I destini generali 8858120019, 9788858120019

Negli ultimi cinquant'anni la vita psichica delle masse occidentali ha subito una metamorfosi molto profonda; tutti

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I destini generali
 8858120019, 9788858120019

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— LATERZA SOLARIS

In uscita:

Giorgio Falco Sottofondo italiano Daniele Giglioli Stato di minorità Vanni Santoni Muro di casse

G UIDO MAZZONI I D ESTINI G ENERALI

EDITORI LATERZA

© 2015, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione maggio 2015 1

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Edizione 5 6

Anno 2015 2016 2017 2018 2019 2020 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT – Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa, nella collana i Robinson/Letture, serie Solaris ISBN 978-88-581-2001-9

Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo playboy:

Quali sono le cose che la annoiano? Il discorso vuoto della sinistra. Il discorso vuoto della destra lo do per scontato. bolaño:

Bolaño, Intervista per l’edizione messicana di «Playboy», luglio 2003

I DESTINI GENERALI

QUESTO LIBRO

Questo libro descrive alcuni aspetti della forma di vita occidentale così come si presenta oggi, dopo quella metamorfosi che negli ultimi decenni ha cambiato la famiglia, l’amore, la politica, i rapporti personali, i rapporti di classe, i modi di lavorare, pensare, comunicare, desiderare, consumare, e alla quale Pasolini, fra il 1973 e il 1974, diede un nome che ha avuto fortuna: mutazione antropologica. Quarant’anni dopo sappiamo che la formula indicava un evento incompiuto, perché nei decenni successivi il processo si sarebbe sviluppato ancora e avrebbe preso forme che Pasolini non poteva conoscere. È un fenomeno che riguarda l’Europa, gli Stati Uniti e le nazioni toccate dall’egemonia occidentale, ma ogni paese lo vive secondo una cronologia diversa. In Italia passa attraverso tre fasi: quella che Pasolini descrive nei suoi articoli, quella che si apre all’inizio degli anni Ottanta, quando le televisioni private rimodellano l’inconscio e l’immaginario (oggi la indichiamo con un nome proprio che è diventato una metonimia, Silvio Berlusconi), e quella che emerge fra la seconda metà degli anni Novanta e gli anni Zero con i mutamenti profondissimi che la rete ha generato ­­­­­3

e sui quali non esiste ancora, per quanto ne sappia, una riflessione all’altezza del fenomeno. Parlo del tempo presente a partire da un’ambivalenza e da uno smarrimento. In queste passioni si mescolano un tratto personale, un tratto generazionale e un tratto culturale. Del primo non è interessante discutere. Il secondo è espresso dall’epigrafe con cui si apre il libro: «Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due». Sono le parole con cui il principe di Salina, nel Gattopardo, risponde alla proposta del cavaliere Chevalley di Monterzuolo, segretario piemontese della prefettura, che gli offre la nomina a senatore del nuovo Regno d’Italia. Se è vero che ogni generazione può dire di essere nata fra due tempi, è altrettanto vero che ogni generazione ha l’opportunità e l’obbligo di riflettere sul posto che ha occupato nel tempo storico, e sul senso di progresso o di disagio che il mutamento di cui è stata parte le suscita. Chi è nato nella seconda metà degli anni Sessanta conserva una memoria infantile e adolescenziale di strutture etiche, politiche e psicologiche che oggi vacillano o che non esistono più. Conserva il ricordo della grande politica e dei conflitti di classe novecenteschi, fondati sullo scontro fra due modelli di società e di persona che si contendevano il dominio sul mondo. Conserva memoria o beneficia ancora delle tutele socialdemocratiche o cristiano-sociali che il movimento operaio e sindacale aveva conquistato attraverso una lotta lunga e sanguinosa. Conserva il ricordo di un modo di vivere, popolare o borghese, fondato sul sacrificio, sulla disciplina e sul dovere: famiglie ­­­­­4

che rimanevano unite nonostante tutto, coppie di genitori che si reprimevano perché bisognava restare insieme per sempre, una certa diffidenza atmosferica verso il consumo, l’eccesso, l’esibizione di sé. È cresciuto in un’epoca nella quale la società dello spettacolo si trovava a uno stadio che retrospettivamente ci sembra elementare, innocuo e buono come la televisione in bianco e nero a due canali; uno stadio in cui il «terziario onirico» (la formula è di Walter Siti) non aveva ancora imposto la propria egemonia sulla sfera pubblica, né aveva preso direttamente il potere, come in Italia è accaduto nel 1994. Ha conosciuto un mondo anteriore all’informatica e ai mutamenti psichici e sociali che Internet ha generato. Poi, durante l’adolescenza e la prima età adulta, si è ritrovato in mezzo a un cambiamento vertiginoso che, pur non avendo mai preso la forma di un conflitto palese, ha avuto lo stesso effetto delle guerre o delle rivoluzioni, essendo anche il risultato della guerra mondiale inesplosa che ha lacerato la seconda metà del XX secolo. Questa metamorfosi ha consegnato a un’altra epoca le forze storiche che avevamo fatto in tempo a vedere cristallizzate nei comportamenti dei nostri genitori e ha aperto un’altra stagione – una stagione che, a differenza di coloro che sono nati qualche decennio prima di noi, abbiamo vissuto frontalmente e integralmente, perché era la nostra. Di fronte a una mutazione simile, le categorie e le passioni fluttuano. La Stimmung che percorre questo libro è ambivalente. Non vorrei però che il lettore si concentrasse solo sullo scioglimento dell’ambivalenza, che cercasse di ­­­­­5

cogliere la percentuale di favore e di sfavore, di segno-più e di segno-meno che le singole pagine contengono, spostando l’asse del discorso dall’analisi al giudizio. Non mi interessa prendere posizione, mi interessa innanzitutto capire. Se c’è un aspetto del problema che vedo con chiarezza, questo aspetto è l’inefficacia delle categorie con le quali cerchiamo di interpretare il presente. Chi è cresciuto dentro una cultura di sinistra, dentro una delle tante famiglie discorsive che compongono la cultura di sinistra, chi è stato lettore di Marx, di Adorno, di Benjamin, di Bloch o di Fortini, per esempio, sente che i concetti con cui ha provato a capire la realtà oggi non lo aiutano più; ma anche le idee che appartengono ad altre famiglie culturali e politiche, di sinistra o di destra, pattinano sul suolo storico che cercano di afferrare, non hanno presa, appartengono al passato. I destini generali nasce da questa insoddisfazione: lo si può leggere anche come un tentativo artigianale di orientarsi cercando di non ripetere discorsi vuoti. Il libro si compone di due parti collegate. Nate nel corso degli anni Zero, fra gli scontri del luglio 2001 a Genova e la crisi del 2008, messe per iscritto in forma privata, in un file di appunti, hanno trovato una forma pubblica tre anni fa, per caso, quando ho cominciato a stendere un sommario delle cose che avrei voluto dire durante la tavola rotonda di un convegno e il sommario è cresciuto su se stesso generando l’embrione del primo capitolo. Pochi mesi dopo ho fatto un viaggio a Berlino, ospite di un amico italiano che ci si era trasferito da poco. Avevo visto Berlino all’inizio degli anni Novanta, quando era ancora la città allegorica ­­­­­6

del Novecento, il terreno sul quale il fascismo, il comunismo e la Western way of life avevano inciso i propri segni, il campo di battaglia dove si erano fisicamente scontrati i tre modelli di società e di persona che si erano contesi il dominio sul mondo nel corso del XX secolo. Nel 2013 era un posto irriconoscibile: la sua storia tragica era stata imbalsamata o rimossa, ogni dettaglio fisico, dall’architettura alla pubblicità, esprimeva altro, e tutto in quel paesaggio urbano prolungava i pensieri messi su carta nel primo capitolo, tutto diventava allegoria. Le parti che compongono il libro hanno conservato un tratto occasionale e idiosincratico. Se volessi fondare filosoficamente tutto quello che ho cercato di dire, non arriverei in fondo: l’esigenza sistematica, il Super-Io teorico mi divorerebbero. L’unico modo per uscirne era accettare la natura personale di questi pensieri e l’urgenza dei motivi che mi hanno spinto a scrivere.

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1. LA MUTAZIONE

1. LE MASSE

Negli ultimi cinquant’anni la vita psichica delle masse occidentali ha subito una metamorfosi senza precedenti; tutti noi ne siamo stati trasformati e travolti. Fedele a una visione eroica e maschile dell’accadere e dell’esperienza, all’idea che le rotture epocali si manifestino sotto forma di guerre e rivoluzioni, una parte della cultura contemporanea continua a sottovalutare la portata di ciò che è accaduto. È una miopia che si manifesta in forma esplicita o implicita, come succede ogni volta che applichiamo alla nostra epoca concetti, parole e miti che non reggono più. Oggi le categorie con cui di solito si giudica il presente, con cui si prende una posizione etico-politica sui problemi del nostro tempo, danno l’impressione di non cogliere la realtà, o perché fanno riferimento a un futuro che, non rimandando più a un progetto politico, costituisce solo la proiezione di un desiderio, o perché fanno riferimento a un passato che non ritornerà. Quali sono i tratti più vistosi della metamorfosi? Che cosa è accaduto? Fisserei tre elementi di partenza e un soggetto stori­­­­­9

co. La mutazione è legata allo sviluppo del capitalismo nell’epoca del suo trionfo; è personale, sovrapersonale e intrapersonale, avendo cambiato i rapporti fra gli individui, i rapporti fra gli individui e le istituzioni e i paesaggi psichici interiori; un lato della metamorfosi ha a che fare con le forme e con le politiche del desiderio. Il soggetto che muta sono le masse dei paesi occidentali e dei paesi che subiscono l’egemonia della forma di vita occidentale. Questa espressione – forma di vita occidentale – è la variante di una categoria propagandistica nata nel periodo più cupo della Guerra fredda per designare ciò che la democrazia liberale statunitense opponeva all’utopia comunista di una società senza classi e di un uomo nuovo – l’American way of life, il modo americano di vivere che, difendendo l’iniziativa privata, creava una bolla di autonomia e di benessere intorno agli individui, rendeva disponibile una quantità enorme di merci ed esaltava i valori delle classi medie1. Dopo il 1945 l’American way of life si espande in quella parte del pianeta che, nella geografia della Guerra fredda, era l’Occidente2 e si trasforma in una Western way of life; dopo il 1989 si diffonde nei paesi che avevano conosciuto il socialismo reale. Per quanto segmentate al proprio interno, per quanto percorse da linee di faglia destinate a crescere man mano che il neoliberismo sgretolerà ciò che rimane delle socialdemocrazie e delle cristiano-democrazie europee, oggi le società dove vige la forma di vita occidentale, se viste dall’esterno, con lo sguardo di un osservatore distante o di un nemico, pos­­­­­10

sono sembrare dei blocchi compatti. L’unico avversario globale di questo modello, il fondamentalismo islamico, ce lo ricorda ogni giorno: il gruppo che oggi controlla una regione estesa della Nigeria, per esempio, porta la Western way of life incisa nel proprio nome; Boko Haram significa ‘è proibita l’educazione all’occidentale’, ‘è proibito vivere all’occidentale’3. Il termine massa designa invece il corpo delle società post-fordiste contemporanee – un corpo irriducibile sia all’unità presupposta dalla nozione di popolo, sia alla coesione interna delle classi sociali ottocentesche e novecentesche; un corpo fatto di individui che si concepiscono come esseri puramente privati, persone scisse da ogni appartenenza che non sia legata all’oikos, alla famiglia, che hanno un grado di eterogeneità esteriore relativamente alto se paragonato a quell’omogeneità per sottrazione da cui il proletariato o la borghesia tradizionali erano resi uniformi4, che rivendicano il diritto di esprimere se stessi, prendere la parola, distinguersi, muoversi liberamente in una piccola sfera di autonomia soggettiva, ma che rimangono accomunati da una logica di vita e da un sistema di mitologie inconsce. Osservate da lontano, le differenze che li separano appaiono minime: se all’inizio del Novecento «il corso centrale di una qualsiasi cittadina tedesca e la principale via commerciale di una qualsiasi cittadina americana sarebbero apparsi letteralmente agli antipodi»5, oggi le varianti pertengono al colore locale, ma sotto la superficie circola un’omologia di sostanza. Nei paesi che vivono all’occidentale le persone si assomi­­­­­11

gliano profondamente: esistono dentro lo stesso modo di produzione, agiscono secondo valori simili, portano gli stessi vestiti, guardano gli stessi spettacoli, venerano gli stessi eroi. Inoltre i segni della Western way of life si sono globalizzati in una misura che oggi consideriamo ovvia, ma che non dovrebbe smettere di sorprenderci, perché ha qualcosa di magico. Li ritroviamo ogni giorno in contesti che fatichiamo a interpretare con le nostre informazioni di seconda o terza mano. Un video dell’Isis mostra la fucilazione di un gruppo di siriani ritenuti fedeli ad Assad o troppo occidentali: vengono fatti sdraiare sulla schiena in una specie di avvallamento e colpiti al cranio con armi automatiche. Oltre che dalla scena in sé, lo spettatore è ipnotizzato dai dettagli. Per esempio alcuni fra i fucilati indossano le maglie delle squadre di calcio europee: vivono avvolti in una mitologia globale che l’Isis combatte frontalmente; muoiono portando la maglietta di Messi, di Cristiano Ronaldo, addirittura di Nani. Il termine ‘massa’ designa di fatto la stessa entità che una frazione del pensiero politico contemporaneo chiama, seguendo Spinoza e Deleuze, ‘moltitudine’, ma i termini ‘massa’ e ‘moltitudine’ rinviano a due concezioni diverse dell’entità cui danno un nome. Il secondo è usato da chi vede in questo soggetto sociale l’attore di una possibile trasformazione dello stato di cose presente, il primo porta con sé altre armoniche: custodisce nella propria etimologia l’idea che l’entità di cui si parla sia fatta di parti amorfe (maza, in greco, è la pasta di farina, massein significa ‘impastare’); reca alcuni dei sovrasensi disfori­­­­­12

ci che accompagnavano la parola ‘massa’ fra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando il termine è entrato nella riflessione sociologica sulla modernità6, anche se le armoniche screditanti si sono molto attenuate da quando le espressioni ‘società di massa’ e ‘partiti di massa’ hanno cominciato a indicare la condizione e i soggetti politici della democrazia nata con la fine del notabilato ottocentesco e la conquista del suffragio universale maschile. Uso ‘massa’ perché la giudico una parola politicamente più neutra di ‘moltitudine’ e perché ai miei occhi il corpo interclassista occidentale, se non si aprono conflitti diversi da quelli odierni, non ha alcuna potenza progressiva nascosta, e cerco di riflettere sulla metamorfosi che ha trasformato un soggetto simile partendo da due posizioni idealtipiche che si confrontano nel dibattito contemporaneo sulla mutazione. Provo a fissarle appoggiandomi a due dei primi tentativi di descrivere la metamorfosi negli anni in cui il mutamento aveva luogo, la conferenza Du discours psychanalytique che Lacan tenne a Milano nel 1972 e l’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, uscito nello stesso anno. È un confronto cui accenna anche uno dei maggiori interpreti italiani di Lacan, Massimo Recalcati7. Non farò filologia su Lacan o su Deleuze e Guattari; non ne avrei la competenza. Prima che in sé, le loro opere mi interessano per altro: per quello che hanno generato in quanto origini, emblemi e archetipi di posizioni opposte nel dibattito sulla metamorfosi, per ciò che permettono di capire. ­­­­­13

2. L’OBBLIGO DI GODERE

Lacan tenne la conferenza Du discours psychanalytique il 12 maggio 1972 all’Università Statale di Milano. Il 7 maggio, dopo una campagna elettorale durissima, le elezioni politiche erano state vinte dal blocco sociale che qualche anno prima era stato battezzato «maggioranza silenziosa»8. L’Msi aveva ottenuto più del nove per cento al Senato; era il quarto partito italiano; il suo appoggio esterno sarebbe stato determinante per formare un governo. La mattina delle elezioni, a Pisa, muore Franco Serantini, uno studente che la polizia aveva pestato a sangue due giorni prima; il 17 maggio, a Milano, viene ucciso il commissario Calabresi. Difficile stabilire se questo clima abbia influito sul discorso di Lacan; sicuramente ha pesato il fatto che Lacan si rivolgesse a un pubblico di giovani politicizzati in giorni tragici della storia italiana. Alla fine della conferenza irrompe un concetto destinato ad avere fortuna: oggi il discorso del padrone, dice Lacan, circola nella forma più astuta; circola cioè come «discorso del capitalista», come obbligo di godere, di sacrificare tutto in nome del godimento9. Un concetto simile, che nella conferenza del 1972 figura come un semplice inciso, è diventato la categoria attorno alla quale è nata, negli ultimi anni, una critica neolacaniana allo stato di cose presente. La ritroviamo, con stili molto diversi e alcuni elementi comuni, in Žižek o in Recalcati10. Benché separati da vistose differenze di vocabolario filosofico e di maniere, entrambi riformulano, con il ­­­­­14

linguaggio della psicoanalisi, idee non distanti da quelle che possiamo leggere, filtrate da un a priori differente, nei saggi di Zygmunt Bauman. Žižek riflette sul modo in cui il capitalismo contemporaneo, trasformando la ricerca del piacere in un dovere inconscio, sostituisce il Super-Io tradizionale, repressivo e censorio, con una nuova forma di Super-Io fondata sulla coazione a godere. Usando i testi di Lacan come punto di appoggio per un discorso autonomo, Recalcati contrappone il desiderio in senso proprio al godimento. Il primo cerca una forma di relazione essendo sempre, nel suo nucleo profondo, desiderio dell’Altro: è responsabile, risponde alla domanda che proviene da un altro essere creando legami; il secondo instaura, con la cosa o con la persona cui si rivolge, un rapporto di puro consumo: è irresponsabile, inappartenente, centrifugo; distrugge ogni fedeltà (agli altri, a se stessi, alle epoche pregresse della vita), tratta le persone come cose, ricerca intensità effimere, le brucia, le sostituisce con altre intensità equivalenti. In questo ambito la psicoanalisi funziona anche come un sismografo epocale: mentre fino a mezzo secolo fa lavorava sulle patologie della repressione, del controllo e dell’attaccamento, negli ultimi decenni lavora soprattutto sulle patologie indotte dallo strapotere dell’Es11 – sulle dipendenze, sulle scissioni interne, sugli stati borderline, sulla depressione come risposta alla difficoltà di accettare se stessi in una vita sociale che, promettendo spazi illimitati di esperienza e di consumo, fa sembrare misera ogni singola esistenza finita12. ­­­­­15

Nella critica neolacaniana al presente, il discorso del capitalista si lega ad altri due concetti che Lacan inventa in quegli stessi anni – l’evaporazione del padre e la segregazione. Nell’ottobre del 1968, rispondendo a un intervento che Michel de Certeau tenne al congresso dell’École freudienne de Paris, Lacan parlò degli effetti che «l’universalismo» (cioè la globalizzazione) produce sulla vita psichica. Io credo che nella nostra epoca la traccia, la cicatrice dell’evaporazione del padre è quello che potremmo mettere sotto la rubrica generale della segregazione. Noi pensiamo che l’universalismo, la comunicazione della nostra civiltà omogeneizzi i rapporti fra gli uomini. Al contrario, io penso che ciò che caratterizza la nostra era – e non possiamo non accorgercene – sia una segregazione ramificata, rinforzata, che fa intersezioni a tutti i livelli e che non fa che moltiplicare le barriere13.

