Il sogno di Galileo. Oggetti e immagini della ragione

Table of contents :
Premessa
I. Immagini del sapere : il labirinto, il libro e la torre di Venere Urania
II. Oggetti che emergono e oggetti che scompaiono: Nettuno, le stelle medicee e le sfere celesti
III. Nuovi labirinti: sfere, cerchi, ovali, ellissi
IV. Oggetti che mutano viaggiando nel cielo: le comete
V. Mutamenti nella base empirica: terremoti e animali, lem della vita e pesi atomici
VI . Oggetti che cambiano di significato: le parole
VII. Traduzioni infedeli : la matematica e i dizionari
VIII. Emergenze : analogie e necessità matematiche in un dizionario di prima approssimazione
IX. Asimmetrie : problemi locali, selettori e storia
Cenni bibliografici
Indice dei nomi

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SAGGI 199

ENRICO BELLONE

Il sogno di Galileo Oggetti e immagini della ragione

IL MULINO

Copyright C

1980 by Società editrice il Mulino, Bologna

Premessa

Il sogno di Galileo è un'immagine del sapere. In essa si dice che gli uomini possono conoscere il mondo facendo appello solamente alle dimostrazioni matematiche e agli esperimenti. Di qui le numerose e appassionate invettive ga­ lileiane contro quegli studiosi che credono di conoscere l'universo attraverso il rincorrersi di citazioni estratte da questo o quel libro. Secondo Galileo, infatti, « i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta». E il mondo sensibile è una natura materiale i cui tralicci portanti non risultano ai no­ stri sensi e non sono modificabili dai nostri decreti. Gli occhi dell'uomo - da soli - non possono vedere gli ammassi di stelle di cui sono ricche le galassie - e le filosofie dell'uomo sono troppo deboli, sia per capire l'or­ bita di Marte, sia per incidere nella fabbrica dell'universo. Il sogno di Galileo parla quindi di una forma partico­ lare del sapere. Essa è costituita da teorie matematiche che violano la rete delle nostre sensazioni quotidiane, da espe­ rimenti che contraddicono le nostre esperienze usuali, da argomentazioni che riducono al silenzio le norme filosofiche piu autorevoli. È probabile che alla radice di quel sogno stesse una ulteriore immagine, secondo la quale il linguaggio mate­ matico è stabile e privo di anomalie. Per Galileo, infatti, il ricorso a determinati teoremi è un qualcosa di molto diverso rispetto alla battaglia delle citazioni bibliografiche. Queste ultime ripetono senza tregua delle conoscenze morte, mentre la matematica è il linguaggio di dio: quando

Premessa

lo scienziato coglie una propos1z1one matematica, allora egli ha un sapere che, localmente, è eguale a quello del dio. Eppure la matematica è soggetta a mutamenti. Essa non cresce per accumulazione - aggiungendo teorema a teorema - ma si sviluppa per ristrutturazioni. Il linguag­ gio con cui, secondo Galileo, è scritto il libro della natura, ora ci appare come un linguaggio che si trasforma. Nasce allora un quesito: come facciamo a capire ciò che leggiamo quando sfogliamo, pagina dopo pagina, il libro della natura? Per andare da una pagina alla succes­ siva passa un poco di tempo - e in quel tempo alcune parole chiave della lingua matematica hanno subito delle variazioni di significato che si riflettono sui saperi già tra­ scorsi. Ed ecco allora un'altra domanda: abbiamo dei dizionari sufficientemente potenti a garantire la razionalità complessiva delle mosse eseguite da coloro che stanno stu­ diando il libro della natura? Per rispondere a domande di questo genere si sono compiuti molti viaggi tra le biblioteche, alla ricerca di im­ magini del sapere che fossero rassicuranti. Molti viaggiatori sono tornati scettici. A loro avviso il sogno di Galileo era veramente un sogno, un'illusione. Per dimostrare la vanità del sapere, essi hanno costruito altre immagini. Ora le immagini proliferano, ed è sempre piu difficile intendere se esse stanno ancora parlando di Galileo, o se invece sono metafore che narrano di altre metafore o labirinti affollati di parole che parlano di altre parole. D'altra parte il sapere scientifico discute di oggetti sor­ prendenti. Valga per tutti l'esempio della Nebulosa del Granchio. Al suo interno sembra che ruoti una stella di neutroni: è presumibile si tratti dei resti di una super­ nova. Per parlare di un simile oggetto è necessaria una rete complessa di raffinatissime teorie. Per vederlo, occorrono tecniche di elevata sofisticazione. Le teorie e 6

Premess11

le tecniche sono, a loro volta, i risultati di mutamenti pro­ fondi nel sapere. E cosi torniamo nuovamente a Galileo. Ricominciamo il viaggio tra le biblioteche, il sopralluogo fra le citazioni.

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I movimenti dd sapere producono molte cose. Essi pro­ ducono, ad esempio, mappe o immagini del sapere stesso: raf­ figurazioni che ci continuano a parlare dei labirinti o ddle torri ambigue nei cui meandri potremmo perderci qualora abbando­ nassimo la buona strada della ragione. Alcune mappe sono ricorrenti - sembra che la loro vitalità passi al di sopra delle mutazioni che sconvolgono il mondo dei calcoli e delle osser­ vazioni. Nasce cosi l'opinione che le immagini siano i simboli dd metodo scientifico e le guide dd sapere. Per chi crede ndla verità di quell'opinione la storia dd sapere coincide con le narrazioni tracciate dalle immagini o con le raggere di segni che si vedono sulle mappe. Eppure la narrazione o la raggera sembrano, a loro volta, indicare un qualcosa d'altro, una sorta di lavorio eseguito altrove, una manipolazione di oggetti e d'algoritmi. Ad un certo punto, viaggiando nelle biblioteche, ci si confonde: sono le mappe a parlare di quelle manipolazioni, oppure sono queste ultime a parlare ddle mappe e a spiegarne i tracciati?

CAPITOLO PRIMO

Immagini del sapere: il labirinto, il libro e la torre di Venere Urania

Si è quasi certi, ormai, che i nostri problemi piu inte­ ressanti derivano dal fatto che i saperi sul mondo mutano col passare del tempo. Molte persone hanno fatto viaggi sui territori di quei saperi, portando con sé, al ritorno, mappe e resoconti, frammenti d'oggetti e opinioni: il tutto a testimonianza del percorso compiuto e di ciò che è stato visto. Ma il confronto tra quei documenti rivela differenze notevoli, e comunque tali da alimentare discus­ sioni che riguardano sia le zone esplorate, sia le regole che di volta in volta hanno guidato i costruttori di mappe e gli estensori dei rapporti scritti. Là dove alcuni avevano osservato oggetti enormi e ben fabbricati - provandone una tale meraviglia da attribuire progetti ed esecuzione a qualche dio -, altri avevano in­ vece scoperto figure geometriche e catene di teoremi. In certe zone erano state viste costruzioni armoniose di cui si conservavano disegni accuratissimi e densi di minuziosi particolari (e di questi ultimi, a essere sinceri, spesso non s'era ben capito il significato, o il modo di funzionare in rapporto al resto : ma, di certo, non si avevano ragioni per dubitare della loro esistenza) : eppure, viaggi successivi e meglio organizzati, il cui fine era stato quello di risolvere i problemi di dettaglio lasciati in sospeso o di rimuovere le anomalie in precedenza segnalate, si erano conclusi in modo sorprendente - in quanto i rapporti negavano ora che quelle zone contenessero ciò che i vecchi disegni pre­ tendevano di raffigurare, e sostenevano invece che ben altre questioni si aprivano, in forme inattese, agli occhi di 11

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chi guardava senza pregiudizi. Si creava in tal modo una gran folla di problemi. Che stava accadendo nel mondo delle cose e nell'insieme dei resoconti, visto che le carte non erano sovrapponibili e che l'intero edificio dei saperi rischiava di diventare un museo di parole false? La scoperta della non traducibilità fra narrazioni di­ verse e delle strane difficoltà che sorgevano quando si tentava di ricostruire le regole per passare dalla scala di una certa mappa alla scala d'una diversa carta topografica era una fonte di scetticismo. In fin dei conti poche per­ sone avevano veramente viaggiato - e non mancava chi, attendendo i ritorni o prevedendone il senso, sosteneva la vanità di ciascun viaggio e il vuoto su cui poggiava la ptetesa stessa del viaggiare: la pretesa di raccogliere i risultati e di comporli in un solo disegno dell'universo, cosf da costruire, brano a brano, un sapere unitario che parlasse di tutto ciò che era stato già visto e saggiato e che servisse da guida sicura per ulteriori esplorazioni. Da questo punto di vista era meglio pensare che non esistes­ sero domini da svelare, ma che esistessero solamente le narrazioni. Il vero viaggio diventava allora quello che si snodava nello sterminato mondo di carta che si era accu­ mulato nelle biblioteche - la sola arte consisteva nel rac­ cogliere gruppi o famiglie di citazioni e nel fabbricare com­ mentari, antologie e miscellanee. In tal modo altri libri sarebbero stati generati, e si sarebbe potuto mettere un freno ai dubbi che venivano a piene mani seminati da chi esibiva oggetti di cui le biblioteche non contenevano ancora i nomi e che si pretendeva di aver raccolto in regni mai visti e certamente esistiti solo nei sogni. D'altra parte si poteva anche concedere che non di puri sogni si trat­ tava, ma di veri e propri segnali emessi dal mondo verso i nostri sensi. Dal che risultava che i discorsi umani ave­ vano un campo su cui indirizzare parole: il campo, ap12

Immagini del sapere: il labirinto

punto, delle sensazioni, e non quello delle cose, a propo­ sito delle quali si poteva unicamente disporre di descri­ zioni cos{ diverse e discordanti. E, affinché i cataloghi delle esperienze fossero disposti per ordini e canoni, e non apparissero come elenchi disordinati o inutili di detriti qua e là raccolti senza criterio alcuno, si aveva pur sempre l'arte della logica - un'arte che nei secoli si era affinata, cosi da essere anche un potente strumento normativo. Perché dunque cedere alla tentazione dei viaggi, visto che era bastevole rimanere nelle biblioteche e costruire reti logiche coerenti nelle cui maglie ogni segnale si adat­ tava senza eccessive fatiche? Cosi, ad esempio, si diceva a Galileo. Egli scrisse nel 1610 una lettera a Keplero per lamentarsi di coloro che, anziché cercare la verità nella natura, pretendevano di tro­ varla con il confronto dei testi, quasi che la tessitura del mondo non fosse fatta di cose ma soltanto di parole: la loro opinione era che fosse ragionevole far uso di argo­ mentazioni logiche - intese come «si trattasse di incanti magici» - per dimostrare l'impossibilità della presenza, in cielo, dei nuovi pianeti scoperti col telescopio. Si discuteva animatamente, in quel lungo periodo della storia del sapere, attorno alla forma che dovevano avere i percorsi o le strategie della ragione affinché non si risol­ vessero in imprese scompigliate. Nel 1728 Fontenelle trac­ ciava un elogio di Newton e concedeva che « i Principi e gli Elementi delle cose sembrano, per noi, esser stati cancellati dalla Natura». Per svelare quanto ci è coperto è necessario allora che siano evitati con cura gli sbagli già commessi da coloro che nel passato hanno scelto la strada non giusta: se invece imitiamo chi ha camminato su vie errate, allora «ci può a volte accadere di impegnarci in Labirinti senza fine». L'immagine del labirinto è l'antichissima raffigurazio­ ne della paura. Interi scaffali di libri la ricordano. Chi 13

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varca una delle soglie del labirinto si perde lungo cammini che sboccano in altri cammini e cunicoli. Nessun segnale è d'aiuto, e tutti i meandri sfociano nella tana dove è in attesa un essere indicibile. Leggendo Fontenelle non ci si pone il quesito di ipotetici fili che siano una guida: l'elogio di Newton dice soltanto che nel labirinto non bisogna entrare, e che si deve al contrario seguire «la via retta», tenendo conto che ogni questione di fatto si presenta, a noi, inviluppata in nodi d'altre questioni - «la via retta» sembra essere la rappresentazione di un'abbondanza d'in­ gegno, applicata alla individuazione dei punti ove si deve lavorare per dipanare la matassa aggrovigliata dei problemi e scorgere gli elementi singoli che la compongono. Quello di Fontenelle, insomma, è piu un invito o una speranza, che una regola. Galileo, che pure aveva evocato - piu di cent'anni prima - la paura del labirinto, s'era invece impegnato nell'indicare la norma obbedendo alla quale la ragione avrebbe potuto dirottare se stessa dai sentieri che :finivano là dove si spalancavano gli ingressi dei corridoi senza fine. Chi non conosce o rifiuta di apprendere la «lingua matematica», racconta infatti Galileo nelle pagine de Il Saggiatore, pensa che «la filosofia sia un libro e una fantasia d'un uomo, come l'Iliade e l'Orlando Furioso, libri ne' quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero». Pertanto il muoversi tra cose di cui non s'intende la lingua non è altro che «un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». L'immagine del la­ birinto parla qui, per contrasto, di un cosmo dove gli og­ getti sono collocati ordinatamente, e di una filosofia natu­ rale che scopre quell'ordine già impresso e lo narra per mezzo di proposizioni cariche di verità. Vi è dunque una struttura che sta a fondamento delle regolarità nel mondo e delle verità che attorno al mondo possiamo enunciare una struttura che ridona un senso alle mappe e ai 14

Immagini del sapere: il labirinto

resoconti, un solo linguaggio universale inscritto nelle cose: la matematica. La ricerca della verità, anche per Galileo, non è gui­ data da un filo d'Arianna teso di cunicolo in cunicolo nel labirinto, ma si realizza su percorsi che aggirano i meandri e li evitano con cura. Quando si chiede una guida per esplorare i misteri del mondo, il Dialogo galileiano la nega - «Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida: e chi è tale, è ben che si resti in casa; ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta ». Infatti le tortuosità della natura scompaiono se le guardiamo con occhi che già sappiano il linguaggio vero. Scompaiono i sapori, gli odori e i colori, e contempliamo - una volta rimossi gli aggrovigliati accidenti connaturati alle operazioni degli orecchi, delle lingue o dei nasi «le :figure, i numeri e i moti»: a questo punto la ragione muove sicura su territori aperti e piani. L'analisi di Galileo è rileggibile in Boyle. Nel 1 666 quest'ultimo riflette sulle operazioni degli oggetti sui sensi, e sui nomi che la mente assegna alle impressioni che le cose esercitano sugli organi sensori. «Da ciò gli uomini sono stati indotti a compilare un lungo catalogo di quelle cose che, siccome si riferiscono ai nostri sensi, chiamiamo qualità sensibili», osserva Boyle. E aggiunge che gran danno deriva all'uomo per il fatto di credere che quei cataloghi di nomi siano invece elenchi di sostanze: la co­ noscenza allora si perde, e dimentica che i corpi nulla hanno di reale se non «la dimensione, la :figura, e il moto o la quiete delle sue particelle». Pochi anni dopo sarà Locke a ribadire che l'oggetto della ragione è formato dalle qualità originarie o primarie dei corpi: «solidità, estensione, :figura, movimento o riposo e numero». Per cogliere il reale e per enunciarlo con la lingua 15

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matematica bisognerà dunque violare il senso, che ci seduce con cataloghi di parole che non colgono la realtà: se evi­ tiamo la seduzione del senso, evitiamo anche la perdizione nel labirinto. Ma ecco che il vescovo Berkeley immagina altri camminamenti sconnessi. Chi abbandona il senso, scrive Berkeley nel 1 7 1 0, è soffocato da strani paradossi. Mano a mano che progrediamo nel ragionare, le difficoltà si moltiplicano, « finché, dopo esserci sperduti per mille intricati sentieri, ci ritroviamo proprio al punto donde eravamo partiti ». L'immagine del luogo dove chi entra è perduto può dunque essere rovesciata. Quella che per Galileo era una zona piana o per Fontenelle una via diritta si trasforma nel suo opposto, in una rete che cattura la mente e la imprigiona condannandola a muoversi vana­ mente « per mille intricati sentieri » che sempre tornano a quell'unico ingresso. La ragione cieca, derisa da Galileo, ora si vendica : secondo Berkeley, i veri ciechi sono coloro i quali pensano di essere giocati dai sensi e si illudono celebrando le virru dei numeri e operando al fine di tro­ vare « la spiegazione delle cose naturali per mezzo di essi » . Ma tutte le ricerche sui numeri sono difficiles nugae, « in quanto non servono alla pratica e non fanno progre­ dire il benessere della vita ». Le certezze si mutano in nubi, i luoghi piani diventano intrichi, la fabbrica del mondo torna a celarsi. L'uomo razionale disegnato da Galileo è ora la raffigurazione di un essere cieco che crede di vedere solo quando sogna. In questo rovesciamento d'immagine l'argomentazione ruota attorno al perno della matematica. Il punto di vista di Galileo poggia sulle « certe dimostrazioni », infatti. Mol­ te pagine galileiane ci rinviano, in questo senso, a parole dette in un passato lontano. Ci rimandano, per esempio, a ciò che diceva nel V secolo un commentatore d'Euclide, di nome Proclo. Egli voleva difendere la matematica da una folla di detrattori, e scriveva : « I piu grandi risultati 16

Immagini del sapere: il labirinto

la scienza matematica li raggiunge nelle scienze della na­ tura, mettendo in evidenza il buon ordinamento dei rap­ porti, secondo i quali l'universo è stato costruito, e la pro­ porzione che collega tutte le cose esistenti nel cosmo». I numeri reggono l'universo e giovano alla :filosofia: e inoltre presiedono sempre in ogni attività dell'uomo - «Per questa ragione - osserva Proclo - Socrate nel Gorgia, accusando Callicle di vita sregolata e dissoluta, dice: "Tu trascuri la geometria e l'equivalenza geometrica" ». La potenza del numero e della figura è garanzia di una buona e armoniosa fabbrica del mondo. Si tratta di una opinione che sembra migrare, di pagina in pagina, fra libri separati da lunghi archi di anni. Fra le carte newtoniane è rimasta una Conclusio che avrebbe dovuto esser stampata nella prima edizione dei Principia, nel 1687. In quegli appunti Newton parla del «Sistema di questo mondo vi­ sibile» e della spiegazione matematica dei «moti mag­ giori» dei corpi celesti. Eppure vi sono nel mondo innu­ merevoli altri «moti locali» che non si possono osser­ vare, a causa della piccolezza dei corpuscoli mobili nei corpi caldi, nelle fermentazioni, nelle putrefazioni, nei corpi che vegetano e negli organi dei sensi. Ma la natura è semplice e ben regolata: e allora «ogni ragionamento che vale per i moti maggiori deve altrettanto valere per quelli minori». Il labirinto di Galileo o di Fontenelle, insomma, è il simbolo di chi non sa cogliere quella vasta trama della ragione che, nei secoli, si annoda attorno ai temi dell'unità del cosmo e della perfezione di una sola e perenne strut­ tura matematica. Le travi della fabbrica del mondo sono ben collocate, per chi le scorge dietro l'inganno dei sensi. Esse sono solide, eterne, severamente ordinate secondo un progetto unico, esenti da incrinature e prive di falle. Galileo non sembra aver dubbi: il grande telaio della natura è costruito, e i canoni del fabbricato non dipendono 17

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dalla nostra volontà. La natura non muta in obbedienza ai decreti di un principe e non si piega all'autorità di :filosofi, ma si lascia comprendere dagli uomini purché essi respingano la «ferma credenza, che nel :filosofare sia ne­ cessario appoggiarsi all'opinioni di qualche celebre autore, si che la mente nostra, quando non si maritasse col di­ scorso d'un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile e infeconda». Pochi anni piu tardi interviene René Descartes, nella battaglia contro coloro che «sono come l'edera, che non tende a salire piu in alto degli alberi che. la sostengono ». Costoro pretendono sempre di trovare, nel passato, la so­ luzione di anomalie che nel passato non erano ancora emer­ se. Essi frugano tra citazioni, «e nel far questo mi appa­ iono come simili a un cieco il quale, per lottare alla pari con una persona che sappia vedere, lo faccia andare nel fondo di una oscurissima caverna». La caverna e il labirinto sono il luogo di una ragione sonnolenta e ingannevole. Una ragione che seduce molti pensatori secondo i quali, come ricordava Galileo nella lettera a Keplero di cui s'è già parlato, «la verità va ricercata non nell'universo o nella natura, ma con il con­ fronto dei testi». E se cerchiamo la verità nella natura, di nuovo la matematica compare nel sapere come un edi­ ficio poggiato su fondazioni sicure. Un edificio che le pa­ gine di Descartes oppongono ai «palazzi superbi e magni­ fici» che gli antichi pagani avevano tuttavia edificato «sulla sabbia e nel fango». È dunque con orgoglio che Descartes scriverà, nei Principia Philosophiae del 1644 due anni dopo la morte di Galileo e la nascita di Newton -, che «le ma­ tematiche sono le fondamenta principali su cui appoggio i miei ragionamenti». Quasi due secoli dopo, Joseph Fou­ rier proclamerà, ancora in nome di Descartes, che «l'ana­ lisi matematica ha dei rapporti necessari con i fenomeni -

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sensibili », poiché « il suo oggetto non è creato dall'intel­ ligenza dell'uomo, ma è un elemento preesistente dell'or­ dine universale, e nulla ha di contingente e di casuale; esso è impresso entro tutta la natura » . Questa trama di opinioni sembra, a volte, quasi non avere storia. Essa continua a presentarsi con lo stesso volto : quasi si trattasse di una credenza aurea che appare e riappare immutata nei dizionari degli studiosi che tra­ ducono il sapere del passato incontrando, nella traduzione, problemi inattesi e scoperte insospettabili. Joseph Fou­ rier elogia la matematica nel 1822 e nel terzo secolo avanti Cristo l'Arenario di Archimede ricorda a re Gelone che le matematiche sono « credibili, mediante le dimostra­ zioni, da coloro che sono versati e che abbiano meditato sulle distanze e sulle grandezze della Terra, del Sole, della Luna e di tutto il cosmo ». Secondo una simile prospettiva la ricognizione del mondo è vana senza matematica, ed è preda dei capricci di quella « dama litigiosa » che Newton dichiarava di voler evitare - la dama litigiosa che raffigurava gli stu­ diosi che Halley, rispondendo a Newton, definiva come « coloro che chiamano se stessi Filosofi senza Matema­ tiche ». Eppure, l'apparente immobilità dell'opinione favore­ vole alle matematiche nasconde dietro di sé una storia. I disegni del cosmo liberi da anomalie o capricci erano variamente intesi da coloro che li invocavano. Ogni im­ magine è infatti legata a problemi locali, e questi ultimi non sono eterni: hanno una storia intricata di mutamenti che si innervano e diramano in strutture finissime. Le loro radici attraversano forme disparate del sapere e spesso riemergono d'improvviso, inattese e mutate e quasi u­ riconoscibili, in altri domini della ragione o in altre epoche. Ciò che Galileo ad esempio osserva nel guardare le -

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luci delle stelle medicee comporta l'impiego di lenti. Que­ ste ultime ci rinviano all'ottica kepleriana ma anche, piu tardi, alla pratica dei microscopisti. La scoperta dei primi satelliti di Giove, insomma, non è una mera questione di fatto, ben delimitata e chiusa in se stessa - ma è un nodo da cui partono molti fili: si comincia a demolire una cosmologia, si fanno calare ombre su immagini confermate della natura, si generano timori fra coloro che hanno paura dell'infinità del cosmo, si permette a Marcello Malpighi di indovinare un nuovo mondo nel capillare di una rana, si apre la via a quel microscopista che scorge un omuncolo rannicchiato in uno spermatozoo. E la stessa matematica è ben lontana dall'essere im­ mobile o dal crescere linearmente per aggiunte successive. Al di sotto delle raggere di parole che ci danno immagini come quelle del labirinto o della caverna, della via retta o dei mille intricati sentieri, si svolgono orditi diversi: le mosse lente della ragione mettono a nudo infinite cose dai nomi ancora incerti e dai confini ancora mal tracciati, cose di cui ancora non si riesce compiutamente a trovare il legame con la fabbrica del mondo. « Accade poi che questi teoremi differiscano da quelli prima trovati » , an­ nota Archimede scrivendo a Eratostene. E aggiunge di aver fiducia, poiché « alcuni dei matematici attuali o dei futuri, essendo stato loro mostrato questo metodo, ritro­ veranno anche altri teoremi da noi non ancora escogitati » . L'immagine della fiducia, per Archimede, s i chiama me­ todo. La stabilità del metodo fa s{ che le differenze tra vecchi teoremi e nuovi, o il ritrovamento di teoremi an­ cora ignoti, si ritaglino - per cos{ dire - su una sola faccia, unica e impassibile, della ragione: una faccia illu­ minata e piana come il mondo di Galileo, dove la scoperta è uno svelamento che mette a nudo frammenti di un solo progetto il cui tracciato è solido e ben connesso, al di là del fluttuare d'odori, colori e suoni che irrompono nei 20

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sensi e il cui barbaglio ci vieta di osservare il mondo vero. Le immagini - il metodo d'Archimede, i labirinti di Galileo o di Fontenelle, i sentieri che sempre tornano di Berkeley, la caverna di Descartes - servono per allon­ tanare i dubbi, ma funzionano anche per dirottare le in­ numerevoli stranezze che emergono dall'ordito dei saperi, per ricondurre a sensi usuali o familiari lo scaturire delle anomalie. Le immagini sono simboli delle giustificazioni che vengono elaborate per far si che il nuovo - i nuovi teoremi o i nuovi pianeti - rientri, in qualche modo credibile, nel già noto. Eppure i nuovi teoremi e i nuovi pianeti provocano mutamenti enormi. Con il loro apparire, la natura non si limita ad allargare se stessa nello spazio, la storia del cosmo non si limita a distendersi su abissi sempre piu vasti di tempo, l'universo degli oggetti e delle proposizioni non si limita ad appesantirsi di nuove masse grandi e lontane o di nuove procedure di dimostrazione. In realtà, tutto accade come se il complesso di cose e di segni attorno a cui la ragione s'affanna fosse esso stesso mu­ tante : e il mutare non è semplicemente un aggiungere cosa a cosa e segno a segno, un qualcosa di simile al succedersi di anelli concentrici nella sezione d'un tronco d'albero. ];: un mutare che, nell'intrecciarsi delle varianti, provoca la rovina di orbi celesti o l'apparizione di nuovi astri. ];: una rivoluzione che gradualmente sostituisce i pilastri, le trava­ ture e i tralicci di un mondo con le cupole e le colonne di un universo sempre piu illimitato, sempre piu complesso. Quando, nel novembre del 1823, Janos Bolyai scrive al padre e lo informa di essere in procinto di dare l'avvio alla stesura definitiva di un opuscolo sulla teoria delle parallele, scrive : « Per ora null'altro vi posso dire, se non che ho creato dal nulla un nuovo universo, e che tutto quanto sino ad ora s 'è trovato non è che una piccola casa di fronte a una torre». Eppure Bolyai non poteva ancora sapere che il suo nuovo universo di proposizioni si sarebbe

