Bandeirantes. Il Brasile alla conquista dell’economia mondiale 8842095931, 9788842095934

Era sempre stato considerato 'il paese del futuro', dai tempi dei coronéis esportatori di zucchero e caffè agl

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Bandeirantes. Il Brasile alla conquista dell’economia mondiale
 8842095931,  9788842095934

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i Robinson / Letture

Antonio Calabrò Carlo Calabrò

Bandeirantes Il Brasile alla conquista dell’economia mondiale

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9593-4

a Patrizia e Manfredi, con la gratitudine di chi sa che la scrittura ha bisogno della pazienza affettuosa e della condivisione delle persone più care

Il Brasile non è un paese per principianti. Antônio Carlos «Tom» Jobim Ostinatamente i bambini latinoamericani continuano a nascere, rivendicando il loro diritto naturale a un posto al sole in queste terre splendide che potrebbero offrire a tutti ciò che negano quasi a tutti... La povertà non è scritta negli astri, il sottosviluppo non è frutto di un oscuro disegno di Dio. Eduardo Galeano Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita. Ernesto De Martino

Indice

1. Le sfide di Dilma: meno povertà e più potere alle donne

3

2. Redditi, consumi e sogni di una nuova classe media

25

3. Tutta l’energia per lo sviluppo, dal petrolio del «pré-sal» all’etanolo

38

4. Carne, soia e caffè brasiliani sulle tavole del mondo

52

5. I primati del ferro e dell’acciaio e le lattine ecologiche

64

6. Finanza a prova di crisi e un barcone lungo il fiume

75

7. «Made in Brazil»: aerei, havaianas e una rosa bianca

92

8. I grandi affari delle multinazionali dall’Europa al Far East

104

9. Fiat, Pirelli e le imprese che battono bandiera italiana

116

10. I piani per raddoppiare strade, porti e ferrovie

133

­ix

11. Da San Paolo a Rio, le metropoli tra favelas e simboli del lusso

147



Conclusioni. E domani?

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Fonti

167



Cronologia

169



Grafici

175



Indice dei nomi di persona e delle aziende

181

Bandeirantes Il Brasile alla conquista dell’economia mondiale

1.

Le sfide di Dilma: meno povertà e più potere alle donne

Tutto in una veloce sequenza di immagini. Lo scenario è il pontile di una sonda nel campo petrolifero di Tupi, nel mare di Rio de Janeiro. E sulla scena c’è Lula. Tuta arancione, da tecnico, che si distingue da tutte le altre solo per una targhetta sul taschino sinistro, «Presidente». Casco di sicurezza bianco, con lo stemma verde e oro di Petrobras. Sguardo sornione, soddisfatto. Dalla sonda esce petrolio: il primo petrolio del «pré-sal». Lula lo tocca, se ne copre interamente le mani. Le alza davanti a sé, ben aperte, a beneficio di fotoreporter e operatori Tv. Poi si gira e le poggia sulla schiena di Dilma Rousseff, lasciandole addosso impronte vistose, nere, che spiccano sull’arancione della tuta. Un gesto che subito altri imitano, toccando i propri vicini. Alle spalle di Lula e Dilma, sorride Edison Lobão, ministro dell’Energia. E una folla di ingegneri e operai applaude. Ecco, in quella sequenza di foto, c’è una delle sintesi migliori per raccontare il Brasile contemporaneo. Il presidente più popolare della storia del Brasile (oltre l’80% di consensi personali, alla vigilia del cambio di guardia), il presidente arrivato dalla miseria al vertice dello Stato («Quando sono partito, bambino, dal mio paese di Caetés in Pernambuco, sul pianale di un camion scoperto, seguendo mia madre che cercava lavoro, non avevo nemmeno le scarpe»), il presidente del boom, economia in impetuoso sviluppo, lavoro e consumi in aumento, povertà ridotta. E, accanto a lui, la ministro della Casa Civil, che tiene le redini del governo e si prepara alla successione. E, infine, il petrolio di Petrobras, la grande ricchezza, l’avvenire. Il Brasile un tempo povero, allegro e fragile, colorato e instabile, il Brasile che si proclamava con orgoglio ­3

«il Paese del futuro», ma che a quel futuro non arrivava mai, il Brasile delle favelas e dei meninos da rua, il Brasile del folklore, del calcio, della musica, del Carnevale, ma anche dei drammatici disagi sociali, ecco, quel Brasile sino a ieri controverso e precario adesso può giocare nella prima serie dei campioni del mondo sulla scena globale. Sono famosissime, in Brasile, quelle immagini del campo di Tupi. Tanto famose da ispirare, nel febbraio 2011, perfino alcune maschere del Carnevale di Rio, tute arancione e impronte nere. La prima delle foto, Lula con le mani sporche di petrolio, ha campeggiato sulle prime pagine dei quotidiani di San Paolo e di Rio de Janeiro (ma anche di parecchi giornali internazionali) il 25 settembre del 2010 per illustrare il gigantesco aumento di capitale di Petrobras, un’operazione da 70 miliardi di dollari, la più grande mai avvenuta nella storia di tutti i mercati finanziari internazionali, un altro degli eventi-simbolo dell’attualità brasiliana. E la seconda, Lula che pone una sorta di sigillo su Dilma, è stata scelta dal popolare settimanale «Istoé Dinheiro», nel suo numero del 10 novembre, per aprire un’ampia inchiesta all’indomani dell’elezione della Rousseff alla presidenza della Repubblica. Come dire: si cambia. E si continua. La continuità con Lula: sviluppo economico e lotta alla povertà.­ Nel suo primo discorso pubblico da presidente, in un hotel di Brasilia, poche ore dopo la vittoria elettorale del 3 novembre, un gran successo per il Pt (il Partido dos Trabalhadores), Dilma ha sottolineato i punti fondamentali del suo progetto politico: «Costruire una società con uguali opportunità per uomini e donne, un principio fondante di ogni democrazia». «Garantire una serie di diritti chiave, dall’alimentazione a una dimora degna e alla pace sociale». «Sradicare la miseria». Ma anche proseguire con le politiche di sostegno agli investimenti e alle relazioni d’affari internazionali, sempre con un occhio all’equità, alla sostenibilità sociale: «Continueremo a difendere la più ampia apertura delle relazioni commerciali e la fine del protezionismo dei paesi ricchi, che impedisce alle nazioni povere la realizzazione piena delle loro aspirazioni». ­4

C’è anche una garanzia rivolta ai ceti più popolari e ai giovani, di cui il Brasile è ricco, grande energia generazionale: «Avremo cura della nostra economia con grande responsabilità», perché «il popolo brasiliano non ammette più l’inflazione come soluzione per eventuali disequilibri né che il governo spenda più del necessario». Insomma, «rifiuteremo lo spreco effimero che scarica sulle generazioni future solo debiti e disperazione». Hanno apprezzato i brasiliani. E hanno apprezzato i mercati finanziari: l’indice della Bovespa, la Borsa di San Paolo, del 4 novembre, il giorno della proclamazione della vittoria di Dilma, ha segnato un +1,2%: nessun entusiasmo, ma pur sempre un segno positivo, tutto il contrario delle preoccupazioni e delle paure dell’autunno 2002, quando salì al potere «l’operaio Lula», «il sindacalista Lula», «il leader della sinistra Lula». Ci sarà pure, infatti, l’enfasi retorica della vittoria, nell’elenco di promesse di Dilma. Ma c’è soprattutto la conferma di un progetto politico: quello avviato nel 2003 da Lula, raccogliendo la migliore eredità della stagione del risanamento economico e della ricerca di solide basi di crescita del suo predecessore al vertice del paese, Fernando Henrique Cardoso. Un programma molto concreto, a cominciare da uno sviluppo economico accelerato, ma in un contesto di stabilità. Dunque, innanzitutto, abbattimento dell’inflazione (una vera e propria «tassa sui poveri», secondo Lula, ancora una preoccupazione psicologica forte per un paese in cui nei primi anni Novanta l’inflazione superava il 1000% su base annua: i consumatori nei supermercati correvano per passare prima degli impiegati addetti alle etichette dei prezzi, perché il giro per rialzarli era effettuato ogni sessanta minuti). Secondo pilastro: una valuta solida (era stato appunto Fernando Henrique Cardoso a introdurre nel 1994, come nuova moneta, il real). Terzo pilastro: conti pubblici in ordine, limitando sia il deficit e il debito pubblico (come conferma il taglio di bilancio 2011 per 50 miliardi di reais, 30 miliardi di dollari, per tenere la spesa sotto controllo, nessun intervento sulle spese sociali, ma la fine delle agevolazioni anticrisi del 2008-2009) sia i disavanzi valutario e commerciale. Accanto al risanamento, lo ­5

sviluppo, appunto: promozione degli investimenti e, contemporaneamente, drastica riduzione delle diseguaglianze sociali. Il «lulismo» nella stagione del governo ha segnato un passaggio dalla lotta di classe, cara alla sinistra brasiliana quando coltivava culture antagoniste, alle politiche di sintesi tra crescita economica e inclusione sociale, tra la concretezza degli stimoli agli affari e i valori della solidarietà. «Un populismo ben temperato», per usare una battuta di Romano Prodi, l’ex presidente del Consiglio italiano che ha stima, ricambiata, di Lula e della sua pragmatica intraprendenza. Così, adesso, da Lula Dilma ha ereditato un Brasile in piena crescita (il Pil è aumentato del 7,6% nel 2010 e le previsioni parlano di una media tra il 5 e il 6% nei prossimi anni), con una inflazione al 5,9% (in rialzo rispetto all’obiettivo del 4,5% previsto dal Banco Central) e un robusto incremento sia degli scambi commerciali con l’estero sia degli investimenti internazionali nel paese, cresciuti del 30% anche in quel 2009 in cui nel resto del mondo si contraevano del 14%, e in ulteriore aumento nel 2010, pur in una situazione in cui il governo Lula ha provato a porre limiti per evitare che ancor maggiori afflussi di capitali esteri contribuissero a rafforzare un real già molto robusto, a discapito della competitività delle esportazioni brasiliane. Dalla piramide alla cipolla.  Ma c’è soprattutto un’altra parte dell’eredità degli otto anni di presidenza Lula, che vale la pena ricordare: i 15 milioni di nuovi posti di lavoro nell’economia formale, i 28 milioni di brasiliani usciti dalla condizione di povertà, i 35 milioni che, finalmente «classe media», hanno cominciato a consumare di più, migliorando il loro tenore di vita. Prima dell’era Lula, il Brasile era un paese in cui molti rischiavano ogni giorno di morire di fame o di sete. Oggi il paese è diventato di gran lunga più ricco, ma per la prima volta la ricchezza non ha continuato a concentrarsi in poche mani, com’era tradizione storica dell’America Latina: lo sviluppo stavolta ha riguardato numerosissime persone. E oggi la «classe media» (nelle statistiche brasiliane la classe C), e cioè quella composta da famiglie che hanno un reddito tra 1116 e 4854 reais al mese (un dollaro, al cambio di gennaio 2011, vale circa 1,7 reais, un euro circa 2,2 ­6

reais: sono quindi redditi compresi tra i 450 e i 2200 euro circa), include per la prima volta oltre la metà della popolazione, 93 milioni di persone. La «piramide» sociale dalla base troppo larga, tipica dei paesi sottosviluppati, si sta trasformando rapidamente nella «cipolla» dei paesi ricchi. Una svolta politica, economica e sociale. In un contesto in cui ci sono tutte le premesse per andare avanti: la Fundação Getúlio Vargas, rinomata università e «think tank» brasiliana, stima che nel 2014 la classe media toccherà i 130 milioni di persone. A fare da stimolo, c’è la forte leva delle risorse disponibili, a cominciare da quelle ricavabili dai nuovi giacimenti di petrolio del «pré-sal», i pozzi al largo delle coste atlantiche, che rafforzeranno il peso del Brasile, già adesso tra i dieci giganti petroliferi mondiali e pronto a passare, appunto con il «pré-sal», tra i primi cinque (ne parliamo in dettaglio nel terzo capitolo). È già la settima economia del mondo, il Brasile (per Pil 2010 ha sorpassato l’Italia). Secondo Goldman Sachs, sarà la quinta nel 2014. E, in base alle stime di PwC (PricewaterhouseCoopers), sarà la quarta nel 2050, in un mondo in cui i «nuovi G7» saranno, nell’ordine, Cina, India, Usa, Brasile, Giappone, Russia e Messico. Tutto un altro equilibrio. Tutto un altro gioco. I limiti delle infrastrutture e gli investimenti del Pac.  Sostiene Guido Mantega, un economista di origini genovesi che Dilma ha confermato al ministero delle Finanze: «Anche per i prossimi anni il Brasile è in condizione di crescere molto, senza pressioni inflazionistiche né strozzature nella produzione industriale. Una crescita sostenibile, perché l’industria può continuare a sfornare automobili e frigoriferi, vestiti e scarpe, prodotti alimentari ed energia in modo costante». Mercato interno dinamico. E spazio internazionale per le esportazioni, soprattutto di petrolio (Dilma ha già dichiarato che non vuole «sporcare» la matrice energetica brasiliana con i nuovi, abbondanti combustibili fossili), materie prime e prodotti agricoli (come racconteremo nei prossimi capitoli). Con consenso sia interno che internazionale. Di quest’ultimo, fa fede un giudizio del Fondo monetario internazionale: «Il paese del futuro ha raggiunto il futuro, è già nel futuro». E la rivista ­7

«Exame», la più autorevole negli ambienti economici, alla fine del 2010 ha pubblicato una edizione speciale in inglese, per gli osservatori internazionali: il titolo è Brazil, the country of the present, il paese del presente. Del parere popolare brasiliano, oltre che il voto per Dilma in continuità con Lula, offre testimonianza Cláudio Gonçalves Couto, professore di Politica presso la Fundação Getúlio Vargas: «Secondo un recente sondaggio, la gente è tre volte più orgogliosa di essere brasiliana oggi che non otto anni fa, e due volte più soddisfatta di come vanno le cose nel paese». Per migliorare ancora e per affrontare uno dei punti più fragili dell’attuale condizione di sviluppo, la grave carenza di infrastrutture e i pesanti limiti dei servizi pubblici, dall’educazione alla sanità, Dilma ha in mano un’altra carta importante: il Pac, Programa de Aceleração do Crescimento, Programma di accelerazione della crescita, cioè: 526 miliardi di dollari di investimenti nel periodo 2011-2014 e altri 346 dal 2014 in poi. Grandi infrastrutture (strade, porti, aeroporti, dighe...), fondi per scuole e ospedali, edilizia popolare, reti per i servizi di telecomunicazione, energia e acqua, opere per migliorare la qualità della vita e la sicurezza nelle grandi metropoli. Una montagna di soldi. Che ampliano i 300 miliardi di dollari già stanziati dal 2007 al 2010 e di cui Dilma assicura che il 50% si sia già trasformato in opere (i critici, però, sostengono che manchi la necessaria trasparenza per poter fare un vero bilancio delle realizzazioni, e che tra la «prima pietra» di un cantiere e il suo completamento ci sia una bella differenza). Il Pac è la leva pubblica dello sviluppo voluta da Lula. Ma la vera madre è Dilma. Perché da ministro della Casa Civil (una sorta di capo esecutivo del governo, quasi di primo ministro, in un regime in cui il presidente della Repubblica ha larghissimi poteri di guida, strategia e rappresentanza) è stata proprio Dilma a seguire direttamente l’attuazione del Pac. E adesso, da presidente, ne sosterrà la prosecuzione. Come ministro della Casa Civil ha nominato il medico Antônio Palocci Filho, ex ministro delle Finanze nel primo governo Lula e, nel 2010, coordinatore della sua campagna elettorale: continuità accentuata, dunque, anche perché Palocci è esponente di punta del Pt di Lula e di Dilma, asse forte dell’alleanza al potere, di cui fanno parte pure ­8

il Pmbd (Partido do Movimento Democrático Brasileiro centristi), il Partido da República e il piccolo Partido Socialista. E il nuovo Pac sarà coordinato sempre da una donna: la responsabilità del programma è stata trasferita dalla Casa Civil al ministero della Pianificazione e del Bilancio, guidato da Miriam Belchior, economista cinquantenne molto vicina a Dilma. Il «machismo» perde colpi, la nuova stagione ha volto di donna.  C’è un altro punto su cui Dilma insiste con forza e che può segnare una differenza rispetto alla stagione di Lula. Lei è una presidente donna. E alle donne brasiliane, durante la cerimonia di insediamento al Planalto, la sede della presidenza della Repubblica a Brasilia, il 1° gennaio 2011, ha rivolto un appello esplicito: «Voglio potere e rispetto per le donne. E voi aiutatemi a consolidare il profondo lavoro di trasformazione del paese avviato dal mio predecessore». E ben consapevole che il potere è fatto anche di gesti, Dilma non ha lesinato neanche una scelta simbolica: le body guards della presidente, accanto alla Rolls Royce del 1953 con cui ha sfilato per le grandi avenidas di Brasilia, davanti a una folla di 70.000 persone e ai rappresentanti di 47 paesi del mondo, erano tutte donne. Anche questo è cambiamento. Particolarmente evidente proprio in un continente, il Sud America, in cui il «machismo» è stato per lunghissimo tempo e in parte è ancora oggi un dato strutturale del costume civile e del potere. Simbolo infranto, è vero, dato che una donna, Cristina Kirchner, è presidente dell’Argentina e un’altra donna, Laura Chinchilla Miranda, è stata eletta nel 2010 presidente del Costarica, mentre in Cile è ancora forte il peso politico di Michelle Bachelet, presidente del paese dal 2006 al 2010. Ma pur sempre elemento culturale radicato, il «machismo», duro a morire. Dilma lo sa bene. E annuncia che farà di tutto perché le opportunità di crescita e di assunzione di responsabilità delle donne vadano avanti. Nelle classi più popolari. E ai vertici della società. Anche in quel mondo dell’economia in cui le giovani generazioni femminili trovano spazio (sono metà sul mercato post-graduate e nel settore finanziario) ma non arrivano ai vertici: nei board delle società quotate ­9

sono l’8% appena contro il 44% della Norvegia e tra le 50 donne più importanti dell’economia mondiale, secondo la classifica del novembre 2010 stilata dal «Financial Times», non c’è una sola brasiliana. Un gender gap tutto da superare. Come appunto Dilma aveva già detto il 1° novembre del 2010, la notte delle elezioni (in Brasile il voto è elettronico: a poche ore dalla chiusura delle urne, i risultati sono già consolidati e finali): «L’uguaglianza di opportunità tra uomini e donne è un principio essenziale della democrazia. Mi piacerebbe molto che i padri e le madri delle bambine le guardassero negli occhi, oggi, e dicessero loro: certo che una donna può!». Dilma dichiara di apprezzare il lavoro politico di Margaret Thatcher e di Hillary Clinton, di Indira Gandhi e di Benazir Bhutto, riconoscimenti politicamente trasversali. È consapevole di dovere fronteggiare le sfide politiche che in campagna elettorale le sono state lanciate da un’altra donna brasiliana fortissima, Marina Silva (che proprio in polemica con Dilma aveva abbandonato il Pt della sua storica militanza e che con il Partido Verde ha raggiunto il 20% dei voti al primo turno, con un exploit del 40% proprio nella capitale, Brasilia), non solo sulle questioni ambientali e sociali, ma anche su quelle della contraccezione, della maternità e dei diritti delle donne nella famiglia (Marina, cristiana evangelica, è una militante anti-aborto). Sa, insomma, che da donna forte ha vinto le elezioni, sulla scia di Lula, e da donna deve dimostrare di saper reggere una così complicata eredità. E promette, anche sul «potere rosa», grande determinazione. Intanto, tra i 37 ministri del suo governo, di donne ne ha nominate nove. Vita da donna determinata, d’altronde, la sua. È nata nel 1947, a Belo Horizonte, nello Stato di Minas Gerais, famiglia borghese (il padre avvocato, di origini bulgare, la madre insegnante), scuola dalle suore. All’università studia Economia, con serietà e attenzione, ricavandone strumenti di competenza che in seguito le saranno molto utili. Ma tra i libri, oltre alle lezioni sul saggio di profitto e gli indici di produttività, trova anche la propaganda rivoluzionaria di un intellettuale europeo che ama l’America Latina, Régis Debray. Nel Brasile della dittatura mili­10

tare, la militanza politica di sinistra coincide con la clandestinità. E Dilma sceglie la guerriglia, nel Colina (il Comando de Libertação Nacional) e poi nella Vanguardia Armada Revolucionaria Palmares. Finisce in galera, dal 1970 al 1972, e conosce la tortura. Quando il Brasile torna alla democrazia, a metà degli anni Ottanta, la politica è la sua strada. È tra i fondatori del Pdt (il Partido Democrático Trabalhista). E poi va con il Pt, il Partido dos Trabalhadores di Lula. Non è una leader di popolo, Dilma. Né una fascinatrice di folle. Predilige piuttosto tecnica, competenza, le stanze del fare. E vi si dedica a tempo pieno. Politique d’abord, la politica innanzitutto. O il primato della politica, per dirla all’italiana. Del suo privato sappiamo che si è sposata due volte e altrettante ha divorziato, che la figlia Paula l’ha resa nonna, che ha un cane labrador nero, che vive con la mamma e la zia. Tutto qui. Anche la sua malattia, un linfoma, proprio alla vigilia della campagna elettorale, non è stata al centro di grandi discussioni. Ricovero, intervento, chemioterapia, remissione, fine del discorso. Con una lezione finale che Dilma ributta in politica: «La diagnosi precoce è la strada per affrontare il dramma del cancro», una ricetta da estendere. Il che vuol dire investire e migliorare la carente sanità pubblica. Discorso da donna concreta. Da donna di governo. Governo forte: conferme e novità, a partire dal Banco Central.  Un governo forte quanto? Dalla sua, Dilma ha una robusta maggioranza in Parlamento, il 70% sia dei deputati che dei senatori. E tra i 27 governatori degli Stati della federazione, 16 fanno capo all’alleanza di governo (anche se fa eccezione il governatore di Minas Gerais, terra d’origine della presidente, e soprattutto il governatore di San Paolo, Geraldo Alckmin, che ha preso il posto di José Serra, leader del Psdb, il Partido da Social Democracia Brasileira, sfidante sconfitto da Dilma, alla guida dello Stato simbolo dell’economia, della finanza e della ricchezza). Numeri di ampia sicurezza, dunque. E garanzia di solidità per un lavoro impegnativo. Continuità e cambiamento, rispetto alla stagione di Lula. Come si vede già nella composizione del governo. Ci sono delle ­11

riconferme importanti, quella di Guido Mantega alle Finanze, innanzitutto. Di Gilberto Carvalho, storico uomo di fiducia di Lula, alla segreteria generale della presidenza. Di Edison Lobão alle Miniere ed Energia. Di Fernando Haddad all’Educazione. E di Nelson Jobim alla Difesa, dicastero di straordinaria importanza, sia per i rapporti tra il mondo politico e gli ambienti militari (comunque da tempo considerati fedeli alla democrazia), sia per le relazioni internazionali, d’affari (le forniture militari che privilegiano la Francia di Sarkozy e non più gli Usa) e di potenza regionale sudamericana. E ci sono dei cambiamenti, leggeri spostamenti di potere. Palocci come ministro della Casa Civil (ne abbiamo già parlato). José Eduardo Cardozo al ministero della Giustizia. Antônio Patriota agli Esteri, al posto dell’anziano Celso Amorim, il gestore accorto e sapiente della dinamica politica internazionale di Lula (ma, di Amorim, Patriota era ex viceministro e poi segretario generale del ministero). Miriam Belchior, abbiamo visto, è il nuovo ministro della Pianificazione e del Bilancio, al posto di Paulo Bernardo, che passa alle Telecomunicazioni. Insieme alla Belchior, naturalmente, un robusto gruppo di donne. A cominciare dal nuovo ministro della Cultura, Ana Buarque de Hollanda, cantante, ex responsabile del Centro de Música della Fundação Nacional de Artes (Funarte), sorella di Chico Buarque, uno dei più popolari musicisti brasiliani, e figlia del sociologo Sérgio Buarque de Hollanda, il teorico della «cordialidade brasileira». E poi Maria do Rosário ai Diritti umani, la giornalista Helena Chagas alla Comunicazione sociale, Ideli Salvatti al ministero della Pesca, Luiza Helena de Bairros all’Uguaglianza razziale, Tereza Campello allo Sviluppo sociale, Iriny Lopes alle Politiche per le donne, Izabella Teixera al ministero dell’Ambiente, quello da cui Dilma era riuscita a far dimettere Marina Silva nel 2008. Non cambia la squadra delle partecipazioni statali, braccio della politica economica, fondamentale nell’era Lula. Luciano Coutinho continua alla presidenza del Bndes (Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social); Aldemir Bendine è confermato come presidente del Banco do Brasil, così come Maria Fernanda Ramos Coelho della Caixa Econômica Federal. E alla ­12

presidenza del gigante Petrobras rimane José Sérgio Gabrielli de Azevedo. Il cambiamento più forte riguarda, invece, una delle strutture più delicate per la politica economica del Brasile: il Banco Central, che in Brasile conta come ministero (il presidente del Banco Central, per scelta di Lula nel 2004, ha titolo di ministro di Stato e partecipa al Consiglio dei ministri). Al vertice del Banco è stato nominato Alexandre Tombini, un economista poco meno che cinquantenne, già direttore della regolamentazione dal 2003, che succede a Henrique Meirelles. Linea di continuità, si dice al Planalto, guardando appunto alla gerarchia interna: Tombini era considerato da anni il successore designato di Meirelles. Linea di continuità, conferma Tombini, che come priorità ribadisce «il potere d’acquisto del real, la più grande conquista della società brasiliana, e l’inflazione, da ridurre al livello del 4,5%». Ma la differenza di personalità conta. Perché Meirelles, voluto da Lula, è stato un banchiere centrale d’estrazione ben diversa dagli ambienti politici del Pt: era stato parlamentare del Psdb, il centro-sinistra di Fernando Henrique Cardoso e di José Serra, all’opposizione rispetto a Lula; e ha un curriculum di ingegnere ed economista formatosi negli Usa a Harvard e una carriera di banchiere d’affari a Wall Street. Uomo di spirito autonomo e di stile assertivo. Fiero del suo essere molto più tecnico che politico. Un deciso timoniere del cambio e dei tassi d’interesse, interlocutore di Lula, sì, ma anche garanzia nei confronti dei circoli finanziari internazionali e del Fondo monetario. Contrappeso alle tentazioni di aumento della spesa pubblica del ministro Mantega. La sua sostituzione, insomma, potrebbe avere effetti sull’andamento della valuta e del costo del denaro: il tasso Selic e cioè il tasso di sconto, all’11,25% all’inizio del 2011, è stato ancora aumentato all’11,75% all’inizio di marzo, in chiave anti-inflazione. E potrebbe crescere ancora. E dunque negli ambienti economici, in Brasile e all’estero, tutti guardano con estrema attenzione alle mosse all’incrocio tra presidenza della Repubblica, ministero delle Finanze e Banco Central. Attenti a evitare l’eccessiva forza del real.  È un problema, il livello del real. È una moneta forte e rassicurante, certo. Ma per alcuni versi troppo forte. Si è apprezzato sul dollaro del 35%, ­13

dall’inizio del 2009 al gennaio del 2011. E tende ad apprezzarsi ancora, visto che la dinamicità dello sviluppo brasiliano attrae grandi flussi di capitali da tutto il mondo, non solo per investimenti industriali di lungo termine (ne parleremo nei prossimi capitoli, guardando pure agli stanziamenti delle grandi imprese italiane, a cominciare da Fiat e Pirelli) ma anche per operazioni speculative (indebitarsi in dollari e puntare sui mercati finanziari brasiliani in real, in attività ad alto rendimento). Il governo, già nell’ultima stagione di Lula e adesso con Dilma, ha deciso misure di contrasto, come una riserva obbligatoria del 60% sulle posizioni «corte», quelle speculative cioè, delle banche contro il dollaro (scommesse pari a quasi 17 miliardi di dollari, a fine 2010) e soprattutto l’aumento delle tasse sugli investimenti esteri in portfolio. E sta lavorando con occhi attenti per frenare la corsa del real e non subire conseguenze della «guerra delle valute» in corso in tutto il mondo, con il coinvolgimento di dollaro, euro, yuan cinese e monete delle economie più dinamiche. La buona notizia è che il Fondo monetario internazionale, tradizionalmente incline alla libera circolazione dei capitali, adesso sostiene quei paesi, come il Brasile, appunto, che pongono limiti, evitando forti squilibri valutari e scossoni per le finanze e le economie nazionali. Un riconoscimento importante, quello del Fmi. Anche perché arriva dopo decenni di critiche severe, sferzanti. Finite quando il Brasile ha restituito in anticipo al Fondo i quasi 16 miliardi di dollari del suo storico prestito e, subito dopo, ha contribuito alle sue casse con altri 10 miliardi di dollari, passando dalla scomoda condizione di debitore a quella di creditore. E contano, altro se contano, nelle relazioni internazionali, i soldi messi sul piatto. Soprattutto in tempi in cui la «guerra delle valute» ha bisogno di paesi forti, ricchi di ampie riserve, liquidi. Com’è appunto il Brasile (aveva appena 36 miliardi di dollari di riserve, nei primi anni Novanta, alla fine del 2010 ha superato i 280). Proprio i problemi del livello del real, che parecchi operatori ed economisti considerano sopravvalutato, e dell’andamento dei tassi sono tra gli aspetti più delicati dell’eredità che Lula ha lasciato a Dilma. «Il lato maledetto dell’eredità», ha scritto ­14

«Exame», nel novembre 2010, subito dopo l’elezione di Dilma, ricordando anche il forte peso fiscale (equivalente al 35% del Pil, un’incidenza da paese avanzato, ma in un Brasile che ha servizi pubblici ancora da «terzo mondo»), il deficit commerciale crescente e le «riforme rimaste nel cassetto», per affrontare questioni che vanno dalle infrastrutture carenti alla salvaguardia ambientale, dalla sicurezza alla sanità, dal basso tasso di risparmio delle famiglie (il 18% del Pil, contro il 54% della Cina e il 38% dell’India) alla carenza del capitale umano, anche per colpa di un sistema educativo non adeguato né alla dinamica economica né al nuovo protagonismo sociale (ne parleremo meglio nel prossimo capitolo). Eppure, nonostante tanti e tali limiti, Dilma insiste per sottolineare la solidità del suo Brasile: «Stiamo sulla scena mondiale come un paese che mette insieme crescita economica, stabilità, istituzioni solide e democrazia». E «The Economist», nella sua pubblicazione The World in 2011, le dà di fatto ragione, parlando così del Brasile e della gran parte dei paesi del Sud America: «Una regione a lungo sinonimo di instabilità politica e di volatilità finanziaria sta imparando ad apprezzare la tranquilla routine dello sviluppo economico e della stabilità della democrazia». «L’America Latina dice alt ai golpe».  Già, la democrazia. Quel giudizio lusinghiero del settimanale britannico ha avuto una conferma solenne sabato 4 dicembre 2010, al ventesimo vertice iberoamericano, a Mar del Plata, in Argentina, davanti a capi di Stato e ministri di 22 paesi. Un vertice segnato da una standing ovation proprio per Lula, una sorta di prim’attore, accanto alla padrona di casa, la presidente Cristina Kirchner. Nel documento finale, ha avuto grande risalto la «clausola democratica» e cioè l’impegno a sospendere dall’organizzazione quei paesi in cui si verifichi «la rottura dell’ordine costituzionale». Nel continente che sino a poco tempo prima ha visto la prevalenza di regimi autoritari, di dittature militari, adesso la democrazia è radicata, solida, diffusa. L’America Latina dice alt ai golpe, titolano parecchi giornali. Non sono impegni generici, quelli di Mar del Plata. Coerentemente con la «clausola democratica», ­15

al vertice non è stato invitato il presidente dell’Honduras, Porfirio Lobo, autore di un golpe ai danni dell’ex presidente Manuel Zelaya. Non è venuto il presidente venezuelano Hugo Chávez, per non ritrovarsi in imbarazzo, caudillo militare, di fronte a così nette opzioni democratiche. Ed è rimasta aperta la questione di Cuba, paese formalmente ammesso al vertice, sebbene si sappia che non rispetta tutti i requisiti dei paesi membri, in attesa che si compia la difficile transizione dalla dittatura di Castro a un nuovo regime. Si va avanti, comunque. Nella consapevolezza che tra istituzioni democratiche e sviluppo economico c’è un nesso forte, da riaffermare e difendere. Il Brasile ne è probabilmente la migliore conferma. I suoi tassi di crescita, dalle riforme di Fernando Henrique Cardoso degli anni Novanta ai piani di Lula, sono elevati e costanti, favoriti dall’attrattività per gli investimenti stranieri. E tra le nazioni Bric (Brasile, Russia, India e Cina, per riprendere l’acronimo coniato nel 2001 da Goldman Sachs, definiti come «i nuovi motori dello sviluppo del mondo»), è il paese in maggior sintonia con le democrazie occidentali. È una solida democrazia, appunto (lo è anche l’India, naturalmente, ma con caratteristiche tutte particolari). Ha una cultura d’impronta chiaramente europea. È aperto tradizionalmente a influssi diversi e capace di farne ingredienti di un melting pot originale e dinamico, forte d’una sua identità ma anche generosamente inclusivo. La sua economia vive di primati, nelle esportazioni di materie prime minerarie e agricole e anche di alcuni sofisticati prodotti industriali (lo vedremo in dettaglio nei prossimi capitoli). E non sono poche le sue imprese, nell’agroindustria e nell’aeronautica, per fare solo due dei tanti esempi, che si muovono come first players sui mercati internazionali. I «bandeirantes» alla conquista dei mercati internazionali.  C’è una parola che riassume bene questo spirito di intraprendenza: bandeirantes. Erano bandeirantes, avventurieri in marcia con la bandiera in mano (quella di Giovanni III re del Portogallo, allora), gli esploratori che dalla metà del Cinquecento partirono dalla costa della Bahia e dalla città di San Paolo verso l’interno, ­16

per conquistare e colonizzare terre e accumulare ricchezze, «la maggior quantità d’oro fino allora scoperta al mondo estratta nel minor lasso di tempo», per dirla con le parole di Eduardo Galeano, a proposito dei giacimenti di Minas Gerais. E a quei bandeirantes è dedicato il solenne monumento di marmo che troneggia in una grande piazza di San Paolo, davanti al parco di Ibirapuera, uno dei simboli della storia brasiliana. Bandeirantes si chiamano sia una delle maggiori autostrade del paese, tra San Paolo e Campinas, sia tante strade in decine di città brasiliane. Colégio Bandeirantes è un liceo d’eccellenza a San Paolo. Bandeirantes sono una televisione e una radio. E bandeirantes possono pur essere definite adesso quelle grandi società industriali che, salde le radici in Brasile, si espandono verso il resto del Sud America, ma anche verso gli Usa, l’Europa e l’Africa e tessono alleanze in Cina e in India. Non c’è più, naturalmente, il vecchio sapore della conquista coloniale. E nemmeno quello della dipendenza assoluta dei produttori di canna da zucchero e dei cafeteiros che facevano fortuna o capitolavano di fronte alle oscillazioni dei prezzi definiti su piazze lontane, a Londra o a Chicago. Sono lontani i tempi in cui il primo ministro inglese George Canning, all’inizio dell’Ottocento, poteva dare all’ambasciatore a Rio de Janeiro, Lord Strangford, istruzioni del genere: «Fare del Brasile un emporio per i manufatti britannici destinati al consumo in tutta l’America del Sud», naturalmente dopo aver ampiamente fatto fortuna con i traffici, dal Brasile all’Europa, di zucchero e legno, oro e argento, caffè e minerali, sotto il controllo della Marina e dei mercanti inglesi. E sono finite le stagioni della cosiddetta «dottrina Monroe», che prendeva le mosse dal proclama del presidente Usa James Monroe, «L’America agli americani», ed era stata rilanciata, all’inizio del Novecento, dal presidente Theodore Roosevelt con la «politica del grande bastone», per stabilire il principio del dominio degli interessi politici ed economici di Washington sull’intero continente (ancora negli anni Settanta, la più grande ambasciata Usa nel mondo era in Brasile e l’ambasciatore poteva influire nel fare e disfare governi, sino all’appoggio al golpe militare del 1964). È lontano anche il secondo Novecento del bipolarismo conflittuale ­17

Usa-Urss, con tutte le conseguenze di uno scontro che coinvolgeva ogni angolo del mondo, dall’Europa all’Africa, dal Pacifico al Sud America. In politica. E in economia. Ancora un paio di decenni fa, gli schemi della divisione internazionale del lavoro prevedevano che la Cina producesse beni di consumo di massa, l’India servizi di telecomunicazione a basso costo, l’Arabia Saudita petrolio e il Brasile cibo. Agli Usa e all’Europa, i servizi a maggior valore aggiunto, la finanza, l’industria d’avanguardia. E, soprattutto, l’indirizzo strategico e il controllo delle economie del mondo. Anche questo schema è saltato. Si gioca in campo aperto. La competizione segue altre strade. I nuovi bandeirantes brasiliani possono continuare con forza la loro nuova partita. Il mondo è diventato «multipolare» o «senza centro», come ama dire un politologo attento, Lucio Caracciolo. O a «sovranità multiple», per usare la bella definizione di Parag Khanna, politologo d’origine indiana, direttore della Global Governance Initiative della New America Foundation, nel suo ultimo libro How to Run the World. Charting a Course to the Next Renaissance: «Geografie e centri di potere che coesisteranno in un ecosistema ipercomplesso». Tra gli attori che si muovono con autonomia e autorevolezza su tutto lo scacchiere internazionale, c’è anche il Brasile, dinamico e intraprendente (35 nuove ambasciate aperte dal 2003 a oggi, soprattutto in paesi dell’Africa e dei Caraibi, 50 viaggi all’estero di Lula, un prestigioso riconoscimento da parte della rivista «Foreign Policy» che nel 2009 ha indicato Celso Amorim come «il ministro degli Esteri dell’anno»). Politica attiva. E buoni affari. Addio primato Usa, la diplomazia brasiliana gioca a tutto campo.  È un grande paese nazionalista, il Brasile, forte anche della diversità linguistica rispetto a tutti i suoi vicini: «In Brasile e in America Latina», si dice regolarmente tra i politici, gli imprenditori, le persone di cultura, sottolineando la differenza. Ma è anche un paese attento alle relazioni. Ancora protezionista, in economia. Eppure protagonista, nel tempo, di alleanze con gli altri paesi dell’area, a cominciare dalla creazione del Mercosul ­18

(Mercosur, in spagnolo) nel 1991, un abbozzo di unione doganale tra Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay, per rafforzare le economie dei paesi membri nei confronti degli Usa e dell’Europa (dal vertice del 19 dicembre 2010 è emerso l’accordo per un Alto Rappresentante del Mercosul, per fare pesare di più a livello internazionale le esigenze delle nazioni integrate «nell’area di libero scambio»). Un altro passo importante: la nascita, nel 2008, dell’Unasur, con la partecipazione di tutti i paesi dell’America del Sud. E si chiude così, oramai definitivamente, la pagina dell’Alca (Área de Libre Comercio de las Américas) voluta dagli Usa e da subito invisa ai sudamericani. Il predominio di Washington, insomma, è finito. Per modifica degli equilibri del mondo. Ma anche per una sorta di «distrazione» degli Usa. Mentre negli anni Novanta e poi negli anni Duemila, tutti gli inquilini della Casa Bianca, rassicurati dal crollo del Muro di Berlino e dall’implosione dell’impero sovietico ma preoccupati da nuovi scenari di crisi, rivolgevano la loro attenzione verso il Medio Oriente e le aree dell’Islam e si interessavano poco all’America Latina (eccezion fatta per l’economia del vicino Messico e per la lotta ai «narcos» in Centro America), lì, a sud dell’Equatore, si mettevano in moto nuovi assetti di potere, si definivano nuove condizioni politiche e sociali. Il dinamismo economico dell’Argentina, un boom veloce naufragato nella crisi dei bond e nella parziale insolvenza. La democratizzazione e il rafforzamento infrastrutturale, economico e finanziario del Cile. I movimenti nell’area andina. E, soprattutto, l’impetuosa crescita del Brasile, il «gigante incatenato» (la definizione è di «Le Monde diplomatique», pubblicato in Italia da «il manifesto») che con Fernando Henrique Cardoso prima e con Lula poi, si era liberato e cresceva, parole di Lula, «facendo della distribuzione e dell’abbattimento delle diseguaglianze uno strumento di sviluppo». Addio «Washington consensus». Il Sud America, pur spesso zoppicando e arrancando, aveva trovato sue dinamiche economiche autonome, originali. Nel «nuovo mappamondo» disegnato, in un saggio su «Newsweek», nel settembre 2010, da Joel Kotkin, uno dei più noti geografi Usa, docente alla Chapman University of California, si parla ­19

di un’America Latina divisa in tre aree concettuali: i «liberalisti», Messico, Cile, Perù, Colombia e Costarica; i «bolivariani populisti», affascinati da una riedizione di sinistra dell’indipendentismo caro a Simon Bolivar, e cioè Argentina, Bolivia, Venezuela, Cuba, Ecuador e Nicaragua; e, «un paese a sé», il Brasile «troppo forte per sciogliersi in un’unione più grande, in cerca di una leadership che gli altri paesi latino-americani faticano a riconoscergli». Ridefinizione geo-politica originale, affascinante. A dispetto della quale, comunque, il Brasile si muove a tutto campo. Stringe i rapporti economici con l’Argentina, investendo massicciamente in quel paese (5 miliardi di dollari, nel 2009-2010) e aprendo un canale di cambio diretto, senza più passare dalla doppia conversione real-dollaro e dollaro-peso, oltre che impostando «un grande polo industriale sudamericano», soprattutto per l’auto e l’energia, in base a un accordo firmato nel gennaio 2011 tra Dilma e la presidente argentina Kirchner a conclusione del viaggio ufficiale a Buenos Aires. Guarda con attenzione ai piccoli Uruguay e Paraguay. Ufficializza nell’autunno del 2010 accordi diplomatici e d’affari con il Messico (i due paesi rappresentano il 50% della popolazione latino-americana e un terzo del Pil di tutta l’area). Rafforza le relazioni con la Colombia e il suo nuovo presidente Juan Manuel Santos (anche per controbilanciare i rischi di sconfinamento alla frontiera brasiliana delle truppe congiunte Usa-Colombia impegnate nella guerra contro le bande dei «narcos» colombiani). Fa accordi commerciali su tecnologie, energia e opere pubbliche con il Perù, in vista del completamento di un’autostrada dalla sponda atlantica a quella pacifica, verso i porti che guardano alla Cina, attraverso tutto il continente, il «corridoio bi-oceanico sud», una gigantesca infrastruttura che supera ostacoli naturali come la foresta amazzonica e le Ande, realizzando il sogno dell’avventuriero Fitzcarraldo (ricordate il film di Herzog con Klaus Kinski?). E soprattutto parla con il Venezuela di Chávez: non ne condivide le polemiche anti-Usa, ma non lavora per il suo isolamento. Anzi: la brasiliana Petrobras e la venezuelana Pdvsa hanno raffinerie in comune. «L’America del Sud ha imparato a convivere democraticamente nella diversità», ­20

è il parere di Lula. Un altro dei lasciti politici importanti, per la gestione della politica estera da parte di Dilma. E gli Usa? C’è stata grande simpatia, da parte di Lula e della maggioranza dell’opinione pubblica brasiliana, nei confronti di Barack Obama, subito dopo la sua elezione alla Casa Bianca. E Obama ha ricambiato, indicando Lula così: «He is the man», definendolo «il politico più amato del mondo», manifestando amicizia anche in occasione del vertice del G20 a Seul, nell’autunno del 2010, e preparando nuovi accordi commerciali per rafforzare un interscambio di 46 miliardi di dollari (erano 35 nel 2009). Ma i contrasti d’interesse non mancano. E ci sia o meno un «declino americano», certo non è più Washington a dare le carte della partita mondiale. E con il Brasile e il resto dell’America Latina gli Usa devono imparare a parlare con attenzione e rispetto, non più con il tono del dominio. Come avverte «The Economist» (11 settembre 2010), «dopo due secoli di arretratezza, i paesi del Centro e del Sud America hanno alla fine espresso il loro potenziale. Per cementare questo successo, i loro cugini del Nord dovrebbero costruire ponti, non muri». E Parag Khanna, nel suo saggio I tre imperi (Cina, Usa, Ue), commenta: «Se vince il Brasile, vince tutto il Sud America». L’occhio dell’Itamaraty per Turchia, Iran e soprattutto Ue.  La rete delle relazioni brasiliana si amplia, nel corso del tempo. E così, appunto nel «mondo multipolare», Lula ha saputo fare mosse ardite. Come quella di rifiutare le pressioni Usa per l’isolamento dell’Iran a causa delle sue politiche nucleari e di muoversi, dialogando con la Turchia, per arrivare a un accordo, sancito nel maggio del 2010, in un incontro solenne e ben pubblicizzato sui media di tutto il mondo, tra Lula, il premier turco Erdog˘ an e il presidente iraniano Ahmadinejad: l’Iran affida in deposito alla Turchia più di una tonnellata di uranio poco arricchito e ottiene, dopo un anno, 120 chili di uranio arricchito da Russia e Francia, per i suoi reattori nucleari civili. «Non siamo favorevoli a impedire lo sviluppo dell’energia atomica per uso civile dell’Iran. E comunque meglio la diplomazia del dialogo che l’imposizione delle sanzioni», è stata la posizione di Lula. ­21

Gli Usa, dopo momenti di grande tensione diplomatica, ne hanno preso atto, pur se con fastidio: «Una posizione legittima». E il segretario di Stato americano Hillary Clinton ha chiuso così la questione: «Vedo il Brasile come parte della soluzione, ha risorse straordinarie e la capacità di superare i confini del nostro continente. Ma questo non significa che gli Usa saranno sempre d’accordo con il Brasile». L’autonomia ha un prezzo. E all’Itamaraty, la sede del ministero degli Esteri di Brasilia, hanno masticato amaro quando Obama, in visita ufficiale in India, nel novembre 2010, ha espresso consenso per la richiesta indiana di avere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, una poltrona cui il Brasile tiene moltissimo. Ma i giochi non sono comunque chiusi. La diplomazia è lenta, paziente tessitura di relazioni, nonostante i contrasti. Il Brasile, dunque, guarda all’Africa, «con cui abbiamo un debito storico, che non può essere pagato in denaro, ma in sostegno politico, solidarietà e concreti progetti di sviluppo», per dirla con parole di Lula. Promuove l’Ibsa, una alleanza con India e Sud Africa (e insiste perché il Sud Africa sia presente anche al vertice dei Bric del 2011). Esporta preziose tecnologie agricole e dialoga fitto fitto con la Cina, che del Brasile è diventata il primo partner commerciale, superando gli Usa. Un dialogo impegnativo, ricco di opportunità. E di tensioni. Perché la Cina, acquirente principe delle materie prime brasiliane, quelle minerarie, soprattutto, rischia di diventare un concorrente temibile sui manufatti industriali, a cominciare dall’auto (e infatti gli imprenditori riuniti nella Fiesp, l’associazione degli industriali di San Paolo, ne sono molto preoccupati). E perché la potenza finanziaria e politica di Pechino, nello spregiudicato gioco internazionale della sua pragmatica e disinvolta classe dirigente, rischia di condizionare troppo il corso degli eventi internazionali, incrinando la «multipolarità» cara al Brasile. Dal G8, nel tentativo di governo dei destini del mondo, si è passati di recente al G20, tanti nuovi protagonisti (tra cui anche il Brasile, settima economia del mondo, dopo aver superato Spagna e Italia e a ridosso della Francia) accanto ai tradizionali «grandi» della Terra. ­22

Troppi protagonisti, per la verità, per arrivare rapidamente ed efficacemente a decisioni condivise. In molti, tra gli studiosi di geo-politica e i diplomatici, parlano della prospettiva di un G2, confronto stabile e privilegiato tra Usa e Cina, rilanciato, pur tra difficoltà, proprio nel gennaio 2011, dal «super vertice» a Washington tra Hu Jintao e Obama. Ma quell’idea del G2 non piace affatto al Brasile. Né all’Europa. Nasce anche da qui, oltre che da storiche affinità culturali, l’estrema attenzione del paese per la Ue e per gli Stati europei, Italia compresa. Sono europee, da Volkswagen a Fiat, le principali industrie dell’auto brasiliane. Francesi, le imprese cui il Brasile ha fatto recentemente ricorso per potenziare la sua aviazione e la sua Marina militare. Tedesche e francesi, le grandi società interessate all’energia. Un dialogo privilegiato con l’Europa è in cima alle strategie dell’Itamaraty, pronto a firmare al più presto un accordo strategico con Bruxelles, che abbatta le tariffe per stimolare non solo l’import-export, ma anche gli investimenti diretti europei in Brasile e, perché no?, brasiliani in Europa. Tocca alla Ue e alle nazioni europee saper condurre bene una partita così importante. Anche questa è «multipolarità». La stella dei Bric e la nuova geografia del potere.  Una nuova geografia del potere sta nella logica dei Bric. E anche se quei quattro paesi sono, appunto, troppo diversi per costituire una solida alleanza politica ed economica, secondo il giudizio del politologo Joseph Nye, Brasile, Russia, India e Cina sono comunque potenze la cui ricchezza è in crescita, con tutte le conseguenze del caso. Al primo summit dei Bric, nel giugno del 2009, nella russa Ekaterinburg, e poi al secondo summit, nell’aprile 2010, proprio in Brasile, le relazioni si sono rafforzate, per «un nuovo ordine multipolare». E anche se al vertice del G20 a Seul, in novembre, i quattro non hanno giocato una partita comune sugli equilibri finanziari mondiali e sulle strategie contro le tempeste finanziarie e i programmi di sviluppo, di certo hanno fatto pesare le loro volontà di riequilibrio e di sicurezza, di ricerca di stabilità valutaria e di promozione della crescita economica. La ­23

geografia del potere mondiale si sta ridisegnando, insomma. E il Brasile ha un ruolo preminente. Il primo secolo del Duemila è il secolo dell’Asia, data la forza di Cina e India. Ma finalmente, dopo tante occasioni perdute, è anche il secolo del Sud America e soprattutto del suo paese più grande e più ricco. «Brasile stella dei Bric», scrive il settimanale «Istoé Dinheiro». Non è solo enfasi patriottica. Così al G20 di Parigi, nel febbraio 2011, i Bric si sono ritrovati d’accordo, contro Usa e Ue, per evitare parametri anticrisi troppo vincolanti. E il gioco di sponda tra Brasile e Cina ha portato al successo: tra i parametri da rispettare, ci sono debito pubblico e deficit (compensati da risparmio e debito privato), squilibri nella bilancia commerciale e flussi netti di investimento, ma non i tassi di cambio né le riserve. Come voleva, appunto, la Cina, restia a rivalutare lo yuan. E come interessa anche al Brasile.

2.

