L’Italia e i suoi tre Stati. Il cammino di una nazione

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L’Italia e i suoi tre Stati. Il cammino di una nazione

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Il nocciolo 65

Dello stesso autore nelle nostre edizioni

Democrazie senza democrazia L’Europa degli americani. Dai padri fondatori a Roosevelt Le inquietudini dell’uomo onnipotente Il Novecento. Un’introduzione L’occasione socialista nell’era della globalizzazione La parabola del comunismo Potere e libertà nel mondo moderno. John C. Calhoun: un genio imbarazzante La Sinistra nella storia italiana L’utopia caduta. Storia del pensiero comunista da Lenin a Gorbaciov (con A. Roncaglia e P. Rossi) Libertà, giustizia, laicità. In ricordo di Paolo Sylos Labini

Massimo L. Salvadori

L’Italia e i suoi tre Stati Il cammino di una nazione

Editori        Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Progetto grafico di Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa Roma - Bari Finito di stampare nel gennaio 2011 Sedit - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9537-8

Indice



Introduzione

I.

Centocinquant’anni dopo. Un bilancio tormentato e contestato

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L’unità istituzionale e burocratica. Il costo della «piemontesizzazione» d’Italia

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II.

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III. La frattura territoriale non ricomposta tra Nord e Sud

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IV. Le divisioni politiche e sociali e le opposizioni «antisistema»

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V. I tre «regimi bloccati» e le crisi di regime

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VI. Le radici e le forme dell’immaturità civile degli italiani e della corruzione

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VII. I momenti alti di difesa e ricostruzione del vincolo nazionale

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VIII. L’Italia berlusconiana e l’Italia antiberlusconiana

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IX. Quale valore ha l’unità italiana?

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Cenni bibliografici

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Indice dei nomi

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Introduzione

Questo saggio è una riflessione sul cammino percorso dall’Italia unita dal 1861 ai giorni nostri e sui maggiori problemi che lo hanno contrassegnato. Sono trascorsi centocinquant’anni dalla fondazione del nostro Stato, e la società italiana porta ancora il peso di eventi e decisioni essenziali che furono alla base della sua costituzione e dei condizionamenti che ne sono derivati al suo sviluppo successivo. Uno sviluppo – e vengo alla spiegazione del titolo del saggio – che ha visto il succedersi di tre tipi di Stato: il liberale, il fascista e da ultimo il democraticorepubblicano, i quali per un verso hanno costituito l’antitesi l’uno dell’altro e per l’altro hanno invece poggiato su sostanziali continuità. Le antitesi sono da ricondursi alle diversità radicali di carattere politico e sociale. Il primo fu uno Stato a regime liberale monarchico, oscillante tra un conservatorismo sfociato in taluni momenti in conati reazionari e aperture riformistiche, controllato da ristrette élites politiche e sociali che formarono una classe dirigente di natura oligarchica, sostenuta fino alle elezioni del 1913 da un suffragio ristretto, pur soggetto a pro-

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gressivi allargamenti. Il secondo, uno Stato a regime dittatoriale-plebiscitario e ancora monarchico. Il terzo, uno Stato a regime democratico-repubblicano – la cosiddetta Prima repubblica – entrato in crisi nei primi anni ’90 del Novecento e a cui ha fatto seguito una propaggine, rimasta informe nonostante sia già durata quasi vent’anni. Tutti e tre questi tipi di Stato sono andati incontro a disfatte politiche e istituzionali, in seguito a «crisi di regime» che hanno prodotto nei primi due casi il rovesciamento qualitativo del precedente e nel terzo ciò che potremmo definire uno svuotamento. I passaggi che hanno caratterizzato queste crisi sono stati, nel 1919-22, l’esaurimento dei governi liberali e la guerra civile tra i fascisti-nazionalisti e gli antifascisti, prevalentemente socialisti e comunisti; nel 1943-45, il crollo del fascismo e una più grande guerra civile tra neofascisti repubblicani e le varie forze coalizzate della Resistenza; nel 1992-94, il cedimento del sistema politico e partitico sorto e consolidatosi negli anni 1945-48, causato dalla fine del confronto internazionale tra Oriente e Occidente e dal ciclone giudiziario di «Tangentopoli». L’esplosione-implosione di ciascuno di questi tre Stati-regimi – e qui emergono gli aspetti di continuità – ha avuto nella fase che l’ha preceduta un comun denominatore della massima importanza: un esercizio del potere caratterizzato dal monopolio-oligopolio di governo da parte del ceto politico della classe dirigente e dai partiti ad esso legati; il quale nel caso del regime liberale e di quello democratico repubblicano non ha lasciato spazio a possibili «normali alternative di governo»,

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data la presenza di opposizioni – i cattolici clericali, gli anarchici, i socialisti rivoluzionari, i comunisti, le correnti della destra eversiva – che, pur inserite in sistemi politici e partitici pluralistici, miravano non già a ricambi di direzione dello Stato entro le istituzioni, ma a rovesciamenti di sistema; nel caso del regime fascista, si è espresso in un rapporto tra governo e opposizioni di reciproca radicale esclusione. Il che ha dato luogo a sistemi «bloccati», la cui ragione non ha potuto essere se non di sopravvivere fino alla loro crisi organica. Le crisi di regime, una volta consumatesi, hanno portato alla formazione di nuovi tipi di Stato caratterizzati dal ricostituirsi di regimi sistematicamente bloccati, unicamente aperti all’«assimilazione trasformistica» delle correnti disposte ad abbandonare il fronte delle opposizioni per raggiungere le sponde governative o ad appoggiarle. Questa è stata la logica dei sistemi politici italiani dal 1861 ai primi anni ’90 del Novecento, quando essa ha avuto termine, senza tuttavia che, con l’avvento del meccanismo dell’alternanza al governo tra opposti schieramenti, si sia avviato un processo in grado di affiancare il nostro paese ai paesi liberaldemocratici più maturi dell’Occidente, a causa del permanere di laceranti contrapposizioni tra schieramenti animati ancor sempre da ricorrenti reciproche accuse di mancanza di una piena legittimità a guidare il governo del paese. Su tali aspetti mi sono già soffermato nel saggio Storia d’Italia e crisi di regime, la cui prima edizione è apparsa presso il Mulino nel 1994. In questa sede ho ripreso i temi in esso trattati, ma

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li ho collocati nel più ampio contesto della frattura territoriale tra Nord e Sud, delle gravi carenze dello spirito pubblico, della diffusa mancanza del senso di legalità, della corruzione, delle influenze che da un lato il monopolio religioso esercitato dalla Chiesa cattolica e dall’altro l’organica debolezza dei valori di laicità hanno avuto e hanno sulla società civile e politica, della marcia delle organizzazioni criminali entro le istituzioni e l’economia nazionale, del conformismo di una parte della società nei confronti del potere e dello spirito rivoluzionario e ribellistico dell’altra parte. Analizzare gli aspetti appena sopra indicati non significa semplicemente allargare il quadro della visuale rispetto a quelli che attengono ai tre Stati e ai loro regimi, ma cercare le connessioni strette, indissolubili che legano gli uni agli altri. E infatti il succedersi di regimi senza possibili alternative di governo e il coagularsi di opposizioni anti-sistema hanno avuto ricadute decisive sullo spirito pubblico e sul carattere complessivo della società nazionale. Intorno alle varie incarnazioni del potere inamovibile, prima del loro crollo, si sono annidate le clientele, alla ricerca di privilegi, favori e protezioni, è cresciuta la corruzione nelle sue tante e varie forme, hanno preso piede lo spirito di sudditanza e la mentalità conformistica; intorno invece alle opposizioni anti-sistema della sinistra animata da propositi rivoluzionari si è sviluppata una mentalità in cui l’ambizione di sovvertire l’ordine esistente ha costituito un Leitmotiv nell’età liberale, durante il fascismo e nel periodo che dal 1945 è arrivato allo scacco subìto dal

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comunismo quasi mezzo secolo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si è trattato di un’ambizione che non ha mai raggiunto lo scopo. Gli impulsi rivoluzionari, che pure hanno segnato profondamente la storia italiana, non sono mai sfociati in concrete alternative di sistema: hanno però diffuso, nei movimenti di opposizione politici e sindacali ispirati a finalità radicali e nelle masse popolari da essi influenzati, un’attitudine alla protesta ribellistica, che in vari momenti ha dato luogo a conflitti violenti, mettendo a nudo il solco che ha profondamente diviso i tre Stati e le loro classi dirigenti dalle varie incarnazioni politiche dell’anti-Stato. Sennonché forze dell’anti-Stato sono state non soltanto quelle rappresentate dai partiti e dalle correnti di opposizione politica, ma anche, e in maniera e con un peso determinanti, le organizzazioni criminali; le quali, partite dal Mezzogiorno fin dalle insorgenze post-risorgimentali, hanno, soprattutto nel corso della cosiddetta Prima repubblica, risalito la penisola: stabilendo le proprie leggi, praticando le più crudeli e vergognose violenze, invadendo e inquinando l’economia, penetrando nelle istituzioni e nei partiti, imponendo taglie e ricatti, allargando via via la rete dell’omertà e delle complicità, fino a controllare intere zone del territorio nazionale, dando così luogo all’anti-Stato criminale, che lo Stato legale, in alcuni gangli vitali pervaso da questo, è ancora lungi dall’aver debellato. L’Italia unita è nata tra grandi difficoltà e lacerazioni, a partire da quelle generate dal fatto che nessuno dei grandi protagonisti del Risorgimento vide

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sorgere il paese che avrebbe voluto. Non lo vide Cavour, il vincitore, che, fautore fin dalla giovinezza dell’ideale dell’indipendenza della patria dallo straniero, accettò solo nel 1860 – in quanto necessità creata dall’imprevista distruzione ad opera dei garibaldini del Regno meridionale – l’unità del Nord con il Sud; unità quindi da lui non auspicata, e divenuta nell’ultimo periodo della sua vita fonte di crescenti preoccupazioni, per la consapevolezza rapidamente acquisita della disomogeneità delle regioni meridionali rispetto a quelle centrali e settentrionali e per la convinzione che, una volta crollato quel regno, tenere insieme le prime con le seconde avrebbe reso necessario ricorrere alla forza militare e ad un rigido centralismo amministrativo, che collideva con la sua visione liberale. Non lo videro neppure Garibaldi, Mazzini e Cattaneo, i democratici repubblicani che si sentirono tutti variamente «giocati» dalla vittoria di Cavour, accusato di aver fondato l’unità del paese sulla «conquista piemontese», sulla continuità dinastica tra il Regno sardo e il Regno d’Italia e sul rifiuto opposto al nuovo popolo di darsi le proprie istituzioni passando attraverso i deliberati di un’Assemblea costituente. Le divisioni spirituali, umane e politiche prevalenti al momento stesso della formazione dell’Italia unita, le si trovano messe assai bene in luce nella dolente pagina finale della grande biografia dedicata a Cavour da Rosario Romeo. Il quale racconta che la morte del conte diede corso agli acuti risentimenti che i maggiori protagonisti del Risorgimento esternarono nei confronti di colui che aveva finito per imprimere da vincitore la sua or-

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ma. Dopo aver preliminarmente menzionato persino l’«invincibile odio» per il conte di Vittorio Emanuele che, a testimonianza di quanto avesse sempre mal sopportato la presenza del geniale statista dal quale aveva pur ricevuto la corona di un più grande regno, arrivò al punto di vietare ai principi reali di partecipare ai suoi funerali, l’eminente storico ricorda che Mazzini definì «vantaggiosa» la scomparsa del suo implacabile avversario, Garibaldi rimase «fermo nella sua chiusa ostilità» rifiutandosi di esprimere una parola di cordoglio, Cattaneo prima disse che era morto «un idiota» e poi si corresse sostituendo al cattivo epiteto quello più morbido, ma non meno brutto, di «furbo»; e dal canto suo la «Civiltà cattolica» vide nella morte del laico nemico del potere temporale dei papi una «vendetta celeste». Difficoltà e lacerazioni, che si sono puntualmente ripresentate dopo le tre crisi di regime seguite all’avvento del fascismo, al costituirsi del potere egemonico democristiano e alla fine della Prima repubblica. Ogni volta, uscito da gravissime divisioni, il paese ha visto rinnovarsi profonde spaccature tra le forze che delle crisi auspicavano esiti opposti. La mancanza di un comune «patriottismo costituzionale» ha quindi contrassegnato ciascuna delle grandi svolte e dei mutamenti qualitativi politico-istituzionali della nostra storia. Ogni volta, mutatis mutandis, si è riprodotta una situazione che aveva strette analogie con le contrapposizioni e divisioni presenti al momento della conclusione del Risorgimento. Sessant’anni dopo, nel condurre la lotta contro l’agonizzante Stato liberale e nel costruire le basi della sua

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dittatura, Mussolini avrebbe coperto di contumelie i suoi avversari, che lo avrebbero ricambiato della stessa moneta. E dal canto suo lo Stato repubblicano nacque in un coro di reciproche accuse e in mezzo ai più aspri dissensi, prima nel 1943-45 tra i morenti fascisti e le forze antifasciste, poi nel 1945-48 tra la sinistra socialcomunista e il variegato fronte opposto. Una dialettica della disunità che, seppure con minore virulenza, si è riproposta anche nei primi anni ’90. Ho cercato di mettere in luce in questo saggio i tanti problemi e le tante asperità che hanno segnato il cammino della nostra nazione come Stato unitario. L’Italia ha conseguito la sua indipendenza e unità nella stessa epoca storica in cui si è unificata anche la Germania. Un paese postosi al centro della storia europea e mondiale dopo il 1871, grazie alle sue assai rilevanti risorse economiche e militari, ma passato tra il 1914 e il 1989 attraverso tragedie e fratture ancora più grandi di quelle conosciute dall’Italia nello stesso periodo: dalla sconfitta nella prima guerra mondiale, dalle devastanti crisi seguite al 1918, dalla grande depressione economica iniziata nel 1929, che aprì la strada al crollo della repubblica di Weimar e all’avvento del nazismo, alla catastrofica sconfitta subita nel secondo conflitto mondiale, all’assoggettamento alle potenze vincitrici e alla distruzione dell’unità nazionale, con la formazione di due Stati contrapposti superata soltanto un quarantennio dopo. Orbene, guardando alla Germania, riunificata e tornata ad essere il centro economico e politico forte dell’Europa, e paragonandone lo stato a quello

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dell’Italia, vediamo un paese che, con grande determinazione, un robusto senso del valore delle proprie istituzioni e dell’unità nazionale, si è fatto carico dei rilevantissimi costi costituiti dalla grave arretratezza degli apparati amministrativi, delle strutture economiche e delle infrastrutture, che costituiva il lascito della Repubblica democratica tedesca dopo il crollo del regime comunista. Il risultato è che la Germania orientale è con pieno successo sfuggita al destino, che pure si temeva, di diventare una variante tedesca del nostro Mezzogiorno. Oggi la Germania si presenta come un paese forte, una potenza economica, un membro autorevolissimo dell’Unione Europea, laddove l’Italia stenta a riprendere la strada dello sviluppo economico, è ancora una volta attraversata da un’acuta crisi istituzionale, ha un sistema di partiti frammentato e dominato dalle reciproche avversioni, è gravata da un divario tra Nord e Sud che tende a crescere anziché a diminuire, possiede uno spirito nazionale debole minato in primo luogo da una Lega in crescita in termini di consenso elettorale e di peso politico e costantemente rivolta a costituire la «sua Italia» in contrasto con quella di tutti gli italiani, è preda di una rete corruttiva che danneggia e inquina enormemente l’economia nazionale e fiacca sempre più il valore della legalità, è caduta dopo la crisi della Prima repubblica sotto la dominante influenza tentacolare di un plutocrate che, estendendosi all’economia, all’informazione e alla politica, ha realizzato una concentrazione di poteri nelle mani di un solo uomo che non ha riscontri in alcun altro paese occidentale.

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Se, nel considerare un secolo e mezzo di storia dell’Italia unita, è un dovere morale e civile non indulgere agli atteggiamenti superficialmente celebrativi e ad una sorta di «retorica dell’incoraggiamento», è altrettanto doveroso riflettere adeguatamente sul perché un paese passato attraverso «tre Stati», e sulle cui spalle fin dal 1861 hanno gravato così tanti e gravi problemi di difficile soluzione (molti dei quali lungi dall’aver trovato soluzione), abbia, nonostante tutto, «tenuto insieme» e tenga pur sempre insieme, ad onta delle forze che lo vorrebbero dividere, se non riescono a farlo nella forma, almeno nella sostanza. Come ho sottolineato nell’ultima parte del saggio, il paese è riuscito in tale compito perché, proprio nei momenti che parevano ed erano più bui, seppe trovare nel suo seno le necessarie risorse per fermare la minaccia di gravi involuzioni e riprendere il cammino. Furono questi i «momenti alti» della nostra storia nazionale: al cui compimento concorsero grandi e coraggiosi leader politici e minoranze elette, sostenute da più vasti gruppi sociali. Per andare ai maggiori esempi, citerò l’ardua opera di costruzione dello Stato intrapresa dal ceto politico della Destra storica che raccolse l’eredità di Cavour; la guida coraggiosa assunta da Zanardelli e soprattutto da Giolitti per far uscire l’Italia dalle secche in cui la stavano trascinando, durante la «crisi di fine secolo», la monarchia, i militari, i reazionari e i liberali di troppo angusta visione, aprendo le istituzioni al mondo del lavoro e ad un primo processo di democratizzazione, accelerando la modernizzazione economica; il senso di responsabilità nazionale

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che indusse i socialisti come Turati ad appoggiare lo sforzo bellico dopo la disfatta di Caporetto; la battaglia degli antifascisti contro la dittatura fascista culminata nella Resistenza; la rifondazione dello Stato unitario dopo la frattura del 1943-45, che vide il concorso – al di là di tutte le persistenti gravi divisioni ideologiche, partitiche e sociali – della sinistra, dei sindacati, dei lavoratori, degli imprenditori più illuminati, delle forze democratiche moderate, e sfociò nella Repubblica, nella Costituzione e nella ricostruzione dell’economia, con protagonisti uomini della statura di Nenni, Togliatti e del De Gasperi rivelatosi uno dei più grandi statisti italiani; il fronte di difesa delle istituzioni costituito durante gli «anni di piombo» contro l’eversione terroristica messa in atto dalla destra e della sinistra extraparlamentari. Occorre infine ricordare il complessivo progresso economico che – superando periodi anche drammatici – ha fatto sì che l’Italia, la quale all’atto dell’unità era ancora nella gran parte tagliata fuori dall’area dei paesi avanzati, tenga oggi il posto – quali che siano le sue persistenti debolezze – nel novero di questi ultimi. Nel momento presente il nostro paese si trova a dover affrontare un’ennesima crisi che è insieme istituzionale, politica, sociale e morale, aggravata da forze che, nell’anno centocinquantesimo dell’Italia unita, vorrebbero far leva sulle sue innegabili molteplici difficoltà per incrinarla e, se mai riuscisse loro possibile, persino disfarla. Ebbene, come ho argomentato più approfonditamente nel saggio, due sono le considerazioni da opporre a siffatto intendimento. La prima è il dato di fatto che la storia

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dell’Italia unita è l’unica storia che abbiamo e da cui non possiamo che partire per costruire un avvenire auspicabilmente migliore. La seconda è che il nostro posto e ruolo nell’Unione Europea risulterebbe assai malamente compromesso se lo spirito della disunità – disunità, sia inteso, che non ha a che fare con il giusto posto da attribuire all’autonomia e all’autogoverno delle regioni – dovesse prevalere sui comuni legami civili e morali, che costituiscono l’humus vitale di una nazione che voglia continuare ad esistere e a progredire. Il Mezzogiorno è il nostro tallone d’Achille, dicono i leghisti affermando quella che è una innegabile verità; ma è anche una verità cui non possiamo fare fronte con un’amputazione finalizzata alla «liberazione della Padania». Esso rappresenta certo – e sono centocinquant’anni che è così – la maggiore sfida con cui l’intero paese è ancor sempre chiamato a misurarsi, mostrando se è o meno capace di rispondere a quell’ansia di rinascita civile, politica e sociale complessiva che è stata e continua ad essere l’aspirazione delle forze migliori del nostro popolo, a partire dagli uomini, del Sud e non solo, che lottano quotidianamente, anche pagando con la vita, per migliorare le condizioni della terra dei Villari, dei Fortunato, degli Sturzo, dei Nitti, dei Salvemini, dei Dorso, dei Gramsci, dei Falcone, dei Borsellino e dei numerosi altri che hanno scritto molte delle pagine più belle della politica, della cultura e dello spirito civile dell’Italia unita. Dedico questo saggio alla memoria di Alessandro Galante Garrone.

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L’Italia e i suoi tre Stati Il cammino di una nazione

I

Centocinquant’anni dopo. Un bilancio tormentato e contestato

Quando nel 1961 si celebrò il primo centenario dell’unità d’Italia, le manifestazioni ufficiali che ebbero sede anzitutto a Torino poggiarono sul diffuso consenso di tutti i partiti. Nessuno, o pressoché nessuno, pensava allora – né alla sinistra né al centro né alla destra dello schieramento politico – di mettere in discussione l’unità italiana come «bene comune» e vincolo definitivamente acquisito. La fine della seconda guerra mondiale, la fondazione della democrazia repubblicana, l’entrata in vigore della Costituzione espressione del patto antifascista, il superamento delle tendenze separatistiche, di cui la più pericolosa era stata quella siciliana, erano ancora relativamente vicine e convergevano, appunto, nel dare il senso condiviso della positività dell’unità dello Stato. E ciò nonostante le divisioni sul modo di concepirne le basi ideologiche, politiche e sociali fossero acute, poiché assai distanti e per tanti aspetti contrapposti si profilavano gli orientamenti dei comunisti, dei socialisti, dei democristiani, degli appartenenti ai partiti minori di centro e della destra monarchica e neofascista.

