Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti 8806136291, 9788806136291

8°, cm 21, pp. 561, con una tabella ripiegata. Brossura editoriale bianca e blu con titoli al piatto e al dorso. Piega d

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Italian Pages 585 [388] Year 1997

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Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti
 8806136291, 9788806136291

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Einaudi Paperbacks Letteratura

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© 1993 e T994 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino Seconda edizione riveduta e ampliata ISBN 88-06-13629-1

Francesco Orlando

Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti

Sommario

p. VII

Ringraziamenti

Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura 3

21 59 8i

1.

Di che si occupa questo libro

11. Primi esempi in confusione in. Decisioni per procedere iv. Un albero né genealogico né vegetale

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v. Dodici categorie da non distinguere troppo Vi. Qualche romanzo del Novecento vii. Elogi e biasimi del funzionale

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Appendice

561

Indice per argomenti

261 449

567

Indice dei nomi e dei testi

581

Indice analitico

Durante la ricerca mi hanno aiutato, nei più svariati modi e misure sia di consu­ lenza che di cooperazione, persone di gran lunga troppo numerose perché sia possi­ bile nominarle tutte. Voglia la gentilezza di tutte riconoscersi nel ringraziamento che qui rivolgo loro, non certo meno caloroso perché collettivo. In due soli casi mi riesce più semplice indirizzare la riconoscenza ai nomi. Ecco quelli, in un ordine alfabetico che accomuna età assai diverse, di coloro che mi hanno segnalato o procurato uno o più d’uno fra i testi di cui avrei fatto uso: Giovanna Angeli, Stefano Arata, Andrea Bazzo, Mariolina Bertini Bongiovanni, Giuseppe Bevilacqua, Simonetta Bollati, Ali­ de Cagidemetrio, Alberto Castoldi, Massimo Colesanti, Mario Curreli, Michel Da­ vid, Giuseppe Di Stefano, Raffaele Donnarumma, Iacopo Fasano, Giulio Ferroni, Francesco Fiorentino, Chiara Frugoni, Fausta Garavini, Paola Giannattasio, Ales­ sandra Ginzburg, Gianni lotti, Mario Lavagetto, Elsa Linguanti, Walter Loiacono, Albina Maffioli Barsella, Simone Marchesi, Luigi Marinelli, Guido Mazzoni, Giusep­ pe Merlino, Giovanni Morelli, Liana Nissim, Guido Paduano, Alessandro Peniteli!, Livio Petrucci, Marina Polacco, Maria Luisa Premuda Perosa, Aurelio Principato, Matteo Residori, Mario Richter, Christian Rivoletti, Alessandro Schiesaro, Alessan­ dro Serpieri, Salvatore Settis, Walter Siti, Giordano Stabile, Piero Toffano, Grazia Tornasi Stussi, Duccio Tongiorgi, Alessandro "Trasciatti, Patrizio Tucci, Gabriella Violato, Luciano Zagari, Paolo Zanotti, Sergio Zatti, Eiemire Zolla, Antonio Zollino. Collaboratori regolari per più d’un anno, nella messa a punto delle note di tutto il vo­ lume, mi sono stati i giovani amici Gianni Paoletti e Pierluigi Pelimi: non basta elogio per la loro attenta e intelligente pazienza.

Alla memoria dei miei genitori e della loro casa

Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura

Plusieurs vérités séparées, dès qu’elles sont en assez grand nombre, offrent si vivement à l’esprit leurs rapports et leur mutuelle dependance, qu’il semble qu’après avoir été détachées par une espèce de violence les unes d’avec les autres, elles cherchent naturellement à se réunir. FONTENELLE, Préface sur l’utilité des mathématiques.

avvertenza. Il segno rinvia qua e là a brevi integrazioni che il lettore troverà, sotto i numeri di pagina corrispondenti, nell’Appendice (pp. 537-57).

Capitolo i

Di che si occupa questo libro

i. L’oggetto, per non dire l’accozzaglia di oggetti, della ricerca che è il momento di presentare, potrà certamente sembrare bizzarro a prima vista. E non solo a prima vista: forse perfino al lettore che fosse arrivato al termine di questo libro, resterebbe difficile - come riesce difficile in apertura all’autore - sintetizzarlo in poche parole. Sono convinto di avere lungamente, analiticamente verificato che l’unità del­ l’oggetto di ricerca in questione esiste. Eppure qui, per dar­ ne una rapida idea, non trovo niente di meglio che riportar­ mi indietro di vent’anni: cioè risalire alle più lontane e confu­ se intuizioni di esso, che erano venute sul filo del tutto acci­ dentale delle letture. E mi avevano suggerito di registrare in un quaderno certi passi di letteratura, anteriormente a ogni riflessione da cui mi risultasse che valeva la pena di continua­ re a farlo in modo sempre più metodico. Erano passi svariatissimi da ogni sorta di punti di vista: appartenevano non solo a diversi autori, ma a diversi generi letterari, a diverse lingue, a diverse epoche. Mi provo a ri­ pensare adesso come si combinavano le costanti che mi pare­ va di trovarci, e che m’inducevano ad accostarli a dispetto di tali e tante varianti. Direi: era la coincidenza d’una costante di forma - e precisamente di sintassi - con due costanti te­ matiche, ossia di contenuto, connesse fra loro. La forma era quella dell’elenco, più o meno lungo e insistito sia nel suo in­ sieme sia nei suoi membri. La prima delle costanti tematiche consisteva nel fatto che venissero elencate non cose astratte, non situazioni, condizioni, valutazioni, considerazioni o emozioni; ma cose nel senso materiale della parola, fisicamente concrete dentro l’immaginario piano di realtà dei vari testi letterari. La seconda costante tematica era quella decisi­

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va, ed è la più problematica già da indicare. Consisteva nel fatto che tali cose apparissero ogni volta più o meno inutili o invecchiate o insolite-, dentro quel piano immaginario di let­ teratura diverso di testo in testo, e perciò in contrasto con ideali sottintesi sempre variabili di utilità o novità o nor­ malità. Certo, nella tradizione degli studi stilistici e retorici non è mancata attenzione per forme vicine o identiche all’elenco. Ma anche il noto saggio di Leo Spitzer sulla «enumerazione caotica»1, non mi risultava affatto vincolato alla condizione che le cose enumerate caoticamente fossero cose fisiche; e tanto meno che fossero cose decadute o desuete. D’altra par­ te, sul versante tematico, un solo tipo di oggetti a loro modo rispondenti a simili connotazioni, su scala monumentale, sembrava avere attirato l’attenzione specifica degli studiosi. Parlo naturalmente del tema delle rovine, romane o no: tema nient’affatto vincolato a forme verbali di elenco, e comune peraltro alle arti figurative - un campo nel quale sarei stato (e sono) troppo ignorante per entrare, in cerca di confronti per questo o per altri tipi di oggetti. Nella sua disparata globali­ tà, e cosi pure nella maggior parte dei suoi singoli esempi co­ stitutivi, la combinazione che aveva cominciato a interessar­ mi in letteratura non sembrava essere stata considerata dav­ vero mai. Del resto, come requisito indispensabile affinché un pas­ so venisse attirato nella mia collezione, la costante dell’elen­ co venne presto a cadere: pur continuando a ricorrere con frequenza considerevole nei passi che, sulla sola base ormai delle costanti tematiche, sceglievo. Tuttavia non è solo per fedeltà di racconto alla genesi della ricerca, e nemmeno per la quantità di elenchi fra i materiali radunati, che ho voluto parlare innanzi tutto anche di questa costante formale. Per definire le costanti tematiche con cui avevo a che fare, per ca­ pire cosa nascondessero di unitario, è un avvio chiederci se nel loro articolarsi spesso in elenchi ci fosse un perché. Ho accennato che si trattava di cose fisiche, e di cose fisiche rap­ presentate come prive o diminuite, o in corso di privazione o 1 L. Spitzer, La enumeration caòtica en la poesia moderna, in Linguistica e historia literaria, Gredos, Madrid 1968, pp. 247-300 (ora anche in trad, it.: L’enumerazione caotica nella poesia moderna, in «L’Asino d’oro», 11 [1991], n. 3, pp. 92-130).

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diminuzione, di funzionalità; ho aggiunto che tali caratteri­ stiche, data la variabilità storica degli ideali di funzionalità, si determinavano caso per caso. Ma in qualunque caso un elen­ co ammucchia verbalmente gli oggetti uno accanto all’altro, uno sopra l’altro, uno in alternativa immediata all’altro, fa­ cendo di tutti gli altri oggetti l’unico prossimo contesto ac­ cordato a ciascuno. Cosi sembra prestarsi meglio alla nega­ zione d’un rapporto di funzionalità fra l’uomo e le cose, che non alla rappresentazione di esso: la quale, dove esso è inte­ grale ed intatto, prescriverebbe piuttosto di valorizzare le cose ad una ad una. Se infatti una qualche scoperta mi si andava delineando e confermando con l’aumentare di numero dei passi messi a confronto, si trattava appunto del contrario della verifica d’un tale rapporto integrale e intatto di funzionalità. Nello stesso senso mi avviavano alcuni risultati di studi indipen­ denti che avevo condotti su testi di letteratura francese; al di là della quale, la sterminata vastità del campo esplorabile dis­ suadeva da letture apposite e ordinate, impossibili da pro­ grammare. C’era voluto già un gran numero di passi incon­ trati spontaneamente, per svegliare in me l’impressione che il rapporto fra l’uomo e le cose - funzionale o no - occupa in ciò che chiamiamo letteratura un posto ben più imponente di quanto pensiamo di solito. Ci voleva un numero di passi ancora maggiore per avvicinarmi alla scoperta vera: che co­ me ogni altra degna di questo nome aveva in comune con la lettera rubata di Poe i caratteri dell’evidenza non vista, dell’owietà inosservata, di ciò che è risaputo e non è stato an­ cora detto. Si trattava di accorgersi definitivamente della straordinaria fortuna letteraria delle cose inutili o invecchia­ te o insolite, della predilezione per la rappresentazione di es­ se rispetto alla rappresentazione di cose utili o nuove o nor­ mali, in letteratura. Una predilezione quantitativa e fors’anche qualitativa incontestabile, almeno da una certa epoca in poi.

2. Nell’indicare la mia costante tematica decisiva mi sto servendo di un linguaggio, per ora, relativamente approssi­ mativo; ed è troppo presto anche per qualsiasi precisazione cronologica sulla distribuzione dei testi ai quali attingevo. Ma si può già intravedere l’entità addirittura eccessiva della

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posta tematica che inavvertitamente, a partire da osservazio­ ni molto circoscritte, avevo finito col mettere in gioco. Ne andavà - attraverso le testimonianze della letteratura - del rapporto stesso degli uomini con il mondo fisico da essi as­ soggettato; dei confini tra cultura e natura, nel processo di trasformazione di quel mondo. E ne andava del rapporto stesso degli uomini con il tempo, che impone le sue tracce al­ le cose: proiettando sulle cose i limiti sia della condizione umana metastorica, sia della durata storica delle civiltà. C’e­ ra insomma di che scoraggiare troppo facilmente, col ricatto deH’immensità dispersiva, uno studio che si volesse eseguito secondo i canoni d’una ortodossia storicista. Oppure, c’era di che troppo facilmente incoraggiare un saggio che si muo­ vesse a suo libero arbitrio sotto il segno della met astoria anzi­ ché della storia, del non-senso anziché del senso; magari sot­ to il segno della morte, come piu d’uno avrebbe scritto vo­ lentieri. Per ragioni opposte, e forse complementari, nessu­ na di queste due poteva essere la mia tentazione. Mi fermo sulla seconda soltanto perché il segno della metastoria o della morte - insieme con quello, più lugubre, del non-senso - era un segno ascendente intorno alla metà degli anni ’70: e fu nell’anno accademico 1974-75 che giudicai la mia ricerca matura per un primo corso universitario, fu nel febbraio 1975 che ne detti annunzio incidentale e resocon­ to sommario in un testo poi pubblicato. Chi mai, volendo, avrebbe potuto immolare una massa più formidabile di og­ getti immaginari, in un’orgia più micidiale di destoricizzazioni e designificazioni, di quella offerta dalle innumerevoli cose derelitte che la mia ricerca aveva messe insieme? Esse avrebbero adempiuto invariabilmente il destino ideologico delle cose dopo la metà degli anni ’70, che era di evaporare in segni; segni tanto più puri, ossia significanti dal significato tanto più assente, quanto più defunzionalizzate stavolta le cose stesse dalla scrittura... In realtà, per forte che si fosse mantenuto il mio interesse nei confronti delle due grandi di­ mensioni andate sotto processo o fuori moda - storia e sen­ so -, era ancora più forte l’alimento che questo interesse rice­ veva dai primi risultati sistematizzabili della ricerca. Nessu­ na liquidazione metafisica degli oggetti letterariamente fisici di essa poteva tentarmi; ma nemmeno lo poteva la rinuncia, in nome dei canoni d’una ortodossia storicista, a un esperimen-

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to per me proprio storicamente cosi promettente. Anche se il risultato finale non avrebbe comunque potuto essere - come di fatto è questo libro - che un saggio condotto su materiali selettivi, e mai uno studio compiuto su materiali esaustivi2. Mi è capitato piu sopra, a proposito della mia costante te­ matica decisiva, di usare l’espressione: testimonianze della letteratura. Essa è un indizio di come, in qualche modo, di quella crisi dell’ortodossia storicista avessi approfittato an­ ch’io. C’è dietro una convinzione che con la sociologia lette­ raria accreditata ha poco a che vedere: pur irridendo ogni idea, da anni ’70 e ’80, di letteratura che prenda a oggetto se stessa o niente o alterità assolute. E la convinzione che, ap­ punto quale testimonianza del passato, la letteratura possie­ de qualcosa di insostituibile, di non controllabile dall’autori­ tà degli storici professionali non letterari, di non comparabi­ le - essendo insieme meno e piu - ai documenti d’ogni altra specie con cui lavorano questi ultimi. Beninteso, non mi sfugge l’assurdità d’una ambizione come sarebbe quella di fare la storia del rapporto fra l’uomo e le cose attraverso una documentazione tutta di letteratura; peggio ancora, prove­ niente da uno spoglio di testi né apposito né ordinato e meno che mai esauriente, per l’impossibilità di intraprenderlo. Ma è pur vero che per me sono i cosiddetti capolavori a fornire sul passato storico la testimonianza più profonda, e che an­ che l’accidentalità relativa delle letture non può statisticamente non privilegiare, sui tempi lunghi, i cosiddetti capola­ vori. Neppure mi dimentico di quel condizionamento pro­ prio alla serie dei testi stessi, che si tramanda dall’uno all’al­ tro con variazioni, e che vieta di concepirli a contatto imme­ diato con la realtà extra- e preletteraria: i codici letterari. Ma anche i codici letterari e le loro variazioni, come mediazione obbligata fra il passato storico e i testi, non possono non ren­ 2 Saggio e non studio, il libro non avrebbe mai neanche potuto fondarsi su un soddisfacente corredo di rinvìi a studi precedenti: le note risulteranno prive, più che povere, di bibliografìa secondaria. Da una parte i testi e i campi toccati erano troppi, e troppo diversi, per riuscire a perlustrare le relative bibliografie con la completezza d’obbligo nei lavori monografici. D’altra parte, il filo rosso che collega tante citazioni era cosi particolare da non far sperare nell’esistenza di studi direttamente utilizzabili, con ben poche eccezioni. Fra il troppo e il troppo poco, va da sé che gli studi di fatto consultati sono stati numerosi senza contare quelli assimilati preliminarmente, e vari ovvi debiti saranno riconoscibili agli specialisti fra le righe. Ma ciò che a me è servito come informazione e orientamento, per il lettore non avrebbe formato che un insie­ me di riferimenti discontinuo, e talvolta o scolastico o settoriale.

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der testimonianza di ciò che mediano; del resto anche su di essi la mia ricerca apportava informazioni. 3. Che la letteratura, e nei suoi testi e nei suoi codici, sia insostituibile quale testimonianza del passato, non è che conseguenza di un postulato più generale: quello, di deriva­ zione freudiana, che io stesso stavo sviluppando durante gli anni "70 in un ciclo unitario di libri3. È possibile risparmiare al lettore di questo libro l’elaborato carico concettuale del­ l’intero ciclo. Ma è necessario esplicitare qualcuna delle im­ plicazioni teoriche che questo libro ne eredita: quel postula­ to generale fa della letteratura, pur non ignorando il suo ver­ sante ufficiale o conformista, la sede immaginaria di un ritor­ no del represso. In altre parole, la presume apertamente o se­ gretamente concessiva, indulgente, parziale, solidale o com­ plice verso tutto quanto incontra distanza, diffidenza, ripugnanza, rifiuto o condanna fuori dalle sue finzioni. Se è cosi, la letteratura ha in permanenza il valore di un negativo fotografico della positività delle culture da cui emana; e co­ me archivio storico non ha eguali nella somma di tutti gli altri documenti, più casuali e meno organici, che possono lasciare di sé ribellioni, infrazioni e frustrazioni. Ma quello che ci in­ teressa ora è come la portata generale del concetto di ritorno del represso in letteratura, e di un concetto correlativo di re­ pressione, si specifichi in diverse trasgressioni le quali con­ traddicono imperativi diversi. Le trasgressioni che più facilmente supporremo la lettera­ tura incline a rappresentare, contraddiranno un imperativo morale o pratico: quello che detta legge al desiderio d’ogni specie, erotico o in senso lato politico, prima ancora che a ogni specie di azione. Tuttavia nell’opera di Freud, al di fuo­ ri da ogni discorso relativo alla letteratura, mostra importan­ za non minore un imperativo ben distinguibile, da definire piuttosto razionale. Le trasgressioni di quest’ultimo sono in­ nanzi tutto cedimenti logici e linguistici al richiamo dell’irra­ zionale: licenze primitive del pensiero e della parola. Sono strumentali al vero e proprio ritorno del rimosso nei sogni o 3 Apparsi rispettivamente nel 1971,1973,1979 e 1982; oggi sistemati in tre volumi (sotto il titolo di Letteratura, ragione e represso) : I. Due letturefreudiane: Fedra e il Mi­ santropo, Einaudi, Torino 1990; II. Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1992; IH. Illuminismo e retorica freudiana, Einaudi, Torino 1982.

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nei lapsus, mentre nei motti di spirito si fanno fine a se stesse, e scavalcano la rimozione in senso comunicativo. È a partire dalle trasgressioni di un simile imperativo razionale, in for­ me logiche e linguistiche, che a me era apparsa deducibile una teoria freudiana della letteratura al di là dell’opera di Freud; e solo secondariamente a partire da quelle di impe­ rativi morali e pratici, nei contenuti immaginari dei testi. D’altronde anche le trasgressioni dell’imperativo razionale, quando ridanno credito a tutto ciò che la fantasia arcaica o infantile ha di superato, possono figurare nei contenuti im­ maginari dei testi oltre a caratterizzare le loro forme. Ho raccontato come la genesi di questo libro sia stata gra­ duale e involontaria; molto meno direttamente legata, ri­ spetto al ciclo precedente, a sperimentazioni o a speculazio­ ni su spunti freudiani. Eppure, quale lettore dei libri di quel ciclo non sentirebbe una vaga aria di famiglia fra i contenuti testuali trasgressivi considerati in essi, non appartenenti al­ l’ordine fisico ma moralmente o razionalmente rifiutati, e le immagini di cose fisiche qui via via designate come inutili, in­ vecchiate, insolite, decadute, desuete, derelitte? Certo, simi­ le aggettivazione si adatterebbe male alla maggior parte di quei contenuti testuali trasgressivi: passioni criminali e tragi­ che, istanze maniacali e comiche, speranze criticamente sov­ versive, nostalgie regressivamente credule. E potrà sembrare strano, a prima vista, che immagini di cose semplicemente fi­ siche siano imparentate a immaginarie trasgressioni morali o razionali. Ma per confermare la parentela basta fare l’esperi­ mento opposto: attribuire alle cose, cioè, aggettivi carichi dell’emotività di un rifiuto umano che le investe. Non abuso, lo si vedrà, della relativa approssimazione di linguaggio con cui per ora posso qualificarle, se parlo di cose maledette, abiette, immonde, squallide, losche, orride, compassionevo­ li, commoventi, stravaganti, ridicole. E come se il ritorno del represso, altrove immateriale, si fosse incarnato e incorpora­ to nelle cose; a dispetto di quale specie di repressione, ci sarà da chiedersi allora? Nel concepire un altro imperativo di­ stinguibile non solo da quello morale ma anche da quello ra­ zionale, e nel chiamarlo un imperativo funzionale, non vedo nessun inconveniente per due ragioni. Primo, per una ragione formale: l’originario modello freu­ diano di rimozione e ritorno del rimosso è un modello

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logico, o antilogico, vuoto a priori di contenuti determinati. Come in difesa dei libri precedenti ho dovuto rivendicare più volte, niente impedisce - quando serva a qualcosa - di riempirlo di contenuti nuovi, purché tali da riprodurre fra loro il rapporto logico o antilogico dei termini originari4. Se­ condo, per una ragione propria a questi contenuti nuovi: le esigenze e gli ideali di funzionalità in questione, per quanto storicamente variabili rispetto a un corpus di testi letterari a tal punto eterogeneo, non fanno altro che applicare concre­ tamente al mondo fisico esigenze e ideali astratti della razio­ nalità occidentale. Il freudiano «principio di realtà» si stori­ cizza nella sua versione moderna e capitalistica, secondo l’e­ spressione giustamente fortunata di Marcuse, in un «princi­ pio di prestazione ». Nel nostro imperativo funzionale non fa altro che specializzarsi, materializzarsi e rendersi esecutivo l’imperativo razionale stesso: con la stessa tendenza al rinca­ ro incessante delle proprie pretese. Se in letteratura è predi ­ letta la rappresentazione di cose non funzionali, sarà una ri­ prova non trascurabile della vocazione della letteratura a contraddire nel suo spazio immaginario l’ordinamento reale. 4. Cosi il compito di presentare questo libro, mediante una prima definizione del suo oggetto difficile da sintetizza­ re, potrebbe considerarsi sbrigato. Il ricorso ai miei studi freudiani anteriori, che avrebbe complicato le cose se fosse stato meno schematico, in quanto tale le ha invece semplifi­ cate; e l’oggetto del libro ora può dirsi schematicamente de­ finito sin troppo bene. Come la letteratura accoglie un ritor­ no del represso immorale da cui è contraddetta una repres­ sione morale, e un ritorno del represso irrazionale da cui è contraddetta una repressione razionale, cosi supponiamo che accolga - specificando i due ultimi termini contrapposti - un ritorno del represso antifunzionale da cui è contraddet­ ta una repressione funzionale. Ogni ulteriore precisazione dell’oggetto del libro viene a coincidere con determinazioni più concrete di questi due ultimi termini: entrambi come si è detto variabili storiche, il negativo non meno del positivo. Non mi resterebbe che rinviare, per tali precisazioni e deter­ 4 Cfr. Orlando, Per una teoria freudiana cit., pp. 95-no; Id., illuminismo cit., pp. 4-9.

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minazioni, al caso per caso delle successive citazioni e analisi testuali. E magari confermare che l’aspettativa del lettore è giusta, se prevede che uno studio su un presunto ritorno del represso antifunzionale in letteratura, parlerà di letteratura degli ultimi due secoli: prevalentemente, anche se non esclu­ sivamente. Tuttavia non mi conviene chiudere questa pre­ sentazione, prima di aver cercato di prevenire legittimi dub­ bi del lettore anticipando alcune riflessioni di alta generalità, sul concetto stesso di non-funzionale. Non si tratta della relatività storica di esso, quanto piutto­ sto di una sua intima ambivalenza: tale da dare di per sé - at­ traverso tante variabili - l’impressione non illusoria di una costante metastorica, quasi logica. E l’ambivalenza che si ha tutte le volte che un dato positivo ne postula obbligatoria­ mente uno negativo, tutte le volte che qualcosa può nascere unicamente dal proprio contrario. Si danno situazioni in cui, appunto, il funzionale postula obbligatoriamente un non­ funzionale, può nascere unicamente da esso; e si danno im­ magini letterarie che assumono la doppia faccia di tali situa­ zioni. Immagini che parrebbero esorbitare dal nostro argo­ mento, in quanto le cose vi sono connotate di funzionalità in­ negabile, e invece rientrano in esso perché questa funzionali­ tà attuale ne presuppone un’altra perduta - dunque recupe­ ra e valorizza il non-funzionale. In attesa di moltissimi esem­ pi concreti, abbrevio la dimostrazione prendendo per ora esempi astratti: cioè immaginabili, da parte nostra, al di fuori da un testo letterario reale. E tuttavia, naturalmente, li pren­ do già contati secondo gli esiti - a cui il lettore perverrà assai più tardi - di accostamenti e raggruppamenti che intendo proporre fra testi letterari reali. Li prendo inoltre a uno a uno volutamente convenzionali: quasi altrettante vignette codifi­ cate dall’immaginazione collettiva, prima o dopo che dalla letteratura. Tanto più eteroclita sembrerà forse la loro serie: le rovine monumentali; la chiesa sconsacrata; il fiore dissec­ cato; le reliquie necromantiche; il tesoro sepolto; gli arredi d’antiquariato. Meta di pellegrinaggi, memoriale del passato, occasione di meditazioni, le rovine monumentali appaiono tutt’altro che prive di funzione: sono frequentate, venerate, cultural­ mente fruite. Ciò non toglie che siano resti, più o meno par­ ziali, di edifici costruiti a suo tempo per essere abitati; e che

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siano assolutamente inabitabili, da secoli o da millenni, L’oggettiva defunzionalizzazione può certo sembrare seconda­ ria; può quasi passare inosservata, al cospetto del recupero e della nuova valorizzazione che ha luogo. Ma recupero e valo­ rizzazione s’innestano direttamente sulla defunzionalizza­ zione precedente: guardando, non alla gerarchia attuale tra funzione e non-funzione, ma alla successione cronologica e alla necessità causale, è la perdita di funzione ad apparire primaria. - Più eccezionalmente nella nostra storia: se la chiesa sconsacrata è tale per effetto di devastazioni rivoluzio­ narie, niente quanto lo spettacolo e lo scandalo della profa­ nazione di essa servirà con eloquenza la causa d’una restau­ razione religiosa e, perché no, politica. Ciò non toglie che dentro di essa sia impossibile celebrare la messa o svolgere altrimenti il culto; al limite dei guasti, perfino pregare a ripa­ ro dalla pioggia. La violenta interruzione di ogni funzionalità normale è condizione efficace d’un rimprovero muto e d’una accorata propaganda. Il fiore disseccato non si sarà conservato per caso, tra le pagine ingiallite di un quaderno, se è ricordo periodicamen­ te commovente d’una persona scomparsa e d’un giorno re­ moto. Ma solo un cadaverino vegetale, passibile di disfarsi tra le dita, può sostenere questa funzione di rimembranza: non è solo per l’insufficienza dei tempi corti alle lontananze della memoria, è in virtù della sua stessa freschezza, che il fiore non vi si presterebbe fino a quando resta colorito e pro­ fumato. - Le reliquie necromantiche, volendo entrare in una logica omeopatica o metonimica da magia nera, sono parti di corpi umani o non umani morti tecnicamente necessarie al­ l’evocazione di quel tutto incorporeo che sarà il fantasma. Ma fino a quando la magia si accontentasse di parti staccate di corpi vivi, resteremmo ai margini dell’esemplificazione in astratto pertinente per noi; non spreco parole, in compenso, sulla negatività per eccellenza del cadavere rispetto alla fun­ zione delle funzioni, quella vitale. Il tesoro sepolto, più d’ogni altro esempio finora, ci co­ stringe ad ammettere un recupero di funzionalità, purché sia immaginato appunto - non è un gioco di parole - come recu­ perabile: purché la sua esistenza sia nota o sperata, e l’av­ ventura della sua ricerca intrapresa. Ma che il tesoro sia di monete o di preziosi o misto, che in altre parole la sua even-

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tuale nuova funzione tenda più o meno a coincidere col suo valore finanziario, non si ridurrà a quello anteriore allo spro­ fondamento e al riaffioramento: si accrescerà per così dire degli interessi, maturati nella cupida fantasia in mancanza di banca, d’un lungo soggiorno intermedio in seno alla terra o al mare. - Infine, gli arredi d'antiquariato sono addirittura regolarmente merci, e merci d’alto costo; cosi da far sembra­ re una contraddizione in termini la loro annessione al domi­ nio del non-funzionale, se è vero che nel valore sociale della merce si quantifica la funzionalità allo stato puro. Una de­ funzionalizzazione fisica è proporzionale, in questo caso, a quello stesso corso di tempo databile e sensibile su cui si mi­ sura il valore; pure, e sempre a patto che non sia eccessiva, è premessa indispensabile di ogni mercificazione non frodo­ lenta. E chiaro che arredi di più recente fabbricazione, e di minor prestigio e prezzo, sarebbero più funzionali in quanto più pratici o più solidi o più duraturi. 5. Chiamiamo da ora in poi primaria la non-funzionalità che ho segnalata per sei volte in questa serie di esempi, per­ ché lo è cronologicamente e causalmente; e chiamiamo se­ condaria la loro funzionalità di recupero, per quanto possa essere vistosa. Contati secondo gli esiti di accostamenti e rag­ gruppamenti venturi, gli esempi di questa serie corrispondo­ no idealmente a una metà dei nostri materiali. Ma in quanto ambivalenti tra non-funzionale e funzionale, essi potrebbero sembrare appartenenti ai nostri materiali solo a metà; e ad essi non è difficile ora contrapporre esempi semplici, corri­ spondenti a materiali interamente pertinenti. Tali saranno, e potrebbero sembrare i soli, tutti gli esempi dove l’assenza di qualsiasi funzionalità secondaria non concede al non-funzio­ nale nessun riscatto. Se non unicamente quello che diamo per scontato in ogni caso: la pura qualità formale del discor­ so letterario in cui il non-funzionale viene assunto. (Va da sé, neanche per un attimo il lettore avrà confuso ciò di cui sto parlando con qualcosa di cui non sto affatto parlando: uno, la negazione di una funzionalità intesa come attributo di cer­ ti contenuti immaginari dei testi; due, la negazione della fun­ zionalità letteraria dei testi intesa come loro qualità formale. In parole più semplici: neghiamo la prima funzionalità se di­ ciamo che in un testo si parla di roba vecchia, negheremmo la seconda se dicessimo che un testo non ci piace).

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Prendo allora altri esempi, che a loro volta vengano a sin­ tetizzare un’altra metà ideale della nostra casistica. Li pren­ do ad uno ad uno altrettanto convenzionali, componendo una serie altrettanto eteroclita, e sempre immaginandoli al di fuori da testi letterari reali; spendo subito poche parole in più su ciascuno, non avendo stavolta da tornarci sopra per mettere in rilievo ambivalenze come le precedenti. Contem­ pliamo successivamente: l’abito trasandato o rattoppato che lo indossi l’avaro, il povero o il picaro, che abbia effetto comico, pietoso o pittoresco; l’interno degradato - che accu­ si classe bassa o decadenza di classe, con le sue stoffe scolori­ te, i suoi legni tarlati, i suoi arnesi arrugginiti; la casa demoli­ ta - quella natale e parentale, o almeno quella dell’infanzia, sopravvissuta in macerie o già abolita da ricostruzioni; il ca­ stello spettrale - nel terrore dei cui ambienti abbandonati il passato incombe con la possibilità di un visibile ritorno; la città inghiottita dal deserto - dove si avvera la minaccia che ogni ragnatela fra i muri, ogni ortica fra i selciati insinuano negli abitati umani; il souvenir dozzinale - attraverso cui la fama svende, e vanifica, l’autenticità di una sagoma sottratta al proprio carico di tempi e al proprio sfondo di spazi. Delle sei immagini non ce n’è una, stavolta, che non riuscirebbe spiacevole senza riserve a incontrarla fuori dalla letteratura. E se in letteratura, invece, l’indugio su simili immagini può perfettamente produrre piacere - come riconoscerà chiun­ que abbia qualche reminiscenza istintiva di testi adeguati -, non è che un aspetto particolare di un problema fra i più an­ tichi dell’estetica: il riscatto in euforia artistica del penoso o del brutto. Per dirla in termini più moderni, prendiamo a prestito an­ cora da Freud un concetto insostituibile tanto per stranezza logica quanto ahimè per frequenza di applicazioni, quello di formazione di compromesso. Ammettiamo, cioè, che un’u­ nica manifestazione di linguaggio esprima due istanze av­ verse; o addirittura incompatibili. Nel caso che il ritorno del represso antifunzionale sia brutto o penoso, che sia soltanto il suo accoglimento in letteratura a rendere tollerabili e anzi godibili immagini come le ultime sei, parleremo di una for­ mazione di compromesso puramente letteraria. Mentre nel caso di immagini come le sei precedenti abbiamo visto che confluisce, nella formazione di compromesso propriamente

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letteraria, una sorta di compromesso col funzionale che sta nelle situazioni stesse - preletterariamente: una ambivalenza da cui il ritorno del represso antifunzionale viene riscattato o mitigato. Ora, è su questa ambivalenza che giova insistere per l’approfondimento preliminare del concetto di non­ funzionalità. E tipica degli esempi complessi ossia in parte positivi, è interna ad essi; ma vedremo che essi intrattengono spesso, con gli esempi semplici ossia solo negativi, rapporti di alternanza, interferenza, mescolanza, reversibilità. Attra­ verso l’ambivalenza o simili altri rapporti tra il non-funzionale e il funzionale, entra in questione l’unità latente di tutta la casistica - e quindi dell’oggetto stesso della ricerca.

6. Il fatto è che, al di là di questo stesso oggetto, ne va di un’ambivalenza intrinseca al rapporto delle cose, per l’uo­ mo, con il tempo. Il tempo consuma le cose e le distrugge, vi produce guasti e le riduce inservibili, le porta fuori moda e le fa abbandonare; il tempo rende le cose care all’abitudine e comode al maneggiamento, presta loro tenerezza come ri­ cordi e autorità come modelli, vi imprime il pregio della rari­ tà e il prestigio dell’antichità. La bilancia fra questo positivo e questo negativo, instabile e imprevedibile, obbedisce an­ che a dosaggi per cosi dire quantitativi. Il tempo logora o no­ bilita, logora e nobilita le cose; e di fatto una cosa può sia es­ sere troppo logorata dal tempo per venirne ancora nobilitata, che esserlo ancora troppo poco all’identico fine. Ricordiamo­ ci di una storica oscillazione, quella che accompagnò la gran­ de ascesa della borghesia europea, una volta messo in que­ stione il privilegio della nascita - cioè una dignità conferita genealogicamente, alla classe dominante anteriore, dal tem­ po. Da una parte fu irrinunciabile l’esigenza di svalutare una tale dignità, per l’efficiente affermazione del merito indivi­ duale; d’altra parte fu inestirpabile la tentazione di usurpar­ la, con l’espediente delle nobilitazioni tardive o retrospettive o alternative. La narrativa ottocentesca, che testimonia que­ sta oscillazione con incomparabile evidenza, l’ha riflessa a profusione in immagini letterarie di cose. L’accenno a un momento cosi esemplare di ambivalenza ideologica del tempo nella storia, non contraddice l’impres­ sione di aver a che fare - come dicevo più sopra - con una costante metastorica e quasi logica. Vedremo affiorare con

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frequenza nelle citazioni testuali, naturalmente attirata nei campi metaforici adiacenti alla nostra tematica, l’immagine del cadavere: quasi un referente simbolico permanente e se­ greto. E nell’immagine del cadavere l’ambivalenza del rap­ porto con il tempo non è la sola. Ne va insieme di quella che situa l’uomo e le sue cose, in una bilancia non meno instabile e imprevedibile, fra cultura e natura: natura fa del cadavere un relitto insensibile, precario e pestilenziale da eliminare al più presto, un oggetto di rifiuto per eccellenza; cultura lo consacra alla venerazione e alla conservazione idealmente eterna, come oggetto per eccellenza di culto. Niente mezzi termini qui, fra estremo disvalore fisico di non-funzionalità primaria, e supremo valore morale di funzionalità seconda­ ria. Ma non è col riferimento simbolico al cadavere che avre­ mo toccato il fondo di questo discorso preliminare; né tanto meno assicurato l’unità latente dell’oggetto della ricerca (se cosi fosse avrei finito col mettere la ricerca letteralmente sot­ to il segno della morte, proprio quel che dichiaravo di non voler fare). Innanzi tutto, per me, nessun referente simbolico basterebbe ad assicurare l’unità di oggetto in questione. Essa andrà testualmente e ininterrottamente dimostrata da inci­ denze, convergenze, conversioni, associazioni, tanto più si­ gnificative quanto meno prevedibili, fra tutte le parti presun­ te dell’oggetto di ricerca stesso. Inoltre - e per quel tanto che c’interessano referenti sim­ bolici e costanti metastoriche o logiche - l’immagine del ca­ davere appartiene si ovviamente a un’esperienza umana uni­ versale; ma non per questo necessariamente all’esperienza infantile, primaria per un freudiano. L’ambivalenza più anti­ ca dal punto di vista dell’individuo è piuttosto quella svelata da Freud nel rapporto della prima infanzia con gli escremen­ ti, il quale comincia dalla nascita. Le tesi che all’inizio del no­ stro secolo furono incredibili e scandalose sono ormai trop­ po note. Primo prodotto del corpo proprio, le feci rappre­ sentano per il bambino piccolissimo fl primo dono simbolico agli adulti: la prima occasione di merito o debito, scambio o ricatto sociale. Tanto spontaneamente per lui importanti, at­ traenti e profumate, quanto destinate a diventargli vergo­ gnose, ripugnanti e puzzolenti col progresso dell’educazio­ ne. Anche qui la polarizzazione si fa estrema; ma a differenza che nel caso del cadavere, si ripartisce - a rimozione compiu­ ta - fra il disprezzo tutto nella coscienza disciplinata, e la

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perseveranza solo inconscia della stima. Quello che per la coscienza è uno scarto ignobile, equivarrà nell’inconscio al­ l’oro come materia di supremo splendore, al danaro come mediatore generale del valore. In queste informi, primordiali «cose» che sono le feci, si può dire addirittura che le ambi­ valenze siano due: quella tra piacere e schifo, quella tra dono e scarto; nella prima si contrappongono natura e cultura, ed entrambe si capovolgono attraverso il tempo. Quand’anche con quest’ultima ambivalenza avessimo dav­ vero toccato un fondo, è il modello freudiano logico o antilo­ gico a interessarci più dei contenuti antropologici o psicolo­ gici che lo riempiono, se siamo studiosi di letteratura. E il modello, nella sua forma meno ristretta - per la quale biso­ gna parlare di ritorno del represso, anziché del rimosso -, è riempito da contenuti assai vicini alla letteratura in un genia­ le paragone che fa Freud: tra il regno psichico della fantasia, e le riserve o parchi per la protezione della natura. Questi so­ no spazi consacrati a preservare uno stato di cose originario, dice, «là dove le esigenze dell’agricoltura, delle comunica­ zioni e dell’industria minacciano di cambiare rapidamente la faccia della terra fino a renderla irriconoscibile». E aggiun­ ge: «Tutto vi può crescere e proliferare come vuole, anche l’inutile, perfino il nocivo»5. E per comparazione che viene chiamato in causa l’imperativo funzionale della razionalità occidentale, coi suoi effetti coercitivi sul mondo fisico. Ma la comparazione è ben estensibile a una fantasia già diventata linguaggio, cioè alla letteratura (o all’arte) come istituzione; e si addice esemplarmente alla letteratura come sede di un ri­ torno del represso antifunzionale. Uno spazio elargito anche all’inutile e perfino al nocivo, fuor di metafora, non può allo­ ra essere che quello della formazione di compromesso pura­ mente letteraria, nel cui linguaggio trovano un riscatto solo formale certe immagini solo negative. Mentre invece le am­ bivalenze antropologiche o psicologiche più o meno univer­ sali del tempo, del cadavere, delle feci, sembrano riflesse piuttosto dall’ambivalenza letteraria delle immagini in parte positive: nelle quali sappiamo che confluisce un compro­ messo preletterario, tra antifunzionale e funzionale. 5 S. Freud, Introduzione alla psicanalisi, in Opere, Boringhieri, Torino 1976, t. Vili (1915-17), p. 527.

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7. La stessa intuizione comparativa di Freud, con la si­ gnificativa modernità dei suoi termini di riferimento, ci aiuta a storicizzare in grande l’oggetto della ricerca. Naturalmente ci aiuta a farlo a partire da ciò che è più tipico, dalle immagini solo negative, dagli esempi semplici; ma l’estensione del di­ scorso agli esempi complessi, alle immagini in parte positive, sarà ininterrottamente implicata dall’ambivalenza che sovra­ sta l’insieme. La maggior parte dei testi dove ricorrono le no­ stre costanti tematiche appartiene, come indicavo, alla lette­ ratura degli ultimi due secoli. Uno smisurato scatto storico è infatti da constatare nella frequenza, nello sviluppo, nel nu­ mero di tali costanti; ed è databile, con ampiezza, fra tardo Settecento e primo Ottocento. Coincide con l’epoca in cui rivoluzione industriale inglese e rivoluzione politica francese imposero al mondo i modelli maturi di una razionalizzazione laica avviata da due secoli, e che in altri due secoli avrebbe ir­ riconoscibilmente cambiato la faccia della terra. Il momento ideologico di tale razionalizzazione era stato quello che chia­ miamo illuminismo; Marx ed Engels hanno detto come la critica illuministica della tradizione potesse elevare pretese intransigenti e grandiose di universalità razionale, per quan­ to mossa da interesse di classe borghese, e comandata da un’istanza utilitaria - il futuro principio di prestazione, il no­ stro imperativo funzionale. Quando leggiamo in Engels che «tutto dovette giustifica­ re la propria esistenza davanti al tribunale della ragione o ri­ nunciare all’esistenza», che «tutte le antiche concezioni tra­ dizionali vennero rigettate come irrazionali nel ripostiglio del ciarpame»6, si parla anche di letteratura perché furono letteratura spesso grandissima i testi del processo di cui si parla. Ma l’alleanza fra letteratura e razionalità illuministica (oggetto dell’ultimo libro del mio ciclo, di cui questo rappre­ senta cosi il seguito ideale), non tardò a sovvertirsi nella ri­ bellione romantica: la letteratura rifece posto di preferenza a non poche delle antiche concezioni tradizionali già rigettate, facendosi sede di un ritorno del represso irrazionale. E nel passo di Engels è di nuovo uno spunto metaforico, sia pure assai più tenue che nel passo di Freud, a evocare le nostre co­ 6 F. Engels, Anti-Dùhring, in K. Marx e F. Engels, Werke, Dietz, Berlin 1962, t. XX, pp. 16-17.

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stanti e a suggerirne quasi la posizione storico-letteraria. Pa­ re lecito dire che in quell’epoca, con raccoglierle in misura tanto aumentata, la letteratura si apri di preferenza a ciarpa­ me rigettato - prendendo alla lettera l’immagine; se ne fece essa stessa il ripostiglio, come sede di un ritorno del represso antifunzionale. Frattanto il momento economico della razionalizzazione borghese del mondo era quello che chiamiamo capitalismo. Il libro piu famoso che sia stato scritto sull’argomento co­ mincia, riprendendo la prima frase d’un precedente libro di Marx, con questa frase: «La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si pre­ senta [a un primo sguardo] come una “immane raccolta di merci”... » . Qui non si parla certo di letteratura - e il predi­ cato di immanità o mostruosità, pur prestando a un concetto astratto concretezza visiva e connotazioni di eccesso o spre­ co, non è uno spunto metaforico, e non va in senso antifun­ zionale quanto piuttosto iperfunzionale. Eppure, se volessi­ mo trasporre la frase in base al postulato che la letteratura contraddice e sovverte l’ordinamento reale, non avremmo che da sostituire una parola e da invertirne un’altra: ed ecco che cosa otterremmo. «La letteratura delle società nelle qua­ li predomina il modo di produzione capitalistico si presenta a un primo sguardo come una immane raccolta di antimer­ ci...» Guardando alla presenza massiccia delle nostre co­ stanti nei testi dopo una certa epoca, non sarebbe che una enfatizzazione del vero; per metonimia, antonomasia, iper­ bole. Come le merci in una realtà ordinata dall’imperativo funzionale, cosi le nostre costanti in una letteratura fatta se­ de di ritorno del represso antifunzionale, sono parte per il tutto, contano per eccellenza, provocano esagerazione. Guardando di nuovo a referenti simbolici, ma stavolta non metastorici: parlare di antimerce significa pensare come ambivalente in qualche modo anche il feticcio della merce. Se non fuori dalla letteratura, almeno per quel tanto che la letteratura lo riflette. Ma in qualunque ambito immaginario si attribuisca un’ambivalenza alla merce, principale feticcio 7 K. Marx, Das Kapital. Kritikderpoliiischen Okonomie. Buch I [Ilcapitale. Criti­ ca dell'economia politica. Libro E], in Marx e Engels, Werke, Dietz, Berlin 1962, t. XXHI, p. 49; e cfr. Zur Kritik der politischen Okonomie [Per la critica dell'economia politica], in Marx e Engels, Werke, Dietz, Berlin 1964, t. XIII, p. 15.

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adulto, non si fa altro che attribuire la sua principale mate­ rializzazione storica moderna all’ambivalenza delle ambiva­ lenze: quella, prima infantile e poi inconscia, delle feci. Chia­ mare antimerci le immagini letterarie di cose inutili o nocive, significa tornare a riferirle virtualmente agli escrementi - al meno mercificabile degli scarti. Se nella svalutazione conscia degli escrementi si rovescia la loro valorizzazione rimossa, nella predilezione della letteratura per l’antimerce s’inverte oggettivamente l’apoteosi sociale della merce: col suo valore di scambio non meno che col suo valore d’uso. E anche que­ sto è estensibile alle immagini, solo in parte negative, di cose dalla funzione perduta e alterata. Perfino nel caso limite già intravisto: che il loro recupero d’una funzione abbia fatto di esse proprio merci, d’un tipo particolare. Cosi l’ambivalenza insieme alla quale le nostre costanti si storicizzano, è quella dove ha le proprie origini più compli­ cate e più remote lo stesso modello logico o antilogico freu­ diano. A prova, essa ci consente di cambiare i contenuti del modello ancora una volta; penso a un altro passo, dove Freud fa qualcosa di meno e qualcosa di più che una compa­ razione. Fonda, su una ripetizione di rapporti, un accosta­ mento (sia pure per via d’un elemento intermedio: la rimo­ zione di stimoli olfattivi) tra lo schifo delle feci originaria­ mente apprezzate, e il rinnegamento di divinità culturalmen­ te superate e trasformate in dèmoni8. Ne sono istituiti i quat­ tro termini di una implicita proporzione, in cui i dèmoni stanno agli dèi d’un tempo come le feci schifose a quelle un tempo preziose; e ne sono quindi equiparati escrementi e de­ monio, in quanto oggetti di ripudio. Se per noi la letteratura, come sede di ritorno del represso morale e fors’anche razio­ nale, poteva ben dirsi uno spazio riservato al demonio, come sede di un ritorno del represso antifunzionale potrà pure dir­ si uno spazio concesso agli escrementi. Uno spazio più pro­ fondamente ambiguo non solo del ripostiglio del ciarpame, ma anche della immane raccolta di antimerci o della riserva di flora e fauna selvaggia: qualche volta un immaginario ri­ cettacolo dell’oro che era già stato merda, qualche volta un immaginario deposito della merda che era già stata oro. 8 S. Freud, Il disagio della civiltà, in Opere, Boringhieri, Torino 1986, t. X (19241929), pp. 589-90 nota.

