I cristiani hanno un solo Dio o tre? La Trinità: nascita e senso di una dottrina cristiana

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I cristiani hanno un solo Dio o tre? La Trinità: nascita e senso di una dottrina cristiana

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PICCOLA COLLANA MODERNA

(Ultimi volumi pubblicati disponibili) 110.

F.

FERRARIO, La lettera di Giacomo.

Guida alla lettura

111.

D. MARGUERAT, L'uomo che veniva da Nazareth.

112.

M. MIEGGE, Capitalismo e modernità.

113.

G. TOURN, Giovanni Calvino.

Che cosa si può sapere oggi su Gesù Una lettura protestante

114.

Il riformatore di Ginevra F. FERRARIO- W. JOURDAN, Per grazia soltanto. L'annuncio della giustificazione

115. 116. 117.

F. GIAMPICCOLI, Dag Hammarskjold

( 1905-1961).

Un credente alla guida dell'Gnu G. TOURN, Elia

Chr. GREMMELS-

H.W. GROSSE,

Il cammino

di Dietrich Bonhoeffer verso la resistenza

118. 119.

R. WILLIAMS, La sapienza del deserto

120. 121. 122.

G.

E. FIUME,

123.

T. RòMER-

R. NEWBURY, Elisabetta l. Una donna alle origini

del mondo moderno

MIEGGE- C.

PAPINI, Pietro a Roma

Il protestantesimo. Un'introduzione E. NOFFKE, Il Vangelo di Giuda. La verità storica tra scoop e pregiudizi

L.

BONJOUR, L'omosessualità

nella Bibbia e nell'antico Vicino Oriente

124.

S. RONCHI, Huldrych Zwingli. Il riformatore di Zurigo

125. 126.

F. MOSER, Chi osa dirsi cristiano?

J.

127.

F. GIAMPICCOLI, Henri Dunant. Il fondatore

128. 129. 130. 131. 132. 133.

F. FERRARIO- W.JOT.JRDAN,Introduzione all'ecumenismo

Hus, Il primato di Pietro (dal «De ecclesia»), a cura di L. Santini della Croce Rossa

S. TOMKINS, Breve storia del cristianesimo R.

NEWBURY, La regina Vittoria

E. GENRE, Martin Bucer. Un domenicano riformatore

V. BENECCHI, John Wesley. Un 'eredità da investire G.G. MERLO, Valdo. L'eretico di Lione

Helmut Fischer

I cristiani hanno un solo Dio o tre? La lìinità: nascita e senso di una dottrina cristiana Edizione italiana a cura di Franco Ronchi

Claudiana - Torino www.claudiana.it - [email protected]

Helmut Fischer è stato professore al Seminario teologico di Fried­

berg/Hessen, di cui per molti anni è stato anche retto­ re. In emeritazione dal 1 991, è autore di numerosi sag­ gi di divulgazione di tematiche teologiche. Fra i suoi maggiori successi ricordiamo lo Schnellkurs Christen­ tum (Corso veloce sul cristianesimo), una prima intro­ duzione al pensiero cristiano pubblicata in Germania da DuMont.

ISBN 978-88-7016-826-6 Edizione originale:

©

Haben Christen drei Gotter? Entstehung und Ver­ stiindnis der Lehre von der Trinitiit, Theologischer

Verlag Ztirich, 2008. Per la traduzione italiana:

©

C1audiana s.r.l., 20 1 0 ViaSan Pio V 1 5 - 10125 Torino Tel. 0 11.668.98.04 - Fax 0 1 1.65.75.42 e-mail: [email protected] sito internet: www.claudiana.it Tutti i diritti riservati - Printed in Italy

Ristampe: 16 1 5 1 4 13 12 1 1 10 Copertina: UmbertoStagnaro Stampa: Stampatre, Torino

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FONDAMENTO E RETROTERR A DELLA DOTTRINA TRINITARI A

l. INTRODUZIONE

a) Indicazioni per i lettori Nella storia della dottrina cristiana quello della «Tri­ nità>> è uno dei temi che maggiormente richiedono uno sforzo intellettuale non indifferente. Allo stesso tem­ po, però, si tratta di un argomento che introduce il let­ tore ai punti cruciali e alle decisioni essenziali che fis­ sano i paletti entro i quali si sviluppa la comprensio­ ne cristiana della fede e di Dio. Tuttavia il traguardo di questo percorso difficile vale la fatica, proprio co­ me il panorama a 360 gradi che si offre agli occhi del­ l' alpinista giunto sulla vetta più alta lo ricompensa del­ la faticosa arrampicata. Nessuno, però, che sia privo delle conoscenze alpinistiche elementari circa la mon­ tagna, i suoi segreti e pericoli, e non sia munito del­ l' equipaggiamento tecnico indispensabile, riuscirà mai a compiere l' ascensione fino alla vetta. Seguendo la regola elementare dell' «imparare facendo» e preve­ dendo il momento nel quale ne avrete bisogno, ho an­ teposto ai «passaggi» nevralgici dell'escursione che state per iniziare gli strumenti necessari, quelle cono5

scenze elementari della «montagna» che vi permette­ ranno di continuare la vostra ascesa verso la vetta. L' equipaggiamento indispensabile è costituito da po­ chi termini tecnici, ahimè inevitabili, senza i quali ta­ l uni «passaggi» non potrebbero essere affrontati e su­ perati oppure richiederebbero molta, troppa fatica. Tut­ tavia, non è necessario caricarsi subito di tutta l ' attrez­ zatura e si può lasciare tranquillamente al campo ba­ se quella che inizialmente sarebbe inutile zavorra. Gli attrezzi di cui avrete sicuramente bisogno vi saranno messi a disposizione più avanti, al momento opportu­ no. Voi, lettori, non dovete conquistare la vetta in un solo giorno: i singoli capitoli sono scritti in maniera tale da poter essere letti anche a intervalli, rimanendo sempre comprensibili. Perché ciò sia possibile, è indi­ spensabile, tuttavia, essere disposti a incontrare alcu­ ne ripetizioni. I termini tecnici più difficili saranno spiegati di nuovo nel glossario che chiude il libro.

b) Tanto per capirci «Trinità>> è il termine usato dai cristiani per carat­ terizzare, in maniera inequivocabile, la loro compren­ sione di Dio. Ma comunque si cerchi di modemizzar­ lo, per la maggior parte dei nostri contemporanei es­ so rimane sempre, a causa del suo contenuto, una pa­ rola straniera, strana ed estranea. Persino la maggio­ ranza dei fedeli che vanno regolarmente in chiesa e che recitano domenica dopo domenica la confessione di fede trinitaria in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo non saprà dare un contenuto molto concreto a quella parola. D'altra parte, i manuali di teologia, i catechi­ smi e i testi liturgici di tutte le chiese cristiane affer­ mano senza tentennamenti e ali' unanimità che «la teo-

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logia trinitaria è patrimonio teologico accertato comu­ ne a tutte le confessioni cristiane)) (BREUNING, p. 524. ). Lo riconoscono i cattolici: «La confessione di fede tri­ nitaria è [ . . . ] la formula breve della fede cristiana e la dichiarazione decisiva della comprensione cristiana della fede)) (SCHNEIDER, pp. 53 ss.); gli evangelici: «La dottrina cristiana di Dio è, immancabilmente, dot­ trina della Trinità)) (M. B ARTH, p. 272); gli ortodossi: «Per la chiesa ortodossa la Trinità è il fondamento in­ crollabile di tutto il pensiero religioso, di tutta la pie­ tà, di tutta la vita spirituale, di ogni esperienza estati­ ca)) (LARENTZAKIS, p. 4 1 ). In linea generale si può cer­ tamente affermare che la dottrina della Trinità è «un elemento costitutivo del consenso cristiano generale)) (BREUNING, p. 52 1 ). Perché, allora, quello che i teologi affermano sia il cuore stesso della fede cristiana continua a rimanere per i credenti totalmente incomprensibile? Quello che si legge nel Catechismo cattolico per gli adulti non è certo una spiegazione sufficiente: «La Trinità è un mi­ stero della fede in senso stretto, uno dei misteri nasco­ sti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati [ ... ], un mistero inaccessibi­ le alla sola ragione)). (CCC, 237). Non è, invece, al­ cun mistero, bensì chiara e certa conoscenza storica, che la dottrina della Trinità non è caduta dal cielo co­ me un corpo alieno incomprensibile, bensì sia il risul­ tato di un grande impegno intellettuale durato un se­ colo. Ciò che con buone ragioni delle persone, non im­ porta quando, hanno formulato in questi termini e non altrimenti, deve essere ricostruibile e condivisibile an­ che per tutte le generazioni successive, sia pure con qualche sforzo. Se così non fosse, sarebbe del tutto giustificato il sospetto più volte avanzato che una stra­ vagante speculazione teologica sarebbe stata più tardi 7

artatamente magnificata quale mistero inspiegabile per sottrarla a ulteriori domande critiche. Non solo i cristiani sembrano avere problemi con la dottrina della Trinità, bensì anche gli ebrei e i mu­ sulmani. Insieme con l' islam e l' ebraismo, il cristia­ nesimo si considera una religione rigorosamente mo­ noteistica, ma per ebrei e musulmani la dottrina tri­ nitaria è una bestemmia contro il solo e unico Dio e una ricaduta nel politeismo. Così, nel Corano si leg­ ge che «quelli che dicono: "Dio è uno dei Tre" sono miscredenti [ . . . ] una punizione dolorosa li colpirà)) (Corano 5,2 1 s.). Ma i cristiani parlano davvero di tre divinità? Per atei e agnostici la Trinità sarebbe «uno stranis­ simo disturbo multiplo della personalità». Tale giudi­ zio non dice niente circa il senso della dottrina della trinità; dice, però, moltissimo circa l'orizzonte men­ tale di chi lo pronuncia. Non ogni enunciato è privo di senso e assurdo già per il solo fatto di non avere un si­ gnificato nel quadro dei parametri mentali e delle pos­ sibilità linguistiche di un dato individuo. Questo ta­ scabile intende aiutare anche quanti hanno avuto fino­ ra difficoltà a capire la dottrina della Trinità (di chiun­ que possa essere la colpa di tale lacuna) a raggiunger­ ne una conoscenza storicamente adeguata. Nel Dizionario delle religioni curato da Kroner, al­ la voce «Trinità,» troviamo questa informazione reli­ giosamente asettica: per Trinità s'intende «l' unità del­ le tre persone divine del cristianesimo: Padre, Figlio e Spirito»(BERTHOLET, p.624). Tuttavia, per quanto ta­ le definizione possa essere esatta, restano senza rispo­ sta le domande di quanti si chiedono e chiedono come queste tre persone divine possano essere pensate nel­ l' unità dell ' Essere divino. Mistero, enigma, specula­ zione, gioco numerico, malinteso? Il bisogno di chia8

rimento - almeno così sembra - è generale e lo è sot­ to molteplici aspetti, a cominciare dagli stessi cristia­ ni. Tale chiarimento, però, non è meno necessario per gli scettici e per gli avversari della religione cristiana e, infine, anche per gli appartenenti ad altre religioni che desiderano comprendere la fede cristiana guardan­ dola, per così dire, con i suoi stessi occhi e capire co­ me essa veda e intenda se stessa.

c) Che cosa ci si può aspettare da questo libro? Con quale scopo e in che modo va affrontato qui il tema della «Trinità»? Diciamo subito ciò che il let­ tore non deve temere. Se si deve partire dal presup­ posto che la dottrina della Trinità si sia formata in un processo di chiarificazione lungo e complesso, anche sotto l'influenza delle molteplici correnti culturali del I secolo d.C., allora è escluso che si possa considera­ re questa dottrina della Trinità una condizione indi­ spensabile prestabilita da Dio perché ci si possa chia­ mare cristiani. Similmente è escluso che, alla luce del modello concettuale ormai definitivamente adottato, si possa spiegare il percorso che avrebbe portato a questa dottrina della Trinità adducendo una pretesa necessità teologica. Circoli viziosi di questo genere non portano ad alcuna nuova conoscenza; servono unicamente a confermare la premessa, cioè ciò che si è già deciso. Non è accettabile neanche la via classi­ ca di rendere pensabile l' impensabile, ricorrendo a paragoni che ne dimostrino la necessità concettuale. Questo modo di procedere sarebbe analogo all'inten­ to assurdo di voler salvare un miracolo spiegandolo razionalmente, cioè non facendolo più essere un mi­ racolo. 9

Quanto si andrà dicendo nelle prossime pagine mo­ strerà come sia successo che, partendo dalla moltepli­ cità delle testimonianze bibliche di Cristo, si sia arri­ vati a una visione di Dio talmente difficile da com­ prendere che ci si presenta come «il più profondo mi­ stero divino». Si dovranno, allora, ricercare le neces­ sità culturali, le forze e le motivazioni trainanti, le si­ tuazioni culturali, religiose, politiche e linguistiche che hanno avuto un ruolo nella formazione della dottrina trinitaria. Raramente gli sviluppi concettuali seguono un percorso lineare verso una meta. Il processo di chia­ rimento del problema di Dio in seno al cristianesimo richiese quattro secoli. In questa sede non è necessa­ rio far luce su tutte le ramificazioni e i vicoli ciechi della discussione trinitaria, bensì possiamo !imitarci a mettere in evidenza quelle posizioni, idee fondamen­ tali e direttrici concettuali che ci sembrano oggi, in re­ trospettiva, essenziali e che hanno condotto, allora, al­ la formulazione della dottrina trinitaria.

2.

LA «TEOLOGIA» DI GES Ù

a) La natura delle fonti disponibili Non abbiamo testimonianze autografe di Gesù. È soltanto dai testi del Nuovo Testamento che possiamo rilevare che cosa egli abbia pensato di se stesso e in che termini abbia concepito il proprio rapporto con Dio. Questi testi, però, sono tutti, senza eccezioni, te­ stimonianze del Cristo scritte nella prospettiva della fede di Pasqua. Ciò significa che i testi del Nuovo Te­ stamento non descrivono il Gesù storico, bensì con10

fessano il Cristo risorto che da Pasqua in poi si è mo­ strato vivente nella vita di uomini e donne. La figura del Gesù storico, del Gesù di Nazareth, è stata model­ lata dalle comunità sorte in seguito all'evento di Pa­ squa in funzione di quella memoria.

b) Il Dio di Gesù è il Dio della fede ebraica Un' analisi dei testi del Nuovo Testamento non ri­ leva il minimo indizio che Gesù si sia allontanato in qualche modo o in qualche misura, sia pur minima, dalla concezione rigorosamente monoteistica dell' ebrai­ smo, la sua religione. Il Dio di Gesù è il Dio della fe­ de ebraica. È storicamente certo che il termine usato di preferenza da Gesù per indicare Dio sia «Padre» o «Abba». Per i credenti di fede ebraica non era affatto inconsueto chiamare Dio «Padre». L'uso di tale appel­ lativo da parte di Gesù non va oltre i limiti del modo in cui il popolo ebraico vedeva se stesso. Israele, in­ fatti, conosceva il messaggio che, prima dell'esodo dall'Egitto, Dio aveva affidato a Mosè per il faraone: «Così dice il SIGNORE: "Israele è mio figlio, il mio pri­ mogenito; e io ti dico: Lascia andare mio figlio, per­ ché mi �erva")) (Es. 4,22 s.). In quanto appartenente al popolo eletto, ogni israelita poteva chiamare Dio «Pa­ dre)) e considerarsi suo figlio. Appartiene al patrimo­ nio ebraico collettivo delle immagini «che Dio è pa­ dre e si comporta come una madre)) (THEISSEN 1 996, p. 458). Quando Gesù usa non solo «Padre», ma per­ sino il termine familiare aramaico «abbà», che corri­ sponde, più o meno, al nostro «papà» o «mio caro pa­ dre», ciò potrebbe esprimere il suo legame particolar­ mente stretto con Dio. Così, pregando nel giardino del Getsemani, Gesù dice: «Abbà, Padre mio! Tutto ti è 11

possibile; allontana da me questo calice! » ( Mc.

14,36).

c) Gesù non si mette sullo stesso piano di Dio È improbabile che Gesù abbia pensato di essere «il Figlio)) per eccellenza. Nel versetto di M t. 11,27, «ogni cosa mi è stata data in mano dal Padre mio . >), traspare già il modo nel quale la comunità interprete­ rà più tardi Gesù. Potrebbe invece essere un detto au­ tentico del Gesù storico quello che si legge nei testi che parlano della fine dei tempi: «Nessuno conosce quel giorno e quell' ora [ . . . ] neanche il figlio, bensì soltanto il Padre» (Mc. 13 ,32). Così dicendo, Gesù afferma chiaramente non solo che il Padre e il figlio non hanno pari conoscenza delle cose, ma anche che non sono identici. Per gli interpreti successivi questo versetto è stato un vero e proprio rompicapo perché esso costituisce come una barriera insuperabile che blocca qualsiasi tentativo di mettere Gesù e Dio sul­ lo stesso piano. . .

3. LA CONFESSIONE DI C RISTO NEGLI SCRITTI DEL NUOVO TESTAMENTO

a) All 'inizio c'è la molteplicità Chi legge i testi biblici deve sempre ricordare che non possediamo fonti autografe di Gesù o risalenti di­ rettamente a lui, bensì solo documenti che parlano di lui. Queste fonti che raccontano la vita di Gesù non

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sono notizie biografiche spassionate uscite dalla pen­ na di un osservatore distaccato, bensì sono tutte- sen­ za eccezione - testimonianze e confessioni di fede di cristiani appartenenti alla comunità post-pasquale. Ciò che tali testimonianze ci dicono del Gesù storico e del­ la sua coscienza di sé non è semplice storia, bensì già «storia interpretata». Questi testi non vogliono limi­ tarsi a registrare chi fosse storicamente il Gesù di Na­ zareth, bensì testimoniano che cosa il Gesù vivente si­ gnifichi per la nostra vita. Negli scritti del Nuovo Testamento sono state ac­ colte le confessioni di fede e le testimonianze di mol­ te persone diverse e di molte tradizioni regionali dif­ ferenti. È per questa semplice ragione che nel Nuovo Testamento s'incontrano tentativi anche molto diver­ si di esprimere il significato di Gesù. All' inizio ci tro­ viamo, così, di fronte a una molteplicità di confessio­ ni di fede in Cristo e non a un'unica formula comune. Non si arrivò a una comune confessione di fede in Cri­ sto solamente alla fine di un lungo, complesso e tor­ mentato percorso concettuale.

b) I titoli onorifici di Gesù Quanti vollero mettere in luce ciò che Gesù signi­ ficava per loro ricorsero a immagini, metafore, simbo­ li e attributi divini correnti nella loro cultura e religio­ ne. Quando attinsero dalla cultura ebraica, essi vide­ ro in Gesù un profeta, il servo del SIGNORE, l' agnello sacrificale, un discendente del re Davide, il «figlio», il sommo sacerdote, il «figlio dell' uomo)) delle attese popolari, il Messia. Poiché il messaggio di Cristo si diffuse molto rapidamente oltre i confini della cultu­ ra giudaica, raggiungendo ben presto il vasto e varie-

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gato mondo religioso dell'impero romano, ai suddet­ ti titoli attribuiti a Gesù se ne aggiunsero altri di ma­ trice estranea al mondo ebraico. Nell' ambiente dalle molte religioni e filosofie dell' impero romano Gesù fu paragonato a figure e a entità religioso-filosofiche della cultura ellenistico-romana o anche identificato con esse, per esempio con illogos, che era considera­ to la personificazione del principio di ogni essere e, in una o altra forma, dell' essenza divina. Chiamandolo, invece, «Signore» si voleva affermare la sua superio­ rità rispetto a re e imperatori. In lui si vide anche un «Salvatore» (sotèr), un «Redentore» (liberator), una figura centrale di molti culti misterici. A questo pun­ to non è necessario entrare nei particolari.

c) Il titolo di «Figlio» Usato nel senso di «figlio di Dio>>, questo titolo avrebbe avuto un ruolo centrale nella formazione fi­ nale del concetto cristiano di Dio. La stragrande mag­ gioranza degli studiosi della Bibbia sostiene che Ge­ sù non abbia mai usato per sé, in senso pieno, con l 'ini­ ziale maiuscola, l ' espressione «figlio di Dio». Nean­ che i suoi discepoli l'hanno mai fatto, almeno prima di Pasqua. Nei vangeli s'incontra un episodio nel qua­ le Gesù chiede ai discepoli: «Chi credete che io sia?» (Mc. 8,29). Pietro rispose: «Tu sei il Cristo (il Mes­ sia)». Nel Vangelo di Matteo, composto una diecina di anni dopo il Vangelo di Marco, la risposta di Pietro è ampliata: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» (Mt. 16, 16). Questo episodio fu certamente riformu­ lato nell'ottica della comunità nata dopo Pasqua, ris­ pecchia pertanto il modo nel quale questa comunità vede ora Gesù. 14

Ma che cosa significa il termine «figlio»? A noi la cosa può apparire chiara, anzi ovvia: «figlio» indica l 'origine biologica di un uomo da determinati genito­ ri. Il senso piano di oggi è, naturalmente, il medesimo che la parola «figlio>> aveva nella Palestina dei tempi di Gesù, ma con una notevole differenza: chiunque avesse osato dire che un essere umano era figlio «bio­ logico>> o «naturale>> di Dio sarebbe stato giudicato un bestemmiatore. Infatti, sembra essere proprio questa l'accusa che, secondo il Vangelo di Giovanni, fu rivol­ ta a Gesù. Nel processo contro Gesù, gli accusatori gridano a Pilato: «Noi abbiamo una legge e secondo la legge costui deve morire perché si è fatto figlio di Dio» (Giov. 19, 7). Sembrerebbe, dunque, che in Israe­ le fosse una bestemmia, quindi un delitto capitale, di­ chiarare se stessi o qualche altra persona «figlio di Dio». Tuttavia, abbiamo anche la confessione di Pie­ tro: «Tu sei il figlio del Dio vivente», e non sembra che queste parole abbiano provocato scandalo o rea­ zioni violente. Si deve, quindi, dedurre che anche la comunità post-pasquale palestinese non considerasse Gesù figlio «naturale» di Dio, bensì usasse il termine «figlio» in quel senso metaforico che era corrente e ben noto nell'ebraismo.

