Gli attrezzi del giurista: Introduzione alle pratiche discorsive del diritto
 9788892116405, 8892116401

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Indice
Premessa
Capitolo primo LE PAROLE (CIOÈ LE COSE) DEL DIRITTO
Capitolo secondo NEL SEGNO DELLA CONCRETEZZA (MA NON DELLA BANALITÀ)
Capitolo terzo UN’OPERAZIONE PIÙ AMBIZIOSA E COMPLESSA: LA DEFINIZIONE
Capitolo quarto GOVERNARE LA PLURALITÀ: ELENCO E CLASSIFICAZIONE
Capitolo quinto ASTRAZIONE, PENSIERO SISTEMATICO E METODO TOPICO
Capitolo sesto AL DI LÀ DEL PRIMO SIGNIFICATO
Capitolo settimo NEL MONDO (SCONFINATO) DELL’INTERPRETAZIONE
Capitolo ottavo LA FORZA DEI DISCORSI: ARGOMENTARE, PERSUADERE, CONVINCERE
Capitolo nono QUANDO LE PAROLE CREANO PROBLEMI
NOTA BIBLIOGRAFICA

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Gli attrezzi del giurista Introduzione alle pratiche discorsive del diritto

In copertina: Pasquale Celommi, L’operaio politico, 1888, Museo civico di Teramo.

Emanuele Stolfi

Gli attrezzi del giurista Introduzione alle pratiche discorsive del diritto

G. Giappichelli Editore

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ISBN/EAN 978-88-9217777-2 (formato ebook)

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

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INDICE

pag. Premessa

IX

Capitolo primo LE PAROLE (CIOÈ LE COSE) DEL DIRITTO 1. 2. 3. 4.

Il significato di un titolo, anzi di due Il laboratorio del giurista La realtà virtuale del diritto Un lessico rigoroso e specialistico

1 4 6 11

Capitolo secondo NEL SEGNO DELLA CONCRETEZZA (MA NON DELLA BANALITÀ) 1. 2. 3. 4. 5.

Le tappe di un itinerario, e le ragioni della loro sequenza A ridosso delle cose: fornire esempi Vantaggi e limiti dell’esemplificazione Un’attività frequentissima: la qualificazione Qualificare (e sussumere) in campo giuridico

17 19 23 29 34

Capitolo terzo UN’OPERAZIONE PIÙ AMBIZIOSA E COMPLESSA: LA DEFINIZIONE 1. 2. 3. 4.

Un’etimologia rivelatrice Uno snodo del pensiero occidentale Le figure principali (e alcune raccomandazioni operative) “Ogni definizione è nel diritto (civile) pericolosa”

45 48 53 62

V

pag. Capitolo quarto GOVERNARE LA PLURALITÀ: ELENCO E CLASSIFICAZIONE 1. 2. 3. 4.

Una mappa della realtà (non solo giuridica) Enumerare gli elementi Scomporre in sottoclassi Rigore logico e fecondità comunicativa

73 75 85 92

Capitolo quinto ASTRAZIONE, PENSIERO SISTEMATICO E METODO TOPICO 1. 2. 3. 4.

Un’ontologia sociale Le modalità dell’inferenza: deduzione, induzione, abduzione Il diritto come una matematica? Le alternative al sistema

97 100 110 113

Capitolo sesto AL DI LÀ DEL PRIMO SIGNIFICATO 1. Vicende di parole, creazione di realtà 2. La via della metafora e la via della metonimia 3. Altre rimodulazioni semantiche

117 119 124

Capitolo settimo NEL MONDO (SCONFINATO) DELL’INTERPRETAZIONE 1. 2. 3. 4.

Un’attività onnipresente (e sempre fisiologica) Interpretatio, interpretazione, esegesi Tipologie, tecniche e soggetti dell’interpretazione: un primo quadro Disposizioni normative, interpretazione e argomentazione: saper distinguere i piani

127 132 142 152

Capitolo ottavo LA FORZA DEI DISCORSI: ARGOMENTARE, PERSUADERE, CONVINCERE 1. Sostenere o confutare una tesi

VI

161

pag. 2. Funzione pragmatica e correttezza argomentativa 3. Retorica e dialettica (non solo) forense

166 180

Capitolo nono QUANDO LE PAROLE CREANO PROBLEMI 1. 2. 3. 4.

Oscurità, ambiguità, vaghezza Le lacune: come individuarle, prima di colmarle Legge contro legge. Il caso delle antinomie Le fallacie: principali tipologie

Nota bibliografica

187 198 201 205 219

VII

VIII

PREMESSA

Il diritto è un complesso di pratiche discorsive che guida e condiziona, in molteplici modi, le relazioni tra gli uomini, il loro vivere in società. Ha un suo linguaggio – tecnico, rigoroso, a tratti respingente per il “non addetto ai lavori” – e vive di una pluralità di operazioni che si realizzano attraverso le parole: esempi, qualificazioni (e sussunzioni), definizioni, elenchi, classificazioni, interpretazioni, argomentazioni. Operazioni che, nella quasi totalità dei casi, non pertengono esclusivamente all’ambito giuridico, ma che in esso vengono messe a punto in modo spesso peculiare, ricchissimo di conseguenze. Diversamente da quanto si poteva riscontrare sino a pochi decenni fa, oggi il giurista non gode, in genere, di un particolare prestigio sociale. Il suo apprendistato è faticoso e severo, la sua attività non sempre remunerativa, il suo ruolo percepito non di rado come secondario – laddove, in campo pubblico o privato, a determinare molte scelte sono soprattutto le ragioni del profitto economico e la volontà politica. I corsi di laurea in Giurisprudenza registrano, tendenzialmente, una progressiva perdita di attrattività, per un insieme di ragioni che non è qui il caso di analizzare (sempre che ciò sia possibile), ma fra le quali credo sia senz’altro da annoverare proprio la specificità dei suoi moduli espressivi, la complessa varietà non solo dei nuclei normativi ma anche delle attività linguistiche che li coinvolgono. Spesso, nell’immaginario – o comunque nel concreto atteggiamento – di docenti e studenti, sembra che a contare veramente sia solo la trama minuta e più o meno organica di disposizioni di cui è intessuta questa o quella branca del diritto (privato, costituzionale, penale, amministrativo, ecc.). Si dimentica, così, che tutto quel mondo non è composto che di parole, e che prima di tutto occorre sapersene servire correttamente, acquisendo consapevolezza teorica e familiarità operativa col complesso di tecniche cui è affidata la redazione e poi la comunicazione di quei contenuti, la loro comprensione e rielaborazione critica, l’applicazione nella vita di ogni giorno. Le parole del diritto non rimangono mai esclusivamente nei libri (e neppure nei codici), per farsi piuttosto canone e sintassi della coesistenza fra persone. È muovendo da questa convinzione, consolidata in quasi vent’anni di insegnamento, che ho cercato di fornire in questo libro una panoramica circa gli “strumenti del mestiere” che quanti si avviano alla formazione giuridica devono imparare a maneggiare: affinché la precisione comunicativa che sarà IX

loro richiesta non li scoraggi o distolga, ma costituisca anzi un’opportunità e una risorsa, anche a fronte del pressappochismo dilagante nella nostra società (e del quale tutti paghiamo il prezzo). Ho privilegiato al massimo, per quanto mi è stato possibile, la semplicità dell’esposizione: a costo di omissioni, scelte talora opinabili nella loro sintesi estrema e accostamenti forse estemporanei, scanditi in un incidere a tratti piuttosto rapsodico. Anche i richiami agli studi specificamente dedicati ai temi che affronto in queste pagine – richiami che si è scelto di condensare, senza discussioni troppo approfondite, in una “Nota bibliografica” conclusiva – hanno unicamente la funzione di un primissimo, sommario orientamento. Avrei potuto, e forse dovuto, dire molto di più: ma questo avrebbe comportato un percorso fin troppo lungo e problematico, il cui senso di fondo rischiava di sfuggire. È probabile, nondimeno, che alcuni colleghi troveranno discutibile più di una delle soluzioni che ho adottato, se non proprio velleitario il disegno che vi è sotteso. E forse giudicheranno anche piuttosto ibrido il risultato finale: non certo un manuale (né tantomeno un saggio) di filosofia, analisi linguistica o teoria generale del diritto – tutti obiettivi per i quali non avrei consolidate competenze, dal momento che professionalmente mi occupo della storia di esperienze giuridiche più o meno remote (di Roma e della Grecia antiche, in primo luogo). Peraltro la lunga frequentazione delle tecniche dei giuristi del passato – delle loro forme di ragionamento ed espressione, ancor prima che degli istituti e delle regole con cui essi si confrontavano (e ai quali non è dato guardare come se fossero ancora vigenti) – ha avuto un peso nella stesura di queste pagine. E spero possa contribuire alla comprensione di certi fenomeni (soprattutto in materia di definizione, astrazione, interpretazione e argomentazione: capitoli III, V, VII e VIII), arricchendo di un qualche respiro storico – nella vivida, imprescindibile concretezza della tradizione posta alle nostre spalle – la ricostruzione teorica. La circostanza che il presente lavoro veda la luce a pochi mesi di distanza dal volume che, con Jean-Louis Ferrary e Aldo Schiavone, abbiamo dedicato a uno dei padri della ragione giuridica dell’Occidente (Quinto Mucio Scevola, vissuto fra II e I secolo a.C., con la cui opera si è aperta la collana degli Scriptores iuris Romani) non è affatto casuale, né dettata solo da contingenze biografiche. I nessi e le interazioni fra l’analisi di quelle lontane pratiche discorsive e la riflessione su come sia tutt’oggi necessario impostarle per il giurista, sono state per me molteplici e decisive, assai più di quanto si potrebbe immaginare. In ogni caso, l’obiettivo di fondo di questo libro era decisamente diverso da quello di un manuale canonico. E chi da anni lavora nel mondo del diritto, a livello di elaborazione scientifica o di attività pratica, dubito che potrà trarne particolare profitto. Altri ne sono i destinatari ideali. Nello scrivere si assume sempre un pubblico virtuale cui rivolgersi: in questo caso esso è X

composto da quanti si stanno affacciando agli studi giuridici, o semplicemente hanno in mente di farlo. Ho cercato perciò di far tesoro non solo degli insegnamenti di quanti per primi mi hanno fatto accostare a questi temi (e qui la mente corre soprattutto a Lelio Lantella, in indimenticabili pomeriggi all’ombra della Mole), ma anche di quanto ho appreso – attraverso le loro domande, come pure le loro difficoltà e le loro stanchezze – dai giovani di Torino, Cuneo e Siena coi quali ho svolto prove e corsi preliminari rispetto ai primi giorni di vera e propria didattica in Giurisprudenza, così come dagli allievi dei numerosi licei dell’Italia centromeridionale in cui ho svolto lezioni di “orientamento”. Nel licenziare il volume, il pensiero e la gratitudine vanno dunque a loro, e in generale a tutti i miei studenti. A quelli intelligenti e motivati, desiderosi di crescere e affinare una mente critica: che ci sono, e che nessuna cervellotica riforma universitaria, nessun malcostume dei tempi, nessuna miopia della politica (anche) accademica potrà mai debellare. Almeno spero. Del resto è solo la loro esistenza a farmi ritenere che ancora, letteralmente, valga la pena fare questo mestiere. Infine, una dedica. So perfettamente che si tratta di un’operazione sempre rischiosa, che spesso non porta fortuna. E sono ben consapevole che anche gli amori vivono e si trasformano, e perciò non di rado muoiono. Alcune dediche, se non rivolte a genitori e figli, sono destinate ad apparirci, nel volgere di pochi anni, fossili imbarazzanti, reperti di quel che non siamo più, di cui si sorride con amarezza. Eppure ci sono sentimenti che nascono e crescono nel segno della necessità, dinanzi ai quali quasi tutto il resto trascolora nella contingenza. Lo sottoscrivo ancora: ed è per questo, Carlotta, che ti offro questo libro.

