Dal profondo del nostro cuore [Prima edizione] 9788868798710

Benedetto XVI e il Cardinale Robert Sarah hanno risposto all’impulso dei loro cuori. Questo libro farà la storia. In mol

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Dal profondo del nostro cuore [Prima edizione]
 9788868798710

Table of contents :
Nota del curatore
Perché avete paura? Introduzione degli Autori
I – Il sacerdozio cattolico Benedetto XVI
II – Amare fino alla fine Sguardo ecclesiologico e pastorale sul celibato sacerdotale Cardinale Robert Sarah
All’ombra della Croce Conclusione degli Autori
Indice

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Benedetto XVI RoBeRt SaRah

DAL PROFONDO DEL NOSTRO CUORE

Benedetto XVI Robert Sarah

DAL PROFONDO DEL NOSTRO CUORE A cura di nIcolaS dIat Traduzione di daVIde RISeRBato

Titolo originale: Des profondeurs de nos cœurs by Benoît XVI and Cardinal Robert Sarah © Librairie Arthème Fayard, 2020 © 2020 Edizioni Cantagalli S.r.l. – Siena Grafica di copertina: Rinaldo Maria Chiesa Stampato da Edizioni Cantagalli nel gennaio 2020 ISBN: 978-88-6879-871-0

A tutti i sacerdoti

«Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» J. RatzIngeR, Omelia pronunciata nella Missa pro eligendo Romano Pontefice, 18 aprile 2005 «Ogni attività deve essere preceduta da un’intensa vita di preghiera, di contemplazione, di ricerca e di ascolto della volontà di Dio» R. SaRah, La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore, Cantagalli, Siena 2017, p. 35

Nota del curatore

«Dobbiamo meditare su queste riflessioni di un uomo che si avvicina al termine della propria vita. In questa ora cruciale, non si decide di intervenire con leggerezza» caRdInale RoBeRt SaRah

Dal profondo del nostro cuore è il titolo molto semplice e commovente che il Papa emerito Benedetto XVI e il Cardinale Robert Sarah hanno scelto per il libro che pubblicano insieme. Le parole di Benedetto XVI sono rare. Nel marzo 2013, il Papa emerito ha deciso di ritirarsi in un monastero nei Giardini Vaticani. Ha voluto dedicare gli ultimi anni della propria vita alla preghiera, alla meditazione e allo studio. Il silenzio diventava così lo scrigno prezioso di un’esistenza lontana dal frastuono e dalla violenza del mondo. Assai di rado, finora, Benedetto XVI ha accettato di intervenire per esprimere il proprio pensiero su argomenti importanti per la vita della Chiesa. Il testo qui offerto è, dunque, qualcosa di eccezionale. Non si tratta di un articolo o di appunti raccolti 9

nel corso del tempo, ma di una riflessione magistrale, insieme lectio e disputatio. La volontà di Benedetto XVI è chiaramente espressa nella sua Introduzione: «Di fronte alla persistente crisi che il sacerdozio attraversa da molti anni, ho ritenuto necessario risalire alle radici profonde della questione». I lettori più avvertiti non esiteranno a riconoscere lo stile, la logica e la straordinaria pedagogia dell’Autore della trilogia dedicata a Gesù di Nazareth. Il dettato è ben strutturato, i riferimenti abbondanti e il procedere argomentativo finemente cesellato. Per quale ragione il Papa emerito ha desiderato collaborare con il Cardinale Sarah? I due sono molto amici e intrattengono una regolare corrispondenza per condividere punti di vista, speranze e preoccupazioni. Nell’ottobre 2019, il Sinodo per l’Amazzonia, un’assemblea di vescovi, religiosi e missionari, dedicato al futuro di questa immensa regione, ha rappresentato in seno alla Chiesa un’occasione di riflessione, nella quale è stato variamente messo a tema l’avvenire del sacerdozio cattolico. Da parte loro, Benedetto XVI e il Cardinale Sarah avevano iniziato a scambiarsi scritti, pensieri e proposte già sul finire dell’estate, per incontrarsi poi allo scopo di conferire la maggior chiarezza possibile alle pagine che ora seguiranno. Personalmente, sono stato il testimone privilegiato, incantato, di questo loro dialogo. Li ringrazio in10

finitamente per l’onore di essere il curatore di questo volume. Il testo di Benedetto XVI s’intitola molto sobriamente: Il sacerdozio cattolico. Il Papa emerito precisa da subito la sua impostazione: «Alle radici della grave situazione in cui versa oggi il sacerdozio, si trova un difetto metodologico nell’accoglienza della Scrittura come Parola di Dio». L’affermazione è severa, inquietante, quasi incredibile. Benedetto XVI non ha voluto affrontare da solo una questione così delicata. La collaborazione del Cardinale Sarah gli è parsa naturale e importante. Il Papa emerito conosce la profonda spiritualità del Cardinale, il suo spirito orante, la sua saggezza. Si fida di lui. Nella Prefazione a La forza del silenzio, durante la Settimana Santa 2017, Benedetto XVI scriveva: «Il Cardinale Sarah è un maestro dello spirito che parla a partire dal profondo rimanere in silenzio insieme al Signore, a partire dalla profonda unità con lui, e così ha veramente qualcosa da dire a ognuno di noi. Dobbiamo essere grati a Papa Francesco di avere posto un tale maestro dello spirito alla testa della Congregazione che è responsabile della celebrazione della Liturgia nella Chiesa»1. Benedetto XVI, Prefazione a R. SaRah, La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore, Cantagalli, Siena 2017, p. 11. 1

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Da parte sua, il Cardinale Sarah ammira la produzione teologica di Benedetto XVI, la potenza della sua riflessione, la sua umiltà e la sua carità. L’intento degli Autori è perfettamente restituito in questa affermazione tratta dalla comune Introduzione al volume: «La vicinanza delle nostre preoccupazioni e la convergenza delle nostre conclusioni hanno fatto sì che prendessimo la decisione di mettere a disposizione di tutti i fedeli il frutto del nostro lavoro e della nostra amicizia spirituale, sull’esempio di sant’Agostino». Il quadro è semplice. Due vescovi hanno voluto riflettere. Due vescovi hanno voluto rendere pubblico il frutto della loro eminente ricerca. Il testo di Benedetto XVI è di grande finezza teologica. Quello del Cardinale Sarah possiede un’indubitabile forza catechetica. Gli argomenti si incrociano, le affermazioni si completano, le intelligenze sono reciprocamente stimolate. Al suo scritto il Cardinale Sarah ha assegnato come titolo: Amare fino alla fine. Sguardo ecclesiologico e pastorale sul celibato sacerdotale. Ritroviamo in esso il coraggio, la radicalità e la mistica che rendono incandescenti tutti i suoi libri. Benedetto XVI e il Cardinale Sarah hanno voluto aprire e chiudere questo libro con due testi composti a quattro mani. Nella loro Conclusione scrivono: «È urgente, necessario, che tutti, vescovi, sacerdoti e laici, non si facciano più impressionare dai cattivi consiglie12

ri, dalle teatrali messe in scena, dalle diaboliche menzogne, dagli errori alla moda che mirano a svalutare il celibato sacerdotale». Evidentemente, il Papa emerito e il Cardinale Sarah non hanno affatto voluto nascondere la propria inquietudine. Conoscono, però, fin troppo bene sant’Agostino, al quale fanno spesso riferimento, per non sapere che l’amore ha sempre l’ultima parola. Il motto episcopale del Cardinale Joseph Ratzinger era: Ut cooperatores simus veritatis, «Noi dobbiamo perciò accogliere in questo modo, per essere collaboratori della verità» (3Gv 8). In questo saggio, all’età di novantadue anni, ha voluto disporsi ancora una volta al servizio della verità. Il motto episcopale del Cardinale Robert Sarah, scelto quando era giovane arcivescovo di Conakry, capitale della Guinea, recita invece: Sufficit tibi gratia mea, «Ti basta la mia grazia»; ed è tratto dalla Seconda Lettera ai Corinzi, nella quale l’Apostolo Paolo descrive i suoi dubbi, teme di non essere in grado di trasmettere efficacemente l’insegnamento del Vangelo. Dio, però, gli risponde così: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). Vorrei concludere questo pensiero con due citazioni che sento oggi risuonare con forza. La prima è tratta dall’omelia di Benedetto XVI per la Messa di Pentecoste del 31 maggio 2009: «Come esiste un inquinamento atmosferico, che avvelena l’ambiente e 13

gli esseri viventi, così esiste un inquinamento del cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale». La seconda è tratta da Il portico del mistero della seconda virtù di Charles Péguy: «Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza. Non me ne capacito. Questa piccola speranza che ha l’aria di non essere nulla. Questa bambina speranza»2. Ricercando nel profondo del loro cuore, Benedetto XVI e il Cardinale Robert Sarah hanno voluto allontanare questo inquinamento e aprire le porte alla speranza. Nicolas Diat Roma, 6 dicembre 2019

ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in Id., I misteri, Jaca Book, Milano 20075, p. 165. 2

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PERCHÉ AVETE PAURA? Introduzione degli Autori

In una celebre lettera indirizzata al vescovo donatista Massimino, sant’Agostino annuncia il proposito di pubblicare la loro corrispondenza. «Che potrò fare, fratello – chiede –, se non leggere al popolo cattolico le nostre lettere […], perché possa essere più istruito?»3. Così, abbiamo deciso di seguire l’esempio del vescovo di Ippona. Ci siamo incontrati in questi ultimi mesi, mentre il mondo rimbombava del frastuono provocato da uno strano sinodo dei media che aveva preso il sopravvento sul Sinodo reale. Ci siamo confidati le nostre idee e le nostre preoccupazioni. Abbiamo pregato e meditato in silenzio. Ogni nostro incontro ci ha reciprocamente confortati e pacificati. Sviluppate attraverso sentieri differenti, le nostre riflessioni ci hanno quindi portato a scambiarci alcune lettere. La prossimità delle nostre preoccupazioni e la convergenza delle nostre conclusioni hanno fatto sì che, sull’esempio di sant’Agostino, prendessimo la decisione di mettere a disposizione di tutti i fedeli il frutto del nostro lavoro e della nostra amicizia spirituale. 3

Sant’agoStIno, Epistola 23,6.

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Anche noi, come lui, possiamo dire: «Silere non possum! Non posso tacere! […]. So quanto mi sarebbe pernicioso il silenzio! Non penso, infatti, di passare il tempo nelle cariche ecclesiastiche soddisfacendo la mia vanità, penso invece che, delle pecore che mi sono state affidate, renderò conto al principe di tutti i Pastori»4. In quanto vescovi, portiamo in noi la sollecitudine verso tutte le Chiese. Con un grande desiderio di pace e unità, offriamo dunque a tutti i nostri fratelli vescovi, sacerdoti e fedeli laici di tutto il mondo il frutto dei nostri colloqui. Lo facciamo con uno spirito d’amore per l’unità della Chiesa. Se l’ideologia divide, la verità unisce i cuori. Interrogare la dottrina della salvezza non può che unire la Chiesa attorno al proprio divino Maestro. Lo facciamo con uno spirito di carità. Ci è parso utile e necessario pubblicare questo lavoro in un momento in cui gli animi sembrano essersi placati. Ciascuno potrà completarlo o criticarlo. La ricerca della verità non può compiersi se non a cuore aperto. Presentiamo, quindi, fraternamente queste riflessioni al popolo di Dio e, naturalmente, in atteggiamento di filiale obbedienza, a Papa Francesco. Abbiamo pensato in particolare ai sacerdoti. Il nostro cuore sacerdotale ha voluto confortarli, incoraggiarli. Insieme a tutti i sacerdoti, noi preghiamo: 4

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Ibidem, 23,7.

Signore, salvaci! Periamo! Il Signore dorme mentre infuria la tempesta. Sembra abbandonarci ai flutti del dubbio e dell’errore. Siamo tentati di arrenderci alla disperazione. I flutti del relativismo sommergono da ogni lato la barca della Chiesa. Gli Apostoli hanno avuto paura. La loro fede si è raffreddata. Anche la Chiesa talvolta sembra vacillare. Nel cuore della tempesta, la fiducia degli Apostoli nella potenza di Gesù sembra venire meno. Viviamo anche noi questo mistero. Sentiamo, tuttavia, di trovarci in una pace profonda, perché sappiamo che colui che governa la barca è Gesù. Siamo consapevoli che essa non potrà mai affondare, che essa soltanto potrà condurci al porto della salvezza eterna. Sappiamo che Gesù è qui, con noi, nella barca. A lui vogliamo rinnovare la nostra fiducia e la nostra fedeltà assoluta, piena, indivisa. A lui vogliamo ripetere questo grande “sì” che abbiamo pronunciato il giorno della nostra ordinazione. È questo “sì” totale che il nostro celibato sacerdotale ci fa vivere ogni giorno. Il nostro celibato, infatti, è una proclamazione di fede. È una testimonianza, perché ci fa entrare in una vita che non ha senso se non a partire da Dio. Il nostro celibato è testimonianza, ossia martirio. Il vocabolo greco esprime entrambe le accezioni. Nella tempesta, noi sacerdoti, dobbiamo riaffermare di essere pronti a perdere la vita per Cristo. Questa testimonianza la offriamo giorno dopo giorno in virtù del celibato per il quale spendiamo la nostra vita. 19

Gesù nella barca dorme. E se vince l’esitazione, se abbiamo paura di riporre in lui la nostra fiducia, se il celibato ci fa arretrare, cerchiamo di ascoltare il suo ammonimento: «Perché avete paura, uomini di poca fede?» (Mt 8,26). Benedetto XVI Robert Cardinale Sarah Città del Vaticano, settembre 2019

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I Il sacerdozio cattolico Benedetto XVI

Di fronte alla persistente crisi che il sacerdozio attraversa da molti anni, ho ritenuto necessario risalire alle radici profonde della questione. Avevo intrapreso un lavoro di riflessione teologica, ma l’età e una certa stanchezza mi avevano costretto ad abbandonarlo. I colloqui con il Cardinale Robert Sarah mi hanno dato la forza di riprenderlo e di portarlo a termine. Alle radici della grave situazione in cui versa oggi il sacerdozio, si trova un difetto metodologico nell’accoglienza della Scrittura come Parola di Dio. L’abbandono dell’interpretazione cristologica dell’Antico Testamento ha portato molti esegeti contemporanei a una teologia senza il culto. Non hanno compreso che Gesù, al posto di abolire il culto e l’adorazione dovuti a Dio, li ha assunti e portati a compimento nell’atto d’amore del suo sacrificio. Alcuni sono giunti persino a rifiutare la necessità di un sacerdozio autenticamente cultuale nella Nuova Alleanza. Nella prima parte del mio saggio, ho voluto mettere in luce la struttura esegetica fondamentale che consente una corretta teologia del sacerdozio. 23

Nella seconda parte, applicando questa ermeneutica allo studio di tre testi, ho esplicitato le esigenze del culto in spirito e verità. L’atto cultuale passa ormai attraverso un’offerta della totalità della propria vita nell’amore. Il sacerdozio di Gesù Cristo ci fa entrare in una vita che consiste nel diventare uno con lui e nel rinunciare a tutto ciò che appartiene solo a noi. Per i sacerdoti questo è il fondamento della necessità del celibato, come anche della preghiera liturgica, della meditazione della Parola di Dio e della rinuncia ai beni materiali. Ringrazio il caro Cardinale Sarah per avermi dato l’opportunità di assaporare nuovamente i testi della Parola di Dio che hanno guidato i miei passi tutti i giorni della mia vita. 1. Il formarsi del sacerdozio neotestamentario nell’esegesi cristologico-pneumatologica Il movimento che si era formato intorno a Gesù di Nazaret – perlomeno nel periodo pre-pasquale – era un movimento di laici. In questo somigliava al movimento dei farisei, motivo per cui i primi contrasti descritti nei Vangeli fanno riferimento essenzialmente al movimento farisaico. Solo nell’ultima Pèsach [Pasqua] di Gesù a Gerusalemme l’aristocrazia sacerdotale del Tempio – i sadducei – si accorge di Gesù e del suo movimento, fatto questo che conduce al processo, alla condanna e all’esecuzione di Gesù. Il sacerdozio 24

era ereditario: chi non proveniva da una famiglia di sacerdoti non poteva neppure diventare sacerdote. Di conseguenza, neppure i ministeri nella comunità che andava costituendosi intorno a Gesù potevano appartenere all’ambito del sacerdozio veterotestamentario. Gettiamo un rapido sguardo sulle strutture ministeriali essenziali della prima comunità di Gesù. Apostolo Nel mondo greco la parola «apostolo» rappresenta un terminus technicus del linguaggio politico-istituzionale5. Nel giudaismo precristiano la parola è utilizzata nel suo collegare funzione profana d’inviato, responsabilità di fronte a Dio e significato religioso. Essa indica in questo contesto anche l’inviato incaricato e autorizzato da Dio. Episkopos Nel greco profano indica funzioni alle quali sono associati compiti di tipo tecnico e finanziario, ma comunque ha anche un contenuto religioso, in quanto sono perlopiù degli dèi a essere chiamati episkopos, vale a dire «patrono». «La Septuaginta utilizza il ter-

Cfr. g. KIttel, F. geRhaRd (edd.), Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, W. Kohlhammer, Stuttgart 19571979 (ristampa anastatica dell’edizione del 1933), I, p. 406. 5

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mine episkopos nel medesimo duplice modo in cui è usato nella grecità pagana, come appellativo di Dio e nel più generico significato profano di “sorvegliante” in ambiti di vario tipo»6. Presbyteros Mentre tra i cristiani di origine pagana, per indicare i ministri, prevale il termine episkopos, la parola presbyteros è caratteristica dell’ambito giudeo-cristiano. La tradizione ebraica del «più anziano» inteso come una sorta di organo costituzionale, a Gerusalemme con tutta evidenza andò presto sviluppandosi in una prima forma ministeriale cristiana. A partire da qui, nella Chiesa composta da giudei e pagani, andò sviluppandosi quella triplice forma ministeriale di episcopi, presbiteri e diaconi, che alla fine del I secolo si rinviene – già chiaramente sviluppata – in Ignazio di Antiochia. Essa sino a oggi esprime validamente, dal punto di vista linguistico e ontologico, la struttura ministeriale della Chiesa di Gesù Cristo. Da quanto sinora detto dobbiamo trarre una prima conclusione. Il carattere laicale del primo movimento di Gesù e il carattere dei primi ministeri inteso non in senso cultuale-sacerdotale non si basa affatto necessariamente su una scelta anti-cultuale e anti-giudaica, ma è invece conseguenza della particolare situazio6

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Ibidem, II, p. 610.

ne del sacerdozio veterotestamentario, per la quale il sacerdozio è legato alla tribù di Aronne-Levi. Negli altri due «movimenti laicali» del tempo di Gesù, il rapporto con il sacerdozio è concepito diversamente: i farisei sembrano avere fondamentalmente vissuto in sintonia con la gerarchia del Tempio – a prescindere dalla disputa sulla risurrezione del corpo. Presso gli esseni, il movimento di Qumràn, la situazione è più complessa. In ogni caso, in una parte del movimento di Qumràn era marcato il contrasto con il Tempio erodiano e il sacerdozio a esso corrispondente, ma non per negare il sacerdozio, quanto invece proprio per ricostituirlo nella sua forma pura e corretta. Anche nel movimento di Gesù non si tratta affatto di «desacralizzazione», «de-legalizzazione» e rifiuto di sacerdozio e gerarchia. Di certo, però, viene ripresa la critica dei profeti al culto ed è messa in sorprendente unità con la tradizione del sacerdozio e del culto che dobbiamo tentare di comprendere. Nel mio libro Introduzione allo spirito della liturgia7 ho esposto la linea critica dei profeti riguardo al culto ripresa da Stefano e che san Paolo collega con la nuova tradizione cultuale dell’Ultima cena di Gesù. Gesù stesso aveva ripreso e approvato la critica dei profeti al culto, soprattutto in rapporto alla disputa sulla giusta interpretazione dello Shabbat (cfr. Mt 12,7).