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collegato, molto piu tardi, a reti razionali di cui un primo frammento era già stato notato da alcuni osservatori cinesi i quali, molti secoli prima, avevano visto apparire una luce nella costellazione del Toro. Quasi cent'anni prima che la torre di Bolyai facesse la sua apparizione nel mondo di carta delle teorie, Newton annotava, nelle pagine divulgative del De mundi systemate liber, come grandissime cose fossero ormai definitivamente scomparse dal cosmo: le « sfere solide sono state infrante e cacciate via » - quelle sfere solide che formavano l'im­ palcatura generale dell'universo e che nel loro moto, re­ golare ed eterno, trascinavano con sé i pianeti in esse immersi. L'emergenza e la scomparsa, insomma, rimangono per noi fatti irriducibili, qualora li consideriamo sul piano di quelle certezze che alcune famose immagini del sapere tentano di accreditare: l'emergenza e la scomparsa (di teoremi o di sfere solide grandi come il mondo) sono eventi che sfuggono, che non riusciamo a collocare senza residui nelle maglie traforate e nei reticoli di mappa che Galileo o Fontenelle o Newton ritengono di individuare nella ragione che segue la retta via. Il disegno inquietante del labirinto, che Galileo e Fon­ tenelle (e, a modo suo, anche Berkeley) desiderano esor­ cizzare, sembra, a volte, esser piu adatto a raffigurare le parabole delle scoperte di quanto non sappia fare l'im­ magine del cammino diritto. Contro il labirinto Galileo aveva costruito il libro della natura. Ne Il Saggiatore si legge infatti che la filo­ sofia naturale - la ricerca del vero attorno alle cose non è un libro come l'Iliade, ma è già « scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto ». Tutto, insomma, è già trac­ ciato e composto: è sufficiente sfogliare le pagine del testo 22

Immagini del sapere: il labirinto

- «Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola». Nella prima giornata del Dialogo le scienze matematiche sono quelle che consentono all'uomo di edificare un sa­ pere che assomiglia a quello di dio. L'uomo, infatti, può cogliere alcune asserzioni «cosi perfettamente, e ne ha cosi assoluta certezza, quanto se n'abbia l'istessa natura». Certo : l'uomo, anche se trovasse mille proposizioni di tal genere, poco conoscerebbe rispetto al dio che tutte le sa: « ma di quelle poche intese dall'intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore». Di fronte alla certezza obiettiva, che si conquista fa­ cendo passare i fogli del libro della natura, cadono nel nulla le pretese di chi usa la logica come un incantesimo o di chi utilizza le citazioni bibliografiche per arginare la potenza della geometria e l'acutezza della visione attra­ verso le lenti d'un telescopio. Ma ciò non significa forse che gli antichi hanno quasi sempre errato? Che l'intera fabbrica del mondo è loro sfuggita in quanto essi la ricerca­ vano con approcci fallaci? Che essi hanno popolato la na­ tura di fantasmi e di miti? Che solo ora la storia dei sa­ peri falsi si è d'improvviso lacerata, per lasciar scorgere, finalmente e come attraverso un varco appena tagliato, le vere travature e le reali intercapedini del sistema? Se esiste il libro galileiano, allora esiste anche - se vogliamo capire gli errori degli antichi - l'infinito in­ tricarsi di passaggi ambigui e di traforature cieche del labirinto. E gli antichi avevano sempre camminato in esso, anche se molti avevano sognato di non aver mai messo piede al di là delle sue sog!ie. I saperi trascritti nelle biblioteche diventavano in tal modo un sistema di frammentazioni disarticolate e di pro-

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posizioni dubbie, eccezion fatta per la geometria e l'aritme­ tica. L'immagine del libro fornisce criteri per marcare, in quei saperi, il vero e il falso. Poiché abbiamo finalmente imparato a guardare nella natura trovando in essa, local­ mente, una conoscenza obiettiva come quella di dio, ab­ biamo anche imparato a guardare nei libri: possiamo sce­ gliere tra le pagine d'Aristotele e d'Archimede, cosi da trattenere quanto è obiettivo e scartare quanto è deviante, poiché lo stesso Aristotele farebbe propri i nuovi criteri della ragione e riconoscerebbe serenamente i propri errori. In un certo senso, nel suggerire l'esistere di un libro del mondo, si riconosce la profondità del dramma che ha sconvolto i saperi e che ha cacciato dal cielo, ad esempio, le sfere solide e cristalline, o che ha rivelato, come altro esempio, la presenza di montagne e valli su quella luna che era sempre stata creduta perfetta. Nello stesso tempo, però, l'immagine del libro sembra destinata a sdramma­ tizzare quegli eventi, a fugare le inquietudini che pure sono legittime in quanto gli splendidi fabbricati della pas­ sata ragione sono crollati. Non a caso il Dialogo dice, con le parole di Simplicio, che il ragionare galileiano « tende alla sovversion di tutta la filosofia naturale, ed al disordi­ nare e mettere in conquasso il cielo e la Terra e tutto l'universo » . I mutamenti sono inscritti in una rivoluzione, e il progetto di quest'ultima è una sorgente di timori. In fin dei conti lo scenario della paura di fronte ai crolli ha disegni che si ripetono: nei primi anni del nostro secolo Pierre Duhem, ormai persuaso di avere tracciato una volta per tutte il buon cammino della ragione umana e il vero metodo della scienza, si scaglierà contro la scienza reale, raffigurandola come « una corsa sfrenata e disordinata » che ha generato un caos « dove la logica non ha piu voce in capitolo e il buon senso fugge spaventato » . E, piu avanti negli anni del nostro tempo, il disfarsi dei moduli razionali e delle logiche della scoperta sviluppate nella 24

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prima metà del secolo farà suonare la campana filosofica di Paul Feyerabend, secondo la quale Galileo è l'esempio mi­ gliore o il prototipo del ciarlatano. L'immagine del libro vuole creare serenità, in quanto ripete che la conoscenza obiettiva è possibile e desiderabile anche se si deve pagare il prezzo di abbattere gran parte del sapere esistente. Il prezzo è grave: ma, in cambio, pos· siamo conoscere come conosce dio. Ciò che rischiamo di perdere è, dunque, altamente compensato da ciò che riu· sciamo a guadagnare. Tuttavia vi sono ora motivi e cause per la nascita di paure nuove. È vero che sempre si escogitano metodi per dirottarle - come farà John Herschel affermando, nella prima metà dell'Ottocento, che « ciò che è stato appreso una volta, non dovremo mai piu riapprenderlo » ma è anche vero che la rovina definitiva degli orbi cristallini e il crollo del sistema del mondo di Aristotele e di Tolomeo solleva ansie, poiché diventa lecito temere che il nuovo ordine dei cieli non sia armonioso come quello che è stato abbattuto. A questo proposito vi è molta saggezza nelle parole che il copernicano e newtoniano Johann Lambert scrive nel 1 7 6 1 a proposito della struttura dell'universo. Nella seconda delle sue lettere cosmologiche egli dice che non ci si deve sorprendere quando nuove verità generano nuovi problemi o dubbi altrettanto inattesi o imprevisti. Lambert rielabora l'immagine della via: « Questa è la via usuale percorrendo la quale noi passiamo da una verità al­ i' altra » . Eppure l'itinerarium mentis in veritatem non appare, nelle lettere di Lambert, come un tracciato mai interrotto o curvato dall'apparire di perplessità, come un infilar perle o pietruzze già forate e predisposte con cura per susseguirsi, senza storture o sorprese, nella simmetria semplice d'un filo unico. La rinnovata fabbrica del cosmo, infatti, contiene aspetti e sfaccettature non rassicuranti. Le conoscenze acquisite dopo Copernico hanno posto in evi-

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denza questioni ancor piu gravi di quelle che avevano in­ timorito Keplero al primo annuncio della scoperta gali­ leiana di pianeti rotanti attorno ad altre « stelle». Keplero s 'era impaurito poiché, forse, le nuove stelle viste da Ga­ lileo avrebbero potuto spalancare il cielo, rompendone l 'armonia e mostrando che davvero l'insieme di tutte le cose è un posto immenso e senza limitazioni, un luogo dove l'uomo cade in una specie d'esilio nell'infinito. Lam­ bert, invece, narra di altre paure : non potrebbe ad esempio accadere che, in un cosmo ormai popolato da immense co­ mete orbitanti, la Terra stessa sia travolta e trascinata nella rovina, trasformandosi in satellite o luna di qualche corpo errante diretto al di là della traiettoria di Saturno? Ancora una volta la questione diventa quella di repe­ rire certezze, di trovare garanzie per la stabilità dell'ordine nuovo individuato dalla scienza newtoniana. « La conservazione di tutti i corpi celesti mi sembra per lo meno essere ancor piu importante della conserva­ zione di creature come quelle che propagano le loro specie e tornano ad esser nate di anno in anno», giudica Lam­ bert. Nella scrittura delle lettere cosmologiche egli insiste : l'edificio del mondo che ha sostituito la vecchia fabbrica precopernicana non è un teatro dove i corpi celesti si scontrano producendo catastrofi, ma è un fabbricato soli­ damente retto da leggi eterne e scevre da eccezioni. La scienza newtoniana concede che si verifichino leg­ gere variazioni orbitali, ma impedisce la probabilità di eventi disastrosi : le nuove leggi matematiche non ammet­ tono che « dalle rovine di vecchi mondi si possano rico­ struire mondi nuovi». La nuova astronomia ha disfatto le sfere celesti e solide, ma non per questo s 'è aperta la scena di un cosmo che evolve e muta sullo sfondo di catastrofi stellari. Nella ventesima e ultima lettera Lambert scrive che non dobbiamo lasciarci trarre in inganno. « Noi conosciamo il cielo meglio di quanto conosciamo la Terra» >

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e da tale conoscenza siamo convinti che « il firmamento dev'essere un'opera di orologeria » al cui interno i corpi ripetono cicli sempre eguali a se stessi, cosi differenzian­ dosi dall'alternarsi disordinato delle vicende terrene e dalla storia tumultuosa degli imperi. Il tema che Lambert ripete sembra rifarsi al sapere omogeneo della Conclusio newtoniana, al sapere che cresce sicuro sul postulato per cui « ogni ragionamento che vale per i moti maggiori deve altrettanto valere per quelli mi­ nori». Il cosmo tratteggiato in quel postulato non contiene vani al cui interno si abbia un formicolio di movimenti non retti da leggi immutabili. Ad ogni livello della natura in­ contriamo un medesimo corpus di leggi, come se il mondo stesso, nell'infinitamente grande dove stanno le stelle e nell'in:finitamente piccolo dove corrono i corpuscoli delle fermentazioni o delle putrefazioni, ci presentasse sempre una copia di un solo progetto. In ciò sta la semplicità e la legalità del reale. Quella legalità che ritroviamo, dopo Lambert, in Laplace, il quale - pur accettando la visione (da Lambert respinta) secondo cui l'insieme dei pianeti ha avuto origine da quelle nebulose di cui avevano già parlato Kant e Buffon - vorrà dimostrare matematicamente dei teoremi sulla stabilità del sistema planetario, ed accetterà senza riserve l'opinione per cui l'atomo leggero, apparente­ mente mosso dal caso, obbedisce alle stesse identiche leggi che regolano le orbite dei corpi celesti. Quest'immagine della natura è figlia del libro gali­ leiano. Sfogliando pagina dopo pagina incontriamo fe­ nemeni nuovi, e, per ogni pagina interpretata, abbiamo una conoscenza certa. La sicurezza deriva dal fatto che, col trascorrere dei fogli, le parole con cui scri­ viamo le leggi generali si ripetono senza mai variare di significato. Le stesse parole e le stesse leggi valgono sem­ pre, sia che discutiamo la caduta di un grave, sia che ana27

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lizziamo la chiglia di un vascello, sia che osserviamo le ossa d'un animale. D'altra parte i saperi che si rinnovano non riescono a situarsi del tutto nell'incastellatura di immagini: gli intarsi di queste ultime non hanno posto per le sorprese, per gli atti devianti, per le fisionomie finissime che di volta in volta si presentano e non si adattano all'ordine immobile di una ragione che insiste nel definirsi cumulativa. Cosi, nel primo libro dell'Histoire naturelle, Ledere de Buffon rivisita - siamo nel 1 749 - le figure rassicu­ ranti della giusta strada, e ribadisce che all'uomo è stata donata una sola via per riconoscere le operazioni della natura: ma sottolinea anche che «la varietà del disegno» caratterizzante il mondo non coincide con la via razionale insita nell'uomo. La fonte prima degli errori sta dunque nel tentativo di sovrapporre il disegno e la via: «Questo modo di pensare ha fatto immaginare un'infinità di falsi rapporti fra le produzioni naturali». La varietà del disegno rivela, per Buffon, una «molteplicità dei mezzi di esecu­ zione» che sono al lavoro fra le cose. Qui si coglie uno scarto nella raffigurazione delle for­ me certe del ragionare. Forse non è un caso se, un anno prima, La Mettrie inneggiava alla scienza di coloro che «hanno illuminato il labirinto dell'uomo». Le trame la­ birintiche, per l'autore dell'Homme Machine o dell'Homme Piante, non giacciono piu a disposizione di chi rifiuta la lingua galileiana, ma sembrano ormai snodarsi fra le cose stesse. Il mondo ha visto apparire esseri strani: «le piante animali», i polipi che «si moltiplicano per vegetazione», «l'ejaculazione delle piante» e tutto ciò che le nuove scienze hanno cominciato a vedere sono segni di una qualche uniformità della natura - ma occorre che si stia molto attenti «a non forzare la natura: essa non è cosi uniforme da non deviare spesso dalle sue leggi piu co­ stanti». 28

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L'universo di La Mettrie non è piu completamente omogeneo e privo di eccezioni: è invece tale che, in esso, « tutto è perfettamente variato ». Non si compiono salti, è vero, nel passato da un livello all'altro - poiché si percorre «la scala impercettibilmente graduata» lungo la quale la Na­ tura si muove « in tutte le sue diverse produzioni » : e ciò che una simile scala contiene non può essere scoperto specu­ lando, ma va individuato per mezzo dell'osservazione. Solo l'osservazione può guidarci nel nostro cammino tra le in­ finite possibilità della Natura di cui parla La Mettrie o tra le varianti innumerevoli che si articolano entro « la va­ rietà del disegno » di cui parla Buffon. Le poche leggi sempre eguali a se stesse e capaci di spiegare ogni trama, ogni minuzia, ogni frammento di quel disegno, sono leggi che si lasciano scoprire solamente da chi sceglie di proce­ dere « di osservazione in osservazione », cosi da cogliere la certezza. E la certezza - che è il regno delle scienze reali è una parte della verità, poiché l'altra parte spetta al procedere « di definizione in definizione » che è tipico delle scienze astratte, che sono sempre « intellettuali e arbitrarie ». Cosi Buffon analizza l'immagine della via retta del sapere, spostandone la direttrice verso l'osserva­ zione. La Mettrie è ancor piu netto: « Prendiamo dunque il bastone dell'esperienza e lasciamo stare la storia di tutte le vane opinioni dei filosofi ». Lo slittamento interno alle immagini della ragione si fa sempre piu netto, e si avviano nuove modalità di lettura sul passato, sia per quanto riguarda gli errori degli antichi, sia per quanto riguarda i trionfi di un Copernico, di un Galileo o di un Newton. Nel 1 767 si pubblica in Londra la prima edizione della Storia e Stato Presente dell'Elettricità. Nella prefazione Joseph Priestley cita Hartley, e le parole di Hartley evo­ cano le guide di cui l'uomo ha bisogno per la ricerca: esse sono « le sole chiavi che apriranno i misteri della natura, le -

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indicazioni che conducono attraverso i suoi labirinti » . Priestley s i rifà a Hartley per concordare, in fin dei conti, con l'opinione già espressa pochi anni prima da La Met­ trie : il labirinto non si snoda nelle sole biblioteche dove si aggirano i critici di Galileo, ma si irraggia nella natura stessa - e quest'ultima, allora, ci si presenta come fitta di misteri e si allontana dall'esser piana e illuminata, per­ corribile senza guide, raffigurabile come un libro scritto in una sola lingua. Il cosmo ritorna ad essere misterioso, anche se la sua architettura complessiva è tracciata in for­ me tali da mostrare allo studioso « la meravigliosa strut­ tura del mondo e delle leggi di natura » . Nella brevissima prefazione alla seconda edizione del 1 769, Priestley accen­ na ad una faccia importante del mare di anomalie che affio­ rano non appena si scandagliano i nuovi fenomeni per mezzo di esperimenti : « i filosofi non hanno un solo e comune linguaggio » - ma « né la teoria del linguaggio in generale, né la natura delle cose e le analogie tra di esse che quel linguaggio dovrebbe esprimere sono a tutt'oggi sufficientemente comprese » . L'universo sta diventando intricato, e trascina con sé i linguaggi . Sembra allora di poter meglio capire ciò che è successo prima di Galileo o di Gilbert. Fontenelle, ri­ corda Helvetius una decina d'anni dopo La Mettrie e Buffon, pensava che gli uomini non possono arrivare a qualcosa di ragionevole e duraturo se non dopo aver esau­ rito il campo delle sciocchezze. La strada giusta, secondo Helvetius, deve stabilire i giusti rapporti fra le parole e le cose. Nel ricomporre questi rapporti tra linguaggio e mondo ci si avvede della portata dell'errore, cosf come esso ci è stato tramandato : « quante siano le sciocchezze che ci hanno rubate gli antichi » . La strada giusta, allora, è quella che ci fa evitare di incontrare la torre di Babele - nelle cui scale, scalette, ballatoi, cunicoli e gallerie le parole mutano e si perdono tra echi e rumori, e chi vi 30

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cammina non sa piu distinguere tra le proposizioni proprie o altrui e il risuonare di crolli che si susseguono senza ordine in questo o quell'altro piano, mentre chi edifica un balcone o una cupola s'accorge che accanto si sta incrinando un muro maestro. È questo l'edificio mostruoso che Hel­ vetius descrive nelle pagine del trattato De l'esprit: « La piramide di Venere Urania, la cui cima si perdeva nei cieli e la base della quale poggiava sulla terra, è l'emblema di ogni sistema che, se non è retto dall'incrollabile base dei fatti e dell'esperienza, crolla man mano che lo si edifica ». Per contrasto, allora, abbiamo l'appello di Helvetius ai fatti e alla chiarezza dei linguaggi ordinati. Nella geo­ metria, ad esempio, procedendo di teorema in teorema, si cammina nella chiarezza. Se si studia un insieme di cento teoremi, « chiunque può intendere il centesimo con la stessa facilità del secondo, il quale è cosf distante dal primo quanto il centesimo lo è dal novantanovesimo». Non si possono perpetrare violazioni là dove tutto è piano e pro­ gettato con ordine - là dove i passi da compiere per pas­ sare da una proposizione all'altra sono sempre gli stessi, lo spirito non si confonde. È cosi assodato che ci si può altrettanto bene orientare tra i fatti, e che l'errore « è colpa dell'oscurità delle parole», grazie alla quale « gli uomini parlano senza capirsi ; a questa causa è da connettere il rinnovarsi del miracolo della torre di Babele». Questi temi appaiono anche in Condillac. Nel medesi­ mo anno in cui si stampa il primo tomo della Histoire naturelle di Buffon, Condillac critica con durezza i sistemi costruiti dai filosofi: « dal proprio letto si crea e si go­ verna l'universo. Il tutto non costa piu di un sogno, e un filosofo sogna con facilità». L'arte del ragionare, per Condillac, si riduce all'uso di un linguaggio rigoroso e al tener fede nell'esperienza. Ogni forma di sapere proviene dai sensi. Ogni idea astratta va 31

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spiegata con un'altra idea meno astratta, e cos{ di seguito, sino a giungere al terreno empirico. « Una volta dimo­ strato che i prindpi astratti sono inutili e pericolosi, non resta che da scoprire quelli di cui si può far uso; ma si è molto vicini a conoscere il metodo che conduce alla ve­ rità quando si conosce quello che ce ne allontana». In­ fatti, per avvicinarci al vero, dobbiamo ricordare i passi di chi non ha sbagliato. Newton non sbagliò. Egli , secondo Condillac, non tentò di indovinare i prindpi primi della natura, ma indagò direttamente tra i fenomeni. Errò in­ vece Tolomeo, che si accontentò di « prime apparenze» e di una « prima osservazione, ancora grossolana» : e ci si liberò di Tolomeo poiché si poté accertare la sua falsità per mezzo di osservazioni condotte « con precisione». Ma il dipinto che Condillac sta realizzando è a sua volta falso: Tolomeo fu un calcolatore, e le sue fallacie richiesero, per essere messe in evidenza, oceani di altri calcoli; Newton poté risolvere i problemi del moto in quanto costru{ nuovi algoritmi sulle flussioni, non perché osservò i cieli stellati « con precisione ». Tuttavia si tratta pur sempre di un dipinto rivelatore. Le immagini del sa­ pere sono documenti preziosi, anche quando le loro tinte ricoprono interamente la filigrana della tela e ci sviano dal­ l'ordito di cui si dovrebbe parlare. Condillac, ad esempio, sulla base - che egli ritiene sicura - di fatti accertabili e descrivibili (senza ambiguità o residui) con un linguag­ gio rigoroso, ci avverte che l'impresa conoscitiva è sicura ma senza fine: « Quanti piu materiali verranno forniti dal­ l'esperienza, tanto piu ci si renderà conto di ciò che manca a un sf vasto edificio». Non potremo mai giungere alle cause prime, ai tralicci portanti, alle mura maestre, ma conosceremo con sicurezza ciò che è effettivamente cono­ scibile - « i fatti che si spiegano con altri fatti », poiché ora sappiamo che « un fatto è sempre ugualmente certo». S'è dunque trovata la chiave della natura. Se con essa 32

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apriamo le porte del sapere, scopriamo che Newton e Co­ pernico erano buoni osservatori di fatti certi, e che « una scienza rettamente trattata si riduce a una lingua ben co­ struita » . Esiste davvero una lingua simile ? Galileo aveva detto, a suo tempo, che essa esisteva. Il libro della natura, ne Il Saggiatore, era leggibile - e ogni pagina, una volta letta, era conosciuta : si poteva passare a quella successiva, con la sicurezza che quest'ultima non avrebbe rivelato ano­ malie nascoste nelle pagine precedenti (poiché chi aveva imparato la matematica conosceva il dialetto di dio e non commetteva errori nel parlare del mondo) . Attenzione, però : i codici profondi della lingua de Il Saggiatore non erano i fatti, ma le certe dimostrazioni e gli apparati teorici che violavano il senso. Anche nel Dialogo la « rap­ presentazione del senso » è fonte d'inganni. Chi di notte cammina per strada osserva che la Luna cammina anch'es­ sa, e la vede « venir radendo le gronde de i tetti sopra le quali ella gli apparisce, in quella guisa appunto che fa. rebbe una gatta che, realmente camminando sopra i tegoli », seguisse il viaggiatore notturno. Come è possibile che l'uomo abbia imparato a distinguere tra il moto della Luna e la passeggiata d'una gatta? Dietro l'apparente ingenuità dell'esempio Galileo colloca un mare di teorie sul moto, e ripete che solo quelle teorie ci guidano tra gli accidenti del senso : le teorie trionfano su quella « apparenza che, quando il discorso non s'interponesse, pur troppo manife­ stamente ingannerebbe la vista » . I l discorso, in Galileo, non s i svolge per confermare le sensazioni, ma per rovesciarle. E Simplicio, già nella prima giornata del Dialogo, reagisce : « Questo modo di filosofare tende alla sovversion di tutta la filosofia natu· rale, e al disordinare e mettere in conquasso il cielo e la Terra e tutto l'universo » . Abbiamo già visto questa rea­ zione, ed abbiamo già letto la risposta galileiana, secondo 33

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la quale non v'è bisogno di guida alcuna in « questo modo di filosofare » che percorre « luoghi aperti e piani » . Ma dobbiamo ricordare che quei luoghi galileani non sono pieni dei fatti invocati da Condillac o da Helvetius, ma colmi di dimostrazioni matematiche che riguardano pro­ prio ciò che ai sensi sfugge programmaticamente : il regno eterno delle qualità primarie di Galileo, di Boyle, di Locke. Bisogna prima entrare fra le qualità primarie per poi tornare a quelle secondarie e, quindi, alle sensazioni: ma la prima parte del viaggio si compie con i principi astratti, con gli algoritmi di Archimede, di Apollonio o le flus­ sioni di Newton e l'analisi infinitesimale di Leibniz. Il rincorrersi di temi tra una immagine del sapere e l'altra, la ricerca della connessione ottimale tra le parole e le cose, il tentativo di poggiare lo studio su basi sicure - nozioni astratte o questioni di fatto, teoremi o dati empirici, deduzioni o osservazioni - torna a sembrarci una impresa senza tempo, una oscillazione ricorrente tra i poli estremi della teoria e dell'esperienza. Proviamo a confrontare il punto di vista galileano e l'opinione di Herschel. « Ma sapete, Sig. Simplicio, quel che accade? S1 come a voler che i calcoli tornino sopra i zuccheri, le sete e le lane, bisogna che il computista faccia le sue tare di casse, invoglie ed altre bagaglie, cosi, quando il filosofo geometra vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che difalchi gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici ». La chiave di volta, insomma, sta nel riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto. Ebbene, Herschel è convinto di essere un buon seguace di Galileo e di Newton. Egli ritiene di avere ottime ragioni per elogiarli, e tali ragioni derivano dal fatto che ormai l'engine of discovery è operante in modo chiaro di fronte agli occhi di chi sa vedere che la scienza ha una sola 34

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fonte : l'esperienza. La macchina della scoperta funziona con rigore, poiché « l'intero complesso della filosofia na­ turale consiste unicamente di una serie di generalizzazioni induttive » . Galileo, Keplero e Newton sono la nostra guida, poiché essi hanno realizzato la scienza baconiana. Il Novum Organum di Bacone è ciò che demarca i vecchi errori e le nuove verità : « L'errore radicale della filosofia greca - scrive Herschel nel 1 830 - fu quello di immagi­ nare che lo stesso metodo, il quale si era rivelato eminen­ temente positivo e pieno di successi nelle ricerche mate­ matiche, dovesse ugualmente portare agli stessi successi nelle ricerche fisiche e che, partendo da poche nozioni sem­ plici e pressoché autoevidenti, o assiomi, si potesse ra­ gionare d'ogni cosa». Da questo punto di vista Galileo fu grande poiché fece « un appello diretto all 'evidenza del senso » , ad una esperienza libera da pregiudizi e intesa come « una accumulazione di conoscenza di oggetti e fatti individuali », a elenchi di dati empirici non « infestati da qualche mistura di teorie ». Ebbene, qual è il vero Galileo? Quello di Sagredo o quello di Herschel? Domande del genere possono anche diventare inquie­ tanti. La certezza di Herschel e l'immagine della torre di Venere Urania ci parlano senza dubbio di qualcosa: ma siamo sicuri di avere per lo meno individuato quel qual­ cosa? Di cosa stiamo parlando quando costruiamo imma­ gini del sapere o tentiamo di smontare l'engine of disco­ very ?

