Gli autori e la critica. Fatti e misfatti nel mondo del cinema 8822050266, 9788822050267

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edizioni Dedalo

Guido Oldrini

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Ombra sonora

Fatti e misfatti nel mondo del cinema

Guido Oldrini

Gli autori e la critica Fatti e misfatti nel mondo del cinema

edizioni Dedalo

In copertina: Gertrud (1964) di Carl Th. Dreyer. Volume pubblicato con un contributo dell1 Università degli Studi di Bologna (Fondi 60%).

© 1991 Edizioni Dedalo srl, Bari Stampato in Bari dalla Dedalo litostampa srl

Premessa

Le tre parti di cui si compone il presente volume appaio­ no, a un primo sguardo, fortemente eterogenee tra loro, né l’autore intende fare alcunché per mascherare questa loro ete­ rogeneità di fondo. Se oggetto della prima sono i grandi regi­ sti cui si deve il riconoscimento del cinema come fatto d’arte e di cultura, il suo ingresso nella cultura al pari delle altre arti (con l’appendice della discussione di quel falso problema che è, in sede estetica, il cosiddetto problema del «cinema d’auto­ re»), a fulcro della seconda sta l’esame dell’atteggiamento di volta in volta assunto dalla critica verso autori, problemi, orientamenti, tendenze nazionali; mentre la terza sposta il tiro dai fatti ai misfatti della critica, senza troppi complimenti né mezze misure verso i responsabili di quei misfatti stessi, chia­ mati in causa con nome e cognome. Tre parti, dunque, apparentemente scoordinate. Eppure si tratta solo di apparenza. Spetta al metodo cui soggiace la tratta­ zione del contenuto, ai criteri d’approccio relativi alle singole questioni, alla prospettiva storiografica utilizzata, alle analisi concretamente poste in atto comprovare come in realtà un filo unitario leghi tra loro le tre parti; come la prima (sugli autori) richieda per completezza bibliografica la seconda (sugli autori alla luce della critica), e come molte delle discussioni che stanno al centro di quest’ultima non possano venire ben com­ prese senza la denuncia degli equivoci operata dalla terza (quella sui misfatti); come insomma ricerca, penetrazione criti­

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ca, informazione erudita e polemica facciano tutt’uno, siano, in chiave diversa, strumenti della stessa operazione. Rientra proprio tra i nostri intenti e le nostre più vive speranze che, con l’insieme degli scritti qui raccolti, si dispie­ ghi dinnanzi agli occhi del lettore qualcosa di sostanzialmente omogeneo, poggiante su una concezione teorica unitaria: dove resta centrale quell’esigenza della lotta per l’inserimento della teoria del cinema nel quadro della teoria dell’arte e della cultu­ ra in generale (secondo i princìpi del marxismo) che, indipen­ dentemente dalla varietà dei temi in discussione, viene qui appunto sempre di nuovo perseguita, tenuta ferma con la massima energia e fatta valere sino in fondo. Milano, gennaio 1991

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Parte prima

GLI AUTORI E IL PROBLEMA DEL CINEMA D’AUTORE

Ejzenstejn, Chaplin, Dreyer, Bergman, De Sica e Rosselli­ ni, Kluge e Wenders, sono gli «autori» di cui si occupa questa prima parte. Un campionario ristretto, come si vede, ma che riteniamo tuttavia sufficiente a illustrare la questione del signi­ ficato, del ruolo che svolge e del peso che riveste nel cinema la figura dell’autore (sia esso il solo regista, o il regista insieme con i suoi collaboratori). La questione viene qui in esame da un duplice punto di vista. I primi sei capitoli analizzano monograficamente, pren­ dendoli a sé, aspetti o momenti dell’attività di ciascuno degli autori sopra menzionati; l’ultimo affronta il problema del «ci­ nema d’autore» in generale, così come esso si prospetta - e noi crediamo vada affrontato - sotto il profilo dell’estetica. Degli scritti raccolti in questa sezione, il I è apparso nel «Calendario del popolo», XLIII, 1987, n. 500, pp. 12089-91; il II in «Marxismo oggi», III, 1989, n. 5-6, pp. 58-61; il III (corrispondente alla relazione tenuta nel quadro del Colloque international Charles Chaplin di Parigi, Universi­ tà della Sorbona, 14-16 aprile 1989) in «Cinema nuovo», XXXVIII, 1989, n. 320-321, pp. 52-9; il § 1 del IV è inedi­ to, mentre il § 2 viene da «Cinema nuovo», XIX, 1970, n. 204, pp. 126-29 (rist. in Problemi di teoria e storia del cinema, Guida, Napoli 1976, pp. 253-6); il V, pure inedito, corrispon­ dente alla relazione tenuta nel quadro del convegno Poetica e stile di Ingmar Bergman, Università «La Sapienza» di Roma, 8 7

dicembre 1988; dei due paragrafi di cui si compone il VI, il § 1 è apparso in «Bianco e Nero», XXXVI, 1975, n. 9-12, pp. 153-55, e il § 2 in «Calendario del popolo», XLIII, 1987, n. 505, pp. 12257-60; il VII risulta anch’esso dalla giustapposi­ zione di due scritti, l’uno (§ 1) già incluso nel volume collettaneo Guida al film, a cura di Guido Aristarco, Fabbri, Milano 1979, pp. 216-7, e l’altro (§ 2) inedito; IVIII, infine, viene da « Segnocinema», VI, 1986, n. 23, pp. 20-21. Si ringraziano gli editori e i direttori dei periodici che hanno voluto cortesemente autorizzare la ristampa di questi come di tutti gli altri scritti qui raccolti.

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Il cinema secondo Ejzenstejn

È bene che sulla riflessione teorica di Ejzenstejn non scenda un velo d’oblio. Insieme con Vsevolod Pudovkin, ma a un livello di consapevolezza, preparazione e talento artisti­ co anche maggiore, Sergej M. Ejzenstejn (1898-1948) è sta­ to infatti la punta di diamante del cinema sovietico classico, l’autore che, con La corazzata Potèmkin prima (1925) e poi con le due parti di Ivan il terribile (1942-46), ha segnato la via alla maturazione estetica del cinema, non solo nel suo paese. Questa maturazione è avvenuta per lui di continuo insieme dal lato teorico e da quello pratico, realizzativo. La questione se il linguaggio preceda in Ejzenstejn la teoria o la teoria il linguaggio ci sembra vada oggi risolta pacificamente nel senso che, rappresentando entrambi i lati, sotto tutti i punti di vista, una rottura clamorosa con il passato, la loro genesi è simultanea e l’un lato trova sempre appoggio, confer­ ma e verifica nell’altro. Sono ormai numerose le testimonianze biografiche e auto­ biografiche di cui disponiamo per un riesame della carriera intellettuale di Ejzenstejn. Grazie alle sue memorie, alle sue riflessioni di regista, al testo delle lezioni da lui tenute per molti anni all’istituto cinematografico di Stato di Mosca, è venuto ripetutamente in chiaro, tra l’altro, quanto la sua gran­ dezza artistica sia connessa con la complessità della sua forma­ zione, e con la ricercatezza e la minuziosità che, come artista, egli riponeva nella predisposizione del suo lavoro. In partico­

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lare, sulla base dei suggerimenti e dei consigli che da maestro egli dava ai suoi allievi, delle spiegazioni, degli interventi, dei diagrammi e degli schizzi grafici in cui veniva traducendo l’insegnamento orale (poiché - diceva — «un regista deve esse­ re in grado di fissare in disegni le idee delle sue soluzioni figurative»), è facile individuare nelle lezioni, di là da ogni preoccupazione pedagogica, una coerente linea di ricerca, uti­ lissima a far luce anche sul piano delle idee artistiche, non solo per i continui riferimenti e rapporti istituiti con i film, ma per gli esempi qui e là forniti al fine di una concretizzazione pratica della teoria, di una utilizzazione in concreto dei princì­ pi compositivi. Materiale, dunque, tutto ancor oggi assai prezioso. Il suo valore dal punto di vista del contenuto non deve però far trascurare le ampie riserve che, sotto il profilo filologico, solle­ vano il disordine, la frammentarietà e, nel caso delle lezioni (che si basano sulla trascrizione di passi tratti dai quaderni di appunti del suo allievo Vladimir Niznij), anche il carattere di «inautenticità» con cui esso si offre al lettore. Di qui l’esigen­ za di un riordinamento sistematico degli scritti di Ejzenstejn, avviato a Mosca con la pubblicazione, tra il 1964 e il 1971, di sei volumi di Opere scelte. Anni addietro la cura dell’edizione italiana dei singoli scrit­ ti del regista se l’era sobbarcata Einaudi. Ora, mentre Einaudi ripubblica nella PBE uno dei lavori più noti e importanti di Ejzenstejn in campo teorico, quello sulla «forma» (La forma cinematografica, con pref. di Marco Vallora, Torino 1986), la Marsilio prosegue nel suo piano di edizione delle Opere scelte, prevista in 8 volumi (l’ultimo di indici), e migliorata e arricchi­ ta da testi inediti rispetto all’edizione sovietica. Ne sono finora usciti 2 volumi in 4 tomi e il I tomo del vol. V, tutti a cura dello specialista Pietro Montani: ossia - nell’ordine di pubbli­ cazione - La natura non indifferente (Venezia 1981), Il colore (1982), Teoria generale del montaggio (con un saggio di Fran­ cesco Casetti, 1985), Il montaggio (con un saggio di Jacques Aumont, 1986) e infine La regia. L'arte della messa in scena 10

(1989); cui vanno ancora aggiunte le lezioni edite col titolo L’ottava arte. Scritti 1928-1948, a cura di Edoardo G. Grossi, ETS, Pisa 1988). Tutti sanno che il montaggio svolge una funzione centrale nella teoria di Ejzenstejn. «Determinare l’essenza del montag­ gio», egli sostiene, «significa risolvere il problema del cinema come tale»: sia nel senso puramente tecnico che in quello estetico della questione. Come tecnica, infatti, esso penetra in tutti gli «ordini» dell’opera cinematografica, a partire dal feno­ meno di base del cinema, la singola inquadratura (già «intesa come complesso di montaggio»), tramite il legame delle diver­ se inquadrature fra loro («montaggio vero e proprio»), fino alla totalità compositiva dell’opera cinematografica nel suo in­ sieme. Che cosa caratterizza propriamente il montaggio e, di conseguenza, anche il suo embrione, l’inquadratura? Ejzen­ stejn risponde: «La collisione. Il conflitto tra due pezzi che si trovano l’uno accanto all’altro». Questo principio, che il mon­ taggio sia sempre comunque «conflitto», discende a sua volta dall’assunto che il conflitto sia il «fondamento dell’arte in generale». Si tratta - egli spiega in un saggio del 1929 non compreso nell’edizione moscovita — di una particolare realizza­ zione «in immagine» del materialismo dialettico:

«Fondamento dinamico di questa filosofia è una concezione dinamica delle cose: l’esistente come nascita continua dell’interazio­ ne di due opposte contraddizioni. La sintesi che nasce dalla con­ traddizione di tesi e antitesi. Allo stesso modo questa concezione dinamica è fondamentale per la giusta comprensione dell’arte e di tutte le forme artistiche». Passiamo così dalla funzione tecnica a quella estetica del montaggio, in quanto esso fa — esteticamente — da supporto e struménto primario degli effetti evocativi della costruzione filmica, quali Ejzenstejn viene studiando soprattutto nel volu­ me edito col titolo La natura non indifferente. Il nocciolo problematico del testo, risultante da un accorpamento di scrit­ ti che, pur frammentari e parzialmente incompiuti, privi di

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una vera struttura sistematica, costituiscono egualmente il maggior sforzo teorico dell’ultimo Ejzenstejn, è quello che all’inizio indica l’autore stesso: il problema della rappresenta­ zione e dell’atteggiamento verso il rappresentato. Uno dei mez­ zi di cui dispone l’artista per esprimere questo atteggiamento è la «composizione». Ejzenstejn dice:

«L’atteggiamento nei confronti del rappresentato deve manife­ starsi attraverso il modo in cui viene mostrato ciò che si rappresen­ ta. Si pone così il problema dei metodi e dei mezzi che dovranno servire per elaborare la rappresentazione in modo tale che, insieme al suo che cosa, essa manifesti anche il suo come: come la conside­ ra l’autore e come questi intende che gli spettatori percepiscano, accolgano e comprendano ciò che essa rappresenta». Ora una «composizione autentica» deve sempre essere, per Ejzenstejn, insieme «organica» e «profondamente uma­ na». Da un lato, certo, «la composizione prende gli elementi strutturali del fenomeno rappresentato e con essi determina la legge della costruzione dell’oggetto»; ma dall’altro così facen­ do, «essa trae innanzitutto tali elementi dal comportamento emozionale dell’uomo, il quale comportamento, da parte sua, è legato al vivo sentimento del contenuto dei fenomeni di volta in volta rappresentati». Di qui l’insistenza con cui l’autore batte sull’indispensabile ricerca del «pathos», sulla funzione che in un’opera (a cominciare dalla sua propria) ha l’«effetto patetico dell’insieme». Come spiega adeguatamente soprattut­ to nella IV parte del testo, per «non indifferente», detto della natura, egli intende appunto patetico, «emozionale»: ossia, dal punto di vista dell’estetica, evocativo. In questo senso la sua estetica ha un carattere fortemente antropomorfico, rileva­ to a dovere da Montani nell’introduzione al testo. Non è un caso che anche le pagine dei due tomi sul montaggio siano animate dagli stessi intenti e impregnate da­ gli stessi riferimenti al mondo dell’uomo, alla soggettività. Abbiamo visto infatti che, perché sorga una vera composizio­ ne nel senso dcllartr, una raffigurazione esteticamente valida, I

occorre che essa poggi su fattori emozionali. Al montaggio spetta proprio il compito creativo di conferire un senso alla rappresentazione o di elaborare la rappresentazione a «immagi­ ne», quest’ultima intesa - citiamo di nuovo Fautore - «come una generalizzazione del fenomeno nella sua essenza». «La rappresentazione è nelFinquadratura. L’immagine è nel mon­ taggio», egli asserisce, specificando subito di seguito: «Il mon­ taggio ha una doppia funzione: di rappresentazione narrativa e di immagine ritmicamente generalizzata - sempre che si tratti di un’opera d’arte». Il semplice livello della rappresentazione resta compietamente muto a riguardo dell’essenza dell’uomo, del mondo uma­ no. Solo quando le diverse rappresentazioni sono individuate e scelte, tra tutti i possibili aspetti di un dato tema, in modo tale che la loro correlazione «faccia affiorare nella percezione e nei sensi dello spettatore Vimmagine più completa ed esau­ riente del tema stesso», solo allora il «mondo» ci viene resti­ tuito davvero nella sua profondità; perché solo dall’unificazio­ ne di più rappresentazioni nella coscienza sorge, con l’«immagine», anche il loro senso. «Ciò significa — commenta, riassu­ mendo, Casetti nel saggio premesso alla Teoria generale del montaggio - che in ogni raffigurazione autentica l’oggettività del raffigurato non si dà senza la soggettività del raffigurante: Fimmagine è un’immagine di qualcosa proprio perché manife­ sta l’atteggiamento di chi opera su e attraverso essa». Median­ te il principio costruttivo del montaggio viene così assicurato l’antropomorfismo estetico che sta giustamente tanto a cuore a Ejzenstejn e su cui egli torna ancora nelle conclusioni di questo stesso testo: «L’uomo, il comportamento umano e i rapporti umani non si trovano solo nel soggetto, solo nella rappresentazione. In modo altrettanto stabile l’uomo sta a fondamento dei princìpi e delle regolarità costruttive dell’arte [...]. Il montaggio come metodo di realizzazione dell’unità a partire da tutta la varietà delle parti e delle sfere che compongono l’opera sintetica deve prendere come modello vivo l’integrità dell’uomo ristabilita nella sua pienezza».

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Può darsi che questo genere di umanesimo sia oggi poco alla moda, si accordi male con le tendenze dominanti — anche nell’arte — al cosiddetto postmoderno. Qualche riserva in tal senso avanza lo stesso prefatore al volume sul Montaggio, Jacques Aumont, cui si deve già un’importante monografia in argomento (1979). Ma a noi sembra a torto. Non ci sembra legittimo né giustificato dichiarare - come egli fa — che «Ejzen­ stejn, in parte, appartiene oggi al museo»; e non crediamo ragionevoli i suoi sforzi «per correggere un po’ l’impressione di compattezza suscitata da questa teoria e per descrivere un Ejzenstejn meno irrimediabilmente intrappolato in un sistema datato». Datato il «sistema» di Ejzenstejn, da museo la sua arte? Tutt’altro. Quanto più si fanno avanti in estetica le tendenze alla dissoluzione della forma, tanto più è importante rimeditare e riadditare a modello le teorie che, grazie ai loro saldi princìpi umanistici, vi si oppongono vigorosamente. Per questo si auspicava in apertura, col conforto dell’edizione di cui siamo venuti discorrendo, che sulle teorie di Ejzenstejn non scenda l’oblio.

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II

Chaplin, un umanista in lotta contro i “tempi moderni”

È uno dei compiti più importanti della storiografia marxi­ sta quello di definire con chiarezza la posizione storica occupa­ ta dalle grandi personalità della cultura e dell’arte. Purtroppo non sempre essa adempie adeguatamente a questo compito: o perché le accade di smarrirsi nei meandri di un sociologismo volgare che nulla ha a che fare con gli insegnamenti di Marx, o perché - più spesso - essa va a rimorchio in forma acritica di modelli, paradigmi, suggerimenti ecc. della storiografia borghese. 1. Il caso di Chaplin è altamente indicativo in proposito. Esso si presta meglio di qualsiasi altro alla celebrazione del mito (borghese) della «universalità» dei valori e alla concomi­ tante trasformazione in mito del personaggio stesso creato da Chaplin, il “vagabondo” o la maschera di Chariot. Mai come ultimamente, in occasione della ricorrenza del centenario della nascita del grande attore e regista (1989), si è assistito al rilancio di una tale mitologia stantia, a una tale orgia di cele­ brazioni puramente retoriche, e non tanto — si badi bene — dell’autore quanto piuttosto del personaggio. Come ben sanno gli specialisti, questo genere di celebrazioni va a incanalarsi con frequenza lungo un filone apologetico, che si esprime sia nella forma dell’apologià diretta (la quale si compiace di schiz­ zare l’immagine del personaggio charlottiano come simbolo di purezza e di speranza, inibito nei suoi sogni da una fatalità 15

che lo sovrasta e che lo schiaccia, vittima ora di coincidenze e ora di ingiustizie, ma sempre troppo remissivo, troppo sprovvi­ sto di fronte al mondo per reagire o per porsi sulla difensiva), sia nella forma dell’apologià indiretta (la quale, incontrandosi anche con schemi sociologici di derivazione americana, insiste invece sul tema dell’antagonismo di principio tra individuo e società, sull’incapacità di adattamento del personaggio alle pre­ scrizioni della vita sociale, sulle inquietudini individualistiche e anarchiche che lo dominano), e che perviene sempre comun­ que soltanto, in entrambe le forme, alla falsificazione apologe­ tica delle contraddizioni da cui germina e si sviluppa l’arte di Chaplin. Nella storiografia soggiacente alla pregiudiziale mitologisti­ ca Chariot sta senza Chaplin. Le componenti della presunta autonomia del personaggio, della sua dinamica interna, preval­ gono sulle ideazioni dell’autore, e ogni deviazione da esse viene inevitabilmente presentata come una degradazione, co­ me la contraffazione di un motivo poetico più autentico, più aderente al significato originario del mito. La poesia vi è scambiata con il raggiungimento della massima purezza, la coesione interna del linguaggio con la cosmicità; e proprio la risonanza dei tratti individuali specifici e particolarmente signi­ ficativi della creazione artistica chapliniana vi si disperde nella vacuità di formule come il «tipo astratto» (Chariot come tipo o mito), l’«universale umano» e altre consimili, del tutto isola­ te e avulse dalla mobilità della storia, dal fluire del processo reale: quasi che la genesi e la fisionomia della figura di Char­ iot - per non dire neanche dell’opera chapliniana nel suo complesso - non appartenessero anch’esse alla storia e non avessero una loro storia interna. Vorremmo insistere su questo punto, a nostro parere deci­ sivo. Noi crediamo si debba tenere in maggior conto la condizionatezza storica dello sviluppo: sia dello sviluppo personale di Chaplin come artista, sia anche di quello che, in conseguen­ za del suo proprio, egli imprime alla figura di Chariot come personaggio. La bontà, il tono dimesso, il pessimismo, l’anar­ chismo e in genere tutto quanto la critica borghese apologetica 16

(nell’accezione sia diretta che indiretta) si immagina come sua sostanza e essenza specifica non costituiscono affatto un reale fondamento per Tinterpretazione della personalità di Chaplin, ma ne suggeriscono piuttosto un’immagine parziale, deforma­ ta, scissa da ogni relazione dialettica con la storia, e così gonfiata artificiosamente fino a includere in sé una categoria come quella di «universalità», che svolge una funzione di straordinaria importanza nell’apologià del capitalismo, e che mostra anzi in modo del tutto chiaro - sottolinea il Lukacs dei Prolegomeni a un'estetica marxista - perché, specialmente con la crisi ideologica della borghesia, si determini una decisa affinità tra economia apologetica e idealismo filosofico. Nella sua Estetica Lukàcs respinge l’uso della «categoria confusa e sviarne» dell’«universalmente umano» proprio con l’argomen­ to che, nella teoria come nella pratica, essa «ha per effetto di porre l’umanità in un rapporto di opposizione assoluta, metafisica con le relazioni umane concrete, a cominciare dalla classe e dalla nazione. Considerati, così, come qualcosa di inferiore e di secondario, di cui il pensiero non deve tener conto, questi vincoli e rapporti concreti dell’umanità [...], si determina anche e necessariamente una concezione sbiadita, astratta ed esan­ gue dell’uomo stesso. E anche i conflitti che riempiono la vita degli uomini, e le azioni e i sentimenti che essi provocano, sono elementi essenziali di ogni individualità concreta. Se sono omessi e trascurati, respinti in secondo piano, l’astrattezza dell’'‘universal­ mente umano” diventa ancora maggiore».

Che cosa va perduto nella critica chapliniana con questo suo «orientamento diretto e unilaterale sull’essenza generica dell’uomo»? Vanno perduti - ripetiamo - i tratti specifici, storicamente definiti, della posizione occupata da Chaplin en­ tro il quadro della cultura del nostro tempo (appunto quella posizione che è compito della storiografia marxista ripristinare e sbalzare a tutto rilievo); va perduto il lato più radicalmente critico e battagliero della sua personalità, il senso della sua rivolta contro il capitalismo dei «tempi moderni»; va perduto, 17

in ultima istanza, tutto ciò che concerne e serve a definire la qualità propria della sua arte. Non parliamo qui, si badi, del grado di consapevolezza teorica deirorientamento di Chaplin come artista, questione che è in fondo esteticamente seconda­ ria. Molto più conta il significato immanente all’opera in se stessa, quale risulta dalla sua struttura oggettiva; poiché egli appartiene, al novero di quegli artisti, la cui profondità creati­ va, il cui realismo, risiedono nella capacità di afferrare e rap­ presentare istintivamente, con vera sensibilità artistica, la tra­ ma dei fenomeni, accadimenti, azioni, processi ecc. rivelatori dell’essenza di una certa situazione di vita. Tutta l’evoluzione interna della poetica di Chaplin va com­ presa a partire da questo punto di vista. Decisiva è per essa la modalità dello strutturarsi dei rapporti dell’individuo col suo mondo sociale, la dinamica dei contrasti, scontri, interferenze, influenze che si vengono a determinare reciprocamente tra essi. Dalla capacità di afferrare e rappresentare in forma artisti­ ca questi rapporti, non dalla riproduzione del quotidiano, del­ la media, nasce la grandezza del realismo di Chaplin. Col piatto realismo fotografico di tanta pseudo-arte fissa alla me­ dia esso non ha proprio nulla a che fare. Chiunque può consta­ tare come Chaplin ne sia, in ogni momento del suo sviluppo, le mille miglia lontano; come anzi egli si avvicini tanto più al realismo, alla giusta apprensione e riproduzione dei nessi reali essenziali, quanto più dà libero corso alla fantasia, quanto più lascia che la fantasia si sbrigli in libertà (secondi i mezzi specifici propri dell’arte). Gli spunti narrativi da cui muove il suo cinema, le situazioni comiche e tragiche che ne formano la base o in cui va a sfociare, stanno sempre al di qua o al di là della media. Presi a sé, tutti i singoli fattori componenti del suo cinema, dal canovaccio al tono del racconto, dall’impianto scenografico a quello luministico, al trucco, ai costumi e ai mezzi tecnici impiegati (fondali, trasparenti, mascherini ecc.), tutti denunciano un carattere palesemente artificiale; non pre­ tendono di corrispondere a nulla di reale, non rispecchiano nulla che si dia nella vita. L’intensità del grado di rispecchia­ 18

mento raggiunto si vede da ciò, che i singoli fattori non reali­ stici, questa serie di apparenti non-verità, vengono a comporre nell’unità della finzione formalmente elaborata la verità (arti­ stica) dell’insieme. Tra fantasia (mezzo fantastico) e realismo (esito realistico) non sussiste alcun contrasto di principio; l’una e l’altro non si escludono affatto vicendevolmente.

2. Andavano ricordate queste cose, sebbene notissime, ad­ dirittura ovvie per l’estetica marxista, di fronte al formalismo distorcente e fuorviarne dell’impostazione di tanta critica, che tende a respingerle in secondo piano o a occultarle o a negarle del tutto. L’atteggiamento di riserva verso Chaplin, il rifiuto del suo umanesimo, non passa solo attraverso la via della sconfessione aperta, dell’attacco diretto (come nelle accuse che gli muovono o gli hanno mosse i suoi nemici, i gruppi reazio­ nari maccartisti e fascisti); esso passa altresì per vie più sottili e raffinate, più in accordo con i ritrovati ultimi del formalismo alla moda. Così oggi è di moda lamentarsi, in base a stilemi formalistici, della forma del suo cinema, confrontandolo — a tutto suo svantaggio - col cinema di Keaton: la sua tecnica non sarebbe altrettanto ‘moderna’, la sua scrittura, il suo lin­ guaggio, il suo stile non sarebbero sufficientemente in regola con i canoni prescritti dal formalismo per l’arte del nostro tempo. Eppure, se non si confonde la tecnica con la forma, se si sa guardare — oltre la superficie — alla forma autentica, i risultati sono lì che parlano da soli: sono — o dovrebbero essere - sotto gli occhi di tutti. Già nel primo dopoguerra si fanno avanti con chiarezza i tratti umanistici dell’arte di Chaplin. La sua coerente e corag­ giosa posizione di individualista progressivo lo porta a battersi per la ricerca di un’alternativa alla società esistente, per la conquista di una diversa dignità umana, quantunque sempre concepita e espressa in chiave individualistico-borghese. Polo d’attrazione dei suoi interessi, il mondo borghese è anche il bersaglio principale dei suoi strali. Questa dialettica gli di­ schiude la prospettiva del realismo critico. Per un verso egli 19

condivide con i gruppi libertari e progressisti della cultura americana del primo dopoguerra la lotta per il rafforzamento delle tendenze individualistico-borghesi, in vista della difesa dell’autonomia dell’individuo, del soggetto umano, dall’inuma­ nità oppressiva e manipolatoria del capitalismo; per l’altro, da autentico realista critico, egli si avvale di questa stessa dimen­ sione - l’individualismo — come di uno strumento autodissol­ vente, che si rivolta contro il suo proprio contenuto, dissolve ironicamente la materia sociale su cui si fonda e può mettere così a nudo, dietro l’ipocrisia e la falsa dignità dei comporta­ menti, i sordidi interessi in giuoco nella società borghese. Si pensi a quelle satire spietate del militarismo, del conformismo sociale e del puritanesimo americano che sono, rispettivamen­ te, Shoulder Arms (Chariot soldato, 1918), The Kid (Il monel­ lo, 1921) e The Pilgrim (Il pellegrino, 1923); si pensi soprat­ tutto al capolavoro del Chaplin del periodo muto, The Gold Rush (La febbre dell’oro, 1925), satira del clima di euforia e prosperità che si accompagna al boom economico determinato­ si negli Stati Uniti sotto la presidenza Coolidge. Lungi dall’essere un manifesto di sentimentalismo, La feb­ bre dell'oro si presenta piuttosto come un’illustrazione precisa e impressionante, alla Balzac, delle conseguenze dell’arrivismo senza princìpi della società capitalistica. La satira prevale qui dunque di gran lunga sulla forma idilliaco-elegiaca. Ma se il film va ben oltre il livello delle satire precedenti è perché vi fa la sua comparsa, per la prima volta nel cinema di Chaplin (con buona pace di chi ne esalta l’«universalità»), il paradigma della forza inumana e distruttiva del capitalismo concorrenzia­ le. L’«impresa d’affari» appare a Chaplin, non meno che a un sociologo come Thorstein Veblen o al Dreiser della prima metà degli anni TO (The Financier, The Titan), ma ora senza più l’aura fatalistica di Dreiser, come predatoria, come crimina­ le. Guidato dal suo infallibile istinto di realista, egli coglie nel boom economico del momento e nell’emotività che lo accompa­ gna un nodo di rilevanza essenziale per la rappresentazione artistica, e lo traduce in rappresentazione dandogli, conforme­

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mente ai suoi mezzi, veste comico-drammatica. Commedia e dramma, realismo e favola, si congiungono strettamente nella verità artistica della Febbre dell'oro. Come ai grandi realisti classici, a Chaplin riesce qui - per la prima volta in forma così compiuta — di concentrare in un punto la tipicità della realtà, in modo che con l’illuminazione di quel punto si illumini l’intero campo della realtà indagata. Una fase nuova si apre per il suo cinema all’altezza della “grande crisi” economica del ’29. Dopo il tracollo verificatosi con la crisi, la difesa oltranzista del principio dell’individuali­ smo, della «filosofia della libertà individuale», quale l’ex-presidente Hoover va perseguendo contro il New Deal, perde ogni connotazione progressiva, ogni credibilità, e si rivela storica­ mente anacronistica. Chaplin, il quale, come sappiamo, si era mosso fin lì anche lui all’insegna dell’individualismo progressi­ vo, rifiuta un aut-aut del genere di quello proposto dal pam­ phlet di Hoover, The Challenge to Liberty (1935): «Libertà o dominio governativo». Lo spirito del New Deal muta comple­ tamente, ai suoi occhi, i termini del problema. Egli non vede affatto nella democrazia, come Hoover, un pericolo per la libertà; simpatizza anzi subito con le iniziative del governo, con gli energici e coraggiosi provvedimenti di Roosevelt che inaugurano la politica del New Deal; e opera per suo conto in modo da conferire alle vicende artistiche ideate, ai conflitti ritratti e, non da ultimo, al personaggio stesso da lui interpre­ tato una tragicità nuova, corrispondente da un lato, oggettiva­ mente, alla tragedia economica dell’America e alla gravità dei problemi sociali del capitalismo venuti in luce con la ‘‘crisi”, e dall’altro, soggettivamente, alle sue proprie inclinazioni perso­ nali progressiste, alla sua scelta di campo per la democrazia. II tema di maggior conto che emerge dai film realizzati durante la “grande crisi” è quello dell’instabilità delle condi­ zioni umane di vita prodotte dal capitalismo. Se già su The Circus (Il circo, 1928) incombe un’aura minacciosa di prossi­ ma tragedia, un clima spirituale di pessimismo e di sfiducia, la situazione oggettiva che Chaplin ritrae (tra l’altro, mediante la 21

sapiente messa a contrasto di una serie di dettagli socialmente significativi: la semplicità del mondo degli sfruttati versus l’ar­ roganza, la prepotenza, l’alterigia del comportamento dei ric­ chi) si aggrava ancora nei film successivi: in City Lights (Le luci della città, 1931) e in Modem Limes (Tempi moderni, 1936). Ci sembra particolarmente significativo che autorevoli conoscitori della storia degli Stati Uniti possano veder riflessi nel cinema chapliniano del decennio ’3O-’4O tutti o quasi tutti i corrispondenti problemi sociali, da quelli che già Engels T^Antidùhring caratterizzava come propri di ogni formazio­ ne economica capitalistica sviluppata (accorpamento della pro­ duzione, macchinismo, disoccupazione ecc.) fino all’estrema alienazione del lavoro di fabbrica, alle rivolte operaie, alla miseria delle metropoli, al fenomeno delle Hoovervilles e, in The Great Dictator (Il dittatore, 1940), anche ai problemi della libertà personale, della tolleranza e della democrazia: con la conseguenza che il destino dell’individuo risulta ora determinato nel modo più stretto dal suo intreccio con la vita sociale. Ora infatti le situazioni comiche, le concatenazioni di comico e tragico, che portano in più di un caso il comico a convertirsi nel suo contrario e a sfociare, oltre la maschera ideata da Chaplin, nella tragedia della vita (secondo uno sche­ ma prossimo a diventare tipico del suo cinema del secondo dopoguerra), scaturiscono tutte senza eccezione dal contenuto stesso della materia che sta a fondamento dell’azione, ossia dalle difficoltà economico-sociali del capitalismo della “crisi”, dalle contraddizioni (capitalistiche) dei “tempi moderni”. Pur tra limiti e squilibri, questa fase mostra in Chaplin un grado di coerenza tanto più apprezzabile in quanto sconosciuta an­ che ai migliori esponenti della cultura del New Deal. 3. Non possiamo qui purtroppo diffonderci minutamente su quelle ulteriori modalità interne di sviluppo del cinema di Chaplin che, sempre in piena coerenza col passato, lo conduco­ no sino agli sbocchi del secondo dopoguerra: quando, dopo la svolta coraggiosa ma ancora irrisolta e contraddittoria del

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Dittatore, egli sa raggiungere con Monsieur Verdoux (1947), Limelight (Luci della ribalta, 1952) e A King in New York (Un re a New York, 1957) traguardi di grandezza ineguagliata — ancorché essi stessi ineguali tra loro per forma e valore - nel campo del realismo critico. Bastino solo pochi cenni orientati­ vi. Caratteristico del Chaplin del secondo dopoguerra è il riemergere, a un diverso e più alto livello di consapevolezza, dell’attenzione per quella problematicità della vita umana en­ tro le contraddizioni insanabili del capitalismo, per quei feno­ meni capitalistici di squilibrio tra individuo e società, che gli si erano imposti come centrali fin dall’epoca della Febbre del­ l’oro. Solo che, con la minaccia portata alla democrazia dalla barbarie del fascismo, con gli sconvolgimenti bellici e postbelli­ ci, con l’avvento della guerra fredda, col maccartismo, con l’acuirsi della tensione in campo intemazionale, entra ora defi­ nitivamente in crisi, anche dal punto di vista della consapevo­ lezza soggettiva dell’autore, la mitica, idealizzata immagine dell’uomo medio in lotta per l’affermazione di una sorta di democrazia ‘spirituale’ che egli si era portato dietro a lungo, e a cui si era troppo disinvoltamente affidato durante il periodo della “grande crisi” (sino al Dittatore incluso). Di qui la giusti­ ficata decisione di sbarazzarsi anche della figura esteriore della maschera charlottiana, rimasta ormai poco più che una sempli­ ce sopravvivenza. In luogo di essa e dei gag a essa legati, concresciuti con essa (certo ormai ben oltre lo slapstick primiti­ vo), subentra formalmente qualcosa di molto più complesso: una mescolanza sui generis di tragedia e commedia, una pecu­ liare unità di comico e tragico. Questo interscambio di forme non rappresenta d’altronde per Chaplin una novità senza precedenti. Come si è visto, già nella Febbre dell’oro comico e tragico tendono a fondersi o confondersi l’un l’altro, perdendo ogni rigidezza di confini, ogni assolutezza reciprocamente esclusiva; elementi di forte rilievo drammatico, se non addirittura tragico, affiorano altret­ tanto entro l’intelaiatura comica del Circo-, tutte le sue creazio­ ni comiche del periodo della “grande crisi” sono permeate da 23

un vivo senso della tragedia, che esplode poi con forza nel Dittatore; infine, dal secondo dopoguerra, le qualità eminente­ mente drammatiche e tragiche che sottendono la sua opera divengono così palesi da non poter più riuscire dubbie a nessu­ no. Il comico - il comico puro — continua certo ancora a figurarvi, ma in subordine, come elemento di secondo piano; esso svolge solo più una funzione integrativa, di accompagna­ mento, sottolineatura, inversione, contrappunto ecc. del tema dominante. Così nel Verdoux la solitudine del protagonista ha — come quella di certi personaggi di Thomas Mann, a es. il cavaliere d’industria Felix Krull (simile a Verdoux per questo, che entrambi fanno del crimine una prosperosa industria al­ l’ombra della rispettabilità borghese) — contrassegni non meno umoristici che tragici. Proprio lo scambio reciproco di comico e tragico, il trapassare continuo dell’uno nell’altro, e viceversa, ne definisce la forma; e qualcosa di simile accade, mutatis mutandis, anche in Luci della ribalta e Un re a New York. Il realismo chapliniano si afferma ora in tutta la sua poten­ za. Questa conquista rappresenta l’esito ultimo di un processo lungo, intricato, composito, le cui radici - così ideologiche come formali - affondano nel terreno della poetica che siamo venuti sopra illustrando: incessante volontà di confronto con i problemi della realtà sociale, sforzo per congiungere in un tutto - artisticamente configurato — il destino dell’individuo con quello della società. Certo, se si rimane alla superficie, l’insieme dei motivi tematici e formali orchestrati da Chaplin nel secondo dopoguerra può sembrare privo di intima unità: sconnesso, desultorio, scarsamente omogeneo, se non addirittu­ ra del tutto anacronistico. È apparso e appare a molti come se non sussistesse in lui sintonia col procedere della storia. Gli si sono così rimproverati, di volta in volta, ritardi e «sfasature storiche», discontinuità e compiacenze sentimentali, retorica e ideologismo astratto; lo si è accusato - molto a torto — di stanchezza, di passatismo, di abbandono o tradimento del filo­ ne più autentico della sua vena creativa. E può darsi, ripetia­ mo, che in superficie appaia così. Senonché la grandezza arti­

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stica di un autentico realista non sta mai, per definizione, in superfìcie; essa giace a uno strato più profondo: si manifesta nel raccordo che, permette, tramite la capacità evocativa della forma, con l’autocoscienza dell’umanità, ossia con i problemi, per l’uomo decisivi, emergenti dal flusso storico generale della realtà (della società). «Grandezza artistica, realismo autentico e umanesimo sono indissolubilmente uniti», dice e ribadisce in continuazione Lukàcs. Se il Chaplin del secondo dopoguer­ ra giganteggia come un campione del realismo, è proprio per­ ché trova geniale prosecuzione in lui quell’istanza del moder­ no realismo critico borghese in cui si esprime (secondo un’al­ tra definizione di Lukàcs) la «rivolta umanistica contro l’impe­ rialismo», la difesa della «integrità dell’uomo» dalle deforma­ zioni della vita capitalistica. Attraverso la congerie dei perso­ naggi, dei tipi, vengono di volta in volta messe in campo con vigore, per via indiretta, le forze storiche essenziali che giaccio­ no al fondo del movimento e dei conflitti della realtà sociale. Retorica, sentimentalismo ecc., lungi dall’essere compiacenze, sono piuttosto il mezzo - o uno dei mezzi - che Chaplin utilizza in vista del fine di rispecchiare e portare a espressione artistica i grandi problemi, le grandi contraddizioni storico-uni­ versali del suo tempo. In questo senso Luci della ribalta segna, oltre il Verdoux (dove pure il carattere spietato dei rapporti di vita del capitali­ smo viene colto e denunciato con straordinaria chiarezza ideologico-artistica, rara anche per Chaplin), il suo punto di appro­ do più compiuto e maturo. Dimessa ormai ogni illusione circa la possibilità di libera autodeterminazione e autofruizione del­ la personalità dell’individuo e circa la sua pretesa di trascende­ re la società, la storia, Chaplin lega in stretta unità destino individuale e universale; passa da una considerazione indivi­ dualistica, e perciò in qualche misura ancora astratta, dei rap­ porti umani a una visione incentrata sul tentativo di raffigura­ re la totalità intensiva degli stessi, come quelli che formano — socialmente e storicamente — un mobile intreccio dialettico. Il sentimento di solidarietà che si esprimeva un tempo, dal Mo­

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nello in poi, sotto forma di compartecipazione umana, di colla­ borazione individuale, e il principio democratico enunciato con enfasi nel finale del Dittatore si trovano qui concretamen­ te congiunti in virtù del significato complessivo che scaturisce dalla risultante dell’intreccio dei destini assegnati ai singoli personaggi, senza più traccia alcuna di velleitarismo, sentimen­ talismo astratto o utopismo enfatico. Umanesimo e democra­ zia fanno ormai tutt’uno con il riconoscimento dell’oggettività del divenire storico.

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Ill

I risvolti della tecnica chapliniana del gag

Non è intento del presente scritto illustrare in dettaglio la fenomenologia — men che meno esaurire la tipologia — delle forme del gag ricorrenti in Chaplin. La loro ricchezza, la loro varietà, la loro profondità (nel senso della loro capacità di incidere in profondo) sono nella letteratura critica fuori discus­ sióne; ogni buona monografia su Chaplin, ogni saggio che lo riguardi, anzi persino i capitoli a lui relativi di qualsiasi storia del cinema, vi si richiamano come a un punto che testimonia del talento e delle grandi doti artistiche dell’autore. Tra gli aspetti senza dubbio più caratteristici e incisivi del suo metodo creativo, almeno a partire dal periodo Mutual, rientra la cura che egli si prende di bilanciare sempre lo svolgi­ mento narrativo con un’adeguata articolazione delle sequenze comiche e, reciprocamente, di incardinare le singole sequenze comiche sull’asse di una struttura narrativa a esse il più possi­ bile confacente. Solo entro questo contesto ha luogo la costru­ zione del comico, lo specifico fenomeno del prodursi del gag: sia quando la sua dinamica si incentra intorno alla presenza spazio-figurale della ‘maschera’ di Chariot, sia quando, a un più elevato grado di sviluppo del cinema chapliniano, col tra­ passo della ‘maschera’ a personaggio, viene correlativamente arricchendosi la complessità dei nessi costitutivi della trovata comica. Poniamo qualche esempio dei due tipi di gag ricorda­ ti. Sono del primo tipo i gag che ci vengono incontro e fanno bella e ostentata mostra di sé in tanti luoghi celebri del Cha27

plin del periodo slapstick, da Mabel's Married Life (sequenza del manichino semovente) fino a Behind the Screen (Chariot in lotta con il congegno meccanico di una botola); o ancora quelli presenti nelle sequenze introduttive di The Tramp (dove il vagabondo è semi travolto da due auto che si incrociano in senso opposto) e di The Immigrant (dove vediamo il vagabon­ do di spalle, riverso sulla balaustra della nave che lo porta negli Stati Uniti; dai suoi sussulti si sarebbe indotti a pensare a un mal di mare; in realtà egli sta solo pescando). Al secondo genere di comicità appartengono invece quei gag o gruppi di gag più complessi, elaborati pressappoco a partire dal biennio 1917-18 (lo stesso The Immigrant, The Adventurer, A Dog's Life), dove, in sequenze come, a esempio, lo sbarco degli emigranti, gli emigranti alle prese con il problema della fame, le traversie di Chariot al tabarin ecc.. si intrawedono in filigra­ na, dietro il meccanismo degli incidenti esteriori, i rapporti di forza esistenti tra le classi della società. Entrambi questi ordini di procedimenti comici lasciano trasparire una grande padronanza del mezzo, una straordinaria maestria tecnica. Nessuno lo ha messo in luce meglio di André Bazin; e che questa «tecnica del gag», per la sua finezza, meriti da sola uno studio sistematico, è cosa su cui - ritengo tutta la critica, quale che sia il suo orientamento, sarebbe senz’altro diposta a convenire con lui. In uno studio accolto nel I volume di Qu’est-ce que le cinema"? (e poi ancora nel Chaplin curato da Eric Rohmer) Bazin dice:

«Benché formato alla scuola del music-hall, Chariot ne ha purificato la comicità rifiutandole ogni compiacenza nei confronti del pubblico. La sua esigenza di semplicità e di efficacia è tutta diretta verso la chiarezza il più possibile ellittica del gag [...]. Chaplin aveva bisogno dei mezzi del cinema per liberare al massi­ mo la comicità dalle servitù dello spazio e del tempo imposte dal palcoscenico o dalla pista del circo. Grazie alla macchina da presa, potendo Involuzione delleffetto comico essere presentata in tutta la sua lunghezza con la più grande chiarezza, non solo non c’è più bisogno di gonfiarlo perché tutta la sala lo capisca, ma si può

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anche al contrario affinare il gag aH’estremo, limare e assottigliare gli ingranaggi per fame un meccanismo di alta precisione capace di rispondere immediatamente alle molle più delicate».

Tutti rilievi in sé molto giusti. Solo che per «tecnica del gag» non si ha da intendere qui, secondo quanto di solito accade presso la trattatistica specifica in argomento, qualcosa di puramente tecnico, un «meccanismo di alta precisione», bensì - come cercherò di far vedere subito - un centro nevral­ gico della questione estetica della forma; Bazin stesso ne sem­ bra consapevole, se di seguito al passo sulla «tecnica del gag» ammette che questa giunge in Chaplin «a una specie di perfe­ zione limite, a una densità suprema dello stile». Non ci si può affano accontentare di una spiegazione mera­ mente tecnicistica delle conquiste comiche di Chaplin. Essa sarebbe superficiale e riduttiva; non meno superficiale e ridut­ tiva dell’altra, di segno a prima vista opposto, ma in realtà convergente con essa, che, ricorrendo al grimaldello della fan­ tasia soggettiva o della genialità dell’autore, sublima idealistica­ mente le sue conquiste nell’atmosfera eterea di un supposto regno trascendente intemporale, togliendo loro ogni connota­ zione storica. La metodologia e la prassi critica dei classici del marxismo, nonché le teorie sviluppate, in base ai loro princìpi, dai marxisti del nostro secolo (in prima fila Gramsci e Lu­ kàcs), ci hanno insegnato ad andare più in profondo nella comprensione storica e estetica dei prodotti d’arte; a non ac­ contentarci della loro tecnica o dei loro meccanismi di superfi­ cie (per quanto geniali); a sondare, di là da essi, in che modo e per qual via essi sorgano, e come, tramite la loro mediazio­ ne, vengano artisticamente rispecchiate più ampie cerehie di rapporti umani. Così, a esempio, in riferimento a Thomas iMann (un autore la cui consonanza di idee con quelle del Chaplin maturo è documentata e rilevabile sotto molti aspet­ ti), Lukàcs ha svelato magistralmente le basi ideologiche, i «sostrati», che si nascondono dietro il «giocoso» di un roman­ zo come Le confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull. 29

Qualcosa di simile dobbiamo cercar di fare noi per il comico di Chaplin. Se accettiamo il presupposto - apparente­ mente ovvio — che ogni creazione d’arte ha la sua storia, allora il chiarimento delle circostanze nelle quali essa viene alla luce, delle sue fonti, del suo retroterra sociale e culturale, tocca l’essenza dell’arte stessa; e scavare criticamente in quel retro­ terra, indagarne la storicità, diviene un compito necessario, pregiudiziale a qualsiasi analisi stilistica o alla formulazione di qualsiasi apprezzamento di merito. Mi riferisco qui segnatamente a una duplice accezione del termine ‘storicità’. In primo luogo, a quella storicità che - come ricordavo ora - è per sua essenza immanente a ogni opera d’arte (sebbene troppo spesso essa venga dimenticata o consapevolmente oscurata dalla criti­ ca a matrice idealistico-formalistica), ossia, nella fattispecie concreta, al nesso che lega l’opera di Chaplin al mondo sociale del suo tempo; in secondo luogo, alla storicità nel senso della presenza di uno sviluppo storico interno all’opera chapliniana, del suo scandirsi per tappe o periodi o momenti tra loro formalmente diversi. Sotto questo profilo appare insostenibile la pretesa avanza­ ta dell’apologetica borghese (ma anche da studiosi seri come Jacobs e Kracauer, dal sovietico Bleiman ecc.) di fissare una volte per sempre nell’immagine statica di Chariot come ‘vaga­ bondo’, nella sua presunta «universalità umana», l’essenza del­ la creazione chapliniana. Poiché storicamente non esiste in Chaplin un personaggio come tipo fisso. Il personaggio si modifica col modificarsi, correggersi, dilatarsi e approfondirsi del mondo artistico di cui esso fa parte; sicché le determinazio­ ni concrete, i tratti concreti che lo definiscono, riflettono nella loro mobilità la mobilità stessa della concezione dell’autore, le caratteristiche storicamente specifiche via via da essa assunte nelle sue diverse fasi di svolgimento. Ne derivano naturalmente conseguenze decisive anche per l’intelligenza del significato e del funzionamento della «tecnica del gag» (nell’accezione vista). Se teniamo presente la strettis­ sima corrispondenza esistente in Chaplin tra evoluzione temati­ 30

ca e formale, tale per cui, via via che si amplia e dilata Tuna, anche l’altra si trasforma, lasciando venire a manifestazione dall’interno il mutamento dei suoi princìpi compositivi, allora si comprende come la «tecnica del gag» costituisca uno dei nodi e, insieme, dei sintomi più rilevanti di questa evoluzione complessiva della forma; e come la mobilità, il carattere non statico ma dinamico della struttura formale cui i gag inerisco­ no incida direttamente sui gag stessi, riadattandoli ogni volta di nuovo al suo proprio cangiamento interno. Sorgono così, per ogni singola fase di evoluzione del cinema chapliniano, classi o tipi diversi di gag, sebbene essi non siano quasi mai patrimonio esclusivo di una sola fase, ma si ritrovino - spesso con modifiche importanti — anche in fasi ulteriori. Si può in questo senso parlare di una sorta di dialettica della tipologia del comico: ossia della continua ripresa, da parte di Chaplin, di spunti comici del passato (taluni dei quali aventi la loro lontana origine addirittura nel music-hall di Fred Kamo), uti­ lizzati all’interno di sempre nuovi e diversi contesti; o inversa­ mente, se si guarda la cosa a posteriori, dell’anticipazione o prefigurazione giovanile di gag che si ripresentano o trovano nuovo impiego in seguito. Non inganni l’apparenza del carattere meramente ripetiti­ vo di certi gag. La dialettica della tipologia del comico implica come necessaria conseguenza anche una dialettica di continui­ tà e discontinuità delle relative soluzioni formali. Che infatti le linee portanti della «tecnica del gag» si siano già compiutamente definite in Chaplin nel corso del suo periodo interme­ dio giovanile non significa in alcun modo - come crede, a torto, anche molta storiografia contemporanea - che la sua ricchezza inventiva, la sua vena di creatore ecc. si esauriscano definitivamente lì. Per via della struttura interna continuamen­ te mobile del suo cinema, la ripetizione o la ripresa in esso degli stessi gag, il riprodursi dello stesso meccanismo comico, il ritorno delle stesse costanti formali non conducono sempre necessariamente allo stesso risultato, né tanto meno ottengono sempre lo stesso esito espressivo. Quest’ultimo varia in ragio­ 31

ne diretta dell’adeguarsi del gag alla mobilità della struttura, del suo grado di integrazione formale con essa; poiché non resta certo senza influsso sull’essenza del gag, sulla sua natura propria come sul suo funzionamento e la sua relazione al contesto, la specificità storica dipendente dalla circostanza se Chaplin abbia già o meno artisticamente maturato il senso complessivo della realtà che lo ingloba e da cui esso, in ultima istanza, si produce. Proprio questo, anzi, è il motivo che confe­ risce tanto rilievo alla questione dell’evoluzione della forma nel suo cinema. Fin qui sul piano della teoria, ossia della fissazione di semplici princìpi o criteri interpretativi generalissimi. Se però ora, riconosciuta l’esistenza di un aggancio imprescindibile tra costruzione del comico e evoluzione formale, vogliamo che la nostra discussione sulla «tecnica del gag» abbia una base concreta, bisogna che dalle indicazioni teoriche passiamo a quelle direttamente pratiche: che sottoponiamo cioè a control­ lo e verifica, se, come e in qual rapporto con la mobilità del retroterra sociale e strutturale del cinema di Chaplin quella ‘teoria’ vi si trovi poi concretamente applicata. (Va da sé che questo nesso gerarchico di momenti riguarda solo l’esposizio­ ne critica; di fatto, nell’analisi, è dalla prassi creativa che si genera la teoria). L’esemplificazione cui farò ricorso sarà, di nuovo, sintetica e contenuta al massimo; nell’impossibilità di scendere qui a una casistica dettagliata, mi soffermerò solo su quei tratti, quei luoghi, quei momenti che riflettono e fissano aspetti di volta in volta significativi della concezione chaplinia­ na del comico, oppure ne indicano reali punti di svolta. Valga in generale uno schema storico di sviluppo dell’ope­ ra chapliniana articolato nei seguenti quattro momenti: 1) short-stories in cui fulcro della vicenda è un gag solo o una serie slegata di gag, e in cui quindi la struttura formale (comi­ ca) complessiva tende a identificarsi col gag stesso o, rispetti­ vamente, con la serie dei gag; 2) short-stories elaborate a rac­ conto, in cui il gag viene intrecciandosi con altri gag e viene sviluppandosi, a partire da uno o più centri, secondo precisi 32

moduli spazio-temporali; 3) concretizzazione storico-sociale dei gag nei mediometraggi, in rapporto alla dilatazione dei tempi esterni e interni del racconto e alla trasformazione della ‘maschera’ di Chariot in personaggio vero e proprio; 4) passag­ gio definitivo e conclusivo alla forma del lungometraggio, ca­ ratterizzato da un processo di sempre più decisa integrazione del gag entro la struttura formale (comica o comico-drammati­ ca) complessiva e, tendenzialmente, dal ridimensionamento del suo valore in quanto autonomo. Basta un confronto tra gli estremi di questo arco di svilup­ po per rendersi conto del peso delle trasformazioni intervenu­ te. Solo poco per volta Chaplin si eleva dal basso grado di elaborazione artistica del gag nei cortometraggi della fase slap­ stick sino a costruzioni filmiche artisticamente consistenti. Ca­ rattere primario del gag degli inizi è la sua assolutezza. Assolu­ to esso appare, tra l’altro, nel senso che risulta quasi sempre slegato da ogni riferimento concreto al contenuto della comica cui appartiene; esso poggia ancora solo su se stesso e fa parte a sé; è ogni volta frutto, per così dire, della casualità dell’zTzventio. Qui Chaplin non tiene in alcuna considerazione, o perde completamente di vista, il problema formale della desti­ nazione del gag, della sua congruenza con l’unità dell’insieme. Pur essendosi già impratichito della tecnica, egli non è perve­ nuto ancora all’elaborazione di una forma filmica adeguata, o comunque non controlla e non domina ancora la forma sino in fondo; cosicché nei suoi lavori non si dà propriamente altra unità, dal punto di vista formale, che quella volta per volta prodotta dai singoli gag. Fino a quando Vinventio, priva di un supporto strutturale organico, procede a casaccio, e sull’unità prevale la disarticolazione comica, è inevitabile che la comicità si affidi solo all’estro mimico di Chaplin, al suo geniale talento di improvvisatore; e che quest’ultimo non possa a sua volta rivelarsi che nella creazione di gag rapsodici, estemporanei, occasionali. Il cinema chapliniano del periodo slapstick conserva gran parte dell’artificialità meccanica e dell’andazzo standard da 33

repertorio, ereditati dallo slapstick della produzione immediata­ mente precedente, in particolare da Mack Sennett. Come prete­ sti comici esso esibisce motivi ispirati in larga misura o attinti direttamente al patrimonio sennettiano, e che mostrano quan­ to Chaplin - nonostante i progressi realizzati nel padroneggiamento della tecnica e dello stile (funzionalità degli ‘attacchi1, studiato ingresso in campo dei personaggi, cura per il taglio e i nessi tecnico-figurali tra le inquadrature) - sia ancora succu­ bo del peso della tradizione, invischiato dai suoi condiziona­ menti. Correlativamente, nella misura in cui il mondo comico che egli crea si compone in prevalenza - pur senza mai esaurirvisi — di un ammasso di stereotipi convenzionali, la forza della sua comicità non si misura ancora col reale; non viene ancora a scontrarsi frontalmente con i problemi della società capitali­ stica; non viene chiamata ancora a penetrarne e smascherarne artisticamente le contraddizioni. Si potrebbe parlare al massi­ mo, per questo periodo, della presenza di spunti critici antica­ pitalistici indiretti, di un realismo meccanico, automatico, sti­ lizzato. Il principio - ineliminabile dallo slapstick - dell’automatismo, cioè della reazione automatica dei personaggi a ogni sollecitazione proveniente dall’esterno (si pensi al meccanismo delle torte in faccia), questo principio pesa fin qui negativamente, facendo risentire i suoi effetti negativi tanto sulla co­ struzione dell’insieme quanto, e ancor più, sulle sequenze sin­ gole e i singoli gag; non a caso, d’altronde, gli scadimenti di livello, i cedimenti alla tradizione e alla routine coincidono proprio con i momenti di maggior precipitazione esteriore degli avvenimenti e con l’ansia deU’accumulo di effetti pura­ mente slapstick. Così questa posizione di preminenza occupata dal gag nel contesto, questa sua assolutezza, compromette il raggiungimen­ to della compiutezza della forma. Si creano, per un verso, scompensi nell’equilibrio tra forma e gag, che rendono instabi­ le la forma stessa; per l’altro, rimangono allo stato informe anche i singoli gag, poiché l’improvvisazione, l’estemporaneità delle trovate, le trovate stesse non sono ancora ‘comiche’ in

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senso specificamente estetico. Esse lo divengono solo quando lo slapstick poggiante sul principio dell’automatismo viene po­ co per volta corretto, ritoccato, smussato, disciplinato dall’in­ terno, e il caos iniziale della forma, provocato dall’assolutezza dei gag (ciascuno dei quali indifferente nei riguadi degli altri), lascia il posto a una forma in cui i gag vengono articolandosi e organizzandosi sia in se stessi che nel loro rapporto contestua­ le alla story. Via via che la struttura formale dell’opera chapliniana si rinsalda, acquista così in vigore e compattezza anche la qualità artistica delle sequenze comiche. (Si metta solo a confronto la diversa riuscita di due serie analoghe di gag come quelle conte­ nute nelle sequenze al ristorante, rispettivamente, di The Rink e The Immigrant.) Di più: la vis comica degli incidenti che coinvolgono il personaggio cambia di grado a seconda della maturazione del personaggio stesso. Ci sono gag il cui senso viene illuminato solo dalla loro appartenenza a un contesto che presuppone come già avvenuta questa maturazione. Gag del genere di quelli che figurano nei film del periodo Mutual (da Easy Street a The Adventurer) sarebbero del tutto impensa­ bili nel primo periodo slapstick', per esplicare le loro potenziali­ tà sino in fondo, essi esigono infatti - come ricordavo sopra che la ‘maschera’ di Chariot sia già maturata a personaggio, si sia arricchita di determinazioni che la connotano socialmente, abbia insomma assunto una sua precisa significazione in seno al contesto. Altrettanto può dirsi, rispetto al periodo Mutual, per i gag sorti in prosieguo, nel primo dopoguerra, dall’osservazione e dalla critica della way of life del common man, e suggeriti ideologicamente dalla particolare posizione ideologica di Cha­ plin in questo periodo, dal suo muoversi all’insegna dell’individualismo borghese. Egli sembra ora come bilanciarsi tra due estremi, attratto e conquistato sempre di nuovo proprio da ciò che, nell’essenza, più lo respinge, proprio da ciò che istintiva­ mente egli rifiuta: la pseudo-dignità del mondo borghese. Po­ lo d’attrazione dei suoi interessi, essa è anche il bersaglio

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principale dei suoi strali. Questa dialettica gli dischiude la prospettiva del realismo critico. Per un verso, egli condivide con i gruppi libertari e progressisti della cultura americana la lotta per il rafforzamento delle tendenze individualistico-borghesi, in vista della difesa dell’autonomia dell’individuo, del soggetto umano, dall’inumanità oppressiva e manipolatoria del capitalismo; per l’altro, da autentico realista critico, egli si avvale di questa stessa dimensione — l’individualismo - come di uno strumento autodissolvente, che si rivolta contro il suo proprio contenuto, dissolve ironicamente la materia sociale su cui si fonda e può mettere così a nudo, dietro l’ipocrisia o la falsa dignità dei comportamenti, i sordidi interessi in giuoco nella società borghese. Sotto questo punto di vista, film come A Dog's Life, The Kid, The Pilgrim inaugurano un genere di comicità qualitativamente nuovo. Analogo discorso andrebbe fatto per i gag ancora posteriori, quelli della disillusione e del pessimismo sorti negli anni intorno al periodo della “grande crisi” (crack di Wall Street); si pensi solo al genere di comicità - fondato sul motivo dello stato di insicurezza generale dell’uo­ mo nel capitalismo - predominante in film come The Circus, City Lights, Modem Times. La stessa comparsa del tragico entro la struttura comica e il processo dell’integrarsi e saldarsi in unità sempre più stretta di comico e tragico, sino all’esito dei capolavori del secondo dopoguerra (Monsieur Verdoux, Limelight, A King in New York), costituiscono un momento particolarmente significativo dell’evoluzione strutturale del­ l’opera di Chaplin. Qui trova la sua manifestazione e il suo campo d’azione più evidente quella dialettica della tipologia del comico di cui ho spiegato sopra il significato. Nel suo volume dal titolo The Comic Mind il critico statunitense Gerald Mast fornisce un’am­ pia casistica illustrativa del rapporto di continuità e discontinui­ tà che si manifesta in Chaplin dal punto di vista della «tecnica del gag», mostrando come nei suoi film maturi tornino — ma plasmati di bel nuovo - temi, ambientazioni e situazioni dei cortometraggi. Egli riassume la questione come segue: 36

«Molti dei suoi film più tardi ritornano ai temi, alle ambienta­ zioni e alle situazioni da Chaplin sviluppati originariamente nei cortometraggi; molti gag sono identici a quelli del primo periodo. Eppure ciò che colpisce in queste ripetizioni è che, come avviene con i motivi che ricorrono nelle comiche Mutual, essi appaiono freschi, completamente integrati nel, e plasmati dal, contesto del nuovo materiale».

Non si tratta qui certo di ripetizioni o riprese accidentali. Tanto più che agli esempi addotti da Mast, e desunti principal­ mente da tre lungometraggi, City Lights, Modem Times e Li­ melight (come significativi luoghi di ritorno e coagulo di tanti topoi primitivi), non sarebbe difficile aggiungerne altri, ricer­ candoli in specie tra i gag che debbono la loro origine alla particolare effervescenza della genialità creativa di Chaplin nel periodo Mutual e in quello First National. Così The Vagabond concentra in una sola sequenza due gag che, arricchiti, riap­ paiono poi, ciascuno a sé, in due film successivi (il suonatore di violino che, mentre suona, finisce col violino in mano nella tinozza: gag ripreso, in chiave comico-drammatica, nel finale di Limelight, quando Cai vero si incastra nel tamburo; e la ragazza che lava i panni al ritmo della melodia del violinista, come poi, in The Great Dictator, il barbiere ebreo raderà un cliente al ritmo della Danza ungherese n. 5 di Brahms); The Circus riutilizza a suo modo le trovate marionettistiche della sequenza al tabarin di A Dog's Life; The Great Dictator si riattacca in apertura a Shoulder Arms\ Finterà serie dei lungometraggi fa tesoro di un già a lungo sperimentato espediente comico, quello dell’«effetto di desublimazione» derivante dal­ l’improvvisa interruzione comica dell’aura di una situazione sentimentale (a es., un vaso da fiori o un attrezzo che rovina sulla testa di Chariot innamorato); e si potrebbe certo prose­ guire a piacere con l’elenco. Non credo proprio che questi esempi richiedano molti commenti. Chiunque riscontra subito da sé la dialettica di continuità e discontinuità qui operante: quale diverso peso e grado di incidenza abbiano, nella struttura delle rispettive ope­ 37

re, i gag testé riferiti. Essi confermano una volta di più la verità dell’asserto, secondo cui la trasformazione della struttu­ ra filmica trasforma altresì corrispondentemente il senso del gag. Nei lungometraggi, da The Gold Rush in poi, il gag viene via via perdendo l’astratta purezza del passato e tende a coinci­ dere o a identificarsi in modo sempre più organico con la situazione concreta volta per volta evocata. Cambia in pari tempo il ruolo che esso svolge nell’equilibrio dell’insieme. Già con The Gold Rush, e ancora più in seguito, gli elementi comici e drammatici perdono di autonomia reciproca, tenden­ do per loro natura a fondersi. Benché l’intento creativo ultimo resti comico, il comico non si contiene più in se stesso, ma evolve o trapassa da sé - congiuntamente al definitivo trapas­ so della short-story in racconto lungo, in romanzo - nella forma del dramma. Di fronte ai film sorti durante la “grande crisi”, persino la critica borghese più incline all’apologetica riconosce senza riserve la drammaticità che si nasconde sotto la loro scorza comica; e col secondo dopoguerra le qualità eminentemente drammatiche e tragiche dell’opera di Chaplin divengono così palesi da non poter più riuscire dubbie a nessu­ no. Il comico - il comico puro — continua certo ancora a figurarvi, ma in subordine, come elemento di secondo piano; esso svolge solo più una funzione integrativa, di accompagna­ mento, sottolineatura, inversione, contrappunto ecc. del tema dominante. Il che tra l’altro spiega perché proprio qui si raffor­ zi l’affinità o la convergenza del tardo Chaplin con la prospetti­ va del realismo manniano, anch’esso formalmente caratterizza­ to da una mescolanza di tragedia e commedia, da quella pecu­ liare «unione di tragico e comico», che — come ha mostrato Lukàcs - «implica naturalmente la loro relativizzazione». L’arricchimento del contenuto, la crescita della complessi­ tà ideologica della tematica, l’intensificazione dei nessi interni della narrazione (cui corrisponde formalmente il passaggio dal­ la novella fìlmica al film-romanzo) obbligano l’autore a opera­ re, pena il fallimento, una concomitante ristrutturazione della «tecnica del gag». Ora il gag, come manifestazione organica

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della struttura cui appartiene, deve venir plasmato in omoge­ neità con la struttura stessa; per quanto grande sia la sua forza propria, per libero e autonomo che riesca a mantenersi (in quei pezzi di bravura cui Chaplin non rinuncia mai del tutto), esso entra ora in un rapporto affatto nuovo col contesto, la­ sciando che la metamorfosi delle sue linee portanti giunga a definitivo compimento. Dapprima esso - abbiamo visto - figu­ rava quale frammento di un contesto in sé privo di struttura; più in là riceveva già un primo trattamento formale e, in parallelo con la dilatazione dei tempi del racconto, anche un embrione di connessione strutturale; infine la struttura divie­ ne così forte, così preponderante, che il gag le si subordina, ricavando da essa il suo significato, senza per questo perdere nulla in originalità e efficacia. Limelight tocca un punto estre­ mo - e estremamente conseguente — della dialettica della for­ ma comica qui descritta. Dramma, nella sua essenza (per con­ cezione, struttura, impianto, svolgimento), come Monsieur Ver­ doux è nell’essenza una tragedia, esso include in sé il comico come momento già superato, ma in senso ancora diverso dal Verdoux\ poiché il comico non vi fa più da mezzo per lo smascheramento critico-satirico della realtà rappresentata, ma da evocazione di un passato trascorso per sempre. E diviene allora solo un’esigenza imprescindibile della forma che esso stia, per così dire, a parte dal drammatico, che venga confina­ to in intermezzi relativamente autonomi, - di un’autonomia, s’intende, ora ben diversa da quella informe dei gag del perio­ do slapstick, ben più corposa e capace di esiti artisticamente consistenti: si pensi solo alla straordinaria riuscita dello sketch comico-musicale che chiude la sequenza dello spettaco­ lo di gala per la rentrée di Calvero. Vediamo di trarre, concludendo, qualche più generale inse­ gnamento di metodo da quanto si è argomentato in preceden­ za. Alla luce del complesso di considerazioni svolte sulla ‘stori­ cità’ dell’opera chapliniana e della sua correlativa «tecnica del gag» (nessi col mondo sociale, trasformazione interna del per­ sonaggio, evoluzione della forma, incidenza di questa evoluzio­

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ne sulla costruzione del comico), risulta evidente Vimpasse metodologica nella quale incappa gran parte della letteratura critica borghese: essa, con le sue ipostasi idealistiche e forma­ listiche, con le sue propensioni verso il mitologismo (Chariot inteso come paradigma atemporale, come mito), con il gran daffare che si dà - e comprensibilmente, dal suo punto di vista - per la valorizzazione della cosiddetta ‘purezza’ del gag primitivo, a detrimento delle sue forme più mature e conse­ guenti, va a urtare contro difficoltà insormontabili o, nella migliore delle ipotesi, finisce in un vicolo cieco. Le locuzioni e le formule di cui essa fa uso, le sue classificazioni delle catego­ rie del comico (in base a omologie, raggruppamenti tipologici ecc.), le sue proposte critiche generali o particolari, ancorché poggianti su premesse teoriche tra loro molto diverse, appaio­ no tutte in genere egualmente imputabili di astrattezza, tutte viziate dalla stessa comune mancanza di senso storico. Non credo proprio sia questa la strada giusta da battere. Lungo questa strada, con questi metodi, non si va certo criticamente molto innanzi nell’approccio all’essenza del cinema di Chaplin. Il rifiuto di riconoscere le sue caratteristiche realisti­ che impedisce anche ogni comprensione della sua linea interna di sviluppo. Poiché sappiamo che situazioni, azioni, effetti comici e tragicomici sorgono sempre organicamente in esso dai contrasti di forze della realtà sociale e mantengono sempre il più stretto collegamento con questa loro base, tutti i tentati­ vi critici che avanzano la pretesa di chiarirne i procedimenti comici, la «tecnica del gag», senza averne prima definito il retroterra storico, compresi quelli condotti con i più raffinati strumenti della nouvelle critique (linguistica, semiologica, psi­ canalisi ecc.). - tutti questi tentativi sono destinati inevitabil­ mente a naufragare nel formalismo. Dal dilemma non si esce: o impostazione storicistica (stori­ co-materialistica, marxista), o impasse del formalismo. Senza il supporto delle premesse storico-sociali cui mi sono richiamato sopra, non si intendono o al massimo si distorcono anche le questioni formali. Non ce semiologia che sia in grado, da sé 40

sola, di venire a capo del complesso nodo problematico concer­ nente la funzione e il funzionamento della «tecnica del gag» in Chaplin. Per riuscire a sbrogliarlo dall’interno va fatto ne­ cessariamente appello alla metodologia marxista. Solo alla lu­ ce del marxismo la rete di valori, significati, allusioni, rimandi ecc. dei gag creati da Chaplin risulta teoricamente e metodolo­ gicamente dominabile; poiché solo il marxismo dispone degli strumenti atti a penetrare a fondo e a sviscerare l’essenza realistica del suo cinema e, con essa, la sua più autentica concezione del comico. Dicano pure quello che vogliono mito­ logi, spiritualisti, idealisti, strutturalisti, formalisti di ogni ri­ sma. La grandezza dell’arte di Chaplin sta in stretto rapporto con la profondità del suo realismo. Proprio dall’esame dei risvolti della «tecnica del gag» esce in pieno confermata la giustezza di una tesi, che ho già avuto occasione di svolgere più ampiamente nel mio volume del 1981 II realismo di Cha­ plin'. quella secondo cui Chaplin configura un caso singolare — niente affatto frequente per il cinema - di creatore che si ricollega e si apparenta alle migliori tradizioni realistiche della cultura mondiale, e che dei migliori rappresentanti del reali­ smo, in ogni campo, mostra di avere le doti e la statura.

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V

Note sul l'umanesimo di Dreyer

1. Dreyer alle soglie della maturità G sono vari tipi di artisti. Se ce ne sono di quelli che si esprimono al loro meglio fin dalle prove d’esordio, ce ne sono invece altri che debbono percorrere un lungo cammino prima di conquistare il giusto stile, la forma più rispondente al loro talento personale; e altri ancora che passano bensì, pure loro, attraverso le tappe di una maturazione faticosa, per fasi discor­ danti del corso della loro carriera, ma la cui evoluzione non presenta contrassegni esterni così netti da poter venire fissata e abbracciata in un solo sguardo. Proprio quest’ultimo è il caso di Cari Theodor Dreyer. Le difficoltà in cui si è sempre venuta a trovare e si trova ancor oggi la critica1 di fronte al 1 Tra i testi critici comparsi di recente, dopo la monografìa in chiave esasperatamente «neoformalistica» di David Bordwell, The Films of Carl Theodor Dreyer, University of California Press, BerkeleyLos Angeles-London 1981, sono da segnalare il volume collettaneo II cinema di Dreyer. L'eccentrico e il classico (Atti del Convegno di Vero­ na, 16-18 novembre 1984), a cura di Andrea Martini, Marsilio, Venezia 1987; il catalogo Carl Th. Dreyer, ed. by Jytte Jensen, The Museum of Modem Art, New York 1988; la monografia di Raymond Carney, Speaking the Language of Desire: The Films of Carl Dreyer, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1989 (incentrata pressoché esclusivamente sullo studio psico-antropologico delle tre ultime opere di Dreyer, Dies irae, Ordet e Gertrud); e quella - eccellente sotto il profilo del rigore analitico (figurativo-iconografico), quanto gracile dal punto di vista deirimpianto storico-critico - del suo connazionale Edvin Kau,

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problema del chiarimento dell’evoluzione del cinema di Dreyer si spiegano col fatto che le ragioni di questa evoluzio­ ne restano per più versi latenti. Solo uno scavo dall’interno della materia in esame consente il superamento dell’apparente contraddittorietà dei poli dell’alternativa che qui alla critica si presenta: cioè, a un polo, l’impressione di una qual certa immobilità nella visione del mondo e nella poetica del regista, come se nella sua opera non si desse realmente storia; ma insieme, all’altro polo, il riscontro di una cesura, di un salto di qualità, di un dislivello artistico netto e incontrovertibile tra le opere d’esordio e i grandi capolavori della maturità (da La Passion de Jeanne d'Arc in poi). Gli interrogativi critici cui finora non si è fornita un’ade­ guata risposta da parte della letteratura dreyeriana suonano precisamente così: che cosa sta in mezzo tra le due fasi, o, meglio ancora (vista la loro prossimità cronologica), che cosa le separa? dove si determina — e che cosa provoca - il salto? come può accadere, in un autore scrupoloso e sorvegliato qua­ le è Dreyer, un trapasso di forme così rapido, così (apparente­ mente) brusco? Certo oggi molte questioni critiche di ciascuna delle due fasi, prese a sé, sono state, sufficientemente scanda­ gliate e chiarite. Che gli esordi di Dreyer siano condizionati a fondo dalla coeva situazione del cinema scandinavo e di quel­ lo tedesco, dagli influssi di Griffith, di Sjóstròm ecc., e che poi a dominare la sua maturità, da La Passion de Jeanne d'Arc fino a Gertrud inclusa, sia il tema grandioso della lotta per la conquista umanistica dei valori della vita2, ecco punti su cui

Dreyers filmkunst, Akademisk Forlag, KjSbenhavn 1989. Con riferimen­ to allo spettro della critica dreyeriana in generale, non crediamo di eccedere in severità dicendo che il valore dei risultati delle ricerche a matrice semiologica è molto limitato e quello delle ricerche a sfondo psicanalitico-antropologico (inclusa la pur documentariamente fondamen­ tale biografia di Maurice Drouzy, Carl Th. Dreyer né Nilsson, Ed. du Cerf, Paris 1982: cfr. quanto se ne è detto in «Cinema nuovo», XXXIII, 1984, n. 289, p. 48) assolutamente nullo. 2 Per Gertrud cfr. qui di seguito, § 2.

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sussiste un accordo ormai pressoché pacifico nella letteratura critica. Resta tuttavia - irrisolto - il problema del trapasso. Per questo vorremmo concentrarci qui di seguito, brevemente, proprio sul punto concernente lo status dell’evoluzione di Dreyer alle soglie della sua maturità. Cominciamo col delineare il contesto e i tratti generali della tematica dreyeriana giovanile. Due, sostanzialmente, so­ no le atmosfere, i mondi di cultura, entro cui si muove dappri­ ma Dreyer, corrispondenti agli spostamenti geografici cui lo obbligano le offerte dell’infrastruttura produttiva: il mondo del folclore nordico, a valenza agreste-contadina, e quello del cosmopolitismo borghese mitteleuropeo dei primi del nostro secolo: due mondi che in realtà — come vedremo — rimandano a un’unica concezione artistica del mondo. E entro questo sfondo che trovano posto e prendono rilievo i vari temi carat­ teristici del cinema del primo Dreyer. Stante la loro larga notorietà, sempre evidenziata dalla critica, possiamo qui limi­ tarci a elencarli: problemi derivanti dall’ossessione per un tipo di religiosità a carattere ascetico-protcstante, nella sua variante nordica, che fa già la sua comparsa con l’iconografia religiosa impiegata nel primo episodio, quello neotestamentario, di Bia­ de af Satans bog (Pagine dal libro di Satana, 1920); insistenza sul tema della morte, così come esso si viene profilando spe­ cialmente in Pràstànkan (La vedova del pastore, 1920), da una novella di Kristofer Janson, e in Mikael (1924), dal romanzo omonimo di Herman Bang; denuncia dell’oppressio­ ne esercitata da ogni forma di regime inquisitoriale e tirannico sulla libera personalità dell’uomo; culto per l’intimismo, l’idil­ lio, l’incanto del mondo agreste, ma insieme compresenza inin­ terrotta di elementi rientranti nella sfera del demoniaco e dell’irrazionale, la cui suggestione viene formalmente accresciu­ ta - grazie ai prodigi degli operatori George Schnéevoigt e Karl Freund - dall’uso del chiaroscuro, di una forte accentua­ zione luministica, che conferisce in genere ai racconti un tono ieratico e una cornice severa. Se si prescinde dal film d’esordio, Praesidenten (Il presi­ 45

dente, 1919), che rientra ancora parzialmente nel filone d’atti­ vità scenaristica del primo Dreyer3 (quello, a es., di Doden forener, un «fosco melodramma»4 composto per la Svenska Biografteatem di Stoccolma intorno al 1913-14, quando Dreyer era ancora giornalista a Copenaghen, o anche quello dei tanti adattamenti filmici di romanzi operati in cinque anni di lavoro per la danese Nordisk), tutti gli altri suoi film giova­ nili, dal già menzionato Blade af Satani bog fino a Glomdalsbruden (La sposa di Glomdal, 1926), suonano come altrettan­ te conferme del ricondursi della varietà dei temi volta per volta in campo entro una concezione artistica del mondo so­ stanzialmente unitaria. Che egli si occupi delle grandi tragedie storiche dell’umanità oppure degli inciampi quotidiani e dei ridicoli contrattempi nella vita del piccolo-borghese; che vada spaziando temporalmente dal cristianesimo giudaico alla Rivo­ luzione francese, oppure, geograficamente, dalla Russia e la Germania del primo Novecento fino alla Norvegia contadina, non cambia molto nel suo modo ingenuo, sprovveduto, di guardare a cose e uomini, ai rapporti sociali che legano gli uomini tra loro. Anche la fisionomia delle singole individuali­ tà, le psicologie, i ritratti umani, per lo più sfuocati, non oltrepassano mai gli angusti confini del bozzetto. Sarebbe dunque uno sforzo altrettanto inutile che fuorviante, un esercizio superfluo (cui per altro la critica si abbandona volentieri), quello di voler rintracciare a ogni costo già nella

J Cfr. Dreyer, Biografi!k notai til Ebbe Neergaard [1939], edito da Maurice Drouzy, Kildemateriale til en biografi am Carl Th. Dreyer, K^benhavn 1982, e tradotto col titolo Un inedito di Dreyer nel voi. Il cinema di Dreyer, cit., p. 190; e l’intervista da lui rilasciata a Michel Delahaye, Entre terre et del, in «Cahiers du Cinéma», n. 170, settembre 1965, p. 28 (rist. in Dreyer, Reflexion: sur mon metier, Cahiers du Cinéma/Éd. de ITtoile, Paris 1984, pp. 127-8): dove sono anche importanti ammissioni circa gli influssi di Griffith (in specie su Biade af Satans bog) e di Sjòstrdm (in specie su Prdstdnkan). 4 La definizione è dell’editore dello scenario, Gòsta Werner, Dòden forener, in «Chaplin», XVII, 1975, n. 139, p. 165. Ne riassume il contenuto anche Drouzy, Carl Th. Dreyer né Nilsson, cit., pp. 156-8.

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prima fase, retrospettivamente, germi o spunti o precorrimenti della grandezza matura di Dreyer. Fino al 1926, cioè fino alle soglie immediate della sua maturità, la filmografìa di Dreyer, pur in se stessa molto interessante, ha significato e rilievo quasi solo perché gli consente un enorme accumulo di materia­ le, svelatosi poi prezioso in vista della rielaborazione e plasmazione che esso riceverà nell’attività successiva. Più che di mez­ zi fallimenti o mezze riuscite, si potrebbe forse parlare, a ragione, della potenzialità ancora inespressa di un immenso patrimonio creativo. Esso si trova ancora come bloccato e imbrigliato da limiti esterni. Non avendo fin lì individuato l’asse creativo intorno al quale far ruotare le sue intuizioni, l’autore le cala il più delle volte entro un contesto astratto, anonimo, che, forzandole dal di fuori, impedisce loro di svilup­ parsi organicamente l’una dall’altra, di prendere forma e, così plasmate, di elevarsi a unità drammatica. Il passatismo della concezione del giovane Dreyer nasce essenzialmente da ciò, che egli aderisce dapprima in modo acritico a quelle realtà, quelle situazioni, quell’atmosfera, quel­ lo sfondo sociale e scenografico cui di volta in volta rimanda­ no i testi (romanzi, novelle, commedie, fiabe teatrali) donde egli prende le mosse: segnatamente — come già sopra ricordato - il pseudo-folclore dell’ambiente contadino nordico e il con­ venzionalismo, il cosmopolitismo, il decadentismo, l’artificio di quello borghese mitteleuropeo. Non occorre nemmeno acca­ nirsi troppo contro le evidenti debolezze che ne derivano. A risentirne è specialmente l’impianto della struttura filmica. Tutte le atmosfere create mancano di consistenza o di omoge­ neità; l’articolazione compositiva, per quanto accurata, manca di intima coerenza (stiamo parlando qui - sia ribadito, a evita­ re equivoci — di coerenza strutturale). Da un lato, sul versante del lavoro autoctono, Dreyer fatica a liberarsi dai gravami dell’industria, dalla routine della produzione Nordisk, cercan­ do in continuazione di opporle il suo individualismo, quella «ferma volontà» di indipendenza e di autonomia culturale che — secondo lo storico danese Neergaard - egli ha in comune

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con il connazionale Benjamin Christensen (tutore del cele­ bre Heksen, scelto a interprete del personaggio del protagoni­ sta in Mikaèl). Di loro Neergaard dice: 7 «Christensen e Dreyer [...] sono entrambi degli ambiziosi indi­ vidualisti di un’industria spesso intellettualmente meccanizzata, spesso sono stati in opposizione con l’industria cinematografica piattamente commerciale, ed entrambi hanno avuto difficoltà a trovarsi a loro agio tra i confini del loro piccolo paese, nella sfera di dominio delle condizioni di produzione»’.

Dall’altro lato Dreyer contrasta sì, anche fuori dal suo paese, la «sfera di dominio delle condizioni di produzione», compie sì — benché senza successo — esperimenti sempre nuo­ vi intesi a stabilire punti di contatto con la cultura cinemato­ grafica tedesca del postespressionismo, del Kammerspiel ecc., realizzando a es. con Mikael e con Du skal aere din hustru (L’angelo del focolare, 1925) due opere, se non belle, certo di singolare interesse; ma il primo appartiene solo marginalmen­ te, o per certe analogie solo formali, alla cultura di Weimar, ricollegandosi piuttosto, come sfondo, a quel tipo di cultura convenzionalmente aristocratica e cosmopolitica del periodo guglielmino, che conta qualche propaggine in ritardo, e di mediocre esito, ancora nel cinema weimariano (ne fornisce un esempio il film di Mumau Die Finanzen des Grossherzogs, 1923); e il secondo, pur con tutte le sue finezze psicologiche, ben superiori a quelle esibite dall’altro esperimento tedesco di qualche anno prima, Die Gezeichneten o Elsker hverandre (Amarsi l’un l’altro, 1922), affonda altrettanto irrimediabil­ mente, per ideazione e concezione del mondo, nel convenzio­ nalismo più retrivo, mediato questa volta dagli schemi d’estra­ zione piccolo-borghese della commedia di Svend Rindom che dà spunto al film.

5 Ebbe Neergaard, Historien om dansk Film, Gyldendal, K0benhavn 1960, p. 94.

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Così l'impasse resta immutata. Si badi bene: non si tratta come per lo più la critica imposta la questione - di semplici diversioni, di sbandamenti dell’artista da una linea retta pensa­ ta come continua e artisticamente ascendente oppure da una struttura linguistica pensata come ottimale, cioè della sua inca­ pacità a trovare fin da subito la giusta via, lo stile della maturi­ tà, bensì proprio dell’effetto più immediato, del contraccolpo più diretto derivante dal passatismo acritico della sua visione del mondo: entro la quale possono trovar posto e fiorire, senza il minimo intralcio, superstizioni, arcaismi, riti magici, insorgenze del fantastico, intermezzi ingenuo-scherzosi, tratti idilliaci ecc., insomma tutta la gamma del repertorio figurativo e scenografico cui ricorrono le opere dreyeriane fino al 1926, incluse quelle che, come Pràstànkan, contengono realmente corposi anticipi del futuro filmico di Dreyer. Il risultato è che le sùggestioni demoniaco-irrazionalistiche si scontrano, fino ad annullarsi, con suggestioni opposte, con le ipoteche di una prospettiva storica attardata, filistea, conservatrice (si pensi solo ai due episodi finali di Blade af Satans bog, il francese e il finlandese), con una vena nostalgica rivolta anacronisticamen­ te al passato, come in Del var engang... (C’era una volta..., 1922), con un ambientazione aristocratico-decadente o piccoio-borghese ecc. E le due opposte componenti si giustappongo­ no e sovrappongono di continuo, senza mai riuscire a fondersi. Solo con La Passion de Jeanne d'Arc (1928) Dreyer si lascia indietro il proprio passato, rompe definitivamente con esso. Contro la critica che batte sulla ‘continuità’ (da Sémolué a Parrain, a Tom Milne, a Nash, a Tone, a Bordwell, allo stesso Kau), bisogna insistere nel modo più energico su questo aspetto di rottura, di trapasso violento, di rovesciamento dal vecchio al nuovo, senza per altro che ciò implichi denegare né il valore in sé del materiale accumulato nel passato, né la funzionalità della sua riutilizzazione successiva. Poiché questo materiale del passato senza dubbio resta e pesa ancora; volti, figure, forme plastiche, costellazioni problematiche, interi com­ 49

plessi di situazioni ricompaiono a distanza,di anni, quando non di decenni, trasposti in contesti diversi (così situazioni e figure di Prdst'dnkan, poniamo, in Die trae, o certi personaggi della Sposa di Glomdal - la coppia Tore e Bertil - e delM^gelo del focolare - la piccola Karen - in Ordetf \ ma nel corso e per via della trasposizione il materiale viene rifuso, riplasma­ to, rielaborato in guisa tale che ne esce alla fine qualcosa di affatto diverso. Ora si domanda (riproponiamo l’interrogativo anticipato sopra): che cosa interviene tra il prima e il poi? come si opera questo trapasso? È proprio qui che la letteratura dreyeriana ci lascia in secco. Neanche le dichiarazioni dello stesso Dreyer qui ci aiutano più che tanto. Come avviene spesso anche con i grandi classici della letteratura e dell’arte678, queste sue dichiara­ zioni sono infatti troppo direttamente collegate con la tecnica, con la pratica creativa, perché possano illuminarci davvero a fondo circa i problemi della forma. D’altronde, spiegare il trapasso con la semplice contrapposizione di «tecnica» a «ispi­ razione», come - sulla falsariga di un rilievo mosso una volta da Dreyer al cinema svedese muto («Est-ce seulement une question de technique? - C’etait l’esprit qui manquait!») - fa Sémolué, sostenendo che appunto l’ispirazione, Vesprit, «trasfi­ gurerà lo stile nella Passion de Jeanne d’Arc»3, significa solo formulare un’insipida tautologia. Poiché il termine «ispirazio­

6 Stabilisce questa - per altro del tutto marginale - connessione di Ordet con La sposa d Glomdal anche Kau, Dreyers filmkunst, cit., p. 136. 7 Cfr. Georg Lukàcs, Goethe und seine Zeit, Francke, Bern 1947, pp. 48-9 (poi in Deutsche Literatur in zwei Jahrhundert, Werke, Bd. 7, Luchterhand, Neuwied-Berlin 1964, pp. 89-90; trad, in Scritti sul reali­ smo, a cura di Carlo Casalegno, Einaudi, Torino 1978, pp. 231-2). 8 Jean Sémolué, Dreyer, Editions Università ires, Paris 1962, p. 47. Sémolué cita la traduzione francese dello scritto di Dreyer, Svensk film [1920], ora nel suo vol. Om filmen. Artikler og interviews, a cura di Erik Ulrichsen, Gyldendal, K^benhavn 19642, p. 17 (trad, in I miei film, a cura di Camillo Bassotto, Ed. Cinefonim, Venezia 1965, pp. 27-8).

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ne» indica la punta estrema, il precipitato, l’esito di un intero processo che lo prepara e l’accompagna, è sul processo stesso - non sul suo esito - che bisogna anzitutto fare chiarezza. Per questo, crediamo, più di tutte le omologie tematiche e formali col passato suggerite dai teorici della ‘continuità’, importa l’in­ dividuazione del nuovo asse creativo su cui poggiano e ruota­ no le intuizioni fantastiche delle opere del Dreyer maturo. Già tematicamente qui ci sta dinnanzi un salto. Per la prima volta a partire da La Passion de Jeanne d*Arc il regista elimina ogni sia pur minima traccia dell’arcaismo (nel senso sopra indicato) della concezione del mondo fin lì dominante. Anche Giovanna, è vero, viene dal popolo e, come tutto il popolo del suo tempo, è ingenua, credula, analfabeta, dunque facile preda di manipolazioni e superstizioni; ma ciò che qui muta radicalmente rispetto al passato è, con la natura del conflitto, il rapporto tra dramma e sfondo. La provenienza della protagonista dalla vita del popolo non diventa più, come prima, il pretesto per il fiorire di aneddoti, intermezzi idillici, ecc. ; tutt’altro. Una volta lasciati cadere o messi risolutamente da parte i condizionamenti esterni del folclore (pseudo-folclo­ re), l’eroina campeggia libera, sola, al centro del dramma; la stessa presenza in massa del popolo, come sfondo, si ha una sola volta, nel finale, a tragedia già conclusa, quando le donne del coro piangono la morte di Giovanna e la salutano come

una santa. Qui si vede dunque bene come il baricentro non solo figurativo ma drammatico degli interessi di Dreyer si sia venu­ to decisamente spostando dal lato negativo di una generica ripulsa della violenza, di una critica rivolta contro ogni forma di oscurantismo, di intolleranza, di oppressione del potere, di illibertà, di tirannia, verso quello - positivo - che attiene ai problemi dell’individuo in lotta per l’affermazione dei diritti della personalità dell’uomo. Certo agisce sempre in lui da filtro il principio del soggettivismo nordico-protestante. Pro­ prio per ragioni connesse con la specificità di sviluppo della società scandinava dopo il 1848, l’aspetto storico della questio51

ne — qui come in seguito (a es., in Dies iraé, dove i conflitti sono altrettanto astratti e intemporali) - lo interessa poco, sebbene egli, nella fattispecie, studi seriamente i documenti del processo e tenga costantemente sott occhio, durante la ste­ sura dello scenario, le pagine su Giovanna di Joseph Delteil9.

«Un trattamento del tema che fosse rimasto sul piano del film in costume - commenterà lui stesso nel 1929 - sarebbe stato probabilmente adatto, sì, a descrivere il periodo culturale del XV secolo, ma esso avrebbe avuto per risultato un puro confronto con altre epoche [...]. Si rendeva necessario un accurato studio dei documenti relativi al processo di riabilitazione. Non studiai gli abiti e le altre caratteri­ stiche del tempo. Perché la data in cui l’avvenimento aveva avuto luogo mi sembrava così poco essenziale come la sua distanza dal presente». E nel suo solito linguaggio filosoficamente poco rigoroso, ma chiarissimo e significativo, aggiunge subito di seguito: «Volevo che il film fosse un inno al trionfo dell’anima sulla vita»1011 . Trionfo dell’anima (cioè della spiritualità umana più profonda) sulla vita (sulle condizioni esterne di vita): ecco appunto uno dei tratti in cui si esprime meglio la peculiare natura (protestante) dell’umanesimo di Dreyer. Corrispondentemente ha luogo, nella forma, una rivoluzio­ ne poggiante sul principio della omogeneizzazione di tutti i mezzi formali usati. Se già Mikaèl segna un primo avvicina­ mento di Dreyer all’uso della fisionomia del volto umano co­ me mezzo espressivo fondamentale (primi e primissimi piani di volti su sfondo nero, che emergono dal nulla o fluttuano nel vuoto, annullando con ciò stesso ogni rapporto spaziale e temporale)11; e se nell’Angelo del focolare Dreyer va già

9 Cfr. ancora ultimamente Kau, Dreyers filmkunst, cit., p. 143. 10 Dreyer, Om filmen, cit., pp. 30-1 (trad. -modificata - p. 42). 11 Cfr. Bordwell, The Films of Carl Th. Dreyer, cit., p. 56; Autori­ tà narrativa e spazio cinematografico nei film di Dreyer, nel voi. Il cinema di Dreyer, cit., p. 69.

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concentrando i suoi sforzi sull’espediente che chiama della «purificazione del testo», compresso fino a un «massimo»12, è solo in virtù della grande svolta umanistica maturata con La Passion de Jeanne d’Arc e delle sue conseguenze sulla costruzio­ ne del dramma - non per i motivi esclusivamente «strutturali» (siano essi tematici o fórmalistici) avanzati dalla critica d’oltre Oceano13 - che egli viene a capo una volta per sempre dei princìpi di omogeneizzazione e unificazione formale. Da qui in poi gli si dischiudono le vie della maturità. Drammaticamente e formalmente egli opera ora unificando, centralizzando: nel senso dell’esercizio di un dominio il più assoluto e rigoroso su tutti gli elementi costitutivi della forma filmica (inquadrature, angoli di ripresa, scenografia, scorci lu­ ministici, nessi di montaggio), in vista della loro concentrazio­ ne, della loro riconduzione all’unità di quel centro che è l’asse tematico di volta in volta scelto. Ciò vale anzitutto, nella Passion de Jeanne d’Arc, per la tensione che scaturisce dall’uso insistito della «microfisionomia», dei primi piani14; la ‘passio12 Così Dreyer nell’intervista Entre terre et ciel, cit., p. 23 (rist., p. 120). C£r. anche Drouzy, Carl Th. Dreyer, cit., p. 227; Kau, Dreyers filmkunst, cit., pp. 125-6. «La forza dell’Àwg^/o del focolare - scrive que­ st’ultimo - sta proprio in ciò che si può chiamare il suo realismo stilizzato». 13 Pensiamo in special modo a due — solo apparentemente opposte — tendenze di ricerca attive negli Stati Uniti: quella che fa capo a Bordwell {Filmguide to «La Passion de Jeanne d'Arc», Indiana University Press, Bloomington-London 1973; The Films of Carl Th. Dreyer, cit., pp. 66-92) e quella che si concreta nei lavori di Tony Pipolo {Carl Dreyer's «La Passion de Jeanne d'Arc»: A Comparison of Prints and a Formal Analysis, Ph. D., New York University, 1981, pp. 264; Metaphorical Structures in «La Pas­ sion de Jeanne d'Arc», in «Millennium Film Journal», XIX, Fall/Winter 1987-88, pp. 52-85; The Spectre of «Joan of Arc»: Textual Variations in the Key Prints of Carl Dreyer's Film, in «Film History», II, 1988, n. 4, pp. 301-24). Sul contrasto del loro rispettivo approccio a Dreyer, «tematico» in Pipolo e «formalistico» in Bordwell, cfr. Ì1 cap. I della monografia di Carney, Speaking the Language of Desire, cit., p. 22 ss. (per La Passion de Jeanne d'Arc, pp. 38-40). 14 Cfr. le analisi che, richiamandosi a Balazs, svolge in proposito Barthélemy Amengual, Fonctions du gros pian et du cadrage dans «La Pas­ sion de Jeanne d'Arc», in «Études cinématographiques», n. 53-56, 1967, pp. 155-63.