J. RatzIngeR, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001. 7

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Consideriamo innanzitutto il rapporto di Gesù col Tempio quale espressione della speciale presenza di Dio in mezzo al suo popolo eletto e quale luogo di culto regolato da Mosè. L’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio mostra che la sua famiglia era osservante e che egli ovviamente ha partecipato alla devozione della sua famiglia. Le parole dette alla madre «Devo occuparmi delle cose del Padre mio» (Lc 2,49) sono espressione della convinzione che il Tempio rappresenti in modo speciale il luogo nel quale Dio abita e dunque il giusto luogo di permanenza per il Figlio. Anche nel breve periodo della sua vita pubblica, Gesù partecipa ai pellegrinaggi di Israele al Tempio, e dopo la sua risurrezione notoriamente la sua comunità si raduna di regola nel Tempio per l’insegnamento e la preghiera. E tuttavia, con la purificazione del Tempio, Gesù ha posto un accento fondamentalmente nuovo sul Tempio (Mc 11,15ss; Gv 2,13-22). L’interpretazione, secondo cui con quel gesto Gesù avrebbe solo combattuto gli abusi, dunque confermando il Tempio, è insufficiente. In Giovanni troviamo delle parole che interpretano quell’azione di Gesù come prefigurazione della distruzione della costruzione di pietra al cui posto comparirà il suo corpo quale nuovo Tempio. Questa interpretazione di Gesù, nei Sinottici, compare sulla bocca di testimoni mendaci nel racconto del processo (Mc 14,58). La versione dei testimoni è distorta e dunque non utilizzabile ai fini dell’esito del 28

processo. Ma resta il fatto che Gesù ha pronunciato parole di questo tipo, l’espressione letterale delle quali peraltro non poté essere determinata in modo sufficientemente sicuro per il processo. La Chiesa nascente ha perciò a ragione assunto come autenticamente gesuana la versione giovannea. Questo significa che Gesù considera la distruzione del Tempio come conseguenza dell’atteggiamento sbagliato della gerarchia sacerdotale dominante. Dio però qui – come in ogni punto di svolta della storia della salvezza – utilizza l’atteggiamento sbagliato degli uomini come un modus del suo amore più grande. A questo livello evidentemente Gesù considera in ultima analisi la distruzione del Tempio esistente come un passo del risanamento divino e la interpreta come definitiva nuova formazione e impostazione del culto. In questo senso la purificazione del Tempio è annuncio di una nuova forma di adorazione di Dio e perciò riguarda la natura del culto e del sacerdozio. Per comprendere quello che con il culto Gesù ha voluto e quello che non ha voluto è naturalmente decisiva l’Ultima cena, con l’offerta del corpo e del sangue di Gesù Cristo. Non è questa la sede per entrare nella disputa poi sviluppatasi sulla giusta interpretazione di questo avvenimento e delle parole di Gesù. Importante è che Gesù, da un lato, riprende la tradizione del Sinai e si presenta così come il nuovo Mosè; dall’altro, però, egli riprende la speranza della Nuova Alleanza formulata in modo particolare da Geremia, 29

preannunciando così un superamento della tradizione del Sinai al centro del quale sta egli stesso quale sacrificante e sacrificato a un tempo. È importante considerare che quel Gesù che sta in mezzo ai discepoli è il medesimo che dona loro se stesso nella sua carne e nel suo sangue e così anticipa la Croce e la risurrezione. Senza la risurrezione il tutto non avrebbe senso. La crocifissione di Gesù in sé non è un atto di culto e i soldati romani che la eseguono non sono dei sacerdoti. Essi compiono un’esecuzione, ma non pensano neanche lontanamente di porre un atto di culto. Il fatto che Gesù doni per sempre se stesso come cibo nella sala dell’Ultima cena significa l’anticipazione della sua morte e della sua risurrezione e la trasformazione di un atto di crudeltà umana in un atto di donazione e di amore. Così Gesù stesso compie il fondamentale rinnovamento del culto che rimarrà per sempre valido e vincolante: egli trasforma il peccato degli uomini in un atto di perdono e di amore nel quale i futuri discepoli possono entrare con la loro partecipazione a ciò che Gesù ha istituito. In questo modo si comprende anche quel che Agostino ha chiamato il passaggio, nella Chiesa, dalla Cena al sacrificio mattutino. La Cena è dono di Dio a noi nell’amore che perdona di Gesù Cristo e permette all’umanità di accogliere a sua volta il gesto dell’amore di Dio e di restituirlo a Dio. In tutto questo nulla è detto direttamente sul sacerdozio. E tuttavia, comunque, è evidente che l’antico ordine di Aronne è superato e Gesù stesso si presenta 30

come il Sommo Sacerdote. È importante, inoltre, che in questo modo si fondono la critica del culto da parte dei profeti e la tradizione cultuale che parte da Mosè: l’amore è il sacrificio. Nel mio libro su Gesù8 ho esposto come questa nuova fondazione del culto e, con esso, del sacerdozio, in Paolo è già interamente compiuta. È un’unità basilare, fondata sulla mediazione costituita dalla morte e risurrezione di Gesù, che era chiaramente condivisa anche dagli avversari dell’annuncio paolino. La distruzione delle mura del Tempio causata dall’uomo è assunta positivamente da Dio: non esistono più muri, Cristo risorto è invece divenuto per l’uomo lo spazio dell’adorazione di Dio. Così il crollo del Tempio erodiano significa anche questo: che nulla di divisivo si frappone più tra lo spazio linguistico ed esistenziale della legislazione mosaica, da un lato, e quello del movimento raccoltosi intorno a Gesù, dall’altro. I ministeri cristiani (episkopos, presbyteros, diakonos) e quelli regolati dalla legge mosaica (sommi sacerdoti, sacerdoti, leviti) ora stanno apertamente gli uni accanto agli altri e ora possono dunque, con una chiarezza nuova, essere anche identificati gli uni con gli altri. In effetti l’equiparazione terminologica si compie relativamente presto (episkopos = sommo Cfr. J. RatzIngeR, Gesù di Nazaret. Seconda Parte. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 49-52. 8

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sacerdote, presbyteros = sacerdote, diakonos = levita). La rinveniamo in modo del tutto ovvio nelle catechesi sul battesimo di sant’Ambrogio, le quali però sicuramente si rifanno a modelli e documenti più antichi, di cui san Clemente Romano è uno dei primi testimoni, verso il 96, nella sua Prima Lettera ai Corinzi: «Dobbiamo fare con ordine tutto ciò che il Sovrano ci ha comandato di adempiere nei tempi stabiliti. Egli ci ha comandato che le offerte e le liturgie siano effettuate non a caso e disordinatamente, ma nei tempi e nelle ore stabilite […]. Poiché al sommo sacerdote sono assegnate funzioni liturgiche proprie, e ai sacerdoti è attribuito un posto proprio; ai leviti spettano servizi propri e il laico è tenuto ai precetti che lo riguardano»9. Assistiamo qui all’interpretazione cristologica dell’Antico Testamento, che può essere chiamata anche interpretazione pneumatologica e che rappresenta il modo in cui l’Antico Testamento poté divenire e rimanere la Bibbia dei cristiani. Se, da un lato, questa interpretazione cristologico-pneumatologica poté anche essere detta «allegorica» da una prospettiva storico-letteraria, dall’altro, risulta comunque evidente la profonda novità e la chiara motivazione della nuova interpretazione cristiana dell’Antico Testamento: qui l’allegoria non rappresenta un espediente letterario per rendere il testo utilizzabile per nuovi scopi, ma clemente dI Roma, Lettera ai Corinzi, 40,1-5, a cura di B. Artioli, ESD, Bologna 2010, p. 177. 9

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è espressione di un passaggio storico che corrisponde alla logica interna del testo. La Croce di Gesù Cristo è l’atto di amore radicale nel quale si compie realmente la riconciliazione fra Dio e il mondo segnato dal peccato. Questa è la ragione per cui questo avvenimento, che di per sé non è in alcun modo di tipo cultuale, rappresenta invece la suprema adorazione di Dio. Nella Croce la linea «catabasica» della discesa di Dio e la linea «anabasica» dell’offerta dell’umanità a Dio divengono un unico atto che ha reso possibile il nuovo Tempio del suo corpo nella risurrezione. Nella celebrazione dell’Eucaristia la Chiesa, anzi l’umanità, è sempre di nuovo attirata e coinvolta in questo processo. Nella Croce di Cristo la critica del culto da parte dei profeti giunge definitivamente al suo scopo. Allo stesso tempo però è istituito il nuovo culto. L’amore di Cristo sempre presente nell’Eucaristia è il nuovo atto di adorazione. Di conseguenza i ministeri sacerdotali di Israele sono «annullati» nel servizio dell’amore, che al contempo significa sempre adorazione di Dio. Questa nuova unità di amore e culto, di critica del culto e di glorificazione di Dio nel servizio dell’amore, è certamente un compito inaudito affidato alla Chiesa che ogni generazione deve nuovamente adempiere. Il superamento pneumatico della «lettera» veterotestamentaria nel servizio alla Nuova Alleanza richiede così sempre di nuovo un superamento della «lettera» 33

nello Spirito. Nel XVI secolo Lutero, sulla base di una lettura dell’Antico Testamento di tipo completamente diverso, non poté più compiere questo passaggio. Per questo egli interpretò il culto veterotestamentario e il sacerdozio a esso ordinato ormai solo come espressione della «Legge», che per lui non era parte della via di grazia di Dio, ma a essa si contrapponeva. Così egli non poté che vedere un contrasto radicale fra gli uffici ministeriali neotestamentari e il sacerdozio come tale. Con il Vaticano II tale questione è divenuta assolutamente ineludibile anche per la Chiesa cattolica. L’«allegoria» come passaggio pneumatico dall’Antico al Nuovo Testamento era divenuta incomprensibile. E mentre il Decreto sul sacerdozio quasi non tratta la questione, essa dopo il Concilio ci ha investito con un’urgenza inaudita e si è trasformata nella perdurante crisi del sacerdozio nella Chiesa. Due annotazioni personali potranno contribuire a illustrare quanto detto. Mi è rimasto impresso nella memoria come, nella sua conversione da luterano convinto a convinto cattolico, affrontò questa questione con la sua consueta passione un mio amico, il grande indologo Paul Hacker. Considerava i «sacerdoti» una realtà superata una volta per tutte nel Nuovo Testamento, e con appassionata indignazione si opponeva innanzitutto al fatto che nella parola tedesca «Priester», che proviene dal termine greco presbyter, di fatto comunque continuasse a risuonare il significato 34

di sacerdos. Non so più come alla fine sia riuscito a risolvere la questione. Io stesso, in una conferenza sul sacerdozio della Chiesa tenuta subito dopo Concilio, ho creduto di dover presentare il presbitero neotestamentario come colui che medita la Parola e non come «artigiano del culto». Ora, la meditazione della Parola di Dio, in effetti, è un compito grande e fondamentale del sacerdote di Dio nella Nuova Alleanza. Ma questa Parola è divenuta carne e meditarla significa sempre anche farsi nutrire dalla carne che come pane del Cielo ci è donata nella Santissima Eucaristia. La meditazione della Parola nella Chiesa della Nuova Alleanza è anche un sempre nuovo abbandonarsi alla carne di Gesù Cristo e questo abbandonarsi è al contempo un esporsi alla trasformazione di noi stessi per mezzo della Croce. Su questo tornerò ancora in seguito. Fissiamo per il momento alcuni passaggi nel concreto sviluppo della storia della Chiesa. Un primo passo si vede nell’istituzione di un nuovo ministero. Gli Atti degli Apostoli ci riferiscono del sovraccarico di lavoro degli Apostoli che, accanto al compito dell’annuncio e della preghiera della Chiesa, dovevano assumere al contempo la piena responsabilità della cura dei poveri. La conseguenza fu che la parte ellenista della Chiesa nascente si sentì trascurata. Così gli Apostoli decisero di concentrarsi completamente sulla preghiera e sul servizio alla Parola. Per i compiti caritativi essi crearono 35

il ministero dei Sette che più tardi si identificò con il diaconato. L’esempio di santo Stefano mostra come anche questo ministero, peraltro, non richiedeva semplicemente un puro lavoro pragmatico-caritativo ma anche Spirito e fede, e dunque capacità di servizio alla Parola. Un problema rimasto fino a oggi cruciale scaturì dal fatto che i nuovi ministeri non poggiavano sulla discendenza familiare, ma su elezione e vocazione. Mentre nel caso della gerarchia sacerdotale di Israele la continuità veniva assicurata da Dio stesso, perché in ultima analisi era lui a donare i figli ai genitori, i nuovi ministeri non poggiavano al contrario sull’appartenenza familiare ma su una vocazione donata da Dio e da riconoscere da parte dell’uomo. Per questo nella comunità neotestamentaria sin dall’inizio si pone il problema della vocazione: «Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,37). C’è sempre, in ogni generazione, la speranza e la preoccupazione della Chiesa di trovare dei chiamati. Sappiamo sin troppo bene quanto questo proprio oggi rappresenti la preoccupazione e il compito della Chiesa. C’è un’ulteriore questione direttamente legata a questo problema. Ben presto – non sappiamo esattamente quando, ma in ogni caso molto presto – andò sviluppandosi come essenziale per la Chiesa la celebrazione regolare o addirittura quotidiana dell’Eu36

carestia. Il pane «supersostanziale» è al contempo il pane «quotidiano» della Chiesa. Questo, però, ebbe una conseguenza importante che proprio oggi assilla la Chiesa10. Nella coscienza comune di Israele era evidente che i sacerdoti avrebbero dovuto attenersi all’astinenza sessuale nei periodi in cui esercitavano il culto e dunque stavano in contatto con il mistero divino. Il rapporto fra astinenza sessuale e culto divino era assolutamente chiaro nella coscienza comune di Israele. Come esempio, vorrei solo ricordare l’episodio nel quale David, in fuga da Saul, prega il sacerdote Achimelech di dargli del pane: «Il sacerdote rispose a Davide: “Non ho sottomano pani comuni, ho solo pani sacri: se i tuoi giovani si sono almeno astenuti dalle donne, potete mangiarne”. Rispose Davide al sacerdote: “Ma certo! Dalle donne ci siamo astenuti da tre giorni”» (1Sam 21,5s). Visto che i sacerdoti veterotestamentari dovevano dedicarsi al culto solo in determinati perioSul significato del termine epioúsios (supersubstantialis) cfr. e. noRdhoFen, Was für ein Brot? [Che tipo di pane?], «Internationale Katholische Zeitschrift Communio» 46 (2017) 1, pp. 3-22; g. neuhauS, Möglichkeit und Grenzen einer Gottespräsenz im menschlichen «Fleisch». Anmerkungen zu Eckhard Nordhofens Relektüre der vierten Vaterunser-Bitte [Possibilità e limiti di una presenza divina nella «carne» dell’uomo. Considerazioni sulla rilettura di Eckard Nordhofen sulla quarta richiesta del Padre Nostro], ibidem, pp. 23-32. 10

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di, matrimonio e sacerdozio risultavano senz’altro tra loro conciliabili. A causa della celebrazione eucaristica regolare, o in molti casi giornaliera, per i sacerdoti della Chiesa di Gesù Cristo la situazione era radicalmente cambiata. Tutta la loro vita è in contatto con il mistero divino ed esige così un’esclusività per Dio la quale esclude un altro legame accanto a sé, come il matrimonio, che abbraccia l’intera vita. Sulla base della celebrazione giornaliera dell’Eucaristia, e sulla base del servizio per Dio che essa includeva, scaturì da sé l’impossibilità di un legame matrimoniale. Si potrebbe dire che l’astinenza funzionale si era trasformata da sé in un’astinenza ontologica. In questo modo la sua motivazione e il suo senso erano mutati dall’interno e in profondità. Oggi invece si muove subito l’obiezione che si tratterebbe di un giudizio negativo della corporeità e della sessualità. L’accusa che alla base del celibato sacerdotale ci sarebbe un’immagine del mondo manichea veniva mossa già nel IV secolo, ma fu subito respinta con decisione dai Padri e allora per qualche tempo cessò. Una diagnosi di questo tipo è errata già solo per il fatto che, sin da principio, nella Chiesa il matrimonio era considerato un dono dato nel paradiso da Dio. Ma esso assorbiva l’uomo nella sua interezza e il servizio per il Signore richiedeva parimenti l’uomo interamente, cosicché ambedue le vocazioni non sembrarono realizzabili insieme. Così la capacità di rinunciare al matrimonio per essere totalmente a 38

disposizione del Signore è divenuto un criterio per il ministero sacerdotale. Riguardo alla forma concreta di celibato nella Chiesa antica, va ancora rilevato che i sacerdoti sposati potevano ricevere il sacramento dell’Ordine se si fossero impegnati all’astinenza sessuale, dunque a contrarre il cosiddetto «matrimonio di san Giuseppe». Questo nei primi secoli sembra essere stato assolutamente normale. Evidentemente sussisteva un numero sufficiente di persone che trovavano ragionevole e vivibile un simile modo di vivere nel comune donarsi al Signore11. Tre testi per chiarire la nozione cristiana di sacerdozio A conclusione di queste riflessioni vorrei interpretare tre passi scritturistici nei quali emerge con chiarezza il passaggio dalle pietre al corpo, e dunque la profonda unità fra i due Testamenti, che tuttavia non rappresenta semplicemente un’unità meccanica ma un progredire nel quale l’intenzione profonda delle Ampie informazioni sulla storia del celibato nei primi secoli si trovano in: S. heId, Zölibat in der frühen Kirche. Die Anfänge einer Enthaltsamkeitspflicht für Kleriker in Ost und West [Il celibato nella Chiesa primitiva. L’inizio dell’obbligo dell’astinenza per i membri del clero in Oriente e in Occidente], Ferdinand Schöningh, Paderborn 1997. 11

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parole iniziali si compie proprio attraverso il passaggio dalla “lettera” allo Spirito. Salmo 16,5-6: le parole per l’accettazione nello stato clericale prima del Concilio Vorrei in primo luogo interpretare le parole del Salmo 16,5-6 che prima del Concilio Vaticano II erano utilizzate per l’accettazione nel clero. Erano recitate dal vescovo e poi ripetute dal candidato, che così veniva accolto nel clero della Chiesa: «Dominus pars hereditatis meae et calicis mei tu es qui restitues hereditatem meam mihi». «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi: la mia eredità è stupenda» (Sal 16,5-6). In effetti il Salmo esprime esattamente, per l’Antico Testamento, quello che ora vuol dire nella Chiesa: accettazione nella comunità sacerdotale. Il passo si riferisce al fatto che tutte le tribù d’Israele, ogni singola famiglia, rappresentava l’eredità della promessa di Dio ad Abramo. Questo si esprimeva concretamente nel fatto che ogni famiglia otteneva in eredità una porzione della Terra promessa come sua proprietà. Il possesso di una porzione di Terra santa dava a ogni singolo la certezza di essere partecipe della promessa e in pratica significava il suo concreto sostentamento. Ognuno doveva ottenere tanta terra quanta gliene occorreva per vivere. Quanto importante fosse per il singolo questa concreta eredità si evince chiaramente dalla storia di Nabot (1Re 21,1-29) 40

che non è assolutamente disposto a cedere al re Acab la sua vigna, nonostante che quest’ultimo sia pronto a risarcirlo pienamente. La vigna, per Nabot, è più di un prezioso appezzamento di terra: è la sua partecipazione alla promessa di Dio a Israele. Se, da un lato, ogni israelita disponeva in questo modo del terreno che gli assicurava il necessario per vivere, dall’altro, la particolarità della tribù di Levi risiede nel fatto che era l’unica tribù che non ereditava terreni. Il levita restava privo di terra e dunque privo di un’immediata base di sostentamento in termini di terra. Egli vive soltanto di Dio e per Dio. Concretamente questo significa che egli può vivere, in un modo regolato con precisione, delle offerte sacrificali che Israele riserva a Dio. Questa figura veterotestamentaria si realizza nei sacerdoti della Chiesa in modo nuovo e più profondo: essi devono vivere soltanto di Dio e per lui. Che cosa questo concretamente significhi è chiaramente detto soprattutto in Paolo. Egli vive di quello che gli daranno gli uomini, perché egli dona loro la Parola di Dio che è il nostro autentico pane, la nostra vera vita. Di fatto, in questa trasformazione neotestamentaria dell’essere privi di terra dei leviti, traspare la rinuncia al matrimonio e alla famiglia che consegue dal radicale essere per Dio. La Chiesa ha interpretato la parola «clero» (comunione ereditaria) in questo senso. Entrare a far parte del clero significa rinunciare a un proprio centro di vita e accettare soltanto Dio come sostegno e garante della propria vita. 41

Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo della sua esistenza, la terra della sua vita, è Dio stesso. Il celibato, in vigore per i vescovi in tutta la Chiesa d’Oriente e d’Occidente e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella apostolica, per tutti i sacerdoti nella Chiesa latina, in definitiva non può essere compreso e vissuto se non su questo fondamento. Avevo a lungo riflettuto su questa idea in occasione degli Esercizi che avevo predicato a Giovanni Paolo II e alla Curia romana all’inizio della Quaresima 1983: «Per questo non occorre più fare grandi trasposizioni nella nostra propria spiritualità. Parti fondamentali del sacerdozio sono così qualcosa come l’essere esposto del levita, la mancanza di una terra, l’essere proiettato-in-Dio. Il racconto della vocazione di Luca 5,1-11 […] si conclude non senza ragione con le parole: “Essi lasciarono tutto e lo seguirono” (v. 11). Senza un tale abbandono delle proprie cose non c’è Sacerdozio. La chiamata alla sequela non è possibile senza questo segno di libertà e di rinuncia di qualsiasi compromesso. Credo che da questo punto di vista il celibato acquisti il suo grande significato come abbandono di un futuro paese terreno e di un proprio ambito di vita familiare, e che anzi diventi proprio indispensabile affinché possa rimanere fondamentale il venir consegnato a Dio e acquistare la sua concretezza. Questo significa ben s’intende che il celibato impone le sue esigenze riguardo a tutte le forme d’impostazione della vita. Non può raggiungere il suo pieno significato, se noi per il resto seguiamo le regole della proprietà e del gioco della 42

vita oggi comunemente accettata. Non può soprattutto avere stabilità, se noi non facciamo del nostro ambientarci presso Dio il centro della nostra vita. Il Salmo 16, quanto il Salmo 119, è un vigoroso accenno alla necessità della continua dimestichezza meditativa con la parola di Dio, che solamente così può divenire per noi domicilio. L’aspetto comunitario, ad esso necessariamente congiunto, della pietà liturgica emerge là dove il Salmo 16 parla del Signore come “mio calice” (v. 5). Secondo il linguaggio abituale dell’Antico Testamento questo accenno si riferisce al calice festivo che veniva fatto passare di mano in mano nella cena cultuale, o al calice fatale, al calice dell’ira o della salvezza. L’orante sacerdotale del Nuovo Testamento vi può trovare indicato in modo particolare quel calice, mediante il quale il Signore nel senso più profondo è diventato la nostra terra, il Calice Eucaristico, nel quale egli partecipa se stesso come nostra vita. La vita sacerdotale alla presenza di Dio è così concretizzata nella vita in virtù del mistero eucaristico. Nel senso più profondo l’Eucaristia è la terra, che è diventata nostra porzione e della quale possiamo dire: “Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi; sì, la mia eredità è magnifica!”»12. È sempre vivo nella mia memoria il ricordo di quando, meditando questo versetto del Salmo 16 alla vigilia J. RatzIngeR, Il cammino pasquale, Àncora, Milano 20064, pp. 157-158. 12

