I passi del discernere [3, Prima edizione] 9788892218765

Amedeo Cencini conclude, con questo testo, una trilogia iniziata otto anni or sono con il volume "Abbiamo perso i s

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I passi del discernere [3, Prima edizione]
 9788892218765

Table of contents :
INDICE

Prefazione 5
Introduzione 15


I. SENSIBILITÀ CHE DISCERNE 19

1. Evangelizzare (la sensibilità) per discernere 20
2. Quell’ischemia del cuore umano... 22
3. A ogni discernimento corrisponde una sensibilità 23
4. In ogni sensibilità agiscono varie altre sensibilità 29

II. DISCERNIMENTO PERSONALE (E CRISI AFFETTIVA) 41

1. Crisi 42
2. Crisi affettiva 44
3. “Dammi un cuore capace di discemere” 45

III. PEDAGOGIA DEL DISCERNIMENTO PERSONALE 53

1. Sensibilità psichica: sincerità e realismo 54
2. Sensibilità intrapsichica: verità e trasparenza interiore 61
3. Sensibilità morale: l’identità come criterio 66
4. Sensibilità relazionale: Dio al centro della relazione 69
5. Sensibilità spirituale: la lotta con Dio 76
6. Sensibilità decisionale: dal desiderio alla scelta, dalla scelta umana alla scelta cristiana 80

IV. DISCERNIMENTO PASTORALE (E CRISI CONIUGALI)

1. Sensazione di non ascolto ecclesiale 95
2. Abuso d’autorità (dal basso) 98
3. Amoris discretio 103

V. PEDAGOGIA DEL DISCERNIMENTO PASTORALE 117
1. Sensibilità pastorale: «Il Buon Pastore lascia le 99 pecore nel recinto e va in cerca della pecora perduta» (Lc 15,4) 118
2. Sensibilità relazionale: «Un Samaritano... vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,33) 122
3. Sensibilità empatica: «... diventando simile agli uomini» (Fil 2,7) 126
4. Sensibilità attenta al dolore: «Le mie lacrime nell’otre tuo racoggli» (Sal 56,9) 131
5. Sensibilità spirituale: «Dio chiamò l’uomo: “dove sei?”» (Gen 3,9) 137
6. Sensibilità compassionevole: «Gesù, quando la vide piangere si commosse profondamente...e scoppiò in pianto» (Gv 11,33-35) 144
7. Sensibilità pedagogico-educativa: «Cercate di capire ciò che è gradito al Signore» (Ef 5,10) 150

Conclusione. Il discernere dei passi 159

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Amedeo Cencini

I PASSI DEL DISCERNERE «... chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle»

SAN PAOLO

Amedeo Cencini conclude, con questo testo, una trilogia iniziata otto anni or sono con il volume Abbiamo perso i sensi (2012), in cui portava all’evidenza uno dei grandi problemi della tradizione cristiana in ambito di discernimento personale e vocazionale: quello della dimenticanza della sensibilità personale. Dopo aver proseguito la sua riflessione, in positivo, con la proposta contenuta in «Dall’aurora io ti cerco». Evangelizzare la sensibilità per imparare a discernere (2018), l’autore - sacerdote e psicoterapeuta — giunge qui a proporre al lettore una “parte pratica”, in cui presenta un paio «d’esempi concreti di processi decisionali su di sé, nel proprio cammino di vita, e al servizio di altri», specie per chi si trova in particolari situazioni “critiche”. La prospettiva che ne viene pone finalmente il soggetto del discernimento al primo posto, prendendo ad esempio anche situazioni complesse per la morale e il diritto ecclesiale, come quelle delle coppie irregolari, cui viene dedicata un’attenzione ampia, attenta a declinare le caratteristiche della vita personale e le fatiche di discernimento, più che a ribadire un progetto etico, che pure non viene disperso. Un’opera, questa di Cencini, destinata a lasciare il segno nell’ambito del lavoro e della comprensione della “vocazione” umana, tout court. Foto di copertina: Pulsar Imagens / Alamy Stock Photo Progetto grafico: Laura Sansotera

DIMENSIONI DELLO SPIRITO

Amedeo Cencini

I PASSI DEL DISCERNERE «... chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (Amoris laetitia, 37)

Prefazione di Giacomo Costa, SJ

SAN PAOLO

PREFAZIONE

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2019 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione'. Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-922-1876-5

Discernimento si usa in una varietà di contesti, a volte piuttosto distanti l’uno dall’altro. In generale resta un termine dal significato poco familiare, sfuggente, persino astruso. Ce ne siamo potuti rendere conto an­ cora una volta nel percorso di preparazione del recen­ tissimo Sinodo dedicato al tema "I giovani, la fede, il discernimento vocazionale” (ottobre 2018). In realtà, prima che a un sapere arcano o a compe­ tenze tecniche sofisticate, il discernimento rimanda a una esperienza fondamentale, che tutte le donne e tutti gli uomini di ogni tempo condividono: essere alla ri­ cerca del modo e dei criteri per decidere in che direzio­ ne muovere i propri passi. Ciò vale di fronte a situazio­ ni umanamente estreme o complesse, ma anche in casi ben più ordinari, in cui l’incertezza deriva dallo speri­ mentare una molteplicità di spinte, dal sentirsi attirati ad andare in direzioni diverse, senza riuscire a capire quale sia quella giusta. Il cuore è agitato da una molte­ plicità di desideri e di sentimenti, tra di loro contrastan-

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I PASSI DEL DISCERNERE

PREFAZIONE

ti, e non riesce a decidere quale voce seguire tra le tante che parlano alla sua interiorità. Queste situazioni, in particolare quando durano nel tempo, possono rivelarsi assai penose, oltre a dissipare una grande quantità di energie psichiche, emotive e spirituali. Fare un discernimento significa affrontarle “prendendo il toro per le corna”: assumere il rischio di muovere un passo, reagendo alla paralisi e aprendo così la strada alla libertà e alla speranza. Anziché rimanda­ re la questione, aspettando che le acque si calmino da sole, o cercare una soluzione eteronoma, rivolgendosi a una qualche “autorità superiore” (che si tratti di un “guru” di cui eseguire le indicazioni oppure di una nor­ ma a cui conformarsi estrinsecamente), o convincersi che non si può fare altro che arrendersi alle fatalità della vita, la via del discernimento attraversa il tumul­ to delle passioni e utilizza le energie che esse scatena­ no per identificare una possibile rotta e soprattutto per procedere lungo di essa, anche quando porta verso ter­ re ancora inesplorate. Passioni ed emozioni contengono forze preziose, che non vanno disperse o spente, pena l’inaridimento del cuore e l’indebolimento delle moti­ vazioni, ma convogliate e messe a servizio della costru­ zione del futuro della persona. Per compiere questa impresa il discernimento non procede in base a una improvvisazione temeraria, che rimarrebbe inevitabil­ mente prigioniera di uno spontaneismo autoreferenzia­ le, ma si affida a un metodo e ad alcuni sostegni inso­ stituibili. La tradizione spirituale ne identifica in parti­

colare due: il contatto diretto con il Signore, attraverso la preghiera, la meditazione della Parola e la vita sacra­ mentale; e il colloquio con un accompagnatore esperto, con il quale portare a parola il mondo interiore e da cui lasciarsi mettere in questione. Anche da questa sommaria presentazione appare chiaro come la pratica spirituale del discernimento ri­ posi su un duplice atto di fede, senza il quale si svuota immediatamente. Un primo elemento su cui si regge è la convinzione che lo Spirito è all’opera nella storia e nella vita di ciascuno e che la sua voce si fa sentire nel cuore di ognuno, anche se in mezzo a mille altre, i cui strepiti provano a soverchiarla. Altrettanto fondamen­ tale è la fiducia, autenticamente teologale, che ogni persona, in qualunque situazione si trovi e da qualun­ que storia provenga, mantiene sempre la capacità di ascoltare la voce dello Spirito e una “naturale” inclina­ zione verso il bene, anche quando si sbaglia nell’iden­ tificarlo. Si tratta di una capacità che promana dal suo essere creatura di Dio: il peccato la può oscurare, ma mai eliminare. In questa luce, è evidente come il discer­ nimento rappresenti un’autentica pratica di fede che non può essere ridotta a una tecnica, magari sofisticata, di problem-solving o di decision-making, o a un per­ corso verso una più o meno anestetizzante consapevo­ lezza e accettazione di sé: obbliga infatti la persona a confrontarsi con se stessa, con la realtà e con Dio, e poi - ma soprattutto! - a mettersi in movimento per dare attuazione pratica alle decisioni prese.

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PREFAZIONE

Possiamo così inquadrare i passi di un processo di discernimento, che vanno distinti in termini di metodo, anche se nella pratica i confini tra le tappe tendono a sfumare. Le indicheremo con la scansione che autore­ volmente papa Francesco propone al n. 51 di Evangelii gaudium. Il primo passo, riconoscere, richiede alla persona che discerne il coraggio, l’onestà e la libertà interiore di dare un nome alla varietà di «desideri, sentimenti, emo­ zioni» (Amoris laetitia, 143) che gli eventi della vita e gli incontri interpersonali producono nella sua interio­ rità, evitando di giudicarli troppo frettolosamente in modo moralistico. Assai più importante infatti è riusci­ re a coglierne il “gusto”, il rimando di consonanza o dissonanza tra ciò che si sperimenta in una data situa­ zione e l’orientamento profondo della propria esistenza. Non basta tuttavia catalogare i moti dell’animo: occor­ re passare a interpretarli, identificandone l’origine e la direzione verso cui spingono: apertura verso l’altro e il futuro, fino alla donazione di sé, o chiusura e ripiega­ mento su se stessi e la propria gratificazione? Questa seconda fase richiede alla persona di fare appello a tut­ te le proprie capacità, anche intellettuali, nella consa­ pevolezza delle potenzialità come degli inevitabili li­ miti e condizionamenti (sociali, culturali, psicologici, ecc.), e di confrontarsi con onestà con le esigenze del­ la morale cristiana, accostata alla luce della Parola di Dio e dell’esperienza del rapporto personale con il Si­ gnore. L’aiuto di un accompagnatore esperto si rivela

di importanza cruciale in questa fase. Il discernimento può così raggiungere il suo obiettivo, che non è solo acquisire consapevolezza della propria interiorità, ma usare questa consapevolezza e la propria libertà, pur situate e quindi limitate, per scegliere responsabilmen­ te e poi operare per dare alla decisione un’attuazione concreta. Non è autentico discernimento quello che re­ sta sul piano delle intenzioni, magari velleitarie, e ri­ nuncia a passare all’atto. Misurarsi con la concretezza della realtà susciterà ancora emozioni e desideri, che attraverso un nuovo processo di discernimento confer­ meranno la bontà della decisione presa o suggeriranno di rivederla. Questo volume è proprio dedicato ad accompagnare i passi del discernere, e in questa prospettiva ha il me­ rito di affrontare una duplice sfida. La prima è assume­ re il compito che papa Francesco propone alla Chiesa tutta in Amoris laetitia, ossia formare le coscienze sen­ za pretendere di sostituirle. Il discernimento è uno stru­ mento per raggiungere questo scopo, collaborando a liberare la libertà delle persone per renderle soggetti responsabili della propria esistenza. La seconda sfida è proporre il ricorso al discernimento in situazioni che statisticamente possiamo considerare ordinarie, ma che non per questo sono meno destabilizzanti ogni volta che si presentano: le crisi affettive che colpiscono tan­ to sacerdoti e religiosi quanto le coppie sposate. In que­ sti casi il vortice delle emozioni, l’alternanza dei sen­ timenti e la confusione che ne deriva sono alla massima

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potenza. Altrettanto grande è il rischio di decisioni d’impulso, che raramente si rivelano costruttive per le persone coinvolte. Il discernimento è senza dubbio uno strumento per affrontare queste situazioni che al tempo stesso interpella e promuove la maturità umana e di fede di coloro che le stanno vivendo. È proprio il ricorso al discernimento in condizioni particolarmente complesse che consente di metterne in luce alcuni requisiti la cui mancanza rischierebbe di far deragliare il processo. Il primo riguarda la necessità di educare la sensibilità. Quanto più delicata è la situazio­ ne e gravi sono le conseguenze di potenziali errori, tanto più deve essere fine lo strumento con cui si col­ gono le vibrazioni del cuore: se l’ascolto dell’interio­ rità “fa cilecca”, ne risulta inficiato il passo del ricono­ scimento e di conseguenza anche quelli successivi. Scegliere il bene, e soprattutto quel bene che il Signo­ re propone a ciascuno, non pup essere un’opzione ge­ nerica o sommaria, né tantomeno un calcolo puramen­ te intellettualistico: richiede - come ricorda Paolo ai cristiani di Filippi - di nutrire gli stessi sentimenti di Cristo. Per questo occorre «un’attenzione specifica al­ le singole componenti della sensibilità, dai sensi ester­ ni a quelli interni, dalle sensazioni alle emozioni, dai sentimenti agli affetti, dai desideri ai gusti» (p. 21). Una seconda area di attenzione riguarda le capacità e le qualità di coloro che si rendono disponibili per il servizio dell’accompagnamento, che sempre più, e non solo in situazioni “estreme”, risulta indispensabile. An­

che il Documento finale del recente Sinodo dei Vesco­ vi lo ribadisce: «Molti hanno rilevato la carenza di persone esperte e dedicate all’accompagnamento» (n. 9); insiste poi sull’importanza dell’adeguata prepara­ zione degli accompagnatori (nn. 101-103), che non può limitarsi al piano dell’apprendimento di nozioni, ma va intesa in una prospettiva integrale, «in cui gli aspetti spirituali sono ben integrati con quelli umani e sociali» (n. 99). Suggestiva è l’icona biblica a cui il Documen­ to ricorre per descrivere il profilo di questo ruolo: «Co­ me il diacono Filippo, l’accompagnatore è chiamato a obbedire alla chiamata dello Spirito uscendo e abban­ donando il recinto delle mura di Gerusalemme, figura della comunità cristiana, per dirigersi in un luogo de­ serto e inospitale, forse pericoloso, dove faticare per rincorrere un carro. Raggiuntolo, deve trovare il modo di entrare in relazione con il viaggiatore straniero, per suscitare una domanda che forse spontaneamente non sarebbe mai stata formulata (cfr. At 8,26-40). In breve, accompagnare richiede di mettersi a disposizione, del­ lo Spirito del Signore e di chi è accompagnato, con tutte le proprie qualità e capacità, e poi avere il corag­ gio di farsi da parte con umiltà» (n. 101). Esattamente in questa linea Amedeo Cencini ribadi­ sce che il servizio dell’accompagnamento richiede, a chi lo compie, di mettersi in gioco personalmente: «So­ lo chi ha imparato a vivere in stato di discernimento e fare un corretto discernimento su di sé può accompa­ gnare il cammino di altri nella ricerca di ciò che è buo-

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no, a Dio gradito e perfetto» (p. 41). Viene così espli­ citato il rapporto inscindibile tra discernimento perso­ nale e discernimento pastorale: i pastori «chiamati ad accompagnare chi si trova in difficoltà» sono a loro volta chiamati «a formare in se stessi quella sensibilità tipica che consente di scegliere ciò che a Dio è gradito» (p. 105). Chiunque ha anche solo un minimo di pratica del discernimento sa quanto questo sia fondamentale. D’altra parte, probabilmente è proprio questa necessità di “rischiarsi”, di affrontare il proprio mondo affettivo e interiore prima di quello altrui, che genera nella Chie­ sa tante resistenze di fronte al discernimento. Ma se non la si prova non ci si può rendere conto che proprio questa strada, in cui anche chi accompagna rischia di “perdersi”, è quella per incontrare la gioia che il Van­ gelo promette, come nell’episodio di Filippo, a chi ar­ riva a incontrare il Signore e a chi ha il privilegio di accompagnarlo a questo incontro. Già per questi motivi il volume che avete tra le ma­ ni merita di essere letto - ma soprattutto vissuto - con attenzione. Desidero sottolinearne anche un altro, mol­ to forte ma forse meno esplicitato nel testo. Le situa­ zioni prese in esame affrontano passaggi di crisi “vo­ cazionale” nella vita tanto di pastori quanto di coppie sposate o comunque in situazioni “irregolari”: il libro consente quindi di vederle in parallelo. In entrambi i casi è forte il rischio di un approccio molto rigido, che assolutizza norme o principi - «è peccato o non è pec­ cato?» -, ma così «da far passare in second’ordine l’as­

soluta singolarità della situazione e la realtà più umana ed esistenziale della persona» (p. 96). In entrambi i casi è richiesto il coraggio dell’autenticità per arrivare a chiamare le cose con il proprio nome, anche quando le parole per farlo si rivelano scomode, fastidiose o impegnative: è il cammino della verità che rende libe­ ri. Infine, entrambe le situazioni esigono di essere guar­ date con misericordia, assumendo per quanto possibile lo sguardo che vi rivolgerebbe il Signore e i sentimen­ ti che Lui nutrirebbe a riguardo. Questo è il cammino che papa Francesco sta proponendo alla Chiesa e ri­ spetto al quale il volume ci offre stimoli preziosi e stru­ menti sperimentati. Chiediamo allo Spirito il dono e la libertà di intraprenderlo, come singoli credenti e come comunità ecclesiale, così da aiutare tutti gli uomini e le donne a trovare la perla preziosa: la gioia del Vangelo.

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Giacomo Costa sj Direttore Responsabile di Aggiornamenti Sociali Segretario speciale della XV Assemblea generale ordinaria dei Vescovi: “I giovani, la fede, il discernimento vocazionale " (ottobre 2018).

INTRODUZIONE

Il pellegrinaggio più faticoso è quello che porta l ’uomo dalla periferia al centro del proprio cuore. Il più lungo è quello che conduce alla casa di fronte. Il più serio è quello che porta all’incontro con Dìo (don Tonino Bello)

Questo libro è il seguito naturale di Dall ’aurora io ti cerco. Evangelizzare la sensibilità per imparare a discernere\ ma si pone pure in continuità con l’altra analisi contenuta in Abbiamo perso i sensi? Alla ricer­ ca della sensibilità credente1 2. In questo secondo libro, il primo della serie, avevo analizzato il fenomeno, piut­ tosto strano e inedito, e forse per questo poco analizza1 Cfr, A. Cenemi, Dall’aurora io ti cerco. Evangelizzare la sensibilità per imparare a discernere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2018. 2 Id., Abbiamo perso i sensi? Alla ricerca della sensibilità credente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012.

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INTRODUZIONE

to, dello smarrimento dei sensi, del quale continuiamo comunque ad esser allegramente inconsapevoli o mol­ to poco preoccupati. Anzi, per meglio dire, sono i nostri sensi obesi, supemutriti d’un sacco di cibo-spazzatura e in pericoloso delirio d’onnipotenza, che stanno smar­ rendo la loro vocazione originaria, quella di consentir­ ci di stabilire un rapporto con ciò che è vero, bello e buono. E quando i sensi perdono la loro identità noi stessi corriamo il rischio di “perdere i sensi”. Con dan­ ni enormi per la nostra sensibilità, anche per quella credente. Nell’altro testo, Dall’aurora io ti cerco, ho tentato di passare a un discorso propositivo, proponendo una pedagogia di formazione della sensibilità (di cui i sen­ si rappresentano il primo elemento costitutivo) e po­ nendo in relazione tale pedagogia con la possibilità e capacità di discemere. Con il presente testo vorrei continuare a offrire tale proposta, passando più alla parte pratica, e mostrare un paio d’esempi concreti di processi decisionali su di sé, nel proprio cammino di vita, e al servizio di altri, specie di chi si trova in particolari situazioni “critiche”. A par­ tire da due presupposti abbastanza scontati, ma che è sempre utile ribadire. Anzitutto, può aiutare altri a di­ scemere solo chi ha assunto il discernimento come mo­ dalità personale normale di crescita nella maturità umana e spirituale. In secondo luogo, la qualità del discernimento viene dal cammino di evangelizzazione della propria sensibilità.

Da questi presupposti deriva anche lo stile della pro­ posta di riflessione di questo libro. Non parlerò del discernimento dal punto di vista dei suoi contenuti e delle sue regole, come in genere si tende a fare, e giu­ stamente. Io mi pongo in un’altra prospettiva, un po’ preliminare all’approccio classico: quella di conside­ rare anzitutto la disposizione interiore del soggetto che disceme, quella disposizione che emerge proprio dalla sensibilità, o dai vari tipi di sensibilità, con cui affron­ ta quel discernimento. Così, ad esempio, specie nei capitoli 4 e 5, ove tratto del problema delle coppie ir­ regolari, non affronterò tale questione, e il discerni­ mento da operare in essa, su un piano dottrinale o del­ la teologia morale, ma sul piano di quel tipo di dispo­ sizione interiore, o di sensibilità, che è indispensabile per trattare adeguatamente un problema così compli­ cato. E che qualsiasi prete o pastore o operatore pasto­ rale dovrebbe avere per discemere e aiutare a discer­ nere adeguatamente. Come ci insegna, in sostanza, Amoris laetitia. È chiaro che i due piani non sono del tutto separabili, come non lo è la teoria dalla pratica, ma questo è un motivo in più per dedicare una certa attenzione a quel mondo interiore che è la nostra sen­ sibilità, che di fatto - per natura sua - orienta e predi­ spone i nostri discernimenti. Anche quando non ce ne rendiamo conto.

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Di fatto mostreremo due situazioni diverse di discer­ nimento e in ambiti vitali distinti, ciascuno con i propri

I PASSI DEL DISCERNERE

tipi di sensibilità in azione (capp. 3 e 5). Ma partendo anzitutto da una pedagogia generale elementare (cap. 1) e poi da alcune indicazioni pedagogiche più specifi­ che per i due ambiti della nostra analisi che in qualche modo ci offrano dei criteri operativi (capp. 2 e 4).

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SENSIBILITÀ CHE DISCERNE

Partiamo dal dato fondamentale consegnatoci dalla riflessione precedente sul piano psicologico: la centra­ lità della sensibilità nel processo del discernimento. Un dato che si sposa molto bene con la natura del discer­ nimento, inteso come quell ’esercizio ermeneutico che ci consente di cercare e trovare, di scoprire e dare un senso agli eventi disparati e frammentari della nostra esistenzaSe si tratta di compiere un’operazione così impegnativa e creativa (“ermeneutica” in senso pieno), è chiaro il legame tra discernimento e sensibilità di colui che discerne. O possiamo ben dire che ognuno disceme secondo la propria sensibilità. Anzi, si potrebbe giungere a specificare che è la sen­ sibilità che discerne, e che è dunque il soggetto del discernimento; ed è ancora la sensibilità il suo oggetto, poiché qualunque sia il suo contenuto (o esito finale)

1 Cfr. G, Piccolo, «Scendi nel cuore. Riconoscere emozioni, sentimenti e desideri», Vocazioni, 4 (2018), pp. 20-21.

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la decisione presa determinerà un orientamento della sensibilità in quella stessa direzione. Dunque è la sen­ sibilità che sceglie, ed è ancora la sensibilità che viene scelta. Se devo scegliere l’atteggiamento da tenere ver­ so una certa persona un po’ difficile e che mi risulta antipatica, sarà la mia sensibilità a leggere la situazione, ad avvertire antipatia e magari a (pretendere di) giusti­ ficare un’eventuale opzione di natura autoreferenziale, che rifiuta l’altro o che non tiene abbastanza conto dei suoi limiti come della sua dignità. A quel punto la scel­ ta così orientata avrà come conseguenza una conferma e il consolidamento di quell’autoreferenzialità: la mes­ sa in atto ripetuta e soggettivamente giustificata d’un certo atteggiamento non può che rendere sempre più forte e radicata quella stessa predisposizione. Sia in ambito relazionale che quando si tratta di scelte che riguardano l’individuo e i suoi valori: è così che si rin­ forzano (o, al contrario, s’indeboliscono) convinzioni o scelte fatte un tempo.

prender l’arte del discernimento. Tale evangelizzazione comporta un’attenzione specifica alle singole compo­ nenti della sensibilità, dai sensi esterni a quelli interni, dalle sensazioni alle emozioni, dai sentimenti agli af­ fetti, dai desideri ai gusti... Tenendo ben fìsso l’obiet­ tivo finale: avere in noi gli stessi sentimenti o sensibi­ lità di Cristo, come Paolo ricorda ai cristiani della Chie­ sa di Filippi, e dunque a tutti i credenti in Cristo. Il cristianesimo non è estetismo né volontarismo, non va inteso come cura del comportamento esteriore o fatica della mente, ma è atto globale che coinvolge la totalità dell’essere, dalla profondità dell’inconscio al linguag­ gio del corpo, in un insieme o entro un quadro coeren­ te e lineare, che esprime passione e intensità di vita, precisamente orientate. Intervenire sulla sensibilità significa, dunque, ope­ rare quel cambiamento che la tradizione ascetica cri­ stiana chiama con il nome di “conversione”, e che mai può esser vera se non comporta un lavoro radicale su quel ricco e complesso mondo interiore che è per l’ap­ punto la sensibilità. Lavoro ante litteram radicale pro­ prio perché si pone alla radice di ogni espressione dell’essere, umana e spirituale, psicologica e teologica. Il discernimento, con l’ermeneutica e la decisione che ne consegue, è una di queste espressioni. Tanto più autentico e verace quanto più frutto d’una sensibilità convertita-evangelizzata.

1. Evangelizzare (la sensibilità) per discernere

In tal senso la sensibilità è qualcosa di prezioso su cui investire, ma che va anche purificato in un attento lavoro formativo. Ed esattamente tale interpretazione, in ottica pedagogica, abbiamo proposto nel precedente studio, dedicato proprio a questo argomento, all’evan­ gelizzazione della sensibilità come condizione per ap­

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2. Quell’ischemia del cuore umano... Al tempo stesso la realtà ci dice che il processo de­ cisionale è tutt’altro che infallibile, e non sempre par­ torisce la decisione più giusta e vera; ci dice ancora che a volte nemmeno giunge a una scelta vera e propria, e ancor più raramente apre a una decisione “per sempre”. Come se il discernimento... si fermasse prima, o dive­ nisse infecondo e sterile, privo di forza, e atto puramen­ te mentale e velleitario, magari lineare nella sua evolu­ zione, ma incapace poi di generare alcunché di nuovo o di coraggioso, magari una scelta di vita o un cambio di stile di vita. Sia il discernimento personale che quel­ lo che aiutiamo altri a fare, pastorale o d’altro genere. Chi di noi non ha sperimentato anzitutto su di sé la correttezza teorica d’un certo approccio mentale e pure evangelico a un qualsiasi problema personale, ma sen­ za poi la forza di tradurre in pratica l’evidenza della scoperta intellettuale? Forse è anche questo il senso della contraddizione irrisolta, almeno all’apparenza, che Paolo avverte dentro di sé: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19). 0 quante volte nell’esperienza della relazione d’aiuto ciò che a un certo punto sembrava chiaro non solo alla guida, ma pure alla persona accompagnata, non è stato per niente oggetto d’una decisione corrispondente.

SENSIBILITÀ CHE DISCERNE

Vorremmo capire almeno qualche aspetto di questa incongruenza, pur sapendo che essa appartiene al mi­ stero dell’essere umano e di quella dialettica ontologica che lo segna fin dall’inizio del suo vivere, come ische­ mia sottesa al suo cuore. Di conseguenza siamo anche convinti che tale incongruenza vada cercata all’interno del processo o nella sua modalità pedagogica. Di qui l’obiettivo che ci proponiamo: descrivere tap­ pe e cammino del discernimento perché esso raggiunga il suo scopo, e chi disceme abbia la forza di prendere una decisione coerente con la propria identità e verità, per capire un po’ di più il suo mistero.

3. A ogni discernimento corrisponde una sensibilità

Ecco il senso di questa seconda riflessione sul tema della sensibilità in connessione col discernimento e i suoi singoli passi.