Redditi, consumi e sogni di una nuova classe media

È sabato mattina. Un sabato qualunque, a San Paolo. E la rua 25 de Março è un fiume di gente. Migliaia di persone, nel cuore del grande centro storico che si allarga sino al Mercado Municipal. Correnti di un fiume di folla, che si insinuano nelle altre strade, risalgono i vicoli, tornano a sciamare su quella via principale che ha un nome solenne (ricorda la data della prima Costituzione promulgata nel 1824 dall’imperatore Dom Pedro I) e un volto allegro di popolo. Ragazze belle, disinvolte, spavalde. Donne, con i bambini che sfuggono dalle loro mani e sgambettano, chiassosi. Uomini in pantaloni corti e magliette vistose. E ragazzi, un’infinità di ragazzi, jeans sdruciti e, ai piedi, scarpe sportive o, spessissimo, colorate havaianas, le ciabatte infradito di gomma. Entrano ed escono dai mille locali che fiancheggiano la strada, grandi magazzini popolari, supermercati alimentari, negozi d’abbigliamento, botteghe zeppe di articoli per la casa, maschere e costumi per le feste del Carnevale, chincaglierie, cineserie, un camisódromo che vende appunto camicie in offerta speciale, officine che riparano motociclette o le vendono di seconda mano, spacci di elettronica di largo consumo, nelle vetrine piccole i telefonini e gli elettrodomestici, nelle vetrine grandi le Tv, le lavatrici e i frigoriferi, sovrastati da cartelloni pubblicitari che annunciano «10 rate mensili da 39 reais», non importa se ci vorrà quasi un anno per finire di pagare, i mariti e le mogli fanno rapidi conti, quei 39 reais forse ce li possiamo permettere, e via a informarsi meglio, cercare di capire qual è l’affare più conveniente, comprare. Eccolo, il verbo: comprare. E proprio questa, la rua 25 de Março affollata e festosa, musicale e rumorosa, può essere un’immagine simbolo, tradotta ­25

in scene di vita quotidiana, di un Brasile che cresce a ritmi da record e in cui milioni di persone escono dalla povertà ed entrano nell’era del consumo. Consumo di massa. Quello che gli economisti chiamano mercato interno in impetuoso sviluppo. Crescono i salari, boom di auto, elettrodomestici e Tv.  Quanto impetuoso? Se si traduce quel 7,6% di aumento del Pil del 2010 in dati da economia quotidiana, si scopre che più o meno 30 milioni di brasiliani sono entrati per la prima volta in un negozio per comprare a credito la prima Tv (il bene durevole più venduto), il primo elettrodomestico o la prima automobile. Passa il tempo, si continua a comprare. Altri dati e altre storie confermano una tale tendenza. Il credito al consumo, per esempio, che cresce tra il 15 e il 20% all’anno ed è arrivato a rappresentare circa un sesto del Pil, con le insolvenze (e quindi con gli spread) in calo. La gente fa acquisti, indebitandosi. E paga le rate. Considerando appena il settore delle carte di credito, il loro numero in dieci anni è cinque volte maggiore (oggi sono 565 milioni quelle in circolazione) e con un volume di pagamento in aumento del 23% all’anno in media. Tutti dati positivi, che non mostrano segni di crisi. La crescita del Pil prevista sia dal governo di Dilma Rousseff sia dai più autorevoli centri di studi economici internazionali per i prossimi anni è di una media del 5-6%. Aumentano i posti di lavoro. Cresce il salario minimo, del 12% nel 2009 e di un altro 9,7% nel 2010, sino a superare i 520 reais al mese, con un’ulteriore crescita a più di 540 reais in base alla legge di Bilancio del 2011. E va avanti anche l’emersione di quella larga parte dell’economia che in Brasile si definisce «informale» e cioè in nero (oggi vale circa 580 miliardi di reais, più o meno l’equivalente dell’intero Pil dell’Argentina). Più occupazione, più garanzie, più sicurezza di prospettive di lungo periodo. Nuovi consumi, dunque. Nuove famiglie che smettono d’essere povere. Nuovi membri della «classe media». Un’economia vivacissima, che alimenta dinamiche sociali positive. Guardiamo per esempio i redditi mensili in rapporto alla percentuale della popolazione. Nel 2003, inizio della stagione ­26

di Lula, il 30% aveva un reddito inferiore a 348 euro e il 16% stava nella fascia fra 349 e 483 euro. L’equivalente della «classe media», e cioè quella con un reddito tra 450 e 2200 euro, era il 43%. Al vertice, un 11%, con redditi superiori ai 2500 euro. Nel 2009, tutta un’altra storia: la parte più povera è scesa al 17%. Scesa anche la seconda fascia, al 13%. E aumentata la «classe media», che costituisce adesso il 54% della popolazione. Ma aumentati pure i benestanti, al 16%, cinque punti in più. L’ascensore sociale, insomma, funziona. E sarà ancora più veloce nei prossimi anni. Le stime per il 2014 dicono che i più poveri si ridurranno ulteriormente, all’8%. Giù al 9% quelli di seconda fascia. E si allargherà, sino al 60%, la classe media. Aumenteranno anche i percettori di redditi più elevati, sino a toccare il 23%. Per ricordare una figura illustrata nel primo capitolo, dalla «piramide» si è passati alla «cipolla». Cambia, naturalmente, l’indice di Gini, una misura che appassiona molto politici, sociologi ed economisti, messa a punto negli anni Cinquanta da un grande statistico italiano, Corrado Gini appunto. L’indice di Gini misura, su una scala da 0 a 1, la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi: più è alto l’indice, maggiore è la diseguaglianza, più vicini si è allo zero, migliore e più sostenibile è l’equilibrio sociale. Per capire meglio, si può dire che tra i 133 paesi attualmente misurati la Svezia è in testa con lo 0,23, la Francia ha lo 0,29 e l’Italia lo 0,36, appena sopra la media generale di 0,388. Meglio l’Italia, insomma, degli Usa che stanno allo 0,37. Ultima è la Namibia, con lo 0,71. E il Brasile? Ha un indice di 0,53 nel 2010. Ma, ecco il punto positivo, quell’indice è nettamente diminuito, dallo 0,59 del 1995 allo 0,58 dell’inizio del governo Lula, sino al dato di oggi. Per fare un paragone latino-americano, l’Argentina ha un indice di Gini di 0,52, analogo al dato brasiliano attuale. La tendenza, naturalmente, è che quell’indice scenda sempre più, con una previsione di 0,45 nel 2020 (considerando un tasso medio di crescita dell’economia brasiliana del 4,5% annuo). Comunque si girino i dati, un fatto è certo: i redditi crescono e sono redistribuiti con equità maggiore. Migliora sensibilmente anche l’Isu, l’Indice di sviluppo umano (Hdi, se vogliamo dirlo in inglese, Human Development In­27

dex), elaborato dall’Onu con il supporto scientifico di Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia: misura non solo il reddito, naturalmente, ma anche le aspettative di vita (sanità, qualità dell’ambiente, sicurezze alimentari primarie ecc.) e il tasso di alfabetizzazione. Il Brasile è tra i paesi «ad alto livello di sviluppo», il secondo grande gruppo, al 73° posto, con un indice di 0,699 (per capire, il livello più alto è quello della Norvegia, 0,938, il più basso è dello Zimbabwe, con 0,140). L’ascensore sociale in movimento comincia a sanare anche un’altra pesante disparità brasiliana, quella tra la popolazione bianca e la popolazione nera, discendente dai milioni di schiavi importati in Brasile dall’Africa dalla metà del Cinquecento sino all’Ottocento (il Brasile ha abolito tardissimo la schiavitù, solo nel 1888, molto dopo l’Europa e gli stessi Usa). Sono circa 90 milioni, i neri brasiliani. E sono africani i ritmi profondi della musica brasiliana, i sapori della cucina bahiana, i riti religiosi del Candomblé. E proprio tra gli afro-brasiliani, è stata tradizionalmente altissima la percentuale dei poveri, di chi vive nelle favelas, dei braccianti miserabili senza istruzione né futuro. Sempre a sfogliare le pagine delle statistiche, si scopre che anche la popolazione di colore sta molto meglio, con il supporto di leggi recenti sulla parità di opportunità e di diritti. E se la statistica si legge non sui poveri, ma sui ricchi, si fanno pure in questo caso scoperte interessanti. La percentuale di neri tra i ricchi (la classe A) era solo dell’8% nel 1998, mentre oggi è del 15%. Integrazione sociale. E razziale. Il ruolo di Bolsa Família e le nuove abitudini alimentari.  C’è uno strumento, che ha avuto un ruolo determinante in tutto questo processo di riequilibrio sociale. Si chiama Bolsa Família ed è la sintesi fatta da Lula in un solo strumento di vari programmi di assistenza e lotta alla povertà, quasi tutti lanciati durante il governo di Fernando Henrique Cardoso. Il concetto è semplice: le famiglie con un reddito pro capite inferiore a 140 reais possono richiedere un sussidio governativo, che, a seconda del numero e dell’età dei figli e delle altre fonti di reddito, va da 22 a 200 reais al mese. In cambio, però, le famiglie beneficiate ­28

devono mandare i figli a scuola, con un obbligo di frequenza del 75%, e vaccinarli secondo un programma stabilito dal ministero della Salute. Bolsa Família significa oltre 13 miliardi di reais di investimenti nel 2010, quasi lo 0,5% del Pil, l’unica voce che il ministro delle Finanze Mantega ha dichiarato di non voler tagliare nel suo nuovo programma di riduzione della spesa pubblica a partire dal 2011. Al contrario: il governo Dilma sta già studiando un pacchetto di aumenti significativi. Dodici milioni di famiglie brasiliane sono inquadrate nel programma, il più grande sforzo istituzionale di lotta alla povertà al mondo. In cinque anni, dal 2003 al 2008, la povertà estrema (nella definizione della Banca Mondiale, quella di chi vive con meno dell’equivalente di un dollaro americano al giorno, a parità di potere d’acquisto locale) è passata dal 12% al 5%. E anche il lavoro minorile è diminuito, sempre secondo le stime della Banca Mondiale. Nonostante le critiche (il programma può «viziare» i beneficiati, fino al punto di indurli a rifiutare proposte di impiego per rimanere al di sotto del tetto di reddito massimo), Bolsa Família è tutto sommato un successo sociale e politico. Al punto che anche il leader dell’opposizione José Serra, candidato alla presidenza della Repubblica contro Dilma Rousseff, aveva promesso di mantenere e anzi ampliare il programma. Non solo reddito minimo e migliori condizioni civili. Ma anche, come effetto collaterale, un consolidamento della stessa democrazia brasiliana. In un’intervista del giugno 2010 a «Veja», settimanale popolare, l’allora ministro della Casa Civil Dilma Rousseff, alla vigilia della campagna elettorale per la presidenza, aveva sintetizzato la situazione così: «Sviluppo economico, controllo dell’inflazione, impegno per la distribuzione dei redditi, migliori condizioni di lavoro. Il povero tagliatore di canna da zucchero del Nordeste adesso è diventato un saldatore, un operaio specializzato». E, per dirla in termini immediatamente comprensibili al pubblico italiano, si può usare un paragone di Leandro Silvera Pereira, professore alla Fundação Getúlio Vargas: «Il Brasile sta vivendo adesso quello che l’Europa ha conosciuto negli anni Sessanta». Il boom economico, cioè. Il ­29

benessere diffuso. Con tutte le speranze e naturalmente gli squilibri dell’epoca. Il miglioramento dei redditi si accompagna anche a fenomeni di costume di un certo interesse. Come racconta un’inchiesta di «Exame» dell’ottobre 2010, i «nuovi» consumatori della classe media sono diventati rapidamente esigenti e sofisticati. Non si accontentano di andare in giro per negozi e comprare. Pretendono di poter fare confronti, su prezzi e qualità. E, per riuscirci meglio, usano Internet. Sulla rete, infatti, sono nati gruppi di discussione e fioriti blog in cui si paragonano costi e offerte speciali, si discutono sconti e rateazioni, ci si scambiano giudizi sulle cose acquistate, le loro qualità e i loro limiti. E su Internet, naturalmente, si compra, approfittando delle proposte particolarmente vantaggiose. Shopping telematico diffuso a livello popolare. Per i piccoli elettrodomestici e, perché no?, pure per i biglietti aerei e i pacchetti-vacanze. Perché anche questo è indice di benessere. Il ministero del Turismo calcola che sei brasiliani su dieci delle undici maggiori aree metropolitane abbiano viaggiato almeno una volta negli ultimi due anni, il doppio rispetto al 2007. Si stima, con ottimismo, che entro i prossimi due anni la popolazione di minor reddito possa rappresentare la metà dei viaggiatori. Senza contare il picco di traffico dei Mondiali di calcio del 2014. Sono tanti, insomma, i segni dei tempi che cambiano. Come le modifiche delle abitudini alimentari e delle tendenze d’acquisto di vari prodotti nei supermercati. Calano, tra il 2009 e il 2010, gli acquisti della cosiddetta «cesta básica», generi di prima necessità a prezzo basso (-2,2%) e aumentano invece quelli della «cesta Nielsen», prodotti più in linea con le abitudini dei consumatori dei paesi benestanti, gli Usa e l’Europa (+6,6%). Piccoli segnali importanti: cadono i consumi di spugne e lana d’acciaio per lavare a mano i piatti (aumenta il numero delle lavastoviglie) e del sapone a pezzi, cui vengono preferite le confezioni più sofisticate di detersivi. Si vendono meno sciroppi concentrati di frutta, da allungare con acqua a casa, e invece più bibite pronte. Ed è addirittura un boom (con crescite, sempre nel 2010, che vanno dal 16 al 22%) di pizza pronta, sughi già preparati, yogurt. A scapito della farina e del riso. Nei supermarket più ­30

eleganti di San Paolo si può trovare facilmente un buon assortimento di champagne francesi e di vini italiani, costosissimi (pesano le tasse di importazione). Ma anche nei quartieri popolari, non mancano gli spumanti brasiliani da poche decine di reais. Bollicine comunque, per fare festa ai cambiamenti. La nuova struttura dei consumi racconta dei 20 milioni di ferri da stiro venduti nel 2010, dei 3,4 milioni di auto, dei 13 milioni di Tv, dei 14 milioni di computer. E di lavatrici e frigoriferi, telefonini, capi d’abbigliamento, naturalmente (dalle confezioni più popolari agli abiti e agli accessori delle più famose griffe italiane ed europee), e prodotti di alta gamma, penne da 600 dollari (il doppio che negli Usa) e orologi da 4000 (quasi il doppio anche in questo caso). Gli amanti del lusso sono colpiti dalle altissime tasse di importazione. Ma non si fermano. E animano i negozi di Jardins, il quartiere più elegante di San Paolo, e le raffinate boutique di Rio. E in tanti, comunque, classi A e B e C, tutti insieme, affollano i grandi centri commerciali, in grado di offrire qualcosa per ogni tasca e, in ogni modo, almeno lustro per gli occhi. A geração do bem-estar, «la generazione del benessere», titola il popolare settimanale «Istoé» per un’inchiesta che raccoglie le storie di diciotto persone, la studentessa che può finalmente ambire all’università e il quadro d’azienda in carriera, la psicologa che lavora fatturando le prestazioni ai clienti e l’operaio soddisfatto per l’aumento del salario, l’avvocato che può permettersi un bell’appartamento a Rio e l’elettricista che progetta di comprare un terreno su cui costruire finalmente una casa, la cameriera che acquista un’auto e la manager assunta da una multinazionale. Bem-estar, appunto. Quel bem strappa sorrisi. E alimenta ulteriori ottimismi, un’idea positiva del futuro. Gli eredi di Pelé e della musica di Tom Jobim, Vinícius e João Gilberto.  I soldi, si sa, non fanno la felicità. Ma proprio nelle stagioni in cui aumenta la ricchezza di una nazione, e soprattutto si diffonde il benessere creato da quella ricchezza, il fatto di avere più soldi in tasca è un propellente sociale e culturale dotato di una straordinaria energia. Lo sanno bene gli euro­31

pei, gli italiani che erano giovani o ancora adolescenti, in quel periodo tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta in cui la ricostruzione post-bellica e poi il «miracolo» economico avevano effetti di stimolo sulla produzione intellettuale, artistica e culturale. Se lo ricordano anche i brasiliani più anziani, quando fermano la loro memoria su quello stesso periodo in cui, pur in condizioni radicalmente diverse dall’Europa, il Brasile veniva investito da ondate di rinnovamento, di fantasiose iniziative, di progetti di sviluppo. Era il tempo (1955-1960) della presidenza di Juscelino Kubitschek, figlio di famiglia povera, arrivato al successo come medico, poi nell’esercito e infine in politica, sino a diventare prima sindaco di Belo Horizonte, quindi governatore di Minas Gerais e finalmente capo dello Stato a Rio de Janeiro (era quella, allora, la capitale del Brasile). Un uomo alto, bello, elegante, ambizioso. Un motore di novità. Partiva l’industrializzazione, con l’arrivo, accanto alle multinazionali americane dell’auto, come General Motors, della tedesca Volkswagen, stimolata appunto da Kubitschek e che, con la sua Käfer, Maggiolino in Italia, Fusca in Brasile, apriva la strada alla motorizzazione di massa brasiliana. Si progettava la nuova capitale Brasilia, dal deserto alla sua inaugurazione tutto un miracolo in pochi anni, capolavoro progettuale per l’architetto Oscar Niemeyer, l’urbanista Lúcio Costa e il paesaggista Roberto Burle Marx e stimolo per una scuola di architettura e urbanistica brasiliana che avrebbe avuto credito e ascolto in tutto il mondo (ma anche, quella capitale di cemento a forma di aeroplano, fonte di corruzione e di esplosione del debito pubblico che avrebbe pesato per anni, sulla struttura economica del paese). E comunque, in quel clima progettuale e denso di umori futuribili, il Brasile si affermava come star dello sport, conquistando nel 1958 la prima di cinque Coppe del mondo di calcio, con la nazionale di Pelé e di Garrincha, «uccellino», povero e claudicante da bambino, ma capace, per sogno e forza di volontà, di arrivare all’empireo del pallone (e non le avrebbe dimenticate, le sue origini, il campione, dedicando tempo e risorse a fare giocare i ragazzini poveri, per tirarli via dal dolore e dall’umiliazione della miseria di strada). ­32

Non solo calcio. Ma anche musica. Perché sempre in quel 1958 nasceva la bossa nova, che inglobava la tradizione nei ritmi del tempo nuovo e consacrava la fama di musicisti e poeti come Antônio Carlos «Tom» Jobim, João Gilberto e Vinícius de Moraes. Uno dei più intensi e coinvolgenti contributi del Brasile alla cultura del mondo. E adesso, adesso che il Brasile è entrato stabilmente in una nuova stagione di prosperità? Chi gira per le strade e le piazze, le librerie e i teatri, le sale da concerto e le aule universitarie, le redazioni di case editrici e giornali delle città brasiliane, i laboratori di ricerca e gli uffici studi delle Fondazioni culturali pubbliche e private (comprese quelle di una lunga fila di imprese industriali e finanziarie), scopre fermenti di iniziative, creatività, progetti, idee. Una riprova? I padiglioni della 29a Biennale di San Paolo (settembre-dicembre 2010), animata da artisti innovativi e fantasiosi che reggono il passo con quel che di interessante succede nell’arte a Londra e a New York, a Parigi e a Barcellona. Anche per questo, c’è da essere ottimisti, in Brasile. Lo confermano i sondaggi del Pew Global Attitudes Project, che testimoniano come più brasiliani che francesi, inglesi, spagnoli o italiani si dichiarino «soddisfatti» della direzione che ha preso il loro paese. O le ricerche della Gallup International che, nel Barometro globale della speranza e della disperazione per il 2011, vedono i brasiliani in testa alla classifica della fiducia nel futuro, con il 26% di ottimisti, superati solo dagli indiani (31%), ma saldamente avanti rispetto agli abitanti degli Usa (20%), della Gran Bretagna (17%), dell’Italia (14%) e del resto della vecchia Europa. Scommessa salda sul futuro. Bonus demografico: vent’anni per diventare ricchi.  C’è anche un’altra carta che il Brasile può giocare nei prossimi anni. Quella del cosiddetto «bonus demografico». Una condizione molto rara nella storia di un paese, in cui la mortalità infantile declina drasticamente e un vero e proprio dinamico esercito di giovani si presenta sul mercato del lavoro, pronto a produrre ricchezza, senza che ci siano troppi anziani, il cui costo previdenziale e pensionistico assorbe enormi risorse. È il passaggio da una strut­33

tura demografica con un numero eccessivo di bambini a carico di pochi adulti, tipica dei paesi sottosviluppati, alla struttura opposta, con troppi anziani in pensione rispetto agli adulti produttivi, quella di tutti i paesi europei. In mezzo, c’è una fase in cui il grosso della società è costituito da lavoratori. Nelle cosiddette «tigri asiatiche» è successo negli anni Ottanta. In Brasile, invece, quel momento è adesso. Benessere e miglioramento delle condizioni sanitarie di base hanno fatto crescere la speranza di vita, mentre l’età media resta ancora bassa, 29 anni nel 2010 (era di appena 20 anni nel 1980). Quell’età media salirà a 46 anni nel 2050, quando gli abitanti con più di 65 anni saranno il 23% della popolazione (adesso sono appena il 7%). Il Brasile, insomma, è un paese di giovani, che possono lavorare e fare crescere impetuosamente il Pil. «Vent’anni per diventare ricchi», sintetizza «Exame», parlando appunto dell’effetto positivo del «bonus demografico» e stimando consumi in crescita (e dunque rafforzamento della dinamica economica per traino del mercato interno) in tutti i settori, dalla previdenza privata all’istruzione, dai prodotti farmaceutici ai servizi sanitari, dalla casa all’arredamento, dal tempo libero alla cura della bellezza e dell’igiene personale. Affluent society, insomma. Una lunga stagione di sviluppo. Un’opportunità, quel «bonus demografico», da non sprecare e semmai da sostenere, con politiche di riforma per la competitività, la produttività, il fisco, l’ambiente, l’istruzione, migliori equilibri economici e sociali, insomma. La ricerca della felicità, ecco. Un diritto costituzionale secondo gli Stati Uniti. Una ragion d’essere, più semplicemente, in Brasile. «Lavoriamo un anno intero per un momento di sogno», cantava nell’Orfeo Negro di Marcel Camus il giornalista, poeta, diplomatico e soprattutto musicista Vinícius de Moraes, uno dei padri della bossa nova. E un pezzetto di felicità la vengono a cercare qui anche decine di migliaia di stranieri, circa un secolo dopo le grandi ondate migratorie dall’Italia, dal Portogallo e dal Giappone. Solo nel primo semestre del 2010, le richieste di visto sono state oltre 22.000: un dato che cresce, in media, del 20% all’anno, da cinque anni a questa parte. ­34

Ma chi sono, i nuovi immigrati? Non sono più, certamente, i contadini disperati delle campagne del Douro o del Veneto che avevano assorbito la domanda di manodopera delle piantagioni di caffè nello Stato di San Paolo dei primi del Novecento. I nuovi immigrati sono specialisti in marketing francesi, banchieri di Goldman Sachs inglesi, consulenti strategici belgi, geologi italiani (ah, il «pré-sal»...), biologi danesi, manager statunitensi, analisti finanziari austriaci, ingegneri navali giapponesi, fisici delle particelle svizzeri, medici argentini. Lavorano per grandi imprese brasiliane e straniere o nei centri di eccellenza accademica. Hanno, cioè, concettualmente lo stesso ruolo dei loro antenati contadini del caffè cent’anni fa: sopperiscono a una carenza di manodopera e sostengono la crescita economica del paese. «Non c’è un solo settore dell’economia che non abbia un problema di carenza di risorse umane», spiega Patrick Hollard, direttore generale del «cacciatore di teste» Michael Page, «un limite che naturalmente in alcuni settori si sente di più: le miniere, il petrolio e l’energia in generale, l’edilizia civile, l’agroindustria». Anche le compagnie aeree soffrono per la mancanza di risorse qualificate: il mercato dell’aviazione civile cresce quasi del 30% all’anno, il numero dei piloti no. Nel 2009, se ne sono diplomati appena 230. «Brazil takes off»: le eccellenze per ricerca, moda, media e architettura.  Perché le università brasiliane sono poche. Di eccellente qualità, in alcuni casi. Ma troppo poche, comunque, per rispondere alla «fame» di talenti delle imprese. Consideriamo gli ingegneri, per esempio. Gli istituti di tecnologia indiani ne sfornano ogni anno centinaia di migliaia (dovrebbero essere circa 450.000 nel 2011, secondo stime recenti). Il modello universitario brasiliano, invece, di stampo prettamente europeo, di ingegneri ne produce poche migliaia. Le migliori scuole d’ingegneria brasiliane hanno alunni che competono da pari a pari con i francesi dell’École Polytechnique e dell’École Centrale Paris, o con gli americani del Mit e di Caltech, di cui spesso sono stati anche colleghi per un anno o due in un programma di scambio internazionale. Ma stiamo parlando di centocinquanta o due­35

cento studenti all’anno, per quanto riguarda le tre facoltà più importanti, Usp (Universidade de São Paulo), Unicamp (Universidade Estadual de Campinas) e Ita (Instituto Tecnológico de Aeronáutica di São José dos Campos). Un altro dato significativo: il Brasile può contare su 5 dottorati ogni 100.000 abitanti, pochissimi rispetto ai 30 della Germania ma anche rispetto ai 14 della Corea del Sud. O degli Stati Uniti. Anche il numero dei brevetti parla chiaro: sono cresciuti negli ultimi cinque anni, da 300 a 5000, ma rappresentano ancora appena lo 0,3% del volume mondiale. Cento volte meno degli Stati Uniti, leader indiscusso. Ma anche venti volte meno di «tigri asiatiche» come la Cina e la Corea del Sud. Eppure i ricercatori brasiliani sono bravissimi. Come i tre biologi che hanno fondato il laboratorio Biolab, unica impresa al mondo ad avere sviluppato un concorrente efficace del Botox, e un filtro solare di protezione 100. O come Fernando Galembeck, dell’Unicamp, che ai colleghi americani del Mit è andato a presentare uno studio sulla cattura dell’elettricità statica dall’umidità dell’aria (potenzialmente una fonte di energia rinnovabile, a scala domestica, e a basso costo). O come i medici dell’ospedale Sírio-Libanês con quartier generale a San Paolo, uno dei più rinomati al mondo, che oltre alla presidente Dilma conta tra i suoi pazienti la top model Naomi Campbell. Non solo materie prime, insomma: il Brasile ha le sue eccellenze anche nell’industria creativa (moda, design, Tv, arte, editoria, software, architettura, cinema, musica, pubblicità...). Un settore che in Italia esporta 28 miliardi di dollari all’anno e che in Brasile conta già 52.000 imprese che contribuiscono al Pil per il 2,6%. Quasi tutte piccole (meno di venti dipendenti), ma altamente qualificate, come la pluripremiata agenzia (Lew’Lara) dei pubblicitari Jaques Lewkowicz e Luiz Lara, oggi soci, del gigante mondiale Tbwa. O le case di moda Alexandre Herchcovitch e Osklen, che da San Paolo e Rio de Janeiro sono già arrivate a Tokyo e a Milano. Le eccellenze, insomma, ci sono. Quello che manca sono i volumi. Solo il petrolio, per esempio, assorbirà nei prossimi tre anni l’equivalente di tutti gli ingegneri laureati nel paese. È più ­36

difficile, paradossalmente, assumere quadri di livelli medi che direttori generali. La risposta delle imprese? Massicci trainee programs, scuole di formazione interna per integrare l’offerta insoddisfacente del mercato. Oltre all’immigrazione, certo. Ma tutto questo non basta. Nell’istruzione di base e nella formazione, il governo Dilma dovrà investire sempre di più, per reggere il ritmo dello sviluppo. Il samba, avanti e indietro, non è la musica adatta. Serve altro. Una sorta di moderno galop. C’è un’immagine che può dare bene il senso di quel che già succede, di quel che si prepara. E sta sulla copertina di un numero speciale che «The Economist» ha dedicato al Brasile nel novembre 2009, intelligente e lungimirante inchiesta, all’epoca, ancora più attuale adesso. La statua del gigantesco Cristo del Corcovado, che domina Rio, simbolo tra i più noti e amati, decolla verso il cielo, come un razzo. Il titolo è Brazil takes off. Appunto.

3.

Tutta l’energia per lo sviluppo, dal petrolio del «pré-sal» all’etanolo

«È un dono di Dio». È il pomeriggio del 31 agosto del 2009 quando il presidente Lula, a Brasilia, nella grande sala dedicata a Ulysses Guimarães (uno dei padri della Costituzione democratica del 1988) annuncia le nuove prospettive per i ricchi giacimenti di petrolio al largo delle coste del Sud-Est. Ad ascoltarlo, oltre alla chefe da Casa Civil (primo ministro, cioè) Dilma Rousseff, ci sono parecchi ministri, la maggior parte dei governatori degli Stati brasiliani, politici, imprenditori, uomini di cultura, insomma il Brasile dello sviluppo. Un dono di Dio, appunto, quel petrolio. Una fonte energetica abbondante, tanto da fare del paese nell’arco di pochi anni uno dei principali produttori petroliferi mondiali. Ma non solo un dono. Anche una difficile sfida per l’economia, per l’industria, per l’apparato tecnologico e per le stesse strutture istituzionali del paese. Lula lo sa bene. E infatti, subito dopo quell’affermazione speranzosa e impegnativa, aggiunge: «Un biglietto vincente della lotteria, che però può diventare un problema, una maledizione» se non lo si amministra correttamente. Lula vede infatti il petrolio del «pré-sal» come una grande scommessa, un «passaporto per il futuro», la fonte di preziose risorse finanziarie per investire in educazione, sviluppo scientifico e tecnologico, lotta alla povertà. Un investimento, conclude, «in ciò che abbiamo di più importante: i nostri figli, i nostri nipoti». Le nuove tecnologie per vincere la battaglia del sale.  Il giacimento di Tupi, la più grande scoperta sul continente americano dal 1976, è stato ribattezzato «il campo di Lula», proprio negli ultimi giorni del 2010, alla vigilia del passaggio di poteri da Lula alla nuova presidente Dilma: omaggio a uno statista e a un appassio­38

nato sostenitore dell’avvenire petrolifero. Ma, celebrazioni a parte, quel giacimento pone innanzitutto grandi problemi tecnologici. Il «pré-sal», infatti, si trova, per definizione, «prima del sale», cioè sotto uno spesso strato di sale, a 6-7 chilometri di profondità sotto il livello del mare. Circa 2,5 chilometri di acqua, altrettanti di roccia, altri due di sale. Poi, appunto, il petrolio. Nemmeno le tecnologie più avanzate di estrazione in acque ultraprofonde possono garantire, stando alle esperienze praticate sino a oggi, il successo dell’operazione. Il sale, infatti, essendo molto più friabile della roccia, destabilizza le fondamenta del pozzo, che già di per sé deve essere molto più profondo. Ed essendo un agente chimico concentrato, può anche alterare la corrosività del petrolio che passa nei tubi, richiedendo degli acciai speciali per il trasporto fino alla superficie. Così Petrobras, terza impresa di energia al mondo per valore di mercato, ha lanciato decine di ambiziosissimi progetti di ricerca e sviluppo, che vanno dalle innovazioni incrementali sulle tecnologie esistenti ai piani futuristici di sonde sommergibili e isole artificiali per il rifornimento e la manutenzione (il «pré-sal», lontano oltre 400 chilometri dalla costa di Rio de Janeiro, richiede oggi viaggi in elicottero troppo lunghi). In meno di vent’anni, Petrobras dovrà costruire e consolidare, insieme a partner nazionali e internazionali, una nuova generazione di strumenti, processi, tecnologie e infrastrutture di punta. D’altra parte, in gioco non c’è solo il «pré-sal» brasiliano. La leadership tecnologica, per Petrobras, significa anche l’apertura di nuove possibilità di crescita internazionale. Lo strato geologico pre-salino è l’unica frontiera non ancora esplorata dall’industria petrolifera mondiale e contiene vasti giacimenti in varie regioni del pianeta, dalle coste occidentali dell’Africa (per origine geologica concettualmente «vicine» a quelle brasiliane, quindi con caratteristiche simili) a quelle della Groenlandia. Dopo il «pré-sal» brasiliano, insomma, Petrobras avrà accumulato esperienza e know-how unici, che costituiranno un vantaggio strategico nella corsa mondiale ai giacimenti più profondi. È una dinamica che attrae investimenti nazionali e internazionali: secondo le proiezioni del Bndes (la banca pubblica di stimolo all’industria), nel periodo 2010-2013 gli investimenti nel ­39

settore degli idrocarburi arriveranno a rappresentare il 60% del totale degli investimenti industriali, rispetto a un dato già altissimo (circa il 50%) nel periodo 2005-2008. Non si tratta solo di soldi. Ma anche di una nuova prospettiva di attrazione di capitale umano, di talenti, di giovani in cerca di successo professionale e personale nel Brasile del futuro. Una riprova? Le domande di visto di lavoro in Brasile da parte di stranieri sono raddoppiate negli ultimi due anni. E, nel 45% dei casi, si tratta di professionisti del petrolio. Il ministero del Lavoro ha accelerato e migliorato le sue procedure di concessione di visti – ancora drammaticamente lente e burocratiche – e sta anche creando un nucleo di supporto per i brasiliani espatriati che vorrebbero tornare in patria: una sorta di agenzia di collocamento per «cervelli in fuga» con saudades di casa. Professionisti con competenze sviluppate all’estero, che potrebbero approfittare della nuova onda di crescita per ricollocarsi nel dinamico mercato del lavoro brasiliano. Un mercato le cui retribuzioni possono essere nettamente superiori a quelle europee o nordamericane: nel settore del petrolio, appunto, il differenziale va dal 10 al 20% in valore nominale, senza contare, quindi, la differenza in potere d’acquisto, che rende il ritorno in Brasile ancora più attraente. Dopo il disastro Bp, una scommessa sulla sicurezza.  E la sicurezza? L’incidente della piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum, nel Golfo del Messico, nell’estate 2010, ha rimesso in discussione i piani di nuove perforazioni negli Stati Uniti, fino a quel momento sostenuti da un consenso bipartisan. Ma altrettanto bipartisan, in Brasile, è il consenso sul fatto che l’opportunità del «pré-sal» sia troppo grande per rinunciarvi. E così Petrobras e il governo non perdono occasione per garantire che le norme di sicurezza brasiliane, già molto più severe di quelle statunitensi, saranno ulteriormente rafforzate, soprattutto grazie alla concentrazione del controllo di tutte le operazioni nelle mani dei tecnici di Petrobras. «Non sarebbe mai successo, qui. Molti dei circuiti di sicurezza che sono soltanto opzionali negli Stati Uniti, in Brasile sono assolutamente obbligatori e avrebbero impedito la fuga di petrolio di Deepwater Horizon», ­40

assicurano al ministero dell’Energia. E aggiungono: «Proprio per questo nel nuovo regime di partilha [condivisione] delle riserve del ‘pré-sal’, vogliamo che Petrobras sia l’operatore responsabile di tutti i pozzi». La società brasiliana, infatti, dovrà controllare almeno il 30% di qualsiasi joint venture di esplorazione e produzione nel «pré-sal», e sarà l’unico operatore autorizzato per tutte le piattaforme. La crisi di British Petroleum, insomma, non fa altro che rafforzare la differenza di prospettiva per il futuro, promettente gigante del petrolio. Da una parte, l’ex campione nazionale di un’ex potenza petroliera nella peggiore crisi della sua storia. E, dall’altra, una impresa relativamente giovane, emergente, forte al punto da sfidare i maggiori gruppi mondiali sul terreno dell’innovazione e sui volumi. Un’impresa a controllo pubblico, ma forte e apprezzata sui mercati finanziari e industriali privati. Competitiva internazionalmente. Ma anche potente sul terreno politico interno. Un nome solo basta per capire di cosa si stia parlando. Quello di Dilma Rousseff, la nuova presidente del Brasile. Che è stata ministro dell’Energia e presidente del consiglio d’amministrazione di Petrobras, appunto. Politica d’eccellenza. E grandi affari. La partita del «pré-sal» resta comunque complessa. Perché proprio sulla scelta del regime di partilha e sulla concentrazione delle operazioni nelle mani di Petrobras, finisce il clima di consenso generale. L’opposizione, guidata da José Serra, governatore dello Stato di San Paolo prima di affrontare e perdere la sfida con Dilma per la presidenza della Repubblica, avrebbe preferito estendere al «pré-sal» la legislazione esistente sul regime di concessione, in vigore anche negli Stati Uniti, con maggiore apertura alle altre imprese. In regime di concessione, un’impresa paga un «affitto» allo Stato in cambio del diritto di esplorare un’area definita del sottosuolo e di estrarne ricchezze minerali. Si tratta della forma di accordo pubblico-privato più semplice e garantisce un flusso di entrate costante alle casse statali. Il governo Lula, però, della ricchezza del «pré-sal» ha sempre detto di voler amministrare una quota maggiore. E la nuova amministrazione di Dilma è sulla stessa linea. Le entrate fisse della concessione, quindi, non bastano. ­41

Il nuovo quadro normativo approvato, chiamato appunto regime di partilha, attribuisce allo Stato una percentuale prefissata di tutti i barili di petrolio estratti dal «pré-sal». La differenza è – fatte le dovute proporzioni – la stessa che un padre di famiglia percepisce tra un libretto al risparmio e un fondo azionario. Il secondo, strumento finanziario variabile, è molto più rischioso di un libretto a tasso fisso; ma «se tutto va bene» può dare un ritorno di gran lunga superiore. E l’ottimismo del governo – e di Petrobras – sul «pré-sal» è assoluto: si discute già di dove investire e come distribuire i proventi del petrolio, o della creazione di un fondo sovrano come quello che il governo norvegese usa da anni per limitare l’effetto destabilizzante di fiumi di dollari che altrimenti inonderebbero l’economia, aumentando inflazione e volatilità del regime di cambio della moneta. «Il petrolio è nostro!», insomma. Lo slogan degli anni Cinquanta, che aveva segnato la creazione di Petrobras come grande impresa statale del petrolio e dell’energia, affrancando in parte il Brasile dalla dipendenza dalle Sette Sorelle, riecheggia oggi nei discorsi di Lula, nelle interviste di Dilma, nei commenti – di consenso o di critica – della stampa nazionale. La questione fondamentale, però, è «noi, chi?». Domanda scomoda, in un paese federale composto da ventisette Stati. Fino ad ora, in regime di concessione, le royalties sono state divise sostanzialmente a metà tra governo federale e Stati e municipi produttori, costituendo una fonte di entrate fondamentale per il bilancio dello Stato di Rio de Janeiro, che nel petrolio aveva trovato una forma di «compensazione» per la perdita dello status di capitale federale nel 1961. Ma a differenza delle riserve post-saline, quasi tutte concentrate nella Bacia di Campos, nelle acque territoriali di Rio, i giacimenti del «pré-sal» sono molto più estesi in latitudine: la punta settentrionale tocca la Bahia, quella meridionale arriva fino a Santa Catarina, passando per Espírito Santo, Rio de Janeiro appunto, e San Paolo. E così il Senato ha approvato un nuovo regime, che trasferisce quasi tutta la quota degli Stati e municipi produttori a un fondo di redistribuzione per tutti, compresi quelli che non hanno accesso al mare. Ai municipi nei quali avvengono le operazioni di imbarco del petrolio, come Campos, Vitória, Rio de ­42

Janeiro o Santos, resta appena il 7,5% delle royalties. Un cambiamento potenzialmente drammatico soprattutto per le casse dello Stato di Rio, il cui governatore Sérgio Cabral ha protestato con toni estremi, fino ai singhiozzi in diretta in televisione. Applicando le nuove regole al bilancio del 2009, lo Stato di Rio de Janeiro rinuncerebbe a 3,3 miliardi di dollari, circa il 43% del totale delle risorse provenienti dal petrolio, e riceverebbe dal fondo di redistribuzione poco più di 230 milioni. Una perdita di 3 miliardi di dollari, insomma, equivalente alla somma dei capitoli di budget della salute pubblica e della sicurezza, solo in minima parte compensata dalla crescita sperata da parte di Petrobras, che ha sede a Rio e quindi a Rio paga buona parte delle sue imposte. Esclusa dall’onda delle privatizzazioni di Fernando Henrique Cardoso negli anni Novanta, Petrobras – insieme a Banco do Brasil – rappresenta oggi un modello di successo di economia mista pubblico-privata. Il pacchetto di controllo delle azioni di Petrobras è in mano pubblica, il che implica una amministrazione sostanzialmente ministeriale: qualsiasi fornitore dev’essere scelto attraverso una gara d’appalto, qualsiasi dipendente deve essere assunto attraverso un concorso pubblico, gli incarichi di direzione sono nomine politiche. Ma è anche un’impresa il cui risultato netto cresce del 15% circa all’anno e le cui azioni, dal gennaio del 2003 al giugno del 2008 (subito prima della crisi azionaria mondiale, cioè), hanno moltiplicato il loro valore diciannove volte. E che affronta, appunto, grandi sfide tecnologiche e di mercato. Il segreto? L’occhio attento dei mercati (Petrobras è quotata a San Paolo e a New York) e una politica di remunerazione quanto mai attraente per i quadri tecnici: gli ingegneri di Petrobras, funzionari pubblici, sono pagati molto al di sopra della media di mercato. Petrobras: il più grande aumento di capitale al mondo.  Adesso si tratta di raddoppiare la produzione di petrolio, fino a circa 5,7 milioni di barili al giorno nel 2020. E, come abbiamo visto, di investire nelle tecnologie necessarie ad accedere a quasi 30 miliardi di barili di riserve. Costa caro, il «pré-sal»: circa 224 miliardi di dollari di investimenti entro il 2014, che hanno ri­43

chiesto, nel settembre 2010, una delle operazioni di aumento di capitale più grandi e sofisticate della storia del capitalismo mondiale, la maggiore, addirittura, per dimensione finanziaria, 70 miliardi di dollari in nuove azioni, a disposizione degli investitori nazionali e internazionali in un’emissione coordinata da un pool di banche composto da Santander, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Citigroup, Itaú, Bradesco e, ovviamente, Banco do Brasil, che ha coordinato la distribuzione sul mercato interno. E centinaia di miliardi di obbligazioni e titoli di debito. Ai mercati, però, la struttura finanziaria pensata dal governo e da Petrobras non è piaciuta subito fino in fondo: tra aprile e luglio del 2010, le azioni hanno perso oltre un quarto del loro valore di mercato. In effetti, si tratta di un montaggio in cui l’azionista di riferimento – lo Stato – non apporta nuovi capitali, ma vede la sua quota di controllo aumentare e superare il 50%. Miracolo d’ingegneria finanziaria e istituzionale: il passaggio al regime di partilha permette al governo di usare i barili di petrolio della sua quota come attivo di scambio per le azioni. Sono stati identificati due campi di petrolio pre-salino la cui produzione futura, stimata in circa 5 miliardi di barili, andrà interamente a Petrobras, compresa la quota che apparterrebbe al governo. E il denaro necessario agli investimenti dovrà essere sborsato interamente dagli azionisti di minoranza, cui viene richiesto, peraltro, di convertire eventuali titoli Petrobras quotati a New York per partecipare all’aumento di capitale negoziato esclusivamente a San Paolo. Investimenti giganteschi, e promesse di altissimi ritorni. Ma anche una mano pubblica sempre più presente, nel doppio ruolo di azionista e di legislatore. Nuove regole, per esempio, richiedono che buona parte delle infrastrutture e delle macchine di esplorazione e produzione siano costruite in Brasile, e non importate dall’estero. Anche sulle raffinerie la posizione del governo è più politica che strettamente economica: Dilma vorrebbe la costruzione di nuove raffinerie nel Nordeste per stimolare la creazione di posti di lavoro, anche nell’indotto, ma da un punto di vista strettamente gestionale per Petrobras sarebbero investimenti di limitatissimo valore aggiunto: esportando petrolio grezzo, potrebbe approfittare a condizioni economicamente ­44

favorevoli dell’abbondante capacità produttiva inutilizzata di numerose raffinerie messicane, europee e statunitensi, tutte con costi di produzione molto inferiori a quelli brasiliani. Ma l’idea del governo è che Petrobras debba mantenere e rinforzare la sua posizione di leadership tecnologica e di mercato in tutti i segmenti della catena del valore degli idrocarburi: estrazione, raffineria, distribuzione (attraverso la marca Br, leader in Brasile con circa 6500 pompe di benzina e il 38% di quota di mercato) e anche petrolchimica con la filiale Petroquisa e la partecipazione in Braskem. La ricchezza dell’energia sostenibile, etanolo e biodiesel.  Brasile, insomma, vuol dire energia. Tanta. Diversificata: petrolio, alcol da agricoltura, idroelettrica, anche atomica. Disponibile, per le necessità di un’industria in crescita impetuosa e per le famiglie che scoprono i consumi moderni. E così abbondante da poter alimentare importanti flussi di esportazione. Petrobras stessa non è solo petrolio: è, piuttosto, un’impresa che investe e innova anche nelle nuove frontiere delle energie rinnovabili (oltre 1,3 miliardi di reais di investimenti previsti nel piano strategico, principalmente in biocombustibili ed energia eolica) e del contenimento delle emissioni di anidride carbonica. Nel campo di Miranga, nella Bahia, Petrobras sta infatti realizzando un progetto pilota di cattura e sequestro dell’anidride carbonica, per diminuire le emissioni nocive nell’atmosfera: vengono filtrate oltre 370 tonnellate di anidride carbonica al giorno (l’equivalente del lavoro di fotosintesi di circa cinquecento alberi) e reiniettate nei pozzi di petrolio, dove peraltro contribuiscono a migliorare il processo di estrazione. L’impegno maggiore, nel versante delle tecnologie sostenibili, è dedicato ai biocarburanti, frontiera strategica di lungo termine per le multinazionali del petrolio, area di attuazione già nel presente per Petrobras. Nel 2008, uno studio su alcune specie di palma nativa ha portato in pochi mesi alla produzione di biodiesel dall’olio di dendé, fino a quel momento soltanto un ingrediente della gastronomia bahiana, celebrato da Jorge Amado nelle cucine di Gabriela a Ilhéus e di Dona Flor a Salvador. Poco ­45

lontano, a Candeias, Petrobras ha appena inaugurato una grande raffineria di biodiesel, entrando in concorrenza frontale con specialisti del settore come Brasil Ecodiesel e contribuendo alla crescita della produzione brasiliana fino a superare il miliardo di litri all’anno. Carburante «nuovo», sostenibile (per definizione non produce emissioni di carbonio), il biodiesel contribuisce a muovere camion e merci lungo le migliaia di chilometri delle rodovias brasiliane, ed è già esportato in Europa. Al di là del dendé, e dei più tradizionali cotone, girasole e mais, la produzione di biodiesel ha incontrato oggi nuove materie prime: i camion di rifornimento dei 577 ristoranti della rete brasiliana di McDonald’s, per esempio, usano una miscela con il 40% di biodiesel estratto dall’olio usato per friggere le patatine e i nuggets – un procedimento di riciclo e risparmio energetico già sperimentato fin dal 2002 nei resort di lusso della catena Transamerica, ma storicamente considerato più costoso rispetto all’uso dell’olio minerale. Implementandolo su larga scala con un investimento di circa 500.000 reais in una fabbrica a Osasco, nella periferia di San Paolo, McDonald’s Brasile riesce oggi a produrre biodiesel con un costo al litro inferiore del 12% circa all’equivalente minerale. Un miliardo di litri di biodiesel l’anno: pochissimi rispetto alla produzione di etanolo di canna da zucchero, «il miglior biocombustibile al mondo» secondo il fisico José Goldemberg, specialista di fama mondiale. Nel 2009 la produzione brasiliana di etanolo è stata di quasi 30 miliardi di litri, dei quali poco più di tre sono stati esportati. Il resto è combustibile per circa 10 milioni di automobili flex fuel (o semplicemente flex) – cioè che possono utilizzare indifferentemente la benzina o l’alcol, miscelati in qualsiasi proporzione. I flex, lanciati nel 2003, sono stati sviluppati sulla base dei motori ad alcol degli anni Settanta, pensati nel contesto del piano Proálcool del governo Figueiredo per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili in piena crisi energetica mondiale. Oggi rappresentano oltre il 90% delle nuove immatricolazioni: dal punto di vista del consumatore, andare ad alcol può significare spendere dal 25 al 40% in meno, al chilometro, rispetto alla benzina. E così la canna da zucchero ­46

risponde oggi per il 17% della matrice energetica del paese, costituendo la seconda fonte di energia più importante dopo il petrolio, molto al di là delle previsioni e delle speranze del Proálcool, che peraltro non considerava gli elementi di impatto ambientale. Li considera, invece, l’Environmental Protection Agency degli Stati Uniti, che entro il 2022 intende sostituire il 15% dei combustibili fossili con equivalenti rinnovabili, portando il mercato statunitense di biocombustibili a triplicare di volume. E anche l’Unione Europea, che nel 2008 ha stabilito un limite minimo del 10% per l’uso di combustibili rinnovabili nei trasporti. Le automobili elettriche possono dare un importante contributo, così come il biodiesel prodotto in Germania, ma per raggiungere l’obiettivo molto probabilmente le automobili flex dovranno sbarcare in Europa. È questa la visione strategica di Shell, per esempio, che il 25 agosto 2010 ha avviato una operazione di fusione da circa 12 miliardi di dollari: tutte le attività brasiliane di Shell e le sue filiali nel ramo dei biocombustibili si integreranno con Cosan, la più grande impresa di zucchero e alcol in Brasile, che produce da sola oltre 2 miliardi di litri di etanolo l’anno e distribuisce oggi in circa 1700 pompe di benzina i prodotti Esso e Mobil. Una joint venture, battezzata Raízen, per cavalcare con maggior scala ed efficienza la crescita del mercato dell’alcol combustibile in Brasile (la domanda cresce più del 20% l’anno) e per preparare strategie, logistica e capacità di produzione per conquistare i futuri mercati internazionali. I primati della canna da zucchero.  Naturalmente, le polemiche non mancano. I biocombustibili, e in particolare l’etanolo, sono stati al centro di accese discussioni economiche e politiche internazionali, nel momento del picco della bolla delle commodities del 2008. Per produrre alcol, gli Stati Uniti avrebbero infatti sacrificato buona parte del raccolto di mais, rendendolo più scarso e quindi più caro su scala globale. A quasi tre anni di distanza, sappiamo oggi che la bolla delle commodities ha avuto origine più nelle sale di trading di New York che nelle distillerie di alcol di mais. Ma già nel 2008 Lula difendeva internazio­47

nalmente l’alcol brasiliano, a base di canna da zucchero e non di mais. Innanzitutto perché non compete con la produzione alimentare, visto che il Brasile utilizza oggi meno del 20% delle sue terre coltivabili; e poi perché presenta un rendimento oltre due volte maggiore rispetto al mais americano: per ogni ettaro di terra coltivata a mais si possono ricavare fino a 3000 litri di alcol, mentre nel caso della coltivazione della canna la produzione può superare i 7000 litri, con una produttività per ettaro che è cresciuta del 30% negli ultimi anni e che – secondo le più recenti ricerche del Centro de Tecnologia Canavieira di Piracicaba – può aumentare ancora del 40%. In altre parole, l’alcol brasiliano «consuma» poca terra, in un paese in cui di terra ce n’è in abbondanza: la canna da zucchero occupa oggi circa 8 milioni di ettari, e potrebbe occuparne fino a 100 milioni, oggi incolti o abbandonati. Per quanto grande, la fusione Shell-Cosan è solo una di sessanta operazioni di mergers and acquisitions, di fusioni e acquisizioni negli ultimi tre anni nel settore dello zucchero e dell’alcol. Investitori stranieri controllano oggi circa il 25% del settore e contribuiscono al suo rafforzamento, grazie a grandi economie di scala e migliore efficienza. Ma quello della produzione e della trasformazione della canna da zucchero è ancora un settore altamente frammentato e dai risultati estremamente volatili: 438 fabbriche e 150 gruppi competono per i circa 30 miliardi di dollari del mercato di zucchero e alcol brasiliano, oggi diviso sostanzialmente a metà tra i due prodotti. Però lo zucchero ha un tasso di crescita intorno al 3% annuo, mentre l’aspettativa per l’alcol è circa del 15%. Ed è un settore esposto sui mercati finanziari globali a due oscillazioni indipendenti, quelle del petrolio e quelle dello zucchero come materia prima. Petrolio e alcol, infatti, sono concorrenti in prezzo nei serbatoi dei consumatori; mentre alcol e zucchero sono concorrenti in capacità di produzione nelle raffinerie. Forti oscillazioni del petrolio a New York da una parte e dello zucchero a Chicago dall’altra possono avere effetti devastanti sulla produzione e sulle riserve, richiedendo capacità di pianificazione e hedging (stabilizzazione dei prezzi) che vanno molto al di là delle competenze dei piccoli ­48

e medi produttori agricoli. Un settore, insomma, che nei prossimi anni dovrà andare incontro a una concentrazione sempre maggiore, nelle mani di gruppi più forti e strutturati: giganti internazionali delle commodities come Louis Dreyfus, fondi di private equity, imprese petroliere come Raízen (Shell-Cosan). E, appunto, come Petrobras. Nel suo piano strategico 2013, la società brasiliana dichiara di voler investire quasi 2 miliardi di dollari nel consolidamento del settore dell’etanolo, circa l’80% del totale degli investimenti in biocombustibili. Con l’obiettivo di raggiungere una quota del 10% di tutta la produzione nazionale, superando quindi anche la stessa Cosan. E l’alcol trasforma e rende «verde» anche la chimica.  Guardando più in là, in dieci o massimo vent’anni di tempo, le frontiere dell’industria dell’alcol si confondono con quelle della ricerca chimica. Il primo obiettivo è ricavare alcol non dal glucosio, ma dalla cellulosa – cioè da qualsiasi scarto di lavorazione di materie prime vegetali, compreso ovviamente il bagaço, materiale di scarto della stessa canna da zucchero, disponibile in grandi quantità e oggi inutilizzato. Combustibile dai rifiuti, insomma. Il secondo obiettivo della ricerca chimica del settore è usare l’etanolo come base di sviluppo alternativa al petrolio per le materie plastiche. Alcolchimica come alternativa «verde» alla petrolchimica, insomma. È questa, appunto, una delle principali scommesse di Braskem, grande impresa chimica da 20 miliardi di reais di fatturato annuale, parte del conglomerato brasiliano Odebrecht, in società con la solita Petrobras (attraverso la filiale petrolchimica Petroquisa), i fondi di pensione Petros e Previ (fondi dei funzionari pubblici di Banco do Brasil e di Petrobras), e la banca di sviluppo Bndes. Per complementare le sue linee tradizionali di produzione di polimeri a base di petrolio, Braskem ha investito circa 500 milioni in ricerca e sviluppo dal 2007 al 2010 e ha già lanciato la produzione su scala industriale di polimeri «verdi» a base di alcol. La fabbrica di Triunfo, nel Sud del Brasile, ha oggi una capacità di 200.000 tonnellate di Pet a base d’alcol, mentre altre otto unità nel resto del paese sono in costruzione o in riconversione. ­49

Potrebbe ricordare un po’ lo sviluppo del Mater-Bi di Montedison, nell’Italia degli anni Ottanta: una plastica biodegradabile e di origine vegetale (in quel caso, basata sul mais) per sostituire i derivati del petrolio. Solo che il Mater-Bi costava troppo e non raggiunse mai una scala industriale. Mentre il Pet verde di Braskem costa oggi appena il 30% in più del Pet tradizionale, senza considerare l’aspettativa di riduzione di costi nei prossimi anni grazie agli effetti di scala e di esperienza. E mentre il Mater-Bi, come tutte le plastiche a base di mais, non è riciclabile ma solo biodegradabile (con effetti controversi sull’ambiente: la fermentazione del Mater-Bi produce metano, il cui effetto serra è venti volte peggiore di quello dell’anidride carbonica), il Pet «verde» di Braskem si ricicla insieme alle bottiglie di plastica tradizionali. Anche in Italia, oggi, si sperimentano bioplastiche a base di scarti di lavorazione dello zucchero (i bieticoltori romagnoli, per esempio, vi stanno investendo, con buoni risultati). Ma nessun progetto, sino a oggi, ha raggiunto la scala industriale di Braskem. Il 30% in più sul costo di una materia prima per imballaggi. È troppo, per competere sul mercato? Rui Chammas, vicepresidente di Braskem responsabile del polietilene (tradizionale e verde), sorride e spiega: «Abbiamo già venduto quasi tutta la produzione dei prossimi cinque anni, prima ancora di lanciare il prodotto». Un mercato nuovo, stimato fino a un miliardo di reais l’anno: non è poco, per una impresa come Braskem che in totale ne fattura circa venti e che nel segmento verde, a tutt’oggi, praticamente non ha concorrenti. La tedesca Basf, la belga Solvay, la statunitense Dow Chemical stanno studiando prodotti analoghi, nei loro laboratori di ricerca in Brasile, peraltro. Ma non hanno ancora raggiunto né la maturità delle linee di produzione, né il portfolio di clienti di cui gode Braskem. Clienti come Tetrapak, Shiseido e Johnson & Johnson, che userà il biopolimero per i suoi protettori solari Sundown a partire dalla fine del 2011. E soprattutto come Natura, la più grande impresa di cosmetica e igiene personale in Brasile, un’impresa profondamente «verde» di cui parleremo ancora in seguito. Nell’ottobre del 2010, Natura ha sostituito il Pet tradizionale con la plastica verde di Braskem per tutti i contenitori di ricarica ­50

della sua storica linea Erva Doce. Cambiamento di sostanza, anche se molti consumatori potrebbero non percepirlo, visto che le nuove bottiglie sono identiche alle originali, eccezion fatta per un marchio molto discreto in basso, e che la differenza di costo sarà assorbita da Natura senza impatto sul prezzo finale. Ma un’innovazione che riduce significativamente l’impronta di carbonio di Natura. Per ogni chilogrammo di plastica tradizionale, infatti, è necessario emettere da uno a due chilogrammi di anidride carbonica nell’atmosfera. Mentre per ogni chilogrammo di plastica verde vengono sottratti all’atmosfera fino a 2,5 chilogrammi di anidride carbonica nel ciclo di crescita della canna da zucchero. Con l’aumento di scala dovuto alla linea Erva Doce, una delle più tradizionali nel portfolio di Natura, Braskem dovrebbe poter ridurre ulteriormente i costi. E Natura, a medio termine, potrebbe passare a usare la plastica verde in tutti i suoi imballaggi.