d) Il significato di «figlio di Dio» in Israele Per il popolo d' Israele è un fatto ovvio e scontato considerarsi «figlio di Dio». Nel profeta Osea si leg­ ge: «Quando Israele era un bimbo, io l ' ho amato e chiamai mio figlio (=il popolo) fuori d'Egitto» (Os. 11,1). Certamente, questo rapporto filiale non fu mai inteso in senso naturale, «biologico», bensì sempre metaforico. Con l ' immagine dello stretto rapporto tra 15

padre e figlio si vuole segnalare lo stretto rapporto esi­ stente tra il SIGNORE (YHWH) e il suo popolo. Non è stato, però, il popolo a cercare tale stretto rapporto e Israele sa bene che è stato, invece, YHWH a sceglierlo per figlio. Il SIGNORE ha voluto eleggerlo e in virtù di tale elezione il popolo d ' Israele è diventato figlio di Dio e gli appartenenti a questo popolo sono stati resi figli e figlie di Dio, come dice il profeta: «Fa' venire i miei figli da lontano e le mie figlie dalle estremità della terra)) (ls. 43,6). Incontriamo la medesima figura di pensiero del­ l' elezione a figlio di Dio anche in altri passi biblici. Il profeta N athan riceve da Dio l ' incarico di portare al re Davide un messaggio: «Va' e di' al mio servo Davide: "Così dice il SIGNORE: [ . . . ] Io sarò per lui un padre ed egli mi sarà figlio")) (Il Sam. 7,5 e 14 ). Que­ sta elezione divina varrà anche per tutti i discendenti di Davide che siederanno sul suo trono regale. Ogni singolo re della dinastia di Davide diventerà figlio di Dio mediante un atto d' intronizzazione. La formula decisiva di questo rituale di ascesa al trono ci è stata conservata nel Salmo 2 e recita: «Tu sei mio figlio, oggi io ti ho generata») ( Sal . 2,7). Anche in questo ca­ so non si tratta di un' origine fisica, biologica, né si parla di una natura divina del re dovuta a un' origine divina, bensì del compito e dell' autorità di attuare la volontà del padre divino nell'esercizio della funzio­ ne regale. Il re viene insediato nella sua carica di «fi­ glio)) mediante una sorta di adozione, affinché con­ duca il popolo eletto sano e salvo attraverso i perico­ li della storia. La figura di pensiero del re considerato «figlio di Dio)) non è, però, un' invenzione d'Israele. La si trova già molto prima, nella cultura egiziana, più antica di quella ebraica. In Egitto il faraone in carica era consi16

derato figlio naturale del dio Sole, generato da questi fisicamente e partorito dalla regina madre. Israele ha escluso inequivocabilmente e consapevolmente tale idea di discendenza fisica da un dio. Davide e i suoi successori sul trono d'Israele diventano figli di Dio non per procreazione fisica; essi vengono in sediati qua­ li figli di Dio mediante la parola di Dio. Per farla bre­ ve: secondo la concezione dell' Antico Testamento e dell' ebraismo si diventa figli di Dio per adozione. Ciò vale tanto per il popolo quanto per i re. L' idea che un figlio di Dio potesse essere di natura divina in senso fisico è estranea al modo tradizionale di pensare del­ l' ebraismo, anzi è assolutamente inimmaginabile.

e) L'idea ebraica di (Mc. l , 1 1 ) . La dinamica di que­ sto evento corrisponde al rituale dell' insediamento dei re d'Israele. Un' antica variante del Vangelo di Luca aggiunge nella storia del battesimo persino la formu­ la dell' arcaico rituale regale: «Tu sei mio figlio, oggi io ti ho generato». La storia evangelica del battesimo di Gesù dice che questi, dopo il battesimo, è stato adot­ tato da Dio quale figlio, è stato proclamato figlio di Dio e riempito dello spirito di Dio per poter svolgere la sua missione. Qui si dà per scontato che, com'è na17

turale, Gesù abbia genitori umani, come qualsiasi al­ tro essere umano. Nel Vangelo di Marco non c ' è alcun indizio che le cose stiano diversamente. Ciò permette di dedurre che anche 75 anni dopo la nascita di Gesù non c'era niente di particolare da raccontare circa la sua origine. Le diverse genealogie di Gesù che si leggono nel Vangelo di Matteo e nel Vangelo di Luca, che ricon­ ducono entrambe a Giuseppe, si propongono sempli­ cemente di dimostrare che, mediante Giuseppe, Gesù è un discendente di Davide. La promessa del profeta Nathan vale, infatti, per tutta la dinastia di Davide: «> circolavano storie mirabili legate alla loro nascita. Alessandro Magno, ritenuto figlio del padre degli dèi, Zeus, sarebbe nato da una madre vergine ingravidata da un fulmine sce­ so dal cielo. La madre dell' imperatore romano Augu­ sto sarebbe stata visitata da un serpente, animale sa­ cro ad Apollo, mentre si trovava nel tempio di questo dio. Il filosofo cinese Lao Tzu, fondatore del taoismo, sarebbe stato concepito da una vergine divina quando una stella cadente le si posò sulle labbra. Lo stesso Platone fu ritenuto figlio di una vergine. Il modello concettuale secondo il quale l' eccezio­ nalità di un uomo viene espressa considerandolo figlio di un dio e di una donna terrena, spesso di una vergi19

ne, è presente nella maggior parte delle culture del mondo antico. Già per la loro fantasiosa varietà tali storie mostrano di non voler essere lette come infor­ mazioni di fatti genealogici o ginecologici, bensì co­ me segnalazioni poetiche delle qualità particolari o ec­ cezionali di una persona.

g) Tracce della concezione ellenistica

nel Nuovo Testamento L' idea ellenistica di «figlio di Dio» ha lasciato le sue impronte anche nel Vangelo di Matteo e nel Van­ gelo di Luca. La cosa non deve meravigliare, conside­ rato che entrambi questi vangeli furono scritti fuori della Palestina, in ambiente ellenistico, per persone che vivevano anch'esse fuori della Palestina. Il Van­ gelo di Matteo fu redatto tra 1' 80 e il 100 d.C. in Si­ ria; il Vangelo di Luca fu scritto in una delle grandi città ellenistiche del mondo mediterraneo, attorno al 90 d.C., da un pagano convertito. Entrambi questi evan­ gelisti hanno anteposto alla narrazione base, ripresa dal Vangelo di Marco, storie diverse della nascita di Gesù, composte sul modello concettuale dell' idea el­ lenistica del «figlio di dio)) (Mt. 1 , 1 8-25; Le. 1 ,26-38 e 2, 1 - 1 0). Queste storie della natività e della fanciul­ lezza di Gesù sembrarono loro adatte a mettere in ri­ salto la particolarità e la dimensione divina della per­ sona di Gesù. Non si sa in quale ambiente ellenistico queste storie della nascita di Gesù siano sorte. Non si sa con precisione neanche quale e quanta parte della narrazione vada attribuita ai due evangelisti. Si sa, in­ vece, che esse furono considerate simboli. Nel Vangelo di Matteo si narra che Maria era fidan­ zata con Giuseppe «e, prima che fossero venuti a sta20

re insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito San­ to>> (Mt. 1 , 1 8). A un Giuseppe piuttosto sconvolto un angelo annuncia in sogno che «ciò che essa ha conce­ pito è dallo Spirito Santo» (Mt. 1 ,20). Ricorrendo al­ l' espressione «Spirito Santo» l ' autore descrive la pa­ ternità di Dio in modo tale da escludere del tutto qual­ siasi idea di rapporto fisico. Matteo costruisce il col­ legamento con la stirpe di Davide facendo adottare il bambino da Giuseppe, un discendente di Davide, in­ serendo Gesù, quindi, in maniera legalmente valida, nella discendenza davidica. Nel Vangelo di Luca questa storia viene narrata con un andamento dei fatti diverso, ma il modello con­ cettuale è sempre lo stesso. In Luca la paternità divi­ na non è comunicata al fidanzato a cose fatte, bensì viene anticipata da un angelo alla vergine Maria: «Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell' Altissi­ mo ti coprirà con la sua ombra» (Le. 1 ,35). Il motivo della verginità di M aria, che in epoca post-biblica co­ mincerà a diventare un tema a sé, non ha praticamen­ te alcuna funzione per il messaggio che riguarda Ge­ sù. A ben guardare, fatta eccezione per le storie della natività che leggiamo nei vangelo di Matteo e di Lu­ ca, non si trova né nel resto di questi stessi vangeli né in alcun passo degli altri 25 scritti che compongono il Nuovo Testamento alcun riferimento e nemmeno una semplice allusione a una nascita eccezionale, straordinaria, di Gesù. Tirando le somme: secondo la storia del battesimo, Gesù divenne figlio di Dio quando quell'uomo, che fi­ no a quel momento era un normale figlio di un uomo, venne riempito con lo spirito di Dio dopo il battesimo. Secondo le due storie della nascita, invece, Gesù è fi­ glio di Dio sin dal concepimento e, quindi, ha una na­ tura divina. Per la storia del battesimo Gesù è ripieno 21

di spirito divino dal battesimo in poi; per le storie del­ la nascita, sin dal concepimento e fin dalla nascita Ge­ sù è mosso e condizionato nella sua umanità dallo spi­ rito di Dio. Le due tradizioni narrative, ciascuna nel modo simbolico a loro proprio, esprimono la comune convinzione che la persona e l'opera di Gesù evochi­ no una realtà che trascende i limiti dell' umano e pre­ sentino tratti divini. Il termine chiave «spirito>> sta a significare proprio questo.

h) Quand'è che Gesù diventa il .figlio di Dio ? Davanti alle differenze indicate, noi lettori moder­ ni siamo assillati dall' interrogativo: insomma, da quan­ do Gesù deve essere considerato figlio di Dio? La sto­ ria del battesimo risponde: dal suo battesimo. Le due storie della nascita dicono: dal suo concepimento. E, infine, l' apostolo Paolo dichiara: Gesù «è stato nomi­ nato "figlio di Dio" con potenza sin dalla sua risurre­ zione dai morti» (Rom. l ,4). Vedremo più avanti che le risposte possibili non si fermano a queste tre. Ma allora, qual è la risposta giusta? Gesù è figlio di Dio dalla nascita, dal battesimo o dalla sua risurrezione dai morti? L'interrogativo si pone in questa forma alter­ nativa tra l' una e l' altra opzione soltanto se si dimen­ tica che i testi biblici non sono da considerare una cro­ nistoria dei fatti, bensì storie allusive, indicazioni sim­ boliche in forma narrativa. Se i testi biblici fossero cro­ nache, allora sì che avremmo dichiarazioni che si esclu­ dono reciprocamente. A ben vedere, però, si nota che sia nei vangeli sia anche in Paolo le diverse afferma­ zioni possono convivere senza problemi. Non si può certo supporre che simili contraddizioni siano sfuggi­ te agli autori in questione. Se, dunque, nelle storie che 22

introducono il Vangelo di Matteo e quello di Luca si trovano fianco a fianco la genealogia di Gesù che giun­ ge fino a Giuseppe, il concepimento mediante lo Spi­ rito Santo e il battesimo di Gesù, ciò può significare soltanto che questi testi non sono stati accostati tra di loro perché affermano fatti accaduti, bensì a causa del­ la natura allusiva contenuta nei loro simboli. Ora, sim­ boli, metafore e inunagini non si contraddicono reci­ procamente, perché, appunto, non sono cronistorie; al contrario, si completano a vicenda, mettono in risalto punti fondamentali diversi, illuminano lati diversi di un'unica e medesima realtà. C'è tra loro un' unità so­ stanziale che è questa: ciò che Gesù fa e opera dimo­ stra che egli è figlio di Dio che agisce in virtù dello Spirito e con l'autorità del Padre. Nei primi tre vange­ li, che per la loro stretta affinità vengono comunemen­ te chiamati «Vangeli sinottici» o semplicemente «i Si­ nottici)), non si trovano ancora né indizi né presagi di riflessioni filosofiche circa la natura terrena e divina di Gesù.

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i) Visioni diverse della persona di Gesù L'apostolo Paolo e le sue lettere (scritte tra il 50 e il 56 d.C.) forniscono un' illustrazione perfetta di qua­ le genere siano le dichiarazioni circa Gesù che trovia­ mo nel Nuovo Testamento. Per età, Paolo fu un con­ temporaneo di Gesù, pur senza averlo mai incontrato di persona. Paolo ricorda in questi termini l'episodio della sua vocazione apostolica, quando, nel 33 o 35 24

d.C., restò «fulminato» sulla via di Damasco: «Ma, quando piacque a Dio [ . . . ] rivelarrni suo figlio, per­ ché lo annunciassi alle nazioni» (Gal. 1 , 1 5 s.). Parlan­ do di «rivelazione del figlio di Dio>> l'apostolo non vuole dare né un'informazione né una spiegazione cir­ ca la natura di Gesù, bensì esprimere semplicemente la propria esperienza personale di poter adesso archi­ viare le sue vecchie idee, insieme con la vecchia vita vissuta fino a quella rivelazione, e di essere rinato a una nuova realtà di vita. E altrove dice: «Se, dunque, uno è in Cristo, allora questa è una nuova creazione; le cose vecchie sono passate, ecco: tutto è diventato nuovo» (Il Cor. 5, 1 7). Per quel che riguarda la sua comprensione di Ge­ sù, Paolo si richiama a tradizioni che, come egli stes­ so dichiara, «ha ricevuto», cioè gli sono state traman­ date da comunità cristiane. Poiché sa di esser stato chiamato ad annunciare il messaggio cristiano tra i pa­ gani e scrivendo lettere anche a comunità ellenistiche, Paolo per proclamare Cristo adotta soprattutto formu­ le concettuali in uso nell' ambiente religioso di quelle comunità e che, quindi, suonavano familiari ai suoi ascoltatori e lettori. Per esempio, nella lettera scritta alla comunità cristiana di Filippi, in Macedonia, l' apo­ stolo riprende un inno (Fil. 2,5 ss.) che era, evidente­ mente, corrente nel mondo ellenistico, facendolo pre­ cedere, a mo' d'introduzione, da queste parole: «Ab­ biate in voi un sentimento conforme allo stato che ave­ te in Cristo Gesù». Prosegue, poi, citando l'inno: Egli, che pure aveva una natura divina, non tenne stretto a sé, come una preda, l' essere uguale a dio, bensì l' abbandonò e assumendo un' esistenza da schiavo divenne simile agli uomini,

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nel suo aspetto come un uomo. Egli si umiliò e divenne ubbidiente fino alla morte.

E, a questo punto, Paolo aggiunge, per chiarezza, le parole: « . . . alla morte sulla croce>> . La prima strofe dell' inno parla di un redentore che viene dalla sfera del mondo divino. Per compiere la sua missione tra gli uomini egli assume forma umana così da trarre in inganno le potenze demoniache. Nel­ la rielaborazione paolina la seconda strofe dice che questo redentore, una volta compiuta la sua missione, si sfila di dosso, per così dire, la veste umana, il cor­ po terreno, e ritorna nella sfera divina. Non è questa la sede per decidere l'origine dell' inno, che può pro­ venire dal movimento gnostico oppure da una delle tante dottrine di redenzione di quell'epoca. Comun­ que sia, a Paolo questo modello concettuale sembrò idoneo per illustrare l'evento della redenzione che Ge­ sù aveva messo in movimento con la sua venuta. Pao­ lo identifica la figura del redentore con Cristo. Tuttavia, poiché nel mondo ellenistico non esiste­ va alcuna figura di redentore morto sulla croce, Paolo distingue Gesù da quelle figure ellenistiche di reden­ tore che solo in apparenza avevano assunto corpo uma­ no e, quindi, non potevano che morire solo in appa­ renza. Con il riferimento alla croce Paolo ribadisce che fino alla tremenda morte sulla croce Gesù è vissuto e ha sofferto, in tutto e per tutto, realmente da essere umano. Se è confermato che la lettera ai Filippesi è stata scritta attorno al 55 d.C., essa costituisce la prima te­ stimonianza che nel mondo ellenistico il «figlio di dio» poteva essere immaginato come una figura già preesi­ stente, cioè un personaggio che già prima di vivere sul26

la terra stava presso la divinità e che dalla sfera divi­ na era stato inviato in missione sulla terra. In questa visione non appare, però, ancora alcuna idea precisa di come si dovesse concepire tale esistenza pre-terre­ na presso la divinità o, nel caso di Gesù, presso Dio. Evidentemente, già verso il 50 d.C. esisteva la tenden­ za ad avvicinare, anche come persona, il Gesù di Na­ zareth a Dio. Negli scritti legati al nome dell 'apostolo Giovan­ ni si trova, già chiaramente delineata, la tendenza a di­ vinizzare Gesù. Gli scritti giovannei sono stati prodot­ ti tra il 100 e il 1 20 d.C. circa, probabilmente in Asia Minore, quindi, ancora una volta, nell' ambito della cultura ellenistica con i suoi molti culti e le sue nume­ rose correnti religiose. Nella letteratura giovannea, la parola chiave che è stata usata per esprimere la divi­ nità di Gesù è il termine greco logos, che viene tradot­ to generalmente «Parola)) o «Verbo)). Tale traduzione rende, però, solo parzialmente il significato del termi­ ne logos che, sia nel pensiero greco sia nel mondo con­ cettuale dell'ebraismo influenzato dall'ellenismo, ha una storia lunga e complessa, nella quale non è qui possibile entrare dettagliatamente. Comunque sia, è questo il termine scelto da Giovanni per proclamare il suo messaggio cristiano. Come si sa, il Vangelo di Giovanni comincia con queste parole: «Nel principio era la Parola, il logos, e il logos era presso Dio e il logos era della natura di Dio)) (Giov. 1 , 1 ). Gesù era il logos diventato questa persona. Il logos, si legge, esisteva presso Dio già pri­ ma di vivere sulla terra. Nella filosofia greca il logos era considerato un principio astratto della ragione uni­ versate e già il filosofo ebreo Filone Alessandrino (t 45/50 d.C.), notoriamente influenzato dall' ellenismo, vede nel logos il Mediatore tra Dio e il mondo. Gio27

vanni identifica questo logos con la concreta persona storica di Gesù, conferendogli così tratti personali. Quale entità personale, illogos, che per Giovanni equi­ vale a Gesù, esisteva «sin dalla sua eterna origine�� (HAHN, p.6 1 8), in comunione e in unità con Dio: «Egli (il logos) era in principio con Dio» (Giov. l 2) Egli partecipa della divinità, ma è un'entità autonoma, di­ stinta da Dio. Per la sua unità con Dio illogos è diventato attivo, tutta la creazione è già opera sua: «Tutto è venuto al­ l' esistenza per mezzo di lui e senza di lui neppure una delle cose esistenti è venuta all'esistenza�� (Giov. 1 ,3). Egli stesso viene nel mondo da lui creato: «E la Paro­ la, il logos, divenne carne e abitò tra noi, e noi abbia­ mo contemplato la sua gloria, una gloria come quella che un unigenito, pieno di grazia e verità, ha dal Pa­ dre» (Giov. 1 , 1 4). Con questa incarnazione, con que­ sta «umanizzazione��. il logos creatore, Parola di Dio, diventa visibile e concreto, «empiricamente» conosci­ bile anche per gli uomini. Nel logos, equivalente a Ge­ sù, Dio si rivela agli esseri umani. Andiamo a vedere quanto detto prima. Nel Vange­ lo di Marco (scritto verso il 70 d.C.) Gesù è conside­ rato un uomo normale che dopo il battesimo viene riempito dello spirito di Dio. Nelle storie della nasci­ ta di Gesù contenute nel Vangelo di Matteo e nel Van­ gelo di Luca (scritti tra 1' 80 e il 1 00 d.C.) si mette in risalto la nascita mirabile di Gesù per opera dello Spi­ rito Santo. In questo modello concettuale delle storie della nascita non c ' è indizio né presagio dell' idea di un passaggio di Gesù dalla sfera divina al mondo ter­ reno. I primi tre vangeli, dunque, non sanno né dico­ no ancora niente di una preesistenza di Gesù. Essi non conoscono neanche «alcuna riflessione circa l' atto del­ l'incarnazione nel senso di un passaggio dalla realtà ,

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divina a quella terrena» (HAHN, p. 622). Non si può, quindi, parlare ancora dell' incarnazione di un essere preesistente. Nel Vangelo di Giovanni (scritto tra il 1 00 e il 1 29 d.C.), invece, l' incarnazione dellogos, nella quale Dio stesso si rivela, à il centro della proclama­ zione di Gesù Cristo. Perciò nel Gesù terreno di que­ sto quarto vangelo traspare sempre la luce del logos divino: «Gesù appare come un Dio che passa, di luo­ go in luogo, sulla terra» (THEISSEN 200 l , p. 255). Egli annuncia Dio annunciando se stesso. Richiamando l' attenzione su se stesso egli la richiama su Dio. Nel­ la sua opera si verifica Dio, avviene qualcosa di divi­ no. Nelle comunità di estrazione ebraica il Gesù di Na­ zareth era diventato il Messia promesso da Dio e il Fi­ glio adottivo di Dio. In ambito ellenistico quell' uomo terreno di Nazareth è diventato un essere divino pree­ sistente.

l) L 'elemento comune: la missione di Gesù I modelli concettuali con i quali dei credenti han­ no cercato di capire e spiegare la persona di Gesù re­ cano, come si è visto, l' impronta di matrici culturali diverse. Tutti, però, mettono in risalto che Gesù è sta­ to «inviato)) da Dio; nonostante le diverse concezioni della persona di Gesù, in tutti i modelli c ' è, in primo piano, lo scopo della missione affidata da Dio a Gesù. Paolo dice: «Ma quando giunse la pienezza del tem­ po, Dio inviò suo figlio, messo al mondo da una don­ na)) (Gal. 4,4) e lui stesso interpreta la propria espe­ rienza della vocazione ricevuta sulla via di Damasco (At. 9 e Gal. 1 , 1 1 - 1 3) come il modo scelto da Dio per mandare ai pagani lui, nelle vesti di «ambasciatore)), «inviato al posto di Cristm) (II Cor. 5,20). La premes29

sa concettuale dell'immagine usata da Paolo per spie­ gare il proprio apostolato è il principio giuridico ebrai­ co secondo il quale il messaggero, inviato, legato o ambasciatore che dir si voglia, rappresenta in tutto e per tutto il mandante e, in quanto delegato con pieni poteri, è un rappresentante che sostituisce il mandan­ te e agisce e opera per suo conto e nome. I termini «in­ vio, inviare» e «mandare)) sono usati frequentemente in questo senso: «Chi riceve voi, riceve me; e chi rice­ ve me, riceve colui che mi ha mandato» (Mt. 1 0,40), oppure: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi respinge voi, respinge me; e chi rifiuta me, rifiuta colui che mi ha mandato» (Le. 1 0,1 6). Anche nel Vangelo di Giovan­ ni è scritto: «> che denominiamo con il simbolo. Con il simbolo, il cui lato terreno e concreto ne costituisce soltanto una parte, possiamo unicamente, per così di­ re, indicare col dito una realtà non terrena e non og­ gettivamente concreta, rimandare a essa. Tuttavia, con il linguaggio del simbolo non possiamo penetrare in questa realtà non terrena né possiamo operare in essa secondo le leggi della nostra logica linguistica terre­ na. Il linguaggio simbolico non può, quindi, trasmet­ terei alcuna conoscenza della realtà trascendente. Con le sue immagini terrene può soltanto indicarei una real­ tà non terrena e costruire modelli terreni per questa realtà non terrena. Nell'antichità e nel pensiero religioso anche del­ l' antichità classica, non si era ancora consapevoli di questo limite. Si supponeva che alla logica del linguag­ gio di allora soggiacesse una sorta di ragione oggetti­ va che, in quanto ragione divina, permea e governa tut­ to il nostro universo e, quindi, rappresenta validamen­ te anche la realtà. Con tale concezione del linguaggio era possibile integrare nella propria religione, in varia maniera e senza problemi, elementi di altri sistemi re­ ligiosi e linguistici. In questo caso il motivo tematico preso in prestito poteva deformare e cambiare l'im­ pianto concettuale della propria religione, come è ef45

fettivamente avvenuto, per esempio, quando si accol­ se il motivo della nascita verginale. Era, però, possi­ bile anche che ci si appropriasse di un modello con­ cettuale o di un simbolo preso in prestito da un altro sistema religioso e lo si usasse in senso adeguato e conforme alla propria religione. È quanto avvenne, per esempio, quando i cristiani ripresero dalla cultura el­ lenistica i titoli di «Signore/kyrios)) e di «Salvatore/ soté�) e li applicarono a Gesù.

