I latinos alla conquista degli Usa 880710315X, 9788807103155

E' New York la capitale dell'America latina? Sono gli immigrati latinos la nuova linfa della sinistra e del mo

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Italian Pages 163 [161] Year 2001

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I latinos alla conquista degli Usa
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La serie "Società" mette a fuoco problemi relativi alle scienze sociali grazie a una prospettiva allargata che comprende economia, politologia, antropologia culturale e urbanistica. "Campi del sapere/Società" intende fotografare i fenomeni più rilevanti del mondo contemporaneo e proporre modelli in grado di preparare il futuro.

MikeDavis I latinos alla conquista degli Usa Introduzione e traduzione di Federico Rahola

~ Feltrinelli

Titolo dell'opera originale MAGICAL URBANISM Traduzione dall'americano di Federico Rahola © Mike Davis 2000 © Giangiacomo Feltrinellì Editore Milano

Prima edizione in "Campi del sapere", ottobre 2001 ISBN 88-07-10315-X

Oltre il barrio di Federico Rahola

All'ultima biennale del Withney Museum, un artista di Tijuana, Marcos Ramirez Erre, ha presentato una bandiera americana costruita interamente con pezzi di filo spinato e ferro arrugginito: materiali tutti di scarto, "materialmente" sottratti al Confine, alla lìnea lunga duemila chilometri che recinta, come in un romanzo di Manuel Scorza, il confine più militarizzato e caldo del presente globale, tra Messico e Stati Uniti. Il riferimento, esplicito, è alla più famosa bandiera stelle-a-strisce dipinta negli anni sessanta da Jasper Johns, e assume in questo caso un valore doppio, ironico-allusivo e politico-polemico. Già l'opera di Johns si caricava di un significato "di rottura": rappresentare in modo sporco un'immagine sacra, svuotarla di ogni epos, ridurla a straccio logoro, banalizzato e sdrucito. Erre, il giovane artista messicano autore del lavoro, riprende questa sovversione e la moltiplica all'infinito. Restituisce una proliferazione discorsiva, una differance, attraverso l'immagine potente della riappropriazione di un simbolo odiato e subìto, la visione immediata, capovolta e distopica, di chi guarda gli "Estados Unidos" dall'otro lado. Così, la bandiera finisce per assorbire, muta e grigia, il miraggio, l'urgenza, l'ostacolo e il perentorio rifiuto che quel confine rappresenta-oppone a ogni sguardo da sud. Lo stesso artista ha successivamente realizzato un lavoro ancora più diretto, un cavallo di Troia a due teste posto esattamente sul confine Tijuana-San Diego, résort ironico per gli immigrati irregolari, i wet-back (le schiene bagnate, così li definiscono con disprezzo i bianchi della California del Sud) ricacciati indietro dalla Migra, che potevano in questo spazio sospeso tra due direzioni cruciali - la diaspora e 7

l'espulsione - trovare asilo e "decomprimere" la paura, il dolore, o più semplicemente riposarsi. Il cavallo-rifugio, bisogna dirlo, ha dawero funzionato, innescando a ruota la scontata e pavloviana reazione della polizia di frontiera (quella messicana e soprattutto quella americana) e l'intervento del museo di arte contemporanea di Tijuana in difesa dell'opera e della sua fruizione immediata e politica.' Alla base dell'operazione di Erre, si diceva, agisce un movimento doppio, ironico e politico, che allude/riproduce a più livelli lo "scarto" che i latinos, con le politiche culturali da loro ancora confusamente e perlopiù dolorosamente messe in atto, stanno muovendo all'eccezionalismo statunitense, alla retorica che vuole gli Stati Uniti come patria delle minoranze e che, nei fatti, nella sua declinazione egemone, traduce un'opposizione assoluta tra "maggioranza" wasp e differenze "minori" presupposte come costanti e immutabili. I riferimenti in questo caso sono molteplici: gli scarti e il riciclaggio, inteso come operazione "polemica e culturale"; il confine come barriera discrezionale e in continua riproduzione; e soprattutto una politica non lineare, naturalmente obliqua, che rovescia ordini discorsivi e retoriche centrate sulla differenza. Tutti ingredienti che i latinos immettono, volontariamente o meno, agiti o subìti, nello scenario politico nordamericano; senza ancora una chiara agenda politica, se non frammentata e dispersa, ma con una solidità fondata prima di tutto sull'oggettività di semplici dati numerici. Censimenti alla mano, quello che sta succedendo un po' dappertutto nelle principali metropoli Usa, e che Mike Davis delinea-preconizza in questo libro, è specchio di una rivoluzione demografica e sociale decisiva sull'intero scenario americano. 2 A Los Angeles e Miami i latinos sono già maggioranza assoluta della popolazione (se la scritta se habla inglés campeggia in molti uffici e in molti negozi della "città di quarzo", fare un numero di telefono a caso a Miami e sentirsi rispondere in inglese è dawero raro), e lo spagnolo è diventato di gran lunga la lingua più parlata anche in interi quartieri di Chicago, Boston, Philadelphia, per non parlare di Harlem, del Bronx, e di buona parte di Brooklyn. Tra vent'anni gli Stati Uniti saranno (anche) le seconda "nazione" di lingua spagnola al mondo dopo il Messico, o, se vogliamo vederla da un altro angolo, il terzo principale "paese latinoamericano". Accanto ai numeri, o meglio in mezzo, in between, sta crescendo una lingua ibrida, presagio di 8

una nuova koiné nordamericana e probabilmente emisferica: lo spanglish, l'espanglés, che, oltre a essere sempre di più una "casa" per chicanos e latinos di seconda generazione, ha assunto una sua forma letteraria, un profilo ufficiale che la proietta con forza fuori dai barrios. 3 Insomma, le trasformazioni in atto implicano già un paesaggio (culturale e sociale) altro, differito, sottraendolo alla rappresentazione statica di differenze, allo specchio che contrappone, simmetriche e costanti, una cultura egemone ad altre minori, impermeabili e centripete. Descrivono prima di tutto un continuo, faticoso ma incessante aggiramento di confini. Principale nodo - e domanda di fondo del lavoro di Davis - diventa allora esplorare le potenzialità politiche di questa emergente maggioranza. E qui il discorso si fa in ogni caso più complesso. Richiede innanzitutto la capacità di riconoscere (discreto esercizio di displacement per chi invece ha di fronte agli occhi lo scenario europeo) la profonda e indistricabile compenetrazione di elementi culturali e significati politici che caratterizza la storia contemporanea degli Stati Uniti. Ogni risposta relativa alla possibilità per i latinos di trasformare il peso demografico in forme di agency politica deve anche ricondurre allo scenario e alle opzioni simboliche, culturali, linguistiche - in un senso più ampio a quelle che Foucault definirebbe le diverse e contingenti forme pratiche discorsive -, entro cui tale processo sedimenta e trova espressione. Senza voler assumere questioni quali l'uso o meno del trattino nel definirsi in quanto minoranza [hyphenated minority] come in tutto e per tutto decisive e sufficienti, non domandarsi quali pratiche culturali contribuiscano ad alimentare questo tipo di rivendicazioni e quali effetti a loro volta si determinino attraverso di esse, rischia di eliminare dalla scena precisamente il soggetto dell'analisi: la cosiddetta "minoranza" e le sue possibili voices, le rappresentazioni che si dà, il modo in cui diventa/si proietta/occupa la sfera pubblica. Al contrario, se esiste un modo in cui termini - per certi versi imbarazzanti - come cultura e identità possono ancora essere utilizzati, senza stabilire necessariamente complicità, e, anzi, puntando il dito contro ogni riduzione essenzialistica e ogni mito fondativo, nativista, questo risiede nella necessità di interpretarli come altrettanti "campi di battaglia":• arene pubbliche in cui si giocano definizioni e rappresentazioni decisive. In altre parole, conflitti sul qui e ora. È essenzialmente in questo particolare campo culturale, 9

saturo di significati politici (altri, del resto, non se ne possono dare), che occorre ricollocare e contestualizzare il senso della presenza latina, della metropoli latina, come una partita aperta dalle cui risposte e dai cui esiti dipende una possibile riconfigurazione del significato che assume la parola "minoranza", l'idea stessa di appartenenza, e soprattutto possibili nuove forme e pratiche di cittadinanza. La domanda centrale sugli sbocchi politici dei latinos resta in ogni caso prematura e irrisolta. Alcune ipotesi fondate si possono però avanzare, alcuni punti fermi definire. Partendo innanzitutto da ciò che Davis ricostruisce: l'esperienza precaria, segnata alla base da una lacerazione profonda, spesso insanabile, ma politicamente densissima dell'abitare-incarnare, e necessariamente dallo spostare un confine. Dimensione politica che molti studi postcoloniali tematizzano come specifica esperienza diasporica: "stare in mezzo", occupare quello spazio instabile che Homi Bhabha definisce in between, e che si situa "tra edentro" territori, confini, identità, passati/presenti/futuri.' Il lessico delle scienze sociali offre una serie di figure per fotografare questa situazione instabile, che è prima di tutto un processo, un movimento continuo di transculturazione. Le parole convergono e disegnano un contorno dinamico, per lo più inafferrabile: sincretismo, meticciato, mestizajes, ibridità. Condizione apparentemente recessiva, sicuramente imposta, ma allo stesso tempo sovversiva di ordini discorsivi discreti, centrati sul presupposto culturalista di alterità assolute e sugli effetti di segregazione che, nel caso di molte minoranze nordamericane, ogni idea "naturale" di differenza immediatamente veicola. Esiste, è fondamentale ribadirlo, un'insidia latente in questo tipo di figure. Il rischio, continuamente in agguato soprattutto oggi - in un contesto in cui ogni solidità e spigolosità spaziale e temporale moderna sembrerebbe svanire nel cybercapitalismo e diventare all'apparenza fluida e aggirabile - di attribuire a questi processi simbiotici un valore estetico, una generale fluidità e leggerezza. Finendo così per perdere di vista le barriere materiali, fisiche e politiche, che ancora saturano la società nordamericana e che, se a San Diego/Tijuana sono roventi, a Philadelphia, piuttosto che in qualunque altra realtà urbana e suburbana statunitense, non sono meno perentorie. Il Confine in ogni caso, la Frontéra, l'area economica di duemila chilometri e otto milioni di abitanti che gravitano tra Messico e Stati Uniti - Davis lo ribadisce con forza - resta, nella sua 10

brutalità, nell'abisso socioeconomico che istituisce e sanziona, quanto di più sideralmente distopico rispetto a ogni poetica, a ogni apologia "postmodernista" di sottrazione e di fuga. E si manifesta invece per quello che direttamente produce: luogo di desaparicion e di morte, di territori controllati dai nuovi cartelli del traffico internazionale della droga con polizie statali e federali colluse; di suburb dorati e shantytown invisibili, di maquiladoras che fanno rimpiangere il fordismo e résort di lusso sperduti nel deserto califoniano. È, più in generale, ogni immagine assoluta del confine come metafora, come condizione che avvolge liricamente l'esperienza dei migranti latinoamericani a venire smontata da Davis. Perché al contrario, i confini - intesi come linee che istituiscono e riproducono differenze - anziché dissolversi in una dimensione estetica, in poetica del nomadismo, letteralmente si moltiplicano. Da banale fattore geografico di demarcazione territoriale diventano barriere militarizzate e ultrasensorizzate, materialmente costituite con scarti di operazioni militari globali. 6 I surreali presidi tra San Diego e Tijuana e tra El Paso e Ciudad Juarez (la più alta concentrazione di polizia di frontiera al mondo), come le operazioni di law enforcement in tutte le città americane (dalla New York di Giuliani alla Chicago di Daley), sono altrettanti segni del doppio legame che salda militarizzazione e allarme sicuritario, della tautologica creazione della paura attraverso la sua rappresentazione. 7 E dimostrano soprattutto come, in un'epoca in cui i poteri statuali-nazionali sembrano arretrare ovunque, i confini diventino assolutamente aggirabili per capitali - sempre più astratti e finanziari -, merci, stili di vita e comunicazioni in tempo reale, e assolutamente perentori nel contingentare, controllare e arginare il movimento dei migranti. Oggi, ciò che si richiede a un confine non è più il governo/controllo di un territorio specifico, ma la capacità di regolare e ribadire differenze provenienti dall'esterno, anche quando tali differenze risiedono da tempo dentro gli spazi e i territori che quel confine delimita. 8 Una dimensione questa, che la situazione dei latinos negli Usa porta immediatamente in superficie, perché i confini, oltre a respingere i migranti, invisibilmente (agli occhi di chi non li subisce) si spostano, e seguono i latinos ovunque e indifferentemente rispetto alla loro condizione giuridica (e ciò fariflettere soprattutto coloro che ritengono la regolarizzazione condizione sufficiente per l'integrazione). Uno dei capitoli più 11