4.

Carne, soia e caffè brasiliani sulle tavole del mondo

«Un altro pré-sal» e cioè una fonte di ricchezza analoga a quella dei giacimenti petroliferi della Baia di Santos su cui si fondano gran parte dei progetti di sviluppo del Brasile nei prossimi anni. È questo il titolo con cui, nel giugno del 2010, il settimanale «Istoé Dinheiro» indicava dimensioni e prospettive del settore agricolo e agroindustriale. Dimensioni impressionanti. A cominciare dai 60 miliardi di dollari di esportazioni annuali verso 215 paesi diversi. Non solo zucchero e caffè, che nel 1970 rappresentavano oltre il 70% delle esportazioni. Ma anche carne, cotone, arance. E soia, soprattutto, che venduta all’estero come alimento e come foraggio, oggi rappresenta un terzo delle esportazioni del settore. Circa il 40% del Pil brasiliano del 2010 è legato all’agricoltura, all’allevamento e alla trasformazione industriale di prodotti alimentari e materie prime agricole (comprese, come abbiamo visto, le nuove frontiere dei biocombustibili e delle materie plastiche vegetali). E la prospettiva è di raddoppiare o forse triplicare la produzione in meno di dieci anni. «Alimentando o Brasil, Produzindo para o Mundo» è lo slogan del ministero dell’Agricoltura, che nel 2011 mette a disposizione 100 miliardi di reais di linee di credito per lo sviluppo del settore. E per guardare meglio, appunto, al mondo, il ministero ha aperto sedi di rappresentanza e promozione dei prodotti agroindustriali brasiliani, una sorta di ambasciate agricole speciali, in Cina, Stati Uniti, Europa (a Bruxelles), Russia, Giappone, Sud Africa e Svizzera, oltre che nella vicina Argentina.

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Le speranze della Fao nei campi brasiliani.  L’agricoltura è un’eredità coloniale che si è trasformata in una risorsa per il futuro, tanto che «The Economist», nell’agosto del 2010, ha dedicato al settore agricolo brasiliano un editoriale intitolato How to feed the world, come alimentare un mondo che nei prossimi quindici anni, secondo studi della Fao (Food and Agriculture Organization), avrà bisogno di oltre 3 miliardi di tonnellate di cereali (quasi il 50% in più della produzione di oggi) e quasi 400 milioni di tonnellate di carne (oggi se ne producono appena 260). L’agricoltura mondiale, dice la Fao, potrà rispondere ai bisogni dell’umanità solo con la straordinaria produttività brasiliana: le piantagioni dell’Ovest della Bahia, per esempio, producono fino al 70% di cotone in più rispetto al Sud degli Stati Uniti, e sono le più produttive al mondo anche per soia e mais. Un paradosso, per un paese di tradizione latifondista? No. Una evoluzione storica. Che parte, appunto, dal latifondo delle capitanie portoghesi. Un’immensità di terre a disposizione, coltivate intensamente un pezzetto per volta a forza di braccia a poco prezzo, fino all’esaurimento. Poi, esaurita la produttività di una piantagione, si poteva sempre disboscare e coltivare una piantagione nuova, e continuare così a mandare in Europa zucchero, cacao e caffè. Abolite la schiavitù e la dipendenza formale dalla madrepatria europea, la situazione non cambiò molto: i latifondi continuarono a essere improduttivi, nelle mani di pochissimi coronéis (letteralmente, in portoghese, «colonnelli», ma più generalmente grandi proprietari terrieri) che mantenevano i propri contadini in condizioni di semischiavitù. Nelle piantagioni, i coronéis avevano potere di vita o di morte sulla popolazione. E in alcune regioni del Nordeste più povero, in buona parte, ancora oggi ce l’hanno. Un destino comune all’America Latina coloniale, un incubo che Eduardo Galeano commenta con ironia: «È una maledizione antica: ogni volta che qualcuno pronuncia l’espressione ‘riforma agraria’, succede una disgrazia, c’è una morte misteriosa, si fa un colpo di Stato. E non se ne riparla più per un po’ di tempo». Così, quando João Goulart, successore di Juscelino Kubitschek alla presidenza della Repubblica nei primi anni ­53

Sessanta, introdusse il tema della riforma agraria nel dibattito politico, accelerò un colpo di Stato che da tempo una fazione filostatunitense dell’esercito stava preparando. Negli oltre vent’anni di dittatura dei generali, di riforma agraria non si poteva certo discutere. Nel 1973, peraltro, il governo militare dovette affrontare la crisi mondiale del petrolio e tagliò quasi tutti i sussidi all’agricoltura. E ancora oggi i contributi statali rappresentano meno del 6% delle entrate del settore agricolo brasiliano, rispetto al 12% negli Stati Uniti e al 29% nell’Unione Europea (i fondi del ministero dell’Agricoltura, distribuiti dal Banco do Brasil e Bndes, sono prestiti e non sussidi a fondo perduto). In compenso, negli anni della dittatura, si creò un ente di ricerca e sviluppo, l’Embrapa, che oggi è una delle istituzioni mondiali più avanzate nelle ricerche agropastorali e di biotecnologia. E proprio l’Embrapa riuscì a cambiare il modello agricolo brasiliano, dedicandosi a rendere coltivabili terre storicamente considerate poco appetibili: quelle del cerrado, la savana brasiliana. Terre acide, povere di principi nutritivi, con poca pioggia. L’Embrapa innanzitutto riversò in quelle terre quantità gigantesche, mai sperimentate prima, di gesso: un modo per ridurre l’acidità. Poi selezionò una varietà speciale di un batterio capace di fissare l’azoto dell’aria sulle radici delle piante, una specie di «autofertilizzante». E cambiò anche la flora: ibridi ottenuti da pazienti innesti di piante sudamericane e africane per ridurre il consumo d’acqua e triplicarne la produttività, la selezione di varietà della soia adattate al terreno acido e a un clima tropicale, e che permettono due raccolti l’anno. Oltre alle piante, radicali trasformazioni anche per gli animali: gran parte dei bovini brasiliani sono derivati da una razza indiana, selezionata e incrociata dagli scienziati dell’Embrapa per adattarsi alle condizioni microclimatiche del cerrado. Ricerca e biotecnologie, per sfruttare meglio la terra.  Ricerca e sviluppo, insomma, con l’approccio integrato che abbiamo appena descritto, hanno così trasformato steppe sterili nelle terre più produttive e promettenti del nuovo secolo. Tecnologie che danno al Brasile una posizione dominante nei mercati di oggi e ­54

una prospettiva di ulteriore crescita. Tecnologie che «servono» al mondo intero: la nuova frontiera agricola, fuori dal Brasile, è in Africa. E per dominare le terre e i microclimi del continente africano i modelli agricoli europei e statunitensi non servono, così come non serve la millenaria pazienza dei contadini cinesi, basata però su un clima temperato e su una terra sostanzialmente fertile. L’Africa potrà rispondere alla crescente fame di cereali e carne dell’umanità solo applicando il paradigma brasiliano. I cinesi, d’altronde, lo sanno bene: investono contemporaneamente in terre africane sottosviluppate e in fazendas brasiliane d’avanguardia. Imparano tecnologie agricole a ovest dell’Atlantico, le mettono in pratica anche a est. Non potendo distribuire i latifondi, insomma, l’Embrapa ha creato nuova terra. E nuova industria, che attira capitali brasiliani e internazionali: solo nel settore della canna da zucchero, grazie anche alle prospettive del biocombustibile, la partecipazione estera è passata dal 4% del 2003 al 26% del 2010. E anche le terre meno promettenti (che, come abbiamo visto, grazie alle tecnologie possono essere rese fertili in poco tempo) costano sempre più care: il prezzo medio delle terre del Piauí e del Tocantins, tradizionalmente poverissime, è aumentato del 70% in 36 mesi. Una crescita limitata solo dalle infrastrutture di trasporto, che non hanno seguito lo stesso tasso di sviluppo industriale del settore agricolo: nonostante la produttività doppia rispetto al Midwest americano, la soia brasiliana rimane marginalmente meno competitiva soltanto a causa dei trasporti, tre o quattro volte più cari di quel che servirebbe alla competitività dei prodotti. Ogni ettaro della «nuova» terra brasiliana produce oltre 25 tonnellate di foraggio. Il tempo di crescita di un vitello da carne, in trent’anni, è più che dimezzato, da quattro anni a circa un anno e otto mesi. Una produzione di carne che ha garantito il successo di imprese oggi internazionali come JbsFriboi, Marfrig, Brasil Foods. Le più importanti esportatrici di proteina animale del mondo sono brasiliane. E i numeri che le riguardano sono impressionanti. Semplificando: di tutto il pollo, maiale e manzo consumato oggi nel mondo, un terzo è brasiliano. E in dieci anni si arriverà alla metà. Senza contare le ­55

acquisizioni internazionali, quasi un centinaio nel settore negli ultimi dieci anni. Straordinarie, sorprendenti storie di successo che partono da origini umili. Un piccolo macello nel Goiás e le lasagne a Mosca.  Nel 1953, in una piccola città dello Stato di Goiás (nel Planalto Central, allora sostanzialmente desertico) José Batista Sobrinho aprì un macello, la Casa de Carne Mineira. L’ambizione iniziale: una capacità di abbattimento e lavorazione di cinque bovini al giorno. In un mese appena era diventato il fornitore esclusivo di tutte le macellerie della città. Pochi anni dopo la fondazione, Jbs (la società aveva ricavato il nome dalle iniziali del suo fondatore) già abbatteva una trentina di capi al giorno, rifornendo di bistecche l’immenso cantiere della costruzione di Brasilia, poco lontano. Nel 1970, la prima grande acquisizione, una fabbrica, inaugurò un trentennio di fusioni e di crescita che ancora oggi non conosce limiti. Con la quotazione in Borsa nel 2007 Jbs ha ottenuto risorse sufficienti per comprare la concorrente statunitense Swift. E il racconto di quell’impresa assume subito il colore del mito aziendale. Wesley Batista, uno dei tre figli del fondatore José, arriva dunque in Colorado per ristrutturare Swift e incorporarla al gruppo. Non ha studiato, non parla inglese («Sapevo dire solo cow», ha ricordato in un’intervista recente), ma porta lo stesso cappello dei cowboy nordamericani e non si separa mai dal suo coltello alla cintura. Quando entra per la prima volta in una fabbrica della Swift, si avvicina a uno dei macellai, gli fa segno di «no», sfila il coltello dalla cintura, e taglia lui uno dei «quarti» che scorrono lungo la catena di produzione. «Picanha», dice al macellaio, mostrando il suo taglio preferito, separato alla perfezione. «Rump steak», risponde l’americano, sorride e ne ritaglia un altro, con lo stesso gesto, dal «quarto» successivo. In pochi mesi, Wesley importa lo stile di gestione semplice ed essenziale di Jbs-Friboi: niente Six Sigma, niente consulenti, niente headhunters, niente gerarchie, niente sofisticate tecnicalità aziendali. «Vuole un nome per il nostro metodo di gestione? Lo chiami Frog, ‘From Goiás’», ama dire Wesley. In pochi mesi passa da ­56

nove livelli di gerarchia a quattro, sostituisce le cravatte di tutti i quadri dirigenti con cappelli e stivali, licenzia chi non sa stare in fabbrica a tagliare la carne, anche se si tratta di professionisti di finanza o marketing. Anche per le trattative commerciali c’è un «metodo Frog»: «Qui c’è la nostra proposta, guardi, fa caldo, io vado in piscina a bere due birre, mi faccia sapere se le interessa, quando ha deciso me lo dica che se vuole le presto bermuda e havaianas». Lasciando avvocati e banchieri d’affari a sudare con la controparte. Con l’ulteriore acquisizione di Pilgrim’s Pride, il gruppo Jbs-Friboi oggi è un gigante da 22 miliardi di dollari di fatturato, una presenza in 100 paesi diversi (anche in Italia, dove la joint venture da un miliardo di euro di fatturato con il gruppo Cremonini, dopo anni di contrasti anche giudiziari, è stata sciolta; ma Jbs ha subito rilevato il controllo di un’altra impresa, Rigamonti, produttrice di bresaola di qualità) e una capacità di abbattimento di 80.000 capi al giorno. La gestione? Ancora oggi in mano ai tre fratelli cowboy Joesley, presidente, Wesley, Ceo, capoazienda, cioè, e José Júnior Batista, adesso anche senatore a Brasilia. Cappello, stivali e coltellaccio. Non è molto diversa la storia di Marfrig. Quaranta acquisizioni negli ultimi tre anni (una al mese, cioè), centocinquanta fabbriche nei cinque continenti, 90.000 dipendenti in 22 paesi. Ogni giorno Marfrig macella e «lavora» oltre 30.000 bovini, 10.000 suini, 10.000 ovini e quasi 4 milioni di polli. E prepara gli hamburger e i nuggets di tutti i McDonald’s del mondo, un contratto ereditato dall’acquisizione di Keystone, concorrente americana, nel giugno del 2010. Nel luglio 2010 la marca Seara, filiale del gruppo che fabbrica alimenti (non solo carne, ma anche verdure, pasta, pesce e surgelati), è stata tra le più visibili tra gli sponsor ufficiali della Fifa nella Coppa del Mondo di calcio in Sud Africa: un segno della strategia di espansione globale, concentrata inizialmente nei mercati emergenti, anche nel segmento della distribuzione al dettaglio: «Non esiste una marca mondiale di carne. Seara lo diventerà», afferma il fondatore Marcos Molina, un quarantenne dall’atteggiamento sempre cordiale e sereno, che parla con tono semplice e non ha mai perso il suo forte accento caipira, contadino cioè. Già nel 2010 il gruppo ha un fatturato di ­57

circa 15 miliardi di dollari, dieci volte di più rispetto al 2007: un bel risultato per Molina, che cominciò la carriera a dodici anni come garzone di bottega di un macellaio del Mato Grosso do Sul, e che la sua Marfrig l’ha creata dal nulla appena dieci anni fa. Come i concorrenti Batista, Molina non si fida dei cacciatori di teste per selezionare i dirigenti del gruppo («Devono avere cervello buono, il resto non importa», ama ripetere Wesley Batista negli Stati Uniti). Molina da dieci anni va in giro con un quadernetto in tasca, sul quale segna i nomi di fornitori, clienti e altri professionisti che gli fanno una buona impressione. E ne chiama la maggior parte per diventare manager della Marfrig, impresa dove gli affari «vanno fatti senza burocrazia». È proibito l’uso di slides in Powerpoint, per esempio. E niente complicati sistemi di Crm. I professionisti europei e statunitensi del Customer Relationship Management sostengono che le nuove tecnologie permettono la «relazione del macellaio» con qualsiasi volume di clienti. Molina, invece, il suo modello ce l’ha nel sangue e non nel silicio: «Certo che ho il suo cellulare, risponde sempre. E se non lo chiamo io, ogni tanto mi telefona lui e mi chiede cosa può fare per aiutarmi», dice uno dei suoi clienti storici. E Molina replica: «In realtà ormai telefono più che altro per amicizia, della parte commerciale mi occupo molto meno». Cibi pronti brasiliani alla conquista dei mercati mondiali: Marfrig riprende oggi il sogno e i piani strategici della storica Sadia, concorrente di Santa Catarina (uno Stato del Sud del Brasile) che oggi fa parte del gruppo Brasil Foods. Un’altra storia esemplare. Tra il 2006 e il 2009, Sadia aveva avviato un ambizioso piano di espansione internazionale, cominciando con il mercato russo. Nel 2008 si vedevano per le strade di Mosca e San Pietroburgo le stesse pubblicità delle lasagne Sadia delle città brasiliane: le stesse foto, gli stessi prodotti, la stessa mascotte, un galletto sorridente col casco da motociclista, ma lo slogan in cirillico. Sadia aveva appena aperto una fabbrica a Kaliningrad, dove i migliori operai brasiliani erano andati a insegnare ai colleghi russi le ricette delle lasagne, della pizza, del prosciutto cotto e dei nuggets di pollo. «Non è stato facile», raccontava uno degli operai dopo il rientro in Brasile. «I russi mica parlano come ­58

noi, parlano russo! Ma, a gesti, una maniera di comunicare ce la siamo inventata». È il bello della cordialità brasiliana, ci si capisce più con il cuore che con le parole, e di fronte a qualsiasi difficoltà sempre se dá um jeito, in qualche modo ci si arrangia. «Però, sai cosa? Fa un freddo, lì in Russia...». Pochi mesi dopo, il sogno globale di Sadia è stato travolto dall’onda della crisi internazionale. Preoccupato per le conseguenze delle oscillazioni dei cambi, il direttore finanziario di Sadia aveva cominciato negli anni precedenti a proteggere i risultati esteri dell’impresa comprando grandi quantità di derivati di cambio. E un po’ per caso, un po’ per errore, non solo aveva garantito stabilità, ma aveva anche cominciato a generare grandi risultati puramente finanziari, non operativi. Una tentazione troppo forte: le speculazioni con i derivati assunsero rapidamente proporzioni gigantesche – miliardi di dollari in derivati, non solo futures di cambio ma anche credit default swaps e altri strumenti finanziari esotici. Un’esposizione superiore a quella della maggior parte delle banche brasiliane, senza i controlli di rischio obbligatori in una istituzione finanziaria. Bastò così un’ennesima oscillazione di mercato per mettere Sadia in ginocchio, e portarla in condizione di diventare preda dell’acquisizione da parte della storica rivale, Perdigão. Luiz Fernando Furlan, discendente del fondatore di Sadia, l’immigrato italiano Attilio Fontana, ed ex ministro dello Sviluppo economico nel primo governo Lula, è oggi solo un azionista del conglomerato Brasil Foods. «Ma la storia della nostra famiglia e della Sadia – dice – è finita. Oggi, per noi, Brasil Foods è un investimento. Amministro un portfolio di partecipazioni, come socio, non più come manager». Peccato: le lasagne brasiliane, a Mosca, avevano un tasso di fedeltà dei consumatori del 54%, di gran lunga il migliore del mercato. Spostare un fiume per irrigare il Nordeste.  Le tecnologie e la produttività, insomma, aiutano a ridurre l’importanza della questione della riforma agraria, tuttora irrisolta. E il governo punta alla «nuova frontiera», alla creazione e fertilizzazione di nuove terre, come risposta alla povertà storica delle regioni del Nor­59

deste. D’altra parte, le piantagioni di cotone più produttive al mondo già oggi sono nell’Ovest della Bahia, lontano dalla costa, in terre che fino a pochi anni fa vivevano l’incubo costante della fame e della sete. Quelle regioni arse dal sole, Lula le conosce bene: è la terra in cui è nato, e in cui vive ancora buona parte della sua famiglia. Pragmatico e visionario, ha deciso che di sete, nel Nordeste, non si deve morire più. Serve acqua, quindi. D’altra parte, il Brasile è un paese che concentra circa un quarto dell’acqua dolce del pianeta. La materia prima esiste, dunque, e in abbondanza. Bisogna però trasportarla. Ed è per questo che una delle opere pubbliche più ambiziose del Pac, il Programa de Aceleração do Crescimento voluto da Lula e gestito da Dilma, è lo spostamento del corso del Rio São Francisco. E il nuovo corso è oltre 400 chilometri più a nord, in modo da irrigare terre storicamente aride. Con varie biforcazioni, per dividere le acque tra regioni che ne hanno uguale necessità, per un totale di oltre 700 chilometri di alveo artificiale, con un costo stimato di 4,5 miliardi di reais, circa 2 miliardi di euro. Più o meno come se in Italia si decidesse di far correre il Po tra Perugia e L’Aquila. Le acque del nuovo Rio São Francisco renderanno perenni alcuni fiumi degli Stati del Ceará, della Paraíba e del Rio Grande do Norte, tra i più poveri e aridi del Brasile, permettendo lo sviluppo del settore agricolo e riducendo il fenomeno storico di migrazione interna che ha dato origine alle favelas di Rio, di San Paolo e di Brasilia. La mano pubblica, insomma, ha avuto finora un ruolo fondamentale nello sviluppo e nella modernizzazione del settore agricolo più competitivo al mondo, e continuerà ad averlo nei prossimi anni. Attraverso programmi di credito e investimenti in ricerca e infrastruttura, come abbiamo visto. Ma anche attraverso il suo «braccio» finanziario e d’investimento, Bndes, che infatti è azionista sia di Friboi che di Marfrig, con il 18,5% della prima e il 13,9% della seconda: un azionista di minoranza, sì, ma senz’altro molto rilevante. E anche Banco do Brasil, la più grande banca del paese (ne parleremo nel sesto capitolo) controllata dal ministero dell’Economia, partecipa allo sviluppo del settore agricolo con ­60

linee di credito dedicate e con un programma di distribuzione di «derivati» ai piccoli e medi imprenditori rurali. I «derivati» agricoli, infatti, se usati in modo cosciente e razionale, non sono «pericolosi»: al contrario, permettono di ridurre il rischio delle fluttuazioni dei mercati mondiali delle commodities garantendo agli agricoltori un prezzo prefissato per i loro prodotti. Un derivato costa meno di un’assicurazione e protegge con più efficacia, anche perché può coprire non solo il rischio di prezzo delle merci, ma anche quello di cambio con il dollaro. Ed è per questo che Banco do Brasil e BM&FBovespa, la Borsa di azioni e derivati di San Paolo, promuovono delle campagne di educazione finanziaria nel mondo rurale brasiliano. Il vantaggio per la Borsa? Aumentare i volumi di scambio di contratti brasiliani. Quasi tutte le merci, oggi, sono negoziate a Chicago, nella Borsa Cme (peraltro, partner di BM&FBovespa con partecipazioni azionarie incrociate). Ma si tratta di contratti in gran parte basati sul ciclo agricolo annuale statunitense. La soia brasiliana, abbiamo visto, permette invece due raccolti l’anno. Il peso e l’importanza della soia – e in generale dell’agricoltura – brasiliana stanno spingendo insomma la Borsa di San Paolo a rimettere in discussione il monopolio del suo partner nordamericano. Dalla «politica del caffellatte» alla salvaguardia dell’Amazzonia.  Una sfida, quella del settore agroalimentare brasiliano, che contribuisce a cambiare equilibri storici dell’economia mondiale. BM&FBovespa cresce più rapidamente di Cme. Jbs-Friboi e Marfrig superano Cargill e riforniscono McDonald’s (mentre il concorrente Burger King si fa comprare da tre investitori brasiliani). I settanta maggiori esportatori di zucchero creano un consorzio per fare pressione su prezzi e tariffe dell’Unione Europea, contando sul fatto che, senza la materia prima brasiliana, gli zuccherifici europei come la francese Béghin Say o l’italiana Eridania non potrebbero rispondere alla domanda dei loro mercati, e cercando di ridurre le barriere tariffarie che l’Europa usa per proteggere la coltivazione della barbabietola, altrimenti economicamente insostenibile. Da semplici fornitori a grandi protagonisti, insomma. ­61

D’altra parte, i grandi produttori agricoli brasiliani sono sempre stati una classe dirigente, almeno a livello locale. I coronéis dell’epoca coloniale confondevano la politica e l’amministrazione delle loro piantagioni di zucchero e cacao. Negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, il peso politico dei cafezeiros, dei grandi coltivatori di caffè di San Paolo e dei fazendeiros di Minas Gerais era tale che la definizione storiografica dell’epoca è «politica del caffellatte», ovvero degli equilibri tra gli interessi del caffè paulista e quelli del latte mineiro. E più recentemente, come abbiamo già visto, uno dei fratelli Batista di Jbs-Friboi ha lasciato la gestione attiva dell’azienda per dedicarsi alla politica, al pari di Luiz Furlan di Sadia. Un percorso, tra impresa e politica, analogo a quello di un altro grande personaggio dell’economia brasiliana, Guilherme Leal, co-fondatore di Natura (impresa di cui parleremo nel settimo capitolo), che con le sue idee di sviluppo sostenibile dell’Amazzonia ha contribuito, da candidato vicepresidente, alla campagna presidenziale della verde Marina Silva. Il problema della deforestazione dell’Amazzonia, sostiene Guilherme Leal, non si risolve solo con controlli e divieti. Certamente i monitoraggi satellitari, i controlli dell’esercito e le regole rigorose contro chi abbatte gli alberi hanno contribuito a ridurre il ritmo della distruzione: negli ultimi due anni, per la prima volta in oltre quaranta, il fenomeno ha subito una decelerazione anziché una accelerazione. Ma non basta. E ancora oggi la foresta amazzonica perde ogni anno una superficie grosso modo equivalente a quella del Belgio. Perché dalla deforestazione dipendono migliaia di famiglie, tra le più povere del paese, che non hanno, oggi, alternative di sopravvivenza. In Amazzonia Guilherme Leal immagina invece soprattutto ricerca e sviluppo: un polo della biodiversità e della sostenibilità, con grandi centri di ricerca a Manaus e Belém, collegati a decine di unità satellite nel cuore della foresta, per ricercare molecole, risorse e formule nascoste nella sua straordinaria e tuttora sconosciuta varietà della flora. Un’opportunità per l’industria farmaceutica, dei materiali, agroalimentare e cosmetica. Come Guilherme Leal sa bene. Da dieci anni, infatti, la linea di prodotti di bellezza ­62

Ekos della sua Natura è basata su materie prime e principi attivi estratti da piante dell’Amazzonia, coltivate e lavorate industrialmente, nelle fasi iniziali, da comunità locali secondo principi di gestione sostenibile delle risorse, insegnati loro dai ricercatori di Natura. Ricchezza e dignità di vita per centinaia di famiglie, protezione dell’ecosistema amazzonico, creazione di valore per gli azionisti di Natura, prodotti di migliore qualità per i consumatori finali. Un’equazione quasi miracolosa, che Guilherme Leal spera di poter riprodurre in altri settori. «Foresta viva», insomma, un paradigma molto diverso da quello della conservazione pura e semplice, economicamente e socialmente insostenibile. Un buon esempio di sviluppo umano e sociale, che crea ricchezza per le comunità del Nord e riduce la tentazione di disboscare per vendere la legna e far spazio a un allevamento di sussistenza: di quelle terre, di quella legna l’economia brasiliana non ha bisogno, c’è spazio altrove. Certo, il Brasile è uno dei principali esportatori di legna, cellulosa e carta al mondo (ci ritorneremo nel prossimo capitolo). Ma anche in questo settore il modello economico è cambiato, rispetto all’estrattivismo puro dell’epoca coloniale e latifondista. L’estrazione della legna per le flotte navali dell’Europa moderna ha quasi estinto una specie arborea, il Pau Brasil, talmente diffusa nella Foresta Atlantica da dare il nome al paese, pochi anni dopo la scoperta di Cabral. Oggi invece buona parte della produzione è di eucalipto, una specie importata, che però cresce in Brasile al doppio della velocità, tanto che imprese come Fibria, del gruppo Votorantim, e le concorrenti Klabin e Suzano, possono contare su un ciclo di piantagione e produzione di carta dell’ordine dei tre anni, mentre le concorrenti canadesi e finlandesi di anni ne devono aspettare almeno sette. E sono tutte risorse monitorate, gestite e controllate. Ancora una prova che si può fare agricoltura, allevamento e trasformazione di risorse naturali – e perfino carta – senza distruggere gli ecosistemi.

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I primati del ferro e dell’acciaio e le lattine ecologiche

Il Brasile può vantare, tra tanti primati, anche quello della lattina usata. Un primato bizzarro, a dirla così. Un primato importante, invece, se ci si ragiona. A vantaggio del Brasile, naturalmente. Ma anche un po’ di tutto il mondo. Per capire meglio, bisogna parlare dell’elettrolisi. E cioè di uno di quei processi chimici che si imparano a scuola, e che all’inizio sembrano quasi un gioco. Le edizioni più recenti del classico Piccolo chimico ne propongono almeno una o due varianti. Il concetto è semplice: si prende un liquido, lo si fa attraversare da una corrente elettrica più o meno potente, si separano elementi che altrimenti rimarrebbero legati. L’esempio classico è la separazione dell’acqua in idrogeno e ossigeno. In natura, l’alluminio, come l’idrogeno, non si trova allo stato puro, ma solo sotto forma di composto con ossigeno, in un minerale chiamato bauxite. Per ottenere l’alluminio di una lattina di birra, della carta da cucina o delle fusoliere degli aerei, bisogna separarlo. Per elettrolisi, appunto. La catena di produzione dell’alluminio, insomma, è uno dei processi più voraci di energia elettrica di tutta l’industria mondiale: serve per estrarre la bauxite, per fonderla ad altissime temperature, per rompere i suoi legami chimici. L’alluminio, dunque, inquina: in media, nel mondo, per ogni tonnellata di alluminio utilizzata si emettono quasi dieci tonnellate di anidride carbonica. L’1% delle emissioni totali al mondo è dovuto all’alluminio. Significa che un paio di lattine inquinano, più o meno, quanto percorrere un chilometro di strada con una Porsche Cayenne. Le lattine brasiliane, però, inquinano meno della metà. Innanzitutto perché riciclare l’alluminio (già separato dall’ossigeno) consuma circa un ventesimo dell’elettricità di un’elettrolisi, ­64

e il Brasile è il campione mondiale di riciclaggio di lattine (il 91% di quelle consumate nel 2008 sono state riciclate, mentre negli Stati Uniti sono state appena il 54%). E poi perché l’elettricità usata, ricordiamolo, è quasi tutta idroelettrica, quindi rinnovabile. Una buona notizia per l’ambiente: il Brasile è già il sesto produttore di alluminio al mondo e la produzione, negli ultimi vent’anni, è raddoppiata fino a quasi due milioni di tonnellate (in numero di lattine, significa 125 miliardi). Di bauxite infatti il sottosuolo brasiliano è ricchissimo. Come di manganese, di uranio e soprattutto di ferro. Ferro per fare acciaio, acciaio per fare lavatrici, frigoriferi e automobili e soprattutto per armare il cemento dell’edilizia civile. Materia prima essenziale, insomma, per sostenere la crescita di un paese come la Cina, la cui industria siderurgica nel 2010 ha consumato 667 milioni di tonnellate di minerale di ferro. La fortuna di ferro di Vale e le avventure dell’Agnelli brasiliano.  Il ferro è stato la fortuna della Companhia Vale do Rio Doce, oggi chiamata semplicemente Vale (un nome che, in portoghese come in italiano, fa pensare al valore dell’impresa e delle sue attività). Un gigante delle attività estrattive brasiliane e mondiali. Soprattutto grazie a un concetto essenziale pensato dal suo storico presidente Eliezer Batista, padre del miliardario Eike (di cui parleremo più a lungo tra poco). Batista padre, intuito il potenziale del mercato siderurgico giapponese per ricostruire il paese dopo la guerra, sapeva di dover competere con gli australiani di Bhp Billiton e di Rio Tinto, geograficamente molto più vicini al Giappone: le navi da Sydney arrivano a Tokyo in una decina di giorni, quelle dei porti brasiliani ci mettono almeno il triplo del tempo, un trasporto, quindi, molto più caro. Eliezer Batista decise allora di misurare le distanze non più in chilometri o in miglia marittime, ma in dollari. Voleva che la brasiliana Vale, all’epoca impresa statale, avesse la stessa «distanza economica» dai giapponesi dei suoi concorrenti australiani. Per ogni chilometro geografico di vantaggio degli australiani, doveva trovare un chilometro operativo ed economico di vantaggio dal ­65

suo lato, vendendo il ferro meno caro. E con l’aiuto di un costo di manodopera più basso, di alcune agevolazioni doganali e di un programma rigoroso di scala e di efficienza delle operazioni di Vale, c’era anche riuscito. Ancora oggi, dopo un formidabile ciclo di espansione e diversificazione dovuto alla privatizzazione, la nuova Vale è sempre «più vicina» ai suoi clienti (cinesi, adesso, non più giapponesi) dei concorrenti diretti. Ha anche fatto un passo in più: dal 2010 i prezzi di vendita in Cina sono calcolati già con il trasporto fino al porto di destinazione, effettuato dalla stessa Vale, che oggi dispone di sei porti e di una delle più grandi flotte cargo al mondo: «Siamo più piccoli solo della marina americana», si vanta il presidente di Vale Roger Agnelli. Con l’acquisizione della canadese Inco per 18,9 miliardi di dollari, nel 2007, Vale è diventata la seconda più importante impresa di estrazione al mondo (la prima in assoluto, se si considera solo il ferro). Nel 2010, Vale ha fatturato oltre 85 miliardi di reais (circa 35 miliardi di euro, cioè), con un utile netto di 30 miliardi di reais, il più grande in assoluto nella storia mondiale dell’industria estrattiva. E controlla miniere nei sei continenti per estrarre ferro (tra 2 e 300 milioni di tonnellate all’anno), manganese, alluminio, nichel, rame, fosforo, potassio, materie prime per i fertilizzanti a base di azoto ecc. Effetto della «fame di commodities» cinese? Certamente. Ma anche merito della mano di gestione esperta e professionale con la quale Roger Agnelli, presidente dell’era privata, ha trasformato un mastodonte statale in declino in una multinazionale ultracompetitiva. Fino al 1997, la Companhia Vale do Rio Doce era considerata più che altro un fardello, ed era stata inserita nel programma di privatizzazioni del governo di Fernando Henrique Cardoso perché ritenuta poco produttiva e poco strategica. Oggi, in Borsa, Vale capitalizza quanto la statale Petrobras, e le sue azioni sono negoziate a San Paolo, New York, Parigi, Madrid, Hong Kong: «Adesso si possono comprare e vendere titoli Vale ventiquattr’ore al giorno, nei mercati mondiali», dicono dall’area delle relazioni istituzionali della compagnia. In tredici anni di negoziazioni, Vale è passata da un valore iniziale di 10,7 miliardi di reais a circa 277 nell’ottobre del 2010. Anche ­66

correggendo l’effetto dell’inflazione, è una valorizzazione del 1058%, più di dieci volte, cioè. E dal 2005 a oggi, l’impresa ha pagato circa 27 miliardi di reais di dividendi (al netto dell’inflazione, anche in questo caso). Le esportazioni di ferro nel 2010 superano, per la prima volta, quelle di Petrobras, e si classificano come primo capitolo della bilancia commerciale brasiliana. Per il futuro, sono pronti piani di ulteriori investimenti, di quasi 30 miliardi di dollari in due anni, sia in Brasile che all’estero. E uno sforzo di «pulizia» per un’industria che dal punto di vista ambientale è sempre stata particolarmente «sporca»: la regione di Carajás, in Amazzonia, la più grande miniera di ferro a cielo aperto del mondo, consuma il doppio del carbone di quanto gli organi ambientali autorizzino per l’intero Stato del Pará, il che significa che almeno 4 milioni di tonnellate devono necessariamente provenire dal mercato illegale, una delle principali cause della deforestazione amazzonica. Ma le nuove campagne d’immagine di Vale sono centrate su uno slogan che dice: «Non esiste futuro senza le miniere. E non esistono le miniere senza pensare al futuro». Proprio a Carajás, infatti, Vale sperimenta tecnologie d’avanguardia: robot di estrazione e pulizia, trivellazioni sotterranee per esplorare nuovi filoni senza distruggere la foresta, riduzione dei consumi di energia. Il successo, si sa, suscita gelosie. Alimenta contrasti. Anche politici. Tanto che Roger Agnelli dovrebbe lasciare Vale nel 2011, sulla scia di lunghe polemiche con Lula e Dilma. I governi del Pt, infatti, si sono più volte dichiarati preoccupati per l’aumento eccessivo delle esportazioni di materie prime non lavorate, come il ferro che, appunto, Vale vende ai cinesi. «Le acciaierie le sappiamo fare benissimo anche qui», amava ripetere Lula. E, secondo la stessa filosofia della localizzazione brasiliana degli impianti industriali, Dilma ha sempre insistito, nel consiglio d’amministrazione di Petrobras, per la costruzione di nuove raffinerie nel Nordeste brasiliano, anche se esportare petrolio crudo e usare le raffinerie «oziose» (e cioè scarsamente utilizzate) del Messico sarebbe economicamente più vantaggioso. Agnelli però non sembra molto d’accordo con una tale politica industriale. Perché i margini dell’industria siderurgica sono ­67

meno interessanti, a parità di capitale investito, rispetto a quelli dell’espansione delle attività estrattive (il margine lordo delle attività minerarie è dell’ordine del 75%, quello della siderurgia, anche nelle migliori condizioni, non arriva al 25%). E soprattutto perché non vorrebbe mettersi in concorrenza con i suoi stessi clienti. Ma, sotto pressione da parte del governo, ha comunque lanciato un grande piano di investimenti in siderurgia, arrivando anche a inaugurare, il 18 giugno 2010, un’acciaieria in società con ThyssenKrupp per fare acciai piani: 30.000 posti di lavoro durante la costruzione, altri 3500 nella fase di produzione, alte tecnologie per minimizzare gli impatti ambientali, progetti sociali per le comunità circostanti, processi e logistica ottimizzati dalla miniera alla bobina, perfino una centrale termoelettrica e un porto merci direttamente integrati nella struttura. Peccato che l’investimento necessario sia stato praticamente il triplo del budget iniziale, anche a causa di un ritardo di un anno e mezzo nei lavori. Peccato, inoltre, che gli sforzi di protezione ambientale siano andati a vuoto, con incidenti pesantissimi già all’apertura: la nuova impresa siderurgica ha già collezionato multe ambientali per 2 milioni di reais. E in ritardo sono anche altre opere, compresa un’acciaieria nello Stato nordestino del Ceará in società con l’italiana Danieli. Insomma, il Pt di Lula e Dilma continua a essere ostile e può contare adesso sull’appoggio di buona parte del blocco di controllo di Vale. Nonostante l’impresa non sia più formalmente statale, i principali azionisti riuniti nella holding Valepar sono i fondi pensione Previ e Petros, Bradesco e Bndespar (la holding industriale della banca di sviluppo Bndes). Enti di diritto privato. Ma fortemente influenzati da simpatie politiche, indiscutibilmente pubbliche. Gerdau, un leader d’acciaio.  Non che le acciaierie in Brasile manchino. I campioni nazionali Csn, Gerdau, Votorantim Metais e Usiminas, insieme alle concorrenti straniere, producono oltre 30 milioni di tonnellate di acciaio l’anno. Gerdau, in particolare, è il leader negli acciai lunghi (quelli per le attività di edilizia e opere pubbliche) in tutto il continente americano; e considerando l’intera gamma degli acciai, è il numero 13 al ­68

mondo, dopo i colossi indiani, cinesi, giapponesi e statunitensi e subito prima dei grandi gruppi europei, gli italiani Riva e i tedeschi ThyssenKrupp. Le 337 unità industriali di Gerdau, che danno lavoro a oltre 46.000 dipendenti, sono distribuite in 14 paesi: in America Latina, negli Stati Uniti (con la marca Gerdau Ameristeel) e perfino in India, patria del gigante mondiale ArcelorMittal. Ed è di Gerdau uno dei primi acciai da costruzione «verdi» al mondo: buona parte della materia prima non è minerale ma riciclata, e i processi sono stati ridisegnati per ridurre i consumi di energia e gli scarti, dunque l’impatto ambientale. Innovazione, insomma, in un settore industriale tradizionale e maturo come la siderurgia. Non solo nei prodotti, ma anche nella catena del valore e nel modello operativo. Usiminas, per esempio, ha comprato delle miniere per integrare la catena di estrazione del minerale di ferro e quella di produzione dell’acciaio («sterilizzando», così, le oscillazioni di prezzo delle commodities influenzate da Vale, Bhp Billiton e Rio Tinto in sintonia con i più grandi clienti in Cina). E Gerdau, anziché espandersi «a monte», ha deciso di farlo «a valle», creando servizi di distribuzione, di taglio e di pre-lavorazione per rispondere meglio alle necessità delle costruzioni civili in pieno boom. Unità di prelavorazione, gestite da Gerdau o dalle concorrenti, fanno parte anche dei cantieri faraonici delle più grandi opere del Pac come lo spostamento del Rio São Francisco, di cui si è già parlato, e la costruzione delle centrali idroelettriche di Belo Monte e Jiraú. Votorantim, capitalismo familiare e manager per l’espansione mondiale.  Differente la strategia dei concorrenti Votorantim, che diversificano le attività molto oltre i metalli (zinco, soprattutto, ma anche nichel e alluminio, in Brasile, negli Stati Uniti e in America Latina). L’impegno industriale del gruppo, infatti, copre quasi tutti i settori delle materie prime e dei semilavorati industriali: oltre che di metalli, si occupa di cemento, carta, ma anche succo d’arancia e servizi finanziari (Banco Votorantim, in partnership con la banca pubblica Banco do Brasil). Le commodities, si sa, richiedono enormi volumi per generare economie di scala e d’esperienza. I cugini della famiglia Ermírio de ­69

Moraes, quarta generazione alla testa del gruppo di famiglia, lo sanno bene, e lo sanno i manager che lavorano con loro. Tutte le filiali del gruppo Votorantim, infatti, hanno obiettivi di crescita estremamente aggressivi. Che in alcuni casi passano per fusioni e acquisizioni di rilievo. Come nel caso di Fibria, tra i leader mondiali nel settore della carta e della cellulosa insieme a Klabin e Suzano, nata dall’acquisizione da parte di Votorantim Celulose e Papel della storica concorrente Aracruz. Fibria produce in Brasile, grazie ai cicli accelerati di crescita dell’eucalipto (meno della metà del tempo necessario nei climi temperati), oltre 6 milioni di tonnellate di carta l’anno. Con la possibilità di raddoppiare la produzione nei prossimi anni, per vendere non solo in Brasile, ma anche e soprattutto in Europa e in Cina. L’industria brasiliana della carta, oggi, è la quarta al mondo, dopo Stati Uniti, Canada e Cina. «Ma prevediamo investimenti massicci per aumentare del 25% l’area piantata a foreste di eucalipto», stima Elizabeth de Carvalhaes, presidente della Federazione degli industriali del settore. E fa una previsione: «Entro il 2014 supereremo la produzione cinese». Vantaggi competitivi? Gli stessi di tutto il settore agricolo brasiliano: una maggiore produttività grazie alla combinazione del clima tropicale con le più sofisticate tecnologie agricole e di gestione. «Non dimentichiamo che la carta brasiliana viene da foreste piantate e gestite, quindi sequestra anidride carbonica, non ne produce», conclude Carvalhaes. Sempre nel gruppo Votorantim, anche Citrovita, con l’acquisizione di Citrosuco nel 2010 (in attesa di conferma finale dall’antitrust brasiliano, il Cade), è diventata la numero uno al mondo nel suo settore, la produzione ed esportazione di succo d’arancia, con una quota di mercato globale del 25%. D’altra parte, le esportazioni brasiliane sono l’85% del totale mondiale. Contando anche le produzioni locali non esportate, su cinque bicchieri di succo d’arancia bevuti nel mondo, tre sono stati prodotti in Brasile: un mercato da 6,5 miliardi di dollari. Anche Votorantim Cimentos, forte di investimenti miliardari, ha aperto nuovi cementifici negli Stati Uniti, dove ha il 30% di quota di mercato a Chicago e nella regione dei Grandi Laghi, ­70

consolidando la sua posizione nella top 10 mondiale del settore, in concorrenza frontale con i francesi Lafarge e i messicani Cemex. Contando tutte le filiali, insomma, il gruppo Votorantim è presente in venti paesi e impiega 40.000 persone (per avere una idea dell’ordine di grandezza, è più o meno l’equivalente di Rai, Alitalia e Barilla messe insieme). Un conglomerato industriale e finanziario che ricorda General Electric, ma che a differenza di Ge è anche una impresa gestita ancora dalla famiglia del fondatore, un esempio di capitalismo familiare che ha saputo crescere integrando le più moderne pratiche di gestione alla tradizione. Non è per caso che Votorantim sia l’unico gruppo al mondo ad aver ricevuto un rating di «Investment Grade» per le emissioni di obbligazioni dalle tre principali agenzie pur non avendo un «capitale aperto»: alcune delle filiali, infatti, sono quotate in Borsa, ma la holding è controllata dal consiglio di famiglia. Eike Batista, il collare d’argento e la «x» che indica la moltiplicazione della ricchezza.  Buon capitalismo di generazione in generazione, insomma, quello della famiglia Ermírio de Moraes. E di seconda generazione è anche Eike Batista, figlio cinquantatreenne di Eliezer, di cui abbiamo già parlato. E proprio ad Antônio Ermírio de Moraes, storico presidente del Grupo Votorantim e figura emblematica della vita imprenditoriale, politica e culturale di San Paolo, Eike ha ormai «rubato» il titolo di uomo più ricco del Brasile, classificandosi all’ottavo posto dei più ricchi al mondo nella graduatoria di Forbes. Eike è anche uno straordinario personaggio da cronache mondane. Anni fa, nel 1990, già fidanzatissimo e a una settimana dal ricevimento ufficiale del matrimonio, aveva conosciuto a una festa Luma de Oliveira, la regina della scuola di samba Portela. Secondo le cronache, Luma era saltata fuori dalla torta di compleanno di un amico di Eike. E per Eike era stato un colpo di fulmine. All’istante, dunque, Eike aveva lasciato la fidanzata in carica (moglie, in realtà, con la cerimonia religiosa già fatta; ma in Brasile non c’è il concordato, e il matrimonio civile non l’avevano ancora celebrato; quanto a quello religioso, l’avrebbero annullato alla Sacra Rota) ­71

per sposare la bellissima sambista, con la quale ha oggi due figli, Thor e Odin come le divinità dei vichinghi. Storia brillante. E vivace. Anche dopo il matrimonio con Eike, infatti, Luma de Oliveira aveva continuato a sfilare nei cortei del Carnevale, pochissimo vestita, come si conviene alla regina di una scuola di samba. E Eike, gelosissimo, all’inizio aveva anche fatto buon viso. Ma imponendole un accessorio, vistoso, d’appartenenza: un collare nero, con la scritta «Eike» tutta d’argento, a scanso di equivoci e maldicenze. Tredici anni dopo, un divorzio milionario. Dopo l’ennesima sfilata di Carnevale, Luma s’era concessa anche le foto su una rivista maschile, e il calendario dei pompieri. Troppo, per il marito. E così oggi Eike se ne va in giro con una ex modella meno conosciuta, Flávia Sampaio, ventitré anni più giovane di lui. Che ama vederlo correre con i suoi motoscafi (negli anni Novanta, Eike è anche stato campione brasiliano, americano e mondiale di motonautica) e non si espone sui giornali. A questo, oramai, ci pensa solo Eike. Un uomo vanitoso, appunto. Che racconta ai giornalisti dei fogli di gossip del suo reimpianto di capelli «made in Italy»: «Una pellicola di silicone che aderisce alla pelle e sostiene i capelli impiantati, una cosa sensazionale che fa la ‘Cesare Ragazzi’ in Italia, la stessa che usa Berlusconi». Ma attenzione a non equivocare. Al di là della brillantezza mondana, Eike Batista è soprattutto uno straordinario imprenditore. Dal padre aveva ricevuto un robusto carnet di indirizzi, preziosi consigli (i critici parlano però di informazioni privilegiate, e ancor oggi Eliezer siede nel consiglio d’amministrazione del gruppo del figlio) e un piccolo capitale iniziale per fare fortuna all’estero. Tra il 1980 e il 2000 Eike ha fatto affari in Russia, Grecia, Ecuador, Venezuela, Argentina, Cile e Canada, soprattutto in miniere d’oro. Dal 2000, le nuove condizioni macroeconomiche di stabilità l’hanno convinto a tornare in Brasile: «Il miglior paese al mondo per giocare con le risorse naturali», dice. Ed è soprattutto in Brasile che Batista junior è diventato, per tutti, Eike. Scommettendo, appunto, sulle materie prime, e sulla possibilità di fare concorrenza ai giganti Petrobras e Vale con le sue imprese Ogx (petrolio e gas) e Mmx (miniere). ­72

La holding Ebx (la «x», spiega Eike, ha un valore scaramantico, indica il fatto che le sue imprese moltiplicano ricchezza) controlla anche un’impresa di logistica, Llx, un porto privato, Portx, un’impresa di costruzione navale e di attrezzature per il petrolio, Osx (fornitore privilegiato, è chiaro, della stessa Ogx), un’azienda di energia, Mpx. Ebx e le controllate, negli ultimi sei anni, hanno raccolto oltre 10 miliardi di dollari sui mercati di capitali per investimenti tutti ambiziosi e tutti di lunghissimo termine. Adesso molti dei progetti stanno cominciando a dare risultati, al punto che Ogx sta occupando parte dello spazio di Petrobras nell’attenzione degli analisti di mercato e dei gestori di fondi d’investimento. Il gruppo Ebx, in totale, vale in Borsa oltre 55 miliardi di dollari: «Tutto capitale produttivo, investito in progetti giganti che creano occupazione e migliorano il paese. Ne sono molto felice», sostiene l’imprenditore. E della ricchezza «moltiplicata» dalle «x» di Eike, una parte consistente è reinvestita nella città di Rio de Janeiro, profondamente amata. Solo per la campagna per i Giochi olimpici del 2016 Eike ha donato 24 milioni di reais. Altri 20 all’anno li investe per finanziare la polizia e le sue Upp (Unidades de Policía Pacificadora per combattere il crimine nelle favelas: ne parliamo meglio nell’undicesimo capitolo). Ha anche deciso di ristrutturare lo storico Hotel Glória e il quartiere circostante per spostarvi la sede di Ebx. E insieme ai coreani di Hyundai (soci al 10% anche di Osx) sta creando un polo universitario e di ricerca di ingegneria navale, il futuro Itn di Rio de Janeiro: «L’Instituto de Tecnologia Naval sarà per l’industria navale brasiliana quello che oggi è l’Ita per l’aeronautica», prevede Eike. Rimpianti? Solo uno. Nel 2009, forte di una amicizia consolidata con l’allora ministro Dilma Rousseff, tentò una serie di mosse politiche per comprare una quota di controllo di Vale e prendere – simbolicamente – l’antico posto di suo padre Eliezer. Ma uno degli azionisti, Bradesco, gli impose un limite, confermando l’appoggio al presidente Roger Agnelli. Industria, ricchezza, espansione internazionale: le materie prime sono diventate l’asso nella manica di una giovane e cre­73

scente potenza. Che oramai quasi non si ricorda neanche più dei secoli delle «vene aperte dell’America Latina», per dirla con Eduardo Galeano, o con l’architetto Oscar Niemeyer che al «dissanguamento» del continente per mano europea e nordamericana ha dedicato un impressionante Memoriale nella città di San Paolo: la scultura di una grande mano aperta, rivolta verso il cielo in segno di pace, con una ferita rossa al polso, sangue che sgorga e scorre a disegnare la forma del continente latinoamericano. «Il petrolio è nostro», rivendicavano per la prima volta i brasiliani con la fondazione di Petrobras negli anni Cinquanta. E finalmente sono «loro» anche il ferro, il gas, i metalli rari e preziosi, il legname, i fertilizzanti. In Brasile, certo. E ora anche all’estero.