Prima di procedere nel nostro discorso, ancora un paio di osservazioni sul piano prettamente psicologico. Quanto abbiamo detto fin qui non si applica solo al discernimento in generale, come un principio astratto, ma va poi verificato e attuato nel discernimento speci­ fico che si sta portando avanti. Non esiste, vogliamo dire, una sensibilità come dato generale, quale indice invariato che determina altrettanto invariabilmente l’approccio del soggetto alle diverse realtà e situazioni della vita su cui deve prender posizione e decidersi. Come abbiamo detto nel testo precedente, esistono vari tipi di sensibilità in ogni essere umano (relaziona­ le, spirituale, estetica, intellettuale, credente, peniten-

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ziale, morale...). Ognuna d’esse entra in gioco ed è almeno implicitamente richiamata-attivata quando il soggetto deve prendere una decisione nell’area che la riguarda. Ad esempio, discemere sulla propria (ma an­ che sull’altrui) vocazione significa aver maturato una certa sensibilità vocazionale, che nasce dal bisogno di dar senso al proprio esistere e dal desiderio d’ascoltare l’Eternamente Chiamante; saper discemere in momen­ ti di crisi vuol dire esser cresciuti in una precisa sensi­ bilità credente, che abilita a percepire Dio e ciò che a lui è gradito anche nelle criticità personali; o ancora, saper discemere da pastori vuol dire avere una sensibi­ lità del tutto particolare, pastorale, o quell’odore delle pecore di cui dice papa Francesco e che, oltre ad esse­ re molto più raffinato di quanto si potrebbe pensare, esprime una singolare capacità di... annusare il vero bene delle pecore, di conoscerle una a una e di accor­ gersi se ne manca qualcuna. Potremmo sintetizzare il principio pedagogico così: a ogni discernimento corrisponde una particolare sen­ sibilità, che dunque sarà il vero agente intrapsichico che discerne. In negativo: non ci può esser alcun di­ scernimento che non tocchi la sensibilità dell’individuo e non chiami in causa una sua sensibilità particolare. Di conseguenza è fondamentale riconoscere e identifi­ care quella precisa sensibilità che deve gestire il discer­ nimento e su cui va fatto il discernimento stesso. Non sembrerà una grande scoperta a qualcuno, ma ci aiuta a metter ordine nel nostro discorso e a sottoli­

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neare alcuni aspetti del problema che forse del tutto scontati non sono. Vediamo meglio.

3.1. Il vero problema (sovente ignorato)

Prima dicevamo di quella particolare sensibilità con cui affrontiamo le situazioni di crisi della vita. Se è una crisi affettiva nella vita d’un consacrato nella verginità (ma di per sé la cosa può accadere anche nella vita d’un coniugato), costui sarà probabilmente portato a pensa­ re che sia in questione il proprio mondo interiore e il proprio modo di vivere la propria affettività, fors’anche la sessualità. Se egli ritiene che il problema sia lì, si orienterà interiormente2 ad affrontarlo con strumenti, risorse, criteri e metodologia corrispondenti, forse co­ me una tentazione più o meno diabolica da superare e basta3, o come oggetto d’un discernimento che dovrà decidere cosa fare di questo innamoramento, e che in teoria potrebbe anche determinare un cambio di vita, una scelta diversa. Di fatto, chissà quanti (ex)sacerdoti hanno affrontato la crisi affettiva in tal modo, come novità d’un amore improvviso entrato prepotentemen­ te nella loro vita, dunque come un fatto esclusivamen-

2 Ricordiamo che abbiamo definito la sensibilità come orientamento interio­ re che attrae in una certa direzione (A. Cencini, Dall ’aurora io ti cerco. Evange­ lizzare la sensibilità per imparare a discemere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2018, p. 24ss.). 3 In tal senso spingeva l’ascetica d’un tempo,

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e sensazioni, con illusioni e delusioni a catena.. .)4. L’in­ namoramento sarà vissuto come uno straordinario in­ canto proprio perché sembrerà garantire al soggetto in un sol colpo una doppia gratificazione: del bisogno d’affetto e del bisogno di stima. Paga uno e porta a casa due5! Ma è esattamente su questa sensibilità sbilanciatasquilibrata che il soggetto dovrà esser aiutato a riflet­ tere, per capire dove sta il suo vero problema (che for­ se non è quello affettivo e poi vocazionale), per cerca­ re di capire dove lo potrebbe portare tale sensibilità incontrollata, per interrogarsi se questo (cioè l’aspet­ tarsi dall’esterno affetto e considerazione) sia il modo migliore e più realistico di affrontare il suo vero con­ flitto interiore (quello della stima di sé) e risolverlo, per rendersi conto che non ha il diritto di usare nessuno per sanare le proprie ferite e riequilibrare i propri squilibri, per comprendere che forse il vero discernimento da fare è quello relativo al senso della propria identità e della stima di sé. E cambierebbe radicalmente, allora, il modo di affrontare l’evento dell’innamoramento, di discemere su di esso e di decidere.

te affettivo-sessuale, gestito dalla corrispondente sen­ sibilità affettivo-sessuale, e magari così gradevole e sorprendente da indurli poi a fare scelte conseguenti (che spesso non hanno comunque risolto il vero con­ flitto con séguito di delusioni molto amare). Ma non è detto necessariamente che sia così. Il pro­ blema potrebbe essere in altra area, o riguardare anche o soprattutto un altro tipo di sensibilità, ad esempio quella relativa al senso dell ’io e alla stima di sé, cui ogni essere umano è particolarmente attento e sensibile, appunto. Se il tipo in crisi non ha risolto in modo suf­ ficiente il problema della stima di sé, cogliendola in ciò che è e che è chiamato ad essere (come la sua origine divina e la sua vocazione particolare), dunque in qual­ cosa che è stabile e saldo come roccia e che nessun infortunio o insuccesso gli potrà mai portare via, è chia­ ro che avrà bisogno che tale stima gli venga dall’ester­ no, dagli altri, dall’esser accolto, dall’esser amato, so­ prattutto... Ovvero, se la stima non viene da dentro, deve per forza venire da fuori (senza stima di sé non si campa, da qualche parte deve pur venire, anche se sarà solo illusoria!). E proprio questo equivoco renderà l’in­ dividuo vulnerabile. Vulnerabile (- estremamente sen­ sibile) al minimo cenno d’attenzione nei suoi confronti, dunque dipendente da chi gli darà la sensazione d’es­ sere considerato e apprezzato, benvoluto e considerato amabile; basterà che qualcuna gli faccia gli occhi lan­ guidi per sentirsi coinvolto emotivamente (fino al pun­ to d’esser lui a proiettare negli altri i propri sentimenti

4 Per questo, se da un lato l’innamoramento è un evento normale in una vita e in una persona normale e c’è da sorprendersi se uno non s’innamora mai, al tempo stesso desta per lo meno qualche sospetto chi passa da una cotta all’altra. 5 Ovviamente tale tipo di crisi, come dicevamo, con questo tipo di lettura, può darsi anche nella vita d’un coniugato: se costui non ritrova la stima di sé nella propria identità e dignità radicali e nella sua vocazione coniugale (che s’esprime nell’amore per una donna) si troverà nelle stessa situazione di vulne­ rabilità prima descritta, che lo renderà eccessivamente sensibile a ogni segno d’affetto e attenzione nei suoi confronti, nell’illusione che un amore o una donna o una relazione nuovi e magari più attraenti gli risolveranno il problema.

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Verrebbe da dire che molti discernimenti, al riguar­ do, sono stati gestiti dall’agente sbagliato, o dalla sen­ sibilità non pertinente.

sione e opportunità di crescita in quella particolare sen­ sibilità chiamata in causa dal discernimento in corso, e corriamo il rischio che quella stessa sensibilità regre­ disca o si lasci comunque attrarre sempre più in modo solo impulsivo e contrario ai valori scelti. Certo, il semplice sapere che è in gioco una certa sensibilità non risolve i problemi né converte all’istan­ te la sensibilità medesima, ma tiene viva l’attenzione su di essa, ci fa dare un’importanza specifica all’ope­ razione di discernimento che stiamo facendo, ci con­ sente d’evitare ogni atteggiamento banale e superficia­ le, ed è in ogni caso il primo passo perché il nostro mondo interiore (e le scelte che ne seguono) sia sem­ pre più conforme ai sentimenti di Cristo (e alla nostra identità).

3.2. Già orientati (ma senza saperlo) Inoltre, altro aspetto tutt’altro che risaputo: affron­ tare esplicitamente un discernimento e sapere di dover prender comunque una decisione non significa di per sé esser consapevoli che si sta affrontando quel parti­ colare discernimento con una specifica predisposizione interiore che già ci orienta in una certa direzione. Lo stesso esempio appena fatto ci mostra in modo eviden­ te che molte volte ci crediamo liberi e al di sopra d’ogni condizionamento o pressione, in realtà siamo già indi­ rizzati e attratti verso una qualche parte, a causa d’un problema che ignoriamo (nell’esempio del paragrafo precedente la stima di sé). Nella misura in cui non ne siamo consapevoli, quell’orientamento ci condiziona ancor di più, anche in modo pesante, creando in noi esigenze e dipendenze. Se poi non siamo consapevoli nemmeno del fatto che siamo di fronte a una scelta, e agiamo in realtà per abitudine o comunque in modo passivo (o “ci lasciamo andare”, perché ci sembra più semplice o perché la pressione impulsiva è forte6), allora perdiamo un’occa­ 6 L’esperienza terapeutica dice che molte volte l’innamoramento ha una sor-

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4. In ogni sensibilità agiscono varie altre sensibilità Altra importante osservazione con risvolti pedago­ gici. La sensibilità che noi abbiamo maturato nei vari ambiti della vita, da quella relazionale a quella morale, da quella credente a quella intellettuale, non è una re­ altà semplice o che nasce in quanto tale dal nulla, ta di potere quasi ipnotico nel celibe per il Regno, anche non giovanissimo, quando rifiuta ogni sorta di confronto (tanto più se di tipo spirituale), ogni invi­ to a non fare una scelta precipitosa, a non lasciarsi dominare dall’idealizzazione del frutto proibito, a vedere il problema in modo realistico, a considerare con responsabilità la posizione dell’altra, magari già legata da precedente vincolo o giovane,,.

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senz’alcuna “contaminazione” da parte di altre sensi­ bilità, ma è inevitabilmente legata ad altri aspetti del nostro mondo interiore, è una realtà mista o composita, in cui confluiscono perciò anche varie sensibilità. Se è dunque vero che a ogni discernimento corri­ sponde una sensibilità, diciamo ora che ogni sensibili­ tà ne suppone altre, che interagendo assieme le danno una fisionomia specìfica. Di conseguenza dovremmo più precisamente dire che ogni discernimento implica e mette in azione non una, ma diverse sensibilità. Ad esempio quel discernimento drammatico (nel senso di scelta assolutamente personale) che culmina nella de­ cisione di credere (o nella fede), come dovremmo aver tutti sperimentato, non si risolve a un unico livello, non chiede semplicemente un’adesione mentale a un pac­ chetto di verità rivelate né si limita a un assenso qual­ siasi, più o meno determinato da un’appartenenza con­ venzionale o tradizionale o devozionale. Non è “fede cieca”! Al contrario, la fede ha occhi e sensi ben aper­ ti, li mantiene quanto mai attivi e coinvolti7, è frutto di un’azione congiunta di tutte le forze e risorse dell’uo­ mo, dai sentimenti ai desideri, dall’affetto alla passione. È atto del tutto umano e pure aperto al Trascendente, dunque complesso, che non si decide in un attimo, ma

s’estende a tutta la vita8. E che dunque chiama in cau­ sa la sensibilità e non una sola sensibilità. Anzi, la fede è essa stessa sensibilità, sensibilità credente, a sua vol­ ta punto d’arrivo di varie altre sensibilità e processo sempre in atto.

7 Basti pensare a quanto dice Giovanni nel prologo della prima lettera: «Quel­ lo che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita» (IGv 1,1); o alla volontà di Tommaso (cui Gesù non si oppone) di mettere il dito nella piaga di Gesù e di toccare il suo costato.

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4.1. Sensibilità pedagogico-propedeutiche

Vediamo - per esser concreti - alcune di quelle sen­ sibilità che conducono alla maturità (e sensibilità) del­ la fede o alla capacità di fare decisioni in forza d’essa. La sensibilità del pellegrino, ad esempio, che a ogni istante si domanda: “Dove sei Dio..., cosa mi stai do­ nando... o chiedendo..., ove sei nascosto..., come sei presente in questa situazione, in questo dolore, in que­ sta oscurità...?”, fino a saperne riconoscer la presenza nella “brezza di vento leggera”. 0 la sensibilità intel­ lettuale di colui che cerca la verità con la propria testa e il proprio cuore, e scruta e interroga la realtà, non s’accontenta di risposte preconfezionate o che vengono dall’esterno, né ha la pretesa di capire subito tutto, ma è così intelligente da saper accogliere l’idea di mistero nella vita e starci di fronte, e così umile da lasciarsi piano piano illuminare da quel misterioso eccesso di luce che è Dio. E ancora, per crescere nella fede sono 8 Questo anche quando Tilluminazione sembra istantanea e improvvisa, ri­ solvendo come per incanto tutti i dubbi e le perplessità della persona. Anche allora, a ben vedere, c’è stato un certo cammino, anche se nascosto e discreto.

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fondamentali la sensibilità alla Parola (o sensibilità biblica), di chi ha appreso ad ascoltarla ogni giorno, anche quand’è diffìcile da capire e ancor più da vivere; o la sensibilità relazionale di chi ha imparato a dialo­ gare con la realtà e con gli altri, a sentirsi interpellato dalla vita e dalla morte, dal dolore e dal dubbio...; o la sensibilità amorosa di chi ha scoperto che il più grande atto d’amore è lasciarsi amare da un amore che va oltre la vita, e la più alta espressione di libertà è la fiducia... Ognuna di queste sensibilità è connessa naturalmen­ te con la più ampia sensibilità credente, dice qualcosa d’essa, ne svela aspetti anche molto significativi che la rendono più comprensibile e pedagogicamente accessi­ bile; per questo ciascuna sensibilità ora vista è aperta alla fede e ad essa conduce, come gradini d’una scala o affluenti d’un fiume. E la fede sarà sensibilità credente tanto più forte e tenace quanto più sono state curate, e lo sono in continuazione, queste varie sensibilità (e altre ancora)9. Le potremmo chiamare sensibilità pedagogi­ che o propedeutiche, poiché preparano e dispongono - ognuna da un’angolatura particolare - cuore e mente, sensi e sentimenti a decidere di fidarsi dell’Etemo. Di conseguenza, se si vuole far nascere o crescere la fede in quanto già essa stessa opzione credente, o fa­ vorire la capacità di fare scelte da credente, sarà indi­ spensabile intervenire su tutte quelle sensibilità che la

promuovono e irrobustiscono. Se una di esse è trascu­ rata o addirittura è lasciata andare in senso contrario ne soffrirà l’intero processo di discernimento e la decisio­ ne finale10.

9 Evidentemente, per quanto riguarda la fede, ve ne possono essere altre oltre quelle che abbiamo indicato con intento solo esemplificativo.

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4.2. Attenzioni pedagogiche Quanto abbiamo ora visto costituisce un principio generale pedagogico che possiamo applicare a ogni ge­ nere di discernimento o di opzione di vita. E che più in concreto rimanda a ulteriori e più specifiche attenzioni pedagogiche.

a) Identificare

Anzitutto si tratta di identificare quelle varie sensi­ bilità che assieme contribuiscono alla formazione d’una certa sensibilità in cui si vuol crescere, in una qualche area della vita, capace di arrivare a un discernimento. Quelle varie sensibilità, infatti, sono propedeutiche e funzionali a quell’altra, o potremmo considerarle come 10 Questo fa pure pensare alla facilità/banalità con cui molti cosiddetti non credenti oggi ritengono d’esser tali semplicemente perché non avrebbero ricevu­ to il “dono” della fede, come se la responsabilità fosse di Dio, che avrebbe fatto preferenze ed esclusioni. È certo che la fede è grazia che viene dall’alto, ma i doni di Dio giungono a destinazione solo quando il destinatario attiva la propria disponibilità ricettiva e collabora responsabilmente con essi e con il Datore d’ogni dono, mettendo in movimento, ad esempio, la propria sensibilità.

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periferiche in rapporto a quella centrale, o minori ri­ spetto a quella maggiore, o ancora come obiettivi in­ termedi in vista di quello finale, o come le diverse par­ ti nei confronti del tutto. Disposte lungo una circonfe­ renza, tendono al centro come i raggi d’una ruota. Nel caso prima esemplificato (la sensibilità credente) sono pedagogia (o fattori dinamico-metodologici) in vista d’una teologia (l’atto statico dell’adesione a contenuti dogmatici). Ma proprio per questo sono importanti, co­ me conditio sine qua non, per giungere all’obiettivo finale. È dunque indispensabile identificarle e riconoscerle precisamente, cogliere e far cogliere l’apporto specifi­ co che ognuna d’esse può dare per il raggiungimento dello scopo (il discernimento), o - detto diversamente - è necessario scomporre quella sensibilità centrale che si vuol conseguire nei suoi elementi costitutivi, che so­ no appunto le varie sensibilità che la compongono e che sono ad essa sottese. Più questo lavoro d’identifi­ cazione è preciso e completo, più sarà possibile sapere come formare una sensibilità capace di discemere in modo autentico in un particolare settore esistenziale.

Ma non basta certo dare un nome preciso a queste varie sensibilità, limitandosi a un approccio solo intel­ lettuale e teorico. Occorre intervenire su di esse, una a

Una, come su risorse preziose, ma che vanno esplicita­ mente attivate. Ecco il secondo principio pedagogico: attivare queste varie sensibilitàpedagogico-propedeutiche, renderle concretamente operative, attirare l’at­ tenzione esplicita del soggetto su ognuna di esse, e non solo sull’obiettivo finale che vuole conseguire. Obiet­ tivo che, in verità, rischia d’esser inaccessibile e mai conseguito quando non c’è tale lavoro preparatorio e operante su diversi piani. Sempre sul piano squisitamente pedagogico questa potrebbe essere proprio la funzione specifica di chi ac­ compagna. Di solito, infatti, non viene spontaneo al singolo questo lavoro a più livelli, o potrebbe apparire non così necessario, né così evidente la connessione tra queste sensibilità parziali-periferiche e quella centraleessenziale. Compito della guida, dunque, è evidenziare tutto ciò, e soprattutto provocare l’individuo verso un’attenzione personale globale al problema che vuole affrontare e - ancor più concretamente - sollecitarlo a esercitarsi nelle diverse sensibilità propedeutiche, se vuol davvero acquisire quella sensibilità più centrale e decisiva. È dunque quanto mai saggio quell’educatore che, oltre ad attirare l’attenzione del giovane, programma una pedagogia d’intervento che mira su piani diversi e con operazioni distinte (legate alle diverse sensibilità) a cambiare cuore e mente in una certa direzione e ma­ turare una nuova sensibilità, al punto di aver la forza di fare una decisione corrispondente.

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b) Attivare

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so), di fatto saltando tutte le fasi intermedie dell’itine­ rario decisionale con le varie sensibilità ad esse corre­ late. Con la conseguenza, purtroppo, di arrestare soven­ te, in tal modo, anche qualsiasi processo di opzione genuinamente vocazionale, in senso davvero credente e cristiano, aperta verso qualsiasi tipo di vocazione11 12. Ed è ovvio: se l’individuo non è provocato a metter in funzione le proprie sensibilità molto difficilmente potrà scoprire la propria identità e la propria chiamata, qualsiasi essa sia. Come dire: c’è un nesso naturale tra sensibilità e vocazione, o tra l’attivazione delle diverse sensibilità e la possibilità di scoprire la propria voca­ zione. Se non c’è tale attenzione non abbiamo alcun diritto di lamentarci della crisi vocazionale.

Quando ciò non avviene si rischia di rendere inutile e inconcludente tutto il cammino d’accompagnamento. Com’è avvenuto, ad esempio, nel campo dell’anima­ zione vocazionale: quanti discernimenti vocazionali, infatti, sono miseramente falliti a causa dell’insipiente precipitazione della cosiddetta guida, che - superpre­ occupata dell’esito finale (e, in fondo, molto spesso, del proprio personale successo) - ha preteso mirare su­ bito all’obiettivo sperato, alla decisione vocazionale in quanto tale, senza preoccuparsi di creare prima una ve­ ra sensibilità vocazionale o senza la sapiente pazienza di passare attraverso le varie tappe e componenti di tale sensibilità (dalla sensibilità credente a quella rela­ zionale, dalla sensibilità spirituale di chi cerca Dio a quella di chi si fa carico dell’altro e della sua salvezza)! L’attrazione vocazionale nasce forte e autentica solo da un lavoro su ogni sensibilità, perché tutte convergano nella medesima direzione, del “sentire” quella scelta come bella e vera per sé. Se ciò non avviene s’ottiene il risultato contrario: invece dell’attrazione una non­ attrazione o l’indifferenza; invece della nascita d’una opzione preferenziale circa la propria vita, una sorta di aborto vocazionale^. La pretesa eccessiva del risultato (spesso inteso, in questi casi, in modo riduttivo) ha sot­ tilmente indotto la cosiddetta guida verso un certo tipo di orientamento piuttosto chiuso (sacerdotale o religio­

Infine si tratta di integrare le diverse sensibilità atti­ vate, impedendo che l’una ignori l’altra e l’obiettivo finale verso cui sono orientate. In tal senso, allora, si tratta anzitutto di far dialoga­ re tra loro le diverse sensibilità attivate, alla luce dell’obiettivo finale verso cui tendono. Se dunque si sta accompagnando un giovane in un cammino di fede, verso l’opzione credente, è proprio la presenza di Dio,

11 Proprio in questi termini si esprimeva già il sempre attuale documento conclusivo del Congresso europeo vocazionale (Nuove vocazioni per una nuova Europa, Roma 1998, 35a).

12 Meglio così, verrebbe da dire, perché da interventi cosi maldestri potreb­ bero nascere solo discernimenti altrettanto impropri e scelte vocazionali inauten­ tiche, anche qualora fossero di “speciale consacrazione”.

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c) Integrare

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la sua azione, misteriosa e nascosta, che fa da elemen­ to connettivo fra le diverse sensibilità, e che dovrebbe animare il giovane stesso (il pellegrino, come abbiamo detto prima) a cercarlo a ogni livello e in modi diversi, direttamente o indirettamente: nella preghiera persona­ le e in quella comunitaria, nella liturgia e nella Parola d’ogni giorno, nella relazione con gli altri, specie nel povero e nello straniero, nel debole e nel peccatore, nel mistero della sofferenza degl’innocenti, ma anche nell’enigma della morte, nei propri limiti e povertà, nella speranza come nella disperazione, fino nella brez­ za di vento leggera... In tutte queste situazioni (in cui funzionano sensibilità diverse) è in atto sempre lo stes­ so fenomeno divino-umano: Dio che cerca l’uomo e gli si rivela in mille e diversi modi, provocando e attivan­ do lui per primo le diverse sensibilità umane, ognuna chiamata a rispondere a modo suo all’appello divino. È chiaro che l’impegno volonteroso in una qualsiasi di queste aree o sensibilità aiuta e provoca, ispira e motiva la decisione e l’azione in un’altra area e va a rinforzare un’altra sensibilità. Si crea cosi un gioco di squadra che non può che favorire la sensibilità creden­ te, in questo caso, e la finale decisione di credere. Sa­ rebbe meno probabile e meno convincente, oltreché meno stabile, una fede che nascesse solo a partire da una sensibilità orante, per quanto pia e devota, in un tipo che magari ignora il volto del fratello o del povero come luogo misterioso della presenza divina: la fede di costui sarebbe debole e povera, poiché costruita solo

sulla sensibilità orante, che non entra in dialogo con la sensibilità relazionale, sostanzialmente assente. Il Pa­ dre-Dio rivelato da Gesù, infatti, non abita solamente, e nemmeno preferenzialmente, nel Tempio! Compito della guida, dunque, è non solo attivare le sensibilità, ma porle in dialogo perché convergano ver­ so lo stesso obiettivo: rispondere all’azione del Dio che cerca l’uomo con quella risposta che è la fede; spiega­ re che la fede è tanto più forte quanto più è espressione di diverse sensibilità; far comprendere che una sensi­ bilità ha bisogno dell’altra e nasce dall’altra, la illumi­ na e ne è illuminata, la provoca e ne è provocata, in una relazione di reciprocità che non può che far crescere l’opzione credente del soggetto e la forza di discernere da credente. In una vita e in una personalità sempre più integrate attorno alla sensibilità credente.

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II

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Nelle pagine precedenti abbiamo visto l’aspetto te­ orico, per così dire, del discernimento. Cerchiamo ora di vedere l’altro versante, quello più pratico ed esisten­ ziale. Attraverso un paio d’esempi o casi concreti: il primo riguarda la persona chiamata a discernere su di sé in un momento in cui il discernimento è tutt’altro che semplice e privo di conseguenze, com’è il momen­ to d’una crisi affettiva; il secondo invece si riferisce alla situazione pastorale di chi è chiamato ad aiutare altri a fare un discernimento piuttosto complesso e ar­ ticolato, com’è il caso d’una coppia irregolare. La successione dei due tipi di discernimento è mira­ ta, e risponde al criterio secondo il quale solo chi ha imparato a vivere in stato di discernimento e fare un corretto discernimento su di sé può accompagnare il cammino di altri nella ricerca di ciò che è buono, a Dio gradito e perfetto.

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1. Crisi Il termine “crisi” in questo momento e nell’economia della nostra riflessione è quanto mai significativo. La sua radice, come ben sappiamo, rimanda proprio al no­ stro tema centrale: il verbo greco krino\ infatti, signi­ fica separo, distinguo, vaglio, giudico, decido, valuto, discerno. Nell’uso comune l’espressione ha assunto un’accezione negativa, che fa pensare a una situazione problematica e difficile da gestire. Se invece riflettiamo sull’etimologia della parola crisi, cambia il suo signi­ ficato e assume una sfumatura positiva: un momento di crisi, infatti, può divenire momento di riflessione, valutazione, discernimento, può trasformarsi nel pre­ supposto necessario per un miglioramento, per una ri­ nascita, per un rifiorire prossimo e possibile. Può dive­ nire l’ora di Dio! Crisi, più precisamente, è la coscienza sofferta d’una particolare non corrispondenza tra quel che la persona è (= io attuale) e quel che dovrebbe essere (- io idea­ le), scarto che chiede una decisione da prendere. Sono dunque tre gli elementi essenziali d’una crisi: - consapevolezza sofferta, non dunque una qualsia­ si costatazione, ma una presa di coscienza doloro­ sa, tale perché si è venuti meno a qualcosa d’im­ portante, a un ideale o a una relazione,1

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- ...d’unaparticolare non corrispondenza, non una semplice e vaga sensazione di qualcosa che non va, ma l’identificazione il più possibile precisa d’una incoerenza tra ideale personale e vissuto per­ sonale, - ...in vista d’una decisione, non uno stato perenne di sospensione che lascia le cose così come stanno, ma la coscienza di dover fare una scelta, di non poter restare in un certo compromesso, in uno stand­ by infinito, senza servirsi dello stato di crisi come alibi per non decidere. Come si può ben vedere da queste semplici sottoli­ neature, la crisi è un modo d’essere che ha una sua complessità, chiede una certa attenzione a se stessi e sincerità di sguardo, imprime alla vita dinamismo ed è all’origine dei cambi o delle conversioni, è componen­ te normale d’un cammino di formazione permanente. E anche se è un modo di definire l’atteggiamento di chi sta affrontando un certo problema (“il tipo è in crisi”), quasi fosse un dato incontrovertibile ed evidente a tut­ ti, di fatto ci sono molti modi di vivere o non vivere le crisi. C’è ad esempio chi non è mai in crisi, mentre lo dovrebbe essere (e gli farebbe molto bene!)2, come c’è chi è sempre in crisi, ma mai per il motivo giusto e molto spesso perché manca alla sua crisi la forza di prender una decisione. C’è ancora chi la crisi non la 2 Normalmente per ognuno di questi imperturbabili che non sono mai in crisi c’è sempre qualcun altro, che vive con loro, a ritrovarsi suo malgrado in crisi...