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ne’ di Giovanna si esprime e risolve tutta nei primi piani del suo volto reclinato e sofferente, ma non per questo meno altero, meno animato da fierezza, cui si alternano, a contrasto, primi e primissimi piani dei volti aggressivi dei giudici. La visualizzazione ravvicinata della sofferenza; l’esaltazione, tra­ mite i primi piani, dei moti-più intimi della spiritualità uma­ na; le angolazioni prospettiche dall’alto e dal basso; i forti rilievi luministici (presenti in Dreyer, come sappiamo, fin da­ gli esordi); le lunghe carrellate che accompagnano lo snodarsi delle diverse fasi del processo (dove pure viene operata, narra­ tivamente, una concentrazione, essendo i 29 interrogatori del­ la pulzella condensati in uno solo) e sembrano come accer­ chiarlo, avvolgerlo in sé; più in generale, la «geografia ideale» creata a bella posta dal regista (e tanto cara agli storici del cinema), - tutto il dispiegamento di questo apparato di stru­ menti e mezzi filmici sta sempre al servizio dell’obbiettivo che si è detto: concentrare riducendo: eliminando cioè col massi­ mo rigore l’ingombro di quanto appare artisticamente super­ fluo, e quindi in realtà dilatando, ampliando la significazione e la pregnanza espressiva del contenuto del dramma. In questo senso la maestria di Dreyer è e resta nel cinema un unicum. Essa non ammette termini di confronto. Frutto di una cultura profondamente radicata nelle istituzioni, nelle tra­ dizioni, nei pregiudizi confessionali, nei rapporti di classe ecc. della società scandinava, essa la rispecchia e insieme riesce come talora riesce anche Bergman15 - a oltrepassarne d’un balzo le angustie e i confini. Questo, a nostro giudizio, il significato del suo umanesimo; e questa anche la sua grandez­ za. Crediamo a ogni modo di poter asserire senza tema di smentita che nessun altro regista, se si eccettua EjzenJtejn, è mai pervenuto a risultati cinematografici più sconvolgenti, più rivoluzionari, di quelli cui perviene Dreyer con i suoi capolavo­ ri della maturità.

15 Cfr. più oltre, V.

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2. L'umanesimo di “Gertrud" Chi si arrischiasse a giudicare della consistenza artistica dell’ultimo film di Dreyer in base al metro della presenza o meno in esso di innovazioni linguistiche alla moda, del più superficiale aggiornamento stilistico, dovrebbe risolversi in co­ scienza per un verdetto di condanna senza appello. (A onta e scorno di tanta critica anche nostrana andrebbe ricordato co­ me, in occasione dell’anteprima del film a Parigi, verdetti del genere furono realmente pronunciati). Non è forse casuale la battuta che Dreyer, in apertura, pone in bocca alla vecchia signora Kanning: «Io non me ne intendo tanto delle cose che si scrivono al giorno d’oggi». Anche il Dreyer di Gertrud, infatti, è vecchio, appartiene a un’altra generazione; la sua formazione, i suoi interessi, la sua cultura, la sua lingua, sono molto lontani da un aggancio immediato e diretto con le «cose del giorno». Se per Ordet Dreyer si era rifatto a un dramma di Kaj Munk, autore anch’egli in rapporto solo indiretto col suo tempo, per Gertrud si rifa a un altro dramma teatrale, ancora più irrimediabilmente datato: alla “pièce” omonima di Hjal­ mar Soderberg, uscita in Svezia con grande clamore in pieno clima strindberghiano ( 1906), del quale porta in sé evidenti le tracce. «La vita — vi è detto - è un sogno, una lunga serie di sogni che scivolano l’uno dietro all’altro». Gertrud, la protagonista, non trova più vita alcuna intorno a sé. Il marito si consuma nell’aridità del suo lavoro e delle sue ambizioni pubbliche; il giovane amante, Erland, un piani­ sta di talento, dissipa questo talento conducendo una vita mondana e superficialmente libertina; e nemmeno il poeta Gabriel Lidman, che Gertrud reincontra quando se ne festeg­ gia con grande onore il cinquantennio alla presenza del rettore dell’università, e che pure ora vorrebbe riunirsi a lei, insoddi­ sfatto com’è della celebrità raggiunta, nemmeno Lidman può più darle quell’amore, quella passione sublime, che in lei e intomo a lei, in tutto il suo mondo, sono morti per sempre. «L’amore è sofferenza, l’amore è infelicità», dichiara a Lid-

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man. «C’è uno spazio vuoto nel tuo cuore, ma io non posso venirti in aiuto. Non chiedermi niente». In Gertrud, invecchia­ ta, resta intatta solo la sua dignitosa fede nella “sofferenza” dell’amore ; sulla sua tomba non dovranno esserci altre parole che queste due: «Amor omnia». Soltanto chi non abbia mai penetrato a fondo l’itinerario artistico di Dreyer può stupirsi di questo suo senile approdo alla tematica dell’amore, al problema della pienezza umanisti­ ca della vita. La centralità del conflitto drammatico di Gertrud non è infatti molto diversa da quella dei suoi film precedenti; né lo sono, in fin dei conti, lo sfondo e il clima entro cui il conflitto cresce. Con Soderberg il regista ci ripiomba subito nel chiuso di una società, come la scandinava, permeata dal­ l’austera rigidezza protestante, nella cornice di un mondo sen­ za più slanci che avvolge i personaggi e li trasforma in larve di uomini fatalisticamente rassegnati al proprio destino e al pro­ prio nullismo e immobilismo. Erland si compiace quasi con Gertrud di doverla ingannare, di dover tradire le sue promesse e i suoi giuramenti d’amore. «Dovevi! - gli rimprovera lei È la parola magica, per tutto». È cioè la parola che spiega il fatalismo, la rassegnazione, quella sorta di “predestinazione” contro cui Gertrud, svincolandosi dall’ambiente dell’infanzia, cerca con tutte le sue forze di reagire. «Mi fa piacere di sentire che credi ancora al libero arbitrio», dice ad Axel, colui che è e resta fino alla vecchiaia l’unico suo vero amico. «Mio padre era un mesto fatalista, e c’insegnò che nella vita tutto è prede­ stinato... È il destino che decide tutto». Predestinazione o libero arbitrio? È dentro lo sfondo, tipicamente protestante, di questa alternativa che matura l’umanesimo di Dreyer, la sua fiducia, con Gertrud e Axel, nella possibilità e libertà di scelta: «Volere è scegliere». La difficoltà sta per lui nel giungere criticamente a questo traguar­ do, nello sciogliere dall’interno il nodo dell’alternativa: la via della liberazione - dell’umanesimo - passa dentro e non fuori da tale nodo; e precipuamente di esso, prima del suo raggiun­ to scioglimento, Dreyer si fa qui acuto indagatore. Che se alla

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conquista della pienezza di vita egli non giunge neanche qui, come non giungeva in Ordet, ad essa tuttavia allude di conti­ nuo, rimanda come al piano e alla dimensione che debbono determinare prospetticamente lo spessore dei personaggi: ap­ punto il loro lugubre tormentarsi e soffrire di vittime. Per lo stesso motivo il principio operante della liberazione e dell’asce­ sa è quello soggettivistico-protestante del dialogo interno del­ l’anima con sé, cioè a dire del monologo. I personaggi di Gertrud non parlano mai ad altri che a se stessi; non si guarda­ no mai in viso, esternano solipsisticamente le loro sofferenze, meditano su di esse sempre soltanto fra sé. Come in Ordet (retaggio forse, qui e là, della comune derivazione teatrale), le porte si aprono davanti a loro negli ingressi, e si chiudono dietro a loro nelle uscite, senza mai lasciar travedere al di là nessun loro ulteriore contatto. Nella forma di Gertrud, nella lentezza del suo ritmo, nella composizione dei movimenti interni alle singole inquadrature e alle sequenze, si rispecchia in pieno il predominio dei moti­ vo centrale accennato, quello della sofferenza per la difficoltà (o la impossibilità?) di pervenire compiutamente all’umanesi­ mo, alla chiarezza. Una volta di più, insomma, la tensione umanistica di Dreyer geme e si dibatte sotto la sua scorza austera, rigida, protestante, - di un protestantesimo genuina­ mente nordico. Forse è proprio qui, in questa caratteristica natura del suo umanesimo, tutta la potenza e insieme la debo­ lezza dell’originalità artistica del grande maestro danese. Da un lato infatti, grazie al relativo isolamento della civil­ tà scandinava dai contrasti sociali europei, egli può puntare in forme ancora notevolmente libere sul recupero dei valori e delle qualità umane dell’uomo vagheggiate in tutta la loro astratta e universale purezza; dall’altro però il vagheggiamento di questa universalità non può non urtarsi, in concreto, contro la moltiplicata complessità del mondo moderno: donde appun­ to in Dreyer la sofferenza, e l’andamento di un film cosi sofferto come è Gertrud. Del quale, se non si può dire, con riguardo alla personalità del suo autore, ciò che vi dice Kan57

ning degli ultimi drammi di Lidman nel discorso tenuto duran­ te la cerimonia del festeggiamento (essere cioè tra le opere che mettono in ombra «tutto ciò che sino ad allora aveva prodot­ to» e che lo collocano «nelle cime più alte del Parnaso, a fianco dei tre grandi poeti nordici»), si può e si deve dire però ugualmente che resta un’alta, severa lezione di stile, capace sempre di insegnare a molti sedicenti novatori del «giorno d’oggi» che cosa sia nel cinema il linguaggio16.

té Di tale «coerenza stilistica» e «rigore drammatico» del film, anche in rapporto all’«atmosfera diffusamente sepolcrale» che vi domi­ na, ha parlato Guido Aristarco, Un nuovo «dover essere» del cinema d'oggi?, in «Cinema nuovo», XIV, 1965, n. 177, pp. 338-40. Poco persuasive le rilcrture proposte in seguito (da noi e all’estero), compresa quella molto elaborata che, alla luce della biografia psicanalitica di Drouzy, congegna Jonathan Rosenbaum, «Gertrud»: ihe Desire for the Image, in «Sight and Sound», LV , Winter 1985-86, pp. 40-5; sono per altro da tener presenti e ci sembrano, a un primo riscontro, giusti i paralleli figurativi con la pittura del danese Vilhelm Hammersh^i sugge­ riti, non solo per Gertrud, da Bordwell, Kau, Carrcn O. Kaston e altri critici ancora.

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V

Ingmar Bergman in prospettiva

Per una serie di motivi che qui sarebbe troppo lungo, dispersivo e anche fuori luogo esporre (ma tutti fondamental­ mente legati al disinteresse degli studi in Italia verso il mondo culturale nordico), da noi si è soliti guardare alla personalità di Bergman come a una sorta di escrescenza solitaria, di picco isolato, nel panorama della cultura svedese del nostro secolo. L’ispirazione e il valore del suo cinema vengono di norma ricondotti a un centro motore autonomo; il suo sviluppo viene studiato esclusivamente da un punto di vista interno; i suoi film sono confrontati solo con altri film. C’è naturalmente qualcosa di legittimo in questa imposta­ zione. La forte personalità del regista autorizza tal genere di lettura. Vorrei qui tuttavia suggerire - sia pur con cautela un diverso criterio d’approccio all’opera di Bergman, che valga a legarla meglio, in modo più stringente, alla cultura del suo paese. La cautela è suggerita non tanto dall’essenza della cosa, quanto da circostanze soggettive, mie personali. Mi è accaduto infatti di seguire e studiare da vicino il cinema di Bergman soprattutto per il primo tratto, fin circa alla metà degli anni ’60, mentre in seguito ho bensì sempre guardato con interesse ai suoi sviluppi, ma più dall’esterno, come semplice spettatore, che non da studioso e con l’acribia indispensabile allo studio­ so. Si dovrà quindi tener conto di questa riserva pregiudiziale nel valutare quanto verrò dicendo.

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1. Se dovessi oggi esprimere un giudizio complessivo su Bergman (e qui mi accingo proprio a far questo), direi (e dico): la traiettoria di Bergman è quella - parabolica - di un progressivo rafforzamento interno dell’autonomia del suo pro­ prio mondo creativo, fino a vertici di originalità che giustifica­ no del tutto l’attribuzione della laurea accademica ad honorem conferitagli dall’università di Roma, con qualche concessione finale, anzi, meglio, qualche scivolamento nel manierismo. Sarebbe certo interessante studiare quanta parte di questa seconda fase della sua parabola sia legata al patrimonio della cultura svedese (o della cultura scandinava, nordica in genera­ le). Per le ragioni addotte sopra, io non sono in grado di suggerire nulla di preciso a questo riguardo (e altri, in ogni caso, potrebbe farlo molto meglio di me). Posso però afferma­ re con cognizione di causa che questi legami sono all’inizio della carriera di Bergman fortissimi: non solo nel senso che solo poco per volta egli viene sganciandosi dalle coordinate del mondo culturale che lo esprime e viene conquistandosi un’autentica autonomia creativa, ma soprattutto nel senso che questa autonomia appare - anche nel periodo centrale della maturità - solidamente impiantata sul terreno della tradizione culturale nazionale, e in forma diversa rispetto a quanto avvie­ ne per altri registi svedesi di teatro, come Olof Molander, o di teatro e cinema insieme, come Alf Sjòberg, pure entrambi così legati alle matrici di quella tradizione. Già gli esordi cinematografici di Bergman sono estremamente caratteristici dei legami di fondo intercorrenti con la cultura (e in specie la letteratura) del suo paese. Essi avvengo­ no nel quadro della situazione di crisi della Svezia del primo dopoguerra, in stretto rapporto col gruppo letterario del ’40 («40-taIet»), al cui periodico, tra l’altro, il regista collabora con un racconto1: il gruppo facente capo al poeta e romanziere 1 Ingmar Bergman, Ow ett av Jack Upskararens tidigaste hamdomsminnen, in «40-tal», n. 3, 1944, pp. 5-9 (trad, franc., Un souvenir d’enfance de Jack dii l’Eventreur, in «Cinéma 59», n. 34, marzo 1959, pp. 39-44).

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Stig Dagerman, a scrittori come Lars Ahlin, Lars Gyllensten, Lars Gòransson, Sivar Amer, a drammaturghi come BjornErik Hóijer e lo stesso Dagerman, tutti per certi versi eredi della letteratura dell’«angoscia» di Par Lagerkvist, tutti perva­ si da un profondo senso (esistenzialistico) di crisi: alle cui origini stanno fenomeni connessi, intellettualmente, col retro­ terra dell’esistenzialismo ‘negativo’ di matrice francese e, so­ cialmente, oltre che con il cosiddetto “complesso della neutrali­ tà” del paese verso la II guerra mondiale (ossia con la consape­ volezza di non aver resistito sul piano dell’azione pratica all’im­ perialismo nazista), con l’aggravarsi di certe piaghe nazionali interne, come la diffusione dell’alcoolismo, l’ottundersi della religione cristiana tradizionale, l’impotenza di fronte al pro­ gressivo disfacimento della coesione della compagine sociale. Non voglio insistere oltre su questo punto. Ancora di recente studiósi di letteratura, teatro e cinema hanno richiama­ to l’attenzione quanto basta su tutto l’insieme di problemi relativi alla cultura svedese del dopoguerra, compresi i rappor­ ti tra Dagerman e il giovane Bergman2. Ricordo solo come siano questi gli anni in cui Bergman regista teatrale mette in scena a ripetizione opere di esponenti del gruppo del ’40 (a es. Hòijer) o di autori a essi cari (Camus, Hjalmar Bergman, lo stesso Strindberg); tanto che il critico Hugo Wortzelius lo chiamerà una volta, con riferimento al nome del gruppo, «le veritable 40-taliste du cinema»3.

3 Cfr. Thure Stenstróm, Le courant extstenliel suédots: contexte International et traits spécifiques, in «Nouvelles de la République dcs lettres», 1986, fase. II, pp. 125-41 ; e inoltre, per Dagerman, Georges Périlleux, Stig Dagerman et l'existentialisme. Les Belles Lettres, Paris 1982; Henrik Sjógren, Teater i Sverige efter andra vàrldskrigen. Natur och Kultur, Stockholm 1982, pp. 36-7; Magnus Roselius, Stig Dagerman och filmen, in «Chaplin», XXVI, 1984, n. 191, pp. 63-6: Gòsta Werner, De grymma skuggorna. En studie i Stig Dagermans forfattarskap och dess relationer till filmen som medium. Norstedts, Stockholm 1986. ! Hugo W'ortzeuus, Dix ans de cinema, in Panorama de la Suède. fase, di «L’Age Nouveau», VITI, 1953, n. 80-81, p. 200. La biografia

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Strindberg passa poi sempre più decisamente al centro dell’esperienza culturale di Bergman e - lo dimostrano bene ancora film tardi come Dopo la prova e Fanny e Alexander. entrambi i quali chiamano in causa lo Strindberg del Sogno — vi resterà sino all’ultimo. Anzitutto nel senso che egli, come regista teatrale, si confronterà sempre di nuovo con l’opera del drammaturgo; e inoltre nel senso che, anche cinematografica­ mente, il suo interesse critico per il mondo artistico strindberghiano, per il teatro di ‘rottura’ di Strindberg — sempre giusta­ mente sottolineato dalla critica4 — si manterrà costante nel

bergmaniana di Peter Cowie, (Ingmar Bergman: A Critical Biography, Seeker and Warburg, London 1982, p. 32) tende a minimizzare o ridurre questo nesso; di là da ogni scelta o da ogni contatto personale, resta per altro il significato delle convergenze oggettive. «I contatti di Bergman con i narratori del ’40 - ha scritto ancora, più di recente, Wortzelius (Bergman i backspegeln, in Svensk Filmografìa IV: 1940-1949, Svenska Filminstitutet, Stockholm 1980, p. 717) - non sono stati, per sua stessa ammissione, particolarmente vitali, ma è un fatto che nei suoi primi film si rintracciano molti motivi e orientamenti di pensiero della narrativa del ’40». A Bergman e «il modernismo degli anni ’40» dedica un paio di paragrafi anche Maria Bergom-Larsson, Ingmar Bergman och den borgerliga ideologin, Pan-Norstedts, Stockholm 1976, pp. 16-26, paragrafi incomprensibilmente omessi nella versione inglese del testo (Ingmar Bergman and Society, The Tantivy Press and A.S. Barnes, London-South Brunswick-New York 1978). 4 Mi riferisco, in particolare, ai lavori di Maurice Gravier, Ingmar Bergman et le theatre sue'dois, in «Etudes cinématographiques», I, 1960, n. 6-7, pp. 373-5; Jorn Donner, Djdvulens ansikte. Ingmar Bergmans filmer, Aldus-Bonniers, Stockholm 1962, pp. 164 ss. (trad. ingL, The Personal Vision of Ingmar Bergman, Indiana University Press, Bloomington 1964, pp. 206 sgg.; pressoché inutilizzabile, per le sue mende, la trad, italiana - condotta sulla II ed. svedese ampliata del 1965 - Il volto del diavolo, a cura di Camillo Bassotto, Ed. Cinefonim, Venezia 1966, pp. 178 ss.); Vernon Young, Cinema Borealis: Ingmar Bergman and the Swedish Ethos, David Lewis, New York 1971, pp. 36 ss., 276 ss.; P. Cowie, Ingmar Bergman, cit., pp. 41-6; Maaret Koski­ nen, Det typiskt svenska hos Ingmar Bergman, in «Chaplin», XXVI, 1984, n. 194-195, p. 226; Guido Aristarco, Fonti culturali di Ber­ gman: da Kierkegaard a Strindberg, in Alle origini della drammaturgia moderna: Ibsen, Strindberg, Pirandello (Atti del Convegno internaziona­ le di Torino, 18-20 aprile 1985), Costa e Nolan, Genova 1987, pp. 226-7; I sussurri e le grida, Sellerio, Palermo 1988, pp. 105 ss.

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tempo, anzi si verrà col tempo intensificando. «È chiaro», commenta Donner, «che l’ispirazione da Strindberg, la parente­ la con Strindberg, sono sensibili ovunque in Bergman»5. An­ che qui disponiamo in materia, per il teatro, di studi egregi. Studiosi delle «messe in scena» di Strindberg come Gunnar Ollén e il francese Maurice Gravier indicavano già fin dagli anni ’50 in Bergman e Sjòberg i registi che, rifacendosi alla grande lezione delle regie strindberghiane di Molander negli anni ’30, ma soprawanzandole criticamente, cercano di sottrar­ re il drammaturgo all’ipoteca espressionistica posta su di lui da Max Reinhardt e dalla scuola tedesca, e di recuperarne, sotto altra chiave, la “nazionalità”, mostrando come la sua opera sia, per origine e cornice, una creazione svedese, una manifestazione del genio nazionale6. Ebbi occasione anch’io, a suo tempo, di interessarmi della cosa. In un saggio risalente ormai a più di un ventennio fa7,

5 J. Donner, Djàvulens ansikte, cit., p. 167 (trad, ingl., p. 211). 6 Cfr. Gunnar Ollén, Strindberg sulle scene del mondo, premesso al voi. Il meglio del teatro di Strindberg, Società Editrice Torinese, Torino 1951, pp. xliv-lv; Maurice Gravier, Af/res en scène de Strind­ berg, nel voi. La mise en scène des oeuvres du passé, a cura di Jean Jacquot e André Veinstein, Centre national de la recherche scientifique, Paris 1957, pp. 41-51. Osservazioni importanti per i criteri della messa in scena bergmaniana di opere di Strindberg anche in data più recente si trovano nei due lavori di Frederick J. e Lise-Lone Marker, Jngmar Bergman: Four Decades in the Theater, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1982, pp. 21 ss., 54-131, e Ingmar Bergman: A Project for the Theatre, F. Ungar Pubi. Co., New York 1983, pp. 31-8, 101-47. Significativo anche quanto aggiunge Frank Gado, The Passion of Ingmar Bergman, Duke University Press, Durham 1986, p. 463: cioè che, all’altezza degli anni 70, «Bergman guardava alla messa in scena dei capolavori di Strindberg come ai documenti sulla cui base la posteri­ tà avrebbe giudicato della sua riuscita nel teatro svedese». 7 Saggio apparso col titolo L'esperienza letteraria “nazionale” in Sjòberg e Bergman, in «Civiltà dell’immagine», I, 1966, n. 1, pp. 22-8, e ristampato nel voi. Problemi di teoria e storia del cinema, Guida, Napoli 1976, pp. 187-98. Da vedere posteriormente, su Sjòberg regista teatrale, H. SjÓgren, Teater i Sverige, cit., pp. 16-7, 44 ss. e passim-, su Sjòberg regista di cinema, Gunnar Lundin, Filmregi: Alf Sjòberg, Wallin och Dalholm, Lund 1979 (studio del quale si è detto in «Cine-

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prendendo spunto dalla versione fìlmica della Signorina Giulia di Sjoberg, cercai di studiare e mettere a confronto la «via a Strindberg» dei due registi. I risultati - che mi è impossibile riassumere qui - portavano sostanzialmente a questo. Se con straordinaria preparazione e finezza culturale Sjòberg si pone in quel film al completo servizio dell’intendimento della dram­ maturgia di Strindberg, del suo aristocraticismo, del suo irra­ zionalismo, del suo gusto compiaciuto per lo ‘spettrale’ e il ‘maledetto’, il Bergman maturo batte una via diversa. Il deca­ dentismo aristocratico non è la sua unica né la sua ultima parola. Egli si dimostra in grado di fare i conti con Strindberg, con Lagerkvist e con le altre personalità artistiche nazionali ben presenti anche a Sjòberg (da Lagerkvist, a es., viene il suo Barabbas del 1953), con un distacco critico che la ‘disponi­ bilità’ di quest’ultimo non conosce. Proprio in coincidenza con gli esperimenti più fedelmente strindberghiani di Sjòberg, alla svolta degli anni ’50, Berg­ man allarga, chiarifica e sblocca la sua visione iniziale — socialmente condizionata — del problema della ‘crisi’. Lo spro­ fondamento neH’interiorità si sostituisce alla dispersione nel­ l’esterno, portando in luce quella che è - o che per lo meno è rimasta a lungo - la componente più costante e decisiva della formazione di Bergman, il protestantesimo, così come esso si viene svolgendo in Scandinavia da Kierkegaard in avanti. So­ prattutto nel gruppo di opere che realizza tra il 1956 e il 1958 (forse il vertice artistico della sua parabola), Bergman riesce, su questa nuova base, a aprirsi il varco verso la conquista di una prospettiva almeno in certa misura umanistica, resa possi­ bile dal fatto che la soggettivizzazione (protestante) dei conflit­ ti significa non già la loro soppressione, bensì la loro trattazio­ ne a un livello soggettivo riccamente mobile e vario; poiché è

ma nuovo», XXXI, 1982, n. 277, pp. 59-60), e i due profili di Gòsta Werner, Alf Sjòberg, cap. di Den svenska filmens bistorta, Norstedts, Stockholm 1978\ pp. 105-26, e Alf Sjòberg som filmskapare, in «Cha­ plin», XXV, 1983, n. 186, pp. 122-28.

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appunto nel recesso della coscienza — ossia nella problematiz­ zazione interiore dell’essenza della vita umana - che Bergman individua una possibile alternativa alla ‘crisi’, 2. Il processo di verifica e chiarificazione delle fonti va dunque in lui di pari passo con il distacco critico da esse. Giunto all’apogeo delle sue capacità di dominio dei mezzi tecnici e formali della creazione artistica, e a una piena consa­ pevolezza dell’originalità del suo mondo espressivo, egli si sente ormai in grado di misurare la sua arte con quella delle più alte personalità della tradizione culturale del suo paese, e in particolare, ancora una volta, con quella di Strindberg, che ora - nella trilogia del 1961-63 sul tema tragico del «silenzio di Dio» - egli si prende nuovamente a modello, ma non più soltanto, come accadeva agli esordi (e come accade in Sjo­ berg), per le suggestioni positive e negative del contenuto della sua drammaturgia, bensì principalmente per la sua for­ ma: per la forma dei tardi drammi del suo Kammerspiel, dalla Sonata dei fantasmi al Pellicano, pezzi entrambi di repertorio insieme col Sogno - nell’attività teatrale di Bergman. Proprio qui si fa palese, a mio avviso, la complicata natura della questione dell’esperienza culturale e della «tradizione nazionale» in Bergman. Ritengo che sul peso di queste compo­ nenti si dovrebbe ancor sempre insistere, e con tanto maggior forza oggi, quando è di moda-alzar le spalle in segno di sprezzo nei confronti del senso della storia; quando ci si esalta senza ragione per il mito astrattamente cosmopolitico del ‘mo­ derno’ e per gli autori della ‘crisi’ (come se la modernità si esprimesse soltanto in loro, e non anche - anzi in maggior grado - negli autori che la crisi respingono, contrastano e combattono); e quando una storiografia scriteriata e irrespon­ sabile esalta autori e opere in ragion diretta della loro apparte­ nenza a questa area di pseudo-modernità, così evanescente, così indeterminata, che vi scompare ogni traccia del rapporto delle opere alla società e tutti i grandi valori umanistici dell’ar­ te vanno a fondo o vengono relegati in secondo piano.

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La caratteristica saliente delle migliori opere di Bergman, delle opere della sua maturità, è invece proprio che esse ribadi­ scono, da un lato, la profondità del suo nesso con la cultura nazionale, con la crisi che investe a un certo punto questa cultura (e la società), e con il tentativo di un suo superamento interno mediante l’acquisizione di una prospettiva umanisticoreligiosa, già portato avanti in Svezia da Lagerkvist; e dall’al­ tro, in virtù di questo tentativo stesso, la sua originalità e differenziazione rispetto all’irrazionalismo. Questo umanesimo bergmaniano consiste essenzialmente in ciò, che Bergman, muovendo dalla base culturale e religiosa della società scandinava, riesce a innalzare idealmente figure e conflitti drammatici - senza mai rinnegarne o falsificarne gli agganci con la loro base - a un grado di tensione interna che li sottrae contemporaneamente, dai due versanti opposti, all’autodissolvimento nichilistico (quello stato di ‘crisi’ che incombe su tutta la sua produzione giovanile sino a Prigione inclusa) e all’accettazione passiva e rassegnata di compromessi sociali filistei (si pensi all’ansia per lo sorti del destino umano che domina e anima personaggi come il cavalier Block del Settimo sigillo o il professor Borg del Posto delle fragole). La ricerca, la messa in questione problematica, la valorizza­ zione del campo di attività e di scoperta dell’uomo sono ripeto e concludo su questo punto — quanto distingue l’arte di Bergman dalle altre forme artistiche deH’irrazionalismo aristo­ cratico-decadente, non escluso quello strindberghiano. Fortu­ natamente per lui, egli non ubbidisce mai del tutto al senso della «fantasmagoria artistica» sulla principessa di Castiglia inserita a titolo di apologo in Come in uno specchio: dove il poeta rinuncia a seguire la principessa nel «bel regno dei morti», nel regno del «capolavoro» (ossia nel regno dell’arte sganciata dalla vita: che è poi - come si sa - la tematica del vecchio Ibsen e del giovane Thomas Mann), e teme, così facendo, di ridursi al rango di un giullare, di un filisteo ipocri­ ta, e di tradire la propria missione di artista. La tentazione irrazionalistica della distruzione di ogni umanesimo è sì pre66

sente in Bergman, tanto nelle radici storico-sociali della sua formazione, quanto nelle predilezioni ideologiche della sua cultura e della sua arte; ma ciò che costituisce la sua originali­ tà e la sua grandezza è che egli combatte entro un certo grado vittoriosamente contro questa tendenza; le sue opere si oppon­ gono alla totale dissoluzione dell’umanità dell’uomo, restano aggrappate al mondo umano, sconfiggono insomma (sempre entro un certo grado) la tentazione irrazionalistica. Come ideolo­ go Bergman può anche ritenere che il poeta della «fantasmago­ ria» di Come in uno specchio sia un falso artista, un «poeta senza poesie» o un filisteo volgare, senza il coraggio del gran salto nel «capolavoro»; e tuttavia proprio soltanto a questo prezzo, soltan­ to con questa drammatica rinuncia, egli salva le qualità autenti­ che della sua arte, il respiro che le viene dalla capacità di fare spazio a un mondo di valori corposamente umano. 3. Che poi questo problematicismo della maturità di Berg­ man subisca, nel prosieguo della sua carriera, un riflusso, è convinzione che ho pubblicamente espressa in passato e che mantengo. Se all’inizio parlavo del sospetto di un qual certo manierismo per l’ultima fase dell’attività di Bergman, è per­ ché, a mio giudizio, film come II rito o Dopo la prova o Fanny e Alexander (dove tornano tutti i temi e i problemi cari a Bergman, ma in forma riassuntiva e ripetitiva, al limite dell’os­ sessione), denunciano il limite manieristico del piétiner sur place. Spia del manierismo è soprattutto questo, che ora Berg­ man sente di nuovo il bisogno, come agli inizi (a es. nei rimandi al “nichilismo” di Nietzsche e Strindberg dello scena­ rio steso per Spasimo di Sjòberg), di chiamare in causa esplici­ tamente le sue fonti, le sue esperienze culturali più significati­ ve: si pensi solo a quanto avviene — e non è certo un caso che avvenga proprio lì - nel finale di quel tentativo non riuscito di summa della sua opera che è Fanny e Alexander, quando la nonna rilegge ad Alexander la pagina della nota d’accompagna­ mento di Strindberg al Sogno sui poteri senza limiti della fantasia nella creazione artistica:

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«Tutto può avvenire, tutto è possibile e probabile. Tempo e spazio non esistono; su una base minima di realtà Fimmaginazione disegna nuovi motivi: un misto di ricordi, esperienze, invenzioni, assurdità ed improvvisazioni»:

parole che — secondo quanto osserva la Koskinen nel già citato saggio della rivista «Chaplin» —

«divengono un credo estetico non solo per Fanny e Alexander, ma per l’opera cinematografica di Bergman nel suo insieme: il film come dramma onirico, il sogno come dramma filmico»8.

Qui mi pare che Bergman esca sconfitto, anziché vittorio­ so, nella lotta contro la tentazione in lui ricorrente del cedi­ mento acritico al mondo onirico di Strindberg. C’è forse qui un suo ritorno indietro, verso princìpi e stilemi di rappresenta­ zione del passato9, da lui stesso già superati; c’è una certa stanchezza, un allentamento della sua capacità di dominio e plasmazione della materia artistica, una concessione al lato naturalistico-decadente della cultura da cui proviene e a cui rimanda (almeno rispetto al fervore problematico della sua fase matura); c’è insomma, appunto, la maniera.

8 M. Koskinen, Det typiskt svenska hos 1. Bergman, cit., p. 226. (Cfr. anche Gianfranco Corrucci, Un omaggio a Strindberg nell’ultimo Bergman, in «Cinema nuovo», XXXIII, 1984, n. 289, pp. 10-11). 9 Ricordo che Olof Molander giustificava lòrientamento in chiave ultrasoggettiva, «proustiana», delle sue messe in scena strindberghiane proprio col «fatto ben noto che, per Strindberg, la vita tutta intera non era che un sogno, o una serie di sogni, e spesso di cattivi sogni» (M. Gravier, Mises en scène de Strindberg, cit., pp. 47-8).

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VI

Gli artefici del neorealismo

1. Profilo di De Sica neorealista

La figura di Vittorio De Sica come autore rappresenta, nella fase centrale del suo sviluppo (Punica cui si riferiscano le presenti considerazioni), un nodo nevralgico del cinema neo­ realista; poiché egli - a fianco di Rossellini e in stretta, insepa­ rabile unione con Zavattini - ne esprime e ne riassume, per così dire, la quintessenza. Oggi non sono più molti, crediamo, coloro che se la sentirebbero di esaltare indiscriminatamente, senza riserve, il movimento del neorealismo. Qualsiasi atteg­ giamento anche semplicemente “nostalgico” verso di esso oggi non avrebbe più senso. Il profondo mutamento dello sfondo storico e dei problemi, l’evoluzione della società italiana, le strade nuove - feconde o meno che siano - imboccate dalla cultura, dall’arte e quindi dal cinema, non solo rendono il neorealismo, come tendenza, inattuale, ma fanno sorgere la necessità di sottoporre a riesame critico l’intero quadro di valutazione del fenomeno, così per quanto riguarda la sua consistenza complessiva, come per quanto riguarda la consi­ stenza, il valore, dei suoi singoli autori e delle opere: senza che ciò debba naturalmente affatto implicare un qualsiasi su­ perficiale e assurdo atteggiamento «liquidatorio» dell’autenti­ ca grandezza di figure come quelle di De Sica e Rossellini, né della forza e vitalità che il neorealismo in generale ha sempre dimostrato di possedere, collocandosi senza alcun dubbio, «an­ 69

che nella sua rottura con certe forme tradizionali del cinema», tra i «fenomeni artistici più vitali del dopoguerra, e non soltan­ to del nostro». Come ha più volte giustamente sottolineato Aristarco, l’esperienza - naturalistica - del neorealismo non è affatto da liquidarsi in blocco: «Il neorealismo italiano [...] ha la sua ragione di essere, e cittadinanza nel campo dell’arte (come la ebbe uno Zola), nonostante le limitazioni che il meto­ do di rappresentazione, la tendenza comporta, reca in sé». Il riesame deve piuttosto andare nel senso di uno scanda­ glio del retroterra del fenomeno, di una penetrazione sino alla profondità delle sue radici. È diventato chiaro ormai da tempo alla storiografia del neorealismo, compresa quella estera (Schlappner, Hovald, Borde e Bouissy, Leprohon, Buache, Bondanella, Mira Liehm, Millicent Marcus ecc.; ma si veda soprat­ tutto l’importante libro dell’inglese Roy Armes, Patterns of Rea­ lism, del quale diciamo più oltre a parte: cfr. XIII, § 1), che soltanto un interesse molto sensibile e sviluppato per l’esplora­ zione del «passato prossimo» del neorealismo, per la storicizzazione dei fattori e delle componenti che entrano via via a costi­ tuirlo, per la proliferazione di quei germi innovatori che nel periodo bellico e prebellico contribuiscono a fomentare il pro­ cesso di disgregazione interna del fascismo - in breve, soltanto l’adeguato chiarimento della questione delle sue matrici può far luce sull’intero arco di sviluppo del movimento in entrambi i lati della sua parabola: può cioè chiarire come e perché al lato ascendente tenga dietro in prosieguo di tempo il lato discenden­ te, involutivo, un processo di decrescita della «esigenza neoreali­ stica» (De Sica e Rossellini anche qui insegnano). Senza questo preliminare scandaglio di matrici si ricade immediatamente nella “teoria della spontaneità”: nella conce­ zione storiografica del moto “spontaneo” delle forze della Resi­ stenza, che istituisce un rapporto meccanico tra la Resistenza stessa e il neorealismo, e che pretende di descrivere entrambi i fenomeni senza spiegarli. Se infatti si limita il collegamento tra le conquiste espressive del nostro cinema (della nostra cultura in generale) e il ripristino delle istituzioni democrati­

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che dopo la lotta di liberazione a un incontro solo meccanico, a un incontro di momenti uno esterno all’altro, si perviene necessariamente a falsificare Punita mobile dell’intera relazio­ ne - storicamente invece molto complicata, intrecciata, artico­ lata - e a oscurare o a respingere in secondo piano le questio­ ni storiche decisive: quelle concernenti la genesi e le ascenden­ ze del neorealismo, i suoi fondamenti; e la parentela che corre tra fondamenti e realizzazioni; e i nessi mediani di trapasso; e infine la relazione in cui questi nessi stanno con la svolta complessiva impressa dalla Resistenza al corso della storia italiana. La questione dei due lati della parabola del neorealismo, è ormai evidente, si intreccia indissolubilmente con quella della sua genesi. In effetti le remore, le debolezze, le difficoltà interne che ostacolano il movimento e poi lo mettono definiti­ vamente in crisi, sono già presenti, come semplici germi, nel periodo delle origini, sono già presenti nelle basi ideologica­ mente poco solide, oscillanti, dei suoi primi creatori. Un’inda­ gine che si proponga di rimuovere dal suo quadro ogni vernice falsamente apologetica e di risalire dalla apologia alla critica, alla teoria, può e deve tener conto anche della presenza nel movimento di precisi limiti storici oggettivi, e deve quindi saper illuminare convenientemente, per tutta l’estensione della superficie, il duplice aspetto di questa situazione: ossia, da un lato, l’aspetto del salto qualitativo, del capovolgimento dialetti­ co del vecchio nel nuovo, e dall’altro l’aspetto della continuità o della permanenza nel nuovo di certi vecchi residui non risolti, di elementi che — proprio a causa delle debolezze gene­ rali dell’antifascismo — si conservano pur entro la trasformazio­ ne della loro base sottostante. Queste considerazioni hanno per noi tanto maggior signifi­ cato, in quanto - ripetiamo - De Sica e Zavattini formano, con Rossellini, il binomio più autenticamente rappresentativo dell’essenza del neorealismo, sia in ciò che esso esprime di positivo, di innovatore, come nelle sue debolezze; tratti negati­ vi e positivi derivano qui precisameente dallo stesso inestrica­

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bile groviglio storico di circostanze. Il loro cinema neorealista non nasce certo a caso, come un fenomeno estemporaneo. Anch esso trae invece le sue origini da molto lontano, dalla lotta ideologica antifascista, da quel clima di opposizione al conformismo del regime che si era venuto maturando sotterra­ neamente in Italia, a diversi livelli di consapevolezza, negli anni immediatamente precedenti il conflitto mondiale e duran­ te il conflitto stesso. Ora che cosa contraddistingue in questo clima il cinema di De Sica e Zavattini? Qual è l’angolo visuale da cui si pongono, la fisionomia specifica della loro personali­ tà di artisti? Mentre Rossellini punta sull’afflato corale della Resistenza, individuando subito, con straordinaria sensibilità d’artista (in una forma dunque già ben meditata e elaborata, tutt’altro che “spontanea”), la complessa stratificazione sociale dei piani da cui scaturisce la rivolta, ciò che caratterizza for­ malmente il neorealismo di De Sica e Zavattini è l’adozione del punto di vista del “particolare”; essi guardano, per così dire, dal basso all’alto, si incentrano sull’individualità singola, sull’uomo isolato (impotente proprio perché socialmente isola­ to), e cercano di illuminare da quest’angolo prospettico il pro­ blema generale della nuova realtà italiana democratica. L’ope­ raio Ricci di Ladri di biciclette, il pensionato Umberto D., sono autentiche creature di questa realtà nuova del dopoguer­ ra, uomini «veri» nel senso del neorealismo, liberi cioè da impacci artificiali e da sofisticazioni, fermati sotto il riguardo della loro esistenza quotidiana; ma come singoli, come privati, essi hanno contro di sé non solo il meccanismo di classe dei rapporti sociali e i rappresentanti ufficiali del potere (funziona­ ri, burocrati, poliziotti, proprietari), tutti sempre ostili o indif­ ferenti al loro dramma, bensì anche il mondo esterno, la città, la massa, la folla in generale: il popolino rionale di via della Campanella, che si schiera compatto dalla parte del ladro anzi­ ché di Ricci, la gente dello stadio, che insegue e malmena Ricci non appena questi, disperato, tenta a sua volta il furto di una bicicletta, gli ex-colleghi e i conoscenti occasionali in cui si imbatte Umberto D., di una estraneità gelida, scostante,

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sorda a ogni simpatia. De Sica e Zavattini hanno continue annotazioni di questo genere: collocano i loro personaggi alcentro di una folla anonima, nel caos di un affaccendamento del tutto indifferente all uomo; creano il dramma con frequen­ ti rimandi dall’uomo al suo «imperscrutabile» destino: si ser­ vono stilisticamente, per evocare questa atmosfera, di esterni grigi, di riprese di spalla dei personaggi tra la folla, di campi lunghi e lunghissimi (come nella splendida sequenza di Ladri di biciclette in cui Ricci, che ha perso di vista il figlio, teme gli sia accaduta una disgrazia al fiume, ma poi lo vede riapparire in cima alla scalinata, lontano, in campo lunghissimo). Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto D. sono dunque, in doppio senso, espressioni tipiche del neorealismo. Lo sono anzitutto perché fanno valere un modo nuovo di illuminazione del reale, resosi possibile a seguito della trasformazione della società italiana, del nuovo clima che si instaura in essa con l’antifascismo e la Resistenza; ma lo sono anche, in secondo luogo, perché di questa connessione con il tessuto della socie­ tà italiana essi portano con sé le debolezze, da ricercarsi, anco­ ra una volta, nelle debolezze del fronte antifascista, nelle con­ traddizioni e insufficienze del movimento preparatorio delle correnti clandestine antifasciste operanti in Italia durante l’ulti­ ma fase della dittatura. È un difetto di radici. Gli uomini «veri» di De Sica e Zavattini, i loro spesso toccanti personag­ gi, sorreggono la loro umanità su strutture esili, troppo gracili, le sole d’altronde rispondenti ai princìpi formali e compositivi dei due autori: guardando essi appunto dal basso all’alto, cer­ cando di illuminare la realtà solo tramite l’adozione del punto di vista del «particolare», è naturale che finiscano col lavorare prevalentemente di cesello, di «colorito», con l’insistere sul dettaglio aneddotico, col ritagliare figure e figurine dal contor­ no netto, ma fragilissime (nel che soprattutto si avverte il gusto di Zavattini): fragilità la quale spiega, se non la resa, lo sbandamento dei due autori dopo la fine degli «anni eroici» e Umberto D. 73

2. Rossellini ieri e oggi Anno 1987: ricorre il decennale della scomparsa di Rober­ to Rossellini. Naturale che tutte le forze democratiche, gli studiosi, i cultori e gli appassionati di cinema in generale intendano celebrare degnamente Tanni ver s ario. Iniziative di maggiore o minor spicco si segnalano un po’ dovunque. Tra gli omaggi, degno in special modo di considerazione il «Tutto Rossellini» organizzato dalla XXIII edizione della Mostra in­ ternazionale del nuovo cinema di Pesaro, ‘personale’ compren­ dente l’intera produzione cinematografica e televisiva del gran­ de regista scomparso, con due volumi illustrativi di accompa­ gnamento, entrambi a cura di Adriano Apra: una raccolta di scritti e interviste del regista (Il mio mestiere, Marsilio, Vene­ zia 1987) e una «bibliografia internazionale» dal titolo Rosselliniana (Di Giacomo, Roma 1987). In Francia, in Germania, in Italia, negli Stati Uniti si vengono frattanto preparando e appaiono allora o di lì a poco nuovi libri (per taluni dei quali cfr. quanto se ne dice più oltre, XIII, § 2). Come c’era più di un motivo per attendersi, dalla retrospet­ tiva pesarese il ‘caso’ Rossellini è stato riaperto e rinfocolato con virulenza. Sono scesi in campo da ogni lato i suoi sosteni­ tori; si sono scatenati — talora sconsideratamente — gli entusia­ smi della cosiddetta “nuova critica”; certa stampa non ha per­ so occasione per dichiarare che i film giovanili (fascisti) del regista sono «capolavori» alla stessa stregua di Roma città aperta o di Paisà; in generale la maggior parte della pubblicisti­ ca, smarrendo il senso delle prospettive, si è improvvisamente e solidarmente trasformata in pura e semplice apologetica, restia a stabilire qualsiasi scansione o differenziazione interna al mondo del personaggio celebrato: a esempio, tra le due prime fasi del suo lavoro di regista, bellica e postbellica, e tra quest’ultima - resa celebre dai capolavori - e la sua “seconda maniera”, la cui usurpata celebrità si deve invece soprattutto alla mitizzazione di Viaggio in Italia (1953) compiuta da parte della critica francese. 74

Tale orientamento critico a noi sembra sbagliato e bisogne­ vole al più presto di un’energica correzione di tiro. Cerchere­ mo di spiegare molto in breve perché, lasciando senz’altro da parte tutto quanto concerne gli aspetti tecnico-filologici della questione (pure niente affatto trascurabile, come ha mostrato la retrospettiva pesarese) e venendo al solo punto che qui ci interessa e ci è possibile discutere: quello relativo alla posizio­ ne storica occupata dal regista nel contesto del cinema italiano del dopoguerra. Se Rossellini oggi costituisce un ‘caso’, è per­ ché l’evoluzione della sua arte - o, meglio, la sua parabola pone problemi di non secondario rilievo e non facile sciogli­ mento. Cominciamo col ricapitolare in sintesi le tappe di que­ sta parabola. Il primo Rossellini sta tutto all’insegna dell’idoleggiamento della ‘semplicità’. Egli ha il torto di andarla a cercare, durante il fascismo, là dove, proprio per via della falsificazione dei rapporti di classe provocata dal fascismo, essa non si trova e non si può trovare. Riuscirà a trovarla e, almeno per la fase sino a Germania anno zero (1948), a espri­ merla mirabilmente, solo quando, crollato il castello di carte del fascismo, si tratterà per l’Italia nuova di ricominciare tutto daccapo, e quella ‘semplicità’ un po’ mitica, trasfigurata, corri­ sponderà realmente a un momento spirituale della rico­ struzione. Certo sussistono anche qui dei nessi di continuità col pas­ sato. Il neorealismo di Rossellini non nasce a caso, come un fenomeno estemporaneo; trae invece le sue origini e radici da molto lontano, da quel clima di opposizione al conformismo del regime, che si era venuto maturando sotterraneamente in Italia (ancorché non sempre in forma consapevole) negli anni immediatamente precedenti al conflitto e durante il conflitto stesso. Che cosa fa la grandezza di film come Roma città aperta e, soprattutto, Paisà? Non già o non soltanto la circo­ stanza che queste opere risultano di un’impressionante contem­ poraneità, rispecchiano cioè in esse, con linguaggio asciutto e essenziale, fatti, accadimenti, contingenze e stati d’animo del momento; e neppure che nascono da un moto ‘spontaneo’,

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corale, di adesione del popolo italiano alla lotta di liberazione e alla Resistenza; o che si avvalgono di mezzi poverissimi, che si affidano all’improvvisazione, che sfruttano insomma le tragi­ che e irripetibili condizioni dell’immediato dopoguerra. (Anzi, la varietà di tutte queste ipotesi interpretative, a volta a volta avanzate dalla critica del neorealismo, hanno non poco contri­ buito a sfalsare e a sviare il giusto inquadramento storico del fenomeno nel suo complesso.) La vera grandezza di quei film, la loro vera ‘storicità’, sta piuttosto in ciò, che Rossellini, da artista consapevole, non si limita a riprodurvi con distacco indifferente la morta oggettivi­ tà esterna delle vicende del periodo dell’occupazione tedesca, ma articola il racconto su una pluralità di piani, dal cui intrec­ cio complessivo risulta — secondo una forma ben elaborata e meditata, dunque tutt’altro che ‘spontanea’ — lo spirito e la situazione della società italiana durante la Resistenza: la ribel­ lione degli strati popolari, la partecipazione attiva degli intel­ lettuali e di una certa parte del clero (si ricordi, in Roma città aperta, la figura di don Pietro), il diverso atteggiamento preso dai diversi gruppi e dalle diverse forze sociali nel momento della lotta. Rossellini si guarda bene qui dal ridurre la coopera­ zione delle forze a un unico, neutro “minimo comun denomina­ tore”; la visione quanto più possibile estesa della storia reale del presente è certo già pienamente nei suoi propositi, quando in un’intervista dichiara: «Ho bisogno di una profondità di piani che solo il cinema può dare, e di vedere persone e cose da ogni lato». Paisà, in particolare, si spinge molto avanti nel cogliere con tratti quasi sempre consoni le minute differenzia­ zioni, e talvolta i contrasti, presenti nei motivi ideali e reali deDo sforzo unitario antifascista. Le difficoltà per Rossellini cominciano subito dopo. Egli rivendica bensì con qualche ragione, nel 1952, l’ininterrotta coerenza della sua attività creativa, «in quanto - così gli pare e dice — dai miei documentari ai primi film di guerra, a quelli del dopoguerra, a quelli di oggi, v’è una sola, unica linea, pur attraverso le differenti ricerche»; e motiva poi questo assunto

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con l’argomento dell’esigenza interna di un trapasso dalla pre­ sunta «coralità» del realismo («Il film realistico, in sé, è cora­ le») al dramma singolo, al ‘personaggio’: «È indubbio che ho cominciato puntando, anzitutto, sulla coralità. Era la guerra stessa che mi vi spingeva: la guerra è corale in sé. Se dalla coralità, poi, sono passato alla scoperta del personaggio, ad uno studio più approfondito del protagonista, come è il caso del bimbo di Germania anno zero o della profuga di Stromboli, questo rientra nella naturale evoluzione della mia attività di regista». Fino a che si prende in esame soltanto il lato soggettivo della creazione artistica, le scelte di campo operate dal regista, ciò appare - ripetiamo — relativamente giustificato; dal lato oggettivo, tuttavia, ci si presenta un quadro meno armonico. Anzi, la pretesa continuità di linea, la vantata coerenza nelle scelte, nello stile ecc., entrano in conflitto con le trasformazio­ ni della realtà sociale esterna, ripercuotendosi negativamente — anche se inconsapevolmente - sullo stesso atteggiamento creativo del regista, sulla sua capacità di rappresentazione del mondo e dei personaggi. Il disagio che si dipinge sul volto della Karin di Stromboli (1949-50), non appena sbarca sul­ l’isola dai costumi ancora ‘semplici’, primitivi, e che esplode poi nel corso del film sotto forma di conflitto tra comporta­ menti morali diversi (‘modestia’ della semplicità di classe contro ‘immodestia’ della classe socialmente più elevata), è il medesimo che proprio allora viene manifestandosi nel suo autore. Non stupisce che Rossellini giudichi Stromboli un film per lui «molto importante»; lì egli si trova infatti per la prima volta a un bivio, da lì in poi egli imbocca la strada del film psicologico, caratteristico di tutte le esperienze della sua “seconda maniera”, Viaggio in Italia incluso. Quando poi, dopo il fallimento di queste esperienze, egli compie ancora con II generale Della Rovere (1959) e con Era notte a Roma (1960) il tentativo di tornare al clima, alle forme, ai moduli stilistici dei suoi capolavori, le cose non stanno più — né in lui né fuori di lui — come un quindicennio prima. Dal rapido

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confronto testuale tra le vecchie e le nuove opere risulta chia­ ramente come la vicinanza dei temi e dello spirito non garanti­ sca affatto la stessa pregnanza di rappresentazione artistica; il regista torna al clima a lui congeniale della Resistenza senza più l’impeto e l’impegno che lo guidavano un tempo, quasi che la solidità della sua visione del mondo si fosse nel frattempo incrinata e non restasse più della foga precedente che un’eco smorta, pallida, illanguidita. Ora avviene proprio il contrario che in precedenza. Non solo manca nei suoi nuovi film resistenziali qualunque stratifi­ cazione di piani, ma va perduto anche l’empito corale-colletti­ vo che sorreggeva prima tanto mirabilmente la rappresentazio­ ne della discesa in campo delle masse. Mentre il peso del personaggio ridiviene prevalente (nel senso di una psicologia spiritualistica), Rossellini perde il contatto con la pluralità e la mobilità delle contingenze circostanti; le esperienze singole non hanno più un vero punto di riferimento, una collocazione, nell’arco dell’esperienza storica in generale. L’attività reale dei partigiani, l’intervento decisivo delle popolazioni, la guerra armata delle bande, le sortite insurrezionali sono tutti aspetti presenti ma ormai diluiti e sfibrati della Resistenza di Rosselli­ ni, che vede cosi refluire in secondo piano il suo nocciolo essenziale. In questo modo cambiano radicalmente spirito e significa­ to del dima del dopoguerra. Al posto di un orientamento storico chiaro e definito, pur nella sua varietà di piani (anzi chiaro e definito proprio grazie a questa varietà), la Resistenza assume la fisionomia di un moto indistinto, confuso, inconsa­ pevole. Ciò si vede bene nella figura equivoca e truffaldina del generale Della Rovere, che soltanto circostanze casuali elevano al grado di eroe; ma si vede ancor meglio, ci pare, nel meccanismo che mette in moto la collaborazione antifascista di Era notte a Roma. Le grandi idealità che animavano Pina, la popolana di Roma città aperta, sono nella popolana di questo film completamente spente. Da un lato scompare ogni confron­ to tra popolo e intellettuali, tra adesione istintiva e adesione

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mediata e consapevole, ideologicamente matura, alla lotta di liberazione in corso; dall’altro anche il momento dell’adesione popolare istintiva è abbassato, non meno che nel Generale Della Rovere, a un che di casuale, di subito: la preoccupazione costante che domina i personaggi principali è quella di conser­ vare il maggior grado possibile di estraneità agli avvenimenti. La rinuncia a una compiuta articolazione della struttura delle opere in conformità alle modifiche frattanto intervenute nella struttura della società italiana rispetto al periodo dell’immediato dopoguerra, la semplificazione unilaterale del quadro delle forze storiche operanti, l’abbandono - entro questo qua­ dro storicamente restrittivo - della vitalità dei grandi ideali democratici, l’attenuarsi del calore della narrazione e, in prosie­ guo, la stessa sfiducia espressa dal regista nei confronti del cinema come mezzo («La televisione più del cinema mi sem­ bra in grado di contribuire alla formazione di veri orientamen­ ti»), - ecco tutta una serie di fattori che testimoniano, a nostro parere, delle gravi incertezze e della crisi del Rossellini “seconda maniera”. La stessa falsa strada imboccata con Strom­ boli. che lo conduce poi sino all’estremo di Viaggio in Italia. non è se non un momento del più vasto complesso problemati­ co qui schizzato e non può dunque venir discussa, compresa a fondo e valutata - checché di solito si sostenga in contrario al di fuori di esso. Quanto all’attività televisiva, essa resta circoscritta entro l’ambito del suo intento confessatamente didattico (Rossellini preferisce chiamarlo «didascalico). Di essa in generale, o dei suoi prodotti singoli, intesi come esperienze d’arte, non mette neanche conto di parlare, fatta eccezione solo forse per La presa del potere di Luigi XIV (1966); ma anche qui ha la meglio e prende il sopravvento sull’impianto storico quella tendenza alla «soggettivizzazione», «moralizzazione» e «mo­ dernizzazione decorativa della storia», piena di aneddoti pitto­ reschi, che Lukàcs critica a giusta ragione nel romanzo pseu­ do-storico dei romantici francesi dell’Ottocento (Alfred de Vi­ gny, Victor Hugo, ecc.). 79

VII

Gli esordi di Kluge e Wenders

Tra gli esponenti più significativi del movimento che ha preso il nome di «nuovo cinema tedesco», due sono gli autori, ci sembra, che emergono sugli altri: Alexander Kluge e Wim Wenders. Non solo perché essi stanno, l’uno, alle sue origini prime, e l’altro alla base della sua diffusione e rinomanza mon­ diale; ma soprattutto perché — a differenza di un Fassbinder o un Herzog o un Syberberg, la cui attività intensissima, caotica, multivetsa, si lascia difficilmente ricondurre entro lo schema di una definizione — rappresentano entrambi personalità dai con­ trassegni stilistici ben precisi e riconoscibili: perché si tratta insomma, con loro, — quale che sia poi il giudizio da esprimere sul loro cinema (e il nostro - si vedrà - è tutt’altro che encomia­ stico) - di due «autori» nel senso pieno del termine. (Autore in senso pieno è certo anche Jean-Marie Straub; ma col «nuovo cinema tedesco» egli ha ben poco o nulla a che vedere.) L’intento delle poche righe che seguono resta volutamente molto circoscritto. Non si ha qui infatti la pretesa se non di suggerire una traccia di ricerca, limitata per Kluge ai suoi esordi veri e propri, e per Wenders a quella fase che si esten­ de sino a ricomprendere tutte le realizzazioni (secondo noi, le sue maggiori in assoluto) del primo periodo tedesco. 1. Alexander Kluge

Gli esordi cinematografici di Kluge (firmatario nel 1962 del Manifesto di Oberhausen, luogo di nascita del nuovo cine­ 81

ma tedesco)1 avvengono all’inizio degli anni ’60, dorante quel­ la situazione di disagio e di crisi della cultura -/non soltanto tedesca e non soltanto cinematografica - che pq/terà all’esplo­ sione del 1968. Il suo approccio alla letteratura e al cinema è un effetto e un riflesso di questa situazione. Ma crisi, disagio, non significa per Kluge solo qualcosa come un’insofferenza generica; la crisi ha in lui radici più profonde, che coinvolgo­ no - con ripercussioni insistite e continue nei suoi film l’intero passato della Germania, dalla esperienza tragica del nazismo (si veda già il suo cortometraggio d’esordio, Brutalitàt in Stein. Die Ewigkeit von Gestern, diretto in collaborazio­ ne con Schamoni nel 1960) fino a quella della debole democra­ zia del dopoguerra, nelle cui pieghe si annidano, minandola, tarli e vizi non meno gravi di quelli del passato1 2: una «brutali­ tà» che si esercita direttamente sugli uomini. Lo «ieri» come radice del male è dunque continuamente presente nella rifles­ sione di Kluge. Solo da una adeguata resa dei conti col passato può nascere realmente, secondo lui, un nuovo cinema tedesco. Ci sono due aspetti di questo suo nuovo cinema che vanno subito fissati. In primo luogo, il fatto che il suo cinema com­ batte apertamente contro l’inumanità della vita nel capitali­ smo. L’Anita G. di Abschied von Gestern (1966), la Leni Peickert del film successivo, Die Artisten in der Zirkuskuppel: ratios (Artisti sotto la tenda del circo: perplessi, 1967-68), che fallisce nel suo tentativo di una riforma del circo, esperimentano entrambe duramente le condizioni di vita nell’ambito del dominio delle leggi economiche capitalistiche; in entrambi i

1 Cfr. più oltre, XVII. 2 Sul significato di questa persistenza del passato nel presente della storia tedesca, cfr. Oskar Negt e Alexander Kluge, Geschichte und Eigensinn, Zweitausendeins, Frankfurt a.M. 1981, pp. 361 ss., cui rinvia il saggio su Abschied von Gestern - inteso a offrire un confronto tra racconto e film - di Miriam Hansen, Space of History, Language of Time: Kluge’s “Yesterday Girl” (1966), in German Film and Literature: Adaptations and Transformations, ed. by Eric Rentschler, Methuen, New York-London 1986, pp. 193-216.

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casi le sconfìtte sono viste da Kluge come il risultato, social­ mente mediato, della brutalità di un meccanismo le cui radici risalgono al passato, della sopravvivenza e permanenza dei mali tragici della Germania. È in secondo luogo una particola­ rità del suo cinema, già presente implicitamente nelle forme narrative spezzate e aforistiche di Abschied von Gestern, ma che Artisten, portando a coerente e compiuto sviluppo le pre­ messe, teorizza anche in modo esplicito, quella di porre in stretta relazione la inumanità del contenuto con la necessità di un suo riapproprio critico mediato: quanto più è inumana la situazione storica - si dice in uno dei tanti commenti filosofici fuori campo - tanto più è necessario che l’artista elevi la sua forma al livello di una grande complessità intellettuale, cioè la renda, perché sia significativa, densa e difficile (come appunto accade in Kluge). In dipendenza da questo convincimento, Kluge imbocca la via della «riflessione», del film-saggio, che contravviene ai canoni della narrazione tradizionale: le vicende di Anita G. e di Leni Peickert perdono la loro natura e il loro carattere drammatico per assumere forma di narrazione dall’esterno; al dramma dei protagonisti si sovrappone e si sostituisce il mo­ mento della riflessione saggistica dell’autore; lo spettatore assi­ ste non tanto a ciò che tocca in sorte o accade ai personaggi, quanto ai riflessi soggettivi che si determinano nella loro situa­ zione umana senza via di uscita. Va d’altronde sottolineato che questo non è che un aspetto soltanto della densità e com­ plessità della narrazione di Kluge. Le sue vie di approccio alla materia si muovono su diversi piani e a diversi livelli, e si incrociano tra loro. C’è anzitutto, al centro degli Artisten, la metafora ideologica della riforma del circo (cioè, per Kluge, del cinema, della cultura, della società); c’è poi il peso che esercita lo «ieri» (gli uomini dal passato nazista, come il padre di Leni), e la sua «eternità», la sua continuazione nell’oggi (il procuratore di Stato Korti, responsabile del buon costume, che vediamo nel film, non a caso, mentre divora un orecchio di porco: si noti che questa e l’altra sequenza, col padre di 83

Leni, sono le uniche due girate a colori, e ch^ per stile e collocazione strutturale si corrispondono simmetricamente); ce infine l’atteggiamento soggettivo dei personaggi o, per me­ glio dire, dell’autore, improntato non a certezze ma a dubbi, alla convinzione di vivere una fase storica estremamente pro­ blematica. Le «perplessità» non sono soltanto di Leni e dei suoi «artisti»; appartengono in proprio allo stesso Kluge; fa cioè parte della essenza e esigenza primaria del suo nuovo cinema che incertezza e disagio, non che venire esorcizzati, si costituiscano a fulcro della narrazione e la pervadano tutta quanta di sé. Ecco i tratti critici principali del film di Kluge. Eppure, con tutto ciò, resta egualmente una distanza allegorica incolma­ bile tra nucleo drammatico (narrativo) e forma espressiva. Per quanto lontano sia Kluge da semplificazioni schematiche, per quanto duttile e sapiente sia l’uso che egli fa della «camera», per quanto elaborata sia la - apparentemente sconnessa forma del film, per quanto preziosi e ricercati, quasi mai gra­ tuiti, siano gli inserti, i rimandi, i nessi, le ideazioni formali, tuttavia la forma non adegua e non può adeguare mai, per la natura stessa, esterna, della sua genesi, il contenuto di un simile film-saggio.

2. Wim Wenders

Tratti non meno contraddittori che in Kluge si riscontrano nell’esperienza degli esordi di Wim Wenders. Anch’egli è un intellettuale del “disagio”; e anche in lui l’intellettualismo non è tanto o soltanto un vezzo, quanto piuttosto lo strumento per una precisa scelta di campo, il cui rilievo, come poetica, inve­ ste e condiziona la forma filmica, conferendo ai prodotti quel­ la dimensione eminentemente saggistica, tipica dell’avanguar­ dia, che abbiamo riscontrato anche in Kluge. Non è un caso che Peter Handke influisca in profondo, fin dall’inizio, sulla concezione del mondo di Wenders. Lo stesso Wenders, in 84

un’intervista3, mette nel giusto rilievo la consonanza spirituale con Handke, suo amico di vecchia data e compagno di scorri­ bande cinematografiche giovanili, sia per quanto attiene al pia­ no contenutistico (tema della solitudine, della difficoltà a comu­ nicare), come per quanto attiene al piano formale («le frasi di Peter somigliano alle mie inquadrature»). Da questa similarità nasce la loro successiva collaborazione, che interessa centralmen­ te la prima metà degli anni 70: se da un romanzo di Handke, e con il suo diretto apporto (per i dialoghi), viene il secondo lungometraggio di Wenders, Die Angst des Dormanns beim El­ fmeter (Prima del calcio di rigore, 1971), sarà Handke a rimani­ polare liberamente, in qualità di sceneggiatore, Gli anni di novi­ ziato di Wilhelm Meister di Goethe per trarne Ealsche Bewegung (Falso movimento, 1975 )4 ; e di lui Wenders avrà anche occasio­ ne di mettere in scena testi teatrali. Come e ancor più del secondo lungometraggio, il primo, Summer in the City, del 1970 (il cui titolo viene da una delle tante canzoncine americane che accompagnano il viaggio senza meta del protagonista, che vediamo all’inizio mentre esce di prigione e seguiamo poi nelle sue monotone peregrinazioni per le strade della Germania, da Monaco a Berlino), contiene in germe un prontuario dei motivi destinati a diventare i più noti della poetica di Wenders: cominciando con quello ossessi­ vo, e qui quasi unico (ma che domina poi anche la cosiddetta “trilogia tedesca”), del vagabondaggio. Senza essere affatto dei capolavori, entrambi i lungometraggi d’esordio appaiono zeppi di segni premonitori. Dietro suggestione di Handke, vi si circoscrivono e definiscono con chiarezza i confini di un mon-

’ Cfr. Entretien avec Wim Wenders, a cura di Andrée Tournès, in «Jeune Cinema», n. 94, aprile 1976, p. 28. 4 Del loro libero rapporto col romanzo di Goethe, Handke e Wenders trattano nell’intervista rilasciata a Joachim von Mengershausen Gli eroi sono gli altri, che citiamo dall’opuscolo II cinema di Wim Wenders (quad, informativo della I ed. degli Incontri cinematografici di Monticelli Terme), a cura di Giovanni Spagnoletti, Parma 1977, pp. 49-51.

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do artistico. Decisivo è, già lì, il nocciolo ontologico della situazione da cui si sprigiona l’irrequietezza, il bisogno di vagabondaggio: la solitudine esistenziale — insuperata e insupe­ rabile — dei protagonisti, che cercano sì nel mondo un contat­ to, un legame sociale (umano), ma senza volerlo davvero e quindi senza trovarlo. La solitudine è lo stato sentimentale che esperimenta Josef Bloch, portiere di una squadra di calcio, in Prima del calcio di rigore. A seguito di un incidente di giuoco, egli viene espulso dal campo e si mette a vagabondare a casaccio. Tutti i suoi movimenti e spostamenti, le sue azioni, sono senza scopo e senza meta; non conducono da alcuna parte, non risolvono il dramma della sua esistenza. Egli si imbatte in persone che non conosce e in altre che, come la padrona della locanda di fron­ tiera, conosce invece da molto tempo; ma che conosca o non conosca gli interlocutori e le partners dei suoi numerosi incon­ tri, il risultato non cambia mai: tutti gli restano sempre egual­ mente estranei, e i suoi sporadici, episodici tentativi di comuni­ care (limitati quasi soltanto alle esperienze di giuoco) naufraga­ no dal principio. Inevitabile che il disagio si muti in tragedia: Josef giunge sino all’atto gratuito del delitto, strangolando senza motivo una cassiera di cinema incontrata occasionalmen­ te, con la quale ha passato la notte. Solitudine, paura, alienazione, perdita di identità, impossi­ bilità di comunicare, salto nel gratuito, nell’irrazionale, sono appunto i temi — esistenzialistici — di Handke. Da Leitmotiv psicologico di tutto il cinema di Wenders potrebbe fungere il ritornello che in suo film posteriore, Der amerikanische Freund (L’amico americano, 1977), egli mette in bocca al personaggio eponimo: «Non c’è da temere altro che la paura. So sempre meno chi sono e chi sono gli altri». Una gravosa atmosfera da tragedia, quasi il postumo di un trauma storico (la tragedia tedesca), accompagna i pellegrinaggi oziosi dei protagonisti, riflettendosi negativamente sulla loro psiche; co­ sì, a es., in Prima del calcio di rigore si parla di un bambino scomparso, che poi viene ritrovato morto a causa di un inci­ 86

dente; e Josef accenna confusamente, durante un colloquio, all’impressione di sentirsi spiato dai binocoli delle sentinelle di frontiera. (Questo tema della Germania divisa e della frontie­ ra torna di continuo anche nel primo Kluge.) Molto significativo il modo in cui Handke e Wenders si misurano con il Goethe del Wilhelm Meister. Certo il romanzo serve a Falso movimento solo da pretesto; di goethiano non resta qui altro che il tema di una vocazione artistica non realizzata. (In questo senso il film, pur raccontando di un «pellegrinaggio», si attiene rigorosamente al «noviziato» di Wilhelm Meister, anzi, meglio ancora, al Meister della «voca­ zione teatrale».) Eppure il confronto con Goethe assume gran­ de rilievo per la definizione del retroterra del mondo di cultu­ ra dei due autori. Qui essi intendono infatti rapportarsi negati­ vamente e polemicamente al periodo classico della cultura tedesca, privandolo dell’«aura» che lo circonda. Mentre la vocazione artistica di Wilhelm si dissolve in un perenne stato di abulia, di passività, di sconforto (quel “malumore e disagio” che la madre fin dall’inizio gli profetizza e anzi, in un certo senso, gli raccomanda, perché Wilhelm possa coltivarsi meglio come autentico scrittore ‘moderno’), nell’importante sequenza del suo incontro con l’industriale, candidato suicida, la filoso­ fia tedesca viene apertamente accusata di «far dimenticare la paura». “I suoi metodi per far dimenticare la paura”, afferma l’industriale, producendosi in una conclone sulla solitudine della Germania, “sono stati persino legalizzati”: evidente quan­ to stravolta allusione alla dottrina dello Stato, e di qui direttamente al nazismo: non a caso Laertes, l’accompagnatore di Mignon, che si presenta come “cantante”, è un ex-ufficiale nazista. Dai condizionamenti di questa atmosfera oggettiva di crisi come anche, soggettivamente, dal riverbero di questi umori nei protagonisti, nasce l’intero contesto della poetica di Wen­ ders. Per un verso i suoi protagonisti sono inevitabilmente votati allo scacco. Ogni loro tentativo di progresso, di movi­ mento in avanti, non può essere e non è che un “falso movi­

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mento”. Wilhelm - come già il fotografo di Alice in den Stàdten (Alice nelle città, 1974), e poi il camionista e il pediatra di Im Laufe der Zeit (Nel corso del tempo, 1976) — non si realizza né sul piano umano né su quello professionale; fallisce sia come uomo che come scrittore. Non ci sono in lui solo “malumore e disagio”; c'è, di più, una stanchezza interna che lo rende apatico, insensibile a tutto. “La tua insensibilità mi disgusta”, lo rimprovera la donna cui si è legato, Fattrice Therese. Lui per primo, d'altronde, riconosce le scelte falli­ mentari compiute, il “falso movimento” della sua esistenza: che cioè con ogni nuova scelta, con ogni movimento, viene continuamente perdendo qualcosa. Quando alla fine decide di abbandonare la compagnia raccogliticcia che gli si è stretta intorno, rifugiandosi in alta montagna, neanche questa scelta segna il passo decisivo verso un’ascesa artistica; si tratta piutto­ sto solo - come riconosce lui stesso - di un pretesto per la sua “apatia”. E altrettanto accade con il camionista Bruno di Nel corso del tempo. Anche da lui la solitudine è proclamata e reclamata a gran voce, come il frutto di una scelta consapevo­ le, che si crede appagante (“Funziona lo star soli?”, gli doman­ da Robert, il suo compango di viaggio. “Funziona, sempre meglio”); ma il film mostra, all’opposto, come le sue certezze non siano meno problematiche e i suoi movimenti non meno falsi di quelli di Wilhelm: un girare intorno a sé senza scopo e senza speranza, un vuoto ben colto dalle parole che la,cinica lucidità di Robert gli getta in faccia con sprezzo durante il loro ultimo colloquio: “Non sai di che parli. Siedi nel tuo camion come in un bunker e fai dei grandi discorsi sullo star da soli. A te non può succedere niente... Sei praticamente morto”. Questa intima problematicità della poetica di Wenders costituisce, per altro verso, la sua forza. In primo luogo, essa suscita nell’autore un conflitto con se stesso, spingendolo in­ consapevolmente ma irresistibilmente a contraddire le sue pro­ prie convinzioni in fatto di creatività "moderna’ (quella che si pretende alimentata solo da "‘malumore e disagio”); poiché è evidente che la denuncia del “falso movimento” del suo pseu-

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do-scrittore assume il rilievo e il senso di un’autocritica, della sincera ammissione di un’ràprttfe creativa. In secondo luogo, nonostante le matrici (esistenzialistico-negative) cui la sappia­ mo risalire, essa dà vita alla costruzione di un mondo artistico percorso da fremiti di inquietudine e ansia di ricerca, che — almeno in superfìcie — non si arrende alla staticità; il movimen­ to, per quanto falso, vi resta movimento. È significativo che Wenders colleghi direttamente il tema del viaggio all’essenza del cinema in quanto tale. Una volta egli dice: «Anche il film, come forma di racconto, non ha che una direzione, l’andare avanti; i miei personaggi vanno avanti senza sapere dove vanno; e il film non ne sa di più; lo spettatore non ne sa di più del protagonista».

E in un’altra circostanza: «Ho sempre amato lo stretto rapporto che c’è tra movimento {motion} ed emozione {emotion}. Alle volte mi viene fatto di pensa­ re che nei miei film l’emozione nasce solo dal movimento, non è creata dai personaggi [...]. Penso che il movimento mantenga co­ stantemente l’idea del cambiamento. Non è che la gente nei miei film cambi parecchio, per non dire affatto, ciò nonostante mantie­ ne costantemente quell’idea»5.

Di qui l’importanza ‘emotiva’ che vi acquistano, da un lato, i sogni a occhi aperti, l’inconscio, l’interiorità dell’indivi­ duo lasciato a se stesso, al deserto della sua solitudine; dall’al­ tro — come lato complementare di questa interiorità impoten­ 5 Citiamo da due testi del 1976, Entretien avec Wim Wenders, cit., p. 29. e Intervista con Wim Wenders, a cura di Jan Dawson, nell’opusco­ lo Il cinema di Wim Wenders, cit., p. 34. Sul tema del viaggio in Wenders ce ormai tutta una letteratura. Giustamente si è osservato che, a partire da Alice nelle città, il viaggio non è più per lui «una fuga, ma una ricerca», «una metafora per la ricerca dell’identità» (Kathe Geist, The Cinema of Wim Wenders: From Paris, France to “Paris, Texas", U.M.I. Research Press, Ann Arbor-London 1988, p. 42. Cfr. anche più oltre, XVII).

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te, di questo stato di deiezione incapace di elevarsi fino alla coscienza - le immagini paesaggistiche, lo sguardo irrequieto, continuamente mobile, sul mondo esterno. È una costante del cinema di Wenders, fin da Summer in the City, che al paesaggio vuoto dell’anima corrispondano o freddi colloqui in interno di personaggi che neanche si guardano, oppure, più spesso, la visione — gonfiata a motivo dominante — di immagi­ ni in successione del paesaggio esterno che scorrono dinnanzi ai loro occhi: per lo più, lunghe carrellate laterali che accompa­ gnano il loro spostamento in treno {Falso movimento) o in auto {Alice nelle città) o in side-car e furgone {Nel corso del tempo), mentre altri mezzi di locomozione, treni, corriere, ecc., sfilano fischiando o suonando ai margini della strada. Quanto più forte è lo stato di crisi interna dei personaggi, tanto maggiore anche la loro inquietudine fisica. Tipicamente wendersiana la congiunzione dei due tratti nel protagonista di Prima del calcio di rigore, Josef Bloch, il quale, ossessionato dal bisogno di muoversi, di toccare sempre nuovi oggetti ecc., si sposta da un luogo all’altro in continuazione, entra e esce dai locali (in specie dai cinematografi), chiede sempre dei giornali, non trova requie: “Perché ti alzi, ti siedi, ti alzi di nuovo, prendi una cosa, poi la lasci?...”, si meraviglia la pa­ drona della locanda di frontiera. “Che ti succede?”. In realtà questo soprattutto va qui rilevato - non si tratta mai nel film dei veri oggetti di un soggetto, di oggetti cioè che, in senso proprio, gli stiano di contro {Gegen-stànde), ne arricchiscano l’individualità, entrino a costituire la sua esperienza umana. La giusta risposta di Josef alla domanda che gli è rivolta, “Che ti succede?”, dovrebbe propriamente essere: nulla. Di sostan­ ziale, fino al delitto, non gli succede in pratica nulla. Egli esperimenta solo l’impressione soggettiva della nullificazione dell’esistente. Di lì a poco i film della “trilogia tedesca” esibi­ ranno esperienze analoghe. Manca dunque, prima e dopo, un referente oggettivo, un mondo. Piuttosto che con oggetti, si ha a che fare col regno di un’oggettùalità morta, meccanizzata, ostile all’uomo: macchi­ 90

ne, appunto, e apparecchi telefonici e juke-box; e, insieme, con una natura anch’essa totalmente estranea. Apparato mecca­ nico e natura si trovano livellati allo stesso grado di inespressi­ vità. Ciò che scorre dinnanzi agli occhi dei protagonisti, essi non lo vedono veramente; nel loro sguardo, nella fenomenolo­ gia dei paesaggi e dei comportamenti, non viene operata alcu­ na scelta, non si stabilisce alcuna gerarchia di valore. Le cose - semplicemente (naturalisticamente) — stanno là. A esempio, quando il Wilhelm di Falso movimento parte in treno per Bonn, vorrebbe sì, durante il viaggio, “esplorare la sua ani­ ma”; ma di fatto i suoi occhi — che si identificano con gli occhi di Wenders, e dunque anche con quelli dello spettatore — non esplorano altro che i paesaggi della campagna tedesca così come essi si succedono al finestrino del treno da cui egli guarda: paesaggi che potrebbero essere bellissimi - ammette lo stesso autore6 - ma che, «a causa della storia» (o, diciamo meglio, del modo in cui l’autore la narra), «sono orribili». Persino gli incontri con altri personaggi stanno dapprima al livello di questa oggettualità morta. Abbiamo già parlato di quanto accade nel film d’esordio. La novità di Alice e Nel corso del tempo è che qui troviamo un Wenders maggiormente disposto a interrogarsi sull’umanità dell’uomo. Non solo il suo occhio si fa più attento, scruta con passione e interesse soprat­ tutto entro le maglie del mondo infantile - il tema centrale di Alice, poi sbalzato a grande rilievo anche da Nel corso del tempo (sequenza iniziale che introduce Robert, quando questi si ferma in auto al chiosco di benzina e si rivolge alla bambina accovacciata su una palla, che gli risponde a gesti; immagini dei bambini che giuocano sotto il ponte dell’Elba e della scola­ resca al cinematografo; e ancora, nel finale, incontro di Ro­ bert, che è un pediatra, col bambino impegnato a descrivere tutto ciò che vede alla stazione); ma ora le esperienze dei Wanderer si arricchiscono di confronti, rapporti, scambi, lega-

‘ Cfr. Entretien aver Wim Wenders, cit., p. 30.

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mi, ecc. con altri interlocutori, i cui effetti retroagiscono sui soggetti agenti: si veda, a es., il saldo legame che dopo un po’ si stabilisce tra il fotografo e Alice; o rincontro di Bruno con l’uomo, stravolto dal dolore, la cui moglie è poco prima perita in un incidente d’auto; oppure quello, bellissimo, - carico di silenzi, di cose taciute, di mezzi rimproveri, di intima sofferen­ za - che Robert ha con il padre, giornalista, nella cittadina di Ostheim: di nuovo, due diverse solitudini a confronto. Cresce in parallelo, sul piano stilistico, la sapienza compo­ sitiva, che con Nel corso del tempo tocca un culmine da Wen­ ders poi mai più raggiunto. La lenta cadenza del ritmo punta qui a stringere in unità esterno e interno; di pari passo col fluire, lento e monotono, delle immagini del paesaggio ester­ no, scorre all’interno, nella psiche, la “storia” dei protagonisti. È interessante rilevare che il concetto della formazione come storia, come processo che avviene “nel corso del tempo”, figu­ ra — prima ancora che al centro e a titolo del film del 1976 in Falso movimento, nelle parole che Wilhelm mormora all’ini­ zio durante il sonno, quando già da tempo non riesce più a parlare con nessuno; proprio come è la solitudine che spinge i due protagonisti di Nel corso del tempo al vagabondaggio, alla ricerca ostinata quanto disperata delle proprie radici. “Io sono la mia storia”, dice Robert a Bruno; e Bruno, dopo la visita alla casa renana dove ha trascorso la sua infanzia con la ma­ dre: “Sono contento che siamo andati sul Reno. Per la prima volta mi vedo come uno che ha dietro di sé un certo tempo, e questo tempo è la mia storia. È una sensazione abbastanza tranquillizzante”. Non occorre naturalmente molta perspicacia, dopo quanto sopra riscontrato a riguardo del clima esistenziale dominante, per capire come questo “tempo” e questa “storia” si identifichi­ no non con la storia e il tempo oggettivi, bensì col significato - squisitamente soggettivo - che essi hanno nell’ontologia di Heidegger; come cioè fungano solo da componenti della strut­ tura “ontica” delle rispettive personalità. Più in là di questo traguardo Wenders non sa andare. Che i suoi personaggi “scor­ 92

rano” ora nello spazio e nel tempo con molta più mobilità di prima, che egli addensi loro intorno esperienze di una ricchez­ za ignota ai suoi film d’esordio, non migliora che in parte le cose; ciò lo porta sempre solo fin sulla soglia della soluzione dei problemi artistici che egli affronta, talvolta (come nella già citata sequenza dell’incontro di Robert con il padre) fin sulla soglia della piena riuscita, della sequenza capolavoro. Ma solo sulla soglia. Lì giunto, ecco che egli si ferma e rinuncia. Una rinuncia, d’altronde, inevitabile. Sono i mezzi formali impiegati che gli fanno difetto, che gli impediscono di andar oltre il naturalismo della sua poetica. Non parliamo qui nean­ che, si badi, dell’esito assai dubbio dei film d’esordio, stilisticamente ancora irrisolti, dove Wenders non riesce ancora ad adattare il ritmo alla sua poetica, a trovare per esso la forma giusta (cadenze ossessive, cesure e passaggi troppo bruschi, montaggio che, nonostante le aperture descrittive tipiche dei film posteriori, appare irragionevolmente concitato, come mai più in seguito; e soprattutto ostentazione del vezzo dell’americanismo, cioè del gusto, invalso fin dai primi cortometraggi7, per l’uso- ingenuo, acritico, artificioso, disturbante, di stilemi legati al mito del cinema americano); no, parliamo dei limiti formali - naturalistici - propri anche a tutti i suoi film maggio­ ri, succintamente compendiabili nei seguenti: la mancanza di ogni lavorio di scavo atto a mediare tra sfera interna e ester­ na; la pretesa di fondare una fenomenologia dell’interiorità sopra i meri dati fenomenologici dello sguardo; più precisamente ancora, l’illusione di poter venire a capo del tema del “disagio”, della deiezione esistenziale, portando meccanicamente a combaciare il vuoto interno col vuoto esibito dalla perlustrazione del paesaggio. 7 Tra questi cortometraggi - alcuni dei quali portano titoli america­ ni - c’è anche 3 Amerikanische LP’s (1969), il suo primo lavoro realizzato su sceneggiatura di Handke. Cfr. quanto ne dice Wenders stesso neWIntervista a Dawson, cit., p. 37 (passo riportato anche da Uwe Kùnzel, Wim Wenders. Ein Filmbuch. Dreisam-Verlag, Freiburg i.B. 1981, p. 45).

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A Wenders non riesce insomma quanto riesce a Antonio­ ni: quell’atto di “doppia vista”, quel processo di disvelamento di una “realtà seconda”, illustrato per Antonioni da Aristarco8. L’inquietudine del suo sguardo resta in superficie. Ben poco lo soccorrono le risorse tecniche della ‘camera’. I continui e ripe­ tuti movimenti analitico-descrittivi che essa compie (carrellate, panoramiche) descrivono la realtà senza penetrarla né com­ prenderla. Il dilemma o, se si vuole, il paradosso del cinema di Wenders (ma anche, purtroppo, la sua impasse) sta appunto lì: nel contrasto insuperabile tra l’uso di mezzi stilistici impron­ tati al culto del movimento e una forma artistico-oggettiva la quale, a dispetto dell’apparenza che il movimento le conferi­ sce, si impantana o riaffonda sempre di nuovo nella morta gora della staticità.

8 Guido Aristarco, L'utopia cinematografica, Sellerio, Palermo 1984, p. 126 ss.; Struttura epifanica e onda di probabilità, in Michelan­ gelo Antonioni. Identificazione di un autore. Forma e racconto nel cinema di Antonioni, a cura di Giorgio Tinazzi, Pratiche, Parma 1985, pp. 63-6 (rist. nel suo voi. Su Antonioni. Materiali per un'analisi critica, La Zattera di Babele, Roma 1988, pp. 77-81).

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Vili

II (falso) problema del cinema d’autore

Una serie di motivi connessi con la peculiare natura e struttura del prodotto filmico, con la complessità del suo appa­ rato produttivo, con il ventaglio di collaboratori, mezzi tecnici ecc. che la sua genesi postula e mette in movimento, fanno sì che nella teoria del cinema si torni sempre di nuovo a solleva­ re la questione dell’« autore». Naturalmente bisogna intendersi bene. Quando ne discutevano teorici come Béla Balàzs, come Barbaro, come Chiarini, essi avevano dinnanzi a loro qualcosa di assai diverso da ciò che forma oggi il nucleo concettuale della questione. Si trattava allora essenzialmente di far chiarez­ za intorno a un punto: se e in che misura si dia anche per il cinema un «autore» nel senso estetico del termine; se, essen­ do sempre il film frutto di una collaborazione tra più indivi­ dui, escludendo esso «l’individualismo assoluto»1, vi si possa o meno riconoscere l’espressione del talento di una personalità creatrice. Come risulta subito evidente, questo era ed è un problema non specifico del cinema, ma generale della teoria dell’arte, dell’estetica. In tanto esso può venir dunque posto e risolto correttamente, in quanto venga inquadrato nei problemi gene­

1 Così B. BalAzs, Der Geist des Films [1930], in Schriften zum Film, hrsg. von H.H. Diederichs und W. Gersch, Carl Hanser Verlag, Munchen 1982-84, II, p. 183 (ed. it. Estetica del film, con pref. di U. Barbaro, Ed. di Cultura sociale, Roma 1954, pp. 184-5).

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tali dell estetica e vengano fatte valere anche per esso proprio le stesse categorie che l’estetica fa valere per la risoluzione del problema della creatività dell’arte. Ora, se la riuscita e l’effica­ cia di un’opera d’arte originale suppongono senza dubbio l’esi­ stenza di una volontà unitaria, ciò non comporta necessaria­ mente che l’unificazione avvenga tramite l’operare di un sog­ getto singolo; così come il concetto di «originalità» abbraccia qualcosa di più e di diverso rispetto alla somma di moduli, stilemi, ritrovati, espedienti ecc. messi di volta in volta consa­ pevolmente in funzione da chi crea: abbraccia l’oggettività della forma artistica come risultato. Ci sono casi concreti di collaborazione nelle arti, in architettura, in pittura, nella stessa letteratura narrativa e drammatica (coppie di autori come Beaumont-Fletcher, Erckmann-Chatrian, Ilf-Petrov, i fratelli Goncourt ecc.), che lo dimostrano ben prima delle dimostra­ zioni ricavabili dal cinema. «La semplice possibilità di una riuscita collaborazione artistica tra diverse personalità - osserva Lukàcs nei Prolegomeni a un’este­ tica marxista - indica che la soggettività creatrice non può essere semplicemente identica alla soggettività immediata degli individui considerati, sebbene le loro principali tendenze recettive e produtti­ ve debbano per necessità entrare a far parte organicamente della nuova personalità (dell’autore dell’opera comune) [...]. Se dalla collaborazione di più autori deve nascere una autenti­ ca opera d’arte, questa deve ovviamente raggiungere una propria individualità speciale, unitaria, pregnante, dalla concezione fonda­ mentale fino alle particolarità stilistiche. La soggettività di coloro che partecipano creativamente all’opera unitaria ha dunque valore positivo, rilevante dal punto di vista estetico, solo in quanto è capace di diventare un elemento strutturale organico dell’individua­ lità dell’opera»2.

2 G. LukAcs, \Jeber die Besonderbeit als Kategorie der Aesthetik, in Probleme der Aesthetik (Werke, Bd. 10), Luchterhand, Neuwied-Berlin 1969, p. 698 (ed. it. Prolegomeni a anestetica marxista. Sulla categoria della particolarità, Ed. Riuniti, Roma 1957, p. 174).

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Quando, nel dopoguerra, dietro l’impulso della «revisione critica» proposta e avviata da Aristarco, la teoria e storiografìa del cinema compiono il loro primo reale passo avanti verso la maturità, esse indicano un obiettivo irrinunciabile precisamen­ te nella messa da parte di ogni angusta specificità disciplinare, cioè nel superamento della teoria dello «specifico filmico», del «cinema cinematografico». Va ascritto a merito precipuo della «revisione» se la critica, ripudiando il suo assurdo isolamento, il suo specialism© pseudo-estetico, inteso alla costruzione di astratte «teorie del film», si pone da allora in poi su altre vie, puntando al raggiungimento di traguardi più ambiziosi, primo fra tutti quello già accennato: l’accettazione del principio che compito e terreno di lavoro della teoria debbono consistere anzitutto nello sforzo di sollevare i problemi estetici del film al livello dell’estetica generale, e nel loro conseguente inseri­ mento, di là da ogni ristretta sfera puramente specialistica, entro il contesto complessivo dei problemi della cultura e dell’arte. Su questo nuovo sfondo problematico, anche la que­ stione di sapere chi sia nel cinema l’autore viene corrisponden­ temente trasformandosi di significato; essa non designa più la questione decisiva, ultima, di fondo, quella in base a cui ne va - come ne andava all’epoca di Balàzs — della fondazione teorica del cinema e della sua relativa consistenza d’arte, bensì solo un momento del più generale contesto estetico dei proble­ mi in cui si inquadrano i rapporti del cinema con le altre arti. Se più tardi, cominciando con il lancio della politique des auteurs da parte dei «Cahiers du Cinema», per scendere giù giù (attraverso tutte le modifiche del caso) sino ai giorni no­ stri, il concetto di «autore» viene di nuovo chiamato in causa, ciò accade ormai con ben diverso intendimento. Ora le basi, le fonti, i rimandi teorici, i punti di aggancio e di riferimento sono altri: sono la linguistica di un Hjelmslev, la morfologia strutturale (semiologia) di un Propp; sono e divengono sem­ pre più nel tempo — per fare solo qualche nome — Foucault, Derrida, Deleuze, Ricoeur, Barthes, l’ermeneutica in generale. Poiché la mentalità astorica e antiumanistica di tutte queste 97

tendenze, per tanti versi a loro volta debitrici di .Nietzsche e del secondo Heidegger (e nelle loro punte esterne in forma così oltranzista da provocare in qualcuno a giusta ragione il sospetto che «esse facciano in ultima istanza lega con le forze di un incombente barbarie»3), - poiché dunque questo orienta­ mento trova radici soprattutto in Francia e nei paesi di lingua inglese, Stati Uniti in testa, è naturale che proprio lì la «auteur theory», nell’accezione ultima della formula, trovi più distinta­ mente corpo e si delinei in tratti più netti e definiti. Dai seguaci francesi di André Bazin come dallo statuniten­ se Andrew Sarris, da studiosi britannici come Geoffrey Nowell-Smith e Peter Wollen, sono ora elevati a criteri costituti­ vi della teoria fattori connessi con l’individualità soggettiva (la «personalità») del regista in quanto tale, la sua competenza tecnica, certe sue ricorrenti caratteristiche di stile, il marchio inconfondibile o la «traccia» che egli lascia nella composizione delle immagini e delle sequenze, se le si guarda attraverso un simile filtro soggettivo, se le si esamina alla luce non della loro datità, ma del loro significato mediato, riposto: tutti aspet­ ti presenti, secondo i teorici in questione, più nel cinema americano che in qualsiasi altra cinematografia del mondo. «Questa è un’area — asseriva Sarris nel 1962 - dove i registi americani sono in genere superiori ai registi stranieri. Poiché il cinema americano viene in massima parte commissionato, un regista si vede costretto a esprimere la sua personalità mediante il trattamento visivo del materiale piuttosto che non mediante il contenuto letterario di esso»4. E Wollen ribadisce pressappoco gli stessi concetti e la stessa contrapposizione di principio tra i registi hollywoodiani e quelli europei, a tutto vantaggio dei primi, stabilendo solo in più — dal momento che

3 Cfr. R. Wolin, Modernism vs. Postmodernism, in «Telos», n. 62, 1984-85, p. 27. 4 Citiamo il saggio di Sarris, Notes on the ‘Auteur" Theory in 1962, dalla’ silloge antologica Film Theory and Criticism, ed. by G. Mast and M. Cohen, Oxford Univ. Press, New York-Oxford 19792, p. 662.

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scrive qualche anno più tardi (1969) - un collegamento in linea retta degli, assunti impliciti nella «auteur theory» con i procedimenti di «decifrazione» frattanto elaborati e resi di moda dall’ermeneutica: «La 'auteur theory’ non si limita a acclamare il regista come l’autore principale di un film. Essa implica un’operazione di decifrazione; rivela autori dove pri­ ma non se ne era visto alcuno»5. Ne deriva così, in nome del soggettivo e del riposto, del diritto incurabile dell’autore a farsi valere con qualsiasi mez­ zo, un duplice ordine di effetti sul terreno della valutazione critica. Da un lato, vengono tenuti in gran conto tutti i tratti caratteristici di quello che Hegel chiamava con sprezzo nelVEstetica il «talento senza genio», incapace di andar oltre «i limiti dell’abilità esterna»6; dall’altro, vengono passati per buo­ ni, approvati e incoraggiati tutti i peggiori capricci dell’arbitrio soggettivistico, tutte le più variopinte, cervellotiche e eccentri­ che fumisterie, non meno ostili dell’assenza di «genio» al rag­ giungimento di risultati d’arte: poiché, se l’artista ha il compi­ to - ammonisce ancora Hegel — di far «diventare interamente cosa sua l’oggetto, deve a sua volta sapere dimenticare la sua particolarità soggettiva con le sue acci­ dentali contingenze, e, da parte sua, immergersi interamente nella materia, cosicché egli come soggetto è, per così dire, solo la forma per dar forma al contenuto che lo ha preso. Una ispirazione, in cui il soggetto faccia esagerata mostra di sé e si faccia valere come soggetto, invece di essere l’organo e l’attività vivente della cosa stessa, è una cattiva ispirazione».

Conseguentemente Hegel si esprime così riguardo alla «ve­ ra oggettività» in arte:

* Ibid., p. 681. 6 Hegel, Aeslhetik, Europàische Verlagsanscalt, Frankfurt a.M. 19652, I, p. 278 (ed. it. Estetica, trad, di N. Merker e N. Vaccaro, Feltrinelli, Milano 1963, p. 278).

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«del contenuto autentico che ispira Kartista, niente deve essere trattenuto nell’interno soggettivo, ma tutto deve essere sviluppato completamente, e in modo anzi che sia l’anima e la sostanza universale del contenuto scelto appaiano messe in rilievo, sia la forma individuale di esso appaia in sé completamente conclusa e compenetrata da quell’anima e sostanza rispetto a tutta la rappre­ sentazione. Infatti la cosa più alta e più eccellente non è l’ineffabi­ le, di modo che l’artista sarebbe in sé più profondo di quanto non palesi l’opera, ma le sue opere sono il meglio dell’artista ed il vero; egli è ciò che è, ma non è ciò che rimane solo nell’interno»7.

Ora, quanto più disattesi sono questi ammonimenti, tanto più viene spinto avanti il processo di dissoluzione teoretica dell’oggettività della forma. Da ciò che la forma è in sé, come risultato dell’attività svolta dal soggetto creatore che la elabora e la plasma, come essenza della configurazione artistica, si retrocede alla sfera in cui predomina la mistica del soggetto come mera particolarità individuale; donde anche la reviviscen­ za nella prassi critica di fenomeni del passato - spacciati per alcunché di nuovo - quali la critica esclamativa, l’entusiasmo fanatico e incontrollato per questo o quel cult movie, la sogge­ zione nei confronti delle manipolazioni consumistiche indotte dalla moda, meglio se di marca yankee (soggezione tanto più scriteriata se si pensa che la stessa storiografia cinematografica statunitense va nel frattempo producendo libri di grande inte­ resse e spregiudicatezza dal punto di vista sociologico8, capaci di sviluppare - entro i limiti di quel loro punto di vista un’aspra critica antifeticistica, antimitologistica, anticelebrati­ va della prassi del cult movie), donde soprattutto il fenomeno - a mio giudizio particolarmente deleterio - dell’ultraspecialismo formalistico, proprio nel senso del ritorno alla difesa dei 7 lbid.f pp. 282 e 284 (trad., pp. 379-80 e 382-3). 8 Segnaliamo, a titolo puramente esemplificativo, i libri di L. Quart e A. Auster, American Film and Society since 1945, Macmillan, London-Basingstoke 1984, e di R.B. Ray, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, Princeton Univ. Press, Princeton N.J. 1985.

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pseudo-valori dello «specifico filmico» già spazzati via dalla «revisione». Sorge in tal modo la tendenza a un compiaciuto atteggiamento esoterico da iniziati, da «cinefili» (termine, co­ me anche quello di cult movie, di cui - a segno e prova della persistente arretratezza della critica del cinema — sarebbe im­ pensabile il corrispondente in una qualsiasi altra disciplina artistica, nella letteratura, in pittura, in musica ecc.), e a uno snobismo raffinato quanto ideologicamente subdolo, equivoco all’estremo; sorge più in generale, nel campo storiografico, la tendenza a una forma di apologetica, per effetto della quale non più che abili artigiani senza genio del cinema di Holly­ wood, come un Cukor o un Wyler, un Ray o un Sirk, un Penn o un Pollack, vengono trasformati tout court in «autori». Al­ fred Hitchcock può venire addirittura innalzato a modello di una authorship così intesa. Tutto ciò sarà anche molto moderno (anzi, postmoderno), molto alla moda; non per questo ha qualcosa a che vedere con l’essenza della questione che ci occupa. Non la moda — fortuna­ tamente - detta norme in sede estetico-filosofica. Marx e En­ gels si sono battuti senza tregua contro le lusinghe, le insidie, i tranelli, i pericoli delle mode dominanti al loro tempo. Sulla falsariga delle loro indicazioni, e delle indicazioni di Lenin, che stigmatizza con non minore asprezza quei marxisti (o pseu­ do tali) i quali, troppo «servilmente» proni alla moda, «sono incapaci di dare un quadro generale, dal loro punto di vista, dal punto di vista marxista, di certe correnti e di valutare il posto che esse occupano»’, ogni serio studioso marxista deve saper fare oggi altrettanto, distinguendo sempre accuratamen­ te dalle innovazioni autentiche le mode transeunti e respingen­ do senza compromessi e cedimenti tutto ciò che appartiene solo all’area di queste ultime. Diceva Lukàcs per la letteratura (nella sezione conclusiva del Romanzo storico)-.