6.

Finanza a prova di crisi e un barcone lungo il fiume

Un conto alla rovescia. Dieci... nove... cinque, quattro, tre, due, uno... via! Suona una sirena, campane a festa, una fanfara intona un samba molto animato. Tutti i presenti ridono, si abbracciano, si lasciano andare ai passi di danza mentre una pioggia di coriandoli argentati riempie la sala. Non è il 1° gennaio, e non siamo a Copacabana. La scena si svolge nella sala delle grida della Borsa valori dello Stato di San Paolo, la Bovespa, grande spazio di cerimonie. E proprio lì, il 25 giugno 2010, si festeggia l’esordio in Borsa di Visanet, una società che già dal primo giorno capitalizza 8,4 miliardi di reais, circa 4 miliardi di euro. L’aria di festa è più che giustificata. Perché si tratta, in quel momento, del più grande evento sul mercato dei capitali del decennio in tutto il mondo, e ha anche una risonanza di buon augurio, visto che è la prima Ipo (Initial public offering, quotazione in Borsa, cioè) da quando è scoppiata la Grande Crisi. Bovespa all’avanguardia internazionale, dunque. Un segno di cambiamento straordinario. Gli investitori stranieri, ancora prudentissimi sui mercati di New York e Londra, Tokyo e Hong Kong, sottoscrivono già all’apertura oltre il 20% del capitale di un’impresa brasiliana che affronta una trasformazione radicale e ambiziosa. Visanet, infatti, fino al conto alla rovescia della Bovespa, è stata la monopolista dei circuiti di pagamento Visa in Brasile, fornitrice dei terminali Pos di milioni di punti vendita (Points of sale, appunto) capillarmente distribuiti da Rondônia a Rio Grande do Sul, e distributrice del marchio Visa per tutte le carte di credito brasiliane. La rivale Redecard, fino a quel momento, in realtà non è stata una concorrente: ha lavorato anch’essa in monopolio sul marchio Mastercard. Gli azionisti – le banche ­75

Bradesco, Santander e Banco do Brasil – l’hanno sempre considerata come una sorta di utility, necessaria per il buon funzionamento delle carte di credito ma certo non un’area di business strategica. Solo che il governo ha deciso di rompere il monopolio di marca, a partire dal luglio del 2010. E così un servizio considerato banale, quello dei pagamenti elettronici, si è trasformato in un nuovo mercato. Che adesso cresce seguendo i tassi vertiginosi dello sviluppo dei consumi in Brasile (le emissioni di nuove carte di credito o di debito aumentano del 19% all’anno, mentre i volumi di pagamento del 23%) e crescerà ancora: l’uso delle carte rappresenta oggi meno del 25% dei consumi brasiliani, mentre negli Stati Uniti questo dato arriva al 40% e in Inghilterra e in Corea quasi al 60%. Un mercato nuovo e promettente, insomma, in cui le due storiche rivali potranno operare ciascuna con le carte dell’altra (Redecard con Visa, Visanet con Mastercard) e dovranno affrontare i nuovi concorrenti. Ecco perché Visanet si è rivolta al mercato per finanziare un gigantesco piano d’investimento, in tecnologie, capitale umano, distribuzione e capillarità sul territorio e sostenere così la sua trasformazione da ex monopolista Visa a leader di un mercato competitivo. Sei mesi dopo la quotazione in Borsa, l’azienda è radicalmente cambiata, tanto da abbandonare il nome storico, troppo legato alle vecchie attività in monopolio e da inventarsi un nuovo marchio. Oggi infatti Visanet si chiama Cielo, nome italiano per suggerire libertà, serenità e assenza di limiti. La sua pubblicità è rafforzata – non potrebbe essere altrimenti – dal campione mondiale di nuoto César Cielo. E «in una notte», all’indomani dell’apertura del mercato alla concorrenza, ha cominciato a operare transazioni Mastercard, Amex e Diners. Un flusso gigantesco: «Ogni tre secondi – spiegano i suoi comunicatori – le macchine Cielo emettono talmente tante ricevute in tutto il Brasile che se fossero allineate una sopra l’altra supererebbero la Tour Eiffel». E i suoi azionisti di riferimento, Banco do Brasil e Bradesco, già progettano carte di credito con condizioni speciali per i consumatori delle classi di reddito più basse. Un altro segno, importante, della trasformazione del Brasile: il benessere si allarga, milioni di nuovi consumatori corrono a ­76

comprare qualcosa. Credito e finanza sono pronti. Il mercato interno traina la crescita. Si va nel Cielo degli acquisti. Anche se, nel Brasile finanziariamente dinamico, non è più di Cielo il record storico mondiale delle operazioni di apertura di capitale in Borsa. L’ha superato una banca cinese, ma poi il Brasile è tornato in vetta, prima con Banco Santander (in Brasile, appunto, e non nella Spagna paese d’origine dell’istituto) e più recentemente, come abbiamo già visto, con l’operazione di aumento di capitale da 70 miliardi di dollari di Petrobras per il «pré-sal». La seconda Borsa del mondo per valore dopo Hong Kong.  La Bovespa – oggi BM&FBovespa, nata dalla fusione della Borsa di azioni con quella di merci e futures – si presenta ora con orgoglio come la seconda Borsa al mondo per capitalizzazione dopo Hong Kong. Un dato che può sembrare assurdo a chi pensa che a New York sono quotati giganti come General Electric, Wal-Mart o Google. Ma le Borse, alla fine, sono imprese: e il loro valore di mercato non dipende solo da ciò che contengono oggi, ma anche (e in alcuni casi, soprattutto) dalle aspettative degli investitori su come cresceranno e su ciò che conterranno in futuro. Così, anche sommando il valore azionario delle imprese Nyse Euronext (che controlla non solo Wall Street, ma anche le Borse di Parigi, Amsterdam, Bruxelles e Lisbona), Lse (il gruppo formato dal London Stock Exchange e da Borsa Italiana) e Nasdaq (la Borsa dei titoli tecnologici americani, quella di Apple, Google e Microsoft, per intenderci, e che controlla anche tutti i mercati del Nord Europa e la piazza di Dubai), si arriva appena ai tre quarti del valore dell’impresa BM&FBovespa. D’altra parte, le prospettive di crescita della Borsa paulistana sono impressionanti, sia dal lato dell’offerta di nuove imprese che da quello dell’attrazione di nuovi pool di investitori. L’investimento nel mercato di capitali di San Paolo, infatti, è oggi essenzialmente un investimento istituzionale, sia brasiliano (fondi pensione e d’investimento locali) sia internazionale. Gli individui e i piccoli fondi rappresentano meno del 10% del pool d’investimento, mentre a New York, per esempio, superano il 30%. I circa 600.000 investitori individuali ­77

di oggi sembrerebbero già un numero record, considerando che nel 2004 erano appena 117.000: un aumento superiore al 500%, mentre in Italia nello stesso periodo gli investitori individuali sono diminuiti del 26%. Crescita dovuta soprattutto alle aperture del capitale di imprese conosciute e ammirate dal grande pubblico, cominciando proprio nel 2004 con Natura. Ma gli obiettivi della Borsa di San Paolo sono molto più ambiziosi: entro il 2015, di investitori individuali ne vorrebbe oltre 5 milioni, ampliando quindi la sua penetrazione anche tra le famiglie di classe media, quelle con redditi compresi tra 2500 e 6000 reais al mese, oggi praticamente assenti dal mercato azionario brasiliano. E così ha dedicato una squadra di marketing per colmare questa differenza, con campagne di educazione e propaganda: «La Borsa va in spiaggia», durante le ferie estive nelle principali località balneari dello Stato di San Paolo, e «la Borsa va a scuola», rivolta agli adolescenti (investitori sotto i quindici anni ce ne sono oggi circa 2000, più del doppio di un anno fa; e tra loro si diffonde il mito di Warren Buffett, che cominciò la sua carriera a Wall Street a undici anni). L’ultima trovata? Una campagna pubblicitaria di cui è protagonista lo storico campione Pelé, che investe in Borsa e chiede: «Vuoi essere mio socio?». Quaranta milioni di reais in spot trasmessi alla televisione, alla radio, diffusi nei cinema e nelle pagine dei giornali: una visibilità paragonabile a quella degli elettrodomestici Brastemp, leader di mercato. Per quel che riguarda gli investitori internazionali, storicamente gli investimenti sulle imprese brasiliane emergenti come Vale, Petrobras, Itaú o Tam erano effettuati a New York su titoli chiamati Adr (American Depositary Receipts), delle «fotocopie» delle azioni brasiliane, negoziate su una piazza più «facile» e conosciuta come quella di Wall Street. Nel caso di Vale, per esempio, la velocità di negoziazione delle fotocopie nordamericane nel 2007 era circa il doppio di quella delle azioni originali a San Paolo. Ma adesso il Banco Central, la Cvm (Comissão de Valores Mobiliários, la Consob brasiliana) e la stessa Borsa stanno lavorando a nuove regole e semplificazioni della burocrazia per favorire l’entrata diretta di investitori, sia internazionali che locali, sul mercato brasiliano. Investire a San ­78

Paolo, insomma, diventa ogni giorno più semplice: con l’ovvia e benefica conseguenza di un aumento costante dei flussi di nuovi capitali da tutto il mondo. Una condizione ideale per attrarre nuove imprese, non solo brasiliane ma anche latinoamericane e internazionali, che si aggiungeranno presto alle circa seicento già quotate in cinque anni. L’ambizione è di quotarne in tempi brevi altre duecento. L’obiettivo della Borsa di San Paolo, ama ripetere il suo Ceo Edemir Pinto, è di essere una delle principali piazze di trading al mondo, sia in azioni che in derivati. E il traguardo non è poi così lontano. Al punto che adesso il meccanismo di «fotocopia» delle Adr sarà applicato al contrario: su iniziativa della stessa Borsa, dei principali avvocati d’affari di San Paolo e di Deutsche Bank, una decina di multinazionali avranno tra poco delle Brazilian Depositary Receipts negoziate nel mercato paulistano. Accanto a nomi familiari come Itaú, Petrobras, Vale, Bradesco o Ambev, gli investitori paulistani vedranno quindi i codici di Apple, Google, Bank of America, ArcelorMittal, Goldman Sachs, Bhp Billiton, Wal-Mart, ExxonMobil, McDonald’s, Pfizer. Il mondo delle grandi imprese, concentrato a San Paolo. E San Paolo, dunque, nuova capitale finanziaria internazionale. San Paolo supera Chicago in tecnologia, sicurezza e sostenibilità.  Una Borsa ricca, articolata e internazionale, dunque. Sia dal lato azionario (eredità della Bovespa, la Borsa valori dello Stato di San Paolo che negli anni Settanta superò Rio de Janeiro come centro economico e finanziario del paese e ne assorbì le attività di trading) che da quello delle merci e dei futures, eredità della BM&F. Un’attività, quella dei derivati (contratti che derivano, appunto, da altri titoli come azioni, obbligazioni, merci o titoli di cambio), in cui la Borsa di San Paolo primeggia a livello mondiale. Per volume innanzitutto (oltre 1000 miliardi di euro negoziati al mese, con circa 50 milioni di contratti), ma anche per innovazione: il primo contratto al mondo di etanolo, e non poteva essere altrimenti, è stato creato nel settembre del 2010 proprio a San Paolo, che ha lanciato recentemente anche un Indice di efficienza di carbonio (le imprese che emettono meno ­79

anidride carbonica pesano di più nell’indice di Borsa) per arricchire il suo Indice di sostenibilità. D’altra parte, le 40 imprese più sostenibili del Brasile sono cresciute a un ritmo del 22% in dodici mesi, rispetto al 15% dell’indice di base Ibovespa. La leadership in innovazione richiede tecnologia. Il trading delle merci nella leader mondiale Cbot, a Chicago, avviene ancora in una sala delle grida. Invece, quello della BM&F, da molti anni, è interamente elettronico. L’azionista di Cbot, il gruppo Chicago Mercantile Exchange, ha oggi una partecipazione azionaria incrociata del 5% con BM&FBovespa, e ne sta progressivamente adottando le tecnologie, al punto che i venticinque più grandi clienti di Chicago oggi operano regolarmente anche sulla piazza brasiliana, utilizzando a distanza i sistemi informatici di San Paolo. Ma soprattutto la leadership in innovazione, per non diventare una fonte di rischio eccessivo, richiede una attenzione speciale alla sicurezza: la Borsa di San Paolo costituisce una controparte centrale per tutti i contratti derivati, mentre in piazze tradizionali come Londra o New York quasi tutti i derivati sono negoziati over the counter, informalmente cioè, direttamente tra due parti e fuori dai circuiti regolati. I derivati brasiliani, insomma, sono più controllati, e proprio per questo meno «pericolosi» degli omologhi prodotti londinesi. «Assumete un banchiere brasiliano, è già oltre Basilea 3».  Finanza ben regolata, dunque. Tanto da essere considerata da un economista come Martin Wolf un riferimento importante per ricostruire il sistema finanziario mondiale dopo la Grande Crisi. Prendiamo, per esempio, «Basilea 3», e cioè l’insieme delle nuove regole messe a punto dai banchieri centrali dei principali mercati mondiali, riuniti appunto a Basilea, sulla solidità patrimoniale delle banche. Nei prossimi anni le banche di tutti i mercati dovranno investire – a parità di attività di credito – quantità più abbondanti di capitale proprio, riducendo il rischio di solvibilità: cosa che le banche brasiliane già fanno dal 1994, l’anno in cui con il Plano Real e con il Proer (Programa de Estímulo à Reestruturação, piano di sostegno del sistema finanziario preparato dall’economista Gustavo Loyola, all’epoca presidente del ­80

Banco Central) il governo mise un argine alla drammatica iperinflazione e all’instabilità finanziaria del paese. L’Indice di Basilea, che misura appunto la quantità minima di capitale proprio di una banca, dev’essere oggi superiore all’8% degli impieghi in quasi tutti i mercati del mondo e dovrà crescere, con le nuove regole di «Basilea 3», fino al 10,5%. In Brasile, il minimo richiesto è già dell’11% e la media di mercato è del 14%. Sempre secondo «Basilea 3», le banche dovranno dotarsi di un «buffer anticiclico» e cioè di riserve di sicurezza più abbondanti negli anni di prosperità, da utilizzare come ammortizzatore quando dalla prosperità si passi alla crisi. Per dirla in modo semplice: un grande salvadanaio, custodito dalle banche centrali. Ecco, in Brasile questo salvadanaio esiste già, si chiama «compulsório» ed è stato utilizzato con abilità ed efficacia dall’allora presidente del Banco Central Henrique Meirelles per minimizzare gli effetti della Grande Crisi sul sistema finanziario brasiliano. Orgoglioso, Meirelles ha sottolineato l’utilità di queste (e di molte altre) regole prudenziali del sistema bancario brasiliano: «La bolla speculativa dei subprimes, qui, non sarebbe mai potuta succedere». Grazie a tali misure, eredità delle risposte a storiche crisi e instabilità, le banche brasiliane non hanno perso valore dal 2008 a oggi quanto le loro concorrenti nel resto del mondo. «Volete sapere come gestire una banca durante le peggiori crisi? Assumete dei banchieri brasiliani. Hanno già visto di tutto», spiega ai suoi studenti Jean Dermine, economista e docente di Industria finanziaria nei master in Business Administration dell’Insead e di Wharton. I successi di Barbosa e le ambizioni globali di Itaú.  Fra le 30 banche più grandi al mondo, in una classifica stilata da Bcg (Boston Consulting Group) oggi si leggono nomi brasiliani come Itaú, Banco do Brasil, Bradesco. E anche giganti mondiali come Hsbc, Citibank e Santander devono i loro scarsi risultati positivi durante la crisi essenzialmente alle attività brasiliane. Santander, nel 2009, ha anche quotato nella Bovespa parte delle azioni della sua filiale brasiliana. «Certo che siamo brasiliani. Anzi, vogliamo ­81

essere la migliore banca brasiliana. Per questo abbiamo aperto il nostro capitale qui a San Paolo», sostiene Fábio Barbosa, paulistano e banchiere di lungo corso. Storico presidente del Banco Real, ne ha garantito il successo anche dopo l’acquisizione da parte di Abn Amro. E con l’acquisizione dell’ex campione olandese da parte degli spagnoli di Santander si è trasferito, insieme alla sua équipe di gestione, dall’Avenida Paulista alla Marginal Pinheiros. Un caso straordinario di fusione in cui sono i gestori della banca acquisita ad andare ad amministrare l’acquirente. Un caso, appunto, dovuto all’eccezionalità del suo manager. Barbosa, infatti, è amico personale della presidente Dilma, ma vanta eccellenti rapporti anche con l’opposizione del Psdb. È stato a lungo presidente della Federazione bancaria brasiliana. Gestore attento, pragmatico e determinato, è insomma un’icona dell’industria finanziaria brasiliana. Insieme a Edemir Pinto, Ceo della Bovespa, ha fortemente sostenuto tutti i progetti di internazionalizzazione dei servizi finanziari brasiliani. Considera San Paolo come hub finanziario dell’America Latina, e già ne vede la capacità di trasformarsi in una piattaforma di attrazione per talenti e affari su scala globale. Con l’acquisizione di Banco Real e sotto la guida di Barbosa, Santander è diventata la quarta banca del paese, con oltre 3600 agenzie, 305 miliardi di reais di attivo e risultati superiori a quelli del gruppo di controllo spagnolo. Che infatti, terminata l’integrazione operativa di Real e Santander alla fine del 2010, ha voluto sostituire Barbosa con Marcial Portela, spagnolo e «di marca Santander» da sempre, lasciando all’ex Ceo brasiliano il compito di presiedere il consiglio d’amministrazione e di orientare la strategia di espansione e la governance. Insomma, anche nel nuovo ruolo, Barbosa rimane un concorrente pericoloso per i giganti locali Banco do Brasil, Itaú Unibanco e Bradesco. Giganti che comunque crescono, attivi, aggressivi. Itaú Unibanco, adesso la nona banca più grande del mondo, è nato nel 2008 dalla fusione di due storiche istituzioni finanziarie brasiliane: Itaú, controllato dalle famiglie Setúbal e Villela, e Unibanco, della famiglia Moreira Salles. Una storia che viene da lontano e che si intreccia a più riprese con la politica e la cultura del paese. ­82

Olavo Setúbal è stato sindaco di San Paolo negli anni Settanta e ministro degli Esteri nel 1985, Walter Moreira Salles, invece, ambasciatore a Washington e ministro delle Finanze negli anni immediatamente precedenti la dittatura militare. Tra i suoi figli, c’è uno dei registi brasiliani più noti, Walter Salles, che ha firmato per esempio I diari della motocicletta (la storia del giovane Che Guevara attraverso l’America Latina, interpretato da Gael García Bernal). Una passione, quella del cinema, condivisa dalla famiglia e dalla banca. Unibanco, infatti, ha sempre sostenuto l’industria cinematografica brasiliana e gestisce direttamente alcune sale di proiezione. Il fratello del regista Walter, Pedro, invece, fin da giovane uno dei dirigenti di Unibanco e poi amministratore delegato, guida oggi il consiglio d’amministrazione della nuova Itaú Unibanco, vincendo, con grande forza di volontà, i limiti imposti da una grave malattia, la distrofia muscolare. Pedro racconta di non considerarla un limite e viaggia in Europa e negli Stati Uniti per rappresentare Itaú Unibanco ma anche per testimoniare il modo brasiliano di essere banchieri e imprenditori. Avendo studiato Storia ed Economia all’Ucla e a Yale, non perde la possibilità di incontrare, ogni anno, i nuovi studenti brasiliani dei principali Mba statunitensi. Con la fusione, Itaú Unibanco per un breve periodo ha superato anche Banco do Brasil ed è diventata la più grande banca del paese. La nuova banca eredita la notorietà di Itaú, la marca più preziosa e reputata in Brasile secondo Interbrand, e la capacità d’innovazione di Unibanco, che per esempio già nel 1995 offriva servizi di Phone & internet banking (Ing Direct, con il suo Conto Arancio online, è stata aperta solo due anni dopo in Canada). Oggi Itaú Unibanco gestisce quasi 5000 agenzie, oltre 30.000 bancomat, un attivo di 650 miliardi di reais, fondi d’investimento di quasi 350 miliardi: con un rendimento annuo (Roe) superiore al 24%, mentre le banche europee, per avere un termine di paragone, sono passate da Roe nell’ordine del 1415% prima della crisi a valori vicini al 5% dopo la crisi. Banca globale è la parola d’ordine della nuova strategia di Itaú Unibanco. Pedro Moreira Salles lo ripete in tutte le interviste: «Siamo già grandi in Brasile e in America Latina, adesso ­83

dobbiamo espanderci nel resto del mondo». Itaú, in effetti, è già un marchio noto in quasi tutti i paesi della regione. E dopo aver aperto filiali a Zurigo, Hong Kong, Londra e New York, sta preparando anche l’entrata nel mercato nordamericano, con attenzione specifica agli Stati sudorientali dove è più marcata la presenza di latinoamericani. Un movimento di espansione aggressiva diretto da uno degli azionisti, Ricardo Villela Marino, vicepresidente internazionale di Itaú. Trentasette anni, ingegnere meccanico, Ricardo ha studiato a Boston (sia al Mit che a Harvard), parla quattro lingue ed è stato presidente della Federazione latinoamericana delle banche. Ad aiutarlo nella definizione delle strategie internazionali c’è un Consiglio speciale, presieduto dall’economista Pedro Malan (ex ministro delle Finanze e presidente del Banco Central nel governo di Fernando Henrique Cardoso) e formato da personalità come Carlos Ghosn, amministratore delegato di Renault Nissan, Marcel Telles, uno dei tre fondatori di Ambev, Raghuram Rajan, ex economista-capo del Fondo monetario internazionale. Bisnipote del fondatore, Ricardo Villela Marino è responsabile anche delle risorse umane del gruppo Itaú, dove è entrato nel 2002. Ma prima, in base alle regole ferree di un buon capitalismo familiare che sa formare le sue nuove generazioni, ha dovuto fare gavetta: in Goldman Sachs e nel Banco Garantia con il trio Lemann, Telles e Sicupira. E dalle due esperienze «fuori casa» ha ripreso i concetti fondamentali di meritocrazia e di piano di carriera per i manager più capaci e ambiziosi: a partire dal 2011, i migliori tra i circa 4000 dirigenti del gruppo Itaú potranno essere premiati e diventare soci delle famiglie Setúbal, Villela e Moreira Salles. La Cidade de Deus e i barconi lungo i fiumi di Bradesco.  Tanto sono internazionali per vocazione i banchieri di Itaú, altrettanto determinati nel radicamento territoriale, invece, quelli di Bradesco. E tanto orgogliosi del proprio spirito identitario brasiliano da stare perfino tutti insieme, in un quartiere appena fuori San Paolo, dal nome altisonante di Cidade de Deus. Lì, in quel quartiere, ci sono gli uffici centrali della banca, case e palazzi per i dipendenti, scuole e campi sportivi per i loro figli. Un modo per ­84

coltivare identità aziendale e senso d’appartenenza, ma anche per tradurre concretamente quella sorta di spirito di socialità che fa somigliare Bradesco alle migliori banche popolari italiane. Ma di chi è Bradesco? Fondato nel 1943 da Amador Aguiar, adesso è controllato dal fondo pensione dei suoi stessi dipendenti. Che non guardano volentieri al mercato, e nella Cidade de Deus spesso passano la loro carriera intera. Come il presidente Luiz Carlos Trabuco Cappi, entrato in banca, giovanissimo, come fattorino. Ma non di sola banca si tratta. Anche di un protagonista di primo piano dell’industria brasiliana. Attraverso la sua filiale Bradespar, infatti, Bradesco è l’azionista di maggioranza di Vale, la principale società di risorse minerarie, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. Nella Cidade de Deus non si parla inglese, come invece sono abituati a fare i principali manager degli altri grandi gruppi bancari brasiliani. Si conoscono, piuttosto, tutte le inflessioni dialettali dei vari Stati del Brasile, dal Nordeste al Rio Grande do Sul. Riprova di una esplicita filosofia aziendale, il cui motto è semplice e chiaro: Presença. Una presenza ribadita nelle pubblicità di tutti i prodotti del gruppo. Presença, insomma, vuol dire che la banca è là dove un brasiliano ha bisogno di un conto corrente, di un piccolo prestito, di un finanziamento per microimprese, di un’assicurazione o di soldi per più ambiziose iniziative imprenditoriali. Una riprova? Le agenzie fluviali aperte in Amazzonia: barconi che navigano lungo i fiumi, nel cuore della foresta, su cui è installato un vero e proprio ufficio della banca, che va a offrire i suoi servizi nei luoghi più remoti del paese. Un altro esempio? Sono di Bradesco le agenzie che si stanno aprendo in molte delle favelas di Rio de Janeiro e di San Paolo: credito al consumo per milioni di persone che proprio adesso stanno cominciando a permettersi, a rate, una lavatrice, un frigorifero, un piccolo elettrodomestico o un motorino, e che mai entrerebbero in una filiale di banca tradizionale (si sentirebbero estranei, discriminati) e che invece si ritrovano a loro agio in uffici pensati apposta per il loro modo di vivere. Ed è sempre lì che i più intraprendenti abitanti delle favelas possono trovare ­85

forme di microcredito per sostenere quelle tante minute intraprese dell’economia di prossimità. Un’intuizione che Bradesco probabilmente avrà ricavato dalla lezione sul microcredito di Muhammad Yunus, il fondatore della Grameen Bank in Bangladesh, convinto sostenitore del fatto che i poveri sono debitori più affidabili e puntuali dei ricchi. La stessa Grameen, peraltro, ha annunciato all’inizio del 2011 l’apertura di una filiale della «banca dei poveri» anche in Brasile. Quelle agenzie nelle favelas, al di là degli specifici interessi della banca, hanno anche una forte valenza politica, tanto da essere guardate con simpatia dagli uomini di governo che stanno lavorando per affrontare i temi della migliore integrazione sociale e della sicurezza. Le strategie politiche di Banco do Brasil, Caixa Econômica Federal e Bndes.  Una funzione sociale e politica del sistema bancario? Sì, certo. Molto «politica» è quella di Banco do Brasil. E a maggior ragione, perché il suo azionista di riferimento è il ministero dell’Economia, che ne controlla il 65%. Banco do Brasil è la più grande banca del paese per capitalizzazione (quasi 50 miliardi di dollari, soprattutto nella piazza di San Paolo, ovviamente, ma in parte anche a New York), per attivo (circa 665 miliardi di reais) e per numero di sportelli (3155 agenzie, cioè più della somma di Intesa Sanpaolo e Unicredit, senza contare oltre 9000 corrispondenti e microagenzie satellite) e tra le prime venti al mondo, nel 2010, secondo la già citata classifica di Bcg. Banca a tutti gli effetti, competente e competitiva, e allo stesso tempo strumento di attuazione di politica economica e finanziaria del governo brasiliano. Nel giugno del 2008, infatti, di fronte alla crisi di liquidità che ha paralizzato il credito in tutto il mondo, in Brasile le banche straniere (Santander, Hsbc, Citibank) hanno dovuto ridurre l’erogazione di credito ai consumatori e alle imprese, rallentando così l’economia e minacciando di farla entrare in recessione, come tutte le altre. Le banche private brasiliane come Itaú e Bradesco hanno seguito la tendenza generale. Banco do Brasil no: il ministro delle Finanze Guido Mantega, nel suo ruolo di principale azionista, ha concordato con Aldemir Bendine, presidente dell’istituto, un aumento del ­86

credito per fornire ossigeno a un sistema che rischiava di entrare in affanno. Un’invadenza della politica? Naturalmente sì. Ma in linea con la cultura d’interventismo pubblico che – da New York a Londra, da Berlino a Pechino – ha caratterizzato tutto il sistema in cerca di soluzioni contro gli effetti peggiori della recessione. Oggi Banco do Brasil va alla conquista dei mercati internazionali. Agenzie e centri di servizio in ventitré paesi, dal Giappone agli Stati Uniti (dove ha appena ottenuto una licenza federale per aprire attività di banca al dettaglio, in concorrenza diretta con Itaú). E l’acquisizione recente dell’argentino Banco Patagonia. «Andiamo all’estero per accompagnare l’espansione delle relazioni commerciali del Brasile, l’internazionalizzazione delle nostre imprese e la concentrazione delle comunità brasiliane all’estero», dice il presidente Bendine. Anche in questo caso, strategia aziendale e scelte politiche e macroeconomiche vanno di pari passo. Ma Banco do Brasil non è l’unico «braccio» del governo brasiliano nell’industria finanziaria: con ruoli complementari si muovono anche la Caixa Econômica Federal e il Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social (Bndes). La Caixa Econômica Federal, fondata 150 anni fa dall’imperatore Dom Pedro II, è una banca al dettaglio «antica»: pochi prodotti, agenzie con un aspetto da ufficio pubblico, comunicazione istituzionale che richiama valori e stabilità. Ma è anche l’ente pubblico che gestisce l’Fgts, il Tfr (l’indennità di fine lavoro) brasiliano, e che è stato scelto da Lula e Dilma come perno del programma «Minha Casa, Minha Vida» (La mia casa, la mia vita), un aggressivo progetto di espansione dei mutui e della costruzione di immobili per dare accesso alla proprietà anche alle classi meno abbienti. Il credito immobiliare, oggi, rappresenta poco più del 3% del Pil brasiliano, un dato insignificante rispetto al 60-70% di mercati maturi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, e molto basso anche rispetto al 6% dell’India o al 13% del Cile. In quattro anni, sostiene Maria Fernanda Ramos Coelho, presidentessa della Caixa, «democratizzeremo l’accesso al credito»: l’obiettivo è il 10% del Pil in mutui. Soldi, cioè, per 3 milioni di nuove abitazioni. «Già oggi ne stiamo finanzian­87

do 440.000», ha spiegato Maria Fernanda, nel giugno del 2010, «con l’indice di inadempienza più basso di tutto il mercato». E ha concluso: «Per avere serenità, le persone hanno bisogno di quattro ‘A’: allegria, affetto, amore e abitazione. All’abitazione ci pensiamo noi». Diversa la strategia di Bndes, un’istituzione che è più o meno una sintesi di quello che nell’Italia degli anni Ottanta, fatte le dovute distinzioni locali, erano la Cassa Depositi e Prestiti, Mediobanca e l’Iri. Bndes da circa sessant’anni è la filiale operativa del ministero dell’Industria: finanzia grandi opere di infrastruttura, è azionista di grandi imprese statali e private (un portfolio valutato in oltre 40 miliardi di dollari in azioni di 150 imprese tra cui Vale, Petrobras, Embraer, Llx, Fibria, Brasil Foods, Braskem, Oi, Totvs ecc.), eroga credito per il settore agricolo, supporta la crescita delle micro, piccole e medie imprese, investe in educazione, sanità e trasporti. Centoquaranta miliardi di reais, quasi 60 miliardi di euro, erogati solo nel 2010: il quadruplo rispetto all’inizio dell’era Lula, nel 2002. Per avere un’idea «italiana» dell’ordine di grandezza, la famosa finanziaria del 1992 del governo Amato, la più impegnativa e pesante nella storia d’Italia, in euro di miliardi ne varrebbe «solo» 45. E in nessun caso si tratta di finanziamenti a fondo perduto: quelli del Bndes sono sempre finanziamenti (a tassi privilegiati, certo, e di lungo termine) da ripagare. La strategia è chiaramente anticiclica: i prestiti del Bndes aumentano proprio quando la liquidità dei mercati è minore, cioè quando il settore bancario privato è meno disposto a finanziare le imprese. E per seguire l’espansione globale dell’economia brasiliana, il Bndes ha aperto anche una sede a Londra, da cui gestisce operazioni finanziarie internazionali e investimenti in dollari, euro e sterline. Un po’ ministero, un po’ banca d’affari. Esteves, tutto comincia con una banca vinta a poker.  Londra è anche una delle sedi di Btg Pactual, banca d’affari e d’investimento dell’ambiziosissimo André Esteves. Raccontano sia gli ammiratori sia i concorrenti più invidiosi che Esteves la sua banca l’abbia vinta a poker: i fondatori storici, tutti economisti ­88

di area governativa negli anni Ottanta, avevano fatto rapidamente fortuna ma si erano anche indebitati al tavolo da gioco. Esteves, che aveva cominciato come analista di sistema (tecnico informatico, insomma), aveva conquistato rapidamente la fiducia dei capi, aveva giocato con loro e ne aveva vinto le azioni, una mano di poker dopo l’altra. Fatto sta che nel 2008, poco prima della crisi, Esteves è l’azionista di riferimento di Banco Pactual, con il 30%. E convince i suoi soci a venderlo agli svizzeri di Ubs, per oltre 3 miliardi di reais. Miliardario a poco più di trent’anni, Esteves si trasferisce a Londra e apre un piccolo fondo d’investimento, che chiama Banking and Trading Group, Btg. Un modo neanche tanto camuffato per dichiarare di essere Back To the Game, di nuovo in gioco, cioè. Come in una scena del nuovo Wall Street di Oliver Stone, con Esteves nei panni di Gordon Gekko. Pochi mesi dopo, la Grande Crisi colpisce tutte le grandi banche globali (tranne, come abbiamo visto, le brasiliane) e soprattutto Ubs, che si trova costretta a vendere parte delle sue operazioni per ripianare i buchi di bilancio dei derivati e dei prodotti strutturati. André Esteves è lì, pronto, aggressivo, pieno di soldi. E ricompra quindi Pactual dagli svizzeri, dopo appena un anno e otto mesi dalla vendita. Solo che nel frattempo la banca è diventata grande quasi il doppio, e lui la paga molto meno, circa 2,5 miliardi. Un affare pazzesco. Da cui riparte l’espansione. Alla fine del 2010, Btg Pactual gestisce circa 30 miliardi di dollari tra fondi d’investimento tradizionali e di private equity, e André Esteves dichiara che il suo istituto diventerà «una delle più grandi banche d’affari del mondo», il cui vantaggio competitivo sarà proprio la sede in uno dei mercati più dinamici del dopo-crisi. Forte anche di una nuova iniezione di capitali di un socio straniero. Stavolta, però, non si tratta dei tradizionali svizzeri (che nel frattempo cercano faticosamente di riaprire in proprio delle attività di banca d’affari a San Paolo), ma degli emergenti fondi d’investimento di Singapore. E come Gordon Gekko, Esteves suscita invidia e solleva sospetti. Nella fusione tra le compagnie aeree Tam e Lan, per esempio, è stato accusato dalla stampa (ma non dalla giustizia) di insider trading. Solo ­89

indizi, però, e nessuna prova: il broker del gruppo Btg Pactual è quello che ha negoziato i volumi più importanti di azioni Tam nei giorni immediatamente precedenti e successivi alla fusione, quando l’azione in poche ore è salita del 30%. Peccato che Btg Pactual sia anche la banca d’affari che ha rappresentato Tam nelle trattative con i cileni di Lan, e che Esteves sia uno dei consiglieri d’amministrazione della compagnia aerea brasiliana. André Esteves ha anche dei concorrenti. I coreani del gruppo Mirae, per esempio, che della specializzazione nei mercati emergenti ha sempre fatto la sua forza e che gestisce oltre il doppio dei fondi di Btg Pactual, in meno della metà del tempo di carriera. E che oggi punta aggressivamente al mercato brasiliano. «In Corea, prima di noi, investire in fondi azionari era considerata una speculazione eccessiva, oggi è un’ovvietà: abbiamo creato un mercato. Adesso siamo pronti anche a lavorare in perdita per qualche anno, ma vogliamo vincere il nostro spazio anche nel mercato brasiliano», dice uno dei responsabili della filiale di San Paolo. Gli affari dei fondi di private equity e i sorrisi di Gisele Bünd­ chen.   Anche i fondi globali di private equity guardano con interesse al Brasile, da cui sono stati per anni stranamente assenti. Fino al 2008, secondo uno studio di PricewaterhouseCoopers, i fondi di private equity partecipavano in meno del 20% delle operazioni di fusioni e acquisizioni, ed erano principalmente fondi locali, come Patria, Gavea e Gp Investimentos. Nel 2010, anno record con un’ondata senza precedenti di fusioni e acquisizioni (oltre cinquecento solo nei primi sei mesi dell’anno), il settore di private equity, soprattutto globale, ha partecipato al 41% delle operazioni. I nomi ricorrenti? Carlyle, Advent, Warburg Pincus, Kkr. Giganti mondiali che nelle economie mature non trovano opportunità attraenti quanto quelle brasiliane, e che degli altri Bric sembrano fidarsi meno: gli investimenti in India, in due anni, sono diminuiti del 35%, quelli in Russia sono dimezzati. E quelli in Brasile sono passati da un miliardo di dollari a uno e mezzo. Daniel D’Aniello, fondatore di Carlyle, lo dice esplicitamente: «Sono aggressivamente interessato al Bra­90

sile». Di quel miliardo e mezzo di investimenti nel 2010, uno è suo. «Abbiamo undici persone a San Paolo, e sono quelle che mi propongono gli affari più interessanti nel dopo-crisi», aggiunge. Opportunità per miliardari? Non solo. JPMorgan distribui­ sce in Gran Bretagna, al dettaglio, il fondo JPMorgan Brasile, con lo slogan: «Partecipate a una delle economie più emozionanti al mondo». Ci sono clienti che nel fondo investono appena trenta sterline al mese, poco più di trenta euro. Anche BlackRock, col suo fondo Msci Brazil, si rivolge ai piccoli clienti statunitensi. Msci Brazil, dieci anni fa, valeva 20 milioni di dollari. Oggi, oltre 10 miliardi, 500 volte di più. E i piccoli investitori ne possiedono circa la metà. La stessa BM&FBovespa aprirà tra poco un sistema di trading online internazionale, per clienti europei e statunitensi, mentre banche come Itaú e Votorantim stringono accordi di distribuzione globale per i loro fondi di investimento in azioni brasiliane. Qualche anno fa, l’economista Fred Fuld aveva inventato, un po’ per gioco, l’indice Gisele Bündchen, per misurare i risultati delle imprese (per esempio Ralph Lauren, Volkswagen, Vivo) che usano la modella brasiliana in pubblicità, e aveva mostrato che Gisele «vince» sistematicamente sulla media di mercato. Oggi gli investitori internazionali sembrano aver capito che il Brasile ha molto di più da offrire del sorriso – sia pure meraviglioso – di Gisele.

7.

«Made in Brazil»: aerei, havaianas e una rosa bianca

Cos’hanno in comune gli aerei delle flotte regionali di Alitalia, Lufthansa, Airfrance, Continental? E gli hamburger di McDonald’s e Burger King, le birre Budweiser e Stella Artois, buona parte del cemento e dell’acciaio delle costruzioni statunitensi? E i fazzoletti di carta in Cina e i sandali preferiti di Fanny Ardant? Sono tutti prodotti brasiliani. Di multinazionali e imprese esportatrici brasiliane, le cui marche sono ancora pressoché sconosciute ai consumatori europei e statunitensi, ma i cui prodotti sono già parte della vita quotidiana in gran parte del mondo. È contagiosa, coinvolgente, espansiva, infatti, la brasilianità. E anche per le multinazionali estere la presenza in Brasile va al di là di una semplice rappresentanza della casa madre: le imprese straniere in Brasile si «tropicalizzano», assumono parte dell’identità e dei comportamenti delle imprese brasiliane e contribuiscono, pur se con una prospettiva differente, alla ridefinizione dell’identità delle loro matrici globali, creando linee di prodotto, modelli di gestione e campagne di comunicazione. D’altra parte, i dirigenti delle multinazionali che meglio hanno saputo interpretare il mercato brasiliano sono quasi sempre brasiliani, come nel caso di Santander (di cui abbiamo parlato nel capitolo dedicato alle banche), di Fiat e di Pirelli (di cui parliamo nel capitolo sull’impresa italiana), e di Whirlpool. Se imprese coreane, italiane, tedesche o spagnole fanno a gara per mostrarsi (e sentirsi) ogni giorno un po’ più brasiliane, per le multinazionali nate in Brasile l’elemento identitario è ancora più forte. La grande impresa brasiliana è orgogliosa delle sue radici e dei suoi modelli culturali, che insegna alle concorrenti globali. Un segno di dominanza che aiuta il Brasile a ­92

percepirsi come grande potenza internazionale autonoma. Per anni Orgulho de ser brasileira è stato lo slogan della compagnia aerea Tam. C’è d’altronde una brasilidade, un jeito de ser (un modo d’essere) che ispira grandi manager brasiliani che lavorano per conto di società multinazionali. Carlos Ghosn, amministratore delegato del gruppo franco-nipponico Renault Nissan, è brasiliano. È brasiliano Fernando Pinto, il presidente che ha salvato dal fallimento la compagnia aerea portoghese Tap: «Take Another Plane», scegli un altro aereo, era il soprannome dispregiativo prima della «cura brasiliana»; ma, dopo la cura, Tap ha vinto il premio di miglior compagnia aerea al mondo secondo Condé Nast Traveller. Sono brasiliani anche trenta dei più importanti amministratori delegati in Messico, tra imprese locali e multinazionali (American Express, GlaxoSmithKline, Reckitt Benckiser, Unilever, Pirelli, Accenture, tra le altre). In una inchiesta recente della rivista inglese «Human Resources», effettuata presso 22.000 lavoratori di 18 paesi diversi, i brasiliani sono risultati i manager più efficienti al mondo subito dopo gli indiani. Più degli statunitensi o dei tedeschi, quindi. Anche Henrique Meirelles, prima della nomina a presidente del Banco Central nel primo governo Lula, era uno dei più importanti dirigenti del gruppo FleetBoston Financial, negli Stati Uniti. Pure da questo punto di vista, la dipendenza da modelli e proprietà statunitensi o europei può essere considerata in via di superamento. Le imprese e gli imprenditori brasiliani, insomma, sono pronti alle sfide della globalizzazione. Alle spalle, anni di «allenamento» a sopravvivere di fronte alle storiche turbolenze dell’economia nazionale. Davanti a sé, un mercato mondiale sempre più aperto a nuove imprese emergenti. Sono coriacei, i brasiliani. E soprattutto accettano di scommettere in settori che gli imprenditori europei o americani considerano «antichi» e meno attraenti: cemento, bevande, siderurgia, alimentazione e consumo. Nei quali l’innovazione tecnologica pesa meno rispetto alle telecomunicazioni o all’industria farmaceutica. Ma in cui la ricetta del successo, quasi sempre, è una profonda innovazione, nel modello operativo e di gestione. ­93

Natura, il filosofo Plotino e la «mulher bonita de verdade».  Un esempio? Quello di Natura, gigante della cosmetica e dell’igiene personale da circa 6 miliardi di reais di fatturato in Brasile, nel resto dell’America Latina e in Francia, che ha costruito il suo successo su una cultura, un «Dna» unico al mondo. «Le nuove tendenze dell’industria cosmetica? Guardi, per innovare, ho sempre pensato che sia essenziale tornare ai concetti di base. Che cos’è per lei un prodotto cosmetico? Anzi, facciamo un altro passo indietro: lei conosce il filosofo Plotino? E Pierre Teilhard de Chardin, l’ha mai letto?». Luiz Seabra, fondatore di Natura, ha settant’anni, lo sguardo sognatore di un bambino, i gesti eleganti e affabili di un gentleman di altri tempi. Le cose che ama di più sono quelle che «aiutano a cercare il senso della vita: le relazioni umane, la filosofia, la letteratura. E la cosmetica, certo». La sua impresa, fondata nel 1970, vive di cosmetica, di relazioni e di filosofia. «Un prodotto cosmetico non è altro che un veicolo», sostiene Luiz, «uno strumento per perfezionare il rapporto col proprio corpo e col mondo che lo circonda, e per capire – gliel’ho detto, Plotino è fondamentale – come dietro alla nostra apparente molteplicità ci sia in fondo un Uno che spiega, congiunge, unifica». La stessa organizzazione di Natura è una conseguenza di questa visione: mentre le concorrenti nazionali e internazionali tradizionalmente sono segmentate per linea di prodotto (per esempio: profumi, trucchi, creme, igiene personale, capelli), la macchina di innovazione e marketing al cuore di Natura è organizzata in quattro squadre che sviluppano «piattaforme concettuali» o «livelli successivi di coscienza di sé». La prima piattaforma è «Io e il mio corpo», prodotti di routine e benessere quotidiano; la seconda è «Io e la mia bellezza», prodotti che migliorano l’immagine e l’autostima (quasi tutti i trucchi, per esempio); poi «Io e le mie relazioni», dove ai profumi si affiancano le linee materno-infantili; infine «Io e il mondo», prodotti di alto valore socio-ambientale come quelli della linea Ekos, concepiti dieci anni fa con materie prime e processi di estrazione e produzione sostenibili dal co-fondatore Guilherme ­94

Leal (ne abbiamo parlato nel quarto capitolo, illustrando i suoi progetti per la salvaguardia dell’Amazzonia). Lo slogan di Natura riassume le quattro piattaforme: Bem estar bem, allo stesso tempo «benessere» individuale e «star bene» con l’altro da sé. I nuovi prodotti sono approvati solo se – oltre ai più stringenti controlli di qualità e sicurezza e alle necessarie analisi di marketing e proiezione di risultato – presentano «attributi filosofici» che arricchiscano l’universo concettuale Natura. Tra i primi e più longevi concetti, c’è quello della mulher bonita de verdade, la donna «bella per davvero», che usa la cosmetica per valorizzarsi e non per nascondersi. Un’idea di marketing talmente forte che molti anni dopo Unilever l’ha copiata (ma Luiz preferisce dire «si sono ispirati da noi») per la riuscitissima «Campaign for real beauty» della sua marca internazionale Dove. E le relazioni? Sono il canale di vendita dei prodotti Natura: oltre un milione di venditrici in Brasile, in America Latina e, in minor proporzione, anche in Francia. «Chi dice che la vendita diretta è un canale del passato non ha capito niente dell’evoluzione della società e probabilmente nemmeno dell’essenza delle persone», osserva Luiz. E i numeri gli danno ragione, nonostante non li guardi con molto interesse (li ha sempre seguiti con costanza e dettaglio da buon amministratore e buon ingegnere il terzo socio, Pedro Passos). La vendita diretta cresce bene in Brasile e nel resto del continente. Al punto che lo storico concorrente di Natura, Boticário, fino al 2010 concentrato solo sul canale di negozi monomarca in franchising (oltre 6000 in Brasile, America Latina e Africa: la più estesa rete di profumerie al mondo), adesso si prepara a entrare nel canale storico di Natura, Avon e Mary Kay. «Rubati» a Natura alcuni professionisti chiave della gestione commerciale, già nel 2011 Boticário dovrebbe cominciare le vendite porta a porta. Ma a Cajamar, sede di Natura, edifici ecologici nel mezzo di una foresta tropicale a pochi chilometri da San Paolo, in pochi sembrano preoccuparsi della concorrenza. «Quello che facciamo è talmente diverso, talmente unico, che in realtà concorrenti veri e propri neanche ne abbiamo», amano ripetere, come un mantra, molti dirigenti. ­95