L’evaporazione del padre è premessa e conseguenza del discorso del capitalista: instaurando l’imperativo del godimento, distruggendo i modi tradizionali del SuperIo, la forma di vita contemporanea sacrifica i vincoli al piacere, separa le persone le une dalle altre, le divide al loro interno. Vorrei usare queste letture di Lacan come spunto per uscire dai testi, parlare della realtà e riflettere sulle conseguenze che l’allentamento del Super-Io ha avuto sulla vita personale e collettiva. Poiché la metamorfosi di cui parliamo agisce come una sorta di flusso, per orientarci ­­­­­16

in questo continuo isolerei quattro fenomeni. Li dispongo in un ordine che va dall’interno all’esterno, dallo spazio mentale a quello politico.

3. LA CRISI DEI LEGAMI

1. I primi legami a perdere consistenza sono quelli intrapsichici: oggi le persone appaiono più scisse, più schizofreniche di quanto non accadesse un secolo e mezzo fa; i giunti che tenevano insieme le parti dell’io si sono allentati; viviamo su piani molteplici e la pluralità non è percepita come un problema. Non dobbiamo guardare alle azioni o alle pulsioni in sé, ma alla polizia delle azioni e delle pulsioni14, cioè all’indulgenza o alla severità con la quale la nostra forma di vita accetta o censura i comportamenti. Un lettore di romanzi ottocenteschi o primonovecenteschi sa bene che la vita quotidiana della borghesia o delle classi popolari si è sempre retta su comportamenti schizofrenici nascosti e tollerati: il ruolo della prostituzione femminile in una società ufficialmente repressiva è la traccia più chiara di questo doppio registro psichico e morale. Ma una scissione simile aveva un posto preciso all’interno di un ordine superegotico e maschilista: rimaneva lecita fino a quando non intaccava i vincoli pubblici (la famiglia) e l’Ideale dell’Io (le apparenze). Oggi invece è perfettamente legittimo anteporre il desiderio ai legami e ignorare le apparenze: la pluralità produce conflitti ­­­­­17

interni molto meno intensi di quanto non accadesse in passato. Volendo usare la letteratura come una testimonianza e come un sismografo, possiamo pensare a quanto sia cambiata l’enfasi che i romanzieri riservano al tema della scissione. L’emergere delle pulsioni disgreganti è uno dei temi centrali dell’opera di Dostoevskij; i suoi personaggi sono attraversati di continuo da forze inconsce che li spingono a gesti incontrollabili, ad atti gratuiti e schizoidi («non riesco a rendermi conto di quello che avviene in me», «ho fatto questo e non so perché»15). E tuttavia in Dostoevskij l’azione centrifuga produce un conflitto interiore doloroso perché avviene all’ombra del Super-Io cristiano: sarebbe impensabile che le passioni immorali, nei suoi romanzi, venissero accolte con indifferenza cinica o con distacco estetico. Oltre un secolo più tardi, American Psycho (1991) di Bret Easton Ellis comincia con un’epigrafe tratta dalle Memorie dal sottosuolo (peraltro accostata a una riflessione di Miss Manners e a un verso dei Talking Heads), ma la lacerazione dell’io che il testo mette in scena presuppone una tonalità emotiva completamente diversa. Il romanzo racconta la storia di un broker di Wall Street, laureato in economia a Harvard, ricco e fidanzato, che di giorno lavora e che di notte si dedica al sesso, alla droga e all’ultraviolenza; e lo fa usando un registro cinico-spettacolare o energetico-liberatorio che intercetta una schizofrenia inscritta nel nostro tempo, la stessa che ritroviamo nell’infotainment o nei film di genere. Del Super-Io rimane una traccia indiretta nelle ­­­­­18

epigrafi e nella consapevolezza che la storia raccontata è provocatoria. Sono queste le uniche radiazioni fossili dell’antico apparato morale; tutto il resto ci parla di un mondo interno diverso. Ancora più sintomatico è il modo di trattare la forma più comune di scissione, il tradimento. Oggi il romanzo ottocentesco d’adulterio, col suo senso di tragedia interiore, è difficilmente concepibile. I controesempi letterari sono così numerosi che diventa complicato scegliere. Prendo un capitolo dei Detective selvaggi (1998) di Bolaño. È raccontato in prima persona da María Font, una giovane studentessa di danza e di pittura che, come quasi tutti i personaggi del romanzo, fa la poetessa e appartiene a un’avanguardia letteraria, il realvisceralismo. María ha una relazione difficile con un professore di matematica sposato. Un’amica, Xóchitl García, la invita a trasferirsi nello stesso albergo dove vive col compagno Jacinto Requena e col loro figlio piccolo, Franz. Per metà del capitolo il romanzo racconta la storia di María col professore di matematica nel modo dettagliato e decentrato che è tipico dello stile di Bolaño, come se ogni paragrafo preludesse a un’epifania che non arriva mai o che, quando arriva, non porta a nulla. María incontra l’amante nella stanza di albergo, ma la loro storia sembra senza futuro; nel frattempo si confida con Xóchitl, di cui diventa sempre più amica; la aiuta ad accudire il bambino quando Requena è assente. Una sera Ulises Lima, uno dei personaggi principali dei Detective selvaggi, torna in Messico dopo una serie di ­­­­­19

viaggi e incontra le due donne. Chiede se possono accompagnarlo a trovare i fratelli Rodríguez, María dice all’amica «se vuoi andare ti tengo il bambino», Xóchitl strizza l’occhio a María ed esce con Ulises. Quella sera il professore di matematica non si fa vedere. María prepara la cena per il bambino di Xóchitl e lo mette a letto. A mezzanotte Requena torna a casa e trova María. Dopo essersi detti qualche banalità, rimangono in silenzio e guardano la strada, come se volessero lasciar passare il tempo. All’improvviso sentono un rumore che proviene dal lettino del piccolo Franz: Parla nel sonno? domandai. No, viene da fuori, disse Requena. Mi affacciai alla finestra e guardai verso la mia stanza, la luce era spenta. Poi sentii le mani di Requena sui fianchi e non mi mossi. Nemmeno lui si mosse. Dopo un po’ mi abbassò i pantaloni e sentii il suo pene fra le mie natiche. Non ci dicemmo niente. Quando finimmo ci sedemmo di nuovo a tavola e accendemmo una sigaretta. Lo dirai a Xóchitl? disse Requena. Vuoi che glielo dica? Preferirei di no, disse lui16.

María continua a vivere accanto a Xóchitl e Requena e a vedere il professore di matematica; ogni tanto scopa con Jacinto. Le cose accadono così, senza enfasi. Qualche capitolo dopo ci viene detto che Xóchitl e Requena si sono separati mentre Xóchitl e María abitano ancora l’una accanto all’altra. Sono sempre più amiche17. 2. Per millenni il modello di famiglia egemone in Europa e in Asia, nonostante enormi differenze culturali, ­­­­­20

si è retto su alcune caratteristiche comuni: un matrimonio sancito formalmente, l’esistenza di relazioni sessuali privilegiate fra gli sposi, un codice di comportamento pubblico, l’illegittimità dell’adulterio, la natura eterosessuale del rapporto18. Nel giro di pochi decenni i vincoli che tenevano insieme questa impalcatura si sono dissolti. L’effetto più vistoso della metamorfosi è la fuga dai legami: il divorzio o la separazione sono diventate pratiche comuni; il numero delle persone che vivono sole, nelle grandi città americane ed europee, ha superato il numero delle persone che vivono in famiglia. Se per le società premoderne l’isolamento era una forma di vita anomala o sospetta, oggi è una condizione normale19, e il linguaggio ordinario, sostituendo termini vagamente comici come ‘scapolo’ o ‘zitella’ con un termine emancipato e cool come ‘single’, prende atto della trasformazione. Peraltro l’allentamento della coppia e della famiglia tradizionali ha reso più facile creare nuove forme di vita e rivendicare desideri alternativi a quelli considerati legittimi. Non è un caso che l’epoca dell’evaporazione del padre sia anche quella in cui le donne e le persone omosessuali hanno acquistato diritti, a cominciare dal più importante – esprimere pubblicamente e senza paura la propria soggettività. 3. Un terzo lato del fenomeno riguarda l’esperienza collettiva e personale del tempo. Esposte alla caducità, deboli quando fronteggiano il problema di senso che si apre nei momenti di crisi, davanti alla morte, alla malat­­­­­21

tia, alla sconfitta, alla solitudine, le persone e le società disinnescano la paura dell’insensatezza cercando di legare la vita presente a una tradizione o a una promessa, a una storia passata o a una redenzione futura, magari creando miti che cuciono i tre lati del tempo in una trama unitaria: l’idea che i morti continuino a esistere nello spirito e nel ricordo della famiglia o della comunità, per esempio; o che i militanti di una causa politica vivano nell’azione di coloro che ne portano avanti le lotte. Da qualche decennio la catena cronologica si è spezzata con violenza, depotenziando il passato e il futuro. Incisa nel senso comune, la sovranità del presente gira nell’etere del nostro tempo come un topos delle arti di massa: nella musica rock («no future for you / no future for me», Sex Pistols, God Save the Queen, 1977; «Colpisci il passato al cuore, le illusioni di sempre / abbatti il futuro se non ti appartiene / distruggi il futuro, distruggi il futuro», Diaframma, Libra, 1986) o nella pubblicità («Life is now», Vodafone, 2006). Questo stato di cose prolunga un tratto fondamentale della modernità, inscritto nell’etimologia della parola, ma lo fa annullando quella fede nel passato come tradizione o nel futuro come progresso e redenzione cui la politica moderna, di destra o di sinistra, rimandava. Viviamo esistenze frammentate e attimali; cerchiamo intensità momentanee; i nostri pensieri e progetti, le nostre passioni faticano a durare. L’obsolescenza del passato e del futuro è cominciata molto prima che il neoliberismo rendesse precaria la vita di molti: in questo senso, l’equivalente ideologico di «Life is now» ­­­­­22

è quell’interpretazione banalizzata delle tesi di Kojève sulla fine della storia che si diffuse nel dibattito giornalistico degli anni Novanta dopo l’uscita di La fine della storia e l’ultimo uomo (1992) di Francis Fukuyama20, quando la classe media occidentale era ancora protetta, almeno in Europa, dalle armature socialdemocratiche o cristiano-sociali di cui stiamo vedendo la fine. L’opulenza ha distrutto passato e futuro ben prima che lo facesse la precarietà. 4. Un quarto aspetto del mutamento tocca i legami etico-politici. Lo espongo in quest’ordine perché stiamo procedendo dall’interno all’esterno, dal piano psichico al piano politico, ma per cronologia e importanza verrebbe per primo. Il suo volto di breve durata è visibile a tutti: il modo di produzione contemporaneo scioglie le solidarietà orizzontali e sgretola alcune delle istituzioni che hanno aggregato in corpi collettivi le masse dell’epoca moderna, a cominciare dai raggruppamenti volontari e interni agli Stati – i partiti, i sindacati. Ma questa forma di scissione agisce a un livello più esteso e più profondo. Dopo la fine del conflitto fra i modelli di società che nel XX secolo si sono contesi il dominio sul pianeta, dopo la vittoria definitiva delle democrazie liberali, la filosofia politica degli ultimi decenni è tornata a riflettere con forza sul nucleo potenzialmente impolitico o antipolitico della forma di vita occidentale. È un tema decisivo della riflessione sulla modernità: emerge con Hegel e con Tocqueville, attraversa le teorie ottocentesche della ­­­­­23

società borghese e viene rielaborato costantemente nel corso del XX secolo. Una delle mutazioni cruciali che la modernità ha introdotto è un modo nuovo di concepire la vita privata immanente. Se la cultura antica considera la felicità dell’oikos e il benessere privato come presupposti per accedere a modi di esistenza superiori (la vita activa di chi si occupa della polis, la vita contemplativa del filosofo, l’otium del letterato), se il cristianesimo li subordina alla vita religiosa, l’ethos borghese moderno li trasforma in un valore assoluto21. La dimensione immanente dove la modernità colloca il senso della vita è in realtà un ambito plurale. Comprende sfere di esistenza diverse: l’amore e la famiglia; il lavoro inteso come equivalente democratico dell’attività artistica (il piacere di far bene qualcosa); il lavoro inteso come equivalente democratico del kleos guerriero o del cursus honorum (la gioia di farsi onore nella professione, di avanzare nella carriera); comprende quell’etica che Charles Taylor chiama «espressivismo» e che colloca lo scopo della vita nella manifestazione della propria presunta originalità (essere se stessi, esprimere se stessi22); comprende l’hedoné, l’atteggiamento di chi vive per il piacere, il gioco, il sogno, il feticismo della merce, il consumo di oggetti e di esperienze, di tempo e di persone. Sono valori eterogenei: alcuni si incentrano su forme di trascendenza privata, su vincoli che connettono l’io alle persone, altri distruggono i legami e rinviano a un’immanenza pura. Ciò che li unisce è la loro natura secolare, privata e prepolitica, l’allentamento dei nessi fra la parte e il tutto, fra ­­­­­24

l’individuo (o il suo prolungamento nella coppia e nella famiglia) e le appartenenze collettive, i doveri comunitari, i destini generali. Durante gli ultimi decenni quella crisi dei legami che è inscritta nella logica della Western way of life ha assunto forme intense e nebulizzate. L’etica del privato che più accentua questa erosione è l’edonismo. So Much Water So Close to Home è un racconto di Raymond Carver uscito nella raccolta Furious Seasons and Other Stories (1977). Viene narrato in prima persona da una donna che si chiama Claire. Nel fine settimana precedente, il marito di Claire, Stuart, è andato a pescare con gli amici, un piacere che si concede dopo aver lavorato per tutta la settimana e prima che le domeniche vengano divorate dalle vacanze con la famiglia, dal baseball dei figli, dalle visite ai parenti. Stuart e i suoi amici lasciano la macchina ai margini di un bosco, camminano per chilometri, raggiungono il fiume e piantano le tende. Sono brave persone, «attaccate alla famiglia, responsabili sul lavoro». All’improvviso, mentre pescano, vedono il cadavere di una ragazza nuda che galleggia nel fiume con la faccia dentro l’acqua, impigliato nei rami. Invece di tornare indietro e di avvertire la polizia, si assicurano che la corrente non porti via il corpo e rimangono a pescare fino al pomeriggio della domenica; poi ripartono, si fermano a una stazione di servizio e chiamano lo sceriffo. La sera Stuart non dice nulla a Claire: solo il mattino dopo, quando lo sceriffo chiama a casa, le racconta del cadavere. Sul giornale c’è scritto che la ra­­­­­25

gazza è stata stuprata. La moglie è sconvolta, è sconvolta dal comportamento del marito, ma Stuart non capisce: Eravamo appena arrivati, avevamo camminato per ore e ore. Non potevamo mica fare subito dietrofront, la macchina era a quasi dieci chilometri di distanza. Era il giorno dell’apertura [...]. Quella era morta, morta, morta, hai capito? [...] Che differenza fa ieri sera o stamattina? Era tardi. Avevi sonno, ho pensato di aspettare stamattina per dirtelo [...]. Che cosa volevi che facessi? Stammi bene a sentire, te lo dico una volta per tutte: non è successo niente. Non ho niente di cui pentirmi o vergognarmi23.

Per Stuart il piccolo piacere egoistico di pescare con gli amici dopo settimane di lavoro, prima che le visite dei parenti o il baseball dei figli distruggano i pochissimi giorni che può dedicare a se stesso, precede il dovere civile e umano di segnalare un crimine e di seppellire i morti: le forme elementari della pietas, i legami molecolari fra le persone si sono corrosi, ma in modo prosaico, antitragico e umanamente comprensibile. In veste di narratore, Claire commenta: Due cose sono sicure: uno, ormai alla gente non importa più nulla di quello che succede all’altra gente; due, nulla ha più davvero importanza ormai (nothing makes any real difference any longer)24.

Nelle Particelle elementari (1998) Houellebecq esprime in modo più drastico un concetto simile: ­­­­­26

[Bruno] si accorse altresì che non gliene fregava un cazzo. I colleghi, i seminari di riflessione, la formazione umana degli adolescenti, le altre culture... Per lui quella roba non aveva più la minima importanza. Christiane gli ciucciava il cazzo e lo accudiva quando stava male; Christiane era importante25.

L’etica del «non me ne frega un cazzo» rappresenta il compimento dell’individualismo («il grado più modesto della volontà di potenza»26, quello che ogni persona possiede, anche la più comune), e al tempo stesso è lo stadio estremo della crisi dei vincoli politici che la modernità liberale comporta27, il punto d’arrivo dell’Illuminismo dopo che il progetto illuministico di emancipazione si svuota e produce una ragione cinica28. Nella vita ordinaria l’allentamento dei legami molecolari ha due conseguenze politiche diverse. Se la più visibile è l’indifferenza per la vita pubblica che si accompagna alla formula «non me ne frega un cazzo», la più interessante e pervasiva è la diffusione anarchica del diritto alla parola. Apparentemente opposte, sono in realtà complementari. Uno dei saggi più belli sul maggio 1968 è La Prise de parole di Michel de Certeau. Se nel luglio del 1789 era stata presa la Bastiglia, nel maggio del 1968, scrive de Certeau, venne presa la parola: persone che fino a quel momento avevano vissuto nel silenzio e per delega entrarono con forza sulla scena pubblica e rivendicarono il diritto di esprimere la propria opinione su tutto: In tal modo si afferma, feroce, irreprimibile, un nuovo di­­­­­27

ritto, venuto a coincidere con il diritto di essere uomo e non più un cliente destinato al consumo o uno strumento utile all’organizzazione anonima della società. Era questo diritto a comandare, per esempio, le reazioni di assemblee sempre pronte a difenderlo quando sembrava minacciato nello svolgimento di un dibattito: “Qua tutti hanno il diritto di parlare”. Ma questo diritto era riconosciuto soltanto a chi parlava a nome proprio, dato che l’assemblea rifiutava di ascoltare chi si identificava con una funzione o chi interveniva in nome di un gruppo nascosto dietro le parole di un suo membro: parlare non vuol dire essere lo speaker di un gruppo di pressione, di una verità “neutra” e “obiettiva”, o di una convinzione nutrita altrove. Una specie di festa (quale liberazione non è una festa?) ha trasformato dall’interno questi giorni di crisi e di violenze – una festa legata, ma non riducibile, ai giochi pericolosi delle barricate o allo psicodramma di una catarsi collettiva [...]. Quanto si è prodotto di inaudito è questo: ci siamo messi a parlare. Sembrava fosse la prima volta. Da ogni dove uscivano tesori, addormentati o silenziosi, di esperienze mai nominate. Mentre i discorsi a verità garantita si zittivano e le “autorità” si facevano silenziose, esistenze congelate si schiudevano in un mattino prolifico. Abbandonata la corazza metallica dell’automobile e interrotta la fascinazione solitaria della televisione domestica, in frantumi la circolazione, tagliati i mass media, minacciato il consumo, in una Parigi sfatta e radunata per le strade, selvaggia e stupita di scoprire il suo viso senza fard, sgorga una vita insospettata. Certo, la presa della parola ha la forma di un rifiuto. È protesta. Come vedremo, la sua fragilità è quella di esprimersi solo contestando, di testimoniare solo per via negativa. Forse è, parimenti, la sua grandezza. Ma in realtà essa consiste nel dire: “Io ­­­­­28

non sono una cosa”. La violenza è il gesto di chi ricusa qualsiasi identificazione: “Io esisto” [...]. Un atto d’autonomia precede di gran lunga l’iscrizione dell’autonomia nel programma di una rivendicazione universitaria o sindacale29.