’ Lenin, Materialismo e empiriocriticismo, in Opere scelte. Ed. Riuniti-Ed. Progress, Roma-Mosca 1973-75, III, pp. 249-50.

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«Critici troppo frettolosi nella teoria e troppo ‘sensibili’ sono sempre inclini, allorché appare una nuova maniera di scrivere, a fondare per essa al più presto un’estetica speciale. Vale a dire che le nuove manifestazioni letterarie vengono di volta in volta innalza­ te immediatamente e senza critica a criteri vincolanti della letteratu­ ra in generale. Ne abbiamo fatto esperienza più volte, dal naturali­ smo fino all espressionismo, e ora fortunatamente possediamo un intero museo di questi criteri estetici abortiti e conservati sotto spirito. I fatti mostrano invece che di solito le poche opere soprav­ vissute alle mode letterarie del nostro tempo poterono riuscirvi nonostante quei criteri [...]. Una canonizzazione artistica della pras­ si odierna non può giovare in linea di principio né alla teoria né alla prassi. Se noi ricaviamo i criteri estetici di una tendenza esclusivamente dalle opere di questa stessa tendenza, essi hanno cessato di essere dei criteri. E un’estetica che non osi affrontare la questione dei criteri, la questione della giustezza di una tendenza o di un genere, ha rinunciato ad essere un’estetica»1011 .

Mi sembrano parole validissime. Che la teoria idealistica dell’arte, nonostante le sue pretese immanentistiche, sia per lo più rimasta alla metafìsica, gonfiando smisuratamente (e meta­ fìsicamente) la problematica della personalità creatrice, non è dubbio; così come non dubbi sono - cito ancora dai Prolego­ meni di Lukàcs - «il legame immediato che essa stabilisce fra soggettività e opera, ridentificazione della soggettività con l’in­ dividualità dell’opera d’arte, l’equiparazione tra la particolarità immediata del soggetto creatore e questo stesso soggetto visto nella sua reale creatività estetica»11. Si tratta di limiti, sappia­ mo, tanto più gravi e stridenti se riferiti al cinema. Non servo­ no tuttavia a porvi rimedio rivendicazioni antimetafisiche del genere di quelle messe in campo da così larga parte della ‘scienza’ dei nostri giorni. Le manipolazioni a matrice neoposi­ 10 G. Lukàcs, Der historische Roman, in Probleme des Realismus III (Werke, Bd. 6), Luchterhand, Neuwicd-Berlin 1965, pp. 368-9 (ed. it. Il romanzo storico, con pref. di C. Cases, Einaudi, Torino 1965, pp. 419-20). 11 Lukàcs, Ueber die Resonderheit, cit., p. 741 (trad., p. 215).

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tivistica, le pretese puramente descrittive della fenomenologia, le incursioni - tanto spesso avventurose e scriteriate - sul terreno della psicanalisi, lo stesso impiego unilaterale - sostitu­ tivo dell’estetica - di criteri desunti dalle discipline linguisti­ che, semiologiche o strutturalistiche, non sono certo per loro conto in grado di venire a capo del complesso problematico relativo all’essenza oggettiva della forma; ove li si abbandoni a se stessi, li si assolutizzi unilateralmente, questi criteri aggiun­ gono semmai solo confusione a confusione. Così come vien posto dalla moderna apologetica borghese, il problema del cinema d’«autore» è dunque a limine un falso problema. (Uno, non certo l’unico. È mia radicata convinzio­ ne che gran parte della teoria e storiografia del cinema sia ingombra di falsi problemi.) Piena validità teorica mantiene invece - benché non lo si possa sbozzare qui neanche in via di prima approssimazione - il problema del rapporto della sogget­ tività creatrice dell’autore, quale che nel cinema egli sia, con l’opera compiuta (con il film). Problema, questo sì, realmente centrale per l’estetica, che va riconosciuto e risolto come pro­ blema generale; ogni tentativo di modernizzarlo altrimenti, per quanto raffinato, non può che distorcerlo.

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Parte seconda GLI AUTORI ALLA LUCE DELLA CRITICA

Dopo che nella prima parte si è discusso, in astratto e in concreto, del problema del cinema d’autore, passiamo in questa seconda a esaminare le prese di posizione della critica: come essa di volta in volta si rapporta a questo o a quell’autore; come autori, problemi, orientamenti, tendenze nazionali siano storica­ mente apparsi e appaiano alla luce della critica. Quanto si trove­ rà qui di seguito è dunque una serie di rassegne di studi a carettere informativo-erudito, destinate in primo luogo a fornire ragguagli bibliografici ragionati, senza per altro che venga meno neanche qui, in chi scrive, - come il lettore vedrà subito da sé una precisa (e spesso polemica) scelta di campo. Indicazioni orientative sull’andamento della letteratura cine­ matografica, anche in riferimento ai paesi esteri, ci sembrano tan­ to più opportune, quanto più difficile va diventando seguire con un minimo di aggiornata informazione l’aumento vertiginoso del ritmo dell’editoria e della pubblicistica, cui non fanno corrispon­ dente riscontro, o faticano a tener dietro, gli indispensabili stru­ menti di informazione bibliografica, come bibliografie generali e particolari, dizionari, cataloghi, repertori, segnalazioni periodiche e così via. Non solo manca, bibliograficamente parlando, un nu­ mero sufficiente di lavori, ma i pochi che esistono appaiono trop­ po spesso concepiti secondo criteri inadeguati, restrittivi. Crediamo sia necessario insistere sull’utilità di questo gene­ re di approccio alla cultura filmica. Se le rassegne di studi non godono ancora di troppo spazio e favore nella pubblicistica

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cinematografica, è perché vi fa difetto ancora la consapevolez­ za del rilievo storiografico della cosa. Eppure, tra i tanti moti­ vi di ritardo della critica del cinema, specie in Italia, c’è, a nostro giudizio, proprio anche questo: la sconoscenza o la trascuranza - dovuta non solo a pigrizia e incapacità soggettiva, ma anche a quelle oggettive difficoltà di informazione cui si è testé accennato — di quanto si viene facendo dalla storiografia in campo internazionale: con la conseguenza che ci si acconten­ ta troppo spesso dei limiti angusti del proprio orticello, poco o nulla spaziando con lo sguardo sulle coltivazioni circostanti; e così si scrivono spesso saggi e libri perfettamente inutili, super­ flui, ridondanti, dove si ripetono cose già dette da altri altrove, quando basterebbe un semplice richiamo, un rinvio bibliografico, per colmare le supposte lacune. Fonte della maggior parte degli scritti raccolti in questa sezio­ ne è la rivista «Cinema nuovo», dove essi sono apparsi nel se­ guente ordine cronologico: XXV, 1976, n° 240 (il § 1 del XV); XXVII, 1978, n° 253 (il IX); XXVIII, 1979, n° 258 e n° 260 (parte del § 2 del XII, parte del § 2 del XIV e il § 3 del XV); XXX, 1981, n° 271 (il § 1 del X, parte del § 2 del XII e parte del § 2 del XIV); XXXI, 1982, n° 277, pp. 59-60 (il § 4 del XV); XXXIII, 1984, n° 287 (il § 2 dell’XI); XXXV, 1986 n° 299 (il § 1 del XII); XXXV, 1986, n° 300 e n° 302-303 (il § 1 dell’XI); XXXVI, 1987, n° 306 (il § 3 dell’XIV); XXXVII, 1988, n° 316, e XXXVIII, 1989, n° 317 (il § 3 del XII). Il § 1 del XIII e il § 1 del XIV sono apparsi rispettivamente, oltre che in «Cinemanuovo» (XXII, 1973, n°221,eXXVIII, 1979, n°260), in Hollywood 1969-1979. Immagini, piacere, dominio, a cura di Bruno Torri, Marsilio, Venezia 1980, pp. 269-71, e nel mio voi. Problemi di teoria e storia del cinema, cit., pp. 99-103. Dal «Calen­ dario del popolo», n° 506 (gennaio 1988), n° 522 e n° 525 (giugno e ottobre 1989), e n° 531 (aprile 1990) vengono i § § 2-3 del XIII e parte del § 2 del XV ; dal quotidiano «La Prealpina» di Varese, il § 2 del X (2 settembre 1986), e, del XV, parte del § 2 (25 agosto 1979) e il § 5 (19 settembre 1987); mentre il XVI e il XVII sono apparsi entrambi in «Cinecritica», XI, 1988, n° 8-9, pp. 79-86, e XII, 1989, n° 15, pp. 68-73. Si sono naturalmente operati, dove necessari, tutti i ritocchi e gli aggiornamenti del caso.

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IX

Brecht e il cinema della Germania di * Weimar

Brecht e il cinema: ecco un tema critico di grande rilievo, notorio essendo l’interessamento sempre mostrato per il cine­ ma dal drammaturgo tedesco, sia durante il periodo weimariano (come documentano tra l’altro le turbinose vicende, sfocia­ te anche in un processo, del suo rapporto con Pabst per la trascrizione filmica dell’Opera da tre soldi, 1931, e, l’anno * A proposito dei seguenti lavori: Wolfgang Gersch, Film bei Brecht. Bertolt Brechts praktische und theoretische Auseinandersetzung mit dem Film, Henschelverlag Kunst und Gesellschaft, Berlin DDR 1975, pp. 416; Film und revolutionàre Arbeiterbewegung in Deut­ schland, 1918-1932, .hrsg. von G. Kiihn, K. Tummler, W. Wimmer, Henschelverlag Kunst und Gesellschaft, Berlin DDR 1975, 2 voli, di pp. 493 e 597; “Mutter Krausens Fahrt ins Glùck”. Filmprotokoll und Materialien, hrsg. von Rudolf Freund und Michael Hanisch, Henschel­ verlag Kunst und Gesellschaft, Berlin DDR 1976, pp. 191: il secondo dei quali abbondantemente saccheggiato - senza alcun rinvio alla fonte, o con rinvìi alquanto disinvolti — dalle antologie nostrane Cultura e cinema nella Repubblica di Weimar, a cura di G. Grignaffini e L. Quaresima, Marsilio, Venezia 1978, pp. 223. e Cinema e rivoluzione. La via tedesca, 1919-1932, a cura di L. Quaresima, Longanesi, Milano 1979, pp. 376. Degli scritti apparsi posteriormente segnaliamo, in tema weimariano, Film und Realitdt in der Weimarer Republik, hrsg. von Helmut Korte, Munchen 1978, pp. 243; Pier Giorgio Tone, Strutture e forme del cinema tedesco degli anni Venti, Mursia, Milano 1978, pp. 167; Freddy Buache, Le cinéma allemand, 1918-1933, 5 Continents-Hatier, Paris 1984, pp. 128; e il fase, speciale sulla Weimar Film Theory di «New German Critique», n. 40, Winter 1987; in tema brechtiano, Youssef Ishaghpour, La théorie brechtienne et le cinéma, nel suo voi. D'une image à Lautre. La representation dans le cinéma d’aujourd’hui,

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dopo, lo scenario da lui steso insieme con Ernst Ottwalt per il film di Dudow Kuhle Wampe}, sia nel periodo del suo esilio negli Stati Uniti (come documenta specialmente la collabora­ zione allo scenario di Anche i boia muoiono, realizzato nel 1942-43 da Fritz Lang), sia infine in quello del suo ritorno nella Germania democratica (dove si occupa a lungo del pro­ getto della trascrizione — iniziata ma rimasta incompiuta - di Madre Coraggio e i suoi figli per la regia di Wolfgang Staudte, 1955). Basti qui a prova ricordare come quella miniera inesau­ ribile di note, appunti, riflessioni che è il brechtiano Diario di lavoro, apparso da noi presso Einaudi nella traduzione di Bian­ ca Zagari, sia testo intessuto fittamente, da un capo all’altro, di riferimenti al mondo del cinema. Eppure un tema, quello dell’incontro di Brecht col cinema, affrontato in genere dalla critica senza la dovuta consapevolezza, senza tutta la serietà e ponderazione che, proprio per il suo rilievo, esso richiedereb­ be. Come può facilmente constatare chiunque esamini i fasci­ coli dedicati a Brecht nel 1960 dai «Cahiers du Cinema» e nel 1963, in Italia, dal «Nuovo spettatore cinematografico», non ci si è spinti molto al di là di qualche frettoloso e parziale resoconto critico e della generica lamentela che un vero «in­ contro» di Brecht col cinema di fatto «non si è mai veri­ ficato». Spetta a uno studioso tedesco-orientale, Wolfgang Gersch, direttore del gruppo di lavoro per la storia del cinema presso la Scuola superiore di cinema e Tv della DDR, e già autore di Denoèl/Gonthier, Paris 1982, pp. 13-80 (ma già nel fase. Brecht di «Obliques», n. 20-21, 1979, pp. 163-85); Martin Walsh, The Brechtian Aspect of Radicai Cinema, ed. by Keith M. Griffiths, British Film Institute, London 1981, pp. 136; George Lellis, Bertolt Brecht, «Ca­ hiers du cinema» and Contemporary Film Theory, U.M.I. Research Press, Ann Arbor (Michigan) 1982, pp. 208; e gli interventi di Renate Mohrmann e Thomas Elsaesser al convegno di Toronto «Brecht: Thirty Years After» (autunno 1986), ora in Re-interpreting Brecht: His Influence on Contemporary Drama and Film, ed. by Pia Kleber and Colin Visser, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1990, pp. 161-85.

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contributi critici parziali in argomento, il merito di averlo preso per la prima volta di petto in un volume, Film bei Brecht, che abbraccia il complessivo arco di sviluppo dell’inte­ ressamento teorico e pratico di Brecht al cinema, senza trascu­ rare nemmeno di discutere il rapporto inverso, l’interessamen­ to del cinema per Brecht; ossia, a dirlo con parole dell’autore, «ciò che Brecht ha fatto per il cinema e ciò che il cinema ha significato per lo sviluppo del teatro di Brecht» [p. 8]. Colpisce anzitutto la vastità del disegno. Con vero scrupo­ lo di ricercatore, sempre attento al documento, Gersch passa in rassegna via via film e scenari di Brecht, studi critico-teorici (come l’importante Processo dell"«Opera da tre soldi», in pole­ mica col film di Pabst), drammi teatrali influenzati dal cine­ ma, adattamenti, abbozzi, progetti, nonché film desunti da opere di Brecht, ma senza la sua collaborazione; discute le prese di posizione di Brecht, le sue teorie filmiche, le difficol­ tà da lui incontrate in ogni tentativo di passaggio dalla teoria alla pratica; mette in luce, tramite un «montaggio» di dichiara­ zioni di autori del cinema mondiale, da Losey a Godard, da Resnais a Konrad Wolf, gli effetti sul cinema della poetica di Brecht; e correda infine il tutto, oltre che con un importante apparato di note, con una filmografia brechtiana e un’appendi­ ce bibliografica sulla letteratura primaria e secondaria concer­ nente Brecht, per altro quasi esclusivamente di lingua tedesca. Impossibile qui dar conto esaurientemente della quantità e complessità di questioni che, discutendo tutto questo materia­ le, l’autore solleva nel corso del lavoro. Sarà sufficiente dire che suo intento principale è di mostrare come i contributi cinematografici di Brecht — e in particolare Kuhle Wampe, primo e unico film, come egli rileva, al quale Brecht potè collaborare fin dall’inizio e seguire in ogni fase della lavorazio­ ne [p. 109] - prendano organicamente posto nel contesto generale della sua poetica, del «teatro epico», e come formino, retroagendo a loro volta su di essa, una tappa o una serie di tappe del suo interno — talvolta contraddittorio - costituirsi e strutturarsi. «Il motivo formale filmico viene fatto funzionare 109

teatralmente e con ciò privato del suo effetto filmico. La resa dei cónti del teatro di Brecht col cinema significa appropriazio­ ne e insieme massimo possibile allontanamento da esso. Gli elementi del cinema non servono a un avvicinamento dell’im­ magine alla realtà nel senso della credibilità della visione im­ mediata, essi promuovono piuttosto l’epicizzazione della rap­ presentazione, il suo carattere gestuale-straniante» [p. 169]. Eccellente sotto ogni profilo dal lato della documentazio­ ne e ricostruzione critica, il lavoro di Gersch può semmai prestare il fianco a qualche critica dal lato teorico, per l’intran­ sigenza con cui, dall’inizio alla fine, l’autore vi sposa la causa di Brecht, avalla le sue scelte, si schiera polemicamente in sua difesa: troppo acriticamente e unilateralmente egli sta con Brecht anche in quei casi - come la controversia degli anni ’30 con Lqkàcs sul concetto di «realismo» — in cui sarebbe riusci­ to forse più opportuno l’uso di toni sfumati e di un maggior senso di equilibrio critico. Proprio negli stessi anni in cui viene maturando il primo interessamento di Brecht al cinema e poi, a cavallo del 1930, la sua intensa collaborazione con Dudow per Kuhle Wampe, il «cinema di denuncia» della Germania di Weimar, sorretto dalle associazioni, dai raggruppamenti e dai partiti proletari, conosce un momento di grande fioritura. Lo illustra con una ampiezza, che noi si sappia, senza precedenti, la silloge di documenti raccolti nel lavoro collettivo Film und revolutionàre Arbeiterbewegung in Deutschland 1918-1932, il cui lungo sottotitolo ne svela già da solo contenuto e scopo: «Documen­ ti e materiali sullo sviluppo della politica cinematografica del movimento operaio rivoluzionario e sugli inizi di un’arte cine­ matografica socialista in Germania». Auspicio dei curatori è che, grazie a questa documentazione, molte opinioni tradizio­ nali possano venir rivedute e certi miti sfatati: a esempio, l’idea che per la prima volta e solo il Pot'èmkin abbia richiama­ to l’attenzione della cultura cinematografica tedesca su quella sovietica, oppure che i film ideologicamente più avanzati del periodo di Weimar, come Mutter Krausens Fahrt ins Glùck e 110

Kuhle Wampe, siano solo casi singoli, isolati, o, peggio, «si tratti per entrambi questi film di testimonianze di una corren­ te umanistica della produzione cinematografica borghese in Germania» [I, p. 13]. Struttura e articolazione del lavoro rispondono all’intento di fornire, secondo schemi illustrati nell’introduzione, un qua­ dro unitario complessivo del movimento cinematografico tede­ sco di opposizione. La sua suddivisione in capitoli, ciascuno preceduto da poche pagine esplicative dei curatori, e l’ulterio­ re ripartizione in paragrafi, ubbidiscono a criteri strettamente tematici; entro i paragrafi il materiale — per lo più cronache, resoconti, note critiche di giornali (come «Die Rote Fahne») e periodici (come «Film und Volk») o «Arbeiterbiihne und Film»), ma anche verbali di congressi, documenti d’archivio, circolari ministeriali, provvedimenti e visti di censura, materia­ li di propaganda vari — è poi disposto in ordine cronologico. Di regola i documenti vengono riportati nel loro testo origina­ le completo, senza alterazioni (neanche formali) di sorta; in taluni casi, sempre indicati, se ne offrono estratti; con indica­ zione in calce a tutti, documenti e estratti, delle fonti rispetti­ ve. Minimi gli interventi redazionali, che si limitano solo alla correzione dei refusi e a qualche modifica nell’ortografia o nell’interpunzione. Per la notevole quantità di materiali che congloba e lo scrupolo filologico con cui è condotta, la ricerca non può che guadagnarsi l’universale apprezzamento. Ci si imbatte, tra l’al­ tro, frammischiati a “pezzi” di anonimi corrispondenti, in inter­ venti e contributi di autori di prestigio: per fare solo qualche esempio, in nomi di teorici come Béla Balazs, Siegfried Kracauer, Rudolf Amheim, di romanzieri come Friedrich Wolf e Heinrich Mann, di storici come Alexander Abusch. Questioni rilevanti come quella, affrontata per esteso, dell’influsso del cinema sovietico [I, p. 211 ss.], ricevono il loro giusto inqua­ dramento storico e la loro debita messa a fuoco. Molte pagine riguardano naturalmente anche i contributi cinematografici di Brecht. Così Alfred Durus, in un articolo sulla «Rote Fahne» 111

del febbraio 1931, qui riportato [I, p. 245], prende posizione a favore di Brecht nella controversia insorta con Pabst per L'opera da tre soldi', e quanto alla documentazione relativa a Kuhle Wampe, essa occupa da sola oltre cinquanta pagine di testo [II, pp. 128-83]. Nel quadro del «cinema di denuncia» della Germania weimariana un posto di qualche rilievo occupa senza dubbio il già citato film di Piel Jutzi Mutter Krausens Fahrt ins Gluck (“Il viaggio di mamma Krausen verso la felicità”, 1929), realizzato con il patrocinio e la collaborazione di un gruppo di artisti (tra cui Kàthe Kollwitz e Otto Nagel) del circolo di Heinrich Zille, il grande disegnatore berlinese dai cui racconti il film deriva. Gersch ne parla, nel suo lavoro su Brecht, come del «più alto punto fin lì raggiunto» dal cinema proletario-rivolu­ zionario di Weimar, e oltrepassato in seguito, a suo giudizio, solo da quel Kuhle Wampe, «per il quale Mutter Krausens Fahrt ins Gliìck fu non solo un esempio da superare, ma anche un presupposto che arrecava nuova sostanza, nuovi sbocchi politici, e che fin nei dettagli importava una valorizza­ zione nel senso di una nuova qualità» [p. 119]; e lo stesso fanno i curatori di Film und revolutionàre Arbeiterbewegung, che gli riservano per conto loro una sezione del lavoro d’am­ piezza non troppo inferiore a quella che riservano a Kuhle Wampe [II, pp. 93-127], (Inspiegabile invece che vi si taccia completamente dell’altro importante film di Jutzi, Berlin Alexanderplatz, dal romanzo di Alfred Dòblin). Offre non Io scenario ma il «verbale» del film, cioè la sua completa registrazione «protocollare», la sua descrizione in­ quadratura per inquadratura (con l’indicazione del relativo me­ traggio), secondo la copia che si trova in possesso dell’Archivio cinematografico di Stato della DDR, ricostruita nel 1956 sotto la direzione di Otto Nagel, un prezioso volumetto uscito presso le stesse edizioni berlinesi dei due lavori precedenti, Mutter Krausens Fahrt ins Gliìck. Filmprotokoll und Materialien, strumento di lavoro essenziale per chi voglia oggi, a oltre sessantanni di distanza dalla sua prima apparizione, tornare a guardare criticamente al film di Jutzi. 112

Come promette il sottotitolo, insieme col «verbale» del film, i curatori riuniscono nel volume svariati altri «materia­ li», gran parte dei quali provenienti dalla ricordata, apposita sezione di Film und revolutionàre Arbeiterbewegung ’. cioè, no­ tizie contemporanee relative alla progettazione e lavorazione del film; dichiarazioni del regista; articoli o stralci di articoli attestanti la grande risonanza che il film ebbe nella pubblicisti­ ca dell’epoca, sia presso la stampa operaia (tutta entusiastica­ mente favorevole, giudicandolo essa - come si è fatto fin da principio e si continua tuttora a fare nei paesi socialisti - «il primo film tedesco proletario-rivoluzionario»), sia presso la stampa borghese (molto divisa tra quella che lo proclama subi­ to, Kracauer in testa, «un vero film di Zille», e quella che lo rifiuta e lo condanna come falso, come propagandistico). Chiu­ de il lavoro un’ampia nota illustrativa di Michael Hanisch, che offre tutti i ragguagli del caso sulla genesi del film e sulla personalità e attività del suo autore.

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X

Omaggio a Luis Bunuel

1. Bunuel come «architetto del sogno»

Sono molte le prospettive possibili da cui guardare al cine­ ma di Bunuel. C’è chi in lui vede solo il poeta del macabro o un cultore del sadismo, dello «scandalo artistico» fine a se stesso; chi lo descrive come un anarco-marxista attento soprat­ tutto al rilievo dei problemi sociali; chi ne parla invece come di un cristiano malgré lui1 , chi rievoca e accentua il profondo ispanismo della sua anima; e chi congiunge insieme più d’una tra queste prospettive, o ne scopre altre ancora. Forse in lui c’è un po’ di tutto questo. «Tutti questi Bu­ nuel esistono», affermava nel 1967 il critico Raymond Durgnat; e aggiungeva di volersi personalmente rivolgere allo stu­ dio del «Bunuel moralista», proprio «per l’opportunità di indicare i nessi e le tensioni tra essi»: «Si potrebbe dire che l’ispirazione centrale di Bunuel come moralista sta nel riconci­ liare l’assoluta libertà del surrealismo col fatto che le illumina­ zioni magiche, totalmente irrazionali, vanno protette ed estese nei confronti della realtà». Gli suggeriva questa scelta temati­ ca, ossia la scelta del tema del moralismo bunueliano in quan­ to posto al punto di incontro tra realismo e surrealismo, un brano autobiografico dello stesso Bunuel, dove il regista fa la seguente confessione: «Fu il surrealismo a rivelarmi che nella vita c’è un senso morale che l’uomo non può esimersi dal considerare. Per mezzo suo ho scoperto per la prima volta che

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l’uomo non era libero. Io credevo nella libertà totale dell’uo­ mo, ma con il surrealismo ho conosciuto una disciplina da seguire. Questa è stata una grande lezione nella mia vita e anche un gran passo meraviglioso e poetico». Riprendiamo il brano autobiografico di Bunuel - per lo meno altrettanto significativo di quello del 1958 sul cinema come «strumento di poesia» incluso, con altri, nell’antologia The Shadow and its Shadow. Surrealist Writings on Cinema (ed. by Paul Hammond, British Film Institute, London 1978) — dal volumetto monografico del «Castoro cinema» su Luis Bunuel a firma di Alberto Gattini (La Nuova Italia, Firenze 1978). Sfortunatamente per Gattini, la sua monografia vede la luce in un periodo di intenso fervore internazionale degli studi bunueliani, quando cioè non solo Durgnat ripresenta in nuo­ va veste, aggiornandolo sino al Fantasma della libertà, il suo lavoro del 1967 (Luis Bunuel, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1978, pp. 176), ma escono an­ che, parallelamente, in Francia la monografia di Maurice Drouzy (Luis Bunuel, architecte du réve, Lherminier, Paris 1978, pp. 298), e negli Stati Uniti un’antologia di saggi critici a cura di Joan Mellen (The World of Luis Bunuel. Essays in Criti­ cism, Oxford University Press, New York 1978, pp. 428), che di tutte le diverse interpretazioni di Bunuel delle quali parla Durgnat (egli stesso presente nell’antologia con due saggi) fornisce un largo ventaglio, affiancando e mettendo a confron­ to scritti di provenienza inglese e francese, spagnola, cubana e statunitense. Ora, in tutt’e tre i casi, si tratta di lavori che offrono le stesse cose offerte dal volumetto di Gattini, ma le offrono pur nei limiti di una concezione troppo esacerbatamente “anali­ tica” della critica - in modo molto migliore, con maggiore cognizione di causa, maggior approfondimento e dominio del­ la materia, maggior perspicuità. Tutt’e tre, in particolare, mo­ strano piena consapevolezza del significato che la «grande lezione» del surrealismo ha per il cinema di Bunuel, dell’in­ fluenza esercitata su di esso dal pensiero e dalla prassi surreali­

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sta. Non solo, come scrive Drouzy, i sogni propriamente detti, ma l’insolito, l’inquietante, l’elemento che Bunuel chiama il «mistero» o anche il «subconscio», guadagnano in lui sempre più terreno, invadono sempre di più la trama narrativa dei suoi film: «Al limite — e sarà il caso del Fantasma della libertà - la narrazione sparirà quasi interamente per far posto all’im­ maginario e al surreale». E analogamente la Mellen, nell’intro­ duzione alla sua antologia: «Il metodo di Bunuel è di rappre­ sentare i desideri inconsci come reali, proprio come Io sono per i surrealisti [...]. Non contento di restarsene alla superficie della realtà, Bunuel vorrebbe portare in luce l’inconscio, inte­ grandolo con la vita quotidiana in modo cosiffatto, che il film stesso lo renda empiricamente reale». In questo senso Drouzy, nel suo notevole lavoro, ricco di suggerimenti estremamente stimolanti, parla di Bunuel come di un «architetto del sogno». Il paragone con l’architetto si fonda sulla meticolosità del lavoro preparatorio sempre esple­ tato da Bunuel, «lavoro di un rigore e una precisione impieto­ si»: «Egli non improvvisa per così dire mai con una camera in mano. Tutto è previsto, pianificato in dettaglio prima della realizzazione. Proprio come fa l’architetto, che non può per­ mettersi, neanche lui, di improvvisare sul terreno davanti a un mucchio di pietre o di cemento [...]. Bunuel è il cineasta non degli abbozzi, ma dei piani dove tutto si incastra impeccabil­ mente, dove tutti i dettagli sono disegnati e coordinati in anticipo». D’altra parte questa ordinata struttura architettonica del­ l’opera di Bunuel investe primariamente il campo del «so­ gno». Si può bensì definire Bunuel un «cineasta della realtà», ma solo se per realtà si intende «il reale totale, senza limitazio­ ni preconcette né esclusioni», poiché egli non accetta mai di ridurre il reale alle sue dimensioni visibili. Drouzy dice: «Egli vuol essere parimenti il cineasta dell’invisibile, dell’immagina­ rio, dell’inconscio, dell’irrazionale, del mistero, in breve di tutte quelle potenze, malefiche o meno, che brulicano non nell’al di là, ma piuttosto nell’al di qua, all’interno dell’uomo». Espresso 117

in sintesi: da un lato, per il fatto che «desidera essere il cineasta del reale, di tutto il reale, egli aspira nello stesso tempo a essere il cineasta del sogno»; dall’altro, e correlativa­ mente, egli «si profonda talmente nel sogno che finisce per ritrovarvi la realtà più occulta». Dalle analisi che Drouzy conduce su un campionario di film scelti di preferenza tra i primi e gli ultimi di Bunuel, come anche dalla ricostruzione monografica di Durgnat e da taluni dei saggi raccolti dalla Mellen, la centralità per la poeti­ ca bunueliana di questa stretta interrelazione tra vita e sogno, realismo e surrealismo, possiamo dire che emerga compiutamente definita.

2. Bunuel artista dello scandalo La personalità di Bunuel ha in sé qualcosa di enigmatico e sfuggente. Per via di questo suo carattere, irrisolti sono da sempre, nella letteratura critica, gli interrogativi di fondo che lo riguardano. Bunuel realista? Bunuel surrealista? Bunuel «architetto del sogno»? Del grande regista spagnolo (aragone­ se) sono state tentate e date le più diverse caratterizzazioni; si è guardato e si continua a guardare al suo cinema - come ricordavamo sopra (§ 1) - da tutte le prospettive possibili. Che cosa egli pensi del cinema ce lo dice lui stesso in una conferenza messicana del 1958, ora di nuovo tradotta insieme con i suoi Scritti letterari e cinematografici (a cura di Agustin Sànchez Vidal, trad, di Donatella Pini Moro, Ed. Marsilio, Venezia 1984, pp. 270): «Il cinema è un’arma meravigliosa e pericolosa se viene usata da uno spirito libero. È lo strumen­ to migliore per esprimere il mondo dei sogni, delle emozioni, dell’istinto. Il meccanismo con cui si producono le immagini cinematografiche, per il suo modo di funzionare, è, fra tutti i mezzi di espressione umana, quello che più somiglia alla men­ te dell’uomo o, meglio ancora, quello che meglio imita il funzionamento della mente in stato di sonno». Di qui il fatto

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- commenta il curatore Vidal - che proprio il cinema appaia lo strumento più adatto per la poetica di un surrealista come Bunuel, giacché in esso soggetto e oggetto, rappresentazione interna e percezione esterna si sovrappongono di continuo: dal trattamento più rispettoso della realtà esterna da pane dell’«obbiettivo» della macchina da presa scaturiscono «il so­ prannaturale, i fantasmi interiori, il surreale», secondo la «boutade» o il paradosso del fondatore del movimento surrea­ lista, André Bréton, che Bunuel stesso nella conferenza cita (e Vidal riporta nell’introduzione) : «La cosa più straordinaria del fantastico è che il fantastico non esiste, tutto è reale». L’introduzione premessa da Vidal agli Scritti letterari e cinematografici è fondamentale per intendere come l’aragonese Bunuel formi un momento chiave del trapasso della cultura spagnola, verso la fine degli anni ’20, dall’avanguardia al sur­ realismo. Gli scritti bunueliani, composti pressappoco nello stesso periodo e redatti in quello stile «assolutamente aragone­ se» e «profondamente moderno» che Vidal giudica «adatto a prendere implacabilmente d’assalto i bastioni in cui ancora si trovavano arroccate le seduzioni estetizzanti», ci rivelano infat­ ti un Bunuel altrettanto beffardo e irriverente di quello che abbiamo imparato a conoscere dai suoi film; e lo stesso dicasi per i suoi giudizi critici sul cinema del tempo. Cinema e letteratura del primo Bunuel affondano in uno stesso clima di cultura. Né, visti film e scritti, sarebbe fuori luogo tracciare, per questo aragonese dello scandalo, un paral­ lelo con Goya. Con qualche ragione, crediamo, si è detto - e ora Vidal ribadisce - che nella metafora dell’occhio tagliato, su cui si apre Un chien andalou (1929), «si trova in embrio­ ne il nucleo della sua poetica», da Vidal riassunta così: «l’at­ teggiamento di fondo di Bunuel, la sua matrice poetica costan­ te, senza soluzióne di continuità, tanto nel cinema che nella piattaforma letteraria dove acquista consistenza, risiede nella mutilazione dell’originario e del primigenio, per ricomporlo, poi, mediante il collage, in una nuova identità che prescinde dalla sua collocazione gerarchica primitiva. L’alchimia inerente al caso si attua in un viaggio reale o allegorico». 119

Quando Maurice Drouzy, nel libro di cui si è appena discorso (§ 1), lo definiva «architetto del sogno», intendeva proprio alludere alla centralità per la sua poetica di questa stretta interrelazione fra vita e sogno, realismo e surrealismo; intendeva sottolineare che, se da un lato egli, volendo «essere il cineasta del reale, di tutto il reale», senza limitazioni o esclusioni preconcette, «aspira nello stesso tempo a essere il cineasta del sogno», dall’altro, e correlativamente, «si profon­ da talmente nel sogno che finisce per ritrovarvi la realtà più occulta». Tutta la letteratura critica degli anni ’80 muove in sostan­ za da tali premesse, dalle coordinate sopra brevemente defini­ te, sforzandosi di approfondire e chiarire il senso delle diverse tappe del «viaggio reale o allegorico» compiuto dal regista. Sulle sue prove surrealistiche iniziali, così importanti, si soffer­ mano Felice Troiano {Surrealismo e psicanalisi nelle prime ope­ re di Bunuel, Centro studi e archivio della comunicazione dell’università di Parma, Quaderni di storia dell’arte 13, Par­ ma 1983, pp. 255) e Auro Bernardi {L’arte dello scandalo. "L’àge d’or" di Luis Bunuel, Dedalo, Bari 1984, pp. 277: opera vincitrice del premio Pasinetti indetto dalla rivista «Ci­ nema nuovo»), che del film di cui al titolo fornisce anche, per il necessario confronto, la traduzione del découpage originario e la sceneggiatura desunta alla moviola dalla copia del film in possesso della Cineteca italiana di Milano; mentre quadri più comprensivi dell’attività del regista, a espresso intento mono­ grafico, offrono un lavoro dello psicanalista messicano Fernan­ do Cesarman, apparso anche in Francia {L’oeil de Bunuel, con pref. di Carlos Fuentes, trad, di Annie Morvan, Ed. du Dau­ phin, Paris 1982, pp. 269), un profilo del francese Marcel Oms {Don Luis Bunuel, con pref, di Jean-Claude Carrière, Ed. du Cerf, Paris 1985, pp. 225) e, in Germania, 1’opuscolo messo insieme da Michael Schwarze con spezzoni autobiografi­ ci e repertorio di immagini documentarie, secondo i criteri propri della ‘collana’ in cui esso appare {Luis Bunuel in Selbst-

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zeugnissen und Bilddokumenten, Rowohlt, Reinbeck bei Ham­ burg 1981, pp. 152). Se quest’ultimo assolve con diligenza i compiti informativo-introduttivi che si propone, le monografie di Cesarman e Oms puntano all’obiettivo più alto di fornire, del cinema di Bunuel, un’interpretazione: in chiave freudiana Cesarman, in chiave storico-critica Oms. Per l’uno la scelta dei film discussi dipende non dal loro valore intrinseco, ma dal grado di chia­ rezza e ricchezza del materiale psicanalitico in essi contenuto; per l’altro, che invece li discute tutti, i film contano soprattut­ to in ragione del loro aggancio col mondo storico reale cui rimandano o alludono. Non è pleonastico né senza significato il «don» voluto da Oms nel titolo del suo profilo. Prendendo espressamente le distanze sia dall’«approccio psicanalitico» di Cesarman, sia da quella che - un po’ ingiustamente - chiama l’«apologetica» di Drouzy (ma in qualche eccesso apologetico cade egli stesso, come cade anche Schwarze, specie in riferimento al periodo messicano), egli batte infatti con insistenza sul «profondo ispa­ nismo» del regista, sul suo radicamento nella cultura del paese nativo, la Spagna, individuando una «coincidenza quasi simbo­ lica» tra la biografia dell’uno e il destino contemporaneo del­ l’altra. Film come 'Vindiana e Tristana non sono, per Oms, che «allegorie» di tutti i mali e i ritardi dello sviluppo economico spagnolo; L'angelo sterminatore gli sembra «riprendere la ri­ flessione disincantata di Bunuel sulla Spagna contemporanea, non già come semplice simbolo, ma come nazione dal destino edificante». «È incontestabile - conclude l’autore - che l’ispirazione spagnola ha nutrito l’opera di Bunuel, tanto più fortemente talvolta in quanto l’esilio intensificava in lui un senso di vuo­ to, di mancanza e di assenza [...]. Questo doppio rapporto tellurico e affettivo con la Spagna pervade tutta la sua opera e, per certi versi, ne spiega forse l’ambivalenza emozionale». Che è poi anche il motivo e la giustificazione del suo così frequen­

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te «ricorso al grottesco», della sua «vicinanza d’ispirazione con la figurazione pittorica in Goya di certi orrori, deformità e mostruosità dell’uomo» . *

* Ricordiamo, a questo proposito, che per la formazione di Bunuel, i suoi rapporti col gruppo surrealista spagnolo e con quello francese, l’«essenza spagnola» del suo cinema ecc., resta sempre fondamentale J. Francisco Aranda, Luis Bunuel: biografia critica, Ed. Lumen, Barce­ lona 1969, pp. 424 (ned. ampliata, 1975, pp. 480). Nell’ambito della stessa costellazione problematica si aggira anche un altro testo di prove­ nienza spagnola: il saggio di storiografia comparata che dobbiamo al curatore degli Scritti letterari e cinematografici, AgustIn SAnchez Vidal, Bunuel, Lorca, Dali: El enigma sin fin, Ed. Pianeta, Barcelona 1988, pp. 380. Di un importante scenario bunueliano del 1928 sulla vita di Goya (non realizzato e che si credeva perduto: ne parla Vidal, pp. 124-9) c’è ora un’edizione a stampa, Goya - 1928, a cura di Marielle Issartel, Jacques Damase, Paris 1987, su cui riferisce esaurientemente Auro Bernardi, Bunuel, Goya e il surrealismo, in «Cinema nuovo», XXXVII, 1988, n. 314-315, pp. 65-70.

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XI

Nuovi materiali di studio per Griffith, Chaplin e Flaherty

1. Apporti biografici La letteratura critica sul cinema trova di tanto in tanto occasione, del tutto ragionevolmente, per un ritorno al discor­ so sui grandi ‘classici’ del periodo del cinema muto. David W. Griffith, Charles S. Chaplin e Robert J. Flaherty, che apparten­ gono senza dubbio al novero di questi ‘classici * periodicamente rivisitati dalla critica, godono in più del privilegio di una vigile attenzione della memorialistica o della critica anche sot­ to il profilo biografico. Le attuali fortune del genere biografi­ co presso la storiografia generale contemporanea sono del re­ sto sotto gli occhi di tutti. Noi stessi abbiamo dovuto altra volta rilevare, in «Cinema nuovo», come la sempre più accen­ tuata propensione della storiografia per un tal genere di studi si sia venuta gradatamente riflettendo anche sul terreno della storiografia del cinema; e come abbia dato luogo a una fioritu­ ra senza precedenti di biografie fondate su scavi d’archivio e ricerche di prima mano. Se prendiamo in considerazione anzitutto Griffith, possia­ mo ben dire che gli apporti critico-biografici su di lui hanno acquistato negli ultimi anni tale rilevanza da consentirci di padroneggiare ormai in lungo e in largo il campo dell’attività svolta da questro indiscusso pioniere del cinema statunitense, se non di tutto il cinema in generale. Tappe significative recen­ ti dell’approccio alla personalità di Griffith sono state, nell’or­

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dine, la biografìa redatta da Robert M. Henderson all’inizio degli anni ’70, quella del 1980, più modesta e tradizionale, a firma di Martin Williams, e la pubblicazione in Francia, a cura di Patrick Brion, di un ricco catalogo di introduzione e accompagnamento alla retrospettiva griffìthiana tenutasi al Centre Georges Pompidou di Parigi nell’inverno 1982-83, e di un fase, speciale di «Avant-scène Cinéma» (n. 302, 1983)1. All’atto della sua comparsa la biografia di Henderson (D.W. Griffith: His Life and Work, Oxford Univ. Press, New York 1972, pp. 326) pareva dotata di tutti i crismi necessari per figurare, grazie alla cura con cui era condotta, come un testo esauriente e completo, pressoché definitivo. Tale la giudi­ cammo anche noi, a suo tempo, sulle colonne di «Cinema nuovo» (n. 235-236, 1975), scrivendo testualmente quanto segue:

Questa biografia merita considerazione. Tratto caratteristico della vita di Griffith è che egli cresce, per dir così, con Hollywood. La sua formazione e il suo sviluppo procedono parallelamente allo sviluppo del cinema come industria; ma questo, a sua volta, costitui­ sce soltanto un epifenomeno, un anello secondario, dell’enorme in­ tensificarsi e espandersi dei rapporti di produzione capitalistici in America agli inizi del secolo. Dopo il 1893 nessun crack, nessuna crisi interna turba la crescita economica e finanziaria del paese. L’epoca di Me Kinley e quella di Roosevelt, fino quasi alla soglia della guerra mondiale (e al primo grande esperimento storico di Griffith, Judith of Bethulia, 1913), segnano il trionfo dell’alta 1 Scarso rilievo per la biografia di Griffith hanno i lavori apparsi successivamente, tra i quali ci limitiamo a segnalare: il repertorio filmografico completo, a cura di Cooper C. Graham, Steven Higgins, Elaine Mancini e JoÀo Luiz Vieira, D.W. Griffith and the Biograph Company, The Scarecrow Press, Metuchen (N.J.) & London 1985, pp. 333; la monografìa di William M. Drew, D.W. Griffith's “Intolerance”: Its Genesis and its Vision, McFarland, Jefferson (N.C.) 1986, pp. 198; e la tesi di dottorato (1981), ora trasformata in libro a stampa, di Joyce E. Jesionowski, Thinking in Pictures: Dramatic Structures in D.W. Griffith's Biograph Films, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1987, pp. 212.

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finanza e l’avanzarsi quasi indisturbato dei grandi gruppi monopoli­ stici (Morgan, Rockefeller), che vanno estendendo capillarmente il loro controllo su tutti i settori della vita pubblica americana, com­ prese le società di produzione per le quali lavora Griffith. Concresciuto con la fase di espansione dell’industria cinemato­ grafica e del capitalismo americano in genere, questi ne diventa artisticamente, in un certo senso, il cantore; canta la «nascita di una nazione», o meglio la sua crescita mondiale, il suo passaggio al rango di grande potenza. Ecco perché nei film di Griffith le conno­ tazioni storiche appaiono così false. Non c’è in essi storia, ma celebrazione; i suoi film cosiddetti storici di storico propriamente hanno ben poco: l’interesse primario che li muove è sempre o quasi sempre contemporaneo. Di qui la rilevanza, per illuminarli convenientemente, del materiale che attiene alla biografia dell’auto­ re. Ora il suo biografo Henderson lavora con materiale tutto di prima mano, come documenti, lettere, memorie (tra cui quelle inedite dello stesso Griffith), riuscendo così a fornire, pur sulla base del pregiudizio di origine positivistica secondo cui la vita di un autore ne condiziona in misura determinante l’opera, una serie di notizie di notevole rilievo anche per la comprensione di quest’ul­ tima: stila intanto l’elenco completo, con relative date, dell’incredi­ bile numero di film da lui realizzato alla Biograph fino al marzo 1914; mette giustamente a fuoco la questione della genesi e del­ l’importanza storica di Judith of Bethulia, nonché dei suoi presunti influssi - comunque più indiretti che diretti - dal nostro Quo vadis?\ conferma una volta di più la giustezza della tesi della scarsa storicità dei film “storici” di Griffith («l’idea di confrontare le fonti e di soppesare la loro effettiva autenticità era senza importanza per lui»); e'ribadisce altresì il fatto, già noto agli studiosi di Griffith almeno dall’epoca del catalogo stilato da Eileen Bowser in appendi­ ce alla riedizione del libro di Iris Barry D.UZ. Griffith: American Film Master (New York 1965, pp. 48, 51), che una parte del materiale di The Birth of a Nation e Intolerance è andato frattanto irrimediabilmente perduto e i due film non sono ormai più rico­ struibili nella loro versione originale autentica. Ma ecco invece che, a poco più di un decennio di distanza (e a quattro anni appena dalla biografia di Williams), rimette tutto in causa una nuova ricerca sullo stesso tema, d’ampiezza 125

doppia rispetto a quella di Henderson, informatissima, fittissi­ ma di notizie, e che aspira anche - questa volta espressamente - a riuscir definitiva. La si deve al critico del settimanale statunitense «Time», Richard Schickel (D.W. Griffith: An American Life, Simon and Schuster, New York 1984; noi utilizziamo l’edizione inglese, Pavilion Books in collaborazio­ ne con Michael Joseph Ltd., London 1984, pp. 672), ben consapevole di muoversi — lo dichiara nell’introduzione - con­ tro quell’«immagine accettata della vita di Griffith, che tende a ritrarlo come un visionario eroico tradito e distrutto da un’industria grossolana e insensibile, dimenticato nei suoi tar­ di anni da un pubblico volubile» [p. 11]. Griffith una vittima? No, le colpe e i limiti del regista fanno tutt’uno, per l’autore, con i suoi grandi meriti. Essi derivano sostanzialmente dal fatto che Griffith si lascia troppo presto ammaliare e irretire dal demone della spettacolarità, da un desiderio di sfrenata grandezza. Quanto più crescono in lui ambizione e megalomania, e più forte si fa la fiducia nel proprio talento, tanto più egli va allontanandosi dalle fonti genuine della sua arte. E questo allontanamento che gli rim­ provera l’autore; esso rappresenta, ai suoi occhi, «un’acquie­ scenza alla pressione commerciale per la grandeur, così come un’acquiescenza agli elementi meno cattivanti della sua pro­ pria ambizione» [p. 120]. Schickel, è chiaro, apprezza assai più il Griffith ingenuo, familiare, domestico dei suoi primi esperimenti alla Biograph, che non le sue posteriori e preten­ ziose intrusioni sul terreno dell’epica; in ogni caso gli sembra che la sensibilità di Griffith si esprima meglio, anche nell’epi­ ca, quando egli ha a che fare con materiale «distante nel tempo e nello spazio dalla realtà americana contemporanea» [p. 543]; mentre, dove tenta di affrontare di petto i problemi sociali del suo tempo, il suo cinema cade nel banale, nel sentimentale, nel patetico, talora persino nel ridicolo. Quale che sia il giudizio da darsi su questa - per altro dubbia - tesi, certo è che la fase di declino e tracollo di Griffith viene qui assai ben rappresentata. La biografia ridon­ 126

da di giuste annotazioni critiche, come quando in un passo fautore dice: «Narratore e moralista Griffith certo lo era, e non ci si può esimere dall’osservazione che fu spesso quando puntò al poetico che l’ispirazione gli venne meno, che fu pro­ prio quando cercò di almanaccare da intellettuale su quanto attirava la sua attenzione che divenne più pomposamente lette­ rario e retorico» [p. 121]. E ancora, in un altro passo (da leggersi in stretto rapporto al precedente): «mentre il cinema si faceva intellettualmente più avanzato, più capace di occupar­ si con finezza di idee, o almeno di visioni della natura umana finemente elaborate, il cinema di Griffith cominciò a apparire non abbastanza adorno, la sua essenza melodrammatica espo­ sta quasi senza veli» [p. 336]: col risultato che presto esso venne giudicato «vecchio stile», «fuori moda», specialmente da parte delle cerehie intellettuali più à la page. Può darsi che frammezzo al nugolo di notizie (non tutte indispensabili) qui fomite, e per le quali l’autore attinge a giornali d’epoca, fonti d’archivio, testimonianze, ricordi ecc., le annotazioni critiche più significative finiscano col disperder­ si o col venir soffocate e sommerse; una maggior selezione del materiale, una più netta presa di distanza dai pettegolezzi pubblicistici, avrebbero reso il testo più agile e insieme più serio. Resta tuttavia indiscutibile la grande padronanza con cui l’autore si muove entro il campo della sua ricerca. Qualcosa di altrettanto monumentale della biografia griffichiaria di Schickel tenta, per Chaplin, il britannico David Ro­ binson {Chaplin. His Life and Art, Collins, London 1985, pp. 792 )2, a ridosso o quasi di un suo bilancio storiografico della letteratura chapliniana {Chaplin. The Mirror of Opinion, Sec-

2 La monografia di Robinson è poi apparsa in italiano col titolo Chaplin. La vita e Parte, trad, di Daniela Fink, Marsilio, Venezia 1987, pp. 864, arricchita da una bibliografia a cura di Stefania Parigi: strana bibliografia per la verità, dove a es. il mio libro del 1981 II realismo di Chaplin - uno dei pochissimi libri italiani in argomento - non figura affatto.

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ker and Warburg-Indiana University Press, London-Blooming­ ton 1983, pp. 205), sorto in parallelo con un’altra bio-biblio­ grafìa ragionata di Chaplin: quella a cui Wes D. Gehring, allievo del più noto bibliografo chapliniano attivo negli Stati Uniti, Timothy Lyons, e già lui stesso autore in proprio, nel 1980, di una monografìa su Chaplin che non conosciamo, dà per titolo appunto Charlie Chaplin. A Bio-Bibliography (Green­ wood Press, Westport-London 1983, pp. 227). In realtà quest’ultima offre, allo stesso tempo, meno e più di quanto il titolo prometta. Se la sua sezione bibliografica è largamente incompleta e tutt altro che al corrente delle dispute su Chaplin insorte da decenni nella storiografia europea, se essa anzi, si potrebbe dire, non esce quasi affatto dall’alveo della tradizio­ ne critica statunitense, in più, rispetto a repertori puramente bibliografici come quello di Lyons, possiede capitoli analitici, che le danno la veste e il crisma di una monografia critica. Criticamente, per altro, non le giova la troppo stretta me­ scolanza di analisi e biografia. Inoltre le categorie e gli stru­ menti critici di cui si serve ci sembrano inadeguati allo scopo che l’autore persegue. Una categoria come quella di «incon­ gruenza» risulta troppo vaga, troppo generica, perché ci si possa fondar sopra l’intera teoria chapliniana del comico («Quasi tutto ciò che riguarda il mondo comico di Chaplin sostiene l’autore fin dall’inizio [p. 14] - giuoca sull’incongruen­ za»). Non mancano, qui e là, spunti interessanti; ma si prova come l’impressione di trovarsi davanti a un libro mal ideato e strutturato, che difetta di ordine nell’esposizione della materia e che, tutto sommato, riesce inutile. Quanto a Robinson, egli si serve, nei suoi due testi, di un duplice e diverso metodo di approccio a Chaplin: l’uno, per così dire, «obliquo», tramite la discussione di quanto è stato fatto sin qui da altri («l’accumulo di sessant’anni di letteratu­ ra»); e l’altro diretto, con la sua propria analisi biografica. Diciamo subito che il testo incentrato sul bilancio della lettera­ tura risulta nel complesso piuttosto deludente, sia perché asse­ gna un ruolo eccessivo, decisamente sproporzionato, alla me128

morialistica e alla pubblicistica corrente rispetto agli interventi della storiografìa, sia anche perché Fautore si limita — come Gehring - a prendere in considerazione quasi esclusivamente le opere in lingua inglese, trascurando il pur notevole apporto critico proveniente da altri paesi, a es. dall’Italia e dalla Fran­ cia: con l’aggravante, per quanto riguarda la storiografìa fran­ cese, che — salvo il caso isolato di un pioniere quale Louis Delluc (il cui Chariot del 1921 ha rivisto proprio ora la luce nel vol. I dell’ed. dei suoi scritti cinematografici completi, Le Cinema et les Cinéastes, a cura di Pierre Lherminier, Cinémathèque Frangaise, Paris 1985, pp. 79-118) - essa viene subito accantonata con disdegno in virtù dell’argomento che «Cha­ plin è quasi santificato in Francia e, come si comprende, que­ sta sorta di reverenza è largamente acritica» [pp. vn-vin]. Molto più significativo e consistente l’approccio diretto della grande biografia. Come biografia standard di Chaplin valeva sin qui, secondo Robinson, quella di John McCabe, risalente al 1978. Grazie all’ampio ventaglio di fonti primarie e secondarie di cui dispone, e anche all’utilizzazione del mate­ riale documentario reso disponibile dal filmato di Gill e Brown­ low Unknown Chaplin ( 1983)3, Robinson va ora - biografica­ mente — ben oltre McCabe, sia nel senso dell’ampliamento del raggio dell’informazione come in quello dell’approfondimento intensivo di determinati punti o aspetti delle vicende personali di Chaplin tuttora problematici: pensiamo in particolare al quadro per certi versi nuovo che viene delineato qui della sua vita nei primi anni ’40, cioè nel periodo compreso tra il proget­ to di Shadow and Substance, il coraggioso discorso di San Francisco del maggio 1942 e la preparazione di Monsieur Verdoux (poi uscito nel 1947). Diversamente dai biografi e critici chapliniani di questi ultimi anni (McCabe, Sobel e Francis, ecc.), Robinson si mo­ stra incline a dare largo credito alle attestazioni della Autobio­ grafia di Chaplin, sebbene ne riconosca i vuoti e le omissioni, J Cfr. più oltre, § 2.

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e deplori la costante reticenza dell’autore a esprimersi con franchezza sul suo lavoro. Quello che VAutobiografia tace do­ vrebbe trovare il suo «complemento» qui, in una esposizione dove, — secondo la promessa del sottotitolo, dal testo mantenu­ ta — vita e arte si intervallano e intrecciano di continuo tra di loro. Nata infatti col proposito di trattare solo dell’«opera» di Chaplin, spiega Robinson nella prefazione, la ricerca gli si viene presto trasformando tra le mani in biografia generale dell’uomo e dell’artista; e come tale noi oggi siamo chiamati a valutarla. Ora, che giudizio darne in sintesi? Senza dubbio un giudi­ zio sostanzialmente positivo, almeno per quanto si riferisce al punto — già rilevato — della solidità del suo supporto documen­ tario. Certo la circostanza che essa sopravanzi le biografie esistenti e abbia tutte le carte in regola per assidersi d’ora in avanti essa al rango di biografia standard non toglie che le due componenti da cui risulta, la critica e la biografica, spesso fatichino a fondervisi, o, quand’anche e dove vi si fondano, stiano sempre in equilibrio assai precario, tenute insieme da legami affatto estrinseci, del genere di questo: «Shoulder Arms (Chariot soldato) fu uno dei maggiori successi della carriera di Chaplin. Non lo fu altrettanto il suo matrimonio con Mildred Harris» [p. 245]. Come Griffith e Chaplin, anche Flaherty vanta precedenti tutt’altro che trascurabili in campo biografico, da The World of Robert Flaherty di Richard Griffith (1953) fino al testo edito da Arthur Calder-Marshall, in base a materiale di ricerca di Paul Rotha e Basil Wright, col titolo The Innocent Eye: The Life of Robert Flaherty (1963): senza contare naturalmen­ te testi minori successivi, come l’antologia tedesco-democratica curata a Berlino nel 1963 da Jay Leyda e Wolfgang Klaue, il Flaherty in chiave lirico-poetica (e spiritualistica) del francese Henri Agel (1965) e, da noi, l’insignificante libercolo di Fla­ via Paulon — in continuo ma non confessato debito verso Calder-Marshall — I mocassini indiani (1970) e il profilo steso 130

nel 1975 per il «Castoro cinema» della Nuova Italia da Anto­ nio Napolitano4. Il principale di tutti questi lavori, la biografia di CalderMarshall, ha una storia curiosa, che merita ora di venir rievo­ cata nei dettagli, trovandosi all'origine dell’edizione del mano­ scritto contenente il materiale biografico di Rotha cui CalderMarshall ha attinto (Paul Rotha, Robert J. Flaherty: A Biogra­ phy , ed. by Jay Rudy, University of Pennsylvania Press, Phila­ delphia 1983, pp. 359). Poco dopo la morte di Flaherty, nel 1951, Rotha e Wright, due dei capifila del movimento docu­ mentaristico britannico, vengono invitati da un editore inglese a raccogliere il materiale necessario per un tributo biografico al loro grande collega e amico scomparso. È Rotha che si sobbarca la maggior parte del lavoro: consulta infatti periodi­ ci, libri, stampa varia, collaziona tutto il materiale raccolto, lo sottopone all’attenzione di numerosi coadiutori di Flaherty, mette a raffronto le loro diverse risposte e i loro diversi pare­ ri: col risultato di trovarsi fra le mani, anni più tardi, un imponente coacervo di dati e di notizie, un prezioso incarta­ mento, per altro troppo ‘specialistico’ per ricavarne un libro di sicuro successo commerciale. Nel 1959 finalmente il dattilo­ scritto è pronto per la stampa, ma nessun editore, dopo che il

M Maggiori riferimenti bibliografici in William T. Murphy, Robert Flaherty: A Guide to References and Resources, G.K. Hall & Co., Boston 1978. Posteriore il catalogo della Vancouver Art Gallery, Robert Flaherty - Photographer/Filmmaker, the Inuit, 1910-1922, ed. by Jo-An­ ne Birnie Danzker, Vancouver 1979, utile per la ricostruzione della fase giovanile di apprendistato della carriera del regista. Non una biografia, ma - secondo le parole stesse dell’autore — «a critical assessment of Flaherty’s approach, working methods, and achievements», vuol essere da ultimo il volume di Richard Barsam, The Vision of Robert Flaherty: the Artist as Myth and Filmmaker, Indiana Univ. Press, Bloomington-In­ dianapolis 1988, pp. 144, che però resta sostanzialmente alla superficie dei problemi, contrabbandando per “conservatorismo” l’umanesimo di Flaherty, senza nemmeno il coraggio di fame - come invece si dovreb­ be - un anticapitalista romantico. Barsam ritiene comunque che, anche dopo la biografia di Rotha e Ruby recensita qui di seguito, «the need for a scholarly biography remains».

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primitivo committente defeziona, si azzarda a pubblicarlo. En­ tra in scena a questo punto Calder-Marshall, cui Rotha passa tutto l’incartamento, sotto forma di «note di ricerca». Sollecita­ to dallo stesso Rotha a rimettere ordine nel materiale raccolto, in modo da renderlo pubblicabile, Calder-Marshall, accetta, a condizione però di poterne disporre liberamente; e, scorcian­ dolo, manipolandolo, riadattandolo alla meglio, fa uscire quat­ tro anni dopo il lavoro col suo nome, con una prefazione che ne ricostruisce la tormentata genesi e con una nota di Rotha e Wright posta a commento della prefazione, dove, per via delle numerose divergenze ormai insorte con Foriginale, i due mira­ no a scagionarsi da ogni addebito circa i giudizi su Flaherty espressi nel libro. Quando poi, nel 1979, Jay Ruby, impegnato in ricerche flahertiane per suo proprio conto5, si imbatte in un abbozzo inedito del manoscritto di Rotha conservato tra le carte di Frances Flaherty, vedova del regista, scopre che si tratta di un testo di grande respiro e profondità, del tutto degno di veder la luce in veste autonoma; e così ne prepara lui stesso Fedizione, collazionandolo con l’altro manoscritto, quello edito, frattanto depositato da Rotha nel John Grierson Archive dell’università di Sterling, in Scozia (mentre copia del dattiloscritto utilizzato da Calder-Marshall si troverebbe, secondo quest’ultimo, presso la biblioteca del Museum of Modern Art di New York). Dice bene Ruby, a lavoro compiuto: «U valore di questo libro sta nella possibilità che offre ai lettori di guardare alla vita e all’ope­ ra di un pioniere del cinema americano dal punto di vista di un capofila del movimento del documentarismo cinematografico britannico che fu in dimestichezza con Flaherty per la maggior parte della sua vita professionale» [p. 2]. Documentatissima, ricchissima di notizie e testimonianze,

5 Jay Ruby, The Aggie Will Come First: The Demystification of Robert Flaherty, in Robert Flaherty - Photographer/Filmmaker, cit., pp. 66-73; A Re-examination of the Early Career of Robert J. Flaherty, in «Quarterly Review of Film Studies», V, 1980, fase. IV, pp. 431-57.

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costellata da un capo all’altro di citazioni dello stesso Flaherty e del gruppo dei suoi più stretti collaboratori, la biografìa che dobbiamo a Rotha fa di Flaherty — questo «poeta con una nuova percezione visiva» [p. 48] - fondamentalmente un istin­ tivo: «egli creava un film per istinto», dice l’autore in un punto [p. 284]; e poco più oltre ribadisce: «Se The Land colpisce per la sua appassionata incoerenza, Louisiana Story cattura e convince per la sua accettazione di due modi di vita. Flaherty lavorava d’istinto, e non c’è ragione di pensare che si fermasse a riflettere su questa particolare forma di accettazio­ ne» [p. 288]. Attento Rotha si mostra in specie ai metodi di lavoro del regista, ai rapporti umani da lui volta per volta stabiliti con gruppi e comunità lontane, alla qualità visiva delle sue immagini, alla sensibilità che sempre vi traspare. Di qui l’entusiasmo del biografo per un documentario sociale della forza di The Land\ ma di qui anche, inversamente, le sue riserve - non tutte giustificate - nei confronti della presunta mancanza di «umanità» di Man of Aran\ «È la tragedia vera e propria degli isolani in quanto tali - lamenta — la grande assente dal film di Flaherty. C’è il mare con tutta la sua furia, ma non la comune esperienza umana della gente» [p. 160].

2. Chaplin ritrovato Sarebbe senza dubbio sbagliato credere e asserire che, nel contesto della sterminata letteratura chapliniana, manchi affat­ to qualcosa di attinente al Chaplin “intimo” o al Chaplin “segreto”. Questo settore della letteratura chapliniana esiste, e in misura anzi fin troppo abbondante; ma tocca pressoché esclusivamente di fatti o vicende o contingenze scandalistiche della vita di Chaplin, trattate in chiave aneddotica. Poco o nulla esiste invece sul suo “laboratorio”, ossia sul retroterra privato della sua personalità di regista, del suo metodo creati­ vo, della sua prassi artistica; anche le testimonianze di prima

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mano fomite da coloro che, come segretari o collaboratori, gli sono stati intorno più a lungo (Carlyle T. Robinson, Robert Florey), per non parlare nemmeno dell’evasiva Autobiografia, riescono, da questo lato, assai poco illuminanti. Tanto più prezioso appare perciò il materiale di lavoro ritrovato da Kevin Brownlow e David Gill a Vevey, in una cantina dell’ultima dimora svizzera di Chaplin, e da loro mes­ so insieme e montato a comporre le tre parti di Unknown Chaplin (Chaplin sconosciuto), per un totale di circa due ore e mezza di proiezione. Il lavoro si compone di materiale girato ma non utilizzato nel montaggio definitivo da Chaplin, e di interviste con i suoi attori e collaboratori, che quel materiale inquadrano, illustrano e commentano: dai ricordi di Virginia Cherrill e Georgia Hale, interpreti rispettivamente di Luci della città e La febbre dell’oro, a quelli della prima moglie di Chaplin, Lita Grey, e del figlio Sydney, fino alle testimonian­ ze di Alistair Cooke, Robert Parrish, Dean Riesner. Colpisco­ no particolarmente gli «spezzoni» intesi a documentare quello che, in una delle interviste, la Cherrill chiama a ragione il «perfezionismo» di Chaplin. Egli non si stanca mai di girare e rigirare, per decine di volte, la stessa sequenza o la stessa inquadratura; scarta, accantona e taglia impietosamente ciò che non lo soddisfa del tutto dal punto di vista creativo o che, anche compiuto in se stesso, gli sembra non accordarsi con lo svolgimento o lo stile del film rispettivo; elimina così materia­ le talora assai prezioso, come a es. la prima sequenza di Luci della città, un piccolo gioiello autonomo nel suo impianto novellistico. Se non dunque a un Chaplin “segreto” (nel senso aneddotico-scandalistico del termine), siamo posti qui di fronte a un vero e proprio Chaplin “sconosciuto”. Qui molte particolarità del suo laboratorio si dispiegano senza veli dinnanzi ai nostri occhi; qui assistiamo in concreto al processo tramite cui tante prove, tante ripetizioni, tanto - e, apparentemente, tanto esa­ gerato — «perfezionismo» trovano alla fine sbocco nel film compiuto. Non è certo senza significato che i primi reperti di

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Unknown Chaplin risalgono al periodo Mutual (1916-17). Si tratta infatti del momento di sviluppo dell’arte chapliniana in cui si accentua e si fa per la prima volta palese e consapevole, anche soggettivamente, il distacco dalle slapstick comedies di Sennett. Il maggior punto di differenziazione sta in ciò: che Sennett, contrariamente a Chaplin, resta sempre fermo al pun­ to di vista degli inizi; il passaggio dall’owe reel ai two o più reels non segna in lui, come in Chaplin, un salto di qualità. Oggi, grazie al lavorio di scavo della letteratura critica sulla Keystone di Sennett e alla «personale» dedicata a Sen­ nett dalla II edizione delle «Giornate del cinema muto» di Pordenone (1983), siamo in grado di farci un’idea relativamen­ te compiuta dell’universo caotico e sgangherato dello slapstick, col suo ritmo convulso, le sue convenzioni, i suoi moduli ricorrenti - fughe, inseguimenti, scontri imprevisti, parapiglia, capitomboli, tuffi nell’acqua, mazzate in testa, torte in faccia, crollo di edifici, esplosioni che sconquassano tutto; un caos, appunto, dove, in omaggio alla ferma convinzione di Sennett che il cinema è azione, è movimento («movies must move»), domina l’ossessione di un moto senza requie, il vorticoso, scatenato, disarticolato succedersi dei gag, e dove la ricerca dell’effetto comico punta bene spesso sull’assurdo per l’assur­ do: Sennett stesso chiama la Keystone «un’università del non­ senso». Erede e debitore in non piccola parte del music-hall, del burlesque, nonché della tradizione europea (francese) del comico che lo precede, e a cui egli aggiunge di proprio un tocco locale, uno specifico «american flavour», Sennett non bada o bada ben poco al contenuto; nelle comiche che realizza alla Keystone — più farse, in verità, che comiche - non c’è spazio alcuno per la psicologia dei personaggi, per la caratteriz­ zazione. C’è bensì costante, come nel burlesque, l’intento di far scaturire il comico dall’irrisione della ‘dignità’, specialmente di quella di cui si sentono investiti e si ammantano con boria i rappresentanti ufficiali del potere, i poliziotti (donde i famosi «Keystone Cops»); ma poiché, come è già stato messo in luce più volte da più parti, anch’essi sono tratti a gravitare nel 135

regno del caos, e vi figurano stilizzati e innaturali, simboli dell’assurdo piuttosto che dell’assurdità del potere, lo slapstick di Sennett non acquista mai spessore critico, non riesce mai a innalzarsi al livello di un’autentica satira. Sulla satira prevale lo sberleffo, sul comico il farsesco allo stato puro. La slapstick comedy non conosce altro genere di comicità; meccanica, ripe­ titiva, essa gira in tondo e a vuoto senza esprimere da sé alcuna determinazione concreta, senza sapersi dare né un reale contenuto sociale, né una veste formalmente conseguente. Ora le prime composizioni di Chaplin non si differenziano per nessun tratto essenziale, immediatamente riconoscibile, dallo slapstick di Sennett. Come Sennett, Chaplin punta in un primo tempo solo sul gag per il gag; assegna al gag - di fattura ancora molto semplice, elementare, talvolta addirittura rozza — il compito di reggere e fondare per intero la costruzio­ ne comica6. Per un tratto relativamente lungo, che comprende tutto il periodo Keystone (1914) e si inoltra almeno sino a una buona metà del periodo Essanay (1915-16), egli non tiene in alcuna considerazione, o perde completamente di vista, il problema formale della destinazione del gag, della sua con­ gruenza con l’unità dell’insieme; cosicché nei suoi lavori non si dà propriamente altra unità, dal punto di vista formale, che quella volta a volta prodotta dai singoli gag. Lo svolgimento narrativo delle sue short-stories Keystone (e di una parte anco­ ra di quelle Essanay) consiste solo nella giustapposizione seria­ le di trovate in stile slapstick, che non cercano nemmeno di congiungersi omogeneamente tra loro e organizzarsi in un tut­ to. È d’altronde ben naturale che sia così. Fino a quando Vinventio, priva di un supporto strutturale organico, procede a casaccio, e sull’unità prevale la disarticolazione comica, è inevi­ tabile che la comicità si affidi solo all’estro mimico di Chaplin, al suo geniale talento di improvvisatore; e che questo, a sua 6 Per quanto si dice qui e in seguito circa Io svolgimento del comico in Chaplin, cfr. sopra, II e III.

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volta, non possa rivelarsi che nella creazione di gag rapsodici, estemporanei, occasionali. È soltanto un lento corso di sviluppo, un processo di elaborazione stratificato e notevolmente complesso (composi­ to, eclettico), quello che porta Chaplin dal terreno delle origi­ ni sino alla sua propria creazione filmica autonoma, quale si profila o si consolida soprattutto durante il periodo Mutual. L’importanza della prima parte di Unknown Chaplin consiste nel documentare, materiali alla mano, come questo processo avvenga; come solo poco per volta egli pervenga a costruzioni filmiche artisticamente consistenti. È un sintomo del suo in­ nato talento, e insieme della sua maturazione, che egli avverta a un certo punto l’insufficienza della cristallizzazione della “maschera” entro i limiti dello slapstick e lavori con lena a infrangerla, a superarla, passando per gradi dalla “maschera” al soggetto umano, alla compiuta individualità della persona, al personaggio in senso proprio. Questa nuova impostazione va tanto più rilevata e sottolineata, in quanto mitologi, semiologi, esteti formalisti la misconoscono o fanno di tutto per minimizzarla, allo scopo di conservare integra la purezza del mito e del suo rivestimento formale. Storicamente non esiste in Chaplin un personaggio come tipo fisso. Il personaggio si modifica col modificarsi, correggersi, dilatarsi e approfondirsi del mondo artistico di cui fa parte; sicché le determinazioni concrete, i tratti concreti che lo definiscono, riflettono nella loro mobilità la mobilità stessa delle concezioni dell’autore, le caratteristiche storicamente specifiche via via da essa assunte nelle sue diverse fasi di svolgimento. L’ultimo scorcio del periodo Mutual (documentato in Un­ known Chaplin dalle modifiche di ideazione e realizzazione apportate a L'emigrante, e da due sequenze soppresse nella seconda parte delPEtwo) ci trasporta già molto oltre lo slap­ stick degli inizi. Correlativamente al passaggio dalla “masche­ ra” al personaggio, lo slapstick poggiante sul principio dell’au­ tomatismo viene poco per volta corretto, ritoccato, smussato, disciplinato dall’interno; il caos iniziale della forma, provocato 137

dall’assolutezza dei gag, lascia il posto a una forma in cui i gag si articolano o si organizzano, tanto in sé che nel loro rapporto alla story, secondo precisi moduli spazio-temporali. Nel frat­ tempo Chaplin viene maturando anche soggettivamente il con­ cetto dell’unità strutturale della forma: giunge cioè a compren­ dere la verità, avente valore di legge irrecusabile per l’estetica, che un giusto nesso organico tra le sequenze favorisce di per sé la riuscita dell’insieme. Egli dice della sua attività di regista all’altezza del primo film realizzato presso la First National, Vita da cani (1918): «Cominciavo a pensare alla comica in senso strutturale, prendendo atto sempre più della sua forma architettonica. Ciascuna sequenza implicava quella successiva, e tutte quante erano collegate tra loro». Data infatti a partire da questo periodo l’uso di un procedi­ mento di costruzione narrativa per sequenze a vasto respiro, le quali, proprio in virtù della loro ampiezza e della loro concate­ nazione, permettono a Chaplin di creare autentiche situazioni novellistiche, analoghe a quelle presenti nella narrativa ameri­ cana del periodo, in O. Henry, in Sherwood Anderson o in certe scene dei romanzi di Sinclair Lewis. Questa evoluzione formale di Chaplin sta in stretto rapporto con l’evoluzione della sua tematica, con la sempre più decisa concretizzazione in senso storico-sociale sia del personaggio che delle vicende che lo interessano. Ne risente immediatamente, per contraccol­ po, anche la tecnica dei gag: poiché ora, a questo stadio speci­ fico del suo sviluppo, i gag risultano intimamente fusi col contenuto della realtà sociale che l’opera, come un tutto unita­ rio, punta a rispecchiare. Quanto più rappresentativo si fa, socialmente parlando, il contesto di vicende e situazioni, quan­ to più esteso il processo evolutivo - in parallelo con esso della forma, tanto più ricco, complesso, elaborato, nutrito di mediazioni sociali e culturali diviene anche l’intreccio dei gag. Ma \5nknown Chaplin non si occupa solo dello sviluppo del giovane Chaplin. Molti excerpta riguardano il Chaplin ma­ turo. Specialmente la terza parte del lavoro di Brownlow e Gill esibisce un campionario sorprendente di sequenze o stral­ 138

ci da sequenze che, nelle copie definitive, appaiono modifica­ te, ritoccate o amputate del tutto: ricordiamo la sequenza del giuoco a golf, ideata per un film Mutual e realizzata di nuovo in seguito — con lo stesso sfondo scenografico e Io stesso spirito - per The Idle Class (Chariot e la maschera di ferro); quella di Charlie barbiere, soppressa in Sunnyside (Un idillio ai campi), ma poi ripresa, con gli adattamenti del caso, nel T)ittatore\ la visita medica della sequenza iniziale - interamen­ te soppressa - di Shoulder Arms (Chariot soldato); vari rulli di due lavori mai portati a compimento, Il professore (probabil­ mente l’ultimo progetto del periodo First National, databile al 1923: dove figura, tra l’altro, lo sketch del domatore di pulci, che Chaplin rielaborerà in Luci della ribalta) e Come realizzare un film-, e ancora molte altre sequenze inedite tratte dal mate­ riale di scarto dei lungometraggi della maturità, La febbre dell'oro, Il circo, Luci della città (sequenza iniziale citata, pri­ mo incontro con la fioraia cieca, sequenza finale nella versione con Georgia Hale), Tempi moderni (sequenza dell’attraversa­ mento pedonale). Che poi in Chaplin tanti gag, a distanza di anni, ritornino, e ritornino modificati, non deve costituire un motivo di sorpresa; ciò fa parte integrante di quella dialettica della tipologia del comico che è un metodo costante della sua prassi creativa. Nell’insieme, come si vede, Unknown Chaplin fornisce un contributo di tutto rispetto. Certo può anche darsi che abbia ragione Gavin Millar, quando, recensendolo per “Sight and Sound” (primavera 1983), osserva: «Con tutto il suo fascino e con tutta la brillante opera di scoperta e la diabolica maestria tecnica di Brownlow, Gill e del loro gruppo [...], che altro veniamo ad apprendere intorno al Chaplin sconosciuto? Curio­ samente poco, in un certo senso». E in realtà Brownlow e Gill ci offrono non un Chaplin diverso da quello già noto, bensì un prezioso strumento per accedere alla sua personalità di artista, appunti, testimonianze, documenti per approssimar­ ci il più possibile, dall’interno, al suo metodo di lavoro: quan­ to basta, insomma, perché dalla visione della loro silloge anto­ 139

logica - una silloge messa insieme con molto amore, cui si può rimproverare forse qualche cedimento al mito dell’imprevedibilità e sregolatezza del genio creatore, oltre che un certo disordine espositivo — si esca con la rinnovata persuasione non solo della grandezza del talento mimico di Chaplin, ma delle sue straordinarie qualità di artista in tutta l’estensione del termine: della sua capacità di elaborare a fondo e plasmare l’immagine filmica sino a innalzarla alla dignità dell’arte.

3. Chapliniana U.S.A. A distanza di un quindicennio dal Tout Chaplin di Jean Mitry e dal Tutto Chaplin di Francesco Savio (quest’ultimo ristretto al triennio 1914-16), ecco comparire - in previsione delle celebrazioni per il centenario della nascita di Chaplin (1989)7 - il I volume di un loro analogon statunitense: Chapli­ niana. A Commentary on Charlie Chaplin's 81 Movies, vol. I: The Keystone Films (Indiana University Press, BloomingtonIndianapolis 1987, pp. 295): lavoro che non solo scende sul loro stesso terreno di ricerca e ubbidisce al loro stesso criterio di approccio, quello di un’indagine condotta cronologicamente film per film, ma entra anche con loro in concorrenza puntan­ do al disegno più ambizioso di stringere in unità la descrizione analitica delle singole scene (come in Savio) con il commento e il giudizio critico (come in Mitry). Ne è responsabile Harry M. Geduld, docente di letteratu­ ra comparata all’indiana University e già autore fra l’altro per limitarci al campo cinematografico — di un’edizione della prima autobiografia di Chaplin, risalente al 1916 (Charlie Cha­ plin’s Own Story, Indiana University Press, Bloomington 1985, pp. 175), e, per le stesse edizioni, di un meno recente volume sulla nascita del sonoro (The Birth of the Talkies). 7 Sulle pubblicazioni del centenario, cfr. la Postilla al presente scritto.

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Con Chapliniana l’autore ha piena consapevolezza di avventu­ rarsi su un terreno accidentato. Nonostante gli sforzi compiuti dai biografi di Chaplin, e ultimamente ancora da David Robin­ son nella biografia monumentale dei cui pregi e limiti abbia­ mo detto sopra (§ 1), disponiamo infatti, per l’attività del primo Chaplin, ancora di pochi documenti e informazioni; molte circostanze restano nel vago; sorgono di continuo delica­ te, controverse e, allo stato attuale dei fatti, per lo più irresolu­ bili questioni di cronologia, come a es. quella sollevata da Robinson e qui registrata da Geduld [p. 15], ma poi discussa a fondo in un fascicolo della rivista svedese «Chaplin» (XXXIX, 1987, n’ 211), a riguardo della data esatta - e del film — in cui Chaplin appare per la prima volta nel suo travesti­ mento charlottiano. Donde le difficoltà di una ricostruzione minuziosa e una restituzione attendibile dei testi in questione, soprattutto degli one-reeler più arcaici. L’autore le affronta documentandosi di prima mano, ogni volta che gli riesce possibile, e attingendo per il resto notizie a varie fonti. Si premura così di fornire per ogni film, oltre ai dati e alle informazioni primarie correlative (riprese in gran parte, ma non soltanto, dalla «guida» di Timo­ thy J. Lyons8), un’ampia sinossi della trama fondata quasi sempre sul riscontro e la collazione di più copie differenti; una serie di osservazioni e commenti esplicativi suoi propri (nella sezione «Comments») riguardo al film in genere, alle circostanze precise della sua venuta in essere, alle sue caratteri­ stiche tecniche, alla sua tipologia, alla sua struttura, ai suoi rapporti con film precedenti o posteriori, al ruolo che vi han­ no altri collaboratori di Chaplin; e infine, a chiusura dell’anali­ si di ogni singolo film (nella sezione «Other Views»), una “ Timothy J. Lyons, Charles Chaplin: A Guide to References and Resources, G.K. Hall-George Prior, Boston-London 1979, pp. 232. Cfr., quanto se ne disse, a suo tempo, nella rassegna Ultimi contributi della critica chapliniana, in «Cinema nuovo», XXVIII, 1980, n. 263, pp. 71-73 (rist. in append, al voi. Il realismo di Chaplin, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 210-15).

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breve antologia dei giudizi espressi su di esso da altri critici (sempre però soltanto in libri anglo-americani o comunque apparsi in traduzione inglese). Non crediamo ci sia bisogno di spendere troppe parole a illustrazione della grande utilità che riveste questo primo to­ mo della fatica di Geduld. Poiché dei film Keystone presi in esame non esistono scenari originali, ma solo trascrizioni a posteriori da copie spesso notevolmente diverse tra loro sia per lunghezza che per contenuto (Geduld ricorda come si diano persino casi di copie di eguale lunghezza ma diverso contenuto), ogni sforzo di ricostruzione che, al pari di questo, ne faciliti l’approccio, tendendo il più possibile alla completez­ za, merita senz’altro di essere salutato come il benvenuto. Certo la fatica di Geduld non va esente del tutto da obbie­ zioni. La prima e la più grave riguarda una certa esagerata compiacenza verso l’oggetto studiato, l’atteggiamento troppo spesso acritico da cui l’autore si lascia guidare. Non a caso egli confessa nell’introduzione di essersi accostato alle comiche pri­ mitive «senza molto entusiasmo», vedendo in esse «poco più che cinquantacinque bobine di grossolanità non divertenti»; ma dopo aver avviato il lavoro di studio, aggiunge, «mi sono riveduto ogni film molte volte, e il mio godimento dei film Keystone, la mia ammirazione per la loro inventiva e vitalità, e soprattutto il fascino nei confronti di tutto ciò che essi rivelano sullo sviluppo delle doti artistiche di Chaplin sono venuti crescendo a ogni visione» [p. XIII]. Questa così appas­ sionata compartecipazione, questo atteggiamento tanto simpa­ tetico lo porta a individuare precorrimenti, geniali anticipi ecc. anche là dove non sembra proprio il caso: a es., di Caugbt in a Cabaret rispetto ai lungometraggi del periodo muto [p. 99], di The Fatal Mallet rispetto al tema centrale di A Woman of Paris [p. 126], o di Mabel's Busy Day e Mabel’s Married Life rispetto alla struttura del Circo [pp. 138 e 144]. C’è poi, in secondo luogo, un eccesso di pretesa all’origina­ lità. Geduld giustifica l’impellenza e il senso della sua fatica con l’argomento che gli studiosi dell’opera chapliniana, da

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Theodore Huff a Roger Manvell, da John McCabe allo stesso Robinson, hanno prestato in genere poca e distratta attenzione agli esordi di Chaplin [p. XI]. Ma l’accusa di ‘distrazione’ potrebbe essere, per certi versi, ritorta contro di lui. E non ci riferiamo solo al fatto che, nella scelta antologica dei giudizi critici, egli trascura troppo larga parte della letteratura secon­ daria; bensì all’impianto stesso del suo libro, alla pretesa che esso avanza di valere da modello senza eguali nel suo genere. Se Geduld, invece di chiamare in causa Huff o McCabe o Robinson, oppure di paragonare il suo commento - come fa subito di seguito — ai commenti delle filmografie ragionate di McDonald, Conway e Ricci (The Films of Charlie Chaplin, 1965) e dello svedese Uno Asplund (Chaplin's Films, 1971, I edizione inglese 1973; ma Geduld utilizza l’edizione statuni­ tense del 1976), lo avesse posto a confronto con i testi di Mitry e di Savio (che sono sì menzionati entrambi nella biblio­ grafia, ma di fatto mai utilizzati nel testo), non avrebbe certo potuto parlare con altrettanta ragione, per i precedenti, di testi che forniscono solo «brevi e spesso inaccurati sommari delle trame e poca o nessuna analisi critica» [p. XI], Così com’è il I tomo del suo lavoro conserva senza dubbio - ripetiamo - una grande utilità, quantunque si rivolga soprat­ tutto a un pubblico di lingua inglese; ma nell’annunciato pro­ sieguo del commento, relativo a opere per le quali disponiamo di una documentazione più abbondante (il tomo II, alle opere dei periodi Essanay e Mutual, il III a quelle dal 1918 in poi, lungometraggi inclusi), bisogna che l’autore, se tiene davvero alla più larga fruibilità e rappresentatività del suo lavoro, estenda lo sguardo oltre la cerchia dei commentatori anglo­ americani e faccia un uso maggiormente accorto e articolato della letteratura secondaria.

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Postilla Comprensibile che la ricorrenza del centenario della nasci­ ta di Chaplin (1989) abbia richiamato sull’autore, ancora una volta, il fuoco dell’attenzione critica: sebbene poi purtroppo questa attenzione non si sia tradotta in qualcosa di storiografi­ camente significativo e innovativo. Il limite della maggior parte dei lavori cui accenniamo qui di seguito, ma anche di altri minori non meritevoli nemmeno di segnalazione (non sono ancora apparsi, mentre scriviamo gli “atti” del Colloque international Charles Chaplin della Sor­ bona di Parigi, 14-16 aprile 1989, in corso di stampa presso Mouton de Gruyter col titolo Semiotics to Chaplin) è proprio che essi nascono da intenti puramente celebrativi. Si tratta per lo più di testi approntati in fretta e furia per l’occasione, intessuti da un’inutile sfilza di luoghi comuni (spesso già smon­ tati dalla critica più avveduta), o nel migliore dei casi di profili rispondenti a esigenze di pura e semplice divulgazione. Ne è un esempio clamoroso lo schizzo di Edouard Brasey, Charlie Chaplin (Solar, Paris 1989, pp. 160). Ma anche altri titoli, migliori, portano impresso il segno dell’occasionalità del­ la confezione: Charles Chaplin: An Appreciation, a firma di Charles Silver, esce come catalogo di accompagnamento a una mostra statunitense (The Museum of Modern Art, New York 1989, pp. 79); il Chaplin dello svedese Lars Forssell (Wahlstróm & Widstrand, Stockholm 1989, pp. 114) non è che una riedizione appena ritoccata di un suo breve profilo risalen­ te al 1953; d’occasione anche il profilo del ceco Ondfej Suchy {Charlie Chaplin, Horizon, Praha 1989, pp. 157); e se, grazie alla sua dimestichezza e collaborazione col tardo Cha­ plin, Jerry Epstein può darci del grande artista una rievocazio­ ne a tratti anche suggestiva, che conta se non altro su testimo­ nianze biografiche di prima mano {Remembering Charlie: The Story of a Friendship, Bloomsbury, London 1988, pp. 298), il volume della collana “Zeitmontage” Alte Welt, Neue Welt: Charlie Chaplin. Ein Hauch von Anarchie (hrsg. von Til Rade144

vagen, Elefanten Press, Berlin 1989, pp. 158) raccoglie senza troppo discernimento una serie di saggi (oltre che di reperti e documenti), tutti piuttosto sbrigativi, sui più disparati temi dell’attività di Chaplin. Il più importante lavoro a nostra conoscenza uscito per la scadenza del centenario (ma, tra gli altri, andrebbe menziona­ to almeno ancora Charlie Chaplin: A Centenary Celebration, ed. by Peter Haining, Foulsham & Co., London-New YorkToronto 1989, che non conosciamo) è la massiccia monografia di Charles J. Maland sul tema dei rapporti tra Chaplin e la cultura americana (Chaplin and American Culture: The Evolu­ tion of a Star Image, Princeton Univ. Press, Princeton NJ. 1989, pp. 442). Si tratta di un tema importante e delicato, di cui l’autore lamenta a ragione la trascuranza da parte della letteratura critica. Così egli provvede allo studio sistematico della questione dell’impatto dell’europeo Chaplin con la realtà di vita degli Stati Uniti. Ci si potrebbe aspettare ne derivi un’analisi del retroterra di cultura che condiziona l’attività cinematografica di Chaplin, che lo influenza dal punto di vista estetico. Ma in realtà l’autore ha altri interessi; l’estetica gli sta molto poco a cuore, e la sua pur vasta e documentata ricerca si concentra piuttosto sul problema sociologico - criticamente meno impegnativo — di esaminare come Chaplin sia assurto a stella del firmamento hollywoodiano, come sia nata e si sia evoluta quella che il libro chiama, fin dal sottotitolo, la «Cha­ plin’s star image».

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XII

II volto del cinema francese attraverso la storiografia

1. Breve scorribanda generale Chi dia uno sguardo al panorama della più recente edito­ ria sul cinema francese1 può rendersi conto in scorcio di che cosa abbia rappresentato la Francia nel cinema e per il cinema lungo la storia di questo secolo: dal periodo delle origini del nuovo mezzo, che conta in Francia un nome come quello di Méliès, attraverso la grande età degli sperimentatori della «pri­ ma avanguardia», fino alla nouvelle vague e al neosperimentali­ smo dei giorni nostri. Una delle difficoltà di scrivere la storia del cinema francese - fa presente chi si è accinto per ultimo a tale compito (Roy Armes, French Cinema, Seeker and War­ burg, London 1985, pp. 310) - «è l’assoluta abbondanza di opere di rilievo virtualmente in tutte le fasi del cinema, dalla sua preistoria a oggi». Di qui la necessità, nella «considerazio­ ne dei successiva stili del cinema francese [...], di sottolineare le discontinuità e dissomiglianze nel tempo piuttosto che di tentar di estrarne un singolo modello lineare di causa e svi­ luppo». Crediamo che non si andrebbe troppo lontano dal vero descrivendo questo sviluppo come una continua altalena tra tradizione e innovazione. Se si scorrono le pagine del lavoro 1 Le nostre considerazioni riguardano solo il periodo fino al settem­ bre 1985, data cui risale la stesura della presente rassegna di studi.

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non recentissimo di Allen Thiher, The Cinematic Muse. Criti­ cal Studies in the History of French Cinema (University of Missouri Press, Columbia-London 1979, pp. 216), svariante dall’avanguardia degli anni ’20 sino al cinema «postmoderno» di Godard, oppure quelle, più recenti, di Paolo Bertetto (1/ cinema d'avanguardia, 1910-1930, Marsilio, Venezia 1983, pp. 391) e di Richard Abel {French Cinema. The First Wave, 1913-1929, Princeton University Press, Princeton N.J. 1984, pp. 673), che si fermano invece per scelta tematica prima del ’30, ci si trova dinnanzi a panorami dove la questione centrale è costituita sempre di nuovo dall’opposizione tra novità forma­ li, sperimentalismo, e radicamento o ritorno alla tradizione. Di termini come «avanguardia», «moderno», «postmoderno» ecc. Thiher fa un uso ripetuto e continuo; Bertetto si sforza, per conto suo, di abbracciare in un solo sguardo e riuscire a stringere insieme fenomeni alquanto disparati, sorti in aree diverse, da matrici diverse, ma tutti unificabili a partire da un elemento comune: la loro «radicale ed esplicita estraneità al cinema ufficiale e alle sue leggi discorsive», il loro sforzo di inventare un cinema ‘altro’: «La negazione dell’immaginario cinematografico diffuso, della codificazione della comunicazio­ ne filmica, il rigetto delle strutture rigide della formalizzazione filmica, quali si erano già definite all’inizio degli anni venti, sono omogeneamente operanti all’interno del cinema d’avan­ guardia». Se comunque verso questo periodo la storia di Armes è sbrigativa fino alla secchezza telegrafica, nel suo voluminoso French Cinema (di cui Armes non può ancora tener conto, mentre guarda distrattamente, senza troppa simpatia, all’impre­ sa di Thiher) Abel ci dà una storia quasi completa del cinema muto francese, a intenti — dice l’autore - «revisionistici»: cominciando con l’affrontare i problemi della struttura indu­ striale della produzione, e trattando poi quelli del cinema del circuito ordinario (qui definito «commercial narrative film»), quelli del cinema cosiddetto «alternativo» e, nella sezione ter­ minale, pari a circa la metà dell’intero volume, quelli del

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cinema d’avanguardia a soggetto, con analisi specifica di una trentina di film scelti tra i principali del gruppo. Dove stia il «revisionismo» storigrafico di Abel non è, per la verità, ben chiaro; diciamo che egli lavora con cura e scrupolo informati­ vo soprattutto nel senso dell’estensione, documentando orien­ tamenti di pensiero, poetiche, ritrovati stilistici in modo più diffuso di quanto non riesca di solito alla storiografia del periodo, ma sempre entro gli schemi e i limiti di una metodo­ logia che, pur tra tanti imprestiti dal formalismo letterario, resta sostanzialmente impressionistica e non elimina, tutt’altro, i consueti inconvenienti di disorganicità nella trattazione. Quanto poi alla storia di Armes, essa è bensì ricca di osserva­ zioni giudiziose (delle quali ci serviremo ancora in seguito), soffrendo per altro anch’essa di due gravosi limiti: in primo luogo, perché ricorre a un’esposizione eccessivamente fram­ mentata, che fa spesso perdere di vista l’unità dello sviluppo delle correnti, delle ‘scuole’, come anche di ogni singolo auto­ re; in secondo luogo, perché assegna troppo rilievo all’impatto delle vicende produttive sulle svolte intervenute nella storia del cinema francese, e troppo poco invece alle sue connessioni - queste sì decisive - con la storia generale (indicativa, in proposito, la trattazione quasi soltanto ‘tecnica’ delle origini e del primo sviluppo del fonofilm). Quando si prescinda da Georges Méliès, che ha conosciu­ to di recente tutta una nuova fortuna (ricordiamo, dopo il documentatissimo lavoro statunitense di John Frazer [1979] e quello nostrano di Antonio Costa [1980], il profilo - confessa­ tamele in debito con la filmografia meliesiana pubblicata a Bois d’Arcy nel 1981 dal Centre National de la Cinématographie di Francia - che gli dedica ancora Paolo Cherchi Usai nella collana del «Castoro cinema» della Nuova Italia, Firenze 1983, e le due monografie di Madeleine Malthète-Méliès, Mé­ liès et la naissance du spectacle cinématographique, Klincksieck, Paris 1984, e Pierre Jenn, Georges Méliès cinéaste, Albatros, Paris 1984), la presenza più ricorrente nelle storie di cui si è discorso è quella di Abel Gance, l’eccentrico autore della Roue 149

(1922) e di Napoléon (1927), già fatto oggetto negli Stati Uniti qualche tempo addietro di una biografia troppo simpate­ tica e celebrativa (Steven Philip Kramer e James Michael Welsh, Abel Gance, Twayne Pubi., Boston 1978, pp. 200). Ora, traendo pretesto dalla ricostruzione della versione muta di Napoléon messa recentemente a punto da Kevin Brownlow (si veda il suo Napoleon: Abel Gance’s Classic Film, Jonathan Cape, London 1984; ma un Omaggio a Gance — apologetico anche più della biografia dei due statunitensi - aveva tributato già in quell’occasione il fase. II di «Immagine», a cura di Riccardo Redi, novembre-dicembre 1981), Roger Icart in una monografia che non conosciamo (Abel Gance ou la Prométhée foudroyée, L’Age d’Homme, Lausanne 1984, pp. 430) e Nor­ man King in un libro ricco di estratti dai testi della letteratura critica su Gance e dai suoi scenari (Abel Gance. A Politics of Spectacle, British Film Institute, London 1984, pp. 260) af­ frontano di petto il caso di questo autore rinomato soprattutto - sono parole della storia di R. Abel — per il suo «costante interesse a ottenere effetti sempre più sorprendenti con innova­ zioni tecniche varie». «Il nome di Abel Gance è ormai legato indissolubilmente a quello di Napoleone Bonaparte», comincia col dire anche King; e così prosegue: «Gance è ora ampiamente riconosciuto come una delle presenze più possenti di tutto il cinema e come uno dei suoi grandi innovatori». Che la mescolanza in lui di spirito innovativo e ideologia reazionaria ingeneri qualche non secondario dilemma critico l’autore è consapevole, tanto che fin dall’inizio si propone di sottoporre a esame proprio «l’area problematica dell’innovazione reazionaria», con giusti rilievi a riguardo dell’«anticapitalismo romantico» di Gance; solo che la confusione in cui incorre di «forma» e «tecnica» gli impedi­ sce di venir compiutamente a capo del problema sollevato. Se Gance raggiunge il suo apogeo all’epoca del muto, Jean Vigo (di cui Lherminier pubblica Oeuvre de cinéma, Paris 1985, pp. 494), rappresenta, nel giudizio di Armes, «forse la figura più tragica degli inizi del fonofilm». Anche Renoir (al

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quale Thiher dedica uno dei capitoli centrali del suo lavoro) «è decisamente un regista del film sonoro». Lo nota, sulla falsariga di Bazin, Claude Gauteur, introducendo, presentando e inquadrando storicamente la preziosa raccolta dei soggetti e scenari che al regista non è riuscito di realizzare (Jean Renoir, Oeuvres de cinéma inédites, Cahiers du Cinéma-Gallimard, Pa­ ris 1981, pp. 443). Numerosi riferimenti all’attività di Renoir durante gli anni ’30 si incontrano nei materiali raccolti in occasione della serie di iniziative promosse dall’ufficio Cine­ ma del Comune di Modena neU’ottobre-novembre 1980 sulla situazione culturale e storica della Francia tra le due guerre (Francia anni ’30. Cinema, cultura, storia, a cura di Patrizia Dogliani, Giovanna Grignaffini e Leonardo Quaresima, Marsi­ lio, Venezia 1982, pp. 214), con qualche contributo utile specialmente ai fini del chiarimento dei problemi del Fronte popolare, nonostante che il livello medio degli interventi ap­ paia tutt’altro che soddisfacente; mentre siamo messi in grado di seguire da vicino le traversie dell’esilio di Renoir a Holly­ wood durante il periodo bellico e l’immediato dopoguerra, dal 1941 al 1949, grazie alle sue stesse Lettres d'Amérique, a cura di Dido Renoir e Alexander Sesonske, Presses de la Renaissan­ ce, Paris 1984, pp. 359. Con 15 ans d’années trente. Le cinéma franqais 19291944 di Jean-Pierre Jeancolas (Stock, Paris 1983, pp. 383) ci si inoltra già nel periodo di Vichy, e più innanzi ancora ci spostiamo con due lavori che ci accompagnano lungo le due fasi successive: rispettivamente, quella che va dalla fine della guerra sino all’avvento della V Repubblica (André Bazin, Le cinéma frani;ais de la Libération à la Nouvelle Vague, a cura di Jean Narboni, Cahiers du Cinéma-Ed. de l’Etoile, Paris 1983, pp. 258: raccolta dei principali scritti di Bazin sul periodo) e quella che abbraccia l’età di De Gaulle e Pompidou (Jean-Pierre Jeancolas, Le cinéma des Francois. La V' République, 1938-1978, Stock, Paris, 1979, pp. 477). Sarebbero da appro­ fondire le ragioni dell’improvviso ritorno d’interesse - non solo in campo filmico - per la Francia di Vichy. Qui possiamo 151

solo segnalare che nel giro di pochi anni escono, su Vichy, ben tre monografìe specifiche (Jean-Pierre Bertin-Maghit, Le cine'ma fran^ais sous Vichy. Les films franqais de 1940 à 1944, Albatros, Paris 1980; Jacques Siclier, La France de Pétain et son cinéma, Ed. Henri Veyrier, Paris 1981; Raymond Chirat, Le cinema francais des années de guerre, Hatier, Paris 1983), cui vanno ancora aggiunti i capitoli che vi consacrano Pierre Sorlin e Elizabeth Strebel nel volume collettaneo Film and Radio Propaganda in World War II, ed. by K.R.M. Short, Croom Helm, London-Canberra 1983, pp. 245-70 e 271-87. (Sappiamo però anche dell’esistenza di un libro di Evelyn Ehrlich, annunciato col titolo di Children of Paradox: French Cinema under the German Occupation, 1985 )2. Di tutti questi lavori impressionano specialmente le due monumentali e benemerite ricerche di Jeancolas e Siclier, che 2 La monografia della Ehrlich sul periodo di Vichy porta il titolo di Cinema of Paradox. French Filmmaking Under the German Occupation (Columbia University Press, New York 1985, pp. 235), e non - come da noi riferito nel testo - di Children of Paradox-, riferendo indiretta­ mente quel titolo, credevamo a un giuoco di parole col maggiore dei film francesi di Vichy. Les Enfants du Paradis (in inglese, Children of Paradise). Il «paradosso» che il lavoro cerca di chiarire è come si sia potuta avere una «fioritura culturale [...] durante un periodo d’asservimento»: «Non solo la Francia produsse qualcosa come 220 film di lungometraggio in quei quattro anni di miseria, ma molti di questi film erano lodevoli riuscite» (pp. x-xi). Prima e più che finalità d’ordine estetico, l’autrice si propone il compito di rispondere al perché storico di certe scelte. Come Siclier, anch’ella ritiene che l’etichetta di “cinema di Vichy” sia «fuorviante» (p. xm). Non ci sarebbe però continuità col passato: al «calore del cinema prebellico» subentrerebbe negli anni ’40 una sorta di «classicismo» asettico, di «allegorismo poetizzato», «la tendenza a evitare la realtà contemporanea»; e il momento di rottura, il punto di svolta, interverrebbe proprio durante l’occupazione (p. 93 ss.), col risultato di fare del cinema francese un «cinema dell’isolamen­ to» (p. 113). Non tutte le tesi della Ehrlich sono egualmente bene argomentate. Ce per altro in lei, costante, la consapevolezza della stretta interrelazione dei problemi del cinema francese con la storia politica generale della Francia occupata e con l’ideologia di Vichy; il che le permette di trarre conclusioni inusuali, ma accettabili, anche di fronte a un caso tanto controverso come quello del Corvo di Clouzot (pp. 177-87).