1 Kpivffl.

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vuole mai affrontare, la congela, pur sentendo un certo disagio, e rimanda i problemi che dovrebbe risolvere a chissà quando, fin quando esplodono o... il ghiacciaio si scioglie e fa disastri. Ma c’è pure chi con la crisi ci scherza, quasi non si rendesse conto della contraddit­ torietà d’un certo stile di vita, o se n’accorge solo quan­ do non c 'è più niente da fare e lui è impotente. La crisi è considerata evento fatale dalle conseguenze ine­ vitabili da chi dalla crisi stessa passa subito alle vie di fatto, come il celibe per il Regno che s’innamora e conclude che quello è l’inequivocabile segno d’esser chiamato per altra via. Ma quanti sono che vivono cri­ si inutili, senza mai imparare nulla da esse e ripetendo impavidi e capoccioni sempre gli stessi errori?! In ogni caso, in ognuna di queste varie tipologie, la crisi è come subita, non c’è una gestione intelligente e illuminata d’essa, da cui venga una decisione pensata e ben motivata. In una parola, non c’è discernimento.

Ma è crisi affettiva anche quando la (presunta) cen­ tralità dell’amore di Dio non è confermata nello stile e nei modi dall’amore umano che il celibe dovrebbe ma­ nifestare in ogni relazione; o quando entrambi gli amo­ ri, quello verso Dio e quello per la creatura, sono de­ boli e l’elettrocardiogramma è piatto, e apparentemen­ te la persona è tranquilla (fin troppo!), innamorata com’è della sua mediocrità; o quando la scelta di dedi­ carsi alle cose di Dio diventa un alibi per non accorger­ si dei bisogni del fratello3; o quando addirittura il ruo­ lo istituzionale è interpretato come potere che consen­ te di (ab)usare l’altro per la propria gratificazione affettivo-sessuale... E le esemplificazioni o le tipolo­ gie, anche qui, potrebbero continuare. La crisi affettiva, insomma, non è solo la crisi classica dell’innamorato (del prete innamorato).

Z. “Dammi un cuore capace di discernere”4 2. Crisi affettiva Se la crisi in generale è quanto abbiamo indicato prima, crisi affettiva, nella vita del celibe consacrato, è la coscienza sofferta d’un particolare conflitto tra l’amore di Dio che il celibe ha messo al centro della propria vita e un amore umano che vorrebbe inserirsi in quello spazio centrale, conflitto che chiede una de­ cisione da prendere e che sarà comunque sofferta.

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Vediamo allora di applicare quanto abbiamo visto prima5 a queste situazioni che riguardano la vita di ogni persona, che tutti più o meno abbiamo già speri­ mentato, anche se ora ci porremo soprattutto nella pro­ spettiva di chi è consacrato nel celibato per il Regno. 3 Vedi la parabola del Samaritano Buono e del sacerdote e del levita, per niente buoni, che tirano dritto di fronte al poveraccio aggredito dai briganti. 4 È, in sostanza, la richiesta del re Salomone all'inizio del suo regno (lette­ ralmente: «Un cuore capace di ascolto», IRe 3,9). 5 Cfr. cap. 1, paragrafo 4,2 (“Attenzioni pedagogiche”).

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3.1. Sensi attenti e sensibilità vigile

La prima indicazione si riferisce allo stato generale di vigilanza della persona e alla conseguente capacità di chiedersi in ogni istante, idealmente: cosa sta succe­ dendo? perché sto provando una certa sensazione? co­ sa sta a dire quell’emozione? da dove viene quel sen­ timento? come mai quella persona mi attira mentre quell’altra non la sopporto? da dove viene quella poca voglia di far le cose, quella mezza depressione che mi rende grigio e mi fa vedere tutto bigio? è proporziona­ ta la mia reazione risentita a quel rilievo fattomi da un superiore o dal sacrestano? come mai quel pizzico di fastidio quando ho sentito che il mio vecchio compagno d’armi o di seminario, che non vale(va) granché, è sta­ to fatto vescovo, mentre io sono ancora qui a rompermi con le beghe di parrocchia? o che vuol dire quel pruri­ to interiore, anch’esso fastidioso, che avverto in me quando la gente mi decanta le lodi per le omelie di don Giulio (che le scarica dalla rete)? perché non riesco proprio a dimenticare quella mancanza d’attenzione nei miei riguardi (mica c’avrò la coda di paglia)? come mai mi concedo sempre più cose cui un tempo avevo deci­ so di rinunciare? cos’è successo nella mia vita che non sento più tanta attrazione per la preghiera? forse c’è qualche... connessione tra il tanto tempo perso navi­ gando in internet, e il fatto che la mia vita... navighi nella mediocrità, o che il mio annuncio sia sempre più ripetitivo, senza uno straccio d’entusiasmo, o che io stia

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diventando sempre più criticone e negativo, vecchio e insopportabile...? E il grappolo di domande potrebbe continuare. Le prime norme pedagogiche del discernimento so­ no molto semplici, persino elementari: /’attenzione a se stessi e il coraggio di interrogarsi. Che da un lato chiedono pazienza e costanza, dall’altro regalano la possibilità di accorgersi di quel che sta capitando nella propria vita per non perder la libertà di viverla in pie­ nezza. Per questo non occorre essere spietati con se stessi o rischiare di diventare ossessivi, è sufficiente esser realisti, e comunque non accontentarsi di porsi domande o aver dubbi solo quando lo scadimento del­ la vita è evidente e magari trasgressivo, ma imparare a stare attenti a quel “prurito” o a quel “pizzico di fastidio interiore” apparentemente innocui6. Ciò che sorprende nei casi visti prima è come la persona possa giungere a quei punti (uno stile relazio­ nale non proprio tipico del vergine, la perdita di ogni slancio affettivo, il vivere vedendo solo i propri in­ teressi, persino l’abuso dell’altro...) senza mettersi in crisi. Perché? Evidentemente perché la persona non ha mai imparato a vivere in stato di discernimento. E così ha progressivamente perso i contatti col suo io

6 Di solito, poi, chi impara sul piano psicologico quest’attenzione ai cosid­ detti piccoli segni d’un certo disagio interiore (come quel prurito o quel pizzico) diventa capace - sul piano spirituale - di percepire la presenza di Dio nella piccola “brezza di vento leggera”, e non solo nel fùoco, nella tempesta, nel ven­ to.,, (e viceversa).

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più profondo, o ha perso i sensi, e la possibilità di vedere, sentire, toccare... quel che stava capitando nella propria storia, e con essi anche quella sensibilità che consente di percepire e poi soffrire il degrado del­ la propria vita. È chiaro che a un certo punto, ovvero una volta che l’individuo è giunto a un certo tipo d’insensibilità, è necessario un aiuto specifico, un intervento dall’ester­ no, a volte addirittura di tipo professionale e speciali­ stico (psicoterapia e dintorni), ma non vi sarebbe alcun bisogno di ricorrere a tutto ciò se lo stesso avesse im­ parato l’arte e la fatica, umile e intelligente, di esser attento a se stesso, in tempo reale, senza aspettare l’esa­ me di coscienza della sera (che sarà banale e superfi­ ciale) o il momento della confessione (anch’essa ripe­ titiva e senza dolore). In altre parole, sul piano anche solo psicologico, l’apprendimento del discernimento come stile normale di vita mantiene attenti i sensi e tiene viva la sensibilità, fa esser veri con se stessi e li­ beri d’imparare, di lasciarsi metter in crisi dalla realtà7, impedisce quei processi di logorio psicologico e invec­ chiamento spirituale ove tutto è piatto e nulla riscalda il cuore, e la persona - ormai incapace di soffrire e godere - va in cerca, proprio per questo, di situazioni eccitanti (non importa se sopra le righe). In tal senso il discernimento non serve solo a gestire le crisi, ma è ciò che mette in crisi la persona. Se dun­

que è la sensibilità a far partire il dinamismo del discer­ nimento, è vero anche il contrario: è il discernimento che provoca la sensibilità e la confronta, la tiene sveglia e sollecita a crescere, alla fine la giudica. Alla luce di quell’amore che un tempo ha attratto il cuore, perché continui a lasciarsene attrarre. Il discernimento è amico fedele, e come un amico verace ha il coraggio della verità. E di molta verità ha bisogno chi si viene a trovare in una crisi affettiva.

7 Sarebbe la docìbilìtas.

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3.2. Attivare le sensibilità L’indicazione appena proposta è in realtà abbastanza generica, si riferisce a tutti i tipi di discernimento, è come una premessa valida in ogni caso, qualsiasi crisi la persona stia vivendo o potrebbe salutarmente vivere. Tanto più è necessaria questa predisposizione quando la persona attraversa una crisi affettiva. Una predispo­ sizione a fare la verità dentro di sé. Anzi, allora non solo le domande si fanno più speci­ fiche, come vedremo, ma pure l’attenzione va e deve andare a diverse aree della personalità. Quando, infatti, la crisi è di questo genere, la tendenza (o la tentazione) è quella di pensare a una problematica di natura esclu­ sivamente affettiva, tutt’al più affettivo-sessuale. In realtà non è così, sia perché l’affettività-sessualità si pone per sua natura al centro della geografia intrapsi­ chica umana, e quindi è collegata immediatamente con

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le altre aree della personalità (e dunque con altri impul­ si, energie, bisogni...)8, sia perché l’affettività-sessua­ lità possiede la caratteristica della plasticità, per cui - in concreto - può funzionare da cassa di risonanza di problemi nati altrove, o può essa stessa nascondersi sotto mentite spoglie, ovvero determinare problemi in altre aree. Nel primo caso, allora, ci troveremo dinanzi a problemi nell’area affettivo-sessuale, ma che non so­ no nati in quell’area (ad esempio la masturbazione co­ me reazione alla percezione d’un fallimento nell’area relazionale); nel secondo - al contrario - il disagio sa­ rà in un’area qualsiasi, ma la sua radice andrà ricercata proprio in quella affettivo-sessuale (ad esempio la chiu­ sura al rapporto con l’altro o la paura nei suoi confron­ ti, persino verso Dio, legata a una violenza sessuale subita). Quanto basta per comprendere come anche il discernimento nei casi di crisi affettiva non possa che esser complesso, mai scontato, né interpretato in ma­ niera superficiale ("se ami una donna vuol dire che sei normale, non ti preoccupare”), o con richiami morali­ stici (“si tratta solo d’una tentazione, ma tu resisti, sii fedele...”), o ingenui minimalismi comportamentali (“importante è che tu sappia controllarti...”), o racco­ mandazioni solo spirituali (“devi pregare di più...”), o deduzioni semplicistiche (“se sei innamorato vuol dire che devi sposarti...”), o interpretazioni deresponsabi­

lizzanti (“la colpa non è tua, ma di questo mondo ten­ tatore o di chi ti vorrebbe sedurre...”), o banalità pseudo-rassicuratorie (“succede a tutti, ma vedrai che col tempo il cuore si mette a posto da solo...”), o consigli del cavolo (“è una questione ormonale, vedi di sfogar­ ti in qualche modo, con l’esercizio fìsico, con qualche hobby, o buttati ancor più nel lavoro, un diavolo scac­ cia l’altro...”, e così magari ci scappa anche l’esauri­ mento nervoso)9. La mia proposta è quella di tener conto molto seria­ mente di questa complessità del tutto naturale dando attenzione alle diverse sensibilità coinvolte e implicate in un evento d’innamoramento. In fondo, così facendo applichiamo in senso pedagogico l’intuizione, alla ra­ dice freudiana, della plasticità della sessualità. Lo vedremo nelle prossime pagine.

8 Esattamente per questo l’atto sessuale risulta grandemente gratificante, proprio perché gratifica non solo l’impulso genitale, ma anche altri bisogni.

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9 Sono tutte esemplificazioni di casi reali, di cose che effettivamente vengo­ no dette e raccomandate a persone che vivono la crisi affettiva, da consiglieri o guide che probabilmente hanno qualche problema con la loro affettività-sessua­ lità, o che non hanno mai affrontato una crisi in tal campo...

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Ill

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Nel capitolo precedente abbiamo indicato alcuni principi pedagogici che potrebbero aiutare a gestire in generale una crisi affettiva. Continuiamo ora con la parte pedagogica, cercando di tradurre quei principi in cammino concreto, o nei passi del discernere. Alla luce, comunque, di quella verità che è il punto di riferimento o il kerigma di ogni percorso educativoformativo credente verso la capacità decisionale: «Ge­ sù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e ades­ so è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti»1. E a partire dall’indicazione conclusiva del capitolo precedente, che raccomandava di indicare, attivare e integrare le varie sensibilità. Vediamo quali e come.1

1 Evangelii gaudium, 164.

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1. Sensibilità psichica: sincerità e realismo

Anzitutto si tratta di attivare la sensibilità psichica, quella che nasce da una immediata attenzione a noi stessi e a quel che stiamo provando. Di solito è una sensibilità conscia, o è comunque vicina al conscio, e va attivata in due direzioni.

1.1. Coraggio di riconoscere i sentimenti

Il soggetto dovrebbe anzitutto partire dal coraggio di dare un nome a quel che sta capitando, con realismo e sincerità. Cosa non sempre semplice quando c’è l’af­ fetto di mezzo e il soggetto è confuso, e ne ha ben donde. Ma è importante, ad esempio, che riconosca d’essere innamorato, che usi questa espressione senza nascondersi a se stesso e al tempo stesso senza lasciar­ si travolgere come un preadolescente dall’esperienza che sta vivendo, ma imparando a relativizzarla il più possibile2. Dunque nessun catastrofismo o disperazio­ ne, come nessun automatismo tra innamoramento e

2 Quanto diciamo a proposito dell’innamoramento vale per tutti i sentimen­ ti che possiamo provare e che è salutare riconoscere. Ricordo il caso d’un gio­ vane prete, normalmente mite e paziente, che però aveva strani scatti di rabbia aggressiva, tanto rari quanto intensi. Tale persona aveva subito una violenza sessuale da bambino, ma diceva che non provava né aveva mai provato alcun risentimento verso l’aggressore (che pure era persona a lui ben nota). E così, la rabbia non riconosciuta era costretta a trovarsi altri sbocchi pericolosamente incontrollati.

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tradimento vocazionale, né tra innamoramento e scelta vocazionale per forza alternativa. Al contrario, fa parte di questa sensibilità realistica ricordare che un evento come l’innamoramento per un consacrato crea una situazione nuova, «che apre alla conoscenza di sé e del mondo: è come una luce nuova, un modo di vedere sé e le cose che prima era scono­ sciuto»3, e che è dovuto all’irruzione dello sguardo di un’altra persona nella profondità dei propri affetti e dei propri sentimenti. Il confronto e la passione per una donna possono in effetti rivelare dei lati di sé che l’in­ dividuo non aveva ancora conosciuto e compreso, par­ ti inedite del proprio mondo interiore, risorse insospet­ tate, qualità nascoste, ma anche egoismi e individuali­ smi tipici di chi, fino a quel momento, s’è pensato in modo molto indipendente, quasi da single. Cogliere la capacità di amare e la bellezza d’essere amato fa spe­ rimentare una nuova libertà, provoca come un’esten­ sione dei confini dell’io, spesso rende l’individuo più forte e resistente alle difficoltà, ma anche molto più consapevole d’un certo idealismo sentimentale, carat­ teristico - di nuovo - di certi teorici dell’amore un po’ disincarnato, e fa cogliere - al contrario - l’inesorabile concretezza dell’amore. C’è chi, a partire da questo terremoto del cuore, è divenuto più attento ed empatico, più capace di ascoi-

3 A. Torresin, D. Caldirola, «Il prete innamorato», Settimana, 18 (2014), p.2.

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tare sé e gli altri, più libero di dare la precedenza all’al­ tro e di soffrire con chi soffre; persino la qualità della vita spirituale e del suo tratto pastorale ne ha tratto giovamento e si è affinata. Ovviamente ciò non è scontato, ma in ogni caso fa­ re questa operazione o favorire questo tipo di sensibi­ lità è già fare un discernimento che consente d’iniziare a distinguere ciò che è buono, in una passione del cuo­ re, da ciò che non lo è, ciò che è puro da ciò che è ambiguo, ciò che conduce a una dipendenza pericolosa da quanto porta a maggiore libertà. Ed è già discerni­ mento in atto.

modi oggi praticabili) per riempire quel vuoto e non provare l’angoscia di star solo con me stesso, certo non sto facendo nulla d’illecito e trasgressivo, anche se an­ drò a cercare quelli che io scelgo e coi quali mi piace stare, ma non potrò probabilmente dire (e dirmi) che agisco così per maturare nella capacità di relazione e socializzazione (“in fondo mica sono un eremita..., e poi non sto facendo nulla di male”), soprattutto se que­ sta diventa abitudine, e abitudine egocentrica: sarebbe un (auto)inganno. Sarò più corretto e sincero se avrò il coraggio di dire (e dirmi) che sto cercando delle rela­ zioni anche perché mi fa paura il ritrovarmi solo e mi dà ansietà la compagnia di me stesso, o perché non ho ancora imparato quanto sia salutare e liberante l’habitare secum, specie quand’è percepito come stare coram Deo\ o non ho ancora scoperto che per saper stare in compagnia uno dev’aver imparato a viver bene con se stesso, in quella solitudine silenziosa che costringe il cuore a divenire saggio. Quel gesto dunque è o rischia di essere una concessione, leggera finché voglio, ma sempre concessione, come un cedimento (così etimo­ logicamente) alla parte meno matura di me stesso, quel­ la che piano piano mi rende più preoccupato di curare le mie ferite (attraverso gli altri) e molto meno di andar incontro a quelle altrui5. Questa è la verità.

1.2. La sincerità comincia dal linguaggio

Ma anche in un altro senso questa sensibilità psichi­ ca è atto di realismo che aiuta a discemere, perché edu­ ca la persona non solo a riconoscere con sincerità i pro­ pri sentimenti, ma a valutare correttamente le proprie azioni, usando termini adeguati. C’è infatti una prima sincerità che nasce dalla correttezza e appropriatela dei termini e delle espressioni che usiamo per raccon­ tare, a noi - anzitutto - o agli altri (alla guida o al con­ fessore, ad esempio), ciò che viviamo. Faccio alcuni esempi, perché tale sincerità del linguaggio non è per niente scontata (specie tra chi presume conoscersi). Ad esempio, se sto provando una sensazione di so­ litudine, e vado subito in cerca di contatti (nei mille

4 Rispettivamente: “abitare o vivere con se stessi”, e “stare dinanzi a Dio”. 5 Non dimentichiamo che la concessione è spesso il primo passo di quel cammino lungo un piano che è pericolosamente inclinato, e che può portare a comportamenti anche gravemente trasgressivi (circa il “piano inclinato” come

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Oppure, se cerco sulla rete immagini sessuali equi­ voche, non potrò raccontarmi che questa è tutt’al più una “veniale distrazione ricreativo-distensiva dopo una giornata faticosa”, ma sarò più onesto a dire che sto gratificando in ritardo un bisogno psicologico tipico della preadolescenza (come è appunto la curiosità ses­ suale). Ovvero, quella è e si chiama regressione, in cui - per di più - non disdegno trattare il corpo altrui come oggetto per un mio appagamento6. È solo “veniale e distensivo” tutto ciò? Sono termini appropriati? Così, se vivo una o più relazioni e ho molti contatti e ne godo assai perché mi sento al centro dell'interesse generale e sono supergettonato, non basta raccontarmi e rassicurarmi che, suvvia, “non sarebbe neanche nor­ male non godere della relazione..., e poi questi sono i rischi che corre chi ha il coraggio di entrare nel vivo dei rapporti umani, come vuole papa Francesco...”. Sarà pure così, ma la realtà è che io sto anche usando la relazione per le mie economie affettive e, nella mi­ sura in cui la vivo così, quella relazione o quello stile relazionale sta diventando un abuso degli altri, non co­ sì grave, ma sempre “uso improprio”: questo è quanto sta capitando, il resto sono storie.

E se mi sento oppresso dal solito senso d’inferiorità e mi butto nel lavoro, nello studio, nell’apostolato... per venirne fuori, e ci sto fin troppo male quando non ho il successo che speravo, anche qui non è sufficien­ te dire che chiunque ci starebbe male a costatare la povertà dei risultati dopo essersi tanto sacrificato per il Regno. La verità è che quel che faccio è anche una compensazione per sentirmi qualcuno. Non lo sarà al 100%, ma basta che lo sia anche solo in parte per giu­ stificare la mia attenzione seriamente autocritica e discemere ove devo lavorare su me stesso e convertirmi, senza perder tempo. In ogni caso il rispetto della real­ tà e del mio ruolo, degli altri e... del Regno per il quale dichiaro di lavorare m’impone di non racconta­ re balle o mezze verità, né di giocare a nascondino con me stesso7. Il discernimento, e non solo la sincerità, comincia col coraggio di usare parole chiare ed espressioni ade­ guate per quanto ci possano dar fastidio e lì per lì sem-

genesi e dinamica di possibili abusi sessuali, cfr. A. Leneini, È cambiato qual­ cosa? La Chiesa dopo gli scandali sessuali, EDB, Bologna 2015, pp. 67-93), 6 Ricordo, a livello ben più grave, quanto confessò tempo fa un vescovo accusato di pedofilia (e poi condannato): «Ammetto d’aver avuto un comporta­ mento sessuale non adeguato al mio status». Ci vuole un bel coraggio a chiama­ re una realtà drammatica e violenta come una relazione pedofila semplicemente “comportamento non adeguato”...

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7 Certamente questa è anche una moda che contraddistingue questi nostri tempi di falsificazione costante della verità (vedi le famose fake news'), in cui due ragazzi (uno di 13 e l’altro di 16 anni) si possono permettere di dar fuoco a un barbone, che morirà poi tra atroci dolori, e dire senza emozione alcuna che «mi­ ca l’abbiamo fatto per cattiveria..., semplicemente ci stavamo annoiando». La cosa più assurda è che subito i genitori dei due si siano affrettati a dire che i loro pargoli non hanno mai fatto né farebbero mai del male a una mosca, «s’è solo trattato d’un gioco finito male». Al di là della negazione della dignità di quel poveretto, col quale si può anche giocare per non morire di noia, e che sembra valere meno d’una mosca (ed è l’aspetto più vero e più grave della terribile vi­ cenda), è triste e sorprendente vedere come ci si possa prender gioco della veri­ tà usando parole che la distorcono e annullano (e che spesso consentono di usci­ re impuniti dalle proprie responsabilità persino penali): di fatto nemmeno l’ado­ lescente è stato condannato.

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brare eccessive. Concessione, regressione, abuso, com­ pensazione non sono realtà subito, e in ogni caso, ter­ ribili o necessariamente illecite, ma hanno il potere di svelarmi a me stesso o di scoprire angolini nascosti del mio mondo interiore, scuotendo il sonno o il letargo della mia (in)coscienza: un conto, infatti, è dire che quel modo di fare è “veniale ricreazione distensiva”, altra cosa è dire che è “regressione preadolescenziale”. Così come è diverso confessare di cercare un po’ se stessi nella relazione, oppure scoprire che il proprio modo di fare è di fatto abuso dell’altro8! Se non ho il coraggio di chiamar le cose con il loro nome, e uso eufemismi o giri di parole per attenuare, ridimensiona­ re, giustificare, non mettermi troppo in discussione.. rischio di non scoprire mai quel che sono né mai di­ scernere quel che ho nel cuore. E magari di giungere piano piano a concessioni, regressioni, abusi e compen­ sazioni davvero gravi. Ovviamente tutto ciò, o questa franchezza verbale, è molto aiutata e provocata in una dinamica relaziona­ le, riesce meglio se un altro mi fa notare il tranello dell’approssimazione verbale e del pressapochismo in­ terpretativo soggettivo.

8 È quanto è dato sperimentare nelle relazioni d’aiuto e, in particolare, nella psicoterapia. Molte volte ho costatato esattamente questo potere delle parole o di quelle espressioni verbali che il soggetto non aveva mai avuto il coraggio di usare e riferire a se stesso. E che a un certo punto son diventate come delle chiavi che hanno finalmente aperto porte segrete, e rimaste fin allora chiuse, del proprio cuore.

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2. Sensibilità intrapsichica: verità e trasparenza interiore

Ma non basta, fa parte della sensibilità psichica il passaggio dalla sincerità alla verità, in cui il soggetto cerca di scoprire la radice intrapsichica, il significato di quanto sta provando. Qui non è più sufficiente dare alle cose il loro nome o usare le parole giuste, anche se quello è stato un passo importante. Per meglio dire, lo è stato nella misura in cui prepara e dispone a quest’al­ tra attenzione.

2.1. Come un pellegrinaggio: dalla sincerità alla verità

Sarebbe infatti la seconda sensibilità, quella intra­ psichica, che consente dì fare un passo avanti molto importante, come un pellegrinaggio per nulla scontato nella nostra vita: dalla percezione onesta della sensa­ zione e della passione interiore (- sincerità) alla iden­ tificazione della sua radice (= verità)9. O dall’apparen­ za alla realtà. 9 Che questo “pellegrinaggio” non si possa considerare scontato è dimostra­ to anche dalla confusione che spesso si fa tra questi due termini, sincerità e ve­ rità, usati tranquillamente come sinonimi. Esser sinceri è semplicemente ricono­ scere quel che proviamo dentro di noi, dandogli il nome adeguato (e non è un grande eroismo pur essendo tappa indispensabile); esser veri è molto di più, si­ gnifica scoprire ciò che è alla radice di quella sensazione-emozione-passione. Quanti progetti formativi si fermano alla sincerità! Così come in quante confes­ sioni ci si ferma alla denuncia di ciò che si percepisce alla superficie di sé senza il coraggio di confessare la verità!

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Tale passaggio era in qualche modo iniziato con l’at­ teggiamento indicato all’inizio di questo percorso pe­ dagogico, ovvero con quella predisposizione generale a interrogarsi, ad andare oltre la superficie delle cose e dei gesti, ad aver il coraggio di metter in discussione inquietudini, disagi interiori, sensazioni particolari..., e a mettersi in discussione di fronte a quanto si agita dentro al nostro mondo interiore. Si tratta ora di continuare in quella linea, ma pren­ dendo in considerazione in modo esplicito l’area affet­ tivo-sessuale, e - di fatto - quel che la persona in crisi affettiva sta vivendo, proprio per arrivare sempre più alla radice di tale situazione critica, che non è nata nel vuoto. In concreto, allora, la sensibilità intrapsichica va at­ tivata con una serie di domande utili, ad esempio: “à dove viene questa tensione e attrazione?”, “questo in­ namoramento cosa sta a dire del mio cammino di ma­ turazione, o cosa mi rivela di me?”, “la sofferenza che sto provando per l’assenza di questa persona cosa in­ dica in me?”, “da cosa mi difende, questa relazione, o cosa mi consente di evitare?”, o - al contrario - “cosa mi sottrae o da cosa rischia di allontanarmi?”. Senza disdegnare interrogativi più concreti: “quanto tempo, materiale e... mentale, passo con questa persona?”, “quante volte mi vado a leggere messaggi e messaggini nei miei strumenti di comunicazione, sperando di trovarvi i suoi messaggi?”, “cosa mi sta dicendo la re­ azione del mio corpo?”.

E ancora: “come mai sono arrivato a questo punto, fino a coinvolgermi così tanto?”, “cosa in realtà sto desiderando, al di là dell’oggetto immediato o della relazione con una persona precisa?”, “come mai mi sto permettendo gesti, contatti, espressioni... che un tem­ po, in momenti tranquilli, avrei fermamente escluso dalla mia condotta? perché è cambiato il mio giudizio morale?”, ecc10. Abbiamo per altro già accennato nel capitolo pre­ cedente11 come la crisi affettivo-sessuale spesso sia originata da problemi irrisolti di altra natura, primo fra tutti, il problema della stima di sé che, se non ben fondata nella sua positività e dunque insicura, rende la persona vulnerabile e dipendente dalla stima altrui, dunque straordinariamente sensibile a segni di affetto e attenzione nei suoi riguardi. Di fatto la grande mag­ gioranza degli innamoramenti nella vita del celibe consacrato nascono proprio nell’area dell’identità e della stima di sé, che diventa dunque l’ambito ove intervenire. È un discernimento decisivo: non cogliere la radice del problema vuol dire sbagliare la diagnosi, e di con-

10 Altro possibile grappolo di domande sempre riconducibile a questa fase di attivazione della sensibilità: “cosa ci potrebb’esser dietro alla relazione con que­ sta donna? una mia ingenuità? o presunzione? o complicità inconsapevole? o insoddisfazione per la mia vita di celibe? c’è forse una certa mediocrità di vita alla base di tutto ciò? oppure quel senso di piacere nell’essere desiderato a cui non riesco a rinunciare? o potrebbe esserci quel certo narcisismo che m’illude d’esser ancora giovane e attraente?”. 11 Cfr, cap. 1, paragrafo 3.1 (“Il vero problema”).