Capitolo il

Primi esempi in confusione

i. È adesso il momento di dare la parola ai testi; ma a quali testi, fra i tanti possibili? La loro scelta, la loro disposi­ zione in un certo ordine, obbediranno all’intenzione di co­ minciare a provare in concreto quell’unità dell’oggetto di ri­ cerca che ho discussa in astratto nel primo capitolo. Vorrei non si dimenticasse mai, però, che ciascuno di essi era stato innanzi tutto trovato: in quel modo accidentale, graduale, in­ volontario che ho raccontato (i, i). Perciò la loro scelta e di­ sposizione mimeranno in qualche modo gli andirivieni del caso, seguiranno una varietà di associazioni letterarie non sempre o non troppo razionalizzabili ancora. Cosi, per esem­ pio, il più adatto fra tutti ad avviare la serie mi sembra un te­ sto che reca una firma assai meno celebre di tanti altri: quella del poeta francese Charles Cros (1842-88). È soprattutto al­ l’apprezzamento dei surrealisti, e ai suoi monologhi teatrali in prosa, che Cros ha dovuto un incremento postumo e rela­ tivamente recente di fortuna. Ma al nostro argomento giova esemplarmente il sonetto in ottosillabi da lui anteposto nel 1879, con funzione e titolo di prefazione, alla raccolta di versi Le Coffret de santal': Bibelots d’emplois incertains, Fleurs mortes au sein des almées, Cheveux, dons de vierges charmées, Crépons arrachés aux catins,

Tableaux sombres et bleus lointains, Pastels effaces, durs camées, Fioles encore parfumées, Bijoux, chiffons, hochets, pantins, [Lo scrigno di sandalo}.

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Quel encombrement dans ce coffre! Je vends tout. Accepte mon offre, Lecteur. Peut-étre quelque émoi, Pleurs ou rire, à ces vieilles choses Te prendra. Tu paieras, et moi J’achèterai de fraiches roses2.

Si tratta naturalmente di un elenco, per ben otto versi. Ci si può chiedere se il primo - con la sua immediata messa in questione della funzionalità degli oggetti: gingilli «dagli im­ pieghi incerti» - costituisca un primo elemento che sta alla pari coi successivi; oppure una sintesi iniziale dell’elenco, che estende a tutti i successivi quel predicato di dubbia fun­ zionalità. In ogni caso l’elenco intensifica la defunzionalizza­ zione primaria delle cose nominate, serrando il ritmo alla fi­ ne e stipando nell’ottavo verso quattro futili elementi. L’e­ sclamazione sull’«ingombro», sintesi finale, introduce le terzine con la loro sorpresa: non su un piano di immaginaria realtà si affastellavano le cose nominate, bensì su un piano metaforico, riferito direttamente alla realtà non immaginaria del mercato letterario. Esse esemplificavano, cioè, i contenu­ to di uno «scrigno» che è quello stesso del titolo della rac­ colta; ed è perciò che contenente e contenuti vengono messi in vendita. Che in cambio del prezzo il poeta intenda com­ prarsi « fresche rose », in pendant conclusivo ai « fiori morti » del secondo verso, sembra significare che la vendita della sua letteratura gli renderà possibili esperienze vissute. Magari 2 Ch. Cros e T. Corbière, (Euvres complètes, «Bibliothèque de la Plèiade», 1970, p. 47. Le almées sono cantatrici e danzatrici orientali. A partire da quella che segue, quasi tutte le traduzioni dei testi non italiani citati sono state preparate da me. Addossarmene la fatica e il rischio mi sarebbe parso necessario, anche soltanto per assicurare al lettore un’omogeneità di criteri e di resa. Ma soprattutto per garantirgli un grado di letteralità che all’occorrenza prevalga sulla scioltezza, che raramente è preservato nelle traduzioni in uso sia pure autorevoli, e che solo può consentirgli di seguire analisi verbali precise. Inutile dire che delle traduzioni in uso, specie se autorevoli, ho piu volte tenuto conto. Quasi soltanto nei casi di lingue da me ignorate, e di lingue speciali per connotazione culturale o per inventiva individuale, mi sono rifatto al traduttore di un’edizione italiana o bilingue e ne ho indicato il nome. Si troveranno le traduzioni sempre in fondo alla nota corrispondente, o alla piu vicina successiva; se però la citazione è nella nota stessa, sempre di seguito al testo citato. [Gingilli dagli impieghi incerti, | Fiori morti in seno alle almee, | Capelli, doni di vergini ammaliate, | Ciocche finte strappate alle sgualdrine, || Quadri cupi e azzurri lontani, | Pastelli sbiaditi, duri cammei, , Fiale ancora profumate, | Gioielli, cenci, balocchi, burattini, | Quale ingombro dentro questo scrigno! Io vendo tutto. Accetta la mia offerta, Lettore. Forse un po’ d’emozione, 11 Lacrime o risa, a queste vecchie cose ( Ti prenderà. Tu pagherai, ed io Mi comprerò delle fresche rose].

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non trasponibili in nuova letteratura proprio in virtù della loro freschezza. L’imminente raccolta di versi è cosi identificata esclusivamente a oggetti artificiali o gratuiti o appassiti: pitture, or­ pelli, residui dell’interno borghese, feticci della memoria erotica. Ma, per immancabile estensione metonimica dalla parte al tutto, una tale identificazione coinvolge - al di là del­ la raccolta di Cros - l’intera letteratura. Reciprocamente, ed è ancora più interessante per noi, l’ammasso di simili oggetti sta per la letteratura: sia come singola parte presente, sia co­ me tutto istituzionale. E implicito il paradosso della mercifi­ cazione di cose inutili, dal momento che le poesie assimilate a tali cose vanno realmente in commercio. E il paradosso il­ lustra perfettamente quell’ambivalenza di merce e antimerce che suggerivo (i, 7), formata sull’ambivalenza freudiana del­ le feci ma riflessa da immagini letterarie: gli oggetti del sonettino, antimerci sul piano immediato in cui rappresentano se stessi, sul piano metaforico in cui diventano merci rappre­ sentano la letteratura. Il discorso poetico non può conferma­ re quello teorico, se non figuralmente esagerandolo. Nel ca­ pitolo precedente avevo parlato di letteratura come sede di un ritorno del represso antifunzionale (1, 3-4); ma solo nell’alterare liberamente una frase di Marx ho osato farlo con un’identificazione cosi totalitaria - per metonimia, più anto­ nomasia e iperbole - di contenente e contenuti. 2. Vista la situazione storico-letteraria di Cros, e l’impor­ tanza di modello già raggiunta da Les Fleurs du maV (1857) alla data del suo sonettino, non si rischia di sbagliare av­ vertendo in esso una qualche reminiscenza d’una poesia tra le più famose di Charles Baudelaire (1821-67). Cosi la nostra prima transizione da testo a testo non si discosta quasi, pru­ dentemente, dal rapporto della più tradizionale storia lette­ raria fra un testo e la sua «fonte»; si tratta dei seguenti versi, dalla seconda delle quattro poesie intitolate Spleen-. J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans.

Un gros meublé à tiroirs encombré de bilans, De vers, de billets doux, de procès, de romances,

.3 [I fiori del male].

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PRIMI ESEMPI IN CONFUSIONE II.2

Avec de lourds cheveux roulés dans des quittances, Cache moins de secrets que mon triste cerveau.

Je suis un vieux boudoir plein de roses fanées, Où git tout un fouillis de modes surannées, Où les pastels plaintifs et les pales Boucher, Seuls, respirent l’odeur d’un Bacon débouché4.

C’è l’elenco, c’è l’ingombro e in più il guazzabuglio, c’è il misto di domesticità e mondanità delle cianfrusaglie, c’è il cassettone come contenitore in luogo dello scrigno, c’è la funzione secondaria memoriale-erotica dei suoi contenuti, ci sono i fiori avvizziti e i capelli, ci sono i dipinti dalle tinte spente, c’è la boccetta col suo profumo. C’è perfino l’appar­ tenenza a un piano metaforico di tutte queste cose, sebbene qui esse non siano affatto metafora della letteratura, né del testo che le ospita né dell’istituzione: quanto piuttosto del­ l’individuo corrispondente all’io enunciatore, come ci dico­ no pronomi personali e aggettivi possessivi, e del suo rappor­ to con il proprio passato. L’originalità del componimento di Cros però è lasciata intatta soprattutto da una differenza es­ senziale di tono. La serie dei suoi oggetti è accarezzata al pas­ saggio con ironia malinconica, ma anche con tenera compia­ cenza; quella di Baudelaire emana una depressione quasi si­ nistra - che il contesto non citato drammatizza ulteriormen­ te -, come se i resti del passato ispirassero, più che compia­ cenza, ripugnanza. I burocratici bilanci, processi, ricevute si mescolano alle reliquie letterarie e amorose senza ironia, o con la grigia ironia del caso e del reciproco estraniamento. Il soggetto, ritiratosi nel primo termine del rapporto metafori­ co, da una parte assorbe interamente gli oggetti ma dall’altra li lascia campeggiare «soli»: come è detto dei dipinti nel salottino. E la prima volta, nella storia della poesia, che gli og­ getti compongono un microcosmo a cosi forte portata sim4 Baudelaire, (Euvres complètes, «Bibliothèque de la Plèiade». 1975, t. I, p. 73. [Ho piu ricordi che se avessi mille anni. 11 Un grosso cassettone ingombro di bilanci, | Di versi, di biglietti d’amore, di processi, di romanze, | Con pesanti capelli avvolti in ricevute, j Nasconde meno segreti del mio triste cervello. | [...]. | Io sono un vecchio salottino pieno di rose appassite, | Dove giace tutto un guazzabuglio di mode antiquate, | Dove i pastelli lamentosi e i pallidi Boucher, | Soli, esalano l’odore di una boccetta sturata. | [...]].

PRIMI ESEMPI IN CONFUSIONE II.3

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Eolica, riassumono un rapporto affettivamente cosi chiuso e completo fra io e mondo.

3. Facciamo ora un salto cronologico in avanti anziché indietro: a Jorge Luis Borges (1899-1986), che come poeta in versi ha protratto fino a oltre gli ottantanni suoi e del secolo la singolarità di un linguaggio non «oscuro», né in senso simbolista né surrealista né espressionista. Quanto al primo simbolismo francese - largamente inteso, e cioè a partire proprio da Baudelaire -, impossibile affermare positivamen­ te ma ancor più negare, per un poeta a tal punto nutrito di cultura letteraria, reminiscenze particolari di Baudelaire stesso, o addirittura in questo caso di Cros. Sta di fatto che di poesie formate quasi per intero da elenchi, e da elenchi di co­ se, il tardo Borges ne ha lasciate ben quattro; che in tutte è inconfondibile la reminiscenza generica del clima di quel primo simbolismo francese; e che ben due s’intitolano ri­ spettivamente, e semplicemente, Las cosas e Cosas. Leggia­ mo la prima di esse, che si trova nella raccolta Elogio de la sombra\ del 1969: E1 bastón, las monedas, el llavero, La dócil cerradura, las tardias Notas que no leeràn los pocos dlas Que me quedan, los naipes y el tablero, Un libro y en sus pàginas la ajada Violeta, monumento de una tarde Sin duda inolvidable y ya olvidada, El rojo espejo occidental en que arde Una ilusoria aurora. jCuàntas cosas, Limas, umbrales, atlas, copas, clavos, Nos sirven corno tàcitos esclavos, Ciegas y extranamente sigilosas! Duraràn mas alla de nuestro olvido; No sabràn nunca que nos hemos ido56.

Anche in questo sonetto - come in quello di Cros - l’elen­ co occupa due quartine, per poi invadere l’inizio della terza 5 [Le cose]. [Cose]. [Elogio dell’ombra]. 6 J. L. Borges, Obra poètica, Alianza-Emecé, Buenos Aires 1981, p. 335. [Il bastone, le monete, il portachiavi, | La docile serratura, le tardive | Note che non leggeranno i pochi giorni | Che mi restano, le carte e la scacchiera, | Un libro e nelle sue pagine l’appassita | Violetta, monumento d’una sera | Certo indimenticabile e già dimenticata, | Il rosso specchio occidentale in cui arde | Un’illusoria aurora. Quante cose, | Lime, soglie, atlanti, coppe, chiodi, | Ci servono come taciti schiavi, | Cieche e stranamente segrete! | Dureranno più in là del nostro oblio; | Non sapranno mai che ce ne siamo andati].

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con la chiusa della frase nominale in cui esso consiste. È quindi nel nono verso - sempre come nel sonetto di Cros che una frase esclamativa parte da una retrospettiva sintesi dell’elenco: quante cose! ; mentre qui è al verso seguente che si aggiunge, in forma di apposizione, tutto un secondo elen­ co serrato di cinque elementi. Ma gli oggetti - a differenza da quelli sia di Cros che di Baudelaire - non sono né desueti né consunti, con l’unica eccezione della violetta appassita nel li­ bro. Non sono nemmeno gratuiti; sono al contrario oggetti d’uso, i quali letteralmente «ci servono», come schiavi. L’at­ mosfera di desuetudine o consunzione o gratuità che malgra­ do tutto li avvolge esemplifica perfettamente, da una parte, quell’effetto defunzionalizzante dell’elenco di cose sulle co­ se stesse di cui parlavo nel primo capitolo (i, i). D’altra par­ te, deriva da quella che è anche stavolta una valenza metafo­ rica: non tanto degli oggetti in sé, quanto del rapporto uma­ no con essi. E umano è da prendere in un senso metastorico e metafisico, dichiarato nel trapasso dal privato della prima persona singolare affiorante nel quarto verso, alla gravità della prima persona plurale ripetuta nei versi ultimi. Il miste­ ro di certezza della caducità e della morte, d’incertezza dell’al di là, detta espressioni come «pochi giorni»; come «in­ dimenticabile e già dimenticata»; come «specchio occiden­ tale», e «illusoria aurora». Ma un discretissimo spostamen­ to animistico finisce col farne soggetto improprio, duraturo e negativo i soli oggetti. Non si dice che saremo noi a non sa­ per mai di essercene andati, dimenticando le cose: bensì che saranno le cose a ignorarlo - come il loro servizievole silenzio prefigura. 4. Ben più vicina cronologicamente al clima del primo grande simbolismo francese si situa una citazione che sarà prevedibile, a questo punto, per il lettore italiano. Alludo al notissimo inizio de L’amica di nonna Speranza di Guido Gozzano (1883-1916), uscita dapprima in La via del rifugio nel 1907: Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto), il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,

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un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco,

Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici, le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature, i dagherottipi: figure sognanti in perplessità, il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto, il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco chèrmisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!7.

Finora il più lungo, l’elenco si sviluppa per più di tredici versi, formando anche qui una frase nominale entro cui le cose si predicano per cosi dire da sole. Subito dopo, in meno d’un verso, si chiude la prima delle cinque sezioni della poe­ sia; frattanto è emerso per un momento un io poetico, insie­ me a una data. L’io ricomparirà soltanto nella quinta sezio­ ne, per attribuirsi in un’esplicitazione finale la scettica no­ stalgia d’un certo passato che era diffusa attraverso tutto il testo. La data, in quell’ultima sezione, si preciserà fino al me­ se e al giorno (come già nell’epigrafe della poesia); e l’impor­ tanza della datazione fa tutt’uno con l’altra principale novità rispetto ai precedenti testi: la presenza, nei versi, d’una nar­ razione. La funzione dell’elenco è dunque partecipe anche di quella d’una descrizione, quale potrebbe iniziare una no­ vella in prosa. All’opposto delle cose quotidiane di Borges, assolutizzate in senso metafisico e metastorico, abbiamo co­ se quotidiane datate o storicizzate: assunte in base alla loro tipicità rispetto a un’epoca del passato collettivo. Direi che non a caso si tratta dell’epoca della nonna. Di quei cinquanta o sessantanni prima - intervallo di circa due generazioni -, che sono gli anni più lontani di cui un individuo possa farsi, per vie familiari, un’immagine ancora concreta. Su un distacco generazionale accentuato dall’evoluzione borghese gioca il testo di Gozzano: contemperando nel di­ stacco ironia e rimpianto. E questa ambivalenza a dettare la qualificazione ormai proverbiale delle «buone cose di pessi­ mo gusto». Ma dal punto di vista della nonna, cioè dei per­ sonaggi interni alla narrazione, tali cose - degnissimi arredi, dopo tutto, del loro interno alto-borghese - non sono affatto 7 G. Gozzano, Poesie e prose, Garzanti, Milano 1966, p. 144.

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di pessimo gusto; e quindi neanche buone, ossia rese care dalla loro ingenuità. Il giudizio di valore o di gusto è giudizio d'autore, contrapposto a quello presumibile dei personaggi. A noi propone per la prima volta il problema moderno, non anteriore al pieno Ottocento, del cosiddetto cattivo gusto: o, con parola più particolare, del Kitsch. Un problema che qui in prima istanza sembrerebbe estraneo a una ricerca su im­ magini letterarie di cose non funzionali: non tanto perché problema extraletterario, quanto perché la funzionalità or­ namentale di quegli oggetti in quel salotto è fuori questione. Tuttavia, come non prendere atto dell’evidente imparentamento fra questo elenco e i tre precedenti, che di cattivo gu­ sto delle loro componenti né parlavano né ci inducevano a parlare? 5. Azzardiamo allora, per la prima volta, una transizione da testo a testo non garantita da nessun particolare rapporto di storia letteraria. La differenza fra versi e prosa non sarà che una fra le tante, ad allontanare il brano precedente da quello che prelevo in un romanzo di Joseph Roth (18941939): Die Flucht ohne Ende. Ein Bericht\ pubblicato nel 1927. Preso prigioniero in Russia e, oltre la fine della prima guerra mondiale, trattenuto da un amore nella nuova società rivoluzionaria, l’ex-ufficiale austriaco Franz Tunda non è riuscito a integrarvisi. Non per questo si rivela meno dispera­ ta la condizione di estraneo che sperimenta al suo tardivo ri­ torno in Occidente. È appena arrivato a casa del fratello di­ rettore d’orchestra, in Renania; la disaffezione che divide da sempre i due fratelli si somma al distacco del reduce dall’a­ giatezza borghese. Der Kapellmeister hatte vorJahren von russischen Fluchtlingen einen silbernen Samowar gekauft, als Kuriositàt. Zu Ehren des Bruders, der eine Art Russe geworden sein mochte, wurde das Mòbelstuck von dem livrierten Diener au£ einem rollenden Tischchen hereingefahren. Der Diener trug weisse Handschuhe und griff mit einer silbernen Zuckerzange kieine Kohlenwiirfel, um den Samowar zu heizen. Ein Gestank wie von einer Kleinbahnlokomotive erhob sich. Hierauf musste Franz darlegen, wie man einen Samowar behandelt. Er hatte in Russland keinen benùtzt, gestand es aber nicht, sondern verliess sich auf seine Intuition. 8 [La fuga senza fine. Una cronaca}.

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Indessen sah er vide jùdische Geràte im Zimmer, Leuchter, Be­ cher, Thorarollen. «Seid ihr zum Judentum ùbergetreten?» fragte er. Es stellte sich heraus, dass in dieser Stadt, in der die àltesten jiidischen verarmten Familien wohnten, vide kostbare Geràte von kunstlerischem Wert «halb umsonst» zu haben waren. Ubrigens gab es in anderen Zimmern auch Buddhas, obwohl weit und breit am Rhein keine Buddhisten leben, es gab auch alte Handschriften von Hutten, eine Lutherbibel, katholische Kirchengeràte, Madonnen aus Ebenholz und russische Ikonen. So leben Kapellmeister9.

Al primo sguardo, nemmeno la grezza, preletteraria ma­ teria del contenuto potrebbe dirsi uguale fra questa prosa e i versi di Gozzano. In entrambi i casi si tratta di ornamenti d’un interno alto-borghese, entro una certa misura strava­ ganti per eccesso di gratuità ornamentale; ma nel caso di Roth non viene accusato cattivo gusto, anzi suggerita una ri­ cercatezza colta. E se l’elaborazione formale della materia non può che far parlare di ironia in entrambi i casi, è difficile pensare a ironie più differenti. Là scoperta e affettuosamen­ te retrospettiva, qua tanto immediatamente corrosiva quan­ to asciutta: all’idea d’una pura differenza, e al suo rischio di non presentare nessun interesse per noi, proviamo a sostitui­ re l’idea sempre interessante d’una opposizione. Quelli che le ironie rispettive proiettano sugli ornamenti in questione, sono due atteggiamenti opposti verso i valori della buona co­ scienza borghese. Il poeta d’anteguerra li relegava nel passa9 Cap. xvii: J. Roth, Werke in dreiBànden, Kiepenheuer & Witsch, Kòln-Berlin 1956, t. II, pp. 428-29. Ulrich von Hutten, cavaliere umanista, sostenne gli inizi della Riforma luterana. [Il direttore d’orchestra aveva comprato anni prima da fuggiaschi russi un samovar d’argento, quale curiosità. In onore del fratello, che avrebbe dovuto essere diventato una specie di russo, l’oggetto fu introdotto dal cameriere in livrea su un tavolino a rotelle. Il cameriere portava guanti bianchi e prendeva cubetti di car­ bone con mollette da zucchero d’argento, per riscaldare il samovar. Si levò un puzzo come di locomotiva a scartamento ridotto. A questo punto Franz dovette mostrare come si maneggia un samovar. Non ne aveva mai usati in Russia, però non lo confessò, ma si affidò all’intuizione. Frattanto vedeva molti arredi ebraici nella camera, candelabri, coppe, rotoli del­ la torà. «Vi siete convertiti al giudaismo?» domandò. Risultò che in questa città, in cui abitavano le più antiche famiglie ebraiche impo­ verite, si potevano avere molti preziosi arredi di valore artistico «quasi gratis». Del resto nelle altre camere c’erano anche dei Budda, benché né da un lato né dall’altro del Reno vivano buddisti, c’erano anche antichi manoscritti di Hutten, una bibbia di Lutero, arredi da chiesa cattolici, madonne d’ebano e icone russe. Cosi vivono i direttori d’orchestra].



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to, e indulgeva a una loro innocenza ancora integra. Il narra­ tore del dopoguerra li riduce a una sicurezza già messa sulla difensiva; e con lo sguardo del suo protagonista né russo né occidentale, né comunista né borghese, li sottopone a un let­ terale estraniamento. L’effetto può ricordare (più che Brecht) la grande tradi­ zione settecentesca dell’ironia illuministica, e ancora di più quando - altrove nel romanzo - accorgimenti tecnici o co­ modità pratiche vengono fatti apparire non meno superflui che qui gli oggetti di lussoI011 . Ma l’estraniamento di questi ul­ timi mette a nudo quanto ci era rimasto velato in Gozzano: l’assurdo latente - per dirla in termini già stabiliti (i, 5) - in ogni funzionalità secondaria di tipo ornamentale, almeno tutte le volte che la perdita di funzionalità primaria comporti una sottrazione degli oggetti al loro primo autentico conte­ sto. Gli arnesi e arredi ecclesiastici giudaici, protestanti, cat­ tolici, ortodossi e perfino buddisti, sono decontestualizzati spazialmente in quanto miscuglio di tradizioni localizzate, temporalmente per l’antichità delle destinazioni religiose abolite. Non deve sviarci, dal cercare comprensione nei pa­ raggi concettuali della decontestualizzazione, il fatto che il salotto del direttore d’orchestra non risulti connotato di cat­ tivo gusto e nemmeno di Kitsch: che in altre parole gli oggetti si suppongano ricontestualizzati bene. La loro profanazione è stata mediata da una svendita, nei casi in cui si è approfitta­ to delle situazioni di fuggiaschi russi o famiglie ebree impo­ verite. Franz Tunda dal canto suo dovrebbe «essere diventa­ to una specie di russo»; costretto a maneggiare il samovar dall’emblematicità dell’oggetto, simula educatamente l’e­ sperienza di esso che non ha. Ma non è tutta l’esibizione or­ namentale a simulare elegantemente esperienze non avute, né dai padroni di casa né dai loro ospiti, per approssimazio­ ne convenzionale e appropriazione con la minima spesa? 6. Senza cambiare lingua risaliamo fino al romanticismo tedesco, e precisamente al 1812: al lungo racconto Isabella von Àgypten. Kaiser Karl des Fùnften erste Jugendliebe di Achim von Arnim (1781-1831). Il nome di Arnim si lega in­ nanzi tutto alla famosa raccolta di poesia popolare rimaneg­ 10 Ibid., pp. 424, 428. 11 [Isabella d’Egitto. Il primo amore di gioventù dell’imperatore Carlo Quinto].

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giata, Des Knaben Wunderhorn12, da lui edita insieme con Brentano; ma anche la fama di lui è stata rinnovata nel nostro secolo dai surrealisti (i quali, rivalutando o stroncando, han­ no esercitato sul gusto la loro azione forse più durevole in letteratura). Mentre però nel caso di Cros il fenomeno va ri­ condotto di preferenza a testi diversi dal sonetto che ho cita­ to, nel caso di questo racconto si scommetterebbe volentieri su una predilezione di Breton per la pagina stessa che sto per citare. E in viaggio nelle Fiandre il gruppo composto dalla giovane zingara protagonista, da una vecchia zingara un po’ strega, e da due personaggi soprannaturali che sono un mor­ to vivente e una vivente mandragora; per rifornirsi di vestia­ rio, tutti sostano presso un’amica della vecchia, commer­ ciante in oggetti usati e all’occasione rubati: Unterdessen war der Alraun uber alien lacherlichen Kram im Zim­ mer, wo alte Tressen, Lappen, Kùchengeschirre, Leinenzeug in abgesonderten Haufen lag, so verwundert, dass er sich nicht satt daran sehen konnte; alles war ihm neu, aber es wusste sich bald alles zu deuten. Frau Nietken, die eine Tròdlerin von sehr ausgebreitetem Handelsverkehr war, versammelte die seltensten Vorràte von Altertùmern aller Art; da war im Hause auch das kleinste Hausgeràt nicht in der Art zusammenhàngend und dem Hause gemàss, wie man es sonst aUerorten findet; sondern aus einer sehr natùrlichen Auswahl der Leute, die sich immer das Brauchbare aus ihren Ankàufen herausgesucht hatten, war ihr zum Gebrauche nur das Abenteuerlichste gebliebcn, was die Laune irgendeiner Zeit oder eines Reichen fùr einen besondern Fall geschaffen hatte. Die Stùhle zum Beispiel in der Dachkammer waren von hólzernen Mohren getragen, iiber jedem ein bunter Sonnenschirm, sie stammten aus dem Garten eines reichen Genter Kaufmanns, der viel Geschàfte in Afrika gemacht hatte. In der Mitte des Zimmers hing eine wunderliche gedrehte Messingkrone, sie hatte sonst die aufgehobene judische Synagoge zu Gent beleuchtet, jetzt steckte ein gewundenes buntes Wachslicht zu Ehren der Mutter Gottes darauf. Der Altar war eigentlich ein abgedankter Spieltisch, an welchen die ledernen Geld sàcke ausgerissen und eine gewesene Salzmàste, mit Weihwasser gefiilJt, eingesetzt war. An den Wànden hingen gewirkte Tapeten, welche alte Turniere darstellten, die Ritter und die eisernen Harnische hingen in Plundern herunter13. 12 [Il corno magico del fanciullo]. 13 A. von Arnim, Isabella von Àgypten, Manesse, Zurich 1958, pp. 70-71. [Frattano la mandragora era cosi meravigliata di tutta la ridicola roba della camera, dove in gruppi separati stavano vecchi galloni, cenci, stoviglie da cucina, biancheria, che non ;i poteva saziare di guardarla; tutto le riusciva nuovo, ma presto seppe spiegarsi tutto, ■rau Nietken, che era una rigattiera dal giro commerciale assai esteso, raccoglieva le corte piu singolari di anticaglie d’ogni specie; perciò in casa anche le più piccole sup>ellettili non erano congruenti e adatte alla casa come succede dappertutto; ma per ina scelta assai naturale da parte delle persone, che nei loro acquisti si erano sempre

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Constatiamolo una seconda volta, dopo il testo di Roth: fra le immagini letterarie da me situate all’insegna dell’antimerce, possono annoverarsi benissimo - come avevo accen­ nato (1, 4, 7) - immaginarie merci. In altre parole, non esiste incompatibilità fra la presentazione di certi oggetti come og­ getti di compravendita, e le connotazioni di non-funzionale. E non solo a causa del decorso di tempo che è nella definizio­ ne stessa di antiquariato: ma altresì grazie a un gioco impre­ vedibile di defunzionalizzazioni primarie e rifunzionalizza­ zioni secondarie. Nel testo di Roth erano merci già vendute, la cui nobiltà, in contrasto con la modicità dell’acquisto, era preservata nell’utilizzazione ornamentale. Qui guardiamo (con gli occhi d’una mandragora!) l’interno di quella che è insieme casa e bottega della rigattiera; e vediamo anticaglie ammucchiate che sono merci in vendita. Non vedremmo al­ tro, se la donna non assegnasse funzioni domestiche a tutto ciò che la naturale scelta della gente, prendendosi «l’utiliz­ zabile», le lascia di «più stravagante» e quindi di doppia­ mente scartato. Il riutilizzo da parte di lei non comporta una ricontestualizzazione; ed è indifferente ai paradossi della de­ contestualizzazione, perché è pratico o pio, ma privo di sco­ po ornamentale. Cosi le sedie rette da mori di legno coi loro ombrelli variopinti, frutto di capriccio facoltoso e di com­ mercio africano, non servono a quanto pare che a sedersi quotidianamente. Il lampadario proveniente - anche qui - dal culto giudai­ co, è riconsacrato alla devozione cattolica; mentre un ogget­ to cosi poco devoto come un ex-tavolo da gioco è passato con sorte inversa a quelli del testo di Roth - dal profano al sa­ cro. Esso si è trasformato nell’altare davanti a cui l’arrivo del gruppo ha trovato in ginocchio Frau Nietken, e a cui attacca­ ta una ex-saliera fa da acquasantiera. E proprio per l’eccenportate via l’utilizzabile, a lei era rimasto in uso solo quanto di più stravagante, ciò che aveva creato il capriccio di un qualche momento o di un ricco, per un caso speciale. Le sedie per esempio nella soffitta erano rette da mori di legno con ombrelli variopin­ ti sulla testa, esse provenivano dal giardino di un ricco mercante di Gand che aveva fatto molti affari in Africa. Nel mezzo della camera pendeva una strana contorta coro­ na di ottone, che aveva già illuminato l’abolita sinagoga ebraica di Gand; ora c’era montata una tortuosa variopinta candela di cera in onore della Madre di Dio. L’altare era propriamente un tavolo da gioco fuori servizio, da cui erano strappate le tasche di cuoio per il danaro e vi era inserita quella che era stata una saliera, piena d’acqua san­ ta. Alle pareti pendevano tappezzerie in tessuto, che rappresentavano antichi tornei; i cavalieri e le armature di ferro pendevano giù a brandelli].

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tricità di simili decontestualizzazioni, per il loro travestire il caso da inventiva onirica, per il loro effetto odierno di Kitsch compiacentemente contraffatto, che supponevo concentrata su questa pagina la surrealistica ammirazione. Dico effetto odierno; e dubito che si produca senza una qualche forzatu­ ra del senso originale del testo, attirato entro un codice co­ mune a testi più recenti, e allontanato dal codice che doveva accomunarlo a testi anteriori. In parole più semplici, credo probabile che il senso originale prevedesse un effetto grotte­ sco meno lontano dal comico vero e proprio. Se più in là lo confermeranno serie di passi comparabili, la nostra ricerca si sarà arrogata incidentalmente una qualche capacità filologico-semantica: avrà contribuito a restaurare in un testo quel significato letterale non indefinito, che può corrompersi nel tempo come la lettera ben definita del significante.

7. Dopo quattro testi in versi, e due brani di prosa o ante­ riori o posteriori a essa, è ora di rivolgerci alla grande narrati­ va realistica ottocentesca; e, per cominciare, alla sua stagione più matura. Scelgo un passo dal racconto Un Coeur simple di Gustave Flaubert (1821-80), pubblicato nel 1877 come pri­ mo dei Trois Contes H. Nella vita laboriosa, rozza, umile e ge­ nerosa della serva Félicité, dopo una lunga serie di dedizioni sfortunate - all’amore di gioventù, ai figli della padrona, al nipotino mozzo, a un vecchio scomunicato -, l’ultima si con­ centra come un’adorazione su un pappagallo d’America che le è stato regalato. Morto, l’uccello viene fatto impagliare, e la donna ormai vecchia e malandata gli assegna un posto d’o­ nore nella propria camera; è solo a questo punto, verso la fi­ ne del racconto, che la camera stessa ci viene descritta: Cet endroit, où elle admettait peu de monde, avait Pair tout à la £ois d’une chapelle et d’un bazar tant il contenait d’objets religieux et de choses hétéroclites. Une grande armoire génait pour ouvrir la porte. En face de la fenètre surplombant le jardin, un oeil-de-boeuf regardait la cour; une table, près du lit de sangle, supportait un pot à Peau, deux peignes, et un cube de savon bleu dans une assiette ébréchée. On voyait contre les murs: des chapelets, des médailles, plusieurs bonnes Vierges, un bénitier en noix de coco; sur la commode, couverte d’un drap comme un autel, la botte en coquillages que lui avait donnée Victor; puis un arrosoir et un ballon, des cahiers d’écriture, la géographie en estampes, une paire de 14 [Un cuore semplice]. [Tre racconti].

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bottines; et au clou du miroir, accroché par ses rubans, le petit chapeau de peluche! Félicité poussait méme ce genre de respect si loin, qu’elle conservati une des redingotes de Monsieur. Toutes les vieilleries dont ne voulait plus Mme Aubain, elle les prenait pour sa chambre. C’est ainsi qu’il y avait des fleurs artificielles au bord de la commode, et le portrait du comte d’Artois dans l’enfoncement de la lucarne 15.

All’opposto della vita di Félicité, quasi totalmente acca­ parrata dalla funzionalità del lavoro, la descrizione della sua camera non concede che due o tre righe agli oggetti che le servono per dormire e lavarsi; lascia quasi tutto lo spazio a un reliquiario affettivo di cose defunzionalizzate, per cui l’ambiente ha l’aria - oltre che d’un bazar - d’una cappella. E l’identico binomio che si addiceva al testo di Arnim, alle merci e all’altare di Frau Nietken. Qui però niente è in vendi­ ta, e forse le madonne e gli altri «oggetti religiosi» in senso proprio non sono i più venerati: l’autentica religione che la donna mescola o sostituisce a quella confessionale, è la devo­ zione del ricordo. Come donatore di una scatola è nominato Victor, il nipote morto oltremare. Mentre solo un punto esclamativo rammenta al lettore che un cappello era appar­ tenuto alla padroncina pure precocemente morta: lo si era ri­ trovato mangiato dagli insetti, fra vestiario e giocattoli della bambina, e Félicité lo aveva reclamato per sé:6. La pietà delle cose reiette, quasi uno spostamento di quella autocommise­ razione che la povera serva si permette appena, va ingenuamente al di là della memoria personale e accoglie con un amore da collezionista «tutti i vecchiumi» che la padrona ri­ fiuta. Congiungendosi al rispetto dei superiori, si estende a un abito del marito di lei, che Félicité non ha mai conosciuto; 15 Cap. iv: Flaubert, (Euvres, « Bibliothèque de la Plèiade», 1952, t. II, p. 617. [Il luogo, dove poca gente era ammessa da lei, aveva l’aria al tempo stesso di una cappel­ la e di un bazar, tanti oggetti religiosi e tante cose eteroclite conteneva. Un grande armadio disturbava nell’aprire la porta. Di fronte alla finestra sovra­ stante il giardino, un occhio di bue guardava il cortile; una tavola, accanto alla bran­ da, reggeva una brocca dell’acqua, due pettini, e un cubo di sapone blu in un piatto sbrecciato. Si vedevano contro i muri: dei rosari, delle medaglie, diverse madonnine, un’acquasantiera in noce di cocco; sul comò, coperto da un drappo come un altare, la scatola in conchiglie che le aveva regalata Victor; poi un annaffiatoio e un pallone, dei quaderni da scrittura, la geografia a stampe, un paio di stivaletti; e al chiodo dello specchio, agganciato ai suoi nastri, il cappellino di peluche! Félicité, in questo genere di rispetto, arrivava al punto da conservare una delle redingotes del padrone. Tutti i vecchiumi di cui Madame Aubain non voleva piu sapere, lei se li prendeva in camera. Cosi c’erano dei fiori artificiali sull’orlo del comò, e il ritratto del conte d’Artois nella rientranza dell’abbaino]. 16 Ibid., p. 6n.

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e addirittura al ritratto del conte d’Artois che è un relitto po­ litico, da tanto tempo Carlo X è salito al trono, è stato caccia­ to con la sua dinastia. Sta per prenderne il posto un’illustra­ zione popolare, dove Félicité può ammirare in anticipo quel­ la condensazione di pappagallo e Spirito Santo che fantasti­ cherà in agonia, nell’ultima famosa frase del raccontoI7. La coordinazione fra ritratto borbonico e fiori finti è un tocco finale di ironica decontestualizzazione dell’oggetto, come lo era di passaggio l’acquasantiera in noce di cocco; e com’è conforme alla premessa per cui l’ambiente ha l’aria oltre che d’una cappella - d’un bazar. Le «cose eteroclite» di Félicité sono meno bizzarre di quelle di Frau Nietken, ma per quel tanto che lo sono, non c’è da sospettare che non va­ dano prese dolorosamente sul serio. Il passo è certo parteci­ pe, anzi tipico, della disillusa e dissolvente visione che Flau­ bert si fa del mondo moderno come Kitsch', come, appunto, decontestualizzazione di tutto. Eppure anche questo giudi­ zio di valore o di gusto - come in Gozzano - è giudizio d’au­ tore estraneo al personaggio, la tenerezza del quale rende ri­ spettabile ciascun feticcio, e presta omogeneità soggettiva all’insieme. Ritroviamo in pieno realismo narrativo, per me­ diazione di personaggio e non immediatamente grazie a un io lirico, la costante dei nostri primi esempi in versi: un inve­ stimento emotivo di ciarpame altrimenti inutilizzabile. E qui davvero la pietà delle cose reiette, come ritorno del represso antifunzionale, si riassorbe in quel ritorno del represso che è l’assunzione stessa a protagonista di un personaggio simile, rispetto a un ordine costituito sociale e morale. 8. E compromettente venir meno al controllo dei testi originali; ma l’imprescindibilità della narrativa russa nel quadro ottocentesco riceve conferme troppo specifiche nel­ l’ambito della nostra ricerca, per rinunciare a certi testi - di cui conosco solo una traduzione. Non posso che trattare quest’ultima come un testo di per sé, rassegnandomi al fat­ to che mi resti irraggiungibile non solo tutto dei significanti, ma anche moltissimo dei significati dell’originale. Retroce­ diamo alla prima fioritura della stagione romantico-realista in quella lingua: al 1842, anno in cui Nikolaj Vasil'evic Gogol' (1809-52) pubblicò come primo volume la sola parte da lui 17 Ibid., p. 622.

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compiuta del romanzo Le anime morte. Il titolo ha doppio senso: quello morale-metaforico allude all’aridità e avidità del protagonista Cicikov; quello letterale si riferisce al suo progetto burocraticamente fantasioso di truffa, il quale for­ nisce sia la trama che il taglio in episodi al romanzo. Andrà in giro per la provincia russa e comprerà, per specularci sopra alla fine, «anime» di contadini: cioè, nomi di servi della gle­ ba morti durante quei cinque anni fra un censimento e un al­ tro, fino alla cui scadenza continuavano a risultare vivi per il fisco. Ritaglio due frammenti distanti di poche righe, all’al­ tezza dell’ingresso di Cicikov presso il quinto dei proprietari terrieri da lui circonvenuti, Pljuskin. Il villaggio dei contadi­ ni di costui è già stato descritto con diffuse connotazioni di decrepitezza, abbandono, ammuffimento e inselvatichimento, e cosi la facciata e le adiacenze della sua casa: Sembrava che in casa si stesse facendo la lavatura generale dei pavi­ menti e avessero perciò accatastato li tutti i mobili. Sopra una tavola c’era perfino una sedia rotta e accanto ad essa un orologio col pendolo fermo al quale un ragno aveva già fissato la sua ragnatela. V’era anche appoggiato un armadio con un fianco contro la parete, pieno di argen­ teria antica, di piccole caraffe e di porcellane cinesi. Sulla scrivania in­ tarsiata a mosaico di madreperla che qua e là s’era staccato non lascian­ do che delle piccole incavature gialle piene di colla, era sparsa una quantità di oggetti diversi: un mucchio di foglietti di carta coperti di scrittura minuta, con sopra un fermacarte di marmo verdastro, con un piccolo uovo sopra, un libro antico rilegato in cuoio col taglio rosso, un limone tutto rinsecchito, non più grosso d’una nocciola selvatica, un bracciuolo di poltrona, un bicchierino con del torbido liquido e tre mo­ sche, coperto da una lettera; un pezzetto di ceralacca, uno straccetto raccolto chissà dove, due penne sporche d’inchiostro e come consunte dalla tisi, uno stuzzicadenti tutto ingiallito col quale il padrone si era forse stuzzicato i denti ancor prima della invasione di Mosca da parte dei francesi. Dal centro del soffitto pendeva un lampadario ravvolto in una fodera di tela, che la polvere aveva reso simile a un bozzolo con il suo baco den­ tro. In un angolo della stanza era ammucchiato tutto ciò che era più grossolano e indegno di stare sulla tavola; che cosa precisamente ci fos­ se in quel mucchio, era difficile dire, perché tanta polvere vi era sopra che le mani di chiunque l’avesse toccato sarebbero diventate simili a guanti; più visibili di tutto il resto sporgevano fuori un pezzo di una pa­ la di legno rotta e una vecchia suola di scarpa. Non si sarebbe mai detto che in questa stanza abitasse un essere vivente, se non lo avesse rivelato un vecchio e logoro berretto da notte posato sulla tavola 18. 18 Parte I, cap. vi: N. Gogol', Tutto il teatro. Le anime morte, Mursia, Milano 1944, pp. 467-68 [trad. Bazzarelli],

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È uno spettacolo sorprendente agli occhi di Cicikov coi quali lo guardiamo, e cosi quello della persona stessa del pro­ prietario, indecorosamente vestito al punto da rendere in­ certo il suo sesso. Ben presto interverrà la voce d’autore, spiegando e raccontando quanto Cicikov aveva appreso da maldicenza sommaria: l’avarizia di Pljuskin, la sua genesi graduale, il suo ossessivo sviluppo. E in questo racconto, og­ getti d’un tipo che ci concerne verranno ancora elencati per­ ché Pljuskin ha l’abitudine di raccattarli e ammucchiarliI9, con un feticismo o collezionismo caricaturale al confronto di quello di Félicité. Come la serva di Flaubert, il possidente di Gogol' è un vecchio che è finito chiuso in un rapporto ma­ niacale con le cose; nell’una, però, il disinteresse che aspira a un salvataggio di memorie sta in rapporto con l’ordine, la pulizia, il culto di oggetti scelti a uno a uno. Nell’altro, il mi­ raggio interessato d’un risparmio di provviste non bada al di­ sordine, non teme il sudiciume, e non si arresta di fronte all’inservibilità o ignobiltà di niente. Il nostro primo fram­ mento contiene un lungo elenco, introdotto dalla sintesi: «una quantità di oggetti diversi», e straordinario per inven­ tiva di accostamenti in ambito domestico e degradato. Ma l’elenco che, nel secondo frammento, sembrano sintetizzare in anticipo le parole: «tutto ciò che era più grossolano e in­ degno di stare sulla tavola», si perde letteralmente nell’indi­ stinto sotto la polvere, e a stento se ne precisano due lerci ele­ menti. È la prima volta che incontriamo, nella serie dei testi, og­ getti cosi connotati di bassezza. Ci accorgiamo di come tale connotazione dipenda meno da umiltà quotidiana o da mo­ destia economica, che da trascuratezza di manutenzione: co­ me se il risultato di quest’ultima, la sporcizia, stingesse impli­ citamente dalla sfera fisica su quella morale. Per l’avarizia ciò vale ancor più di quanto non possa mai valere per la povertà. Pljuskin è di fatto ricchissimo, sebbene qui solo l’armadio pieno di argenteria e vasellame lo denoti; ed è lungi dall’esse­ re, nella grande narrativa realistica ottocentesca, l’unico per­ sonaggio di avaro. Torneremo molto più in là sulle motiva­ zioni della ricorrenza di questa specie di personaggi. Per ora 19 Ibid., p. 470.

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facciamo piuttosto, a proposito di narrativa realistica, tre os­ servazioni legate fra loro: uno, che l’evidenza e, perché no, la verosimiglianza della descrizione citata non risultano incom­ patibili con uno slittamento frequente al piano comparativo­ metaforico. Due, che ogni figura di questo genere è insieme una figura d’iperbole - cosa in astratto più pericolosa per la verosimiglianza. Tre, che più d’una di tali comparazioni iperboliche genera un lieve tono scherzoso; cosa per la vero­ simiglianza solo in minima dose innocua, ma a sua volta non incompatibile col fondo tragico generalmente ravvisato nel personaggio di Pljuskin. A titolo di esempio del caso contrario, ecco due righe in cui l’attenzione al particolare, l’umiltà microscopica, non comportano né paragoni né esagerazione né sorriso: «... mo­ saico di madreperla che qua e là s’era staccato non lasciando che delle piccole incavature gialle piene di colla». Di contro, ecco l’apertura stessa della descrizione: «Sembrava che in ca­ sa si stesse facendo la lavatura generale... »; e preludendo con l’idea di lavatura generale a uno spettacolo di generale spor­ cizia, metafora e iperbole scherzosamente si complicano di antifrasi o d’ironia. Ecco tutto gli altri momenti retoricamen­ te caratterizzati come ho detto: «limone... non più grosso d una nocciola selvatica»; «due penne... come consunte dal­ la tisi » ; « lampadario... reso simile a un bozzolo con il suo ba­ co dentro»; «le mani... sarebbero diventate simili a guanti». Aggiungiamo una formulazione dubitativa, il cui grado zero è comparativo: «uno stuzzicadenti tutto ingiallito col quale il padrone si era forse stuzzicato i denti [= ingiallito come se ci sifosse stuzzicato i denti] ancor prima della invasione di Mo­ sca...» Certo, la geniale tesi storico-letteraria sostenuta da Erich Auerbach per l’ambito intero della «rappresentazione della realtà», è illuminante anche nel nostro limitato ambito. Che, cioè, la conquista di certi scrittori negli anni ’30 e ’40 dell’Ottocento consistesse, non tanto nella libertà d’introdurre in letteratura «tutti gli attributi quotidiani, pratici, brutti e vol­ gari» della vita - prima considerati indecenti o insignifican­ ti; quanto nella capacità di prenderli pienamente sul serio, o « addirittura tragicamente », anziché - come prima - castiga­ re e riscattare il loro difetto di dignità con una presa di

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distanze comica o satirica20. Cosi i momenti figuralmente scherzosi del nostro testo di Gogol' non fanno che arricchi­ re, e non mettono certo in questione, la serietà minuziosa e poco schifiltosa del nuovo codice di rappresentazione. Ma senza scambiarli per corpi estranei in senso estetico, possia­ mo individuarli per quello che sono in prospettiva storica: residui d’un trapasso relativamente recente, lasciti ancora valevoli d’un codice letterario abrogato. 9. In letteratura russa era stato Aleksandr Sergeevic Puskin (1799-1837), poco prima di Gogol', a inaugurare il nuovo codice di rappresentazione concreta: concreta sia nel senso descrittivo-sensoriale della parola, sia nell’altro senso, stori­ co-ambientale, che si può dare con Auerbach a essa21. Con tale codice perfino l’antichissima istanza immaginaria del so­ prannaturale, in tutta la narrativa europea, doveva venire a patti. Ne risultò quel genere di compromesso fra reale e ir­ reale, fra critica del soprannaturale come inverosimile e cre­ dito surrettiziamente accordato a esso, che oggi viene studia­ to sotto il nome di narrativa «fantastica»; è lecito farci rien­ trare il racconto di Puskin del quale vorrei ora esaminare un brano, La donna di picche, del 1834. Un giovane ufficiale nar­ ra agli amici che sua nonna, contessa russa ottantasettenne, avrebbe sperimentato una sessantina d’anni prima alla corte di Versailles, grazie al portentoso avventuriero Saint-Ger­ main, un segreto infallibile per vincere tre volte al gioco. Uno degli amici, Hermann, bramoso di danaro, trova un espe­ diente per introdursi di sera nel palazzo della vecchia; vuole sorprenderla nel cuore della notte e strapparle il segreto. Ec­ co che cosa intravediamo - nella traduzione che tratterò di nuovo come testo - degli interni semibui: Hermann corse su per la scala, apri la porta che dava nell’anticamera e vide un servitore che dormiva sotto la lampada, su di un’antica sudicia poltrona. Con passo leggero e fermo Hermann gli passò vicino. Il sa­ lone e il salotto erano al buio. La lampada li illuminava debolmente dall’anticamera. Hermann entrò nella camera da letto. Davanti alla ve­ trina piena di immagini sacre ardeva una lampada d’oro. Poltrone e di­ 20 E. Auerbach, Mimesis, Einaudi, Torino 1964, t. Il, p. 253 e cap. vm, passim. «Rappresentazione della realtà» sarebbe la traduzione fedele del sottotitolo dargestellte Wirklichkeit-. non lo è « realismo », tanto piu che Auerbach usa nel testo Realismus e Realistik. 21 Ibid., p. 267 e cap. vm, passim.

