je emporté loin de moi? Un moment a vaincu mon audace imprudente:

cette äme si superbe est enfin dépendante.

Depuis près de six mois, honteux, désespéré, portant partout le trait dont je suis déchiré,

sotterfugio da commedia erotica, sfiorante il marivaudage, cioè proprio una delle ulteriori derivazioni della tradizione raciniana, quel suo tentativo di costringere Andromaca a dirgli

di sì sfrut-

tando il suo disperato attaccamento alla vita del figlio ... è solo il primo abbozzo di una situazione drammatica e poetica che riuscirà alla perfezione solo nel successivo Britannicus, quando Nerone ricatterà Giunia, costringendola a mostrarsi fredda con Britannico, perché egli, non visto dal rivale ma non ignoto alla fanciulla, assiste di nascosto al colloquio fra i due innamorati ». E vedi anche quanto è detto a p. 946 per la catena di amori non corrisposti che caratterizza l’Andromaque, per la quale il Racine appare tributario della Diana del Montemayor, attraverso l'Astrée del D'Urfé. Cfr. inoltre le notizie che abbiamo sul giudizio del Boileau riguardo alla quinta scena dell’atto secondo, in cui Pirro, dopo aver deciso di consegnare Astianatte ai Greci e sposare ‘Ermione, confida a Fenice il suo desiderio di rivedere Andromaca, con la scusa di volerle ripresentare più efficacemente la sua collera. Uguali riflessioni faceva l'abate Dubos nelle sue Réflexions critiques sur la poésie et la peinture (I, 18). E si guardi come nella sesta scena dell'atto terzo Pirro scenda veramente al livello del personaggio comico accusando addirittura Andromaca di superbia per non aver ancora dato segno di averlo visto:

Daigne-t- elle sur nous tourner au moins la vue? Quel orgueil!

RACINE E METASTASIO

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contre vous, contre moi, vainement je m’éprouve:

présente, je vous fuis; absente, je vous trouve;

dans le fond des for&ts votre image me suit; la lumière du jour, les ombres de la nuit, tout retrace à mes yeux les charmes que j'évite; tout vous livre à l’envi le rebelle Hippolyte. Moi-méme, pour tout fruit de mes soins superflus,

maintenant je me cherche, et ne me trouve plus.

Mon arc, mes javelots, mon char, tout m’importune;

je ne me souviens plus des lecons de Neptune;

mes seuls gémissements font retentir les bois, et mes coursiers oisifs ont oublié ma

voix)

(vv. 529-552)

introduce nel pieno di una tragedia nutrita degli spiriti di Euripide e di Seneca l’eco dell’ecloga drammatica, della favola pastorale. E il tono non si smentisce neanche nelle scene successive in cui ricompare Aricia,

p. es. nella prima scena dell’atto quinto, in cui la fanciulla, come tutte le ragazze per bene della commedia, si rifiuta di seguire Ippolito nell’esilio perché non ancora regolarmente sposata a lui.

Proprio questo Racine costituì per il Metastasio alle prime armi l'esempio più autorevole e più suggestivo della spinta verso un teatro in cui il tragico, in un equilibrio sfumatamente instabile, si alternasse con toni di più raccolta e familiare sentimentalità, atta a meglio disegnare il gioco dell’umana irresolutezza. L’Enea del Metastasio, nel suo dissidio fra l’amore e la

pietas, discende indiscutibilmente dall’Enea di VirgiHo, ma nell’azione, nel suo volere e disvolere, nella

maniera con cui si aoconcia ai ricatti di Didone e sentimentalmente li subisce, è modellato sul Pirro e sul-

l'Oreste dell’Andromague. Quando nella prima scena

egli dichiara a Selene e ad Osmida

380

RACINE E METASTASIO

No, principessa, amico, En non è, non è timor che muove

le

frigie vele, e mi trasporta altrove.

So che m’ama Didone;

ur troppo il so; nè di sua fè pavento. ‘adoro,

e mi rammento

quanto fece per'me: non sono ingrato,

risentiamo sulla sua bocca il medesimo gioco e intreccio di sentimenti che s’avviluppa sulla bocca di Pirro e di Fenice nella già ricordata e così caratteristica scena

quinta dell'atto secondo dell’Andromague: Phoenix — Allez, Seigneur, vous jeter & ses pieds. Allez, en lui jurant que votre äme l’adore, à de nouveaux mépris l’encourager encore. Pyrrbus — Je le vois bien, tu crois que prét & l’excuser

mon coeur court après elle, et cherche ἃ s’apaiser.

Phoenix — Vous aimez: c'est assez. Pyrrbus — Moi l'aimer? Une ingrate

qui me

hait d'autant plus

que

mon

amour

ls

[flatte?

V'é persino rispondenza di parole: ed adore, aimez, ingrate nel Racine corrispondono nel Metastasio ara, adoro, ingrato. Ed ecco poco dopo, sulla bocca di Oreste (v. 738 dell’Andromaque) sans moi, sans mon amour, il dédaignoit l'ingrate, e, ai vv. 747-48, ce

courroux enflammé

| contre un ingrat. E quando

nella scena seconda dell'atto primo Enea protesta il suo amore a Didone, si accusa addirittura (Ab troppo, troppo / generosa tu sei ber un ingrato ?) e poi non

29 E si noti il valore tematico che la parola assume nella Didone abbandonata, come il corrispondente ingrat nell’Andromaque.

RACINE E METASTASIO

381

riesce neppure — a differenza dall’eroe virgiliano (Aen. IV,

345

sgg.

Apollo,

Sed

/ Italiam

nunc Lyciae

Italiam

magnam

iussere capessere

Gryneus sortes;

/

hic amor, haec patria est, etc.) — a formulare la giu-

stificazione nascente dall'ordine degli dei, e se ne esce in una cabaletta tipicamente rococò: Dovrei ... ma no... L'amore ... O Dio! la ft ...

Ah!

che parlar non so:

spiegalo tu per me,

noi avvertiamo l’eco, p. es., del finale della più volte ricordata quinta scena dell’atto secondo dell’Andromaque, in cui Pirro vuol giustificare a Fenice la sua velleità di rivedere Andromaca (Je t’entends. Mais excuse un reste de tendresse) o del finale della seconda scena dell'atto terzo, in cui Oreste confessa a Pilade

il disorientamento in cui lo getta l'amore per Ermione e poi gli affida la sua stessa sorte (Va-t-en. Réponds-

moi d’elle, et je réponds de moi). Per tornare alla prima scena del melodramma metastasiano, i due eroi raciniani palesano il medesimo stato d’animo, la medesima Enea:

coscienza esistenziale

che dichiara

in quella

e son sì sventurato,

che sembra

colpa

mia

quella

del fato.

E la scena finale del primo atto, col monologo d’Enea che, dopo il colloquio con Didone, si mostra angosciato e pentito di doverla abbandonare (« E soffrirò che sia / sì barbara meroede / premio della tua fede, amima

mia! ») e non

esita a dichiarare:

382

RACINE E METASTASIO

Pèra l’Italia, il mondo,

resti in oblio profondo

la mia fama sepolta; vada in cenere Troia un’altra volta,”

e, anche se dice « Non fu Enea che parlò, le disse Amore » termina con l’arietta rappresentativa della più tipica fluttuazione: Se resto sul lido, se sciolgo le vele, infido, crudele mi

sento

chiamar:

e intanto, confuso nel dubbio funesto, non parto, non resto, ma provo il martire,

che avrei nel partire,

che avrei nel restar!

ci presenta l’eroe proprio come

il perfetto corrispet-

tivo del Pirro raciniano, combattuto fra l'amore per Andromaca e il ricordo delle gesta spietate compiute al momento dell’incendio di Troia, il peso della tradizione che grava su lui come figlio d’Achille ed eversore della città iliaca. L’Enea virgiliano, dopo l’incontro con Didone ai vv. 304 sgg. del 1. IV dell’Eneide, durante il quale, pur mostrando il suo rammarico,

s'è mostrato irremovibile nel suo proposito di partire, 3 Si noti quante volte nell'Asdromaque ritorna questo concetto: v. 564, qu'on fasse de l’Epire un second Ilion; v. 1158, mettons encore un coup toute la Grèce

en flamme e

v. 1161, De Troie en ce pays réveillons les misères, sia pure con un diverso significato.

31 Si confronti il v. 972 dell’Andromague, posto in bocca

a Pirro: Je meurs si je vous perds, mais je meurs si j'attends.

RACINE E METASTASIO

383

evita a bella posta qualsiasi altra occasione di ritrovarsi con la regina, benché (v. 395) multa gemens ma-

gnoque animum

labefactus amore,

e quando Didone,

in un estremo disperato tentativo, gl’invia Anna a supplicarlo, nullis ... movetur ! fletibus aut voces ullas tractabilis audit: / fata obstant placidasque viri deus obstruit auris (vv. 438-40);

mens immota manet (v.

449). Invece l'Enea metastasiano torna a parlare con Didone nella scena quarta dell'atto secondo, esponendosi alle ironie della regina e reagendovi con così zuccherosa sensiblerie (Idol mio, ché pur sei

ad onta del destin l'idolo mio, che posso dir? che giova rinnovar co' sospiri il tuo dolore?

Ah! se per me nel core

qualche tenero affetto avesti mai, placa il tuo sdegno e rasserena i rai. Quell'Enea tel domanda che tuo cor, che tuo bene un di chiamasti;

quel che sinora amasti

più della vita tua, più del tuo soglio),

che Didone non resiste alla sua preghiera di risparmiare Iarba ed Araspe, e pur chiamandolo ancora una volta « ingrato », gli dichiara « Vedi quanto t’adoro ancora » e gli canta: Ah, non lasciarmi, no, bell’idol mio.

E la cosa non finisce qui, chè l’atto termina con la scena tristemente famosa in cui Didone forza Enea * 32 Si noti come il bellissimo sfogo della Didone virgiliana in Aen. IV, 305 sgg. sia stato spezzettato dal Metastasio e

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RACINE E METASTASIO

ad assistere al suo colloquio con Iarba in cui essa finge d’offrirsi al barbaro re per attizzare la gelosia dell’eroe troiano, il quale sfiora veramente il ridicolo, con i « Costanza,

o core» che indirizza a se

stesso, con

gl’impulsi ad alzarsi e andarsene repressi con sbrigativa autorità da Didone

(« Del felice imeneo

/ ti

quindi annacquato e raffreddato, col riecheggiamento che se ne fa parte nella diciassettesima scena dell'atto primo (la dolorosa spiegazione fra i due protagonisti, corrispondente alla scena virgiliana), parte in questa scena;

del a

di

ll si riprendono espressioni

seconda apostrofe di Didone, quella successiva alle parole

Enea

(vv.

373-74,

Eiectum

litore,

egentem

/

excepi

et

regni demens in parte locavi; cfr. qui: « Vil rifiuto dell'onde io l'accolgo dal lido — ove si ricava il sospetto che la tormentatissima esegesi del passo, su cui cfr. il mio commento, Roma, 1947, pp. 79-80, sia stata risolta dal Metastasio col far di litore un complemento di provenienza retto da excepi —; L4 lo ristoro /

dalle ingiurie del mar: le navi e l'armi, / già dis perse, io gli rendo, e gli do loco / nel mio cor, nel mio regno »), qui si riprendono espressioni del primo sfogo, ma trasformandole da di-

sperata confessione di smarrimento (vv. 320-27, Te propter Li-

bycae

gentes

Nomadumque

tyranni

| odore,

infensi

Tyri...

dum ... captam ducat Gaetulus Iarbas?) in sottile artificio per coonestare la falsa profferta di sé al re africano (« Già vedi, Enea, / che fra i nemici & il mio nascente impero. / Sprezzai finora,

è vero,

/ le minacce

e "| furor;

ma

larba

offeso, /

quando priva sarò del tuo sostegno, / mi torrà per vendetta e vita e regno »). Nella prima delle due scene il ricongiungimento col primo sfogo della Didone virgiliana non avviene; e neanche dopo, perché « Va pur, siegui il tuo fato:

/ cerca d’Italia il re-

gno; all’onde, ai venti / confida pur la speme tua; ma senti: /

arà quell’onde istesse / delle vendette mie ministre il Cielo; /

e tardi

allor pentito

/ d’aver

creduto

all’elemento

insano,

/

richiamerai la tua Didone invano » riecheggiano i vv. 381-84 del secondo sfogo:

i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas;

/ spero equidem mediis, si quid pia numina possunt, / supplicia bausurum

scopulis

et nomine

Dido

/ saepe

vocaturum.

Così

tutto l'umanissimo contenuto del primo sfogo, la perla del libro

virgiliano, & trascurato, al punto che si tace persino del com-

movente rimpianto di Didone di non aver neppure concepito un figlio da Enea.

RACINE E METASTASIO

385

voglio spettatore »; « Fermati e siedi»; « Non basta ancora. / Siedi per un momento»; « Eh taci») ein-

fine col lasciare effettivamente la scena pronunciando

una querula protesta contro l'infedeltà di lei. E il medesimo atteggiamento di Pirro, lacerato dallo spet-

tacolo della costante, appassionata fedeltà di Andromaca alla memoria di Ettore, e di Oreste, reso da Ermione trastullo di tutti i suci umori, di tutte le tem-

pestose vicende del suo vano, furente amore per Pirro. Uguale affinità con personaggi della tragedia raciniana palesa Didone alla fine dell’atto, quando, rive-

latasi la costante presenza dell'amore di Enea, grazie al suo risentito uscire dalla scena, la regina liquida riso-

lutamente Iarba, spiattellandogli: Giacché vuoi tel dirò: perché non t'amo; perchè mai non piacesti agli occhi miei;

perchè odioso mi sei, perchè mi piace, più che Iarba fedele, Enea fallace.

È esattamente il contegno di Ermione, che già nella seconda scena dell’atto secondo, agitando con Oreste il nodo passionale che la serra, contesta gelosamente

l'affermazione dell'innamorato cugino che Pirro non la ami: Qui vous l’a dit, Seigneur, qu’il me méprise?

Ses regards, ses discours vous l’ont-ils donc appris? Jugez-vous que ma vue inspire des mépris, qu'elle allume en un coeur des feux si peu durables?

Cosi, quando, nella terza scena dell'atto quarto, gli ordina d'uccidere l'amato che la rifiuta, non esita a dichiarare: 25

386

RACINE E METASTASIO

Ne vous suffit-il pas . que je le hais; enfin, Seigneur, que je l’aimai? Je ne m’en cache point: quat m'avoit su plaire tant qu'il vivra craignez ‘que je ne lui pardonne. Doutez jusqu'à sa mort d'un courroux incertain: s'il ne meurt aujourd'hui, je puis l'aimer demain;

e, irritata dalle sue persistenti incertezze, finisce per buttargli in faccia quest'agghiacciante battuta: et tout ingrat qu'il est, il me sera plus doux de mourir avec lui que de vivre avec vous.

Due scene più tardi, nel suo disperato sfogo con Pirro che viene ad annunciarle il proprio matrimonio con Andromaca, gli dichiara: Je t'aimois inconstant, ^ qu'aurois-je fait fidèle? Et méme en ce moment oü ta bouche cruelle vient si tranquillement m'annoncer le trépas, ingrat, je doute encor si je ne t'aime pas.

Finalmente, nella terza scena dell'atto quinto, nel suo

umanissimo prorompere contro Oreste che ha ucciso Pirro, essa rivela apertamente che, nonostante tutto,

il suo cuore era per l'infedele: Et ne voyois-tu pas, dans mes emportements, que mon coeur démentoit ma bouche à tous mo[ments? ® La solita parola che martella il tessuto linguistico sia

della tragedia raciniana sia del melodramma metastasiano. 3 Si misuri la vicinanza di quest'espressione a quella sopra citata della Didone metastasiana: « perché mi piace ... Enea »,

RACINE E METASTASIO

387

Nous le verrions encor nous partager ses soins; il m’aimerait peut-étre, il le feindroit du moins.

Indubbiamente il personaggio d’Ermione, con buoma pace del neoclassico Croce che non ne ha capito nulla," è una vertiginosa creazione di travolgente potenza, mentre i personaggi e le situazioni del Metastasio non superano il pregio di una carezzevole voluta melodica, in cui la fluttuazione psicologica si stilizza in capricciosa e solleticante piroetta espressiva. Ma indubbiamente l’incentivo per diluire il rapido contrasto tracciato dalla fantasia virgiliana, reduplicandolo in una serie di scene in cui la casistica amorosa si complica e s'intreccia in un intrico di singolari interferenze, di azioni e reazioni sempre ruotanti intorno a un intoppo che non sarà possibile superare, è stato fornito dalla tragedia raciniana, esemplare e ormai canonico prontuario di incontri e scontri esacerbanti

fino a una drammatica catastrofe l’irreparabilità di una situazione sentimentale pregiudicata. La legittimità del nostro raffronto sarà forse contestata per il fatto che i riscontri verbali sono piuttosto discutibili, che le somiglianze sono più di fondo che di espresstone, concernono più gli atteggiamenti che non le specifiche frasi. E forse per questo finora nessuno ha sentito la necessità di riscontrare la Didone abban-

35 Nel mio saggio Il Croce e le letterature classiche (Roma, 1967, p. 36) ho messo in rilievo l’enormità dell’affermazione contenuta in Poesia antica e moderna, Bari, 19432, p. 316 che per personaggi come l’Ermione raciniana « vani sono i tenta-

tivi di riempirli d’un’anima poetica che non posseggono ».

388

RACINE E METASTASIO

donata con l’Andromaque.” Ma a dar forza alla nostra tesi contribuisce indubbiamente il fatto che la caratte36 Infatti la TRIGIANI (op. cit., pp. 18-34) ha considerato l'Andromaque in alla Clemenza di Tito, perché le corrispondenze testuali i due drammi sono indubbiamente ben più evidenti, anche se il modello fondamentale del melodramma metastasiano è il Cinna del Corneille, come la stessa autrice riconosce

a p. 27. Per

il resto, oltre a notare

i rapporti

fra

l'Atbalie e il Gioas, essa ha riavvicinato il Britannicus al l'Adriano in Siria, il Mithridate all’Antigono e ha studiato i vari echi di Bérénice in più di un melodramma metastasiano, soffermandosi particolarmente proprio sulla Didone abbandomata, in cui la seconda scena del primo atto, quella della im-

provvisa spiegazione fra Didone ed Enea, sembra alla studiosa essere stata modellata

sulla quarta scena del secondo

atto di

Bérénice, quella in cui Tito fa intendere alla regina di doverla abbandonare, ma non osa formulare apertamente le sue ragioni. Secondo la Trigiani (p. 67) « l’imitazione prosegue nelle due scene che seguono », ma, mentre nel Racine tutto rimane esclusivamente legato alla persona di Berenice, « Metastasio, con un procedimento consueto nel suo teatro, com blica la situazione, che nel francese é, come sempre, lineare, con il tormento di Selene ». Proprio l'Andromaque smentisce questa tesi, mostrandoci

come

il tragico francese,

all'inizio della sua

gloriosa carriera, abbia introdotto proprio il gusto della complicazione e lo abbia insegnato al Metastasio. Quindi il nostro richiamo all’Andromaque appare decisivo e illuminante e si stifica pienamente. In quest'ordine d'idee appare quindi bin

damente significativo quanto la Trigiani annota a pp. 61-62, trovando nel 1. IV dell’Eneide, non solo la fonte del melodramma

metastasiano, ma «la grande fonte comune » di quello e della Bérénice del Racine. Ecco confermato in un'altra tragedia raciniana quanto abbiamo affermato per l'Andromaque i in rapporto col libro virgiliano di Didone (cfr. qui già, a n. 37). E altrettanto importanto & quanto la Trigiani nota sul rilievo inconsueto che la psicologia dei personaggi assume nella Didone abbandonata, grazie all’influsso raciniano, sì da fare di essa un qual cosa « alquanto a parte — e non solo per il finale luttuoso nella produzione del nostro autore ». Il nostro richiamo all'Asdromaque, che investe anche la struttura del dramma,

l’intrico

degli amori non corrisposti, rende sempre più legittima e valida questa conclusione. Tutto questo, mostrandoci come nella Di-

RACINE E METASTASIO

ristica fondamentale

389

del melodramma

metastasiano

ch'é argomento del nostro studio è identica a quella della prima grande tragedia del Racine: un intrico di amori non corrisposti che rimbalzano l’uno sull’altro precipitando il tragico explicit. È risaputo che il

contenuto dell’Andromague può essere stilizzato in questa stimolante prospettiva seriale: Oreste ama Ermione,

Ermione

ama

Pirro,

Pirro

ama

Andromaca,

Andromaca resta fedele alla memoria d’Ettore. Nessun amore trova corrispondenza nella persona cui è indirizzato. Se guardiamo il melodramma del Metastasio,

ci accorgiamo che in esso il tema virgiliano è complicato e iterato in una complessa organizzazione di amori

egualmente

vani

come

quelli

sceneggiati

dal

Racine nell’Andromague. Certo, anche in Virgilio l’amore di Didone per Enea finisce per trovare l’ostacolo insormontabile della pietas di Enea che deve ob-

bedire all’ordine divino ingiungentegli il viaggio verso l’Italia; e anche in Virgilio c’è la vana aspirazione di Iarba alla mano di Didone, fino al punto che proprio la preghiera

ch'egli rivolge

a Giove

(v. 206

sgg.),

dopo che la Fama gli ha recato la notizia degli amori fra Didone ed Enea, provoca l’ambasciata di Mercurio

done abbandonata possiamo scorgere l’influsso di una tragedia raciniana di diverso argomento, la Bérérice, ci autorizza ancor più a scorgervi quello dell’Andromague che oltre tutto appartiene al medesimo mondo della Didone, quello del mito. Lo strano è che nulla si dice dell’Andromaque neppure nello studio di CH. DEJoB, Les amoreux éconduits ou transis dans Cor-

neille et dans Racine, dans Apostolo Zeno et dans Métastase, in « Revue littéraire de France », 1897, pp. 394-406, che pure per il

suo titolo sembrerebbe alludere direttamente proprio ai personaggi dell’Andromaque.

390

RACINE E METASTASIO

imponente ad Enea l'abbandono di Cartagine.” Per giunta che anche Anna fosse innamorata di Enea è motivo che esisteva già nella tradizione classica, e che

37 Se ci basiamo sui testi di Timeo (fr. 23 Müller in Hist. Graec. frag., I, 197) e di Giustino (XVIII, 6), sui quali cfr. l'introduzione al mio già citato commento al l. IV dell’Eneide

(pp. v-vir), possiamo anche supporre che nella tradizione Iarba apparisse non come innamorato di Didone, ma semplicemente

come il re locale che ambiva alle nozze con la condottiera degli

esuli fenici per riacquistare il territorio cedutole e aggregare al suo regno una città divenuta florida, ricostituendone l’integrità.

In fondo anche

in Virgilio non

possiamo riscontrare

alcuna

prova dell'amore di Iarba per Didone, tanto che nel medesimo commento, in nota ad errans del v. 211, ho osservato, p. 44):

« anche in questa immagine v'é un atteggiamento dispregiativo;

nota l'ingenerosità rozza e feroce di Iarba, cui la delusione to-

glie ogni rispetto per fa donna prima amata

S'insinua il so-

spetto ch’egli l'abbia richiesta solo per convenienza politica ». Ma ció su cui intendo richiamare l'attenzione & la nota ad ante aras del v. 204 (pp. 43-44), scritta quando

ancora

concepito l'ipotesi presentata in questo studio:

non

avevo

«la scena ri-

chiama l'atteggiamento di Didone supplice, nei vv. 56 sgg. Nota la situazione che, mediante questa sottile rispondenza d'immagini, sembra aver contribuito ad ispirare il Racine dell "Andro-

maque, per la sua virtuosistica catena d'amori non corris Iarba supplica invano gli dei perché gli concedano

l'amore di

Didone, mentre costei aveva già supplicato gli dei perché le concedessero l'amore di Enea ». Se quest'ipotesi & fondata, meglio si puó intendere come, ispirandosi all'episodio virgiliano, la

coscienza del Metastasio

avvertisse la possibilità di poggiare

sulla tipica struttura della celebre

tragedia del Racine. Ora si

puó aggiungere che lo errans con cui Iarba definisce Didone suona come lo eiectum litore e lo egentem con cui Didone, esacerbata da uguale delusione, definisce Enea; & la medesima consonanza di reazioni in affinità di situazione che contraddi-

stingue

i personaggi

dell'Amdromaque

nello

stillicidio

delle

ribattute dei medesimi contrasti, delle medesime speranze e delle medesime delusioni (ansia di Andromaca per Astianatte, infatuazione di Pirro per Andromaca, geloso furore di Ermione

per Pirro, smania di Oreste per Ermione), e che quindi giustifica

l'impressione

che

la

fantasia

del

Racine

fosse

accesa

RACINE E METASTASIO

391

Servio ci attesta in nota ad Aen. IV, 682 fermando che secondo Varrone non già Anna si era uccisa per amore di Enea; e Fasti attesta la tradizione dell'amore di Enea

nell’episodio di Anna

e V, 4, Didone Ovidio Anna

afma nei per

Perenna (III, 601-654),

sceneggiante l’ospitalità offerta da Enea ad Anna a Laurento e la gelosia che insorge in Lavinia. Lo stesso Virgilio

(Aen.

IV,

421-22)

aveva

adombrato

l'esi-

stenza di un sentimento che avvicinasse Ánna ad Enea, proprio nel momento in cui Didone supplica la sorella di far da intermediaria fra lei e l'eroe troiano per persuaderlo a rinviare la partenza: solam nam perfidus ille te colere,

arcanos

etiam

tibi credere

sensus?

Ma indubbiamente il Metastasio ha ingrandito e intensificato questi spunti virgiliani, creandovi attorno tutta una ben ordinata congerie

di passioni

interse-

cantisi l'una con l'altra: Didone e la sorella Selene?

anche dalla lettura dell'episodio virgiliano e che il Metastasio a sua volta rafforzasse con la lezione del Racine l'orientamento da lui impresso alla situazione di Virgilio. 3 Su questo cfr. il mio già citato commento, p. 89; e su tutto il problema cfr. le pp. xiv-xv dell'introduzione e il mio studio Ancora su Nevio, Bellum Poenicum, fr. 23 Morel, in Forschungen zur römischen Literatur, Wiesbaden, 1970, t. II, pp. 224-25. i 3 Si noti come il Metastasio abbia mutato il nome della sorella di Didone: velleità d’introdurre un nome divenuto meno comune di quell’Anna ormai volgarizzato dalla tradizione cristiana, un nome provvisto di seduzione mitologicoastrale?

Per giunta esso

suonava

più

canoro

e più

musicale,

con la più aperta voluta delle tre sillabe, estensione eguale a quella del nome di Didone.

392

RACINE E METASTASIO

amano entrambe Enea, che, pur niamando Didone,” rimane irremovibile nell’obbedienza alla volontà degli dei (e va notato che in fondo i personaggi dei due drammi che chiudono la serie degli amori ancorandola a un sentimento d’altra natura, estraneo al fiammeggiare delle passioni in atto — la fedeltà vedovile in Andromaca,

la pietas in Enea

—, sono

condizionati

anche dall’amore per il figlio, l'amore per Astianatte in Andromaca, l’amore per Ascanio in Enea, anche se nel dramma metastasiano questo motivo non ha ri-

lievo, data la particolare impostazione dello sviluppo drammatico; *) Iarba a sua volta ama inutilmente Didone, e Araspe ama, ugualmente invano, Selene; Osmi-

da, unico personaggio appartenente alla categoria dei confidenti

(contro

i

tre

dell’Andromague,

Cefiso e Fenice — a parte Pilade di passioni personali, secondo la nutre anche lui la sua passione, gli altri, la passione del dominio,

Cleone,

—, assolutamente privi legge della categoria), diversa da quella deche rimarrà anch'essa

delusa. In quest’intrico di amori insoddisfatti l’azione

si struttura in forme analoghe a quelle che caratterizzano l’azione dell’ Andromaque: Iarba, per conquistare Didone, scatena un’azione violenta contro Cartagine, così come Oreste, per conquistare Ermione, organizza

il palese, clamoroso assassinio di Pirro ai piedi del© Questa è l’unica clamorosa eccezione alla legge degli

amori non corrisposti; ma il dato mitologico eta troppo noto perché il Metastasio potesse fargli violenza. 4 Lo strano è che nel Metastasio l’unico accenno ad Ascanio (per eccesso di finezza?) è sulla bocca di Didone, nella diciassettesima scena dell'atto primo: No:

sarei debitrice

dell’impero del mondo a’ figli tuoi.