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hanno tra loro anche un certo parallelismo strutturale. Entram­ be si segnalano, prima e più che per l’aspetto critico, per il loro massiccio apparato filmografico (oltre 170 pagine in Jeancolas, quasi 200 in Siclier), che ne fanno dei prontuari o regesti o repertori indispensabili per qualsiasi tentativo di rico­ struzione storiografica dei rispettivi periodi. Siclier nega che sussista un vero e proprio «cinema di Vichy»; c’è piuttosto, a suo dire, un cinema francese degli anni di Pétain, la cui conti­ nuità — anche stilistica — con quanto precede e segue egli tiene a sottolineare. Parimenti Jeancolas trova fortuita la coinciden­ za tra l’esplodere del fenomeno della nouvelle vague e il cam­ bio di regime in Francia; e ritiene che né De Gaulle né tanto meno Pompidou siano riusciti a imporre quella «politica di prestigio nel campo del cinema», cui pure certo entrambi mi­ ravano. Queste diagnosi vengono ora puntualmente confermate dalla storia di Armes. Molto faticosa - anch’egli ci testimonia - la ripresa del dopoguerra. In teoria dovrebbero essere, que­ sti, importanti anni di trapasso per la Francia cinematografica. Chiusa la stagione del naturalismo del decennio prebellico, entrate definitivamente in crisi poetiche (o pseudopoetiche) come quelle di un Carnè o un Duvivier, il cinema cerca di darsi in Francia un assetto conforme alla situazione storica determinatasi col dopoguerra; vengono alla ribalta talenti rima­ sti fin lì nell’ombra o affatto nuovi; compaiono i primi fermen­ ti di quel ribellismo che avrebbe condotto, di lì a poco, alla genesi della nouvelle vague. In realtà, se si guarda bene, il cinema francese riprende a fatica i legami col mondo sociale spezzati dalla parentesi di Vichy. Esso rimane tutt’al più al livello di una buona professionalità tecnica, incapace di andar oltre il convenzionalismo del «cinema di studio» della tradizio­ ne. Un film come Le point du jour di Louis Daquin (1949) segna per Armes - oltre che i limiti della poetica personale dell’autore — «la fine di qualunque aspirazione francese verso un movimento realistico simile a quello che si veniva svilup­ pando in Italia». Né importa un vero rinnovamento di fondo 153

la nouvelle vague. I grandi problemi chiave della società conti­ nuano a restare assenti come prima dal cinema francese, «un cinema - osserva Armes - essenzialmente parigino, che tratta di problemi della classe medioborghese in termini mediobor­ ghesi». Con tutto ciò la nouvelle vague rappresenta pur sempre un fenomeno di notevole rilievo, che è comprensibile richiami a sé ogni volta di nuovo l’attenzione della letteratura critica. Teoria e prassi si giustappongono e sovrappongono di conti­ nuo nel movimento. Della sua fucina teorica, la prima serie dei «Cahiers du Cinema», posta inizialmente sotto la guida di Bazin, disponiamo ora di un regesto completo a cura di Gior­ gio De Vincenti, studioso già segnalatosi qualche anno fa con un lavoro critico in argomento (Il cinema e i film. I “Cahiers du Cinéma” 1951-1969, Marsilio, Venezia 1980, pp. 233; “Cahiers du Cinéma". Indici ragionati 1951-1969, ivi, 1984, pp. 430); mentre un'aggiornata messa a punto della sua storia tentano, dopo Jeancolas, il volume collettaneo La Nouvelle Vague 25 ans après (a cura di Jean-Luc Douin, Ed. du Cerf, Paris 1983, pp. 238), la monografia di René Prédal, Le ciné­ ma frangais contemporain (con pref. di Henri Agel, Ed. du Cerf, Paris 1984, pp. 274) e l’antologia La pelle e l’anima. Intorno alla Nouvelle Vague (a cura di Giovanna Grignaffini, La Casa Usher, Firenze 1984, pp. 203), la quale ultima, apren­ dosi, non a caso, proprio con un testo di Bazin, e raccogliendo scritti e interventi di taluni dei maggiori esponenti del movi­ mento, da Chabrol a Godard, da Rohmer a Truffaut, può appunto per questo rivestire un’indubbia utilità ai fini del ripensamento ‘autentico’ di tutta la sua esperienza (sempre che chi legge badi bene a lasciar da parte l’introduzione - sciagura­ tissima - della curatrice). Rimessa in questione della «visione cinematografica del mondo»: così si potrebbe sintetizzare, secondo i teorici della nouvelle vague, il contributo del cinema francese contempora­ neo a partire da Godard e Resnais. «Non si può comprendere in profondo il cinema francese d’oggi senza risalire alla nouvel-

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le vague», sentenzia Predai nel prologo del suo libro, informa­ to, intelligente, ma troppo sovraccarico di nomi e titoli; con esso, in ogni caso (a parte l’opinabilità dei giudizi e delle scelte), si compie un lungo passo storiografico - diciamo me­ glio: cronachistico - oltre la stessa nouvelle vague, verso gli interessi filmici della cosiddetta «generazione del 70» (quella cui dedica un fascicolo speciale «Segnocinema», n. 17, marzo 1985, così come aveva già fatto, per la generazione 1945-55, «Cinema e Cinema», n. 32, 1982). Sul piano delle personalità individuali, bisogna risalire indietro fino a Vichy per assistere al debutto - fedelmente registrato da Siclier e dagli altri storiografi del periodo - di registi come Jacques Becker, allievo di Renoir, e Robert Bresson, destinato a divenire col tempo uno dei massimi creatori internazionali, ma già all’esordio autore di due film - commenta ancora Armes — dotati di «certe qualità che li distinguono da tutti gli altri film dei primi anni ’40». La ‘guida’ di Jane Sloane, Robert Bresson. A Guide to References and Resources (G.K. Hall, Boston 1983, pp. 231), provvede ai ragguagli bibliografici del caso; posteriormente a essa è uscito, di Michèle Estève, Robert Bresson. La passion du cinématographe, Albatros, Paris 1983, pp. 284. Per l’Italia, l’unico motivo che milita a favore della lettura del testo di Loretta Guerrini, L’inter-essere del frammento: “Il diavolo probabilmente..." di Robert Bresson (Bulzoni, Roma 1980, pp. 262), nasce dal fatto che la giovane autrice vi trascrive con puntualità e accuratezza la sceneggiatura tecnica comple­ ta, desunta alla moviola, del penultimo film di Bresson, dan­ do anche in appendice la traduzione delle sue Note sul cine­ matografo; quanto al resto, e in specie all’incredibile (e persi­ no sgrammaticata) presentazione firmata da Alfonso Canziani, è di gran lunga meglio sorvolare. Con la nouvelle vague — sappiamo - è tutto un fermentare di nomi nuovi. Il nome di Rohmer, allievo e amico strettissi­ mo di Bazin, si fa avanti per molteplici vie editoriali: per la via più diretta, in primo luogo, cioè attraverso la comparsa di

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una silloge delle sue riflessioni critiche, consegnate in gran parte ai «Cahiers du Cinema», per il resto a riviste come «Artes», «Les Temps Modernes», «La Revue du Cinéma», «La Nouvelle Revue Francjaise» (Eric Rohmer, Le goùt de la beauté, a cura di Jean Narboni, Cahiers du Cinéma-Ed. de l’Etoile, Paris 1984, pp. 214), e quella della versione italiana della sua tesi di dottorato del 1972, edita in Francia nel 1977, L'organizzazione dello spazio nel “Eaust” di hiurnau (Marsilio, Venezia 1985, pp. 128); poi indirettamente, in virtù dell’atten­ zione sempre più compresa che gli riserva la critica di oggi, a es. Giorgio Tinazzi in un saggio del suo volume La copia originale. Cinema, critica, tecnica (Marsilio, Venezia 1983; il saggio su «Eric Rohmer: architettura del racconto impuro» è alle pp. 95-109), Michele Mancini in un numero — affatto scriteriato — del «Castoro cinema» (Eric Rohmer, La Nuova Italia, Firenze 1983, pp. 121) o la rivista trimestrale del Cen­ tre Culturel Franco-Italien «Visuel», la quale, dopo un fascico­ lo su Resnais e Godard (II, 1983, n. 8), gli ha dedicato un ricco dossier critico, accompagnato da filmo-bibliografia, nel fascicolo doppio successivo (III, 1984, n. 9-10), cessando purtroppo con esso le pubblicazioni. Che cos’è quel «gusto della bellezza» cui il regista fa appel­ lo nell’articolo del 1961 che dà il titolo alla raccolta dei suoi scritti? È il concetto più rispondente alla poetica stessa — criticata talvolta come «letteraria» - del cinema di Rohmer. Il quale difende il suo diritto di creatore a fare della letteratura, della parola, il referente oggettivo primario dei suoi film: «Quel che dico, non lo dico con le parole. Non lo dico nem­ meno con immagini [...] In fondo, io non dico, mostro. Mo­ stro persone che agiscono e parlano. È tutto ciò che so fare; ma quello è il mio vero intendimento». Non «letteratura» dunque in lui, bensì senso concreto, sempre vigile, della narra­ zione. Tinazzi postilla: «Collegare è narrare, nel racconto sta la feconda ambiguità rohmeriana» (il cui valore andrebbe co­ munque, a nostro giudizio, ridimensionato). Insieme con Rohmer, altri cineasti francesi contemporanei 156

sono oggetto d’attenzione da parte della critica: Paul Vecchiali, a es., cui dedica un ‘quaderno’ il Cineclub Lumière di Genova (Il cinema di Paul Vecchiali, quad. n. 4, Genova 1981, pp. 143); Jean Rouch, etnografo oltre che cineasta, avvicinato con cura e competenza in un opuscolo del British Film Institute (Anthropology-Reality-Cinema. The Films of Jean Rouch, ed. by Mick Eaton, London 1979, pp. 77); e naturalmente soprattutto Resnais, Godard e Truffaut. Su Re­ snais ricordiamo la monografia di Robert Benayoun, Alain Resnais, arpenteur de I’imaginaire (Stock, Paris 1980), le inte­ ressanti note raccolte da Youssef Ishaghpour in una sezione del suo D’une image à l’autre. La representation dans le cinema d’aujourd'hui (Denoèl-Gonthier, Paris 1982, pp. 181-244). gli excursus di due volumi di Maurizio Del Ministro (Pirandello. Scena, personaggio e film, Bulzoni, Roma 1980, pp. 183-90; Cinema tra immaginario e utopia, Dedalo, Bari 1984, pp. 63-83), l’opuscolo II tempo della memoria, a cura di Carlo Paltrinieri, edito in occasione della ‘personale’ di Reggio Emi­ lia dell’aprile 1984, e nel fase. 10 (1983) di «Segnocinema» un saggio di Flavio Vergerio, che costituisce la prima parte di una monografia poi edita in volume (I film di Alain Resnais, Gremese, Roma 1984, pp. 112). Jean-Luc Godard è autore lui stesso di scritti critico-teori­ ci, gli studi dal titolo II cinema è il cinema (a cura di Adriano Aprà, con premessa di P.P. Pasolini, Garzanti, Milano 1981, pp. 421), ripresentato dopo un decennio con qualche aggiorna­ mento rispetto alla loro prima apparizione, e la serie di lezioni tenute nel 1978 a Montréal che, trascritte da Line Gruyer e raccolte in volume da Joèl Farges nel 1980, sono uscite poco dopo anche da noi (Introduzione alla vera storia del cinema, trad, di M. Ciampa e R. Macrelli, Ed. Riuniti, Roma 1982, pp. 276). Benché il prefatore italiano del volume di Garzanti gli dia credito oltre ogni buon senso, il Godard critico non ci convince affatto; i suoi giudizi sono sempre stravaganti, eccen­ trici, volutamente provocatori. «Vorrei raccontare la storia del cinema - dice nell’altro testo - non solo cronologicamente, ma

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piuttosto secondo una sorta di piccola archeologia o biologia. Tentare di mostrare come si sono prodotti dei movimenti, allo stesso modo in cui nella pittura si potrebbe raccontare la storia, per esempio, di come è stata creata la prospettiva, in quale data è stata inventata la pittura a olio, e così via». In realtà, più che del cinema e della sua storia, egli vi parla sempre soltanto di se stesso. Che cosa sia il metodo critico, l’esigenza di una distanza critica verso l’oggetto, egli non sem­ bra neanche sospettare. Il risultato è, nei due casi, una confu­ sa mescolanza di osservazioni rapsodiche e confessioni di poe­ tica, le quali per altro, proprio per il fatto di venire da un uomo del talento di Godard, non mancano di riuscire a loro modo interessanti. Il titolo della monografia di Elisabeth Bonnafons, Fran­ cois Truffaut. La figure inachevée (L’Age d’Homme, Lausanne 1981, pp. 248), si è rivelato, dopo la morte del regista, premo­ nitore. Mentre sta per vedere la luce da Seeker and Warburg un Finally Truffaut che è la riedizione aggiornata di un testo del 1974 a firma di Don Alien3, lineamenti critici e ragguagli bibliografici assai nutriti offrono intanto Eugene P. Walz (Francois Truffaut. A Guide to References and Resources, G.K. Hall, Boston 1982) e i numeri che gli dedicano l’«AvantScène Cinema» (n. 303-304, marzo 1983, in gran parte su Le dernier mètro) e, per commemorarne la morte, col titolo Le roman Francois Truffaut, i «Cahiers du Cinema» (dicembre 1984). In Italia, oltre ai ‘pezzi’ raccolti da Ciriaco Tiso in un ‘quaderno’ di «Filmcritica» (T/T. Truffaut Truffaut, Bulzoni, Roma 1982, pp. 299) e ai saggi di Tinazzi nel suo già citato volume, La copia originale (pp. 111-26), in «Belfagor» (XXXVIII, 1983, pp. 49-63) e in «Bianco e Nero» (XLVI, 1985, n. 1, pp. 47-58), è da vedere specialmente il libro collettaneo, corredato da un suggestivo apparato fotografico, che trae pretesto dal riconoscimento fiorentino conferito al ’ Don Allen, Finally Truffaut, Seeker and Warburg, London 1986, pp. 240.

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regista nel 1981 col premio David-Visconti (Francois Truf­ faut. L'intrigo, il turbamento, l'amore nell'opera di un homme-cinéma, a cura di Mario Simondi, La Casa Usher, Firenze 1981, pp. 240). Il curatore vi raccoglie materiali critici di varia estrazione, dall’intervista all’analisi di temi e di film, il cui insieme, anche in virtù delle ricche appendici bio-filmo-bibio­ grafiche (notevoli specialmente i «materiali per una biografia» a cura dello stesso Simondi), fornisce una delle documentazio­ ni più attendibili e consistenti che si posseggano sul regista francese. Fa un po’ caso a sé Jacques Tati. Anche per lui disponia­ mo di una guida bibliografica dello stesso tenore di quelle ricordate per Bresson e Truffaut (Lucy Fischer, Jacques Tati. A Guide to References and Resources, G.K. Hall, Boston 1983, pp. 160); ma la saggistica su Tati ormai da molti anni ristagna o gira a vuoto, e non soltanto presso di noi (dove il profilo steso dal giovane Angelo Libertini per «Cinemasessanta», nn. 139-141, 1981, pecca per mancanza di un sufficiente dominio critico della materia trattata). La più impegnativa ricerca recente a carattere monografico è la biografia di James Harding, Jacques Tati. Frame by Frame (Seeker and Warburg, London 1984, pp. 200), la quale, pur bene informata e impre­ ziosita nella veste editoriale da un dovizioso collage di immagi­ ni tratte da archivi pubblici e privati, risulta purtroppo criticamente trascurabile. Un tuffo negli ultimi Trentanni di cinema sperimentale francese (1950-1980) si compie infine col catalogo della V ed. della rassegna genovese «Il gergo inquieto» (a cura di Ester De Miro e Dominique Noguez, Bonini, Genova 1983, pp. 239), che traduce e amplia quello stilato in occasione dell’omo­ nima rassegna parigina del 1982. Esso illustra il faticoso «pro­ cesso di ricostruzione delle forme» cui, dopo la loro distruzio­ ne operata dalle avanguardie storiche, attende la nuova avan­ guardia francese a partire dagli anni ’50. Non siamo in grado di dire, per troppo scarsa conoscenza di causa, se e fin dove tale tentativo di ricostruzione riesca; a ogni modo Noguez, la 159

De Miro e gli altri collaboratori del catalogo ci assicurano che si tratta di esperimenti del massimo interesse.

2. Clair e Renoir nel clima degli anni ’30 Gli anni ’30 costituiscono, come è noto, una stagione di particolare fervore creativo per il cinema francese, al cui verti­ ce si stagliano - insieme con Vigo - le personalità di Clair e Renoir. Formatisi entrambi nel clima dello sperimentalismo d’avanguardia degli anni ’20, entrambi, dopo il 1930, rompo­ no il cerchio chiuso delle cesellature di gusto sottile e ricercato per accostarsi - ciascuno secondo la propria sensibilità e i propri mezzi - al vero volto della Francia del tempo. Qual è il loro rispettivo contributo originale, specifico? Nell’ultima letteratura critica su Clair non si trova una rispo­ sta esauriente a questo interrogativo. 50 ans de cinéma avec René Clair (ed. de la Table Ronde, Paris 1979, pp. 223) non è infatti altro che la riedizione aggiornata e arricchita da aned­ doti vari della vecchia monografia su Clair (1952) di Georges Charensol e Roger Regent, la cui critica impressionistica, di gusto, riesce certo la meno adatta per dar risposta a interrogati­ vi di natura storica; nessun rapporto con la storia qui viene evidenziato e discusso come si conviene: (Tanto meno ciò accade nella monografia composta per la collana del “Castoro cinema” da Giovanna Grignaffini, René Clair, La Nuova Ita­ lia, Firenze 1979, pp. 145. Posteriormente alla stesura della presente nota sono usciti il breve quanto insignificante profilo di Olivier Barrot, René Clair ou le temps mesuré, 5 Continents-Hatier, Paris 1985, e la corposa monografia in 2 volumi - il I di «esposizione e analisi», il II di «documentazione» messa insieme da R.C. Dale, The Films of René Clair, The Scarecrow Press, London 1986, pp. 564 e 480). Senz’altro meglio le cose vanno con Renoir. Intanto non sono pochi i lavori su di lui apparsi nell’ultimo ventennio: anche senza contare l’autobiografia e le varie edizioni dei suoi

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scritti, almeno quattro o cinque lavori di vasto respiro, prove­ nienti da ogni parte del mondo, cominciando con la Francia (specie per il testo, postumo e incompiuto, di André Bazin, Jean Renoir, a cura di F. Truffaut, Éd. Champ Libre, Paris 1971, pp. 285) e con gli Stati Uniti (specie per la massiccia monografia di Leo Brandy, Jean Renoir: The World of his Films, Doubleday & Co., New York 1972, pp. 286, da noi a suo tempo segnalata sulle pagine di «Cinema nuovo», XXIV, 1974, n° 235-236). Già durante la seconda metà degli anni 70, a Bazin a Braudy si vengono tra l’altro ad aggiungere l’omaggio che per celebrare gli 80 anni del regista gli consacra, con un fascicolo monografico dal titolo Jean Renoir: le spectacle, la vie, affidato a Claude Beylie, la nuova serie della rivista «Cinema d’aujourd’hui» (n° 2, maggio-giugno 1975, pp. 144), e la monografia anche più massiccia di quella di Braudy, sebbene di minore spessore teorico — dell’inglese Raymond Durgnat (Jean Renoir, Studio Vista, London 1975, pp. 429). Il tono usato per l’occa­ sione da Beylie è chiaramente celebrativo. L’autore ha parole di condanna per chiunque non si accosti con reverenza al cinema di Renoir, riguardato come una sorta di universo inson­ dabile. «In verità, - egli scrive - sembra pressoché impossibi­ le, da qualunque lato la si affronti, compiere il giro di questa personalità, multipla e strabordante, inclassificabile e contrad­ dittoria, - la sua ricchezza essendo precisamente legata a que­ sti contrasti. Che dire di Renoir, se non che egli è tutto ciò, tutto quel che noi sappiamo di lui, e altro ancora, vale a dire il suo contrario?». Di qui l’inadeguatezza dei tentativi volti a rinchiudere la sua opera in una formula; specialmente deplore­ vole, a suo giudizio, «l’errore commesso da coloro — numerosi — che pretendono di giudicare quest’opera secondo criteri rifat­ ti a un preteso ‘realismo’». Beylie sostiene all’opposto (per altro senza nessuna capaci­ tà di distinguere tra naturalismo e realismo) che, sondata a fondo, l’opera di Renoir svela «prospettive fondamentalmente irrealistiche»; tutto il suo cinema, compreso quello americano 161

e quello del suo posteriore rientro in Francia, sarebbe come soffuso da uno straordinario alone di «fantastico». Simili ac­ censioni mistico-celebrative conducono a risultati critici poco convincenti. Più utili il «saggio di cronologia biografica» che si accompagna al testo, la bibliografia (quantunque limitata agli scritti in lingua francese) e la filmografia commentata e annotata, inclusiva altresì dell’attività teatrale e televisiva del regista e della lista - data qui per la prima volta - dei suoi progetti non realizzati. Riguardo alla questione dell’atteggiamento del regista ver­ so il reale, anche Durgnat sembra voler dare ragione a Beylie, quando tiene ferma e avalla la distinzione di Renoir tra «reali­ smo interiore» e «realismo esteriore»: «Particolarmente negli anni Trenta», si legge nelle prime pagine del libro, «egli ha cercato di ottenere il primo attraverso il secondo. Eppure, lungo la maggior parte della sua carriera, il secondo è stato soltanto uno dei mezzi per ottenere il primo». E più oltre, nelle pagine che fanno da «interludio» tra il periodo francese e l’americano: «A parte il peso esercitato dalla visione renoiriana della realtà, il suo interesse per il realismo non ha mai escluso la sua coscienza dello spettacolo [...]. Renoir ha sem­ pre distinto realismo interiore ed esteriore, col secondo come mero strumento del primo». Ma in realtà Durgnat si attiene a un metro di giudizio assai più equilibrato. Egli non assolutizza, non estremizza i valori del cinema di Renoir; di esso vede e sottolinea anche le mende. Rinunciando al criterio, inaugurato da Braudy, di una trattazione sistematica per temi, egli torna a quello più sempli­ ce e più tradizionale consistente nel seguire passo passo, con scrupolo cronologico persino eccessivo, l’attività svolta da Re­ noir in ogni campo, non solo cioè come regista cinematografi­ co, ma anche come attore, scrittore, uomo di teatro, regista televisivo. In sostanza il suo lavoro consta come di tante fiches da cineclub disposte in successione, e ordinate secondo uno schema che si conserva per lo più, all’interno di ciascuna, immutato: genesi dell’opera presa in esame, sue circostanze 162

storiche essenziali, trama, giudizio critico, osservazioni di natu­ ra varia, accoglienza della stampa. Ancora più decisivo, più centrale che per Clair — se voglia­ mo ora tornare al problema da cui abbiamo preso le mosse, quello del radicamento nazionale - il rapporto con la storia resta comunque per il Renoir degli anni 30. Dopo la svolta della Chienne (1930), Renoir non arretra più dalle posizioni raggiunte almeno per tutta la durata della sua permanenza in Francia. Attraverso una serie di esperienze prima vagamente dispersive, anarcoidi, sottoproletarie, poi sempre più corpose e aderenti alla realtà nazionale, centrate su problemi nazionali oggettivi della società francese, tipo quella di Toni (il cui scenario integrale ha visto la luce, insieme con una bio-filmo­ grafia ragionata dell’intera attività del regista, a cura di Claude Beylie, nel fascicolo speciale su Renoir delF«Avant-Scène Ciné­ ma», 1-15 luglio 1980), il regista assorbe e rispecchia nella sua opera, meglio di chiunque altro, la «strategia di blocco del Fronte popolare», con tutto ciò che essa comporta di rinnova­ mento e di grande apertura, e anche con tutte le sue contrad­ dizioni. Che l’esperienza del Fronte incida profondamente sul cine­ ma francese degli anni ’30, e in specie sul cinema di Renoir, non è cosa che abbisogni più di una particolare dimostrazione (si vedano ancora, a es., il notevole articolo di Elizabeth Grottle Strebel, Renoir and the Popular Front, apparso in «Sight and Sound», inverno 1979-80, pp. 36-41, e la cospicua messe di documenti - molti dei quali riguardanti Renoir - raccolti, tradotti, e commentati da Roberto Escobar e Vittorio Giacci, Il cinema del Fronte popolare. Francia 1934-37, Il Formichie­ re, Milano 1980). Ora, grazie al legame mantenuto col Fronte, Renoir si orienta con chiarezza sulle prospettive democratiche che si delineano possibili per l’immediato futuro del paese; e con chiarezza vede e ritrae nel suo capolavoro, La grande illusione, la coscienza che del processo di dissolvimento e di liquidazione della vecchia classe dirigente subentra all’altezza della prima grande guerra nei più responsabili tra i suoi rap­ 163

presentanti, la confluenza del problema della pace con quello della democrazia, e la stessa essenza della grande guerra, demi­ stificata da ogni alone eroico, come guerra imperialistica e cesura tra due epoche e due mondi. La parte centrale e principale del libro di Claude Gauteur, Jean Renoir. La double méprise, 1925-1939 (Les Editeurs Francis Réunis, Paris 1980, pp. 212)4 - un libro composto in gran parte di citazioni, dichiarazioni, stralci di commenti critici, giustapposti e montati per verità in guisa alquanto eccentrica — mira appunto a comprovare, sulla base di fonti e documenti, la coerenza di questo orientamento del regista, con specifico riferimento al suo periodo francese: giacché — a dire di Gauteur - il Renoir «occultato», il Renoir «eluso», sarebbe «anzitutto il Renoir 1925-1939». Un periodo, questo, sul qua­ le si sofferma in modo straordinariamente circostanziato anche Alexander Sesonske, autore di una ricerca (Jean Renoir. The French Films 1924-1939, Harvard Univ. Press, Cambridge Mass.-London 1980, pp. 463) che, insieme col repertorio bi­ bliografico di Christopher Faulkner, Jean Renoir. A Guide to References and Resources (G.K. Hall, Boston Mass. 1979, pp. 356), è da riguardare come uno dei maggiori contribuiti critici su Renoir degli ultimi anni. Muovendo, come Gauteur, dalla convinzione che sul Renoir francese manchino studi approfon­ diti, Sesonske punta, per rimediare alla lacuna, su una analisi dettagliata e sistematica, condotta a tappeto, di tutta la produ­ zione del regista sino al 1939: prendendo in considerazione, di ciascun film, la genesi, lo spunto tematico, il «trattamento» (o passaggio dal tema allo scenario), la «caratterizzazione» (o il ruolo dei caratteri, dei personaggi) e infine l’aspetto stilistico-formale.

4 Importante la documentazione successivamente fornita, per La Marseillaise, da un altro lavoro di Gauteur, la sua messa a stampa dei «testi inediti» (progetto, abbozzo di scenario, dichiarazioni) di Jean Renoir, La Marseillaise, Centre National de la Cinematographic, Paris 1989, pp. 71.

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Benché il suo atteggiamento critico aridamente tecnicistico, la confusione in cui spesso incorre tra questioni formali e que­ stioni meramente tecniche, gli impedisca di venire in chiaro circa i problemi della linea evolutiva del regista dopo il 1930, la corposa massa di osservazioni radunate nella sua ricerca’— che pure richiederebbero d’essere meglio fondate, d’essere mag­ giormente organate in senso storico-critico — non risultano per questo meno preziose: ricordiamo solo quanto egli dice intorno alla «struttura ciclica» di molti dei film del Renoir maggiore, o al frequente uso che vien fatto in essi, a es. nella Grande illusione, di «paralleli e ripetizioni». Notevole anche l’indagine sulle fonti letterarie, remote e prossime, della Règie du jeu. Di tutt’altro taglio e impianto - criticamente assai più solido - il lavoro di Faulkner. Esso offre ben più di quanto non prometta la sua veste di repertorio bibliografico, e precisamente, nell’ordine: una minuziosa «cronaca biografica»; una «nuova introduzione», meditata e convincente, all’opera del regista; una filmografia ragionata che, per estensione, informa­ zione, acutezza di inquadramento, non ha l’eguale altrove; e una lista - anch’essa ragionata - di fonti bibliografiche di studio, sia primarie (libri e articoli di Renoir, sue collaborazio­ ni ecc.) che secondarie (studi su di lui). Un lavoro immenso, condotto con intelligenza e con grande scrupolo filologico; dispiace solo che le “voci” della letteratura critica italiana siano, per ragioni dipendenti dall’oggettiva difficoltà del loro reperimento in paesi di lingua inglese, tra le più sacrificate dell’intero repertorio.

3. Ripensando agli anni del Fronte popolare in Francia

«Anni ’30, anni che sono ritornati, anni che durano»: così si legge in apertura di un recente volume collettaneo dal titolo Générique des années 30 (Presses Universitaires de Vincennes, 1986, pp. 223). E in un altro lavoro inteso a ricreare l’«atmosfera» di quel decennio (Atmospheres. Sourires, soupires et

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déUres du cinéma franqais des années 30, 5 Continents-Hatier, Paris 1987, pp. 239: album a grande formato, composto per l’essenziale da splendide fotografie) Raymond Chirat, già auto­ re, anni fa, di un volumetto di scarso conto in argomento (Le cinéma franqais des années 30, con pref. di Gilles Jacob, 5 Continents-Hatier, Paris 1983, pp. 128), comincia il suo testo di accompagnamento e commento alle foto nel modo che se­ gue: «Non è morta la Francia degli anni trenta. Ben viva invece. Appena un poco sfumata, dolcemente ingiallita, un pizzico frissonnante-. è la miracolata del cinema. Essa ha acqui­ stato il fascino e la melanconia di quelle foto vecchiotte per cui frotte di studenti hanno posato davanti al cortile dei licei». Perché tornano quegli anni? Quale particolare privilegio spetta al decennio tra il ’30 e il ’40? Consacra forse questo ritorno la cancellazione dei ricordi della guerra, la contempla­ zione di un mondo che non l’aveva ancora conosciuta? Sono interrogativi che i due testi si pongono, battendo poi però purtroppo più sul fatto in se stesso che non sul come e sul perché del ritorno, e in ogni caso dando a entrambi risposte insoddisfacenti. Chirat, aiutato dalla suggestione delle foto, guarda al cinema francese del decennio secondo una prospetti­ va puramente sentimentale, che, giusta il titolo, si culla e compiace della creazione di «atmosfere»; dappertutto egli scor­ ge non conflitti o problemi umani, ma immagini: carrefours mal frequentati, banlieues storpiate da sempre nuove fabbri­ che, faubourgs ansanti e trepidanti, scorci di bistrots, o anche, per altro verso, dintorni idonei a piacevoli scampagnate. Nel suo album non si trova nulla più di questo. Sarebbe impresa vana cercarvi altro. Générique des années 30 (del quale sono coautori Michèle Lagny, Marie-Claire Ropars e Pierre Sorlin, cui si unisce, per il capitolo più esotico, quello sui film del decennio ambientati in Africa, Geneviève Nesterenko) si situa, in apparenza, dal lato opposto rispetto a quello di Chirat: proprio di cinema esso intende parlare, non di semplici immagini (di «atmosfe­ re» cristallizzate in immagini). Suo campo di movimento è la

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semiotica. Gli autori limitano confessatamente la «ricerca ai soli percorsi autorizzati dall’analisi interna dei film o delle serie fìlmiche», mediante un «approccio testuale» il cui scopo è di «fondare l’interpretazione degli enunciati sulla valutazio­ ne dei meccanismi che sono loro sottesi»: donde un minuto lavoro d'analisi, spinto fino all’eccesso, della «configurazione strutturale» di ogni sequenza o gruppo di sequenze. Correlativamente retrocede l’interesse per la storia. «Noi non neghiamo - dicono gli autori - che la Storia intervenga nell’apprensione dei testi [...]. Ma si può ritrovare la forza provocatrice dei film ripartendo dai fatti che racconta la Sto­ ria? L’avvenimento storico non si comprende che attraverso il reticolo di immagini che lo circondano. A spiegare la guerra con la crescita dei pericoli o il Fronte popolare con la crisi, non si ritrova che il determinismo di cause e conseguenze, privandosi dell’incerto, e dell’aleatorio. È questo il ‘margine’ cui noi miriamo, negli internodi della rete. Né parallela né dipendente, la serie filmica chiarirà tanto più la serie storica in quanto non la rifletterà». Non ha quindi molta importanza, per gli autori, il problema della genesi e della collocazione storica dei film cui si riferiscono le loro analisi, e neanche quello - estetico - del loro corrispettivo valore d’arte; ai fini di questo genere semiotico d’approccio, il Renoir della Grande Illusion (film cui Chirat riservava almeno un posto di spicco nel suo volumetto del 1983, additandolo quale «film dell’epo­ ca») può benissimo venir messo nello stesso gruppo e sullo stesso piano, e discusso fianco a fianco, di un Christian-Jaque, di un Delannoy o di un tal Nicolas Farkas. Si badi: questo antistoricismo di principio non costituisce affatto una prerogativa dei testi menzionati; sembra anzi un atteggiamento molto diffuso. Quando, a esempio, Robin Buss si accinge a scrivere della Francia e dei francesi così come questi appaiono nei loro film (The French Trough Their Films, B.T. Batsford, London 1988, pp. 165), la prima cosa di cui si preoccupa è avvertire che non solo non punta, col suo libro, a un ennesimo tentativo di storia del cinema francese, ma che 167

persino l’«approccio cronologico» vi viene, in linea di massi­ ma, accantonato: «Di tanto in tanto, specialmente nei primi due capitoli», scrive, «mi è parso opportuno adottare un ap­ proccio vagamente cronologico, ma ritengo che tale approccio possa essere, in molti sensi, fuorviarne. Usiamo suddividere la storia in decenni (gli anni ’20, gli anni ’30), introducendo con ciò salti e cesure dove, di fatto, c’è continuità. Parlare di una generazione e della successiva può aver senso in ambito fami­ liare, non nel complesso della società, dove vige un costante rinnovamento e confronto tra la prospettiva e le esperienze di individui nati in tempi diversi». Così a oggetto d’analisi vengo­ no elevate nel libro non opere concrete, sorte in un periodo e per motivi storicamente condizionati, ma generi, orientamenti, filoni, tendenze, formule, etichette e via dicendo; le categorie che si assicurano il predominio nel campo del metodo sono quelle sociologiche e tipologiche. E se l’autore prende per lo più in considerazione film di qualità, Io fa quasi scusandosi, con l’argomento della irreperibilità o della sua scarsa conoscen­ za di molta parte della produzione secondaria. Nell’impostazione di Buss, di Chirat e degli autori di Générique des années 30 l’esperienza del Fronte popolare giuoca naturalmente un ruolo del tutto secondario. Poiché il culto per le «atmosfere» (Chirat) o per l’«umore dei tempi» (Buss) livella ogni cosa, essa vi può tutta! più figurare come una curiosità o una nota di colore, analoga a tante altre; manca, in ogni modo, un rapporto diretto con essa. Questa poco fruttuo­ sa intentio obliqua della ricerca lascia il posto a un'intentio recta — rivolta cioè direttamente, e non per vie traverse, al terreno sociale donde scaturiscono i film - con il lavoro di Francois Ganjon, De Blum à Pétain: cinéma et société franqaise (1936-1944) (con pref. di Marco Ferro, Les Editions du Cerf, Paris 1984, pp. 235), sintesi di una tesi di dottorato alleggerita, per esigenze editoriali, dell’apparato critico e meto­ dologico. Come storico la cui ricerca si fonda, ancora prima che sui film, su documenti manoscritti e a stampa, l’autore ha una troppo precisa conoscenza degli avvenimenti per farsi svia­

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re da analogie puramente formalistiche; comincia perciò subi­ to con lo smontare la tesi di tanta storiografia recente {sostenu­ ta, a es., in Francia da Siclier, Jeancolas e altri: cfr. sopra, § 1 ), secondo cui sussisterebbe una continuità essenziale del cinema di Vichy con quello del Fronte popolare, e il primo non sarebbe altro che «il prolungamento diretto delle illusioni perdute nel maggio 1936». Ma purtroppo, mutato il contenuto della tesi, non muta gran che - anzi peggiora — il metodo. Anche qui si procede solo per tipologie (come famiglia, patria, classi sociali, stranie­ ri, ebrei ecc.); anche qui ci muoviamo in un regno di astrazio­ ni, quando non di palesi semplificazioni (si può mai accusare di antisemitismo La Grande Illusion per una battuta di dialogo che associa indirettamente gli ebrei al denaro?), e finiamo col naufragare in un mare di generalizzazioni sociologiche piutto­ sto sbrigative, che, anziché cogliere il senso e i limiti dell’im­ patto del clima del Fronte popolare sulla produzione filmica, abbassa i film a pretesto di un’analisi dai risultati sociologica­ mente impietosi (ma storicamente piuttosto miope): non vi sarebbero «film francesi d’anteguerra che prendano direttamente per oggetto il mondo proletario e i suoi conflitti specifi­ ci»; dei pochissimi facenti riferimento alla vita operaia, uno, Choc en retour (di cui, se non andiamo errati, non è mai menzionato l’autore in tutto il libro!), rientra tra le «opere più sciocche ma anche più ostili agli ideali e alla pratica del Fron­ te popolare», e altri, come La bete hum aine e Le jour se lève, sono costruiti in modo che, «via via che si delinea la tragedia, il quadro sociale sfuma, perdendo così di peso nel racconto». Risultato: «A non prendere in considerazione che i film a soggetto per studiare il Fronte popolare, lo storico non può individuare le scosse sociali coeve al documento che egli sol­ lecita». Così alle procedure operanti per tipologie e schematizzazio­ ni, siano esse d’origine sociologica (come in Buss e in Gar­ mon) oppure d’origine semiotica (come in Générique des an­ nées 30), sembra non ci sia proprio modo di sottrarsi, almeno

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quando ci si attenga - come noi fin qui si è fatto - solo ai testi generali, alle analisi d’insieme. (Non ci è per altro noto, di Geneviève Guillaume-Grimaud, Le Cinema du Front Populaire, Lherminier, Paris 1986, pp. 210). Proviamo allora a rivol­ gerci alle monografie d’autore: in specie a quelle su un autore così rappresentativo come Jean Renoir, fatto oggetto sempre di nuovo di ricerche puntigliose concernenti ogni ambito della sua personalità, dalla biografia (Célia Bertin, Jean Renoir, Per­ rin, Paris 1986, pp. 482) al regesto integrale ragionato dei suoi film (Daniel Serceau, Jean Renoir: Filmographie, Edilig, Paris 1985, non veduto; Roger Viry-Babel, Jean Renoir. Le jeu et la règie, con pref. di Claude-Jean Philippe, Denoèl, Paris 1986, pp. 191, e Jean Renoir: films/textes/références, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1989, pp. 135) e a tutti quegli altri vari aspetti della sua concezione del mondo e della sua arte che studiano, in libri recenti, ancora Serceau (Jean Renoir. La sagesse du plaisir, con pref. di Claude Cha­ brol, Les Editions du Cerf, Paris 1985, pp. 446), Christopher Faulkner (The Social Cinema of Jean Renoir, Princeton Univer­ sity Press, 1986, pp. 210) e Pierre Haffner (Jean Renoir, Rivages, Paris 1988, pp. 159): elenco cui andrebbe ancora aggiunto almeno il saggio di Keith Reader sui « Renoir’s Popu­ lar Front Films» raccolto, con altri, in un dossier del londinese National Film Theatre (La vie est à nous! French Cinema of the Popular Front, 1935-1938, ed. by G. Vincendeau and K. Reader, London 1986, pp. 37-59). Diciamo subito che né l’impostazione tradizionalmente bio­ grafica del libro della Bertin, né quella ordinatamente cronolo­ gica, ma senza troppe pretese critiche, dei due regesti di ViryBabel, e men che meno quella rigidamente sincronica di Haff­ ner (rivolta a fornire non tanto un quadro di ciò che, da critico, egli pensa del cinema di Renoir, quanto piuttosto l’esposizione globale del «sistema» di idee renoiriane concer­ nenti il cinema, dalla recitazione alla tecnica di ripresa e di montaggio, dai problemi dello stile ai criteri di costruzione dei personaggi, dagli orientamenti estetici agli interessi per l’etica

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e la politica), sono per loro natura in grado di far fronte adeguatamente alla costellazione problematica in esame. Ci sono sì certo, nei loro libri, pagine incentrate sul Renoir degli anni ’30, sulla sua partecipazione al Gruppo Ottobre e al Fronte popolare5; ma se nella Bertin non si va mai al di là di una cronaca onestamente informativa, Haffner inciampa fin da subito in un concetto di «realismo» troppo equivoco, distor­ to e riduttivo perché gli riesca di qualche utilità nel tentativo di venire a capo del cinema renoiriano degli anni ’30. Diverso il discorso per Serceau e Faulkner, due nomi di studiosi che non sono certo degli illustri sconosciuti né gli ultimi arrivati nell’ambito della letteratura critica su Renoir. Faulkner gli ha già infatti dedicato uno dei libri migliori, se non il migliore in assoluto, tra quelli apparsi durante gli anni 70 (Jean Renoir: A Guide to References and Resources, G.K. Hall, Boston 1979: cfr. sopra, § 2); e lo studio di Serceau esce cinque anni dopo il suo Jean Renoir, ITnsurgé (con pref. di Marc Ferro, Le Sycomore, Paris 1981, pp. 270) e, come si è detto, contemporaneamente al suo regesto filmografico. En­ trambi gli autori conoscono dunque molto bene la materia di cui si occupano. Eppure i loro lavori non potrebbero essere 3 Analogie di Dróle de drame di Carne con il renoiriano Le Crime de Monsieur Lange, «tanto la fantasia sovversiva di Jacques Prévert lo permea», suggerisce nel frattempo, a proposito del Gruppo Ottobre, l’editore dei 2 voli, di scenari di Prévert sinora apparsi, Scénarios, a cura di André Heinrich, con pref. di Marcel Carnè, Gallimard, Paris 1988, pp. 295 e 361; ma per la collaborazione di Prévert con Renoir e Carnè durante e dopo gli anni del Fronte popolare sono specialmente rilevanti Michel Fauré, Le Groupe Ottobre, Bourgois, Paris 1977 (trad, di P. Brogi, Jacques Prévert e il Gruppo Ottobre, con pref. di Antonio Attisani, Feltrinelli, Milano 1979); Edward Baron Turk, Child of Paradise: Marcel Carne and the Golden Age of French Cinema, Harvard Univ. Press, Cambridge Mass.-London 1989; Claire Blake­ way, Jacques Prévert: Popular French Theatre and Cinema, Fairleigh Dickinson Univ. Press and Associated Univ. Presses, Rutherford-Lon­ don-Toronto 1990 (che si riconosce molto in debito nei confronti di Fauré); e infine, nonostante i suoi molti limiti, la biografia in stile prevertiano di René Gilson, Des mots et merveilles, Jacques Prévert, Belfond, Paris 1990.

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più diversi, né più diverse le risultanze e la qualità dei medesi­ mi: stringato quanto rigoroso e efficace quello di Faulkner; diffuso, voluminoso, traboccante di pathos, iterativo, ma an­ che, purtroppo, radicalmente sbagliato quello di Serceau, che, anche per i suoi vizi di ideazione e per il grande disordine della costruzione (affastellata sino alla raffazzonatura), risulta spesso poco persuasivo, poco attendibile sia nell’analisi che nei giudizi; l’arbitrio interpretativo vi è spinto così in là che a Renoir l’autore attribuisce ripetutamente - ma del tutto assur­ damente - latenti simpatie o propensioni per il «dionisiaco» nietzschiano. In realtà se, nonostante la conoscenza della mate­ ria, neanche Serceau si trova bene in sintonia con la sostanza della costellazione problematica in esame, non è solo per il fatto che, essendosi egli già occupato del Renoir degli anni ’30 nel suo libro precedente (ma senza far mai parola della Gran­ de Illusioni), qui non vi torna più sopra se non episodicamen­ te, in specie a proposito dei paralleli o dei raffronti che un film tardo come Le Caperai épinglé (1962) gli suggerisce con La Marseillaise e, più ancora, con La Grande Illusion', ma perché a impedirglielo sta l’assunto preconcetto — ripreso dal libro dell’81 — secondo cui in Renoir si avrebbe un’evoluzione continua, sempre ascendente («ogni film è una nuova prova, il racconto di una nuova esperienza, un punto di partenza»), di modo che ciò che segue sarebbe sempre più ricco, più maturo, più riuscito di quanto precede, e la sua arte andrebbe a culmi­ nare nei film del dopoguerra: da The River in poi, anzi, egli non realizzerebbe più se non capolavori. «Mai Renoir fu mi­ gliore e altrettanto maiuscolo che nei decenni ’50 e ’60», aveva del resto già anticipato nel libro precedente. Ne conse­ gue che i raffronti tra La Grande Illusion e Le Caporal épinglé tornano tutti senza eccezione a vantaggio del secondo. Tanto più si apprezza, di contro a questo trionfalismo indiscriminato e ingiustificato, il rigore critico dell’analisi di Faulkner. Anch’egli si ricollega, sviluppandole, alle tesi del suo libro precedente, con una più netta presa di distanza però ora, rispetto al passato, dagli studi orientati verso una troppo

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ortodossa teoria dell’authorships come quelli che si sono resi responsabili di aver «oscurato l’attivismo politico di Renoir e eliso le diverse posizioni ideologiche - con le loro relative distinzioni tematiche e stilistiche - che stanno dietro le sue opere degli anni ’30 e ’50». Citando gli studi renoiriani di André Bazin, Leo Braudy, Peter Harcourt, Claude Beylie e altri, egli lamenta che, al di là dell’apparente varietà di inter­ pretazioni, la critica muova in genere dall’assunto dell’«unità integrale di tutto quanto il corpus delle opere di Renoir». (Evidente quindi che anche libri a lui ancora sconosciuti come quello di Haffner, ostile per principio a ogni «lettura evoluti­ va», o, per converso, come il secondo di Serceau, fautore di un’evoluzione a senso unico, indifferenziata, cadrebbero, da questo punto di vista, sotto gli strali delle sue critiche). E dagli storici, dagli studiosi, sollecita invece tutt’altro orienta­ mento: «È necessario — egli dice subito di seguito al passo citato per primo - un concetto più elastico, in sostanza socia­ le, di authorship per descrivere l’interrelazione tra cinema e storia». La trascuranza del contesto storico dei film, dell’impatto che hanno sulla loro genesi le «molte forze di produzione, sia cinematografiche che extracinematografiche», porta a frainten­ dimenti. Per questo Faulkner, nell’introduzione, enuncia il suo programma di ricerca così: «Contestualizzare i film mi permet­ terà di sostenere, a esempio, che i temi renoiriani della metà e della fine degli anni ’30 in Francia sono il risultato di scelte ideologiche. Mi sembra infatti che i suoi film degli anni ’30 rispondano direttamente alle condizioni storiche del periodo del Fronte popolare, che essi articolino valori della cultura e della società del tempo piuttosto che una presunta concezione renoiriana del mondo». Così appunto nel programma; e così poi, coerentemente (seppure con quel tanto di rigidezza che una simile impostazione sociologica porta di necessità con sé), anche nel corso del libro. Da un capo all’altro egli insiste sul punto che il «cinema sociale» di Renoir, lungi dall’essere la creazione unica del suo «personale universo etico» o dal con­

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fermare una sua monolitica «concezione del mondo», «è mol­ to più un prodotto di specifiche circostanze storiche». Non solo la genesi produttiva, ma anche le scelte formali, le partico­ larità stilistiche di film come Le crime de Monsieur Lange, La vie est à nous, La grande illusion, si spiegano solo — e Faulkner cerca di spiegarle — sullo sfondo di quelle circostanze. Citiamo ancora, per concludere, quanto egli dice a proposito del giusto atteggiamento critico da tenere verso La grande illusion: «Ciò che la critica cinematografica deve accettare è che il tratto per cui si loda in genere Tuomo Renoir riguardo a questo film — il suo tanto celebrato senso di fratellanza e internazionalismo è un prodotto del Fronte popolare».

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XIII

Sul dopoguerra cinematografico italiano

1. Bilancio del neorealismo *

Non sono più molti, crediamo, coloro che se la sentirebbe­ ro di esaltare oggi indiscriminatamente, senza riserve, il movi­ mento del neorealismo. Qualsiasi atteggiamento anche sempli­ cemente ‘nostalgico’ verso di esso oggi non avrebbe più senso. Il profondo mutamento dello sfondo storico e dei problemi, l’evoluzione della società italiana, le strade nuove - più o meno feconde che esse siano — imboccate dalla cultura, dall’ar­ te e anche dal cinema, non solo rendono il neorealismo, come

* A proposito di Roy Armes, Patterns of Realism: A Study of Italian Neo-Realist Cinema, A.S. Barnes-Tbe Tantivy Press, South Bruns­ wick-New York-London 1971, pp. 226. Tra i testi successivamente apparsi all’estero meritano attenzione Peter Bondanella, Italian Cine­ ma: From Neorealism to the Present, Ungar, New York 1983, pp. 440; Mira Liehm, Passion and Defiance: Film in Italy from 1942 to the Present, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1984, pp. 396; Millicent Marcus, Italian Film in the Light of Neorea­ lism, Princeton University Press, Princeton N.J. 1986, pp. 443; mentre in Italia sono usciti, fra tanti altri testi di minor conto (e quelli di cui si dice al § 3), Il neorealismo cinematografico italiano (Atti del convegno della X Mostra internazionale del Nuovo cinema, Pesaro settembre 1974), a cura di Lino Miccichè, Marsilio, Venezia 1975, pp. 414; Cinema e letteratura del neorealismo, a cura di Giorgio Tinazzi e Marina Zancan, Marsilio, Venezia 1983, pp. 216; e Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni ottanta, Ed. Riuniti, Roma 1982, pp. 938.

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tendenza, inattuale, ma fanno sorgere la necessità di sottopor­ re a riesame critico l’intero quadro di valutazione del fenome­ no, così per quanto riguarda la sua consistenza complessiva, come per quanto riguarda la consistenza, il valore, dei suoi singoli autori e delle opere; senza che ciò debba naturalmente affatto implicare un qualsiasi superficiale e assurdo atteggia­ mento ‘liquidatorio’: basterebbe tener sempre presente che, nel suo breve arco di sviluppo, «il neorealismo ha prodotto sia un gruppetto di autentici capolavori, sia una quantità di opere solide, efficaci, senza compromessi, che hanno lasciato il se­ gno sull’intero sviluppo successivo del cinema, non soltanto in Italia ma nel mondo». Una buona occasione per dare inizio al riesame critico accennato offre il libro di Roy Armes cui attingiamo questa citazione (p. 194), certo uno dei contributi più seri e consisten­ ti allo studio del neorealismo che sia giunto dalla critica este­ ra. Esso mostra, in particolare, un notevole innalzamento di livello sopra lo standard della precedente critica inglese. Dalla comparsa, nel 1951, di The Italian Cinema di Vernon Jarrat (che non era solo la prima storia del cinema italiano pubblica­ ta in Inghilterra, come ricordava Roger Manvell nella prefazio­ ne, ma anche la prima opera straniera in genere che assumesse a suo tema centrale il neorealismo), attraverso gli scritti di Rotha e Griffith, Gavin Lambert, Eric Rhode - per citare solo scritti che non figurano, stranamente, nella troppo lacunosa bibliografia di Armes - molte cose certo anche lì sono cambia­ te. È cambiato sopprattutto, con vantaggio, il punto di vista; si sono molto allargate, rispetto a Jarrat o a Rotha, le basi della ricerca. Scarsa e insufficiente informazione, tendenza al sociologismo, pretesa di ricondurre il neorealismo entro il filo­ ne del documentario classico britannico, o per lo meno di stabilire un necessario punto di raccordo con esso (tipico, in proposito, Patteggiamento di Rotha nella sua silloge di scritti Rotha on the Film, Faber & Faber, London 1958), impediva­ no a quei critici di andare realmente a fondo nella comprensio­ ne dell’essenza e dello sviluppo del neorealismo; non a caso 176

già Rhode, all’inizio degli anni ’60, ponendo sul tappeto il problema della crisi del neorealismo (Why Neo-Realism Failed, in “Sight and Sound”, inverno 1960-61), bollava come «mezza verità» l’« assunzione» zavattiniana, tanto cara a Rotha, secondo cui la realtà si identifica col «mondo del documentario», e quindi anche, implicitamente, la tesi della coincidenza o del raccordo necessario tra neorealismo e documentarismo. Ora, se si confrontano i risultati della critica inglese del passato con quelli cui perviene Armes, balza subito evidente il dislivello di metodo e di qualità. (Basterebbe avvicinare il giudizio svalutativo espresso da Jarrat sulla Terra trema al giudizio che ne dà Armes: «il capolavoro di Visconti», anzi uno dei capolavori di tutto quanto il cinema italiano in genera­ le: cfr. pp. 109 e 119). Intanto Armes non mostra più alcuna indulgenza o particolare condiscendenza verso la poetica zavat­ tiniana. Respinta fin dall’inizio, nella parte metodologica intro­ duttiva del suo lavoro, qualsiasi teorica filmica alla Kracauer (contro il cui concetto del cinema come semplice «ritorno alla realtà fisica» egli rivolge critiche singolarmente analoghe a quelle, pur da lui non citate, di Lawson), egli è in grado di distinguere sempre bene arte da vita, realismo da naturalismo; e quindi anche i prodotti d’arte del neorealismo dalla poetica - naturalistica - di Zavattini. Tra questa e quello - egli sostie­ ne (p. 168) - non c’è lo stretto rapporto che si crede. Mentre «la base teoretica del neorealismo come elaborata da Zavattini è molto vicina alle idee di Zola», cioè a un naturalismo descrit­ tivo dove «non sono offerte soluzioni ai problemi sollevati» (p. 18), «i metodi del neorealismo non sono mai quelli della semplice documentazione della realtà che sta alla radice di molte opere documentarie e caratterizza le teorie di Zavattini» (p. 187). Il neorealismo dà insomma, almeno nelle sue espres­ sioni migliori, più di quanto prometta la sua “teoria”; la quale d’altronde, presa in se stessa, -- e ci sembra importante che Armes lo rilevi - è esteticamente carente. Scrive l’autore nella quarta e più impegnativa parte del suo libro, quella dedicata a una «valutazione» (o a un bilancio) del movimento del neorea­ lismo in generale:

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«Il maggior progresso ottenuto dal neorealismo - quello che si è rivelato più influente sul successivo sviluppo dell’arte del film sta nella sua rappresentazione della realtà fisica e prende la forma di una eliminazione di convenzioni fuori moda come la fiducia in attori, giuochi di luce e scenografie di studio. Eppure [...] gli elementi di realtà scoperti dai metodi neorealisti non erano mai considerati come fini in sé, ma invariabilmente usati allo scopo di narrare una storia, ed è precisamente nella sua struttura narrativa che la limitazione cruciale dell’estetica neorealista diviene evidente Un mero rigetto degli espedienti e dei congegni teatrali non basta: un racconto non si può trovarlo nella realtà, esso deve venir costruito e composto da scrittori e registi» (pp. 192-3).

Con questi rilievi Armes si apre la strada non solo a una giusta caratterizzazione dell'essenza del movimento, ma anche a una rigorosa definizione e circoscrizione dei suoi limiti di sviluppo tanto indietro che in avanti. Proprio perché sorto storicamente da certi bisogni, per certe cause, in un certo tempo, proprio perché connesso con i problemi di una realtà non statica ma dinamica, in continua trasformazione, «il movi­ mento rappresenta solo uno stadio nell'evoluzione del cinema, non la fine e il limite del suo sviluppo» (p. 22); e non può quindi offrire un terreno adeguato ai problemi creativi diversi degli autori di oggi. «Tutti coloro che hanno continuato a sviluppare le loro potenzialità creative sono stati costretti a rompere con le restrizioni poste da caratteri semplici, ordinari, e da ben stagliati problemi sociali, e a ricercare così nuove forme di espressione stilistica...» (p. 194). In questo senso il neorealismo non scompare dalla storia senza lasciar tracce; morendo, esso lascia anzi dietro a sé una ricca, sostanziosa «eredità», nella quale affondano e dalla quale si dipartono germi di futuri sviluppi. L’importanza del libro di Armes deriva essenzialmente dal rigoroso impianto storico della sua concezione. È diventato chiaro ormai da tempo alla storiografia del neorealismo compresa quella estera - che soltanto un interesse molto sensi­ bile e sviluppato per l’esplorazione del «passato prossimo» del 178

neorealismo, per la storicizzazione dei fattori e delle compo­ nenti che entrano via via ad arricchirlo, per la proliferazione di quei germi innovatori che nel periodo bellico e prebellico contribuiscono a fomentare il processo di disgregazione inter­ na del fascismo, — in breve, soltanto l’adeguato chiarimento della questione delle sue matrici può far luce sull’intero arco di sviluppo del movimento, in entrambi i lati della sua parabo­ la: può cioè chiarire come e perché al lato ascendente tenga dietro in prosieguo di tempo il lato discendente, involutivo, un processo di decrescita della «esigenza neorealistica». La seconda questione, è evidente, si intreccia indissolubil­ mente con la prima. In effetti, le remore, le debolezze, le difficoltà interne del neorealismo sono già presenti, come sem­ plici germi, nel periodo delle origini, sono già presenti nelle basi ideologicamente poco solide, oscillanti, dei suoi primi creatori. Un’indagine che si proponga di rimuovere dalla sua strada ogni vernice falsamente apologetica e di risalire dalla apologia alla critica, alla teoria, può e deve tener conto anche della presenza, nel movimento, di precisi limiti storici oggetti­ vi, e deve quindi illuminare per tutta l’estensione della superfi­ cie il duplice aspetto di questa situazione: ossia, da un lato, l’aspetto del salto qualitativo, del capovolgimento dialettico del vecchio nel nuovo, e dall’altro l’aspetto della continuità o della permanenza nel nuovo di certi vecchi elementi che si conservano pur entro la trasformazione della loro base sotto­ stante. (Cfr. anche, in proposito, i nostri rilievi precedenti, VI, SS 1 e 2). Quasi tutte queste esigenze sono soddisfatte da Armes. Egli dedica la seconda parte del suo libro (pp. 29-60) alla questione delle «origini del neorealismo»; sottolinea che «il biennio più importante nella storia del cinema italiano è quel­ lo compreso tra l’uscita di Ossessione nella primavera del 1943 e la prima presentazione di Roma, città aperta nel settembre 1945» (cioè, paradossalmente, proprio il periodo in cui «non è stato realizzato alcun film di valore duraturo», p. 63); ha presente e descrive tutti i fenomeni essenziali che si legano

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alla preparazione del neorealismo, dall’attività teorica del Cen­ tro Sperimentale e delle riviste «Cinema» e «Bianco e Nero» fino a quella pratica dei cosiddetti ‘precursori’; si avvede degli equivoci pseudo-realistici che si annidano nel movimento fin dall’inizio (Vivere in pace di Zampa) e si riaffacciano in segui­ to (Zampa, Emmer, Castellani); concatena giustamente ascesa e decadenza, grandezza e declino del neorealismo, mostrando vigile attenzione - come si è accennato - per il problema dei suoi limiti e per quello del suo superamento interno. Semmai è da lamentare che la trattazione della parte relativa alle origi­ ni, e in modo particolare del capitolo “Il cinema sotto il fasci­ smo”, sia condotta da un punto di vista prevalentemente crona­ chistico; sicché ne risulta trascurata, sminuita o comunque colta e illustrata in modo troppo sfuggente la dinamica del movimento preparatorio delle correnti clandestine antifasciste operanti in Italia durante l’ultima fase della dittatura. Non avremmo fatto nemmeno questo rilievo, se non fosse che rilievi del genere un libro come quello di Armes, proprio per la sua struttura, li comporta e sopporta agevolmente, anzi li postula: un libro, ripetiamo, solido, ricco, bene informato, senza reticenze, che non abbellisce, non nasconde e non tace nulla: neppure le vergognose campagne denigratorie e repressi­ vo poste in atto, all’altezza di Umberto D., dagli “oppositori del neorealismo”.

2. Due ritratti di Rossellini *

Quale deve essere l’oggetto di una biografia critica? Deve essa illustrare unicamente la personalità dell’autore preso in * A proposito di Peter Brunette, Roberto Rossellini, Oxford University Press, New York-Oxford 1987, pp. 425; e di Gianni Rondolino, Roberto Rossellini, Utet, Torino 1989, pp. 426. Tiene fermo a un ‘continuismo" ancora più esasperato e irragionevole di quello delle due opere qui discusse - come d’altronde già prima Michel Serceau, Roberto Rossellini. Ed. du Cerf, Paris 1986, pp. 228 - il posteriore

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considerazione, le sue vicende di vita, i contorni esterni della sua opera, o deve invece spingersi più in profondità, entran­ do nel merito di quest’opera, valutandola criticamente? Da storico del cinema abituato a congiungere il resoconto alla critica, Gianni Rondolino, cui si deve già un altro profilo di Rossellini, apparso nella collana del «Castoro cinema» della Nuova Italia (1974), opta senz’altro per la seconda via. Il suo libro segue e racconta sì con minuzia, in base a informazioni di prima mano, lo svolgersi delle vicende private e pubbliche che riguardano Rossellini uomo; ma vi inframmezza nei luo­ ghi opportuni, secondo che sia di volta in volta richiesto dalla cronologia, l’analisi critica dei film. Tanto più stupisce constatare come esso si serva cosi poco e faccia così poco conto dell’ampia monografia dedicata di recente al regista dallo statunitense Peter Brunette, e qui men­ zionata solo un paio di volte, per episodi affatto secondari, nell’appendice di note al testo. Vero che la monografia di Brunette non è e non vuol essere una biografia in senso pro­ prio, limitandosi l’autore a fornire informazioni di genere bio­ grafico solo là dove ritiene che illuminino l’opera o il pensiero del regista; eppure, anche entro questi limiti, essa appare su molte circostanze qualificanti non meno diffusa e documentata della biografia di Rondolino, utilizza spesso il medesimo mate­ riale e le medesime fonti (attenta com’è ai giudizi della critica europea, compresi quelli espressi dallo stesso Rondolino nel suo profilo del 1974, che cita, elogiandolo, in vari punti), e per di più le è vicina, se non proprio nel metodo, nell’imposta­ zione e nella valutazione critica. Entrambi gli autori, intanto, insistono a lungo sul paradig­ ma della «continuità» di Rossellini da un capo all’altro del suo volume miscellaneo Roberto Rossellini, a cura di Alain Bergala e Jean Narboni, Cahiers du Cinéma/La Cinematheque Franchise, Paris 1990, pp. 143, con una «filmografia commentata» di Rudolf Thome (che non è altro se non la versione francese del testo originariamente apparso, in tedesco, nella silloge dal titolo Roberto Rossellini, «Reihe Film 36», Carl Hanser Verlag, Miinchen-Wien 1987, pp. 103-268).

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sviluppo. Il neorealismo — la sua personale fase neorealistica come il neorealismo in generale - non rappresenterebbe che limitatamente una rottura. Quando si esamina da vicino un film come Roma città aperta, sostiene Brunette, «ciò che più sorprende è la straordinaria somiglianza col cinema preceden­ te»; e Rondolino ricollega altrettanto all’indietro la genesi del neorealismo ai moduli del documentarismo di guerra praticato dal comandante Francesco De Robertis: «Il ‘realismo’ di De Robertis - scrive — fu certamente alla base del ‘realismo’ rosselliniano, ed anche i modi e le forme dello stile ebbero la loro influenza». Ma è davvero questo genere di «realismo» (spu­ rio, molto prossimo alla propaganda fascista) lo «stile» che si ritrova nel neorealismo, che ne forma il nerbo e la sostanza rivoluzionaria? Sono davvero La nave bianca o Un pilota ritor­ na o L’uomo della croce — primi film di Rossellini - «realisti­ ci» nello stesso senso di Roma città aperta o di Paisà? Certa­ mente no; tanto più che lo stesso Rondolino chiarisce in modo convincente, con la solita dovizia di particolari, come quei film siano tutti di dubbia o non esclusiva paternità rosselliniana. Ciò per la continuità all’indietro. Ma esisterebbe anche, in secondo luogo, una continuità in avanti. Brunette la rintraccia e la commenta expressis verbis trattando di Viaggio in Italia-, Rondolino opera, da parte sua, una sorta di generalizzazione della categoria di neorealismo, fino a trasformarla in qualcosa di universalmente esplicativo, di valido anche per il secondo Rossellini, poiché non ne definirebbe altro che il «metodo di lavoro». Egli spiega: «Se di neorealismo occorre parlare a proposito della sua opera [...], se ne dovrebbe circoscrivere il significato, o all’opposto se ne dovrebbero dilatare i confini. Nel senso che il neorealismo rosselliniano è prima di ogni altra cosa il suo modo unico e irripetibile di fare cinema; ma questo presunto neorealismo - o meglio questa totale immer­ sione nel reale - non può essere limitato dai contenuti appa­ renti o espliciti dei suoi film, ma esteso al suo metodo di lavoro. Sicché, se neorealistici possono essere considerati Ro­

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ma città aperta e Paisà, neorealistici furono anche i suoi film precedenti, come lo furono i seguenti, compresi Francesco giulla­ re di Dio, i film con Ingrid Bergman, India e tutta la sua opera televisiva». Col che la categoria perde ogni senso; lo compren­ de già assai bene Brunette quando dichiara che la pretesa dei critici che difendono il secondo Rossellini sostenendo che egli «è ancora altrettanto realista di sempre» serve solo a «diluire ulteriormente il già quasi inutile termine di realismo». Ne deriva per altro come conseguenza un’ipervalutazione, una celebrazione assolutamente fuori luogo del secondo Ros­ sellini. Con riguardo ai film posteriori a Paisà, da Germania anno zero alla «trilogia della solitudine» (Stromboli, Europa 51, Viaggio in Italia), Rondolino parla sempre soltanto di «sviluppo», di «ampliamento», di «approfondimento spiritua­ le», come se la strada percorsa da Rossellini fosse costantemente in ascesa: un approfondimento che culminerebbe con Viaggio in Italia, «da alcuni considerato - egli scrive, appro­ vando - il capolavoro del regista, il prototipo del ‘cinema moderno’»; ma anche i suoi film successivi, fino al Messia incluso, sarebbero - con poche eccezioni - o delle «sperimen­ tazioni linguistiche» molto originali o addirittura delle riuscite al limite del capolavoro. L’assunto della «continuità» viene fatto valere qui in forma estrema, paradossale; persino II Mes­ sia sarebbe, grazie alla sua «linea narrativa elementare», «una riconferma della grande lezione del primo neorealismo, lungo quella strada che aveva portato Rossellini a Francesco giullare di Dio, a India, a certe pagine degli Atti degli Apostoli». Ci sembra, in conclusione, che dei due lati costitutivi del lavoro di Rondolino, il biografico e il critico, non si possa dare una valutazione omologa. La ricostruzione biografica, ben fondata, costituisce un’utile traccia anche per l’analisi criti­ ca. Criticamente invece il lavoro è assai debole. L’autore ha la tendenza a sbarazzarsi con locuzioni troppo sbrigative e ridutti­ ve («realismo integrale», «estetica della semplicità») di proble­ mi complessi; accetta in forma troppo acritica certi schemi di giudizio provenienti dalla teoria francese del neorealismo, 183

orientata in senso fenomenologico-spiritualistico (un limite che è anche di Brunette, per di più aggravato in lui dalla commistione con l’uso di «tecniche post-strutturalistiche» e «decostruzionistìche» che fortunatamente Rondolino evita); passa troppo facilmente per buone a Rossellini le sue dichiara­ zioni (nonostante metta lui stesso più di una volta in guardia contro «quell’imprecisione storica e quell’approssimazione fan­ tasiosa che gli furono proprie»), arrivando a riconoscere «un significato ermeneutico considerevole» a certi suoi suggerimen­ ti (a es. quello, già utilizzato nel 1974, secondo cui «l’essenzia­ le nel racconto cinematografico è Vattesa»), «perché - ritiene — forniscono non poche chiavi di lettura della sua opera»; infine e soprattutto, accentua troppo marcatamente la continui­ tà anche dove essa non esiste affatto, senza ricercare invece, o lasciandosi sfuggire, quegli autentici momenti di continuità (e debolezza) del neorealismo rosselliniano che - come accade per il neorealismo in generale - affondano le loro radici nei limiti e nelle contraddizioni interne del movimento di resisten­ za clandestina antifascista sviluppatosi a partire pressappoco dalla guerra di Spagna.

3. Di alcuni altri contributi recenti *

Corrono in generale rapporti molto compliciati tra memo­ rialistica e critica. Non c’è dubbio che l’una, con le sue attesta­ * Ci si riferisce qui, nell’ordine, ai seguenti testi: Massimo Mida, Compagni di viaggio. Colloqui con i maestri del cinema italiano, con pref. di Guido Aristarco, Nuova Eri, Torino 1988, pp. 144; Giacomo Gambetti, Zavattini mago e tecnico, Ente dello Spettacolo, Roma 1987, pp. 382; Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, a cura di Alberto Farassino, E.D.T. (Edizioni di Torino), Torino 1989, pp. 203; 1 cattolici e il neorealismo, a cura di Sergio Trasatti, Ente dello Spettacolo-Bulzoni, Roma 1989, pp. 152. (Per via della loro comparsa solo a fine 1990, possono venire qui appena menzionati - non discussi - gli ultimi titoli in argomento: la prima parte della monografia viscontiana — prevista in 3 volumi - di Lino Miccichè, Visconti e il neorealismo. "Ossessione",

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zioni di prima mano, può riuscire e spesso riesce di grande giovamento all’altra; ma in pari tempo l’atmosfera sfumata e impalpabile della rievocazione tramite la memoria comporta il rischio dell’annullamento di ogni distanza prospettica, dell’equiparamento e livellamento di tutto il materiale evocato su un unico piano. Premettiamo quanto sopra perché il libro di Mida, Compa­ gni di viaggio è sostanzialmente, nella sua parte migliore, un libro di memorie, una «rivisitazione-testimonianza» - per dir­ la con l’autore - del cinema italiano degli anni della crisi conclusiva del fascismo e del primo dopoguerra. Godendo l’autore della fortuna di aver compiuto il «viaggio» — e quindi di poter trattare da pari a pari - con i maestri del neorealismo, ecco che egli vi rievoca da vicino - sia pur soltanto nel «modo più impressionistico che sistematico» proprio di ogni forma di memorialistica - l’esperienza della sua collaborazione col grup­ po di Visconti all’epoca di Ossessione, i lunghi mesi trascorsi a fianco di Rossellini per Paisà e La macchina ammazzacattivi, le circostanze dei numerosi incontri avuti con De Sica attore e regista (uno dei quali, «malauguratamente infruttifero», per Sciuscià), i contatti di lavoro o di amicizia con Luigi Chiarini, Umberto Barbaro, Francesco Pasinetti, e ancora le «immagi­ ni» — sempre filtrate attraverso ricordi dal vivo - di attori quali Anna Magnani, Amedeo Nazzari, Isa Miranda e Andrea Checchi. In appendice, due rievocazione d’infanzia, consacrate ai ‘miti’ di Douglas Fairbanks e Rodolfo Valentino. Il merito maggiore del libro di Mida è che, senza rinuncia­ re alla vivacità (impressionistica) della testimonianza diretta, ma anche senza perdersi mai o quasi mai nel dettaglio inessen“La terra trema”, “bellissima”, Marsilio, Venezia 1990, pp. 253; il son­ tuoso album illustrato, con testo di Fernaldo Di Giammatteo, Rober­ to Rossellini, La Nuova Italia, Firenze 1990, pp. 191; e il catalogo pure graficamente elegante, con interventi e testimonianze di autori vari, edito in occasione della mostra parigina delle opere di Cesare Zavattini, a cura di Aldo Bernardini e Jean A. Gili, Centre Georges Pompidou/Regione Emilia-Romagna, Paris-Bologna 1990, pp. 248).

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ziale, nell’aneddoto, nel pettegolezzo, esso sa trasformare la memorialistica in sguardo prospettico, cioè in supporto per l’indagine critica; esibisce non un qualsiasi «ricordare sbiadi­ to», ma - come osserva Aristarco nella prefazione — un qua­ dro dove il ricordare «diventa testimonianza autentica». Due punti di forza della prima parte del libro - certo la più sentita e la migliore, anche in senso memorialistico — vanno particolarmente messi in luce: che le vicende del cine­ ma vi sono esposte e commentate entro il contesto delle vicen­ de della società italiana nel suo complesso, sottolineando anzi proprio il ruolo svolto dal cinema nel primo avvio del proces­ so di risveglio, distacco e ribellione della cultura italiana al fascismo dominante; e che, per il periodo del dopoguerra, per il cinema del neorealismo, ciò viene fatto senza alcun intento nostalgico o apologetico, senza affatto l’idea di stendere, col pretesto della lontananza nel tempo, una mano di vernice unitaria sul movimento. All’opposto. Amico e stretto collaboratore - come si è detto - sia di Visconti che di Rossellini, Mida ha sempre ben vivo il senso non solo dell’insofferenza reciproca tra quei suoi due grandi «compagni di viaggio», ma anche della loro diver­ sa statura artistica e intellettuale, a tutto vantaggio di Viscon­ ti. È in questo senso che sono da leggersi anche le pagine, molto polemiche, della prefazione di Aristarco, la quale, asse­ condando la spregiudicatezza dell’atteggiamento di Mida, il suo invito a guardare spassionatamente in faccia cose e uomi­ ni, quand’anche si tratti di personalità assurte a mito («Rober­ to Rossellini non è un mito da imbalsamare»), imbocca oppor­ tunamente la via di una vera e propria resa dei conti con le ambiguità, le reticenze, le contraddizioni disseminate lungo il «viaggio» di Rossellini. Di nuovo la memorialistica viene in campo con Zavattini intervistato da Gambetti. «Indubbiamente c’è, nella storia del cinema italiano, un ‘iperprotagonismo’ di Zavattini, dagli anni Trenta a oggi». Così dice Gambetti di questo originalissimo scrittore e sceneggiatore, letterato di grande qualità, che del

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neorealismo, o almeno di una delle forme di neorealismo pre­ senti nel cinema italiano del dopoguerra, è stato «il perno fondamentale»: si pensi in specie alla sua collaborazione con De Sica per film come I bambini ci guardano (1943), Ladri di biciclette (1948), Umberto D. (1952). Frutto di una gestazione lunga e travagliata, di cui riferisce con ampiezza la premessa, lo Zavattini di Gambetti ha ben poco della struttura di un libro vero e proprio. Esso risulta da una serie di conversazioni registrate nel corso di quasi un ventennio e accor­ pate alla bell’e meglio, dove Zavattini ha modo di sfogare tutti i suoi umori, abbandonandosi - secondo il suo costume - a un libero corso e flusso di ricordi, osservazioni, divagazioni ecc., che da parte sua l’autore non fa nulla per arginare. Salta fuori qualco­ sa di significativo da questo ammasso di materiali in gran disordi­ ne? Sì e no. Che anche il disordine sia qui un espediente per lasciar venire in luce, o sbalzare meglio, il carattere irruente di Zavattini uomo, può darsi; ma che ne guadagni davvero la sua comprensione dal punto di vista critico, ecco una cosa su cui, ultimata la lettura, a noi resta qualche dubbio.

È stata un’iniziativa felice e riuscita quella del VII Festival Intemazionale Cinema Giovani di Torino (1989), diretto da Gianni Rondolino, di organizzare una grande manifestazione retrospettiva del cinema neorealistico italiano del dopoguerra, accompagnandola con un catalogo d’ampio formato, ben curato, documentato e illustrato. Come spiega il curatore stesso, Alber­ to Farassino, nel saggio introduttivo, da idea portante della manifestazione (e del catalogo) ha fatto l’intento di guardare al neorealismo «come fenomeno complessivo, eventualmente arti­ colabile in zone, spazi e unità minori, e non come somma di individualità cui dare poi una cornice comune che finisce per essere poco più di un’etichetta»: prendendo così «le distanze da una formulazione critica che ha avuto a lungo fortuna» (quella secondo cui non esiste un solo neorealismo, ma tanti neoreali­ smi quanti gli autori o addirittura i film), ma che tuttavia, secondo Farassino, oggi «forse rappresenta una via d’uscita un po’ facile dai problemi storico-critici che il neorealismo pone».

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Ora, fino a quando egli insiste sulla riconoscibilità e speci­ ficità del movimento, «nel senso che i film pur diversamente neorealisti costituiscono tuttavia un gruppo relativamente omo­ geneo e complessivamente diverso rispetto agli altri film o gruppi di film italiani dell'epoca definibili come non neoreali­ stici», non si può che dargli ragione. Purtroppo egli confonde il problema del carattere più o meno latamente rappresentati­ vo del neorealismo in quanto movimento con quello della valenza artistica dei suoi prodotti, giungendo dal punto di vista estetico alla stortura - propria di tanta parte della cosid­ detta “nuova critica" — secondo cui non sussisterebbero o co­ munque non avrebbero che un rilievo secondario, trascurabile, i dislivelli di qualità. Il neorealismo si ridurrebbe così a una sorta di «prodotto d'epoca». Non a caso, la «definizione più adeguata» di esso gli sembra, riassuntivamente, «quella tauto­ logica e paradossale» che suona così: «Il cinema neorealista è il cinema italiano dell’epoca del neorealismo». Detto questo, va per altro riconosciuto come, attraverso i contributi critici, le osservazioni e le testimonianze di numero­ si autori, il catalogo svolga un discorso articolato, che abbrac­ cia, commentandola, l’intera problematica critica relativa al neorealismo e, entro questo quadro, anche l’atteggiamento te­ nuto dai cattolici verso di esso. Resterebbe invece deluso chi si aspettasse un riesame a fondo della questione del rapporto tra I cattolici e il neorealismo dal volumetto omonimo che qui pure si segnala, antologia di un gruppo di saggi in argomento apparsi nella «Rivista del cinematografo» del decennio 1948-58. Non ci sembra proprio valesse la pena di riesumare e presentare in volume articoli così poco significativi (se si fa eccezione, forse, per quello a impronta fenomenologica di Amédée Ayfre). Nessun approfondimento, nessun ripensamen­ to critico della questione neanche da parte del curatore, che nella premessa mira solo a sottolineare, apologeticamente, «quanta premurosa attenzione sia stata dedicata dalla cultura cattolica al neorealismo», tacendo di quelle non poche scelte che hanno visto i cattolici schierarsi dal lato non dei suoi fautori, ma piuttosto dei suoi più aspri «oppositori».

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XIV

Hollywood, la sua storia e i suoi miti

1. Il mito del cinema americano

C’è un nuovo spettro che si aggira nel mondo del cinema, o meglio un nuovo mito: il mito del cinema americano. Mito in realtà vecchissimo. Periodicamente le fortune di Hollywood sembrano come rinverdire, rinascere dalle ceneri. La singolari­ tà di quanto ora accade sta per altro in ciò, che a sostegno del mito hollywoodiano non si schiera più esclusivamente, come in passato, la grande massa del pubblico o la pubblicistica più superficiale, bensì proprio la critica dotta, l’esegesi raffinata, la cerchia degli specialisti: soprattutto il nugolo sempre cre­ scente di quei teorici che si muovono all’insegna dello struttu­ ralismo e della semiologia. Sia consentito esprimere qui la convinzione che, se solo si scavasse un po’ in profondo, se si scostassero i veli formalistici di tanti entusiasmi, verrebbero subito in luce le motivazioni ideologiche del fenomeno. Qui toccheremo - molto rapidamente - solo qualche aspetto del suo manifestarsi nella letteratura critica. Che la realtà del cinema americano non combaci sempre affatto col suo mito è cosa di cui la letteratura critica, sia autoctona che europea (e anche, come vedremo subito, italia­ na), non sembra rendersi conto. Giacché essa non solo non prende le distanze che dovrebbe dal suo oggetto, ma vi si invischia, confonde consapevolmente o inconsapevolmente i termini del problema, non distingue le proprie inclinazioni 189

soggettive dall’oggettività della sistemazione storica, scambia insomma di continuo la realtà col mito; questo ottiene, per lo più, il sopravvento sul riconoscimento lucido e spregiudicato di quella. Tutti i miti, sappiamo, hanno una loro intrinseca consistenza, che li rende duri a morire. Ma tra i miti cinemato­ grafici quello di Hollywood pare proprio, e pour cause, il più consistente e resistente di tutti. Gli studiosi d’oltre Atlantico incappano per primi in una valutazione sostanzialmente acritica, prona al mito, della sto­ ria del loro cinema. Per un autore come William K. Everson la storia del cinema muto americano, che egli narra in un elegante volume, riccamente illustrato {American Silent Film, Oxford University Press, New York 1978, pp. 387), è tutta una storia di successi o mezzi successi. Figurano in questa storia tanti nomi, tanti titoli di film, ma i veri grandi problemi di fondo, l’insieme delle connessioni — storicamente così im­ portanti - tra lo sviluppo dell’economia americana nei primi decenni del secolo e le fortune di Hollywood e dell’industria del cinema, l’impatto con la cultura americana di una persona­ lità come quella di Chaplin, le ragioni storiche dell’ascesa e del rapido tramonto di Griffith ecc. — tutti questi problemi sono ignorati o ricacciati sullo sfondo, in sostanza elusi. Parimenti il volume, che a Everson è dedicato, Hollywood Direc­ tors 1941-1976 (ed. by Richard Koszarski, Oxford University Press, Oxford-London-New York 1977, pp. 426), dove 50 registi hollywoodiani o attivi a Hollywood dicono la loro, è messo insieme dal curatore con una sorta di tranquilla fiducia nelle risorse, anzi nella «perfezione», della macchina hollywoo­ diana. C’è del conservatorismo nel cinema di Hollywood dopo il 1940? Certamente, egli ammette, ma aggiunge: «Il suo conservatorismo industriale si univa a un autocompiacimento estetico derivante anche dalla perfezione finale di un lungo sviluppo evolutivo». E spiega come segue la quasi completa assenza di questioni teoriche negli scritti che pubblica: «Certo un senso di compimento artistico e industriale era generalmen­ te diffuso a Hollywood, e c’era perciò scarso impulso a investi­ go

gare nuove aree di pensiero. Il cinema era arrivato, e non c'era più bisogno di provare nulla a nessuno - né per iscritto né sullo schermo». Quanto questa falsa prospettiva stia al centro della ricerca storiografica, e la intacchi e la deformi, si vede bene dal complesso dei lavori su Hollywood negli anni ’20, ’30, ’40 ecc., firmati da autori diversi e già editi separatamente, che escono riuniti insieme, in edizione a grande formato, a compor­ re una vera e propria storia generale del cinema hollywoodia­ no {Hollywood 1920-19,70, ed. by Peter Cowie, A.S. Barnes & The Tantivy Press, New York-South Brunswick-London 1977, pp. 286). Così riuniti, purtroppo, gli scritti finiscono con l’accentuare quei difetti che ciascuno di essi aveva già per suo conto: il solito confuso quanto inutile affastellamento di nomi e titoli spesso insignificanti; l’appiattimento prospettico per cui, in mezzo a questa baraonda, le poche cose autentica­ mente significative, i film di Chaplin, di Flaherty, del primo Welles in pratica scompaiono (a Flaherty non tocca complessi­ vamente più di una mezza pagina, Chaplin viene sbrigato per intero, e in breve, da David Robinson nella sezione sugli anni ’20); e soprattutto, come sempre, il trionfo del mito. Secondo John Baxter, ad esempio, la superiorità di Hollywood non si discute: «per ricchezza di invenzione», «per assoluta concen­ trazione di genio e immaginazione», egli scrive, «Hollywood negli anni ’30 non ha l’eguale». E fa seguire considerazioni, commenti, giudizi improntati allo stesso spirito, trovando «rag­ guardevole» persino Via col vento. Il tono in cui Higham e Greenberg parlano degli anni ’40. Gordon Gow degli anni ’50, Baxter degli anni ’30 e ’60 è lo stesso tono - apparentemente smaliziato e sapiente, di fatto irretito dal mito — che da noi usa Franco La Polla per II nuovo cinema americano (1967-1975) (Marsilio, Venezia 1978, pp. 222), dove si ritrovano tutti i difetti - senza i pregi (di sobrie­ tà, di buon gusto) - dei lavori precedenti. Così vi leggiamo, frammezzo a tante pseudo-argomentazioni giustificative e cele­ brative, di una pretesa «rivoluzione dei tardi anni ’60», allor-

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che si assisterebbe «a quello che quantitativamente è probabil­ mente il massimo tentativo di rinnovamento del cinema ameri­ cano dai tempi dell’avvento del sonoro». La sua conclusione è oltremodo sintomatica:

«Il nuovo cinema americano - come quello autoriale degli anni d’oro - trova la sua via, negli esponenti migliori, all’interno del mostro che esso stesso ha aiutato a resuscitare. Ma a diffe­ renza del passato, ha mostrato e mostra una coscienza dei propri fondamenti, una chiarezza inusitata in merito alla pratica cinema­ tografica in quanto operazione non solo artisticamente concreta, ma anche e soprattutto metalinguistica. Hollywood continua a non essere negandosi nello spettacolo [?], ma il cinema america­ no è nato oggi». La realtà del cinema americano di oggi a noi sembra tutt’altra. Condividiamo in larga misura quanto sulla decadenza dei «generi» classici (western, film nero ecc.) e sul trionfo, al loro posto, dei «filoni» di successo, scrive con severità Rober­ to Nepoti (La poetica degli eroi. Struttura e mito nei generi classici del cinema di Hollywood, Ed. Luigi Parma, Bologna 1978, pp. 286): che siamo cioè di fronte, salvo eccezioni, non a una crescita, ma a uno scadimento di livello, a una «progres­ siva degradazione» della qualità dei prodotti di Hollywood. Ciò vale indiscriminatamente per tutti i generi, per il western (su cui Nepoti scrive pagine di rilievo) come per quell’altro grande «veicolo di miti» che è il film-gangster (si veda quanto osserva in proposito Eugene Rosow, Born to Lose: The Gang­ ster Film in America, Oxford University Press, New York 1978, pp. 422: studio sociologico documentatissimo e di va­ sto respiro, illustrato a profusione), e per il cinema under­ ground, dove pure riappare e torna a prendere rilievo, almeno in una certa fase del suo sviluppo, la «mitopoiesi», la creazio­ ne di un «universo mitico» (si veda quanto ne dice, sulla falsariga delle ricerche già svolte in questo campo da Parkey Tyler e soprattutto da Paul Adams Sitney, il testo critico-anto-

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logico di Raffaele Milani, Il cinema underground americano, D’Anna, Messina-Firenze 1978, pp. 192) . *

2. Sulla tradizione (e il mito) del western Periodicamente il western torna alla ribalta, non solo sotto forma di prodotti filmici, ma anche nei libri. Chi voglia perciò tenersi aggiornato in argomento deve di tanto in tanto fare i conti con i sempre nuovi apporti di una letteratura critica che è sempre stata e resta tuttora piuttosto prolifica, e che anzi negli ultimi anni si è venuta moltiplicando a dismisura. È quanto appunto ci proponiamo nella seguente nota, limitando­ ci per altro solo a qualche rapsodica segnalazione. Ci sono presupposti sociologici molto giusti alla base del grosso e meditato lavoro che il critico francese Georges-Henri Morin dedica all’illustrazione dell’immagine dell’indiano forni­ ta dal cinema western (Le cercle brisé. L'image de ITndien dans le western, Payot, Paris 1977, pp. 312): che cioè il «mito del West», almeno così come lo divulga il cinema, è sostanzial­ mente il frutto della fantasia dei colonizzatori; che è impossibi­ le per un cineasta bianco penetrare a fondo nel «sacro cer­ chio» della vita tribale e delle tradizioni di cultura indiane, distrutte dai conquistatori (donde appunto la metafora del titolo); e che razzismo, colonialismo, paternalismo, ipocrisia, falso spirito di comprensione - in realtà, volontà di annulla­ mento di tutto ciò che si presenta come «altro», come diverso - sono le costanti del western, almeno fino all’inizio degli anni * Non tentiamo neanche un aggiornamento della bibliografia sul cinema hollywoodiano, in sempre continua e rapida espansione. Da un decennio a questa parte la sostanza del problema non ci sembra fonda­ mentalmente mutata; così tutti gli inconvenienti dello studio di La Polla riappaiono - aggravati - nel suo libro successivo, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 372. Quanto a Milani, suWunderground egli torna più ponderatamente trat­ tando del posto che occupa II cinema tra le arti. Teorie e poetiche, Mucchi, Modena 1985, II, p. 231 ss.