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vani di stoffa sbiadita con cuscini di piume, da cui era venuta via la do­ ratura^ erano disposti in triste simmetria lungo le pareti ricoperte di tappezzerie cinesi. Da una delle pareti pendevano due ritratti dipinti a Parigi da Mme Lebrun. Uno di essi rappresentava un uomo sui quaran­ tanni rosso di viso e grasso, in uniforme verde-chiaro con una decora­ zione; l’altro una giovane bellezza dal naso aquilino, pettinata liscia li­ scia sulle tempie, con una rosa nei capelli incipriati. Da tutti gli angoli venivano fuori pastorelle di porcellana, orologi da tavolo, lavori del fa­ moso Leroy, scatolette, roulettes, ventagli e svariati giocattoli femminili inventati alla fine del secolo scorso insieme col pallone di Montgolfier e il magnetismo di Mesmer2223 .

Non manca di giustificazione fattuale che la poltrona sia « antica » e « sudicia », che la stoffa dei divani sia « sbiadita », che dai cuscini sia «venuta via la doratura»: la contessa è anche lei - ricca ma senilmente avara25. C’è da chiedersi tut­ tavia, come di fronte a tanti altri passi narrativi ottocente­ schi, se il momento d’indugio sugli oggetti dovuto a simili ag­ gettivi e predicati non sia anche un po’ fine a se stesso. Per meglio dire: se non abbia una funzione letteraria direttamen­ te proporzionale alla diminuzione di funzionalità attribuita agli oggetti. Qui la funzionalità è dignità ornamentale, ab­ bassata da un logoramento - sebbene assai più nobilmente che nel testo di Gogol'. Ma connotazioni di bassezza non grottesche o ridicole, bensì prese sul serio - sempre secondo la concezione di Auerbach dell’evoluzione storico-lettera­ ria -, sono per eccellenza connotazioni di realtà: fanno realtà di per se stesse. La controprova è la minore probabilità che a parità di contesto, o a prescindere solo dal dato dell’avarizia, il narratore si fermasse su uno stato di perfetta conservazione o di fiammante novità del mobilio. Connotazioni di funzio­ nalità decorativa ottimale non avrebbero fatto realtà, o non altrettanto, per la semplice ragione che attribuirle seriamen­ te alle cose era stato possibile in qualunque epoca letteraria anteriore; magari esaltando o idealizzando, in tal modo, am­ bienti e personaggi. L’elenco di oggettini - più delle immagini sacre, come per Félicité - fa della camera da letto una specie di santuario, dei ricordi prediletti d’una persona anziana. Anziché cose umili ed eteroclite come quelle di Félicité, sono soprammobili e 22 Cap. in: A. S. Puskin, Opere, Mursia, Milano^óy, pp. 195-96 [trad. Lo Gatto]. 23 Ibid., p. 189.

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suppellettili d'alta classe non logori ma antiquati, e omoge­ nei coi due ritratti nel rinviare tutti a una stessa epoca: il tar­ do Settecento, VAncien Régitne francese. E come un secon­ do sfondo temporale, preciso e localizzato, che dà il suo spessore storico al racconto, e che proprio l’arredamento sta a riproporre quale immutabile modello di buon gusto dal punto di vista del personaggio possessore. La pittrice VigéeLebrun aveva ritratto Maria Antonietta; il «famoso Leroy» aveva per primo fabbricato cronometri, il che dà al suo nome lo stesso sottinteso dei richiami agli assai più famosi Mont­ golfier e Mesmer: le innovazioni tecniche e scientifiche di un’epoca, le sue punte avanzate di funzionalità e razionalità, presunte o reali, finiscono una sessantina d’anni dopo tra le anticaglie insieme coi suoi prodotti più frivoli. Questa anteriorità di circa sessant’anni è la stessa che, a proposito del testo di Gozzano, avevo qualificata come l’e­ poca della nonna (e anche là non mancava una innovazione tecnica datata: i «dagherottipi», la fotografia) 24. Qui però la nonna, decrepita e misteriosa, è ancora viva; dopo che l’avrà fatta morire di spavento, Hermann crederà che la contessa gli strizzi un occhio nella bara in cui giace, poi addirittura che lo visiti all’ora dei fantasmi per dirgli le tre carte vincenti. Il dubbio soprannaturale che percorre il racconto e ne oscu­ ra l’epilogo non entra minimamente in contrasto con quella concretezza realistica, in senso sia descrittivo che storiciz­ zante, a cui giova la defunzionalizzazione delle cose. Tale an­ zi è il paradosso della narrativa fantastica: le stesse connota­ zioni di oggetti possono, per formazione di compromesso, fare realtà e preparare sinistramente l’irreale. Ciò che il pa­ lazzo notturno mostra di antiquato o logoro, per comportare motivazioni verosimili e riferimenti cronologici, non è meno atto a socchiudere gli spazi e tempi indeterminabili, e a sug­ gerire le causalità incomprensibili, dello spavento.

io. Verso la metà di quei cento anni circa che durò la nar­ rativa fantastica, dal tardo Settecento al tardo Ottocento, le dimensioni d’un palazzo aristocratico cittadino erano già più che sufficienti a racchiudere il dubbio soprannaturale: seb­ bene le più propizie letterariamente fossero state e rimanes­ 24 Cfr. Gozzano, Poesie e prose cit., p. 149, sezione V della poesia.

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sero, per immensità e antichità, quelle d’un castello. In un romanzo del 1927 come To the Lighthouse25 di Virginia Woolf (1882-1941), una visitazione spettrale notturna di tutt’altro tipo può percorrere i vani d’una dimessa casa di villeg­ giatura borghese. La casa è in un’isola delle Ebridi, e veniva affittata per l’estate dalla colta famiglia d’un professore di fi­ losofia; ma durante quasi tutta la seconda parte del romanzo - intitolata Time passes e corrispondente a uno spazio di anni e anni che include quelli della prima guerra mondiale resta disabitata e chiusa. In un interludio di rara originalità le cose, umanizzate, assumono la stessa preminenza che nel so­ netto a esse intitolato di Borges, e la stessa pregnanza metafi­ sica legata però stavolta al loro lento sfacelo. Nel buio e nel silenzio, camere e oggetti abbandonati diventano a loro mo­ do titolari di racconto in assenza dei personaggi: dei quali so­ lo fra parentesi quadre riceviamo ogni tanto brevi notizie, che sono per tre volte notizie di morte. Il tema dell’arreda­ mento consunto e del deterioramento inarrestabile della ca­ sa si era affacciato già nella prima parte. Se ne angustiava la protagonista Mrs Ramsay; e nel filo dei suoi pensieri si mani­ festava cosi la sollecitudine intraprendente eppure discreta verso gli altri che è innata in lei, in particolare l’attenzione coniugale e materna di lei: ... and saw the room, saw the chairs, thought them fearfully shabby. Their entrails, as Andrew said the other day, were all over the floor; but then what was the point, she asked herself, of buying good chairs to let them spoil up here all through the winter when the house, with only one old woman to see to it, positively dripped with wet? Never mind: the rent was precisely twopence halfpenny; the children loved it; it did her husband good to be three thousand, or if she must be accurate, three hundred miles from his library and his lectures and his disciples; and there was room for visitors. Mats, camp beds, crazy ghosts of chairs and tables whose London life of service was done - they did well enough there; and a photograph or two, and books. At a certain moment, she supposed, the house would become so shab­ by that something must be done. If they could be taught to wipe their feet and not bring the beach in with them - that would be something. Crabs, she had to allow, if Andrew really wished to dissect them, or if Jasper believed that one could make soup from seaweed, one could not prevent it; or Rose’s objects shells, reeds, stones; for they were gifted, her children, but all in quite different ways. And the result of it was, she 25 [Alfaro]. 2(3 [Il tempo passa].

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sighed, taking in the whole room from floor to ceiling, as she held the stocking against James’s leg, that things got shabbier and got shabbier summer after summer. The mat was fading; the wall-paper was flap­ ping. You couldn’t tell any more that those were roses on it27.

Gli spunti figurali nel piccolo elenco di mobilio esausto, «vacillanti spettri di sedie e tavoli la cui vita diservizio a Lon­ dra era terminata», non hanno niente di scherzoso al modo di quelli in Gogol'. E anzi come se Mrs Ramsay soffrisse di sentire inevitabile, almeno nei limiti di agiatezza della sua fa­ miglia, un contrappasso fra i vantaggi della vacanza - distan­ za del marito dall’ambiente professionale, interessamento dei figli a fauna, flora, minerali marini - e la consunzione del­ le cose arrecata proprio dalla vicinanza del mare: in inverno la casa « gocciolava letteralmente di umidità », in estate i ra­ gazzi si portano incorreggibilmente «tutta la spiaggia dentro casa con loro»28. Come se, insomma, la natura facesse scon­ tare con la sua invadenza il sollievo o stimolo vitale con cui può alternarsi alla cultura. E che l’invadenza della natura di­ venti un minaccioso simbolo complementare della fragilità umana, l’avevamo compreso ancora prima: nel momento in 27 Parte I, cap. v: V. Woolf, To the Lighthouse, Everyman’s Library, London New York 1957, pp. 30-31. [... e vide la camera, vide le sedie, pensò che erano terribil­ mente sciupate. I loro visceri, come Andrew diceva l’altro giorno, erano sparsi sul pa­ vimento; ma allora a che serviva, si chiese, comprare sedie buone per lasciarle a rovi­ narsi qui per tutto l’inverno, quando la casa, con una vecchia donna sola a badarci, gocciolava letteralmente di umidità? Non importava: l’affitto era esattamente due penny e mezzo; ai bambini piaceva; faceva bene a suo marito di stare tremila, o se doveva essere esatta, trecento miglia lontano dalla sua biblioteca e dalle sue lezioni e dai suoi allievi; e c’era spazio per ospiti. Stuoie, letti da campo, vacillanti spettri di se­ die e tavoli la cui vita di servizio a Londra era terminata - qui andavano bene; e una fotografia o due, e libri], [A un certo momento, immaginò, la casa sarebbe stata cosi sciupata che qualcosa doveva esser fatta. Se si fosse potuto educarli ad asciugarsi i piedi e a non portare tutta la spiaggia dentro casa con loro - sarebbe stato qualcosa. I granchi, doveva ammettere, se Andrew voleva davvero sezionarli, o se Jasper credeva che si potesse fare il brodo con le alghe, non si poteva evitarlo; o gli oggetti di Rose conchiglie, canne, pietre; perché erano dotati, i suoi ragazzi, ma ognuno in modo del tutto differente. E il risultato era, sospirò, abbracciando la camera con lo sguardo dal pavimento al soffitto, mentre teneva la calza contro la gamba di James, che le cose si facevano sciupate, sempre più sciupate, estate dopo estate. La stuoia scoloriva, la car­ ta da parati era pendente. Non si sarebbe più detto che vi erano disegnate rose], 28 Cfr. la visione dei sottotetti della casa, abitati dai figli, come elenco: «and lit up [the sun] bats, flannels, straw hats, ink-pots, paint-pots, beetles, and the skulls of small birds, while it drew from the long frilled strips of seaweeds pinned to the wall a smell of salt and weeds, which was in the towels too, gritty with sand from bathing» {ibid., p. 9). [e illuminava [il sole] pipistrelli, calzoni sportivi, bottiglie d’inchiostro, vasi di vernice, scarabei, e i teschi di piccoli uccelli, mentre traeva dalle lunghe arric­ ciate strisce di alghe appuntate al muro un odore di sale ed erbaccia, che era anche negli asciugamani, granulosi di sabbia dei bagni].

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cui, alle orecchie di Mrs Ramsay, l’improvvisa cessazione d’un vocio aveva messo a nudo il rumore del mare sulla spiaggia, col terrore d’un presagio di distruzione e sprofon­ damento dell’isola Ora, nel grande interludio della secon­ da parte, fin dalla prima notte si aggirano nella casa ancora abitata soffi o lembi o frammenti di vento, personificati e in­ terroganti. È attraverso le porte corrose dalla ruggine e dila­ tate dall’umidità che sono potuti penetrare; ed è alle cose in cattivo stato che rivolgono misteriose domande, le quali insi­ stono sulla durata di tali cose, e suonano come impazienti per la loro resistenza troppo lunga: Nothing stirred in the drawing-room or in the dining-room or on the staircase. Only through the rusty hinges and swollen sea-moistened woodwork certain airs, detached from the body of the wind (the house was ramshackle after all) crept round corners and ventured indoors. Almost one might imagine them, as they entered the drawing-room, questioning and wondering, toying with the flap of hanging wall-paper, asking, would it hang much longer, when would it fall ? Then smoothly brushing the walls, they passed on musingly as if asking the red and yel­ low roses on the wall-paper whether they would fade, and questioning (gently, for there was time at their disposal) the torn letters in the waste­ paper basket, the flowers, the books, all of which were now open to them and asking: Were they allies? Were they enemies? How long would they endure?29 3031 .

Simili domande si ripetono quando, due numeri di capi­ tolo dopo, le stesse personificazioni aeree imperversano or­ mai dentro la casa deserta51. Non è frequente un testo cosi lungo ininterrottamente pertinente dal nostro punto di vista: rinuncio a citare perfino dal capitolo in cui - passati gli echi e riflessi di qualcosa che in lontananza era la guerra - Mrs Me Nab, troppo vecchia per il suo pesante compito di riaprire e ripulire ogni tanto la casa, intreccia pensieri sullo stato disa­ 29 Ibid., p. 18; cfr. un passo che riguarda il marito, pp. 51-52. 30 Parte II, cap. 11: ibtd., p. 146. [Niente si muoveva nei salotto o nella stanza da pranzo o sulla scala. Soltanto, attraverso i cardini arrugginiti e il legno gonfiato dall’u­ midità marina, certi soffi d’aria, staccati dal corpo del vento (la casa era cadente dopo tutto) si insinuavano intorno agli angoli e si avventuravano dentro. Si poteva quasi im­ maginare come, nell’entrare in salotto, interrogavano e indagavano, giocavano con il lembo pendente di carta da parati, chiedevano se avrebbe continuato a pendere a lun­ go, quando sarebbe caduto? Poi rasentando mollemente i muri, proseguivano medi­ tabondi come se chiedessero alle rose rosse e gialle sulla carta da parati se sarebbero appassite, e interrogassero (gentilmente, perché c’era tempo a loro disposizione) le lettere stracciate nel cestino dei rifiuti, i fiori, i libri, tutte cose ora accessibili ad essi, e chiedessero: Erano alleati? Erano nemici? Quanto a lungo avrebbero resistito?] 31 Ibid., pp. 149-50.

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stroso di essa a ricordi di Mrs Ramsay da tempo morta52. Nel capitolo successivo, con la fatica di due persone in più, casa e giardino saranno resi di nuovo abitabili per barrivo final­ mente imminente di qualcuno degli ospiti d’un tempo. Tan­ to più sa d’iperbolico, all’inizio del capitolo, il quadro estre­ mo dell’irruzione della natura atmosferica, vegetale e anima­ le nella dimora umana; ancora prima di quell’ipotesi di crol­ lo e interramento sotto erbe selvatiche, che resta al condizio­ nale futuro ma innalza il discorso a una solennità reminiscente di salmi e profezie, e la sorte della modesta abitazione a quella di una Babilonia sepolta sotto le sabbie: The house was left ; the house was deserted. It was left like a shell on a sandhill to fill with dry salt grains now that life had left it. The long night seemed to have set in; the trifling airs, nibbling, the clammy breaths, fumbling, seemed to have triumphed. The saucepan had rust­ ed and the mat decayed. Toads had nosed their way in. Idly, aim­ lessly, the swaying shawl swung to and fro. A thistle thrust itself be­ tween the tiles in the larder. The swallows nested in the drawing­ room; the floor was strewn with straw; the plaster fell in shovelfuls; rafters were laid bare; rats carried off this and that to gnat behind the wainscots. Tortoise-shell butterflies burst from the chrysalis and pat­ tered their life out on the window-pane. Poppies sowed themselves among the dahlias; the lawn waved with long grass; giant artichokes towered among roses; a fringed carnation flowered among the cab­ bages; while the gentle tapping of a weed at the window had become, on winter’s nights, a drumming from sturdy trees and thorned briars which made the whole room green in summer32 33.

For now had come that moment, that hesitation when dawn trem­ bles and night pauses, when if a feather alight in the scale it will be weighed down. One feather, and the house, sinking, faDing, would have turned and pitched downwards to the depths of darkness. In the ruined 32 ibid., pp. 156-59. 33 Parte II, cap. ix: ibid., pp. 159-60. (dr. l’anticipo tematico a p. 153. [La casa era lasciata; la casa era abbandonata. Era lasciata come una conchiglia su una duna a riempirsi di aridi grani salati, ora che la vita l’aveva lasciata. La lunga notte sembrava essersi insediata; i soffi giocosi, mordenti, gli aliti umidi, annaspanti, sembravano aver trionfato. La padella era arrugginita e la stuoia rovinata. Rospi erano penetrati a naso. Oziosamente, senza scopo, lo scialle sospeso dondolava. Un cardo si era spinto fra le tegole nella dispensa. Le rondini nidificavano nel salotto; il pavimento era co­ sparso di paglia; i calcinacci cadevano a palate; travi restavano a nudo; ratti portava­ no via una cosa o l’altra per rodersela dietro i rivestimenti di legno. Farfalle color gu­ scio di tartaruga erompevano dalle crisalidi e subito picchiettavano sui vetri delle fi­ nestre. Papaveri si seminavano fra le dalie; l’erba del prato era lunga e ondeggiante; carciofi giganti torreggiavano in mezzo alle rose; un garofano frangiato fioriva in mez­ zo ai cavoli; mentre il gentile bussare di un’erbaccia alla finestra era divenuto, nelle notti d’inverno, un tambureggiare di quegli alberi vigorosi e rovi spinosi che rendeva­ no l’intera camera verde in estate].

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room, picnickers would have lit their kettles; lovers sought shelter there, lying on the bare boards; and the shepherd stored his dinner on the bricks, and the tramp slept with his coat round him to ward off the cold. Then the roof would have fallen; briars and hemlocks would have blotted out path, step, and window; would have grown, unequally but lustily over the mound, until some trespasser, losing his way, could have told only by a red-hot poker among the nettles, or a scrap of china in the hemlock, that here once someone had lived; there had been a house3435 . 36

il. Se a qualche lettore il filo delle costanti tematiche co­ mincia ad apparire attendibile, abbastanza per tollerare gli strattoni delle variazioni d’epoca di lingua e di genere lette­ rario, le accetti adesso tutte e tre in una volta. Ripassiamo ai versi, al francese e all’Ottocento: nel 1853, in esilio, Victor Hugo (1802-85) pubblicò la singolare raccolta intitolata Chàtiments”. Le poesie di essa sono altrettante invettive contro l’usurpazione, la sopraffazione, la corruzione d’un uomo di stato e del suo reazionario regime, Napoleone III e il Secon­ do Impero. Ma tale è la creatività metaforica e iperbolica di Hugo, che il discorso acquista in violenza visionaria o truculenza satirica quanto non può non mancargli di concretezza politica; e un uomo e un regime riassumono il male sociale immanente all’intero corso della storia. Perciò ad essi è suffi­ ciente alludere, a sorpresa e da lontano, solo nell’ultimo mezzo verso d’una poesia che ne conta quasi un centinaio: L'Egout de Rome". Cito una parte centrale, e quella finale: Le hideux souterrain s’étend dans tons les sens; Il ouvre par endroits sous les pieds des passants Ses soupiraux infects et flairés par les truies; Cette cave se change en fleuve au temps des pluies; 34 Ibid., pp. 160-61. Segue subito l’intervento riparatore, pp. 161-64. [Poiché ades­ so era venuto quel momento, quell’esitazione in cui l’aurora trema e la notte indugia, in cui se una piuma atterra sulla bilancia, essa traboccherà. Una piuma, e la casa, ca­ dendo, crollando, si sarebbe rovesciata e sarebbe precipitata giù nelle profondità del buio. Nella stanza rovinata i gitanti avrebbero acceso le loro bollitrici; gli amanti vi avrebbero cercato rifugio, giacendo sulle nude tavole; e il pastore depositato il suo pranzo sui mattoni, e il vagabondo dormito, avvolto nel suo mantello per guardarsi dal freddo. Poi il tetto sarebbe crollato; rovi e cicute avrebbero cancellato sentiero, gradino e finestra; sarebbero cresciuti, ineguali ma lussureggianti, sul cumulo, finché un qualche intruso, perduta la strada, avrebbe potuto dire solo a causa di un rosso at­ tizzatoio tra le ortiche, o di un coccio di porcellana nella cicuta, che qui una volta qualcuno aveva vissuto; c’era stata una casa]. 35 [Castighi]. 36 [La fogna di Roma].

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Vers midi, tout au bord du soupirail vermeil, Les durs barreaux de fer découpent le soleil, Et le mur apparaìt semblable au dos des zèbres; Tout le reste est miasme, obscurité, ténèbres. Par places le pavé, comme chez les tueurs, Paraìt sanglant: la pierre a d’affreuses sueurs; lei l’oubli, la peste et la nuit font leurs oeuvres. Le rat heurte en courant la taupe; les couleuvres Serpentent sur le mur comme de noirs éclairs; Les tessons, les haillons, les piliers aux pieds verts, Les reptiles laissant des traces de salives, La toile d’araignée accrochée aux solives, Des mares dans les coins, effroyables miroirs, Où nagent on ne sait quels étres lents et noirs, Font un fourmillement horrible dans ces ombres. Au fond, on entrevoit, dans une ombre où n’arrive Pas un reflet de jour, pas un souffle de vent, Quelque chose d’affreux qui fut jadis vivant, Des màchoires, des yeux, des ventres, des entrailles, Des carcasses qui font des taches aux murailles; On approche, et longtemps on reste l’oeil fìxé Sur ce tas monstrueux, dans la bourbe enfoncé, Jeté là par un trou redouté des ivrognes, Sans pouvoir distinguer si ces mornes charognes Ont une forme encor visible en leurs débris, Et sont des chiens crevés ou des césars pourris37.

La tendenza alla polarizzazione degli estremi e alla valo­ rizzazione dell’infimo come del sublime, che ispira sia la poetica letteraria sia il manicheismo ideologico di Hugo, lo predestinava a scendere gravemente fino a un simile tema. 57 V. Hugo, CEuvres poétiques, t. Il, « Bibliothèque de la Pleiade», 1967, pp. 189-91. [L’orrendo sotterraneo si estende in tutti i sensi; | Apre a tratti sotto i piedi dei passanti 11 suoi spiragli infetti e fiutati dalle scrofe; | Questa cloaca si cambia in fiume al tempo delle piogge; | Verso mezzogiorno, tutt’intorno allo spiraglio vermiglio, | Le dure sbarre di ferro tagliano il sole, j E il muro appare simile al dorso delle zebre; | Tutto il resto sono miasmi, oscurità, tenebre. | Qua e là il selciato, come nelle case di assassini, | Pare insanguinato: la pietra ha spaventosi sudori; | Qui l’oblio, la peste e la notte sono all’opera. | Il ratto urta correndo la talpa; le bisce | Serpeggiano sul muro come neri lampi; | I cocci, gli stracci, i pilastri dai piedi verdi, | I rettili che lasciano tracce di salive, | La tela di ragno appesa alle travi, | Pozzanghere negli angoli, spaventevoli specchi, | Dove nuotano non si sa quali esseri lenti e neri, | Fanno un formicolio orribile in queste ombre. | [...]. | In fondo, s’intravede, in un’ombra dove non arriva | Un solo riflesso di luce, un solo soffio di vento, | Qualcosa di spaventoso che fu un tempo vivente, | Mascelle, ed occhi, e ventri, e visceri, | E carcasse che fanno macchie sulle muraglie; | Avvicinandosi, a lungo si resta con l’occhio fisso | Sul mucchio mostruoso, nella melma affondato, | Gettato attraverso un buco temuto dagli ubriachi, | Senza poter distinguere se le tetre carogne | Hanno una forma ancora visibile nei loro resti, f E sono cani crepati o cesati putrefatti].

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Lo rifarà più a lungo nella prosa di un romanzo, coi celebri capitoli sulla fogna di Parigi in Les Misérables38 ; ma anche l’antica Roma imperiale della nostra poesia è prospettata co­ me una capitale di proporzioni immense, alla moderna. La fogna ne appare una sorta di rovescio o di sottofondo altret­ tanto immenso, e ne rispecchia in negativo la mostruosa va­ rietà di negozi, consumi e vizi. Manufatto monumentale e sotterraneo essa stessa, riceve residui di manufatti, come i cocci e gli stracci nell’elenco della prima citazione; ma li mi­ schia alla corporeità naturale di animali repellenti vivi, come ratti, talpe, biscie (poi pipistrelli e rospi), o di loro tracce co­ me, nello stesso elenco, salive di rettili e tele di ragno. Ben­ ché iperbolicamente un po’ troppi, tali animali sono di casa nel luogo. C’è contaminazione, ma non prevaricazione della natura sulla cultura: quale la rappresentavano rospi e topi ma anche rondini e farfalle nell’interno di Virginia Woolf. La fogna è infatti istituzionalmente una resa di conti della cultura alla natura, ha regolarmente la funzione di assorbire, disperdere, far scomparire materia antifunzionale. Non so­ lo quella che torna inassimilata dal corpo umano - e qui gli escrementi emergono, da segreto referente simbolico di un’intera tematica (i, 6-7), a tema o quasi di un testo; ma tut­ to ciò che è rigettato o decomposto, che è avviato a tornare in polvere ossia a rientrare nella natura. Se la polvere rendeva indistinti gli oggetti di un virtuale elenco nella chiara luce del testo di Gogol', nella tenebrosa allucinazione di questo di Hugo l’elenco della prima citazione sbocca in un indistinto ben più marcio ed orrendo. Quanto alla seconda citazione, essa non fa che articolare confusamente un suo elenco den­ tro l’informe della putrefazione; e tocca in un duplice senso il limite fra l’umano e le cose. Lo tocca in quanto è situabile a un tale limite la stessa corporeità cadaverica umana - emer­ genza per noi di altro referente simbolico (1, 6) -, tanto più quando le è negato ogni onore. Ma anche in quanto non di­ stinguiamo neppure se le carogne siano quelle di cani piutto­ sto che quelle di imperatori: ed ecco dove stava in agguato l’imprecazione feroce contro Napoleone III, cesare indegno della maiuscola. 38 [I miserabili}.

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12. Sul filo delle costanti tematiche ci attrae adesso un al­ tro testo francese, ma del pieno Novecento. Impossibile da definire secondo i generi letterari tradizionali: dal momento che il surrealismo, come ideologia prima ancora che come poetica, vieta di parlare di narrativa nel senso in cui la parola comporta finzione. D’altra parte, la qualità della sincerità che prescrive non permette di parlare di autobiografia nel senso in cui la parola comporta racconto. O piuttosto, è mu­ tato il criterio di selezione dei fatti veridici da raccontare: co­ me la prosa de L’amour fou* di André Breton (1896-1967), pubblicato nel 1937, dimostra sia per intero sia nel breve epi­ sodio che cito. In Bretagna, il 20 luglio 1936, lo scrittore e la donna con cui sta vivendo il rapporto annunciato nel titolo scendono da una corriera, per caso, nei pressi d’una spiaggetta già visitata da loro pochi giorni prima: Cette première fois, très vite ennuyés de contempler une morne étendue de sable et de galets, nous n’avions eu d’autre recours imaginatif que de nous mettre en quéte des menues et très peu nombreuses épaves qui pouvaient la joncher. Réunies, celles-ci n’étaient d’ailleurs pas sans charme: plusieurs ampoules électriques de très petit modèle, des bois flottés bleus, un boucnon de champagne, les deux derniers centimètres d’une bougie rose, un os de seiche non moins rose que la bougie, une petite boìte ronde métallique de bonbons, gravéc du mot «violette», un squelette de crabe minuscule, squelette merveilleusement intact et d’une blancheur de craie qui me fit l’effet d’etre le muguet du soleil, ce jour-là invisible, dans le Cancer. Tous ces éléments pouvaient concourir à la formation d’un de ces objets-talismans dont reste épris le surréalisme. Mais, le 20 juillet, il était d’autant moins question eie revenir à ce passe-temps que la mer, qui s’était retirée moins loin, n’avait manifestement rien laissé d’un peu inattendu derrière elle. C’était la répétition accablante, à trop peu de jours de distance, d’un lieu entre tous banal et hostile en raison de cette banalité méme, comme tous ceux qui laissent totalement vacante la faculté d’attention *>. 39 [L'amore folle]. 40 A. Breton, CEuvres complètes, t. II, «Bibliothèque de la Plèiade», 1992, p. 769. [Quella prima volta, prestissimo annoiati di contemplare una smorta distesa di sabbia e di ciottoli, non avevamo avuto altra risorsa immaginativa che metterci alla ricerca dei minuti e pochissimo numerosi relitti di cui poteva essere cosparsa. Riuniti, essi non erano del resto senza fascino: molte lampadine elettriche di modello piccolissi­ mo, legni galleggianti azzurri, un tappo di champagne, i due ultimi centimetri d’una candela rosa, un osso di seppia non meno rosa della candela, una scatolina rotonda metallica di confetti, con incisa la parola «violetta», uno scheletro di granchio minu­ scolo, scheletro meravigliosamente intatto e d’una bianchezza di gesso che mi fece l’effetto di essere il mughetto del sole, quel giorno invisibile, nel Cancro. Tutti questi elementi potevano concorrere alla formazione d’uno di quegli oggetti-talismani di cui resta innamorato il surrealismo. Ma, il 20 luglio, era tanto meno il caso di tornare a questo passatempo in quanto il mare, che si era ritirato meno lontano, non si era la­ sciato dietro manifestamente niente che fosse un po’ inatteso. Era la ripetizione op-

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Nel primo manifesto del surrealismo (1924), accusando di piattezza le descrizioni realistiche della narrativa - e della più grande-, Breton aveva scritto: «J’ai de la continuité de la vie une notion trop instable pour égaler aux meilleures mes minutes de dépression, de faiblesse»; « je ne fais pas état des moments nuls de ma vie... »Secondo una tale gerarchia di momenti, che è incompatibile anche con un racconto auto­ biografico continuo o stabile, quella sosta del 20 luglio meri­ terebbe tanto poco di essere ricordata quanto ogni altro og­ getto di piatta descrizione realistica. Il luogo è «una smorta distesa di sabbia e di ciottoli», dove la natura si fa ostile non per insalubrità fisica come nei testi di Hugo e della Woolf, ma per ragioni morali o estetiche: per tediosa, frustrante ba­ nalità. In occasione però della sosta precedente, l’immagina­ zione aveva pur trovato risorse nei lasciti sparsi del mare sul­ la riva, accendendo il barlume del prezioso o del magico in ogni detrito che avesse almeno il merito dell’inatteso. L’elen­ co che ne leggiamo, è il primo della nostra serie a venir com­ posto per cosi dire attivamente: cioè dai personaggi, i quali hanno cercato e riunito le cose, prima che dal racconto con la riunione delle parole. L’apprezzamento di tali cose sembra implicare la riduzio­ ne a perfetta inutilità, e l’assortimento a opera di puro caso, sia dei detriti naturali che di quelli culturali. I legni galleg­ gianti azzurri, il roseo osso di seppia e il bianchissimo scheletrino di granchio sono come puliti e lustrati dall’acqua; men­ tre il soggiorno in essa ha decontestualizzato le lampadine, il tappo, l’estremità di candela, la scatolina di confetti, in un modo opposto a quello generatore di Kitsch', sottraendoli al­ lo spazio della cultura, invece di sommarne e adulterarne più d’una. Di Kitsch simulato del resto - lo avevo accennato a proposito della pagina di Arnim - il gusto surrealista si com­ piace, e perciò elementi cosi disparati potrebbero concorre­ re a formare uno dei suoi tipici oggetti-talismani. Si otterreb­ be con simile passatempo una rifunzionalizzazione paraprimente, a troppo pochi giorni di distanza, d’un luogo fra tutti banale e ostile in ra­ gione di questa stessa banalità, come tutti quelli che lasciano totalmente vacante la fa­ coltà di attenzione]. 41 A. Breton, (JEuvres completes, t. 1, «Bibliothèque de la Plèiade», 1988, pp. 314-15. [Ho, della continuità della vita, una nozione troppo instabile per uguagliare ai migliori i miei minuti di depressione, di debolezza], [non tengo conto dei momenti nulli della mia vita...]

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dossale se non caricaturale, giocata sulla negazione stessa di ogni funzionalità: su una produzione volontaria di antimer­ ce, non in letteratura ma in realtà. Nel caso specifico, il fasci­ no dell’antifunzionale è già garantito o potenziato dal rias­ sorbimento e restituzione da parte della natura, che fanno dell’episodio una mediatissima e modernissima variante di un tema come il tesoro annegato e rigettato a riva dal mare. 13. Un narratore come Prosper Mérimée (1803-70) ha condiviso il meno possibile le inclinazioni descrittive della sua epoca, con fedeltà relativa a un codice letterario preotto­ centesco; estraggo dalla sua prosa due elenchi, troppo corti entrambi per equivalere di per sé a descrizioni. Nel romanzo storico Chronique du règne de Charles IX42, del 1829, il giova­ ne protagonista protestante apprende che il suo amore è ri­ cambiato da una dama della corte cattolica, sorprendendo non visto una scena notturna di magia «bianca»: La table était couverte de choses étranges qu’il entrevoyait à peine. Elles paraissaient rangées dans un certain ordre bizarre, et il crut distin­ guer des fruits, des ossements et des lambeaux de linge ensanglantés. Une petite figure d’homme, haute d’un pied tout au plus, et faite en ciré, à ce qu’il paraissait, était placée au-dessus de ces linges dégoutants43.

In Carmen, del 1845, quando l’archeologo che è il narratore iniziale fa la conoscenza della bella zingara strega che dà il ti­ tolo alla novella, non resiste alla curiosità fra esotica e occul­ tistica di farsi indovinare l’avvenire da lei: Dès que nous fumes seuls, la bohémienne tira de son coffre des cartes qui paraissaient avoir beaucoup servi, un aimant, un caméléon desséché, et quelques autres objets nécessaires à son art. Puis elle me dit de faire la croix dans ma main gauche avec une pièce de monnaie, et les cérémonies magiques commencèrent44. 42 [Cronaca del regno di Carlo IX]. 43 Cap. xii: Mérimée, Thédtre de Clara Gazul. Romans et nouvelles, « Bibliothèque de la Plèiade», 1978, p. 349. [Il tavolo era coperto di cose strane che intravedeva appena. Esse sembravano disposte in un certo ordine bizzarro, e gli parve distinguere delle frutta, delle ossa e dei brandelli di panno insanguinati. Una figurina d’uomo, al­ ta tutt’al piu un piede, e fatta di cera, a quanto sembrava, era posta al di sopra di que­ sti panni disgustosi]. 44 Cap. il: tbid.yp. 952. [Non appena fummo soli, la zingara estrasse dal suo cofa­ no delle carte che sembravano molto usate, una calamita, un camaleonte disseccato, e alcuni altri oggetti necessari alla sua arte. Poi mi disse di farmi la croce nella mano si­ nistra con una moneta, e le cerimonie magiche cominciarono].

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Parlando, come ho fatto in precedenza (i, i), d’una solida­ rietà fra la struttura formale dell’elenco e i contenuti consi­ stenti in cose non funzionali, trascuravo la più ovvia proba­ bile eccezione: un elenco di strumenti o ingredienti che sia­ no l’esatto occorrente al fine d’una operazione pratica. Ecce­ zione a patto, naturalmente, che si tratti di agire sulla materia con mezzi materiali. Se invece il mezzo o il fine o entrambi sono di ordine soprannaturale, e tuttavia non si accontenta­ no di parole ma esigono oggetti, la logica figurale e simbolica della magia rifuggirà da funzionalità fisica o chimica; e le sue scelte appariranno (direi, a buon diritto) strane alla raziona­ lità profana. Ecco perché - una logica figurale e simbolica es­ sendo più intrinseca al fenomeno letterario di quella scien­ tifica e funzionale - non è solo in senso storico che l’elenco di oggetti magici può dirsi il prototipo o l’archetipo di tutti i diversi elenchi di cose strane. I due frammenti di Mérimée sono echi concisi e tardi d’una topica storico-letteraria an­ tichissima e abbondante; e formalmente si prestano be­ ne a esemplificare due opposte successioni possibili intor­ no a ogni elenco, fra l’eventuale designazione sintetica de­ gli elementi elencabili, e la loro vera e propria elencazio­ ne analitica. Nel primo testo la sintesi precede l’analisi: prima si parla di cose strane, poi di frutta, ossa, brandelli di panno...’, nel se­ condo testo è l’inverso: prima si parla di carte, una calamita, un camaleonte, poi di alcuni altri oggetti necessari... Forma­ lizzando in astratto, avremmo in un caso l’ordine: x / a, b, c...; nell’altro l’ordine: a, b, c... / x. Avevamo incontrato, per esempio, il primo ordine in Gogol' : prima si diceva una quan­ tità di oggetti diversi, e poi tredici elementi si succedevano in varia relazione sintattica. Il secondo ordine in Borges: prima dieci elementi, e poi Quante cose... (ma altri cinque elementi al verso dopo); e lo stesso in Cros: prima tredici elementi, e poi Quale ingombro... (ma forse il primo degli elementi era già una sintesi). La combinazione delle due possibilità dà in astratto: x / a,b,c... / x. Era riconoscibile una tale combina­ zione nella parte finale del testo di Hugo, e in quello di Bre­ ton, ma meno chiaramente che nel testo di Flaubert: dove pri­ ma leggevamo tanti oggetti... e cose..., poi dopo poche righe un elenco di undici elementi, infine ancora più sotto tutti i vecchiumi... La struttura dell’elenco è paragonabile a un ven­ taglio che può presentarsi, non solo a vicenda aperto o chiù­

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so, ma anche in parte aperto e in parte chiuso secondo con­ trazioni o spiegamenti a volontà delle sue numerose stecche.

14. La nostra confusionaria rassegna non potrebbe chiu­ dersi senza un paio di esempi in cui, finalmente, non sia pre­ sente questa costante formale dell’elenco; la quale sarà forse sembrata, a più d’un lettore, l’unica costante innegabile attraverso tutti gli esempi precedenti. Facciamo transizione al lungo racconto The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hydef di Robert Louis Stevenson (1850-94), che va contem­ poraneamente rapportato a due generi distinti come la nar­ rativa fantastica e la fantascienza. È del 1886, e in quella fine di secolo l’uno dei due generi era vicino all’esaurimento, l’al­ tro a una fertile durata: con la fantascienza ha in comune la giustificazione avveniristica dell’incredibile, l’aggiornamen­ to razionale della magia; col fantastico la posizione ignara in partenza, e incerta fino all’ultimo, del personaggio che osser­ va e del lettore. L’interessante per noi è che il primo segno inquietante a inizio di racconto, il primo strappo nel tessuto d’una efficiente normalità quotidiana, sia la descrizione di un edificio dall’aspetto assurdo, impraticabile, trascurato e sporco: Two doors from one corner, on the left hand going east, the line was broken by the entry of a court; and just at that point, a certain sinister block of building thrust forward its gable on the street. It was two sto­ reys high; showed no window, nothing but a door on the lower storey and a blind forehead of discoloured wall on the upper; and bore in ev­ ery feature the marks of prolonged and sordid negligence. The door, which was equipped with neither bell nor knocker, was blistered and distained. Tramps slouched into the recess and struck matches on the panels; children kept shop upon the steps; the schoolboy had tried his knife on the mouldings; and for close on a generation no one had ap­ peared to drive away these random visitors or to repair their ravages 45 [Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde]. 46 R. L. Stevenson, Dr Jekyll and Mr Hyde. The Merry Men and Other Tales, Eve­ ryman’s Library, London - New York 1968, p. 4. [Dopo due porte da un angolo, a si­ nistra verso est, la linea era interrotta dall’ingresso di un cortile; e proprio a quel pun­ to una certa massa sinistra di edificio spingeva innanzi il suo frontone sulla strada. Era alto due piani; non mostrava finestre, niente tranne una porta al piano inferiore e una fronte cieca di muro scolorito al piano superiore; e recava in ogni tratto i segni d’una prolungata e sordida negligenza. La porta, che non era provvista né di campana né di battente, era pustolosa e stinta. Vagabondi si trascinavano nell’andito e accendevano fiammiferi sui pannelli; bambini tenevano bottega sui gradini; lo scolaretto aveva sag­ giato il suo temperino sulle modanature; e per quasi una generazione sembrava che nessuno avesse scacciato questi visitatori accidentali o riparato i loro danni].

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L’edificio appare il solo punto in cui lo squallido quartie­ re circostante si affaccia su una grande strada di Londra tutta attiva e prospera, fra case e botteghe dalle vernici e dagli ot­ toni gaiamente lucenti. Di questa strada si è parlato nelle ri­ ghe immediatamente precedenti la citazione; cosi che un qualche indugio descrittivo sul funzionale - a riprova delle ragioni, accennate a proposito dei russi, che lo rendono rela­ tivamente insolito nella narrativa realistica - è motivato da un effetto di contrasto, e serve precisamente a introdurre l’antifunzionale. La stranezza della facciata dalla «fronte cie­ ca», priva di finestre al di sopra della pustolosa porta e della sua rientranza devastata, sarà spiegata gradualmente - come ogni altra stranezza ancora maggiore. Non appartiene a una casa, ma a quello che fu un anfiteatro per dissezioni anatomi­ che; accanto al quale il Dr. Jekyll, che lo ha comprato e la­ sciato cadere in disuso, si è stabilito nel suo rispettabile e confortevole appartamento"7. Mentre non passano limiti di verosimiglianza l’abbandono e il disordine attribuiti all’in­ terno dell’anfiteatro, quando viene descritto a sua volta, non si avrà mai una adeguata spiegazione realistica del Perché fosse stato lasciato in condizioni a tale punto sordide esterno. In compenso, i rispettivi valori metaforici sono d’una evi­ denza tanto più impressionante quanto più tardi è possibile afferrarla alla prima lettura. Cosi, il laboratorio derelitto del­ la scienza ufficiale rende visibile il presunto, temerario supe­ ramento di essa da parte d’una scientifica magia: la fanta­ scienza vendica le aspirazioni screditate della magia vecchia e vera, e mima l’invecchiamento periodico - di cui parlavo commentando Puskin - del progresso razionale e funziona­ le. Quanto alla duplicità di facciate e ingressi dell’edificio, non fa che corrispondere materialmente allo sdoppiamento dell’unico protagonista in personalità contrapposte. Certo, sarebbe stato più verosimile se l’accesso riservato al doppio negativo si fosse mimetizzato in una apparenza ordinaria; ma l’esigenza del verosimile è meno forte della formazione di compromesso propria al fantastico, la quale - come s’intra­ vedeva sempre nel brano di Puskin - per accreditare l’irreale mette cose antifunzionali a fare realtà. La descrizione che ab­ biamo letta del lato edilizio lurido, dove il bestiale Mr. Hyde47 47 Ibid., pp. 7,14, 22, 39.

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s’interna come un animale nocivo nella sua tana, anticipa il ribrezzo del male messo a nudo nel fìsico di lui. Un ribrezzo soprannaturale al cui insorgere non occorrono spazi di ca­ stello o di palazzo, né oscurità e isolamento notturno; ché anzi, nel cuore di Londra, il personaggio o metà di personag­ gio può nasconderlo col solo passare una porta, e il volto del­ l’edificio esibirlo in permanenza con impudicizia sinistra. 15. All’imperialismo marittimo extraeuropeo, di cui Lon­ dra era il centro, non era mancata una sua leggenda sopran­ naturale di potere maledetto. Essa era parallela - nella triade dei soli miti la cui genesi sia moderna anziché antica o medie­ vale - al mito del piacere e a quello del sapere trasgressivo: rappresentati rispettivamente da don Giovanni e da Faust. Non si può che riconoscere una estraniata versione di quella leggenda nel racconto di Edgar Allan Poe (1809-49) intitola­ to MS. Found in a Bottle*, e pubblicato nel 1833. Almeno in superfìcie, la componente trasgressiva è qui assente: man­ ca il personaggio (reso famoso poco dopo da Heine e da Wagner) dell’olandese la cui tracotanza aveva voluto dop­ piare un capo interdetto, sfidando il demonio o Dio. Tanto più acquista rilievo e si personifica l’immagine del vascello fantasma, condannato lungo i secoli a correre per oceani re­ moti, con a bordo una ciurma e un capitano di pluricentenaria vecchiezza. Barcollanti, monologanti a bassa voce in lin­ gua incomprensibile, assorbiti da meditazioni e occupazioni impenetrabili, ciechi alla presenza del personaggio narratore precipitato sulla loro nave dallo scontro che ha affondato la sua, questi decrepiti uomini di mare non sono spettri; bensì, in conformità con la più originale direzione ossessiva della fantasia di Poe, veri e propri cadaveri viventi. La loro corpo­ reità, umana malgrado a metà cadaverica, non sappiamo an­ cora se debba interessarci di per sé. Ma la corporeità non meno eccezionale del vecchio legno, putrido e verminoso eppure dilatabile o crescente, somiglia in modo sorprendente alla pietra sgretolata dentro la mura­ tura intatta della Casa Usher - nel racconto più noto dell’au­ tore48 49; e basta quest’accostamento a toglierci ogni esitazio­ 48 {Manoscritto trovato in una bottiglia}. 49 E. A. Poe, Tales of Mystery and Imagination, Everyman’s Library, London New York 1962, pp. 264-65; e cfr. p. 130.