RACINE E METASTASIO

393

l’altare, durante le nozze con Andromaca (e questa conclusione, radicalmente diversa da quella di Virgilio,

aiuta a intendere quanto sia stato forte l’influsso del Racine sul Metastasio); e così come lo smanioso intento di Oreste ha come esito il suicidio di Ermione disperata della morte di Pirro, così Didone

profitta

del tumulto e dell’incendio che il re barbaro cesi nella sua città per gettarsi nelle fiamme dolore della fuga di Enea; e si noti al riguardo damentale differenza fra questa conclusione e

ha acper il la fonquella

del libro virgiliano, nel quale le minacoe di Iarba ri-

mangono

allo stato potenziale e Didone

organizza

personalmente il suicidio e il proprio rogo. Qui non possiamo spiegare la diversità dell’explicit se non mediante l’influsso di un’altra fonte: e questa, data la particolare struttura del melodramma,

tutta tramata

sull’intreccio degli amori

non corrisposti,

essere se non

raciniana, suggeritrice ap-

la tragedia

non

può

punto della trama fondamentale. Né basta:

come

Pirro, trascinato dal suo amore

per Andromaca, dice e disdice più volte le sue intenzioni riguardo alla richiesta dei Danai relativa ad Astianatte, così Enea, infiammato dall’amore per Didone, ci lascia in dubbio fino all'ultimo sul suo proposito d’obbedire agli dei. E abbiamo già visto che in questi atteggiamenti dettati dalla passione amorosa entrambi

gli eroi sfiorano addirittura situazioni e toni da commedia, che il prevalere del condizionamento determinato dall'amore fa balenare anche nella condotta e nell’espressione dei personaggi normalmente meglio caratterizzati dalla cupa intensità della loro fiamma. Come Ermione sa analizzare la natura dello spirito di Oreste e disporre in anticipo il modo di legarlo a sé

394

RACINE

E METASTASIO

ancor prima ch’egli compaia sulla scena, in toni che

potrebbero essere anche quelli della commedia Hermione est sensible, Oreste a des vertus. Il sait aimer du moins, et méme sans qu'on l’aime; Et peut-étre il saura se faire aimer lui-méme (vv. 472-

[474). e subito dopo sa attizzarne la passione con blandizie in cui di nuovo linguaggio tragico e linguaggio comico

confluiscono in una sostanziale unicità di intenti Enfin qui vous a dit que malgré mon devoir

je n'ai pas quelquefois soubaité de vous voir? vr 527528).

e gioca sulla sua obbedienza alla volontä paterna come la piü bennata

fanciulla del teatro comico,

e nella

scena seconda dell’atto terzo giunge quasi a divertirsi col povero Oreste nella gioia per la decisione di Pirro di consacrare le nozze con lei, facendoci intravvedere sul suo volto un malizioso sorriso (et de plus on vient de m’assurer que vous ne me cherchiez que pour m’y préparer)

e torna a recitare la commedia della figlia mansueta e obbediente (Mais que puis-je Seigneur? On a promis ma foi. Lui ravirai-je un bien qu'il ne tient pas de moi? L’amour ne règle pas le sort d’une princesse: la gloire d'obéir est tout ce qu'on nous laisse),

così Didone trascende ad espressioni, che diverranno proverbiali proprio in sede di scherzosa riflessione sulle

debolezze

e le miserie

dell’esistenza,

e assu-

RACINE E METASTASIO

395

mono un deciso aspetto comico, come nella quarta scena dell’atto secondo (Passö

quel tempo,

Enea,

che Dido a te pensö)

e nella quattordicesima scena dell’atto terzo (Araspe, per pietà, lasciami in pace). Ma, dato che, a differenza da Virgilio, Enea non rompe ogni rapporto con Didone subito dopo il primo scontro con lei, ma torna a farsi vedere e provoca le numerose singolari impennate sceniche di cui abbiamo discorso, il Metastasio, nell’impiantare quest’inedito sviluppo

drammatico, palesa apertamente d’essersi fatto guidare

dal ritmo teatrale dell’Andromaque

per le evidenti

affinità che il gioco di Didone mostra con quello di Ermione: l’eroina raciniana regola la sua condotta sulla base di quella di Pirro, dà ordini ad Oreste, poi li contraddice, poi li ninnova, a seconda di ciò che il figlio d’Achille le fa sperare o le infligge come estrema delusione; l’eroina metastasiana regola la propria

condotta sulla base di ciò che di volta in volta le fa sperare la perdurante presenza di Enea. Sull’una e sull’altra incombe come determinante l’esistenza di un’ambasceria che sollecita una rapida e decisiva deliberazione: Oreste è venuto a chiedere a Pirro la consegna di Astianatte ai Danai, Iarba, travestito da

ambasciatore di se stesso, è venuto a chiedere per sé la mano di Didone. Ermione naturalmente pone tutte

le sue speranze nell’effetto che la minacciosa richiesta dei Danai deve operare su Pirro, e intanto profitta del fatto che Oreste, l’ambasciatore, è innamorato di

396

RACINE E METASTASIO

lei per ottenere in qualche modo o soddisfazione dei suoi sogni o vendetta; Didone gioca la carta, che la richiesta di Iarba le offre, per attizzare la gelosia di Enea. Anzi la seconda scena del primo atto — che

doveva corrispondere all’episodio di Aen. IV, 296 sgg. e che solo la melodrammatica esitanza di Enea rende meno decisamente risolutiva — finisce per prestarsi alla pietosa 0 troppo astuta bugia di Osmida, che nella scena successiva fa intendere a Didone che Enea abbia deciso di partire non sopportando che essa « ceda alla forza » di Iarba«e a lui si doni»; su questa falsa rivelazione la regina fonda il suo ulteriore comportamento, sì che l’invio della sorella ad Enea (che

nel Metastasio aggrava la complicazione sentimentale, in quanto Selene è molto più chiaramente innamorata di Enea di quel che non s’intravveda nell’Anna virgiliana) è motivato da ragioni ben diverse da quelle

che lo spiegano in Virgilio. E intanto vediamo come Didone si aggrappi a tutto ciò che può illudere i suoi desideri, né più né meno dell’Ermione raciniana. Il tentativo di Iarba di colpire Enea suscita immediatamente in Didone la più violenta reazione contro il barbaro aggressore, così come Ermione, alla notizia

dell’uccisione di Pirro da parte di Oreste, reagisce col

famoso Qui te l’a dit? e con tutte le imprecazioni maledicenti che preparano il suicidio e sgomentano l’infelice amante, divenuto assassino contro la sua volontà

proprio per assecondarla. Qui il gioco sceno, imposto dalla notissima e immutabile formulazione del mito,

ha obbligato il Metastasio ad anticipare al primo atto quel riscontro con la catastrofe dell’Andromaque che appare evidente e che, colla singolare introduzione di

quest’episodio del tentato omicidio di Enea da parte

RACINE E METASTASIO

397

di Iarba, palesa quale attenzione il poeta abbia rivolta all'Asdromaque

nella

composizione

del

suo

melo-

dramma. E la riprova è costituita dalle frasi che Didone rivolge ad Araspe (scena sedicesima dell'atto

primo) nel momento in cui questi, avendo raccolto il pugnale caduto di mano a Iarba, è fraudolentemente additato da Osmida come l’aggressore: Chi ti destò nel seno sì barbaro desio?

E nè meno

hai

rossore

del sacrilego eccesso? sono un’eco evidente di

Barbare, qu’as-tu fait?

de son sort qui t’a rendu l’arbitre?

nello sfogo di Ermione contro Oreste. E le somiglianze continuano: nella scena diciassettesima del primo atto, che, come abbiamo già visto, è quella che completa la scena seconda nel riprodurre l’episodio centrale del 1. IV dell’Eneide, se parecchi spunti nelle battute di Didone riproducono il secondo sfogo dell'eroina virgiliana, quello dei vv. 365387, altri riecheggiano invece battute dello sfogo di Ermione contro Pirro nella quinta scena dell’atto quarto dell'Asdromaque. forse della mia

fede

Ancora incerto stai?

398

RACINE E METASTASIO

echeggia Je ne t’ai point aimé, cruel? Qu’ai-je donc fait?; parimenti E cosi fino ad ora,

perfido, mi celasti il tuo disegno?

Mendace il fedeltà mi e intanto il come lunge

labbro giurava, cor pensava da me volgere il piede!

A chi, misera me! darò più fede? e perfino l’arietta Non un

|

ha ragione, ingrato, core

abbandonato

da chi giurogli fè?

Perfido! tu lo sai Se in premio un tradimento io meritai

da te

echeggiano J'aime à voir que du moins vous vous rendiez justice

et que voulant bien rompre un noeud si solennel, vous vous abandonniez

au crime en criminel

Non, non, la perfidie a de quoi vous tenter

-

Pour plaire à votre épouse, il vous faudroit peut&tre

prodiguer les doux noms de parjure et de traître

jattendois en secret le retour d'un parjure;

j'ai cru que tót ou tard, à ton devoir rendu,

RACINE E METASTASIO

399

tu me rapporterois un coeur qui m'était dî. Je t’aimois inconstant, qu’ aurais-je fait fidèle? Et méme en ce moment où ta bouche cruelle

vient si tranquillement m’annoncer le trépas, ingrat, je doute encor si je ne t'aime pas.

E i « lasciami, traditore; lasciami, ingrato; inde-

gno! » che Didone martella alla fine della scena riproducono iterandolo il v. 1380 dell'Asdromaque: « Je ne te retiens plus, sauve-toi de ces lieux». Sono battute che non trovano alcuna corrispondenza in Vir-

gilio; più che mai quindi le si deve ritenere ispirate dall’analoga scena della tragedia che ci si va pale sando così intimamente vicina al melodramma metastasiano.

Così nella quarta scena del secondo atto, il terzo dei quattro incontri fra i due protagonisti che pun-

teggiano il melodramma, si osserva la medesima commistione di spunti virgiliani e raciniani sulla bocca di Didone: Felice me, se mai

tu non giungevi, ingrato, a questi lidi!

riprende addirittura espressioni dell’ultimo monologo dell’eroina virgiliana, i vv. 657-58 felix, beu nimium felix, si litora tantum numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae,

pur con l’introduzione di quel canonico ingrato che ci appare l’indizio più evidente della presenza del lin-

guaggio dell’Ermione raciniana.* € La

dell’influsso

del

monologo

virgiliano

è

ribadito nella scena dalla ripresa dell'orgogliosa riflessione su

400

RACINE E METASTASIO

E così T avessi pur veduto

d’una lagrima sola umido il ciglio! Uno sguardo, un sospiro, un segno di pietade in te non trovo

sono un'evidente ripresa di quel secondo sfogo di Didone che solo il Metastasio ha tenuto presente, dei vv. 369-70 di Virgilio: num fletu ingemuit nostro? num lumina flexit? num lacrimas victus dedit aut miseratus amantem est? *

Ma «l'amare favella», come Enea definisceil tono con cui Didone glisi rivolge all’inizio della scena,il Come?

ancor non partisti? adorna ancora

questi barbari lidi il grande Enea?,

quello che la donna ha saputo operare da sola: Senza di te finor leggi dettai; sorger senza di te Cartago io vidi

riprendono il v. 655 di Virgilio: Urbem praeclaram, meo moenia vidi. 9 Si

presente

inoltre

che

questi versi

virgiliani

sono statia τ νὴ dalla critica come fonte proprio di alcuni versi pronunciati da Ermione nel monologo all'inizio dell'atto quinto:

Le cruel! de quel oeil il m'a congédiée! Sans pitié, sans douleur, au moins étudiée. L’ai-je vu se troubler et me plaindre un moment? En ai-je pu tirer un seul gémissement?

Muet à mes soupirs, tranquille è mes alarmes,

sembloit-il seulement qu'il eüt part à mes larmes?

RACINE E METASTASIO

401

parole che non possono trovare alcun corrispettivo in Virgilio, discende indubbiamente dalle parole fra iro-

niche e furenti con cui, nella già citata scena raciniana, Ermione sottolinea il disagio che Pirro deve provare nell’indugiar a parlare con lei: Et vous ne me cherchez que pour vous en (de la [fidie) vanter.

Vous veniez de mon front observer la päleur, pour aller dans ses (scil. d’Andromaque) bras rire de [ma douleur.

‘ Perfide,je le voi, tu comptes les moments que tu perds avec moi! Ton coeur, impatient de revoir ta Troyenne, ne souffre qu'à regret qu'un autre t'entretienne.

E la disperata, menzognera battuta di Didone Spenta & la face, è sciolta la catena, e del tuo nome or mi rammento appena

richiama le battute con cui, nella seconda scena del-

l'atto secondo dell’Andromague, durante la prima fase di evidente distacco di Pirro da Ermione, costei vuol

persuadere Oreste d’essersi strappata passione per il re dell’Epiro: e

dal cuore

la

m’importe, Seigneur, sa haine ou sa tendresse? ‘ Après cela direz-vous que je Taimer

E quando Enea commuove la regina col ricordo dell’antico amore, le frasi in cui essa prorompe 26

402

RACINE E METASTASIO (Vedi quanto t’adoro ancora, ingrato! Con un tuo sguardo solo mi togli ogni difesa, e mi disarmi. Ed hai cor di tradirmi? e puoi lasciarmi?)

conservano un’eco della fiammeggiante dichiarazione d’amore a prezzo di tutte le delusioni e di tutte le umiliazioni che, nella già più volte citata scena, Ermione fa a Pirro ai vv. 1356-1368 dell’Andromaque.

Abbiamo già visto che la scena (l’ultima in cui Enea si trova vicino a Didone) rappresentante le false promesse di matrimonio fatte a Iarba della regina per far ingelosire l'amante è un ingegnoso adattamento che il Metastasio ha organizzato delle capricciose, con-

traddittonie incombenze che Ermione impone a Oreste presso Pirro, sfruttando l’amore del cugino per lei. Le frasi con cui Didone presenta a Enea il suo

destino come un dilemma fra le nozze con Iarba o la morte e quella con cui Enea ribatte (Deggio incontrar la morte o al superbo affrican porger la mano. Dunque fuor che la morte, o il

esto imeneo,

trovar non si potria scampo migliore?

Con alma forte, come vuoi, sceglierò Iarba, o la morte)

riprendono le parole che, quasi a stabilire la tematica della tragedia, Oreste pronuncia nella prima scena dell’ Andromaque Mais qui sait ce qu'il (l'amour) doit ordonner de [mon sort, et si je viens chercher ou la vie ou la mort?

RACINE

E METASTASIO

403

ie viens chercher Hermione en ces lieux, la fiéchir, l'enlever où mourir à ses yeux,

ch'egli ripete ai vv. 495-504 durante il suo primo incontro con Ermione, nella seconda scena dell'atto secondo, e che risuonano con maggior furore sulla sua bocca nella prima scena dell'atto terzo (Il faut que je l'enléve, ou bien que je périsse).

E lo strano & che la psiche di Enea e di Iarba, nell'intricata scena in cui Didone gioca con l'amore di

entrambi e attizza la gelosia di Enea profferendosi al re africano e suscita il risentimento di costui fingendo di addivenire alle nozze solo perché le consiglia Enea, sembra modellata mediante un'abile riorganizzazione dello stato psicologico di Oreste, all'inizio dell'atto terzo dell'Asdromaque, farneticante per gelosia che Pirro abbia deciso di sposare Ermione solo per far dispetto a lui: Non, non, je le connois, mon désespoir le flatte; sans moi, sans mon amour, il dédaignoit l’ingrate; ses charmes jusque-là n’avoient pu le toucher: le cruel ne la prend que pour me l’arracher.

Certo la tragedia raciniana ha una tale profondità d’introspezione psicologica che al confronto le nota-

zioni metastasiane, anche se non prive di coerenza e, spesso, di finezza, sanno più che altro d’ingegnoso ricalco. Ma la possibilità di riportare il loro tessuto a quello dell’Andromague è incessante. Quando nella terz’ultima scena Didone, disdegnando di cedere a Iarba, dichiara

404

RACINE E METASTASIO

Solo per vendicarmi del traditore Enea,

che & la prima cagion dei mali miei, laure vitali io respirar vorrei,

vediamo riadattato alla particolare situazione il moto di furore d'Ermione covante per vendetta la morte di Pirro nella terza scena dell'atto quarto, ma augurantesi di morire subito dopo: Ne vous suffit-il pas que je l'ai condamné? Ne vous suffitil pas que ma gloire offensée demande une victime à moi seule adressée?

Je percerai le coeur que je n'ai pu toucher;

᾿

et mes sanglantes mains , sur moi-méme tournées, aussitòt, malgré lui, joindront nos destinées; et tout ingrat qu'il est, il me sera plus doux de mourir avec lui que de vivre avec vous.

Le due trame di amori accavallantisi gli uni sugli altri nell’Andromague e nella Didone abbandonata non si corrispondono esattamente; e questo se mai te-

stimonia

dell’abilità del Metastasio che

ha saputo

adattare la struttura della tragedia raciniana alla diversa organizzazione ch'egli aveva dovuto dare alla serie delle contrastanti passioni. Perciò, se finora il rapporto più costante ci è apparso quello fra Didone ed Ermione mentre i personaggi maschili hanno mostrato di risentire ora di Pirro ora di Oreste, anche le

minori passioni ci sembreranno ereditare a caso accenti ora dell'uno ora dell'altro dei personaggi raciniani. Il grido di Iarba « Araspe, alla vendetta », non appena Didone ha opposto un rifiuto all'ambasceria da lui

recata col nome di Arbace, riproduce il furore di Oreste all’inizio dell’atto terzo, nel momento in cui Pirro

RACINE E METASTASIO

405

ha deciso di sposare Ermione. L’eco perdura nelle dichiarazioni che Iarba fa ad Araspe nella settima scene dell’atto primo (Ma vanne, amato Araspe, ogn’indugio è tormento al mio furore;

vanne: la mia vendetta un tuo colpo assicuri),

dove persino l’arietta celebrante le frodi e i delitti da parte dei regnanti, anche se ispirata a una tema-

tica ideologica che sa dell’antimachiavellismo controriformista e prelude a certi aspetti dell’illuminismo (Fra lo splendor del trono belle le colpe sono,

perde l’orror l’inganno, tutto si fa virtù),

dato che nella scena è innegabile l’influsso della prima scena dell'atto terzo dell’ Andromague, risente in parte anche delle riflessioni di Oreste sull'irremissibilità del delitto: Mon innocence enfin commence ἃ me peser. Je ne sais de tout temps quelle injuste puissance laisse le crime en paix et poursuit l’innocence. De quelque part sur moi que je tourne les yeux,

je ne vois que malheurs qui condamnent les dieux.

Méritons leur courroux, justifions leur haine, et que le fruit du crime en précéde la peine.

Così l'espressa affermazione di Iarba, ancor dissimulato sotto il nome di Arbace, che Enea merita di

morire perché sottrae Didone a lui (Gli affetti di Didone

al mio Signor contende: t'é noto,

e mi domandi in che m'offende?),

406

RACINE E METASTASIO

il suo proposito, espresso nella scena tredicesima, di correre « il rivale a svenar » riproducono le dichiarazioni di Oreste contro Pirro, sempre all’inizio dell’atto terzo, la furia omicida che lo accende contro il

figlio d’Achille e che anzi ora esplode più sincera e spontanea che non all'ultimo, quand’egti giungerà ad uccidere effettivamente Pirro, ma solo per obbedire ad un ordine di Ermione accolto con sgomento: Ah! plutét cette main dans le sang du barbare ...

Le querele di Selene che, nella sesta e nella settima scena dell’atto terzo, rivela a Enea il suo amore e poi si lagna della sua insensibilità, recano un riflesso delle confidenze che Ermione fa a Cleone sulla nascita del suo amore per Pirro, nella prima scena dell’atto secondo, l’unica scena in cui la virago innamorata palesa accenti e palpiti di verginale candore. La prima scena dell’atto secondo della Didone abbandonata, in cui Araspe rivela a Selene il suo amore e ne riceve un accorato rifiuto, accennante nascostamente

al disperato amore della fanciulla per Enea, riproduce, nei toni più idillici e carezzevoli che circondano la figura di Selene, la situazione della seconda scena

dell'atto

secondo dell’Andromaque,

in cui Ermione

accoglie benevolmente Oreste, si mostra non sdegnata del suo amore per lei, anche se lascia trapelare evidentemente la sua passione per Pirro; naturalmente, essendo ben altro carattere da quello melodrammati-

camente dolciastro di Selene, Ermione si spinge ad attizzare le speranze nel cuore di Oreste, facendogli balenare la possibilità ch’essa finisca per gradire il suo amore

purché

si acconci a vendicarla

di Pirro.

Ma ciò che più deve richiamare l’attenzione è che poi,

RACINE E METASTASIO

407

nell’ottava scena dell’atto secondo, quando Selene interviene tra Enea ed Araspe che si battono, la fan-

ciulla si mostra dura con l’innamorato perché egli contende

con

Enea,

e Araspe

canta la sua brava

arietta per lamentare che Selene faccia « torto alla sua fede»; è la precisa situazione di Ermione (che condiziona al suo amore con Pirro ogni rapporto con Oreste, di cui pure conosce l’amore) e di Oreste

che si strugge della preferenza che la donna amata dà al rivale. In realtà

Selene, nella

nona

scena

dell'atto

se-

condo, non sa resistere all’impulso di apostrofare Enea con gli appellativi di « cor mio » e « mio ben » e alla meraviglia dell’eroe ricorre all’espediente di rispondere « È Didone che parla, e non son io; È Didone che parla e non Selene », e nella decima canta un’arietta per spiegare che l’amore non è effetto della beltà, ma di « un bel desio che nasce

/ allor che men

s’aspetta: / si sente che diletta / ma non si sa perché»; vediamo il tipico mondo arcadico e melodrammatico del Metastasio espandersi in quelle che continueranno ad essere le sue forme più usuali, nelle quali svanisce senza residui l’esplosiva carica passionale dell’Andromague. Ma che questa tragedia abbia costituito per la Didone abbandonata il principale punto

di

riferimento

drammatico

per

regolare

il

complesso impianto teatrale sostituito alla nitida linea costruttiva del libro virgiliano di Didone, finisce per confermarcelo la diciassettesima scena dell’atto terzo, in cui Didone, nel pieno della catastrofe scate-

nata da Iarba su Cartagine, quando implora dal re africano la morte e si sente proporre di nuovo le nozze, prorompe — rinnovando l’affinità dei due per-

408

RACINE E METASTASIO

sonaggi — nei medesimi accenti

con cui Ermione ac-

coglie Oreste dopo l’uccisione di Pirro: Io sposa d’un tiranno, d'un empio, d'un crudel, d'un traditore, che non sa che sia fede,

non S'io saria No,

conosce dover, non cura onore? fossi cosi vile, giusto il mio pianto. la disgrazia mia non giunse a tanto.

Sono in fondo gli stessi Ermione al cugino:

toni dell'apostrofe di

Tais-toi, perfide,

et n'impute qu'à toi ton láche parricide. Va faire chez tes Grecs admirer ta fureur: va, je la désavoue, et tu me fais horreur.

Barbare, qu'as-tu fait? Adieu. Tu peux partir. Je demeureen Epire: je renonce à la Gréce, à Sparte, à son empire,

à toute ma famille, et c'est assez pour moi,

traître, qu'elle ait produit un monstre comme toi.

Possiamo ormai comprendere che come l’Andromaque fu l’improvviso bagliore di un nuovo, giovane

temperamento teatro

che,

drammatico liquidando

e di un tipo nuovo

le predilezioni

eroiche

di del

dramma corneliano, poneva in primo piano il gusto

per l'approfondimento della psiche arroventata dalla passione e consacrava così definitivamente nella cultura europea la preminenza del teatro francese come interprete della sensibilità contemporanea, cosi la prima manifestazione del melodramma metastasiano riuscì clamorosamente significativa perché trasportava

RACINE E METASTASIO

409

e adottava nell’ambito del dramma per musica il gusto del patetico, dell’intrigo amoroso e delle fluttuazioni psicologiche che la prima tragedia raciniana aveva subito reso paradigmatico per gli orientamenti del gusto, e così, svincolando anche in quell’ambito il teatro dalla mania del grandioso e dell'eroico, costituiva pure per il melodramma l’inizio di quell’ingegnoso equilibrio fra toni tragici e toni quotidiani (pur con la residua sottolineatura di una conclusione altamente drammatica) che il più maturo dramma francese aveva instaurato per la discesa nel più profondo della mentalità contemporanea; così, superando in pienezza di realizzazione quanto lo Zeno — autore di un’Andromaca addomesticata — aveva cominciato a intuire e a tentare, portava il dramma in musica alla completa e salda coscienza delle più attuali esigenze del teatro e assicurava alla poesia drammatica italiana quel ritorno di vitalità che la scelta di un genere in cui factotum era ancora l’ingegno italiano le consentiva, proprio perché aveva mostrato di saper raccogliere la più valida lezione dell’ormai affermato teatro francese, in quello che ne era stato l'esempio più rivoluzionario.

IL COMMENTO A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI *

La possibilit di parlare degli studi oraziani di Ferdinando Galiani ci è integralmente e unicamente offerta da uno dei tanti preziosi contributi che un nostro glorioso consocio, Fausto Nicolini, ha fornito

alla cultura italiana: la memoria presentata all’Accademia Pontaniana e pubblicata nel 1910, dal titolo Gli studi sopra Orazio dell'abate Ferdinando Galiani. Chi legga l’introduzione si rende subito conto dei meriti acquistatisi dal Nicolini coll’approntarci

tutto il materiale recuperabile degli studi del Galiani su Orazio, ma anche del carattere se non arbi-

trario almeno

struzione.

tipicamente personale

della sua rico-

Il Nicolini ci avverte infatti che degli

scritti galianei su Orazio noi non abbiamo se non avanzi di lingue, tempi e forme diversi, dai quali solo a fatica si può ricostruire un insieme passabilmente organico

relativo alla biografia, ai Carmina

(odi ed

epodi) e all’Ars poetica. Un primo lavoro era stato iniziato dal Galiani in francese nel 1764; ma del ma-

noscritto originale non si sono salvati che alcuni brani tradotti da Luigi Diodati nella sua Vita del

* Dagli « Atti del Convegno su Ferdinando Galiani del-

l'Accademia

dei

Lincei».

412

COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

Galiani pubblicata a Napoli nel 1788, e poi quelli che il Nicolini definisce (p. vII) « tre equipollenti », cioè un manoscritto (conservato con le altre carte del

Galiani nella biblioteca della Società napoletana di storia patria) « contenente una incompleta e scelleratissima traduzione italiana del lavoro »; il commento all’Ars poetica e numerose, brevi chiose alle odi, come furono pubblicati, con ritocchi e abbreviazioni degli editori, nel 1765, nei voll. V, VI e VIII della Gazette littéraire; e una metà, non di più, del commento alle odi, con singolari e ingiustificati ritocchi e inversioni, nell’edizione delle opere di Orazio, tradotte dal Campenon e dal Després, pubblicata a Parigi nel 1821.

Accanto a queste reliquie dell’incompleto lavoro

in francese, il Nicolini ha potuto utilizzare un lavoro completamente inedito, scritto in italiano, che il Galiani iniziò a Napoli nel 1775 e continuò a varie riprese, tra infinite pause, fino all’aprile 1779, data del suo definitivo accantonamento « in uno stato oltremodo frammentario» (p. xı). Dei suoi vari brandelli ciò che ha senso e spazio più compiuti sono

un'introduzione, un abbozzo di biografia del poeta rimasto anch’esso interrotto, e un saggio sulle tradu-

zioni italiane e francesi di Orazio. Molte altre chiose alle odi hanno forma di appunti intercalati a una copia del testo oraziano, contenente quasi tutte le odi e buona parte delle satire e delle epistole, compilata dai segretari del Galiani. Anche qui le chiose sono relative esclusivamente alle odi. Dinanzi a un materiale di così varia provenienza e di così capricciosa frammentarietà il Nicolini si sentì spinto a escogitare una soluzione eroica. Escluse

COMMENTO A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

413

subito la possibilità di una trascrizione diplomatica

di quella farraginosa congerie, di quella rudis indigestaque moles di appunti e di abbozzi; prese invece la coraggiosa decisione di pubblicare nello stato originario ciò ch’era stato redatto in una sola occasione e in forma più continuativa, cioè del lavoro in francese il commento all’Ars poetica (naturalmente in versione italiana) e le sezioni più compatte del secondo lavoro in italiano: l'introduzione, l'inoompleta vita d’Orazio e l’abbozzo del saggio sulle traduzioni di Orazio; e di rifondere in una forma possibilmente più comprensiva la lunga serie di chiose ai Carmina,

capricciosamente dissimili per estensione, carattere, interesse e scritte parte in francese e parte in italiano. Quello che noi abbiamo del commento è perciò un libero rifacimento del Nicolini, fedelissimo (a

quanto è dato intuire) nella conservazione di tutto ciò ch'é

tipico dello spirito del Galiani

(dal contenuto

delle proposte al tessuto delle idee e alla spregiudicata vivezza dei giudizi, delle immagini, delle reazioni alle interpretazioni altrui), ma inevitabilmente personale nella fusione di appunti scritti in diverse lingue e in tempi diversi, nello sforzo di renderli l'uno complementare dell'altro. Per esempio a p. 85 n. 1, all'inizio

del

commento

all'ode

III,

2,

si avverte

che «il commento a quest'ode & pubblicato con le medesime parole del G. », quasi a farci avvertiti che altrove ció non accade. D’altro canto la cura di conservare il piü possibile la sostanza del pensiero del

Galiani

trapela da casi come

quello del commento

al'ode IV, 5, nel quale il Galiani cita come frase di Seneca l'espressione Ministrorum ornatissimorum turba linteis succincta, ma il Nicolini avverte (p. 104

414

n.

| COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO

1) di non essere riuscito

GALIANI

a trovare in Seneca il

passo riferito dal Galiani. La categoria dei pedanti filologi a cui appartiene chi scrive troverà molto da ridire sul metodo seguito

dal Nicolini. Egli lo ha giustificato soprattutto con la considerazione (p. ΧΙ)

che una trascrizione di-

plomatica dei vari appunti del Galiani, o manoscritti o a stampa, avrebbe « reso un cattivo servigio all’Accademia ..., alla quale avrei esibita una memoria tripla di quella, non breve, che ho l'onore di presentarle ». Con questo atteggiamento il Nicolini denuncia

quello che allora era il suo totale adeguamento a una mentalità di cui egli poi seppe discriminare gli aspetti buoni, tenendovisi fedele, ma correggendo quelli più discutibili con una perizia e un rigore di filologo che hanno dato frutti copiosi e ben noti, rappresentanti

uno dei suoi meriti maggiori di studioso. Ma al tempo della pubblicazione degli studi del Galiani su Orazio egli era ancora totalmente orientato nel senso instaurato dal Croce nel periodo più fervido e fecondo della sua attività:

la cura dell’essenziale, della

facies più significativa di ogni

personalità,

di ogni

opera e di ogni tendenza, senza soverchie preoccupa-

zioni di stabilire con esattezza la lettera dei testi, i dati di fatto più minuziosi e più secondari, in obbedienza ai dettami dell’odiato metodo positivistico. Ma ad ogni modo l’aver ridotto a un’unica versione

le due redazioni in francese e in italiano delle chiose a Orazio lirico, composte a quindici anni di distanza l’una dall’altra, è arbitrio che nessun filologo si sentirebbe oggi di poter condividere

o autorizzare.