c) Il cristianesimo fissa i limiti della compatibilità Tutte le religioni e tutti i culti che nel crogiolo del mondo ellenistico non sono riusciti a mantenere la lo­ ro specificità e, quindi la propria identità, sono scom­ parsi. Elemento specifico irrinunciabile della fede cri­ stiana era, per quel che riguarda il suo rapporto con Dio, il monoteismo ereditato dali' ebraismo. Nella cul­ tura ellenistica questo monoteismo dovette affrontare un' ampia gamma di altre e diverse concezioni della divinità. Elencandole qui di seguito, intendiamo far capire chiaramente al lettore quanto fosse multiforme e articolata la gamma di opzioni concorrenziali che la fede cristiana si trovò di fronte e quanto numerosi fos­ sero gli sfidanti che dovette superare per poter restare se stessa in un ambiente religiosamente pluralistico. Il cristianesimo dovette necessariamente fissare i palet­ ti di delimitazione verso una serie di concezioni di dio incompatibili con quella cristiana. Presenteremo, quin­ di, brevemente le più importanti di queste visioni con­ correnziali di dio presenti in alcuni culti. I termini tec­ nici che designano le varie teorie sono il frutto degli studi scientifici della religione e della riflessione filo­ sofica. Questa terminologia affermata risulterà utile 46

per una chiara e rapida informazione e permetterà di capirci ancora meglio. Abbiamo il politeismo quando numerosi dèi im­ mortali e con fattezze umane, dotati di forze sovruma­ ne, vengono riconosciuti e, allo stesso tempo, venera­ ti. Il rapporto tra le diverse divinità è di tipo gerarchi­ co; esse hanno caratteri ben definiti e sono competen­ ti per diversi ambiti della vita e del mondo. Spesso al vertice del pantheon, cioè della piramide gerarchica di tutti gli dèi, c ' è un sommo signore del cielo e/o una dea madre. Nelle religioni e nei culti del periodo elle­ nistico prevaleva una visione politeista della divinità. Il pluralismo divino significa che ci sono molti dèi. Ogni popolo ha un dio proprio o dèi propri. Le divini­ tà degli altri popoli non sono certo adorate, tuttavia so­ no riconosciuti e rispettati nel loro ambito. In epoca ellenistica il sincretismo presenta i tratti di una conce­ zione pluralistica della divinità. Abbiamo un dualismo se sono ipotizzati due prin­ cìpi o due potenze metafisiche che determinano il de­ stino del mondo e dell'essere umano. Nella cultura ellenistica il dualismo di due princìpi assolutamente opposti come dio/mondo, spirito/materia, bene/male, luce/tenebre è caratteristico della gnosi e del mani­ cheismo. Si chiama dinamismo la concezione e la credenza che nelle cose e nei processi del nostro mondo si ma­ nifestino forze e potenze sovrumane, che alcuni im­ maginano personali e altri, invece, impersonali. Alla base di molte forme di credenze popolari c ' è proprio questa concezione dinamistica. In epoca ellenistica il dinamismo si manifesta sotto forma di magia e prati­ che magiche e nell' uso di amuleti, talismani e feticci. Nel panteismo, la dottrina del dio-cosmo, cioè che identifica dio e il mondo, si esclude la figura di un dio 47

personale e trascendente. Dio e il mondo si fondono e identificano. Tendenze panteistiche si hanno nella gno­ si e nel neoplatonismo. Il panenteismo insegna, invece, che il cosmo è sì contenuto in dio, ma non è una cosa sola con dio, che anzi lo trascende. Anche qui, come nel panteismo, si esclude l' idea di un dio personale e di una creazione. L' enoteismo (adorazione di un dio solo) è una for­ ma di adorazione di dio che presuppone il politeismo. Nell' atto dell' adorazione chi prega si rivolge esclusi­ vamente a un solo dio, senza mettere in questione l'esi­ stenza o l' adorazione di altri dèi. L' enoteismo può rap­ presentare la decisione fondamentale di un' intera co­ munità civile, come avvenne, per esempio, nella pri­ ma fase della fede in YHWH. Nella situazione concre­ ta dell' adorazione, l'enoteismo può, però, rappresen­ tare anche la decisione di un singolo individuo. Le re­ ligioni misteriche possono essere considerate enotei­ stiche. La divinità misterica del momento è l'unica di­ vinità di quel culto specifico. Ciò non comporta, ov­ viamente, l'esclusione di altre divinità misteriche. Vna persona può, quindi, aderire a più culti misterici, re­ stando comunque enoteista, nel senso che adora la di­ vinità del mistero al cui culto presenzia, come se fos­ se l'unica e sola divinità. La monolatria (venerazione di una sola divinità) significa, al contrario, che il fedele o la comunità dei fedeli venera un'unica divinità, ma ammette senz' al­ tro che presso altri popoli o comunità possano esiste­ re divinità diverse dalla sua. Il monismo è un modello che spiega la realtà del mondo con una sola specie di sostanza. Esso è, quin­ di, l'opposto non solo del dualismo, bensì anche del monoteismo. Rispetto a quest'ultimo, il monismo non ammette alcun Dio personale, bensì soltanto un prin48

ci pio unico sottostante a tutto l ' essere. Anche il pan­ teismo e il panenteismo sono, quindi, monistici. Il di­ namismo della credenza popolare diventa monismo quando ipotizza che dietro a tutte le forze che vede al­ l'opera nel mondo ci sia un' unica forza unitaria. An­ che il neoplatonismo è una variante del monismo. L'ateismo non è un fenomeno moderno, bensì an­ che nell'antichità classica e nell'ellenismo fu un at­ teggiamento possibile nei confronti della realtà divi­ na. L' ateismo moderno rifiuta soprattutto la concezio­ ne monoteistica cristiana di un Dio personale e uni­ co; inoltre, anche qualsiasi esistenza di un essere di­ vino. Il termine può significare, ma non necessaria­ mente, anche mancanza di fede o di religiosità. In que­ sta sede il discorso deve fermarsi qui. L'ateismo del mondo antico è di genere diverso. Già Platone (427347 a.C.) parla di ateismo, usando il termine per in­ dicare la negazione degli dèi di una data città. Per i greci era «ateo» chiunque non riconoscesse gli dèi del­ lo Stato e non partecipasse al culto statale. Anche nel­ l ' impero romano era considerato ateo, e quindi puni­ to per tale crimine, chi rifiutava il culto statale e il cul­ to dell'imperatore. L' accusa di ateismo colpì, perciò, anche quei cristiani che rifiutavano il culto dell' impe­ ratore, sebbene per la loro fede il rigoroso monotei­ smo fosse un elemento costitutivo. Sullo sfondo del politeismo con le sue molte divinità, potevano essere definiti «atei)) anche tutti quei sistemi monoteistici che, come il neoplatonismo e la gnosi, che non am­ mettevano un essere divino, bensì soltanto un princi­ pio divino. Persino l' agnosticismo non era sconosciuto né al­ l' antichità classica greca né all'età ellenistica. L' agno­ stico è convinto che noi uomini non possiamo sapere assolutamente niente circa gli dèi, considerato che tut49

ti i fenomeni che non possono essere percepiti con i sensi sono e restano inconoscibili. Il teismo afferma (contro l ' ateismo) che Dio esiste; sostiene (contro il politeismo e il Dualismo) che Dio è un unico Dio; crede (contro il panteismo e il panen­ teismo) che Dio abbia creato il mondo e si sia distin­ to dal mondo. Il deismo sostiene la tesi di un dio che è la causa prima dell'essere, ma esiste fuori del mondo e della storia e non esercita alcuna influenza né su quello né su questa. Nell' antichità classica un dio così era con­ siderato un deus otiosus, un dio inoperoso. Questa fi­ gura divina poteva essere, per esempio, un dio supre­ mo e creatore in un sistema politeistico, il quale, pe­ rò, si era staccato dal mondo come un orologiaio la­ scia a se stesso un orologio non appena ha comincia­ to a camminare. Nell'età ellenistica hanno avuto molta importanza e goduto largo favore l'astrologia e i culti astrali, i cul­ ti delle stelle. L' antica fede ottimistica in un' armonia cosmica si era trasformata nel terrore di forze fatali imprevedibili. Si riteneva che il cielo stellato fosse po­ polato da forze spirituali o divine che esercitavano la loro influenza sugli uomini e la storia. Culti astrali, astrologia e astrologia pratica o popolare prometteva­ no di interpretare e prevedere il destino degli esseri umani leggendolo nelle costellazioni degli astri. Il cul­ to romano del Sole invincibile (Sol invictus) fu pro­ mosso addirittura a culto dello Stato romano ed era talmente attraente da fare adepti anche tra i seguaci dei culti di Attis, Serapide e Mithra. Queste teorie della divinità potevano presentarsi in tutte le combinazioni possibili e immaginabili. Spes­ so esse erano presenti come tendenze, a livello soltan­ to inconscio, e non come idee consapevolmente ela50

borate. In questo mondo dalle molteplici e più varie concezioni della divinità, la fede cristiana dovette di­ chiarare in maniera verbale, discorsiva, la propria vi­ sione di Dio e dovette farlo in modo tale che essa po­ tesse essere capita conformemente al proprio vero pro­ filo, senza venire fagocitata da concezioni religiose estranee e contrarie. Tale compito si presentò subito difficile poiché si trattava di spiegare concettualmen­ te il rapporto tra Dio e Gesù, colui che era considera­ to il Figlio di Dio.

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2 CHI È GESÙ? SI CERC A UNA RISPOSTA ADEGUATA

l . I PRIMI TENTATIVI DOPO IL NUOVO TESTAMENTO

a) La Bibbia non contiene alcuna dottrina su Cristo I testi del Nuovo Testamento non escono dalla pen­ na di filosofi, bensì sono opera di uomini che espri­ mono così l'esperienza del loro incontro con Gesù. Costoro non filosofeggiano su Dio, bensì raccontano e testimoniano che cosa il messaggio di Cristo ha fat­ to scattare nella loro vita, cambiandola. Nei libri del Nuovo Testamento, come del resto in tutta la B ibbia, è dunque inutile cercare speculazioni circa Dio e il di­ vino; non si troveranno mai, per la semplice ragione che non ci sono. Vi si troverà, invece, una molteplici­ tà di spunti e tentativi di trovare parole per quella real­ tà di vita, parole nelle quali gli uomini sentono e vi­ vono la presenza di Dio. Tuttavia, in nessun passo del Nuovo Testamento è stata sviluppata una «teologia��. una «dottrina di Dio» in senso stretto. In ogni caso, i testi del Nuovo Testamento non par­ lano mai di Dio in sé, mentre gli uomini che li hanno scritti testimoniano il Dio che si è rivelato loro me53

diante Gesù di Nazareth. Tuttavia, anche ciò avviene in maniera diversa. Negli scritti che formano il Nuo­ vo Testamento non c'è in vista alcuna esplicita «dot­ trina>> circa la persona di Gesù, cioè nessuna «cristo­ logia» in senso tecnico. Ancor meno vi troviamo ri­ flessioni circa il rapporto tra la persona di Gesù e Dio. Ciò che in essi incontriamo, invece, è l' unanime cer­ tezza che Gesù è stato mandato da Dio. Circa il «co­ me» ciò sia avvenuto, esistono idee diverse. Fin qui il Nuovo Testamento. Nel periodo imme­ diatamente successivo e fino a buona parte del II se­ colo, il quadro della situazione rimane praticamente immutato. Gli scritti di questo periodo che sono giun­ ti fino a noi (scritti denominati in blocco «Padri apo­ stolici»), si occupano di problemi assolutamente pra­ tici delle comunità cristiane. Verso la metà del II se­ colo queste comunità stavano cercando di mettersi d' accordo su una raccolta di scritti che fornissero una norma vincolante alla loro fede (il canone). Esse ave­ vano anche adottato quali Scritture sacre quelle del­ l ' ebraismo e interpretato alla luce di queste l' evento di Cristo. In quest' ottica, Cristo diventa il nuovo Le­ gislatore che adempie e completa le Scritture dell' An­ tico Patto e la sua Legge.

b) La Bibbia non contiene alcuna dottrina della Trinità Tutti i tentativi di derivare dai testi biblici la dottri­ na della Trinità sono inesorabilmente destinati a falli­ re, perché in quegli scritti non c'è nessuna traccia di una simile dottrina. Il riferimento alle antiche triadi divine dell'Egitto, di B abilonia e della religione roma­ na (Giove, Marte e Quirino) non regge, poiché il mo54

noteismo ebraico, che era poi l' idea di Dio che anche Gesù aveva, esclude considerazioni di questo genere. Nel Nuovo Testamento troviamo sì formule terna­ rie, per esempio «fede, speranza e carità>> (I Cor. 1 3 ,3), ma niente che indichi idee trinitarie. Persino la formula battesimale che troviamo alla fine del Vangelo di Mat­ teo e che viene continuamente bistrattata a questo pro­ posito, non contiene alcuna considerazione riguardante la Trinità. Infatti, l' esortazione «battezzateli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (M t. 28, 1 9) accosta certamente Dio, Cristo e Spirito Santo, ma non contiene alcuna riflessione circa il loro reciproco rap­ porto. Lo stesso dicasi per la formula di benedizione «la grazia del Signore Gesù Cristo e l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi» (II Cor. 1 3, 1 3): qui «Dio» indica l' unico e solo Dio; «Ge­ sù Cristo» si riferisce a colui che è stato mandato dal Padre e rivela la natura di Dio; lo «Spirito Santo» in­ dica quella forza che i credenti provano e sentono es­ sere la presenza di Dio che li sostiene. Nella benedi­ zione non si pensa minimamente a un'entità personale. Quando in altri passi del Nuovo Testamento si par­ la del battesimo, si tratta sempre di battesimo «nel no­ me di Gesù Cristo». Nell' ambito dell' ebraismo pale­ stinese basta questa semplice formula per segnalare la particolarità del battesimo cristiano. L'ordine di bat­ tezzare in Matteo 28 riguarda, però, il battesimo di non ebrei e, in questo caso specifico, si dovevano spiega­ re anche altre cose. I non ebrei che volevano diventa­ re cristiani, dovevano abbandonare il loro modo di pen­ sare politeistico e dichiarare di credere nell' unico Dio. Questo «Unico Dio» che si apprestavano a professare non era una qualche divinità o un principio divino, bensì era il Dio che si era rivelato e fatto conoscere mediante Gesù. Perciò professare l'unico Dio signifi55

cava anche dichiarare di credere che Gesù fosse l' in­ viato di Dio. Infine, i candidati al battesimo dovevano essere pronti anche ad abbandonare il loro antico com­ portamento e lasciare che lo Spirito dell'amore divi­ no operasse nella loro vita. Con questa formula batte­ simale si definiva, per così dire, la sfera che il battez­ zando lascia e la sfera nella quale ora egli entra con tutta la sua vita. Nella formula battesimale di Matteo 28 non è contenuta e nemmeno prevista la confessio­ ne di fede in una concezione di Dio nella quale tre per­ sone sono pensate insieme in una sola unità divina. Il risultato cui sono giunti i biblisti in uno studio inter­ confessionale scientifico del nostro tema può essere riassunto in questa affermazione: «Obiettivamente si deve dire [ . . . ] che nella Scrittura non si trova alcuna dottrina della Trinità» (HARING-KUSCHEL, p. 1 280). Oppure, ancora più chiaramente: «La predicazione di Gesù e il cristianesimo palestinese a lui vicino non of­ frono spunti di sorta per una dottrina della Trinità» (OHLIG, p. 28). Nei testi biblici non si può trovare la dottrina della Trinità neppure ricorrendo artatamente alla teoria che nella Scrittura tale dottrina sarebbe stata già presente in nuce, cioè sostanzialmente, in embrione, e si sareb­ be dischiusa alla conoscenza della chiesa solo più tar­ di e con l' aiuto dello Spirito Santo. In questa teoria si presuppone come dato di fatto ciò che dovrebbe essere prima dimostrato. Ricorren­ do a questo genere di circolo vizioso si può vedere nei testi del Nuovo Testamento tutto quanto vi si vorreb­ be trovare. Altrettanto inutilizzabile è l'idea che esista una spe­ cie di inevitabilità teleologica, cioè ordinata in ragio­ ne di un fine ben preciso, che conduce, necessariamen­ te e per volere divino, dalle formule temarie o da altri 56

testi biblici alla dottrina della Trinità. Questa dottrina, ripetiamo, non può essere sviluppata direttamente e per necessità logica dagli accenni che si trovano nel Nuovo Testamento. Al contrario, è possibile mostrare quali circostanze e casi portarono, alla fine, a far sì che con i dati biblici venisse costruita una dottrina della Trinità. È questa la via che percorreremo. Cammin fa­ cendo, impareremo a capire che cosa la costruzione della dottrina della Trinità abbia significato, nella si­ tuazione storica dei primi secoli, per la comprensione di sé e l' esposizione della fede cristiana.

c) IL sincretismo imperante costringe a spiegare Le cose Chi si trova nella concorrenza dell'offerta di idee deve necessariamente porsi delle domande e farsi met­ tere in discussione; deve, però, dare anche risposte a se stesso e alle domande. Il mercato delle religioni non fu mai tanto grande quanto all' epoca dell'ellenismo, il periodo nel quale il cristianesimo si presentò sulla scena mondiale. E per quasi due millenni quel merca­ to non sarebbe mai più stato altrettanto grande. I cristiani dovettero subire il fuoco di fila delle do­ mande poste da ellenisti di ogni genere: ma insomma, chi è esattamente il vostro Dio? Come fate a conoscer­ lo? Chi dice che egli sia l 'unico Dio? Chi voleva ri­ spondere a questi e ad altri interrogativi simili doveva farsi un' idea chiara della propria concezione di Dio e arrivare a una risposta concettualmente comprensibi­ le. Ma le domande degli ellenisti non finivano qui: chi è, allora, questo vostro Gesù? Lo chiamate Figlio di Dio, Messia, Redentore e alcuni di voi lo chiamano addirittura «Dio» (Giov. 20,28). Insomma, avete un 57

solo Dio o due, come dicono i manichei e alcuni gno­ stici? A livello filosofico, le persone colte scrollavano il capo: «Chiamate il vostro Dio anche "il creatore". Ma come può l' unico Motore immoto, di là di ogni materia, essere il creatore del mondo, senza rinuncia­ re alla propria natura?». Infine, i cristiani dovevano di­ fendersi anche dall' accusa di «ateismo». Domande su domande e accuse ingiustificate provenienti da corren­ ti diverse e da posizioni differenti ! Le comunità cristiane subivano una doppia pres­ sione: per prima cosa, dovevano chiarire per se stesse come potere articolare in maniera adeguata la propria idea di Dio rispetto all' ampia gamma di possibilità of­ ferte dall 'ellenismo. In secondo luogo, dovevano an­ che mettersi d' accordo sul come riuscire a comunica­ re, in maniera comprensibile e credibile, la propria confessione di fede in Dio e in Cristo ai loro contem­ poranei di formazione ellenistica, senza, però, perde­ re la propria identità religiosa, sciogliendosi nel cro­ giolo delle loro categorie concettuali.

d) Una temibile concorrente: la concezione ellenistica della divinità Non appena la fede in Dio di Gesù e dei cristiani palestinesi fu costretta ad articolarsi nel mondo elle­ nistico, due mondi religiosi si trovarono faccia a fac­ cia. Nel processo di chiarimento, che qui fu giocofor­ za affrontare e portare avanti, nacque, per così dire, il vocabolario teologico tecnico del cristianesimo. La posizione cristiana rispetto alla gran parte dei culti po­ liteistici poteva essere chiarita molto facilmente. La maggiore sfida intellettuale era costituita dal proble­ ma di come fosse possibile far dialogare tra di loro e 58

rielaborare le fondamentali differenze circa l' idea di Dio della cultura ebraica e della cultura greca. Secondo la concezione di Dio dell 'Antico Testa­ mento e dell 'ebraismo, che era poi anche quella di Ge­ sù, Dio non è un oggetto della riflessione filosofica, bensì una realtà di vita nell' esperienza del popolo e del singolo individuo. Quando si dice che Dio è il crea­ tore, si vuole certamente significare che Dio, essendo il creatore, si pone di fronte alla creazione e non è, quindi, né parte di essa né in essa si fonde e confon­ de. Non si tratta, qui, di questioni teoriche: quale tipo di essere abbia questo Dio nella sua trascendenza e che genere di rapporto egli abbia con la materia. Quan­ do l'ebreo credente chiama Dio «il creatore», in pri­ mo piano c'è per lui una certezza incrollabile: io de­ vo me stesso e anche il mio mondo unicamente a que­ sto creatore; il mio oggi e il mio domani sono nelle sue mani; io, essendo suo pensiero e sua immagine, devo rispondere anche a lui della mia vita. Questo crea­ tore che sta oltre il mondo è assolutamente vicino a me e a noi tutti con la sua creazione. Egli guida e ac­ compagna il destino del mondo e di ciascuna delle sue creature attraverso il tempo e la storia come un padre giusto, misericordioso e benevolo. Parlare di Dio si­ gnifica parlare di ciò che egli fa per noi e come io sia in obbligo per ciò che egli ha fatto e fa per me e a ciò che egli si aspetta da me. Dio è la realtà costantemen­ te presente e attuale della mia vita. La concezione greca di Dio che, sotto forma di di­ verse varianti della filosofia di Platone, è entrata nel­ la cultura ellenistica non si nutre dell' incontro vissu­ to con la volontà di Dio, bensì si fonda sulla riflessio­ ne filosofica circa l'origine e la natura del mondo. Nel­ la sua filosofia, Platone non comincia da un incontro con Dio, bensì prende a punto di partenza l'essere urna59

no e il suo pensiero. Egli è convinto che il pensiero umano non si occupi di cose concrete, bensì di ogget­ ti che sono essi stessi assolutamente immutabili. Gli oggetti del pensiero sono, per lui, qualcosa di eterno, immortale, divino. Se, per esempio, pensiamo un trian­ golo, non si tratta di un oggetto triangolare concreto, di legno o metallo o pietra, bensì dell'idea che sta die­ tro a tutti gli oggetti triangolari concreti e in questi as­ sume soltanto una forma diversa. Per Platone l'idea non ha una dimensione spazio-temporale, è immuta­ bile e accessibile solo al pensiero. Essa è la vera e pro­ pria realtà ideale. Tutto ciò che è materiale, cioè il no­ stro mondo percepibile con i sensi, è solo una copia della vera realtà. L'idea è l' assoluto. Essa sta per con­ to suo e, quindi, anche di là di tutto quel che è concre­ to. Ciò che le cose di questo mondo visibile sono, lo sono soltanto perché e in quanto partecipano delle idee che soggiacciono loro e delle quali esse non sono che copie. Paragonato al vero essere delle idee, il mondo sensibile è pura apparenza, più precisamente un' idea che appare. Nel pensiero di Platone e dei suoi successori l' idea suprema venne identificata con la divinità e il bene e considerata la causa prima di ogni essere. Questa cau­ sa prima, fondamento di ogni essere, resta, però, se­ parata da ogni essere concreto e non può essere sen­ tita dali' essere umano come un interlocutore, un «Tu>> in rapporto con il nostro «io». Neli' interpretazione dell' antichità classica dio non è il centro di una fede, bensì un oggetto di conoscenza. In questa imposta­ zione teorica non si chiede come dio agisca con noi, bensì quale sia il suo modo di essere. La risposta a questa domanda suona: la trascendenza assoluta e im­ personale dell' Idea senza spazio né tempo. In questa concezione filosofica della divinità, la domanda che 60

ci si poneva era una sola: «Come fa questo dio tra­ scendente, che proprio per sua natura è totalmente estraneo al mondo, a entrare in contatto con il mon­ do e gli uomini?». Nell'ambiente ellenistico nel quale si era trovato catapultato, il problema centrale del cristianesimo, an­ zi il problema della sua sopravvivenza, può essere for­ mulato in questi termini: come si può conciliare e uni­ re la concezione ebraica di Dio, con i suoi aspetti con­ creti e operativi, con l' idea ellenistica di dio, con la sua natura astratta tutta concentrata sul mero essere? La necessità di una spiegazione era urgente, letteral­ mente rovente, poiché i cristiani erano diffamati e ca­ lunniati come atei e, di conseguenza, perseguitati per­ ché nemici dello Stato. Era assolutamente necessario che i cristiani riuscissero a far capire ai loro contem­ poranei ellenistici la propria concezione di Dio.