XI

XII

Capitolo primo

LE PAROLE (CIOÈ LE COSE) DEL DIRITTO

1. Il significato di un titolo, anzi di due In un libro come questo, volto a fornire qualche primo orientamento sul modo in cui si lavora con le parole nel mondo del diritto – si possono “fare cose” con esse, secondo un’espressione calzante, che ritroveremo (§ 4) –, inizieremmo decisamente col piede sbagliato se non facessimo chiarezza sui termini impiegati nel titolo del volume stesso, e poi di questo primo capitolo. Inutile nascondersi: in tutto il nostro tragitto le parole verranno prese maledettamente sul serio. E se talora accadrà di servirsi di formule suggestive (e perciò vaghe) anziché rigorosamente descrittive (e quindi un po’ noiose), non sarà per mera pedanteria che poi si muoverà proprio da quelle formule, per meglio precisarne la portata. “Attrezzi del giurista” è locuzione piuttosto inconsueta, e forse La metafora sorprendente. Evoca immagini di un mestiere manuale: il repertorio degli di strumenti con cui ogni artigiano (od operaio, magari non disinte- “attrezzi” ressato alla lettura, come nel quadro riprodotto nella copertina di questo libro) acquista progressiva familiarità, fino a servirsene con una destrezza che strabilia chi non svolga la medesima professione. In verità tra questi utensili potremmo trovarne alcuni che a Roma, un paio di millenni fa, erano designati con sostantivi destinati a entrare – tramite un trasferimento di significato di tipo metaforico (capitolo VI, § 2) – nel lessico giuridico, e a farlo da autentici protagonisti: è il caso di regula (regola) e norma, che in origine indicavano rispettivamente il righello e la squadra. Ma il punto non è tanto questo. Piuttosto, ho parlato di “attrezzi” soprattutto per due ragioni. In primo luogo, perché fa venire in mente non solo gli strumenti di un mestiere (e nella sua dimensione pragmatica più che meramente speculativa), ma anche l’insieme di competenze necessarie a un loro utilizzo appropriato. In secondo luogo, perché si è in tal modo indotti a pensare, come artefici del loro impiego, soprattutto (seppure, evidentemente, a diversi livelli) ad artigiani e artisti. Troviamo così tre paro1

le (“artefici”, “artigiani”, “artisti”) che condividono il medesimo etimo: la parola latina ars, che significava non propriamente “arte” quanto “attività” nonché (quale calco, sostanzialmente, del greco téchne) “sapere”, inteso come disciplina o branca dello scibile. E appunto del termine ars si servirono due giuristi romani – Celso nel II secolo d.C. e Ulpiano agli inizi del successivo – per coniare una delle più fortunate definizioni di cosa sia il diritto (ius), consistente a loro avviso nell’attività umana in grado di garantire una disciplina congrua e proporzionalmente eguale delle varie situazioni della vita sociale. Artigiani e artisti, dunque. E il diritto come un sapere non solo teorico, ma dalla straordinaria concretezza, che ha i suoi “attrezzi” (la lingua, anzi la sua lingua; le parole; i discorsi) e tecniche rigorose per usarli nelle debite forme. Chi è il Questo aiuta a comprendere anche in quale accezione si intenda, giurista nel presente volume (e sin dal suo titolo), riferirsi al “giurista”. Il significato di questo termine, di per sé, è tutt’altro che immediato. Io studio diritto da un quarto di secolo, da oltre quindici anni sono avvocato e da una dozzina professore ordinario in una delle discipline più risalenti e complesse (il diritto romano e gli altri diritti dell’antichità), eppure non sarei affatto certo di potermi qualificare un giurista. In un certo senso giuristi non lo si è mai (o non si finisce mai di diventare tali) e lo si è sempre – dal momento che ciascun consociato è tenuto, quale che sia la sua professione, a conoscere un gran numero di disposizioni (come si ripete da millenni, l’ignoranza delle legge non scusa, né esime da responsabilità, anche penali), e in qualche misura a interpretarle (ed eventualmente argomentare in modo convincente la lettura adottata: capitoli VII-VIII), determinarne e modellarne la concreta applicazione. Evocando artigiani e artisti anche a questo volevo alludere: ossia alla circostanza che al centro della trattazione non saranno mezzi e metodi di lavoro propri esclusivamente del teorico del diritto (lo studioso e il docente: se vogliamo, l’artista della nostra metafora), ma anche di ogni operatore giuridico – sia pure con le diverse sfumature imposte dai rispettivi ruoli: giudice, notaio, avvocato, funzionario amministrativo, membro di collegi legislativi, consulente e così via. E poi il sottotitolo del libro. Come anticipato nella Premessa, il termine ‘introduzione’ deve essere preso assolutamente alla lettera. L’itinerario proposto è rivolto – per usare una terminologia risalente alle trattazioni elementari delle artes antiche – a coloro qui introducuntur. Coloro cioè che fanno il loro ingresso, da discenti, in un sapere, e necessitano quindi dei primi orientamenti: non solo su cosa apprendere, ma soprattutto su come farlo, e su come servirsi delle cognizioni acquisite. 2

“Pratiche discorsive”, a sua volta, non costituisce solo il richiamo a una felice soluzione espressiva, diffusa in certi filoni della filosofia contemporanea (a partire almeno da Michel Foucault). Evoca soprattutto, ancora una volta, il profilo fattuale e operativo di un insieme di attività che si esplicano essenzialmente nell’architettura e nel controllo di discorsi. Una tecnologia della parola nella quale siamo completamente immersi allorché iniziamo a studiare materie giuridiche, e poi a svolgere una delle professioni a cui conduce quella formazione, o anche solo a interpretare in modo adeguato il nostro ruolo di cittadini (che votano, s’informano sulle regole e ne rispettano i dettami, partecipano del quotidiano sviluppo di un’esperienza giuridica). Nel titolo di questo primo capitolo, è poi rinvenibile, di nuovo, una reminiscenza di Foucault. A “le parole e le cose” egli si riferiva, infatti, nel prospettare una “archeologia delle scienze umane” tematizzata proprio attorno al diverso rapporto che, dal Rinascimento sino al Novecento, è stato via via instaurato fra gli elementi della realtà e i segni grafici e fonici impiegati per designarli – ora per connettervi un ordine, centrato sulla “teoria della rappresentazione”, ora per operarne una sostanziale disarticolazione, che consegna alla storia anche il linguaggio. Nella nostra prospettiva, assai meno ambiziosa, quel binomio è stato riproposto, ma nel segno di una provocatoria identità: le parole, cioè le cose, del diritto. Senza voler arrischiare riflessioni epistemologiche di vasto respiro, si è così inteso, semplicemente, marcare il carattere sostanziale degli elementi discorsivi nell’ambito giuridico. Non meri strumenti linguistici, neutri e inerti, con cui convenzionalmente indicare oggetti (reali o anche teorici) che preesistono al diritto e ai suoi esperti; ma vocaboli dal peso straordinario, tali da consacrare, una volta coniati ed entrati nell’uso, il venire in essere di entità nuove. Queste ultime non sussistono che nella dimensione tecnica di questa specifica funzione sociale che è il diritto. Nel nominarle, mettendone a punto il lessico (tramite astrazioni e invenzioni lessicali oppure slittamenti semantici di termini già esistenti: capitolo V e VI) il giurista – quasi un novello Adamo – possiede quelle realtà, anzi fa di più: le crea. Diversamente dal cultore di scienze naturali (ma anche, almeno in parte, di altre discipline sociali), impegnato su qualcosa di già dato e sulla scoperta delle leggi (fisiche, matematiche, chimiche, demografiche, ecc.) che lo governano, il giurista non registra componenti o relazioni della realtà empirica, ma ne suscita di ulteriori. Nel mondo che mi circonda – che io vedo tocco e ascolto – non trovo il diritto soggettivo, il contratto, il delitto o la proprietà, ma solo beni, persone, singoli atti e concreti rapporti, aspettative o rivendicazioni. Il diritto 3

Il significato di “pratiche discorsive”

Parole e cose nel mondo del diritto

Specificità del linguaggio giuridico

dà vita alla realtà che designa, in una pratica di significazione inconsueta e peculiare, con cui dobbiamo iniziare ad acquisire familiarità. Le sue parole scandiscono e trasformano l’esistenza degli uomini: “attrezzi” che non servono solo a nominare qualcosa, ma a fissare concetti, regole, fattispecie; e dare loro respiro, letteralmente.

2. Il laboratorio del giurista L’immagine del “laboratorio”

Due peculiarità degli studi in Giurisprudenza

La relazione fra parole e cose in campo giuridico riveste quindi un carattere nevralgico e particolarissimo: richiederebbe di essere indagata in profondità, molto più di quanto sia possibile in questa sede. Possiamo solo spingerci un poco oltre, e attingere a un’immagine diversa e non meno suggestiva, risalente a un altro pensatore (non più Foucault ma Marx), e specificamente alla trattazione da lui dedicata – con preminente riguardo alle esperienze arcaiche di comune proprietà fondiaria – alla terra quale autentico “laboratorio” dell’uomo antico: “l’arsenale che fornisce sia il mezzo di lavoro, sia il materiale di lavoro, sia la sede, la base della comunità”. A parte l’ultimo riferimento, attinente alla collocazione spaziale, può ben dirsi lo stesso per le parole rispetto al giurista (e in genere, come precisato, a ogni operatore giuridico): esse costituiscono, allo stesso tempo, la sostanza e gli strumenti su cui e grazie ai quali egli opera, e il luogo ideale in cui il suo impegno si colloca. Pensiamo solo a un aspetto, di per sé banale ma spesso sottovalutato. Chi si iscrive a un corso di laurea in Giurisprudenza si misura con una duplice peculiarità, che differenzia la sua formazione rispetto a quella di quasi tutti i suoi colleghi destinati a studi di altro tipo. In primo luogo egli è chiamato ad affrontare un sapere che, nella sua cifra tecnica, gli è stato pressoché estraneo lungo tutta l’esperienza scolastica precedente (salvo eccezioni limitate e non di rado fuorvianti). Chi all’Università sceglie di dedicarsi a matematica, chimica, fisica, letteratura, storia o filosofia, ha già un’idea abbastanza precisa di ciò a cui va incontro: sa di affrontare materie che, sia pure a un diverso livello, ha praticato per anni. Persino un percorso in medicina, ingegneria, architettura, economia o farmacia prevede una fase iniziale centrata su discipline (matematiche, fisiche o chimiche) non totalmente nuove. Per la matricola di Giurisprudenza le cose stanno diversamente. E questo spiega anche, al di là di certe letture superficiali e demagogiche, il numero elevato di abbandoni, già (e anzi soprattutto) durante il primo anno, nel momento in cui vengono scoperte le carte. Entrare nel mondo del diritto significa addentrarsi in uno scenario inizialmen4

te sconosciuto, intricato e complesso: uno spazio “da grandi”, terribilmente serio, spesso ostico e scoraggiante già nel lessico che gli è proprio e ineludibile (così esoterico, destinato ai soli “iniziati”). Possiamo anche deprecare le ragioni che determinano un simile fenomeno, a cominciare dalla scelta insensata di escludere quasi ogni riferimento alla dimensione giuridica nei programmi liceali di storia e filosofia, o di letteratura latina – comprendiamo ben poco, in effetti, della cultura e dell’identità civile dell’antica Roma senza sapere nulla dei suoi giuristi e del suo ius (parola che indicava appunto il diritto, come qualcosa di distinto dalla legge); o dell’esperienza medievale senza avere contezza della sua natura intimamente giuridica; o del pensiero e della prassi istituzionale sei-settecentesca se vengono appena lambiti i temi del Giusnaturalismo e poi dei movimenti che approdarono alle costituzioni e codificazioni moderne. In teoria possiamo sperare (e adoperarci nel senso) che la situazione venga migliorata e corretta. Ma per il momento – e penso per molto tempo ancora – la realtà è questa, e con essa occorre fare i conti, a cominciare proprio dallo straniamento che coglie il neofita dinanzi al linguaggio rigoroso e severo del diritto. Vi è poi un secondo e ancor più rilevante profilo da tenere presen- Lavorare te, che contribuisce a rendere pressoché unica la condizione di chi si con le parole avvia agli studi in Giurisprudenza. Egli è tenuto, come tutti i suoi colleghi, a formarsi lavorando con le parole (tramite l’ascolto di lezioni e formulazione di domande, lettura di libri e superamento di esami scritti od orali, e così via). Ma, a differenza di (quasi) tutti coloro che sono impegnati in altri corsi di laurea, anche le professioni che lo attendono richiederanno quasi sempre un impegno nel medesimo “laboratorio”, ed esclusivamente in esso. Chi ha terminato gli studi in Giurisprudenza non sarà chiamato, di regola, a curare la trasmissione di un sapere nei confronti di altri (come accade a quanti si dedichino all’insegnamento), bensì ad applicarlo in modo concreto, e con ricadute notevoli nel tessuto sociale. Ma quest’applicazione consisterà quasi sempre nell’allestimento di ulteriori, e diverse, pratiche discorsive. Le nozioni e i metodi appresi non lo condurranno a progettare ponti, sperimentare vaccini, scoprire nuovi composti chimici o eseguire operazioni chirurgiche; ma a lavorare ancora, essenzialmente, con le parole. Scriverà contratti e atti processuali, terrà arringhe e intavolerà trattative, interpreterà documenti, vaglierà argomentazioni e deciderà redigendo sentenze, emanerà o denegherà provvedimenti amministrativi. Solo in pochissimi casi sarà suo compito agire in altro modo, ma sempre preceduto e/o seguito dall’intervento di una parola che prescrive e legittima operazioni materiali. Pensiamo all’ufficiale giudi5

ziario che esegue, anche con l’uso della forza pubblica, il provvedimento di un giudice affinché un appartamento sia rilasciato o un bene pignorato, oppure all’agente di pubblica sicurezza che assicura alla giustizia chi è sospettato di un crimine. Per una nuova Ci formiamo sulle (e con le) parole per poi servirci di esse, e niendidattica te altro (o quasi). Un aspetto che non sempre è tenuto nella dovuta considerazione negli anni della laurea in Giurisprudenza: anni in cui è spesso trascurata la cura espressiva, l’addestramento nella scrittura giuridica, l’educazione a predisporre in modo chiaro ed esaustivo un documento normativo (sia pure nella forma di un regolamento privato di interessi) o ad approntare argomentazioni rigorose e convincenti. Eppure proprio quello è il nostro laboratorio, su cui appunto intendo concentrarmi in queste pagine: oggetto, strumento e scopo della nostra attività, tutto calato in una dimensione altra – non solo descrittiva della realtà empirica – quale è il diritto. Il diritto e, appunto, le sue parole: straordinariamente pesanti, capaci di sgomentare ma anche di dare corpo e vigore a figure del pensiero, tradurle in costruzioni che accompagnano e disciplinano la convivenza umana.