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seguenza, fatalmente anche la terapia. Com’è successo fin troppe volte!

bassa stima di sé e conseguente necessità di sentirsi apprezzato o di risultare interessante, fascino adole­ scenziale del frutto proibito e disagio con la propria solitudine sempre più insopportabile12... Questo è mol­ to interessante, anche se inizialmente deludente: il tipo è partito con l’intento di verificare la qualità dell’affet­ to intenso che sta provando verso una persona precisa, e scopre che il problema è ben più ampio e coinvolge ogni proprio atto ed espressione d’amore, che più di qualche volta ha poco a che vedere con l’amore... È il frutto, o uno dei frutti, del discernimento, specie quan­ do diventa atteggiamento abituale. Non viene certo spontaneo né automatico passare dall’esser sinceri all’esser veri con se stessi, per questo è stato importante, nella formazione iniziale, e conti­ nua ad esser decisiva, nella formazione continua, la fase cosiddetta educativa, nella quale imparare a educere veritatem, ovvero a scrutare il proprio cuore e i suoi sentimenti per farne emergere la verità, anche quella meno gradita, e pure quella ove più vera potrebb’esser l’esperienza della grazia che mi salva. Sempre per questo è importante un aiuto esterno, per

2.2. Discernere prima e dopo Anche in questa tappa, o in questa sensibilità da at­ tivare, c’è un discernimento appreso e uno in atto: l’in­ dividuo o il pellegrino che impara ogni giorno a com­ piere il pellegrinaggio dalla sincerità alla verità, senza aspettare d’esser in crisi affettiva, impara anche a di­ stinguere in modo più approfondito il bene dal male, o scopre addirittura che il bene (o ciò che appare come tale) non necessariamente è animato da una buona mo­ tivazione; riconosce che si può fare una cosa buona e bella (un atto di attenzione verso gli altri) con un’in­ tenzione non proprio altrettanto buona e bella (per ot­ tenere stima e considerazione). Apprende a distinguere così piano piano l’amore vero da quello falso e conclu­ de forse con meraviglia, se è onesto nell’esame, che rare volte ha amato in modo puro e totalmente disinte­ ressato, come puro distillato di evangelo, senza ombra di contaminazione. E impara a discemere anche nel suo eventuale inna­ moramento tracce di ambiguità: ricerca di sé, tratti infantili-adolescenziali, idealizzazione ingenua dell’amo­ re (e dell’amata), desiderio di possesso o uso strumen­ tale dell’altra per i propri interessi o come cura delle proprie ferite, bisogno d’esser al centro della relazione,

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12 Thomas Merton, ad esempio, mostrò questo coraggio della verità quando, con grande trasparenza introspettiva, giunse a scoprire che ciò che cercava nella giovane di cui era perdutamente innamorato (al punto di non potersi immagina­ re, lui monaco già cinquantenne, senza di lei) forse non era la donna che diceva sinceramente di amare, probabilmente nemmeno una certa gratificazione impul­ siva, ma una soluzione al vuoto che s'era creato al centro del suo cuore. Lei era «La persona il cui nome tentavo di usare come qualcosa di magico per spezzare la presa della tremenda solitudine del mio cuore» (J. H. Griffin, Thomas Merton: The Hermitage Years, Orbis Books, London 1993, p, 58).

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poter riconoscere quel che soggettivamente rischiamo di non vedere dentro di noi.

Terza attivazione: la sensibilità morale. Con l’atti­ vazione di questo tipo di sensibilità il consacrato inda­ ga sulla qualità morale di quanto sta vivendo, ma non solo; indaga o dovrebbe indagare anche sulla qualità del suo stesso giudizio morale circa quanto sta vivendo. È una distinzione importante e non sempre rispettata ai fini d’un discernimento verace.

più osservata, ma come qualcosa che resta esterno a me, non è amata come ciò che dà bellezza e verità al mio agire. Così come, all’altro estremo, tende a estendersi l’al­ tra area, quella del “lecito perché la mia coscienza mi dice che va bene”, Ovviamente è un principio sacro­ santo la libertà di coscienza, ma suscita per lo meno qualche dubbio l’atteggiamento di chi nella relazione perde il senso dei confini e dei limiti, varca soglie d’in­ timità fìsica e psichica con discreta disinvoltura, si coinvolge sempre più a livello corporale, magari riven­ dicando - per l’appunto - il diritto di agire secondo la propria coscienza o sensibilità morale.

3.1. Ambiguità

3.2. Il vero discernimento (eia vera domanda)

La tendenza (o tentazione) sarebbe quella di vedere la cosa in termini molto netti: è peccato o non è pecca­ to? Ma sappiamo molto bene che quando uno è inna­ morato i confini tra le due realtà tendono a offuscarsi e confondersi. Soprattutto l’area del “lecito perché non canonicamente peccaminoso” tende pericolosamente a estendersi. In ogni caso non sarebbe segno di coscien­ za matura accontentarsi dell’adeguamento a una rego­ la, o semplicemente stare attenti a non oltrepassare quel limite strategico oltre il quale scatterebbe il divieto. Ricadremmo ancora nella vecchia schiavitù della Leg­ ge, o nell’estrinsecismo morale, ove la legge è tutt’al

Il problema è proprio questo, o meglio, non è in que­ stione quel diritto, ma ancor prima semmai il dovere di formare autenticamente la propria sensibilità morale (e penitenziale). E dunque di chiedersi o di discemere co­ me si sia formata e si vada formando tale sensibilità. Come ben sappiamo, e come abbiamo cercato di ap­ profondire nella precedente pubblicazione13, il punto di riferimento, o criterio educativo, di tale formazione è costituito dall ’identità della persona: ovvero la sensi-

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Z. Sensibilità morale: l’identità come criterio

13 Cfr. A. Cenemi, Dall'aurora io ti cerco. Evangelizzare la sensibilità per imparare a discernere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2018, pp. 127-136.

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bilità di ognuno va sempre più educata a conformarsi alla sua propria identità, a sentirla come la propria ve­ rità, bellezza e bontà, a sentirsene attratta come fonte di beatitudine, dunque ad amare quel che la persona è chiamata ad essere, e ad amare nello stile tipico del proprio io ideale. Ecco perché mi sembra allora molto più convenien­ te ed efficace porre la persona in crisi affettiva dinan­ zi a un altro modo di porre la domanda: “quel che sto facendo, il mio stile relazionale con questa persona, gesti e contatti vari, sono in linea con la mia identità di vergine, esprimono tale identità, sono testimonianza limpida e coerente d’essa, al punto che potrei fare tut­ to ciò anche in pubblico?”. Questo insieme di doman­ de è più stringente, facilita il discernimento sulla qua­ lità e verità del proprio coinvolgimento affettivo e di solito lascia meno spazio a difese e autoinganni. Se poi l’individuo, circa l’ultima parte della domanda (“potrei fare tutto ciò anche in pubblico?”), si rifugia nel solito: “ma gli altri non potrebbero capire quel che c’è tra noi”, mostra non solo un atteggiamento difensivo e assieme presuntuoso, ma pure la molta confusione che abita il suo cuore. Quella confusione che normalmen­ te contraddistingue chi non ha mai imparato a discer­ nere ciò che è vero, giusto e santo, e conservarlo in cuore, per poi raccontarlo con semplicità agli altri. Se gli altri non possono capire di solito c’è una qualche ambiguità in me.

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4. Sensibilità relazionale: Dio al centro della relazione

L’innamoramento è, evidentemente, fenomeno rela­ zionale (anche se esistono chissà quanti personaggi in­ namorati perdutamente e pericolosamente di sé e dello specchio in cui si contemplano, come il Narciso del mito!). Logico, dunque, che tra le sensibilità da attivare e su cui confrontarsi vi sia anche quella relazionale. Per capire e discemere se davvero sia così, o se per caso al partner relazionale sia riservato un ruolo in realtà secon­ dario e quale rispetto vi sia per la sua persona.

4.1. Rispetto Non è così raro incontrare presbiteri coinvolti in re­ lazioni intensamente sentimentali, che mantengono l’altra in una condizione di evidente inferiorità, sfrut­ tando il loro ruolo e la loro autorità, come non fosse così importante sapere cosa lei sta provando. Sembra quasi che ciò che conta per loro sia la soggettiva sen­ sazione di gratificazione, all’interno d’una logica che, per usare parole vere, dovremmo chiamare autoerotica. Prima abbiamo fatto alcuni esempi di atteggiamenti presbiterali che vanno in tale direzione, dal tipo che frequenta con leggerezza siti pornografici al tipo che vive una quantità industriale di relazioni per sentirsi importante e attraente. In entrambi i casi il soggetto usa

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e abusa dell’altro, se ne serve per se stesso, non ne ri­ spetta la dignità, non s’accorge di corrompere l’autorità, che gli deriva dal ruolo, con quel potere che è la deriva del ruolo, potere che offende e umilia, specie chi è pic­ colo e vulnerabile. Potere che è la sostanza infetta del virus del clericalismo. L’enfasi attuale su scandali e abusi sessuali dovreb­ be farci capire che tali scandali e abusi non sono solo violenza esplicita sessuale, ma esistono anche... in for­ mato minore e apparentemente innocuo, laddove pic­ coli o meno espliciti abusi non sono mai stati oggetto di discernimento da parte della persona.

Altro aspetto rilevante per discernere qualità e natu­ ra del rapporto è verificare quanto la persona del pre­ sbitero viva con senso di responsabilità il rapporto stes­ so. È sconcertante a volte costatare esattamente il con­ trario, ovvero l’irresponsabilità con cui lui, adulto, vive un certo tipo di relazione con un minore (è il caso più grave, ma non dovrebb’esserci bisogno di grandi di­ scernimenti per capire lo squallore della cosa), o il pa­ store porta avanti con una donna una relazione senti­ mentale che di fatto si rivela impossibile per mille motivi: perché lei è sposa e madre, o è giovane e ha tutto il diritto di progettare la propria vita futura in mo­ do realistico e di non sprecare energie preziose in una

relazione improbabile, o perché lui vuole con discreta ipocrisia mantenersi aperte entrambe le possibilità (continua a esercitare il ministero e assieme non vuole rinunciare a un rapporto per lui così gratificante). È sconcertante vedere come in tutto ciò il presbitero mostri l’assenza d’un minimo senso di responsabilità, e sembri quasi approfittare della giovane età della per­ sona, o della sua fragilità, o della sua confusione inte­ riore, magari del suo stato di crisi coniugale...; o che si difenda addebitando a lei in sostanza la colpa (“è lei che insiste...”, “se interrompo le faccio del male, ha persino minacciato di togliersi la vita...”, “io avrei già concluso la relazione se non fosse per lei che mi sta sempre addosso...”, “il problema è suo non mio...”). E fa persino rabbia quando il don, dopo aver sedotto l’altra e aver irresponsabilmente giocato per molto tem­ po con i suoi sentimenti (altro squisito segno di potere), ha la spudoratezza di dire: “ma io non provo niente per lei, è lei che spasima per me...”, ovvero prima l’ha cercata e usata, e poi, una volta che ha finito di spre­ merla, può anche buttarla via. Perfetto esempio di cle­ ricalismo! Qui le domande utili per il discernimento ruotano attorno a questo punto interrogativo: “quanto sono e mi sento responsabile di questa persona? come vivo tale responsabilità di fronte a Dio, di fronte a chi me l’ha affidata (nel caso d’un minore) o di fronte alla sua fa­ miglia (coniuge e figli), di fronte alla comunità e a chi si fida di me?”. Se responsabilità vuol dire farsi carico

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4.2. Responsabilità

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della crescita dell’altro, “quanto la relazione stabilita con tale persona la aiuta a crescere e maturare, come donna e come credente?”; “quanto tale rapporto affet­ tivo ha aiutato tale giovane a trovare il proprio posto nella vita e nella Chiesa.a disegnarsi un futuro cre­ dibile. ..?”; “è profondamente felice questa persona per il rapporto che vive con me? lo vive con libertà?”. “E io cosa cerco in costei..., e cosa mi dà?”; “cosa rappre­ senta per me?”; “ne sono geloso per caso?”.

4.3. Stile relazionale verginale: alcuni criteri Per aiutare il discernimento possono esser utili alcu­ ni criteri relativi allo stile relazionale tipico del celibe per il Regno14. Discemere la qualità del proprio stile relazionale è premessa indispensabile per discemere il senso dell’eventuale crisi e prender poi una decisione finale. In altre parole: il vero oggetto del discernimen­ to nelle crisi affettive non è l’alternativa tra il restare (nell’istituzione) o cambiare stato, ma la qualità del mio modo d’amare e delle mie relazioni: è questa eventual­ mente che deve cambiare. Inoltre, è chiaro che se lo stile non conferma l’ideale scelto ed è incoerente, di­ minuirà la capacità attrattiva dell’ideale stesso e sarò più attratto da una scelta alternativa.

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a) Tirarsi in disparte, perché il centro spetta a Dio

Il celibe deve vivere molte relazioni, ma senza oc­ cuparne mai il centro, perché il centro della vita d’ogni persona e d’ogni relazione spetta a Dio; e proprio per questo ha scelto d’esser celibe, per testimoniare che Dio solo può riempire la sete infinita d’amore dell’es­ sere umano. Se dunque qualcuna lo mette al centro della sua vita, egli dovrebbe accorgersene e trovare il modo di dire a questa persona: “Non sono io il tuo centro, ma Dio”, e tirarsi in disparte, per non togliere, sul piano spirituale, il posto che spetta a Dio, e sul piano relazionale umano, al coniuge cui la persona è eventualmente legata (e così anche se si verifica il con­ trario, ovvero se l’altra pretende porsi al centro della sua vita). È un criterio molto illuminante interrogarsi sul posto che si occupa nella vita altrui. È evidente che continua­ re a tenere un posto centrale nella vita emotiva d’un altro anzitutto fa sentire importanti e gratifica il bisogno di stima, ma poi non può che rinforzare l’attrazione affettiva (e affettivo-sessuale). È importante rendersene conto il più presto possibile per non giungere a una situazione di dipendenza che orienterebbe fatalmente la decisione.

14 Mi rifaccio ad alcune riflessioni che ho proposto nel mio È cambiato qual­ cosa? La Chiesa dopo gli scandali sessuali, EDB, Bologna 2015, pp. 201-203.

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b) Sfiorare l’altro, per non fare del corpo il luogo né il motivo dell’incontro

c) Amare Dio con cuore umano, amare l’uomo con cuore divino

Il pastore, celibe per il Regno, ancora una volta è chiamato a vivere molte relazioni, ma non a partire dal corpo e dalla sua capacità di attrazione, o in forza del­ la gratificazione sensoriale del contatto fisico, ma per aiutare l 'altro ad essere quel che è chiamato ad essere secondo il progetto di Dio, ponendosi dunque al suo servizio, e non servendosene sottilmente. Starà dunque attento a adottare uno stile particolare, fatto di delica­ tezza e attenzione, rispetto dei sentimenti e sobrietà di gesti, per non legare nessuno a sé e non usare-abusare del corpo altrui, ma - al contrario - per far risaltare anche nello stile e nei modi, nei gesti e nelle parole, nei sentimenti e nel modo d’esprimerli, quel punto unico d’incontro che è Dio15. È altro criterio che aiuta il discernimento. Il coinvol­ gimento corporale aumenta inevitabilmente la pressio­ ne dell’istinto, e dunque orienterebbe l’attrazione e poi la decisione in quella stessa direzione. Esser accorti per ristabilire i confini dell’io e una certa distanza è1 condi­ zione indispensabile per operare poi un discernimento veritiero.

15 Circa il coinvolgimento del corpo, specie nelle relazioni d’aiuto, mi per­ metto di rinviare al mio articolo: «Il contatto corporale nelle relazioni d’aiuto», Tre Dimensioni: Psicologia, Spiritualità, Formazione, 1 (2004), pp, 57-58,

Il presbitero celibe è chiamato a combinare due mo­ di di amare, umano e divino, tra loro e coi due oggetti del suo amore, Dio e l’uomo. Come una doppia sintesi. C’è vera maturità affettiva quando le due dinamiche s’incrociano (ed è davvero qualcosa che ha che vedere con la croce) coi rispettivi obiettivi. Si tratta quindi di amare Dio col proprio cuore totalmente umano, dunque d’un affetto vero e che investe la sensibilità, e - assie­ me - si tratta di amare l'uomo, ma con uno stile sempre più simile al modo di voler bene di Dio, con la sua li­ bertà e intensità, quel Dio che è attratto particolarmen­ te da chi si sente aggredito dalla tentazione di non sen­ tirsi amato. Il celibato non è solo amore di Dio al pun­ to di rinunciare all’amore umano, come forse si diceva un tempo, ma al punto di amare l'uomo con lo stesso cuore di Dio\ Ne viene un altro interrogativo incisivo e che mira al punto giusto: io davvero amo con lo stile di Dio, con quella libertà che mi rende capace di amare tante per­ sone, con quella preferenza per chi è solo e non conta nulla, con quella trasparenza che mi fa desiderare il vero bene dell’altro? Anche qui il principio pare chiaro: uno stile affettivo troppo appiattito sull’umano fa perdere senso e gusto dell’opzione celibataria, orientando verso una scelta diversa.

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5. Sensibilità spirituale: la lotta con Dio

Quinta attivazione: la sensibilità spirituale (o reli­ giosa'). Con tale sensibilità, che dovrebb’esser tipica del vergine per il Regno, la crisi dell’innamoramento cessa di esser un fatto solo psicologico e diventa un fatto spirituale, o, se preferiamo, non è più lotta solo psichica, contro istinti e tentazioni, ma religiosa, con Dio e col suo amore, che vuol esser il primo perché io ami di più ogni persona e mi lasci amare pienamente da lui per amare come lui. O, nel caso del celibato sa­ cerdotale, potrebbe non ridursi - alla fine - alla contestazione un po’ ideologica d’una legge, ma alla contestazione, semmai, d’un certo modo personale d’essere e d’amare, Dio e gli altri.

5.1. Crisi affettiva come I’ora di Dio

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incontrandomi laddove sono particolarmente sensibile, ove il mio cuore ha mostrato una particolare capacità di coinvolgimento, e ove particolarmente critico, dun­ que, si fa il confronto con lui? Cambiano completamente il senso d’una crisi senti­ mentale e l’atteggiamento con cui il soggetto raffron­ ta a partire anche solo dall’ipotesi che così possa esse­ re. Da tale discernimento può derivare una radicale inversione di rotta, e l’innamoramento umano diventa­ re luogo d’una nuova e inedita esperienza di Dio16. L’indicazione pedagogica è dunque chiara e netta: occorre far entrare Dio nella crisi del cuore, e non tenervelo fuori pensando che si tratti di due mondi in­ comunicabili. Se la vita parla quando c’è un cuore che ascolta, mai forse il cuore si pone in ascolto come quan­ do sperimenta un amore intenso. Lì, allora, e attraverso anche quell’amore così umano Dio può farsi meglio sentire. Potrebb’esser la sua ora.

Di fatto è una tendenza facilmente riconoscibile nel modo abituale di gestire le crisi sentimentali del reve­ rendo: le quali sono immediatamente e normalmente viste come debolezza o tentazione, come rischio d’in­ fedeltà e terreno pericoloso e sdrucciolevole, come pretesa dell’umano di riprendersi uno spazio che sem­ bra inconfondibilmente suo proprio, contrapponendo­ si a Dio. E se invece la crisi fosse vista al contrario? Come strumento attraverso il quale l’Etemo viene a visitarmi,

16 Su questa logica è costruito il mio testo L'ora di Dio. La crisi nella vita credente, EDB, Bologna 2010.

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5.2. Discernere Dio nella prova del cuore

Ecco anche qui, allora, alcune domande che potreb­ bero aiutare lo scandagliamento del cuore, ma stavolta a partire dal punto di vista di Dio: "cosa mi sta dicen­ do Dio, di me e di Dio stesso, attraverso questa pro-

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va?”, “cosa mi sta dando e chiedendo?', “dov 'è il Si­ gnore in tutto ciò, e dove mi vuol condurre?”, “qual è la grazia che tiene in serbo per me attraverso questa vicenda?”, “chi c’è - in realtà - all’origine di quella sensazione di vuoto e solitudine, o perché il mio cuore si sente solo? non potrebbe esserci Dio all’inizio e an­ che alla fine di questo desiderio d’un amore grande?”, “E qual è invece la tentazione più forte e seduttrice in essa?”, “ci son forse in essa assieme rimprovero e in­ coraggiamento, monito e pungolo, lamento e sorriso, attesa e memoria, perdono e proposta... che vengono dal Dio fedele?”, “mi sta forse questo Dio dicendo che non gli basta più quel mio certo modo di vivere il mio celibato, che non posso accontentarmi di ripetere e ri­ petermi, che oggi devo rinnovare e rimotivare la mia offerta, che devo imparare una nuova intimità con lui, e scoprire un amore nuovo, un modo nuovo di viverlo e testimoniarlo...?”.

5.3. Sensibilità credente

il protagonista resta lui, l’Etemo, che può servirsi anche d’un momento di debolezza e smarrimento per rivelar­ si come lui vuole e scuotere e attirare nuovamente a sé. O che può far capire anche attraverso un innamoramen­ to ciò di cui è capace il cuore umano o quell’amore che lui stesso ha deposto nel cuore dell’uomo. In fondo il Creatore ha sempre cercato la creatura attraverso la prova, e così continuerà a fare con chi si lascia provare e giunge - proprio grazie a questa dispo­ nibilità -, sia pur lentamente e faticosamente, a coglie­ re nella prova del cuore una mediazione tra le più effi­ caci del divino, quasi un misterioso e paradossale ap­ puntamento con esso. Cui Dio non manca mai... A questo punto davvero la crisi non è più un fatto solo psicologico, ma religioso; uno non lotta più con tentazioni e attrazioni, o contro una parte di sé, ma con Dio e il suo amore, con le sue pretese e i suoi eccessi (d’amore); con le prime (tentazioni e attrazioni) può anche pensare di vincere, ma con l’amore dell’Eterno è costretto ad arrendersi17. È il momento della decisione.

Nella risposta a queste domande sta la realtà e il vero senso della crisi. 0 almeno è ponendosi con co­ stanza questo tipo di quesiti che colui che è nella prova ne coglie progressivamente quel senso verace che va letto autenticamente nella fede, e che va a risvegliare un’altra sensibilità, quella credente, di chi cerca in ogni cosa e a ogni passo il Dio che cammina con noi. Poiché

17 Sulla differenza tra lotta psicologica e religiosa nel cammino di maturazio­ ne affettiva del celibe consacrato, cfr. A. Cencini, Nell'amore. Libertà e maturi­ tà affettiva nel celibato consacrato, EDB, Bologna 2011, pp. 840-851.

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6. Sensibilità decisionale: dal desiderio alla scelta, dalla scelta umana alla scelta cristiana

dite; al tempo stesso ha permesso di chiarire punti oscu­ ri, di correggere distorsioni percettivo-interpretative, di eliminare illusioni e aspettative irrealistiche. Forse l’in­ terrogativo che ha motivato il cammino di discernimen­ to si è ulteriormente precisato, potrebb’essersi spostato altrove, ridimensionando o ampliando il problema ini­ ziale, o approfondendolo e vedendolo in termini in par­ te nuovi e che consentono di giungere alla sostanza della cosa. Può essere, ad esempio, che il soggetto sia partito col proposito di discemere - di fronte all’even­ to d’un innamoramento - se continuare con il suo pro­ getto vocazionale presbiterale o cambiarlo, e scopre invece che il vero problema è un altro, quello del suo stile relazionale, o della sua libertà affettiva, o della sua identità... Ciò che conta è che tutto questo ora dovrebbe metter il soggetto in grado di fare una scelta, in un senso o in un altro. In libertà, perché ora può cogliere con maggior verità il senso di quanto sta vivendo da diversi punti di vista, tanti quante sono le sensibilità attivate. Accenniamo qui solo ad alcuni elementi che aiutano a fare questa scelta e dunque ad attivare la sensibilità decisionale, ad aver il coraggio di compromettersi con una decisione, di assumere la responsabilità di dare al­ la propria vita un orientamento preciso, di esporsi al­ l’azzardo più rischioso per un essere umano: cercare la volontà di Dio e ritenere d’averla trovata.

Sesta attivazione: la sensibilità decisionale. La crisi, anche quella d’innamoramento, deve determinare una scelta, altrimenti diventa comodo alibi perché nulla cambi, che è comunque una decisione-di-fatto, attra­ verso la quale la persona si permette la doppia vita o le varie situazioni di compromesso che sappiamo, sebbe­ ne nascoste. Crisi, ricordiamolo, significa coscienza sofferta d’una non corrispondenza tra io ideale e io attuale, che chiede una scelta o una conversione, su un punto ben preciso della propria personalità, per un nuovo equi­ librio di rapporti tra ideale e condotta di vita18. L’attivazione articolata di vari tipi di sensibilità che abbiamo ora visto dovrebbe provocare la persona a fa­ re la sua scelta, per non continuare a vivere un celibato mediocre, ad esempio, o pieno di compromessi, o di contraddizioni, o addirittura una doppia vita, o per por­ si in ogni caso in un atteggiamento di maggiore auten­ ticità personale e verità vocazionale. Soprattutto l’atti­ vazione delle diverse sensibilità ha senz’altro offerto elementi nuovi, prospettive diverse, provocazioni ine­ 18 Cfr. A. Cencini, L'ora di Dio, EDB, Bologna 2010, p. 48. Da un punto di vista prettamente psicologico così definisce la crisi U. Galimberti: «Momento della vita caratterizzato dalla rottura dell'equilibrio precedentemente acquisito e dalla necessità di trasformare gli schemi consueti di comportamento che si rive­ lano non più adeguati a far fronte alla situazione presente» (U, Galimberti, «Cri­ si», Dizionario di Psicologia, UTET, Torino 1992, p. 246).

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6.1. Coraggio di decidere

6.2. La brace sotto la cenere...

Il primo elemento riguarda proprio la materia prima d’un discernimento autentico, intendendo con questa espressione quel processo discemimentale che genera una decisione. Uno infatti potrebbe discemere senza arrivare a fare alcuna scelta operativa. Che cos’è, allo­ ra, che genera in noi la forza di prendere una decisione? La risposta è assieme psicologica e spirituale: la forza della decisione viene dairintensità del desiderio. Si sceglie perché c’è un desiderio intenso che attira in quella direzione; desiderare, infatti, significa con­ centrare tutte le proprie energie nella tensione verso qualcosa che la persona sente come centrale per la sua vita. La crisi affettiva, vissuta attraverso le sensibilità che abbiamo visto, è in fondo riconducibile a questa domanda: cosa c’è e cosa voglio che ci sia al centro della mia vita? La crisi stessa può avere svelato lati oscuri, debolezze impreviste, fragilità significative per­ sonali; vi possono essere stati anche comportamenti contraddittori, cadute di stile e di condotta, ma ciò non significa che al centro della vita non vi sia più il Cristo, o che il soggetto non voglia che sia così. Paradossal­ mente una vicenda d’innamoramento umano può addi­ rittura far crescere il desiderio divino!

A volte, in certi passaggi esistenziali, dobbiamo ac­ cettare che il nostro progetto di consacrazione o lo stes­ so nostro rapporto con Dio sia fatto soprattutto di desi­ derio, o più di desiderio che non di coerente e generosa condotta di vita (come pure sarebbe giusto e doveroso). La crisi può esser uno di questi momenti, che ci lascia in cuore (e purché ci lasci in cuore) nostalgia di Dio, rimpianto per quanto l’abbiamo potuto rinnegare, delu­ sione amara di noi stessi, dispiacere d’avergli preferito altri amori, frustrazione del tradimento... Nostalgia, rimpianto, delusione, dispiacere, frustrazione... non ci sarebbero se non ci fosse prima il desiderio di Dio, il desiderio che lui sia l’unico, il centro, il tesoro, l’origi­ ne e il destino d’ogni affetto personale19. Non si può pretendere, d’altro canto, che vi sia sempre il fuoco ar­ dente della passione per Dio nel focolare del nostro cuo­ re, non è possibile! A volte c’è o sembra esserci solo la cenere in quel focolare che pare spento e non più in grado di riscaldare la casa. L’importante è che sotto la cenere vi sia la brace. E la voglia di soffiarvi...