Ne

nasce oltre tutto il sospetto che spesso si sia fatta tutta una minestra di impressioni difformi, queli

COMMENTO

A ORAZIO

DI FERDINANDO

GALIANI

415

dovevano essere proprio quelle sgorganti quasi a caso dalla penna del Galiani, in quel vagabondaggio del suo intelletto, ch'é tipico del bel esprit settecentesco

in vena di confidenze e di abbandoni alle sue più intime propensioni di gusto e alle sue più gelose esperienze culturali. L’acribia stessa del Nicolini ci ha suonato l’allarme, ci ha aperto uno spiraglio che giustifica il sospetto: a p. 109 n. 1, a proposito dell'epodo settimo, dinanzi all'affermazione del Galiani (che si richiama per giunta alla Vita) che esso «sia

tra le prime odi scritte da Orazio... Infatti il fratricidio di Romolo vi è additato come il peccato originale dei romani;

pensiero che mostra un giovane

fornito di poco lume filosofico », il Nicolini non può fare a meno di avvertire: « Questa è l’opinione più recente del G., quale appare dal commentario italiano del 1779. Invece, nel commentario francese del

1765, egli attribuisce l’ode a data molto posteriore, vale a dire quando Orazio era diventato completamente epicureo. E, per conciliare quest’asserzione con

gli ultimi quattro versi, dava a questi interpretazione

ironica». È evidente che di fronte a casi del genere siamo costretti a rammaricarci di non avere il testo originario dei due commenti,

per frammentari,

con-

fusi e mal conservati ch’essi possano essere. Per giunta, se dobbiamo dare atto al Nicolini d’esser riuscito a conservare al dettato da lui rielaborato la vivezza

spesso epigrammatica,

l’aggressiva verve po-

lemica che rivelano a prima lettura il temperamento dell’autore e la sua perfetta aderenza alla mentalità e alle costumanze

letterarie

del

suo

secolo,

ci ri-

mane sempre il dubbio su quello che può essere stato l’effetto della rilucidatura operata dal diligente edi-

416

| COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

tore e resta inappagato il desiderio di possedere con sicurezza, punto per punto, la nativa espressione fornita dal Galiani alle sue idee ed ai suoi umori. Forse

anche per questo la meritoria testimonianza del Nicolini, arrecante materiale per la maggior parte inedito, non ha trovato eco — ed è cosa in realtà sorprendente — nel mondo degli studiosi, né fra gl’indagatori della cultura settecentesca, né fra i filologi classici, fra

i cultoni d’Orazio e della sua fortuna; e tocca oggi a me, in quanto classicista e in quanto concittadino

del Galiani, l’onore di richiamare l’attenzione su questa che, per l'eccezionale personalità dell’autore e per il solleticante carattere dei suoi orientamenti,

è in-

dubbiamente una tappa tutt'altro. che trascuosbile degli studi oraziani. Indipendentemente dalla scarsa diffusione della memoria pontaniana del Nicolini, che senza dubbio è

stata provocata anche dal valore non strettamente documentario dei testi da lui pubblicati, la scarsa o addirittura inesistente conoscenza del commentario galianeo è probabilmente spiegabile col suo stesso ca-

rattere. È risaputo che il Settecento è il secolo più rappresentativo per la fortuna di Orazio, proprio nel senso di un preciso rapporto fra il poeta di Venosa e la coscienza moderna. Il razionalismo iluministico credette di trovare nel mondo poetico di Orazio il suo più significativo antecedente, il punto di riferimento nella tradizione che meglio potesse avallare la sua Weltanschauung; e il poeta di Venosa cominció a diventare il livre de cbevet di tutti gli spiriti piü colti e piü pensosi, iniziando una consuetudine che durerà sino a pochi decenni or sono. Per giunta, anche se specie oggi & invalso l'uso di additare nel

COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

417

Settecento la matrice di tutti gli atteggiamenti spirituali e letterari più tipici del mondo contemporaneo, anche se per esempio la valorizzazione allora compiuta della prosa narrativa è stata vista come causa della più grande rivoluzione etico-artistica avvenuta in età moderna,

cioè

l’avvento

del

romanzo

come

forma

d’arte depositaria dei maggiori sforzi d’autocomprensione dell’anima umana (e in ciò posso appellarmi anche alle idee di un mio illustre collega negli studi di letteratura latina, di un benemerito studioso di Orazio, Antonio La Penna), anche se insomma il secolo

XVIII è considerato comunemente l’imprescindibile anticamera di tutte le più sconvolgenti esperienze dell’arte moderna, è d’altro canto innegabile che gli spiriti più coerentemente sagomati dai princìpi dell’illuminismo, più allergici ai fremiti preromantici largamente rappresentati in quel secolo dal Rousseau, dallo Young e dagli altri poeti sepolcrali, dallo Sturm und Drang e così via, dovevano sentirsi naturalmente portati ad apprezzare un'arte in cui l'intelletto dominasse sovrano, disciplinando gl’impeti passionali e regolando ogni mezzo espressivo con ben calcolata e calibrata perizia equilibratrice e con netta tendenza alla temperanza, al decoro, ai toni nitidamente sfumati e dimessi, non senza una certa predilezione per un atteggiamento sottilmente, socraticamente discorsivo. Di qui la preminente simpatia di cui fu oggetto Orazio. Di qui dunque anche l’esclusivo fascino che egli esercitò sullo spirito del Galiani, di cui il Nicolini dice (p. III) che « incapace, o quasi, di provare un sentimento qualsiasi, di amore o di odio, di entusiasmo o di disprezzo, di tenerezza o di indignazione, per le persone e le cose in mezzo a cui visse, quel mi27

418

COMMENTOA

ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

nuscolo abatino diventava, poi, tutt'altro uomo, quando aveva tra le mani le opere del suo poeta prediletto »; e questa fu tendenza così pronunciata ch’egli, l'economista, lo studioso di scienze politiche, come non resistette alla tentazione di un saggio dialettologico o a quella di sorivere con Lorenzi il libretto del Socrate immaginario, così cedette a quella di dar prova di qualità di letterato, di esegeta, per sacrificare al culto di Orazio. E che egli guardasse a Orazio con autentici occhi di figlio del Settecento, lo rivelano alcune fra le più significative pieghe del suo commento; e s’intende che d’ora in poi tutte le nostre citazioni dovranno risalire necessariamente al testo approntato dal Nicolini, a dispetto di tutte le riserve metodiche già espresse: cosa che d’altro canto, per la precarietà dei dati a cui siamo così ridotti, giustifica gli appunti da noi mossi precedentemente. Ecco per esempio nell’abbozzo della Vita, a p. 25, il Satyricon di Petronio citato accanto a Persio e Giovenale, come segno della decadenza della satira in età imperiale, come « una pruova della corruzione del gusto; effetto inevitabile della quale dovette essere il leggersi ed il gustarsi meno Orazio »; affermazione che non può non stupire chi sappia che la più acuta definizione dello stile di Orazio (Horati curiosa felicitas) ce l’ha data proprio Petronio (c. 118), aman-

tissimo del poeta di Venosa, al punto

da ispirarsi

all’ottava satira del suo 1. II, alla cena di Nasidieno,

per architettare la Cena Trimalchionis. Ed ecco a p. 12 Leuconoe dell’ode I, 11 ribattezzata, con settecentesco gusto di scherzosa modernizzazione, nella forma Carcioffola, di cui poi non c’è traccia nel pur lungo commento all’ode. Ed ecco, a p. 98, nel com-

COMMENTO

A ORAZIO

DI

FERDINANDO

GALIANI

419

mento all’ode III, 17 (il numero, per errore di stampa, è « XVIII » nella memoria del Nicolini), un’iro-

mia di tipo squisitamente illuministico sul favore che il Cristianesimo incontrò fra gli schiavi per la concesstone del riposo domenicale: « Nel che è una tra le principali ragioni, per cui il cristianesimo fece progressi così rapidi nel mondo romano: gli schiavi,il cui numero era quattro volte maggiore di quello degli uomini liberi, divennero subito entusiasti d’una reli-

gione, che concedeva loro un giorno di riposo ogni settimana. Nessuno può sconvenire che il cristianesimo si proponesse di abolire (di fatto, se non di diritto) la schiavitù e di ristabilire l’eguaglianza tra gli uomini. Ciò è tanto vero che gli spagnoli e i porto-

ghesi, quantunque, per proprio conto, siano i popoli più bigotti del mondo, tuttavia non vedono di buon occhio che vengano loro convertiti i negri, da essi adibiti ai lavori delle miniere, per non essere, poi,

costretti a concedere a costoro il riposo domenicale, e a trattarli meno duramente di quel che comportino

i dettami dell’avarizia ». Ed ecco nel commento all'Ars poetica, a p. 137, la singolare affermazione che il teatro popolareggiante, di tipo medioevale, in cui il macabro e il buffonesco s'intrecciano capricciosamente, piace ancora a tutti i pubblici, « tranne, forse, al francese; il quale (sia detto tra parentesi) non

se ne è disgustato se non dopo che Pietro Corneille gli ebbe offerto un nuovo genere di spettacoli, di cui può essere considerato inventore »: nel che troviamo adottata passivamente la sciovinistica alterazione della

realtà letteraria operata proprio dalla trionfante cultura

settecentesca

francese,

che

faceva

cominciare

un’epoca dal Cid del Corneille e dimenticava tutti i

420

COMMENTO A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

predecessori in terra di Francia, dal Jodelle al Garnier, dallo Hardy al Montchrestien, dal Mairet al Rotrou, nonché i meniti dell’Italia, che dalla Sofonisba del Trissino al Torrismondo del Tasso aveva gettato nel secolo precedente tutte le fondamenta del teatro tragico moderno. Ed ecco in genere il piglio acremente polemico contro tutti i più accreditati commentatori contemporanei, quell’eredità del tono diatribico degli umanisti che risuona anche nelle querelles dei dotti del Settecento, e che spinge il Galiani a

enormità come quella di definire nientemeno che il Bentley come « Cartouche, assassino di Orazio»: ἃ parte le inesauribili ironie prodigate al padre gesuita Sanadon, forse anche per la sua appartenenza a quella Compagnia di Gesù che nel Settecento fu il bersaglio preferito di quelle dinastie borboniche cui il Galiani fu particolarmente legato. Ma

il Bentley, tanto stranamente bistrattato dal

Galiani, che pure spesso non può fare a meno di apprezzarloe di citarlo, era l’esegeta di Orazio che per la sistematica e ecuta organizzazione del suo opus camminava sulle tracce dei metodi luminosamente esemplati in filologia da un Heinsius o da un Oudendorp e che perciò ha meritato come quelli d’esser tenuto nel debito conto dalla più progredita filologia moderna.

Questo non poteva essere il caso del Ga-

liani, il cui commento, per giunta così desultorio, occasionale, in apparenza concepito come sfogo di subitanei scatti di nervi, aveva tutte le caratteristiche di un essai, di un pari capricciosamente tentato per palesare il particolarissimo modo seguito dall’amatore nel delibare il testo a lui caro. Indubbiamente specie nelle chiose alle odi il Galiani è quasi costante-

COMMENTO

A ORAZIO

DI FERDINANDO

GALIANI

421

mente animato dal proposito d’insegnare anche ai commentatoni più qualificati come bisogna intendere

e spiegare Orazio, e quindi, specie quando arrischia le interpretazioni più spericolate, sfoggia conoscenze linguistiche e tecniche che dovrebbero lasciare a bocca aperta gli sprovveduti; è in fondo spesso la medesima

schiavitù, tipicamente settecentesca, agli. idola di un nascente rigore nella degustazione del particolare linguistico, quale Voltaire l’ha sfoggiata, e anche lui spesso prendendo cantonate, nei suoi Commentaires a Corneille. Lo stesso Nicolini, riconoscendo (p. XIV) che rimane ancora da compiere l’indagine mirante ad assodare a quali fonti il Galiani si fosse ispirato nel formulare le sue conclusioni e quali di esse appartenessero già alla critica oraziana, ha anche notato che mediante «quei sottilissimi e argutissimi ragionamenti... si giunge ainterpretazioni, di cui anche a un profano salta agli occhi l’arbitrarietà ». E proprio questo carattere esime dall'ungenza di assodare la

presenza e l’individualità di fonti o per lo meno induce

a riconoscerne

meno

impellente

la necessità:

Jeggendo ci si persuade che nella maggior parte dei casi il Galiani, da buon gentiluomo settecentesco largamente infarinato di cultura letteraria e linguistica, ha voluto compiere la sua brava alzata d’ingegno, fidando solo nelle sue forze, quasi a sfida della communis opinio consacrata dai più quotati esegeti. Tuttavia il Nicolini, che pure ha scritto le parole già riferite, non s'é potuto tenere dal tracciare il panegirico

(pp. ıv-v) di quel metodo di lavoro: «con quanta elevatezza d’ingegno egli si sapesse sollevare a una critica, non solamente superiore a quella, quasi meramente

grammaticale,

in voga

ai suoi tempi...,

ma

422

COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

che, forse, nessuno dei zio ha osato più tentare; di prove egli mostrasse faceva, come di uno tra

posteriori — ... con fondata la i più forti

interpreti di Oraquanta molteplicità stima, che di lui si latinisti del tempo;

— con quanta finezza di senso storico egli sapesse rivivere nella società in cui fiorì Orazio; — ...con

quanta genialità egli niuscisse a ricavare un elemento ermeneutico di capitale importanza dalle estese sue conoscenze folkloristiche del paese, che a Orazio aveva dato i natali; — ...sono

tutte cose, che i fram-

menti da lui lasciati mostrano a esuberanza». Ma subito prima egli ha dovuto ammettere: « Amare Orazio, studiarlo con passione, stendere magnifici di-

segni di lavori intorno ad esso, buttare sulla carta in forma greggia e affrettata quanto gli era accaduto di improvvisare poche ore prima a proposito di un’ode o di un verso; sta bene: — ma riflettere, poi, a mente

fredda, su quel che gli era balenato alla vividissima fantasia in un momento d’estro, sceverarne i paradossi e le bizzarrie, riempire le lacune con ricerche sistematiche, rielaborare, insomma, un materiale disgre-

gato e frammentario in un libro organico e ritmico; tutto ciò non era da lui». Una simile testimonianza da parte di uno studioso dell’altezza del Nicolini, che

per giunta ha avuto tra le mani i manoscritti del Galiani, è la migliore conferma del carattere di personalissima

improvvisazione

delle

chiose

dell’erudito

teatino, e quindi della quasi inutilità di un’indagine mirante a rinvenirne le fonti:

chiunque ha un’espe-

rienza anche limitata dell’esegesi oraziana

s’avvede

subito del loro carattere inedito, quasi da sfida alla opinione corrente. E questo il più delle volte è anche il loro limite, il loro peccato d’origine. Nel corso di

COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

423

questa rapida delineazione potremo e dovremo riconoscere i punti in cui le capacità di storico e di politico del Galiani riescono a imprimere al commento un carattere d’inattesa

penetrazione,

uno

slancio di

sintesi altrettanto acuta quanto inconsueta, dando ra-

gione al giudizio del Nicolini, che di queste cose era buon intenditore. Ma ciò che purtroppo non può mancare di assumere la prevalenza è la necessità di registrare la serie delle proposte temerarie che contraddistinguono il commento e lo circoscrivono nella

categoria dei coups d'essai degli amatori indubbiamente fini ma irrimediabilmente orecchianti. Tralasciamo il fatto che a p. 30 si legge due volte edilis e a p. 61, a proposito dell’ode I, 25, si afferma che arrogans è « composto da a privativo e rogo », e anche in seguito si insiste sul valore semantico attribuito alla parola in base a quest’errore. Quanto al resto, ci permetteremo di seguire l’ordine degli scritti quale è stato fissato dal Nicolini, e noteremo anzitutto che,

com’era

da attendersi,

la frenesia

congetturale

del Galiani si scatena soprattutto per quel che concerne la fissazione delle date, l’interpretazione cro-

nologica delle poesie e degli avvenimenti. È un segno tipico dell'ingenuità di una filologia agli albori, sedotta dal miraggio della soluzione dei problemi più impegnativi e più allettanti; è risaputo che oggi l’ars nesciendi si esercita soprattutto riguardo ai problemi di cronologia. Abbiamo già veduto che per il settimo epodo il Galiani ha oscillato fra opposte datazioni. A

p. 6, nell’abbozzo di biografia, a proposito dell’anno di nascita del poeta, si afferma che L. Manlio Torquato era console « per la seconda volta », mentre l’anno 65 a. C. fu l’unico anno di consolato di quel perso-

424

À4COMMENTOA

ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

naggio. A p. 8 gli epodi VII e XVI e l'ode III,2 sono considerati come le prime poesie di Orazio, e i due epodi come scritti subito dopo la morte di Cesare. A p. 9 si ritiene l'ode I, 27 composta al campo di Bruto e si afferma che I, 28 e III, 13 furono composte subito dopo il ritorno in Italia, in un periodo in cui il poeta si trovava encora a Venosa e non era ancora trasmigrato a Roma. A p. 10, chiamando settecentescamente « feudi » i poderi di Orazio, si considera I, 12 scritta a Ottaviano nel 41 per ingraziarselo, mentre oggi é assodato che in quell'anno Orazio non aveva ancora cominciato ad evvicinare gli ambienti altolocati. In conseguenza II, 1 & considerata composta nel 40 per la pace di Brindisi.

Alla succes-

siva p. 11 il viaggio a Brindisi descritto nella satire I, 5 è considerato compiuto per accompagnare Antonio e Ottavia in Grecia dopo

le loro nozze.

A p. 13

si favoleggia di una partecipazione di Orazio alla spedizione navale contro Se. Pompeo, che sarebbe stato l’ultimo suo intervento a un evento fondamentale della vita contemporanea. Se mai gli epodi I e IX potrebbero autorizzare l’ipotesi che Orazio fosse

imbarcato sulla flotta di Augusto prima di Azio, anche se oggi si è poco disposti a dar credito all’ipotesi

che pure è fermamente sostenuta dall’Arnaldi nel suo commento

a Orazio lirico, sulla base di IX, 35 (vel

quod fluentem nauseam coerceat). A p. 15 l’epodo XIII, che il Carducci (« Nuova antologia » del 16

dicembre 1902) giudicherà scritto al campo di Bruto (e l'ipotesi comtinua ad essere ritenuta accettabile),

1 Milano, 1940, pp. 329 e 358-59.

COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

425

è ritenuto dedicato ed Antonio Iulo nell’imminenza della guerra d’Azio. A p. 22 l’ode II, 17 è ritenuta composta in occasione dell’ultima malattia di Mecenate. A p. 27 si affenma che la separazione degli Epodi dalle Odi e delle Satire dalle Epistole avvenne nel quinto secolo, perché in realtà la composizione dei primi era stata contemporanea a quella delle seconde, e altrettanto dicasi delle Satire e delle Epistole, che così come ci sono state tramandate avrebbero subito « una sciocchissima divisione ». Passiamo al frammentario commento alle odi. A p. 34 si afferma che l’ode I, 2 « fu scritta durante il secondo triumvirato, qualche anno dopo la battaglia di Filippi: quando, cioè, Orazio, che, fino allora, aveva seguito il partito di Bruto, s’era gettato da poco in quello di Ottaviano»: quindi, verso il gennaio del 40. E non si vuol capire che nell’ode si accenna a un nuovo nome attribuito a Ottaviano. Per giunta

anche il Galiani commenta l’ode soorgendovi gli onori divini attribuiti ad Augusto! A p. 51, a proposito dell’ode

I, 12, 53-54,

si commette

l'errore di rite-

nere che a Roma si considerasse lavata l’onta di Carre grazie alla spedizione partica di Antonio. A p. 85 l'ode

III,

1 è considerata

«l'ultima

delle ultime »,

posteriore anche al l. IV. Viceversa a p. 86 si sostiene la tesi che l'ode III, 2 è stata composta prima della morte di Cesare. A pp. 100-01 si sostiene che l'ode III, 27 è stata scritta în gioventù, e che Galatea sarebbe Ottavia che va sposa ad Antonio: come si vede,

queste nozze hanno esercitato sul Galiani una vera e propria suggestione sollecitatrice di singolari identificazioni e singolari soluzioni cronologiche! A p. 102 lode

IV,

3 è considerata

la chiusa

del libro, e a

426

| COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

p. 106 l'ode IV, 9 è considerata viceversa come la prefazione a uno dei libri di odi. A p. 111 si afferma

che l'epodo XVI fu scritto « quando Orazio non apparteneva ancora ad alcun partito, e, cioè, quando dimorava in Atene, prima della morte di Cesare»: il Galiani infatti, come dimostra anche la Vita (p. 8),

seguiva la retta opinione che Orazio si fosse recato ad Atene all’età di 20 anni e fosse stato raggiunto Èì dalla notizia della morte di Cesare: ma è evidente che da questa esatta notizia egli ha ricavato un corollario che non si accorda in alcun modo col significato e lo spirito dell'epodo XVI. Volgiamoci ora all’esegesi del testo, che denuncia la medesima strana propensione a considerare l’opera di Orazio corpus vile per le più ingegnose fantasti-

cherie e ammasso di componimenti per i quali è possibile qualsiasi gioco interpretativo, così come ci è apparso in tutta la sua singolarità lo sfoggio delle proposte cronologiche errischiate in base alla persuasione che l’ordinamento dei carmi come ci è stato tramandato non presupponga alcuna pubblicazione separata di singoli libri, anzi sia l’effetto di arbitrari

spostamenti compiuti alle soglie del Medioevo. Già dalla Vita cominciano a colpirci alcune singolarità. A p. 6

libertino patre natum (Sat. I, 6, 6 e 45-46),

con rigoroso rispetto del significato originario della parola, è interpretato nel senso che schiavo era stato solo il nonno di Orazio, mentre ora basta aprire il commento di Kiesslhing — Heinze — Burck per vedervi

riferito (II,

109) il passo di Gaio (I, 3) che

libertini qui ex iusta servitute manumissi sunt. Così

a p. 8 si dimentica di ricordare che il padre condusse Orazio a studiare

a Roma (Sat. I, 6, 76, sed puerum

COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

427

est ausus Romam portare docendum). Nella medesima pagina in carm. III, 2, 1 si adotta la lezione Angustam, amici, invece di amice. A p. 16 si costruisce

tutta una romanzesca storia sull'infekce matrimonio di Mecenate

e Terenzia

(Licinnia

in Orazio),

romanze-

sca non certo perché Terenzia non tradì il marito (ché ‘anzi lo tradì anche con Augusto; e da Seneca — De prov.

I, 3, 10 ed Ep.

114,

16 - il Galiani

poteva

attingere notizie sull’infelicità di quel vincolo coniugale), ma perché ad esso si vogliono attribuire le odi

II, 5 e III, 11, interpretandole come relative a quella difficile convivenza, mentre

se mai Orazio s’® ricor-

dato della moglie di Mecenate

solo per celebrarne

(carm. II, 12, 13-16) i cantus, i fulgentis oculos e il

fidum pectus. A p. 19 è attribuita ad Augusto l’intenzione di « trasferire la sede dell’impero romano in Grecia o nell’Asia minore ». A p. 21 ci colpisce l’affermazione che il metro alcaico è stato « inventato » da Orazio: dobbiamo interpretare la frase nel senso che, mentre il metro saffico minore ha precedenti in Catullo nell’ambito della poesia latina, per quello alcaico si dovrebbe desumere che Orazio sia stato il primo a introdurlo dalla poesia greca? Nella medesima pagina si favoleggia di una vera e propria disgrazia di Mecenate presso Augusto. A p. 26 proprio il settecentesco Galiani si mostra inopinatamente prude dinanzi alla notizia suetoniana che Orazio nella sua casa speculato cubiculo scorta (o specula toto cu-

biculo)

dicitur

respexisset,

habuisse

ibi ei imago

disposita,

ut,

coitus referretur.

quocumque In realtà

l’inoredulità del Galiani è dettata da motivi di natura economica, ben pertinenti alla sua formazione

cultu-

rale, e tali da suggerirgli gustosi riferimenti alla realtà

428

COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

contemporanea, secondo quello ch'io ho già individuato come il tono intimamente settecentesco del commento:

« Questo lusso, divenuto, oggi, comunis-

simo in Francia, per effetto dell'abbondanza e grandezza degli specchi, che vi si lavorano di cristallo » (e, aggiungiamo noi, soccorre a tal riguardo il confronto coi Mémoires del Casanova, t. III, c. 1, ri-

cordati in nota al passo suetoniano del Rostagni/) « sarebbe

stato, a’ tempi

di Orazio,

un lusso

solo

proporzionato alle finanze d’un imperatore, dovendosi costmir di metallo ». Il Galiani immagina pertanto che la casa di Orazio sia passata in eredità agl’imperatori, e che Caligola o Nerone « avesse immaginato di convertir la casa di Orazio in una pefite-maison ».

Ma quest’immaginazione di un’immaginazione avrebbe ben potuto essere accantonata solo che il Galiani si fosse ricordato di Sen. Nat. quaest.

I, 16, ove si

parla di un tale costume già diffuso al tempo di Augusto. A p. 28 si parla degli scolii di Porfirione e dello Pseudacrone col medesimo disprezzo con cui si parlerà nel commento delle chiose dei più moderni commentatori,

e si afferma

ch’essi

risalirebbero

al

periodo bizantino, all’età dei Comneni, cioè « di quei greci » che allora « fecero risplendere, in mezzo alle tenebre, un resto di luce e d’amore per la lingua latina»; qualcosa di simile alle versioni di Massimo Planude! Naturalmente il commento ci riserba una più copiosa messe di sorprendenti particolari. Già nel chio-

sare l’ode I, 1 il Galiani ci prende di petto, affer-

2 Svetonio

« De

poetis»,

Torino,

1944,

p.

120.