2. P ASSI IN DIREZIONE DI

UNA DOTTRINA

DELLA B INITÀ

a) Il messaggio di Cristo viene trasposto in modelli concettuali ellenistici I primi scritti cristiani, rivolti al vasto pubblico el­ lenistico con lo scopo di proteggere la fede cristiana da calunnie e diffamazioni e di presentarla con inten­ ti missionari, sono dovuti a scrittori cristiani prove­ nienti, essi stessi, dal mondo ellenistico. Questi auto­ ri cristiani dei secoli II e III vengono chiamati apolo­ geti, cioè scrittori difensori della fede cristiana. Gli apologeti conoscevano bene la corrente filosofica al61

lora dominante, il cosiddetto «medioplatonismo » e sullo sfondo di questo sistema intellettuale eclettico molto forte e vivace, cercarono di presentare il cristia­ nesimo come l' unica, vera e affidabile filosofia. Già con questo primo passo si era imboccata una via del tutto nuova che si sarebbe dimostrata determinante: la fede cristiana venne concepita come se fosse un siste­ ma filosofico e presentata mutuando il vocabolario del­ la filosofia platonista. Senza volerlo, ma di fatto, ini­ ziò così un processo di ellenizzazione e di trasforma­ zione della fede cristiana in una visione filosofica del mondo. Gli apologeti «assimilarono [ . ] la nuova fe­ de dal loro sfondo concettuale e culturale di matrice pagana e, ciò facendo le diedero, allo stesso tempo, un nuovo volto» (BIENERT 1 997, p. 87). Con questa ope­ razione la fede cristiana venne trasferita fuori del si­ stema di pensiero deli' Antico Testamento e deli' ebrai­ smo e assunse in sé, insieme con la sua nuova struttu­ ra linguistica, anche nuovi contenuti. Nella coscienza dell' essere umano i l mondo è sempre quello che si pre­ senta nel linguaggio umano. Non è questa la sede in cui si possa descrivere det­ tagliatamente il processo di trasformazione e di accul­ turazione verificatosi nel contatto con il mondo elle­ nistico. I passi del graduale sviluppo potranno essere capiti più chiaramente se rammenteremo le opzioni fondamentali del problema di Dio e ci renderemo con­ sapevoli delle decisioni che furono di fatto prese. .

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b) Il modello del iogos, base del concetto ellenistico di Dio Gli apologeti ripresero il termine filosofico «logos», del quale si è già parlato, per esprimere con esso la na62

tura di Dio e la natura di Gesù. Per la metafisica stoi­ ca contemporanea il logos era la ragione cosmica che permeava ogni cosa, una divinità cosmica immanente al mondo. logos e divinità vennero identificati. Nel pri­ mo giudaismo il logos non fu, invece, identificato con la divinità suprema, bensì con la sapienza (sophia), mediante la quale Dio aveva creato il cosmo e gli uo­ mini. Filone, il filosofo ebraico della religione (t 45/50 d.C.), chiamò questo logos, mediante il quale Dio ope­ ra quale creatore del mondo, «prima opera di Dio» e il «secondo dio)). Per Filone il logos era una figura di mediatore con tratti personali, mediante la quale Dio entrava nella sfera del mondo materiale e dei sensi umani. Qualunque fosse la fonte, remota o prossima, dalla quale gli apologeti avevano ricevuto gli stimoli per la loro concezione del logos, il loro Dio era tra­ scendente in senso filosofico, rigorosamente separato dal mondo e nella sua natura senza principio e senza fine, inconcepibile, incomprensibile, immobile e im­ passibile; aveva, tuttavia, tratti personali. Questo Dio era sì concepito in senso monoteistico, ma non era più quel Dio d'Israele e anche di Gesù che agiva nella sto­ ria, bensì un essere divino lontano, fermo in se stesso, che aveva bisogno di un mediatore per entrare in con­ tatto con il mondo. Questa funzione fu attribuita a quel logos che nella figura di Gesù era provenuto da Dio e aveva messo Dio in contatto con il mondo e con gli es­ seri umani. In Gesù di Nazareth il logos divino era di­ venuto persona. Dio si svuotò nel logos, prima che il tempo fosse, fece quindi uscire da sé un secondo Dio, la Parola eterna. Gli apologeti non parlarono di un'in­ carnazione, poiché essa si era, infatti, verificata sol­ tanto con la nascita di Gesù da Maria. Per loro l' auto­ svuotamento di Dio era costituito dalla sua entrata ab aeterno in una seconda essenza divina, il logos. Ne 63

consegue che il logos doveva essere considerato un lo­ gas preesistente. Questo modello del logos, comune a tutti gli apologeti, consente, però, diverse possibilità interpretative per quel che riguarda il rapporto tra la natura di Dio e la natura del logos, che era da lui pro­ ceduto o era stato da lui generato. Infatti, per il pen­ siero ellenistico il problema della natura costituiva il centro dell'interesse.

c) Modelli cristologici elementari Negli scritti del Nuovo Testamento si usano diver­ si titoli onorifici per designare Gesù: da «profeta» a «Messia», a «Figlio di Dio». Per quel che riguarda il momento nel quale egli «divenne» figlio di Dio ne ven­ gono menzionati quattro diversi: il suo battesimo (Mc. 1 ,9- 1 1 ), la sua nascita (Mt. l , 1 8 ss. ; Le. 2, 1 -20), la sua risurrezione (Rom. 1 ,3) e prima che il tempo fosse (Giov. 1 ). Ora, quando si dovette necessariamente da­ re una risposta alla domanda di quale fosse il rappor­ to reciproco tra Dio e Gesù e chi fosse Gesù, le rispo­ ste, cioè i modelli concettuali utilizzati, furono diver­ se a seconda che si scegliesse questo o quel punto di partenza2 . Un primo modello era stato già formulato in am­ biente giudeo-cristiano verso la metà del II secolo per venire poi sviluppato, nel III secolo, in area ellenisti­ ca. Il punto di partenza è il battesimo di Gesù: in tale occasione Gesù sarebbe stato dotato di potenza divi-

2 I tentativi dottrinali di cogliere ed esprimere con parole la per­ sona di Gesù sono chiamati comunemente «cristologia>> o «model­ li cristologici>>.

64

na e quindi adottato e «divinizzato» da Dio. In questo modello di adozionismo, il logos è una forza divina impersonale che si è unito solo esteriormente con Ge­ sù. Qui Dio e Gesù restano persone distinte. L' adozio­ nismo si basa sulla storia del battesimo (Mc. l ) e con­ sidera Gesù dal lato della sua umanità. Un secondo modello si basava sulle storie della na­ scita di Gesù tramandate dai vangeli di Matteo e di Luca, storie nelle quali si poteva far rientrare l 'idea dell' incarnazione. In questa visione Gesù di Nazareth è considerato un «modo» o forma della manifestazio­ ne di Dio. Nel secolo III il modello del modalismo eb­ be a Roma, tra i suoi sostenitori, nomi famosi nella storia della teologia cristiana; in Oriente esso rimase ancora per secoli la dottrina dominante nella chiesa di Stato. Il problema che restava irrisolto può essere sintetizzato così: Dio va considerato il creatore o il creatore è anch' esso un «modo)) della manifestazio­ ne di Dio, il quale esiste oltre le forme nelle quali si manifesta? Il terzo modello è stato elaborato dal filosofo pa­ gano palestinese Giustino che si convertì al cristiane­ simo attorno al 1 3 5 d. C. e morì martire nel 1 65 circa. Egli è la figura di maggior spicco e influenza tra gli apologeti del II secolo. Giustino riprende l' idea del lo­ gas dal prologo del Vangelo di Giovanni (Giov. l ) e, utilizzando il concetto ellenistico di logos, spiega in che modo Gesù vada considerato divino. Nella sua vi­ sione il concetto di logos è il ponte che potrebbe uni­ re cristianesimo e filosofia ellenistica. Per la sua co­ struzione intellettuale Giustino sembra aver ripreso sti­ moli provenienti dalla filosofia di Filone Alessandri­ no. Giustino concepisce Dio secondo categorie elleni­ stiche: egli è causa prima di ogni essere, ma nella sua trascendenza è rigorosamente separato dal mondo. Per65

ciò egli si procura una potenza di genere divino, un suo mediatore, che possa operare nei confronti della creazione: il logos, che è diventato carne nella figura di Gesù. Illogos è Figlio di Dio da ogni eternità; è ge­ nerato da Dio ed essendo, quindi, il frutto della gene­ razione è distinto dal genitore. Essendo, poi, la prima creatura di Dio è subordinato a Dio. In questo model­ lo del subordinazionismo Dio ci viene incontro in due specie di creature o due specie di essere. Il logos/Cri­ sto può essere definito persino un «secondo Dio». In questo modello Gesù viene definito dal lato di Dio. La sua umanità vi si aggiungerà più tardi. I testi biblici mostrano chi è Dio per noi e che co­ sa egli faccia per noi. Il mondo ellenistico chiede chi è Dio per sua natura e quale sia il rapporto di Gesù con la natura di Dio. I tre modelli presentati sopra cerca­ no, partendo da accenni biblici diversi, di fornire una risposta all'interrogativo ellenistico circa la natura di Dio e di Gesù. È chiaro che si può pensare il rappor­ to tra Dio e Gesù dal punto di vista dei due poli. Se si cerca la risposta guardando il problema dal lato del­ l'umanità di Gesù, allora resta da spiegare per mezzo di che cosa, come e da quando e in quale modo egli rappresenti Dio. Se si cerca di spiegare la questione partendo dal lato di Dio, allora resta da chiarire da quando e in quale modo Gesù sia diventato umano, co­ me la sua natura divina sia presente nell'uomo Gesù e come essa sia unita a lui. Questi approcci concettua­ li alternativi, cioè capire Gesù partendo dalla sua di­ vinità o dalla sua umanità, li incontreremo continua­ mente nei secoli seguenti, poiché nelle pieghe delle soluzioni proposte con i tre modelli abbozzati sopra si nascondono costantemente domande ogni volta nuo­ ve, alle quali devono essere necessariamente trovate risposte adeguate. Già a questo punto è chiaro che la 66

gamma delle domande ellenistiche circa Dio conduce in ambiti e pone interrogativi fondamentali che sono estranei ai testi biblici. Tuttavia, le comunità cristiane volevano comunicare la propria fede nel mondo elle­ nistico in maniera comprensibile. Fu, pertanto, gioco­ forza rispondere alle domande ellenistiche con i mez­ zi del pensiero ellenistico, ma con lo spirito delle te­ stimonianze bibliche: un progetto arduo come la qua­ dratura del cerchio, destinato a restare costantemente un esercizio di alto equilibrismo.

d) Il modello del logos diventa lo sfondo concettuale plausibile La comprensione umana del mondo dipende sem­ pre da fattori pregressi (per lo più inconsci), alla luce dei quali noi esseri umani spieghiamo ciò che ci suc­ cede. Chi presume che il mondo e la vita siano un gio­ co di potenze magiche, soprannaturali, concepirà e or­ ganizzerà la propria vita come un conflitto e un com­ promesso proprio con queste forze. Chi è convinto che la propria vita sia determinata dagli astri si regolerà secondo le loro costellazioni. E chi pensa che il corso delle cose sia nelle mani di esseri divini riconoscerà la loro attività dappertutto e cercherà di dare alle divi­ nità ciò che esse pretendono da lui nel culto. In epoca ellenistica convivono fianco a fianco queste e tutta una serie di altre visioni pregresse del mondo. Negli am­ bienti colti si andò affermando sempre più, quale sfon­ do concettuale prevalente, la dottrina del logos. La dottrina platonica del logos, che abbiamo già esaminato sopra a grandi linee, era stata recepita in numerose rifrazioni e varianti nelle correnti filosofi­ che e religiose dell' epoca ellenistica. La dottrina del 67

logos di Platone era penetrata nella comprensione cri­ stiana del mondo, mediata soprattutto dal pensiero di Filone Alessandrino, il filosofo di origine ebraica che aveva esercitato una grandissima influenza sull'ebrai­ smo della diaspora ellenistica. Filone (t 45/50 d.C.) ha interpretato le Scritture dell' Antico Testamento inquadrandole nella struttura concettuale della filosofia greca. Egli trasformò sì la concezione platonica di un dio impersonale nel Dio personale, ma riprese da Platone l' idea che, rispetto al mondo, Dio sia assolutamente trascendente e non possa avere alcun rapporto con esso. Filone vide così nellogos il mediatore tra il Dio trascendente e il mon­ do. In questa maniera egli unì l' idea astratta di dio dei greci con YHWH, il Dio d'Israele, che agisce ed è pre­ sente nella storia del suo popolo e degli uomini. «Il logos è l' idea delle idee, la forza delle forze, l' angelo supremo, il rappresentante e l' inviato di Dio, il primo­ genito Figlio di Dio, il secondo Dio. Esso coincide con la sapienza e la ragione di Dio)) (HIRSCHBERGER, p. 298). A partire dalla seconda metà del secolo II anche gli scrittori e i teologi cristiani hanno adottato per la lo­ ro concezione di Dio e di Gesù la dottrina del logos nella versione di Filone, trovandola un modello con­ cettuale plausibile e ritenendo la propria scelta bibli­ camente legittimata dal prologo del Vangelo di Gio­ vanni. Con il termine logos essi intesero, da un lato, indicare la somma delle idee che costituiscono l'es­ senza del solo unico e increato Dio. Dali' altro, essi in­ terpretarono quale logos anche Gesù, vedendolo, cioè, come il logos che Dio emana da se stesso e con il qua­ le pone se stesso ancora una volta. Questo secondo lo­ gas, che Dio ha creato con la propria essenza, costi­ tuisce il collegamento con il mondo sensibile. Infatti, 68

questo secondo logos crea il mondo sensibile/la crea­ zione quale creazione di Dio e nella figura di Gesù es­ so sarà persino percettibile in questo mondo quale ri­ flesso o ombra di Dio. Il concetto di logos offre la pos­ sibilità di pensare l' unità del logos divino in un gene­ re di essere duplice, cioè binitario/due in uno e di con­ cepire l'unico Dio come colui che manda e, insieme, come colui che è mandato. Fuori del contesto greco-ellenistico di tale conce­ zione del logos la logica di questa concezione binita­ ria di Dio non risulta molto convincente. Tuttavia, ne­ gli ambienti intellettuali del mondo ellenistico l' idea del logos la s' incontrava dappertutto ed era diventata uno sfondo concettuale plausibile e assiomatico. Ri­ spetto ai testi biblici si deve anche constatare che ta­ le comprensione del logos va ben oltre ciò che Gesù stesso e le comunità giudeocristiane intendevano per «Dio» e per «Figlio di Dio». Nel mondo religioso del cristianesimo palestinese non esisteva né un Dio tra­ scendente di tipo greco né un Gesù preesistente di na­ tura divina. ,

e) Lo sviluppo parallelo di modelli cristologici diversi I modelli cristologici che si erano già formati nel II secolo erano tentativi diversi di capire l'unico Dio nella duplicità con la quale egli si rivela a noi. Ireneo ( 1 40-202 circa), vescovo di Lione e dottore della chie­ sa di grandissima influenza, sostiene che il Figlio sia l 'aspetto visibile del Padre e il Padre l' aspetto invisi­ bile del Figlio. Una formulazione più precisa non sa­ rebbe possibile. Invece, per il neoplatonico cristiano Origene ( 1 8511 86-254) si può dire molto di più. È fuo69

ri di dubbio, afferma, che per loro natura Padre e Fi­ glio siano una cosa sola e formino, sin dall' inizio, un'unità nella duplicità, nel senso che il Figliollogos è certamente stato generato dal Padre sin dal princi­ pio. Origene scrive: «Noi riconosciamo [ . . . ] Dio qua­ le Padre sempitemo del suo Figlio unigenito, che fu irrefutabilmente generato da lui e tutto ciò che egli è lo ha da lui, però senza principio)) (RrTIER, p. 80). Uti­ lizzando la teoria filosofica del logos e l' ipotesi della concezione binitaria di Dio, che Origene sviluppa dal­ la dottrina filosofica del logos, «si afferma l' apertura verso il mondo dell ' inaccessibile causa prima dell'es­ sere ovvero la sollecitudine di Dio per il mondo)) (HAUSSCHILD, p. 20). Dovrebbe esser chiaro che con queste risposte si continua a essere ben lontani dalla soluzione di tutti i problemi, mentre si è aperta la por­ ta a nuovi interrogativi. Ogni sistema speculativo crea automaticamente nuove domande che devono, a loro volta, trovare una risposta e così generare di nuovo al­ tri interrogativi. I sistemi speculativi hanno la tenden­ za a staccarsi dalla matrice che li ha generati per oc­ cuparsi soltanto di se stessi. La coesistenza dei vari e diversi modelli cristolo­ gici durò fino ai primi decenni del IV secolo, conti­ nuando persino a essere elaborati in maniera differen­ te. I sostenitori di una «cristologia dal basso)), che for­ mulavano la loro teologia partendo dal lato umano di Gesù e spiegavano l' unità divina nella duplicità me­ diante il modello adozionista del Padre che adotta l'es­ sere umano Gesù, erano concentrati soprattutto in Si­ ria e nelle regioni a est di questa, là dove l ' influenza della tradizione giudaica era ancora forte. Antiochia di Siria era il centro religioso e intellettuale di questa regione. I sostenitori di una «cristologia dall' alto)), cioè della concezione di Gesù quale incarnazione del 70

logos preesistente, si trovavano, invece, nelle rocca­ forti del mondo ellenistico. Qui il centro era l ' i mpor­ tante città di Alessandria d'Egitto. Le discussioni sul­ le diverse cristologie furono numerose e accanite, ma non si arrivò mai a un accordo. Le cose cambiarono quando, nel 324, l ' imperatore Costantino I (306-33 7) divenne unico sovrano deli' im­ pero romano e rese il cristianesimo religione privile­ giata dell' impero. Egli aprì così la strada che già nel 3 80 avrebbe portato il cristianesimo a essere procla­ mato dall' imperatore Teodosio I il Grande (347-395) unica legittima religione dello Stato. Agli occhi degli imperatori le differenze dottrinali disturbavano l' uni­ tà della chiesa e, quindi, anche l'unità dello Stato. Per­ ciò già l' imperatore Costantino I, intervenendo d ' au­ torità, cercò di porre fine alle dispute dottrinali in se­ no alla chiesa.

f) Lo Stato interviene nella formazione della dottrina della chiesa All' inizio del IV secolo la disputa cristologica si era concentrata sul problema del rapporto tra la divi­ nità di Gesù e la divinità del Padre. Il dissenso, a lun­ go latente, s'infiammò quando Ario (t 336), un pre­ sbitero educato ad Antiochia di Siria, arrivò ad Ales­ sandria d'Egitto e contraddisse, su punti decisivi, l ' in­ segnamento di Origene che qui era la dottrina ufficia­ le della chiesa. Sin dali' inizio Origene e gli alessan­ drini avevano sostenuto la dottrina dell' unicità di Dio nella duplicità di Padre e Figlio. Entrambi possiedo­ no la medesima natura. Al contrario, Ario ritiene che il Padre sia l 'unica divinità e parla di un tempo nel qua­ le Dio non era ancora «Padre>>. Infatti, argomentaArio, 71

«il Figlio è una creatura. Egli non è uguale al Padre né nella sua natura né è in verità e per natura il logos del Padre» (RITTER, p. 1 3 1 ). Essendo causa di ogni esse­ re, Dio è assolutamente solo3 . Quando la disputa ariana superò i confini dell' im­ pero romano d'Oriente, mettendo in pericolo l'unità dell' impero romano stesso, l ' imperatore Costantino prese l ' iniziativa, convocando per il 325, nella sua re­ sidenza estiva di Nicea, presso Bisanzio, un Sinodo generale. Questa assemblea di vescovi, alla quale par­ teciparono non più di cinque vescovi orientali, sareb­ be stato dichiarato più tardi il primo «Concilio Ecu­ menicO>). L' imperatore stesso aprì i lavori del Sinodo e lo presiedette fino alla fine. Per la pressione eserci­ tata dall' imperatore, anche se non si arrivò proprio a un'imposizione imperiale, la cristologia ariana, che metteva in risalto la natura umana di Gesù, fu dichia­ rata eretica e condannata. Il Concilio decise, quasi al­ l' unanimità, quanto segue: il Figlio è della stessa so­ stanza del Padre (in greco, homo-usia, homo-usios), cioè è Dio. Tale decisione suggella la vittoria totale della valutazione ellenistica di Gesù e anche della for­ mulazione greca, a scapito della concezione ebraica di Dio. Qui non si tratta più della salvezza e della nuo­ va vita che Gesù ha portato a noi esseri umani, bensì solo ed esclusivamente del problema della natura di Dio e del Figlio che tanto intrigava i filosofi greci. Lo si nota anche nel Credo di Nicea (3 1 8), con il quale si accerta la sostanza di Padre e Figlio:

3

Questa

posizione teologica è chiamata monnrchianismo. Ri­

guardo alla sua natura il logos/Cristo viene recisamente staccato da Dio. Egli è stato sì creato prima e fuori di ogni tempo, ma non è al­ trettanto eterno del Padre.