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19 E forse il senso delle lacrime di Pietro, dopo il tradimento del Maestro, poiché, come dice Raguin: «Occorre fare fino alle lacrime l’esperienza che Dio è il nostro unico amore» (Y. Raguin, Celibato per il nostro tempo, EDB, Bologna 1973, p. 70), Tale senso è confermato dalla successiva risposta dell’apostolo alla domanda di Gesù: «Mi ami tu più di costoro? Certo, Signore, tu lo sai che ti amo» (Gv 21,15-19): la crisi d’infedeltà non ha oscurato l’amore del discepolo per il Maestro, anzi, lo ha in qualche modo fatto (ri)emergere, reso più evidente alla coscienza di Pietro, più forte e sicuro, basato sulla certezza che il Signore sa, più che sulla presunzione umana (“tu lo sai che io ti amo”).

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Discernere nella crisi affettiva vuol dire soprattutto discernere la presenza della brace e della voglia di sof­ fiarvi. E la sofferenza del cuore, magari (ancora) attrat­ to da altri amori, può esser il momento provvidenziale che fa scorgere, al di là di queste attrazioni, non solo la fedeltà del Dio ancora e sempre innamorato dell’uomo, ma il tizzone ancora ardente del desiderio d’amarlo al di sopra di tutto e di tutti, oltre le nostre contraddizioni e passioni. Proprio da quel desiderio, nonostante tutto ancora acceso, può nascere il coraggio e la decisione di sce­ glierlo nuovamente come l’amore della vita e di voler abitare con lui, nella sua casa. Qualunque sia la deci­ sione concreta.

Altro elemento che può risultare significativo e de­ cisivo per orientare la decisione è la coerenza interna che dovrebb’esser possibile leggere tra una sensibilità e l’altra. A partire dalla sensibilità psichica fino a giun­ gere a quella spirituale. Come un filo rosso che consen­ te di legare tra loro le varie sensibilità, e d’intravedere nei vari discernimenti operati in ognuna d’esse come un atteggiamento o motivazione o modo d’essere che è costante e si ripete in modi diversi, e che va in una precisa direzione. E che dunque attira immediatamente l’attenzione di chi è in discernimento, agevolando enor­

memente il momento della decisione finale, quasi in­ nescandola. È come se sensibilità psichica e intrapsi­ chica, morale, relazionale e spirituale dessero ognuna un responso che sottolinea in modi diversi uno stesso atteggiamento interiore di fondo della persona, di fron­ te al quale la decisione finale è meno problematica e più semplice da trovare. Se, ad esempio, il lavoro sulla sensibilità psichica e poi intrapsichica mi fa intravedere una sottile tendenza a usare l’altro per i miei scopi che deriva anche da una mancanza di stima nei miei confronti; se la sensibilità morale e relazionale mi svelano a loro volta la presen­ za d’una certa disinvoltura nel mio modo di rapportar­ mi all’altro, poco o nulla attenta alla mia identità e alla mia responsabilità nei suoi confronti e alla sua dignità; e se infine la sensibilità spirituale mi fa riflet­ tere sull’appello di Dio che mi chiede di uscire dalla logica dell’altro-per-me, dell’uso-abuso relazionale per imparare ad amare alla maniera sua e coi sentimenti del Figlio suo, a questo punto ho in mano elementi abba­ stanza sicuri per leggere il senso della eventuale crisi affettiva e del conseguente coinvolgimento emotivoaffettivo-sessuale con una donna. I vari discernimenti ai vari livelli delle distinte sensibilità mi consegnano, infatti, un quadro preciso circa la mia tendenza a ser­ virmi dell’altro in cui quel coinvolgimento assume un senso altrettanto preciso e funzionale alla mia situazio­ ne interiore, del quale anche l’innamoramento sarà co­ me una conseguenza, o risponderà a una personale

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6.3. Quel filo rosso...

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esigenza-urgenza, quella di recuperare il senso della mia positività e amabilità attraverso l’altro, ovvero la donna di cui mi pensavo innamorato e che ora scopro d’aver tentato d’usare, come confessò T. Merton, «per spezzare la presa della tremenda solitudine del mio cuore»20. Non dovrebb’esser difficile, a questo punto, intrave­ dere la linea decisionale da assumere. Ovviamente tutto ciò non è automatico né la conver­ genza è subito evidente. Molto dipende dal coraggio con cui il soggetto ha portato avanti i singoli discerni­ menti a livello delle singole sensibilità prese in consi­ derazione. Sarà tanto più possibile, allora, scoprire la convergenza quanto più l’analisi è stata rigorosa e ra­ dicale (fino alla radice) e il discernimento vero (oltre la semplice sincerità) circa ognuna di queste sensibilità. A sua volta, maggiore è l’evidenza con cui toma quel dato personale nelle diverse sensibilità, maggiore sarà anche l’evidenza della decisione finale da prendere per il futuro.

certa direzione. In relazione con la crisi affettiva di cui stiamo parlando, il discernimento non si risolve o con­ clude con la semplice decisione di restare o andarsene, di cedere al cosiddetto impulso della carne o ribadire la propria appartenenza verginale a Cristo, ma significa porsi in termini e con atteggiamento nuovi di fronte al futuro. Dopo un episodio d’innamoramento uno non può più vivere la propria opzione verginale come prima. Qual­ cosa deve cambiare. Per questo abbiamo sottolineato, parlando prima della sensibilità spirituale, l’importanza di “far entrare Dio nella crisi”, ovvero di porsi in atteg­ giamento religioso d’ascolto per capire, al di là della vicenda sentimentale, cosa abbandonare e cosa acqui­ sire nel proprio modo di concepire il celibato, di vive­ re la relazione, di voler bene, di lasciarsi voler bene, di trasmettere l’amore dell’Eterno, di testimoniare quella buona notizia che è il vero obiettivo della scelta vergi­ nale, che cioè solo Dio può riempire il cuore umano e appagarlo definitivamente... In tal senso una crisi affettivo-sessuale, come già abbiamo visto, è evento del tutto naturale nella vita d’un celibe per il Regno, segna il costante itinerario evolutivo della vita e i passaggi da una stagione all’al­ tra che non possono esser innocui e tranquilli, dice la natura dinamica di quella energia così preziosa che è la sessualità, che resta sempre viva nel corso dell’esisten­ za (ci mancherebbe!), ma che a ogni suo tornante pone il soggetto di fronte a sfide nuove, nuove esigenze, nuo­

6.4. Verso un futuro nuovo

Il discernimento non è solo un’analisi magari critica su quel che è successo, ma è anche e soprattutto sguar­ do verso il futuro, o decisione di incamminarsi in una 20 Cfr. supra, nota 11.

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ve tentazioni, nuove debolezze, nuove provocazioni, nuove prospettive... Tale confronto è anche e forse an­ cor più per il soggetto che ha scelto d’esser celibe per Cristo, e che vive una sessualità già in partenza proble­ matica, visto che non conosce nemmeno quel certo tipo d’appagamento naturale che dà equilibrio sul piano umano alla vita e alla personalità quale è il rapporto sessuale-coniugale. Per questo la crisi è provvidenziale, ci deve essere, è momento importante del proprio cammino di formazio­ ne permanente. E se ne esce, lo ripetiamo, non solo - nel migliore dei casi - con una scelta di perseveranza, come se uno potesse accontentarsi di tener duro e basta, ma con un rinnovato e rimotivato impegno di fedeltà, come fosse una nuova scelta, la prima scelta d’esser vergine per il Signore. L’alternativa, infatti, non è solo tra resta­ re o andarsene, ma potrebbe spesso essere tra il vivere un amore appassito e pieno di compromessi, o un amo­ re appassionato e ricco di mistero e aperto al nuovo. Per questo la crisi non potrebbe non esserci; è il mo­ mento opportuno per decidere di cambiare e crescere, in ogni caso. Per capire che non posso vivere la mia sessualità come la vivevo quando ho scelto questa vo­ cazione, con le stesse motivazioni, con lo stesso meto­ do, con lo stesso atteggiamento interiore, con la stessa strategia spirituale per superare i momenti diffìcili. Ciò ha funzionato un tempo, oggi non più o potrebbe non esser più sufficiente. E dunque occorre scegliere come vivere oggi, dopo l’esperienza più o meno lunga di vi­

ta trascorsa, dopo tante battaglie non sempre vinte, con la conoscenza più realistica che ho oggi di me, ma an­ che e soprattutto del Signore e della sua fedeltà... In fondo è lui che non mi permette di ripetermi e riciclar­ mi, poiché mi chiama ogni giorno in modo nuovo e a qualcosa di nuovo! Il discernimento è ben condotto quando arriva a co­ gliere questa novità e a decidere di rispondervi.

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6.5. Discernere da credenti

In una situazione così umana, come quella del pre­ sbitero o del consacrato/a coinvolto in una relazione d’amore intenso, assume ancor più significato ed evi­ denza la differenza tra scelta solo umana e scelta cri­ stiana, e assieme la tentazione di fermarsi alla prima. E diciamo subito che, indipendentemente dalla de­ cisione finale che la persona prenderà, importante è che sia una scelta credente, alla luce di criteri ben precisi. Riprendendo nella sostanza quanto abbiamo detto nella precedente pubblicazione circa questo argomento e questa differenza21, e applicandolo con qualche ulte­ riore precisazione alla situazione del consacrato nel celibato chiamato a discemere la propria crisi affettiva, potremmo allora dire così.

21 Cfr. A. Cencini, Dall’aurora io ti cerco. Evangelizzare la sensibilità per imparare a discernere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2018, pp. 177-178.

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La scelta solo umana è molto dettata dall 'istinto, o comunque da quel che uno prova, a livello di sentimen­ ti e attrazioni legate alla propria umanità: sono essi che danno all'individuo la sensazione di fare una scelta si­ cura, proprio perché basata sull’evidenza di quanto l’individuo sente potentemente dentro di sé, com’è, ad esempio, la sensazione d’essere innamorato. Dev’esser una scelta a minimo costo, senza nulla perdere né alcu­ na rinuncia, e con alta probabilità di gratificazione e godimento; e pure su misura del soggetto e calcolata rigorosamente sulle sue capacità a livello psicologico e morale; vietato chiedersi qualcosa di particolarmente diffìcile o che si è sperimentato come tale. Infine la scelta solo umana ha bisogno del conforto dell 'assenso sociale, segue la corrente o quel che fan tutti. E tanto meglio se è fatta in due, non da soli. La decisione credente, invece, non è basata sull’istin­ to naturale, ma su un ideale trascendente; è a rischio, lo è di per sé poiché chi obbedisce nella fede corre il rischio più alto, quello di scoprire il mistero della vo­ lontà di Dio su di sé, ma lo è in particolare nel caso di chi scommette - sempre in forza di quel mistero - di poter fare a meno d’una esperienza tra le più belle e gratificanti della vita umana, com’è l’amore d’un uomo per una donna. Anche per questo è scelta a massimo costo, poiché è risposta all’amore ricevuto, e se nasce dall’amore tende necessariamente al dono totale di sé, al massimo di quel che uno può dare, con la rinuncia - anch’essa notevole - che ciò comporta; è motivata

dalla fiducia in un Altro, non dal calcolo delle proprie capacità morali (chi ha vissuto una crisi affettiva di solito non presume di sé), e pensata secondo il piano di Dio\ dunque è scelta coraggiosa e per sempre, ge­ stita responsabilmente dal soggetto, poiché chi sceglie davanti a Dio non si sente solo e al tempo stesso fa una scelta in piena autonomia. È la bellezza del discernimento cristiano, che da un lato è il frutto maturo dell’amore, dall’altro è ciò che fa crescere l’amore.

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6.6, Varie tipologie Mentre ribadiamo che ciò che conta sono i criteri del discernimento più ancora che il contenuto del discerni­ mento stesso, osserviamo pure che di fatto si danno queste diverse tipologie di discernimento:

- Vi sono quelli che, in una situazione di crisi affet­ tiva, conducono un serio discernimento, alla luce delle varie sensibilità, normalmente con l’aiuto d’una guida, e decidono di rinnovare e rimotivare la loro scelta di consacrazione a Dio nella vergini­ tà per il Regno, nel senso prima considerato e pur con una rinuncia anch’essa nuova, forse più costo­ sa, ma soprattutto rimotivata. - Vi sono quelli che escono dopo un serio e spesso anche sofferto discernimento, scegliendo un altro

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stato e modo d’essere, che sentono dinanzi a Dio più vero e autentico per se stessi, e che è confer­ mato come tale da chi l’accompagna. In questi ca­ si si tratta d’una decisione giusta, favorita da una crisi che ha segnalato alla persona l’errore di va­ lutazione fatto un tempo, al momento della primi­ tiva scelta vocazionale, e che ora le circostanze della vita hanno mostrato come non vera o non espressiva dell’identità della persona. - Vi sono quelli che non escono e invece dovrebbero farlo. È il caso di chi, vivendo una situazione di grave trasgressione, ha paura d’ammettere la veri­ tà e la sua gravità, o teme di dover rinunciare a un sistema di vita tutto sommato per lui confortevole, o ha paura d’un cambio di vita con tutte le sue incertezze e complicazioni, e decide di restare nel compromesso più o meno totale. O forse sarebbe più esatto dire che non fa nessuna vera scelta (pro­ babilmente non l’ha mai fatta), semplicemente la­ scia che le cose vadano avanti come sempre, pre­ ferendo continuare a nascondersi abilmente dietro l’apparenza d’una vita solo ufficialmente corretta22, ma contraddetta da una inautenticità o falsità di fondo se non dal fenomeno vero e proprio, e scan­ daloso, della doppia vita.

PEDAGOGIA DEL DISCERNIMENTO PERSONALE

- Vi sono quelli che escono e non dovrebbero farlo. Abbandonano la scelta fatta un tempo per un’altra opzione esistenziale, ma senza motivazioni ade­ guate, o con giustificazioni insufficienti. Ad esem­ pio, perché - dicono - non c’è più la gioia che dà la forza di affrontare certe rinunce, e c’è invece la convinzione di poter esser più felici altrove; o per­ ché la vocazione sacerdotale non li attira più, o perché hanno scoperto che la formazione non è stata adeguata... Oppure sono consacrati che non solo sono stati infedeli agl’impegni presi, ma so­ prattutto che ritengono la loro caduta o anche sem­ plicemente il loro innamoramento segno inequivo­ cabile d’un’altra vocazione. 0 c’è ancora chi pian­ ta tutto (e forse nel profondo del cuore non vorrebbe) soprattutto perché cede alla pressione di chi lo spinge a farlo, e non sa opporsi alla seduzio­ ne, a volte particolarmente ossessiva, di chi lo il­ lude e confonde.

22 Si potrebbe applicare a questi personaggi la famosa raccomandazione “si non caste, tamen caute” (se non puoi vivere castamente, almeno nascondi con attenzione le tue trasgressioni), severamente condannata da Tommaso (cfr. Super Eph., cap. 5,1. 6).

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IV

DISCERNIMENTO PASTORALE (E CRISI CONIUGALI)

Facciamo ora un esempio d’altro genere, ovvero di tipo pastorale, come applicazione di quanto finora det­ to ai casi d’accompagnamento di coppie che si trovano in situazioni irregolari. Sappiamo come questo problema sia oggi sempre più frequente, non c’è contesto ci vile-sociale (paese, borgata, quartiere, parrocchia...) in cui non vi siano situazioni familiari precarie e dolorose.

1. Sensazione di non ascolto ecclesiale

È un’emergenza che possiamo considerare universa­ le, e che la Chiesa intercetta solo in minima parte. Sia perché per molti non costituisce problema, o è problema già risolto col ricorso agli strumenti che la legislazione civile in materia coniugale-familiare mette a disposizio­ ne, sia perché - e ci riferiamo a credenti o comunque a persone che mantengono ancora un certo legame con la

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Chiesa a livello se non altro affettivo - prevale una cer­ ta sensazione: quella di esser ormai tagliati fuori da una certa comunione (o tradizione) ecclesiale, e dunque di essere impossibilitati ad accedere ai sacramenti, o quel­ la di non esser compresi, e che la Chiesa - o gli uomini di Chiesa - non possano capire quel che succede e quel che si prova in questi casi. Quanti hanno lasciato la Chiesa a causa di vicende coniugali irrisolte e che non hanno trovato adeguato ascolto! Certo, non per cattiva volontà di nessuno, ma perché molto spesso in queste intricate situazioni è quanto mai difficile cogliere le sin­ gole responsabilità e attribuirle in modo netto ai singo­ li attori della vicenda. Soprattutto se il tutto era ed è visto alla luce di leggi e ordinamenti giuridici che si presumono validi per tutti i casi e in ogni caso. È questo l’aspetto più inquietante: l’impressione che il problema sia stato spesso affrontato all’interno della Chiesa sul piano quasi esclusivo d’una norma o della norma, a difesa senza dubbio di precisi valori, ma con­ siderati così indiscussi e indiscutibili (“non negoziabi­ li”) da far passare in second’ordine l’assoluta singola­ rità della situazione e la realtà più umana ed esistenzia­ le della persona. La quale può aver trasgredito, certo, ma che per questa trasgressione si trova a pagare spes­ so un prezzo altissimo e senz’ alcuna alternativa prati­ cabile di fatto, in modo definitivo e a volte anche con poca attenzione alla sua sofferenza1.

È stato uno dei temi affrontati al Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, celebrato, come sappiamo, in due ses­ sioni (2014-2015), al termine del quale papa Francesco ha pubblicato la lettera Amoris laetitia, molto attesa e altrettanto discussa una volta uscita. Molti, infatti, attendevano con ansia il pronuncia­ mento del Pontefice circa tale problematica, un pronun­ ciamento definitivo che ponesse fine alle discussioni anche molto accese tra posizioni piuttosto distanti e contrapposte. La soluzione immaginata da molti era che il documento pontificio desse una risposta tanto defi­ nitiva quanto articolata alle multiformi situazioni di irregolarità della coppia (che sono davvero molte, mol­ tissime!), una risposta in termini di appartenenza o me­ no alla Chiesa e di possibilità di accostarsi alla vita sacramentale. Da notare che se le (contrap)posizioni emerse al Sinodo erano quelle classiche (conservatori e innovatori), ora c’era invece una sorta di partito tra­ sversale che riuniva insieme gli uni e gli altri nell’atte­ sa e pretesa della presa di posizione finale e precisa da parte del Romano Pontefice sulla vexata quaestio. Co­ sa che Francesco s’è ben guardato dal fare. Suscitando la reazione che sappiamo.

1 In tal senso, «un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leg-

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gi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spes­ so si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa “per sedersi sul­ la cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite”» (Discorso a conclusione della XIVAssemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi del 24/X/2015, cit. in Amoris laeti­ tia., 305).

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I PASSI DEL DISCERNERE

2. Abuso d’autorità (dal basso) Premetto che considero la cosa da un punto di vista psicologico, per ciò che significano o potrebbero signi­ ficare in particolare certe reazioni alla proposta papale, e non da un punto di vista morale o del contenuto del­ la norma in questione. È vero che i due piani - come sappiamo - non sono mai del tutto separabili, ma è anche vero che di solito non si dà importanza all’ana­ lisi del tipo di attesa prima e di reazione poi, ai suoi significati soggettivi un po’ nascosti (nascosti all’indi­ viduo stesso), o - quanto meno - si dà molto più valo­ re al senso puramente normativo-dottrinale, o oggetti­ vo, dell’argomento su cui si discute. Cos’ha fatto, dunque, in sostanza papa Bergoglio? S’è rifiutato d’esser lui a risolvere il problema in tutte le sue possibili e infinite forme (prevedendo ed elen­ cando tutte le eventuali e molteplici categorie d’irrego­ larità coniugale-familiare), ma s’è rivolto ai sacerdoti, in particolare, e a tutti coloro che operano nella rela­ zione d’aiuto in tali casi, chiedendo loro d’accompa­ gnare chi si trova in queste condizioni, per fare assieme a loro un cammino di discernimento e integrazione. In pratica il Papa ha responsabilizzato l’operatore pasto­ rale, che - per definizione - non è mai semplice ope­ ratore, ma credente che compie un ministero d’ascolto e guida, d’accoglienza e misericordia, di discernimen­ to e integrazione, appunto. E mai in funzione solo d’una norma, già stabilita e in base alla quale identificare

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quanto da essa si discosta, ma alla luce del vangelo o della buona novella della misericordia dell'Eterno, che eccede regolarmente la norma. Sarebbe stato certo più facile, per chi opera nel set­ tore, avere indicazioni precise dall’alto, precise perché avrebbero consentito di riconoscere i vari tipi di irre­ golarità e di riferire il singolo caso in questione alla corrispondente categoria d’appartenenza2. A questo punto sarebbe stato non solo facile, ma pressoché au­ tomatico applicare la norma prevista al singolo caso, in obbedienza alle indicazioni proposte dall’autorità su­ prema. E si sarebbe evitato, sempre nell’ottica di tale attesa, il rischio di valutazioni morali diverse, da ope­ ratore a operatore, creando confusione dottrinale e di­ sorientamento pastorale. In fondo proprio a questo serve l’autorità: a indicare norme morali vincolanti e uniformi, che poi ogni ope­ ratore pastorale applicherà lealmente - da bravo esecu­ tore - alla pratica della vita. Più o meno, di fatto, come un notaio. O almeno così ritenevano, e continuano a ritenere, coloro che chiedevano al Papa proprio questo tipo d’indicazioni. Nessun dubbio che in questa attesa-pretesa vi fosse una sincera e lodevole preoccupazione per dei valori 2 Ovviamente possono esser molte le varie configurazioni d’irregolarità con diversi gradi, poi, d’imputabilità morale. Irregolarità, ad esempio, legata al vin­ colo coniugale o pseudo-coniugale, alla situazione di separato o divorziato, di chi ha chiesto il divorzio o di chi l’ha subito, di chi ha tradito o di chi è stato tradito, alla presenza di figli da precedente unione o alla situazione di semplice convivenza, alla stabilità della nuova unione...

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morali e pure dottrinali. Il problema era ed è di come porsi dinanzi ad essi, e dunque la loro funzione non solo in assoluto, ma nella singola situazione concreta esistenziale, o il modo di vivere quei valori, che non può non esser connesso con la storia e la fatica delle persone che a quei valori aderiscono o hanno aderito, che vorrebbero viverli e non esserne considerati esclu­ si, ma potrebbero trovarsi a un certo punto nell’impos­ sibilità concreta di farlo appieno immediatamente. È chiaro che, per l’operatore, è molto più veloce sul piano del tempo, più semplice per quanto riguarda il dispendio d’energie, e più chiaro dal punto di vista della dottrina, la proclamazione del valore e la sua traduzione in una norma corrispondente che esclude (di fatto riconoscendo come immorale) quanto s’allon­ tani da essa, mentre è complesso e faticoso cercare e aiutare a cercare quelle vie lungo le quali ogni creden­ te, con tutto il proprio fardello di errori e contraddizio­ ni, è in ogni caso chiamato a fare un passo avanti, magari piccolo, qualsiasi sia il punto in cui si trova, nella direzione di ciò che è buono, a Dio gradito e perfetto, ben sapendo che quel passo è imperfetto, e lunga resta la via. La prima operazione è per natura sua definita (da un’autorità) e perciò definitiva e sicura (non sopporta alterazioni o eccezioni), senza grande coinvolgimento personale da parte dell’operatore nell’eventuale rela­ zione d’aiuto (quella norma non dipende da lui); la se­ conda chiede un lavoro sempre nuovo e il coraggio di

affrontare situazioni inedite che suppongono una ricer­ ca soggettiva, alla luce certo di valori oggettivi che dicano la verità della vita, ma anche segnata da un ri­ schio sempre possibile di errore, ancor più avvertito tra l’altro - quando si tratta d’aiutare qualcuno in que­ sta ricerca. In sostanza, nel primo atteggiamento pre­ vale il bisogno di sapere come agire e decidere, nel secondo c’è la disponibilità (o l’appello) ad accompa­ gnare altri nei sentieri a volte contorti della vita alla ricerca faticosa della verità e del bene dell’altro. Se dunque da un lato quell’attesa era comprensibile, dall’altro nascondeva forse la sottile pretesa di... cer­ care la via più sicura e meno complicata, la più sbriga­ tiva e semplice, magari chiedendo all’autorità (quella suprema addirittura) di definire quella norma in sé e nella sua traduzione-applicazione nelle molteplici si­ tuazioni irregolari coniugali, e dispensandosi in tal mo­ do dalla scomoda responsabilità della ricerca persona­ le. Senz’accorgersi del pericolo, in tal modo, di metter in atto un singolare “abuso d’autorità dal basso”, dalla base. In buona fede, certamente, ma finendo pur sempre col servirsi dell’autorità (o fame uso improprio) per esser certi del risultato, e non sobbarcarsi la fatica adul­ ta d’un cammino esposto a incertezze ed errori, e dun­ que dando un’interpretazione un po’ strumentale e in­ teressata del ruolo dell’autorità e dell’obbedienza. Viene infatti da chiedersi di fronte a tale lettura dell’atteggiamento obbedienziale: ma è vera obbedien­ za questa? È genuino atteggiamento adulto, tipico di

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chi ha imparato a “obbedire” non solo a una certa ca­ tegoria (i superiori), ma anche alla vita, alle ferite del­ la vita, ai segni dei tempi, agli altri, ai poveri, a chi è vulnerabile e soffre...3? Questa “obbedienza” esprime davvero responsabilità, com’è tipico della vera obbe­ dienza, con tutto il rischio ma pure la fiducia che im­ plica? O è invece dettata, almeno in parte, dalla paura di chi non vuol correre troppi rischi e confonde l’obbe­ dienza stessa con la rinuncia a farsi una propria idea e giudizio, ben motivati e radicati nel vangelo, certo, per comportarsi di conseguenza? E visto che il fenomeno è pure collettivo, è questa, e solo questa, l’obbedienza che il gregge dei fedeli deve ai propri pastori? Il vero obbediente è il semplice esecutore (“ditemi quel che devo fare”) o il credente che ha imparato a riconoscere l’Eterno nella brezza di vento leggera o nel profondo dell’abisso della fragilità umana ove egli stesso s’è cac­ ciato? A quale obbedienza siamo stati educati e stiamo educando? Di solito, quando si parla di abusi d’autorità s’inten­ de il processo di corruzione dell’autorità in potere da parte di chi sfrutta la propria posizione per opprimere il subalterno o chi è più debole. Non ci accorgiamo che altrettante volte l’abuso è all’incontrario, viene dal bas­ so, dicevamo prima, è - al di là della buona fede del

tipo “obbediente” - come manovra sottile e politically correct, per esibire spirito d’obbedienza all’esterno - in modo più o meno compiacente - e di fatto scaricare sull’autorità fatiche e incertezze d’un discernimento non semplice. Non dimentichiamo che uno può esser obbedientissimo all’autorità costituita, e molto disob­ bediente (o non ob-audiens) nei confronti della vita!

A. Amoris discretio

Torniamo all’atteggiamento di papa Francesco che forse mai come in questa situazione s’è visto esposto a interpretazioni animose e a volte fuorviami, nel senso che non sembravano e non sembrano cogliere il signi­ ficato esatto di quel che il Pontefice intendeva dire, lo spirito delle sue parole e delle sue indicazioni. Se andiamo oltre i contenuti della proposta o il suo versante squisitamente morale, per cogliere alcune di­ namiche psicologiche sottese a certe reazioni, indivi­ duali e di gruppo, alla proposta papale, forse scopriamo elementi interessanti. Papa Francesco, nel testo post-sinodale Amoris laetitia, compie un certo tipo di operazione, che possiamo sintetizzare in questi punti.

3 Obbedire qui nel senso etimologico di ob-audire, come atteggiamento del credente che in tutte le circostanze, con ogni persona, in ciascuna relazione e realtà della vita porta una mano all’orecchio per ascoltare quel Dio che parla o è presente in ogni circostanza, persona, relazione, realtà della vita.