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70. Non che manchino in esso anche tendenze orientate in senso favorevole al mondo indiano. Già durante il periodo del muto, negli anni ’20, e poi specialmente durante gli anni ’50, da L’amante indiana in avanti, molte sono le opere che rivedo­ no la tradizionale immagine degli indiani come esseri selvaggi e crudeli, la modificano, la correggono, talora la rovesciano, riabilitando tribù o figure di capi in passato unilateralmente condannate e vilipese; e dal 1965 al 1973 (data in cui l’autore inizia a stendere il suo libro, terminato nel 1976) il numero dei «western pro-indiani» non cessa di aumentare. Ma la que­ stione di fondo resta pur sempre un’altra. Quale che sia infatti l’atteggiamento personale dei singoli realizzatori, per tutti con­ tinua a valere un solo principio: che l’America è bianca e non può essere se non bianca: ossia che - comunque si dispongano e rappresentino le parti in causa — l’unica civiltà degna di considerazione è la civiltà dei colonizzatori. Eccellente conoscitore delle vicende della conquista del West e della storiografia relativa, l’autore fa discendere dai suoi giusti presupposti sociologici di partenza conseguenze immediate — troppo immediate - anche per l’evoluzione del western, che alla storia reale (o alla sua falsificazione) è qui di continuo commisurato. Senza tener conto, sul piano estetico, del fatto - pur da lui stesso tanto a lungo sottolineato - che il western nasce dal mito ed è, in certo senso, il mito di una nascita (dell’America come nazione, come grande potenza), egli sembra voler innalzare la questione della fedele rappresen­ tazione storica o, meglio ancora, della comprensione e del rispetto della civiltà indiana a criterio di misura della validità estetica del western. Di qui non solo giudizi di merito inaccet­ tabili relativi a singoli autori e film; ma — ciò che è ancor più pregiudizievole - inaccettabili valutazioni di lungo periodo: ossia, per schematizzare, sottovalutazione del cinema western classico («poche grandi opere videro la luce tra il 1930 e il 1940»); limitata e insoddisfacente spiegazione della svolta de­ gli anni ’50 verso il western psicologico; grande rilievo conferi­ to - sempre in dipendenza dalla chiave sociologica accennata 194

- al cosiddetto «nuovo western» o western critico, e in partico­ lare a film come Soldato blu di Nelson, Il piccolo grande uomo di Penn, Ucciderò Willie Kid di Polonsky, Corvo rosso non avrai il mio scalpo di Pollack, ecc. Curiosamente, nonostante la profonda diversità di imposta­ zione e il diverso approccio tematico, molte di queste caratteri­ stiche si ritrovano anche nel quadro che del western dà Philip French in un libro del 1973, uscito poi in seconda edizione riveduta: senza varianti sostanziali rispetto alla prima, ma con un’appendice integrativa di aggiornamento (Western. Aspects of a Movie Genre, Seeker and Warburg in collab. col British Film Institute, London 1977, pp. 208). Dal punto di vista della topica del «genere», anche French, come Morin, si con­ centra infatti piuttosto sul nuovo western che sul western classico; anch’egli sostiene la tesi - di cui non riesce per altro a fornire una giustificazione convincente — che questa svolta rivitalizza il genere e gli dischiude nuove possibilità, nonostan­ te certi suoi «intrinseci limiti di forma»; e anch’egli si dissocia dall’orientamento della critica tradizionale, nostalgica della ‘semplicità’ dei moduli narrativi e stilistici del passato, per proclamare ad alta voce - e ribadire ulteriormente nell’appen­ dice — il più elevato grado di complessità e maturità oggi raggiunto dal western. La diversità di approccio e impostazione non esclude dun­ que affatto un’affinità di metodo. Dominano così di nuovo, in French, che riconosce di «essere per inclinazione uno storico sociale», metodi di analisi a carattere pressoché esclusivamen­ te tipologico e sociologico, come evidenzia già bene il fatto che l’analisi viene condotta per tipi e «topoi» (a esempio, «eroi e malvagi», «donne e ragazzi», «indiani e negri», oppu­ re «paesaggio, violenza, giuoco» ecc.), non per tendenze, ope­ re o autori; tanto che anche opere storicamente di grande rilievo o autori del prestigio, poniamo, di John Ford entrano nel suo libro - come del resto in quello di Morin - solo episodicamente, di sbieco. E non facciamo certo il nome di Ford a caso. Si tratta del nome di un regista naturalmente ben 195

presente a entrambi gli autori, e che entrambi sanno bene indissociabile dal western. Associare Ford col western - osser­ va Morin - «equivale a un pleonasmo»; e French ci tiene a far sapere che Ford è, insieme con Anthony Mann, tra i suoi registi favoriti, e che considera Ombre rosse «il miglior we­ stern mai realizzato». (Così almeno nella prima edizione del testo; nella seconda dichiara di preferirgli Sentieri selvaggi). Per un ragguaglio aggiornato dell’atteggiamento della letteratu­ ra critica verso il western classico di Ford conviene tuttavia rivolgersi a lavori più specialistici, come la monografia — una monografia nel senso più tradizionale del termine - che a Ford ha dedicato Andrew Sarris, sebbene questi si compiaccia di costruirgli intorno già nel titolo un qual certo alone di «mistero» (The John Ford Movie Mistery, Seeker and War­ burg in collaborazione col British Film Institute, London 1976, pp. 192): asserendo per di più che i «misteri» di Ford sarebbero «ancora molti e vari e forse persino insolubili», e che nessuno, nemmeno il regista stesso, saprebbe fornirne la «soluzione definitiva». Ci permettiamo di dubitare che le cose stiano proprio come afferma Sarris. In realtà, a chi sappia ben guardare, si appalesano in Ford molti meno «misteri» di quanto egli creda. Tutto dipende anche qui, come sempre, dalle capacità di son­ daggio e scandaglio critico di chi compie l’analisi. Vero che l’autore sostiene che sarebbe «in ultima istanza un errore pen­ sare ai film di Ford come a espressioni tipiche di un genere, meno che mai del western» ; ma se non gli riesce di chiarire e dissolvere i tanti presunti «misteri» fordiani, ciò si deve princi­ palmente al fatto che l’asse della sua ricerca, la sua visione critica, non si spinge mai al di là dell’impostazione di proble­ mi puramente tecnico-formali (formalistici) del western come genere. Entro questi limiti, tuttavia, il testo si fa leggere con un certo interesse. Sarris non soggiace a nessuna delle due possibili alternative estreme: né al culto del «classico» in quanto tale, né — sul versante opposto — al vano gusto dell’ico­ noclastia a ogni costo; e le pagine sapienti e equilibrate che

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egli scrive su Ombre rosse e su Furore, riconoscendo bensì dei valori a entrambi, ma denunciando anche i tratti «convenzio­ nalmente teatrali» dell’uno e quelli «stranamente stilizzati» dell’altro, stanno lì a provarlo. Eccessiva condiscendenza, sem­ mai, nonostante l’autocritica che in più punti si fa per certi suoi iperbolici.entusiasmi del passato, egli continua a mostrare verso il tardo Ford. Solo poche altre segnalazioni ancora. Di oltre 600 pagine a grande formato, e copiosamente illustrate, consta il volume di Jon Tuska, The Filming of the West, una ricerca che ha richiesto all’autore ben dieci anni di lavoro: edita originaria­ mente negli Stati Uniti (1976), ne è apparsa più tardi anche un’edizione inglese (Robert Hale, London 1978). L’autore omette volutamente di prendere posizione sul fenomeno del western in generale. Ottimo conoscitore dall’interno delle par­ ticolarità che contraddistinguono questo genere tra i più popo­ lari e spettacolari del cinema, egli difetta invece del polso dello storico. Il suo lavoro non la pretende neanche a storia; più che una storia vera e propria, esso vuol essere e è una galleria di ritratti di westerners (sia realizzatori che attori) e un regesto o un sommario — steso col tono piano e discorsivo delle presentazioni televisive - di circa un centinaio di we­ stern scelti nell’arco di tempo che va dalle origini (The Great Train Robbery, 1903) ai primi anni ’70 (The Cowboys, 1972). L’impressione d’insieme è che l’autore privilegi il prodotto secondario, il western di serie B, sui capolavori più noti; e che guardi con maggior interesse, o almeno tratti più diffusamen­ te, i film della consolidata tradizione classica, anche minore, che non gli ambiziosi western psicologici o storici moderni. Al cinema muto del West è dedicata la sezione centrale di un altro illustratissimo libro di 600 pagine a grande forma­ to, e che porta la firma di Kevin Brownlow, The War, the West and the Wilderness (Alfred A. Knopf, New York 1979). Benché diversissimo nei propositi, che sarebbero quel­ li di rilevare gli «aspetti documentaristici» del western muto, il libro di Brownlow ha, per impostazione, taglio, criteri di

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organizzazione della materia e di utilizzazione dei dati, singola­ ri rassomiglianze col precedente; anche il tono pubblicistico dei due libri è lo stesso. Certo l’autore sa bene che il western fa tradizionalmente perno sulla «leggenda» o sul «mito», più che sulla verità della storia; eppure, convinto della forza docu­ mentaria del cinema muto, egli va in traccia ovunque degli elementi atti a corroborare la sua tesi: quella secondo cui, «con un’accurata setacciatura dei fatti che stanno dietro a questi film [...], è possibile imbattersi in scorci unici della storia del West». Due soli i film di un certo spicco che emer­ gono dal suo panorama (entrambi, comunque, sopravvalutati): The Covered Wagon («I pionieri», 1923) di James Cruze film che proprio nelle «sequenze documentarie» raggiungereb­ be, secondo Brownlow, la «sua grandezza» — e The Iron Hor­ se («Il cavallo d’acciaio», 1924) di John Ford. Storicamente è quest’ultimo il film che, dopo tanti prodot­ ti di secondo rango, oggi d’altronde in gran parte perduti, assicura per la prima volta a Ford vera notorietà d’autore. Ora, essendo Ford un regista «sempre più interessato da una buona storia che non da una storia vera», un autore che «della verità fa un mito» e ama «filmare miti», ne consegue che la chiave interpretativa di Brownlow funziona poco o nulla con lui; lo capisce bene il suo biografo Andrew Sinclair, cui abbia­ mo attinto la citazione. Biografia nel senso più tradizionale del termine, e che non riserva sorprese di sorta, nonostante si fondi su un materiale orale di prima mano (interviste con la moglie e la figlia di Ford, ecc.), il lavoro di Sinclair (John Ford, The Dial Press-James Wade, New York 1979, pp. 305; ed. inglese, identica alla precedente, Allen and Unwin, Lon­ don-Boston-Sydney 1979) menziona e utilizza, tra l’altro, la nota intervista del 1966 a Ford di Peter Bogdanovich, ora apparsa negli Stati Uniti in edizione riveduta e ampliata (John Ford, University of California Press, Berkeley-Los AngelesLondon 1978, pp. 149), con una filmografia che anche Sin­ clair, riproducendola (a eccezione delle trame), giudica «defi­ nitiva».

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L’opinione di Sinclair su Ford può riassumersi con le paro­ le del XXI capitolo della sua biografìa, quello dedicato al problema del rapporto tra verità e leggenda: Ford è un istinti­ vo, un artista che parla la lingua del popolo e che, da straniero ben integrato, si sente in animo di «celebrare la storia del popolo americano». Cose tutte quante certamente vere. L’auto­ re - troppo propenso a ripetere concetti corrivi, luoghi comu­ ni della storiografìa già superati ecc. - si dimentica solo di aggiungere che le celebrazioni di Ford mancano per lo più di spessore critico; che se, come artista, egli parla la lingua del popolo, come cantore di storia egli si comporta da ideologo ufficiale di un’America ufficiale . *

* Neanche per la letteratura critica sul western crediamo necessario fornire aggiornamenti. Oltre che di numerosi e ampi resoconti circa la sua storia (spesso purtroppo proni o indifesi di fronte alle suggestioni e seduzioni del mito), disponiamo oggi per esso di strumenti orientativi variamente utili, come la bibliografia in 2 volumi a cura di John G. Nachbar e altri (Western Films: An Annotated Bibliography, Garland Pubi., New York: vol. I, 1975, pp. 98, fino al 1973, e vol. II, 1987, pp. 150, dal 1974 al 1985), e i prontuari enciclopedici messi a punto da Phil Hardy nel quadro dell’«Aurum Film Encyclopedia» (The We­ stern, Aurum Press, London 1983, pp. 400), e dal British Film Institute (The BFI Companion to the Western, ed. by Edward Buscombe, con pref, di Richard Schickel, Andre Deutsch & BFI Pubi., London 1988, pp. 432); fallimentare e inutilizzabile invece, per il caos indescrivibile che vi regna, il testo che da ultimo Éric Leguèbe intitola pretenziosa­ mente Histoire universelle du Western, France-Empire, Paris 1989, pp. 383. Segnaliamo ancora che su Ford sono apparse in seguito due monografie, una di Tag Gallagher, John Ford: The Man and his Work, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1986, pp. 572 («fondamentale», secondo la recens. di Guido Fink, in «Cinema e Cinema», XIII, 1986, n. 47, pp. 24-5), l’altra senza troppe pretese, in forma di «sintesi» per temi, redatta da Jean-Loup Bourget, John Ford, Rivages, Paris 1990, pp. 193; che una lettura ultrasimpatetica del fordiano The Searchers dà fuori Jean-Louis Leutrat, John Ford, “La Prisonnière du désert”: une tapisserie navajo, Adam Biro, Paris 1990, pp. 64; e che l’intervista a Ford di Bogdanovich può leggersi ora anche in versione italiana, Il cinema secondo John Ford, Pratiche, Parma 1990, PP- 195.

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3. Gli incantesimi del mago Hitchcock A voler prestare credito alle argomentazioni di alcuni tra i più influenti esegeti di Hitchcock, cominciando con John Rus­ sell Taylor, estensore della sua unica «biografia autorizzata» (1978), sussisterebbe un problema Hitchcock non ancora ve­ nuto criticamente del tutto a chiarezza. Taylor lo imposta fin dall’inizio nella forma del nesso dialettico hegeliano di ‘noto’ e ‘conosciuto’ (senza naturalmente far menzione di Hegel): «Due fatti sono evidenti: ognuno sa chi è Hitchcock, e nessu­ no lo conosce»; ne segue che ufficio ineludibile della critica sarebbe quello di portare il noto a conosciuto, ossia, per un verso, di disvelare e mettere a nudo la personalità nascosta di questo autore dalla fama di ‘mago’, per l’altro di penetrare e far penetrare sin dentro la fucina dove si elaborano gli incante­ simi del suo cinema. Già durante la seconda metà degli anni ’70, subito dopo la comparsa dell’impegnativo — e per tanti versi discusso e discu­ tibile - studio di Raymond Durgnat, The Strange Case of Alfred Hitchcock (Faber and Faber, London 1974, pp. 419), si erano avute le prime avvisaglie di un riorientamento e un ritorno in forza della critica hitchcockiana: pensiamo soprattut­ to alla monografia sull’«arte» di Hitchcock firmata da Donald Spoto (1976) e alle rassegne filmografiche, settoriali o genera­ li, di Maurice Yakowar (per il solo periodo inglese, 1977), di Robin Wood (ried. accresciuta dello stesso anno) e del bino­ mio Harris-Lasky (1976), quest’ultima poi anche «riscritta» in italiano da Natalino Bruzzone e Valerio Caprara (/ film di Alfred Hitchcock, Gremese, Roma 1982, pp. 295). Poco più tardi la morte del regista, avvenuta nell’aprile 1980, dà lo spunto e l’avvio a una pletora di lavori o aggiorna­ mento di lavori provenienti da ogni parte del mondo, ma soprattutto — e non a caso, come vedremo — dalla Francia e dagli Stati Uniti. Senza poter qui dire dell’attenzione che gli riserva dispersamente la pubblicistica, dal dossier della rivista svedese “Chaplin” (XXV, 1983, n. 187) all’articolo su “Sight

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and Sound” (primavera 1985) di Philip French, Alfred Hitch­ cock. The Film-maker as Englishman and Exile, registriamo soltanto, in Francia, l’«edizione definitiva» dell’«intervista ma­ ratona» di 50 ore, risalente nel suo nucleo essenziale al 1967, Hitchcock-Truffaut (con la collab. di Helen Scott, Ramsay, Paris 1983, pp. 311; in italiano col titolo II cinema secondo Hitchcock, trad, di G. Ferrari e F. Pititto, Pratiche, Parma 1985, pp. 315), dove Truffaut induce Hitchcock a rispondere per la prima volta a un questionario sistematico incentrato «sulla sua arte e sugli strumenti della sua arte» (in realtà vi si dibattono quasi esclusivamente questioni tecniche), e i due Hitchcock — da noi non veduti - di Bruno Villien (Ed. Colo­ na, Paris 1984) e Jean Douchet (Ed. de l’Herne, Paris 1985: altra ried. di un testo del ’67); e negli Stati Uniti, l’indagine di Elizabeth Weis sui problemi del sonoro e della musica (The Silent Scream: Alfred Hitchcock’s Sound Track, Fairleigh Dic­ kinson Univ. Press. Rutherford N.J. 1982), la minuta analisi sequenza per sequenza, a opera di William Rothman, di un gruppo di cinque film comprendente The Lodger, Murder!, The 39 Steps, Shadow of a Doubt e Psycho (Hitchcock: The Murderous Gaze, Harvard Univ. Press, Cambridge Mass.-Lon­ don 1982, pp. 371), la monografia completa del gesuita della Loyola University di Chicago Gene D. Phillips, Alfred Hitch­ cock (originariamente apparsa a Boston nel 1984, e poi accolta nella «filmmakers series» dei Columbus Books, Lon­ don 1986, pp. 211), che è una successione cronologicamente ordinata di schede, inclusiva anche dei telefilm del periodo 1954-61, e, sul piano biografico, due lavori assai diversi tra loro: quello pretenzioso e monumentale di Donald Spoto, The Dark Side of Genius: The Life of Alfred Hitchcock (Little, Brown and Co., Boston-Toronto 1983, pp. 584; ed. inglese, Alfred Hitchcock: A Biography, Collins, London 1983), e quel­ lo «dal vivo» - assai più ristretto e modesto - dell’ultimo co-scenarista di Hitchcock, David Freeman, uscito dapprima, nel 1984, a New York e l’anno dopo anche in Inghilterra (The Last Days of Alfred Hitchcock, Pavilion and Michael Joseph, 201

London 1985, pp. 281; ma noi citiamo dall’ed. francese, Les demiers jours d'Alfred Hitchcock, Jade, Paris 1985, pp. 271), con riproduzione in appendice - come ricorda anche il sottoti­ tolo - della sceneggiatura del film progettato ma lasciato irrea­ lizzato da Hitchcock, The Short Hight. Infine, per quanto concerne specificamente il periodo inglese, che Spoto, Roth­ man, Phillips e altri ritengono ingiustamente trascurato da gran parte della critica hitchcockiana (a es., da Robin Wood), sono da ricordare altri due studi che fanno seguito in data recente o recentissima a quello di Yakowar: uno, in Inghilter­ ra, a firma di Tom Ryall (Alfred Hitchcock and the British Cinema, Croom Helm, London-Sydney 1986, pp. 193), l’al­ tro, in Italia, di Annacarla Falconi (Alfred Hitchcock, il perio­ do inglese, Casa Ed. Armena, Venezia 1985, pp. 155), gracile e assai incerto tentativo di «lettura testuale», a guida semiologica, dei film Easy Virtue e Young and Innocent. (Richiami al periodo inglese si incontrano naturalmente anche in testi stori­ ci generali, come il prontuario filmografia) di David Quinlan, British Sound Films. The Studio Years 1928-1959, Batsford, London 1984, pp. 407, o la sezione che, nel quadro della sua storia in più volumi del cinema britannico, Rachel Low dedica agli anni ’30, Film Making in 1930s Britain, Allen and Unwin, London .1985, pp. 453). Questa lunga serie di contributi non riesce per la verità gran che illuminante. Neanche le quasi 600 pagine biografiche di Spoto apportano qualcosa di realmente nuovo. Egli non fa nulla per andar oltre i risultati ottenuti dalla «biografia autoriz­ zata» di Taylor. Del suo predecessore si sbarazza anzi con sorprendente disinvoltura, menzionandolo una sola volta, en passant, come «Hitchcock chronicler»; ma non indulge certo meno al cronachismo una biografia del genere della sua, zeppa all’inverosimile di curiosità, aneddoti insignificanti, pettego­ lezzi di varia natura. Solo qui e là essa presenta squarci episo­ dici di qualche interesse: specialmente dove il sondaggio in chiave analitica della personalità di Hitchcock ne evidenzia la dissociazione tra sicurezza accentatrice nel campo del lavoro e 202

fragilità emotiva sul piano dei sentimenti e del carattere. Gran spreco si fa in compenso, da lui come dagli altri critici statuni­ tensi, dei termini di «genialità» e di «maestria stilistica». Spo­ to ficca il «genio» fin nel titolo del suo libro (The Dark Side of Genius) ; Phillips non ritiene una sopravvalutazione il giudi­ zio di Truffaut, secondo cui «Hitchcock è stato un artista creatore che ha impresso sull’intero corpus della sua opera il marchio inconfondibile della sua propria ideazione e del suo proprio stile»; e in un giudizio analogo, che riassume bene il modo di sentire di tutti, se ne esce Freeman: «Grazie al suo stile inimitabile, il marchio del genio di Hitchcock trasforma­ va 1’“essenza” dello scenario in un film che egli animava pienamente del suo afflato». Se ora dall’estero ci trasferiamo in Italia, vediamo come di questi atteggiamenti acritici, di questi toni esclamativi prossi­ mi al «culto della personalità», la pubblicistica italiana offra un’immagine ingrandita. All’altezza del 1974, in un incredibile profilo di Hitchcock per il «Castoro cinema» della Nuova Italia, Fabio Carlini si autocomplimentava per il «gesto corag­ gioso» di occuparsi del regista inglese, ritratto - lui, nemico dichiarato di ogni impegno — come «un autore che, cosciente sia del suo ruolo sia della realtà contemporanea in cui opera, mostra di percepire chiaramente la dinamica storica». Dopo il boom editoriale internazionale stimolato o favorito dalla morte di Hitchcock, questo «coraggio» da noi lo trovano in parecchi. Rievocazioni, commemorazioni, convegni celebrativi, rasse­ gne, tesi di laurea, fascicoli speciali di rivista non si contano più. Escono, uno dopo l’altro, il fase, di «Cinema e cinema» Hitchcock. La dimensione nascosta (VII, 1980, n. 25-26), i tre dossiers d’omaggio Speciale Hitchcock che gli dedicano la «Ri­ vista del cinematografo» (LUI, 1980, nn. 7 e 8-9), «Cinefo­ nim» (XX, 1980, n. 9) e, a titolo inaugurale della sua breve serie, «Cult Movie» (I, 1980, n. 1), gli “atti” del convegno romano del 1980 «Aprile Hitchcock» (Per Alfred Hitchcock, a cura di Edoardo Bruno, Ed. del Grifo, Montepulciano 1981, pp. 239), gli “atti” del convegno di Fiesole Alfred Hitchcock.

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La critica, il pubblico, le fonti letterarie (a cura di Roberto Salvador!, La Casa Usher, Firenze 1981, pp. 140), il catalogo curato da Sara Cortellazzo, Daniela Giuffrida e Dario Tornasi per la rassegna delTAiace e del Movie Club di Torino Hit­ chcock e hitchcockiani (Torino 1985, pp. 136), e, in occasione di un’altra rassegna, «Filmografìe parallele: Hitchcock e la Nouvelle Vague», organizzata nel marzo-aprile del 1986 dalrUfficio Cinema del Comune di Rimini, la versione italiana a quasi trentanni di distanza dalla sua prima comparsa dell’Hitchcock di Eric Rohmer e Claude Chabrol (a cura di Antonio Costa, trad, di M. Canosa, Marsilio, Venezia 1986, pp. 143), dove l’orientamento formalistico della ricerca, pre­ sente un po’ dovunque nella critica nostrana e estera, è gonfia­ to e spinto all’estremo: «Hitchcock è uno dei più grandi inven­ tori di forme di tutta la storia del cinema [...]. La forma, qui, non abbellisce il contenuto: lo crea. Tutto Hitchcock è racchiu­ so in questa formula». La corsa alla celebrazione diviene ormai incontenibile e inarrestabile. I critici nostrani - ma non i nostri soltanto fanno a gara per superarsi a vicenda in elogi sperticati e incensa­ menti; le commemorazioni, più che doverose, si trasformano in consacrazioni definitive, in esaltazioni senza mezze misure. An­ cora più caratteristico appare il fatto che, dietro la falsa profon­ dità di un linguaggio spesso esoterico, oracolare, astruso, trasu­ di ovunque un astio viscerale per la critica marxista; ovunque si alimenta l’idea della congiura "ideologica’ tramata da essa «Cinema nuovo» in prima fila — contro il cinema di Hitchcock. Difficile tener distinti, a questo riguardo, gli interpreti smalizia­ ti dalla pubblicistica più corriva e conformista. La preoccupazio­ ne è ormai, per tutti, la medesima: sbandierare ben alto il vessillo del disimpegno, confondere a ogni costo la propria voce nel coro unanime - qualunquistico — degli osanna. Quale prez­ zo critico ciò costi appare ai più del tutto secondario; seconda­ rio se nel corso dell’operazione avviene - come più di una volta avviene - che il senso del ridicolo vada smarrito. Scontata l’unanimità di fondo, la fisionomia delle reazioni

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e dei comportamenti conosce tuttavia una gamma variegata di sfumature, delle quali vogliamo qui proporre qualche esem­ pio. C’è chi assume verso la questione un tono distaccato e chi protervo; chi, presi alla lettera Chabrol, Truffaut e soci, alma­ nacca sui capisaldi di una presunta «teoria del cinema» di Hitchcock, suggerendo in tutta serietà confronti con Ejzenstejn o con Pudovkin (lo fa, a es., Callisto Cosulich, in buona compagnia: oltre che dei francesi, di Ryall, di Freeman, della Falconi ecc.); chi (come Morandini, Kezich e altri) recita com­ puntamente la parte del ‘pentito’, del «critico hitchcockiano a scoppio ritardato», e, fatta ammenda dei propri trascorsi, chie­ de l’onore di venir accolto nel «novero degli hitchcockiani»; e chi, non contento ancora di un tale ‘onore’, veste senz’altro i panni del sacerdote dedito al culto del nuovo Dio, - culto cui si officia, non di rado, sotto forma di delirio mistico. Sarebbe sbagliato pensare che stiamo esagerando per gu­ sto di polemica. Non esageriamo affatto. Si leggano solo - per credere — la presentazione di Edoardo Bruno a Per Alfred Hitchcock (una serqua di parole in libertà senza senso comu­ ne) e quella di Bruzzone e Caprara a 1 film di Hitchcock (sublimata dal senso estatico della scoperta, in quei film, di «un epicentro comune, dove etica, metafisica ed estetica fondo­ no ogni reticenza per raggiungere, per così dire, pregnanza solo filmica»!); oppure le uscite libellistico-provocatorie di Enzo Ungati nel fase, di «Cult Movie»: o, nei volumi curati da Bruno e da Salvadori, l’inno all’effimero, hitchcockiano e non, da parte di un Abruzzese comprensibilmente compiaciuto di constatare nell’estetica la crisi «di ogni forma, anzi della possibilità di tracciare e definire la forma»; o le insulsaggini delle tranches de vie melense, zuccherose e ipocrite ammanniteci da Claudio G. Fava, in vena autobiografica, come fossero cose della massima importanza per tutti; o le farneticazioni a sfondo religioso-psicoanalitico di Vittorio Giacci; o i veri e propri deliri linguistici (e mentali) di Ciriaco Tiso, Francesco Salina ecc.; ma anche Fink, Cremonini e gli altri autori dei saggi — tutti mediocrissimi e supponenti — apparsi in «Cinema

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e cinema» sono, quanto a piaggeria conformistica, non molto da meno del gruppo. L’ipoteca della critica francese pesa da noi più che negli Stati Uniti e in Inghilterra. Molta parte della nostra critica non è altro che una parafrasi o una variante encomiastica degli slogan lanciati a suo tempo da Truffaut («Oggi l’opera di Hitchcock ha fatto scuola e ciò è normale poiché si tratta di un maestro»; «L’opera di Hitchcock vivrà più a lungo che qualsiasi altra», ecc.). Ripetendo pari pari questi slogan, essa fa di Hitchcock un maestro del cinema in assoluto, il maestro per antonomasia; secondo Salvadori, anzi, «qualunque sia l’opinione di questo o quel critico, pochi autori oltre Alfred Hitchcock meritano l’appellativo di Maestro». «Sbarazziamoci di pregiudizi già messi fuori uso per altre espressioni artisti­ che; e consacriamo in Hitchcock un genio del pensiero logico e della forma astratta», impongono perentoriamente, da parte loro, Bruzzone e Captar a, spiegando come segue la «grandez­ za» del cinema hitchcockiano: «il fascino inesprimibile (è consentito dire eterno?) dei fondali e degli ambienti, la sinuosa onnipotenza della macchina da presa, l’abilità demiurgica con cui sono diretti attori e comparse [...] rivelano un occhio segreto, pulsante, capace di scavare sino alla profondità del gesto più interiore e di far luce nei contorcimenti delle angosce più assolute. Il suo cinema è esattamente quest’ansia dello sguardo: dove i tagli della luce, l’incalzare del tema musicale, la perfezione della suspense, servono nella discesa agli inferi del subconscio collettivo [...] Il Grande Sogno del suo cinema ci controlla e ci esalta insieme». Salvadori, Ungari, Carlo Montanaro in una delle premesse al libro della Falconi, Fava nelle sue tranches de vie e in tv, Kezich sulla «Repubblica», tutti avanzano, a nome di Hitch­ cock, istanze di «risarcimento» nei confronti della critica. Par­ ticolarmente noi italiani saremmo in debito col maestro, aven­ dogli riconosciuto solo tardi «la statura che merita»; e ciò, al solito, per colpa del «crocianesimo» e della «poetica neoreali­

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sta» (leggi: della critica marxista). Ora, come ci è già capitato di rilevare altra volta, prendendo spunto dall’intervento di Kezich, questo quadro non testimonia di molta dimestichezza né con la cultura né con la storia. Non con la storia, perché storicamente le cose stanno in altro modo; siamo anche qui alla pura e semplice falsificazione dei fatti. Che Hitchcock rappresenti una scoperta di oggi è solo una leggenda alimenta­ ta ad arte, per smania di originalità, dai critici pseudo-novato­ ri. André Bazin ne parlava in Francia, fin dal 1950, come di un autore additato a «vessillo dell’avanguardia cinematografi­ ca attuale»; in Italia egli era un cavallo di battaglia tra i più usati dalla critica formalistica già nel periodo anteriore alla svolta della “revisione critica”; e non risulta proprio che il crocianesimo fosse allora di troppo grande ostacolo al suo lancio o alla sua celebrazione. Ne era semmai, all’opposto, l’alleato naturale, come quello meglio in grado di fornire una base e una giustificazione teorica all’asserto - fatto valere ancor oggi da Kezich come positiva eredità dell’insegnamento di Hitchcock - «che la tecnica più raffinata resta sempre un’ancella della fantasia». Col che facciamo già trapasso dal lato della storia all’altro lato della questione, a quello culturale. Superfluo rilevare la nozione assolutamente vaga, men che scolastica, che tutti co­ storo hanno della dottrina e della personalità di Croce, di fronte al quale in ogni caso stanno - per riprendere un parago­ ne divenuto celebre — come scoiattoli (ma di pianura) di fron­ te a un elefante. Qui ci troviamo infatti, per elevatezza di concetti, pressappoco al livello delle polemiche giornalistiche di Ugo Pirro: secondo il quale, essendo crocianesimo e teoria dell’arte la stessa cosa, il dovere di liquidare l’uno impone automaticamente di gettar via anche l’altra. Kezich e soci fareb­ bero molto bene ad andarsi a rivedere con cura qualche pagina di Croce. Ci imparerebbero certo assai più che non da Hitch­ cock: tra l’altro, a saper distinguere cosa da cosa, storiografìa da divulgazione, critica da pubblicistica, ricerca espressiva da 207

intrattenimento, e a saper ritrovare, dove esiste (non natural­ mente in Hitchcock), l’autentica qualità dell’arte. È paradossa­ le che tocchi proprio a noi dir questo. Riteniamo bensì anche noi che la teoria di Croce, come ogni altra teoria idealistica dell’arte, vada combattuta a fondo e respinta; ma non certo nello stile (con la spocchia) di questa pubblicistica da

strapazzo. Senonché gli equivoci che gravano sull’interpretazione del cinema di Hitchcock non si restringono affatto alla sola cer­ chia italiana. Come risulta dal panorama intemazionale della critica schizzato sopra, essi investono il più generale comples­ so di problemi relativi al cosiddetto «cinema d’autore», ossia teorie, le cui fonti e matrici ideologiche si radicano nel conte­ sto della moderna filosofia borghese, dallo strutturalismo e post-strutturalismo sino all’ermeneutica in generale; Ryall ne parla non senza ragione - per distinguerle da quelle a valenza idealistica — come di «structuralist versions of authorship». Ora, poiché la mentalità astorica e antiumanistica di tutte queste tendenze, per tanti versi a loro volta debitrici di Niet­ zsche e del secondo Heidegger, prendono piede soprattutto in Francia e nei paesi di lingua inglese, Stati Uniti in testa (cfr. quanto se ne è già detto sopra, Vili), è naturale che proprio lì la auteur theory, nell’accezione ultima della formula, trovi più distintamente corpo e si delinei in tratti più netti e definiti. (Solo la Falconi può avere l’ingenuità di credere che la critica statunitense operi, rispetto alla europea, in «maniera più rigo­ rosa e non viziata da questa o quella tendenza»). Vediamone rapidamente le implicazioni per quanto concer­ ne il nostro problema. Via via che dalla considerazione di ciò che la forma è in sé si retrocede alla sfera in cui predomina la mistica del soggetto come mera particolarità individuale, su­ bentra nella valutazione critica uno scriteriato arbitrio formali­ stico; più in generale, sorge la tendenza a una forma di apolo­ getica, per effetto della quale non più che abili artigiani senza genio del cinema di Hollywood vengono trasformati tout court 208

in «autori». Hitchcock può venire addirittura innalzato a mo­ dello di una authorship così intesa. Ogni suo ‘segno’, quale che sia, diventa immediatamente significativo. «Per gli hitchcockiani - aveva osservato con acutezza Amengual nel lontano ’60 - tutto è segno in un film di Hitchcock». La stragrande maggioranza della letteratura critica si inca­ glia proprio su questo punto: quando si tratta di fare un passo oltre la soglia del rilievo puramente semiotico, di capire se, dove, come e in che misura la ‘magia’ di Hitchcock, il suo continuo ricorso - visibile anche in superficie - a incantesimi d’ordine tecnico-linguistico, favorisca un’autentica evocazione. Doti di maestria stilistica (authorship, Hitchcock's touch, ecc.) — lo abbiamo visto - non gli sono negate da nessuno; come per altro queste doti concretamente si esprimano resta nella critica indeterminato. Essa paga fino in fondo lo scotto al mito formalistico della auteur theory : persino Durgnat, che pur cer­ cava, nel 1974, di tenersi a mezzo tra i poli estremi dell’esteti­ smo di «coloro per i quali Hitchcock è un Maestro, ma un Maestro di nulla», e il moralismo dei sostenitori della presen­ za in Hitchcock di una «catarsi» piena di contenuto, finiva poi col ricadere anche lui nella tesi formalistico-apologetica, secon­ do cui «i film meno interessanti di Hitchcock sono altrettanto accurati, strutturati e coerenti dei suoi migliori, la differenza stando non nella struttura, ma nel contenuto che è strut­

turato». Da strutturalista coerente, Durgnat manteneva per altro almeno un vago barlume di consapevolezza circa la problemati­ cità delle conseguenze relativistiche - distruttive di ogni ap­ proccio critico oggettivo - che comporta l’assunzione indiscri­ minata dei princìpi della auteur theory. Questa consapevolezza tende a sparire dalla critica più recente. Studiosi come Spoto, Rothman, Ryall, Phillips, mettono senz’altro da parte ogni relativismo, oppure ne fanno — apologeticamente - uno stru­ mento di difesa in più. L’«indiscutibile genio di Hitchcock, la fonte della sua enorme popolarità», stanno, secondo Spoto,

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proprio nel fatto che egli attinge «così in profondo alla riserva umana di immaginazione e sogno e timore e desiderio, da esercitare un richiamo universale»: «Il mondo onirico di Hitchcock - egli dice - prende in qualche modo forma nelle immagini altamente creative e originali che passano attraverso e oltre le pòrte della sua propria individualità e trovano risonanza in innumerevoli spettatori dei più vari paesi». Rothman basa l’analisi dei cinque film di cui si occupa sull’assunto della loro rappresentatività «for Hitchcock’s authorship as a whole», fa­ cendo di lui senz’altro l’iniziatore e il prototipo del 'moderni­ smo’ nel cinema, l’autore con cui «il cinema raggiunge un’auto­ coscienza moderna»; e se Ryall si ribella contro lo schematismo e la ristrettezza della auteur theory, è solo per far risaltare ancor meglio, dal raffronto di Hitchcock in Inghilterra con il contesto storico della produzione inglese e le convenzioni dei generi filmici, le «doti di individualità» che il suo cinema lascia traspa­ rire. Quanto a Phillips, egli, convinto che il cinema di Hit­ chcock goda delle prerogative di un genere a sé, un po’ come il kafkismo («Hitchcock is as much his own genre as Kafka was his»), gli crea intorno una barriera protettiva che lo rende criticamente inattaccabile dall’esterno. Mago, allora, o genio? Noi siamo tra la sparuta minoranza di coloro che non hanno mai creduto di dover prendere trop­ po sul serio né l’uno né l’altro corno del dilemma. (Ricordia­ mo tuttavia qualche illustre precedente: la clamorosa stronca­ tura degli anni ’30 a opera di Graham Greene, la messa in guardia, fin dal 1949, di Lindsay Anderson circa la scarsa o nessuna «serietà» di Hitchcock come autore, e la prudenza e le riserve della lunga serie di recensioni di Bazin, poi raccolte in una sezione del suo volume postumo Le cinéma de la cruauté, secondo cui l’innalzamento di Hitchcock al rango di mae­ stro «deriva da un’illusione, da un malinteso o da un’appro­ priazione indebita»). Ci sembra gli si attagli al massimo la qualifica — mai d’altronde contestatagli da nessuno, come am­ mette Rothman — di "mago del brivido”, di "master of suspen­

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se”. Né ad alcuno viene lontanamente in mente di contestare che incantesimi spettacolari di varia natura si sprigionino con frequenza dai suoi film. Solo che la letteratura critica non ha mai o quasi mai assunto l’atteggiamento giusto per intenderli e valutarli a dovere. Mancando di distacco, di penetrazione, di una metodologia adeguata, della volontà di dissolvere le neb­ bie del mito, essa non ci porta davvero molto avanti sulla via dell’auspicato passaggio dal ‘noto’ al ‘conosciuto’; anzi, con i suoi esoterismi da setta iniziatica, finisce con l’accrescere ulteriormente l’alone reverenziale che circonda nell’opinione comune la produzione del ‘mago’. Ce ne dà conferma lo stesso Rothman, esponente di primo piano della setta, dove, a conclusione del suo testo, si lamenta che nessuno dei critici statunitensi, tanto meno Taylor, abbia ancora davvero «capi­ to» Hitchcock, restando invece al livello del semplicemente ‘noto’, di una riguardosa ‘ufficialità’. Sbaglieremo, ma i veri incantesimi ci sembrano quelli che Hitchcock esercita sulla critica. Quando quest’ultima capitola di fronte alla seduzione degli incantesimi, quando eleva la seduzione a mito, quando confonde insieme concetti che an­ drebbero tenuti sempre rigorosamente distinti (la popolarità, a es., col genio, o la tecnica con la forma), essa non si mostra all’altezza del suo compito e viene meno, in pari tempo, alle sue responsabilità e alla sua funzione. Funzione primaria della critica è di ammonire, orientare, indirizzare, operare secondo criteri selettivi, sceverare con ponderatezza cosa da cosa. La critica hitchcockiana fa il rovescio. In luogo di orientare, subi­ sce passivamente; in luogo di distinguere, recepisce senza cer­ nita; accetta per valido tutto quanto esibisca - non importa come - il sigillo hitchcockiano; coltiva e alimenta a bella posta la mitologia del genio: pratica insomma non la critica, ma una sorta di pedagogia dell’imbonimento, ossia una funzio­ ne - questa sì davvero deleteriamente ‘ideologica’ - di pura e semplice mediazione del consenso: dove appare in tutta chia­ rezza la resa incondizionata o l’adattamento parassitario di

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questo settore della critica alle tendenze dominanti nell’età della manipolazione capitalistica generalizzata . *

* Dei non molti lavori apparsi successivamente, noi abbiamo vedu­ to solo i quattro seguenti (nessuno dei quali per altro tale da indurci a modificare i giudizi precedentemente espressi): Leonard J. Leff, Hitchcock and Selznick: the Rich and Strange Collaboration of Alfred Hitchcock and David O. Selznick in Hollywood, Weidenfeld & Nicol­ son, London 1988, pp. 383 (cronaca dettagliata del decennio trascorso da Hitchcock al servizio di Selznick, 1938-47: cfr. anche la recens. di Richard Combs, Starving Hitchcock, in “Sight and Sound”, LVII, Sum­ mer 1988, pp. 215-6), Lesley Brill, The Hitchcock Romance: Love and Irony in Hitchcock's Films, Princeton University Press, Princeton N.J. 1988, pp. 296 (particolarmente vacuo e filisteo), Stephen Rebello, Alfred Hitchcock and the Making of “Psycho”, Marion Boyars, LondonNew York 1990, pp. 224 (ricostruzione di taglio prettamente giornalistico) e Christian Braad Thomsen, Hitchcock. Hans liv og film, Gyldendal, K^benhavn 1990, pp. 292 (tributo bio-filmografico a mezzo tra l’ossequioso e il compartecipe). Del gruppo degli incensatori nostrani non si smentisce F. La Polla, che, trattando di Hitchcock nel suo ultimo libro (Sogno e realtà americana, cit., pp. 219-26), lo colloca senz’altro «fra i grandi maestri dogni tempo».

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XV

Miscellanea internazionale

1. Una storia sovietica del cinema sovietico

Non sono davvero molti i testi cui può rivolgersi chi, in Occidente, si voglia documentare intorno alla storia del cine­ ma sovietico, anzi a rigore sono pochissimi: esistono in argo­ mento, che noi si sappia, oltre a vecchi scritti di rivista per lo più occasionali (come i contributi di Pudovkin e della Smirno­ va in «Cinema sovietico» del 1953, quelli di Glauco Viazzi e Virgilio Tosi in «Rassegna sovietica» del 1957-59, il Panora­ ma du cinema soviétique di Marcel Martin, apparso nel 1960 presso la «Collection encydopédique» del «Club du livre de cinema» di Bruxelles, il fascicolo monografico di «Cinema 60» Il cinema sovietico prima e dopo, 1961), solo l’edizione italiana, del 1962, del Cinema sovietico muto di Lebedev, una monografia in svedese di Idestam-Almquist (Rysk Film, Stock­ holm 1962) e la grande Storia del cinema russo e sovietico di Jay Leyda, uscita in inglese nel 1960 e nel 1964, presso il Saggiatore, in traduzione italiana: storia, quest’ultima, come si disse a suo tempo1, fondata su una massa davvero ricca di documenti, ricerche, testimonianze dirette, appunti e stralci dal diario personale dell’autore, vissuto a Mosca per vari an­ 1 Cfr. Una storia del cinema russo e sovietico, in «Cinema nuovo», XIV, 1965, n. 175, pp. 216-8 (rist. in Problemi di teoria e storia del cinema, cit., pp. 289-92).

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ni2. (Non si tiene conto qui dei due informati testi di Jeanne Vronskaya, Le nouveau cinéma soviétique, Paris 1971, e Young Soviet Film Makers, London 1972, che riguardano solo il cinema sovietico dell’età post-staliniana). Con la versione tedesca, dal russo, di un’altra, più recente storia del cinema sovietico (Der Sowjetische Film, a cura di V. Shdan, Henschelverlag Kunst und Gesellschaft, Berlin DDR 1974, 2 voli, di pp. 346 e 454, rispettivamente col sottotitolo «Dalle origini al 1945» e «Dal 1945 al presente»), siamo ora in possesso di un lavoro dove la documentazione è tutta di prima mano. Si tratta di un’opera imponente, affidata a un’équipe di studiosi in cui figurano, come autori, noti storio­ grafi specialisti (A. Grosev, S. Ginsburg, I. Dolinskij, la Smir­ nova, la Tumanova, lo stesso Lebedev), e, come collaboratori, pedagoghi e scienziati dell’istituto cinematografico di Stato dell’URSS (V.G.I.K.); un’opera di vasta ideazione e realizza­ zione, di notevole impegno, con un apparato filmografico di tutto rispetto. È data avvertenza, dal curatore, che alcune parti del testo originale sovietico nella versione tedesca sono state scorciate; non si specifica però quali. Dopo una impegnativa introduzione di carattere teorico, «L’arte del film e la scuola cinematografica sovietica», e un breve capitolo sul cinema nella Russia prerivoluzionaria, il testo passa a illustrare, con abbondanza di particolari, le vicen­ de del periodo sovietico muto: le prime produzioni di propa­ ganda, le linee direttive che nel gennaio del 1922 Lenin dà all’industria cinematografica (e che, a quanto dichiarano gli

2 Altri cataloghi, repertori e storie sono usciti dopo la stesura della presente nota (1976). Segnaliamo in particolare: Luda e Jean Schnit­ zer, Histoire du cinéma soviétique, vol. I, Pygmalion, Paris 1979; Richard Taylor, The Politics of the Soviet Cinema, 1917-1929, Cam­ bridge Univ. Press, Cambridge-New York 1979; Denise J. Young­ blood, Soviet Cinema in the Silent Era, 1918-1935, U.M.I. Research Press, Ann Arbor (Michigan) 1985; The Film Factory: Russian and Soviet Cinema in Documents, 1896-1939, ed. by Richard Taylor with Ian Christie, Routledge and Kegan Paul, London 1988.

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autori, «determinarono per molti anni lo sviluppo successivo» [I, p. 103]), e i grandi risultati del periodo "classico”, quando EjzenStejn, Pudovkin e poi Dovzenko realizzano i loro primi capolavori. Fin qui, si può dire, nulla di nuovo. Gran parte delle pagine dedicate al periodo del muto non sono infatti molto più che un concentrato o un riassunto del già ricordato libro di Lebedev, salvo taluni significativi ripensamenti e mu­ tamenti di giudizio; così certe drastiche liquidazioni di sapore staliniano che si leggevano in Lebedev (nei confronti del pri­ mo Dovzenko, a esempio, o dell’Ejzenstejn della fase del «cinema intellettuale») vengono qui parzialmente corrette o almeno attenuate. Più complesso e delicato il nodo del trapasso al sonoro (nodo che, sia detto di sfuggita, neanche Leyda a nostro pare­ re scioglieva soddisfacentemente). Tra i molteplici problemi di fronte a cui si trova lo storico del cinema sovietico, uno dei principali, se non senz’altro il principale, è proprio quello relativo alla giusta impostazione e delineazione delle vicende del periodo conclusivo della N.E.P. (coincidente all’incirca con l’avvento del sonoro), quando neU’URSS vengono gettate le basi dell’edificazione del socialismo, e col varo del primo piano quinquennale si attua il passaggio dai prodromi dell’in­ dustrializzazione e delle trasformazioni socialiste alla piena realizzazione di un’economia socialista industrializzata e di una agricoltura collettiva. È questo infatti un periodo in cui le grandi personalità creative del cinema sovietico, e in partico­ lare EjzenStejn e Pudovkin, per un insieme di fattori di natu­ ra insieme oggettiva (coercizione a opera dell’apparato burocra­ tico e censorio) e soggettiva (distacco non colmato dal nuovo corso della società sovietica), attraversano una fase critica, di incertezza e disorientamento; le innovazioni che entrambi ten­ tano, a cavallo del sonoro, urtano contro difficoltà oggettive insormontabili, e queste portano alla paralisi o al fallimento dei loro tentativi. Di fronte a un nodo così delicato gli autori della Storia se la cavano troppo a buon mercato. La prima età del sonoro

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viene da essi rappresentata come un corso a flusso unico, senza nessuna cesura drammatica fino alla guerra. Si trovano così a essere messe sbrigativamente da parte questioni decisive come quelle dello stalinismo, della crescente burocratizzazione (tanto nefasta anche per il cinema), del frequente scadimento del «realismo socialista» a un semplice «naturalismo erariale». Sugli intralci censori si sorvola del tutto; al Prato di Bezin di Ejzenstejn, incompiuto per via di tali intralci, si dedica appe­ na una paginetta distratta e asettica [I, pp. 291-92], 171/^sandr Nevskij è confinato con esso nella corrente del film storico [I, pp. 292-4], Fhw il terribile - che pure gli autori giudicano, soprattutto per la seconda parte, «opera singolar­ mente significativa» — è appaiato al Georgi] Saakadze dell’ultrastaliniano Cauteli [I, p. 343], senza la benché minima men­ zione, neanche indiretta, delle note e gravi traversie censorie che gli toccano. Non mancano, è vero, qui come in seguito, per il periodo del dopoguerra, anche osservazioni critiche severe, pertinenti; pensiamo in particolare a quanto vi si dice riguardo alla cosid­ detta «teoria dell’assenza di conflitti» [II, pp. 9-10], al fatto che molti film di tema moderno raffigurano «la realtà sovieti­ ca in modo illustrativo, restrittivo, unilaterale» [II, pp. 27-28]. Ma troppo spesso, e nel complesso, la Storia risuona ancora di ingiustificati accenti trionfalistici, sbandierando con pompa, ostentatamente, progressi e successi, e attribuendone sistematicamente la riuscita - in molti casi del resto più pre­ suntiva che reale — all’applicazione del metodo del «realismo socialista»; quest’ultimo, a sua volta, figura non come tenden­ za fra altre tendenze, ma come tendenza unica, assolutizzata a principio, e contrapposta genericamente alle tendenze borghe­ si-decadenti del «modernismo»: «realismo e modernismo afferma perentoria la conclusione — sono inconciliabili» [II, p. 212]. Schematismi del genere, uniti al tono cronachistico talora un po’ spicciolo dell esposizione (che contrasta singolarmente con la pretenziosità dell’introduzione teorica) e agli altri difetti 216

e inconvenienti critici sopra segnalati, rendono la storia sovieti­ ca certamente inferiore, per livello scientifico, a quella di Leyda. Ma ciò non toglie che la documentazione di prima mano, la ricchezza dell’informazione, i dati dell’apparato filmografico ne facciano un repertorio che, specie a un lettore occidentale, privo di più adeguati strumenti di ricerca, si raccomanda come utilissimo.

2. Le memorie di Joris Ivens * Se si dovesse giudicare dal caso di registi come Luis Bu­ nuel e Joris Ivens, non si finirebbe mai di esprimere consenso e apprezzamento per il valore delle testimonianze autobiografi­ che. Proprio come avviene per Bunuel (cfr. sopra, X), anche l’autobiografia di Ivens costituisce un documento di primaria importanza per la ricostruzione delle tappe essenziali della sua formazione e carriera di regista. È lì infatti che si trova registrato, anzi sbalzato a tutto rilievo, l’episodio dell’incontro da lui avuto con Pudovkin alla Filmliga di Amsterdam nel 1929, subito dopo la realizzazione del Ponte e di Pioggia, incontro che dà un orientamento tutto nuovo - specie per quanto riguarda l’impiego del montaggio - all’attività creativa di Ivens: il quale nel 1930 una prima volta, e poi ancora nel 1932 e nel 1935, si reca di persona nell’Urss per visita e insieme per lavoro, dietro espresso invito dei cineasti sovietici e con l’attiva mediazione, appunto, di Pudovkin. «La visita di Pudovkin nel gennaio 1929 ebbe per me particolare importanza», attesta Ivens; e specifica (con riferi­ mento alla conferenza tenuta da Pudovkin ai soci della Filmli-

* A proposito di Joris Ivens, Autobiografia di un cineasta, con pref. di Virgilio Tosi, trad, di Loredana Rossi, Longanesi, Milano 1979, pp. 231; e di Robert Destanques e Joris Ivens, Joris Ivens o la memoria di uno sguardo, a cura di Giacomo Gambetti, trad, di Salvatore Maddaloni, Ente dello Spettacolo, Roma 1988, pp. 441.

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ga): «Non solo Pudovkin diede ai nostri soci una prima, perso­ nale introduzione ai metodi realistici della regia sovietica, in modo approfondito e indimenticabile, ma, durante il suo bre­ ve soggiorno, riuscì anche a stabilire contatti personali con tutti quelli di noi che facevano del cinema; vide i nostri film e ce ne diede una critica preziosa». Grazie a questa critica, Ivens si inoltra lungo la via di un documentarismo a carattere schiettamente sociale, diventando sempre più col tempo un cineasta militante, battagliero («i miei film sono talvolta avvi­ saglie di tempesta», dichiara con orgoglio), disposto persino a rinunciare, se occorre, alla qualità artistica dei prodotti: «Non si può sostenere in modo dogmatico che ogni film deve rag­ giungere il massimo della qualità artistica. Deve avere soprat­ tutto la qualità, la forza di stimolare gli uomini a pensare al problema trattato nel film, deve costringerli a prendere una posizione. La visione di un film dovrebbe diventare, se possibi­ le, un’esperienza di vita». Quanto effettivamente la critica pudovkiniana influenzi la successiva evoluzione del cinema di Ivens, l’autobiografia oltre che la sua propria attività di cineasta - sta lì del resto a dimostrare. Composta per l’essenziale tra il 1940 e il 1944 negli Stati Uniti, edita prima a stralci, poi per la prima volta sotto forma di libro nel 1969, in lingua inglese, nel 1970 (con Paggiunta di nuovi capitoli) in olandese, e infine nel 1974 in tedesco, essa vede la luce in traduzione, dal tedesco grazie ai buoni auspici e alla collaborazione dell’ufficio cinema del Co­ mune di Modena: dove ha fatto tappa anche la mostra itine­ rante, accompagnata da una retrospettiva, che si è voluta orga­ nizzare in occasione dell’ottantesimo genetliaco del regista e dei cinquantanni della sua attività di lavoro.

Apparso in traduzione italiana poco prima della scompar­ sa, a novantanni, del grande documentarista olandese, l’altro suo libro del 1982 - una silloge di riflessioni autobiografiche che abbracciano l’intero arco della sua vita — rappresenta lo sforzo conclusivo dell’autore per ripensare e talora ritoccare

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criticamente il senso di una così davvero straordinaria espe­ rienza. Nessun regista forse come Ivens si è venuto a incontra­ re tanto da vicino con i grandi avvenimenti storici del nostro secolo; nessuno più di lui si è battuto in tutto il mondo, da «cineasta e militante», per la causa del progresso, per la tra­ sformazione della realtà in senso democratico e socialista. «È esatto dire - ammette lui stesso nelle pagine di introduzione al testo - che io sono vissuto e ho lavorato molto vicino alla storia. Sin dai primissimi anni Trenta mi sono trovato impe­ gnato nella lotta contro il fascismo; appartengo a una genera­ zione che ha avuto molto a che vedere con l’antifascismo, e l’antifascismo era legato al socialismo». Delle difficoltà incontrate in quesa lotta, come delle modi­ fiche intervenute nel suo proprio concetto e modello di sociali­ smo, egli non fa mistero alcuno, riconducendo le une e le altre a irrinunciabili pregiudiziali umanistiche: «Se ho lottato per il socialismo», chiarisce, «è perché me ne sono fatto una certa idea: un socialismo che rispetti l’uomo». Di qui il continuo spostamento della prospettiva, quei suoi sempre nuovi incon­ tri di documentarista con la storia, di cui nel libro offre testi­ monianze a profusione, e che una volta da Pechino, dove si trovava alla fine degli anni ’70, riepiloga così: «Olanda, Bel­ gio, Stati Uniti d’America, Australia, Cecoslovacchia, Polonia, Cuba, Cile, Vietnam, altrettanti luoghi in cui gli uomini lotta­ no contro la miseria, l’ingiustizia e la schiavitù. Il comuniSmo è la punta di diamante di questa lotta, io filmo il comuniSmo. Ieri in Unione Sovietica, oggi in Cina, domani altrove, se ne avrò ancora la forza». Questo è stato Ivens come uomo e come artista. Le due componenti, l’uomo e l’artista, il «cineasta» e il «militante», si danno in lui sempre congiunte, e a questa loro unità giusta­ mente egli tiene. Lungo una serie di capitoli separati e ordina­ ti cronologicamente, l’autobiografia - molto diffusa nella pri­ ma parte, sino all’altezza di Indonesia Calling (1946), più sinte­ tica nella seconda, dagli anni ’50 in poi - ci restituisce, a mo’ di testamento, la reinterpretazione “autentica” della sua perso­ 219

nalità. Purtroppo l’edizione italiana del testo, abborracciata, mal tradotta, approssimativa nelle (rare) note dell’apparato di commento, e anche zeppa di refusi, lascia davvero molto a desiderare.

3. Bergman e la Svezia degli anni 70 Chi voglia scandagliare la situazione cinematografica in Svezia all’altezza degli anni ’70 si imbatte per necessità nel nome di Peter Cowie, da tempo un riconosciuto esperto del cinema scandinavo (segnatamente svedese). Non si conta il numero di scritti (libri, saggi, note, cataloghi, opuscoli, reper­ tori) che rappresentano il frutto delle sue cure in argomento. Al lungo elenco dei suoi titoli di merito si va con gli anni ’70 ad aggiungere il varo di una ‘collana’, «Film in Sweden», patrocinata dall’istituto cinematografico svedese di Stoccolma, e che Cowie dirige, insieme con Jóm Donner, per la Tantivy Press di Londra e l’editore A.S. Barnes di New York. La ‘collana’ si inaugura con un volume in cui Stig Bjòrkman, anch’egli, come Donner, regista oltre che critico, si occupa dei «nuovi registi» svedesi suoi colleghi (Film in Sweden. The New Directors, trad. ingl. di B. Selman, 1977, pp. 127). Risul­ ta da esso come il fenomeno del nuovo cinema sia strettamen­ te legato in Svezia a quella riforma legislativa del 1963, ritoc­ cata nel 1972, che prevede adeguati meccanismi statali di finanziamento per la produzione. «La riforma cinematografi­ ca», scrive Bjorkman, «ha significato un passo avanti, una sorta di riconoscimento ufficiale del cinema come forma d’arte e un tentativo di rivitalizzare un’industria che era scivolata in uno stato più o meno acuto di crisi e che — con qualche eccezione - si era distinta per un solo artista noto internazio­ nalmente, Ingmar Bergman». Con la riforma prende corso un rivolgimento in profondo del cinema svedese. Nel decennio immediatamente successivo ad essa la produzione cresce in quantità e qualità; viene realiz­

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zata una media di trenta film per anno (che scende però intorno alla quindicina con l’inizio degli anni ’70) e circa sessanta nuovi realizzatori fanno il loro debutto. Anche le forme di produzione, i metodi creativi, gli orientamenti muta­ no. In luogo della chiusa e soffocante atmosfera dei film girati in studio, e del loro mondo fasullo, puramente artificiale, subentra la tendenza a un maggior avvicinamento ai problemi reali quotidiani degli uomini. Iniziatore di questa tendenza, e uomo chiave della svolta verso il nuovo cinema, è Bo Widerberg, alla cui attività Bjòrkman dedica il primo capitolo del suo lavoro. Gli altri nove trattano, nell’ordine, di Vilgot Sjoman, Kjell Grede, Jan Troell, Jonas Cornell, Jan Halldoff, Mai Zetterling, Johan Bergenstràhle, Roy Andersson e Lasse Forsberg, passandone in rassegna con accuratezza le realizza­ zioni principali. Personalmente allo stesso Cowie si deve poi il secondo volume della ‘collana’ (Film in Sweden. Stars and Players, 1977, pp. 128), catalogo ragionato delle principali personalità del cinema svedese nel campo della recitazione. «Players», in realtà, assai più che «stars»; attori, non «stelle» o «divi». Perché, come sottolinea giustamente l’autore, il cinema svede­ se non conosce, o conosce appena, il fenomeno del divismo. Molto certo si è scritto intorno a personalità di fama interna­ zionale come Greta Garbo o Ingrid Bergman o anche, più recentemente, Liv Ullmann; ma poco, troppo poco, su inter­ preti che, se sono meno famosi (Cowie fa, a titolo d’esempio, i nomi di Inga Tidblad, Maj-Britt Nilsson, Gunnar Bjòrnstrand), non sono per questo meno meritevoli. Il catalogo in parola intende rimediare a questa incongrua situazione. Operando una scelta volutamente ristretta a una piccola rosa di nomi, esso offre — dopo un capitolo introdutti­ vo sulla «grande tradizione» del periodo classico - un campio­ nario di ritratti di attrici e attori (dalla Nilsson a Èva Dahlbeck, a Bibi e Harriet Andersson, ad Agneta Ekmanner, per le attrici, e per gli attori, Bjòrnstrand, Malmsten, Olin, Joseph-

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son, Oscarsson, Berggren, Max von Sydow3 ecc., aventi que­ sta nota in comune: che «essi tutti permettono di guardare a fondo nel carattere svedese e — per estensione — nella tradizio­ ne teatrale e cinematografica del loro paese». Si badi bene a una circostanza: quella dell’incidenza che su molti di costoro ha avuto, per un verso o per l’altro, Ingmar Bergman. Come di lui quasi tutti i «nuovi registi», da Widerberg in poi, fanno un polo costante di riferimento e di confronto polemico, così non ci sono quasi attrici o attori svedesi la cui carriera non dipenda da Bergman o che, a carriera già fatta (è il caso, a es., della Dahlbeck), non si siano incontrati almeno una volta con lui. Malmsten costituisce una presenza costante nel cinema del giovane Bergman, dal 1946 sino a tutto il 1952; Ie due Anders­ son, la Ullmann, Josephson e altri gli debbono il loro lancio nazionale e internazionale; Bjornstrand ne parla come del «miglior regista» da lui mai incontrato. Sarebbe perciò un errore credere che le vaste e profonde trasformazioni intervenute nel corso di sviluppo del cinema svedese dopo la riforma del 1963-72 abbiano finito col mette­ re Bergman da parte. Non lo mette da parte la produzione, né lo trascura affatto l’editoria. Se da noi incontra evidente favo­ re presso i lettori la pubblicazione dei suoi scenari, che conti­ nua a buon ritmo, in patria e fuori egli è ancora sempre fatto oggetto di attenta considerazione da parte della storiografia. L’interesse critico che per Bergman si nutre negli Stati Uniti è testimoniato dalla raccolta di saggi Ingmar Bergman. Essays in Criticism (ed. by Stuart M. Kaminsky with Joseph F. Hill, Oxford University Press, London-Oxford-New York 1975, pp. 340), messa insieme col doppio criterio di fornire, da prospettive diverse, uno sguardo d’insieme sulla figura di Berg­ man e un’indagine critico-analitica dei più importanti dei suoi film. L’intento che la sorregge e la guida è primariamente 5 Per un più completo profilo del quale ultimo si veda ora, di Cowie, Max von Sydow from “The Seventh Seal" to “Pelle the Conque­ ror", Ed. Chaplin, Stockholm 1989, pp. 87.

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analitico, non valutativo: «ci siamo affidati - dice il curatore, Kaminsky - al concetto di una critica non-valutativa [...]. Noi crediamo che una critica valida venga dall’analisi, non da asser­ zioni di qualità». Benché vi si trovino inclusi, insieme con uno scritto di Bergman già tradotto anche in italiano, e con una interessante intervista al regista, testi di molti noti critici bergmaniani, come Jòrn Donner, Robin Wood, Vernon Young, la Sontag, la Steene ecc., non tutto appare soddisfacente nella raccolta: non lo sono, in particolare, i testi a matrice spiritualistica dei gesuiti Richard A. Blake e Gene D. Phillips, rispettivamente dedicati ai «temi sessuali» e al problema di Dio in Bergman; non lo sono le pagine — entusiastiche all’eccesso - di Robin Wood su Persona, salutato «come uno dei più coraggiosi film mai fatti», e che segnerebbe per Bergman «non solo una nuo­ va fase nel suo sviluppo, ma una nuova estensione del suo genio, un’ulteriore dimensione»; né molto più convincenti ci paiono le argomentazioni mediante cui lo stesso curatore, af­ frontando il «tema dell’innocenza giovanile e della possibile redenzione dell’amore», cerca di sostenere la vecchia tesi che in Bergman l’«innocenza perduta», il male che necessariamen­ te sottentra col farsi adulto dell’uomo, si redime appunto «nel­ l’accettazione dell’amore»: ciò che gli permette di vedere e cogliere un lato solo - e nemmeno il più importante - della complessa problematica sviluppata in proposito da Bergman. Equivoci non dissimili, e un’impostazione spiritualistica altrettanto angusta e monca, si riscontra nella monografia bergmaniana, tradotta dall’inglese in francese, di uno dei collabo­ ratori della rivista dei gesuiti francesi «Études», John J. Michalczyk (Ingmar Bergman ou la passion d'etre homme aujourd'hui, Beauchesne, Paris 1977, pp. 224), che del resto al citato saggio di padre Phillips rinvia esplicitamente. «Le intui­ zioni spirituali e metafisiche di Bergman - egli scrive - si evolvono a poco a poco, proprio come le sue credenze in Dio e nell’uomo [...]. I suoi doni di visionario gli svelano le profon­ dità dell’anima umana. Come un profeta del Vecchio Testa­

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mento, il regista si fa araldo di un messaggio la cui ampiezza gli sfugge in parte quando getta uno sguardo retrospettivo sulla sua arte». Secondo questa «interpretazione cristiana» di Bergman, infatti, la «sete del trascendente» si manifesta in lui costantemente, persino a sua insaputa, persino in quelle opere della sua fase ultima che appaiono contrassegnate da una netta svolta verso l’immanenza; mentre anche per Michalczyk, co­ me per Kaminsky (e per molta altra parte della critica bergmaniana, non solo a matrice spiritualistica), «la chiave di Berg­ man per risolvere il problema del senso della vita era e resta pur sempre Vamore». Amore, religione, morte e gli altri temi cui l’autore si riferisce (la «solitudine», a esempio, o la «non­ comunicazione», o anche il «tema del viaggio», cioè l’idea presente tanto «nella prospettiva giudaico-cristiana» come nel senso comune che «l’uomo è in cammino verso una meta») sono bensì certo temi genuinamente bergmaniani; ma che ri­ schiano di smarrire significato quando siano assunti, come qui, a categorie metafisiche, prive di qualsiasi congiunzione storica concreta con la società e la realtà donde Bergman muove. Per questo non pensiamo di sbagliare asserendo che il libro forse più importante su Bergman uscito internazional­ mente nell’ultimo ventennio è un libro proveniente dalla Sve­ zia, a firma di Maria Bergom-Larsson, che ne individua, ne ricostruisce e insieme ne denuncia fin dal titolo l’«ideologia borghese» {Ingmar Bergman och den borgerliga ideologia PanNorstedts, Stockholm 1977, pp. 188; trad, inglese di Barrie Selman, nella ‘collana’ di Cowie e Donner «Film in Sweden», col titolo Ingmar Bergman and Society, The Tantivy Press and A.S. Barnes, London-South Brunswick-New York 1978, pp. 128, purtroppo priva degli importanti paragrafi iniziali: cfr. anche sopra, V, nota 3). Proviamo a riassumere quelli che del libro ci sembrano i punti di forza, i suoi motivi di maggior rilievo. Uno soprattutto: l’intento di rintracciare la genesi dei tratti avanguardistici del cinema di Bergman (pessimismo, sog­ gettivismo, irrazionalismo ecc.), oltre che nella sua personale

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posizione di classe, nella peculiare situazione storica della Sve­ zia del dopoguerra, nella specificità delle forme che vi assumo­ no le contraddizioni della società borghese. «Il suo soggettivi­ smo è in tal modo rappresentativo di certa coscienza borghese europea durante una fase di crisi della società tardo-capitalistica», afferma risolutamente l’autrice; sottolineando per altro, in pari tempo, anche gli influssi che Bergman viene subendo dal clima e dalle tendenze, inclini al fatalismo, della cultura del suo paese negli anni ’40, e ancora da Strindberg, da Hjal­ mar Bergman, da Par Lagerkvist, «ossia dalle tradizioni espressionistiche della letteratura svedese». Il tema della strut­ tura patriarcale e autoritaria della famiglia, quello della posi­ zione dell’artista di fronte alla società e quello del conflitto, della dicotomia, tra mondo interno dei sentimenti e mondo sociale, sono i tre grandi temi centrali del cinema di Bergman su cui l’autrice si sofferma. Certo può darsi che abbia almeno parzialmente ragione Ana Maria Narti quando, in una recensio­ ne per la rivista di Stoccolma «Chaplin» (n° 150, marzo 1977), si lamenta dell’eccessiva astrattezza delle analisi della Bergom-Larsson e conclude che analisi del genere - così forte­ mente caratterizzate in senso psicologico-sociale - restano su un piano troppo teorico per riuscire convincenti. In fondo Bergman è un regista, un creatore di film e non un creatore di teorie, obbietta l’autrice della recensione all’autrice del libro; la quale ultima sembra però, dal canto suo, tutfaltro che inconsapevole del pericolo cui il libro va incontro, se inizia dichiarando che «Ingmar Bergman e l'ideologia borghese può apparire un titolo disadatto per uno studio dell’arte cinemato­ grafica di Bergman». E le complesse argomentazioni che poi vi svolge smentiscono realmente in pieno, noi crediamo, que­ sta falsa apparenza.

4. Altri contributi alla storia del cinema svedese

Una Svezia fuori dal mito? Rispetto soltanto a tre o quat­ tro decenni or sono, la fisionomia degli studi di storia del

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cinema svedese ha subito profonde modifiche. Molti dei miti che circondavano le origini e il primo sviluppo di quel cinema si sono dissolti; molte pregiudiziali, molte esaltazioni inconsi­ derate, apparse senza fondamento, sono venute a cadere. Nel­ la più recente storiografia figure di «classici» quali Victor Sjòstròm e Mauritz Stiller non troneggiano più miticamente come in passato4. Quanto a Bergman, egli continua bensì a godere di una rilevante fortuna critica sul piano sia saggistico che monografico, ma anch'egli in forme e in toni ora meno esasperatamente apologetici del passato. C'è verso tutti costo­ ro - come pure verso un’altra gloria un po' in sottordine del cinema svedese moderno, Alf Sjoberg - un mutato spirito critico, un atteggiamento di maggior cautela e circospezione. Già è abbastanza caratteristico che, dopo l'infelice profilo di Sjòstròm tracciato dai critici francesi René Jeanne e Char­ les Ford nel 1963, nient’altro di specifico sia più apparso su di lui in Europa (e negli Stati Uniti solo la ricerca estremamente smilza e settoriale di Hans Pensei, Seastrom and Stiller in Hollywood. Two Swedish Directors in Silent American Films 1923-1930, Vantage Press, New York-Washington-Holly­ wood 1969, pp. 106)5 fino all’imponente monografia che gli 4 Non è d’altronde una pura coincidenza se tre libri come quelli messi insieme da Hans-JOrgen Hube, (Film in Schweden, Henschel verlag, Berlin DDR 1985, pp. 185), da Peter Cowie (Swedish Cinema from “Ingeborg Holm” to “Fanny and Alexander”, The Swedish Institute, Stockholm 1985, pp. 160) e da Brian McIlroy (World Cinema, 2: Sweden, Flicks Books, London 1986, pp. 184), che si propongono di dare solo una scorsa divulgativa a tutto lo sviluppo del cinema svedese, si concentrano poi tutt’e tre, per oltre metà, su quanto è avvenuto e sta avvenendo in esso a partire dagli anni ’60: cioè a dire da quando, nel 1963, la fondazione dell’istituto svedese del cinema (Svenska Filminstitutet) ha permesso un rilancio controllato della produzione nazionale. 5 Cfr. quanto se ne è detto in «Cinema nuovo», XX, 1971, n. 210, p. 137 sgg. (poi in Problemi di teoria e storia del cinema, cit., pp. 284-5). Una buona documentazione sull’apprendistato di Sjòstròm e Stiller, e più in generale sul cinema svedese delle origini, fino al 1918, offre ora il catalogo Schiave bianche allo specchio. Le origini del cinema in Scandinavia (1896-1918), a cura di Paolo Cherchi Usai, Ed. Studio Tesi, Pordenone 1986, pp. 549.

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dedica il connazionale Bengt Forslund, Victor Siòstròm. Hans liv och verk (Bonniers, Stockholm 1980, pp. 421 con somma­ rio in inglese): monografia subito segnalata e particolarmente raccomandata, in una recensione a firma di Jarl Torbacke, dalla rivista svedese «Chaplin» (n° 172, 1981, pp. 41-2), di cui d’altronde Forslund è stato il fondatore e per vari anni il direttore. Giustamente il recensore sottolinea come lo svolgimento della ricerca e la disposizione della materia ubbidiscano in Forslund a un criterio «strettamente cronologico». La biogra­ fia dell’autore-attore vi è indagata infatti paratamente nelle sue successive fasi di sviluppo, pur se, come è inevitabile (e voluto), l’accento cade in prevalenza sulla carriera di Sjóstròm come autore: dal fulgore delle sue realizzazioni del periodo intorno al 1920 — in specie Kòrkarlen (Il carretto fantasma), che anche Forslund considera a ragione il suo capo­ lavoro - sino al declino del periodo hollywoodiano. Sono da segnalare, tra i capitoli particolarmente rilevanti del volume, quelli che trattano dei rapporti di Sjòstrom con Selma Lager­ lof ( 1917-21), da un cui romanzo viene il soggetto del Carret­ to fantasma', col commediografo Hjalmar Bergman, che collabora per qualche anno (1919-23) ai suoi film come scenarista; e con Ingmar Bergman, da lui protetto e aiutato fin dall’epoca degli esordi, all’altezza di Kris (Crisi, 1945), e dei cui film più tardi diviene anche interprete: nel ruolo di un direttore d’or­ chestra in Till glàdje (Alla gioia, 1949), come protagonista in Smultronstàllet (Il posto delle fragole, 1957), ultima sua fati­ ca in assoluto prima della morte (3 gennaio 1960). Bergman non ha mai del resto fatto mistero dei debiti contratti nei confronti del maestro. In più scritti e interviste parla di lui in toni di estrema ammirazione, come del «padre spirituale di tutta la scuola svedese» o, addirittura, come di «uno dei più grandi cineasti di tutti i tempi». Forslund, che lungo tutto il lavoro maneggia fonti primarie di notevole im­ portanza, quali a es. gli scambi di lettere di Sjòstrom con la moglie e col Bergman commediografo, si avvale di una lunga

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intervista personale avuta con Bergman nell’autunno 1979 per ribadire il peso decisivo dell’influenza su Bergman di Sjóstròm: «I suoi film - gli confessa il regista (come aveva già confessato in passato a Jean Béranger, al trio di connazionali Bjorkman, Manns e Sima, e a altri intervistatori ancora) hanno avuto un enorme significato per me, soprattutto II car­ retto fantasma e Ingeborg Holm». È questo naturalmente un punto ben presente anche alla letteratura critica bergmaniana. Vi accennano a esempio, sia pure di sfuggita, due delle monografie su Bergman uscite nello stesso torno di tempo del Sjòstròm di Forslund: autori il francese Denis Marion (Ingmar Bergman, Gallimard, Paris 1979, pp. 191) e l’italiano Alfonso Moscato (Ingmar Bergman. La realtà e il suo “doppio”, con presentazione di G. Gambetti, Edizioni Paoline, Torino-Roma 1981, pp. 165). Si tratta per altro, in entrambi i casi, di cose di poco conto e di corto respiro, che non meritano certo ci si diffonda qui in un lungo discorso6. Di Bergman vi sono esaminati, molto brevemente, carriera, stile e temi principali (problema di Dio e del male, pessimismo, erotismo ecc.), senza che si vada mai oltre la determinazione di quel clima di «ateismo religioso», da cui Moscato ricava incongruamente, deformando o forzando i te­ sti, una prospettiva spiritualistica. Ma si può davvero dire che «urge nell’artista Bergman la problematica soprannaturale»? che c’è in lui un’«insorgenza del sacro»? o, peggio, asserire s Per le fonti di Bergman, sia cinematografiche che letterarie, sono invece importanti i testi di Donner, Cowie, Aristarco, Gado e dei due Marker da noi già menzionati sopra (cfr. V, note 3-6; e sulla biografia di Cowie, anche «Cinema nuovo», XXXIII, 1984, n. 289, pp. 48-9); riguar­ dano quelle religiose la tesi di dottorato di Richard Blake, The Lutheran Milieu of the Films of Ingmar Bergman, Northwestern University, Evan­ ston Ill. 1972 (poi edita a New York 1978), e, di Hans Nystedt, Ingmar Bergman och kristen tro, Verbum, Stockholm 1989, pp. 171 (che si sforza di trascinare Bergman direttamente sul terreno confessionale). Più ampi e dettagliati particolari bibliografici in Birgitta Steene, Ingmar Bergman: A Guide to References and Resources, G.K. Hall, Boston 1987, pp. 342. È ora uscita una messa a punto personale da parte dello stesso Bergman, Bilder, Norstedts, Stockholm 1990, pp. 438.

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che, «Io sappia o no, Bergman raggiunge il nocciolo del mes­ saggio cristiano»? L’«ateismo religioso» - non contestato né da Marion né da Moscato — sta lì a provare che vale per lui semmai proprio il contrario. Curiosa inoltre, in entrambi gli autori, la sottovalutazione degli esiti stilistici conseguiti dal regista. Moscato ritiene «difficile citare un film decisamente ‘bello’ di Bergman»; Marion perviene, nel capitolo sullo stile, a questa sorprendente conclusione: «Non c’è uno stile di Bergman, come c’è uno stile di Orson Welles, di René Clair, di Visconti, tra gli altri, ma diversi stili adottati volta per volta. In compenso, esiste un universo bergmaniano». Un gradino qualitativo al di sotto di Bergman sta Alf Sjòberg, l’autore di Hets (Spasimo, 1944) - dove Bergman debutta come scenarista - e di Fròken Julie (La signorina Giulia, 1951), scomparso nel 1980. Dopo aver realizzato nel 1929, appena ventiseiènne, Den starkaste (La più forte), all’ini­ zio degli anni ’30 Sjòberg diviene primo direttore del Dramaten, il Teatro reale drammatico di Stoccolma, imponendosi con l’attività che' vi svolge nel decennio successivo come uno dei maggiori registi teatrali del paese. Gli anni ’40, quando torna al cinema, segnano il periodo della sua più intensa creati­ vità; dei diciotto film da lui complessivamente realizzati, la metà esce durante gli anni compresi tra il 1940 e il 1949. Del 1951 è il suo capolavoro, la già citata Signorina Giulia, da Strindberg, un film che dischiude il mercato mondiale al cine­ ma svedese. Subito dopo, con Barabbas (1953), comincia per lui il periodo dei rovesci finanziari e della decadenza, sino al suo ultimo prodotto, Fadern (II padre, 1969), anch’esso da Strindberg. Questi i tratti essenziali di una carriera che, per la sua tesi di laurea, ripercorre con grande passione, scrupolo e acribia il dottor Gunnar Lundin dell’istituto per la ricerca drammatica dell’università di Lund. La tesi porta il titolo di Filmregi Alf Sjoberg (Wallin och Dalholm, Lund 1979, pp. 243 con som­ mario in inglese) e consta di un capitolo storico introduttivo, di una «lettura ravvicinata» dei singoli film del regista e di 229

un’analisi delle «costanti» - tematiche e formali - che vi si rinvengono: tematicamente, in particolare, l’«idea fissa» - ri­ badita più volte da Sjòberg anche nei suoi interventi teorici «secondo cui l’essere umano soffre di un’estraneazione». È subito da notare, con l’autore, come il termine «estraneazio­ ne» abbia qui un senso soltanto psicologico, non sociale: «L’alienazione, dice Sjòberg, ha la sua radice nel fatto che l’esistenza e le norme sono in continua trasformazione. Nel linguaggio di Sjòberg l’alienazione non diventa mai uno stru­ mento analitico materialistico. Invece il concetto si rapporta a una prospettiva psicologica - si tratta in fondo di un determi­ nato modo di sentire - indipendentemente da contrasti di classe. Tutti quanti soffrono». Che i contrasti di classe, la guerra ecc. entrino poco o nulla in questa concezione esisten­ zialistica dell’alienazione ha per effetto che il mondo descritto da Sjòberg è nel dopoguerra, dal 1946 in poi, anche più cupo e caotico di prima; anche qui la conquista della libertà dell’in­ dividuo si riduce sempre a una questione strettamente persònale. Quanto poi al presunto «espressionismo» dei film di Sjò­ berg, l’autore ritiene che la definizione non colga nel segno, poiché — sottolinea nelle pagine conclusive - sussistono bensì in essi analogie superficialmente formalistiche (luministiche, compositive ecc.) con l’espressionismo, ma non con la sua essenza e consistenza storica, con la sua concezione del mon­ do: «Con la concezione del mondo spesso assai profondamen­ te conservatrice che caratterizzava la produzione cinematografi­ ca tedesca degli anni venti i film di Sjòberg hanno pochi punti in comune». È un peccato - e un limite del testo — che Lundin si interessi soltanto all’attività di Sjòberg come regista filmico, senza dir nulla o quasi nulla della sua attività di regista teatra­ le, che pure forma con l’altra un complesso intrecciato e inscin­ dibile. Si pensi in particolare ai suoi due film da Strindberg, La signorina Giulia e 11 padre, realizzati entrambi immedia­ tamente dopo la loro rispettiva messa in scena al Dramaten di Stoccolma, e dove il regista viene con tutta evidenza mettendo

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a frutto, da interprete di alta classe, la ricca esperienza teatrale strindberghiana così acquisita. Cronologicamente a mezza strada tra il muto svedese «clas­ sico» di Sjòstròm e l’età del fonofilm, illustrata da Bergman e Sjòberg, si situano infine due altri volumi provenienti dalla Svezia: un’analisi della cinematografia svedese durante la se­ conda guerra mondiale, che dobbiamo a Jan Olsson (Svensk spelfilm under andra vàrldskriget, LiberLàromedel, Lund 1979, pp. 256 con sommario in inglese), e la prosecuzione della gigantesca filmografia patrocinata e realizzata dall’istitu­ to svedese del cinema, sotto la supervisione generale di Lars Ahlander, di cui, dopo il III e il VI volume, dedicati rispetti­ vamente agli anni ’30 e ’60, è apparso il volume IV, sugli anni ’40 (Svensk filmografi, IV: 1940-1949, Svenska Filminstitutet, Stockholm-Uppsala 1980, pp. 888)7. Circa la qualità di quest’ultimo volume della filmografia — catalogo o repertorio completo di quanto si è fatto nel cinema svedese del decennio in parola, preceduto da un saggio intro­ duttivo del noto storico del cinema Gèsta Werner — non c’è che da ripetere quanto già detto in occasione della comparsa dei due volumi precedenti: che cioè la cura della composizio­ ne, la ricchezza dei dati statistici e dell’apparato di commento, la minuzia degli indici (per titoli di film, nomi di autori, collaboratori e critici, case di produzione, argomenti) ne fanno senza dubbio un utilissimo strumento di consultazione; ben più utile, nonostante la sua apparentemente dimessa veste fimografica, di tanti pomposi testi che si fregiano del titolo di storie del cinema. Intervallate all’elenco filmografico vi si leg­ gono, tra l’altro, pregevoli note critiche; così quella che Hugo ’ La serie è stata frattanto completata con l’uscita, nell’ordine, di Svensk filmografi, 111. 1930-1939 (1979, pp. 519), II: 1920-1929 (1982, pp. 423), V: 1930-1939 (1983, pp. 916), I: 1897-1919 (1986, pp. 465) e VII: 1970-1979 (1989, pp. 567). Da ricordare anche le ricerche promosse dalla Fondazione Lauritzen nel campo della teoria e della storia del cinema: Svensk filmforskning, a cura di Gòsta Werner, Norstedt, Stockholm 1982, pp. 227.

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Wortzelius dedica al giovane Bergman degli anni ’40 (Ber gman i backspegeln, pp. 716-20). Più circoscritto il campo della ricerca di Olsson (accolta per vero in Svezia con qualche riserva: si veda la recens. di Lars Niléhn, in «Chaplin», n° 170, 1980, p. 230). Questi, dopo aver fornito un quadro delle strutture produttive della cinematografia svedese degli anni della guerra, ne sottopone a esame le tematiche, mettendole in rapporto con la linea incerta, contraddittoria e dapprima anche vergognosamente debole nei confronti del nazismo - cui ubbidisce la politica estera del paese nel medesimo periodo. Solo verso la fine del 1943, quando già si profila allorizzonte la disfatta nazista, sopravviene in politica e, di riflesso, nel cinema qualche muta­ mento in meglio; ma, nonostante la maggior liberalizzazione censoria, resta ancora preclusa ai cineasti svedesi la possibilità di un’analisi degli effetti della guerra in termini politici. Entro tale difficile situazione vengono a trovarsi e a muo­ versi registi di talento quali Anders Henrikson, Gustaf Molander, Hasse Ekman e lo stesso Sjòberg, tutti alle prese con quello che, in riferimento a Sjòberg, Olsson chiama il «dilem­ ma della neutralità». Rinviando per una più ampia trattazione dell’attività cinematografica di Sjòberg al libro di Lundin già da noi sopra presentato, l’autore ne discute qui la sola produ­ zione bellica, da Med livet som insats (A rischio della vita, 1940) sino a Spasimo e a Resan bori (Partenza, 1945). La restante e più cospicua parte del volume si occupa dei cinque cosiddetti «film dell’occupazione» (perché incentrati intorno al tema delle conseguenze dell’occupazione nazista dell’Euro­ pa), due dei quali firmati da Molander e uno da Ekman. Impossibile o, almeno, ingiustificato trarre da così pochi esempi una conclusione. Di fronte a questa produzione storio­ grafica minore, come rispetto a quella maggiore, l’interrogati­ vo posto in apertura - una Svezia fuori dal mito? - resta più che mai d’obbligo. Ma nel complesso ci sembra che luna e l’altra vadano nel senso di confermare quella tendenza alla smitizzazione cui là appunto si accennava.

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5. Cinema spagnolo: le metamorfosi del dopo Franco Non occorre certo ricordare come sotto il regime franchi­ sta il cinema spagnolo soffrisse dei limiti derivantigli da un ferreo protezionismo statale, un’autarchia quasi completa e una sorveglianza censoria molto rigida. Solo dopo la morte di Franco, con l’entrata in funzione della nuova regolamentazio­ ne per la cinematografìa (1977), esso conosce una svolta nel senso della liberalizzazione: «A partire dalla scomparsa fisica del dittatore, in un mondo circostante che cerca, persegue e lotta per ottenere le libertà democratiche», sottolineava una storia cinematografica per saggi - affidati a vari autori — di qualche anno fa (Cine espanol 1896-1983, a cura di Augusto M. Torres, Ministeri© de Cultura, Madrid 1984, pp. 436), «il cinema spagnolo si sforza di recuperare e occupare il terreno perso e ceduto durante i precedenti decenni di restrizione». È principalmente sulla messa in chiaro delle metamorfosi intervenute in seguito agli anni cruciali della svolta, e dei contrasti tra prima e dopo, che si concentra l’attenzione della più recente letteratura critica relativa al cinema spagnolo8. Segnaliamo anzitutto la meticolosa ricostruzione storica di Emmanuel Larraz (Le cinéma espagnol des origines à nos jours, con pref. di L.G. Berlanga, Ed. du Cerf, Paris 1986, pp. 337), che pure si sofferma a lungo su quanto precede la svolta e fa del dopo Franco solo l’ultima delle quattro tappe in cui suddi­

8 Al gruppo di testi dei quali si parla qui di seguito vanno ora aggiunti anche i «profili» di Ronald Schwartz, Spanish Film Directors (1950-1985): 21 Profiles, The Scarecrow Press, Metuchen (N.J.)-London 1986, pp. 253; i due ‘dossiers’ su Le cinéma espagnol di “Positif’, n. 304, giugno 1986, pp. 27-64, e n. 324, febbraio 1988, pp. 34-52 (con contributi di rilievo, il primo, da parte dei due curatori, Jean-Pierre Jeancolas e Paulo Antonio Paranagua, e il secondo da parte dello stesso Paranagua); e soprattutto il concentrato ma culturalmente ben fondato schizzo storico di Virginia Higginbotham, Spanish Film under Franco, University of Texas Press, Austin 1988, pp. 160 (che, nonostante il titolo, si diffonde a lungo anche sul cinema anti e post-franchista, dal 1960 in poi).

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vide la storia del cinema spagnolo; e poi, con riferimento più specifico al tema indicato, ma non senza anche qui previo sguardo all’indietro, le due monografie a firma di Peter Besas {Behind the Spanish Lens: Spanish Cinema under Fascism and Democracy, Arden Press, Denver Colorado 1985, pp. 291), e di John Hopewell (Out of the Past. Spanish Cinema after Franco, British Film Institute, London 1987, pp. 295), ben diffuse e circostanziate sino ai film d’oggi. Ci sono naturalmente sfumature diverse tra questi autori nel modo di impostare la questione del passaggio del cinema spagnolo alla democrazia. Se Besas preferisce parlare di «tran­ sizione graduale» al nuovo e di un certo «disincanto» o disillu­ sione in chi si attendeva una rottura più drastica (a es. il regista Bardem), Larraz e Hopewell mettono l’accento con più decisione - il secondo fin dal titolo - sul momento del distac­ co dal passato: pur ammettendo anche Hopewell che «i cam­ biamenti nei film spagnoli successivi alla svolta verso la demo­ crazia sono sopravvenuti molto più lentamente di quanto ci si sarebbe potuto aspettare». Tutti si trovano in ogni caso concordi nel sottolineare le novità. Fermo restando il profondo radicamento dei registi nella cultura nazionale, il loro «ispanismo», e anche un certo «fatalismo» altrettanto tradizionalmente spagnolo, il cinema del dopo Franco subisce metamorfosi profonde, riassumibili come segue: decentramento produttivo, con conseguente rico­ noscimento del diritto all’autonomia per le diverse particolari­ tà e lingue regionali (basco, catalano ecc.); comparsa di perso­ naggi, avvenimenti, situazioni narrative inedite nel cinema spa­ gnolo; ritorno a un certa vena libertario-repubblicana pre­ franchista; revisione di tutti i valori imposti dalla politica ufficiale del franchismo; evocazione in una prospettiva nuova delle vicende della guerra civile, o, come dice Roman Gubern in un suo saggio recente9, «processo di recupero della memo­ 9 Roman Gubern, Spagna: dieci anni senza censura, in «Bianco e Nero», XLVIII, 1987, n. 1, pp. 7-22.

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ria storica»; infine, a partire dagli anni ’80, avvento di una nuova leva di cineasti, che respingono, sul piano delle poeti­ che, ogni genere di intellettualismo a matrice europea, guar­ dando piuttosto con favore il modello americano, mentre stili­ sticamente contrappongono alle ridondanze formali del passa­ to uno stile spesso ellittico, tendente all’ermetismo. Forse il più combattivo e tenace - anche se molto disegua­ le - dei registi qui presi in considerazione è Carlos Saura, cui Larraz dedica giustamente il maggior spazio possibile e Besas e Hopewell dei capitoli appositi, Hopewell sottolineando an­ che con compiacimento che il suo cinema rende palpabile la presenza - e il senso - della Spagna. Su Saura è da vedere la filmografia ragionata di Hans M. Eichenlaub (Carlos Saura. Ein Filmbuch, Dreisam-Verlag, Freiburg i. Br. 1984, pp. 205 )10, che contiene, insieme con le riflessioni critiche dell’au­ tore, per la verità piuttosto rapide e corrive, tre interviste col regista, tutti gli indispensabili dati bio-filmografici e bibliogra­ fici concernenti la sua attività e anche una sorta di schizzo promemoria sulle malefatte della censura franchista.

” Un capitolo apposito gli dedica naturalmente anche la Higginbo­ Spanish Film under Franco, cit., pp. 77-95; per altri ragguagli, cfr. la «Nota bibliografica» in appendice a Fabrizio Borin, Carlos Saura, La Nuova Italia, Firenze 1989, pp. 135 (dove però non è menzione del testo di Eichenlaub). tham,

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XVI

La “British Renaissance” nella letteratu­ ra critica

Soltanto fino a poco meno di un decennio fa la cinemato­ grafia britannica poteva tranquillamente annoverarsi tra le più neglette. Salvo che per certi suoi brevi periodi di prestigio (il documentarismo degli anni ’30, il free cinema) o per l’escre­ scenza di qualche personalità isolata (come, a es., Laurence Olivier), essa sembrava occupare un ruolo del tutto marginale nel quadro delle cinematografie europee: senza una vera tradi­ zione, senza basi di cultura, senza talenti. Si era arrivati al paradosso di chiedersi - sulla falsariga della celebre battuta di Truffaut con Hitchcock, ormai passata al rango di luogo comune — se non esista per caso «incompatibilità tra la parola cinema e la parola Inghilterra». Naturale allora che la comparsa di una nuova generazione di autori, quella che ha dato avvio e nome alla cosiddetta British Renaissance (databile pressappoco a partire dai primi anni ’80), sia stata subito circondata di attenzione e interesse e sia stata salutata con un entusiasmo certo superiore ai meriti intrinseci dei suoi prodotti. Non altrettanta attenzione, tutta­ via, ci sembra abbia destato sinora il fenomeno del risveglio e rigoglio della letteratura critica sul cinema britannico che la viene accompagnando in parallelo, e che contribuisce non po­ co a illustrare, di quel cinema, storia e retroterra. Prima degli anni ’80 non se ne sapeva quasi nulla. Tutta la nostra cono­ scenza era affidata, oltre che ai capitoli relativi delle storie intemazionali del cinema, alla grossa History of the British

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Film di Roger Manveil e Rachel Low, in corso dal 1948 (e sulla cui genesi e lenta costruzione ragguaglia ora Geoff Brown, recensendone l’ultimo volume uscito, il VII, in «Sight and Sound», autunno 1985, p. 303), alla più smilza — ma rigorosa - storia di Roy Armes (A Critical History of British Cinema, Seeker and Warburg, London 1978, pp. 374), al regesto di Raymond Lefèvre e Roland Lacourbe, 30 ans de cinéma britannique (Ed. Cinéma 76, Paris 1976, pp. 488) e a pochi altri lavori e saggi sparsi, su temi volta per volta diversi, inevitabilmente settoriali. Ben più soddisfacente, animata da tutt’altro spirito, la si­ tuazione editoriale di oggi. Oggi, a dimostrare che la locuzio­ ne «cinema inglese» non forma più, o a contestare che abbia mai formato, una contradictio in adjecto, l’editoria mostra gran­ de indaffaramento; si dà alla luce una British Cinema History come quella massa insieme, con 19 saggi appartenenti a vari autori, da James Curran e Vincent Porter (Weidenfeld and Nicolson, London 1983, pp. 445); si ristampa in versione riveduta e aggiornata il profilo storico, risalente al 1974, di George Perry (The Great British Picture Show, Pavilion/Michael Joseph, London 1985, pp. 386); e, mentre viene opera­ to il lancio della campagna governativa ufficiale per il British Film Year (1985), escono testi-strenna, celebrativi della Re­ naissance, come All Our Yesterdays: 90 Years of British Cine­ ma (ed. by Charles Barr, British Film Institute, London 1986, pp. 446) e la storia per immagini di Anthony Slide, Fifty Classic British Films, 1932-1982: A Pictorial History (Dover Pubi., New York 1985, pp. 152). Proprio di questo risveglio della letteratura critica vogliamo qui di seguito dir qualcosa, in note per altro estremamente rapide, cursorie, a semplice intento informative-orientativo, e che, come tali, non avanza­ no alcuna pretesa di completezza. Cominciamo dagli aspetti finanziari e istituzionali della questione. Istituzionalmente ricorrente il tema della censura. La sua discussione occupa, fra l’altro, la seconda delle quattro parti di cui si compone il libro di Jeffrey Richards, The Age of

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the Dream Palace (che avremo ancora occasione di menzionare in seguito) e sta al centro di quello in off-set di James C. Robertson, The British Board of Film Censors: Film Censorship in Britain, 1896-1950 (Croom Helm, London-Sydney-Dover N.H. 1985, pp. 213)1. Sotto il profilo dei rapporti tra politica e industria, la storia del cinema inglese ci è narrata con ricchez­ za di particolari da Margaret Dickinson e Sarah Street in Cinema and State: The Film Industry and the British Govern­ ment, 1927-1984 (British Film Institute, London 1985, pp. 280); ma in forma più o meno diffusa se ne parla quasi ovunque, perché si tratta di un punto rilevante e davvero molto dolente. Così gran parte dei contributi inclusi nelle già citate storie nazionali per saggi, dalla British Cinema History di Curran e Potter sino a All Our Yesterday (e a un’altra raccolta su cui ritorneremo, British Cinema Now), toccano a ripetizione questo tasto. In particolare dagli studi della Dickin­ son, un cui saggio figura anche nella silloge di Curran e Porter, risulta quanto a fondo la cinematografia nazionale sia stata condizionata dal credito bancario o dal supporto istituzio­ nale dello Stato per tutto il corso del suo sviluppo. Gli stessi interessi e le stesse preoccupazioni guidano il VII volume della History di Rachel Low, dedicato — come i due precedenti - agli anni ’30 {Film Making in 1930s Britain, Allen and Unwin in collab. col B.F.I., London 1985, pp. 452). Attività dei singoli produttori e delle compagnie di pro­ duzione, questioni economico-finanziarie, contingentamento, interscambio commerciale con gli Stati Uniti, controllo censo­ rio, impatto col sonoro e col colore, - ecco i principali proble­ mi che l’autrice passa in rassegna nel corso del suo lavoro. In testa a tutto sta naturalmente, come ella non si stanca di

' L’importanza del tema è comprovata dal fatto che Robertson ci torna sopra ulteriormente (sotto forma di commento agli interventi della censura sui film proiettati in Gran Bretagna nell’arco di un sessantennio) con The Hidden Cinema: British Film Censorship in Ac­ tion, 1913-1972, Routledge, London-New York 1989, pp. 190.

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ripetere, il nodo capitale della questione finanziària. Se il cine­ ma inglese si è sempre trovato a navigare industrialmente tra gravi impacci, lo si deve in primo luogo alla difficoltà per l’industria di competere con il colosso hollywoodiano e di sfondare sul mercato estero. Limiti oggettivi o difetti derivanti da una politica economica sbagliata? Un certo isolazionismo, una certa troppo marcata politica autarchica, che isola il cine­ ma dal mercato, è quanto riscontra anche David Quinlan in British Sound Films: The Studio Years 1928-1959 (Batsford, London 1984, pp. 407; ed. in pb. 1986), regesto filmografico ragionato e ordinato alfabeticamente per titoli di film entro ciascun decennio, con brevi introduzioni premesse ai decenni rispettivi. Di conseguenza si assiste, nel trentennio in esame, al fenomeno di un’industria che passa, annaspando, di crisi in crisi, a una progressiva perdita di iniziativa e di fiducia, a un esodo massiccio di talenti dal paese. Solo all’inizio degli anni ’50 gli Ealing Studios otterranno, tramite la Rank Organisa­ tion, qualche successo sul piano commerciale; ma anche quel­ lo sarà un fenomeno di breve durata2. Come cronista interessato esclusivamente all’evoluzione complessiva della cinematografia britannica dal punto di vista dell’industria, Quinlan non registra se non i film prodotti dagli studios-, la produzione documentaristica non compare affatto nella sua filmografia. Eppure gli anni ’30 sono — come tutti sanno — anni di grande significato per le sorti del docu­ mentario in Gran Bretagna, soprattutto per quelle della scuola facente capo al magistero di John Grierson. Ne discorreva già ampiamente, a metà del decennio scorso, la storia generale del documentario di Erik Barnouw, ora in un’edizione riveduta (.Documentary: A History of the Non-Fiction Film, Oxford Univ. Press, Oxford-New York 1983, pp. 360), che non tiene

1 Cfr. ora gli studi di Emanuela Martini, Non solo commedia: gli Ealing Studios, in «Cinefonim», XXVIII, 1988, n. 274, pp. 28-44; Ealing Studios, catalogo del Bergamo Film Meeting, 1988, pp. 143 (cui rinviamo anche per la bibliografia relativa).

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però conto né della biografia di Grierson a opera di Forsyth Hardy {John Grierson: A Documentary Biography, Faber and Faber, London-Boston 1979, pp. 298), né di altri lavori frat­ tanto usciti sulla sua scuola; e una nuova, serrata «ricontestua­ lizzazione» il tema ha ricevuto in seguito da parte di Annette Kuhn (nel volume collettaneo Traditions of Independence: Bri­ tish Cinema in the Thirties, ed. by Don Macpherson in collab. con Paul Willemen, British Film Institute, Londra 1980, pp. 226) e, più di recente e in breve, da parte di Stuart Hood (nella silloge di Curran e Porter)’. Del tutto a sé, rispetto al movimento documentaristico e al cinema «indipendente», va tenuta e discussa l’attività filmi­ ca dei gruppi di sinistra dalla fine degli anni ’20 in poi. Lo precisa Bert Hogenkamp, olandese della generazione del ’68, oggi docente di storia del cinema all’Università di Utrecht, in un libro {Deadly Parallels: Film and the Left in Britain, 1929-1939, Lawrence and Wishart, London 1986, pp. 240) che, insieme col saggio di Trevor Ryan accolto da Curran e Porter nella loro storia, ci dà un quadro esauriente dell’attività delle Workers’ Film Societies in Gran Bretagna tra le due guerre: dove un posto di rilievo hanno, per un verso, gli influssi del cinema sovietico ‘classico’, per l’altro la personalità e la grande lena organizzativa di Ivor Montague, che del libro è anche l’ispiratore. Ora, in accordo con le fonti coeve (anche d’archivio) da cui cita, l’autore non ritiene precisa e non crede di dover usare la qualifica di «indipendenti» per i gruppi cinematografici menzionati nel libro. «A mio parere», spiega, «essi si definiscono non tanto in base alla loro indipendenza dalla produzione, dalla distribuzione e dal noleggio del cinema commerciale, quanto piuttosto in base alla loro dipendenza — volontaria, autoimpostasi - dal movimento operaio». Dobbiamo l’esame ravvicinato dell’altra faccia della meda­ glia, quella del cinema commerciale, a due specialisti dello ’ Per gli ancor più recenti volumi di Paul Swann e Ian Aitken, cfr. nota 4.