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Sono passati cinquant’anni dal 1961 e le celebrazioni del 1861 avvengono in un clima profondamente mutato. I focolai della disunità – i quali, dopo la frattura che nel 1943-45 aveva spezzato addirittura formalmente lo Stato con la creazione della Repubblica Sociale Italiana al Nord e il Regno del Sud, parevano essere stati spenti, quanto meno in relazione alla ricostituzione dell’unità nazionale, dalla fondazione dello Stato democratico-repubblicano – si sono riaccesi, portando alla ribalta nel dibattito pubblico molte polemiche, aventi per oggetto il valore e il significato sia del Risorgimento sia dell’unità stessa dello Stato. Si sono riaffacciate antiche polemiche che parevano sopite, con un ritorno all’indietro il quale, mutatis mutandis, rimette in circolo i contrasti tra coloro che, un secolo e mezzo fa, erano favorevoli alla costituzione del paese in un solo Stato e coloro che non lo erano. Noi ragioniamo di centocinquant’anni di Italia unita, ma non dobbiamo dimenticare che dal punto di vista ideologico e istituzionale l’unità italiana ha conosciuto tre fondazioni, di cui due hanno avuto altresì il carattere di rifondazioni. Alla prima fondazione, che ebbe luogo a conclusione del Risorgimento e diede vita nel 1861 allo Stato monarchico liberale, seguirono la seconda, nel 1922-25, con la formazione dello Stato fascista a chiusura della crisi del primo dopoguerra e la terza, nel 1945-47, dopo la fine della guerra civile e della Resistenza, che costituì lo Stato democratico repubblicano. Tre «Italie», quindi, prodotte una dalla fine degli antichi Stati e le altre due da crolli o «crisi di regime». Non

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deve sfuggire all’attenzione che ciascuno di questi eventi segnò la nascita di una «nuova Italia», la quale per un verso si legittimò come l’antitesi della precedente, accusata di non essere «vera Italia», e per l’altro si presentò come espressione dell’«autentica unità nazionale»; e che sempre ciascuno di questi eventi assunse il carattere di un sovvertimento violento delle istituzioni precedenti, con un inevitabile lascito di aspri risentimenti e recriminazioni, di sacche di nostalgia per i regimi abbattuti, quindi di laceranti discordie. L’Italia del Risorgimento si ammantò della virtù di avere finalmente ridato alla penisola l’indipendenza perduta nel Cinquecento e l’unità venuta meno dopo il crollo della Roma imperiale, di aver posto fine alla secolare frammentazione regionalistica e congiunto, con l’estensione delle istituzioni del Piemonte al resto del paese, lo Stato nuovo, la cui natura laica, rivendicata da Cavour, costituiva un tratto determinante, agli Stati liberali d’Europa. Il fascismo si assegnò la gloria di rappresentare un secondo Risorgimento, che faceva rivivere l’anima migliore del primo, tradita dallo Stato liberale con i suoi permanenti e irrisolti conflitti interni e le sue debolezze in campo internazionale, e che dava vigore a quell’unità nazionale che prima era propriamente mancata: un’unità eretta sulla fine degli antagonismi politici e sociali, sulla raggiunta concordia tra capitale e lavoro, sul governo di un capo infallibile, sulla riconciliazione tra lo Stato e la Chiesa e sull’ingresso della nuova Italia nel novero delle grandi potenze d’Europa che l’«Italietta» liberale,

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ripetutamente umiliata nel consesso mondiale, non era stata in grado di assicurare. Infine, la Repubblica democratica, dopo la caduta rovinosa e ingloriosa del fascismo, si proclamò negazione del falso secondo Risorgimento, teorizzato dai Gentile e dai Volpe, che il fascismo aveva preteso di rappresentare, e figlia della Resistenza, la quale era stata essa l’autentico secondo Risorgimento della nazione per avere posto le fondamenta della ricostituzione dell’unità nazionale basata su istituzioni libere e democratiche. Si vede bene, fin da questi brevi cenni, come il cammino dell’Italia unita sia stato segnato profondamente da ricorrenti grandi disunità, di cui quelle sopra menzionate costituiscono unicamente le punte di un iceberg quanto mai frastagliato. Nondimeno l’unità d’Italia era sopravvissuta come valore e fine comune. Infatti, né le forze di governo liberali, né il regime fascista, né le forze di governo della Prima repubblica e, si badi, neppure le forze di opposizione hanno mai inteso porre in discussione l’unità del paese, quali che fossero i modi in cui volessero vederla realizzata. Oggi il panorama è profondamente cambiato. La «volontà di vivere insieme» e il senso di un «comune destino», che Renan aveva indicato nel 1882 come il nucleo dell’unità nazionale, appaiono a molti italiani, più ancora che scossi, da dissolvere. Per comprendere come si sia pervenuti a un simile stato di cose, occorre rivolgere lo sguardo e l’analisi all’insieme della vicenda nazionale, ai problemi dello Stato unitario, al rinnovarsi delle sue fratture e divisioni, delle quali alcune tra le più rilevanti

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presenti già nel 1861 e protrattesi, nel mutare delle loro espressioni, fino ad oggi; nella consapevolezza che le loro radici sono da ricercarsi nelle differenze territoriali, nelle modalità dello sviluppo economico, nella natura dei sistemi politici succedutisi nel tempo, nel tipo di dinamiche che ebbe lo sviluppo dei rapporti sociali, nelle caratteristiche dello spirito morale e civile degli italiani e nei loro reciproci intrecci.

II

L’unità istituzionale e burocratica. Il costo della «piemontesizzazione» d’Italia

In risposta alle spinte centrifughe reali e potenziali, l’unificazione italiana acquistò fin dagli inizi un carattere preminentemente istituzionale ed accentuatamente burocratico. Essa fu l’opera essenzialmente della monarchia sabauda, della sua amministrazione e del suo esercito, che dopo il 1861 sottoposero un paese quanto mai diversificato, dal punto di vista delle tradizioni culturali e del grado di sviluppo civile, sociale ed economico, ad una legislazione che aveva il suo modello nel centralismo di tipo francese. Il processo di uniformazione legislativa e burocratica venne condotto seguendo criteri di estrema rigidità e attuato estendendo senza adattamenti gli ordinamenti subalpini a regioni profondamente differenti, dalla Lombardia, notevolmente più progredita dello stesso Piemonte pur rinnovato dall’attività riformatrice promossa da Cavour, all’arretrato Mezzogiorno, entrambi i quali condivisero una diffusa avversione per la «piemontesizzazione» cui furono sottoposti. Non bisogna poi dimenticare che il modello di unificazione centralistico-burocratica andava ad urtare frontalmente – per tacere delle forze degli antichi regi-

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mi avverse all’unificazione del paese – contro gli ideali e i propositi non solo delle due ali della democrazia repubblicana, quella dei federalisti come Cattaneo e Ferrari (i quali consideravano «antistorica» e contraria al «senso» del pluralismo proprio del passato nazionale la camicia di Nesso centralistica) e quella degli unitari come Mazzini (che, se si opponevano al federalismo, concepivano però l’unità del paese posta su basi affatto diverse da quelle burocratico-militari imposte dai vincitori nel Risorgimento), ma anche dei confederalisti delle correnti liberali moderate. Va ricordato che lo stesso Cavour, fautore di un’Italia indipendente dallo straniero ma articolata in un Regno dell’Alta Italia, un Regno del Centro e uno del Sud, aveva fatto propria la prospettiva di un’Italia unita soltanto di fronte alla crescente disgregazione degli assetti statali dell’Italia centrale e meridionale, e poi soprattutto all’iniziativa determinante delle forze democratiche e all’evento, straordinario e del tutto imprevisto, costituito dalla conquista avventurosa del Mezzogiorno ad opera di Garibaldi. La questione dell’assetto istituzionale in senso centralistico-burocratico dello Stato unitario venne definitivamente risolta – dopo la sconfitta dei democratici sia della scuola federalistica sia della scuola mazziniana, che vanamente levarono la loro protesta contro la continuità stabilita tra le istituzioni del Regno di Sardegna e quelle dell’Italia unita – dal rigetto, da parte del Parlamento italiano, del progetto di decentramento pur solo amministrativo proposto da un liberale della Destra storica come Minghetti.

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Ci si deve soffermare sulla logica che presiedette alla scelta di mettere in atto un simile assetto istituzionale, che coprì l’intero territorio nazionale con una fitta rete di uomini della Corona e del governo a livello amministrativo e militare. Essa fu l’espressione della coscienza, da parte della nuova classe dirigente nazionale, della debolezza che il neonato regime liberale presentava sul terreno politico, del precario consenso di cui godeva e quindi del timore che quella debolezza potesse, in tempi brevi, sfociare nella dissoluzione del vincolo unitario. Tale logica fu chiarita meglio che da chiunque altro nel 1925 da Salvemini, già acceso federalista, quando sostenne che, senza l’imposizione dell’impalcatura burocratica e l’impostazione centralistica, il giovane Stato probabilmente non sarebbe riuscito a mantenere la sua unità. Orbene questa impostazione, data originariamente dallo Stato liberale, venne fatta propria anche dallo Stato fascista e dallo Stato democratico-repubblicano nel suo primo ventennio di vita. Il fascismo, dopo i gravissimi conflitti che avevano agitato il paese tra il 1919 e il 1922, rafforzò ulteriormente con leggi autoritarie le strutture del centralismo per farne lo strumento del proprio dominio dittatoriale; e i governi della Repubblica, dopo la fine della seconda guerra mondiale e della guerra civile del 1943-45, smantellarono solo in parte quelle strutture per tenere in mano le redini dell’unità nazionale minacciata dai movimenti separatistici, il più pericoloso dei quali operante in Sicilia, e dai supposti o reali pericoli eversivi provenienti dalla sinistra classista. Sicché le classi dirigenti e i governi italiani tutti, partendo da quanto

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attuato nei primi anni ’60 del XIX secolo e nonostante il mutamento qualitativo dei regimi politici, assunsero come proprio compito, non venuto meno per oltre un secolo, quello di opporre alle spinte centrifughe e ai conflitti di varia natura e intensità – regionalistici, ideologici, politici, sociali, attinenti per il primo sessantennio anche ai rapporti tra Stato e Chiesa – la continuità del centralismo, considerato necessario a impedire processi di implosione dell’unità. Nel percorrere questa strada si trovarono dunque concordi i governi liberali, il governo fascista e i governi democratici, la monarchia e la repubblica, fino a che, nel 1968-70, non si procedette a una prima attuazione dell’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione del 1948 ma rimasto fino ad allora congelato, con l’eccezione certo rilevante costituita dalla formazione delle regioni autonome nel primo dopoguerra.

III

La frattura territoriale non ricomposta tra Nord e Sud

Lo Stato unitario appena nato dovette anzitutto e subito misurarsi con il gravissimo problema della profonda disomogeneità tra le regioni centro-settentrionali e quelle meridionali. È questo un punto cruciale su cui bisogna insistere. La classe dirigente del Nord, e in primo luogo quella piemontese che ne costituiva il nucleo, non aveva nel 1861 alcuna idea di quali fossero la realtà economica e sociale del Sud e le sue condizioni civili. A darne la prova furono i primi rapporti al governo di Torino dei missi dominici inviati da Cavour nel Mezzogiorno. Essi furono dettati insieme da una enorme sorpresa e preoccupazione per lo stato di enorme arretratezza di cui si aveva una totale ignoranza. A Torino circolava l’illusione che il Sud, una volta liberato dal malgoverno borbonico, avesse le risorse necessarie per rinascere rapidamente e prosperare fino a diventare, grazie a un’agricoltura ricca e fiorente, il «giardino d’Italia». I rapporti della disillusione descrissero però un territorio che anziché «Italia» era piuttosto «Affrica». Perché le reali condizioni del Sud venissero a conoscenza dell’opinione pubblica settentrionale, fu necessario

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attendere che entrassero nel circolo dell’opinione pubblica colta e nelle stanze del potere gli scritti e le inchieste memorabili condotte dalla prima schiera dei meridionalisti, uomini sia del Sud che del Nord, come Villari, Sonnino, Franchetti, Fortunato, i quali rivelarono l’esistenza di una «questione meridionale» di enorme portata e gravità: una questione che nel corso di centocinquant’anni avrebbe mutato volto ma non sarebbe mai venuta meno, tanto da restare ancor oggi più che mai aperta. La sua sostanza era riconducibile a questi principali elementi: un’accentuata arretratezza economica e sociale, causa di una diffusa povertà e di una cronica mancanza di posti di lavoro; una classe dirigente agraria, composta da latifondisti nobili e borghesi, assenteista e implacabilmente sfruttatrice dei contadini, ridotti a bestie da soma al servizio degli strati più abbienti; una piccola borghesia terriera e impiegatizia, in buona parte parassitaria, che gravava anch’essa sui contadini, braccianti senza terra o piccoli e piccolissimi proprietari di terre aride povere di frutti; una diffusa ostilità delle masse lavoratrici sia verso la classe dirigente locale sia verso il governo «piemontese», accusato di aver introdotto in un paese che la ignorava la leva militare obbligatoria, di aver deluso le aspettative della riforma agraria incautamente promessa dai garibaldini, di aver aumentato il potere di latifondisti e borghesi consegnando loro le terre della Chiesa e quelle demaniali e di essersi fatto protettore dei loro interessi politici ed economici; la presenza nel Mezzogiorno, a partire dalla Sicilia, dal Napoletano e dalla Cala-

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bria, di organizzazioni quali la mafia, la camorra, la ’ndrangheta, ecc., le quali da un lato costituivano una sorta di anti-Stato criminale e dall’altro infettavano settori rilevanti delle amministrazioni e della classe dirigente locali, alimentando un potente e diffuso sistema di clientelismo, di corruzione e di economia illegale, legando alla propria rete ampi strati anche popolari della società e inquinandone lo spirito civile e i costumi. Le grandi inchieste dei meridionalisti rivelarono al Nord il volto nascosto del Sud poco dopo la fine della guerra che infuriò in quest’ultimo nel primo decennio di vita dello Stato unitario, e venne detta «del brigantaggio» con un’espressione ideologicamente assolutoria per le forze, esercito e Stato, che la repressero. Effettivamente le bande dei briganti costituirono il grosso della rivolta, in cui, come in un amalgama impuro, si trovarono a convivere ribellione politica e sociale, manovre messe in atto dai legittimisti borbonici e papalini, alcuni dei quali provenienti da vari paesi d’Europa, delinquenza comune, volontà di saccheggio. Fu dunque sì una guerra di briganti, ma non liquidabile, come invece avvenne da parte delle autorità, come tale, poiché essa costituì lo specchio quanto mai precoce di un rapporto malsano stabilitosi fin dagli inizi tra lo «Stato dei nordisti» e quel Sud che non apparteneva al notabilato meridionale socialmente conservatore, prontamente integratosi «gattopardescamente» nelle nuove istituzioni per riceverne protezione. La guerra, che non è certo improprio definire anche «civile» e le cui radici sociali dovettero essere poi ammesse

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dall’inchiesta parlamentare condotta sotto la guida di Massari, fu estremamente crudele da entrambe le parti in lotta: i briganti massacrarono notabili «venduti» al padrone piemontese, devastarono proprietà, furono spietati nei confronti dei soldati impegnati nella repressione; l’esercito, legittimato dalla legge Pica del 1863 ad agire indiscriminatamente, rispose con fucilazioni, distruzione di villaggi non di rado rasi al suolo, arresti in massa di sospetti, condanne sommarie. L’ammonimento di Cavour morente alla classe dirigente piemontese di non governare «le povere province meridionali» con lo stato d’assedio, apparve e restò un nobile esempio di retorica politica. La frattura territoriale tra Sud e Nord, esplosa con il brigantaggio, aizzato dai legittimisti, ma al tempo stesso drammatica espressione della delusione subita dai contadini che avevano sperato nella riforma agraria, non si è più ricomposta. La repressione del brigantaggio lasciò, come eredità avvelenata, il formarsi e il crescere di un humus via via più propizio alla penetrazione nel corpo sociale del Mezzogiorno delle organizzazioni criminali, che rafforzarono la loro rete di clientele, i loro «patti di protezione» e di sfruttamento economico stretti tra i capi mafiosi e i proprietari terrieri, intesi sia gli uni che gli altri a stabilire la loro «legalità» e il loro controllo sul territorio sotto e contro la cappa della legalità ufficiale: un processo che dopo di allora, adeguandosi al mutare delle circostanze, non si è più arrestato. La guerra dei briganti e dei legittimisti degli antichi regimi costituì nei primi anni dell’unità italiana

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il volto armato e violento della frattura tra il Sud e il Nord. Ma tra gli ultimi tre decenni dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento questa trovò un’altra espressione, estremamente significativa, di carattere ideologico e culturale. Si trattò dell’accesa «protesta» promossa da insigni intellettuali meridionali contro la politica dello Stato e la classe dirigente settentrionale, accusati di non prestare la necessaria attenzione ai problemi del Sud e, secondo le tesi più estreme, di favorire il saccheggio delle sue risorse a vantaggio del Nord e addirittura di averne spento prospere isole di promettente sviluppo, tanto agrario quanto industriale, in obbedienza ai prevalenti interessi settentrionali. Si trattò di una protesta e di una denuncia le cui tesi di fondo sono state contestate in seguito da autorevoli studiosi dell’economia italiana, ma che, al di là della loro attendibilità o inattendibilità, rappresentarono un capitolo assai importante della cultura politica nazionale. A levare la protesta furono insieme da un lato liberali conservatori e progressisti, dall’altro socialisti, rivoluzionari democratici e comunisti. Dopo che il toscano Sonnino aveva lanciato parole di fuoco per denunciare che i contadini del Mezzogiorno conoscevano lo Stato unicamente quando esso si presentava loro nelle vesti del carabiniere e dell’esattore delle tasse, chiedendo contestualmente riforme e giustizia e non esitando a invocare il suffragio universale maschile come mezzo del loro risveglio politico e civile, anche Fortunato, nel tirare un bilancio amaro e disilluso dei rapporti tra il Mezzogiorno e lo Stato italiano nei primi cinquant’anni di unità, chie-

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deva la diminuzione del carico fiscale e investimenti produttivi a vantaggio di un’economia debole e persino esausta. È importante notare che Fortunato al tempo stesso criticava come privo di consistenza il mito di un Sud potenzialmente ricco, il cui sviluppo era stato soffocato dal Nord sfruttatore. Il cavallo di battaglia di un liberale progressista come Nitti, eminente economista e uomo politico, di un socialista federalista come Salvemini, di un comunista come Gramsci e di un democratico liberale come Dorso fu invece proprio la tesi che l’abbandono del Sud da parte dello Stato avesse assunto fin dagli inizi dell’unità il carattere di un sistematico sfruttamento delle risorse meridionali da parte di un Nord i cui interessi dominavano la politica dello Stato. Nitti sviluppò il suo discorso tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, analizzando anzitutto le linee portanti delle finanze statali; gli altri legarono l’analisi dei rapporti economici a quella dei rapporti sociali e politici, mettendo sotto processo l’«alleanza» perversa tra i borghesi e gli stessi socialisti settentrionali da un lato e dall’altro i latifondisti e in generale i proprietari terrieri meridionali, reciprocamente legati a partire dal 1878 dalla scellerata legislazione protezionistica posta a vantaggio tanto dell’industria del Nord quanto della cerealicoltura del Sud, entrambe incapaci altrimenti di reggere alla concorrenza internazionale. Fin dagli ultimi anni dell’Ottocento, dopo essere diventato un seguace entusiasta di Cattaneo combinando socialismo e federalismo, Salvemini pose la protesta meridionale sotto la bandiera federalisti-

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ca, convinto che una radicale riforma democratica e istituzionale dello Stato, avente come strumento l’alleanza dei contadini meridionali con gli operai settentrionali armata dal suffragio universale e diretta contro industriali e agrari, avrebbe liberato l’Italia intera dal potere dell’infausta oligarchia dominante e assicurato le condizioni della rinascita del Sud. Poi, persuasosi che i socialisti e gli operai settentrionali fossero essi stessi entrati in combutta con gli industriali e gli agrari protezionisti a tutela dei comuni interessi settoriali e corporativi, buttò a mare Partito socialista e operai del Nord, facendo affidamento sull’opera di propaganda di una élite di uomini incorrotti e intransigenti, colpendo con i propri strali polemici Giolitti, visto come il gran capo dei falsi riformatori, il «ministro della malavita», corruttore principe della vita pubblica e protettore nel Mezzogiorno dei capi bastone procacciatori di voti a favore di quanti candidati a porsi al suo servizio una volta eletti al Parlamento. Nitti e Salvemini furono i portavoce più noti della protesta dei grandi intellettuali del Sud nel periodo precedente la prima guerra mondiale, espressa anche dal cattolico Sturzo, federalista e antigiolittiano. Poi venne la seconda generazione negli anni tra la fine della guerra e l’avvento della dittatura fascista, rappresentata soprattutto da Gramsci e Dorso. Gramsci riprese dal primo Salvemini, innestandola sul leninismo, l’idea che la leva della rinascita del Sud non potesse che essere costituita dall’alleanza rivoluzionaria degli operai settentrionali e dei contadini poveri meridionali, depurandola però dal

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Leitmotiv polemico diretto contro il connaturato corporativismo dei primi, che egli pensava si sarebbero riscattati dai vizi intrinseci al riformismo turatiano grazie all’educazione comunista ispirata dai princìpi della lotta di classe nell’era della rivoluzione proletaria internazionale e nazionale. Per questo poté affermare che gli operai del Nord guidati dal partito rivoluzionario avrebbero costituito la forza propulsiva dei contadini del Sud nella lotta di liberazione sociale e politica di tutti gli sfruttati. Ma anche la sua analisi della storia del rapporto tra le due parti del paese aveva al centro la teoria dell’assoggettamento della più debole e arretrata a quella più sviluppata, dell’economia del Sud a quella del Nord, le cui radici erano da ricondursi al modo in cui si era concluso il Risorgimento, alla mancata «energia giacobina» dei democratici e al soffocamento dell’aspirazione dei contadini poveri e dei braccianti del Sud alla riforma agraria che, se messa in atto, avrebbe impresso un corso del tutto diverso all’insieme della società nazionale. Gramsci era un comunista, e per questo vedeva negli operai del Nord e nel Partito rivoluzionario organizzato su scala nazionale l’avanguardia dell’intero fronte inteso a cambiare in maniera radicale lo Stato e le sue basi economiche e sociali. Dorso diede al suo progetto di rinascita del Mezzogiorno tutt’altra impostazione politica e culturale. Per lui la grande frattura che segnava il paese poteva essere composta sì unicamente da una rivoluzione, ma da una «rivoluzione meridionale». Dorso pubblicò il libro che lo avrebbe consegnato alla storia del pensiero meridionalistico quando il fascismo si era

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ormai definitivamente consolidato al potere trasformandosi in dittatura. La rivoluzione del Sud a cui egli si richiamava non aveva ormai alcuno sviluppo possibile, come d’altronde quella degli operai e dei contadini auspicata da Gramsci. Prive di attualità politica, le loro concezioni rappresentarono però assai significative testimonianze dell’ormai storico disagio meridionale. Gli scritti di Dorso costituivano un vero e proprio processo alla conclusione del Risorgimento, alla «conquista piemontese» del Mezzogiorno, all’opera dei governi liberali che avevano contribuito attivamente a degradarlo e a sostenere i vizi congeniti dei suoi latifondisti e dei suoi ceti alti e medi. Ma Dorso non credeva alla missione salvifica del Partito comunista, poiché, collegandosi al secondo Salvemini, considerava gli operai settentrionali idealizzati da Gramsci affetti ancor sempre da interessi settoriali. Perciò auspicava una rivoluzione meridionale in grado di dare al Sud la sua autonomia politica: una rivoluzione la cui guida, non potendo essere affidata all’infetta classe dirigente meridionale e neppure agli operai del Nord, immaginò, anche in questo collegandosi al Salvemini della fase postsocialista, posta sotto la tutela culturale e la direzione politica di una ristretta ed eroica élite intellettuale votatasi al bene pubblico. La protesta meridionale variamente incarnata da Fortunato, Nitti, Salvemini, Sturzo, Gramsci e Dorso e da altri insigni meridionalisti – che avevano reagito con giusta indignazione alle spiegazioni razzistiche dell’arretratezza del Sud avanzate da Niceforo, Sighele e Lombroso – e socialmente pa-

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lesata da una serie ricorrente di moti e agitazioni contadine, di cui i moti anarchici e i Fasci siciliani avevano costituito dopo la guerra del brigantaggio le maggiori espressioni e che erano stati accompagnati da periodiche ondate repressive, era ben giustificata dal fatto che dopo l’unità gli interventi dello Stato per promuovere lo sviluppo del Sud erano stati di modestissima entità. Nell’età giolittiana, durante la quale ebbe luogo il grande decollo dell’industria settentrionale, venne avviata la costruzione dell’acquedotto pugliese ed ebbero inizio interventi speciali a favore del Mezzogiorno, ma i loro effetti restarono molto limitati, del tutto insufficienti a modificare la fisionomia economica delle sue regioni. Quando il fascismo andò al potere il Mezzogiorno restava una zona depressa: l’unità italiana nell’età liberale non aveva posto neppure le premesse per il superamento anche solo parziale della frattura tra le due parti del paese. Nel 1917, nel momento tragicamente cupo della catastrofe militare di Caporetto, il governo Orlando, volendo ottenere dai contadini meridionali il consenso alla guerra fino ad allora mancato, promise che, a vittoria ottenuta, lo Stato avrebbe finalmente appagato con la riforma agraria la loro sete di terra. I fatti che seguirono nel dopoguerra furono poca cosa, frustrando ancora una volta le speranze dei contadini, che procedettero a occupazioni rimaste sostanzialmente senza frutto e che nel 1919-20, insieme con le ondate di sciopero e le occupazioni di fabbriche nell’industria del Nord, contribuirono a suscitare quell’allarme politico e sociale di cui finì per beneficiare la reazione nazionalfascista.