La passione per le relazioni, a Cajamar, va ben oltre la gestione della rete di vendita. La si ritrova nei gesti, nei discorsi, nei dettagli, nei comportamenti d’impresa. Un esempio? Un asilo con centinaia di bambini, figli di tutti i dipendenti (proprio tutti: operai, ricercatori, quadri, dirigenti), costruito di fronte alla foresta in cui volano tucani e pappagalli, accanto alla mensa (biologica, è chiaro) in cui pranzano, regolarmente, seduti agli stessi tavoli, azionisti, operai e manager. «Ogni tanto posso fare una pausa e andare a giocare con mia figlia», racconta Roberta, trent’anni, ricercatrice, con la sua bambina di un anno e mezzo in braccio, che sorride. Dettagli che contano. Come la rosa bianca. Una, ogni giorno fresca, sulla scrivania di Luiz. E un’altra su quella dell’amministratore delegato Alessandro Carlucci. Luiz sorride e racconta: «Quando ho fondato Natura ero giovanissimo, e soldi non ce n’erano. Per nulla, e ancora meno per il marketing. Così un giorno presi un mazzo di rose bianche e dei biglietti da visita. Stavo all’angolo della strada, rua Oscar Freire, ma non ve la immaginate com’è oggi, per carità... era un quartiere popolare di San Paolo, altro che boutique di Bulgari e Chanel... Insomma, stavo lì e quando vedevo passare una donna le davo una rosa bianca, un biglietto da visita del negozio e le dicevo: ‘Venga, ci prenderemo cura di lei’. Alcune di quelle signore, oltre che ottime clienti, sono diventate le mie prime venditrici. E così da un po’ di tempo ho ricominciato a farlo. Ho fatto ristampare quei biglietti e vado ai seminari di benvenuto di tutti i nuovi dipendenti. Ci tengo molto a dare personalmente una rosa, un biglietto e un abbraccio a ciascuno di loro. Devono sapere fin dal primo giorno che ci prenderemo cura di loro, in questa impresa». A Cajamar lo chiamano «risultato triplo»: eccellenti dati economico-finanziari, tutela dell’ambiente, rispetto e felicità delle persone. Non stupiscono quindi le decine di premi, come quello per l’«Impresa più ammirata dell’anno» (per quattro anni consecutivi; e tra i dieci manager più ammirati ci sono sia Guilherme, per la sua attività politica a sostegno dei gruppi ambientalisti sino all’incarico di vicepresidente della candidata «verde» Marina Silva alla presidenza del Brasile, sia l’amministratore delegato Alessandro Carlucci). O come «Great Place to Work», impresa ­96

più ambita per i giovani. «Abbiamo dovuto ripensare il processo di selezione del programma per neolaureati: l’anno scorso, per sessanta posti, sono arrivate oltre 30.000 candidature», raccontano i responsabili del dipartimento di selezione e formazione. Ambev: produrre birra con gli incentivi di una banca d’affari.  È una caratteristica, quella di impresa ambitissima dalle nuove generazioni, che Natura condivide con un’azienda che per cultura ne è l’esatto contrario: Ambev, il gigante globale della birra (400 birre vendute al secondo, in tutto il mondo), controllato dagli investitori brasiliani Jorge Paulo Lemann, Marcel Telles e Beto Sicupira. «Il mio sogno», dice Lemann, amico personale del «collega investitore» Warren Buffett, «è fare del modello Ambev un punto di riferimento globale per la gestione aziendale del XXI secolo». Il modello Ambev parte da un concetto semplice: applicare alcuni dei paradigmi delle banche d’investimento a un’impresa industriale. Ambev, così, è un’azienda fortemente meritocratica, che paga stipendi fissi bassissimi e premi di produttività variabili tra i più aggressivi del mercato (anche più di quelli delle banche), poco gerarchica e aperta alle idee, con un’attenzione quasi maniacale alla formazione e allo sviluppo di persone e leader. Ma è anche una impresa di cultura estremamente competitiva, di comunicazione interna dura e aggressiva, con mete ambiziose e pressione sempre altissima, che rivede e riduce i suoi costi su base annuale. «You’re up, or you’re out», insomma, «sembra di stare in Goldman Sachs», spiega un dirigente, «solo che il nostro prodotto finale sono lattine di birra anziché strumenti finanziari». Miliardi di lattine di birra. La quota di mercato di Ambev negli Usa è del 48%, praticamente una lattina su due è «brasiliana». Stati Uniti in primo piano, ma anche espansione internazionale. Il gruppo produce 400 milioni di ettolitri in oltre centotrenta birrifici, fino in Cina e in Ucraina, è la numero 1 o numero 2 nei 19 principali paesi consumatori di birra, impiega 116.000 persone. Grosso modo, una birra su cinque, nel mondo, è Ambev. E oltre cento leader brasiliani, formati alla «scuola di gestione Lemann», lavorano in giro nelle filiali internazionali. ­97

Il gruppo è nato in Brasile nel 1999, dalla polemica fusione dei due più importanti produttori di birra (troppa concentrazione, secondo i critici: Ambev ha una quota di mercato locale che oscilla tra il 60 e il 70%) e poi è cresciuto con spettacolari acquisizioni, come quella della belga Interbrew (significa Stella Artois, Beck’s, Tennent’s, Hoegaarden, Leffe e altre cinquanta marche) nel 2004, e quella di Anheuser-Busch nel 2008, un affare da 52 miliardi di dollari. Una mossa sorprendente per i mercati e soprattutto per i consumatori statunitensi: AnheuserBusch è il birrificio della Budweiser, la birra più venduta negli Stati Uniti, la «Bud» della pubblicità tormentone della telefonata col «what’s uuuuuuuuuuup!». E chissà se adesso la tradurranno in portoghese: «E aíííííí?». A Saint Louis, come in Belgio, i tre investitori brasiliani hanno esportato il loro stile di gestione, creato nel Banco Garantia e poi nel fondo di private equity Gp Investimentos, la loro ossessione per i risultati e soprattutto l’inflessibilità nella riduzione dei costi e nella ricerca di sinergie. Una riprova? Gli oltre 1400 licenziamenti a Saint Louis, effettuati dal nuovo amministratore delegato brasiliano Carlos Britto, un manager rigoroso, che per dare l’esempio della nuova cultura aziendale di frugalità e austerità va ogni giorno al lavoro in metropolitana. «Nei nostri uffici non ci sono certamente tappeti consunti né tubi che perdono, ci mancherebbe», spiega, «ma non c’è neanche posto per ripiani di marmo e quadri di Monet, come ho visto negli uffici giapponesi di un nostro concorrente». L’ultima mossa di Lemann, Telles e Sicupira? Scommettere su Burger King, primo concorrente di McDonald’s, con una rete globale di più di 12.000 fast food in 76 paesi. Un altro simbolo statunitense, insieme alla birra Bud, adesso «parla portoghese». D’altra parte, come abbiamo visto, anche McDonald’s ha un legame fortissimo con il Brasile: il gruppo Marfrig, che ha sede nello Stato di Goiás, è il suo fornitore esclusivo di carne per tutte le operazioni mondiali. Mangiare un hamburger che non sia in qualche modo brasiliano, insomma, non accade di frequente. L’acquisizione di Burger King, nel 2010, ha sorpreso ancora una volta i mercati. L’annuncio sembrava quasi un refuso: il fondo ­98

d’investimento 3G compra Burger King. E molti giornalisti avevano corretto i pezzi: deve trattarsi di 3i, noto fondo di private equity con sede a Londra. Invece no: 3G sono proprio «i Tre del Banco Garantia», gli stessi che hanno bevuto Budweiser. E che sono anche i datori di lavoro e soci di Marc Mezvinsky, meglio conosciuto come genero di Bill e Hillary Clinton, un ex banchiere che ha lasciato Goldman Sachs per lavorare con gli investitori brasiliani. Per effettuare l’acquisizione da 3,2 miliardi di dollari, 3G ha ricevuto fondi da JPMorgan, Barclays e da Eike Batista, l’uomo più ricco del Brasile (ne abbiamo parlato nel quinto capitolo). Burger King fattura circa 2500 miliardi di dollari, ma ha un margine del 10% circa, in caduta libera. «La marca vale molto di più del business di oggi», osserva però Lemann. Che a dirigere le attività del nuovo giocattolo statunitense ha mandato un altro uomo di fiducia, Bernardo Hees, un manager estraneo all’industria alimentare, con una carriera in All, impresa di logistica e trasporti partecipata dai tre investitori. Hees, insomma, di hamburger probabilmente sa poco. «Ma la disciplina finanziaria la conosce, sì, e parecchio», osserva un analista di mercato. E tanto basta, per applicare il «metodo Lemann» anche agli hamburger in crisi. Adesso, il mondo industriale e i circoli finanziari se ne stanno in attesa del prossimo passo del fondo 3G, sede a New York e squadra mista di brasiliani e statunitensi, in tutto una trentina di persone: probabilmente, l’apertura di una sede a San Paolo per fare concorrenza agli ex soci di Gp Investimentos. Alla conquista dei mercati mondiali: acciaio, lavori pubblici, aerei e sottomarini.  Brasiliani che investono e comprano all’estero, insomma. E in alcuni casi, le attività internazionali superano quelle locali. È il caso di Gerdau, con il 60% delle acciaierie che non sono in Brasile. E di Vale, i cui attivi minerari per il 51% stanno all’estero. «Il Brasile vive un momento speciale della sua storia. L’economia cresce, l’inflazione è sotto controllo, il real è una moneta forte, gli investimenti aumentano. Le imprese brasiliane devono avere il coraggio di approfittare di questo ambiente ed entrare in altri mercati in crescita, come l’Asia e l’America Latina», ha scritto Roger Agnelli, presidente ­99

di Vale, in un articolo-manifesto pubblicato da «Folha de São Paulo» nel 2008. Un messaggio ben recepito da imprese come Metalfrio (frigoriferi) e Marfrig (carne) che si sono trasformate in multinazionali in meno di cinque anni. Proprio il 2010 è stato un anno di investimenti record. Come quelli del gruppo Odebrecht, conglomerato con 125.000 dipendenti di 62 nazionalità diverse, il cui fatturato quasi per metà viene dalle operazioni internazionali. La capogruppo fa opere pubbliche: quelle del Pac brasiliano, ovviamente (partecipa a trenta progetti diversi), ma anche il metrò di Lisbona e parte della ricostruzione di Haiti dopo il devastante terremoto del 12 gennaio 2010. Il gruppo ha in portfolio pure la quota di controllo di Braskem (ne abbiamo parlato nel capitolo sull’energia), società immobiliari, sonde e piattaforme per il petrolio, distillerie di etanolo, centrali elettriche a biomassa, trattamenti fognari, stadi di calcio (Odebrecht sta ristrutturando il Maracanã, lo stadio di Rio de Janeiro della finale della Coppa del 2014, mentre per l’apertura sta costruendo in società con la squadra di calcio Corinthians un nuovo stadio a San Paolo), progetti di nuovi porti e aeroporti. E adesso fanno anche sottomarini, titola la rivista «Exame» nel novembre 2010. Sarà infatti Odebrecht a costruire i sommergibili nucleari con tecnologia francese, voluti da Sarkozy e Lula. «Il nostro obiettivo è triplicare il fatturato e passare a 300.000 dipendenti entro il 2020», spiega il presidente Marcelo Odebrecht, quarantun anni, ingegnere civile ovviamente, e nipote del fondatore Norberto. E aggiunge: «Quante imprese al mondo assumono 3000 persone al mese per lavorare in business così diversificati?». Anche Embraer si prepara al «grande salto», da esportatrice a vera e propria multinazionale brasiliana, con una nuova linea di produzione completa negli Stati Uniti e una fabbrica di costruzione di componenti in Portogallo (è il contrappasso della colonizzazione: Embraer, come altre imprese brasiliane, usa il Portogallo per fare offshoring). Embraer è una public company quotata in Borsa, dal controllo frammentato: fondi pensione come Previ, partecipazioni statali tramite Bndes, fondi internazionali, un ampio flottante. Costruisce aerei a São José dos Campos, sulla strada ­100

tra Rio de Janeiro e San Paolo, nella città della prestigiosa scuola d’eccellenza d’ingegneria Ita, l’Instituto Tecnológico da Aeronáutica: una vicinanza geografica e una collaborazione università-impresa che ricordano Supaéro e Airbus a Tolosa, in Francia. I clienti? British Airways, Lufthansa, Airfrance Klm, anche Alitalia. Gli Embraer sono gli aerei «piccoli» delle flotte regionali, concorrenti diretti di Atr e Bombardier. Solo Airfrance ne usa 47 per le rotte che non passano dal suo hub Paris Charles de Gaulle: chi viaggia da Strasburgo a Londra, o da Lione a Bologna, vola, insomma, su ali brasiliane. Che costano meno, sono tecnologicamente avanzatissime, e soprattutto consumano meno. E quindi inquinano meno, e meno ancora dovrebbero inquinare nel futuro: i primi test industriali per l’uso di biocombustibili nell’aviazione civile sono di Embraer. Anche la gamma sta crescendo, entrando in concorrenza diretta con i campioni di vendite A320 europeo e B737 statunitense. Tutta la flotta della nuova low-cost brasiliana Azul, per esempio, è Embraer, compresi gli apparecchi di medio raggio. Il presidente di Azul David Neeleman, imprenditore statunitense nato per caso a San Paolo (e quindi per sua fortuna di nazionalità brasiliana, con il conseguente diritto di controllare una compagnia aerea in Brasile, nonostante il forte accento de gringo), dice di Embraer che è «una delle imprese che rappresentano meglio il Brasile di oggi». Negli Stati Uniti gli aerei brasiliani piacciono anche a Warren Buffett, leggendario investitore che per una delle sue controllate, NetJets, alla fine del 2010 ha comprato 125 aerei Embraer: un progetto sviluppato in partnership con Bmw, ma un prezzo del 30% inferiore alle proposte concorrenti di Cessna e Bombardier. Una ragione in più per accelerare i lavori di costruzione della nuova fabbrica nordamericana. Havaianas, il fascino delle ciabatte colorate che hanno sedotto Fanny Ardant.  Alpargatas invece fa vestiti e scarpe dal 1907. E soprattutto ciabatte. Sono Alpargatas le famosissime havaianas, oramai un fenomeno mondiale. Di moda. E di marketing. Le havaianas, neanche troppo tempo fa, erano ciabatte economiche per le classi sociali più povere: scarpe per chi non poteva comprare scarpe, ma riusciva a pagare quei due-tre euro per ­101

delle calzature di gomma. Bianche sopra, colorate sotto, tinte industriali forti per coprire la disomogeneità degli scarti di lavorazione usati come materia prima. Prodotto da mass market, insomma, in un settore, le calzature, in cui il Brasile ha un altro dei tanti primati, terzo produttore al mondo dopo Cina e India. La svolta, verso il mondo della moda, è arrivata il giorno in cui uno dei responsabili della linea (che allora non aveva neanche un vero e proprio ufficio marketing) ha notato che i più giovani, tra i clienti, giravano quelle ciabatte da sotto a sopra. Smontavano il filo di gomma. E lo rimettevano dall’altro lato. Anziché bianche, le havaianas diventano, così, colorate. Da quel momento, è cominciata tutta un’altra storia. Colorate, coloratissime, con disegni vivaci e fantasiosi, sono le centinaia di modelli che oggi si vendono in tutto il mondo e a tutte le classi sociali. E a prezzi da industria globale della moda. I modelli di base, che pure nell’elegantissima boutique di Rua Oscar Freire di San Paolo non arrivano a costare 6 euro, in Italia e in Francia sono venduti anche a 30 euro. I modelli più sofisticati hanno disegni d’autore, forme anatomiche, elastici per la caviglia nelle misure per bambini, stampe fluorescenti nei prodotti per adolescenti, intrecci di gomma più elaborati nei modelli «da sera», perfino applicazioni di cristalli Swarovski (personalizzabili, chiaro, in tutte le boutique della marca). Il segreto è il cambiamento. In una pubblicità recente, una ragazza si prepara ad andare a una festa. Elegantissima, fa un gesto che molte brasiliane conoscono bene: prende un paio di havaianas per metterle in borsa e usarle a tarda notte per sostituire tacchi e scarpe strette. Ci pensa su, decide di metterle direttamente per uscire. Fuori dalla porta la sta aspettando un ragazzone con la spider. Lui la guarda, le osserva i piedi, con un tono un po’ snob le dice: «Senti, sarebbe meglio cambiare, non credi?». Lei annuisce, torna in casa, fa una telefonata. Arriva un altro ragazzo, lei esce con le stesse havaianas arancioni ai piedi, si rivolge al ragazzone nella sua spider e dice: «Ecco fatto, cambiato». E sale sull’auto dell’altro. Eleganza. E disinvoltura. Dalle ciabatte meno care del mercato ai sandali da sera, innovando sulla formula originale. «Per battere la concorrenza cine­102

se ci servono marche forti, che facciano la differenza. Dobbiamo vincere nelle teste dei consumatori, non nelle loro tasche», sostiene l’amministratore delegato di Alpargatas, Márcio Utsch. Una straordinaria storia di successo di marketing che oggi è insegnata nelle aule dei master di Harvard e della francese Insead. E che molti vorrebbero poter replicare. Proprio in Brasile, nei centri commerciali più eleganti di Rio e San Paolo, stanno aprendo dei punti vendita Superga. The people’s shoes of Italy, le scarpe popolari d’Italia, dice lo slogan. Le scarpe di tela colorate di quando eravamo bambini proposte come fenomeno di moda, come havaianas al contrario: una scommessa interessante che per ora, tuttavia, sta dando pochi risultati. Anche perché la stessa Alpargatas ha deciso di innovare e nella linea havaianas ha introdotto, accanto ai sandali, anche modelli chiusi come espadrillas e scarpe di tela: ma tutte con la suola di gomma «classica» della ciabatta più famosa al mondo. Mettendo a segno anche un’elegantissima seduzione. In una boutique di havaianas, a Rio, era entrata un giorno l’attrice francese Fanny Ardant, musa ispiratrice e a lungo compagna di François Truffaut. Aveva preso in mano un modello nero, «ciabatta da sera». E aveva chiesto: «Scusi, non ne avrebbe uno con il tacco, per favore?». Adesso esiste, l’havaiana con il tacco.

8.

I grandi affari delle multinazionali dall’Europa al Far East

«Cinquant’anni in cinque». Stanno finendo gli anni Cinquanta quando Juscelino Kubitschek de Oliveira, eletto nel 1956 presidente della Repubblica, declama lo slogan della crescita economica accelerata, la frase magica che sintetizza il programma di un grande paese che vuole recuperare il tempo perduto e irrompere nella nuova stagione dello sviluppo, della prosperità, della modernità. L’euforia del desenvolvimentismo. Nel mondo soffia un vento nuovo, quello del dialogo tra i «grandi della terra» dopo gli anni cupi della Guerra Fredda. In Vaticano dal 1958 siede papa Giovanni XXIII, il «papa buono» della Pacem in terris, al Cremlino regna il riformatore Nikita Chrusˇcˇëv, negli Usa si prepara la stagione che porterà alla Casa Bianca John Fitzgerald Kennedy. E lì, in Brasile, al potere c’è Juscelino. Viene da una famiglia povera, orfano di padre a tre anni, vita di stenti («da bambino non avevo le scarpe», una frase ad effetto, ripresa anni dopo dal successore Lula) ma grande determinazione. Sino al successo: la laurea in medicina, il matrimonio con la figlia d’una ricca famiglia di notabili di Minas Gerais, la carriera militare e, subito dopo, la politica. Sindaco di Belo Horizonte, poi governatore di Minas, dal 1951 al 1955. E infine il grande salto, sulla poltrona di presidente del Brasile, a Rio de Janeiro. Un’elezione democratica, di ampio successo popolare. Ma sullo sfondo, i conflitti tra diverse fazioni dell’Esercito. Era pronto un golpe, per evitare l’insediamento di Juscelino. E proprio un amico generale l’aveva protetto. Per buona sorte del Brasile. Con la presidenza di Juscelino, infatti, prende corpo il sogno dello sviluppo. Sogno ambizioso. Coinvolgente. Tanto da entusiasmare uno dei padri della letteratura brasiliana, João Guimarães Rosa, ­104

l’autore di Grande sertão: «Juscelino é o poeta da obra pública». C’è, infatti, una nuova capitale, Brasilia, da costruire in pochissimo tempo, nel deserto del Planalto, centro geografico del paese (sarà inaugurata nel 1960). E un nuovo corso dell’economia da avviare, secondo un ambizioso Plano de Metas. La leva principale? L’industrializzazione. Grandi centrali idroelettriche. E soprattutto l’industria dell’auto. Da allora in poi emblema, simbolo forte del Brasile che cresce e cambia. La parata di JK sul Maggiolone Volkswagen.  JK (al presidente piace molto essere citato con il gioco delle iniziali, i giornali lo incoraggiano; molti anni dopo, anche Fernando Henrique Cardoso, FHC, avrà lo stesso vezzo) non ama gli americani. Dalla madre, d’origine ceca e zigana, ha ereditato sentimenti europei. E così non punta né su Ford né su General Motors (che pur era presente in Brasile dal 1930), ma sulla tedesca Volkswagen, in cerca di nuovi mercati internazionali: «Niente export. Se volete, le vostre auto venite a farle qui». Volkswagen, sfruttando la leva delle agevolazioni e i finanziamenti, acconsente, aprendo la prima fabbrica del gruppo fuori dai confini tedeschi. E avvia così una fortunata stagione di investimenti, che fanno del Maggiolino, ribattezzato Fusca, l’auto della motorizzazione di massa in Brasile. È il 1959 quando JK premia pubblicamente una così cordiale relazione d’affari, sfilando tra due ali di folla proprio su un Maggiolone decapottabile per l’inaugurazione della fabbrica Volkswagen ad Anchieta, nello Stato di San Paolo. La casa tedesca diventa rapidamente l’impresa leader dell’industria automobilistica, sino a tutto il corso degli anni Duemila. Un primato adesso conteso da Fiat. Ma comunque una posizione solidissima, ai vertici delle 500 grandi imprese brasiliane, dopo Petrobras e, appunto, Fiat, ma prima di tante altre multinazionali americane ed europee. Volkswagen, d’altronde, è l’autobus ufficiale della nazionale di calcio brasiliana, tutto dipinto di verde, oro e blu. E popolare lo slogan delle pubblicità che ritraggono il pullman: «Stiamo trasportando 190 milioni di brasiliani». Suona in modo accattivante, per tutti coloro che amano il calcio, anche il nome dell’auto di punta con cui ­105

Volkswagen contende la leadership di mercato al Novo Uno (in portoghese le macchine hanno nomi al maschile) di Fiat: è Gol, adattamento della Polo, auto affidabile, veloce, economica, ideale per la nuova classe media in piena crescita. 14,4 miliardi di dollari di fatturato nel 2009, 22.000 dipendenti, fabbriche efficienti e brillantissimi centri di R&D (ricerca e sviluppo) e di design, specializzati su auto flex (benzina e alcol), per Volkswagen il Brasile è il terzo mercato più importante al mondo, dopo la Germania e la Cina. E il suo giro d’affari ha una funzione determinante per assegnare appunto alla Germania il ruolo di primo partner commerciale europeo del Brasile (7,5 miliardi di euro di esportazioni, nel 2010, e più di 11 miliardi di importazioni). Una storia. E un futuro. Radici antiche pure per un’altra casa automobilistica tedesca, Bmw. Che a metà degli anni Cinquanta ha prodotto anche in Brasile l’Isetta, chiamandola Romi: una mini-car (appena 243 cc, metà di una Fiat Cinquecento) nata nei primi anni Cinquanta da un accordo tra la società tedesca e il costruttore italiano Piero Rivolta. Proprio in Brasile, Bmw aveva trovato un interlocutore altrettanto intraprendente di Rivolta, il commendator Emilio Romi, che dal 1930 si occupava di industria automobilistica a Santa Barbara, a 130 chilometri da San Paolo. La Isetta Romi ha avuto una certa fortuna. Poi Bmw ha lasciato perdere le microauto per dedicarsi ai suoi prodotti tradizionali e il commendator Romi e i suoi eredi si sono specializzati in componentistica auto (oggi stanno ancora a Santa Barbara e dal Brasile hanno allargato il loro mercato agli Usa e alla Germania, guarda un po’ gli strani percorsi della storia...). Di certo, ora c’è una «piccola» Bmw che fa fortuna in Brasile. È la nuova Mini Cooper, che contende i favori delle neo-benestanti fasce di consumatori giovani e dal piglio sportivo alla brasiliana Troller del gruppo Ford. Alla fine del 2010 sono nettamente in testa i tedeschi. Energia e chimica d’impronta tedesca.  Non solo auto, naturalmente, per la Germania di Angela Merkel, il cui governo è attivissimo nel sostegno sia all’export che agli investimenti diretti internazionali delle aziende tedesche. Ma anche energia, ­106

chimica, acciaio e trasporti. Un nome, innanzitutto, quello della Siemens, una presenza che risale al 1867, con una specializzazione iniziale in ingegneria elettrica ed elettronica. Siemens la linea telegrafica tra Rio de Janeiro e Rio Grande do Sul. Siemens il primo cavo elettrico sottomarino sudamericano, per trasportare energia tra il Brasile e l’Uruguay (alcuni anni dopo, a fare concorrenza sui cavi, arriverà Pirelli). Siemens il primo tram, a Salvador da Bahia, nel 1897. Siemens l’illuminazione dello stadio Maracanã a Rio. L’elenco potrebbe continuare a lungo, parlando di treni (forti interessi per i 20 miliardi di dollari di commesse per l’Alta Velocità ferroviaria tra Rio e San Paolo, in concorrenza con la francese Alstom e l’italiana Ansaldo Breda) e di componenti elettromeccaniche delle auto Ford brasiliane, di lampade, di elettrodomestici e di sistemi medici diagnostici, in concorrenza con General Electric. Ma Siemens è soprattutto energia. Ed energia nucleare, con la gestione delle due centrali di Angra, la costruzione della terza (dopo anni di ritardi negli appalti) e soprattutto l’attenzione rivolta all’impegnativo progetto di altre quattro nuove centrali la cui realizzazione è stata annunciata nell’aprile del 2010 dall’allora ministro dell’Industria Miguel Jorge, appunto al termine di un incontro con il ministro tedesco dell’Economia Rainer Brüderle. Un numero che sembra lontano dalla dichiarazione di Lula, nel 2008: allora ne voleva 60, di centrali nucleari, più o meno altrettante di quelle presenti in Francia. L’attenzione, oggi, però, è soprattutto dedicata ai giacimenti petroliferi del «pré-sal», e alle energie rinnovabili. Ma il nucleare resta comunque in agenda. E, tedeschi a parte, muove gli interessi di grandi imprese di mezzo mondo, dalla Francia agli Usa, passando per la Corea. Germania, naturalmente, significa anche la componentistica della Bosch. Gli acciai della ThyssenKrupp. E la chimica della Bayer: un’attività da gigante industriale, per i fertilizzanti agricoli e soprattutto per la farmaceutica. Hanno il marchio Bayer metà delle medicine prodotte in Brasile ed esportate nel resto del Sud America e in Asia. E i laboratori brasiliani della Bayer, insieme a quelli tedeschi, stanno lavorando per mettere a punto nuovi medicinali, contro l’ipertensione, per esempio, destina­107

ti ai mercati di tutto il mondo. La collaborazione industriale Germania-Brasile, insomma, ha anche il volto dell’avanguardia hi-tech. Una indicazione di peso internazionale. Le mosse di Sarkozy per sostenere l’industria francese.  Energia, auto, trasporti stanno al centro dell’attenzione della Francia. Affari per Total sui giacimenti di petrolio, per le costruzioni ferroviarie di Alstom, per il consorzio Eads che fabbrica l’Airbus e gli aerei militari Rafale (una commessa da 6 miliardi di dollari), per l’elettricità cara a Gdf-Suez e a Edf (nonostante la disavventura finanziaria e d’immagine dell’investimento nella carioca Light, una delle peggiori imprese del settore con quasi 5000 proteste ufficiali per disservizi solo nel primo semestre del 2010; un disastro, insomma, tanto che Edf ha venduto la sua partecipazione), per Airfrance che si allea con la compagnia aerea brasiliana Gol, per le auto di Renault e la componentistica di Valeo. E per la grande distribuzione, con gli investimenti delle grandi catene Carrefour e Casino, quest’ultima in società con la brasiliana Pão de Açúcar del miliardario brasiliano Abílio Diniz, uno che per sfizio nella sua villa ha un circuito automobilistico da corsa, e che con l’acquisizione della rete Casas Bahia è diventato il punto di riferimento fondamentale della distribuzione retail nel paese. È stata per gran tempo il secondo partner europeo del Brasile, la Francia (export 2010 per più di 3 miliardi di dollari, import per 4,5). E i buoni rapporti d’affari continuano a stare a cuore non solo alle grandi e medie imprese (sono quattrocento, quelle che hanno presenze in Brasile), ma direttamente all’Eliseo. «Il Brasile è un partner strategico», amava ripetere in ogni occasione Anne-Marie Idrac, ex segretario di Stato per il Commercio estero. Un ritornello caro al presidente Sarkozy che, dopo aver passato le vacanze di Natale del 2008 sulle spiagge della Bahia e di Rio, intervallate da una serie di colloqui diplomatici con Lula, continua a seguire come dossier di primaria importanza l’andamento dell’export e degli investimenti diretti delle grandi aziende francesi. E sa bene quanto politica e affari siano intrecciati. Così, nella primavera del 2010, ha sostenuto, in controtendenza con gli Usa e altri paesi europei filo-americani, i colloqui tra ­108

Lula, la Turchia e l’Iran per far depositare nel paese di Erdog˘an l’uranio arricchito iraniano. E adesso ne aspetta ritorni, politici ed economici. Su tre questioni Parigi e gli uffici diplomatici francesi a Brasilia e a San Paolo sono particolarmente sensibili: oltre agli aerei militari, l’energia (nucleare compreso, su cui le francesi Edf e Areva hanno sviluppato nel tempo competenze d’avanguardia assoluta), e le grandi infrastrutture. La Francia, anche in Brasile, insomma, si muove da Sistema Paese. Con grande impegno pubblicitario, naturalmente. Per l’aeronautica militare di cui abbiamo parlato, per esempio. Proprio ai primi di gennaio 2011, le quarte di copertina dei principali settimanali di approfondimento brasiliani, a cominciare dagli autorevoli «Exame» e «Istoé Dinheiro», sono state tutte occupate da una campagna di Rafale, con una foto dell’aereo su un «collage» molto simbolicamente brasiliano, il Pan di Zucchero, l’Amazzonia, le piattaforme petrolifere, lo sfondo della città di Rio. Lo slogan: «Il Rafale per il Brasile». E, sotto, una spiegazione accattivante: «La scelta migliore per eccellenza operativa, ampia cooperazione industriale, l’unica che garantisca un trasferimento senza restrizioni della tecnologia, forte autonomia grazie a una partnership strategica di lungo termine». A completare le pagine pubblicitarie, una bandiera del Brasile e, in evidenza, le parole chiave come «tecnologia», «sovranità», «indipendenza», «dissuasione», «continuità». E, a sigillo, appunto, il logo Rafale. Industria militare d’avanguardia. Per un primato del Brasile con supporto «made in France». Francia attivissima, insomma. Pronta anche a concessioni culturali e di stile, pur di conservare buoni rapporti. La riprova? La storia degli equipaggi di Airfrance. Si vola comodamente, da Parigi verso San Paolo e Rio e viceversa. E Parigi è un ottimo hub, un centro di collegamento, da e per tante città d’Europa. Orari convenienti (partenza in tarda serata, arrivo a destinazione poco dopo l’alba, in Brasile, sfruttando il fuso orario, tardo pomeriggio e metà mattina per la tratta di ritorno), poltrone confortevoli, buon cibo, servizio inappuntabile, elegante, con il bar sempre aperto. Eppure, nel corso di tutto il 2008 e del 2009, la compagnia ha perso clienti ­109

internazionali, a vantaggio dei tedeschi di Lufthansa e dei brasiliani di Tam. Perché? Una accurata indagine di mercato ha chiarito il mistero: lo charme francese e la raffinatezza di bordo venivano considerati, soprattutto dai passeggeri brasiliani, altezzosi e un po’ snob. Avevano torto? Ragione? Non ha importanza. Business, prima di tutto. E così Airfrance, ha raccontato Roberto Da Rin sulle pagine del «Sole 24Ore», ha assunto novanta hostess brasiliane. E recuperato la sua clientela. È il mercato, bellezza. Quel tanto che resta del dominio industriale Usa.  Se l’Europa cresce di peso e la Cina si afferma come primo partner d’affari per il Brasile (vedremo meglio tra poco), diminuisce l’importanza delle imprese degli Usa, a lungo padroni della scena economica, oltre che naturalmente di quella politica, brasiliana (ne abbiamo parlato a lungo nel primo capitolo). Non sono più le società dominatrici delle commodities, delle materie prime agricole e minerarie, non fanno il bello e il cattivo tempo per quel che riguarda il petrolio, non condizionano la spesa pubblica e dunque gli investimenti brasiliani attraverso la leva del Fondo monetario (di cui il Brasile, come abbiamo visto, da debitore instabile è diventato creditore autorevole), non dettano più le scelte principali su trasporti e infrastrutture. Ma certo sono presenti. E pesano ancora molto, come attori industriali. Nell’elenco delle multinazionali, accanto agli svizzeri di Nestlé, agli olandesi di Unilever, agli inglesi di Reckitt Benckiser con i detersivi Vanish e il popolare medicinale antigastritico Gaviscon (e altri quaranta prodotti da lanciare, per dare ancora sostegno a un fatturato passato dai 960 milioni di reais del 2008 a 1,4 miliardi del 2010), ai coreani di Samsung, ai giapponesi di Bridgestone e agli argentini di Bunge (grande impresa agricola ancora controllata dalla famiglia Bunge, ma ben radicata nel Midwest americano), ci sono infatti i colossi come Cargill-Monsanto (la più grande impresa privata degli Usa, agricoltura e agroindustria), Kraft e McDonald’s, Procter & Gamble e Johnson & Johnson, i petrolieri Exxon e Chevron, la chimica di Dow e le medicine di Pfizer, l’hi-tech di Microsoft, Google e Intel, Avon e Kimberly ­110

Clark, le grandi istituzioni finanziarie a cominciare da Citibank e Goldman Sachs. C’è General Electric che mette in primo piano in pubblicità i suoi treni, dichiarando che «muove il Brasile» e spiegando che si tratta di «un’alleanza che dura da 90 anni e si prepara per i prossimi 90». E investe sulle sue turbine per gli aerei: a Petropolis, la fabbrica nata sessant’anni fa per costruire ventilatori, da anni si facevano solo riparazioni di motori costruiti negli Stati Uniti, mentre adesso, complice il successo dell’industria aeronautica, le turbine saranno brasiliane. L’elenco è lungo, può continuare con Whirlpool, elettrodomestici, un boom nel mercato brasiliano della classe media in piena espansione, soprattutto grazie ai marchi locali Brastemp e Consul (in cinquant’anni, vendite per 34 milioni di frigoriferi, 4 milioni di cucine a gas, 2 milioni di lavatrici, insomma una presenza in una casa brasiliana su due). E, naturalmente, ci sono le auto. A cominciare da Gm, con la forza delle piccole e medie Opel (Corsa, Astra, Meriva, Agila...) ribattezzate Chevrolet per il mercato brasiliano. E da Ford, un solido radicamento nel mercato dei camion e una innovativa produzione per la Fiesta, con una attività di «montaggio sequenziale» che sperimenta, proprio in Brasile, un diretto coinvolgimento dei fornitori nella costruzione dell’autovettura. Innovazione di processo, oltre che di prodotto. Indispensabile, per reggere la competizione internazionale che proprio in Brasile ha un vivacissimo terreno di confronto. Ci sono infatti gli europei, particolarmente forti, a costruire auto (Fiat e Volkswagen innanzitutto, come abbiamo visto). I giapponesi della Toyota, tre fabbriche e il successo della Corolla. E i coreani della Hyundai, con la loro grande fabbrica nello stato di Goiás, 20.000 dipendenti tra produzione diretta e indotto, definiti nelle pubblicità «Brava gente brasileira», l’orgoglio di dire «un investimento tutto brasiliano» (finanziato cioè con i profitti realizzati nel paese), l’intelligenza politica di ringraziare pubblicamente, sui giornali, la nuova presidente Dilma per aver scelto la Corea per la sua prima uscita internazionale ufficiale dopo l’elezione a capo di Stato (per la riunione del G20 a Seul a metà novembre 2010, un’attenzione ricambiata dal viaggio del primo ministro coreano Kim Hwang-sik in Brasile, ai primi di ­111

gennaio 2011, appunto in coincidenza con l’insediamento ufficiale di Dilma al Planalto). Competizione mondiale concentrata nel paese più dinamico del Sud America, insomma. Con un mercato dell’auto che nel 2010 è diventato il quarto al mondo, superando la Germania, e ha già raggiunto i 3,5 milioni di veicoli venduti, dà lavoro a 1,3 milioni di persone, per un giro d’affari di 42 miliardi di dollari, di cui l’Anfaeva, l’associazione dei produttori automobilistici, prevede una rapida crescita nei prossimi anni (il 5,2% nel 2011). Se ne sono visti con chiarezza i riflessi anche nel corso dell’ultimo Salone dell’Auto di San Paolo, un appuntamento che dura da cinquant’anni e che stavolta ha contato gli stand di 180 espositori, con 450 nuovi modelli, dalle utilitarie ecologiche (come il prototipo Mio di Fiat, di cui parleremo nel prossimo capitolo) alle berline e alle sportive di lusso, con una presenza a suo modo provocatrice: quella della Rossin-Bertin, un piccolo prodigio da 700.000 reais (circa 300.000 euro) nata dall’intelligenza e dalla competenza di Fharis Rossin, un ex progettista di General Motors che proprio in Brasile lancia la sfida a Ferrari e Porsche. Cina in cerca di primati, dall’auto alle materie prime.  Hi-tech e lusso a parte, la cifra di maggior interesse del Salone è stata condensata in un titolo del settimanale «Istoé»: Un salone ogni volta più verde e più cinese. Più verde, e cioè più attento all’evoluzione tecnologica delle auto «ibride» e dei motori flex, a doppia alimentazione, a benzina e ad alcol. E più «cinese». Perché sono state proprio sei case costruttrici cinesi ad attirare parecchia attenzione da parte dei visitatori, dei media e degli esperti. Per una miniauto della Chery, a biocombustibile, la Chery QQ, basso prezzo, prestazioni essenziali. O per un altro modello, più ambizioso, la Lifan 320, una sorta di imitazione spartana della Mini Cooper di Bmw, senza paragoni, naturalmente, per finiture e dettagli, ma con una forte componente di sfida nel prezzo: un terzo della Mini. La scelta della Cina, oramai il maggior produttore mondiale di auto, è chiara. In un mercato in crescita (in Brasile c’è un’auto ogni 6 persone circa, un buon passo avanti rispetto a un’auto ­112

ogni 9 del 1999, ma comunque a buona distanza da un’auto per 1,9 persone in Germania, 1,5 in Italia e 1,2 negli Usa), la motorizzazione di massa è di estrema attualità e il prezzo è una componente fondamentale dell’offerta. E per vendere, bisogna produrre in Brasile, oggi come negli anni di Juscelino Kubitschek. Proprio la Chery ha fatto tesoro dell’esperienza maturata negli anni da Volkswagen e Fiat, Ford e Toyota. E si prepara a investire 400 milioni di reais per cominciare a costruire una fabbrica nello Stato di San Paolo. Una scelta preparata con cura. Per mesi e mesi Zhou Biren, vicepresidente mondiale della Chery, ha fatto la spola tra Cina e Brasile, viaggiando in modo spartano (voli in turistica, alberghi a tre stelle, cene in ristoranti economici) e dedicando tutto il suo tempo alle trattative con i responsabili di tre province, per ottenere le migliori condizioni per l’installazione dello stabilimento, in cerca di una buona sintesi tra costi dell’operazione e prezzo dei prodotti. E alla fine la scelta è caduta su San Paolo. Lo stile «risparmioso» dei manager cinesi ha molto impressionato l’opinione pubblica brasiliana. E in un reportage del giugno 2010, il quotidiano «Folha de São Paulo» ha notato come, diversamente dai manager americani ed europei, che amano la prima classe in aereo e gli hotel a cinque stelle, i cinesi «si muovono con parsimonia». Ma – ecco il punto – «non economizzano affatto al momento di investire». E questo, ai brasiliani, piace moltissimo. Cina-Brasile come asse del futuro, dunque. Binomio forte nelle relazioni politiche, in un mondo multipolare (lo abbiamo visto nel primo capitolo). E nelle relazioni d’affari. Relazioni essenziali, visto che stanno radicate proprio nel business le politiche di potenza degli Stati in cerca di ruolo e di peso, negli anni Duemila del declino o, più esattamente, del ridimensionamento della superpotenza Usa. Geo-economia, per fare geo-politica. Guardiamo i dati. Tra il 2007 e il 2009, la Cina ha investito in Brasile poco meno di 150 milioni di dollari. All’inizio del 2010, un salto, a 5 miliardi, con una stima di 10 miliardi nel 2011. Lungo la strada di un boom che riguarda un po’ tutto il Sud America, ricco di materie prime e in cui i pilastri, per la Cina, sia sul versante dell’import-export che su quello degli investimenti ­113

diretti, sono appunto il Brasile e, in secondo piano, il Cile. Le esportazioni cinesi in America Latina sono passate – secondo un’analisi di Bank of America-Merrill Lynch – da 4,5 miliardi di dollari del 2000 a 42 miliardi del 2009, mentre le importazioni sono cresciute da 5 a 58 miliardi. La Cina è diventata, così, il primo partner economico del Brasile, superando nettamente gli Usa. E la Bank of China è pronta a sostenere sia l’import-export che soprattutto gli investimenti diretti e le acquisizioni. Un elenco impressionante. Che si apre con Sinopec, 7,1 miliardi di dollari per il 40% di Repsol Brasil (la casa madre spagnola rimane con il 60%). E con Sinochem, che ha messo sul tavolo oltre 3 miliardi di dollari per comprare il 40% del campo petrolifero Peregrino, nella baia di Campos, rilevando la quota dei norvegesi di Statoil (il resto delle azioni sono in mano a Petrobras). «Stiamo accompagnando lo sviluppo dell’industria petrolifera brasiliana», spiega Han Gensheng, presidente della compagnia. E aggiunge: «Il governo cinese incentiva la nostra internazionalizzazione e apprezza le buone relazioni con le imprese brasiliane, ma investiamo secondo logiche commerciali, di mercato». Sul mercato energetico si muove anche State Grid, che ha comprato sette concessionarie di trasmissione di energia, finanza e tecnologia in uno dei settori più deboli delle infrastrutture brasiliane, la rete elettrica, vecchia e fragile, dove si disperde il 30% dell’elettricità trasportata, e che è soggetta a frequenti black-out (come quello che il 10 novembre del 2009, per un incidente di trasmissione, fece saltare la centrale idroelettrica di Itaipu e lasciò per molte ore al buio buona parte dello Stato di San Paolo, undici Stati brasiliani e perfino gran parte del Paraguay). Investimenti massicci e di lunga portata. Utili anche a dare all’industria cinese un robusto radicamento sul territorio brasiliano, a stabilire buone relazioni con una parte cospicua del tessuto produttivo. Le preoccupazioni degli industriali di San Paolo.  L’elenco degli investimenti cinesi continua con Wisco (Wuhnan Steel and Iron Company, società statale, quotata in Borsa, il maggior produttore ­114

d’acciaio del mondo) che compra il 21% della società mineraria Mmx (ferro, soprattutto) del gruppo Ebx di Eike Batista e investe, sempre d’intesa con Batista, 3,5 miliardi di dollari per un grande complesso siderurgico a Rio de Janeiro, per produrre acciaio per l’industria brasiliana e per i mercati internazionali, proprio accanto alla nuova acciaieria dell’italiana Tenaris. E va avanti con Ece, un altro colosso di proprietà pubblica, che acquista Itaminas, controllando così una serie di miniere di ferro necessarie per l’acciaio cinese. Con Homebridge, che si allea con il gruppo Votorantim sempre nel settore dei metalli. E ancora: investimenti in agricoltura e nelle infrastrutture, guardando alle grandi opere pubbliche, in previsione dei Mondiali di calcio e delle Olimpiadi di Rio de Janeiro. Un gioco a tutto campo, insomma. Che contribuisce moltissimo allo sviluppo economico del Brasile, alla corsa del suo Pil. Ma che non manca, naturalmente, di suscitare alcune inquietudini nel mondo delle aziende brasiliane. «Siamo preoccupati per la concorrenza cinese», hanno dichiarato, nell’agosto del 2010, gli imprenditori riuniti nella potente Fiesp, la federazione degli industriali di San Paolo. Un tema caldo, già per il governo di Lula, attentissimo alle relazioni con la Cina, ma anche molto sensibile alle opinioni dei produttori locali. Un dossier in primo piano, adesso, per la presidente Dilma e per i suoi ministri economici. I cinesi rispondono con flemma. «Le buone relazioni politiche tra Cina e Brasile riducono il rischio degli investimenti», ha spiegato alla «Folha de São Paulo» Zhou Zhiwei, economista del Centro di studi brasiliani dell’Accademia cinese di Scienze Sociali. Con tutte le prudenze possibili, comunque, i cinesi vanno avanti. E la China Invest Corporation ha in portfolio 300 miliardi da investire ancora, in Brasile, una somma che supera le previsioni di investimento cinese in tutta Europa. L’asse Pechino-Brasilia ha grandi iniziative da sviluppare.