3. La realtà virtuale del diritto Su quest’ultimo punto, già più volte evocato, conviene soffermarsi ancora un poco. Affermare che la dimensione del diritto è, nella sua specificità, qualcosa di diverso e autonomo dal mondo che ci circonda – addirittura un’altra realtà – può in effetti suonare sorprendente, e ingenerare qualche equivoco. Astrazione Potrebbe indurre a pensare, ad esempio, che il giurista agisca entro e concretezza un universo astratto e puramente speculativo, impermeabile alle condel diritto crete esigenze della vita sociale e ai mutevoli condizionamenti dei contesti storici. Nulla di più falso, dal momento che l’esperienza giuridica si compone inscindibilmente di teoria e di prassi; che ogni costruzione del diritto ha una straordinaria presa sull’esistenza quotidiana degli uomini e che essa è sempre il portato di molteplici fattori – interni alla logica di quel sapere, ma anche più latamente culturali, e poi politici, economici, antropologici. Sempre sul crinale, incerto ma fecondissimo, di tecnica e ideologia: termine, quest’ultimo, da intendere come complessiva concezione della realtà, orientata da valori e persuasioni in senso lato politiche, e non in senso deteriore, quale una sua falsa rappresentazione. Anche la neutralità del diritto (persino privato; non parliamo poi di quello penale o costituzionale) si è rivelata niente più che una mitologia, fondata su una precisa e non scontata visuale del fenomeno giuri6

dico e della socialità umana – ossia, in definitiva, su un presupposto a sua volta ideologico. Almeno in Occidente, a partire dalla Roma repubblicana, il diritto si è costituito nei secoli quale una funzione sociale autonoma; si è progressivamente isolato dagli altri sistemi direttivi (quali religione, morale, politica), ma con essi non ha mai cessato di dialogare, rielaborando le istanze che ne provenivano. Inseguire una “purezza” del giuridico, volerlo raffigurare come un asettico spazio di forme tecniche – incontaminato da idee, eventi e rapporti di forza dei rispettivi contesti – si è rivelato insoddisfacente sul piano concettuale e fallimentare nelle implicazioni fattuali che possono scaturirne. Ma cosa significa, allora, parlare del diritto come di una realtà altra, virtuale e distinta da quella fisica che ci circonda? Significa che il giurista è sì un interprete della società in cui vive, e spesso dei più puntuali, ma per leggerne protagonisti e fenomeni attraverso peculiari forme di rappresentazione; selezionarli e decifrarli secondo le chiavi concettuali e linguistiche proprie della sua disciplina, approntate in un lavorio incessante di millenni. Il mondo del diritto brulica di figure e nozioni che non si trovano in natura: astratte, eppure fornite di straordinaria incidenza empirica. Entità prodotte dall’uomo, conferendo loro un nome, e non semplicemente scoperte. Volgiamoci attorno: scorgiamo uomini in carne e ossa, persone che parlano e scrivono, si scambiano denaro, consegnano merci o eseguono lavori, vanno a vivere nell’abitazione in cui prima erano altri, tuttora vivi od ormai defunti. Non vediamo diritti reali, trattative precontrattuali, conclusioni di differenti accordi patrimoniali e conseguenti, vari, rapporti obbligatori che ne sorgono, modalità di estinzione di tali vincoli, trasferimenti di proprietà (o semplici immissioni nel possesso oppure nella sola detenzione) di beni mobili o immobili, successioni ereditarie a causa di morte. Tutto questo vive in un’altra realtà: quella del diritto, in questo caso privato (ma gli esempi potrebbero facilmente moltiplicarsi, e coinvolgere altri settori). È una dimensione di ruoli e atti formali. Non il garage sito in Pordenone Via Foscolo numero 3, di metri quadrati 50, i signori Mario Rossi (quarantacinquenne con barba e occhiali, vestito in modo sportivo, eterosessuale, ateo, divorziato con una figlia, elettore del Partito Democratico, che in data 5 gennaio 2018 trasferisce la proprietà di quel garage perché ha bisogno di denaro onde far fronte ai debiti contratti con l’ex suocero) ed Ernesto Bianchi (cinquantacinquenne senza barba né occhiali, in elegante in completo grigio, omosessuale, calvinista, aderente al Movimento Cinque Stelle, senza figli, che intende garantirsi finalmente un comodo parcheggio per la sua Mercedes); ma un bene immobile e due parti, rispettivamente nella veste di venditore 7

Le entità del diritto

Il diritto come un sapere formale

Categorie del diritto e realtà fisica

Altri esempi, inerenti ai beni

Cose e beni

e in quella di compratore, capaci di agire, che concludono un contratto – il quale richiede in tal caso, per essere valido, la redazione di un documento scritto –, caratterizzato in virtù non delle motivazioni effettive degli specifici contraenti (diversi in ogni concreto affare e che sono in genere giuridicamente irrilevanti, al pari delle loro condizioni personali, appena elencate), ma della sua causa tipica, ossia lo scambio di merce contro prezzo (la finalità sociale ed economica sempre presente, in tutte le innumerevoli compravendite che si danno nella quotidianità). Né dobbiamo pensare – indotti in errore dai margini di incertezza che solleva nel destinatario qualsiasi esempio (capitolo II, § 3) – che si tratti solo di trasporre in un linguaggio tecnico dati empirici (soggetti, beni, volontà, atti, conseguenze) già esistenti e pienamente conformi ai vocaboli giuridici che si limitano a designarli. Anche se forse il caso appena evocato potrebbe lasciarlo immaginare, non si tratta affatto di questo soltanto. Diamo un’occhiata al bene oggetto della compravendita. Un garage – come un’abitazione o un campo – è considerato dal diritto un bene immobile. In effetti, a occhio nudo diremmo che non subisce alcuno spostamento. Ma esso insiste sul nostro pianeta, e sappiamo da secoli che questo gira attorno al sole: sulla terra, pertanto, non vi è propriamente alcuna cosa immobile. Ma il lessico giuridico – e le entità che, una volta nominate, con esso prendono vita, per ricevere una conseguente, specifica disciplina – non risponde ai dettami delle scienze naturali, fisiche o astronomiche. Accadrebbe lo stesso se, ad esempio, oggetto della compravendita fosse stato un cavallo da corsa, trasferito in capo a due acquirenti (per quote eguali, ossia al 50% ciascuno) e questi volessero poi sciogliere la comproprietà. Un giurista direbbe subito che si tratta di un bene indivisibile, e che perciò lo scioglimento dovrà avvenire o tramite una nuova vendita dell’animale, al fine di ripartire fra i condomini alienanti il ricavato (in denaro, esso sì un bene divisibile), oppure attraverso l’assegnazione del cavallo a uno dei due soggetti, gravandolo dell’obbligo di pagarne metà del valore all’altro comproprietario (conguaglio). Ma perché quella bestia deve considerarsi indivisibile? Non può forse essere uccisa e la sua carcassa smembrata in parti eguali? Il punto è che la nozione di indivisibilità propria del diritto non corrisponde affatto a quella della fisica (che ormai quasi non contempla entità del genere: neppure l’atomo, a dispetto della sua etimologia). Sul piano giuridico un bene è non una cosa qualsiasi, ma solo quella che può formare oggetto di diritti – così che nel reale si danno entità che sono cose e non beni (il fulgore di una stella o una lacrima sul mio viso), ma anche beni che non sono cose, almeno in senso fisico, come quelle che da lungo tempo indichiamo come “incorporali”: come un credito o il diritto di passare a piedi sul fondo di un vicino. E 8

indivisibile è il bene non suscettibile di frazionamenti, tali per cui la somma del valore delle parti risulti non inferiore a quello dell’oggetto intero. Un quarto di bue potrà essere ripartito fra due macellai (la cui lavorazione aumenterà anzi il costo complessivo dei pezzi); non il cavallo da corsa di cui si è detto, la cui stima economica – da vivo e inte(g)ro – supera di gran lunga quanto può ottenersi dalle parti sezionate del suo corpo. Alla stregua delle nostre conoscenze naturali (e se fossimo all’oscuro delle precisazioni appena formulate) non dovremmo mai parlare di beni immobili o indivisibili. Né varrebbe argomentare che tali tipologie di res (cose) siano state messe a punto oltre due millenni fa, nel corso dell’esperienza giuridica romana, allorché si credeva fosse il Sole a ruotare attorno alla Terra o esistessero entità naturali (come appunto l’atomo) impossibili da dividere. Il punto non è questo, e non viene imposto (solo o soprattutto) dal tipo di cognizioni scientifiche condivise in un determinato ambiente storico. Che un cavallo da corsa (come molteplici altre cose simili) sia divisibile dal punto di vista fisico, lo sapevano benissimo anche i romani. E neppure ignoravano che, se sottoposto a giornate di ininterrotto galoppo, quell’animale si sarebbe sfiancato e infine morto: eppure lo consideravano (e tuttora lo riteniamo) un bene inconsumabile. Di nuovo la categoria giuridica non ricalca il dato naturalistico. Per il diritto, consumabile è il bene non suscettibile di essere utilizzato più di una volta: come una bibita, un panino, una sigaretta o il denaro (i quali scompaiono una volta bevuta, mangiato, fumata o speso; senza che abbia alcun rilievo l’esistenza di conseguenti residui organici, o di un oggetto acquistato). Inconsumabile è, viceversa, il bene che si presta – tramite un impiego conforme alla sua natura e agli usi correnti – a più di un utilizzo, a prescindere dall’essere (inevitabilmente) logorabile: come un’automobile, una penna o un abito. Possiamo abbandonare la teoria dei beni (e relative classificazioni: capitolo IV, §§ 3 e 4). Non sarà difficile reperire anche altrove le conferme della distinta realtà – artificiale e “innaturale” – del diritto. Immaginiamo che lo stesso cavallo da corsa sia non venduto ma dato, gratuitamente, in prestito: il giurista vi vedrà un contratto di comodato, in forza del quale colui che riceve il bene ha il diritto di impiegarlo secondo l’uso che gli è proprio (nel nostro caso cavalcarlo, non ad esempio adibirlo al traino di pesanti mezzi agricoli), con l’obbligo di restituirlo successivamente. Ma se egli (comodatario) determina in modo cosciente e volontario (dolo) o anche a causa di imprudenza, imperizia o negligenza (colpa) il perimento del cavallo – la sua morte o comunque la sua scomparsa –, come potrà adempiere la propria obbligazione? 9

Beni inconsumabili

Il caso delle finzioni ...