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Nel 1939 Mussolini proclamò che la «questione meridionale» non esisteva più, poiché il regime aveva posto fine definitivamente ad essa. Naturalmente si trattava di pura millanteria. La battaglia del grano, la bonifica integrale, la costruzione di alcune nuove «città rurali» furono in gran parte un esercizio di propaganda politica, e i trasferimenti di alcune migliaia di contadini nelle terre africane dell’Impero scalfirono appena la miseria del Sud, dove la modernizzazione dell’agricoltura, sempre dominata dalla arretrata produzione cerealicola, non fece passi avanti. Ad aggravare la situazione contribuì inoltre in maniera determinante il venir meno dello sfogo tradizionale offerto dall’emigrazione, che aveva assunto dimensioni imponenti durante l’età giolittiana. Poi seguirono la seconda guerra mondiale e il dopoguerra. Tra il 1943 e il 1945 l’Italia fu tagliata in due, con conseguenze che contribuirono in maniera essenziale a consolidare la frattura tra il Nord e il Sud. Il primo fu investito dalla lotta di Resistenza al nazifascismo, da un’ondata di rinnovamento civile e dall’impulso al riscatto politico e fu la sede in cui ampie fasce della popolazione – dai partiti antifascisti alle formazioni partigiane ad essi collegate, agli operai che osarono scioperare contro gli occupanti tedeschi e i repubblichini, fino ad importanti nuclei di abitanti delle città e delle campagne che sostennero i resistenti – posero con la loro azione le premesse per il superamento attivo del fascismo, coinvolgendo élites e masse popolari e gettando le basi della nascita della democrazia e della repub-

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blica. Tanto più aspra e difficile fu la lotta, tanto più questo rinnovamento pose radici. Un carattere qualitativamente diverso e per aspetti cruciali opposto ebbe invece in quegli stessi anni l’esperienza vissuta dal Mezzogiorno. Questo fu la sede del «Regno del Sud», dove si stabilì la monarchia fuggitiva, i partiti antifascisti ricostituiti alla luce del sole poterono bensì agire ma senza un significativo coinvolgimento popolare, e venne largamente riaffermata la «continuità dello Stato» in chiave conservatrice; fu insomma la parte d’Italia che non conobbe, se non per isolati e brevi momenti pur significativi come le «quattro giornate» di Napoli, l’esperienza vivificatrice della Resistenza, mentre conobbe l’occupazione anglo-americana accompagnata da aspetti fortemente negativi come anzitutto la rinascita della mafia, il mondo torbido dei traffici legati al dilagante mercato nero nei maggiori centri urbani a partire da Napoli, la diffusa prostituzione, il separatismo siciliano. Tra il 1944 e il 1947 il Mezzogiorno rilanciò la sua protesta attraverso due canali principali: la mobilitazione politica del movimento separatista eversivo in Sicilia, guidato da Finocchiaro Aprile, che si propose esplicitamente la rottura dell’unità nazionale e si dotò a tal fine anche di un braccio militare; e il rilancio da parte dei contadini di agitazioni sociali, culminate in occupazioni delle terre che, dirette a ottenere la mitica riforma agraria, furono accompagnate da numerose stragi compiute sia dalle forze dell’ordine sia da gruppi di banditi al soldo degli agrari. La strage di Portella della Ginestra organiz-

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zata dal bandito Giuliano contro una pacifica dimostrazione di contadini il 1° maggio 1947 ne fu l’episodio più cruento e simbolico. Il separatismo e il banditismo ebbero però il solo effetto di riportare i soldati italiani nel Sud a ristabilire l’ordine mediante la repressione. Quanto alla mafia, dopo l’invasione della Sicilia conobbe una sorta di nobilitazione politica allorché ai suoi capi e ai loro sodali, presentatisi agli americani ben disposti come antifascisti perseguitati dal caduto regime, vennero loro affidati ruoli chiave nelle amministrazioni locali in nome del rinnovamento. La mafia trovò così un canale essenziale per riemergere alla luce del sole. Alla protesta meridionale che durava da novantant’anni, agli inizi degli anni ’50 lo Stato italiano si apprestò a dare per la prima volta, pur con limiti intrinseci, una risposta di vasto respiro. All’iniziativa riformistica del governo guidato da De Gasperi, frutto della schiacciante vittoria della Democrazia cristiana nell’aprile 1948, contribuì il convergere di molteplici fattori: anzitutto la pressione che veniva dai movimenti contadini e dall’occupazione dei latifondi e delle terre incolte; inoltre l’influenza esercitata sul partito cattolico dal pensiero meridionalistico di Sturzo, nemico del latifondo e sostenitore della necessità di appagare la fame di terra dei contadini meridionali con una riforma diretta a rafforzare la piccola e media proprietà, incline per sua natura al moderatismo politico e sociale, e a contrastare le spinte radicali provenienti nel Mezzogiorno dall’operato dei partiti comunista e socialista; infine la convinzione, condivisa dalla maggioranza della

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classe politica vuoi di centro vuoi di sinistra e respinta solo dalla destra più retriva del Sud, che il giovane Stato democratico e repubblicano dovesse finalmente porre riparo, al fine di consolidare le sue basi, alla frattura che divideva l’Italia. Si presentò così al Mezzogiorno, per usare questa terminologia, la prima – e rimasta fino ad ora anche l’ultima – grande «occasione storica» di rinascita: un’occasione che però andò sostanzialmente perduta, con conseguenze destinate a pesare negativamente sugli ultimi sessant’anni della storia nazionale. Nel 1950 lo Stato procedette a operare su due versanti: da un lato la confisca dietro indennizzo di quote dei latifondi e di terre incolte e dall’altro la costituzione della Cassa del Mezzogiorno, diretta a promuovere la modernizzazione del Sud grazie alla creazione, con capitale in grande prevalenza pubblico, di infrastrutture e di centri industriali. La spesa, specie per quanto riguardò il secondo settore di intervento, fu imponente e si protrasse nel tempo con ricorrenti impegni di finanziamento. Ma il risultato fu complessivamente un insuccesso. La riforma agraria venne inficiata dal fatto che le terre date ai contadini, cui furono anche assegnate nuove abitazioni, erano prevalentemente di cattiva qualità, sicché numerosi beneficiari, su cui pesavano oneri di riscatto non sostenibili, furono indotti ad abbandonarle e a emigrare. L’obiettivo di una consistente rinascita per quella via dell’agricoltura meridionale venne così mancato; e il piano di industrializzazione e di creazione di una rete di servizi che sostenesse le nuove fabbriche portò alla creazione di isole per

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lo più incapaci di sopravvivere o di farlo malamente solo grazie ai ripetuti finanziamenti provenienti dalle regioni del Nord tramite lo Stato centrale. Quanto mai importanti furono poi, al di là dei risultati economici, le conseguenze politiche e sociali dell’intervento pubblico. Il Sud, che per quasi un secolo aveva visto la sua popolazione reagire alla povertà con l’emigrazione di massa dei contadini poveri e dei braccianti e il crescente ingresso dei piccoli borghesi nelle file della burocrazia statale e delle forze armate, senza beneficiare di quote rilevanti della spesa pubblica al di fuori di quelle riservate al mantenimento della macchina amministrativa e militare tradizionale, conobbe a quel punto un mutamento di straordinaria rilevanza. Se i limiti strutturali della riforma agraria e del processo di industrializzazione spinsero, ripetendo su scala ancora maggiore quanto avvenuto nell’età giolittiana, grandi masse di senza lavoro o di contadini non in grado di tirare avanti con i poveri prodotti della terra a percorrere, tra gli anni ’50 e ’60, «il cammino della speranza» verso i paesi dell’Europa settentrionale e il Nord Italia in pieno boom economico, là dove presero ad affluire i capitali pubblici si ebbe invece una mutazione qualitativa del blocco di potere economico e politico. Questa investì i partiti di governo e in primo luogo la Democrazia cristiana, le forze politiche legate alla destra monarchico-fascista, di cui fu un esempio significativo il fenomeno del «laurismo» in Campania, il notabilato locale mutato al suo interno dalla crisi del latifondismo, le organizzazioni criminali che dai rapporti tra economia e politica clientelare trassero

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vitale alimento. Ebbe inizio un processo che, non più cessato dopo di allora, provocò un inquinamento dello spirito pubblico, del clima civile e dei rapporti sociali ancora più profondo di quello tradizionale denunciato dai Villari, dai Sonnino e Franchetti, dai Salvemini e dai Dorso. Nell’economia meridionale dominata dai latifondisti e dalle camarille piccoloborghesi, in cui non circolavano grandi capitali, l’illegalità e lo sfruttamento erano legati alle violenze dei padroni e dei loro uomini di fiducia, alle estorsioni e gabelle imposte dai gruppi mafiosi regionali alle vittime dei loro soprusi. Con il riversamento dei grandi capitali provenienti dalle finanze dello Stato per un verso e con il costituirsi per l’altro di una vasta rete di corruttela fondata sulla commistione tra economia e politica, il panorama meridionale subì un cambiamento enorme. Una volta che l’unico e ultimo grande piano di sviluppo inteso a farne una regione dotata di vitalità economica autonoma andò incontro in misura rilevante all’insuccesso, il Mezzogiorno entrò via via più velocemente in un tunnel da cui non sarebbe più uscito. I finanziamenti pubblici continuarono in parte a tenere in vita isole industriali non in condizione di sostenersi, ma perlopiù si riversarono nel settore edile, divenuto il porto franco di una sfrenata speculazione culminata in una diffusa devastazione dell’ambiente. I partiti di governo e le loro correnti stabilirono con le organizzazioni criminali reti di clientela intrecciate e penetrate profondamente nel tessuto sociale, dando luogo a un diffuso scambio di favori. Danaro, posti di lavoro spesso di natura me-

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ramente parassitaria, pensioni non dovute, appalti, voti, protezioni di varia natura entrarono nel paniere. Le organizzazioni criminali si insediarono nelle amministrazioni locali con uomini al loro servizio quando non ad esse direttamente affiliati, si infiltrarono nelle stesse forze di polizia e in settori della magistratura, si giovarono dell’appoggio di politici e parlamentari. La potenza dell’anti-Stato criminale – con le sue bande di «soldati» che esigevano «tasse» dai commercianti e imprenditori in cambio di una «protezione» in ogni momento pronta a rovesciarsi in una punizione che dalla devastazione di beni arrivava fino all’assassinio e con la sua influenza nella politica e nell’amministrazione degli enti locali e statali – crebbe ulteriormente quando nel Mezzogiorno si insediarono basi internazionali del traffico della droga, che mise nelle mani di mafie e camorre enormi capitali da riciclare e investire e consentì loro di estendere il campo dei loro interessi all’economia del Nord. Si entrò così nell’era dei Calvi e dei Sindona, della penetrazione mafiosa nelle banche, del riciclaggio del danaro sporco, della conquista dei grandi appalti pubblici, di un sistema di economia criminale in continua crescita, di cui costituiva una componente essenziale il settore dell’economia sommersa e sottratta alla fiscalità. A fianco dell’economia legale, e sovente sotto la copertura da questa offerta, venne così ad allargarsi la vasta e articolata trama di quella illegale e delle complicità politiche e finanziarie che la sostenevano. L’anti-Stato criminale coprì il Sud con un grande cono d’ombra. E, continuando una lunga tradizione, per imporre il

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loro potere le mafie non esitarono, con una escalation impressionante e sovente potendo contare sulla colpevole complicità di infedeli organi dello Stato, ad azzoppare, a uccidere, a compiere stragi contro poliziotti, magistrati, sindacalisti, giovani intellettuali, preti scomodi, a colpire le proprietà di quanti, coraggiosi e in minoranza, osavano ribellarsi alle estorsioni e alle violenze. Sicché nel Mezzogiorno vennero a stabilirsi una dualità e un’opposizione nel controllo del territorio: da una parte quello sottoposto al potere illegale mafioso e dall’altra quello soggetto al potere legale dello Stato. Inevitabile conseguenza fu che gli investimenti privati nazionali e stranieri venissero allontanati dal Sud. Per oltre un secolo la protesta meridionale si alimentò della tesi che il Nord aveva sfruttato il Sud facendo prevalere i propri interessi. A partire dal dilatarsi della spesa pubblica a favore di quest’ultimo, con i suoi intrecci perversi tra politica, economia, parassitismo, clientelismo e la «piovra» criminale, a cavallo tra XX e XXI secolo si fece avanti chi quella tesi letteralmente capovolse. All’immagine di un Mezzogiorno prima colonizzato militarmente e politicamente dal Piemonte e poi sfruttato economicamente dagli industriali settentrionali venne opposta quella di un Mezzogiorno che sfruttava il Nord bloccando lo sviluppo dell’intero paese. Prese così vigore una «protesta settentrionale» – di cui si fece dapprima portavoce in modo sempre più chiassoso la Lega Nord guidata da Bossi, ma che divenne poi un Leitmotiv ampiamente diffuso in vari ambienti politici e industriali – diretta contro un Sud sfruttatore e parassitario e i suoi pro-

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tettori politici. La protesta e la propaganda leghiste, iniziate negli anni ’80 e intrise di slogans razzistici, si spinsero fino a proporre la necessità di una «lotta di liberazione» del Nord, a denunciare come infausta l’unità italiana, a teorizzare la radicale diversità, sociale e persino etnica, della «Padania» dal resto d’Italia e il suo diritto alla secessione. Il secessionismo siciliano degli anni ’40 ebbe in tal modo il suo controcanto nel secessionismo leghista, che si dotò di simboli e riti diretti a esaltare la positiva specificità settentrionale in contrapposizione a quella negativa meridionale. La sua parola d’ordine divenne la lotta contro «Roma ladrona», centro politico e burocratico di irradiazione del malaffare meridionale, avente come prima tappa la conquista della piena autonomia politica, amministrativa e fiscale del Nord produttivo. Il colore «verde» venne eretto dal leghismo in progressiva espansione a simbolo della vitalità e fecondità settentrionali, in contrapposizione alla sterilità economica e al degrado civile del Sud, mentre il tricolore nazionale fu considerato uno straccio di cui fare un uso indecente. Un nuovo possente cuneo si inserì così nel corpo unitario dell’unità del paese.

IV

Le divisioni politiche e sociali e le opposizioni «antisistema»

La frattura territoriale è stata soltanto una delle profonde divisioni politiche e sociali che hanno accompagnato l’intera vicenda dello Stato unitario. L’unità, che ricorrendo ad un bisticcio di significato molto più che verbale, si è accompagnata a disunità di natura lacerante, è stata caratterizzata lungo pressoché tutta la storia della nazione, oltre che dalla frattura territoriale, dal costituirsi e ricostituirsi di opposizioni ideologiche, politiche e sociali alle classi dirigenti, le quali hanno risposto sia accentuando la presa centralistico-burocratica sia stabilendo formule di governo di natura mono od oligopolistica. Lo Stato liberale, frutto della vittoria conseguita nel Risorgimento dal partito liberale sabaudista, fin dai primi anni della sua esistenza vide levarsi contro di sé una molteplicità di forze che, differenti tra loro e nelle correnti estreme nemiche giurate le une delle altre, avevano però in comune di porsi contro di esso e di negarne la legittimità. Tali furono i legittimisti delle monarchie spodestate, nostalgici del Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio, che cercarono di utilizzare a proprio vantaggio la guerra

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del brigantaggio, sognando per un certo periodo impossibili restaurazioni. Tali furono, al lato specularmente opposto, i democratici repubblicani sia della corrente unitaria mazziniana sia della corrente federalistica erede di Cattaneo e Ferrari, che posero sotto accusa i conservatori liberali e la monarchia sabauda anzitutto per aver negato al paese la convocazione di un’Assemblea costituente diretta a stabilire su basi nuove le istituzioni dello Stato unitario e per aver invece imposto, con un atto di prevaricazione, l’esportazione dal Piemonte al resto del paese dello Statuto del 1848 e delle leggi di Torino. Tali furono gli appartenenti alla corrente di sinistra dello sconfitto Partito democratico, che ispirandosi all’eredità di Pisacane e al pensiero di Ferrari, denunciavano il Risorgimento come la «rivoluzione del ricco», in quanto aveva tradito la speranza dei contadini senza o con poca terra che l’unità italiana fosse accompagnata dalla riforma agraria, mancata la quale nel Mezzogiorno si aprì una grande e irrisolta «questione sociale». E tali furono i clericali che contrapposero allo Stato liberale il vasto mondo cattolico guidato dalla Chiesa spodestata del potere temporale. Fu, quest’ultima, la frattura politica di maggior peso, in quanto, dopo che la Chiesa aveva scomunicato i capi del Risorgimento, i clericali non soltanto scomunicarono lo Stato unitario come «usurpatore» dei diritti della Chiesa ma, in obbedienza alle direttive vaticane e in base al non expedit da queste emesso, si astennero dalle elezioni, dalla partecipazione politica e quindi dalle responsabilità di governo. Il rifiuto delle istituzioni italiane da parte dei clericali ebbe come conseguenza decisiva che non po-

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té sorgere nel paese un partito conservatore cattolico in competizione con quello liberale, il quale si trovò così a dar vita a un regime senza possibili alternative di governo, inaugurando la serie di sistemi politici «bloccati» che avrebbero contraddistinto la storia nazionale per oltre un secolo. Insomma, legittimisti borbonici e papalini, democratici repubblicani e cattolici clericali furono tutti concordi nel negare legittimità allo Stato liberale, che non considerarono il loro Stato e che era ai loro occhi lo Stato non già della unità bensì appunto della disunità. Non dimentichiamo che Cattaneo, eletto deputato, non volle partecipare ai lavori della Camera e che Mazzini, il maggiore apostolo dell’unità nel corso del Risorgimento, dopo essere stato ancora una volta arrestato a Palermo nel 1870 per aver ispirato un tentativo insurrezionale e imprigionato a Gaeta per alcuni mesi, morì a Pisa nel 1872 in una condizione di semiclandestinità sotto il falso nome di dottor Brown. Esauritesi le opposizioni legittimistiche, ridotti ai margini i democratici repubblicani e soffocata nel sangue la ribellione della plebe meridionale, restarono due grandi forze a levarsi contro il regime liberale in una posizione, occorre adeguatamente sottolineare, di opposizione istituzionale non già entro ma contro il sistema costituito: da un lato i cattolici, i quali solo nel 1919 avrebbero formato un loro partito per far fronte ai «rossi»; dall’altro gli anarchici e i socialisti, la cui influenza sulle masse lavoratrici andò mano a mano crescendo, nel quadro di un’economia debole e arretrata che solo negli ultimi anni

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dell’Ottocento avrebbe iniziato a modernizzarsi limitatamente ad alcune aree del Nord, e che, al pari dei clericali, consideravano lo Stato liberale come lo «Stato degli altri». Se infatti questi ultimi condannavano lo Stato in quanto fondato dai nemici della Chiesa di varia corrente (cattolici liberali e quindi falsi, eretici laici e senzadio), per anarchici e socialisti esso era lo «Stato borghese» ovvero lo «Stato dei padroni» che imponevano la loro dittatura di classe. Orbene, mentre l’antitesi tra Stato unitario e cattolici andò gradualmente attenuandosi – prima nell’età giolittiana, quando questi si diedero a soccorrere i liberali in ripetute tornate elettorali, poi nel 1919 in seguito alla nascita del Partito popolare ad opera di Sturzo, spinto nella grave crisi del dopoguerra a far barriera con i liberali, avversari minori, di fronte al più pericoloso e montante nemico socialista – e fu ricomposta nel 1929 con la «conciliazione» tra il fascismo e la Chiesa, l’antitesi tra lo «Stato borghese» e la maggior parte delle masse lavoratrici, soprattutto operaie ma in parte significativa anche rurali, sarebbe rimasta una costante di quasi tutta la storia dell’Italia unita. Questa antitesi fu resa tanto più acuta dalla netta prevalenza, all’interno della sinistra, degli anarchici nei primi decenni dell’unità e, in seguito, dei socialisti rivoluzionari e dei comunisti. Le loro ideologie rivoluzionarie – e qui ci troviamo di fronte ad un’altra fondamentale caratteristica della storia dello Stato unitario – ebbero bensì un ruolo e un’importanza cruciali nel dare espressione alla «protesta classista», ma non riuscirono mai a promuovere in concreto alcuna rivoluzione, nessun capovolgimento

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di sistema. Infatti, a differenza che in altri paesi europei che conobbero vere rivoluzioni o quanto meno assalti alle istituzioni autenticamente rivoluzionari – si pensi solo alle rivoluzioni inglesi del Seicento, alla rivoluzione francese del 1789, alla Comune di Parigi del 1871, alle rivoluzioni russe, ai tentativi rivoluzionari nella Germania degli anni ’20, alle vicende della Spagna durante la guerra civile – in Italia nessuna rivoluzione è mai stata attuata e neppure concretamente tentata. Da ciò la conclusione – notata da numerosi studiosi – che i nostri furono «rivoluzionari senza rivoluzione». Sennonché l’ininterrotta presenza delle ideologie rivoluzionarie costituì la spia di una diffusa avversione delle masse lavoratrici e delle loro maggiori organizzazioni politiche e sindacali verso lo Stato, le sue classe dirigenti e i suoi governi: un’avversione che, se non è stata in grado di promuovere vere rivoluzioni di carattere sociale, si è però manifestata in una lunga serie di ricorrenti moti collettivi e singoli atti di impronta ribellistica, alcuni dei quali con esiti anche sanguinosi. Tali furono – per ricordare le punte – i primi moti promossi dagli anarchici nell’Italia centro-meridionale, i Fasci siciliani del 1893-94, i moti del 1898, la «settimana rossa» del 1914, la ribellione del 1917 a Torino, l’ondata degli scioperi e delle occupazioni di terre e fabbriche del primo dopoguerra culminata nel settembre 1920, la rinnovata occupazione delle terre nel secondo dopoguerra, le convulsioni seguite nel 1948 all’attentato a Togliatti specie a Milano e nel Monte Amiata, i fatti del luglio 1960, per finire con le azioni dei gruppi terroristici della sinistra extraparlamentare negli anni ’70 e ’80.