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della mia tonsura, compresi cosa il Signore volesse da me in quel momento: voleva egli stesso disporre interamente della mia vita e in questo modo al contempo affidarsi interamente a me. Così potei considerare le parole del Salmo interamente come il mio destino: «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi: la mia eredità è stupenda» (Sal 16, 5). Deuteronomio 10,8 e 18,5-8. Le parole assunte nella II Preghiera eucaristica: il compito della tribù di Levi riletto cristologicamente e pneumatologicamente per i sacerdoti della Chiesa In secondo luogo, vorrei analizzare un passo tratto dalla II Preghiera eucaristica della Liturgia romana successiva alla riforma del Vaticano II. Il testo della II Preghiera eucaristica è generalmente attribuito a sant’Ippolito († 235 circa); in ogni caso è molto antico. In essa troviamo le seguenti parole: «Domine, panem vitae et calicem salutis offerimus, gratias agentes quia nos dignos habuisti astare coram te et tibi ministrare». Questa frase non significa, come alcuni liturgisti vollero farci credere, lo stabilire che anche durante la Preghiera eucaristica i sacerdoti e i fedeli dovevano stare in piedi e non inginocchiarsi13. La giusta comprensione di Mentre la traduzione tedesca ufficiale della II Preghiera eucaristica dice correttamente «vor dir zu stehen und dir zu dienen» («a stare davanti a te e a te servire»), la traduzione italiana 13

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questa frase si evince dal considerare che essa è tratta letteralmente da Dt 10,8 (di nuovo in Dt 18,5-8), dove descrive il compito cultuale essenziale della tribù di Levi: «In quel tempo il Signore prescelse la tribù di Levi per portare l’arca dell’alleanza del Signore, per stare davanti al Signore al suo servizio e per benedire nel nome di lui» (Dt 10,8). «Perché il Signore tuo Dio l’ha scelto fra tutte le tue tribù, affinché attenda al servizio del nome del Signore, lui e i suoi figli per sempre» (Dt 18,5). Queste parole, che nel Deuteronomio hanno il compito di definire l’essenza del servizio sacerdotale, sono poi state assunte nella Preghiera eucaristica della Chiesa di Gesù Cristo, della Nuova Alleanza, esprimendo in tal modo la continuità e la novità del sacerdozio. Quel che allora veniva detto della tribù di Levi e che spettava esclusivamente a essa, ora è applicato ai presbiteri e ai vescovi della Chiesa. Non si tratta – come forse si sarebbe portati ad affermare sulla base di una concezione ispirata alla Riforma – di una ricaduta dalla novità della comunità di Gesù Cristo, in un sacerdozio cultuale superato e da respingere; si tratta invece del nuovo passo della Nuova Alleanza, la quale assume e nel contempo trasforma l’Antico elevandolo all’altezza di Gesù Cristo. Il sacerdozio non è più una faccenda di appartenenza familiare, ma è aperto semplifica il testo, omettendo l’immagine dello stare davanti a Dio, e dice: «Ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale».

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alla vastità dell’umanità. Non è più amministrazione del sacrificio nel Tempio, ma inclusione dell’umanità nell’amore di Gesù Cristo che abbraccia tutto il mondo: culto e critica del culto, sacrificio liturgico e servizio dell’amore al prossimo sono divenuti una cosa sola. Perciò questa frase («astare coram te et tibi ministrare») non parla di un atteggiamento esteriore; essa, invece, quale punto più profondo di unità fra Antico e Nuovo Testamento, descrive la natura stessa del sacerdozio, che a sua volta non si riferisce a una determinata classe di persone, ma in ultima analisi rimanda al nostro stare tutti davanti a Dio. Ho cercato di interpretare questo testo in un’omelia in San Pietro per il Giovedì Santo del 2008 che qui riprendo e riporto: «Allo stesso tempo, il Giovedì Santo è per noi un’occasione per chiederci sempre di nuovo: A che cosa abbiamo detto “sì”? Che cosa è questo “essere sacerdote di Gesù Cristo”? Il Canone II del nostro Messale, che probabilmente fu redatto già alla fine del II secolo a Roma, descrive l’essenza del ministero sacerdotale con le parole con cui, nel Libro del Deuteronomio (18,5-7), veniva descritta l’essenza del sacerdozio veterotestamentario: “astare coram te et tibi ministrare”. Sono quindi due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo lo “stare davanti al Signore”. Nel Libro del Deuteronomio ciò va letto nel contesto della disposizione precedente, secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna porzione di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di 46

Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori necessari per il sostentamento della vita quotidiana. La loro professione era “stare davanti al Signore” – guardare a Lui, esserci per Lui. Così, in definitiva, la parola indicava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri coltivavano la terra, della quale viveva anche il sacerdote, così egli manteneva il mondo aperto verso Dio, doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui. Se questa parola ora si trova nel Canone della Messa immediatamente dopo la consacrazione dei doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò indica per noi lo stare davanti al Signore presente, indica cioè l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale. Ma anche qui la portata va oltre. Nell’inno della Liturgia delle Ore che durante la Quaresima introduce l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso i monaci era recitato durante l’ora della veglia notturna davanti a Dio e per gli uomini – uno dei compiti della Quaresima è descritto con l’imperativo: “arctius perstemus in custodia” – stiamo di guardia in modo più intenso. Nella tradizione del monachesimo siriaco, i monaci erano qualificati come “coloro che stanno in piedi”; lo stare in piedi era l’espressione della vigilanza. Ciò che qui era considerato compito dei monaci, possiamo con ragione vederlo anche come espressione della missione sacerdotale e come giusta interpretazione della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il 47

mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sacerdote, impavido e disposto a incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli: essi erano “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (5,41). Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo dell’Antico Testamento – “stare davanti a te e a te servire”. Il sacerdote deve essere una persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A tutto ciò si aggiunge poi il servire. Nel testo veterotestamentario questa parola ha un significato essenzialmente rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge. Ma questo agire secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un incarico di servizio, e così si spiega in quale spirito quelle attività dovevano essere svolte. Con l’assunzione della parola “servire” nel Canone, questo significato liturgico del termine viene in un certo modo adottato – conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli 48

uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote deve inserirsi. Così la parola “servire” comporta molte dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere, compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre di più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana. È allora che celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’ars celebrandi, l’arte del celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto. Deve diventare una cosa sola con l’arte del vivere rettamente. Se la Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. “Servire il Signore” – il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere a tutti coloro che Egli ci affida. Fanno parte del servire, infine, ancora due altri aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso “servire” significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi conti49

nuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timore riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto anche obbedienza. Il servo sta sotto la parola: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22,42). Con questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva contro il peccato, contro la ribellione del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva, appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua volontà e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che solo così noi saremmo liberi; che solo grazie a una simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completamente uomo, diventerebbe divino. Ma proprio così ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con loro. Questa libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in ciò che costituisce la misura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di Dio. Questa obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini, diventa ancora più concreta nel 50

sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Non inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fosse, ma annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo. La nostra obbedienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parlare con la Chiesa, un servire con essa. Rientra in questo sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro: “Sarai portato dove non volevi”. Questo farsi guidare dove non vogliamo è una dimensione essenziale del nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In un tale essere guidati, che può essere contrario alle nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa nuova – la ricchezza dell’amore di Dio. “Stare davanti a Lui e servirLo”: Gesù Cristo come il vero Sommo Sacerdote del mondo ha conferito a queste parole una profondità prima inimmaginabile. Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto diventare quel servo di Dio che la visione del Libro del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto essere il servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo sommo sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi. Con il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla malattia della nostra superbia. Così ci rende capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui. La sua elevazione è la Croce. È la discesa più profonda e, come amore spinto sino alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera 51

“elevazione” dell’uomo. “Stare davanti a Lui e servirLo” – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di servo di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa e dell’ascesa di Cristo rimanda così sempre, al di là di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore del prossimo. Chiediamo al Signore, in questo giorno, il dono di poter dire in tal senso nuovamente il nostro “sì” alla sua chiamata: “Eccomi. Manda me, Signore” (Is 6,8). Amen»14. Giovanni 17,17: la preghiera sacerdotale di Gesù, interpretazione dell’ordinazione sacerdotale Infine vorrei riflettere ancora un istante su alcune parole tratte dalla preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 17), che alla vigilia della mia ordinazione sacerdotale si impressero particolarmente nel mio cuore. Mentre i Sinottici essenzialmente riportano la predicazione di Gesù in Galilea, Giovanni – che sembra aver avuto rapporti di parentela con l’aristocrazia del Tempio – riferisce soprattutto dell’annuncio di Gesù a Gerusalemme e delle questioni riguardanti il Tempio e il culto. In questo contesto la preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 17) acquista un rilievo particolare. Benedetto XVI, Il sacerdote: uomo in piedi, dritto, vigilante, Omelia durante la messa crismale nella Basilica Vaticana di San Pietro, mattina del Giovedì Santo, 20 marzo 2008. Cfr. anche Insegnamenti di Benedetto XVI, IV, 1 (gennaio-giugno 2008), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, pp. 442-446. 14

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Non intendo qui ripetere i singoli elementi che ho analizzato nel secondo tomo del mio libro su Gesù15. Vorrei solo limitarmi ai versetti 17 e 18 che mi colpirono particolarmente alla vigilia della mia ordinazione sacerdotale. Recitano così: «Consacrali [santificali] nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo». Il termine «santo» esprime la particolare natura di Dio. Lui solo è il Santo. L’uomo diventa santo nella misura in cui inizia a stare con Dio. Stare con Dio significa scardinamento del puro io e il suo divenire una sola cosa con il tutto della volontà di Dio. Questa liberazione dall’io può tuttavia risultare molto dolorosa e non è mai compiuta una volta per tutte. Con il termine «santifica» può tuttavia essere intesa molto concretamente anche l’ordinazione sacerdotale che significa appunto la rivendicazione radicale dell’uomo da parte del Dio vivo per il suo servizio. Quando il testo dice «Consacrali [santificali] nella verità», il Signore prega il Padre di includere i Dodici nella sua missione, di ordinarli sacerdoti. «Consacrali [santificali] nella verità». Sembra qui sommessamente indicato anche il rito dell’ordinazione sacerdotale veterotestamentaria. L’ordinando veniva fisicamente purificato con un lavacro completo per fargli successivamente indossare le vesti sacre. Ambedue le cose prese insieme significano che, in questo modo, l’inviato deve diventare un uomo nuo15

Cfr. J. RatzIngeR, Gesù di Nazaret, op. cit., pp. 91-118.

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vo. Ma quel che nel rituale veterotestamentario è figura simbolica, nella preghiera di Gesù diventa realtà. Il solo lavacro che può realmente purificare gli uomini è la verità, è Cristo stesso. Ed egli è anche la veste nuova accennata nell’esteriore vestizione cultuale. «Consacrali [santificali] nella verità». Significa: immergili completamente in Gesù Cristo affinché valga per loro quel che Paolo ha indicato come l’esperienza fondamentale del suo apostolato: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Così, alla sera di quella vigilia, si è impresso profondamente nella mia anima che cosa significa davvero l’ordinazione sacerdotale al di là di ogni aspetto cerimoniale: significa essere sempre di nuovo purificati e pervasi da Cristo così che è Lui a parlare e agire in noi, e sempre meno noi stessi. E mi è divenuto chiaro che questo processo del divenire una cosa sola con lui e il superamento di ciò che è solo nostro dura tutta la vita e racchiude anche sempre dolorose liberazioni e rinnovamenti. In questo senso le parole di Gv 17,17 sono state un’indicazione di cammino in tutta la mia vita. Benedetto XVI Città del Vaticano, Monastero “Mater Ecclesiae”, 17 settembre 2019

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II AMARE FINO ALLA FINE. SGUARDO ECCLESIOLOGICO E PASTORALE SUL CELIBATO SACERDOTALE Cardinale Robert Sarah

«Sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). Le parole dell’evangelista Giovanni introducono con solennità il grande «discorso sacerdotale» di Gesù dopo la Cena del Giovedì Santo. Esse esprimono molto bene la disposizione d’animo necessaria per ogni riflessione sul mistero del sacerdozio. Come accostare questo argomento senza tremare? È importante che dedichiamo del tempo ad aprire l’anima al soffio dello Spirito Santo. Il sacerdozio, per riprendere le parole del Santo Curato d’Ars, è l’amore del cuore di Gesù. Non dobbiamo trasformarlo in occasione di polemica, di lotta ideologica o di strategia politica. Non possiamo nemmeno ridurlo a una questione di pura disciplina o di organizzazione pastorale. Questi ultimi mesi, in occasione del Sinodo sull’Amazzonia, abbiamo assistito a molta frettolosa eccitazione. Il mio cuore di vescovo s’inquieta. Ho ricevuto molti sacerdoti disorientati, turbati e feriti nell’intimo della loro vita spirituale a causa delle violente contestazioni della dottrina della Chiesa. Oggi, voglio ribadire loro: Non abbiate paura! 57

«Il sacerdote – ricordava Benedetto XVI – è un dono del Cuore di Cristo: un dono per la Chiesa e per il mondo. Dal Cuore del Figlio di Dio, traboccante di carità, scaturiscono tutti i beni della Chiesa, e in modo particolare trae origine la vocazione di quegli uomini che, conquistati dal Signore Gesù, lasciano tutto per dedicarsi interamente al servizio del popolo cristiano, sull’esempio del Buon Pastore»16. Cari fratelli sacerdoti, voglio parlarvi con il cuore in mano. Sembrate perduti, scoraggiati, sopraffatti dalla sofferenza. Una terribile sensazione di abbandono e solitudine stritola il vostro cuore. In un mondo insidiato dall’incredulità e dall’indifferenza è inevitabile che l’apostolo soffra: il sacerdote che brucia di fede e di amore apostolico si accorge subito che il mondo in cui vive è come rovesciato. Tuttavia, il mistero che abita in voi è ancora in grado di trasmettervi la forza per vivere in mezzo al mondo. E ogni volta che il servo dell’«unico necessario» si sforza di porre Dio al centro della propria vita, porta un po’ di luce nelle tenebre. Nel sacerdozio è in gioco la continuazione sacramentale dell’amore del Buon Pastore. Prendo, dunque, la parola perché, da ogni parte nella Chiesa, con spirito di autentica sinodalità, si apra e si rinnovi una riflessione serena e orante sulla realtà spirituale del sacramento dell’Ordine. E supplico tutti e ciascuno: non 16

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Benedetto XVI, Angelus, 13 giugno 2010.

corriamo troppo! Non si possono cambiare le cose in pochi mesi. Se le nostre decisioni non si radicano in una continua e prolungata adorazione, non potranno avere altro futuro se non quello degli slogan e dei discorsi politici che, uno dopo l’altro, cadono nell’oblio. Il Papa emerito, Benedetto XVI, ci ha fatto dono di una straordinaria lectio divina, attraverso la quale egli risale alle sorgenti bibliche del mistero del sacerdozio. Per quanto mi riguarda, su questo sacramento vorrei molto umilmente gettare uno sguardo da pastore. La nostra riflessione pastorale non deve asservirsi alla sola attualità, né ridursi a un’analisi sociologica. È urgente nutrirla mediante la contemplazione e strutturarla attraverso la teologia. Essa deve però risultare anche concreta. Ho notato, infatti, quanto spesso ci si accontenti di richiamare i princìpi teorici senza trarre da essi le conseguenze pratiche. Così, quando si accosta la teologia del sacerdozio, non è sufficiente richiamare il valore del celibato. Occorre rilevarne altresì le conseguenze ecclesiologiche e pastorali concrete. Durante il Sinodo sull’Amazzonia, ho avuto occasione di ascoltare esperti e discutere con missionari veterani. Questi colloqui mi hanno confermato nell’idea che la possibilità di ordinare uomini sposati rappresenterebbe una catastrofe pastorale, una confusione ecclesiologica e un arretramento nella comprensione del sacerdozio. Attorno a questi tre punti si articola la riflessione che vado ora a presentarvi. 59

Una catastrofe pastorale Il sacerdozio: un innesto ontologico nel «sì» di CristoSacerdote Si potrebbe riassumere la meditazione del Papa emerito in questi termini: nella sua persona Gesù ci rivela la pienezza del sacerdozio. Egli conferisce pieno senso a quanto era stato annunciato e prefigurato nell’Antico Testamento. Il nucleo di questa rivelazione è semplice: il sacerdote non è soltanto colui che compie una funzione sacrificale. È invece colui che per amore offre se stesso in sacrificio sull’esempio di Cristo. Benedetto XVI ci ha così chiaramente e definitivamente mostrato che il sacerdozio è uno «stato di vita»: «Il sacerdote viene sottratto alle connessioni del mondo e donato a Dio, e proprio così, a partire da Dio, deve essere disponibile per gli altri, per tutti»17. Il celibato sacerdotale è l’espressione della volontà di mettersi a disposizione del Signore e degli uomini. Papa Benedetto XVI dimostra che il celibato sacerdotale non è un auspicabile «supplemento spirituale» nella vita del prete. Una vita sacerdotale coerente richiede ontologicamente il celibato. Nel testo che precede queste righe, Benedetto XVI mostra che il passaggio dal sacerdozio dell’Antico Testamento a quello del Nuovo Testamento si traduce con il passaggio da un’«astinenza sessuale funzionale» Id., Omelia nella Santa Messa del Crisma, Giovedì Santo, 9 aprile 2009. 17

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a un’«astinenza ontologica». Credo che mai un Papa abbia espresso con una tale forza la necessità del celibato sacerdotale. Dobbiamo meditare su queste riflessioni di un uomo che si avvicina al termine della propria vita. In questa ora cruciale, non si decide di intervenire con leggerezza. Benedetto XVI ci insegna ancora che il sacerdozio, dal momento che implica l’offerta del sacrificio della Messa, rende impossibile un vincolo matrimoniale. Vorrei sottolineare quest’ultimo punto. Per il sacerdote la celebrazione dell’Eucaristia non consiste soltanto nel compiere dei riti. La celebrazione della Messa suppone di entrare con tutto il proprio essere nella grande offerta di Cristo al Padre, nel grande «sì» di Gesù al Padre suo: «Nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Ora, il celibato «è un “sì” definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo “io” […]; è proprio il “sì” definitivo»18. Se riduciamo il celibato sacerdotale a una questione di disciplina, di adattamento ai costumi e alle culture, isoliamo il sacerdozio dal proprio fondamento. In questo senso, il celibato sacerdotale è necessario per la corretta comprensione del sacerdozio. «E di questo poi fa parte anche quel mettersi a disposizione del Signore veramente nella completezza del proprio essere e trovarsi quindi totalmente a disposizione degli uomini. Penso che il celibato sia un’espressione fonId., Colloquio con i sacerdoti, Veglia in occasione dell’incontro internazionale dei sacerdoti, 10 giugno 2010. 18

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damentale di questa totalità»19, diceva Benedetto XVI al clero della Diocesi di Bolzano-Bressanone. Urgenza pastorale e missionaria del celibato sacerdotale In quanto vescovo, temo che il progetto di ordinare sacerdoti uomini sposati generi una catastrofe pastorale. Sarebbe una catastrofe per i fedeli presso i quali verrebbero inviati. Sarebbe una catastrofe per gli stessi sacerdoti. Come può una comunità cristiana comprendere il sacerdote se non è chiaro che egli è qualche cosa «tolta dalla sfera del comune, data a Lui»20? Come possono i cristiani comprendere che il sacerdote si dona loro se non si consegna interamente al Padre? Se non entra nella kenosi, nell’annientamento, nell’abbassamento di Gesù, «il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo» (Fil 2,6-7). Egli si è spogliato di ciò che era con un atto di libertà e di amore. L’abbassamento di Cristo fino alla Croce non è un semplice atteggiamento di obbedienza e di umiltà. È un atto di perdita di sé per amore, nel quale il Figlio si abbandona totalmente al Padre e all’umanità: questo è il fondamento del saId., Incontro con il clero della Diocesi di Bressanone, mercoledì 6 agosto 2008. 20 Ibidem. 19