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I movimenti del sapere hanno conseguenze che, a volte, sono decisamente sorprendenti. Nel tentare di salvare la mec­ canica newtoniana si fa la congettura che il sistema solare con­ tenga un pianeta mai visto - e il pianeta appare a chi lo cerca con i telescopi. Un certo tipo di argomentazione logica (costruita in difesa della scienza tolemaica e aristotelica) nega la possibilità che Giove sia circondato da satelliti - ma i satelliti violano la logica e ruotano attorno a Giove . Una spie­ gazione razionale dell'universo ritiene vero che i pianeti ruo­ tino attorno alla terra restando incastonati in sfere celesti. Le sfere sono grandissimi oggetti solidi, sono cose che si possono contare, architetture perfette del sistema del mondo . Ma poi le norme della razionalità cambiano , e le sfere crollano. I movimenti del sapere hanno ciò di caratteristico : la loro dinamica storica è parallela all'emergenza e alla scomparsa di cose molto rilevanti . Forse, dietro le dispute sulle immagini del sapere, sono in movimento altre faccende, altre trame, altri schemi .

CAPITOLO S ECONDO

Oggetti che emergono e oggetti che scompaiono: Nettuno, le stelle medicee e le sfere celesti

Nel settembre del 1 846 una lettera di Jean Joseph Leverrier giunge a Gottfried Galle. « Vorrei trovare un osservatore tenace che desideri dedicare un certo tempo all'esame di una parte del cielo nella quale potrebbe es­ serci un pianeta da scoprire » . Perché è possibile scrivere una lettera del genere ? Perché, calcolando, Leverrier ha trovato che « è impossibile » spiegare certe osservazioni già fatte senza « introdurre l'azione di un nuovo Pianeta, sino ad ora sconosciuto » : e questo nuovo oggetto, come risulta dai calcoli, dev'essere tale da poter essere visto. Ebbene, la notte del 23 settembre, Galle e Louis d'Arrest, nell'osservatorio di Berlino, confrontano quella certa zona del cielo e una mappa stellare, e d'Arrest, a un certo punto, deve dire : « Quella stella non è sulla mappa ! » . I l 25 settembre Galle scrive a Leverrier : « I l pianeta la cui posizione voi avete indicato esiste veramente » . Ebbe­ ne, quale immagine del sapere sa spiegare cosa succede in realtà quando accadono cose di questo tipo? E fino a che punto cose di questo tipo sono inattese? La scoperta di Nettuno - calcolata da Leverrier a partire da teorie già date - si ha nel 1 846. La lettera di Bolyai al padre è del 1 82 3 . L'osservazione di una nuova luce nella costellazione del Toro fu fatta da osservatori cinesi molti secoli prima. E, nel 1758, l'astronomo Char­ les Messier, seguendo una cometa, vide nella medesima costellazione una luminosità non ancora registrata sulle carte del cielo disponibili : la annotò scrupolosamente, de­ scrivendola come una luce debole, fatta come la fiammella 39

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d'una candela e priva di stelle al proprio interno. (Intere biblioteche dovettero essere scritte prima che diventasse possibile trovare il discorso che unificava questi eventi disparati. E, ancora una volta, poiché quel discorso ci rin­ via sempre alle biblioteche, siamo tentati a viaggiare in esse, per vedere se da qualche parte esiste un'immagine del sapere adeguata). Torniamo dunque a Galileo. Egli celebrava il libro della natura e la lingua matematica, ma osservava il cielo e narrava le cose viste. Ed erano cose che nessuno aveva mai viste. « Quello che [ .. ] osservammo è l'essenza o materia della Via LATTEA, la quale attraverso il can­ nocchiale si può vedere in modo cosI palmare che tutte le discussioni, per tanti secoli cruccio dei filosofi, si dissi­ pano con la certezza della sensata esperienza, e noi siamo liberati da sterili dispute», si legge nel Sidereus Nuncius del 1 6 1 0 . .

Dunque esistono fatti che l a sensata esperienza rivela in modo cosI palmare da ridurre al silenzio le sterili di­ spute : « la GALASSIA infatti non è altro che un am­ masso di innumerabili stelle disseminate a mucchi ; ché in qualunque parte di essa si diriga il cannocchiale, subito si offre alla vista un grandissimo numero di stelle, parecchie delle quali si vedono abbastanza grandi e molto distinte, mentre la moltitudine delle piu piccole è affatto inesplo­ rabile». Il cosmo si sta popolando, d'improvviso, d 'oggetti im­ prevedibili . Non solo la Via Lattea cessa d'essere una nube biancheggiante : ma le piccole aree che gli occhi vedono come deboli luci in certe zone del cielo notturno (e che da sempre erano intese come prive di interne strutture) sono fatte in modo tale che, se le si guarda con telescopio, « ci s 'imbatte in un denso ammasso di stelle». E ancora : quegli oggetti che da sempre si chiamano nebulose e che gli astronomi classificano come astri non sono cose uniche,

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ma « raggruppamenti di piccole stelle disseminate in modo mirabile » . La nebulosa chiamata Testa di Orione contiene almeno ventuno stelle, e la nebulosa chiamata Presepe non è una stella, ma « una congerie di piu che quaranta » astri. Come dev'esser fatto il sistema dell'universo per con­ tenere tutto ciò? Ma, e questo è ciò che per ora ci inte­ ressa, come rapportare la « sensata esperienza » alle « certe dimostrazioni » ? Come stabilire il legame tra i teoremi di Archimede e « un tubo di piombo alle cui estremità ap­ plicai due lenti » ? La interna costituzione della Testa di Orione non è il risultato di calcoli : in essa non si finisce col riconoscere nel concreto ciò che già era stato trovato in astratto. E se volgessimo il tubo di piombo non solo verso la luna - cosf ricca di sorprese nella narrazione del Sidereus Nuncius - ma anche verso quella gatta notturna che nel Dialogo si muove insieme alla luna stessa, « realmente camminando sopra i tegoli », forse che riu­ sciremmo, solo guardando attraverso le lenti, a decifrare gli enigmi del moto e a vincere quell'apparenza che in­ ganna la vista? Se guardiamo le cose che si muovono sulla Terra dobbiamo infatti dar ragione ai nemici di Coper­ nico, i quali, in quei moti, trovano le prove empiriche dell'immobilità della Terra stessa e della falsità del sistema copernicano. La « sensata esperienza », se davvero è rivelatrice di oggetti mai visti e sorgente di prove a favore del sistema copernicano, dev'essere una pratica diversa da quella che gli anticopemicani designano con lo stesso nome. Deve essere diversa, se, come osserva Galileo nella seconda let­ tera a Marco Velseri - il 14 agosto del 1 6 1 2 - la questione è quella di « piegar quelli alla mente de i quali non arrivano le necessità delle dimostrazioni geometriche » , Forse una delle chiavi per decifrare il problema sta in un'altra lettera, che Galileo scrive a Giuliano de Medici il 1 gennaio del 1 6 1 1 . Vi si parla della possibilità di 41

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vedere, col telescopio, le fasi di Venere. E Galileo dice: « Sapranno dunque come, circa 3 mesi fa, vedendosi Ve­ nere vespertina, la cominciai ad osservare diligentemente con l'occhiale, per veder col senso stesso quello di che non dubitava l'intelletto » . Ciò di cui egli non dubitava è che la teoria copernicana è vera, e che pertanto « Ve­ nere necessariissimamente si volge intorno al Sole» - la necessità proviene dalla verità della teoria, ed ora egli l'ha « sensatamente provata », guardando ciò che doveva es­ sere, e cioè l'esistenza di fasi osservabili in un pianeta che ruota attorno al Sole. Il 30 dicembre del 1 6 1 0 lo stesso tema appare nella lettera di Galileo a Benedetto Castelli : « Adunque non sapete, che a convincere i capaci di ragione, e desiderosi di saper il vero, erano a bastanza le altre demostrazioni, per l'addietro addotte? » . Seguendo questa traccia o chiave ritroviamo quella certezza obiettiva che l'uomo e dio, nella prima giornata del Dialogo, scoprono nelle proposizioni della matematica : l'esperienza non è la fonte della conoscenza, ma una forma di controllo del sapere - quel controllo del sapere che si volge alla natura stessa, e non alle citazioni di testi. Se­ condo Galileo, insomma, Galileo non conosce il mondo per via induttiva, ma grazie alle dimostrazioni matemati­ che. In tal modo si può oggi rileggere quella parte del Sidereus Nuncius in cui si espone il complesso di osser­ vazioni relative alla scoperta dei primi quattro satelliti di Giove. Nel Nuncius Galileo dice di aver visto, all'inizio, « tre stelle piccole ma luminosissime » intorno al pianeta: « e quantunque le credessi del numero delle fisse, mi de­ starono una certa meraviglia » . Perché la meraviglia, e poi la decisione di tornare con insistenza a guardarle? In fin dei conti l'occhiale aveva già scoperto innumere­ voli stelle : per quale ragione insistere su quelle attorno al pianeta? La prima osservazione è del sette gennaio. La 42

Oggetti che emergono e oggetti che scompaiono

seconda è dell'otto. « Quando, non so da qual destino con­ dotto, mi rivolsi di nuovo alla medesima indagine il giorno otto, vidi una disposizione ben diversa » : le posizioni re­ ciproche tra Giove e le tre nuove stelle erano mutate ma chi si era spostato : Giove o le tre stelle? La decisione di scegliere lo spostamento delle tre stelle dipendeva da selettori teorici : o si trattava di stelle non fisse (ma che senso può avere, nel gennaio del 1 6 1 0, pensare a stelle non fisse ? ) , oppure Giove era in movimento « diversa­ mente dal calcolo astronomico » . Il giorno nove c'è un cielo coperto di nubi. La notte successiva le tre stelle sono diventate due sole - « la terza, come supposi, era nascosta sotto Giove » . L'undici gennaio le stelle sono ancora due, ma ancora variate sono la loro disposizione rispetto al pianeta e la loro grandezza - « stabilii dunque e conclusi fuor d'ogni dubbio che in cielo v'erano stelle vaganti attorno a Giove, come Venere e Mercurio attorno al Sole ». Il resto delle osservazioni si muove a partire da una simile conclusione. Ma anche l'inizio, e cioè la scelta di puntare ancora il telescopio sulle tre stelle vicine a Giove nella notte dell'otto gennaio, sembra guidata dalla spe­ ranza di trovare, nell'osservazione, la conferma di quelle necessità che costituiscono la teoria copernicana - « non so da qual destino condotto » , scrive Galileo : eppure nes­ suno è preso per mano da destini ineffabili, quando va cercando alla luce di costrutti teorici già accettati. Alla vista, quelle tre stelle non consegnano segnali diversi da quelli che si raccolgono guardando i ventuno punti lumi­ nosi nella Testa di Orione o i mucchi di astri nella Via Lattea. Galileo torna sulle tre stelle perché sta cercando - e la sua forma del cercare non è mossa dal caso, ma dall'accettazione del copemicanesimo, e quindi dalla razio­ nalità delle congetture che altri corpi ruotino attorno ad altri ancora . Alla luce della teoria, insomma, ha senso con43

Il sogno di Galileo

trollare la possibilità che Giove e le tre stelle siano cor­ relate. E il trionfo viene colto nello scoprire che le cose stanno appunto cosf. Le tre stelle diventano prima due e poi quattro, le loro grandezze apparenti e le loro dispo­ sizioni rispetto a Giove mutano col passare dei giorni, e Galileo annota il tutto : ma il suo annotare non è sem­ plice lavoro di routine, non si limita a comporre un primo catalogo di cose mai viste accanto alle sei stelle note del Toro (le Pleiadi) o vicine al pianeta Giove. Sono tutti og­ getti inattesi, ma i loro significati rientrano in un quadro concettuale noto. Accanto alle Pleiadi vi sono almeno quaranta cose mai sospettate, e ciò comporta che l'uni­ verso è denso di materiali che sfuggono ai sensi ma non all'osservazione ottica piu raffinata che è consentita dalla « dottrina delle rifrazioni » ; attorno a Giove si muovono gli astri medicei di cui Galileo intende calcolare i periodi o i raggi orbitali; la superficie della luna non è variegata di macchie « ad ognuno visibili » e « scorte in ogni tem­ po », ma è « ineguale, scabra e con molte cavità e spor­ genze » - la luna, quindi, cosi osservata, cessa di costi­ tuire una sfera esatta e celeste, ma si riempie di anfratti, di montagne e di valli, diventando come la Terra. Le « sensate esperienze » sono un controllo dei sa­ peri forniti dalle « certe dimostrazioni » , e non la sor­ gente da cui queste ultime provengono. Il libro della natura, insomma, è aperto dinanzi a noi, già scritto. Ma la sua lettura getta in rovina secoli e se­ coli di conoscenze affermate, teoricamente analizzate e ripetutamente confermate dall'osservazione. Scompaiono oggetti che si potevano contare e descrivere con preci­ sione, mentre altre cose si trasformano ed altre ancora nascono d'improvviso. Nel primo libro della Historia Animalium Aristotele, ad esempio, scrive : « Il cuore ha tre ventricoli; esso è sito piu in alto del polmone, presso la biforcazione della 44

Oggetti che emergono e oggetti che scompaiono

trachea » . Nel dodicesimo libro della Metafisica, Aristotele conta altri oggetti : « Poiché, dunque, le sfere in cui gli astri si muovono sono otto per i primi due, e venticinque per gli altri, e, di queste, non devono essere fatte tornare a ritroso solo quelle in cui si muove il pianeta che è collocato all'ultimo posto, quelle che dovranno produrre il movimento a ritroso per i primi due pianeti saranno sei, e, per i quattro pianeti seguenti, sedici; il numero com­ plessivo delle sfere, di quelle che si muovono in senso nor­ male e di quelle che girano a ritroso, sarà di cinquanta­ cinque » . Secondo le valutazioni di Eudosso, le sfere sono ventisei, e Callippo ne conta invece trentatré. Forse c'è una differenza di fondo tra il contare i tre ventricoli del cuore e le cinquantacinque sfere celesti. I primi oggetti, infatti, si vedono con gli occhi, mentre i secondi sono necessari per salvare i fenomeni che si ve­ dono nel cielo. Eppure, anche lo sterminato sapere zoolo­ gico di Aristotele presenta problemi, poiché non deriva interamente da osservazioni - vivisezioni ed esami su ricci o insetti o embrioni - ma si compone spesso di resoconti di varia provenienza o natura. Nel sesto libro dell'Historia Aristotele scrive un resoconto dettagliato di ciò che accade durante lo sviluppo di un embrione di vo­ latile, mentre nel secondo libro sostiene che « i maschi hanno piu denti delle femmine sia tra gli uomini sia tra le pecore, le capre e i maiali » , e nel libro terzo dichiara che le estremità dell'aorta « non sono piu cave » . Ecco tre casi - e molti altri se ne possono facilmente portare ad esempio - in cui ciò che si vede e si può controllare si manifesta come anomalo : come è possibile osservare con precisione la crescita di un embrione e il numero dei denti, e darne poi resoconti come quelli di Aristotele? Il fatto è che noi dobbiamo ricostruire i dati empirici d'Aristotele : facendolo, troviamo che la descrizione del­ l'embrione è veramente precisa, che il problema del nu45

Il sogno di Galileo

mero dei denti è risolubile in quanto quel numero è contato a partire da una teoria discutibilissima sulla su­ periorità dei maschi rispetto alle femmine, e che la que­ stione dell'aorta che si trasforma in tendini è spiegabile sulla base di una teoria inesistente sulla circolazione del sangue. Anche Aristotele vedeva spesso ciò che le teorie di­ sponibili gli facevano vedere. Tenendo conto di questo fatto il problema delle sfere celesti assume un aspetto de­ cisamente interessante. Le sfere esistono nel senso pieno del termine. Esse sono grandissimi oggetti, sono nume­ rabili e ci si può accingere a calcolarne le dimensioni. Quest'impresa prosegue per secoli, sino a tutta l'astro­ nomia medioevale e al De Revolutionibus Orbium Caele­ stium di Copernico. Nel De Revolutionibus del 1543 si legge, ad esempio : « i;; necessario che fra l'orbe convesso di Venere e quello concavo di Marte resti uno spazio per formare un orbe o una sfera omocentrica con quelli se­ condo le superfici di entrambi, che riceva la Terra con la sua compagna Luna e tutto ciò che è contenuto sotto il globo lunare » . Questi orbi non sono ipotesi matematiche. Sono cose enormi, grandi come il mondo e solide. I pianeti si muo­ vono poiché sono incastonati all'interno di essi. L'intero universo si regge sulla loro realtà piena e indiscutibile. Tra il 1 5 1 1 e il 1 5 1 3 Copernico elabora il Commenta­ riolus, e cioè un saggio in cui si prefigurano le pagine del De Revolutionibus. Nel primo postulato si sostiene che « non esiste un centro unico per tutti gli orbi o sfere celesti », e poco dopo si discute dell'ordine di queste ultime : « Gli orbi celesti si circondano l'uno rispetto al­ l'altro nel seguente ordine. Il piu alto è quello delle stelle fisse che, immobile, contiene tutte le cose e dona loro un luogo. Al di sotto vi è quello di Saturno . . . » . Nel 1 540 si stampa la prima edizione della Narratio Prima di Retico. 46

Oggetti che emergono e oggetti che scompaiono

E Retico tratta della « enumerazione dei movimenti cir­ colari che si convengono a ciascuno degli orbi e ai corpi che sono ad essi avvinti e che su essi riposano » . Cento e cinquanta anni piu tardi il lettore dei Prin­ cipia newtoniani legge considerazioni sul raggio 'orbis magni ' : ma il significato di quelle parole è ormai radi­ calmente mutato. Esse tornano nelle proposizioni newto­ niane, ma dietro di esse vi è ormai una diversa fabbrica del mondo. In un manoscritto sugli elementi della mec­ canica Newton dice che « i Pianeti Primari ruotano nei loro diversi Orbi attorno al Sole » . Nei manoscritti per lo Scholium Generale si recita un inno per « l'elegante dispo­ sizione » di ciò cui si dà ancora il nome di 'orbes coelestes' , e nelle poche righe di un appunto - preparato dopo il 1 684 per scopi probabilmente divulgativi - si sostiene che i pianeti si muovono « in circoli o Orbi circolari attorno ad altri corpi molto piu grandi » . Quali fatti sono accaduti, cosi da trasformare il signi­ ficato di una parola? Per quali ragioni i termini « sfera » e « orbe » hanno indicato prima degli oggetti solidi e poi delle traiettorie geometriche? Torniamo per un momento ad una frase già ricordata - a Newton, che nel De Mundi Systemate Liber afferma che « le sfere solide sono state infrante e cacciate via dall'etere » . Ebbene, quale tribunale ha deciso in tal senso? Forse, a questo punto, dobbiamo tentar di capire se il frantumarsi di un edificio del cosmo e l'emergenza di una nuova fabbrica dell'universo sono aspetti di una im­ presa illuminata dal rincorrersi di immagini del sapere, o se, invece, le trame di quell'impresa si innervano altrove.

47

Una nuova teoria è un oggetto che cambia nel tempo prima di assumere una forma più o meno precisa : un oggetto che emerge attraverso un processo denso di fasi che potremmo definire come pre-teoriche, e cioè cangianti per il rincorrersi, al loro interno, di opinioni false e di ipotesi deboli. Ma che un'opinione sia falsa o che un'ipotesi sia debole, lo si può dire solo dopo. Dopo che cosa? Dopo che i dati empirici si ada­ giano nelle reti teoriche finalmente conchiuse. Ma rimangono sempre spiragli aperti : nessuna rete teorica è definitivamente chiusa, e il commino della ragione rischia sempre di impigliarsi in una maglia sconnessa . Le centinaia di pagine coperte di calcoli che Keplero ha lasciato mostravano, già a Keplero, che l'impresa razionale sul mondo è insidiata da molti ladri, da molti labirinti.

CAPITOLO TERZO

Nuovi labirinti: sfere, cerchi, ovali, ellissi

«

Caddi cosi'. in nuovi labirinti

»,

scrive Keplero nella

Astronomia nova. In quest'opera, terminata nel 1 607 e pubblicata nel 1609 - pochi mesi prima che Galileo di­ rigesse locchiale sulla superficie della Luna o nei dintorni di Giove - viene raccontata una parte rilevante dell 'iln­ presa a proposito della quale ci si pongono interrogativi. Il racconto è denso di immagini, e queste ultime disegnano molte facce dell'errore. Il labirinto kepleriano non asso­ miglia a quello de Il Saggiatore, anche se Keplero accusa la metafisica di aver costruito metafore ingannatrici : una di esse è la credenza secondo cui i pianeti si muovono su cerchi perfetti, il che forma appunto un errore il quale, essendo appoggiato dall'autorità di molti filosofi, è stato per Keplero « un ladro del mio tempo » . In realtà, Keplero non confessa di essersi a lungo perduto in quei cunicoli senza senso dove vincono i confronti fra i testi, ma di avere errato per anni tra oceani di calcoli. Il percorso labirintico era dunque eseguito tra reti di numeri e :figure, anche se alcuni nodi basilari di quelle reti erano congetture sulla natura dei movimenti da calcolare, e quindi con­ getture che venivano pensate - e cioè scritte - facendo riferimenti ai discorsi dai quali traevano alimenti e con­ forto le :filosofie produttrici di immagini del sapere. Di volta in volta, col procedere delle matematizzazioni, Keplero incontra sorprese. Sorprese che sono sconfitte, nel senso che le catene dei conti non portano a esiti capaci di soddisfare i dati osservativi raccolti da Tycho Brahe sul moto dei pianeti. Il labirinto kepleriano, insomma, è 51

Il sogno di Galileo

popolato di ladri, ed è sempre piu difficile scoprire, in questa o quella ipotesi di lavoro, il ladro da sconfiggere. Già nel Mysterium cosmographicum del 1 596 Keplero aveva eliminato, in nome di una natura che ama la sem­ plicità e l'unità, l' « onerosa e vana suppellettile di tante sfere immense » e la « molteplicità di orbi [ che ] ingom­ brano l'astronomia antica » . Il merito di tale eliminazione andava riconosciuto, secondo Keplero, all'opera di Coper­ nico. Ora il mondo appariva come una struttura mirabile. Quest'ultima era talmente perfetta che « non esito ad affermare che tutto ciò che Copernico ha dimostrato a posteriori e sulla base di osservazioni, se fosse vissuto [ . . ] avrebbe potuto dimostrare a priori senza fatica con l'aiuto di assiomi geometrici, come testimonia lo stesso Aristo­ tele » . Eppure Keplero crede di sapere molte piu cose di quante si celano alle spalle di quell'omaggio ad Aristotele. In primo luogo egli sa, con certezza, che la semplicità e l'unità della natura derivano dal fatto che dio geome­ trizza nell'eternità. Pertanto l'edificio del cosmo non può in alcun modo costituire una variante chimerica. Esso è governato, senza eccezioni, da regolarità in esso « non si trova mai nulla di ozioso o di superfluo », e le irrego­ larità nei moti dei pianeti debbono essere illusioni, appa­ renze. La forza della visione copernicana sta dunque nel1' aver sostituito, al disordine, l'ordine e la semplicità. Co­ pernico, distruggendo la suppellettile delle sfere celesti, ha mostrato che Tolomeo si era basato su « una falsa dispo­ sizione dell'universo » . Ora diventa possibile ricostruire la vera architettura delle cose a partire da assiomi geo­ metrici, poiché la natura è tornata ad essere la fabbrica­ zione armoniosa del dio che geometrizza. È questa l'immagine attraverso il cui filtro Keplero rilegge Aristotele e Copernico nel Mysterium. L'Aristo­ tele del Mysterium è il testimone della deducibilità del .