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L’intera vicenda della sinistra italiana a partire dagli anni ’80 dell’Ottocento mise in luce un dato di enorme importanza: la costante forte debolezza delle correnti riformistiche all’interno del movimento operaio e contadino. Ne derivò che, se non raggiunsero mai i loro obiettivi, le ideologie rivoluzionarie ebbero però l’effetto di mantenere quanto mai vivo e in modo permanente l’allarme politico e sociale delle classi dirigenti e dei ceti abbienti, di acutizzare all’estremo in alcuni momenti lo scontro e – come si vide soprattutto nel 1919-22 – di mobilitare forze decise a sbarrare con la violenza la strada alla sinistra classista e anche a schiacciarla. Nel decennio che precedette la prima guerra mondiale neppure il riformatore Giolitti riuscì a legare alle istituzioni il socialismo italiano. Insieme con Zanardelli, egli aveva avuto un ruolo determinante nei primi anni del Novecento nel far uscire lo Stato dagli scogli verso cui lo aveva diretto non solo Pelloux, il quale, dopo i tumulti del maggio 1898 fronteggiati a Milano da Bava Beccaris con i cannoni, aveva progettato una svolta apertamente reazionaria e liberticida, ma anche Sonnino, che, di fronte alla crisi di fine secolo e a quello che gli pareva lo «stato d’assedio» messo in atto contro le istituzioni dagli opposti ma convergenti nemici rappresentati dai «rossi» e dai «neri», aveva reagito auspicando il «ritorno allo Statuto», vale a dire l’instaurazione di un sistema di tipo prussiano di segno antiparlamentare fondato sull’iniziativa politica e di governo nelle mani del sovrano e dei suoi ministri. Zanardelli e Giolitti compresero pienamente quale salto nel buio una simile strategia avrebbe rap-

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presentato e quali conflitti avrebbe scatenato. E perciò opposero con successo una diversa linea di rilancio liberale, sostenuta dal nuovo sovrano, succeduto al padre assassinato da un anarchico venuto dall’America a vendicare i morti del 1898. Divenuto nel 1903 presidente del Consiglio, Giolitti compì l’unico serio tentativo che sia stato progettato nel periodo liberale di «nazionalizzare» le masse lavoratrici e di legarle alle istituzioni, sulla base di un riformismo sorretto congiuntamente dalle correnti liberali progressiste da lui guidate e quelle socialiste gradualistiche di cui era leader il riformista Turati. Sennonché questi declinò l’invito rivoltogli da Giolitti di partecipare al governo, nella esatta convinzione che ciò avrebbe per lui significato la perdita di ogni influenza politica all’interno di un Partito socialista che nella sua grande maggioranza aborriva da ogni collaborazione governativa con la borghesia. Il tentativo rimase così senza esito, decretando il fallimento non solo di un aspetto cruciale della strategia giolittiana ma anche della linea turatiana. Nel 1904, poco dopo l’ascesa di Giolitti a capo del governo, i socialisti «massimalisti», ovvero i sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola e gli intransigenti di Ferri e Lazzari, che non volevano sentire parlare di gradualismo riformista, assunta la guida del partito socialista fecero la loro grande prova con lo sciopero generale che, dopo il suo insuccesso, portò alle elezioni conclusesi con l’indebolimento parlamentare dei socialisti. Il ritorno dei riformisti alla guida del partito nel 1908 fu una parentesi, che non valse a dare un adeguato impulso alla loro corrente, tanto che nel 1912 il partito tornò in pieno al

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massimalismo, di cui divenne campione Mussolini, il quale fece espellere Bissolati e Bonomi, messi sotto accusa per aver sostenuto la guerra di Libia ed essere favorevoli a sostenere il governo Giolitti. E gli espulsi diedero vita al Partito socialista riformista italiano, il primo di una serie di piccoli partiti destinati a restare nella successiva storia italiana in perpetua minoranza all’interno del movimento operaio ed a esercitare una scarsissima presa sulle masse lavoratrici. In quegli stessi anni, sul versante opposto ai socialisti, sorse poi un altro soggetto decisamente e parimenti ostile allo Stato liberale e alla sua classe dirigente: il movimento nazionalista, autoritario, bellicistico e imperialistico, segnato da venature razzistiche. Nel 1909 Marinetti lanciò il «futurismo», esaltando in chiave vitalistica ed estetizzante lo spirito antiborghese, il disprezzo per il liberalismo e la democrazia, la bellezza della guerra «sola igiene del mondo», il patriottismo militaristico e anche il maschilista «disprezzo della donna». L’anno dopo venne fondata da Corradini, Federzoni e Coppola l’Associazione nazionalista italiana, che glorificava il ruolo delle aristocrazie capaci di dominare sulle masse inerti e metteva egualmente alla gogna borghesi, liberali, democratici e socialisti. Il primo, nell’illustrare i valori e i fini dell’Italia nazionalistica, la definiva una «nazione proletaria» chiamata alla «guerra vittoriosa» nel conflitto tra i popoli forti e virili e indicava al nazionalismo persino il compito di diventare esso l’autentico «socialismo nazionale», riscattando il paese dalla vergogna di aver perduto due guerre e anche di non aver saputo risolvere la questione meridionale. I nazionalisti chiamarono

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gli italiani a unirsi intorno alla monarchia, all’esercito e alla Chiesa di Roma. Vi era in tutto ciò un preludio di fascismo. Nel periodo dal 1861 al 1914 il regime liberale era riuscito comunque, pur passando attraverso crisi anche assai acute, a «tenere insieme i pezzi» dello Stato: la frattura territoriale, i conflitti sociali e politici, il contrasto con la Chiesa. Tra il 1914 e il 1922 si arrivò invece ad una incontrollabile esplosione delle antitesi. Nel 1914-15 vi fu la fase preparatoria dell’esplosione e nel 1919-22 il suo estremo dispiegamento. L’ingresso dell’Italia nel conflitto mondiale, nel 1915, pose la maggioranza dei socialisti, dei cattolici, degli operai e dei contadini contro gli interventisti di varia tendenza, a loro volta divisi tra loro in «imperialistici» e in «democratici». E, infatti, a favore dell’intervento, voluto dalla monarchia e dalle gerarchie militari che pensavano di poter fare un gran bottino, si schierarono insieme, in una grande ammucchiata, i nazionalisti di destra che miravano all’espansionismo imperialistico italiano, gli ex socialisti rivoluzionari che guardavano alla guerra come all’evento che avrebbe fatto da miccia alla rivoluzione sociale, i democratici e gli irredentisti che mazzinianamente si aspettavano dalla sconfitta degli imperi centrali una primavera di nuovi popoli liberi e vedevano nella guerra l’occasione di concludere il Risorgimento, strappando all’Austria le ultime terre italiane, e i liberali che seguivano monarchia ed esercito attirati dalle copiose promesse di Francia e Gran Bretagna. La spaccatura del paese si fece netta, ma la maggioranza ebbe la peggio di fronte all’iniziativa assunta con determinazione nelle piazze

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specie dai nazionalisti e dal loro vate D’Annunzio. Spia inequivocabile di questa spaccatura fu che in Italia, a differenza che in Gran Bretagna, Francia, Germania e Austria, allo scoppio della guerra non si ebbe nulla di simile all’«unione sacra» tra partiti – compresi, con l’eccezione di minoranze, i partiti socialisti – governo ed esercito. In Italia nel maggio 1915 non si videro fiori nelle canne dei fucili dei soldati. Il che fu dovuto, occorre tenerne il debito conto, anche al fatto che, a differenza che nell’agosto 1914, quando ciascuna parte entrata in conflitto al suono delle fanfare si illudeva di poter vincere la partita nel giro di pochi mesi, nel 1915 la guerra europea aveva già pienamente dimostrato come la musica fosse tutt’altra e di quali lacrime e di quanto sangue essa grondasse. Il 1915 italiano rese pienamente evidente che, sempre a differenza che negli altri Stati dell’Europa occidentale e centrale, il bellicismo e il militarismo non erano mattoni con cui costruire, sia pure provvisoriamente e sulla base di un sentimento di unità nazionale comunque inteso, un saldo vincolo tra Stato, classe dirigente e popolo in armi. La guerra fu sostenuta dalla monarchia, dai ceti alti e medi. Non lo fu da Giolitti, il quale lucidamente si oppose all’intervento nella consapevolezza che l’Italia non era in grado di sostenerne il costo economico e politico e che questo avrebbe infine scatenato i più aspri conflitti, ma finì per piegarsi guardando all’interesse «superiore» della monarchia e della classe dirigente liberale con cui non volle entrare in un pericoloso conflitto politico, e inizialmente neppure da importanti settori industriali, che avrebbero preferito

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condurre affari con i paesi in lotta da una posizione di neutralità. La guerra – il che la rese fin dall’inizio largamente impopolare – non godeva di alcun consenso tra gli operai e i contadini, i quali rinnovarono l’ostilità che avevano espresso verso le precedenti guerre coloniali di Depretis, Crispi e Giolitti, che non avevano visto in alcun modo le masse unirsi ai governanti nella frenesia colonialistica, come invece in Inghilterra e in Francia, e suscitato per contro diffuse e attive opposizioni. Una volta che l’Italia si trovò anch’essa a combattere, fu imposta l’inevitabile disciplina militare nelle trincee e nel paese. E dal canto suo il Partito socialista, dopo il suo gran rifiuto ideale in nome della pace e dell’internazionalismo proletario, sostanzialmente si acquetò al riparo della parola d’ordine, una sorta di scappatoia, «né aderire, né sabotare». Nel fronte italiano – come negli altri fronti, ma in maniera più accentuata, con la sola eccezione di quello russo – le forze speciali e i tribunali militari provvidero, con fucilazioni e condanne che colpirono migliaia e migliaia di soldati, ad assicurare che l’esercito facesse il suo «dovere nazionale». Lo Stato maggiore e il governo erano ben coscienti che la guerra, se aveva guadagnato l’adesione di significative componenti dei ceti medi che fornivano i quadri dell’ufficialità subalterna, non aveva quella degli «uomini contro» ovvero della massa dei soldati. Il mantenimento della disciplina sociale nel paese divenne oggetto della permanente attenzione delle autorità militari e civili, ma non poté evitare crepe come quella che trovò una delle più estreme espressioni nella rivolta scoppiata a Torino nell’agosto 1917, generata dalla precaria situazione

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alimentare e dallo spirito di opposizione al conflitto, sanguinosamente repressa e politicamente culminata nell’accusa di tradimento rivolta ai «fomentatori» socialisti. Il Partito socialista, nonostante la scelta di non sabotare lo sforzo militare, restò il bersaglio predestinato dell’odio dei militaristi e dei nazionalisti. Lo si vide in maniera esemplare quando nell’ottobre 1917, sfondato a Caporetto il fronte italiano da tedeschi e austriaci e delineatasi una catastrofe di enormi proporzioni, il capo dell’esercito Cadorna non trovò di meglio che gettarne la responsabilità sui soldati che avevano dato luogo ad uno «sciopero militare» rispondendo alla propaganda disfattista dei socialisti. I primi anni del dopoguerra, che segnarono l’esaurimento e infine il crollo della classe dirigente liberale, aprirono un capitolo della storia dello Stato unitario in cui i fattori di disunità tennero il campo nelle forme più estreme. La classe dirigente liberale non trasse politicamente giovamento alcuno dal fatto che l’Italia era uscita vincitrice contro l’Austria, ottenendo sostanziosi compensi come il Trentino, l’Alto Adige e la Venezia Giulia, ma non tutti gli altri previsti dal Patto di Londra del 1915, ovvero l’espansione nella Dalmazia, nuovi territori coloniali e zone dell’Impero ottomano. Lo Stato restava unitario nella veste istituzionale, ma la sua unità politica e civile andava letteralmente dissolvendosi. Si rinnovò in forme ancora più estreme la lotta accanita del 1915, che ora opponeva da un lato gli avversari dell’intervento, in prima fila i socialisti, a coloro i quali avevano sostenuto la guerra; e dall’altro i nazionalisti di destra, in preda a non

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saziati appetiti imperialistici, ai liberali al governo, incapaci di far rispettare al tavolo della pace le promesse fatte da francesi e inglesi, e agli interventisti democratici bollati come «rinunciatari» in quanto, in nome dell’obsoleto principio di nazionalità e autodeterminazione dei popoli, negavano legittimità all’acquisizione di territori in contrasto con questo stesso principio. I socialisti, inebriati dalla rivoluzione bolscevica in Russia e rafforzati dal consenso che veniva loro da parte delle masse lavoratrici per i loro attacchi ai difensori della guerra impopolare, uscirono dal conflitto in uno stato di esaltazione che li privava del senso dei limiti e del possibile. Si convinsero che fosse giunto il momento di dare l’assalto al cielo. Sul piano internazionale condivisero l’analisi che veniva da Mosca, secondo cui il capitalismo e il dominio della borghesia erano giunti alla fine della loro parabola e la rivoluzione proletaria era iscritta nella necessità storica dell’epoca in Europa e nel mondo. E perciò posero all’ordine del giorno la realizzazione del loro programma «massimo», ovvero la rivoluzione socialista divenuta attuale anche in Italia. Essi guardarono alla crisi del regime liberale e alla crisi sociale ed economica del paese come al segno di un fallimento di sistema, che avrebbe giocato a favore loro e non certo del nuovo Partito popolare di Sturzo che, per fronteggiare i socialisti, aveva ricevuto dal Vaticano il via libera alla formazione di un partito dei cattolici e si illudeva di poter fermare con arcaici ideali di conciliazione sociale l’inesorabile conclusione logica dei conflitti di classe. Fu straordinario osservare come

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un partito che si proponeva di compiere una rivoluzione e che era oggetto dell’odio violento dei suoi avversari non si ponesse affatto il problema dei mezzi con cui armare nuclei consistenti di rivoluzionari da opporre alle forze reazionarie che andavano mobilitandosi. I socialisti massimalisti ritennero di poter arrivare al potere facendo leva su rinnovate ondate di agitazioni di massa, ingrossate dalle pesanti difficoltà economiche e politiche in cui versava il paese, e furono presi completamente in contropiede quando al loro rivoluzionarismo predicatorio, ai tanti scioperi degli operai e alle rivendicazioni dei contadini e alle occupazioni di terre risposero le squadre organizzate, violente e armate, sostenute dalle gerarchie militari, finanziate dai capitalisti e protette dalla magistratura, di cui era divenuto capo il loro ex compagno Mussolini. Dal fatto di aver raccolto, nel novembre 1919, i copiosi frutti elettorali della radicata opposizione di gran parte delle masse popolari alla guerra con un consenso fortemente cresciuto per effetto della grave crisi economica e sociale; di vedere il Partito popolare contrapporsi a loro frontalmente ma al tempo stesso voler in prospettiva sostituire i liberali alla guida dello Stato, indebolendo così fortemente l’incisività dell’opera dei governi di coalizione; di assistere alla crescente debolezza dei liberali che, seppure ancora usciti dalle elezioni del 1919 come la forza maggioritaria, erano acutamente divisi al loro interno e non più in condizione di governare senza l’appoggio dei popolari, i massimalisti, gonfiati dal mito bolscevico russo, respinsero sia ogni alleanza finalizzata a riforme «democratico-borghesi» che la stessa proposta di

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operare per ottenere la convocazione di un’Assemblea costituente, misero più che mai ai margini la minoranza riformista e imboccarono la strada degli scioperi a catena e del sostegno alle occupazioni di terre. Si trattò dell’ondata di conflitti sociali culminata nell’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920, il cui esito fu di mettere a nudo l’inconsistenza di un progetto rivoluzionario senza veri rivoluzionari. L’occupazione delle fabbriche, dove comparvero gruppetti di «guardie rosse» armate di qualche fucile – estremo atto eversivo contro la proprietà privata – pose i massimalisti dinanzi ad un dilemma al quale non potevano sfuggire: dimostrare se fossero o non fossero capaci di passare dalle parole ai fatti. Un dilemma risoltosi con una piena dimostrazione di impotenza, che mise in luce come i socialisti fossero, al pari dei liberali ancora al potere, incerti, oscillanti, divisi. A tirarsi indietro, al momento di compiere il gran salto, furono insieme, in un contesto di dure accuse reciproche, i leader sindacali, i socialisti massimalisti e anche l’ala comunista torinese dell’«Ordine nuovo». L’occupazione delle fabbriche ebbe quale effetto di portare all’estremo l’esplosione delle antitesi nel paese. Il sentimento dell’unità nazionale fu più che mai svuotato di significato e il meccanismo delle disunità si mise irresistibilmente all’opera. Giolitti, che era al governo, fronteggiò l’occupazione insieme con prudenza e determinazione, avendo ben compreso la debolezza dei disegni rivoluzionari dei socialisti. Dopo aver rifiutato di cedere alla richiesta da parte degli industriali di rispondere con la repressione militare, che avrebbe fatto precipitare la situazione, lasciò che

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l’ondata delle occupazioni defluisse e ammorbidì i sindacati con un accordo, che prevedeva miglioramenti salariali e forme di «controllo operaio» sulle fabbriche, destinato a non entrare mai in vigore. Ma gli industriali, nelle cui file si era scatenato il panico ed era montato il più acuto risentimento non solo contro coloro che avevano violato il sacro diritto di proprietà ma anche contro il capo del governo, considerarono la linea giolittiana alla stregua di una capitolazione dell’autorità dello Stato e della rinuncia alla loro difesa; e quindi nella grande maggioranza trassero la conclusione che fosse venuto il momento anche per essi di dare un deciso appoggio finanziario e politico alle squadre fasciste, che già avevano offerto una prova tanto buona nelle campagne dell’Italia centrale al servizio degli agrari contro sindacati rossi, contadini, socialisti e anche «bolscevichi bianchi» della sinistra cattolica. In un contesto in cui i liberali erano sempre più incapaci di un indirizzo incisivo e divisi in correnti che proponevano linee di governo non componibili, i popolari erano a loro volta divisi tra progressisti, moderati e quelli decisamente conservatori che avrebbero dato poi vita ad un’ala clerico-fascista; i socialisti massimalisti e i comunisti – costituitisi questi ultimi in partito autonomo nel 1921 per reazione alla colpevole mancanza di determinazione rivoluzionaria dei primi, nell’illusione che così facendo avrebbero potuto invertire la rotta portando al successo la lotta dei proletari per il potere – erano uniti solo nell’avversione, oltre che per i comuni nemici di classe, per i socialisti riformisti e continuavano a minacciare una

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rivoluzione che non erano in grado di fare ma che continuarono a voler perseguire, anche quando la reazione incominciò a colpirli sempre più duramente senza una loro capacità neppure di un’efficace autodifesa: in quel contesto fascisti e nazionalisti presero decisamente l’iniziativa. Mentre la barca dello Stato era priva di timonieri atti ad assicurare una guida adeguata, essi prima condussero l’attacco contro i rossi e anche contro i cattolici di sinistra, scatenando una vera e propria guerra civile – la seconda nella storia dello Stato unitario –, poi conquistarono nel 1922 le redini del governo, infine nel 1924-26, dopo aver eliminato liberali e popolari che li avevano fino ad allora sostenuti al potere, stabilirono la propria dittatura in condizioni di progressivo disfacimento di tutte le opposizioni. E a loro andò in maniera crescente il consenso non soltanto dell’esercito, della magistratura, dei proprietari terrieri e degli industriali, della parte maggioritaria dei ceti alti e medi e della Chiesa, ma anche – fino a che Mussolini non cancellò le ultime vestigia dello Stato liberale e delle istituzioni parlamentari – di statisti liberali come Giolitti e Orlando e delle due figure più illustri della cultura liberale italiana: Croce ed Einaudi. Rispetto all’unità formale e sostanziale dello Stato il regime fascista costituì il massimo dei paradossi. Esso pretese di incarnare la raggiunta unità politica e civile di tutti gli italiani nel grembo della «nazione» finalmente costituita in senso pieno, proprio mentre, in quanto dittatura, spaccava il paese tra fascisti e antifascisti, tra i primi che avevano schiacciato i secondi e questi che erano stati sì schiacciati ma le cui rappre-

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sentanze attive sopravvivevano, agivano all’estero e tessevano le loro fila, poggiando bensì per lunghi anni unicamente su piccole minoranze all’interno del paese, efficacemente sorvegliate e represse, ma godendo del persistente sotterraneo e necessariamente passivo consenso di settori popolari, specie operai, e di gruppi di intellettuali e professionisti dei quali il fascismo non riuscì a guadagnarsi il consenso. Comunque, il fascismo impose all’Italia la sua idea di unità, figlia della «rivoluzione nazionale fascista» proclamata e teorizzata come un secondo Risorgimento che coglieva l’eredità del primo e ne costituiva il felice e definitivo compimento. L’unità fascista – frutto di una violenza che aveva distrutto il pluralismo politico, aveva creato uno Stato che ambiva a divenire «totalitario» e tessuto le maglie del proprio potere scendendo, secondo il principio gerarchico che l’ispirava, dal capo supremo e dai gerarchi ai quadri medi e inferiori del partito unico, delle forze paramilitari e delle organizzazioni del lavoro fino alle masse popolari inquadrate nelle istituzioni del regime – lasciò aperto l’interrogativo relativo al suo sostanziale radicamento, al quale non potevano certo dare risposta i plebisciti orchestrati dal governo. In un quadro in cui agli italiani era negata la possibilità di esprimere il rapporto tra consenso e opposizione, l’unità fascista non poté mascherare i limiti significativi ad essa posti dal dissenso, periodicamente manifestatosi, proveniente da settori del mondo cattolico che mal tolleravano la pretesa dell’ala più intransigente del regime di trasformare l’ideologia fascista in una «religione poli-

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tica» da far penetrare anzitutto nelle leve giovanili, in competizione e anche in contrasto con l’idea e le finalità che le organizzazioni cattoliche avevano dell’educazione di quelle stesse leve. La Chiesa, pur appagata e trionfante per la raggiunta conciliazione con lo Stato celebrata nel 1929, non a caso pochi anni dopo entrò in tensione su questo tema con il regime, che nel 1931 non esitò a dare ruvide lezioni, con il ricorso ad atti di intimidazione e violenza, a quelle organizzazioni. Il fascismo fece dello spirito guerriero uno dei nuclei essenziali della propria concezione dell’unità nazionale, e si fece vanto di aver finalmente fatto dell’Italia ciò che lo Stato liberale non aveva saputo fare: una forte nazione militare pronta a misurarsi con i propri nemici sulla scena del mondo. Questo Leitmotiv venne propagandato al massimo durante la guerra d’Etiopia, una guerra che parve confermare che effettivamente il regime era riuscito a unire intorno alla patria fascista la grande maggioranza degli italiani. Fu in effetti una guerra al tempo stesso popolare e ingannevole: popolare sia perché, condotta con mezzi enormemente superiori contro un avversario privo di armamenti moderni, fece intravedere fin dai suoi inizi un facile successo, sia perché la propaganda fascista indusse a credere che la conquista dell’Etiopia avrebbe finalmente e in maniera definitiva risolto la fame di terra dei contadini italiani, specie meridionali, fornendo loro un suolo da coltivare carico di promesse (si ripeté, ma più in grande stile, quanto avvenuto con la guerra di Libia); ingannevole, perché diffuse l’impressione