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Fiat, Pirelli e le imprese che battono bandiera italiana

Tutti e due in maniche di camicia, scura quella di Sergio Marchionne, chiara quella di Lula. E tutti e due sorridenti. Perché in quel martedì 28 di un caldo dicembre del 2010, a Suape, dalle parti di Recife, nel cuore di un Nordeste un tempo desolato e adesso al centro di importanti iniziative di sviluppo industriale, si sta posando la prima pietra di una nuova fabbrica Fiat. Marchionne, davanti a un migliaio di invitati, annuncia investimenti per 3 miliardi di reais, 1,3 miliardi di euro, per arrivare a produrre, nel 2014, 200.000 veicoli all’anno, destinati al mercato brasiliano e sudamericano, e dare lavoro a 3500 persone direttamente e a parecchie altre migliaia nell’indotto. E a Lula, davanti a quelle cifre, risplendono gli occhi. Perché quella di Recife, nello Stato di Pernambuco, è la sua terra d’origine, dove è nato povero ed è cresciuto sapendo quanto conti un posto di lavoro stabile. Perché conosce bene l’orgoglio operaio. E perché nei lunghi anni della sua carriera sindacale e politica, sino alle stagioni della presidenza del Brasile, si è impegnato per fare partecipare anche le aree più marginali, come appunto il Nordeste, al miracolo dello sviluppo brasiliano. E adesso quel miracolo sta lì, nelle parole di Marchionne, in quei progetti Fiat che raccontano linee di montaggio, laboratori di ricerca e sviluppo, lamiere, meccanica, robot. Nuovo lavoro, appunto. Salari. Consumi. Sicurezza. Fiat e le cinquecento imprese italiane in un paese «a basso rischio».  Fiat-Brasile è un binomio di lunga storia comune, di sviluppo, di ricchezza. Come altri binomi italiani, Pirelli-Brasile o Tim-Brasile o Eni-Brasile. Investimenti antichi (fin dal 1929, quelli di Pirelli, compreso il primo cavo transoceanico di te­116

lefonia della storia, dalla costa africana all’isola Fernando de Noronha). E ricadute di grande impatto sociale, come la sponsorizzazione, da parte di Fiat, poi di Pirelli e poi ancora di Parmalat, di una delle squadre di calcio di maggior popolarità, il Palmeiras, amatissima soprattutto dagli oriundi italiani, adesso tornata sotto la bandiera Fiat dopo una poco apprezzata stagione con il marchio dei coreani di Samsung. Legami cresciuti nel tempo, nonostante tutte le oscillazioni dell’economia brasiliana. E da alcuni anni, e cioè dalle prime stagioni della stabilizzazione della presidenza di Fernando Henrique Cardoso sino alla presidenza di Lula, in via di massiccio aumento, per tenere testa ai ritmi di sviluppo brasiliani. A stimolare gli investimenti, c’è anche una nuova consapevolezza, sulla tenuta di fondo del Sistema Paese. Come conferma il Global Market Risk Index elaborato dalla Sace (la società che assicura l’export e mette le imprese italiane al riparo da alterazioni dei cambi e delle normali regole di funzionamento dei mercati per cause sociali e politiche). In quell’Index di rischio, appunto, il Brasile è classificato L3, laddove «L» sta per low, basso. Ci si può, insomma, investire tranquillamente. E le imprese italiane, appunto, lo fanno. In parecchie, accanto alle «storiche» Fiat e Pirelli: circa cinquecento, tra imprese grandi (Telecom, Eni, Techint) ma anche medie e piccole, con sede nelle varie aree del Brasile e con cura speciale per quella sapienza manifatturiera su cui si fonda l’orgoglio industriale italiano, in Europa, in Sud America, nel resto del mondo (l’Italia è il decimo investitore internazionale, in Brasile). «Finalmente stiamo facendo sistema verso il Brasile», commenta Vincenzo Scotti, sottosegretario agli Esteri con delega per l’America Latina. Proprio alla capacità brasiliana di attrarre investimenti e di guardare con occhi attenti all’Europa e all’Italia fa riferimento Marchionne quando, prendendo la parola durante quella cerimonia della prima pietra a Suape, insiste sul consenso internazionale per un Brasile che «oggi è uno dei luoghi in cui gli investimenti trovano un ambiente più sicuro e promettente». Basi economiche solide. Mercato interno molto forte. Capacità di reazione tempestiva alla Grande Crisi: «Mentre il resto del ­117

mondo soffriva la recessione, qui si creavano nuove opportunità e nascevano centinaia di migliaia di posti di lavoro. Grazie alle politiche varate in questi anni, il Brasile ha raggiunto una solidità e una stabilità che possono essere considerate elementi duraturi per il futuro». Dunque, «la scelta della Fiat di continuare a investire qui è la naturale conseguenza di un processo di crescita e maturazione che la nostra azienda ha vissuto insieme al paese». «La Fiat, insomma – chiosa Marchionne tra gli applausi –, è considerata in Brasile un’azienda di casa. E non c’è posto al mondo in cui anche noi ci sentiamo a casa come in Brasile». Marchionne annuncia di voler vendere più di «un milione di auto in Brasile» entro il 2014, consolidando così il primato che vede la casa italiana in testa tra le industrie automobilistiche, con 760.000 auto e veicoli commerciali prodotti e il 24% di quota di mercato raggiunta attraverso il lavoro di 800 concessionarie in tutto il paese. Un’auto brasiliana su quattro, insomma, è Fiat, che ha così superato, nel 2010, la tradizionale numero uno, Volkswagen (Fiat è prima se si sommano, appunto, auto e veicoli commerciali leggeri, seconda con pochissimo distacco se si contano solo le auto). Gli investimenti a Suape (per 200.000 auto all’anno) si aggiungono ai 7 miliardi di reais per potenziare di altri 150.000 veicoli la capacità produttiva del grande stabilimento di Betim, alle porte di Belo Horizonte, nello Stato di Minas Gerais. Dieci miliardi in tutto. Produzione e ricerca. Di auto, appunto. E della componentistica collegata. L’occhio, a Suape, è rivolto all’incremento produttivo per una vettura già di grande successo, Novo Uno, appena eletta «auto dell’anno», lanciata nel maggio 2010 e arrivata, entro dicembre, alla vendita record di 228.000 unità: la concorrente diretta della Gol di Volkswagen nella contesa delle fasce di consumo medie più esigenti. Accattivante anche la pubblicità, durante i Mondiali di calcio del 2010: «Novo Uno», appunto, in blu, al centro di una grande bandiera brasiliana verde e gialla e lo slogan furbo: «Nessuno per strada avrà una bandiera così bella come la tua». Anche il nazionalismo sportivo aiuta a vendere (lo sanno anche in Volkswagen, visto che di verde, oro e blu hanno colorato il loro pullman, da sponsor tecnico della squadra di calcio). ­118

E a Betim, il più grande stabilimento Fiat al mondo? Gran parte del resto della produzione, con i modelli specifici per il mercato brasiliano (Palio, Siena, Idea, Linea) e un aumento sino a più di 900.000 pezzi in uscita dalle linee di montaggio. Investimenti anche per camion, trattori, macchine agricole. Perché Fiat, in Brasile, vuol dire 16 società (oltre all’auto, l’Iveco dei camion, la New Holland dei veicoli per l’agricoltura, la Magneti Marelli che produce metà degli equipaggiamenti di tutti i motori flex, e si prepara ad aprire una nuova fabbrica a Hortolandia, la Teksid della componentistica ecc.), con 23 stabilimenti produttivi, 9 centri di ricerca e sviluppo e 45.000 dipendenti, tra diretti e indiretti. Un primato italiano, ma con forte connotazione locale. Una presenza che ha consentito a Fiat di reggere, grazie appunto ai fatturati brasiliani, l’onda negativa della recessione mondiale e di poter guardare oggi con una certa fiducia al futuro, da multinazionale che mantiene radici in Italia, con i nuovi investimenti di Pomigliano e Mirafiori, e si espande negli Usa (grazie al marchio Chrysler), in Cina, Russia e India, forte comunque di una straordinaria penetrazione in un Brasile e in un’America Latina che crescono, stabilmente (occhi attenti anche all’Argentina e al dinamico Messico). Fattura 56 miliardi di euro, il gruppo Fiat, nel mondo. Il Brasile ne vale più o meno un quinto, 11,9 miliardi: un mercato, per l’auto Fiat, equivalente a quello dell’Italia «e con una forte capacità di continuare a fare utili importanti», dicono gli uomini di Marchionne. Un vero pilastro, insomma, nell’orizzonte globale. Mass market, dunque. Ma anche sperimentazione. Perché è proprio in Brasile che viene messo a punto uno dei progetti Fiat più avveniristici, quello della Mio. «Un’auto fatta da te», scrive «Istoé Dinheiro». E cioè una concept car sviluppata grazie ai contributi raccolti su Internet, un vero e proprio lavoro in crowdsourcing che ha coinvolto migliaia di persone in rete e ha portato a un prototipo presentato nell’autunno 2010 al Salone dell’Auto di San Paolo: vetturetta piccola, design minimalista con motori elettrici indipendenti su ognuna delle quattro ruote e dunque bassissimo livello di inquinamento, grande abitabilità, comandi come una consolle di Playstation (drive by wire, come ­119

negli aerei: niente più assi di trasmissione, e il volante può anche essere smontato e riposizionato), estrema facilità di guida e parcheggio, materiali avanzati, pannelli solari. «Il nostro sforzo è stato interpretare al meglio quello che ci veniva suggerito dai gruppi su Internet», spiega Júnia Cerceau, responsabile dei prodotti Fiat. Un passo nel futuro prossimo. Ma c’è un altro aspetto, oltre al mercato amico e alle capacità di innovazione, che legano Fiat al Brasile: la produttività. Anche qui, i dati (sulla base di elaborazioni del «Sole 24Ore») aiutano a capire. Partiamo dall’Italia: a Torino Mirafiori, 5840 dipendenti producono 178.000 auto all’anno, 30,5 auto per dipendente, cioè (a Melfi va un po’ meglio, 53 auto). A Tychy, in Polonia, 6100 dipendenti producono in un anno 600.000 auto, quasi 100 auto per dipendente, un record. E in Brasile? A Betim, 9400 dipendenti fabbricano 730.000 auto, quasi 78 auto per dipendente. Dicono i critici: in Polonia e in Brasile si costruiscono prodotti meno sofisticati, dunque se ne fanno di più. Ribatte Fiat: la produttività è raddoppiata in dieci anni, mano a mano che si sono innalzati i livelli di sofisticatezza e di complessità delle auto (tutti i modelli brasiliani hanno di serie il motore flex, alimentato anche a etanolo). Dove sta, dunque, la chiave dell’alta produttività brasiliana? Tito Boeri, professore all’Università Bocconi di Milano, è uno degli economisti italiani più attenti e scrupolosi. E, insieme ad Andrea Goldstein, ha fatto i conti. Un fattore importante negli aumenti di produttività brasiliana è il legame tra retribuzione e risultati, «che ha portato a distribuire ai lavoratori circa il 50% degli incrementi di produttività dal 2000 a oggi. E oggi quasi il 20% del salario di un operaio di Betim dipende dalla parte variabile». Nell’innovazione brasiliana, insomma, ci sono pure buone relazioni industriali, un coinvolgimento dei dipendenti, da parte dell’azienda, in obiettivi di comune interesse. Produttività e retribuzione sono un buon terreno di intesa. Lo sviluppo sta anche qui. Che il Brasile, per Fiat, sia territorio di interesse primario, date le sue dinamiche di sviluppo economico globale, lo testimonia pure un altro elemento. Al di là dell’impegno industriale, ­120

c’è un segnale di attenzione finanziaria. Quella di Exor, la finanziaria di casa Agnelli, guidata da John Elkann, che ha deciso di investire, nel dicembre 2010, nel Btg Pactual di André Esteves (di lui abbiamo già parlato nel sesto capitolo). Un chip appena, 25 milioni di dollari. Ma comunque una scelta, nel contesto del grande aumento di capitale di Btg per 1,8 miliardi, accanto a protagonisti della grande finanza internazionale, come i fondi sovrani di Cina, Singapore e Abu Dhabi e la famiglia Rothschild. Pirelli, la marca più amata dai consumatori.  Primato di Fiat nell’auto. Primato di Pirelli nei pneumatici: dei quasi 5 miliardi di fatturato globale del gruppo nel 2010, un terzo è brasiliano, con produzioni in cinque stabilimenti, che danno lavoro a circa 10.000 persone. «Un legame antico con il Brasile, un futuro di investimenti e di crescita, seguendo il ritmo del paese», sostiene Marco Tronchetti Provera, presidente Pirelli. Il pubblico ricambia il senso di appartenenza: per il secondo anno consecutivo, nel 2010, Pirelli è stata la marca più ricordata dai brasiliani tra tutte le categorie merceologiche (target maschile) in base alla ricerca Top of Mind condotta dal gruppo editoriale «Folha» di San Paolo. È un legame che viene da lontano, da quel 1929 in cui, nonostante l’aria di tempesta che culminerà nel crollo di Wall Street e nel dissesto di mezza economia mondiale, Pirelli comprò, insieme a General Electric, tutte le azioni della Companhia Nacional de Artefactos de Cobre (Conac) e un’area, a Santo André, a 25 chilometri da San Paolo, in cui costruire un nuovo stabilimento. Cavi. E poi, dal 1941, anche pneumatici. L’accordo con Dunlop e la costituzione della «Union» portarono, nel 1971, all’acquisizione della fabbrica di Campinas, sempre nell’area industriale di San Paolo, che ben presto sarebbe diventata il più grande stabilimento del gruppo, «la fabbrica fiorita nella Città delle Rondini», secondo la definizione poetica di «Notícias Pirelli», il giornale aziendale. E, ancora, uno stabilimento a Gravataí, nel Rio Grande do Sul, per pneumatici da motocicletta. E poi, a Sumaré, l’impianto di steel cord, la cordicella d’acciaio che irrobustisce i pneumatici, e soprattutto la prima pista prove pneumatici di tutta l’America Latina. E infine, a Feira de Santana, ­121

a un centinaio di chilometri da Salvador da Bahia, la «fábrica ecológica», dove sono stati applicati i più avanzati processi di lavorazione eco-compatibili e che, negli anni Novanta, ha ricevuto il riconoscimento di Vigilante do Meio Ambiente come esempio di conservazione ambientale. È appunto a Feira de Santana, inaugurando nel 2003 l’impianto totalmente rinnovato, alla presenza del presidente della Repubblica del Brasile Lula, che Marco Tronchetti Provera ha insistito sulle strategie che, proprio in Brasile, legano successo economico, qualità del lavoro e dell’ambiente, responsabilità sociale d’impresa e sviluppo generale: «Ciò che più ricompensa l’impegno della nostra Azienda e di tutto il management, e ci incoraggia a proseguire sulla strada del progresso e dello sviluppo in questo grande paese, è l’entusiasmo di coloro che lavorano nelle nostre fabbriche con l’orgoglio di appartenere a un grande Gruppo internazionale e tecnologicamente all’avanguardia. Il successo e la forza competitiva di un’azienda si misurano soprattutto dalla qualità e professionalità delle persone che vi lavorano, e Pirelli considera l’investimento nella formazione e qualificazione delle risorse umane una priorità assoluta». Il resto è storia d’oggi. Sino al programma di 400 milioni di dollari di nuovi investimenti Pirelli in Brasile entro il 2011, un quarto nel nuovo «Polo tecnologico per pneumatici per veicoli speciali» di Santo André (in modo da rispondere alla domanda crescente di macchine agricole e automezzi di cantiere, legata ai progetti per l’agricoltura e le infrastrutture in tutto il Brasile) e gli altri tre quarti per la produzione e lo sviluppo tecnologico di pneumatici auto e veicoli industriali. Spiega Guillermo Kelly, amministratore delegato Pirelli per l’America Latina, un manager argentino che da San Paolo governa le attività degli stabilimenti in Brasile, in Argentina, in Venezuela e adesso sovrintende alla costruzione della nuova fabbrica Pirelli in Messico: «La nostra strategia di rafforzamento in Brasile consoliderà la leadership del gruppo Pirelli nei mercati sudamericani e punta a soddisfare l’incremento della domanda in tali settori (prevista nei prossimi tre anni, a livello mondiale, in crescita complessiva del 7,5%), con prodotti innovativi. E pro­122

prio considerando un tale trend di crescita internazionale, Pirelli prevede il proprio ritorno all’export di pneumatici speciali sui mercati mondiali a partire dal 2011. Un traguardo importante, che rafforza il peso di Pirelli Brasile a livello internazionale. Anche in questo caso in sintonia con le tendenze di aumento del peso economico del Sistema Paese brasiliano a livello mondiale». Fabbrica. Sport (1700 i trofei delle squadre Pirelli in Brasile, nel corso del tempo). Solidarietà. E cultura. Perché è targata Pirelli, per esempio, la Coleção Pirelli / Masp de Fotografia, vent’anni di impegno e più di 2500 immagini dei migliori fotografi brasiliani per documentare i Retratos do Brasil e cioè l’evoluzione della storia e della società. Così come la raccolta di 130 opere d’arte di pittori come Emiliano di Cavalcanti, Carybé e Clóvis Graciano, modernità e contemporaneità artistica, racconti di lavoro e di vita sociale. C’è un altro aspetto, che gli uomini Pirelli in Brasile amano raccontare, una sorta di sintesi tra le origini e l’attualità, sulla scia di una sensibilità «verde», di sostenibilità sia ambientale sia sociale, che si lega alla particolare cultura economica brasiliana. La storia è questa. Nel 1954 Pirelli comprò a Belém, nello Stato del Pará, la Fazenda Oriboca per tornare a produrre, trent’anni dopo le prime piantagioni di Giava, la gomma naturale. Poco dopo, arrivò anche la Fazenda Una, nello Stato di Bahia. E lì nacquero scuole per bambini e per adulti, case, ambulatori, club sportivi e culturali. Proprio in quelle esperienze di Oriboca e di Una si è formata una particolare attenzione per le condizioni dei seringueiros (i raccoglitori di gomma naturale) che si ritroverà alla fine degli anni Novanta con il lancio di un progetto per sostenere le comunità di seringueiros del villaggio di Xapuri (da dove partì la lotta contro i latifondisti, guidata da Chico Mendes), prevedendo l’addestramento della manodopera locale, il miglioramento dei processi di estrazione, l’acquisto a prezzo equo e solidale della gomma prodotta. E nell’impianto di Feira de Santana si è cominciato a fabbricare il pneumatico Xapuri prodotto con la gomma naturale estratta dai seringueiros dell’Acre. La modernità industriale, nelle sintesi culturali d’Italia e Brasile, può mostrare, appunto, anche nuovi volti di sostenibilità. ­123

Il Novecento dei Matarazzo e le partnership del 2010.  Sono relazioni profonde, d’altronde, quelle tra Italia e Brasile. Con radici nella storia a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando gli immigrati italiani cominciarono ad arrivare nel paese che aveva da poco abolito la schiavitù e aveva bisogno di manodopera generosa e attiva, per l’agricoltura, le prime attività industriali, l’espansione delle città. Parecchi fecero rapidamente fortuna. Un nome di famiglia per tutti, quello dei Matarazzo, dal capostipite Francesco, il più grande industriale dell’America Latina all’inizio del secolo scorso, al nipote Francisco Antônio Paulo, più noto come Ciccillo, imprenditore e mecenate artistico, a cominciare dal sostegno dato al Museu de Arte Moderna di San Paolo e poi alla Biennale progettata da Oscar Niemeyer nel grande parco di Ibirapuera di Roberto Burle Marx. Altri, comunque, in un modo o nell’altro, hanno fatto grande il paese. Lavoro appassionato. E cura per i simboli italiani: nel grande teatro di Manaus, proprio mentre la città si espandeva, ci si era impegnati per portare a cantare la star dell’epoca, il tenore Enrico Caruso, arie d’opera sotto le stelle dell’Amazzonia. E oggi? Si calcola che siano 30 milioni i brasiliani d’origine italiana, 6 milioni dei quali concentrati a San Paolo. Radici lontane, spesso, terze o quarte generazioni. Ma sensibilità che si ritrovano. E che possono fare da volano anche a più stretti rapporti in economia. A parte gli investimenti diretti di imprese italiane in Brasile (un giro d’affari stimato in oltre 16 miliardi di euro), l’interscambio commerciale Italia-Brasile è stato nel 2010 di oltre 8 miliardi di dollari. «Poco, troppo poco. Potrebbe essere facilmente il doppio, il triplo», ha spiegato il presidente Lula quando, alla fine del giugno 2010, ha firmato con il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, a San Paolo, un Accordo di partenariato strategico, intese commerciali per 10 miliardi di euro, per collaborazioni nei settori della Difesa, dell’energia, delle telecomunicazioni, dei trasporti, delle infrastrutture e dell’agroindustria. Secondo partner commerciale europeo del Brasile, dopo la Germania, ottavo partner mondiale, l’Italia nel corso degli anni Duemila ha finalmente scoperto il Brasile, ha cominciato ad ­124

apprezzarne le potenzialità. E adesso imprese grandi, medie e piccole, ma anche i distretti industriali (l’occhialeria di Belluno, le apparecchiature di confezionamento di Bologna, le macchine industriali per le produzioni di legno di Pesaro e le macchine tessili e i prodotti della filiera agroalimentare del Triveneto) si danno molto da fare. Contratti, accordi, forniture, impianti. La partnership siglata da Lula e Berlusconi e la costituzione di un Business Council Italia-Brasile sono due buoni passi. Il Brasile è l’ospite d’onore della Quinta Conferenza Italia-America Latina e Caraibi a Roma, nell’autunno del 2011. E il «Momento Italia-Brasile 2011-2012», iniziative comuni nei settori della cultura, della scienza, delle tecnologie e dell’educazione, con evidenti ricadute economiche e commerciali, è una leva di grande forza. All’orizzonte, ci sono anche gli accordi Ue-Mercosul, su cui l’Italia insiste molto, per abbattere protezioni e vincoli tariffari. In Brasile c’è spazio per intraprendere e crescere, insomma. Non solo per chi c’è già, ben insediato. Ma per tutti coloro che sono in grado di fare industria e proporre servizi competitivi. Con grande serietà. «È riduttivo dire che il Brasile sia un paese emergente. Paese industrializzato, forte, semmai. Con importanti tassi di crescita. Economia solida, consumatori esigenti, competizione severa», commenta Francesco Gori, amministratore delegato di Pirelli Tyre. Gli impianti Techint, i cellulari Tim, il petrolio Eni, i grandi appalti.  A fare la parte del leone, nei primi accordi del partenariato strategico firmato da Lula e Berlusconi, sono Fincantieri e Finmeccanica, che portano a casa contratti per 5 miliardi di euro, per dare all’Esercito e alla Marina brasiliani navi militari, sistemi di navigazione e combattimento, radar, missili e pattugliatori oceanici. Ma c’è spazio anche per discutere di aziende che vogliono aprire stabilimenti nel distretto di Manaus, nello Stato di Amazonas, Nord povero e in cerca di sviluppo, «zona franca» con robusti vantaggi fiscali (niente tasse per trent’anni), dove già ci sono insediamenti industriali nel settore del motociclo, trainati da imprese italiane come Piaggio e Aprilia: con 1,8 milioni di motocicli venduti nel 2009, il Brasile è già il quarto ­125

mercato mondiale per il settore e le fabbriche italiane danno un robusto contributo. Tra le grandi, ci sono anche Techint (con la controllata Tenaris, leader mondiale nella produzione di tubi di sofisticata tecnologia), Prysmian, Telecom, Enel e Eni, che stanno giocando partite importanti. Il gruppo Techint, guidato dalla famiglia Rocca, presenza storica in Sud America, ha lavorato con Vale, gigante minerario, e con Petrobras (l’ultimo progetto in corso è l’ampliamento di una grande raffineria nella Bahia). E adesso gli impegni sono rivolti soprattutto alla costruzione di una grande acciaieria, da dieci tonnellate all’anno, in un’area dalle parti di Rio, servita dal nuovo grande porto industriale di Açu (realizzato da Eike Batista) e specializzata in insediamenti siderurgici: una scelta – spiegano gli uomini Techint – in sintonia con i più recenti orientamenti di governo, potenziare cioè le attività brasiliane considerando il paese come centro di trasformazione industriale e non più come semplice esportatore di materie prime. Acciaio per l’industria interna e per i mercati mondiali, dunque. E non soltanto ferro e altri minerali per chi fa acciaio in India e in Cina (ne abbiamo parlato nel quinto capitolo). Partita aperta anche per Prysmian. Presente da anni in Brasile come Pirelli Cavi, protagonista di importanti iniziative per la modernizzazione delle infrastrutture del paese (compresa una delle ultime campagne di Lula per portare l’energia elettrica nei centri agricoli più sperduti e nelle periferie povere delle città), adesso Prysmian è interessata al petrolio del «pré-sal». E alla costruzione e poi alla posa di cavi flessibili particolari, sia per il controllo delle piattaforme sia per il trasporto del petrolio pompato dai pozzi sottomarini, è destinato il nuovo stabilimento Prysmian alle porte di San Paolo. Anche per Telecom Italia, il mercato brasiliano è importante. Tim Brasil è un dinamico concorrente di Vivo (della spagnola Telefónica) e di Claro (del gruppo América Móvil del messicano Carlos Slim) su un mercato, la telefonia mobile, in vivacissima espansione, del 6% all’anno grazie anche alla banda larga. Dal 2009 Tim Brasil, 47 milioni di clienti, 2300 punti ­126

vendita, 970 milioni di euro di utile netto, in aumento del 176% sul 2009, ha lanciato appunto un «piano di convergenza», tra telefonia mobile, fissa e servizi di banda larga. Ha comprato una società di rete fissa, che potenzia la competitività sul traffico a lunga distanza. E prova a contendere bene il campo alle grandi società spagnole e messicane in servizi di telecomunicazione avanzati, una chiave essenziale per lo sviluppo sia della società brasiliana sia delle sue imprese. «Il Brasile è un’ottima base per la nostra espansione in un’America Latina che già oggi ci dà un terzo dei ricavi di tutto il gruppo e può ancora continuare a crescere», conferma Franco Bernabè, presidente di Telecom. Chiusa con successo lo scorso anno la partita sul controllo di Telecom Argentina, adesso si progettano nuove espansioni. In Brasile e in Cile, appunto. Con un piano di investimenti da quasi 3 miliardi di euro. Dalle telecomunicazioni all’energia: 5 miliardi gli investimenti possibili di Enel, tre grandi progetti eolici da 90 megawatt nella Bahia e per rafforzare una presenza che vede la società attiva, direttamente o come azionista di altre aziende energetiche, nella distribuzione di elettricità a Rio, a Fortaleza e nello Stato di Goiás (6 milioni di bollette mensili, complessivamente). Più complessa la partita per Eni. Presente in Brasile dal 1999, ha stretto nel 2007 un’intesa con Petrobras per i biocarburanti e la produzione e la raffinazione di petrolio, sia in Brasile sia in altri paesi. Anche in Italia, per esempio, nella raffineria di Livorno, che potrebbe essere in parte specializzata per il biodiesel, mettendo insieme le competenze dell’Eni e quelle di Petrobras che, appunto sui biocarburanti, ha una esperienza di primissimo piano. Altre società Eni sono ben presenti, come Saipem e Snamprogetti, per progettare e realizzare infrastrutture (impianti di raffinazione, navi di produzione e stoccaggio di greggio, parti di gasdotti, piattaforme petrolifere) seguendo con tecnologie italiane le attività di ricerca e di estrazione di Petrobras. Rapporto solido, dunque. Ma ancora tutto da definire proprio nell’avventura energetica principale di Petrobras: la ricerca e l’estrazione del petrolio al largo delle coste brasiliane, nei giacimenti «pré-sal». Perché lì, per legge, Petrobras, una ­127

società con forte componente azionaria pubblica, opererà solo in condizione di socio di gran peso per tutte le attività. E gli accordi con Eni, così come con le altre grandi società petrolifere internazionali, sono in fase di rinegoziazione (anche se Petrobras non ha più acquisito la quota che Eni ha in portfolio della compagnia petrolifera portoghese Galp, che ha investito nei pozzi nelle acque profonde dell’Atlantico). Partita industriale e finanziaria, dunque. E partita politica, sul tavolo delle relazioni tra i governi a Roma e a Brasilia. Giocano, le relazioni politiche, anche su altre vicende imprenditoriali. Le forniture marittime e militari di Finmeccanica e Fincantieri, di cui abbiamo appena parlato. I grandi appalti per il treno ad alta velocità tra San Paolo e Rio de Janeiro, per esempio (le Ferrovie dello Stato guidate da Mario Moretti si sono dichiarate molto interessate, così come i loro concorrenti francesi, tedeschi e coreani). E le infrastrutture legate non solo al Pac, ma anche alla Coppa del Mondo del 2014 e alle Olimpiadi del 2016. «Paese chiave, il Brasile, per i costruttori italiani», spiega Paolo Romiti, vicepresidente del Comitato estero dell’Ance (l’Associazione italiana dei costruttori edili) e direttore commerciale dell’Impregilo. Lo confermano i numeri: quattro i general contractors italiani, Impregilo (forte anche del 29% della brasiliana Ecorodovias, quotata alla BM&FBovespa di San Paolo), Ghella, Seli e Socotherm, attivi nel costruire autostrade, ponti e viadotti, impianti idroelettrici, linee metropolitane. E pari a 10 miliardi di euro le concessioni, a fine 2010, che vedono interessate le imprese dell’Ance, in un Brasile che da solo rappresenta più dell’80% delle concessioni delle imprese Ance in tutto il Sud America. Giri d’affari di grande rilievo. In settori in cui la concorrenza è molto severa, su mercati in cui insistono i grandi costruttori, sia internazionali che brasiliani e in cui l’Italia sta appunto cercando di acquisire quote crescenti. Su tutte queste relazioni, proprio alla fine del 2010, nel passaggio di competenze tra l’ex presidente Lula e la nuova presidente Dilma Rousseff, si è allungata l’ombra delle polemiche politiche. Lula, infatti, ha deciso di non concedere l’estradizione ­128

in Italia di Cesare Battisti, un ex terrorista condannato all’ergastolo per quattro omicidi particolarmente efferati (tra cui quello del gioielliere Torregiani, assassinato per vendetta dopo avere reagito sparando a una rapina). Le ragioni di Lula? Legate alla salute di Battisti e ai rischi conseguenti per la sua sicurezza nelle carceri italiane. Ma assolutamente non convincenti per l’opinione pubblica italiana e per buona parte di quella brasiliana (anche la rivista filo-governativa «Carta Capital» ha fatto campagne di durissima critica alla scelta di Lula). Vivaci le reazioni politiche, gli scambi di note diplomatiche polemiche tra i due paesi. Qualcuno, anche a livello di governo italiano, ha avanzato perfino l’ipotesi di un «boicottaggio» economico verso il Brasile. L’accordo di partenariato strategico firmato nel giugno 2010 a San Paolo tra Lula e Berlusconi, al centro dell’attenzione critica di buona parte delle forze politiche, è stato infine approvato dal Parlamento italiano il 16 febbraio 2011, con i voti di maggioranza e opposizione. I rapporti d’affari tra i due paesi, i legami culturali di lunga data, le convergenze d’interesse delle buone relazioni internazionali su tutti i tavoli su cui il Brasile può giocare ruoli di grande equilibrio nell’interesse dell’Europa e dell’Italia hanno, insomma, prevalso sullo sdegno per il «caso Battisti». C’è stata una ferita politica, certo. Ma non una drammatica rottura. E in uno scambio di note con il Quirinale, la presidente Dilma Rousseff, alla fine di gennaio 2011, pur riconfermando il «no» all’estradizione di Battisti, ha apprezzato la qualità delle istituzioni italiane e ha aggiunto: «Una divergenza giuridica non intralcerà un rapporto secolare tra i nostri paesi». Le buone relazioni, appunto, continuano. L’orizzonte economico è sempre aperto. I freni Brembo, il caffè Lavazza, i filtri Sogefi, gli yacht Azimut e mille altri affari.  Futuro dinamico, insomma. Per le imprese medio-grandi, medie e piccole che si danno un gran daffare. Come Brembo (leader internazionale dei sistemi frenanti d’alta gamma), con due stabilimenti, nei dintorni di San Paolo e in Minas Gerais. Come Sogefi, la componentistica della Cir di Carlo De Benedetti, uno stabilimento di filtri per i motori flex e un grande centro di ricerca e sviluppo sulle motorizzazioni ­129

«verdi» («Il Brasile è il nostro secondo mercato nel mondo, dopo la Francia», commenta Emanuele Bosio, amministratore delegato del gruppo). Come Lavazza, che dopo aver acquistato nel 2008 la Café Grão Nobre, leader nel mercato di Rio de Janeiro, alla fine del 2010 ha deciso di produrre caffè in un nuovo stabilimento, a Queimados, nello Stato di Rio, la prima unità produttiva che Lavazza apre fuori dall’Italia: torrefazione, macinatura, confezionamento. «Vogliamo che i brasiliani apprezzino il proprio caffè in un modo molto speciale, secondo il gusto italiano», spiega Giuseppe Lavazza, che guida il gruppo fondato dal bisnonno nel 1895. Ancora un esempio? Quello di Azimut Benetti, yacht di lusso, che dopo vent’anni di attività commerciale su licenza, apre una fabbrica a Hajai, nello Stato di Santa Caterina, 80 milioni di euro di investimento per produrre barche oltre i 50 piedi, oltre i 17 metri di lunghezza cioè, dato che, spiega Paolo Vitelli, amministratore delegato di Azimut, «il mercato cresce del 10-15% all’anno e le barche, per i brasiliani, gente di mare, non sono solo uno status symbol». Lo stimolo a produrre direttamente in Brasile viene anche da considerazioni di ordine fiscale: tasse del 25% per la produzione locale, dell’80% invece sulle importazioni, come per tutti i beni di consumo. Di storie così, se ne potrebbero raccontare tante altre, cinquecento circa, appunto (tante, come abbiamo visto, sono le aziende italiane che hanno deciso di operare in Brasile), in una tensione crescente a fare impresa direttamente e a fare crescere le esportazioni, grazie anche ai supporti delle istituzioni di sostegno al business, le strutture commerciali dell’Ambasciata d’Italia, l’Ice, la Sace per il sostegno all’export italiano (150 nuove transazioni negli ultimi due anni, soprattutto con piccole e medie imprese, per un importo di 640 milioni di euro e un accordo con il Bndes, la banca di sviluppo brasiliana). Anche alcune regioni si muovono con attivismo. La Lombardia, per esempio, con strumenti (Promos, Rial) messi a punto d’intesa con la Camera di Commercio di Milano e con un uso intelligente degli accordi tra la Fiera di Milano e alcune grandi fiere brasiliane. ­130

Un fatto è certo: in Brasile l’Italia è di moda e l’Italia, seppur lentamente, sta finalmente prendendo coscienza che in Brasile ci si può sentire di casa. Tanto che anche nel mondo della formazione, c’è chi si prepara. Come l’Alma Graduate School, la business school dell’Università di Bologna, che nel 2009 ha varato un nuovo master in Brazil-Europe Business relations, per formare ogni anno una trentina di manager specializzati nel seguire aziende pronte a operare sui due mercati. Certo, tra le tante storie di successo, se ne possono pure scoprire di negative, come la rottura tra il colosso agroalimentare Jbs-Friboi (ne abbiamo parlato nel quarto capitolo) e il gruppo italiano Cremonini, una joint venture nata nel 2009 per puntare insieme ai mercati europei e finita in tribunale, tra accuse di aggiotaggio e di scarsa trasparenza dei conti, e poi sciolta. Ma, incidenti e conflitti a parte, l’attrazione brasiliana continua a essere fortissima. Se ne rendono finalmente conto pure i manager dei servizi finanziari italiani, che a lungo hanno trascurato Sud America e Brasile. Non c’è ancora una banca italiana che abbia sportelli e uffici operativi a San Paolo o a Rio, infatti. E non c’è, per le nostre imprese, alcun supporto specializzato per il credito alle loro attività in Brasile. Qualcosa, comunque, si muove. Banca Imi (gruppo Intesa Sanpaolo) ha partecipato all’aumento di capitale di Banco do Brasil. E la stessa Intesa Sanpaolo «sta lavorando per studiare l’apertura di un’unità operativa a San Paolo», annuncia Gaetano Miccichè, direttore generale dell’istituto. «D’altronde – aggiunge – già adesso il 30% dell’import export tra Italia e Brasile passa attraverso Intesa». Anche la Biis (la Banca infrastrutture innovazione e sviluppo, sempre del gruppo Intesa Sanpaolo) ha cominciato a esaminare le opportunità di entrare nei pool internazionali di finanziamento dei grandi progetti di lavori pubblici in Brasile. E comunque, tra i banchieri italiani, i più avvertiti, come Massimo Capuano, capoazienda di Centrobanca (specializzazione nel sostegno alle piccole e medie imprese), hanno sulle scrivanie rapporti e relazioni su ipotesi di presenza nelle grandi città brasiliane e di alleanza con le banche di Sanpaolo. Tutto un mondo in movimento, che tocca anche le ­131

assicurazioni. Come testimonia Giovanni Perissinotto, amministratore delegato delle Generali: «Siamo già forti in Messico e in Argentina e adesso vorremmo essere più presenti in Brasile», un mondo in cui la cultura assicurativa è ancora scarsamente diffusa e dunque presenta ottime possibilità di sviluppo, tra le imprese, le famiglie, i lavoratori interessati alla previdenza integrativa. Tra tante imprese italiane che vogliono affermarsi sul grande mercato, c’è pure chi sceglie il Brasile come fornitore d’eccellenza. Alitalia, per esempio. Che alla fine del 2010 ha annunciato di voler ampliare la propria flotta regionale acquistando in leasing venti velivoli per il corto raggio costruiti dalla brasiliana Embraer, una commessa che vale 500 milioni di dollari. Scelta che premia uno dei maggiori costruttori aeronautici del mondo. Ma che ha suscitato polemiche. Perché, scegliendo il partner brasiliano, Alitalia ha scartato il progetto Sukhoi Superjet 100 di una cordata italo-russa, cui partecipa in posizione di grande rilievo un’impresa italiana, Alenia Aeronautica controllata da Finmeccanica. «È il mercato: l’Embraer ha prodotti ben collaudati, il superjet Sukhoi non ha ancora volato», dicono gli uomini di Alitalia guidati dall’amministratore delegato Rocco Sabelli. Un mercato, appunto, su cui le imprese brasiliane sanno giocare molto bene. Anche questo, d’altronde, vuol dire Italia-Brasile. Scambi. Bilateralità.

10.

I piani per raddoppiare strade, porti e ferrovie

Il doppio. Il tasso d’investimento in infrastruttura del Brasile, secondo uno studio recente della banca Morgan Stanley, dovrebbe essere il doppio, per rendere sostenibile una crescita economica come quella sperata per i prossimi anni. Dal 2002 al 2010, gli investimenti infrastrutturali brasiliani hanno rappresentato circa il 2% del Pil, un livello bassissimo, se paragonato con il 7,3% della Cina, con il 5,6% dell’India o con il 6% dei vicini Cile e Colombia. Ma Morgan Stanley traccia uno scenario ottimista: tra Programa de Aceleração do Crescimento, petrolio del «pré-sal», Coppa del Mondo di calcio e Olimpiadi gli investimenti dovrebbero più o meno raddoppiare. Ma anche con questo 4% annuo, per raggiungere i livelli di infrastruttura del Cile, il Brasile avrà bisogno di vent’anni, mentre per competere con la Corea del Sud, modello di riferimento asiatico, gli investimenti dovrebbero essere anche del 6-8% all’anno. «Stiamo assistendo a un aumento della domanda di capitali e risorse, tanto materiali quanto umane, senza precedenti», spiega Jean Le Corre, socio di Boston Consulting Group in Brasile. «L’unica soluzione è una combinazione di offerta brasiliana e internazionale: saranno opportunità straordinarie per le imprese straniere», aggiunge. Anche il Bndes, banca pubblica d’investimento e stimolo allo sviluppo, stima interventi nell’ordine dei 270 miliardi di reais in tre anni, quasi il 40% in più rispetto al triennio passato. Un terzo dovrebbe servire per l’elettricità: le mastodontiche centrali idroelettriche di Jiraú, Santo Antônio e Belo Monte, la terza centrale nucleare di Angra, oltre 70 campi eolici. E poi ferrovie, telecomunicazioni (quasi un quarto degli investimenti stimati), ­133

e qualcosa anche per porti, autostrade e aeroporti. Poco, però. Troppo poco. Le imprese brasiliane cresceranno. Perché puntano a un mercato interno molto dinamico, soprattutto. E perché (come abbiamo visto nei capitoli precedenti) si espandono aggressivamente sui mercati internazionali. Ma per crescere bene hanno bisogno di energia, di trasporti, di telecomunicazioni, di risorse umane, di un quadro giuridico favorevole. E in nessuno di questi campi il Brasile è particolarmente forte, secondo gli indici di competitività elaborati dal World Economic Forum: è al cinquantaseiesimo posto, troppo in basso per la settima economia del mondo. L’energia elettrica, innanzitutto. Un paradosso, per un paese che ha le riserve petrolifere del «pré-sal»? Non necessariamente. Il petrolio vale troppo sui mercati internazionali per bruciarlo nelle turbine delle centrali termoelettriche. Perfino negli Emirati Arabi le francesi Gdf-Suez, Areva e Total stanno costruendo una centrale nucleare. In Brasile, dal Plano de Metas di Juscelino Kubitschek in poi, la produzione di elettricità è in gran parte idroelettrica. Oltre il 70% dell’energia consumata da industrie e famiglie, insomma, è rinnovabile: viene dall’acqua e da dighe monumentali come quella di Furnas, la prima inaugurata da Juscelino. Per avere una idea dell’ordine di grandezza, basti pensare che la centrale di Itaipu, che dal 1984 alimenta il Sudeste brasiliano e buona parte del Paraguay, con venti turbine idrauliche ha una capacità installata totale di 14 gigawatt, l’equivalente di una decina di centrali nucleari di nuova generazione, come quella che Edf sta terminando di costruire a Flamanville, in Francia, e di cui l’italiana Enel è azionista. Fino al 2008 Itaipu era la più grande diga del mondo, con un bacino di riserva che si estende per 1350 chilometri quadrati: è più o meno la superficie della città di Roma. Oggi la diga cinese delle Tre Gole ha una capacità nominale superiore, ma la sua produzione è ancora del 15% inferiore a quella degli impianti brasiliani. D’altra parte, il Brasile controlla il 12% dell’acqua dolce superficiale del pianeta (escludendo cioè le calotte polari e le ­134

riserve sotterranee), senza contare, appunto, quell’oceano d’acqua sotto una superficie brasiliana di oltre un milione di chilometri quadrati (dal conto sono escluse le aree sotto l’Argentina, l’Uruguay e il Paraguay): una zona vasta quanto Italia, Francia e Germania messe insieme, una quantità d’acqua sufficiente ad alimentare tutta la popolazione brasiliana per oltre duemila anni. Insomma, c’è acqua sia per l’agricoltura che per l’elettricità. Peccato che la distribuzione non sia omogenea. Il Sudeste, che rappresenta circa la metà della produzione agricola e buona parte del consumo di elettricità sia industriale che residenziale, dispone appena del 6% dell’acqua dei fiumi brasiliani, mentre l’80% circa scorre negli Stati del Nord, in Amazzonia. «Apagão»: tutti i colli di bottiglia della crescita.  Abbiamo visto (nel quarto capitolo) che nel caso del Sertão nordestino la soluzione scelta è l’ambiziosissimo progetto di spostamento del Rio São Francisco: 2 miliardi di euro di investimenti, 12 milioni di persone beneficiate dall’irrigazione, 5000 operai per la costruzione di canali di 25 metri di larghezza e 5 di profondità, con gallerie, acquedotti e stazioni di pompaggio per superare i rilievi del territorio e creare da qui al 2025 altri 160.000 ettari di nuova frontiera agricola. Nel caso del Sudeste, invece, anziché l’acqua, si trasporta direttamente l’elettricità. Peccato che le perdite nelle linee di alta tensione siano proporzionali alla loro lunghezza (è il cosiddetto «effetto Joule», e non ci si può fare granché). Il risultato negativo è che il Brasile ha i più alti tassi di dispersione dell’energia elettrica al mondo. Ma tant’è... L’acqua è così abbondante che, conti alla mano, il governo ha deciso di continuare a investire in progetti di grandi centrali idroelettriche. Jiraú, Santo Antônio e Belo Monte (la terza più grande del mondo, dopo le Tre Gole e Itaipu) in pochi anni si aggiungeranno al parco di produzione brasiliano, costruite da consorzi pubblico-privati. Contando anche l’energia eolica e le centrali a biomassa, gli investimenti in nuova elettricità tutta rinnovabile tra il 2011 e il 2019 dovrebbero arrivare a circa 175 miliardi di reais, secondo il Plano Nacional de Energia. Non è chiaro, però, se l’aumento della capacità riuscirà a ­135

sopperire alla crescita, forse ancora più rapida, della domanda, che negli ultimi anni ha mantenuto ritmi del 4% all’anno ma che adesso dovrebbe aumentare ulteriormente per penetrazione geografica: oggi ci sono ancora 2,5 milioni di famiglie che non hanno accesso all’elettricità, e il governo sta accelerando i progetti di raccordo col programma «Luz para Todos», luce per tutti. Le previsioni più recenti, insomma, sono di un tasso di crescita dei consumi del 5,3% all’anno. Dal lato della capacità di produzione, invece, bisogna considerare che i cambiamenti climatici possono influenzare i cicli di pioggia. È semplice: meno pioggia, meno acqua nei bacini delle centrali idroelettriche. Meno acqua, meno produzione. È già successo negli ultimi due anni del governo di Fernando Henrique Cardoso, nel 2001 e 2002: le piogge scarse avevano costretto le autorità a elaborare con urgenza un piano di razionamento e di risparmio energetico per ridurre il consumo del 20% circa. Apagão: la crisi era stata chiamata di «grande spegnimento». Oggi il termine è usato in senso lato per tutti i colli di bottiglia dello sviluppo: si parla di apagão degli aeroporti, di apagão dei porti, perfino di apagão delle contrattazioni e delle risorse umane. Una soluzione di lungo termine potrebbe essere una scommessa più decisa sul nucleare. Lula l’ha considerata a lungo e il ministero dell’Energia è pieno di studi e dossier. Ma per ora nei progetti infrastrutturali di Dilma, al di là del completamento della centrale di Angra 3, tra Rio e San Paolo, per l’atomo di spazio ce n’è poco. Le scorte brasiliane di uranio (quelle conosciute sono circa 300.000 tonnellate, la sesta riserva al mondo, e il 75% del territorio nazionale non è stato ancora sondato) quasi non saranno utilizzate, per i prossimi anni. E l’energia elettrica continuerà a costare due volte e mezzo di più rispetto alla Francia nuclearizzata (e quindi, secondo dati Edf, economicissima). Si investe invece nell’energia eolica. Il vento rappresenta oggi poco più dell’1% della produzione di elettricità in Brasile, ma può guadagnare quota, soprattutto lungo le coste nordestine. E adesso comincia anche a essere economicamente più competitivo, grazie agli effetti di esperienza e di scala a livello mondiale. Con un vantaggio: la complementarità stagionale. I venti ­136

nordestini soffiano ancora più forte da luglio a novembre. Che è poi la stagione in cui piove meno, quindi quella in cui le centrali idroelettriche producono meno elettricità. D’altra parte, si sa, le piogge in Brasile diminuiscono dopo marzo, «fechando o verão», chiudendo l’estate, come cantava Tom Jobim in Águas de Março. Né su gomma né su rotaia: le mille difficoltà di trasportare le merci.  Le campagne brasiliane, come abbiamo già visto, sono più produttive di quelle statunitensi. E più economiche, anche. Ci si aspetterebbe che una tonnellata di soia brasiliana costasse meno di una tonnellata di soia statunitense. E invece no. La brasiliana arriva a costare, in totale, il 10% in più. Tutta colpa del trasporto, tre volte troppo caro in Brasile. Perché negli Stati Uniti la produzione agricola circola sui fiumi (quelli brasiliani, pieni di dighe per le centrali idroelettriche, sono navigabili solo in parte), su rotaie e su strade in eccellenti condizioni. In Brasile, invece, le rodovias sono letteralmente piene di buche: solo il 13% della maglia autostradale brasiliana è asfaltata, mentre in Cina le autostrade asfaltate sono l’80% e anche in India già il 63%. Ciò significa che i camion devono cambiare gli ammortizzatori e i pneumatici due volte più spesso che negli Stati Uniti. Con l’effetto sui costi che è facile immaginare. E i treni? «Se sopravvivrà al XX secolo, il treno sarà il mezzo di trasporto del XXI», prevedeva alla fine degli anni Quaranta il presidente delle Ferrovie francesi, Louis Armand, decenni prima dei grandi investimenti infrastrutturali del Tgv («Train à Grande Vitesse»), «figlio» europeo della crisi del petrolio del 1973 (la stessa crisi che in Brasile, invece, ha portato all’invenzione delle automobili ad alcol). Le sue parole, sessant’anni più tardi, sono di straordinaria attualità in Europa (basti pensare alla Tav italiana, alla concorrenza internazionale tra la tedesca Db e la francese Sncf, al traffico in aumento dell’Eurostar tra Parigi e Londra) e anche in Cina, dove per potenziare la rete, già la terza più estesa al mondo, sono previsti 300 miliardi di dollari di investimenti in un decennio. Due secoli dopo la sua invenzione, il treno si reinventa più economico, più rapido, più ecologico. ­137

Anche in Brasile, storicamente un paese «di ruote» per influenza statunitense e tedesca e dei loro giganti dell’auto, all’epoca del Plano de Metas di Juscelino Kubitschek, oggi si comincia a costruire un futuro come paese «di rotaie». Per la logistica, innanzitutto. La maglia ferroviaria esistente è quasi tutta gestita in proprio dagli utilizzatori industriali della catena produttiva dell’acciaio, come Vale, Csn, Usiminas e Gerdau, ma anche di All, che trasporta pure granaglie. Non basta per rispondere al fabbisogno crescente di trasporto di merci in una economia fortemente basata sulle materie prime. Il rischio è un ulteriore aumento di quella «distanza economica» dagli utilizzatori finali evidenziata con allarme da Eliezer Batista per Vale (l’abbiamo raccontata nel quinto capitolo). Gli investimenti previsti per i prossimi anni sono massicci: oltre 100 miliardi di reais, tra ferrovie merci (circa 30) e passeggeri (circa 75, senza contare il controverso progetto del treno ad alta velocità tra Rio de Janeiro e San Paolo). Il ministro dei Trasporti Paulo Passos, nel 2010, annunciava: «Ci sono oltre 5000 chilometri di ferrovie all’ordine del giorno in questo momento, o in costruzione o in gara d’appalto». Si tratta dell’asse Nord-Sud, da completare entro il 2012, 2200 chilometri dalle campagne del Maranhão a quelle di San Paolo; dell’Est-Ovest, per collegare Tocantins al porto di Ilheus nella Bahia; della Rete di Integrazione del Centro-Ovest; della Transnordestina. Tutte opere che dovrebbero «avvicinare» economicamente le merci brasiliane (soprattutto ferro e granaglie) ai loro porti d’imbarco per i mercati internazionali. E altri 15.000 chilometri, il triplo cioè, sono previsti nel Pac 2, la seconda edizione del Programa de Aceleração do Crescimento di cui la presidente Dilma Rousseff, adesso, non è più «madre» (come l’ha sempre definita Lula) ma committente. L’obiettivo: passare in pochi anni dal 25% al 40% di merci trasportate su rotaia. Il problema è reso ancora più complicato dal fatto che, una volta arrivate alle coste, le merci non riescono a essere imbarcate rapidamente. Nel porto di Santos, per esempio, i camion possono aspettare in fila anche trenta ore prima di scaricare la merce. E i container, poi, rimangono in coda in media per 17 ­138

giorni, contro una media mondiale di 5 (e un record, svedese, di 2). Ad aspettarli, in mare, navi che possono stare ferme in rada perfino tre settimane, prima di ottenere l’autorizzazione ad attraccare. In dieci anni, il traffico portuale è quasi raddoppiato, le infrastrutture invece no. Servirebbero oltre 40 miliardi di reais di investimenti, ma nel Pac ne sono previsti appena 9. La situazione è talmente insopportabile che le più grandi imprese private di commodities, come Ebx o Vale, stanno già costruendo e rendendo operativi i loro terminali marittimi esclusivi. In una inchiesta recente della rivista «Exame» presso gli amministratori delegati di 300 tra le più grandi imprese del Brasile, i porti sono risultati il terzo collo di bottiglia più preoccupante, per il 19% degli intervistati. Subito dopo le strade e le ferrovie, ovviamente. E seguiti a ruota dagli aeroporti. Code negli aeroporti e un treno veloce sempre in ritardo.  A Guarulhos, per esempio, principale aeroporto del paese, che dà accesso alla megalopoli di San Paolo, passano 22 milioni di passeggeri l’anno, più o meno la somma di Linate e Malpensa. Cinque milioni di troppo: la struttura è pensata per 17 al massimo (20, secondo il gestore Infraero, più ottimista), nonostante una superficie equivalente all’aeroporto londinese di Gatwick, che però ha il doppio della capacità. Atterrando a Guarulhos, la fila d’attesa per superare i controlli d’immigrazione può durare anche un’ora e mezza: un record negativo, se si pensa che a Seul l’aeroporto di Inchneon, che di passeggeri ne vede passare 30 milioni l’anno, ha file d’attesa di meno di un quarto d’ora. Anche per i bagagli chi va a San Paolo deve avere pazienza: una media di 40 minuti a Guarulhos contro i 4 di Pechino (sì, quattro: i cinesi scaricano i bagagli con un rullo trasportatore che collega direttamente la stiva dell’aereo ai nastri di ritirata). Senza contare, poi, che non ci sono trasporti su rotaia per arrivare in città e bisogna dunque affrontare autostrada e circonvallazioni incomplete (per uno dei segmenti del Rodoanel, la circonvallazione di San Paolo, non è ancora prevista nemmeno una data di inizio dei lavori), con un tempo di percorrenza che va da una a tre ore. Anche Congonhas, aeroporto in piena città per i voli nazionali, tra cui ­139

il ponte aereo San Paolo-Rio de Janeiro, opera con il 40% al di sopra della capacità massima, mentre per questioni di sicurezza in media gli aeroporti nel mondo operano con il 20% al di sotto. D’altra parte, anche lo scalo «gemello» del ponte, l’aeroporto Santos Dumont di Rio, è oramai saturo. Così come succede per gli aeroporti di Belo Horizonte, Porto Alegre, della capitale Brasilia, perfino per lo scalo di Manaus in Amazzonia. Per la Coppa del Mondo di calcio del 2014 sono previsti 5,5 miliardi di reais di investimenti, in parte per miglioramenti permanenti, in parte per strutture temporanee, con dei terminal «usa-e-getta» per assorbire il picco di traffico di un mese. Ma le gare d’appalto già effettuate sono appena il 3,5% del totale, mentre i lavori eseguiti e consegnati alla fine del 2010 non arrivavano all’1%. La soluzione? Le imprese private brasiliane e internazionali chiedono a gran voce la privatizzazione di Infraero, gestore unico degli aeroporti, o per lo meno la possibilità di realizzare scali concorrenti in gestione privata. Le società costruttrici Camargo Corrêa e Andrade Gutierrez, per esempio, in società con Boeing hanno in progetto un nuovo aeroporto internazionale da 22 milioni di passeggeri a San Paolo. Terreno già comprato, disegni esecutivi pronti: manca solo l’ok del governo. E con uno studio recente commissionato alla società di consulenza McKinsey, lo stesso Bndes suggerisce la privatizzazione di sette scali, tra cui proprio Guarulhos. Aéroports de Paris e Fraport (che gestisce lo scalo di Francoforte) hanno già manifestato il loro interesse. Per il governo, però, la soluzione corre anche sui binari. Buona parte del traffico di Congonhas e Santos Dumont, secondo i piani, dovrebbe spostarsi dal ponte aereo verso le rotaie del treno ad alta velocità che collegherà Rio e San Paolo, liberando slot di decollo e atterraggio per altri voli, e indirettamente decongestionando anche Guarulhos. Un progetto, quello della Tav brasiliana, che genera polemiche forti quanto quelle dell’omologa italiana: l’opposizione critica sia la fattibilità tecnica che quella finanziaria. Il percorso, c’è da dire, non è dei più facili. 510 chilometri tra le due città, ma un dislivello di 900 metri e una aspra catena di ­140

montagne a dividere i territori: serviranno circa 130 chilometri di tunnel, viadotti e gallerie. Senza contare che la Tav brasiliana deve fare i conti con cicli di dilatazione termica quotidiani molto più ampi rispetto a quelli dell’Europa o del Giappone: parecchie tecniche collaudate e stabilite nell’ingegneria dei trasporti nelle regioni a clima temperato non si applicano facilmente ai binari di un paese tropicale. I costi, insomma, dovrebbero essere ben superiori ai 33 miliardi di reais annunciati dal governo, anche perché il costo al chilometro, se le stime del governo fossero corrette, sarebbe nettamente inferiore a quello delle nuove linee del Tgv francese, che gode degli effetti di scala e di trent’anni di esperienza. Impresa difficile, se non impossibile. A rafforzare i dubbi sul valore ufficiale dell’investimento previsto, c’è uno studio di due società di consulenza specializzate, la brasiliana Sinergia e l’inglese Halcrow, che stimano un costo praticamente doppio. E sono le stesse società che hanno realizzato la valutazione del governo. Anche dal lato dei ricavi le previsioni sono discutibili. Le stime più recenti parlano di un traffico annuale di 6,4 milioni di passeggeri tra Rio e San Paolo, che pagherebbero biglietti dell’ordine di 200 reais a tratta, più o meno l’equivalente di quanto pagherebbero a parità di distanza su uno Shinkansen, il treno ad alta velocità giapponese. Un prezzo un po’ caro, però, quando si considera che i biglietti aerei Tam e Gol in promozione possono costare anche la metà, o appena il 30% in più, se flessibili e rimborsabili. Quanto al tempo di percorrenza, il Trem Bala, «treno proiettile», dovrebbe collegare Rio a San Paolo in un’ora e mezza, circa il doppio del tempo dell’aereo. Che andrebbe anche bene, considerando i tempi di imbarco, sbarco e ritardo (è più o meno la stessa differenza, tra aereo e Tav, che i viaggiatori europei osservano nel tragitto Parigi-Londra). Peccato però che il Trem Bala brasiliano non parta dalla Gare du Nord, in pieno centro, per arrivare a St Pancras-King’s Cross, altrettanto in pieno centro. La stazione prevista a San Paolo, invece, dovrebbe essere costruita nel quartiere di Santana, a 15-20 chilometri dai principali quartieri d’affari (Paulista, Faria Lima, Marginal Pinheiros). Mentre Congonhas, da lì, è raggiungibile ­141

in meno di un quarto d’ora. Insomma, gli uomini d’affari di Rio e San Paolo, che costituiscono il segmento più redditizio del ponte aereo, difficilmente passeranno dalle ali alle rotaie. E i tempi di realizzazione? Inizialmente, il Trem Bala avrebbe dovuto essere consegnato in tempo per la Coppa del Mondo di calcio del 2014. Adesso le stesse fonti pubbliche non confermano più neanche la disponibilità della linea ferroviaria per le Olimpiadi del 2016. Perché, all’inizio del 2011, non è cominciata nemmeno la gara d’appalto. Più lento di un piccione viaggiatore.  I consumatori brasiliani sono voraci di gadget e nuove tecnologie. L’iPhone, per esempio, aveva già una straordinaria penetrazione in Brasile prima ancora del suo lancio ufficiale da parte di Apple: tutti prodotti «importati» (e cioè concretamente «contrabbandati», dai canali del mercato nero paraguaiano o più informalmente da amici in viaggio), tanto da spingere Steve Jobs ad anticipare il piano di commercializzazione in Brasile di sei mesi. E anche le reti sociali «parlano portoghese». Intanto perché Orkut, lanciata da Google nel 2004, conta in Brasile circa 36 milioni di membri, la metà del totale mondiale. E poi perché Facebook è stato co-fondato da un brasiliano, Eduardo Saverin, oggi miliardario ventottenne «in pensione» ed ex migliore amico del più famoso Mark Zuckerberg. Come Orkut anni fa, Facebook sta prendendo piede in Brasile. In meno di un anno ha già 10 milioni di utilizzatori, sostanzialmente tutti strappati al concorrente di marca Google. Il Brasile è anche l’unico mercato in cui la tecnologia Push to talk, che usa i cellulari come walkie-talkie, ha un uso diffuso e quotidiano per milioni di consumatori. I telefonini, d’altra parte, in Brasile sono già più di 190 milioni. Insomma, tra gadget e applicazioni, il mercato brasiliano delle telecomunicazioni è in piena espansione, grazie anche agli effetti del boom dei consumi e dell’aumento delle classi medie, di cui abbiamo parlato nei primi due capitoli. La banda larga mobile, per esempio, ha raggiunto nel 2010 la stessa penetrazione della banda larga fissa, che pure cresce del 17% l’anno, raggiungendo all’inizio del 2011 quasi 12 milioni di consumatori. ­142