-

52

Nuovi labirinti: sfere, cerchi, ovali, ellissi

mondo per mezzo di ragionamenti matematici che si muo­ vono da alcuni assiomi - e si contrappone all'altro Aristotele, quello che parla con la voce di Simplicio nel Dialogo di Galileo e dice « che nelle cose naturali non si deve sempre ricercare una necessità di dimostrazion matematica » E il Copernico kepleriano, che dimostra le cose per mezzo di osservazioni, si contrappone al Coper­ nico galileano, il quale ha il coraggio di credere in argo­ mentazioni razionali sul moto terrestre contro le quali si schiera un complesso di osservazioni a favore della terra immobile. Infine, il Copernico del Mysterium è colui che con « pochissimi orbi » spiega un grandissimo numero di movi­ menti . Anche il Copernico del De Revolutionibus e quello che Retico elogia nella Narratio Prima hanno la virru della semplicità - ma questa semplicità è piu un orna­ mento rettorico che una questione reale. Il problema è ben altro, come scrive Tycho Brahe in una lettera a Mae­ stlin ed in una missiva inviata allo stesso Keplero. Nella prima lettera Brahe critica l'idea di costruire l'astronomia a priori e non sulla base dei fatti rivelati dall'esperienza - la costruzione a priori, secondo Brahe, è un'impresa vana; e si dovrebbe allora lavorare per l'eternità e invano? Nella seconda lettera, rivolta come la precedente al My­ sterium, Brahe sostiene che l'errore commesso da Keplero poggia sull'opinione che gli orbi celesti siano reali. Si tratta di un'opinione condivisa da molti, ma è errata. La strut­ tura dei moti planetari, ripete Brahe, va conosciuta non sulla base di congetture centrate su postulati di armonia tra gli oggetti celesti, ma per mezzo di osservazioni : ed anche cosi « è difficilissimo » trovare quella struttura. Ciò che per Brahe è invece certo riguarda la circolarità dei moti : « lo spirito rifiuta con orrore » l'ipotesi che la cir­ colarità sia generata da figure « diverse e variate, e, piu spesso, oblunghe » . 53

Il sogno di Galileo

Ecco apparire la :figura del ladro, o, meglio, una delle sue :fisionomie piu ricorrenti : la credenza nei privilegi della circolarità. Sarà difficilissimo sfuggire alla « macina dei cerchi » , scrive piu tardi Keplero nell'introduzione all'Astronomia Nova. La forza di quell'immagine è veramente immensa. Il Dialogo di Galileo ci presenta un mondo molto vasto, dove « tanto è impotente il nostro senso a distinguere le distanze grandi dalle grandissime » e si pone il problema dello spazio vastissimo che è compreso tra « l'orbe supremo di Saturno e la sfera stellata ». I dispositivi circolari, nella terza giornata del Dialogo, sono le trame archetipe del mondo, anche se quest'ultimo non è piu tolemaico, anche se al suo interno sono emersi « drappelli di molte stelle lucide e bellissime » al posto di quelle nebulose che « erano prima solamente piazzette albicanti », anche se ora si muovono in esso « i quattro pianeti Medicei e i compagni di Saturno » . Già, i compagni di Saturno : nella prima lettera del maggio 1 6 1 2 a Marco Velseri Galileo scrive che, « come mostrano alle perfette viste i perfetti stru­ menti », Saturno appare cosi: O O O non, « dove manchi la perfezione

»,

cosl :

O . Le figure che si ve­

dono in cielo hanno :fisionomie osservabili con esattezza, secondo Galileo (e a noi, che molte piu cose ormai sap­ piamo sul potere delle lenti, sembra che certi discorsi siano ormai sepolti - eppure, come potevano mai dire i primi osservatori cinesi della luce nuova nel Toro, o il Charles Messier che vide una luce di candela nella stessa area celeste, che in quel luogo dell'universo ruota ogni 3 3 millisecondi una stella d i neutroni? ) . L a macina dei cerchi, dunque. Essa funziona tra le cose come un selettore la cui carica di verità è fuori discussio­ ne. Essa guida Keplero nel labirinto e Galileo nei territori piani e illuminati . Essa sembra destinata a sopravvivere per l'eternità. Eppure essa si incrina, si sbriciola, perde 54

Nuovi labirinti: sfere, cerchi, ovali, ellissi

significanza e normatività, anche se, in Keplero, viene associata all'opinione secondo cui « uhi materia, ibi geo­ metria » . Le novecento pagine di calcoli che giacciono nella biblioteca di Pulkovo testimoniano delle fatiche keple­ riane contro la resistenza di Marte agli assalti della ragione. Ma, poi, la ragione vince. Altri mesi di calcoli e Marte si arrende. E con Marte si arrende anche la macina dei cerchi, la norma generale che dava senso all'indagine, il criterio che contrassegnava di vero o di falso le primissime mosse del programma. I passi nel .labirinto kepleriano - a livello di immagini del sapere e di modelli del cosmo - sembrano essere i seguenti : riduzione del numero di orbi solidi, demolizione di questi ultimi, loro sostituzione con traiettorie geome­ triche circolari, mutazione di esse in percorsi ovali, trasfor­ mazione definitiva in ellissi. Orbene, quali schemi sono in movimento al di sotto di tali raffigurazioni? Quale ruolo hanno le centinaia di pagine coperte di segni e simboli e operazioni della bi­ blioteca di Pulkovo ? Dovremo dunque dire che tutta la matematizzazione è null'altro che una tecnica, una sorta di superstruttura o d'appendice il cui significato basilare è dato da slogan metodologici (uhi materia, ibi geometria) o da credenze sul rapporto dio-cosmo (il dio che eterna­ mente geometrizza) o da opinioni sulla musica astrale che Keplero associa alle armonie dei cieli (come si può leggere nelle pagine dell'opera del 1 6 1 9 , Harmonices mundi li­ bri V, dove il dio musico dei pitagorici presiede al tutto) ? O non dovremo invece riconoscere, una volta per tutte, che il lavorio calcolatorio è la rete vera che fa saltare la macchina degli orbi, l'edificio dei cerchi, i palazzi degli ovali ? Se scegliamo di cercare tra i calcoli, non sfuggono die­ tro l'orizzonte della storia i disegni del labirinto, della caverna, del dio musicante, della torre di Babele - anzi,

Il sogno di Galileo

cogliamo quei disegni nella loro funzione concreta : sono disegni, per l'appunto, o quadri concettuali, nelle cui cor­ nici si tenta, di volta in volta, di imprigionare le strategie razionali: le strategie e le scelte che vincolano a controlli secondo regole date, sia per Galileo che vede i compagni di Saturno, sia per Aristotele che conta i denti delle fem­ mine, sia per Archimede che parla di teoremi ritrovati, sia per Messier che segna sulle carte del cielo una luce debole nella zona del Toro, sia per Gottfried Galle che vede il pianeta di Leverrier, sia per Bolyai che scopre la torre delle geometrie non euclidee. Quando Keplero, con i calcoli, distrugge quei dispositivi che avevano resistito a Copernico e a Galileo, ciò che ac­ cade non è solamente la rovina definitiva degli orbi solidi o dei cerchi perfetti. Non si tratta unicamente di rimpiaz­ zare una macchina del mondo con un'altra macchina, cosi da poter sostituire un'immagine della natura con un'altra immagine. Ciò che in effetti accade è che la matematizza­ zione disperde i frammenti di una folla di selettori :filoso­ fici - svela le manovre dei « ladri del mio tempo ». :e vero che i selettori (la credenza negli orbi o nei cerchi) sono collocati all'inizio dei calcoli, ed è altrettanto vero che la loro collocazione è fondamentale affinché quei calcoli possano avere un inizio. Ma è anche vero che, dopo l'esplo­ razione delle varianti compatibili con la disposizione dei selettori, la ragione vince in quanto rinnega i propri punti di partenza, semina la confusione nei contesti primi dei propri passi, getta l'ombra su quelle « macine » che pure le erano state da guida. E la motivazione di tale scontro tra immagini e calcoli non va forse cercata in un teatro di idee, ma nel regno anomalo delle risposte che la natura offre a chi la interroga. La natura, impassibile, recita la sua parte in questi intricati percorsi d'immagini e controlli. Essa replica alle mosse della ragione esplorante: le stelle medicee, gli amm assi d'a56

Nuovi labirinti: sfere, cerchi, ovali, ellissi

stri, i monti sulla Luna, le fasi di Venere, il pianeta di Le­ verrier, la stella di neutroni che ruota entro la Nebulosa del Granchio, lo sdipanarsi delle carni nell'embrione ana­ lizzato da Aristotele e l'emergenza di nuovi teoremi nelle riflessioni di Bolyai sono i segni dell'irrompere, sulla scena delle cose, di quell'inatteso materiale che getta lo scompi­ glio e il disordine fra coloro che dipingono mappe e si illudono, spesso, di star lavorando ai dettagli dell'ultima mappa - la mappa dove non c'è piu posto per luoghi sorprendenti da indicare inquietamente con il tradizionale: 'hic sunt leones'. Ma se i movimenti lenti della ragione - e cioè quei tragitti di « certe dimostrazioni » e di « sensate esperienze » che si intravedono sotto le nostre immagini del sapere seguono strade che non coincidono con le illusioni del libro galileiano, come possiamo conciliarli con l'esistere di quella matematica che sta alla base del libro della natura o che riesce ad uscire dal labirinto kepleriano? Se la ma­ tematica fosse essa stessa un cosmo piano e bene illuminato - dove la distanza tra un teorema e il successivo, come scriveva Helvetius, è sempre la stessa - certi problemi non dovrebbero mai presentarsi. Eppure, come Keplero prova su se stesso, anche la matematica pone a volte l'uomo di fronte a sorprese, a conclusioni imprevedibili. Non sembra essere realistica la visione di Helvetius, se­ condo la quale le distanze tra i teoremi sono ripetitive. La matematizzazione non è una tecnica ciclica, non è un insieme di rotismi della mente che, una volta noti, si li­ mitino a darci una lingua dalla :fisionomia imperturbabile. Le mosse che sono lecite (a partire da alcuni assiomi e per mezzo di determinate regole) provocano, come piu volte rileva Keplero, delle svolte che non si potevano in alcun modo intravedere sulla base delle congetture iniziali sulla struttura del cosmo o sulle traiettorie di un pianeta. Quando Keplero è obbligato - dai calcoli - a pen51

Il sogno di Galileo

sare che Marte non si muove su un cerchio, ma su una figura che « si restringe ai lati » (su un ovale), succede che questa scoperta stimola lo scopritore a comportarsi come « la cagna frettolosa, che partod cagnolini ciechi » . Keplero non imbocca subito la via giusta, ma, appunto, cade in nuovi labirinti. Egli si scontra con proposizioni che gli paiono assurde, e trascorre ancora molti mesi per determi­ nare l'ovale: la teoria di tale figura sfugge - e il 4 luglio del 1 603 Keplero aveva scritto a Fabricius a proposito delle difficoltà che tentava faticosamente di superare, no­ tando che se non si fosse trattato di una traiettoria ovale, ma di una ellisse perfetta, allora sarebbero state piu che sufficienti le pagine di Archimede e di Apollonia. « Lavoro enorme e infinitamente complicato », confes­ sa Keplero a Maestlin: non è sufficiente « concepire l'ipo­ tesi vera », ma occorre inoltre « assoggettarla al calcolo ». Le molle che spingono l'autore del Mysterium a proseguire non sono tuttavia segrete, e non si riducono a forme di ostinazione calcolistica. La transizione dal cerchio all'ovale implica, insieme al mare di problemi e d'ostacoli che ne conseguono, anche - e soprattutto - l'aprirsi di nuove possibilità di interpretazione fisica dei moti planetari. Se il pianeta non è piu incastonato in un orbe solido o non è piu mosso circolarmente, quali sono le azioni che lo fanno correre su percorsi ovali? I mutamenti nella fabbrica del mondo - dall'orbe al­ l'ovale - provocano riassestamenti in altre zone teoriche e ulteriori trasformazioni nel mondo stesso. Keplero farà ricorso a tutto il disponibile per ristrutturare, in modalità razionali, quanto sta emergendo dai calcoli e per indivi­ duare la virtus che sta diventando necessaria per reggere i moti planetari : dall'ottica alle congetture sul magnetismo di Gilbert. È ben vero che la differenza tra la figura ovale e la figura dell'ellisse è minima. Eppure, nel computare quella differenza, si giunge a esiti grandi : bisognerà met58

Nuovi labirinti: sfere, cerchi, ()I/ali, ellissi

tere in moto il Sole attorno a se stesso, costruire analogie :fisiche sulla natura stessa del Sole e della virtu che que­ st'ultimo emette, indagare sulle cause ultime del moto planetario e tentare similitudini tra la luce e la forza che trattiene armoniosamente insieme gli oggetti del sistema planetario. L'operazione complessiva è quanto di piu diverso si possa immaginare rispetto ad una traduzione matematica dei dati empirici raccolti pazientemente negli anni da Tycho Brahe. La traduzione kepleriana annienta l'immagine del cosmo che proprio su quei dati empirici Tycho Brahe aveva costruito in contrapposizione all'immagine copernicana. E anche quest'ultima viene violata. Quando Keplero poté scrivere, trionfante, che il « nemico » Marte, « con l'inter­ mediario di sua madre, la Natura, mi confessò la sua di­ sfatta, e arrendendosi sulla parola passò poco dopo nel mio campo scortato dall'Aritmetica e dalla Geometria », il nuovo libro del mondo non consisteva di una traduzione in lingua matematica dell'immagine copernicana e delle osservazioni di Brahe, ma di una revisione profonda di interi continenti del sapere.

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Non è poi detto che le immagini del sapere siano molto stabili. Alcune di esse nascono da un groviglio di opinioni, credenze, congetture e fedi. Ma poi, pur guidando alcuni pro­ grammi di ricerca, mutano anch'esse, e poi finiscono per mo­ rire, sopraffatte dai risultati che si sono ottenuti risolvendo quei problemi che esse avevano contribuito a enunciare. Ciò appare se andiamo a vedere come alcuni grandi scien­ ziati hanno scritto, analizzato e risolto i problemi sul movi­ mento delle comete . Troviamo cosi che, all'inizio, i discorsi sono diretti da proposizioni il cui significato deve essere cercato fra i temi della fisiologia cometaria o fra le credenze astrologiche, e non solo tra le ipotesi fisiche e le considerazioni geometriche. Ma poi la situazione si trasforma nei decenni : le proposizioni prime sono scalzate e dimenticate, poiché il sapere, muovendosi al di là delle immagini, produce una nuova teoria sul movimento di tutte le cose. E nascono altre immagini, altri selettori.

CAPITOLO QUARTO

Oggetti che mutano viaggiando nel cielo: le comete

Il conte di Rosse era un buon osservatore del cielo. Con i telescopi egli analizzava gruppi di stelle e pubblicava memorie corredate di disegni minuziosi : disegni che ten­ tavano di raffigurare la struttura e i dettagli che l'occhio e le lenti riuscivano a scorgere all'interno e alla periferia di quelle sterminate cose cui si continuava a dare il nome di nebulose. L'oggetto nella costellazione del Toro, che alcuni cinesi avevano visto accendersi e che Charles Messier aveva riscoperto nell'agosto del 1 758 descrivendolo come una fioca luce di candela, appariva ora al conte di Rosse come una figura sfrangiata e variegata, ricca di filamenti e forme tentacolari uscenti da una piu compatta zona centrale. Si trattava comunque di una di quelle cose che si ve­ dono con difficoltà. E, nel 1 850, il conte di Rosse annotava come, posto di fronte a fenomeni di tal genere, l'occhio potesse anche subire « l'influenza della mente » . L'adesione preconcetta a una teoria, secondo il nostro osservatore, poteva anche portare fuori strada - dovendosi fare i conti con certi fenomeni, « le speculazioni non sono prive di pericolo », anche se esse, d'altro canto, sanno rendersi utili « dirigendo l'attenzione verso fenomeni che altrimenti sfuggirebbero » . Le cautele del conte di Rosse parlano di una grandis­ sima questione filosofica. Sessant'anni prima Wolfang Goe­ the aveva messo in guardia la ragione nei confronti del tribunale empirico, quando quest'ultimo pretendeva di e­ mettere sentenze e giudizi sulla base di singoli esperimenti. 63

Il sogno di Galileo

Il passaggio dall'esperienza al giudizio era, secondo Goethe, un vero e proprio varco dove si affollavano, insidiosi, i nemici - i nemici che tendevano agguati (la fantasia, l'im­ pazienza, i preconcetti, la pigrizia, la volubilità, la mentalità o la testardaggine) volevano far cadere la ragione in un paradosso, facendole dimenticare che una singola osser­ vazione aveva valore solamente in rapporto con altre. L'e­ sperimento, insomma, è solo una parte della conoscenza: il sapere non coincide con lo sperimentare e non si esaurisce in un calendario di dati, poiché i fenomeni - per accu­ rate che siano le tecniche con cui li analizziamo - non parlano da soli. Di parere ben diverso era un altro autorevo­ le studioso d'astronomia: Herschel, di cui s'è parlato, era profondamente convinto che l'esperienza è la sola fonte di « tutta la nostra conoscenza » e che l'indagine sulla natura consiste nell'osservare «la mera questione di fatto», «quello che è » . Ma, come scriveva alcuni decenni piu tardi Ludwig Boltzmann, l'immagine secondo cui la scienza è una rac­ colta di questioni di fatto è una cattiva immagine, poiché non esiste una sola proposizione che descriva un fatto puro senza esser gravida di teorie. Il conte di Rosse, comunque, voleva evitare di cadere nei tranelli che i guerriglieri goethiani continuamente pre­ paravano lungo i sentieri ritorti o nei varchi che si dove­ vano superare per mediare tra la ragione e l'osservazione. I disegni che egli faceva stampare e che tratteggiavano le innervature o le grandi ombre delle nebulose erano ricchi di informazioni, ma non pretendevano di spiegare gli og­ getti giganteschi e immensamente lontani che mostravano le loro luci al telescopio. In :fin dei conti, ben poco di teo­ rico si poteva dire a proposito di quegli sconfinati ammassi di stelle e di gas luminosi. Né il conte di Rosse poteva ancora immaginare che da alcune memorie scientifiche sulla teoria del calore, sulla meccanica analitica e sulle nuove geometrie si sarebbero, nei decenni, sdipanate alcune ma64

Oggetti che mutano viaggiando

nel cielo

tasse di argomenti che avrebbero portato a concludere che, dentro una di quelle nebulose, girava su se stessa una stella di neutroni: non lo poteva immaginare anche se quelle memorie gli erano contemporanee, anche se al­ cune di esse venivano pubblicate sulla medesima rivista che accoglieva i suoi resoconti stellari, anche se i suoi col­ leghi probabilmente discutevano con lui di questa o quella legge, di questa o quest'altra ipotesi, di questo o quell'altro risultato in rapporto all'una o all'altra di quelle memorie. (I movimenti delle forme razionali a volte si annodano pro­ vocando mutamenti e ristrutturazioni profonde nel sapere. Ma quei nodi sono inattesi, sono sorprese - sono, appun­ to, scoperte.) Il conte di Rosse era probabilmente sicuro di compor­ tarsi da buon newtoniano, in quanto tentava di aderire ai fenomeni. Forse egli - insieme alla maggioranza degli astronomi del suo tempo - non era in grado di dar giusto peso a ciò che lo stesso Newton aveva pur precisato nei Principia, là dove aveva scritto che nella filosofi.a naturale bisogna astrarre dai sensi. Il Newton del conte di Rosse non aveva infatti molte ragioni per non essere un empirista piu o meno cauto o liberaleggiante. Il Newton del conte di Rosse era colui che era partito dai fenomeni e dalle mere questioni di fatto: ed allora, nello studio delle nebulose, non si doveva far altro che seguir le sue tracce. Ma il fatto è che non si poteva far altro. La nuova meccanica ana­ litica di Hamilton, le nuove conoscenze sull'energia o sui moti molecolari, le conseguenze dell'elettrodinamica di Ampère, gli sviluppi delle ricerche in geometria di Gauss o di Bolyai, la crescita della fisica del campo elettromagne­ tico e le ricerche sulla luce proveniente dalle stelle appa­ rivano ancora, ai singoli soggetti, come rami distinti del sapere. Nessuno, nel 1 850, poteva prevedere che quei rami non si stavano divaricando a raggera, ma si stavano invece muovendo per incontrarsi altrove - in quelle nuove scien65

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ze che avrebbero collocato una stella cli neutroni nel cuore quella Nebulosa del Cancro che, nei disegni pazienti del conte cli Rosse, cessava di apparire come una fiammella di candela (cosi l'aveva vista Messier) e diventava sempre piu simile allo strano animale che le avrebbe dato un nome. La complessità del rapporto tra osservazione e teoria, dunque, è una grande questione filosofica. Ma non è il caso, ora, di individuarne lo scopritore. Se dal conte cli Rosse torniamo indietro nel tempo e troviamo, nel 1 792, le tesi di Goethe, non è detto che ci si possa fermare. Dovremmo infatti, per lo meno, camminare ancora molto a ritroso incontrando nuovamente, ad esempio, la gatta galileiana che passeggia sui tetti. La questione è allora la seguente: non basta sapere a livello d'immagini - che esistono correlazioni non im­ mediate tra il senso e la ragione teorizzante. � invece necessario, al di sotto o al di là delle immagini, ricostruire le correlazioni che di volta in volta operano tra un certo insieme cli dati empirici e un certo insieme cli proposizioni. Se ci fermiamo alla lettura cli ciò che le immagini dicono, ci sfugge quasi tutto delle operazioni concrete che pure le immagini pretendono cli risolvere e cli descrivere. Non solo: poiché le immagini sono esse stesse il prodotto per mezzo del quale si tenta cli spiegare ciò che nel concreto si è fatto per mettere in rapporto le pratiche osservative e le teorizzazioni, chi si ferma a discutere le sole immagini non le comprende - gli mancano infatti quei problemi locali, quelle situazioni irripetibili, quelle connessioni de­ duttive e quei calcoli matematici che stanno alla radice della produzione cli immagini. Il sapere vive la sua vita reale in quei livelli profondi e densi di problemi locali che scompaiono ogni qual volta si disegna una qualche raffigurazione del sapere stesso. La raffigurazione è sempre una mappa. E una mappa ha un di

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Oggetti che mutano viaggiando nel cielo

certo numero di dimensioni: un numero di dimensioni che è inferiore a quello delle dimensioni dei problemi concreti dello scienziato. Nello stesso modo, chi disegna portolani o carte topografiche traccia su fogli piani ciò che in realtà è ricco di montuosità e dislivelli. Una mappa è sempre una proiezione. Possiamo disegnare carte di un continente u­ sando regole di proiezione diverse: ciascuna di esse ci offre fasci di informazioni, e noi impariamo a conoscere quel continente in quanto già conosciamo le norme per passare da una mappa all'altra. Ma i canoni che servono per passare da una raffigurazione del sapere all'altra non sono fissati. Si tratta di canoni ambigui. Chi disegna una certa mappa e ce la consegna in visione può averla ricavata non per mezzo di sopralluoghi e rilevazioni sul terreno, ma grazie al confronto di altre mappe. E può benissimo accadere che queste ultime non fossero tra loro confron­ tabili, o che i tratti dell'una si potessero paragonare a quelli di un'altra solo invocando l'autorità di un certo car­ tografo : il quale, a sua volta, aveva forse recuperato im­ magini già perdute in qualche fondo di biblioteca, dopo che altri viaggiatori avevano smentito che esistessero in natura città e fiumi, animali e usanze, imperi e stelle che, invece, ancora figuravano nelle immagini recuperate. Stan­ no qui le difficoltà senza fine e senza principio che Helve­ tius aveva dipinto nell'errare caotico tra i meandri della torre di Venere Urania. Dobbiamo renderci conto che le immagini del sapere non sono stabili come sembrano, e che le ragioni della loro mancanza di stabilità giacciono al di fuori delle argomen­ tazioni che si mettono sul tavolo da parte di chi presenta o illustra o difende o critica le immagini stesse. S'è visto come Galileo difendesse il libro della natura e criticasse il mondo di carta di coloro che riducevano il sapere ad un confronto di citazioni da altri libri. Ma è lo stesso Galileo, in altre pagine, a dire che è impresa impossibile quella di 67

Il sogno di Galileo

chi vorrebbe « tentar l'essenza ». La ragione umana erra quando vuole « specolando tentar di penetrar l'essenza vera e intrinseca delle sustanze naturali ». Eppure, come l'immagine del libro recita, chi conosce la lingua conosce come un dio : e le cose da conoscere (per noi e per dio) stanno mute ed eterne nell'edificio del mondo - « la natura, Signor mio, si burla delle costituzioni e decreti de i principi, degl'imperatori e de i monarchi, a richiesta de' quali ella non muterebbe un iota delle leggi e statuti suoi », scrive Galileo a Ingoli nel 1 624. Dovremo dunque dire che, di volta in volta, l'immagine che Galileo esibisce di fronte agli interlocutori è un qualcosa di mutevole, una sorta di raffigurazione che oscilla tra poli filosofici diversi? Lo potremmo anche dire, considerando quelle variazioni d'im­ magine come giustificazioni a posteriori di risultati scien­ tifici già ottenuti. In tal caso la filosofia personale dello scienziato ci si presenterebbe come un insieme debole di argomenti che cambiano senso a seconda dell'interlocu­ tore, della natura della polemica, della classe di questioni teoriche o sperimentali che viene dibattuta. Ma, ancora una volta, otterremmo una risposta unila­ terale. Accade spesso, infatti, che un frammento d'imma­ gine del sapere funzioni come una norma rigorosa, come un selettore rigido e inflessibile per avviare una ricerca, e non solamente come un'argomentazione provvisoria di cui si fa uso allo scopo di trovare una qualche giustificazione dei risultati d'una ricerca già terminata. Un forte caso di immagine che lavora come selettore nello studio matematico di cose che viaggiano in cielo è dato dalla trattazione delle comete. L'oggetto che Messier seguiva col suo telescopio (quando vide la luminosità non segnata sulle carte e destinata a trasformarsi nella Ne­ bulosa del Granchio) era appunto una cometa. Ebbene, com'erano studiate le comete da un uomo come Newton? Sfogliando le lezioni newtoniane sull'algebra troviamo un 68

Oggetti che mutano viaggiando nel cielo

problema - che probabilmente risale al 1 6 7 6 - cosf enunciato : « Determinare la posizione di una cometa, che procede uniformemente sulla linea retta BD, a partire da tre osservazioni del suo corso ». Qualche anno dopo - probabilmente nel 1 680 Newton enuncia e risolve un altro problema del genere : « Sulla base di quattro po­ sizioni osservate d'una cometa attraversante il cielo con un moto uniforme e rettilineo, trovare la sua distanza dalla Terra e la direzione del suo moto, supponendo l'ipotesi copernicana ». Altri problemi analoghi sono calcolati in alcuni fogli newtoniani stilati non piu tardi dell'ottobre del -

1 685.