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che la guerra coloniale vittoriosa, che aveva riscattato il paese dalle umilianti sconfitte subite in Africa orientale nel 1887 e nel 1896, costituisse la prova secondo cui finalmente le armi vittoriose univano il popolo italiano, che le precedenti guerre coloniali e la prima guerra mondiale avevano invece diviso. Mussolini e il fascismo non cessarono di battere e ribattere il tasto che nella guerra si misurava l’unità di un popolo, in tal modo fornendo con le loro stesse parole e mani il metro con cui misurare quanto sarebbe successo in Italia nel 1940-43. Il regime tentò di ritrovare un consenso senza riserve con l’appoggio dato al franchismo durante la guerra civile spagnola, ma l’operazione non ottenne affatto lo stesso successo, perché i repubblicani spagnoli si rivelarono un osso assai più duro degli abissini e le truppe fasciste misero in luce le debolezze che sarebbero apparse chiaramente fin dagli inizi del secondo conflitto mondiale. Inoltre, nel corso di quella guerra, per la prima volta dopo il 1922, l’Italia fascista si trovò dinanzi a quell’Italia antifascista che, ridotta fino ad allora ai margini e all’impotenza, rialzò la testa ad opera degli italiani in armi delle Brigate internazionali, che inflissero ai soldati di Mussolini alcune brucianti sconfitte. Anche qui si trattò di un’anticipazione di quanto sarebbe avvenuto tra il 1943 e il 1945, secondo l’intuizione di Rosselli che lanciò la parola d’ordine: «Oggi in Spagna, domani in Italia». Come tutte le grandi guerre, la seconda guerra mondiale costituì per gli Stati e i popoli coinvolti una prova decisiva del grado di solidità dell’unità na-

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zionale ovvero del legame tra popoli e governi, che viene determinato soprattutto non già nel momento delle vittorie, ma quando un paese viene chiamato ad affrontare gravi sacrifici in condizioni fattesi difficili e al limite critiche e il suo governo fa appello all’unione delle forze e alla determinazione. Nella guerra del 1939-45 un test positivo dell’unità di Stato e popolo venne vigorosamente fornito dalla Polonia aggredita dai nazisti e dai sovietici, che resistette per poco tempo ma all’estremo fino all’inevitabile sconfitta; venne fornito in maniera splendente dalla Gran Bretagna democratica, anzitutto negli anni per essa più bui del 1940-41 allorché, dopo il crollo della Francia, si trovò a dover affrontare solitaria l’urto micidiale della Germania dilagante e pienamente vittoriosa nell’Europa continentale; venne fornito, in chiave autoritaria e militaristica, dal Reich nazista e dal Giappone imperiale, i cui regimi tennero legati a sé esercito e la grande maggioranza del popolo sino alla disfatta finale, certo con l’arma del terrore, ma anche grazie a un prevalente consenso senza il quale il terrore non sarebbe bastato. La vicenda italiana ebbe tutt’altro carattere: l’unità militaristica intorno al regime fascista mostrò sin dall’entrata in guerra la sua organica debolezza e il suo carattere essenzialmente e largamente esteriore. Sull’onda delle vittorie naziste e con l’ansia di non restare escluso dalla ripartizione delle spoglie, il 10 giugno 1940 Mussolini trascinò nel conflitto un paese riluttante, un esercito i cui comandi erano consci dell’impreparazione militare, lo stesso gruppo dirigente del regime in cui l’alleanza con i tedeschi generava dubbi e resistenze, a partire dal mi-

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nistro degli Esteri Ciano, da Balbo e da Grandi. Ben presto i nodi vennero al pettine. L’Italia fu scossa fin dall’inizio dalle miserevoli prove offerte nel 1940-41 in relazione all’incapacità offensiva delle forze armate che, dopo il clamoroso fallimento dell’attacco nelle Alpi contro il moribondo esercito francese, si impantanarono nello scontro con la Grecia aggredita e in Africa subirono umilianti disfatte ad opera dei britannici. E l’umiliazione del regime che aveva esaltato l’unità guerriera del popolo fu aggravata all’estremo dal fatto che a salvare gli italiani dal crollo immediato nella prima e nella seconda occasione furono le truppe naziste. Poi nel 1942 seguì la tragedia del corpo di spedizione in Russia, inviato al seguito degli invasori tedeschi. Fino a quando le prospettive di vittoria della Germania in Europa e del Giappone in Asia parvero una garanzia per le sorti dell’Italia, il regime fascista – nonostante il discredito provocato dalle sconfitte subite, che ormai alimentavano crescenti paure nel popolo e un distacco via via maggiore di questo dal regime e tensioni non più contenibili sia nelle file dei gerarchi, sia tra il governo e la monarchia, sia all’interno dei comandi militari – riuscì a controllare la situazione, ma quel tanto di unità della nazione che esso era riuscito fino ad allora a mantenere entrò in uno stato di dissoluzione. Infine, nel 1943, delineatasi la sconfitta di Germania e Giappone e invasa la Sicilia dagli anglo-americani, si assistette in rapida successione al frantumarsi del vaso di coccio che si era presentato al popolo italiano e al mondo come un vaso di ferro, al crollo del residuo consenso al regime e, in luglio, alla caduta di Mussolini senza che nessu-

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no, neppure da parte fascista, si levasse a difenderlo. L’unità fascista della nazione apparve una costruzione senza fondamenta. Seguì, in maniera ingigantita e ancora più virulenta rispetto allo stesso 1919-22, l’esplosione delle antitesi tra il 1943 e il 1945, con il divampare della terza e più terribile guerra civile della storia d’Italia e persino la conseguente distruzione dello Stato unitario, divisosi in due Stati contrapposti e nemici collocati nelle zone occupate dagli eserciti stranieri. Anche formalmente comparvero così due Italie, la cui unità poté poi essere ricomposta soltanto sulla base della vittoria dell’una sull’altra. Quel che avvenne tra il luglio e il settembre 1943 fu il prodursi di una frattura che, partendo dall’alto della piramide e arrivando alla base, ridusse il paese in pezzi. La frattura partì dal Gran Consiglio del fascismo, dividendolo e determinando l’esautorazione del dittatore da parte della maggioranza dei suoi gerarchi. Subito essa si ripercosse sui rapporti tra la monarchia e il regime, provocando l’arresto e la caduta di un dittatore già delegittimato dai suoi principali sodali. Formatosi il governo Badoglio, con la partecipazione di burocrati e militari, sotto la primaria preoccupazione di mantenere manu militari l’ordine pubblico perturbato – in un quadro di sbandamento politico e civile causato dal crollo del regime e dalle quanto mai difficili e ambigue condizioni create dal perpetuarsi della guerra in alleanza con i tedeschi e dagli interrogativi ancora senza risposta suscitati sia dalle possibili reazioni delle residue forze fasciste sia dall’ancor confuso riemergere dei partiti antifascisti – la frattura andò riproponendosi nei rapporti tra il governo e la

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maggioranza del popolo nel quadro dell’assetto incerto di un potere da cui questa non si sentiva e non era in effetti rappresentata. Dopo la firma dell’armistizio con le potenze alleate, la capitolazione militare dell’Italia e l’abbandono di Roma da parte del monarca, del governo e dei capi delle forze armate lasciate a se stesse, in settembre il processo di dissoluzione investì l’esercito lasciato allo sbando e trovò il suo epilogo nella formazione nel Nord occupato dai tedeschi della neofascista Repubblica Sociale Italiana con a capo il risorto Mussolini e nel Mezzogiorno del «Regno del Sud» il cui governo continuò ad essere guidato da Badoglio. Lo Stato unitario aveva così cessato di esistere e l’unità nazionale era in tutti sensi dissolta. Le due Italie nemiche e armate, dipendenti rispettivamente dai tedeschi e dagli anglo-americani, si levarono istituzionalmente e politicamente l’una contro l’altra, proclamando ciascuna di essere la sola «vera Italia» e facendo dell’unità nazionale una pura invocazione per reazione alla sua vanificazione. La Repubblica Sociale Italiana visse una lunga, drammatica e inevitabile agonia, essendo condannata ad una disastrosa sconfitta fin dalla sua nascita, avvenuta quando ormai le sorti del grande conflitto mondiale erano segnate. Fu un amalgama e un’estrema chiamata a raccolta di irriducibili nostalgici del fascismo, di ex squadristi sovrastati dal rancore e dal desiderio di vendetta, di una minoranza di ex ufficiali e soldati del disciolto esercito regio, di burocrati, poliziotti e carabinieri del vecchio apparato rimasti ai loro posti, di giovani e giovanissimi che si sentirono investiti della missione di salvare l’onore della

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patria tradita dai badogliani e dai comunisti restando fedeli agli alleati tedeschi, di gruppi di torturatori e aguzzini votatisi alla caccia di partigiani, antifascisti ed ebrei, di avventurieri, come gli appartenenti alla Decima Mas di Valerio Borghese, di un piccolo nucleo di intellettuali che, e si pensi a Gentile, più la loro idea di patria era morta e più continuavano a idoleggiarla. I «repubblichini» vissero la loro vicenda in un contesto di ostilità, attiva o passiva, da parte della grande maggioranza della popolazione. Segno eloquente del loro isolamento fu che nell’Italia del Nord tra i coscritti assai numerosi furono i renitenti e coloro che prima o poi, ovviamente soprattutto poi, si imboscarono o si unirono ai partigiani, e che tra l’oltre mezzo milione di militari italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943, nonostante la loro condizione, solo poche migliaia accettarono di entrare nelle file dell’esercito guidato da Graziani. Impiegati solo marginalmente contro gli anglo-americani, i soldati neri furono soprattutto utilizzati nella repressione della lotta partigiana e della parte del popolo che direttamente o indirettamente la sosteneva, spinti dall’odio e venendo ricambiati dall’odio, diffondendo terrore, incendiando case e villaggi, uccidendo contadini, operai e borghesi, resistenti in armi e senz’armi. Condussero la loro battaglia di moribondi della storia nutrendosi quasi fino all’ultimo dell’illusione che i nazisti potessero capovolgere la loro comune sorte grazie alle mitiche armi segrete. Scavarono un solco incolmabile tra il nuovo regime repubblicano, privo di qualsiasi vitalità, e la massa della gente comune, che li considerava servi dei loro

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padroni nazisti. Sostenuti da un piccola minoranza, si alimentarono di una mistica mortuaria tanto più esaltata quanto più espressione di una irrimediabile perdita di speranza. Conclusero la loro storia di poco meno di tre anni nello sbandamento, nella fuga dei gerarchi e di Mussolini che, dopo avere invocato le Termopili della Repubblica, venne arrestato nascosto in un camion e travestito da soldato tedesco. L’«altra Italia» fu propriamente non già il Regno del Sud, ma quella della Resistenza che nel Nord si opponeva agli occupanti tedeschi e alle bande nere della Repubblica sociale. Essa fece rivivere lo spirito dei combattenti, in primo luogo democratici, delle giornate eroiche del Risorgimento a Milano, Brescia, Venezia e Roma nel 1848-49 e realizzò un alto momento di unità delle forze impegnate nella lotta contro i nazifascisti in vista della ricostruzione materiale e istituzionale del paese, cui guardavano però a seconda delle loro varie componenti con occhi diversi. Mentre infatti combattevano il nemico interno e straniero stretti in unità nel presente, al tempo stesso riflettevano e dibattevano sulle prospettive del vicino futuro circa le basi politiche, economiche e sociali del paese riunificato e le possibili formule di governo, mettendo in luce divisioni e contrapposizioni. La parte più consistente della Resistenza fu costituita dalle bande partigiane collegate per un verso ai partiti della sinistra classista, con il netto prevalere dei comunisti rispetto ai socialisti, per l’altro al partito d’Azione, sorto nel 1942, il cui nucleo politico e sociale era costituito da membri del ceto medio che, cogliendo l’eredità di «Giustizia e Libertà» di Carlo Rosselli,

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affiancava un’ala di ispirazione socialista liberale a un’altra di indirizzo democratico-repubblicano borghese progressista. A fianco delle più numerose bande partigiane comuniste, «garibaldine» e azioniste di Gl, si collocavano le brigate socialiste «Matteotti» e quelle di segno politico moderato – le «brigate del popolo» e le «brigate autonome» – ispirate in parte dalla Democrazia cristiana, erede del Partito popolare e formatasi nel 1942, e dal Partito liberale, e in parte animate da uno spirito «apolitico». Significativa fu la presenza degli «azzurri», che riunivano soprattutto monarchici e militari del disciolto esercito. Nelle file dei resistenti, salvo che in piccole minoranze decisamente conservatrici che avevano come orientamento la sostanziale restaurazione dello Stato liberale prefascista, dominava l’idea che l’Italia del dopoguerra avrebbe dovuto essere «democratica» e repubblicana, segnando una rottura netta con il fascismo e con le forze sociali che ne avevano costituito il supporto. Sennonché, nell’intendere le basi e i tratti della democrazia, si facevano palesi le divergenze. Comunisti, socialisti e azionisti condividevano la convinzione che fosse necessaria una «rivoluzione», ma circa i modi d’intenderne significato e contenuti si facevano palesi le diversità. Nelle file dei partigiani della sinistra classista marxista, ovvero dei comunisti e dei socialisti esaltati dopo Stalingrado dai sempre maggiori successi dell’Armata Rossa nell’Europa orientale, era diffusa la persuasione che la rivoluzione avrebbe dovuto essere socialista e diretta nella prospettiva di porre fine a quel sistema capitalista che aveva dato origine al fascismo; che la rivoluzione internaziona-

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le bloccata dalla reazione nel primo dopoguerra, nel secondo avrebbe ripreso la sua marcia sotto la guida della vittoriosa Unione Sovietica staliniana, della cui realtà totalitaria e spietatamente oppressiva delle stesse masse lavoratrici i comuni militanti comunisti e socialisti non avevano conoscenza alcuna; e che la vittoriosa «dittatura proletaria» sovietica avrebbe prossimamente aperto la strada alla compiuta costruzione della società della giustizia e dell’eguaglianza sociale nell’Europa capitalistica. Quanto agli azionisti, la loro parola d’ordine era la «rivoluzione democratica», che avrebbe dovuto creare un assetto tale da reintrodurre – ma in maniera più matura e diffusa di quanto non fosse avvenuto dopo l’introduzione del suffragio universale maschile e prima del sopravvento della reazione fascista – le libertà politiche e civili, il pluralismo partitico e culturale, colpire le concentrazioni monopolistiche, avviare riforme avanzate nel mondo dell’industria e dell’agricoltura, dare insomma all’insieme delle istituzioni e della società un assetto che segnasse una rottura con le debolezze e i vizi dello Stato prefascista. Da parte loro, le ali più o meno moderate della Resistenza erano espresse principalmente dai democristiani – al cui interno si collocavano sia conservatori tradizionalisti sia democratici che, pur opponendosi alla sinistra classista e a quella azionista, avanzavano un loro programma riformistico inteso anzitutto a favorire lo sviluppo della media e piccola proprietà – e dai liberali e dai monarchici che miravano sostanzialmente a ricostituire lo Stato sulle sue basi antecedenti all’ottobre 1922. Un aspetto assai importante era poi l’atteggiamento nettamente

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contrastante all’interno delle forze della Resistenza in materia di riferimenti internazionali, che induceva comunisti e socialisti a guardare all’Unione Sovietica e le altre componenti, compresa la maggioranza degli azionisti, alle potenze occidentali (le simpatie dei conservatori si rivolgevano soprattutto alla Gran Bretagna, quelle dei democratici agli Stati Uniti). Nelle regioni del Nord la Resistenza attiva, quella cioè messa in atto dai partigiani combattenti delle montagne, dai gruppi urbani, dagli informatori e dalle staffette, poté contare – come testimoniato dalle stesse fonti repubblichine – sul sostegno e sulla simpatia di vasti strati della popolazione. Come inevitabile, tra la minoranza degli ultimi fascisti e dei loro simpatizzanti da un lato e dall’altro i partigiani in armi, e quanti ne sostenevano la lotta con un impegno diretto oppure nutrivano verso di essi un’aperta simpatia per quanto consentito dalle circostanze, si collocava la fascia, impossibile a quantificarsi, composta dagli «attendisti», ovvero da coloro che nelle montagne, nelle campagne e nelle città erano in attesa che la guerra finisse, tenendo una posizione segnata da indifferenza politica, paura delle incognite e dal timore che lo scontro degli uni con gli altri potesse danneggiarli. Fu comprensibile che in particolar modo tra i contadini – moltissimi dei quali faticavano all’estremo per trovare il cibo quotidiano per la propria famiglia e che si trovavano nella condizione di dover dividere, talvolta indotti da spirito di solidarietà e talvolta costretti con la forza, le loro scarse risorse con i partigiani e di dare loro rifugio, subendo in prima persona le rappresaglie dei nazifascisti con

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la distruzione di case e anche interi villaggi, arresti, singole uccisioni e stragi collettive – non mancassero, accanto ai sostenitori dei partigiani, gli stanchi di tutti e di tutto. Eppure, a mostrare quanto ingiusta e infondata sia l’accusa rivolta alla Resistenza dagli studiosi «revisionisti», di essere stata al pari della Repubblica sociale l’espressione di una minoranza della popolazione largamente isolata contrapposta a una maggioranza indifferente o passiva di fronte alle sorti della lotta tra le parti opposte, stanno cifre eloquenti. Anzitutto fu rilevante il numero complessivo dei partigiani, i quali, se videro gonfiare le loro file alla vigilia della sconfitta tedesca, ammontarono, tenendo conto di tutti coloro che in tempi diversi parteciparono alla lotta, a oltre 200.000 (secondo le fonti ufficiali fasciste 111.000 «banditi» in armi nel novembre 1944); come lo fu anche il numero dei 44.720 partigiani caduti e dei soldati regolari, a partire da quelli di Cefalonia, uccisi (cui vanno aggiunti i partigiani italiani morti nelle file della Resistenza di altri paesi, in primo luogo in Iugoslavia), degli oltre 20.000 partigiani mutilati, delle circa 10.000 vittime civili delle rappresaglie e dei circa 40.000 deportati tra oppositori politici ed ebrei. La Resistenza nel Nord – che di fronte alla Repubblica di Mussolini asservita ai nazisti si sentiva come l’agente e la rappresentante dell’intera Italia, essendo animata dagli ideali della cacciata dei nazifascisti dal paese, della ricostituzione dello Stato unitario e della riconquista della democrazia (ma sarebbe più opportuno parlare di conquista, dati i limiti del sistema politico italiano tra la legge sul suffragio universale

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maschile e l’avvento del fascismo) – costituì il capitolo più importante scritto nella storia d’Italia dopo il 1859-60 dal sentimento di rinascita nazionale; ma anche quello che – in conseguenza della dissoluzione dello Stato unitario e dell’erompere della terza e più terribile guerra civile – palesò, ancor più della guerra del brigantaggio e della grande lacerazione del 191922, il massimo della disunità oggettiva e soggettiva. Fu da quel capitolo, proclamato a sua volta secondo Risorgimento, che tra il 1945 e il 1947, pur attraverso un percorso travagliato e accompagnato da acuti contrasti, prese forma il terzo tipo di Stato, dopo il liberale e il fascista, sancito dal referendum istituzionale del giugno 1946 che introdusse la repubblica e dall’approvazione, nel dicembre 1947, a larghissima maggioranza da parte dell’Assemblea costituente, la prima dell’Italia unita, della Costituzione liberaldemocratica. Il referendum consacrò la vittoria della repubblica – che era stata la finalità di molto prevalente nelle file delle formazioni partigiane, e per questo poté essere a ragione considerata figlia della Resistenza –, ma i suoi risultati misero al tempo stesso in luce la frattura esistente nel paese da poco più di un anno riunificato. Si vide, infatti, che il «vento del Nord» non aveva investito il Sud, dal momento che il voto per la repubblica prevalse largamente nelle regioni settentrionali, mentre in quelle meridionali la maggioranza si espresse per il mantenimento della monarchia. L’impulso proveniente dalla Resistenza, al cui interno la sinistra socialcomunista e azionista aveva mirato ad una netta cesura dello Stato nuovo rispetto allo Stato prefascista, venne così in misura

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sostanziale frenato da un Mezzogiorno che, con la preferenza data alla monarchia, pose una decisiva ipoteca a favore della continuità dello Stato in senso conservatore. In proposito, è da tenersi nel debito conto che la repubblica vinse su scala nazionale con uno scarto di soli 2 milioni di voti su un totale di circa 23 milioni e mezzo; un risultato oltretutto contestato dagli sconfitti. Si trattò di un ulteriore indice della eterogeneità politica, oltre che economica e sociale, tra il Nord che aveva fatto la Resistenza e il Sud che non l’aveva invece conosciuta. Quel patto comune che fu la Costituzione, entrata in vigore nel 1948, fu l’ultima espressione dell’unità dei partiti antifascisti le cui radici erano state poste nel 1943. Quando infatti venne firmato, l’alleanza politica delle forze della Resistenza, espressa nei governi di coalizione che avevano assicurato la guida del paese dopo il 1945, era già stata lacerata nel maggio 1947 dalla estromissione dal governo di comunisti e socialisti, per effetto della guerra fredda sviluppatasi all’interno del paese nel contesto di quella internazionale: guerra fredda, che causò l’ennesima grande frattura all’interno della società italiana, questa volta tra filoamericani e filosovietici. Siffatta frattura, resa ben visibile dallo scontro politico e ideologico estremamente violento che precedette le elezioni dell’aprile 1948 – nel corso del quale le parti si richiamarono a due contrapposti, incompatibili «modelli superiori di civiltà» (per l’una quello capitalistico occidentale liberaldemocratico, per l’altra quello collettivistico totalitario sovietico), denunciandosi reciprocamente quali serve di nuovi

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padroni stranieri – si mantenne assai profonda per circa un decennio, poi andò a mano a mano attenuandosi, ma senza scomparire e smettere di produrre conseguenze; tanto che, per vederne realmente la fine, si dovette attendere il crollo del comunismo sovietico e quindi il venir meno del confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, con le sue conseguenze sulla politica interna italiana e sulla topografia dei suoi partiti. Con la fine dei governi di coalizione nel maggio 1947 e l’approvazione del testo della Costituzione nel dicembre di quello stesso anno, venne dunque formalmente chiuso il capitolo dell’unità antifascista che aveva avuto corso dopo la Liberazione. A proposito della quale occorre ribadire che questa unità era sempre stata soltanto relativa, in quanto, se aveva avuto come obiettivo comune il superamento dell’eredità fascista, era stata marcata da forti differenze e contrapposizioni ideologiche e di strategia politica, di cui la formazione e la caduta del governo Parri, il primo dell’era postfascista, avevano costituito un segno evidente e premonitore. L’unità antifascista aveva bensì consentito il raggiungimento di risultati importanti e significativi quali, appunto, le coalizioni di governo e il varo di una Costituzione frutto di un «compromesso» tra le culture politiche della sinistra classista, del centro cattolico e del liberalismo; sennonché le prospettive di fondo della sinistra marxista e quelle delle forze politiche e sociali alla loro destra furono, fin dall’inizio e per aspetti decisivi, in rotta di collisione nei modi di concepire il futuro del paese. La prima era sì disposta ad

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accettare la democrazia di matrice liberale, come dimostrato dal contributo determinante da essa dato alla formulazione e all’approvazione della Costituzione, ma soltanto in via transitoria, poiché aveva come obiettivi ultimi, indeterminati nel tempo ma saldamente fissati nella sua ideologia, l’avvento di una «democrazia socialista», che i comunisti e i socialisti a questi legati concepivano sotto l’influenza del modello sovietico, e il superamento del capitalismo. Inoltre, in campo internazionale la solidarietà dei socialcomunisti andava pienamente all’Unione Sovietica e ai paesi dell’Est, che stavano gradualmente cadendo con la loro approvazione sotto dittature comuniste; e, se dai rapporti imposti dagli accordi delle potenze vincitrici essi erano indotti a piegarsi alle implicazioni della creazione di opposte sfere di influenza nell’Europa divisa, la loro speranza – alimentata dalla ferma convinzione, rivelatasi illusoria, del rapido affermarsi della superiorità del campo comunista su quello capitalistico – era che la crisi, ritenuta storicamente inevitabile, del capitalismo avrebbe provocato un mutamento qualitativo degli equilibri in Europa e infine il congiungimento dell’Italia allo schieramento guidato dall’Unione Sovietica. Togliatti poi dichiarò significativamente che, nel caso in cui l’imperialismo americano avesse gettato il mondo in un nuovo conflitto mondiale, il posto dei comunisti italiani sarebbe stato senza esitazioni accanto ai sovietici. La Democrazia cristiana e gli altri partiti di centro e di destra, se diversamente orientati nelle politiche economiche e sociali, in alcune componenti aperti ad esigenze riformatrici e in