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3.1. La persona prima della norma

Anzitutto il Papa non solo ha evitato di entrare nel ginepraio della casistica, a questo riguardo infinita, ma nemmeno s’è fermato all’aspetto puramente giuridicomorale della condotta da esaminare. Nella casistica la persona spesso scompare, e il giudizio sulla sua con­ dotta sembra prescindere dalla sua storia coi suoi drammi e il suo mistero e formularsi in base a criteri puramente comportamentali, o a un’appartenenza ca­ tegoriale (a quel tipo di persone o di coppie che han fatto quel tipo di scelte, anche se - magari - per moti­ vi del tutto diversi e in situazioni altrettanto diverse). Come un giudizio anonimo, che potrebbe esser appli­ cato a molti altri, a una persona senza volto né storia. Francesco, che coniuga con attenzione cordiale e istinto naturale ogni gesto e ogni parola del suo ma­ gistero con la logica della misericordia dell’Eterno, non può permettere questo anonimato che offende la dignità del singolo, e in nome di tale dignità chiede che chi vive in queste situazioni di crisi coniugale venga accompagnato individualmente nella Chiesa, anche se può trovarsi non in perfetta sintonia e comu­ nione con essa, lungo un cammino di discernimento, che a partire dall’ascolto della sua storia riesca a iden­ tificare il suo posto nella Chiesa. È la dignità sacra della persona che lo esige, è diritto d’ogni membro della Chiesa (o che si trova alla sua periferia) esser aiutato nel momento di fatica, è dovere d’ogni opera-

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tore pastorale, del presbitero in particolare, porre ogni attenzione perché nessuna pecora resti fuori dell’ovi­ le senza che alcuno la cerchi, ma venga accompagna­ ta al suo interno4.

3.2. Coscienza da formare, non da sostituire

Al tempo stesso il Papa propone un’immagine ben precisa del suo modo di concepire il primato petrino in questo caso: non come colui che detta gli ordini, ma colui che forma la coscienza e la rispetta, proprio per­ ché la coscienza dei fedeli sia secondo la sensibilità dello Spirito. Anzitutto la coscienza dei presbiteri, chia­ mati ad accompagnare chi si trova in difficoltà, e anche loro chiamati non a sostituirsi alla coscienza di chi chiede aiuto, ma a formare in se stessi quella sensibili­ tà tipica che consente di scegliere ciò che a Dio è gra­ dito. Come un passaggio di consegne: dall’autorità suprema ai suoi immediati rappresentanti, da essi al fedele qualsiasi. Ma è sempre la stessa logica: un’au­ torità che fa crescere l’altro, non quel potere che lo rende passivo e dipendente. Il credente che sta vivendo una difficoltà familiare va aiutato prima di tutto a formarsi una sensibilità evan­ gelica, che lo aiuti a discernere lui stesso la situazione

4 Nel prossimo capitolo parleremo, a tal riguardo, della “parrocchia dei non credenti”.

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e cogliere ciò che in quel preciso momento è gradito a Dio; non è semplicemente uno che deve obbedire a norme che gli piovano dall’alto5.

cercare con la propria umanità e sensibilità il volere dell’eterno, e di nuovo aiutare altri a farlo. Infine l’appello è rivolto alla responsabilità del pre­ sbitero, adulto nella fede cui è affidato un compito no­ tevole, quello di formare le coscienze (molto più e prim’ancora di quello di decidere a chi dare i sacramen­ ti semplicemente applicando norme), ruolo da interpre­ tare con cuore di pastore, non con il piglio severo del giudice; con la verità e delicatezza di chi conosce per esperienza la fragilità umana, non con «una morale fredda da scrivania»6.

3.3. Libertà responsabile, non dipendenza passiva Per questo va formato a una libertà responsabile, che è libertà scomoda e costringe a un serio cammino edu­ cativo. Ad alcuni è parsa una bestemmia, e invece in­ dica la vera maturità cristiana. Il discernimento, infatti, si rivela persino più esigente della norma, perché chie­ de di passare dalla logica legalistica del minimo indi­ spensabile a quella del massimo possibile, ma pure dai coniugi come ‘oggetto’ di pastorale familiare ai coniu­ gi ‘soggetto’ d’essa. Amoris laetitia è come un accorato e forte appello alla responsabilità in varie direzioni. Anzitutto alla re­ sponsabilità dell ’adulto, sul piano umano, come colui che corre il rischio di cercare con la sua testa la verità e decidere, come colui che non subisce la vita, e addi­ rittura può farsi carico dell’altro e del suo stesso cam­ mino di ricerca. Alla responsabilità del credente, che diventa adulto nella fede esattamente quando accetta di esporsi all’az­ zardo più rischioso della vita, come già menzionato:

5 II sacerdote è chiamato a formare le coscienze, «non a pretendere di sosti­ tuirle» (Amoris laetitia, 37).

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3.4. Accompagnare, discernere, integrare la fragilità della coppia e della famiglia Ecco allora la proposta, articolata attorno a tre verbi che ben conosciamo (almeno in teoria), ma la cui no­ vità è determinata anche dall’oggetto di questa opera­ zione pastorale, oggetto che forse non è del tutto scon­ tato. Si tratta di accompagnare, discernere e integrare la fragilità che c 'è nella famiglia e nei suoi membri. È un motivo in più per non accontentarsi di indicare delle norme, perché queste di solito vedono le fragilità come fattore negativo che appesantisce la situazione, e tendono dunque a neutralizzarle, o a superarle ed esclu­ derle, a giudicarle e condannarle. Si tratta invece di 6 Amoris laetitia, 312.

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fare un’operazione addirittura contemplativa: d’impa­ rare a riconoscere la fragilità come luogo in cui conti­ nua ad esser misteriosamente attiva la grazia che salva o il mistero stesso dell’Incarnazione, di quel Dio che va incontro all’uomo ove l’uomo stesso è finito, e non sta ad attenderlo ove dovrebbe arrivare. Per questo, co­ me dice ancora Francesco, se c’era e c’è qualcuno che avrebbe preferito «una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione... credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alle fragilità»7. Tale attenzione è espressa in tre verbi che indicano la specifica sensibilità del pastore, e che qui semplicemente enunciamo, per poi riprenderli più diffusamente (specie il discemere) più avanti.

visione dei problemi familiari quando il prete o chi fa l’accompagnamento ha l’umiltà di porsi accanto e ascoltare, di sospendere un attimo i propri giudizi, di cercare di capire la sofferenza sempre nascosta in que­ sti drammi, soffrendo assieme... Ha ragione Francesco: è una complicazione meravigliosa! Che magari mette in crisi anche una certa visione morale del problema, o ci fa comunque capire che occorre andare oltre quella visione.

a) Accompagnare

Gesù «aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantener­ ci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esi­ stenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente» 8. Come cambia, infatti, la

7 Ivi, 308 (corsivo mio). 8 Evangeli! Gaudium, 270, cit. in Amoris laetitia, 308.

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b) Discemere La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno, ma di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero. Pertanto, «sono da evitare giudizi che non ten­ gono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione»9. Il richiamo di Francesco è esplicito ed è inquietante. Purtroppo è possibile stabilire una relazione pastorale, che chiamiamo anche relazione d’aiuto, senza essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono...

9 XIV Assemblea Generale Ordinaria dei Sinodo dei Vescovi, Relatiofìnalìs del 24 ottobre 2015, 51; cit. in Amoris laetitia, 297.

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c) Integrare1011

«La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalem­ me in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione... Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipa­ re alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”»11. Per questo il sacerdote deve «ascoltare con affetto e serenità, con il desiderio sincero di entrare nel cuore del dramma delle persone e di comprendere il loro pun­ to di vista, per aiutarle a vivere meglio e a riconoscere il loro posto nella Chiesa»12. E lui stesso, allora, potrà contemplare quel che Dio compie nella fragilità umana!

3.5. Cambio dottrinale?

Dicevamo delle critiche, anche molto accese, la più grave delle quali rimprovera in sostanza a papa Fran­ cesco d’essere intervenuto sul contenuto dottrinale, 10 Abbiamo già indicato tale verbo come una delle attenzioni pedagogiche fondamentali per operare correttamente un discernimento (cfr. cap. 1, paragrafo 4.2c); nulla di strano che papa Francesco indichi tale atteggiamento come una delle disposizioni specifiche dell’operatore pastorale per aiutare le coppie in difficoltà a discernere. 11 Amoris laetitia, 296-297. Ivi, 312,

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modificandolo. Non entro nel merito della questione morale, dato che diverso è il mio approccio, ma faccio solo un paio d’osservazioni più dal mio versante.

a) Sensazione d’incompetenza

La reazione negativa degli addetti ai lavori (preti dunque in particolare, ma non solo) non è assolutamen­ te strana, ma più che comprensibile. In fondo sta a dire il senso di sorpresa dinanzi a una proposta in qualche modo inedita, o che comunque non va nel senso cui per lungo tempo si è stati abituati, quello della norma o, ancor prima, del principio morale codificato in leggi di comportamento che l’operatore pastorale deve sempli­ cemente applicare alla situazione concreta della perso­ na o della coppia in questione. Dobbiamo riconoscere che non abbiamo ricevuto questo tipo di formazione, e dunque ci viene diffìcile giudicare da noi stessi ciò che è giusto, perché, come dice con la solita acutezza Scalia: «Non siamo liberi,... perché è faticoso esserlo, perché abbiamo paura di sba­ gliare, perché ci hanno detto che è più sicuro e rassicu­ rante abbandonarci nelle braccia di Santa Romana Chiesa, perché da troppo tempo abbiamo terrore della responsabilità»13. E potremmo continuare: non giudi-

13 F. Scalia, «Perché non giudicate da voi stessi?», Presbyteri, 51 (2017), p. 321.

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chiamo noi stessi ciò che è giusto perché non abbiamo imparato ad assumere il discernimento come stile abi­ tuale del credente (figuriamoci se possiamo adottarlo come stile pastorale, per aiutare altri a discemere come chiede papa Francesco), perché “si crede e basta”, o è sufficiente e meno complicato esser obbedienti dato che... “chi obbedisce non sbaglia mai”14, perché è più semplice e comodo delegare scelte e giudizi al parere d’un leader o di persone carismatiche, perché permane ancora l’equivoco che giudicare da soli sia segno di presunzione, superbia, autonomia, sprovvedutezza..., e crei solo confusione, divisione, contestazione, e a volte persino dispersione e distruzione del tessuto re­ lazionale e comunitario...15. All’origine di questa reazione c’è dunque anche un problema di bassa stima di sé, che crea sensazione d’in­ capacità, d’incompetenza, di paura di non esser all’al­ tezza. Ma pure una non comprensione del senso vero del discernimento nella vita del credente.

sulla morale coniugale-familiare. È indubbio che l’ap­ proccio di questo Papa sia un approccio eminentemen­ te pastorale che mira a trasformare il “depositimi fidei” in un patrimonio di vita che cresce nel tempo. Ma, co­ me osserva giustamente Biemmi in una riflessione su Evangelii gaudium che possiamo applicare anche a Amoris laetitia, proprio in quanto veramente pastorale l ’approccio di Francesco è veramente dottrinale, «per­ ché è dottrinale nella fede cristiana solo ciò che è real­ mente pastorale, e che permette a tutti di esser raggiun­ ti dalla grazia della Pasqua... L’approccio pastorale alla fede, che implica l’assunzione della storia e della vita in tutta la sua complessità, salva la dottrina, le im­ pedisce di diventare una ideologia, le conferisce il suo senso salvifico profondo»16. Francesco, e tutto il suo magistero “pastorale”, in tal modo restituisce a Dio il nome con il quale si è rivelato, il misericordioso; ov­ vero restituisce vita a Dio e came tenera alla dottrina della Chiesa, riuscendo a tener uniti dogma e storia, dottrina e vita, vangelo ed esperienza umana, teologia e antropologia, fedeltà a Dio e all’uomo. E particolar­ mente, norma oggettiva e scelta soggettiva. Dobbiamo quindi riconoscere che le obiezioni di chi dice che papa Francesco tocca la dottrina sono legitti­ me, ma non nel senso da loro inteso. Egli interviene certamente sull’interpretazione autorevole della dottri-

b) “Carne tenera” L’altra osservazione è più sul versante dello stesso papa Francesco, accusato d’aver sovvertito la dottrina 14 E invece anche chi obbedisce può sbagliare se dice di sì solo o soprattutto per paura o per ossequio o per ottener vantaggi. 15 Cfr. A. Cencini, Dall’aurora io ti cerco. Evangelizzare la sensibilità per imparare a discernere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2018, p. 192.

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16 E. Biemmi, «Nella luce della pastoralità. Una lettura della Evangelii gau­ dium», Testimoni, 4 (2017), p. 44.

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na, ma proprio perché in tal modo la rende viva e vis­ suta nell’esistenza reale delle persone, le consente di dare ma pure ricevere senso da questa esistenza, la ren­ de sensibile, in particolare, ai tratti sofferti d’essa, la­ sciandosene interpellare e costringendola, in qualche modo, a cogliere ancor più profondamente il proprio senso salvifico e renderlo più evidente e vivibile. Non cambia indiscriminatamente la dottrina, ma la valoriz­ za appieno nel momento in cui la rende oggetto d’un discernimento laborioso, come un tesoro da scoprire da parte di chi la cerca con passione. Papa Francesco lo crede fermissimamente: «La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera17: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo»18.

accompagnare, discernere e integrare coppie in crisi da parte di operatori pastorali e preti, alla luce della teolo­ gia morale, ma ancor prima è problema di maturità ge­ nerale per questi ultimi, frutto d’un cammino persona­ le di discernimento dell’amore che salva e rende liberi, e che ora dà la libertà di accompagnare il cammino d’altri. Ma sempre alla luce di quel modo d’intendere la dottrina cristiana non come un pacchetto di leggi e precetti, ma come la persona viva di Gesù Cristo. O il problema è di nuovo e soprattutto quello di avere la sua stessa sensibilità. È solo questa che potrà metter in condizione di operare un discernimento e di educare a discemere, e di discernere l’amore che c’è nella vita, in ogni vita e ogni storia, in forza dell’amo­ re già ricevuto e in vista dell’amore cui ogni vita, sen­ za eccezioni e in ogni momento, può aprirsi: un amoris discretio. Lo stesso discernimento, per altro e come ben sap­ piamo, è questione di sensibilità: uno impara a sceglie­ re bene nella misura in cui impara a sentire e apprez­ zare dentro di sé ciò che a Dio è gradito, il vero, il bello e il buono. E questo passa attraverso un lavoro paziente e costante sulle singole sensibilità che sono chiamate in causa nel momento in cui il presbitero si fa accanto a una coppia in difficoltà, per discemere non tanto la decisione umana da prendere, quanto il lavoro divino della grazia. E siamo nuovamente nell'amoris discretio!

3.6. Amoris laetitia e amoris discretio

Il problema, allora, se questo è il senso profondo dell’appello contenuto in Amoris laetitia, non è solo della formazione “tecnica” d’una adeguata capacità di

17 L’espressione “carne tenera” contiene più connotazioni: è viva, non è im­ mobile, è permeabile alla vita umana, alle sue vicissitudini, alle sue sofferenze. In una parola è sensibile. 18 Francesco, Discorso al Convegno Ecclesiale Nazionale della CEI, Firenze, 10/XI/2015.

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Manteniamo sempre la medesima logica argomen­ tativa e passiamo ora all’applicazione dei principi pe­ dagogici appena visti alla dinamica del discernimento. Ribadisco quanto detto all’inizio circa la prospettiva specifica di questo libro: non intendo qui trattare il pro­ blema delle norme e dei principi morali in quanto tali, ma quello dell’atteggiamento interiore o delle sensibi­ lità con cui un operatore pastorale affronta problema­ tiche particolari, come quelle di chi, singoli e coppie, vivono in una situazione di irregolarità. Più in concreto, allora, si tratta ora d’indicare, atti­ vare e integrare quelle diverse sensibilità che da un lato entrano inevitabilmente in gioco nella relazione d’aiuto, mentre dall’altro devono esplicitamente esser oggetto d’attenzione e formazione nella guida. Per po­ terle poi attivare in chi è accompagnato. Se infatti non ci si deve sostituire alla coscienza altrui, è però preci­ puo compito della guida formare un’autentica coscien­ za, o una sensibilità morale e spirituale adeguata.

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Ovviamente incontreremo qualche sensibilità che abbiamo già visto all’opera nell’altro tipo di discerni­ mento (quello personale), ed è del tutto naturale. Ogni discernimento è unico non solo per le sensibilità che mette in movimento, ma per il rapporto che si stabilisce tra una sensibilità e l’altra.

tisicamente ove lui abita e riceve (magari su appunta­ mento), ma prende in qualche modo l’iniziativa. Non sto dicendo che il prete-pastore deve invadere e intromettersi in situazioni che esigono grande delica­ tezza e rispetto, ma che deve vigilare molto attentamen­ te sull’immagine che dà della Chiesa a chi vive in que­ ste situazioni irregolari. Molte volte, infatti, come ab­ biamo accennato agl’inizi del precedente capitolo, le persone hanno la sensazione di un non ascolto eccle­ siale, d’una indisponibilità da parte degli uomini di Chiesa a capire situazioni particolari, come sentissero su di sé un giudizio inesorabile e finale. Ecco, il pretepastore buono deve far di tutto per smentire questa im­ magine d’una Chiesa fatta di leggi e di dottori della legge, e proporre l’esperienza d’una Chiesa come casa sempre aperta in cui ognuno si senta accolto per cerca­ re e trovare il suo posto. Che non vuol dire certo assen­ za di norme o qualunquismo etico-morale, né strategia pastorale vagamente buonista, ma annuncio d’un Dio che è alla perenne ricerca dell’uomo, specie di chi è smarrito, che è il suo prediletto, e priorità dunque data all’uomo, perché nessuno si senta abbandonato, in qual­ siasi situazione esistenziale si trovi. E torniamo così al problema forse centrale in tutto ciò, che è tutt’altro che problema solo di disciplina ec­ clesiastica e norme comportamentali, il problema, cioè, del volto di Dio che annunciamo: Pastore bello e buo­ no, o autorità che controlla e giudica?

1. Sensibilità pastorale: «Il Buon Pastore lascia le 99 pecore nel recinto e va in cerca della pecora perduta» (Le 15,4)

L’aggettivo “pastorale” è classico e indica tutta una serie di attenzioni e atteggiamenti che sono tipici del pastore, del pastore buono, e che forse è superfluo ri­ cordare. Qui vorrei sottolineare solo un paio d’aspetti che mi sembrano meritare una considerazione partico­ lare nella formazione dell’autentico pastore.

1.1. Pastore bello e buono

Il pastore, stando a quanto dice il vangelo, o a come ce lo presenta Gesù, il Buon Pastore, come un misto di bellezza e bontà, non è colui che aspetta, ma prende l’iniziativa, s’accorge di chi si trova in situazioni com­ plesse, nota assenze, intuisce disagi, percepisce atte­ se... E agisce di conseguenza, non sta semplicemente ad aspettare che qualcuno abbia bisogno di lui o vada

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1.2. Parrocchia dei non credenti (e secondo annuncio)

Ciò che conta è esattamente la disposizione interio­ re, il cuore e la passione con cui il pastore segue queste persone: non le guarda di traverso, ma riesce a farle sentire parte della comunità, magari provocandole a dare comunque un loro apporto, o approfittando di cer­ ti momenti strategici della vita (la nascita d’un figlio, l’accesso ai sacramenti di qualche figlio, la perdita d’una persona cara, un fallimento esistenziale, una cri­ si relazionale, il senso di precarietà, una malattia se­ ria. ..) per riproporre verità forse mai interiorizzate né personalizzate profondamente, o troppo frettolosamen­ te messe da parte o dimenticate3, e che ora la vita po­ trebbe consentire di ascoltare e lasciar risuonare in modo diverso. La Chiesa non lascia sole le persone in queste situa­ zioni affidate alla loro coscienza, ma le accompagna approfittando d’ogni momento di possibile contatto, dando loro testimonianza in ogni caso della misericor­ dia di Dio e restando «attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità», come «una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada»4. È interessante quanto dice al riguardo lo scrittore e psichiatra V. Andreoli, proprio a partire dalla sua espe-

Certo, oggi il problema non è solo di coloro che av­ vertono e soffrono la loro eventuale situazione di irre­ golarità nei confronti della legge morale della Chiesa, ma di coloro che... non soffrono per niente tutto ciò, e sono tranquilli. Non è facile dire come agire, sul piano pastorale, in tali casi (che sono sempre più), ma è proprio con queste persone che si manifesta la sensibilità dell’autentico pa­ store. Il quale continua a considerarle parte del suo greg­ ge, non le ignora per il fatto che loro sembrano non essere interessate ad alcuna proposta della Chiesa, la sua pastorale non è solo di mantenimento delle posizioni raggiunte o di custodia esclusiva di quelli che sono tran­ quilli dentro all’ovile, non s’accontenta di ribadire il messaggio a coloro che già lo hanno accolto, non degna della sua parola e della sua opera solo i “regolari” o i buoni, ma getta il seme anche sulla strada o tra rovi e spine e sassi (cfr. Mt 13,1-23), e il suo sguardo oltre il recinto, proprio con la disposizione interiore del Buon Pastore che “lascia le 99 nel recinto e va in cerca della pecora perduta”1, poiché lui è il «Pastore di cento pe­ core, non di novantanove. Le vuole tutte»12. 1 È ormai interpretazione comune di questo passo del vangelo la lettura a numeri invertiti della proporzione indicata da Gesù, tra coloro che restano, che sarebbe uno solo, e coloro che si smarriscono, i restanti 99. Come dire: il pasto­ re odierno si ritrova in una situazione più complicata... Ancor più necessario, dunque, aver il cuore del Buon Pastore! 2 Amoris laetitia, 309.

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3 Sarebbe quello che E. Biemmi chiama “secondo annuncio” (cfr. E. Biemmi, Il secondo annuncio. La grazia di ricominciare, EDB, Bologna 2011). 4 Amoris laetitia, 308.

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rienza personale di individuo a suo tempo distante dal­ la Chiesa, critico anche severo nei suoi confronti, e pure sensibile a quel richiamo interiore che gli fa dire e chiedere alla Chiesa stessa di istituire una sorta di “parrocchia per i non credenti”, perché anche loro han­ no bisogno di spiritualità, di una guida, di parole di vita, di confronto personale, di punti di riferimento va­ loriali, di dubbi salutari su una certa presunzione del non credente, ma anche di speranza e di certezze, d’una casa ove sentirsi accolti coi loro problemi... Hanno bisogno, in definitiva, d’una relazione con chi con ani­ mo libero da interessi troppo soggettivi e “parrocchiali”, di proselitismo o di potere, che portano a escludere e fissare paletti, possa risvegliargli in cuore nostalgia di verità e coerenza di vita. Per esser più felice5. Se a qualcuno, allora, sembra eccessiva e impropria l’idea di parrocchia per o dei non credenti, non lo è per niente la sensibilità pastorale di chi si sente mandato soprattutto a cercare chi sembra essersi smarrito dietro una falsa immagine di Dio.

minate situazioni. Come appunto coloro che vivono una relazione irregolare, a livello coniugale-familiare.

2.1. Relazione come un dono

5 Sui tratti di tale parrocchia, ctr. A. Cencini, Prete e mondo d'oggi. Dal post-cristiano alpre-cristiano, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, pp. 138-150.

Il pastore dovrebbe sentire questa porzione di greg­ ge come quella più bisognosa di cure, e d’una medici­ na non generica e valida per tutti, ma calcolata di volta in volta secondo la situazione d’ognuno. Insomma, non è un’eccezione l’attenzione alle coppie irregolari, ed è attenzione che dovrebbe manifestarsi anzitutto nella cura con cui il pastore vive la relazione in genere con tutti e con tali persone in particolare, nell’interesse per­ sonale nei loro confronti, nella familiarità del rapporto che giunge fino all’amicizia, nel lasciarsi avvicinare e benvolere, nella condivisione di valori e interessi co­ muni (ad esempio il prete che si mostra valido educa­ tore di ragazzi riempiendo a volte un vuoto educativo lasciato dai genitori). Tutto ciò come un dono, indipendentemente da ogni interesse, come abbiamo detto, perché solo ciò che è donato gratuitamente abbatte eventuali difese e può far da premessa e aprire a una relazione che s’approfondi­ sce. E giunge piano piano a toccare la vita intera e ciò che le dà senso, non esclusa la situazione morale della persona e le sue scelte di vita. Ponendole di fronte alla domanda che non lascia scampo e che ogni essere uma­ no inevitabilmente si pone: “Ma io sono felice? Queste

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2. Sensibilità relazionale: «Un Samaritano... vide e ne ebbe compassione» (Le 10,33)

La prima espressione del cuore del pastore è l’atten­ zione all’altro, particolarmente a chi si trova in deter­

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scelte hanno dato e stanno dando senso e gioia ai miei giorni? Le ripeterei?”. Non è difficile che la relazione raggiunga questi li­ velli; o quanto meno possiamo dire che la persona che vive determinati problemi sente addirittura l’esigenza di affrontarli con chi le ha dimostrato sincerità e sim­ patia, stima e affetto.

chiede aiuto è la persona più importante per lui in quel momento, più importante anche dei suoi interessi. E l’altro lo sente. Sente soprattutto di esser compreso nel­ la sua particolare difficoltà e sofferenza, prim’ancora d’esser giudicato per la sua condotta, e di esser guar­ dato con occhio buono e pieno di misericordia. Da chi per primo l’ha sperimentata nella propria vita, e proprio per questo la può manifestare con naturalezza e since­ rità, senza sufficienza o quella malintesa compassione che umilia e offende. Per questo papa Francesco ci ricorda che «siamo chiamati a vivere di misericordia»6, non solo a metter­ la in atto in circostanze particolari, poiché essa è il «cuore pulsante del Vangelo»7, e «l’architrave che sor­ regge la vita della Chiesa»8; e ci raccomanda di non porla sottilmente e falsamente in contrasto con la giu­ stizia, poiché al contrario «la misericordia è la pienez­ za della giustizia e la manifestazione più luminosa del­ la verità di Dio»9. Se il Buon Pastore è il modello d’ogni sensibilità pastorale, il Buon Samaritano, icona d’un cuore mise­ ricordioso, lo è per chi vuole imparare la sensibilità relazionale. E suscita molta inquietudine pensare che Gesù abbia usato la figura del prete e dell’addetto al culto per darci l’esempio in negativo, l’immagine tri-

2.2. Relazione come sguardo misericordioso Il prete deve capire, per altro, che non ha alcun di­ ritto di pretendere l’apertura e confidenza altrui, né di esser considerato necessariamente il consigliere o la guida, l’amico o il saggio, e tanto meno il giudice che dirime questioni ed emette sentenze. Né la cosiddetta “grazia di stato” né il ruolo istituzionale vanno intesi in senso magico, come funzionassero automaticamen­ te. Egli deve guadagnarsi sul campo credito e fiducia. Che l’altro non riconosce a tutti gli appartenenti alla categoria, ma solo a chi di fatto gli dà comprensione, e ancor più concretamente gli dà pure il proprio tempo e intuisce una richiesta d’aiuto, per quanto implicita; o a chi prende sul serio problemi e sofferenze altrui, e in­ terrompe altre cose e attività personali quando è dinan­ zi a chi ha bisogno di lui; a chi è capace di vero ascol­ to, e mette l’altro al centro della sua attenzione nel colloquio, al punto d’esser totalmente lì, dinanzi a lui, senz’alcuna distrazione o... connessione, poiché chi gli

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6 Misericordiae vultus, 12. 7 Ibidem. 8 Evangelii gaudium, 47. 9 Amoris laetitia, 311.