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cerdozio di Cristo. Come può, dunque, un sacerdote custodire, conservare e rivendicare un diritto al vincolo matrimoniale? Come può rifiutare di farsi servo insieme a Gesù-Sacerdote? Questa totale consegna di sé in Cristo è la condizione di un dono totale di sé a tutti gli uomini. Chi non si consegna totalmente a Dio non si dona perfettamente ai propri fratelli. Che visione potranno avere del sacerdote popolazioni isolate e poco evangelizzate? Si vuole forse impedire loro di scoprire la pienezza del sacerdozio cristiano? All’inizio del 1976, da giovane sacerdote, sono stato in alcuni remoti villaggi della Guinea. Molti di essi non ricevevano la visita di un prete da circa dieci anni, perché i missionari europei erano stati espulsi nel 1967 da Sékou Touré. I cristiani, tuttavia, continuavano a insegnare il catechismo ai bambini e a recitare le preghiere del mattino e il rosario. Manifestavano una grande devozione alla Vergine Maria, e si riunivano la domenica per ascoltare la Parola di Dio. Ho avuto la grazia di incontrare questi uomini e queste donne che custodivano la fede senza alcun sostegno sacramentale per via dell’assenza di sacerdoti. Si nutrivano della Parola di Dio e alimentavano la vitalità della fede con la preghiera quotidiana. Non potrò mai dimenticare la loro gioia indicibile quando celebravo la Messa che per così tanto tempo non avevano potuto conoscere. Mi sia permesso affermare con certezza e vigore: credo che se in ogni villaggio fossero stati ordinati uomini sposati, si sarebbe spenta la fame eucaristica dei fedeli. Si sarebbe privato il 63

popolo di questa gioia di ricevere, nel sacerdote, un altro Cristo. Infatti, grazie al senso della fede, i poveri sanno che un prete che ha rinunciato al matrimonio fa loro dono di tutto il suo amore sponsale. Quante volte, camminando diverse ore per i villaggi, con una valigetta per celebrazioni sulla testa, sotto il sole a picco, ho personalmente sperimentato la gioia di donarsi per la Chiesa-Sposa. Attraversando le paludi su una canoa di fortuna, in mezzo alle lagune o superando pericolosi torrenti dai quali temevamo di essere travolti, ho percepito anche nel mio corpo la gioia di essere interamente donato a Dio, disponibile, consegnato al suo popolo. Come vorrei che tutti i miei confratelli spersi per il mondo possano un giorno fare l’esperienza dell’accoglienza di un prete in un villaggio africano che riconosca in lui il Cristo-Sposo: che esplosione di gioia! Che festa! I canti, le danze, le effusioni, il cibo esprimono la gratitudine del popolo per questo dono di sé in Cristo. L’ordinazione di uomini sposati priverebbe le giovani Chiese, in corso di evangelizzazione, di questa esperienza della presenza e della visita di Cristo, consegnato e donato nella persona del sacerdote celibatario. Il dramma pastorale sarebbe immenso. Esso comporterebbe un impoverimento dell’evangelizzazione. Sono convinto che se molti preti e vescovi occidentali sono pronti a relativizzare la grandezza e l’importanza del celibato, è perché non hanno mai fatto l’esperienza concreta della riconoscenza di una comunità cristiana. Non parlo semplicemente in termini 64

umani. Credo che in questa riconoscenza risieda un’esperienza di fede. I poveri e i semplici sanno discernere con gli occhi della fede la presenza di Cristo-Sposo della Chiesa nel sacerdote celibatario. Tale esperienza spirituale è fondamentale nella vita di un prete. Essa guarisce per sempre da ogni forma di clericalismo. Lo so, perché l’ho sperimentato persino nella mia carne, che i cristiani vedono in me Cristo consegnato per loro, e non la mia limitata persona con le sue qualità e i suoi numerosi difetti. Senza questa esperienza, il celibato diventa un fardello troppo gravoso da sopportare. Ho l’impressione che per alcuni vescovi occidentali, o anche del Sud America, il celibato sia diventato pesante. Vi restano fedeli, ma non hanno il coraggio di imporlo ai futuri preti e alle comunità cristiane, perché ne sono insofferenti in prima persona. Li capisco. Chi potrebbe imporre un peso agli altri senza amarne il senso profondo? Non sarebbe forse questa una forma di farisaismo? Sono certo, tuttavia, che ci sia qui un errore di prospettiva. Se ben capito, il celibato sacerdotale, benché talvolta possa essere una prova, rappresenta una liberazione. Consente al sacerdote di innestarsi coerentemente nella propria identità di sposo della Chiesa. Il progetto che consiste nel privare le comunità e i sacerdoti di una tale gioia non è un’opera di misericordia. Come figlio dell’Africa, non posso in coscienza sopportare l’idea che i popoli in corso di evangelizzazione siano privati di questo incontro con un sacerdozio pienamente vissuto. I popoli dell’Amazzonia 65

hanno il diritto a una piena esperienza di Cristo-Sposo. Non è possibile proporre loro dei preti di «seconda classe». Al contrario, più una Chiesa è giovane, più essa ha bisogno dell’incontro con la radicalità del Vangelo. Quando san Paolo esorta le giovani comunità cristiane di Efeso, di Filippi e di Colossi, non li pone di fronte a un ideale inaccessibile, ma insegna loro tutte le esigenze del Vangelo: «Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie. Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo» (Col 2,6-8). In questo insegnamento non si trova né rigidità né intolleranza. La Parola di Dio esige una conversione radicale. Non sopporta i compromessi e le ambiguità. Essa è «efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Eb 4,12). Sull’esempio dell’Apostolo dobbiamo predicare con chiarezza e dolcezza, senza rigidità polemica, né molle timidezza. Permettetemi di fare riferimento ancora una volta alla mia esperienza personale. Ho trascorso la mia infanzia in un mondo che stava appena uscendo dal paganesimo. I miei genitori hanno conosciuto il cristianesimo soltanto da adulti. Mio padre è stato battezzato due anni prima che nascessi. Mia nonna lo è stata in punto di morte. Ho dunque conosciuto molto bene l’animismo e la religione tradizionale. Conosco 66

la difficoltà dell’evangelizzazione, lo strappo doloroso e le eroiche rotture che i neofiti devono affrontare in rapporto ai costumi, allo stile di vita e alle tradizioni pagane. Immagino ciò che sarebbe stata l’evangelizzazione del mio villaggio se fosse stato ordinato sacerdote un uomo sposato. Mi si spezza il cuore al solo pensiero. Che tristezza! Di certo oggi non sarei un sacerdote, perché ciò che mi ha affascinato è stata la radicalità della vita dei missionari. Come oseremmo privare i popoli della gioia di un tale incontro con Cristo? La considero una forma di disprezzo. L’opposizione tra «pastorale della visita» e «pastorale della presenza» è stata strumentalizzata ed esasperata. La visita in una comunità da parte di un prete missionario proveniente da un paese lontano esprime la sollecitudine da parte della Chiesa universale. È l’immagine del Verbo che visita l’umanità. L’ordinazione di un uomo sposato all’interno della comunità esprimerebbe invece il movimento opposto: come se ciascuna comunità fosse tenuta a trovarsi da sola i mezzi di salvezza. Quando san Paolo, questo grande missionario, ci racconta delle sue visite presso le comunità dell’Asia Minore da lui stesso fondate, ci dà l’esempio di un apostolo che visita le comunità cristiane per donare loro conforto. La misericordia di Dio si incarna nella visita di Cristo. La riceviamo con gratitudine. Essa ci apre a tutta la famiglia ecclesiale. Temo che l’ordinazione di uo67

mini sposati responsabili di una comunità chiuda questa comunità su se stessa e la escluda dall’universalità della Chiesa. Come sarà possibile chiedere a un uomo sposato di cambiare comunità portando con sé moglie e figli? Come potrà vivere la libertà del servo pronto a donarsi a ogni uomo? Il sacerdozio è un dono che si accoglie, come è stata accolta l’Incarnazione del Verbo. Non è un diritto, né un obbligo. Una comunità che si radichi nell’idea di un «diritto all’Eucaristia» non sarebbe più discepola di Cristo. Come il nome stesso indica, l’Eucaristia è un’azione di grazia, un dono gratuito e misericordioso. La presenza eucaristica si riceve con gioia e stupore come un dono immeritato. Il fedele che la reclama come qualcosa di dovuto mostra di non essere in grado di comprenderla. Sono persuaso che le comunità cristiane dell’Amazzonia non entrino in prima persona in tale logica di rivendicazione eucaristica. Credo piuttosto che questi temi siano ossessioni la cui fonte è possibile rintracciare negli ambienti teologici universitari. Abbiamo a che fare con ideologie sviluppate da alcuni teologi che vorrebbero utilizzare la difficoltà di popolazioni povere come un laboratorio sperimentale per i propri progetti da apprendisti stregoni. Non posso risolvermi a lasciarli operare liberamente. Voglio assumere le difese dei poveri, dei piccoli, di questi popoli «senza voce». Non priviamoli della pienezza del sacerdozio. Non priviamoli del vero senso dell’Eucaristia. Dobbiamo evitare «che si tratti la dottrina cattolica del sacerdozio 68

e del celibato alla luce dei bisogni percepiti o presunti di certe situazioni pastorali estreme. Penso soprattutto che la Chiesa latina ignori la sua propria tradizione del celibato, che risale ai tempi apostolici e che è stata il segreto e il motore della sua forte espansione missionaria»21, così rimarcava recentemente il Cardinale Marc Ouellet. Si tratta di un punto decisivo. Il celibato sacerdotale è un potente motore di evangelizzazione. Rende credibile il missionario. Più radicalmente, lo rende libero, pronto ad andare dovunque e a rischiare ogni cosa perché non lo trattiene più alcun legame. Alla luce della Tradizione della Chiesa Alcuni penseranno che questa mia riflessione sia errata. Altri mi diranno che il celibato sacerdotale è soltanto una disciplina tardivamente imposta dalla Chiesa latina ai propri chierici. Ho letto simili affermazioni su molti giornali. La precisione storica mi obbliga a dichiarare che esse sono false. Gli storici seri sanno che, già dal IV secolo, la necessità della continenza per i preti è affermata dai concili22. Bisogna essere precisi. m. ouellet, Intervista con Jean-Marie Guénois, «Le Figaro», 28 ottobre 2019. 22 Cfr. su questo tema lo studio storico di c. cochInI, Le origini apostoliche del celibato sacerdotale, Nova Millenium Romae, Roma 2011; si veda inoltre a.m. StIcKleR, Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994; S. heId, Zölibat in der frühen Kirche, op. cit. 21

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Nel corso del primo millennio, sono stati sì ordinati sacerdoti molti uomini sposati. Ma a partire dalla loro ordinazione essi erano tenuti all’astinenza dai rapporti sessuali con le proprie mogli. Questo punto viene sistematicamente sottolineato dai concili che si fondano su una tradizione ricevuta dagli Apostoli. È pensabile che la Chiesa abbia potuto introdurre brutalmente la disciplina della continenza del clero senza suscitare proteste da parte di coloro ai quali veniva imposta? Tale novità sarebbe risultata insopportabile. Ora, gli storici rilevano l’assenza di proteste quando il Concilio di Elvira, all’inizio del IV secolo, decise di escludere dallo stato clericale i vescovi, i preti e i diaconi sospettati di intrattenere rapporti sessuali con le proprie mogli. Il fatto che una decisione tanto esigente non abbia suscitato opposizioni testimonia che la legge della continenza per i chierici non fosse una novità. La Chiesa era da poco uscita dal periodo delle persecuzioni. Una delle sue prime preoccupazioni fu quella di richiamare una regola che aveva forse subìto alcune distorsioni nel subbuglio del periodo dei martiri, ma che era già ben consolidata. Alcuni danno prova di una terribile disonestà intellettuale. Affermano: ci sono stati sacerdoti sposati. È vero. Ma essi erano tenuti alla continenza perfetta. Vogliamo ritornare a questa situazione? Il rispetto che nutriamo verso il sacramento del matrimonio e la comprensione più approfondita che di esso abbiamo dal Concilio ce lo impediscono. 70

Il sacerdozio è una risposta a una vocazione personale. È il frutto di un’intima chiamata di Dio il cui archetipo è la chiamata che Dio rivolge a Samuele (cfr. 1Sam 3). Non si diventa sacerdoti perché è necessario colmare un bisogno della comunità e perché è doveroso che qualcuno occupi il «posto». Il sacerdozio è uno stato di vita. È il frutto di un dialogo intimo tra Dio che chiama e l’anima che risponde: «Eccomi […] per fare […] la tua volontà» (Eb 10,7). Nessuno può intromettersi in questo cuore a cuore. Solo la Chiesa può autentificarne la risposta. Mi domando: che cosa ne sarà della moglie di un uomo ordinato sacerdote? Quale ruolo potrà avere? Esiste una vocazione a essere la moglie di un prete? Come abbiamo visto, il sacerdozio implica la consegna della propria vita, tutta intera, e il dono di se stessi alla sequela di Cristo. Implica un dono assoluto di sé a Dio e un dono totale di sé ai fratelli. Quale posto, dunque, assegnare al vincolo coniugale? Il Concilio Vaticano II ha valorizzato la dignità del sacramento del matrimonio come via ordinaria di santità per la vita coniugale. Tale stato di vita suppone, tuttavia, che gli sposi collochino il legame che li unisce al di sopra di ogni altro. Ordinare sacerdote un uomo sposato significherebbe sminuire la dignità del matrimonio e ridurre il sacerdozio a una mera funzione. Che dire della libertà a cui giustamente possono aspirare i figli della coppia? Devono anch’essi abbracciare la vocazione del padre? Come si può imporre loro uno stile di vita che non hanno scelto? Hanno il 71

diritto di godere di tutte le risorse necessarie alla loro crescita. I preti sposati dovranno essere stipendiati di conseguenza in base a queste esigenze? Si potrebbe obiettare che l’Oriente cristiano conosce da sempre tale situazione e che ciò non solleva alcun problema. È falso! L’Oriente cristiano ha concesso tardivamente che gli uomini sposati divenuti sacerdoti possano avere rapporti sessuali con le proprie mogli. Tale disciplina è stata introdotta al Concilio in Trullo nel 691. La novità è apparsa come conseguenza di un errore nella trascrizione dei canoni del Concilio che si era svolto nel 390 a Cartagine. Del resto, la grande innovazione di questo Concilio del VII secolo non consiste nella scomparsa della continenza sacerdotale, ma nella sua limitazione al periodo che precede la celebrazione dei santi Misteri. Il legame ontologico tra ministero sacerdotale e continenza è ancora stabilito e avvertito. Vogliamo fare ritorno a questa pratica? Dobbiamo prestare ascolto alle testimonianze che provengono dalle Chiese cattoliche orientali. Molti membri di queste Chiese hanno chiaramente sottolineato come lo stato di vita sacerdotale entrasse in tensione con quello coniugale. Nel corso dei secoli passati, la situazione ha potuto perdurare grazie all’esistenza di «famiglie di sacerdoti», nelle quali i bambini venivano educati a «partecipare» alla vocazione del padre di famiglia e le figlie sposavano un futuro prete. Una migliore consapevolezza della dignità e della libertà di ciascun individuo rende ormai impossibile 72

questo modo di agire23. Il clero orientale sposato è in crisi. Il divorzio dei sacerdoti è diventato un motivo di tensione ecumenica tra i patriarcati ortodossi. Nelle Chiese orientali separate, solo la presenza preponderante dei monaci rende sopportabile al popolo di Dio la frequentazione di un clero sposato. Sono molti i fedeli che non si confesserebbero mai da un sacerdote sposato. Il sensus fidei fa discernere ai credenti una forma di incompiutezza nel clero che non vive un celibato consacrato. Perché la Chiesa cattolica ammette la presenza di un clero sposato in alcune Chiese orientali unite? Alla luce delle affermazioni del magistero recente sul legame ontologico tra sacerdozio e celibato, penso che tale accettazione abbia lo scopo di favorire una progressiva evoluzione verso la pratica del celibato, che avrebbe luogo non per via disciplinare ma per ragioni propriamente spirituali e pastorali24. Alcuni anni fa, il presidente di un’associazione sacerdotale ortodossa osservava che in Grecia il numero di chierici sposati era in costante declino (tremila su undicimila uomini in tutto). Ne individuava la causa: sempre meno donne emancipate accettano di abbracciare la vita impegnativa della moglie di un prete (cfr. http://www.zenith.org/english/archive/0002/ ZE000228). 24 Cfr. F. FRoSt, Le célibat sacerdotal, signe d’espérance pour tout le christianisme, in Le Célibat sacerdotal, fondaments, joies, défis, Colloque à Ars, 24-25-26 janvier 2011, a cura della Société Jean-Marie Vianney, Sanctuaire d’Ars, Parole et Silence, Paris 2011, pp. 180-181. 23

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La confusione ecclesiologica Alla luce del Concilio Vaticano II Nel suo discorso di apertura della seconda sessione del Concilio, san Paolo VI aveva chiesto ai padri conciliari di avviare una riflessione teologica sui tre stati di vita costitutivi della comunione ecclesiale: lo stato di vita sacerdotale, lo stato di vita coniugale e lo stato della vita religiosa. Paolo VI intendeva così favorire una presa di coscienza più profonda, da parte della Chiesa, della propria natura. Questo programma è stato messo in opera da Papa Giovanni Paolo II nel corso dei tre sinodi postconciliari dedicati a questi tre stati di vita. Riguardo al sacerdozio, il Sinodo dei Vescovi ha permesso l’elaborazione nel 1992 dell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis. In essa san Giovanni Paolo II insegna con vigore che il celibato sacerdotale scaturisce da ciò che il Concilio ha indicato come l’essenza del carattere e della grazia propri del sacramento dell’Ordine: l’abilitazione a rappresentare Cristo-Capo per il Corpo che è la Chiesa. «La volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l’Ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l’ha amata»25. L’affermaziogIoVannI Paolo II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, n. 29. 25

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ne di san Giovanni Paolo II è fondamentale. Essa considera il celibato come una necessità della Chiesa. La Chiesa ha bisogno che degli uomini la amino dell’amore stesso di Cristo-Sposo. Senza la presenza del sacerdote celibatario, la Chiesa non può più prendere coscienza di essere la Sposa di Cristo. Il celibato sacerdotale, lungi dal ridursi a una disciplina ascetica, è necessario all’identità della Chiesa. Si può affermare che la Chiesa non potrebbe più comprendere se stessa se essa non fosse più totalmente amata dai sacerdoti celibatari che rappresentano sacramentalmente il Cristo-Sposo. Sacramento dell’Ordine e sacramento del matrimonio Questa rinnovata comprensione del celibato è il frutto del Concilio Vaticano II, che ha permesso di riscoprire il tema patristico del disegno divino. Fin dall’origine, l’intenzione del Creatore è stata quella di instaurare con la propria creatura un dialogo sponsale. Tale vocazione è inscritta nel cuore dell’uomo e della donna. Con il sacramento del matrimonio, l’amore reciproco degli sposi, in tutte le sue dimensioni corporee, psicologiche e spirituali è innestato all’amore di Cristo per l’umanità. Amandosi, gli sposi partecipano al mistero dell’amore di Cristo. Essi si inseriscono in queste nozze il cui talamo nuziale è la Croce. «Mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei […]. Per questo l’uomo lascerà suo 75

padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (Ef 5,25.31-32). Questa vocazione sponsale, inscritta nel cuore di ogni uomo, comporta un appello al dono totale ed esclusivo sul modello del dono della Croce. Il celibato è per il sacerdote lo strumento mediante il quale entrare in un’autentica vocazione di sposo26. Il suo dono alla Chiesa è assunto e innestato nel dono di Cristo-Sposo alla Chiesa-Sposa27. C’è una vera analogia tra il sacramento del matrimonio e il sacramento dell’Ordine, culminanti entrambi in un dono totale. Ecco perché questi due sacramenti si escludono reciprocamente. «Il donarsi di Cristo alla Chiesa, frutto del suo amore, si connota di quella dedizione originale che è propria dello sposo nei riguardi della sposa […]. Gesù è il vero Sposo che offre il vino della salvezza alla Chiesa. […] La Chiesa è […] la Sposa, che scaturisce come nuova Eva dal costato aperto del Redentore Ibidem: «Nella verginità e nel celibato la castità mantiene il suo significato originario, quello cioè di una sessualità umana vissuta come autentica manifestazione e prezioso servizio all’amore di comunione e di donazione interpersonale. Questo significato sussiste pienamente nella verginità, che realizza, pur nella rinuncia al matrimonio, il “significato sponsale” del corpo mediante una comunione e una donazione personale a Gesù Cristo e alla sua Chiesa». 27 Su questo tema si può consultare il saggio assai stimolante di F. dumaS, Prêtre et époux. Lettre ouverte à mon frère prêtre, Mame, Paris 2018. 26