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altre invece attestati su posizioni nettamente conservatrici fino a punte estreme reazionarie, per quanto atteneva allo schieramento internazionale costituivano un compatto fronte antisovietico e consideravano le potenze occidentali, e in primo luogo gli Stati Uniti – col grande prestigio loro conferito dal fatto di avere, grazie agli aiuti economici forniti, un ruolo determinante nel promuovere la rinascita economica dell’Europa capitalistica e quindi anche dell’Italia e nel garantire la difesa delle istituzioni liberaldemocratiche – come il loro insostituibile baluardo contro la minaccia comunista interna e internazionale. Siffatta spaccatura all’interno del paese tra lo schieramento filosovietico e quello filoccidentale venne acutamente riaccesa dal sostegno dato dal Partito comunista, nel 1956, alla repressione negli Stati dell’Est europeo, culminata nell’invasione sovietica dell’Ungheria, mostrando quali fossero i limiti intrinseci del «partito nuovo» e «nazionale» teorizzato da Togliatti fin dal 1944. Parzialmente attenuata, in un primo tempo, dalla svolta attuata dopo quel 1956, allorché il Partito socialista, divenuto nel 1948 partito minoritario della sinistra, pose fine all’unità ideologica e di azione con il Partito comunista e alla sua solidarietà al campo comunista internazionale, la spaccatura perse ulteriormente vigore in seguito alle posizioni a mano a mano più autonome rispetto alla politica sovietica assunte dallo stesso Partito comunista in conseguenza dell’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e alla nascita, a metà degli anni ’70, della corrente comunista occidentale espressa dall’«eurocomunismo», di cui Berlinguer – che avanzò una critica significativa

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delle dittature in atto nell’Unione Sovietica e negli Stati dell’Est europeo – divenne il leader più autorevole. Si trattò, comunque, di un’attenuazione importante della frattura, ma non del suo superamento, poiché il Partito comunista restò ancor sempre legato al campo socialista, sotto il condizionamento della persistente persuasione della superiorità economica e sociale di questo sul campo occidentale; persuasione rinnovata persino, quando ormai l’Unione Sovietica si era avvitata nella crisi strutturale che l’avrebbe portata al crollo finale, dalla fiducia che Gorbačëv potesse rivitalizzare il comunismo nei paesi dove esso era al potere e nel resto del mondo. Va d’altra parte considerato che la frattura di cui era portatore il Partito comunista ebbe un carattere ideologico e politico, ma non si tradusse in alcuna minaccia concreta al sistema istituzionale e alla democrazia. Se infatti, nei primi anni del dopoguerra, nella base del partito e in una ristretta corrente degli organi direttivi, erano emerse correnti che miravano a tradurre in pratica rivoluzionaria lo spirito anticapitalistico e ostile alla «democrazia borghese», queste erano state prima contenute e poi definitivamente emarginate da Togliatti, per il quale «la via italiana al socialismo» doveva essere percorsa – salvo, come si è detto, nel caso in cui le tensioni tra Oriente e Occidente dovessero precipitare in una nuova guerra mondiale – facendo leva sul consenso elettorale delle masse, operando dentro il quadro costituzionale, e anche difendendolo da attacchi reazionari, come avvenne nel luglio 1960 e negli anni ’70 e ’80, quando i comunisti si opposero con determinazione tanto ai progetti eversivi della loggia

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P2 e dei servizi deviati dello Stato quanto a quelli del terrorismo di opposta tendenza. A far ripiombare la società italiana in una nuova stagione di scontri armati e stragi sanguinose, tra l’attentato di Piazza Fontana a Milano nel dicembre 1969 e i primi anni ’90, e nella «dialettica della disunità» furono per un verso le organizzazioni clandestine extraparlamentari del «terrorismo nero» e del «terrorismo rosso» e per l’altro le organizzazioni criminali di stampo mafioso. Nella lunga, ventennale ondata del terrorismo rosso e nero durante gli «anni di piombo» – la quale non ebbe riscontri paragonabili in alcun altro paese europeo, salvo che nella Spagna investita dal terrorismo separatistico basco dell’ETA e nell’Ulster dilaniato dalla lotta feroce tra cattolici e protestanti, e neppure in Germania dove operarono gruppi di terroristi rossi rimasti però largamente isolati e operanti per un periodo più limitato – si videro agire in Italia le varie brigate della destra e della sinistra extraparlamentari, in concorrenza e in conflitto fra loro ma intese tutte a distruggere lo «Stato nemico» e ad abbattere le istituzioni parlamentari, i partiti che le sostenevano e il sistema democratico, bollato come corrotto e imbelle. I gruppi della destra eversiva dirigevano la loro polemica anche contro la destra ufficiale, accusata di aver abbandonato ogni volontà di perseguire un’autentica «rinascita nazionale», di cui vedevano un modello positivo nel regime neofascista dei colonnelli greci; i gruppi della sinistra egualmente eversiva erano a loro volta in urto frontale non solo con la sinistra socialista, entrata nella sfera di governo, ma altresì con quella comunista, considerata ormai di fatto «in-

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tegrata» nel sistema dominante e divenuta complice del capitalismo nazionale e dell’imperialismo internazionale, avendo ridotto l’ideologia rivoluzionaria ad un mero, stanco, residuo rituale e rinunciato anche in sede programmatica all’instaurazione della dittatura del proletariato. A differenza degli assai ristretti gruppi terroristici di sinistra tedeschi, quelli italiani poterono contare a lungo sulle simpatie e sulle attive complicità di segmenti non irrilevanti della società. Ad essi andavano le simpatie e anche l’appoggio diretto di frange estremistiche di giovani ex sessantottini, intellettuali e operai di fabbrica di orientamento radicale, uniti nella critica frontale verso i partiti ufficiali della sinistra e desiderosi di portare l’attacco di classe direttamente al «cuore dello Stato» nemico (obiettivo che ebbe il suo massimo successo politico nel 1978, col rapimento e l’assassinio di Moro da parte della Brigate rosse). I gruppi di destra, dal canto loro, trovarono appoggi soprattutto nei servizi segreti deviati dello Stato – tanto che la trama dei sanguinosi attentati da essi compiuti anche contro comuni cittadini, come a Bologna e Brescia, venne definita «strage di Stato» –, in ufficiali dell’esercito di tendenze fascistoidi e in ambienti dominati dall’anticomunismo più viscerale e pronti a sostenere chi mirava ad abbattere la repubblica sostituendola con un regime autoritario. I terroristi degli opposti colori – sulle cui complicità interne e internazionali non è stata mai fatta luce – condussero una serie impressionante di attentati, ferimenti e assassinii che colpirono magistrati, uomini politici, giornalisti, intellettuali, poliziotti, sindacalisti e, nello scontro che li opponeva, anche si uccisero

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e ferirono reciprocamente. Scopo dei gruppi eversivi era prima di generare con tali tecniche spietate il cedimento dello Stato e il crollo del sistema politico e istituzionale, poi di aprire la fase della resa finale dei conti tra i terrorismi rivali, che avrebbe dovuto concludersi con l’avvento o di una dittatura neofascista o di una dittatura proletaria. Mentre il terrorismo, di destra e di sinistra, infuriava avendo come principale bacino territoriale il Nord e il Centro d’Italia, la mafia andava conducendo nel Mezzogiorno una parallela azione offensiva che nei mezzi impiegati mostrava strette analogie con quello. Essa mise in atto un’ondata di violenze che si protrasse quando il terrorismo politico, grazie anche al varo di leggi eccezionali, era stato sconfitto dall’azione repressiva infine efficace della magistratura e della polizia, appoggiata dai partiti sia di governo sia di opposizione, dai sindacati e dalla grande maggioranza dell’opinione pubblica. Al pari delle organizzazioni del terrorismo politico, che intendevano contrapporre se stesse allo Stato legale come nucleo di un anti-Stato, le organizzazioni di stampo mafioso, con una capacità di controllo sociale assai più vasta e articolata, agivano specie nel Mezzogiorno per rafforzare le basi del proprio anti-Stato, avendo come scopo principale l’espansione del sistema di economia illegale da esse controllato. A tal fine si muovevano in molteplici direzioni: stabilire complicità con elementi corrotti della magistratura e della polizia; stringere alleanze e scambi di favori con correnti dei partiti di governo; penetrare nelle maglie della pubblica amministrazione; imporre la

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propria legge criminale con ricatti ed estorsioni a commercianti e imprenditori; mettere le mani su appalti e opere pubbliche; tenere saldamente il controllo del mondo della droga; reclutare e armare, legandola alla propria rete di interessi, una manovalanza di giovani disoccupati ed emarginati pronta a colpire persone e a distruggere beni. Per questa via le cosche mafiose furono in grado di stabilire il loro dominio su ampie zone del Sud e di raggiungere una potenza economica in crescita costante, accumulando enormi capitali divenuti, in maniera determinante per effetto del riciclaggio del «danaro sporco», un fattore inquinante del settore bancario nazionale e internazionale. La sfida lanciata allo Stato dall’anti-Stato criminale nelle sue varie articolazioni fu impressionante. Tra gli anni ’70 e ’90 vennero assassinati magistrati, poliziotti, uomini politici, sindacalisti, intellettuali, preti scomodi. Nel 1982 cadde il prefetto di Palermo Dalla Chiesa. Il culmine dell’azione terroristica venne raggiunto nel 1992, con l’uccisione prima del giudice Falcone e degli uomini della sua scorta e poi del giudice Borsellino, e nel 1993 con attentati dinamitardi a Firenze, Milano e Roma. Per troppo tempo la lotta dello Stato alle mafie era risultata fortemente inadeguata e persino in molti casi ostacolata nientemeno che da giudici, membri delle forze dell’ordine e esponenti politici coinvolti nella rete degli interessi criminali. Le stragi del 1992 e gli atti dinamitardi del 1993, in un clima torbido di collusioni mai chiarite tra i criminali e gli ambienti politici desiderosi di farsi strada nel contesto della crisi della Prima repubblica insieme a uomini dei

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servizi segreti, suscitarono una reazione che consentì una svolta nell’azione repressiva, la quale dopo di allora si pose in condizione di infliggere duri colpi all’anti-Stato criminale, senza però riuscire ancora a impedire a questo di continuare a mantenere una salda presa su vaste zone del Mezzogiorno e anche sul resto del territorio nazionale, con la conseguenza di lasciare aperta una delle più gravi e drammatiche fratture che hanno travagliato e continuano a travagliare la vita dell’Italia minando acutamente l’unità della nazione.

V

I tre «regimi bloccati» e le crisi di regime

Il tipo di divisioni politiche e sociali che invariabilmente contrapposero le forze di opposizione a quelle di governo durante i regimi liberale, fascista e democratico-repubblicano ebbe quale effetto di indurre le rispettive classi politiche dirigenti a ritenere che prima i clericali, gli anarchici, i socialisti, i repubblicani, poi gli antifascisti, infine – esauritasi nel 1947 la fase di unità antifascista – i socialcomunisti e i comunisti (dopo che nel 1956 i socialisti ebbero rotto il patto di unità di azione e il vincolo ideologico che li legava a questi) non possedessero, in quanto forze organicamente ostili allo Stato, la necessaria legittimità per accedere al governo, e che pertanto occorresse erigere contro di loro invalicabili barriere di difesa. In mancanza della possibilità di alternative di governo da parte delle forze e dei partiti pur presenti legalmente, nei sistemi liberale monarchico e democratico repubblicano il mutamento politico avvenne in forme necessariamente limitate. Le formule a livello della classe politica alla guida dello Stato furono essenzialmente le seguenti: il succedersi al timone delle varie

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correnti interne al partito dominante nell’ambito del monopolio di potere da questo esercitato; l’associazione al governo di partiti minori, dando così luogo ad una forma oligopolistica; il trasformismo ovvero l’assimilazione di settori minoritari dell’opposizione resisi disponibili a raggiungere le sponde governative come mezzo atto ad allargare la base di potere. Capitoli particolarmente rappresentativi della successione di una corrente all’altra, da parte del partito dominante, alla guida del governo furono, in età liberale, la cosiddetta «rivoluzione parlamentare» del 1876, allorché la Destra storica cedette il potere alla Sinistra guidata da Depretis, e l’avvento al governo nel 1901 dell’ala liberale progressista di Zanardelli e Giolitti, che segnò la svolta che chiuse il periodo di acuta reazione di fine secolo, di cui si era fatto interprete il generale Pelloux; in età repubblicana invece, mutamenti come quello che nei primi anni ’60 chiuse la fase del «centrismo» e diede inizio al «centrosinistra» guidato da Fanfani e Moro e quello che portò alla formazione, nel 1976, del governo monocolore guidato da Andreotti e detto della «non-sfiducia», in quanto poggiante formalmente sull’astensione e sostanzialmente sull’appoggio del Partito comunista. I governi senza alternativa ebbero tutti come costante che un solo partito – prima il liberale e poi il democristiano – costituisse il nerbo della maggioranza parlamentare e il maggior sostegno dell’esecutivo. Il che non volle dire che, accanto al succedersi delle correnti di questi partiti al vertice del potere, non si desse da parte del partito dominante, in particolari congiunture politiche, la cessione della guida del potere esecutivo a personalità appartenenti

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stabilmente all’area di governo o provenienti dai ranghi delle forze di opposizione approdate alle sponde governative. Esempi clamorosi di tali processi furono, nel 1887, la successione a Depretis di Crispi, un ex mazziniano divenuto un acceso monarchico e colonialista, e l’accesso alla presidenza del Consiglio nel 1981 del repubblicano Spadolini e nel 1983 del socialista Craxi, che suggellò la collaborazione ormai ventennale stabilitasi tra il Partito socialista, convertitosi da partito rivoluzionario alleato del Partito comunista in partito riformista, e la Democrazia cristiana. I governi liberali e i governi repubblicani furono dunque disposti ad accogliere nelle maggioranze parlamentari e negli esecutivi le frazioni minoritarie decise ad abbandonare il fronte delle opposizioni e a «trasformarsi» raggiungendo quello opposto – di qui la grande importanza del «trasformismo» nella vicenda italiana –, ma non a riconoscere la possibilità di essere sostituite al timone dello Stato dalle forze di opposizione. Il trasformismo venne teorizzato e elevato a prassi politica da Depretis nel 1876, quando questi – riprendendo la sostanza del «connubio» messo in atto nel 1852 da Cavour e Rattazzi nel Regno sardo – invitò a unirsi al suo programma coloro che, pur avversari, intendessero raggiungere le file governative; e dopo di allora costituì una caratteristica della politica italiana, radicata nella natura stessa dei sistemi politici bloccati. Occorre ribadire che siffatta natura aveva le sue ragioni oggettive nel fatto che le forze di opposizione mirarono costantemente non già a porsi all’interno dei sistemi politici, candidandosi alla guida delle isti-

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tuzioni vigenti, ma a mutare qualitativamente le basi dello Stato, con il risultato che le forze di governo erano indotte a far valere nei confronti delle prime una permanente conventio ad excludendum. Si trattò di una vicenda durata circa centotrenta anni che ebbe un enorme significato per la nostra storia. Soltanto dopo il disfacimento, nei primi anni ’90, del sistema dei partiti attivi sulla scena della Prima repubblica e la scomparsa definitiva, in seguito al venir meno del confronto tra Occidente ed Oriente, di qualsiasi significativo soggetto inteso, sia pure in una maniera divenuta sempre più vaga, a introdurre «mutamenti qualitativi» di natura istituzionale e sociale, il sistema si è «sbloccato» così da rendere infine possibile il succedersi al potere degli schieramenti in competizione, seppure in un quadro in cui il presupposto dei regimi democratici maturi della reciproca piena legittimazione a governare è rimasto sostanzialmente assai fragile. La «logica» intrinseca dei tre sistemi bloccati produsse come inevitabile conseguenza che la loro fine non poté assumere se non il carattere di «crisi di regime»: le prime due, quella del regime liberale e quella del regime fascista, attraverso alternative di sistema; quella della Prima repubblica attraverso la dissoluzione della formula dei governi basata sulle coalizioni formate dalla Democrazia cristiana, dal Partito socialista e dagli altri partiti minori di centro, lo scioglimento del Partito comunista e il cedimento, sotto l’urto di «Tangentopoli», dell’intero sistema dei partiti. Inoltre, è da notarsi che caratteristica di tutte le cri-

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si del sistema politico fu di chiudersi con la sconfitta delle forze che possono essere definite di «sinistra» o «progressiste» in senso ampio. Si ripeté nella storia dello Stato unitario quanto avvenuto a conclusione del Risorgimento con la sconfitta delle correnti democratiche repubblicane ad opera dei liberali monarchici. La crisi del sistema liberale si chiuse infatti con la vittoria del nazionalfascismo sui socialisti, comunisti e liberali democratici; al crollo del fascismo seguì il sopravvento sulla sinistra classista e azionista delle forze moderate guidate dalla Democrazia cristiana; il disfacimento della Prima repubblica si concluse con l’emergere dello schieramento guidato da Berlusconi, agevolato dalla debolezza di una sinistra post-comunista in fase di tormentata ristrutturazione. Costituisce motivo di riflessione che tutte le crisi di sistema abbiano dunque giocato a favore non già delle forze che erano state in prima fila nella lotta con i sistemi crollati, ma di quelle postesi alla guida di processi di riorganizzazione e di difesa, di segno reazionario come nel 1919-22 o più o meno moderato come nel 1947-48 e nel 1993-94. Uno degli aspetti principali dei sistemi bloccati e della contrapposizione frontale degli schieramenti politici fu che essi furono al tempo stesso causa ed effetto dei decisivi ostacoli a che si pervenisse con successo nel nostro paese alla «nazionalizzazione» delle masse, ovvero alla loro integrazione nelle istituzioni. Tanto nel periodo giolittiano e nel primo dopoguerra quanto nel corso della Prima repubblica, la sinistra di ispirazione classista e i sindacati ad essa legati condussero lotte intese non soltanto a strappare miglioramenti

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salariali, ad allargare la sfera dei diritti sociali e politici, a ottenere migliori condizioni di vita materiale e civile, ma anche a superare la frattura territoriale, economica, sociale e culturale tra Nord e Sud, collegando i lavoratori settentrionali con quelli meridionali, dando loro comuni organizzazioni e una condivisa cultura politica. Essi compirono dunque sforzi assai importanti, non privi di sostanziali successi, per unire a livello nazionale gli strati popolari superando antiche barriere e steccati. Ma si trattò di sforzi segnati da un limite intrinseco: avere un carattere settoriale, non essere cioè diretti a saldare le masse lavoratrici con gli altri strati sociali, bensì a costituire un «blocco antagonista» di forze mirante a dar vita a «un altro Stato». Queste forze diedero sì vita a un progetto di «vivere insieme», ma secondo vincoli di parte, così da rappresentare un tentativo di «nazionalizzazione classista» sul versante essenzialmente (anche se non solo, poiché inteso a comprendere strati intellettuali) popolare, destinato all’insuccesso dall’incapacità della sinistra di dare esito al suo progetto di ricostruzione complessiva dell’ordine sociale e politico. A siffatto tentativo corrisposero su basi e fronti opposti il progetto di «nazionalizzazione liberale progressista», concepito da Giolitti agli inizi della sua opera di governo e, per certi aspetti, anche da Nitti negli anni assai tormentati in cui fu presidente del Consiglio nel 1919-20, e quello fascista di «nazionalizzazione autoritaria»: tutti egualmente votati all’insuccesso. A sua volta il disegno concepito, specie nella breve stagione del primo centrosinistra a partire dal 1962, dai socialisti riformisti con l’intesa delle correnti di sinistra della Democrazia cristiana

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di superare, sia pure gradualmente, la frattura che opponeva le masse di orientamento radicale allo Stato e alle sue istituzioni mancò di sufficiente incisività. Poiché queste forze, anche dopo che i socialisti ebbero accesso al governo – tenendo però una posizione di subalternità o comunque di organica debolezza per il fatto di non disporre mai di una propria maggioranza parlamentare – non furono in grado di conquistare un adeguato consenso nelle masse lavoratrici rimaste legate in prevalenza al Partito comunista, il cui concetto di unità nazionale mantenne sempre, anche dopo l’allentamento dei rapporti con il campo sovietico, un baricentro ideologico non assimilabile a quello delle forze di governo. La mancata nazionalizzazione delle masse in Italia è dunque riconducibile a questi principali fattori e al loro effetto cumulativo: la persistente contrapposizione di carattere ideologico, politico e sociale tra forze di governo e forze antagoniste; il difetto di «egemonia» dimostrato nel corso della storia dello Stato unitario da parte delle classi dirigenti, le quali non hanno potuto o saputo acquistare agli occhi delle masse popolari quel prestigio che dell’egemonia costituisce il primo presupposto; l’influenza assai ampia che le organizzazioni criminali e le loro reti di clientele hanno esercitato su consistenti strati sociali in vaste zone del territorio meridionale. Si può dunque affermare che i regimi politici bloccati e la mancanza di una direzione di tipo egemonico da parte delle classi dirigenti non hanno consentito di attivare in Italia un processo di nazionalizzazione delle masse.