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stissima del prete freddo e anemotivo, che guarda il poveraccio e non sente nulla, e tira dritto per andare a celebrare un culto che non potrà mai esser gradito a Dio...

ché rispetta e mantiene la diversità di giudizio; non è semplice trasmissione di calore o dolcezza né solo ac­ coglienza incondizionata, perché l’empatia vuole of­ frirsi anche come luogo e strumento di trasformazione. Empatia è semmai un tentativo di mettersi al posto dell’altro per leggere gli eventi del suo vissuto dal suo punto di vista, dunque come lui li percepisce, vive e soffre. In tal senso empatia è solidarietà, anche se per­ mane neutrale e indipendente rispetto a ogni scelta di campo e di valore. È dare spazio in noi al sentire dell’altro, lasciare che quel sentire prenda dimora nel­ la nostra casa per poterlo trattare, contenere e forse sanare; fino a quando l’altro si dimostrerà pronto a ri­ prenderlo, a sua volta, in casa sua come cosa che gli appartiene e con cui è possibile convivere, ma che a un certo punto può decidere di cambiare. Per questo Fran­ cesco invita «i pastori ad ascoltare con affetto e sereni­ tà, con il desiderio sincero di entrare nel cuore del dramma delle persone e di comprendere il loro punto di vista»11. D’altro canto empatia è sintonizzarsi senza farsi con­ tagiare, è entrare nella vita dell’altro per poi ritornare nella propria, partecipare senza possedere, condividere senza condizionare. Può enfatizzare solo chi ha un solido senso del proprio io e non fa dipendere la propria stima dall’accettazione altrui.

3. Sensibilità empatica: «...diventando simile agli uomini» (Fil 2,7)

Stiamo entrando sempre più nel contesto dell’incon­ tro personale, del rapporto diretto, ove l’altro s’apre e si confida. È qui che l’operatore pastorale è chiamato ad assumere un certo tipo d’atteggiamento, qualcosa che non è così spontaneo e naturale, e che suppone un serio cammino di conversione della propria sensibilità. Si tratta dell’empatia, quale caratteristica della sen­ sibilità di chi vuole accompagnare e aiutare un altro a fare la verità nella sua vita. Qualità che va comunque intesa correttamente10* .

3.1. Con gli occhi e la sensibilità dell’altro

Empatia non è simpatia né si riduce a tecnica, poiché implica un coinvolgimento di tutto l’essere; non è fu­ sione né annullamento delle differenze con l’altro, poi­

10 Nella riflessione che segue mi sono ispirato al pregevole studio di R. Capitanio, «Con empatia», Tre Dimensioni, 1 (2010), pp. 8-16.

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11 Amorìs laetitia, 312.

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3.2. Sospensione del giudizio personale Di conseguenza provare empatia significa una ope­ razione, o una non operazione, che non viene per nien­ te naturale a un certo tipo di presbitero, abituato a va­ lutare, giudicare, riconoscere e condannare errori, ov­ vero la sospensione del proprio giudizio. Particolar­ mente nella fase iniziale del rapporto. Verrà certo il momento in cui dovrà esprimere una certa valutazione, ma deve stare molto attento a non anticipare tale mo­ mento. E non solo perché questo avrebbe come effetto il blocco della comunicazione e l’altro si sentirebbe non sufficientemente ascoltato e trattato sbrigativamente, come un caso tra tanti e simile a tanti altri, ma perché egli stesso - l’operatore pastorale - non ha ancora tut­ ti gli elementi per giungere a una valutazione. L’empa­ tia consente di raccogliere tutti i fattori che entrano in gioco lasciando in stand-by, per così dire, un giudizio morale che ancora sarebbe prematuro e dunque proba­ bilmente non rispondente a tutta la verità12. D’altronde per dialogare con una persona occorre partire da dove essa si trova, in tal caso dalla sua si­ tuazione d’irregolarità, come per altro Dio stesso ha

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fatto con l’umanità intera attraverso la sua incarnazio­ ne, e come continua a fare con ciascuno di noi, altri­ menti l’aggancio non avviene. Partire da dove essa si trova significa sintonizzarsi sulla sua sensibilità, usa­ re un tipo di comunicazione che sia da lei comprensi­ bile, percepire il suo modo abituale di sentire, di pen­ sare e reagire alla vita, cercando il più possibile d’inter­ cettare il suo stile di personalità, proprio per com­ prenderla meglio. È solo a questo punto che l’altro non solo si sente ascoltato e non giudicato, ma recupera sicurezza, indi­ vidua ed esprime in modo più preciso i propri stati emotivi, riesce a cogliere nuovi aspetti di sé. E si sente incoraggiato a continuare nell’aprirsi e raccontarsi.

3.3. Libertà di cambiare e discernere

12 Per il Catechismo della Chiesa Cattolica «l’imputabilità e la responsabili­ tà di un’azione possono essere diminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inav­ vertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali» (n. 1735), E ancora, in altro passo, sono considerate situazioni attenuanti la responsabilità morale: «l’immaturità affettiva, la forza delle abitudini contratte, lo stato di angoscia o altri fattori psichici o sociali» (n. 2352), Entrambi questi brani sono citati in Amoris laetitia, 302.

L’ascolto empatico è dunque gesto totalmente altru­ istico e relazionale: cuore dell’empatia, infatti, è l’altro, ciò che egli è, ciò che egli vive. L’atto empatico è com­ piuto sì dall’io, dal mio io, ma mi porta oltre me stesso, a riconoscere il mio simile nella sua alterità, anzi a fare mio un vissuto che rimane inequivocabilmente dell’altro, a vivere intimamente e forse con intensità qualcosa che comunque non mi appartiene: è la sua gioia, è il suo dolore. E io mi accosto a lui perché si senta capito, e non per affermare la mia capacità di giudizio o per essere rico-

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nosciuto nella mia capacità di partecipare al vissuto altrui, o di attivare nell’altro processi di cambio. In realtà nella vera empatia non è solo l’altro che è compreso e magari cambia, ma è chi ascolta empaticamente che vive un’esperienza di trasformazione di sé. L’empatia, infatti, provoca una sorta di dilatazione del­ la propria identità, oltre i propri soliti confini, oltre le vie battute abitualmente, magari oltre anche la propria esperienza di Dio. Lasciando risuonare dentro di sé un’esperienza altra, la stessa interiorità della persona empatica può approfondirsi. E comprendere realtà pri­ ma viste solo da lontano. E forse proprio questo è il vero senso del cristiano “farsi prossimo”, così prossimo da lasciare che l’empa­ tia allarghi gli orizzonti della mia esperienza. 0 da con­ sentire che esperienze che mi erano ignote mi possano dischiudere un frammento di umanità cui ero estraneo e farmi conoscere tratti di umanità che si nascondono nel sentire altrui, anche nelle situazioni di coppie irre­ golari, ove spesso un bene vero e tenace, per quanto sottile e imperfetto, continua ad esser misteriosamente frammisto al suo contrario, è come cresciuto assieme ad esso e forse è di esso più forte o lo potrebbe diven­ tare. Ma senz’altro sarebbe ingiusto ignorarlo, o - come racconta la parabola della zizzania (cfr. Mt 13,24-30) - pretendere di condannare e distruggere tutto. Al contrario, in tal modo chi accompagna anzitutto disceme quel bene e inizia a discemere pure il modo di promuoverlo e farlo crescere.

È l’empatia che consente questo inizio di discerni­ mento.

In genere sappiamo bene che il problema, in questi casi, è metter insieme la norma con la vita, o l’indica­ zione canonica con il vissuto delle persone in questione. Così come sappiamo che chi si trova in una situazione irregolare, sul piano coniugale o familiare, di solito è passato attraverso un’esperienza di incomprensioni e fatiche relazionali, di disagi anche gravi; insomma, di sofferenza. Non è sempre facile coniugare la norma, che per natura sua è generale e riguarda tutti (pur mirando al bene dell’individuo), con il vissuto assolutamente unico e complesso della singola persona in questione.

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4. Sensibilità attenta al dolore: «Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli» (Sai 56,9)

C’è un altro passaggio fondamentale nel cammino di accompagnamento di persone in difficoltà. È un pas­ saggio che non richiede solo una certa competenza e abilità, ma un preciso atteggiamento spirituale, frutto d’una altrettanto precisa esperienza di Dio fatta da chi ora è compagno e guida nel cammino. Tale atteggia­ mento è alla base della capacità relazionale.

4.1. La priorità alla sofferenza dell ’altro

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Ebbene, c’è un’espressione di Bonhoeffer, uomo e martire dalla sensibilità tanto umana quanto cristiana, che offre un’indicazione precisa: per comprendere e valutare anche sul piano morale le persone «dobbiamo imparare a valutare gli uomini più per quello che sof­ frono che per quello che fanno o non fanno»13. Ecco perché è indispensabile un cammino d’accompagna­ mento, perché solo all’interno d’esso è possibile quel tipo d’attenzione e comprensione che consente d’arri­ vare al cuore dolente. Operazione che invece è molto difficile se si procede a suon di indicazioni normative e canoniche. Non che l’una modalità escluda l’altra, ma nell’essere umano c’è come una priorità da rispettare, se si vuole davvero giungere a capire anche la portata morale del gesto. L’attenzione esplicitamente manifesta alla sofferenza dell’altro non derubrica né attenua la connotazione morale delle sue azioni, ma consente al contrario di comprenderla più profondamente, collo­ cando quei gesti nel loro contesto naturale, che è il vissuto reale della persona, l’unico che può svelarne il vero senso sul piano soggettivo. Ed è solo così, in ogni caso, che nasce e s’affina la genuina sensibilità morale dell’operatore pastorale, bi­

lanciando o addirittura invertendo una tendenza oppo­ sta, che ci rende attenti soprattutto o quasi esclusivamente al dato oggettivo, ai comportamenti e alle tra­ sgressioni, e poco accorti nei confronti di quel che la persona ha sofferto e sta continuando a soffrire, a volte persino senza tenere in alcun conto tale sofferenza, co­ me fosse irrilevante per capire la persona e la dimen­ sione morale del suo agire14. Un certo tipo di morale, pur in sé corretta e certo in buona fede, può rendere in realtà superficiali nell’approccio all’umanità dell’altro e al suo dolore. Al contrario è proprio questa attenzio­ ne globale alla persona che consente di distinguere il giudizio sulla situazione da quello sulla persona stessa: «Un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevo­ lezza della persona coinvolta»15. È in definitiva il prin­ cipio psicologico della amabilità incondizionata e ra­ dicale d’ogni essere umano, che può esser meno ama­ bile e degno di stima per quello che fa, ma è sempre degno d’esser amato e stimato per quello che è16. Chi vuole risollevare l’altro da una situazione esistenziale

13 D. Bonhoeffer, «Dieci anni dopo. Un bilancio sul limitare del 1943», in Resistenza e resa. Lettere ed altri scritti dal carcere, Queriniana, Brescia 1988, p. 66. Ho citato questa frase nella precedente pubblicazione parlando della for­ mazione dei sentimenti in colui che accompagna il cammino di altri verso la maturità umana e cristiana, ma mi sembra molto pertinente anche in questo con­ testo (cfr. A. Cencini, Dall'aurora io ti cerco. Evangelizzare la sensibilità per imparare a discernere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2018, pp. 116-117).

14 Sempre nella logica di papa Francesco, rigoristi e lassisti hanno un unico difetto che è quello di non cogliere la persona, di non rispettarla. Solo l’atteggia­ mento di misericordia può rispettare la persona e consentire di conoscerla (cfr. Discorso del Santo Padre Francesco ai Parroci di Roma, 6/III/2014, 3; cfr. anche Amoris laetitia, 296-297.308-310.311). 15 Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Dichiarazione sull 'ammissibi­ lità alla Comunione dei divorziati risposati (24/VI/2000), cit. in Amoris laetitia, 302. 16 Vedi l’atteggiamento di Gesù coi peccatori, con l’adultera in particolare (cfr. Gv 8,1-11; su questo, cfr. A. Cencini - A .Manenti, Psicologia e Formazio­ ne. Strutture e dinamismi, EDB, Bologna 2018, pp. 178-180).

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complicata e pure negativa deve esser capace di tra­ smettere questo messaggio positivo. Parte di tale mes­ saggio è anche l’attenzione alla sofferenza altrui, sem­ pre degna d’essere ascoltata e compresa. In realtà la sofferenza è un’emozione o un sentimen­ to; è ovvio che chi non ha familiarità con essa, e dun­ que nemmeno con la propria sensibilità, e non ha im­ parato a decifrare il dolore che prova per coglierne radici e significato soggettivo, vivendolo davanti a Dio e integrandolo, proverà lo stesso disagio e la medesima indifferenza o noncuranza nei confronti della sofferen­ za altrui.

mentale dei fatti mostra interesse e attenzione sincera a quel che la persona stessa ha patito (magari anche per causa sua, sia chiaro), ebbene, tale evento diventa qual­ cosa... d’imprevisto con effetto disarmante: di fatto è un vero e proprio annuncio evangelico per tale persona, annuncio d’un volto di Dio probabilmente inedito nel­ la sua vita, e che ora si manifesta nel volto di chi le sta davanti, in una Chiesa forse mai conosciuta prima. Non solo è nuova esperienza, ma nuova rivelazione, come una teofania. È quel che succede, dalla parte del prete, quando davvero impara a staccarsi da una certa interpretazione del proprio ruolo presbiterale (spesso contaminato da clericalismo e moralismo), e s’impegna invece ad ave­ re i sentimenti del Figlio, che si commuove per Geru­ salemme, che non condanna l’adultera, che ascolta la Samaritana raccontarle la sua complicatissima storia piena di amori (sbagliati) e vuota di amore (vero), che si lascia persino convertire dal dolore della mamma cananea per la figlia malata17, che accoglie il grido do-

4.2. «Ho udito il gemito del mio popolo..., conosco le sue sofferenze» (Es 3,7) Una cosa comunque è certa: chi viene per racconta­ re la propria storia di conflitti e scelte che possono es­ ser andate oltre la norma, di solito è consapevole di questo, sa bene di aver agito non proprio secondo le regole della Chiesa, forse se ne vergogna e prova un certo imbarazzo, e s’aspetta quanto meno un richiamo o un giudizio, o si prepara a subire un interrogatorio attrezzandosi per difendersi e reggere il confronto. In­ somma, ha una certa immagine della Chiesa e dei suoi rappresentanti, e ancor prima di Dio. Il trovarsi dinan­ zi a un sacerdote o a un operatore pastorale che invece di passare subito alla valutazione morale-comporta­

17 Mi sembra molto suggestiva, in tal senso (anche se il contesto è diverso), l’interpretazione del monaco di Bose Goffredo Boselli del brano della cananea che non accoglie di buon grado il rifiuto d’intervenire per la figlia malata da parte del Signore («non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele», Mt 15,24). Tale donna pagana «costringe Gesù a fermarsi..., si frappone tra Dio che lo ha inviato e i figli d’Israele che ne sono i destinatari. Gesù ora l’ha davanti a sé, inginocchiata a terra e lei che lo obbliga a fare i conti con il suo volto, a guardare una madre negli occhi pieni di sofferenza vera che lo supplicano: “Aiutami!”. Ecco l’elementare della vita che si scontra con la dottrina religiosa: una madre chiede aiuto per sua figlia malata». Tale donna non contesta l’affermazione di Gesù Messia d’Israele, ma replica con quella passione che viene dal dolore d’una madre per la figlia: “È vero, Signore, eppure...”.

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loroso di Bartimeo mentre la gente fa muro al suo gri­ do e i discepoli vorrebbero zittirlo (cfr. Me 10,46-52)18, che rivela quel Padre che ode il gemito della sua gente e si commuove19... Quando ciò accade è come se il colloquio avesse già raggiunto un duplice obiettivo. Il primo, a livello uma­ no, è un obiettivo terapeutico: nell’istante in cui chi soffre incontra qualcuno che non sfugge al suo dolore, non lo teme ma se ne lascia toccare e lui stesso lo toc­ ca pietosamente, in quel momento avviene una certa guarigione o, quanto meno, inizia un certo processo terapeutico che rafforza la persona e le consente di non vergognarsi di sé e del proprio dolore20. Il secondo obiettivo è più essenziale e pastorale, e sembra andare

oltre quello che era il motivo ufficiale iniziale di questo tipo d’incontri, ovvero il tentativo di chiarire la posi­ zione morale e canonica della persona in crisi coniuga­ le, con tutte le implicanze per quanto riguarda accesso ai sacramenti ecc. Tale motivazione è in qualche modo superata, a questo punto, poiché l’incontro finisce per diventare vera e propria evangelizzazione, annuncio del cuore dell’Eterno, scoperta sorprendente della sua te­ nerezza. Per quelle persone che hanno smarrito il primo annuncio tale esperienza con un prete ricco di questa sensibilità attenta al dolore potrebbe diventare una sor­ ta di secondo annuncio21!

5. Sensibilità spirituale: «Dio chiamò l'uomo: “Dove sei?”» (Gen 3,9)

Commenta ancora fr. Goffredo: «La donna cananea e il suo dolore di madre sono questo “eppure” fatto persona. Un “eppure” che sta sempre a noi saper ri­ conoscere e declinare in tutte quelle situazioni nelle quali la dottrina cristiana si scontra con il dolore autentico delle persone. Quelle situazioni nelle quali l’ele­ mentare della vita sembra contraddire quella che si ritiene essere la volontà di Dio. Ogni dottrina religiosa e ogni sistema di pensiero devono sapersi fermare di fronte alla sofferenza umana, alla realtà della vita e alla sua drammaticità. Dovunque sarà predicato il Vangelo si ricorderà di questa madre cananea, per tutti memoria che anche ogni dottrina cristiana ha un suo “eppure”» (Fr. Goffre­ do Boselli, Commento alla liturgia del giorno [Mt 15,21-28], Monastero di Bo­ se 10/VIII/2018, corsivo mio). 18 Terribile pensare che davanti a Dio la sofferenza sia fuori luogo, o che il dolore possa disturbare, e che dunque sia messo a tacere! 19 In tal senso, pensando agli scandali sessuali da parte di uomini di Chiesa, che tristezza pensare a una Chiesa, com’era nel passato, più preoccupata di pro­ teggere la buona stima dei suoi preti (e di se stessa in ultima analisi) che non di comprendere la sofferenza delle (loro) vittime (cui veniva sbrigativamente chie­ sto di perdonare e tacere, di dimenticare e cancellare tutto)! Quanto vangelo c’è in una Chiesa così? 20 Su questa solidarietà nel dolore offre suggestioni molto toccanti H. Nouwen, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo. I tre movimenti della vita spirituale, Queriniana, Brescia 2016, pp. 54-55.

Gli incontri con coppie irregolari e, più in generale, la pastorale dei divorziati, separati ecc., spesso sono catalogati non come pastorale ordinaria, ma straordi­ naria, anche perché richiedono una notevole competen­ za su vari piani, da quello psicologico a quello giuridi­ co, e non tutti possiedono la preparazione adeguata. Anzi, forse nemmeno ci tengono particolarmente a ope­ rare in questo settore specifico, volentieri delegato so­ lo ad alcuni. Tutto ciò, o l’esigenza d’una attenzione e abilitazione particolare, è di certo vero, ma non deve

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21 Cfr. paragrafo 1,2 di questo capitolo.

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fare dimenticare in nessun momento dell’operazione in corso che ci troviamo in un contesto esplicitamente o implicitamente credente, che tutto questo dunque fa parte d’un cammino di fede, ove la prima “competen­ za” richiesta a chi accompagna il cammino faticoso d’un altro è proprio la maturità della fede e dell’espe­ rienza di Dio. O quanto potremmo chiamare “sensibi­ lità spirituale”.

nonostante fin dagl’inizi della storia dell’umanità Dio non faccia che cercare dappertutto l’uomo che fugge da lui. Ecco perché questi incontri si possono trasformare in tappe d’un cammino di fede, e di fede nuova, libera da quei pregiudizi e squisitamente evangelica. Grazie alla maturità di fede di chi accompagna, che dovrebbe aver fatto in prima persona l’esperienza di questa pre­ senza di Dio nella debolezza della propria storia, e do­ vrebbe dunque accompagnare l’altro lungo la medesi­ ma esperienza, che costituisce poi la vera ricchezza d’un credente. Come dice papa Francesco: «Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio»22. La presenza in noi di Dio non si fa riconoscere solo in una vita perfetta o convertita, ma si serve anche di quella non perfetta né ancora convertita, abita e parla in essa. Per questo, Dio non solo ci viene incontro lad­ dove noi ci troviamo e siamo andati colpevolmente a finire, ma è vivo e operante anche in un’esistenza pla-

5.1. Dio in cerca dell’uomo Il discernimento parte male, col piede sbagliato, quando l’obiettivo esplicitamente inteso consiste nello scoprire quel che uno deve fare. Lo scopo primo del discernere, infatti, come sappiamo bene, non è tanto quel che l’uomo è chiamato a scegliere, ma quel che Dio sta facendo nella sua vita. Anche nella vita di chi sta vivendo una situazione dolorosa e complessa, attra­ versata da trasgressioni e comportamenti inadeguati. Certamente non è spontaneo per chi si trova a dover fare i conti con la propria vita e si ritrova dinanzi i propri errori, con più o meno grandi sensi di colpa, pensare alla presenza di Dio dentro quella storia e tan­ to meno dentro quegli stessi sbagli. Ci viene più facile e naturale ritenere la presenza del divino come una sor­ ta di premio per i buoni, o come qualcosa, comunque, che può abitare e rendersi visibile solo in uno spazio pulito e incorrotto. Così siamo stati abituati a pensare,

22 A. Spadaro, «Intervista a papa Francesco», La Civiltà Cattolica, III-3918 (2013), p. 470.

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smata dal soggetto in modo disordinato, si fa sentire attraverso un certo disagio interiore, ad esempio, o nel dolore per un fallimento relazionale, o con la sensazio­ ne d’un desiderio non appagato, o impedendo che av­ venga di peggio, o insinuando nell’individuo il sospet­ to che ci sia dell’altro di più bello rispetto a ciò che egli sta attuando, cercando, pensando, sostenendo. Potrem­ mo dire che Dio usa quel che trova nell’uomo, e che l’uomo stesso ha determinato con le proprie scelte, ma lasciandovi tracce di Sé, che tocca ancora all’uomo de­ cifrare. Normalmente questo sorprende e scuote chi è venu­ to a raccontare i propri guai e, proprio per questo, come dicevamo nel punto precedente, si predispone già a su­ bire un giudizio non positivo o s’aspetta un rimprovero, o si prepara a difendersi e contrattaccare. Ma qui, da un lato, non c’è nessun contraddittorio da sostenere per far valere le proprie ragioni, mentre - d’altro canto ora la persona non si trova più solo dinanzi a un suo simile che manifesta empatia e solidarietà col suo do­ lore, ma è sorprendentemente invitata a riconoscere la presenza e l’azione di Dio, che non l’ha abbandonata in quella sua storia contorta, che non s’è dimenticato di lei nemmeno quando lei s’è dimenticata di lui, ma l’ha protetta e custodita senza che lei se n’accorgesse o glielo chiedesse. E tutto ciò in un modo che solo la persona stessa può scoprire rileggendo con occhio to­ talmente diverso la propria storia, ovvero, non più dal punto di vista di ciò che ella ha fatto, con conseguente

senso di colpa verso di sé e rabbia verso gli altri, ma dal punto di vista di Dio, dei suoi passi verso di lei, con la fiducia che ne segue. Tutto questo determina come un ribaltamento-rove­ sciamento di posizioni e di atteggiamento personale decisivi per un discernimento finale: dall’atteggiamen­ to negativo verso se stesso di chi è più o meno consa­ pevole dei propri errori, o li teme o non vuole scoprirli, all’invito positivo a discemere la tenerezza dell’Eterno dentro la propria storia e dentro quegli stessi errori. Non è forse segno di fede adulta imparare a riconoscere Dio anche nelle nostre debolezze e fragilità, e lo spirituale nelle nostre dissonanze psicologiche? Passando dunque da un Dio conosciuto per sentito dire a un Dio visto e riconosciuto dentro la propria vita; da un’immagine di Dio del tutto spirituale e astratta a un’immagine di lui quanto mai vicina e concreta, fatta carne nella propria carne; da un Dio ottenuto... in premio, grazie ai propri meriti, a un Dio scandalosamente gratuito; da una fede speculativa e astorica a una fede profondamente incar­ nata nella vicenda umana. Che diventa a questo punto luogo della propria storia sacra. Che meraviglia!

Che Dio cerchi l’uomo... dipende da Dio, ed è co­ munque verità costantemente ribadita dai testi biblici e dalla riflessione teologica, ma pure dalla tradizione spi­

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5.2. L’uomo in cerca di Dio

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rituale e dalla testimonianza dei santi; ma che anche l’uomo si metta alla ricerca di Dio o sia in stato di pe­ renne sua ricerca, questo dipende dall’uomo, e appare meno evidente non solo all’uomo qualsiasi ma forse perfino al credente. Tanto meno lo appare alla persona che ha avuto un passato diffìcile, alla cui attenzione, semmai, balzano più evidenti i propri errori. Eppure l’uomo non può non cercare Dio, non può fame a me­ no, anche se non lo sa. E rende manifesta tale tensione, tra apertura al trascendente e gratificazione puramente impulsiva, in tanti modi anche contrapposti: con im­ provvise luci o inquietudini23, intuizioni o insoddisfa­ zioni, attese o pretese che magari possono divenire conflittuali24... E che trovano l’ultima spiegazione nel fatto che «l’uomo, fatto per l’infinito, è infinitamente insoddisfatto»25. Ecco perché la sensibilità spirituale dell’accompa­ gnatore può e deve provocare l’altro a guardare la pro­ pria vita anche dal punto di vista di tutto ciò che egli ha fatto per rispondere a questa tensione più o meno inconscia (che in fondo è una ricerca d’amore che ri­ sponde a quella di Dio verso di lui).

Abbiamo un esempio di questo incontro nel dialogo di Gesù con la Samaritana al pozzo (cfr. Gv 4,5-30). Questa donna, che va ogni dì ad attingere faticosamen­ te acqua (e sembra accontentarsi di appagare la sete fisiologica senza fatica) e che ha stabilito una sorta di record di collezione di mariti (5+1, situazione irrego­ lare ante litteram), non sta forse a dire tale ricerca dav­ vero insaziabile? Il cercare amore non è pur sempre cercare Dio? Anche quando la persona è lontanissima dal pensarlo, o la sua ricerca prende strade sbagliate, o è contraddetta dal proprio agire incoerente o genera frustrazione... Ma come cambia la lettura della vita e quanto s’ar­ ricchisce la conoscenza di sé quando è illuminata da questa scoperta26! Non è che in tal modo sparisca la coscienza della responsabilità morale, al contrario; semmai nasce o ri-

23 Basti pensare a quella di Agostino (cfr. Confessioni, 1,1)1 24 Come può essere una sensazione di gelosia, che sappiamo all'origine di chissà quanti conflitti relazionali e rotture coniugali: la gelosia è l’espressione abnorme d’una profonda verità del cuore umano, il quale desidera un amore grande, senza limiti e confini, per sempre e così sicuro che nessuno glielo potrà sottrarre. Ovvero la gelosia rivela il mistero del cuore umano. 25 S. Fausti, Occasione o tentazione? Arte di discernere e decidere, Ancora, Milano 1997, p. 25.

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26 Tutto il colloquio di Gesù con questa donna è un’illuminante proposta pedagogica per noi. Il Maestro anzitutto cerca tale donna, e la incontra mentre ella stessa cerca qualcosa d’importante per la sua vita; le fa comprendere cosa davvero ella stia cercando, oltre l’acqua necessaria per vivere, e glielo fa deside­ rare («Dammi quest’acqua», 15); non le rimprovera il passato trasgressivo, ma semmai le fa notare due cose: il suo non sapere (che la porta a adorare quel che non conosce, cfr. 22) e il suo illudersi di poter saziare quella sete in modo super­ ficiale (moltiplicando i mariti), senza riconoscerne la radice profonda. La con­ duce così ad ammettere la verità, una verità dolorosa («Non ho marito», 16), e al tempo stesso a iniziare un cammino verso “la” Verità che le sta dinanzi, la­ sciando l’anfora (28), quasi non avesse più una certa sete, mentre desidera inten­ samente condividere con altri l’esperienza d’un’altra sete appagata. È significa­ tivo che questa donna ai suoi concittadini dica d’aver trovato «un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto» (29), come dire: quest’incontro mi ha svelato a me stessa, quest’uomo m’ha detto ciò che non sapevo di me. Così commenta Francesco tale dialogo: Gesù «rivolse una parola al suo desiderio di amore vero, per liberarla da tutto ciò che oscurava la sua vita e guidarla alla gioia piena del Vangelo» (Amoris laetitia, 294).

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nasce una fede nuova e vera, in un Dio che unico può appagare la sete infinita d’amore dell’uomo (mentre il peccato è riconosciuto proprio nel non aver creduto in tale amore). E il colloquio o l’accompagnamento, nato per iden­ tificare precisamente la situazione giuridico-morale della coppia irregolare (la sua colpa!), diventa sempre più evento di evangelizzazione, annuncio del volto del Padre!