Se interpretiamo la presa di parola come una figura dello spirito che agisce nella politica contemporanea, allora le due figure speculari cui la presa di parola si contrappone sono, da un lato, la maggioranza silenziosa, cioè la massa che delega, e, dall’altro, la disciplina di partito, cioè la massa che si aggrega attorno a un’idea e crea un’organizzazione gerarchica, accettando di piegare la soggettività dei singoli a un dovere, a un’obbedienza, a una fedeltà. Ora: la presa di parola, al pari del Sessantotto, è un fenomeno duplice e diviso (ne parleremo meglio più avanti): per un verso prolunga il gesto politico costituente delle assemblee rivoluzionarie moderne, per un altro annuncia un individualismo politico di tipo nuovo, tutto interno al capitalismo perché nato dai quantitativi di soggettività che il benessere e la scolarizzazione di massa hanno distribuito, nel dopoguerra, a persone prive, fino a quel momento, dei mezzi necessari per prendere la parola come individui. I decenni successivi affosseranno il legame con le assemblee rivoluzionarie e tireranno fuori il lato inappartenente e narcisistico che era implicito nella rivendicazione di autonomia. Quando non nasce da uno stato d’eccezione, la presa di parola generalizzata ha esiti inevitabilmente microidentitari: esprime la fine di quei legami collettivi di cui i partiti moderni erano l’effetto e in parte la causa. Il cam­­­­­29

po politico contemporaneo si è balcanizzato, e la deriva riguarda sia le posizioni che, nella geografia ereditata dal 1789, sono schierate a destra, sia quelle che appartengono alla sinistra. Ma se la destra reagisce in modo coerente ai suoi principi, cioè togliendo potere alle masse, rafforzando l’esecutivo e affidandosi a élites tecnocratiche o populiste in nome della ‘governabilità’ (così già nel documento sulla crisi della democrazia redatto nel 1975 da Crozier, Huntington e Watanuki su invito della Commissione trilaterale30), la sinistra smarrisce quella capacità di aggregazione che aveva fatto la forza dei suoi partiti. Basti pensare alla deriva dei movimenti antisistemici negli ultimi trent’anni, alla loro costitutiva impotenza. Nel luglio del 2001, dallo stadio Carlini di Genova, uscivano in corteo le bandiere e gli striscioni dei centri sociali europei, di Attac, del Pkk curdo, della Ddr, del Pci, delle Acli, di Rifondazione comunista, dell’Olp, degli ultrà dell’Atalanta, del Pisa, del Livorno – una massa di microidentità senza legami, piccoli gruppi che esprimevano se stessi, il proprio disagio o la propria voglia di esserci, ma che non sarebbero mai diventati un soggetto politico, com’è accaduto a tutti i movimenti antisistemici negli ultimi tre decenni e come continuerà ad accadere nei prossimi. Perché i soggetti politici di massa, per esistere, durare ed essere efficaci, domandano il sacrificio parziale delle identità che vi confluiscono; richiedono organizzazione, disciplina e delega. Al centro della politica moderna, al centro di ogni politica, c’è una soglia di alienazione ineliminabile e di ineliminabile gerarchia che si attenua solo nei momenti fusionali o negli ­­­­­30

stati di eccezione. Costruire un’entità collettiva significa frenare l’anarchia delle parti: quando le parti antepongono l’espressione di sé al vincolo, gli aggregati smettono di essere autenticamente politici e si dissolvono. In questo senso la politica, qualsiasi politica, contiene sempre un elemento tragico, perché richiede una rinuncia parziale all’identità e all’eguaglianza. Non saper accettare questo elemento in nome di un’identità e di un’eguaglianza ulteriori, teoricamente più grandi ma incerte e ipotetiche, significa rifiutare la maggiore età, murarsi nell’adolescenza. La segmentazione psichica e sociale dei soggetti collettivi è uno dei grandi fenomeni della nostra epoca. Oggi la discussione pubblica ha luogo in uno spazio disgregato all’interno del quale si muovono i cinque attori della scena politica contemporanea: le maggioranze silenziose, le oligarchie tecnocratiche che governano per conto delle maggioranze silenziose, gli aggregati populistici generati da capipopolo che intercettano le opinioni delle minoranze protestatarie o delle maggioranze silenziose, i movimenti antisistemici di sinistra e di destra e, in mezzo, come tristi relitti galleggianti, ciò che rimane dei grandi partiti di massa novecenteschi.

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4. LA NUOVA CLASSE MEDIA

Vorrei soffermarmi sul soggetto collettivo e sull’evento storico che sono stati decisivi nel processo di rottura dei legami. Il soggetto è ciò che la cultura anglosassone chiama middle class e che Balzac e la sociologia di origine marxista definiscono, con un alone di disprezzo, piccola borghesia. Oggi la middle class è il gruppo sociale egemone, quello cui gli apparati del consumo e dello spettacolo si rivolgono: è la classe che si attribuisce il diritto di rappresentare «l’uomo occidentale comune» nato nel secondo Novecento31; è l’unica classe che la politica del XXI secolo nomina apertamente senza timore di dividere l’opinione pubblica, di suscitare antipatie e di perdere consenso. Nel 2012, durante la campagna per le uniche elezioni che abbiano un peso politico mondiale, entrambi i candidati designavano il proprio elettorato di riferimento allo stesso modo: sotto i leggii televisivi di Mitt Romney si leggeva strengthening the middle class, sotto quelli di Barack Obama si leggeva middle class first. Per l’opinione pubblica statunitense la classe media copre ormai ogni fascia di reddito che si collochi fra la povertà e i grandi patrimoni: nonostante le differenze che li separano, gli operai e i quadri dirigenti, gli impiegati e i piccoli commercianti americani credono di appartenere allo stesso strato sociale. Dunque la middle class è il centro pratico e simbolico del mondo post-fordista contemporaneo. Al di sopra ­­­­­32

della classe media c’è l’élite dei grandi capitali, quella che possiede una porzione consistente delle ricchezze complessive; al di sotto, confinato nelle zone industriali o delocalizzato in altri continenti, c’è il proletariato mondiale che, lavorando in condizioni neo-ottocentesche, produce una parte considerevole dei nostri oggetti, il computer sul quale sto scrivendo, l’iPad col quale ho scattato le fotografie che vedrete nel secondo capitolo; intorno e in mezzo alla classe media e al proletariato mondiale c’è la massa degli esclusi, miliardi di esseri umani che non entrano a pieno titolo nel sistema dell’economia moderna se non come esercito industriale di riserva, utile per calmierare le richieste del proletariato. In Europa la middle class si presenta divisa in una metà garantita e una metà nongarantita: la prima, per anagrafe o per caso, vive ancora in un regime di tutele socialdemocratiche o cristiano-sociali, o possiede capitali sufficienti per non temere la precarietà o la povertà; la seconda è nata in un’epoca compiutamente neoliberale, non ha protezioni, conosce la precarietà, contempla la possibilità di diventare povera, ma fatica a costituirsi come soggetto autonomo e antiborghese, e resta, per logica di vita e mitologie inconsce, nel perimetro psichico della classe media. Peraltro il paese che ha esportato la propria way of life in Europa occidentale non ha mai conosciuto forme di tutela paragonabili a quelle che il movimento operaio e sindacale europeo ha conquistato nel corso del Novecento: negli Stati Uniti esiste da tempo una middle class senza garanzie che si rappresenta e agisce come una piccola borghesia, e non come un sog­­­­­33

getto antiborghese. È probabile che il futuro delle classi medie europee sia quello. Durante il XX secolo la borghesia ha subito una mutazione senza precedenti. Si è trattato di un fenomeno sociale straordinario e paragonabile, per rapidità, violenza e forza allegorica, all’inurbamento delle masse povere nelle immense megalopoli del Terzo mondo. All’inizio del Novecento, nelle pagine di L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05), Weber descriveva la borghesia come una classe disciplinata, superegotica, dedita al differimento del piacere, all’ascesi intramondana, al lavoro, all’autocontrollo produttivo delle passioni; sette decenni più tardi il soggetto cui il discorso del capitalista si rivolge è una nuova middle class ugualmente produttiva, dominata dal Super-Io per il modo in cui accetta senza discutere la disciplina del lavoro, ma edonista durante ciò che si chiama, con una formula che meriterebbe un capitolo a parte, il ‘tempo libero’, e a proprio agio nel vitalismo, nel consumo, nella libertà sessuale. In quegli stessi anni escono le prime grandi riflessioni su questo passaggio storico: in Italia, Pasolini descrive la mutazione antropologica che, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, ha trasformato le classi popolari e la piccola borghesia clerico-fascista in una nuova piccola borghesia laica, disincantata e edonista, quella che rende possibili le grandi sconfitte della cultura cattolica nei referendum sul divorzio (1974) e sull’aborto (1981); negli Stati Uniti, Christopher Lasch riflette sul modo in cui le protezioni garantite dalle ­­­­­34

strutture comunitarie, dall’etica, popolare e borghese, della responsabilità e della famiglia, siano state spazzate via dallo stadio estremo della deriva individualistica moderna – la cultura del narcisismo32. Sostanzialmente coevi, gli scritti di Lacan, Pasolini e Lasch descrivono lo stesso fenomeno. Se è vero che la letteratura dell’Ottocento, da Flaubert a Čechov, ha più volte raccontato il cuore nichilista e disperato che si nascondeva sotto le apparenze borghesi, è altrettanto vero che la mutazione antropologica modifica completamente il campo delle forze. Negli ultimi decenni la nuova classe media vitalista ha recuperato le posture e i comportamenti di tre gruppi sociali che avevano già fatto l’esperienza dell’edonismo disincantato e ai quali, nei secoli e nei decenni precedenti, la vecchia classe media superegotica si era contrapposta senza riserve. In primo luogo ha introiettato gli atteggiamenti trasgressivi che le avanguardie intellettuali cresciute fra il secondo Ottocento e il primo Novecento, fra la bohème e il Manifesto del surrealismo, avevano usato contro l’etica della normalità borghese: il nichilismo, il sesso e la droga come forme di esperienza, la parresia, l’infantilismo, l’irresponsabilità, il dandysmo, l’estetizzazione della vita, la contemplazione del mondo come spettacolo. La nuova borghesia ha assorbito l’anticonformismo degli artisti, lo ha posto accanto ai propri impegni di lavoro, magari concentrandolo in quel segmento di tempo magico che il capitalismo del secondo Novecento ha distribuito alle masse, cioè nel fine settimana, e lo ha usato per rendere ­­­­­35

quegli impegni più colorati e sopportabili. Pensati per sconvolgere un borghese che non esiste più, i gesti dei bohémiens o degli artisti d’avanguardia sono oggi letteralmente inconcepibili; venuta meno la controparte che si scandalizza, sono diventati ovvi; come dice un aforisma di Warhol, «nell’epoca in cui le masse vogliono sembrare anticonformiste, l’anticonformismo dev’essere prodotto per le masse». In secondo luogo, la classe media ha incorporato il libertinismo, una prerogativa aristocratica alla quale la borghesia ha contrapposto, nei secoli della propria ascesa, una solida disciplina morale e un ancor più solido sistema di valori religiosi. Il romanzo del Settecento, percorso dal contrasto fra l’aristocrazia disinibita e la borghesia pudica e credente, reca traccia di un’antitesi morale sepolta. Il più famoso di questi conflitti viene raccontato in Pamela (1740) di Richardson. La serva quindicenne Pamela, exemplum di quell’etica religiosa e di quella morigeratezza borghese nelle quali molti lettori di Richardson si riconoscevano, si oppone ai tentativi di seduzione e stupro del suo padrone, Mr. B., fino a quando Mr. B., conquistato dalle doti di Pamela, si innamora, abbandona il comportamento libertino, si converte a una morale perbene e presenta una regolare proposta di matrimonio33. Se le avanguardie di fine Ottocento e di inizio Novecento si erano consapevolmente o inconsapevolmente richiamate alla disinvoltura aristocratica usandola contro la borghesia, oggi la dialettica cui il romanzo settecentesco fa riferimento è scomparsa anche dal ricordo. ­­­­­36

Infine, la middle class ha incorporato una terza forma di ethos cui nei secoli precedenti aveva contrapposto la propria morale disciplinata. Sotto la logica del consumo e dello spettacolo emerge, come uno strato fossile coperto da un terreno recente, il fondo del vitalismo popolare, col suo habitus cinico, disilluso, nichilistico. Sarebbe interessante scrivere la storia di questa figura dello spirito che ha una persistenza di lunghissima durata. Nelle commedie di Aristofane e nel Satyricon di Petronio, in Folengo e in Rabelais, in Belli, in Babel’ e in Céline, in Gadda e in Flaiano-Fellini, nei borgatari di Pasolini e in quelli di Siti troviamo gli elementi di una Weltanschauung comune: l’idea che la vita sia pura immanenza circondata dalla morte; che i fini ultimi, le cause collettive, le grandi mete siano delle illusioni o, più realisticamente, degli inganni inflitti dai potenti alle classi popolari; che ogni individuo persegua solo il proprio piacere e il proprio interesse personale o familiare; che la realtà sia immodificabile; che ogni regime politico si equivalga; che gli esseri umani siano troppo deboli per comportarsi coerentemente; che il problema stesso della coerenza sia insensato e astratto; che ci si debba godere la vita creaturale finché ce n’è, col sesso e col consumo, con gli spettacoli e col gioco, col cibo e con la droga. I varietà televisivi e le feste popolari poggiano sopra la stessa visione della vita, della morte e delle persone: l’ingresso della middle class nella stagione edonistica della propria storia disseppellisce e riattiva un sostrato millenario. Oggi l’idea di Pasolini secondo la ­­­­­37

quale i sottoproletari si sono imborghesiti e i borghesi si sono sottoproletarizzati prende forme nuove: La grande arma che i borgatari hanno a disposizione è il nichilismo, sono loro gli antesignani dell’insignificanza; più il mondo borghese appare privo di senso, più i borgatari guadagnano posizioni, possono diventare avanguardia. Quel che per i borghesi è motivo di spavento («niente vale la pena, il futuro non esiste»), per il borgataro è moneta corrente («se sa»)34.

5. SESSANTOTTO

Se l’epicentro sociale della mutazione è la classe media, l’epicentro storico è il Sessantotto. Uso questa data come una metonimia per indicare un periodo che in Italia si apre nel novembre del 1967, con le prime occupazioni universitarie dell’anno accademico 1967-68, e si conclude fra l’ottobre e il novembre del 1980, fra la Marcia dei Quarantamila e il giorno in cui un giovane imprenditore che aveva fatto i soldi costruendo periferie residenziali destinate alla nuova classe media trova il nome definitivo per il network nazionale di televisioni private che era riuscito ad assemblare nell’anno precedente: Canale 5. All’interno di questo periodo occorrerebbe distinguere fra un momento legato al Sessantotto in senso proprio e un momento legato a un altro anno emblematico, il Settantasette – ma per il discorso che stiamo facendo i tratti comuni sono più importanti delle differenze. ­­­­­38

Il Sessantotto in quanto metonimia nasce da due forze storiche opposte che per dieci o quindici anni si sovrappongono e che poi si separano per sempre. Per un verso, rappresenta l’ultimo episodio dell’Età delle Rivoluzioni moderne, un’epoca scandita da quattro date allegoriche (1789, 1848, 1871, 1917) che si chiude negli anni Ottanta del Novecento; per un altro, rappresenta il culmine della forma di vita capitalistica nella stagione del suo trionfo, quando tutto quello che era solido – la famiglia, i rapporti fra le generazioni, il senso delle gerarchie – si dissolve nell’aria. Questo secondo aspetto fu subito chiaro a chi osservava il Sessantotto con uno sguardo scettico. È ciò che accade in Italia a Pasolini – non tanto nell’articolo sui capelloni o nella poesia su Valle Giulia, quanto negli interventi sul divorzio e sull’aborto. Per Pasolini le due più importanti conquiste della cultura laica sono estranee al conflitto fra destra e sinistra, e interne al conflitto fra la vecchia borghesia superegotica e la nuova borghesia edonista, perché nascono dal consumo: L’aborto legalizzato è infatti – su questo non c’è dubbio – un’enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – al quale non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della «coppia» così com’è concepita dalla maggioranza – da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo35. ­­­­­39

Nell’ultimo decennio è intervenuta la società dei consumi, cioè un nuovo potere falsamente tollerante che ha rilanciato in scala enorme la coppia, privilegiandola di tutti i diritti del suo conformismo. A tale potere non interessa però una coppia creatrice di prole (proletaria), ma una coppia consumatrice (piccoloborghese): in pectore, esso ha già dunque l’idea della legalizzazione dell’aborto (come aveva già l’idea della ratificazione del divorzio)36.

Questo lato del Sessantotto, centrale anche nelle interpretazioni di Lacan o di Lasch, prevale nelle letture anglosassoni, mentre le letture tedesche, francesi e italiane sono più caute nel liquidare il legame con l’Età delle Rivoluzioni, perché l’aspetto politico del fenomeno è stato molto più intenso nell’Europa continentale che negli Stati Uniti o in Gran Bretagna. Un passaggio decisivo sembra avere avuto luogo fra il ventesimo e il trentesimo anniversario: gli anni Ottanta, il significato simbolico del 1989, l’invecchiamento della generazione che aveva partecipato ai movimenti permettono di capire che l’Età delle Rivoluzioni moderne è stata sconfitta e che la metamorfosi dei costumi è risultata funzionale a un capitalismo di tipo nuovo, anche perché si è prodotta ovunque, nei paesi che l’hanno rivestita di politica e nei paesi nei quali la veste politica si è rivelata sottile o irrilevante. Per il ventesimo anniversario di Valle Giulia, nel marzo del 1988, «il manifesto» pubblica un inserto intitolato Sentimenti dell’aldiqua; due anni dopo l’inserto diventa un libro cui collaborano, fra gli altri, Agamben, De Carolis, Illuminati, Piperno, Rossanda, Starnone e Virno37. Mol­­­­­40

ti dei saggi che vi confluiscono legano le trasformazioni psichiche e morali che la stagione dei movimenti ha reso possibili all’uso che la società post-fordista ha fatto del nuovo soggetto liberato e inappartenente. Nel 1998 esce in Francia Le particelle elementari di Houellebecq, un romanzo che legge il Sessantotto e gli anni Settanta come un nuovo stadio storico nell’ascesa dell’individualismo liberale: Fa un certo effetto osservare come spesso [la] liberazione sessuale venisse presentata sotto forma di ideale collettivo mentre in realtà si trattava di un nuovo stadio nell’ascesa storica dell’individualismo. Coppia e famiglia rappresentavano l’ultima isola di comunismo primitivo in seno alla società liberale. La liberazione sessuale ebbe come effetto la distruzione di queste comunità intermedie, le ultime a separare l’individuo dal mercato38.