Peccato però che quella banda tanto larga non sia. L’Itu, agenzia delle Nazioni Unite per le Telecomunicazioni, raccomanda una velocità minima di 1,5-2 Mbps per le connessioni di banda larga. Per i 12 milioni di connessioni brasiliane, la velocità media è solo di 0,9 Mbps, mentre in Francia la media è quasi di 18 e in Giappone si arriva addirittura a 64. In Italia, i pacchetti di base offrono velocità di 7 Mbps. Il settimanale «Veja», per illustrare la lentezza della banda larga brasiliana, ha fatto i conti e ha provato che per trasmettere l’equivalente di un Dvd di dati lungo una distanza di 30 chilometri, è sei volte più rapido masterizzare i dati in un disco e spedirli con un piccione viaggiatore (l’uso di un tradizionale taxi, dato il traffico metropolitano di San Paolo e Rio, è risultato meno conveniente). In Italia, i dati arriverebbero più o meno contemporaneamente al piccione. Con la crescita del consumo di dati, i principali operatori delle telecomunicazioni (Vivo, Claro, l’italiana Tim e Oi) sono preoccupati che le reti cellulari di terza generazione arrivino a saturazione troppo in fretta, e costruiscono sei nuove antenne al giorno. Ma soprattutto stanno accelerando i piani per l’implementazione della prossima generazione, la cosiddetta 4G, prevista già per il 2013. In tempo per il picco di domanda della Coppa del Mondo. Miglioramenti anche per quanto riguarda i servizi di assistenza ai consumatori, che sono monitorati attentamente dall’authority Anatel (che, per esempio, ha proibito nel 2009 all’operatrice Oi di vendere contratti di telefonia mobile nel segmento imprese per eccesso di reclami dei consumatori). Miglioramenti evidenti, comunque. Una riprova di come funziona il sistema? Eccola. È domenica pomeriggio, un’afosa giornata d’estate, in gennaio. Un utente telefona – dal cellulare – al servizio di assistenza di Net, operatore convergente di telefonia, televisione e internet a banda larga. Risponde una voce registrata, con tono amichevole: «Buon giorno. Riconosco il cellulare da cui sta telefonando, lei è uno dei nostri clienti. Sono anche a conoscenza del fatto che nel suo quartiere ci sono delle difficoltà di connessione: probabilmente lei ci sta chiamando perché internet non funziona. Siamo veramente dispiaciuti e stiamo facendo tutto il possibile, ma per ora purtroppo la migliore pre­143

visione che le possa fare è che la linea sarà ripristinata soltanto stasera verso le 21. Speriamo di fare di meglio, ma non possiamo garantirlo. Se però ci sta chiamando per un altro motivo, digiti 1 e le passo subito un operatore». Milleseicento miliardi di investimenti, ma non bastano.  La risposta del governo alle necessità di investimenti infrastrutturali si chiama, anche in questo caso, Pac. Creato nel 2007, è stato rilanciato nel 2010 nella sua seconda edizione, Pac 2, con obiettivi più ambiziosi. Se il primo Pac, infatti, prevedeva investimenti per 500 miliardi di reais, la nuova edizione arriva a un ordine di grandezza di 1600 miliardi, i primi 1000 dal 2011 al 2014, il resto nel triennio successivo. Un numero gigantesco, quei 1600 miliardi. Include tutti gli investimenti di cui abbiamo parlato in trasporti (migliaia di chilometri di strade, ferrovie, idrovie; investimenti in porti e aeroporti), energia (elettricità, gasdotti, piattaforme petrolifere), infrastrutture di base (acqua, luce, fognature per milioni di famiglie che ancora non ne dispongono), sviluppo urbano e sicurezza, e edilizia per le classi disagiate. Progetti molto impegnativi. Su cui, naturalmente, non mancano le critiche. Quali? Innanzitutto, il fatto che oltre l’80% delle opere del primo Pac non è stato concluso in tempo. Abbiamo visto nel primo capitolo che Dilma calcola un buon 50% di opere già lanciate: ma l’obiettivo era anche di terminarle, e il numero è contestato da associazioni indipendenti come Contas Abertas. Parecchie di quelle opere, infatti, fanno parte della seconda edizione. Sempre secondo i critici, nel totale degli investimenti sono calcolati anche progetti industriali che con l’infrastruttura pubblica hanno poco a che vedere, come, per esempio, le piattaforme Petrobras per l’estrazione del petrolio del «pré-sal». Lo stesso programma «Minha Casa, Minha Vida» è un’iniziativa di credito a tassi agevolati per l’edilizia privata, e con le infrastrutture quindi ha poco a che vedere. Quanto ai progetti effettivamente infrastrutturali, non sempre i fondi per le opere previste sono sufficienti (lo abbiamo visto nel caso dei porti e degli aeroporti, ma il ragionamento vale tranquillamente anche per elettricità e ferrovie). ­144

C’è, comunque, una questione di fondo su cui fare chiarezza: da dove vengono le risorse? Una parte (minoritaria) è effettivamente investimento statale. Poi ci sono investimenti industriali privati (i porti di Eike Batista e di Vale) e pubblici (Petrobras, di nuovo). Ancora, i progetti degli stadi della Coppa del Mondo e le opere urbanistiche di Rio per le Olimpiadi, che quindi «contano due volte» nel totale degli investimenti dei prossimi cinque anni: una volta nel Pac, una volta negli eventi sportivi. E per finire, la vasta maggioranza dei fondi che dovrebbe venire da investimenti in project financing effettuati in partnership tra istituzioni pubbliche locali o federali, banche e fondi d’investimento, imprese industriali brasiliane e internazionali. È una straordinaria occasione, in ogni caso, quella dei project financing nelle infrastrutture brasiliane, che non passa certo inosservata sui mercati finanziari mondiali. E i due uomini forti dell’economia pubblica brasiliana, il ministro delle Finanze Guido Mantega e il presidente del Bndes Luciano Coutinho, si preparano a stimolare e coordinare gli investimenti. L’imposta sulle operazioni finanziarie, che incide sul cambio di valuta necessario agli investimenti da parte di stranieri, per i titoli di debito di project financing è stata ridotta dal 6 al 2%, per esempio, come anche varie imposte sugli investimenti d’infrastrutture autostradali e ferroviarie. Anche le procedure di certificazione ambientale per strade e ferrovie sono state semplificate, per incoraggiare gli investimenti. Fisco pesante e corruzione diffusa.  Perché, certamente, di infrastrutture il Brasile ha bisogno per crescere. Infrastrutture fisiche, naturalmente. Ma anche «infrastruttura d’affari». Il World Economic Forum, come abbiamo visto, classifica il Brasile soltanto cinquantaseiesimo su centotrentanove nel suo indice di competitività. Meglio del Messico e della Turchia, ma peggio dell’India (quarantanovesima) e della Cina (ventinovesima, seguita a ruota dal Cile). Perché un risultato così mediocre? Le risorse umane, per esempio, scarseggiano e non sempre sono qualificate come dovrebbero, come abbiamo visto nel secondo capitolo. Un altro esempio? Il sistema tributario. Le imprese che ­145

operano in Brasile spendono in media ognuna 2600 ore all’anno per preparare e pagare decine di dichiarazioni di imposte diverse, un periodo equivalente a un mese e mezzo di lavoro di dieci commercialisti a tempo pieno. Anche l’infrastruttura giuridica è complessa e pesante. «Eppure le norme di arbitrato in Brasile esistono, sono sofisticate quanto quelle francesi e permetterebbero alle imprese di non fare ricorso sistematicamente alla giustizia civile, che è lentissima», spiega Flávia Pereira Ribeiro, avvocato civilista e ricercatrice all’università Puc di San Paolo. «Ma lo sanno in pochi, quindi sono poco usate». La corruzione, poi, è considerata come un ostacolo strutturale allo sviluppo economico, sia nelle classifiche mondiali che nella percezione interna. E non solo ai livelli macroscopici del mensalão dell’ex primo ministro José Dirceu nel 2005 (ne parliamo nella Cronologia) o del più recente, analogo scandalo dell’ex governatore di Brasilia José Roberto Arruda. Il problema più grave è la corruzione diffusa. «Passo più tempo a creare norme di controllo per dare la caccia ai falsi invalidi che a pensare a evoluzioni strutturali per il nostro fondo», si lamenta Juliana Gomes Bezerra, del fondo São Paulo Previdência (Spprev). E spiega: «Più che dei grandi cambiamenti demografici, siamo costretti a occuparci dei morti che continuano a ritirare la pensione ogni mese. E sa cosa mi irrita veramente? Non solo il fatto che chi emette i certificati sia corruttibile, che già è grave. Il peggio è che la loro dignità costa veramente poco. Sa quanto ci vuole per fare un certificato falso? Poche decine di reais».

11.

Da San Paolo a Rio, le metropoli tra favelas e simboli del lusso

Il lungo viale alberato si può percorrere solo in macchina, fino al portone di una grande villa costruita secondo lo stile dei palazzi nobili del Settecento. E lì, sotto i portici dell’ingresso, autisti in livrea parcheggiano Audi, Mercedes e Bmw, mentre cameriere con un grembiulino che sembra copiato da quello di Julie Andrews in Tutti insieme appassionatamente servono caffè Illy, nell’ampio vestibolo dal cui tetto pende, gigantesco giocattolo, un elicottero. È Daslu, luogo simbolo del Brasile ricco e consumatore, nel cuore di San Paolo, villa a due piani tra i grattacieli. E, secondo una dirigente del gruppo Lvmh (significa Dior, Vuitton, Veuve Clicquot, Moët & Chandon, Givenchy...), «è il grande magazzino più bello e lussuoso del pianeta». Le marche più ambite del mercato mondiale del lusso, infatti, ci sono tutte: quelle Lvmh, certamente, ma anche le storiche concorrenti italiane Prada, Gucci, Tod’s, Armani. E naturalmente Chanel, che nel patio della villa ha messo, appunto, quell’elicottero nero col monogramma delle due C specchiate. Nel reparto casa, porcellane ungheresi di Herend e argenteria Christofle. E, nelle piccole pasticcerie che si aprono lungo i corridoi e le balconate, i cioccolatini più sofisticati in tutte le varietà del cacao, i pasticcini più fantasiosi. Il salotto Daslu e un senatore nella favela.  Daslu all’inizio era solo un salotto. Quello della signora Lúcia Tranchesi, ricchissima paulistana, da cui le amiche andavano a prendere il caffè e a comprare vestiti, che Lúcia e l’amica e socia Lourdes facevano copiare da sarte abilissime sui modelli internazionali di Chanel e Dior. I vestiti «delle Lu», «das lu», appunto. Con la gestione della figlia Eliana, l’attività si professionalizzò e si espanse, al ­147

punto da occupare le altre case dello stesso isolato aprendo varchi nei muri per fare spazio alla merce, finché Daslu si trasferì nella struttura odierna. Mantenendo, però, il concetto originale: le clienti vanno «a casa di Lu» per provare i vestiti. Quindi, per esempio, buona parte dei reparti femminili sono proibiti agli uomini: non ci sono camerini, i vestiti si provano davanti a tutte «le amiche». E una volta fatto l’acquisto (le casse, convenientemente, sono nella «zona franca» in cui i mariti aspettano prendendo il caffè), i pacchi non si portano in giro: le cameriere in grembiule impeccabile li faranno trovare in macchina. E così come l’attività iniziale della signora Lúcia era essenzialmente informale, per anni anche le importazioni della Daslu professionalizzata hanno evaso il fisco: fino alla condanna definitiva, nel 2009, dei fratelli Eliana e Antônio a 94 anni di reclusione e 236 milioni di reais di multa per contrabbando, evasione fiscale e crimine organizzato. Ma le attività del gruppo, adesso regolari e trasparenti, continuano sotto la gestione dei due figli di Eliana e di manager esterni alla famiglia. Autisti, caffè e grembiulini non sono cambiati. Da Daslu non si può entrare a piedi perché la villa neoclassica sorgeva a due isolati, meno di cinque minuti a piedi, dalla favela Coliseu, una sacca di povertà e disperazione nel mezzo di uno dei quartieri più ricchi e valorizzati di San Paolo, Vila Nova Conceição. Eliana Tranchesi la visitava, ogni tanto, accompagnata dalla star popolare di turno (calciatori o musicisti rapper, in generale) per partecipare a eventi di beneficenza e «buon vicinato». Ironia della sorte: sia la favela Coliseu che l’elegante Villa Daslu adesso stanno lasciando spazio a nuove costruzioni. La favela è stata «rimossa» (è il termine politicamente corretto per indicare lo sgombero degli abitanti e la distruzione delle parti in muratura) e Daslu si prepara a trasferirsi in un moderno palazzo che ospiterà altri centri commerciali e uffici di banche e società d’investimento. Anche lo spazio della villa neoclassica, con le marche globali della moda in piena crescita, ormai non basta più. Nel contrasto tra Daslu e Coliseu, nella coesistenza del lusso e della povertà, sta la chiave per capire le metropoli brasiliane, e in particolare San Paolo e Rio de Janeiro. Lo sa bene il senatore ­148

Eduardo Suplicy, del Partido trabalhista di Lula: ricco imprenditore, amico di attrici e star, padre di un cantante di discreto successo televisivo, ex marito di Marta (oggi anche lei senatrice e negli anni Novanta sindaco di San Paolo), professore di Economia alla Fundação Getúlio Vargas. E assiduo frequentatore delle favelas di San Paolo, come Paraisópolis. Un venerdì pomeriggio di novembre del 2010, subito dopo la fine della campagna elettorale che ha portato alla presidenza del Brasile Dilma Rousseff, Eduardo va a presentare la sua proposta di legge sulla Renda Básica de Cidadania, una forma di sussidio indifferenziato per tutti gli abitanti del paese, all’associazione delle donne di Paraisópolis. È una favela relativamente urbanizzata, Paraisópolis: nei suoi vicoli tortuosi si può andare in giro (basta avvisare prima i narcotrafficanti per evitare problemi), vi passano, sia pure con difficoltà, gli autobus del Comune, le strade principali sono asfaltate, ci sono anche un negozio di elettrodomestici della rete Casas Bahia e due agenzie bancarie, una di Bradesco e una di Banco do Brasil. L’elettricità è gestita da Eletropaulo, come nel vicino quartiere di Morumbi. Quel pomeriggio proprio Eletropaulo sta facendo dei lavori: un camion blocca la strada in cui ha sede l’associazione e taglia un filo della luce. Eduardo ha appena cominciato il suo discorso di fronte a un pubblico di una trentina di donne, tra i diciotto e i cinquant’anni, molte accompagnate dai figli. Si trovano delle candele: la riunione può continuare. Il senatore parla di Bolsa Família, l’attuale programma del governo Lula che eroga un sussidio per le famiglie meno abbienti, in cambio dell’obbligo di frequenza a scuola e di vaccinazione per i figli. Con un gesto teatrale, leva l’orologio, lo poggia su una mensola e dice: «Vediamo quanto ci metto a spiegarvelo». Sei minuti e mezzo. «Troppo complicato», dice. «Ora vediamo come dovrebbe funzionare la Renda Básica. È semplice: chiunque abiti in Brasile, da sempre o da almeno cinque anni, senza prerequisiti, senza dover provare niente, riceve un tanto al mese. Visto? Stavolta per spiegarlo ci ho messo pochi secondi». Cita poi l’esempio dell’Alaska, che con gli introiti della pesca e del petrolio distribuisce effettivamente a tutti i suoi (pochi) abitanti una renda básica di alcune migliaia di dollari l’anno. Quello ­149

che non si aspetta, probabilmente, è la reazione di buona parte del pubblico: scetticismo in molti casi, per alcune delle presenti addirittura un rigetto formale: «Ma neanche per idea. Io ricevo Bolsa Família e in cambio devo mandare i miei figli a scuola, mi sembra il minimo», osserva Alessandra, poco più di vent’anni. «Senatore, nella favela non serve assistenza: serve sviluppo. Quello che vogliamo è la possibilità di lavorare con dignità», aggiunge Neusa, la segretaria dell’associazione. «Guardi che qui c’è gente che se ne approfitterebbe, senatore. Non è meglio usare quei soldi per costruire un ospedale? Non ce l’abbiamo, un ospedale, a Paraisópolis», conclude Dona Maria, cinquant’anni, da trenta volontaria di un’organizzazione che fa doposcuola ai bambini del quartiere. E il senatore spiega, paziente, che prima di tutto vorrebbe eliminare la povertà, risponde alle obiezioni come se fosse in Parlamento, propone ulteriori conversazioni e riunioni con la popolazione del quartiere, promette presenza e impegno. «Se ce la faccio, vi porto anche la nostra Dilminha», dice parlando della presidentessa neoeletta. Vitalità metropolitana dai mille contrasti.  San Paolo è Paraisópolis, favela di grande coscienza politica. San Paolo è Daslu, tempio del lusso insieme ai concorrenti Iguatemi e Cidade Jardim. San Paolo è Liberdade, quartiere giapponese con i lampioni di carta e le insegne in kanji, comprese quelle della banca Bradesco. San Paolo è Bixiga, quartiere italiano con le trattorie dalle tovaglie a quadretti bianchi e rossi, le trecce d’aglio appese e gli improbabili suonatori che cantano altrettanto improbabili canzoni in un napoletano ormai dimenticato: di «italiani» ce ne sono più a San Paolo che a Roma, alla fine. San Paolo è un po’ New York, è l’avenida Paulista e la Faria Lima, centri finanziari di stile e ambizione internazionali, luoghi eletti della sofisticata classe dirigente del paese. San Paolo è il parco di Ibirapuera, cani al guinzaglio, biciclette e architetture di Niemeyer. San Paolo è il Bourbon Street Festival di Moema, il più importante evento jazz di strada al mondo fuori da New Orleans. San Paolo è un pianoforte nell’atrio della Estação da Luz, tra i binari ferroviari della metropolitana, dove chiunque voglia può improvvisare un ­150

concerto, mentre nei giardini di fronte, tra una statua di Garibaldi e le mura della Pinacoteca, piccoli complessi di anziani musicisti intrecciano ritmi di bossa nova. San Paolo sono gli ingorghi della Marginal Pinheiros quando piove troppo e il fiume allaga le strade. San Paolo è un cantiere nuovo inaugurato ogni giorno, foreste fittissime di gru e cemento armato per fare spazio alla crescita demografica ed economica. San Paolo è un metrò che trasporta milioni di persone al giorno, ed è anche un metrò che avrebbe bisogno di essere dieci volte più esteso, e che cresce troppo lentamente (circa 45 chilometri di nuove linee previsti nei prossimi cinque anni: a Shanghai ne sono stati progettati dieci volte di più). San Paolo è il cibo sofisticato di Alex Atala, che gioca a scomporre e ricomporre la cucina italiana e francese con ingredienti assolutamente brasiliani come priprioca, pupunha, jabuticaba. San Paolo è la scuola di filosofia dell’Usp che rilegge Deleuze e Foucault. San Paolo è Congonhas, aeroporto urbano intasato da chi per lavoro va a fare una riunione a Brasilia o a Rio. San Paolo è la comunità ebraica che a Higienópolis e Jardins va in giro con barbe lunghe, kippah e treccine. San Paolo è la comunità di benestanti modaioli che si appassiona alla telenovela indiana e per qualche mese va in giro col sari. San Paolo è il più grande Gay Pride annuale al mondo, oltre 3 milioni di persone a manifestare lungo l’avenida Paulista. San Paolo sono quattro squadre di calcio, São Paulo, Corinthians, Palmeiras e Santos, rivali nel campionato e nella corsa per ospitare nel proprio stadio i Mondiali del 2014. San Paolo è la garoa, pioggerellina sottile e insistente per molti mesi l’anno, una parola intraducibile in italiano ma che in dialetto siciliano è assuppaviddani. San Paolo è il nuovo ponte sospeso, il primo al mondo i cui tiranti descrivono una superficie curva, orgoglio degli ingegneri che l’hanno progettato e costruito e dei pubblicitari che lo illuminano di colori e slogan promozionali. San Paolo è anche un po’ Milano, metropoli produttiva che guarda alla rivale Rio un po’ con disprezzo e un po’ con invidia: vuoi mettere, la spiaggia di Ipanema... San Paolo è tutto, efficienza, vitalismo, miseria che si riscatta e lusso sfacciato, contemporaneità, élite e popolo, cultura sottile e mass market dei consumi. Per capirla, bisogna imparare a cambiare ­151

continuamente punto di osservazione. Senza mai perdersi. E Rio, cos’è mai Rio, oltre la sconvolgente bellezza dei suoi panorami e la fama da dépliant turistico della sua allegria? Un sindaco e gli ex McKinsey per pianificare il buon governo.  Andare a guardar dentro, per capire meglio la città. La frontiera tra Ipanema e Copacabana, lungo la costa di Rio de Janeiro, è il Forte de Copacabana, una fortezza della Marina militare costruita sulla punta dell’Arpoador, teatro di eventi storici lungo la storia brasiliana, dalla difesa della Corte portoghese alla rivolta del 1922. Oggi sede del Museu Histórico do Exército, il Forte da anni ospita anche una delle più eleganti feste di Capodanno della città. Per celebrare l’arrivo del 2011, i tradizionali fuochi d’artificio («i più belli del mondo», dicono i carioca, il nome, appunto, degli abitanti di Rio; e probabilmente hanno ragione, perché sono elaborati, esteticamente ricercati, dinamici e ritmati, e soprattutto riflessi dal mare). E, dopo i fuochi, ecco la presentazione del simbolo delle Olimpiadi del 2016, le prime della storia in America Latina. Un simbolo forte, deciso, esemplare, perché riassume in tratti grafici essenziali, che richiamano il Pão de Açúcar e allo stesso tempo la celebre Danza di Matisse, il fascino di una città unica al mondo, che alla straordinaria bellezza paesaggistica associa una cultura di accoglienza, di stile di vita informale e di ricerca costante della felicità. Barack Obama, appena eletto alla Casa Bianca e quindi all’apice della sua popolarità e del suo peso mediatico, si spese personalmente per Chicago, dove avrebbe voluto vedere i Giochi olimpici del 2016. E invece le Olimpiadi del 2016 saranno a Rio de Janeiro, nel quartiere di Barra da Tijuca. Merito dei successi di atleti brasiliani come la saltatrice Fabiana Murer e il nuotatore César Cielo? Non solo, o non tanto. Più che altro, merito di due figure emblematiche della politica brasiliana. Il primo, ovviamente, è il presidente Lula, popolare e ben voluto all’estero quasi quanto in casa (in Brasile ha raggiunto indici di popolarità sconosciuti ai governi democratici, superando costantemente l’80% dei consensi). Lo stesso Obama, ha dovuto riconoscerlo: Lula è «l’uomo dell’anno». La dinamica positiva e ­152

l’immagine internazionale del nuovo Brasile di Lula senz’altro hanno giocato pesantemente, insomma, nella scelta del Comitato olimpico. Il secondo artefice della vittoria, meno noto sulle scene globali ma altrettanto fondamentale per il successo, è il sindaco di Rio de Janeiro, Eduardo Paes, il primo sindaco ad aver dato alla città un programma di governo serio e studiato. Il primo, soprattutto, ad aver cominciato a realizzarlo concretamente. Cordiale, affabile e un po’ istrione, come da manuale del politico carioca, Paes è passato per cinque partiti diversi e fasi alterne di ferma opposizione e leale allineamento al governo federale di Lula. Eletto nel 2009 dopo una campagna elettorale dura e molto contestata, Paes ha cominciato la sua gestione nel segno dell’operazione «Choque de Ordem», una serie di iniziative di sicurezza e ordine pubblico nei quartieri più difficili della città. E ha voluto riorganizzare il Comune di Rio, storica macchina di clientele e inefficienze, per farne il centro nevralgico di una amministrazione più pragmatica e fattiva. Paes ama ricevere visitatori, che tratta sistematicamente come amici di vecchia data, e cui racconta con entusiasmo progetti e iniziative: «È semplice. In azienda ci sono le aree di planning strategico e di controllo di gestione? Bene, ne ho voluta una anche qui in Comune. Ho assunto una mezza dozzina di ex McKinsey che mi hanno trasformato obiettivi politici generali in piani e mete dettagliate. E che ne seguono settimanalmente l’applicazione». Piani concreti per affrontare le storiche difficoltà di Rio e prepararla ad accogliere milioni di visitatori nel 2014, per la Coppa del Mondo, la cui finale avrà luogo nello stadio Maracanã, e nel 2016 per le Olimpiadi: nuovi trasporti, la ridefinizione di aree degradate come avvenne negli anni Novanta a Barcellona, ma soprattutto sicurezza, urbanizzazione e una nuova identità globale, non più basata sulla violenza e sulla miseria delle favelas. Il segreto di Paes? Un accordo di collaborazione con il governatore Sérgio Cabral. Si perde meno tempo a litigare, e si agisce in sinergia. Con la proclamazione di Brasilia come nuova capitale, nel 1960, Rio ha perso buona parte della sua identità e una quota ­153

consistente di Pil, dovuta alle centinaia di migliaia di funzionari pubblici e dipendenti dell’indotto della politica. E non si è mai ripresa. Nonostante le privatizzazioni del governo di Fernando Henrique Cardoso, negli anni Novanta, Rio ha perso anche il ruolo di capitale finanziaria in favore di San Paolo, con una decadenza progressiva che ha portato nel 2000 al trasferimento di tutte le azioni brasiliane sulla piazza di San Paolo e nel 2002 all’acquisizione e chiusura della Borsa di Rio da parte della paulistana BM&F. A Rio sono rimaste «solo» le due più importanti imprese del paese, Petrobras e Vale (ne abbiamo parlato nel terzo e nel quinto capitolo). «Ma non basta: 15 milioni di cariocas non possono contare solo sul ferro e sul petrolio, serve molto di più», constata il sindaco Paes. E allora scommette su quella che chiama «industria senza ciminiere»: sulla cultura, sui servizi, sul turismo. «Ci sono segmenti su cui San Paolo ha una leadership chiara, e sui quali non vale la pena di entrare in concorrenza. La Borsa, per esempio: beh, che rimanga lì. Ma l’industria di gestione di fondi e ricchezze? Per un gestore finanziario è talmente piu gradevole lavorare da un ufficio di Ipanema e poter andare in spiaggia a giocare a calcio alla fine della giornata. Tanto i mercati sono accessibili a distanza, e alle sei di sera chiudono», spiega. Fondi d’investimento, insomma, un po’ sul modello di Gávea, dell’ex presidente del Banco Central Arminio Fraga, economista di fama internazionale e investitore di successo, che ostenta camicie sbottonate e a maniche corte: «La cravatta? Uno o due giorni a settimana al massimo, quelli in cui non posso fare a meno di volare a San Paolo». Ma anche sedi delle grandi multinazionali: per gestire le attività in America Latina, il Brasile è in concorrenza diretta con il Cile e con Miami. Ma all’interno del Brasile, la sfida è tutta tra la modernità di San Paolo e la qualità di vita e la bellezza di Rio de Janeiro. Sicurezza, insomma, per attrarre imprese e investitori internazionali. Ma l’espulsione delle favelas e l’isolamento di un centro ricco e «sicuro», a Rio, non potrebbe funzionare. Per conformazione geografica e storia socio-culturale, Rio è cresciuta con una mistura di classi sociali che convivono negli stessi spazi urbani. Il morro do Cantagalo, celebre favela sorta negli anni ­154

Sessanta, comincia a due isolati dall’elegantissima avenida Prudente de Moraes. E i favelados che la abitano vanno in spiaggia a Ipanema come i ricchi del quartiere. Asciugamano con asciugamano, campetto di pallavolo con campetto di pallavolo. Così la strada scelta a Rio è quella dell’urbanizzazione e della cosiddetta «pacificazione». Per la prima volta, in piena collaborazione tra l’amministrazione comunale, quella dello Stato di Rio, responsabile per la sicurezza e per le forze di polizia, e quella federale. Arriva l’esercito per mettere sotto controllo le favelas.  Pacificazione, innanzitutto. Il concetto è semplice. A differenza di quelle di San Paolo, sterminate distese orizzontali come Paraisópolis, le favelas di Rio sono costruite in verticale sulle pendici di una collina, il morro. In cima a ciascun morro, punto panoramico ma soprattutto di più facile difesa, vivono i signori del narcotraffico: in genere una banda di adolescenti e ventenni che hanno vinto una sanguinosa guerra per il potere e che approfittano della loro posizione dominante per qualche mese, finché una nuova gang non li sostituisce a colpi di mitra AK47. Bene, la polizia di Rio ha cominciato a giocare con la stessa strategia. Entra in guerra con la fazione dominante, scala la collina, prende il potere. Ma anziché andare via, rimane lì e installa una Upp, Unidade de Polícia Pacificadora, in cima al morro per controllare e regolare la favela. A quel punto possono entrare in azione altre unità del settore pubblico per urbanizzare il quartiere con fognature, acqua potabile, luce, scuole, unità di pronto soccorso e perfino connessione a internet gratuita per tutti. La trasformazione della favela Dona Marta, conquistata dalla polizia il 20 novembre 2008, è impressionante. Dieci anni fa, Michael Jackson aveva chiesto al capo del narcotraffico il permesso di girare il suo video They Don’t Care About Us. Oggi, Eduardo Paes la mostra come esempio di successo alle star internazionali di passaggio, come Madonna o Beyoncé. Nel dicembre del 2010, le bande dei narcotrafficanti hanno mostrato i primi segnali di difficoltà strutturale. Hanno bruciato decine di automobili e autobus nei quartieri benestanti per minacciare l’amministrazione comunale: «Se non la smettete con ­155

le Upp, le Olimpiadi ve le potete scordare». La reazione è stata ferma, come nei due fortunatissimi film della serie Tropa de Elite. L’esercito ha invaso le storiche roccaforti del narcotraffico. E per alcuni giorni Rio de Janeiro ha vissuto una specie di stato di guerra, con un’operazione militare che ha coinvolto 2600 uomini, marines, soldati e agenti di polizia, con 15 carri armati, 6 M113 (i blindati usati dalle truppe alleate in Iraq) e parecchi elicotteri, per «invadere», ripulire e mettere sotto controllo le favelas più importanti, una dopo l’altra. Lo Stato ha conquistato anche il Complexo do Alemão, l’enorme conglomerato di cinque favelas che separa l’aeroporto internazionale Tom Jobim dal resto della città, storica roccaforte dei banditi. Il presidente Lula è andato personalmente, insieme ai soldati, a piantare una bandiera brasiliana nel quartier generale della criminalità organizzata, e da lì hanno fatto annunci e dichiarazioni anche il governatore Cabral e il sindaco Paes. «Una svolta storica per Rio de Janeiro», concordano tutti e tre, «lo Stato è ritornato nel territorio». E già pochi giorni dopo l’occupazione iniziale sono arrivati, come un segno di presenza iniziale, i cartelli stradali e la toponomastica. Seguiti da un’agenzia di Banco do Brasil. È cominciata così l’urbanizzazione della favela più difficile. «Siamo soddisfatti e orgogliosi del risultato», commenta Sérgio Cabral, «ma avremo finito solo quando di favelas occupate dal narcotraffico non ne esisteranno più». Il prossimo passo? «È già previsto, ma non lo possiamo annunciare. La guerra è guerra: mica possiamo dire al nemico dove lo attaccheremo domani, no?». Già. Anche se la sfida di una migliore qualità della vita non la si può guardare solo dal punto di vista dell’ordine pubblico e della sicurezza. Bisogna parlare pure di ambiente. Le favelas che si arrampicano sulle pendici delle colline sono malferme. E franano, perché il terreno devastato non regge il carico delle costruzioni, pur se di lamiera, cartongesso e legno. E perché un acquazzone, appena più violento del solito, può far rovinare un’intera collina, seminando morte. Com’è successo nel 2010 proprio a Rio, ma anche ad Angra dos Reis e Ilha Grande. E com’è successo di nuovo a metà gennaio del 2011 a Teresópolis, Nova Friburgo e Petrópolis, pioggia torrenziale che trasforma ­156

la collina in un fiume di fango che uccide e devasta, 740 morti, altri 200 dispersi, più di 20.000 persone senza casa. Questione ambientale e questione sociale si legano. E anche a tutto ciò dovranno guardare i progetti di investimento: il risanamento ha drammi diversi e convergenti, da affrontare. Parecchie, insomma, le sfide per Rio de Janeiro. E non solo per Rio. I temi della qualità dello sviluppo sono sostanzialmente una questione urbana. Le aree di bassa densità, come l’Amazzonia, il Pantanal, il Sertão o le campagne di Goiás, si svuotano sempre di più. E le grandi metropoli continuano a crescere. Solo in Amazzonia, per esempio, la popolazione urbana è passata dal 35% negli anni Settanta al 70% nel censimento del 2000. Quanto al Sudeste, economisti e politici prevedono una crescita e una integrazione sempre maggiore del tessuto urbano, fino a superare la conurbazione di Tokyo-Yokohama tra il 2015 e il 2020. «Una megalopoli senza interruzione, da Campinas a Campos, passando per San Paolo e Rio de Janeiro: è con questo che dobbiamo fare i conti. Significa ripensare trasporti, infrastrutture, ma soprattutto modelli di governance più integrati», spiega André Urani, economista «torinese, francese e brasiliano» che da anni studia e insegna fenomeni urbani e socioeconomici a Rio e a Parigi. Non basta, insomma, progettare e fare funzionare un treno ad alta velocità tra Rio de Janeiro e San Paolo. Bisogna ripensare più in generale le dinamiche e il funzionamento di un tessuto urbano e sociale di quasi 30 milioni di persone. «Nel 2020, la popolazione della megalopoli Campinas-Campos probabilmente sarà equivalente a quella dell’Italia: non la si gestisce con una decina di sindaci che lavorano ognuno per i fatti suoi», spiega Urani. La «piccola» Campinas paradiso di tecnologia.  Campinas, per esempio, è considerata «piccola» rispetto alla vicina San Paolo, da cui dista poco più di un’ora lungo l’autostrada dei Bandeirantes. Ma ha più abitanti di Palermo, un aeroporto internazionale, un Pil di circa 30 miliardi di reais (quindi un reddito pro capite più che doppio rispetto alla media brasiliana), è sede di oltre 10.000 medie e grandi imprese (tra cui i centri di ricerca e gli stabilimenti di General Electric, Ibm, Basf, Samsung, ­157

Motorola, Texas Instruments, Dupont, e delle italiane Pirelli e Magneti Marelli), e di una ventina di campus universitari, tra cui l’Unicamp, centro di eccellenza internazionale nel ramo delle alte tecnologie. È anche stata, dopo Chicago e Rio de Janeiro, la terza città al mondo a installare una rete telefonica, nel 1883. Proprio a Campinas, considerata la «Silicon Valley brasiliana», varie multinazionali oggi investono in ricerca e sviluppo. Banco Santander, per esempio, sta costruendo un datacenter che sarà inaugurato nel 2012 e in cui lavoreranno oltre 2000 persone: infrastruttura per la rete bancaria brasiliana, ricerca e sviluppo di software a livello mondiale, accordi con fornitori mondiali come Accenture, Ibm e l’indiana Tata. La sede? Nel nuovo Parco Tecnologico dell’Unicamp, un milione di metri quadrati di spazio a disposizione delle imprese brasiliane e globali che vogliono investire in innovazione e ricerca in partnership con l’università. La qualità di vita a Campinas è considerata unanimemente migliore rispetto a quella della vicina metropoli, con i suoi quasi 20 milioni di abitanti e con le decine (nelle giornate peggiori, anche centinaia) di chilometri di strade bloccate dal congestionato traffico quotidiano. Al punto che c’è chi preferisce viverci, appunto a Campinas, anche lavorando a San Paolo. L’amministratore delegato della Borsa Edemir Pinto, di cui abbiamo parlato nel sesto capitolo, non ha dubbi: «Sono sicuro che passo meno tempo ad andare e tornare io di quanto non faccia lei», dice a chi abita a San Paolo e gli chiede perché non faccia altrettanto. Ma sapranno lavorare insieme gli amministratori di città così diverse? Sapranno collaborare, per esempio, Eduardo Paes e Gilberto Kassab? Al di là delle appartenenze politiche e soprattutto di uno stile personale molto diverso, il sindaco Kassab affronta, a San Paolo, sostanzialmente gli stessi problemi di sicurezza, traffico e urbanizzazione. Le sue risposte, però, sono molto diverse. Principale rappresentante del partito Dem, discendente dalla destra parlamentare che aveva appoggiato la dittatura militare, Kassab a San Paolo ha gestito il tema della sicurezza con una politica di «tolleranza zero» nei quartieri benestanti, analogamente a quanto è stato fatto in grandi metropoli come Parigi, Londra o New York. Una «operazione pulizia» ­158

(ricordiamo che la favela Coliseu, per esempio, è stata «urbanizzata» sgomberandola e radendola al suolo) cui è corrisposta, però, una marginalizzazione delle periferie su scala ancora più impressionante: i banlieusards parigini sono circa 3 milioni, quelli di San Paolo sono cinque volte di più. Una capitale a forma d’aereo, nel cuore del nulla.  Le periferie sono il dramma anche di Brasilia, capitale pensata, pianificata e costruita «in una notte». La città, disegnata in forma di aereo da Lúcio Costa, Oscar Niemeyer e Roberto Burle Marx e voluta, fortemente voluta dal presidente Juscelino Kubitschek, oggi è circondata da città satellite di estrema povertà. Il 21 aprile del 1960, simbolica data di anniversario della fondazione di Roma nel 753 a.C., Juscelino inaugurò una città costruita in meno di quattro anni (quarantatré mesi, per essere precisi), partendo dal nulla. Letteralmente dal nulla: sul Planalto Central non c’era nient’altro che sterpaglia. Ma nella Costituzione c’era scritto che la capitale – per sicurezza e per spingere la colonizzazione dell’interno del paese, non solo delle coste – avrebbe dovuto essere spostata verso il centro geografico del Brasile. E soprattutto, le migrazioni crescenti dal Nordeste piegato dalla fame e dalla sete verso il Sudeste ricco di San Paolo e Rio de Janeiro stavano generando un fenomeno nuovo, quello delle favelas. Bisognava dunque trovare lavoro per decine di migliaia di emigranti per evitare che arrivassero nelle metropoli meridionali. L’enorme cantiere di Brasilia, per quattro anni, era stato la risposta. Completata Brasilia, i candangos, gli operai che l’avevano costruita, si stabilirono nelle città satellite. Per loro non c’era posto in una città che pur era stata progettata come democratica, egualitaria, d’ispirazione socialista. L’eredità di Brasilia è ancora oggi, cinquant’anni dopo, molto discussa. Da una parte Brasilia, con le sue architetture audaci e futuriste (il Parlamento, i palazzi della Presidenza, del Supremo Tribunal Federal, la Cattedrale...) e la sua ricerca urbanistica spinta all’estremo (tutte le banche in un quartiere, tutti i ristoranti in un altro, tutti i ministeri lungo i due lati dell’imponente Esplanada, niente semafori ma solo sottopassaggi e viadotti per ­159

minimizzare il traffico...), è un simbolo della creatività e della capacità di realizzazione di un Brasile che sa immaginare e costruire il futuro: la sintesi dell’ambizione dei «cinquant’anni di sviluppo in cinque anni di governo» della stagione di Juscelino, il perno della costruzione dell’autostrada Transamazzonica e dello sviluppo agricolo del Centro-Oeste. Dall’altra parte, Brasilia è anche il simbolo delle peggiori tendenze della classe politica brasiliana. Gigantesca macchina da tangenti durante la costruzione. Dopo l’inaugurazione, segno geografico della distanza tra il mondo politico isolato nel Planalto Centrale e il paese reale. E, soprattutto, «peccato originale» delle finanze pubbliche brasiliane, una delle cause scatenanti della spirale di iperinflazione che per anni, fino al Plano Real di Fernando Henrique Cardoso, ha impedito qualsiasi forma di crescita economica equilibrata e di sviluppo sociale. Capitale affascinante. Capitale visionaria. Capitale, a cinquant’anni dalla nascita, ancora in cerca di identità (cominciano a tracciarla le nuove generazioni di persone che sono nate a Brasilia). Capitale necessaria. Capitale scomoda. Il futuro non è solo, illuministicamente, un insieme di linee tracciate sul foglio di un piano urbanistico, ma un cuore vivo di progetti e scambi di umanità. Brasilia ci prova. Ha ancora bisogno di tempo.

Conclusioni

E domani?

E domani? Che ne sarà del Brasile domani? A giocare con le domande sul futuro, i brasiliani sono abituati da tempo. «Il paese del futuro», si è sempre detto. Ma quel futuro, dalle stagioni gloriose del presidente Kubitschek al ritorno della democrazia dopo il buio ventennio della dittatura militare, dalle prime riforme di Fernando Henrique Cardoso contro l’iperinflazione e l’instabilità economica all’avvio dei programmi di Lula per coniugare lotta alla miseria e aumento del Pil, sembrava non arrivare mai. Adesso, invece, tutto fa pensare che il nuovo decennio degli anni Duemila possa essere una stagione di moderato, consapevole ottimismo. Si cresce, si investe, si consuma, si spera. I figli (e sono tanti, in un paese con un buon tasso di natalità) staranno meglio dei padri. Il «patto generazionale» può funzionare. Il Brasile, i cui abitanti hanno un’età media di 29 anni e una classe dirigente giovane, in politica e in economia, è in grado di poter pensare a come vivere in un mondo migliore. Senza fare gli indovini, si può ragionare su dati e attendibili proiezioni, di cui i lettori attenti hanno trovato ampie tracce nelle pagine precedenti e troveranno puntuali riscontri nei grafici in Appendice. Cinque elementi chiave permettono di disegnare una traiettoria per il Brasile nei prossimi cinque-dieci anni. Primo elemento: l’economia. Si cresce stabilmente, in un contesto di inflazione che anche il governo Dilma assicura di voler tenere sotto controllo (a differenza di quanto avviene sia in paesi vicini in America Latina sia in altri paesi dei Bric, a cominciare dalla Cina). Inflazione elevata, è vero, non tanto sul fronte dei prezzi al consumo, quanto soprattutto su quello dei prezzi della ­161

produzione industriale. Ma comunque a livelli di sicurezza. La presidente Dilma ha annunciato ai sindacati che il salario minimo sarà agganciato ai risultati della lotta all’inflazione. Una chiara scelta di stabilità. Sostenuta anche da un vigile senso d’allarme da parte della grande maggioranza dell’opinione pubblica, che ha buona, recente, bruciante memoria dell’iperinflazione e sa che quel disastro economico e sociale non dovrà ripetersi più. L’impennata dei prezzi delle materie prime, sia minerarie che agricole, fonte reale di preoccupazione in vaste aree del mondo, è qui meno inquietante che altrove: di materie prime, infatti, il Brasile, come abbiamo visto, è ricchissimo. E il passaggio oramai consolidato da un’economia fondata sull’export di prodotti agricoli ed energetici a un’economia industriale di trasformazione, con grande attenzione al mercato interno, è un elemento di sicurezza, di stabilità. La struttura industriale, d’altronde, è solida, moderna. L’impresa manifatturiera è forte, fondata sia sui settori più tradizionali come l’agroindustria sia su quelli più innovativi come l’auto, la chimica, l’aeronautica. Ed è proprio «l’orgoglio industriale» brasiliano rafforzato dalla presenza di imprese d’origine tedesca e italiana, paesi manifatturieri d’eccellenza, a rappresentare un punto di forza, in un’economia mondiale che, nella crisi della cosiddetta «economia di carta», ha rivalutato il valore dell’industria, del saper fare, e fare bene. Un’industria sostenuta anche da una finanza solida, poco incline alle speculazioni d’assalto, molto lontana dall’uso spregiudicato delle leve finanziarie e dei castelli di «derivati» più avventurosi dei mercati anglosassoni. Materie prime, imprese manifatturiere, banche ben patrimonializzate e prudenti sono una triade che garantisce, anche per i prossimi anni, sviluppo equilibrato. Secondo elemento: il cosiddetto «bonus demografico», di cui si parla nel secondo capitolo. Nell’arco dei prossimi vent’anni ci saranno molte più persone al lavoro che pensionati e bambini da mantenere. Dinamismo economico, dunque. E minore spesa pubblica. Una condizione particolarmente vantaggiosa, unica nella storia di un paese, su cui investire, per migliorare la qualità ­162

del capitale umano, la produttività complessiva del sistema, la sostenibilità anche sociale dello sviluppo. Abbiamo visto come istruzione, sia di massa che di eccellenza, ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico presentino grandi lacune, costituiscano un forte freno alla crescita. Documenti di governo e valutazioni degli attori sociali mostrano consapevolezza del problema e volontà di intervento. Anche da questo punto di vista, si può moderatamente essere ottimisti. Terzo elemento: la stabilità sociale. L’aumento della ricchezza, con ritmi impressionanti, si accompagna a una più equilibrata distribuzione dei redditi. Cresce il numero dei ricchi, anche di quelli molto, molto ricchi. Ma cresce soprattutto la classe media, mentre decine di milioni di persone escono da uno stato di povertà e assumono la consapevolezza dei diritti e dei doveri di una moderna società dei consumi in una stabile democrazia. Un processo complesso, naturalmente. Carico di tensioni e di contraddizioni. Segnato dal permanere di rilevanti squilibri sociali, di cui le favelas nelle città brasiliane sono testimonianza evidente (con il corollario di preoccupanti livelli di violenza urbana). Ma Bolsa Família continua a funzionare, la lotta alla miseria è in cima ai programmi di governo, le risorse da investire non mancano. E i programmi di risanamento delle favelas (repressione dura, ma anche integrazione sociale) vanno avanti con un certo successo, soprattutto a Rio de Janeiro. All’orizzonte ci sono appuntamenti internazionali importanti, i Mondiali di calcio e le Olimpiadi, che porteranno il Brasile alla ribalta del mondo: occasioni in cui il paese, orgoglioso e nazionalista, non vuole certo rischiare una cattiva figura. Ma pesano anche considerazioni di politica interna. Il consolidamento della democrazia, da Fernando Henrique Cardoso a Dilma passando per Lula, ha bisogno di sicurezza diffusa, di percezione stabile di miglioramento della qualità della vita. E proprio la sinistra brasiliana, al potere da nove anni, sa bene che su questa strada gioca carte importanti per la sua credibilità come forza di governo, come esempio autorevole non solo all’interno, ma nell’intera area dell’America Latina. ­163

Quarto elemento: la qualità della politica. Dei paesi latino-americani, il Brasile, insieme al Cile, sembra essere il meno contagiato dalle subculture del populismo, di destra e di sinistra, che hanno tristemente segnato il corso dell’Ottocento e del Novecento. È vero, la deriva populista delle moderne democrazie, con la contemporanea dimensione delle cosiddette «telecrazie» (miscela drammatica di potere politico e influenzamento dell’opinione pubblica grazie ai media di massa), è una condizione diffusa non solo in America Latina ma altrove nel mondo. E un politologo attento cone Joseph Nye, nel suo ultimo libro, The Future of Pow­er, ha spiegato bene come siano proprio i meccanismi dell’informazione, nelle nuove dimensioni accelerate dall’information technology, a determinare squilibri che sommuovono anche le più tradizionali e consolidate democrazie liberali. Il Brasile non è estraneo a processi del genere. E il successo elettorale, alle consultazioni dell’autunno 2010 per il nuovo Parlamento federale, di un clown televisivo, Tiririca, forte solo della sua notorietà e improntitudine mediatica e capace di ottenere oltre un milione di voti con slogan come «Tanto, peggio di così non può essere» e «Veramente non so cosa faccia un deputato federale, ma votate per me che poi ve lo racconto», dice che il qualunquismo stimolato dalla Tv può avere successo. Ma la democrazia formale, tutto sommato, regge. Il «discorso pubblico» è di decente qualità, favorito anche da un’informazione di buon livello. E all’interno della classe politica va avanti un ricambio di ceti dirigenti che fa ben sperare. Resta aperto, però, un problema di corruzione diffusa: sfida aperta, cui guardare con molta attenzione. Quinto elemento: gli equilibri internazionali. La contemporaneità è un sistema di relazioni in cambiamento. E il mondo è sempre più incardinato su una condizione da «equilibrio multipolare». Al declino degli Usa come «impero solitario» corrisponde il protagonismo di nuovi attori, mentre si ridefiniscono assetti di potere e di influenza, dal Mediterraneo all’Europa, dal Medio Oriente alla Cina. Gli organismi internazionali, dall’Onu al Fondo Monetario, dalla Nato alla Banca Mondiale, sono in ­164

una stagione di riflessione e autocritica. Nuovi soggetti occupano la ribalta, a cominciare dall’Africa, nei paesi della costa araba e in molte nazioni del centro del Continente. La Wto sta al centro di una profonda ridiscussione degli equilibri geo-politici e geo-economici. E il Brasile ha conquistato una posizione di primo piano, sia in America Latina, come imprescindibile riferimento, sia altrove. La sua forza politica, potenza tranquilla e non prepotente, ma tutt’altro che silente, ha come fondamento anche la sua forza finanziaria ed economica, che non ha ancora comunque dispiegato tutte le potenzialità. Ecco perché si può usare con fondatezza la parola bandeirantes, per parlare del Brasile e degli attori economici brasiliani. In una nuova accezione. Non più quella dei conquistatori di terre ignote (rapaci, all’epoca, e cupidamente devastatori, di equilibri umani e ambientali). Ma quella di una forte presenza, sulla scena internazionale. Bandeirantes dello sviluppo, che portano le «bandiere», appunto, di un’originale ricerca di equilibri e di qualità sociale e ambientale. Una scommessa forte, difficile, incerta, naturalmente. Ma determinata. Una scommessa che parla portoghese. E prova a farsi capire dal mondo.