VI

Le radici e le forme dell’immaturità civile degli italiani e della corruzione

È un detto noto che il potere tende a corrompere chi lo esercita. Dal che deriva che per impedire, combattere efficacemente o almeno contenere entro certi limiti la corruzione si rende necessario che in una società siano operanti alcune fondamentali condizioni. Queste sono non soltanto la divisione dei poteri, l’esistenza di istituzioni rappresentative dell’intero corpo sociale, il pluralismo politico e culturale e una opinione pubblica informata e vigile, ma in primo luogo che il potere non resti troppo a lungo nelle mani delle stesse forze di governo senza possibilità di ricambio. Il monopolio o l’oligopolio di potere ha effetti profondamente negativi tanto sui governanti quanto sui governati. Esso promuove la formazione di clientele protette con le loro reti di solidarietà spesso inconfessabili e l’inamovibilità del ceto governativo – che non ha a che fare con il succedersi delle combinazioni di governo all’interno degli stessi bacini parlamentari – favorisce l’appiattirsi in maniera complice dei settori prevalenti della magistratura – come avvenuto fino a Tangentopoli – e della burocrazia sui governi e sugli interessi dei ceti che essi maggiormente rappresentano con un gravissimo vulnus

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inferto ai princìpi dello Stato di diritto e al senso del valore della legalità, indebolendo fino ad annullarle le possibilità di controllo da parte in primo luogo dei giudici che non abdichino ai loro compiti. È infatti di per sé chiaro che ben diversa è la posizione della magistratura e della burocrazia nei confronti dei governi nei sistemi politici in cui, in luogo di un monopolio o un oligopolio, il pluralismo politico e partitico determina quanto meno abbastanza frequenti alternanze al potere da parte degli schieramenti concorrenti. Condizione in Italia mai realizzatasi fino ai tempi recenti. Sui governati il monopolio o l’oligopolio di potere sviluppa due tendenze opposte ma egualmente rivelatrici di un malsano rapporto tra le parti: da un lato quella alla passività, all’acquiescenza, al servilismo, al conformismo e alla ricerca di protezioni clientelari; dall’altro quella alla costante presenza di ideologie rivoluzionarie, alla protesta e al ribellismo che sfociano anche in atti eversivi, insomma al costituirsi di opposizioni anti-sistema. La storia d’Italia dal Cinquecento in poi è stata segnata da due tratti dominanti. Il primo è stato, fino al Risorgimento, l’asservimento di alcune parti del paese allo straniero e di altre a sovrani assoluti o a oligarchie chiuse, con la sola eccezione, rilevante ma breve nel tempo, del Piemonte liberale nell’età cavouriana (che però a sua volta, dopo la formazione del «connubio» tra Rattazzi e Cavour, vide preclusa la possibilità di un’alternativa di governo); e, dopo il Risorgimento, la presenza dei tre regimi bloccati, che hanno riproposto, con caratteristiche di maggiore o minore rigidità, condizioni favorevoli all’accomodamento di lungo periodo, intorno al potere degli strati sociali alti, dei ceti

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medi e bassi a questi direttamente legati da interessi o inclini al conformismo e alla passività. Il secondo tratto è stato rappresentato dal pressoché totale monopolio esercitato in materia religiosa, con influenze politiche di estrema importanza, dalla Chiesa cattolica: una posizione consolidata in seguito allo sradicamento dei non irrilevanti fermenti prodotti dalla Riforma protestante, solo parzialmente indebolita durante lo Stato liberale, ricostituita dal fascismo nel 1929 con i Patti lateranensi e riaffermata dalla Costituzione repubblicana con il recepimento di quei Patti, la cui portata è stata attenuata in modo solo parziale dal Concordato del 1984; tanto che lo Stato italiano a partire dalla Conciliazione si è presentato e tuttora si presenta come «semi-laico». Venuto meno il regime liberale che, nel corso dei suoi difficili e tormentati rapporti con la Chiesa, aveva affermato il carattere laico dello Stato, a partire dall’avvento del fascismo si assistette a una crescente deriva dello spirito di laicità, il quale subì un duro colpo dal patto stabilito nel 1947 dal Partito comunista e dalla Democrazia cristiana, che sancì una forte continuità in materia di politica religiosa tra il regime fascista e quello repubblicano. Il che ebbe come conseguenza che i valori della laicità rimasero appannaggio unicamente di ristrette minoranze, non in condizione di porre limiti all’influenza determinante della Chiesa sulla politica, sulla legislazione e sulla società italiane, apertamente favorita dai governi e dai partiti beneficiati dall’appoggio elettorale dato dal mondo cattolico e contrastata solo debolmente e contraddittoriamente dalle maggiori forze di opposizione. Non si può poi sottacere che da secoli, nel corso di un processo ancor oggi perdurante, la Chiesa ha avuto un

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ruolo primario nel coltivare, soprattutto nel Mezzogiorno ma non solo, riti e credenze che affondano le radici direttamente nella superstizione, con tutti i loro deleteri effetti sullo spirito civile delle popolazioni. Sicché gli effetti congiuntamente prodotti da secolari forme di potere prive di possibilità di ricambio e dal monopolio religioso della Chiesa cattolica hanno seminato nella società germi potenti di conformismo e opportunismo, di incomprensione, indifferenza, quando non di decisa ostilità verso il pluralismo culturale e religioso. Tra le cause della depressione dello spirito pubblico degli italiani, un ruolo cruciale spetta alle ramificazioni della corruzione, annidata tanto nella società politica e nella pubblica amministrazione quanto nella società civile, e nel fitto tessuto dei loro reciproci rapporti nel sistema creato dai regimi politici bloccati, da apparati burocratici troppo permeabili alle pressioni degli interessi esterni, dalle infiltrazioni delle organizzazioni criminali e dal fatto determinante che la deterrenza e la certezza della pena hanno sempre costituito elementi troppo deboli nei confronti dei potenti – uomini politici, alti funzionari, uomini di affari – e dei loro clienti, dei membri delle varie mafie e dei grandi evasori fiscali i quali hanno operato e operano contro la legalità. La deterrenza penale è privata della forza che dovrebbe avere dalla scarsità delle risorse a disposizione della magistratura, dalla lentezza dei processi e dalle complicità che in molti casi si stabiliscono tra giudici infedeli e il mondo dei potenti. Sono così venute a crearsi in Italia condizioni che hanno grandemente favorito una vasta e profonda corruzione, la quale – stabilito che in ogni paese la corruzione esiste ed opera – non ha però ri-

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scontri negli altri Stati occidentali per l’impunità su cui i corruttori e i corrotti possono contare in conseguenza della mancanza di volontà o dell’incapacità o della stessa impossibilità di perseguirla. Il sistema della corruzione ha conosciuto nella storia nazionale un costante crescendo, che raggiunse la sua massima fase espansiva a partire dagli anni ’70 e ’80 del Novecento, tanto che divenne corrente parlare della cosiddetta «questione morale». Si trattò del riemergere in grande stile, ma su una scala enormemente maggiore e con ramificazioni assai più estese, dell’intreccio tra potere politico e mondo affaristico che era stato con vigore denunciato fin dalla prima metà degli anni ’90 dell’Ottocento dal radicale Cavallotti, il «bardo della democrazia», il quale aveva messo sotto accusa Crispi e Giolitti, appunto parlando dell’esistenza di una grave «questione morale» a cui occorreva far fronte mobilitando la «lega degli onesti». Quasi cento anni dopo, a risollevare con vigore la questione e a fare appello alla lega degli onesti di tutti i partiti sarebbe stato il leader del Partito comunista Berlinguer. Quando lo fece, la corruzione in Italia aveva assunto ben altre dimensioni rispetto a quelle del tardo Ottocento. Essa, portando al culmine una mentalità, un costume e pratiche ormai di lungo periodo, aveva dato luogo a un articolato e persino «scientifico» sistema in cui si trovavano implicati, in un giro di malaffare esteso a livello nazionale, partiti politici, importanti settori della finanza, dell’industria, dei servizi, della pubblica amministrazione, degli organi preposti ai controlli di legalità. Avendo alle spalle precedenti assai significativi e consistenti a partire dal dopoguerra, che avevano segnato la storia del paese in

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seguito al susseguirsi di gravi e ricorrenti scandali, a partire degli anni ’70 e ’80 il fenomeno della corruttela conobbe una vera propria escalation. Fu l’epoca torbida della P2, dei Calvi, dei Sindona, dei Marcinkus, ecc., in cui si assistette da un lato all’assassinio di fedeli servitori dello Stato come Ambrosoli e alla persecuzione nei confronti di Baffi e Sarcinelli, dall’altro alle morti oscure di personaggi come Calvi e Sindona, che ricordavano quella di Pisciotta. Fu altresì l’epoca in cui – fatto questo senza precedenti – Craxi, che poco dopo sarebbe diventato presidente del Consiglio, costituendo un precedente che avrebbe rappresentato il preludio di un atteggiamento portato in seguito al parossismo da Berlusconi, attaccò con violenza i giudici che avevano fatto arrestare, sotto l’accusa di corruzione e concussione, il suo compagno di partito Teardo, ex presidente della Regione Liguria, denunciando una esplicita volontà di strumentalizzazione politica. Ciò che i partiti al potere, in prima fila la Democrazia cristiana e il Partito socialista, ma non solo, volevano era l’impunità nel condurre gli affari intesi ad assicurare loro i finanziamenti necessari per far fronte alle enormi spese legate al funzionamento delle loro macchine e, non di rado, anche al desiderio di arricchimento di singole persone. Gli imprenditori e i manager, tanto del settore privato dell’economia quanto di quello statale – divenuto un luogo estremamente idoneo al saccheggio delle risorse pubbliche da parte dei partiti al governo – al pari di tanti esponenti politici entrarono in un sistema vero e proprio in cui erano insieme corrotti e corruttori. Pagare e chiedere tangenti in cambio di favori a chi aveva nelle mani la borsa del danaro privato e pubblico divenne una

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pratica a tal punto corrente, da giungere a costituire una vasta zona di economia illegale che coinvolgeva in prima persona coloro che della legalità avrebbero dovuto essere i custodi. Tutto ciò ebbe effetti profondi e duraturi nell’aggravare lo scadimento dello spirito civile dell’intero paese, dove si imposero da un lato la convinzione che potere politico fosse sinonimo di corruzione e dall’altro la persuasione che per fare affari redditizi occorresse inserirsi in profondità nella rete delle clientele partitiche. Si può ben comprendere come un tal contesto creasse, specialmente nelle regioni meridionali, un terreno assai propizio all’azione anche del mondo criminale, le cui molteplici mafie cercavano collegamenti con i partiti in grado di aprire loro le porte degli appalti pubblici e di ogni altro possibile settore economico per esse proficuo, in cambio di sostegno elettorale, sovente penetrando nei centri di comando dell’amministrazione pubblica. Il caso del sindaco mafioso di Palermo Ciancimino fu sommamente emblematico di questi intrecci. Si generò così negli «onesti» un risentimento e un desiderio di protesta avvilito dalla frustrazione e dal senso di impotenza. Venne dunque in tal modo a consolidarsi un intreccio malavitoso tra politica, economia e organizzazioni criminali di un’ampiezza e profondità senza precedenti nella storia nazionale, che faceva apparire un fenomeno ancora quasi artigianale il rapporto inquinato stabilito oltre un ventennio prima dal grande manager dell’ENI Mattei con partiti e organi di informazione. Mai nulla di simile era avvenuto nella precedente storia d’Italia. Il personale politico e burocratico della Destra storica aveva dato un esempio non ripetuto di probità delle per-

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sone e di devozione alla corretta amministrazione; un tipo di comportamento che aveva mostrato cedimenti crescenti dopo l’avvento della Sinistra, nel periodo di governo della quale le file della burocrazia si erano ampliate, facendo spazio, in regime di suffragio allargato, alle clientele politiche ed elettorali. Ma nell’insieme fino alla prima guerra mondiale la corruzione nel settore pubblico e nell’amministrazione rimase limitata. Essa aveva come ambito prevalente, sebbene non solo – come messo in evidenza dalle turbolenze giudiziarie in cui si trovarono coinvolti Crispi e Giolitti – quello elettorale, nell’inquinare il quale si segnalarono tanto Depretis quanto questi ultimi due, ben noti per il ricorso a metodi tutto meno che ortodossi quando fossero loro utili per procacciarsi le maggioranze elettorali e manovrare clientele e maggioranze parlamentari. Giolitti venne notoriamente bollato da Salvemini per i suoi modi di intervenire nelle contese elettorali specie nel Mezzogiorno come «il ministro della malavita». Ciò nonostante, negli apparati amministrativi dello Stato vigeva ancor sempre una notevole correttezza, cui si attenevano nei quadri direttivi elementi di prim’ordine segnalati per il senso dei propri doveri professionali e per la loro competenza tecnica. La prima grande «frana» avvenne dopo l’ingresso dell’Italia nella guerra mondiale nel 1915, e s’ingigantì negli anni del conflitto e nel dopoguerra. Lo Stato divenne allora un vorace appaltatore e compratore, senza badare a spese e con ben pochi scrupoli come controllore in termini di giusti prezzi e di qualità dei beni ad esso forniti. Fu l’era d’oro dei «pescecani di guerra», dello stato d’assedio posto all’amministrazione da in-

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dustriali e grandi commercianti, dai loro protettori politici, insomma da tutte le risme di affaristi decisi ad arricchirsi il più rapidamente possibile. La legalità delle pratiche e i meccanismi di controllo cedettero alla marea. Fu un’anticipazione di quanto si sarebbe riproposto durante le guerre del regime fascista e in particolar modo tra il 1940 e il 1943. Da quella frana la pubblica amministrazione non si sarebbe più ripresa, e si deve dire che durante la Repubblica il male andò progressivamente peggiorando. La prevalsa continuità dello Stato affermatasi dopo il 1945, affossando le speranze di rinnovamento nutrite da alcuni settori della Resistenza, di cui fu un momento essenziale la mancata epurazione non soltanto dei grandi collaborazionisti del fascismo ma anche di pubblici amministratori, magistrati, poliziotti, professionisti coinvolti nel sistema della corruzione, stabilì un ponte tra il vecchio e il formalmente nuovo destinato a proiettare i suoi effetti nell’avvenire del paese. Certo la denuncia delle pratiche corruttive divenne, dopo di allora, nel clima delle restaurate libertà politiche e di informazione, un tema corrente, persino dominante, gridato ai quattro venti, ma ad essa non seguì alcun serio impegno diretto a contrastarle; sicché sempre più numerosi furono coloro che promossero e si adattarono alla corruzione e presero a sfruttarla per i propri grandi o piccoli vantaggi. Elementi di primaria importanza della corruzione nell’Italia del secondo dopoguerra divennero il tipo di reclutamento e un abnorme sviluppo della burocrazia pubblica, sia centrale che locale, con l’immissione particolarmente rilevante per vie sovente clientelari di meridionali, i quali, in assenza delle maggiori possibi-

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lità di impiego offerte nel Nord, vi potevano trovare un collocamento sicuro ancorché modestamente retribuito. La pubblica amministrazione rispose sempre meno al suo compito istituzionale e si trasformò in un immenso deposito in cui uomini di potere – ministri, parlamentari, dirigenti dei comuni, delle province e delle regioni, esponenti di partito, sindacalisti, ecclesiastici – sistemavano i loro protetti. Essa divenne così al tempo stesso elefantiaca e in media poco o per nulla professionalizzata. La sua proverbiale inefficienza e scarsissima produttività furono componenti della massima importanza nel creare le condizioni del clientelismo e della corruzione. Data la lentezza spesso esasperante dell’evasione delle pratiche, andò affermandosi in maniera dilagante, al fine di sottrarle al dimenticatoio, la prassi delle pressioni da parte di persone influenti, dell’«ungere le ruote» della macchina burocratica con le tangenti, così da sovvertire ogni criterio di probità e correttezza amministrativa e privilegiare gli uni a scapito degli altri. Quanto maggiore era l’inefficienza della burocrazia e quanto più bassa la sua produttività, tanto più divenne importante il peso delle protezioni clientelari e delle mazzette. Nel Mezzogiorno in maniera più accentuata, ma anche nel resto del paese, per rispondere alle richieste dei partiti – con una efficacia direttamente proporzionale a livello nazionale e locale alla loro capacità di influenza –, intesi ad accrescere le loro basi di consenso elettorale, e dei sindacati desiderosi di aumentare i propri iscritti, organi di governo e strutture amministrative collaborarono attivamente per dilatare le file degli apparati burocratici, distribuire pensioni facili, moltiplicare quelle concesse a falsi invalidi, incrementare schiere di guar-

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die forestali, tenere in vita a spese del contribuente enti inutili, ottenere i finanziamenti per opere pubbliche e attività imprenditoriali infruttuose, incompiute e sovente infine abbandonate. L’evasione fiscale diede luogo a diffuse trattative tra evasori e membri infedeli degli uffici finanziari. «Trovare le vie giuste» nel mondo del potere politico e amministrativo venne a costituire un tratto caratteristico e dominante della corruzione dello spirito civile. Nel concorso di questi elementi stanno le radici e le espressioni della debolezza e dell’immaturità politica e civile del paese. Un popolo che è vissuto per la maggior parte della sua storia unitaria sotto l’ombrello di sistemi di governo senza alternative, in un quadro di permanenti forti contrapposizioni ideologiche; la cui storia è stata accompagnata da una frattura territoriale mai superata; che ha assistito al crescere delle clientele e delle pratiche della corruzione pubblica e privata; in cui la magistratura è rimasta lungamente subalterna al potere politico, e quando e dove si è sottratta a questa subalternità è stata persino furiosamente attaccata dal potere per voler esercitare il controllo della legalità previsto e richiesto dalle istituzioni; che si è quotidianamente misurato con una burocrazia inefficiente e penetrata dagli interessi di parte, ebbene questo popolo ha maturato nei confronti dello Stato un atteggiamento ambiguo e contraddittorio: per un verso ne ha invocato il perpetuo intervento, per l’altro si è largamente allontanato da esso con diffidenza e persino disprezzo. E si è per lo più rifugiato nei vincoli solidaristici e particolaristici della famiglia, nei loca-

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lismi comunali e regionali, nei gruppi di protezione clientelare, nelle parrocchie, nelle organizzazioni di partito, nei sindacati e nelle unioni di categoria, nella difesa di interessi corporativi e nelle varie branche dell’anti-Stato criminale, lasciando largamente deserto il senso della nazione come identità e valore comune.

VII

I momenti alti di difesa e ricostruzione del vincolo nazionale

Detto ciò, occorre domandarsi come e perché l’unità d’Italia, la realtà in cui viviamo, abbia nonostante tutto resistito ai molti fattori che l’hanno incrinata, messa ripetutamente in pericolo e per quasi due anni dissolta in maniera tragica. Se ciò è avvenuto, lo si deve alla volontà e alla capacità sia delle componenti più avanzate e consapevoli delle élites dirigenti sia dei leader più responsabili delle opposizioni, di assicurare, in alcuni momenti cruciali della storia nazionale, la coesione e lo sviluppo del paese, pur con i limiti che non hanno consentito di superare le antitesi di fondo su cui ci si è soffermati. Bisogna riferirsi ai meriti, nel primo quindicennio di difficilissima vita unitaria, della Destra storica, la quale seppe costruire nuove istituzioni e rispondere all’acutissimo conflitto tra lo Stato e la Chiesa, proponendo accordi ed equilibri accettabili; ai meriti grandi della Sinistra liberale costituzionale e progressista, di cui fu il maggiore esponente Giolitti, il quale, dopo aver respinto con determinazione, unitamente a Zanardelli, le tendenze verso una soluzione autoritaria della drammatica crisi di fine secolo,

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pose su basi più avanzate e moderne le relazioni tra capitale e lavoro, grazie anche all’appoggio delle correnti riformistiche del socialismo e dei sindacati, e volle la legge che nel 1912 introdusse il suffragio universale maschile. Bisogna riferirsi alla decisione di coloro che, il socialista Turati in testa, in seguito alla disfatta di Caporetto nel 1917, che minacciava di travolgere il paese, pur avendo avversato con buone ragioni l’ingresso dell’Italia in guerra decisero di appoggiare la resistenza e la riscossa dell’esercito, senza le quali si sarebbero aperti scenari disastrosi. Bisogna riferirsi all’azione delle forze dell’antifascismo e della Resistenza che, sebbene tra contrasti anche assai acuti, prima salvarono e ricostituirono l’unità nazionale, ponendo le premesse dell’ingresso dell’Italia nel nuovo assetto internazionale, e dopo il 1945 gettarono le basi della democrazia. Bisogna riferirsi al concorso – anche questo segnato da conflitti e scontri, ma sostanziale e fecondo – delle forze sociali e politiche degli schieramenti opposti alla ricostruzione materiale del paese, che sarebbe culminata nel «miracolo economico» imprimendo un grande impulso alla sua modernizzazione. Bisogna riferirsi alla decisione di De Gasperi, dopo la schiacciante vittoria ottenuta dalla Democrazia cristiana alle elezioni del 1948, di respingere la tentazione di fare di quella vittoria la premessa di una deriva politica di stampo clericale e di associare al governo i piccoli partiti laici. Bisogna riferirsi all’azione di difesa democratica condotta, ancora una volta con contraddizioni e contrasti ma con una prevalente concordia, dai partiti di opposizione e da quelli di

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governo negli anni dell’offensiva messa in atto tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’80 dai gruppi eversivi e terroristici di estrema destra e di estrema sinistra e da settori autoritari di varia corrente. Bisogna riferirsi infine alla mobilitazione coraggiosa di tutti quanti – giudici, appartenenti alle forze dell’ordine, uomini politici, sindacalisti, giornalisti, intellettuali e persone comuni – hanno lottato, anche pagando con la vita, contro terroristi e mafiosi. Insomma, sono stati questi momenti cruciali e alti che hanno consentito all’unità d’Italia di sopravvivere e di superare i conflitti che tendevano a lacerarla.