È vero che Houellebecq semplifica, mentre ciò che rende affascinante il Sessantotto è la sua costitutiva ambivalenza, ma è altrettanto vero che l’elemento politico esce sconfitto dagli anni Settanta, mentre la rivoluzione di costume interna al capitalismo cambia per sempre la società: il primo non esiste più, la seconda dà forma all’atmosfera morale del nostro tempo. Dunque ciò di cui il Sessantotto è metonimia segna un passaggio storico per due ragioni: perché la sconfitta delle istanze politiche sembra essere stata definitiva e perché la mutazione antropologica di cui un lato del Sessantotto è epifania ha aperto la faglia etica che oggi attraversa la Western way ­­­­­41

of life. Per un verso, la politica è uscita definitivamente dal novero delle forze che possono dare un senso alla vita (la media quotidianità occidentale è compiutamente impolitica); per un altro, nella vita ordinaria si è aperto un conflitto fra i valori del privato che presuppongono legami e un edonismo privo di vincoli. È questo l’orizzonte etico in cui i più si muovono oggi.

6. CAPITALISMO, SCHIZOFRENIA, LIBERAZIONE

Eravamo partiti da un confronto: se i testi di Lacan e le loro riscritture neolacaniane illustrano uno dei modi di interpretare la metamorfosi, l’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari illustra l’atteggiamento opposto. Mentre il paradigma platonico, cristiano e psicoanalitico legge il desiderio come la traccia di una mancanza, Deleuze e Guattari, seguendo il Nietzsche di Genealogia della morale, lo interpretano come una potenza originaria e polimorfa, un’energia creatrice che non orbita attorno a un piccolo mito familiare o a un centro vuoto, ma transita perpetuamente, cambia oggetto, si contraddice39. Da questo punto di vista, la forza di cui parla l’Anti-Edipo è molto più vicina alla jouissance di Lacan che al concetto neolacaniano di desiderio: mentre il soggetto freudiano si presenta diviso ma le sue parti, restando all’interno del triangolo edipico, navigano in uno spazio chiuso e individuale, le macchine desideranti dell’Anti-Edipo agiscono ­­­­­42

in uno spazio illimitato e sovrapersonale40. La modernità capitalistica crea le condizioni per liberare dai legami generando schizofrenia, e questo, per Deleuze e Guattari, è solo un bene. Allo stato di cose presente l’Anti-Edipo non rimprovera di aver dissolto ciò che era solido, a cominciare dal soggetto centripeto, cristiano e veteroborghese, ma di non averlo dissolto abbastanza. Per esistere, il capitalismo deve rinchiudere i pazzi «invece di vedere in essi i suoi eroi, il suo proprio compimento»; deve sorvegliare gli artisti e gli scienziati «come se rischiasse di far scorrere flussi pericolosi, carichi di potenzialità rivoluzionaria fin tanto che non vengono recuperati o assorbiti dal mercato»41; deve conservare un solido nucleo repressivo che permetta al sistema di produrre, di mantenere l’ordine, di confinare il delirio nel recinto sorvegliato del ‘tempo libero’: Si può dire che la schizofrenia è il limite esterno del capitalismo o il termine della sua tendenza più profonda, ma che il capitalismo non funziona se non a condizione di inibire questa tendenza [...]. La schizofrenia impregna insomma tutto il campo capitalistico da un capo all’altro. Ma si tratta per lui di legarne le cariche e le energie in una assiomatica mondiale che oppone sempre nuovi limiti interni alla potenza rivoluzionaria dei flussi decodificati42.

Per Deleuze e Guattari occorre invece liberare i flussi desideranti, svincolare la loro forza rivoluzionaria, negare le discipline, il lavoro, i poteri che inibiscono. Testo fondamentale del Settantasette, l’Anti-Edipo è la fonte di ­­­­­43

molti discorsi che, soprattutto attraverso la mediazione di Negri e Hardt, circolano in un’area vasta dei movimenti antisistemici contemporanei. Questa famiglia di posizioni non rimpiange il soggetto umanistico-borghese che il tardo capitalismo ha dissolto; la schizofrenia e la fine degli aggregati sociali moderni sono viste come elementi di una liberazione futura, come presupposti di una metamorfosi possibile che dovrà aver luogo in forme diverse da quelle novecentesche; il crollo degli antichi legami è un’emancipazione43.

7. PARADISI IN TERRA

Il più radicale dei passaggi che segnano l’inizio dell’epoca moderna è la crisi delle favole collettive che garantivano una risposta pubblica alle domande «perché?», «a che scopo?», la fine degli apparati mitologici che consolavano gli individui promettendo ricompense, disciplinando la tentazione all’indisciplina e giustificando il dolore, il nulla che rimane. Il primo effetto di questa crisi è la presenza latente della morte nella vita psichica contemporanea. Dopo la crisi degli antichi dèi, la morte dà forma al paesaggio delle giornate occidentali: benché venga di continuo nascosta da altre immagini, di fatto resta sempre là, «come in un’aula scolastica il quadro di una battaglia di Alessandro Magno»44, «come un rumore di fondo che si insinua [...] man mano che i progetti e i ­­­­­44

desideri vanno sfumando»45. In questo senso, i legami e i godimenti sono le risorse cui le persone si affidano per affrontare la precarietà di tutto, l’insensatezza terminale delle cose. I legami creano nuclei di trascendenza: attribuiscono un significato alle vite effimere perché danno l’illusione che gli individui possano prolungarsi in qualcosa: nella persona amata, in un figlio, nella coppia come «cellula di comunismo primitivo» (Houellebecq), nella famiglia come «rifugio in un mondo senza cuore» (Lasch), in una comunità, in una causa politica, in una fede. Dall’altro lato dello spettro etico contemporaneo, il godimento modellato sulla forma-consumo, sul consumo come relazione col mondo, presuppone invece un’immanenza assoluta, essendo il culmine del progetto che distingue l’Occidente da tutte le altre società, costruire una convivenza senza Dio: Credo che si possa essere d’accordo sul fatto che il grande progetto dell’Occidente, l’unicum che lo contraddistingue fra tutte le società umane, sia l’ambizione di costruire una convivenza senza Dio [...]. Per resistere senza la speranza nell’aldilà, e nel Paradiso, bisogna sperare nel paradiso in terra. (Non sto parlando di pochi intellettuali stoico-epicurei, sto parlando della gente comune). Dare l’illusione del paradiso in terra è l’obiettivo del consumismo46.

In questo senso, il consumo rappresenta il punto estremo della secolarizzazione moderna: trattando le persone come cose, corrodendo i legami con le persone a favore dei legami con le cose, propone un’etica ancora più ­­­­­45

immanente di quella implicita nell’espressivismo, perché non richiede nemmeno la presenza strumentale degli altri in quanto specchi, dispensatori di riconoscimento o casse armoniche del proprio ego47. Criticarlo significa proporre delle trascendenze condivise, ma le trascendenze, quando i cieli di carta che le hanno rese possibili si sono lacerati, risultano difficili da difendere. Nella vita ordinaria le prime divinità che si perdono sono quelle tradizionali (i comportamenti quotidiani dell’Occidente si sono secolarizzati); le seconde sono quelle della politica (la patria, la rivoluzione, l’impegno, la militanza); le terze sono le divinità della morale (il dovere, l’etica dell’emancipazione, l’idea che si debba vivere rimanendo all’altezza della maggiore età). L’ultima delle trascendenze, la più laica, la più individualistica, sono i legami personali: la famiglia, i figli, la persona amata, il riconoscimento di cui disponiamo nei microsistemi sociali che ci avvolgono. Implicita nella consacrazione della vita privata comune che dà forma al primo orizzonte di senso dell’epoca moderna, questa morale si trova oggi in conflitto con il discorso del capitalista. Se i legami spingono a vivere il presente in funzione del passato e del futuro, il godimento presuppone una cronologia fatta di intensità momentanee che si esauriscono e si rinnovano senza tregua. Attorno al tempo vivo del piacere si apre il tempo morto dell’impazienza, della fatica, della noia. Nelle sue conferenze Recalcati cita spesso un’intervista in cui Fabrizio Corona parla della vita sessuale di Berlusconi: «è un uomo arrivato a fine corsa, ­­­­­46

nell’unico giro di giostra che abbiamo: che cosa dovrebbe fare se non godere fino all’ultimo?»48. La consapevolezza che girare sulla giostra prima della chiusura è l’unica cosa che conta, una consapevolezza che spesso viene percepita indirettamente nella difficoltà di dare un senso alla vita ordinaria, genera la ricerca del piacere. In uno schema simile, la morte rappresenta il pungolo e la controparte del vitalismo, come la Weltanschauung popolare di cui abbiamo parlato sa perfettamente, da Trimalcione a Belli, da Céline ai programmi delle televisioni di Berlusconi quando le televisioni di Berlusconi, in seconda serata, si liberano dalle foglie di fico moralistico-sentimentali che le ricoprono nelle fasce protette. L’edonismo, l’inappartenenza, il rifiuto del sacrificio, il desiderio di perpetuare parti estese di infanzia, di adolescenza, di gioco, di sogno: ogni critica a questi valori si arresta davanti a un «perché no?» cui è molto difficile rispondere, la forma-consumo essendo il compimento del processo di secolarizzazione. Se il tempo è solo una lunga emorragia di vitalità, allora it’s better to burn out than to fade away, fino all’ultimo giro della giostra.

8. LA FINE DEL PARADIGMA APOCALITTICO

Ma perché Corona dovrebbe avere torto? Perché la ricerca del godimento dovrebbe essere trascesa da qualcosa? L’unica entità che rende sensati o insensati i nostri pen­­­­­47

sieri e le nostre azioni, la piattaforma storica sulla quale poggiamo, ha reso impronunciabili molte delle risposte canoniche. Se la critica neolacaniana da cui siamo partiti permette di vedere alcuni lati del presente, la tonalità emotiva che la percorre pare discendere da un’epoca tramontata: sembra carica di un atteggiamento che la cultura cui Deleuze e Guattari appartengono definirebbe, ricorrendo a un aggettivo che Nietzsche usava come un’arma, moralistico. Se cinquant’anni fa la cultura tradizionale tendeva a rifiutare senza indugio il consumo, il godimento e lo spettacolo, oggi un discorso simile non afferra il nostro tempo. Per riflettere sull’obsolescenza del paradigma apocalittico dividerei il problema in strati sovrapposti. Il più sociologico e superficiale riguarda la critica della cultura e il suo rapporto col tempo storico. La reazione originaria degli intellettuali all’edonismo di massa è stato un rifiuto senza appello in nome della categoria di alienazione o di una delle sue varianti. Era la risposta di un’élite estranea al nuovo mondo, un’élite che stava diventando una forza del passato, se è vero che la Weltanschauung apocalittica è da sempre la forma idealisticamente gonfiata del tramonto di una classe49. Poi sono nate generazioni di intellettuali bilingui, per così dire, cioè formatisi in parte nell’ambito della cultura umanistica tradizionale, quella che si studia a scuola, e in parte nell’ambito di una nuova cultura umanistica, quella proposta dalle comunicazioni di massa. Così alcune pratiche, opere e discorsi che Adorno avrebbe liquidato ­­­­­48

come esempi di consumo imbecille o di entertainment regressivo potevano sembrare belli, divertenti, sensati, legittimi a un pubblico che ci era cresciuto in mezzo, li considerava parte di sé, ne traeva piacere, li ibridava con la tradizione, li collocava nel paesaggio estetico del proprio tempo e li usava per produrre forme d’arte e di cultura che i decenni successivi avrebbero consacrato: la moda, la musica rock, il design, la televisione, il cinema di intrattenimento, lo sport. Inoltre il gesto tipico della critica della cultura presupponeva una gerarchia fra l’élite dei colti che sanno e le schiere degli incolti che si lasciano abbacinare: la scolarizzazione di massa ha reso impossibile perpetuarlo. Nell’ambito della cultura, la società dei notabili ha resistito più a lungo che in altri settori: se il suffragio universale maschile segna la fine del notabilato politico, l’equivalente culturale di un simile fenomeno si ha solo quando la scolarità per tutti, la presa di parola, l’espressivismo minano le gerarchie e creano i presupposti per quella «parità fra tutti i modi di sentire»50 che è tipica del nostro tempo, e alla luce della quale la pretesa di indicare alle masse la via per l’autenticità appare paternalistica e insostenibile. Più nel profondo, sono decaduti il concetto di alienazione e i suoi satelliti («i bisogni indotti», «i persuasori occulti», «l’uomo eterodiretto»). Agli occhi inconsciamente relativistici delle nuove generazioni, la metafisica hegelo-marxista, cioè platonico-cristiana, dell’allontanamento dal centro è diventata obsoleta: non esiste un luogo naturale cui tendere ma una pluralità di forme di vita; ogni epo­­­­­49

ca crea nuovi valori legittimi e nuove strutture di senso; i Verdurin del presente diventeranno i Guermantes del futuro e la differenza di valore resterà impercepita agli occhi di coloro che verranno, per i quali i Verdurin di un tempo saranno davvero, sotto ogni aspetto, i nuovi Guermantes. A tutto questo occorre aggiungere cinque considerazioni: 1. Le masse occidentali hanno vissuto e vivono le metamorfosi del secondo dopoguerra come una conquista: generazioni abituate a un mondo povero e a una morale severa, disciplinata dallo sguardo oppressivo degli altri, hanno visto, nel cambiamento dei costumi e nella nuova disponibilità di merci, un miglioramento sostanziale, un ‘progresso’, per usare una categoria comune nel discorso pubblico di qualche decennio fa. Nato mezzadro, vissuto sulle montagne del Casentino in condizioni che, durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, superavano di poco la semplice sussistenza, diventato, nel corso degli anni Cinquanta, idraulico del Comune di Firenze, mio nonno materno, socialista, riassumeva il proprio destino in una filosofia della storia molto semplice: «quando sono nato io c’era ancora il Medioevo; poi è arrivato il Progresso». ‘Progresso’ significava sia una piccola bolla di libertà soggettiva attorno agli individui, la possibilità di agire senza tenere conto di ciò che avrebbero pensato il padrone, gli altri, il prete, sia una disponibilità nuova di beni materiali: ci­­­­­50

bo abbondante, una casa dignitosa, una parte di quelle merci e di quelle esperienze che la società dei notabili riservava a pochi. 2. La stessa cosa è accaduta nei paesi che sono passati dal socialismo reale al capitalismo neoliberale. È difficile esprimere giudizi non impressionistici su processi complicati che conosciamo di seconda mano, ma da quello che traspare in Occidente le masse dei paesi non-occidentali considerano per lo più desiderabile il passaggio alla Western way of life, nonostante le sofferenze che una simile trasformazione comporta. Il sistema mondiale dell’economia moderna attraversa una crisi lacerante, ma il discorso del capitalista gode di un vasto consenso planetario: ci si scontra sulla distribuzione delle ricchezze, non sull’idea che queste ricchezze debbano servire ad allentare le vecchie forme di vita, a disporre di cose, tempo, esperienze, e a usare tutto questo secondo la logica del consumo. 3. Le donne, le persone omosessuali e coloro che vivono al di fuori della famiglia borghese tipica debbono una parte consistente della propria emancipazione al cambiamento dei costumi che ha avuto luogo negli ultimi cinque decenni. Ciò non significa che i loro diritti nascano solo dalla mutazione antropologica; significa però che la mutazione antropologica ha indubbiamente favorito la conquista di quei diritti. ­­­­­51

4. Non esiste in Occidente un’alternativa reale al capitalismo e al discorso del capitalista, non esiste alcuna controforza organizzata e autenticamente politica: lo dico andando contro una parte di me stesso, ma è così. Negli ultimi decenni, l’unica forma di opposizione tangibile è stato il fondamentalismo islamico; l’opposizione legata ai movimenti antisistemici si è rivelata velleitaria e puramente testimoniale. Se la storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi, e se il conflitto si conclude «o con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società o con la comune rovina delle classi in lotta»51, oggi l’ipotesi di gran lunga più probabile è il collasso sistemico, non la rivoluzione. Al limite, l’alternativa cui la cultura occidentale pensa nelle proprie distopie è la vittoria di un nemico esterno all’Occidente: l’ultimo romanzo di Houellebecq, per dire, racconta la trasformazione della Francia in una repubblica islamica52. 5. L’energia, il futuro, la capacità di esistere in forme nuove, ciò che Nietzsche chiamerebbe ‘vita’ stanno dalla parte della mutazione; il ripristino dei legami è percepito come un gesto conservatore; la rottura dei vincoli è associata all’idea di libertà anche quando genera conflitti; la freccia del tempo sembra orientata in un senso solo. Ogni volta che si prova a criticare lo stato di cose presente, si percepisce un anacronismo e uno stridore. Dietro questa stilistica del disagio sta una rotazione del tempo storico e la consapevolezza che i controvalori da ­­­­­52

opporre al mondo generato dall’allentamento dei legami sono molto deboli.