significativi del libro di Mike Davis ricostruisce la genealogia di un vero e proprio "terzo confine", sorto in tranquilli suburb metropolitani con il preciso scopo di impedire ogni possibile contatto tra due mondi che devono restare separati. Qualcosa che salda espedienti urbanistici tipicamentente moderni al muro di Berlino, Hausman a Speer, con il ricorso a tutto un repertorio di recinzioni, cul de sac, impasse, checkpoint che si inseriscono esattamente nei punti in cui la distinzione deve essere forzata e rafforzata: gli spazi pubblici, i parchi, le biblioteche, le piazze, i centri commerciali. Effetto circolare di questa azione molteplice e a somma multipla di confini è che i latinos occupano in assoluto gli strati più bassi dell'attuale post melting pot americano: per livelli di reddito, per tasso di scolarizzazione, per condizioni di lavoro e per opportunità di mobilità nell'era della information-based society. Detto questo, premesso e assunto come frame decisivo, resta il fatto che Tijuana (città che fisicamente rappresenta il Confine) è anche luogo di spericolate sperimentazioni urbanistiche, una metropoli culturalmente incandescente che sotto certi aspetti - per esempio nel tasso di scolarizzazione - supera e dice di più sul futuro delle città dell'otro lado di quanto non faccia la sua gemella San Diego. E, a maggior ragione, ogni metropoli nordamericana porta addosso i segni e le trasformazioni che la presenza latina le ha impresso. Il libro di Davis racconta di un'inesorabile tenacia, come inesorabile è il flusso che la sostiene, nel riutilizzare e far rivivere gli spazi pubblici, l'idea stessa di spazio pubblico, in un paese in cui, di norma, è vietato ascoltare musica all'aperto o sedersi su una panchina per più di dieci minuti. Più in generale, i latinos rappresentano un'esperienza sui generis che ha storicamente preconizzato, e continua a rappresentare, una chance aperta e decisiva per i nuovi mondi migratori. Dalla particolare prossimità geografica che salda i due subcontinenti dell'emisfero occidentale, moltiplicata dall'esplosione globale delle possibilità di comunicare e di spostarsi, di intraprendere viaggi non definitivi, andate e ritorni, scaturisce una dimensione aperta di reversibilità, forme non definitive di settlement, con conseguenze (almeno potenziali) altrettanto rivoluzionarie sui mondi culturali e politici di appartenenza. Negli ultimi dieci anni si è affermata all'interno delle scienze sociali anglosassoni una letteratura decisamente consistente - e per certi versi ambigua nel suo eccesso di ottimi12

smo - che analizza i fenomeni di transmigrazione e transnazionalizzazione propri di alcune esperienze migratorie contemporanee giocate su un duplice contesto (quello di emigrazione e quello di immigrazione), sottolineandone gli aspetti implicitamente serendipeti e naturalmente sovversivi: la possibilità di orchestrare vite collettive in base a residenze duplici, di appartenere a più luoghi e identità, di sviluppare forme di biculturalità. Fenomeno cui non corrisponde necessariamente un affrancamento, ma che in ogni caso rappresenta quanto di più reale le biografie migranti latine ci raccontano: la necessità/capacità di dividersi come "particelle quantiche su entrambi i lati del confine" (citando Davis), per creare un'unica rete di relazioni, per riattualizzare un'esperienza comune o, più semplicemente, per sopravvivere. Certo, anche in questo caso occorre non perdere di vista gli effetti profondi di lacerazione, il deraçinement, e la condanna a un perenne essere fuori luogo che emerge spesso come corollario di tali esistenze spezzate. 9 Accanto, però, agisce una dinamicità, un continuo flusso, la possibilità di mantenere legami e relazioni molteplici, mischiare qui e altrove, di "risiedere nello spostamento" che confonde ogni discorso di regolazione, e mina alla base ogni istanza tesa a confinare una differenza univocamente, a fissare una popolazione a un territorio. In altre parole, ogni azione diretta di un confine. Un esempio piccolo ma significativo delle conseguenze insidiose di questo tipo di doppia coscienza/appartenenza' 0 è dato dall'educazione bilingue. Significativo più per le reazioni violente che scatena che per le voices che lo affermano (purtroppo, come mette in evidenza Davis, limitate a ristretti ambiti accademici e minoranze liberal, e ancora non assunte politicamente - perlomeno in modo significativo - dai latinos stessi). Se si prova a guardare oltre la superficie, si scopre infatti che chi si oppone al bilinguismo nelle scuole pubbliche adduce motivi di radicale differenzialismo o di assimilazionismo assoluto. In entrambi i casi, cioè, si assume come premessa il fatto che sia decisiva un'unicità culturale, un ordine che releghi gli altri nella loro differenza o che li sussuma all'interno della propria. 11 Il sottrarsi a una tale univocità rappresenta in ogni caso qualcosa che fuoriesce dall'ordine politico-culturale dominante: la portata sovversiva di un controdiscorso che afferma la possibilità di appartenere a più lingue. Del resto, la dimostrazione più evidente di questo movi13

mento di continua sottrazione rispetto a ogni definizione unica e univoca è data dalla definizione stessa di latinos, dal suo opporsi e scavalcare ogni identificazione discreta come latinoamericani, americani hyphenated o semplici messicani, dominicani, portoricani. Il significato ultimo del termine latinos, pura invenzione che si sottrae a ogni sedimentazione etnica, è processuale, e indica una continua accumulazione di differenze continuamente ricomposte, tutte giocate sulla possibilità di uno spazio, precario quanto si vuole ma in ogni caso reale, di frattura: essere a metà tra due mondi e fame intravedere un terzo. Proprio in questa dimensione apparentemente nominalistica - giocata cioè su nomi e definizioni di sé che traducono immediatamente significati di esclusione e di inclusione, forme di partecipazione e di segregazione (o di autosegregazione) nello spazio pubblico striato delle realtà urbane statunitensi si svolge una partita politica decisiva, sul futuro dei latinos e dell'intera società americana. Esistono modi diversi per inquadrare e intervenire politicamente nel dibattito sull'America post melting pot. Venuto meno il paradigma sognato durante tutti gli anni sessanta e settanta di un mosaico culturale ricomposto attorno alla partecipazione delle differenze, a egemonizzare la scena è stata una risposta rigida che identificava immediatamente ogni presunta cultura con l'azione "naturale" di un confine (l'immagine di una cultura come immediata cristallizzazione di differenze e della differenza come implicita traduzione di elementi necessariamente culturali). Su questa dimensione affollata e impermeabile ha preso corpo un'opzione teorica e politica forte, approdata anche al senso comune come multiculturalismo. 12 Lidea cioè che ogni azione pubblica debba prima di tutto "riconoscere", rendere conto dell'esistenza di minoranze culturali, garantendo loro la possibilità di sopravvivere all'interno di un ambiente ostile, percepito come radicalmente altro. 13 Al di là dei condivisibili presupposti di relativismo che le animavano in origine (tesi a opporre una prospettiva distributiva e pluralista all'americanizzazione forzata), l'effetto sul lungo periodo di questo tipo di politiche è stato soprattutto quello di rafforzare un'idea naturale e radicale di differenza, spazzando via un'intera stagione di lotte trasversali per i diritti civili e facendo riprecipitare le politiche culturali americane in un'era di segregazione (questa volta però volontaria, deliberata e non subita) che solo vent'anni fa sembrava definitivamente alle spalle. 14 14

Se la forza del multiculturalismo risiede innanzitutto nella sua capacità di opporre a un paesaggio in frantumi un simulacro di soggettività a 360 gradi, sfidarlo sul suo terreno significa negare ogni possibilità di appartenenza univoca, essenziale, autocentrata; significa decostruire il presupposto forte di trasparenza interna e di impermeabilità verso l'esterno che viene attribuito a ogni cultura, e mostrare gli impliciti effetti di segregazione che questo discorso comporta. Ricorrere/alludere a una forma culturale originaria e autentica è esattamente quanto fa chi tra i bianchi, e sono molti, si sente minacciato; chi dai tranquilli e dorati suburb di Los Angeles, piuttosto che di San Diego, vede e teme la presenza di illegal aliens come un'orda animale, coyote la cui semplice e invisibile esistenza ai margini costituisce elemento inesorabile di disturbo e paura. 15 In fondo, se effettivamente risulta difficile, illusorio e sostanzialmente lenitivo sposare una poetica del confine e apologizzare l'ibridità come pura estetica del displacement, rischio ben maggiore risiede nell'agganciare e "risegregare" le differenza a origini culturali assolute, a confini naturali. Su questi presupposti, i latinos si inseriscono nello scenario urbano a prima vista claustrofobico e senza speranze 16 degli Stati Uniti del XXI secolo. Un'opzione forte, apparentemente plebiscitaria - che estremizza tendenze già contenute nel multiculturalismo - si sviluppa lungo la strada battuta dal leader separatista nero Farrakhan, sostenitore di un ordine differenzialista che mai entra in conflitto, mai si contamina con quello nazionale, e rafforza verso l'interno l'idea di un confine inaggirabile. I semi più insidiosi di trasformazione della realtà sociale americana provengono invece da chi sta in mezzo, consapevolmente o meno, da chi rifiuta la rappresentazione statica di sé come soggetto definito, inquadrato, oltre e più che in una razza, 17 in una cultura e in un diritto assoluto alla differenza. In questo spazio precario risiedono le condizioni di possibilità, le chances di un'America postetnica, non nel senso di indifferente all'etnicità, ma capace di "relativizzarla", di coglierne l'elemento strategico, congiunturale, e di giocarlo in un orizzonte aperto, come punto di partenza e non di approdo. Certo, oggi i latinos sono prima di tutto i dannati della terra, l'esercito invisibile di braccia e corpi che si consumano nella rete di maquiladoras sul lato "sempre sbagliato" del confine. Ma possono/vogliono essere anche la sola scommessa da fare contro chi, come Farrakhan, Buchanan, Bush Junior o il reve15

rendo Moon, sogna dimensioni pure e incontaminate, simmetrie redentive, specchi assoluti di differenze (white power, mus lim power) innocue e anzi speculari all'ordine che fonda gli spazi asfissianti di risegregazione nati sulle macerie di ogni possibile alleanza "arcobaleno" tra minoranze. La scommessa difficilissima - occorre esserne consapevoli - di una presenza in grado di riallacciare un discorso "politico" con ciò che le sta intorno. Il capitolo con cui Davis chiude il libro, sin dal titolo, allude alla marcia del milione di afroamericani (rigorosamente maschi) organizzata dal muslim party di Farrakhan, e ricolloca ironicamente la portata dell'evento in una serie di lotte, di struggles innescati dai latinos, in cui l'appartenenza "etnica" è assunta come occasione, per gli immediati effetti di esclusione che determina, e conduce a più trasversali forme di militanza: nelle manifestazioni contro la californiana Proposition 187, che nega diritti di cittadinanza ai figli di immigrati nati negli Usa, nelle lotte sindacali di base, nelle rivendicazioni di spazi pubblici e di garanzie di welfare, nella richiesta di un reddito/salario integrativo. Jan Loup Amselle, in un bel libro sulla tenace resistenza del meticciato alla dominazione coloniale africana (e alla logica che lo ha governato, tesa a dividere un continuum in spazi culturali discreti), rivendica la necessità di riconoscere nel primo capitolo di una riattualizzata dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, il diritto di non appartenere. 18 Oggi, il sacrosanto diritto di non appartenere, appare più che altro un lusso, consentito solo ad esigue élite cosmopolite, "minoranze" per cui l'appartenenza non è mai stata un problema. Per la maggioranza dei migranti si dimostra invece una condanna, il cui prezzo consiste soprattutto negli effetti devastanti di spersonalizzazione e sfruttamento che comporta. Forse realismo vorrebbe che ci si accontentasse di rivendicare e riconoscere il diritto di appartenere a più luoghi contemporaneamente: dimensione sovversiva che l'esperienza di frontiera di alcuni latinos negli Stati Uniti tenta di affermare. In fondo, ciò che molte cosiddette "minoranze" (non importa se con il trattino o senza) indicano con forza, attraverso strategie culturali specifiche spesso subìte, per lo più spontanee, qualche volta intenzionali - e ciò che molti latinos americani dimostrano implicitamente, è la concreta possibilità di scrivere, fare musica, pensare, sognare, parlare e agire politicamente in più di una lingua, in più di una cultura, in più di una nazione. E non è poco. 16

Dedicato alla memoria di Roberto Naduris (1946-1995) "Compafìero, your smile lives on in our hearts"