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ne sulla possibilità di interpretare, meglio che come una grande bara, come un grande cadavere vivente lo stesso nero e gigantesco vascello. In prima istanza, diremmo certamente che a renderlo sinistro sia la sua eccessiva e indefinita anti­ chità. Indefinita, non però indefinibile: i segni che la denota­ no sono plausibilissimi secondo le distanze cronologiche e i referenti storici, e approssimativamente rimandano al Quat­ tro-Cinquecento delle navigazioni transoceaniche e delle scoperte intercontinentali. Il capitano scruta a testa china un documento firmato da un monarca, e accanto a lui come ai marinai sono sparse le attrezzature di una scienza scaduta da secoli - anziché superata da decenni come in Puskin, o solo in relazione a un’ipotesi fantastica come in Stevenson. Senonché, qui, la misteriosa permanenza in uso di tali attrezza­ ture conferisce loro una deformante distanza supplementa­ re; e strumenti nautici, carte geografiche, in-folio dai ferma­ gli di ferro, vengono ripetutamente e con vari vocaboli con­ notati di stranezza, oltre che di obsolescenza: ... and groped in a corner among a pile of singular-looking instruments, and decayed charts of navigation.

Around them, on every part of the deck, lay scattered mathematical in­ struments of the most quaint and obsolete construction...

The cabin floor was thickly strewn with strange, iron-clasped folios, and mouldering instruments of science, and obsolete long-forgotten charts50.

Il personaggio narratore era antiquario di professione, co­ me apprendiamo poco più sotto, e la sua stessa anima aveva finito col diventare una rovina simile alle città orientali; ep­ pure non aveva mai sperimentato un’antichità di questa spe­ cie. Il segreto di essa non è da indovinare, perché viene espresso a meraviglia subito dopo la negazione della possibili­ tà di esprimerlo. Sono le righe che indugiano sulle forme, l’alberatura e la velatura della nave, sulle reazioni risvegliate nell’intimo dal guardarle attentamente: 50 Ibid., pp. 263, 265, 266. [... e frugava in un angolo, in mezzo a un mucchio di strumenti dall’aspetto singolare e carte di navigazione consumate], [Intorno a loro, su ogni parte del ponte, erano sparsi strumenti matematici della piu curiosa e ob­ soleta fattura]. [Il pavimento della cabina era fittamente cosparso di strani in-folio dai fermagli di ferro, e muffiti strumenti scientifici, e carte obsolete, da tempo dimenti­ cate] .

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What she is not, I can easily perceive; what she is, I fear it is impossible to say. I know not how it is, but in scrutinising her strange model and singular cast of spars, her huge side and overgrown suits of canvas, her severely simple bow and antiquated stern, there will occasionally flash across my mind a sensation of familiar things, and there is always mixed up with such indistinct shadows of recollection, an unaccountable memory of old foreign chronicles and ages long ago...51.

Mai forse uno scrittore è andato così vicino a riconoscere, nella sensazione o emozione del sinistro, il ritorno irricono­ scibile di cose che furono «familiari» - come tanto più tardi farà Freud. Nella frase di Poe, la loro familiarità è in contra­ sto solo apparente col fatto che vi si mescoli una memoria di cronache vecchie e straniere e di età lontanissime: memoria «inesplicabile» solo in apparenza. Non ci sono che le durate secolari contate dalla storia collettiva a poter tradurre, per Fautore e i lettori adulti, le durate che l’infanzia dell’indivi­ duo conta nell’incommensurabilità dei propri giorni, ore e minuti. Chiudiamo la rassegna con questo esempio, in cui il soprannaturale assomma sulle cose la desuetudine culturale storica alla naturale fisica decadenza; ma prolunga sia l’uso dei manufatti che la vita della materia nel suo tempo infantile e smisurato. 51 Ibid., p. 264. [Quel che essa non è, posso vederlo facilmente; quel che essa è, te­ mo che sia impossibile dirlo. Non so come, ma guardando attentamente il suo strano modello e la singolare foggia di alberatura, il suo ampio fianco e l’avviluppata velatu­ ra, la sua prora severamente semplice e la poppa antiquata, mi balena di quando in quando attraverso la mente una sensazione di cose familiari, e sempre, mescolata con simili indistinte ombre di rimembranza, c’è un’inesplicabile memoria di vecchie cro­ nache straniere ed età da tempo trascorse...]

Capitolo in Decisioni per procedere

i. Se fra gli esempi del capitolo precedente mi sono mos­ so imitando a posteriori un disordine, il disordine d’una ri­ cerca ancora in discussione, volendo procedere adesso oc­ corre invece simulare a priori un ordine. L’ordine che sciori­ na uno dopo l’altro - avendoli retrospettivamente ripensati i postulati che soggiacciono all’oggetto della ricerca; e le fa­ coltà o le restrizioni che ne dirigono il progetto. C’è un ri­ schio d’inattualità, da giustificare prima di correrlo fino in fondo, nell’affrontare oggetto e progetto con un atteggia­ mento di tipo sistematico? Potrei addurre l’anzianità della ricerca, maturata mentre un simile atteggiamento aveva an­ cora nel cosiddetto strutturalismo il suo avallo più chiaro (sebbene forse non il più importante); o potrei invocare ca­ ratteristiche proprie della singola ricerca. Queste ultime, sa­ rebbe difficile esprimerle meglio che con la frase di Fonte­ nelle da me premessa al libro come epigrafe: «Molte verità separate, non appena sono in numero abbastanza grande, of­ frono cosi vivamente allo spirito la loro relazione e la loro re­ ciproca dipendenza, da sembrare che dopo essere state stac­ cate le une dalle altre con una specie di violenza, cerchino naturalmente di riunirsi»!. In effetti - direi - il libro dovreb­ be abbracciare verità troppo separate, e in troppo gran nu­ mero, per esser realizzabile esplorando asistematicamente qualcuna si e qualcuna no delle loro relazioni e reciproche dipendenze. Esentarsi dal riunirle tutte, secondando la ten­ denza che sembra naturale in esse, vorrebbe dire lasciarle tutte in quello stato di distacco della cui violenza sembrano aver patito, e tacere di esse. 1 Fontenelle, Préface sur l’utilità des mathématiques, in Antike und Moderne in der Literaturdiskussion des 18. Jahrhunderts, Akademie-Verlag, Berlin 1966, p. 208.

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DECISIONI PER PROCEDERE III.2

Eppure non è vero che se ne potrebbe fare un libro solo cosi; non è verosimile che altri, al mio posto, non preferireb­ be invece gettare verso l’oscurità di quel fascio di verità e re­ lazioni le luci del lampo - la cui intermittenza abbagliante esalta ciò che isola, ma non risponde del prima e del dopo, né di quant’altro è rimasto in ombra. Meglio - dirò - un lume di candela vacillante e tenue, ma costante e mobile, in una ma­ no paziente. Fuor di metafora, e confessando pregiudizi cul­ turali che vanno al di là dell’occasione di questo libro: dubi­ to addirittura che esista altro pensiero asistematico, se non quello che rimane solo parzialmente esplicitato. E dubito che la spinta a darlo per asistematico possa mai essere altro che interessata, in senso retorico buono o cattivo: come be­ neficio, privilegio, sortilegio di espressione, o come simula­ cro, lusinga, sopruso di persuasione. Non è incomprensibile nemmeno a me che il sistema, col suo annettersi la responsa­ bilità del maggior numero possibile di relazioni, col suo pre­ venire il controllo dall’esterno autocontrollandosi in altret­ tanti collegamenti obbligati, riesca costrittivo e falsamente rassicurante. Ma è il minor male: se nel lampo irrelato e irre­ sponsabile di verità c’è più suggestione istantanea e più pro­ fondità promettente, c’è per ciò stesso (al contrario di quan­ to spesso si dice) troppa più prepotenza intellettuale. E me­ no coraggio di fronte all’onere latente delle conseguenze, meno curiosità di fronte al campo potenziale delle elabora­ zioni. 2. Perciò vado a una esplicitazione dell’implicito meto­ dologico, ma con tutta la raccomandabile velocità: sotto pe­ na di ripetere, se non di ampliare, la proposta teorica stessa a cui mi sono richiamato nel primo capitolo (i, 3). Quante e quali decisioni è necessario prendere, per arrivare da quella prima e minimale che dice di si alla domanda se intraprende­ re la ricerca, all’ultima di quelle che vanno determinando fi­ no al massimo grado come eseguirla? La prima decisione è formulabile cosi:

1. Esistono certe costanti testuali degne di attenzione. Si potrebbe esser tentati di considerarla, più che minima­ le, superflua. La maggioranza dei discorsi che si fanno negli studi letterari presuppone attenzione a qualche costante, a

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qualcosa che torna', o all’interno di un testo solo, o fra un te­ sto e altri testi. E evidente per i discorsi a orientamento stori­ co-letterario, per i discorsi a carattere formalistico-retorico, per tutti i discorsi d’impianto comunque analitico. Le co­ stanti in questione saranno ogni volta le più diverse; e senza dubbio il numero di quelle che sarebbe possibile stabilire in astratto, è enormemente più alto del numero di quelle che sono degne di attenzione, cioè che è interessante studiare. Spesso, per la legge di proporzione inversa fra probabilità e informazione, risultano tanto più interessanti da studiare quanto più sarebbero state sospette di non esserlo affatto. Vorrei fosse questo il caso delle nostre costanti, la cui esi­ stenza viene supposta all’incrocio di testi e testi non solo nu­ merosissimi, ma svariatissimi per autore, per epoca, per lin­ gua e per genere letterario; tanto che nel secondo capitolo, facendo transizioni da un esempio all’altro, ho sfruttato qua­ si provocatoriamente costanti di materia del contenuto rite­ nute di solito accidentali e insignificanti. Non fosse che per il sospetto di eccedenza, d’impertinenza in senso letterale, che ricade sulle nostre costanti dal concetto di costante in gene­ rale - quando mai si ha un criterio a priori per sapere quali sono le costanti pertinenti? - la decisione meriterebbe di es­ ser presa. E, in ogni caso, non è scontata rispetto ad altri tipi di di­ scorso che si fanno sulla letteratura; esemplarmente non lo è rispetto a quelli il cui scopo principale sia di pronunciare giudizi di valore estetico, di esercitare come diceva Croce «l’ufficio di discernere il bello e il brutto»2: la critica strettamente intesa. L’eccezione è di gran peso, e non credo che debba esser fatta pensando solo al crocianesimo italiano. Nemmeno credo, del resto, che il destino di quest’ultimo sia necessariamente di rimanere accantonato quanto lo è sem­ brato negli ultimi trent’anni; né soprattutto che il supera­ mento di esso in Italia - rapido e furtivo, muto e indiscusso com’era stato a suo tempo - fosse autentico e profondo. Ora, raramente la critica estetica degnava di attenzione delle co­ stanti, se non appunto quella tutta teorica della qualità dei testi da giudicare. Il disinteresse o disprezzo per l’esistenza di punti di contatto sia formali che materiali entro un testo o 2 B. Croce, Nuovi saggi di estetica, Laterza, Bari 1958, p. 85,

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fra testi, di costanti non di valore ma difatto, non era che l’al­ tra faccia - potremmo dire - di un interesse o culto esclusivo per le varianti: per l’individualità incomparabile del momen­ to testuale. Se per definizione ogni confronto fa riconoscere costanti e varianti, col rifiutare importanza alle prime per non sottrarne neanche un po’ alle seconde si resisteva alla ne­ cessità stessa di capire e conoscere per confronto, anziché per intuizione diretta. O tutto questo non ha mai compietamente cessato, o ha ricominciato a riguardarci.

3. Ma appena deciso che le costanti ci sono e contano, prima di decidere - e per decidere - che cosa fare con esse come oggetto di studio, abbiamo da chiederci qualcosa co­ me: perché ci sono, da dove vengono? E poiché la letteratura stessa non viene dal nulla, e non può trovare origine se non o in precedente realtà o in precedente letteratura, consideria­ mo entrambe queste ipotesi rispetto alle nostre costanti. Consideriamole, piuttosto che una dopo l’altra, a confronto: cerchiamo di fermare in un equilibrio preliminare l’altalena periodica con cui i partiti presi ideologici le oppongono l’una all’altra, rendendole incompatibili. Prendiamo due deci­ sioni complementari in una volta, rispetto alle nostre costan­ ti, e formuliamole cosi: 11. È insufficiente riferirle direttamente a dati di realtà. in. E insufficiente ricondurle a pura tradizione letteraria.

Motivare la presenza di costanti tematiche nei testi con un riferimento a dati di realtà diretto, cioè non mediato da codi­ ci letterari, solo in un caso forse può non apparire operazio­ ne rozza: se le costanti appartengono all’opera di un solo au­ tore, e i dati di realtà al vissuto biografico di un solo uomo. E un caso estraneo alla nostra ricerca, che percorre opere di moltissimi autori. Ma è anche un’eccezione apparente: nem­ meno in sede di comunicazione linguistica generale la socia­ lità del concetto di codice esclude che sia codificabile l’uso dell’individuo; meno che mai in letteratura c’è contraddizio­ ne in termini nel parlare di codici propri alle opere di un sin­ golo, dai quali è filtrata e organizzata un’esperienza indivi­ duale. Inoltre, non ci interessiamo praticamente mai a un’o­ pera senza dare per scontato che abbia avuto o possa avere lettori, successo, fortuna. Quindi, che entri a modificare il

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codice comune successivo; quindi, che le sue costanti siano trasmissibili dal circuito fra letteratura e realtà al circuito fra letteratura e altra letteratura. E ogni tentativo di fare, del pri­ mo di questi due, un circuito chiuso rispetto al secondo, non è difficile da ridurre all’assurdo nel caso che il riferimento di­ retto sia a dati di realtà d’esperienza collettiva anziché indivi­ duale. Durante gli approcci del primo capitolo all’unità di og­ getto della ricerca (i, 6), ho cominciato col contemplare per astrazione gli aspetti più costanti possibili delle nostre co­ stanti; e non ho esitato a riferirli alle esperienze le più collet­ tive possibili del genere umano. Cultura verso natura, ambi­ valenza del tempo, ambivalenze del cadavere, degli escre­ menti... L’astrazione che sacrifica, a cosi alte costanti delle costanti, milioni di varianti concrete fra differentissimi testi, scavalca insieme i codici letterari: astrazioni di meno lunga durata, e mediatori storici di qualunque costante. E il fondo innegabile di pertinenza dei referenti più universali non ri­ media alla loro assoluta impotenza esplicativa, di fronte ai problemi posti dalla distribuzione cronologica delle nostre costanti. Quella che ho indicata in grande nel primo capitolo (i, 7); quella di cui ho tenuto conto nel secondo, distribuen­ do abbastanza regolarmente gli esempi fra le due date casua­ li estreme del 1812 e del 1969, e non anteriormente. Le nostre costanti nel loro insieme non nascono certo intorno alla pri­ ma di queste date, ma assumono da allora in poi una fre­ quenza o intensità molto maggiori di prima. Chi vorrà am­ mettere che, da allora in poi, certe costanti della letteratura occidentale trovino origine diretta negli aspetti più immuta­ bili della condizione umana; e sia irrilevante la coincidenza con una razionalizzazione laica del mondo sempre crescente, anzi sempre culminante? D’altra parte siamo esposti a una riduzione all’assurdo non meno flagrante, partendo dalla distribuzione cronologi­ ca delle costanti. Se restiamo dentro l’ipotesi del riferimento diretto a un’esperienza collettiva; e ci limitiamo a sovvertire il tipo di dati di realtà da cui attenderci potenza esplicativa. Se cioè sostituiamo, ai grandi e fissi referenti antropologici, i referenti della storia culturale, sociale, politica, economica di un’epoca in cui sono cambiate allo stesso ritmo le idee e la faccia della terra. È vero che un ritmo accelerato di rinnova­

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mento, accelerando le scadenze periodiche del disuso, ac­ cresce anche il numero delle cose accantonate: un processo che abbiamo già visto riflettersi nelle immagini della lettera­ tura (11,9,14). E tuttavia, chi vorrà ammettere che fra il 1812 e il 1969, nel mondo reale, le antimerci abbiano prevalso sul­ le merci - che gli oggetti inutili o invecchiati o insoliti siano stati più numerosi, più vistosi, più importanti di prima, ri­ spetto a quelli utili o nuovi o normali? Nel primo capitolo so­ stenevo che la letteratura è testimonianza insostituibile del passato (1,2-3); ma definivo come un ritorno del represso an­ tifunzionale il fenomeno che, in letteratura, si accresce nel periodo entro cui ho cominciato a esemplificarlo nel secon­ do capitolo. Ecco perché una risposta positiva all'ultima do­ manda retorica sarebbe ancora più inammissibile che alla precedente. Stavolta c’è, fra costanti letterarie e dati di real­ tà, un rapporto a cui pare applicabile la struttura contrastiva, oppositiva del concetto di ritorno del represso; e dipende da un tale rapporto l’impossibilità di riferire direttamente le une agli altri. Riferimento diretto non vuol dire allora ingenuo solo nel senso, e a causa, della mancanza d’una mediazione di codice. L’attributo trae un senso peggiorativo anche dalla falsa im­ mediatezza di un rispecchiamento senza rovesciamento: dal­ la mancanza di contraddizione. Chiunque sia stato un lettore attento del primo capitolo di questo libro (anche se non del ciclo dei miei libri precedenti), intuirà tutta la portata teorica della riserva in questione. Essa ci trasporta già dalla seconda verso la terza delle decisioni prese; ma vale la pena che ci ri­ porti ancora dai referenti storici a quelli universali. Ci stiamo interrogando sul rapporto tra referenti e costanti tematiche, e si sa che precisamente la qualifica di «critica tematica» fu attribuita negli anni ’50 e ’60 a un indirizzo della nouvelle cri­ tique francese. Qui non c’è spazio per rendere giustizia ai singoli studiosi; l’interessante è che qualcuno frapponesse, tra i referenti universali che presumeva e le costanti temati­ che dei testi di cui parlava, un immaginario individuale o col­ lettivo diverso dal codice letterario eppure precostituito, ar­ ticolato, quindi non dissimile da un codice a sé. Sull’immobi­ lità archetipica dei referenti universali di un tale immagina­ rio, ispirata a Jung e a ciò che più lo differenzia da Freud, è solo di riflesso - qui - che verte la mia riserva.

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In prima istanza, essa coincide con l’obiezione presto mossa alla critica tematica dal punto di vista dello strutturali­ smo: che i suoi ritagliamenti dell’immaginario difettassero della necessaria altezza di astrazione, fossero enumerazioni informi di materie troppo concrete ’. È facile davvero ideare un libro composto con le nostre costanti intorno al i960 in francese, nel quale si sarebbero accostati con sensoriale di­ letto temi e temi, sempre a livelli di astrazione cosi bassi da rasentare le cose stesse. Restando all’esemplificazione del se­ condo capitolo, si sarebbe parlato di tema del reliquiario pri­ vato, degli arredi dissacrati, del ciarpame ammucchiato, del­ la flora e fauna invadente, dei relitti marini, degli strumenti arcaici; e perché non addirittura di tema dello scrigno e del cassettone, dei capelli e fiori morti, dei soprammobili e delle vecchie poltrone, della fogna e dei topi e rospi, dei cocci e della porta fradicia?... Finché un’analisi non raccoglie per tutte costanti tematiche che immagini di cose, funzionali o no, importa poco che i suoi livelli di astrazione siano oscil­ lanti e più o meno elevati. L’altezza di astrazione di un’anali­ si non sarà né sufficiente né coerente finché non fa risaltare quei rapporti logici o antilogici, che soli danno forma e senso alle materie concrete: rapporti intercorrenti fra i dati di real­ tà e la loro assunzione a costanti della letteratura, ma facenti testualmente e definitivamente parte delle costanti stesse.

4. Passiamo dall’ipotesi di un immaginario codificato a quella di un codice specifico della letteratura, finora sempre indicata trattando come sinonimi le due parole codice e tra­ dizione. Quale che fosse l’ingenuità imputata al riferimento realistico diretto, ricondurre invece costanti letterarie a tra­ dizione letteraria non rischia di apparire operazione inge­ nua; lo assicura perfino una vaga affinità di essa col tipo di ragionamento meno ingenuo ossia meno rischioso concepi­ bile, la tautologia. L’operazione sarà per lo più da approvare a ragione come pertinente e scaltrita, e rare volte si presterà al sospetto di essere solo evasivamente scaltra - essendo ga­ rantita, fra letteratura e altra letteratura precedente, quell’o­ mogeneità che non è garantita fra letteratura e realtà. E tutta­ via le costanti tematiche restano per definizione le più pro3 Cfr. Orlando, Per una teoria freudiana cit., pp. 21-22,192-93 (con citazione da Genette).

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Edematiche, all’interno di una tale omogeneità; non vi si la­ sciano ridurre per intero come le costanti metriche o sintatti­ che, retoriche o narratologiche. Ogni volta che la specificità della letteratura è stata irrigidita in un preconcetto di auto­ nomia, le costanti tematiche non hanno lasciato che il picco­ lo imbarazzo di un’unica scelta: o svuotarle di sostanza quali meri ingredienti del procedimento compositivo, come fu una tendenza del primo formalismo russo; o fare finta in tut­ ta la misura del possibile che non esistano, come accadeva ordinariamente sulla linea dello strutturalismo. Col guaio di dover fare appello per concisione a molte altre parole in -ismo, s’impone a questo punto una distinzione elementare e sommaria, quanto alle concezioni di tradizione o codice ne­ gli studi letterari del Novecento. Il rinnovamento di essi entro i due primi decenni del seco­ lo ebbe come denominatore comune non minimo, nelle maggiori lingue europee, l’inversione di quelle tendenze al riferimento realistico diretto che erano state a loro volta una conquista dell’Ottocento: storicismo, biografismo, sociolo­ gismo romantici prima, positivisti poi. Nella cultura france­ se, dove restò più imperturbabile nel continuare i metodi ot­ tocenteschi la dottrina universitaria, si ebbero in cambio precocemente le affermazioni forse più lucide della specifici­ tà della letteratura da parte di scrittori - anziché di professo­ ri, critici o filosofi. Ma la specificità, e addirittura l’autono­ mia, della letteratura, potevano venire affermate con opposti atteggiamenti rispetto alla dimensione temporale e storica: o tenendone conto, e distribuendoci sopra connessioni e svi­ luppi, sia pure specifici o autonomi; oppure azzerandola, e magari proiettando al di sopra di essa l’ideale contempora­ neità di tutto. Con l’alternarsi o con l’intrecciarsi di questi due atteggiamenti, durante il secolo, le concezioni di tradi­ zione o codice letterario sono variate non poco. Il primo at­ teggiamento era più tipico di un neoidealismo tedesco e ita­ liano - a dispetto dell’estremismo teorico di Croce; ed è ve­ nuto facilmente a patti con l’eredità erudita del positivismo. Ne è stata resa possibile una storiografia letteraria la cui au­ torità ha basi profonde nel senso della tradizione che la ca­ ratterizza. Il secondo atteggiamento era più tipico in parten­ za del formalismo russo; ma anche di quello ascrivibile a grandi poeti di lingua francese, e inglese. E confluito con la

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proposta semiologica di Saussure nello strutturalismo, do­ minato dall’idea di codice, e lo si rintraccia fino ai postumi recenti di esso. Non certo con proprietà storica, ma per chiarezza, po­ tremmo parlare di tradizione letteraria quando un codice è visto svilupparsi in diacronia; di codice letterario, quando una tradizione è vista proiettarsi in sincronia o in pancronia. L’interesse verso le costanti tematiche è stato tutt’altro che pari sotto il segno della tradizione o del codice rispettiva­ mente, cioè negli studi idealistico-positivistici di storia lette­ raria, o in quelli formalistico-strutturalistici di teoria della letteratura. Del disinteresse in questi ultimi parlavo prima; tanto più un peccato se, da essi, si fossero potute sperare co­ dificazioni di costanti tematiche non limitate a documenta­ bili rapporti storici fra testo e testo, come invece vogliono i concetti di fonte, fortuna, gusto, moda, modello e luogo co­ mune o topos. Di fatto, negli studi dove uno spazio teorico trascende gli obblighi di tali concetti, esso si è aperto - tal­ volta con alte riuscite - solo a codici di costanti retoriche o narratologiche o comunque formali. All’opposto, gli studi il cui spazio è concentrato nella tradizione storica avevano prodotto proprio badando a costanti tematiche non pochi dei loro capolavori; e qualche capolavoro degli studi letterari in generale. Senza contare il più importante per noi - Mime­ sis di Auerbach, a cui ho già dovuto rifarmi, e il cui taglio del resto non è per temi ma per autori ed epoche -, vanno ricor­ dati due libri celebri, a causa di coincidenze fra i loro ambiti cronologici e le periodizzazioni di questo libro. La coincidenza è principalmente negativa con Lettera­ tura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius4: dove si documenta la continuità d’un gran numero di topoi dall’antichità greco-latina fino al rinascimento più tar­ do. Fino al Settecento - al romanticismo sostanzialmente escluso, malgrado sparse citazioni posteriori. E interessante che il limite inferiore d’un patrimonio di costanti classico e millenario tocchi il limite superiore di distribuzione delle no­ stre costanti; nel senso già detto, non d’una nascita di esse

4 E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 1992.

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nel loro insieme, ma d’un loro massimo accrescimento e rin­ novamento. Non è meno interessante che in questo senso le nostre costanti abbiano lo stesso approssimativo limite supe­ riore, disegnabile a volontà entro la seconda metà del Sette­ cento, di quelle moderne documentate da Mario Praz in La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica \ Ossia, di costanti perverse nell’ordine erotico, affettivo e morale, come le nostre lo sono nell’ordine funzionale e fisico; dun­ que in qualche modo complementari, e di fatto contempora­ nee per tutto l’Ottocento - fino a oggi senza limite inferiore certo. Tuttavia entrambi i libri, diversi come sono nelTelaborare le loro documentazioni formidabili per dottrina e sicu­ rezza storica, lasciano correre uno iato aproblematico fra tradizione letteraria e dati di realtà. L’allontanamento dai dati di realtà e dai problemi che pongono è in qualche misura un male necessario, in ogni stu­ dio che riconduca la letteratura a letteratura precedente: per ragioni di divisione del lavoro intellettuale, e anche fuori dal compiacimento che non di rado accompagna tale operazio­ ne nella cultura italiana - dove è più ereditaria una punta di mandarinismo o narcisismo specialistico. Ma l’ombra di tau­ tologia che assicura la scaltrezza dell’operazione non ne eli­ mina in tutti i sensi, almeno nel caso di costanti tematiche, un rischio d’ingenuità. Il riferimento diretto a dati di realtà ci era apparso ingenuo, oltre che in quanto non mediato da co­ dice o tradizione, in quanto non mediato da contraddizione; a sua volta, il ricondurre costanti tematiche a pura tradizione letteraria elude - nella falsa immediatezza dell’omogeneità fra letteratura e letteratura - quelle tensioni logiche o antilo­ giche che presuppongono un rapporto coi dati di realtà. At­ traverso il circolo vizioso per cui l’opera singola rimanda al corpus di quelle preesistenti, e il corpus preesistente si scom­ pone in opere singole, al limite lo storicismo degli studi di tradizione letteraria mette in disparte dalla storia o fa indie­ treggiare oltre la storia la tradizione stessa. In altri termini, non ha vera risposta a domande sia innocenti che maliziose: perché i codici durano? perché le costanti tematiche conti­ nuano a interessare nuovi autori e lettori? A quando risale la 5 M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Fi­ renze 1948.

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partenogenesi della tradizione letteraria - fra la Bibbia e Omero che la fondano storicamente per noi, e il trapasso preistorico dalla scimmia all’uomo con le origini del linguag­ gio, o del lavoro, o di un divieto sessuale?

5. Nell’atto di prendere la seconda e la terza decisione, parlavo di equilibrio preliminare fra le due ipotesi a confron­ to: sarà consistito nel cercare a più riprese di ridurle all’as­ surdo entrambe. Ma è stato evidente a più riprese che non può consistere né in un giusto mezzo empirico, né soltanto nel rimediare all’insufficienza di ciascuna ipotesi integran­ dola con l’altra. Non si tratta soltanto di mediare riferimento realistico con tradizione letteraria, rendendo l’uno indiretto e l’altra impura; si tratta soprattutto di mediarli tutti e due con una logica della formazione di compromesso. La con­ traddizione che una tale logica presuppone fra costanti e dati di realtà, non solo è da presupporre letterariamente assunta dentro ogni singolo testo, ma anche istituzionalizzata in una tradizione poiché parliamo di costanti fra testo e testo. Reci­ procamente: ciò che accade con le nostre costanti fra tardo Settecento e primo Ottocento - in coincidenza approssima­ tiva col declino dei topoi studiati da Curtius e con l’avvento dei temi studiati da Praz -, dev’essere concepito come inizio d’una o più d’una tradizione, senza che perciò possa venir meno il presupposto d’una contraddizione con dati di realtà. E alla più clamorosa delle precedenti riduzioni all’assur­ do che conviene rifarci, per formulare ulteriori decisioni vir­ tualmente già prese. Consideriamo la proposizione aberran­ te: ‘c’è stato aumento delle immagini di oggetti non-funzionali, in un secolo e mezzo di letteratura, perché è stato preva­ lente l’aumento di simili oggetti nel mondo reale’. Un’affer­ mazione vera è collegata a un’affermazione falsa da una con­ giunzione causale - perché -, la quale sottintende fra letteratura e realtà un rispecchiamento positivo. Se ci limitia­ mo a correggere l’affermazione falsa, metteremo in buona logica al posto della causale la concessiva, la quale lascia le cose inesplicate: ‘più oggetti non-funzionali in letteratura, benché più oggetti funzionali in realtà’. Ma se ci ricordiamo per restare in metafora - che ogni specchio è capovolgente quand’anche non deformante, metteremo il modello di un rispecchiamento negativo al posto del miraggio di quello po­



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sitivo. Con un un passaggio familiare alla cattiva logica della formazióne di compromesso, e ricorrente nel ciclo dei miei libri freudiani67, capovolgeremo la concessiva nella causale vera: "più oggetti non-funzionali in letteratura, perché più oggetti funzionali in realtà’. La raccolta delle antimerci im­ maginarie non sarebbe diventata immane o mostruosa, se non l’avesse preceduta nel diventarlo la raccolta di merci tangibili della ricchezza sociale. * A queste conclusioni può sembrare ovvia obiezione un fatto: che sono antecedenti alla svolta storica in questione sia serie di occorrenze isolate, sia intere parti dell’insieme delle nostre costanti. Ma non si pretende che da una enorme tra­ sformazione della realtà, con la sua forza di provocazione, il discorso contraddittorio della letteratura venga fondato. Se, in quanto tale, esso acquista a un certo momento un’eviden­ za maggiore di prima, si pretende di meno e di più: di fon­ darlo in una contraddizione col reale, entro le debite propor­ zioni, anche prima. Riguardo al fenomeno che ci interessa, la svolta storica è un momento di verità, non di genesi. E in quella storia del rapporto fra l’uomo e le cose che la lettera­ tura non basta a documentare (i, 2), se ci affidiamo a una pa­ gina di Lévi-Strauss, è una svolta unica: l’altra essendo prei­ storica, e il processo scatenato da «una molteplicità di inven­ zioni orientate nello stesso senso» essendosi ripetuto «due volte, e due volte sole, nella storia dell’umanità». Della rivo­ luzione scientifica e industriale moderna, «per ampiezza, universalità e importanza delle conseguenze, solo la rivolu­ zione neolitica aveva a suo tempo rappresentato un equiva­ lente». Nella stessa pagina si legge che la civiltà occidentale (ai tempi in cui la situiamo fra Medio Oriente e Grecia) accreb­ be di alfabeto, aritmetica e geometria il proprio «capitale neolitico iniziale»; ma che segui «una stagnazione», per 2000 o 2500 anni, «dal primo millennio prima dell’era cri­ stiana sino al xviii secolo circa» '. Non può non dar da pen­ sare il fatto che una tale durata di civiltà relativamente stabi­ le, secondo Lévi-Strauss, coincida con la durata della tradi­ 6 Cfr. Orlando, Due letture freudiane cit., pp. 40,174. 7 C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967, PP- BO-3I-

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zione topica delimitabile negli studi letterari secondo il libro di Curtius. Pare emergerne una immensa periodizzazione: se entrambe tali durate terminano all’incirca nel Settecento, an­ che il tramonto della tradizione letteraria topica è da connet­ tere alla rivoluzione avvenuta intorno a quel secolo, scientifi­ ca e industriale come ideologica e politica. Inoltre però, se entrambe tali durate cominciano dopo una rivoluzione prei­ storica - di ben più lungo e ben più disperso assestamento -, anche le origini della tradizione letteraria topica sono da connettere a una - arcaica - razionalizzazione del mondo. La tradizione in questione include da un certo punto in poi le costanti più antiche del nostro insieme; si può presumerle a loro volta formazioni di compromesso codificate, e ripropo­ ste per millenni. Quando è il caso, si può supporvi la traccia di compromessi preletterari altrettanto antichi. Verifichiamo quanto era prevedibile sin dalla fine del pri­ mo capitolo: due decisioni discendenti da punti di vista di solito distinti e contrapponibili come la teoria e la storia, qui fanno in pratica tutt’uno. La decisione tipicamente storica di interpretare la distribuzione cronologica delle nostre costan­ ti; la decisione tipicamente teorica di interpretare le nostre costanti secondo il modello logico o antilogico freudiano. Stavolta è quasi una decisione in due, più che due decisioni in una. Formuliamole cosi, rispetto alle nostre costanti:

iv. Una svolta storica è interpretabile nella loro distribu­ zione. v. Sono interpretabili in teoria come formazioni di compro­ messo. 6. Fin qui siamo pervenuti impiegando la parola « costan­ ti» al plurale, coi margini d’indeterminato che manteneva nei preliminari del primo capitolo come tra i sondaggi del se­ condo. Non resta che da mettere in questione un tale plurale indeterminato, ponendo domande che ci avvicinano a pren­ dere le decisioni operative ultime: quali costanti, più precisamente? e se diventa lecito chiedere, quante? Domande da non porre per chi, impaziente dell’atteggiamento sistemati­ co, considera un colmo d’indelicatezza il classificare i feno­ meni - almeno quelli letterari. Senonché il classificare è un esercizio certo meno immediato e più arbitrario, ma non

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troppo diverso in sostanza dal parlare: non mancando mai di imporre* classificazioni dei fenomeni, più o meno sistemati­ che, la lingua stessa. Nei casi in cui l’alternativa al parlare è l’essere parlati dalla lingua esistente, subendone le coazioni e le improprietà, oppure il tacere rassegnandosi alle lacune di essa, classificare non significa altro che tentare di migliorar­ ne le risorse. Se non lo avessero fatto con successo codifica­ zioni antiche, medievali e moderne di costanti letterarie, non parleremmo della letteratura: non disponendo nemmeno di parole come «metafora», «sonetto» o «romanzo». La so­ brietà nel conio di neologismi, prima ancora che a vantaggio della delicatezza, va raccomandata appunto a vantaggio del successo linguistico dell’operazione. Ma, mi si obietterà, ho riconosciuto che le costanti letterarie meglio codificate o classificate sono di specie comunque formale; con che crite­ rio, d’un qualche rigore, distinguere costanti cosi corposa­ mente tematiche come le nostre? Di fatto, delle cinque decisioni già prese, ciascuna delle ultime quattro racchiudeva un criterio degno di considera­ zione a tal fine - sebbene già ricusato, nei casi della seconda e terza decisione, con la critica rispettivamente del riferimento realistico diretto e della tradizione letteraria pura. In assolu­ to, è innegabile che le nostre costanti si lascerebbero ordina­ re secondo referenti di realtà o materie di contenuto; come secondo generi letterari e lingue nazionali E cosi pure se­ condo epoche o distribuzione cronologica, a voler estendere il criterio che è insito nella quarta decisione; e secondo tipi di formazione di compromesso o situazioni di contraddizione, a voler articolare il criterio suggerito dalla quinta. Non uno di tutti questi criteri mi è parso adeguato ad avviare e sorreg­ gere da solo l’operazione classificatoria. Eppure non ce n’è uno la cui istanza specifica possa essere impunemente igno­ rata, nell’elaborare distinzioni che reggano e rendano sul banco di prova decisivo: quello dei testi. Dei due criteri im­ parentati fra loro che sono l’appartenenza delle nostre co­ stanti a generi letterari e ambiti linguistici, e la loro succes­ sione in periodi o date, sarà subito evidente che entrambi di per sé condurrebbero a risultati poverissimi d’informazione. Eppure sarebbe insoddisfacente, con altrettanta evidenza, ogni sistemazione o suddivisione che mancasse d’una qual­ che corrispondenza coi filoni della tradizione letteraria; co­

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me ognuna che non rendesse conto in qualche modo della svolta storica che sappiamo. Quanto al criterio di realtà, delle sue tre precedenti ridu­ zioni all’assurdo (ni, 3), rifacciamoci stavolta a quella che ho derivata - nel criticare la cosiddetta critica tematica - dal­ l’eccesso di aderenza alle cose. Sarebbe un gioco ricalcarla sfruttando, al posto degli esempi testuali del secondo capito­ lo, quelli convenzionalmente inventati nel primo: per mo­ strare la larga intercambiabilità delle cose stesse. Inventando meno convenzionalmente, imitando l’imprevedibilità degli esempi testuali, niente impedirebbe di attribuire un effetto comico al castello spettrale e uno terrificante all’abito trasan­ dato, o una funzione secondaria di propaganda agli arredi d’antiquariato e una di merce alla chiesa sconsacrata. Ma il gioco è troppo facile, al punto che non tarderebbe a diventa­ re difficile; e non solo e non tanto perché l’intercambiabilità delle cose finirebbe col rivelarsi non illimitata, neppure in esempi fittizi. Soprattutto perché le immagini di cose con­ crete non risulterebbero variabili, se non all’interno di quei rapporti astratti che precisamente chiamo le nostre costanti. Ciascuno dei possibili predicati di non-funzionalità non è predicabile indifferentemente di qualunque sostantivo; nel­ la classificazione dovuta alla lingua, come le cose concrete corrispondono ad altrettante classi concettuali, cosi i rap­ porti astratti che le qualificano riflettono essi stessi dati di realtà, racchiudono condizionanti residui di cose. La forma­ zione di compromesso, che dà il nome a tali rapporti nel no­ stro caso, è un concetto della massima astrazione e un «mo­ dello vuoto». Ma perfino schematizzato, ridotto alla for­ mula ‘x benché);’, conserva un riferimento a situazioni di fat­ to: a qualche incompatibilità fra una qualunque istanza e un’altra. Cosi, mentre si ripete il rinvio da dati di realtà a formazio­ ni di compromesso, già s’intravede come mai nemmeno que­ ste ultime bastino per fornirci a loro volta il criterio richiesto. Il libro più teorico del mio ciclo freudiano si chiudeva su una tipologia di formazioni di compromesso nei contenuti della letteratura; esse configuravano modi e livelli di un ritorno del represso immediatamente esemplificato con le trasgres­ sioni d’un imperativo morale o pratico8. Nel primo capitolo 8 Cfr. Orlando, Per una teoria freudiana cit., pp. 77-87.

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di questo libro, dopo averne distinto quel ritorno del repres­ so meno'ovvio che è trasgressione d’un imperativo razionale - con la sua ambivalenza letteraria fra contenuti e forme -, ho parlato per la prima volta di ritorno del represso come trasgressione d’un imperativo funzionale (i, 3). In tutti e tre i casi, i contenuti della letteratura si fanno sede di trasgressio­ ni immaginarie d’un imperativo extraletterario; ma il grado di astrazione dei concetti non sarà identico nei tre casi. Mi sembra che debba variare secondo che le trasgressioni im­ maginarie corrispondano o non corrispondano a possibilità di trasgressione anch’esse extraletterarie, reali. Se si, è molto più probabile che categorie discendenti da deduzione ex­ tratestuale confermino la loro pertinenza nell’analisi di testi concreti; mentre, in mancanza di ogni corrispondenza ex­ traletteraria, garantirà categorie pertinenti soltanto l’indu­ zione che le astrae a partire dai testi stessi. Nel caso delle trasgressioni di imperativi morali o pratici, che la letteratura può rappresentare con complicità maggio­ re o minore, la loro universale preesistenza a qualsiasi rap­ presentazione letteraria è evidente. E perciò che, per il ritor­ no del represso relativo, una tipologia di formazioni di com­ promesso poteva darsi a livello elevato di astrazione: in ap­ parente provvisoria indipendenza da testi. Niente corrispon­ de invece, prima e fuori della letteratura, a quella trasgressio­ ne d’un imperativo funzionale che la letteratura produce compiacendosi di rappresentare oggetti connotati in certo modo. È una rappresentazione trasgressiva, ma non è la rap­ presentazione di una trasgressione: entro il piano immagina­ rio dove gli oggetti si limitano a esserci, non è previsto un soggetto trasgressore. Nel senso di cui parliamo, non conta come tale nemmeno il personaggio - se per caso ce n’è qual­ cuno - che, per sua negligenza, violenza ecc., risulti agente responsabile della defunzionalizzazione. L’immaginaria re­ sponsabilità di un compiacimento nella contraddizione del­ l’imperativo funzionale, appartiene tutta all’autore o al letto­ re: o meglio al testo. Viene istituita dalla parola letteraria, co­ me in quei verbi che i linguisti chiamano performativi «giuro», «dichiaro» - viene enunciata un’azione che si compie con l’atto stesso di pronunciarli. Del resto, anche nel caso delle trasgressioni d’un impera­ tivo razionale non c’è altro soggetto trasgressore se non l’au-

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tore o il lettore o il testo, sia che si tratti di forme figurali o di contenuti soprannaturali; pure non per questo, in tal caso, si può dire che niente corrisponda alla trasgressione prima e fuori della letteratura. Limitando il discorso ai contenuti so­ prannaturali e al credito accordato a essi, non solo essi pree­ sistono spesso nel mito o nel folklore orale alla letteratura scritta, ma preesistono sempre agli uni e all’altra nella fanta­ sia arcaica o infantile. Un tale statuto intermedio del ritorno del represso irrazionale renderebbe non impossibile né inu­ tile, credo, una relativa tipologia di formazioni di compro­ messo come la precedente: deducibile da un livello di astra­ zione altrettanto elevato. Nel caso invece del ritorno del re­ presso antifunzionale, l’ipotesi analoga non ha mai cessato di sembrarmi impraticabile, durante la lunga gestazione di questa ricerca. Qui converrà parlare di formazioni di com­ promesso, singolari o codificate, soltanto caso per caso: cioè per singoli testi, o per categorie di testi ottenute con altro cri­ terio. E soltanto la distinzione introdotta nel primo capitolo, tra formazioni di compromesso puramente letterarie o par­ tecipi d’un compromesso preletterario (i, 4-5), è generale ab­ bastanza per venire ripresa in una operazione classificatoria.

7. È adesso chiaro perché il criterio adeguato all’opera­ zione in questione non potrà essere che induttivo: o almeno, piuttosto induttivo che deduttivo. I contenuti specifici dei testi riuniti in questo libro saranno tanto piu insostituibili nel dettare somiglianze e opposizioni, quanto meno le loro so­ miglianze e opposizioni - e la loro specifica trasgressività - si sarebbero sospettate per vie extraletterarie prima di riunire i testi. Certo, nei termini semiologici di Hjelmslev che avevo utilizzati per la tipologia precedente, anche in questo libro m’interesso a «forme e sostanze del contenuto»: nella misu­ ra stessa in cui m’interesso a testi, entro la cui concreta esi­ stenza linguistica il contenuto è una sostanza per definizione ritagliata da una forma. Ma se non mi fossi interessato nello stesso tempo a una o più d’una corrispondente «materia del contenuto», astratta, per definizione non ritagliata, i testi non sarebbero stati mai riuniti e il libro mai concepito. Già in quella precedente occasione avevo messo in dubbio che la materia del contenuto, priva di esistenza linguistica secondo

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il sefhiologo, sia perciò come priva di esistenza in assoluto; e sia davvero qualcosa di cui non si può parlare. Avevo sostenuto che smentisce una tale inesistenza o inef­ fabilità il ragionamento stesso attraverso cui Hjelmslev per­ viene al concetto9, e vorrei aggiungere che da sole la smenti­ scono le bellissime metafore a cui si affida. «È come una stessa manciata di sabbia che può prendere forme diverse, o come la nuvola di Amleto che cambia aspetto da un momen­ to all’altro»; «... il proiettarsi della forma sulla materia, co­ me una rete che proietti la sua ombra su una superficie indi­ visa» 10. Per quanto immancabili e imprescindibili la diversi­ tà di forme, il cambiamento di aspetto, la rete d’ombra, nien­ te prenderebbe forme diverse se non esistesse una stessa manciata di sabbia, niente cambierebbe aspetto se non esi­ stesse la nuvola, non vi sarebbe ombra di rete a dividere niente se non vi fosse una superficie. Sabbia, nuvola, superfi­ cie, posseggono una consistenza riconoscibile attraverso le forme che prendono o che vi si proiettano; e le metafore in­ docili si svelano più matèrialiste del pensiero che sono inca­ ricate di materializzare. Il semiologo parla - di fatto - d’una materia del contenuto, e ne parla astraendola da diverse for­ mulazioni linguistiche che mette a confronto. Cosi a me è stato possibile astrarne una o più d’una, e parlarne, metten­ do a confronto una pluralità di testi letterari in base a costan­ ti tematiche: anzi unicamente tale materia comune, postula­ to e risultato insieme del confronto, è ciò che mi permette di parlare di quei testi e delle loro forme e sostanze da un punto di vista nuovo. Lo spazio dell’operazione classificatoria sarà quello che intercorre fra un puro dato di materia del contenuto, qualco­ sa come un minimo comun denominatore semantico, e la se­ rie dei testi ai quali appunto esso è comune. Raffiguriamoci l’astratta materia come un punto quasi immateriale, in alto; in basso, la letteratura concreta come una linea retta fatta di tanti segmenti, ognuno dei quali corrisponde al sintagma li­ neare di un testo. In mezzo, lo spazio vacante corrisponde a una mancanza di vocaboli ben definiti per le nostre costanti 9 Ibid., pp. 36-39, 41, 43; e cfr. L. Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguag­ gio, Einaudi, Torino 1968, pp. 55-56 (pp. 52-65). 10 Ibid., pp. 56-57, 62.