9. NAVIGARE A VISTA

Un topos delle riflessioni sul presente, nato nell’epoca in cui la grande politica moderna esisteva ancora, vuole che, nella conclusione di un discorso come questo, si debba cercare di rispondere alla domanda «che fare?», o alla sua versione debole, «che posizione prendere?». Il confronto fra le idee neolacaniane e le idee di coloro che si richiamano a Deleuze e Guattari è anche, spesso in modo esplicito, uno scontro etico-politico. Che posizione prendere? Arrivati a questo punto, il discorso marxista canonico introdurrebbe l’ipotesi di un cambiamento politico. A me sembra chiaro che il cambiamento non avrà luogo, o non avrà luogo in forme che si richiamano alla tradizione progressista. È possibile che lo stato di cose presente proceda verso una crisi di sistema; è sicuro che debba affrontare la guerriglia endemica dei fondamentalismi; è probabile che si conservi nel tempo ma che i rapporti di forza fra le aree geografiche mutino a svantaggio dell’Occidente; è probabile che il più importante fattore di instabilità provenga dalla demografia interna ai paesi occidentali, cioè dall’aumento delle minoranze di origine non-occidentale legate a culture che resistono alla seco­­­­­53

larizzazione; è probabile che, nell’eventualità di un collasso totale o locale, l’unica alternativa sia il disordine, lo stesso disordine che oggi ricopre zone vaste del pianeta e che non porta a uno sbocco politico, ma alla pura entropia. Se le posizioni neolacaniane appaiono moralistiche e lontane dalla ‘vita’, le posizioni deleuziane appaiono del tutto irrealistiche quando pretendono di cogliere, negli effetti della mutazione antropologica, una chance politica rivoluzionaria. Le masse hanno vissuto la storia degli ultimi decenni anche come una liberazione, ma lo hanno fatto sapendo che questa nuova autonomia è un portato del capitalismo: lo legittima e lo fortifica. L’indipendenza dai legami e dai padri è un’emancipazione integralmente liberale: non ha alcun rapporto con l’Età delle Rivoluzioni, non apre alcun conflitto nel sistema, fa del capitalismo una forma di vita buona agli occhi della piccola borghesia planetaria e delle classi che prendono la piccola borghesia planetaria come un modello di sviluppo – e basta. Per dirla con altre parole, «l’ideologia del tardo capitalismo è, almeno nei suoi caratteri fondamentali, spinoziana»53, cioè deleuziana. Quale posizione prendere dunque? La poesia più famosa di Philip Larkin si intitola High Windows, Finestre alte: When I see a couple of kids And guess he’s fucking her and she’s Taking pills or wearing a diaphragm, I know this is paradise ­­­­­54

Everyone old has dreamed of all their lives – Bonds and gestures pushed to one side Like an outdated combine harvester, And everyone young going down the long slide To happiness, endlessly. I wonder if Anyone looked at me, forty years back, And thought, That’ll be the life; No God any more, or sweating in the dark About hell and that, or having to hide What you think of the priest. He And his lot will all go down the long slide Like free bloody birds. And immediately Rather than words comes the thought of high windows: The sun-comprehending glass, And beyond it, the deep blue air, that shows Nothing, and is nowhere, and is endless54. [Quando vedo una coppia di ragazzi e immagino che lui se la scopa e che lei prende la pillola o porta il diaframma, so che questo è il paradiso che ogni vecchio ha sognato per tutta la vita – legami e gesti messi da una parte come una mietitrebbia superata e ogni giovane che va giù lungo lo scivolo verso la felicità, senza fine. Mi chiedo se qualcuno guardandomi quarant’anni fa abbia pensato: sarà quella la vita, ­­­­­55

niente più Dio, niente sudori al buio per paura dell’inferno o robe simili, o non dovere più nascondere ciò che pensi del prete. Lui e i suoi simili, tutti giù lungo lo scivolo come maledetti uccelli liberi. E subito invece delle parole mi vengono in mente delle finestre [alte, il vetro che comprende il sole e, oltre, l’aria azzurra e profonda che non mostra nulla, è in nessun luogo, è senza fine.]

High Windows è stata scritta da un uomo nato nel 1922, cresciuto in una cultura repressiva e diventato un adulto nevrotico e disadattato, come quasi tutti quelli che scrivono grande letteratura dopo i venticinque anni. Ai suoi occhi i ragazzi liberati degli anni Sessanta sono il paradiso che la sua generazione ha sognato: niente più preti, peccati, sensi di colpa o paura dell’inferno. Ma ciò che rende straor­dinaria questa poesia è l’ultima strofa. Al ragazzo e alla ragazza che scopano protetti dalla pillola o dal diaframma, scivolando verso una felicità infinita come maledetti uccelli liberi, viene associata l’immagine delle finestre alte (forse le vetrate delle chiese) che assorbono il cielo. Fuori dal vetro c’è solo l’aria azzurra e profonda che non mostra nulla, che non ha luogo né fine. Mi è sempre sembrata interessante la somiglianza, tanto visibile quanto casuale, fra alcune parti di questa poesia e una delle più famose canzoni pop di tutti i tempi, Imagine ­­­­­56

di John Lennon. High Windows fu composta fra il marzo del 1965 e il febbraio del 1967, e uscì in rivista nel 196855; Imagine fu registrata fra il maggio e il luglio del 1971, e uscì nell’ottobre dello stesso anno: Imagine there’s no Heaven It’s easy if you try No hell below us Above us only sky Imagine all the people Living for today. Imagine there’s no countries It isn’t hard to do Nothing to kill or die for And no religion too Imagine all the people Living life in peace. You may say I’m a dreamer But I’m not the only one I hope someday you’ll join us And the world will be as one. Imagine no possessions I wonder if you can No need for greed or hunger A brotherhood of man Imagine all the people Sharing all the world. You may say I’m a dreamer But I’m not the only one ­­­­­57

I hope someday you’ll join us And the world will live as one. [Immagina che non ci sia paradiso è facile se ci provi, nessun inferno sotto di noi sopra di noi soltanto cielo, immagina che tutti vivano per l’oggi. Immagina che non ci siano nazioni, non è difficile da fare: nulla per cui uccidere o morire e anche nessuna religione, immagina che tutti vivano la vita in pace. Puoi dire che sono un sognatore ma non sono il solo, spero che un giorno tu ti unisca a noi e il mondo sia unito. Immagina che non ci siano proprietà, mi chiedo se ci riesci: nessun bisogno di avidità o fame, una fratellanza di uomini. Immagina che tutti condividano tutto il mondo. Puoi dire che sono un sognatore ma non sono il solo, spero che un giorno tu ti unisca a noi e il mondo viva unito.] ­­­­­58

Imagine è costruita attorno a negazioni: di cinque entità etico-politiche (il paradiso, l’inferno, le nazioni, gli ideali in nome dei quali uccidere o morire, la religione), di due passioni tristi (il possesso, l’avidità) e della fame, cui si contrappone un mondo utopico di persone serene, unite e pacifiche che vivono per il presente. High Windows è costruita attorno a cinque negazioni (i legami, i gesti, Dio, l’inferno, il prete), tre delle quali coincidono con quelle di Imagine; in entrambe le opere si parla di un conflitto fra le antiche trascendenze e una nuova forma di felicità terrena resa possibile da una mutazione; in entrambe, sopra gli esseri umani liberati, si apre il cielo. Larkin non nomina la politica o la pace; Lennon non nomina il sesso, ma solo perché non ne ha bisogno, la liberazione sessuale essendo implicita nella sua figura pubblica, nelle fotografie di quegli anni che lo ritraggono nudo con Yoko Ono. Ciò che cambia e che rende i due testi molto diversi è la tonalità emotiva: irenico-sentimentale in Lennon, ambivalente in Larkin. Ed è proprio il double bind introdotto dall’immagine finale a fare la grandezza di High Windows. Che cosa leggere nel vetro che assorbe il sole, nell’azzurro con cui si chiude la poesia? Rafforzato dall’enjambement, il nothing dell’ultimo verso è la parola più importante del testo: il paradiso che ogni vecchio ha sognato è un cielo che non mostra nulla; sopra i ragazzi senza Dio, ma provvisti di pillola o diaframma, si apre un mondo privo di trascendenza. È la stessa conclusione cui giunge Siti parlando dei nuovi paradisi delle merci sessualizzate: il ­­­­­59

consumo e il feticismo (di cose, di corpi) come protesta contro la morte di Dio. Cambia la tonalità emotiva (Larkin adotta la postura cinico-nevrotica del voyeur, Siti si lascia contagiare), non cambia l’ambivalenza. Questo è il mondo che molte delle persone nate nel 1922 o nel 1947 hanno sognato da ragazzi; il processo che lo ha generato è irreversibile in Occidente, perché non sapremmo rimpiangere le entità etico-politiche che la mutazione ha spazzato via, perché pochi di noi rivorrebbero indietro Dio, la religione, l’inferno, il prete o anche solo una società più povera, l’indissolubilità della coppia o l’OginoKnaus. D’altra parte questo passaggio storico crea un mondo del tutto immanente, soggetto a un tempo che passa senza tendere a uno scopo superiore, circondato dalla morte e dai suoi avatar: il vuoto, la noia, la transitorietà, il bisogno di rinnovare il piacere per rimuovere il vuoto, la noia, la transitorietà. Davanti alla frattura scomposta fra godimento e legami, fra la liberazione dell’Es e la costruzione di affetti e appartenenze che comportano responsabilità e doveri, l’arte e la filosofia debbono dire la verità, debbono mostrare che il conflitto è insolubile, ignorando il buon senso o la versione di sinistra del buon senso, quell’«ottusità del progressismo medio»56 che nasconde a se stessa i problemi ripetendo luoghi comuni pur di non vedere. L’ultimo stadio della modernità illuministica è la dialettica dell’Illuminismo, l’ambivalenza: i processi che la modernità scatena generano conflitti senza sbocco all’interno dei quali ogni conquista comporta una perdita. Ma una ­­­­­60

dialettica priva di sintesi ritorna ipso facto alle lacerazioni originarie che la dialettica intendeva superare attraverso l’agire politico o il pensiero; ritorna, in altre parole, alla tragedia, cioè alla coscienza che i conflitti non si risolvono e che la vita contemporanea, come la vita in generale, poggia sulla contraddizione. Un esempio puro di dialettica dell’Illuminismo – e una forma morbida di tragedia – è il disagio della civiltà. Ma se l’arte e la filosofia debbono dire la verità, la prassi quotidiana è obbligata a trovare rimedi, a prendere posizione. È sintomatico che una delle metafore in ascesa nel discorso etico-politico contemporaneo sia quella del galleggiamento, dalla navigazione a vista57. Davanti alle contraddizioni morali gli individui si comportano secondo questa stessa logica: si barcamenano, cercano di mettere insieme spinte diverse, di creare morali provvisorie, nella consapevolezza che non c’è una soluzione. Nella realtà, la maggioranza degli occidentali vive in uno spazio intermedio fra alcuni legami e alcune forme di jouissance, secondo proporzioni che fluttuano nel tempo, e all’interno delle quali ognuno ricerca il suo equilibrio momentaneo. La vita quotidiana è il regno del politeismo morbido, del buon senso, del progressismo o del conservatorismo medi: poggia sulle stesse contraddizioni che danno luogo a una visione tragica, ma evita sistematicamente di farle esplodere, perché alla fine vivere significa conservare una forma di miopia, di ottusità, ed evitare di interrogarsi fino in fondo sulle cose ultime, quelle che rinviano a domande cui non c’è risposta, o a ­­­­­61

conflitti insolubili nei quali molti dei litiganti o molti lati del problema hanno una parte di ragione; e anche quando uno di questi lati cede e viene meno, il cedimento non rimanda ad alcuna giustizia superiore, ma al gioco del caso o a una necessità esterna e cieca. Quell’amore per l’adattamento, il compromesso, la consuetudine, la superficie che è tipico di ogni senso comune contiene, alla fine, una forma profonda di saggezza.

10. DOPO LA POLITICA

Ma è significativo che questo piano di realtà, il piano dove gli individui si barcamenano alla ricerca di un equilibrio fra il piacere centrifugo e le piccole trascendenze, sia l’unico che oggi conti per gli occidentali. Larkin racconta e Lennon si augura la fine delle grandi trascendenze: la morte di Dio e, nel caso di Imagine, la morte delle cause collettive in nome delle quali uccidere o morire, la fine della politica come produzione di nuove forme di vita e come religione sostitutiva. Il Dio che muore non è il feticcio cui molti si attaccano quando vedono l’insensatezza di tutto e ne hanno paura (quel feticcio è inciso nel profondo, esisterà sempre); è invece il Dio dei comandamenti, l’istanza che pretendeva di regolare la vita quotidiana con le tavole della propria legge. Non è un caso che lo scontro simbolico più visibile della politica contemporanea opponga i fondamentalismi religiosi all’emancipazione ­­­­­62

liberale. La politica che muore è legata a quel processo di secolarizzazione della teodicea che affiora, a parole, già nell’opera di Rousseau. Secondo Cassirer, l’autore del Contratto sociale è stato il primo a trasferire la responsabilità del male dal cielo alla terra, da Dio (o dalla natura umana) alla società, rendendo pensabile l’idea che, se si cambiano le forme della vita collettiva, il male, la diseguaglianza e l’ingiustizia possano sparire58. La politica intesa come costruzione di una società perfetta e di un mondo nuovo si fonda su questo passaggio; «tutte le lotte sociali del presente», scriveva Cassirer nel 1932, «vengono ancora mosse da questo impulso originario»59. Oggi la secolarizzazione della teodicea e la storicizzazione del male implicite nelle utopie moderne sono tramontate insieme a quelle utopie. Promettendo una palingenesi terrena, l’Età delle Rivoluzioni rimandava il giudizio sulla condizione umana all’epoca in cui il male storico nato dall’ingiustizia sarebbe stato superato: il comunismo, scriveva Fortini in un anno allegorico, il 1989, non elimina la costitutiva infermità degli esseri umani, ma consente comunque di riformularla, di viverla in modo diverso60. La nostra condizione post-utopica ci spinge invece a pensare che i problemi essenziali di fatto non hanno storia, se non nella lunga o nella lunghissima durata, cioè in una dimensione che non ci riguarda. Ma la trasformazione è ancora più profonda. Ciò che scompare dalla vita delle masse non è soltanto l’utopia ma, prima ancora, l’idea che gli esseri umani siano animali fondamentalmente politici, che la politica sia ciò che può dare senso alla vita modificando ­­­­­63

l’esistente per produrre un mondo nuovo: nuovi modelli sociali, nuove forme di vita, nuova storia. Oggi nessun occidentale si aspetta qualcosa di decisivo dalla politica, i grandi avvenimenti sono vissuti come astrazioni, meccanismi o spettacoli e tutto quello che interessa, a cominciare dai conflitti etici fra legami e piacere, si gioca nel tempo presente e nello spazio del privato.

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2. L’EPOCA

DELLE PERSONE MEDIE

1. UN CAMPO DI BATTAGLIA

Berlino è la vera città allegorica del XX secolo, il luogo in cui si sono scontrate fisicamente le tre forme di vita che, nel corso del Novecento, hanno cercato di governare le enormi masse umane generate dalla rivoluzione industriale, dalla tecnica e dall’esplosione demografica moderna. A Berlino si sono combattuti il più grande conflitto palese e la più grande guerra latente della storia; a Berlino il fascismo, il comunismo e la Western way of life hanno lasciato una traccia nella forma delle strade e delle case. Negli anni Trenta Hitler e Speer progettavano di distruggere e rifondare la capitale grande-borghese dopo averla conquistata politicamente; fra il 1943 e il 1945 gli inglesi, gli americani e i russi avrebbero raso al suolo l’architettura nazista e l’architettura grande-borghese, distruggendo una città che la Germania Est e la Germania Ovest avrebbero poi ricostruito secondo visioni del mondo contrapposte, ma unite dalla grammatica edilizia del modernismo povero, quella che ha dato forma alle periferie europee nel secondo dopoguerra, mentre le periferie del Terzo mondo adotta­­­­­65

vano la grammatica della baraccopoli, quella che dilagherà ovunque nel XXI secolo neoliberista. Poi, all’inizio degli anni Sessanta, il socialismo reale avrebbe sventrato la città pur di impedire ai propri cittadini di passare alla Western way of life, costruendo una delle più grandi fortificazioni mai edificate in ambiente urbano, e creando la frontiera simbolica dove la guerra fredda e implicita che fra il 1945 e il 1989 ha diviso il pianeta sarebbe diventata, per quasi tre decenni, un conflitto palese. Ero stato a Berlino per una decina di giorni all’inizio degli anni Novanta. Visibile in molti luoghi della città, privato della sua funzione politica e poliziesca, il Muro pareva una gigantesca opera abbandonata di land art; in certi punti c’erano ancora le torri di guardia e la striscia di sabbia davanti alla barriera di cemento; la stazione di Friedrichstrasse conservava l’aspetto carcerario e contorto che aveva avuto nei decenni precedenti, quando era un luogo di confine strettamente sorvegliato. Potsdamer Platz assomigliava ancora a quella vista nel Cielo sopra Berlino di Wenders: il Muro e la passerella soprelevata dal lato occidentale erano scomparsi, ma rimaneva un prato di erba bassa e insensata, una terra di nessuno divisa da una tubazione incongrua. Alcuni edifici portavano ancora i segni dei proiettili sparati nella Seconda guerra mondiale; il quartiere ebraico di Prenzlauer Berg, fermo agli anni Trenta, sembrava essere stato svuotato da poco. L’Est profondo era per lo più grigio-sporco, o di un colore pastello stinto, con le facciate non rifatte e poche insegne, pochi negozi, pochi segni di capitalismo; l’Ovest era colorato, ma meno ­­­­­66

colorato dell’Europa occidentale vera, e l’assenza di lusso autentico diceva che quella parte di Berlino era stata, per oltre quarant’anni, un’enclave. Una città tragica e distrutta, piena di cicatrici, di spazi non interpretati, ricostruita male, in fretta e in forme anch’esse tragiche, per povertà, per la cupezza del modernismo architettonico nella sua versione povera, per la volontà di esibire ottimismo socialista (KarlMarx-Allee), per la volontà di esibire ottimismo capitalista pur vivendo in una sacca (Kurfürstendamm); un campo di battaglia pieno di tracce e di rovine; un palinsesto a cielo aperto, paradossalmente simile a Roma, ma attraversato da una storia recente e viva, a differenza di Roma, la cui bellezza parla di una storia morta, di un passato che non ci riguarda più.

2. SOPRALLUOGHI

Sono tornato a Berlino due anni fa, nel maggio del 2013, per una decina di giorni. Ho fatto il turista. Prima ancora di visitare la nuova architettura e di scoprire com’erano state ricostruite le terre di nessuno, volevo capire come la Germania unificata avesse sistemato la propria storia dopo l’annessione della Ddr. Ho visto il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, il Museo ebraico di Libes­ kind, il Museo del Terrore nazista che sorge sulle rovine del palazzo della Gestapo, il Museo del Muro a Bernauer Strasse, i resti del Muro a Potsdamer Platz. Visitatore su­­­­­67

perficiale per antonomasia, il turista è anche colui per il quale i monumenti e i musei sono stati concepiti. È il destinatario ideale del discorso che le istituzioni intendono svolgere: il suo sguardo frettoloso contiene anche un punto di vista privilegiato. La prima cosa che si nota percorrendo questi luoghi in successione è che si assomigliano tutti. Hanno la stessa tonalità e lo stesso compito, mettono insieme due metà e due funzioni – una parte visiva che cerca di esprimere la tragedia della storia in forme astratte, concettuali, e una parte pedagogica fatta di didascalie che condannano i due «totalitarismi», esprimono il senso di colpa di un paese, alludono all’epoca che si è aperta dopo la fine dei conflitti che hanno dato origine al presente. Un simile modo di procedere ha una logica: è ciò che la democrazia liberale deve fare; è ciò che la democrazia liberale, dopo aver vinto due guerre, si è in un certo senso conquistata il diritto di fare. Ma la parte più interessante non è questa. In ogni museo o monumento di Berlino, il discorso che lo Stato tiene sulla propria storia è circondato da un altro sistema di simboli sorto senza pianificazione, come un segno dei tempi, ma più importante di quello che le istituzioni della Repubblica Federale di Germania hanno voluto costruire. Oggi questo secondo discorso è la cosa più eloquente e più visibile di Berlino. In Potsdamer Platz sono stati reinstallati, a beneficio dei turisti, alcuni pezzi di Muro. Sono circondati da pannelli che spiegano il significato di quei blocchi di cemento. ­­­­­68

Quando però li si mette nel contesto, l’immagine che si ottiene è sovrastata da un’enorme pubblicità dell’iPad (che ho fotografato con un iPad):

Il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa sorge su un’area che prima della guerra ospitava il palazzo di Goebbels. È una sequenza di steli in pietra scura di altezze diverse, disposte in una griglia ortogonale; può essere percorsa a piedi su sentieri che hanno una pavimentazione mossa; entrando nella griglia i blocchi di pietra si fanno progressivamente più alti e il visitatore ha l’impressione di sprofondare. L’architetto che ha progettato il monumento, Peter Eisenman, voleva costruire un’allegoria dello ster­­­­­69

minio e trasmettere l’idea che un sistema apparentemente razionale potesse degenerare nell’assoluta irrazionalità: L’enormità e l’orrore della Shoah sono tali che ogni tentativo di rappresentarli con i mezzi tradizionali è inevitabilmente inadeguato [...]. Il contesto del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa è l’enormità del banale. Il progetto mostra l’instabilità di ciò che sembra essere un sistema, in questo caso una griglia razionale e la sua potenziale dissoluzione nel tempo. Suggerisce che, quando un sistema teoricamente razionale e ordinato cresce troppo e senza proporzione con lo scopo per il quale è stato concepito, di fatto perde contatto con la ragione umana. Comincia allora a rivelare i disturbi innati e il potenziale caotico che sono impliciti in tutti i sistemi apparentemente ordinati: l’idea che tutti i sistemi chiusi di un ordine chiuso sono destinati al fallimento1.