La Mona, fotografia di Alessandra Moctezuma

1. Città al chili

In un momento non ben identificato, verso la fine del 1996, i latinos hanno superato gli afroamericani, divenendo così il secondo gruppo etnico di New York- già da tempo rappresentavano la maggioranza assoluta nel Bronx. Ma non v'è stata alcuna celebrazione al barrio o a Quisqueya (il nome latino di Washington Heights), né, a maggior ragione, il sindaco Giuliani ha ritenuto opportuno convocare una conferenza stampa sulle scalinate di Gracie Mansion. Di fatto, la stragrande maggioranza dei newyorkesi non si è assolutamente resa conto di questa svolta demografica decisiva, annunciata per la prima volta in occasione di una relazione accademica. 1 Eppure, nel complesso, si trattava di un evento davvero epocale, paragonabile solo all'ascesa numerica degli irlandesi negli anni sessanta dell'Ottocento o ai picchi assoluti registrati dalla migrazione nera a New York. Grazie all'esplosione della popolazione con cognome spagnolo, nessun distretto, a eccezione di Staten Island, presentava più una chiara predominanza etnica. Quattro anni più tardi, la California ha celebrato il nuovo millennio come secondo stato del continente - dopo il New Mexico - a diventare una società "a maggioranza di minoranza". Ben oltre ogni possibile previsione, e per la prima volta dai tempi della Febbre dell'oro, i bianchi non-hispanic - quasi 1'80 percento della popolazione nel 1970 - sono diventati una minoranza. 2 Senza sottovalutare la dinamicità economica e culturale che caratterizza la più recente immigrazione asiatica, è stata la messicanizzazione della California del Sud il principale motore di una tale sbalorditiva metamorfosi. 3 Agli inizi della guerra del Vietnam, Los Angeles registrava ancora 19

la più alta percentuale di nativi bianchi protestanti tra le dieci maggiori città americane. Ma già nei primi anni settanta i latinos hanno imboccato la corsia di sorpasso, iniziando a convergere in massa sull'area urbana di Los Angeles: a partire dal 1998 hanno superato gli anglos per oltre un milione di abitanti nella contea cittadina; entro quaranta anni, una presenza latina stimata tra i 13 e i 15 milioni rappresenterà la maggioranza ovunque a sud della catena dei Tehachapis. 4 New York e Los Angeles costituiscono rispettivamente la seconda e la terza più estesa economia metropolitana mondiale dopo l'area di Tokio-Yokohama: la loro trasformazione etnica riflette una tendenza nazionale cruciale, con straordinarie implicazioni sul piano internazionale. 5 La salsa sta diventando il ritmo etnico dominante in tutte le principali aree urbane statunitensi. In sei delle dieci più grandi città - nell'ordine a New York, Los Angeles, Houston, San Diego, Phoenix e San Antonio - i latinos superano oggi la popolazione nera, e a Los Angeles, Houston e San Antonio pure i bianchi non-hispanic. Nel giro di pochi anni anche Dallas e Fort Worth avranno una maggioranza di cittadini con cognome spagnolo, mentre a Chicago una presenza latina che si attesta al 27 percento è già l'ago della bilancia di ogni elezione locale. 6 Di fatto, dato che la popolazione latina dell'Illinois - concentrata essenzialmente a Chicago e nelle sue più immediate periferie - è destinata a raddoppiare entro il 2020, i latinos saranno a breve principale minoranza anche in questo stato del Midwest. 7 I latinos di Philadelphia, definiti tradizionalmente Philaricans (come pure i più recenti immigrati colombiani e centroamericani), resteranno seconda minoranza nell'immediato futuro, ma rappresentano la più consistente riserva demografica cittadina degli ultimi dieci anni, passando dal 6 percento nel 1990 a oltre il 10 percento nel 2000. 8 Sulla stessa lunghezza d'onda, l'area metropolitana di Boston ha oggi interi suburb a maggioranza latina, come Lawrence - e presto Chelsea -, mentre a Beltway e nel distretto di Columbia la sottopagata manodopera dei servizi è quasi interamente salvadoregna o messicana. Solo Detroit, con il settore industriale privato più depresso del paese, si dimostra decisamente estranea a tale tendenza - ma i latinos sono il gruppo che nel complesso è cresciuto più rapidamente in tutto il Michigan, e rappresentano oggi più del 1O percento della popolazione in città medio-piccole come Saginaw, Adrian e Shelby. 9 Su un più esteso spettro demografico, diciotto delle venti20

cinque contee più popolate degli Stati Uniti - buoni surrogati statistici dei principali nuclei metropolitani - registreranno entro il 2003 una popolazione latina superiore a quella nera. '0 Nonostante i centri urbani dove i latinos sono maggioranza o principale minoranza siano ancora concentrati lungo la dorsale degli stati sud-occidentali, la popolazione con cognome spagnolo è cresciuta a dismisura pure in città le cui relazioni con Messico o Spagna sono storicamente irrilevanti, tra le quali Anchorage (che conta 20 mila latinos), Portland (115 mila), Milwaukee (100 mila) e Salt Lake City (dove i latinos rappresentano il 40 percento della popolazione scolastica elementare). 11 Su scala regionale, tanto la costa pacifica occidentale che il New England registrano oggi più abitanti con cognome spagnolo che neri e, in dieci degli stati del centro, i latinos hanno contribuito con un incredibile 50 percento alla crescita della popolazione nell'ultima generazione, innescando così l'inevitabile dibattito sulla "marronizzazione del Midwest". 12 Solo dieci anni fa, i latinos costituivano ancora una presenza trascurabile nello scenario culturale del Nuovo Sud. La crescita esponenziale della popolazione latina negli anni novanta - 149 percento in Arkansas, 110 percento in North Carolina, 102 percento in Georgia e così via - ha radicalmente mutato quella situazione. Oggi ci sono più di un milione di immigrati messicani tra Alabama, Georgia, Tennessee, Nord e Sud Carolina. La stessa Nashville, dove un abitante su tredici è maquila, sta assumendo un nuovo sonido, con il boom della musica norteiia sparata a mille dalle tre stazioni radiofoniche in lingua spagnola. Oggi, le Ttgres del Norte si contendono il successo con la stella del country Garth Brooks, e il chipotle (un peperoncino affumicato molto diffuso nella cucina chicana; N.d.T.) si accompagna ai chitterlings (i chitterlings sono invece snack a base di grasso di maiale, tipico esempio di junk-food americano; N.d.T.) su una vasta area del Sud, tanto nell'urbana Little Mexico - come nel distretto di Nolensville Road a Nashville che nelle piccole città-fabbrica cresciute intorno a un insediamento industriale - come Houma, in Louisiana e Dalton, in Georgia." L'esempio in assoluto più spettacolare di improvviso boom della salsa è con ogni probabilità offerto da Las Vegas, l'area metopolitana cresciuta più rapidamente nel corso di tutti gli anm novanta. Trent'anni fa, l'oasi del gioco d'azzardo registrava ben pochi residenti ispanici, e l'industria dei casinò poteva 21

contare sulla segregata popolazione nera per soddisfare il fabbisogno di cameriere e custodi. Oggi invece, quasi 200 mila latinos hanno scalzato gli afroamericani tanto nei lavori domestici quanto, soprattutto, nella popolazione complessiva. "Quasi da un giorno all'altro, taquerias, sportelli per il trasferimento di denaro cash e consulenti per immigrati hanno affollato le principali strade commerciali dei quartieri di nuova immigrazione a nord e ad est della Strip. Un mercato informale di strada che rifornisce immigrati latinos nella città adiacente di North Las Vegas attira oggi un numero di clienti che si aggira intorno alle 20 mila presenze ogni fine settimana." 14 Una parte di questo flusso è costituito da nuclei familiari trasferitisi dai quartieri deindustrializzarti di East-Oakland e dai vecchi centri minerari, le copper towns del Sud dell'Arizona, la maggior parte però proviene dai barrios per immigrati della contea di Los Angeles. Le estrapolazioni da stime demografiche sull'attuale popolazione scolastica indicano che entro dieci anni i latinos saranno maggioranza assoluta a Las Vegas. 15 Tavola 1 I nuclei latinos

Principali stati latini 1. California 9.941.014

2. Texas

Principali contee latine''

Principali città latine

Los Angeles 4.000.642 New York

1.783.511

5.722.535 Dade (Fla.) 1.139.004 Los Angeles 1.391.411

3. New York 2.570.382 Cook(Ill.)

867.520 Chicago

545.852

4. Florida

2.105.689 Harris (Tex.) 852.177 San Antonio 520.282

5. Illinois

1.182.964 Orange (Cal.) 761.228 Houston

450.483

* I cinque distretti di New York City sono considerati dal Census Bureau come contee separate. Fonte: proiezioni Census per il 1992 e il 1998 (settembre 1998).

L'imponente latinamericanizzazione di tutte le principali grandi e medie città è guidata da un formidabile motore demografico: una popolazione ispanica che cresce a ritmi di un milione all'anno, dieci volte più veloce di quella anglo. 16 Mentre l'isteria "nativista" se la prende con presunti flussi migratori incontrollati, unrestricted, la crescita dei latinos è in ugual misura conseguenza di tassi di natalità decisamente più elevati in 22

contesti familiari allargati, soprattutto tra i nuclei di origine messicana - che rappresentano i due terzi di tutti i latinos. Il tasso di fertilità delle donne nate in Messico è oltre il doppio di quello delle donne anglo. 11 Se anche l'intero flusso migratorio si interrompesse domani, la popolazione latina, decisamente più giovane (con un età media intorno ai 26 anni), continuerebbe a crescere esponenzialmente rispetto alla più vecchia popolazione bianca non ispanica (la cui età media è di 38 anni). 18 Con il risultato che José è diventato oggi il nome di bambino più diffuso in California come in Texas, e che i californiani del sud è più facile che si salutino con Qué tal? che con Hey, dude. 19 Tavola 2 La "latinizzazione" degli Stati Uniti, 1950-2025 (percentuali)

anglos

neri

nativi americani

asiatici

latinos

Usa 1995 2025

73.7 62.4

12.0 13.0

0.7 0.8

3.3 6.2

10.2 17.6

California 1995 2025

52.6 33.7

6.9 5.5

0.6 0.4

10.7 17.4

20.6 43.1

New York 1995 2025

66.6 53.4

14.5 15.5

0.3 0.3

4.5 9.1

14.0 21.7

Texas 1995 2025

58.2 46.0

11.7 12.8

0.3 0.3

2.2 3.4

27.6 37.6

Fonte: "Demographic Joumal" e Dipartimento di analisi economica degli Stati Uniti.

Cosa più importante, a partire dalla fine degli anni novanta i bambini con cognome spagnolo rappresentano una percentuale della popolazione scolastica nazionale superiore a quella degli afroamericani e già entro il 2000 - molto prima cioè di quanto precedenti stime potessero prevedere - i latinos sono destinati a scalzare i neri come principale minoranza. ' 0 Se poi nella popolazione complessiva vengono inclusi pure i tre milioni e mezzo di cittadini statunitensi residenti a Portorico, allora i latinos hanno di fatto superato gli afroamericani 23

già a partire dall'inizio dell'amministrazione Clinton. E, in ogni caso, l'attuale tendenza demografica implica che nel 2025 la differenza tra popolazione latina e nera salirà fino a 16 milioni, con 59 milioni di latinos e 43 di afroamericani. Da allora e fino a metà del secolo, secondo il Bureau of Census, i latinos contribuiranno per due terzi alla crescita demografica nazionale. Poco dopo il 2050 i bianchi non ispanici - il 25 percento dei quali avrà più di 65 anni - diverranno per la prima volta un gruppo di minoranza. 21 Si tratta insomma di trasformazioni epocali, come epocali sono le conseguenze che si determineranno sulle politiche pubbliche e sull'intera dimensione culturale americana. I latinos, per giunta, manifestano un'inequivocabile preferenza per le grandi aree metropolitane - solo gli asian american sono più urbanizzati -, che entra in collisione con gli inestirpabili pregiudizi di una nazione pesantemente suburbana. 22 A eccezione parziale dei messicani, che rivitalizzano anche diverse realtà urbane minori dalla California - dove, nel 1990, settantadue città medio-piccole erano a maggioranza latina all'Iowa, 23 tutti i principali gruppi latinos si concentrano essenzialmente nelle venti maggiori città del paese, con Los Angeles e New York che da sole coprono quasi due terzi della popolazione ispanica complessiva. 24 Vantatasi a lungo di essere la seconda principale città messicana, oggi Los Angeles registra anche una popolazione salvadorefia uguale o maggiore di quella residente a San Salvador. 25 E New York ha tanti portoricani quanti San Juan e tanti dominicani quanti Santo Domingo. Senza il boom latino, molte grandi città americane si sarebbero drasticamente svuotate per l'emorragia provocata dal sempre più spinto esodo della popolazione bianca e, a partire dal 1990, dall'emigrazione di quella nera. "Entrambe le aree metropolitane della Grande Los Angeles e di New York City - nota il "National Journal" - hanno registrato una perdita secca di più di un milione di abitanti per migrazioni interne tra il 1990 e il 1995". I latinos, con l'aiuto degli immigrati asiatici, hanno compensato questo esodo di massa verso le città satelliti e gli insediamenti extraurbani. 26 L'ordine discorsivo ostinatamente binario che domina la dimensione culturale pubblica americana non può, in ogni caso, non prendere atto del significato storico di una simile trasformazione etnica del paesaggio urbano. Il variopinto e striato paesaggio delle metropoli contemporanee, dinamicamente 24

compenetrato di colori asiatici e latinos, viene ancora proiettato su un vecchio schermo in bianco-e-nero - cosa che è vera quasi alla lettera: uno studio recente ha provato che tra i personaggi televisivi di prima serata solo uno ogni cinquanta è latino. 27 Come ha rilevato Elizabeth Martinez, i riots scoppiati nella contea di Los Angeles in seguito al caso Rodney King sono stati universalmente rappresentati come guerra di neri contro bianchi, o di neri contro coreani, e questo malgrado la maggioranza degli arrestati avesse cognomi spagnoli e provenisse da quartieri immigrati che avevano pagato un prezzo altissimo alla recessione. 28 Analogamente, quando più di 75 mila giovani latinos hanno abbandonato le loro scuole da un capo all'altro della California per manifestare contro il violento carattere xenofobo della Proposition 187 - in assoluto la più grossa protesta studentesca della storia dello stato-, tutto questo è stato di fatto ignorato dalle reti dei media, laddove una sollevazione analoga, con protagonisti studenti neri o bianchi, sarebbe invece diventata un caso nazionale. 29 Purtroppo, l'invisibilità dei latinos è una costante che si estende anche ad ambiti più sofisticati, come gli urban studies. Da più di dieci anni, i principali sforzi teorici in questo campo si sono concentrati nel tentativo di leggere le profonde trasformazioni che la nuova economia mondiale imprimeva sulle città. Con poche eccezioni, però, l'intera letteratura sulla globalizzazione ha finito paradossalmente per ignorare la più spettacolare manifestazione "globale" nella società americana. Una tale rimozione non è in ogni caso imputabile alla carenza di dati e di idee. Ricercatori impegnati in studi specifici su chicanos, portoricani e cubano-americani, così come sociologi urbani, antropologi e studiosi di fenomeni migratori, hanno prodotto una messe davvero consistente di importanti strumenti analitici e di innovazioni concettuali, che la cosiddetta "urban theory" ha sistematicamente evitato di raccogliere. 30 Nonostante questo, i maquila studies hanno finito per imporsi, guadagnando di recente una larga attenzione accademica proprio in virtù dell'attacco diretto al grande muro dell'eccezionalismo statunitense, che ha a lungo imposto una compartimentazione rigida tra latin american studies e american studies. 31 Obiettivo di questo breve libro è di esplorare le possibili conseguenze che si scatenano quando i latinos vengono collocati nel posto che spetta loro: al centro del dibattito sul futuro della città americana. 25