VIII

L’Italia berlusconiana e l’Italia antiberlusconiana

Nei primi anni ’90 si pose all’ordine del giorno della società italiana e del suo sistema politico la questione se essi fossero o non fossero in grado di mettere in atto un profondo rinnovamento, in seguito al convergere di eventi di straordinario rilievo quali: la fine del confronto tra Occidente e Oriente che aveva segnato tutta la vita politica e sociale del paese per quasi mezzo secolo; l’erompere di «Tangentopoli», ovvero dello scoperchiamento ad opera della magistratura, sentitasi più libera nel suo agire dal crollo di un sistema di potere inquinato ad un grado estremo dalla corruzione pubblica; la fine dei partiti di quella che venne definita la Prima repubblica, come conseguenza congiunta del primo e del secondo di questi eventi. Era aperta la strada sia per mettere mano a nuove regole nell’operare dei partiti in rapporto all’economia, tali da impedire il ritorno alle pratiche che tanto avevano malamente segnato i costumi e l’etica pubblica; sia per chiudere il capitolo dei regimi bloccati e dare inizio, secondo gli esempi offerti dalle più mature democrazie occidentali, a quello delle normali alternanze al governo tra forze egualmente legittimate a governare,

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in un contesto di «riconoscimento della reciproca democraticità» degli schieramenti in competizione per la guida dello Stato, dato anche il venir meno, salvo che da parte di gruppi assai minoritari, di ogni velleità di alternativa anticapitalistica di ispirazione ideologica comunista. In queste nuove condizioni pareva giustificata la speranza che il paese potesse conoscere una grande svolta positiva in grado di migliorare qualitativamente la politica nazionale, lo spirito pubblico e il tessuto sociale: una svolta per certi aspetti analoga a quelle che, quali ne fossero stati i limiti, si erano avute all’inizio del Novecento con l’avvento al potere dell’ala progressista del Partito liberale e a metà secolo con la costruzione delle istituzioni democratiche, la nascita della Repubblica e il varo della Costituzione. Oggi ci troviamo a dover invece fronteggiare la disillusione causata dagli inadempimenti che sono seguiti, e che fa venire alla mente le analoghe disillusioni che si diffusero nelle file dei democratici repubblicani nel 1860-61 e delle forze che nel 1945-48 sperarono in un più ampio e profondo rinnovamento dello Stato e delle sue istituzioni di quello che pure ebbe luogo. Venendo all’ultimo ventennio della nostra storia, vediamo che sull’unità del paese gravano ancor sempre acute tensioni, e che alle antiche lacerazioni se ne sono aggiunte di nuove. Resta non superata la frattura tra Nord e Sud. Resta molto attivo l’anti-Stato criminale, il quale – nonostante i duri colpi subiti dagli organi repressivi dello Stato e dalla magistratura con l’appoggio nel Mezzogiorno di significativi settori della società civile che comprendono anche imprenditori ribellatisi alle imposizioni mafiose –

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continua a influenzare e inquinare intere regioni, a sviluppare il suo sistema di economia illegale, a infiltrare propri uomini nelle amministrazioni locali e a tenere legati a sé consistenti strati popolari. Il trapasso dal centralismo statalistico all’autonomismo federalistico ha bensì iniziato il suo cammino, ma in un quadro di contrasti tra quanti paventano che questo possa diventare la premessa di un pericoloso scollamento dell’unità nazionale e quanti – raccolti specie dietro la bandiera di una Lega in costante crescita nel Nord di consensi elettorali e giunta a posizioni di grande potere nel governo – ne fanno il loro principale obiettivo strategico, rivolgendo continui attacchi allo Stato unitario nato dal Risorgimento; di una Lega, che essendosi data alle sue origini come progetto la formazione dello Stato indipendente della «Padania», ha fatto rivivere all’altro capo d’Italia in chiave nordista il separatismo siciliano del 1943-46, per ripiegare solo successivamente, in un modo che è lecito considerare concepito come un «anticipo» rispetto all’attuazione del progetto iniziale, sull’accettazione di un federalismo esteso all’insieme del paese. Si è entrati nell’era dell’alternanza al governo di opposti schieramenti partitici, ma in maniera ricorrente i contrasti hanno superato, e di molto, la soglia di una normale dialettica democratica col rinnovarsi di reciproche delegittimazioni, rendendo vano il consolidarsi di un pur auspicato condiviso «patriottismo costituzionale». Tra i vari fattori che hanno caratterizzato la situazione italiana delineatasi a partire dagli inizi degli anni ’90, un ruolo centrale ha occupato nella scena

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politica italiana Berlusconi, il quale l’ha letteralmente dominata dopo la sua «scesa in campo» nel gennaio 1994 alla guida di Forza Italia e ha introdotto nella nostra storia politica una ennesima grande anomalia, dopo tutte quelle (dai regimi senza alternativa alla presenza in Italia del più forte partito comunista d’Occidente, all’esistenza di un anti-Stato criminale, per citare le maggiori) che l’avevano in precedenza contraddistinta rispetto alle altre democrazie occidentali. Questa anomalia consiste nel fatto che, da un lato, un imprenditore ha dato l’assalto, con successo e in tempi rapidissimi, al potere politico, restando al governo per molti anni senza sciogliere la sostanza del gigantesco «conflitto di interessi» reso palese dalla sua doppia figura di imprenditore e presidente del Consiglio, con una sovrapposizione di ruoli non riscontrabile in alcun altro paese occidentale; e dall’altro che le forze che a lui si sono opposte non hanno avuto, quando al governo, la determinazione e la capacità di affrontare e risolvere una simile anomalia, per il timore, data la debolezza politica delle compagini di governo e la ristrettezza della loro base parlamentare, di sostenere un conflitto che non si sentivano in grado di affrontare. Nella storia dello Stato italiano, nessun altro leader aveva portato alla guida del paese una nuova formazione politica da lui fondata senza avere alle spalle alcun curriculum politico e in tempi tanto rapidi. Il che fu reso possibile, nell’era in cui la battaglia per il consenso viene combattuta prevalentemente nelle sedi televisive, dall’utilizzazione su grande scala delle risorse offerte congiuntamente dal danaro e dal ri-

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corso ad una massiccia propaganda messa in atto, oltre che dalle televisioni, dai quotidiani e periodici di sua proprietà o a lui legati, in un sistema politico profondamente alterato dalla dissoluzione dei vecchi partiti protagonisti della Prima repubblica. Con Berlusconi la plutocrazia è diventata un soggetto primario della politica nazionale. Facendo appello alla minaccia definita ancor sempre «comunista» proveniente da una sinistra indebolita e divisa, questi vinse le elezioni nel 1994 chiamando a raccolta le forze eterogenee di Forza Italia, della Lega separatista settentrionale, di Alleanza Nazionale a base prevalentemente centro-meridionale e di parte degli ex democristiani ed ex socialisti craxiani, che, «umiliati e offesi» da Tangentopoli, nel loro risentimento erano alla ricerca di una nuova rappresentanza e di nuove opportunità di potere. Negli anni successivi alla formazione del primo governo Berlusconi, l’Italia ha bensì finalmente conosciuto l’alternanza tra opposti schieramenti, ma ciò non ha comportato una normalizzazione in senso propriamente occidentale del sistema politico. È mancata una effettiva reciproca legittimazione delle parti in competizione, in quanto le loro contrapposizioni non solo sono rimaste molto acute, ma hanno avuto come principale motivo polemico proprio la mancata patente di maturità e lealtà democratica. Mentre Berlusconi ha continuato a denunciare le forze avversarie come «antiliberali» e i magistrati impegnati nel controllo di legalità nei suoi confronti in relazione all’intreccio dei suoi interessi economici e politici come estremisti politicizzati al servizio

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diretto dei suoi nemici, le forze di opposizione hanno rivolto al magnate-politico l’accusa di porre il paese in una condizione di «emergenza democratica», provocata da una leadership populistica che piega la maggioranza parlamentare passivamente prona ai suoi voleri e ai suoi interessi, dal ricorso a diffuse pratiche corruttive, dalla volontà di usare il proprio potere in quanto governante per costruirsi uno scudo di impunità. Considerando l’iter politico dell’ormai lungo potere berlusconiano, tre aspetti emergono su tutti gli altri. Il primo è che le grandi e condivise riforme istituzionali e costituzionali universalmente invocate non hanno mai avuto luogo, e che le riforme introdotte dagli opposti governi sono state oggetto di aspri contrasti. Il secondo è che si è realizzata una concentrazione di poteri nelle mani del plutocratepresidente del Consiglio che non ha riscontri nella storia dello Stato liberale e di quello repubblicano, tale da alterare decisamente l’equilibrio dei poteri su cui si basano le democrazie liberali. Si è visto infatti un uomo solo che da un lato riuniva nelle proprie mani la guida del governo, il possesso di un impero economico e il controllo di una quota enorme dei mezzi di informazione (per via direttamente proprietaria o per influenza politica), e dall’altro utilizzava la maggioranza parlamentare per far varare un susseguirsi di leggi ad personam dirette a sottrarlo ai processi che lo hanno coinvolto: proprio quel tipo di concentrazione di poteri che i classici del liberalismo avevano indicato come una condizione quanto mai pericolosa per il mantenimento delle pubbliche

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libertà, il quale, secondo la massima immortale di Montesquieu, richiede che «perché non si possa abusare del potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere». E tutto ciò messo in atto da parte di un leader che, massima ironia, ha indicato come proprio supremo obiettivo di voler realizzare nel nostro paese una «rivoluzione liberale», per mezzo del suo partito che da ultimo ha assunto la denominazione di «Popolo della libertà». Una simile assai efficace esibizione di potere personale ha avuto come inevitabile esito di far convergere intorno al Capo appetiti, interessi e clientele alla ricerca di influenza, danaro e potere, in un clima di ossequio servile e di celebrazione delle sue virtù personali (un vero e proprio culto della personalità), costituendo fortilizi pronti a reagire con una sistematica azione di delegittimazione alle inchieste della magistratura. Dal che il desiderio del Capo e dei suoi uomini di veder completare la concentrazione del potere politico, economico e dell’informazione con l’assoggettamento all’esecutivo dei giudici, il restringimento delle loro possibilità di indagine e il potenziamento delle immunità ai politici, in un quadro di continui assalti alla Costituzione «cattocomunista» – di cui si invoca una drastica riforma, finalizzata a conferire all’esecutivo poteri in grado di liberarlo dagli insopportabili impicci –, alla Corte costituzionale e al presidente della Repubblica, considerati proni alla volontà e agli interessi della «sinistra». Il terzo aspetto è costituito dal fatto che, soprattutto nelle stanze del potere berlusconiano e delle sue clientele, ma anche in una certa misura in

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quelle dei poteri locali gestiti dalle opposizioni, è andata crescendo in maniera via via più dilagante una rete di corruzione pubblica e privata che ha messo in piena evidenza, come testimoniato da scandali clamorosi, il ritorno ad una Tangentopoli mai finita e dunque riemersa, dopo una pausa apparente, vigorosamente alla ribalta. Ciò su cui bisogna riflettere è che l’anomala concentrazione di poteri, il vigoreggiare delle clientele e delle pratiche della corruzione hanno trovato, dall’ascesa di Berlusconi al governo nel 1994 in poi, un crescente consenso nella maggioranza del popolo italiano, così da indicare quanto sia profondo l’inquinamento dello spirito pubblico: un inquinamento composto insieme da attiva adesione al mondo dell’illegalità, acquiescenza simpatetica, accettazione passiva, cui hanno fatto fronte opposizioni troppo deboli e inefficaci. Dati di fatto, tutti questi, che delineano il volto di una Italia, in cui l’intento di «vivere insieme» risulta assai labile. La caduta del plutocrate lascerà al nostro paese una pesante eredità. Una volta che egli avrà abbandonato gli scranni del potere politico, resterà la «sua Italia»: quella che lo ha sostenuto e osannato. E bisognerà allora vedere se gli italiani che all’Italia berlusconiana si sono opposti avranno o meno le risorse politiche e civili per avviare un nuovo corso di rinascita nazionale. Questo il nodo da sciogliere.

IX

Quale valore ha l’unità italiana?

Chi scrive è ben consapevole di aver delineato nella sua sinteticità una interpretazione del cammino dello Stato unitario densa di pesanti ombre. Non crede di aver peccato di pessimismo. Il pessimismo e l’ottimismo non hanno a che fare con l’indagine dei fatti storici. Il primo come il secondo nascono solo dalla reazione soggettiva ad essi da parte di ciascuno. L’analisi dello sviluppo dello Stato unitario non può non portare alla conclusione che esso è stato segnato da rilevanti difficoltà e permanenti fragilità, le quali nel corso di centocinquant’anni hanno cambiato forma e sostanza ma non sono mai venute meno, e che il sentimento dell’identità e unità nazionale è rimasto costantemente precario. Dal che sorge l’interrogativo, che oggi è sulla bocca di molti a cominciare dai leghisti, e a cui occorre dare una risposta, se «fare l’Italia» non sia stata una forzatura o, per usare questa espressione tanto schematica quanto densa di significato nella sua pregnanza polemica, «uno sbaglio» tout court. I sostenitori di questa posizione si fanno forti dell’argomento che il progetto della formazione in Italia di uno Stato unitario non albergava né nella mente di Cavour prima dell’«av-

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ventura» garibaldina nel Mezzogiorno né in quella del grande federalista Cattaneo. In effetti così era. Ma fu altrettanto vero che l’Italia unita diventò una realtà sotto la spinta di forze – élites, ceti medi e strati popolari – che prevalsero e che in essa il popolo italiano ha vissuto la propria storia a partire dal 1861. I problemi, le prospettive, le speranze e le delusioni, gli insuccessi e i successi degli italiani sono maturati nel contesto creato da quell’evento che fu l’unificazione del paese. Da tale contesto, e non da un altro, ha quindi preso origine ed è venuta a mano a mano dipanandosi la vicenda del popolo italiano. Volendo addentrarci nei meandri dall’arte ingrata della storia ipotetica, ovvero della storia che non c’è stata, viene da pensare che l’alternativa allo Stato unitario centralistico avrebbe potuto essere non già uno Stato federale – in cui sarebbe risultata una vera e propria quadratura del cerchio la creazione di organi di governo comune dotati della sufficiente forza ed autorità per impedire in tempi rapidi un processo disgregativo – ma una confederazione di Stati, destinata a sua volta con ogni probabilità a non durare in relazione ad una duplice difficoltà: da una parte la forte disparità di tradizioni politiche e culturali, di grado di sviluppo economico e sociale, di criteri amministrativi; dall’altra un deciso squilibrio di forza, in primo luogo militare, tra gli Stati membri a favore del Regno sabaudo dell’Alta Italia, che è ben ipotizzabile avrebbe reso quanto mai precario un vincolo per sua natura privo di solidità come quello confederale. La terza e ultima forma ipotizzabile era un’Italia indipendente dallo straniero, costituita da moltepli-

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ci Stati a loro volta pienamente indipendenti l’uno dall’altro. Si sarebbe trattato per aspetti sostanziali di un ritorno all’Italia degli Stati regionali, caduti poi sotto la dominazione straniera diretta o indiretta dopo la calata nella penisola di Carlo VIII a fine Quattrocento. L’analogia non pare affatto una forzatura. Si tenga infatti nel debito conto che un’Italia formata da Stati indipendenti (ma anche una federazione debole e una confederazione ancora più debole), al pari di quella quattro-cinquecentesca degli Stati regionali, costretta a subire l’aggressività e le mire su di essa dei nuovi Stati nazionali o multinazionali di grandi dimensioni, oscillando tra arrendevolezza e vani tentativi di resistenza, avrebbe dovuto misurarsi con le grandi potenze europee. Un vaso di coccio tra i vasi di ferro, che sarebbe risultato certo assai più impotente dell’Italia unita che pur vide sistematicamente frustrate le sue ambizioni di giocare il ruolo di «grande potenza» europea; destinato a veder rinnovarsi in modi contraddittori e divergenti la ricerca, da parte di ciascuna delle diverse componenti statali di un’Italia solo formalmente indipendente, da alleanze al di là delle Alpi in posizioni fortemente subalterne. Lo Stato unitario fu la risposta di un’Italia in grado di sopravvivere nell’età del nazionalismo, dell’imperialismo, del militarismo industrializzato e dell’ascesa della Germania a nuovo fortissimo soggetto della politica europea e mondiale. Era una risposta condizionata da fattori di partenza sfavorevoli, molti dei quali protrattisi a lungo in seguito nelle forme dettate dalle varie tappe della storia italiana, quali la povertà complessiva del paese, l’ac-

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centuata arretratezza di molte delle sue parti, il presentarsi della frattura tra Nord e Sud, la mancanza nel territorio di adeguate risorse atte a promuovere in tempi accelerati e robustamente la modernizzazione industriale e in generale economica, lo scontro aperto tra Stato e Chiesa, le drammatiche contrapposizioni ideologiche e politiche, la ristrettezza del consenso popolare dato alle istituzioni che furono alla base del difetto di egemonia delle classi dirigenti nei confronti delle masse lavoratrici, il conseguente stabilirsi di un regime bloccato destinato a riprodursi. Nonostante tutto ciò, arrivati al punto, la costituzione e la costruzione dello Stato unitario non paiono proprio aver avuto alternative credibili, che oggi possono essere evocate unicamente con un significato polemico e strumentale. Occorre dire di più. Se pur mai le alternative fossero anche esistite, la storia concreta è quella dello Stato unitario, quali che siano stati e siano i suoi problemi risolti e irrisolti. Essa costituisce la nostra unica eredità, che ha fatto quel che siamo e con cui siamo chiamati a misurarci. Ciò naturalmente non vuole dire che non si debba guardare al cammino dello Stato unitario, alle sue fragilità e inadempienze e ai suoi difetti strutturali di natura istituzionale, sociale e civile con il necessario, anzi doveroso, occhio critico. Il che bisogna fare partendo anzitutto dalla consapevolezza che gli Stati nazionali europei hanno oggi assunto una fisionomia che li rende qualitativamente diversi da come essi – e in particolare le maggiori potenze al cui novero l’Italia ambì e pretese di appartenere per

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quasi un secolo – si erano presentati nell’Ottocento e per gran parte del Novecento, intendendo la loro come una sovranità assoluta poggiante, in un quadro di equilibri instabili e di ricorrenti rotture e guerre, su sistemi di «economia nazionale», sull’autonoma libertà di movimento ed iniziativa in campo internazionale, su una forza militare indipendente, su un controllo del territorio da parte del centro pronto a contrastare le tendenze regionalistiche e a soffocare quelle separatistiche. Come gli altri Stati europei, anche lo Stato italiano non è più quello di un tempo. È membro dell’Unione Europea, la sua economia è integrata in quella dell’Unione, opera nell’ambito della globalizzazione; in esso – come, per citare altri casi significativi nell’Europa occidentale e tacere di altri nell’Europa orientale, anche in Spagna, Gran Bretagna e in Belgio – l’involucro unitario centralistico è stato ed è scosso dalle correnti che ne rivendicano la fine o quanto meno la forte attenuazione in nome del diritto all’autonomia politica, amministrativa ed economica. In un simile contesto non può che assumere un carattere positivo la riflessione sulle modalità in cui l’idea di unità italiana si è sviluppata e ha trovato attuazione nel corso di un secolo e mezzo e su quelle meglio atte, mediante le opportune riforme istituzionali e costituzionali, a rendere il paese meglio governabile e governato e a farne perciò un membro più autorevole dell’Unione Europea. In relazione a queste tematiche si può e si deve anche concedere che la «protesta leghista» ha espresso ed esprime problemi che richiedono risposte e soluzioni.

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Sennonché le sue forme e le sue finalità presentano nella loro sostanza un volto non già progressivo ma regressivo, in quanto la proposta federalistica della Lega – che si è posta come primo obiettivo perseguibile il federalismo fiscale – è intesa non a porre su basi più solide e rinnovate l’unità del paese, bensì a vanificarla o tutt’al più a renderla un involucro meramente formale; poiché l’iniziale progetto separatistico, ispirato dal maître à penser Miglio, resta pur sempre il suo nucleo ideologico e politico propulsore, vale a dire la sua ragione d’esistenza. L’ostilità proclamata a gran voce dalla Lega nei confronti della «celebrazione» del centocinquantenario dell’unità d’Italia, considerata alla stregua di un puro esercizio retorico, ne costituisce il segno inequivocabile. La domanda che la Lega pone al paese, proiettandola dal presente all’intero passato, è: perché l’unità d’Italia? È una domanda che ne suscita un’altra: ma che sarebbe stata e cosa sarebbe l’Italia senza l’unità? Possiamo pensare che nel consesso dell’Unione Europea e internazionale sia dato al nostro paese un migliore avvenire se esso si presenta piegato sotto il peso di divisioni culminanti in un crescendo di conflitti regionalistici? Le sfide poste dai problemi aperti e irrisolti sono all’ordine del giorno del dibattito pubblico e sono pressanti; le risposte dipendono dalla capacità o incapacità del nostro Stato e del nostro popolo di porre mano con la necessaria energia alle riforme atte ad affrontare tali sfide. Nel costruire il loro futuro gli italiani non hanno altra via se non quella di muoversi nella scia di un’eredità di storia nazionale unitaria che è l’unica che essi hanno e l’unica da cui possono partire.

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Cenni bibliografici

Mi limito qui a dare l’indicazione di alcuni, pochi volumi che credo di particolare interesse per il lettore, sui temi trattati in questo saggio: AA.VV., Storia d’Italia, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, voll. I-VI, Laterza, Roma-Bari 1994-99. P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento ad oggi, Donzelli, Roma 1993. N. Bobbio, Profilo ideologico del ’900, Garzanti, Milano 1990. L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1989. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, voll. IV-XI, Feltrinelli, Milano 1964-86. G. Carocci, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Feltrinelli, Milano 1975. G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Donzelli, Roma 2009. J. de Saint-Victor, Mafia. L’industria della paura, Nuovi Mondi Edizioni, Modena 2008. A. Galante Garrone, L’Italia corrotta 1895-1996. Cento anni di malcostume politico, Aragno, Torino 2009. L. Gallino, Italia in frantumi, Laterza, Roma-Bari 2006. E. Gentile, Né Stato né nazione. Italiani senza meta, Laterza, Roma-Bari 2010.

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W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Einaudi, Torino 1962. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1959. G. Ruffolo, Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, Einaudi, Torino 2009. G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema, Laterza, Roma-Bari 2003. M.L. Salvadori, La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Einaudi, Torino 1963. M.L. Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime, il Mulino, Bologna 2001. G. Salvemini, Scritti sul Risorgimento, Feltrinelli, Milano 1961. R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, Einaudi, Torino 1961.

Indice dei nomi

Ambrosoli, Giorgio, 84. Andreotti, Giulio, 73. Badoglio, Pietro, 53-54. Baffi, Paolo, 84. Balbo, Italo, 52. Bava Beccaris, Fiorenzo, 36. Berlinguer, Enrico, 65, 83. Berlusconi, Silvio, 76, 84, 9798, 101. Bissolati, Leonida, 38. Bonomi, Ivanoe, 38. Borghese, Valerio, 55. Borsellino, Paolo, xviii, 70. Bossi, Umberto, 29. Cadorna, Luigi, 42. Calvi, Roberto, 28, 84. Carlo VIII di Francia, 104. Cattaneo, Carlo, xii-xiii, 9, 17, 32-33, 103. Cavallotti, Felice, 83. Cavour, Camillo Benso conte di, xii, xvi, 5, 8, 12, 15, 74, 80, 102. Ciancimino, Vito Alfio, 85. Ciano, Galeazzo, 52. Coppola, Francesco, 38. Corradini, Enrico, 38. Craxi, Benedetto, detto Bettino, 74, 84.

Crispi, Francesco, 41, 74, 83, 86. Croce, Benedetto, 47. Dalla Chiesa, Carlo Alberto, 70. D’Annunzio, Gabriele, 40. De Gasperi, Alcide, xvii, 24, 92. Depretis, Agostino, 41, 73-74. Dorso, Guido, xviii, 17-20, 27. Einaudi, Luigi, 47. Falcone, Giovanni, xviii, 70. Fanfani, Amintore, 73. Federzoni, Luigi, 38. Ferrari, Giuseppe, 9, 32. Ferri, Enrico, 37. Finocchiaro Aprile, Andrea, 23. Fortunato, Giustino, xviii, 13, 16-17, 20. Franchetti, Leopoldo, 13, 27. Galante Garrone, Alessandro, xviii. Garibaldi, Giuseppe, xii-xiii, 9. Gentile, Giovanni, 6, 55.

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Giolitti, Giovanni, xvi, 18, 36-38, 40-41, 45, 47, 73, 77, 83, 86. Giuliano, Salvatore, 24. Gorbačëv, Michail, 66. Gramsci, Antonio, xviii, 17-20. Grandi, Dino, 52. Graziani, Rodolfo, 55. Labriola, Arturo, 37. Lazzari, Costantino, 37. Lombroso, Cesare, 20. Marcinkus, Paul, 84. Marinetti, Filippo Tommaso, 38. Massari, Giuseppe, 15. Mattei, Enrico, 85. Mazzini, Giuseppe, xii-xiii, 9, 33. Miglio, Gianfranco, 107. Minghetti, Marco, 9. Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède et de, 100. Moro, Aldo, 68, 73. Mussolini, Benito, xiv, 22, 38, 44, 47, 50-52, 54, 56, 60.

Parri, Ferruccio, 63. Pelloux, Luigi Girolamo, 36, 73. Pisacane, Carlo, 32. Pisciotta, Gaspare, 84. Rattazzi, Urbano, 74, 80. Renan, Ernest, 6. Romeo, Rosario, xii. Rosselli, Carlo, 50, 56. Salvemini, Gaetano, xviii, 10, 17-18, 20, 27, 86. Sarcinelli, Mario, 84. Sighele, Scipio, 20. Sindona, Michele, 28, 84. Sonnino, Sidney, 13, 16, 27, 36. Spadolini, Giovanni, 74. Sturzo, Luigi, xviii, 18, 20, 24, 34, 43. Teardo, Alberto, 84. Togliatti, Palmiro, xvii, 35, 64-65. Turati, Filippo, 37, 92.

Nenni, Pietro, xvii. Niceforo, Alfredo, 20. Nitti, Francesco Saverio, xviii, 17-18, 20, 76.

Villari, Pasquale, xviii, 13, 27. Vittorio Emanuele II di Savoia, xiii. Volpe, Gioacchino, 6.

Orlando, Vittorio Emanuele, 21, 47.

Zanardelli, Giuseppe, xvi, 36, 73, 91.