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Ma il Memoriale non sorge isolato: a dieci metri ci sono un parcheggio di autobus turistici e una serie di tavole calde piene di pupazzi, würstel di cartapesta, impianti stereo, immondizie musicali. Questa foto, per esempio, è stata scattata ascoltando Live while you’re young degli One Direction:

Le rovine della sede della Gestapo ospitano il Museo del Terrore. Dall’altra parte della strada c’è un pezzo piuttosto lungo di Muro; oltre il Muro sorge un edificio nazista che ha attraversato la guerra conservandosi intatto. Fra il 1938 e il 1945 era stato il Ministero dell’Aviazione del Terzo Reich; nel dopoguerra fu la sede provvisoria dell’amministrazione sovietica; il 7 ottobre 1949 vi venne fondata ­­­­­71

la Repubblica Democratica Tedesca. Ho scattato questa foto stando all’interno di quella che settant’anni fa era la Gestapo: nella parte bassa ci sono le tavole pedagogiche del Museo del Terrore con le foto delle parate naziste; al centro c’è il Muro di Berlino; sopra il Muro c’è l’architettura nazista del Ministero dell’Aviazione:

Ma il punctum della foto non è né il Muro, né il Ministero, né l’immagine delle parate naziste: è il dettaglio che sta in mezzo. Si tratta di un pupazzo colorato, un orso fosforescente che la città di Berlino ha scelto per autorappresentarsi. Sta fra la prima sede della Ddr, il Muro e la Gestapo, come una macchia azzurro-puffo in mezzo a edifici tragici e cupi: ­­­­­72

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Nel maggio del 2013, a ottanta metri dalla vecchia sede della Gestapo, a settanta dal Muro, a cinquanta dall’orsopuffo e a trenta dal Museo dell’Aviazione, c’era un cantiere aperto. La recinzione, come succede in questi casi, era stata venduta alle agenzie di pubblicità e le agenzie ci avevano messo sopra, fra le altre cose, questo cartello:

Il Museo del Muro in Bernauer Strasse segue la logica dei memoriali dedicati alla storia tedesca: in mezzo a un prato cresciuto là dove trent’anni fa c’era una striscia di sabbia minata, oggi rimane un pezzo di Muro che a un certo punto si interrompe; al posto del tratto mancante sono stati piantati dei pali metallici rossi a distanze irregolari. Il ­­­­­74

senso è chiaro: oggi il visitatore può fare ciò che gli abitanti di Berlino Est non hanno potuto fare per ventotto anni – può attraversare il confine, può passare liberamente da una forma di vita all’altra. Intorno ai pali si trovano pannelli pedagogici e postazioni video con filmati dell’agosto 1961, dei Vopos, dei tentativi di fuga finiti bene o male. Su una casa del settore orientale che sorge davanti a ciò che un tempo era il Muro è stata posta una fotografia gigante per ricordare come appariva il quartiere nel 1989:

Ma la parete della casa di fronte non fa parte del Museo del Muro, è libera per usi commerciali, e un’agenzia immobiliare ci ha piazzato un cartello in posizione simmetrica ­­­­­75

rispetto alla foto di Gartenstrasse. L’immagine complessiva è questa:

Sul cartello speculare alla fotografia di Gartenstrasse negli anni del Muro c’è scritto Wohnungen mit Weitblick, appartamenti con vista:

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3. TRAGEDIA E CONSUMO

Ovunque, nei luoghi di Berlino che parlano della storia novecentesca, si assiste a un conflitto implicito fra due discorsi. Il primo è raccontato dai musei e dai monumenti ufficiali; esprime un ethos riflessivo e perbene, quello che è umanamente adatto a luoghi dove pochi decenni fa sono morte delle persone, a costruzioni e rovine che simboleggiano i più grandi conflitti e i più grandi massacri della storia; dice che la Germania riconosce le proprie colpe e che il paese è cambiato; condanna il nazismo, com’è ovvio, ma anche ogni eredità della Ddr, die kommunistische Gewaltherrschaft, the Communist tyranny, come si legge nella didascalia bilingue del Memoriale del Muro. Il secondo è diffuso nel paesaggio che circonda i musei e i monumenti ufficiali: nei pupazzi fosforescenti, nei manifesti che dicono Shopping is coming home, nelle agenzie immobiliari che scrivono «appartamenti con vista» davanti a ciò che rimane del Muro, nei visitatori che escono dal piccolo museo posto sotto il Memoriale per gli ebrei morti e passano, in pochi secondi, dalle foto dei deportati a un enorme würstel di cartapesta o a Live while you’re young degli One Direction. Pur essendo politicamente alleati, pur condividendo il giudizio implicito ed esplicito sul XX secolo, sul nazismo e sul comunismo, questi due regimi simbolici confliggono. Il primo è tragico, responsabile e pianificato; percepisce l’eterogeneo come problema e non tollererebbe oggetti incongrui nei ­­­­­77

propri spazi, come non si tollerano i bermuda o le canottiere nelle chiese. È emesso dallo Stato e si rivolge a un cittadino o a un cittadino-in-formazione, distingue fra ciò che simbolicamente sta in alto (la grande politica con i suoi conflitti cosmico-storici e le sue tragedie) e ciò che sta in basso (il guazzabuglio della vita quotidiana con le sue mescolanze, il suo casino). Il secondo è ludico, irresponsabile e anarchico; è emesso dal capitalismo contemporaneo, dalla Western way of life così come si configura nella nostra epoca; si rivolge alle stesse persone fisiche cui si rivolge il discorso dello Stato, ma le immagina in un altro modo, non come cittadini ma come consumatori. Lo Stato connette: esige che la storia tragica del Novecento venga osservata responsabilmente e con serietà, come se i contemporanei avessero ancora un rapporto organico col passato, come se dovessero risponderne, e a tono, con la Stimmung giusta. Il capitalismo disconnette: presuppone una vita interiore fatta di segmenti eterogenei che convivono o che si succedono a brevissima distanza senza che questo sia un problema; presuppone quella blanda schizofrenia di cui ogni occidentale del XXI secolo fa esperienza ogni giorno, e che rappresenta l’equivalente psichico del consumo in quanto forma di vita e modo di essere nel mondo. Negli ultimi venticinque anni la città che più di ogni altra reca le tracce architettoniche della grande politica novecentesca e delle sue figure (il cittadino-soldato, il militante, la mobilitazione generale, l’impegno) è stata rimodellata da una forma di vita sorta attorno alla figura ­­­­­78

dell’individuo privato e consumatore. Mentre il cittadinosoldato e il militante obbedivano agli imperativi del dovere e della coerenza e dovevano vivere nella dimensione della durata (combattere, resistere, restare fedeli fino alla fine), la vita psichica del privato consumatore è politeistica, retta dal principio di piacere, easy; transita da una cosa all’altra dando per scontata la provvisorietà di tutto. Oltre a parlare di un’altra epoca, il discorso che lo Stato tiene attraverso i suoi musei parla da un’altra epoca, da un paesaggio interiore fatto di virtù civiche vetuste. Basta uscire dai luoghi perimetrati che lo rendono ancora possibile per vedere che la realtà circostante ne contraddice lo spirito. Lo Stato è superegotico e novecentesco; il discorso emesso dal capitalismo fa appello a strutture che stanno prima e dopo il secolo tragico di cui la Western way of life segna la fine. In questo senso lo Stato si comporta ancora come un nevrotico: come colui che si accorge della frattura ma esige di rimettere insieme le parti, mentre tutto intorno cresce una forma di vita tranquillamente schizoide, serenamente perversa, che accumula pezzi separati senza soffrire la scissione. Ma camminando per Berlino si percepisce che la pubblicità dell’iPad, le gigantografie immobiliari, i pupazzi stanno lì con orgoglio, come metonimie di un consenso diffuso. Il discorso che Berlino tiene davanti ai musei è più solido e più autentico del discorso che lo Stato tiene dentro i musei. Se le democrazie liberali e il socialismo reale hanno vinto la guerra contro il fascismo usando le armi, l’Occidente ha vinto la Guerra fredda mostrando ­­­­­79

alle masse planetarie che la propria forma di vita era più desiderabile del socialismo. Ciò non è accaduto in virtù di valori eroici, veteroumanistici o civici – le libere elezioni, la pace mondiale, la produzione di cittadini responsabili. Basta guardare senza incanto la storia degli ultimi decenni per vedere come l’esercizio della sovranità popolare sia importante per le masse solo nel periodo successivo alla fine di una dittatura; in seguito viene percepito come un valore sempre più pallido, la fiducia nella politica declina inevitabilmente, le masse delegano e diventano apatiche. Inoltre i settant’anni di pace e libere elezioni di cui l’Occidente ha goduto dal 1945 a oggi nascono dal dominio neocoloniale su una parte consistente del pianeta e da conflitti per le risorse che l’Occidente non esita a combattere purché restino lontani dal suo territorio e non comportino la coscrizione obbligatoria; la sovranità popolare si risolve, nella prassi, in una lotta fra oligarchie, nate da processi di selezione farraginosi e oscuri, che si contendono a scadenze rituali il consenso delle masse; i risultati di questa lotta sono influenzati dalla distribuzione asimmetrica delle risorse fra le élites che confliggono; gli elettori si comportano in modo molto diverso da come vorrebbe l’utopia illuministica di una cittadinanza emancipata. Non promettendo di incorporare gli individui in una totalità etica che li trascenda, le democrazie liberali vivono una perenne crisi carismatica: è come se sentissero di promettere troppo poco, di proporre mete troppo terrene, troppo umane; per questo cercano di costruire ­­­­­80

un’immagine eroica, enfatica di sé che inevitabilmente stride con la realtà e crea una retorica vuota. Ciò che ha fatto e continua a fare la fortuna della Western way of life è meno enfatico ed eroico, più semplice e umano di questa autorappresentazione: è la promessa di creare attorno a ogni individuo una piccola sfera di autonomia e di benessere. Autonomia significa il diritto a perseguire liberamente i propri interessi e a dedicarsi ai propri affetti, l’indipendenza momentanea dai doveri collettivi, la chiusura nel privato, ma anche il diritto alla regressione e a una blanda schizofrenia; benessere significa una disponibilità di merci che permettano di vivere bene, sognare, divertirsi, trasgredire, adorare i feticci, superare i limiti fisici della condizione umana, guadagnare l’ammirazione degli altri, occupare il tempo allontanando la fatica, la noia, l’idea dello spreco di sé o della morte. Sono queste isole giornaliere, settimanali e annuali di affetti personali, consumo, ostentazione, gioco, potenza, espressione di sé che rendono desiderabile la ‘democrazia’ e tollerabile l’enorme quantità di tempo che ogni giorno trascorriamo in reti di rapporti sociali del tutto estranei alla democrazia, a cominciare da quelli che tengono insieme gli individui nei luoghi di lavoro2. I cartelloni e gli oggetti che ricoprono i luoghi tragici di Berlino vogliono dire questo a noi passanti: «le persone che hanno subito i totalitarismi e sono morte nelle strade che oggi percorrete senza essere minacciati desideravano quello che avete conquistato: un’esistenza apolitica e tranquilla, lontana dalle guerre, sottratta alla coercizione dello Stato, libera dai doveri ­­­­­81

politico-militari, dedita alle esperienze e alle avventure personali che il vostro relativo benessere e l’assenza di controllo di cui disponete in certi momenti della giornata rendono possibili». Non più la grande politica di massa col suo inevitabile sbocco bellico, ma la vita privata e l’indifferenza alla politica; non più l’epoca della mobilitazione generale o dell’impegno, ma la microanarchia in spazi controllati. La società che rivendica per le proprie merci e i propri oggetti ludici il diritto di stare accanto alle rovine e ai memoriali, e di starci in quanto merci e oggetti ludici, rivendica anche la propria forma mentis politeistica, privata, antieroica e attimale: la persona che nello spazio sotterraneo del Memoriale per gli ebrei d’Europa piange sulle storie dei deportati può entrare un minuto dopo nella tavola calda che trasmette gli One Direction e non avvertire alcuna contraddizione. Sarebbe sbagliato dire che i conflitti del XX secolo si siano neutralizzati: mai come oggi i modelli di società usciti sconfitti dalla battaglia novecentesca sono sconfitti per sempre. È invece cambiata la maniera di vivere questo scontro e di percepire la storia, il tempo, le gerarchie fra le parti della coscienza, il rapporto fra pubblico e privato. I deportati di settant’anni fa e il würstel di adesso appartengono a due regioni incomunicanti, sono capsule separate di esperienza che convivono, in totale buonafede, dentro la stessa persona, perché l’ethos politico-militare e la pietas tragica che hanno modellato i luoghi di Berlino fino al 1989 non esistono più, e sopra quei luoghi, legittimamente, la forma di vita vincitrice pianta le proprie insegne. ­­­­­82

4. #JUDEN #ARBEITMACHTFREI #TREBLINKA #ZYKLONB #FEELGOOD

Un giorno sono capitato per caso su questa pagina internet: http://www.vice.com/it/read/25-hashtag-da-evitare-nei-selfie-instagram-al-memoriale-dellolocausto

L’articolo è pessimo, ma ciò di cui si parla è molto interessante. Alcuni adolescenti in visita al Memoriale della Shoah e ai campi di concentramento hanno postato su Instagram immagini come queste:

Nata, nella sua forma attuale, con la mutazione antropologica (fino al secondo dopoguerra la maggior parte ­­­­­83

delle persone passava, nel giro di pochi anni, dall’infanzia all’età adulta, dalla scuola dell’obbligo all’obbligo implicito del matrimonio), l’adolescenza ha oggi, fra le età della vita, la stessa funzione simbolica che la middle class ha nella gerarchia sociale: è la forma umana egemone, quella che influenza i tipi limitrofi imponendosi come modello. La metamorfosi della moda occidentale negli ultimi cinquant’anni (molti degli studenti fotografati negli scontri della primavera 1968 portavano la giacca e la cravatta; oggi alcune di quelle persone vanno in giro in t-shirt e scarpe da ginnastica) è il segno visibile di una metamorfosi interiore. Gli adolescenti contemporanei stanno ai non-adolescenti come i prototipi stanno alle auto di serie: sperimentano la versione avanzata dei dispositivi che le vetture normali adotteranno più tardi, in versione moderata e familiare. La ragazza che si fotografa a Treblinka con gli hashtag #juden #arbeitmachtfrei #zyklonB e #feel­ good esibisce la forma estrema di quello che succede nella piazza che ospita il Memoriale della Shoah, sulla facciata della casa che sorge di fronte al Museo del Muro o davanti alla vecchia sede della Gestapo. Guardando queste foto non si può dire che ci sia una profanazione volontaria: nessuno prova a fare il revisionista; molti sono consapevoli di trovarsi in un luogo triste e, secondo la logica del loro mondo, fanno la faccia da papero e aggiungono l’hashtag #sad. Ciò che fa problema a chi non appartiene interamente a questo spazio mentale è che #holocaustmemorial vada insieme a #happy, o anche solo che si possa ­­­­­84

scrivere una cosa come #holocaustmemorial (o #arbeitmachtfrei o #zyklonB), con il cancelletto davanti:

È come se queste foto mostrassero senza filtri alcune strutture profonde dell’orizzonte psichico cui tutti noi apparteniamo. Innanzitutto illuminano la logica della comunicazione di massa, quella che l’hashtag – l’hashtag in quanto forma simbolica – incarna senza schermi. Rappresentare l’esperienza come un elenco di etichette significa accettare che le parti della realtà possano disporsi su un piano di orizzontalità assoluta (#arbeitmachtfrei e #zyklonB insieme a #feelgood) e, prima ancora, che sia legittimo riportare la realtà a una serie di tag, di cartellini. Da quando la sfera del discorso pubblico si è costruita ­­­­­85

attorno ai media moderni, i media moderni hanno periodicamente dovuto giustificare la metafisica implicita nei loro gesti. Ciò accade nei passaggi di fase: quando i giornali diventano l’organo principale della doxa, quando la televisione entra a far parte della vita quotidiana, quando la pratica dello zapping rinnova l’esperienza di profanazione e rimescolamento che è cruciale nella comunicazione di massa moderna. Oggi accade con i social network: Twitter o Instagram fanno rivivere quello sguardo straniato davanti ai giornali e alla libertà di stampa che era proprio di Goethe, di Flaubert o di Kraus, e che tende a perdersi in coloro che nascono quando i giornali o la televisione fanno ormai parte del paesaggio mentale come una seconda natura. Però quello sguardo è anche fatalmente destinato a scomparire: alle generazioni cresciute quando il giornale e la televisione erano già inclusi nella vita quotidiana le critiche di Goethe, Flaubert e Kraus suonano eccessive, antiche e incomprensibili; allo stesso modo il disagio che alcuni di noi provano davanti a certe foto fra qualche decennio apparirà eccessivo, antico e incomprensibile. Ma intorno a questa prima cerchia di rivelazioni ce n’è un’altra, ancora più vasta. L’orizzontalità, l’elenco, l’etichettatura, la transitorietà di tutto, la pluralità che queste foto Instagram esibiscono senza sfumature ci sono familiari: fanno parte dell’etere psichico della nostra epoca, lo stesso che parla dentro di noi, nel nostro marasma, e che si mostra nell’architettura di Berlino; esprimono l’idea che tutto, in fondo, si equivalga, che immettere eventi ed espe­­­­­86

rienze nella sfera pubblica significhi anche trasformarli in un’etichetta, in una merce o in un luogo comune, perché ogni evento o esperienza, nella vita psichica come nella vita sociale, prende la forma di etichetta, di merce o di luogo comune e finisce in un flusso saturo di cose dove tutto si sovrappone e scompare dopo quindici giorni o quindici minuti.