2. Buscando America

La metropoli latina è prima di ogni altra cosa un crogiuolo di profonde trasformazioni nella cultura urbana e nell'identità etnica. Per mezzo secolo, i pianificatori dell'US Census si sono spremuti nel tentativo di creare una categoria in grado di catturare "positivamente" tutti gli individui che condividessero specifiche radici culturali latinoamericane, senza prendere in considerazione questioni di razza o di lingua madre. Dopo una serie di iniziali esitazioni sull'opportunità di considerare o meno i messicani una "razza" (sì nel 1930; no nel 1940), diversi campioni statistici alternativi, che comprendevano la categoria di "persone di madrelingua spagnola" (1950) o "con cognome spagnolo" ·(1960), furono sperimentati e abbandonati per l'evidente dispersione numerica che incontravano. Nella campionatura della popolazione per il censimento nazionale del 1990, gli addetti alla raccolta dei dati si limitarono a chiedere alle persone se si identificassero o meno in una delle dodici identità nazionali contemplate: messicana, portoricana, cubana e così via. I nuclei che fornivano riscontri affermativi, indipendentemente dalle risposte date ad altre domande inerenti l'identità, vennero cumulativamente registrati come "hispanic" - categoria introdotta negli anni settanta dall'amministrazione Nixon e utilizzata per la prima volta in occasione del censimento del 1980.' Si trattava però, nella migliore delle ipotesi, di un mero espediente burocratico. In California e in Texas, per esempio, latino è di solito preferito a hispanic, mentre nella Florida del Sud viene considerata definizione stigmatizzante; sulla East Coast entrambe le formule sono invece di uso comune. 2 Gli in,/ 26

tellettuali hanno nel frattempo provato a tracciare una mappa della battaglia tra le diverse implicazioni politiche che ogni opzione comporta. Juan Flores, per esempio, condanna "la superficialità e l'implicito significato denigratorio proprio del termine 'hispanic' e del suo utilizzo burocratico". D'accordo con lui, tanto Suzanne Oboler - che ha dedicato un libro intero all'argomento-, che Rodolfo Acuna sostengono che "hispanic" sia preferito soprattutto dalle élites eurocentriche con cognome spagnolo in opposizione all'identificazione popolare come latinos. Sulla stessa lunghezza d'onda, Neil Foley rileva che "oggi identificarsi come hispanic significa in un certo senso riconoscere la propria provenienza culturale senza rinunciare al proprio 'essere bianco'. L'identità hispanic implica così un particolare, nel senso di contemporaneamente 'separato e uguale', modo di essere bianchi, con una vena di salsa, sufficiente a rendere qualcuno etnicamente 'aromatizzato' e culturalmente esotico, senza comunque compromettere i privilegi razziali propri del suo essere bianco".' Geoffry Fox, all'opposto, sostiene invece che "hispanic, con l'enfasi posta sull'elemento della comune appartenenza all'universo linguistico spagnolo come paradigma metaetnico, non chiami in causa nessuna implicazione razziale o di classe e venga semplicemente preferito dalla maggioranza dei migranti provenienti dall'America latina" .4 Il dibattito, in ogni caso, sembra decisamente lontano da una soluzione definitiva. Ed è in realtà diffusa la consapevolezza di quanto entrambe le definizioni non riescano a inquadrare il decisivo elemento indigeno, "genetico"' e culturale, proprio delle popolazioni che descrivono. Di fatto, tutte e due le metacategorie rimandano a imposizioni ideologiche ottocentesche provenienti dall'Europa: hispanidad dalla "liberale" Spagna e latinité dalla Francia di Napoleone III. 5 La consanguineità - espunta, come ha sottolineato Paul Edison, da ogni componente indigena - è stata invocata per legittimare i tentativi di riconquista da parte di entrambi i poteri statuali negli anni sessanta del diciannovesimo secolo: nei confronti del Messico per quanto riguarda la Francia, e su Santo Domingo per la Spagna. 6 L'ecumenico americanismo di Bolivar e Martì ha finito così per essere distorto in volgare campanilismo etnocentrico dai gringos. Il fatto che non esista un termine condiviso in grado di rappresentare il presente e di riflettere adeguatamente la fusione di origini iberiche, africane e "indiane" che acco27

muna diverse decine di milioni di persone, è cosa che va diritta al cuore della storia del Nuovo Mondo. Tanto hispanic quanto latino, inoltre, non possono più essere ridotti a meri sinonimi di cattolico. Certo, è evidente quanto il cattolicesimo sincretico del Nuovo Mondo - con le sue mille-e-passa divinità azteche e africane travestite da santi - resti, insieme alla lingua madre, il principale patrimonio culturale condiviso dalle comunità immigrate latine. E poche tendenze di ibridità culturale hanno la forza pregnante, la potenza evocativa, della recente aggregazione di diversi grnppi cattolici latinoamericani, e persino di alcune esperienze new age della popolazione anglo, intorno al culto della vergine messicana di Guadalupe (che, tra l'altro, reincarna pure il potere delle divinità tonantzin), per come ha saputo imporsi sull'otro lado, dall'altra parte del confine.(Una riproduzione digitale a raggi laser della sua immagine ha chiuso recentemente una trionfale processione dell'arcidiocesi di Los Angeles: "una copia di tre piedi per cinque, benedetta dal papa, è stata esposta in qualcosa come cinquanta parrocchie locali, prima dell'apparizione di congedo di fronte a 50 mila fedeli in adorazione al Los Angeles Coliseum"). 7 Se è vero che le pareti di quasi tutti i negozi, le tiendas, da San Diego ad Atlanta sono consacrate da murales che ritraggono La Morena, radiosa nel suo manto blu tempestato di stelle, è altrettanto probabile che l'edificio adiacente sia sede di una chiesa pentecostale. Anche nella città che i pobladores chiamano Nuestra Sefiora (in quanto Reina de Los Angeles), filiazioni protestanti di lingua spagnola si contendono spalla a spalla il primato con il papa. I latinos cioè, riescono contemporaneamente a rinvigorire il mondo cattolico nordamericano - rappresentando il 71 percento della sua crescita dal 1960 - e a infondere nuova energia ai suoi rivali evangelici. 8 In questa nuova configurazione, la tradizionale antinomia tra latinos/hispanic e protestanti finisce per collassare e, come suggerisce ironicamente Carlos Monsivàis, gli immigrati possono oggi indifferentemente pregare la Vergine di Guadalupe: "Jefecita, io credo in te che rappresenti la Nazione, e sono pentecostale, testimone di Geova, avventista, battista, mormone e così all'infinito". 9

28

Tavola 3 I latinos americani come nazione latinoamericana (in milioni) 2000

2050

1. Brasile

170.7

1. Brasile

241.0

2. Messico

98.9

2. Messico

144.9

3. Colombia

42.3

3. Usa Latinos

96.5

4. Argentina

37.0

4. Colombia

71.6

5. Usa Latinos

32.0

5. Argentina

54.5

Fonte: Cepal (Onu), America Latina: Proyecciones de poblaciòn, 19702050, "Boletin Demogràfico", 62 (luglio 1998). Altre proiezioni valutano una presenza latina superiore ai 100 milioni già nel 2040.

Eppure, il fatto che non sia possibile isolare/identificare un nucleo essenziale della latinidad - neppure sul terreno "discreto" della lingua o della religione - non implica necessariamente la mancata esistenza di una specifica sostanzialità propria dell'essere latino. Giocando con il cubo di Rubik dell'etnicità, è necessario per prima cosa resistere alla tentazione di sciogliere prematuramente ogni sua contraddizione interna. Hispanic/latino non è un mero contenitore, artificiale e razzializzato, come è invece "asian-american", formula inventata dalla società di maggioranza per perimetrare in modo claustrofobico individui dalle più disparate origini nazionali, permettendo loro poi di sviluppare una qualche forma identitaria vagamente condivisa come reazione/elaborazione a questa etichetta. E non è nemmeno un banale espediente di marketing che sfrutta superficiali analogie nazionali per quanto riguarda la lingua, la cucina o la moda - come invita a credere l'opportunistica e reazionaria promozione degli anni ottanta, definiti "decade dell'hispanic", nel pay off pubblicitario della birra Coors. 10 Essere latino negli Stati Uniti significa piuttosto far parte di un unico processo di sincretismo culturale destinato a rappresentare la nuova maschera in cui si trasformerà l'intera società americana. L'idea di latinidad, sottolinea Flores, non ha nulla a che vedere con "l'indeterminatezza estetica postmoderna [ ... ]. È una pratica piuttosto che una rappresentazione dell'identità latina". 11 Riprendendo la famosa definizione di mexicanidad data da Octavio Paz, essere latino è "non un'essenza, ma una storia". 12 29

Una storia che verrà scritta soprattutto a partire dalla prossima generazione. Con un suo proprio significato "geopolitico", perché i latinos degli Stati Uniti sono già la quinta più grande nazione dell'America latina, e in mezzo secolo saranno secondi solo a Brasile e Messico. O, se vogliamo guardarla in un altro modo, diventeranno la seconda principale nazione di tradizione linguistica spagnola al mondo. Le metropoli statunitensi contemporanee, per il fatto di contenere la più imponente miscela di culture latinoamericane di tutto l'emisfero, sembrano destinate a giocare un ruolo centrale nel ridare forma tanto all'identità nazionale nordamericana che a quella dell'intero continente. Esiste in questo caso un'evidente analogia con il ruolo svolto dalla Londra del dopoguerra, melting pot delle diaspore caraibiche di lingua inglese, che ha simultaneamente trasformato il modo di essere tanto inglese che caribbean. Il caso americano, tuttavia, offre una dialettica identitaria più complessa, se non altro per il fatto che in ognuna delle tre metropoli che si sono proclamate "capitali dell'America latina" - rispettivamente Los Angeles, New York e Miami - la ricetta per ottenere questa possibile latinidad implica ingredienti clamorosamente differenti. Tavola 4 Composizione nazionale della popolazione latina negli Usa, 1990 1. Los Angeles messicana (80%) salvadoregna (6%) guatemalteca (3%) 2. Miami 3. New York

cubana ( 66%) nicaraguense (11 % )

portoricana (6%)

portoricana (46%) dominicana (15%) messicana (4%) equadoregna (4%)

colombiana (5%)

Fonte: US Census 1990. Questo tipo di dati finisce per occultare il fatto che la maggior parte dei dibattiti sull'identità latina sistematicamente ignora la crescita esponenziale registrata dalla quota di popolazione che si identifica in molteplici forme nazionali ed ereditarie, su uno spettro che va, solo per fare alcuni esempi, dai messicano-salvadoregni, ai cubano-coreani agli ebraico-ecuadoriani. I.:"Altro" - inteso come dimensione essenzialmente congiunturale, mobile dell'alterità- rappresenta da sempre un bastone fra le ruote nella gerarchia etnorazziale statunitense.