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«Crediamo [ . ] ne l Figlio di Dio, generato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non fatto, consostanziale al Padre [ . ]». . .

.

.

Il Credo si chiude poi addirittura con la maledizio­ ne verso «coloro invece che dicono: "C' era un tempo in cui [il Figlio di Dio] non c'era" [ ] o dicono esse­ re il Figlio da un' altra ipostasi o sostanza o creato o trasformabile o mutevole)) (OH, 1 25). Con il Credo e la maledizione di quanti la pensas­ sero diversamente, le decisioni del primo Sinodo di Nicea vennero promosse a vera fede della chiesa, uni­ ca per tutto l' impero. Questi «veri dogmi di Dio)) fu­ rono in seguito dichiarati legge dell'impero dall ' im­ peratore Giustiniano I (t 565). Per effetto di tale pro­ clamazione chiunque non avesse concordato con le de­ liberazioni del Concilio sarebbe stato considerato au­ tomaticamente anche nemico dello Stato. È legittimo mettere in dubbio la competenza teolo­ gica dell'imperatore in fatto di cristologia, tanto più che ciò che gli stava maggiormente a cuore era l'uni­ tà della chiesa nel suo impero e non il contenuto teo­ logico dell'intesa raggiunta. Infatti, le formule esco­ gitate erano solo apparentemente solide. La maggior parte dei vescovi poté accettare la formula homo-usios («una stessa sostanza))) unicamente perché entrambe le componenti del termine consentivano interpretazio­ ni differenti, cioè proprio perché la formula era ambi­ gua e non faceva chiarezza. Il Concilio, infatti, non aveva precisato che cosa si volesse e dovesse intende­ re con il termine astratto usia (sostanza, natura, esse­ re). Andava letto nel senso platonico di ciò che, come l'idea, sta dietro a ogni manifestazione concreta? Op­ pure nel senso di quella inconfondibile particolarità di . . .

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una persona rispetto a tutte le altre? O ciò che si può vedere in una persona? O ciò che non vi si può pro­ prio vedere? Un altro punto rimasto oscuro riguarda­ va proprio il termine homo-usios (di un' unica sostan­ za o di una sostanza uguale): che cosa si voleva dire precisamente? La disputa circa il contenuto della «for­ mula di concordia» era nei fatti e sarebbe esplosa con violenza. È palese che quando i termini perdono la lo­ ro concretezza e aderenza, e decollano sulle ali della speculazione filosofica, allora si trasformano in mol­ tiplicatori dei problemi che, in teoria, avrebbero do­ vuto invece risolvere. Gli ariani rifiutarono il termine homo-usios perché non biblico e teologicamente sbagliato, denotando, a loro volta, il rapporto tra la natura del Padre e quella del Figlio con l' aggettivo anhomoios («dissimile))). La maggioranza dei teologi era propensa a interpretare la formula di Nicea nel senso di homoi-usios («di sostan­ za/natura simile))). Ancora altri, preferendo evitare del tutto qualsiasi paragone tra la natura del Padre e quel­ la del Figlio, sostennero che il Figlio era «simile)> (ho­ moios) al Padre. Una minoranza, rappresentata da Ata­ nasio (295-373), vescovo di Alessandria d'Egitto, ri­ fiutò recisamente qualsiasi bipartizione in una sostan­ za di Dio e in una sostanza del Figlio, per mantenere così l 'unicità numerica della sostanza divina. Per Ata­ nasio esiste una e una sola sostanza, uno e un solo es­ sere di Dio, del quale partecipa anche il Cristo/logos. In questo modo Atanasio staccò la cristologia dalla Teo-logia filosofica dei greci, per i quali Dio, essendo causa e fonte dell'essere, non poteva avere nulla a che fare con il mondo. Interpretando la formula homo-usios nel senso di un'unica stessa natura di Padre e Figlio, Atanasio non abbandonò certo la terminologia filoso­ fica, ma rese possibile che Dio, per sua natura, venis74

se concepito sin dall' inizio anche come il creatore, che non aveva bisogno alcuno di mediatori tra lui e la sua creazione. Nonostante la diffusa irritazione e l' ampio scontento, le decisioni del Sinodo di Nicea del 325 vennero riconfermate nel Sinodo di Costantinopoli del 38 1 . La binità (l' unità di due cose) divina divenne co­ sì dottrina ufficiale della chiesa. Per inciso, va detto che anche dopo questi due Si­ nodi l' arianesimo non era ancora morto e sepolto. I visigoti, che erano stati convertiti alla fede cristiana da Ulfila (3 1 1 -383 circa) e accolti nel 382 come foe­ derati nell' impero romano, avevano conosciuto il cri­ stianesimo nella sua forma ariana e in questa forma lo trasmisero alle altre tribù germaniche, diffonden­ do così la cristologia di Ario tra quelle popolazioni in continua migrazione (le cosiddette «invasioni barba­ riche»).

g) Il completamento della dottrina della Binità Con le formule del S inodo di Costantinopoli (38 1 ) si chiarì che la divinità nel rapporto tra i l Padre e i l Fi­ glio andava intesa in senso binitario, quale unità di due sostanze uguali. Tuttavia, neanche le decisioni di que­ sto Concilio impedirono che la formula concordata po­ tesse venire interpretata in maniere molto diverse. Tra­ lasciamo qui di entrare in questo aspetto per notare, invece, come con l' affermazione omologica della Bi­ nità di Padre e Figlio non fece altro che far sorgere il prossimo problema: come andava inteso il rapporto tra la natura divina di Gesù e la sua concreta figura uma­ na? Anche tale interrogativo ricevette inizialmente ri­ sposte diverse, nelle quali riapparvero subito gli ap­ procci concettuali opposti degli alessandrini con la lo75

ro «cristologia dall' alto» e degli antiocheni con la lo­ ro «cristologia dal basso». Per quanti mettevano in primo piano l' aspetto di­ vino risultava, poi, problematico affermare pienamen­ te l'umanità di Gesù. Tale difficoltà si era presentata già nel II secolo con la tesi che, in Gesù, Dio avesse assunto solo apparentemente forma umana, dunque non era diventato essere umano in senso pieno (posi­ zione denominata docetismo). Tale teoria era confor­ me anche all ' ideologia gnostica. Tuttavia, la posizio­ ne docetista non poteva essere più sostenuta in que­ sta forma dopo le decisioni in favore della B inità di­ vina; riapparve, così, in forma più debole, nella tesi che Gesù avrebbe sì assunto un corpo umano e con­ dotto una vita umana, ma il logos divino avrebbe pre­ so il posto dell' anima umana. Ovvero: in Gesù il io gas divino avrebbe indossato la forma umana solo co­ me una veste. Sull' altro fronte, gli antiocheni continuarono a so­ stenere che in Gesù la natura divina non potesse unir­ si sostanzialmente con quella umana, bensì che l' unità delle due nature andasse intesa semplicemente come una unità etico-morale del modo di sentire e pensare. Il problema fu trattato indirettamente già nel Sino­ do di Efeso del 4 1 1 , celato nel quesito all'ordine del giorno: «Maria andava considerata genitrice di Cristo o di Dio?)). Gli antiocheni, che partivano dalla con­ trapposizione assiomatica tra creatore e creatura, insi­ stevano perché si tutelasse la piena umanità di Gesù e che in Gesù si tenessero assolutamente distinti aspet­ to divino e aspetto umano. Di conseguenza, per gli an­ tiocheni era chiaro che Maria fosse la madre di Cristo e non di Dio. Per gli alessandrini, che partivano inve­ ce dall' assioma della B inità divina, era logico consi­ derare Maria madre di Dio. Il Sinodo si allineò su que­

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st'ultima posizione e conferì a Maria il titolo onorifi­ co di theotokos, «genitrice di Dio)), Con tale decisio­ ne si dichiarò chiaramente che già il neonato Gesù ave­ va una natura divina. La decisione definitiva circa il rapporto tra divini­ tà e umanità in Gesù fu presa, però, soltanto al Sino­ do di Calcedonia del 45 1 . Riassumendo, la formula di consenso dice: confessiamo che nell'unica persona di Gesù di Nazareth convengano due nature, l' umana e la divina, complete e distinte, senza confusione né alterazione. Questa unica persona è della stessa natu­ ra (homo-usios) del Padre per la sua divinità e, al con­ tempo, della stessa natura di noi uomini per la sua umanità. Egli è stato doppiamente generato e partori­ to: prima dei secoli dal Padre, quanto alla sua natura divina; nel tempo, quanto alla sua natura umana, da Maria. La natura divina non denota alcuna sostanza, bensì l' aspetto della divinità; la natura umana non de­ nota la corporalità, bensì l' aspetto dell'umanità. Que­ ste due nature non sono gli addendi che formano un' uni­ tà. Le due nature conservano ciascuna la propria pe­ culiarità nell' unica forma visibile della persona. Nel­ l 'unica persona di Gesù queste due nature non sono né confuse né separate. Volutamente, la formula dottrinale non fu né di­ chiarata né formulata come un Credo da essere reci­ tato nelle comunità cristiane. Essa doveva fungere, piuttosto, da regola per i teologi, con lo scopo di far convergere e tenere unite le contrastanti teorie cristo­ logiche. La formula di compromesso di Calcedonia ha raggiunto il suo scopo? E poteva raggiungerlo? Per prima cosa, si deve riconoscere che nel «Cre­ do)) di Calcedonia, ovvero «il (Simbolo) Calcedonen­ se)), come venne chiamato, furono fatte confluire, al prezzo di grossi sforzi intellettuali, le posizioni estre77

me degli alessandrini e degli antiocheni, più alcune varianti. La storia ha anche mostrato che tutte le gran­ di confessioni cristiane convengono sul fatto che il Calcedonense sia il Credo comune. Le quattro affer­ mazioni negative, secondo le quali nell' unico Figlio di Dio vada considerata la presenza di «due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili», si sono dimostrate solidi argini contro straripanti e de­ generate speculazioni filosofico-teologiche su Dio. D' altro lato, proprio la formula di concordia cal­ cedonense fornì il pretesto, o l' occasione, per liqui­ dare l' unità della chiesa. Dietro l' interesse a ristabi­ lire l' unità della chiesa in questioni dottrinali c'era, sicuramente molto più forte, il calcolo politico del­ l' imperatore di preservare l' unità dell' impero per mez­ zo dell' unità della chiesa. I conti non tornarono. In­ fatti, proprio a motivo della dottrina delle due nature di Cristo del Calcedonense, molte chiese dell' Asia Minore e dell' Africa (quelle di Persia, Egitto, Arme­ nia, Siria ecc.) si separarono dalla chiesa dell'impe­ ro, organizzandosi come chiese nazionali autonome non calcedonensi. Dal punto di vista teologico, il Calcedonense non aveva neanche contribuito a risolvere i problemi che erano stati appena sollevati con la maniera ellenistica di capire la divinità in Gesù. La spiegazione che nel­ la persona di Gesù fossero presenti due nature, la di­ vina e l'umana, non confuse, non mutabili, non divi­ se e non separabili, non è intellettualmente soddisfa­ cente. A ciò si aggiunga che i termini chiave utilizza­ ti nella formula di concordia non vengono affatto spie­ gati chiaramente. Risultò, quindi, inevitabile che la formula d' intesa fosse i nterpretata diversamente dal­ le varie parti in causa, che la leggevano ciascuna alla luce della propria posizione. E qui ci fermiamo. 78

Di rilevanza permanente è che con la formula del­ l'unica persona con due nature, considerata il primo dogma cristiano, la concezione greca di Dio risultò di­ chiaratamente prevalente sulla concezione di Dio pre­ sente nell' Antico Testamento e nell'ebraismo. Dio e Gesù non vengono presentati e rappresentati nella lo­ ro opera per noi, bensì pensati con tennini statici in categorie filosofiche astratte. La formula non ci mo­ stra come la natura di Dio si riveli in ciò che Gesù fa e dice. Il Simbolo calcedonense ci pone davanti agli occhi un Gesù divinizzato da ogni eternità. Tuttavia il Calcedonense ha anche un aspetto posi­ tivo: dichiara che Gesù va considerato un uomo in car­ ne e ossa e non un mito. Viene anche respinta l' idea che egli sia un Dio che ha assunto solo apparentemen­ te forma umana.

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3 DALLA BINITÀ ALLA TRINITÀ

l . ESISTE UN «IMPULSO INTRINSECO» VERSO LA TRINITÀ?

Due elementi non formano ancora una «Trinità)). Gli storici delle religioni fanno notare come in molte di esse esistano triadi divine (teme di dèi). Per esem­ pio, a Roma Giove, Giunone e Minerva; in Grecia, i tre figli di Crono: Zeus, Poseidone e Ades; la Sacra fa­ miglia in Egitto: Osiride, lside e Horo o la triade del­ l'impero egiziano: Ammon, Ra e Ptah; la triade ger­ manica: Odino, Thor, Tyr. Triadi divine si trovano an­ che nelle religioni di indiani, sumeri, assiri, babilone­ si, solo per fare alcuni esempi. Le triadi possono es­ sere strutturate in maniere molto diverse, ma data la presenza di tre divinità non possono essere considera­ te «trinità)) . Non si tratta di trinità neanche in Egitto, quando a Heliopoli il dio del Sole, Ra, è venerato la mattina come Khepri, a mezzogiorno come Ra, al tra­ monto come Atum. Inoltre, dall'esistenza di triadi di­ vine in altre religioni non si può derivare alcuna leg­ ge, secondo la quale le religioni tenderebbero a for­ mare teme di dèi. Etnologi e psicologi ricordano che il numero «tre)) è, sin dal principio, profondamente radicato nella co­ scienza simbolica di tutta l' umanità. Il «tre)) indica la 81

totalità: principio, meta e fine; passato, presente e fu­ turo; nascita, vita e morte. Più in generale il «tre>> in­ dica la forza creatrice che già 40.000 anni fa era raffi­ gurata nella forma di animale padre, animale madre e animale giovane. Eugen Drewermann vede nel dogma della Trinità un archetipo nel quale si mostra, in for­ ma simbolica, la natura del divino. Per quanti model­ li concettuali simbolici si possano addurre, neanche dal potere simbolico del numero «tre» è possibile de­ durre che nella fede cristiana si dovesse arrivare ne­ cessariamente alla formulazione di una «Trinità». Infine, alcuni teologi credono di aver individuato persino un «impulso verso la Trinità intrinseco alla fe­ de cristiana». Convinti di ciò, essi trovano il pensiero trinitario già abbozzato nei testi del Nuovo Testamen­ to e anche se qui non è ancora sviluppato completa­ mente, dicono, esso mostrerebbe chiaramente la ten­ denza a volerlo essere. Non ci si può certo meraviglia­ re che i rappresentanti di questa «intima necessità», di questo «impulso congenito» verso la dottrina della Tri­ nità, trovino nei testi biblici, allo stato seminate, pro­ prio ciò che essi già presuppongono con la loro tesi. Stando ai risultati, il profitto in termini di conoscenza delle analisi di questo genere è uguale a zero. Un bio­ logo che sostenesse che nel lombrico ci sia già l'esse­ reumano in nuce, solo che non si è ancora sviluppato visibilmente, si escluderebbe da solo dalla comunità dei ricercatori seri. È certamente vero che i testi bibli­ ci hanno un ruolo fondamentale sulla via che porta a una dottrina della Trinità, ma questi stessi testi non contengono alcuna logica intrinseca che conduca ne­ cessariamente e inevitabilmente alla dottrina ecclesia­ stica della Trinità. In altre situazioni e in condizioni storiche e politiche differenti lo sviluppo della dottri­ na ecclesiastica avrebbe potuto avere un corso diver82

so. Basta l'esempio delle chiese che hanno rifiutato permanentemente il Calcedonense o quello dei germa­ ni ariani per mostrare come si possa essere pienamen­ te validi cristiani anche senza la dottrina ecclesiastica della Trinità. O si dovrebbe credere che la cristianità anteriore all' accordo sulla dottrina della Trinità non sia stata veramente cristiana?

2 . LO S PIRITO S ANTO

a) Per chiarirci le idee Lo sviluppo che ha portato alla Binità di Padre e Figlio ha mostrato come il termine «Spirito» non vi abbia svolto alcun ruolo. Nel Nuovo Testamento il ter­ mine greco pneuma («spirito))) ricorre 379 volte. In circa 275 di queste, pneuma è usato nel senso di «spi­ rito di Dio)). Che si vuol dire con questa espressione? Nel tedesco, come nell' italiano di oggi, la parola «spirito)) ha associazioni diverse. Nell' uso linguistico più colto a «spirito)) sono associati termini e signifi­ cati come «ragione)), «intelligenza)), «mente)), «argu­ zia)), «mente sveglia)), «stato psichico elevato)) ecc., oppure «spirito)) è considerato l'opposto di «materia)). In latino, al nostro «spirito)) corrisponde tutta una va­ sta gamma di termini dal significato diverso: mens, spiritus, intellectus, ratio, animus, genius. A sua vol­ ta la lingua greca ha tutta un' altra gamma di parole e significati diversi che noi traduciamo indistintamente «spirito)). Se vogliamo capire precisamente di che cosa par­ lino i testi biblici, i filosofi antichi, i Padri della chie83

sa e i testi ecclesiastici quando usano il termine greco pneuma, che noi traduciamo «spirito», dobbiamo ne­ cessariamente oscurare, escludere, tutti i significati che per noi oggi sono associati alla parola «spirito». Dobbiamo stare a ciò che si vuole dire nei testi della Bibbia e in altri testi dell' epoca, ma anche a ciò che non s'intende dire. In questa sede non è necessario considerare tutte le varianti semantiche del termine pneuma che ricorrono nel periodo ellenistico. Per il nostro scopo sono importanti unicamente quelle con­ cezioni o interpretazioni di «spirito» che, in un modo o n eli' altro, sono rilevanti per la dottrina della Trinità oppure dalle quali l' idea cristiana dello «spirito>> do­ vette distinguersi.

b) L'idea biblica di «spirito» L'Antico Testamento si apre parlando dell' attività di Dio con queste parole: « . . . e lo spirito di Dio si muoveva sulla distesa delle acque [dell'Oceano/Caos primordiale]» (Gen. 1,2), pronto ad agire e creare for­ me e strutture. Il termine ebraico qui usato, ruach, che i traduttori greci resero con pneuma e noi traduciamo con spirito, significa propriamente «alito, soffio, ven­ to, respiro». Con questa parola si vuole descrivere un ambito della realtà che non è alla portata dell' essere umano, che non gli è né accessibile né disponibile, ma che tuttavia gli sta improvvisamente di fronte e dal quale viene anche colpito. Tutto ciò che è deve la sua esistenza allo spirito di Dio, al suo alito vitale che crea. Questo vale per la creazione, ma si manifesta anche ogni volta che Dio fa sentire la sua voce nella storia del suo popolo, come avviene, per esempio, quando, mossi dallo spirito di Dio, i profeti proclamano la sua

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parola. Nel messaggio dei profeti il Dio che guarda da creatore alla sua creazione si rivela presente e vicino nel mondo e a favore degli esseri umani. Nell'Antico Testamento questa presenza e vicinanza di Dio nel messaggio dei profeti e, insieme, l' autorità divina del messaggio stesso, sono indicate con la formula intro­ duttiva: «Così dice il SIGNORE». Lo spirito vivifican­ te di Dio si manifesta anche quando persone sono por­ tate dallo spirito di Dio a vivere una vita nuova. Il pro­ feta Gioele annuncia: «Dopo queste cose, avverrà che io spargerò il mio spirito su ogni carne» (Gioele 2,28) e il profeta Ezechiele rende esplicito il significato di quelle parole: «lo vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo>> (Ez. 36,26). Soprat­ tutto il Messia, però, dice il profeta Isaia, sarà dotato dello spirito di Dio: «E su lui riposerà lo spirito del SI­ GNORE>> (ls. 1 1 ,2). Il profeta continua elencando ciò che questo spirito apporterà tra gli uomini: giustizia e pace tra gli esseri umani e tra i popoli. Nei vangeli di Matteo e di Marco la comprensione dello spirito non si discosta dalla tradizione dell' An­ tico Testamento e dell'ebraismo. Qui Gesù è dotato dello spirito divino dal momento del battesimo. Quan­ do Gesù scaccia i demoni per lo spirito di Dio, si com­ menta che «allora il regno di Dio è giunto fino a voi>> (Mt. 1 2,28). Nelle storie della nascita di Gesù raccon­ tate nei vangeli di Matteo e di Luca, tra i testimoni di Gesù lo Spirito Santo rappresenta la forza creatrice di Dio che crea vita. Negli scritti dell' apostolo Paolo Dio, Cristo e lo Spirito sono strettamente associati. Le espressioni «spirito>>, «spirito di Dio>>, «Spirito san­ to», «spirito del Signore», «spirito del Figlio», «spiri­ to di Cristo» sono accostate senza alcuna variazione di significato. Si deve dire, per la verità, che tale sino­ nimia non è legata ad alcuna riflessione diretta a una 85

visione trinitaria. Con tutte queste diverse espressioni che ruotano attorno al termine «spirito» si vuole indi­ care quell' opera efficace di Dio che è il dono della nuova vita. Come avviene nel mondo antico in generale, così anche nella concezione dello «spirito» si manifesta­ no tendenze all' aggettivazione. Nell'episodio del bat­ tesimo di Gesù lo «spirito scende su di lui come una colomba)) (Mc. 1 , 1 0). Paolo arriva a parlare dello «Spirito che scruta ogni cosa)), quasi personificando­ lo (l Cor. 2 , 1 0), anche se l' apostolo non caratterizza mai lo «Spirito)) come persona. Una comprensione personale dello «Spirito)) fa capolino soltanto nel Van­ gelo di Giovanni. Secondo Giov. 14, 1 6 , Gesù annun­ cia che dopo la sua dipartita verrà «Un altro paracli­ tm) (avvocato, difensore, guida, consolatore, consi­ gliere, come il termine viene variamente tradotto), che resterà in eterno accanto alla comunità. Questo «avvocato)) prenderà il posto di Gesù, rappresentan­ do, quindi, la permanente presenza di Gesù, intesa quale presenza di Dio. Poiché, però, questo paraclito viene inviato dal Cristo glorificato (secondo Giov. 1 5 ,26) e dal Padre (secondo Giov. 14,26), è chiaro che esso non viene identificato né col Figlio né col Padre. Il paraclito costituisce la presenza di Dio nella comu­ nità dopo Pasqua. Esso ha sì caratteristiche persona­ li, ma non viene mai incluso in una Trinità con il Pa­ dre e con il Figlio.