5. ALLA FINE DELLA STORIA

«Se dovessimo ancora una volta pensare le sorti dell’umanità in termini di classe – scrive Agamben in una pagina famosa – allora oggi dovremmo dire che non ci sono più classi sociali, ma solo una piccola borghesia planetaria, in cui le vecchie classi si sono dissolte: la piccola borghesia ha ereditato il mondo, essa è la forma in cui l’umanità è sopravvissuta al nichilismo»3. Questa frase potrebbe essere rovesciata: il nichilismo è la forma in cui l’umanità è sopravvissuta alla piccola borghesia; esiste un legame profondo e causale fra le classi medie e la fine degli antichi dèi. Ma il rapporto va pensato nella dimensione della lunga durata; e quando ciò avviene, anche la categoria di nichilismo può diventare problematica. La forma di vita occidentale così come la conosciamo oggi nasce in due momenti successivi. Il gesto etico che la istituisce è l’attribuzione di diritti inalienabili agli individui e di un valore assoluto alla vita privata delle persone ­­­­­87

comuni. Si tratta di un territorio plurale, come si diceva, fatto di ambiti diversi legati alla famiglia, al lavoro e all’espressione di sé. Nella seconda metà del Novecento, a questi ambiti si affiancano l’edonismo del consumo e dello spettacolo e una nuova dose di espressivismo, due dimensioni che esistono da sempre, ma di cui le masse non si erano mai appropriate con la libertà, la serenità e l’oblio che hanno raggiunto grazie al processo che continueremo a chiamare, per comodità, mutazione antropologica. Per come si presenta oggi, la Western way of life è la prima forma di vita che tenti di costruire una convivenza senza Dio e senza i suoi surrogati, a cominciare dalla politica. Fra i tre regimi che si sono combattuti nel corso del Novecento, la democrazia liberale era l’unico che prometteva una vita non assoggettata alle grandi trascendenze e ai loro vincoli morali: il sacrificio in nome di una causa, il dovere, l’impegno, la compostezza, la serietà, il raccoglimento, la coerenza. La Shoah e la Guerra fredda sembrano eventi lontanissimi, così lontani da non essere più delle presenze reali, nel senso teologico del termine, innanzitutto perché la struttura interiore che rendeva possibile fare esperienza di quegli eventi iuxta propria principia si è dissolta insieme al suo secolo. Sono i gesti di dissacrazione inconsapevole verso ciò che un tempo era vissuto come sacro a darci la misura di quanto quei conflitti si siano allontanati dal nostro ethos. I tizi vestiti da Vopos davanti a ciò che resta del Muro sono l’equivalente dei tizi vestiti da gladiatore davanti al ­­­­­88

Colosseo: rimandano a una storia remota, a un conflitto passato in giudicato, e che proprio per questo può essere ridotto a luogo comune. Ciò che rendeva possibile legare visibilmente i destini privati ai destini generali (il servizio militare obbligatorio, gli Stati-nazione intesi come patrie, le utopie e le distopie politiche, i partiti di massa, gli scontri aperti tra forme di vita) non esiste più. E prima ancora, ciò che non esiste più è l’architettura psichica che le religioni monoteistiche hanno trasmesso in eredità alla grande politica moderna. Fra i molti traumi dell’11 settembre, uno dei più profondi era la scoperta che esistevano ancora degli esseri umani capaci di fare ciò che i cittadini occidentali medi non sanno più fare e non sono più chiamati a fare: morire, ma soprattutto uccidere per una causa. Ciò che Lennon presenta come un’utopia, nothing to kill or die for, è oggi la norma. A noi che viviamo sul rovescio del dulce et decorum est pro patria mori sembra irreale che i dirottatori dell’11 settembre si siano addestrati per anni preparando il giorno in cui sarebbero morti. I video dell’Isis ci spaventano e ci ipnotizzano sia perché esibiscono un rapporto arcaico con la violenza, un sadismo anteriore a quel disciplinamento dei supplizi che l’Occidente ha conosciuto fra il XVIII e il XIX secolo, sia perché mostrano la brutale, disumana forza interiore di chi tortura e uccide esseri umani in nome di una causa, la stessa forza disumana delle Einsatzgruppen naziste nella prima fase della Soluzione finale, quando gli ebrei venivano fucilati per ore, per giorni, e fra vittime e carnefici si creava un rapporto di insostenibile intimità. ­­­­­89

Ma l’obbligo di morire e il diritto di uccidere per una causa contraddistinguono l’idea moderna della politica come costruzione di una nuova forma di vita: da punti opposti dello spettro ideologico, il fascismo, il comunismo e il fondamentalismo islamico li hanno sempre rivendicati. Invece le democrazie liberali, pur usando brutalmente la forza per difendere i propri interessi, hanno bisogno di un quadro giuridico che si muova nell’ambito dei ‘diritti umani’, che ripudi la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie e confini nello stato di eccezione il dovere di morire o di uccidere in nome di qualcosa. L’abolizione del servizio militare obbligatorio fa parte di un simile paesaggio, che è psichico e politico. In questo senso, il trionfo del modo di vita occidentale segna una frattura profondissima che allontana da noi una parte del XX secolo e tutto ciò di cui questa parte è erede, a cominciare dalla storia e dalla politica come corrispettivi secolarizzati della religione. Sono quattro decenni che la cultura si confronta con la metamorfosi: in Italia lo hanno fatto gli scrittori e i saggisti che erano giovani o adolescenti negli anni della Seconda guerra mondiale o dell’immediato dopoguerra (Pasolini, Fortini, Calvino, Parise), o gli scrittori e i saggisti della generazione che ha vissuto il Sessantotto e gli anni Settanta (Berardinelli, Agamben, Siti, Pecoraro). Ma i primi elementi di una riflessione sulla crisi della politica implicita nei valori delle classi medie e nella consacrazione del privato sono già ottocenteschi: li troviamo in Tocqueville, in Herzen, in Flaubert, in Nietzsche o in Čechov – e già Hegel descriveva la vita puramente ­­­­­90

privata e borghese, scissa dall’universalità dello Stato, in termini simili a quelli che, pochi anni più tardi, si leggeranno in Tocqueville. È forse anche per questo che nessuna diagnosi filosofica sul presente ha una forza di rivelazione paragonabile alle pagine che il più grande interprete novecentesco di Hegel, Kojève, dedica alla condizione post-storica dell’umanità contemporanea: Da un certo punto di vista, [...] gli Stati Uniti hanno già raggiunto lo stadio finale del «comunismo» marxista, visto che, praticamente, tutti i membri di una «società senza classi» possono appropriarsi fin d’ora di ciò che desiderano, senza per questo lavorare più di quanto gli piace. In parecchi viaggi comparativi compiuti (tra il 1948 e il 1958) negli Stati Uniti e in U.R.S.S. mi sono formato l’opinione che, se gli Americani fanno la figura di cino-sovietici arricchiti, è perché i Russi e i Cinesi non sono che degli Americani ancora poveri, anche se in via di rapido arricchimento. Sono stato indotto a concluderne che l’American way of life era il genere di vita proprio del mondo post-storico, dal momento che l’attuale presenza degli Stati Uniti nel Mondo prefigura il futuro ‘eterno presente’ dell’umanità tutta intera. Così il ritorno dell’Uomo all’animalità appariva non più come una possibilità ancora di là da venire, bensì come una certezza già presente4.

È un brano che va messo in prospettiva, per molte ragioni: perché l’American e la Western way of life poggiano su rapporti di classe che questa pagina non sembra vedere, perché Kojève ama esprimersi per paradossi e perché dieci anni dopo, come si legge nella nota, avreb­­­­­91

be capito che il vero modello dell’umanità post-storica non è l’American way of life ma lo snobismo giapponese, cioè la serietà estrema con cui la società giapponese, da secoli priva di rivoluzioni politiche, interpreta i rituali che danno forma alla vita quotidiana. Inoltre Kojève sottovalutava il peso storico-filosofico del comunismo e del fascismo, morì nel giugno del 1968 e non fece in tempo a vedere per intero l’ultimo episodio dell’Età delle Rivoluzioni, che peraltro era anche il primo momento in cui la mutazione antropologica si mostrava. Questa miopia e questa impossibilità lo portarono ad anticipare una diagnosi che solo negli anni Ottanta del XX secolo ha rivelato la propria forza predittiva. Ma una volta immesso nel discorso ciò che il brano tace, occorre dire che Kojève descrive l’ambivalenza della Western way of life con uno spirito provocatorio ineguagliato. Un’umanità che possiede una sfera di autonomia, benessere, diritti soggettivi, e che si dedica al soddisfacimento dei propri desideri in una sorta di eterno presente, non avendo più interesse a combattere per modificare lo stato delle cose e fare storia, assomiglia alla società senza classi del comunismo realizzato; se non si considerano i rapporti di forza da cui la Western way of life nasce e ci si concentra sui valori che la forma di vita occidentale propone, un assetto come questo ha qualcosa di utopico. Fra la pagina che abbiamo letto e Imagine c’è una somiglianza impressionante. Per Kojève, uno stadio storico simile corrisponde alla fine del «movimento creatore dell’Uomo»5: appena gli ­­­­­92

esseri umani si affrancano dalla necessità e si riconoscono reciprocamente in quanto soggetti liberi, la forza che li spinge ad agire, a negare il presente si arresta e «l’Uomo non procede più oltre»6: accetta la società come un ambiente o un destino eterno, perché la sua natura tende a questo, a una piccola sfera di riconoscimento, autonomia soggettiva e benessere. Ma un esito simile è anche, nel vocabolario filosofico di Hegel riscritto da Kojève, una forma di nuova animalità. «Un animale che è in accordo con la Natura o con l’Essere dato è un essere vivente che non ha niente di umano»7: rigoroso fino al paradosso, il discorso di Kojève sembra emanare ambivalenza quando descrive la fine della storia. È lo stesso double bind che troviamo in Larkin quando si parla della morte di Dio. Che l’epoca apertasi dopo la Guerra fredda sia poststorica non significa che sia sprovvista di eventi – al contrario. Significa altre due cose. In primo luogo, vuol dire che gli eventi non hanno più la forza di modificare la forma di vita dentro la quale accadono. Il capitalismo come regolatore dei rapporti fra le persone, lo Stato burocratico moderno come organo della governamentalità, la segmentazione del mondo in piccoli mondi all’interno dei quali gli individui perseguono mete puramente private, essendo in interiore homine indifferenti a tutto il resto, appaiono oggi come architetture stabili che nessuno immagina di vedere un giorno tramontare. In secondo luogo, significa che i destini generali sfuggono all’esperienza. Se la Rivoluzione francese e Napoleone, scrive Lukács, ­­­­­93

fecero della storia un’esperienza vissuta dalle masse8, la fine dei dispositivi che legavano gli esseri particolari all’universale allontana la storia dalla vita dei singoli. Oggi gli eventi si mostrano come spettacolo (le due Guerre del Golfo, le guerre jugoslave degli anni Novanta, l’11 settembre 2001) o come meccanismi impersonali e incontrollabili (il 15 settembre 2008); gli occidentali conoscono il divenire sotto forma di infotainment o di astrazione. Il confronto con l’epoca aperta dalla Rivoluzione francese aiuta a capire meglio che le epoche senza storia non sono eccezioni. Se c’è storia solo quando è in gioco una metamorfosi della forma di vita, l’Ancien Régime è, a tutti gli effetti, pieno di eventi e privo di storia. Per secoli nessuno, in Europa, ha immaginato di veder tramontare il feudalesimo; per secoli i conflitti hanno avuto l’aspetto che hanno oggi: una guerra fra antagonisti simmetrici ciascuno dei quali significava solo se stesso, la propria volontà di potenza, o tutt’al più un mutamento di fase all’interno di un sistema stabile.

6. UNA FORMA DI DISAGIO

Passeggiando per Berlino mi venivano in mente cose simili. C’era però qualcosa di moralistico e unilaterale nei miei pensieri, qualcosa che mi disturbava molto: al fastidio per Berlino si sovrapponeva un fastidio uguale e contrario per me stesso. Perché questo disagio? ­­­­­94

Ciò che stavo vedendo nelle strade della città era per molti, per quasi tutti, per una parte di me, una conquista straordinaria. Alcuni aspetti di una simile conquista sono comunemente celebrati: la Western way of life ha garantito diritti alle persone, ha allungato la durata della vita media, ha assicurato settant’anni di pace a nazioni sconvolte da secoli di guerre, ha prodotto una ricchezza materiale senza equivalenti, ha creato oggetti tecnici dalla potenza magica, ha distribuito alle masse delle comodità che in passato spettavano solo alle élites: mangiare bene tutti i giorni, lavarsi bene tutti i giorni, avere una casa pulita e riscaldata tutti i giorni, possedere molti oggetti, curare la propria salute, viaggiare, esprimersi, esibirsi su una piccola scena pubblica, essere anticonformisti, come tutti. Però a me interessavano gli aspetti meno celebrati di questo stato di cose. In primo luogo, che la maggioranza degli occidentali sia contenta di essere stata esonerata dalla grande politica: non solo di non dover più subire una mobilitazione di massa, ma, più candidamente, di poter delegare e vivere tranquilla nel proprio mondo, attratta dai propri dada, indifferente al resto. Ciò che oggi rimane dell’impegno e della sua retorica è un arcaismo o una pantomima. In secondo luogo, la blanda schizofrenia da cui tutti noi siamo percorsi rappresenta, per molti, una conquista, un esito cui tendere: se l’imperativo che domina la vita dei militanti, come scrive Fortini, è lo stesso che attraversa la vita dei santi, «vivere coerentemente»9, la vita e la psiche incoerenti, l’io allentato degli occidentali contemporanei sono percepiti anche come la liberazione ­­­­­95

da un vincolo, come un bene. E infine mi era chiarissimo che a tutto questo io non avevo da opporre alcunché. Sicuramente non avevo da opporre un progetto politico. Oggi non esiste alcuna controforza organizzata che proponga un’idea di mondo alternativa a quella occidentale, a parte il fondamentalismo islamico, qualche residuo esperimento marxista latinoamericano e i nuovi modelli di dispotismo asiatico, peraltro perfettamente integrati nel capitalismo, perché se c’è una cosa che la storia degli ultimi quarant’anni ci ha mostrato, dal Cile di Pinochet alla Cina contemporanea, è che fra capitalismo e democrazia non c’è alcun rapporto. Le critiche radicali continuano a poggiare, consciamente ma più spesso inconsapevolmente, sul comunismo come idea regolativa, come angolo cieco che rende possibile la visione disforica del mondo contemporaneo, sul comunismo ritornato alla condizione di spettro. È un sostegno esterno al discorso e spesso indicibile: pochissimi lo rivendicano. E tuttavia le cose che rimproveriamo al capitalismo (lo sfruttamento della persona sulla persona, lo sfruttamento di una classe su un’altra, l’isolamento degli individui, la lotta di tutti contro tutti, la soggezione delle vite alle esigenze dell’economia, la perdita di controllo sui meccanismi sociali) sono in gran parte rese pensabili dall’ombra di questo Altro innominabile posto fuori dal discorso. Lo si voglia o no, sono ancora le utopie elaborate in nome e per conto del movimento operaio a fornire il vocabolario di una critica sostanziale allo stato di cose presente; nel discorso ­­­­­96

pubblico ne sopravvive la versione edulcorata, socialdemocratica, non-utopica, compatibile col sistema. E tuttavia questo Altro, nella sua forma pura, si è rivelato irrealizzabile. È un progetto pensato per funzionare su scala ristretta e microconsiliare, destinato a trasformarsi in un regime burocratico, delirante e poliziesco ogni volta che la bellezza rivoluzionaria delle cose nascenti appassisce, le dimensioni degli aggregati umani crescono, le differenze fra le persone aumentano e la gestione democratica diretta dei meccanismi di potere si fa impossibile. Dunque la critica alla società occidentale contemporanea muove da una posizione irrimediabilmente utopica o, in termini lacaniani, isterica – l’isteria essendo la posizione dell’anima bella che si difende dal reale evitandolo. In questo senso non c’è mai stata un’alternativa vera e desiderabile alla Western way of ­life: tutto quello in cui posso ragionevolmente sperare è un’interpretazione socialdemocratica del capitalismo, il che renderebbe la vita più sicura e meno ingiusta, ma non ne cambierebbe la forma, né le darebbe un senso per via politica. Oltretutto mi è chiaro che nei conflitti del presente ci sono pochissime tracce di tutto questo: gli scontri politici decisivi del XXI secolo vengono dopo la battaglia fra forme di vita che ha segnato la storia del XX secolo e hanno contenuti completamente diversi. Mi chiedo allora da dove venga il disagio che provo davanti a questa Berlino, quale ne sia l’origine, e perché questo disagio sia, a sua volta, fonte di disagio. Alcuni strati mi sono visibili, a cominciare dal fastidio per la ­­­­­97

rimozione su cui la forma di vita occidentale si regge. L’ordine e il benessere di cui disponiamo non sono nati né si mantengono in modo pacifico: sono nati e si mantengono grazie a rapporti di classe feroci, a forme di sfruttamento che la doxa vincente rimuove. Nel discorso pubblico delle democrazie liberali, per esempio, c’è un’asimmetria ipocrita fra il modo di trattare i regimi che le democrazie liberali hanno sconfitto e il modo di trattare fenomeni come il colonialismo o la schiavitù, ai quali l’Occidente deve una parte della propria accumulazione originaria: se non è stato il capitalismo a inventare lo sfruttamento, di sicuro il capitalismo non lavora per abolirlo. La middle class occidentale, come si diceva nel primo capitolo, è solo una delle classi in cui il mondo contemporaneo è gerarchicamente organizzato: la tranquillità stabile della piccola borghesia garantita e il benessere sempre più precario della piccola borghesia non garantita poggiano su diseguaglianze che la middle class non vede e che comunque non potrebbe percepire, perché gli esseri umani non vedono ciò che hanno interesse a non vedere. Basta però guardarsi intorno e riflettere sull’origine degli oggetti che ci circondano, sulle condizioni in cui sono stati prodotti, per cogliere il grande rimosso che la Western way of life porta dentro di sé: i rapporti di classe. Ma se questi strati di disagio mi sono chiari, al di sotto ce n’è un altro, meno percepibile e meno legittimo: il disagio di vedere che un secolo lacerato dalle grandi ambizioni utopiche o distopiche, dai progetti che ambivano a ­­­­­98

cambiare la realtà e dalle guerre conseguenti finisce così, nella medietas antitragica delle nostre vite solo private, in una forma di nuova animalità, secondo la definizione di Hegel-Kojève, che riattiva il fondo oscuro e arcaico della condizione umana, lo stesso che si mostra, con una facies diversa, nell’eterno disincanto popolare. Lo strato più profondo nasce dalla scomparsa di una politica che sappia porre in modo frontale e collettivo il problema dell’uguaglianza e della giustizia, dalla perdita di un’idea eroica, emancipata, fatalmente minoritaria di individuo – un’idea giovanile e del tutto irrealistica se rapportata alle dimensioni della politica di massa e, prima ancora, alla complessità della vita quotidiana, alla sua costitutiva inerzia. Un disagio simile ripropone un habitus elitario vecchio di millenni, lo stesso che troviamo nel trattato Athenaion Politeia, nel Principe, in Tocqueville o in Leo Strauss, e che oggi è diventato imbarazzante, insostenibile. D’altra parte qualcosa sanguina nel vedere l’età degli estremi che diviene, legittimamente, l’epoca delle persone medie. Ogni giorno la Western way of life infligge ferite alle illusioni della cultura umanistica, a un apparato di ideali di cui la chiusura nel privato, il consumo, lo spettacolo, l’inappartenenza, la regressione mostrano l’irrealtà assoluta. Liberati dalle trascendenze religiose e laiche, gli esseri umani non vogliono quello cui le interpretazioni nobili dell’Illuminismo li destinavano, non vogliono l’uscita dalla minorità, la partecipazione alla vita della polis o la creazione di un mondo più giusto; vogliono passare il tempo curando i propri affetti e inseguendo le proprie ­­­­­99

mete personali, le proprie costruzioni ausiliarie, i propri dada; vogliono il frigorifero, la vacanza al mare e una capsula di microautonomia; vogliono dimenticare la noia, la fatica e la morte che galleggiano nebulizzate sopra un tempo che non rimanda a nulla, e che proprio per questo va goduto; vogliono divertirsi e sognare. La Western way of life ha una legittimità profonda e una forza di attrazione potentissima perché consacra l’esistenza ordinaria e i diritti degli individui qualsiasi; si propaga con impeto perché poggia su un fondo universalmente umano. Prima che dal consumo, il suo impero irresistibile nasce dal privato: è l’impero della vita privata comune. Ogni cultura conosce questa sfera di valori, ma solo l’Occidente contemporaneo l’ha trasformata in un bene supremo, e anche per questo ha conquistato l’egemonia. Alla fine del secolo più tragico della storia umana, alla fine di un conflitto ciclopico fra idee di società e di persona, il modo di vita che esce vincitore è il meno eroico, il meno grandioso, ma anche il meno elitario, il più immanente, il più autenticamente popolare. Non ho nulla di politico o di reale da opporre a tutto questo. Ho solo una forma di disagio. I destini generali, 2012-2015