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studio dei problemi di interrelazione tra cinema e società, Jeffrey Richards e Anthony Aidgate. Di Richards è il già citato The Age of the Dream Palace: Cinema and Society in Britain, 1930-1939 (Routledge and Kegan Paul, London-Bo ­ ston 1984, pp. 374); di Richards e Aidgate insieme, Best of British: Cinema and Society 1930-1970 (Basil Blackwell, Ox­ ford 1983, pp. 170) e Britain Can Take It: The British Cinema in the Second World War (Basil Blackwell, Oxford 1986, pp. 312)4, studi che trascelgono, analizzano e, dove occorre, sotto­ pongono a critica due gruppi rispettivi di dieci e undici film tra i più sociologicamente significativi, a giudizio degli autori, per la storia dell’Inghilterra contemporanea. Specie con riferi­ mento agli anni ’30, la loro tesi generale - già delineata nei loro contributi rispettivi alla silloge di Curran e Porter - è che il cinema inglese del periodo svolge una funzione eminente­ mente conservatrice, «un ruolo importante nel mantenimento dell’egemonia della classe dirigente». Nullo o quasi, fuori dal campo del documentarismo e del cinema «indipendente», il suo apporto all’arte. «Se si guarda all elenco completo dei film prodotti in Inghilterra durante gli anni ’30», scrive Richards in The Age of the Dream Palace (donde viene anche la citazio­ 4 Solo posteriormente alla stesura della presente rassegna, completa­ ta nclfautunno 1987, abbiamo potuto prendere visione dello "spaccato’ sugli anni ’40 di Robert Murphy, Realism and Tinsel: Cinema and Society in Britain, 1939-1948, Routledge, London-New York 1989, pp. 278 (storia per generi, decisamente troppo corriva e fìtta di titoli), e dei due notevoli volumi di Paul Swann, The British Documentary Film Movement, 1926-1946, Cambridge University Press. Cambridge 1989, pp. 216 (storia in chiave politico-sociale del documentarismo britannico, incentrata su Grierson e il suo gruppo, con rivalutazione dell’apporto di Rotha; ma sul tema - che sembra davvero inesauribile - toma anche Ian Aitken, Film and Reform: John Grierson and the Documentary Film Movement, Routledge, London-New York 1990, pp. 252), e The Hollywood Feature Film in Postwar Britain, Croom Helm, London-Syd­ ney 1987, pp. 168 (resoconto degli effetti a ogni riguardo negativi prodotti dall’impatto dell’industria cinematografica hollywoodiana sulla Gran Bretagna): tutti comunque molto prossimi, per matrici, impostazio­ ne, orientamento ecc., al filone di ricerca critico-sociologica del quale si discorre ampiamente nel testo.

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ne precedente), «risulta chiaro che la loro stragrande maggio­ ranza erano prodotti di genere standard, in particolare comme­ die, musical e film polizieschi», mentre ne restava esclusa quasi del tutto «la realtà della vita inglese contemporanea». È in questo contesto problematico che si innestano e vanno giudicate le «tradizioni di indipendenza» del cinema britannico. Come risulta da vari scritti del volume omonimo, esse si connettono in varia guisa col funzionamento degli appa­ rati ideologici di propaganda, sia pubblici (governativi) che privati (di gruppi, corporazioni, partiti ecc.), gli uni e gli altri particolarmente attivi nel periodo bellico, quando la storia del cinema britannico viene intrecciandosi inestricabilmente con quella del Ministero delle Informazioni. Alla propaganda con­ tribuiscono non poco gli stessi esponenti del movimento docu­ mentaristico: tanto quelli di loro - i più - rimasti in patria durante la guerra (sulla cui attività ragguaglia da ultimo il saggio di Nicholas Pronay incluso nel volume collettaneo Film and Radio Propaganda in World War II, ed. by K.R.M. Short, Groom Helm, London-Canberra 1983, p. 59 ss.), come anche Grierson, trasferitosi frattanto in Canada per cercare proseliti al suo movimento e che là contribuisce a creare quel National Film Board che, come documenta bene la recente ricostruzio­ ne di Gary Evans (John Grierson and the National Film Board: The Politics of Wartime Propaganda, 1939-1945, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 1984, pp. 329), sa­ rebbe poi divenuto l’organismo promotore del cinema naziona­ le di propaganda. Le tecniche documentaristiche trovano natu­ ralmente un fecondo sviluppo durante la guerra5. Il documen­ tario vi fiorisce come mai prima. «Uno degli sviluppi più

’ Per il periodo bellico, oltre a Richards e Aldgare, e alla prima parte del libro di Murphy citato alla nota 4 (capp. I-IV), cfr. ora anche Clive Coultass, Image of Battle: British Film and Second World War, Associated Univ. Presses, London 1988, pp. 280, e British and the Cinema in the Second World War, ed. by Philip M. Taylor, Macmillan, Basingstoke-London 1988, pp. 210 (con saggi di vari autori, tra cui Richards, Aidgate, Short e lo stesso Coultass).

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notevoli degli anni di guerra» osservano Richards e Aidgate a proposito di Fires Were Started (1943) di Humphrey Jen­ nings, il polimorfo intellettuale cantabrigiense che con London Can Take It (1940) suggerisce anche il titolo del loro libro (e destinatario in proprio dell’opuscolo celebrativo Humphrey Jennings: Film-Maker, Painter, Poet, ed. by Mary-Lou Jen­ nings, British Film Institute in collaborazione con Riverside Studios, London 1982, pp. 76, apparso in italiano a cura di Alessandra Cottafavi, Comuni di Modena e Reggio Emilia 1983, pp. 71), «fu il modo in cui il documentario, la sua tecnica, il suo criterio d’approccio e il suo ethos entrarono a far parte del filone principale della produzione cinematografi­ ca britannica [...]. Ma anche più notevole fu la fusione del realismo documentaristico con il cinema spettacolare a lungometraggio. In qualche caso i film a lungometraggio furono ispirati e rifatti a documentari esistenti». A differenza degli anni ’30 e del periodo bellico, il quindi­ cennio immediatamente successivo - coincidente con sempre nuove false partenze della produzione - è un periodo nel complesso poco esplorato dalla letteratura critica. Stretti lega­ mi con i sondaggi sociologici di Richards e Aidgate ha Sex, Class and Realism: British Cinema 1956-1963 (British Film Institute, London 1986, pp. 228), anche se l’autore, John Hill, docente in Irlanda, precisa che al centro della ricerca stanno non «i rapporti tra cinema e società (o tra testo e contesto) in generale, ma invece le più specifiche interconnes­ sioni tra cinema e ideologia». Sotto il suo esame cadono i film della generazione degli angry young men, quelli sulla classe operaia della new wave e tutta l’altra serie — mai stata così nutrita come ora, secondo l’autore - di «film a tema sociale» (delinquenza giovanile, questione femminile, immigrazione, razzismo ecc.), alcuni dei quali si porrebbero in «continuità con le idee sul documentario sviluppate da John Grierson negli anni ’30»: non senza per altro una buona dose - qui ripetutamente sottolineata e denunciata - di conformismo in più. Severo con l’ideologia dell’affluent society, l’autore infatti

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non lo è meno con i film che puntano a combatterla troppo velleitariamente, come risulta, oltre che dalle sue analisi, dal giudizio restrittivo cui pervengono le sue conclusioni: «Ciò che questo studio ha indicato è che, anche tenendo conto delle modifiche e innovazioni di tema e atteggiamento registrate da molti film, il cinema del periodo è rimasto compresso e ristretto, legato a certi limiti negli atteggiamenti che ha promossi e nella visione del mondo che ha suggerita». Così per il periodo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60. Peggio ancora nel ventennio successivo. Ma una volta oltrepassata la congiuntura negativa degli anni 70, che per concorde ammis­ sione della critica (da Perry fino al libro, cui ora faremo cenno, di John Walker) sono anni di «stagnazione», con l’in­ dustria sull’orlo del collasso, molti dei migliori talenti esuli negli Stati Uniti o in altri paesi esteri, e rare occasioni di lavoro per i registi della nuova generazione, - dai primi anni ’80 si assiste a quel fenomeno di ripresa, che è ormai entrato in uso mandare sotto il nome di British Renaissance. La ripre­ sa concerne in parallelo, come accennato in apertura, altresì il campo della letteratura critica. Qui ci vengono incontro una valanga di titoli6. Ci sono le sezioni rispettive delle storie nazionali già prese in considerazione sopra; ci sono gli articoli cronachistico-informativi pubblicati da Mark Le Fami e da altri su «Positif» (tra il n° 271, settembre 1983, e il n° 279, maggio 1984); ci sono soprattutto gli studi connessi con la campagna del British Film Year lanciata nel 1985: subito pri­ ma di essa, lo schizzo di James Park, Learning to Dream: The New British Cinema (Faber and Faber, London-Boston 1984, 6 Ai titoli inglesi, di cui si discorre sotto, vanno ora aggiunti, per la Francia, il volume miscellaneo Découverte et sauvegard du cinéma britannique, a cura di B. Dent e M. Snapes, La Cinémathèque Fran^aise, Paris 1988 (non veduto), e la svelta ma superficiale monografia di Philippe Pilard, Le nouveau cinéma britannique, 1979-1988, con pref. di B. Tavernier, 5 Continents-Hatier, Paris 1989, pp. 221 (circa metà della quale occupata da dati statistici e bio-fil orografici).

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pp. 138), poco incline a coltivare illusioni circa le capacità di riscatto del nuovo cinema; poi le monografie sui due ultimi decenni a firma di John Walker (The Once and Future Film: British Cinema in the Seventies and Eighties, Methuen, Lon­ don 1985, pp. 184) e del suo omonimo, Alexander Walker (National Heroes: British Cinema in the Seventies and Eighties, Harrap, London 1986, complementare del precedente - ma pure ristampato da Harrap nello stesso anno - Hollywood, England: The British Film Industry in the Sixties), e la silloge di saggi di vari autori curata per il British Film Institute da Martin Auty e Nick Roddick, al fine di illustrare che cosa è, come funziona, su quali strutture produttive e distributive poggia il British Cinema Now (London 1985, pp. 168): studi tutti quanti discussi, con altri ancora, da Andrew Higson in un saggio (The Discourses of British Film Year, «Screen», XXVII, 1986, n° 1, pp. 86-110, segnalato in «Cinema nuo­ vo», XXXVI, 1987, n° 307, p. 57), dove si fa tra l’altro notare che, «mentre la campagna del British Film Year formu­ la la questione del cinema in termini di industrialismo naziona­ listico e orientato al mercato, la critica cinematografica orto­ dossa (compresa la nuova letteratura) tende verso un cinema d’arte a espressione personale». Come appendici nostrane di questo complesso di studi, senza dubbio imponente, sono infi­ ne da segnalare il catalogo edito per conto dell’Assessorato alla cultura del Comune di Reggio Emilia in occasione della rassegna del marzo 1986 (Local Heroes, Registi e scrittori del cinema britannico degli anni ottanta, a cura di Filippo D’Ange­ lo, Davide Ferrano, Fabrizio Grosoli e Paolo Vecchi, La Casa Usher, Firenze 1986, pp. 157) e, sempre su Gli anni ’80 del cinema inglese, l’articolo di Emanuela Martini nel catalogo del Bergamo Film Meeting ’87 (pp. 111-6)7. La questione che ci si fa avanti per prima, alla luce di 7 Sensatamente limitativo del fenomeno della British Renaissance è inoltre, della Martini, il posteriore dossier omonimo curato per «Cineforum», XXVIII, 1988, n. 271, pp. 15-39.

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questi studi, riguarda il grado di novità rappresentato dal fenomeno della British Renaissance. Qualcosa senza dubbio è cambiato rispetto al passato. Film come quelli, poniamo, di Peter Greenaway e Edward Bennett, di Mike Radford e Chris Petit, di Sally Potter, Terence Davies e altri autori provenienti o sostenuti, come loro, dal British Film Institute, sono tutti film - osserva Nick Roddick in British Cinema Now - che non si sarebbero voluti o potuti fare solo dieci anni fa; «e la varietà di strade che hanno condotto alla loro realizzazione è sintomatica della diversità dell’attuale scenario del cinema bri­ tannico». C’è nei nuovi autori un mutato rapporto di fiducia col mezzo espressivo, un più marcato desiderio di sfruttarne a fondo le risorse e le possibilità; e un mondo di cultura più solido, fondato sulla comprensione dei nessi reciproci del cine­ ma con le altre arti visive. Caratteristica a loro comune, secon­ do Park (da cui stiamo citando), è il «ripudio delle ambizioni realistiche del free cinema»} sulla falsariga di un Carol Reed o della coppia Powell-Pressburger, si insegue ora piuttosto un cinema che fa appello agli stati interni di coscienza, al fantasti­ co, all’immaginario collettivo. Queste novità non debbono per altro nascondere gli inciampi e i limiti del nuovo cinema. Drastiche riserve critiche verso la British Renaissance esprimo­ no quasi tutti gli autori richiamati, motivandole socialmente e esteticamente con argomenti non dissimili da quelli di sociolo­ gi come Richards e Aidgate nei confronti del cinema dei decen­ ni precedenti: scarso coraggio, anticonformismo solo di super­ ficie, debolezza strutturale congenita. «Nella ricerca entusiasti­ ca di una ‘rinascita’», scrive ancora Park, «molti film del perio­ do sono stati sopravvalutati, nonostante che non abbiano fatto compiere avanzamenti allo stile filmico o alla trattazione della materia. I critici, eccitati dall’idea di aver qualcosa di casalin­ go su cui scrivere, spesso non sono riusciti a individuare i difetti dei film inglesi. Gli autori, felicissimi che qualcosa finalmente accadesse nel cinema britannico, hanno preso alle­ gramente parte alla ‘congiura del silenzio’. Non hanno saputo o voluto iniziare un qualsiasi dibattito serio intorno a come il 247

cinema britannico potrebbe mettere da parte i vecchi miti e sviluppare nuovi valori estetici». E British Cinema Blow si chiude addirittura sull’inquietante interrogativo, sollevato da Geoffrey Nowell-Smith, se sussistano ancora speranze di vita per il cinema britannico o se esso non sia invece minacciato a breve scadenza di estinzione. Volendo ora passare, in chiusura, dalle storie generali e particolari alle monografie concernenti singoli autori, l’atten­ zione si fissa sopra pochi nomi: l’Hitchcock del periodo ingle­ se, Olivier e qualche altro autore della vecchia guardia (come Michael Powell) o della new wave (Reisz, Schlesinger), il Pinter scenarista. Data la minore rilevanza oggettiva dell’argo­ mento, dovremo essere qui ancora più sintetici e sbrigativi che in precedenza. Circa Hitchcock, ricordiamo solo come, tra tutti i lavori dell’ultima letteratura critica che lo riguarda (di Donald Spoto, William Rothman, Gene D. Phillips ecc.), il più puntuale e specifico in materia di definizione dei suoi rapporti con lo status del cinema britannico sia quello di Tom Ryall (Alfred Hitchcock and the British Cinema, Croom Helm, London-Sydney 1986, pp. 193), rinviando per il resto a quan­ to se ne è detto sopra (XIV, § 3). Laurence Olivier presenta la caratteristica che in lui — come, e anche più, in Harold Pinter - il Iato teatrale non può andar disgiunto da quello cinematografico. Prima e dopo la comparsa della sua semiscan­ dalistica autobiografia, Confessions of an Actor (Weidenfeld and Nicolson, London 1982, pp. 305; in italiano col titolo ancor più scandalistico - Confessioni di un peccatore, Rizzoli, Milano 1983), si è lavorato parecchio su di lui. Citiamo senza però conoscere - le monografie di M. Bragg (Laurence Olivier, Hutchinson, London 1984) e F. Barker (Laurence Olivier: A Critical Study, Spellmount, Speldhurst-Kent 1984); con una nuova prefazione dell’autore è riapparsa frattanto quella di Foster Hirsch (Laurence Olivier on Screen, Da Capo Press, New York 1984, pp. 190), originariamente del 1979, cui si è venuto affiancando il diligente prontuario stilato l’an­ no dopo da Robert L. Daniels (Laurence Olivier: Theater and

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*Cinema A.S. Bames-The Tantivy Press, San Diego-New York-London 1980, pp. 319). Solo da suggestivo repertorio di foto d’archivio della carriera teatrale e cinematografica del­ l’attore può valere infine la pictorial history di Robert Tanitch, Olivier: The Complete Career (Thames and Hudson, London 1985, pp. 191)8. Dell’interesse per Pinter come scenarista, sempre assai vi­ vace nei paesi di lingua inglese (come testimonia ancora ulti­ mamente Harold Pinter: Critical Approaches * Fairleigh Dickin­ son Univ. Press-Associated Univ. Presses, Rutherford-Lon­ don-Toronto 1986, pp. 232: raccolta messa insieme da Steven H. Gale - già autore di una monografia e una bibliografia ragionata sul commediografo - con 17 saggi tutti a firma di autori angloamericani, due dei quali specificamente dedicati al cinema; lo stesso curatore si sta ora occupando degli scenari cinematografici di Pinter), qualche debole eco è giunta anche da noi: si vedano l’opuscolo edito in occasione della rassegna e del convegno pinteriani di Torino (Pinter e il cinema * a cura di Paolo Bertinetti e Gianni Volpi, A.I.A.C.E., Torino 1985, pp. 96) e la tesi di laurea, vincitrice del premio «Cinema nuovo-Università» per il 1984, che dobbiamo a Maria Teresa Carbone (1 luoghi della memoria. Harold Pinter sceneggiatore per il cinema di Losey * Dedalo, Bari 1986, pp. 119: da legger­ si con le giuste riserve espresse da Guido Fink in «Bianco e Nero», XLVII, 1986, n° 4, pp. 123-4)9. La donna del tenente * francese adattamento pinteriano per il cinema dell’omonimo romanzo di John Fowles, analizzato da Enoch Brater in uno dei saggi della raccolta a cura di Gale, fa da legame tra Pinter

8 Diligente e giornalisticamente scorrevole la biografìa poi dedicata­ gli da Anthony Holden, Olivier* Weidenfeld & Nicolson, London 1988 (che noi abbiamo visto nella riedizione apparsa presso Sphere Books, London 1989, pp. 628). 9 Nonché, posteriormente, il catalogo Harold Pinter* a cura di Ro­ berto Canziani e Lorenzo Codelli, Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1989, pp. 147 (sul Pinter sceneggiatore, con nota di Codelli, pp. 95 ss.).

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e il regista Karel Reisz: noto esponente del free cinema, la cui interessante opera, fin qui poco studiata (un solo profilo mono­ grafico conta la sua bibliografia, quello di George Gaston del 1980), non esce certo meglio illuminata dalla monografia che, all’insegna di procedure semiologiche esasperate fino alla cari­ catura, ma anche di un completo disprezzo del contesto stori­ co e di una disinvolta trascurarla della letteratura secondaria, gli dedica nel “Castoro cinema” Alberto Gattini (Karel Reisz, La Nuova Italia, Firenze 1986, pp. 143). Più responsabile, allora, il John Schlesinger di Claver Salizzato, uscito nella stes­ sa ‘collana’ (La Nuova Italia, Firenze 1987, pp. HO)10, soprat­ tutto per le pagine dove vengono sottolineati i punti di conver­ genza e divergenza del regista dal free cinema-, sebbene poi l’autore non eviti il consueto inconveniente della sopravvaluta­ zione del suo proprio oggetto di studio. Chiudiamo con la segnalazione dell’autobiografia di Mi­ chael Powell (A Life in Movies: An Autobiography, Heine­ mann, London 1986, pp. 705), monumentale libro di memo­ rie che si estende dalle origini sino ai vertici della carriera percorsa dal regista in coppia con Emeric Pressburger, cioè a dire sino all’inizio degli anni ’50. Powell e Pressburger non sono certo figure insignificanti nel quadro dello sviluppo del cinema britannico. Testimonianze di un ritorno d’interesse per la loro opera se ne sono avute parecchie in questi ultimi anni11: basti riandare al capitolo relativo della Critical History di Roy Armes (dove Powell è trattato unitamente a Thorold Dickinson, altro autore la cui personalità pensa oggi a riporta­ re in luce la biografia - da noi non veduta - di Jeffrey Ri-

1C Dove poco dopo esce anche, di Alberto Crespi, Lindsay Ander­ son, La Nuova Italia, Firenze 1988, pp. Ili, meritevole non più che di un cenno di segnalazione. 11 Per un repertorio ben più completo del presente, cfr. le note bibliografiche poste in appendice al catalogo Powell & Pressburger, a cura di E. Martini, Bergamo Film Meeting, 1986, pp. 135, e al buon profilo della stessa Martini, Michael Powell & Emeric Pressburger, La Nuova Italia, Firenze 1988, pp. 127.

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chards, Thorold Dickinson: The Man and His Films, Croom Helm, London-Sydney 1986, pp. 224); o pensare alla retro­ spettiva loro dedicata dal Festival di Locamo del 1982 (se ne veda il catalogo, Retrospective Powell et Pressburger, a cura di Roland Cosandey, Ed. du Festival, Locamo 1982, pp. 162); o ricordare che Richards e Aidgate trascelgono ben due dei loro film a emblema sociologico caratteristico di determinate fasi di sviluppo del cinema britannico: 49 th Parallel (1941), per il volume di saggi sulla Gran Bretagna del periodo bellico, e, per il quarantennio abbracciato da Rest of British, The Life and Death of Colonel Blimp (1943), un film che — come rac­ conta Powell stesso nell’autobiografia - andò incontro a nume­ rosi guai con la produzione, il potere politico e la censura, prima di trasformarsi, a dispetto di tutto ciò, in un grande successo commerciale. Fedele al suo titolo, l’autobiografia descrive, col tono so­ stanzialmente dimesso e la modestia di chi si sente solo un buon artigiano («Io sono un artigiano, e un artigiano resterò sino alla morte. Conosco un solo mestiere, il mestiere di realiz­ zare film»)12, questa ascesa ai vertici di Powell: come fin dalu È quanto di se stesso riteneva e diceva anche Carol Reed («Per Reed fare film era più un mestiere che un atto di creatività»), oggi per altro assurdamente sconfessato dalFencomiastica della letteratura critica che se ne occupa: ci riferiamo in specie alla monografia di Robert F. Moss, The Films of Carol Reed, Macmillan, Basingstoke-London 1987, pp. 312 (la quale, dopo una scorsa introduttiva di ben 65 pagine sulla storia del cinema inglese dal 1895 al 1939, si sofferma a delineare minuziosamente, con fin troppa simpatia, la carriera del regista, e in particolare la sua fruttuosa collaborazione con lo scrittore Graham Greene), e alla biografia di Nicholas Wapshott, The Man Between: A Biography of Carol Reed, Chatto & Windus, London 1990, pp. 376 (giudicata assai severamente anche dalla recens. di Geoff Brown, A View of the Bus Station, in «Sight and Sound», LIX, Autumn 1990, pp. 284-5); ma di Reed, oltre che di David Lean, Joseph Losey, Brian Forbes, John Schlesinger e Ken Russell, tratta anche in breve, e non certo meglio, la II parte del volume - tutto mediocre - di Gene D. Phillips, Major Film Directors of the American and British Cinema, Lehigh University Press & Associated University Presses, BethlchemLondon-Toronto 1990, pp. 290.

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l’ultimo scorcio degli anni *30 egli si veda elevato, quasi senza rendersene conto, al rango di figura di primo piano del cinema inglese; come nel 1947, dopo Narciso nero, trovi il mondo della produzione chino ai suoi piedi; come l’anno seguente Scarpette rosse gonfi il successo addirittura a «leggenda». Dav­ vero, insomma, «una vita nel cinema». E davvero un libro al quale, salvo forse che per la sezione conclusiva (dove l’autore si compiace troppo dei pregi - formalistici - di Scarpette rosse), non si può non guardare con deferenza e rispetto anche da parte di chi, come noi, non nutre soverchio entusiasmo per l’opera di questo «artigiano» del cinema1*.

” Proprio mentre stiamo licenziando per la stampa il presente volume, esce il repertorio filmografia» di Mario Guidorizzi, Cinema inglese 1930-1990, Ed. Mazziana, Verona 1990, pp. 352, che provvede all’elenco di tutti i film inglesi'distribuiti in Italia durante l’epoca del sonoro.

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XVII

II "Nuovo cinema tedesco” secondo la critica degli anni '80

Mai forse come negli ultimi anni, se si eccettua la fase dell’espressionismo, il cinema tedesco ha goduto di tanta popo­ larità e attenzione critica. Un vero successo a sensazione ne ha accompagnato e ne accompagna tuttora lo sviluppo. Sempre nuove manifestazioni - documentate da ricchi cataloghi - ne tengono alto il prestigio; sempre nuovi libri ne indagano con acribia le strutture produttive, le linee di tendenza, gli autori, le opere. Non è quindi per arbitrio o per capriccio se, in coincidenza con la comparsa della prima storia complessiva del “nuovo cinema tedesco” (Thomas Elsaesser, New German Cinema. A History, Macmillan - British Film Institute, Lon­ don 1989, pp. 430), ci soffermiamo qui brevemente sui pro­ blemi sollevati dalla letteratura critica che si occupa di questo importante movimento. Alla storia di Elsaesser va dato senz’altro il benvenuto. Specialmente oggi quando, secondo un giudizio ormai diffuso, sottoscritto anche da Elsaesser, non esistono più in Germania le condizioni per il fiorire del «cinema d’autore» e Io stesso «Nuovo cinema tedesco è svanito come la carrozza di Ceneren­ tola», si sentiva il bisogno di un ripensamento critico globale del cammino in tanti anni da esso percorso, di un lavoro che, alla stregua di quanto si propone di fare questo, impostasse il problema della sua «comprensione in prospettiva storica». Troppo spesso infatti si è guardato a esso come al frutto estemporaneo di «autori» sbocciati dal nulla, senza una storia

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alle spalle. Ma - piaccia o meno ai teorici del postmoderno la storicità di un fenomeno non si lascia mai eludere facilmen­ te. D’altronde, che questioni quali «stile, authorship e origina­ lità» siano «di fatto condizionate dalla storia», è già la tesi di un saggio a firma di Inez Hedges e John Bernstein comparso qualche anno fa nel Journal of Contemporary History (XIX, 1984, pp. 171-87), dove, sulla falsariga di suggestioni teori­ che derivanti sia da Barthes che da Bazin, si discute sì in primo luogo del rapporto tra authorship e «realismo», ma viene posta insieme — sia pure ancora in forma troppo astratta, metaforica, letteraria, troppo rivolta solo all’interno - la «que­ stione delle origini del Nuovo cinema tedesco». Già qui si parla apertamente di «prospettiva storica»:

«La messa in causa di questi problemi da una prospettiva storica condurrebbe a una più equilibrata comprensione di opere generalmente riguardate come ‘capolavori’ del cinema d’autore [...]. Scopo della presente discussione è mostrare che la ‘originalità’ del Nuovo cinema tedesco è essa stessa ancorata a precedenti letterari; che la sua evoluzione stilistica procede da una logica derivata dalla preoccupazione per la questione delle origini; e che è piuttosto dubbio che l’autentico concetto di authorship si possa applicare a queste opere». Nel corso delle ricerche e degli studi compiuti durante gli anni *80 si è però venuto accumulando materiale ormai suffi­ ciente a superare l’impostazione di questo primo stadio della ricerca critica. Pensiamo a monografie come quelle di John Sanford {The New German Cinema, Oswald Wolff, London 1980, pp. 180; ried. in bross., Eyre Methuen, London 1981), di Timothy Corrigan {New German Film: The Displaced Ima­ ge, University of Texas Press, Austin 1983, pp. 213), di Ja­ mes Franklin {New German Cinema: From Oberhausen to Hamburg, Twayne, Boston 1983, pp. 227; ed. inglese, Colum­ bus Books, London 1986, pp. 224); all’antologia di saggi monografici, ciascuno dei quali segue cronologicamente la car­ riera di un autore, New German Filmmakers: From Oberbau-

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sen through the 1970s (ed. by Klaus Phillips, Ungar, New York 1984, pp. 462); al repertorio filmografico ragionato mes­ so insieme da Robert Fischer e Joe Hembus col titolo Der neue deutsche Film, 1960-1980 (con pref. di D. Sirk, Goldmann-Verlag, Miinchen 1981, pp. 280; ne esiste un’ed. ita­ liana aggiornata, Il nuovo cinema tedesco, 1960-1986, a cura di Paolo Taggi, Gremese, Roma 1987, pp. 287, che, oltre a includere anche il periodo 1981-86, comporta numerosi adatta­ menti, modifiche di struttura, rielaborazioni dei testi origina­ li); a certe pagine della perlustrazione dei meccanismi specifici di funzionamento del cinema «moderno» intrapresa da Robert Phillip Kolker nel volume The Altering Eye: Contemporary International Cinema (Oxford University Press, Oxford-New York 1983, pp. 226-67); al «dossier» informativo sul Cinéma allemand steso da Roland Schneider per la «collana»» di CinémAction (Ed. du Cerf, Paris 1984, pp. 187); al catalogo della rassegna torinese dell’ottobre 1985 Jiinger Deutscher Film (1960-1970). Il nuovo cinema tedesco negli anni Sessanta (a cura di Giovanni Spagnoletti, Ubulibri, Milano 1985, pp. 309); ai vari apporti della pubblicistica periodica, segnatamen­ te al fascicolo speciale doppio della rivista «New German Critique» (n. 24-25, 1981-82) e a quello recentissimo — appar­ so troppo tardi per poter esser preso in considerazione anche da Elsaesser - di «The Germanie Review» (LXIII, 1988, n. 4); pensiamo soprattutto ai numerosi e intelligenti contributi critici di Eric Rentschler: tra gli altri, la monografia — molto severa con le «mitologie» sorte o artificiosamente create intor­ no agli autori del “nuovo cinema tedesco” - West German Film in the Course of Time (Redgrave, Bedford Hills N.Y. 1984, pp. 260); la cura di una raccolta di saggi di vari autori in tema di adattamenti filmici da opere letterarie (German Film and Literature. Adaptations and Transformations, Me­ thuen, New York-London 1986, pp. 385), la quale, pur esten­ dendosi ad abbracciare l’intera storia del cinema tedesco, riser­ va ben 9 dei suoi 20 saggi a opere realizzate nel periodo compreso tra il 1966 e il 1980; e la cura di un’antologia di 255

testi che, a imitazione di quanto aveva già fatto in Germania Rainer Lewandowski attraverso una serie di interviste (Die Oberhausener. Rekonstruktion einer Gruppe, 1962-1982, Regie-Verlag fiir Bùhne und Film, Diekholzen 1982, pp. 215), dà voce agli stessi protagonisti del movimento (West German Filmmakers on Film: Visions and Voices, Holmes and Meier, New York-London 1988, pp. 262). Altri utili elementi, noti­ zie, commenti, profili, quadri d’insieme possono ricavarsi dalle storie generali del cinema (ultimamente, a es., da Gerald Mast, A Short History of the Movies, Oxford University Press, Oxford-New York-London 19845, pp. 361-77, e da G. Fofi, M. Morandini e G. Volpi, Storia del cinema, Garzanti, Milano 1988, III, 1, pp. 145-74), o da regesti bio-filmografici sul genere di quello apparso in Germania col titolo di Cinegraph. Lexicon zum deutschsprachigen Film (hrsg. von Hans-Michael Bock, ed. Text + Kritik, Miinchen 1984-85: dispense a fogli staccabili e ordinabili alfabeticamente, per un totale di oltre 1200 pagine), e che fornisce non solo i dati essenziali dell’atti­ vità di registi, produttori, interpreti, collaboratori tecnici ecc., ma anche, se il caso lo richiede, brevi saggi critici che ne illustrano per ciascuno i punti salienti. Un lavoro di scavo e approfondimento, nel complesso, di indubbio rilievo. Particolarmente con i contributi di Ren­ tschler prima, e poi con quello ultimo di Elsaesser, si compie già un bel passo avanti rispetto all’impostazione di Hedges e Bernstein. Non stiamo più ora soltanto all’interno della sfera dei rapporti tra cinema e letteratura. La storia del nuovo cinema viene ora messa a confronto e studiata in parallelo con la storia complessiva della Germania come nazione, con le sue tradizioni, la sua politica, la sua cultura, — segnatamente con quella corrente culturale d’opposizione che fa capo alla scuola di Francoforte. Scegliendo la via più complicata di presentare il fenomeno nel suo insieme, Elsaesser si discosta dalla storio­ grafia precedente anche per questo, che egli scinde in primo luogo dal «nuovo» il (non più) «giovane» cinema tedesco del periodo del «manifesto di Oberhausen», e che, in secondo

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luogo, nega si possa «stabilire una continuità stilistica tra il Giovane cinema tedesco e il cinema tedesco degli anni 70». Comunque, anche se non vi si identifica completamente, la rinascita del cinema nella Germania federale data dal «mani­ festo di Oberhausen» (1962), le cui istanze sono ribadite più tardi dalla cosiddetta «dichiarazione di Mannheim» (1967). Lewandowski nelle sue interviste, Jan Dawson in un importan­ te saggio apparso postumo su «Sight and Sound» (Winter 1980-81, pp. 14-20), lo stesso Elsaesser nei capitoli iniziali della sua storia indagano con attenzione il retroterra istituzio­ nale e infrastrutturale del movimento in quel periodo, rico­ struendone genesi, significato e conseguenze (a es. la fondazio­ ne, nel 1967, del Kuratorium Junger Deutscher Film, il suo principale organismo di sostegno produttivo). Ma non si tratta di un fenomeno soltanto istituzionale. Esso tocca fin da subi­ to, e ancor più nel corso del decennio successivo, la sfera della cultura; «durante gli anni 70 - ricorda Elsaesser - il cinema tedesco divenne una nuova forza culturale». Non c’è dubbio che nella sua linea di tendenza maggiormente significativa esso si caratterizza per il fatto di portare in sé le stigmate del passato, la sua propria memoria storica, e insieme una carica umana, una effervescenza, una spregiudicatezza aliena da com­ promessi, che investono direttamente il mondo del presente. Tanto più perciò occorre non fare in esso di ogni erba un fascio. La sua complessità richiede che lo si indaghi proceden­ do con criteri rigorosamente selettivi, che vi si discrimini bene tra tendenza e tendenza, autore e autore, film e film, e ciò in modo assai più netto, più marcato, di quanto non riesca anche a critici avveduti come Rentschler e Elsaesser. Proviamo a gettare lo sguardo un poco oltre il campo degli studi di storia generale, sulla letteratura critica relativa alla carriera e alle opere dei singoli autori. Qui vengono subito in luce e colpiscono particolarmente due tratti, presenti già del resto in ampi settori della storiografia generale (nelle pagine di Kolker, a es., o nelle analisi a carattere semiologico del libro - fondamentalmente sbagliato - di Corrigan): la tenden­ 257

za a una sempre più forte dislocazione di interessi dai fondato­ ri del «nuovo cinema tedesco» (firmatari del «manifesto di Oberhausen» e loro immediati successori) verso autori eccen­ trici, giudicati più «moderni»; e, in questa stessa prospettiva, la tendenza a dar troppo rilievo alla fase ultima, non tedesca, di taluni degli autori presi in esame, a formulare giudizi trop­ po sbilanciati dal lato «americano» della loro produzione e della loro ideologia, creando loro intorno qualcosa di molto simile a un’aura sacra, a un mito. Non è per caso che quando, con un occhio fisso a Adorno e Horkheimer, Rentschler prote­ sta contro questa irresponsabile mitologizzazione, ne fa poi in gran parte ricadere la colpa proprio sulla critica americana: «I critici americani - leggiamo nella sua monografia del 1984 - hanno oscurato i lunghi anni di lotta, la fiera battaglia intrapresa per ottenere sovvenzioni al cinema e alla televisione, gli intensi dibattiti sulla natura problematica dell’accidentata storia cinemato­ grafica della Germania, e si sono invece concentrati sulle scintillan­ ti personalità e le notevoli capacità fantastiche mostrate da questi originali d’oltreoceano. Si è mitologizzato, scrivendo di geni e delicati Wunderkinder di marca estera».

Ora, se dal campo degli studi di storia generale del movi­ mento passiamo - ancorché solo per cenni orientativi — a quello delle monografie sui suoi rappresentanti, troviamo ap­ punto confermati in pieno questi tratti e atteggiamenti. Men­ tre l’interesse per Alexander Kluge, animatore e responsabile primo dello slancio del «nuovo cinema tedesco» uscito da Oberhausen, tende a attenuarsi e a refluire in secondo piano (nonostante i saggi vari che gli sono occasionalmente dedicati nella pubblicistica o in libri collettanei come quello curato da Thomas Bòhm-Christl, Alexander Kluge. Suhrkamp, Frank­ furt a.M. 1983, pp. 280)1, si moltiplicano gli studi sulla gene­ 1 Escono però ora negli Stati Uniti due imporranti fascicoli mono­ grafici su Kluge: quello curato sotto forma di catalogo, in occasione di una restrospettiva dei suoi film, da Stuart Liebman per la rivista

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razione degli autori affermatisi nel corso degli anni 70, in partico­ lare su Wim Wenders, Werner Herzog, Rainer W. Fassbinder. L’improvvisa morte di Fassbinder (10 giugno 1982), che come rileva Elsaesser - da certuni è addirittura «vista quale sino­ nimo della fine del Nuovo cinema tedesco», ha naturalmente favo­ rito le iniziative commemorative in suo onore. È cominciata l’edi­ zione della sua opera cinematografica completa, prevista in 8 volu­ mi, dei quali il primo (Die Kinofilme 1, hrsg. von Michael Tòteberg, Schirmer-Mosel, Miinchen 1987, pp. 294) comprende gli scenari - commentati dal curatore nell’introduzione - dei film del periodo 1965-692; è uscita un’ampia raccolta delle sue interviste (Die Anarchie der Pbantasie. Gespràcbe und Interviews, hrsg. von M. Tòteberg, Fischer, Frankfurt a.M. 1986, pp. 231; ed. france­ se, col titolo L’anarcbie et imagination, a cura di Christophe Jouanlanne, L’Arche, Paris 1987, pp. 179), che vanno ad aggiun­ gersi alle numerose altre sparpagliate un po’ dovunque (lunga e assai significativa quella dal titolo «Alles Verniinftige interessiert mich nicht» edita come corpo centrale della monografia di Wolf­ gang Limmer, Rainer Werner Fassbinder, Filmemacher, SpiegelBuch, Reinbeck bei Hamburg 19822, pp. 208: se ne legge la ver­ sione italiana in R. W. Fassbinder 7 V., a cura di Giovanni Spagno­ letti, Ed. del Grifo, Montepulciano 1983, pp. 175) e a una raccol­ ta di suoi brevi scritti e noterelle, del 1984, ora apparsa anche in traduzione (1 film liberano la testa, a cura di G. Spagnoletti, Ubulibri, Milano 1988, pp. 120); si sono approntati repertori fìljnografìci (Tuttiifilm di Fassbinder, a cura di E. Magrelli e G. Spagnolet­ ti, Ubulibri, Milano 1983, pp. 189, che a tre interviste col regista «October», n. 46, autunno 1988; e quello che, con presentazione di Miriam Hansen e saggi, oltre che dello stesso Kluge, di Rentschler, Corrigan, Heike Sander, Heide Schlupmann e Gertrud Koch, gli dedica «New German Critique», n. 49, inverno 1990. 2 Dal 1990 l’impresa, il cui progetto si è venuto frattanto estendendo dai Kinofilme anche alle sue maggiori realizzazioni televisive, prosegue presso un nuovo editore, dove è già uscito il voi. Il, comprendente 6 film dell’assai prolifico biennio 1970-71: Fassbinder Fifone 2, hrsg. von Michael Tòteberg, Verlag der Autoren, Frankfurt a.M. 1990, pp. 260. Gli altri volumi seguiranno in breve giro di tempo.

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fa seguire la sua «filmografia commentata» a firma di Wil­ helm Roth) e profili critici editi o riediti proprio in occasione della morte (si vedano, per la Germania, oltre a Limmer, Bernd Eckhardt, Rainer Werner Fassbinder, Heyne, Munchen 1982, pp. 255; per l’Italia, Davide Ferrario, Rainer Werner Fassbinder, La Nuova Italia, Firenze 1983, pp. 121); come riedito per l’occasione, con qualche aggiornamento (1983), è stato il volumetto su Fassbinder della «Reihe Film» diretta da Peter W. Jansen e Wolfram Schutte per il Cari Hanser Verlag di Monaco (I ed. 1974, pp. 175). Testimonianze biografi­ che molto ravvicinate, sensibili, suggestive e anche, se si vuo­ le, toccanti, ma per loro natura inevitabilmente inclini all’aned­ dotica, sono quelle dei due suoi amici e collaboratori, Kurt Raab e Karsten Peters (Die Sehnsucht des Rainer Werner Fas­ sbinder, Bertelsmann Verlag, Miinchen 1982, pp. 360); di scarsa o nessuna utilità la biografia romanzata che il non specialista Robert Katz, con la collaborazione di Peter Berling, si è divertito a compilare in stile da settimanale a grande tiratura sotto il titolo di uno dei primi film di Fassbinder, Love is Colder than Death: The Life and Times of Rainer Werner Fassbinder (Jonathan Cape, London 1987; ma ne uti­ lizziamo la ried. nei Grafton Books della Paladin, London-Gla­ sgow 1989, pp. 245); nella retorica aperta scivola il libro notevolmente indisponente - di Gerhard Zwerenz, Der langsame Tod des Rainer Werner Fassbinder. Ein Bericht (Schneekluth, Miinchen 1982, pp. 183); non veduti, di Ronald Hay­ man, Fassbinder Filmmaker (Weidenfeld and Nicolson, Lon­ don 1984), e del danese Christian Braad Thomsen, molto vicino da tempo al regista, Fassbinder - En resa mot Ijuset (Barrikaden, Stockholm 1984)3. * Ultima in ordine di tempo, all’atto in cui scriviamo, la monografia di Yann Lardeau, Rainer Werner Fassbinder, Cahiers du Cinéma, Paris 1990, pp. 308. Secondo Fautore, che per altro procede assai disordinatamente, si abbandona a giudizi avventati e sopravvaluta Fassbinder al punto da farne addirittura «il Balzac della storia del cinema», la questio­ ne centrale dei suoi film resta sempre fondamentalmente la stessa:

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Non che nascondere le sue propensioni eccentriche, Fass­ binder semmai le ostenta. Dal titolo di una delle interviste citate sopra sappiamo già che il «razionale» non Io interessa. Qualcosa di simile potrebbe ripetersi e viene ripetuto nei confronti di Herzog. Per il suo cinema - sottolineava Sanford - aggettivi come «ossessivo», «apocalittico», «demoniaco» ecc., ricorrono sempre di nuovo nella letteratura critica; né sorprende che da una critica abitualmente incline all’irrazionalismo vengano ap­ prezzate e sopravvalutate oltre ogni limite anche le sue compia­ cenze per l’eccentrico, il mistico e il patologico. Herzog si presta d’altronde molto bene a raffigurazioni di tipo romantico-maledet­ to. Senza poter qui dire diffusamente della saggistica che lo riguarda, molta parte della quale per altro corriva o immatura (Paolo Sirianni, Il cinema di Werner Herzog, Libero Scambio, Firenze 1980, pp. 113; Fabrizio Grosoli, Werner Herzog, La Nuova Italia, Firenze 1981, pp. 121; non veduta la silloge di saggi Werner Herzog: Between Mirage and History, ed. by Timo­ thy Corrigan, Methuen, New York-London 1986), ricorderemo solo come il cineasta romeno Radu Gabrea, autore di una tesi di dottorato discussa nel 1983 all’Università Cattolica di Lovanio e più tardi pubblicata in Svizzera (Werner Herzog et la mystique rhénane, con pref. di Freddy Buache, l’Age d’Homme, Lausan­ ne 1986, pp. 232), non trovi di meglio che fare appello alla «mistica renana» quale chiave ermeneutica di almeno tutta la prima fase - fortemente metaforica — del cinema di Herzog: la cui struttura in genere sarebbe per lui «riducibile a una catena [...] di immagini visionarie». Certo non mancano neanche nei suoi confronti, da parte di Rentschler, a es., o del francese Emmanuel Carrière (Wer­ ner Herzog, Edilig, Paris 1982, pp. 127), riserve, prese di distanza critiche, aperti dissensi. Così, se l’uno denuncia l’as­ surdo «culto del genio» alimentato dal regista stesso («Gli «quella della nascita della democrazia in Germania». Come Balzac descrive la Restaurazione, così - egli sostiene - «Fassbinder descrive la Repubblica federale tedesca, una Germania stupefatta, che rimugina senza fine l’impossibile lutto del III Reich» (p. 120).

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osservatori hanno accettato la caratterizzazione che Herzog fa di se stesso come di qualcuno che sta al di là del tempo e della tradizione. Si guarda alle sue opere come all’espressione simbo­ lica di una singolare esperienza estetica, non mediata da rap­ porti storici o politico-sociali»), l’altro, pur riconoscendo in Herzog un vero «autore», ne critica l’eccentrismo esasperato e lamenta quella sorta di compiaciuto snobismo critico venutosi a creare, pressappoco a partire del 1975, intorno alla sua figura: «Le sue stesse eccentricità, compiaciutamente riferite e amplificate, concorrono a dare di lui un’immagine di genio specificamente romantico»: che è poi la trappola in cui cade in pieno il libro di Gabrea. Con Wenders le deformazioni critiche di questo tipo giun­ gono forse al loro culmine. Favorite dai suggerimenti dell’auto­ re stesso, grazie a una messa in circolazione d’ampiezza senza precedenti delle sue interviste e dei suoi scritti critici (tutti o quasi tutti leggibili ormai anche in italiano: si vedano in spe­ cial modo l’appendice allo scenario di Nick's Movie, Ubulibri, Milano 1982, pp. 162-213, e i due volumi di Wenders, L'idea di partenza. Scritti di cinema e musica, a cura di Toni Verità, Libero Scambio, Firenze 1983, pp. 198, e Stanotte vorrei parla­ re con l'angelo. Scritti 1968-1988, a cura di G. Spagnoletti e M. Tóteberg, Ubulibri, Milano 1989, pp. 217), esse vanno soprattutto nel senso di alimentare anche qui il culto indiscri­ minato per la sua «genialità»; di tracciare una linea ascenden­ te continua tra la sua esperienza tedesca e quella americana; e di additare proprio nel manierismo cui approda quest’ultima anziché nell’altra, tanto più autentica — il clou della sua sapien­ za creativa. Dalla monografia d’impianto e intenti confessatamente pubblicistici di Uwe Kiinzel (Wim Wenders. Ein Film buck, Dreisam-Verlag, Freiburg i. Br. 1981, pp. 189), attraverso la ricerca più impegnativa di Peter Buchka (Augen kann man nicht kaufen. Wim Wenders und seine Filme, Hanser, Miinchen-Wien 1983, pp. 139), fino alla riedizione aggiornata del primo numero collettaneo della collana «Camera-Stylo», risa-

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lente al 1981 (Wim Wenders, Ramsay, Paris 1987, pp. 158), ben pochi sono i lavori che si sottraggono a quei pregiudizi, a quella impostazione fuorviarne, palese più che altrove nell ulti­ mo testo menzionato: dove la maggioranza dei saggi incorro­ no, per un verso, nell’equivoco che abbiamo visto sopra denun­ ciato da Rentschler e dalla coppia Hedges-Bernstein, cioè a dire l’illusione circa la mancanza di radici degli autori del «nuovo cinema tedesco» (nella fattispecie, del cinema di Wen­ ders), e per l’altro si abbandonano a un’identificazione acritica pressoché completa, fin nel tipo di scrittura usata, con l’ogget­ to della loro analisi. Che notevoli temi della poetica di Wen­ ders, come quelli del «viaggio», della Heimatlosigkeit ecc., siano ormai stati messi adeguatamente a fuoco dalla critica anche in saggi e libri appositi, non può far mutare il giudizio sugli scompensi della situazione critica di fondo. Quali ultimi tentativi di sintesi del suo cinema, andranno comunque alme­ no ricordati il rifacimento della tesi di dottorato discussa nel 1981 da Kathe Geist presso l’Università del Michigan (The Cinema of Wim Wenders: From Paris, France to «Paris, Te­ xas», U.M.I. Research Press, Ann Arbor-London 1988, pp. 164), oltre metà della quale riguarda il secondo Wenders, da L’amico americano in poi, e il fascicolo monografico della rivi­ sta «Etudes cinématographiques» (Wim Wenders, con pref. di Michel Estève>,n. 159-164, 1989, pp. 207)4, notevole soprat­ tutto per l’importante saggio in cui Barthelemy Amengual, privilegiando, all’opposto, il primo sul secondo Wenders, vede l’importanza del suo cinema nel fatto che esso ritrae un disa­ gio «anzitutto tedesco, di una Germania storicamente e social­ mente definita»; così come sarebbero da ricordare anche benché qui non ci sia purtroppo lo spazio per farlo — i numero­ 4 Un fascicolo monografico speciale, con crestomazia di passi dei giudizi via via formulati dalla rivista (tutti all’insegna di un entusiasmo acritico), dedica a Wim Wenders anche « Jeune Cinéma», dicembre 1989. Contemporaneamente esce il testo (che non conosciamo) di Mi­ chel Boujut, Wim Wenders: un voyage dans ses films, Flammarion, Paris 1989, pp. 206.

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si lavori dedicati agli altri componenti la pattuglia del «nuovo cinema tedesco», Reitz, Syberberg, Schlòndorff, la von Trotta ecc. (Un caso del tutto anomalo, da trattare a parte, forma la coppia Straub-Huillet.) Che cosa dire a conclusione di questo rapido giro d’oriz­ zonte nell’ambito della letteratura critica degli anni ’80? Nono­ stante gli indubbi progressi conseguiti, segnatamente con i lavori di Rentschler e Elsaesser, non possiamo non ripetere quanto già osservato in occasione di una precedente rassegna di studi sul tema5: che cioè il successo a sensazione del «nuo­ vo cinema tedesco» si riflette anche nelle scelte, nel tono, nel metodo della storiografia. Indubbio l’allargamento di campo così ottenuto: pubblicistica, saggistica, letteratura critica se ne avvantaggiano oltre ogni aspettativa, ne escono arricchite e potenziate. Ma stanno esse anche realmente all’altezza del loro compito? Corrispondono le loro scelte, i loro giudizi, i loro atteggiamenti simpatetici, la dislocazione progressiva dei loro interessi (nel senso esposto sopra), a una reale evoluzione interna, a una via di ascesa del «nuovo cinema tedesco»? A noi sembra di no. E non per i motivi messi innanzi da coloro che, in reazione agli entusiasmi, prendono la parte dei detrat­ tori dichiarati, come avviene a es. nel caso di Der deutsche Film beute, scorribanda dal piglio iconosclastico a firma di Hans-Joachim Neumann (Ullstein, Frankfurt a.M.-Berlin 1986, pp. 195), incentrata sull’analisi dei quattro temi richiamati dal sottotitolo: autori, danaro, successo e pubblico; poi­ ché la requisitoria di Neuman contro le istanze pretenziose, il provincialismo, l’impopolarità ecc. del cinema tedesco dopo Oberhausen appare, prima che impietosa, ingiusta e retriva, e non colpisce comunque il bersaglio giusto. No, sono proprio motivi intrinseci, connessi con l’esigenza di ricostruzione, penetrazione e svisceramento dell’essenza sto­ rico-artistica del movimento, che al quesito testé posto, se la letteratura critica sul «nuovo cinema tedesco» sia davvero 5 Cfr. Sul cinema tedesco, in “Cinema nuovo”, XXXIII, 1984, n. 288, pp. 55-8.

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all’altezza del suo compito, se sappia fornirci di esso un pano­ rama sufficientemente articolato, ci induce a dare finora nel complesso una risposta negativa o, almeno, interlocutoria. Gli stessi critici tengono per lo più un atteggiamento interlocuto­ rio: col pretesto della mobilità e fluidità della situazione, essi descrivono uno stato di cose piuttosto che scandagliarne il retroterra, le radici, la genesi. Neanche la storia di Elsaesser rimonta a sufficienza la china. Essa solleva ma non imposta adeguatamente - tanto meno risolve - il problema della «pro­ spettiva storica». Troppo spesso la psicologia sociale prende in essa il posto della storia vera e propria; disegno generale e analisi specifica si perdono spesso in un esasperato e dispersi­ vo «decostruzionismo». Troppi restano in ogni caso, lì e altro­ ve, gli entusiasmi senza giustificazione, le esaltazioni indiscri­ minate, i compiacimenti per il pessimismo acritico e per la decadenza: a es. per quelli che vengono definiti da più parti senza ambagi, ma con compiacimento, il «nichilismo» o la «poetica della circolarità» di un Herzog4.

6 Non si è potuto qui tener conto dei due posteriori saggi di Giovanni Spagnoletti, Il Nuovo cinema tedesco, in Europa “90. Dieci momenti di storia del cinema, con pref. di Enzo Natta, AJM.C.C.I., Roma 1989, pp. 207-29, e R.F.T.: oltre Oberhausen, in «Cinecritica», XIII, 1990, n. 16-17, pp. 50-6, entrambi i quali registrano l’ormai avvenuta dissoluzione del movimento.

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Parte terza LA CRITICA IN CONTROLUCE: VANILOQUI, PLAGI, SCANDALI ACCADEMICI E ALTRI MISFATTI

Chi abbia anche soltanto scorso gli scritti raccolti nella seconda parte del presente lavoro si sarà reso conto da sé dei limiti che inficiano la più gran parte della letteratura critica sul cinema. Avrà constatato quanto loglio cresca, insieme al grano, nel campo della critica; come tra le rose del giardino fioriscano molte erbacce; come insomma sui fatti spesso pre­ valgano i misfatti. Ma si è trattato pur sempre, fin qui, di misfatti critici, cioè di insufficienze o inadempienze dal punto di vista della ricerca scientifica, meritevoli, come tali (tranne poche marginali eccezioni: pensiamo soprattutto al caso Hitch­ cock), di una seria e pacata discussione. Altra cosa è quando da qui si passa alla sfera dei misfatti in senso proprio. Pur procedendo solo per campioni e riferen­ dosi esclusivamente a circostanze, vicende, nomi e personaggi nostrani, gli scritti polemico-satirici di questa terza parte han­ no a loro oggetto proprio questo lato crudamente negativo della faccenda, svariando dall'illustrazione di alcuni dei più gravi scandali accademici relativi al cinema occorsi negli ulti­ mi decenni in Italia (alcuni, non certo i soli) fino alla denun­ cia, in tono a mezzo tra il riso e il pianto, di vaniloqui, farneticazioni, discorsi a ruota libera, manipolazioni critiche del più vario genere. Come il lettore vedrà, gli scritti che seguono non sono tutti recentissimi, taluni di essi risalendo anzi agli anni 70 (e uno anche più indietro). Ovvio che, se prendessero spunto 267

dalla situazione di oggi, se si incentrassero solo sull’attualità, il loro tiro dovrebbe essere almeno in parte aggiustato; vi si dovrebbero operare delle nuove inclusioni e, forse, qualche esclusione; vi si dovrebbe prendere in considerazione, dopo la “nuova critica”, anche la nuovissima, quella che è saltata senza esitazioni nella pozzanghera del postmoderno e che ci sguazza dentro allegramente (si pensi, poniamo, alla compa­ gnia giovanilmente avventurosa attiva presso la rivista «Segnocinema»). Può darsi inoltre che, riguardate a distanza di tem­ po, alcune prese di posizione sembrino ingiuste; che certe bordate risultino inefficaci o vadano fuori bersaglio o, peggio, centrino il bersaglio sbagliato e facciano malauguratamente anche delle vittime innocenti. Purtroppo in una zuffa, ammoni­ va Lenin, riesce sempre difficile stabilire quali colpi siano necessari e quali superflui. Ma, prescindendo da casi singoli, che è sempre possibile discutere o contestare, chi scrive ritiene di non dover mutare proprio nulla riguardo agli obbiettivi polemici di fondo perseguiti; poiché, se anche talora (non sempre) è cambiato il peccatore, il peccato non è cambiato affatto; e se molte delle “teorie” qui messe alla berlina sono già crollate da sole sotto il peso del ridicolo, tante altre che vanno loro sottentrando e che si fondano su analoghi presup­ posti (a cominciare da quelle, vacue al massimo, del postmo­ derno), trovano qui dentro una sorta di confutazione anticipa­ ta. Riproponiamo dunque polemiche e denunce (sempre, dove opportuno, con gli aggiornamenti del caso; il lettore interessa­ to all’oggi veda anche le postille aggiunte ai capp. XVIII-XX e le Considerazioni critiche conclusive, XXIII), non solo per­ ché esse documentano oggettivamente una continuità, ma an­ che perché siamo personalmente convinti della loro attualità e fiduciosi che esse servano, prima o poi, a sollevare gli animi contro la disastrosa situazione critica e istituzionale ora vigen­ te, contro uno stato di cose semplicemente intollerabile. Dato tuttavia che le polemiche acquistano tanto maggior senso e riescono tanto più giustificate e chiare quanto più stretto è il nesso con il contesto che volta per volta le determi­ 268

na, il lettore troverà, accanto al titolo, anche l’anno di composi­ zione di ciascuno degli scritti (capitoli e paragrafi) di questa terza parte, tutti apparsi - tranne l’ultimo, inedito - in «Cine­ ma nuovo»; secondo il seguente ordine cronologico: XV, 1966, n° 179, pp. 10-4 (il § 1 del XIX); XXI, 1972, n° 216, pp. 90-3 (il § 1 del XX); XXII, 1973, n° 225, pp. 334-9 (il XVIII); XXIV, 1975, n° 233, pp. 63-5 (il § 2 del XX); XXVI, 1977, n° 246, pp. 102-14, e n° 247, pp. 176-7 (il XXI); XXVIII, 1979, n° 260, pp. 8-9 (il § 1 del XXII); XXX, 1981, n° 274, pp. 25-6 (il § 2 del XXII); XXXI, 1982, n° 280, pp. 11-2 (il § 2 del XIX: qui però riprodotto col titolo e nella versione originale integrale, diversa da quella edulcorata, di compromesso, apparsa in «Cinema nuovo»); XXXV, 1986, n° 300, pp. 60-1 (il § 3 del XX).

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XVIII

Nostri docenti allegri [1973]

Che nel corso degli ultimi dieci o quindici anni le discipli­ ne dello spettacolo siano venute acquistando sempre maggior spazio, peso, influenza all’interno delle strutture didattiche e organizzative delle nostre università e dei nostri istituti di cultura, è affermazione che non richiede né prove né commen­ ti. Salta agli occhi di chiunque l’interesse sempre più diffuso, presso studiosi e studenti, specialmente delle generazioni più giovani, per questo genere di problemi, la coscienza sempre più avvertita del ruolo che lo spettacolo (teatro, cinema, televi­ sione) giucca nella vita sociale, sia a livello d’arte e di cultura, sia sotto forma di veicolo per le «comunicazioni di massa». Ora, nel desiderio di far fronte a queste nuove esigenze, di soddisfare queste nuove richieste, università e istituti cercano di attrezzarsi adeguatamente, reclutando docenti, provvedendo­ si di mezzi e strumenti tecnici di ricerca; che non ci riescano almeno che non ci riescano come dovrebbero - è cosa altret­ tanto nota a tutti. Non intendiamo parlare qui (perché non ne avremmo neanche la competenza) della grave questione della carenza dei fondi necessari per l’adeguamento delle «infrastrut­ ture» alle strutture didattiche e, conseguentemente, della ca­ renza di queste ultime rispetto ai bisogni della ricerca scientifi­ ca; ci accontentiamo di porre la domanda, quale effettiva ri­ spondenza abbia l’accresciuto peso didattico di una disciplina come il cinema nelle capacità del personale insegnante; se e in che misura alla sua maggiore incidenza facciano riscontro, tra i 271

docenti, quadri seri, preparati, responsabili. Purtroppo non ci vuole molto a rendersi conto come anche da questo secondo ma non secondario - punto di vista la situazione universitaria sia disastrosa. Esistono naturalmente qui, come dovunque, eccezioni, che non occorre nemmeno ricordare; ma è questo un campo in cui, all’ombra dei pochi alberi di buon fusto, cresce e prospera anche, in modo veramente preoccupante, uno sterminato sottobosco. «Cinema nuovo» ha già avuto più volte in passato occasio­ ne di denunciare casi di malcostume. Il lettore vorrà scusarci, se qui ci dovremo ripetere. Ma il cinema è, oltre che l’ultima e la più derelitta, anche la più curiosa delle discipline universita­ rie. Ciò che non sarebbe neppure immaginabile per altre disci­ pline, qui è prassi ordinaria, moneta corrente. Scandali, plagi, ciurmerie, vergogne di ogni genere non contano nulla; non arrestano minimamente l’ascesa e la carriera degli avventurie­ ri; costoro proseguono imperterriti come niente fosse; qualsia­ si documentata denuncia nei loro confronti cade nel vuoto. Ripetersi diventa perciò necessario. Prendiamo due casi a dir poco clamorosi. Nel 1965 il prof. Alfonso Canziani (a quel tempo, per vero, non ancora professore) pubblicava presso Silva una breve monografia dal titolo Un maestro del cinema francese: Robert Bresson, recensita, a cura di chi scrive, nel fascicolo del gennaio 1967 di «Ferrania». Riproduciamo qui di seguito integralmente questa recensione, a debita informa­ zione del lettore: Robert Bresson è regista meritevole di una considerazione criti­ ca molto più attenta e più seria di quella che non gli sia stata finora riservata nelle monografie di René Briot (1957), di Jean Sémolué (1959), di Michel Estève (1963), o nel saggio raccolto da John Russell Taylor in Cinema Eye, Cinema Ear (1964). Ciò premesso, non si comprendono davvero i motivi che hanno indotto Alfonso Canziani (già autore, qualche anno fa, di uno sprovvedutissimo saggio su L'ultimo cinema francese) a dar fuori su Bresson l’ennesimo lavoruccio di compilazione, che non solo non allarga in benché minima misura l’angusto orizzonte critico della

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saggistica francese, ma la plagia di continuo smaccatamente, risul­ tando già solo per le poche cose confrontate tutto un florilegio di citazioni «clandestine» da quella, e in particolare dal Bresson di Briot: autore che il Canziani si guarda bene dal menzionare, se non una volta, indirettamente, e ignora comunque del tutto nell’in­ dice dei nomi. Ci limitiamo a qualche rilievo. Tutta l’esposizione e l’analisi di Les anges du péché [p. 8 ss.] ricalcano quella che ne fa Briot. Le osservazioni circa l’assenza nel film di ogni ricorso alla maniera, circa la centralità del tema della redenzione, circa il merito della trasformazione del contenuto religioso (per la prima volta nella storia del cinema francese) in un dramma di anime, circa la esem­ plarità stilistica della sequenza del delitto, tanto per cominciare, non sono originali di Canziani, ma appartengono a Briot [cfr. rispettivamente le pp. 18, 19-20, 21-22]; Briot trova poi «melo­ drammatico ed equivoco» il titolo definitivo del film, voluto dai produttori in luogo del previsto Béthanie [p. 16], e per Canziani si tratta di un «titolo melodrammatico e fumettistico, decisamente brutto se si pensa a quello originale: Béthanie» [p. 10]; Briot scrive che la querelle se veri autori del film debbano ritenersi il regista o non piuttosto i soggettisti e gli sceneggiatori non ha luogo per Les anges du péché, in quanto nel film si ritrovano «tutti gli elementi di uno stile che andrà affermandosi con Les dames du Bois de Boulogne e Le journal dun curé de campagne» [p. 16]; ed ecco Canziani definire «speciosa [...] la surricordata querelle» (co­ me se a ricordarla fosse stato lui, e non Briot), «in quanto l’opera reca quello stile inconfondibile e quel rigore esemplare che saran­ no patrimonio e caratteristica dei film successivi del regista: da Les dames du Bois de Boulogne a Le journal d’un curé de campagne» [pp. 10-11]. Ancora: che in U» condamné à mort s'est échappé non ci sia nulla del film di guerra, vi manchi volutamente ogni «suspen­ se» riguardo all’esito dell’evasione e l’interesse verta soltanto sul «come» di essa [pp. 68-70], sono cose che, all’incirca con le stesse parole, aveva già detto Briot [pp. 85-86]; e di Briot, non di Canzani, è il rilievo che Bresson persegue la costante utilizzazione del sonoro in funzione creativa [Briot, p. 89 ss.; Canziani, p. 76 ss.]. Nemmeno le citazioni sono originali. Passi qui citati da un’in­ tervista di Quéval a Bresson [p. 20], da un saggio di Thierry Maulnier su Racine [p. 23], da The Film Sense di Ejzenstein [p.

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77] vengono pari pari da Briot [p. 22, 23, 90]; e solo per Ejzenstein è richiamata la fonte, mentre nel caso delTintervista di Quéval non si rinvia né a Quéval né a Briot! Quanto poi al parallelo con Racine, Canziani lo fa passare senz’altro per suo: «Riteniamo ozioso risalire nella storia del cinema alla ricerca di prototipi della stilistica bressoniana [...]. Importante ci sembra piuttosto vedere il perché e in qual misura [...] il metodo e lo stile del regista siano o no quelli tramandati dal classicismo» [p. 23] (Briot aveva scritto: «Sarebbe inutile cercare le fonti di una tale stilistica nella storia del cinema [...]. Vale piuttosto la pena di domandarsi in qual misura Parte di Robert Bresson [...] non derivi dall’estetica classi­ ca» [p. 23]); e più in là, fingendo di ignorare l’osservazione di Briot secondo cui Bresson «è tra i pochi registi per i quali il cinema è né più né meno che una scrittura» [p. 25], si attribuisce con disinvoltura (e incredibile faccia tosta) la «scoperta»: «Abbia­ mo già scritto altrove che, per Bresson, il cinema non è spettacolo, è una scrittura» [p. 81]. Persino la sottolineatura risulta un plagio! Come è evidente, siamo qui di fronte, prima che a un lavoruc­ cio di compilazione (comunque stentato, sgangherato, di nessun valore), a un nuovo caso di malcostume critico: che non fa certo onore alla critica italiana, e nemmeno serve la causa di Bresson. «Di Robert Bresson resta ancora da scoprire il più», dice Canziani a conclusione del suo lavoro [p. 118]. Verissimo: auguriamoci dunque con lui, per il bene di tutti, che «i posteri» possano aggiungere «la loro esperienza più ricca e penetrante della nostra e [...] andare così più a fondo nel mondo poetico di questo grande e autentico talento creativo» [p. 116]. Sempre naturalmente che si tratti di «posteri» un po’ meno squalificati e disonesti del loro «antenato» signor Canziani.

Contemporaneamente anche la rubrica Biblioteca di «Cine­ ma nuovo» (n. 184, 196, p. 461) segnala, tramite il sottoscrit­ to, tale «ennesimo caso di malcostume», parlando di nuovo apertamente di «plagio maldestro e smaccato» e rimandando per la documentazione alla recensione apparsa su «Ferrania». Chiunque si aspetterebbe a questo punto un moto di rea­ zione da parte delFautore; che so, una protesta, una replica risentita, un abbozzo di giustificazione, un tentativo di addur­ re scusanti (come accaduto in precedenza per altri casi di

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plagio denunciati da «Cinema nuovo», a esempio nel caso di Baldelli) : sebbene si debba riconoscere che questa volta sareb­ be stato assai problematico trovarne. Invece nulla, assolutamente nulla; secondo una prassi ormai consolidata in questo campo, silenzio rigoroso su tutta la linea. Non solo, ma, a dispetto di questi così poco raccomandabili titoli, anzi proprio soltanto con essi, visto che non ne ha altri, il prof. Canziani fa la sua regolare carriera: passa gli esami di libera docenza (evidentemente grazie a una commissione disinformata o com­ piacente), ottiene l’incarico di filmologia presso la Facoltà di Magistero dell’università di Bologna, insegna e scrive altri sciaguratissimi libri, che gli studenti debbono obbligatoriamen­ te leggere e studiare per i suoi corsi. (Nelle prime due serie dei suoi Autori del cinema francese, 1968-71, di Bresson a ogni buon conto non si parla.) Nulla di simile potrebbe accade­ re altrove; nessuno storico, nessun letterato, nessuno scienzia­ to potrebbe, con simili precedenti, restare al suo posto senza scandalo. Ma per il cinema è diverso; il cinema - ripetiamo ha norme sue proprie, ha la sua deontologia speciale. Secondo caso clamoroso. Riguarda il «signor B.», owerossia il prof. Edoardo Bruno, direttore di «Filmcritica» e incari­ cato di storia e critica del cinema presso la Facoltà di Lettere dell’università di Palermo. Delle sue trovate amene e della sua incredibile carriera diamo una illustrazione dettagliata più oltre (XIX, §§ 1 e 2), limitandoci qui a riscontrare come trovate, carriera e ascesa scandalosa avvengano nel silenzio generale, senza la riprovazione di nessuno: anzi, tra i battima­ ni di molti, con premi, ricompense, favori ecc. largiti a piene mani. E qui potremmo anche far punto. Ma non si creda che l’allegria dei nostri docenti finisca qui. No, niente affatto. Quello dei filmologi è un ambiente dove l’allegria è sempre all’ordine del giorno e la sconsideratezza regna sovrana. C’è chi, per via di alte protezioni, detiene incarichi in materia, avendo scritto di cinema poco o nulla; e chi, scrivendo, scrive male; ci sono liberi docenti, incaricati, aspiranti alla cattedra, 275

cattedratici, che danno fuori solo testi affrettati e abborraccia­ ti, spesso al di sotto non si dice di quel minimo di rigorosità scientifica che pure qui si richiederebbe, ma persino della semplice correttezza didattica e informativa. In altri casi l’apparente rigore dell’impostazione nasconde vuotezza o superficialità. Con gli esempi che ora ci proponia­ mo di fornire siamo - si capisce - a un livello di serietà diverso rispetto all’allegria sfrenata dei Bruno e dei Canziani; ma non si è mai, neanche qui, sul piano della vera serietà scientifica. Il prof. Giovanni Calendoli raccoglie in Materiali per una storia del cinema italiano (Parma 1967) una serie di saggi che non si sa bene a quale scopo possano servire. Scelta e trattazione degli argomenti rispondono tutt’al più a una visione giornalistica, non già critica e scientifica, della storia del cinema. Che certi schizzi, come elzeviri giornalistici, fun­ zionino, non giustifica che li si raccolga - nemmeno sotto forma di «materiali» - in un volume con ambizioni storiche. Da corsi di lezioni tenuti alI’Università di Urbino nasce il libro del prof. Luigi Chiarini, Cinema e film. Storia e problemi (Roma 1972), che vorrebbe avere appunto, conformemente a quanto dicono titolo e prefazione, «un’impostazione problema­ tica». Che sia proprio nell’intento dell’autore oppure a causa della forma scelta per la trattazione, certo è che, leggendo Chiarini, si ha l’impressione di fare un salto indietro di molti anni (senza purtroppo che ciò significhi anche un ritorno al Chiarini dei libri che gli hanno dato in passato giusta fama di teorico). E non solo perché, contro la moda, l’autore lascia trasparire un’incomprensibile nostalgia filosofica per Gentile, per i problemi dello «specifico fìlmico», ecc., ma perché egli non sa dare al suo libro nessuna veste scientifica. Più che di un testo «problematico», si tratta della problematicità sorgen­ te nel testo dal fatto che i gruppi rapsodici di osservazioni non si connettono mai nell’unità di un discorso esaurientemente critico. Le cose non vanno meglio, dal punto di vista metodologi­ co, con le ricerche del prof. Mario Verdone. Sono note a tutti

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talune sue disavventure di ricercatore a proposito di Bragaglia. Quanto al Sommario di dottrina del film (Parma 1971), il meno che si possa dire è che si tratta di un coacervo di pezzi senza nesso, tanto disordinato quanto superficiale, e semplicistico. Anch’esso è una raccolta di scritti sorta per i bisogni dell’insegnamento universitario; ma qui la struttura composita del lavoro e la rapsodicità degli scritti sono anche più fastidio­ se che in Chiarini. Per lo meno molto dubbia la professione di fede che Verdone fa come storico: quella di registrare «fedel­ mente e quasi spassionatamente i fatti, per porgerli disinteres­ satamente — come documento - all’uomo futuro». A parte l’ovvia considerazione che tale spassionatezza e disinteresse in storia non esistono, chiunque può constatare come l’autore per primo contravvenga alla regola metodologica che si è imposta; basti vedere il tono apologetico da lui impiegato trattando della «scuola di “Bianco e Nero”» (dove già il termine «scuo­ la» appare veramente eccessivo). Falsa e ingannevole anche la profondità delle ricerche di «semiologia filmica» del prof. Gianfranco Bettetini; sui suoi libri (Cinema: lingua e scrittura, Milano 1968; L'indice del realismo, Milano 1971) «Cinema nuovo» si è già espresso con tutta la severità che essi meritano. E come di Calendoli, Chiari­ ni, Verdone e Bettetini, così si potrebbe dire di molti altri. Quanto poi ai più giovani docenti agli inizi di carriera, se si deve giudicare dagli esordi accademici di Gian Piero Brunetta (Intellettuali, cinema e propaganda tra le due guerre, Bologna 1972) e di Giorgio Tinazzi (Il cinema di Luis Bunuel, Paler­ mo 1973), incaricati rispettivamente a Padova e a Siena, allo­ ra bisogna dire, anzi ribadire (perché «Cinema nuovo» ha già motivato questi giudizi), che entrambi come professori comin­ ciano malissimo. Orbene, contro questa superficialità, contro questa negli­ genza, contro questo intollerabile andazzo di cose, contro que­ sta disastrosa situazione universitaria e tutte le sue relative e molto gravi conseguenze (in primo luogo il fatto che agli studenti vengano messi in mano a forza libri che non solo non 277

li formano, ma che li disinformano), noi crediamo doveroso protestare energicamente.

Postilla 1991 Se le fatiche del prof. Verdone, i suoi libri e libercoli zeppi di autocelebrazioni, la sua mania di scriversi addosso ecc., mi hanno sempre fatto e mi fanno una pessima impressione, quan­ to precede non intende minimamente offendere la memoria di una personalità contraddittoria ma degna di stima e rispetto come quella di Luigi Chiarini, studioso cui del resto io stesso avevo già in precedenza dedicato un apposito saggio critico (La prima fase dell’attività critica di Luigi Chiarini, in «Ferrania», XI, 1957, n° 9, pp. 28-9. Cfr. anche le pagine su Chiarini del saggio La teoria cinematografica in Italia durante il fascismo, in «Giovane critica», I, 1964, n° 4, pp. 57-79; rist. in Problemi di teoria e storia del cinema, cit., pp. 25-42). Valga lo stesso rilievo per Brunetta. La mia stima personale è assolutamente fuori questione. Egli ha certo continuato la sua carriera in seguito meglio di quanto non l’avesse incominciata, affermandosi come uno degli storici di maggior notorietà (anche internazionale) della generazione di mezzo. E tuttavia nei confronti dei suoi lavori, in specie della sua monumentale Storia del cinema italia­ no (2 voli., Ed. Riuniti, Roma 1979-82), io continuo a nutrire serie riserve, già anche pubblicamente espresse: poiché, se l’au­ tore va complimentato per la vastità del materiale reperito e messo insieme, metodo di ricerca, procedimenti, giudizi, risulta­ ti, tutto lascia molto a desiderare; in generale, la tecnica della giustapposizione, dell’accostamento monografico di ‘pezzi’ diver­ si, risulta dispersiva e non ridonda in alcun modo a favore dell’unità organica dell’insieme. Vada comunque ancora per la Storia. Ma per un libro che si abbandona tanto acriticamente e compiaciutamente nelle braccia del postmoderno quanto il suo recente Buio in sala. Cent’anni di passioni dello spettatore cinema­ tografico (Marsilio, Venezia 1989) non mi riesce proprio di sentire alcun interesse. 278

Con un personaggio come Canziani (oggi responsabile, col titolo di «associato», della cattedra di Filmologia presso la Facol­ tà di Magistero dell'università di Bologna, dove gode di larghe, immeritate e incomprensibili protezioni specie nell’ambito del Dipartimento di Italianistica, da cui la cattedra dipende per la ricerca scientifica) siamo invece al di sotto di ogni limite di decenza accademicamente e professionalmente tollerabile. Non è nemmeno il caso di sprecarci tempo e parole. Ricorderò solo come, non potendo più tacere dopo la mia seconda denuncia, egli inviasse una lettera a «Cinema nuovo» (pubblicata nel n° 227 del 1974, insieme con la mia replica; cfr. anche, nel n° 229, le repliche di Aristarco e mia a una nota di Verdone sul «Dram­ ma»), dove circa il punto principale in questione, quello del plagio, egli si esprimeva testualmente così: «Per quanto mi riguarda mi sbrigo in poche parole: non conosco purtroppo la monografia del Briot cui l’autore del ‘pezzo’ fa riferimento, non sono riuscito, allora (ai tempi ormai lontani in cui preparavo il lavoro su Bresson) a trovarla né a Bologna, né in Francia, perché, mi fu risposto, il testo era esaurito (non feci ricerche nelle biblioteche di altre città e non so nemmeno se oggi quel testo sia stato ristampato). Ho letto bensì, tra l’altro, articoli del Briot su film di Bresson, come ho letto altri saggi e articoli sull’argomento ma quello, specificamente, non lo conosco». Sono parole che si commentano da sé. Le pseudo-giustifi­ cazioni addotte farebbero arrossire chiunque, basterebbero a squalificare anche un semplice giornalista; figuriamoci uno studioso, un ricercatore, un docente universitario. Forse il prof. Canziani ignora che in Francia esistono delle bibliote­ che; anche se per trovare il Bresson di Briot basterebbe fre­ quentare le biblioteche italiane. Ma quel che più indigna è che qui Canziani mente spudoratamente: poiché - come ricordo nel testo - egli stesso fa a Briot un riferimento esplicito (uno solo!), citando dal suo Bresson un passo di Ejzenstejn (pp. 76-7). Che, a parte tutta l’assurdità di citare Ejzenstejn in base a Briot (pressappoco come se uno citasse Petrarca in base a Leonardo Bruni), è segno sicuro che quel testo non solo lo conosceva bene, ma lo aveva proprio lì, a portata di mano. 279

XIX

Rapporto sul signor B.

1. Le amene trovate del signor B. [1966] Chi si prendesse il gusto di spulciare un poco tra la miria­ de di articoli o articoletti, zeppi di ridicola saccenteria, che costituiscono molta parte delle riviste di cinema, avrebbe mo­ do senza dubbio di comporre un gustoso florilegio. Il rango d’onore, per la saccenteria ridicola, toccherebbe forse a «Film­ critica», nella persona del suo direttore, Edoardo Bruno, il quale vi impazza allegramente quasi ogni mese, con sparate, a sentir lui, sempre «moderne» e «rivoluzionarie». Ma il signor Bruno (che è tra coloro che si prendono tremendamente sul serio) non si limita ad impazzare sulla sua rivista. No, per tema di veder perduto o disperso tanto tesoro di idee, egli ristampa ora quelle sue paginette, tagliuzzate, rabberciate e incollate alla meglio, in un volume che ha il pregio (la battuta non è mia) soltanto di esser breve: Tenden­ ze del cinema contemporaneo, Roma 1965, con prefazione di Armando Plebe. A scanso di equivoci, Plebe comincia subito col dichiarare il suo dissenso - e non si può non dargli ragione - «da parecchi dei giudizi critici espressi da Bruno»; ma — aggiunge qui, e ribadisce altrove (nella recensione a questo stesso volume, in «Paese Sera-Libri», 9-4-1965) - «il discorso del cinema di tendenza è un discorso importante: sarà bene starlo a sentire e rifletterci». Stiamo dunque a sentirlo e riflettiamo. Che cosa è mai

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questo «cinema di tendenza»? «Quando si parla di nuove tendenze», leggiamo all’inizio, «non si opera una scelta contro tutto ciò che si è prodotto in passato, ma a favore di un superamento dei limiti quale contributo ad un arricchimento in senso positivo [?], senza coltivare il timore della usura dei mezzi espressivi [...]. Quel che conta è assumere prima di tutto il concetto fondamentale di struttura uguale a razionalità e assimilare il concetto pudovkiniano della chiarezza» [pp. 11-12]. Se così, a esempio, il cinema senza personaggi, il cinema-verità, è un cinema informe, «il cinema strutturato attorno a una vicenda o personaggio resta un cinema realisti­ co, collegato ad una scelta morale, ad una esperienza precisa che riesce a definire un proprio atteggiamento» [p. 15]: solo questo, non l’altro, è il vero «cinema moderno», «un cinema che nasce dal giudizio preciso di una verità? [?] ed è diretto verso la rappresentazione di una condizione umana» [p. 18]. E altrove, parlando di Rosi, si dice ancora: «Senza disperdere il patrimonio di un pensiero che si è venuto sviluppando contro le teorie dell’idealismo e che ha confermato la realtà come fonte di conoscenza artistica, occorre assolvere l’esigenza di un approfondimento delle questioni semantiche per la più precisa definizione di uno specifico» [p. 68]. Sono questi i Grunds'àtze dell’estetica del signor Bruno. Un’estetica, come si vede, di singolare rigore, lucida e pene­ trante, in tutto «rivoluzionaria» (rivoluzionaria persino nei confronti del buon senso di chi continua a credere che sia piuttosto l’arte a essere fonte di conoscenza della realtà, e non viceversa), e che insomma davvero «assimila il concetto pudov­ kiniano di chiarezza». «Quello che Bruno intende dire», ci spiega Plebe nella recensione (e meno male che qualcuno ce lo spiega), «è che oggi il cinema più valido e più vivo è cinema di tendenza. Io sarei anche andato oltre e avrei adoperato senz’al­ tro l’aggettivo un tempo screditato, dicendo che oggi la miglior produzione filmica è quella del cinema tendenzioso». Capolavori del «cinema moderno» nell’accezione di Bruno e Plebe, film «di tendenza» o «tendenziosi» che risvegliano

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«echi precisi» (questa della «precisione» è una idea fìssa di Bruno, sebbene niente di più impreciso vi sia dei suoi discor­ si) sono, per citarne solo alcuni, Viaggio in Italia, Era notte a Roma, Vanina Vanini, Èva, La baia degli angeli, Il disprezzo, Gli uccelli, Che fine ha fatto Baby Jane?, Facciamo l'amore, Colazione da Tiffany, oltre ai film di Jerry Lewis, di Vincente Minnelli, di Stanley Donen, di Preminger, di Lang e soprattut­ to di Losey, i cui personaggi «hanno sempre il segno di una visione estremamente precisa della realtà», sono «la rappresen­ tazione coerente di un’ideologia precisa», «la conseguenza di una scelta precisa, determinata» [p. 134]. Che se poi qualcuno è preso dalla curiosità di sapere in che consiste la «modernità» di Facciamo l'amore e di Colazione da Tiffany, ecco Bruno precisare che il film di Cukor «è il prodotto nuovo di una nuova convenzione americana» (evviva la modernità e la «ten­ denza»!), dove■ il colore, al solito, «è segno di un’atmosfera precisa»; e che in quello di Blake Edwards, dietro «uno schema che può dirsi hollywoodiano, a patto di accettare questo modu­ lo come il frutto di una tradizione [?]... si nota che qualcosa di sostanzialmente diverso c’è: come un gusto continuo di muove­ re all’inversione dei sessi [!]...» [pp. 113-17]. Il cinema di Antonioni invece, mancando sia di «scelte precise» che dell’«inversione dei sessi», non è un cinema mo­ derno. «Il suo stile è solo in apparenza moderno, solo in apparenza l’ellissi del suo discorso si completa o la litote rag­ giunge un suo centro compiuto; a ben vedere le immagini restano solo compiaciute e, come fu rilevato [?], mancando il dato oggettivo, finiscono con il divenire schematiche. Ne VEclisse tale equivoco si dilata e diviene palese...» [p. 22]. Così, a suon di eclissi, ellissi, litote, mancanza di esigenze espressive («la ricerca figurativa ricondotta ad un puro caso di imitazione esteriore [?] non può neanche far parlare di esigen­ za espressiva»), il povero Antonioni è bell’e spacciato. Né molto meglio va a Bergman. Anche per lui il signor Bruno, in tre paginette del consueto nitore, ha in riserva brutte sorprese. Dice infatti in un punto: «Nelle sue opere predomina una 283

ricerca di suggestione, un elemento comune è il cogliere della filosofia dell’esistenza, proprio i motivi caduchi che più si ricollegano al pensiero kierkegaardiano di una dissolvenza dell’esistere quotidiano» [p. 147]: e in un altro: «La libertà dei sentimenti in Bergman è praticamente serrata dentro lo spirito di un discorso dialettico, che porta l’irrazionale come matrice ideologica, come compromesso tra un essere e un divenire, solo spiritualmente avvertibile» [p. 149]. Chiarissimo e ben detto. Andiamo avanti. Il settimo sigillo ripropone «un aspetto superato di un irrazionalismo mistico» [p. 16]; Il volto è poco «limpido» e troppo «accademico»; nel Silenzio «uomini e cose hanno lo stesso peso di una definizione [!] chiusa, reificata nei gesti e nelle azioni», la realtà «viene assunta a simbolo che si espande dentro un’altra realtà-simbolo, il paese inventato della mitelleuropa» [perché la ‘cultura’ del signor Bruno gli fa scrive­ re proprio così!!]; solo «nelle argomentazioni [!] di Come in uno specchio» si può mettere in risalto «proprio l’opposto del suo mondo irrazionale, impietosamente sospingendosi [?] ver­ so una acquisizione più moderna della realtà di una ipotesi religiosa [?] che in parte riscatta, quel suo nebuloso, nero, medioevale modo di impostare il rapporto della rappresenta­ zione drammatica» [pp. 148-149]. Dappertutto, comunque, «la suggestionabilità è prevalente» [p. 148]. E qui facciamo punto, per carità di patria. Ma ci sarebbe ancora molta e molta materia di spasso, perché in fatto di vis comica le risorse del signor Bruno sono davvero infinite: non si avrebbe altro che l’imbarazzo della scelta. Che poi, di fronte a questi bei risultati della critica «di tendenza», il prof. Plebe (prefatore e recensore a un tempo) proclami la bancarotta, prima ancora che dell’estetica (da lui del resto già abbondante­ mente «processata»), della categoria stessa dell’arte, afferman­ do con «coraggio» [?] «che il film non dev’essere arte, che l’arte nel film è un elemento reazionario», è cosa comprensibi­ le, visto che di arte nei film esaltati da Bruno non c’è neanche la traccia; un po’ meno si capisce perché mai debba dirsi

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«importante» un «discorso» che esalta film senza nessun valo­ re, talvolta addirittura orribili, e condanna invece sistematicamente le poche opere decenti. Sacri misteri della critica «di tendenza» (anzi «tendenziosa»). In realtà, non che un «discorso importante», qui manca persino un qualsiasi discorso fornito di senso. Siamo sul piano non della critica o della cultura, ma dell’analfabetismo, della ciarlataneria pura e semplice: che di «culturale» (di pseudo­ culturale) ha solo un certo frasario orecchiato e impiegato regolarmente a sproposito. Come è possibile una discussione con questa gente? Fino a che resta nelle loro mani, la critica di «tendenza», sedicente marxista, non ha maggiori titoli da esibire e pretese da far valere di quella stampa cinematografi­ ca quotidiana di destra, spesso oltretutto affidata a persone di manifesta incompetenza (e destra e sinistra, a un tal livello, sono la stessa notte fonda), la quale, mentre si estasia per un film come Matrimonio all'italiana (che «risolleva di colpo [...] il prestigio di Vittorio De Sica, troppo presto [...] dato per agonizzante»!), trova modo intanto, tutto nel giro di due gior­ ni (cfr. «Corriere della Sera», 20-21 die. 1964), di liquidare con poche formulette stereotipe il Dreyer di Gertrud, colpevo­ le sia di non aver fatto abbastanza spazio nel suo film «alla tensione per il soprannaturale» [!], sia soprattutto (altra gravis­ sima colpa) di aver restituito «al parlato una posizione di privilegio», offrendo così «una palinodia del cinema, un rim­ pianto del palcoscenico. Dite voi se quando l’immagine s’ap­ poggia sulla parola un film può essere un capolavoro». Chiun­ que di voi conosca Ivan il Terribile, o La terra trema, o Luci della ribalta, o anche Ordet dello stesso Dreyer, si provi un po’ a dirlo.

2. Il signor B. è andato in cattedra [1982] Il signor B., alias Edoardo Bruno, l’universalmente famige­ rato direttore di «Filmcritica», già incaricato di Storia e critica 285

del cinema presso la Facoltà di lettere dell’università di Paler­ mo e poi di Storia del teatro e dello spettacolo all’Università di Salerno, è una vecchia conoscenza di «Cinema nuovo». Le sue mirabolanti imprese, le sue prodezze di studioso, la sua «allegria» di docente, le sue trovate amene sono state qui altra volta oggetto, da parte nostra, di ammirata esposizione (cfr. § 1). Si diceva allora (lo rammentiamo per il lettore distratto o di memoria corta, troppo alla svelta dimentico delle imprese del signor B.), in riferimento a un suo libercolo del 1965, Tendenze del cinema contemporaneo, impreziosito dalla prefazione di quelTillustre e notorio pensatore progressita che risponde al nome di Armando Plebe: non che un «discorso importante» — come vorrebbe l’insigne prefatore — qui manca persino un qualsiasi discorso fornito di senso. Le sparate del signor B. sono per una parte delle buffonerie da strapazzo, per l’altra vuoti nonsensi. Siamo sul piano non della cultura, ma dell’analfabetismo, della ciarlataneria pura e semplice: che di «culturale» (di pseudo-culturale) ha solo un certo frasario orec­ chiato e impiegato regolarmente a sproposito. Ma questa unione di saccenteria ridicola e di solenne asine­ ria non ha ostacolato affatto la «resistibile» ascesa accademica dell’interessato; si direbbe anzi quasi che l’abbia favorita. Così il signor B. (divenuto nel frattempo, come incaricato, prof. B.) ha proseguito indisturbato la sua carriera: ha continuato, ahimè, a scrivere libri, a tenere corsi universitari, a farsi largo (e allievi) mediante slogan insensati: dopo lo slogan, caro a Plebe, del «cinema di tendenza» (si immagini che qualcuno parli, in letteratura, di «poesia di tendenza», e ci si farà subito una chiara idea della trovata del signor B.), lo slogan del «cinema poetico-politico» (che non è mai naturalmente, quan­ do è vero cinema, né «poetico» né «politico», né tanto meno una sintesi delle due cose) e infine quello - che dice già tutto da sé nel suo enunciato - del «cinema autoritario» (cui La Polla ha fatto eco - al solito, risibilmente - col suo «cinema autoriale»). Poiché dunque le successive imprese del signor B. sono

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rimaste tutte all’altezza dei suoi luminosi esordi, non varrebbe certo la pena di tornare a occuparsi del personaggio, se non fosse nel frattempo intervenuto il fatto nuovo — e incredibile per chiunque, anche il più aduso alle vicende sempre incredibi­ li dell’università italiana - che il signor B. è andato in catte­ dra: l’incaricato è divenuto ora titolare di cattedra, ordinario (ma andrebbe detto meglio, in tutti i sensi, «straordinario»). Chi ce lo ha mandato, in cattedra? Ce lo hanno mandato cinque docenti sorteggiati a comporre la commissione giudica­ trice del concorso, tutte certo degnissime persone, prese una per una, ma evidentemente altrettanti Mr. Hyde, capaci dei più orribili misfatti (come appunto la promozione del signor B.; ma anche le loro altre scelte concorsuali non sono proprio tutte entusiasmanti) se riuniti in commissione. Detto scherzo­ samente, in un latino maccheronico d’altronde adattissimo alla «cultura» del personaggio in questione (la cui ignoranza abis­ sale giunge al punto che quando — in Teorie del realismo, Roma 1977, p. 15 n. — egli si trova a dover citare la Poetica di Aristotele, la cita in questo modo: «Cfr. anche Aristotele, Poetica, § 1448a»: come, cioè, se 1448a indicasse il §, e non la pagina, secondo la paginatura normalmente in uso dell’ed. Bekker delTAccademia prussiana delle scienze; dal che risulta chiaro come il sole che costui non ha mai visto, neanche in distanza, un testo aristotelico; si noti per di più che, trattando­ si nella fattispecie della «diegesi», il rinvio avrebbe dovuto essere non a 1448a, dove si parla solo dei diversi oggetti e modi della mimesi, e non sono menzionati assolutamente mai né il termine «diegesi» né il verbo «diegheomai» o derivati, ma ad altri luoghi della Poetica, come a es. 1459a-b) : Commissarii boni viri, commissiones malae bestìae. Ma ci hanno davvero provato i commissari a guardar dentro ai «titoli» (si fa per dire) del signor B.? O hannp avuto l’ingenuità di fidarsi della chiara fama che circonda da sempre il famigerato direttore di «Filmcri­ tica»? Se soltanto li avessero sfogliati, i «titoli» del signor B., si sarebbero subito accorti che essi, nessuno escluso, non sono altro che uno sciocchezzaio inverecondo, indegno, non che di un professore universitario, di un bidello di scuola media. 287

Comunque ormai il guaio è fatto. D’ora in avanti gli stu­ denti dell’università italiana godranno del privilegio di fruire, per così dire, ufficialmente dei tesori di pensiero e di sapere dispensati a man salva dal signor (ch.mo prof, straord.) B. E se costui manterrà ora come docente quanto prometteva come studioso, non c’è dubbio che i suoi studenti ne sentiranno delle belle: impareranno, tra l’altro, - ci si consenta questo modesto florilegio da «Filmcritica» - che in Une femme douce «Bresson stabilisce un rapporto di appropriazione con il perso­ naggio e attraverso le ellissi in cui lo avvolge [un personaggio avvolto da ellissi!] concentra una molteplicità di valori sino a raggiungere una visualizzazione totale» (n° 200, 1969, p. 252); che nell’Antonioni di Zabriskie Point ci sono «momenti ripresi in una plurivisionarità incisiva» (n° 206, 1979, p. 162); che l’Attila del film di Jancsó La tecnica e il rito «verifi­ ca su di sé le esperienze di un comportamento accaduto, trasfe­ rendo la storia in una zona neutra»: «Proposto nella scomposi­ zione dei gesti come una riscoperta del rito, il fatto storico si materializza dall’area della leggenda, in un’ipotesi critica» (n° 223, 1972, p. 114); che la «struttura circolare» di Lancillotto e Ginevra rende il film di Bresson «duro e concreto come una sfera» (n° 245, 1974, p. 162); e che il pregio della Bestia di Borowczyk è di dar luogo a una «visione forclusa» (n° 263, 1976, pp. 84-5), dove accadono varie cose inquietanti, tutte però con tendenza al bagnato: «L’inquietante onirismo che scorre lungo la superficie de La bestia di Borowczyk, bagna il fondo nascosto di una intensa visio­ ne solitaria, con tante piccole incrinature e segni particolari, che mettono in movimento un meccanismo svelato [...]. Il piano narrativo si interrompe in tanti piccoli piani, che parcellano il contatto; le sensazioni sulla vagina aperta, mentre la Principessa si appende ai rami di un albero, la lingua del mostro, che la bagna snervandola, e, poi, la penetrazione con il lungo pene nero [...] pongono in atto una serie di scuotimenti solitari, che squassano il corpo della fanciulla, mentre la schiuma brilla attraver­ so le dita e il velo, che delicatamente ricopre il suo corpo, si squarcia».

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Da quanto precede, tutti capiscono subito che la «visione di Borowczyk è costruita e indotta»; che «il suo modo di guardare è incidente all’oggetto»; che «la sua metafora riposa nell’inquietudine che l’immagine lascia, al di là del mostrato»; infine, che la «sua ‘rappresentazione’ è totale, ma è nelle pie­ ghe sottili di un erotismo concettuale che l’impercettibile mo­ stra le sue lente pulsioni, il gesto realizzante di sensazioni profonde». Bravissimo in questo genere di critica prossima alla masturbazione, il signor B. conclude: «Ne La bestia, chiuse nella loro infetta allusività, sono le immagini che trasferiscono il senso nella parte assente della sua messa-in-scena, nel vuoto che incide nella cavità dello schermo. Così la rappresentazione diviene invenzione occulta di una segreta manifestazione dell’inconscio, desiderio rimosso, che scorre, in una apparente flagranza, mentre si ramificano le turbe pulsive di un cinema, inquietamente nascosto».

Si aggiunga che la faccenda della «flagranza» suggerisce al signor B., in nota, questa formidabile analogia masturbatoria: «Un erotismo esplicito nella sua flagranza e non ricostruito nel rito, è quello di Fritz André Kracht in Tema I (1974), dove in tempi reali sono viste le masturbazioni manuali e orali di più peni, sino alla loro eiaculazione: il distendersi parallelo dei vari momen­ ti crea un’impressione di reiterazione ed esplicita l’impossibile flus­ so dello sperma».

Lo si vede: il signor B. è un caso patologico. Qui e ovunque, sempre soltanto parole in libertà, frasi vuote e reboanti, senza senso, sintatticamente traballanti. Si vuol conoscere la funzione della «ragione» in Stroheim? Ecco che il signor B. spiega (Espres­ sione e ragione in Stroheim, Roma 1966, pp. 76-7): «La ragione ha mosso in Stroheim la ricerca di un ordine nelle cose, per rintracciare quei nessi causali per i quali le azioni si spiegano. Così il mondo rappresentato acquista in Stroheim una dimensione continuamente rapportata al nostro modo di essere spettatori, viene cioè problematicamente posta come storicizzata».