... e quello delle presunzioni

Limiti della logica giuridica

In natura la restituzione non sarà più possibile (nell’ipotesi della scomparsa) oppure del tutto insoddisfacente (qualora vi sia da riconsegnare solo la carcassa dell’animale). Ma evidentemente a meritare tutela sarà chi ha prestato il cavallo (comodante), e non chi l’ha ricevuto (comodatario). L’impossibilità sopravvenuta della prestazione di quest’ultimo non fa venir meno l’obbligazione. E ciò in base a un accorgimento che il diritto predispone al fine di superare, o aggirare, i dettami della realtà fisica e scongiurare l’iniquità che altrimenti avrebbe luogo. Si procederà con una finzione (ancora indicata con un’espressione latina: perpetuatio obligationis), in forza della quale si considererà ancora possibile, ai fini giuridici, l’esecuzione di quanto dovuto, in modo che il comodatario sarà liberato dal suo obbligo solo corrispondendo, al proprietario del cavallo, una somma pari al valore di quest’ultimo. Ma il caso delle finzioni – e oltre a quella appena incontrata il diritto ne conosce molte altre, anche fuori dell’ambito privatistico – non offre l’unico esempio calzante ai nostri fini. Ci imbattiamo talora in “presunzioni”, ossia “conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato” (così leggiamo nell’articolo 2727 del codice civile). È quel che viene ad esempio prescritto riguardo a chi nasca quando sono trascorsi centottanta giorni dalla celebrazione del matrimonio, e che si presume sia stato concepito durante il matrimonio stesso. Il diritto non impone di considerare sussistente qualcosa che, sul piano naturale, non esiste, ma stavolta impone una determinata inferenza (capitolo V, § 2), ossia che da certi elementi reali sia desunta l’esistenza di altri – e senza che neppure, nel caso delle cosiddette presunzioni legali assolute, possa darsi prova in contrario (col che l’esito ultimo non viene a differire troppo da quello ottenuto con le finzioni, che pure rimangono nozioni tecnicamente distinte). Certo talvolta questa sovrapposizione (o sostituzione) rispetto alla realtà naturale può destare qualche perplessità, interpellando il nostro senso etico e rivelando il volto deteriore del tecnicismo giuridico. Ne scaturisce un senso di turbamento, quasi di impotente vertigine. Perché ad esempio un informatissimo giovane di diciassette anni, undici mesi e ventisette giorni, che ha divorato i classici della politologia e conosce perfettamente la costituzione italiana non può votare, e un perfetto imbecille di diciotto anni e un giorno sì? Perché mio padre, reduce da oltre due anni di guerra (prima da partigiano e poi nell’esercito di liberazione), non potette esprimere la sua preferenza al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, in quanto non aveva ancora compiuto ventun anni (l’età allora prevista per la maggiore età), e ne ebbero invece diritto monache di clausura ultrano10

vantenni, e anche molti reduci di Salò? Perché una sentenza passata in giudicato (ossia non più sottoponibile a ulteriori gradi di giudizio) contiene un accertamento dei fatti considerato incontestabile (salvo limitatissime possibilità di revisione), anche laddove la verità processuale si riveli poi divergente da quella effettiva degli avvenimenti oggetto di causa? Il discorso ci porterebbe, evidentemente, troppo lontano. Ma prima di trarne conclusioni affrettate, e vedere nel diritto un mero cavilloso artificio, di per sé inadeguato a soddisfare le più profonde esigenze di giustizia, occorre usare molta cautela. Quello giuridico è un apparato di strumenti squisitamente umani: e perciò, come inevitabile, non sempre perfetti. E tuttavia non è agevole (né è riuscito storicamente soddisfacente) andare al di là del suo carattere formale, capace di cogliere e stilizzare l’empiria delle relazioni umane entro una griglia di figure e fattispecie tipizzate – la cui disciplina dà perciò vita a esiti pienamente prefigurabili (“calcolabili”), secondo una dinamica che possiamo ritenere (con Weber) costitutiva della stessa razionalità occidentale. La creazione di una realtà peculiare e distinta, che non sempre coincide con l’effettività di quella naturale, rimane una delle prestazioni più efficaci e durature della nostra intelligenza civile, il frutto di una lunghissima tradizione, che rimonta (almeno sul versante del diritto privato) all’antica Roma. Ed è una creazione che si realizza – ripetiamolo ancora una volta – tramite l’allestimento di un repertorio lessicale (le parole tecniche del giurista) e di un complesso di tecniche discorsive che ne scandiscono e regolano l’esercizio.

4. Un lessico rigoroso e specialistico Torniamo così al primo impatto di un giovane, fresco di maturità, con gli studi giuridici. Ha scelto quell’indirizzo per convinzione o convenienza – spesso un po’ dell’una e un po’ dell’altra –, e del diritto sa in definitiva assai poco. Qualcosa (della Costituzione italiana) ha appreso a scuola o dai mass media; del codice penale ha fiutato qualche disposizione, magari nel conseguire la patente di guida; del diritto privato – di cui pure, ogni giorno, si fa inconsapevole protagonista: è proprietario di varie cose (cellulare, computer, indumenti), conclude molteplici contratti, ha ricevuto alcuni beni in eredità dallo zio – ignora quasi tutto, salvo quanto può aver ascoltato in famiglia o da amici più grandi. Non parliamo poi del diritto amministrativo o tributario (le tasse le hanno sempre pagate i genitori) o del funzionamento di un processo. 11

Una componente della razionalità occidentale

Frequenta le prime lezioni – mettiamo, di diritto privato e di storia del diritto romano – e si procura i relativi testi: la prima difficoltà di cui si avvede non consiste (come probabilmente aveva immaginato) nell’esigenza di memorizzare una miriade di dati, ma è, ancor prima, di ordine linguistico. Trova difficile seguire molti discorsi, e soprattutto, appena inizia a ripetere coi suoi compagni di corso, stenta a riproporre in modo appropriato quel che ha ascoltato o letto. Vi sono moduli espressivi, locuzioni e massime (magari ancora inspiegabilmente in latino: gli ostici, logori eppure spesso irrinunciabili “brocardi”), o semplicemente vocaboli che gli suonano nuovi. Non ha mai sentito parlare, in quasi vent’anni, di persone giuridiche, capacità d’agire, status personali, fonti di cognizione, effetti traslativi del dominio, contratti reali, negozio giuridico, successione a titolo particolare, anticresi o usucapione. Anche i vocaboli più innocui nascondono insidie. Si accorge presto che ‘ex’ non si usa per indicare qualcosa che non è più (come quando egli si riferisce alla sua “ex fidanzata”) ma ancora nel senso latino, per un moto a luogo figurato (ex articolo 1321 del codice civile); e che “ovvero” non esplica ma disgiunge (non equivale a “ossia” ma a “oppure”). Le tappe Il suo apprendistato passa, innanzi tutto, dall’acquisire faticosa didi una mestichezza con questo lessico, dei cui elementi possono essergli for“iniziazione” niti esempi ma non mostrati correlativi oggettivi. Non sarà mai in grado, in effetti, di vedere, materialmente, cosa sia un’usucapione o una consuetudine, un trasferimento di proprietà o una successione legittima a causa di morte; mentre, se si fosse iscritto a medicina, impazzirebbe nell’imparare i nomi delle ossa umane, ma potrebbe pur sempre averli sotto gli occhi, riprodotti in foto o sul tavolo anatomico. Dovrà apprendere che vi sono termini apparentemente familiari ma impiegati in accezione diversa dall’usuale – lo abbiamo verificato al § 3, per i beni indivisibili o inconsumabili –, talora in conseguenza di slittamenti di significato intervenuti sull’asse della somiglianza o della contiguità, o comunque tramite ridefinzioni in senso specialistico (capitolo VI, §§ 2-3), come può verificare già per il vocabolo ‘fonte’. Ha quasi la sensazione di dover imparare una seconda volta a parlare, e che continuamente gli manchi il termine adeguato: è costretto a tortuose perifrasi, a circonlocuzioni alquanto macchinose e spesso insoddisfacenti per i suoi primi esaminatori. Poi piano piano inizierà a sbloccarsi, a muoversi più spedito in quel labirinto di segni che sono – e non solo designano – cose importanti, di cui lentamente comprenderà l’impatto sulla sua vita di ogni giorno. Nel giro di alcuni mesi (o di qualche anno: ciascuno ha i suoi tempi) non si esprimerà più come prima, o nello stesso modo dei suoi coetanei che si sono iscritti ad altri corsi di laurea: e non solo quando La prima difficoltà negli studi giuridici

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parlerà di argomenti giuridici in senso stretto. Tranquillizzerà l’amico influenzato, il quale si scusa di non poterlo raggiungere a calcetto, assicurandolo che ad impossibilia nemo tenetur (nessuno è tenuto a prestazioni impossibili); troverà infondate le lamentele del padre, costretto a un esborso ulteriore per non aver pagato nei termini una multa, ripetendo (almeno fra sé) che vigilantibus, non dormientibus, iura succurrunt (il diritto viene in soccorso di chi è sveglio, non di chi dorme). La progressiva acquisizione di un linguaggio tecnico sarà accompagnata dal definirsi di un’inedita forma mentis. E avvertirà – con notevole soddisfazione, ma talora anche una punta di sgomento – che sta divenendo qualcosa d’altro, partecipe di un sapere per iniziati, membro della cerchia di quanti condividono le stesse modalità di esprimersi, e anche di ragionare. Tra quanti hanno una formazione giuridica ci si riconosce sempre, in qualunque parte del mondo, e tanto più nell’Europa continentale. Come ha osservato un magistrato e scrittore di successo – tra i più qualificati, dunque, a riflettere (anche in chiave critica) sul peculiare stile del linguaggio che ci interessa – “il gergo dei giuristi è la lingua straniera ... che impariamo sin dall’università per essere ammessi alla corporazione. È una lingua tanto più apprezzata quanto più è capace di escludere i non addetti ai lavori dalla comprensione di quello che avviene nelle aule di giustizia e di quello che si scrive negli atti giudiziari”. Ma oltre al carattere inconsueto – e talora desueto, quasi polveroso – di molti vocaboli, il futuro operatore del diritto dovrà fare esperienza di un altro dato, connesso ma distinto. Il percorso di studi che ha scelto non tollera approssimazioni o vaghezze, improprietà linguistiche o disinvolte sovrapposizioni fra termini che, fino a poco tempo prima, egli stimava tra loro fungibili o almeno equipollenti, e che invece rinviano a realtà ben definite e distinte, inassimilabili le une alle altre. Prima di divenire il suo laboratorio, il complesso discorsivo del diritto gli appare una dannatissima gabbia, che lo imbriglia e disorienta, inibendogli di esprimersi liberamente. E ogni errore è gravido di conseguenze: se – lo hanno avvertito i suoi docenti – un domani continuasse, nella sua professione, ad assumere come sinonimi nullità e inefficacia di un contratto, oppure prescrizione o decadenza di un’azione o di un diritto, rischierebbe di determinare gravi ingiustizie, e cospicui danni patrimoniali per quanti si rivolgessero a lui (per non parlare del campo penale, col pericolo di mandare in galera gli innocenti e in libertà i colpevoli). Già la denominazione del suo corso di laurea si rivela problematica. Per mesi, aveva detto a parenti e amici di voler studiare “Legge”: ora si scopre iscritto a “Giurisprudenza”, chiamato a occuparsi di “di13

La costruzione di uno stile mentale

Il rigore lessicale

Diritto, legge, giurisprudenza

Enunciati giuridici e linguaggio performativo

ritto”. Dovrà presto rendersi conto che quelle tre parole non indicano affatto la stessa cosa, e che la prima – nell’uso che ne aveva fatto sinora – è sostanzialmente un’improprietà, un’espressione volgare (nel senso di atecnica: anche questo è un aggettivo di cui scopre ora un’accezione imprevista). Indica una parte per il tutto (sineddoche): anzi, solo la fonte privilegiata del diritto, e tale esclusivamente nel tragitto più recente di quest’ultimo – diciamo, dall’inizio del XIX secolo in poi. Comprenderà che vi sono stati (un tempo prevalenti) e sussistono tuttora anche altri elementi che concorrono a dar vita a ogni ordinamento giuridico. Si accorgerà anzi che, a essere precisi, questa stessa espressione “ordinamento giuridico” (non diversamente da “esperienza giuridica”) dovrebbe essere impiegata solo in una precisa accezione teorica. Come pure verificherà che alla parola ‘giurisprudenza’ si attribuisce una portata diversa a seconda che si evochi il suo impiego odierno (espressivo del complesso dei giudici e delle loro pronunzie) oppure quello proprio della tradizione – ereditato dalla iuris prudentia dell’antica Roma, ossia dalla sua scienza del diritto – e ancora conservato nella stessa intitolazione del suo percorso di studi. Proprio qui risiede la pesantezza (in ogni senso) del linguaggio giuridico: tanto più rigoroso quanto più produttivo di effetti pratici, insofferente di pressappochismi e “logiche dei dintorni” proprio perché tale da incidere sulla vita e la carne degli uomini. Lo studente di Giurisprudenza imparerà che in un tempo remoto gli enunciati con portata giuridica – ma, all’epoca, anche magica e sacrale – rivestivano una valenza performativa. Erano cioè in grado, per il solo fatto di essere pronunziati (con scrupolosa osservanza delle parole e dei gesti prescritti), di mutare la realtà, facendo sì, ad esempio, che un bene da tuo divenisse mio, uno schiavo fosse liberato, o assunto l’obbligo di far avere un certo bene a qualcuno. Ma verificherà anche che, nonostante i millenni trascorsi, questa peculiare attitudine del linguaggio giuridico non si è completamente dissolta, neppure col trionfo moderno dell’individuo e la celebrazione della sua libera volontà. Non tanto rilevano le locuzioni stereotipate (o “clausole di stile”) che si tramandano nei formulari notarili o processuali. Quello è solo il volto esteriore del fenomeno, perpetuato per mera comodità o inerte conformismo, rassicurante ma non imposto da alcuna odierna disposizione. E neppure il discorso si esaurisce in quelle poche circostanze che vengono talora richiamate come esempi di un persistente uso performativo della parola. Come quando taluno affermi “lo giuro” (col che sorge qualcosa che prima non esisteva: il suo essere sottoposto al giuramento medesimo) oppure, da presidente di un’assemblea, dichiari “la seduta è aperta” – con la conseguenza che solo allora essa ha effettivamente inizio, e ogni dichiarazione dei partecipanti, adesso sol14