Eppure sappiamo che le comete non si muovono lungo linee rette. Lo stesso Newton scrive una lettera, nel set­ tembre del 1 685, e accenna a movimenti completamente diversi. Movimenti che, come risulta dal De Mundi Syste­ mate Liber o dai Principia, sono traiettorie incurvate, lungo le quali la velocità degli oggetti viaggianti - se­ condo i calcoli - « è quella stessa mediante la quale devono essere descritte le parabole o le ellissi » . Ci s i trova allora di fronte a due rappruppamenti di matematizzazioni newtoniane : il primo implica un moto rettilineo delle comete, il secondo un moto incurvato. Come è possibile un fatto del genere? E cosa è successo affinché Newton decidesse di abbandonare il primo raggruppa­ mento e di passare al secondo? E, infine, che senso ha invocare l'ipotesi copernicana per risolvere un problema sul presunto moto rettilineo d'una cometa? Cominciamo da quest'ultima domanda. L'ipotesi coper­ nicana, nell'enunciato del problema di Newton, dice che il moto reale della Terra si svolge annualmente attorno al Sole (e che l'immobilità della Terra stessa è un inganno dei sensi) . Una collezione di dati sulle successive posizioni d'una cometa deve pertanto essere interpretata in modo tale da poter distinguere tra il moto vero della cometa 69

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stessa e il moto apparente, dove quest'ultimo è un'illu­ sione generata dal fatto che chi osserva la cometa muo­ versi in cielo è tratto in inganno dall'opinione falsa secondo cui l'osservatore è fermo. Il moto vero della cometa, in­ somma, non è quello che sembra, ma è invece quello che risulta da una combinazione tra i dati osservativi e la conoscenza del moto terrestre. Orbene, qual è il tipo di traiettoria che meglio di ogni altra permette di eseguire la suddetta combinazione? Per rispondere a tale quesito non possiamo assolutamente ba­ sarci sui sensi. Dobbiamo invece far riferimento al ragio­ nare per via di dimostrazioni matematiche. Queste ultime sono già collocate all'interno di una rete di ragionamenti che ha investito con successo l'intera fabbrica del cielo, demolendo gli orbi solidi, i cerchi e gli ovali. Tuttavia, per innescare le mosse deduttive che dovran­ no mostrarci il moto reale delle comete, occorre fare delle assunzioni. Queste ultime, a loro volta, non sono imme­ diatamente enunciabili a partire dalle matematizzazioni già compiute a proposito dei pianeti - infatti le comete sono oggetti inquietanti, e non vi sono ragioni per dire che i loro cammini assomigliano in qualche modo alle orbite planetarie. Tra le varie congetture che si possono fare se ne costruisce una nella quale confluiscono le scarse infor­ mazioni di cui si dispone e che analizzano la possibile natura della cosa-cometa, il suo nascere tra le sostanze del cielo, il suo rapportarsi con gli altri oggetti che esi­ stono, le modalità delle correlazioni che ne legano l'appa­ rire alle vicende umane - non a caso il De Cometis ha un primo libro (Astronomicus) sui teoremi, un secondo (Physicus) sulla :fisiologia delle comete e un terzo (Astro­ logicus) sul significato attribuibile alla comparsa delle due comete del 1 607 e del 16 1 8 . La congettura che nasce dal confluire di tante credenze e opinioni ha veste geometrica: essa sostiene la linearità 70

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della traiettoria. Ma le sue radici si diramano in un pul­ lulare di problemi irrisolti, di opinioni incerte, di ere· denze piu o meno tradizionali, di polemiche sulla filosofia del cosmo, di dibattiti sull'astrologia, di riflessioni sul ruolo delle creature umane entro le costruzioni progettate dal dio che eternamente geometrizza. La sua veste geometrica non deve trarci in inganno a proposito della matrice intricata che la partorisce. Ma, una volta enunciata, quella congettura indirizza il dispositivo della deduzione. Quest'ultimo, nel primo libro del De Cometis, si edifica passo a passo con tre assunti, quattro definizioni e trenta teoremi. L'intero dispositivo trionfa sui dati empirici, e le due comete del 1 607 e del 1 6 1 8 rien­ trano nella teoria, cosi come il ribelle Marte aveva dovuto, a suo tempo, rientrarvi. E la conclusione di Keplero non lascia scampo per gli avversari del copernicanesimo. La congettura sul moto rettilineo delle comete, unita alla teo­ ria copernicana sul moto della Terra e ai teoremi del De Cometis, getta luce sulle osservazioni e diventa, a sua volta, una prova ulteriore della verità del sistema coper­ nicano. Alle spalle del problema di Newton esiste quindi il De Cometis, il cui primo libro si chiude con un grido di vittoria: « Vale Ptolemaee, ad Aristarchum revertor duce Coper­ nico ». Infatti, per Keplero, « quante sono le comete nel cielo, tanti sono gli argomenti a favore del moto annuo della Terra attorno al Sole ». Con il loro viaggiare, inoltre, le comete kepleriane perforano inevitabilmente le sfere dei diversi pianeti. Cosi facendo, esse gettano lo scompi­ glio tra coloro che non hanno fiducia nella matematica e continuano a credere che gli orbi celesti esistano e siano solidi: il moto rettilineo delle comete dimostra, con Ke­ plero, che « la materia dei cieli non è solida, ma liquida e percorribile in ogni verso ». Nelle sue lezioni algebriche, quindi, Newton è ancora 71

Il

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ubbidiente alla congettura kepleriana, anche se molte delle credenze e delle argomentazioni che stavano alla base di quella congettura sono ormai state erose e, forse, del tutto dimenticate nel 1 676 o nel 1 680 o nel 1685. L'ipotesi del De Cometis ritorna infatti nelle pagine newtoniane attraverso una tradizione di studi. Dopo Keplero essa aveva viaggiato nei lavori di Christopher Wren, di John Wallis, di Robert Hooke, di Christian Huyghens. Attorno ad essa erano cresciuti altri calcoli, si erano addensati altri dati osservativi, si erano disposte altre giustificazioni me­ todologiche. Vediamo dunque che una congettura, prima di essere sostituita, può aver bisogno di molti decenni di lavorio: e vediamo anche che, in quei decenni, essa continua a fun­ zionare come una guida, facendo gemmare programmi di ricerca distinti. Ma sappiamo che poi essa cade e lascia posto ad un'altra. Quando Newton giunge ad accettare il carattere universale della forza di gravità, la situazione cambia rapidamente. Assistiamo, insomma, ad un muta­ mento repentino : Newton è per cosi dire al bivio - da una parte il raggruppamento dei problemi algebrici sul moto rettilineo, dall'altra il raggruppamento di nuovi problemi matematici che trattano il moto delle comete in termini di sezioni coniche. Quale selettore interviene per motivare la scelta di fronte al bivio ? Troviamo la risposta leggendo i Principia del 1 687 : il selettore che scatta e dirotta intere zone matematiche è la rete complessiva della teoria del moto. Anche questo se­ lettore, come la congettura di Keplero, ha radici che si di­ ramano tra livelli diversi del sapere. Alcune di tali radici percorrono cammini intricati, nelle centinaia e centinaia di pagine che costituiscono i manoscritti matematici di New­ ton e danno significato all'immensa quantità di problemi che in quei manoscritti vengono affrontati. Quando Newton 72

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riassumerà, nel De Systemate Mundi Liber, la nuova situa­ zione provocata dall'irrompere di ciò che qui è indicato con il nome di selettore, egli scriverà: « Le comete, per tutto il tempo della loro apparizione, si muovono dentro la sfera di attività della forza circumsolare e perciò sotto il suo im­ pulso; e (per il corollario I della proposizione 1 3 del li­ bro I dei Principia) descrivono quindi sezioni coniche aventi centro nel centro stesso del Sole, e, condotti i raggi vettori al Sole, formano aree proporzionali ai tempi. Infatti quella forza, propagata nell'immensità dello spazio, regola i moti dei corpi molto al di là dell'orbita di Saturno » . Ebbene, in queste righe non ritroviamo alcun cenno del pluridecennale traffico di teoremi che ha consentito la formazione del nuovo selettore: e cosi nutriamo, a volte, l'illusione che il selettore sia scattato a causa di motivazioni socio-psicolo­ giche, di repentini riorientamenti di un sapere guidato dal capriccio o da misteriose pulsioni soggettive. Questa illusione colora tutto il mondo. Essa può anche spingerci a dire che l'universo di cui parla Keplero e l'uni­ verso di cui parla Newton sono radicalmente diversi - nel senso rigoroso della diversità, e cioè nel senso per cui gli oggetti analizzati nel De Cometis sono irriducibili ri­ spetto agli oggetti analizzati nei Principia. Non esisterebbe, insomma, alcun dizionario che ci possa garantire la traducibilità reciproca dei discorsi stam­ pati nel Mysterium e nel De Systemate. Ogni teoria, in mancanza di adeguati dizionari, resta un coccio chiuso su se stesso, un mappa isolata che raffigura un mondo singo­ lare: tra mappa e mappa e tra mondo e mondo non esi­ stono ponti sicuri, e la costellazione dei saperi è disconti­ nua - ogni discorso parla su se stesso. Quando Keplero scrive il termine « cometa », il significato di quel termine si congela nella teoria kepleriana: e quando Newton scrive lo stesso termine, quest'ultimo ha un significato incomuni­ cabile per il linguaggio kepleriano. 73

Il sogno di Galileo

Cosi la storia dei saperi si frantuma in quanto storia, e rimane come arte di scrivere cataloghi d'oggetti - le teo­ rie - che nulla piu hanno in comune, se non il fatto miste­ riosissimo d'esistere. Nasce in tal modo una nuova imma­ gine dell'impresa conoscitiva: l'immagine piu sottilmente disperata che mai sia stata sognata.

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Le forme della ragione che muta non riguardano sola­ mente pianeti e stelle, teoremi e dimostrazioni. Poiché le forme in questione hanno radici molteplici nel sapere complessivo, può accadere che uno studioso di fisiologia umana o un me­ dico interessato alla cura dell'epilessia interagisca, per mezzo di proposizioni ed esperienze, con il ricercatore sui fenomeni elettrici o con chi indaga sulle cause dei terremoti oppure della crescita dei vegetali. Né ci si deve stupire se la chimica con­ temporanea ha, alle proprie spalle, storie d'esperimenti su uomini che respiravano l'aria nitrosa deflogistificata, al fine di produrre dati empirici sulle leggi dell'interazione tra circo­ lazione sanguigna e modificazioni degli apparati muscolari e nervosi nei mammiferi superiori. La natura ha sempre risposto con generosità alle domande piu disparate, e le reti della ragione si sono infittite.

CAPITOLO QUINTO

Mutamenti nella base empirica: terremoti e animali, leggi della vita e pesi atomici Nel 1 7 2 1 Antonio Vallisnieri descriveva « l'organica elegante e naturale struttura della macchina della Terra ». Le sue parole dicevano l'ordine di un mondo a strati e la giustizia naturale che era leggibile nella distribuzione di fiumi e miniere, animali e fontane - e il dio creatore aveva saggiamente provveduto a fabbricare un mondo che, pur soggetto a modificazioni locali, rimaneva comunque immutabile nella sostanza. Il progetto e la sua realizza­ zione erano tali che « sempre stieno salde le prime basi e la primiera, smisurata ossatura de' monti non mai af­ fatto si scardini, né si rimava ». I dati empirici che confortavano la visione di Valli­ snieri erano disparati, e ci rinviano alle riflessioni sul pro­ blema della Terra che per secoli hanno affollato la cultura umana, affascinata dal desiderio di trovare soluzioni per i quesiti sull'età del mondo. Ma i dati empirici non parlano da soli : lo scienziato li sceglie, li tabula, li interconnette, li descrive e li spiega secondo procedure. E tali procedure sono mutevoli, poiché le loro radici stanno in altre teorie e queste ultime, negli anni, si riassestano per render conto di paradossi emergenti al loro interno o di sorprese che la natura riserva a chi la interroga. I riassestamenti teorici - e il loro incidere sulla base empirica - nascono, spesso, dalle analogie. Se rileggiamo ad esempio la già citata storia dell'elettricità di Joseph Priestley, possiamo ricostruire la filigrana di analogie che forma la base di una spiegazione elettrica dei terremoti, 77

Il sogno di Galileo

che cataloga i dati empirici geologici alla luce di teorie sui fenomeni elettrici osservabili su animali e piante, e che confuta interpretazioni per noi piu usuali dell'origine dei terremoti. L'oggetto in discussione sono i terremoti verificatisi a Londra nel febbraio e nel marzo del 1 749 e in altre parti d'Inghilterra nel settembre del 1 750. In alcuni rapporti presentati alla Royal Society il dr. Stukeley nega che i fenomeni osservati in tali occasioni siano riconducibili a « sotterranei venti, fuochi, vapori o qualsiasi altra cosa che provochi un'esplosione e sollevi il terreno » . Non esistono infatti caverne sotterranee suffi­ cienti nel sottosuolo - il che rende improbabile la for­ mazione di « fermentazioni » e la possibilità stessa di som­ movimenti. D'altra parte l'intera zona colpita, pur essendo contenuta in una circonferenza di circa trenta miglia di diametro, non è stata sede di fenomeni quali la manifesta­ zione di fuochi, vapori, fumi, odori o, comunque, d'eruzio­ ni d'alcun genere. Inoltre il terremoto non ha causato la rovina dell' « intero sistema di sorgenti e di fontane » nella zona interessata, come avrebbe dovuto invece fare qualora la causa fosse stata una grande esplosione sotterranea. Que­ st'ultima avrebbe dovuto prodursi almeno ad una pro­ fondità di quindici o venti miglia, al fine di generare una perturbazione su una superficie di trenta miglia di diame­ tro : ma quale forza naturale ha tanta potenza da « muovere un cono rovesciato di solida terra » di tali dimensioni? E, infine, la velocità di propagazione degli eventi da ana­ lizzare è incredibilmente piu elevata. Le osservazioni, insomma, falsificano l'ipotesi del som­ movimento sotterraneo dovuto a esplosioni, e tendono invece a rendere probabile un'altra ipotesi: che il terre­ moto sia un fenomeno elettrico. Esistono osservazioni ulteriori a favore di quest'ultima congettura. Nei mesi precedenti il terremoto il tempo si 78

Mutamenti nella base empirica

era costantemente mantenuto bello e secco, « cosi che la terra doveva esser stata in condizioni di elettricità favore­ voli a quella particolare vibrazione di cui consiste l'elettri­ ficazione ». In secondo luogo, alla :fine di febbraio tutti i ve­ getali nella zona di Londra mostravano i segni di una cre­ scita insolita: « ed è ben noto che l'elettricità accelera la vegetazione ». Il rapporto osservabile tra crescita delle piante e loro elettrificazione è un dato di fatto, sia per il dr. Stukeley, sia per Joseph Priestley. Le minuziose ricerche sperimentali dell'abate Nollet, che attorno alla metà del Settecento ave­ vano sottoposto a controllo empirico l'influsso dell'elettri­ cità su vegetali e animali, avevano confermato ampiamente quel rapporto. La base empirica di Nollet andava da pic­ coli vegetali in vaso a volatili ed esseri umani sofferenti di disfunzioni varie - dall'epilessia alle infiammazioni piu disparate. E quel mare di rilevazioni sperimentali non lasciava dubbi: elettrizzando un organismo vivente, si favoriva l'espulsione di umori in esso presenti. I fluidi elettrici che uscivano dalla rete di canali e pori nell'epi­ dermide o nei tessuti vegetali esterni trascinavano con sé i fluidi organici, il che accelerava lo scambio tra organismo e ambiente e, quindi, i complessi fenomeni della crescita. L'epilettico guariva poiché perdeva le sostanze maligne e le piante si sviluppavano piu in fretta - e il principio che spiegava tutto ciò era legato alla meccanica dei fluidi nei tubi sottili, la quale insegnava che la velocità di efflusso dell'acqua attraverso un tubo capillare aumentava nel caso che l'acqua fosse elettrificata. Osservazioni geologiche, rilevazioni di metereologia, considerazioni sui vapori elastici presumibilmente presenti nel sottosuolo, esperimenti di :fisiologia, riflessioni sulla struttura delle piante, terapie mediche, misurazioni di ve­ locità dei fluidi nei capillari e metodologie meccanicistiche in biologia si intrecciavano a vari livelli : e Joseph Priestley 79

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non aveva difficoltà nel riferire i rapporti del dr. Stukeley alla Royal Society, nel commentare quello che sembrava essere il risultato conclusivo di quei rapporti ( « come la scarica da un tubo eccitato produce una commozione nel corpo umano, cosi la scarica di materia elettrica da un'esten­ sione di molte miglia di solida terra deve necessariamente essere un terremoto, e lo scoppio dal contatto dev'essere il frastuono insolitamente orrido che l'accompagna »), nel valutare altri dati empirici che il dr. Stukeley riportava a conforto delle proprie tesi. Cosi, al esempio, Priestley scriveva: « Infine il dottore aggiunge, come ulteriore argo­ mento favorevole alla sua ipotesi, che molte persone di debole costituzione avvertirono, per un giorno o due dopo il terremoto, dolori alla schiena, e stati reumatici, isterici e nervosi, cefalee e coliche: esattamente ciò che avrebbero dovuto sentire dopo una elettrificazione; e, per alcuni, quei disordini furono fatali ». D'altra parte, come nota Priestley, lo stesso Beccaria - cosI giustamente famoso per le ricerche sui principi dell'elettricità - ha ipotizzato un'origine elettrica dei ter­ remoti. Non solo : ma egli ha eseguito esperimenti al fine di confermare quell'ipotesi, seguendo la regola di ripro­ durre in laboratorio « i grandi fenomeni dell'elettricità na­ turale ». Se si tengono in mano due pezzi di vetro tra i quali è inserito un metallo, e si invia nel sistema una scarica violenta, si può udire « una forte vibrazione » e, come anche Franklin ha potuto rilevare, si può addirittura giungere a vibrazioni di cosI grande intensità da mandare il dispositivo in frammenti. Siamo cosi posti di fronte a intrecci di regole, di estra­ polazioni da fatti osservabili, di congetture piu o meno anomale, di analogie fra discipline diverse. E questi intrecci dal disegno variegato mostrano le direttrici - solo a poste­ riori ingenue o stravaganti - percorse dalle teorie che stanno nascendo. Le teorie in via di formazione sembrano 80

Mutamenti nella base empirica

galleggiare precariamente su oceani di dati empirici e 'muo­ versi disordinatamente fra paradossi e problemi mal posti. Eppure dovevano passare non molti anni prima che la ricerca naturalistica di un Priestley sulla storia dei feno­ meni elettrici o i cataloghi di esperienze di un abate Nollet venissero superati dalle accurate indagini di Coulomb sulla meccanica dei fili sottili. La gran massa di osservazioni da Plinio a Franklin, dagli epilettici alle meteore, dalle luci elettriche provocate da Hauksbee alla « comunicazione di virtu medicinali per mezzo dell'elettricità » criticata da Priestley nella V sezione del primo volume della sua opera - viene a disfarsi quando la matematica di Coulomb ri­ solve parzialmente il problema dei fili sottili, permette la progettazione e la costruzione di uno strumento d'estrema sensibilità e si può infine giungere alla determinazione delle leggi coulombiane sulle attrazioni e repulsioni tra cariche elettriche e tra poli magnetici. Di un simile disfacimento di grandi basi empiriche non sempre si tiene conto. Moltitudini di esperienze che ave­ vano stimolato l'intelligenza e la pratica di laboratorio ces­ sano di comparire nel contesto scientifico quando emerge una nuova e potente teoria. Altre esperienze vengono ese­ guite con procedure diverse, e lo scienziato impara a rica­ vare da esse ben altre informazioni. Ed altre esperienze, prima di allora non pensabili, entrano in campo. Non è vero, insomma, che una nuova teoria supera una teoria precedente in quanto assorbe in sé tutto il mate­ riale empirico sul quale la teoria vecchia si reggeva, e ag­ giunge al bagaglio dell'esperienza i nuovi dati che avevano messo in crisi la teoria superata. Accade invece che la nuova teoria poggi, magari, su pochi dati sperimentali. Le leggi coulombiane nulla hanno da dire sulle variazioni di peso che l'abate Nollet registrava accuratamente nei pic­ cioni elettrificati, o sul fatto, registrato da Jallabert, se­ condo cui un vegetale che cresce in acqua consuma piu o 81

Il sogno di Galileo

meno fluido a seconda che sia elettrificato o meno. Una gran massa di osservazioni, di ipotesi, di teorie qualitative, di polemiche vivaci e di resoconti sembrano cadere nell'om­ bra, poiché la nuova teoria illumina solamente altri set­ tori del mondo. Eppure la nuova teoria, emergendo, produce una ri­ strutturazione che non si limita a dichiarare decaduta una porzione di dati osservativi. Questi ultimi, per lo storico, sono ancora significativi. Ma non sono significativi in quanto scorie interessanti o curiosità da citare in qualche nota erudita a pié di pagina o in qualche almanacco di or­ rori. Essi sono significativi in quanto la ragione crescente è dovuta passare attraverso di essi - e non ha avuto altre occasioni per crescere se non quelle che essi le hanno offerto. L'intreccio fra scienze geologiche, metereologiche, me­ diche, fisiche e biologiche che si snoda nei rapporti del dr. Stukeley o nelle pagine di Priestley è una parte delle tracce lasciate dal cammino della ragione. Quando, nel 1 800, a Londra si pubblica il lungo trattato di Humphry Davy su un gas composto d'ossigeno e azoto - la dephlogisticated nitrous air - appaiono altre tracce. La questione che viene discussa in quasi seicento pagine da uno dei piu grandi scienziati dell'Ottocento è la seguente: occorre ana­ lizzare, di quel gas, la composizione, le proprietà e le com­ binazioni, nonché « il suo modo d'operare sugli esseri vi­ venti ». Davy ammette l'esistenza di molte difficoltà. Alcune na­ scono a causa della « natura nuova e oscura del soggetto », altre da « una carenza di coincidenze nelle osservazioni di sperimentatori diversi » . « Siamo ignoranti a proposito delle leggi del moto corpuscolare » e « la chimica, nel suo stato attuale, è semplicemente una storia parziale di feno­ meni » . Per circa cento pagine il testo di Davy è un reso­ conto degli effetti osservabili negli animali che respirano 82

Mutamenti nella base empirica

il gas . La sperimentazione fornisce molti dati, ma, « nello stato attuale del nostro sapere, è inutile ragionare » at­ torno alle modificazioni provocate dal gas : l'universo delle informazioni è ancora troppo variegato per scoprire al suo interno regolarità profonde. Secondo Davy sarebbe facile enunciare una qualche teoria avente il fine di correlare l'azione del sangue impre­ gnato di gas attraverso la respirazione e la capacità de] sangue stesso di rifornire le :fibre nervose e muscolari di porzioni date di ossigeno, azoto e « luce o fluido etereo » : ma la facilità con cui si potrebbe teorizzare dipenderebbe unicamente dalla possibilità di far uso di collezioni di ter­ mini « derivati da fenomeni già noti e applicati a cose ignote per mezzo di deboli analogie linguistiche » . Non teorie, dunque, ma giochi linguistici - e quindi occorrono ancora dati empirici e nuove procedure di ricerca, « pri­ ma ancora di poter accertare la nostra stessa capacità di scoprire le leggi della vita » . Ci s i potrebbe ora chiedere s e l'intento di Davy è quello di raccogliere osservazioni sperimentali atte a chia­ rire la composizione e le proprietà di un gas, oppure atte a porre una base empirica capace di mettere in luce le leggi che regolano l'attività muscolare e nervosa della « materia organizzata » . Ma si tratterebbe di una domanda oziosa e fuorviante. Humphry Davy, sovrintendente presso la Medical Pneumatic Institution, parte dalla scoperta di Priestley sulla respirabilità dell'N20 - ossido nitroso o aria nitrosa deflogistificata - e non pone paratie fisse tra la struttura del gas e la sua azione sul sangue, sulle fibre muscolari e sull'apparato nervoso degli animali. II contesto della sua ricerca è globale, e la sua base empirica raccoglie in un solo quadro sperimentale la determinazione della « gravità specifica » del composto chimico, il con­ trollo della « decomposizione dell'ammoniaca aeriforme per mezzo della scarica elettrica » e le reazioni di Mr. Lovell 83

Il sogno di Galileo

Edgworth a seguito della respirazione dell'N20. Mr. Lovell Edgworth dichiara : « La mia prima sensa­ zione fu un tremore universale e considerevole » . Mr. G. Bedford sostiene : « Ho avvertito una sensazione di pie­ nezza nelle estremità e nel viso » . Mr. George Burnet scrive : « Ho sentito un delizioso tremore del nervo, che si è rapidamente propagato all'intero sistema nervoso ». Per pagine e pagine Davy annota scrupolosamente questi reperti, poiché essi sono effettivamnete protocolli della scienza chimica . Nel caso del libro di Priestley la raggera delle conget­ ture e delle sperimentazioni attraversava le teorie sull'elet­ tricità, le analisi geologiche e meteorologiche, la :fisiologia animale e la crescita dei vegetali; nel caso del libro di Davy l'indagine è tesa a raccogliere dati empirici sulla strut­ tura di certi composti chimici e sul comportamento di esseri umani che hanno respirato l'N20. E se nel primo caso la base empirica viene a ristrutturarsi in conseguenza di suc­ cessive ricerche teoriche eseguite da Coulomb sulla mecca­ nica dei fili sottili, nel secondo caso basta leggere un trat­ tato di chimica di qualche anno successivo al trattato di Davy per rendersi conto di come la situazione è mutata. Nel Saggio sulla teoria delle proporzioni chimiche e sul­ l'influenza chimica dell'elettricità, Berzelius dichiara, nel 1 8 1 9, che il lettore dovrà scusare l'autore, poiché que­ st'ultimo ha « confuso la relazione d'un piccolo numero di fatti e delle leggi che sembrano determinare tali fatti con un gran numero di congetture sulle loro cause interiori ». E, in effetti, la teoria di Berzelius è fortemente suscettibile di una simile critica - « Molti scienziati inglesi - scrive Berzelius - mi hanno rimproverato di aver ricavato delle conclusioni generali a partire da un numero troppo limitato di fatti particolari » . Eppure, commenta Berzelius, il rischio cui ci si espone è pur sempre un rischio necessario : dob­ biamo pur basarci sull'esperienza che possediamo. 84

Mutamenti nella base empirica

Attenzione, però : in realtà, i pochi fatti empirici di Berzelius costituiscono pur sempre una scelta tra l'immen­ sità dei cataloghi d'esperienze di un Priestley o di un Davy. La crescita della teoria chimica è legata a tali scelte. In­ fatti, come lo stesso Berzelius scrive, lo scopo del saggio del 1 8 1 9 è quello di dimostrare che le teorie disponibili in chimica per spiegare i fenomeni termici e luminosi du­ rante la combustione sono teorie inesatte, in quanto « con­ trarie a dei fatti ben constatati ». Una scelta di fatti, in­ somma, non è un atto in qualche modo neutrale : ci sono fatti che contano piu di altri, e il criterio della loro verità sta non nel loro numero, ma nella loro capacità di giu­ dicare le teorie . Una teoria sulla combustione può essere confortata da una folla di prove : ma può cadere di fronte a pochi « fatti ben constatati ». E si noti che quel « ben constatati » non implica semplicemente una grande seve­ rità o precisione nel controllo della sperimentazione, ma implica, soprattutto, un diverso rapporto tra teoria ed esperienza. Se non si tien conto di tutto ciò, non si riesce a capire neppure la struttura del saggio di Berzelius : centottanta pagine di testo per imparare a leggere centoventi pagine di tabelle. Le tabelle iniziano con l'acetas aluminicus, si chiu­ dono sul wolframias ferroso-manganosus, comprendono e­ sempi di silicati doppi e una tabellina per aiutare il lettore ad orientarsi nel tradurre i nomi latini e i nomi francesi dei vari composti chimici. Le tabelle ci parlano delle for­ mule di tali composti, dei pesi atomici e delle elettroposi­ tività ed elettronegatività. Ebbene, il testo di chimica di Davy del 1 800 e il sag­ gio di chimica di Berzelius del 1 8 1 9 sono separati da un abisso : e la misura di quell'abisso coincide con la misura dei mutamenti subiti dalla scienza chimica, dalla geologia, dalla meteorologia, dalle teorie sull'elettricità e dalle altre forme oggettive della ragione umana. La misura di quei 85

Il sogno di Galileo

mutamenti, ricostruita dallo storico, è il disegno della razionalità che cresce : il disegno di forme che esistono di fronte all'uomo, cosi come esistono i pianeti e le super­ nove, i teoremi e gli alberi.