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Altrove si impara che «Fattività imitativa della mimesis non è che ‘parte’ di un meccanismo complesso» {Film: altro reale, Milano 1978, pp. 7-8): «Punto di partenza per un discorso materialistico sulFarte è il concetto di mimesis. Ma la mimesis collegata alla imitazione [!], come riflesso della realtà, non risolve i problemi della significazio­ ne. Né il recupero del concetto della dialettica, volto a risarcire la produzione del reale [?], con una “selezionabilità” [?] immediata e il distacco, conseguente, del realismo dal naturalismo (realismo critico), riescono a superare le secche di una concezione imitativa. Ci si muove ancora in un campo elementarmente antropomorfico [!], inadeguato a fissare le categorie dell’umano e del disumano come categorie estetiche [umano e disumano come categorie, per di più estetiche!] e troppo schematico per intendere la drammatica contraddizione di una espressione, che vuole significare “qualcosa di diverso da quello che è” [...]. La mimesis, in conseguenza, tende ad acquisire Io spessore delle costruzioni impossibili [?!], mediando l’esperienza con una realtà più allusiva [!], più fantasticante [!] e attuando una propria idea di futuro [!]».

A Rossellini sono invece riservate considerazioni di genere ontologico (R.R. Roberto Rossellini, Roma 1979, p. 10): «Rossellini è. Questa affermazione ontologica serve a spiegare [!] la natura del suo discorso, legato al divenire delle azioni e connaturato ad una visione materialistica [!] del segno. In ogni momento della sua opera, la coscienza di essere diviene appropria­ zione del vero [?], in un transfert del simbolico sul piano concreto di una scelta polivalente [?!]. I fatti accadenti ritrovano la dimen­ sione dell’accadimento [!] e, con l’accadimento, ritrovano la poliva­ lenza e l’ambiguità di una struttura ipotetica [?], che scompone la Storia in tanti segmenti di storia [!] che, a loro volta, restituiscono al tessuto (unitario) il fascino della divisione [?!]».

Ancora. Presentando il libro di Antonio Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini (Roma 1979), il signor. B. trova «inquietante [ma quante cose inquietanti trova il signor B!] il

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capitolo dedicato a Padre selvaggio, dove c’è, assiduo, uno scavo, nelle linee fittissime di un trascorso, non completamen­ te risolto, in una fuga nel rimosso». Quanto ai film di Lattuada, essi sono, per il signor B., tutta una serie senza fine di capolavori. TtelYlmprevisto egli dice (citiamo da Lattuada o la proposta ambigua, Roma s.d., pp. 85, 89-90): «Nell’opera di Alberto Lattuada, L'Imprevisto rappresenta il punto di tensione di una espressività che tende all’allusione, all’am­ biguità dei significati, in una costruzione perfettamente determina­ ta [...]. La lettura del film offre [...] il recupero del genere come modello di plurima proposta apparente; come intermediario per operare quella selezione nella recezione, necessaria a stabilire la possibilità di una maggiore articolazione a vari livelli».

Che è cosa, come tutti vedono, persuasiva e chiarissima. Poco oltre (p. 95 ss.) si torna al tema favorito del signor B., quello dell’erotismo, che in Lattuada si affaccia già con Giaco­ mo l'idealista (dove infatti «è preminente l’elemento erotico, come suggerimento di una realtà in urto»): «Il discorso sui ritratti di donna puntualizza la ricerca espressi­ va di Lattuada, mette a fuoco la necessità di oggettivizzare una serie di osservazioni critiche entrando direttamente in contestazio­ ne con la realtà rappresentata [...]. La donna diviene l’elemento essenziale di una ricerca inserendosi e determinando, con la sua autorità fisica [!], la stessa struttura drammatica [...]. La donna compagna-collega-amica propone con sempre maggio­ re ambiguità la sua carica erotica. Il seno straripante resta il simbolo degli anni cinquanta, il ponte tra un’offerta materna che diviene sessualmente esplicita e la figura della prostituta; ma gli anni settanta chiedono altre proposte [!], altre intensità erotiche, altre descrizioni del corpo, sempre più sottili e incerte, dove la parte dell’immaginazione possa allenarsi [!] in forme più complesse e libere L’aspetto proposto è ricco di stimoli concettuali [!]. L’androginismo [!] è un momento dell’evoluzione della nostra società; perde­ re la traccia di una serie di segni contrassegnanti un determinato

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genere è, in effetti, un ritrovare una collocazione autonoma esterna e interna. Il carattere ubbidisce a questo ritrovato recupero delle forme, la spontaneità prende il posto della passività; non è detto che questo avvenga senza turbative, né che abbia una influenza determinante».

E si potrebbe continuare a piacimento nell’elencazione di questo genere di “apporti scientifici”. Poiché il notevole, con gli scritti del signor B., è che non occorre affatto andare a caccia di ‘perle’; basta aprirli in un qualsiasi punto, a casaccio, che subito le ‘perle’ - le quali nel signor B. sono la norma - si squadernano da sé con profusione sotto gli occhi di chi legge. Gli scritti del signor B. sono, in fatto di trovate, una miniera inesauribile; al lettore che abbia il gusto di queste cose, essi offrono materia di spasso ininterrotto. C’è solo da avere la pazienza di sfogliarli: una pazienza che noi crediamo proprio di aver definitivamente persa, e che i commissari del concorso a cattedre, a quanto sembra, non hanno mai neppure avuta. Che dire, che fare, in conclusione, di fronte a questo enne­ simo — ma particolarmente scandaloso - caso all’italiana? Ram­ maricarsi? Recriminare? Inveire? Protestare con tutti i mez­ zi? Gridare allo scandalo? Lo stiamo facendo e lo faremo ancora (almeno finché questo signore non deciderà spontanea­ mente di mettersi in pensione). Ma in verità non sappiamo dire neanche noi se sia meglio ridere o piangere. Di sicuro, di assodato c’è soltanto questo: che l’andata in cattedra del si­ gnor B. ci fa constatare de visu il fenomeno - inedito anche per la miserevolezza dell’università italiana — dell’analfabeti­ smo promosso ufficialmente a rango accademico. Una vergo­ gna simile non la si era finora mai vista.

Postilla 1991 Contro il mio attacco, dal signor B. personalmente non è venuto motto. Egli si è limitato a commissionare una noterella di risposta a un collaboratore della sua rivista, Riccardo Roset-

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ti («Filmcritica», XXXIV, 1983, n° 333, pp. 187-8), cui ho a mia volta replicato in «Cinema nuovo» (XXXII, 1983, n° 286, p. 5). “Di risposta” per modo di dire: si può “rispondere” a un articolo dove si schizza la risibile - ma ahimè, sembra, irresistibile - ascesa accademica di un tipo come il signor B.? un tipo del quale si elencano, con tanto di luogo e data, le trovate amene, gli spropositi, gli sproloqui senza senso, le parole a vanvera, le buffonerie da strapazzo? Non si può. E infatti la noterella “di risposta” prudentemente parla d’altro. Per dare alla cosa un blasone di rispettabilità, il povero ma avventato Rosetti tenta, annaspando, di far credere che si tratti di una polemica culturale: che io mi sia posto «esplicita­ mente l’obiettivo di invalidare la direzione» della rivista del signor B., e che, preso da «fantasie di disgregazione», abbia mirato «ad aggredire il testo [il testo!] e a “farlo a pezzi”». Figuriamoci, mai più! Che bisogno ce ne sarebbe? La «direzio­ ne» di «Filmcritica» si invalida splendidamente da sé, e i suoi «testi» (non solo quelli del signor B.: senza cercar troppo lontano, si leggano, per credere, nello stesso fascicolo citato, le incredibili genuflessioni mistiche di Enrico Ghezzi e Vitto­ rio Giacci di fronte a Spielberg o il caricaturale heideggerismo da periferia di Ciriaco Tiso) si “fanno a pezzi” ogni volta da soli. No, no, il mio intento - e lo ribadivo nella replica — era semplicemente quello di mostrare come in Italia accada che, con un pastiche di saccenteria ridicola e di solenne asineria, un analfabeta ben protetto riesca a far carriera e a salire in cattedra. Così oggi ci ritroviamo un signor B. definitivamente assur­ to al rango dell’ordinariato. Bene, cioè malissimo. Carriera e stipendio crescono, l’albero mette radici, ma tutto il marcio resta. Come potrebbe essere diversamente? La mala pianta riproduce se stessa. E infatti i frutti novelli che dà fuori asso­ migliano come gocce d’acqua a quelli che conosciamo già: libercoli inzeppati delle solite e di altre nuove insensatezze, come, a es., Film come esperienza (Bulzoni, Roma 1986, pp. 140) e Dentro la stanza (Bulzoni, Roma 1990, pp. 93): que­ 293

st’ultimo inaugurale di una ‘collana’ di «Estetica/Strumenti» diretta dall’autore (il signor B. che dirige una ‘collana’ di esteti­ ca!), per la cui presentazione a Roma gli è riuscito di scomoda­ re anche personaggi della politica e della cultura, da Gianni Borgna a Walter Pedullà. Ma basta aprire a caso Dentro la stanza per riascoltare la musica di sempre, le frasi senza nesso, senza costrutto e senza senso: «Il film nella sua autonomia divenendo soggetto di sé, sussume la discorsività interiore, rende affabile la sua struttura, che si offre ai vari campi di indagine, luogo dove è possibile scorgere il sovraccarico meta­ forico, l’accumulo di sensi riposti e di segni espliciti, ripiegati su se stessi» (p. 68). Oppure, a proposito del cinema di Go­ dard: «Una visione ‘sdata’, in una luce livida di un pianeta terra, dove nella insensatezza dominano brutalità, violenza e innocenza, dove anche l’allegrezza assume i contorni tragici di una animalità irrazionale, e perciò dialettica, dove le stesse figure del linguaggio consentono quella strategia delle metafo­ re che è propria della prassi materialistica» (p. 77). Come si vede, siamo alle solite. Scherzosamente vien voglia di dire che “dentro la stanza” bisognerebbe chiuderci lui, l’autore, perché non combini più guai, e tenercelo sotto stretta sorveglianza.

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XX

La critica di un critico “controcorrente”

Un curriculum biografico del critico Femaldo Di Giammatteo, risalente a qualche anno fa e certo dettato (o approvato) dal critico stesso, recitava così: «Fernaldo Di Giammatteo. Critico e saggista. Ha fondato e diretto nel dopoguerra la rivista “Rassegna del film”. Nel 1957 ha progettato il Filmlexi­ con degli autori e delle opere. Dal ’69 al ’75 è stato vice presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia. Ha pubblicato tra l’altro, Come nasce un film, Un leone d'oro, Cinema per un anno, Televisione potere riforma, 100 film da salvare. Nel 1974 ha fondato la collana di monografìe sui registi, “Il Castoro cinema”, che tuttora dirige. Attualmente è direttore della Mediateca Regionale Toscana». Leggendo queste righe, chiunque sarebbe autorizzato a pensare di trovarsi di fronte a un critico impegnato e di lunga esperienza, a una guida competente, alla figura di un grande organizzatore di cultura. Eppure noi siamo profondamente convinti del contrario. Dagli scritti qui di seguito riprodotti apparirà chiaro perché.

1. Il critico controcorrente a «Bianco e Nero» [1972] C’è un certo genere di critica che non si saprebbe meglio definire che “controcorrente”. Difficile indicare in due parole dove sta l’essenza della cosa; ma il lettore vedrà e si orienterà

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subito con un esempio. L’esempio che gli proponiamo riguar­ da «Bianco e Nero»: una rivista talmente controcorrente, da andare spesso persino contro la corrente rappresentata da se stessa. Antica testata di prestigio, vittima senza colpa delle disavventure del Centro Sperimentale, di cui è organo, sotto­ posta a una ridda inarrestabile di mutamenti organizzativi in­ terni che l’hanno poco per volta sfigurata, essa si è come assunta l’onere, a ogni mutamento, di contestare se stessa e la sua propria linea di tendenza, preannunciando ogni volta pro­ grammi innovatori a lungo termine, che vanno poi regolarmen­ te a fondo al primo — sempre non lontano — cambio della guardia. Sono lì a confermarlo fatti molto recenti. Liquidata, dopo solo tre anni, anche la gestione Gambetti, che si caratterizzava soprattutto per la direttrice confusionaria, nuovo cambio della guardia e, naturalmente, nuovo programma. In una lettera-cir­ colare inviata ad amici e abbonati gli attuali responsabili della rivista annunciano - con supremo disdegno, si direbbe, per le idee dei loro predecessori - che «con il numero 7-8 del 1971 “Bianco e Nero” si trasforma in una rivista monografica». «L’esperienza di questi anni ci ha indotto a prendere la decisio­ ne», essi scrivono, «perché una rivista antologica strettamente vincolata a certi impegni di documentazione spicciola sembra aver fatto il suo tempo. Con la nuova formula “Bianco e Nero” tenterà di affrontare alcuni problemi dell’attualità cultu­ rale nel campo delle comunicazioni di massa, esaminate di volta in volta sotto il profilo tecnico, semiologico, sociologico, ideologico». Che a firmare questa prosa sia - insieme con Ammannati e Rossellini - Fernaldo Di Giammatteo non può essere causa di stupore. Di Giammatteo è infatti un vecchio esperto della critica controcorrente. È colui che durante lo sboccio e il rigoglio del neorealismo metteva in dubbio la sua esistenza («Sipario», n° 36, aprile 1949); che all’epoca della «revisio­ ne», quando si trattava di accantonare risolutamente vecchi equivoci e pregiudizi, tentennava tra il sì e il no, tra molti

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«distinguo» («Cinema», n. 59, 1° aprile 1951); e che poi, in piena offensiva clericale e oscurantista contro il nostro cinema di punta, cantando l’epicedio per il neorealismo («Il Ponte», n° 4-5, aprile-maggio 1955), inventava, senza meno, il «reali­ smo borghese» («Bianco e Nero», n° 11-12, nov.-dic. 1956). È interessante il fatto che Di Giammatteo, per essere controcorrente fino in fondo, tenga sempre ad autocontestarsi. Così nel 1949 nega l’esistenza del neorealismo; ma l’anno dopo («Cinema», n° 49, 1° nov. 1950) ritiene che sia solo da respingere il concetto di una formula o una poetica del neorea­ lismo, e non invece la concreta prassi artistica che si richiama a tale indirizzo, «come si poteva pensare in primo tempo» (cioè come in un primo tempo aveva pensato lui): «il termine, per quanto impreciso ed elasticissimo, corrisponde a qualcosa di esistente». Bontà sua che se ne accorge! Ma ciò solo per lasciare in feudo al «realismo borghese» (di Zampa, Fellini, Lattuada, ecc.) l’eredità del vero cinema italiano del dopoguer­ ra. Così il suo precedente scetticismo verso il cinema italiano si capovolge addirittura nel suo contrario, nell’apologià anche delle sue svolte negative, delle sue oggettive involuzioni. La resa - conformemente alle più schiette esigenze della critica controcorrente - viene presentata come una vittoria. Ecco perché si può affermare senza tema di smentita che Di Giammatteo, questa sorta di Armando Plebe della critica di centro-sinistra, questo pontefice delle scaramucce di retroguardia, vanta in materia un autentico primato. Egli, è il vero e proprio leader dei critici controcorrente, il critico controcorren­ te per antonomasia: nel senso che, come critico, egli è andato sempre e regolarmente contro la corrente giusta. Mai una scelta centrata neanche per sbaglio. Il nuovo programma di «Bianco e Nero» sta perfettamen­ te in linea con la tendenza emersa da questa ammirevole carrie­ ra. I suoi estensori ci promettono un esame del cinema «sotto il profilo tecnico, semiologico, sociologico, ideologico». A co­ storo non viene in mente nemmeno di passata che la via primaria di approccio al cinema, come fatto d’arte, è la via 297

estetica. Proprio nel momento in cui, a causa del marasma provocato dal dilagare di sociologismi di basso conio, sarebbe quanto mai opportuna una presa di posizione seria e responsa­ bile verso il cinema, proprio ora Di Giammatteo e soci - gli stessi che hanno sempre trepidato troppo per le sorti «frigida­ mente estetiche» del cinema - non fanno più parola dell’esteti­ ca, e da essa si volgono alla tecnica, saltano in braccio alle questioni ideologiche e sociologiche, discettano con sussiego di semiologia. Cambiato il vento, si cambia l’abito. D’altronde è più che naturale che sia così. L’affossamento dell’estetica non è che una conseguenza delle (false) teorie sempre difese dai critici controcorrente. Poiché per loro esteti­ ca non ha mai significato altro che qualcosa di estremamente evanescente, una teoria dell’arte «pura» o del «lirismo» o simili [slogans sorti sul terreno di un idealismo per lo più frainteso, e fatti valere a lungo come parole d’ordine, in pole­ mica col «contenutismo»), dalle condizioni problematiche del­ l’arte del nostro tempo essi si vedono costretti a gettar via, con l’arte (con certe particolari forme d’arte), anche tutta la teoria, — l’estetica. Un sacrificio, certo, che non costa loro molto; giacché il giusto concetto e la giusta comprensione dell’estetica come teoria del rispecchiamento artistico, della conoscenza della realtà oggettiva secondo moduli specifici, propri dell’ar­ te, non è cosa che, né ieri né oggi, li abbia mai sfiorati. Come si vede, c’è coerenza e rigore fino in fondo nella critica contro­ corrente; o se si vuole, c’è pur sempre del metodo in questa pazzia.

2. L'esperienza del “Castoro cinema" [1975] In risposta all’esigenza di informazione e di cultura di una cerchia sempre più vasta di pubblico, si è venuto affermando da tempo con successo, nella critica letteraria, l’uso di collane divulgative, per monografie, sui maggiori scrittori del momen­ to. Comprensibile e giustificato, anzi in linea di principio lode298

vole, che qualcosa di simile si tenti ora anche per il cinema. Ci riferiamo alla iniziativa della Nuova Italia di affiancare alla sua già nota ‘collana’ letteraria del “Castoro” il nuovo «Casto­ ro del cinema», mensile pubblicato dal gennaio 1974 (finora con pieno rispetto della sua periodicità) per la direzione di Fernaldo Di Giammatteo. Come per la letteratura, si tratta di una galleria di brevi monografie di autori (qui registi), tutte rispondenti a uno schema uniforme: scelta antologica di dichiarazioni e giudizi autobiografici degli autori in esame, profilo critico con analisi dei loro singoli film (o almeno dei principali), filmografia e ma qui l’uniformità dello schema è già meno rispettato — bibliografìa essenziale. Di tali ritratti d’autore a scadenza men­ sile sono già usciti, all’atto in cui scriviamo (gennaio 1975), nove titoli, che elenchiamo qui di seguito nel loro ordine di apparizione: Michelangelo Antonioni di Giorgio Tinazzi, JeanLuc Godard di Alberto Farassino, Federico Fellini di Franco Pecori, Roberto Rossellini di Gianni Rondolino, Alfred Hitch­ cock di Fabio Carlini, S.M. Ejzenstejn di Aldo Grasso, Pier Paolo Pasolini di Sandro Petraglia, John Ford di Franco Ferri­ ni, Miklós Jancsó di Giovanni Buttafava. Imminente - e atteso - il Bergman di Tino Ranieri; e un’altra nutrita serie di titoli, comprendente fra l’altro nomi come quelli di Renoir, Rocha, Visconti, Vertov, Chaplin, Welles, si annuncia nel programma per l’anno in corso. L’idea di partenza - ripetiamo - è buona e va accolta senz’altro con favore. Sebbene nel cinema la divulgazione pre­ valga anche troppo spesso sulla ricerca impegnata, non si pos­ sono disconoscere i vantaggi che verrebbero non solo all’infor­ mazione, ma anche alla cultura (se non altro come base per più vaste ricerche di storia del cinema), da un complesso organico, da una silloge a impianto organico di schizzi mono­ grafici, specialmente quando il programma abbia l’ampiezza di quello - in tutto meritevole e degno di rispetto - annunciato dal “Castoro”: naturalmente a condizione, in primo luogo, che sia rispettato nell’impianto e nella trattazione il principio

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dell’organicità, e che, in secondo luogo, si faccia leva per attuarlo su un'équipe qualificata e omogenea di collaboratori. Quali possano e debbano essere le finalità, i criteri, gli orientamenti direttivi di una ‘collana’ del genere è cosa che si intende da sé: ritrarre in forma abbreviata e concentrata, ma insieme il più possibile esauriente, l’essenza del mondo di un autore, della sua personalità, della sua originalità creativa; suggerire una linea esegetica, una via critica d’approccio per la sua migliore lettura e comprensione. A niente di tutto ciò purtroppo - né a quelle condizioni, né a questi requisiti — ci sembra rispondere l’iniziativa del “Castoro”. Non certo al ri­ spetto del principio dell’organicità, solo che si guardino e si mettano a confronto le impostazioni disformi, talvòlta assolutamente incongrue, stridenti coi criteri della ‘collana’, di molti dei contributi; meno ancora a quello dell’accortezza nella scel­ ta dei collaboratori, vero punctum dolens dell’impresa, la quale sembra affidarsi, piuttosto che al criterio della competenza, alle sollecitazioni della moda e agli umori pseudo-contestati­ vi, in realtà sottilmente snobistici, di chi vi è preposto come direttore. Grandemente infelici, di conseguenza, i più dei risultati. Tinazzi ripete e amplia nel suo Antonioni, in modo anche più sconclusionato, le cose pretenziose e vacue già dette nella sua relazione al Convegno di Fiesole del 1968 (ora in Rossellini Antonioni Bunuel, a cura di P. Mechini e R. Salvadori, Pado­ va-Venezia 1973); Grasso fa anche peggio, rifondendo e di­ luendo in una esposizione zeppa di aforismi, fastidiosi quanto spesso incomprensibili, un suo scritto sul giovane Ejzenstejn apparso nel fase. Uirrealismo socialista di «Bianco e Nero», n° 1-2, 1973 {ciò che spiega, tra l’altro, l’enorme sproporzione dello spazio dedicato a Sciopero rispetto a quello, molto più esiguo, riservato ai film successivi: si veda in particolare il modo pretestuoso e sbrigativo con cui egli si sbarazza del Potémkin, e il giudizio sul Nevskij, che gli «pare soltanto un riuscito esercizio manieristico»). Nell’appena più accettabile Rossellini di Rondolino, se non mancano idee cervellotiche e

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alquanto peregrine (sulla sostanziale estraneità di Paisà al «ci­ nema cosiddetto resistenziale», o sulle presunte ragioni dell’« apatia» della critica di fronte al Rossellini del periodo televi­ sivo), manca invece un’adeguata cornice storica, la base storica per un giudizio conseguente sui valori e sui limiti del neoreali­ smo di Rossellini; così l’autore vede, ma poi non sa spiegare in che consistano, le «manchevolezze e insufficienze» anche dei suoi film migliori. Molto deboli il Fellini di Pecori e il Ford di Ferrini; semplicemente illeggibile, al limite del grotte­ sco, VHitchcock di Carlini: basti pensare che costui considera un «gesto coraggioso» occuparsi del regista inglese, e indica proprio in questo insigne rappresentante del cinema d’evasio­ ne - «un autore che, cosciente sia del suo ruolo, sia della realtà contemporanea in cui opera, mostra di percepire chiara­ mente la dinamica storica»! (Per Rondolino, cfr. anche sopra, XIII, § 2; per Carlini, XIV, § 3). Di fronte a tali enormità, di fronte al sussiego di un Gras­ so o di un Tinazzi, di fronte alla sicumera con la quale Farassi­ no parla del godardiano A bout de souffle, come di un «classi­ co della storia del cinema» e del suo autore come del «classi­ co» per eccellenza, oppure Buttafava, nel trattare di Jancsó, fa del «linguaggio janciano» un che di «vitale per il cinema d’oggi», cioè innalza la sua poetica tout court a estetica, guar­ dando sprezzantemente dall’alto in basso a tutto il resto (ma entrambi questi ultimi danno anche, all’inizio, notizie docu­ mentate e utili sull’apprendistato dei rispettivi autori), - di fronte a simili ostentate forme di snobismo, sorge qualche dubbio circa la piena rispondenza dei testi al loro fine. Ciò che viene relegato sistematicamente sullo sfondo è proprio il requi­ sito che in essi dovrebbe essere primario, quello dell’informa­ zione. Molto più che non da intenti informativi, i collaborato­ ri, salvo eccezioni (come a esempio quella, relativamente posi­ tiva, del Pasolini di Petraglia, le cui ipotesi critiche, opinabili quanto si voglia, sono per lo meno argomentate), sembrano mossi da inconsulte smanie polemiche; ma le polemiche rozze e grossolane contro la critica «tradizionale» — di fatto contro il 301

marxismo - specialmente dei più giovani tra questi esegeti appaiono, in una ‘collana’ divulgativa come quella per la quale scrivono, completamente fuori luogo. Da questo punto di vi­ sta, un confronto con analoghe iniziative critico-biografiche nel campo della letteratura, della storia, della filosofia, delle arti figurative ecc., torna ancora una volta a tutto disdoro del cinema. Non resta da sperare, se non che gli autori dei prossi­ mi titoli della collana vogliano opportunamente raddrizzare il tiro.

3. L’ultima fiaba del critico controcorrente [1986]

G è accaduto altra volta (cfr. sopra, § 1) di definire Fernaldo Di Giammatteo un critico “controcorrente”, anzi il vero e proprio leader dei critici controcorrente, il critico controcor­ rente per antonomasia: nel senso che, come critico, egli va sempre regolarmente contro la corrente giusta. La conferma di questa sua non invidiabile peculiarità ce la dà ora in sintesi un volumetto, dove egli si abbandona a una lirica e irenica «diva­ gazione sulla storia del cinema», per celebrarne i novantanni (La più grande fiaba mai raccontata. Novant’anni di cinema. con ili. di Andrea Rauch, La Nuova Italia, Firenze 1985, pp. 71). Difficile mettere insieme un’infilata di luoghi comuni più sciocchi e reazionari. È la sagra del conformismo, naturalmen­ te rivestita il più possibile in panni eccentrici, e servita da uno stile aforistico, allusivo, compiaciuto, cattivante, sicuro di sé, sempre a caccia di raffinatezze. Cominciamo dal titolo. Che cosa è il cinema per Di Giammatteo? Una fiaba e soltanto una fiaba; non venga in mente a nessuno che possa essere qualco­ sa di più. «Chiamare quella del cinema una storia sarebbe, francamente, eccessivo», avverte in esergo. «Ma fiaba sì. E certo la più grande». Fiaba e non storia, dunque, anzi fiaba senza storia: «È una fiaba, quella del cinema, che si rinnova continuamente. Per rinnovarsi, deve gettare nella spazzatura i 302

suoi ricordi. Quel che è stato fatto non conta più. Conta quel che si fa, e il rumore che gli si può creare intorno» [p. 12]. All’insegna dell’effìmero. Animato da un così profondo senso storico, da una tanto ben radicata convinzione circa l’arte come «autocoscienza del­ lo sviluppo dell’umanità», il critico controcorrente può disse­ minare la sua scorribanda storica (chiedo scusa, favolistica) di scoperte sconvolgenti. Apprendiamo così che il «ruolo della donna» è nella Madre di Pudovkin, non meno che nel Potem­ kin di EjzenJtejn (dove non vi sono donne quasi affatto), «marginale [...] o subordinato agli eventi politici, e funzionale alle vicende di un marito e di un figlio» [p. 23]; che si è, a torto, «molto favoleggiato di realismo» (qui evidentemente la fiaba non va più bene) a proposito di Ossessione, attribuendo­ gli «responsabilità (o meriti) eccessivi» [p. 45]; che Ivan il terribile «è una vera e propria idolatria del padre», in arretra­ to sui tempi: «Le immagini sono gonfie di simboli. Si succedo­ no imponenti e suggestive, sontuosa celebrazione del legame padre-figli che garantisce la continuità della storia e della pa­ tria russa. Come tutto ciò suona arcaico per un cinema che nel frattempo ha camminato moltissimo»! [p. 51]. Neanche Ingmar Bergman, questo regista sempre troppo «tetro», che ha la «monomania della morte» [p. 55], se la passa liscia con Di Giammatteo. E non stupisce affatto sia così, se solo si ricordi che già negli anni ’60, mentre l’intera critica mondiale stava scoprendo Bergman, Di Giammatteo, ligio sino in fondo alla sua posizione di critico controcorrente, gli esprimeva apertamente sprezzo e «disistima», accusandolo di «pasticciare nella suggestione di vaghe atmosfere», di colti­ vare una religione torbida, «apparentata con il sadismo»: «Possiamo comprendere che la amino certi intellettuali del­ l’alienazione (e certa borghesia inquieta, propensa a sfogare la propria impotenza nella macerazione di un misticismo purches­ sia) ma non comprendiamo come la possa amare la cultura che pretende di vivere nel mondo [...]. Verrebbe da azzardare il dubbio che Bergman sia un caso di cosciente allucinazione 303

collettiva, un equivoco coltivato per il piacere dello snobi­ smo» (Cinema per un anno, Marsilio, Padova 1963, pp. 15-8). La fiaba del cinema — «tutto sommato, luminosa», secondo Tassicurazione dell’autore [p. 71] - non si addice proprio alla sua stucchevole tetraggine. Chi invece se la cava benissimo con i progressi del cinema, chi col cinema cammina di buon passo, senza gli affanni senili di Bergman e Ejzenstejn, è Billy Wilder, a Bergman contrap­ posto espressamente come uno il cui cinema «sembra proveni­ re da un altro pianeta». Chi mai potrebbe sostenere — doman­ da incredulo l’autore - che Quando la moglie è in vacanza sia «soltanto una gracile storiella estiva di un timido e di una ragazza disinvolta?». Nessuno, certo. Poiché lì si va ben oltre la «penitenza quaresimale» di Bergman, le utopie dei pseudo­ rivoluzionari: «Il mondo ha evidentemente continuato a cam­ minare, in attesa di una rivoluzione troppe volte annunciata e mai scoppiata». Lì sì l’umanità trova la sua «autocoscienza», sotto forma dell’«oca giuliva Marilyn»; «Disinibita ma anche consolatoria, disponibile ma anche canzonatoria, offre allo spettatore l’immagine di un essere ormai indipendente, o sulla via di esserlo, o capace di diventarlo domani» [pp. 55-6]. Ahimè, tutto è psico-sociologia di quart’ordine in questa filastrocca supponente, tirata via a suon di schemi tipologici (la misoginia, il mito della “bionda efficiente”, il “tema dell’infelici­ tà” ecc.). La terra trema e Senso non ci sono. Non ci sono Flaherty, von Stroheim, Renoir, non c’è Satyajit Ray, non c’è nessuno dei grandi registi giapponesi; Chaplin fa un’apparizio­ ne del tutto fugace, episodica, e solo fino a Tempi moderni [pp. 29-30]. C’è, in compenso, una grande abbondanza di Holly­ wood. Ci sono King Vidor e Cecil B. De Mille [p. 19], i registi di Greta Garbo [pp. 30-33], «un maestro di psicologia come William Wyler» [p. 39]; c’è naturalmente, a fianco di Bunuel e Antonioni, il solito Hitchcock [pp. 58-60]; e ci sono persino Coppola e Cimino [p. 66]. Né manca - sarebbe potuta manca­ re? - la strizzatina d’occhio a Casablanca, «un cult movie venera­ to dai giovani» [p. 40]. Più controcorrente di così!

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Postilla 1991

Preghiamo vivamente il lettore di non credere che noi si sia squadernato qui tutto il repertorio delle puntualizzazioni à rebours di Di Giammatteo. Sarebbe un’impresa troppo cimen­ tosa: chi avesse l’ardire di tentarla, si imbatterebbe in sempre nuove, imprevedibili e sconvolgenti scoperte, in una teoria di mosse a sorpresa (controcorrente) senza fine. Così già nel 1949, durante la fase delle sue polemiche con la “revisione critica”, egli smaschera e colpisce a morte Le contraddizioni di Georg Lukacs (“La Fiera letteraria”, 23 otto­ bre 1949, p. 21), facendo principalmente leva sull’argomento - per vero non troppo persuasivo - della impossibilità di «costruire un sistema organico» di estetica in base a «schemi appassionatamente accettati». Nel 1954 è la volta dello sma­ scheramento delle contraddizioni di Dreyer {Profili di registi: Dreyer, in «Comunità», X, 1956, n° 41, pp. 77-80), un exploit così personale e così riuscito che ci dobbiamo tornare sopra a parte; nel 1957, intervenendo al Dibattito per ‘Un re a New York” promosso da «Bianco e Nero» (XVIII, 1957, n° 12, pp. 45-60), si schiera senza esitazioni, insieme con Ernesto G. Laura e altri, dalla parte dei detrattori del film: «Credo che sia ragionevole, e inevitabile, associarsi al giudizio negativo su LJn re a New York»; negli anni ’60 tratta Bergman come sappiamo; più di recente torna volentieri a un suo vecchio idolo polemico, nuovamente molto di moda, la liquidazione del realismo e delle ideologie (leggi: dell’ideologia marxista). Non è più «tempo di realismo o di dibattiti sulle ideologie», proclama nel 1980, a chiusura di un convegno modenese su Grierson; e aggiunge e precisa, del tutto ragionevolmente, se riferiamo il giudizio ai suoi propri scritti: «non è tempo di rigori di alcun genere» {Grierson, un dibattito, a cura di F. Di Giammatteo, Comune di Modena/British Council Nord Italia, Modena 1981, p. 83): come appunto le sue chiacchiere sul cinema-fiaba e su La terza età del cinema (Ed. Riuniti, Roma 1985, pp. 88) stanno lì a provare.

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La segnalazione àe\Pexploit concernente Dreyer, che ci era precedentemente sfuggito, la dobbiamo a una rassegna di stu­ di dreyeriani di Orio Caldiron (comparsa dapprima in «Bianco e Nero», XXIX, 1968, n° 7-8, pp. 171-4; ora nel suo voi. La paura del buio. Studi sulla cultura cinematografica in Italia, Bulzoni, Roma 1980, pp. 117-20). Merita che si lasci parlare Di Giammatteo in persona. Egli comincia prendendosela con la critica di ogni tendenza: «Sono stati creati falsi idoli per questo artista sconcertante»: in realtà un “decadente” che, senza sapersi scuotere di dosso le pastoie del decadentismo, fa però propri anche «gli estremi sussulti del romanticismo otto­ centesco». Donde le sue contraddizioni: «limpide idee», ma avvolte «in un’atmosfera viziata e pesante»; condanna del fanatismo, della superstizione e dell’intolleranza, ma da parte di chi, nell’atto di pronunciarla, «diviene a sua volta fanatico, superstizioso e intollerante». Solo in pochi casi Dreyer riesce a essere «artista autentico»; per il resto si tratta solo «di un piccolo artista che agita il suo decadentismo come un vessillo del quale non sa bene distinguere i colori». Sadismo, necrofi­ lia, «seduzioni morbose e irrazionali» guastano anche i suoi film migliori; se II vampiro tradisce la sua disarmante puerili­ tà, e se nella Passion de Jeanne d'Arc l’«estetismo del regista non trova alcun freno», creando «uno stupendo ritmo figurati­ vo che si esaurisce in se stesso prima che la storia abbia acquistato consistenza», Ordet mostra irrimediabilmente la cor­ da: «Tornano a galla le debolezze del gusto e la superbia delle intenzioni, i vecchi ineliminabili difetti». Credo che questo florilegio possa bastare per quanto ri­ guarda il Di Giammatteo critico. Ma le cose non vanno affatto meglio per i suoi presunti meriti in qualità di organizzatore di cultura. Abbiamo denunciato sopra i gravi limiti e i difetti strutturali di un’impresa come quella del “Castoro”. Quanto si auspicava al termine della nostra nota del 1975, e cioè che gli autori delle monografìe raddrizzassero opportunamente il tiro, atteggiandosi a maggior sobrietà, non è purtroppo avvenuto se non in casi eccezionali; e la 'collana’ si è vieppiù trasformata

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in una sagra di quel genere di “nuova critica”, dei cui misfatti ci occupiamo nello scritto seguente. Vogliamo qui aggiungere solo un episodio, che ci sembra d’altronde straordinariamente illuminante della piega impressa da Di Giammatteo al “Casto­ ro”. Quando la 'collana’ giunge al centesimo numero, col volu­ me dedicato a John Boorman (scelta, tutti vedono, felicissi­ ma), Alberto Farassino ne celebra l’uscita sulla «Repubblica» del 15 dicembre 1982, soffermandosi a esaltare l’attività in­ stancabile svolta da Di Giammatteo come direttore, anzi - egli dice - come un «supervisore o producer all’americana», che «volentieri taglia, corregge, fa riscrivere i volumi che non rispettano misure e finalità informative previste, attirandosi spesso i mugugni degli autori». All’inizio del 'pezzo’ di Farassi­ no si fanno un po’ di conti economico-ideologici: «il primo volume uscito, un Antonioni di Giorgio Tinazzi, ha finora venduto 12.000 copie, come un discreto romanzo, e per parec­ chi anni la vendita media è stata di 6000 copie mentre ora è scesa sulle 3-3500 rispettando la curva della domanda di cultu­ ra cinematografica in Italia: dalla brama di vedere e sapere tutto, dopo gli anni dei paraocchi ideologici, all’odierna satura­ zione dell’era televisiva e della saggistica effìmera e volante». Alla fine invece è il direttore stesso che, «col suo solito tono disincantato», tira le conclusioni, parlando dei successivi nu­ meri della ‘collana’ in programma. «E se dovesse scriverne uno lei, che sceglierebbe?», gli chiede Farassino. «Il direttore ci pensa e poi, forse per épaier i suoi figli troppo professorini dice “se avesse fatto più film come regista mi piacerebbe fare Celentano”» (il tutto naturalmente senza corsivi, senza punti e senza virgole, come è nello stile della «Repubblica»). Omettiamo ogni commento. Il cinema dispone di ben po­ chi registi di vaglia, di ben pochi artisti autentici. Quei pochi, Di Giammatteo li stronca o li affossa o li deprezza tutù: Ejzenstejn, Chaplin, Dreyer, Bergman, Visconti, per tutti fa pollice verso. In alto il pollice egli lo leva solo se gli capitano a tiro un Wyler, un Wilder, un Boorman o un Celentano (senza che vogliamo con questi nomi stabilire delle equipara­

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zioni irrispettose; ci atteniamo solo a un’esemplificazione au­ tentica). Che cosa sperare da un uomo con le idee così confu­ se, così ottuse, così meschine e così storte? Che razza di cultura può egli essere in grado di organizzare? Come può farci da guida competente? Ce un aggettivo che, meglio di ogni altro, qualifica tutta la sua attività di vita, intesa come vita critica, come Lebenswerk-. fallimentare.

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XXI

La boria dei meschini ovvero l’ingenuità di una cultura fatua [1977]

Noi non sappiamo bene dire se esista realmente o meno, anche nel cinema, il fenomeno di una «nuova critica» contrap­ posta a una critica «accademica». Scrivendone nel 1970 su «Bianco e nero», Giorgio Tinazzi — lui stesso fautore tra i più accesi della «nuova critica» — lo dava senz’altro per scontato. Ma perché abbia un senso prendersela con veemenza, come fa Tinazzi (in un più recente articolo della rivista «Problemi» dedicato al neorealismo), con «la chiusura della storiografia di stampo accademico», bisognerebbe prima esser ben certi che esistano nella storiografia e critica del cinema la serietà, la dignità, le tradizioni, le basi di cultura, necessarie a innalzarle al rango di discipline meritevoli della qualifica di «accademi­ che»: cosa della quale, con gli accademici che ci si trova intorno, noi - a costo di dispiacere un’altra volta all’accademi­ co prof. Verdone - ci permettiamo di dubitare fortemente. Come che sia, sembra divenuto quasi d’obbligo nella pub­ blicistica, ogni volta che ci si occupa di una nuova collana di testi sul cinema o di testi cinematografici di giovani autori, affrettarsi a dir subito tutto il bene possibile di questa presun­ ta «nuova critica»; mostrare vivo apprezzamento per la metico­ losità e la cura filologica con cui vengono condotte le ricerche; mettere in rilievo come i «giovani filologi» diano dei punti ai critici della generazione passata; come sostituiscano un nuovo modo di far critica agli schemi, decrepiti, di quelli, realizzando così un atteso e opportuno ricambio di quadri; insomma, co­

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me oggi ci sia da essere del tutto soddisfatti e contenti, in quanto i nuovi critici, i «giovani filologi», lavorerebbero tutti e sempre benissimo: quasi che davvero la situazione della critica cinematografica italiana fosse delle più floride e autoriz­ zasse un simile ottimismo, o che, dopo l’ingresso del cinema nelle università, gli istituti universitari fossero in grado di sopperire in questo campo a ogni bisogno e andassero sfornan­ do talenti a ripetizione. Ora nessuno più di noi guarda con favore all’idea di un deciso ricambio di quadri, in specie quando i quadri siano, come sono qui, in prevalenza poco omogenei, culturalmente poco preparati, inclini spesso a confondere le boutades pubbli­ cistiche con la ricerca scientifica, e in ogni caso, per più ragio­ ni e più versi, fortemente sclerotizzati. Ben venga dunque il ricambio; purché si tratti naturalmente di un ricambio vantag­ gioso, che dia un saldo attivo, di un mutamento che innalzi il livello qualitativo della critica, e non invece solo della meccani­ ca sostituzione di quadri a quadri, di schemi a schemi, col rischio che così si torni al punto di partenza, se non più indietro ancora. Merita che vediamo un po’ più da vicino la questione. Cominciamo intanto col domandarci se e fino a che punto abbia un fondamento l’ottimismo mostrato dalla pubblicistica nei confronti dei «giovani filologi»: cioè, in primo luogo, se è vero che si abbia qui a che fare proprio sempre con filologi; e, in secondo luogo, se - filologi o meno che siano in senso proprio — i nuovi critici sappiano mettere bene a frutto le loro vantate capacità di studiosi e sappiano produrre, per loro mez­ zo, risultati scientificamente attendibili. Circa il primo punto, è e resta nostra ferma impressione — d’altronde abbondante­ mente suffragata dai fatti - che la pubblicistica protesa in apprezzamenti e lodi sperticate dei «giovani filologi» incorra in un equivoco di principio sul senso del termine «filologia». Basta forse qualche lettura alla moviola, qualche nozione di linguistica, qualche incursione rapsodica e improvvisata nel campo dello strutturalismo per trasformare un giovane critico 310

alle prime armi in reputato filologo? Basta lo sbandieramento a ogni pie’ sospinto di canoni «analitici» di matrice neopositi­ vistica, o il ricorso martellante alla terminologia strutturalista, o l’impiego spesso poco rigoroso - talvolta anzi senz’altro risibile - di simboli, segni vettoriali, schemi grafici, diagram­ mi, per creare d'emblée un semiologo? Che se ne possa ragio­ nevolmente dubitare ci conforta a crederlo, tra l’altro, proprio la reazione di un semiologo accreditato come Piero Raffa (con cui chi scrive per ovvi motivi non concorda certo, ma che tuttavia lavora sul suo terreno seriamente) di fronte al vezzo in auge di presentare ogni teoria «sotto una veste formalizza­ ta, corredata di diagrammi e altri espedienti grafici, coi quali egli lamenta — oggi si usa occultare lo stato scientifico arretra­ to (e perfino opinabile) della semiologia oppure contrabbanda­ re dietro una facciata pseudoscientifica il manierismo accade­ mico in voga». A ragione Raffa mette in guardia contro il fenomeno dell’espandersi a macchia d’olio della mania semioti­ ca, o come egli dice efficacemente (citiamo dalla sua Semiolo­ gia delle arti visive), contro la «semiomania»: «È necessario deflazionare, porre argini, delimitare con precisione, ‘sgonfia­ re’ col rigore scientifico consentito in questa materia la dilagan­ te semiomania». Eppure, a giudicare dal sacro rispetto con cui si guarda nella pubblicistica ai lavori dei «giovani filologi» raccolti intor­ no alla ‘collana’ del «Castoro cinema» della Nuova Italia o a quelli - in via di uscire mentre scriviamo — della «Contempo­ ranea cinema» di Moizzi, pare proprio che l’equivoco sulla «filologia» permanga intatto. Si tratta purtroppo, salvo ecce­ zioni, di una filologia molto sui generis, che sta d’altronde in perfetto accordo, e in rapporto, con l’elevatezza delle idee critiche dei direttori posti rispettivamente alla testa delle due ‘collane’: ossia, per il «Castoro», di quello straordinario leader dei critici «controcorrente» che ha nome Fernaldo Di Giam­ matteo (cfr. sopra, XX); e quanto alla «Contemporanea cine­ ma», di Mauro Marchesini e Fabio Carlini, quest’ultimo già felicemente segnalatosi a suo tempo con VHitchcock del «Ca­

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storo», volumetto dell’orrore in tutti i sensi (cfr. sopra, XIV, § 3). Se sul «Castoro» abbiamo già espresso il nostro giudizio (cfr. sopra, XX, § 2), che cosa ci promettono da parte loro i neodirettori della «Contemporanea» Marchesini e Carlini? Tra i primi titoli della ‘collana’ si annunciano, dopo un Robert Altman (subito naturalmente segnalato dalla rubrica «Che c’è di nuovo» del settimanale “L’Espresso”, puntualissima nel re­ clamizzare al buio ogni genere di scemenze), e accanto a un Bellocchio o ai Taviani, monografie su registi come Sydney Pollack, Dino Risi, Sergio Leone e, affidato allo stesso Carli­ ni, Arthur Penn. Mica male davvero come inizio! Si guardi un po’ che bella accolita di geni ci viene squadernata, quale galle­ ria di maestri, in tutto certo molto meglio rispondenti al gusto personale dei due neodirettori che non maestri veri sul tipo, poniamo, di Dreyer o di Chaplin, e in ogni caso molto oppor­ tunamente scelti per dar subito lustro alla ‘collana’, in vista dell’intento che essa si prefigge: «pronunciare finalmente le parole ‘non dette’» dalla «critica ufficiale», rimediando ai suoi vizi di «disinformazione» e «opportunismo». Dichiarano infat­ ti con piglio burbanzoso i due neodirettori (e Morando Morandini riporta sul “Giorno” senza batter ciglio): «Nella maggioranza dei casi la critica ufficiale s’è occupata di sociologia e di letteratura, cancellando molto spesso il cinema dallo spazio della propria riflessione. È una critica opportunista perché non ha il coraggio e la ‘passione * necessari per aggiornare oggetti e modalità del dibattito culturale. È disinformata perché, pur essendo sveglissima quando deve chiacchierare intorno all’attualità spicciola, cade in un sonno profondo quando si tratta di dialogare intorno ai massimi sistemi: il testo, la lettura, la pratica simbolica».

E perché non restino dubbi di sorta circa le finalità del loro programma, lanciano la collana col seguente slogan: «Un repertorio di monografie su registi per ripensare il cinema e la sua storia, per misurarsi con le immagini [...].

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Una proposta di contaminazione [?] per confrontarsi con il cinema contemporaneo e quello classico sfuggendo alla casualità dell enciclopedia [!]. Un’ipotesi ‘eccessiva’ [!] che vuol tornare al rigore filologico e alla riflessione sul metodo, alla testualità del film ed alla pratica della produzione».

Bravi. Ecco dei criteri autenticamente scientifici e radical­ mente innovatori nel campo dell’estetica; ecco il giusto ammo­ nimento, la giusta lezione che i «giovani filologi» impartisco­ no agli anziani, a quella pseudo-critica «ufficiale», disinforma­ ta e opportunista, buona solo a far della letteratura o della sociologia volgare. Dominava fin qui solitario e incontrastato, a quanto sembra, tal genere di critica (mai sentito parlare, per caso, dell’esistenza di una critica marxista?): oggi fortunata­ mente vengono in nostro soccorso, a trarci d’impaccio e a indicarci la via, critici che, da novelli Galilei (lacaniani) del­ l’estetica, dialogano «intorno ai massimi sistemi» per mezzo della «pratica simbolica». Non è soltanto l’insipienza che colpisce e sgomenta in simili sparate. È l’insipienza congiunta all’alterigia. Si direbbe che, quanto più basso è il livello della «nuova critica», quanta minor consistenza hanno le sue proposte, tanto più essa tenga banco con sufficienza, si atteggi ridicolmente a colta e, con gravità da prosopopea, con toni da sapere oracolare, la preten­ da a una scientificità fasulla. Tutti sanno dello sprezzo a cui Vico, nella Scienza nuova, addita il fenomeno della «boria dei dotti», mostrando «la boria essere figliuola dell’ignoranza e del’amor propio, il quale ci gonfia, perciocché in noi sono troppo indonnate l’idee ch’abbiamo di noi medesimi e delle cose nostre, e con quelle come matti guardiamo le cose che da noi non s’intendono». Ora gran parte dei «giovani filologi» di cui parliamo ci sembrano proprio «matti» di tal fatta; fedel­ mente ligi al modello vichiano se non altro in questo, che dei loro «ritruovati», come i dotti di Vico, essi fanno gran conto, persuasi di poter «nascondervi dentro i loro misteri d’alta sapienza riposta». Il loro continuo sfoggio di un sapere miste­ 313

rico, esoterico, oracolare, si accorda per un verso in pieno col concetto di «boria dei dotti»; ma poiché, per altro, questi «matti» di casa nostra dotti non lo sono affatto, sarà senza dubbio meglio - celiando un po’ con Vico e distorcendo libera­ mente il suo concetto - parlare, anziché di «boria dei dotti», di boria dei meschini. Torniamo dunque a porci più concretamente la domanda da cui si era incominciato: lavorano tutti davvero così bene i «giovani filologi»? A noi non sembra assolutamente. Ci sem­ bra semmai il contrario: che cioè essi per lo più lavorino malissimo. E a evitare che si ripeta un’altra volta quanto già accadde in occasione della pur sacrosanta requisitoria di «Cine­ ma nuovo» contro i «docenti allegri» (responsabile sempre il sottoscritto: cfr. sopra, XVIII), allorché ci venne mosso a colpa da più parti di aver colpito indiscriminatamente e ingiu­ stamente a destra e a manca, senza distinguere - come si sarebbe dovuto fare - caso da caso, gli esempi macroscopici e inequivocabili di analfabetismo culturale (tipo Edoardo Bru­ no) o quelli anche più clamorosi in cui l’analfabetismo si sposa al plagio (tipo Canziani), da casi e esempi di critica «seria», dichiariamo anticipatamente che stavolta ce l’abbiamo proprio soltanto con quest’ultima, con la critica sedicente - o che altri dice - seria, con la sedicente «filologia». È mai possibile che a far testo su Vertov, su Ejzenstejn, sull’avanguardia sovietica degli anni '20 debbano oggi essere pagine vuote e ridondanti come quelle di Aldo Grasso o di Paolo Bertetto? che si indichino e si esaltino le loro chiacchie­ re come il non plus ultra della critica in materia, come un modello di critica à la page? Se a Bertetto va il merito di aver raccolto insieme, in Teoria del cinema rivoluzionario, testi di Vertov e EjzenStejn e manifesti del gruppo Feks, merito che non intendiamo affatto contestargli (sebbene per Vertov si disponga ora in italiano della raccolta ben più completa e scientificamente raccomandabile curata da Pietro Montani per Mazzotta), che cosa dire della sua introduzione, che confonde e falsifica, anziché chiarire, i termini di tutte le diverse questio­

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ni affrontate, senza in realtà affrontarne mai seriamente nean­ che una? In luogo dell’analisi critica dei dati e della ricerca storica, qui domina sovrano lo sproloquio. Diamo soltanto un paio di esempi della mirabile prosa di Bertetto: «La forma rivoluzionaria (dell’avanguardia) tende così a ripro­ durre la contraddittorietà del rapporto tra radicalità della negazio­ ne operaia e ricomposizione di tutto il processo sociale dentro l’orientamente socialista, opera, in un primo tempo, all’interno del progetto di unificazione teorica determinata di utopia e negazione, inseguendo insieme la ridefinizione collettiva dei ruoli sociali libe­ rati e la rottura violenta con le forme istituzionali e le loro media­ zioni ideologiche. Ma dentro questa contraddizione la forma rivolu­ zionaria tende già fin dall’inizio a porre tra parentesi, a emarginare dentro l’orizzonte dell’irrealizzabilità, la negazione della valorizza­ zione, l’attacco alla legge del valore (praticandola al massimo come autosottrazione, cioè determinazione soggettiva, utopico-illusoria) e ricostruendo, dentro il caos delle nuove sperimentazioni liberate, l’ordine tendenzialmente coercitivo della stabilizzazione delle fun­ zioni e della reintegrazione nelle leggi del sociale e della produ­ zione».

E poco più sotto: «L’ideologia come passaggio della realizzazione del positivo è l’omologo teorico della distruzione pratica della classe come pratica permanente del contrario, della negazione [...]. Senza una rigorosa strategia teorica rivoluzionaria, la socializza­ zione della negazione scompare progressivamente dapprima nell’ineffettualità dell’estetizzazione del sociale e in una seconda fase nella mimesi teorico-pratica della sostituzione del processo rivolu­ zionario con la costruzione del socialismo, con relativa collocazione dentro la mitografia della figura dell’ottobre, e riduzione a ideolo­ gia di tutto il percorso teorico».

Si noti di passata che solo nelle prime quattro pagine dell’introduzione l’autore usa non meno di 18 volte le espres­ sioni «dentro» o «all’interno», senza purtroppo che ciò l’aiuti

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molto a penetrare a fondo in qualche cosa. Di tutti i suoi sforzi (da cui traspare con chiarezza soltanto il suo viscerale livore antisovietico) non resta nella memoria, al termine della lettura (per chi pure riesce a leggere sino in fondo e, leggendo, a capire), se non l’impressione di un delirante giuoco pirotecni­ co di concetti e ideologismi astratti, espressi secondo una fra­ seologia alla moda. Forse proprio in grazia di queste sue esem­ plari doti di chiarezza, anche Bertetto è stato da ultimo giusta­ mente reclutato nella troupe del «Castoro». Da parte sua Grasso, liquidata brevemente (in un testo d’appendice agli «Atti» del convegno di Fiesole su Ejzen­ stejn) «la critica lukacsiana e storicistica in genere» perché «socio-ideologica», bollata con sprezzo come «normativa» la «critica socialrealistica» di «Cinema nuovo», sotterrato anche il povero Barbaro, in quanto anche Barbaro, «come altri, parte da un equivoco teorico favorito da un marxismo generico e da premesse idealistiche», ci insegna lui che cosa è la critica: «un lavoro di decifrazione che partecipa di una interpretazione» (caso mai ci fosse chi credesse che la critica consista in altro) ; e pontifica poi a non dire, quando ne scrive per il «Castoro», sul cinema di Ejzenstejn, rifondendo e diluendo in una esposi­ zione zeppa di aforismi — fastidiosi quanto spesso incomprensi­ bili - certe sue idee già espresse nel fascicolo di «Bianco e nero» dal titolo L’irrealismo socialista, idee che per genialità e chiarezza non hanno nulla da invidiare a quelle di Bertetto. Citiamo a titolo d’esempio la seguente: che «il cinema prima di essere in rapporto col reale è in rapporto col visibile, con se stesso, cioè, e con l’universo in cui si iscrive»; e che «in questo ambito [...] vanno collocati i tentativi di Ejzenstejn di voler depurare le immagini dalle sovrastrutture della compren­ sione conoscitiva, dalle scorie del passato dominio ideologico che la Rivoluzione d’Ottobre non è ancora riuscita a cancella­ re». Non' stupisce che per tal via Grasso arrivi all’estremo formalistico di stabilire un parallelo tra Ivan il terribile e - si pensi un po’ - Il gabinetto delle figure di cera di Paul Leni: 316

«Se confrontiamo l’episodio di Ivan del film tedesco con quel­ lo di Ejzenstejn vediamo che le rassomiglianze sono impressionan­ ti: attore, scenografia, luci, medesimo gusto della finzione, dello sdoppiamento, identica repulsione per il naturalismo. Così, in un gioco di rimandi e di ammiccamenti cresce l’area semantica, la mobilitazione culturale in cui il regista iscrive la sua opera».

Altri esempi concreti di «nuova critica» (esempi che ci paiono di per sé così eloquenti da non richiedere molto com­ mento). Alessandro Cappabianca, Michele Mancini e Umberto Silva affermano nella «premessa» a un loro testo, La costruzione del labirinto, di voler combattere «l’incontrastata egemonia deH’improwisazione idealista, corrispettivo adeguato del calco­ lo economista», all’insegna di questa illuminante esigenza: «operare sul cinema come prassi materialista partendo dall’ana­ lisi delle sue componenti formali concrete, intese non tanto come tecniche neutrali, quanto come momenti orientati duna prassi sovrastrutturale che tende in sostanza a saltare il mo­ mento del film come momento della pacificazione-composizio ­ ne dei conflitti della prassi e di occultamento-mascheramento delle sovrastrutture ideologiche». Dall’incredibile, confuso e capzioso guazzabuglio marxfreudiano della premessa, dove non si sanno nemmeno distin­ guere i problemi estetici dagli economici, è facile immaginarsi le conseguenze. L’opera d’arte appare agli autori (che si scon­ trano frontalmente di continuo con la loro congenita avversio­ ne per ogni forma di realismo) come un impercorribile «labi­ rinto», «un labirinto - dicono - che si contiene; che forse ha un’entrata, ma non un’uscita che, una volta varcata, non lo faccia franare». E poiché la critica, se non vuole che il labirin­ to le frani addosso, è bene svolga con molta prudenza il suo «filo d’Arianna» e non si avvicini troppo «al nodo dei nodi, al nesso dei nessi, al senso occulto, che in quanto tale non potrà essere sciolto (critica del banale), ma solo evocato, fatto fugge­ volmente apparire nella sua luminosa e oscura trasparenza», l’unico approdo finisce con l’essere — molto conseguentemente - il silenzio: «Bisogna suggerire il senso ed evitare di uccider­ 317

lo nominandolo». Altro che esorcizzazione dell’idealismo! Qui siamo in pieno misticismo. Anche il giovane Franco Pecori non rinuncia ad ammannirci la sua brava lezione di metodo. Facendo valere «l’istanza di analiticità nei confronti dei procedimenti artistici» sostenuta da Galvano Della Volpe, egli condensa e esaurisce nelle cento paginette di Cinema, forma e metodo la trattazione di tutti i possibili problemi, storici e teorici, che investono il cinema come fatto d’arte; tre o quattro sole gliene bastano per confuta­ re l’estetica di Croce e quella di Lukàcs, e per denunciare quegli «esempi di pieno travisamente dell’istanza analitica in senso strettamente sociologico» di cui si macchia, al solito, «Cinema nuovo». Una simile faciloneria, una tale rozzezza di modi, per quanto ammantata in smaglianti vesti semiologiche, non può che condurre a rozze conclusioni: come puntualmen­ te avviene quando Pecori si sbarazza con una distratta e infa­ stidita alzata di spalle della Terra trema di Visconti. In un saggio su Professione: reporter di Antonioni dal titolo II testo e lo sguardo un altro giovane «filologo», Fernan­ do Trebbi, ricercatore presso l’istituto di storia del teatro e dello spettacolo dell’università di Padova, si mostra talmente compiaciuto di se stesso e sicuro dei suoi mezzi da non sentir disagio ad autorappresentarsi mentre, come critico, «sperimen­ ta un piacere nuovo: quello della produttività del proprio testo che si affianca alla produttività del testo dell’autore». Che cosa significa concretamente, per Trebbi, «eseguire il te­ sto» di Antonioni, entrando, da critico che produce o che «cade, per così dire, addosso al testo», in stretto «sodalizio con l’autore»? Lasciamoglielo illustrare, senza commenti, con le sue stesse parole: «riecheggiamento, ripetizione minuziosa, esplicitazione di asso­ nanze, chiarimento di sfumature, prolungamento di direzioni inter­ ne, complicità, eliminazione della separazione e della distanza, addossamento, prescindimento giudicatorio e valutativo, autocancellazione e scomparsa, tentativo di parlare e di scrivere non ‘su’ ma ‘dentro’ al testo, affiancamento e attraversamento, plagio dispe­

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rato e imitazione tranquilla, partecipazione al corteo funebre, ospi­ talità offerta e domandata, tracciamento di una linea (di produttivi­ tà testuale, di testualità) che, dipartendosi dal testo critico, vada ad incrociare, in un altro luogo (luogo-testo), quella che si diparte dal testo criticato».

Trebbi spiega poi nei termini che seguono — anch’essi non bisognosi di commento - la critica sociale di Antonioni: «Se di critica alla struttura sociale e alla ideologia borghese nei suoi fondamentali aspetti della funzionalità e del profitto (dell utile e del necessario) si può parlare in Antonioni, questa consiste probabilmente in un ritorno della passività (dell’apatia) rimossa spinta indietro dal principio fallocentrico dell’attività', nel mostrare, insomma, Vattività della passività, il pathos dell'apatia. Non diversamente, si direbbe, dall’antica idea taoista secondo cui è per rimane­ re inattivo che l’eletto esiste, poiché l’azione è cieca e limitata, non dipende che da influenze esterne, ha la sua base nella mancanza di immaginazione, è, si potrebbe aggiungere, l’ultima risorsa di coloro che non sanno sognare».

Non si crederebbe se non si leggesse. Ma in Trebbi, dove la follia non ha confini, si legge questo e altro; le farneticazio­ ni sono all’ordine del giorno. Egli dice ancora: «L’inerzia, la solitudine, l’abbandono, l’attesa, la rassegnazione, il silenzio [...], non sono soltanto dei connotatoti d’assenza che innervano il campo semantico dell’apatia, essi disegnano anche un rosone di doglianza, intrecciano una corona funeraria, fanno echeg­ giare un rintocco di lutto, sono rivelatori di pulsioni di morte che percorrono l’opera e che specialmente ricorrono nei finali dei suoi ultimi film. Recursività della morte, dunque. Morte che ripetutamente si annuncia. Morte, però, che non esclude dal gioco, ma che chiama in gioco, che partecipa, che è presente. Morte che non separa, che non divide dal mondo, che non è naturale, che non ha niente a che vedere con la morte naturale».

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E continua chiedendosi in tutta serietà: «O davvero noi vorremmo credere, dopo Nietzsche, ad una morte che non sia festa e potenza di affermazione?». Chiediamo a nostra volta: è così che si insegna a ricercare e si ricerca presso FUniversità di Padova? Quale che sia la risposta, non si può non far carico a Gian Piero Brunetta di promuovere e avallare irresponsabilmente col suo nome, ospi­ tandoli nella ‘collana * che dirige per le edizioni Patron (la stessa dove compare anche la Semiologia di Raffa), simili in­ qualificabili lavori. Taluni di questi lavori, come il saggio recente su Jancsó di Ennio Castaldini, «frutto di una lunga ricerca condotta direttamente in Ungheria» (che cosa per altro Fautore sia andato a cercare in Ungheria dal testo non si comprende bene), vanno davvero al di là di qualsiasi immagi­ nazione e superano qualsiasi limite tollerabile di decenza. L’idea sarebbe, come in Trebbi, quella di procedere a una decodificazione della struttura dei racconti filmici coi mezzi analitici fomiti dalla semiologia; ma la vaghezza dei propositi, il semplicismo della conduzione, la gratuità delle asserzioni, il ricorso a un sistema inutilmente macchinoso e complicato, oltreché risibile, di abbreviazioni, simboli, grafici, diagrammi, finiscono col trasformare le «ipotesi metodologiche» di parten­ za (che Brunetta, prefatore, sembra prendere molto sul serio) in esiti apertamente farseschi. Persino la lingua italiana esce da qui sconvolta. Se poi, lasciando al loro destino le farse di Castaldini e le feste nietzschiane un po’ macabre di Trebbi (parce juvenibus), ma sempre restando in quel di Padova, vogliamo sentir pro­ nunciare una parola definitiva su Bunuel, su Bresson o ancora su Antonioni, ecco levarsi subito pronto, a nome della «nuova critica», nientemeno che Tinazzi in persona, con le sue chiac­ chiere travestite da filosofia profonda. Qui, perché il lettore sappia in anticipo con quale tempra di studioso ha a che fare, dobbiamo aprire una parentesi e rammentare alcune delle «fon­ ti» cui Tinazzi stesso si richiama, per appoggio, nel saggio del 1970 sulla «nuova critica»: dove, dichiarandosi d’accordo a

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destra e a manca un po’ con tutti i generi di critica (tranne che, naturalmente, con la critica orientata nel senso del reali­ smo), egli ripete in particolare almeno per tre volte l’espressio­ ne di consenso «ha ragione»: una prima volta per Di Giam­ matteo, una seconda per Armando Plebe e una terza per Lino Miccichè. Miccichè «ha ragione», secondo Tinazzi, sul proble­ ma del neorealismo; Di Giammatteo «ha senz’altro ragione» circa i rapporti esistenti da vecchia data tra linguistica e teoria cinematografica; e per quel che riguarda Plebe, stia un po’ attento il lettore a capir bene, se ci riesce, quando Plebe ha ragione: «ha ragione Plebe, quando parla di ‘scolastica della critica filmica’ a proposito dei bizantinismi dei neogrammatici, ma non si può interpretare questo suo richiamo come sottrazio­ ne ad una critica specifica, che si ponga all’interno dei processi tecnico-costruttivi; a favore insomma della tendenza ‘umanisti­ ca’ (di chiaro stampo crociano) di chi pensa che il film va giudicato ‘con gli stessi criteri che se si dovesse occuparsi di letteratura o di pittura’». Così ben armato culturalmente, con così nobile retaggio di «fonti», Tinazzi affronta dalla piattaforma della «nuova criti­ ca» il cinema di Antonioni. (Del suo libro su Bunuel ha già detto tutto il male che merita Liborio Termine, Bunuel e il velleitarismo di un critico, in «Cinema nuovo», XXII, 1973, n° 223, pp. 221-3). «Si parla, spesso, di Antonioni critico della borghesia: e sta bene», dichiara Tinazzi a Fiesole nel 1968 e ripete sei anni dopo, con poche varianti formali, nelVAntonioni del «Castoro». «Ma come? Non basta insomma constatare la presenza di alcuni temi (in formula: Antonioni specchio della ‘crisi’, ecc.), bisogna, credo, andare più avanti, vedere come egli abbia posto in discussione il ruolo stesso di un autore all’interno delle strutture». Ora, una volta assodato che Antonioni sta «dentro [...] a una società, quella borghese italiana, senza chiare strutture», «dentro all’assetto» del «cine­ ma borghese», «dentro alle contraddizioni», alla «dialettica» e, per Tinazzi, «dentro» a un’altra infinità di cose (pare pro­ prio che questa del «dentro» stia diventando una mania collet-

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riva), e ammesso inoltre e non concesso che egli venga operan­ do «sotto la spinta di un romanticismo ‘aggiornato’ e dentro le sue ambivalenze», come si propone Tinazzi di «andar più avanti» nella ricerca critica su Antonioni? «Certo non varrà cercare uno sviluppo lineare per chi ha sem­ pre operato entro [corsivo di Tinazzi] talune contraddizioni, né tanto meno far coincidere sempre questa analisi con un giudizio di valore, ma di intendere questa linea sottesa da un cinema che stava per essere - era - codificato, a un cinema che, forse programmati­ camente, fosse un ‘campo di possibilità’ [...], un cinema che si sottraesse alla garanzia del già dato, affrontando il peso di una progettualità nuova, quella che Barthes chiama la responsabilità delle forme. Al punto che le strutture narrative, la scomposizione del mezzo diventano l’oggetto del film: siamo a Blow-up [...]. La narrazione appare allora come ‘rischio’, come qualcosa che procede col film e agendosi si interroga».

Ecco che cosa e come scrive questo docente di Storia e critica del cinema, nonché incaricato di Estetica, presso l’Università di Padova. Apprendiamo così, tra l’altro, che da Anto­ nioni il «discorso [...] è portato avanti proprio [...] come riflessione sul nostro rapporto con la realtà delle cose, sulla stessa ambivalenza del nostro rapporto percettivo»; che in lui «lo psicologismo della tradizione borghese [...] si fa problema di struttura»; che la «fungibilità delle nostre sicurezze, la cui scomposizione era stata il tema dominante del Grido», si am­ plia, con L'avventura, «in un’osservazione che sembra ancora più ‘obiettiva’, perché i rifiuti di Antonioni (i contrasti, i nodi drammatici, le esplicazioni) sono più evidenti», e la «coppia gli appare ora chiaramente come autodistruggentesi, la sua fungibilità viene ora sezionata, fino al rischio del didascali­ smo»; che infine con Blow-up, «al di sopra della ambivalenza reale, Antonioni rischia di porre, non so quanto coscientemen­ te, un momento formale che non è dentro alla ricerca — con tutti i suoi rischi, anche la nullificazione o la mistificazione cosciente — quanto prima di essa, non come sicurezza stilistica

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[...], quanto come dato a priori che recuperi estetizzandole le contraddizioni»: cose che tutti vedono quanto ben dette e profonde. Stessa solfa nell’altra — più recente e più ambiziosa impresa di Tinazzi, il Bresson edito da Marsilio. Anche qui, gran polverone pseudo-culturale (un po’ di Sklovskij, un po’ di Adorno, vari richiami indiretti a semiologi e strutturalisti, per­ fino qualche citazione da Lukàcs, ma beninteso, dal Lukacs del periodo premarxista, quello che nelTAnima e le forme definisce l’esistenza «un’anarchia del chiaroscuro») e soprattut­ to, come sempre, chiacchiere a non finire. C’è soltanto in più - tratto del tutto inedito - un assurdo quanto goffo tentativo di scimmiottatura dello stile dell’autore da parte del critico. Bresson è scarno, asciutto, stringato, essenziale? Si esprime, anche quando scrive, per brevi, concisi aforismi? Subito Tinaz­ zi lo imita. Se a esempio Bresson, nelle Notes sur le cznématographe, afferma: «Cinematografo: nuovo modo di scrivere, dunque di sentire», ecco che il suo critico, per non essergli da meno, gli fa eco: «La dimensione concreta è l’unico supporto alla metafora [...]. Conta ciò che resta, il riflesso profondo dell’evidente [...]. Siamo ancora in presenza di un cinema dei riflessi [...]; la mediazione è la sua categoria prima». E ancora, con ritmo sempre più incalzante, con formule e sentenze — assolutizzate — sempre più incisive: «‘Riduzione’ di temi e messa in stile»; «Suono e immagine come poli complementari di un cinema tutto di rapporti»; «Un cinema dell’interno fatto di cose. Le implicazioni ci colgono riducendo, semplificare è arricchire»; «Il peso del concreto - i fatti, le cose, i luoghi - è la forza dell’allusione»; «Il lavoro del regista è - ancora lavoro su materiali, la mise en scène è mise en forme»', e via di questo passo. Il capitoletto dal titolo proto-lukacsiano «L’anar­ chia del chiaroscuro» (ahimè, povero Lukàcs!) termina con un’uscita, nella sua secchezza, di taglio veramente bressoniano: «Economia è studio dei rapporti, alternanza e insistenza: il cinema fuori dell’abitudine. Il reale e il vero»: dove per «cinema fuori dall’abitudine» Tinazzi intende - come spiega 323

più sopra, con un’altra delle sue frasi reboanti e vuote quello che evita «le suggestioni convenzionali, l’impressione di realtà, l’influsso passivante [!] di altre forme espressive, il consolidarsi di norme e abitudini (dai generi alla narrazione, alla scala gerarchica [?] dei valori espressivi)». Crediamo bastino già questi pochi esempi a dar conto di chi siano e di come lavorino certi «giovani filologi». Da auten­ tici «matti» nell’accezione vichiana del termine, tutti gonfi delle idee che hanno di loro medesimi e delle cose loro, i Carlini, i Berretto, i Grasso, i Tinazzi o - per fare altri nomi tratti volutamente e un po’ casualmente, a titolo esemplificati­ vo, dagli ambiti più disparati - l’onnipresente «sociologo» Alberto Abruzzese (che ora, fortunatamente per il cinema, di cinema strido sensu si occupa meno), quel bel campione di eclettismo ideologico buono a tutti gli usi che risponde al nome di Italo Moscati, il gruppo di semiologi della «scuola» (si fa per dire) di Gianfranco Bettettini, molti degli ex-collaboratori di «Cinema e film» e dei giovani collaboratori attuali di «Cinema e cinema» (non si parla neanche, naturalmente, di quelli di «Filmocritica»), scrivono sempre in tono supercilioso e risentito, con l’aria di chi impartisca lezioni al mondo, di chi dia fondo a chissà quali problemi e scopra chissà quali verità recondite: quando si tratta invece, per lo più, solo di pomposi vaniloqui intorno al nulla, o di scoperte sì, ma del genere di quella del cavallo. C’è a esempio chi, su «Cinema e cinema» (dove pure appaiono talvolta cose di buon livello), sproloquia o divaga a vuoto - ma sempre con sussiego e grande sufficien­ za - intorno a Welles, a Bunuel, a Vertov, ai registi del cinema italiano; chi, come la coppia Accialini-Coluccelli, sen­ tenzia dall’empireo che la «luce pare non aver ancor oggi rischiarato molti degli anfratti del pianeta Bunuel», facendoci così capire, i due, che la luce dobbiamo attenderla da loro (ma l’ultima parola su Bunuel non l’aveva già detta il loro amico Tinazzi?); nello scritto di un tal Quaresima sui rapporti tra Vertov e Majakovskij si legge che la «saldatura» da loro realiz­ zata «tra personale e collettivo, privato e sociale, individuale e

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storico», insomma il loro «sforzo di far interagire serie ‘cultu­ rale’ e serie ‘politico-sociale’, di omologare fare artistico e lavo-, ro produttivo» (riferiamo proprio come è scritto), crea «un contatto che dà le vertigini»; un’altra assidua collaboratrice della rivista, Giovanna Grignaffini, trancia giudizi perentori e categorici sui nessi del futurismo italiano col cinema sovietico d’avanguardia senza essersi fatta prima un’idea, neanche ap­ prossimativa, del contesto storico generale della questione; Patrizia Pistagnesi, da coerente promotrice del revival di Matarazzo, addossa senz’altro al neorealismo la colpa di tutte le sconcezze dell’attuale «commedia all’italiana»; e Franco La Polla, che parli o scriva della «new Hollywood» e del «musi­ cal» o della fantascienza o dei più atroci sottoprodotti del cinema italiano, ne parla e scrive sempre, rifacendo il verso al suo maestro Guido Fink (ma in forma involontariamente cari­ caturale), come se stesse occupandosi di Shakespeare, fino ad andare a scomodare, per Woody Alien, l’«ontologia dell’Eros», la «dimensione mitologica», il «livello metalinguisti­ co» e il «riso come Weltschmerz». fWeltschmerz, camp, spoof, speech, wisecrack, mockery, nonsensical, ecc., sono termini di cui I’anglologo La Polla si serve senza troppa economia, così come non economizza certo nelle esemplificazioni e citazioni di titoli di film; nel pezzo sul «musical» riesce a elencarne in cinque pagine, se abbiamo ben contato, la bellezza di 29, tutti pressoché insignificanti, ma tutti nondimeno regolarmente mu­ niti, come si addice alla miglior «filologia», dell’indicazione di regista, data e titolo originale). Sembra una regola, con La Polla, che quanto più retrivi sono i film, tanto più essi incon­ trino il suo favore e suscitino il suo entusiasmo: entusiasmo e favore da lui naturalmente giustificati ogni volta con salti mortali, cavilli, giri di frasi, argomenti pretestuosi o cervelloti­ ci, spunti estetico-filosofici da quattro soldi, discorsi a ruota libera. In una scheda compilata per il Cinema d’Essai di Bolo­ gna egli parla di un mediocre e fortemente reazionario film di fantascienza di George Lucas, L’uomo che fuggì dal futuro, come di «un’opera particolarmente audace», e tratta in pari

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tempo - chissà perché — da «opere importanti in sede teorica» film quali L'ultimo spettacolo, La conversazione, Taxi driver. Ma dove è mai finito, signori, il senso del ridicolo? Scom­ parso del tutto - si direbbe - dal raggio d’orizzonte dei «giova­ ni filologi». E facessero almeno lo sforzo costoro, in mancanza di solide basi culturali e limpidezza di concetti, di riuscir limpidi nella forma, di scriver bene, di esprimersi in modo chiaro, perspicuo, comprensibile! Neanche per sogno. La loro prosa è in generale limpida pressappoco quanto quella dei passi, sopra riportati, di Bertetto; insipienza e alterigia vanno in loro di concerto con l’astrusità. Su «Cinema e cinema» Alberto Gattini inizia un suo articolo che tratta della «dissolu­ zione dei generi» testualmente così: «Se teniamo fermo l’assunto secondo il quale i generi sono i reperti molecolari costitutivi della storia del cinema americano, all’interno dei quali l’intenzionalità fungente dei registi si è riferita a una (esemplare) pratica professionale, non esaustiva, perché tra­ ducibile in segnalazioni (saltuarie) di una moralità profanata, disin­ cantata e offesa, quindi (ma di tutti) nicodemicamente dispiegata ed hemingwaianamente partecipe del sistema, possiamo condurre un processo induttivo (o abduttivo), uno sguardo ricognitivo che pure dubita di se stesso, che, dalle premesse, inferisca e metta in opera un tratto di fenomenologia dell’attuale cinema americano, provvisorio e parziale, come è necessario che sia».

Nella monografia-su Ken Russell del «Castoro», a firma di Rino Mele, si legge: «I film, e non solo quelli di Russell, sono i segni relati all’inter­ no delle inquadrature, ma anche ciò che resta sospeso al di là. Le inquadrature di Russell troppo formalizzate rimandano a linee di forza provenienti di là dalla forma calcificata sullo schermo [...]. Russell è preso dal gioco della rappresentazione come dall’ansia di una ricostruzione di una perdita. La ridondanza nasce anche dalla paura del vuoto [...]. L’arte come ricostruzione degli oggetti primari è la posizione kleiniana, spesso respinta proprio per non ammetterne la privazio-

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ne. In Russell c e, soprattutto, la tensione di mascherarne l’assenza. Di presentarci imbellettata la morte».

A proposito della Salomè di Carmelo Bene, così si esprime Maurizio Grande nel fascicolo di «Bianco e nero» dedicato a Bene: «Salomè conclude il discorso del ‘mito pretestuale’ per condur­ re l’invenzione ai limiti, ai punti di rottura tra mito e storia, tra favola ed esistenza, tra dio e singolarità fenomenica dell’uomo. Quest’ultima vissuta d’altra parte con forte accentuazione della sua totalità, come reiscrizione dell’interezza dell’umanità nella disconti­ nuità esistenziale del singolo e dei suoi miti universalizzanti, nella direzione assolutamente contraria alla concezione positiva della storia o della storicità propria dell’idealismo [...] Questa pluralità di tendenze, questa coincidenza vissuta delle contraddizioni, questa ‘orgia nietzschiana’ del frammento di presen­ te, il rifiuto delle ragioni del futuro, del cambiamento organizzato dalla storia e dalla ragione astratta; e, d’altro canto, l’impossibilità di queste condizioni accettata fino alla morte, la dissoluzione del sé e del proprio mondo nelle forme dello scomparimento e del trasalimento nella pienezza di un’esistenza relegata in un presente inattuale, in un godimento oppositivo che sa di morte: ebbene, tutti questi motivi spiegano forse perché Salomè è anche il film ambiguità. Ambiguità estetica, esistenziale e storica; ambiguità dell’identico e del duplice, della ripetizione e della separazione».

E si potrebbe continuare a piacere nelle citazioni. Citiamo sempre, si badi bene, autori, testi, riviste, su cui non pesa affatto la taccia di analfabetismo, ma che godono anzi, come si è detto, di molto credito e vengono generalmen­ te indicati con compiacimento a modello metodologico di ricer­ ca e a esempio di ‘scientificità’. Reputazione e meriti reali, pretese e risultati qui si trovano singolarmente in contrasto. Alla volontà deliberata di mettersi in mostra facendo sfoggio di cultura, gonfiando a dismisura le proprie soggettive - e spesso arbitrarie e capricciose - «intuizioni» critiche, compli­ cando inutilmente il semplice e sorvolando sul complicato,

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inventando problemi inesistenti (con tanti e tanto gravi proble­ mi reali che ci sono!), non corrisponde in genere, come risulta­ to, che un frasario da sapere oracolare, un gergo fumoso, un linguaggio ingarbugliato e astruso, intessuto di allusioni indeci­ frabili, espressioni criptiche, oscuri aforismi. Costoro si credono forse tutti altrettanti Nietzsche. Sono invece in gran parte, quanto a mentalità e a stile di lavoro, solo dei nipotini cresciuti (anche in presunzione) e scaltriti (alfabetizzati) di Edoardo Bruno, dei Bruno alla seconda po­ tenza, il che vale pressappoco come dire, essendo la base eguale a zero, lo zero al quadrato. Anzi, a conti fatti, l’esito del lavoro dei nipoti risulta persino più deleterio di quello dell’avo. Là, nel regno dell’analfabetismo, non vigeva infatti altra regola se non quella dell’obbligatoria insensatezza dei discorsi, con le loro conseguenti «trovate» amene sì fin che si vuole, ma anche, proprio perché tali, sostanzialmente innocue; qui, presso gente che sa fin troppo bene quello che dice, che conosce a perfezione il senso e il valore dei termini che usa, la chiacchiera sentenziosa e il sapere oracolare sono elevati a sistema, e spacciati - vichianamente - per «sapienza riposta»: a piena conferma della giustezza della tesi di Vico, «la boria essere figliuola dell’ignoranza o dell’amor propio». Che ci si senta poi in dovere di riempirsi la bocca a ogni pie’ sospinto con frasi altisonanti; che, sulla scorta della lettura di qualche pagina di Lacan o di lacaniani pseudo-progressisti tipo Deleu­ ze e Guattari, di qualche pagina di Foucault, di Derrida, di Genette, di Barthes, degli scrittori del gruppo di «Tel Quel», o magari anche soltanto, un po’ più provincialmente, di Gianni Scalia, si condiscano in tutte le salse termini, poniamo, come «ripetizione», «altro», «diverso», «differenza», e si creda con questo di aver detto alcunché di importante e di nuovo, - ciò non muta molto all’essenza della cosa; la vuota boria non diventa per questo sapienza. Hegel avrebbe commentato (co­ me in effetti commentava di fronte a certe mode culturali, per altro ben più serie, del suo tempo): «tutto ciò è l’ingenuità di una conoscenza fatua».

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C’è un ultimo aspetto della faccenda che mette conto di essere sottolineato (e che abbiamo avuto occasione di sottoli­ neare già altra volta in altro contesto). Ossia che l’emergenza della «nuova critica» ha per effetto anche il riaffacciarsi di molti di quei miti, di quei falsi problemi, di quelle assunzioni acritiche, formalistiche, contro cui si era drizzata con successo la «revisione» del dopoguerra. (Non è d’altronde un caso che semiologi coerenti come Raffa predichino oggi apertamente la necessità di un ritorno allo «specifico filmico»). Con l’aggra­ vante che, se allora il formalismo aveva pure una sua qualche ragion d’essere, come fase intermedia di sviluppo nella defini­ zione e nell’analisi del linguaggio filmico, ciò che ora spesso si camuffa dietro etichette semiologiche di comodo configura invece solo un formalismo di ritorno, del tutto dimentico dei risultati acquisiti con le lotte del passato, e anzi tronfiamente pago della sua propria sufficienza: un formalismo che, mutata veste, aggiornatosi in fretta e furia nel senso della moda, e verniciatosi anche, dove occorre, di gauchisme, si dà aria di novità assoluta e imprenscindibile, come la sola che sarebbe in grado di scavalcare a sinistra, auspici Nietzsche o Heidegger (ma non fa poi gran differenza se si tratta dei loro moderni epigoni «strutturalisti», notori essendo i debiti che verso di loro, come verso gli aspetti più equivoci del pensiero di Hus­ serl, nutrono un Deleuze o un Foucault o un Derrida), non solo la «disinformazione» e l’«opportunismo» dèlia «critica ufficiale», non solo la critica «accademica», ma anche la criti­ ca marxista tutta in blocco. Concludendo, non ci sembra proprio sia il caso di stravede­ re a riguardo della «nuova critica» nel suo complesso. Per tre o quattro giovani che ricercano seriamente, e sui cui meriti è ben giusto si richiami l’attenzione, ce n’è una pletora - la stragrande maggioranza - che fanno peggio di quanto si sia mai fatto: che studiano poco e male, buttano giù in fretta tutto quello che passa loro per la mente, lavorano senza metodo, senza autodisciplina, senza discernimento critico, e quel che è peggio, da «matti» quali sono, senza nemmeno una briciola di

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comune buon senso: come prova, se non altro, la disinvoltura con cui s’impancano a discettare dei «massimi sistemi». Com­ punti quanto superficiali, servilmente ossequiosi alla moda, sup­ ponenti, sussiegosi, boriosi (meschini nella loro boria), e perciò, quanto più le loro analisi vanno a vuoto, tanto più ridicoli, questi «giovani filologi» formano una leva tutt’altro che esaltan­ te; noi non ci vediamo davvero nulla che autorizzi all’ottimismo mostrato dalla pubblicistica; non vediamo quali grandi aspettati­ ve essi giustifichino, perché si debba girar loro indiscriminata­ mente una cambiale in bianco. Metterli tutti insieme in uno stesso mazzo, e portarli alle stelle, non ci pare cosa sensata che giovi ad alcuno. Questa sì, non la nostra, è confusione.

Postilla sternberghiana alla “boria dei meschini” [1977]

Avevamo appena terminato di denunciare, nella nota sulla “boria dei meschini”, il pericolo di un rinnovato slittamento della critica cinematografica italiana verso il formalismo, di un suo «formalismo di ritorno», quando ci è venuto in mano, fresco di stampa, lo Sternberg del «Castoro cinema» a firma di Giovanni But tafava: lavoro che suona da cima a fondo come una conferma - neanche fosse stato scritto apposta - della fondatezza delle no­ stre preoccupazioni e della giustezza delle nostre tesi. Si tratta di un campione così chiaro, così patente, del formalismo denunciato in quella nota, che non possiamo assolutamente esimerci dal dare a essa la presente breve postilla sternberghiana. Se è un titolo di merito nella critica avanzarsi senza ma­ schera e giuocare a carte scoperte, allora a Buttafava va certo riconosciuto questo merito. Fino al limite dell’ingenuità. Non capita infatti di frequente di imbattersi in un autore che, come lui, lavori con tanto accanimento, con tanta dovizia di argo­ menti, con tanto disarmante candore, ad autodistruggete la ragionevolezza dei presupposti su cui si fondano le sue pro­ prie assunzioni critiche. Cerchiamo subito, con un esempio, di far vedere come. 330

Perno centrale di tutto il discorso di Buttafava - smisurata­ mente apologetico nei confronti del cinema di Sternberg - è l’idea che «Yirrealismo di Sternberg, suo credo assoluto e in­ condizionato», sia la chiave di volta del suo cinema; e che viceversa la critica, a causa della pregiudiziale «realistica» dei suoi metodi, abbia sempre frainteso e bocciato — bocciato perché frainteso - tale genere di «irrealismo». Ora, dopo ave­ re speso oltre un centinaio di pagine a difendere a spada tratta Sternberg, qualsiasi cosa abbia detto o fatto Sternberg, contro le censure della critica «mossa dall’implacabile meccanismo automatico del Contenutismo Impegnato» (con tanto di maiu­ scole, secondo la moda in uso presso Arbasino e soci), Buttafa­ va se ne esce alla fine in questo squarcio rivelatore, d’altronde coerentissimo con tutta la restante parte del suo testo e col suo metodo in generale: «Il carattere trasfigurante dell’illuminazione stemberghiana è tale da affrontare impavidamente i più banali quadri quotidiani: un esterno notturno di Shanghai Express può essere assunto come meraviglioso esempio di scrittura astratta. L’angolazione è legger­ mente dal basso, candidi vapori fumigano, a sinistra si intravede qualcosa di non ben definito, misterioso. Lo spettatore si chiede che mai significhi questa preziosa fotografia. A destra sorge un uomo in controluce e ha in mano una pertica con uncino. Lo spettatore comincia ad agitarsi, e, irrequieto, si domanda che diavo­ lo mai succederà. Non succede pressoché nulla, o almeno nulla che richiedesse una forma espressiva talmente esagitata. L’oggetto a sinistra era un comune tubo per acqua, l’uomo un ferroviere incari­ cato di abbassarlo. Si potrebbe partire anche da questa inquadratu­ ra, apparentemente insignificante, per arrivare alla definizione di una straordinaria scrittura, diretta a frustrare l’abitudine al “reali­ smo” - critico socialista hollywoodiano - degli spettatori e dei critici (non di tutti, fortunatamente)».

Lasciamo pure da sé, di mettere il piano del realismo pressappoco come,

da parte la beceraggine, che si commenta «realismo» (?) hollywoodiano sullo stesso critico e di quello socialista (che sarebbe in letteratura, mettere Cronin sullo stesso 331

piano di Gorkij e Thomas Mann). E stiamo al nocciolo dell’ar­ gomentazione di Buttafava. Dunque c’è una situazione banale, quotidiana, insignificante, una situazione nella quale non deve accadere e di fatto non accade «pressoché nulla»; tutto quel che accade, l’azione, è che un ferroviere compie il gesto, ordi­ nario e drammaticamente privo di rilievo, di abbassare un tubo per l’acqua. Questa situazione-azione ha però in Stern­ berg la particolarità di venire espressa in una forma gonfia, sovraccarica, del tutto sproporzionata al nesso dei fatti, ogget­ ti, accadimenti ecc. che la suscitano e a cui essa, come forma, si rapporta («scrittura astratta»). In luogo del suo normale compito evocativo rivolto a stringere e a risolvere creativamen­ te in sé una situazione data, alla forma qui è assegnato un compito che la trascende; qui c’è, per così dire, un «in più» di forma (rispetto alle esigenze evocative), un che di formalmen­ te ridondante, di eccessivo: c’è insomma del formalismo: l’au­ tore stesso è il primo a ammettere che nella situazione del film di Sternberg non c’era «nulla che richiedesse una forma espres­ siva talmente esagitata». Di esaltante, di «straordinario», egli non riesce dunque a indicare in Sternberg se non proprio questo, la sua pretesa di conferire significanza all’insignifican­ te (per altro destinato a restar tale checché il regista escogiti): cioè — esteticamente — un’assurdità. E allora dove stanno le colpe della critica «realistica» nei riguardi di Sternberg? dove stanno le sue incomprensioni, le sue malefatte? Già solo da quanto si legge in Buttafava parebbe piuttosto che sia essa a veder giusto. Lungi dal riuscire persuasive, le accuse che le rivolge Buttafava, e le sue argo­ mentazioni orientate in senso opposto, a sostegno dell’« irreali­ smo» del cinema di Sternberg, si ritorcono come un boome­ rang contro di lui. In verità nessun fautore della critica «reali­ stica» avrebbe mai potuto evidenziare meglio di quanto non faccia qui dall’interno lui, con esiti involontariamente autodis­ solventi, l’inconsistenza e l’insostenibilità teorica di una posi­ zione che si crede tanto più avanzata quanto più sprofonda e si crogiola senza riserve nel formalismo.

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XXII

Le gioie della manipolazione di massa

Riproponiamo qui di seguito due note di commento a episodi, desunti dalla pubblicistica ordinaria, che ci sembrano estremamente significativi della deriva cui è trascinata ormai da anni la critica che si vanta, non importa se da destra o da sinistra, di tenere il passo con le conquiste della "modernità’. Si tratta di due manifestazioni di sfacciata apologia: l’una, in vesti molto paludate, pretenziose, a vantaggio e sostegno della «industria culturale» di Hollywood (cfr. anche la discussione che del mito hollywoodiano si è fatta sopra, XIV, § 1); l’altra, di propaganda ormai senza più veli per il cosiddetto «film spazzatura». Entrambe le note portano la data degli episodi cui rispettivamente si riferiscono. 1. Primo episodio. Domenica 16 luglio 1978 «l’Unità» dedica un’intera pagina a Hollywood: fabbrica di sogni per una civiltà insonne, dove Vito Amoruso, Silvia Napolitano, David Grieco e Alberto Abruzzese fanno a gara per superarsi nell’en­ comiastica, nell’uso delle iperboli, nell’esercizio di una critica dai toni esclamativi e puramente incensatori. Ci si esalta per l’«esempio straordinario e forse unico» rappresentato dal cine­ ma americano dell’ultimo decennio; si lodano, di esso, «l’enor­ me vitalità, la ricchezza variegata e molteplice dei motivi ispi­ ratori, la spregiudicatezza e anche la semplice abilità artigiana­ le», ecc. ecc. A queste lodi sperticate fa eco il trafiletto edito­ riale di presentazione, secondo il quale «il cinema americano 333

va sempre più identificandosi con un concetto di Cinema in assoluto» (la maiuscola è nel testo). Insomma, un vero raptus di follia collettiva. Più recentemente, nel fascicolo del «Contemporaneo» de­ dicato al cinema, Immagini e fantasie degli anni 70 (inserto di «Rinascita», 20 aprile 1979), Adriano Aprà e Alberto Abruz­ zese rincarano ancora la dose. Nell’articolo - inqualificabile — di Aprà, trionfalmente intitolato La rivincita di Hollywood, il cinema americano non si identifica più soltanto col cinema tout court, ma prefigura, anticipa l’intero «cinema del futuro, o meglio di una società (futura) sovrannazionale»; che lo fac­ cia fondandosi, tra l’altro, «su una coscienza del potere mitolo­ gico del cinema», per il critico è - qa va sans dire - solo un pregio in più. Da parte sua Abruzzese viene a spiegarci ancora una volta perché F«immaginario» dei suoi sogni si compone tutto e soltanto di «immagini americane»: perché cioè lui, «comune spettatore del circuito italiano», e «spettatore tranquillo», vie­ ne attratto dalT«allucinazione dei film metropolitani di uno Scorsese o dei terrorifici collages di Brian de Palma», perché ama «l’invenzione omicida di Hitchcock». (Coerentemente del resto, almeno per quel tanto di coerenza che può esserci nella follia, qualche tempo fa egli si entusiasmava anche per lo scimmione di King Kong). E alla domanda, che pone a se stesso, «quanta realtà dietro le immagini godute?» (corsivo suo), risponde come segue: «Lasciamo perdere tutta la vecchia paccottiglia ideologica deri­ vata dalle teorie del rispecchiamento [...] e ricordiamoci invece che l’industrializzazione e massificazione dell’arte hanno socializzato su sempre più estese aree di fruizione l’insieme di valori che furono all’apice delle funzioni estetiche approntate dalle classe dominanti, e dunque l’insieme non solo dei codici del potere ma anche dei dispositivi del piacere ai primi organicamente legati. Ricordiamoci di quanto l’industria culturale sia stata capace di accrescere le funzioni sociali dell’intrattenimento artistico con forme spettacolari in grado di integrare pratiche espressive alte e pratiche espressive

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basse, germinate ai poli opposti di interessi collettivi e individuali tradizionalmente divergenti e conflittuali».

Ora noi non contestiamo minimamente ad Abruzzese né a chiunque altro il diritto di amare e sognare checchessia; ognu­ no ama e sogna ciò che più gli aggrada. (Si pensi che nello stesso numero del «Contemporaneo» Callisto Cosulich sostie­ ne che col Sorpasso il binomio Risi-Gassman avrebbe dato origine «a uno dei maggiori film di tutta la storia del cinema italiano»1). L’aspetto scandaloso della cosa non sta nel fatto che ci sia chi la pensa come Abruzzese e soci; ma sta nel fatto che chi la pensa come Abruzzese e soci scriva ufficialmente sul settimanale ufficiale del Partito comunista. E non ci si venga a dire, per favore, che non esistono più voci ufficiali di partito, che vige il pluralismo ecc. O forse il pluralismo consi­ ste nel far spazio sul «Contemporaneo» solo a quanti vanno nella stessa direzione di Abruzzese (anche se col marxismo hanno poco o nulla da spartire, o addirittura lo combattono da sempre), lasciando rigorosamente fuori tutti gli altri? Ciò che contestiamo, insomma, è che si possa spacciare per marxismo, per un superamento delle chiusure dogmatiche del marxismo, la piaggeria filo-hollywoodiana di Abruzzese e soci. 1 Non ce mai un limite al peggio. Poco dopo la stesura della presente nota, ecco comparire su «Rinascita» (26 dicembre 1980) la recensione di Giorgio Fabre a Superman II, col titolo - che è insieme un invito e un programma - Già visto, e da vedere di nuovo. Fabre si esalta per il fatto che quel film «riproduce il proprio mito», ossia lavora «su cose, materiali, persone, emozioni, perfino effetti già visti. Il già visto, come forse in tutte le fasi di assestamento della produzione di cultura (e io credo che questa sia una) domina incontrastato. E natural­ mente va benissimo, se Fefficacia su chi assiste, rimane la stessa». In sostanza: Fabre consiglia il pubblico cui si rivolge (i lettori di «Rinasci­ ta», cioè in primo luogo, si presume, la classe operaia, i lavoratori, i comunisti) di rivedere il “già visto”, ma non i capolavori del cinema, bensì film come Superman II; è felice che questo genere di “già visto” domini incontrastato; gli «va benissimo» che esso eserciti la sua effica­ cia su chi vi assiste; e chiama tutto questo (questa violenza sullo spettatore, questa manipolazione completa delle coscienze) «produzione di cultura». Occorrono altri commenti?