tanto possibile oggetto di verbalizzazione, viene ad assumere tutt’altro valore. L’incidenza della parola giuridica sul mondo reale ha un carattere più complesso e profondo, benché oggi forse non altrettanto visibile ed eclatante. Le pratiche discorsive del giurista conservano qualcosa della loro ancestrale magia, anche quando ormai non richiedono più la ripetizione, quasi ossessiva e narcotica, di locuzioni solenni. Qualificare (diciamo meglio, sussumere: capitolo II, §§ 4 e 5) un determinato evento entro questo o quell’altro modello di fatto (fattispecie) previsto e disciplinato dal legislatore può determinare l’assoluzione oppure la condanna di un imputato, e lo stesso stabilire se sussista o meno una lacuna normativa (capitolo IX, § 2), che possa colmarsi solo attraverso l’applicazione analogica di disposizioni rivolte ad altre e simili situazioni – ma dell’analogia non può farsi uso in ambito penale. Coniare, da parte del legislatore, una determinata definizione di contratto, o di responsabilità per fatto illecito, ha immani ricadute su un’infinità di rapporti sociali e interessi economici, accordi e contegni umani. Ed ecco perché chi si affaccia al mondo del diritto dovrà concentrare le proprie energie, prima di tutto, nell’uso corretto del vocabolario tecnico, nel non sovrapporne lemmi e nozioni, per attribuirle alle sole entità che esse designano – e, nel fare ciò, hanno creato: non è anche questa una prima, e fondamentale, prestazione performativa dell’enunciato giuridico? La pulizia espressiva, il rigore della terminologia e dell’argomentazione, la capacità di tenere distinte operazioni e figure diverse (qui la dichiarazione di nullità di un contratto, lì il suo annullamento, altrove la sua risoluzione oppure la sua rescissione; qui la disposizione di un articolo del codice, lì la sua interpretazione da parte dello studioso Pinco Pallino, altrove gli argomenti addotti a sostegno della sua lettura oppure tali da confutarne l’approdo ermeneutico): tutto ciò è esattamente quanto consente di muoversi nel nostro “laboratorio”, imparando a usarne gli utensili in modo adeguato. Il destino del giurista, lo si è detto, è operare tramite tecniche discorsive. Ma non per inseguire eleganze espressive o assecondare aspirazioni meramente speculative o letterarie. Non è questione di comunicare “bene” o “male” lo stesso concetto: quasi sempre il problema non è di forma, ma di sostanza, e un’enunciazione scorretta non fa conseguire alcun concreto risultato, o ne determina uno estremamente (e pericolosamente) diverso. La precisione terminologica non costituisce una mera accortezza estetica, apprezzabile ma estrinseca e ininfluente rispetto alla disciplina che si deve apprendere e alle nozioni che si intende illustrare Piuttosto, essa coinvolge la sostanza di quel sapere, il cui linguaggio non è solo strumentale rispetto a dati precostituiti, ma concorre in modo decisivo all’elaborazione di questi 15

La “magia” del diritto

La precisione espressiva come esigenza sostanziale

ultimi, alla loro messa a punto teorica, al progressivo affinamento e rimodulazione, alla loro corretta applicazione nella prassi. “Fare cose L’operatore giuridico, a qualsiasi livello, è essenzialmente chiamacon parole” to – secondo una felice espressione di Austin – a “fare cose con parole”. Queste ultime sono, appunto, “attrezzi”: ma dalla natura assai peculiare, che ne impone un impiego accorto e sorvegliato. Ed è bene averne contezza fin dai primissimi momenti in cui ci accostiamo al mondo del diritto. Esattamente a tale scopo è indirizzato un libro come questo.

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Capitolo secondo

NEL SEGNO DELLA CONCRETEZZA (MA NON DELLA BANALITÀ)

1. Le tappe di un itinerario, e le ragioni della loro sequenza Si è già detto più volte che l’ideale destinatario di queste pagine è la matricola in Giurisprudenza, o anche chi solo abbia il proposito di divenire tale. È seguendo il suo iniziale disorientamento – provocato dal peculiare statuto comunicativo del diritto – e la successiva acquisizione di una particolare forma mentis che abbiamo chiuso il capitolo precedente. Ed è ancora pensando alle sue difficoltà, ai suoi sforzi e poi alla progressiva crescita delle sue competenze, che iniziamo ora ad addentrarci nel nostro “laboratorio”, cercando di fornire un quadro degli “attrezzi” che possiamo rinvenirvi e qualche indicazione su come usarli. Peraltro, una simile ricognizione viene qui sviluppata secondo una sequenza che richiede alcune spiegazioni. In effetti, l’ordine che seguiremo non è proprio intuitivo, né usuale negli studi (ben pochi, in verità) che hanno complessivamente affrontato gli argomenti toccati in questo libro. Ci occuperemo di semplici parole, coi mutamenti che hanno interessato il loro significato (capitolo VI); di proposizioni (e delle sottese operazioni logiche) che richiedono un soggetto, un verbo copulativo e un predicato (è il caso degli esempi e delle qualificazioni che tratteremo in questo capitolo; ma anche di altre “operazioni copulative”, come definizione, elenco e classificazione: capitoli III e IV). Tratteremo inoltre di attività più elaborate, che da determinate proposizioni consentono di pervenire ad altre (capitolo V), o comunque comportano un impianto discorsivo decisamente meno elementare (così con l’interpretazione e l’argomentazione: capitoli VII e VIII). E proprio questa – da un punto di vista strettamente linguistico, e procedendo dal più semplice al più complesso – sarebbe la successione forse più naturale. Ma non è ad essa che ho ritenuto opportuno attenermi. 17

I destinatari di questo libro ...

... e la sua struttura

Le operazioni copulative

L’astrazione nel diritto, da più punti di vista

L’esame ravvicinato di interpretazione e argomentazione

All’inizio del nostro percorso sono infatti inserite le enunciazioni (e attività logiche) meno impegnative sul piano teorico, quelle che compiamo infinite volte al giorno, ben prima di iscriversi a un corso di laurea in Giurisprudenza: l’esempio e la qualificazione. Forme comunicative semplici, ormai per noi quasi scontate, che si realizzano molto a ridosso delle cose e delle quali ci serviamo per garantire almeno una prima comprensione e un minimo contenuto informativo. Per attrazione, vi ho fatto seguire un’operazione che condivide con esse la medesima struttura (con soggetto, verbo copulativo e predicato), ma desta maggiori difficoltà concettuali e operative: la definizione. Ne sono state poi affrontate altre due, sempre caratterizzate dalla compresenza di quei tre elementi, ma accomunate dalla finalità, trattandosi di strumenti atti a fornire ragguagli circa una pluralità (una classe) di elementi, ossia – in ordine di crescente complessità teorica (e anche perché la seconda non è che una specifica forma del primo) – l’elenco e la classificazione. A questo punto mi è sembrato opportuno inserire una duplice riflessione, dedicata ad alcuni profili di un fenomeno proprio del diritto (e che in esso conosce peculiari declinazioni), quale l’astrazione. Argomento destinato a essere più volte evocato già con l’esame di definizione e classificazione, ma che mi sembrava esigesse una rimeditazione specifica e ulteriore. Ciò indurrà a interrogarci su come quest’astrazione interagisca con l’impianto di fondo di un assetto giuridico – costruito (secondo l’alternativa che proporremo, pur con qualche semplificazione) in forma sistematica oppure casistica – e gli stili di ragionamento, o inferenza, che gli sono propri (capitolo V). Ma porterà anche a riflettere su come quell’esigenza di andare oltre il dato empirico sia soddisfatta già sul piano lessicale. Molti vocaboli giuridici sono infatti caratterizzati da trasferimenti di significato: inizialmente, e fuori di una connotazione specialistica, essi indicavano oggetti o attività concrete, e sono poi passati, per via metaforica o metonimica, a designare qualcosa che esiste esclusivamente nella realtà del diritto (capitolo VI). Solo dopo questa trattazione ho ritenuto di poter inserire un’analisi – pur sommaria, attesa la ricchezza tematica e la varietà delle possibili impostazioni – dedicata a due attività che non sono affatto patrimonio esclusivo del giurista, ma rivestono nel suo lavoro una funzione capillare e decisiva: l’interpretazione e l’argomentazione (capitoli VII e VIII). Queste ultime richiedevano di essere affrontate l’una a ridosso dell’altra anche per mettere in guardia dal pericolo di indebite, reciproche sovrapposizioni. Infine, una carrellata su quelle che – semplificando ancora un po’, e con qualche accostamento forse opinabile – possiamo considerare figure patologiche del discorso (anche) giuri18

dico, e che il futuro giurista deve presto imparare a riconoscere, e distinguere, prima ancora di saperle superare o almeno gestire (capitolo IX). Ovviamente, si tratta solo di una sequenza espositiva, fra le molte Una scelta, possibili. Essa differisce anche da quella a cui, in riferimento alle sole e le sue operazioni copulative, mi sono anch’io (con Lelio Lantella e Mario alternative Deganello) attenuto in altra occasione. Muovemmo, in quella sede, dalla qualificazione (e sussunzione), seguita da definizione, esempio, elenco e classificazione. Una successione che riusciva forse più solida da un punto di vista concettuale – dal momento che in definitiva, come a suo tempo rilevammo, “la qualificazione è la madre di tutte le operazioni” (ossia di quelle che denominammo allora “elementari”) –, ma che mi è apparsa meno felice sul piano comunicativo (anche per il dilatarsi dell’odierna trattazione ad altri argomenti) e meno rispondente all’intento di fondo di questa “introduzione”. Non escludo sia possibile rinvenire un ordine tematico ancora diverso, e magari più felice. La scelta, come in molti casi, presenta inevitabilmente profili di discrezionalità, e forse di arbitrio: ma già renderne esplicite le ragioni è qualcosa di più – voglio sperare – di un semplice gesto di onestà intellettuale. Iniziamo dunque dalle operazioni che, almeno in apparenza, si presentano più semplici, o che comunque si prestano a essere realizzate in una forma più intuitiva, senza richiedere un’impegnativa elaborazione teorica. Il che naturalmente non significa che si tratti di attività banali, o realizzabili in modo approssimativo, né tantomeno che sia possibile affrontarle senza un minimo di riflessione e consapevolezza critica. Quanto abbiamo detto a proposito degli “attrezzi” del giurista, e dell’accortezza nel loro impiego, conserva tutto il suo rigoroso significato, sin da questi primi passi.

2. A ridosso delle cose: fornire esempi Torniamo alla nostra matricola in Giurisprudenza. Dopo la prime Esempi di settimane di lezioni, parlando con un compagno di classe delle scuole esempi medie superiori iscrittosi frattanto a Chimica, potrebbe sentirsi chiedere: “ma cos’è il diritto?”. A questa domanda egli rimarrebbe francamente disorientato – e non vi è ragione di provarne sorpresa o vergogna: lo sarebbero anche quanti lo insegnano da decenni, consapevoli che fornirne una nozione è difficilissimo (così come è rischioso procedere, nel suo ambito, a ogni definizione: capitolo III, § 4). Sarebbe stato assai meno imbarazzante se l’amico avesse domandato: “ma a Giurisprudenza di cosa vi occupate?”. Fresco delle prime ore di 19

didattica, il nostro studente avrebbe potuto rispondere, anche per farsi meglio intendere (convinto, non a torto, di indicare qualcosa di caratteristico, anche se non esclusivo, del percorso di studi che ha intrapreso): “ad esempio del diritto privato”. “E che roba è?”. “È quel settore del diritto che tratta, fra l’altro, delle regole che si devono osservare per concludere un contratto, o in base alle quali si subentra nel patrimonio di chi muore”. Annichilito da una richiesta di definizione, il nostro giovane avrebbe invece trovato il modo di cavarsela, per due volte, qualora si fosse trattato di fornire un esempio – ma naturalmente è bene non si faccia troppe illusioni, perché le cose non sono sempre così semplici: ai primi esami si accorgerà che coi soli esempi non si va poi molto lontano (§ 3). E avrebbe fornito tali esempi conoscendo (e facendo sapere) ancora molto poco di cosa sia il diritto (anche quello privato, al centro della sua risposta), e senza alcuna particolare consapevolezza circa l’operazione logica e linguistica posta in essere. Nulla di strano: è proprio quel che accade nelle innumerevoli occasioni in cui ci esprimiamo giusto “per rendere l’idea”. Siamo di fronte a uno di quegli “attrezzi” sul cui impiego non parrebbe necessario spendere molte parole. Come se, entrando nella bottega di un artigiano, mi trovassi dinanzi un martello: non riterrei di dover ricevere alcun chiarimento circa le sue modalità di impiego, convinto che non serva ad altro che a tirare, appunto, martellate; non certo a estrarre chiodi o avvitare bulloni. Eppure, anche in questo caso, l’intuizione o il senso comune non sono sufficienti, e giova sapere qualcosa in più, anche a causa dei rapporti che l’esempio intrattiene con altre operazioni, oltre che per le insidie che esso stesso nasconde e le esigenze comunicative che solo un suo impiego appropriato consente di soddisfare. Funzione Già dal caso che abbiamo ipotizzato risulta con evidenza come e finalità siano soprattutto due gli elementi caratteristici dell’esempio: la fundell’esempio zione in cui esso consiste e la finalità che mira ad assolvere. La funzione è costituita dallo scegliere qualcosa, attingendo – possiamo dire in prima approssimazione – da un insieme di oggetti, materiali o ideali. Quest’operazione tende a informare su alcuni aspetti, non tanto dell’elemento che è stato menzionato, quanto del complesso cui esso afferisce: far conoscere affinché l’interlocutore possa comprendere, almeno per sommi capi, di cosa si sta parlando (come nella nostra situazione), oppure per dimostrare di aver appreso quale sia il contenuto di un determinato insieme di elementi, per lo più teorici (come accade nel corso di un esame, scolastico o universitario). Lo scopo è comunque quello di veicolare informazioni – più che orientare comportamenti, come invece avviene allorché viene indicato un modello da seguire e imitare (secondo un’altra accezione di esem20