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Poiché il sapere muta, le parole assumono significati di­ versi. Quale regola dovremo allora seguire per rintracciare i significati diversi che stanno appesi alle parole singole? La questione è rilevante : l'universo contiene infatti moltissime cose, ma i nostri dizionari contengono solamente alcune migliaia di parole . Dare i nomi alle cose diventa difficile, e il parlare acquista dimensioni problematiche. Di che cosa stiamo parlando quando parliamo degli oggetti reali e di quell'altro oggetto che è il linguaggio? Quali viadotti siamo autorizzati a costruire tra il cosmo e i linguaggi ? Se ogni parola è un arcobaleno di significati, nasce il dubbio che moltissimi problemi della metafisica e della scienza siano soltanto dei sofismi linguistici. Bisogna allora trovare un cri­ terio che ci salvi dalle trappole che un cattivo uso delle parole colloca continuamente di fronte a noi. E può accadere che quel criterio sia un rasoio troppo affilato, ancor prima che Wittgenstein riesamini la questione, che il professor Johnson discuteva a Utica, New York, at­ torno al 1 8 2 8 .

CAPITOLO SESTO

Oggetti che cambiano di significato: le parole

Già si sono dette alcune cose a proposito di Heschel e della sua opinione secondo la quale l'esperienza è la sola fonte della conoscenza. Sarebbe tuttavia ingiusto non ricordare che le certezze di Herschel presentavano smaglia­ ture. Egli, ad esempio, sapeva che per descrivere le que­ stioni di fatto - sulle quali si basava ogni sapere vero sono necessari quei segni che chiamiamo parole - attorno ai quali non tutto è semplice. Qual era il significato di una parola come cc ferro" ? Secondo Herschel il significato in questione non era uni­ voco. Se un poeta scriveva cc ferro " e un fisico scriveva « ferro " , non potevano esserci dubbi : il poeta e il fisico indicavano cose diverse l'una dall'altra. « Il significato di un termine di questo genere - anno­ tava Herschel è come un arcobaleno : ciascuno vede un significato diverso, ma tutti ritengono che il significato sia sempre lo stesso » . I l problema era tutt'altro che banale. S e il nostro lin­ guaggio discute di un sapere certo fondato sull'esperienza, non debbono esser presenti, in esso, arcobaleni di signi­ ficati. Ad ogni termine o segno deve corrispondere un fatto. Eppure, se osserviamo i termini del nostro linguag­ gio, troviamo che molti di essi « hanno due o tre signifi­ cati ». Lo sparpagliamento dei significati è pericoloso, poi­ ché solleva nubi sui nostri criteri di verità : i significati di un medesimo termine sono « sufficientemente distinti fra loro da rendere vera una proposizione in un caso e falsa in un altro, se non addirittura falsa comunque; eppure -

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Il sogno di Galileo

non sono abbastanza distinti fra loro da impedirci di con­ fonderli nel processo stesso per mezzo del quale giungem­ mo ad essi, o da porci in condizioni tali da riconoscere im­ mediatamente la fallacia, qualora si sia condotti ad essi per mezzo di una successione di ragionamenti a proposito della quale noi pensiamo di aver esaminato ed approvato ogni singolo passo » . Herschel cosi discorreva in u n suo fortunato libro del 1 830, intitolato Discorso preliminare sullo studio della fi­ losofia naturale, pubblicato a Londra e piu volte studiato e riletto nei successivi decenni da scienziati autorevoli. Due anni prima un oscuro docente di Utica, New York, aveva fatto stampare un volume dal titolo altisonante : La filosofia della conoscenza umana, ovvero: un trattato sul linguaggio. Non fu un libro fortunato, anche se nel 1 836 ne fu edita una nuova edizione riveduta, corretta e piu sem­ plicemente intitolata : Un trattato sul linguaggio. La man­ canza di fortuna era in parte bilanciata, se cosi si può dire, dall'immodestia del sottotitolo dell'edizione del 1 836 : « La relazione che le parole hanno rispetto alle cose » . Nella prima edizione i l prof. Alexander Bryan Johnson già aveva sottolineato come il significato di una parola sia variabile a seconda delle applicazioni della parola stessa. « Ogni parola ha tanti significati quanti sono i differenti fenomeni cui essa si riferisce », scriveva Johnson, e si può dire, quindi, che ogni termine del nostro linguaggio fun­ ziona grosso modo come uno specchio « Le parole pos­ sono essere paragonate a uno specchio. Esso è natural­ mente vuoto, e muta le proprie rappresentazioni nella mi­ sura in cui cambia l'oggetto che gli viene collocato di fronte » . La straordinaria flessibilità delle parole rispetto alle cose era problematica. La natura, nella sua immensità, è un complesso di oggetti, di relazioni, di desideri, di sensa­ zioni, di azioni : ma il nostro linguaggio non contiene che -

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Oggetti che cambiano di significato

poche migliaia di nomi, secondo un'immagine già presente in Aristotele. Come dovrebbe esser fatto un linguaggio perfetto, e cioè tale da riuscire ad assegnare un nome a

ciascuna cosa? Esso dovrebbe essere vasto come la natura stessa, ma, in tal caso, sfuggirebbe del tutto alla memoria umana. È dunque necessario che ogni singolo termine sia applicabile a una moltitudine di fatti o di fenomeni , di oggetti o di impressioni. Nel quotidiano sentire il mondo non nascono difficoltà eccessive o indesiderabili anomalie a causa della enorme sproporzione esistente tra il numero delle parole e il tur­ binio di ciò che le parole dovrebbero designare. Ma, nei domini della ragione, tale sproporzione è motivo di contro­ versie e di confusione vera e propria. Come osservava Johnson, lo studioso, nello scoprire che una singola parola è diretta verso entità diverse tra loro, è stimolato a supporre che « il disaccordo sia una anomalia entro la na­ tura, piuttosto che una proprietà del linguaggio » . I l punto di vista difeso d a Johnson s i condensa, in parte, nella seguente tesi : « nell'uso del linguaggio noi, in· generale, rovesciamo l'ordine della natura; e, invece di qualificare il significato di una parola per mezzo dell'esi­ stente cui applichiamo la parola stessa, giudichiamo l'esi­ stente per mezzo della parola » . Che vuol dire questo rovesciamento dell'ordine della natura ? La chiave per capire ciò sta nell'opinione secondo cui « le parole significano gli oggetti cui esse sono appli­ cate » . Johnson comincia ad illustrare il problema per mezzo di alcuni esempi. Supponiamo di mettere un poco di zuc­ chero in un bicchiere d'acqua e di accendere alcuni pezzi di legno a una certa distanza da un termometro: l'acqua diventa dolce e la temperatura segnata dal termometro aumenta. Diciamo allora che c'è stata la diffusione dello zucchero nell'acqua e la diffusione del calore nella camera 91

Il sogno di Galileo

dove abbiamo fatto i due esperimenti. « Se, tuttavia, vo­ gliamo scoprire il significato sensibile della parola diffu­ sione in questi diversi usi, allora dobbiamo fare appello ai nostri sensi, e non ai nostri dizionari ». Infatti, argomenta Johnson, un cieco non potrà in alcun modo concepire la diffusione della luce o di un colore mescolato nell'acqua, cosi come una persona priva del senso del gusto non potrà mai concepire la diffusione dello zucchero. In questo senso, dunque, il significato di una proposi­ zione dipende dalla natura - « l'espressione significherà quella rivelazione sensibile alla quale è riferita; e se non è riferita ad alcunché, essa non significherà nulla » . S e non ci s i afferra ai significati, dice Johnson, ci smarriamo tra misteri che, in realtà, altro non sono che « sofismi nascosti del linguaggio » . È indispensabile evitare le dispute provocate dai sofismi - e il dirottamento di tali dispute è possibile se si comprende che le parole possono dire unicamente ciò che i sensi svelano, e che in nessun caso i sensi debbono essere sostituiti dalle parole. Tutto ciò ha implicazioni enormi per quanto riguarda le riflessioni filosofiche e le ricerche sulla natura. Le pri­ me corrono continuamente il rischio di sfrangiarsi sui para­ dossi e le incongruenze di problemi linguistici mal posti. Le seconde sono sorgenti di inganni o di trucchi, qualora si dimentichi che « la nostra conoscenza delle realtà del­ l'universo non può estendersi al di là della nostra espe­ rienza sensibile » . Che cos'è allora l'insieme di operazioni che facciamo quando studiamo le cose per mezzo di una teoria? Pos­ siamo ricercare sul mondo in modo tale da costruire ri­ sposte « verbali » oppure risposte « sensibili » . Nel se­ condo caso la risposta è selezionata, in quanto va ristretta attorno alle « realtà dell'universo esterno » e deve conse­ guentemente limitarsi a pronunciare « ciò che i nostri sensi possono scoprire ». Nel primo caso noi selezioniamo la 92

Oggetti che cambiano di significato

risposta chiedendole di essere una teoria - cosi hanno risposto, ad esempio, uomini come Newton o Descartes. Attenti, però! « Che nessun uomo - proclama John­ son - confonda simili risposte [ teoriche ] con le realtà dell'universo esterno » . Le teorie possono essere estrema­ mente intelligenti e colme d'ingegno raffinato - esse pos­ sono anche far riferimento a esperimenti controllabili con i sensi : « ma, al di là delle esistenze sensibili cui si rife­ riscono, esse sono parole; e, oltre ad esser parole, esse non sono nulla » . I l rasoio di Johnson vuole recidere i nodi che rendono l'uomo vittima di errori linguistici. Quando diciamo « pun­ to » pronunciamo forse un nome che è correlato a qual­ cosa? Sf, quando la parola in questione designa la punta di un ago o il fatto di toccare quella punta. Ma quando un matematico dice « punto » , egli sta parlando di un significato puramente verbale : dobbiamo pertanto sepa­ rare il significato verbale da quello sensibile (o naturale) se vogliamo cominciare ad orientarci - se vogliamo, in­ somma, apprezzare in forme corrette la separazione tra il linguaggio e l'universo. Nulla è piu facile che precipitare nei tranelli creati dall'illusione di chi, studiando sulla direttrice verbale, suppone di « star investigando le realtà dell'universo esterno » . Coloro che ragionano s u atomi, gravitazione, magneti­ smo o rette geometriche debbono essere cauti ed evitare il contagio di una « perversione grossolana » e quasi uni­ versale. E la perversione consiste nel non capire che il significato verbale di una parola si fonda su qualche teoria, e nel disperdere il tempo attorno a dispute puramente verbali quando invece si vorrebbe ottenere la conoscenza del mondo. Il mondo è diverso dall'universo verbale : ma l'uomo è tenace nel confondere il « criticismo verbale » con « una ricerca della natura» : l'errore sta nell'inter­ pretare le informazioni dei sensi attraverso le parole, in93

Il sogno di Galileo

vece di interpretare le parole per mezzo dell'informazione sensibile. Esiste, secondo Johnson, una sorta di circolo che corre come un confine entro il linguaggio. Se ci manteniamo al­ l'interno del confine, allora « ogni parola è significante » ma non appena facciamo un passo al di là, « l'incantesimo si dissolve : il mago e la magia affondano insieme; l'uni­ verso svanisce e lo stesso linguaggio perde tutti i signi­ ficati » . Tutti i dizionari, ora, sono infranti e dispersi : chi viola il bordo della significanza si trasforma in :filosofo, ma la sua ricerca si vanifica nelle confusioni linguistiche di chi lavora su criticismi pretestuosi attorno al significato ormai nullo - delle parole. Il :filosofo profondo si affanna su proposizioni non intelliggibili e, spesso, dice che la non intelligibilità della proposizione è un mistero della natura: in realtà, egli non capisce che il mistero è solo apparente, in quanto esso « deriva dall'uso di parole in senso ambi­ guo, se non addirittura privo di alcun senso definito » . Proviamo ora a raccogliere, in Johnson, alcuni esempi dei risultati cui si giunge per tale via. Possiamo sostenere che la Terra ruota attorno al proprio asse - oppure che il cielo ruota attorno alla Terra immobile. La differenza tra le due asserzioni è rilevante solo in rapporto alle nostre teorie scientifiche : « ma la natura non è necessariamente collegata con esse » e, pertanto, « non dovremmo confon­ dere le nostre controversie verbali con un disaccordo sulle realtà della natura » . Possiamo essere dei matematici che analizzano delle curve e costruiscono teoremi, lemmi, co­ rollari e dimostrazioni : ebbene, il nostro operato è « cor­ retto » se e solo se esso discute di curve che possono essere viste o comunque sentite - altrimenti rischiamo di ragiona­ re vanamente su problemi fallaci, su paradossi linguistici, su cattivi usi del linguaggio. Esiste una via d'uscita dai meandri creati dalla man94

Oggetti che cambiano di significato

canza di corrispondenza tra i nostri limitati dizionari e l'infinità del mondo ? La proposta di Johnson è secca; dobbiamo imparare a « subordinare il linguaggio alla na­ tura - a far sf che la natura sia colei che spiega le parole, anziché far SI che spetti alle parole il ruolo di esplicatori della natura » . Se un tale programma dovesse avere suc­ cesso, allora si avrebbe veramente « una grande rivoluzione in ogni ramo del sapere » . Ponendoci da un simile punto di vista, precisa Johnson, non si denigrano le teorie o le scienze che sulle teorie ven­ gono edificate. Le teorie rimangono utili, ma cessiamo di confonderle con la realtà, e facciamo morire le fallacie linguistiche. Ed ecco tornare l'immagine del labirinto : se accettate questa visione del linguaggio, essa « vi guiderà sicura­ mente attraverso i piu sottili labirinti della metafisica, e vi renderà capaci di separare gli orpelli della congettura indolente dall'oro della laboriosa osservazione » . Muovendoci con certezza, impariamo da Johnson ciò che ormai rimane da fare : « Invece di contemplare la crea­ zione attraverso il medium delle parole, l'uomo dovrebbe contemplare la creazione stessa. L'uomo dovrebbe valutare ciò che i sensi svelano e i fenomeni che egli avverte inter­ namente, cosI come li valuta un sordomuto » , poiché il linguaggio non è progettato al fine di stabilire una « comu­ nicazione tra la natura e l'uomo » . Tutto il resto è fuori dal circolo. Molti decenni piu tardi, il messaggio di John­ son ripeterà, con Wittg�nstein, che « colui che mi com­ prende [ . ] deve, per cosi dire, gettar via la scala dopo che v'è salito », e che « su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere » . Ebbene, le parole dei nostri linguaggi sono come l'arco­ baleno, e la rivoluzione conoscitiva esalta la dispersione dei significati, distrugge oggetti come gli orbi celesti, muta i termini dei nostri discorsi : ma sullo sfondo - al ..

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Il sogno di Galileo

di là delle parole variegate e molto lontana dalle nostre biblioteche - una stella di neutroni ruota nella Nebulosa del Granchio. Negli anni di un Johnson o di un Herschel i dizionari non sono sufficientemente ricchi per poter discutere at­ torno a ciò che la nebulosa contiene. Il Conte di Rosse la osserva con le lenti e ne disegna le sfrangiature ai bordi, ma le forme della razionalità sembrano ancora disperdersi a raggera nelle riviste scientifiche, nelle polemiche filoso­ fi.che, nella progettazione di macchine, nell'osservazione di animali o di :fiori, nella paziente catalogazione di nuovi fenomeni, nella tenace ricerca di teoremi sempre piu ge­ nerali, nella riflessione continua che ha lo scopo di esibire immagini del sapere, di ricostruire o abbattere i ponti che di volta in volta sembrano apparire o sfumare o cadere tra una sezione della fisica e una zona della biologia, tra un dominio algebrico e una classe di eventi elettrici, tra parole, concetti e proposizioni che hanno cessato di essere stabili e di cui si tenta di centrare i significati mutevoli. Gli esperimenti semplici che Johnson suggerisce al lettore nel 1 828 tornano nelle pagine di Herschel del 1 830 : una goccia di blu o un cucchiaino di zucchero in un bicchiere d'acqua producono - per Johnson e per Her­ schel - un insieme di fatti che solo l'osservazione diretta (libera da pregiudizi baconiani per Herschel, libera da inganni linguistici per Johnson) può cogliere dando un significato preciso alle parole. I grandi assetti teorici, in entrambi i casi, diventano solo strumenti utili: l'indutti­ vismo di Herschel e i rasoi linguistici di Johnson conflui­ scono nell'edificazione di un disegno nelle cui trame il sa­ pere astratto non parla piu del mondo, e decade a pura e semplice tecnica e manipolazione. Sembra che questo sia il prezzo che la ragione umana deve pagare per salvarsi dalla varianza di significato, dallo sparpagliamento dei significati stessi di cui, ora, l'imma96

Oggetti che cambiano di significato

gine è quella dell'arcobaleno. Getta via i dizionari, sugge­ risce Johnson - essi sono sorgenti di sofismi: contempla direttamente la natura e ascoltati, poiché non esistono basi su cui costruire linguaggi che funzionino come raccordi tra l'uomo e le cose. Anche in Herschel è all'opera una scom­ posizione di mondi : da un lato gli oggetti che costituiscono « il grande dispositivo » che ogni uomo sente attorno a sé, dall'altro lato quegli oggetti che ·sono « forme artifi­ ciali, o simboli, che il pensiero ha il potere di creare a piacere ». Questa libera creazione ha comunque dei pilastri immutabili che ne reggono le fondamenta. Secondo Hers­ chel le forme del linguaggio, l'aritmetica, l'algebra e la logica generano segni a partire da enti e relazioni primarie. Di queste ultime nulla si può dire se non che è impossibile negarne l'esistenza : lo spazio, il tempo, il numero, l'ordine - ecco ciò che è in noi. Un uomo ipotetico - l'uomo completamente solo e privo di riferimenti empirici - po­ trebbe ricostruire tutte le relazioni (tutte le teorie) astratte possibili. Ma non potrebbe in alcun modo, con quelle teorie, prevedere ciò che accade quando mette un poco di zucchero in un bicchiere d'acqua. Chi vuole studiare il mondo, secondo Herschel, ha cer­ tamente bisogno di imparare un poco di scienza astratta. Ma deve stare attento a non eccedere, poiché gli oggetti delle scienze astratte sono ben definiti, mentre « la situa­ zione è molto diversa per quanto riguarda le parole che esprimono oggetti naturali » . Guai a confondere i due livelli . Una muraglia invalicabile li tiene distinti, e chi si af­ fanna per aprirvi una breccia o per tentarne la scalata pre­ cipita nell'errore della scienza greca, che smodatamente aveva preteso di conoscere il cosmo seguendo il metodo dei matematici, e cioè partendo da assiomi, sviluppando teoremi e dimostrazioni, e infine cercando fra le cose con l'osservazione e l'esperimento - la conferma delle 97

Il sogno di Galileo

parole pronunciate. Quest'errore sembra copiare l'errore denunciato da Johnson, poiché, anche per Herschel, è l'esperienza colei che fornisce i dati di base del sapere. La migrazione di quest'immagine (che distingue tra i significati puramente teorici o verbali o i significati sensibili o naturali) produce sfasature e mutazioni nell'immagine stessa. Nel 1 853 il logico William Hamilton riscrive che la matematica discute di raffigurazioni e che la filosofia, invece, è la scienza dell'esistenza reale : « La verità delle matematiche è l'armonia di pensiero e pensiero ; la verità della filosofia è l'armonia di pensiero ed esistenza. Di qui l'assurdità di tutte le applicazioni del metodo matematico alla filosofia ». Di qui, anche, l'invettiva appassionata : « I matematici sono infestati da inimmaginabile presun­ zione o arroganza incurabile, poiché, credendosi in possesso di certezza dimostrativa a proposito degli oggetti della loro scienza peculiare, persuadono se stessi di possedere, in maniera analoga, una conoscenza di molte delle cose che stanno al di là della loro sfera di competenza » . Nel 1 836 lo stesso Hamilton aveva duramente pole­ mizzato contro Whewell, Herschel e Peacock, che si bat­ tevano per lo studio della matematica all'università di Cambridge: un simile studio, a parere del logico Hamilton, « rende la mente completamente incapace » di cimentarsi nell'osservazione e nel ragionamento comune, e la getta di fronte al bivio tra « la cieca incredulità e lo scetticismo ir­ razionale » . Alle spalle di Hamilton, di Herschel e di Johnson c'è una bibliografia ampiamente comune: una bibliografia che ci rimanda alla scuola filosofica scozzese del common sense, ai libri di Thomas Reid, ai ripensamenti sulle pagine di Locke e di Hume, alla disseminazione variegata e mutevole di questioni sorte con la scienza di Newton, di Keplero, di Galileo. Ed è attraverso quella disseminazione che si cerca 98

Oggetti che cambiano di significato

di capire ciò che Newton, Keplero e Galileo avevano fatto e insegnato. Di fronte ad una natura che presenta fatti anomali e a reti linguistiche che mostrano un oggettivo ricodificarsi dei significati, la cultura fa nascere disegni giustificativi e metodologie : il grande sogno galileiano di un sapere che viola la sensazione e cresce matematicamente si trasforma nelle caricature grottesche e devianti di un Keplero che osserva attentamente Marte, di un Newton che si adagia sui fenomeni, di un Galileo che inventa il metodo pura­ mente sperimentale. Eppure, negli stessi anni di Johnson, di Herschel o di Hamilton, altre cose stanno nascendo in quelle zone della razionalità dove effettivamente i significati mutano : e c'è chi scorge, in quei mutamenti, non tanto il rafforzarsi di una barriera tra parole e cose, quanto l'aprirsi di nuove luci su nuovi settori dell'universo.

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Nella seconda metà del Settecento molti matematici lavo­ rano sulla teoria del movimento. Lagrange dice, nel 1 7 8 8 , che l 'impresa di Galileo e di Newton termina in un capitolo del­ l'analisi. Le parole di Galileo e di Newton - forza, tempo, spazio, velocità - sono ormai tradotte in « quantità matema­ tiche ordinarie » : ciò che ancora rimane da fare consiste nel­ !' eseguire calcoli. Mezzo secolo dopo, tuttavia, la situazione è mutata . Il matematico Hamilton sostiene che una rivoluzione ha modifi­ cato il sapere di Lagrange, e che ora la scienza cresce lungo un'altra direzione. Alle radici della nuova trasformazione sem­ bra esserci il fatto che alcuni capitoli della matematica - sino allora giudicati come certi e stabili - appaiono colmi di anomalie e di errori di ragionamento. Quelle anomalie non possono piu rimanere celate , poiché l'algebra non è un 'arte pratica - il cui criterio di verità coin­ cida con l'utile - e non è un linguaggio - i cui criteri di verità stanno nelle simmetrie logiche tra proposizioni. Nel rimuovere le anomalie l'algebra cambia, e trascina con sé molte cose .