COMMENTO

A ORAZIO

DI FERDINANDO

GALIANI

429

mando (p. 30) che i vv. 3-4 pulverem Olympicum |

collegisse iuvat, alluderebbero ai regoli greci d’Asia che anche ai tempi d’Orazio partecipavano ai giochi olimpici; per conseguenza ferrarum dominos del v. 6 sarebbe un naturale appellativo proprio di quei regoli: né v'é traccia dell'interpretazione oggi diffusa secondo cui /errarum dominos sarebbe apposizione di deos, come confermerebbero i vv. 17-18 e 23-24 di

IV, 2. A p. 32 si legge che Artadlicis condicionibus delv. 12 alluderebbe ai « prezzi eccessivamente alti»

che Attalo « offriva per qualsiasi oggetto »; e alla pagina successiva si ignora che Myrtoum mare del v. 14, il mare sotto l'Eubea, era tempestoso, si che il passo

andrebbe interpretato per il Galiani nel senso che colui che è abituato a patrios findere sarculo/agros è così pauroso della navigazione che anche con una trabe Cypria non vorrebbe traversare un « piccolo tratto di mare»; per giunta nella medesima pagina si mostra d'ignorare che Mecenate era anche poeta; e in partem solido demere de die del v. 20 si scorge un « fare oolezione»! A p. 37 si accetta al v. 39 di I, 2 proprio la correzione Marsi del Bentley a Mauri, che oggi & normalmente abbandonata. A p. 60, pur sfoggiando specifiche conoscenze storiche e geografi.

che sul Cecubo e sul Falerno per meglio spiegare l'ultima strofe di I, 20, non si chiarisce il vero significato di femperant vites nel noto senso che i vini del Fa-

lerno e di Formia non si mescolano all’acqua nei pocula di Orazio, e ci si limita a rendere l’espressione

con « io non sono abbastanza ricco da possedere vigne nel Campo Falernoe nei Colli Formiani», pur dopo aver gridato allo scandalo per chi aveva interpretato temperant nel senso che i vini del Falerno e di For-

430

| COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

mia avrebbero dovuto raddolcire il vino dei fondi posseduti dal poeta: dato questo precedente, correva l’obbligo di specificare che cosa precisamente andava inteso nel verbo femperant. Più sorprendente è senza dubbio l’exploit interpretativo del v. 10 di I, 36 a p. 71, ove Cressa...

nota non è naturalmente in-

teso nel senso che la creta con cui si segnavano i giorni fausti provenisse dall’isola omonima, ma nel senso che vi si allude a un « recipiente fatto di terra cretese»! Le sorprese si moltiplicano a proposito dell'ode I, 37. Riguardo al grege turpium/morbo virorum si panla (p. 73) di lebbrosi, facendo riferimento a notizie su epidemie e gravi malattie diffuse in

Egitto; e a p. gosis dei vv. terpretazione « eunuchi » si

111, a proposito di spadonibus.... ru13-14 dell’epodo IX, che conforta l’indi /urpium ... virorum nel senso di osserva: « Il lettore metta a confronto

i due passi, e giudichi se tra essi v'é rapporto di sorta. Forse, anche le rughe, come l'evirazione, sono malattia contagiosa? ». L'aspetto cavillosamente intellettualistico dell'osservazione è evidente: frequentissimo è

nei testi latini l'uso di »orbus nel senso di « vizio, immonda passione, minorazione degradante », e il fatto che qui morbo sia dipendente da turpium impone l'adozione di questo valore semantico. Ma in fatto d'interpretazione dell’ode I, 37 c'é di peggio a p. 74, dove saevis Liburnis del v. 30 & considerato complemento di paragone dipendente da ferocior, nel senso di « più feroci dei crudeli liburni », cioè della razza degli Schiavoni, e il segno d’interpunzione è spostato

dopo Liburnis! Anche qui un’osservazione cavillosa: costruire deduci triumpho saevis Liburnis signäficherebbe « ammettere che i vascelli e le fregate potes-

COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

sero amdare camminando per

431

le strade di Roma »,

quasi che non fosse fondamentale l’intervento delle Liburnae nel trasportare la regina prigioniera alle foci del Tevere, perché essa fosse condotta come ornamento del trionfo! Un trattamento veramente inatteso riceve l’ode II, 1, che è interpretata (p. 76 sgg.) come allusiva solo alla partecipazione di Pollione alla vita politica. Nell’ode non si alluderebbe né all’opera storica di Pollione né alla sua attività di tragediografo. Il lettore si domanda come motum ex Metello consule civicum bellique causas in dipendenza da fractas possano essere interpretati come origini remote di una situazione politica direttamente influenzata da Pollione, a venti anni di distanza dal suo inizio, e proprio con in mezzo il bellum civile cui il poeta accenna apertamente, e non debbano essere interpretati invece, se-

condo l’evidenza, come argomento di un’opera storica cui Pollione si è dedicato proprio per rivivere criticamente quel turbinoso periodo storico. E lo stupore cresce dinanzi ad espressioni come quelle dei vv. 1718, Iam nunc minaci murmure

cornuum

| perstringis

auris, e del v. 21, Audire magnos iam videor duces, che non possono certo alludere a eventi politici nel loro materiale effettuarsi, ma o evidentemente una narrazione svolta da Pollione. Ma lo stupore si tramuta in sbigottimento quando ai vv. 9-12 (Paulum severae Musa tragoediae / desit tbeatris: mox ubi publicas / res ordinaris, grande munus /

Cecropio repetes coturno) vengono interpretati come allusione agli spettacoli offerti da Pollione come magistrato,

escludendo

ch'egli sia stato poeta

tragico:

quasi che l'ottava ecloga di Virgilio, al v. 10 (sola

432

_COMMENTO A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

Sophocleo

tua

carmina

digna

coturno),

non

ci con-

fermasse questa notizia senza possibilità di dubbio! La deliziosa ode III,

9, il colloquio con Lidia

Donec gratus eram tibi, è giudicata tout court (p. 93

sgg.) una versione dal greco, solo perché non vi è né la vigorosa profondità filosofica né la maliziosa facezia un po' licenziosa che sarebbero i due opposti caratteri costantemente alternantisi nella poesia oraziana; l'ode III, 9 « v'empie l'anima » di dolcezza, e perciò non può essere farina del sacco d’Orazio: « in una parola, è greca», è cioè qualcosa di analogo al c. 51 di Catullo, « imitazione e copia » del Φαίνεταί pot κῆνος di Saffo. E così meglio si penetra la natura del trasporto del Galiani per la poesia di Orazio,

anche se si deve registrare un’assurda limitazione delle capacità del poeta di Venosa. Come abbiamo già notato, l'ode III, 13, l’ode al foss, è stata considerata

dal Galiani composta in gioventù a Venosa, prima del trasferimento a Roma, e relativa esclusivamente alla

fonte del paese natale; l’opinione, già espressa nella Vita, è ripetuta nel commento (p. 95), senza nessuna

indulgenza per la tesi oggi corrente che Orazio avesse ribattezzato col nome della fonte del paese natio quella che sgorgava nella sua villa sabina e che oggi

si suol identificare con quella che sprizza nelle campagne di Licenza, vicino ai ruderi ritenuti appunto gli avanzi della villa oraziana. A me sembra piü accettabile la tesi dell'Ussani, che pone la virgola dopo fons e fa dipendere Bandusiae dal successivo vitro, immaginando che Orazio lodi la fonte della sua villa sabina trovandola più limpida del fons Bandusius della sua terra,

a cui andrebbe riservato

il nome;

ma ad

ogni modo anche in questo modo rimarrebbe indi-

COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

433

scutibile che l'ode è indirizzata alla fonte della villa sabina, uno dei tanti aspetti che abbelliscono il podere venuto ad appagare le più intime propensionidi Orazio. A pp. 96-97 con grande lusso d'argomentazioni e con sprezzante disdegno delle conclusioni degli altri commentatori si dà addosso al Veuvilliers che intende vectigalia porrigam di III, 16, 40 come

« estenderò le entrate », cioè nell’unico senso possibile; per il Galiani invece vectigalia allude a « quel censo o livello o canone annuo, che ogni concessionatio di terreni... doveva pagare all'erario». Per lui solo così si può intendere il pensiero di Orazio, « il quale,in fondo, si conforta col riflettere che chi

possiede minor mumero di terreni, pagherà anche meno censi all’erario ». Ma porrigam è termine che si adatti veramente al senso propugnato dal Galieni? Sia notato infine che a p. 106 in perfetta tranquillità si ritiene l’ode IV, 12 indirizzata al grande Virgilio, al sommo poeta, senza neppure sfiorare lo spinoso

problema dello studium lucri del v. 25, che fa discutere ancora gli studiosi sulla possibilità che l’ode sia

dedicata all’autore dell’Eneide o non piuttosto a un giovane

commerciante

suo

omonimo.

Uguali sorprese ci riserba il commento all’Ars poetica. Lo scriptor cyclicus del v. 136, chiara allu-

sione agli autori dalla

’Iàc μικρά

e dei Postho-

merica, è interpretato (p. 121) come « poeta di fiera »! A p. 125 si respinge l’interpretazione dei vv. 179 sgg. condotta in armonia col precetto di Aristotele al c. 14 della Poetica, cioè con la pregiudiziale

della sconvenienza dell’introduzione diretta delle atrocità sulla scena, e del divieto si fornisce una ragione molto più razionalisticamente basata su motivi di 28

434

COMMENTO

A ORAZIO

DI FERDINANDO GALIANI

convenienza scenografica: « Come farà, per esempio, Medea a dilaniare i figli sulla scena? Non dovrà, forse, far cadere quei fanciulli di canne ed ossa, che li rappresentano, mediante un trabocchetto, sotto il teatro, e sostituire ad essi fantocci? — E Atreo? Quali sa-

ranno

le viscere umane,

che egli getterà a bollire

nella caldaia, se non pezzi di pergamena dipinta? E come potranno gli spettatori astenersi dal dire che

egli, in quel momento, sta manipolando una magnifica colla?». Dove è facile obiettare al Galiani che già nella Medea di Euripide si pone proprio il primo problema da lui formulato, e che, quanto al secondo, lasciando stare il Thyestes di Seneca, alla sua espe

nienza di grande conoscitore delle cose di Francia non doveva sfuggire che anche nell'A/rée del Crébillon, a imitazione della tragedia senecana, era ripetuta la scena in cui Atreo presenta a Tieste gli avanzi dei figli. Del resto a scagionare il Galiani mi basti ricondare che argomenti come i suoi sono stati ancora ripetuti, in una discussione con me, dal compianto Beare per sostenere che le tragedie di Seneca erano composte solo per la lettura. A p. 126 Nec quarta loqui persona

laboret del v. 192 viene interpretato

come significante « a una quarta pars non si affidi una parte troppo faticosa » e non, come & evidente e come & rigorosamente richiesto dalla tradizione culturale, che sulla scena non ci deve essere un quarto personaggio a parlare: e ció per la speciosa e discutibilissima ragione che nelle commedie di Terenzio « si troveranno scene, nelle quali parlano, non dico quattro ma anche cinque, sei, e, perfino, sette persone. Lo

stesso, d'altronde, aveva fatto Euripide; i| quale, talvolta, riunisce sulla scena tutti i personaggi della tra-

COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

435

gedia ». Dovremo studiare almeno in che modo s’erano formate nel Galiani queste convinzioni? Da ultimo si ricordi che a p. 135 il francese sage femme è fatto discendere da saga, senza nessun sentore della derivazione di saggio, sage da sapidus. Dovremo concludere dunque che il commento del Galiani è uno scoppiettio di paradossali ingegnosità denunciatrici di un ingegno tanto brillante quanto indisciplinato e amante dei più cavillosi jeux d’esprit? Commetteremmo una solenne ingiustizia pronunciando una sentenza del genere. Sovrabbondano purtroppo le ipotesi insostenibili del tipo di quelle che abbiamo

elencate;

ma

ogni

tanto

erompe

all’improvviso

un'intuizione singolarmente e acutamente felice, soprattutto nell’ambito della visione sintetica, degli sguardi che abbraociano grossi problemi e vasti orizzonti. In quel campo forse a lui più congeniale che non l’esegesi minuta, la rigorosa filologia formale, il Galiani palesa le sue straordinarie doti di scopritore di aspetti nascosti dell'umana vicenda. Per esempio a p. 38 già s'intravvede nel pater di I, 2, 50 quel valore dell'appellativo di pater patriae che a mio modesto parere ebbe tanta importanza nel fissare il carattere e i poteri del princeps nell'originaria indeterminatezza e carenza di istituti formali del regime imperiale. E a p. 47, a proposito dei lenes susurri di I, 9, 19, si incontra una deliziosa pagina sulle serenate notturne

e la condizione delle donne nelle famiglie meridionali in età antica e moderna,

una di quelle

pagine fra le

piü rappresentative della valida tendenza del Galiani a riportare la poesia di Orazio nel quadro della sensibilità settecentesca. Così nel commento all’Ars poe-

tica appare

una

mentalità

singolarmente

matura

e

436

= COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO

GALIANI

avanzata nel giudicare le prospettive dell’arte drammatica e della storia del teatro,

una mentalità che

procede già al di là di quanto andava contemporaneamente profilando il Lessing nella Hamburgische Dramaturgie. Dopo aver chiarito a p. 123 che l'Ars poetica è soprattutto un prontuario per l’arte drammatica, a p. 127 il Galiani affaccia la prima ben ragionata discriminazione critica fra la tragedia greca e il teatro del Corneille e del Racine, in una forma che mi ha fatto risuonare quanto un secolo e mezzo dopo avrebbe affermato Ettore Romagnoli nel suo Teatro greco, per avvertire gl'incompetenti della necessità di non accostarsi alla tragedia greca coi pregiudizi e le abitudini inoculati dalla conoscenza della cosiddetta tragedia regolare moderma. Ma nel Galiani c’è in più la felice intuizione, che nessuno poteva allora suggerirgli, che il tipo di teatro che più della tragedia regolare moderna s’avvicina alla tragedia greca, per il suo carattere di rito religioso, per la sua fonmazione da una materia mitologica ch’era anche oggetto di culto, per la presenza del coro, era la sacra rappresentazione medioevale. Ciò è confermato a p. 129, ove, con felice estensione della prospettiva anche ad alcune

forme più rappresentative del teatro contemporaneo, si schizza anche un'affinità fra la tragedia greca e il teatro del Metastasio, per la presenza in esso delle ariette, per la diversità del metro fra i recitativi e le

parti cantate. Si viene così a riprendere quell’intuizione che

s’era già confusamente

affacciata

alla coscienza

della Camerata dei Bardi e aveva determinato le origini del teatro musicale; e si conferma quanto il Metastasio stesso aveva intuito Osservazioni al teatro greco.

e affermato

nelle

sue

COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

437

Ma non si creda che solo l’Ars poetica, con la sua discussione dei problemi del teatro, abbia provocato

le più felici intuizioni del commento galianeo. Le pagine che m’han fatto più profondamente sobbalzare d’ammirazione sono le pp. 58-59, nella lunga trattazione sull’ode I, 20. Ivi, a proposito del problema

dell’effettiva posizione sociale di Mecenate e dei suoi rapporti con l’aristocrazia romana, il pensatore del-

l'età di Giuseppe II profila con stupefacente modernità di vedute, con acume di gran lunga superiore alle infatuazioni plutarchee da cui furono dominati anche i maggiori spiriti della Rivoluzione francese, il carattere sordidamente retrivo e classista dell’opposizione senatoria al regime imperiale: « Gli oligarchici, cogliendo il pretesto che i neo-nobili volevano modificare la costituzione della Repubblica, si proclamavano conservatori della libertà...: pretesti speciosi e linguaggio pseudo-patriottico; i quali, se non ingannarono un uomo furbo come Cicerone (che passò nelle loro file, quantunque parvenu, solamente per ambizione personale . . .), giovarono, per altro, ad attirare a loro molte anime oneste e virtuose, che ane-

lavano a combattere e morire per la libertà, senza accorgersi che venivano, per tal modo, a difendere l’oligarchia, vale a dire il peggiore di tutti i governi. I monarchici, al contrario, quantunque, apparentemente, volessero distruggere la libertà, con l'innalzamento d’un principe, o, meglio (se è lecito chiamare con nome

moderno

una carica entica), d’uno stathol-

der, miravano a stabilire un governo temperato; del quale non si tardarono a sentire gli effetti benefici, durati oltre due secoli ..., e, cioè, il ritorno all'or-

dine, alla quiete, alla pubblica prosperità ». Di qui

438

COMMENTO

A ORAZIO

DI FERDINANDO GALIANI

add:rittura la difesa anche degl’imperatori più malfamati: « Tiberio, per esempio, fu amministratore sagzio ed economo, e uomo superiore di molto alla triste reputazione, che gli hanno creata gli storici; Nerone, lo stesso Nerone, riuscì odioso ai romani, più che per altro, per aver voluto fare un po’ troppoil petit-maitre e mostrare con affettazione la sua passione pei costumi greci. Se, invece di prestare fede cieca

agii storici, mossi, chi più chi meno, dalla passione di parte, si ascolta la voce, veramente autentica e imparziale, che si sprigiona dai pubblici monumenti, si

avrà la prova asserzioni:

più manifesta della verità delle mie

medaglie,

iscrizioni, opere

pubbliche uti-

lissime, istituzioni savissime; tutto mostra la prosperità dell'Impero romano durante quei due secoli». Chi come il sottoscritto ha dedicato buona parte del suo grosso volume tacitiano (Roma 1962?) a sfatare le millenarie leggende incrostatesi rovinosamente sulla fama degl'imperatori, e specie di Tiberio, e in altre opere s'è pure adoperato a lumeggiare la tendenziosità della storiografia relativa alla prima età imperiale e in occasione del quasi bimillenario della morte

di Nerone ha abbozzato ὁ una parziale rivendicazione dell’Enobarbo, s'è sentito allargare il petto alla lettura di queste pagine del Galiani, così ignote e isolate, ma così genialmente precorritrici di alcuni frai più utili orientamenti della storiografia attuale, tali da rendere da sole preziosa la sua disordinata, saltuaria, sproporzionatissima esegesi oraziana. Ecco una prova,

se pur ce n’era bisogno, che spesso gl’ingegni più vivi 3 Nerone nel XIX centenario della morte, in «Studi

mani», 1969, p. 269 sgg.

ro-

COMMENTO

A ORAZIO DI FERDINANDO GALIANI

439

e più penetranti si trovano a disagio dinanzi ai compiti di un'illustrazione dei particolari, puntuale nel dosaggio delle componenti tecniche e nello sfruttamento rigoroso degli strumenti di ricerca, ma si prendono la più eloquente rivalsa quando si tratta di spiccare il volo verso un mipensamento che obblighi a guardare le cose dall’alto e a penetrare i grandi fenomenti storici e spirituali nelle loro ragioni più intime e nei loro caratteri più essenziali.

L’« AGAMEMNON

E L’« AGAMENNONE

» DI

SENECA

» DELL’ALFIERI *

Nella Vita dell'Alfieri,! al cap. II dell’epoca quarta, quando l’autore discorre dell'inizio della sua attività

di tragediografo e del suo « primo viaggio letterario in Toscana» con la conseguenza della lettura del Polinice a Pisa «ad alcuni di quei barbassori del. l’Università », si trova a buon punto il primo ricordo della sua lettura e del suo studio delle tragedie di Seneca. I « barbassori » non trovano di meglio che consigliargli di leggere e orecchiare la Tancia di Michelangelo Buonarroti il giovane o il Metastasio. L’ancor giovane autore trova che « nessunodi quei dotti era dotto in tragedia » e provvede a cercarsi da sé i modelli più adatti. Si volge ai classici e si piega percio a tradurre in prosa l’Ars poetica di Orazio, « per

invasarsi que’ suoi veridici e ingegnosi precetti ». Ma si dà « anche molto a leggere le tragediedi Seneca, benché in tutto » — egli avverte — «ben mi avvedessi esser quelle il contrario dei precetti di Orazio. Ma alcuni tratti di sublime vero mi trasportavano, e cercava di renderli in versi sciolti per mio

* Dagli «Studi in onore 1974, vol. I, p. 517 sgg.

di Natalino Sapegno », Roma,

1 Cito dall'edizione a cura di L. FAssó,

Firenze,

1924.

442

SENECA

E ALFIERI

doppio studio di latino, e d’italiano, di verseggiare e grandeggiare. E nel fare questi tentativi mi veniva evidentemente sotto gli occhi la grande differenza tra il verso giambo e il verso epico, i di cui diversi metri bastano per distinguere ampiamente le ragioni del dialogo da quelle di ogni altra poesia; e nel tem-

po stesso mi veniva evidentemente dimostrato che noi Italiani non avendo altro verso che l’endecasillabo per ogni componimento eroico, bisognava creare una giacitura di parole, un rompere sempre variato di suono, un fraseggiare di brevità e di forza, che venissero a distinguere assolutamente il verso sciolto tragico da ogni altro verso sciolto e rimato sì epico

che lirico. I giambi di Seneca mi convinsero di questa verità, e forse in parte me ne procacciarono i mezzi. Che alcuni tratti maschi e ferocidi quell’autore debbono per metà la loro sublime energia al metro poco sonante, e spezzato. Ed infatti qual è sì sprovvisto di sentimento e d’udito, che non noti la enorme differenza che passa tra questi due versi? L’uno, di Virgilio, che vuol dilettare e rapire il lettore:

Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum; *

l'altro di Seneca che vuol stupire, e atterrire l'uditore; e caratterizzare in due sole parole due personaggi diversi: Concede

mortem.

Si recusares,

darem »3

2 E il v. 596 di Aen. VIII. 3 Neanche a farlo apposta è un luogo dell'Agamermznon, del dialogo finale fra Egisto ed Elettra, il v. 994.

SENECA

E ALFIERI

443

L’importanza capitale del passo non & sfuggita a

V. Branca, il quale* ha rilevato l’importanza d’aver indicato « il modello del sublime vero senechiano.. che tanto assolutamente aveva dominato il gusto teatrale dell'ultimo secolo; e sempre, secondo un modulo

barocco, all’äme sensible è opposto, immane, il tiranno ». Il tratto pià importante, infatti, che va isolato nel passo alfieriano ora trascritto & l'acuta con-

statazione che Seneca, benché autorevole modello classico, rappresentava nel suo teatro «il contrario

dei precetti d’Orazio ». L’Alferi, insomma, lo avvertiva anche lui come eredità di un movimento letteramo che dalla classicità aveva mirato ad estrarre ciò che potesse incoraggiare proprio accenti ed espressioni di sovvertitrice bizzarnia, di stimolante

novità nella

resa di una Weltanschauung problematica, oscillante tra l’angoscia e la spericolata esperienza della mutevolezza, lo avvertiva, cioè, nel quadro della sensibilità

barocca, conciliata con la tendenza allo Sturm und Drang di cui forse egli risentiva oscuramente la contemporaneità. Già prima, nell’introduzione alla mia versione delle tragedie di Seneca,’ avevo annotato: « Se dunque l'Inghilterra elisabettiana, la Francia dei moschettieri e della Fronda, e il nostro Alfieri (tut-

t'insieme barocco in ritardo e preromantico) avvertirono profondamente il fascino di Seneca (e l’Astigiano nella Visa dichiarò esplicitamente di avere esemplato il suo verseggiare scabro e prerotto sui trimetri angolosi e virilmente concitati del Cordovese), non si 4 Introduzione al volume Opere di VittoRIo ALFIERI, Milano, 1965, p. VI. 5 Roma, 1956, pp. xxix-xxx.

444

SENECA

E ALFIERI

tratta di una singolare avventura storico-culturale, di un casuale incontro di autori sostanzialmente diversi,

ma di un meditato riconoscimento di vincoli ideologici ed espressivi che a distanza di secoli legavano poeti

tragici

sorti sul medesimo

solco,

tutti più o

meno rivolti alle medesime conquiste formali e spirituali. Per l’Alfieri... si potrà, al massimo, osservare che la sua simpatia per Seneca doveva essere ispirata anche dalla frequenza con cui questi raffigura il tipo del tirenno (certo ben noto alla sua esperienza) e ne rivela l’intima miseria »; nella premessa all'Agamemnon (p. 220) aggiungevo: « L’influsso della tragedia senecana & stato fortissimo sull’Alfteri, che

in un brano della Vita ricorda le battute scambiate fra Elettra ed Egisto come esempio cui s’è ispirato il suo stile tragico scabro e conciso e che ha modellato il suo Agamennone sulle orme di quello di Seneca, dall’incubo iniziale dell’ombra di Tieste sino all’intervento finale di Elettra, e soprattutto nella delinea-

zione del personaggio

di Clitennestra,

tragicamente

combattuto, e rimasto tale anche nel successivo

Ore-

ste ». Più tardi* osservavo, proprio citando il verso dell’Agamemnon ricordato dall’Alfieri: « scorgiamo con uguale sicurezza la scuola cui s’® formato il nostro Alfieri, per battute come “ Scegliesti? — Ho scelto — Emon? — Morte — L'avrei ” dell’Antigone, o per

la celebre scena finale del secondo atto del Filippo: “ Udisti? — Udii — Vedesti? — Io vidi ”, eoc. Come

il tipo del tiranno è derivato dall'Atreo di Seneca...

6 Originalità pp. 69-70.

del teatro di Seneca,

in « Dioniso », 1957,

SENECA

E ALFIERI

445

all’Alfieri..., così... è derivata quest'inconfondibile eredità stilistica senecana ». Ma se l’ammissione dell'importanza formativa del teatro di Seneca è così esplicita nel luogo ota considerato, le cose cominciano a mutare verso la fine del

medesimo capitolo, ove l’Alfieri confessa:

« Appena

ebbi stesa l’Antigone in prosa, che la lettura di Seneca m'infiammò e sforzò d’ideare ad un parto le due gemelle tragedie, l'Agamennone, e lOreste»; ma

subito dopo dichiara:

« Non mi pare con tutto ció,

ch'elle mi siano riuscite in nulla un furto fatto da Seneca ». La questione del furto per noi & inesistente, ma allora poteva avere un motivo di tradizione retorica per esser posta. Ad ogni modo, pur con l’esplicita negazione d'aver copiato Seneca (e del resto per l’Oreste nulla di simile si poteva affermare, non avendo Seneca composto una tragedia su quell'argomento), l'Alfieri è pronto a riconoscere di non aver tratto ispirazione dall’Agamennone di Eschilo, ma dal così dissimile Agamemnon senecano. Al riguardo possiamo già fissare un punto d’un certo interesse. Le tragedie d’argomento mitologico sono una minoranza nel teatro alfieriano, sono sette su ventidue, contando nel

loro gruppo anche la Merope, che sostanzialmente era giudicata argomento relativo più a una fase protostorica che leggendaria del mondo greco, e l’Alceste seconda, tardiva rielaborazione del modello euripideo, quando finalmente (quarta epoca, c. XXIV) l’autore

s'era dato a coltivare la letteratura greca, leggendo i tragici in traduzione; e basta leggere il c. XXVI

sincerarsi dell’eccezionalità di quell’impresa,

per

ispirata

dall’entusiasmo esploso alla lettura della tragedia euripidea, sì da far violare al poeta il giuramento di non

446

SENECA

E ALFIERI

scrivere più tragedie e da obbligarlo a rivelare agli

amici il suo « studio di greco, che avea sempre occultato a tutti ». Ma se seguiamo l’ordine di composizione delle tragedie mitologiche, ci accorgiamo che la Merope s'inserisce dopo altre due tragedie ispirate alla storia antica

(l’Ottavia e il Timoleone),

il che

potrebbe avvalorare l’opinione ch’egli ritenesse storico anche l’argomento della terza tragedia; e l’oocasione per la sua stesura è presentata dall’autore (epoca quarta, c. IX) nel moto di stizza provato nel leg-

gere l'omonima tragedia di Scipione Maffei e nel constatare ch’essa non meritava affatto l’onore di essere ritenuta « l’ottima e sola delle tragedie, non che delle fatte fin allora (che questo

lo assento

anch’io), ma

di quante se ne potrebber far poi in Italia». Una spinta occasionale,

dunque,

da cui forse

non

andò

esente neppure il successo della Mérope di Voltaire, con cui l’Alfieri sarebbe entrato in gara anche coi due Bruti, di fronte al Brutus e alla Mort de César del-

l’autore francese. Poi, dopo altre sette tragedie storiche (e vi annoveniamo anche il Saul che si riferisce

in fondo a un episodio della storia ebraica), ecco l’improvvisa fioritura della Mirra, ispirata (epoca quarta, c. XIV) dalla lettura del 1. IX delle Metamorfosi

di Ovidio:

altro strano punto di contatto con Seneca

che, com'è nisaputo, maturò anche, se non soprattutto,

dalla lettura delle Heroides la composizione della Phaedra e dell’Hercules Oetaeus. Tre sole tragedie mitologiche, dunque, in una massiccia e coerente successione di tragedie stoniche. Invece all’inizio dell’attività tragica ecco, di fronte al primo tentativo dell’Antonio e Cleopatra e di fronte al Filippo e alla Virginia, levarsi le due coppie di tragedie dedicate

SENECA

E ALFIERI

447

ai due miti fondamentali nel dramma greco, quello tebano di Edipo e dei Labdacidi e quello argivo degli

Atridi. Sembrerebbe quasi che il tragediografo, destimato sotto questo aspetto a ripercorrere la strada battuta nel siècle d'or francese dal Corneille con la prevalenza data alla tragedia storica, da principio propendesse ad avviarsi invece sulla strada del Racine, che doveva la sua fama principalmente all’Andromaque, all’Iphigenie e alla Phèdre. E infatti, a sua stessa confessione, egli (epoca quarta, c. II) trasse il Polinice della Thebaide ou les fréres ennemis, la prima tragedia del Racine, mischiandovi alcuni spunti presi dai Sette a Tebe di Eschilo, «che leggicchiai nella traduzione francese del padre Brumoy », così come

per il Filippo si era ispirato al Don Carlos, la storia romanzata di César Vichard de Saint-Réal, sì da chia-

mare il Filippo « nato francese, e figlio di francese », e «gallo anch'egli » il Polinice. Ciò ch'è ad ogni modo il più importante è che nella cospicua elaborazione dei due miti greci gli rimasero estranei i due grandi modelli di Sofocle e di Eschilo, che gli si dovevano parere innanzi rispettivamente per la vicenda di Edipo e dei suoi discendenti e per quella degli Atridi. Già per la prima coppia va notato ch’egli non affronta il personaggio di Edipo, il protagonista dei due maggiori drammi sofoclei; ma l'importante è che

per il Polinice egli trascuri anche le Fenicie di Euripide, ispirandosi solo al Racine, e per l’Antigone trascuri addirittura l'omonima tragedia di Sofocle, dichiarando (ibid.) che essa « prima non imbrattata di origine esotica, gli venne fatta leggendo il duodecimo Hbro di Stazio nella traduzione ... del Bentivoglio » (e cfr. C. Calcaterra, La questione staziana intorno al

448

SENECA

E ALFIERI

Polinice e all’Antigone di Vittorio Alfieri, in « Giorn. stor. lett. ital. », vol. 93, p. 69 sgg.). La sua recisa

affermazione di non aver avuto modelli francesi per l’Antigone non ci deve far dimenticare l’evidente presenza in questa tragedia dell'influsso dell’Antigone del Rotrou; 7 ciò che ci fa anche sospettare che per l'Oreste, egli, accanto all’Oreste di Voltaire, abbia tenuto presente un altro modello francese, cioè l'Oreste del

Longepierre. Ad ogni modo, per l’organizzazione della dilogia tebana, fu determinante per l’Alfieri l’influsso del predominante teatro tragico francese del secolo precedente, quello stesso cui si riferiva con tanto en-

tusiasmo Ranieri dei Calzabigi nella famosa lettera scritta all'Alfieri per la pubblicazione delle prime quattro tragedie, nella quale Seneca è nominato due sole volte per certi effetti stilistici delle Troades e per notarne «il rettorico ». Tutto ciò chianisce sempre me-

glio come l’iniziale predominio dei temi mitologici corrisponda a un periodo di ancor faticosa ricerca della via più congeniale. Tanto più da notare è pertanto che,

per l’altra dilogia dedicata agli Atridi, l'ispirazione prima sia partita da Seneca, e sia stata determinante non solo per la prima delle due tragedie (corrispondente per l'argomento a una tragedia senecana), ma

anche per la seconda, per la quale poi l’Alfteri andò a cercare un punto d’appoggio anche nell’Oreste di Voltaire. Egli infatti, nel capitolo quinto dell’epoca quarta, afferma esplicitamente di dover anche l’ispirazione dell’Oreste all’Agamemnon di Seneca, ma poi ? Per un'attenta analisi delle fonti delle tragedie alfierane,

anche a rettifica delle affermazioni del poeta, è sempre valido E. BERTANA, Vittorio Alfieri, Torino, 1902.