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- meglio definiti di quelli impiegati finora -, se la classifica­ zione non è altro che ricerca di parole giuste per approssi­ mazione. Si tratterà di disporre parole su livelli intermedi: via via più concreti del minimo comun denominatore, del quale vanno specificando e suddividendo la portata; via via più astratti dei testi, dei quali vanno ordinando e gerarchizzando le caratteristiche. Attraverso tali livelli, definizioni di categorie saranno ottenute per opposizioni successive - per rapporti di contrarietà o contraddittorietà da cui vengano messe in rilievo varianti sopra costanti, differenze sopra so­ miglianze (quali ne emergevano da tutti gli esempi del secon­ do capitolo). Dall’alto in basso disporremo parole sempre in maggior numero: le definizioni complete avranno tante più parti in comune quanto più si risale verso il minimo comun denominatore, e tante più parti in contrasto quanto più si scende verso i testi. Il minimo comun denominatore sarà il solo a far parte di tutte le definizioni, e ciascuna definizione si arresterà solo su parole che non facciano parte di nessuna delle altre. Avevo parlato di un criterio piuttosto induttivo che de­ duttivo; e tuttavia il movimento apparente e ragionato del­ l’operazione, di livello in livello, sarà deduttivo o discenden­ te. Ma si scontrerà a ogni livello con un latente e scontato movimento inverso, che sarà induttivo o ascendente. E que­ sto avrà autorità decisiva nel prevenire e circoscrivere le scel­ te che l’altro esige: come esce dai testi per confronto il mini­ mo comun denominatore, cosi spetta alla nostra conoscenza dei testi determinare per convenienza ogni astrazione infe­ riore. Un tale movimento duplice e convergente, animato dalle iniziative dell’informazione induttiva e orientato dalle regole del gioco deduttivo, dovrà ben chiamarsi arbitrario. Arbitrario non certo nel senso di gratuito, non perché mi tenti una cattiva libertà nell’intendere o nel collegare i testi; ma nel senso di strategico, giacché il rispetto dei testi lascia spazio a esigenze di chiarezza, economia ed eleganza oltre che di coerenza dell’operazione. Lo stesso arresto delle defi­ nizioni su opposizioni terminali sarà strategicamente ar­ bitrario, in quanto astensione da una discesa possibile a op­ posizioni ulteriori. Non so se sarebbe mai possibile scendere a categorie cosi precise da definire un unico testo: quand’an­ che simili categorie restassero più astratte d’una descrizione



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o d’ùna parafrasi o d’una recitazione di quel testo, manche­ rebbe loro Futilità delle categorie che sta nelFoffrire la paro­ la per una pluralità di cose. Infine, arbitrario e strategico sarà anche Fimpiego che l’operazione prevede dei propri risulta­ ti, non mirando a categorie chiuse e alternative bensì sfuma­ te, interferenti o polari. Eccoci ad aver preso le due ultime decisioni, ancora una volta in coppia e stavolta per loro stretta consequenzialità; sempre rispetto alle nostre costanti, formuliamole cosi: vi. Meritano definizioni in parte uguali e in parte diverse. vii. Ammettono arbitrio strategico a ogni parte di defini­ zione.

8. Per procedere dunque a definire come categorie le no­ stre costanti, definiamo il minimo comun denominatore, no­ stra costante al singolare. In apertura del libro avevo parlato di cose inutili o invecchiate o insolite; nel titolo, di oggetti desueti - esponendo un aggettivo che è in qualche modo si­ nonimo di tutti e tre quegli altri; l’aggettivazione successiva era stata varia e più o meno concreta. Il vocabolario da assu­ mere ora sarà tanto più rispettoso a priori dei testi quanto più astratto. Scegliamo, per designare la materialità di cose fisiche nella materia del contenuto dei testi, il più astratto dei sostantivi possibili; e per designare le connotazioni di tali co­ se, il più astratto fra i predicati negativi già impiegati. Parlia­ mo di (immagini di) corporeità non-funzionale, prov­ vedendo questi termini uno dopo l’altro di qualche precisa­ zione. L’astrattezza del sostantivo sarebbe eccessiva, se per deli­ mitarla non cominciassimo a introdurre opposizioni perti­ nenti: potrebbe trattarsi di corporeità umana o non uma­ na, vivente o non vivente, e incrociando le opposizioni i) umana vivente, 2) umana non vivente, 3) non umana vivente, 4) non umana non vivente. Il lettore sa che a interessarci è la quarta ipotesi, sono le cose inanimate della natura e i manu­ fatti della cultura. Pure, conoscenza dei testi insegna che sa­ rebbe malagevole e pedantesco ignorare, quando si mescola­ no all’ipotesi che ci interessa, la seconda e la terza ipotesi: la corporeità cadaverica, e quella di animali vivi, specie di certi animali. Nei limiti del possibile, cioè del testualmente sepa­

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rabile, è la prima ipotesi che bisogna invece escludere dalla nostra considerazione. E vero che il corpo umano vivente può venire connotato di debolezza, decrepitezza, infermità, deformità; e può anche figurare come mortuario, o bestiale, o inanimato. Pure, conoscenza dei testi insegna che il pren­ derne in considerazione le immagini altererebbe troppo, e allargherebbe oltre ogni limite, un oggetto di ricerca deter­ minato e già sterminato. Forse il lettore non sarà troppo sorpreso se mi rifiuto a ogni reale precisazione preliminare del predicato negato, funzionale: dell’idea stessa di funzionalità, cosi essenziale alla ricerca. Qui, più che duttilità empirica, è prudenza stori­ ca che sconsiglia di definire rigorosamente l’aggettivo una volta per tutte - o anche solo di delimitarne l’ambito di senso corrente. Il suo senso va lasciato aperto a precisazioni, o a sottintesi, ampiamente variabili volta per volta: in vista di un corpus di testi cosi eccezionalmente eterogeneo quanto a tempi e spazi di provenienza culturale. Funzionale vorrà dire ciò che risponde a un’idea di funzionalità manifesta o latente entro ciascun testo, e in rapporto con la cultura a cui quel te­ sto appartiene. Rapporto non contraddittorio, o si, se si guarda a intenzioni o a ideologia d’autore; ma sempre con­ traddittorio oggettivamente, testualmente, almeno nella mi­ sura in cui la funzionalità è per ipotesi negata. E a sua volta perfino l’avverbio non, la negazione del predicato, è suscet­ tibile di essere inteso in più d’un senso - da cui altre oscilla­ zioni della terminologia già impiegata. Non solo, cioè, in sen­ so letterale e generale, come mera privazione del predicato di funzionalità; ma anche in senso più forte o conflittuale, come disturbo o danneggiamento o sovvertimento di esso da cui il ricorso a un aggettivo come ##Z/funzionale. Il sottin­ teso temporale della perdita d’una funzione anteriore può dare alla negazione del predicato il senso di non più funzio­ nale. La perdita può essere diminuzione in atto o in corso, e la negazione avere un senso protratto o incoativo: come sem­ pre meno funzionale. Abbiamo cosi i tre termini del minimo comun denomina­ tore. Sui quali è tempo di chiudere questo capitolo metodo­ logico; ma alla loro enunciazione ho premesso, fra parentesi, immagini di... È una premessa che resterà sempre sottintesa da ora in poi, restando fuori questione che parliamo solo di

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lettetatura. Non si può eludere tuttavia la domanda: fra il grado di*consistenza letteraria che ci fa parlare d’una imma­ gine o altrimenti d’una descrizione, d’un tema o almeno d’u­ no spunto, e - all’opposto - la semplice e fugace menzione d’una qualche corporeità non-funzionale in un testo, a parti­ re da che punto presteremo attenzione? La risposta non può essere empiricamente quantitativa, non può fermarsi a un conto di parole o di righe. Ha bisogno d’una vasta esemplifi­ cazione, come l’operazione classificatoria: è solo al di là di questa, e col soccorso dei suoi risultati, che si potrà tentare di darla. Allo spazio semantico appena definito, il campo delle menzioni semplici e fugaci di corporeità non-funzionale sa­ rebbe contiguo, diciamo cosi, per difetto. Ma esiste una contiguità per opposizione: sottoponendo a opposizioni contraddittorie sia il sostantivo che l’aggettivo del minimo comun denominatore, due opposizioni incrocia­ te danno di nuovo quattro ipotesi. Si può avere rappresen­ tazione letteraria di i) corporeità funzionale, 2) corporeità non-funzionale, 3) non-corporeità funzionale, 4) non-corporeità non-funzionale. L’ipotesi che studiamo è la seconda; ammettiamo che la quarta corrisponda alle costanti studiate a suo tempo da Praz, che ho chiamate perverse nell’ordine erotico, affettivo e morale come le nostre lo sono nell’ordine fisico. La terza, opposta a quella che c’interessa non una vol­ ta ma due, corrisponderà allora a rappresentazioni di buoni sentimenti, di opinioni giuste, di comportamenti corretti. Con entrambe queste ipotesi abbiamo contiguità per oppo­ sizione, ma l’opposizione verte sul sostantivo stesso prima, o senza, che sul predicato: è troppo generale per incoraggiare incursioni, se non occasionali. Resta la prima ipotesi, le im­ magini di corporeità funzionale, a segnare un campo di futu­ ro interesse complementare per noi - nel quale inoltrarci al­ meno alla fine. Un campo, del resto, che è stato frequentato più del nostro dagli studiosi di letteratura; sebbene il nostro fosse frequentato invece assai di più dalla letteratura o dai suoi autori, come si tratta adesso di cominciare a mostrare.

Capitolo iv

Un albero né genealogico né vegetale

i. Nel 45 a. C. Servio Sulpicio Rufo, governatore romano della Grecia, scrisse da Atene al suo amico Cicerone che sa­ peva affranto per la morte della figlia Tullia. Come in altre epoche posteriori, epistole di particolare significato erano partecipi dell’ufficialità di un genere letterario, senza perde­ re per questo né il loro carattere personale né la loro even­ tuale originalità: cosi le lettere di condoglianze, dette di con­ solazione per il compito che appunto dovevano assumervi certe argomentazioni. Sulpicio rammenta a Cicerone con eloquenza, per riscuoterlo dal dolore privato, le calamità pubbliche del momento, l’universalità della condizione mor­ tale, la responsabilità di esempio che incombeva al contegno d’un uomo cosi illustre. Entro il secondo gruppo di argo­ mentazioni trova posto il passo seguente, destinato a durevo­ lissima fortuna: Quae res mihi non mediocrem consolationem attulit, volo tibi com­ memorare, si forte eadem res tibi dolorem minuere possit. Ex Asia rediens, cum ab Aegina Megaram versus navigarem, coepi regiones circumcirca prospicere: post me erat Aegina, ante me Megara, dextra Pi­ raeus, sinistra Corinthus, quae oppida quodam tempore fiorentissima fuerunt, nunc prostrata et diruta ante oculos iacent. Coepi egomet mecum sic cogitare: «Hem! nos homunculi indignamur, si quis nostrum interiit aut occisus est, quorum vita brevior esse debet, cum uno loco tot oppidum cadavera proiecta iacent? Visne tu te, Servi, cohibere et meminisse hominem te esse natum?» Crede mihi, cogitationc ea non mediocriter sum confirmatus; hoc idem, si tibi videtur, fac ante oculos tibi proponas 1 Epistulae ad familiares [Lettere familiari], IV, 5: Cicéron, Correspondence, Les Belles Lettres, Paris 1983, t. Vili, pp. 46-47. [Voglio comunicarti qualcosa che a me ha recato non poca consolazione, sperando che la stessa cosa possa diminuire a te il dolore. Tornando dall’Asia, mentre navigavo da Egina verso Megara, mi misi a guar­ dare le località tutt’intorno: dietro di me era Egina, davanti a me Megara, a destra il Pireo, a sinistra Corinto, città che furono un tempo fiorentissime, ora giacciono da-

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A confronto con gli esempi dell’Otto e Novecento dati nel secondo capitolo, il lettore troverà certo povero in immagini di corporeità non-funzionale questo primo testo dell’anti­ chità latina. Le vere e proprie immagini sembrano ridursi ai due participi passati che predicano al grado zero lo stato at­ tuale delle città greche, «abbattute e distrutte»; poi, a una metafora della stessa cosa in tre parole, « cadaveri distesi di città». Il breve racconto sorge sul filo dell’ammonizione so­ lennemente consolatoria a cui serve, senza la minima insi­ stenza descrittiva, e con appello evocativo misurato. Eppure non è solo nel senso della valutazione estetica che tanta so­ brietà non comporta, ovviamente, una limitazione: nemme­ no quanto all’interesse per noi. La pluralità dei nomi di luo­ ghi visti simultaneamente e simmetricamente, la prospettiva del navigante che lo rende verosimile da un centro sito in ma­ re, il contrasto fra celebrità dei nomi e spettacolo di deca­ denza, la spontaneità infine del trapasso alla riflessione, sono più che sufficienti a suscitare una visione vaga di grandiosa e luminosa tristezza. Avevo sollevato alla fine del capitolo precedente il pro­ blema della consistenza letteraria delle immagini (ni, 8), ed ecco subito l’occasione per sormontare ogni pregiudizio post-ottocentesco che tenda a concepirla necessariamente come descrizione; o, in ogni caso, come una questione di nu­ mero di parole. Si può avere consistenza più che sufficiente senza insistenza descrittiva, senza lungo mdugio rispetto a un filo narrativo o logico, e in un numero ridottissimo di pa­ role. Del resto, di fronte a qualunque altro testo come a que­ sto passo, eviteremo di sciogliere le immagini per noi interes­ santi dal contesto di discorso a cui appartengono: qui, il con­ testo di un ragionamento. E l’argomentazione sull’universa­ lità della condizione mortale a ispirare la metafora dei ca­ daveri di città. Essa antropomorfizza l’inanimato, per acco­ munarlo agli animali umani nella morte; e fa affiorare il referente cadaverico di tutta la nostra tematica (i, 6) fin dal vanti ai nostri occhi abbattute e distrutte. Mi misi a pensare cosi dentro di me: « Ma come! noi piccoli uomini ci sdegnarne se muore o viene ucciso qualcuno di noi, la cui vita deve necessariamente esser breve, mentre in uno spazio ristretto giacciono distesi tanti cadaveri di città? Non vuoi, Servio, dominarti e ricordarti che sei nato uomo?» Credimi, da questa riflessione sono stato rianimato non poco; lo stesso spettacolo, se ti pare, cerca di suscitarlo davanti ai tuoi occhi].

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primo, prototipico esempio antico. Ma coincidevano già con la generalizzazione propria del ragionamento le premesse concettuali più essenziali alle immagini precedenti: quelle stesse che mi fanno giudicare ottimo l’esempio per avviare la nostra operazione classificatoria. Una prima premessa è esplicitata da un’opposizione di avverbi temporali: le città furono fiorentissime « un tempo », si vedono giacere in rovina «ora». Diciamo che la situazione non-funzionale si collega qui a un decorso di tempo. Una se­ conda premessa è scontata quanto alla mortalità delle città, destino sociale che non si avvera se non in un decorso di tem­ po assai lungo; tocca al destinatario dell’epistola estenderla alla corta mortalità degli uomini, trascendendo il proprio lutto in quella dimensione collettiva che si apre con la prima persona plurale di: «noi, piccoli uomini...» e «se... qualcu­ no di noi »; o con la seconda persona, rivolta dallo scrivente a se stesso, di: «ricordarti che sei nato uomo». Diciamo che qui il decorso di tempo è sentito collettivamente, o social­ mente, anziché individualmente o soggettivamente. Una ter­ za premessa non mi pare meno certa per essere racchiusa in una omissione: nel silenzio su qualsiasi circostanza che abbia causato, datato, caratterizzato il passaggio delle città da fio­ rentissime a rovinose. Non c’è dubbio che le grandi informa­ zioni storiche relative dovevano essere ben note a Cicerone, come a ogni contemporaneo colto. Pure, nell’economia del testo è pertinente unicamente il fatto in sé che un tale passag­ gio sia avvenuto: non importa rammentare perché, né quan­ do, né come... Diciamo che qui il decorso di tempo, di cui non è solo la durata a restare indeterminata, è a determina­ zione non pertinente. Degli elementi semantici presenti nel testo secondo que­ ste tre premesse concettuali, non uno è obbligatorio a partire dal nostro minimo comun denominatore: un oggetto imma­ ginario può benissimo rispondere alla definizione di corpo­ reità non-funzionale, senza che la sua non-funzionalità si col­ leghi a un decorso di tempo. E se di fatto vi si collega, il de­ corso di tempo può benissimo essere sentito individualmente anziché collettivamente, può benissimo essere a determina­ zione pertinente anziché non pertinente. Ora, è proprio di opposizioni fra elementi presenti nel testo o assenti da esso che dobbiamo preoccuparci - volendo procedere dal com-

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mento del passo di Sulpicio all’avvio dell’operazione classifi­ catoria: se l’esempio è scelto bene, le opposizioni astratte fra com’è e come potrebbe essere equivarranno a opposizioni concrete fra questo e altri testi reali comparabili. Concrete beninteso per confronto, esterne al testo singolo (cosi, quan­ to al decorso di tempo, non conterà l’opposizione interna fra i due avverbi temporali, ma quella fra la presenza reale del­ l’elemento semantico e la sua possibile assenza). Abbiamo tre opposizioni utili; sappiamo dal capitolo precedente che conviene disporle gradualmente al di sotto del minimo comun denominatore, facendone altrettante parti delle defini­ zioni di categorie di testi a cui arrivare (m, 7). Quello che andremo cosi costruendo o disegnando meri­ ta di essere chiamato per comodità, da ora in poi, un « albero semantico». Linee e parole vi si ramificheranno sempre di più a partire da un tronco unico - il minimo comun denomi­ natore -, come in un albero vegetale; mentre invece è prefe­ ribile che la loro disposizione sia leggibile dall’alto verso il basso - dall’astratto verso il concreto -, come in un albero genealogico (o in uno stemma filologico). A differenza dal­ l’uno e dall’altro tuttavia, il nostro albero non presenterà mai più d’una biforcazione all’altezza di ciascun ramo - vale a di­ re non sarà formato che da opposizioni binarie. Ne rendo vi­ sibile la piccola parte già in pratica svolta: CORPOREITÀ NON-FUNZIONALE

che si collega

che non si collega

a un DECORSO DI TEMPO

a un decorso di tempo

SENTITO COLLETTIVAMENTE

A DETERMINAZIONE NON PERTINENTE

SENTITO INDIVIDUALMENTE

A DETERMINAZIONE PERTINENTE

Le immagini di corporeità non-funzionale del passo di Sulpicio trovano un principio di definizione, se si legge dal­ l’alto in basso, e a ciascun livello dal lato sinistro. Dico un principio, non solo perché non è terminata la successione dei livelli in senso verticale, e la definizione con essa; ma anche

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per la momentanea mancanza di opposizioni parallele in senso orizzontale: proporzionale al numero di tali opposi­ zioni, e dipendente dalla loro totalità, sarà la presa testuale di ogni definizione singola. Eppure, sul procedimento, si può già fare a questo punto gran parte delle osservazioni da fare ancora. Al primo livello, ho preso il minimo comun denomi­ natore come un punto di partenza unitario: ho lasciato fuori dall’albero le opposizioni preliminari sviluppate, alla fine del capitolo precedente, per delimitare l’ambito del sostantivo o per definire campi contigui e contraddittori (in, 8). Che ai li­ velli successivi l’opposizione relativa al decorso di tempo so­ vrasti le altre due, è logicamente necessario, essendo le altre due predicati o specificazioni di quell’elemento. Ma, in quanto tali, sarebbero alla pari fra loro; che l’una sovrasti l’altra è un primo esempio di scelta arbitraria nel senso di strategica, suggerita in anticipo dalla conoscenza del corpus di testi (in, 7). E quanto siano arbitrarie e strategiche le scel­ te verbali che danno nome a ciascun elemento, è superfluo dire. La stessa conoscenza del corpus che le suggerisce ne rende la precisione tormentata e sospetta, se l’attardato eser­ cizio strutturalista è da prendere sul serio; altrimenti, fortu­ nosa e un po’ giocosa... Per fortuna non si gioca in una tale precisione il maggior momento di verità di questa ricerca. Per esempio: al terzo livello ho scritto gli avverbi colletti­ vamente e individualmente - \ più sintetici; ma, commentan­ do Sulpicio, avevo posto il primo avverbio in alternativa con «socialmente» - che è anch’esso un contrario del secondo. A sua volta, avevo posto il secondo avverbio in alternativa con «soggettivamente» - il cui normale contrario («oggetti­ vamente») sarebbe inopportuno. Le parole della lingua non sono simboli algebrici o logici; e contrari e sinonimi scartati dalla sintesi dell’albero potranno tornare a far valere un di­ ritto nell’analisi dei testi. A proposito di contrari, inoltre, va messo in evidenza che essi non sono la sola specie di opposi­ zione adoperata. L’opposizione fra contrari, come bianco e nero, si alterna con quella fra contraddittori, come bianco e non-bianco; erano di quest’ultima specie, alla fine del capi­ tolo precedente, le opposizioni applicate ai termini del mini­ mo comun denominatore. La distinzione ha un’importanza, perché i contraddittori (secondo logica aristotelica e scola­ stica) non possono essere né entrambi falsi né entrambi veri.

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UN ALBERO NÉ GENEALOGICO NÉ VEGETALE IV.2

Meno radicali, anche i contrari non possono essere entrambi veri; si entrambi falsi. Ne consegue che i contrari offrono pari informazione dalle due parti, mentre fra i contraddittori il polo positivo ne offre più del negativo. Allo stato prov­ visorio dell’albero, con una opposizione di contrari e due di contraddittori, il polo negativo quanto al decorso di tempo in generale resta nebuloso; e ad esso, nessun’altra opposizio­ ne è sottoposta ancora. Lasciamolo in sospeso, e documen­ tiamo piuttosto fino a che punto la determinazione di un de­ corso di tempo - sentito collettivamente - può diventare pertinente nelle immagini di un testo. 2. Nel 1802, in coincidenza col concordato fra Napoleo­ ne e la Chiesa di Roma, fu pubblicato il Génie du Christianisme, ou Beautés de la religion chrétienne2 di Frangois-René de Chateaubriand (1768-1848) : un’apologià della religione di specie nuova, quanto le circostanze a partire da cui era con­ cepita. Durante un decennio in Francia il cattolicesimo era stato sconfessato e perseguitato; e non dall’intolleranza di un’altra religione rivelata, ma da una tendenza antireligiosa di Stato. Durante un secolo, gli intellettuali si erano adopera­ ti con successo a screditare non solo la verità, ma il prestigio culturale della religione. Perciò, agli albori d’una restaura­ zione, nel libro di Chateaubriand la difesa delle verità di fede conta talmente meno dell’illustrazione d’una tesi in sé terre­ na: che nei secoli il cristianesimo, lungi dall’essere incompa­ tibile coi valori di civiltà, cultura e arte, ne fosse stato il mas­ simo animatore. Il libro riesce un’ininterrotta rivendicazione del passato, e, il più spesso possibile, delle sopravvivenze materiali che ne testimoniano i valori. Sarebbe difficile, in generale, indicare un repertorio di maggiore abbondanza unita a levatura letteraria quanto a immagini che ci riguarda­ no: se non fosse, per tendenza tematica e temperamento stili­ stico, l’opera intera dello scrittore - le cui date di nascita e morte potrebbero delimitare entro ottant’anni la nostra svol­ ta storica. Nella parte dedicata al culto e alle tombe non po­ teva mancare un capitolo sulla basilica di Saint-Denis, già ve­ nerando luogo di sepoltura dei re di Francia, dai Merovingi fino al penultimo Borbone. Ma alla maestosa malinconia del­ 2 [Genio del cristianesimo, o Bellezze della religione cristiana].

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la necropoli regale, già cosi adatta alla prosa di Chateau­ briand, si erano aggiunte di recente cause di desolazione più violente e rapide che non il millenario decorso di tempo; e da questa prosa, di cui cito il paragrafo finale, non sarebbe faci­ le indovinare esattamente quali: Mais où nous entrarne la description de ces tombeaux déjà effacés de la terre? Elles ne sont plus, ces sepultures? Les petits enfants se sont joués avec les os des puissants monarques: Saint-Denis est désert; Foiseau l’a pris pour passage, l’herbe croìt sur ses autels brisés; et au lieu du cantique de la mort, qui retentissait sous ses domes, on rfentend plus que les gouttes de pluie qui tombent par son toit découvert, la chute de quelque pierre qui se détache de ses murs en ruine, ou le son de son horloge, qui va roulant dans les tombeaux vides et les souterrains dévastés’.

Sono sottintesi qui, come in tutto il breve capitolo, fatti accaduti in pieno ’93. In odio alla monarchia e insieme in cerca di piombo per la repubblica, le tombe erano state d’uf­ ficio violate e in parte distrutte, i resti dei re scoperchiati e gettati in una fossa comune: supremo gesto di edipismo na­ zionale, notorio a sufficienza per i lettori di nove anni dopo. La figura di allusione del resto, com’è consona a un livello stilistico elevato, è la più reverente e pietosa verso gli oggetti ideali del sacrilegio. Già nel paragrafo iniziale, le allusioni erano tanto indirette quanto avevano un sapore da salmo o profezia biblica3 45:lo stesso sapore che ha qui la frase sulle os­ sa fatte trastullo di bambini. L’allusione più diretta del testo originario (in un’apostrofe a Luigi XIV, si parlava delle sue ceneri come « objet de la fureur de ce peuple que tu fis tout ce qu’il est»), rientrò nell’unica frase soppressa dalla censu­ ra’. E la sublimazione allusiva dei fatti va d’accordo con un tentativo più sostanziale di destoricizzarli: lo spostamento 3 Parte IV, libro II, cap. ix: Chateaubriand, Essai sur les révolutions. Gènte du christianisme, « Bibliothèque de la Plèiade», 1978, p. 939. [Ma dove ci trasporta la de­ scrizione di queste tombe già cancellate dalla terra? Esse non sono piu, queste sepol­ ture! I bambini si sono trastullati con le ossa dei possenti monarchi: Saint-Denis è de­ serta; l’uccello l’ha presa come passaggio, l’erba cresce sui suoi altari infranti; e in luo­ go del cantico della morte, che riecheggiava sotto le sue cupole, non si sentono più che le gocce di pioggia che cadono dal suo tetto scoperto, la caduta di qualche pietra che si stacca dalle sue mura in rovina, o il suono del suo orologio, che si va ripercuo­ tendo fra le tombe vuote e i sotterranei devastati]. 4 Ibid., p. 937. 5 Cfr. ibid., pp. 1845-46,1846-47. Riferimenti più espliciti, sebbene più generali, alla violazione rivoluzionaria delle tombe si erano letti tre capitoli prima (p. 933). [og­ getto del furore di quel popolo che tu facesti quel ch’esso è].

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delle loro motivazioni al piano soprannaturale. Era stata la collera ^di Dio che aveva giurato di castigare la Francia, e ai profanatori si può alludere paradossalmente come agli « in­ viati della giustizia divina »6. Nondimeno, una simile destori cizzazione non può venire tentata se non a partire dall’evi­ denza storica dei fatti stessi: è per cosi dire a posteriori, non a priori come nel nostro esempio precedente. Riprendendo i termini dell’albero semantico, Chateau­ briand parla qui ancora il linguaggio d’una tradizione - scrit­ turale o classica - usa a solennizzare effetti d’un decorso di tempo a determinazione non pertinente. Ma lo stesso funzio­ namento retorico dell’allusione, che dissimula tale determi­ nazione in superficie, la rende pienamente pertinente in fon­ do: postula la comprensione di continui rinvìi al perché e al quando e al come, e non certo soltanto al fatto in sé, della de­ cadenza della basilica. Come ha mostrato magistralmente Auerbach per una pagina di Stendhal7, anche questa pagina sarebbe incomprensibile senza un preciso numero di infor­ mazioni storiche. Perfino nella frase che chiude una medita­ zione metastorica sulla morte, contribuisce a determinare virtualmente i «tempi passati» quell’intensità di evocazione sensoriale, di cui Chateaubriand è capace in modo nella sua epoca cosi nuovo: «Tout annonce qu’on est descendu à l’empire des ruines; et, à je ne sais quelle odeur de vétusté répandue sous ces arches funèbres, on croirait, pour ainsi dire, respirer la poussière des temps passés»8. Evocazione senso­ riale ancora più intensa, meno visiva che stavolta auditiva, si ha nella fine stupenda del paragrafo citato. La contrapposi­ zione fra l’imperfetto di «riecheggiava», e il presente di «non si sentono più che...», circoscrive il decorso di tempo relativamente breve che sappiamo: non certo sentito indivi­ dualmente, sebbene la maggioranza dei lettori di allora po­ tesse risalire a prima di esso con la memoria individuale. E come trauma collettivo che i lettori vengono esortati a de­ plorarlo, nella fedeltà del lutto e nella regressione della no­ stalgia. 6 Ibid., p. 938. 7 Auerbach, Mimesis, t. Il cit., p. 221. 8 Chateaubriand, Géme cit., pp. 938-39. [Tutto annuncia che siamo discesi al­ l’impero delle rovine; e da non so quale odore di vetustà diffuso sotto queste arche fu­ nebri, ci pare per cosi dire di respirare la polvere dei tempi passati].

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3. Ho detto che, nella piccola parte di albero semantico disegnata, non era terminata la successione di opposizioni in senso verticale. Prima che aggiungere ogni possibile opposi­ zione parallela in senso orizzontale, verso il lato destro, con­ viene proseguirne la successione dal lato sinistro: dove man­ ca meno per arrivare alle prime definizioni intere di catego­ rie di testi. Prendo un testo gustosamente ibrido, che ci for­ nirà una singolare specie di transizione. Esso ha due prece­ denti in lingue diverse: ai primi del Cinquecento, Baldassar Castiglione aveva ripreso in un sonetto famoso il tema delle rovine di Roma, variandolo nell’ultima terzina con l’applica­ re la legge del tempo consumatore al sollievo delle proprie pene amorose. Circa un secolo dopo, Lope de Vega imitò il sonetto di Castiglione per parodia, consolandosi nell’ultima terzina che dal tempo consumatore fosse stata disfatta anche la sua zimarra. La parodia di Lope sarebbe perfettamente istruttiva per noi; ma cito di preferenza l’ulteriore imitazione che ne fece Paul Scarron (1610-60), maestro del genere detto in francese burlesque, in un sonetto pubblicato nel 1650: Superbes monuments de l’orgueil des humains, Pyramides, Tombeaux, dont la vaine structure A témoigné que Tart, par l’adresse des mains Et l’assidu travail, peut vaincre la nature, Vieux Palais ruinés, chefs-d’oeuvre des Romains Et les derniers efforts de leur architecture, Colisée, où souvent ces peuples inhumains De s’entr’assassiner se donnaient tablature, Par l’injure des ans vous étes abolis, Ou du moins, la plupart vous étes démolis: Il n’est point de ciment que le temps ne dissoude, Si vos marbres si durs ont senti son pouvoir, Dois-je trouver mauvais qu’un méchant pourpoint noir Qui m’a duré deux ans soit percé par le coude?9. 9 P. Scarron, Poésies diverses, Didier, Paris 1947, pp. 496-97. Modernizzo l’orto­ grafìa. Per Castiglione, vedi sotto la nota 31; e cfr. Lope de Vega, Obras poéticas, Pia­ neta, Barcelona 1983, pp. 1367-68. [Superbi monumenti dell’orgoglio degli umani, , Piramidi, Tombe, la cui vana struttura | Ha provato che l’arte, con abilità di mano | Ed assiduo lavoro, può vincere la natura, 11 Vecchi Palazzi rovinati, capolavori dei Ro­ mani | E sforzi supremi della loro architettura, | Colosseo, dove spesso quei popoli inumani | Nell’ammazzarsi a gara si davano travaglio, h Dall’ingiuria degli anni voi siete aboliti, | O almeno, in maggior parte siete demoliti: | Non esiste cemento che il tempo non dissolva. 11 Se i vostri duri marmi hanno patito il suo potere, | Devo seccar­ mi che un cattivo farsetto nero | Durato già due anni si sia sfondato al gomito?]

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Nelle varianti di un’edizione posteriore, Scarron non migliorò'il suo sonetto anticipando il tono burlesco alle quarti­ ne10: cosi come lo riproduco, dalla prima edizione, esso si gioca su una sorpresa ritardata fino al penultimo verso. E la sorpresa sarebbe meno spiritosa, se i primi dodici versi non si mantenessero all’altezza seria che il tema delle rovine tra­ dizionalmente richiedeva. Nella prima quartina si sentenzia invano che l’arte vince la natura; la prima terzina replica, con la sua massima racchiusa in un bel verso solenne, che il tem­ po vince l’arte. Poi (fors’anche perché il modernismo baroc­ co si compiaceva, nel luogo comune d’una vittoria del tem­ po, meno che in quello d’una vittoria dell’arte), la simmetria preparata per fìnta crolla nel paragone a cui toccherebbe completarla. Lo scarto di dignità, fra i monumenti romani decaduti e il farsetto sfondato al gomito, è troppo per non avere effetto comico: d’una comicità di degradazione o di smascheramento. Fra gli esempi del secondo capitolo, nei te­ sti di Arnim e di Gogol' rispettivamente (n, 6, 8), ci eravamo già imbattuti in immagini di corporeità non-funzionale la cui stravaganza o bassezza erano volte a effetti grotteschi o scherzosi. L’opposizione di cui ora viene ad accrescersi l’al­ bero, sarà fra presentazione delle immagini seria fino al so­ lenne o non seria fino al comico; come situarla rispetto alle opposizioni sovrastanti? Che lo stato e dei monumenti e dell’indumento dipenda dal tempo è manifesto. Ma l’appartenenza del farsetto all’io poetante potrebbe indurci ad affermare che il decorso di tempo sia sentito individualmente; la precisazione dei due anni, che sia a determinazione pertinente. Avremmo torto, perché da una parte è una medesima legge quella che trionfa al di sopra del salto dal monumentale al domestico, ed è leg­ ge sentita come collettiva. D’altra parte, se il suo trionfo sui marmi aveva di che stupire, sulla stoffa esso si ripete tanto più a buon mercato in quanto il farsetto era «cattivo»: la qualità scadente è il solo motivo per misurarne, quasi con soddisfazione, il tempo di resistenza. Perciò la nuova oppo­ sizione va situata dal Iato sinistro dell’albero, non senza os­ servare che l’abbiamo tratta dal testo di Scarron con proce­ dimento diverso, rispetto alle tre sovrastanti ricavate dal te­ 10 Scarron, Poésies dwerses cit., p. 496, variante ai w. 3-6.

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sto di Sulpicio. Non abbiamo cioè contrapposto elementi presenti a elementi assenti, bensì presenti a presenti; più esattamente, presenti prima a presenti dopo - secondo una successione reale di opposte categorie tematiche entro lo stesso testo. Si tratta d’un fenomeno pur sempre ecceziona­ le, per quanto come vedremo non circoscritto ai casi di effet­ to burlesco o comico. Lo chiameremo da ora in poi: commu­ tazione. Posso prendere subito un altro esempio di commutazio­ ne, che vada però in senso inverso, dall’episodio di Astolfo sulla luna nell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (14741533). Le cose perdute nel mondo di quaggiù, e lassù ritrova­ bili, rivestono forma di altre cose che le simboleggiano; e più d’una delle cose simboleggianti, come per ipotesi tutte quel­ le simboleggiate, è espressamente defunzionalizzata. Lo è sotto forma una volta rispettabile - « ruine di cittadi e di ca­ stella» -, e varie volte stravagante o bassa: «tumide vesiche», «cicale scoppiate», «boccie rotte», «versate mine­ stre», «di varii fiori... un gran monte... - ch’ebbe già buono odore, or putia forte». Uno dopo l’altro tali simboleggianti, venendo spiegati dall’apostolo Giovanni ad Astolfo, si con­ vertono argutamente nei rispettivi simboleggiati. Ma nell’ot­ tava in cui questo succede con la prima immagine della serie che ho citata, il tono scherzoso e grottesco dominante s’inverte per qualche verso in quello elevato e grave con cui si suole parlare della caducità umana: Vide un monte di tumide vesiche, che dentro parea aver tumulti e grida; e seppe ch’eran le corone antiche e degli Assirii e de la terra lida, e de’ Persi e de’ Greci, che già furo incliti, et or n’è quasi il nome oscuro11.

La caducità umana espressa da certe immagini, subdolo punto di partenza nel testo di Scarron e transitorio punto d’arrivo nel testo di Ariosto, era tema serio e fermo in quello di Sulpicio; spetta ora all’altro polo della nuova opposizione venire documentato, fuori dal fenomeno particolarissimo della commutazione, con un esempio interamente idoneo. 11 XXXIV, ott. 76, w. 2-8, nel contesto delle ottave 75-81: L. Ariosto, Tutte le ope­ re, 1.1, Mondadori, Milano 1964, pp. 901-3.

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4. Dal primo testo dell’antichità latina avevamo tratto, fra l’altro, la lezione che le immagini possono prendere con­ sistenza sufficiente in un numero minimo di parole. In un te­ sto d’un secolo e mezzo dopo, troviamo maggior consistenza d’immagini in maggior numero di parole, senza che siano perciò più giustificate aspettative di seria descrizione: mi ri­ ferisco a un epigramma di Marco Valerio Marziale (40-104 c.), il 320 del libro XII composto poco prima della morte del poeta. La vittima che vi si apostrofa è un tale Vacerra, uomo squattrinato e pertanto sfrattato, del quale si dà a immagina­ re in una serie d’invettive beffarde il trasloco. Sua moglie, sua madre e sua sorella trasportano per le vie la roba, Vacer­ ra segue: Ibat tripes grabatus et bipes mensa et cum lucerna corneoque cratere matella curto rupta latere meiebat; foco virenti suberat amphorae cervix; fuisse gerres aut inutiles maenas odor inpudicus urcei fatebatur, qualis marinae vix sit aura piscinae. Nec quadra derat casei Tolosatis, quadrima nigri nec corona pulei calvaeque restes alioque cepisque, nec piena turpi matris olla resina, Summemmianae qua pilantur uxores12.

Qui attraverso la costante formale dell’elenco, che ritro­ viamo, non sembrano in movimento gli occhi o la mente di chi guarda ma gli oggetti stessi della sfilata: «e... e...» nelle due forme latine (et, -que), «con...», poi al negativo «né mancava... né... né...» Se la miseria di tali oggetti e la coatta avarizia che presumono vengono guardate del tutto impieto­ 12 Vv. n-22: Marziale, Epigrammi, Utet, Torino 1980, p. 762. [Passava una branda con tre piedi e un tavolo con due | e con una lanterna e un vaso di corniolo | un orinale rotto dal Iato mozzo pisciava; | sotto un braciere coperto di verderame era il collo di un’anfora; [ che vi fossero acciughe o sardine andate a male | lo faceva credere il fetore nauseabondo di una brocca, | peggiore di quel che si respira in un vivaio marino. | Né mancava una fetta di formaggio di Tolosa, I né una corona di mentuccia annerita in quattro anni i e le reste spelate e d’aglio e di cipolla, | né la pentola piena dell’oscena resina di tua madre, | con cui si depilano le puttane del Summenio...]

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samente, cioè vengono rese ridicole, lo si deve soprattutto al­ la diffusa iperbole la cui aggressività le spinge all’estremo. Un tavolo che abbia ormai solo due piedi è più improbabile da conservare di una branda a cui ne restino pur sempre tre; meno probabile ancora è che un orinale perda liquido pro­ prio durante il trasporto, o che una corona di mentuccia sia sopravvissuta per ben quattro anni. L’iperbole s’innesta poi su una comparazione, quando il fetore di pesce è dato per più forte dell’esalazione d’un vivaio marino. Il lettore si ri­ corderà di aver già incontrato in questo libro la stessa triplice combinazione di iperbole, di comparazione o metafora, e di effetto comico: è precisamente la combinazione che avevo osservata nel testo di Gogol' (n, 8). Là, però, non sembrava bastante a compromettere la serietà sostanziale della rappre­ sentazione. Quella serietà che era uno dei due sensi in cui consentivo a parlare, con Auerbach, di concretezza realisti­ ca: in antitesi, storico-letteraria, a un antecedente rifiuto di prendere sul serio cose connotate di bassezza. Invece l’epigramma latino letteralmente non esisterebbe senza un tale rifiuto. Il codice antico della separazione di ge­ neri e stili alti o bassi, che attraverso i classicismi moderni giungerà a lasciare residui ancora in un Gogol', qui vige in pieno; al suo interno si rende comprensibile un qualche rap­ porto necessario, fra comicità distanziarne e figuralità defor­ mante. Come prendere le distanze da un oggetto basso me­ glio che esagerandone la bassezza? È la direzione dell’iper­ bole; ma come esagerare, o almeno accentuare, la bassezza di un oggetto meglio che assimilandolo ad altri ancora più bassi, o almeno altrettanto? E la direzione della metafora assai più importante, per l’intera categoria di testi da defini­ re, di quanto non documenti il singolo testo di Marziale. Nei versi precedenti a quelli citati, già le tre donne sono contras­ segnate caricaturalmente, e Vacerra viene assimilato alle sue cose da una comparazione iperbolica: «non recenti pallidus magis buxo»13. I versi seguenti e finali alludono chiaramente a una certa disonestà del personaggio. Nel ridicolo a cui iper­ bole e metafora servono, gode di sfogarsi il disprezzo morale e sociale, l’insulto: in questo senso l’epigramma romano of­

13 V. 8: ibid, [più giallo d’un ramo di bosso non recente].

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friva un terreno ideale, benché entro il comune codice altri generi - come la commedia o la satira - potessero accogliere immagini vili e buffe quanto le fruste cose di Vacerra. La pregiudiziale associazione post-ottocentesca, fra umil­ tà di oggetti rappresentati e realismo genericamente inteso come aderenza della rappresentazione al vero, qui va rettifi­ cata e in parte capovolta. Certo, Marziale potè rivendicare a buon diritto quanto la vita vissuta si riconoscesse nei suoi epigrammi, e mostrarsi orgoglioso della propria poetica: contro l’enfatica inattualità dei temi epici e tragici, o contro quella delle fandonie mitiche - alle quali oppone direttamente il famoso: «hominem pagina nostra sapit» Ma l’in­ negabile verità di un tale sapore d’uomo è soprattutto d’or­ dine psicologico, o meglio moralistico nel senso di rappre­ sentazione critica dei costumi. Non ha implicazioni realìsti­ che automaticamente estensibili alle immagini che studia­ mo: se per realismo s’intende serietà, o storicità, di rappre­ sentazione. Nel nostro epigramma la deformazione cari­ caturale è proporzionale all’umiltà degli oggetti. Tende a esi­ ti tanto meno realistici, se non grottescamente fantastici, quanto più è iperbolica o metaforica; e quanto più muove al sorriso o al riso. Questa stessa deformazione non può che escludere, per dirla nei termini dell’albero semantico, ogni pertinenza della determinazione di un decorso di tempo. Circostanze verosimili accordate alla povertà di Vacerra ne frenerebbero l’esagerazione e ne attenuerebbero il ludibrio; il decorso di tempo in sé, azzerato nell’universalità morale negativa del quadro satirico, non è meno collettivamente sentito che in quella positiva della riflessione sulla caducità umana. Rendo visibile la parte dell’albero che si è accresciuta di un’opposizione:

A DETERMINAZIONE NON PERTINENTE,

E PRESENTATA IN MODO SERIO

A DETERMINAZIONE PERTINENTE,

E PRESENTATA IN MODO NON SERIO1 *

1 X 4, v. io: ibid.,?. 616. Cfr. Vili, 3; IX, 50: pp. 496-98, 578. [la nostra pagina sa di uomo]. r &

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I due elementi dell’opposizione penultima sono, come sap­ piamo, predicati dell’elemento superiore decorso di tempo-, mentre i due elementi della nuova si rifanno all’elemento su­ premo corporeità, col cui femminile sono grammaticalmente accordati. Quest’ultima è la nostra prima opposizione termi­ nale, e la lettura dall’alto in basso è ora possibile per due de­ finizioni intere. Non scenderemo al di sotto di questo quinto livello: che un tale arresto sia arbitrario in senso strategico, e precisamente in quanto astensione da una discesa possibile a opposizioni ulteriori, lo sappiamo dal capitolo precedente (ni, 7). Significa semplicemente che conosciamo testi abba­ stanza omogenei e abbastanza numerosi, in cui diremo che ricorrono immagini di corporeità non-funzionale collegata a un decorso di tempo sentito collettivamente a determinazione non pertinente, e presentata in modo serio. O rispettivamen­ te, per altri testi pure abbastanza omogenei e numerosi: ... e presentata in modo non serio. Il testo già letto di Sulpicio è esempio della prima catego­ ria, quello di Marziale della seconda. I testi di Scarron e di Ariosto trapassano dall’una all’altra e viceversa, esemplifi­ cando fra l’una e l’altra il fenomeno che ho chiamato com­ mutazione: l’identità delle due definizioni fino all’opposizio­ ne terminale esclusa fa da base al fenomeno. Due categorie si scambiano subitaneamente in virtù dei tanti elementi seman­ tici comuni, ma in virtù di un’unica opposizione la successio­ ne ne esclude la mescolanza. Ben più frequente invece fra tutte e tutte le categorie, anche fra quelle che hanno in comu­ ne parti minime di definizione, è appunto la mescolanza: in­ terferenze, sfumature, oscillazioni o inclinazioni verso più poli semantici nello stesso tempo. Chiameremo contamina­ zione simili fenomeni, in cui l’operazione classificatoria tro­ va uno scopo e non uno scacco, e che ne rendono strategico anche l’impiego finale. Parleremo di esempi puri e impuri, secondo che la contaminazione vi tenda al minimo o al mas­ simo; sarebbe scortese verso il lettore non scegliere esempi puri finché è in corso la costruzione dell’albero, diventereb­ be scorretto in seguito non dare rilievo a esempi impuri - co­ me lo erano già, implicitamente, molti di quelli del secondo capitolo. Ci occorre subito un esempio che consenta di sot­ toporre un’opposizione terminale anche all’altro polo della penultima opposizione. Ne sarà completata la definizione di

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una categoria comprensiva del testo già letto di Chateau­ briand: e insieme di un’altra, i cui elementi siano in comune con essa fino all’ultimo escluso. 5. La moderna capacità di evocazione sensoriale era già matura ma ancora nuova, in francese, nella prosa del primo Chateaubriand; ai tempi del tardo Balzac aveva ormai pene­ trato di sé il codice del realismo narrativo europeo. E una ca­ pacità che costituisce certo parte importante del senso gene­ rale solito della parola realismo - così male applicabile al te­ sto antico di Marziale. Stavolta però, se a proposito di Balzac può servirci parlare di realismo, sarà soprattutto in uno dei due sensi precisi in cui lo fa Auerbach: e non tanto come fi­ nora in quello di serietà nella rappresentazione di cose basse, quanto in quello d’indissolubilità della rappresentazione dai propri riferimenti storici. Ci occorre infatti di nuovo, come nel caso di Chateaubriand, documentare la pertinenza della piena determinazione di un decorso di tempo - sempre sen­ tito collettivamente - nelle immagini di un testo. Sono suf­ ficienti due brani da uno degli ultimi romanzi di Honoré de Balzac (1799-1850), La Cousine Lette'5', esso si svolge in piena Monarchia di Luglio, dal 1838 che è la data su cui si apre la prima frase del testo, al 1846 che è la data su cui si chiude il penultimo paragrafo15 16 - ed è l’anno stesso della pubblicazione. Nel primo brano l’ex-commesso profumiere e oggi facol­ toso azionista Crevel, in uniforme di capitano della guardia nazionale, sta per essere ricevuto a quattr’occhi dall’ancora bella ma virtuosa moglie del barone Hulot. Costui, più an­ ziano di Crevel, aveva brillato come militare sotto l’impero ed era stato nobilitato da Napoleone; oggi la situazione eco­ nomica di lui si è fatta precaria, e l’altro conta anche su un confronto di sostanze per la propria speranza di sedurre la baronessa. Ma è su un insuccesso che la visita sta per finire, nel secondo brano: ... le garde national examinait l’ameublement du salon où il se trouvait. En voyant les rideaux de soie, anciennement rouges, déteints en violet par Taction du soleil, et limés sur les plis par un long usage, un tapis 15 [La cugina Bette]. 16 Balzac, La Comedie humaine, «Bibliothèque de la Pleiade», 1977, t. VII, pp.