In realtà, queste stesse componenti nazionali non assumono mai il carattere di essenze date una volta per tutte e immutabili. Come chiunq4e si sia occupato di fenomeni migratori ci ricorda, sin dai temili del monumentale lavoro di Thomas e 30

Znaniecki su Il contadino polacco in Europa e in America, le identità una volta approdate negli Stati Uniti vengono riassemblate in "etnicità" all'interno del campo di forze che, di volta in volta, si instaura tra la cultura di maggioranza e i suoi diversi "altri". 13 Gli elementi complessi, spesso conflittuali, presenti nelle preesistenti forme identitarie dei migranti, che comprendono accanite fedeltà subnazionali di carattere regionale o locale, così come profonde divisioni ideologiche tra subculture essenzialmente religiose e altre secolarizzate e radicali, vengono strategicamente ricomposte - e di frequente semplificate in etnicità manipolabili, che entrano a loro volta in competizione con le rivendicazioni e le pressioni di altri gruppi costruiti in modo analogo. Il modo diasporico di essere messicani a El Paso, per esempio, è altra cosa dall'essere messicani en la patria, sull'altra riva del fiume nella città gemella di Ciutad Juarez, così come essere dominicanyork o nuyorican è significativamente diverso dall'essere dominicani a Santo Domingo e boriques a San Juan - non si tratta necessariamente, come ovvio, di forme identitarie esclusive, piuttosto di identità situazionali entro cui gli individui muovono avanti e indietro, disegnando itinerari quotidiani o annuali. 14 Neppure, identità etniche di questo tipo, devono necessariamente essere stabili nel tempo. A Los Angeles, per esempio, ogni prima generazione di giovani di origine messicana ha elaborato una differente concezione di sé in rapporto alla società anglo. Intrappolati in una no-man's-land, in mezzo a diversi sistemi ascrittivi centrati sulla razza e l'etnicità, i mexican-american negli anni a cavallo tra il 1930 e il 1950 hanno pragmaticamente optato per essere riconosciuti come "minoranza etnica con il trattino", sull'esempio dei polish- o degli italian-american, piuttosto che diventare una casta razzializzata come i neri o i cinesi. 15 Durante gli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, i mexican-american, rileva Foley, hanno firmato "un patto faustiano con il mondo bianco [ ... ]per superare gli effetti più devastanti della segregazione à la Jim Crow" . 16 Una mobilità sociale bloccata e un consolidamento della politica del barrio, sommati all'influenza carismatica dei militanti del nazionalismo black, sono gli elementi che hanno spinto i chicanos ad abbandonare, tra il 1960 e il 1970, l'opzione assimilazionista implicita nella definizione mexican-american in favore di rivendicazioni separatiste proiettate sull'origine indigena in un mitico Aztlan del sud-ovest. 17 (Privilegiando il 31

mito di Mexica, tuttavia, il movimento chicano ha inevitabilmente finito per semplificare un patrimonio culturale di straordinaria ricchezza: olmeco, tarasco, zapoteco, maya, addirittura morisco e converso.) La potente riaffermazione dell'idea di mexicanidad, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, getta radici nell'immigrazione di massa e nell'espansione di una sfera pubblica in lingua spagnola - ed è anche, lo vedremo meglio più avanti, espressione di una nuova sincronicità e di un'intensificazione, entrambe strutturali, delle connessioni tra vecchie e nuove "residenze" per la maggior parte dei migranti. 18 Negli ultimi tempi è divenuto fenomeno diffuso tra i giovani della South California "mettere il trattino" (letteralmente "to hyphenate") alla propria identità, definendola mexicana-chicana piuttosto che chicana-mexicana a seconda che le rispettive famiglie siano immigrate di prima generazione o meno. Una serie di intellettuali, di scrittori e scrittrici chicano, hanno tentato di spostare il dibattito sull'etnicità oltre la retorica dell'hyphenation. Più precisamente, hanno esplorato e stanno esplorando, su traiettorie analoghe a quelle disegnate dalla parallela esperienza degli irish studies, il terreno che si estende al di là delle antinomie cui ha dato forma la colonizzazione anglosassone e delle reificazioni culturali che fondano il nazionalismo tradizionale. Prospettiva che ha portato alcuni tra i più influenti intellettuali d'avanguardia, come Rubén Martfnez e Guillermo G6mez-Pefia, ad assumere l'idea di "confine" - qualunque cosa rappresenti l'interpenetrazione di formazioni sociali diverse e si situi "in mezzo" a ogni riduttiva e semplicistica scelta binaria di identità nazionale - come epistemologia specificamente latina e dialettica: "Noi ci siamo demessicanizzati per comprendere meglio il nostro essere-messicani - per messi-capirci-, alcuni senza volerlo, altri con scopi precisi. E un giorno il confine è divenuto la nostra casa, il nostro laboratorio, il nostro ministero della cultura". 19 La rivista chiamata opportunamente "Frontera magazine" - impegnata editorialmente a "rovistare negli interstizi, tra gli strati di polvere e i cumuli di ciò che è rimasto sotto tutte le definizioni che sono state imposte"- offre un campo d'azione per surreali sovversioni di ogni etnicità reificata, riuscendo a intercettare una folta audience di giovani chicano alternativi, sintonizzati su gruppi come Culture Clash, Tijuana NO, Rage Against the Machine: 20 In realtà, il "postnazionalismo" deve la sua attuale presa sugli intellettuali di confine proprio alla massiccia riaf1

32

formazione, all'interno dell'ultima generazione, della continuità fisica e culturale tra Messico e Stati Uniti sud occidentali. Complesse sperimentazioni di politica identitaria - inimmaginabili per la maggioranza bianca degli anni sessanta - sono fondate sulla convinzione che Aztlan non sia più un mito nazionalista, ma un innegabile fatto storico. Per i portoricani, al contrario, la questione nazionale resta agonizzante e irrisolta, in un certo senso intrascendibile, con la maggioranza dei votanti dell'isola che, in una recente consultazione, ha preferito ratificare lo status quo di fronte all'alternativa offerta da Hobson tra l'autodissoluzione culturale della propria dimensione statuale e un'indipendenza economicamente suicida. 21 La più grande colonia ottocentesca ancora in vita ha optato con una risicata, ma persistente, maggioranza elettorale per il limbo del commonwealth contro ogni definitiva soluzione di continuità. Come nelle vicine Antille francesi, gli independentistas portoricani offrono un contributo decisivo in termini di leadership politica a ogni conflitto sociale, ambientale e sul lavoro, ma, di fronte alla debilitante dipendenza economica del paese, non riescono a sedimentare un consenso che permetta loro di superare la soglia elettorale stabile ma sottile del 5 percento. 22 Questo impasse strutturale, sommato alle declinanti fortune della diaspora sul continente - discusse successivamente nel decimo capitolo - conferisce un particolare carattere di urgenza alle politiche identitarie portoricane, urgenza che a volte sconfina in disperati tentativi rivoluzionari - come nel caso dei macheteros - ed è rafforzata dal pressoché totale blackout sulla vita dell'isola da parte dei media statunitensi. Di fatto, come suggerisce amaramente una donna boriquefia, l'unica cosa visibile di Portorico nella cultura mainstream nordamericana è il culo voluttuoso di Jennifer Lopez. 23 Inoltre, questi asimmetrici processi di formazione identitaria - la continua produzione di etnicità e metaetnicità - si sedimentano in contesti regionali caratterizzati da un generale squilibrio nel controllo etnico su media e sistemi simbolici. La programmazione delle cinquecento stazioni radio e dei due network televisivi in lingua spagnola esistenti negli Stati Uniti non riesce quasi mai a riflettere la reale eterogeneità dei mondi culturali ed esperienziali latinos. 24 A Los Angeles, tanto per fare un esempio, salvadoregni, guatemaltechi ed ecuadoriani - come del resto gli indigeni immigrati zapotechi, yaquìs, kanjobal, miztechi ecc. - lottano per difendere le proprie distintive iden33

tità all'interno di una cultura popolare egemonicamente messicano/chicana.25 In una realtà come Chicago, all'opposto, comunità numericamente equivalenti di messicani e portoricani esplorano con prudenza un comune terreno di agibilità politica attingendo, come ha mostrato Félix Padilla, all'universo latino per consolidare e accrescere il proprio peso sul mercato elettorale della contea di Cook (Padilla delinea utilmente due contrapposte modalità di costruire/affermare la propria latinidad: una prima essenzialmente debole, fondata sull'identificazione passiva e simbolica in una comunità di lingua, e una seconda forte, di attiva mobilitazione come blocco etnico-politico). 26 Nella Little Havana di Miami, invece, la più demunita comunità nicaraguense - stimata nella Contea di Dade intorno alle 200 mila unità - soffre l'egemonia economica e culturale delle élites cubane (con il 5 percento della popolazione latina nazionale, Miami raccoglie quasi la metà del giro d'affari dell'intera popolazione nazionale con cognome spagnolo). 27 Sebbene la presenza cubana all'interno della popolazione latina della Contea di Dade sia scesa dall'83 percento del 1970 al 66 percento del 1990, la propaganda antirivoluzionaria degli ormai invecchiati leader dell'esilio esercita ancora un'autoritaria censura sulle principali istituzioni culturali e mediatiche latine di Miami, influenzando direttamente la televisione nazionale in lingua spagnola, volutamente appiattita su "bianchi" talk-show cubano-americani e telenovelas venezuelane. 28 Il dominio di Miami sul vasto e succube mercato dei media in lingua spagnola di Los Angeles e New York, ha suscitato un considerevole risentimento locale, sfociato a volte in proteste pubbliche. Tavola 5 Principali mercati latinos, 1996

Mercato

Vendite al dettaglio annuali

l . Los Angeles

$ 28.9 miliardi

2. New York

$ 17.6 miliardi

3. Miami

$

4. San Francisco

$ 6.0 miliardi

5. Chicago

$

Fonte: dal sito web www.hispanic.market (1999). 34

9.0 miliardi

6.0 miliardi

A New York per contro, la comunità portoricana, che nel 1960 rappresentava i quattro quinti della popolazione latina, si riduce oggi a meno di due quinti, conseguenza diretta della grande migrazione dominicana degli anni ottanta e del più recente flusso messicano durante gli anni novanta - a partire dal 2010, si prevede che la popolazione dominicana superi quella portoricana. 29 Il venir meno di un singolo gruppo dominante ha fatto sì che si sviluppassero contemporaneamente tanto lo scambio interculturale che la competizione tra tutte le comunità di lingua spagnola o di origini caraibiche. Qui, in ogni caso, la latinizzazione si è profondamente interpenetrata con la caraibizzazione, dando vita a un intreccio indistricabile. La specificità etnica della presenza latina a New York, che include molti portoricani, dominicani e cubani neri, favorisce, come ha rilevato Flores, "una relazione più fluida e reciproca" con la cultura afro-americana. 30 Gli scrittori e gli artisti più giovani della Gran Manzana, come la stella dominicano-newyorkese Junot Diaz (Drown), rivendicano apertamente una radicale politica del colore. E, ancora in controtendenza rispetto a Miami o a Los Angeles (dove solo il 14 percento dei latinos di origine messicana ha sposato persone appartenenti ad altri gruppi etnici),3' almeno la metà dei matrimoni che riguardano la popolazione con cognome spagnolo sono misti, tra persone di diverse nazionalità latinas. 32 Il risultato è un cosmopolitico sabor tropica[, ricco e in continua evoluzione, che coinvolge cibi, moda e linguaggio - reso ancora più "aromatico" dagli ultimi flussi di immigrati provenienti dall'America latina. Alcuni degli intellettuali latinos più in vista, abbracciando un messianico neobolivarismo, vedono nel sincretismo culturale New York-style semi di nuove identità creolizzate destinati a riprodursi su scala nazionale, se non addirittura emisferica. "Ironicamente - scrive Silvio Torres-Sailant - il progetto di Simon Bolìvar di una nazione latinoamericana unificata e l'idea sostenuta da Eugenio Maria de Hostos di una federazione delle Antille, trovano in noi un'inaspettata realizzazione. Siamo riusciti ad articolare un'identità collettiva, non nei nostri paesi d'origine, come avevano sognato Bolìvar e Hostos, ma nello spazio precario della diaspora." 33 In questa prospettiva, secondo Flores, i latinos rappresentano la nuova controcultura americana: "dal momento che ogni gruppo e ogni cultura regionale si proietta o manifesta nel nuovo scenario, e insieme si mesco35

la e interagisce sempre di più nella vita di tutti i giorni, New York sta chiaramente diventando il luogo da cui origina una potente, eterogenea alternativa alla cultura ufficiale nordamericana". '4 C'è poi chi, come Ilan Stavans, sostiene che la stessa cultura mainstream si stia inesorabilmente latinizzando, all'interno di una complessa dialettica di scambi transculturali tra nuovi e vecchi americani. La crescita di latinos agringados accaniti consumatori di hamburger e di venerdì sera dediti al football americano, rileva Stavans, viene in prospettiva controbilanciata dall'emergere di gringos hispanizados, sedotti dal chili e dal merengue 35 ( occorre sottolineare come Stavans abbia scritto tutto ciò ben prima dell'attuale boom dello stile ibrido, del cross-aver incarnato da star come Selena, Ricky Martin, Christina Aguilera, Sammy Sosa e Jennifer Lopez). 36 Sulla stessa lunghezza d'onda, il neofuturista brasiliano Alfredo Valladao, folgorato dalle insegne di molti negozi di Los Angeles e Miami con su scritto "se abla lnglés", interpreta la riedizione dello sbarco della lingua spagnola nelle città statunitensi come vero e proprio laboratorio di ricerca per un reciproco innesto delle culture del Nord e del Sud America. Il risultato, predice fiducioso, sarà una nuova egemonia culturale globale: "un Ventunesimo secolo panamericano". 37