pio, in senso cosiddetto pragmatico): si pensi a locuzioni del tipo “Giovanni, quanto a costanza di studio, è un esempio per tutti i suoi compagni di corso”. La finalità informativa è perseguita tramite l’individuazione di una o più figure che, in quanto appunto esemplari, si presume siano sufficientemente note all’interlocutore o comunque tra le più significative in merito alle peculiarità della classe di cui vuole trasmettersi un’idea (o almeno fare in modo che il destinatario se ne formi una: § 3). La funzione dell’esempio, consistente in una scelta, è svelata già dall’etimologia della parola: dal latino exemplum, composto da ex (che esprime la provenienza) ed emere, che indica “prendere”, ma anche “prendere, scegliendo”, infine “scegliere”: e quindi, unito alla particella, “scegliere (qualcosa) da ...”. Ne consegue anche la definizione che possiamo formulare (con Lantella) in merito all’esempio: esso, fra le varie operazioni copulative (tutte esprimibili in proposizioni dalla struttura già ricordata, con soggetto, verbo copulativo e predicato: in estrema sintesi, “x è y”), si caratterizza per enunciare, della classe x, un singolo elemento oppure una sottoclasse (y). Ecco così che, dopo averne fornito a sua volta alcuni esempi (nel dialogo fra lo studente di Giurisprudenza e quello di Chimica), abbiamo qui una definizione (capitolo III) di cosa sia l’esempio, e anche una prima interessante classificazione (capitolo IV in particolare §§ 3 e 4) – nel senso che l’insieme degli esempi può essere distinto in più sottoinsiemi, a seconda della specie di oggetti che vengono scelti affinché l’ascoltatore, o il lettore, possa farsi un’idea. Nella prima tipologia di esempi indicherò un singolo oggetto afferente alla classe (“un sigaro è quello che sto fumando in questo momento”), nella seconda una sua sottoclasse (“un sigaro è il Toscano extravecchio”). Naturalmente, adottando altri criteri distintivi, potrò scomporre gli esempi anche in modi diversi: ad esempio (è il caso di dirlo), in reali oppure fittizi, come era appunto lo scambio di battute fra i due studenti che abbiamo immaginato. Quanto appena richiamato attorno all’esempio – la sua definizione, alcune possibili classificazioni, gli stessi esempi con cui ne è stato introdotto l’esame – ci dice, più in generale, anche un’altra cosa, di non poco rilievo. Quasi tutte le operazioni copulative che esamineremo (a parte quanto si osserverà in merito alla sussunzione: § 5) si prestano, a loro volta, a essere oggetto di altre operazioni della medesima natura. Possiamo definire l’esempio, classificare gli elenchi, qualificare la definizione, fornire esempi di classificazioni, e così via. Inoltre esse conoscono molteplici impieghi anche nell’ambito delle pratiche discorsive più complesse. In particolare, è dato (e talora è necessario, o almeno opportuno) ricorrere a definizioni in sede di interpretazione o a esempi 21

Etimologia e definizione di esempio

Classificazioni degli esempi

Operazioni sulle operazioni

La modalità canonica dell’esempio, e sue apparenti deroghe

Un’accezione ristretta (e impropria) di esempio

L’esempio e le altre operazioni copulative

nell’allestire un’argomentazione (fermo restando che poi anche interpretazione e argomentazione si prestano a essere qualificate, definite, classificate, ecc.). Insomma, non dobbiamo mai perdere di vista il fatto che – per quanto, inevitabilmente, siano qui affrontati uno per volta – tutti i nostri “attrezzi” interagiscono fra loro e si prestano a impieghi reciproci e spesso fecondi, che giova saper riconoscere e distinguere. Ancora un paio di precisazioni: in primo luogo di ordine linguistico. È stato più volte segnalato come l’esempio consista in un’operazione che si esprime per mezzo di una proposizione in cui, tramite l’uso di un verbo copulativo (come essere, ma anche costituire, rappresentare e così via), si attribuisce a “x” (in questo caso l’esemplificando) il predicato “y” (esemplificante). Ma nello scambio di battute che abbiamo supposto fra i nostri due studenti – e in innumerevoli altre circostanze del parlare quotidiano – in apparenza non rinveniamo quella soluzione espressiva. In realtà non è affatto difficile tradurre i termini di quel dialogo (“ma a Giurisprudenza di cosa vi occupate?”; “ad esempio del diritto privato”) nella forma canonica dell’esempio, appena descritta: “una delle cose di cui ci si occupa a Giurisprudenza / è / il diritto privato”. E lo stesso può dirsi per molte altre enunciazioni esemplificative non rispettose di quella struttura. Del resto nulla prescrive l’osservanza di quest’ultima, che potrebbe anche riuscire pedante e poco efficace sul piano comunicativo: l’importante è che sia comunque ben chiaro che tipo di operazione si sta compiendo. Meno innocuo, anche se assai diffuso, è un altro fenomeno linguistico, che coinvolge l’esempio al pari di tutte le altre operazioni copulative: ossia il trasferimento semantico di carattere metonimico (capitolo VI, § 2) per cui il nome dell’operazione nel suo insieme viene impiegato per designarne solo un elemento (il predicato, o “y”). Così, per quanto ora ci riguarda, nella frase “un sigaro è il Toscano extravecchio” sarà considerato alla stregua di esempio solo “il Toscano extravecchio”. Vedremo come, in altri frangenti (soprattutto con riferimento alla classificazione: capitolo IV, §§ 3 e 4), questa deviazione espressiva possa innescare gravi fraintendimenti sul piano sostanziale. Nel nostro caso il rischio non è altrettanto elevato: ma è bene essere consapevoli del fatto che si tratta pur sempre di un’improprietà, e che l’esempio non è direttamente una cosa (un singolo elemento o una sottoclasse), ma un complesso discorsivo che tramite il richiamo a quella cosa intende veicolare notizie attorno alla sua classe di appartenenza (ossia, in definitiva, informazioni di capienza). Non è poi inutile qualche ulteriore considerazione in merito ai rapporti fra l’esempio e le altre operazioni che si esprimono con proposizioni di analoga struttura (“x è y”): ma stavolta non nel senso, già ricordato, delle reciproche interazioni, con l’una che si presta a essere 22

oggetto dell’altra. Preme ora segnalare un ulteriore aspetto, e cioè come l’esempio, e la funzione da esso assolta, si ponga rispetto a qualificazione, definizione, elenco e classificazione. Nel primo caso abbiamo una relazione speculare: nel senso che l’esempio è l’inverso della qualificazione (almeno nella tipologia ai nostri fini più rilevante, cosiddetta identitaria: § 4), in quanto, se esemplifico, informo circa una classe richiamandone un elemento (“una mela è la Golden”); mentre, se qualifico tramite indicazione del genere identitario, fornisco notizie su un elemento riconducendolo a una classe (“la Golden è una mela”). La distinzione, in apparenza così nitida (e svelata anche dal variare degli articoli determinativi e indeterminativi), si fa assai più incerta in proposizioni come “la Golden è un esempio di mela”: nella forma una qualificazione, ma nella sostanza certamente un esempio. Quanto alla definizione, la sua distanza con l’esempio è netta, e solo in una prospettiva alquanto semplicistica (e di sicuro inaccettabile) si potrebbero configurare sovrapposizioni o contiguità: vedremo fra breve (§ 3) come chi esemplifica produce solo informazioni sommarie e parziali, talora persino fuorvianti; mentre chi definisce è tenuto a tracciare con estrema precisione i confini della nozione su cui sta lavorando (dal che anche le perplessità che suscita il ricorso alla cosiddetta definizione tramite esemplificazione: capitolo III, § 2). Infine, i rapporti con l’elenco e la classificazione riguardano quelli che abbiamo indicato come esempi, rispettivamente, di individualità oppure di sottoclassi. Il primo può essere confrontato con (ma va comunque tenuto ben distinto dal)l’elenco, che consiste nell’enumerazione di tutti (se completo) o comunque di un cospicuo numero di elementi (se parziale). L’elenco non assolverebbe invece la sua funzione, e neppure manterrebbe la sua natura, se limitato a un solo componente – nel qual caso si tratterebbe appunto di un esempio. Ma neppure riuscirebbe soddisfacente se ne contemplasse appena due o tre, omettendone un numero assai più cospicuo (capitolo IV, § 2). L’esempio di sottoclassi intrattiene un’analoga relazione con la classificazione: con l’ulteriore requisito, in tal caso, della completezza che deve connotare quest’ultima (pena, come vedremo, il suo scadere a mero elenco parziale di sottoclassi: capitolo IV, §§ 3 e 4), e che quindi l’allontana ancor più dall’esempio.

3. Vantaggi e limiti dell’esemplificazione Da quanto sinora osservato – e da alcuni tipici contesti di richiesta di informazioni che sono stati prospettati – è già emerso qualcosa 23

Esempio e qualificazione

Esempio e definizione

Esempio, elenco e classificazione

Frequenza ed efficacia dell’esempio

La correttezza dell’esempio: il requisito della verità

Altri requisiti di un “buon esempio”

dell’utilità rivestita dall’esempio. Il suo impiego è estremamente opportuno, se non proprio indispensabile, in molteplici situazioni. In particolare, difficilmente può prescinderne l’esposizione didattica, che in esso trova lo strumento più idoneo per illustrare concetti, fenomeni, teorie o regole (anche se, a essere rigorosi, occorrerebbe forse distinguere fra esempio e, appunto, illustrazione). Anch’io, nelle pagine che precedono, mi sono più volte servito di esempi, e non vi rinunzierò nelle prossime. Ma ne è ricca anche la scrittura propriamente scientifica, così come gran parte delle pratiche discorsive volte a sostenere o confutare una tesi. A essi viene fatto ricorso persino nella stesura dei contratti – tanto che il codice civile, nel disciplinare le modalità di interpretazione di questi ultimi, contempla espressamente l’ipotesi di “indicazioni esemplificative” (articolo 1365). Difficile immaginare, in definitiva, un ambito comunicativo, scritto od orale, che possa fare completamente a meno della nostra operazione. L’efficacia (almeno potenziale) dell’esempio, e la prima ragione della sua diffusa fortuna, consiste proprio nel suo porsi, come rilevato, a ridosso delle cose. Si tratta di un’enunciazione semplice e diretta, non troppo ambiziosa né eccessivamente complessa per chi la compie, e spesso in grado di raggiungere l’altrui comprensione meglio di articolate esposizioni astratte. Chi esemplifica spera, in tal modo, di farsi intendere meglio. Chi legge o ascolta riceve un materiale informativo un po’ grezzo, ma non di rado decisivo, o almeno proficuo. E poi l’esempio non stanca (o stanca meno di altre pratiche discorsive): alleggerisce la teoria e avvicina emittente e destinatario – quasi un loro tramite, immediato e concreto. E tuttavia simili risultati possono essere raggiunti solo se la nostra operazione è eseguita in modo corretto: e non solo sul piano logico. Da quest’ultimo punto di vista è necessario soddisfare soprattutto un’esigenza: che l’esempio sia vero, ossia che veicoli un’informazione di capienza effettivamente fondata. Non sarebbe tale quella che, rispetto a una classe, menzionasse un elemento a essa in realtà estraneo: come se dicessi “un gatto è il mastino napoletano”; “un albero da frutta è la fragola”; “un contratto è il matrimonio”; “un successore a titolo universale è il legatario”. Ma questo non è sufficiente. Perché l’esempio assolva al meglio la propria funzione deve essere anche efficace a livello comunicativo, ossia in grado di fornire notizie significative e meno equivoche possibili. Ovviamente tale requisito è diversamente declinato a seconda dei contesti e dei destinatari: per questo è stato rilevato (da Lantella) che “l’esemplificazione deve essere adeguata rispetto allo scopo che si prefigge”. Un esempio eccessivamente difficile, o che a sua volta ri24