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NOTE

1. LA MUTAZIONE 1  L.A. Belmonte, Selling the American Way: U.S. Propaganda and the Cold War, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2008. 2  V. de Grazia, Irresistible Empire: America’s Advance through Twentieth-Century Europe (2005), trad. it. L’impero irresistibile. La società dei consumi alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006. 3  A.L. Tilde, An Inhouse Survey into the Cultural Origins of Boko Haram Movement in Nigeria, in «Gamji.com», http://www.gamji.com/tilde/ tilde99.htm. 4  Sull’omogeneità per sottrazione che teneva insieme le classi sociali dell’Ottocento e del primo Novecento, cfr. P. Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee (2001), DeriveApprodi, Roma 2003, p. 120. 5  V. de Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi alla conquista del mondo, cit., p. 3. 6  W. Kornhauser, The Politics of Mass Society, The Free Press, Glencoe (IL) 1959, pp. 22 sgg.; P. Simonson, Refiguring Mass Communication: A History, University of Illinois Press, Champaign (IL) 2010, pp. 21-22. 7  M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Cortina, Milano 2010, pp. 36-38. 8  La formula «maggioranza silenziosa» fu inventata da Nixon e Spiro Agnew per significare che la maggior parte degli americani era favorevole alla guerra del Vietnam anche se una minoranza rumorosa protestava. Venne importata in Francia nel maggio del 1968; in Italia giunse poco dopo. Cfr. F. Bas, La ‘Majorité silencieuse’ ou la bataille de l’opinion en mai-juin 1968, in Ph. Artières, M. Zancarini-Fournel (a cura di), 68: Une histoire collective, 1962-1981, La Découverte, Paris 2008, pp. 359-66.

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9  J. Lacan, Du discours psychanalitique, in Id., Lacan in Italia 19531978 en Italie Lacan, La Salamandra, Milano 1978, p. 48. 10  S. Žižek, Enjoyment as a Political Factor (2000), trad. it. Il godimento come fattore politico, Cortina, Milano 2001, pp. 107 sgg. e passim; Id., How to Read Lacan (2006), trad. it. Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino 2009; Id., Entretien avec Slavoj Žižek. Le désir, ou la trahison du bonheur, a cura di D. Raboutin, in «Le magazine littéraire», 455, luglio-agosto 2006; M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, cit. 11  Cfr. M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit., p. ix e p. 16. 12  A. Ehrenberg, La Fatigue d’être soi. Dépression et société, trad. it. La fatica di essere se stessi, Einaudi, Torino 1999; Z. Bauman, Liquid Modernity (2000), trad. it. Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 60 sgg. 13  J. Lacan, Nota sul padre e l’universalismo, in «La psicoanalisi», 33, gennaio-giugno 2003, p. 9. 14  Sul concetto di polizia delle pulsioni, cfr. J.L. Nancy, Démocratie finie et infinie, in Démocratie, dans quel état? (2009), trad. it. In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma 2010. 15  F. Dostoevskij, Igrok (1866), trad. it. Il giocatore, Einaudi, Torino 1999, p. 43. 16  R. Bolaño, Los detectives salvajes (1998), trad. it. I detective selvaggi, Sellerio, Palermo 2009, p. 425. 17  Ivi, pp. 481-83. 18  J. Goody, The Oriental, The Ancient, The Primitive: Systems of Marriage and the Family in the Pre-Industrial Societies of Eurasia, Cambridge University Press, Cambridge 1990, cap. XVII. 19  E. Hobsbawm, The Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1994 (1994), trad. it. Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995, p. 379. 20  F. Fukuyama, The End of History and the Last Man (1992), trad. it. La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992. 21  H. Arendt, The Human Condition (1958), trad. it. Vita activa, Bompiani, Milano 1991. 22  Ch. Taylor, The Sources of the Self. The Making of the Modern Identity (1989), trad. it. Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 458 sgg. 23  R. Carver, So Much Water So Close to Home, in Id., Furious Seasons and Other Stories (1977), trad. it. Con tanta di quell’acqua a due passi da

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casa, in Id., Racconti, a cura di R. Duranti, Mondadori, Milano 2005, pp. 323-29. 24  Ivi, p. 334. 25  M. Houellebecq, Les Particules élémentaires (1998), trad. it. Le particelle elementari, Bompiani, Milano 1999, p. 237. 26  F. Nietzsche, Frammenti 1887-1888, autunno 1887 202 10 [82], in Id., Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1971, vol. VIII, t. II, p. 149. 27  C. Schmitt, Die Begriff des Politischen (1927), trad. it. Il concetto di ‘politico’, in Id., Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 155 sgg. 28  P. Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft (1983), trad. it. parziale Critica della ragion cinica, a cura di A. Ermano e M. Perniola, Garzanti, Milano 1992. 29  M. de Certeau, La Prise de parole (1968), trad. it. La presa della parola e altri scritti politici, Meltemi, Roma 2007, p. 37. 30  M.J. Crozier, S.P. Huntington, J.Watanuki, The Crisis of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, New York 1975. 31  E. Hobsbawm, Fractured Times. Culture and Society in the Twentieth Century (2013), trad. it. La fine della cultura. Saggio su un secolo in crisi, Rizzoli, Milano 2013, p. 11. 32  Ch. Lasch, The Culture of Narcissism: American Life in an Age of Diminishing Expectations (1979), trad. it. La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Bompiani, Milano 1995. 33  S. Richardson, Pamela, or Virtue Rewarded (1740), trad. it. Pamela, Frassinelli, Milano 1995. 34  W. Siti, Il contagio, Mondadori, Milano 2008, p. 311. Cfr. anche P.P. Pasolini, 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione, in Id., Scritti corsari (1975), ora in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, pp. 290-93. 35  P.P. Pasolini, 19 gennaio 1975. Il coito, l’aborto, la falsa tolleranza del potere, il conformismo dei progressisti, in Id., Scritti corsari, ora in Id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 373. 36  Ivi, p. 378. 37  G. Agamben et al., Sentimenti dell’aldiqua. Opportunismo paura cinismo nell’età del disincanto, Theoria, Roma-Napoli 1990.

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M. Houellebecq, Le particelle elementari, cit., p. 116. G. Deleuze, F. Guattari, Anti-Œdipe. Capitalisme et schizophrénie (1972), trad. it. Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002, pp. 27 sgg., pp. 44 sgg. e passim. 40  Ivi, pp. 54 sgg. 41  Ivi, p. 279. 42  Ivi, pp. 279-80. 43  Un testo recente che ripropone in modo sistematico i temi di fondo dell’Anti-Edipo, e in generale del Deleuze politico, è Senza padri di Paolo Godani (DeriveApprodi, Roma 2014). Il capitalismo ipermoderno, l’evaporazione dei padri, la dissoluzione del soggetto borghese non vengono visti attraverso il velo del lutto o della nostalgia; sono invece i benvenuti, perché rappresentano «i presupposti di una trasformazione possibile» (p. 11). 44  «La morte è dinanzi a noi pressappoco come, in un’aula scolastica, il quadro di una battaglia di Alessandro Magno. L’importante è di oscurare o cancellare quel quadro, ancora in questa vita, mediante le nostre azioni». F. Kafka, Die Acht Oktavhefte, trad. it. Gli otto quaderni in ottavo, in Id., Confessioni e diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972, p. 735. 45  «Per l’occidentale contemporaneo, anche quando goda di buona salute, il pensiero della morte costituisce una sorta di rumore di fondo che si insinua nel suo cervello man mano che progetti e desideri vanno sfumando». M. Houellebecq, Le particelle elementari, cit., p. 83. 46  W. Siti, Troppi paradisi, Einaudi, Torino 2006, pp. 132-33. 47  Sulla natura «integralmente intramondana» della morale implicita nel consumo e nel feticismo della merce cfr. E. Coccia, Il bene nelle cose, Il Mulino, Bologna 2014, p. 96 e passim. 48  L’aneddoto viene raccontato per iscritto in una pagina di M. Recalcati, Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana, a cura di Ch. Raimo, minimumfax, Roma 2013, p. 70. 49  Cfr. G. Lukács, Balzac, Stendhal, Zola, Nagy orosz realisták (1946), trad. it. Saggi sul realismo, Einaudi, Torino 1970, p. 57. 50  Cfr. M. Amis, The War Against Cliché. Essays and Reviews, 19712000, trad. it. La guerra contro i cliché. Saggi letterari, Einaudi, Torino 2014, p. 5. 51  K. Marx, F. Engels, Das Manifest der Kommunistischen Partei 38  39 

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(1848), trad. it. Manifesto del partito comunista, Rizzoli, Milano 2004, p. 47. 52  M. Houellebecq, Soumission (2015), trad. it. Sottomissione, Bompiani, Milano 2015. 53  S. Žižek, Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa, a cura di M. Senaldi, Feltrinelli, Milano 1999, p. 84. 54  Ph. Larkin, The Complete Poems, ed. with an introduction and commentary by A. Burnett, Farrar, Straus and Giroux, New York 2012. 55  A. Motion, Philip Larkin: A Writer’s Life, Farrar, Straus and Giroux, New York 1993, pp. 355 e 371; Ph. Larkin, The Complete Poems, cit., pp. 449-51. 56  Th.W. Adorno, Noten zur Literatur, trad. it. Note per la letteratura 1943-1961, Einaudi, Torino 1979, p. 197. 57  Cfr. M. Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino 2013, p. viii. 58  E. Cassirer, Das Problem Jean-Jacques Rousseau (1932), trad. it. Il problema Jean-Jacques Rousseau, in E. Cassirer, R. Darnton, J. Starobinski, Tre letture di Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 38 sgg. Sull’importanza dell’interpretazione di Cassirer, cfr. B. Carnevali, Società e riconoscimento, in G. Paganini, E. Tortarolo (a cura di), Illuminismo. Un vademecum, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 279-93. 59  E. Cassirer, Il problema Jean-Jacques Rousseau, cit., p. 43. 60  F. Fortini, Comunismo (1989), in Id., Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano 1990, pp. 99-101.

2. L’EPOCA DELLE PERSONE MEDIE http://www.stiftung-denkmal.de/en/memorials/the-memorial-tothe-murdered-jews-of-europe/field-of-stelae/peter-eisenman.html. 2  «Gli americani contemporanei [...] si crogiolano nel credere di ‘vivere in una democrazia’ nonostante passino gran parte della loro vita in istituzioni non democratiche come la famiglia, la scuola, i luoghi di lavoro capitalistici, per non citare l’esercito o le organizzazioni burocratiche del governo». M. Sahlins, The Western Illusion of Human Nature (2008), trad. it. Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, Elèuthera, Milano 2010, p. 30. 1 

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G. Agamben, La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990, p. 42. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel (II edizione 1968), trad. it. Introduzione alla lettura di Hegel, a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996, pp. 542-43. 5  Ivi, p. 659. 6  Ibid. 7  Ivi, p. 544. 8  G. Lukács, Der historische Roman (1937), trad. it. Il romanzo storico, Einaudi, Torino 1965, p. 14. 9  F. Fortini, L’ospite ingrato primo (Palazzo d’inverno), in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2003, p. 869. 3  4 

NOTA DELL’AUTORE

La prima versione del capitolo iniziale è stata letta il 15 dicembre 2012 alla Scuola Normale Superiore di Pisa durante il convegno Figure del desiderio. Retorica, temi, immagini, organizzato da Compalit, l’Associazione per gli studi di teoria e storia comparata della letteratura; la seconda versione è uscita su «Between» (III, 5, 2013) il 30 maggio 2013 e poi sul sito «Le parole e le cose». La prima versione del secondo capitolo è uscita su «Le parole e le cose» il 19 maggio 2014. Entrambe le parti che compongono questo libro sono state riscritte e ampliate.

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INDICE DEI NOMI

Adorno Th.W., 6, 48, 105. Agamben G., 40, 87, 90, 103, 106. Agnew S., 101. Amis M., 104. Arendt H., 102. Aristofane, 37. Artières Ph., 101. Babel’ I., 37. Balzac H. de, 32. Bas F., 101. Bauman Z., 15, 102. Belli G.G., 37, 47. Belmonte L.A., 101. Benjamin W., 6. Berardinelli A., 90. Berlusconi S., 3, 38, 46-47. Bloch E., 6. Boko Haram, 11. Bolaño R., 19-20, 102. Burnett A., 105. Calabresi L., 14. Calvino I., 90. Carnevali B., 105. Carver R., 25-26, 102. Cassirer E., 63, 105. Čechov A., 35, 90. Céline L.-F. (Louis Ferdinand Destouches), 37, 47. Coccia E., 104.

Colli G., 103. Corona F., 46-47. Crozier M.J., 30, 103. Darnton R., 105. De Carolis M., 40. de Certeau M., 16, 27-29, 103. de Grazia V., 101. De Laude S., 103. Deleuze G., 12-13, 42-44, 48, 5354, 104. Diaframma, 22. Dostoevskij F., 18, 102. Duranti R., 103. Ehrenberg A., 102. Eisenman P., 67. Ellis B.E., 18. Engels F., 104. Fellini F., 37. Flaiano E., 37. Flaubert G., 35, 86, 90. Folengo T., 37. Fortini F., 6, 63, 90, 95, 105-106. Frigo G.F., 106. Fukuyama F., 23, 102. Gadda C.E., 37. Godani P., 104. Goethe J.W. von, 86.

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Goody J., 102. Guattari F., 13, 42-44, 48, 53, 104. Hardt M., 44. Hegel G.W.F., 23, 49, 90-91, 93, 99, 106. Herzen A., 90. Hitler A., 65. Hobsbawm E., 102-103. Houellebecq M., 26-27, 41, 45, 52, 103-105. Huntington S.P., 30, 103. Kafka F., 104. Kojève A., 23, 91-93, 99, 106. Kornhauser W., 103. Kraus K., 86. Illuminati A., 40. Isis, 12, 89. Lacan J., 13-16, 35, 40, 42, 44, 102. Larkin Ph., 54-56, 59-60, 93, 105. Lasch Ch., 34-35, 40, 45, 103. Lennon J., 56-59, 62, 89. Lenzini L., 106. Libeskind D., 67. Lukács G., 93, 106. Machiavelli N., 99. Marx K., 6, 49, 104. Messi L., 12. Miglio C., 103. Miss Manners (Judith Martin), 18. Montinari M., 103. Motion A., 105. Nancy J.L., 102. Nani (Luís Carlos Almeida da Cunha), 12.

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Napoleone Bonaparte, 93. Negri A., 44. Nietzsche F., 42, 48, 52, 90, 103. Nixon R., 101. Obama B., 32. One Direction, 71, 77, 82. Ono Y., 59. Paganini G., 105. Parise G., 90. Pasolini P.P., 3, 34-35, 37-40, 90, 103. Pecoraro F., 90. Petronio, 37, 47. Pinochet A., 96. Piperno F., 40. Platone, 49. Pocar E., 104. Proust M., 50. Rabelais F., 37. Raboutin D., 102. Raimo Ch., 104. Recalcati M., 13-15, 46, 101-102, 104. Revelli M., 105. Richardson S., 36, 103. Romney M., 32. Ronaldo C., 12. Rossanda R., 40. Rousseau J.-J., 63, 105. Sahlins M., 105. Schmitt C., 103. Serantini F., 14. Sex Pistols, 22. Simonson P., 101. Siti W., 5, 37-38, 45-46, 59-60, 103-104. Sloterdijk P., 103.

Speer A., 65. Spinoza B., 12, 54. Starnone D., 40. Starobinski J., 105. Strauss L., 99. Talking Heads, 18. Taylor Ch., 24, 102. Tilde A.L., 103. Tocqueville A. de, 23, 90-91, 99. Tomasi di Lampedusa G., 4. Tortarolo E., 105.

Virno P., 40, 101. Warhol A., 36. Watanuki J., 30, 103. Weber M., 34. Wenders W., 66. Young N., 47. Zancarini-Fournel M., 101. Žižek S., 14-15, 102, 105.

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INDICE DEL VOLUME

QUESTO LIBRO

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1. LA MUTAZIONE 1. Le masse, p. 9 - 2. L’obbligo di godere, p. 14 - 3. La crisi dei legami, p. 17 - 4. La nuova classe media, p. 32 - 5. Sessantotto, p. 38 - 6. Capitalismo, schizofrenia, liberazione, p. 42 - 7. Paradisi in terra, p. 44 - 8. La fine del paradigma apocalittico, p. 47 - 9. Navigare a vista, p. 53 - 10. Dopo la politica, p. 62

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2. L’EPOCA DELLE PERSONE MEDIE 1. Un campo di battaglia, p. 65 - 2. Sopralluoghi, p. 67 - 3. Tragedia e consumo, p. 77 - 4. #juden #arbeitmachtfrei #treblinka #zyklonB #feelgood, p. 83 - 5. Alla fine della storia, p. 87 - 6. Una forma di disagio, p. 94

65

Note

101

Nota dell’autore

107

Indice dei nomi

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