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sulla croce: per questo Cristo sta “davanti” alla Chiesa, “la nutre e la cura” con il dono della sua vita per lei. Il sacerdote è chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa: […] in forza della sua configurazione a Cristo Capo e Pastore si trova in tale posizione sponsale di fronte alla comunità»28. La capacità di amore sponsale del sacerdote è interamente donata e riservata alla Chiesa29. «È chiamato, pertanto – prosegue san Giovanni Paolo II –, nella sua vita spirituale a rivivere l’amore di Cristo sposo nei riguardi della Chiesa sposa. La sua vita dev’essere illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di essere testimone dell’amore sponsale di Cristo, di essere quindi capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con una specie di “gelosia” divina (2Cor 11,2), con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei “dolori del parto” finché “Cristo non sia formato” nei fedeli»30. gIoVannI Paolo II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, n. 22. 29 Marianne Schlosser, nella sua bella relazione al Simposio sulle “Sfide attuali per l’ordine sacro” organizzato dal Ratzinger Schülerkreise a Roma il 28 settembre 2019, citava un autore siriano dell’VIII secolo: «Un sacerdote è il padre di tutti i credenti, cioè degli uomini e delle donne. Quindi, se qualcuno che prende questa posizione tra i fedeli, si sposa, è simile a qualcuno che sposa la propria figlia». 30 gIoVannI Paolo II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, n. 22. 28

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Una Chiesa che non facesse l’esperienza di essere amata dai sacerdoti celibatari ultimamente non coglierebbe più il significato sponsale di ogni santità. Il celibato sacerdotale e il matrimonio, infatti, procedono di pari passo. Se uno viene contestato, l’altro vacilla. I sacerdoti indicano agli sposi il senso del dono totale. Gli sposi, attraverso la loro vita coniugale, indicano ai sacerdoti il senso del loro celibato. La critica al celibato compromette anche il senso del matrimonio. Benedetto XVI lo aveva intuito: il celibato «è un “sì” definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo “io”, e quindi è un atto di fedeltà e di fiducia, un atto che suppone anche la fedeltà del matrimonio; […] è proprio il “sì” definitivo che suppone, conferma il “sì” definitivo del matrimonio»31. Mettere le mani sul celibato sacerdotale equivale a ferire il matrimonio. Per comprendere questo mistero, prosegue Ratzinger, «l’aspirante sacerdote deve riconoscere nella sua vita la forza della fede e deve sapere che solo in essa può vivere il celibato. Allora il celibato può diventare una testimonianza che dice qualcosa agli uomini e che riesce anche a dar loro coraggio in relazione al matrimonio. Entrambe le istituzioni sono strettamente legate l’una all’altra. Se una fedeltà non è più possibile, anche l’altra non ha più senso: l’una sostiene l’altra. […] La domanda fonBenedetto XVI; Colloquio con i sacerdoti, Veglia in occasione dell’incontro internazionale dei sacerdoti, 10 giugno 2010. 31

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damentale è la seguente: può l’uomo prendere una decisione definitiva per quel che riguarda l’aspetto centrale della sua vita? Può egli sostenere per sempre un legame nella decisione circa il modo della sua vita? Al riguardo mi permetto due osservazioni: lo può solamente se è ancorato saldamente alla fede; secondo: solo in questo caso egli perviene alla piena dimensione dell’amore e della maturazione umana. Tutto ciò che resta al di sotto del matrimonio monogamico è comunque troppo poco per l’uomo»32. Nei Paesi in via di evangelizzazione, la scoperta della vocazione degli sposi alla santità costituisce spesso una sfida. Talvolta il senso del matrimonio viene deformato e la dignità della donna calpestata. Credo che risieda qui un problema grave. Per porvi rimedio è necessario insegnare a tutti la necessità di vivere il matrimonio come un dono totale di sé. Ma come può essere credibile un sacerdote agli occhi degli sposi, se non vive egli stesso il sacerdozio come un assoluto dono di sé? Sacramento dell’Ordine e ruolo della donna L’edificio ecclesiale nel suo insieme è scosso dall’indebolimento del celibato. I dibattiti sul celibato, infatti, sollevano naturalmente alcuni interrogativi circa la possibilità per le donne di essere ordinate sacerdoti J. RatzIngeR, Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo. Un colloquio con Peter Seewald, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2005, pp. 225-226. 32

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o diaconi. Tuttavia, tale questione è stata definitivamente archiviata da san Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, nella quale egli proclama che «la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa». La sua contestazione rivela un misconoscimento della vera natura della Chiesa. L’economia della salvezza si innesta, infatti, nel disegno creatore di complementarità tra l’uomo e la donna nella relazione sponsale tra Gesù e la Chiesa sua Sposa. Il sacerdote, in virtù della sua rappresentanza del Cristo-Sposo, nella quale è pienamente innestata la sua mascolinità, si trova così in una relazione di complementarità con la donna, che rappresenta icasticamente la Chiesa-Sposa. Promuovere l’ordinazione delle donne equivale a negarne l’identità e il ruolo di ciascuno. Abbiamo bisogno della genialità propria delle donne. Dobbiamo imparare da loro ciò che la Chiesa deve essere. Nel cuore di ogni donna, infatti – scriveva Giovanni Paolo II –, c’è una disposizione fondamentale all’accoglienza dell’amore33. Ora, la Chiesa è essenzialmente accoglienza dell’amore virginale di Gesù. È risposta, mediante la fede, all’amore dello Sposo. Oso affermare che la Chiesa è fondamentalmente femminile; essa non può fare a meno delle donne. Cfr. gIoVannI Paolo II, Lettera apostolica Mulieris dignitatem, n. 29. 33

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«Per quanto riguarda la Chiesa, il segno della donna è più che mai centrale e fecondo. Ciò dipende dalla identità stessa della Chiesa, che essa riceve da Dio ed accoglie nella fede. È questa identità “mistica”, profonda, essenziale, che occorre tenere presente nella riflessione circa i rispettivi ruoli dell’uomo e della donna nella Chiesa. […] Ben lungi dal conferire alla Chiesa un’identità fondata su un modello contingente di femminilità, il riferimento a Maria con le sue disposizioni di ascolto, di accoglienza, di umiltà, di fedeltà, di lode e di attesa, colloca la Chiesa nella continuità della storia spirituale di Israele. […] Pur trattandosi di atteggiamenti che dovrebbero essere tipici di ogni battezzato, di fatto è caratteristica della donna viverli con particolare intensità e naturalezza. In tal modo le donne svolgono un ruolo di massima importanza nella vita ecclesiale, richiamando tali disposizioni a tutti i battezzati e contribuendo in modo unico a manifestare il vero volto della Chiesa, sposa di Cristo e madre dei credenti. […] In questa prospettiva si comprende anche come il fatto che l’ordinazione sacerdotale sia esclusivamente riservata agli uomini non impedisca affatto alle donne di accedere al cuore della vita cristiana. Esse sono chiamate ad essere modelli e testimoni insostituibili per tutti i cristiani di come la Sposa deve rispondere con l’amore all’amore dello Sposo»34. congRegazIone PeR la dottRIna della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, 31 luglio 2004. 34

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Il governo della Chiesa è un servizio d’amore dello sposo alla sposa. Non può, dunque, essere assunto se non dagli uomini che, in virtù del carattere sacerdotale, si identificano nel Cristo-Sposo e servo. Se ne facciamo una questione di rivalità tra uomini e donne, lo riduciamo a una forma di potere politico e mondano. In tal modo esso perde la propria specificità, che consiste nell’essere una partecipazione all’azione di Cristo. Ai giorni nostri, campagne mediatiche sapientemente orchestrate reclamano il diaconato femminile. Che cosa si vuole ottenere? Che cosa si cela dietro a queste strane orchestrazioni politiche? È all’opera la logica mondana della parità. Si suscita una forma di reciproca gelosia tra uomini e donne che può solo essere sterile. Ritengo sia necessario da parte nostra approfondire il ruolo del carisma femminile. Una volta ci si poteva esprimere più liberamente di oggi e, in particolare, la parola delle donne aveva un ruolo di primo piano. Il loro compito consisteva nel richiamare fermamente tutta l’istituzione alla necessità della santità. È bene ricordare, a titolo d’esempio, il monito di Caterina da Siena a Papa Gregorio XI, con cui ella rammenta al Papa la sua identificazione a Cristo, Sposo della Chiesa: «E perché è maggiore il peso vostro, però bisogna più ardito e viril cuore, e non timoroso per veruna cosa che avvenire potesse. Ché voi sapete bene, santissimo Padre, che come voi pigliaste per sposa la san82

ta Chiesa, così pigliaste a travagliare per lei»35. Quale vescovo, quale papa si lascerebbe oggi interpellare con una tale veemenza? Oggigiorno, voci avide di polemiche qualificherebbero immediatamente Caterina da Siena come nemica del Papa o come capofila dei suoi oppositori. I secoli antichi possedevano una libertà ben più grande rispetto alla nostra: ci sono state donne che hanno assunto funzioni carismatiche. Il loro ruolo era quello di ricordare con forza a tutta l’istituzione la necessità della santità. «La Chiesa ha un grande debito di ringraziamento per le donne. […] a livello carismatico, le donne fanno tanto, oserei dire, per il governo della Chiesa, cominciando dalle suore, dalle sorelle dei grandi Padri della Chiesa, come sant’Ambrogio, fino alle grandi donne del medioevo – santa Ildegarda, santa Caterina da Siena, poi santa Teresa d’Avila – e fino a Madre Teresa. Direi che questo settore carismatico certamente si distingue dal settore ministeriale nel senso stretto della parola, ma è una vera e profonda partecipazione al governo della Chiesa. Come si potrebbe immaginare il governo della Chiesa senza questo contributo, che talvolta diventa molto visibile, come quando santa Ildegarda critica i Vescovi, o come quando santa Brigida e santa Caterina da Siena ammoniscono e ottengono il ritorno Santa cateRIna da SIena, Lettera n. 252 (Al padre santo papa Gregorio XI), in Id., Le lettere, a cura di D.U. Meattini, Paoline, Milano 1993, p. 98. 35

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dei Papi a Roma? Sempre è un fattore determinante, senza il quale la Chiesa non può vivere»36. La valorizzazione della specificità femminile non consiste nell’istituzione di «ministeri» femminili, che altro non sarebbero se non delle creazioni arbitrarie e artificiose, senza futuro. Sappiamo, per esempio, che le donne chiamate «diaconesse» non avevano parte al sacramento dell’Ordine. Le fonti antiche sono unanimi nel precludere alle diaconesse qualunque ministero all’altare durante la liturgia. La loro unica funzione liturgica parrebbe essere stata quella di compiere l’unzione pre-battesimale su tutto il corpo delle donne, nell’area geografica siriana. Prima del battesimo propriamente detto, infatti, subito dopo la rinuncia a Satana, il neofita veniva unto con l’olio esorcizzato, quello che noi chiamiamo oggi «olio dei catecumeni». Possiamo supporre che venissero unti almeno il petto e le spalle. Nel caso delle donne, quindi, ciò sollevava un delicato problema di pudore. Così, in certi luoghi, sembra che per questa parte della celebrazione venissero incaricate delle diaconesse37. È illuminante rifletBenedetto XVI, Incontro con il clero della Diocesi di Roma, 2 marzo 2006. 37 Cfr. a.g. maRtImoRt, Les Diaconesses. Essai historique, CLV - Edizioni Liturgiche, Roma 1982, pp. 257-254. La più antica menzione delle loro funzioni si trova nella Didascalia degli Apostoli, risalente al III secolo, che riflette probabilmente gli usi della Siria e della Transgiordania. In questa raccolta, si consiglia al vescovo di designare una donna per il servizio delle catecumene: «Quando le donne si immergono nell’acqua, è richiesto 36

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tere su ciò che la storia e il passato ci hanno lasciato. Il Cardinale John Henry Newman lo sottolineava molto eloquentemente: «La storia del passato finisce nel presente, e il presente è il nostro banco di prova; e per rivolgerci debitamente e religiosamente verso i suoi fenomeni, dobbiamo capirli; e per capirli, dobbiamo ricorrere agli eventi passati che riconducono a essi»38. Ora, si trova chiaramente stabilito che le diaconesse non venissero ordinate o consacrate, ma soltanto benedette, come indica con precisione il pontificale caldaico39. che siano unte dalle diaconesse con l’olio dell’unzione […]. E se non c’è una donna, e in particolare non c’è una diaconessa, è necessario che colui che battezza unga colei che è stata battezzata. Ma se c’è una donna e in particolare una diaconessa, non è opportuno che le donne siano viste dagli uomini, ma [colui che battezza] con l’imposizione della mano unga solo la testa. […] Ma che un uomo reciti su di loro l’invocazione dei nomi divini nell’acqua» (The Didascalia Apostolorum in Syriac, c. 16, ed. A. Voöbus, CSCO 408, Peeters, Louvain 1979, p. 156). 38 J.h. newman, Reformation of Eleventh Century, in Id., Essays Critical and Historical, 2 voll., Longmans, Green & Co., London 189010, II, p. 250. 39 J.m. VoSté, Pontificale Syrorum orientalium, id est Chaldeorum. Versio latina, Typis Poliglottis Vaticanis, Civitas Vaticana 1937-1938, pp. 82-83. Indicazioni assai precise si possono trovare nelle Risoluzioni canoniche di Giacomo di Edessa (VII secolo): «La diaconessa non ha assolutamente alcuna autorità riguardo all’altare. Questo perché è stata ordinata per il servizio alla chiesa, non per l’altare. Tale è invece l’autorità che ha: può spazzare il santuario e accenderne la lampada, e ciò solo quando il sacerdote, o il diacono, non c’è. […] Essa non deve toccare

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Nella Tradizione non c’è nulla che giustifichi oggi la proposta di ordinare delle «diaconesse». Tale desiderio è il frutto di una mentalità mossa da un falso femminismo, nemico dell’intrinseca identità delle donne. Questa tentazione, che mira a clericalizzare le donne, è l’ultima personificazione di un clericalismo di cui Papa Francesco ha giustamente denunciato la rinascita. Le donne dovrebbero risultare degne di rispetto soltanto in virtù dell’appartenenza al clero? Il clericato sarebbe, quindi, l’unico modo di esistere e di avere un proprio spazio nella Chiesa? Dobbiamo attribuire alle donne tutto lo spazio che spetta loro in quanto donne, e non invece concedere loro un po’ di quello degli uomini! Sarebbe una tragica illusione. Significherebbe dimenticare il necessario equilibrio ecclesiale tra carisma e istituzione. La critica al celibato è senza alcun dubbio fonte di confusione quanto al ruolo di ciascuno nella Chiesa: uomini, donne, marito, sacerdote. Sacramento dell’Ordine e battesimo I recenti dibattiti intorno al Sinodo sull’Amazzonia hanno messo in luce una nuova confusione riguardo al significato del battesimo e della confermazione.

l’altare. Unge le donne adulte durante il battesimo, visita e si prende cura di quelle malate. Questa l’unica autorità che hanno le diaconesse» (The Synodicon in the West Syrian Tradition, ed. A. Voöbus, CSCO 368, Peeters, Louvain 1976, p. 242).

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Ho voluto essere presente a tutte le discussioni in sala durante il Sinodo. Ho ascoltato gli uni e gli altri sottolineare la necessità del passaggio da una pastorale della visita a una pastorale della presenza, e reclamare di conseguenza l’ordinazione al presbiterato di diaconi permanenti sposati. È stato sottolineato come le comunità dei protestanti evangelici siano pervenute a mettere in atto tale pastorale della presenza, anche se, come abbiamo già osservato, le loro comunità ecclesiali rifiutano il sacerdozio. Le comunità cristiane amazzoniche hanno un bisogno urgente di una «diaconia della fede». Quando ho udito pronunciare queste parole da un padre sinodale, mi sono tornati in mente i miei anni da giovane vescovo in una diocesi in cui i sacerdoti erano poco numerosi. Avevo allora valutato che l’essenziale del mio lavoro missionario dovesse riguardare il consolidamento e la formazione dei catechisti. Erano loro i veri costruttori delle nostre parrocchie. Mi ricordo dell’immensa riconoscenza che provavo al vederli camminare molte ore per andare di villaggio in villaggio, e lavorare con abnegazione per trasmettere la fede. Credo che siamo portati a dimenticare tutte le virtualità dinamiche contenute nei sacramenti del battesimo e della confermazione. Un cristiano battezzato e cresimato deve diventare, secondo le parole di Papa Francesco, un «discepolo missionario». Spetta, dunque, anzitutto ai battezzati assumere questa presenza della fede. Perché volere a tutti i costi clericalizzarli? Non si ha fiducia nella grazia della confermazione che ci rende 87

testimoni di Cristo? La testimonianza e l’annuncio dovrebbero essere riservate soltanto ai chierici? Anche qui andiamo incontro a una confusione ecclesiologica. Il Vaticano II ci ha invitato a riconoscere il ruolo dei laici nella missione della Chiesa: «I laici derivano il dovere e il diritto all’apostolato dalla loro stessa unione con Cristo capo. Infatti, inseriti nel corpo mistico di Cristo per mezzo del battesimo, fortificati dalla virtù dello Spirito Santo per mezzo della cresima, sono deputati dal Signore stesso all’apostolato»40. Se limitiamo la presenza della Chiesa a una presenza clericale, perdiamo l’apporto essenziale dell’ecclesiologia conciliare. Dove è presente un battezzato, la Chiesa vive. Dove un cresimato diffonde il Vangelo, è Cristo stesso che lo annuncia. Avremo il coraggio di uscire dalla nostra mentalità clericale? La storia delle missioni ci invita a farlo. Vorrei ora soffermarmi un po’ su questo tema. La Chiesa del Giappone, fondata da san Francesco Saverio nel 1549, ha subìto ben presto delle persecuzioni. I missionari sono stati martirizzati ed espulsi. I cristiani hanno vissuto per due secoli senza una presenza sacerdotale. Tuttavia, essi hanno continuato a trasmettere la fede e il battesimo. In queste comunità cristiane, i battezzati si erano distribuiti gli incarichi di capo della comunità e di catechisti. Il battesimo aveva dato tutti i suoi frutti di dinamismo e apostolato. concIlIo VatIcano II, Decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, n. 3. 40

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Ogni generazione di cristiani in Giappone insegnava all’altra i tre segni davanti ai quali avrebbero riconosciuto il ritorno tra loro dei sacerdoti: «Essi saranno celibi, avranno una statua di Maria, obbediranno al Papa di Roma»41. Intuitivamente, i credenti avevano identificato il celibato sacerdotale come una «nota» distintiva della natura del sacerdozio e della Chiesa. In Corea, per fare un altro esempio, la Chiesa è nata dall’evangelizzazione da parte di laici battezzati, tra cui Paolo Chong Hasang e Francesco Choi Kyung Hwan. In Uganda, i martiri Charles Lwanga, Andrew Kaggwa, Denis Ssebuggwaawo, Pontian Ngondwe, John Kizito e i loro compagni, erano tutti giovani cristiani cresciuti senza un sacerdote, ma così fortemente attaccati a Cristo da acconsentire a donare la propria vita. Vorrei citare ancora la bellissima testimonianza di un sacerdote presente al Sinodo per l’Amazzonia, missionario da venticinque anni in Angola: «Una volta terminata la guerra civile nel 2002, ho potuto visitare comunità cristiane che, da 30 anni, non avevano avuto l’eucaristia, né visto un sacerdote, ma sono rimaste salde nella fede ed erano comunità dinamiche, guidate dal “catechista”, ministero fondamentale in Africa, e da altri ministri: evangelizzatori, animatori Cfr. S. KawamuRa, Pope Pius IX and Japan. The History of an Oriental Miracle, Pontifical Gregorian University, Symposium in the 75th Anniversary of Diplomatic Relations between Japan and the Holy See, Rome 2017. 41

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della preghiera, una pastorale con le donne, il servizio ai più poveri»42. Tutti questi esempi sottolineano come il celibato sacerdotale e il dinamismo battesimale si sostengono reciprocamente. L’ordinazione di uomini sposati sarebbe un deprecabile segnale di clericalizzazione del laicato. Provocherebbe un indebolimento dello zelo missionario dei fedeli laici, e farebbe loro credere che la missione sia riservata ai sacerdoti. Da un punto di vista ecclesiologico, l’ordinazione di uomini sposati produrrebbe, dunque, una vera confusione degli stati di vita. Oscurerebbe il senso del matrimonio e indebolirebbe l’apostolato dei battezzati. Impedirebbe alla Chiesa di comprendersi come Sposa amata da Cristo, e comporterebbe una confusione circa l’autentico ruolo delle donne al suo interno. Non oso immaginare i gravissimi danni a cui andrebbe incontro l’unità della Chiesa universale se toccasse a ciascuna conferenza episcopale aprire a una tale possibilità nel suo territorio. Una sfida ecclesiologica ancor più grande Queste confusioni sono segno di un grave errore ecclesiologico. Abbiamo oggi la tentazione di ragionare in modo puramente funzionale. Certo, la mancanQuesta testimonianza è stata pubblicata sul sito del Pontificio Istituto per le Missioni Estere (PIME), «Asia News», 10 e 11 ottobre 2019. 42