c) Concezioni ellenistiche I filosofi hanno sempre preferito ignorare del tut­ to il termine «spirito)) per la semplice ragione che non può essere definito in maniera univoca. Il problema 86

non è di oggi ed esisteva già nell' antichità. Nell' uso linguistico della filosofia e della religione ellenistica ricorre una gran quantità di significati della parola «spirito», significati che si sottraggono a una chiara sistematizzazione. In questa sede dobbiamo limitar­ ci a quelle accezioni del termine che la teologia cri­ stiana dovette prendere in considerazione. Nella Gre­ cia antica con pneuma s ' indicava qualcosa del tutto materiale: l ' aria mossa, l' aria respirata, il respiro, in­ somma un fenomeno naturale del tutto terreno. Co­ me il pneuma/respiro ha una funzione centrale per l'organismo umano, così si immaginò che anche il cosmo fosse determinato e tenuto insieme dal pneu­ ma, usato qui nel senso di spirito divino. Il pneuma ha raggiunto una vasta rilevanza nella filoso.fia stoi­ ca. Per la Stoà la sostanza dell' essere è la fisicità e l'energia. L'energia vivente si trova là dove c'è il pneu­ ma/respiro. La natura dell ' essere viene quindi dedot­ ta e sviluppata dall'osservazione di ciò che vive. Il pneuma è contenuto, sia pure in forme e maniere di­ verse, in tutto ciò che è. Nel regno vegetale esso si manifesta come crescita, negli uomini è presente co­ me ragione. Per gli stoici il mondo ha in se stesso la propria causa e il proprio fondamento. Il principio della sua spiegazione è immanente. «Gli stoici non sono teisti, bensì panteisti. Se il mondo è ragione e principio di se stesso, se è «autarchico», allora esso stesso occupa il posto di dio, è esso stesso dio» (HIRSCH ­ BERGER, p. 256). Il cosmo viene considerato come un organismo, un immenso essere vivente, penetrato per sua natura dal pneuma/anima, è animato, cioè, da quel principio divino dal quale tutto è riempito e tenuto in­ sieme. Ne consegue che dio e spirito sono considera­ ti immanenti al mondo. Il che significa che uno «spi­ rito)) che non sia già immesso nell'uomo stesso e lo 87

conduca a essere un nuovo essere, non è immagina­ bile. Ora, la fede cristiana vive, invece, proprio dello Spirito che supera ciò che l ' essere umano è per sua natura, riempiendolo di nuovi contenuti che questi non può avere con le sue forze, bensì può solo rice­ vere in dono da Dio. In molte varianti della filosofia neoplatonica lo «spi­ ritm> è considerato del tutto immateriale. In questi si­ stemi esso costituisce un anello di congiunzione o un elemento di mediazione tra idee materiali e idee im­ materiali del mondo divino e la realtà materiale del mondo. Poiché lo «spirito» media o trasmette la cono­ scenza delle idee immateriali ali' essere umano mate­ riale, esso lo trasporta oltre i limiti del mondo terreno. Filone Alessandrino cerca di interpretare anche l' idea di «spirito» dell' Antico Testamento con i mo­ delli concettuali platonici. Dato che Filone concepi­ sce Dio proprio come Platone, cioè staccato dal mon­ do e completamente trascendente, deve necessaria­ mente costruire un ponte tra Dio e mondo e lo fa po­ stulando una serie di esseri mediani che agiscono da inviati, sostituti e rappresentanti di Dio. Filone affida queste funzioni al logos, il quale agisce nel mondo per mandato divino, trasmette lo spirito di Dio e, vicever­ sa, rappresenta al cospetto di Dio uomini e mondo qua­ le sommo sacerdote, intercessore e paraclito. È diffi­ cile valutare quale posto e quanta influenza abbia avu­ to il pensiero di Filone nel processo di gestazione e formulazione della dottrina della Trinità. In ogni ca­ so, in Filone non c ' è nulla che suggerisca una terza presenza o una terza divinità oltre a Dio e al logos. Una cosa è chiara: le religioni e le filosofie dell' epo­ ca, con la loro schiera multiforme e variopinta di es­ seri intermediari, costrinsero i cristiani a spiegare con chiarezza la loro propria concezione di Dio, Gesù e 88

Spirito, fissando un limite invalicabile contro tutte le teorie contrarie e le idee contraddittorie.

d) Gli sviluppi nell 'epoca patristica Nell' elaborazione teologica dei secoli II e III non si delinea ancora chiaramente alcuna tendenza impor­ tante rispetto alla concezione dello Spirito. In Teofilo, vescovo di Antiochia (t 1 8 1 / 1 9 1 ), si registra, per la prima volta, il termine trias ( «triade, tema», non an­ cora «Trinità»), senza che esso venga ulteriormente definito. I termini «logos», «sapienza» e «spirito» ven­ gono usati indiscrirninatamente. L' apologista siriaco Taziano (t 1 77 ca), contemporaneo di Teofilo, consi­ dera lo spirito divino, in maniera del tutto ellenistica, una forza vitale impersonale che permea il mondo. Per i teologi alessandrini Clemente (t prima del 2 1 6) e Origene (t 254) lo spirito è una forza divina ispiratri­ ce, cioè non vanno oltre la concezione dell'Antico Te­ stamento e dell' ebraismo. Secondo Ire neo, vescovo di Lione (t 202), il Figlio e lo Spirito sono due potenze che procedono da Dio e fungono da suoi servitori. Ire­ neo non sa niente di una costellazione trinitaria. Nei secoli II e III il centro della riflessione è occu­ pato dalla questione del rapporto tra Padre e Figlio. Per risolvere tale problema si ricorse a tutta una serie di modelli concettuali diversi, in nessuno dei quali, co­ munque, lo spirito ha un qualche ruolo. Tertulliano (t 225), il primo importante dottore latino della chiesa, fu anche il primo a introdurre nel vocabolario teologi­ co latino il termine trinitas, traduzione latina del gre­ co trias. Tuttavia, neanche lui ha associato al termine trinitas, da lui coniato, una esatta coordinazione dei tre elementi per significare un unico determinato es89

sere. Non resta, dunque, che concludere: lo Spirito Santo «entrò infine nella Trinità da terzo elemento pro­ blematico non prima del IV secolo e «ufficialmente» solo col Concilio di Costantinopoli del 38 1 » (RIT­ SCHEL, p. 1 250).

3 . PASSI VERSO LA DOTTRINA DELLA TRINITÀ

a) Dalla triade alla Trinità Nella dottrina della Trinità non si tratta del nume­ ro «tre»; non si tratta neanche di mettere in relazione reciproca Dio, Gesù Cristo e lo Spirito oppure di men­ zionarli insieme. Si può parlare di trinitas/Trinità in senso specifico soltanto quando Dio, Gesù Cristo e lo Spirito sono considerati di una sola e stessa sostanza e possono essere indicati al singolare col nome «Dio». La costellazione dei tre deve essere pensata in modo tale da non mettere in dubbio il monoteismo. Nelle teorie che considerano l' unico Dio la sola na­ tura divina che esiste da sempre, mentre Figlio e Spi­ rito sono istanze subordinate o semplici modi nei qua­ li l'unico solo Dio si manifesta, non si è ancora giun­ ti alla piena dottrina della Trinità, bensì si sostiene semplicemente una correlazione di Figlio e Spirito con l ' unico Dio. Lo stesso dicasi per tutti i modelli nei qua­ li il Dio invisibile, inconoscibile e trascendente si ma­ nifesta quale creatore nell'uomo Gesù e nell' opera del­ lo spirito divino. Per completare il percorso che dalla trias/triade avrebbe portato alla trinitas/Trinità!Triunità furono ri­ chiesti una serie di faticosi passi intellettuali, che qui 90

non è necessario raccontare nel loro complesso pro­ cedere. La prima cosa chiara fu che Dio andava con­ siderato in senso monoteistico, precisamente non co­ me un' energia o un principio impersonale trascenden­ te, bensì concepito secondo la visione, semplice e na­ turale, che ne hanno l ' Antico Testamento e l' ebrai­ smo: un interlocutore affidabile che si confronta con il mondo e con l' essere umano nel passato, nel pre­ sente e nel futuro. Lungo la via verso la dottrina del­ la Trinità questa premessa assiomatica indiscussa avreb­ be portato necessariamente all ' eliminazione, una do­ po l' altra, di tutte le teorie che, per la loro matrice gre­ co-ellenistica, identificavano Dio con un principio tra­ scendente che si serviva di due soli mediatori, Gesù e lo Spirito. Si dovette accogliere l 'esperienza di Dio fatta dal­ la comunità cristiana. In base a tale esperienza vissu­ ta, Dio fu ed è sentito e conosciuto nella realtà del mondo e nella pienezza e negli ordinamenti della vi­ ta. Queste esperienze furono concentrate nel termine simbolico di «creatore» o di «padre». In secondo luo­ go, Dio fu ed è conosciuto nella persona di Gesù di Nazareth, nell'opera, nell' azione e nel messaggio di questi che è presente nelle testimonianze del Nuovo Testamento. Questa seconda esperienza si condensa nel termine simbolico «Figlio». Infine Dio fu ed è sen­ tito e conosciuto in quelle realtà della vita nelle qua­ li, nella «vecchia» vita, ci si apre l' orizzonte di una novità di vita che non possiamo procurarci da soli. La parola simbolica «Spirito» sta a indicare questa real­ tà. Era necessario che questi tre ambiti, nei quali si vi­ ve e conosce Dio, fossero concepiti come una unità della presenza divina. Infine, restava da soddisfare un' ultima condizione, non indispensabile per il contenuto, ma comunque sto91

ricamente necessaria: la concezione di Dio dell' Anti­ co Testamento e dell'ebraismo doveva essere chiara­ mente mantenuta ed espressa, nei tre campi dell' espe­ rienza umana, in maniera concettualmente compren­ sibile e non contraddittoria, con i modelli concettuali e il linguaggio del mondo ellenistico. Per soddisfare tale requisito furono necessari numerosi tentativi, ora più ora meno felici, prima di poter arrivare a una for­ mulazione comprensibile e accettabile in tutto l ' im­ pero, una formula plausibile, capace di essere un va­ lido compromesso e con alte probabilità di stabile af­ fermazione.

b) La terminologia essenziale Base per una formula accettabile fu la definizione ormai acquisita, secondo la quale Dio e Gesù vanno considerati homousios/di una stessa sostanza. In que­ sta visione dell' unità sostanziale fu incluso, verso la metà del secolo IV e non senza furiose polemiche, an­ che lo Spirito. Il ponte logico che permise tale inseri­ mento fu l' idea sostenuta da Atanasio (t 373) che lo Spirito Santo altro non fosse che lo Spirito di Cristo. Contro altre tesi differenti, si affermò questa argomen­ tazione: se il Figlio e lo Spirito sono della stessa so­ stanza del Padre, allora essi sono anche nature divine da ogni eternità e non un qualche tipo di esseri media­ tori subordinati a Dio. Con la formula dell' homo-usios furono escluse automaticamente anche quelle varian­ ti interpretative che sostenevano la semplice «somi­ glianza» di natura del Figlio e dello Spirito con la na­ tura del Padre. La formula dell' homo-usios garantiva la certezza che in Gesù di Nazareth e nell'opera dello Spirito noi incontriamo direttamente il Dio vivente e 92

non una qualche sua maschera o una qualche sua con­ trofigura. Ma come si può pensare una tema che non distrug­ ga l' unità della sostanza? Tertulliano cercò di descri­ vere la Trinità con termini latini, ma la definizione «una sola sostanza (substantia) in tre persone» non si dimostrò né inattaccabile né convincente. Per Tertul­ liano persona significava, come in latino classico, «per­ sonaggio, ruolo, parte drammatica», oppure il ruolo di querelante o querelato che un avvocato assumeva in un processo al posto dell' attore o del convenuto che egli rappresentava. Con questa terminologia non era possibile salvaguardare l'unità nella sostanza dell'es­ sere divino. Nel vocabolario della filosofia ellenistica si sareb­ bero dovuti trovare strumenti migliori per esprime­ re l'unità e unicità divina nella triade. Il termine usia («natura, sostanza, essenza>> oppure «essere», in sen­ so sostantivato) era stato già collaudato con successo nelle controversie cristologiche, dimostrandosi valido elemento unificatore tra Padre e Figlio. Adesso si con­ ferì piena natura divina anche allo Spirito. Con tale at­ tribuzione anche lo Spirito ricevette, come il Padre e il Figlio, il pieno status ipostatico, cioè un suo caratte­ re specifico (ipostasi). Così, nello Spirito si vide tutta l'essenza divina generale (usia) attuata, come nel Pa­ dre e nel Figlio, in maniera distinguibile, specifica. Pa­ dre, Figlio e Spirito vennero compresi come tre iposta­ si (attuazioni, maniere di essere) specifiche dell'unico e uguale essere divino. L'essere di Dio è soltanto uno, ma è comune, allo stesso tempo, in tre distinti modi di essere. L'unico essere divino si fa concreto in tre distinte ipostasi (concretizzazioni o modi di essere). Ma in che cosa consisteva o da che si poteva vede­ re il carattere specifico di ciascuno dei tre modi di es93

sere nell 'unità dell 'unico essere? Il primo modo di es­ sere, il creatore, è esso stesso senza principio e inge­ nerato, ma la sua caratteristica specifica è di essere il Padre. Il secondo modo di essere, il Figlio, è stato ge­ nerato dal Padre prima di ogni eternità. Il terzo modo di essere, lo Spirito, non è generato, ma procede sin dall' eternità dal Padre. Questa triade dei modi di es­ sere non va, però, intesa nel senso di una successione cronologica. L' unico essere divino è presente nella sua triplicità sin dall'origine in maniera distinguibile.

c) La pietra di volta Il secondo Sinodo ecumenico di Costantinopoli del 381 ha promosso a dogma la piena divinità e la sua piena maniera di essere/attuazione nello Spirito San­ to, ampliando con ciò il dogma binitario in dottrina esplicita della Trinità. Il terzo articolo del Credo di Costantinopoli definì lo Spirito Santo aggiungendo: «che è Signore e dà vita, che procede dal Padre)). Con questa definizione la dottrina della Trinità era cosa fat­ ta e conclusa. Nella formulazione del Simbolo niceno­ costantinopolitano del381 essa è riconosciuta elemen­ to comune in tutte le grandi confessioni cristiane. Il Credo di Costantinopoli recita: Crediamo in un solo Dio, padre onnipotente, crea­ tore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili; e in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose, per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incar-

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nato per opera dello Spirito Santo da Maria vergine, e divenne uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, patì, fu sepolto e risuscitò il terzo giorno se­ condo le Scritture, salì al cielo e siede alla destra del Padre, verrà nuovamente nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine. E nello Spirito Santo, che è Signore e dà vita, che procede dal Padre [e dal Figlio], che insieme al Padre e al Figlio deve essere adorato e glorificato, che ha parlato per mezzo dei profeti; e nella chiesa una, santa, cattolica e apostolica; confessiamo un solo battesimo per la remissione dei peccati e aspettiamo la risurrezione dei morti e la vita eterna del secolo futuro. Amen (DH, 1 50).

4. LA BASE COMUNE RESTA FRAGILE E MINIMA

a) L'interpretazione occidentale L' Occidente latino non si era impegnato molto, né intellettualmente né personalmente, nella costruzione della dottrina della Trinità. Esso non possedeva né il retroterra filosofico della speculazione sul logos né il corredo di strumenti linguistici e filosofici della tradi­ zione greca. Il dogma della Trinità fu mediato alla chie­ sa occidentale soprattutto nell'esposizione classica e nell'interpretazione di un Padre della chiesa, Agosti­ no d' lppona (t 430). Il processo d'interpretazione co­ minciò subito, non appena si trattò di tradurre il testo greco in latino. La formula greca parlava di una sola usia (l'essere divino) e di tre ipostasi (i tre modi di es95

sere o realizzazioni di quest'unico essere divino). Ago­ stino ignorava del tutto la differenza tra usia e hypo ­ stasis. Per lui Dio è «una sostanza semplice e immu­ tabile», precisamente l'unica sostanza vera e pura. Quest'unica sostanza ci viene incontro nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, ogni volta nella sua inte­ rezza e senza distinzioni caratteristiche di sorta. Tut­ tavia, considerando la tema greca delle ipostasi (mo­ di di essere), Agostino poté parlare anche di tre perso­ ne, senza, però, oggettivarle o ritenerle componenti di­ stinte dell' unico Dio e staccarle dall' unità e totalità di­ vina. Già con Agostino si capisce che la cristianità la­ tina non è tanto interessata alla natura di Dio e alla di­ vinizzazione dell'essere umano, bensì chiede come faccia l ' umanità a essere liberata dal peccato dall' azio­ ne divina. Questa diversa impostazione della proble­ matica non significa certo che in Occidente nessuno si fosse dedicato a speculazioni trinitarie.

b) L 'Occidente cristiano abbandona la base comune In Occidente, per l ' influenza di Agostino, si affer­ mò l' idea che lo Spirito Santo non procedesse soltan­ to dal Padre, bensì dal Padre e dal Figlio (in latino: fi­ lioque). In questo modo si sarebbe messo in evidenza la pari «dignità» del Padre e del Figlio e affermata la piena divinità dello Spirito Santo. Diversi Sinodi spa­ gnoli (589) e della chiesa franca (767) accolsero l'ag­ giunta delfilioque nel Credo di Nicea. Nel 1 0 1 4 il pa­ pa, sollecitato dall'imperatore Enrico II, inserì solen­ nemente il .filioque nel Credo niceno, rendendolo co­ sì elemento stabile del Credo della chiesa occidenta­ le. Nel 1 054 la formula delfilioque ebbe un ruolo im96

portante nella giustificazione teologica del Grande sci­ sma tra la chiesa ortodossa orientale e la chiesa occi­ dentale. Ancora oggi le chiese ortodosse giudicano il filioque delle chiese occidentali una disdetta della co­ munione ecumenica e un serio ostacolo per l'unità del­ la chiesa.

c) Concezioni diverse del «dogma» La dottrina della Trinità e la cristologia sono con­ siderati i primi dogmi della chiesa. Per le chiese orto­ dosse essi sono e restano gli unici due dogmi. A dire il vero, la chiesa antica non considerò ancora questi dogmi principi teorici intramontabili, bensì Simboli o Credi, cioè confessioni generali di fede della comu­ nione cristiana e una sorta di delimitazione con la qua­ le la verità e la realtà cristiana vissuta vengono tenute separate dalla falsificazione e dalla errata interpreta­ zione. Per la chiesa ortodossa «le proclamazioni dei dogmi sono atti concreti della chiesa in un tempo ben preciso con un contesto storico e culturale concreto e detenninato>> (LARENTZAKIS, p. 42). Questo significa «che le formulazioni dogmatiche e i termini usati in esse non devono essere considerati assoluti e insosti­ tuibili» (LARENTZAKIS, p. 42). Secondo la compren­ sione cattolico-romana oggi il dogma è, invece, una verità rivelata che è, quindi, immutabile e invariabile e che va considerata vincolante anche nella sua for­ mulazione linguistica, perché «si deve credere tutto ciò [ . . . ] che la chiesa propone di credere come divi­ namente rivelato sia con un giudizio solenne, sia nel suo magistero ordinario e universale» (OH, 301 1 ). Le chiese protestanti non considerano i dogmi norme di fede, bensì risposte della fede nel senso di confessio97

ni di fede: «< dogmi non sono il fondamento, bensì espressione della fede» (BIENERT 1 997, p. 19). Que­ sta diversa valutazione dei dogmi fa pensare che nel­ le varie confessioni cristiane ci si comporterà molto diversamente anche con la dottrina della Trinità. Que­ sto aspetto non ha bisogno di essere seguito qui attra­ verso la storia della chiesa.

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4 VALUTAZIONE CRITICA

l.

QUALI SONO I MERITI DELLA DOTTRINA DELLA TRINITÀ?

a) La chiesa cristiana affronta le sfide dell 'ellenismo La dottrina della Trinità è il grandioso tentativo di mantenere in vita, nel confuso vocio delle idee elleni­ stiche di dio, la concezione di Dio come è contenuta nel messaggio di Gesù e, inoltre, di formularla in ma­ niera tale da soddisfare le esigenze e le domande del pensiero ellenistico, così che l' idea biblica di Dio ri­ sultasse comprensibile e comunicabile agli esseri uma­ ni del mondo ellenistico. I Sinodi hanno cercato, quin­ di, di risolvere quel problema reale che si era creato con l'entrata del cristianesimo nell' area culturale del­ l' ellenismo. Poiché il mondo era allora considerato statico e si riteneva che il pensiero fosse conforme al­ la ragione cosmica, si era convinti di aver risolto un problema teologico una volta per tutte: un' idea che an­ cora sopravvive oggi in alcuni ambienti.