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d’où les couleurs avaient disparii, des meubles dédorés et dont la soie marbrée de taches était usée par bandes, des expressions de dédain, de contentement et d’espérance se succédèrent naivement sur sa piate fi­ gure de commergant parvenu. Il se regardait dans la giace, pardessus une vieille pendule Empire, en se passant lui-méme en revue, quand le froufrou de la robe de soie lui annon^a la baronne. Et il se remit aussitót en position. Après s'étre jetée sur un petit canapé, qui certes avait été fort beau vers 1809, la baronne, indiquant à Crevel un fauteuil dont les bras étaient terminés par des tétes de sphinx bronzées dont la peinture s’en allait par écailles en laissant voir le bois par places, lui fit signe de s’asseoir'7. La baronne se leva pour forcer le capitaine à la retraite, et elle le repoussa dans le grand salon. «Est-ce au milieu de pareilles guenilles que devrait vivre la belle madame Hulot?» dit-il. Et il montrait une vieille lampe, un lustre dédoré, les cordes du ta­ pis, enfin les haillons de l’opulence qui faisaient de ce grand salon blanc, rouge et or, un cadavre des fétes impériales17 l8.

Ogni dettaglio fìsico è indizio di qualcosa anche nelle de­ scrizioni più lunghe di Balzac; nel nostro caso i tratti descrit­ tivi passano brevemente davanti allo sguardo, o addirittura al gesto, d’una persona interessata a sfruttare la situazione e gli indizi di essa. L’insistenza sull’arredamento logoro serve certo a questo, prima che a fare realtà. Ma un narratore del Settecento avrebbe sintetizzato questo in poche parole astratte, ai soli effetti psicologici e pratici; qui fanno realtà precisazioni fisicamente concrete, alle quali è probabile che oggetti ben conservati o nuovi non si sarebbero prestati al­ 17 [... la guardia nazionale esaminava il mobilio del salotto dove si tro­ vava. Vedendo le tendine di seta, anticamente rosse, stinte in viola dall’azione del so­ le, e limate sulle pieghe da un lungo uso, un tappeto da cui i colori erano scomparsi, dei mobili sdorati e la cui seta venata di macchie era consumata a strisce, espressioni di disprezzo, di contentezza e di speranza si succedettero ingenuamente sulla sua piatta faccia di commerciante arricchito. Si guardava nello specchio, al di sopra d’una vecchia pendola Impero, passando in rivista se stesso, quando il fruscio della sottana di seta gli annunziò la baronessa. E si rimise subito in posizione. Dopo essersi gettata su un piccolo canapè, che certo era stato assai bello verso il 1809, la baronessa, indicando a Crevel una poltrona i cui braccioli erano terminati da teste di sfinge bronzee la cui verniciatura se ne andava in scaglie lasciando vedere a tratti il legno, gli fece segno di sedersi]. 18 Ibid., pp. 72-73. [La baronessa si alzò per costringere il capitano a ritirarsi, e lo spinse nel grande salotto. «E in mezzo a simili stracci che dovrebbe vivere la bella madame Hulot?» disse lui. E mostrava un vecchio lume, un lampadario sdorato, le corde del tappeto, insom­ ma i cenci dell’opulenza che facevano di questo grande salotto bianco, rosso e oro un cadavere delle feste imperiali].

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trettanto. Si specifica il trapasso d’una stoffa da un certo co­ lore a un altro, se ne segnala la causa nell’azione del sole, si attribuisce invece al tappeto la scomparsa dei colori (un to­ pos, come vedremo, del realismo descrittivo ottocentesco), si localizza il logorio degli oggetti su pieghe o per macchie o a striscie o in scaglie. Nel secondo brano c’è una doppia punta di figuralità metaforica: «cenci dell’opulenza», «cadavere delle feste» - un altro affioramento, quest’ultimo, d’un refe­ rente simbolico generale che conosciamo. Potremmo essere tentati di vedere anche qui residui della figuralità che trave­ stiva nel vecchio codice le cose basse. In ogni caso non avremmo nessuna traccia di quella tendenza al comico di cui ho mostrato come l’accompagnasse e la motivasse: nessuna flessione della serietà di tono. Lungi però dal somigliare a quella metastorica del primo esempio dell’albero, una tale serietà è strettamente solidale con la storicità di rappresentazione. L’anzianità d’un mobile reca addirittura una data in millesimo; non col mese e il gior­ no come quelle che aprono e chiudono il romanzo (o come quella della poesia di Gozzano, n, 4), ma con un’approssi­ mazione che ne rende l’esigenza ancora più significativa: il canapè era stato assai bello « verso il 1809 ». La rivalità erotica ed economica fra personaggi come Hulot e Crevel è datata essa stessa, in quanto implica ricambio fra due epoche, e ap­ partenenza tipica di ciascun personaggio all’una o all’altra. Secondo la mirabile espressione di un altro romanzo di Bal­ zac, citata da Auerbach: «Les époques déteignent sur les hommes qui les traversent »19. Crevel è un perfetto uomo del­ la Monarchia di Luglio, come Hulot resta un uomo dell’im­ pero - e il mancato aggiornamento del lusso dei suoi salotti denuncia il suo fallito inserimento nei regimi successivi. E a questo proposito che incontriamo la differenza degna di en­ trare quale opposizione nell’albero semantico: fra le presen­ tazioni rispettive di una determinazione storica altrettanto pertinente e forte, riguardo alle cose come agli uomini, nel testo di Chateaubriand e in questo di Balzac. Il barone imperiale è in decadenza per suoi torti e vizi, perché donnaiolo e dilapidatore. Decadenza che non trova 19 La Vietile Lille [La zitella]: Balzac, La Comedie humaine, «Bibliothèque de la Pleiade», 1976, t. IV, p. 830; e cfr. Auerbach, Mimesis, t. Il cit., p. 250. [Le epoche stingono sugli uomini che le attraversano].

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affatto un contraltare in un qualche valore ideale di cui siano investiti la sua casa e i suoi mobili: supponiamo, per ragioni stilistiche ed estetiche, e tanto meno politiche o ideologiche. Affinché un simile investimento compensi per qualsiasi ra­ gione il declino materiale delle cose, e il decorso di tempo riesca nobilitante, non sono necessarie la mole o l’antichità o la bellezza o la fama o il carico di storia della basilica di SaintDenis. Fra i testi del secondo capitolo ne avevamo già sfiora­ to un esempio accostabile a quello di Chateaubriand, sebbe­ ne di tanto minori dimensioni e pretese: gli oggettini sette­ centeschi della vecchia contessa di Puskin (li, 9). Non logori bensì antiquati, essi ci apparivano storicizzati in modo abba­ stanza positivamente esemplare, come cimeli di un regime e di un gusto. Ma il testo di Puskin era nel suo complesso un esempio impuro: e il cattivo stato dei divani e poltrone della sua vecchia contessa pare invece piuttosto accostabile a quello di casa Hulot, socialmente sconveniente senza che la negatività di ciò sia da niente riscattata. Se non appunto, na­ turalmente, e come dicevo a suo tempo, dalla funzione pura­ mente letteraria di fare realtà. Gli aggettivi di cui mi sono appena servito mi sembrano adeguati per dar corpo verbalmente alla seconda opposizio­ ne terminale dell’albero: esemplare da un lato, sconveniente dall’altro. Non due contraddittori stavolta, ma due contrari:

I A DETERMINAZIONE NON PERTINENTE,

E PRESENTATA IN MODO SERIO

E PRESENTATA IN MODO NON SERIO

A DETERMINAZIONE PERTINENTE,

E PRESENTATA COME ESEMPLARE

E PRESENTATA COME SCONVENIENTE

Il lettore può ora percorrere da sé le definizioni intere di quattro categorie, dall’alto in basso; c’è però un’obiezione che avrebbe ragione di muovermi. L’opposizione fra presen­ tazione seria o non seria è posta a distinguere soltanto la se­ conda dalla prima categoria, mentre stando ai precedenti te­ sti e ragionamenti la presentazione seria potrebbe farci con­ trapporre alla seconda anche la terza, e più significativamen­ te la quarta. È un’incongruità per difetto, che deriva dal cri­ terio gerarchico ed economico che sto seguendo: gerarchico in quanto dispone le opposizioni le une al di sopra o al di sot­

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to delle altre; economico in quanto evita di ripeterle in più punti dell’albero, e sceglie la collocazione strategicamente preferibile per ciascuna. Lascia minore arbitrio, ma non consente nessuna econo­ mia, quel?altro criterio che invece di gerarchizzare le oppo­ sizioni le incrocia (come ho fatto in ni, 8 per il minimo comun denominatore e per i suoi attributi). Il risultato sarebbe inservibile se, volendo estendere la portata della prima op­ posizione terminale, provassimo a incrociarla con quella so­ vrastante ma facendo economia della seconda terminale: sal­ ve le prime due categorie sotto definizione mutata (diciamo, per brevità, seria non storicizzata, non seria non storicizzata), non solo avremmo la terza e la quarta confuse in una {seria storicizzata), ma in sovrappiù una categoria poco documen­ tabile con testi a mia conoscenza {non seria storicizzata). Sen­ za dubbio il criterio meno arbitrario possibile consisterebbe nell’interrogare ciascun testo secondo tutte successivamente le opposizioni ritenute pertinenti, sciogliendole da ogni ge­ rarchia che non si riduca a una dipendenza logica. Ma con procedimento cosi prudente - a parte la noia - il rigore clas­ sificatorio finirebbe col sortire un effetto equivalente a quel­ lo del suo contrario: della diffidenza aprioristica verso la classificazione. Lo scrupolo nel riconoscimento delle costan­ ti si ribalterebbe nel culto esclusivo delle varianti di cui ho parlato (in, 2), d’idealistica memoria o attualità. A noi basta quel tanto di rigore che giova al riconoscimento delle costan­ ti reali entro gruppi di testi; e l’imperfezione a cui mi rasse­ gno nell’albero è sintomo d’una complicazione propria ai rapporti fra queste prime quattro categorie. Nessuna classi­ ficazione sarebbe stata soddisfacente' avevo detto (in, 6), senza rendere conto in qualche modo di ciò che ho chiamato svolta storica. Indicato come scatto di frequenza, sviluppo, numero del­ le costanti fra tardo Settecento e primo Ottocento (1,7; in, 3, 5), questo fenomeno riguarda l’insieme di esse e quindi tutto l’albero: lo si può constatare lungo la successione cronologi­ ca dei testi per alcune categorie, può segnare il limite supe­ riore della distribuzione dei testi per altre. Incidenze dirette della svolta storica, coincidenze simmetriche con essa, si ri­ velano solo nel confronto fra le prime quattro categorie. Si può dire che solo delle prime due essa segna il limite crono­

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logico inferiore, almeno prevalente; il quale a sua volta coin­ cide non accidentalmente col limite superiore delle altre due, suggerendo qualcosa come una metamorfosi, una con­ tinuità per mutamento. Le categorie dove il decorso di tem­ po è a determinazione non pertinente, documentate finora con esempi antichi ma documentabili altrimenti fino al Set­ tecento, sembrano aver ceduto il campo con l’Ottocento alle categorie dove è a determinazione pertinente. Sono recedute quelle a fondo metastorico, sono subentrate quelle a fondo storico, e uno stesso aggettivo circola in questo discorso con tre sensi distinti: storica, la determinazione del decorso di tempo nelle immagini; storica, cioè storico-letteraria, la svol­ ta nella frequenza o intensità di distribuzione delle costanti; storico-letteraria quindi quella dimensione in più, diacroni­ ca, che entra qui a complicare la piattezza sincronica o pan­ cronica dell’albero. Chiameremo un tale rapporto di reces­ sione e subentramelo fra categorie trasformazione, E la trasformazione, col suo sfasamento di tempi, che por­ ta a riservare l’opposizione seria / non seria all’ambito stori­ co-letterario anteriore in cui le due possibilità convivevano in sincronia; in ambito posteriore la presentazione seria di­ venta quasi scontata, e se si contrappone ancora a quella non seria è piuttosto in diacronia. Nell’epoca di svolta, le trasfor­ mazioni parallele sono da supporre rispettivamente fra la prima delle quattro categorie e la terza, fra la seconda e la quarta. Cioè, rispettivamente, fra quelle dove è evidente la parziale positività - d’una occasione di meditazione alta e se­ ria, d’un investimento di valore esemplare, legati a certe im­ magini; oppure la sola negatività - d’una bassezza che pro­ voca sorriso o riso, d’un degradamento che si denuncia scon­ veniente. Il lettore avrà riconosciuto la distinzione illustrata da esempi convenzionali nel primo capitolo, e poi giudicata abbastanza generale per venire ripresa nell’operazione clas­ sificatoria (in, 6). Fra immagini dove la non-funzionalità pri­ maria è riscattata da un recupero di funzionalità secondaria; e immagini dove non è riscattata da niente - da nient’altro che la qualità formale della letteratura. La regolare alternan­ za di categorie positive parzialmente, o come dirò semiposi­ tive, e negative, proseguirà per tutto l’albero. Autorizzata dalla pari frequenza dei due tipi d’immagini nei testi, scaturi­ sce dall’adozione stessa di opposizioni terminali binarie: il

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cui polo contraddittorio o contrario sarà volta per volta ne­ gativo non solo logicamente, ma in vari sensi concreti fra l’i­ deologico, il morale, l’estetico, il pratico, l’economico, l’edo­ nistico, l’emotivo. E urgente proporre dei nomi per le categorie già definite, se è vero che classifichiamo perché avvertiamo un bisogno di parole (come il Pére Ubu aveva inventato la patafisica, «dont le besoin se faisait généralement sentir»)20. Nomi bre­ vi, più maneggevoli delle definizioni: ma nessun attributo d’una sola parola basterebbe a riassumere e a distinguere; la forma minimale in cui coniarli è di doppio aggettivo sostanti­ vato, e li traggo dagli spunti lessicali più memorabili fra quan­ ti ne ha via via mobilitati il discorso sugli esempi. Inoltre co­ mincio a sottolineare coi segni + e — l’alternanza di categorie semipositive e negative. Per completare definitivamente que­ sta parte dell’albero aggiungo, in parentesi, sotto i poli della penultima opposizione due termini chiarificatori; sotto il po­ lo contraddittorio della prima opposizione terminale, un contrario dato come limite. A partire da decorso di tempo'. SENTITO COLLETTIVAMENTE

A DETERMINAZIONE NON PERTINENTE (caducità),

A DETERMINAZIONE PERTINENTE (storicità),

___________ 1___________ 1 1 E PRESENTATA E PRESENTATA IN MODO SERIO IN MODO NON SERIO (al limite comico)

___________ 1 1

1

E PRESENTATA COME ESEMPLARE

E PRESENTATA COME SCONVENIENTE

+

-

+

-

IL MONITORIO SOLENNE

IL FRUSTO GROTTESCO

IL VENERANDO REGRESSIVO

IL LOGORO REALISTICO

6. Prima di portare avanti il disegno dell’albero verso nuove categorie, torniamo con altri esempi su quelle definite e denominate: consideriamo, per ciascuna, ancora tre testi. Per il monitorio-solenne risalgo al primo libro del De varieta­ le fortunae di Poggio Bracciolini (1380-1459), scritto proba­ bilmente poco dopo il 1431 e pubblicato con gli altri tre libri 20 A. Jarry, CEuvres completes, « Bibliothèque de la Pleiade», 1972,1.1, p. 497. [il cui bisogno si faceva universalmente sentire].

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nel 1448. Nell’edizione separata a stampa (1511), il titolo con­ tinuava cosi: ... urbis Romae, et de ruina ejusdem descriptio21. Poggio e il diplomatico umanista Antonio Loschi, curiali d’un papa moribondo, mettono l’ozio a profitto per visitare «i luoghi deserti dell’urbe». Smontati da cavallo, seggono fra le rovine della rocca Tarpea; il panorama contemplato dall’alto muove Antonio ad aprire, sospirando e meravi­ gliando, il dialogo. Gli viene in mente Mario a Cartagine, che dubitava se potesse darsi «uno spettacolo maggiore» della sfortuna di quella città. Ma la sfortuna della città che ha sotto gli occhi non gli sembra comparabile a nessun’altra, naturale o umana, fra quante ne ricorda la storia: Quo magis dictu mirabile est et acerbum aspectu, adeo speciem formamque ipsius immutasse fortunae crudelitatem, ut nunc omni decore nudata, prostrata jaceat instar gigantei cadaveris corrupti, atque undique exesi: dedendum quippe est hanc urbem tot quondam illustrium virorum atque imperatorum foetam, tot belli ducum, tot principum excellentissimorum altricem, tot tantarumque virtutum parentem, tot bo: narum artium procreatricem, ex qua rei militaris disciplina, morum santimonia et vitae, sanctiones legum, virtutum omnium exempla et bene vivendi ratio defluxerunt, quondam rerum dominant, nunc per fortunae omnia vertentis iniquitatem, non solum imperio majestateque sua spoliatam, sed addictam vilissimae servitati, deformem, abjectam, sola ruina praeteritam dignitatem ac magnitudinem ostentantem22.

Si sviluppa a questo punto la distinzione, o comparazione, introdotta fin dalle prime righe: tra lo sfacelo degli antichi edifici che deturpa l’aspetto attuale di Roma, e il disfacimen­ to dell’impero di cui Roma era stata centro. Non ci aspette­ remmo che sia quest’ultimo, dei due, a venir giudicato il fat­ 21 [Sulla mutevolezza della fortuna. |... della città di Roma, e descrizione delle rovi­ ne della medesima}. 22 P. Bracciolini, Historiae de varietale fortunae, Paris 1723 (riprodotto in Opera omnia, Bottega d’Erasmo, Torino 1966, t. II), pp. 6-7. [La cosa che fa piu meraviglia a dirsi e più dolore a vedersi, è che la crudeltà della fortuna abbia a tal punto mutato l’a­ spetto e la bellezza di essa, che adesso privata di ogni decoro giace atterrata, come un gigantesco cadavere putrefatto e da ogni parte corroso: è invero deplorevole che que­ sta città, un tempo genitrice di tanti illustri uomini e capi, nutrice di tanti generali in guerra, di tanti eccellentissimi principi, madre di tante e cosi grandi virtù, procreatri­ ce di tante nobili qualità, dalla quale si diffusero la disciplina militare, la santità di co­ stumi e di vita, le sanzioni delle leggi, gli esempi di tutte le virtù e le norme del viver bene, un tempo padrona del mondo, sia adesso per l’iniquità della fortuna che tutto capovolge non solo spogliata della sua sovranità e maestà, ma condannata a servitù vi­ lissima, sfigurata, disonorata, cosi da ostentare la passata dignità e grandezza con la sola rovina].

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to meno straordinario e deplorevole. Esso avvenne infatti in un ordine di cose - quello politico o militare - nel quale la for­ tuna suole dare e togliere «quasi di suo diritto»: con verbi al presente atemporale, solennemente normalizzante, è detto che « commutantur regna, transferuntur imperia, desciscunt nationes », ecc. Entro le mura della capitale, invece, la fortuna ha infierito con arbitrio più imprevedibile, capriccioso e cru­ dele. Stimando i tanti monumenti di Roma « al di sopra della fortuna» o «al di là del fato», i fondatori non presumevano troppo; e lo stupore dei posteri dà loro ragione23. E una perdita di bellezza architettonica a manifestare lo scandalo, anche se la vera giustificazione della sfida romana all’immortalità non si esaurisce in un supremo merito esteti­ co. La proclama il fluente duplice elenco, anaforico e asinde­ tico - riecheggiato più sotto da un elenco di monumenti: quello dei valori culturali di cui Roma fu procreatrice, mora­ li, militari, giuridici oltre che artistici. Ma la riflessione non verte sulla grandezza passata, ostentata ormai « con la sola rovina», bensì sul fatto della caduta e sulla deplorazione di esso. In termini più astratti: sulla defunzionalizzazione pri­ maria e rifunzionalizzazione secondaria. Certo, anche in questo secondo esempio di monitorio-solenne la consistenza d’immagini si riduce a una sparsa insistenza d’aggettivi e par­ ticipi di rovina, e a una potente metafora. «Come un gigan­ tesco cadavere putrefatto e da ogni parte corroso»: è indub­ bio che il sostantivo provenga da Sulpicio - e ci accorgiamo che di là proviene anche il trapasso da un soggiorno contin­ gente in luoghi illustri alla riflessione ispirata da essi, con la variante che qui il soggiorno è cercato anziché casuale. In­ ventando in più le proporzioni da gigante, Poggio dà espres­ sione all’indissolubilità emblematica di grandezza e deca­ denza, inseparabile a sua volta da quell’unicità di Roma che Sulpicio non attribuiva alle città greche. E tale unicità consi­ ste in un primato di eccellenza; non, per esempio, nelle cir­ costanze storiche dell’unificazione prima e disgregazione poi del mondo detto civile. Della decadenza, è pertinente an­ che qui il fatto in sé, non il perché o il quando o il come. Con la replica di Poggio, il dialogo prosegue intorno all’attività 2J Ibid., pp. 5, 7. [i regni cambiano, gli imperi si trasferiscono, le nazioni si sgre­ tolano].

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archeologica ed epigrafica di lui, che ha trascritto iscrizioni «nascoste fra cespugli e rovi»; ma si conclude con una di­ scussione sulla definizione di fortuna, ricondotta dall’acci­ dentale alla volontà divina24. Come nel proemio di dedica, vi ricorre l’elogio della sto­ ria quale scrittura. Essa «rende come recenti» casi che altri­ menti «l’antichità suole cancellare»; la carenza di essa vota casi realmente recenti all’oblio 25. Con la sua esile materialità, è come se la scrittura fosse più resistente delle materie monu­ mentali, quindi i poteri della filologia maggiori di quelli dell’archeologia. Nell’epistola famosa in cui Poggio aveva dato notizia del suo ritrovamento di Quintiliano, il prezioso codice compariva «ancora salvo e incolume»: malgrado un secolare metaforico « carcere» in fondo a una torre di mona­ stero, malgrado la non metaforica «muffa e polvere» da cui era coperto26. E nell’impotenza di simili rimedi umani, da­ vanti allo spettacolo di Roma, che si apre lo spazio del monitorio-solenne. Una lezione di caducità metastorica: offerta però da una vicenda profana della storia, con l’imponenza dei suoi non restaurabili avanzi. Proprio questa relativa lai­ cizzazione del senso di caducità cristiano-medievale sembra rendere possibili certe immagini concrete. Pochi anni dopo la morte di Poggio le due grandi riprese del tema dell'uri sunt, la francese di Villon e la spagnola di Manrique, prende­ ranno a simboli rispettivamente le «nevi dell’anno scorso» e le «rugiade dei prati»27: delle quali, al contrario della pietra dura e durevole, presto non resta niente . E vero che nel Ro­ man de la Rose28 la casa della Fortuna aveva un lato rilucente d’oro e argento, e un altro di fango e paglia, sporco e crollan­ te per migliaia di crepe29. Ma era il simbolo stesso dell’inco­ stanza e labilità: non l’immagine d’una qualsiasi realtà, tanto 24 Ibid., p. 9 (pp. 8-25, 25-39). 25 Ibid., pp. 1-2, 34-36, 37. 26 A Guarino Veronese, 15 dicembre 1416: Prosatori latini del Quattrocento, Ric­ ciardi, Milano-Napoli 1952, pp. 244-45. 27 Le Testament, Ballade des dames du temps jadis-. F. Villon, Opere, Mondadori, Milano 1981, p. 54; Coplas por la muerte de su padre (copia 19) : J. Manrique, Poesia, Càtedra, Madrid 1979, p. 153. 28 [Il Romanzo della Rosa]. 29 Vv. 6063-88, 6115-17: Le Roman de la Rose, Champion, Paris 1970,1.1, pp. 186188.

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meno storica. Nell’onnipresente significazione simbolica delle cose, che è tendenza della letteratura del Medioevo, in­ travediamo di sfuggita la principale ragione della latitanza di essa in questo libro. Non vanno tuttavia sottovalutate le implicazioni religiose che, nel suo corso quattro-cinquecentesco, conserva il tema delle rovine; e in esso le immagini di monitorio-solenne. Dal latino umanistico passiamo a un esempio in volgare, la cui fortuna europea testimonia la diffusione rinascimentale del tema. Si tratta del sonetto già ricordato di Baldassar Casti­ glione (1478-1529) : Du Bellay lo tradusse liberamente in fran­ cese tra i sonetti de Les Antiquités de Rome30, ben prima che Lope de Vega lo parodiasse in spagnolo. La variazione sul te­ ma che si ha nell’ultima terzina (il cui senso amoroso, se non fosse assicurato letteralmente, lo sarebbe dal contesto di altri sonetti) non comporta né immagini di sorta, né commutazio­ ne dal serio al non serio. Essa toglie poco alla purezza dell’e­ sempio: Superbi colli, e voi sacre mine, che ’1 nome sol di Roma ancor tenete, ahi, che reliquie miserande avete di tante anime eccelse e pellegrine! Colossi, archi, teatri, opre divine, trionfai pompe, gloriose e liete, in poco cener pur converse siete, e fatte al vulgo vii favola al fine. Cosi, se ben un tempo al tempo guerra fanno l’opre famose, a passo lento e l’opre e i nomi il tempo invido atterra. Vivrò dunque fra’ miei martìr contento: che se il tempo dà fine a ciò ch’è in terra, darà forse ancor fine al mio tormento31.

Si conferma ancora come tipico del monitorio-solenne un esplicito momento ideologico o argomentativo: a cui fa ri­ scontro la povertà in immagini. Come ho detto da poco, la categoria è prevalentemente anteriore alla svolta storica, quindi fra l’altro alla capacità di evocazione sensoriale mo­ derna. Qui le immagini si limitano a sorgere dalla serie dei 30 [Le Antichità di Roma]. 31 In Lirici del Cinquecento, Utet, Torino 1976, p. 191; pellegrine nel senso di pere­ grine, straordinarie. Cfr. Du Bellay, in Poètes du xvf Siècle, « Bibliothèque de la Plèiade», 1953, p. 421.

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vocativi che aprono entrambe le quartine: e che ora specifi­ cano le «sacre ruine» in «colossi, archi, teatri», formando quasi un elenco, ora le qualificano come «opre divine» e «trionfai pompe». La prima quartina piange la decadenza delle persone, e solo la seconda propriamente quella delle cose. Ne viene tratta nella prima terzina una morale dalle universali simmetrie, sotto una sintassi che le capovolge e un gioco di parole che le comprime: il tempo prima è vinto, ma poi vince; è vinto per durate brevi, e vince attraverso durate lunghe. Senza niente di esclusivamente cristiano al confron­ to col primo esempio antico, senza contrasto con l’ammirazione per la cultura pagana che il sonetto ha in comune con la prosa di Poggio, più che in essa vi è riconoscibile il fondo religioso d’un tale senso di caducità. Le reminiscenze di Pe­ trarca parlano tra le righe: la più scoperta è adattata alle rovi­ ne di Roma, «fatte al vulgo vii favola» - ma l’originale, nel primo sonetto del Canzoniere (« al popol tutto - favola fui gran tempo»), è troppo vicino a una celebre chiusa per non ricordarla pure («che quanto piace al mondo è breve so­ gno»). Nel verso precedente di Castiglione i monumenti fi­ gurano convertiti « in poco cener » - come le bellezze di Lau­ ra in «poca polvere» o in «cenere sparso», secondo altri due luoghi non meno celebri della raccolta imitata per eccellen­ za J2. In queste stesse reminiscenze è latente la metafora cada verica, che chiama cenere i resti di cose inanimate con parola consacrata al culto dei morti; l’universalità della fine che il tempo dà a ciò che è « in terra» non pregiudica, anzi postula, un’eternità altrove.

7. Le sottintese certezze religiose sono invece per lo più andate in crisi, c’è da aspettarselo, in quella diffusa ripresa del monitorio-solenne che è nota come fortuna settecentesca del tema delle rovine. Nell’esempio che ne scelgo, le rovine appaiono mediate al linguaggio letterario da quello figurati­ vo, poiché si tratta di critica d’arte: dei primi Salons, dovuti a un grande scrittore. Denis Diderot (1713-84) descrive e di­ scute i quadri esposti dal giovane Hubert Robert reduce dal­ l’Italia, nel 1767. E il critico è convinto di sapere ancora me32 Cfr. F. Petrarca, Rime, Trionfi e Poesie latine, Ricciardi, Milano-Napoli 1951, pp. 3 (I, w. 9-14), 378 (CCXCII, v. 8), 406 (CCCXX, v. 14).

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glie del suo pittore che il genere delle immagini di rovine ha una poetica propria, e qual è: L’effet de ces compositions, bonnes ou mauvaises, c’est de vous laisser dans une douce mélancolie. Nous attachons nos regards sur les débris d’un arc de triomphe, d’un portique, d’une pyramide, d’un tem­ pie, d’un palais, et nous revenons sur nous-mémes. Nous anticipons sur les ravages du temps, et notre imagination disperse sur la ter­ re les edifices mémes que nous habitons. À l’instant, la solitude et le si­ lence règnent autour de nous. Nous restons seuls, de toute une nation qui n’est plus; et voilà la première ligne de la poétique des ruines ”,

Segue la descrizione del quadro intitolato Ruine d’un are de triomphe, et autres monuments f secondo Diderot esso con­ travviene alla poetica in questione, perché fa comparire sullo sfondo dei monumenti troppe figure umane. La stessa critica e le relative motivazioni sono sviluppate cosi ampia­ mente a proposito di un altro quadro, Grande Galérie éclairée du fond, da non consentirmi che una citazione frammentaria: Ne sentez-vous pas qu’il y a trop de figures ici; qu’il en faut effacer les trois quarts? Il n’en faut réserver que celles qui ajouteront à la solitude et au silence. [...]. Monsieur Robert, vous ne savez pas encore pourquoi les ruines font tant de plaisir, indépendamment de la variété des ac­ cidents qu’elles montrent; et je vais vous en dire ce qui m’en viendra sur-le-champ. Les idées que les ruines réveillent en moi sont grandes. Tout s’anéantit, tout périt, tout passe. Il n’y a que le monde qui reste. Il n’y a que le temps qui dure. Qu’il est vieux ce monde! Je marche entre deux éternités. De quelque part que je jette les yeux, les objets qui m’entourent m’annoncent une fin et me résignent à celle qui m’attend. Qu’est-ce que mon existence éphémère, en comparaison de celle de ce rocher qui s’affaisse, de ce vallon qui se creuse, de cette forét qui chancelle, de ces masses suspendues au-dessus de ma téte et qui s’ébranlent? Je vois le marbré des tombeaux tomber en poussière; et je ne veux pas mourir! et j’envie un faible tissu de fibres et'de chair, à une loi générale qui s’exécute sur le bronze! Un torrent entrarne les nations les unes sur les autres au fond d’un abime commun; moi, moi seul, je prétends m’arréter sur le bord et fendre le flot qui coule à mes cótés!?5. 33 D. Diderot, (Euvres esthétiques, Gamier, Paris 1959, p. 641. [L’effetto di que­ ste composizioni, buone o cattive, è che vi lasciano in una dolce malinconia. Fissiamo lo sguardo sui resti d’un arco di trionfo, d’un portico, d’una piramide, d’un tempio, d’un palazzo, e ci ripieghiamo in meditazione. Precorriamo le devastazioni del tem­ po, e la nostra immaginazione disperde sulla terra gli edifici stessi che abitiamo. Sull’i­ stante, la solitudine e il silenzio regnano intorno a noi. Restiamo soli di tutta una na­ zione che non c’è più; ed ecco l’abc della poetica delle rovine]. 34 [Rovina d’un arco di trionfo, e altri monumenti]. 35 Ibid., pp. 643-44. [Grande galleria illuminata dal fondo]. [Non avvertite che qui ci sono troppe figure; che bisogna cancellarne i tre quarti? Bisogna conservare so­ lo quelle che accresceranno la solitudine e il silenzio. [...]. Monsieur Robert, voi non

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Solitudine e silenzio, al cospetto dei maggiori simboli del­ la nostra caducità, sarebbero stati certo propizi anche a un raccoglimento religioso: premesse magari di preghiera. Ma allora la meditazione non avrebbe isolato spiritualmente il credente da una comunità di credenti, e d’altra parte sarebbe riuscita tanto più salutare quanto più umile e dolorosa. Per il critico enciclopedista, invece, l’effetto di ritorno in se stessi indotto dalle rovine è emotivamente ambivalente: consiste in «una dolce malinconia», e si tratta addirittura di sapere «perché le rovine fanno tanto piacere». La ragione del pia­ cere va cercata in quello stesso individualismo preromanti­ co, ormai completo, che conferisce necessità e assolutezza al­ l’isolamento del contemplatore. Le «grandi idee» dell’ulti­ mo paragrafo citato si riassumono nella rassegnazione all’an­ nientamento dell’io: la impone il confronto schiacciante con la precarietà di tutta la natura, oltre che del marmo e del bronzo e delle nazioni. Ma se l’argomentazione è quella stes­ sa di Sulpicio, al posto del plurale di «noi piccoli uomini» (iv, 1) spicca un singolare enfatico come «io, io solo». Nei paragrafi seguenti la rassegnazione si traduce con insistenza in un’originale specie di carpe diem\ sentimentale e materiali­ sta. Cito un altro frammento: Dans cet asile desert, solitaire et vaste, je n’entends rien; j’ai rompu avec tous les embarras de la vie. Personne ne me presse et ne rn’écoute. Je puis me parler tout haut, m’aftliger, verser des larmes sans contrainte. Sous ces arcades obscures, la pudeur serait moins forte dans une femme honnéte; l’entreprise d’un amant tendre et timide, plus vive et plus courageuse.

Solitario fra le rovine, l’io si abbandonerà senza freni di so­ cialità alla propria più spontanea vita affettiva; e perfino sensapete ancora perché le rovine fanno tanto piacere, indipendentemente dalla varietà degli accidenti che mostrano; e voglio dirvene ciò che mi verrà in mente sul momento. Le idee che le rovine destano in me sono grandi. Tutto si annienta, tutto perisce, tutto passa. Il mondo soltanto resta. Il tempo soltanto dura. Quanto è vecchio questo mondo! Cammino fra due eternità. Da qualunque lato rivolga gli occhi, gli oggetti che mi circondano mi annunciano una fine e mi fanno rassegnare a quella che mi at­ tende. Cos’è la mia esistenza effimera, confrontata a quella di questa roccia che si cur­ va, di questa valle che si scava, di questa foresta che vacilla, di queste masse sospese sopra la mia testa e che si scuotono? Vedo il marmo delle tombe cadere in polvere; ed io non voglio morire! e vorrei sottrarre un debole tessuto di fibre e di carne a una leg­ ge generale che si esegue sul bronzo! Un torrente trascina le nazioni le une sulle altre in fondo a un abisso comune; io, io solo, pretendo di fermarmi sul bordo e fendere il flutto che mi scorre ai fianchi!]

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suale36. Un potenziamento d’individualismo è quanto resta all’individuo, sui luoghi per eccellenza in cui deve ricono­ scersi perituro, senza più illusioni d’ai di là. Tuttavia, niente d’individuale si affaccia ancora nella direzione d’una memo­ ria personalizzata: niente mette in questione, in altre parole, che il decorso di tempo sia sempre sentito collettivamente. Nemmeno esso diventa a determinazione pertinente - seb­ bene si stia avvicinando a diventarlo -, finché resta una fan­ tasticheria il sentirsi soli sopravvissuti « di tutta una nazione che non è più», e le «devastazioni del tempo» cosi anticipa­ te restano immaginarie.

8. Parallela alla distribuzione cronologica del monitoriosolenne, anche quella del frusto-grottesco è in prevalenza anteriore alla svolta storica e quindi alla capacità di evocazio­ ne sensoriale moderna. Se nondimeno i testi adducibili come esempi puri di frusto-grottesco non ci sembrano analoga­ mente poveri in immagini, sappiamo a che cosa lo devono: al frequente intervenire di un’inventiva figurale che per via d’i­ perbole e di metafora, e seppure a fini comicamente defor­ manti, prospetta oggetti concreti. Come per il monitoriosolenne, adduco un esempio del primo Cinquecento italiano a cui arrise fortuna europea, insieme col genere o maniera che trasse l’aggettivo dal cognome stesso di Francesco Berni (1498-1535). Il testo bernesco più noto è certo il Capitolo del prete da Povtgitano, del 1532: vi si narra l’ospitalità d’una not­ te, presuntuosa quanto sordida, fatta patire da un curato di provincia al poeta con l’umanista Adamo Fumano. Ecco l’arrivo al mal vantato alloggio, l’ingresso, e i primi aspetti dell’interno: Io credetti trovar qualche palazzo murato di diamanti e di turchine, avendo udito far tanto schiamazzo: quando Dio volse, vi giungemmo al fine: entrammo in una porta da soccorso, sepolta nell’ortiche e nelle spine. 36 Ibid., pp. 644-45. (1° questo asilo deserto, solitario e vasto, non ascolto nulla; ho rotto con tutti gli imbarazzi della vita. Nessuno mi sollecita e mi ascolta. Posso par­ larmi ad alta voce, affliggermi, versare lacrime senza freno. Sotto queste arcate oscure, il pudore sarebbe meno forte in una donna onesta; l’i­ niziativa d’un amante tenero e timido, più vivace e più coraggiosa].

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III

Convenne ivi lasciar l’usato corso, e salir su per una certa scala, ove aria rotto il collo ogni destr’orso. Salita quella, ci trovammo in sala, che non era, Dio grazia, amattonata, ond’il fumo di sotto in essa essala. Io stava come l’uom che pensa e guata quel ch’egli ha fatto, e quel che far conviene, poi che gli è stata data una incanata. - Noi non l’abbiam, Adamo, intesa bene: questa è la casa - diceva io - dell’Orco: pazzi che noi siam stati da catene! Mentre io mi gratto il capo e mi scontorco, mi vien veduto a traverso ad un desco una carpita di lana di porco: era dipinta ad olio, e non a fresco; voglion certi dottor dir ch’ella Risse coperta già d’un qualche barbaresco; poi fu mantello almanco di tre usse, poi fu schiavina, e forse anche spalliera, fin che tappeto al fin pur si ridusse37.

L’aspettativa d’un palazzo in pietre preziose è scherzosa iperbole invertita in positivo, e si raddrizza subito in negati­ vo restando iperbole innestata su metafore: la porta della ca­ sa era - possiamo dire - addirittura come la porticina segreta d’una fortezza («da soccorso»), addirittura come sepolta sot­ to ortiche e spine. La stessa diagnosi retorica vale per la «la­ na di porco » di cui consterebbe la coperta posta sulla tavola da mangiare, e vale per più d’un passo successivo ai versi ci­ tati. Quando il poeta chiede da bere, in una terzina famosa le metafore-iperboli soppiantano ellitticamente i corrispon­ denti predicati non figurali - ossia che il bicchiere era unto, appannato, e rotto alla base: Ecco apparir di subito un bicchiere che s’era cresimato allora allora; sudava tutto, e non potea sedere...38.

Tornando ai versi citati e alla coperta, è un gioco di parole a dirci quanto fosse macchiata d’olio: in termini di pittura. L’incredibile serie delle sue metamorfosi, usi e proprietari anteriori - dagli addetti ai cavalli da corsa ad almeno tre zin­ 37 XLVUI: F. Berni, Rime, Einaudi, Torino 1969, pp. 108-9 (106-16). I chiarimenti linguistici verranno nel corso del commento. 38 Ibid., p. no.

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gare, da soprabito a rivestimento di sedile - è il prototipo di un topos, il quale si allungherà a dismisura in epoca barocca. Ho detio che la scomparsa dei colori da una stoffa sarà, a sua volta, un topos della descrizione ottocentesca (iv, 5): buona occasione di confronto tra le definizioni di frusto-grottesco e di logoro-realistico, proprio all’altezza della biforcazione che nell’albero le separa. Nel topos più moderno la determi­ nazione d’un decorso di tempo, datato o no, fa virtualmente tutt’uno con un processo chimico e col suo risultato ottico. Nel topos che è tipico del frusto-grottesco, le informazioni sulle metamorfosi della materia fingono proprio di determi­ nare un tale decorso; ma più sono esageratamente numero­ se, più lo lasciano indeterminato nell’inverosimile. Non me­ no svariati, nel seguito del testo, saranno gli usi della stanza dal prete offerta agli ospiti. Granaio e camera da letto, di­ spensa e cessocome se il tipo di serie prima proiettata in mirabolante diacronia si contraesse - pur senza elenco - in una sincronia tirchia e ributtante. Badiamo infine al parodi­ co suono dantesco della quinta terzina citata, che si rompe sulla parola gergale «incanata» (fregatura), e implica che la dimora del prete è addirittura come l’inferno. L’intero capi­ tolo conta un’altra parodia di Dante, due reminiscenze di Petrarca, un’invocazione alle Muse e una mezza dozzina d’altri richiami classici e cristiani39 40: quanto basta per mo­ strarci come il linguaggio a tendenza comica del frusto­ grottesco sia metaletterario e colto. Quand’anche mimetico in primo grado, vive spesso esplicitamente, e implicitamente sempre, a spese di quei linguaggi seri che capovolge e dissacra. Fra i testi d’epoca posteriore e d’altra lingua in cui è rav­ visabile un influsso di questo capitolo bernesco, c’è la Satira XI di Mathurin Régnier (1573-1613). Penultima d’una raccol­ ta del 1608, ha con la satira precedente un rapporto di suc­ cessione narrativa: il poeta, fuggito dalla rissa che ha inter­ rotto un banchetto ridicolo, nel buio d’una notte di pioggia penetra per errore in un bordello. Nella camera dunque do­ ve gli è giocoforza salire senza voglia a scopo erotico, disfun­ zioni e disordine sono meno sorprendenti che nell’abitazio­ ne di un prete. Se l’ascensione per la scala e la preparazione del letto ricordano Berni41, non è senza barocca amplificazio­ 39 Ibid. 40 Cfr. i vv. 139-41; 22,126; 145-50; 151-52,157-60,172, 178-88, 212-13, 220-25. 41 M. Régnier, CEuvres completes, Les Belles Lettres, Paris 1954, pp. 100,103-4.

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II3

ne; ma enorme in quanto tale risulta la ricognizione che il poeta fa della camera o soffitta, prima che sopraggiunga la puttana. Anche questo ambiente ha almeno un secondo uso, da ripostiglio, equivalente a una pluralità caotica di usi: J’entre dans ce beau lieu, plus digne de remarque Que le riche Palais d’un superbe Monarque. Etant là, je furette aux recoins plus cachés, Où le bon Dieu voulut que, pour mes vieux péchés, Je susse le dépit dont Fame est forcenée Lorsque, trop curieuse ou trop endemenée, Ródant de tous cótés et toumant haut et bas, Elle nous fait trouver ce qu’on ne cherche pas. Or, en premier item, sous mes pieds je rencontre Un chaudron ébréché, la bourse d’une montre, Quatre boites d’unguents, une d’alun brulé, Deux gants dépareillés, un manchon tout pelé; Trois fioles d’eau bleue, autrement d’eau seconde, La petite seringue, une éponge, une sonde, Du blanc, un peu de rouge, un chiffon de rabat, Un baiai pour bruler en allant au Sabbat; Une vieille lanterne, un tabouret de paille Qui s’était sur trois pieds sauvé de la bataille; Un baril défoncé, deux bouteilles sur cu, Qui disaient sans goulet: «Nous avons trop vécu»; Un petit sac tout plein de poudre de Mercure, Un vieux chaperon gras de mauvaise teinture, Et dedans un coffret qui s’ouvre avecq’enhan, Je trouve des tisons du feu de la Saint Jean, Du sei, du pain bénit, de la fougère, un cierge, Trois dents de mort pliés en du parchemin vierge; Une Chauve-souris, la carcasse d’un Geai, De la graisse de loup et du beurre de Mai42. 42 Ibid., pp. 101-2. Modernizzo l’ortografìa. L'eau bleue o seconde è liscivia dei sa­ poni; il beurre de Mai è unguento per piaghe. [Entro in questo bel luogo, più degno d’attenzione | Che il ricco Palazzo di un superbo Monarca. | Là, mi metto a curiosare nei recessi più nascosti, | Dove il buon Dio volle che, per i miei vecchi peccati, j Io sa­ pessi il dispetto che fa forsennata l’anima | Quando, troppo curiosa o troppo sconvol­ ta, | Vagando da ogni parte e girando in alto e in basso, | Ci fa trovare ciò che non si cerca. | Ora, per primo articolo, tra i piedi mi ritrovo | Un calderone sbrecciato, il fo­ dero d’un orologio, | Quattro scatole di unguenti, una di allume bruciato, | Due guan­ ti scompagnati, un manicotto pelato; | Tre fiale di acqua blu, detta anche acqua se­ conda, | La piccola siringa, una spugna, una sonda, | Del bianco, un po’ di rosso, uno straccio da colletto, | Una scopa da bruciare andando al Sabba; | Una vecchia lanter­ na, uno sgabello di paglia | Che sera su tre piedi salvato dalla battaglia; | Un barile sfondato, due bottiglie su culo, | Che dicevano senza collo: «Abbiamo troppo vissu­ to», | Un sacchettino pieno di polvere di Mercurio, | Un vecchio cappuccio grasso di cattiva tintura; | E dentro un cofanetto che s’apre con affanno, | Trovo tizzoni del fuo­ co di San Giovanni, | Sale, pan benedetto, della felce, un cero, | Tre denti di morto ri­ piegati in pergamena vergine; | Un Pipistrello, la carcassa di una Gazza, | Grasso di lupo e burro di Maggio].

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Questo elenco barocco sorpassa in fantasiosa abbondan­ za sia quello antico di Marziale che tutti quelli moderni del nostro secondo capitolo. Dispiega in venti versi i suoi più di trenta elementi, al singolare o al plurale; e se essi non stanno tutti sullo stesso piano non è perché vi siano designazioni sintetiche del tipo a suo tempo fatto notare (n, 13), né all’ini­ zio né alla fine. È per un procedimento imparentato con la mise en ahimè cara alla pittura, o con lo spettacolo nello spet­ tacolo caro al teatro, del primo Seicento. Tutto un elenco se­ condo si trova racchiuso dentro un solo elemento del primo: il cofanetto che si apre a fatica (e che può farci pensare più per differenza che per somiglianza, ormai, a quello di Cros in n, 1). L’attività attribuita al poeta appena entrato, di mettersi a curiosare fin «nei recessi più nascosti», sembra tanto inte­ sa a preparare e motivare l’elenco quanto è priva essa stessa di motivazioni fattuali. E l’anima di lui conosce il dispetto del «trovare ciò che non si cerca»: cose inutili in ogni caso, ma il denominatore comune dell’inutilità mescola qui quelle consunte, degradate e basse a quelle bizzarre, eccentriche e rare, miscela frequente nel frusto-grottesco. Le cose della prima specie sono più avvicinate al limite del comico, come si vede nelle personificazioni buffe dello sgabello senza un piede e delle bottiglie senza collo. Altre cose sono defunzionaiizzate piuttosto dal loro stato di residui in confusione, fuori dal quale sarebbero utili ingredienti di varie arti verosi­ mili in sede ruffianesca: profumeria, cosmetica, lavanderia, farmacia. E altre cose ancora sono strane in senso più inquie­ tante, come la scopa da streghe, i denti di morto entro perga­ mena, il pipistrello (che compariva già in Berni, ma vivo e convenzionale)45. Ho accennato a un valore di prototipo o archetipo dell’elenco magico (11,13); qui è per contaminazio­ ne storicamente comprensibile che l’esempio d’una catego­ ria ne sfiora un’altra non ancora definita, e che certi ingre­ dienti d’un elenco frusto-grottesco esulerebbero comunque da una funzionalità naturale.