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za di sacerdoti in alcune regioni è reale. Ma è necessario per questo fornire una risposta il cui unico criterio sia quello dell’efficacia umana? Guardiamo alla Chiesa come a una istituzione sociale o come al Corpo mistico di Cristo vivificato dai carismi, cioè dai doni gratuiti offerti dallo Spirito Santo? Il Cardinale Ratzinger, in una riflessione di grande profondità, si domandava: «Che cosa sono, infatti, gli elementi istituzionali portanti che improntano la Chiesa come stabile ordinamento della sua vita? Certo, ovviamente, il ministero sacramentale nei suoi vari gradi: episcopato, presbiterato, diaconato. Il sacramento, che – significativamente – reca il nome di “Ordine”, è in definitiva l’unica struttura permanente e vincolante che, diremmo, dà alla Chiesa il suo stabile ordinamento originario e la costituisce come “istituzione”. Ma solo nel nostro secolo, verosimilmente per ragioni di convenienza ecumenica, è diventato d’uso comune designare il sacramento dell’Ordine semplicemente come “ministero”, onde esso appare dall’unico punto di vista dell’istituzione, della realtà istituzionale. Senonché questo “ministero” è un “sacramento” e pertanto è evidente che viene infranta la comune concezione sociologica di istituzione. Che l’unico elemento strutturale permanente della Chiesa sia un sacramento significa, al contempo, che esso deve essere continuamente ricreato da Dio. La Chiesa non ne dispone autonomamente, non si tratta di qualcosa che esista semplicemente e da determinare secondo le proprie decisioni. Solo secondariamente si realizza per una 91

chiamata della Chiesa; primariamente, invece, si attua per una chiamata di Dio rivolta a quegli uomini, vale a dire in modo carismatico-pneumatologico. Ne consegue che può esser accolto e vissuto, sempre, solo in forza della novità della vocazione, dell’indisponibilità dello Spirito. Poiché le cose così stanno, poiché la Chiesa non può istituire essa stessa semplicemente dei “funzionari”, ma deve attendere la chiamata di Dio, è per questa stessa ragione – e, in definitiva, solo per questa – che può aversi penuria di preti. Pertanto fin dagli esordi è stato chiaro che questo ministero non può essere prodotto dall’istituzione, ma va impetrato da Dio. Fin dagli esordi è vera la parola di Gesù: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!” (Mt 9,37-38). Si capisce altresì, pertanto, che la chiamata dei Dodici sia stata frutto di una notte di preghiera di Gesù (cfr. Lc 6,12-16). La Chiesa latina ha esplicitamente sottolineato tale carattere rigorosamente carismatico del ministero presbiterale, e l’ha fatto – coerentemente ad antichissime tradizioni ecclesiali – vincolando la condizione presbiterale al celibato, che con tutta evidenza può essere inteso solo come carisma personale, e non semplicemente come peculiarità di un ufficio. La pretesa di separare l’una dall’altro poggia, in definitiva, sull’idea che il sacerdozio non debba essere inteso in una prospettiva carismatica, ma debba invece essere visto – per la sicurezza dell’istituzione e delle sue esigenze – come puro e semplice ministero che spetta all’istituzione 92

medesima conferire. Per chi vuole così assoggettare il sacerdozio alla gestione amministrativa, con le sue sicurezze istituzionali, ecco che il vincolo carismatico, che si trova nella esigenza del celibato, è uno scandalo da eliminare il più presto possibile. Ma allora anche la Chiesa nel suo insieme viene intesa come un ordinamento puramente umano, e la sicurezza cui si mira in tal modo alla fine non è più in grado di dare quello che essa dovrebbe conseguire. Che la Chiesa sia non una nostra istituzione bensì l’irrompere di qualcos’altro, onde è per natura sua “iuris divini”, è un fatto dal quale consegue che non possiamo mai crearcela da noi stessi. Vale a dire che non ci è lecito mai applicarle un criterio puramente istituzionale; vale a dire che la Chiesa è interamente se stessa solo laddove sono trascesi i criteri e le modalità delle istituzioni umane»43. Si può misurare quale possa essere la gravità di qualunque modifica della legge del celibato. Essa è la pietra angolare di una sana ecclesiologia. È un baluardo che consente alla Chiesa di evitare la trappola che consiste nel comprendersi come un’istituzione umana le cui leggi sarebbero l’efficacia e la funzionalità. Il celibato sacerdotale apre la porta alla gratitudine all’interno del corpo ecclesiale. Protegge l’iniziativa dello Spirito Santo e ci pone al riparo dal rischio di ritenerci i maestri e i creatori della Chiesa. Ci fa prenJ. RatzIngeR, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, in Id., Nuove irruzioni dello spirito. I movimenti nella Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2006, pp. 16-18. 43

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dere sul serio l’affermazione di san Giovanni Paolo II: «il celibato sacerdotale non è da considerarsi come semplice norma giuridica, né come una condizione del tutto esteriore per essere ammessi all’ordinazione, bensì come un valore profondamente connesso con l’ordinazione sacra, che configura a Gesù Cristo buon Pastore e Sposo della Chiesa»44. Il celibato esprime e manifesta come la Chiesa sia l’opera del Buon Pastore prima di essere la nostra. Tuttavia, come osservava ancora Joseph Ratzinger: «Naturalmente, accanto a questo ordinamento fondamentale vero e proprio – il sacramento – nella Chiesa esistono anche istituzioni di diritto meramente umano, in ordine a molteplici forme di amministrazione, organizzazione, coordinamento, che possono e debbono svilupparsi secondo le esigenze dei tempi. Va, però, subito detto che la Chiesa ha, sì, bisogno di siffatte istituzioni, ma se queste si fanno troppo numerose e preponderanti mettono in pericolo l’ordinamento e la vitalità della sua realtà spirituale»45. La proposta di creare dei «ministeri» rientra in questo quadro istituzionale «di diritto umano» che può avere un’utilità, ma che non viene per primo, per quanto, talvolta, sia necessario ai fini della missione procedere a tali creazioni. gIoVannI Paolo II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, n. 50. 45 J. RatzIngeR, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, op. cit., p. 18. 44

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L’Istruzione Ecclesia de mysterio, pubblicata il 15 agosto 1997 con il titolo Su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti, approvata da Papa Giovanni Paolo II e firmata da otto capi di dicastero, rimane in materia l’autorità definitiva che deve guidare la nostra azione. Essa precisa e completa il Motu proprio, pubblicato nel 1972 da Paolo VI, Ministeria quaedam, per la soppressione degli ordini minori. In essa viene sottolineato come l’utilizzo del vocabolo «ministero» non è esente da ambiguità: «Da un certo tempo è invalso l’uso di chiamare ministeri non solo gli officia (uffici) e i munera (funzioni) esercitati dai Pastori in virtù del sacramento dell’Ordine, ma anche quelli esercitati dai fedeli non ordinati, in virtù del sacerdozio battesimale. La questione lessicale diviene ancor più complessa e delicata quando si riconosce a tutti i fedeli la possibilità di esercitare – in veste di supplenti, per deputazione ufficiale elargita dai Pastori – alcune funzioni più proprie dei chierici, le quali, tuttavia, non esigono il carattere dell’Ordine. Bisogna riconoscere che il linguaggio si fa incerto, confuso, e quindi non utile per esprimere la dottrina della fede, tutte le volte che, in qualsiasi maniera, si offusca la differenza “di essenza e non solo di grado” che intercorre tra il sacerdozio battesimale e il sacerdozio ordinato»46. Istruzione Ecclesia de mysterio, Disposizioni pratiche, articolo 1, § 1: Necessità di una terminologia appropriata. 46

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Di conseguenza, conviene anche ricordare che «Gli officia, loro affidati temporaneamente, sono invece esclusivamente frutto di una deputazione della Chiesa. Solo il costante riferimento all’unico e fontale “ministero di Cristo” […] permette, in una certa misura, di applicare anche ai fedeli non ordinati, senza ambiguità, il termine ministero: senza, cioè, che esso venga percepito e vissuto come indebita aspirazione al ministero ordinato, o come progressiva erosione della sua specificità. In questo senso originario, il termine ministero (servitium) esprime soltanto l’opera con cui membri della Chiesa prolungano, al suo interno e per il mondo, la missione e il ministero di Cristo. Quando, invece, il termine viene differenziato nel rapporto e nel confronto tra i diversi munera e officia, allora occorre avvertire con chiarezza che solo in forza della sacra Ordinazione esso ottiene quella pienezza e univocità di significato che la tradizione gli ha sempre attribuito»47. Bisogna essere precisi circa la scelta del vocabolario48. Certe abitudini terminologiche finiscono per Ibidem, articolo 1, § 2. Ibidem, articolo 1, § 3: «Il fedele non ordinato può assumere la denominazione generica di “ministro straordinario”, solo se e quando è chiamato dall’Autorità competente a compiere, unicamente in funzione di supplenza, gli incarichi, di cui al can. 230, § 3, nonché ai cann. 943 e 1112. Naturalmente può essere utilizzato il termine concreto con cui viene canonicamente determinata la funzione affidata, ad es. catechista, accolito, lettore, ecc. La deputazione temporanea nelle azioni liturgiche, 47 48

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creare confusioni dottrinali gravi. Il principio teologico deve essere chiaro: «non è il compito a costituire il ministero, bensì l’ordinazione sacramentale»49. I ministeri non ordinati non sono in se stessi frutto di una vocazione personale, ossia una vocazione a uno stato di vita. Sono servizi che ciascun battezzato può rendere alla Chiesa per un determinato periodo. Eppure, sottolinea Joseph Ratzinger, «è naturalmente comprensibile che, qualora le facciano a lungo difetto le vocazioni sacerdotali, la Chiesa sia tentata di procurarsi, per così dire, un clero sostitutivo di diritto puramente umano. […] Ma se in tutto questo si trascurasse la preghiera per le vocazioni al sacramento, se qua o là la Chiesa cominciasse a bastare in tal modo a se stessa e diremmo quasi a rendersi autonoma dal dono di Dio, essa si comporterebbe come Saul, che nella gran tribolazione filistea aspettò bensì a lungo Samuele, ma allorché questi non si fece vedere e il popolo cominciò a disperdersi, perse la pazienza e offrì lui stesso l’olocausto. A lui, che aveva pensato di non poter proprio agire altrimenti in stato d’emergenza e di potersi, anzi doversi permettere di prendere in mano egli stesso la causa di Dio, fu detto che proprio per questo si era giocato tutto: obbedienza io voglio,

di cui al can. 230, § 2, non conferisce alcuna denominazione speciale al fedele non ordinato». 49 Ibidem, Principi teologici, § 2: Unità e diversificazione dei compiti ministeriali.

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non sacrificio (cfr. 1Sam 13,8-14; 15,22)»50. La creazione di «ministeri» laici deve, quindi, essere valutata con grande circospezione. Dobbiamo guardarci dal metterci al posto di Dio e dall’organizzare la Chiesa in modo puramente umano. È necessario ritrovare il coraggio di persistere nella preghiera per le vocazioni. È fondamentale riconoscere l’importanza del celibato sacerdotale perché la Chiesa possa comprendere se stessa. L’efficacia, l’organizzazione, comprese in modo puramente umano, non possono guidare le nostre decisioni. Dobbiamo imparare a fare posto allo Spirito Santo nel nostro governo e nei nostri progetti pastorali. Arretramento nella comprensione del sacerdozio Vorrei proseguire questo studio sottolineando come l’ordinazione di uomini sposati possa rappresentare un arretramento nel lavoro compiuto dalla Chiesa in vista di una migliore comprensione del sacerdozio. Ma che cos’è mai un’eccezione? Mi si potrebbe obiettare che esistono già delle eccezioni, e che uomini sposati sono stati ordinati sacerdoti nella Chiesa latina pur continuando a vivere more J. RatzIngeR, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, op. cit., p. 19. 50

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uxorio con le proprie mogli. Si tratta certamente di eccezioni, nel senso che questi casi procedono da una situazione singolare che non deve essere condotta a ripetersi. È il caso, per esempio, dell’entrata nella piena comunione di pastori protestanti sposati, destinati a ricevere l’ordinazione sacerdotale. Un’eccezione è transitoria per definizione, e costituisce una parentesi nell’ordine normale e naturale delle cose. Non è però questo il caso di una remota regione in cui manchino i sacerdoti. La loro scarsità non rappresenta una situazione eccezionale. Tale stato di cose è comune a tutte le terre di missione, e anche ai Paesi dell’Occidente secolarizzato. Una Chiesa nascente è priva di sacerdoti per definizione. La Chiesa primitiva si è trovata nella stessa situazione. Abbiamo però visto che essa non ha rinunciato al principio della continenza dei chierici. L’ordinazione di uomini sposati, foss’anche di diaconi permanenti, non costituisce un’eccezione, bensì uno strappo, una ferita nella coerenza del sacerdozio. Parlare di eccezione sarebbe un abuso linguistico o una menzogna. La mancanza di sacerdoti non può giustificare tale strappo; ancora una volta, infatti, non si tratta di una situazione eccezionale. Anzi, l’ordinazione di uomini sposati in seno a giovani comunità cristiane impedirebbe la nascita in esse di vocazioni sacerdotali di preti celibatari. L’eccezione diventerebbe uno stato di cose permanente, pregiudiziale per la corretta comprensione del sacerdozio. 99

Del resto, l’affermazione secondo la quale l’ordinazione di uomini sposati rappresenterebbe una soluzione di fronte alla penuria di preti è un’illusione. Avvertiva già san Paolo VI: «Non si può senza riserve credere che con l’abolizione del celibato ecclesiastico crescerebbero per ciò stesso, e in misura considerevole, le sacre vocazioni: l’esperienza contemporanea delle Chiese e delle comunità ecclesiali che consentono il matrimonio ai propri ministri sembra deporre al contrario»51. Il numero dei sacerdoti non aumenterebbe in maniera degna di nota. Anzi, la retta comprensione del sacerdozio e della Chiesa verrebbe permanentemente oscurata. Nell’ottica dell’ordinazione di uomini sposati, alcuni teologi si sono spinti persino a prendere in considerazione la possibilità di adattare il sacerdozio riducendolo alla sola amministrazione dei sacramenti. Tale proposta, che mira a separare i tria munera (santificazione, insegnamento, governo) è in totale contraddizione con l’insegnamento del Concilio Vaticano II, che afferma la loro unità sostanziale (Presbyterorum Ordinis, nn. 4-6). Tale progetto, teologicamente assurdo, rivela una concezione funzionalista del sacerdozio. Insieme a Benedetto XVI ci siamo spesso domandati come, in questa prospettiva, si possa sperare ancora nella nascita di vocazioni. Che dire del progetto di giustapposizione di un clero sposato e di un clero celibaPaolo VI, Lettera enciclica Sacerdotalis caelibatus, 24 giugno 1967, n. 49. 51

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tario?52 Si corre il rischio che si insinui nello spirito dei fedeli l’idea di un alto e di un basso clero53. Celibato eucaristico La richiesta di ordinare uomini sposati rivela un profondo misconoscimento del legame ontologico tra celibato e sacerdozio. Gli ambienti universitari occidentali hanno talvolta diffuso una concezione puramente legale e disciplinare del celibato. Si sono spinti persino ad affermare che il celibato è elemento proprio della vita religiosa e che dovrebbe esserle riservato. San Giovanni Paolo II aveva invece sottolineato come sia «importante che il sacerdote comprenda la motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato»54. Cfr. F. loBIngeR, Preti per domani. Nuovi modelli per nuovi tempi, EMI, Bologna 2009. 53 Nel 1873, il vescovo di Bergamo, Mons. Pier Luigi Speranza, volle passare da una pastorale della visita a una pastorale della presenza nelle frazioni e nei piccoli villaggi di montagna. Decise di assegnare a tutti un sacerdote residente proveniente dalla comunità locale. Nell’arco di una quindicina di anni, furono ordinati centocinquanta uomini anziani, vedovi o celibi, dopo una formazione rudimentale all’interno di un apposito seminario. Nel 1888 si dovette interrompere l’esperienza, perché il popolo cristiano disprezzava profondamente questi preti che nella maggior parte dei casi non confessavano. 54 gIoVannI Paolo II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, n. 22. 52

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Vorrei ora accostare questo insegnamento teologico per trarne alcune conseguenze pastorali. Il senso sponsale del celibato che abbiamo già evocato deve essere precisato. Il celibato sacerdotale, infatti, procede da una necessaria sponsalità eucaristica55. San Paolo VI lo suggeriva già nel 1967: «Preso da Cristo Gesù fino all’abbandono totale di tutto se stesso a lui, il sacerdote si configura più perfettamente a Cristo anche nell’amore col quale l’eterno Sacerdote ha amato la Chiesa, o Corpo, offrendo tutto se stesso per lei, al fine di farsene una sposa gloriosa, santa e immacolata. La verginità consacrata dei sacri ministri manifesta infatti l’amore verginale di Cristo per la Chiesa e la verginale e soprannaturale fecondità di questo connubio»56. Cristo si è offerto sull’altare della Croce. Ogni giorno il sacerdote rinnova questa oblazione pronunciando le parole: «Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi». Tali parole assumono per lui il senso dell’associarsi all’offerta virginale di Cristo. Ogni volta che un sacerdote ripete: «Questo è il mio corpo», offre il proprio corpo sessuato in continuità con il sacrificio della Croce. In un’omelia pronunciata in occasione del mio Giubileo d’oro sacerdotale, il 28 settembre 2019, riCfr. l. touze, Théologie du célibat sacerdotal, «Nova et vetera» 94 (2019) 2, pp. 138-141. 56 Paolo VI, Lettera enciclica Sacerdotalis caelibatus, 24 giugno 1967, n. 26. 55

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cordavo: «Un sacerdote è un uomo che sta al posto di Dio, un uomo che è rivestito di tutti i poteri di Dio. Osservate la forza del sacerdote! La sua lingua fa di un pezzo di pane un Dio»57. Ora, questo miracolo non potrà realizzarsi se non nella misura in cui accettiamo di essere crocifissi con Cristo. Ciascuno di noi deve accettare di ripetere con san Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,19-20). Soltanto in virtù della Croce, al termine di una prodigiosa discesa negli abissi dell’umiliazione, il Figlio di Dio dona ai sacerdoti il divino potere dell’Eucaristia. L’intimo dinamismo del sacerdote, il pilastro su cui si costruisce la sua esistenza sacerdotale è – come affermava san Josemaría Escrivá – la Croce di Nostro Signore Gesù Cristo. Egli lo proclamava nel suo motto: «In laetitia nulla dies sine cruce: nella gioia, nessun giorno senza la Croce». Ora, la gioia del sacerdote è pienamente vissuta nella santa Messa. Questa è la ragion d’essere della sua esistenza e ciò che dà senso alla sua vita. All’altare il prete sta davanti all’ostia. Gesù lo guarda ed egli guarda Gesù. Siamo pienamente consapevoli di che cosa significhi avere Cristo stesso veramente presente davanti agli occhi? In ogni Messa, il sacerdote si trova faccia a faccia con Gesù. Solo così il prete è identificato, confiSan gIoVannI maRIa VIanney, citato in B. naudet, JeanMarie Vianney, curé d’Ars. Sa pensée, sa cœur, Cerf, Paris 2007. 57

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gurato a Gesù Cristo. Non diventa semplicemente un Alter Christus, un altro Cristo. Egli è veramente Ipse Christus, è Cristo stesso. Viene investito dalla persona di Cristo, configurato mediante una identificazione speciale e sacramentale (cfr. Ecclesia de Eucharistia, n. 29). Diceva ancora Josemaría Escrivá in un’omelia pronunciata il 13 aprile 1973: «È opportuno ricordare, con caparbia insistenza, che tutti i sacerdoti – sia noi peccatori che quelli che sono santi – quando celebrano la santa Messa non sono più se stessi. Sono Cristo che rinnova sull’Altare il suo divino Sacrificio del Calvario»58. Presso l’altare, infatti, non presiedo io la Messa che ci ha riuniti, ma è Gesù che la presiede in me. Benché io ne sia indegno, Gesù è veramente presente nella persona del celebrante. Io sono Cristo: che terribile affermazione! Che tremenda responsabilità! Sono presso l’altare nel suo nome e al posto suo (cfr. Lumen gentium, n. 28). Consacro il pane e il vino in persona Christi, dopo avere consegnato a lui il mio corpo, la mia voce, il mio povero cuore, ripetutamente insozzato da molti peccati. Prima di ogni celebrazione eucaristica, se rimaniamo filialmente rannicchiati tra le sue braccia, la Vergine Maria ci rende pronti a consegnare corpo e anima a Gesù Cristo, perché si realizzi il miracolo dell’Eucaristia. La Croce, l’Eucaristia e la Vergine Maria plasmano, strutturano, nutrono e consolidano la nostra vita cristiana e sacerdotale. Capite 58

p. 44.