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b) La concezione di Dio proclamata da Gesù viene difesa con successo Davanti all' ampia e variopinta offerta di divinità, religioni e culti non era certo il caso di inserire, in quel confuso chiacchiericcio, uno fra tanti, il discorso sul Dio dei cristiani, lasciando che le regole di mercato facessero il loro corso. Il Dio dei cristiani sarebbe sta­ to standardizzato e inglobato nelle concezioni del di­ vino del politeismo, delle religioni misteriche, degli gnostici, dei filosofi dinamisti, panteisti, monisti e dua­ listi, e sarebbe infine scomparso. Si doveva garantire che Dio fosse capito quale Padre, così come lo aveva capito Gesù. Con questa metafora i cristiani annuncia­ no che il loro Dio non è un principio astratto della ra­ gione universale, né un essere lontano dal mondo, for­ se, nella migliore delle ipotesi, un essere fra tanti. I cristiani considerano invece di avere di fronte un Dio che è vicino a loro, che li accompagna come un Padre, che li sorregge quando inciampano, che li conforta quando sono scoraggiati, che mostra loro vie là dove tutto sembra senza via di uscita. La metafora del Pa­ dre esprime un rapporto di fiducia. Con essa i cristia­ ni testimoniano un Dio che non fissa regole e le impo­ ne, bensì che è egli stesso amore, che dà agli uomini la forza di amare e lascia che per questa via trovino da soli le regole della convivenza, come le circostanze ri­ chiedono. Con il termine «creatore», il cristianesimo rende anche per un altro aspetto, ancora più netto rispetto all' ambiente religioso che lo circonda, il profilo del­ la sua concezione di Dio. La religione greco-romana e le religioni ellenistiche non hanno mai considerato i loro dèi creatori del cielo e della terra nel senso che essi si ponevano, da creatori, davanti alla loro crea1 00

zione. Persino la filosofia neoplatonica non ha consi­ derato il mondo una creazione, bensì l ' emanazione uscita da un principio divino primordiale. Nel pensie­ ro ellenistico dio e mondo sono stati immaginati «con­ sustanziali». In altre parole: il mondo recava in sé le tracce del divino e dio, gli dèi o il principio divino erano la causa prima o il fondamento del mondo e condividevano con esso una medesima natura. Per i cristiani, invece, conformemente alla concezione di Dio dell'Antico Testamento e dell' ebraismo, Dio è il creatore e, quindi, altro rispetto al mondo. Certamen­ te, creatore e creazione sono tra loro in un rapporto inscindibile, ma la creazione, in quanto creazione, è di natura diversa dal creatore. In questa visione, la creazione perde il carattere divino: viene proprio de­ divinizzata, diventando quindi, in senso pieno, mon­ do. Per i cristiani ciò significa che niente di creato può essere elevato a rango divino e, anche, che nessun es­ sere umano può arrogarsi di essere il proprio dio o il dio di altri. Inoltre, da questa essenziale distinzione tra creatore e creazione discende, per i cristiani, che noi, essendo creature come tutto ciò che è creato, sia­ mo inseriti nella creazione e siamo, quindi, responsa­ bili di essa. Infine, ciò significa che noi, in quanto creature, dobbiamo la nostra vita e i nostri doni non a noi stessi, e non dobbiamo più considerarci recipro­ camente nati per essere nemici e concorrenti, bensì sapere che, essendo figli e figlie dell' unico creatore e Padre, siamo fatti anche per essere una sorta di comu­ nità familiare. Con il suo secondo articolo, il Credo trinitario re­ spinge tutte le speculazioni su esseri che mediano tra Dio e l' umanità. Con linguaggio metaforico, la dottri­ na della Trinità chiama Gesù di Nazareth Figlio di Dio e testimonia che egli è l'uomo mediante il quale la na1 01

tura di Dio si è rivelata concretamente quale amore in­ condizionato. Essa esclude che Gesù vada visto qua­ le corpo apparente, quale maschera di Dio, quale idea o quale forza e della risurrezione, bensì, guardando al­ l' opera di Gesù, afferma che la sostanza di Dio è pre­ sente in forma di amore, quell' amore che attraverso esseri umani tocca altri esseri umani. Nell' opera di Gesù si mostra che egli è della medesima natura del Padre, come si legge in Giovanni l 0,30: «Io e il Padre siamo uno». Ciò che va oltre tale confessione di fede è rifiuto e abbandono delle speculazioni religiose e fi­ losofiche contemporanee circa dio. Infine, anche col terzo articolo del Credo trinitario, che parla di Spirito Santo, si esprime una dichiarazio­ ne di fede e, al contempo, un distacco dall'uso corren­ te del termine «Spirito». Nelle parole antiche che noi rendiamo oggi con «spirito» (gr. pneuma, lat. spiri­ tus), nelle quali riecheggia ancora il più antico ruach ebraico, si coglie ancora la concretezza del vento e del soffio vitale. Come il soffio di vento, lo Spirito non è a disposizione dell' umanità: è esso stesso movimento e muove altre cose; non è concreto. Usando l'espres­ sione «Spirito Santo» si vuole dire che Dio è presen­ te in maniera intangibile e invisibile, che gli esseri umani sono mossi e condotti a una nuova vita e che essi non possono fare ciò con la propria forza spiritua­ le, bensì viverlo come un dono. Questo modo della presenza di Dio non deve essere reso autonomo, co­ me se fosse una fonte a se stante di presenza divina, come avviene, invece, nella gnosi e nei processi del pensiero filosofico. Dio si manifesta presente nella sua interezza dove le persone si fanno riempire dallo Spi­ rito dell' amore, amore che in Gesù fu rivelato essere la natura di Dio, e si lasciano condurre a una vita vis­ suta con la forza di questo amore donato. 1 02

Dal punto di vista umano, si è detto l'essenziale cir­ ca gli ambiti o i modelli concettuali nei quali l'unico Dio si mostra ogni volta nella sua interezza. Per que­ sta ragione la dottrina della Trinità non è, nella sostan­ za, una dottrina circa un Dio trino, bensì una confes­ sione di fede nell 'unico Dio che è presente all ' urnnai­ tà in diverse maniere. Nella prassi religiosa della chie­ sa antica queste affermazioni omologiche elementari assunsero la forma della lode. Per la spiegazione teo­ logica e il confronto con le correnti religiose e filoso­ fiche concorrenti esse dovettero necessariamente sod­ disfare le esigenze intellettuali del mondo ellenistico ed essere, perciò, articolate nei suoi modelli concet­ tuali e con i suoi strumenti intellettuali. Così il Credo trinitario divenne - andando molto oltre il suo carat­ tere omologico - un pilastro intellettuale autonomo che fissò l' idea di Dio in strutture ellenistiche. In se­ guito ci si dovrà interrogare proprio a proposito di co­ me siano andate le cose, per sapere se e fino a che pun­ to quell' impostazione, a lungo andare, renda giustizia alla fede cristiana e possa lecitamente vincolare le ge­ nerazioni future.

c) Un elemento fondamentale dell 'unità della chiesa La dottrina della Trinità può essere ridotta alla se­ guente formula: in greco: Una sola usia - tre ipostasi in latino: Una sola sostanza/essenza - tre persone in italiano: Un solo essere - tre modi di essere Una sola essenza/natura - tre essenze/nature

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Questa formula teologica non rappresenta soltanto un Credo elementare; essa rappresenta anche una com­ plessa costruzione intellettuale teologico-filosofica. Il Credo risponde alla domanda di come l' unico Dio si mostri e riveli agli esseri umani, e dice: lo fa come Creatore/Padre, Figlio e Spirito Santo, e precisamen­ te ogni volta indiviso e nella sua interezza. Questo li­ vello di significato dell' autorivelazione di Dio, che è presente ancora nel possibile sfondo concettuale del­ la fede vissuta, può essere chiamato la Trinità della ri­ velazione. In passato è stata chiamata anche Trinità «economica», perché si riferisce all' opera della sal­ vezza, alla «economia» della salvezza. Le formule contengono, però, anche dell' altro. Non dicono soltanto come Dio si mostri a noi. Esse parla­ no della natura divina, dell' essere e della natura di Dio in sé, anzi perfino delle strutture di un essere interno alla divinità. Mentre le sentenze omologiche cercano di dare con metafore e simboli (Padre, Figlio, Spirito) espressione umana alla realtà divina sperimentata, ri­ mandando, quindi, alla realtà umana che non ci è di­ sponibile, i termini filosofici definiscono chi Dio sia in sé, quale sia la sua natura/sostanza/essenza e la strut­ tura del suo essere. Tutto ciò doveva esser fatto con la terminologia ellenistica in modo tale che l'unico es­ sere divino nei tre distinti modi di essere risultasse pensabile, senza alcuna contraddizione. Il livello ter­ minologico della dottrina della Trinità che si riferisce all'essere più interno può essere chiamato Trinità del­ l 'essere. In passato è stata chiamata anche Trinità «im­

manente>>. Nel corso della storia, tutte le chiese cristiane han­ no orientato e controllato la loro comprensione di Dio su questa abile costruzione omologica intellettuale a due piani, e l' hanno interpretata continuamente di nuo1 04

vo sullo sfondo della comprensione che era ogni vol­ ta attuale. Nonostante le numerose critiche, la dottri­ na della Trinità si è dimostrata un richiamo stabile per la comprensione cristiana di Dio. A questo proposito, la critica non va giudicata negativamente, poiché ogni critica si confronta intensamente con il contenuto del­ le formule trinitarie e rimane, quindi, sempre collega­ ta ai suoi contenuti e alla sua problematica.

2.

INTERROGATIVI CRITICI

a) La conoscenza dell 'essere divino A questo punto, non è necessario esaminare più det­ tagliatamente le molte interpretazioni della dottrina della Trinità. A parte tutto, farlo sarebbe un' impresa non indifferente, poiché come un progetto intellettua­ le può essere capito soltanto considerando il contesto della sua epoca, anche tutte le sue interpretazioni lo sono. Ogni interpretazione della dottrina della Trinità proviene dallo sfondo concettuale del suo proprio tem­ po e interpreta la Trinità contro l' orizzonte di quel­ l' epoca. Restiamo, dunque, noi uomini del secolo XXI, nel nostro tempo e con le nostre possibilità di cono­ scere, capire e pensare. Abbiamo visto che la riflessione sui modi di esse­ re di Dio incominciò già con la domanda su come si dovesse capire il fatto che nell'incontro con Gesù di Nazareth la gente abbia sentito la presenza di Dio e chiamato Gesù «Figlio di Dio�� e che, anche dopo la morte di Gesù, delle persone furono certe della pre­ senza di Dio, perché erano state riempite dallo Spiri105

to di Gesù e per questo Spirito poterono condurre una vita nuova. La riflessione su come l'unico Dio potes­ se mostrarsi in incontri tanto diversi divenne indispen­ sabile non appena i cristiani vennero interrogati circa il loro Dio dal mondo ellenistico. Evidentemente, in questo mondo sofisticato non bastava riferirsi a que­ sto unico e solo Dio con le metafore di Creatore/Pa­ dre, Figlio e Spirito. B isognava anche spiegare come l'unico e medesimo Dio si mostra a quei diversi livel­ li dell' esperienza di Dio. Se si fosse stati in ambiente culturale ebraico, sarebbe bastata la semplice dichia­ razione che si tratta sempre dell' unico e medesimo Dio, la caratteristica della cui natura è riconoscibile ovunque come amore. Una risposta di questo tenore non sarebbe però sta­ ta sufficiente nel mondo ellenistico, nel quale non si chiedeva affatto che cosa Dio facesse per l ' umanità, bensì si voleva sapere quale fosse l' essere di Dio in sé. Nella concezione di Dio dell' Antico Testamento e del­ l' ebraismo, che era poi quella condivisa da Gesù, si tratta sempre di vivere di Dio e con Dio. Al contrario, nelle correnti religiose e filosofiche principali dell'el­ lenismo si tratta, in prima linea, di conoscere l ' essere di Dio. In questi ambienti, dio veniva identificato, in numerose varianti, con la ragione universale. Nelle cerchie colte l' accesso a dio avveniva mediante la ra­ gione e la conoscenza. In ambienti meno colti, i culti misterici attiravano la gente con conoscenze segrete circa la loro divinità. Nella gnosi la conoscenza vera e salvifica arriva mediante quella figura luminosa, che assume solo apparentemente veste umana, la quale ri­ corda agli esseri umani la loro origine celeste e tra­ smette loro la conoscenza di come poter ritrovare la via che li porti dalla loro prigionia nel mondo corpo­ reo alla loro patria celeste. 1 06

Tra i seguaci di Platone era dato per scontato che la ragione umana può comprendere il vero essere e, quindi, è in grado di comprendere anche dio. In gene­ rale si era convinti che mediante la nostra ragione uma­ na noi partecipiamo della ragione universale. Dato ta­ le sfondo concettuale, non era che un passo logico ri­ tenere i modi nei quali Dio si mostra agli esseri uma­ ni come affermazioni circa l' essere e la natura di Dio. Il ragionamento era questo: nel modo nel quale Dio si mostra agli esseri umani si esprimono il suo essere e la sua natura. Si era, così, convinti che dai modi cono­ scibili dell'essere di Dio si potesse riconoscere il suo essere intimo. Dalla triplice maniera della sua mani­ festazione si arguì una triplice struttura interna del­

l 'essere divino. La Trinità della rivelazione si trasfor­ mò nella Trinità dell 'essere. Le conoscenze sull' esse­ re di Dio acquisite in questa maniera furono conside­ rate, da allora in poi, base indisputabile della conce­ zione cristiana di Dio. Si credette di poter argomenta­ re partendo dalla concezione trinitaria di Dio come se si trattasse di un fondamento solido. Ciò è plausibile finché si ritiene valido il presupposto filosofico che il pensiero umano sia capace di conoscere la natura in­ tima di Dio. Ma è proprio questo presupposto che va discusso più accuratamente.

b) Le possibilità della conoscenza umana Secondo la concezione biblica, il presupposto che gli esseri umani possano conoscere Dio non dipende dalla capacità della ragione umana, bensì dal fatto che Dio si mostri, si faccia conoscere, si riveli agli esseri umani e questi articolino linguisticamente, con le lo­ ro possibilità, questa esperienza. In linea di massima, 1 07

Dio può rivelarsi realmente solo nei casi in cui la sua auto rivelazione diventa esperienza reale di una per­ sona, cioè quando essa entra nei condizionamenti e nelle limitazioni del mondo creato. Che cosa ciò si­ gnifichi deve essere considerato più esattamente dal punto di vista della concezione biblica di Dio. Anche le religioni e le filosofie del mondo ellenistico pensa­ vano certamente che il mondo fosse fondato in uno o più dèi, cioè nel senso che il mondo provenisse da dio o per generazione o per emanazione (per fuoriuscita o per irradiazione) del principio divino originario fino alla sua materializzazione. Questo include l ' idea che dio e mondo siano della stessa sostanza oppure che il mondo materiale contenga ancora almeno tracce del­ la natura e dell' essere divino. Nella concezione biblica questa identificazione tra dio e mondo è esclusa. Nella Bibbia, Dio e mondo, creatore e creazione, creatore e creatura sono distinti l 'uno dall' altro. Il mondo è voluto e approvato dal crea­ tore e, pertanto, unito costantemente a lui sin dalla sua origine. Tuttavia, tutto ciò che è terreno è creazione e, appunto, non creatore; dunque, per principio, di natu­ ra diversa dal creatore. L' essere umano, quindi, essen­ do creatura, non può mai arrivare a niente che sia ol­ tre i limiti che egli ha in quanto creatura e, perciò, non può neanche penetrare nella sfera dell'essere della real­ tà divina. Non può farlo neanche con il pensiero che, nonostante tutti i suoi voli, resta pur sempre qualcosa di terreno. Un dio pensabile e pensato dagli esseri uma­ ni resta sempre un dio di genere terreno. Voler pensa­ re Dio significherebbe renderlo un oggetto terreno. Consideriamo ora dal punto di vista degli esseri umani ciò che fin qui abbiamo chiamato autorivela­ zione di Dio. Quello che gli esseri umani possono per­ cepire e conoscere deve trovarsi necessariamente nel108

l' ambito delle possibilità di cui essi sono dotati. Oggi sappiamo che tutto quanto quello che percepiamo, pro­ viamo, pensiamo e conosciamo sono fatti e avveni­ menti che si verificano nel mezzo ed entro i limiti dei nostri processi concreti e della nostra realtà materiale precostituita. Ciò significa che quanto arriviamo a sa­ pere e provare di Dio possiamo saperlo e provarlo sol­ tanto nel quadro di queste nostre possibilità conosci­ tive, dunque in forma umana. E anche quanto di quel­ le conoscenze ed esperienze articoliamo, pensiamo e capiamo possiamo farlo unicamente con quelle idee, con quei modelli concettuali, con quei termini e sim­ boli che abbiamo ripreso dal nostro concreto mondo quotidiano, nel quale rientra anche la cultura nella qua­ le viviamo. Così è legittimo, ed è sicuramente anche l' unica possibilità disponibile, parlare di Dio nel mo­ do in cui sperimentiamo la sua presenza o, in altre pa­ role, nel modo in cui egli si mostra a noi. A questo pro­ posito, ci deve essere chiara una cosa sola: che non possiamo espandere i modi della nostra conoscenza ed esperienza e i nostri sforzi intellettuali oltre l' am­ bito limitato del mondo, per arrivare in questo modo a percepire e conoscere qualcosa come l' essere inti­ mo di Dio. Oltre alla percepibile presenza di Dio, per gli esseri umani non esiste alcuna possibilità di arri­ vare a conoscere e comprendere l' essere divino (la Tri­ nità dell' essere).

c) La Trinità, un mistero della fede Il Catechismo della chiesa cattolico-romana, di­ chiarato dal papa Giovanni Paolo II «norma sicura per l ' insegnamento della fede��. nell' articolo sulla Trinità recita: « Il mistero (mysterium) della Santissima Tri109

nità è il mistero centrale della fede e della vita cristia­ na. È il mistero di Dio in se stesso. È quindi la sorgen­ te di tutti gli altri misteri della fede»; la Trinità «rap­ presenta un mistero non accessibile alla ragione». La Trinità sarebbe uno di quei misteri della fede che non potrebbero essere noti agli esseri umani «Se non sono divinamente rivelati» (CCC, 234.237). Il Catechismo evangelico per gli adulti comincia l' esposizione della dottrina della Trinità con queste parole: «Non esiste alcun oggetto della fede cristiana che oggi appaia più incomprensibile, anzi stravagan­ te, della confessione di fede in Dio trino» (EEK, 221 ). Il Catechismo evangelico non parla né di mistero, né di un mistero della Trinità che sarebbe stato rivelato da Dio. Esso fa notare, invece, che il Nuovo Testamen­ to non contiene alcuna dottrina della Trinità e che, nel corso della storia della chiesa, questa dottrina è stata, in maniere diverse e sin dal principio, messa in que­ stione e problematizzata. Il Catechismo accenna an­ che, concisamente, ai possibili equivoci, cercando tut­ tavia di estrarre dai testi trinitari qualcosa di quel si­ gnificato plausibile che i Padri della chiesa hanno as­ sociato a quei testi. In che senso la dottrina della Trinità è un myste­ rium? Nel vocabolario religioso il termine mysterium ha molte, diverse accezioni. Per quel che riguarda la dottrina della Trinità basti ricordare due di questi si­ gnificati. Nel primo caso, mysterium denota un fatto essenziale per la salvezza che può essere rivelato agli esseri umani soltanto da Dio, perché essi non sono in grado di conoscerlo con le loro capacità. La dottrina della Trinità non può essere considerata un mysterium in questo senso, poiché essa è stata formulata solo nel corso di lunghi e faticosi sforzi intellettuali e, almeno in parte, per imposizione perentoria dell'imperatore 1 10

romano. Questa dottrina è frutto, dunque, di riflessio­ ne umana e di pressione politica. È meglio stendere un velo pietoso su quella ricostruzione strumentale che spiega come quegli ecclesiastici riuniti sarebbero sta­ ti illuminati da Dio, in virtù delle loro cariche eccle­ siastiche, nei loro feroci dibattiti e nelle votazioni di dubbia trasparenza. La dottrina della Trinità non può neanche rappresentare una conoscenza essenziale per la salvezza, perché altrimenti a tutte le generazioni cri­ stiane anteriori al 3 8 1 d.C. sarebbe mancato qualcosa di essenziale per la salvezza. Nella seconda accezione, mysterium indica una dot­ trina rivelata da Dio che non è accessibile, o non an­ cora accessibile, alla ragione umana. Ora, la dottrina della Trinità non è caduta dal cielo come un mistero incomprensibile. I vescovi riuniti in assemblea non l'hanno neanche approvata perché essa rappresentava un mistero inaccessibile, bensì perché la dottrina sem­ brò loro plausibile. Nel sistema di una concettualità neoplatonica è assolutamente possibile pensare l ' uni­ co essere divino in tre modi di essere. Tuttavia, laddo­ ve questo sistema terrninologico sottilmente intonato non è, o non è più il presupposto valido per tutti e ai termini chiave si associano significati differenti da quelli del sistema originario, si arriva a conseguenze assurde e a contraddizioni irresolubili. Riguardo alla dottrina della Trinità che la sua chiesa ha elevato a my­ sterium, il teologo e studioso delle religioni cattolico­ romano K.-H. OHLIG coglie nel segno quando affer­ ma giustamente: «Non ogni aporia [difficoltà teorica irrisolvibile] è segno di una inspiegabilità soprannatu­ rale» (OHLIG, p. l5).

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d) Una dottrina vincolante ? Con il Sinodo di Costantinopoli del 38 1 il model­ lo trinitario era legge scritta per tutta la chiesa. Nel Si­ nodo di Calcedonia del 45 1 il Credo costantinopolita­ no fu ampliato con alcune precisazioni cristologiche, nuovamente confermato ed elevato a norma della chie­ sa con queste frasi conclusive: «Dopo che abbiamo stabilito tutto ciò con ogni possibile diligenza, il san­ to concilio ecumenico ha deciso che nessuno può pre­ sentare, scrivere o comporre una formula di fede di­ versa, o credere e insegnare in altro modo . . �� (DH, 303). Con questa frase si marca una radicale cesura nella comprensione della fede della cristianità. La fe­ de nel messaggio vivificante di Gesù si è trasformata, mediante la dottrina della Trinità, nella fede nella dot­ trina fissata dalla chiesa. Si è compiuto così il passo cruciale dalla «fede della comunità ecclesiale�� alla «fede nella chiesa». Adesso è la chiesa che stabilisce ciò che si deve credere. Non è certo fortuito che que­ sto fu il momento storico nel quale alcune chiese si staccarono dalla chiesa imperiale perché non poteva­ no accettare le decisioni di Calcedoni a. Questi cristia­ ni cessarono forse di essere, per questa ragione e per questo fatto, cristiani? Le molte generazioni vissute prima del 45 1 erano forse «cristiani minori», cristiani non a pieno diritto, perché proclamavano Dio, Gesù e lo Spirito Santo con altre metafore? Le tribù germani­ che che professavano la loro fede cristiana in forma ariana furono per secoli cristiani di serie B ? Quando la chiesa cominciò a dettare le norme della retta fede inaugurò l'epoca delle confessioni. Per la fede cristiana, una dottrina o un dogma non può mai essere vincolante, perché la fede non è un con­ tenuto prescritto in una determinata forma linguistica, .