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E ALFIERI

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di aver aperto un volume delle tragedie di Voltaire e di avervi scorto l’esistenza di una tragedia Oreste e di esser rimasto «indispettito di ritrovarsi un tal competitore tra i moderni», tanto più che gli era stato assicurato « esser quella una delle buone tragedie di quell’autore ». Allora il Gori Gandellini gli avrebbe consigliato di non leggere la tragedia volterniana prima di aver composto la sua; e questo consiglio sarebbe divenuto per lui una nonma anche per il futuro Anzi l'avrebbe applicata anche per la composizione dell’Agamennone,

« steso... senza nemmeno

aprire quello di Seneca, per non divenir plagianio ».

Il che, ripetiamo, è segno del progressivo puntiglio dell'Alferi nel proclamare il suo distacco da Seneca, proprio nel momento in cui riconosce egli stesso ciò che salta a prima vista, cioè che il secondo cimento con un grande tema mitologico greco, anziché dall'influsso prevalente del teatro francese, era stato ispirato dalla lettura di Seneca. Peggio ancora ci troviamo nel medesimo capitolo quinto, quando, parlando della genesi dell’Oreste, l’Alfieri non si perita d’aflermare che l’« avea infiammato di tal soggetto la lettura del pessimo Agamennone di Seneca»: siamo esattamente nel medesimo atteggiamento che verso il tragediografo cordovese aveva mostrato un secolo prima un altro più grande

poeta tragico, che pur tanto gli doveva, il Racine. 8 Naturalmente su tutto ciò e sull’effettivo sfruttamento delle fonti

saggio

l’Oreste, cfr. BERTANA, Op. cit., pp. 419-29 e il

Oreste

in

«Rivista

d’Italia », 1903,

pp. 585-614. 9 Cfr. E. PARATORE, Osservazioni sulle maque» di Racine, in Studi in onore di renze, 1966, pp. 924-35. 29

vol.

II,

fonti dell'« AndroItalo Siciliano, Fi-

450

SENECA

E ALFIERI

Nelle préfaces alle tragedie in cui più si rivela il suo debito verso Seneca il Racine, quasi vergognandosene e quasi sforzandosi di rivendicare il suo programmatico classicismo di fronte ad un autore caro alla « barbarie barocca», fa di tutto per nascondere le ascendenze senecane: nella préface all’ Andromague ha

il toupet di porre come modello precipuo i versi virgiliani dell’episodio di Andromaca nel l. III dell’Eneide,

accennando solo di sfuggita all’Andromaca di Euripide (che per la struttura è il modello principale) e ale Troades di Seneca, che gli hanno suggerito, sia pure κατ᾽ ἀντίφρασιν, lo spunto capitale del decisivo

attaccamento

di

Andromaca

al

figlio,

benché

nella tragedia di Seneca esso, dopo una lotta ostinata e disperata, sia crudelmente eluso mentre nella trage dia di Racine raggiunge il suo scopo; nella préface al Bajazet, per giustificare il riferimento a un fatto quasi contemporaneo, si sbilancia ad addurre l’esempio dei Persiani di Eschilo, tacendo quello che che già da secoli, a cominciare dall’Ecerinis del Mussato,

era sta-

to per la tragedia moderna l’esempio fondamentale, quello dell’Octavia pseudosenecana, cui per giunta egli pure s’era parzialmente ispirato nel Britannicus,

per il carattere di Nerone; nella préface alla Phedre asserisce decisamente che il suo modello è solo Euripide (benché nell’‘Imnéivtog

euripideo manchi

la

scena della diretta confessione di Fedra al figliastro e la morte di lei avvenga prima e non dopo la morte d’Ippolito: motivi, l'uno e l’altro, che il Racine ha presi da Seneca), e cita Seneca solo per incidens,

per il v. 892 della Phaedra. Parimenti l’Alfieri, dopo aver citato proprio un luogo dell'Agamemnon a giu-

SENECA

E ALFIERI

451

stificare il lungo studio e il grande amore da lui dedicati alla verseggiatura senecana, dopo aver esaltato la sublimità che ne deriva ad alcuni tratti del Cordovese, dopo aver additato nell’Agamemnon la fonte ispiratrice di tutta quanta la dilogia sugli Atridi,

tutt’a un tratto lo giudica « pessimo » e dichiara di averlo chiuso e di non averlo guardato più durante la composizione delle due tragedie. E l’atteggiamento per-

siste anche a proposito dell’Ottavia, per dichiara, nel capitolo settimo dell’epoca la figlia mera di Tacito, ch’io leggeva e trasporto ». Ma B. Augugliaro," sin nostro secolo, ha avuto buon gioco

quanto

la quale egli quarta: « era rileggeva con dagl’inizi del nel mostrare

l’Alferi abbia attinto all'Octavia pseudose-

necana, allora genericamente ritenuta autentica, men10 Si noti un'evidente eco di ciò che aveva scritto il Racine nella seconda préface al Britannicus: « J'avois copié mes personnages d'aprés le plus grand peintre de l'antiquité, je veux dire d'aprés Tacite. Et j'étais alors si rempli de la lecture de cet excellent historien, qu' il n'y a presque pas un trait

éclatant dans ma tragédie dont il ne m'ait donné l'idée ». E il Racine

aveva

maggior

motivo

dell’Alfieri

di

porre

Tacito

al

primo posto fra gl’ispiratori, benché io abbia posto in rilievo i suoi debiti verso l’Octavia pseudosenecana

in uno

studio di

cese del « siècle d'or » [cfr. ora qui p. 341

sgg.]. Non

prossima pubblicazione, Seneca tragico e la poesia tragica fran-

è del

resto un mistero per nessuno che l’Alfieri ha ostentato disin-

teresse e tedio anche per il Racine e il teatro classico francese,

cui in realtà s'é ispirato spesso da vicino. 11 Seneca nel teatro alfieriano, Trapani, 1899, Il Fubini, che ha letto il saggio, lo data al 1900 e col nome

pp. 28-39. lo cita ora

di Augugliaro ora con quello di Agugliaro.

La pos-

sibilità di leggere questo ormai introvabile saggio mi è stata offerta dalla cortesia del prof. Salvatore Fugaldi, Direttore della Biblioteca Fardelliana di Trapani, che mi ha fatto generoso dono di una copia fotostatica e che sento il bisogno di ringraziare vivamente.

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E ALFIERI

tre il poeta l’ha sepolta in un silenzio ancor meno giustificato di quello del Racine." Fatte queste debite premesse, non ci resta che affrontare direttamente i testi per saggiare con la magBior precisione possibile quanto corrispondano a verità le contraddittorie affermazioni dell'Alfieri, prima sull'esempio che Seneca gli avrebbe dato per l’impianto del dramma e per lo stile e poi sull'assoluta autonomia con cui egli avrebbe curato la composizione della

tragedia. È noto che l’Agamennone alfieriano soffre di una quasi tipica disparità di giudizi, per i quali puoi consultare Fubini, op. cit., p. 361, n. 171; Attilio Momigliano (Storia della Letteratura italiana, Mes-

sina, s.d., vol. II, pp. 198-99) lo giudica un capolavoro; U. Calosso (L’anarchia di Vittorio Alfieri, Bari,

1924, p. 133) ne apprezza solo l’aspetto tecnico e teatrale, giudicandola però la meno alfieriana delle tragedie: e a nostro modesto parere proprio il richiamo all'abilità dell'impianto teatrale conferma i debiti della tragedia verso l'Agamermnon di Seneca, di cui è facile constatare ed apprezzare, specie nelle scene fi-

2 dia),

Già il Fusi, Vittorio Alfieri (Il pensiero, la trageFirenze,

1937,

p. 207,

si mostra scettico sulla totale

dipendenza dell’Alfieri da Tacito, nonostante che dei caratteri

della tragedia l’autore scrive che, «se hanno qualche verità, bellezza, grandiosità, è tutta dovuta a Tacito » e che egli «li aveva piuttosto tradotti e parafrasati che creati ». Analizzando le differenze fra il pe

io di Nerone

e quello di Filippo

nella tipologia del tiranno, il Fubini nota che, « quali e quanti siano nell'Ortavia i passi di derivazione tacitiana », Nerone « è

per noi una nuova incarnazione di quel motivo della tiran-

nide, che non fu mai per il poeta un'astratta concezione, ma ebbe, si può dire, una vita sua e si manifestò di volta in volta con aspetti nuovi ».

SENECA

E ALFIERI

453

nal, la maestria dell'impianto scenico.” M. Apollonio (A/fieri, Milano, 1930, pp. 99-100) la considera

solo una mera e quasi insignificante preparazione all'Oreste, che indubbiamente il ritorno alle scene ad

opera di Gassman ha dimostrato esser opera che può reggere ancora con successo il cimento della recitazione. Così con l'Apollonio siamo giunti agli antipodi

del giudizio sperticatamente

favorevole del Momi-

gliano. A metà strada si è tenuto prudentemente G. G. Ferrero, L'anima e la poesia di Vittorio Alfieri, Torino, s.d. (ma 1933), pp. 161-65, trovando nella

tragedia passi notevoli, ma giudicandola inferiore ai capolavori. La medesima posizione d’equilibrio, ma quasi nella forma di una sofferta perplessità e incer-

tezza, risulta dalla lunga analisi del Fubini (op. cit., pp. 161-174), indubbiamente influenzata dai contrastanti giudizi sopra elencati: « mai per l'nnanzi — egli inizia — l'Alfieri fece tanto sfoggio di analisi psicologica come in questi cinque atti ». Poi mette in rilievo la felicità dell’impianto tecnico, della snodatura delle scene, dando credito al giudizio dello stesso poeta che riteneva sotto questo aspetto l’Agamennone

13 Cfr. la mia già citata versione delle tragedie di Seneca, p. xııı: « L’Agamennone, a differenza da quello eschileo, si conclude con una sfrenata successione di colpi di scena: Elettra si avventa

fuori della reggia per salvare

il piccolo Oreste

ed ha la ventura d’imbattersi in Strofio (il e di Pilade), il quale proprio in quel momento si recava da Agamennone e fugge subito portando con sé il figlio dell'amico ucciso; indi Elettra e Clitennestra s’affrontano in uno scontro verbale d’inaudita violenza, e all’ultimo Elettra è gettata nel fondo di una prigione da Egisto e Cassandra è tratta a morte, mentre in Eschilo la sua uccisione è contemporanea a quella di Agamennone ».

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SENECA E ALFIERI

la più perfetta delle sue tragedie sì da nascondere i difetti sostanziali che a lui stesso non sfuggivano e che consistevano soprattutto nel carattere poco eroico, borghesemente sentimentale e passionale dei perso naggi. Avviandosi alla conclusione, afferma: « Questa tragedia, nella quale motivi già noti dell’arte alfieriana compaiono approfonditi ed altri se ne annunciano, potrebbe essere un capolavoro, la migliore tra quelle sin qui esaminate... Eppure, monostante la maggiore

ampiezza

di linee

che

è data

da

quest

nuovi motivi..., la tragedia non persuade interamente: più netto anzi, a proposito di questo Agamennone, è il dissenso che tra i critici si accende per ogni tragedia alfieniana tranne che per il Saul e che non può non avere una ragione oggettiva. Del resto i giudizi opposti, che si leggono negli scritti dei critici,

ogni lettore di questa tragedia non li ha formulati dentro di sé? E l'Agamennone non gli è parso ora un autentico capolavoro ora una prova di singolare abilità, priva peró dell'intimo vigore delle grandi opere

di poesia? ... Vi è in tutto l'Agamennone un eccesso di psicologia astratta, che contamina e offusca i motivi

poetici piü originali... Vien fatto perciö di dar ragione tanto a coloro che la tragedia hanno considerato

fra le ottime dell'Alfieri, trasfigurandola un poco ..., e volutamente dimenticando quanto in essa & di meccanico e di artificioso, quanto a quelli che l'hanno giudicata una delle cose meno alfieriane, di facile effetto e di scarsa sostanza poetica, troppo attenti però questi ultimi all'apparenza esteriore e troppo poco a

quelle voci più profonde, che in più di un punto del dramma si avvertono ». Come il giudizio del Calosso sulla felicità dell'impianto scenico ci ha spinto a

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E ALFIERI

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valorizzare il debito che l'Alfieri ha verso il trascimante impianto scenico dell’Agamemnon senecano, così l'insistenza dell'autore stesso e di molti critici, specie del Fubini, sulla diversità tematica della tragedia rispetto al consueto mondo

alfieriano ci obbli-

ga ad additare una delle cause di questa appartenenza alle cose « meno alfieriane » nell’influsso eser-

citato da una drammaturgia già tendente alla spaurita considerazione

dell’umana

passionalità

scatenata.

Il

Fubini scorge (p. 162) solo « un motivo schiettamente

alfieriano», e cioè « quel delitto che è presente in

tutta la tragedia e da cui i personaggi sono, più o meno consciamente, dominati ». Ma anche dalla sua analisi nisulta che il motivo più tipicamente alfieriano,

quello del tiranno, è singolarmente accantonato, perché Agamennone è « luminosa figura », non travolta « dalla violenza delle passioni e delle vicende (p. 170) », e in Egisto vediamo al massimo solo un aspirante tiranno, un personaggio in cui, come diceva lo stesso autore, va scorta, come sentimento fondamentale, l'« ambizione di regno » (p. 172). Agamennone,

appena tornato (atto secondo, scena quarta) dichiara: quanti al mio fianco veggo, amici mi son: figlia, consorte, popol mio fido.

Parla un padre del suo popolo, l'antitesi del tipico tiranno. Dinanzi ad Egisto (atto terzo, scena seconda) il suo atteggiamento è il più ragionevolmente

consono al suo carattere e al suo passato: spiegabilissima, più che giustificata perplessità sospettosa, nell’atroce ricordo degli orrori accaduti al tempo di Atreo e Tieste, altrettanto giustificata diffidenza nel con-

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SENECA

E ALFIERI

statare che Egisto ha sentito il bisogno di chiedere aiuto proprio alla casa di Atreo, naturale incapacità

di provare un moto di cordialità per lui, ma al tempo stesso magnanima longanimità, benevola disposizione ed obliare e a rimediare alle sua miseria di esule e di mendico: Pur, poiché vuoi la mia pietà, né soglio negarlaio mai, mi adoprerò (per quanto vaglia il mio nome, e il poter mio fra’ Greci) per ritornarti ne’ paterni dritti.

Nella scena quarta, a Clitennestra che lo sollecita risponde: Non men che a me, già soddisfatto al mio popolo avrei.

Addirittura esemplare della quasi programmatica, antitetica novità che il personaggio di Agamennone rappresenta rispetto al tipo del tiranno & il monologo dell'atto quarto (scena quarta), dopo la scena in cui Elettra aveva confidato al padre i sospetti e i timori ispiratile dalla presenza di Egisto: Ma incrudelir sol per sospetto io deggio? Saria viltade il già intimato esiglio affrettar di poch'ore. Al fin, s'io tremo, n'é sua la colpa? e averne debbe ei pena?

Qui cade in acconcio fare il primo confronto con senecani, pur

partendo

dalla premessa

testi

che l’Alferi,

M E si noti una certa voluta sottolineatura nel far pro-

nunciare all'eroe il ricordo del suo popolo sempre mediante un enjambement, quasi più marcato rilievo.

a porre il concetto in un contesto di

SENECA

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quasi a confermarci il suo proposito di fare da sé chiudendo e trascurando il testo di ogni possibile modello, ha elaborato originalmente la trama, introducendo

ritrovati, come i presaghi sospetti di Elettra anche prima dell’uccisione di Agamennone, come soprattutto il diretto incontro fra Agamennone ed Egisto, che sovvertono non solo l’impianto della tragedia di Seneca, ma tutto il generico impianto drammatico del terribile mito quale traeva ispirazione ab antiquo dall’Agamennone di Eschilo. Anche se nella tragedia di Seneca Elettra non compare in iscena, se non dopo l'uccisione del padre, quando corre fuori della reggia col piccolo Oreste e incontra provvidenzialmente Strofio, pure ciò ch'essa dice (v. 925 sgg.) e specie il v. 927, Aegistbus arces Venere quaesitas tenet, mo-

stra che essa sospettava da tempo: questo perciò potrebbe essere additato come lo spunto che avrebbe suggerito all’Alfieri l’assidua intromissione di Elettra fin dal primo atto nel tormentoso esame dei segni premonitori della catastrofe. Ma l’incontro fra Agamennone

ed

Egisto

(cui

forse

non

è estraneo

l’influsso

dell'incontro iniziale fra Atreo e Tieste nel Thyestes) è veramente una rivoluzionaria, sconcertante innova-

zione dell'Alfieri, di quel poeta che nell'Oztavia non ha esitato a far dialogare fra loro in ben tre scene (terza dell’atto terzo, terza e quinta dell’atto quinto)

Seneca e Tigellino, sia pure in compagnia di altri personaggi, mentre il Racine nel Britannicus ha sempre evitato l’incontro diretto tra Burro e Narcisso, dopo

aver concepito e scnitto una scena fra i due personaggi, la prima del terzo atto, che poi soppresse per consiglio del Boileau, e che ci è stata conservata dal figlio Luigi. Invece il monologo ora citato di Agamen-

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SENECA

none contiene espressioni

E ALFIERI

precisamente antifrastiche

a quelle che nel Thyestes, nella scena col sazelles, sono

pronunciate da Atreo, il prototipo della creazione alfieriana del tiranno. Ivi, ai vv. 201-204, il re d’Argo non esita a dichiarare, a proposito del fratello: Proinde antequam se firmat aut vires parat, petatur ultro, ne quiescentem petat. Aut perdet aut peribit: in medio est scelus positum occupanti.

E successivamente martella il suo proposito d’estirpare con una frode feroce ogni possibilità di ricevere danno dall’odiato fratello: De fine poenae loqueris; ego poenam volo.

Perimat tyrannus lenis: in regno meo mors impetratur.

(vv. 246-248).

Excede, Pietas, si modo in nostra domo unquam fuisti. Dira Furiarum cohors discorsque Erinys veniat et geminas faces Megaera quatiens: non satis est magno meum

furore pectus (vv. 249-253). Nil quod doloris capiat assueti modum; nullum

relinquam facinus et nullum

est satis (vv. [255-256).

Ugualmente egli martella il sospetto, il timore che l’ossessiona di fronte a Tieste ed ai suoi figli: Credula est spes improba. Gratis tamen mandata quae patruo ferant dabimus: relictis exul hospitiis vagus regno ut miserias mutet atque Argos regat ex parte dominus. Si nimis durus preces 15 E si noti come il concetto ripeta il già citato Concede mortem — Si recusares darem dell’Agamemnon.

SENECA

E ALFIERI

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spernet Thyestes, liberos eius 6 rudes malisque fessos gravibus et faciles capi prece commovebunt:V binc vetus regni furor,

illinc egestas tristis ac duras labor quamvis rigentem tot malis subigent virum. Leve est miserias ferre, perferre est grave.

Ut nemo doceat fraudis et sceleris vias regnum docebit. Ne mali fiant times?

Nascuntur. Istud quod vocas saevum asperum, agique dure credis et nimium fortasse et illic agitur.

impie,

S’affaccia qui una visione del sistema di governo e della lotta contro i nemici o i sospetti ch'é agli antipodi di quella espressa dall'Agamennone alfieriano nel monologo. Non possiamo esimerci dal pensare che l'Alfieri abbia tratto dalla scena del Thyestes i motivi atti ad ispirargli l'opposta delineazione del nuovo re argivo che, contrapponendosi al padre, formulasse i princìpi del modello dei re, dell'esemplare dell’anti-tiranno: figurazione che - a confermare l'eccezionalità dell’Agamennone nel teatro alfieriano — é un unicum, perché se, di contro ai tiranni, a Filippo, a Creonte, ad Appio, a Nerone, a Timofane, a Lorenzo, a Cosimo, a Saul, a Cesare, si contrap16 È la lezione dei codici, seguita dal Leo e dal GIARDINA; il HEINSIUS, poiché questa costruzione è inusitata ha proposto «eri, seguito dal ViansINO.

in Seneca,

17 Così L. MÜLLER ha emendato prece commovebo di E e praecommovebunt di A (prece movebunt dell'Ambrosianus H 77 inf.); lo han seguito il Leo e chi scrive nella sua versione («i figli miei certamente riusciranno a vincere con le preghiere i figli suoi»). Il VrANSINO adotta praecommovebunt di A, il

GIARDINA adotta l'emendamento preces movebunt dell’Avanzı.

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SENECA

E ALFIERI

pongono i pugnaci compioni della libertà, Carlo, Icilio, Timoleone, i Pazzi, don Garzia, Melchisedech,

Bruto secondo, e in fondo anche eroi che del potere si fanno strumento per affermare la libertà, come Agide e Bruto primo, solo Agamennone è un potente non

sfiorato dal contrasto

tirannide-libertà, ma

l’ec-

cezionale esempio di un despota illuminato e magnanimo. Ma appunto questa eccezionalità è nutrita per contrasto dei motivi che avevano costituito in Seneca il prototipo del tiranno come Unmensch, quell'Atreo

in cui l'Alfieri si è sicuramente affisato. E tale atteggiamento di Agamennone continua nella scena suc-

cessiva, l’ultima in cui l’eroe compare. Dinanzi alla moglie, pur ammettendo l’istintivo ribrezzo che il sangue d’Atreo deve provare di fronte al sangue di Tieste, egli conferma: Pure

al terror di timida

donzella

non m’arrendo così, che nulla io cangi al già prefisso: andrà lontano Egisto, e ciò mi basta. Il cor di cure scarco avrommi omai.

È proprio l’antitesi più netta allo stato d’animo dell’Atreo senecano di fronte alla presenza del fratello e dei nipoti. E a dare l’ultimo tocco a questa inconsueta, esemplare magnanimità, ecco gli accenti com-

mossi con cui l’eroe rivendica il diritto a piangere e torturarsi accanto alla moglie nel ricordo d’Ifigenia, e soprattutto la singolare prospettiva data del motivo di

Cassandra,

introdotto

solo

a questo

punto.

Di

fronte ad Eschilo e a Seneca, che della presenza di Cassandra sulla scena fanno un perno della tragedia, l'Alferi manifesta una delle più sovvertitrici inno-

SENECA

E ALFIERI

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vazioni della sua rielaborazione sopprimendo il personaggio. In fondo qui si rivela una delle prove piü evidenti della sua ignoranza di Eschilo al momento

della composizione dell’Agamennone:

nel tragico di

Eleusi la scena di Cassandra è così capitale, è un tale vertice artistico e spirituale, che l’Alfieri, se l’avesse conosciuta, non avrebbe avuto l’animo di rinunciare al personaggio: il modo con cui egli elaborò l’Alcesti di Euripide è indizio sufficiente per illuminarci in proposito. Proprio il modo non certo felice con cui Seneca elaboró il grande personaggio eschileo, facendola giungere prima di Agamennone, geminandone il delirio profetico, facendola uccidere da Clitennestra solo alla fine della tragedia, e soprattutto creandone il famigerato dialogo sticomitico con Agamennone, in cui sono ingegnosamente, sottilmente affastellati tutti i sospetti e i presagi, era fatto apposta per far avvertire con fastidio all’Alfieri la presenza della profetessa e spingerlo ad accantonarla. Dei suoi avvertimenti egli si avvalse trasferendoli al personaggio di Elettra, chiamata a sostituirla come portavoce dell’angoscia presaga; e su ciò avremo campo di soffermarci. Ma ora non rinuncia a ricordarla, per far grandeggiare ancora di più l’altezza d’animo di Agamennone, come modello

di nobiltà da opporre alla laidezza morale di Egisto." 18 E si tenga presente che il confronto fra Agamennone ed Egisto, a tutto disdoro del secondo, è già in Seneca, nello scambio dj bete fra Egisto c la nutrice di Chitennestre: vv. NU. . . . +. + Scilicet nubet tibi. regum relicto rege, generosa exuli? AEG. Et cur Atrida videor inferior tibi,

462

SENECA

E ALFIERI

Il re respinge con orrore e disdegno il sospetto geloso della moglie ch’egli inclini verso la schiava troiana,

e le dichiara « te sola

/ amo» (e la stessa

Clitennestra ne appare persuasa

nel monologo

ini-

ziale dell’ultimo atto); e a provarlo le fa dono di Cassandra, racoomandandole — altro segno di nobiltà

d’animo — di « rimembrar ch’ella è di re possente / figlia infelice; / che infierir contr’essa / d’alma regal saria cosa non degna», e ribadendo: Cassandra in tua reggia esser può solo La tua primiera ubbidiente ancella.

A sincerarsi del processo di adattamento del modello senecano, ecco ai vv. 796-98 dell' Agamemnon, nel dia-

logo tra Ágamennone e Cassandra, le espressioni del re:

Ne

metue

dominam

famula...

Secura

vive...

Nullum est periclum tibimet; e nell'ultima scena, nel momento

in cui Clitennestra ordina di uccidere Cas-

gnatus

Tbyestae?

NU. Subripere quem

doctus

Venere

fraude genialis toros,

tantum

scimus

inlicita virum,

facesse propere ac dedecus nostrae asporta ab oculis: baec vacat regia Seguo con lo HERRMANN, contro tutti gli altri zione di E, contro regi ac viro di A: cfr. la «questa

reggia

non

ha ancora

un

domus viro. editori, la lemia versione:

uomo! » Concordo

con

lo

Hermann anche nell'attribuire con E alla nutrice le battute a partire dal v. 288: cfr. il mio articolo Sulle sigle dei perso naggi nelle tragedie di Seneca, in «St. it. fil. class. », 1956, pp. 347-50. Il Giarpina nella sua edizione ha confortato il mio parere. E non mi sembrano persuasive le sottili argomen-

tazioni del Gromini (ed. dell'Agamermnon, Roma, 1956, pp. 8589) in favore della siglatura di A, che attribuisce le battute a Clitennestra; fra i recenti editori lo ha seguito il VIANSINO.

SENECA

E ALFIERI

463

sandra, l'espressione (v. 1002), captiva coniunx, regii paelex tori, che dà voce alla gelosia della regina e ne afferma il potere di padrona della schiava. Che l'Alfieri nel tracciare il carattere di Agamennone come lo abbiamo visto profilarsi abbia avuto presenti per antitesi le pagine del Thyestes e per affinità quelle dell'Agamermnon lo conferma anche ciò ch’egli dice all’inizio della quarta scena dell’atto secondo, al momento d’introdursi nell’azione: Riveggo alfin le sospirate mura

d’Argo mia: quel ch’io premo, è il suolo amato,

che nascendo calcai.

È stato già osservato (cfr. Fubini, op. cit., p. 361, n. 170, che giustamente richiama gli abbozzi di traduzione

da Seneca, conservati

nei manoscritti

alfie-

riani della Laurenziana) che queste parole riecheggiano le parole che nel Thyestes il personaggio che dà nome alla tragedia pronuncia nel momento di riporre piede sul suolo natale; cfr. 404-07: Optata patriae tecta et Argolicas opes miserisque summum ac maximum exulibus bonum, tractum solis natalis et patrios deos cerno.

L’Agamennone alfieriano che si contrappone radical. mente al padre Atreo, quale l’aveva dipinto Seneca, finisce per divenire la vittima degl’istinti malefici di cui suo padre era stato massima espressione, finisce quindi per appaiarsi proprio a Tieste, la vittima di Atreo, e di Tieste perciò ripete ora gli accenti. Fra

i due terribili fratelli che avevano inaugurato il ciclo degli orrori nella famiglia e i loro figli, avviene uno

464

SENECA E ALFIERI

scambio chiastico: il figlio di Atreo cade vittime come Tieste, e ad opera del figlio di Tieste, che eredita la mentalità di Atreo. L'Alfieri ha perfezionato il rapporto già istituito da Seneca nelle due tragedie, e lo

ha fatto di suo impulso perché Seneca ha ridotto al minimo il personaggio di Agamennone facendolo parlare solo nella sticomitia con Cassandra, e non presentandoci quindi alcun indizio sul suo carattere. Ma in compenso le parole dell’Agamennone alfieriano al momento del ritorno in patria non echeggiano sol-

tanto quelle del Tieste di Seneca, ma anche quelle che pronuncia proprio Agamennone al momento d’en-

trare in iscena nella tragedia senecana che da lui s'intitola; cfr. vv. 782-83: Tandem revertor sospes ad patrios lares; o cara salve terra.