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Cfr. J. eScRIVá, La Chiesa nostra Madre, Ares, Milano 1993,

perché ogni cristiano, e, in modo ancor più speciale, il sacerdote, debba fondare la propria vita interiore su queste tre realtà: Crux, Hostia et Virgo? La Croce ci fa nascere alla vita divina. Senza Eucaristia non possiamo vivere. La Vergine, come una madre, veglia attentamente sulla nostra crescita spirituale. Ella ci educa a diventare grandi nella fede. Gesù ci rivela il segreto di questo celeste nutrimento, nel quale la sua carne diventa nostro alimento. Così, possiamo vivere della sua vita, in una inaudita intimità con lui. Il sacerdote è davvero l’amico di Gesù. Si offre a Dio. Si offre a tutta la Chiesa e a ciascuno dei fedeli a cui è inviato. Il sacerdote impara la logica del suo celibato nell’Eucaristia. «Agendo in persona di Cristo, il sacerdote si unisce più intimamente alla offerta, deponendo sull’altare tutta intera la propria vita, che reca i segni dell’olocausto»59. Egli impara nel sacrificio eucaristico che cosa significhi il dono totale di sé. Il celibato sacerdotale nasce dall’Eucaristia. Esso conferisce a tutta la vita del sacerdote un significato sacrificale: «Dall’Eucaristia riceve la grazia e la responsabilità di connotare in senso “sacrificale” la sua intera esistenza»60. Il legame tra continenza e celebrazione eucaristica, da sempre percepito dal sensus fidei dei fedeli, tanto in Occidente quanto in Oriente, non ha Paolo VI, Lettera enciclica Sacerdotalis caelibatus, 24 giugno 1967, n. 29. 60 gIoVannI Paolo II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, n. 23. 59

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dunque nulla a che vedere con un tabù rituale relativo alla sessualità. Si tratta di una percezione profonda della «forma eucaristica dell’esistenza cristiana»61. Il celibato si presenta come il portale d’ingresso sacerdotale di questa forma eucaristica. Nessuno può rimanere fedele al celibato senza la celebrazione quotidiana della Messa. Nell’Eucaristia, il sacerdote riceve il celibato come un dono. Si potrebbe riassumere questo legame tra celebrazione eucaristica e celibato con le parole del Cardinale Marc Ouellet: il celibato «corrisponde all’impegno eucaristico del Signore che, per amore, ha consegnato il proprio corpo una volta per tutte e sino all’estremo della distribuzione sacramentale, e che reclama da colui che ha chiamato una Benedetto XVI, Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, n. 80. «Oltre al legame con il celibato sacerdotale, il Mistero eucaristico manifesta un intrinseco rapporto con la verginità consacrata, in quanto questa è espressione della dedizione esclusiva della Chiesa a Cristo, che essa accoglie come suo Sposo con fedeltà radicale e feconda. Nell’Eucaristia la verginità consacrata trova ispirazione ed alimento per la sua dedizione totale a Cristo. Dall’Eucaristia inoltre essa trae conforto e spinta per essere, anche nel nostro tempo, segno dell’amore gratuito e fecondo che Dio ha verso l’umanità. Infine, mediante la sua specifica testimonianza, la vita consacrata diviene oggettivamente richiamo e anticipazione di quelle “nozze dell’Agnello” (Ap 19,7.9), in cui è posta la meta di tutta la storia della salvezza. In tal senso essa costituisce un efficace rimando a quell’orizzonte escatologico di cui ogni uomo ha bisogno per poter orientare le proprie scelte e decisioni di vita» (ibidem, n. 81). 61

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risposta dello stesso ordine, e cioè totale, irrevocabile e incondizionata»62. Se Cristo dona se stesso come nutrimento, allora anche il sacerdote deve essere a sua volta «un uomo crocifisso e mangiato», secondo l’espressione del beato Antoine Chevrier. Il celibato ne è il segno e la realizzazione concreta. Sono intimamente persuaso che il popolo cristiano «riconosca» i suoi preti grazie a tale segno. Attraverso il senso della fede, i fedeli di ogni cultura riconoscono immancabilmente Cristo offerto per tutti nel sacerdote celibatario. Celibato sacerdotale e inculturazione Vorrei esprimere di conseguenza la mia assai profonda indignazione quando sento dire che l’ordinazione di uomini sposati è una necessità poiché le popolazioni dell’Amazzonia non comprendono il celibato, o che questa realtà sarà sempre estranea alla loro cultura. In questo genere di argomenti rilevo una mentalità sprezzante, neocolonialista e paternalista che mi turba. Tutti i popoli del mondo sono in grado di comprendere la logica eucaristica del celibato sacerdotale. Queste popolazioni sarebbero sprovviste del senso della fede? È ragionevole pensare che la grazia di Dio risulti inaccessibile alle popolazioni dell’Amazzonia, e che Dio li privi del dono del celibato sacerdotale che da tanti secoli la Chiesa costudisce come m. ouellet, Amici dello Sposo. Per una visione rinnovata del celibato sacerdotale, Cantagalli, Siena 2019, pp. 71-72. 62

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un prezioso gioiello? Non esiste cultura che la grazia di Dio non possa raggiungere e trasformare. Quando Dio penetra in una cultura, non la lascia inalterata. La destabilizza e la purifica. La trasforma e la divinizza. Per quale motivo, nelle zone più remote dell’Amazzonia, dovrebbero presentarsi maggiori difficoltà nel comprendere il celibato sacerdotale? Non dobbiamo temere che il celibato si scontri con le culture locali. Gesù ci dice: «Non sono venuto a portare pace, ma una spada» (Mt 10,34). Il contatto tra il Vangelo e una cultura che non lo conosce è sempre destabilizzante. Anche i Giudei e i Greci dei primi secoli sono rimasti sconcertati dal celibato per il Regno. È uno scandalo per il mondo e lo sarà sempre, perché rende presente lo scandalo della Croce. Alcuni missionari occidentali non comprendono il senso profondo del celibato e proiettano i propri dubbi sui popoli Amazzonici. Vorrei evocare l’illuminante testimonianza di un missionario presente al Sinodo che ben conosce la situazione locale. Padre Martin Lasarte anima le quarantasette comunità missionarie salesiane della regione, che contano seicentododicimila cristiani appartenenti a sessantadue differenti gruppi etnici63: «In America Latina non mancano esempi positivi, come tra i Q’eqchi del Guatemala centrale (Verapaz), dove, nonostante l’assenza di sacerdoti in alcune comunità, i ministri laici guidano comunità Studio del 20 maggio 2019 pubblicato sul sito ufficiale del PIME, «Asia News», 10 e 11 ottobre 2019. 63

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vive, ricche di ministeri, liturgie, itinerari catechistici, missioni, tra le quali i gruppi evangelici hanno potuto penetrare molto poco. Nonostante la scarsità di sacerdoti per tutte le comunità, è una Chiesa locale ricca di vocazioni sacerdotali indigene, dove sono state fondate persino congregazioni religiose femminili e maschili di origine totalmente locale. Ma in Amazzonia avviene il contrario. La mancanza di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa in Amazzonia è una sfida pastorale o è piuttosto la conseguenza di scelte teologico-pastorali che non hanno dato i risultati previsti o risultati solo parziali? A mio parere, la proposta dei viri probati come soluzione all’evangelizzazione è una proposta illusoria, quasi magica, che non tocca il vero problema di fondo»64. Padre Lasarte porta anche l’esempio di circa cinquemila popoli ed etnie che vivono lungo il fiume Congo. Qui il cristianesimo è considerato talvolta come la religione della potenza coloniale. Tuttavia, la fioritura delle Chiese africane è promettente. Nel corso degli ultimi dieci anni le vocazioni sacerdotali sono aumentate del 32%, e la tendenza si mantiene costante. Così proseguiva Padre Lasarte: «L’inevitabile domanda che si pone è: come è possibile che popoli con tante somiglianze antropologico-culturali con i popoli amazzonici, nei loro riti, miti, il forte senso comunitario, la comunione con il cosmo, la profonda apertura religiosa… abbiano fatto fiorire comunità cristiane e vocazioni sacerdotali, 64

Ibidem.

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mentre in alcune parti dell’Amazzonia, dopo 200, 400 anni c’è una sterilità ecclesiale e vocazionale? Ci sono diocesi e congregazioni lì presenti da oltre un secolo che non hanno una sola vocazione indigena locale»65. In tutte le regioni del mondo le comunità cristiane incontrano prove e difficoltà, ma si può osservare che là dove è presente un’azione evangelizzatrice seria, autentica e continua, le vocazioni al sacerdozio non mancano. In questa linea, Papa Francesco non teme di affermare con lucidità e coraggio: «In molti luoghi scarseggiano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Spesso questo è dovuto all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso, per cui esse non entusiasmano e non suscitano attrattiva. Dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri, sorgono vocazioni genuine. […] è la vita fraterna e fervorosa della comunità che risveglia il desiderio di consacrarsi interamente a Dio e all’evangelizzazione, soprattutto se tale vivace comunità prega insistentemente per le vocazioni e ha il coraggio di proporre ai suoi giovani un cammino di speciale consacrazione»66. Il Papa tocca il punto nevralgico della questione: la mancanza di fede e di fervore apostolico. Si è rinunciato ad annunciare Cristo. Sono persuaso che se si Ibidem. PaPa FRanceSco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 107. 65 66

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proponesse ai giovani di impegnarsi nell’evangelizzazione, le vocazioni missionarie aumenterebbero. Purtroppo, però, con la scusa di una inculturazione mal compresa, spesso ci si accontenta di difendere i diritti dei popoli e di adoperarsi in favore del loro sviluppo economico. Questo non è il cuore della missione che Gesù ci ha affidato. Egli ci ha detto: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20). In questo modo ci prendiamo molta cura dei popoli, ma non abbastanza per annunciare il nucleo centrale della nostra fede. Mi costa riconoscerlo, ma a volte i protestanti evangelici sono più fedeli di noi a Cristo. Siamo diventati esperti in campo sociale, politico o ecologico. Tuttavia, come ci ricordava Benedetto XVI, «Dai sacerdoti i fedeli attendono soltanto una cosa: che siano degli specialisti nel promuovere l’incontro dell’uomo con Dio»67. Papa Francesco ha esposto molto chiaramente questo problema nel suo discorso di chiusura del Sinodo. Ha evocato il necessario rinnovamento dello zelo missionario. Ha sottolineato in maniera assai lucida che l’evangelizzazione costituisce il centro della riflessione sinodale: la sfida è rappresentata dall’annuncio della salvezza in Gesù Cristo. Così, per rispondere al suo appello, attraverso il celibato sacerdotale «vogliaBenedetto XVI, Discorso in occasione dell’incontro con il clero polacco, 25 marzo 2006. 67

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mo andare avanti e rendere presente questo scandalo di una fede che pone tutta l’esistenza su Dio»68. In un nuovo slancio di evangelizzazione, attraverso il celibato, vogliamo rendere presente ciò che il mondo non vuole vedere: solo Dio basta. Solo Lui può salvarci e renderci pienamente felici. Verso un sacerdozio radicalmente evangelico Il sacerdozio sta attraversando una crisi. Orribili scandali hanno sfigurato il suo volto e sconvolto nel mondo intero molti sacerdoti. Ora, nella Chiesa le crisi sono state sempre superate grazie a un ritorno alla radicalità del Vangelo, e non mediante l’adozione di criteri mondani. Il celibato è uno scandalo per il mondo. E noi siamo tentati di attenuarlo. Al contrario, affermava san Giovanni Paolo II, è necessario riscoprire che «Lo Spirito, consacrando il sacerdote e configurandolo a Gesù Cristo Capo e Pastore, crea un legame che, situato nell’essere stesso del sacerdote, chiede di essere assimilato e vissuto in maniera personale, cioè cosciente e libera, mediante una comunione di vita e di amore sempre più ricca e una condivisione sempre più ampia e radicale dei sentimenti e degli atteggiamenti di Gesù Cristo. In questo legame tra il Signore Gesù e il sacerdote, legame ontologico e psicologico, Id., Colloquio con i sacerdoti, Veglia in occasione dell’incontro internazionale dei sacerdoti, 10 giugno 2010. 68

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sacramentale e morale, sta il fondamento e nello stesso tempo la forza per quella “vita secondo lo Spirito” e per quel “radicalismo evangelico” al quale è chiamato ogni sacerdote»69. La crisi del sacerdozio non si risolverà indebolendo il celibato. Al contrario, sono persuaso che il futuro del sacerdozio risieda nel radicalismo evangelico. I sacerdoti devono vivere il celibato e una certa povertà. Essi vi sono chiamati in modo particolare. Il celibato, la povertà e la fraternità vissuti nell’obbedienza da parte dei sacerdoti non rappresentano soltanto dei mezzi di santificazione personale; diventano segni e strumenti di una vita specificamente sacerdotale: «il sacerdote è chiamato a viverli secondo quelle modalità, e più profondamente secondo quelle finalità e quel significato originale, che derivano dall’identità propria del presbitero e la esprimono»70. La logica di spogliazione indotta dal celibato deve spingersi fino all’obbedienza e alla rinuncia nella povertà. Lo afferma con forza Benedetto XVI: «Senza un tale abbandono delle proprie cose non c’è Sacerdozio. La chiamata alla sequela non è possibile senza questo segno di libertà e di rinunzia di qualsiasi compromesso»71. gIoVannI Paolo II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, n. 72. 70 Ibidem, n. 27. 71 J. RatzIngeR, Il cammino pasquale, Àncora, Milano 20064, p. 157. 69

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Il concetto pieno di sacerdozio include una vita secondo i consigli evangelici. Ritengo sia giunto il momento che i vescovi assumano mezzi concreti per proporre ai propri sacerdoti questa vita «pienamente sacerdotale», vita comune nella preghiera, nella povertà, nel celibato e nell’obbedienza. Più i sacerdoti vivranno la radicalità evangelica, più la loro identità e la loro vita quotidiana risulteranno coerenti. Si prospetta qui un lavoro di riforma da intraprendere, cioè di ritorno alle fonti. Non sto confondendo la vita sacerdotale con quella religiosa72. Affermo solennemente che il sacerdozio è uno stato di vita che implica un’esistenza donata e consacrata nella verità. Una vita secondo il mondo in un’anima sacerdotale può produrre soltanto un sentimento di incoerenza, di incompiutezza e di frammentarietà. «Nessuno può servire a due padroni» (Mt 6,24). Cari confratelli sacerdoti, permettetemi di rivolgermi direttamente a voi. Gli scandali sessuali scoppiano a un ritmo regolare. Vengono largamente amplificati dai social network. E ci coprono di vergogna, perché mettono direttamente in dubbio le nostre promesse di celibato sull’esempio di Cristo. Come possiamo tollerare che alcuni nostri confratelli abbiano profanato Lo stato di vita sacerdotale non esige per sua natura la professione dei consigli evangelici, ma una vita secondo i consigli. È compito dei religiosi essere stati consacrati, mediante la professione dei voti, in vista di diventare segni profetici della radicalità evangelica nella Chiesa (cfr. Lumen gentium, n. 44; PIo XII, Allocuzione Annus Sacer, 8 dicembre 1950). 72

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la sacra innocenza dei bambini? Come potremmo sperare una fecondità missionaria se in segreto vengono commesse tali atrocità? Ciò accresce la nostra sofferenza e la nostra solitudine. Alcuni di voi sono oppressi dal lavoro. Altri celebrano dentro a chiese vuote. A tutti voglio ricordare: l’esperienza della Croce rivela la verità della nostra vita. Proclamando la verità di Dio, voi salite sulla Croce. Senza di voi l’umanità sarebbe meno grande e meno bella. Siete il baluardo vivente della verità, perché avete accettato di amarla fino alla Croce. Non siete i difensori di una verità astratta o di un partito. Avete deciso di soffrire con amore per Gesù Cristo. Voi tutti, sacerdoti nascosti e dimenticati, che talvolta siete disprezzati dalla società, che siete fedeli alle promesse della vostra ordinazione, fate tremare le potenze di questo mondo. Rammentate loro che nulla resiste alla forza del dono della vostra vita per la verità. La vostra presenza risulta insopportabile al Principe della menzogna. Il celibato rivela l’essenza stessa del sacerdozio cristiano. Parlarne come di una realtà secondaria è doloroso per tutti i preti del mondo. Sono intimamente convinto che la relativizzazione del celibato sacerdotale significherebbe ridurre il sacerdozio a una semplice funzione. Esso, però, non è una funzione, ma uno stato di vita. 115

La vocazione sacerdotale: una vocazione alla preghiera Cari confratelli sacerdoti, cari seminaristi che vi preparate al sacerdozio, sono a conoscenza del fatto che molti tra voi soffrono terribilmente nel vedere il celibato criticato e disprezzato. So come vi sentite soli e abbandonati da coloro da cui vi aspettate un sostegno. Non lasciatevi turbare dalle piccole opinioni teologiche, vane e miserabili, del momento. Se arrivate a dubitare della vostra vocazione o a essere tentati di fare un passo indietro di fronte alle esigenze del celibato, meditate sulle parole piene di luce e di forza di Benedetto XVI: Gesù «ci sostiene. Fissiamo sempre di nuovo il nostro sguardo su di Lui e stendiamo le mani verso di Lui. Lasciamo che la sua mano ci prenda, e allora non affonderemo […]. Una mia preghiera preferita è la domanda che la liturgia ci mette sulle labbra prima della Comunione: “… non permettere che sia mai separato da te”. Chiediamo di non cadere mai fuori della comunione col suo Corpo, con Cristo stesso, di non cadere mai fuori del mistero eucaristico. Chiediamo che Egli non lasci mai la nostra mano… Il Signore ha posto la sua mano su di noi. Il significato di tale gesto lo ha espresso nelle parole: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). Non vi chiamo più servi, ma amici: in queste parole si potrebbe addirittura vedere l’istituzione del sacerdozio. Il Signore ci rende suoi amici: ci affida tutto; ci affida se stesso, così che possiamo parlare con il suo Io 116

– in persona Christi capitis. Che fiducia! Egli si è davvero consegnato nelle nostre mani […]. Non vi chiamo più servi ma amici. È questo il significato profondo dell’essere sacerdote: diventare amico di Gesù Cristo. Per questa amicizia dobbiamo impegnarci ogni giorno di nuovo. Amicizia significa comunanza nel pensare e nel volere. In questa comunione di pensiero con Gesù dobbiamo esercitarci, ci dice san Paolo nella Lettera ai Filippesi (cfr. 2,2-5). E questa comunione di pensiero non è una cosa solamente intellettuale, ma è comunanza dei sentimenti e del volere e quindi anche dell’agire. Ciò significa che dobbiamo conoscere Gesù in modo sempre più personale, ascoltandolo, vivendo insieme con Lui, trattenendoci presso di Lui. Ascoltarlo nella lectio divina, cioè leggendo la Sacra Scrittura in un modo non accademico, ma spirituale; così impariamo ad incontrare il Gesù presente che ci parla. Dobbiamo ragionare e riflettere sulle sue parole e sul suo agire davanti a Lui e con Lui. La lettura della Sacra Scrittura è preghiera, deve essere preghiera – deve emergere dalla preghiera e condurre alla preghiera. Gli evangelisti ci dicono che il Signore ripetutamente – per notti intere – si ritirava “sul monte” per pregare da solo. Di questo “monte” abbiamo bisogno anche noi: è l’altura interiore che dobbiamo scalare, il monte della preghiera. Solo così si sviluppa l’amicizia. Solo così possiamo svolgere il nostro servizio sacerdotale, solo così possiamo portare Cristo e il suo Vangelo agli uomini. Il semplice attivismo può essere persino eroico. Ma l’agire esterno, in fin dei conti, resta senza 117

frutto e perde efficacia, se non nasce dalla profonda intima comunione con Cristo. Il tempo che impegniamo per questo è davvero tempo di attività pastorale, di un’attività autenticamente pastorale. Il sacerdote deve essere soprattutto un uomo di preghiera. Il mondo nel suo attivismo frenetico perde spesso l’orientamento. Il suo agire e le sue capacità diventano distruttive, se vengono meno le forze della preghiera, dalle quali scaturiscono le acque della vita capaci di fecondare la terra arida. Non vi chiamo più servi, ma amici. Il nucleo del sacerdozio è l’essere amici di Gesù Cristo. Solo così possiamo parlare veramente in persona Christi, anche se la nostra interiore lontananza da Cristo non può compromettere la validità del Sacramento. Essere amico di Gesù, essere sacerdote significa essere uomo di preghiera. Così lo riconosciamo e usciamo dall’ignoranza dei semplici servi. Così impariamo a vivere, a soffrire e ad agire con Lui e per Lui. L’amicizia con Gesù è per antonomasia sempre amicizia con i suoi. Possiamo essere amici di Gesù soltanto nella comunione con il Cristo intero, con il capo e il corpo; nella vite rigogliosa della Chiesa animata dal suo Signore. […] Vorrei concludere questa omelia con una parola di Andrea Santoro, di quel sacerdote della Diocesi di Roma che è stato assassinato a Trebisonda mentre pregava […]. La parola dice: “Sono qui per abitare in mezzo a questa gente e permettere a Gesù di farlo prestandogli la mia carne… Si diventa capaci di salvezza solo offrendo la propria carne. Il male del mondo va portato e il dolore va condiviso, 118

assorbendolo nella propria carne fino in fondo come ha fatto Gesù”. Gesù ha assunto la nostra carne. Diamogli noi la nostra, in questo modo Egli può venire nel mondo e trasformarlo»73. La Messa è la ragion d’essere del sacerdote. Il memoriale del sacrificio del Calvario non è solo l’azione più importante e più nobile della sua giornata, ma ciò che le conferisce tutto il suo senso. Con le lacrime agli occhi il Santo Curato d’Ars ripeteva spesso: «Oh! Com’è spaventoso essere prete!». E aggiungeva: «Come è triste quel prete che celebra la Messa come qualcosa di ordinario. Quanti errori commette un prete che non ha una vita interiore»74. Cari sacerdoti, cari seminaristi, non lasciamoci prendere dalla fretta, dall’attivismo e dalla superficialità di una vita che dà la precedenza all’impegno sociale o ecologico, come se il tempo dedicato a Cristo, nel silenzio, fosse tempo sprecato. È precisamente nella preghiera e nell’adorazione davanti al tabernacolo che troviamo il sostegno indispensabile della nostra verginità e del nostro celibato sacerdotale. Non ci scoraggiamo: la preghiera esige impegno. Essa ingaggia un corpo a corpo, un aspro combattimento con Dio, simile a quello di Giacobbe, che combatté tutta la notte fino all’alba (Gen 32,23-33). AbbiaBenedetto XVI, Omelia nella Santa Messa del Crisma, giovedì 13 aprile 2006. 74 B. naudet, Jean-Marie Vianney, curé d’Ars, op. cit., pp. 1014-1018. 73