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6.7. Cuore libero, cioè ospitale

Noi cristiani crediamo in un Dio che ha una sua sen­ sibilità, che ascolta il gemito e si commuove, e giunge persino a soffrire per e con la sua creatura. Credo che questo, tale sofferenza e capacità di sof­ ferenza, rappresenti davvero il vertice, il punto d’arrivo del cammino di formazione di chi è chiamato ad an­ nunciare il volto di questo Dio fino al punto, come nella vita del presbitero, di avere i suoi stessi sentimen­ ti. È la teo-patia, la capacità e libertà di amare e soffri­ re come Dio, alla sua maniera, come Gesù ce l’ha ma­ nifestata nella sua vita terrena. Ma cosa vuol dire per chi accompagna un cammino di discernimento?

Vuol dire non solo donare con generosità il proprio tempo per ascoltare, magari con empatia e mettendo l’altro al centro dell’attenzione, sospendendo il proprio giudizio e cercando il più possibile di trasmettere inte­ resse e benevolenza sinceri, e nemmeno solo invitando a cogliere nella propria storia travagliata l’azione del Dio che cerca l’uomo e si lascia da lui cercare, ma si­ gnifica avere un cuore così libero (vergine) da poter ospitare-accogliere almeno unpo ’del dolore dell’altro, al punto di soffrire con lui e per lui. Molte volte cosa succede nelle nostre relazioni d’aiu­ to? Capita che il colloquio sia perfettamente interpre­ tato e gestito, con le attenzioni che abbiamo indicato, sul piano psicopedagogico e pastorale, accogliendo e consolando chi è in difficoltà. Ma poi finisce il collo­ quio, la persona se ne va e noi torniamo al nostro lavo­ ro, superindaffarati come siamo (ed è vero), per passa­ re ad ascoltare qualche altro. E della persona, del suo problema e della sua sofferenza resta certo il ricordo dentro di noi, forse con una certa pena, ma che non turba né disturba la nostra vita e il nostro umore. Come se l’evento si fosse concluso così come s’era aperto, senza lasciar tracce particolari nel nostro cuore e nella nostra sensibilità. Ma allora quello è stato ed è vero ascolto? Può esser considerata autentica quell’accoglienza che, formal­ mente espressa sul piano dell’atteggiamento, non con­

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6. Sensibilità compassionevole: «Gesù, quando la vide piangere si commosse profondamente... e scoppiò in pianto» (Gv 11,33-35)

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com-patire realmente, oppure non ha dato grande at­ tenzione al cammino formativo del proprio mondo in­ teriore, e non si porrà nemmeno il problema della com­ passione così intesa, oppure spiritualizzerà tutto, o si difenderà - in nome della prudenza e del realismo dicendo che mica può farsi carico dei problemi di tutti quelli che vanno a sfogarsi da lui, starebbe fresco!, ci rimetterebbe la salute fisica e psichica. Ma allora, che vuol dire e a che serve esser pastore, ed esserlo secondo il cuore del Buon Pastore?

sente poi di accogliere la realtà più importante e cen­ trale in quel momento della vita dell’altro, ossia la sua sofferenza? In questi casi, dopo aver ascoltato, parlato, sentito drammi e forse disperazione, dopo esser entrati nel mi­ stero del dolore umano, magari determinato anche dalla persona stessa, o dopo aver accolto un grido d’impoten­ za e d’aiuto..c’è un test molto semplice cui potremmo sottoporci: io sto soffrendo per questa persona? Sento di star male per lei e con lei? Oppure nulla è cambiato in me e nel mio umore, né provo nulla di nuovo? Se voglio verificare se ho ascoltato davvero con il cuore del Signore, coi suoi sentimenti, e sto imparando a esprimere la passione di Dio per il suo popolo, non c’è segnale migliore e più chiaro di questo: il fatto che anch’io soffra. Che sta a dire che ho lasciato che quel­ la persona deponesse almeno un po’ della sua sofferen­ za nel mio cuore, al punto che ora avverto almeno un po’ di questo dolore e ci sto male. Se non c’è questo dolore com-passivo, allora non ho ascoltato il dolore o, quanto meno, non l’ho ascoltato sino al punto di per­ mettergli di entrare nel mio cuore, non mi sono lascia­ to toccare dalla sofferenza... Di conseguenza non ho nemmeno imparato nulla dal dolore di chi s’è confida­ to con me; forse l’ho ascoltato, sì, ma quasi difenden­ domi da quel dolore cui il mio cuore non ha aperto le porte. È stato vero ascolto quello? Qui a nessuno è lecito barare: o uno ha maturato dentro di sé una certa sensibilità che gli consente di

In realtà, che un essere umano possa arrivare a que­ sto punto, a provare dentro di sé dolore per un altro, quasi il dolore di quest’ultimo si dislocasse, almeno in parte, nel proprio cuore, è cosa straordinaria. Ancor più straordinaria se quest’altro non appartiene alla cerchia dei propri familiari e amici, ma è persona conosciuta solo in quel frangente, “conosciuta” nel dolore, incon­ trata in quel punto estremo della sua umanità in cui uno avverte la propria debolezza e impotenza, o ha la sen­ sazione d’una rottura o d’un fallimento, e si sente solo, solo con la sua sofferenza. Forse non c’è nulla di così alto e sublime nell’uomo come quando uno si fa accan­ to a questa solitudine. E non è esagerato dire che si tratta d’un miracolo, piccolo e grande. È piccolo perché avviene nel segre-

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6.2. Piccolo grande miracolo

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to del proprio cuore e dei propri sentimenti. È grande perché rende l’uomo simile a Dio, simile a Dio proprio nel cuore. E l’altro avverte il miracolo. Almeno implicitamen­ te, poiché se ne va alleggerito: un po’ del proprio do­ lore lo ha lasciato nel cuore di chi lo ha ascoltato. Potremmo dire che tale atteggiamento dovrebbe ca­ ratterizzare ogni incontro del prete, ma anche di ogni operatore pastorale, con il dolore della sua gente. Tan­ to più è una regola o un criterio fondamentale per que­ sto tipo d’incontri: è possibile accompagnare in un discernimento verace solo se il cuore è così libero da ogni autoreferenzialità, più o meno clericale, da esser capace di condividere il dolore altrui! Perché il sacer­ dote non è solo il consolatore, in nome di Dio o della sua eventuale competenza, tanto meno il notaio che verifica la posizione dell’altro traendone le conseguen­ ze sul piano dell’imputabilità morale, ma è colui che è chiamato a partecipare a quel dolore, ad accoglierlo in sé, come il Figlio che s’è incarnato nel dolore dell’uomo, colui che s’è reso «in tutto simile ai fratel­ li, per divenire un sommo sacerdote misericordioso», e che proprio perché ha «sofferto personalmente... è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,17-18).

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6.3. L’autorità della e nella compassione

E quanto mai interessante notare nel vangelo come la gente qualsiasi giudicasse Gesù, confrontandolo con altri personaggi pubblici. In Marco si dice che «erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava lo­ ro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Me 1,22). Mi piace pensare che il riferimento della gente semplice e senza cultura, com’erano gli ascoltatori abi­ tuali del Maestro, così come il criterio di differenza con gli scribi adottato dalla gente, non poteva essere il li­ vello culturale o la capacità argomentativa, ma qual­ cos’altro, più legato alla vita ordinaria e alla qualità del rapporto stabilito da Gesù con chi ricorreva a lui. E cos’era questo “qualcos’altro” se non la sua capacità di compassione che la gente percepiva immediatamente? Il Maestro capiva, accoglieva, intuiva la sofferenza del cuore, ne era turbato e vi partecipava intensamente..., rivelando i tratti di quel Padre-Dio che in tutta la storia d’Israele s’era manifestato come il Dio che prende par­ te alle vicende del suo popolo, e soffre con esso. Il contrario degli scribi, che tutt’al più avevano pote­ re e ai quali non importava niente della sofferenza della vedova e dell’orfano, del pianto dei poveri e della di­ sperazione di chi è solo, della sofferenza del lebbroso e del paralitico... Semmai dava loro fastidio che venisse­ ro a farsi curare in giorno di sabato (cfr. Le 13,14)! Per questo la gente riconosceva l’autorità del Mae­ stro e il Maestro come persona credibile, ed era dispo­

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sta ad accogliere la sua parola perché lui aveva prima accolto il suo dolore. È un insegnamento importante per noi oggi: questa è infatti la fonte sana dell’unica vera autorità del disce­ polo di Cristo, l’autorità della compassione e nella compassione. Solo un presbitero compassionevole è credibile e può accompagnare nel discernimento della verità.

delle parti, ma che dovrebbero ispirare il discernimen­ to stesso, perché sia secondo verità.

7.1. Qui e ora, davanti a Dio

Quanto finora visto è un po’ la premessa indispen­ sabile per cominciare a intravedere con maggior chia­ rezza i termini della questione, da parte sia di chi guida sia di chi è accompagnato: da un lato l’azione di Dio, dall’altro quella dell’uomo; da una parte il passato, dall’altra il presente aperto al futuro; o il tu (il marito o il nuovo coniuge, i figli...) e l’io, la legge e l’amore, gli errori e la voglia di non ripeterli, il senso di colpa e la coscienza di peccato, la comunità ecclesiale e il de­ siderio di farne parte, la vecchia immagine di Dio e quella nuova (magari scoperta o riscoperta in questi incontri)... Sono alcune delle varie polarità entro cui si muove il discernimento, che non solo vanno integrate o viste in una logica il più possibile unitaria e di composizione

La prima caratteristica del discernimento è la sua ade­ renza alla realtà, all’à et nunc, a quanto la persona sta vivendo. Chi disceme non mira alla perfezione, a ciò che in assoluto rappresenta il punto più alto o la condot­ ta più perfetta dell’agire umano e credente, ma a ciò che in questo momento della sua vita l’essere umano in que­ stione può metter in atto per rispondere all’azione della grazia. Ciò che viene prima, lo ripetiamo, e che andreb­ be anzitutto scoperto e riconosciuto è dunque sempre l’agire divino e quel che il Padre sta compiendo in que­ sto momento della vita del credente, come il vasaio di Geremia che tenta e ritenta di plasmare il vaso secondo il suo progetto, procedendo lungo una linea di progres­ siva adesione a quel progetto. Come il vaso non è subi­ to perfetto, così chi disceme (la guida e sempre più la persona guidata) ha l’umiltà e la saggezza di cogliere ciò che in quel momento preciso gli consente di acco­ gliere l’azione del Dio-vasaio, per quel passo da fare, quel perdono da dare, quella relazione da ristabilire, quello stile da abbandonare, quell’egoismo da conver­ tire, quella contraddizione da non ripetere... Tutto ciò non costituisce ancora la soluzione del pro­ blema, è qualcosa di piccolo, forse, e imperfetto, e la

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7. Sensibilità pedagogico-educativa: «Cercate di capire ciò che è gradito al Signore» (Ef 5,10)

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persona se ne rende conto, ma è il suo modo “qui e ora” di rispondere all’appello che le viene dall’alto o a un invito a cambiare, è il suo modo di esser al presente disponibile a un disegno che la supera e che avverte superiore alle sue forze. Ma senza disperare di poterlo raggiungere. Ciò che decide di fare (e di essere) si po­ ne in quella linea, è un passo che va in quella direzione, si dà in una prospettiva propositiva e di tensione verso un obiettivo di crescita dell’uomo e del credente, da realizzare di giorno in giorno, con pazienza e determi­ nazione, con fiducia e certezza di poter trovare il pro­ prio posto27. È proprio a questo tipo di sensibilità che la persona va educata, provocandola - a sua volta - a cogliere essa stessa quei gesti graduali e progressivi di peniten­ za e conversione, o le tappe d’un cammino salutare di ricerca e di fede, che può assumere in certi casi le for­ me d’un vero e proprio catecumenato o comunque d’una assunzione adulta dell’atto di fede, e magari a intravedere possibilità varie, progressive e corrispon­ denti, di integrazione nella comunità. Esprime tale sensibilità in modo magistrale Amoris laetitia', «Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esterior­ mente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fron­ teggiare importanti difficoltà»28.

7.2. Per una coscienza da formare, non da sostituire29

C’è chi coglie in tutto ciò il pericolo d’uno scadi­ mento dottrinale o sente odore di relativismo, con cui si finirebbe per giustificare tutto senza in realtà cam­ biare nulla o per accontentarsi di molto poco. Il rischio non è impossibile, parte com’è di tutte le operazioni che l’uomo compie nella libertà. Il discernimento è una di queste operazioni, anzi, forse la più rischiosa, abbia­ mo già sottolineato, avendo di mira la scoperta di ciò che è gradito a Dio. Ma proprio per questo abbiamo iniziato la nostra analisi sul discernimento con una riflessione articolata su quanto viene prima d’esso o sul suo vero soggetto (e oggetto) che è la sensibilità30, e abbiamo presentato il discernimento non come un processo psicologico per prender decisioni, per limitare al massimo il rischio dell’errore, ma come quel lungo e costante lavoro di attenzione a quel mondo interiore, complesso e ricchis­ simo, che è appunto la sensibilità, perché sia educata e formata non solo a scegliere, ma ancor prima a liberar­ si da ciò che non è in sintonia con l’identità-verità del­ la persona, e a sentire il gusto e provare attrazione per i desideri di Dio; perché sia formata non solo a obbe­ dire a una legge, ma a cogliere la bellezza del vangelo, delle beatitudini, della Parola; non solo a eseguire or29 Cfr. Ivi, 37. 30 Cfr. A. Cenemi, Dall’aurora io ti cerco. Evangelizzare la sensibilità per imparare a discernere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2018.

27 Cfr. Amoris laetitia, 303. 28/vi, 305.

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dini come soldatini obbedienti, ma a provare la gioia d’esser figli d’un Padre come Dio! E se un rischio oggi c’è, a me pare sia soprattutto quello di smarrire progressivamente questa libertà che Dio ci ha dato, libertà adulta di chi sceglie in modo personale e responsabile, senza delegare ad altri o co­ piare da altri; di chi sceglie non per convenzione ma per convinzione, non per timore ma per amore, perché i suoi sensi, sensazioni, emozioni, sentimenti, gusti, affetti... sono stati evangelizzati, hanno imparato ad amare ciò che è vero, bello e buono. La libertà cristia­ na non è forse, paradossalmente, quella di chi è libero di dipendere da ciò o da chi egli ama e che è chiamato ad amare? Questo, dunque, è il vero problema: la coscienza o la sensibilità da formare, nelle sue varie espressioni: estetica, intellettuale, morale, penitenziale, credente, orante, pastorale, relazionale, spirituale, compassione­ vole. .. Per avere addirittura la stessa sensibilità di Dio! Ecco perché è indispensabile il cammino di accom­ pagnamento personale di chi si trova in una situazione di crisi relazionale, o coniugale-familiare. Quale per­ corso che non mira primariamente all’ammissione ai sacramenti, come un premio da meritare o un verdetto legato a norme e canoni, ma alla crescita più generale del credente, in quelle sensibilità indicate in questo ca­ pitolo, e particolarmente in quella sensibilità credente che rende la vita una continua esperienza dell’amore eterno, anche quando l’uomo se n’è allontanato.

Quando il cammino fa crescere la fede che scopre l’amore non c’è alcun rischio da temere o sospettare, perché in quel momento è la persona stessa che prende coscienza come mai prima della gravità delle sue inco­ crenze, o che passa dal senso di colpa alla coscienza di peccato, e diviene pure rigorosa con se stessa, e com­ prende l’importanza del cammino penitenziale, con le sue tappe e le sue esigenze, per sperimentare sempre e di nuovo la misericordia dell’Eterno. Di solito, chi compie questo itinerario non va in cerca di soluzioni comode e rapide; in altre parole, chi ha an­ che solo percepito e sfiorato la tenerezza del Padre mi­ sericordioso non è troppo... tenero con se stesso e faci­ lone, al contrario egli soffre il proprio errore e abbraccia un serio cammino penitenziale. Così come non c’è da temere che si faccia sconti chi ha cominciato a gustare l’eccedenza della grazia che riempie la vita e perdona. Senza generalizzare indebitamente e ingenerosamen­ te, potremmo semmai arrivare a dire (o a... sospettare) che chi sospetta è forse lui stesso sospettabile. E non è gioco di parole. Chi pensa che questo modo di accom­ pagnare tale cammino un po’ complesso per aiutare a discernere sia un modo di giustificare alla fine comode e pigre scelte soggettive e di attenuare la dottrina og­ gettiva, probabilmente costui non conosce tanto bene quella strada lungo la quale si forma la coscienza, e una coscienza che ha il coraggio di discernere. Beato, invece, chi è condotto in questo cammino da un/una fratello/sorella maggiore che conosce bene, per

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esperienza personale, quella strada, lungo la quale si è formato la propria coscienza-sensibilità. Poiché ne sa­ rà beneficamente contagiato!

confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, “non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada”»32. A me sembra che qui siamo di fronte non solo a un differente modo di esprimersi, già molto apprezzabile perché subito chiaro e significativo (il bene invece del male), e nemmeno solo dinanzi a una diversa logica valutativa sul piano morale, per quanto più incoraggian­ te. Papa Francesco mostra qui davvero un’alta coscien­ za umana e credente, o - nei nostri termini - una pro­ fonda sensibilità psicologica e spirituale. È stato detto che «la finezza di Amoris laetitia sta nell’avere trasfor­ mato il principio del male minore in quello del bene possibile»33. E mi pare un’affermazione del tutto azzec­ cata, E proprio una questione di finezza, di grande ca­ pacità di comprendere l’animo umano e, ancor prima, lo stile d’agire di Dio, quello stile che ci educa «alla pazienza di Dio e ai suoi tempi, che non sono i nostri»34. Più in concreto ecco alcune differenze tra le due pro­ spettive: quella del male minore tende a limitare i dan-

7.3. Dal male minore al bene possibile Un tempo una certa logica (non so quanto teo-logica) in situazioni complesse, senz’apparenti vie d’uscita sul piano morale, sosteneva e raccomandava la teoria del cosiddetto “male minore”, dando per scontata, dunque, l’impossibilità per il soggetto di raggiungere o produr­ re, con le proprie azioni, un certo - per quanto minimo - bene, o di fare una scelta almeno per qualche aspetto positiva. Certamente non era e non è prospettiva parti­ colarmente incoraggiante! Del tutto diversa è quella indicata in Amoris laetitia, al numero 308: «Dalla nostra consapevolezza del peso delle circostanze attenuanti - psicologiche, storiche e anche biologiche - ne segue che “senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di cresci­ ta delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno”, lasciando spazio alla “misericordia del Signo­ re che ci stimola a fare il bene possìbile”»31. «Compren­ do» continua papa Francesco «coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna 31 Evangelii gaudium, 44, corsivo mio.

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32 Ivi, 45, citato in Amoris laetitia, 308. 33 E. Biemmi, «Nella luce della pastoralità», Testimoni, 4 (2017), p. 44. 34 Messaggio di papa Francesco al XXVI convegno ecumenico di spiritua­ lità ortodossa organizzato dalla comunità di Bose su “Discernimento e vita cri­ stiana” (5-8/IX/2018), Circa la “legge della gradualità” (che non è una “gradua­ lità della legge”), cfr, Amoris laetitia, 295, e Giovanni Paolo II, Familiaris consortia, 34.

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ni e quindi inibisce e blocca, quella del bene possibile ti fa vedere il bene che già vivi e quello che ti sta da­ vanti e ti chiama; la logica del male minore ti ricorda il tuo limite e il tuo peccato finendo per deprimerti e scoraggiarti, la logica del bene possibile ti mette le ali, invitandoti a camminare verso un bene sempre più grande, il bene storicamente possibile per te secondo la grazia di Dio; limitarsi a non commettere (grossi) peccati indica un livello elementare e infantile di co­ scienza, cercare di scoprire il bene che uno può fare è segno di coscienza morale adulta e responsabile; la pri­ ma prospettiva è autoreferenziale alla fine, ripiega la persona su di sé, la seconda apre all’ascolto di Dio, affina l’udito alla sua ispirazione. Chi vive limitando i danni ha un’immagine di Dio che incute timore e giu­ dica, chi si sente chiamato a fare il bene si sente amato da quel Dio che vuole il suo bene, la sua felicità. «La prospettiva del bene possibile crea l’effetto di essere magnetizzati dal bene che attira e non risucchiati dal male che paralizza. È l’attrazione del bene che motiva, qualunque sia la situazione in cui ci si trova»35. Quell’attrazione ha un nome: è lo Spirito Santo, la sensibilità di Dio!

CONCLUSIONE

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35 E. Bienuni, «Nella luce della pastoralità», Testimoni, 4 (2017), p. 44.

Il titolo di questo libro, Ipassi del discernere, fa ri­ ferimento a un’immagine classica, persino un po’ scon­ tata, quella dei passi e della vita come un incedere di passi. È come una metafora del discernimento inteso come processo e dinamismo, come cammino costante, visto che il discernimento, abbiamo detto, è il modo normale di crescere nella fede del credente normale. A ogni passo della vita, idealmente, c’è un discernimento da fare. E allo stesso tempo, ogni discernimento è fatto di diversi passi, che abbiamo tentato di descrivere nel­ le pagine precedenti, intendendo questi passi come di­ verse sensibilità. Ora, al termine di questa riflessione, riprendiamo la medesima immagine in qualche modo rovesciandola: il discernere dei passi. Per dire una cosa quanto mai evidente, se pensiamo al dinamismo materiale e natu­ rale dell’incedere, alla sua postura, contrassegnata da un continuo superamento d’un passo sull’altro. Noi camminiamo nella misura in cui facciamo passi, ovve-

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ro in cui alterniamo il movimento della gamba destra a quello della sinistra in un costante superamento l’una dell’altra. È una specie di continuo dinamismo... pe­ destre, se così mi posso esprimere, che nella sua appa­ rente banalità sembra però nascondere, o ci consente di riconoscere, la natura fondamentale del discernimento come processo (auto)trascendente che ci provoca co­ stantemente a muoverci e a non fermarci, a cercare nella realtà qualcosa di nuovo e a estendere gli spazi abitati, a riconoscere qualcuno che ci attende e ci chia­ ma, e che è sempre un po’ oltre il punto in cui ci tro­ viamo, a non pensare di esser già arrivati e a non ac­ contentarci delle posizioni raggiunte, ad aprirci al mi­ stero e al trascendente, a tentare vie nuove e inedite, magari rischiose e incerte... In tal senso il discemere è quanto mai provocante e pure inquietante, tiene svegli e attenti, rende la vita sempre nuova e sorprendente, ci chiede sensi vigili e una sensibilità docibilis, continuamente in stato di formazione. Il camminare, insomma, ci fa discemere, così come il discemere ci provoca a camminare. Al tempo stesso l’immagine pedestre ci consente anche di intravedere una regola del discernimento che sembra dettata da quel buon senso che ammonisce di non fare il passo più lungo della gamba, ovvero di ca­ pire quale nel momento presente sia la decisione più giusta, quanto adesso sia più gradito al mio Dio, quel che nella situazione che sto vivendo mi permetta di vivere secondo la mia verità, bellezza e bontà. Senza

presumere di raggiungere la perfezione o di capire e attuare subito tutta la verità. In tal senso il discernimen­ to è il ritmo della vita, o il passo cadenzato e regolare di chi ha trovato la sua misura, e continua il suo cam­ mino senza fermarsi mai. Come chi va in montagna e resiste meglio alla fatica perché mantiene sempre la stessa andatura. Anzi, il discernimento è molte volte un cammino proprio in (alta) montagna, anche piuttosto faticoso. È necessario, allora, avere una buona guida, che conosca il cammino e dal passo sicuro, non fretto­ loso né improvvisato. L’arte del discemere mette insieme tutto ciò: la ten­ sione sana verso il superamento di noi stessi e la sa­ pienza del cuore che ci consente di riconoscere la gra­ zia del momento; i nostri incerti passi e i passi del Si­ gnore che ci viene incontro in ogni istante; l’esperienza d’esser accompagnati e il servizio di accompagnare anche altri nel santo viaggio. Beato chi cerca il Signore con tutto il cuore (cfr. Sai 119,2) e cammina per le sue vie (cfr. Sai 128,1). Anzi, «beato l’uomo che ha le tue vie nel suo cuore, Signore» (Sai 84,6), costui «corre lungo la via dei tuoi comandi» (Sai 119,32)! Ma beato in particolare chi può farsi compagno di viaggio di chi non conosce la via. E beato chi ha trova­ to tale compagno!

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INDICE

Prefazione Introduzione

I.

SENSIBILITÀ CHE DISCERNE 1. Evangelizzare (la sensibilità) per discernere 2. Quell’ischemia del cuore umano... 3. A ogni discernimento corrisponde una sensibilità 4. In ogni sensibilità agiscono varie altre sensibilità

II. DISCERNIMENTO PERSONALE (E CRISI AFFETTIVA)

1. Crisi 2. Crisi affettiva 3. “Dammi un cuore capace di discemere”

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III. PEDAGOGIA DEL DISCERNIMENTO PERSONALE 1. Sensibilità psichica: sincerità e realismo 2. Sensibilità intrapsichica: verità e trasparenza interiore 3. Sensibilità morale: l’identità come criterio 4. Sensibilità relazionale: Dio al centro della relazione 5. Sensibilità spirituale: la lotta con Dio 6. Sensibilità decisionale: dal desiderio alla scelta, dalla scelta umana alla scelta cristiana

IV. DISCERNIMENTO PASTORALE (E CRISI CONIUGALI)

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1. Sensazione di non ascolto ecclesiale 2. Abuso d’autorità (dal basso) 3. Amoris discretio

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V. PEDAGOGIA DEL DISCERNIMENTO PASTORALE

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1. Sensibilità pastorale: «Il Buon Pastore lascia le 99 pecore nel recinto e va in cerca » della pecora perduta» (Le 15,4) 2. Sensibilità relazionale: «Un Samaritano... » vide e ne ebbe compassione» (Le 10,33)

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3. Sensibilità empatica: «... diventando simile agli uomini» (Fil 2,7) pag. 126 4. Sensibilità attenta al dolore: «Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli» (Sai 56,9) » 131 5. Sensibilità spirituale: «Dio chiamò l’uomo: “dove sei?”» (Gen 3,9) » 137 6. Sensibilità compassionevole: «Gesù, quando la vide piangere si commosse profondamente... scoppiò in pianto» (Gv 11,33-35) » 144 7. Sensibilità pedagogico-educativa: «Cercate di capire ciò che è gradito al Signore» (Ef 5,10) » 150

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Stampa: Rotomail Italia S.p.A., Vignate (MI)

Amedeo Cencini, sacerdote canossiano, ha conseguito la licenza in scienze dell’educazione all’Università Salesiana e il dottorato in psicologia all’Università Gregoriana; specializzato in psicoterapia all’istituto Superiore di Psicoterapia analitica, attualmente è docente: dei corsi di Formazione integrale e maturazione vocazionale, di Problematiche psicologiche della vita sacerdotale e religiosa e di Metolodogia dell’accompagnamento personale all’Università Salesiana; di Elementi di maturità affettiva nel celibato consacrato al Centro di Formazione dei Formatori alla vita sacerdotale e religiosa dell’università Gregoriana. Insegna Libertà e maturità effettiva nel celibato consacrato alla scuola di teologia e diritto, organizzata dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica. Dal maggio 1995 è consultore della medesima Congregazione vaticana. Nel suo istituto è da vari anni maestro dei chierici professi. Tra le pubblicazioni presso le Edizioni San Paolo ricordiamo Vita consacrata. Itinerarioformativo lungo la via di Emmaus (1994, 20033); Comefuoco che divampa. Il consacrato aperto al dono dello Spirito (1998); Il respiro della vita. La grazia della formazione permanente (2002, 20032); La gioia (2012); Se mi ami, non dirmi sempre di sì (2013) e la trilogia, conclusa con questo volume, preceduto a sua volta da: Abbiamo perso i sensi (2012) e «Dall’aurora io ti cerco» (2018).

Il discernimento è il ritmo della vita,

o il passo cadenzato e regolare di chi ha trovato la sua misura

e continua il suo cammino

senza fermarsi mai.

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