Ma c’è di più. L'Agamennone di Seneca, appena pronunciato il saluto alla terra natia, s'accorge dello stato anormale e angosciato di Cassandra (vv. 786-87): Quid ista vates corpus effusa ac tremens dubia labat cervice?

L’Agamennone

dell’Alfteri s'accorge che la moglie e

la figlia sono turbate: Ma, il solo son io, che goda qui? Consorte, figlia, voi taciturne state, a terra incerto

fissando il guardo irrequieto?

La coincidenza non é casuale, la scena senecana deve

aver suggerito all’Alfieni, almeno sotto il profilo della

SENECA E ALFIERI

465

condotta scenica, il particolare significativo per l’ulteriore sviluppo del dramma. Una delle novità più sensibili della tragedia alfieriana rispetto all'impianto trasmesso dalle letterature classiche è che, mentre in Eschilo e in Seneca Agamennone dopo il ritorno trascorre rapidamente sulla

scena come vittima già destinata al macello, nell'Alfieri egli ha il tempo di accorgersi che qualcosa non va nell'animo di Clitennestra, di ricevere i preoccupati avvertimenti di Elettra, di dichiarare alla moglie quello che egli vuol essere in futuro e persino di incontrarsi con Egisto. Pure di questa forte innovazione alfteriana la radice, come abbiamo già visto, è in Seneca, che, invece di limitarsi a fer esprimere da Cas-

sandra i suoi timori e i suoi presagi al coro, ha interposto, alle due scene medianiche in cui egli ha frazionato la grande scena eschilea, quella in cui la profetessa troiana si sforza di porre sull’avviso Agamennone. Naturalmente le parole di Cassandra, che parla da troiana cui arride la prescienza che fra poco cadrà il capo degli sterminatori della sua patria, che ogni

particolare riferisce alla situazione sua e dei suoi, non possono essere le medesime di Elettra, la figlia affettuosa che trema al profilarsi dei pericoli che sembrano minacciare la recuperata tranquillità della casa. Pure si guardi l’ultima delle battute scambiate in Seneca tra Agamennone e Cassandra (v. 199, AG. — Victor timere quid potest? CAS — Quod non timet.) e la si metta a confronto con ciò che dice Elettra al padre nella scena terza dell’atto quarto: Al cor mi sento presagio ignoto,

ma

funesto e crudo.

Soverchio forse è in me il timor, ma vero

466

SENECA

E ALFIERI

in parte egli &. Padre, mel credi, & forza che tu nol spregi, ancorch’io dir nol possa, o nol sappia; ten prego.

Il luogo di Seneca ci si rivela come la prima radice dello sfogo di Elettra. Abbiamo cominciato a sorprendere segni abbastanza eloquenti della funzione formativa che l'Agamemnon di Seneca ha esercitata rispetto all’Agamennone alfieriano. La nostra ricerca non vuol essere un ozioso contributo a quella che agli inizi del secolo, nel più vivo dell'infatuazione per il nuovo verbo crociano, fu definita sprezzantemente la « critica foataniera », bersaglio prediletto della critica estetica;” 19 Un

esempio

della persistenza

stato offerto in questi giorni da N.

scenica

dell’Orbecche

di questi Savarese

di Giovambattista

pregiudizi

è

(Per un'analisi

Giraldi

Cintbio,

in

« Biblioteca teatrale », 1971, p. 122 sgg.), che ha considerato solo per incidens il mio fondamentale studio (Nuove prospettive

sull’ae

del

teatro

classico

nel

'500,

in

«

Atti dei

Lincei, Convegno sul teatro classico italiano nel '500 », Roma, 1970; [cfr. ora qui p. 105 sgg.]) sui rapporti fra Seneca e l'Orbecche, trovando (p. 117, n. 19) ch'esso non aggiunge « nulla alla personalità del Giraldi», e lo ha ricordato una seconda volta (p. 144, n. 68) solo per un richiamo alla Sofonisba del Trissino; e per il resto ha ingenuamente insistito solo in un'analisi estetica della tragedia, illudendosi di rivendicarne l'origines e il valore artistico, e partendo dalla singolare, e in o badialmente positivistica, constatazione del BERTANA (La tragedia, Milano, 1905, p. 46) che mentre i versi del Tbyestes sono 1112, l'Orbecche «ne conta circa 2700 ». Fra l'altro completamente omessa è la mia ricerca (op. cit. pp. 36-38) sull’uccisione di Sulmone e il suicidio di Orbecche

in rapporto alle soluzioni sceniche di Seneca e sul monologo di Sulmone (prima scena dell’atto quinto) che sviluppa i motivi più profondi dell’Atreo del Thyestes (pp. 4446). Un relitto di opposte tendenze, rimontanti anch'esse all’inizio del secolo, mi sembra invece la recensione che A. FRANCESCHETTI ha fatta in «Lettere Italiane », 1971, p. 269, del mio saggio

SENECA

E ALFIERI

467

vuol essere, sotto il profilo della storia del gusto, la determinazione delle meditate scelte orientative compiute dall’autore più recente, a illuminazione sia del

significato che l’opera del passato conserva per le tendenze artistiche moderne, sia del programma artistico di cui allora il nuovo autore è rappresentante. Abbiamo così già fissato che la lettura delle tragedie atridiche di Seneca ha ispirato all’Alfieri, un po’ per affinità un po’ antifrasticamente, l’eccezionale delineazione del carattere di un despota magnanimo, ch'é un unicum nel suo teatro e non è passibile di ulteriori sviluppi. Ne è facile inferime che l'Agamennone, come ha chiarito pià di un critico, & una tragedia atipica, del genere di quelle denuncianti un'ancora problematica ricerca, uno stadio di non ancora raggiunta maturità. Se vogliamo ravvisare la causa di

questa caratterizzazione nelle strutture dell’ Agamemnon senecano, ecco venirci incontro il complesso dei giudizi di valore che grava ancora sulla tragediadi Seneca, che G. Richter? giudicava ancora apocrifa, sulle orme del Bentley, e F. Leo? riteneva la prima tragedia composta da Seneca adulescentulus, scorgenL'« Orlando

critica Maria p. 61 pesare

innamorato » e l'« Eneide », in

contemporanea. Atti del Boiardo, Firenze, 1970, sgg.], rimproverandomi di gli anelli della catena che

Il Boiardo

e la

convegno di studi su Matteo p. 347 sgg. [cfr. ora qui non essermi soffermato a sopcorre da Virgilio al Boiardo,

attraverso la tradizione carolingia e i testi quattrocenteschi

di materia troiana: quasi che non fosse possibile e legittimo supporre una personale, specifica lettura ed elaborazione dell’Eneide da parte del Boiardo! 2 De Seneca tragoediarum

21 De Senecae tragoediis 1868, pp. 133 e 163.

auctore, Bonn,

observationes

1862, p. 32.

criticae,

Berlin,

468

SENECA

E ALFIERI

dovi pueri manum ... qui nec Sophoclem nec Aeschylum intellexerit. Sembrerebbe che un comune destino d’immaturitä caratterizzi le due omonime tragedie di cui abbiamo già cominciato a documentare i singolari incontri. Come che siano da sviluppare considerazioni del

genere, è il caso d’assodare che, come la figurazione di Agamennone quale antitiranno trova in Seneca i suoi presupposti, così quella di Egisto quale aspirante alla tirannide trova anch’essa il suo preannuncio

nell'Agamemnon.

Si può

cominciare

dalla seconda

scena del primo atto. Le parole di Egisto: Ma il giorno, ahi lasso! già già si appressa il giorno doloroso

trovano il loro preciso antecedente nell’analoga scena senecana,

vv. 226-27:

Quod tempus animo semper ac mente horrui adest profecto, rebus extremum

meis.

La considerazione su Agamennone, ritorna ei fero

distruggitor di Troia è un’eco dei vv. 249-52 di Seneca: Gravis ille sociis stante adbuc Troia fuit:

quid rere ad animum suapte natura trucem Troiam addidisse? rex Mycenarum fuit, veniet tyrannus

(e forse anche da queste parole sarà sorto, quasi per scommessa, nello spirito dell’Alfieri l’intento di presentare in Agamennone la negazione del tiranno).

SENECA

E ALFIERI

469

Persino le offensive parole che nella medesima scena la nutrice di Clitennestra indirizza ad Egisto (v. 288 sgg.) e che abbiamo già parzialmente citate, riecheggiano sulla bocca dello stesso Egisto, come abile e frodolenta ritorsione in un senso d’autocompianto,

allo scopo di suscitare l’affettuosa simpatia di Clitennestra: ! Tenuto

io son d'infame

padre

figlio

più infame ancor, benché innocente:

manca

dovizia, e regno, ed arroganti modi, a cancellare in me del nascer mio la macchia, e l'onta del paterno nome.

E così nella prima scena dell'atto secondo: Del mio non parlo, ché ingiusto fato a eterna infamia il danna. Ma, di Tieste io figlio, insulti

d'Atride in corte aspetto.

e scherni

-

E nella successiva scena seconda per un istante Elet-

tra assume il tono e l'eloquio della nutrice senecana, apostrofando Egisto: O mortifera lingua, osi tu il nome contaminar

d'Atride?

Andiam,

deh!

madre;

questi gli estremi fian consigli iniqui, che udrai da lui; vieni.

L'ultima battuta di Egisto ai vv. 302-05 di Seneca: (Exilia mibi sunt baud nova: assuevi malis. Si tu imperas, regina, non tantum domo

Argisve cedo: nil moror iussu tuo aperire ferro pectus aerumnis grave)

470

SENECA

E ALFIERI

è sminuzzata in tutte le scene alfieriane sopra ricordate; nella seconda del primo atto: Già già si appressa il pone doloroso, in cui partir tu men farai, ... tu stessa.

- ἢ perder me stesso o debbo, e perder vo," pria che παῖδας tua pace .

.

Ime

ramingo, errante,

avvilito ed oscuro, egli & il destino di me prole infelice di Tieste;

e nella prima scena del secondo atto: E' ver, ne avrei la desiata morte

. . al mio i destino, qual ch'ei sia, "m’abbandona: eterno esiglio mi prescrivo da te; nella seconda

dell'atto secondo: .

+.

las

d’uom che non ‘t'odia, e che tu tanto a al nuovo dì tolto ti fia dagli occhi per sempre. Elettra, io lo giurai poc'anzi alla regina; e l’a

Nella prima di queste scene egli sfrutta persino alcune frasi che la nutrice rivolge a Clitennestra ai vv. 203 sgg. di Seneca; dicendo che la fortuna: del Xanto all'onde il (Agamennone) mena condottier dei Greci; più che virtù, fortuna, ivi d’Achille vincer gli fa la non placabil ira, e d’Ettorre il valore: essa di spoglie

ricondurrallo altero e pingue in

;

SENECA

E ALFIERI

471

egli ormeggia le parole che la nutrice rivolge alla regina per distoglierla dal feroce progetto che già prende corpo in lei, quelle parole in cui la solita intemperanza retorica fa squadernare a Seneca un elenco

completo degli episodi principali della gesta iliaca, ma di cui l’Egisto alfieriano condensa i tratti più significativi: victor venit Asiae ferocis, ultor Europae, trabit

captiva Pergama et diu victos Pbrygas; quem non Achilles ense violavit fero, quamvis procacem torvus armasset manum non sola Danais Hector et bello mora.

Finalmente, anche nel colloquio con Agamennone, nella seconda scena del terzo atto, Egisto martella l'ossessiva considerazione dell'infamia che lo circonda,

e che in Seneca gli viene rinfacciata dalla nutrice: Ovunque io porti il piede,

meco la infamia del paterno nome, e del mio nascer traggo, il so.

In mile modi Egisto in tutte queste scene ribatte l'infamia dei suoi natali, l'essere figlio dell'incesto: (... Altri fratelli Tieste diemmi, e non qual io, d'incesto nati son quelli).

Ma questo tema risuona cupo e decisivo proprio al. l’inizio della tragedia di Seneca, nelle parole dell'ombra di Tieste: Nec

bactenus

Fortuna

maculavit

patrem,

sed maius aliud ausa commisso scelus

472

SENECA

E ALFIERI

gnatae nefandos petere concubitus iubet. Non pavidus hausi dicta, sed cepi nefas. Ergo ut per omnes liberos irem parens, coacta fatis gnata fert uterum gravem, me patre dignum. Versa natura est retro:

avo parentem, pro nefas, patri virum,

gnati nepotes miscui — nocti diem (vv. 28-36).

Del resto già nella prime scena della tragedia alfieriana, di cui dovremo tornar a parlare, Egisto, indirizzandosi all'ombra del padre, non manca di ri cordare: | entro mie vene scorre pur troppo il sangue tuo: d’infame incesto, il so, nato al delitto io sono.

Queste battute di Egisto sono le sole, fra i tanti luoghi che abbiamo rilevato e rileveremo nella tragedia alfieriana, ad essere state isolate, come segno dell’imitazione di Seneca, dall’Augugliaro (op. cit., pp. 18-28), che inizia la trattazione del tema proprio

mediante il confronto fra le due tragedie intitolate ad Agamennone, ed è propenso persino a rinverdire l’accusa di furto a carico dell’Alfieri. Ma dalla serie delle battute da lui elencate non si ricava con chiarezza a quali luoghi dell'Agamemnon senecano esse si riferiscano; e per giunta egli estende arbitrariamente il riscontro a luoghi (scena fra la nutrice e Clitennestra in Seneca, scena fra Clitennestra ed Egisto nell’Alfieri) in cui il parallelismo non appare affatto evidente, mentre ne dimentica moltissimi fra i più significativi. Come

nell’apprentissage

oscuro

e tortuoso

del

l’arte di giungere al potere l’Egisto dell’Alfieri va a scuola dall’Egisto di Seneca, così anche l’esplosione finale della sua ferocia tirannica assume accenti ans

SENECA

E ALFIERI

473

loghi nei due poeti: come l’Egisto di Seneca al pari di Clitennestra smania di porre le mani su Oreste e

investe Elettra ordinando di chiuderla în una segreta, perché è più crudele e più gradito farle invocare la morte

come

una

liberazione

anziché

ucciderla,

così

l’Egisto dell’Aifieri proclama che più che uccidere Elettra importa togliere di mezzo Oreste. Ma intanto anch'egli urla: trema:

or d’Argo il re son io,

e le ordina

« Taci », come l'Egisto senecano

aveva

detto (vv. 981-82) Furibunda virgo, vocis infandae sonum et aure verba indigna materna opprime.

L’analisi che abbiamo condotta finora s'é limitata a seguire le due figure in cui s'è scissa nella tragedia alfieriana la personalità topica del tiranno, chiarendo come proprio l'influsso di Seneca abbia determinato la

singolarità per cui la figura dell'autentico re s’è risolta nella negazione del tiranno e solo la figura del truce organizzatore dell’assassinio s'è arrampicata fino ad atteggiamenti tirannici, quasi a confermarci platonicamente che la tirannide è il vertice dell’umana malvagità. Ma i riscontri fra la tragedia di Seneca e quella dell’Alfieri sono molto più evidenti all’inizio e alla fine. La prima scena della tragedia ripercorre esattamente i modi della prima scena della tragedia senecana, con la semplice differenza che in Seneca appare direttamente

l'ombra

di Tieste,

mentre

nella

scena

alfieriana chi parla & Egisto, che si mostra inseguito, assillato dall’ombra del padre. Il teatro elisabettiano

474

SENECA

E ALFIERI

— e ancor prima quello umanistico — avevano ereditato da Seneca l’introduzione di ombre, spettri personalmente colloquianti nel dramma. Ma accanto a questo espediente scenico destinato ad una eccezionale fortuna, Seneca aveva adoperato quello dell’allucina-

zione, della comparsa di fantasmi attraverso le parole del personaggio che ne è ossessionato; così nella Medea la maga è travolta dalla visione del fratello morto,

nello

Hercules

Oetaeus

Deianira,

schiantata

dalla notizia dello strazio di Ercole per colpa del tessuto da lei inviatogli, vede apparirle addosso le Furie. A questo modo indiretto di far apparire i fantasmi sulla scena s’era attenuto il cuassicistico teatro francese: mel quarto atto della Phèdre del Racine, la protagonista, sconvolta dalla scoperta che Ippolito ama Aricia, scorge quasi, nel suo delirio, il padre Minosse come giudice nell’Averno. Il razionalismo ch'è nel fondo della struttura di quel teatro rifuggiva dal dare concretezza di personaggio ai fantasmi. Così nel finale della Thebaide il Racine faceva apparire a Giocasta le ombre dei trapassati. E a lui si ispirò, nell'ultima scena del Polinice, l'Alfieri, facendo apparire a Giocasta l’ombra di Laio e poi quella dei figli or ora svenatisi. In ciò, come in tante altre cose, il teatro alfieriano si conserva classicistico, modellato secondo

il pur tanto ironizzato esempio francese. Di Shakespeare, verso il quale conserva nel complesso un at-

teggiamento volterriano, l’Alfieri non doveva molto apprezzare lo sfruttamento su vasta scala del motivo senecano dell'ombra introdotta direttamente a par-

lare sulla scena, come nei prologhi dell’Agamemnon e del Thyestes e nell’apocrifa Octavia. Per giunta egli fa, come il Racine, un uso piuttosto parco del partito

SENECA

E ALFIERI

475

soenico dell’allucinazione: dopo gli esempi del Polinice e dell’Agamennone, esso ritorna (e non poteva mancare) nel finale dell’Oreste, ove il protagonista, sconvolto dal matricidio, si vede invasato non dalle

Furie, ma dall’ombra del padre (e anche in questo noi scorgiamo la prova dell’ignoranza della trilogia eschilea e dell’influsso della prima scena dell’ Agamzennone e quindi dell'omonima tragedia senecana); poi solo nell’ultimo atto del Saul il re ebraico sarà perseguito dall'ombra di Samuele. Nella scena senecana l'Alfieri ha introdotto dunque la modificazione imposta degli schemi classicistici del siècle d'or. Ma in tutto il resto le parole dell’ombra di Tieste in Seneca e quelle di Egisto ossessionato dall'ombra di Tieste nell'Alfieri mostrano una larga corrispondenza. Uno degli esempi piü tipici della vacuità di certa critica, che prescinde sdegnosamente dai confronti,

dall'analisi dei

rapporti

coi modelli,

è data

dall'edizione commentata dell’Agamennone a cura di D. Bianchi (Palermo, 1924), da quell’edizione che sin dal titolo ci presenta l’Agamennone « commentato esteticamente »,? sì che già nell’introduzione (p. 5), dopo l’avvertenza, unica concessione alla « critica fon-

taniera », che la tragedia fu ideata « dopo la lettura di Seneca e anche del Voltaire» (e abbiamo già visto che quanto al Voltaire ciò è valido solo per l'Oreste), ci si affretta a specificare che « ciò... non toglie nulla alla potenza creatrice di questa tragedia », e poi si ribadisce che «i confronti, se non servono a mettere in luce le affinità e le differenze tra due

22 Naturalmente

il corsivo

è mio.

476

SENECA

E ALFIERI

autori," sono sempre vani e difficili ». Poi, nel commento

alla prima scena (p. 9), si definisce ingenua-

mente « straordinario principio di tragedia » la visione di Egisto ossessionato dall'ombra del padre. Abbiamo già visto che le due scene insistono entrambe sul motivo dell'incesto fra Tieste e la figlia, da cui è nato Egisto. L'invito di Egisto al padre, « vanne, / le Stigie rive ad abitar ritorna », echeggia

i quattro primi versi di Seneca: Space linquens Ditis inferni loca, sum profundo Tartari emissus specu, incertus utras aderim sedes magis: fugio Thyestes inferos

(e in fondo lo spirito di questi versi ritorna anche nei primi versi dell’Alfieri, « A che m’insegui, o sanguinosa, irata / dell’inulto mio padre orribil ombra? »).

La successiva riflessione del figlio di Tieste: So che da Troia vincitor su riede carco di gloria in Argo Atride.

Io qui l’aspetto, entro sua reggia: ei torni;

sarà il trionfo suo breve, tel giuro,

parafrasa i vv. 39-43 di Seneca: rex ille regum, ductor Agamemnon

ducum,

cuius secutae mille vexillum rates 23 E che altro ci proponiamo di fare? Se mai va aggiunto che lo studio delle affinità e delle differenze serve anche (e molto utilmente) a fissare il modo e lo spirito con cui un’ si è formata. Abbiamo qui un clamoroso esempio del fastidio con cui gl’italianisti considerano spesso l’obbligo di approfondire l'influsso degli autori classici sugli autori moderni, sì da

intrupparsi nella canea degli estirpatori della scienza dell'antichità allo scopo ranza.

di meglio giustificare

la loro comoda

igno

SENECA

E ALFIERI

477

Iliaca velis maria texerunt suis,

post decima ^ Pboebi lustra devicto Ilio adest — daturus coniugi iugulum suae.®

« Vendetta è guida ai passi miei:

— incalza Egisto —

vendetta / intorno intorno al cor mi suona;

il tem-

po / se n’appressa; l’avrai: Tieste, avrai / vittime qui più d’una »; è una variazione di ciò che l’ombra di

Tieste dice ai vv. 47-49 di Seneca: iam scelera prope sunt, iam dolus caedes cruor — parantur epulae. Causa natalis tui, Aegistbe, venit.

L'invocazione

diretta ad Egisto & l'evidente stimolo

che ha determinato il trasporto della scena proemiale al personaggio di Egisto. Finalmente il v. 44 di Se-

neca, lam iam natabit sanguine alterno domus & parafrasato con « a gorghi il sangue / d'Atreo berai », ove « il sangue d'Atreo» & una riduzione in linguaggià più perspicuo del preziosistico sanguine alterno di Seneca, allusivo ai colpi che la stirpe di Atreo riceverà in compenso di quelli che Atreo aveva inflitti ala stirpe di Tieste. Un po' meno scoperta ed evidente, ma pur sempre facilmente riconoscibile, & la derivazione da Se4 Questa & la lezione di E, adottata da tutti gli editori; A reca quasi generalmente post dena; e non a torto il GrARDINA commenta fortasse recte. 5 Il GroMrNr (op. cit., p. 46), lascandosi

scontro da noi notato nel testo, chiamo a queste parole è solo in seconda scena del primo atto: « / che al fin vendetta, ancor che figlia mia darammi ».

sfuggire

il ri-

afferma che nell'Alfieri il riciò che dice Clitennestra nella Ah! giunto & forse il giorno, tarda, intera / della svenata

478

SENECA

E ALFIERI

neca delle scene finali. Già le parole che Egisto promuncia nella terza scena dell’atto quinto, oreochiando l'imminente assassinio che Clitennestra sta compiendo del marito, (Esci or, Tieste, dal profondo Averno; esci, or n'è tempo: in questa reggia or mostra la orribil ombra tua. Largo convito,

godi, or di sangue a te si appresta)

gemina da situazione e le espressioni della soena proe-

miale, e quindi del prologo dell’ Agamemnon

sene-

cano. Anzi le parole che seguono: al figlio del tuo infame nemico ignudo pende

già già l'acciar sul cor; già già si vibra, riecheggiano altre parole dell'ombra di Tieste nel prologo senecano: enses secures 35 tela, divisum gravi ictu bipennis regium video caput. Accade,

piuto

alla rovescia,

quello che

nell’Agamemnon,

Seneca

replicando

ei

aveva

vv.

com-

901-05,

26 Così leggono con A tutti gli editori, tranne il Viawsino e così leggo anch'io nella mia versione: «Già scorgo spade, scuri, dardi ». E certo la presenza, prima e dopo, di plurali (esses... tela) sembra imporre il plurale anche nel sostantivo intermedio, concordato con gli altri due. Ma forse ha ragione il Viansino nell’attenersi a securem di E; il successivo sing. bipennis fa sospettare che la fantasia di Tieste isoli la scure

fatale,

che

smozzicherà

il capo

di

Agamennone,

nella

massa delle altre armi che avrebbero potuto colpirlo. Giusta-

mente il GrioMmInI (op. cit., p. 47) ricollega anche lui la terza Bene alfıerana dell’atto quinto al prologo senecano dell’ombra leste.

SENECA

E ALFIERI

479

sulla bocca di Cassandra, l’accenno dell’ombra di Tieste allo scempio del capo di Agamennone. E già nella scena antecedente, quando Egisto spinge diabolicamente Clitennestra all’assassinio, nel concitato, emisticomitico scambio di battute: CL. Ah! .. no... EG. Vuoi spento cL. Qual scelta? ... Ec. E dei pur [ scerre. cL. Io dar morte? ... EG. O riceverla: e vedermi pria di te trucidato) Atride o me?

risentiamo che proprio nella tragedia che all’Agamemnon s’ispira l’Alfieri ha martellato l’intreccio delle frasi dei due personaggi secondo la norma stilistica e secondo il senso del celebre: Concede

mortem.

— Si recusares

darem

dell’Agamemnon, da lui citato come verso esemplare dello stile di Seneca, studiato nella formazione del suo stile. Naturalmente dobbiamo concentrare l’attenzione sulle scene finali. Quando nella penultima scena Elettra grida alla madre « Dammi, dammi quel ferro», si ripete la situazione della scena fra Clitennestra ed

Elettra alla fine dell’Agamemnon, quando al grido della madre (v. 971) morieris hodie, Elettra risponde: Dummodo hac moriar manu. Recedo ab aris. Sive te iugulo iuvat mersisse ferrum, praebeo iugulum tibi; ? T! Cosi legge la maggioranza degli editori con E; A reca volens, che è preferito dal GrarpINA, il quale però inclina a congetturare un originario libens.

480

SENECA E ALFIERI

seu more pecudum

colla resecari placet,

intenta cervix vulnus expectat tuum.

Naturalmente nell’Alfieri Clitennestra, come chia riremo

più giù,

non

è la furia scatenata che si pa-

lesa nell'Agamemnon, è anzi la prima a rimanere sbigottita dalla ferocia erompente in Egisto e a comprendere perché egli l'abbia resa succuba fino ad obbligarla a uccidere il merito; ed Elettra, che con la madre

(cfr.

la quinta

scena

dell’atto

terzo)

ha

ten-

tato sempre l’arma dell’ansiosa e sollecita persuesione, non la investe come in Seneca, ma esprime solo la sua inorridita stupefazione mel vedere che è stata proprio la madre a uccidere il padre. Ma il particolare che abbiamo posto in rilievo ci manifesta che l’Alfieri ha tenuto presente la scena di Seneca e ne ha tratto ciò che si poteva adattare al nuovo complesso psicologico da lui ideato. Ma ciò ch'è più importante è tutto quello che riguarda Oreste. Ci si rimprovererà di scivolare .nel contenutismo,

di

scantonare

dalla

critica di

valore

per attardarci su particolari che possono interessare solo il lettore ingenuo, allettato dallo sviluppo materiale dei fatti. Ma è evidente che il modo stesso con cui un autore impianta il nodo cruciale di un’azione entra direttamente nella determinazione della sua Weltanschauung, dello spirito con cui egli ha rivissuto l’argomento, assecondando le sue inclinazioni ideologiche e fantastiche. Così anche un'analisi come quella che stiamo conducendo può condurre a penetrare meglio il mondo poetico dell’Alfieri. A chi legga la trilogia eschilea farà senso indubbiamente il fatto

che, dopo l’uccisione di Agamennone, Clitennestra ed

SENECA

E ALFIERI

481

Egisto non si preoccupino né poco né punto della sorte di Oreste, che solo per incidens veniamo a sapere ch'é stato allontanato di casa dalla madre; ligi alla mentalità arcaica secondo cui un esule è, come peso umano e sociale, un essere subnormale, essi mo-

strano la più sprezzante indifferenza per il ragazzo costretto a trascinare la vita fuori della sua patria. Chi sa come nelle Coefore proprio il ritorno di Oreste

rappresenterà l'evento decisivo, non può non stupirsi che il poeta non si sia curato di tracciare un legame presago fra le due tragedie. Proprio Seneca invece — che non possiamo sapere se concepisse anche un Orestes al momento della composizione dell'Agasemnon, ma che ad ogni modo non l'ha scritto — ha fondato

tutti i presupposti della successiva vendetta, facendo sì che Elettra ponesse in salvo Oreste coll’affidarlo a Strofio

e facendoci

vedere

(v.

967

sgg.)