36

3. Gemelle siamesi sulla frontiera

Il confine tra Messico e Stati Uniti può anche non essere quel matrimonio epocale tra culture che Valladao prefigura, nondimeno è un vigoroso figlio bastardo di entrambi i genitori. Consideriamo, solo per fare un esempio, la Mana. Alta cinque piani e priva di qualsiasi rivestimento, la "bambola" - questo il suo nome tradotto - si erge maestosa nella zona di Colonia Aeropuerto, periferia polverosa di Tijuana. Ricorda in modo perturbante - almeno agli occhi dei gringos - la statua della libertà, ma dopo uno spogliarello integrale, come se posasse per un inserto di "Playboy". In realtà si tratta della casa di Armando Mufioz Garda e della sua famiglia. Mufioz è uno "sperimentatore urbano", un urban imaginer, qualcosa a metà strada in un improbabile e delirante spettro che va da Marcel Duchamp al costruttore dei casinò di Las Vegas, Steve Wynn. "Datemi un po' di rottami e una fiamma ossidrica" proclama "e vi riempirò il confine di enormi amazzoni nude". Tutto questo mentre mangia nel ventre di La Mana e per dormire si raggomitola dentro i suoi enormi seni. Quando gli si domanda perché mai abbia costruito un edificio con tanto di capezzoli e peli pubici, lui grugnisce, "Perché no?". "cParqué nò?" è il mantra che si adatta a tutte le più sbalorditive situazioni metropolitane della West Coast. Come la fluttuante città sospesa di Laputa nei Viaggi di Gulliver di Swift, Tijuana sembra sfidare le normali leggi di gravità. Con una popolazione stimata intorno a 1.300.000 abitanti, è oggi più grande della sua ricca gemella San Diego, come pure di San Francisco, Portland e Seattle. La sua economia formale e il suo bilancio pubblico, però, sarebbero a malapena sufficien37

ti per una città grande un terzo. Le infrastrutture urbane di Tijuana hanno sempre accumulato un ritardo di almeno una generazione rispetto alla domanda corrente. La creatività popolare simbolizzata da la Mana riesce a travestire questa differenza.' Gli abitanti di Tijuana sono consumati bricoleurs, in grado di costruire dal basso una metropoli culturalmente incandescente, facendo ampio ricorso a materiali riciclati provenienti dall'altro lato del confine. Dopo essere stata un polveroso rancho agli inizi del Novecento e fonte dorata del gioco d'azzardo per colonie di lavoratori dell'industria cinematografica losangelina negli anni venti, Tijuana ha avuto il suo boom con l'espansione determinata dalla guerra del Vietnam a metà degli anni sessanta, quando la California urbana del Sud iniziò a importare su scala più vasta forza lavoro dal Messico. Se si eccettuano alcune realtà urbane più piccole sul confine messicano, l'unica città nordamericana in grado di replicare la sua crescita esplosiva - le loro curve demografiche sono incredibilmente sincronizzate - è stata Las Vegas. Parallelo decisamente carico di ironia, dal momento che è stato proprio il presidente del Messico Làzaro Càrdenas, e non Bugsy Segal, a proclamarsi vero padre della capitale dell'azzardo: fu la chiusura, da lui decretata nel 1938, del casino di Agua Caliente a Tijuana che spinse i grandi gambler e i loro amici di Hollywood a far bagagli verso il Nevada.' Oggi, tutte e due queste instant cities fanno inconsciamente a gara nel replicare all'infinito una dimensione urbana fantasmagorica. In quanto a paesaggio surreale, in ogni caso, il "confine" batte decisamente la Strip. La lingua spagnola offre in questo caso un utile appiglio concettuale, distinguendo tra la lìnea, il confine fisico e giuridico con 230 milioni di individui che lo attraversano ogni anno, e la frontera, l'area specifica di duemila miglia e i quotidiani interscambi culturali ed economici che definisce, con una popolazione complessiva stimata intorno agli otto milioni di abitanti. 3 Tutti i confini, come ovvio, sono prima di ogni altra cosa istituzioni storicamente definite, e la lìnea, pur nella sua attuale configurazione tipo "Muro di Berlino", non ha mai avuto come scopo quello di fermare la forza lavoro che migrava verso l'otro lado. Al contrario, funziona come una diga, creando una riserva di manodopera sul lato messicano del confine che viene poi filtrata in base alla domanda, attraverso il segreto condotto controllato dapolleros, iguanas e coyotes (così sono conosciuti localmente i trafficanti di forza 38

lavoro e di beni di ogni genere), per rifornire gli insediamenti industriali del sud del Texas, gli hotel di Las Vegas e gli sweatshops di Los Angeles. Su questa dimensione fluida la polizia di confine, la Border Patrol, proietta un'imponente dimostrazione di forza, presidiando tutto il territorio lungo la lìnea: risposta ansiolitica alla fobia degli elettori su una presunta invasione da parte di "alieni" - fantasma in gran parte prodotto dalla militarizzazione stessa dei confini. "L'aspetto paradossale dell'integrazione tra Stati Uniti e Messico è dato dal fatto che, tanto un confine barricato quanto un'area economica senza confini, siano stati costruiti simultaneamente." 4 Nonostante l'escalation del controllo sul confine sembri promuovere solo lo sviluppo di un traffico più sofisticato e accuratamente criminalizzato (fenomeno messo bene in evidenza da Peter Andreas in un brillante studio di caso), il suo venir meno come deterrente pratico genera "conseguenze perverse che fanno crescere le pressioni per un controllo sempre più rigido". "L'impatto percettivo e l'appeal simbolico" sono il reale obiettivo, il vero business su cui si misura la presenza della polizia di confine: "In altre parole, è la storia del successo politico di politiche fallimentari". 5 Il risultato è un confine sempre più orwelliano, ma deliberatamente poroso. "La bizzarra combinazione di inefficienza e di forza in atto sul confine" scrive Josiah Heyman "determina di fatto le nicchie occupate dai migranti privi di documenti. Lungo tutta l'area del confine i migranti sono allo stesso tempo 'stranieri', definiti in base all'oggettività dei limiti nazionali, e insider di fatto, sia pure sull'ultimo grado della struttura di classe." 6 In passato, e ancora oggi a livelli sorprendenti, l'assenza o la mancata attuazione di sanzioni nei confronti dei datori di lavoro ha fatto sì che solo i lavoratori pagassero interamente il prezzo dell'illegalità (in termini di deportazione, di perdita del salario e anche di incarcerazione): efficace strumento per intimidire i migranti, scoraggiandone ogni possibile tentativo di rivendicazione sindacale. L'emergere sul confine di una dinamica economia di maquiladora (maquila, da ora in poi) che impiega un milione di lavoratori - al 60 percento donne - in operazioni di parziale assemblaggio industriale, ha contribuito solo in modo limitato ad arginare il flusso verso nord di manodopera in surplus, dal momento che il Messico sforna ogni anno un milione di lavoratori in eccedenza rispetto alle capacità di assorbimento della sua economia formale. Di fatto, l'altra faccia della crescita 39

esplosiva dell'economia delle maquila lungo il confine è rappresentata dal drastico declino della produzione sul mercato interno messicano. 7 Tavola 6 Storie parallele (crescite boom): Tijuana e Las Vegas

Anno

Tzjuana

Las Vegas

1950

65,000

48,283

1960

166,000

127,016

1970

341,000

273,288

1980

462,000

461,816

1990

747,000

784,682

1996

stima 1.2 milioni

stima 1.1 milioni

2000

stima 1.3 milioni

stima 1.3 milioni

Fonte: Borderlink 1994, San Diego State University (profilo economico della regione San Diego-Tzjuana); Eugene Moehring, Resort City in the Sun Belt: Las Vegas, 1930-1970, Reno, Nevada 1989; e Las Vegas Convention and Visitors Authority (dati del 1990 e del 1996).

Nel 1970, solo per fare un esempio, il Messico disponeva di un'industria elettronica di largo consumo più avanzata di quella di Taiwan e della Corea del Sud. Tuttavia, mentre la competizione sugli investimenti tra multinazionali giapponesi e statunitensi determinava una crescita esponenziale nel trasferimento di tecnologie e nel decentramento produttivo su entrambi i paesi asiatici, "le maquila del comparto elettronico di proprietà americana - come hanno rilevato Nicholas Lowe e Martin Kenney - si sono unicamente limitate a trarre profitto dai costi più bassi della forza lavoro messicana. Come risultato, gli investimenti iniziali non hanno determinato la nascita di imprese sul territorio messicano, con tutte le opportunità annesse di stabilire joint-ventures o accordi di acquisto". Anziché incorporare le imprese indigene in alleanze produttive, le maquila ne hanno semplicemente accelerato l'estinzione, situazione che è solo peggiorata in seguito all'avvicendamento dei dinosauri nordamericani da parte delle decisamente più efficienti maquila giapponesi, con le loro reti vincolate di fomitori. 8 L'industrializzazione del confine, pur offrendo solo un miraggio di sviluppo all'economia nazionale, ha in realtà violente40

mente rimodellato la cultura della frontera e le interrelazioni tra la dozzina e passa di città gemelle che suturano il confine, da Matamoros/Brownsville sul Golfo del Messico, a Tijuana/San Diego sul Pacifico. 9 Di tutte queste realtà metropolitane binazionali, le principali per dimensioni e dinamicità sono El Paso/Ciutad Juarez (1,5 milioni di abitanti e 372 maquila) e San Diego/Tijuana (4,3 milioni di abitanti e 719 maquila). 10 Al di là di differenze evidenti, soprattutto nella devastante brutalità dell'abisso socio-economico che separa San Diego da Tijuana, queste coppie di ciudades hennanas si stanno sviluppando su binari paralleli che trovano poche analogie con ogni altro sistema di frontiere internazionali. 11 Su entrambi i lati del confine, l'industrializzazione delle maquiladora - centrata sul comparto elettronico e sull'abbigliamento a Ciudad Juarez e sulla produzione di televisori a Tivijuana (così la definiscono i locali) - ha elaborato complesse divisioni transfrontaliere del lavoro, all'interno di più estese reti di commercio internazionale. Nel nuovo scenario definito dal North American Free Trade Agreement (il NAFTA), entrato in vigore nel 1994, i capitali asiatici hanno giocato un ruolo rilevante quasi quanto gli investimenti statunitensi nel modernizzare la frontera. La rivista "Mexico Business Monthly" ha rilevato che durante tutto il 1997, le maquila hanno importato il 60 percento della componentistica dall'Asia a fronte del 38 percento dagli Stati Uniti e di un misero 2 percento dallo stesso Messico. 12 Tutto questo mentre quasi 40 mila tijuanenses lavorano per keitetsu giapponesi o chaebol coreane, molte delle quali - come Sanyo e Samsung - dispongono di una distribuzione estensiva e di basi di engineering lungo tutta la barriera intorno a San Diego. 13 Malgrado il NAFTA si supponga debba far crescere esponenzialmente la quota nordamericana della produzione delle maquila, il confine tra Stati Uniti e Messico risulterà con ogni probabilità l'interfaccia in assoluto più dinamico tra America latina ed Est asiatico. Da quando la frontera è diventata epicentro del Pacific Rim, nuovi paradossi dell'integrazione economica hanno preso il posto di vecchie antinomie legate allo sviluppo. Se, solo vent'anni fa, l'elemento di maggiore impatto offerto dal confine consisteva nella stridente contrapposizione di opposti che offriva (il Terzo mondo che incontra il Primo), oggi è invece all'opera una sempre più fitta interpenetrazione, con modalità tra il surreale e l'iperrealistico, che coinvolge temporalità na41

zionali, forme di insediamento e specifiche ecologie. Così, mentre una serie ordinata e ininterrotta di impianti di assemblaggio ultramoderni fiancheggia oggi il lato a sud del confine, bidonville fatte con scarti di legno e carta catramata sono diventate scenario abituale sul versante statunitense. Scambi "urbanistico-genetici" di questo tipo non hanno fatto altro che accentuare la peculiarità della frontera come sistema culturale transnazionale sui generis. A Tijuana, Samsung, Sony, Sanyo e Hyundai dominano l'economia delle maquila: parchi industriali ultrapianificati e company-town postmoderne come Ciudad Industria! Nueva e El Florido - piccoli regni dalle "illimitate prerogative manageriali", di quello che Devon Pefia definisce l"'ipertoyotismo" costeggiano senza soluzione di continuità il lato messicano del confine. 14 I manager delle maquila raggiungono ogni mattina la zona industriale di Tijuana da lussuose periferie residenziali di San Diego, come Chula Vista, mentre tijuanenses provvisti di green card - definiti ufficialmente "trasmigrant" - percorrono a migliaia l'itinerario opposto, per lavorare nella postindustriale economia turistica di San Diego. Nonostante lo stabile precipizio salariale esistente tra i due lati del confine, gli indicatori sociali non riproducono più il consueto scenario. Se infatti, solo per fare un esempio, più del 40 percento dei residenti a Tijuana lamentano l'assenza di una rete fognaria e dell'acqua corrente, gli stessi possono essere fieri di una partecipazione scolastica che tocca il 90 percento della popolazione in età, a fronte di uno scarso 84 percento nella decisamente più ricca San Diego. 15 A El Paso, all'opposto, lungo la riva nord del Rio Grande, si estendono più di 150 colonia in stile messicano riconvertite in abitazioni (la cui popolazione complessiva si aggira intorno alle 73.000 persone), con livelli minimi di rifornimenti d'acqua e di infrastrutture. Qui, la persistente povertà del lato statunitense del confine sta livellando il paesaggio su condizioni di vita davvero da Terzo mondo. 'Tacqua potabile - spiega la rivista "BorderLines" - è raccolta o recuperata attraverso bassi pozzi scavati a mano che rapidamente vengono contaminati da rifiuti umani, dal riflusso in superficie di pesticidi o dai metalli pesanti presenti nel suolo che li circonda. I.:acqua ristagna in malsani container aperti - vecchi recipienti già usati negli impianti industriali, molti dei quali con su ancora l'etichetta 'da non usare per l'acqua', diventano un comune metodo di ap42