chieda troppe spiegazioni, è decisamente infelice in ambito didattico e divulgativo in genere (nella sostanza, amplifica anziché attenuare le difficoltà di comprensione). Per far capire cosa sia un diritto reale menzionerò la proprietà; non la servitù di non sopraelevare (che la matricola in Giurisprudenza ignora cosa sia) o l’onere reale (che, per di più, dovrei distinguere dalla contigua figura della cosiddetta obbligazione propter rem). Per illustrare cosa sia un contratto richiamerò la compravendita, non l’anticresi (al che qualcuno si chiederebbe persino se si tratti di un vocabolo della lingua italiana). Qualcosa di analogo, sia pure per ragioni lievemente diverse, vale anche per chi, come accade in sede di esame, sia chiamato a fornire un esempio per dimostrare di avere una conoscenza puntuale e non solo nominalistica circa una classe (per lo più di oggetti teorici). Ricorrere all’elemento più significativo (e/o meno controverso), stavolta, non tanto aiuta il destinatario a capire, ma piuttosto testimonia una padronanza non solo del (parziale) contenuto di quell’insieme ma anche della maggiore o minore rilevanza dei suoi componenti, senza destare il sospetto di gravi carenze. Un sospetto che inevitabilmente sorgerebbe in chi, avendo richiesto un esempio di diritto reale, si sentisse rispondere “l’uso” oppure “l’enfiteusi”, e perciò dall’omessa menzione della proprietà fosse indotto a dubitare che la natura giuridica di questa sia davvero ben presente all’esaminato. La situazione appena evocata – e che si avvia a divenire familiare al nostro ideale lettore – suggerisce qualche ulteriore chiarimento in merito all’esempio. Esso, pur con tutta la sua semplicità e gli indubbi vantaggi, nasconde più di un’insidia, e si presta a usi distorti e sconsigliabili: si offre come un troppo comodo escamotage e si può rivelare (in un duplice senso, come vedremo fra un attimo) un mero “bluff”, non difficile da scoprire. Pensiamo ancora a un contesto didattico, in due diversi momenti. Poniamo che il docente ricorra a esempi per far meglio comprendere cosa sia un contratto a effetti reali – che produce, cioè, trasferimento di proprietà del bene oggetto dell’affare oppure la costituzione o estinzione di altro diritto reale (ossia un diritto su cose, in questo caso altrui: come accade con usufrutto, uso, abitazione, servitù prediale, ipoteca, enfiteusi, ecc.). Menzionerà così, in particolare, la compravendita, forse anche altri atti tra vivi (ossia diversi dalle disposizioni testamentarie) con cui è possibile costituire un diritto di usufrutto. Ma l’esemplificazione raggiungerà il suo scopo unicamente a determinate condizioni: non solo le figure coinvolte dovranno essere note, almeno nelle linee essenziali, all’uditorio (e nel caso dell’usufrutto, qualora non affrontato in precedenti lezioni, la cosa è almeno dubbia), ma la nozione di cui si intende chiarire il contenuto – la classe dei contratti 25

Insidie e limiti dell’esempio

Esempi di un docente

L’esempio nel percorso didattico ottimale

I rischi di fraintendimenti

a effetti reali – dovrà essere già stata sottoposta ad altre e più impegnative operazioni. Per prima cosa, infatti, il docente avrebbe dovuto fornire una definizione, almeno di massima, di questa tipologia di contratti (ricordando a sua volta in cosa consistano questi ultimi), e chiarire come essa – in quanto appunto species del genus composto da tutti i contratti – sia da distinguere da quelli che hanno esclusivamente effetti obbligatori (ossia determinano solo la nascita di un rapporto di debito-credito, senza conseguenze a livello di diritti sulle cose). Limitarsi, per far comprendere natura e contenuto della nostra figura – e senza porre in campo qualificazioni identitarie, definizioni né classificazioni –, a dire “un contratto a effetti reali è la compravendita” costituisce solo una comoda ma illusoria scorciatoia. Fa risparmiare fatica (a chi spiega) ma non garantisce affatto un’immediata e precisa comprensione (a chi ascolta). Tale esempio – come, in realtà, molti di quelli che abitualmente si propongono – richiederebbe fra l’altro di essere ulteriormente precisato, in quanto non tutti i contratti di compravendita determinano quel tipo di effetti. Questo non accade, in particolare, quando ne siano oggetto beni altrui o beni futuri: nel qual caso sorge solo l’obbligo, a carico del venditore, di operarne la successiva trasmissione, dopo che egli stesso li ha acquistati o sono venuti in essere. Ma anche al di là di questo dato – pur non trascurabile, poiché potremmo persino dubitare, se valutato nel suo complesso, della verità di quell’esempio –, il problema è un altro. La portata informativa dell’esemplificazione è, infatti, quasi sempre piuttosto povera, e pericolosamente ambigua. Chi la formula delega al destinatario gran parte della decifrazione di quel dato, lasciandogli integralmente l’onere di trarre dall’individualità menzionata quanto occorre per farsi un’idea della classe da cui essa proviene. Gli ascoltatori del nostro insegnante potranno così, in modo più o meno legittimo, desumere da quel nudo esempio conclusioni diverse, e tutte parimenti errate: che ogni compravendita abbia effetti reali (cosa che abbiamo appena verificato non essere sempre vera); che da essa scaturiscano tali effetti su entrambi i versanti (ossia anche sul lato del compratore, come se a suo carico non sorgesse l’obbligazione di pagare il prezzo, ma la proprietà del suo denaro si trasferisse automaticamente al venditore, il che ovviamente non accade); che la produzione di effetti reali consista sempre in un passaggio di proprietà (che è appunto quanto usualmente determinato, riguardo alla merce, dalla compravendita; ma che non è vero laddove il contratto miri a costituire o estinguere altro diritto reale); che – invertendo il senso di quell’enunciazione, per cogliervi una qualificazione identitaria (§ 4) anziché un esempio – la compravendita sia un contratto a effetti reali, 26

ma accanto a essa non ne esistano altri. In definitiva, per chi si serve dell’esempio allo scopo di far capire ad altri, esso non solleva affatto da una strategia espositiva più composita e gravosa. Funziona, e anche bene, se la completa e arricchisce; non se la sostituisce. Passiamo a un secondo momento: quello dell’esame. Anche in questo caso la nostra operazione può prestarsi a un uso improprio e nascondere insidie – altre a quelle, già menzionate, di essere eseguita in modo scorretto sul piano logico (mancanza di verità) o inefficace e inadeguato su quello comunicativo. L’esaminato ricorre non di rado all’esempio non perché gli sia stato domandato quel tipo di informazione, ma perché non è in grado di fronteggiare in modo adeguato la richiesta di altre e differenti operazioni. Già l’incongruità fra interrogativo e risposta è di per sé inaccettabile. Non si tratta, ancora una volta, di dire “bene” o “male” le stesse cose (che tanto, in definitiva, l’esaminatore già conosce!), ma di fornire una prestazione diversa, e non richiesta. Come se al chirurgo che chiede un bisturi si porgesse una garza; o se il fornaio a cui si è domandato un filone di pane ci consegnasse una torta. Rivelatrice, e non in positivo, è anche la forma di sostituzione compiuta dall’esaminato. Egli non fornisce un elenco, o una definizione o classificazione, in luogo dell’esempio, ma esattamente l’inverso. Non va dal più semplice al più complesso, ma s’illude che l’informazione più povera e rudimentale possa essere accettata in luogo di quella più ricca e circostanziata. Anziché fornire un elenco (anche parziale) dei contratti tipici – ossia menzionati e disciplinati dall’ordinamento giuridico –, si limita a rispondere “un contratto, ad esempio, è la locazione conduzione”. Quell’inciso (“ad esempio”) non solo è logicamente pleonastico – se pure non vi fosse saremmo comunque di fronte a nient’altro che un esempio –, ma rivela anche quello che Lantella indica appunto come “il bluff del ‘per esempio’”. Un simile modo di esprimersi, in effetti, è volto a destare la sensazione che l’esaminato voglia, per brevità, richiamare solo un elemento fra i molteplici che ha in mente, e che non stenterebbe a enumerare. In realtà egli vuole esclusivamente coprire un vuoto di cognizioni e/o di comprensione. Assieme alla locazione conduzione non è stato capace di ricordare altri contratti tipici, o magari – il che è forse persino peggio – ha pensato a comodato e mutuo, ma non si è deciso a menzionarli perché non era affatto certo che si trattasse davvero di contratti tipici (o perché ignorava che ricevono una puntuale regolamentazione nel codice civile, o perché ha frainteso la stessa nozione di tipicità contrattuale). Ha preferito, pertanto, tacere, limitandosi all’unica figura di cui era sicuro, traducendo la richiesta di un elenco nella produzione di un esempio. Ma il bluff era davvero facile da sco27

Esempi di uno studente

Un espediente maldestro, e significativo

“il bluff del ‘per esempio’”

prire. Sarà sufficiente una richiesta di integrazione – “e poi? Solo la locazione conduzione?!” – perché sia costretto a calare le carte, rivelando il vuoto che ha in mano (e in testa). L’esempio Tuttavia il bluff dell’esemplificazione non consiste solo in questo come stratagemma, invero alquanto ingenuo e maldestro. Fronteggiare scappatoia un’esigenza di definizione (o anche solo di qualificazione identitaria) oppure di classificazione (o almeno di elenco parziale, ma senza gravi carenze) offrendo esclusivamente un esempio rivela un’attitudine mentale decisamente poco consona agli studi giuridici. Indica che non si è affatto compreso proprio ciò su cui abbiamo finora insistito: il rigore delle pratiche discorsive e il peso delle parole nel mondo del diritto. Rifugiandosi nell’esempio, l’esaminato lascia intendere che, pur di dire qualcosa (e confidando forse di non venire ascoltato con attenzione), una proposizione, e l’operazione che vi è sottesa, può essere considerata fungibile con un’altra. Si rivolge all’esempio perché gli appare la soluzione più abbordabile: non lo costringe a enunciazioni impegnative, con alto tasso di fallibilità, e consente comunque che l’esaminatore di buona volontà un’idea possa farsela da solo, riempiendo di inferenze e teoria la bruta indicazione di quell’individualità. Stavolta non si rischia di innescare equivoci, ma si lascia comunque che la maggior parte dell’iter logico sia percorsa dal solo destinatario. In realtà il nostro sprovveduto studente dimostra solo di non saper padroneggiare la materia. Anche qualora l’esempio fosse vero (“una fonte di produzione del diritto è la legge”; “un diritto reale è la proprietà”), egli è ben lontano dal fornire una nozione sufficientemente puntuale della figura – fonte di produzione del diritto o diritto reale – di cui avrebbe dovuto formulare una definizione. Alla fatidica domanda “cos’è x?” (un autentico luogo comune, secondo l’accezione classica: ossia un passaggio obbligato per affrontare le figure di qualsiasi sapere) egli si sottrae totalmente, rimanendo ancorato a un dato singolo ed empirico, del quale afferma soltanto che è collocabile dentro x. Come nell’ipotesi precedente, in cui la scorciatoia era del docente a lezione, il ricorso al solo esempio si rivela fallimentare: esso avrebbe potuto arricchire la definizione richiesta (integrata magari da qualche opportuna distinzione rispetto a concetti limitrofi: quello di fonte di cognizione del diritto o di diritto di credito), ma non può essere sbrigativamente sostituito ad essa. E alla fin fine, in entrambe le situazioni, a pagare il prezzo più alto sarà il discente: uscirà dalla lezione avendo capito ben poco, e dall’esame con una valutazione insoddisfacente.