Clitenne-

stra ed Egisto anelanti a impadronirsi del ragazzo e

furenti con Elettra perché essa glieli ha sottratti. Evidentemente su questa condotta di Seneca — per il cui materiale sviluppo ogni studio delle fonti non & riuscito a dare un'indicazione precisa — oltre alle Coefore avrà influito l'Elettra di Sofocle, specie per lo scontro fra la madre e la figlia, che è uno dei Leitmotiven della tragedia sofoclea. L’Alfteri, che aveva addirittura concepito quasi a un parto l’Agamennone e l'Oreste, doveva sentirsi pià che mai in dovere di profilare un /rait-d'union fra le due tragedie. E in lui si nota la stretta sudditanza a Seneca nel modo di tracciarlo. Proprio perché egli ignorava le Coefore e l’Elettra, gli è stato più facile adattare lo scontro

fra Clitennestra ed Elettra all’origi

caratterizza-

zione da lui impressa alla prima delle due donne. 31

482

SENECA

E ALFIERI

Elettra non si profila come la giudice spietata della madre, ma solo come colei che ne ha giä scoperto l’adultera passione, che ne ha avuto orrore cercando di farla intravvedere el padre, che rabbrividisce nello scoprire che proprio la madre è l’assassina, ma che riversa solo su Egisto la sua animosità, prima e dopo l'omicidio. In fondo Seneca, rispetto ad Eschilo e a Sofocle, è agli occhi nostri il primo che abbia introdotto sulla scena Elettra non solo al momento del ritorno di Oreste, ma anche prima, al momento dell'uccisione di Agamennone. Agli occhi dell’Alfieri, che conosceva solo lui, ciò è valso a far credere che la

presenza di Elettra durante la fase culminante nell'assassinio del re fosse motivo consacrato dalla drammaturgia classica; e perciò egli si è avvalso del personaggio per approfondire, attraverso i suoi dialoghi con la madre, col padre e con Egisto, l’oscuro dramma maturante nell’anima di Clitennestra. Ma proprio perché a lui sfuggiva che la veemenza dell’urto fra Clitennestra ed Elettra in Seneca discendeva dal topico motivo del contrasto fra le due donne, quale è stato fissato specie da Sofocle, egli ha creduto con maggior disinvoltura di poterla attenuare in un at-

teggiamento

di vigile e consapevole

sofferenza

di

Elettra per la follia adultera della madre. Del resto nella scena seconda del primo atto dell’Oreste egli ha melaborato lo scontro fra madre e figlia proprio nei termini proposti dall'ultima scena dell'Agamermnon senecano, pur presentando, al solito, una Clitennestra non irrimediabilmente sprofondata nella criminalità ormai scelta, ma ancora dilacerata dai rimorsi. Anche in questo, quindi, l'Oreste mostra quanto sia veridica

l'asserzione dell'Alfieri di aver concepito entrambe le

SENECA

E ALFIERI

483

tragedie atridiche in virtù della lettura dell’Agamemnon; l’altro indizio è la travolgente veemenza della condotta di questa tragedia, quell’« ideale dell’azione violenta e frenetica », quell’« atmosfera fre-

netica della tragedia », su cui richiama l’attenzione il Fubini, e che, anche se rispondente alle predilezioni fantastiche dell'Alfieri, è in questo caso l'evidente eredità proprio dell’impeto mozzafiato delle ultime scene dell’ Agamemnon di Seneca, tanto più significativo in quanto l’Agamemnon, dopo quell’abbozzo che sono le Phoenissae, è, coi suoi 1012 versi, la più breve

delle tragedie di Seneca. Del resto che, nonostante tutto, l'Alfieri nel finale dell’Agamennone abbia tenuto presente il dialogo senecano fra madre e figlia lo mostrano le parole che Elettra rivolge ad Egisto all’inizio della scena quinta: Infame vile assassin del padre mio, ti avanza

da uccider me.

La sostanza delle invettive che l’Elettra di Seneca rivolge alla madre è qui trasferita addosso ad Egisto: il disprezzo (« infame, vile » =

Sen. adulterorum ...

domum; gnatam tuam?); il rimprovero d'aver ucciso Agamennone (« assassin del padre mio » = Sen. pietatem

doces?;

feminas

ferrum

decet;

quis

iste

est

alter Agamemnon tuus? / Ut vidua loquere: vir caret vita tuus; Et tu parentem redde); invito a uccidere anche lei (« ti avanza / da uccider me = Sen. Dummodo bac moriar manu. | Recedo ab aris. Sive te

iugulo iuvat | mersisse ferrum, praebeo iugulum tibi). 2 Op. cit., p. 175.

484

SENECA

E ALFIERI

L’improvvisa scoperta che il ferro stillante sangue è nelle mani della madre è il colpo di barra che raddrizza più regolarmente il parallelismo fra le due scene, ma dopo che ciò che v’era di più veemente nelle parole dell’Elettra senecana è stato già scaricato sul capo d’Egisto, a ribadire l’originalità con cui l’Alfieri ha rielaborato la scena di Seneca.? Ma, ripeto, il legame più stretto tra il finale di Seneca e quello dell’Alfieri è nel salvataggio d’Oreste operato da Elettra. L'Alfieri, che eredita dal Racine anchela tendenza a restringere i personaggi al massimo, ha conservato del modello senecano i quattro personaggi principali, Agamennone, Clitennestra, Egisto ed Elettra, gettando a mare l’ombra di Tieste (e abbiamo già visto il perché, e il modo con cui egli ne ha conservato l’intima presenza), la nutrice di Clitennestra, Euribate (cal vantaggio di eliminare la lunga tirata retorica del racconto che fa bella mostra di sé nella tragedia di Seneca) e perfino Cassandra, di cui, mancandogli notizia del precedente eschileo, egli non poteva comprendere la funzione di personaggio pre2 Il GioMINI (op. cit., p. 197) accenna a un'eco della scena di Seneca anche nella scena terza del primo atto della tragedia alfieriana: «So che il padre t'é caro: amassi tanto / la madre

tu! », ecc. Vedi il suo commento

anche riguardo alla

tesi di una dipendenza del finale dell’Agamemnon dalla tragedia arcaica latina, dal Dulorestes di Pacuvio e soprattutto dalla C/ytaemestra di Accio, su cui cfr RrBBECK, Die römische Tragödie im Zeitalter der Republik, Leipzig, 1875, pp. 28 sgg.

e 460 sgg., C. LiepLorr, Die Nachbildung griechischen und römischen Muster in Senecas Troades und Agamemnon, Progr. Grimma,

Senecam

1902,

et

e soprattutto

Rostock,

1887,

cui

antiquas

fabulas

risale

F.

anche

Strauss,

Romanas

il merito

De

ratione

intercedente, d’aver

inter

Diss.

additato

dipendenza della scena di Seneca dall’Elettra sofoclea.

la

SENECA

E ALFIERI

485

minente (ed & essa, infatti, in Seneca a pronunciare le ultime parole della tragedia), a preferenza di Elet-

tra. Ha buttato a mare anche Strofio,? e quindi non ha potuto sceneggiare direttamente il salvataggio di Oreste. Ma quando nell’ultima scena Elettra esclama: Ah! fu vostr’opra, o Numi,

quel mio pensier di por pria in salvo Oreste,

noi siamo costretti a pensare che l’Alfteri, pur non presentandone una corrispondente, abbia presupposto la scena senecana in cui Elettra consegna il piccolo Oreste a Strofio, e abbia impresso al finale un taglio ugualmente impetuoso, ma più asciutto, limitandosi solo a far balenare le conseguenze degli atti compiuti? Che l'Alfieri abbia presupposto esatta% Si tenga presente che l’Agamemnon (a parte la presenza del doppio coro, come nell'Hercules Oetaeus e nell'apocrifa Octavia) è la tragedia che - se si calcolano i due personaggi muti, ma importantissimi, Oreste e Pilade — raggiunge il sa mero massimo di undici personaggi, che è presente solo Troades,

per

il carattere

episodico,

da

grande

affresco,

che

custa tragedia ha in comune col modello, le Troiane di Euripi

31 Fuor di strada mi sembra il GIoMINI (op. cit., p. 194),

che trova «del tutto diversa... l'intonazione ha

peró il merito di notare un

alfierana ».

altro riscontro, pur insistendo

sulla differenza di tono: fra i vv. 947-49 di Seneca, in cui Elettra descrive l'aspetto della madre dopo l'assassinio (Ades cruenta coniugis victrix sui, / et signa caedis veste maculata gerit. / Manus recenti sanguine etiamnunc madent), e le parole della stessa Clitennestra nella scena quarta dell'ultimo atto alfieriano: Gronda il pugnal di sangue; ... e mani, e veste,

e volto, tutto è sangue ... Più che mai si scopre il lavoro con cui l’Alfieri è riuscito a intarsiare i dati della scena di Seneca nel telaio della sua nuova

intuizione del personaggio di Clitennestra.

486

SENECA

E ALFIERI

mente la scena di Strofio in Seneca, ce lo dimostra la prima

scena dell’atto secondo

dell’Oreste, in cui

Oreste rammenta a Pilade: Oh! ben sovviemmi: Elettra, a fretta, per quest’atrio stesso

là mi portava, ove pietoso in braccio prendeami Strofio, assai men tuo, che mio padre in appresso. Ed ei mi trafugava

per quella porta più segreta, tutto tremante:

e dietro mi correa sull’aure

lungo un rimbombo di voci di

pianto,

che mi fean pianger, tremare, ululare, e il perché non sapea: Strofio piangente con la sua man vietando iva i miei stridi; e mi abbracciava, e mi rigava il volto

d'amaro pianto; e alla romita spiaggia,

dove or ora approdammo, ei col suo incarco giungea frattanto.

Qui, con suggestive variazioni e innovazioni, con

una ben orchestrata rappresentazione della fuga nella drammatica notte, sono sviluppati i punti essenziali della scena di Seneca (v. 931, EL., recipe bunc Orestem ac pium furtum occule; vv. 940-45, STR., Tuque o paternis assidens [renis comes, / condisce, Pylade,

patris exemplo fidem. / Vos Graecia nunc teste veloces equi / infida cursu fugite praecipiti loca. / EL., Excessit, abiit currus effreno impetu | effugit aciem).

Ora finalmente conquistiamo la prova più evidente che la lettura dell'Agamemnon di Seneca ha ispirato anche l'Oreste dell’Alfieri. Ed è sbalorditivo che l'Augugliaro trascuri del tutto questo fondamentale riscontro, tanto più valido, in quanto nell’Oreste di Voltaire non v'é traccia di un simile ricordo, e quindi si deve supporre che l'Alfieri abbia tenuto presente

SENECA

E ALFIERI

487

solo dl finale dell’Agamemnon di Seneca. E se il Giomini (cfr. n. 31) afferma che la scena finale dell’Al-

fieri, col suo presagio della vendetta d’Oreste, è d’intonazione diversa da quella di Seneca, in cui Elettra, salvando il fratello, non pensa a lui come vendicatore, bisogna anzitutto considerare che le frasi della donna a lui relative (v. 969, Tuto quietus, regna non metuens

nova) e quelle di Clitennestra ansiosa di riagguantarlo (v. 969, Quo latitat loco? ; v. 979-80, gnata . . . occulit

fratrem. abditum; v. 987, fratrem reddat) già pongono in pieno l'ulteriore sviluppo dell'atroce vicenda. Ma ció ch'é decisivo & che l'ultima battuta dell'Agamemnon, quella di Cassandra, Veniet et vobis furor,"

è l'esplicito presagio di ciò che attende gli assassini per mano di Oreste. Anche la tragedia di Seneca, dunque, pone le premesse di una possibile ulteriore

tragedia corrispondente alle Coefore di Eschilo, all'Elettra sia di Sofocle sia di Euripide e all’Oreste dell’Alfieri.” Col solito procedimento di trasferire al personaggio di Elettra le note più dinamicamente significative della Cassandra di Seneca, l'Alfieri conclude la tragedia con queste parole di Elettra: Deh! vivi, Oreste, vivi: alla tua destra adulta quest’empio ferro io serbo. In Argo un giorno,

spero, verrai vendicator del padre. 32 Contraddicendo senza accorgersene la sua precedente affermazione, il GIOMINI (op. cit., p. 206) parla di « Cassandra, vaticinante Egisto e Clitennestra (vobis) la morte per mano d'un furioso (furor) ». 33 E si noti come l'Álfieri, imitando Voltaire, intitoli così la tragedia della vendetta, diversamente intitolata dagli autori

greci,

e ignorando che il titolo Oreste era già di una tragedia

euripidea di argomento sostanzialmente diverso.

488

SENECA

E ALFIERI

Il suo « Vil traditor, nol troverai», riassume in fondo tutte le battute che Elettra pronuncia in Seneca per assicurare la madre ch’essa non riuscirà a porre le mani su Oreste. Resta da esaminare il potenziamento di uno spunto senecano che incide più profondamente nel più

geloso processo della fantasia creatrice. È risaputo, ed è un risultato incontestabile, che Clitennestra è

considerata la massima conquista poetica della tragedia alfierana. Il Branca ^ la pone accanto a Filippo, Saul e Mirra fra gli «eroi più grandi» del teatro dell’Astigiano e aggiunge * la preziosa osservazione che alcuni degli accenti più profondi della regina colpevole corrispondono alle più intime effusioni liriche dell’autore, che la chiusa della scena quinta dell’atto

terzo « Sola a’ pensier miei... lasciami» echeggia il « Solo fra i mesti miei pensieri » di una delle liriche alfieriane

(n.

135).

Ed

effettivamente

il tormento

della donna, che rimarrà altrettanto complesso e macerante nell’Oreste (che perciò non mi sembra me-

nitare il giudizio marcatamente più severo che gli è riserbato in confronto con l’Agamennone), è una delle

più felici e più originali intuizioni dell’Affieri, che solo nella Mirra seppe riconquistare una così vigorosa capacitä di penetrare nei tortuosi e faticosi anfratti di un’anima ottenebrata da una rovinosa crisi spirituale. Grazie a questo personaggio, la tragedia — che abbiamo visto già presentare l’eccezionale contrapposizione al prediletto tipo del tiranno — è una delle poche del-

% Op. cit., p. IX. 35 Op. cit., p. XIII.

SENECA

E ALFIERI

489

l’Alfieri che evade dalla struttura tipica del contrasto fra oppressione e spirito di libertà, dalla tematica caratteristica di quel teatro, per concentrarsi sopra lo studio attento e simpateticamente impegnato di una passione divoratrice. In fondo, per limitarsi alle tra-

gedie mitologiche, anche nella Merope e nell’Antigone (e in parte persino nel Polinice) torna ad affacciarsi la problematica consueta. E in fondo anche nell’Oreste, che si conclude con l’uccisione di un malvagio ti-

ranno, la presenza del dramma passionale di Clitennestra si affianca allo sviluppo degli schemi abituali. Dinanzi a simile constatazione non mi sembra fuor di luogo domandarmi se un’impostazione così singolere non dipenda anche dall’imponente influsso di una drammaturgia come quella senecana, così come nella Mirra un’analoga impostazione è suggerita dal modello ovidiano, così affine a quello di Seneca sul piano delle suggestioni e delle prospettive di storia del gusto, cioè, per parlare in termini più espliciti, come eredità delle propensioni culturali e fantastiche dell'età barocca.* Ho già avvertito che ciò che costituisce il merito del teatro di Seneca è quello d’essersi riuscito spesso a svincolare dal preconcetto proposito di dimostrare una tesi morale per farsi prendere la mano dalla travolgente inclinazione a raffigurare una crisi passionale colta in tutto il travaglioso impeto % Mi sia concesso richiamarmi ai miei saggi La letteratura latina da Ovidio ad Apuleio nell'età del manierismo e del barocco,

in Antico

e nuovo, Caltanissetta,

1965, p. 243

sgg.;

Ovidio e Seneca nella cultura e nell'arte di Rubens, in « Bulletin de l’Institut historique belge de Rome », 1967, p. 533 sgg.; Osservazioni sulle fonti dell'« Andromaque » di Racine, cit.

490

SENECA

E ALFIERI

della sua manifestazione. Anche l’Alfieri è stato sedotto dal compito di approfondire il tormento dellanimo di Clitennestra, trascurando tutti i consueti

interessi e scopi della sua drammaturgia. Ma nel far questo egli ha trovato la prima spinta proprio nel modello senecano.

Il Fubini, al quale dobbiamo la più attenta e lunga analisi del personaggio di Clitennestra,” a proposito della seconda scena dell’atto quinto: (Io di dolor moriva, se più veder te non dovea; ma almeno innocente moriva: or, mal mio grado, di nuovo già spinta al delitto orrendo son dal tuo aspetto),

cita finalmente (ed è l’unica volta che ciò gli accade) un luogo di Seneca, i vv. 260-61 dell’Agamemnon: Aegisthe, quid me rursus in praeceps agis iramque flammis iam residentem incitas?,

ma per concludere che « tutt'altra cosa è il grido dell'eroina

alfieriana,

grido

che

erompe

dal

profondo

della sua coscienza ». Indubbiamente l'Alfieri ha saputo conservare in entrambe le tragedie allo spirito di Clitennestra una coerente, assidua e penetrantissima dicotomia fra l’accecante passione per Egisto e la tormentosa nostalgia dell’antica purezza. Seneca gli ha offerto solo uno spunto isolato, ch’egli ha saputo trasformare in sapiente e suggestivo motivo conduttore, 3 Op. cit., pp. 161-69. Si guardi quanto opportunamente egli avvicini

il « ma

almeno

/ innocente

nestra all’ultimo grido dell’anima di Mirra: nocente ...; empia ... ora... muoio ».

moriva » di Cliten-

« Io moriva... in-

SENECA

E ALFIERI

491

cosi come nella Mirra ha saputo palesare tutte le sue non comuni qualità di studioso della psiche dei personaggi, escogitando, per la rivelazione a Cinira del colpevole amore della figlia, una causa totalmente diversa da quella addotta da Ovidio, e ricavata molto più poeticamente dagl’intimi recessi dello spirito:

il

che prova quanto anche l'esame delle diverse maniere di sviluppare la trama di un soggetto porti ad approfondire le qualità artistiche di un’opera. Per mostrare come già nell’Agamemnon di Seneca esistesse più marcatamente che non nei due versi

citati dal Fubini lo spunto ch'é servito all’Alfteri per imprimere a Clitennestra la sua originale caratterizzazione, mi si consenta di riferire un passo di un mio

precedente studio, il già citato Originalità del teatro di Seneca (pp. 72-73):

« Pure, in un caso egli (Se-

meca) ha voluto schizzare una figura che non fosse esempio sovrumano

di dedizione o di resistenza alle

brame cieche; e l’ha fatto proprio riguardo a un personaggio che la tradizione della tragedia gli forniva nei connotati della più fosca ed enengica propensione al male: Clitennestra. Dalla bipede leonessa ch’era in Eschilo, dalla sua funzione di incubo dell’imbelle e subdolo Egisto, la Tindaride ... diventa invece, nel-

l'Agamennone di Seneca, il succubo del suo amante. È un peccato che stavolta Seneca, dinanzi allo schiacciante

confronto

con

Eschilo,

abbia

vacillato,

non

abbia condotto l’analisi del personaggio di Clitennestra con la medesima felice coerenza con cui ha condotto quella del personaggio di Fedra. Ma in magnis et voluisse sat est: la sua intuizione sarebbe stata completata con rara felicità dall’Alfieri. Nel Cordovese la motivazione dei sentimenti di Clitennestra è

492

SENECA

E ALFIERI

oscillante, e non in funzione espressiva della sua tormentosa incertezza, ma proprio per carenza di un preciso inquadramento fantastico del personaggio. Ora la muove il rancore per il sacrificio di Ifigenia (vecchia reminiscenza eschilea), ora l’amore per Egisto sembra aver dissipato in lei ogni esitazione, sì ch’essa

si profila orgogliosamente capace di delitti peggiori di quelli commessi dalla sorella Elena; enche la gelo-

sia per Cassandra compare troppo presto e quasi di straforo, quasi prima che la regina possa aver notizia precisa della preda che Agamennone reca in patria. Eppure questo motivo finisce per configurarsi come fondamentale nella muova intuizione che Seneca ci presenta del personaggio; su di esso infatti batte accortamente Egisto per vincere le estreme riluttanze della regina, sì che, grazie ad esso, la nuova intuizione

senecana della figura di Clitennestra appare parallela alta nuova intuizione raciniana della figura di Fedra, le cui ultime esitanze nell’accusare Ippolito scompaiono quand’essa apprende l’amore del giovane per Aricia. Parallelamente alla felicità di quest’ultima intuizione bisogna gustare le espressioni con cui Clitennestra compare sulla scena, dilacerata fra la passione che la travolge e il rimpianto della perduta castità: “ Perché vai fluttuando? La via migliore è ormai chiusa. Un tempo potevi, casta, custodire il talamo ancora verecondo e lo scettro del tuo sposo, con fedeltà vedovile: buoni costumi, leggi, onore, affetto, fedeltà, tutto è perduto, e il pudore che, quando è scomparso, non può più ritornare; * allenta le briglie, $

38 Cfr. anche la mia Storia del teatro latino, Milano, 1957,

p. 264: « egli (Seneca) ci ha presentato nel personaggio di Cli-

SENECA

E ALFIERI

493

abbendonati, scatena la malvagità fino agli estremi! ”. In grembo al canonico personaggio della nutrice confidente versa il pianto amarissimo dell’innocenza perduta: “ Da un lato una vergognosa passione mi tiene l'animo prono sotto il suo giogo e non si fa vincere; ma tra le fiamme da cui mi sento assediato lo spirito, ancora, benché stremato e vinto e macchiato, il pu-

dore recalcitra. Son trascinata qua e là dai flutti...

Perciò mi son lasciato sfuggire il timone dalle mani: dovunque questa rabbiosa passione o 1] dolore o la speranza mi trascineranno, mi affretterò a seguirli; ho abbandonato la mia barca ai flutti: quando l’animo

è smarrito,il miglior partito è obbedire al caso " ».? tennestra — il più vivo dell’ Agamemnon, almeno come ricchezza di spunti, anche se non tutti adeguatamente sfruttati — il processo che poi sarà caratteristico delle tragedie della maturità:

la lotta del bene e del male entro un'anima appassionata

e il trionfo del secondo, fino ai peggiori eccessi. Una Clitennestra

che,

all’annunzio

dell'arrivo

di

Agamennone,

prova

vergogna pet la perdita della sua pudicizia ed esita ad assecondare il suo criminale amante, è veramente una creazione nuova, cui si ispirerà l’Alfieri per il medesimo personaggio, nelle sue tragedie Agamennone e Oreste. E particolarmente

istruttiva della capacità, che già Seneca comincia a mostrare, di scendere negli abissi della miseria umana è la desolata constatazione

della

donna:

‘Ora

i buoni

costumi,

l’obbedienza

alle leggi, l’amore, l’affetto, la fedeltà, tutto è perduto,... e la

pudicizia che, quand'è perduta, non sa trovare la via del ritorno! ' ».

3 Riteniamo

opportuno

riferire il testo del brano

109-144):

quid fluctuaris? clausa iam melior via est. Licuit pudicos coniugis quondam toros

et sceptra casta vidua tutari fide —

periere mores ius decus pietas fides et qui redire cum perit nescit pudor; da frena et omnem prona nequitiam incita:

(vv.

494

SENECA E ALFIERI

Dunque i segni di una crisi dello spirito di Clitennestra in Seneca non si limitano al distico citato dal Fubini, che pure non è certo uno dei minori italia nisti noncuranti dell’influsso delle letterature classi che: ché anzi a lui risale il merito — e me lo ha confermato in una lettera che ho avuto l’onore di ricevere da lui — di richiamar l’attenzione sui manoscritti alfieriani contenenti le prove di versione da Seneca da ragguagliare agli abbozzi originari di stesura in prosa delle tragedie. Volgiamoci ora alla Clitennestra alfieriana e vediamo se nelle sue battute non sono da scoprire echi degli accenti più epertamente desolati e combattuti della Clitennestra senecana. Tralasciamo quanto dice Clitennestra nell’Oreste, dove meglio si

possono sorprendere gli echi della Clitennestra dell'Agamemnon: il fatto che di mezzo ci ἃ stato l'assassimo di Agamennone, con la scoperta da parte della regina che Egisto l’ha spinta a compierlo per soddisfare la sua sete di vendetta e di dominio, può autorizzare i critici a spiegarli solo sulla base del particolare sviluppo impresso dalll’autore alla vicenda tragica. Ma nella terza scena dell'atto primo dell’Agamennone, dialogando con Elettra (che abbiamo visto





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premit cupido turpis et vinci vetat: et inter istas mentis obsessae faces fessus quidem et devinctus et pessumdatus, pudor rebellat. Fluctibus variis agor Proinde omisi regimen e manibus meis: quocumque me ira, quo dolor, quo spes feret, boc (buc A) ire pergam; fluctibus dedimus ratem: ubi animus erat, optimum est casum sequi.

SENECA

E ALFIERI

495

investita della funzione che in Seneca ha la nutrice),

la regina le dice: Piangi l’error di traviata madre,

piangi, ché intero egli è. E più giù soggiunge:

Ma chi son io? Di Leda

non son io figlia, o d’Elena sorella? Un sangue stesso entro mie vene scorre. Questo

è proprio ciò che la Clitennestra di Seneca

ricorda ai vv. 123-24: Quid timida loqueris furta et exilium et fugas? Soror ista facit.

E la sostanza della constatazione discende da ciò che dice Cassandra al v. 907 dei due complici assassini: est bic Tbyeste natus, baec Helenae soror.

D'altro canto già Egisto, ai vv. 234-35, aveva detto a Clitennestra: Tu nos pericli socia, tu, Leda sata, comitare

tantum,

che sono parole brutalmente torcenti a senso più chiaramente e sfrontatamente prossenetico e perverso il

cortigiano inclitum Ledae genus della nutrice al v. 125. Un accenno di ciò vedi in Augugliaro, op. cit., pp. 24-25. Alla fine della scena con Elettra, la Clitennestra

alfieriana esprime ancora il suo dissidio con modi chia-

496

SENECA

ramente

derivanti

E ALFIERI

da quelli delle battute

senecane

già riferite: Or ne’ tuoi detti il vero ben mi traluce: ma sì breve un lampo di ragion splende agli occhi miei, ch’io tremo.

Nella prima scena dell'atto secondo, quando la donna, nel decisivo colloquio con Egisto, pronuncia 1 versi: Numi, ragion, fortuna, invano tutti all’amor mio contrastano,

avvertiamo evidente l’eco di periere mores ius decus pietas fides del v. 112 di Seneca. E quando nella quinta scena dell’atto terzo la regina dice ad Elettra « Omai mi

lascia al mio terribil fato»

e «Sola

/

co’ pensier miei, colla funesta fiamma / che mi divora, lasciami », è facile scorgere la genesi di queste espressioni in clausa iam melior via est, in fluctibus variis agor, in fluctibus dedimus ratem: / ubi animus errat,

optimum est casum sequi di Seneca. Persino le espressioni del tormentato monologo di Clitennestra all’inizio dell’atto quinto riecheggiano i brani di Seneca su cui abbiamo concentrato la nostra attenzione: Questa mia destra

di casto amor, di fede a lui già pegno,

sono fin troppo evidente richiamo a: Licuit pudicos coniugis quondam toros et sceptra casta vidua tutari fide — periere . . . . .fides et. . . . . pudor

dei vv. 110-13 dell'Agamermnon.

SENECA

E ALFIERI

497

S’intende che, sicoome Seneca, padroneggiato anche lui dal fascino della

δίπους

λέαινα

eschilea,

ha finito per far sprofondare la sua Clitennestra nel delirio del furore erotico ed omicida, le somiglianze

con la Clitennestra alfieriana finiscono per attenuarsi: la Clitennestra dell’Alfieri uccide solo perché Egisto riesce ad insinuarle che ne va della vita di lui se Agamennone

mentre

può

continuane

la Olitennestra

a vivere

di Seneca

e a regnare,

s’imbeve

di uno

sfrenato, dionisiaco raptus omicida, che finisce per cancellare le sue esitazioni e le sue disperate renitenze. Ma

ancora nella scena con Egisto trova voce

la sua resistenza, sì che — come abbiamo già visto — il Fubini ha ricordato proprio i vv. 260-61 come spunto riconducibile all’elaborazione alfieriana del personaggio; e l’atteggiamento sopravvive in ciò che afferma la nutrice al vv. 288, Surgit residuus pristinae mentis pudor. Del resto già ai vv. 239-43 Clitenne-

stra aveva esplicitamente formulato ad Egisto le sue renitenze: remeemus”

Amor

iugalis

illuc,

unde

vincit non

ac flectit retro:

decuit

prius

{

/ abire;

sed nunc casta repetatur fides, / nam sera numquam est ad bonos mores

via:

| quem

paenitet peccasse

paene est innocens. Ma ciò che deve più interessare è che i motivi con cui in Seneca sia Clitennestra giu-

“ Il Leo legge referemur correggendo referemus di E, già emendato dal Gronov in referamur. Gli altri editori seguono la lezione di A. Nella mia versione (« sono ricondotta là, ecc. ») ho adottato l'emendamento referimur di M. MÜLLER (in « Phi-

lologus », 1901, p. 268). Il Vıansıno nell’apparato lo riferisce ἘΠῸ πραπίξητε come referimus, cioè come più vicino alla lezione di E. 32

498

SENECA

E ALFIERI

stifica il suo atroce proposito sia Egisto glielo ribadisce nella coscienza sono gli stessi che risuonano

sulla bocca di lei nell’Alfieri. Ed è già un motivo strutturale di grande importanza che nell’una e nell’altra tragedia il folle atto di Clitennestra sia preparato

nella

medesima

maniera:

prima

vediamo

la

regina scossa e trascinata dall'insano amore che l'ha accesa per il figlio di Tieste, poi soggiogata dalle mal-

vage e abilissime sollecitazioni dello stesso Egisto. È un impianto drammatico di cui, in mancanza delle elaborazioni intermedie per noi perdute, noi siamo costretti a scorgere il modello in Seneca, e di cui indubbiamente l’Alfieri è tributario a Seneca, mentre in Eschilo lo spregevolmente passivo Egisto, tipico pro-

fittatore di una malvagia volontà femminile, appare solo all’ultimo, come solo all’ultimo, per farsi sgozzare, si presenta nelle Coefore, nelle due Elettre degli altri due tragediografi attici e nell'Eleztra di Hofmannsthal-Strauss, laddove nell’Oreste alfieriano (continuando lo sviluppo senecano dell’ Agamennone) campeggia sin dalla terza scena dell’atto primo. Posto in chiaro questo punto fondamentale, è però da lumeggiare esplicitamente anche il fatto che sia in Seneca sia nell’Alfieri ciò che Clitennestra medita e che Egisto le insinua sono il ricordo del sacrificio di Ifigenia, la gelosia per Cassandra, e il timore che Egisto debba morire. Qui la possibilità di porre i testi a niscontro è così estesa che, per non allungare eccessivamente questo già troppo diffuso scritto, rinuncio a trascrivere i versi sostanzialmente corrispondenti.