provvigionamento idrico. Recentemente, un gruppo di ricercatori si è imbattuto in una famiglia che utilizzava taniche usate di pesticida da dieci litri come contenitori d'acqua. La scarsità implica che l'acqua per bagnare e per lavarsi provenga direttamente dai canali di irrigazione. I rifiuti umidi - alimentari e igienico-sanitari - vengono di solito raccolti in recipienti settici o in pozzi neri all'aperto. Molte colonia non dispongono di una regolare raccolta dei rifiuti. Se questa è la situazione, i pessimi dati sulle condizioni di salute non possono sorprendere nessuno." A causa della mancanza di alloggi per i redditi bassi nelle contee vicine al confine, si valuta che un milione e mezzo di persone, fra cittadini statunitensi poveri, latino e alcuni nativi, vivano in favelas o colonias concentrate soprattutto nel New Mexico e in Texas. 16 L'industrializzazione delle maquila e l'urbanizzazione incontrollata hanno inoltre generato problemi ambientali così ingenti da indurre la National Toxics Campaign a parlare del confine come di un "Love Canal [Dal nome del fiume divenuto famoso negli anni settanta per essere stato contaminato dagli scarichi tossici illegali di un impianto chimico, provocando una lunga catena di morti e malattie croniche tra la popolazione del vicino centro turistico di Niagara Falls, nello stato di New York. Il disastro ecologico di Love Canal, per l'impatto mediatico e l'allarme ambientale che generò, è entrato nel senso comune americano, assumendo un valore paradigmatico analogo a quello di Seveso in Italia; N.d.T.] lungo duemila miglia". Il fiume Tijuana, per esempio, scaricava ancora recentemente qualcosa come dodici milioni di galloni di acque reflue al giorno lungo il confine sul versante di San Diego, mentre il New River che trascina le acque non trattate di Mexicali nell'Imperial Valley californiana, è stato descritto dall'Environmental Protection Agency statunitense come il veicolo "di quasi tutti i microrganismi virali e batterici letali all'uomo presenti nell'emisfero occidentale". 17 Specularmente, ma in direzione opposta, si valuta che le imprese statunitensi trasportino verso sud rifiuti trenta volte più pericolosi di quelli che le imprese messicane portano verso nord, nonostante il NAFTA abbia introdotto regole che vietano il dumping ambientale e impongono il riciclaggio dei sottoprodotti tossici di processi di assemblaggio al paese che produce direttamente le componenti o la materia prima. 18 A lungo rifugio delle industrie statunitensi che violavano le leggi ambientali, il confine rischia di diventare lo scolo 43

tossico del Nord America. Rischio ulteriormente aggravato dal via libera fiscale offerto su un piatto d'argento agli imprenditori delle maquila, che pagano poco o nulla in tasse per le infrastrutture di supporto. Tutte le città messicane di confine sono costrette a praticare una selezione per trasferire le scarse risorse pubbliche disponibili dai quartieri più demuniti ai parchi industriali: l'acqua pulita, per esempio, va alle maquila, di certo non alle colonia. Chiunque, lavoratore o residente, denunci tali situazioni, come rileva Heather Williams, è vittima di puntuali repressioni, che vanno dal licenziamento, all'arresto, al pestaggio, fino alla desapariciòn. 19 Esistono in ogni caso una serie di allarmi ambientali che non possono venire occultati dalla violenza di stato, e, per le ricadute immediate che comportano sui profitti delle imprese e sulla qualità della vita negli Stati Uniti, hanno imposto il ricorso a rinnovate iniziative binazionali. I.:approvvigionamento idrico di tutte le assetate maquila disseminate lungo l'arido confine ha, per esempio, trasformato la cronica carenza d'acqua sul lato messicano in una vera e propria emergenza: a Tijuana, un unico stabilimento Samsung si "beve" da solo più del 5 percento dell'annuale rifornimento idrico cittadino. 20 Dal momento che condividono questi indivisibili problemi ecologici, le città siamesi del confine sono inesorabilmente costrette a integrare e transnazionalizzare progressivamente le proprie infrastrutture urbane. Nel 1998, un équipe mista di funzionari statali messicani e statunitensi ha inaugurato l'International Wastewater Treatment Plant (Impianto internazionale per il trattamento delle acque reflue), una struttura costata 440 milioni di dollari che tratta le acque reflue in eccesso del Tijuana sul versante di San Diego e che, nel suo genere, rappresenta un unicum al mondo. Entro il 2010, gli enti che gestiscono le acque a San Diego e Tijuana contano di riuscire a terminare i lavori di un acquedotto binazionale che raggiunga il fiume Colorado. Analogamente, El Paso e Ciudad Juàrez, coperte dallo stesso smog, stanno oggi discutendo la creazione di un distretto unificato per il monitoraggio della qualità dell'aria. 21 Più in generale, in ognuna di queste situazioni gli approcci binazionali alle politiche locali sull'ambiente - e, potenzialmente, alle operazioni di polizia - stanno rafforzando il new federalism messicano lungo una linea accanitamente sostenuta dal partito neoliberale - il PAN - al governo in numerosi stati chiave sul confine. 22 I.:indebolimento dei legami con il centro 44

nazionale, unito alla proliferazione di un tal numero di alleanze e collaborazioni transfrontaliere, è elemento di profondo disturbo per gli equilibri nazionali della politica messicana. Alcuni scrittori nazionalisti hanno paragonato questa situazione al destabilizzante flusso di capitali statunitensi, e alla conseguente sempre maggiore influenza Usa sul nord del paese, negli anni che hanno preceduto la rivoluzione. Tutti gli yankee xenofobi, tormentati dalla minaccia di un take aver, di un'invasione messicana del Sud-est, trovano così un'ansiogena controparte nel D.F. - il Districto Federa[ messicano - che si rode il fegato all'idea di una possibile secessione del Norte. La configurazione definitiva di tali fedeltà nazionali e transnazionali dipenderà, in ultima analisi, dal modo in cui entrambi i lati del confine affronteranno gli inediti pericoli fisici e i problemi sociali creati dalla militarizzazione unilaterale del confine avviata da Clinton nel 1994. Nell'era del NAFTA, i capitali, come del resto l'inquinamento, possono fluttuare liberamente lungo i confini, la forza lavoro migrante si scontra invece con una criminalizzazione e una repressione assolutamente senza precedenti. Nel tentativo di sottrarre l'argomento "immigrazione incontrollata" all'opposizione repubblicana, Clinton - incitato dalle rapresentanti californiane al senato Diane Feinstein e Barbara Boxer - ha ammassato l'intero organico della Border Patrol sul confine San Diegp/Tijuana - attraverso l'operazione Gatekeeper - e ha spinto il Congresso a raddoppiare gli effettivi armati tanto della Patrol che dell'istituzione da cui direttamente dipende, la Immigration and Naturalization Agency. 23 Con l'aiuto del Pentagono, la sorveglianza sui settori-chiave del confine è stata automatizzata attraverso sensori sismici che intercettano il minimo "terremoto" provocato dai passi dei migranti. Analoghe trovate futuristiche nel controllo dei confini, tra cui "un raggio elettronico che blocca un'auto in fuga, una telecamera che scova i passeggeri nascosti dentro i veicoli e un computer che controlla i pendolari in base al timbro di voce", sono allo studio al Border Research and Technology Center di San Diego, programma di ricerca avviato nel 1995 con l'intento specifico di supportare l'operazione Gatekeeper con le più avanzate tecnologie militari a disposizione. 24 Tutto questo mentre il principale campo di battaglia della "guerra alla droga" si è trasferito dalla Colombia e gli altri stati andini al confine messicano, trascinandosi dietro interi contingenti dell'esercito statunitense - comprese alcune sele45

zionate unità di ricognizione dei marines - che si sommano alla Drug Enforcement Administration e alla Border Patrol. Come suggerisce Andreas "Le logiche adottate dagli Stati Uniti nel controllo su droga e immigrazione sono per diversi aspetti identiche: l'offerta proveniente dall'estero è considerata la vera causa del problema e l'azione di deterrenza nei confronti dell'approvvigionamento attraverso operazioni intensive è promossa come soluzione ottimale". 25 In pratica, ogni distinzione tra controllo sull'immigrazione e azione antinarcotici, tra mantenimento dell'ordine pubblico e stato di guerra a bassa intensità, è diventata così opaca che gli abitanti del confine parlano abitualmente di "guerra contro la droga e gli immigrati" .26 Si tratta, in ogni caso, di una guerra dalle numerose vittime. Negli ultimi anni i molto pubblicizzati "giri di vite" nelle città gemelle sul confine, hanno indotto un numero sempre maggiore di migranti a tentare pericolosi passaggi su lontane dilatazioni del Rio Grande o attraverso la rovente fornace rappresentata dai deserti del Sud-ovest. Da una valutazione approssimativa, quasi 1600 migranti sono deceduti in questi tentativi disperati, compreso un gruppo di dieci persone morte per disidratazione nel deserto a est di San Diego nell'agosto 1998. 27 Altri migranti sono stati uccisi nei sempre più violenti scontri con la Border Patrol, o hanno fatto la fine di Esequiel Hemàndez, una minorenne proveniente dalla comunità di Redford, sul lato statunitense del confine, vittima "casuale" nel 1997 di un imboscata da parte di unità dei marines a caccia di narcotrafficanti. Pochi cittadini americani lontano dalla frontera sono consapevoli dell'assurdo livello di sovrapposizione tra organi di polizia federale e forze militari nel regolare la vita quotidiana delle comunità sul confine. 28 Un membro del consiglio cittadino di Laredo ha espresso così il proprio dolore per l'assassinio della giovane Hemàndez: "Oggi la mia sensazione è che qui si viva tutti sotto la legge marziale". Amnesty International concorda, sottolineando come "il trattamento crudele, disumano e degradante" riservato a cittadini statunitensi e migranti privi di documenti sia diventato tragicamente quotidiano; in occasione della sua visita a Tijuana nel 1999, l'Alto Commissario Onu per i Diritti umani - l'ex presidente irlandese Mary Robinson - ha espresso la crescente preoccupazione delle Nazioni Unite per la crisi umanitaria in atto sul confine. 29 La percezione diffusa tra la popolazione di uno stato tran46

snazionale di polizia lungo il confine è stata ulteriormente rafforzata dal progressivo impiego dell'esercito messicano, promosso in aperta violazione della costituzione dall'ex presidente Zedillo, per condurre perquisizioni sui civili e montare checkpoint autostradali. La legge messicana è stata ulteriormente violata nel 1998, quando cento unità selezionate tra le forze speciali di polizia sono state utilizzate per ammassare crumiri oltre i picchetti dell'impianto di alimentazione della Hyundai Motors di Tijuana. Il pugno di ferro del governo in risposta al primo sciopero organizzato da un sindacato autenticamente indipendente di lavoratori delle maquiladora, prefigura un futuro violento per le relazioni industriali sul confine. Nell'utopia neoliberale che avvolge l'economia del confine, cresciuta vampirescamente sui catastrofici tassi di disoccupazione del Messico, i salari reali hanno relazioni scarse se non del tutto inesistenti con la produttività dei lavoratori e il costo della vita. Nonostante "un mercato del lavoro 'su misura', l'alta produttività e profitti da record", le maquila "hanno distribuito salari progressivamente sempre più bassi a chi ci lavorava dentro. In termini di dollari reali, la media delle quote salariali nelle maquiladora è scesa di uno sconcertante 65 percento dai massimi del settore registrati nel 1981 ". 30 La sollecitudine mostrata dal governo nel sopprimere i semi di ogni possibile sollevazione dei lavoratori entra in clamorosa contraddizione con la sua ormai rinomata inefficienza nell'arrestare i notabili del traffico di droga sul confine, ufficialmente gli uomini più ricercati di tutto l'emisfero, in realtà assidui e indisturbati frequentatori diurni dell'ippodromo di Caliente e notturni delle principali discoteche di tendenza. Due cartelli rivali con base a Ciudad Juarez e Tijuana controllano oggi il grosso della droga importata in Nord America, intercettando il flusso di denaro un tempo destinato a Medellin e Calì. Entrambi rappresentano, di fatto, il terzo invisibile governo della frontera. Con profitti da droga che raggiungono livelli toccati dal mercato andino, è arrivata inesorabile anche una violenza a livelli di Colombia, che a sua volta implica un analogo repertorio di ramificate collusioni con ufficiali della polizia e dell'esercito. Nel 1994 Tijuana - che cinquant'anni prima era stata meta privilegiata di villeggiatura per Al Capone - è diventata arena abituale di spettacolari scontri a fuoco in pieno giorno tra forze corrotte di polizia affiliate con i cartelli in competizione. Nell'arco di soli due mesi, scrive Sebastian 47