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mo talvolta come la dolorosa impressione che Gesù taccia, ma egli agisce in gran segreto. Cerchiamo di essere assidui nella preghiera di adorazione e insegniamola ai fedeli cristiani con l’esempio della nostra vita. Per incoraggiare i sacerdoti a un’intima relazione con il Signore, san Carlo Borromeo ripeteva: «Eserciti la cura d’anime? […] Non trascurare per questo la cura di te stesso, e non darti agli altri fino al punto che non rimanga nulla di te a te stesso. Devi avere certo presente il ricordo delle anime di cui sei pastore, ma non dimenticarti di te stesso. Comprendete, fratelli, che niente è così necessario a tutte le persone ecclesiastiche quanto la meditazione che precede, accompagna e segue tutte le nostre azioni: Canterò, dice il profeta, e mediterò (Sal 100,1). Se amministri i sacramenti, o fratello, medita ciò che fai. Se celebri la Messa, medita ciò che offri. Se reciti i salmi in coro, medita a chi e di che cosa parli. Se guidi le anime, medita da quale sangue siano state lavate»75. San Giovanni Paolo II così commenta i preziosi consigli di san Carlo Borromeo ai sacerdoti: «La vita di preghiera dev’essere continuamente “riformata” nel sacerdote. L’esperienza, infatti, insegna che nell’orazione non si vive di rendita: ogni giorno occorre, non solo riconquistare la fedeltà esteriore ai momenti di preghiera, soprattutto a quelli destinati alla celebrazione della “Liturgia delle Ore” e a San caRlo BoRRomeo, Acta Ecclesiae Mediolanensis, Milano (1559), p. 1178, citato in gIoVannI Paolo II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, n. 72. 75

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quelli lasciati alla scelta personale e non sostenuti da scadenze e orari del servizio liturgico, ma anche e specialmente rieducare la continua ricerca di un vero incontro personale con Gesù, di un fiducioso colloquio con il Padre, di una profonda esperienza dello Spirito. Quanto l’apostolo Paolo dice di tutti i credenti, che devono giungere “a formare l’uomo maturo, al livello di statura che attua la pienezza del Cristo” (Ef 4,13), può essere applicato in modo specifico ai sacerdoti chiamati alla perfezione della carità e quindi alla santità, anche perché il loro stesso ministero pastorale li vuole modelli viventi per tutti i fedeli»76. Cari sacerdoti e seminaristi, di fronte a un generalizzato indifferentismo religioso e alla crisi della dottrina, se volete che la vostra fede sia forte e vigorosa, è necessario nutrirla attraverso una vita di preghiera assidua, umile e fiduciosa. Siate perseveranti e rimanete modelli e maestri di preghiera: «Le vostre giornate siano scandite dai tempi dell’orazione, durante i quali, sul modello di Gesù, vi intrattenete in un colloquio rigenerante con il Padre. So che non è facile mantenersi fedeli a questi quotidiani appuntamenti con il Signore, soprattutto oggi che il ritmo della vita si è fatto frenetico e le occupazioni assorbono in misura sempre maggiore. Dobbiamo tuttavia convincerci: il momento della preghiera è il più importante nella vita del sacerdote, quello in cui agisce con più efficagIoVannI Paolo II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, n. 72. 76

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cia la grazia divina, dando fecondità al suo ministero. Pregare è il primo servizio da rendere alla comunità. E perciò i momenti di preghiera devono avere nella nostra vita una vera priorità»77. Costruite la vostra esistenza sulle solide fondamenta di un progetto di vita. Chiedete costantemente al Signore di dare unità alla vostra vita. Il lavoro e la preghiera, lungi dal volgersi le spalle, devono appoggiarsi l’uno all’altra. Se non siamo interiormente in comunione con Dio, non possiamo donare nulla agli altri. Dobbiamo continuamente riscoprire che è Dio la nostra priorità. «Essere ordinati sacerdoti – affermava Benedetto XVI – significa entrare in modo sacramentale ed esistenziale nella preghiera di Cristo per i “suoi”. Da qui deriva per noi presbiteri una particolare vocazione alla preghiera […]. Il sacerdote che prega molto, e che prega bene, viene progressivamente espropriato di sé e sempre più unito a Gesù Buon Pastore e Servo dei fratelli»78. Senza la fede e la preghiera, il celibato sacerdotale sarebbe come una casa costruita sulla sabbia: quando arriva la tempesta, essa crolla. Senza la preghiera e una fede viva, come potremmo comprendere e vivere con gioia il celibato sacerdotale? Cari confratelli sacerdoti e vescovi, rileggiamo queste parole così profonde di Benedetto XVI: «PaoBenedetto XVI, Discorso in occasione dell’incontro con i sacerdoti nella Cattedrale di Brindisi, 15 giugno 2008. 78 Id., Omelia nella Santa Messa con Ordinazioni presbiterali, 3 maggio 2009. 77

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lo chiama Timoteo – e in lui il Vescovo e, in genere, il sacerdote – “uomo di Dio” (1Tm 6,11). È questo il compito centrale del sacerdote: portare Dio agli uomini. Certamente può farlo soltanto se egli stesso viene da Dio, se vive con e da Dio. […] Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso. La Chiesa […] ha visto con ragione la spiegazione di ciò che significa la missione sacerdotale nella sequela degli Apostoli, nella comunione con Gesù stesso. Il sacerdote può e deve dire anche oggi con il levita: “Dominus pars hereditatis meae et calicis mei”. Dio stesso è la mia parte di terra, il fondamento esterno ed interno della mia esistenza. Questa teocentricità dell’esistenza sacerdotale è necessaria proprio nel nostro mondo totalmente funzionalistico, nel quale tutto è fondato su prestazioni calcolabili e verificabili. Il sacerdote deve veramente conoscere Dio dal di dentro e portarlo così agli uomini: è questo il servizio prioritario di cui l’umanità di oggi ha bisogno. Se in una vita sacerdotale si perde questa centralità di Dio, si svuota passo passo anche lo zelo dell’agire. Nell’eccesso delle cose esterne manca il centro che dà senso a tutto e lo riconduce all’unità. Lì manca il fondamento della vita, la “terra”, sulla quale tutto questo può stare e prosperare»79. Id., Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, Sala Clementina, venerdì 22 dicembre 2006. 79

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Questo insegnamento è il manifesto di ogni riforma, di ogni rinnovamento del sacerdozio nella Chiesa cattolica. Chiarisce definitivamente il senso e la necessità del celibato. Il sacerdote non può e non deve avere nient’altro che Dio. Con il suo stile di vita deve testimoniare che Dio è al centro di ogni evangelizzazione e di ogni pastorale. «Il celibato, che vige per i Vescovi in tutta la Chiesa orientale ed occidentale e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella degli Apostoli, per i sacerdoti in genere nella Chiesa latina, può essere compreso e vissuto, in definitiva, solo in base a questa impostazione di fondo. Le ragioni solamente pragmatiche, il riferimento alla maggiore disponibilità, non bastano: una tale maggiore disponibilità di tempo potrebbe facilmente diventare anche una forma di egoismo, che si risparmia i sacrifici e le fatiche richieste dall’accettarsi e dal sopportarsi a vicenda nel matrimonio; potrebbe così portare ad un impoverimento spirituale o ad una durezza di cuore. Il vero fondamento del celibato può essere racchiuso solo nella frase: Dominus pars – Tu sei la mia terra. Può essere solo teocentrico. Non può significare il rimanere privi di amore, ma deve significare il lasciarsi prendere dalla passione per Dio, ed imparare poi grazie ad un più intimo stare con Lui a servire pure gli uomini. Il celibato deve essere una testimonianza di fede: la fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di Lui, rinunciando al matrimonio ed alla famiglia, significa 124

che io accolgo e sperimento Dio come realtà e perciò posso portarlo agli uomini. Il nostro mondo diventato totalmente positivistico, in cui Dio entra in gioco tutt’al più come ipotesi, ma non come realtà concreta, ha bisogno di questo poggiare su Dio nel modo più concreto e radicale possibile. Ha bisogno della testimonianza per Dio che sta nella decisione di accogliere Dio come terra su cui si fonda la propria esistenza. Per questo il celibato è così importante proprio oggi, nel nostro mondo attuale, anche se il suo adempimento in questa nostra epoca è continuamente minacciato e messo in questione. Occorre una preparazione accurata durante il cammino verso questo obiettivo; un accompagnamento persistente da parte del Vescovo, di amici sacerdoti e di laici, che sostengano insieme questa testimonianza sacerdotale. Occorre la preghiera che invoca senza tregua Dio come il Dio vivente e si appoggia a Lui nelle ore di confusione come nelle ore della gioia. In questo modo, contrariamente al “trend” culturale che cerca di convincerci che non siamo capaci di prendere tali decisioni, questa testimonianza può essere vissuta e così, nel nostro mondo, può rimettere in gioco Dio come realtà»80. Il nostro mondo ha più che mai bisogno del celibato sacerdotale. È necessario per i sacerdoti, ma è anche indispensabile dal punto di vista pastorale. È di una scottante attualità missionaria. 80

Ibidem.

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Per concludere, riprendiamo i fondamenti essenziali della nostra proposta. Gesù Cristo è il sacerdote. Tutto il suo essere è sacerdotale, donato e consegnato. Prima di lui i sacerdoti offrivano animali come sacrificio a Dio. Egli ci ha insegnato che il vero sacerdote offre se stesso. Per essere preti, ormai, dobbiamo innestarci in questa grande offerta di Cristo al Padre. Dobbiamo adottare il sacrificio della Croce come la forma di tutta la nostra vita. Questo dono assume la forma del sacrificio dello sposo per la propria sposa. Cristo è realmente lo Sposo della Chiesa. A sua volta, il sacerdote si dona a tutta la Chiesa. Il celibato indica tale dono, ne è il segno concreto e vitale. Il celibato è il sigillo della Croce sulla nostra esistenza di sacerdoti. È un grido dell’anima sacerdotale che proclama l’amore per il Padre e il dono di sé alla Chiesa. Mediante il celibato, il sacerdote rinuncia a esercitare umanamente la propria capacità di essere sposo e padre secondo la carne. Egli sceglie per amore di privarsene per vivere esclusivamente da sposo della Chiesa. La volontà di relativizzare il celibato equivale a disprezzare questo dono radicale che molti fedeli sacerdoti hanno vissuto dalla propria ordinazione. Il celibato è il segno e lo strumento del nostro innestarci nell’essere sacerdotale di Gesù. Riveste un valore che potremmo analogicamente qualificare come sacramentale. In questa prospettiva, non si vede come l’identità sacerdotale possa essere incoraggiata e custodita se per qualche ragione si sopprimesse l’esigen126

za del celibato voluto da Cristo e gelosamente conservato dalla Chiesa latina. Come ci ricorda il Concilio Vaticano II, il celibato dei chierici non è una semplice prescrizione della legge ecclesiastica81, ma un «dono prezioso»82 di Dio. Per questo Papa Francesco, facendo sue le parole ferme e coraggiose di Paolo VI, afferma: «Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato. Personalmente penso che il celibato sia un dono per la Chiesa e non sono d’accordo a permettere il celibato opzionale»83. C’è un legame ontologico-sacramentale tra sacerdozio e celibato. Qualsiasi indebolimento di questo legame costituirebbe una rimessa in discussione del magistero del Concilio e dei Papi Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Supplico umilmente Papa Francesco di proteggerci definitivamente da tale eventualità ponendo il suo veto a ogni indebolimento della legge del celibato sacerdotale, anche se limitato a questa o a quella regione. Per concludere questa riflessione, vorrei rivolgermi ancora una volta ai miei cari confratelli sacerdoti. Cristo ci ha affidato una responsabilità tremenda e magnifica. Noi continuiamo la sua presenza sulla terCfr. gIoVannI Paolo II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, n. 50. 82 concIlIo VatIcano II, Presbyterorum ordinis, n. 16. 83 PaPa FRanceSco, Conferenza stampa sul volo di ritorno dalla Giornata Mondiale della Gioventù a Panama, Agenzia stampa One Media, 27 gennaio 2019. 81

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ra. Come lui, dobbiamo vegliare, pregare e rimanere saldi nella fede. Egli ha voluto aver bisogno di noi sacerdoti. Le nostre mani consacrate con il sacro crisma non sono più nostre. Sono le sue, per benedire, perdonare e consolare. Sono riservate a lui. Se talvolta il celibato ci sembra troppo gravoso, contempliamo le mani del Crocifisso. Le nostre mani, come le sue, devono essere forate per non conservare e non trattenere nulla con avidità. Il nostro cuore, come il suo, deve essere squarciato perché tutti possano trovarvi rifugio e accoglienza. Se non riusciamo più a comprendere il nostro celibato, allora guardiamo la Croce. Essa è l’unico libro che potrà restituircene il significato autentico. Soltanto la Croce ci istruirà a essere sacerdoti. Soltanto la Croce ci insegnerà ad «amare fino alla fine» (Gv 13,1). In questo cammino, Benedetto XVI è un mirabile esempio. Robert Cardinal Sarah Città del Vaticano, 25 novembre 2019

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ALL’OMBRA DELLA CROCE Conclusione degli Autori

Il sacerdozio sta attraversando un periodo buio. Feriti dalla scoperta di numerosi scandali, disorientati dalle continue critiche al loro celibato consacrato, sono molti i sacerdoti tentati dall’idea di rinunciare, di abbandonare tutto. Cristo ci domanda: «Volete forse andarvene anche voi?» (Gv 6,67). Uniti a Pietro e al suo successore, vogliamo rispondergli: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69). Sì, Signore, tu sei il Santo di Dio. Tu sei il consacrato di Dio. Tu sei tutto offerto e tutto donato. Il tuo «sì» al Padre è incondizionato. Nulla in te gli resiste, nulla in te gli si sottrae. Noi, sacerdoti, vogliamo seguirti fino a questo «sì» perfetto. Con te vogliamo dire: ecco il mio corpo offerto per voi, ecco il mio sangue che sarà versato per voi e per la moltitudine. Insegnaci a pregare e a ripetere senza sosta dopo di te «Nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Tu sei l’unico nostro bene, tu sei la sola nostra eredità. Con san John Henry Newman ti preghiamo: «Possiedi tutto il mio essere, in misura così perfetta, così piena, che ogni giorno, ogni azione della mia vita sia un’irradiazione della tua. Risplendi attraverso di me, 131

e sii in me a tal punto che ogni anima che tocco sperimenti la tua presenza in me. Fa’ che alzino gli occhi e non vedano più me, Signore, ma solo te! Resta con me, e allora comincerò a risplendere come tu risplendi; così da essere per gli altri una lampada accesa alla tua luce: nessun raggio sarà mio. Non sarò altro che un fascio della tua luce che giunge agli altri attraverso di me. Permettimi di pregarti come vuoi tu, illuminando coloro che incontro. Fa’ che ti annunci senza predicare, non a parole, ma solo con l’esempio, solo con la forza che trascina, solo con la pienezza tangibile del mio amore per te». Gesù Crocifisso, guarda la tua Chiesa come hai guardato Maria quando eri in cima alla Croce. L’hai donata come madre all’apostolo Giovanni, sacerdote casto. Gliel’hai affidata perché diventasse «l’unico suo bene» (cfr. Gv 19,27). Abbi pietà della tua Chiesa. Donale pace e unità. Abbi pietà dei tuoi sacerdoti. Dona anche a loro di accogliere Maria. Concedi loro di non possedere nient’altro che la tua Chiesa. Gesù Crocifisso, guarda la Chiesa tua Sposa. Rendila bella e degna di te. Sia conforme al tuo cuore. Possano tutti riconoscere in essa il tuo volto. Che tutti i popoli possano riconoscere in essa la loro unica casa comune. Al termine della nostra riflessione, avvertiamo la necessità di confessare il nostro amore per la Chiesa. Abbiamo voluto donarle la nostra vita come Cristo le ha offerto la propria. Non l’abbandoneremo mai! Sul132

la mano destra indossiamo l’anello che ci ricorda che le siamo legati con un’alleanza definitiva. Ogni giorno la nostra anima rende grazie e si meraviglia per questo dono immeritato che abbiamo ricevuto di servire e amare la Chiesa. Di fronte a questo mistero, insieme a sant’Agostino, esclamiamo: «Mistero di amore! Simbolo di unità! Vincolo di carità! Chi vuol vivere, ha dove vivere, ha di che vivere. S’avvicini, creda, entri a far parte del Corpo, e sarà vivificato. Non disdegni d’appartenere alla compagine delle membra»84. Desideriamo tenerci lontani da tutto ciò che potrebbe ferire l’unità della Chiesa. Le offese personali, le manovre politiche, i giochi di potere, le manipolazioni ideologiche e le critiche piene di acredine fanno il gioco del diavolo, colui che divide, il padre della menzogna. È unicamente il nostro amore per la Chiesa che ci ha spinti a impugnare la penna per voi. Le parole di san Paolo risuonano come un solenne ammonimento rivolto a tutti i vescovi: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti […]. annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie 84

Sant’agoStIno, In Iohannis Evangelium, 26,13.

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voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2Tm 4,1-5). Viviamo con tristezza e sofferenza questi tempi difficili e travagliati. Era nostro preciso dovere richiamare la verità sul sacerdozio cattolico. Con esso, infatti, si trova messa in discussione tutta la bellezza della Chiesa. La Chiesa non è soltanto un’istituzione umana. È un mistero. È la Sposa mistica di Cristo. È quanto il nostro celibato sacerdotale non cessa di rammentare al mondo. È urgente, necessario, che tutti, vescovi, sacerdoti e laici, non si facciano più impressionare dai cattivi consiglieri, dalle teatrali messe in scena, dalle diaboliche menzogne, dagli errori alla moda che mirano a svalutare il celibato sacerdotale. È urgente, necessario, che tutti, vescovi, sacerdoti e laici, ritrovino uno sguardo di fede sulla Chiesa e sul celibato sacerdotale che protegge il suo mistero. Tale sguardo sarà il miglior baluardo contro lo spirito di divisione, contro lo spirito partitico, ma anche contro l’indifferenza e il relativismo. Ascoltiamo san Paolo. Prendiamo con coraggio la parola per confessare la fede senza temere di mancare di carità. In questi tempi difficili l’unico timore che ciascuno dovrà avere sarà di sentirsi dire un giorno da Dio «quella dura parola con riprensione […]: “maladetto sia tu che tacesti”. Oimè, non più tacere! Gridate con cento migliaia di lingue. Veggo che, per tacere, il mondo è guasto, la Sposa di Cristo è impallidita, tolto134

gli è il colore, perché gli è succhiato il sangue da dosso, cioè […] il sangue di Cristo, che è dato per grazia […]. Non dormite più in negligenzia; adoperate nel tempo presente ciò che si può»85. Che cosa fare? In primo luogo, dobbiamo ascoltare nuovamente l’appello di Dio: «Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo» (Lv 19,2). L’ordinazione sacerdotale conduce all’identificazione con Cristo. Certo, l’efficacia sostanziale del ministero permane indipendentemente dalla santità del ministro, ma non si può nemmeno ignorare la straordinaria fecondità che dipende dalla santità dei sacerdoti. A nessuno è proibito proclamare la verità della fede in uno spirito di pace, di unità e di carità. Guai a chi resterà in silenzio. «Vae mihi si non evangelizavero! Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1Cor 9,16). Benedetto XVI Robert Cardinale Sarah Città del Vaticano, 3 dicembre 2019

Santa cateRIna da SIena, Lettera n. 16 (A uno grande prelato), in Id., Le lettere, op. cit., p. 233. 85

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Indice

Nota del Curatore

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Perché avete paura? Introduzione degli Autori

15

I – Il sacerdozio cattolico Benedetto XVI

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II – Amare fino alla fine Sguardo ecclesiologico e pastorale sul celibato sacerdotale Cardinale Robert Sarah

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All’ombra della Croce Conclusione degli Autori

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