CAPITOLO S ETTIMO

Traduzioni in/edeli: la matematica e i dizionari

William Hamilton è il logico che nel 1 836 condanna la matematica, poiché, a suo avviso, la matematica non tocca il mondo - e, quando crede di farlo, essa è semplicemente arrogante. L'immagine di Hamilton è chiara : essa è sim­ metrica rispetta ad un'altra immagine - quella della dama litigiosa che recita, nelle lettere tra Newton e Halley, i brani sconnessi della filosofia senza matematica, oppure quella dei filosofi che, come scrive Galileo a Keplero, ne­ gano l'esistenza dei satelliti di Giove con argomentazioni logiche. Ma William Hamilton è anche il nome di un altro stu­ dioso. William Rowan Hamilton è il matematico che lavora come astronomo reale d'Irlanda e che, nel 1 834 e nel 1 835, dà alle stampe - pochi anni prima della scoperta di Net­ tuno e pochi anni dopo la lettera di Bolyai sulla nuova torre - due saggi sulla teoria del movimento. In essi viene esposta una nuova formalizzazione di quella teoria. Il punto di partenza è la struttura matematica che Lagrange aveva dato, nel 1788, alla meccanica analitica. Lagrange appare ad Hamilton come colui che meglio di ogni altro aveva saputo dare estensione e armonia all'in­ sieme di ricerche deduttive compiute da Galileo e da New­ ton. (E qui Newton e Galileo sono altre persone, rispetto a quelle invocate dall'induttivista Herschel nel 1 8 3 0 o ri­ dotte a costruttori di verbalismi utili da Johnson nel 1 828). Eppure l'impresa di Lagrange non ha raschiato il fondo del barile - non ha toccato il livello ultimo e defi­ nitivo del movimento degli oggetti. Hamilton dichiara in103

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fatti che i risultati lagrangeani, anziché essere la :fine di un sapere assodato e definitivo, sono l'inizio di altre vicende : « la scienza della forza - scrive nel primo saggio del 18 34 o della potenza che agisce secondo leggi nello spazio e nel tempo, ha già incontrato una seconda rivolu­ zione » . Che cosa è successo, s e Lagrange, che pure aveva lavo­ rato per ricondurre tutta la fisica del moto all'analisi mate­ matica, viene ora esibito come uno scienziato che sta a monte di una nuova rivoluzione, e non a valle? Lagrange aveva avvertito i lettori della Mécanique analitique. Nella prima edizione del 1 7 8 8 i lettori legge­ vano che il compito dell'autore era quello di ridurre l'in­ tera meccanica « a delle formule generali il cui semplice sviluppo fornisce tutte le equazioni che sono necessarie per la soluzione di ogni problema » . I l progetto lagrangeano non presentava intercapedini o lacune, poiché la fisica del moto diventava un capitolo si­ curo e unificante della matematica. « Non troverete in quest'opera alcuna figura - diceva Lagrange ai lettori. I metodi che espongo non richiedono né costruzioni, né ragionamenti geometrici e meccanici, ma, unicamente, ope­ razioni algebriche che seguono un cammino regolare e uni­ forme » . Nella Mécanique si realizzava il sogno di una tra­ duzione perfetta. Il sapere già acquisito diventava un lin­ guaggio puro, formato da « operazioni algebriche che se­ guono un cammino regolare e uniforme » . La traduzione era perfetta poiché le parole chiave del sapere acquisito - la vis dei kepleriani o la force di Newton - diventavano segni unicamente soggetti al calcolo e purgati da ogni con­ notazione incerta : nessuna figura, nessuna costruzione, nessun ragionamento geometrico o meccanico, ma solo il procedere regolare e uniforme delle operazioni algebriche regge il dispositivo lagrangeano. Le parole chiave del sapere disponibile vengono tradotte in un linguaggio che -

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sembra realizzare l'ideale matematico di Helvetius, se­ condo il quale tra un teorema e l'altro esiste un percorso di lunghezza data una volta per tutte. Infatti Lagrange dichiara che ora l'espressione di qualunque forza « non è altro che un rapporto, una quantità matematica, che può essere rappresentata per mezzo di numeri o di linee ». Insisto : Lagrange non sembra avere dubbi. Tutta la dinamica si riduce a una formula generale, e « lo sviluppo di tale formula fornirà tutte le equazioni necessarie per la determinazione del movimento di ciascun corpo ». Rimane forse un qualcosa da fare, ora che la riduzione è completata e la traduzione del sapere è centrata su una sola proposizione formale? « Non resterà altro da fare - sostiene Lagrange - che integrare queste equazioni, il che spetta all'analisi ». Apparentemente il gioco è finito. I termini essenziali del discorso sul movimento del mondo (cosi come sono stati coniati nel Dialogo, nell'Astronomia Nova o nei Principia) rientrano, senza residui indesiderabili, nelle ma­ glie del calcolo - e, « in questo modo, le forze, gli spazi, i tempi e le velocità non saranno altro che dei semplici rapporti, delle quantità matematiche ordinarie ». Il progetto di conoscenza lagrangeano è fortemente immodesto. Tredici anni prima di pubblicare la Mécanique, Lagrange aveva scritto una lettera al giovane Laplace. In essa appariva la traccia essenziale di quell'immodestia, poi­ ché Lagrange parlava delle verità :fisiche che tendevano verso le verità matematiche cosi come le curve tendono ai loro asintoti. Naturalmente, rimanevano dei problemi at­ torno agli asintoti. Le correlazioni matematiche non erano state ancor tutte svelate e diversi ostacoli erano presenti di fronte all'analista. Ma sembrava che una gran folla di motivazioni ragionevoli autorizzasse l'ottimismo. Le anomalie cadevano l'una dopo l'altra, le contraddizioni si spianavano, gli ostacoli venivano abbattuti. E non a caso 1 05

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Lagrange pensava - come alcuni storici riferiscono - che si potesse comunque tirare innanzi senza traumatiche preoccupazioni concernenti il futuro delle matematizzazioni. Quest'idea era tenace e poteva vantare, a proprio conforto, una serie impressionante di successi. Mezzo secolo dopo la lettera di Lagrange a Laplace, un altro :fisico e matematico francese - Joseph Fourier - avrebbe ribadito la tesi della matematica come linguaggio universale, stabile e privo di contraddizioni. Ma quella stabilità era un'illusione, se William Rowan Hamilton poteva scrivere, nel 1 834, che la teoria del moto aveva subito una seconda rivoluzione e che, ora, la scienza poteva avanzare « lungo un'altra direzione grazie alla crea­ zione di metodi matematici ». Si poteva ritradurre la rete di Lagrange in un nuovo linguaggio? E quali vantaggi ci si potevano attendere da una simile ritraduzione, visto che la precedente traduzione da Newton a Lagrange aveva già detto tutto? Hamilton ha presente questa famiglia di domande. Egli risponde facendo in primo luogo notare che la trattazione lagrangeana del sistema formato dal Sole e dai dieci pia­ neti noti rende necessaria un'operazione di integrazione su un complesso di sessanta equazioni differenziali. Il nuovo schema hamiltoniano riduce tutto ciò « alla ricerca e alla differenziazione di una sola funzione ». L'intero pro­ blema diventa concettualmente piu semplice e fornisce « un certo piacere intellettuale » . In secondo luogo, lo studio di una sola funzione si rivela unificante, poiché coinvolge in una sola cornice matematica sia la meccanica, sia l'ottica, sia certi settori della matematica stessa. Non si tratta, quin­ di, di una semplice ritrascrizione della meccanica di La­ grange, ma di una operazione molto piu sottile : la nuova traduzione smuove determinati confini tra discipline di­ verse e sembra aprire prospettive d'indagine che possono richiedere « le fatiche di molti anni e di molte menti » . 106

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S'è detto che si profila un guadagno di semplicità. Ma ciò non significa che si acquisti una qualche « facilitazione pratica » rispetto alla rete lagrangeana. Infatti il passaggio da quest'ultima a quella hamiltoniana genera problemi inattesi, fa sorgere - appunto - la prospettiva di future fatiche. Vaie dunque la pena di tradurre Lagrange, visto che il lavorio intellettuale non ottiene vantaggi di natura pra­ tica ? La risposta a tale quesito non è reperibile nei due saggi del 1 834 e del 1835. Bisogna cercarla in altre pagine di Hamilton, e, precisamente, nell'introduzione ad una monografia del 1 837 nella quale il nostro astronomo reale affronta alcuni problemi fondamentali d'algebra. Secondo Hamilton, l'algebra è ben lontana dall'essere una scienza sicura. Al contrario, essa è ricca di « confusioni del pen­ siero, e oscurità o errori di ragionamento » . I territori ma­ tematici, insomma, non risultano piani e agevoli, ma sono in piu punti sconnessi. Le anomalie non sono tali da auto­ rizzare alcun ottimismo, ma sono invece cosf gravi da sti· molare una verifica generale dello stato delle ricerche al­ gebriche. Nessuno, secondo Hamilton, deve illudersi che sia lecito trascurare quelle anomalie. Anche se un certo gruppo di teoremi ha potuto essere utilizzato come uno strumento e fornire dei vantaggi pratici in qualche applicazione, nes­ suno può sostenere che i vantaggi pratici sono sufficienti per dare una risposta alla domanda essenziale : « :g un teorema dell'Algebra vero ? » . I criteri di verità sui teoremi non stanno in quelle immagini della matematica secondo le quali l'algebra è un'arte pratica. Essi non stanno neppure in quelle altre immagini secondo le quali l'algebra è un linguaggio. Se si analizzano con obiettività gli ostacoli da rimuovere dall'insieme dei numeri, allora - secondo Ha­ milton - ci si accorge che quegli ostacoli vanno eliminati, 107

Il sogno di Galileo « anche se le forme della logica possono costruire, a partire da essi, un sistema simmetrico di espressioni, e anche se può essere appresa un'arte pratica per applicare corretta­ mente certe regole utili che sembrano dipendere da essi » . Vi sono termini ed espressioni che, secondo il punto di vista usuale, hanno il carattere di puri simboli a pro­ posito dei quali è impossibile trovare interpretazioni: ma, una volta introdotti nella matematica hamiltoniana, essi « passano nel mondo dei pensieri e acquistano realtà e significato ». La traduzione eseguita da Hamilton è fortemente in­ fedele. Le parole e le proposizioni, i segni e i lemmi, nelle loro transizioni dei vecchi codici ai nuovi, mutano. Ciò che prima sembrava essere un mero simbolo, ora - do­ po la traduzione - è un oggetto dotato di « un significato piu profondo » . Per questo la traduzione è infedele : essa altera il testo da tradurre, viola i significati originali, eli­ mina certi gruppi di proposizioni dichiarandole false, nega la sensatezza di determinati enunciati e li scorpora dal con­ testo, fa emergere questioni che i vecchi codici non riu­ scivano a intravedere. Inoltre la traduzione è infedele in quanto nega la ra­ zionalità di certi canoni che stavano alla base del discorso matematico precedente : e ciò avviene poiché si cancellano le dimostrazioni che sembrano fondate sull'utilità pra­ tica o sulle esigenze logiche - esse crollano come di­ mostrazioni e diventano falsi problemi. L'infedeltà, in questo caso, ha il volto dell'astrattezza crescente. Quando si fa decadere un insieme di norme che garantiva la giustezza o la intuibilità di certe cono­ scenze e lo si sostituisce con un'altra zona di regole, il ri­ sultato ci sorprende poiché è insolito e sembra sfuggire ai nostri filtri usuali. Siamo allora tentati di liquidare l'in­ tera operazione, accusandola di essere troppo astratta e,

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in quanto tale, di non offrirci alcun ponte verso la cono­ scenza della natura. Anche di queste diffidenze Hamilton era consapevole. Nel 1 853, un suo trattato parlava di esse e cercava di al­ lontanarle dalla matematica. Quest'ultima, scriveva Hamil­ ton, ci ha consentito di formulare degli operatori molto piu astratti di quelli ai quali ci eravamo abituati. Ma tale astrattezza crescente non è affatto il marchio di un progres­ sivo allontanamento dei segni rispetto alla natura. Al con­ trario, l'astrattezza maggiore garantisce una piu generale potenza nello « studio matematico della Natura » . Quella caratteristica della traduzione che qui h a avuto, sino ad ora, il nome ambiguo di infedeltà, può allora pre­ tendere di cambiar nome. L'infedeltà non implica una crisi di razionalità o una irrazionale manipolazione del sa­ pere acquisito con le vecchie teorie. Essa implica - se ac­ cettiamo il punto di vista hamiltoniano - un progetto di ristrutturazione dei saperi che ci porta ad approfondimenti successivi. E tali approfondimenti non riguardano un inef­ fabile universo spezzato in due tronconi incomunicanti un troncone di oggetti da cogliere con i sensi (nell'imma­ gine di Herschel o di Johnson) o con la filosofia (nell'imma­ gine del logico Hamilton o del Simplicio del Dialogo gali­ leiano) , e un troncone di parole e di proposizioni. Essi coin­ volgono, nello stesso tempo, parole e cose. La questione della varianza dei significati non riflette un disperdersi dei legami oggettivi tra una teoria nuova e una teoria vecchia. La questione, infatti, non consiste nel mostrare (con le armi della logica) che il termine « numero immaginario » nell'algebra di Groves è piu o meno incom­ mensurabile rispetto al termine « numero immaginario » nell'algebra di Hamilton. (Nell'affrontare in tal modo il problema, si compie la stessa operazione magica di quegli anti-galileiani che asserivano l'impossibilità logica dell'esi­ stenza dei satelliti di Giove) . Nella storia reale, la mate109

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matica di Hamilton è una traduzione della matematica di Groves. Può benissimo accadere che quella traduzione sia insoddisfacente rispetto a determinati schemi logici. Può anche accadere - di conseguenza - che essa non rispetti alcuni tracciati o determinate norme di razionalità, cosi come ci vengono suggerite dalle scuole epistemologiche. Ma l'insoddisfazione e la mancanza di rispetto non sono buoni argomenti per sostenere che quella traduzione è, in qualche modo, irrazionale : sono invece buonissimi argomenti per modificare gli schemi logici e le norme di razionalità. Il dizionario usato da Hamilton per ritradurre la dina­ mica di Lagrange o l'algebra di Groves fu indubbiamente un oggetto complicato : ma, ancora una volta, la questione non è quella di dimostrare con la logica l'esistenza di quel dizionario. Esso infatti esiste, in certe sue parti, nelle biblioteche. E il compito di ricostruirlo - basandoci su ciò che è rimasto - spetta allo storico, non al logico. La ricostruzione storica dei dizionari che permettono di ri­ strutturare le forme reali del sapere - traducendo le vecchie teorie in nuovi assetti teorici caratterizzati dal fatto meraviglioso dell'emergenza - può insegnare molte cose agli studiosi di logica. Essa infatti ha lo scopo di mettere in luce, rovistando nella storia reale, le logiche locali che di volta in volta hanno operato nella dinamica della conoscenza. :È allora utile ricordare il tema ricorrente che già piu volte si è insinuato nelle pagine che precedono. Le tradu­ zioni eseguite da Hamilton fanno nascere, a partire dal 1 8 3 3 , alcune forme astratte della meccanica analitica - e quelle forme, sviluppandosi nei successivi decenni, ci per­ metteranno di approfondire i nostri saperi e di far gemmare nuove strutture formali : ad un certo punto, ci accorge­ remo di poter dire che una stella di neutroni ruota all'in­ terno della Nebulosa del Granchio. E quando ci accorge­ remo di poterlo dire, saremo tentati di dimenticare che le 1 10

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parole disponibili sono il risultato di una rivoluzione saremo insomma tentati dalla chimera che vuole convin­ cerci ad accettare l'opinione secondo cui, alle nostre spalle, esiste solamente un cimitero di teorie morte illuminato a sprazzi dal ricordo di vecchie immagini del sapere. Un cimitero di teorie morte messo in appendice a qualche trat­ tato di storia della filosofia. Ci resterà da decidere se Galileo era un empirista o un seguace di ideali platonici, se l'astronomia di Keplero era misticheggiante o fondata sui dati osservativi di Tycho Brahe, se Newton cercava le cause della gravitazione o adottava il metodo induttivista: giocheremo con le immagini del sapere, dimenticando che le nostre teorie piu potenti sono già nate e continuano a nascere da altre matrici. Cosi facendo, eserciteremo ancora una violenza duplice : contro la scienza, depotenziata a im­ magine del sapere, e contro la filosofia, depotenziata a mera produttrice di immagini. Cosi continuerà a sfuggirci la trama dei rapporti storicamente dati tra ricerca scientifica e ricerca filosofica, tra indagine sulle cose e rifiessione sui linguaggi, tra natura e ragione. Poiché, come già s'è visto, le immagini del sapere non hanno molto significato se vengono separate dai problemi locali il cui insieme esse credono di raffigurare, e poiché, nello stesso tempo, quelle stesse immagini - o loro fram­ menti - a volte funzionano anche come duri selettori filosofici di programmi di ricerca (e non solo come appa­ rati rivolti alla giustificazione metodologica di programmi già conclusi), può essere stimolante prendere in considera­ zione l'ipotesi che i dizionari siano matrici culturali la cui funzione sia soprattutto quella di correlare immagini del sapere e logiche locali interne alla dinamica delle teorie, selettori filosofici e dispositivi di deduzione e di calcolo, opinioni sul cosmo e meccanismi di osservazione sperimentale, congetture metodologiche e teoremi. Si tratta allora di arricchire l'ipotesi sui dizionari. Que111

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sti ultimi non sono solamente degli apparati linguistici corredati di regole piu o meno stabili per la traduzione di una teoria in un'altra, ma sono sistemi di oggetti che con­ tengono in sé parole e numeri, macchine di laboratorio e opinioni filosofiche, zone rigide di norme e zone molli di credenze o abitudini. E la storia del sapere, rivisitata come storia di traduzioni, diventa storia dei dizionari, dove questi ultimi sono matrici variabili nel tempo.

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Nel 1 840 si sviluppa una polemica apparentemente mar­ ginale su alcuni problemi di matematica applicata alla :fisica. Da quella polemica emergono elementi che si innervano in zone differenti del sapere. Dizionari diversi entrano in conflitto : vengono in super­ ficie nuove regioni di razionalità, e queste ultime modificano a loro volta certi settori rilevanti di almeno uno dei dizionari in gioco. Nel volgere di pochi mesi si ricavano, a partire da un teorema sviluppato nel 1 840, conseguenze di portata genera­ lissima. Esse riguardano la nozione di campo elettromagnetico, i problemi dell'età dell'universo e la legittimità delle congetture sull'evoluzionismo in geologia e in biologia. Si può suggerire che il sapere non ha soggetti, ma solo te­ stimoni, o narratori di immagini del sapere prodotto dall'in­ crocio di selettori e di zone obiettive della conoscenza.

CAPITOLO OTTAVO

Emergenze: analogie e necessità matematiche in un dizionario di prima approssimazione

Nel 1 8 4 1 una rivista di matematica di Cambridge pub­ blicò un brevissimo articolo il cui autore si celava die­

tro la sigla " P.Q.R. . In quelle poche pagine si dava una dimostrazione il cui :fine era quello di confermare la sostanziale validità degli apparati matematici costruiti da Joseph Fourier e dallo stesso Fourier applicati nella sua monumentale teoria analitica del calore, stampata nel 1 822. Nel dare gli elementi di quella conferma, l'anonimo " P.Q.R. " criticava altres1 coloro i quali, sino ad allora, avevano sostenuto che le formule di Fourier erano sba­ gliate. Essi, secondo " P.Q.R. " , avevano fondato i loro giu­ dizi negativi sull'assenza della dimostrazione che veniva ora esibita. Alla luce di quest'ultima, ben poche difficoltà rimanevano in Fourier, ma cadevano tutti i giudizi ne­ gativi, in quanto questi ultimi apparivano ormai come frutti di una errata interpretazione. Il bersaglio su cui convergevano gli argomenti di " P. Q .R. " erano le pagine di un trattatello sul calore pubbli­ cato a Cambridge nel 1837. L'autore, Philip Kelland, era partito dalla constatazione di alcune gravi difficoltà che minavano il sapere sul calore. Le assunzioni di Laplace, se­ condo Kelland, erano inconcepibili, poiché non esisteva un alcunché di analogo per mezzo del quale « rappresen­ tarle nella mente» : era assai preferibile eliminarle accet­ tando altre ipotesi, quali ad esempio quelle che erano state formulate da Dalton, ed arricchire queste ultime cosi da renderle piu aderenti ai fenomeni. Non si trattava di sommare congetture a congetture. Ma si doveva modificare "

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l'ipotesi di Dal ton in modo tale che « il complesso [ della teoria ] divenga il risultato di un solo grande principio » . Naturalmente la nuova teoria non era ancora completa e, in alcuni punti, poteva anche apparire « piuttosto indefi­ nita » . Tuttavia, come osservava Kelland, « stiamo ancora lavorando a livelli di incertezza a proposito dei fatti speri­ mentali » - e l'incertezza è tale che, ad esempio, « non abbiamo una qualche idea rigorosa del significato da attri­ buire alla parola temperatura » . L e perplessità di Kelland rinviano ad una ricca biblio­ grafia di lavori scientifici e, particolarmente, rinviano ap­ punto a Fourier. Nel terzo capitolo del trattatello, infatti, Kelland sviluppa una soluzione matematica del problema generale della conduzione del calore - soluzione che Fou­ rier aveva posto al centro del suo capolavoro del 1 822 e cosf scrive : « Chiunque esamini con cura l'argomento, non può che aver ben pochi dubbi sul fatto che quasi tutte le serie di Fourier in tale settore sono sbagliate » . Quest'ultima osservazione critica suscitò una forte ir­ ritazione in " P .Q .R. " . Egli l'aveva letta due giorni prima di lasciare Glasgow, nell'estate del 1 840, per una vacanza a Francoforte. Va detto che " P.Q.R. " era un ragazzetto di quindici anni, di nome William Thomson, che era stato immatricolato - appena decenne - all'università di Glas­ gow, dove il padre, James, occupava dal 1 832 la cattedra di matematica. William Thomson (che sarebbe diventato quel Lord Kelvin la cui fama scientifica gli avrebbe fatto meritare, molti decenni piu tardi, la nomea di « secondo Newton ») si irritò nel leggere Kelland poiché amava l'opera di Fourier, che gli era stata consigliata, proprio nel 1 840, da uno stimato docente d'Astronomia che si chia­ mava John Pringle Nichol. Il libro di Fourier, come avrebbe detto lo stesso Kelvin molti decenni piu tardi, appariva al nostro quindicenne come un capolavoro di « splendore » e di « poesia » e -

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come « un grande poema matematico » sarebbe apparso dopo dopo ad un altro giovanissimo ospite del St. Peter College di Cambridge, James Clerk Maxwell. Sembra che si stia qui raccontando un qualcosa di mi­ nuto, di fortuito, di accidentale. Kelvin chiede a Nichol se è possibile affrontare la teoria di Fourier. Nichol risponde con un « forse », e il 1° maggio del 1 840, Kelvin prende il libro del 1 822 dagli scaffali della biblioteca di Cam­ bridge. Da un punto di vista puramente soggettivo, il racconto parla ora del fascino che quel libro esercita su un quindi­ cenne, e dell'irritazione che sorge quando, poche settimane pili tardi, quel quindicenne legge il trattatello di Kelland. Eppure, la maglia di sapere che si sta formando ha un contenuto che trascende completamente l'evento casuale o le reazioni psicologiche degli attori singoli. Se torniamo a Kelland, ci accorgiamo che le sue argo­ mentazioni si distendono su certe zone della conoscenza matematica, fisica e chimica del suo tempo, nonché su de­ terminati livelli di riflessione che riguardano questioni metodologiche e che spingono Kelland a scegliere una certa ipotesi invece di un'altra, oppure a cogliere le carenze di significato della parola temperatura, oppure ancora a pensa­ re che sia del tutto lecito ridurre la teoria del calore ad un capitolo della teoria delle equazioni differenziali. Le sue ar­ gomentazioni, insomma, pur tenendo conto dei vari livelli in cui sono ramificate, costituiscono un sistema i cui vari elementi interagiscono fra loro. Un sistema reale, nel senso che i suoi elementi costitutivi sono proposizioni scritte e fra loro connesse. Un altro sistema del genere caratterizza le mosse di Kelvin. Egli entra all'università giovanissimo, ma entran­ dovi a dieci anni egli reca già con sé un patrimonio cono­ scitivo grazie all'aducazione paterna, centrata sui temi del­ l'analisi matematica. Tre anni dopo l'immatricolazione egli 1 17

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scrive un saggio sulla forma del pianeta, facendo uso di dispositivi formali ricavati dallo studio di autori come Airy, Poisson, Pontécoulant, Pratt e Laplace. Nello stesso tempo egli studia la Mécanique Analytique di Lagrange, la Mécanique Céleste di Laplace e alcuni lavori di Le­ gendre, nonché la raffinata ottica di Fresnel. Quando dovrà mettere a confronto il libro di Fourier e il libro di Kelland, egli disporrà di una matrice argomentativa potente : suffi­ cientemente potente da annullare le critiche di Kelland non tanto usando le ragioni originali di Fourier, quanto dimo­ strando un teorema generale che reinterpreta Fourier e dirotta le anomalie individuate da Kelland. Se ora, a distanza di tanti decenni, lo storico riesamina la vicenda, allora accade che la possibilità di capirla non deriva dal fatto di sapere, oggi, che Kelvin si era arrab­ biato leggendo Kelland, ma dal fatto di poter ricostruire alcuni pezzi del dizionario kelviniano e di paragonarli con alcuni frammenti ricostruibili del dizionario di Kelland. Qualora il dizionario di Kelvin non fosse stato strut­ turato in quel determinato e unico modo, l'unica cosa che lo storico potrebbe oggi dire consisterebbe nel ricordare che un ragazzo di quindici anni si era addolorato scoprendo che un amato maestro era stato severamente maltrattato da qualcuno. Ma, nella storia reale, è invece accaduto che i due dizionari hanno interagito : e il risultato reale è con­ sistito nella successione di mosse che un dizionario aveva la capacità di compiere contro l'altro, e nei prodotti di tali mosse. Per capire ciò che è successo, insomma, non dobbiamo far altro che paragonare fra loro i due dizionari. Cos{ riu­ sciamo a descrivere, almeno in prima approssimazione, ciò che era effettivamente in gioco: la possibilità di dimostrare che la razionalità delle indagini di Fourier poggia su un teorema che Fourier non aveva dimostrato. Se questo è il nocciolo della questione, allora ci accor118