9. La bizzarria cede di nuovo il campo alla miseria, nella gamma d’immagini del frusto-grottesco, se passiamo dall’u­ no all’altro dei generi letterari più propizi. Dal bernesco,43 43 Cfr. Berni, Vàme cit., p. 115, w. 202-4.

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cioè, alla picaresca: alla Htstorta de la vida delBuscón, llamado don Pablos; exemplo de Vagamundos, y espejo de Pacanos*\ di Francisco de Quevedo (1580-1645). Se è vero che fu scritta una ventina d’anni prima della sua pubblicazione nel 1626, venne all’inizio della fioritura spagnola del genere tra gli ultimi anni del Cinque e la metà del Seicento. Tre caratte­ ristiche vi sono state osservate, o per difetto o per eccesso ri­ spetto ai romanzi di altri. Astensione dagli interventi d’auto­ re moraleggianti, di solito diffusi; freddo estremismo nella scelta di materie basse, sia moralmente che fisicamente; estrosissima elaborazione retorica, tanta da far riconoscere nel Quevedo prosatore il poeta in versi - barocco nella va­ riante chiamata all’epoca concettismo. Dei tre punti, que­ st’ultimo è più che mai motivo per bandire ogni idea di reali­ smo come rappresentazione seria e non deformante. Ma l’as­ senza di commenti scarnifica all’essenziale anche la rappre­ sentazione critica dei costumi, nel senso già ascritto a Mar­ ziale (iv, 4); non resterebbero che le scelte di contenuto per agganciare la rappresentazione ai bassifondi del vero - sem­ pre liquidando la determinazione dei decorsi di tempo nel­ l’universalità del bisogno umano. L’incrudelire della carica­ tura è proporzionale all’incremento della laidezza. Come se da parte d’uno scrittore nazionalista e assolutista, ossessio­ nato dalle « impurità » di sangue e fede, la pratica d’un gene­ re che racconta vite di emarginati sociali fosse un paradosso; e intimasse la rimozione delle simpatie che il racconto mette in moto. Cosi in particolare il suo frusto-grottesco, che può ancor oggi far ridere, è comico nel più forte dei sensi ossia spietato. I genitori del picaro sono un barbiere ladro, e una ruffiana strega di ascendenza appunto non cristiana: è a proposito della loro rispettiva fine sulla forca e sul rogo che si tocche­ ranno punte di umorismo cinico e macabro, con l’intervento dello zio boia e il banchetto da sciacalli in casa di lui A\ All’ini­ zio Pablos va a scuola, si lega al figlio d’un nobile, lo segue quando suo padre Io mette in collegio. Patiscono entrambi, il servitore solo un po’ peggio, un’esperienza indescrivibile di 44 [Storia della vita del Furfante chiamato Don Pablos; esempio di Vagabondi, e specchio di imbroglioni (cosi suonava il titolo intero della prima edizione)]. 45 F. de Quevedo, La Vida del Buscón llamado don Pablos, Salamanca 1965, pp. 15-20, 91-93,132,135-46.

Iló

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spilorceria e denutrizione: è l’episodio più celebrato del ro­ manzo, col personaggio del prete precettore Cabra. Un per­ sonaggio che vive precisamente della combinazione che sap­ piamo, di fìguralità iperbolica e metaforica deformante e di comicità distanziarne (n, 8; iv, 4). Già nel ritratto fisico tale fìguralità sembra motivare la descrizione più che non sia il contrario, e non do che un esempio: la barba è scolorita per paura della bocca vicina, che per fame minaccia di mangiar­ sela. Anche l’illustrazione dell’avarizia trascende l’aneddoti­ ca usuale su questo tema, forzandone la direzione iperbolica se non slittando in quella metaforica. Non esistono cessi in casa, perché non c’è mai niente da defecare; e Pablos non osa espellere quel poco che dovrebbe, per economia di forze. Soltanto le battute di Cabra stesso, tutte ottimismo ipocrita sul vitto da lui dispensato, si contengono in un’asciutta vero­ simiglianza da perfette battute teatrali. Fame, morte: pone termine all’episodio la morte di fame d’un collegiale \ e Pa­ blos non dubiterà che sia stato per fame quando apprenderà più tardi che è morto Cabra46 47. I brani che cito informano, l’uno sul vestiario e sull’appar­ tamento del personaggio, l’altro sulla cucina affidata a una zia settantenne di lui: Trafa un bonete los dias de sol, ratonado con mil gateras y guarniciones de grasa; era de cosa que fue pano, con los fondos en caspa. La sotana, segùn decian algunos, era milagrosa, porque no se sabia de qué color era. Unos viéndola tan sin pelo, la tenian por de cuero de rana; otros decian que era ilusión; desde cerca parecia negra y desde lejos entre azul. Llevàbala sin cenidor; no traia cuello ni punos. Parecia, con los cabellos largos y la sotana misera y corta, lacayuelo de la muerte. Cada zapato podia ser tumba de un filisteo. Pues su aposento, aun aranas no habia en él. Conjuraba los ratones de miedo que no le royesen algunos mendrugos que guardaba. La cama tenia en el suelo, y dormia siempre de un lado por no gastar las sàbanas. Al fin, él era archipobre y protomise­ ria48. 46 Ibid., pp. 32-47. 47 Ibid., p. 142. 48 Libro I, cap. un ibid., p. 34. [Portava un berretto, i giorni di sole, rosicchiato con mille buchi e guarnizioni di grasso; era di qualche cosa che fu panno, con i fondi di forfora. La sottana, a quanto dicevano alcuni, era miracolosa, perché non si sapeva di che colore era. Gli uni vedendola cosi priva di pelo, la ritenevano di cuoio di rana; gli altri dicevano che era un’illusione; da vicino pareva nera e da lontano pressappoco azzurra. La teneva senza cintura; non portava colletto né polsini. Sembrava, coi ca­ pelli lunghi e la sottana misera e corta, servitorello della morte. Ciascuna scarpa pote­ va essere tomba d’un filisteo. Il suo appartamento, poi, neanche ragni c’erano in esso. Allontanava i topi per paura che gli rodessero alcuni tozzi di pane che conservava. Il

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Lo que pasamos con la vieja, Dios lo sabe. Era tan sorda, que no ola nada: entendia por senas; ciega, y tan gran rezadora que un dia se le desensartó el rosario sobre la olla y nos la trujo con el caldo mas devoto que he comido. Unos decian: - « jGarbanzos negros! Sin duda son de Etiopia». Otros decian: - « jGarbanzos con luto! P- MO. 98 [Z Natchez]. 99 Cfr. Chateaubriand, Les Natchez, in (Euvres romanesques et voyages, t. I cit., pp. 437-38; René, ibid., pp. 117-18; Atala, ibid.,p. 36. H ritorno a luoghi cari che si tro­ vano devastati è tema che ricorre ne Les Natchez: pp. 301-2,510-n, piu sommariamen­ te pp. 437 e 465.

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tempi familiari alla memoria via via che gli uni vengono ritro­ vati insieme agli altri. «La terra dove ero stato allevato» ab­ braccia tutti questi spazi dall’esterno; la serie delle camere, punto d’arrivo interno, assegna il suo dove alla rimembranza più commovente rispettivamente di ciascun componente della famiglia, l’io non escluso. Solo negli «appartamenti sonori dove... » lo stesso avver­ bio relativo accompagna il momento della visita, col potere di evocazione sensoriale acustica già ammirato nello scritto­ re. Convergono le due forme che aveva assunte pochi decen­ ni prima la scoperta preromantica d’una dimensione di me­ moria individuale, grazie sia a Rousseau che a Goethe: il ri­ cordo d’infanzia o adolescenza e il ricordo d’amore. Il tema dell’incesto è latente sotto l’eufemistico riferimento alla so­ rella, e nelle righe che ho omesse si apprende come una ve­ nuta di lei al castello avesse preceduto quella di René. La mi­ sura della defunzionalizzazione di luoghi e oggetti è data dal tema dell’invasione vegetale e per le tele di ragno animale, che contamina la nuova categoria con un’altra non definita, come più d’una delle precedenti (iv, io, 13): il testo ha in co­ mune con Ossian cardo e muschio, ha in proprio la concre­ tissima violacciocca gialla. Ma la perdita primaria è riscattata - secondo l’annunciata alternanza di categorie semipositive e negative (iv, 5) - da un recupero di funzionalità seconda­ ria. E questo non si attua in un ordine ideologico, come nei casi del venerando-regressivo e del monitorio-solenne; coi quali pure il testo mostra contiguità o contaminazione (spe­ cie nelle massime esclamative sulla precarietà della famiglia, che vengono subito dopo la citazione). Il recupero si attua nell’ordine affettivo, con un compromesso dolceamaro. Re­ carsi al dove del passato è tentazione irresistibile per René, che si ferma a guardare, che si addentra camera per camera; ma piange a due riprese, ed esita sulla soglia, e fugge senza voltarsi infine. Per l’individuo la dolcezza del passato non può darsi se non come perduta, quand’anche non sia perdu­ to il suo potersi dare ancora come dolcezza.

15. Meglio di quella collettiva, la memoria individuale può risalire il corso del tempo a occhi chiusi, cioè in assenza

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di oggetti fìsici che ne siano occasione nel presente; e può pervenire a oggetti passati fisicamente intatti nella loro lon­ tananza. Le immagini allora o mancheranno, o saranno in­ denni dalle nostre categorie. Ecco perché nel caso della cate­ goria che mi preparo a definire, ancor più che del venerando-regressivo, parrebbe necessaria la presenza superstite d’un oggetto d’altri tempi; ed è cosi frequente e tipica pro­ prio la visita ai luoghi. Eppure i luoghi o spazi del passato, con l’astratta identità e riconoscibilità che mantengono al di là di qualsiasi mutamento degli aspetti sensibili, offrono tra presenza e assenza di oggetti come un concetto intermedio. Lo mostra bene il passo stesso a cui possiamo rifarci come a un prototipo di quello di Chateaubriand: dato il successo eu­ ropeo che erano stati, meno di trent’anni prima (1774), Die Leiden des jungen Wertbers m di Goethe. La visita del prota­ gonista alla propria cittadina natale vi immette come un’oasi tematica il ricordo d’infanzia e adolescenza, in tutta la sua novità storico-letteraria, verso la metà della trasgressiva sto­ ria d’amore: Ich habe die Wallfahrt nacb meiner Heimat mit aller Andacht eines Pilgrims vollendet, und manche unerwarteten Gefuhle haben mich ergriffen. An der grossen Linde, die eine Viertelstunde vor der Stadt nach S.. zu steht, liess ich halten, stieg aus und hiess den Postilion fortfahren, um zu Fusse jede Erinnerung ganz neu, lebhaft, nach meinem Herzen zu kosten. Da stand ich nun unten der Linde, die ehedem, als Knabe, das Ziel und die Grenze meiner Spaziergànge gewesen. Wie anders! Damals sehnte ich mich in glùcklicher Unwissenheit hinaus in die unbekannte Welt, wo ich fur mein Herz so viele Nahrung, so vielen Genuss hoffte, meinen strebenden, sehnenden Busen auszuftillen und zu befriedigen. Jetzt komme ich zuriick aus der weiten Welt - o, mein Freund, mit wie viel fehlgeschlagenen Hoffnungen, mit wie viel zerstorten Planen! [...]- Ich kam der Stadt nàher; alle die alten bekannten Gartenhàuschen wurden von mir gegrùsst, die neuen waren mir zuwL der, so auch alle Verànderungen, die man sonst vorgenommen hatte. Ich trat zum Tor hinein und fand mich doch gleich und ganz wieder. Lieber, ich mag nicht ins Detail gehen; so reizend, als es mir war, so einfórmig wiirde es in der Erzàhlung werden. Ich hatte beschlossen, auf dem Markte zu wohnen, gleich neben unserem alten Hause. Im Hingehen bemerkte ich, dass die Schulstube, wo ein ehrliches altes Weib unsere Kindheit zusammengepfercht hatte, in einen Kramladen verwandelt war. Ich erinnerte mich der Unruhe, der Trànen, der Dumpfheit des Sinnes, der Herzenangst, die ich in dem Loche ausgestanden hatte. - Ich tat keinen Schritt, der nicht merkwiirdig war. Ein Pilger im Heili100 [I dolori del giovane Werther}.

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gen Lande trifft nicht so viele Stàtten religioser Erinnerungen an, und seine Seele ist schwerlich so voli heiliger Bewegung101.

Anche qui - come abbiamo appreso subito prima - la vici­ nanza del luogo natale si era offerta al protagonista lungo la stradal02*, in una svolta decisiva della sua vicenda. La scelta di visitarlo è però molto più volontaria, e più fiduciosa a priori in una commozione goduta, da parte di Werther che di Re­ né; nel compromesso fra piacere e pena della categoria, qui un piacere eccitato e nostalgico comparativamente prevale. Werther preferisce inoltrarsi a piedi, non come René all’in­ terno dell’antico possedimento, ma fin dalla distanza d’un quarto d’ora sulla via della cittadina, per «assaporare cia­ scun ricordo in modo pienamente nuovo, vivo, secondo il cuore». La consistenza oggettiva di simili ricordi, e quindi delle immagini sia presenti che passate, viene assai meno esplicitata nel resoconto che non la riflessione ed emozione soggettiva; lo si deve all’esuberanza stessa di quest’ultima, ma anche a una reticenza settecentesca verso il mondo fisico, per cui si afferma di temere la monotonia dei dettagli. Non si arretra invece di fronte alle comparazioni iperboliche che trasferiscono il vocabolario del pellegrinaggio pio, nella pri­ ma frase e nell’ultima della citazione, a quello che da ora in poi potremo chiamare il pellegrinaggio sentimentale. Dove­ vano suonare audaci, alla data del romanzo; e confermano 101 Libro il: W. Goethe, Die Leiden des jungen Werthers, Insel, Frankfurt am Main 1973, pp. 98-99. [Ho compiuto il pellegrinaggio alla mia patria con tutta la devo­ zione di un pellegrino, e più d’un sentimento inatteso mi ha scosso. Al grande tiglio, che si trova a un quarto d’ora dalla città dal lato di S..., ho fatto fermare, sono sceso e ho lasciato proseguire il postiglione, per potere, a piedi, assaporare ciascun ricordo in modo pienamente nuovo, vivo, secondo il cuore. Mi ritrovavo sotto il tiglio che un tempo, da ragazzo, era stato meta e confine delle mie passeggiate. Quanto era diver­ so! Allora, in felice inconsapevolezza, anelavo verso lo sconosciuto mondo, dove spe­ ravo tanto nutrimento, tanto godimento per il mio cuore, per calmare e placare il mio bramoso, anelante petto. Adesso ritorno da quell’ampio mondo - o amico, con quan­ te speranze fallite, con quanti progetti rovinati! [...]- Mi avvicinavo alla città; tutte le vecchie, note casette con giardino furono da me salutate, le nuove mi erano anti­ patiche, cosi come tutti gli altri mutamenti che erano stati effettuati. Entrai dalla por­ ta e subito riconobbi di nuovo tutto. Caro, non voglio entrare nei particolari; quanto era toccante per me, tanto monotono diverrebbe nel racconto. Avevo deciso di abi­ tare presso il mercato, proprio accanto alla nostra vecchia casa. Nell’andare, osservai che l’aula dove una rispettabile vecchia teneva stipata la nostra fanciullezza era tra­ sformata in una merceria. Mi ricordo l’inquietudine, le lacrime, il torpore di pensiero, l’angoscia di cuore che ho patiti in quel buco. Non facevo un passo che non fosse me­ morabile. Un pellegrino in Terra Santa non incontra tanti luoghi di religiosi ricordi, e la sua anima è difficilmente tanto piena di santa commozione], 102 Ibid., p. 98.

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storicamente un rapporto come di concorrenza, fra il pathos profano del ricordo d’infanzia e la gerarchia degli stati d’ani­ mo previsti dalla tradizione cristiana103. Attribuendo «devo­ zione» e «santa commozione» al visitatore rimembrante, avvantaggiandosi in un confronto coi «luoghi di religiosi ri­ cordi» della Terra Santa, è come se la nuova categoria pren­ desse a prestito l’esemplarità del venerando-regressivo o la suprema serietà del monitorio-solenne per il suo ambito pri­ vato e laico. Ma è lecito parlare di nuova categoria dove, per quel tan­ to di consistenza che hanno le immagini, nessun oggetto d’altri tempi risulta invecchiato dal tempo? Il tiglio resta na­ tura indeclinabile (e cosi la montagna, nelle righe omesse); l’esclamazione: «Quanto era diverso! », non riguarda i luo­ ghi ma il cuore; «rovinati» sono solo i propositi giovanili, come fallite le speranze. La qualifica di vecchie o antiche (al­ ien), che riguarda casette con giardino e la casa stessa del personaggio, non indica una loro decadenza quanto le con­ trappone a costruzioni nuove. E a queste Werther guarda con antipatia; come a ogni altra specie di mutamenti effet­ tuati, come implicitamente alla trasformazione dell’auletta scolastica infantile in una merceria. Più integrale ed estra­ niarne di qualsiasi decadenza nel contraddire l’identità dei luoghi, il rinnovamento capovolge le reazioni affettive e pre­ clude un interessamento alle evocazioni fisiche. Esso costi­ tuisce l’unica vera forma di defunzionalizzazione di cose, spinta fino alla loro scomparsa e oltre, in questo testo che - sulle soglie della svolta storica - dà inizio alla categoria e dà nome al pellegrinaggio sentimentale. Feticismo per gli og­ getti di memoria, e parsimonia nell’evocazione del loro stato, s’incontrano anche poco più in là nel romanzo: dove l’ogget­ to ha proporzioni minori di quelle edilizie o cittadine. Wer­ ther si è deciso a stento a mettere da parte il frack nel quale aveva ballato per la prima volta con Lotte, ormai sciupato, e se n’è fatto fare uno uguale con panciotto e pantaloni uguali. Il nuovo abito tuttavia non lo soddisfa, ma spera che «col tempo» potrà diventargli anch’esso caro1

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ratore. Di quanto il pensatore Musil sia più solidale col suo protagonista, in terza persona, non addito che un esempio: nel successivo capitoletto 34. Dove un istante di metafìsico sfaldamento delle linee che compongono l’arredamento del­ l’abitazione, agli occhi di Ulrich - «Io non sono che fortuita, sogghignava la necessità» -, avvia quali riflessioni lungo la sua passeggiata quattro facciate di saggio sul caso, la moder­ nità e le generazioni 372. Ascriviamo il castelletto di Ulrich al prestigioso-orna­ mentale, perché il personaggio è all’altezza d’una voce d’au­ tore dominante; per parlare di pretenzioso-fittizio, ho affer­ mato che un personaggio non è propriamente indispensabi­ le, che lo è solo una divergenza fra punti di vista e uno scarto fra livelli (iv, 36). Può bastare quindi una voce d’autore non meno dominante che in Musil, ma anziché seriamente unita­ ria, ironicamente composita. E il caso d’una scrittura narrati­ va come quella di Carlo Emilio Gadda (1893-1973); e un ro­ manzo incompiuto è anche La cognizione del dolore, pubbli­ cato via via meno frammentario nel 1938-41, nel 1963 e nel 1970. Vi fa da premessa al pluralismo quasi ininterrotto della scrittura già il dualismo scoperto dell’ambientazione. Un burlesco Maradagàl sudamericano è figura protratta di allu­ sione alla Brianza, all’Italia, all’autobiografia circostanziata; lo spagnolo, più di altre lingue e dialetti italici, s’intromette di diritto nel discorso oltre che nei nomi. Non c’è stata che una menzione passeggera della villa Pirobutirro, quando nel primo capitolo leggiamo: Di ville, di ville! ; di villette otto locali doppi servissi; di principesche ville locali quaranta ampio terrazzo sui laghi veduta panoramica del Serruchón - orto, frutteto, garage, portineria, tennis, acqua potabile, vasca pozzonero oltre settecento ettolitri: [...]; di ville ! di villule !, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici delle ville, gli architetti pastrufaziani avevano in­ gioiellato, poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pen­ dici preandine... [...]. Noi ci contenteremo [...] di segnalare come qual­ mente taluno de’ più in vista fra quei politecnicali prodotti, col tetto tutto gronde, e le gronde tutte punte, a triangolacci settentrionali e gla­ ciali, inalberasse pretese di chalet svizzero, pur seguitando a cuocere nella vastità del ferragosto americano: [...]. Altre villule, dov’è lo spigoluccio più in fuora, si dirizzavano su, belle belle, in una torricella pseu-

372 Ibid., pp. 128,129-33.

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do-senese o pastrufazianamente normanna, con una lunga e nera stan­ ga in coppa, per il parafulmine e la bandiera. Altre ancora si insignivano di cupolette e pinnacoli vari, di tipo russo o quasi, un po’ come dei rapanelli o cipolle capovolti, a copertura embricata e bene spesso poli­ croma, e cioè squamme d’un carnevalesco rettile, metà gialle e metà ce­ lesti. Cosicché tenevano della pagoda e della filanda, ed erano anche una via di mezzo fra l’Alhambra e il Kremlino. Poiché tutto, tutto! era passato pel capo degli architetti pastrufaziani, salvo forse i connotati del Buon Gusto. Era passato l’umberto e il guglieimo e il neoclassico e il neo-neoclassico e l’impero e il secondo impero; il liberty, il floreale, il corinzio, il pompeiano, l’angioino, l’egizio-sommaruga e il coppedè-alessio; e i casinos di gesso caramellato di Biarritz e d’Ostenda, il P. L. M. e Fagnano Olona, Montecarlo, Indianòpolis, il Medioevo, cioè un Filippo Maria di buona bocca a braccetto col Califfo: e anche la Regina Vittoria (d’Inghilterra), per quanto stra­ vaccata su di un’ottomana turca: (sic). E ora vi stava lavorando il fun­ zionale novecento... 373374 . 375

Niente ci avverte alla prima lettura, nella spietatezza godi­ bilmente comica della pagina, che il tema ne è da più parti congiunto con quello tragico latente nel romanzo. Una delle ville è residenza di don Gonzalo Pirobutirro e della vecchia madre: a cui lo scapolo è legato da un rancore geloso, punti­ glioso, iracondo, che non risparmia la memoria del marchese padre. Tale che la sproporzione fra violenza e ragioni mani­ feste postula in particolare il concetto freudiano di sposta­ mento, in generale una verosimiglianza edipica, tanto incon­ scia per il personaggio quanto conscia per Fautore. Solo alla madre quando è sola spetta una scrittura di livello opposto al comico, e il capitolo comincia: «Vagava, sola, nella casa»; cosi, quando il figlio racconta un sogno che lo ha atterrito, esso ha luogo «nella nostra casa deserta»574 - come se casa fosse la variante tragica di villa. La madre sola, che «si barri­ cava in casa ogni sera», assurdamente, con «la più varia ed inopinata suppellettile » elencata a più riprese 575 , è trovata as­ sassinata alla fine. Esito preannunciato fin dalPinizio dall’in­ sistenza sulla situazione indifesa della villa, che ha aspetti di fatiscenza e carenza fisica: il cancello dalle «barre in legno, mezzo fradice», il muro «storto, tutto gobbe», «nano e ciu­ 373 Parte I, cap. I: C. E. Gadda, Romanzi e racconti, Garzanti, Milano 1988, t. I, pp. 584-85; e prima, p. 580. Pastrufazio è la capitale del Maradagàl. Sommaruga e Coppedè furono architetti attivi a Milano nel primissimo Novecento, Alessi nel Cin­ quecento. «P. L. M.» sta per «Paris-Lyon-Méditerranée». 374 lbid.y pp. 673, 633. 375 Ibid., pp. 746-47.

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co » 376. Ma anche aspetti morali, simbolici a loro volta del dis­ sidio tra figlio e genitori. È per «fiducia nel popolo», dete­ stato dal figlio, che il padre non si curava di chiavistelli e mu­ ro; il maggior rimprovero alla madre è di tenere aperta la vil­ la al primo venuto, su cui «bavare bontà». Se lei si presta a « qualunque cosa, pur che sia per gli altri », il figlio ha ragioni non solo giuridiche per reclamare infuriando « il possesso: il sacrosanto privato privatissimo mio, mio! »,77. Non è casuale il paragone di lui, « povero effetto » della sua ascendenza ma­ schile, con «un paracarro imprevisto»: che «è, tra superstiti muri, un reliquato di smarrite cagioni»’78. Nell’unico incontro a due, la madre deve preparargli da cenare « a dimostrazione della validità funzionale della vil­ la». Altrimenti la villa stessa verrebbe da lui maledetta fra bestemmie: col padre costruttore, e con « tutte le infinite vil­ le del Serruchón». Per lei viceversa, fin da giovane e durante quarantanni, era stata orgoglio e conforto «consustanziale ai visceri» la «Idea Matrice della villa» ancor prima che «la villa obbiettiva» 379. La parola tende a ripetersi periodica­ mente quale leitmotiv poco variato, a reiterarsi come in aper­ tura della pagina citata; e dai punti di vista un po’ di tutti 38°, in fondo perciò dell’autore. Da parte del protagonista, inge­ gnere di levatura umanistica da leggere Platone e scrivere prosa difficile - come Gadda -, l’antipatia per l’edificio e per gli edifici consimili avrebbe potuto benissimo esser motivata esteticamente o culturalmente. Di fatto non ha che motiva­ zioni altre: di troppo oscura violenza perché gli si accrediti una superiorità consapevole, rispetto agli ideali borghesi di cui è partecipe la madre. L’autenticità del personaggio dolo­ roso di lei, d’altra parte, non ne è diminuita più di quanto lo sia dal pretenzioso-fittizio, in Flaubert, quella di Félicité (il, 7). Non si può dire che nella pagina citata i punti di vista che 576 Ibid., pp. 615, 639, 712; e cfr. 640-43, 712. 377 Ibid., pp. 722, 713; 631 e passim-, 639. 378 Ibid., p. 619. 379 Ibid., pp. 686-88. 380 Di Gonzalo: «Ogni pretesto è buono, in villa! in villa! » {ibid., p. 659); della guardia notturna truffaldina: «Cava dinaio dai muri, in villa. Per tutte ville!» (p. 669); della madre: «tutto ciò che nasceva dalla Villa, o dalla Idea-Villa...» (p. 706); del padre: «Per i miei figli, la villa...»; «per il futuro la villa, la villa» (pp. 728-29). O, per tutti, della voce d’autore: «Il bibliotecario capo... che, manco a dirlo avea vil­ la...» (p. 606); «L’amplesso della villa, ognun la sua beninteso...» (p. 624).

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divergono, i livelli il cui scarto si apre allo scherno bilioso, coincidano preventivamente con quelli del figlio e della ma­ dre: a fronte dell’autore stanno, come soli personaggi, gli ar­ chitetti - per la cui testa è passato, come potenzialmente per quella di Ulrich, «tutto, tutto! » Meglio ancora, è decisivo il gioco del pluralismo di scrittura, entro cui la decontestualiz­ zazione prende la forma della più disparata intertestualità. In ognuno dei tanti riferimenti culturali e piani linguistici e stilistici che si decontestualizzano a vicenda, è implicito un qualche punto di vista, distanziato o ridicolizzato; e il plura­ lismo di scrittura si rispecchia nella pluralità dei rimandi ar­ chitettonici, il contenuto ripete la propria forma. Entrambi esprimono una visione decentrata e commista della moder­ nità, in cui sembra che si aggiorni caricaturalmente quella stessa di Flaubert. Una nota a una pubblicazione parziale c’informa che il «Kremlino-Alhambra-filanda-pagoda esiste nella reale realtà», in provincia di Novara; eppure potrebbe derivare da L’Education sentimentale - dove una sala da bal­ lo che si chiama L’Alhambra ha gallerie moresche, chiostro gotico, tetto cinese, lanterne veneziane, Ebi e Cupidi581. Pro­ prio di Gadda è, per maggior corrosione, che la tendenza po­ liglotta e metaletteraria precipiti il pretenzioso-fittizio in contaminazioni continue col frusto-grottesco (cfr. iv, 8). In righe omesse nella citazione c’è un richiamo a Catullo, e due parodie di anonimo tra virgolette381 382383 ; puro frusto-grottesco, alle soglie della tragedia finale, si ha in quel fondo di strada civica il cui elenco di componenti termina con «diverse mer­ de di colore e consistenza diversa, e uno o due spazzolini fru­ sti da denti, abbandonati al destino delle cose fruste...» 183. Ma il linguaggio pubblicitario delle prime righe preannuncia la direzione dell’aggressione comica dalla fine della citazione in poi. Non eludendo il referente escrementizio causa la spe­ ciale scomodità dei cessi, essa coinvolge il campo d’immagi­ ni del funzionale, contiguo al nostro per opposizione (m, 8): ne fa apparire l’efficienza non meno pretenziosa e fittizia che 381 Gadda, L’Adalgisa, ibid., p. 404, nota 4; Flaubert, L’Éducation sentimentale, in CEuvres, t. Il cit., p. 102. 382 Gadda, L’Adalgisa cit., p. 404, note 1, 3. 383 La cognizione del dolore, ibid., p. 740. Cfr., in Cinema (La Madonna dei Filoso­ fi), il corso Garibaldi «tortuoso e cosparso di gusci d’aràchidi, di mozziconi di siga­ rette appiattiti, di scaracchi d’ogni consistenza e colore...» (ibid., p. 59: il corsivo è mio).

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le ingenue suggestioni della categoria negativa - ultima delle dodici definite, denominate e documentate. Ecco l’albero semantico. Il lettore vi scorgerà simmetrie d’insieme, invisibili in corso di costruzione: al quarto livello, il parallelismo delle due neutralizzazioni al centro, fra due biforcazioni ai lati; al quinto livello, nella serie delle opposi­ zioni terminali, la regolare alternanza di contraddittori - coi contrari al limite - e di contrari. Nell’un caso come nell’altro, non l’ho fatto apposta, e non suggerisco niente che questa euritmia di astrazioni fatte parole e linee possa significare.

Capitolo v

Dodici categorie da non distinguere troppo

i. L’albero semantico permette innanzi tutto di tentare una risposta alla domanda, sollevata a suo tempo (in, 8), sul­ la consistenza letteraria delle immagini. Nessuna delle dodi­ ci definizioni di categorie d’immagini prevede oggetti fisici determinati; tutte attribuiscono ad oggetti variabili testo per testo un «effetto immaginario», per cosi dire un’interpreta­ zione di essi insita nei testi, che danno forma e sostanza con­ creta ad astratte materie del contenuto. In breve, le immagini che c’interessano sono composte da certe rappresentazioni più la loro interpretazione secondo l’albero semantico. Per­ ciò, nell’impiego dell’albero, pare facile una tentazione con­ tro cui il lettore va messo in guardia: quella di scindere le in­ terpretazioni da rappresentazioni corrispondenti, reificando senza cose le categorie, ossia i termini morali o ideologici o emotivi ecc. delle loro definizioni. Se abbiamo classificato perché ci servivano parole giuste (in, 6-7), non sarebbe cor­ retto usare il nome di monitorio-solenne a proposito d’un te­ sto in cui si abbia senso di caducità ma non per esempio rovi­ ne, il nome di memore-affettivo se si ha ricordo commosso senza reliquie, di sinistro-terrifico se si ha spavento sopran­ naturale senza visione di spazi, di pretenzioso-fittizio se si ha esperienza inautentica senza appositi simulacri, e cosi per ogni altra categoria. Fra i cinquanta esempi del capitolo pre­ cedente, la sproporzione massima fra intensità d’interpreta­ zione ed esiguità di rappresentazione si tocca in un esempio di memore-affettivo: quello dal Werther (iv, 15). «Non face­ vo un passo che non fosse memorabile», dice la penultima frase citata, e sembra averla ripresa e ampliata Leopardi in tre versi de Le Ricordanze-.

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Qui non è cosa Ch’io vegga o spita, onde un’immagìn dentro Non tórni, e un dolce rimembrar non sorga *.

Facciamone un controesempio, che valga per ogni altro co­ me caso limite. In questi versi si parla addirittura di cose e di immagini; e se ne parla secondo la definizione della catego­ ria. Eppure non sarebbe corretto usare per essi il nome di memore-affettivo, perché cose ed immagini non vi sono rap­ presentate (o, nel contesto seguente, non vi sono connotate in modo che ci riguardi). Ma il punto è che si può avere benissimo, che si ha spesso, anche la scissione opposta: una sia pur minimale rappresen­ tazione, senza un’interpretazione possibile secondo l’albero semantico. L’inapplicabilità dell’albero equivale quasi tauto­ logicamente all’insufficiente consistenza dei testi dal nostro preciso punto di vista, per chi ammetta che le undici opposi­ zioni gerarchizzate nell’albero sono se non le sole pertinenti, almeno le più pertinenti rispetto al corpus dei testi. Esaminia­ mo una prima serie di passi inadeguati, o no. Nell’ Orlando fu­ rioso , Dalinda riceve segretamente l’amante Polinesso: Non fu veduto d’alcun mai salire; però che quella parte del palagio risponde verso alcune case rotte, dove nessun mai passa o giorno o notte2.

In una novella del Decameron, il duca d’Atene accoltella il principe di Morea e lo precipita dalla finestra dove lo ha sor­ preso: Era il palagio sopra il mare e alto molto, e quella finestra, alla quale allo­ ra era il prenze, guardava sopra certe case dall’impeto del mare fatte ca­ dere, nelle quali rade volte o non mai andava persona: per che avvenne, si come il duca davanti avea proveduto, che la caduta del corpo del prenze da alcuno né fu né potè esser sentita

Nella seconda parte del Don Quijote \ Sancho Panza col suo asino si propone di trascorrere una notte d’estate all’aperto: 1 G. Leopardi, Tutte le opere. Le poesie e le prose, Mondadori, Milano 1940,1.1, pp. 76-77. Nello Zibaldone, yj {Zibaldone di pensieri, Garzanti, Milano 1991,1.1, p. 78; e cfr. la nota a p. 499 del t. Ili), è citata e approvata la stessa lettera di Werther (9 mag­ gio 1772) commentata qui sopra. 2 V, ott. io, w. 4-8: Ariosto, Tutte le opere, 1.1 cit., p. 83. Potrei citare, per ragio­ narci sopra in modo identico, le « case guaste», «casa rotta», « mura vecchie», « rot­ to albergo», dove si nascondono i Maganzesi e li snida Marfìsa nel terzo dei Cinque canti (ott. 102,109, ni: Id., Cinque canti, Einaudi, Torino 1977, pp. 91, 93). ’ II, 7: G. Boccaccio, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1976, t. IV, p. 170 (pp. 169-71). Proveduto = previsto. 4 [Don Chisciotte].

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... y quiso su corta y desventurada suerte que buscando lugar donde mejor acomodarse, cayeron él y el rucio en una honda y escurisima sima que entre unos edifìcios muy antiguos estaba...s6 .

Ne Ulllusion comique* di Corneille, un carceriere ha prepa­ rato l’evasione e la fuga di Clindor prigioniero, con le due ri­ spettive amanti: On nous tient des chevaux en main sure aux faubourgs, Et je sais un vieux mur qui tombe tous les jours: Nous pourrons aisément sortir par ses ruines7.

Nella Gerusalemme liberata, il mago Ismeno guida Solimano alla reggia entro la città assediata, per un passaggio sotterra­ neo e sconosciuto: Cava grotta s’apria nel duro sasso, di lunghissimi tempi avanti fatta; ma, disusando, or riturato il passo era tra i pruni e l’erbe ove s’appiatta8.

In poema, novella, romanzo o commedia, sono cinque momenti di altrettante narrazioni. Li ho disposti in plausibi­ le gradazione: da un massimo di economia verbale nel dare informazione, a un massimo d’indugio relativo nel rappre­ sentare oggetti. Se i testi da studiare fossero solo testi narrati­ vi, la consistenza delle immagini potrebbe misurarsi esatta­ mente sulla quota non necessaria dell’indugio, in rappor­ to alla necessità dell’informazione: quasi su una proporzio­ ne inversa, nello spazio verbale, tra funzionalità narrativa e non-funzionale immaginario. Nei cinque passi la menzione d’una qualche corporeità non-funzionale, più o meno sempli­ ce e fugace, presenta un’utilità per i personaggi o comunque permette una promozione del racconto. Boccaccio può la­ sciare un giorno intero due cadaveri fra i ruderi, e farli poi sco­ prire in modo avventuroso; Cervantes assicura a Sancho, nel burrone, un tragicomico monologo e una via di ritrovamento 5 Parte II, cap. lv: M. de Cervantes, Segunda parte del Ingenioso Caballero Don Quijote de la Mancha, t. Il, Càtedra, Madrid 1977, p. 439 (pp. 439-43). [...e volle la sua sorte manchevole e sventurata che cercando un luogo dove sistemarsi per il me­ glio, caddero lui e il grigio in un burrone oscurissimo e profondo che si trovava fra al­ cuni edifìci molto antichi...] 6 [L’illusione teatrale]. 7 Atto IV, se. vi: Corneille, CEuvres complètes, «Bibliothèque de la Plèiade», 1980,1.1, p. 667. [Ci sono per noi cavalli, ai sobborghi, in mano sicura, | E conosco un vecchio muro di giorno in giorno cadente: | Usciremo facilmente attraverso le sue ro­ vine]. 8 X, ott. 29, w. 1-4: Tasso, Poesie cit., p. 255 (pp. 255-57).

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imprevisto col suo padrone. Agli amanti di Ariosto occorrono paraggi non frequentati per incontrarsi, a quelli di Corneille un varcò per uscire da Bordeaux, ai pagani di Tasso uno scavo per oltrepassare gli assedianti cristiani. Quanto a immagini, nessuno dei primi quattro passi tocca la soglia di consistenza al di sopra della quale si pongono gli esempi del secondo e quarto capitolo, e l’ultimo la sfiora. E legittimo pensare che ri­ flettano la parsimonia d’evocazione sensoriale di epoche an­ teriori alla svolta storica; e compiacersi di fantasticare quali sviluppi avrebbero dato alle immagini, a parità di situazione, Walter Scott o Victor Hugo. È però legittimo solo in parte, vi­ sto che casi di analoga economia s’incontrano anche in pieno Otto o Novecento. In The Ring and the Book9 di Browning, il giovane prete Caponsacchi diffida della lettera che lo invita a un colloquio con la moglie del conte Franceschini: Going that night to such a side o’ the house Where the small terrace overhangs a street Blind and deserted, not the street in front...10.

Ne La coscienza di Zeno di Svevo, la strada che il protagoni­ sta percorre in cerca del futuro suocero è adatta alla fretta che ha di trovarlo: Alte vecchie case che offuscano una via tanto vicina alla riva del mare poco frequentata all’ora del tramonto, e dove potei procedere rapido 11.

Fermiamoci ai primi quattro passi; e quell’inconsistenza d’immagini che non è giustificata in modo esclusivo né dalla loro narratività né dalla loro datazione, sia ora verificata at­ traverso un confronto con l’albero semantico. Già la prima opposizione dell’albero risulta di più che dubbia applicazio­ ne. Non che manchi la percezione d’un decorso di tempo, sot­ tintesa in Ariosto e Boccaccio, sottolineata in Cervantes e Corneille; né manca mai un’incidenza sul tempo attuale, che coincide praticamente con la funzionalità narrativa. Ma l’ef­ fetto immaginario è troppo tenue perché sia propriamente in esso che l’una o l’altra è prevalente, o anche soltanto si affer­ ma, aprendo uno spazio semantico divisibile secondo le op­ 9 [L’anello e il libro]. 10 VI [Giuseppe Caponsacchi), vv. 515-17: R. Browning, The Ring and the Book, Everyman's Library, London - New York 1968, p. 215. [Andando quella notte dal la­ to della casa | Dove la piccola terrazza sovrasta una strada j Cieca e deserta, non la strada sul davanti...] " Cap. v: I. Svevo, Romanzi, Mondadori, Milano 1985, pp. 749-50.

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posizioni sottostanti. Il decorso di tempo non fa che motiva­ re stati di fatto, l’incidenza attuale non fa che prepararne modifiche, e non sono che cause ed effetti nell’interesse di­ namico del racconto. Di conseguenza, le opposizioni sotto­ stanti sono inapplicabili nella loro successione gerarchica; al più, parrebbero applicabili ad una ad una - con quel criterio che avevo ipotizzato come il meno arbitrario, ma scartato co­ me troppo prudente per far riconoscere delle costanti (iv, 5). E innegabile che tutte queste mezze immagini comportano un ordine naturale anziché soprannaturale, mostrano manu­ fatti edilizi anziché natura grezza, sono presentate in modo piuttosto serio che non serio, piuttosto come sconvenienti che come esemplari. Ma l’albero vive della solidarietà in sen­ so verticale, e dell’alternativa in senso orizzontale, di parti di definizioni leggibili da cima a fondo: nessuna opposizione superiore vale a qualificare un’immagine prescindendo dalle inferiori, né viceversa. Solo in Tasso un effetto immaginario fra il magico e il sinistro è leggibile fino alla relativa opposi­ zione terminale, pur lasciandola indecisa. Lo confermano nelle ottave seguenti espressioni quali «angusto sentiero», «via furtiva», «buia strada», «antro oscuro», «disusata scala»; soprattutto, «via solinga e bruna». Alla funzionalità narrativa, certo, non ne servivano tante12. 2. Oltre quelli narrativi, non vedo che un tipo di testi do­ ve l’indugio su certe immagini potrebbe misurarsi in deroga a una funzionalità o economia o logica propria dei testi stes­ si: quelli a carattere argomentativo. Si rammenti il rapporto fra ragionamento e immagini nella lettera di Sulpicio che ho scelta come primo esempio per l’albero semantico, ricono­ scendo in seguito un momento argomentativo come tipico del monitorio-solenne (iv, 1,6). Mentre il carattere narrativo è proprio di generi letterari in senso stretto o forte, incluso il teatro, solo scritture ideologiche di letterarietà indiretta o debole avranno carattere argomentativo puro; ma entrambi i caratteri possono fare apparizioni più o meno protratte in 12 Fonte letterale dei quattro versi citati è Boccaccio, Decameron, IV, i {Tutte le opere, t. IV cit., p. 356): dove la grotta, non usata da tanto tempo «che quasi niuno eli cila vi fosse si ricordava», ha piena funzionalità narrativa per gli amori di Ghismonda e Guiscardo; come quindi le espressioni «segreta scala», e più in là (p. 360) «assai occulta via». Se c’è un minimo d’indugio, va nel senso dello sterile-nocivo: Tasso, oltre ad aumentarlo, l’ha orientato diversamente.

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ogni genere di scrittura. È in mancanza di entrambi che par­ lare d’indugio su immagini perde senso, e allora è unicamen­ te nel confronto con l’albero semantico che l’inconsistenza delle immagini si lascia verificare. Questo capita soprattutto entro quei generi e momenti, meno ben definiti dagli studi recenti dei generi e momenti narrativi, che non saprei desi­ gnare se non con termine corrente come lirici; e nell’appros­ simazione ad essi, d’altra parte, credo di constatare che l’i­ napplicabilità dell’albero si faccia ancora più radicale. Cominciamo da qualche passo d’un genere a carattere nar­ rativo un po’ speciale, come la favolistica con animali parlan­ ti. Ne L’Aigle et le Hibou13 *15 di La Fontaine, una sera l’aquila scorge la covata di mostriciattoli del gufo: Dans les coins d’une roche dure, Ou dans les trous d’une masure (Je ne sais pas lequel des deux)...14.

Ne Le Chat et le Ratl\ gatto topo gufo e donnola: Hantaient le tronc pourri d’un pin vieux et sauvage16.

Ne Les Souris et le Chat-huanC1 : On abattit un pin pour son antiquité, Vieux palais d’un Hibou, triste et sombre retraite De l’Oiseau qu’Atropos prend pour son interprète. Dans son tronc caverneux et mine par le temps...18.

Anche qui ho citato in gradazione. Nella prospettiva anima­ le, la cui capacità di adozione poetica è tanto maggiore in La Fontaine che in Esopo o in Fedro, cantucci di roccia e fori di catapecchia non fanno differenza: «non so quale dei due» né noi sapremmo di quale categoria usare il nome. Vecchi tronchi di pino sono dimore senza dubbio assai poco funzio­ nali dal punto di vista umano. Ma la favola sospende o sov­ verte, appunto, tale punto di vista; e l’opposizione che cosi 13 [L’aquila e il gufò]. w V» 18: La Fontaine, CEuvres complètes, «Bibliothèque de la Plèiade», 1991,1.1, pp. 200-1. [Nei cantucci d’una roccia dura, | O nei fori d’una catapecchia | (Non so quale dei due)...] 15 [1/ gatto e il topo]. 16 Vili, 22: ibtd.'p. 332. [Frequentavano il tronco marcio d’un pino vecchio e sel­ vaggio]. 17 [I topolini e il barbagianni}. 18 XI, 9: tbid., p. 443. [Un pino fu abbattuto per la sua antichità, | Vecchio palaz­ zo d’un Gufo, ritiro triste e cupo | Dell’Uccello che Àtropo si sceglie per interprete. | Nel suo tronco cavernoso, e minato dal tempo...]

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rende inapplicabile non è nemmeno la prima dell’albero, ossia quella interna all’effetto immaginario - incontestabil­ mente intenso nei tre passi. E un’opposizione che sarebbe di livello ancora superiore se non l’avessi lasciata fuori come preliminare all’albero (cfr. iv, i), ossia quella stessa tra cor­ poreità funzionale e non. Ciò che per l’uomo è blandamente sterile-nocivo, con o senza sinistro-terrifico, per il gufo e le altre bestiole è idonea residenza o «palazzo»: la collisione fantasiosa e giocosa delle due prospettive, che non esclude­ rebbe nemmeno il frusto-grottesco, rende insoddisfacente insieme alle categorie perfino l’idea della loro contaminazione. Decidere se la familiarità d’un vecchio edificio si propon­ ga in una prospettiva umana o animale sarebbe pure ozioso, per tutt’altre ragioni che in La Fontaine, in quest’inizio di Leopardi: D’in su la vetta della torre antica, Passero solitario, alla campagna Cantando vai finché non more il giorno...w.

Molti versi dopo, la morte del giorno sembrerà esprimere la caducità della gioventù: senza immagini però da monitoriosolenne. La «torre antica» non è tale, né è memore-affettivo o venerando-regressivo, né appartiene a una qualche catego­ ria negativa. E non tanto perché si affaccia in due sole parole: siamo passati alla poesia lirica, dove non solo la mancanza di narratività ma la densità della parola mette in questione l’i­ dea d’indugio. Piuttosto per l’intrinseca assimilazione dell’io al suo esplicito termine di paragone, Il passero solitario a cui la poesia s’intitola, contemplatore e cantore isolato come lui. Come la vetta di torre è sede adatta letteralmente all’uno, lo diventa metaforicamente all’altro: compromettendo le iden­ tità, e indebolendo le connotazioni verosimili ad esse legate, il sistema metaforico in cui la rappresentazione minimale è presa ne elide la non-funzionalità potenziale. Tuttavia l’ita­ liano Leopardi, coevo dei grandi poeti romantici d’altre lin­ gue, resta idealmente anteriore alla liberazione rivoluziona­ ria della metafora da essi effettuata. Nella Ode to the West Wind™ di Shelley, il vento autunna19 Leopardi, Tutte le opere. Le poesie e le prose, t. I cit., pp. 44-45. 20 [Ode al vento d’Occidente].