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L’«immaginario» di cui costoro si riempiono tanto volentieri la bocca non corrisponde in realtà ad altro che al cinema inteso come droga. Questa sì è una «vecchia paccottiglia ideologica». E a essa noi, da marxisti, diciamo risolutamente di no. 2. Secondo episodio. In un articolo apparso sulla «Repub­ blica» del 25 luglio 1981, Qualcuno riesce a spiegare perché ai Signori Critici piace solo il film spazzatura?, il critico statuniten­ se Stephen Farber ha sostenuto cose che sono - dovrebbero essere — di palmare evidenza per tutti, dettate dal comune buon senso. Ha sostenuto, tra l’altro, che oggi «molti critici influenzati dalla “teoria dell’autore” sono restii a elogiare qual­ siasi film di soggetto serio per timore di essere confusi con la critica “seriosa” degli anni cinquanta»; che «registi di serie B», come Don Siegei e Samuel Fuller, autori di «film semianal­ fabeti» che la «critica seria» giustamente ignora, ora sono non soltanto «canonizzati da tutti i mass-media», ma promossi «ai più alti onori» dai «critici autoristi»; che costoro si sono ormai completamente «infatuati dei prodotti americani dal sa­ pore artigianale, di western all’antica, di divi cinematografici tipici»; che i «loro pregiudizi hanno avuto la meglio su ogni più sensata valutazione critica»; e via dicendo. Niente di particolarmente sensazionale, come si vede. Solo le reazioni che un minimo di buon senso critico suggerisce, e che il critico, con buon senso, si è limitato a esplicitare. Non lo avesse mai fatto! Si sa che Yintentio recta del buon senso non è la più gradita a certa critica nostrana: né a quella radical-chic della «Repubblica» e dell’«Espresso», sistematicamente dominata dal vezzo dello snobismo (intentio obliqua, per non dire aequivoca), né a quella - solo in apparenza contrastante con l’altra, di fatto piuttosto convergente - socio­ logicamente votata al culto dell’«immaginario collettivo». Che cosa non è successo, di conseguenza, al povero (e innocuo) Farber! Gli sono subito saltati in testa, indispettiti, gli espo­ nenti più suscettibili di entrambi quei generi di critica, Benia­ mino Placido (8 agosto), Alberto Abruzzese (12 agosto), Al-

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berto Farassino (18 agosto), Maurizio Grande (25 agosto), e, tra vari altri interlocutori ancora, quell’individuo incredibile insieme prepotente e grossolano, nonostante la casata dal tito­ lo altisonante - che risponde al nome di Paolo di Valmarana (26 agosto). Lasciando stare senz’altro il caso di Valmarana, il quale scende a un tale livello di bassezza e di idiozia che si commen­ ta da sé2, vediamo in breve che cosa costoro rimproverano all’articolo di Farber. Vero punctum dolens della controversia, quello sollevato nel dibattito da Grande (il quale per altro si guarda bene dal trarne le dovute conseguenze): «l’irrilevanza e il parassitismo di una critica puramente accessoria nei con­ fronti del mercato». Ora Placido, Abruzzese ecc. sono appun­ to - contro la critica - paladini del mercato. Placido gonfia le gote dalla stizza, pieno di indignazione verso Farber, trovando il suo articolo «ingiusto e intimidatorio»: «Intimidatorio nei confronti nostri [ma ‘nostri’ di chi?]. Ingiusto nei confronti

2 Diamo qui un saggio della raffinatezza di contenuto e stile della sua prosa, avvertendo che anche la (non) punteggiatura è dell’autore: «Vorremmo anche che ci fosse riconosciuta un’infanzia difficile. Il fatto è che siamo cresciuti ansiosamente sulle pagine di «Cinema nuovo» dove si spiegava che Bellissima costituiva un forte atto d’accusa contro la sovrappopolazione che Miracolo a Milano era da prendere con le molle perché nel finale il sottoproletariato (barboni) sottraeva al proleta­ riato (spazzini) gli strumenti di lavoro (scope). Da quelle e da altre colonne abbiamo anche appreso, in quegli stessi fervidi anni, che tutto il cinema americano faceva schifo per poi apprendere invece che qualcu­ no e poi parecchi film non erano male per via che costituivano un forte e rovente atto di accusa contro l’infame capitalismo. E quindi si è faticato parecchio per riuscire a leggere i film con i nostri occhi e con la nostra testa. Raggiunto un modesto ma soddisfacente equilibrio che ci consentì di amare Cukor e Hitchcock, cito a caso, ma anche Dreyer e Bergman e di ripensare con commozione a Via col vento ogni qual volta Vanoni cantava domani è un altro giorno e anche in altre occasioni, e dunque sciolti dal giuramento a quello che allora si chiamava contenuti­ smo e adesso non saprei davvero come si chiama e anzi se qualcuno lo sa gli sarei grato me lo dicesse; raggiunto, dicevo un modesto equili­ brio e una ragionevole autonomia, siamo stati aggrediti dall’antigiuramento [...]. Liberati, con fatica, dai diktat aristarchiani non possiamo nemmeno accettare l’imposizione opposta».

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del cinema»: poiché, secondo Placido, al cinema «si va per penetrare nelle Miniere di Re Salomone, per duellare con i Tre Moschettieri, per diventare il dottor Caligari»: insomma, «per farsi terrorizzare, per incontrare dei mostri». Che un critico cinematografico non si ponga nemmeno il problema dei mostri, questo è per lui - si noti la finezza del giuoco di parole - «francamente mostruoso». Sarebbe in particolare un «colmo» dir male del film di De Palma (che Farber liquida senza complimenti) Vestito per uccidere', ovverossia negare che un bruttissimo film sia «bello»! Abruzzese concorda senz’altro «con molte delle cose dette da Placido» («come spesso mi accade», precisa: già, troppo spesso!), manifestando in sostanza una sola preoccupazione: di riuscire a cancellare ogni differenza tra «film di qualità e film di consumo», ad majorem gloriarti Dei (di quella divinità che è l’industria). Il che gli dà modo anche di prendere per il bavero e strapazzare malamente Mino Argentieri per un artico­ lo in materia apparso su «Cinemasessanta». (Sia detto qui di passata: davvero non si capisce più come riesca a muoversi Argentieri nella veste di critico ufficiale di «Rinascita», schiac­ ciato come, sulla sua stessa rivista, in mezzo ai vari Abruzze­ se, Fabre, Moscati, Ghezzi, Grande, Magrelli ecc., tutti le mille miglia lontani da un qualsiasi orientamento marxista, se non addirittura avversari giurati del marxismo)3. Ma il culmine, l’apice di questa resa incondizionata della critica al prepotere dell’industria lo si raggiunge con l’interven­ to di Farassino. Questi tratta con sufficienza e benevolo com­ patimento, dall’alto in basso, il povero Farber, reo di non accorgersi che ciò che era ancora possibile negli anni ’50 non lo è più oggi. Allora la «critica cinematografica tendeva a distanziarsi al massimo dall’industria culturale e a modellarsi

3 Con l’inizio della nuova serie di «Rinascita», diretta da Asor Rosa (febbraio 1990), Argentieri ha infatti lasciato l’incarico, nel quale gli sono sottentrati - benché nessuno ufficialmente - Giorgio Tinazzi, Giacinto Spagnoletti e altri.

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su altre pratiche critiche più “nobili”, quella letteraria, artistica eccetera»; ma il suo compito — la difesa dell’«artisticità del cinema» e, di riflesso, della «dignità del far critica» - oggi «non esiste più e la critica cinematografica ha potuto abbando­ nare le tutele e le cautele, farsi più aderente al suo oggetto, giudicare un film per le sue qualità cinematografiche». «La critica oggi - annunzia felice e trionfante Farassino - si occu­ pa di rifiuti perché si occupa di prodotti fatti per essere buttati dopo l’uso, prodotti che, come accade a tutta la cultura di massa, sono soggetti al consumo». Che è certo, per la critica, una ben curiosa forma di «aderenza al suo oggetto», un modo ben curioso di avvicinarsi alle «qualità cinematografi­ che» di un prodotto. Senonché Farassino ci crede fermamente, e trova una conferma alla sua credenza nel comportamento del pubblico: nel fatto, cioè, «che moka gente compra certi libri, affolla certi cineclub e pare che veda con piacere certi film e cicli televisivi programmati sul­ l’onda dei nuovi gusti critici. È la conferma che la comunicazione di massa, di cui anche la critica fa parte, agisce per vie traverse, dice qualcosa a qualcuno (saranno forse i famosi opinion leaders) perché la venga a sapere qualcun altro. È un reticolo di informa­ zioni che si espandono, conquistano spazi e crediti, convincono».

Convincono: cioè fanno sì che il pubblico accetti - anzi scambi per «belli» — i «film spazzatura» di Siegei, Fuller, De Palma e compagnia, proprio come prende per buone le réclames televisive dei detersivi. Queste sono le gioie che auspica­ no, preconizzano, sbandierano a ogni pie’ sospinto i moderni teorici della manipolazione di massa. Bravi, bravi, belle sortite davvero, un bel successo davvero di che vantarsi! La sola voce discordante levatasi nel dibattito di «Repub­ blica» proviene da Argentieri (21 agosto), ben deciso a oppor­ si come si conviene, con argomentate ragioni, a un tal andazzo irresponsabile: sebbene egli incorra nell’errore di accettare le premesse teoriche degli avversari e di scendere sul loro stesso terreno di discussione (estremamente equivoco fin da princi­

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pio)4. Come che sia, la conclusione dell’intervento di Argentie­ ri, dove egli lamenta che in Abruzzese e soci «mai si affaccia­ no le problematiche concernenti il governo e lo sviluppo demo­ cratico dei mezzi di comunicazione di massa, l’ampliamento della libertà espressiva e dell’autonomia dei produttori di cul­ tura, la crescita della coscienza critica nelle moltitudini, la diversificazione dell’offerta culturale in un assetto sociale viep­ più dotato di molte articolazioni», possiamo farla integralmen­ te nostra: «È un silenzio che denota una metamorfosi: il passaggio da analisti e critici ad apologeti dell’industria culturale e a paladini dei suoi progetti più allarmanti. Il resto - la presunzione ciclopica, la stizza di chi pretende di esser l’unico ad avere letto e capito l’occorrente, il vittimismo coccodrillesco, l’incapacità di ribattere nella polemica serenamente con argomenti alle opinioni oppostegli, la tattica terroristica impiegata negli interventi, il tentativo di smi­ nuire il lavoro e la serietà altrui, l’amore della rissa — è roba da lavanderia intellettuale»:

roba che — conclude assennatamente Argentieri - «lascio vo­ lentieri ad Abruzzese» (come, altrettanto volentieri, facciamo noi). Quanto infine allo storico Gian Piero Brunetta, intervenu­ to tra gli ultimi, il 28 agosto, egli bara semplicemente al giuoco: perché comincia sì anche lui protestando di voler «evitare di accogliere l’invito di Abruzzese alla rissa e alla resa dei conti generazionale»; ma poi si abbandona lungo tutto il ‘pezzo’ a uno sproloquio che non è altro se non una variante particolarmente goffa delle filippiche oggi di moda - e in cui egli va riconosciuto ormai come un indubbio specialista — volte al linciaggio della cosiddetta «critica neorealista degli anni cinquanta». Proprio per la sua goffaggine, anche lo spro­ 4 Né cambia la situazione l’ulteriore e tardiva replica di Abruzzese, Effimero e signora. Fenomenologia del film spazzatura, nel «Manifesto», 13 settembre 1981.

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loquio di Brunetta inerita di essere riprodotto a conclusione con una certa ampiezza: «Preoccupati ad ogni passo e incontro di verificare se il messag­ gio di un film corrispondesse alle parole d’ordine in loro possesso, i critici che allora [negli anni ’50] si muovevano lungo le strade del realismo, usavano, per orientarsi, ancora la vecchia bussola del giudizio idealistico apportandovi le opportune correzioni metodolo­ giche delle letture di Gramsci o Lukàcs o di altri titoli usciti in quegli anni nelle collane dell’editore Einaudi. Un orizzonte chiuso e tuttavia capace di produrre grandi spinte anche al di fuori degli orizzonti nazionali [...]. Con tutti i suoi limiti, quella critica riesce a trasmetterci ancor oggi, non tanto le sue ingenue convinzioni sulle possibilità educa­ trici del cinema, quanto la sua capacità straordinaria di investimen­ to affettivo, e il senso della fedeltà durevole e assoluta ai propri amori. In ogni caso critici e registi, ci appaiono soprattutto come giocatori di una squadra di calcio. Per anni, per esempio, nella nazionale ideale della critica neorealista Visconti gioca con la ma­ glia di centrattacco, mentre tutti gli altri attaccanti registi, a causa di vistosi cali di rendimento, vengono via via sostituiti o mandati negli spogliatoi. A poco a poco il regista rimane solo mentre Io schieramento della critica inizia ad applicare in modo sistematico la difesa a catenaccio.

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XXIII

Considerazioni critiche conclusive

Bisogna purtroppo arrendersi alla prova dei (mis)fatti. Es­ si sono il sintomo di una situazione gravissima, passibile di ben altra denuncia di quella qui appena sbozzata e limitata a pochi casi. Se ci fermiamo qui, non è certo perché il loro inventario sia completo, tutt’altro; ma il ricorso a una esempli­ ficazione più minuta e più diffusa crediamo che non servireb­ be a molto. Quanto pensiamo e avevamo da dire sugli appor­ ti della “nuova critica” lo si è detto senza troppi complimenti negli interventi ristampati sopra. Andrebbe solo aggiunto che, con grande stupore di chi scrive, le accuse mosse alla “nuova critica” non sono mai state respinte né contestate da nessuno. Tutto quello che si è creduto di poter obbiettare nei confronti di chi scrive è che i suoi interventi, non meno dei suoi saggi e dei suoi libri, sono “accademici”, “professorali”, sempre pieni di “sussiego scientifico” (la scienza come sussiego!). Strane, curiose obbiezioni: tutto sommato, si direbbe, dei complimen­ ti, non delle critiche, o al massimo delle critiche che scalfisco­ no solo la superficie, che toccano solo il lato formale della cosa. Se però guardiamo alla sua sostanza, se non perdiamo di vista la gravità delle imputazioni mosse, se è vero — come è vero — che quelle imputazioni portano sui vizi di fondo della più gran parte della nostra critica (scorrettezza, impreparazio­ ne, superficialità, pressapochismo, chiacchiericcio sentenzioso, confusione mentale), allora si ammetterà che è per lo meno singolare che nessuno si sia levato a contestarle. Non una voce

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di protesta, non una replica, non - si chiede il minimo - un soprassalto di orgoglio o di sdegno da parte degli interessati. Nulla, assolutamente nulla; secondo una prassi molto comoda e consueta, molto italica, rigoroso silenzio su tutta la linea. La cosa stupisce d’altronde solo fino a un certo punto. Già il campionario esibito dagli scritti che precedono dimostra al di là di ogni dubbio come nel mondo della critica del cinema (almeno di quella nostrana) si sia da tempo adusi ai misfatti e, peggio, con i misfatti si conviva quotidianamente e tranquilla­ mente, senza più nemmeno l’accenno a un tentativo di resisten­ za o di reazione. Può darsi che non si tratti di un fenomeno esclusivo del cinema; che molte delle distorsioni sopra lamen­ tate, degli scandali denunciati, si ripresentino tali e quali, senza varianti, anche in altre discipline; ma la critica cinemato­ grafica (italiana) ha sue proprie mende tutte specifiche. Dopo anni di esperienze e comparazioni, in chi scrive si è venuto sempre più radicando il convincimento che essa abiti una zona particolarmente depressa della cultura. Il panorama, pieno di ombre, ritratto dall’insieme degli scritti qui raccolti concerne pressappoco l’ultimo ventennio. Purtroppo, all’altezza del mo­ mento in cui ci accingiamo a licenziare il presente volume, tra la fine del 1990 e gli inizi del 1991, non ci sembra affatto che le cose stiano mutando in meglio; semmai, ossificandosi, peg­ giorano. Nelle poche, disorganiche e rapsodiche considerazio­ ni critiche che seguono cercheremo, a mo’ di conclusione, di spiegare perché. 1. Cominciamo da un rilievo storico d’ordine generale. Quando, solo qualche decennio fa, il cinema aveva sfondato per la prima volta le porte dell’università, insediandosi fianco a fianco con le altre discipline accademiche, si erano subito concepite, e a ragione, grandi speranze. Ci si attendeva che questa nuova, importante apertura di campo avrebbe dato presto i suoi frutti, sia dal punto di vista editoriale, del merca­ to librario (se non altro, per rispondere alle esigenze dell’inse­ gnamento), sia - ancor più - da quello culturale: nel senso di 344

uno stimolo alla sua maturazione, delle possibilità nuove che, anche in virtù dei vantaggi derivanti da un fecondo interscam­ bio con tutto il giro degli altri insegnamenti, si veniva così offrendo alla dottrina. Il boom ha avuto invece solo l’aspetto di un fuoco di paglia, spentosi in breve tempo. Non è accaduto nulla di so­ stanzialmente nuovo. La svolta tanto attesa non si è verificata. Gli editori, dopo qualche temptamen. per altro timido, hanno fatto marcia indietro quasi tutti e quasi subito; la pubblicistica specializzata è rientrata — anzi, per vero, è sempre rimasta — entro i confini del suo ristrettissimo pubblico fisso, e oggi mostra di essere pressoché generalmente alle corde (si pensi alla scomparsa di «Bianco e Nero» o alle grame vicende edito­ riali di «Cinemasessanta» e «Cinema e Cinema»; se «Cinema nuovo» resiste, lo si deve solo alla lotta condotta con straordi­ naria pervicacia dal suo direttore e al sostegno di un editore coraggioso, lo stesso cui si deve la pubblicazione del presente testo). Bisogna perciò rassegnarsi a concludere, molto a malin­ cuore, che, editorialmente parlando, il fenomeno dell’ingresso del cinema nelle università ha lasciato dietro a sé le cose precisamente come stavano prima, senza alcun’altra innovazio­ ne se non di facciata. Non migliori le conseguenze sul piano dell’integrazione culturale della disciplina e del suo avanzamento in campo teorico, dottrinale. Anche qui molte speranze sono andate de­ luse. Si sperava che, con l’insegnamento universitario, potesse venir finalmente realizzato quel processo di «revisione critica» (inteso all’inserimento organico del cinema nel campo della cultura) che, suggerito e avviato da Aristarco già durante il primo dopoguerra, era rimasto a lungo per i più lettera morta o, nel migliore dei casi, era andato in senso assai diverso dalla traccia del progetto originario, arenandosi infine nelle secche di cui diremo tra breve (§ 2). I risultati del de tour - disastrosi a ogni riguardo - sono oggi sotto gli occhi di tutti. Impressio­ nante il confronto con quanto avviene nel frattempo all’estero. Fuori d’Italia sorgono sempre nuove (e vere) scuole di cine­

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ma, si fanno avanti orientamenti culturali legati a queste scuo­ le, vedono la luce lavori individuali o di gruppo che da esse provengono. In Italia è il deserto. Le università funzionano male o non funzionano affatto; non “educano” nuove leve (almeno nel senso forte che De Sanctis dava al termine di educazione, distinta dalla semplice istruzione), non formano scolari; manca ogni ricambio generazionale. Non credo ci sia un solo paese estero dove sarebbero immaginabili scandali accademici così clamorosi come quelli di cui si è discorso sopra. Su chi ricade la responsabilità del dissesto? Parlando dal di fuori dell’apparato accademico del settore, noi non siamo in grado di dir nulla di preciso circa i suoi meccanismi operativi interni, tanto meno dunque di far chiarezza sul perché delle sue disfunzioni. Tutto ciò che possiamo fare è solo quello che qui appunto si sta facendo: additare le responsabilità di quel­ l’apparato in generale. Troppo assenteismo, troppi silenzi han­ no accompagnato le vicende universitarie di questi anni. Incli­ nazione al compromesso, indifferenza, tolleranza, cecità, spes­ so complicità in scandali e misfatti sono i peccati imperdonabi­ li di tutti gli esponenti della categoria, non importa se accade­ mici o critici o studiosi indipendenti. La cosa più grave è che nulla si sia fatto o si faccia per porre argine alla valanga delle soperchierie e degli imbrogli; che si accetti con disinvoltura, come un fatto, non solo la incompetenza più allegra e il vanilo­ quio più risibile', ma la promozione a accademici di personag: Alle esemplificazioni già fomite negli scritti precedenti (XIX e XXI), come pure a ulteriore verifica della giustezza del detto di Hegel «che è più facile essere incomprensibile in una guisa sublime che essere comprensibile in modo semplice» (Briefe von und an Hegel, hrsg. von J. Hoffmeister, Meiner, Hamburg 1952-60, I, p. 176; trad, di P. Manganato, Epistolario, Guida, Napoli 1983 ss., I, p. 291), ci permet­ tiamo di aggiungere qui la segnalazione della mezza paginetta premessa da Francesco Salina alla sua edizione (ospitata nella ‘collana’ dei «Qua­ derni di Filmcritica», diretta da Edoardo Bruno) di Ejzenftejn inedito, Bulzoni, Roma 1980, pp. 7-8, che comincia testualmente così: «Nell’or­ dine destituibile, di cui valutabili modalità organizzano i movimenti, i

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gi i più squalificati; che si lasci che costoro occupino, imperter­ riti e indisturbati, posti chiave dell’apparato, con la complicità o almeno l’indulgenza di quei loro colleghi i quali, incuranti di ogni denuncia, li hanno sempre tranquillamente passati e li passano tuttora a esami e concorsi. Possibile che non venga in mente a nessuno — che nessuno abbia il coraggio - di levare, vibrante, un grido di allarme, una voce di protesta? Come sottrarre altrimenti la critica del cinema al suo stato di perdu­ rante minorità? Bene: per ingenua che la cosa appaia, per quanto smentita dai comportamenti del passato, noi nutriamo ancora integra la speranza che, batti e ribatti, le denunce (inclusa la presente) non restino per sempre inascoltate. È nell’interesse di tutti una politica universitaria seria, ispirata al rispetto di princìpi elementari come la competenza e la corret­ tezza; è un dovere di tutti chiedere che la si faccia finita una buona volta con le camarille e la tolleranza per gli scandali: tra l’altro in difesa del diritto delle nuove generazioni a poter contare sull’insegnamento di maestri che siano veri maestri, non dimentichi dell’ufficio cui sono preposti, delle delicate funzioni che sono chiamati a svolgere, del significato umano, formativo, spirituale della loro missione di educatori.

2. Se si ripercorre all’indietro Viter della cultura cinemato­ grafica italiana degli ultimi decenni, e la si valuta nel suo complesso, il bilancio che ne risulta appare sconsolante. Le sue tanto vantate ‘modernizzazioni’ in campo teorico e metodo­ logico, la sua utilizzazione di nuovi e più raffinati strumenti, presi a prestito da altre discipline (linguistica, psicanalisi ecc.), si riducono, in ultima istanza, a ben poca cosa. Peggio: spesso tagli, che smembrano un corpo naturale, agiscono una testualità tenden­ ziale, per l'inscrizione dentro a un altro valore. E, cancellazione costan­ te, sovvertimento dove la percezione lavora una singolare consunzione, il filmico affida al pulsionale un conflitto che mobilizza da una fram­ mentazione un godimento; assegnando all’ordine un luogo in cui lo scorrimento produce un corpo inesorabilmente parziale, disgiuntivamen­ te iniziale». 11 resto prosegue nello stesso identico stile.

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le ‘modernizzazioni’ favoriscono il puro e semplice ritorno, quanto mai miope, allo specialismo del passato, generando un rigurgito di fanatismo filmologico. Tanto più importante ci sembra tornare polemicamente su questo punto, pur da noi già affrontato altra volta2, in quanto oggi nella critica si riaffacciano da più parti, sotto nuove vesti, pericoli e vizi singolarmente analoghi a quelli contro cui si era drizzata la “revisione” del dopoguerra: analoghe istanze di autonomia, di specialismo, analoghe suggestioni a vario titolo e in vario grado formalistiche, sebbene ora debitamente attua­ lizzate nel senso della semiologia, dello strutturalismo o del post-strutturalismo, quando non si tratti addirittura di dare il benvenuto alle procedure e ai ritrovati del cosiddetto decostru­ zionismo. Va da sé che, con le analogie, la mutata situazione storica si porta dietro e impone anche delle divergenze. Così non si parla più ora espressamente, come un tempo, di “cine­ ma cinematografico” e “specifico filmico”, non si rincorrono più modelli arcaici come la sequenza “cinematograficamente bella” o la “bella inquadratura”, ma si pongono in campo, al loro posto, altri modelli, altri parametri: si insiste sulla «etero­ geneità» del linguaggio filmico, in quanto riferibile non a una sua precostituita e invariabile essenza (“specifico filmico”), ma a una molteplicità di modelli possibili; si postula l’assunzione, nella critica, di un «livello di semiosi» puramente analitico o descrittivo, non valutativo; le si chiede considerazione per la «struttura» linguistica dell’immagine filmica, per segni e sin­ tagmi, per l’«aspetto iconico del messaggio», per la «psicolo­ gia della ricezione» e via dicendo. Ma, nonostante tutte queste indiscutibili modifiche, la sostanza dell’atteggiamento critico non cambia. I suoi presupposti restano formalistici nell’acce­ zione più lata (distacco dell’arte dalla realtà, affossamento del­ la teoria dialettica del rispecchiamento ecc.), e le conclusioni, i

2 Cfr. la Presentazione a Problemi di teoria e storia del cinema, cit., pp. 10-1.

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risultati cui tali presupposti conducono, sono per conseguenza spesso di un livello esteticamente sconsolante. Ci si intenda subito bene. A nessuno viene in mente la sciocchezza di porre sotto accusa, facendo di ogni erba un fascio, strutturalismo e semiologia come tali, né tanto meno di contestare gli utili contributi che da queste per sé molto serie discipline possono venire e vengono agli studi filmici. (Avrem­ mo semmai parecchio da ridire contro le pretese e le semplifi­ cazioni inammissibili che discendono dagli assunti della “filo­ sofia della differenza”). Ciò che si contesta è solo la loro falsa utilizzazione, il loro innalzamento a paradigmi esclusivi di raffronto, se non la loro identificazione con l’estetica in genera­ le. Non è certo un caso che, dopo il tramonto dell’idealismo, essi abbiano preso così largamente piede ovunque. Sono essi infatti, per molti versi, che ne accolgono e ne esprimono l’ere­ dità; e anzitutto l’ostilità in linea di principio nei confronti del marxismo. Non solo, ma, più di quanto solitamente non avven­ ga in questo genere di rivolgimenti, troppi e troppo comodi varchi vi sono lasciati aperti per l’infiltrazione di profittatori, di puri e semplici orecchianti di teorie alla moda. Proprio come un tempo il formalismo e il tecnicismo spe­ cialistico, così oggi la terminologia strutturalista o post-strutturalista, le scimmiottature pseudo-linguistiche, i vezzi semiologici o psicoanalitici o lacaniani, il gusto per il decostruzionismo, l’heideggerismo in caricatura, fanno spesso da paravento, nella critica, alla mancanza di un saldo retroterra culturale; dietro lo smalto del suo frasario aggiornato (quand’anche non solo orecchiato o impiegato a sproposito), si annidano altrettanto spesso superficialità e incultura: ne abbiamo potuto vedere sopra esempi eloquenti. Così, strette in mezzo al rapido corre­ re e trascorrere delle mode, poi presto ogni volta di nuovo abbandonate, le analisi critiche sfumano nell’approssimazione. Si assiste al continuo lancio di sempre nuovi slogans, che poi scompaiono senza lasciar traccia; a una girandola di formula­ zioni critiche, di progammi, di proposte, di poetiche, che non riflettono mai o quasi mai fenomeni oggettivi, ma solo la 349

passionalità soggettiva - e spesso gli arbìtri e i capricci - di singoli critici; al connubio di vecchi pregiudizi (l’estetismo e il formalismo di un tempo) con altri nuovi e alla moda, talora magari di segno apparentemente opposto, connubio destinato a sfociare in formule altrettanto insensate che inconcludenti: come è stata ieri, a esempio, quella del cosiddetto “cinema poetico-politico” (che in realtà non era, e non sarebbe potuto essere, né luna cosa né l’altra, e men che meno poi la loro sintesi), e oggi quella del film “di genere” (un La Polla consi­ dera «importante» persino il ‘genere’ del new horror!}. Il maggior scotto di questa situazione lo paga la storiogra­ fia. Anche qui assistiamo a fenomeni di arretramento e involu­ zione, spacciati naturalmente per ‘modernizzazioni’. Già un’in­ diretta ma non positiva conseguenza della proliferazione degli studi sul linguaggio, sui ‘generi’ ecc., è che, per la teoria, si tende sempre più a spingere in secondo piano la ricerca stori­ ca. Dove la teoria prolifera e domina il campo, quest’ultima per lo più ristagna; dal confronto, comunque, esce sconfitta. Peggio ancora avviene quando i due ambiti di ricerca, teorico e storico, si confondono tra loro, e ricerche che sono o che dovrebbero essere o che si presentano come storiche trapassa­ no al rango di semplici esemplificazioni, a pretesti per esercita­ zioni teoriche. Lo zelo di tanti neofiti, spesso improvvisati, di teorie alla moda, che non sanno distinguere nemmeno in linea di principio ciò che è di pertinenza dell’ambito descrittivo della linguistica da ciò che spetta invece, come prodotto d’ar­ te, al campo dell’estetica, e la tendenza riduttiva alla loro confusione neWunum atque idem della semiologia (confusione, si noti di passata, in cui non cadrebbe mai nessun linguista serio), impediscono di frequente che le questioni siano poste, nei due ambiti, con la dovuta chiarezza e distinzione. Fenome­ ni degenerativi quali i già riscontrati soprassalti di fanatismo filmologico aggravano ulteriormente la situazione. Ci si è spin­ ti tanto in là sulla via di questa «cinefilia ingenua e appassio­ nata, orecchiante le mode culturali», che persino coloro i qua­ li, tra gli storici, l’avevano in un primo tempo sconsiderata­ 350

mente appoggiata, come Gian Piero Brunetta, si sono sentiti a un certo punto in dovere di ricredersi e di prendere le distanze da essa, sconfessando la figura del cinefilo o almeno dichia­ randola «destinata a lasciare il passo ad un diverso tipo di ricercatore, più consapevole dei propri strumenti e più inserito in progetti coordi­ nati di ricerca. L’indifferenza più o meno totale nei confronti della storicità dei segni cinematografici, della loro iscrizione in un conte­ sto di ampie interconnessioni, che ha guidato per quasi un decen­ nio il lavoro di molta giovane critica sembra aver esaurito la sua funzione, per molti aspetti positiva»3.

Un apprezzabile segno di ravvedimento. Senonché non riescono più persuasive neppure le ‘modernizzazioni’ storiogra­ fiche praticate o suggerite da Brunetta stesso. Nel saggio testé citato egli, richiamandosi a Lucien Febvre, annuncia una sorta di “rivoluzione copernicana” nella storiografia del cinema, pa­ ragonabile a quella operata a suo tempo dal metodo delle «Annales». Non vi si chiarisce per altro affatto il fondamento dell’analogia. Una “rivoluzione” il metodo delle «Annales» tra­ sferito al cinema? Noi ci vedremmo piuttosto un fraintendi­ mento nell’uso di quel metodo. In realtà, la scimmiottatura della “storia orale”; il mito di una storia del cinema costruita tirando in ballo a ogni pie’ sospinto le «testimonianze orali di autori e spettatori»; la pretesa di far storia ponendosi da un punto di vista disponibile «a confrontarsi e a tuffarsi con più libertà e spregiudicatezza [...] in esplorazioni di galassie finora sconosciute, alla scoperta e risco­ perta di fonti, memorie, materiali perduti o dimenticati, che posso­

3 Gian Piero Brunetta, Storiografia del cinema, in «Segnocinema», II, 1982, n. 5, p. 22. (Ma cfr. anche, più di recente, sulla stessa rivista, l’autocritica dell’insospettabile cinephile Gianni Canova, Contro la cinefilia, X, 1990, n. 46, pp. 2-4, dove si ammette apertamente il fallimento di quel genere di critica).

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no contribuire, in modo straordinario, all’arricchimento del quadro e all’allargamento della visione»4,

tutto questo non ha finora prodotto se non i risultati circa i quali si sono già espresse sopra serie perplessità e riserve5. E le riserve si ingigantiscono ancor più, fino a trasformarsi in un giudizio di condanna senza attenuanti, se di lì ci spostiamo verso altri settori — ancora più gravemente inadempienti della storiografia cinematografica italiana. La responsabilità prima di queste inadempienze va imputata, di nuovo, alla fragilità delle basi culturali della disciplina, compromessa dai guasti della cinefilia. Lavori come quelli di Vittorio Martinelli offrono già un buon saggio degli equivoci che si annidano dietro una pseudo-erudizione specialistica, dove si lascia che, per il gusto della caccia al particolare aneddotico, privo di ogni effettivo rilievo storiografico, la storiografia scada al ran­ go di cronachismo spicciolo, di annalistica; ma è tutta l’impo­ stazione, la concezione storiografica, la scelta tematica, il mo­ do di lavorare e di produrre del gruppo di studiosi aderenti alla Associazione italiana per le ricerche di storia del cinema (organo della quale è la rivistina «Immagine»), che mostrano come anche nel migliore dei casi - per servirci dello sprezzan­ te giudizio riservato da Lukàcs a uno storico pur sempre della tempra di Oswald Spengler - non si vada mai oltre il livello di un «frivolo dilettantismo elevato a metodo».

3. Sul terreno più propriamente estetico, le ristrettezze teoriche entro cui si muovono la storiografia e la critica del cinema hanno per conseguenza, tra l’altro, l’affossamento dei valori. Molteplici forze spingono in questa direzione. Anzitut­ to le ripetute incursioni che la critica, andando a rimorchio o subendo il fascino degli sviluppi della psicologia statunitense e della psicanalisi, compie nell’ambito del cosiddetto “immagina4 Ibid.) p. 20. 5 Cfr. sopra, XVIII, Postilla 1991.

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rio collettivo”. Qui le mistificazioni e mitizzazioni acritiche sono all’ordine del giorno. L’immaginario viene imbracciato come una sorta di passe-partout giustificativo di ogni delirio e orrore estetico, a scorno dei valori. Contro la sua invadenza, non ci sono valori che tengano; Passiologia non dispone di adeguate armi di resistenza e di difesa. Mai naturalmente che si indaghi circa il retroterra, le matrici, le fonti storico-sociali da cui scaturisce la massa di sentimenti e di rappresentazioni attive, non puramente subite o mitiche, di quell’immaginario. Senza fare alcun conto degli effetti indotti dalla pratica della manipolazione, ci si limita alla assunzione e al riconoscimento del fenomeno in sé e per sé, giustificandolo - anzi dandogli uno spazio spropositato, spacciandolo per un valore esso stes­ so — col pretesto della sua rispondenza alle leggi della «psicolo­ gia collettiva»; mentre le circostanze storiche che ne condizio­ nano la genesi, l’influenza decisiva che hanno su di esso la storia, la tradizione, l’economia, i rapporti sociali, i contrasti di classe ecc., vengono metodologicamente trascurati o messi da parte o anche esclusi in via pregiudiziale da ogni riflessione sull’argomento. In secondo luogo, Passiologia inciampa nel dominio sem­ pre più generalizzato dell’agnosticismo estetico. Dal basso di una pubblicistica settoriale spesso di infime ordine, schiava della moda fino al parossismo, il contraccolpo provocato dalla crisi dei valori, dalla scelta di campo per il postmoderno, dall’ideologia della deideologizzazione, si trasmette per gradi verso l’alto, fino a investire le sfere più elevate dell’indagine critica. Così non sono più ormai solo le rivistucole da strapaz­ zo o i fogli cineclubisti o i gruppuscoli di fanatici dei cult-movies, ma esponenti di primo piano della critica, con la fama di maestri, che, indifesi e corrivi verso i propagandisti della mani­ polazione, si fanno travolgere dall’andazzo filmologico oltranzi­ sta. Anche costoro vengono accusando una curvatura in senso sempre più accentuatamente agnostico delle loro teorie esteti­ che e vengono esercitando una forma di critica corrisponden­ te in pieno a questo agnosticismo: cioè a dire, senza metodo, 353

senza princìpi, sbriciolata al massimo, totalmente incline all’im­ provvisazione e all’aneddotica spicciola, e, quel che è peggio, pronta alla svendita: poiché la nuova parola d’ordine impone che, comunque tiri il vento, bisogna inserirsi, mostrarsi à la page, sfruttare il plauso della moda, stare sempre a galla, mutare a comando il brutto in bello e viceversa, con buona pace dei valori (anche di quelli già riconosciuti per tali in precedenza). Se si mette a confronto quanto un critico intelligente ma metodologicamente sbandato come Guido Fink scriveva all’epo­ ca della sua collaborazione a «Cinema nuovo» con tutto ciò che egli è venuto scrivendo in seguito (nei suoi libri, nei suoi nume­ rosi interventi a dibattiti e convegni, nei saggi stesi per «Cine­ ma e cinema» e altre riviste), ci si rende subito conto della svolta involutiva cui alludiamo. Fink si spinge ora sino al punto da tentar di difendere e giustificare teoricamente, contro gli attacchi mossi da chi scrive6, gli apologeti del “film spazzatura”. Questa giustificazione teorica egli la impronta - e non potrebbe essere altrimenti - proprio al tipo di agnosticismo estremo che mette in campo, come vettori trainanti irresistibili, la forza delle circostanze e le «oscillazioni del gusto». Utilizzando il paragone un po’ curioso con i bruscolini residui di un sacchetto di riso soffiato quasi vuoto, egli dice, di quegli apologeti, che, come i bruscolini, anch’essi debbono «pure ‘far finta di esserci’, inventare un oggetto del discorso, reagire con un salto in avanti all’inevitabile spiazzamento derivan­ te, alla lunga, dalle oscillazioni del gusto e dalle tardive rivalutazio­ ni, per cui, a dirlo con le streghe del Macbeth, il brutto è bello o lo sarà tra breve: quale pierino, quale bombolo o quale nadiacassini sono in questo senso al riparo da ogni possibile riscoperta, posso­ no ragionevolmente servire a istituire uno spazio privato, una differenza costitutiva, per cui il critico e le sue predilezioni si illudano momentaneamente di esistere come tali?»7. 6 Li si veda qui sopra, XXII. 7 Guido Fink, Riso soffiato e altre illusioni, in «Bollettino Cinema», n. 6, marzo-aprile 1982, p. 9.

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Dreyer, Ejzenstejn, Chaplin esistono per Fink solo come ‘‘predilezioni” soggettive del critico, solo come “illusioni mo­ mentanee”; tra loro e Bombolo o Pierino non c’è alcuna reale «differenza costitutiva». Le conclusioni che egli ne trae sono coerentemente relativistiche, distruttive di ogni forma e senso della critica: «Il triangolo Testo-Critico-Destinatario si basa ovviamente su continue possibilità di slittamento, nel senso che ogni angolo del triangolo può illudere, o illudersi, di essere solo. Un film di radica­ le avanguardia può rifiutare a priori il pubblico, un critico di gusto (vecchia scuola) può in pratica dichiarare che l’opera è così come la vede lui, e basta [...]. Insomma, tanti falsi movimenti, tanti modi di far finta di esserci. Senza troppe illusioni, naturalmente»8.

Abbiamo voluto riferire con una certa ampiezza queste argomentazioni di Fink per le implicazioni che esse hanno dal lato della teoria dell’estetica; poiché tutti vedono come un tale agnosticismo, insieme rassegnato e pieno di sé, conscio di poggiare solo sul principio della nullità di ogni principio, signi­ fica in ultima istanza - o almeno porta con sé come necessaria conseguenza — la svalutazione e la distruzione dell’oggettività della forma, a vantaggio di un relativismo formale giustificato sociologicamente. Viene qui dimenticato o trascurato proprio quell’assunto centrale della teoria dell’estetica — sempre ben presente invece all’estetica marxista - secondo cui l’estetica come scienza può partire soltanto dal «concetto della oggettivi­ tà dialettica della forma artistica nella sua concretezza stori­ ca». Vale a dire — spiega Lukàcs - che essa «deve ripudiare ogni tentativo di relativizzare con criteri so­ ciologici le forme artistiche, di trasformare la dialettica in sofistica e di cancellare la distinzione fra periodo di fioritura e decadenza, la distinzione oggettiva fra arte alta e ciarlataneria, insomma di togliere alla forma artistica il suo carattere di oggettività. Ma al­ 8 Ibid., p. 10.

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trettanto risolutamente deve rifiutare ogni tentativo di attribuire alle forme artistiche una pseudo oggettività astratta, formalistica, costruendo la forma artistica, la distinzione tra configurazioni for­ mali, in modo astratto, indipendente dal processo storico, a partire da momenti puramente formali»9.

È d’altronde solo un’apparenza che, con l’abbandono o il ripudio del principio dell’oggettività della forma, la critica scuota da sé la polvere del conformismo. Risorge piuttosto in essa, o viene creata artificialmente, con l’ausilio dei media, un’aura di conformistico non-conformismo, che - molto con­ traddittoriamente con la sua essenza — va talmente «incontro alla monotonia e al livellamento», da comprovare la giustezza della battuta di Ernst Fischer, ricordata da Lukàcs, secondo cui «le moderne individualità non-con£ormiste si somigliano come gocce d’acqua». Lukàcs dice: «Chi, per esempio, rivolga la sua attenzione alle questioni realmente decisive della concezione del mondo rileverà fin dal primo sguardo una paurosa monotonia conformistica nel caos ster­ minato delle sfumature individuali che si presentano nella filosofia odierna [...]. Esattamente la stessa è la situazione nell’etica, nella concezione della storia, nell’atteggiamento verso la società, nell’este­ tica»10.

Men che meno fa eccezione la critica del cinema.

4. Dove l’abbassamento di livello appare più pronunciato e preoccupante, giungendo a toccare punte estreme, è nella politica culturale svolta dai nostri principali organismi cinema9 Georg LukAcs, Kunst und objektive Wahrheit, in Probleme des Realismus I: Essays ùber Realismus (Werke, Bd. 4), Luchterhand, Neuwied-Berlin 1971, p. 638 (trad, in Arte e società, Ed. Riuniti, Roma 1972, I, p. 182). 10 Georg Lukàcs, Die Zerstorung der Vernunft, Aufbau-Verlag, Berlin DDR 1954, p. 653 (La distruzione della ragione, trad, di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1959, p. 834). La battuta di Fischer è ricorda­ ta poco oltre.

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tografìci istituzionali e in quella che si esercita, tramite la critica, sulla stampa quotidiana. Senza che ci sia qui possibile affrontare, nemmeno a grandi linee, la questione degli organi­ smi istituzionali, ricorderemo solo, per deplorarle, la politica culturale dell’Ente Gestione Cinema, nelle mani di un critico o ex-critico del tipo di Vittorio Giacci, che sempre molto ben attento a coltivare la sua propria immagine e a autoreclamizzarsi (se si deve giudicare dall’abbondante numero di sue foto che appaiono in ogni fascicolo della rivista dell’Ente da lui diretto, «Immagine & Pubblico»), tratta il cinema con gli stes­ si criteri manageriali con cui un Romiti tratta la produzione automobilistica alla Fiat; o quelli che sono stati e che sono i criteri organizzativi e direttivi della Mostra cinematografica di Venezia (gestione Lizzani, gestione Biraghi), altro strano, in­ comprensibile miscuglio tra arte e industria; o le clamorose disfunzioni, l’inefficienza ecc., da noi già denunciate con sarca­ smo ben vent’anni fa11, della Cineteca italiana di Milano; o infine l’imbonimento delle programmazioni televisive affidato a personaggi come Claudio G. Fava o Enrico Ghezzi, responsa­ bili di un’opera di sistematica disinformazione e diseducazione del pubblico. (Ultimamente — e qui siamo non più solo alla lottizzazione, ma alla farsa aperta, alla presa in giro dello spettatore - è arrivato in TV persino Nedo Ivaldi.) Gravissimi motivi di scontento suscita altresì la critica della stampa quotidiana, dove il conformismo è così generaliz­ zato da non lasciare più il campo a alternative. La miseria 11 Cfr. la nota I dioscuri in Cineteca, in «Cinema nuovo», XX, 1971, n. 214, p. 415. I "dioscuri” di cui al titolo (e che il titolo, per errore o per malizia, trasforma in "dinosauri”) sono Gianni Comencini e Walter Alberti, da tempo immemorabile direttori della Cineteca e tuttora rego­ larmente assisi al loro posto. Si domandava nella nota, e qui ripetiamo (confidando in una sia pur tardiva risposta da chi di dovere): quale decreto del destino ha stabilito che i dioscuri siano inamovibili? per quali meriti speciali costoro occupano il posto che occupano? Per meriti di studio, no certo, perché dei due l’uno non ha mai fatto e non fa assolutamente nulla, e l’altro somiglia per competenza a uno studioso pressappoco come chi scrive somiglia a De Sanctis. E allora?

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intellettuale vi si dà la mano con la volontà di manipolazione. Riappaiono toni e atteggiamenti che si credevano superati, scomparsi per sempre; tutto viene livellato, equiparato, reso omogeneo, tutto tende o viene ricondotto a forza, pena l’anate­ ma, entro schemi di un grigiore uniforme; insopprimibile l’im­ pressione che la critica, lungi dal compiere i passi avanti spera­ ti, sia saltata di molto all’indietro e sia ripiombata, non meno professionalmente che ideologicamente, in una situazione per tanti versi paragonabile a quella degli anni bui del dopo­ guerra. Due fenomeni colpiscono e preoccupano sopra ogni altro: da un lato, l’allineamento conformistico dei responsabili della critica con gli interessi padronali; dall’altro, lo sprezzo che nella grande stampa quotidiana viene sempre più gravando sulla figura professionale del critico di cinema come tale. Quando accade che delle notiste di colore o di costume (siano pur esse intelligenti quanto si vuole) vengano promosse ex abrupto al rango di titolari ufficiali delle rubriche cinematogra­ fiche della «Stampa» di Agnelli e della «Repubblica» di Scalfa­ ri; o che sul «Corriere della sera» il lancio pubblicitario di certi film venga assicurato scavalcando, con autorevoli inter­ venti in prima pagina, il giudizio critico vero e proprio, allora noi ci crediamo in diritto di considerare questi non degli episodi accidentali, ma delle scelte deliberate, sintomatiche, seriamente preoccupanti, al limite del paradosso o dell’assur­ do, e comunque indici di molto scarsa considerazione per la professionalità: appunto dello sprezzo cui si accennava sopra (uno sprezzo - sia osservato di passata - che non si manifeste­ rebbe mai, almeno in questa forma, per altri generi di critica, come, poniamo, la critica letteraria o quella musicale o quella d’arte figurativa). Ancora più pesante e soffocante il conformismo che nella stampa quotidiana domina a livello ideologico. Sull’onda del­ l’ideologia della deideologizzazione, del postmoderno, del pen­ siero debole ecc., la stampa asservita ai grandi gruppi indu­ striali può spadroneggiare ora indisturbata, innalzando vittorio­

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sa il vessillo della sua propria ideologia, sbandierando a destra e a manca il modello americano, strizzando l’occhio alle solleci­ tazioni del mercato, non più controbilanciata a sinistra - come accadeva invece un tempo - da alcuna reale forza alternativa. Chiunque può verificare ogni giorno di persona le condizioni deplorevoli, disastrose, in cui versa oggi la critica del cinema sui quotidiani di sinistra. Cominciamo intanto col dire che in tempi come i nostri, testimoni di una serie di disinvolti passag­ gi dal “maoismo” al “marramaoismo” (disinvolti ma d’altronde neppure troppo sorprendenti per un osservatore marxista, quando ci si rammenti dell’ammonimento di Lenin, secondo cui ogni estremismo è un disfattismo), diventa già difficile stabilire che cosa sia più realmente, sotto il profilo ideologico, “di sinistra”. Lo sono forse le pagine degli spettacoli dell’«Uni­ tà» e del «Manifesto»? Non sembra proprio. Sembra anzi l’op­ posto. Qui come là si celebra quotidianamente la sagra del disimpegno; il 'riflusso’ produce tra l’altro come conseguenze, nei critici sedicenti di sinistra, l’abdicazione ai propri princìpi e la resa ideologica senza condizioni a quelli degli avversari. Se non fosse che i paralleli storici troppo impegnativi appaio­ no sempre rischiosi, verrebbe voglia di ripetere per essi il giudizio al vetriolo formulato da Marx e Engels sulla disponi­ bilità ai compromessi della socialdemocrazia tedesca (lassalliana) dopo il 1860, via via che se ne andava profilando sempre più distintamente la prussianizzazione, la capitolazione nei con­ fronti della Realpolitik di Bismarck: «Dappertutto si apre il passo questo disgustoso strisciamento davanti alla reazione»12. È proprio l’impressione che suscita la critica di sinistra. Da anni, del resto, noi lo andiamo denunciando pubblicamente: le pagine degli spettacoli dell’«Unità» somigliano sempre più, per taglio, tono, scelte, deferenza acritica verso il cinema di

12 Cfr. il carteggio Marx-Engels della metà degli anni ’60, donde citiamo la lettera di Engels a Marx in data 13 febbraio 1865 (Marx-EnGELS, Werke, Berlin DDR 1958-74, XXXI, p. 69; trad. Opere) Roma 1972 ss., XLII, p. 71).

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Hollywood, alla brutta copia di quelle - già in sé bruttissime - della «Repubblica» (ma forse, se possibile, con un pizzico di conformismo in più, tanto esse riescono a essere insulse, scipi­ te, codine); e le pagine curate dai redattori del «Manifesto» (altri inguaribili fanatici del cinema hollywoodiano) si segnala­ no di norma per un tal coacervo di scempiaggini, per una così perfetta sintonia con tutte le mode più sciocche e retrive, che non vale qui nemmeno la pena di prenderle in considerazione e di discuterle.

5. Merita almeno due parole invece - giacché stiamo par­ lando dei contraccolpi del "riflusso’ sulla stampa di sinistra - il caso di Goffredo Fofi, un poligrafo estroverso, strabordante, onnipresente, molto (troppo) corteggiato a sinistra, del quale a noi non è mai riuscito, neanche in passato, di condividere una sola scelta, né politica né filosofica (critico-estetica); poiché il suo preteso anticonformismo ci è sempre parso qualcosa di molto furbo e conformistico, allineato con le tendenze cultura­ li vincenti, e anch’esso paurosamente incline a registrare e a incorporarsi, di volta in volta, tutto il variegato susseguirsi delle mode (il che, tra l’altro, spiega ad abundantiam il gran successo e il gran favore di cui da sempre gode ovunque, anche presso quella così caratteristica couche rappresentata dallo snobismo intellettuale radicaleggiarne della «Repubbli­ ca» o dell’ «Espresso»). Francamente non si capisce su che cosa si fondi il presti­ gio, la fama critica di Fofi. Ci sembra una fama usurpata e immeritata. Tutte o quasi tutte le sue iniziative, le sue disquisi­ zioni, le sue polemiche, le sue scelte - sostenute e sistematicamente ben reclamizzate da tutti, non soltanto a sinistra - si sono rivelate col tempo fasulle o sbagliate. Se gli sforzi pub­ blicistici che da decenni egli viene lodevolmente perseguendo nei suoi lavori per far «capire con il cinema»13 vanno a vuoto, 13 Facciamo qui di seguito riferimento soprattutto a questi lavori: Goffredo Fofi, Il cinema italiano: servi e padroni, Feltrinelli, Milano

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è perché si tratta di sforzi mal riposti e peggio eseguiti. Pren­ diamo, a es., il suo infuocato pamphlet del 1971 sul Cinema italiano, un testo che, dichiarando di considerare «il cinema come la più sociale e condizionata delle arti», mette senz’altro «tra parentesi il discorso sull’arte», e al cinema si interessa da un punto di vista politico, non specialistico - «prevalente­ mente in quanto strumento di potere in mano alla borghesia». (Episodiche quanto inconsistenti, nel volume, le notazioni che si avventurano sul terreno dell’estetica.) «Oggi come mai — egli scrive - le sovrastrutture, e la scuola, la stampa, il cinema, la televisione, hanno un peso determinante nella manipolazione del consenso fondamentale al perpetuamento del sistema di oppressione. La cultura che la borghesia impone ai proletari è funzionale al suo potere [...]. Proprio per questo quello della cultura è un terreno che deve venire investito sino in fondo e parallelamente al terreno della lotta a livello economico e sociale. Ciò significa che occorre intervenire direttamente in questi campi, distruggere la cultura del nemico, operare i giusti tagli ed innesti, aiutare l’acquisizione di conoscenze e di modelli di comportamento e capacità di pensiero autonomi, lottare contro il vecchio per l’affermazione del nuovo, elaborare una cultura rivoluzionaria, fa­ vorire lo sviluppo di una continua rivoluzione culturale»14.

1971, pp. 252 (di cui si è detto specificamente nella rassegna Crisi dell'editoria cinematografica, in «Cinema nuovo», XX, 1971, n. 213, p. 383); Capire col cinema. 200 film prima e dopo il '68, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 397; Dieci anni difficili. Capire con il cinema, parte II: 1975-1985, La Casa Usher, Firenze 1985, pp. 264; Totò, a cura di G. Fofi, Samonà e Savelli, Roma 1972, pp. 184; F. F aldini e G. Fofi, Totò: Tuomo e la maschera, Feltrinelli, Milano 1977 (ried. ampliata, Pironti, Napoli 1987, pp. 329); L'avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, 2 voli. (I, 1935-1959; II, 1960-1969), Feltrinelli, Milano 1979-81, pp. 430 e 485;. Il cinema italiano d'oggi (1970-1984) raccontato dai suoi protagonisti, Mondadori, Milano 1984, pp. 761. Ai gravi limiti del rifacimento della Stona del cinema di Cari Vincent, cui Fofi collabora insieme con Morando Morandini e Gianni Volpi (3 voli, in 4 tomi, Garzanti, Milano 1988, pp. 477, 381, 553 e 697), si è accennato brevemente in una scheda del «Calendario del popolo», XLV, 1989, n. 518, pp. 13103-4. 14 G. Fofi, Il cinema italiano, cit., pp. 18-9.

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Si risente qui, netta, l’eco dell’estremismo barricadiero del ’68. Criticamente questa posizione conduce a risultati distrutti­ vi, che Fofi così riassume: «Nel suo insieme il cinema italiano è responsabile di un duplice atteggiamento di complicità con il sistema: quello dell’opportunismo e quello dell’evasione»15. Bene. Ma nello smascherare - molto giustamente - l’uno e l’altra, Fofi sfonda in sostanza molte porte aperte; le altre ancora chiuse, che egli fa benissimo a sfondare, le sfonda — bisogna dire - con scarsa avvedutezza: alla fine della sua fatica non resta altro che un cumulo informe di rovine, senza che si sia ottenuto alcun avanzamento critico in alcuna direzio­ ne. (Animato dal medesimo spirito iconoclastico verso il cine­ ma italiano, Paolo Bertetto lo dichiarerà un decennio dopo, facendo di ogni erba un fascio, Il più brutto del mondo.) Per lo stesso preciso motivo non crediamo sia da riconosce­ re troppo valore ai uo tanto celebrato studio su Totò, fonte piuttosto di una massa sterminata di equivoci, tuttora perdu­ ranti. Anche qui infatti, da un lato, rivalutando l’attore, si sfondano porte aperte, perché a nessuno - nemmeno alla criti­ ca più severa - è mai passato per la testa di negare la grandez­ za del Totò attore; mentre dall’altro, con la tesi che dietro a Totò starebbero «la tradizione della maschera e la spinta vita­ le e anarcoide del sottoproletariato», e con il riconoscimento di meriti speciali «a Mattoli e ai suoi sceneggiatori», come coloro i quali, meglio di altri, «permettono all’estro dell’attore di frizzare su un terreno a lui noto», «valorizzano al massimo il Totò consolidato dal successo popolare della rivista» ecc.16, si viene alimentando tutta una mitologia sconsiderata, si con­ fondono piani e categorie di ordine diverso e si finisce con l’elevare a capolavori film in realtà mediocri o mediocrissimi. Molto più sobrio, serio, equilibrato il giudizio dell’attore su se stesso, allorché in vecchiaia riconosceva apertamente, con ama­ rezza, di essersi troppo a lungo sprecato in meri prodotti di 15 Ibid., p. 186. 16 Faldini-Fofi, Totò (ed. 1987), cit., pp. 80, 96.

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consumo; e ammetteva che dei quasi cento film da lui interpre­ tati non più di cinque sono quelli che davvero meritano di restare. Attesta anche, di primissima mano, la Faldini: «Capi­ va di buttarsi via in film scadenti, se ne rammaricava...»1'. In realtà la critica di Fofi fallisce quasi sempre nei suoi intenti, deviando o sviando dagli obiettivi che pure dice di proporsi. Troppo sollecita delle contingenze, troppo ribollente di umori soggettivi, autobiografici, essa oscilla o trascorre di continuo dall’uno all’altro di due estremi entrambi unilaterali, l’agitazione settaria e il conformismo travestito (sotto forma di servilismo indiretto verso le civetterie alla moda). Via via poi che viene avanzando il "riflusso’, il secondo corno dell’alternati­ va tende a prevalere e a imporsi sul primo. Così nella sua critica degli anni ’80 non ricorrono più affatto parole d’ordine e slogans agitatori del genere di quelli che in precedenza abbiamo visto - tornavano come un Leitmotiv (l’appello allo «sviluppo di una continua rivoluzione culturale», alla distru­ zione della «cultura del nemico» ecc.), sommersi ora da un diverso (e assai più morbido) tipo d’approccio ^'Avventurosa storia del cinema italiano-, quello che consiste nel farla raccon­ tare direttamente dai suoi protagonisti, registi e sceneggiatori, attori e tecnici vari. Procedimento curioso quanto arrischiato; poiché la sua indubbia singolarità, foriera per un verso di un ventaglio di notizie inedite, urta per l’altro contro l’esigenza della oggettività e linearità dello svolgimento storico. Qui le linee dello svolgimento invece frequentemente si confondono; qui si vede bene fino a quali gravi inconvenienti, fino a quali assurdi può condurre il metodo della “storia orale” tanto caro anche a Brunetta. Certo il materiale «montato» è quantitativa­ mente molto consistente; c’è sì grande ricchezza, persino so­ vrabbondanza di informazioni e curiosità del più vario genere, ma insieme deficienza di materiale propriamente storico. L’esi­ to dell’impresa resta quindi per gran parte velleitario. Neghia­ mo in ogni caso che essa risponde al proposito, esternato dagli 17 Ibid., p. 68.

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autori, «di mettere in luce il rapporto esistente tra la storia del nostro cinema e la società che lo ha prodotto e ne ha usu­ fruito». Concludiamo. Delle due principali qualità e caratteristiche distintive che alla «irrequietezza polemica» del Fofi critico attribuisce Vittorio Spinazzola quando, recensendo in tono grandemente elogiativo una delle sue ultime fatiche18, dichiara che «la vocazione ammaestrativa» si salda in lui «con una capacità di proselitismo non comune», noi gli riconosciamo senz’altro, perché gli spetta, soltanto la seconda. Mai e poi mai aggiungeremmo però le parole che, a rinforzarne l’elogio, ag­ giunge Spinazzola: «La sua serietà intellettuale si misura sul rifiuto delle civetterie con lo spirito di novità o magari di improvvisazione fine a se stessa, d’indole neo o postavanguardistica [...]. Il suo orizzonte di lavoro si fonda sulla ricerca, la riscoperta, l’arricchimento costante delle linee di sviluppo di una modernità culturale che abbia le qualifiche di valore della prima classicità».

Già cattiva, sbagliata, ammaestrativa» di Fofi ci Non crediamo si tratti di personalmente, comunque,

fuorviarne nel ’68, la «vocazione sembra oggi anche più pericolosa. ammaestramenti da cui imparare; noi ne facciamo volentieri a meno.

G. Fofi, La grande recita, Colonnese, Napoli 1990, pp. 145. Cfr. la recens. di Vittorio Spinazzola, Napoli in testa, nell’ «Unità» del 6 agosto 1990.

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Indice dei nomi

Abel Richard, 148-50. Abruzzese Alberto, 205, 324, 333340. Abusch Alexander, 111. Accialini Fulvio, 324. Adorno Theodor W., 258, 323. Agel Henri, 130, 154. Agnelli Gianni, 358. Ahlander Lars. 231. Ahlin Lars, 61. Aitken Ian, 24In, 242n. Alberti Walter, 357n. Aidgate Anthony, 242-4, 247, 251. Alien Don, 158 e n. Allen Woody, 325. Altman Robert, 312. Amengual Barthelemy, 53n, 209, 263. Ammannati Floris, 296. Amoruso Vito, 333. Anderson Lindsay, 210, 250n. Anderson Sherwood, 138. Andersson Bibi, 221-2. Andersson Harriet, 221-2. Andersson Roy, 221. Antonioni Michelangelo, 94 e n, 283, 288, 299-300, 304, 307, 318-22. Apra Adriano, 74, 157, 334. Aranda Francisco, 122n.

Arbasino Alberto, 331. Argentieri Mino, 338-40. Aristarco Guido, 8, 58ri, 62n, 70, 94 e n, 97, 184n, 186, 228n, 279, 345. Aristotele, 287. Armes Roy, 70, 147-50, 153-5, 175-80, 238, 250. Arnaud Eraldo, 356n. Arnér Sivar, 61. Arnheim Rudolf, 111. Asor Rosa Alberto, 338n. Asplund Uno, 143. Attisani Antonio, 17 In. Aumont Jacques, 10, 14. Auster AJbert, lOOn. Auty Martyn, 246. Ayfre Amédée, 188.

Balazs Béla, 53n, 95 e Baldelli Pio, 275. Balzac Honoré de, 20, Bang Herman, 45. Barbaro Umberto, 95 316. Bardem Juan Antonio, Barker Felix, 248. Barnouw Erik, 240. Barr Charles, 238. Barrot Olivier, 160.

n, 97. 260-In. e n, 185,

234.

365

Barry Iris, 125. Barsam Richard, 13 In. Barthes Roland, 97, 254, 322, 328. Bassotto Camillo, 50n, 62n. Baxter John, 191. Bazin Andre, 28-9, 98, 151, 154-5, 161, 173, 207, 210, 254. Beaumont Francis, 96. Becker Jacques, 155. Bekker Immanuel, 287. Bellocchio Marco, 312. Benayoun Robert, 157. Bene Carmelo, 327. Bennett Edward, 247. Béranger Jean, 228. Bergala Alain, 18In. Bergenstràhle Johan, 221. Berggren Tommy, 222. Bergman Hjalmar, 61, 225, 227. Bergman Ingmar, 7, 54, 59-68, 220-9, 231-2, 283-4, 299, 303-5, 307, 337n. Bergman Ingrid, 183, 221. Bergom-Larsson Maria, 62n, 224-5. Berlanga Luis Garcia, 233. Berling Peter. 260. Bernardi Auro, 120, 122n. Bernardini Aldo, 185n. Bernstein John, 254, 256, 263. Bertetto Paolo, 148, 314-6, 324, 326, 362. Bertin, Célia, 170-1. Bertinetti Paolo, 249. Bertini Antonio, 290. Bertin-Maghit Jean-Pierre, 152. Besas Peter, 234-5. Bettetini Gianfranco, 277, 324. Beylie Claude, 161-3, 173. Biraghi Guglielmo, 357. Bismarck Otto von, 359. Bjorkman Stig, 220-1, 228. Bjòrnstrand Gunnar, 221-2.

366

Blake Richard A., 223, 228n. Blakeway Claire, 17 In. Bleiman Michail, 225. Blum Leon, 168. Bock Hans-Michael, 256. Bogdanovich Peter, 198-9. Bohm-Christi Thomas, 258. Bonaparte Napoleone, 150. Bondanella Peter, 70, 175n. Bonnafons Élizabeth, 158. Boorman John, 307. Borde Raymond, 70. Bordwell David, 43n, 49, 52n, 53n, 58n. Borgna Gianni, 293. Borin Fabrizio, 235. Borowczyk Walerian, 288-9. Bouissy André, 70. Boujut Michel, 263n. Bourget Jean-Loup, 199n. Bowser Eileen, 125. Braad Thomsen Christian, 212n, 260. Bragaglia Anton Giulio, 277. Bragg Melvyn, 248. Brahms Johannes, 37. Brasey Edouard 144. Brater Enoch, 249. Braudy Leo, 161-2, 173. Brecht Bertolt, 107-12. Bresson Robert, 155, 159, 272-5, 279, 288, 320, 323. Bréton André, 119. Brill Lesley, 212n. Brion Patrick, 124. Briot René, 272-4, 279. Brogi Paolo, 17In. Brown Geoff, 238, 25In. Brownlow Kevin, 129, 134, 138-9, 150, 197-8. Brunetta Gian Piero, 175n, 277-8, 320, 340-1, 351 e n, 363. Brunette Peter, 180-4.

Bruni, Leonardo, 279. Bruno Edoardo, 203, 205, 275-6, 281-94, 314, 328, 346n. Bruzzone Natalino, 200, 205-6. Buache Freddy, 70, 107n, 261. Buchka Peter, 262. Bunuel Luis, 115-22, 217, 277, 300, 304, 320-1, 324. Buscombe Edward, 199n. Buss Robin, 167-9. Buttafava Giovanni, 299, 301, 330-2.

Calder-Marshall Arthur, 130-2. Caldiron Orio, 306. Calendoli Giovanni, 276-7. Camus Albert, 61. Canosa Michele, 204. Canova Gianni, 35In. Canziani Alfonso, 155, 272-5, 279, 314. Canziani Roberto, 249. Cappabianca Alessandro, 317. Caprara Valerio, 200, 205-6. Carbone Maria Teresa, 249. Carlini Fabio, 203, 299, 301, 311-2, 324. Came Marcel, 153, 17 In. Carney Raymond, 43n, 53n. Carrière Emmanuel, 261. Carrière Jean-Claude, 120. Casalegno Carlo, 50n. Cases Cesare, 102n. Casetti Francesco, 10, 13. Castaldini Ennio, 320. Castellani Renato, 180. Cattini Alberto, 116, 250, 326. Cauteli Michail, 216. Celentano Adriano, 307. Cesarman Fernando, 120-1. Chabrol Claude, 154, 170, 204-5. Chaplin Charles S., 7, 15-41, 123, 127-30, 133-45, 190-1, 299, 304, 307, 312, 355.

Chaplin Sydney, 134. Charensol Georges, 160. Chatrian Alexandre, 96. Checchi Andrea, 185. Cherchi Usai Paolo, 149, 226n. Cherrill Virginia, 134. Chiarini Luigi, 95, 185, 276-8. Chirat Raymond, 152, 166-8. Christensen Benjamin, 48. Christian-Jaque (pseud, di Chri­ stian Maudet), 167. Christie Ian, 214. Ciampa Maurizio, 157. Cimino Michael, 304. Clair Rene, 160, 163, 229. Clouzot Henri-Georges, 152n. Codelli Lorenzo, 249. Cohen Marshall, 98n. Coluccelli Lucia, 324. Combs Richard, 212n. Comencini Gianni, 357n. Conway Michael, 143. Cooke Alistair, 134. Coolidge Calvin, 20. Coppola Francis Ford, 304. Corbucci Gianfranco, 68n. Cornell Jonas, 221. Corrigan Timothy, 254, 257, 259n, 261. Cortellazzo Sara, 204. Cosandey Roland, 251. Costa Antonio, 149, 204. Cosulich Callisto, 205, 335. Cottafavi Alessandra, 244. Coultass Clive, 243n. Cowie Peter, 62n, 191, 220-2, 224, 226n, 228n. Cremonini Giorgio, 205. Crespi Alberto, 250n. Croce Benedetto, 207-8, 318. Cronin Archibald, 331. Cruze James, 198. Cukor George, 101, 283, 337n. Curran James, 238-9, 241-2.

367

Dagerman Stig, 61 e n. Dahlbeck Eva, 221-2. Dale R.C, 160. Dali Salvador, 122n. D’Angelo Filippo, 246. Daniels Robert L., 248. Danzker Jo-Anne Birnie, 13 In. Daquin Louis, 153. Davies Terence, 247. Dawson Tan, 89n, 93n, 254. De Gaulle Charles, 151, 153. Delahaye Michel, 46n. Delannoy Jean, 167. Deleuze Gilles, 97, 328-9. Della Volpe Galvano, 318. Delluc Louis, 129. Del Ministro Maurizio, 157. Delteil Joseph, 52. De Mille Cecil B., 304. De Miro Ester, 159-60. Dent B., 245n. De Palma Brian, 334, 338. De Robertis Francesco, 182. Derrida Jacques, 97, 328-9. De Sanctis Francesco, 346, 357n. De Sica Vittorio, 7, 69-73, 185, 187, 285. Destanques Robert, 217n. De Vincenti Giorgio, 154. Dickinson Margaret, 239. Dickinson Thorold, 250-1. Diederichs Helmut H., 95n. Di Giammatteo Fernaldo, 185n, 295-9, 302-7, 311, 321. Doblin Alfred, 112. Dogliani Patrizia, 151. Dolinskij I., 214. Donen Stanley, 283. Donner Jom, 62-3, 220, 223-4, 228n. Douchet, Jean, 201. Douin Jean-Luc, 154. Dovèenko Aleksandr Petrovic, 215.

368

Dreiser, Theodore, 20. Drew William M., 124n. Dreyer Carl Theodor, 7, 43-58, 285, 305-7, 312, 337n, 355. Drouzy Maurice, 44n, 46n, 53n, 58n' 116-8, 120-1. Dudow Slat an, 108, 110. Durgnat Raymond, 115, 118, 161-2, 200, 209. Durus Alfred, 111. Duvivier Julien, 153. Eaton Mick, 157. Eckhardt Bernd, 260. Edwards Blake, 283. Ehrlich Evelyn, 152 e n. Eichenlaub Hans M., 235 e n. Ejzenstejn Sergej M. 7, 9-14, 54, 205, 215-6, 273-4, 279, 299-300, 303-4, 307, 314, 316, 346n, 355. Ekman Hasse, 232. Ekmanner Agneta, 221. Elsaesser Thomas, 108n, 253, 255-7, 259, 264-5. Emmer Luciano, 180. Engels Friedrich, 22, 101, 359 e n. Epstein Jerry, 144. Erckmann Emile, 96. Escobar Roberto, 163. Esteve Michel, 155, 263, 272. Evans Gary, 243. Everson William K., 190. Fabre Giorgio, 335n, 338. Fairbanks Douglas (pseud, di D. Elton Thomas Ullman), 185. Falconi Annacarla, 202, 205-6, 208. Faldini Franca, 361-3. Farassino, Alberto, 184n, 187, 299, 301, 307, 337-9. Farber Stephen, 336-8.

Farges Joel, 157. Farkas Nicolas (Miklos), 167. Fassbinder Rainer W., 81, 259-61. Faulkner Christopher, 164-5, 170-4. Fauré Michel, 171. Fava Claudio G., 205-6, 357. Febvre Lucien, 351. Fellini Federico, 297, 299, 301. Ferrari Giuseppe, 201. Ferrano Davide, 246, 260. Ferrini Franco, 299, 301. Ferro Marc, 168, 171. Fink Daniela, 127n. Fink Guido, 199n, 205, 249, 325, 354-5. Fischer Ernst, 356 e n. Fischer Lucy, 159. Fischer Robert, 255. Flaherty, Robert J., 123, 130-3, 191, 304. Flaherty Hubbard Frances J., 132. Fletcher John, 96. Florey Robert, 134. Fofi Goffredo, 256, 360-4. Forbes Brian, 25 In. Ford Charles, 226. Ford John, 195-9, 299, 301. Forsberg Lasse, 221. Forslund Bengt, 227-8. Forssell Lars, 144. Foucault Michel, 97, 328-9. Fowles John, 249. Francis David, 129. Franco Francisco, 233-5. Franklin James, 254. Frazer John, 149. Freeman David, 201, 203, 205. French Philip, 195-6, 201. Freund Karl, 45. Freund Rudolf, 107n. Fuentes Carlos, 120.

Fuller Samuel, 336, 339. Gabrea Radu, 261-2. Gado Frank, 63n, 228n. Gale Steven H., 249. Galilei Galileo, 313. Gallagher Tag, 199n. Gambetti Giacomo, 184n, 186-7, 217n, 228, 296. Gance Abel, 149-50. Garbo Greta (pseud, di Greta L. Gustavsson), 221, 304. Garcia Lorca Federico, 122n. Garmon Francois, 168-9. Gassman Vittorio, 335. Gaston George, 250. Gauteur Claude, 151. Geduld Harry M., 140-3. Gehring Wes D, 128-9. Geist Kathe, 89n, 263. Genette Gerard, 328. Gentile Giovanni, 276. Gersch Wolfgang, 95n, 107-10. Ghezzi Enrico, 293, 338, 357. Giacci Vittorio, 163, 205, 293, 357. Gili Jean A., 185n. Gill David, 129, 134, 138-9. Gilson René, 17In. Ginsburg S., 214. Giuffrida Daniela, 204. Godard Jean-Luc, 109, 148, 154, 156-8, 294, 299. Goethe Johann Wolfgang, 85 e n, 87. Goncourt fratelli (Edmond e Jules Huot de), 96. Gòransson Lars, 61. Gorki) Maksim (pseud, di Aleksej Maksimoviè Peskov), 332. Gow Gordon, 191. Goya y Lucientes Francisco José, 119, 122 e n.

369

Graham Cooper C., 124n. Gramsci Antonio, 29, 341. Grande Maurizio, 327, 337-8. Grasso Aldo, 299-301, 314, 316, 324. Gravier Maurice, 62-3, 68n. Grede Kjell, 221. Greenaway Peter, 247. Greenberg Joel, 191. Greene Graham, 210, 25 In. Grey Lita (pseud, di Lillita McMurray), 134. Grieco David, 333. Grierson John, 240-4, 305. Griffith David Wark, 44, 46n, 123-7, 130, 190. Griffith Richard, 130, 176. Griffiths Keith M., 108n. Grignaffini Giovanna, 107n, 151, 154, 160, 325. Grosev, A., 214. Grosoli Fabrizio, 246, 251. Grossi Edoardo G., 11. Grottie Strebel E. (vedi Strebel). Gruyer Line, 157. Guattari Felix, 328. Gubern Roman, 234 e n. Guerrini Loretta, 155. Guidorizzi Mario, 252n. Guillaume-Grimaud Genevieve, 170. Gyllensten Lars, 61. Haffner Pierre, 170-1, 173. Haining Peter, 145. Hale Georgia, 134, 139. Halldoff, Jan, 221. Hammersh^i Vilhelm, 58n. Hammond Paul, 116. Handke Peter, 84-7, 93n. Hanisch Michael, 107n, 113. Hansen Miriam, 82n, 259n. Harcourt Peter, 173.

370

Harding James, 159. Hardy Forsyth, 241. Hardy Phil, 199n. Harris Mildred, 130. Harris Robert A., 200. Hayman Ronald, 260. Hedges Inez, 254, 256, 263. Hegel Georg Wilhelm Friedrich, 99 e n, 200, 328, 346n. Heidegger Martin, 92, 98, 208, 329. Heinrich André, 17 In. Hembus Joe, 255. Henderson, Robert M., 124-6. Henrikson Anders, 232. Herzog Werner, 81, 259, 261-2, 265. Higginbotham Virginia, 233n, 235n. Higgins Steven, 124n. Higham Charles, 191. Higson Andrew, 246. Hill John, 244. Hill Joseph F., 222. Hirsch Foster, 248. Hitchcock Alfred, 101, 200-12, 237, 248, 299, 301, 304, 311, 334, 337n. Hjelmslev Louis, 97. Hoffmeister Johannes, 346n. Hogenkamp Bert, 241. Hòijer Bjorn-Erik, 61. Holden Anthony, 249. Hood Stuart, 241. Hoover Herbert, 21. Hopewell John, 234-5. Hovald Patrice G., 70. Hube Hans-Jurgen, 226. Huff Theodore, 143. Hugo Victor-Marie, 79. Huillet Danièle, 264. Husserl Edmund, 329.

Ibsen Henrik, 62n, 66. Icart Roger, 150. Idestam-Almquist Bengt (Robin Wood), 200, 202, 213, 223. Ilf Ilja Arnoldoviè, 96. Ishaghpour Youssef, 107n, 157. Issartel Marielle, 122n. Ivaldi Nedo, 357. Ivens Joris, 217-9. Jacob Gilles, 166. Jacobs Lewis, 30. Jacquot Jean, 63n. Jancsó Miklós, 288, 299, 301, 320. Jansen Peter W., 260. Janson Kristofer, 45. Jarrat Vernon, 176-7. Jeancolas Jean-Pierre, 151-4, 169, 233n. Jeanne Rene, 226. Jenn Pierre, 149. Jennings Humphrey, 244. Jennings Mary-Lou, 244. Jensen Jytte, 43n. Jesionowski Joyce E., 124n. Josephson Erland, 221-2. Jouanlanne Christophe, 259. Jutzi Piel, 112. Kafka Franz, 210. Kaminsky Stuart M., 222-4. Karno Fred, 31. Kaston Carren O., 58n. Katz Robert, 260. Kau Edvin, 43n, 49, 50n, 52n, 53n, 58n. Keaton Buster, 19. Kezich Tullio, 205-7. Kierkegaard S^ren, 62n, 64. King Norman, 150. Klaue Wolfgang, 130. Kleber Pia, 108n.

Kluge Alexander, 7, 81-4, 87, 258-9. Koch Gertrud, 259n. Kolker Robert Phillip, 255, 257. Kollwitz Kathe, 112. * Korte Helmut, 107n. Koskinen Maaret, 62n, 68 e n. Koszarski Richard, 190. Kracauer Siegfried, 30, 111, 113, 177. Kracht Fritz Andre, 289. Kramer Steven Philip, 150. Kuhn Annette, 241. Kiihn Gertraude, 107n. Kunzel Uwe, 93n, 262.

Lacan Jacques, 328. Lacourbe Roland, 238. Lagerkvist Par, 61, 64, 66, 225. Lagerlof Selma, 227. Lagny Michèle, 166. Labi ert Gavin, 176. Lang Fritz, 108, 283. La Polla Franco, 191, 193n, 212n, 286, 325, 350. Lardeau Yann, 260n. Larraz Emmanuel, 233-5. Lasky Michael S., 200. Lattuada Alberto, 291, 297. Laura Ernesto G., 305. Lawson John Howard, 177. Lean David, 25 In. Lebedev Nikolaj, 213-5. Le Fanu Mark, 245. Lefèvre Raymond, 238. Leff Leonard J., 212n. Leguèbe Éric, 199n. Lellis George, 108n. Leni Paul, 316. Lenin (pseud, di Vladimir Ilic Uljanov), 101 e n, 214, 268, 359. Leone Sergio, 312. Leprohon Pierre, 70. Leutrat Jean-Louis, 199n.

371

Lewandowski Rainer, 256-7. Lewis Jerry (pseud, di Joseph Le­ vitch), 283. Lewis Sinclair, 138. Leyda Jay, 130, 213, 215, 217. Lherminier Pierre, 129. Libertini Angelo, 159. Liebman Stuart, 258n. Liehm Mira, 70, 175n. Limmer Wolfgang, 259-60. Lizzani Carlo, 357. Lorca (vedi Garcia Lorca). Losey Joseph, 109, 249, 25In. Low Rachel, 202, 238-9. Lucas George, 325. Lukacs Gyorgy, 17, 25, 29, 38, 50n, 79, 96 e n, 101-2, 110, 305, 318, 323, 341, 352, 355-6. Lundin Gunnar, 63n, 229-30, 232. Lyons Timothy J., 128, 141 e n. McCabe John, 129, 143. McDonald Gerald D., 143. McIlroy Brian, 226n. McKinley William, 124. Macpherson Don, 241. Macrelli Rina, 157. Maddaloni Salvatore, 217n. Magnani Anna, 185. Magrelli Enrico, 259, 338. Majakovskij Vladimir V., 324. Maland Charles J., 145. Malmsten Birger, 221-2. Malthète-Méliès Madeleine, 149. Mancini Elaine, 124n. Mancini Michele, 156, 317. Manganare Paolo, 346n. Mann Anthony, 196. Mann Heinrich, 111. Mann Thomas, 24, 29, 66, 332. Manns Torsten, 228. Manvell Roger, 143, 176, 238. Marchesini Mauro, 311-2. Marcus Millicent, 70, 175n.

372

Marion Denis, 228-9. Marker Frederick J. e Lise-Lone, 63n, 228n. Martin Marcel, 213. Martinelli Vittorio, 352. Martini Andrea, 43n. Martini Emanuela, 240n, 246n, 250n. Marx Karl, 15, 101, 359 e n. Mast Gerald, 36-7, 98n, 256. Matarazzo Raffaello, 325. Mattoli Mario, 362. Maulnier Thierry (pseud, di Jac­ ques Talagrand), 273. Mechini Piero, 300. Mele Rino, 326. Méliès Georges, 147, 149. Mellen Joan, 116-8. Mengershausen Joachim von, 85n. Merker Nicolao, 99n. Miccichè Lino, 175n, 184n, 321. Michalczyk John J., 223-4. Mida Massimo (pseud, di Massimo Puccini), 184-6. Milani Raffaele, 193 e n. Millar Gavin, 139. Milne Tom, 49. Minnelli Vincente, 283. Miranda Isa (pseud, di Ines Isabel­ la Sampietro), 185. Mitry Jean, 140, 143. Mohrmann Renate 108n. Molander Gustaf, 232. Molander Olof, 60, 63, 68n. Monroe Marilyn (pseud, di Norma Jean Baker Mortenson), 304. Montague Ivor, 241. Montanaro Carlo, 206. Montani Pietro, 10, 12, 314. Morandini Morando, 205, 256, 312, 361n. Morgan John Pierpont, 125. Morin Georges-Henri, 193, 195-6.

Morvan Annie, 120. Moscati Italo, 324, 338. Moscato Alfonso, 228-9. Moss Robert F., 25 In. Mumau Friedrich W., 48, 156. Murphy Robert, 242n, 243n. Murphy William T., 13In. Nachbar John G., 199n. Nagel Otto, 112. Napolitano Antonio 131. Napolitano Silvia, 333. Narboni Jean, 151, 156, 181n. Narti Ana Maria, 225. Nash Mark, 49. Natta Enzo, 265n. Nazzari Amedeo (pseud, di Salvato­ re Amedeo Buffa), 185. Neergaard Ebbe, 46-8. Negt Oskar, 82n. Nelson Ralph, 195. Nepoti Roberto, 192. Nesterenko Genevieve, 166. Neumann Hans-Joachim, 264. Nietzsche Friedrich, 67, 98, 208, 320, 328-9. Niléhn Lars, 232. Nilsson Josephine B., 44n, 46n. Nilsson Maj-Britt, 221. Niinij Vladimir, 10. Noguez Dominique, 159. Nowell-Smith Geoffrey, 98, 248. Nystedt Hans, 228n. O. Henry (pseud, di William Syd­ ney Porter), 138. Olin Stig, 221. Olivier Laurence, 237, 248-9. Ollen Gunnar, 63 e n. Olsson Jan, 231-2. Oms Marcel, 121. Oscarsson Per, 222. Ottwalt Ernst, 108.

Pabst Georg Wilhelm, 107, 109, 112. Paltrinieri Carlo, 157. Paranagua Paulo Antonio, 23 3n. Parigi Stefania, 127n. Park James, 245, 247. Parrain Philippe, 49. Parrish Robert, 134. Pasinetti Francesco, 185. Pasolini Pier Paolo, 157, 290, 299, 301. Paulon Flavia, 130. Pecori Franco, 299, 301, 318. Pedullà Walter, 293. Penn Arthur, 101, 195, 312. Pensel Hans, 226. Périlleux Georges, 61 n. Perry George, 238, 245. Petain Henri-Philippe, 152-3, 168. Peters Karsten, 260. Petit Chris, 247. Petraglia Sandro, 299, 301. Petrarca Francesco, 279. Petrov Evgenij (pseud, di Evgenij Petrovic Kataev), 96. Philippe Claude-Jean, 170. Phillips Gene D, 201-3, 209-10, 223, 248, 251n. Phillips Klaus, 255. Pilard Philippe, 245n. Pini Moro Donatella, 118. Pinter Harold, 248-9. Pipolo Tony, 53n. Pirandello Luigi, 62n. Pirro Ugo, 207. Pistagnesi Patrizia, 325. Pititto Francesco, 201. Placido Beniamino, 336-8. Plebe Armando, 281-2, 284, 286, 297, 321. Pollack Sydney, 101, 195, 312. Polonsky Abraham, 195. Pompidou Georges, 151, 153. Porter Vincent, 238-9, 241-2.

373

Potter Sally, 247. Powell Michael, 247-8, 250-1. Prédal René, 154-5. Preminger Otto, 283. Pressburger Emeric, 247, 250-1. Prévert Jacques, 17In. Pronay Nicholas, 243. Propp Vladimir, 97. Pudovkin Vsevolod, 9, 205, 213, 215, 217-8, 303.

Quaresima Leonardo, 107n, 151, 324. Quart Leonard, lOOn. Quéval Jean, 273-4. Quinlan David, 202, 240. Raab Kurt, 260. Racine Jean, 273-4. Radevagen Til, 144-5. Radford Mike, 247. Raffa Piero, 311, 320, 329. Ranieri Tino, 299. Rauch Andrea, 302. Ray Nicholas, 101. Ray Robert B., lOOn. Ray Satyajit, 304. Reader Keith, 170. Rebello Stephen, 212n. Redi Riccardo, 150. Reed Carol, 247, 25 In. Regent Roger, 160. Reinhardt Max, 63. Reisz Karel, 248, 250. Reitz Edgar, 264. Renoir Dido (nata Freire), 151. Renoir Jean, 150-1, 155, 160-5, 299, 304. Rentschler Eric, 82n, 255-9, 261, 263-4. Resnais Alain, 109, 154, 156-7. Rhode Eric, 176-7. Ricci Mark, 143.

374

Richards Jeffrey, 238, 242-4, 247, 250-1. Ricoeur Paul, 97. Riesner Dean, 134. Rindom Svend, 48. Risi Dino, 312, 335. Robertson James C., 239 e n. Robinson Carlyle T., 134. Robinson David, 127-30, 141, 143, 191. Rocha Glauber, 299. Rockefeller John Davison, 125. Roddick Nick, 246-7. Rohmer Erie, 28, 154-6, 204. Romiti Cesare, 357. Rondolino Gianni, 180-4, 187, 299-301. Roosevelt Franklin D., 21, 124. Ropars Marie-Claire, 166. Roselius Magnus, 6In. Rosenbaum Jonathan, 58n. Rosetti Riccardo, 292-3. Rosi Francesco, 282. Rosow Eugene, 192. Rossellini Roberto, 7, 69-72, 74-9, 180-6, 290, 296, 299-301. Rossi Loredana, 217n. Roth Wilhelm, 260. Rotha Paul, 130-3, 176-7, 242n. Rothman William, 201-2, 209-11, 248. Rouch Jean, 157. Rudy Jay, 131-2. Russell Ken, 25In, 326-7. Ryall Tom, 202, 205, 208-10, 248. Ryan Trevor, 241.

Salina Francesco, 205, 346n. Salizzato Cl aver, 250. Salvadori Roberto, 204-6, 300. Sanchez Vidal Agustin, 118-9, 122n. Sander Elke, 259n. Sanford John, 254, 261.

Sarris Andrew, 98 e n, 196. Saura Carlos, 235 e n. Savio Francesco, 140, 143. Scalfari Eugenio, 358. Scalia Gianni, 328. Schamoni Peter, 82. Schickel Richard, 126-7, 199n. Schlappner Martin, 70. Schlesinger John, 248, 250-1. Schlòndorff Volker, 264. Schlupmann Heide, 259n. Schnéevoigt George, 45. Schneider Roland, 255. Schnitzer Jean e Luda, 214n. Schutte Wolfram, 260. Schwartz Ronald, 233n. Schwarze Michael, 120-1. Scorsese Martin, 334. Scott Helen, 201. Seastrom (vedi Sjòstròm). Selman Barrie, 220, 224. Selznick David O., 212n. Sémolué Jean, 49-50, 272. Sennett Mack, 34, 135-6. Serceau Daniel, 170-3. Serceau Michel, 180n. Sesonske Alexander, 151, 164. Shakespeare William, 325. Shdan V., 214. Short K.R.M., 152, 243 e n. Siclier Jacques, 152-3, 155, 169. Siegel Don (Donald), 336, 339. Silva Umberto, 317. Silver Charles, 144. Sima Jonas, 228. Simondi Mario, 159. Sinclair Andrew, 198-9. Sirianni Paolo, 261. Sirk Douglas, 101, 255. Sitriey Paul Adams, 192. Sjoberg Alf, 60, 63-5, 67, 226, 229-32. Sjogren Henrik, 61n, 63n. Sjornan Vilgot, 221.

Sjòstròm Victor, 44, 46n, 226-8. Sklovskij Viktor Borisoviè, 323. Slide Anthony, 238. Sloane Jane, 155. Smirnova J., 213-4. Snapes M., 245n. Sobel Raoul, 128. Soderberg Hjalmar, 55-6. Sontag Susan, 223. Sorlin Pierre, 152, 166. Spagnoletti Giovanni, 85n, 255, 259, 262, 265n, 338n. Spengler Oswald, 352. Spielberg Steven, 293. Spinazzola Vittorio, 364 e n. Spoto Donald, 200-3, 209, 248. Staudte Wolfgang, 108. Steene Birgitta, 223, 228n. Stenstrom Thure, 6 In. Sternberg Josef von, 330-2. Stiller Mauritz, 226 e n. Straub Jean-Marie, 81, 264. Strebel Elizabeth, 152, 163. Street Sarah, 239. Strindberg August, 61-5, 67-8, 225, 229-30. Stroheim Erich von, 289, 304. Such£ Ondfej, 144. Swann Paul, 24In, 242n. Syberberg Hans-Jurgen, 81, 264. Sydow Max von, 222 e n. Taggi Paolo, 255. Tanitch Robert, 249. Tati Jacques (pseud, di J. Tatischeff), 159. Taviani Paolo e Vittorio, 312. Taylor John Russell, 200, 202, 211, 272. Taylor Philip M., 243n. Taylor Richard, 214n. Termine Liborio, 321. Thiher Allen, 148, 151.

375

Thome Rudolf, 18 In. Tidblad Inga, 221. Tinazzi Giorgio, 94n, 156, 158, 175n, 277, 299-301, 307, 309, 320-4, 338n. Tiso Ciriaco, 158, 205, 293. Tomasi Dario, 204. Tone, Pier Giorgio, 49, 107n. Torbacke Jari, 227. Torres Augusto M., 233. Torri Bruno, 106. Tosi Virgilio, 213, 217n. Tòteberg Michael, 259 e n, 262. Totò (pseud, di Antonio de Cur­ tis), 361-2. Tournès Andree, 85n. Trasatti Sergio, 184n. Trebbi Fernando, 318-20. Troell Jan, 221. Troiano Felice, 120. Trotta Margarethe von, 264. Truffaut Francois, 154, 157-9, 161, 201, 203, 205-6, 237. Tumanova N., 214. Tiimmler Karl, 107n. Turk Edward Baron, 17 In. Tuska Jon, 197. Tyler Parker, 192. Ullmann Liv, 221-2. Ulrichsen Erik, 50n. Ungari Enzo, 205-6.

Vaccaro Nicola, 99n. Valentino Rodolfo, 185. Vallora Marco, 10. Valmarana Paolo di, 337. Vanoni Ornella, 337n. Veblen Thorstein, 20. Vecchi Paolo, 246. Vecchiali Paul, 157. Veinstein Andre, 63n.

376

Verdone Mario, 276-9, 309. Vergerio Flavio, 157. Verità Toni, 262. Vertov Dziga (pseud, di Denis A. Kaufman), 299, 314, 324. Viazzi Glauco, 213. Vico Giambattista, 313-4, 328. Vidor King, 304. Vieira Joao Luiz, 124n. Vigny Alfred de, 79. Vigo Jean, 150, 160. Villien Bruno, 201. Vincendeau Ginette, 170. Vincent Carl, 36In. Viry-Babel Roger, 170. Visconti Luchino, 177, 185-6, 229, 299, 307, 318, 341. Visser Colin, 108n. Volpi Gianni, 249, 256, 36In. Vronskaya Jeanne, 214.

Walker Alexander, 246. Walker John, 245-6. Walsh Martin, 108n. Walz Eugene P., 158. Wapshott Nicholas, 25 In. Weis Elizabeth, 201. Welles Orson, 191, 229, 299, 324. Welsh James Michael, 150. Wenders Wim, 7, 81, 84-94, 259, 262-3. Werner Gosta, 46n, 6In, 64n, 231 e n. Widerberg Bo, 221-2. Wilder Billy, 304. Willemen Paul, 241. Williams Martin 124-5. Wimmer Walter, 107n. Wolf Friedrich, 111. Wolf Konrad, 109. Wolin Richard, 98n. Wollen Peter, 98.

Wood Robin (vedi Idestam-Almquist). Wortzelius Hugo, 61-2, 231-2. Wright Basil, 130-2. Wyler William, 101, 304, 307. Yakowar Maurice, 200, 202. Young Vernon, 62n, 223. Youngblood Denise J., 214n.

Zagari Bianca, 108. Zampa Luigi, 180, 297. Zancan Marina, 175n. Zavattini Cesare, 69, 71-3, 177, 184-7. Zetterling Mai, 221. Zille Heinrich, 112-3. Zola Émile, 70, 177. Zwerenz Gerhard, 260.

377

Indice

Premessa

5

Parte prima GLI AUTORI E IL PROBLEMA DEL CINEMA D’AUTORE

7

I

9

II cinema secondo Ejzenìtejn

II

Chaplin, un umanista in lotta contro i "tempi moderni" 15

III

I risvolti della tecnica chapliniana del gag

27

IV

Note sull’umanesimo di Dreyer 1. Dreyer alle soglie della maturità 2. L’umanesimo di “Gertrud”

43

V

Ingmar Bergman in prospettiva

59

VI

Gli artefici del neorealismo 1. Profilo di De Sica neorealista 2. Rossellini ieri e oggi

69

VII

Gli esordi di Kluge e Wenders

81

379

1. Alexander Kluge 2. Wim Wenders Vili

11 (falso) problema del cinema d’autore

Parte seconda GLI AUTORI ALLA LUCE DELLA CRITICA

95

105

IX

Brecht e il cinema della Germania di Weimar

107

X

Omaggio a Luis Bunuel 1. Bunuel come “architetto del sogno” 2. Bunuel artista dello scandalo

115

XI

Nuovi materiali di studio per Griffith, Chaplin e Flaherty 123 1. Apporti biografici 2. Chaplin ritrovato 3. Chapliniana U.S.A.

XII

11 volto del cinema francese attraverso la storio­ grafia 147 1. Breve scorribanda generale 2. Clair e Renoir nel clima degli anni ’30 3. Ripensando agli anni del Fronte popola­ re in Francia

XIII Sul dopoguerra cinematografico italiano 1. Bilancio del neorealismo 2. Due ritratti di Rossellini 3. Di alcuni altri contributi recenti

XIV

380

Hollywood, la sua storia e i suoi miti 1. Il mito del cinema americano 2. Sulla tradizione (e il mito) del western 3. Gli incantesimi del mago Hitchcock

175

189

VII

Miscellanea internazionale 1. Una storia sovietica del cinema sovietico 2. Le memorie di Joris Ivens 3. Bergman e la Svezia degli anni ’70 4. Altri contributi alla storia del cinema svedese 5. Cinema spagnolo: le metamorfosi del dopo Franco

XVI

La “British Renaissance" nella letteratura critica

213

XVII II “nuovo cinema tedesco" secondo la critica degli anni ’80 253

Parte terza LA CRITICA IN CONTROLUCE: VANILOQUI, PLAGI, SCANDALI ACCADEMICI E ALTRI MISFATTI

267

XVIII Nostri docenti allegri

271

XIX

Rapporto sul signor B. 1. Le amene trovate del signor B. 2. Il signor B. è andato in cattedra

281

XX

La critica di un critico “controcorrente” 1. Il critico controcorrente a “Bianco e Nero” 2. L’esperienza del “Castoro cinema” 3. L’ultima fiaba del critico controcorrente

295

XXI

La boria dei meschini ovvero l’ingenuità di una cultura fatua

309

381

XXII Le gioie della manipolazione di massa

333

XXIII Considerazioni critiche conclusive

343

Indice dei nomi

365

382

Volume di pagine 384 carta Cristal Matt, gr. 78

Finito di stampare neli'aprile 1991 dalla Dedalo litostampa srl in Bari

L’autore

Il libro

Guido Oldrini è ordinario di Storia della filosofia presso l’università di Bologna. Si occupa di storia della filosofia italiana dell’ottocento, di filosofia del Rinascimento e di storia del cinema. Collaboratore di varie riviste filosofiche, membro del comitato di redazione della rivista «Cinema nuovo», è autore, tra l’altro, di Gli hegeliani di Napoli (1964), La cultura filosofica napoletana dell’ottocento (1973), L’Ottocento filosofico napoletano nella letteratura dell’ultimo decennio (1986), Napoli e i suoi filosofi (1990), e ha inoltre curato i volumi II primo hegelismo italiano (1969), Lukàcs (1979), Il marxismo della maturità di Lukàcs (1983), Filosofia e coscienza nazionale in Bertrando Spaventa (1988) e, in collaborazione con Walter Tega, Filosofia e scienza a Bologna tra il 1860 e il 1920 (1990). Suoi libri di cinema: Da «Roma città aperta» alla «Ragazza di Bube», in collaborazione con Adelio Ferrero (1965), La solitudine di Ingmar Bergman (1965), Problemi di teoria e storia del cinema (1976), l’antologia Chapliniana (1979) e II realismo di Chaplin (1981).

Dei due grandi problemi del cinema come fatto di cultura, gli autori e la critica, il presente libro, rivolto non solo agii specialisti, cerca di offrire un’immagine intrecciata e insieme sfaccettata, dove questioni teoriche, analisi critiche, informazioni bibliografiche e discussioni dal tono vivacemente polemico si legano di continuo tra loro. Ejzenstejn, Chaplin, Dreyer, Bergman, De Sica, Rossellini, Kluge e Wenders sono gli autori di cui il libro si occupa nella prima parte, discutendo anche, sotto il profilo estetico, la questione del ruolo che svolge e del peso che riveste nel cinema la figura dell’autore in quanto tale. Come la critica guarda agli autori (o a temi, problemi, orientamenti, tendenze delle diverse cinematografie nazionali) è l’oggetto della seconda parte, incentrata su una serie di rassegne di studi a carattere critico-informativo, che forniscono ampi ragguagli bibliografici ragionati; mentre la terza parte imbastisce una severa requisitoria contro i «misfatti» della critica cinematografica italiana.

design: Mimmo Castellano

CL 22-5026-8

Sire 32.000 (Li.)