Analogie e necessità matematiche

giamo che l'interazione tra il dizionario di Kelvin e il di­ zionario di Kelland è un qualcosa di molto complicato. La complicazione non dipende unicamente dal fatto che i due dizionari sono, di per se stessi, sistemi molto articolati al proprio interno. Né dipende unicamente dalla difficoltà di ricostruirli, la quale deriva dal tipo di informazioni che riusciamo a raccogliere e, quindi, dai dati che sono defi­ nitivamente perduti. La complicazione effettiva sta nel1' emergenza del nuovo teorema. Quest'ultimo, infatti, è un asserto che non era contenuto né nel dizionario di Kel­ vin, né in quello di Kelland, né, infine, nel volume di Fourier. L'emergenza, dunque, è il risultato oggettivo di un processo le cui figure dominanti non sono il fascino eser­ citato da un libro o l'indignazione prodotta da una critica indesiderabile - le figure dominanti sono alcuni sistemi di proposizioni controllabili. Il nuovo teorema di Kelvin si colloca, oltre che sul piano di ciò che chiamiamo " emergenza " , anche su un piano diverso. Esso va a far parte del dizionario kelviniano ristrutturandone alcuni settori e mettendone in movimento alcune zone. Negli stessi mesi durante i quali Kelvin affronta la questione Fourier-Kelland, lo stesso Kelvin discute vivace­ mente con amici a proposito delle idee attorno alle quali sta lavorando Michael Faraday. Faraday non ha dimestichezza con le matematiche. Egli sta sviluppando un quadro concet­ tuale di tipo molto generale che dovrebbe consentire una nuova interpretazione fisica di alcune classi di dati speri­ mentali. I fenomeni gravitazionali, ottici, elettrici, magne­ tici ed elettrochimici fanno parte, a suo avviso, di un siste­ ma naturale retto dalle leggi di una scienza unificata. Il qua­ dro faradayano è però in contrasto con una immagine della natura tradizionale nella cultura scientifica di derivazione newtoniana, secondo la quale ogni evento sperimentale è 1 19

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spiegabile, in linea di principio, sotto l'assunzione unica dell'azione a distanza. Chi lavora attorno a quest'assun­ zione unica dichiara che la legalità del mondo e il suo or­ dine nel tempo dipendono dal fatto che ogni azione si svi­ luppa istantaneamente e per linee rette attraverso uno spa­ zio sostanzialmente vuoto e privo di caratteristiche fisiche. Lo spazio non interviene nei fenomeni : è semplicemente il teatro immutabile al cui interno le cose si muovono intera­ gendo fra loro a distanza. Il punto di vista sostenuto da Faraday è diverso. Lo spazio faradayano è un incurvarsi e un intrecciarsi di linee di forza : è esso stesso un complesso di fenomeni fisici. I corpi singoli che sono immersi al suo interno possono agire l'uno sull'altro in quanto la rete universale delle linee di forza garantisce un contatto fra i corpi stessi. In tal modo la parola « materia » cambia significato. Una parti­ cella di materia - un atomo - cessa di rappresentare una porzione minima, un oggetto ultramiscoscopico, una sorta di pallina estremamente piccola. Un atomo diventa un og­ getto grandissimo, nel senso che la sua dimensione è la di­ mensione del suo campo di forze. Il campo di forze si inde­ bolisce man mano che ci si allontana dal suo centro, ma è ancora diverso da zero - pur diventando progressiva­ mente piu debole - anche a distanze molto elevate. L'a­ zione rettilinea a distanza si trasforma cos{ in una intera­ zione curvilinea per contatto, la quale si propaga nell'uni­ verso intero con una velocità finita e non istantaneamente. Kelvin è contrario alla concezione faradayana. Essa viola il cuore stesso della fisica matematica post newtoniana, che ha raggiunto livelli di matematizzazione generale con l'opera di scienziati come Laplace, Poisson o Fourier. Eppure la breve memoria del 1 840 contro Kelland ha messo in moto il dizionario kelviniano lungo direttrici inat­ tese, e cominciano a prodursi sommovimenti che non rien­ trano facilmente nella cornice di credenze antifaradayane 120

Analogie

e

necessità matematiche

che, nel 1 840, fanno ancora parte di quel dizionario. Nel febbraio del 1 842-, l'ormai diciottenne Kelvin pub­ blica uno scritto in cui si tenta di stabilire l'esistenza di connessioni tra la teoria del calore e la teoria matematica dell'elettricità. Almeno tre sono i fatti rilevanti che si scorgono in tale scritto, apparso ancora in forma anonima. Il primo fatto è il seguente. Per via di dimostrazioni, si giunge alla seguente conclusione : « le leggi di distribu­ zione della forza elettrica o magnetica debbono essere in qualsiasi caso identiche alle leggi di distribuzione delle linee di moto del calore in certe circostanze perfettamente definite » . Lo stesso Kelvin commenterà le conclusioni rag­ giunte scrivendo che esse « costituiscono una teoria com­ pleta delle caratteristiche delle linee di forza che sono state cosf ammirevolmente studiate in modo sperimentale dal Faraday » . Se ci ricordiamo la lotta di Keplero contro l'im­ magine della circolarità, allora vediamo che anche Kelvin, grazie alla matematica, riesce a demolire i ladri del suo tempo. Il secondo fatto è ancora piu interessante. Kelvin aveva consegnato lo scritto all'editore nel settembre del 1 84 1 . Pochi mesi dopo Kelvin scopriva che una parte notevole dei teoremi e delle dimostrazioni comprese in quello scritto erano già state trovate, partendo da teorie diverse, dal matematico inglese George Green, dal :fisico e mate­ matico tedesco Karl Friedrich Gauss e dal geometra fran­ cese Michel Chasles. Esistevano tuttavia differenze rilevanti fra i quattro approcci che indipendentemente erano sfociati sui medesimi punti. Alcuni teoremi generali erano stati dimostrati da Green e altri, mentre Kelvin ne assumeva gli enunciati « alla stregua di verità assiomatiche » . Inoltre Chasles aveva fatto uso di metodi quasi interamente geo­ metrici che nulla avevano in comune con quelli di Kelvin. Lo scritto poteva quindi essere pubblicato, in quanto non era « del tutto privo di interesse per qualche lettore ». 121

Il sogno di Galileo

Il terzo fatto diventa leggibile esaminando un succes­ sivo articolo di Kelvin, datato maggio 1 842, nel quale viene approfondito un insieme di problemi che è strettamen­ te legato a quelli già affrontati nelle due memorie kelviniane precedentemente ricordate. Kelvin analizza con maggior ri­ gore una questione puramente formale, relativa all'integra­ le dell'equazione differenziale « che esprime il moto lineare del calore in un solido infinito ». Ma, nello stesso tempo, egli tenta di esprimere il rapporto che dovrebbe esistere tra la soluzione matematica e il « problema di carattere fisico » . L'aspetto insolito della situazione che s i crea è, grosso modo, il seguente : si possono dimostrare dei teoremi in cui si parla del tempo, e si vede che essi restano veri sia nel caso che il tempo sia negativo, sia nel caso che il tempo sia positivo - sia che si vada verso il futuro, sia che si vada verso il passato · di determinati processi fisici. Tutta­ via esistono, nel dispositivo della dimostrazione, alcuni vin­ coli che rendono impossibile una completa simmetria tra passato e futuro - in altre parole, vi sono fortissime ragioni per dire che, se cominciamo a seguire il processo fisico in esame andando verso il suo passato, allora il nostro cammino non proseguirà all'infinito, ma dovrà necessaria­ mente fermarsi ad un certo punto. Quale conclusione trae Kelvin da tutto ciò ? A suo av­ viso, la non completa simmetria tra passato e futuro non è un fatto locale, isolabile nel contesto dei teoremi messi in campo. Essa è una caratteristica universale della natura: l'insieme di tutti gli oggetti del cosmo deve avere avuto un inizio. Nasce cos{ un potente selettore, il quale parla della sto­ ria del mondo e stabilisce che quella storia non è eterna ma si avvia da un qualche cominciamento. La ricerca scien­ tifica sulle cause naturali non può allora pretendere di ra­ gionare su un passato infinitamente esteso, ma deve fare i 122

Analogie e necessità matematiche

conti su un passato che contiene una quantità numerabile e finita di anni o secoli o millenni. Proviamo a riassumere. La dinamica di un dizionario si evidenzia secondo una successione di mosse a vari li­ velli. I frutti di tale dinamica sono diversi : abbiamo la comparsa di nuovi teoremi, con i quali vengono reinterpre­ tati alcuni trattati già dati e si annullano determinate argo­ mentazioni critiche che avevano quei trattati come obiet­ tivi; quei teoremi producono riaggiustamenti del dizio­ nario che li ingloba, e innescano in quest'ultimo, ormai mutato, nuovi cammini di ricerca; appaiono cosi nuovi teo­ remi - e poi ci si accorge che questi ultimi già erano stati enunciati e risolti da altri, i quali avevano seguito cammini diversi; gli ultimi teoremi, invece di rimanere muti al mar­ gine del discorso, sono sorgenti di altre interpretazioni fanno crollare, con la necessità che li regge, alcuni selettori (e cosi cade il selettore kelviniano contro la fisica di Fara­ day) e li sostituiscono parzialmente con altri (e cosi sorge il selettore che raffigura il mondo come un processo dotato di un inizio) . Il dizionario muove nel tempo, ristrutturan­ dosi a zone. L'ultimo selettore nato provoca numerosi rias­ sestamenti : negli anni successivi Kelvin lo utilizzerà am­ piamente per polemizzare contro quei geologi o quei na­ turalisti che, nella storia della terra o degli animali, intro­ ducono grandi intervalli di tempo tra era ed era. Di quegli intervalli sconfinati di secoli avranno bisogno, ad esempio, Charles Darwin e i primi assertori della teoria evoluzio­ nista sull'origine delle specie. E Kelvin sarà uno dei prin­ cipali critici di tale teoria, poiché quest'ultima viola il com­ plesso delle conoscenze empiriche e teoriche secondo le quali l'età presumibile della Terra e del sistema solare si misura in pochi milioni di anni. Alla luce del selettore kel­ viniano, emerso da una interpretazione generalizzante di alcuni teoremi giovanili, quelle teorie non sono scientifiche, ma sono esempi di una futile filosofia. Certe zone di dizio123

Il sogno di Galileo

nario, insomma, funzionano storicamente come criteri di verità : in modo analogo operava l'aristotelico nemico di Galileo, negando l'esistenza dei satelliti di Giove sulla base della logica, oppure il ladro del tempo kepleriano, privile­ giando la figura circolare su ogni altra figura.

124

CAPITOLO NONO

Asimmetrie: problemi locali, selettori e storia

Resta ancora moltissimo cammino da percorrere, se si vuole giungere in quei luoghi del sapere dove una proposi­ zione sulla stella di neutroni che ruota nella Nebulosa del Granchio riceve significati da un insieme di teorie: la teo­ ria della relatività, la teoria delle particelle elementari, la :fisica del nucleo, determinati settori della matematica con­ temporanea, zone di raffinatissima tecnica a monte delle macchine con cui osserviamo le nebulose o le interazioni fra particelle sub nucleari. Le asserzioni su oggetti come le stelle di neutroni sono ancora distanti, rispetto agli eventi di cui discutono i teo­ remi di " P.Q.R. " . Ma il problema attorno al quale ho cominciato a par­ lare non è il problema della forma complessiva del viaggio che abbiamo compiuto : il viaggio che sembra iniziare con l'Historia Animalium di Aristotele o con l'Arenario di Ar­ chimede o con il Commento di Proclo al I Libro degli Elementi di Euclide non è finito tra i capitoli di un trat­ tato definitivo di relatività generale o nelle pagine di un manuale di elettrodinamica quantistica. Di fronte a una na­ tura sino ad oggi cosf ricca di sorprese è vano l'atteggia­ mento di chi dice che stiamo per raschiare il fondo del barile, che stiamo per trovare le superleggi definitive; al­ trettanto vano è il comportamento frivolo di chi, avendo esplorato minuziosamente alcune immagini del sapere, s'è convinto che il sapere stesso è vuoto. Per entrambi può esser salutare l'operazione di confronto tra ciò che nel 1 758 si poteva dire a proposito della Nebulosa del Gran125

Il sogno di Galileo

chio e ciò che invece possiamo dirne oggi. Il problema, dunque, è un altro. Ciò di cui sto par­ lando è che abbiamo di fronte a noi delle mancanze di simmetria che sembrano caratterizzare il processo reale di crescita delle conoscenze, cosi come quest'ultimo appare a chi si sofferma sulle logiche locali, sui contesti singoli, sugli eventi irripetibili. Queste mancanze di simmetria appaiono a due livelli. Da un lato si ha che una certa teoria riesce a discutere delle anomalie che pullulavano in una teoria precedente. Dall'altro lato si ha che un certo insieme di teorie riesce a farci capire una qualche immagine del sapere. In en­ trambi i casi, il viceversa non funziona : ciò che separa una vecchia teoria da una nuova non è soltanto la varianza del significato di alcune parole chiave, ma è soprattutto il nuovo che irrompe, l'inatteso risultato che, appropria­ tamente, chiamiamo scoperta un nuovo pianeta, una nuova particella, un nuovo teorema : oggetti che appar­ tengono a un mondo di cui la vecchia teoria non sa parlare, mentre la nuova teoria parla sia di questi oggetti inattesi, sia della teoria vecchia. D'altra parte, ogni grande immagine del sapere - il libro della na­ tura, il labirinto, la torre di Venere Urania, la caverna oscura - ha, dietro di sé, una articolazione enorme di ar­ gomenti. Ne possiamo seguire l'intreccio ricostruendo i rapporti tra libro e libro, tra citazione e citazione. Ma cia­ scuna immagine, considerata di per se stessa, poco ci dice dei problemi locali che con essa si volevano rappresentare. La struttura linguistica e i presupposti filosofici generali del libro della natura nulla hanno da dire a proposito dei calcoli concretamente effettuati da Galileo. Ma i calcoli concretamente effettuati da Galileo, una volta ricostruiti dallo storico, chiariscono le ragioni per cui Galileo credeva in quell'immagine, cosi come le dimostrazioni realmente sviluppate da " P.Q.R. " ci fanno capire le ragioni per cui -

126

Asimmetrie

" P.Q.R. " preferiva un certo selettore e ne respingeva un altro. Non si tratta, qui, di sostenere che solo le teorie che sono a noi contemporanee hanno significati, e che tutto l'universo delle immagini è una appendice sostanzialmente irrilevante. Si tratta, invece, di sostenere che la crescita del sapere ha asimmetrie osservabili, e che tali asimmetrie sono caratteristiche di un processo culturale unico, al cui interno interagiscono, attorno a problemi locali e ben deter­ minati, teoremi e immagini, opinioni e dati empirici. Le teorie che ci sono contemporanee esibiscono un di­ zionario plurivalente che, oltre ad analizzare oggetti e teo­ remi del mondo in cui viviamo, consentono di ripercorrere i sentieri della ragione lungo i quali siamo giunti all'oggi : ma il viceversa non è possibile, poiché le teorie vecchie non contenevano parole adeguate a esprimere il sapere d'oggi . Questa è la prima asimmetria. Le teorie esistenti in un certo periodo storico conten­ gono gli elementi primari per capire le filosofie di quel pe­ riodo : ma il viceversa non è possibile, poiché la filosofia del moto rettilineo delle comete deve essere distrutta se si vuol mostrare che le comete percorrono sezioni di co­ niche. Questa è la seconda asimmetria. Questa è, ovviamente, un'altra immagine del sapere : una immagine che funziona come selettore per la ricerca in storia della scienza. Essa implica uno schema della ra­ zionalità che appare debole a chi sostiene, da moltissimo tempo, che le procedure umane sono razionali se e solo se obbediscono alle norme della logica classica. Ma ciò non è molto importante, in quanto è probabile che la storia reale delle scoperte non abbia mai dato un peso ec­ cessivo alle norme di quella logica e abbia invece dato un certo peso alle risposte - spesso imprevedibili - del mondo delle cose e delle dimostrazioni. La discordanza tra gli schemi logici del sapere e le 1 27

Il sogno di Galileo

forme reali del sapere stesso non porta quindi necessaria­ mente a concludere che l'uomo contemporaneo sia la vit­ tima di una crisi della ragione. Quella discordanza sta invece a indicare che il sogno di Galileo non è finito.

128

Cenni bibliografici

Il lettore può facilmente osservare che in questo saggio non esistono specifici rimandi bibliografici, malgrado il numero delle citazioni riportate tra virgolette. Ho ritenuto infatti di seguire il criterio di rinviare il lettore ai testi nella loro globalità. Mi limito pertanto ad elencare i documenti consul­ tati, raggruppandoli a seconda dei capitoli del saggio, pre­ cisando, di volta in volta, l'eventuale traduzione in lingua italiana ed evitando le ripetizioni.

I Galileo, Lettera a Keplero, in Memorie e lettere inedite fi· nora o disperse, a cura di G. Venturi, parte I ( 1 5871 6 1 6 ) , pp. 1 34- 1 35, Modena, G. Vincenzi, 1 8 1 8 . Bernard le Bovier de Fontenelle, The Elogium of Sir Isaac Newton, London, J. Tonson, J. Osborn, T. Longman, 1728. Facsimile in : Isaac Newton's Papers & Letters

on Natural Philosophy and Related Documents,

a

cura

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Cenni bibliografici

John Locke, An Essay concerning Human Understanding, 1 690, trad. it. di G. De Ruggiero, Saggio sull'intelletto umano, Bari, Laterza, 1 966. George Berkeley, A Treatise concerning the Principles of Human Understanding, 1 7 10, trad. it. di M. Rossi, Trattato sui principi della conoscenza umana, Bari, La­ terza, 1 973 . Proclo, Commento al I Libro degli Elementi di Euclide, ed. critica italiana a cura di Maria Timpanaro Cardini, Pisa, Giardini Editori, 1 978. Newton, Conclusio, in : Unpublished Scientific Papers of Isaac Newton, a cura di A. Rupert Hall e Marie Boas Hall , Cambridge and London, Cambridge University Press, 1 978. Descartes, Discours de la méthode, 1 637, trad. i t . d i G. D e Ruggiero, Discorso sul metodo, Milano, Mursia, 1972. Joseph Fourier, Théorie Analytique de la Chaleur, 1 822, in Oeuvres, a cura di G. Darboux, Parigi, 1 890. Archimede, Arenario, trad. it. in Opere di Archimede, a cura di A. Frajese, Torino, Utet, 1 974. Newton, Lettera a Halley e risposta di Halley, in : Unpubli­ shed Scientific Papers, cit., p. 234. Archimede, Metodo, in Opere di Archimede, cit. Janos Bolyai, Lettera al padre, 3 novembre 1 823, in: Ioannis Bolyai in memoriam, typis Societatis Frankli­ nianae Budapestiensis, Claudiopoli, 1 902, pp. XIV-XV. Newton, De Mundi Systemate Liber, trad. it. di M. Ren­ zoni, Torino, Boringhieri, 1 959. Pierre Duhem, La théorie physique: son object et sa structure, Paris, 1 9 1 42, trad . it . La teoria fisica, Bolo­ gna, Il Mulino, 1 97 8 . Paul Feyerabend, Against method. Outline of an anarchi­ stic theory of knowledge, 1 975, trad . it . , Contro il me­ todo, Milano, Feltrinelli, 1 979. John F. W. Herschel, Preliminary discourse on the study 130

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Keplero, le citazioni da Astronomia nova, Mysterium co­ smographicum, Harmonices mundi, nonché dalla corri­ spondenza kepleriana, sono tratte da : A. Koyré, La rivoluzione astronomica, traduzione dal francese e dal latino di L. Sosio, Milano, Feltrinelli, 1 966. Mi è stato particolarmente utile il saggio di Paolo Rossi, Nobility of Man and Plurality of Worlds, in : Science, Medicine and Society in the Renaissance, New York, Science History Publications, 1 968. Galileo, lettera a Marco Velseri, in Sidereus Nuncius, op. cit, in II. 132

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V A. Vallisnieri, De' corpi marini che su' monti si trovano, [ . . . ] , da Paolo Rossi, I segni del tempo, Milano, Feltri­ nelli, 1 979, p . 1 02 . Joseph Priestley, The History and Present State o/ Electri­ city, cit., voi. I . 133

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1 35

INDICI

Indice dei nomt

Airy, G .B., 1 1 8 Ampère, A.M., 65 Apollonio, 34, 58 Archimede, 19, 20, 2 1 , 24, 34, 41, 56, 58, 125

Aristotele, 24, 25, 44, 45, 46, 52, 53 , 56, 57, 91, 125 Arrest, L. d', 39 Bacone, F.:.? 35 Beccaria, u.B., 80 Bedford, G., 84 Berkeley, G., 16, 2 1 , 22 Berzelius, J.J., 84, 85 Boltzmann , L., 64 Bolyai, J., 2 1 , 22, 39, 56, 57, 65, 103

Boyle, R., 15, 34 Brahe, T., 51, 53, 59, 1 1 1 Buffon, G.L. Leclel'C de, 27, 28, 29,

30, 3 1

Burnet, G., 84 Callicle, 17 Callippo, 45

Castelli, B., 42 Chasles, M., 12 1 Condillac, E. de, 3 1 , 32, 34 Copernico, N., 25, 29, 33, 4 1 , 46, 52, 53 , 56

Coulomb, C.A., 8 1 , 84 Dalton, J., 1 15, 1 1 6 Darwin, C . , 123 Davy, H., 82, 83, 84, 85 Descartes, R., 18 , 2 1 , 93 Duhem, P., 24

Eclgworth, L., 83, 84 Eratostene, 20 Euclide, 16, 125 Eudosso, 45

Fabricius, J., 58 Faraday, M., 1 19, 120, 121, 123 Feyerabend, P., 25 Fontenelle, B. Le Bovier de, 13,

14, 16, 17, 21, 22, 30 Fourier, J., 18 19, 106, 1 15, 1 16, 1 17, 1 18, 1 19, 120 Franklin, B., 80, 81 Fresnel, A.J ., 1 1 8

Galle, G., 39, 56 Galilei, G., .5, 6, 7, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 25, 26, 29, 30, 33, 34 , 35, 39 40, 4 1 , 42, 43, 44, 5 1 , 53, 54, 56, 67, 68, 98, 99, 101, 1 03, 1 1 1 , 124, 126, 128 Gauss, K.F., 65, 121 Gelone, 19 Gilbert, w., 30, 58 Goethe, J .W., 63 , 64, 66 Green G., 121 Groves, J . T., 109, 1 10 Halley, E., 19, 103 Hamilton, W .R ., 65, 98, 99, 101,

103, 106, 107, 108, 109, 110

Hartley, D., 29, 30 Hauksbee, F., 81 Helvetius, C.A ., 30, 3 1 , 3 4 , 57, 67, 105

Herschel, J.W.F., 25, 34, 35, 64,

89, 90, 96, 97, 98, 99, 103 , 109 Hooke, R., 72 Hume, D., 98 Huyghens, C., 72 Ingoli, F., 68

Johnson, A.B., 87, 90, 9 1 , 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 103, 109

139

Indice dei nomi Kant, I., 27 Kelland, P.,

1 1.5, 1 16, 1 17, 118,

119, 120 Kelvin (vedi Tomson, W.) Keplero, G., 13, 18, 26, 3.5, 49, .51, .52, .53, .54, .5.5, .56, .57, . 5 8, .59, 71 , 72, 73, 98, 99, 103, 1 1 1 , 121

Lagrange,

J.L., 101 , 103, 104, 10.5, 106, 107' 1 10 Lambert, J. , 2.5, 26, 27 La Mettrie, J. OfEroy de, 28, 29, 30 Laplace, P.S. de, 27, 106, 1 1.5, 1 18,120 Leibniz, G.W. von, 34 Leverrier, J.J., 39, .56, 57 Locke, J., 15, 34, 98 Maestlin M., .53, .58 Malpighi., M., 20 Maxwell, J .c., 1 17 Medici, G. de, 41 Messier, C., 39, .54, .56, 63, 66, 68

Newton, I.,

13, 14, 17, 18, 19, 22, 29, 32, 33, 34, 3.5, 47, 6.5, 68, 69, 71, 72, 73, 93, 98, 99, 101, 103, 104, 106, 111

140

Nollet, J.A., Nichol, J.P.,

7 8 , 81 1 16, 117

Peacock, G., 98 Plinio, 81 Poisson, S.D., 1 18, 120 Pratt, J H., 1 1 8 Priestley, J., 29, 30, 77, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85 Proclo, 16, 17, 12.5

Reid, T., 98 Retico, 46, 47, .53 Rosse, conte di, 63, 64, 6.5, 66, 96 Socrate, 17 Stukeley, W., 78, 79, 80, 82 Thomson, J., 116 Thomson, W., 1 16, 1 17, 118, 1 19, 120, 121, 122, 123 Tolomeo, 2.5, 32, .52 Vallisnieri, A., 77 Velseri, M., 41, 54 Wallis , J., 72 Whewell , W., 98 Wittgenstein, L., 87, 9.5 Wren, C., 72

Indice del volume

Premessa

p.

5

Immagini del sapere : il labirinto, il libro e la torre di Venere Urania

11

Oggetti che emergono e oggetti che scom­ paiono : Nettuno, le stelle medicee e le sfere celesti

.39

III.

Nuovi labirinti : sfere, cerchi, ovali, ellissi

51

IV.

Oggetti che mutano viaggiando nel cielo : le comete

6.3

Mutamenti nella base empirica : terremoti e animali, lem della vita e pesi atomici

77

Oggetti che cambiano di significato : le parole

89

Traduzioni infedeli : l a matematica e i di­ zionari

10.3

VIII . Emergenze : analogie e necessità matemati­ che in un dizionario di prima approssima­ zione

1 15

I.

II.

V.

VI .

VII .

141

Indice del volume

IX.

Asimmetrie : problemi locali, selettori storia

e

p. 1 25

Cenni bibliografici

129

Indice dei nomi

139

142

Finito di stampare nell'ottobre 1980 dalle Grafiche Galeati di Imola