Persino nella scena alfieriana tra Agamennone e Clitennestra (quinta dell’atto quarto) i tre motivi formano il tessuto del dialogo fra i due coniugi. Per il

SENECA

E ALFIERI

499

primo punto qualcosa ha intravisto l’Augugliaro (op.

cit., pp. 22-23).

Se abbiamo fatto ergomento del nostro esame l'accertamento di ciò che l'Agamennone dell’Alfteri deve all'Agamemnon di Seneca, non vi siamo stati condotti

da un meccanico, arido e inintelligente istinto di scovare a ogni costo la fonte e precisare i limiti di una poco significativa originalità dell’inventio. Ci ha guidati il proposito d'inviduare il processo storico-culturale, il travaglio formativo attraverso cui l'Alfieri ha maturato una delle creazioni che la critica quasi senza dissensi ha riconosciuta fra le sue più rappresentative o in linea assoluta o almeno parzialmente e sotto singoli aspetti. In un teatro che presenta una delle compagini espressive più tipicamente uniformi, per non dire monolitiche, non si può certo parlare, per questa tragedia, di singolarità stilistica. Per giunta fl Fubini ha già additato come caratteristica di tutto il teatro alfieriano l’ossessione del delitto, la predilezione per urti violenti e sfocianti in catastrofiche con-

dlusioni. Ma abbiamo già constatato che nell’ Agamennone si elude la classica problematica della lotta fra la tirannide e la libertà e si concede più ampia cura allo studio attento e appassionato di sentimenti che attanagliano gli spiriti e li travolgono a soluzioni di cupa tragicità. Tutto questo potrebbe confortare la tendenza a ravvisare nell’Alfieri uno Stürmer di qua dalle Alpi. Ma appunto una ricerca del tipo di quella da moi condotta contribuisce a chiarire che nel suscitare in lui simili propensioni non era estranea la non ancora estinta eredità dell’età barocca, che nel modello

di Seneca tragico aveva trovato alimento per le sue esperienze teatrali. Così in un ambiente come il no*

500

SENECA

E ALFIERI

stro l’affinità ello Sturm und Drang e al protoromanticismo poteva trovare fondamento nell’aggancio a colui che tanto aveva nutrito di sé quello Shakespeare, ch'era l'idolo dei novatori germanici, come teorica. mente ci documenta il corso di August Wilhelm Schlegel. Era cioè l’ultimo e marcato episodio di una

fortuna che finora non aveva mai abbandonato Seneca nel teatro tragico moderno e che insisteva a menifestarsi anche alla vigilia dell’estinzione della cosiddetta tragedia regolare nella nostra letteratura e in tte quelle dell’Occidente.

INDICE

Abati A. D. „ 275, 276. Accio, 12, 1 3, 26, 343, 484. VI, 255,

Adriano

257.

Agide IV, 460

Agrippina

minore,

344,

345.

Alamanni

E

135,

139.

132,

Alarcön J. R 352. Alberico da A 120. Alberto Magno (S.), 44, 54. Alessandro dei Medici, 256. Alessandro Magno, 178. Alfieri V., 140, 163, 358, 441457,

459491,

Alfonso Alfonso

I d'Este, 89, 93. II di Napoli, 89.

Alonge Alton

493-499.

R., 219. E.

Ambivio

H.,

Turpione, 141,

Arias Montano

B., 268, 270,

280-282.

Ariosto Ariosto

F., 126. L., 62, 63, 80,

101,

106, 223,

130, 224,

221, 231,

251,

253.

148, 225,

220, 226,

235, 236-242, 241, 249, 250, Aristocrito, 17. Aristofane,

223, 224,

244.

Aristotele, 44, 133, 207, 209, 228,

329.

Artaud A., 131. Asinio Pollione, 231, 431. Attilio Regolo, 290, 360, 368; 369, 373.

285.

251.

Anguillara (dell’) G. A., 159.

Annibale,

DEI NOMI

178, 290.

Anser, 22. Antimaco, 15, 16, 29. Antinori A. L., 284. Antonio (M. il triumviro), 424, 425, 446. Antonio Iulo, 425. Apollonio M., 118, 453.

Apuleio, 61, 63, 64, 133, 135, 291, 489 Aretino P., 70, 136, 158-162, 164, 165, 168-170, 173-176, 196, 201, 202, 205, 212, 217, 220, 227, 228, 235, 242, 243, 245,

249, 254, 258.

Ruggero

B., 451, 472, 495,

Augusto, 92, 93, 95, 99, 231, 289, 424, 425, 427, 428. Avocat

Patelin,

32.

Axelson B., 339. Azzo

I d'Este,

Bahlmann

P.

90

127.

Bardi G., 110. Baretti G., 358.

Bargagli

G., 235,

253, 255, 256.

243,

249,

BargeoP. A. (Pietro degli An. geli), 265. Barzizza A., 127. Basile G. B., 253.

502

INDICE

Bé Beare

S., 269. W., 167.

Beccaria

L., 284.

DEI

NOMI

Borsellino N., 118, 218, 219, 220, 226, 232, 235, 239, 251.

Beggiato F., 39-42, 44, 47, 51Bosco U., 7, 15, 27. Boutemy A., 127. 55. Belcari F., 34. Bragaglia A. G., 214. Bramante, 134. Belo F., 219, 233, 235, 243, 244, 248, 249, 256, 261. Branca V., 7, 443, 488. MOTADnICO: 342, 343, 344, Bembo P., 108, 134. 78. Benci F., 265, 276. Benoit de Sainte More, 97. . Brugnoli G., 125. Bentivoglio M. C., 447. Brumoy P., 447. Bentiey R., 318, 420, 429, Bruni L., 222. Bruno G., 212, 219, 233, Benvenuto da Imola, 8. 244, 249, 250, 252, Besana da Siena (S.), 38, 257, 260, 261. Bruto minore, 424, 425, Beroaldo F. iunior, 134. Buccio di Ranallo, 36. τὰ E., 128, 448, 449, Budé G., 339.

Buonarroti

Bianchi D., 475. Bibbiena (B. Dovwizi), 130,

148,

212,

215,

M.,

106,

224, 441. Burck E., 426.

219,

Burmann

il

235, 255, 460.

giovane,

P., 284.

223, 225, 226, 233, 239. Billanovich G., 7. Binni W., 365-367, 372, 375. Blasucci L., 212.

Burro Afranio, 342, 344. Busenello G. F., 111.

Boccaccio

Caccini

377,

G.,

110.

117,

130,

185,

202,

213,

Calcaterra C., 447. Caldera E., 352.

221,

223,

226,

231,

237,

Calderón de la Barca P., 154.

G.,

25,

109,

116,

241, 249, 250, 254. Bogianckino M., 111, 361. Bóhm A., 216. Boiardo M. M., 61-103, 107, 131, 361, 467. Boileau N., 314, 378. Bonfantini M., 43, 44, 46. Bonora E., 106, 112, 130, 132, 137, 138, 139, 153, 162, 163, 187, 189, 208, 215,

Caligola, 428. Callimaco, 16, 17, 29. Calmo A., 108, 211, 221, 227.

G.,

Calosso

U.,

452,

Calvino G., 38. Calvo (Licinio),

454. 11,

16.

Calzabigi (R. dei), 448. Cammelli A. (detto il Pistoia),

362. Borghini V., 220. Borgia C., 255.

Borlenghi A., 118, 218, 220, 228, 239.

359.

della Scala, 15, 116,

117,

123.

INDICE

Carafa A., 275. Cardaneto O., 268, 269, 271. Carducci G., 424. Carlo V, imperatore, 202, 255, 256, 25]. Caro A., 212, 219, 223, 226,

DEI

503

NOMI

221, 222, 277, 437. Cimabue,

267,

273,

276,

249.

Cimarosa D., 359. Ciofano C., 283. Ciofano D., 282.

Ciofano Ciofano Ciofano Ciofano

E., 263-2%. G., 263-264. G. G., 282. G.V., 283.

Ciofano

I., 283.

Ciofano M. A., 282, 283, 285, 286. Ciofano O., 283. Claudio Claudiano, 18. Clavio C., 265.

Cleopatra, Colleoni

Catullo, 10, 11, 14, 15, 16, 17, 21, 27, 29, 115, 432. Cavalcanti B., 206-207. Cecchi E., 106, 313, 314, 362. Cecchi G. M., 108, 126, 219, 220, 228, 229-232, 234, 246-

248, 250, 254, 257, 261. Cecilio Stazio, 19, 20, 26, 231, 251. Celestina, 32. Celestino V (Pietro del Morrone), 32, 39.

Cesare, 12, 13, 27, 2%, 293, 302, 303, 305, 306, 424, 426, 446, 459. Cesare Strabone, 12. Chanson de Roland,

Chapelain Chiabrera on 350. Cianfarani Cicerone,

100.

J., 291. G., 110, 111. de Laclos P. A. F., V., 289. 18, 20, 27,

215,

163, 446.

B.,

254,

Comneni

(dinastia),

Corneille

P., 111,

255.

428.

156,

175,

205, 224, 316-335, 341, 358, 361, 366, 367-371, 376, 389, 419, 421, 436, 447. Corneille Th., 369.

Cornelio Severo, 20, 23, 26. Cornificio, 22, 23. Correr G., 129, 130. Cortese G. C., 253. Cosimo I, 256, 257, 459.

Cotta il poeta, 23. Coubert

A.,

329.

Crasso, 178. Crébillon P., 350, 355, 434. Croce B., 137, 387, 414. Cucchetti G., 262. D'Amico S. 118, 131, 164, 212, 215. D’Ancona A., 32, 59, 105-108, 110, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 127, 129, 135. D'Annunzio G., 305.

504

INDICE

Dante, 12, 45, 123, 135, 221, 222, 226, 29. Da Ponte L., 359. Dati L., 125. Davanzati B., 221. De Bartholomaeis V., 32, 33, 35, 39, 41, 44, 45, 47, 34, 55, 58.

Decio F., 203. Dejob

Ch., 377, 389.

Del Carretto G., 135, 139. De Lectis G., 284. Delitio A., 37. Della Casa G., 250.

Della Corte F., 14, 15. Del Lando D., 282. Della Porta 234, 238, Della Valle De Luyne

Demetrio

G. B., 219, 233, 244, 245, 257. F., 157, 201. G., 329.

Cidone,

279.

De Rainaldis A. F., 282

De Sanctis De Santis

Després

DEI

NOMI

Emilio dei Cavalieri, 110, 111,

361. Ennio, 11, 25, 245, 251, 252. Enrico III, di Francia, 279.

ErcoleI, d'Este, 91, 97. Ercole II, d'Este, 132. Eschilo, 139, 154, 342, 450, 457, 460, 461, 481, 482, 487, 491, 497, 498. Euripide, 131, 132, 138, 140, 141, 148, 149, 157, 167, 329, 330, 364, 365, > 465, 450, 487, Eyb (von) n° A "m.

Ezzelino 123, a

Romano,

Falorsi G., 293, 298, 309. Falugi x 135, em Farnese À (card. ) 286

376.

J. B. D., 412.

278,

Ferrari P., 108. Ferrario G. F., 286. Ferreira A., 124.

Dolce L., 132, 139, 159, 163, 203, 214, 233, 245, 250, 251, 252.

Ferrero G. G., 453.

I., 263,

264,

Disticha Catonis, 20, 244.

Domenichi L., 129. Domenico

301,

Fassò L., 441. Fayen A., 268.

Dionisotti G., 7, 63, 134. Pietro 284.

120,

F., 137.

A.,

Diderot D., 350, 359. Diodati L., 411. Diomede, 243. Di

447, 465, 492, 139, 152, 197, 345, 366, 461,

(S.), 42, 47.

Ferroni G., 262. Filippo II di Macedonia, 261. Filippo II di Spagna, 270, p

446,

447,

452,

459,

Domizi P., 126.

Filip po V di Macedonia, 261.

Donato Elio, 10. Donato Tib. Claudio, 78. Doni A. F., 221, 222, 227.

Firenzuola

A.,

Doni

Flacco

Valerio),

G. B., 111.

Dubos

J.B.,

378.

Elvio

Cinna,

15,

Filita, 10, 16, 17, 29. (L.

223.

27.

Folena G., 216. Fontanella G., 299. 16, 20, 22.

Fracastoro G., 214, 215.

INDICE

DEI

NOMI

505

dou

906,

211,

234,

362,

Girolamo. (S.), 9, 11, 22, 23, Giuliano Frotscher C. H., 278. Frulovisi

T. L., 126.

Fubini M., 451-455, 463, 483, 490, 491, 494, 497, 499. Fugaldi S., 451. Furio Bibaculo, 20, 22, 23, 24, 27. Furio Dionisio Filocalo, 23.

Gaio, 426. Galiani F., 411438. Gallico C., 109. Garin E., 7, 26. Garnier

R.,

Gassman

219, 228,

230, 231, 232, 234, 249, 250, 252. Gellio, 279. Getto G., 205, 207, 208, 304. Ghisilieri B., 258. Giacotti

D., 109.

Giambullari P. F., Giammarco E., 40.

108.

Sus notti D., 219,

231,

484,

485,

123.

211,

Gandellini

F.,

sca), 224, 229, 249,

108, 225, 231, 250,

219, 226, 232, 251,

256, 257, 261.

Guarini

L., 203.

B.,

110,

200-

Heinze R., 426.

418.

197,

198,

220, 227, 234, 252,

223, 228, 237, 254,

111,

112,

Guerriero G., 287. Guglielmo da Tocco, 43. Guicciardini F., 257. Guizzardo di Bologna, 123.

195,

18,

449.

362

112, 151,

12,

237,

Gregorio X, 40. Grimal P., 210. Grimani D., 216. Gronov L. F., 238, 497.

Cintio G. B., 133, 138, 150,

158, 159, 162, 163, 164, 169,

108,

244, 358. Gonzaga V., 268, 269, 287.

Hardy A., 420. Harlan M. M,. 352. Haydn F. J., 359. Hebbel F., 203. Heinsius D., 284.

Giovenale,

Giraldi 132,

487.

Del Virgilio, XXII, 57.

258.

Goldoni v

Groto

232,

54. Giardina G. C., 173, 459, 462, 477, 479. Ginetti F., 263. Giomini R., 462, 477, 478, Giovanni Giovanni

254,

Gluck C. W., 132, 361. GoetheW., 132.

Gravina G. V., 359, 360, 364, 365, 367. Graziano A. M., 275. Grazzini A. F. (detto il La-

120. 148, 226,

(card.),

Giuseppe II, 437. Giustino (epitomatore di Pompeo Trogo), 390. Gl'ingannasi. 233, 234, 250,

Gori

V., 131, 453.

Gelli G. B., 108, 221, 222, 225,

dei Medici

Heinsius N., 284, 420, 459.

INDICE DEI NOMI

‚172.

Hypnerotomacbia

34.

Polipbili,

Magnifico, 459.

Loschi A., 119, 120, 129, 130.

πε τὰ , 25, 26, 291-303, 305312. Luciano, 131. Lucilio, 19, 21.

Kiessling A., 426. Kristeller P. O., 37, 274, 276. La Bruyère J., 314.

Lanson G., 340, 342, 343.

La Penna A, 417. Lapo da Castiglionchio, 26.

Leodivio 121,

Laurana

da

122,

Vezzano,

120,

125.

F., 283.

Lee

ni yTR R., 352 a enned Lelio Maggiore, 142. Leo F., 131, 318, 330, 459, 467, 497.

Leone

B., 286.

Leone

X,

Leone

133,

136,

dei Sommi,

eigi È . E

339,

113, 224,

E., 436.

Livio, 139, 141, 153, 159, 163,

271.

Livio Andronico,

11, 245.

244.

taken

da

Fabriano,

121,

125.

Ludovico

il Moro,

97.

Luigi IX (S.), 44, 54, 56. Luigi XIV, 359, 361, 367. Lulli G. B., 359, 363. Machiavelli N., 130, 135, 212, 213, 214, 219, 221, 223, 225, 226, 228, 231, 248, 249, 357 Mscrobio,

241.

Liedloff C., 484.

Lucrezio,

148, 220, 227, 250,

27.

Maffei M., 286. Maffei S., 163, 360, 446.

Mairet J., 136, 420.

Mancini A., 131. Manfredi, 31. Manfredi

E., 366, 368.

Manfredi M., 203. Santana F., 120, 122, 125, 126. Manuzio A., il giovane, 265, 266, 268, 270, 271, 272, 276, 277, 289.

INDICE

Manuzio P., 265, 266, 267, 274, 280, "286. Marcello ll giovane, 94. Marcello B.,

Marino G. ΒΩ 102, 111, 291.

Mario,

290.

Marmorale E. V., 19. Marotti E ps adova,

28,

117.

29.

Marziano Capella, 18. Massimo Planude, 428. Massinissa, 136, 142, 146. Mastraca S., 366, 372. Mathieu de Vendóme, 213.

May G., 339. Mazzoni

156.

G.,

149,

151,

152,

Mecenate, 231, 425, 427, 429, 437. Melisso, 23. Melisso P., 268, 269, 270, 286, 287, 289. Meloni P., 150, 151. Menandro,

Molière (J. B. Poquelin), 111, 224, 366.

Molza F. M., 250. Momigliano Att., 296,

299,

Monteverdi C., 109, 111, 363.

Martelli L., 135. Martello P. J., 360. Martellotti G., 7-20, 22, 23, 25,

507

NOMI

Monaci E., 40, 41, 59. Montchrestien À., 420. Montemayor J. de, 378.

Marivaux P. C., 374. Marmontel ]J.-F., 369. Marsilio

DEI

231.

Meneghelli A., 119. Menéndez Pidal R., 352. Merkel R., 285. Meregazzi G., 376. Mesnard P., 342. Metastasio P., 357-361, 363. 369, 371-376, 379-393, 395. 400, 402-409, 436, 441. Metello Celere (Q.), 431. Metrodoro di Scepsi, 22. Micyllus J., 284. Milizia F., 360. Minieri-Riccio C., 284. Minio Paluello L., 7.

Morani G. A., 376. Moreto A., 351-355. Moricca U., 333. Morley S. G., 352. Morlini G., 115. Magica O. de, 315,

316,

71.

Mozart Müller Müller Müller Mureto

W. K. L., M., M.

A., 360. e T., 3%. 459. 497. A., 265, 266, 269,

270, 274, 275, 277-282, 286.

Mussato A., 59, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 126, 130, 135, 139,

150,

153, 450.

Narcisso 344.

liberto

di

Claudio,

Nardi J., 116, 122, 219, 231,

236. Neri F., 128. Nerone, 342, 343, 344, 377, 378, 428, 438, 450, 452, 459. Nevio, 245, 251, 252, 391. Niccolò da Correggio, 107, 110,

113,

114,

129,

361.

Nicola da Guardiagrele, 37. Nicolini F., 411-419, 421-423. Numa il poeta, 23. Οὐ

oan

degli), 207, 208,

Omero, 72, 226.

508

INDICE

Opelt I., 153. Orazio,

10,

11,

18,

19,

22,

27, 112, 165, 166, 226, 228, 244, 411-435, 437, 441. Orsini F., 265, 269, 285, 286.

Orsini G., 137. Ortigoza-Vieyra C., 351-353. Osio S., 272, 275. Ottavia (sorella d’Augusto), 424, 425. Otway Th., 154. Oudendorp F., 420. Ovidio, 9, 11, 12, 17, 19, 20,

22, 23, 25, 26, 61, 63, 64, 65, 68, 110, 115, 116, 124, 129,

195,

196,

200,

213,

274,

276,

277,

280,

281,

283-289, 291, 305, = 339, 391, 446,

315, 489,

249, 263, 264, 265-271, 273,

Pacuvio, 26, 484. Padoan G., 7, 216, 217, 243. Paisiello G., 359. Pandolfi V., 118. Pansa G., 284. Paoletti L., 292. Paolo III, 136, 202, 256. Paolo

IV,

275.

Paolo Diacono, 153. Paparelli G.,7.

DEI

NOMI

Petrarca F., 7-29, 222, 226, 249. Petronio,

116,

221,

418.

Piccinino N., 255. Piccioli G., 134, 135, 139. de

a

A., 208, 213, 234,

55. in E. S. (Pio 127. Pighi G. B., 14, 15. Pindaro,

II),

226.

Pio G.B., 133. Pio V S. ), 255. Pirandello L., 161. Pirrotta N., 113, 114, 115, 117, 126, 149, 227, 363. Pisani U., 127. Plantin C., 266, 267, 269, 270, 273, 276, 280, 281. Platone, 215, 221. Plauto, 97, 106, 108, 114, 115, 116, 122, 149, 212, 213, 216, 219, 224, 226, 228-232, 237-241, 243, 245-252, 259-261, 280. Plinio il Vecchio, 20, 27, 28. Polibio, 141. Poliziano A., 15, 106, 107, 115, 131, 305, 361, 363.

Papi G. A., 268, 270.

Parini G., 358. Pastorello E., 276. Festore Stocchi M.,

uas 15,

(autore di atellane),

17,

Pomponio

Pazzi (À. dei), 135, 163, 203.

Pontormo

Peeters F., 285, Pellione, 261.

il), 211. Poppea, 342, 343. Porfirione, 27, 428. Porpora N., 359. Povoledo E., 252. Pradon N., 369. Prévost A. F., 350.

287.

Pelusio G., 286. Pensa Michelini A., 35. Peri I., 110. Perosa

A.,

7,

115,

Persio, 257, 418.

128.

Secondo,

20,

23,

(Carrucci J. detto

INDICE

DEI

509

NOMI

Rosso Fiorentino (G. Rossi), 211. Rostagni A., 428. Roswita,

B. dei

105.

Rotrou J., 329, 420, 448. Rousset

Rubens P. P., 129, 315, 489. Rucellai G., 59, 132, 135, 139, 140, 149-159, 183, 187, 201, 209, 233.

Pulci L., 63, 251. Quaglio A. E., 7.

oia Ph., 361, 364, 369, 37 Quintiliano, 24, 25, 26, 27, 28, 244, 287. Rabirio, poeta, 23, 26. Racine J., 96, 145, 154, 224,

313, 314, 315, 316, 331, 334-349, 354, 357, 358, 361, 366, 367, 369-382, 385-408, 436, 447, 449, 450, 451,

452, 474, 489, 492. Raffaello, 134. Raimondi da 37, 63. Rameau J. P., 359. Ranaldo F., 268, 272,

Rolland R., 363, 368.

Romagnoli E., 436.

Ronconi A., 11, 245. Ronga L., 557.

Russo

L., 368.

Ruysschaert J., 268, 279. Ruzzante

(A.

Beolco),

108,

211, 213, 214, 215-218, 221, 227, 235. Sabbedini R., 26. Sabino, 23. Sacchetti F., 202. Sacrato P., 267, 268, 270, 272.

Sade D. A. F., 350 Saffo, 432.

Salieri A., 359. Sanadon N. E., 420. Saneo F., 286. 273,

Richter G., 330, 467. Rinuccini Ö., 110, 111, 363. Rivera C., 283, 284. Rivera L., 283, 284.

J., 61, 315.

Sanesi I., 117, 127, 128, 129, 130, 208, 220, 241.

211,

219,

217,

Sapegno N., 106, 362, 441. Sardi F., 267, 269, 273. Satrico, 290. Savarese N., 466. Savonarola G., ge Scaglione A., Scaligero G. c 267. Scarlatti À., 363. Schlegel A. W., 153, 500. Schutter K. H. E., 260. Scipione Africano, 140, 141, 142.

Scipione Emiliano, 141. Scudéry M., 371. Seleuco re di Siria, 259, 354, 355. Seneca,

18,

59, 97,

99,

112.

510

INDICE

117, 119, 120, 122, 125, 124, 125, 129, 130-133, 135, 139-152, 154, 155-160, 162,

163-195, 197-204, 208-210, 292, 513, 315-351, 353-355, 379, 413, 414, 427, 428, 454, 441-446, 448-453, 457-

DEI

NOMI

Tacito 163, 222, 344, 451, 452. Tapié V. L., 315. Tasso

T., 82,

Siface,

140.

Sigonio C., 268, 270, 272. Silio Italico, 199, 289. Silla, 290. Simone F., 7. Sirleto G., 265, 271. Sirri Rubes R., 233.

271,

Sofocle

140,

131,

132,

133,

S.,

129,

139,

Stiuble 126.

114,

158,

Mazzuoli),

F., 484.

Strauss R., 498.

Strehler G. 137. Suetonio, 21, 428.

Sullivan F. A., 85

Terenzio, 105, 106, 109, 116, 117, 223, 224, 225, 229, 231,

240,

241,

244,

251. Tiberio, 222, 438. Tibullo, 13, 279, 287, Tigellino, 344.

245,

289.

3%.

Toffanin G., 37, 367. Tommaso da Celano, 31. Tommaso d’Aquino (S.), 33, 40-45,

Tonelli

49-58.

L., 164.

Toppi N., 266.

Torelli P., 153, 159, 203. Torquato (L. Manlio), 423. Torsellini O., 265. Toschi P., 118.

121,

Trigiani A., 373, 376, 388.

Stazio A., 265, 285.

Stradino (G.

18.

Tepe N., 116, 117, 123, 150, 115,

Stazio (Papinio) 279, 447. Strauss

Mauro,

Tito, 375, 388. Todeschini G., 119.

G. B., 279. A.,

(moglie di Mecena-

Timoleone, 460.

159, 169, 171-173, 176, 192204, 206-209, 211.

Stampa

110,

131.

te), 427. Terenziano

Timeo,

149, 152, 153, 154, 203, 209, 330, 332, 358, 447, 481, 482, 484, 487, 498. Sorrentino A., 97.

Speroni

103,

102,

291-312, 362, 420. Tateo F., 7. Temistocle, 373. Teocrito, 131. Terenzia

Shakespeare W., 149, 154, 162, 187, 259, 474, 500. Sicco Polenton, 25. Siciliano I. 107, 145, 315, 371, 449. Sidonio Apollinare, 18.

342.

111, 112, 138, 162, 204-210,

Teofrasto,

Servio, 26, 78, 391.

341,

250.

Trissino G. G., 59, 106, 108, 131, 133-154, 158-160, 161, 164, 1%, 201, 209, 224,

233, 245, 248, 420. Trombetta L., 282. Turrano, 23.

Ullman B. L., 25.

INDICE

Uranio G. F., 268, 270. Urfé H. d’, 378. Ussani V., 432. Ussani V., iunior, 150. Valerio

Catone,

21,

Valerio

Flacco, 26.

Varesco

G. B., 360.

83-96,

22.

Varese C., 363, 364, 366, 367, 369, 371, 372, 375, 376. Varrone Atacino, 25. Varrone Reatino, 25. Vasoli C., 7, 37. Vauvilliers J. F., 433.

Venexiana, 214-219, 227, 235, 243, 357. Verardi C., 113, 114, 120, 121, 122, 125, 139. Verardi M., 106, 114, 120, 121, 122, 125, 139. P. P.,

Vesanski 272.

P., 268,

511

NOMI

478, 497. Vichard de Saint-Réal C., 447. Vinay G., 123. = Virgili Α,, 97. Virgilio, 10, 13, 64-73, 76-81,

Valerio Massimo, 12. Van Dam C. F. A,, 352. Varchi B., 223, 225, 226, 250.

Vergerio

DEI

98-103,

160,

163,

195, 196, 199, 200, 203, 204, 208, 226, 244, 245, 249, 254, 279, 291, 29, 302, 379, 382-384, 389-391, 395.397, 39-401, 431, 442,

Voigt

ἜΝ

127.

Voltaire (Arouet F. M.), 140, 421,

446,

448,

449,

474,

475, 486, 487. Wagner R., 303. Webster J., 154. Wechelius

A., 266,

Weinreich

H., 377.

284.

127.

269,

271,

Vettori P., 265, 268, 270, 272,

276. Viansino G., 173, 459, 462,

Zeno A., 360, 363, 367, 369374, 376, 409. Zorzi I, 235.

INDICE

GENERALE

Il decimo carme bucolico del Petrarca Le sacre rappresentazioni aquilane con particolare riferimento a la Tegenma «de Santo Tomascio

L'Orlando

Innamorato e l’Eneide

Nuove prospettive sull’influsso del teatro classico

nel

’500

.

è

x

è

m

105

Ercole Ciofano .

263

De Lucano et Torquato Tasso .

291

Seneca tragico e la poesia tragica francese del siècle d’or .

313

Seneca e il dramma spagnolo del siglo de oro

351

L’Andromaque del Racine e la Didone ini donata del Metastasio Il commento a Orazio di Ferdinando Galiani

L'« Agamemnon » di none» dell'Alfieri Indice

dei

nomi

Seneca

;

337

.

411

e l’« Ape ; ;

441 501