Rotella, "la polizia di stato, alleata con i signori della droga, ha ucciso un comandante federale in una sparatoria. Un killer ha assassinato il candidato presidenziale (Luis Donaldo Colosio), della cui morte sono sospettate le sue stesse guardie del corpo. La polizia federale, anch'essa in combutta con i cartelli, è stata sospettata dell'uccisione del capo del distretto di polizia cittadino. La stessa polizia federale ha arrestato il deputato nazionale che controlla l'operato dei procuratori, con l'accusa di corruzione". Dal 1997 qualcosa come seicento omicidi all'anno sono stati attribuiti da attivisti dei diritti umani ai narcotraficantes o a poliziotti corrotti loro affiliati. 3 ' Nel settembre del 1998, la guerra della droga ha prodotto una vera e propria strage di innocenti. Una dozzina di uomini armati che lavoravano per un gruppo affiliato al cartello Arellano-Félix di Tijuana hanno svegliato in piena notte ventuno persone a Ensenada, suburb di El Sauzal, hanno ordinato loro di sdraiarsi a faccia in giù su un patio di cemento e hanno aperto il fuoco con armi automatiche. Diciannove persone sono state uccise, tra le quali diversi adolescenti, bambini piccoli e una donna incinta. Le vittime erano tutte appartenenti alla popolazione pai-pai, una delle poche comunità pre-colombiane ancora presenti in Baja California. Dopo essere scampati allo sterminio nel Diciannovesimo secolo, i pai-pai si sono nascosti per decenni nelle inespugnabili montagne del deserto della Baja California, prima di venire "riscoperti" dagli escursionisti del Sierra Club negli anni cinquanta. Il massacro apparentemente è stato il climax di una lunga battaglia per l'uso delle terre comuni indiane, che i cartelli intendono trasformare in coltivazioni di marijuana e in piste di atterraggio clandestine. 32 Per stragi più sofisticate, compreso l'assassinio di un pubblico ministero, di un capo della polizia e di un editore di quotidiani, il cartello Arellano-Félix preferisce reclutare i suoi killer, piuttosto che nelle colonia locali, dagli slums di San Diego. Efficace esempio di un urbanesimo binazionale modello "Arancia meccanica". Erano mercenari al soldo dell'Arellano provenienti dalla trentesima strada di San Diego, quelli che, armati di fucili automatici, hanno ammazzato il cardinale di Guadalajara, Posadas Ocampo, nel 1993, e che in seguito si sono resi protagonisti di una sensazionale sequenza di drive-bykillings, scontri a fuoco in macchina nei lussuosi suburb di San Diego. I.'.immagine sinistra di una Chevy Suburban "plac48

cata-e-blindata" - molte delle cui componenti sono prodotte nelle maquiladora - che vomita il fuoco mortale degli AK4 7 dai suoi finestrini è diventata un'icona popolare del gangsterismo transnazionale celebrato nei rap di confine così come nei tradizionali corridos. Omicidi irrisolti - compresi quelli di 171 giovani donne impiegate nelle maquiladora a partire dal 1993 nell'area di Ciudad Juarez - rappresentano solo una parte del pedaggio quotidiano pagato alle sorti magnifiche e progressive del "mondo nuovo" creato dal NATTA. 33

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4. La metropoli latina

La specificità della frontera come configurazione sociale sui generis non è in ogni caso passata inosservata. Al contrario, gli stessi border studies sono diventati una vera e propria industria transnazionale, con il proprio centro strategico presso il Colegio de la Frontera Norte, istituto fondato nel 1984, a tutt'oggi unico nel suo genere per quanto riguarda il Messico, con dipartimenti virtualmente presenti in ogni città del confine e partner di ricerca in tutte le grandi università di California, Arizona e Texas. 1 Sorprendentemente scarsa è stata invece l'attenzione dedicata all'analisi storico-geografica delle tipologie di insediamento dei latinos in tutte le città non di confine, sebbene perlomeno in un caso - l'area metropolitana di Los Angeles - esse rappresentino una realtà davvero unica.' Una volta superata la tradizionale dimensione del barrio, le emergenti pluralità e/o maggioranze di latinos iniziano a ridisegnare lo spazio urbano in modi assolutamente inediti, e per questo inassimilabili alle precedenti esperienze tanto degli afroamericani che degli immigrati europei. In altri termini, laddove sociologi e storici adottano categorie convenzionali come quella di "secondo ghetto", sintetizzando così l'evoluzione comune delle comunità black su scala nazionale, le principali realtà metropolitane dei latinos si dimostrano sideralmente differenti per le specifiche economie spaziali che descrivono. Come tipologia provvisoria, le aree a maggioranza latina delle grandi città nordamericane possono essere classificate in base al loro livello di complessità spaziale - piuttosto che sulla base delle loro mere dimensioni.

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Tavola 7 Tipologia delle aree (insediamenti) urbane latine 1. Barrio primario con piccoli satelliti

Los Angeles 1960

2. Barrio policentrico

Chicago 1990

3. Mosaico multiculturale

New York 1990

4. Città nella città

Los Angeles 1990

Nel classico modello di città nordamericana elaborato dalla scuola di Chicago, il distretto etnico è una semplice sezione - Deutschland e Russian Town, Little Sicily, Black Belt ecc.inserita nella sequenza di cerchi concentrici che ricalcano le diverse classi abitative e di reddito. L'insediamento messicano a Los Angeles prima del 1970 si avvicinava decisamente a questo modello idealtipico, con un unico barrio primario a est del Los Angeles River che raccoglieva la maggioranza della popolazione con cognome spagnolo. Tipologia che del resto ancora si applica a città come Oakland, Philadelphia, Phoenix, Houston, Atlanta e Washington D.C. Una seconda, più complessa, geografia residenziale la offre la Chicago contemporanea, dove la maggioranza della popolazione di lingua spagnola si concentra in quattro distretti approssimativamente omologhi per dimensioni. Se Back of the Yard, a sud-ovest, e South Chicago rappresentavano gli originari poli di entrata per i messicani impiegati nei cantieri ferroviari e nei mattatoi durante gli anni venti, oggi, capitale della diaspora messicana nel Midwest è Pilsen, insieme al quartiere adiacente di Little Village - definito dagli originari residenti cechi Cesca California. L'high school "Benito Juarez", la biblioteca comunale "Rudy Lozano", il Mexican Fine Arts Museum e Calle Mexico testimoniano la dinamica vita di comunità costruita da cinque generazioni di lavoratori immigrati provenienti dalla regione messicana di Bajìo. La Chicago portoricana nel corso dei decenni si è spostata da West Town verso i contigui Humboldt Park e Logan Square. Gravi riots hanno sconvolto il barrio, rispettivamente nel 1966 e nel 1977, sempre in seguito all'uccisione di giovani locali da parte della polizia. 3 Gotham, invece, è uno straordinario mosaico (si veda la figura 1). L'atlante di 880 pagine sulla popolazione latina di New York pubblicato nel 1996 dall'Institute for Puerto Rican Policy individua non meno di ventuno quartieri a maggioranza latina in quattro distretti, comprese undici aree a maggioranza por51

toricana nella parte sud del Bronx, due quartieri a maggioranza dominicana a Upper Manhattan (Washington Heights e Morningside Heights), e due enclavi miste sudamericane nel Queens. A differenza di Los Angeles, che ha numerosi barrio e più piccole città successivamente incorporate con una popolazione di lingua spagnola che supera il 90 percento, tutti i quartieri latino di New York ospitano al loro interno consistenti comunità di non latino - indifferentemente di afroamericani, asian, black caribbean, nuovi europei ecc. - che oscillano tra il 30 e il 45 percento della popolazione. Anche scendendo a livelli relativamente micro, New York si conferma di gran lunga più pluriculturale di ogni altro principale centro metropolitano statunitense.4 Tutti e tre i modelli spaziali evocati - quello del distretto primario, dei quartieri policentrici e del mosaico etnico - compendiano le precedenti ecologie urbane americane. Los Angeles, in ogni caso, fa storia a sé. La mappa rappresentata nella figura 2 illustra una geografia che non ha precedenti conosciuti. Nel tentativo di decifrare una simile struttura spaziale, ho comparato la sua "traccia" a quella descritta da altre rilevanti minoranze etniche o linguistiche in città biculturali: i Kleindeutschland nella New York degli anni settanta dell'Ottocento quando la popolazione di lingua tedesca rappresentava il 30 percento di quella complessiva -, 5 i neri nella Chicago degli anni sessanta, la popolazione anglofona nella parte occidentale di Montreal, gli anglo a San Antonio, e così via. In ognuno dei casi presi in considerazione, il gruppo linguistico o razziale di minoranza è concentrato in uno, al massimo due, estesi distretti con diversi piccoli sbocchi isolati. Ma non esiste nulla di paragonabile alla complessa geometria frattale che caratterizza la Los Angeles latina, con le sue centinaia di quartieri e frazioni spanish-speaking che si irradiano dal vecchio centro di East-side. Di fatto, la popolazione latina è oggi tanto vasta - attualmente più di cinque milioni nell'area metropolitana censita dell'intera Contea di Los Angeles-Orange - da rendere imminente una percezione invertita della figura in primo piano. I quartieri a maggioranza anglo, perlopiù vicini alla costa o ai piedi delle colline, stanno diventando periferie dorate della brulicante metropoli latina che occupa la piana costiera, il cui profilo del XXI secolo risulta già chiaramente leggibile: tutte le aree che nel censimento del 1990 registravano una popolazione con cognome spagnolo oscillante tra il 25 e il 49 percento 52

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avranno con ogni probabilità una maggioranza latina in quello del 2000. La logica spaziale di quest'estesa "città-dentro-la-città", così misteriosa a una prima lettura, diventa immediatamente evidente non appena alla mappa della distribuzioane "etnica" si sovrappone quella delle suddivisioni per aree industriali. I latinos occupano infatti quasi tutte la aree di Los Angeles e della Contea di Orange tradizionalmente abitate dai blue-collar, i quartieri operai, così come i suburb adiacenti ai tre grandi corridoi delle zone ad alta concentrazione industriale, lungo la Interstate 5, la sessantesima Freeway (Pomona) e il fiume Los Angeles. Vero e proprio centro gravitazionale della L.A. latina è il vecchio Central Manufacturing District, vasta distesa di vecchie fabbriche, magazzini e scali di stoccaggio immediatamente a sud-est di Downtown. Una simile geografia è stata prodotta in un'unica generazione dalla progressiva latinizzazione della classe operaia losangelina. L'avvicendamento abitativo riproduce la ristrutturazione economica, conseguenza diretta di una presenza latina divenuta preponderante nell'industria low-tech, nell'edilizia e nel settore dei servizi turistici. Nell'ultimo quarto di secolo i latinos hanno rimpiazzato i colletti blu anglos - che a loro volta si sono spostati in massa all'interno, verso la parte a ovest di San Bernardino e le Riverside Counties - nel quadrante dei suburb industriali a sud-est di downtown così come nella nord-occidentale San Fernando Valley, nell'occidentale San Gabriel Valley e, verso nord, nella Contea di Orange (Orange County, terra santa del repubblicanismo targato Nixon-Reagan, si è rapidamente dicotomizzata in un polo settentrionale, operaio e a prevalenza latino, e uno a sud, di professionisti e manager, a schiacciante maggioranza bianca). Gli immigrati messicani e salvadoregni hanno inoltre superato la presenza operaia afroamericana nella parte orientale di Southcentral Los Angeles: Central Avenue, la vecchia main street della Los Angeles nera, è oggi al 75 percento latina 6 Nella nuova divisione etnica del lavoro che caratterizza Los Angeles, gli anglos tendono a concentrarsi nei settori privati del management e dell'intrattenimento, gli asian nel commercio, nei lavori comuni e nell'industria leggera, gli afroamericani nei servizi pubblici e i latinos nella produzione industriale e nei servizi labor-intensive. New York, al contrario, conserva una classe operaia più "multietnica" rispetto a Los Angeles, laddove Miami registra invece una più significativa 54

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presenza di capitalismo latino. Lawicendamento etnico dei latinos a Los Angeles si sta raccogliendo essenzialmente alla base della piramide occupazionale postfordista. Nonostante decine di migliaia di uomini di affari con cognome spagnolo attestino l'esistenza di una straordinaria riserva di energia imprenditoriale, in genere il volume di capitale che circola tra le imprese dei latinos è minuscolo, e la principale iniziativa economica resta con ogni probabilità una tortilla company. Se si esclude il colosso mediatico Televisa/Univision, il flusso di investimenti aziendali dal Messico sul gigantesco mercato dei consumi in lingua spagnola rappresentato da Los Angeles è sorprendentemente scarso. Malgrado in California del Sud siano affluiti decine di miliardi di dollari di capitali espatriati dal Messico, la maggior parte sembra apparentemente tesaurizzata nei cinquecento titoli selezionati da "Fortune" o in proprietà immobiliari in località balneari. I capitali asiatici, all'opposto, hanno avidamente intercettato i latinos, tanto come consumatori che come forza lavoro. La contea di Los Angeles ha la sua propria base economica di import/export, il corrispettivo dell'area delle maquiladora, situata negli eponimi suburb industriali di Commerce, Industry e Vernon. Qui, tra i 75 mila e i 100 mila immigrati latinos sono direttamente impiegati in complessi industriali o di commercio all'ingrosso gestiti dalla diaspora cinese, imprese spesso gemellate con strutture sorelle a Taipei, Guangzhou o Tijuana. Analogamente., speculatori coreani controllano migliaia di unità residenziali per bassi redditi nei quartieri della innercity, così come la quota maggioritaria degli swap-meet, i mercatini di strada che monopolizzano il commercio al minuto a Southcentral Los Angeles. Nuovi residenti asiatici e latinos, inoltre, convivono ravvicinati a Hollywood e in un'altra decina di quartieri a est di downtown, mentre sempre a est, verso San Gabriel Valley, affermati chicanos e agiati immigrati asiatici vivono fianco a fianco in sobborghi dim-sum-con-salsa. Di fatto Los Angeles si distingue dalle altre aree metropolitane per la straordinaria frequenza e l'importanza economica delle interazioni quotidiane tra immigrati asiatici e latinos. Motivo per cui non deve destare scalpore che lo spagnolo sia necessariamente la seconda lingua di molti imprenditori asiatici immigrati.7 All'interno della realtà metropolitana latina, esistono distinzioni spaziali e socio-economiche chiaramente leggibili tra nuovi immigrati - messicani e centro-americani - e chicanos 56

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