Fonti

Per scrivere questo libro, oltre che fare tesoro delle esperienze di vita e di lavoro personali e delle conversazioni dirette con parecchie delle persone citate nelle pagine, abbiamo consultato regolarmente quotidiani e periodici, come «The Economist», «Newsweek», «Time», «Financial Times», «Le Monde», «Les Echos», «Wall Street Journal», «Folha de São Paulo», «Estado de São Paulo», «Valor Econômico», «Exame», «Carta Capital», «Istoé Dinheiro», «Veja», «Istoé», «Corriere della Sera», «Il Sole 24Ore», «La Stampa», «la Repubblica», «l’Espresso», «Panorama», «Il Mondo», «Internazionale», «Limes», «Politica internazionale», «Almanacco latinoamericano». Dati e utili analisi sono stati attinti, tra l’altro, dai documenti dell’ambasciata del Brasile a Roma e dell’ambasciata d’Italia a Brasilia, del ministero italiano degli Affari Esteri, dell’Ice, dell’Ispi e del Rial. Particolarmente utile è stata la lettura di Loris Zanatta, Storia dell’America Latina contemporanea (Laterza, Roma-Bari 2010), Valerio Castronovo, Piazza e caserme. I dilemmi dell’America Latina dal Novecento a oggi (Laterza, Roma-Bari 2007), John H. Elliott, Imperi dell’Atlantico. America britannica e America spagnola, 1492-1830 (Einaudi, Torino 2010), Carlo Pietrobelli e Elisabetta Pugliese, L’economia del Brasile. Dal caffè al bioetanolo: modernità e contraddizioni di un gigante (Carocci, Roma 2007), Parag Khanna, How to Run the World. Charting the Course to the Next Renaissance (Random House, New York 2011) e I tre imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI secolo (Fazi, Roma 2009). Nuova attenzione, naturalmente, per Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina (Sperling & Kupfer, Milano 1997), per Sérgio Buarque de Hollanda, Radici del Brasile (Giunti, Firenze 2000) e per Darcy Ribeiro, O Povo Brasileiro (Companhia das Letras, São Paulo 1995). Abbiamo anche fatto riferimento ai testi Multinacionais Brasileiras. Internacionalização, inovação e estratégia global, a cura di Moacir de Miranda Oliveira Jr (Bookman, Porto Alegre 2010); Economia Brasileira Contemporânea, a cura di Amaury Patrick Gremaud, Marco Antonio Sandoval de Vasconcellos e Rudinei Toneto Júnior (Atlas, São Paulo 2007); A Real História do Real di Maria Clara R.M. do Prado (Record, Rio de Janeiro 2005); História Concisa do Brasil di Boris Fausto (Edusp, São Paulo 2001); Guia politicamente incorreto da história do Brasil di Leandro Narloch (Leya Brasil, São Paulo 2009); JK: O

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Artista do Impossível di Cláudio Bojunga (Objetiva, Rio de Janeiro 2001; poi adattato in una fortunata novela televisiva). Per entrare meglio nel clima sociale e culturale brasiliano, abbiamo riletto classici come Grande sertão di João Guimarães Rosa (ultima edizione Feltrinelli, Milano 2007) e i romanzi di Jorge Amado (ricordiamo solo Teresa Batista stanca di guerra, Donna Flor e i suoi due mariti, Gabriella garofano e cannella, tra i tanti, recentemente ripubblicati da diversi editori) ma anche alcuni scrittori contemporanei come Daniel Galera, Sogni all’alba del ciclista urbano (Mondadori, Milano 2009) e Attilio Caselli, Brace (Fazi, Roma 2010), e parecchi scritti di Vinícius de Moraes, Carlos Drummond de Andrade, Machado de Assis, Luís Fernando Veríssimo. Alcuni film costituiscono riferimenti imprescindibili: tra i tanti, ricordiamo Cidade de Deus, di Fernando Meirelles (2002); i due Tropa de Elite, di José Padilha (2007 e 2010); e Central do Brasil, di Walter Salles (1998). Per dati statistici e analisi abbiamo inoltre consultato i siti del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, dell’Ice, dell’Istat, del Mercosul, della Fundação Getúlio Vargas, dell’Instituto de Pesquisa Econômica Aplicada, dell’Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística, del Banco Central, dell’Anbima, della rivista «Exame», dell’unità di statistica della rivista «The Economist» (Economist Intelligence Unit); li elenchiamo nell’ordine in cui sono citati: www.imf.org www.worldbank.org www.ice.gov.it www.istat.it www.mercosul.gov.br www.fgv.br www.ipeadata.gov.br www.ibge.gov.br www.bcb.gov.br www.anbima.com.br exame.abril.com.br www.eiu.com Per l’attenzione e la pazienza nel raccontare e spiegare parecchi aspetti dell’economia e della società del Brasile, dobbiamo un sincero ringraziamento a Mario Batista, Maurício Batista, Gilberto Bonalumi, Fábio Carrara, Thiago Carvalho, Ibsen da Costa Manso Neto, Ilson Dal Ri, Victor Fernandes, Mathieu Frison, Juliana Gomes Bezerra, Aydin Ilhan, Marcelo Jobim, Guillermo Kelly, Gerardo Lafrancesca, Guilherme Leal, Paolo Magri, Thiago Miskulin, Luciana Oliveira, Ignacio Peña, Romulo Pereira, Michele Pikman, Apolonio Sales, Henrique Sinatura, Masao Ukon, André Urani, Davi Villar.

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Cronologia

1500 Il 22 aprile tredici caravelle portoghesi, condotte dal capitano Pedro Álvares Cabral, sbarcano sulle attuali coste dello Stato della Bahia. 1565 Viene fondata Rio de Janeiro, che nel 1763 diventerà capitale, al posto di Salvador da Bahia. Rimarrà capitale fino al 1960, quando sarà sostituita da Brasilia. 1661 Vengono sconfitti definitivamente i coloni olandesi che avevano preso il controllo di parti della costa e delle aree interne del Nordeste e avviato commerci sotto il controllo della Compagnia delle Indie occidentali. 1694 Le prime miniere d’oro sono scoperte nell’attuale stato di Minas Gerais; trent’anni dopo, arrivano anche le miniere di diamanti: alle ricchezze agricole si aggiungono le fortune minerarie. 1808 João VI e la sua corte fuggono da Lisbona, conquistata da Napoleone, sotto la protezione della Marina britannica. La corte rimane a Rio de Janeiro fino al 1821, stringendo rapporti politici e commerciali sempre più solidi con Londra, sino alla firma di un Trattato di navigazione e commercio tra Brasile e Inghilterra, principale beneficiaria di tutte le esportazioni di prodotti agricoli e metalli preziosi. Le antiche capitanie diventano Province e, nel corso del tempo, si trasformeranno negli attuali Stati del Brasile federale. 1822 Rimasto in Brasile come reggente dopo il rientro a Lisbona della corte portoghese e richiamato formalmente in patria, il principe Dom Pedro, ventiquattrenne, proclama l’indipendenza del Brasile al grido di «Io rimango qui!», pronunciato a San Paolo presso il Rio Ipiranga, e si insedia come imperatore del Brasile. Nel 1824 Dom Pedro I proclama la Costituzione, ratificata dal Portogallo nel 1825 sotto pressione dell’Inghilterra, e nel 1831 abdica a favore del figlio Pedro II. I primi anni dell’Impero sono quelli del boom delle piantagioni di caffè, che supera per importanza lo zucchero nelle esportazioni. 1854 Si inaugura la prima ferrovia, in un ciclo di modernizzazione delle infrastrutture principali del paese e di crescita delle città. Cominciano le ondate di immigrazione di massa dall’Europa, so-

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prattutto dall’Italia del Nord-Est (verso le regioni meridionali e lo Stato di San Paolo) e dalla Germania. La principessa Isabel, con la Lei Áurea, abolisce la schiavitù, al termine di una lunga campagna antischiavista che affonda le radici nelle posizioni dei gesuiti nel corso del XVIII secolo e trova nel tempo il supporto della nascente borghesia industriale concentrata negli Stati di San Paolo e di Minas Gerais, in conflitto economico, politico e culturale con le classi dirigenti dei coronéis nordestini. Svolta politica e istituzionale: il Brasile diventa una repubblica e Dom Pedro II va in esilio. Nel 1891 è approvata la prima Costituzione repubblicana, che definisce i poteri di uno Stato presidenzialista e federalista. Il primo presidente è un generale, Deodoro de Fonseca, seguito nel 1894 da un presidente civile, Prudente de Moraes. A dominare politica ed economia sono gli uomini d’affari di San Paolo, con specializzazione legata alla produzione e all’industrializzazione del caffè, e quelli di Minas Gerais, territorio minerario ma anche agricolo specializzato nell’allevamento e nella produzione ed esportazione di carne e latte. È la lunga stagione detta «della politica del caffellatte». Comincia l’epoca di Getúlio Vargas. Candidato alla presidenza dall’Alleanza liberale, Vargas viene sconfitto, ma subito dopo è nominato capo del governo provvisorio dai militari che hanno preso il potere. Avvia riforme sociali a vantaggio dei ceti popolari (sue le leggi e i regolamenti del mercato del lavoro, in vigore ancora oggi), una politica commerciale di valorizzazione del caffè e programmi massicci di industrializzazione, con politiche protezionistiche a tutela delle imprese brasiliane. Nel 1934, Vargas fonda l’Università di San Paolo, Usp. Con un colpo di Stato sostenuto dall’esercito, Vargas scioglie i partiti e proclama una nuova Costituzione autoritaria, con forti caratteristiche di destra. Nasce l’Estado Novo, aumenta la presenza dello Stato nell’economia: grandi spese, costituzione dei principali enti pubblici di pianificazione economica. Con il sostegno finanziario degli Usa, viene fondata la Companhia Siderúrgica Nacional di Volta Redonda (oggi Csn): il paese delle materie prime diventa anche un grande produttore di acciaio. Il Brasile entra in guerra accanto a Usa e Gran Bretagna contro Germania, Italia e Giappone. Truppe della Força Expedicionária Brasileira (Feb) operano in Italia, partecipando anche alla battaglia di Montecassino. Vargas è deposto da un colpo di Stato militare. Nasce una nuova repubblica, sulla base della Quarta Costituzione, di ispirazione democratica e federalista, che alleggerisce il nazionalismo economico. Vargas vince elezioni democratiche ed è di nuovo presidente. È un periodo di forte crisi economica, con scioperi e agitazioni

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popolari, cui il presidente cerca di porre un argine raddoppiando il salario minimo e facendo nuove scelte di forte presenza pubblica nell’economia: nel 1952 nasce il Bnde (Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico, oggi Bndes, con l’aggiunta di «Social»), nel 1953 Petrobras. Al centro di polemiche per un attentato al suo principale oppositore Carlos Lacerda, Vargas riceve il 22 agosto del 1954 una lettera di richiesta di dimissioni firmata da un gruppo di diciannove generali dell’esercito: si suicida nella notte seguente, al termine del suo ultimo consiglio dei ministri. 1955-1960 Presidenza di Juscelino Kubitschek, medico di umilissime origini e brillante carriera politica, caratterizzata dal desenvolvimentismo: progresso tecnico-industriale come leva di un progresso generale del paese, inquadrati in obiettivi ambiziosi. Lo slogan dei programmi di sviluppo è «Cinquant’anni in cinque». L’economia cresce, grazie anche al Plano de Metas per stimolare gli investimenti esteri. Boom dell’industria dell’auto, trainata da Volkswagen e Fiat. In meno di quattro anni sorge la nuova capitale, Brasilia, al centro geografico del paese. La nazionale del Brasile vince il primo dei suoi cinque Mondiali 1958 di calcio, battendo la Svezia grazie anche ai due gol del giovanissimo Pelé, protagonista del football brasiliano sino al 1970. Gli altri Mondiali vinti nel 1962 contro la Cecoslovacchia, nel 1970 contro l’Italia, nel 1994 di nuovo contro l’Italia e nel 2002 contro la Germania. Nasce la bossa nova. La data ufficiale è generalmente fatta coinci dere con l’uscita del disco Canção do amor demais della cantante Elizete Cardoso, su musiche di Antônio Carlos «Tom» Jobim e testi di Vinícius de Moraes. Il disco contiene la famosissima Chega de saudade suonata da João Gilberto. 1961-1964 Sono gli anni di João «Jango» Goulart, alternanza politica tra presidenzialismo e regime parlamentare. In economia, alta inflazione e stagnazione. Il debito pubblico soffre il contraccolpo del cantiere di Brasilia e delle altre opere del Plano de Metas (le centrali idroelettriche, la Transamazzonica...) e si accentuano i debiti internazionali. Forti tensioni sociali dovute alla crisi economica. 1964 Colpo di Stato militare: deposto Goulart, comincia il ventennio della dittatura dei generali. Sciolti i partiti, limitata drasticamente la libertà di stampa, incarcerati molti degli oppositori di sinistra, i generali promuovono un sistema bipartitico, con un’opposizione rigidamente controllata (e rigorosamente confinata al ruolo di opposizione, appunto). Nel 1968 il regime si trasforma in una vera e propria dittatura, con elezioni indirette del presidente da parte di un Collegio elettorale controllato dai militari. Crescono i movimenti di protesta, nonostante la repressione. Nominato presidente, il generale Artur da Costa e Silva nel dicembre del 1968 decreta l’Ato Institucional n. 5, che lo autorizza a chiudere

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il Parlamento, negare i diritti politici e sopprimere il diritto di habeas corpus. 1968-1973 Crescita economica e industriale; ma la crisi petrolifera internazionale del 1973 impone anche in Brasile un drastico stop. Comincia una stagione di difficoltà, con forti tensioni sociali. Due importanti scommesse di lungo termine: per rispondere alla crisi petrolifera, viene lanciato il piano Pro-Alcool, da cui deriva il successo delle automobili flex a etanolo nella seconda metà degli anni Duemila; e per alleviare le tensioni nei latifondi vengono lanciati i piani di ricerca e sviluppo dell’Embrapa, da cui deriva la produttività agroindustriale di oggi. 1978-1980 Scioperi nelle principali città e nelle aree industriali del paese. La crisi economica si aggrava, l’inflazione esplode, il debito pubblico tocca i 50 miliardi di dollari. 1985 Dopo una stagione di caute aperture all’opposizione da parte del presidente della Repubblica, generale João Baptista de Oliveira Figuereido, il regime militare arriva alla fine. Si torna al voto, in libertà. Viene eletto presidente Tancredo Neves, che però muore improvvisamente per una diverticolite poco prima dell’insediamento, lasciando la carica al vice José Sarney. Il Plano Cruzado prova a stabilizzare i prezzi contro l’inflazione, 1986 con scarso successo. Ma gli errori del Cruzado costituiranno la base del futuro Plano Real di Fernando Henrique Cardoso. Nel 1987 il Brasile dichiara una «moratoria», smettendo di pagare il debito estero. Si aggravano anche le tensioni sociali: nel dicembre 1988 è assassinato da un gruppo di proprietari terrieri Chico Mendes, sindacalista, fondatore con Lula del Pt (Partido dos Trabalhadores), ambientalista ostile al disboscamento della foresta amazzonica. La morte di uno dei leader più popolari della sinistra brasiliana non ferma le proteste sindacali. Mentre continua la crisi economica, sulla base di una nuova Co1989 stituzione approvata nel 1988, viene eletto presidente Fernando Collor de Mello, che vara il Plano Collor per bloccare l’inflazione e arginare il dissesto dell’economia. Inutilmente. Nel ’93 Collor, travolto da uno scandalo di corruzione, si dimette, lasciando il posto al vice Itamar Franco. Il ministro delle Finanze di Itamar Franco è il sociologo ed economista carioca Fernando Henrique Cardoso, fondatore del Psdb (Partido da Social Democracia Brasileira), di centro-sinistra, che lascia la carica di ministro degli Esteri. 1991 Con il Trattato di Asunción il 26 marzo del 1991 nasce il Mercosul (Mercado Comum do Sul), unione doganale tra Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay. L’obiettivo: creare un grande mercato comune che stimoli le economie dei paesi membri e le rafforzi nei confronti degli Usa, dell’Europa e degli altri interlocutori internazionali. In attesa di ratifica la partecipazione del Venezuela. Associati nel tempo Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador

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1994

2001



2002

2003

2004

2005

e Perù. Tramonta l’Alca (Área de Libre Comercio de las Américas) a forte influenza Usa. Nel 2008, con il trattato di Brasilia, nasce l’Unasur (Unión de Naciones Suramericanas), che riunisce tutti i paesi dell’America del Sud, con ambizioni più vaste del Mercosul. Fernando Henrique Cardoso, sulla scia dell’impatto mediatico del Plano Real, è eletto presidente. Il piano, per la prima volta, ha successo: l’inflazione passa in una settimana dal 1000% al 4% su base annua, grazie a una serie di misure pensate da un gruppo di economisti che tracciano le principali direttrici di politica economica in vigore ancora oggi: riduzione del debito estero, investimenti pubblici in infrastrutture e servizi di base. Nel 1998, Cardoso è rieletto presidente e avvia una serie di privatizzazioni (riguardano principalmente il settore delle telecomunicazioni, alcune autostrade e l’impresa di estrazione Companhia Vale do Rio Doce) e di aperture agli investimenti esteri. L’economia brasiliana ricomincia a funzionare e a crescere. Muore il 6 agosto, nella sua casa di Salvador da Bahia, Jorge Amado, il più noto scrittore brasiliano a livello internazionale. Era nato il 10 agosto del 1912. Tra i suoi romanzi più famosi, Gabriella, garofano e cannella, Dona Flor e i suoi due mariti e Teresa Batista stanca di guerra. Nuovi protagonisti dell’economia internazionale. Goldman Sachs vara l’acronimo Bric: Brasile, Russia, India, Cina. La produzione agricola brasiliana per la prima volta supera i 100 milioni di tonnellate di granaglie. Nelle elezioni di ottobre, Luiz Inácio «Lula» da Silva è eletto presidente. Un presidente sindacalista e operaio, che inizialmente spaventa i mercati: il Rischio Brasile decuplica, il dollaro sale fino a 4 reais (oggi ne vale meno di due). La Borsa di San Paolo lancia il Novo Mercado. Il primo atto di governo di Lula è la conferma delle direttrici di politica economica del governo di Fernando Henrique Cardoso, accompagnata da un pacchetto di misure anti-crisi. I mercati ridanno rapidamente fiducia al Brasile. Innovazione industriale: viene lanciato in marzo il primo motore automobilistico flex, che funziona indifferentemente a benzina e a etanolo; alla fine del 2010, oltre il 90% delle nuove automobili vendute sono flex. Alla fine dell’anno, Lula consolida e rinforza tutti i programmi sociali di Cardoso in un solo programma: Bolsa-Família, una massiccia azione di lotta alla miseria. Il Brasile invia le proprie truppe ad Haiti, nell’ambito dell’operazione di pace del contingente dell’Onu: una mossa diplomatica per dare forza al nuovo ruolo internazionale che il governo Lula vuole ricoprire, partendo dal Sud America Scoppia lo scandalo del cosiddetto mensalão: una «busta paga» mensile con cui il primo ministro José Dirceu compra i voti di

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centinaia di deputati e senatori. Dirceu è costretto a dimettersi ed è sostituito da Dilma Rousseff, ministro per le Miniere e l’Energia. Gli scambi commerciali con la Cina, principalmente di ferro e soia, generano un saldo commerciale positivo di 1,5 miliardi di dollari. Per la prima volta nella storia, il numero di brasiliani di classe media e alta supera il numero di brasiliani delle classi povere. Petrobras annuncia la scoperta del petrolio nello strato geologico 2006 del «pré-sal». Lula vince le elezioni per il suo secondo mandato. 2007 Il nuovo governo Lula lancia il Pac, Programa de Aceleração do Crescimento, di grandi investimenti infrastrutturali; sarà seguito nel 2010 dal Pac 2. La responsabile del piano («mamma del Pac», la definisce Lula) è il primo ministro Dilma. Vale compra la canadese Inco e diventa la terza impresa di estrazione mineraria al mondo. In ottobre, il Brasile viene scelto dalla Fifa come sede della Coppa del Mondo di calcio del 2014. Il Brasile riceve la qualifica di «Investment Grade» dalle agenzie 2008 di rating internazionali e può cominciare a ricevere investimenti istituzionali (per esempio, quelli dei fondi pensione stranieri). La fusione tra BM&F e Bovespa crea una delle più grandi Borse del mondo, a San Paolo. 2009 Una recessione di appena tre mesi: con incentivi al consumo e aumento di liquidità dei mercati attraverso le banche statali, il Brasile è uno dei primi paesi a uscire dalla crisi finanziaria mondiale. Il Brasile è il terzo esportatore di alimenti al mondo, dopo gli Stati Uniti e l’Unione Europea, con un totale esportato di 61 miliardi di dollari. In ottobre Rio de Janeiro viene scelta come sede delle Olimpiadi del 2016. 2010 Aumento di capitale da 70 miliardi di dollari per Petrobras, il più grande mai varato al mondo. I soldi raccolti sui mercati internazionali serviranno alla società petrolifera per sostenere gli investimenti del «pré-sal». Dilma Rousseff, vincitrice delle elezioni presidenziali dell’autun2011 no 2010, dal 1° gennaio 2011 è la prima donna al vertice del Brasile.

Grafici

Grafico 1. Crescita del Pil Pil nominale in miliardi di US$

+6%

3.000 2.500

2.024

2.000 1.500 1.000

500

500

556

666

1.093

890

1.366

2.193

2.327

2.471

2.626

2.789 Italia 2010

1.636 1.574

0 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015

Grafico 2. Aumento del Pil pro capite Pil pro capite in US$ l’anno 16.000 x3,4 12.000 8.000 3.654 4.000 2.868 3.085

4.787

5.830

7.216

8.537 8.090

9.690 10.020

10.220 11.090 10.640

11.840

0 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015

Grafico 3. Miglioramento dell’indice di Gini Indice di Gini 1,00 –0,06 0,587 0,581 0,569 0,563 0,556 0,548 0,543 0,538 0,530 0,523 0,516 0,509 0,502 0,494

0,00 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015

Nel corso degli ultimi anni, la crescita del Pil è stata assorbita da fasce sempre crescenti della popolazione, determinando una significativa riduzione della diseguaglianza sociale. Fonti: Cia, Imf, World Bank, Ipea, «The Economist», elaborazione degli autori.

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Grafico 4. Le quaranta più grandi imprese in Brasile, per fatturato 0 Petrobras (Energia) Petrobras Distrib. (Energia) Vale (Commodities) Volkswagen (Automobili) Fiat (Automobili) Shell (Energia) Gm (Automobili) Brasil Foods (Consumo) Bunge (Commodities) Vivo (Telecomunicazioni) Tim (Telecomunicazioni) Telefónica (Telecomunicazioni) Pão de Açúcar (Supermercati) Telemar (Telecomunicazioni) Ispiranga (Energia) Braskem (Chimica) Cargill (Commodities) ArcelorMittal (Siderurgica) Ambev (Consumo) Correios (Servizi) Claro (Telecomunicazioni) Embratel (Telecomunicazioni) Tam (Aviazione) Embraer (Aviazione) Refap (Energia) Brasil Telecom (Telecomunicazioni) Mercedes-Benz (Automobili) Csn (Siderurgica) Usiminas (Siderurgica) Eletropaulo (Energia) Toyota (Automobili) Gerdau (Siderurgica) Oi (Telecomunicazioni) Itaipu (Energia) Alesat (Energia) Sabesp (Servizi) Honda (Automobili) Copersucar (Energia) Cemig (Energia) Globo (Editoria)

20.000

40.000

60.000

140.000

Ricavi 2009 134.034 (milioni di reais)

55.046 26.430 21.357 20.575 20.570 17.912 15.906 15.780 14.654 14.308 14.307 14.232 14.035 13.944 13.904 13.489 11.555 11.199 10.974 10.494 9.887 9.693 9.272 9.219 8.955 8.802 8.604 8.519 8.050 7.417 7.207 7.170 6.953 6.776 6.731 6.685 6.478 6.384 6.219

Brasiliane pubbliche Brasiliane private Straniere

L’universo industriale brasiliano è un articolato equilibrio di imprese di capitale nazionale (statale, privato o misto) ed estero, con particolare distacco per i settori delle commodities (energetiche, minerarie, agricole) e dell’industria pesante. Nota: l’analisi esclude l’industria finanziaria. Fonti: «Valor Econômico», «Exame», elaborazione degli autori.

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Grafico 5. Controllo dell’inflazione Inflazione (Ipca % annuale scala logaritmica)

10.000%

2.477,1%

1.000%

Plano Real

100% 22,4%

10%

5,9% 1,7%

1% 1980

1985

1990

1995

2000

2005

2010

Grafico 6. Riduzione del rischio-Brasile percepito dai mercati JPMorgan Embi+Brasil

2.000 1.500

1.532

1.000 500

248

0 Dicembre 2001

Dicembre Dicembre Dicembre Dicembre Dicembre Dicembre 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Giugno 2010

Grafico 7. Tassi di sconto in discesa costante Tasso di sconto nominale 30%

26,09%

20% 8,75%

10% 0% Gennaio 2003

Gennaio 2004

Gennaio 2005

Gennaio 2006

Gennaio 2007

Gennaio 2008

Gennaio 2009

Gennaio 2010

11,25%

Gennaio 2011

La stabilizzazione dell’inflazione grazie al Plano Real (1995) ha portato a una progressiva riduzione del rischio-Brasile, misurato dall’indice Embi+ (differenza di prezzo tra bond americani e brasiliani) e di conseguenza dei tassi d’interesse: l’economia brasiliana è oggi stabile e matura, ma presenta ancora rendimenti molto attraenti. Fonti: Fgv, Ipea, JPMorgan, elaborazione degli autori.

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Grafico 8. Quota brasiliana della produzione mondiale di commodities Caffè

33%

Etanolo

33% 30%

Zucchero 24%

Soia 17%

Ferro 12%

Bauxite 3%

Petrolio Zinco Oro Rame

2% 2% 1%

Grafico 9. Crescita delle esportazioni Esportazioni (Fob in dollari) 250.000 201.915 200.000

+14%

150.000

100.000

50.000

0 1980

1985

1990

1995

2000

2005

2010

Grazie anche alla straordinaria ricchezza di commodities agricole, energetiche e minerarie, le esportazioni brasiliane crescono del 14% l’anno, spinte soprattutto dai nuovi consumi cinesi. Fonti: Ipea, elaborazione degli autori.

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Grafico 10. Trasformazione della «piramide» sociale 2005 (tot. 184 milioni)

2010 (tot. 191 milioni)

A/B

26

30

C

63

93

D/E

95

68

Grafico 11. «Bonus demografico» dal 2010 al 2020 Oltre i 61 anni

4%

7%

9% 20%

58% Popolazione attiva: 15-60 anni

68%

71% 66%

Bambini: 0-14 anni

38% 26%

Brasile 1980

Brasile 2010

20%

Brasile 2020 (p)

14% Italia 2010

L’economia cresce grazie ai consumi delle nuove classi medie (la classe C rappresenta ormai la metà della popolazione) e al «bonus demografico»: la popolazione attiva è più numerosa della popolazione a carico, nonostante un’età media ancora molto bassa. Fonti: Ipea, Ibge, Fgv, elaborazione degli autori.

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Indice dei nomi di persona e delle aziende

Armani, 147. Arruda, José Roberto, 146. Atala, Alex, 151. Atr, 101. Avon, 95, 110. Azimut Benetti, 130. Azul, 101.

Abn Amro, 82. Accenture, 93, 158. Advent, 90. Aéroports de Paris, 140. Agnelli, famiglia, 121. Agnelli, Roger, 66-67, 73, 99. Aguiar, Amador, 85. Ahmadinejad, Mahmoud, 21. Airbus, 101, 108. Airfrance (Airfrance Klm), 92, 101, 108-110. Alckmin Rodrigues, Geraldo José, 11. Alenia Aeronautica, 132. Alexandre Herchcovitch, 36. Alitalia, 71, 92, 101, 132. All, 99, 138. Alpargatas, 101, 103. Alstom, 107-108. Amado, Jorge, 45, 168, 173. Amato, Giuliano, 88. Ambev, 79, 84, 97-98. América Móvil, 126. American Express (Amex), 76, 93. Amorim, Celso Luiz, 12, 18. Andrade Gutierrez, 140. Anheuser-Busch, 98; vedi anche Ambev. Ansaldo Breda, 107. Apple, 77, 79, 142. Aprilia, 125. Aracruz, 70. Aranha, Lourdes, 147. ArcelorMittal, 69, 79. Ardant, Fanny, 92, 103. Areva, 109, 134. Armand, Louis, 137.

Bachelet, Michelle, 9. Bairros, Luiza Helena de, 12. Banco Central, 6, 13, 78, 81, 84, 93, 154, 168. Banco do Brasil, 12, 43-44, 49, 54, 60-61, 69, 76, 81-83, 86-87, 131, 149, 156. Banco Garantia, 84, 98-99. Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social, vedi Bndes. Banco Pactual, 89; vedi anche Btg Pactual. Banco Patagonia, 87. Banco Real, 82; vedi anche Santander. Banco Santander, 77, 158; vedi anche Santander. Banco Votorantim, 69, 91; vedi anche Votorantim, gruppo. Bank of America, 79, 114. Bank of China, 114. Barbosa, Fábio, 82. Barclays, 99. Barilla, 71. Basf, 50, 157. Batista, Eike, 65, 71-73, 99, 115, 126, 145. Batista, Eliezer, 65, 71-73, 138. Batista (Jbs-Friboi), famiglia, 58. Batista, Joesley, 57.

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vedi anche BM&FBovespa e Borsa di San Paolo. Bp (British Petroleum), 40-41. Br (Petrobras Distribuidora), 45. Bradesco, 44, 68, 73, 76, 79, 81-82, 84-86, 149-150. Bradespar, 85; vedi anche Bradesco. Brasil Ecodiesel, 46. Brasil Foods, 55, 58-59, 88. Braskem, 45, 49-51, 88, 100. Brastemp, 78, 111; vedi anche Whirlpool. Brembo, 129. Bridgestone, 110. British Airways, 101. Britto, Carlos, 98. Brüderle, Rainer, 107. Btg (Banking and Trading Group), 89; vedi anche Btg Pactual. Btg Pactual, 88-90, 121. Buarque de Hollanda, Ana, 12. Buarque de Hollanda, Chico, 12. Buarque de Hollanda, Sérgio, 12, 167. Budweiser, 92, 98-99. Buffett, Warren, 78, 97, 101. Bulgari, 96. Bündchen, Gisele, 91. Bunge, famiglia, 110. Burger King, 61, 92, 98-99. Burle Marx, Roberto, 32, 124, 159.

Batista, Odin, 71. Batista, Thor, 71. Batista, Wesley, 56-58. Batista Júnior, José, 57, 62. Batista Sobrinho, José, 56. Battisti, Cesare, 129. Bayer, 107. Bcg (Boston Consulting Group), 81, 86, 133. Beck’s, 98. Béghin Say, 61. Belchior, Miriam, 9, 12. Bendine, Aldemir, 12, 86-87. Berlusconi, Silvio, 72, 124-125, 129. Bernabè, Franco, 127. Bernardo, Paulo, 12. Beyoncé (Giselle Knowles), 155. Bhp Billiton, 65, 69, 79. Bhutto, Benazir, 10. Biis (Banca infrastrutture innovazione e sviluppo), 131. Biolab, 36. BlackRock, 91. BM&F (Brazilian Mercantile and Futures Exchange), 79, 154; vedi anche BM&FBovespa e Borsa di San Paolo. BM&FBovespa, 61, 77, 80, 91, 128; vedi anche Borsa di San Paolo e Bovespa. Bmw, 101, 106, 112. Bndes (Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social), 12, 39, 49, 54, 60, 68, 87-88, 100, 130, 133, 140, 145, 171. Bndespar, 68; vedi anche Bndes. Boeing, 140. Boeri, Tito, 120. Bojunga, Cláudio, 168. Bombardier, 101. Borsa di San Paolo, 5, 61, 78-80, 173; vedi anche BM&FBovespa e Bovespa. Bosch, 107. Bosio, Emanuele, 130. Boston Consulting Group, vedi Bcg. Boticário, 95. Bovespa (Bolsa de Valores de São Paulo), 5, 75, 77, 79, 81-82, 174;

Cabral, Pedro Álvares, 63, 169. Cabral, Sérgio, 43, 153, 156. Café Grão Nobre, 130. Caixa Econômica Federal, 12, 87. Camargo Corrêa, 140. Campbell, Naomi, 36. Campello, Tereza, 12. Camus, Marcel, 34. Canning, George, 17. Capuano, Massimo, 131. Caracciolo, Lucio, 18. Cardoso, Elizete, 171. Cardoso, Fernando Henrique, 5, 13, 16, 19, 28, 43, 66, 84, 105, 117, 136, 154, 160-161, 163, 172-173. Cardozo, José Eduardo, 12. Cargill (Cargill-Monsanto), 61, 110.

­­­­­182

Costa, Lúcio, 32, 43, 159. Costa e Silva, Artur da, 171. Coutinho, Luciano, 12, 145. Cremonini, gruppo, 57, 131. Csn (Companhia Siderúrgica Nacional), 68, 138, 170.

Carlucci, Alessandro, 96. Carlyle, 90. Carrefour, 108. Caruso, Enrico, 124. Carvalhaes, Elizabeth de, 70. Carvalho, Gilberto, 12. Carybé (Hector Julio Páride Bernabó), 123. Casas Bahia, 108, 149. Caselli, Attilio, 168. Casino, 108. Cassa Depositi e Prestiti, 88. Castronovo, Valerio, 167. Castro Ruz, Fidel Alejandro, 16. Cavalcanti, Emiliano di, 123. Cbot (Chicago Board of Trade), 80. Cemex, 71. Centrobanca, 131. Cerceau, Júnia, 120. Cessna, 101. Chagas, Helena, 12. Chammas, Rui, 50. Chanel, 96, 147. Chávez Frías, Hugo Rafael, 16, 20. Chery, 112-113. Chevron, 110. China Invest Corporation, 115. Chinchilla Miranda, Laura, 9. Christofle, 147. Chrusˇcˇëv, Nikita S., 104. Chrysler, 119. Cielo, 76-77; vedi anche Visanet. Cielo, César, 76, 152. Cir, 129. Citibank, 81, 86, 111. Citigroup, 44; vedi anche Citibank. Citrosuco, 70. Citrovita, 70. Claro, 126, 143. Clinton, Bill (William Jefferson), 99. Clinton Rodham, Hillary, 10, 22, 99. Cme (Chicago Mercantile Exchange), 61, 80. Collor de Mello, Fernando, 172. Conac (Companhia Nacional de Artefactos de Cobre), 121. Consul, 111; vedi anche Whirlpool. Continental, 92. Cosan, 47-48, 49.

Danieli, 68. D’Aniello, Daniel, 90. Da Rin, Roberto, 110. Daslu, 147-148, 150. Dassault Aviation, vedi Rafale. Db (Deutsche Bahn), 137. De Benedetti, Carlo, 129. Debray, Régis, 10. Deleuze, Gilles, 151. De Martino, Ernesto, vii. Dermine, Jean, 81. Deutsche Bank, 79. Dilma, vedi Rousseff, Dilma. Diners, 76. Diniz, Abílio, 108. Dior, 147; vedi anche Lvmh, gruppo. Dirceu, José, 146, 173-174. Dove, 95, 120. Dow, 50, 110, 183. Dow Chemical, 50. Drummond de Andrade, Carlos, 168. Dunlop, 121. Dupont, 158. Eads, 108. Ebx, 72-73, 115, 139; vedi anche Batista, Eike. Ece, 115. Ecorodovias, 128. Edf, 108-109, 134, 136. Eletropaulo, 149. Elkann, John, 121. Elliott, John H., 167. Embraer, 88, 100-101, 132. Enel, 126-127, 134. Eni, 116-117, 126-128. Erdog˘an, Recep Tayyip, 21, 109. Eridania, 61. Ermírio de Moraes, famiglia, 69, 71. Ermírio de Moraes, Antônio, 71. Esso, 47. Esteves, André, 88-90, 121.

­­­­­183

Exor, 121. Exxon (ExxonMobil), 79, 110.

Gilberto, João, 33, 171. Gini, Corrado, 27. Giovanni III, re del Portogallo, 16. Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli), papa, 104. Givenchy, 147; vedi anche Lvmh, gruppo. GlaxoSmithKline, 93. Gm, vedi General Motors. Gol, 108, 141. Goldemberg, José, 46. Goldman Sachs, 7, 16, 35, 79, 84, 97, 99, 111, 173. Goldstein, Andrea, 120. Gomes Bezerra, Juliana, 146. Gonçalves Couto, Cláudio, 8. Google, 77, 79, 110, 142. Gori, Francesco, 125. Goulart, João «Jango», 53, 171. Gp Investimentos, 90, 98-99. Graciano, Clóvis, 123. Grameen Bank, 86. Gremaud, Amaury Patrick, 167. Gucci, 147. Guevara de la Serna, Ernesto «Che», 83. Guimarães, Ulysses, 38. Guimarães Rosa, João, 104, 168.

Facebook, 142. Fausto, Boris, 167. Ferrari, 112. Ferrovie dello Stato, 128. Fiat, 14, 23, 92, 105-106, 111-113, 116-121, 171. Fibria, 63, 70, 88. Figueiredo de Oliveira, João Baptista, 46. Fincantieri, 125, 128. Finmeccanica, 125, 128, 132. Fitzcarraldo (Brian Sweene Fitz­ger­ ald), 20. FleetBoston Financial, 93. Fonseca, Deodoro de, 170. Fontana, Attilio, 59. Ford, 105-107, 111, 113. Foucault, Michel (Paul-Michel), 151. Fraga, Arminio, 154. Franco, Itamar, 172. Fraport, 140. Friboi, 60; vedi anche Jbs-Friboi. Fuld, Fred, 91. Furlan, Luiz Fernando, 59, 62. Gabrielli de Azevedo, José Sérgio, 13. Galeano, Eduardo Hughes, vii, 17, 53, 73, 167. Galembeck, Fernando, 36. Galera, Daniel, 168. Gandhi, Indira, 10. García Bernal, Gael, 83. Garrincha (Manoel Francisco dos Santos), 32. Gávea, 154. Gdf-Suez, 108, 134. General Electric, 71, 77, 107, 111, 121, 157. Generali, gruppo, 132. General Motors (Gm), 32, 105, 111112. Gerdau (Gerdau Ameristeel), 68-69, 99, 138. Ghella, 128. Ghosn, Carlos, 84, 93.

Haddad, Fernando, 12. Han Gensheng, 114. Hees, Bernardo, 99. Herchcovitch, Alexandre, vedi Alexandre Herchcovitch. Herend Porcelánmanufaktúra, 147. Herzog (Stipetic´), Werner H., 20. Hoegaarden, 98. Hollard, Patrick, 35. Homebridge, 115. Hsbc, 81, 86. Hu Jintao, 23. Hyundai, 73, 111. Ibm, 157-158. Idrac, Anne-Marie, 108. Impregilo, 128. Inco, 66, 174; vedi anche Vale. Infraero, 139-140.

­­­­­184

Ing Direct, 83. Intel, 110. Interbrew, 98; vedi anche Ambev. Intesa Sanpaolo, 86, 131. Iri, 88. Isabel (Dona) d’Orléans-Braganza, 170. Itaminas, 115. Itaú, 44, 78-79, 82-84, 86-87, 91; vedi anche Itaú Unibanco. Itaú Unibanco, 82-83. Iveco, 119. Jackson, Michael, 155. Jbs, 56; vedi anche Jbs-Friboi. Jbs-Friboi, 55-57, 61-62, 131. João VI, re del Portogallo, 169. Jobim, Antônio Carlos «Tom», 33, 137, 171. Jobim, Nelson, 12. Jobs, Steve, 142. Johnson & Johnson, 50, 110. Jorge, Miguel, 107. JPMorgan, 91, 99.

Lavazza, Giuseppe, 130. Leal Peirão, Guilherme, 62-63, 9596. Le Corre, Jean, 133. Leffe, 98. Lemann, Jorge Paulo, 84, 97-99. Lewkowicz, Jaques, 36; vedi anche Lew’Lara. Lew’Lara, 36; vedi anche Tbwa. Light, 108. Llx, 73, 88; vedi anche Batista, Eike e Ebx. Lobão, Edison, 3, 12. Lobo Sosa, Porfirio, 16. Lopes, Iriny, 12. Louis Dreyfus Commodities, 49. Loyola, Gustavo, 80. Lse (London Stock Exchange), gruppo, 77. Lufthansa, 92, 101, 110. Lula (Luiz Inácio da Silva), 3-6, 8-16, 18-19, 21-22, 27-28, 38, 41-42, 47, 59-60, 67-68, 87-88, 93, 100, 104, 107-109, 115-117, 122, 124-126, 128-129, 136, 138, 149, 152-153, 156, 161, 163, 172-174. Lvmh, gruppo, 147.

vii,

Kassab, 158. Kassab, Gilberto, 158. Kelly, Guillermo, 122. Kennedy, John Fitzgerald, 104. Keystone, 57. Khanna, Parag, 18, 21, 167. Kimberly Clark, 110. Kim Hwang-sik, 111. Kinski, Klaus (Nikolaus Karl Günther Nakszyn´ski), 20. Kirchner Fernández, Cristina Elisabet de, 9, 15, 20. Kkr, 90. Klabin, 63, 70. Kotkin, Joel, 19. Kraft, 110. Kubitschek, Juscelino, 32, 53, 104, 113, 134, 138, 159, 161, 171.

Machado de Assis, Joaquim Maria, 168. Madonna (Louise Veronica Ciccone), 155. Magneti Marelli, 119, 158. Malan Sampaio, Pedro, 84. Mantega, Guido, 7, 12-13, 29, 86, 145. Marchionne, Sergio, 116-119. Marfrig, 55, 57-58, 60-61, 98, 100. Mary Kay, 95. Mastercard, 75-76. Matarazzo, famiglia, 124. Matarazzo, Francesco, 124. Matarazzo, Francisco Antônio Paulo «Ciccillo», 124. McDonald’s, 46, 57, 61, 79, 92, 98, 110. Mediobanca, 88. Meirelles, Fernando, 168.

Lacerda, Carlos, 171. Lafarge, 71. Lan, 89-90. Lara, Luiz, 36; vedi anche Lew’Lara. Lavazza, 130.

­­­­­185

Meirelles de Campos, Henrique, 13, 81, 93. Mendes, Chico, 123, 172. Merkel, Angela, 106. Merrill Lynch, 44, 114. Metalfrio, 100. Mezvinsky, Marc, 99. Miccichè, Gaetano, 131. Microsoft, 77, 110. Miguel Jorge, 107. Mirae, gruppo, 90. Miranda Oliveira Júnior, Moacir de, 167. Mmx, 72, 115; vedi anche Batista, Eike e Ebx. Mobil, 47. Moët & Chandon, 147; vedi anche Lvmh, gruppo. Molina, Marcos, 57-58. Monroe, James, 17. Montedison, 50. Moraes, Prudente de, 170. Moraes, Vinícius de, 33-34, 168, 171. Moreira Salles, famiglia, 82, 84. Moreira Salles, Pedro, 83. Moreira Salles, Walter, 83, 168. Moretti, Mario, 128. Morgan Stanley, 44, 133. Motorola, 158. Mpx, 73; vedi anche Batista, Eike e Ebx. Murer, Fabiana, 152.

Odebrecht, 49, 100. Odebrecht, Marcelo, 100. Odebrecht, Norberto, 100. Ogx, 72-73; vedi anche Batista, Eike e Ebx. Oi (Oi Telemar), 88, 143. Oliveira, Luma de, 71-72. Oliveira Figuereido, João Baptista de, 172. Opel, 111. Orkut, 142. Osklen, 36. Osx, 73; vedi anche Batista, Eike e Ebx. Padilha, José, 168. Paes, Eduardo, 153-156, 158. Page, Michael, 35. Palocci Filho, Antônio, 8, 12. Pão de Açúcar, 108. Parmalat, 117. Passos, Paulo, 138. Passos Barreiros, Pedro Luiz, 95. Patriota, Antônio, 12. Pdvsa (Petróleos de Venezuela S.A.), 20. Pedro I (Dom), imperatore del Brasile, 25, 169. Pedro II (Dom), imperatore del Brasile, 87, 169-170. Pelé (Edison «Edson» Arantes do Nascimento), 32, 78, 171. Perdigão, 59. Pereira Ribeiro, Flávia, 146. Perissinotto, Giovanni, 132. Petrobras, 3-4, 13, 20, 39-46, 49, 6667, 72-74, 77-79, 88, 105, 114, 126128, 144-145, 154, 171, 174. Petroquisa, 45, 49; vedi anche Petrobras. Petros (Fundação Petrobras de Seguridade Social), 49, 68. Pfizer, 79, 110. Piaggio, 125. Pietrobelli, Carlo, 167. Pilgrim’s Pride, 57. Pinto, Edemir, 79, 82, 158. Pinto, Fernando, 93.

Napoleone Bonaparte, 169. Narloch, Leandro, 167. Nasdaq, gruppo, 77. Natura, 50-51, 62-63, 78, 94-97. Neeleman, David, 101. Net, 143. NetJets, 101. Neves, Tancredo, 172. New Holland, 119. Niemeyer, Oscar, 32, 73, 124, 150, 159. Nye, Joseph, 23, 164. Nyse Euronext, 77. Obama, Barack Hussein, 21-23, 152.

­­­­­186

Pirelli, 14, 92-93, 107, 116-117, 121123, 126, 158. Pirelli Cavi, 126. Pirelli Tyre, 125. Plotino, 94. Porsche, 64, 112. Portela, Marcial, 82. Portx, 73; vedi anche Batista, Eike e Ebx. Prada, 147. Prado, Maria Clara R.M., 167. Previ (Caixa de Previdência dos Funcionários do Banco do Brasil), 49, 68, 100. Procter & Gamble, 110. Prodi, Romano, 6. Prysmian, 126. Pugliese, Elisabetta, 167. PwC (PricewaterhouseCoopers), 7, 90.

82, 87, 111-112, 115, 128-129, 136, 138, 144, 149-150, 161-163, 174. Rousseff Araújo, Paula, 11. Sabelli, Rocco, 132. Sadia, 58-59, 62; vedi anche Brasil Foods. Saipem, 127. Salles Walter, vedi Moreira Salles, Walter. Salvatti, Ideli, 12. Sampaio, Flávia, 72. Samsung, 110, 117, 157. Sandoval de Vasconcellos, Marco Antonio, 167. Santander, 44, 76-77, 81-82, 86, 92, 158; vedi anche Banco Santander. Santos, Juan Manuel, 20. São Paulo Previdência (Spprev), 146. Sarkozy (Sarközy de Nagy-Bocsa), Nicolas, 12, 100, 108. Sarney, José, 172. Saverin, Eduardo, 142. Scotti, Vincenzo, 117. Seabra da Cunha, Antônio Luiz, 9496. Seara, 57. Seli, 128. Sen, Amartya, 28. Serra, José, 11, 13, 29, 41. Setúbal, famiglia, 82, 84. Setúbal de Sousa Aranha, Olavo Egydio, 83. Shell, 47-49; vedi anche Cosan e Raízen. Shiseido, 50. Sicupira, Carlos Alberto «Beto», 84, 97-98. Siemens, 107. Silva, Luiz Inácio da, vedi Lula. Silva, Marina, 10, 12, 62, 96. Silvera Pereira, Leandro, 29. Sinochem, 114. Sinopec, 114. Slim Helú, Carlos, 126. Snamprogetti, 127. Sncf (Société Nationale des Chemins de Fer), 137. Socotherm, 128.

Rafale (Dassault Aviation), 108-109. Ragazzi, Cesare, 72. Rai, 71. Rainer Brüderle, 107. Raízen, 47, 49; vedi anche Cosan e Shell. Rajan, Raghuram, 84. Ralph Lauren, 91. Ramos Coelho, Maria Fernanda, 12, 87-88. Reckitt Benckiser, 93, 110. Redecard, 75-76. Renault (Renault Nissan), 84, 93, 108. Repsol Brasil, 114. Ribeiro, Darcy, 167. Rio Tinto, 65, 69. Riva, gruppo, 69. Rivolta, Piero, 106. Rocca, famiglia, 126. Romi, Emilio, 106. Romiti, Paolo, 128. Roosevelt, Theodore, 17. Rosário, Maria do, 12. Rossin, Fharis, 112. Rothschild, famiglia, 121. Rousseff, Dilma, 3-12, 14-15, 20-21, 26, 29, 36-38, 41-42, 44, 60, 67-68, 73,

­­­­­187

Sogefi, 129. Solvay, 50. State Grid, 114. Statoil, 114. Stella Artois, 92, 98. Stone, Oliver, 89. Strangford, Percy Smythe, Lord, 17. Sukhoi, 132. Supaéro, 101. Superga, 103. Suplicy Matarazzo, Eduardo, 149. Suplicy Smith de Vasconcelos, Marta, 149. Suzano, 63, 70. Swift, 56.

Tranchesi Piva de Albuquerque, Lúcia, 147-148. 3G, 99. Troller, 106. Tronchetti Provera, Marco, 121-122. Truffaut, François, 103.

Tam, 78, 89-90, 93, 110, 141. Tap, 93. Tata, 158. Tbwa (Tragos Bonnage Wiesendanger Ajroldi), 36; vedi anche Lew’ Lara. Techint, 117, 126. Teilhard de Chardin, Pierre, 94. Teixera, Izabella, 12. Teksid, 119. Telecom, 117, 126-127. Telecom Argentina, 127. Telecom Italia, 126. Telefónica, 126. Telles, Marcel, 84, 97-98. Tenaris, 115, 126. Tennent’s, 98. Tetrapak, 50. Texas Instruments, 158. Thatcher Roberts, Margaret, 10. ThyssenKrupp, 68-69, 107. Tim, 116, 143. Tim Brasil, 126. Tod’s, 147. Tombini, Alexandre, 13. Toneto Júnior, Rudinei, 167. Torregiani, Pierluigi, 129. Total, 108, 134. Totvs, 88. Toyota, 111, 113. Trabuco Cappi, Luiz Carlos, 85. Tranchesi, Antônio, 148. Tranchesi, Eliana, 147-148.

Vale (Companhia Vale do Rio Doce), 65-69, 72-73, 78-79, 85, 88, 99-100, 126, 138-139, 145, 154, 173-174. Valeo, 108. Valepar, 68; vedi anche Vale. Vargas, Getúlio, 170-171. Veríssimo, Luís Fernando, 168. Veuve Clicquot, 147; vedi anche Lvmh, gruppo. Villela, famiglia, 82, 84. Villela Marino, Ricardo, 84. Visa, 75-76. Visanet, 75-76; vedi anche Cielo. Vitelli, Paolo, 130. Vivo, 91, 126, 143. Volkswagen, 23, 32, 91, 105-106, 111, 113, 118, 171. Votorantim, gruppo, 63, 69-71, 91, 115. Votorantim Celulose e Papel, 70; vedi anche Votorantim, gruppo. Votorantim Cimentos, 70; vedi anche Votorantim, gruppo. Votorantim Metais, 68; vedi anche Votorantim, gruppo. Vuitton, 147; vedi anche Lvmh, gruppo.

Ubs, 89; vedi anche Banco Pactual e Btg Pactual. Unibanco, 82-83; vedi anche Itaú Unibanco. Unicredit, 86. Unilever, 93, 95, 110. Urani, André, 157. Usiminas, 68-69, 138. Utsch, Márcio, 103.

Wall Street (New York Stock Exchange), 13, 77-78, 121. Wal-Mart, 77, 79. Warburg Pincus, 90. Whirlpool, 92, 111; vedi anche Brastemp e Consul.

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Wisco (Wuhnan Steel and Iron Company), 114. Wolf, Martin, 80. Yunus, Muhammad, 86.

Zanatta, Loris, 167. Zelaya Rosales, Manuel José, 16. Zhou Biren, 113. Zhou Zhiwei, 115. Zuckerberg, Mark, 142.