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bensì è il rischio di una vita vissuta con e per lo Spi­ rito di Gesù. È, tuttavia, sensato e necessario che si ri­ fletta criticamente anche sui contenuti della fede vis­ suta. Questo è il compito della teologia. La dottrina della Trinità è il risultato della riflessione teologica nell'orizzonte concettuale e nel sistema terminologi­ co del pensiero neoplatonico del IV secolo. Questa im­ presa è stata utile, a quel tempo, per spiegare la con­ cezione cristiana di Dio nel confuso vocio delle reli­ gioni ellenistiche. A livello della riflessione e davanti alle molte concezioni della divinità, con la dottrina della Trinità è stato messo in chiaro il profilo della comprensione cristiana di Dio. Questo tentativo con­ tingente di «mettere a punto» nel mondo ellenistico la fede in Cristo vissuta, non può comunque essere im­ posto per tutto il futuro quale presupposto obbligato­ rio per la vera fede cristiana. Tramontata la cultura el­ lenistica, tutte le formulazioni della dottrina della Tri­ nità perdono la loro plausibilità. Ciò appare molto pre­ sto nella parte latina occidentale della chiesa. In linea di massima, ogni cultura e ogni generazione riceve nuovamente il compito di formulare la comprensione cristiana di Dio nell' orizzonte concettuale del suo tem­ po, così che essa corrisponda sia alle fedi vissute sia alle possibilità conoscitive dei contemporanei. Non esistendo alcun sistema di fede eternamente valido e vincolante, non si può pretendere neanche per la dot­ trina della Trinità formulata dalla chiesa antica un' ob­ bligatorietà eterna, quasi fosse una base immutabile. Ogni affermazione teologica è e resta storicamente condizionata. Questa conoscenza elementare che ri­ guarda il pensiero, la conoscenza e la comunicazione umana non può essere abrogata da nessun dogma.

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e) Una dottrina necessaria ? La questione della necessità della dottrina della Trinità si pone in due maniere. In primo luogo, ci si deve chiedere se la dottrina della Trinità abbia rappre­ sentato o rappresenti uno sviluppo logicamente ne­ cessario dei testi biblici. Non ci sono indizi che giu­ stifichino qui una risposta affermativa. Le formule ter­ narie potrebbero aver costituito uno stimolo, ma la via che ha portato alla dottrina della Trinità ha a che fare più con la logica interna del pensiero neoplatonico che con gli impulsi biblici. In altre condizioni cultu­ rali, religiose e linguistiche si sarebbero potute svi­ luppare anche formulazioni del tutto diverse della con­ cezione di Dio. Lo illustrano i diversi modelli cristo­ logici che troviamo nel Nuovo Testamento e la fanta­ siosa abbondanza delle interpretazioni trinitarie di un periodo successivo. Il secondo interrogativo è se la dottrina della Trini­ tà sia necessaria per la fede cristiana. Storicamente, questa dottrina ha fino a oggi un ruolo importante. Ma le teorie esplicative e le idee tese a tutelame la sostan­ za che sono legate alla dottrina della Trinità possono essere espresse anche senza le formule classiche del­ l'unica sostanza in tre modi di essere. Il merito della dottrina della Trinità è più quello di mantenere la ri­ flessione aperta alle domande che quello di dare rispo­ ste definitive.

f) Il ritorno alla base dell 'esperienza I testi biblici testimoniano un Dio che si è dimo­ strato presente nella realtà della vita di essere umani. Le riflessioni ellenistiche su Dio partono da queste 1 14

esperienze concrete di Dio, ma zavorrano e coprono la comprensione di Dio dell' Antico Testamento e del­ l' ebraismo con la terminologia e le idee neoplatoni­ che dell'essere, tutti elementi totalmente estranei. I modi in cui si sperimenta Dio come creatore/Padre, Figlio e Spirito Santo, vengono sempre più oggettiviz­ zati e personalizzati. Essi assumono una vita propria, aliena dalla realtà sperimentabile della fede e condu­ cono a speculazioni eteree circa l'essere divino inti­ mo. Sotto la dominanza del pensiero ellenistico, la fe­ de cristiana viene trasformata da una certezza vivente dell'esperienza in una costruzione dottrinale astratta e vincolante che impone il consenso. Non appena si riconosce che questo processo ellenistico di trasfor­ mazione è condizionato culturalmente, la base del­ l' esperienza, che costituisce il fondamento sul quale è stata innalzata la costruzione concettuale ellenistica, torna a essere visibile. È e resta pacifico che la prima chiesa dovette ne­ cessariamente rispondere alle sfide del mondo elleni­ stico. Lo fece con un'energia spirituale e intellettuale di estremo rispetto, ma lo fece nel suo tempo e per il suo tempo. Alla fine di un lungo conflitto con tutte le possibili e impossibili concezioni di Dio e di tutti i ten­ tativi di trovare una soluzione si arrivò a una formula concisa formulata con una terminologia filosofica. Questo non fu un difetto, bensì un risultato adeguato al tempo, finché questo sfondo concettuale filosofico e linguistico esistette. In regioni e in fasi culturali nei quali non esisteva questo sfondo concettuale, la for­ mula di concordia divenne inevitabilmente un ostaco­ lo alla comprensione: un ostacolo che venne masche­ rato ricorrendo al termine «mistero)), La nobilissima formula ha perso, però, la sua funzione quando non rende più il significato che con essa si sarebbe voluto 1 15

esprimere. Per i teologi che riescono a decodificare la formula trinitaria, essa resterà un'importante testimo­ nianza di fede. Tuttavia, quale espressione della fede cristiana nella nostra cultura del secolo XXI essa non può più essere valida. Le chiese ortodosse sono di al­ tro parere. Nella chiesa ortodossa le formule trinitarie sono state integrate nella struttura delle confessioni di fede quali lodi a Dio nei culti delle comunità. Alla co­ munità non si richiede più di essere intellettualmente d' accordo con le singole affermazioni della confessio­ ne di fede cristiana, bensì di unirsi alla lode di Dio che la comunità canta con le parole dei Padri della chiesa. Nell' Occidente latino le formulazioni del Credo del 3 8 1 hanno assunto un carattere dottrinale mirante al consenso già nell' interpretazione di Agostino. In que­ st' ottica, le forme contingenti dell'espressione della fede divennero base eterna e oggetto permanente del­ la fede. Le formulazioni del Credo trinitario rimango­ no utili nella misura in cui ci facciamo rimandare da esse alla realtà vissuta della fede. Esse non possono, però, pretendere di essere prese a base e oggetto del­ la fede cristiana. Nel mondo occidentale non abbiamo problemi a di­ chiarare la nostra fede cantandola in chiesa con le me­ tafore degli antichi inni cristiani, della mistica tede­ sca, dei Fratelli Boemi, dell'età della Riforma o del­ l'epoca barocca. Ciò ci unisce in un unico spirito con quelle generazioni di cristiani e mantiene la nostra co­ scienza aperta al fatto che, fondamentalmente, possia­ mo parlare di Dio solo metaforicamente, più precisa­ mente con le metafore contingenti del tempo in cui vi­ viamo. Se classifichiamo le formulazioni trinitarie del Credo tra le forme retoriche dei traslati e le capiamo come metafore terminologiche, le liberiamo, in ma­ niera assolutamente non spettacolare, dalla prigione 1 16

della loro aggettivazione e dell'obbligo di essere nor­ me vincolanti valide nella quale sono finite - di chiun­ que possa essere la colpa - rischiando di restarci a vi­ ta. In quanto affermazioni metaforiche, esse non ci vincolano alle loro forme contingenti e alla loro pro­ blematica, altrettanto legata ai loro tempi, che noi do­ vremmo superare pensando. In quanto buone metafo­ re, esse ci danno da pensare, ci sfidano a elaborare una nostra propria idea.

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GLOSSARIO

Adozionismo: (lat.) Il modello cristologico secondo il quale con il battesimo Gesù fu adottato da Dio, di­ venendo così Figlio di Dio, e fu dotato dello Spiri­ to divino.

Agnosticismo: (dal gr. dgnostos = sconosciuto) La con­ vinzione che qualsiasi conoscenza razionale della realtà divina sia impossibile.

Analogia: (gr.) Corrispondenza, somiglianza, ugua­ glianza di due rapporti.

Apologeti/Apologisti: (dal gr. apologéomai = difendo, espongo le mie ragioni) Gli scrittoti cristiani greci e latini dei secoli II e III che cercano di protegge­ re la fede cristiana dalle calunnie, difenderne il con­ tenuto e presentarla ai lettori ellenistici come la ve­ ra filosofia.

Astrologia: (gr., studio delle stelle) La credenza che gli astri sono animati da forze spirituali o divine oppure sono esse stesse tali potenze, capaci di in­ fluenzare il destino degli uomini e il corso della storia.

Ateismo: (dal gr. dtheos = senza dio) L' ateo o nega de­ terminate idee di un Dio personale ultraterreno op­ pure rifiuta qualsiasi genere di esistenza di un es­ sere divino.

Canone: (surn./babil./gr./lat. = canna, corda per trac­ ciare, metro, regola, misura, norma) Nell' uso teo1 19

logico biblico indica la raccolta dei libri che for­ mano oggi la B ibbia, cioè quelle Scritture che per la fede cristiana formano la base normativa per la vita, la visione del mondo e l' etica.

Credo: (v. Simbolo) Il nome viene dalla prima parola dei Simboli («Credo/Crediamo in ecc.))). Cristologia: La dottrina della persona di Cristo. V. n. 1 9 nel testo.

Deismo: (dal lat. deus = dio) Movimento filosofico che ritiene Dio causa prima e fondamento dell' essere. Dio esiste, ma fuori del mondo e della storia e non ha alcuna influenza su ciò che accade nel mondo. Il Dio dei Deisti è come un orologiaio: fatto l'oro­ logio, gli dà la carica e lo fa camminare per suo conto. Per il deismo l' unica religione vera è quel­ la naturale o razionale.

Demiurgo: (dal gr. demiourg6s = lavoratore pubblico, fabbricatore, artefice) Da Platone in avanti il de­ miurgo è l'artefice che produce il mondo; in mol­ te religioni lo fa opponendosi a un dio superiore; per alcuni gnostici è una divinità malvagia.

Diaspora: (gr. = disseminazione, dispersione) Termi­ ne usato soprattutto per indicare la dispersione de­ gli ebrei fuori della Palestina; più in generale, le minoranze religiose presenti in aree di religione di­ versa.

Diastasi: (gr. = allontanamento, distacco) La distanza tra il cristianesimo e la religiosità non cristiana.

Dinamismo: (dal gr. dynamis = forza, energia) La cre­ denza che nelle cose del mondo e nelle esperienze e processi della vita quotidiana si manifestino for­ ze sacre e straordinarie. Queste potenze possono essere considerate personali o impersonali. 1 20

Docetismo: (dal gr. dokéin = sembrare, apparire) La teoria che Gesù non fosse veramente uomo, ma avesse solo assunto un corpo apparente.

Dualismo: (dal lat. dualis = di due, che contiene o in­ dica due elementi) La credenza che il destino del mondo e dell'essere umano sia determinato da due principi solitamente antitetici (Dio/mondo, spirito/ materia, bene/male ecc.).

Ellenismo: L'epoca culturale compresa tra l' ascesa al trono (336 a.C.) di Alessandro Magno (t 323 a.C.) e la conquista romana dell'Egitto (3 1 a.C.), nella quale la cultura greca si diffuse in tutta l' area del Mediterraneo, fondendosi con elementi culturali e religiosi orientali. La cultura ellenistica continuò a far sentire la sua influenza fino al regno dell' impe­ ratore Cesare Ottaviano Augusto (t 14 d.C.) e an­ cora per alcuni secoli.

Emanazione/emanatismo/emanazionismo: (lat. = ema­ nazione, provenienza, origine) Teoria, particolar­ mente neoplatonica e gnostica, che tutte le cose pro­ vengano dall' Uno divino attraverso un processo di emanazione o diffusione, una specie di irradiazio­ ne spontanea della potenza divina.

Enoteismo: (dal gr. hen = uno, e theos = dio) Atteggia­ mento religioso intermedio tra monoteismo e poli­ teismo di chi, in un quadro politeistico, si dedica prevalentemente al culto di una sola divinità, pur non rinnegando la realtà di altri dèi, anche ai qua­ li può occasionalmente rivolgersi. Il «suo» dio non è, quindi, mai l 'unico dio.

Giudeocristiani: Quanti di fede giudaica divennero cri­ stiani.

Gnosi/gnosticismo: (dal gr. gn6sis = conoscenza, sa­ pere) Visione dualistica religiosa del mondo, origi-

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nata e diffusa in Oriente nella tarda antichità. Essa insegna che nella materia dell'essere umano c'è una scintilla spirituale divina latente che, risvegliata dal­ la gnosi, può redimere la persona.

Homo-usios: (gr.) Consustanziale, di una sola/stessa sostanza/essenza o natura.

Homoi-usios: (gr.) Di sostanza/essenza o natura si­ mile.

Metafora: (gr.) Traslato, espressione figurata; figura retorica che consiste nel trasferire il nome e le qua­ lità proprie di un oggetto a un altro oggetto secon­ do un rapporto di analogia.

Modalismo: (dal lat. modus = genere, modo, manie­ ra) Modello cristologico secondo il quale Cristo è considerato un aspetto o un modo nel quale Dio appare.

Monarchianismo: (dal gr. m6nos = unico, solo e arché = causa prima, principio) Teoria che vuole salva­ guardare l' unità di Dio, evitando le distinzioni. So­ lo Dio è causa prima e fonte di ogni essere. Gesù è considerato o un uomo ripieno di forza divina (ado­ zionismo) o un aspetto della manifestazione di Dio (modalismo). V. n. 24 nel testo.

Monismo: (dal gr. m6nos = unico, solo) Ogni dottrina che ammette una sola specie di sostanza. Il mondo e la realtà derivano da un unico principio. Si nega qualsiasi dualità tra spirito e materia, tra mondo e Dio.

Monolatria: (dal gr. m6nos = unico, solo e latréia = venerazione, adorazione) Culto reso a un'unica di­ vinità, senza che ciò metta in dubbio l'esistenza di altri dèi e la loro venerazione da parte di altre co­ munità. 1 22

Monoteismo: (dal gr. monos = unico, solo e the6s = dio) Dottrina che afferma l'esistenza di un unico e solo Dio, al quale soltanto si devono culto e adora­ zione. Al contempo si nega recisamente l' esisten­ za di altre divinità.

Panenteismo: (dal gr. pan = ogni, tutto; en = in e theos = dio) Dottrina teologico-filosofica che sostiene che dio includa il mondo (panteismo), ma non si identifichi con questo, anzi sia relativamente tra­ scendente a esso (teismo). Restano escluse le idee di un creatore e di un Dio personale.

Panteismo: (dal gr. pan = ogni, tutto e théos = dio) Ogni dottrina che identifica dio e mondo. Si distin­ guono un panteismo acosmistico (il mondo è solo una manifestazione di dio) e un panteismo ateisti­ co (stoicismo: dio è un soffio vitale che anima il mondo dall' interno). Alcuni pensatori cristiani su­ birono l'influenza del panteismo neoplatonico.

Politeismo: (dal gr. polfs = molti e théos = dio) La cre­ denza in una molteplicità di dèi e dèe, organizzati o no in un pantheon divino.

Scisma: (dal gr. schfsma = separazione) Separazione ecclesiastica come rottura di comunione quando una parte della chiesa pretende di imporre la pro­ pria ideologia e teologia su tutta la chiesa. Va di­ stinta dall'eresia.

Simbolo: (gr.) Nel linguaggio storico-teologico sino­ nimo di Credo (Credo o Simbolo apostolico, nice­ no, niceno-costantinopolitano ecc.), distinto da Confessione di fede, termine solitamente riservato alle dichiarazioni di fede di comunità, denomina­ zioni o confessioni cristiane. Nel linguaggio filo­ sofico-teologico simbolo (dal gr. symbdllo = metto insieme) denota un oggetto, un procedimento che 1 23

rimanda a uno stato di cose, a un fatto spirituale non percepibile e non rappresentabile. Espressio­ ne figurata e chiara che rimanda a una realtà non oggettivabile.

Sincretismo: (gr.) In senso generale indica la fusione di varie religioni. In senso tecnico denota la mesco­ lanza di religioni diverse nel periodo dell'ellenismo (v. sopra). Il sincretismo si fonda sulla convinzio­ ne che, tutto sommato e nonostante le loro diffe­ renze, tutte le religioni e tutti i culti si equivalgano, nel senso che si riferiscono alla stessa e unica divi­ nità. V. n. 1 5 nel testo.

Sinodo: (gr. riunione, raduno, assemblea) Assemblea di vescovi e di altre cariche ecclesiastiche convo­ cate per discutere questioni ecclesiastiche e teolo­ giche e decidere in merito. Significato diverso per le chiese riformate.

Sinossi: (gr.) Presentazione, scritta o stampata su co­ lonne parallele, dei Sinottici (v.). Sinottici: (gr. Visione d' assieme) Sono chiamati sinot­ tici i primi tre Vangeli che, per la loro affinità, di­ versamente spiegabile, possono essere «visti assie­ me». Vengono così spesso riprodotti in modo da poter essere studiati nelle parti comuni, in quelle particolari solo a uno o a due, nella loro crescita e nelle rispettive caratteristiche peculiari.

Sotér: (gr.) Salvatore, liberatore, redentore. Subordinazionismo: (lat.) Il modello cristologico se­ condo il quale Cristo, essendo il logos, sarebbe un essere subordinato a Dio. Cristo è generato da Dio e, quindi, inferiore a Dio, che è ingenerato ed eterno.

Teismo: (dal gr. the6s = dio) In senso lato, ogni dottri­ na che affermi l ' esistenza di Dio (antinomo di atei1 24

smo) In senso stretto, la credenza in un Dio perso­ .

nale, unico, creatore che si distingue, per natura, dalla sua creazione.

Triade!Friadi: (da gr./lat. tri- = tre). Gruppo o insieme di tre elementi o dèi distinti collegati tra di loro (an­ che Terna).

Trimurti: (sanscrito, trimorfo) Triade divina dell' hin­ duismo formata dalle tre divinità supreme, Brah­ ma, Visnù e Siva, rispondenti alle tre funzioni del­ la divinità: creare, conservare, riassorbire l'univer­ so.

Trinità: (lat.) Dottrina specificamente cristiana di Dio, espressa con varie formule equivalenti: «presenza, nella natura unica di Dio, di tre persone distinte: Padre, Figlio e Spirito Santo>>; «tre persone in un unico Dio»; «unità di natura e di sostanza delle tre persone Padre, Figlio e Spirito), senza perdere la loro distinzione»; «tre modi di essere nell' unità del­ l ' Essere».

Tristico: (dal gr, tri- = tre e stichos = verso) Un grup­ po di versi composto di tre parti.

Triteismo: (dal gr. tri- = tre e the6s = dio) Adozione e culto di tre divinità (spesso Padre, Madre e Figlio). In teologia, l' idea che Padre, Figlio e Spirito San­ to non siano consustanziali, bensì nature autono­ me.

Usfa: gr. ousfa = sostanza, essenza, natura essere.

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1 27

INDICE

l . Fondamento e retroterra della dottrina trinitaria

5

l . Introduzione a) Indicazioni per i lettori b) Tanto per capirci c) Che cosa ci si può aspettare da questo libro? 2. La «teologia» di Gesù a ) La natura delle fonti disponibili b ) I l Dio d i Gesù è i l Dio della fede ebraica c) Gesù non si mette sullo stesso piano di Dio 3. La confessione di Cristo negli scritti del Nuovo Testamento a) All'inizio c'è la molteplicità b) I titoli onorifici di Gesù c) Il titolo di «Figlio» d) Il significato di «figlio di Dio» in Israele e) L'idea ebraica di «figlio di Dio» nel Nuovo Testamento f) L'idea di «figlio di Dio» nella cultura ellenistica g ) Tracce della concezione ellenistica nel Nuovo Testamento h) Quand'è che Gesù diventa il figlio di Dio? i) Visioni diverse della persona di Gesù l) L'elemento comune: la missione di Gesù

5 5 6 9 10 IO

ll 12

12 12 13 14 15 17

19 20 22 24 29

1 29

4. La concezione ellenistica della divinità: concorrenza e stimolo a) Il monoteismo, base della fede cristiana b) Monoteismo e monolatria: la differenza c) Il dio di Platone d) Un dio lontano e irraggiungibile: varianti a confronto 5 . I l cristianesimo nel mondo ellenistico a) La legge dello scambio e della delimitazione b) Il cristianesimo accoglie idee ellenistiche c) Il cristianesimo fissa i limiti della compatibilità 2. Chi è Gesù? Si cerca una risposta adeguata l . I primi tentativi dopo il Nuovo Testamento a) La Bibbia non contiene alcuna dottrina su Cristo b) La Bibbia non contiene alcuna dottrina della Trinità c) Il sincretismo imperante costringe a spiegare le cose d) Una ternibile concorrente: la concezione ellenistica della divinità 2. Passi in direzione di una dottrina della Binità a) Il messaggio di Cristo viene trasposto in modelli concettuali ellenistici b) Il modello del logos, base del concetto ellenistico di Dio c) Modelli cristologici elementari d) Il modello del logos diventa lo sfondo concettuale plausibile 1 30

34 34 34 35 36 43 43 44

46

53 53 53 54 57 58 61 61 62 64

67

e) Lo sviluppo parallelo di modelli cristologici diversi

69

f) Lo Stato interviene nella formazione della dottrina della chiesa g ) I l completamento della dottrina della Binità

3. Dalla Binità alla Trinità

71 75

81

l . Esiste un «impulso intrinseco)) verso la Trinità?

81

2. Lo Spirito Santo

83

a) Per chiarirci le idee

83

b) L' idea biblica di «spiritm)

84

c) Concezioni ellenistiche

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d) Gli sviluppi nell'epoca patristica

89

3 . Passi verso l a dottrina della Trinità

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a) Dalla triade alla Trinità

90

b) La terminologia essenziale

92

c) La pietra di volta

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4. La base comune resta fragile e minima

95

a) L'interpretazione occidentale

95

b) L'Occidente cristiano abbandona la base comune

96

c) Concezioni diverse del «dogma))

97

4 . Valutazione critica

99

l . Quali sono i meriti della dottrina

della Trinità?

99

a) La chiesa cristiana affronta le sfide dell'ellenismo

99

b) La concezione di Dio proclamata da Gesù viene difesa con successo

100 131

c) Un elemento fondamentale dell'unità della chiesa 2. Interrogativi critici

1 03 1 05

a) La conoscenza dell'essere divino b) Le possibilità della conoscenza umana

105

c) La Trinità, un mistero della fede

109 " 1 12

d) Una dottrina vincolante? e) Una dottrina necessaria?

1 07

1 14

f) Il ritorno alla base dell'esperienza

1 14

Glossario

1 19

Letteratura citata

1 26

Finito di stampare il

1 32

lo

dicembre 201 O Stampatre, Torino -