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le a guì l’io si rivolge e vorrebbe adeguarsi « desta dai suoi sogni estivi» il Mediterraneo, che giaceva cullato dalle proprie correnti: And saw in sleep old palaces and towers Quivering within the wave’s intenser day, All overgrown with azure moss and flowers...21.

« Vecchi palazzi e torri» non sono visti riflessi nel mare, bensì è il mare meridionale a vederli nel sonno; se tremolano è per intensità di luce marina, e il muschio che li ricopre è azzurro. Qui l’animazione antropomorfica dell’inanimato capovolge, con la prospettiva umana fìsica, le connotazioni assegnabili all’aggettivo. Non si può leggervi altro che la stessa radiosa euforia di tutto il contesto: a che varrebbe interrogarsi sulle nostre categorie? Nella Ode to a Nightingale2223 *di Keats, l’io presume che il canto dell’usignolo possa essere quello mede­ simo che ha più volte: Charm’d magic casements, opening on the foam Of perilous seas, in faery lands forlorn25.

Sebbene in terre «fatate», è imprecisabile perché l’aggettivo «magiche» si riferisca proprio a finestre; e se i mari siano «pericolosi» per gli abitatori di simili terre, o solo per chi le pensa come « derelitte ». Su di esse, certo, il nostro criterio di funzionalità si trova abrogato o alienato. La prospettiva qui non appartiene all’usignolo, sebbene sia il verbo del suo can­ to a reggere il tutto e a renderlo incantato: ha senso parlare di soprannaturale, non però delle nostre due categorie relative per le finestre, né di sterile-nocivo per i mari. L’opposizione tra funzionale e non può benissimo vigere in un sogno, ma quando l’alta figuralità della letteratura la trascende fa ciò che in altri casi quella del sogno può fare. Non aggiungo che un passo di sogno a occhi aperti riferito in letteratura: entro la chiaroveggente follia àéWAurélia di Nerval. Nella casa d’uno zio materno morto da più d’un secolo, parenti di epo­ che diverse rivivono e convivono: Un de ces parents vint à moi et m’embrassa tendrement. Il portait un costume ancien dont les couleurs semblaient pàlies, et sa figure sou21 P. B. Shelley, Poems, Everyman’s Library, London - New York 1953, t. I, p. 330. [E vedeva nel sonno vecchi palazzi e torri | Tremolanti entro la più intensa lu­ ce dell’onda, | Tutti ricoperti d’azzurro muschio e fiori...] 22 [Ode a un usignolo]. 23 J. Keats, Poetical Works, Oxford 1956, p. 209. [Incantato finestre magiche, aperte sulla schiuma | Di pericolosi mari, in fatate terre derelitte].

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riante, sous ses cheveux poudrés, avait quelque ressemblance avec la mienne24.

Sulla desuetudine di quest’abito antico impallidito avremmo scarsa presa analitica: le radici dell’albero semantico sono in un tempo e in uno spazio dove il principio d’identità riesca ancora a garantire connotazioni riconoscibili, non vada me­ taforicamente o al limite oniricamente alla deriva.

3. La brevità di questi esempi lirici contribuisce all’inap­ plicabilità dell’albero semantico. Ma non ne è condizione necessaria, e nemmeno sufficiente: in altri casi, non più pa­ role di quante ne entrano nella misura d’un verso possono rendere leggibile nell’albero un’intera definizione di catego­ ria. A conferma ultima che la consistenza delle immagini non va decisa in termini quantitativi, ecco un esempio. Nel libro II dell’Eneide, raccontando la fine di Troia e trovando inade­ guate alla notte di strage parole e lacrime, Enea esclama: Urbs antiqua ruit multos dominata per annos...25.

Verso sublime che sovrasta presente, passato e futuro: nella visione della città in atto di rovinare, s’incrociano la rimem­ branza della sua intatta maestà e la previsione delle rovine che resteranno. Il decorso di tempo che causa vanto e stupo­ re non è l’antichità futura dei resti, bensì quella del lungo do­ minio passato. E non conta in quanto determinazione stori­ ca, ma solo per contrasto col fatto in sé della caduta: gli attri­ buti di durata e potenza del sostantivo, occupando quasi tut­ to lo spazio dell’esametro, si oppongono al verbo catastrofico col sottinteso concessivo di un benché. E dunque decisa­ mente monitorio-solenne, senza contaminazione col vene­ rando-regressivo di là da venire. * In epoca più moderna, proprio intorno al venerando-regressivo ruotano varie con­ taminazioni allusive entro spazi verbali brevi: fenomeni pos24 Parte I, cap. iv: G. de Nerval, (Euvres completes, «Bibliothèque de la Plèia­ de», 1993, t. IH, p. 703. [Uno di questi parenti venne a me e mi abbracciò teneramen­ te. Portava un costume antico dai colori che sembravano impalliditi, e il suo volto sor­ ridente, sotto i suoi capeUi incipriati, aveva qualche somiglianza col mioj. 25 II, v. 363: Virgile, Enéide, livres I-VI cit., p. 50; cfr. al v. 290, dove parla Ettore nel sogno: «ruit alto a culmine Troia» [precipita da tutta la sua altezza Troia] (p. 47). [Una città antica precipita, per molti anni già dominatrice].

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sibilj solo nei confini coperti dall’albero, diversi quindi dal­ l’inapplicabilità di esso. Eppure per questa via, e per effetto di brevità, si perviene a una indecidibilità fra categorie da non trascurare in un’ulteriore piccola rassegna di casi dubbi. Nel già considerato Melmoth the Wanderer di Maturin (iv, 24), si legge una singolare doppia comparazione: attorno a un lugubre percorso di montagna, corsi d’acqua recenti ru­ moreggiano quali nuovi ricchi; mentre i letti di torrenti ante­ riori: ... now stood gaping and ghostly like the deserted abodes of ruined no­ bility2627 . 28

E in tre romanzi del nostro secolo (di due dei quali riparlerò a lungo), si legge: ... the visioned empty ghost-whistling castles in Sutherland... (Lowry, Under the Volcano)21.

He had a castle in the I lebrides, but it was ruined, he told her. Gannets feasted in the banqueting hall (V. Woolf, Orlando)2S.

... sohaba... con ciudades antiguas de cuya pasada grandeza sólo quedaban los gatos entre los escombros (Garcia Marquez, Cien anos de so­ ledad)29.

In un testo surrealista: Le temple de Salomon est passe dans les métaphores où il abrite des nids d’hirondelles et de blémes lézards (Aragon, Le Paysan de Paris)

Per la comparazione di Maturin, di non molto posteriore alla svolta storica, si può ben parlare di venerando-regressivo aperto al sinistro-terrifico. Ma più d’un secolo dopo, nella ri­ ga dal romanzo di Lowry, non basta riconoscere il soprav­ vento della seconda categoria sulla prima: l’originalità d’e­ spressione - castelli «fischiami di spettri» - varia su una 26 Cap. xxxiii: Maturin, Melmoth cit., p. 383. [... erano ora vacanti e spettrali co­ me le disertate dimore di nobiltà rovinata]. 27 Cap. vii: M. Lowry, Under the Volcano, Penguin 1963, p. 205. {Sotto il vulca­ no}. [... i castelli da visione, vuoti, fischiami di spettri, nel Sutherland...] 28 Cap. v: V. Woolf, Orlando. A Biography, Hogarth, London 1970, p. 226. [Orlando. Una biografia}. [Aveva un castello nelle Ebridi, ma era in rovina, le disse. Sule facevano festino nella sala dei banchetti]. 29 G. Garcia Marquez, Cien anos de soledad, Editorial Sudamericana, Buenos Ai­ res 1969, p. 97. {Cent’anni di solitudine}. [... sognava... antiche città della cui passata grandezza restavano soltanto i gatti fra le macerie]. )0 L. Aragon, Le Paysan de Paris, Gallimard, Paris 1926, p. 17. {Il contadino di Pa­ rigi}. [Il tempio di Salomone è passato nelle metafore dove ripara nidi di rondini e li­ vide lucertole].

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consumata stereotipia di entrambe, e della loro stessa conta­ minazione. Variano in sensi opposti su una stereotipia non minore, quella degli animali da sterile-nocivo fra le rovine, sia il festino dei palmipedi selvaggi nella Woolf sia la dome­ sticità dei gatti in Màrquez. Ma in contaminazione con quali altre categorie fra monitorio-solenne, venerando-regressivo, logoro-realistico? e perché non frusto-grottesco in Màrquez (dove il contesto precedente è pretenzioso-fittizio)? Nel frammento di Aragon, se il venerando-regressivo figura ri­ fiutato, è per via d’una lessicalizzazione che esprime l’usura culturale mediante i simboli tradizionali di usura fisica. Sim­ boli e sigle, citazioni implicite da non più identificabili pre­ cedenti, sembrano ormai le immagini in tutti e quattro i frammenti novecenteschi; la loro convenzionalità è rinnova­ ta dalla stessa letterarietà che la denuncia. L’irresolutezza classificatoria è lungi dal mandare l’albero a pezzi, come in quelle altre serie di esempi. Rende anzi tronco e rami più vi­ sibili del fogliame: dà tarde conferme a nuclei storici remoti dell’unità d’oggetto di questo libro. Più che di casi dubbi si dovrebbe parlare di casi mancati, o fantomatici, per certi passi anteriori alla svolta storica o meglio per l’effetto che possono produrre oggi. La fantasia del lettore, alimentata dalla sua consuetudine con codici let­ terari posteriori, reagirà a una carenza d’immagini: già se le categorie dell’epoca, il monitorio-solenne e il frusto-grotte­ sco, restano al di sotto d’una soglia di consistenza media pur comparativamente bassa (iv, i, 6; 4, 8, 9). Quando il presi­ dente de Brosses viaggia in Italia, e si ferma a Modena nel 1740, l’arnese di legno che fu presunta occasione de La sec­ chia rapita di Tassoni è conservato in cattedrale: On s’empressait beaucoup pour nous le mener voir: je n’en fus pas curieux, et je devinai sans peine un vieux seau de bois pourri et vermoulu51.

Questo arriva ad essere frusto-grottesco per un attimo, spre­ giato anziché comico, ipotetico nella sua prevedibilità. Ma quando in Tom Jones l’albergatrice fa preparar da mangiare al protagonista in una camera da lei chiamata il Sole, la soglia31 * 31 LUI, À M. de Neuilly: Ch. de Brosses, Lettres familières écrites d’ìtalie en 1739 61740, Éditions d’aujourd’hui, Paris 1977, t. Il, p. 399. [Lettere familiari scritte dall’I­ talia nel 1739 e 1740]. [Erano tutti affaccendati per portarci a vederlo: non ne ebbi cu­ riosità, m’immaginai senza fatica una vecchia secchia di legno marcito e tarlato].

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non pare raggiunta: non si ha che un gioco di antifrasi sul no­ me (« was truly named, as lucus a non lucendo\ for it was an apartment into which the sun had scarce ever looked»), un giudizio («It was indeed the worst room in the house») e un’iperbole («having been shown into a dungeon»)52. Bella occasione perduta per una descrizione divertente, può vaga­ mente pensare il lettore di oggi. E se anche sente che nel con­ testo settecentesco non avrebbe potuto essere che diverten­ te, cioè frusto-grottesco, ci pensa perché tra Fielding e noi sono cosi numerose ed estese le descrizioni serie: quelle da logoro-realistico. Ho parlato da poco di sviluppi d’immagini fantasticati secondo le maniere di scrittori ottocenteschi, a parità di situazioni narrative con esempi anteriori quasi del tutto astinenti (v, i). In qualche caso non è facile esimersi da simili confronti, immaginari in più d’un senso: talmente vi si prestano situazioni narrative o dati tematici. Nel 1721 il duca di Saint-Simon è ambasciatore del reggen­ te di Francia presso il re di Spagna, e visita fra l’altro l’Escurial. Il racconto dei Mérnoires” fu redatto verso il 1746-49: siamo lontani dal dramma di Schiller, dall’opera di Verdi. Tuttavia esiste la leggenda nera sulla fine dell’infante don Carlos, ed è a proposito di essa che la devozione illuminata del duca si scontra con la bigotteria spagnola. Questa s’in­ carna in un « grosso monaco » che gli fa da guida, e che mon­ ta in furia difendendo Filippo II e l’autorità assoluta del pa­ pa: «Tel est le fanatisme des pays d’Inquisition... »E le im­ magini del luogo? Ha ben mostrato Auerbach come il senso concreto d’interferenza tra sfere fisiche e morali, nel grande e privatissimo memorialista, sia eccezionale fino all’anacro­ nismo per la prima metà del Settecento55. Di fatto, per tutte suggestioni misteriose e fosche, il lettore postromantico deve accontentarsi qui dell’unica frase: «Le Panthéon m’effraya par une sorte d’horreur et de majesté». Nell’apparta­ mento di Filippo II non è più entrato nessuno dalla sua mor32 Libro Vili, cap. iv: H. Fielding, The History of Tom Jones, Everyman’s Li­ brary, London - New York 1963,1.1, pp. 329-30. [La storia di Tom Jones], [era ben denominato, come lucus a non lucendo-, perché era un appartamento nel quale a sten­ to il sole era mai apparso.] [Era davvero la peggiore camera della casa], [essere stato condotto in cella carceraria]. 33 [Memorie]. 34 Saint-Simon, Mémoires, «Bibliothèque de la Plèiade», 1988, t. Vili, pp. 87-88. [Tale è il fanatismo dei paesi d’inquisizione...] 35 Auerbach, Mimesis, t. Il cit., pp. 175-97.

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te, tranne Fattuale re di prepotenza, e il rifiuto di aprirlo ri­ mane insormontabile. Ma lì commento è: «Je ne compris rien à cette espèce de superstition»; del resto al duca era sta­ to riferito «que le tout ne contenait que cinq ou six chambres obscures», senza tappezzeria né mobili: «ainsi je ne perdis pas grand chose à n’y pas entrer »36. Segue una descri­ zione, particolareggiatissima quanto a spazi, oggetti e fun­ zioni, della camera di putrefazione (pourrissoir) della fami­ glia reale. Ma da quelle connotazioni ambientali che è dono di Saint-Simon non tralasciare, il macabro viene purgato nel lindo, nel lucente e nell’inodore: le nicchie si richiudono sui corpi «sans qu’il paraisse qu’on ait touché à la muraille, qui est partout luisante et qui éblouit de blancheur, et le lieu est fort clair»; la camera adiacente, fitto sepolcreto a tasselli pa­ ragonato a una biblioteca, «n’a rien de funèbre»; «[q]uoique ce lieu soit si enfermé, on n’y sent aucune odeur»3738 . La 39 svolta storica divide da Saint-Simon il viaggiatore che reduce da Gerusalemme visitò anche lui l’Escurial nel 1807, e pub­ blicò il suo Itinéraire* nel i8n, Chateaubriand. Con lui l’oc­ casione non rischia di andare perduta; poiché in Spagna non c’è stata rivoluzione, la sua funebre ironia metaforica risale dal venerando-regressivo al monitorio-solenne: ... les rois d’Espagne sont ensevelis dans des tombeaux pareils, dispo­ ses en echelons: de sorte que toute cette poussière est étiquetée et rangée en ordre, comme les curiosités d’un museum 59.

Lasciamo il limbo delle immagini che avrebbero potuto esserci e non ci sono, per terminare la casistica periferica con quelle meno irreali immagini che parrebbero non esserci e ci sono. Parlo d’un fenomeno le cui premesse sono certo docu­ mentabili con la maggioranza degli esempi tratti, nel secon­ do e quarto capitolo, da contesti narrativi: dove la portata 36 Saint-Simon, Mémoires, t. Vili cit., pp. 85-86. [Il Pantheon mi spaventò per una sorta di orrore e di maestà]. [Non capii niente in questa specie di superstizione], [che il tutto non comprendeva che cinque o sei camere buie], [cosi non perdetti gran che a non entrarci]. 37 Ibid., pp. 86-87. [senza che si veda che è stato manomessso il muro, che è lu­ cente dappertutto e abbaglia di biancore, e il luogo è assai chiaro], [non ha niente di funebre], [Benché sia un luogo cosi rinchiuso, non si sente nessun odore]. 38 [Itinerario da Parigi a Gerusalemme e da Gerusalemme a Parigi]. 39 Parte VH: Chateaubriand, Itinéraire de Paris à jérusalem et de Jérusalem à Pa­ ris, in CEuvres romanesques et voyages, «Bibliothèque de la Pleiade», 1969, t. II, p. 1213. [... i re di Spagna sono sepolti in tombe uguali, disposte per gradi: cosi che tutta questa polvere è etichettata e messa in ordine, come le curiosità di un museo].

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delle immagini ha prolungamenti sottintesi. Dove non ci si li­ mita a guardarle, con gli occhi della mente, nel punto in cui si presentano. Si continua, o si torna, a vederle per tratti suc­ cessivi; e ciò senza che siano rammentate, o bastando che lo siano appena. Talvolta basta che già in prima istanza siano evocate appena, per farle durare a lungo o riemergere spesso come sfondo indimenticabile e vago. E un fenomeno della letteratura di tutte le epoche; e può potenziare stupenda­ mente la sobrietà d’immagini anteriore alla svolta storica. Ne El Burlador de Sevilla40 di Tirso de Molina, il primo don Gio­ vanni del teatro europeo si reca alla chiesa dove la Statua ri­ cambierà l’invito a cena. Con lui c’è il suo servo che ha paura, e vorrebbe dissuaderlo dall’entrare: Ya està cerrada la iglesia41.

Prescindendo dalla realizzazione teatrale del 1620-30 circa, come dal fatto che la paura di Catalinón mescola il comico al terribile, ad essa è verbalmente affidata l’evocazione del­ l’ambiente: l’annottare fuori, l’oscurità e vastità dentro. Nel verso che precede e in quello che segue l’ingresso, l’effetto si­ nistro-terrifico è tanto laconico e indiretto quanto durevole: jQue escuta que està la iglesia, Senor, para ser tan grande!4243 *.

Anche in un romanzo dell’ultimo Ottocento come Effi Briest di Fontane, è significativa una punta di sproporzione: fra l’importanza che avrà nel racconto il dato della paura di Effi, per i rumori spettrali dal piano disabitato sopra la sua camera da letto, e la brevità dell’unica descrizione di quel piano45. Ma il fenomeno non è circoscritto alle reticenze di cui ha bisogno il sinistro-terrifico, per quanta complicità ab­ bia con esse. E vero che, fra gli esempi dei capitoli preceden­ ti, uno dei due casi di minimi indugi descrittivi era il raccon­ to di fantasmi di James (iv, 26); l’altro però era il racconto di Mann, il più sorprendente per la rarità di quelle immagini 40 [L’ingannatore di Siviglia']. 41 Jornada III: Tirso de Molina, El Burlador de Sevilla y Convidado de piedra, Estudios, Madrid 1989, p. 279. [È chiusa già la chiesa]. 42 Ibid., p. 280. [Com’è buia la chiesa, | [...] | Signore, ed è cosi grande!] 43 Cfr. Th. Fontane, EffiBriest, Insel, Frankfurt am Main 1977, pp. 65-66, 71, 7476, 85-98,101-5,119-21,157-60, 205-6, 219, 247-48.

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veneziane che a memoria di lettore si crederebbero diffuse (iv, 32). Entrambi sono esempi di transizione fra Otto e No­ vecento, e come le contaminazioni nei frammenti novecente­ schi più sopra, hanno a che fare con una crisi del sistema di categorie ottocentesco. Nel nostro secolo un maestro del fe­ nomeno è Faulkner: al punto che si è tentati di attribuirlo al­ l’insieme della sua opera. Tutto il Sud in decadenza della sua immaginaria Yoknapatawpha County (dopo il romanzo che la inaugurò, Sartoris} 44 si concreta in immagini, testualmente, assai meno spesso e a lungo di quanto non crederebbe la me­ moria - o l’attesa - del lettore. Grandi edifici isolati e abban­ donati, luoghi di tragedia nell’azione o nell’antefatto dei ca­ polavori, s’intravedono per pagine mentre le loro evocazioni sommate non farebbero una pagina: la casa che brucerà do­ po l’assassinio della sua solitaria abitatrice, Miss Burden, in Light in August45 ; la casa vanagloriosa del colonnello Sutpen, al cui cancello è stato commesso il fratricidio tra due suoi fi­ gli, in Absalom, Absalom! 46. Se resta in questione di quali ca­ tegorie d’immagini si tratti, è per contaminazione e non in conseguenza del loro prolungamento sottinteso. Fenomeno che oltrepassa i confini del nostro argomento: nella misura in cui, per studiarlo, è con l’analisi retorica e con quella narratologica che dovrebbe bilanciarsi l’attenzione alle costanti tematiche.

4. Il compito sarà, da qui in poi, di riprendere in conside­ razione le dodici categorie una per una. Forse non ne varreb­ be la pena se il solo scopo fosse d’interrogarsi sulla distribu­ zione cronologica di ciascuna, di tentarne una periodizzazione: ho dichiarato in partenza la genesi e i limiti della mia do­ cumentazione (1,1, 2), e credo ormai dimostrato che sarebbe impossibile - per una persona sola - arrivare a una docu­ mentazione d’insieme sufficiente. Chiedo di non attribuire se non la validità di prospettive provvisorie, di quadri dai 44 Dove le immagini di decadenza abbondano, e sono distinguibili nelle nostre categorie: logoro-realistico (W. Faulkner, Sartoris, New American Library, New York 1964, pp. 88-89, 94-95, 99-100,120-22,182, 227); memore-affettivo (pp. 62-64, 85-88,178-79, 242); desolato-sconnesso, e affini elenchi di piccoli oggetti (pp. 44, 7778, 222, 276); magico-superstizioso (p. 107). 45 [Luce d'agosto]. 46 Cfr. W. Faulkner, Light tn August, Penguin 1971, pp. 29, 37, 42,170-74,174-81, 192-213; Absalom, Absalom!, Penguin 1975, pp. 6,12, 31-33, 109-10,175-77, 299-308. [Assalonne, Assalonne!]

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bordi congetturali, alle periodizzazioni che premetterò volta per volta a nuovi materiali e ad altre idee. Rende critiche tali periodizzazioni la distinzione stessa fra origini della lettera­ tura o in precedente realtà o in precedente letteratura (ili, 3-4): quindi, fra occorrenze isolate e ricorrenze codificate d’una certa materia del contenuto. Solo sulla scorta delle ri­ correnze codificate è lecito congetturare i bordi d’un qua­ dro, le occorrenze isolate potendo sempre darsi come ecce­ zioni anteriori o come echi posteriori. Le categorie date per documentabili a titolo non eccezionale nell’antichità classica - o biblica -, lungo il capitolo precedente, sono state quat­ tro: monitorio-solenne, frusto-grottesco, magico-supersti­ zioso, sterile-nocivo. E la prima e massima di quelle confes­ sioni d’ignoranza o dubbio che sarebbe pleonastico moltipli­ care via via, riguarda proprio un limite superiore comune a tutte queste periodizzazioni - e con esse a quella ideale dell’insieme. Perché sembra trattarsi quasi esclusivamente di antichità post-alessandrina e romana, in lingua latina piutto­ sto che greca? Di fatto, da non specialista, io non ho frequen­ tato la letteratura latina più della greca. O più della letteratu­ ra medievale nelle diverse lingue, alla quale corrisponde l’al­ tra maggiore delimitazione interna vacante in tutte le perio­ dizzazioni di categorie. Se di questa lacuna intermedia ho già avuto occasione d’indicare una ragione possibile (iv, 6), era in tono un po’ meno dubitativo di quello in cui ora mi do­ mando, per gli inizi antichi: il maturare di costanti letterarie legate ai rapporti fra cose uomo e tempo e fra cultura e natu­ ra, presupponeva forse un mondo unificato in impero, con le sue abrogazioni e stratificazioni di tempi e di culture? Comunque, per disegnare una periodizzazione del monitorio-solenne o meglio delle sue ricorrenze codificate, non abbiamo che da collegare tutti gli spunti sparsi. Origine nel­ l’antichità classica (esempio iv, i), col limite superiore appe­ na suggerito; lacuna nel Medioevo, per la prevalenza d’un più incombente memento mori o quia pulvis esy cristiano e bi­ blico; ripresa umanistica, rinascimentale e barocca fra il Tre e il Seicento (esempi iv, 6); ripresa preromantica nel Sette­ cento (esempio iv, 7); limite inferiore fra Sette e Ottocento, per trasformazione col venerando-regressivo. Rispetto al li­ mite superiore, eccezioni da cui è confermato sono pochi mi­ rabili fuggevoli versi di tragedia greca - simili a quello già

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commentato di Virgilio (v, 3) per intensità e per tema. La ca­ duta di Troia è oggetto, ne\TAgamennone di Eschilo, del vanto di lui: «la città conquistata si riconosce ora dal fumo»; «la cenere morente - manda in alto i grassi vapori della sua opulenza»4748 . Le Troiane di Euripide si svolgono mentre l’in­ cendio dura. «O gran fasto abbassato - degli antenati, co­ nferì niente! », geme Ecuba all’inizio; alla fine: «O templi degli dèi, o città cara! », e il coro delle prigioniere risponde: «Presto crollando sulla cara terra resterete senza nome»; «Il nome del paese si avvia a scomparire»46. I primi esempi regolari che conosco sono quindi, in greco, epigrammi sulle rovine di città famose. Li leggiamo oggi nel libro IX &ATAntologia Palatina (raccolti, cioè, dal bizantino Cèfala intorno al 900); le loro attribuzioni e datazioni mal­ certe fanno centro sulle « corone» di epigrammi più antiche, risalenti al 1 secolo a. C. Ci rimandano - come la coeva lettera di Sulpicio a Cicerone - a una Grecia illustre e decaduta. Micene ed Argo sono ridotte a «stalle di mugghianti armenti»; la prima è «come una traccia di capre», è «pascolo di bovi, pastura di pecore», «polvere derelitta»; di Corinto, non re­ sta « neppure una traccia ». Eppure mediante il glorioso con­ fronto con Troia, già celebrata e «ora da cenere d’evi man­ giata», anche le città sue nemiche sopravvivono in poesia grazie ad Omero49. Un tale riscatto poetico, che non in tutti gli epigrammi si affaccia, sarebbe tornato nel futuro della ca­ tegoria: è qualcosa d’altro e di più della funzionalità secon­ daria meditativa del monitorio-solenne. Consolazione e or­ goglio dell’arte sono alternativi, sebbene non incompatibili, con l’umiltà a fondo religioso della caducità umana. Un altro modo d’intendere quest’ultima non sarebbe sta­ to invece più ripreso, fino a testi del Settecento materialista (quello stesso di Diderot) : è tipico d’un poema come il De re­ rum natura50 di Lucrezio, dove ispira i primi esempi che ho in latino. Nella sua potente originalità letteraria non può che farci parlare d’un monitorio-solenne a fondo, meglio che fi­ 47 Vv. 818-20: Eschyle, Agamemnon, Les Choéphores, Les Euménides (t. II), Les Belles Lettres, Paris 1961, p. 39. 48 Vv. 108-9; 1317,1319,1322: Euripide, Les Troyennes, Iphigénie en Tauride, Électre (t. IV), Les Belles Lettres, Paris 1964, pp. 32, 81. 49 Libro IX, nn. 104,101,103: Antologia Palatina, Einaudi, Torino 1980, t. IH, pp. 54-55; n. 28: pp. 20-21; n. 151: pp. 76-77; n. 62: pp. 34-37 [trad. Fontani]. 50 [Della natura delle cose].

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losofico, scientifico. La teoria epicurea dell’estenuazione de­ gli aggregati materiali, e della senescenza dei mondi, suscita immagini di mura più grandiose che mura di città; e accomu­ na ad esse o alle rocce, nel disfacimento, i sommi monumenti umani. Qui, la non pertinenza di ogni determinazione tem­ porale è universalità cosmica di legge della natura: Sic igitur magni quoque circum moenia mundi expugnata dabunt labem putris ruinas. Nec tenet omnia paulatim tabescere et ire ad capulum spatio aetatis defessa vetusto. Denique non lapides quoque vinci cernis ab aevo, non altas turris ruere et putrescere saxa, non delubra deum simulacraque fessa farisei...51.

Di città in decadenza, la conquista romana ne avrebbe in­ cluse molte nelle province orientali e meridionali dell’impe­ ro, quando non le aveva essa stessa abbattute. Meno lontano, un’elegia di Properzio commemora l’etrusca Veio, fra le cui mura suona il pastore e sopra i cui resti d’ossa si miete; ma nel contesto, di vanto e non di lamento, la vittoria di Roma eclissa la precarietà universale5253 . Sotto il cui segno si narrava che Mario avesse associato se stesso, in disgrazia, alla più te­ muta delle città nemiche (cfr. iv, 6, 33). In Plutarco, l’epi­ sodio ha un’eloquenza non meno concisa della consistenza d’immagini: Chiedendogli colui che cosa diceva e che cosa riferire al pretore, rispo­ se con un grande sospiro: « Annunciagli dunque che hai visto Gaio Ma­ rio fuggitivo sedere sulle rovine di Cartagine», non a torto accostando a titolo d’esempio la sorte di quella famosa città e il suo proprio muta­ mento di stato”.

Ma grazie ad Omero e a Virgilio, la città per eccellenza del monitorio-solenne restava Troia - in attesa che diventasse la stessa Roma. Nel libro IX di Lucano (cfr. iv, 21), Cesare vin­ 51 II, w. 1144-45: Lucrezio, La natura, Utet, Torino 1983, p. 196; II, w. 1173-74: p. 198; V, w. 306-8: pp. 350-52. [Cosi dunque anche le mura del vasto mondo tutt’intorno | espugnate rovineranno sgretolandosi in macerie]. [E non capisce che tutte le co­ se lentamente si sfanno e s’avviano | alla bara, spossate dal lungo cammino della vita]. [Non vedi anche le pietre venir sopraffatte dal tempo, | le alte torri crollare e sgreto­ larsi le rocce, | i templi e le statue degli dèi logorate sfasciarsi...] 52 IV, io, w. 27-30: Propertius, Elegies, Harvard University Press 1990, p. 436. 53 Vita di Mario, 40: Plutarque, Vies, Les Belles Lettres, Paris 1971, t. VI, p. 146. Ancora più concisa, troppo per interessarci, la fonte: Velleio Patercolo, Historiae Romanae, II, 19: Patercolo, Le Storie - Floro, Epitome e frammenti, Utet, Torino 1969, p. 112.

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citore a Farsàlo compie in Troade un pellegrinaggio da « am­ miratore delle cose celebri»: su luoghi di ricordo non indivi­ duale, ma mitico e poetico. Dove, nondimeno, mito e poesia destano i ricordi a ogni passo come sarà per Werther o per l’io di Leopardi (iv, 15; v, 1). «Non c’è pietra senza un nome»: il gran visitatore non s’era accorto di passare un ruscello che era lo Xanto, o di calpestare la sepoltura di Ettore. Momento capitale in una storia della categoria. Vi si contamina col monitorio-solenne uno sterile-nocivo vegetale ben più crudo che gli armenti e greggi degli epigrammi greci: sotto il peso di esso si consuma, tema del tema, la fine delle stesse rovine. Ad opera dei versi invece, subito dopo quelli citati o riassun­ ti, si promette a Cesare che condividerà l’immortalità di ciò che ammira: Circumit exustae nomen memorabile Troiae magnaque Phoebei quaerit vestigia muri, lam siluae steriles et putres robore trunci Assaraci pressere domos et tempia deorum iam lassa radice tenent, ac tota teguntur Pergama dumetis, etiam periere ruinae ’4.

Nell’anno 417 Rutilio Namaziano, alto funzionario dell’im­ pero, mise in versi il proprio ritorno alla Gallia nativa dove Visigoti e Vandali facevano « una lunga serie di rovine». Ro­ ma stessa era stata saccheggiata da poco; ma nell’elogio rico­ noscente che il suo ex-prefetto le scioglie, dal non ignaro pa­ thos tardivo, la magnificenza dei suoi templi e acquedotti pa­ re incrollabile'". Sull’itinerario Rutilio scorge rovine anterio­ ri all’avvento dei barbari; significativo è che vi si soffermi a tre riprese, con accenni d’immagini ogni volta per un verso o due, e in due versi l’argomentazione di Sulpicio sulla morte delle città'6. Letteralmente citata anche da S. Ambrogio, in54 56 55 54 IX, w. 964-69: Lucain, La Guerre civile, t. II cit., p. 175; e cfr. w. 961-63.970-86 (pp. 174-76). [Percorre i luoghi che hanno il nome memorabile dell’arsa Troia, | e va a cercare i grandi vestigi delle mura di Febo. | Ormai sterili boschi e marci tronchi di quercia | pesano sul palazzo di Assàraco e stringono con ormai stanche | radici i tem­ pli degli dèi, mentre tutto è coperto | il Pergamo di cespugli: perirono fin le rovineJ. 55 De reditu suo [Sulproprio ritorno], vv. 27, 47-164 (in particolare, vv. 95-104): Rutilius Namatianus.Sz/rsow retour, Les Belles Lettres, Paris 1961, pp. 3,4-5. Un seco­ lo dopo, Ennodio renderà lode a Teodorico per aver ringiovanito Roma « marcida se nectutis membra resecando» [tagliando via le membra marcite della sua vecchiaia!: Magni Lehas Ennodi Opera, Weidmann, Berlin 1885 [Monumenta Germaniae historica. Auctores antiquissimi, t. VH), p. 210. 56 Vv. 227-28 (Castro Novo): Rutilius Namatianus, Sur son retour cit., p. 13; w. 285-86 sgg. (Cosa), p. 16; w. 401-14 (Populonia), pp. 21-22.

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un’epistola di consolazione, sostituendo ai toponimi greci Bologna Modena Piacenza e l’Appennino57. Era un’argo­ mentazione facile da cristianizzare; e niente meglio della for­ tuna di essa mostra come dagli sconvolgimenti storici dell’e­ poca, alla vista delle conseguenze materiali, gli scrittori di fe­ de vecchia o nuova non traessero che una lezione metastori­ ca. L’incenerimento d’un palazzo ducale germanico da parte d’un re merovingio, nei versi di Venanzio Fortunato, viene introdotto da massime sulle sùbite cadute dei regni e seguito da un accostamento della Turingia a Troia58. La tradizione classica del monitorio-solenne non è igno­ rata nemmeno quando ci è dato passare, linguisticamente, dalla parte dei barbari: con la poesia anglosassone dei secoli vii-viii. Conta fra i testi più belli di essa il frammento sulle rovine di Bath coi suoi bagni romani, i cui circa 50 versi var­ rebbe la pena di citare in traduzione59. Se sono troppi per far­ lo, dipende da un’insistenza sul tema che non manca di spe­ cificare immagini: gelo su torri senza più porte; tetti spogli di tegole; «questo muro, grigio di lichene e macchiato di ros­ so... » E la poesia anglosassone, più di quella celtica altome­ dievale, che oggi spinge a parlare di toni ossianici. Il che ci avvicinerebbe, nell’albero semantico, al venerando-regressi­ vo; ma qui è astratto il numero di cento generazioni dai co­ struttori in poi, e pura malinconia di mortalità fa evocare per contrasto il passato tumulto d’uomini gioiosi e riccamente adorni. Non si riduce a violenza né a tempo quel «possente» destino (legge di rivolgimento, Wyrdh60) che li ha travolti. Ed è col sottinteso concessivo di un benché - come nel verso di Virgilio -, che le crollanti architetture sono dette «opera di giganti»: quali apparivano a una cultura non urbana. L’e­ spressione s’incontra anche nel Beowulf, ammirativamente spiegata61, e di toni ossianici anche il poema epico non man­ 57 Sancti Ambrosii Opera, pars X, Epistulae et Acta, t. I, Epistularum Libri I-VI, Hoelder-Pichler-Tempsky, Vindobonae 1968, pp. 67-68 [Vili {Maur. 39), 3]. 58 De excidio Thoringiae [Dello sterminio di Turingia}, w. 1- 20: Venanti Fortuna­ ti opera poetica, Weidmann, Berlin 1881, {Monumenta Germaniae historica. Auctorum antiquissimorum, t. IV, parte I), p. 271. 59 Vedi Anglo-Saxon Poetry, Everyman’s Library, London - New York 1954, p. 84: mi baso su questa traduzione in inglese moderno. Il corsivo sotto è mio. 60 Cfr. L. Mittner, Storia della Letteratura Tedesca, Einaudi, Torino 1977, t. I, pp. 67-72. 61 Anglo-Saxon Poetry cit., p. 54.

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ca62. Il tesoro guardato da un drago dà materia metallica al monitorio-solenne: armi e vasi d’oro degli eroi defunti non hanno più chi possa polirli e rifarli fulgenti, la corazza segue il guerriero nel suo disfacimento6'. Nel noo, il viaggio a Roma compiuto dal vescovo Hildebert de Lavardin gli ispirò due elegie latine. Il loro divario apre alla categoria uno spazio altro da quello strettamente re­ ligioso: nell’una, la città stessa si preferisce diroccata ma ca­ pitale cristiana, piuttosto che magnifica ai tempi del pagane­ simo w. Mentre nell’altra non c’è parola di celeste compenso, di fronte a quella rovina malgrado cui la città resta senza pari: Par tibi, Roma, nihil, cum sis prope tota ruina; quam magni fueris integra fracta doces.

Anche l’elenco dei valori culturali che segue precorre Poggio di più di tre secoli. Materialmente, l’ineguagliabilità dei resti e l’irreparabilità dei danni stanno in un lacerato equilibrio semipositivo: tantum restat adhuc, tantum ruit, ut neque pars stans acquari possit, diruta nec refìci65.

Nel Purgatorio di Dante, sono monito solenne alla superbia i bassorilievi di divina fattura che la raffigurano punita. Unico antonomastico nome di città, dopo tre serie d’esempi di per­ sone, Troia: Vedea Troia in cenere e in caverne: o Iliòn, come te basso e vile mostrava il segno che li si discerne!66.

A partire dalla riscoperta umanistica, relativamente laica, le immagini per eccellenza della categoria si sarebbero fissate nei monumenti di Roma e della sua civiltà. Non ancora con Petrarca: lungo la passeggiata della sua epistola latina del 1341, ciò che stimola a ogni passo «il dib 2 Ibid., pp. 42-43 (banchetto, arpe, racconti di tempi che furono); p. 49 (sale da festino deserte, silenziose, «a resting-place for the winds» [un luogo di riposo per i venti]). 63 Ibid., p. 45. 64 Dum simulacra mihi...-. cfr. The Oxford Book of Medieval Latin Verse, 1959, pp. 221-22. 65 Ibid., pp. 220-21. [Niente è a te pari, Roma, se pur quasi tutta in rovina; | quel che integra eri di grande, lo insegni nello sfacelo], [tanto resta, tanto cadde, che né la parte in piedi | si può uguagliare, né riparare quella crollata]. 66 Purg. XII, vv. 61-63: Dante Alighieri, La Divina Commedia, Ricciardi, MilanoNapoli 1957, p. 532.

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scorso e la commozione» sono le innumerevoli reminiscenze storiche, e mai lo stato presente dell’urbe6'; nella canzone Spirto gentil, la perifrasi dell’urbe in sette versi non consacra che ad amore e timore reverenziale tutto ciò che vi è compre­ so in un’unica rovina67 68. Ma quella cultura suprema nella sto­ ria, dal cui millenario tramonto non si poteva tardare a trarre una suprema lezione metastorica, ne lasciava in eredità an­ che i topoi e non c’era che da applicarli ad essa. La contami­ nazione tendenziale con lo sterile-nocivo faceva spazio a una convergenza delle tradizioni classica e biblica: quando Enea Silvio Piccolomini narra la sua gita papale a Tivoli nel 1461, non si accontenta di dire che in un rudere di porta cittadina «si aprono le stalle dei bovi» e «crescono le erbe». Nella se­ midiroccata villa di Adriano, a giustificare una lapidaria massima sulla mutevolezza, l’insediamento sostitutivo di ve­ getali e animali pur non esotici è d’un colorito derivabile for­ se da più a oriente (iv, 28): Vetustas omnia deformavi!, quos pioti tapetes et intexta auro aulea muros texere, nunc hedera vestir. Sentes et rubri crevere ubi purpurati consedere tribuni et reginarum cubicula serpentes inhabitant, adeo fluxa est mortalium natura rerum69.

E nell’elegia latina di Sannazzaro alle rovine di Cuma, lo stes­ so topos coi suoi vegetali e animali sfocia in quello provenien­ te da Sulpicio: per finire con una variazione di entrambi, che deduce dalla massima la profezia. Toccherà anche a Roma, a Venezia, a Napoli esser distrutte un giorno70. L’estetizzazione delle rovine, l’ammirazione del monu­ mento non benché ma perché corroso e mutilo, è a stento compatibile col monitorio-solenne; sarebbe, piuttosto, una lontanissima premessa del prestigioso=ornamentale. Pure le 67 Epistulae adfamiliares, VI, 2: F. Petrarca, Le Familiari, Sansoni, Firenze 1934, t. Il, pp. 55-60. 68 Rerum vulgarium fiagmenta, LIII, w. 29-35: Petrarca, Rime, Trionficit., p. 77. Nel Triumphus Temporis [Trionfo del Tempo], una bellissima terzina manca d’imma­ gini, a cui si applichi l’interpretazione più pura della categoria: «Passan vostre gran­ dezze e vostre pompe, - passan le signorie, passano i regni: - ogni cosa mortai tempo interrompe...» [ibid., p. 552). 69 Prosatori latini del Quattrocento cit., pp. 680-83 (dai Commentarli rerum memorabilium [Il libro dei ricordi})- [Il tempo tutto ha logorato; ora l’edera veste i muri coperti un giorno di tappeti dipinti e di drappi tessuti d'oro. I rovi e i fiori selvatici so­ no cresciuti dove sedevano i porporati tribuni, e le serpi abitano le stanze delle regine; a tal segno è mutevole la natura delle cose mortali (trad. Garin)]. 70 Poeti latini del Quattrocento, Ricciardi, Milano-Napoli 1964, pp. 1138-39 (Ad ruinas Cumarum, urbis vetustissimae [Alle rovine di Cuma, antichissima città}).

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variazioni vanno in questo senso in un testo come VHypnerotomachia Poliphili1' di Francesco Colonna, del 1499, sin­ golare sia per la complicatissima fantasia archeologica che per l’artificialissima lingua latineggiarne in volgare. Basti ri­ ferire che una piramide-obelisco solo in parte diruta viene dottamente descritta per decine di pagine; che un altro «aedificio, per vorace tempo et per putre antiquitate et per negligentia all’humida terra collapso» dovrebbe essere «digno monumento dille cose magne alla posteritate [...] reliete»12. Il topos che Roma non poteva soccombere a nessun nemico, ma solo al tempo, è già nell’Africa di Petrarca Roma risulta perciò vincitrice di se stessa, e vinta da sé sola, nell’epigram­ ma latino dell’umanista palermitano Giano Vitale (1552): di tanta fortuna europea che, tradotto in francese da Du Bellay e in spagnolo da Quevedo, dal francese era passato nel frat­ tempo all’inglese di Spenser71 74. Ma nei sonetti de Les Antiqui73 72 tés de Rome - dalla cui versione scelgo di citare - non è infre­ quente un monitorio-solenne di segno opposto all’estetizzazione, e che chiamerei di delusione. Qui lo si coglie soprat­ tutto nei primi due versi (fedeli come sono al latino), nelle stesse iterazioni del nome che contrappongono la Roma pre­ sente alla passata: Nouveau venu, qui cherches Rome en Rome Et rien de Rome en Rome n’aper^ois, Ces vieux palais, ces vieux arcs que tu vois, Et ces vieux murs, c’est ce que Rome on nomme. Vois quel orgueil, quelle mine: et comme Celle qui mit le monde sous ses lois, Pour dompter tout, se dompta quelquefois, Et devint proie au temps, qui tout consommé. Rome de Rome est le seul monument, Et Rome Rome a vaincu seulement75. 71 [Battaglia d’amore in sogno di Polifiló]. 72 F. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Antenore, Padova 1980,1.1, pp. 14-15 (e 15-50), pp. 229-30. 73 II, w. 299-303: Petrarca, Rime, Trionfi cit., pp. 626-27. 74 De Roma [S& Roma]: testo, e importanti varianti di antologie successive, in R. Morder, La poétique des ruines en Trance. Ses origines, ses variations de la Renaissance à Victor Hugo, Droz, Genève 1974, pp. 47-48 (sulla fortuna, pp. 46-55). Cfr. J. Du Bellay, in Poètes du xvf Siede cit., pp. 419-20; E. Spenser, Poetical Works, Oxford 1957, p. 509; F. de Quevedo, Obras completas, t. I {Poesia originai), Pianeta, Barcelona 1963, pp. 258-59 (A Roma sepultada en sus ruinas) [A Roma sepolta nelle sue rovine]. 75 Poètes du xvf Siècle cit., pp. 419-20. Modernizzo l’ortografia. L’ambito della nostra categoria, nel resto della raccolta, coincide quasi con la specie «di delusione»: cfr. i sonetti Quivoudra voir... [Chi vorrà vedere...] (con paragone necromantico), p.

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Du Bellay precettista aveva segnalato fra le materie liri­ che, in aggiunta su Orazio, «le discours fatal des choses mondames»76. Spenser, nella stessa raccolta in cui ne tradu­ ce i sonetti, pone di suo in apertura The Ruines of Time77 : vi personifica in una donna dolente Verlame, la Verulamium romana, il cui pianto sulla propria rovina prelude a quello su illustri morti recenti. Solo riscatto, l’immortalità poetica. La più atemporale fra le nostre categorie è la più codificata e in­ canalata in grandi luoghi comuni: dicendo che l’inizio del poemetto di Spenser ne è un compendio, non si fa che elo­ giare i suoi versi perfetti78. Cosi, nel poema di Tasso, il topos proveniente da Sulpicio trova forse la più mirabile formula­ zione: Giace l’alta Cartago: a pena i segni de l’alte sue mine il lido serba. Muoiono le città, muoiono i regni, copre i fasti e le pompe arena ed erba, e l’uom d’esser mortai par che si sdegni: oh nostra mente cupida e superba!79.

Ancora questo topos è riconoscibile, in contaminazione col sinistro-terrifico, in uno dei più morbidi capolavori del tea­ tro elisabettiano-giacobita: The Duchess ofMalfi^ di Web420; Sacrés coteaux... [Sacri colli...] (cfr. iv, 6, nota 31), p. 421; Pales Esprits... [Pallidi Spiriti...], p. 424; Que n’ai-je encor... [Ché non ho ancora...] (col verso «De ces vieux murs les ossements pierreux» [Di queste vecchie mura l’ossame pietroso]), p. 428; Eoi qui de Rome... [Tu che di Roma...], p. 429; Quia vuquelquefois... [Chi ha visto ta­ lora...] (con l’ossimoro «vieil honneur poudreux» [vecchio onore polveroso]), ibid. E nei Regrets [Rimpianti]: Sije monte au Palais... [S