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4. Un’attività frequentissima: la qualificazione Se, pur con tutti i suoi limiti, l’esempio viene utilizzato in molteplici contesti discorsivi, ancor più diffusa si rivela un’altra operazione: la qualificazione. Anche senza avere precisa contezza di cosa essa sia, ne facciamo uso in un’infinità di occasioni. Non trascorre giornata in cui ciascuno di noi non qualifichi mille persone, oggetti, fatti. Un fastidiosissimo “driiiin” vi sottrae al dolce sonno e pensate (nella migliore delle ipotesi) “la sveglia è proprio una rottura”. Vi siete appena fatti il caffè (commentando delusi: “questa marca è una schifezza”) e già arriva la prima telefonata, del collega Giusto Silente, mattiniero e logorroico, a cui non rispondete, giustificando a voi stessi l’omissione: “Giusto Silente è troppo uno scocciatore”. In pochi minuti avete già attribuito tre qualifiche – nel nostro caso, tutte negative: nell’impiego che ci interessa, del resto, “qualità” e “qualificare” non assumono un’accezione necessariamente positiva, come accade invece in altre loro ricorrenze (“è un abito di qualità”; “quello scrittore ha delle qualità”). Esprimibile in (o comunque riconducibile a) una proposizione dalla struttura ormai nota – “x è y” –, la qualificazione consiste dunque in un’operazione che enuncia di “x” (qualificando) una o più caratteristiche, ma senza giungere a un complesso tale di qualità (“caratteristiche identificanti”) da fornirne una definizione. Si distingue dunque nettamente da quest’ultima – di cui piuttosto, come vedremo fra breve, può in certi casi fornire il primo segmento, necessario ma non sufficiente –, così come l’abbiamo vista differire dall’esempio (rispetto al quale produce una comunicazione di segno inverso: § 2). Al pari (se non più) dello stesso esempio, la qualificazione si compie a ridosso delle cose, enunciando qualche elemento o aspetto che è proprio di ciascuna di esse. Non ambisce a distinguerle da altro (oltre a Giusto Silente, di scocciatori ne esistono centinaia!) e non vuole coglierne l’essenza. L’informazione che viene in tal modo trasmessa è generalmente piuttosto scarna e generica, ma in determinati contesti può bastare, e rivelarsi anche molto utile (o addirittura indispensabile). Come vedremo (§ 5), quello del diritto è, soprattutto in certe situazioni, proprio uno di questi ambiti. Ma perché la qualificazione possa assumere, nelle sue pratiche discorsive, un ruolo significativo, occorre che la qualità predicata (“y”) sia non solo vera ma anche tale da veicolare notizie di qualche interesse. Questo vale, in realtà, per il diritto non più che per ogni altro sapere. È anzi indubbio, e a suo modo rilevante, che a una richiesta di qualificazione si possano ottenere – a seconda della formazione e dell’orizzonte professionale di chi vi si impegna – risposte diverse, ciascuna provvista di senso nella rispettiva visuale. 29

Esempi di qualificazione

Definizione di qualificazione

Requisiti della qualificazione ...

Dinanzi a un pallone da calcio, il cultore di geometria dirà che è una sfera; quello di fisica un grave; quello di diritto un bene mobile; quello di economia un oggetto presente sul mercato (e forse ne elencherà alcune caratteristiche merceologiche); l’esperto di cose sportive un tipo di pallone impiegato a livello professionistico a partire dai primi anni duemila. Nessuno di loro ha fornito una qualificazione erronea – ossia non vera: come se il primo avesse risposto che è un cubo o il terzo un bene immobile, magari perché in quel momento sta ferma. Eppure sono tutte diverse, ciascuna consona a una differente prospettiva disciplinare. E un’analoga variazione può verificarsi anche guardando al destinatario e alla sua capacità di comprensione. Mi esprimerò in termini ben diversi se intendo qualificare il Parlamento della Repubblica italiana in una spiegazione rivolta a mia figlia di sei anni, in una lezione destinata agli allievi di una scuola media inferiore oppure a studenti di Giurisprudenza, o ancora in una conversazione con un giurista danese. Questo ci informa di una prima peculiarità della qualificazione, che la distingue ancora dalla definizione (ma anche dall’elenco, almeno se completo): la pluralità di possibili qualificazioni concorrenti – tutte parimenti valide sul piano logico – rispetto a uno stesso oggetto, materiale o teorico. Se devo invece indicare i nomi dei tre gatti della mia compagna, uno solo è l’elenco possibile (di cui potrà mutarsi esclusivamente la sequenza); ove poi debba definire cos’è il gatto potrò usare formulazioni diverse (e anche tipologie definitorie non coincidenti), ma tutte egualmente volte a stabilire l’essenza del gatto o, secondo altra prospettiva (capitolo III, § 2), a tracciare con esattezza i confini di quella nozione, in modo che nessun gatto ne sia estromesso e nessun animale che non sia un gatto vi venga incluso. Nel qualificare, invece, le caratteristiche che legittimamente (almeno sul piano logico) possono venire segnalate sono in genere talmente numerose che l’attività più delicata consiste proprio nella loro selezione. Potendone indicare anche più di una – si parla in tal caso di qualificazioni “composte” –, ma comunque non tutte, dovrò limitarmi a quella (o quelle) in grado di veicolare informazioni di un certo spessore, congrue e attinenti al contesto. Ancora sui Pertanto, la mancanza di verità si presenta come il peggior difetto requisiti della di una qualificazione, in qualunque ambito. E tanto più in uno rigoroqualificazione so come quello giuridico, ove riescono particolarmente inaccettabili certi “errori categoriali” – ispirati forse a slittamenti del linguaggio comune, e all’eccessiva disinvoltura che li innesca –, rilevabili quando, ad esempio, un atto venga qualificato nei termini di un rapporto, o un fenomeno con riferimento al soggetto che ne è coinvolto (è quanto ... e suo carattere relativo

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accade laddove si parli del contratto come di “una relazione fra ...” o della successione ereditaria come di “colui che ...”). Ma non è sufficiente, per fornire una buona qualificazione, guardarsi da queste più gravi imperfezioni. Occorre che essa sia pertinente e feconda, in grado cioè di illustrare le caratteristiche di un oggetto maggiormente significative nei diversi campi discorsivi. Per comprendere come ciò debba essere realizzato, possiamo tornare all’esempio del pallone da calcio, ma richiamando un’altra classificazione a cui possono essere sottoposte le qualificazioni – oltre a quella, cui si è parzialmente accennato, fra “composte” e “semplici”, tramite le quali viene designata una sola caratteristica. Dal punto di vista di questa bipartizione, le risposte dei diversi specialisti non erano omogenee: “questo pallone da calcio è una sfera” costituisce una qualificazione semplice; “questo pallone da calcio è un bene mobile” una qualificazione composta, la quale ci dice non solo che si tratta di una cosa idonea a essere oggetto di diritti (un bene, appunto), ma anche che ha un’ulteriore qualità (quella di essere, fra le varie tipologie di beni, un bene mobile). Da un’altra prospettiva – ossia, appunto, guardando a una diversa classificazione – tutte quelle enunciazioni avevano invece un tratto comune, testimoniato da un elemento grammaticale (così come accade in molte altre circostanze, anche se possono esservi eccezioni). I diversi soggetti interpellati hanno infatti affidato l’operazione qualificatoria a un sostantivo, preceduto da un articolo indeterminativo: “una sfera”, “un grave”, “un bene mobile”, “un oggetto presente sul mercato ...”, “un tipo di pallone ...”. Abbiamo già incontrato l’uso di quel tipo di articolo nel distinguere esempio e qualificazione: sostanzialmente, nel caso del primo lo troviamo nell’esemplificando (“un albero è il pino”), con la seconda nel qualificante (“il pino è un albero”). Quello che adesso più rileva è però il ricorso al sostantivo. Nessuno dei nostri soggetti ha pensato di predicare altre qualità di quel pallone da calcio, esprimibili con aggettivi (“è vecchio”, “è costoso”, “è pesante”). Quelle da loro compiute sono tutte qualificazioni che denominiamo “identitarie”, contrapposte a quelle meramente “attributive”. Nella prima ipotesi – che ricorre appunto in tutti i nostri esempi – la caratteristica indicata è costituita dal (o comunque rinvia al) genere identitario proprio del qualificando, ossia alla classe di cui esso è elemento (o species, nel caso di qualificazioni di classi: § 5). La qualificazione, in tal modo, produce e veicola un’informazione di afferenza (di “x” a “y”, cioè del qualificando al qualificante: l’inverso dell’informazione di capienza trasmessa dall’esempio). E lo fa in modo ben più esplicito e trasparente di quanto non accadrebbe con una qualificazione attributiva, benché anche quest’ultima possa 31

Classificazioni delle qualificazioni: composte e semplici ...

... attributive e identitarie

Qualificazione identitaria e definizione “per genere e differenza”

Esempio con oggetto comune

Esempio con oggetto giuridico

Carattere relativo del genere identitario

essere tradotta in termini tali da raggiungere lo stesso risultato – così, rimanendo al nostro esempio, dovremmo modificarere i precedenti enunciati e cogliervi l’affermazione che quel pallone da calcio è incluso nella classe delle cose vecchie, costose o pesanti. Detto in altri termini, la qualificazione identitaria (ed essa soltanto) si connota quale primo segmento di una possibile definizione “per genere e differenza”. Se questa, come vedremo (capitolo III, § 3), è scandita in due momenti – tramite l’enunciazione, dapprima, della classe di cui fa parte ciò che deve definirsi (definiendum), e quindi delle caratteristiche distintive di esso rispetto agli altri elementi del medesimo genere –, la qualificazione identitaria coincide appunto col suo tratto iniziale. Così, se dico che lo sgabello è un sedile, ne enuncio la classe di appartenenza (realizzo una qualificazione identitaria): ma da ciò posso muovere per distinguere il medesimo sgabello da altri oggetti, ossia (solo) da quelli che afferiscono al genere identitario dei sedili. Precisando che è (un sedile) monoposto escluderò panchine e divani; ricordando poi che è privo di schienale e braccioli lo distinguerò anche da sedie e poltrone: in tal modo ne avrò appunto prodotto una definizione. Non diversamente, se affermo che il contratto è un accordo, lo qualifico tramite l’inerenza a quel genere di incontri di volontà. Se poi intendo definirlo, mi sarà sufficiente distinguerlo dai restanti accordi (e non più da qualsiasi altra entità del diritto): e potrò farlo – sulle orme dell’articolo 1321 del codice civile – specificando che tale accordo è finalizzato a costituire, regolare o estinguere fra le parti un rapporto giuridico patrimoniale. In tal modo usciranno di scena gli accordi privi di natura e conseguenze giuridiche, come la comune decisione di due amici di fare una passeggiata assieme; ma anche quelli produttivi di effetti giuridici, ma di carattere (direttamente) personale anziché patrimoniale: come il matrimonio, da cui sorge la relazione di coniugio. Quanto appena rilevato riguardo alla qualificazione identitaria (e al suo rapporto con la definizione) induce a qualche ulteriore riflessione. Torniamo ancora al nostro esempio del pallone da calcio. Se quelle fornite dai vari esperti sono tutte qualificazioni del tipo appena richiamato (“identitarie”, appunto), significa che ciascuno di essi ha indicato il genere cui afferisce quell’oggetto, ma menzionandone di volta in volta uno diverso. La cosa, in apparenza, potrebbe suonare strana. Mentre non ci stupiamo dinanzi a differenti attribuzioni di una qualità qualsiasi (essere vecchio, costoso o pesante), potremmo farlo di fronte a enunciati che predicano del medesimo qualificando l’af32

ferenza a una pluralità di classi, e così eterogenee. Ma in realtà nulla impone – a livello di correttezza logica e comunicativa – che uno solo sia il genere identitario di ciascun oggetto. È anzi vero il contrario, e che cioè ogni entità, fisica o ideale, si presta a essere ricondotta entro una vasta gamma di classi. Il punto è, ancora una volta, di selezionare con accortezza quella più consona al contesto e più capace di trasmettere informazioni interessanti ed efficaci in una determinata prospettiva. Se a un esame chiedo cosa sia il contratto (sperando in una definizione, ma accontentandomi poi di una qualificazione identitaria, purché ricca e pertinente), non mi attendo che mi venga risposto “un sostantivo” – il che sarebbe corretto nel campo dell’analisi grammaticale – e neppure “un fenomeno della vita di relazione” (del che potrebbe forse accontentarsi un sociologo). Non potrei dire che sono qualificazioni false, ma rimangono ai miei fini del tutto inconferenti. Eppure, nella medesima situazione, non sarei soddisfatto neppure se l’esaminato affermasse che il contratto è un “fatto giuridico” oppure un “atto giuridico”. Saremmo stavolta, innegabilmente, all’interno dell’orizzonte del diritto; ma il genere identitario risulterebbe sin troppo ampio, ed eccessivamente vaga la qualificazione che ad esso faccia appello. In effetti, secondo l’accezione usualmente attribuita a quei due sintagmi, il fatto giuridico è costituito da qualsiasi accadimento che abbia rilievo e implicazioni per il diritto; mentre l’atto giuridico (che del primo rappresenta una sottoclasse) è unicamente quello posto in essere da un uomo, con volontà o meno di esso e delle sue conseguenze: così l’implosione di una stella in una remota galassia non interessa il diritto (è perciò un fatto, ma non un fatto giuridico); il trascorrere del tempo è (solo) un fatto giuridico; la redazione di un testamento o un omicidio, anche involontario, sono (non solo fatti giuridici, ma anche) atti giuridici. Dunque, una qualificazione identitaria del contratto che richiami una di queste due nozioni riesce insoddisfacente perché evoca un genere identitario di per sé non errato né incongruo rispetto al contesto, ma alquanto (e intollerabilmente) remoto. Se ne ha la conferma tornando a guardare alla nostra operazione nella logica del raffronto poc’anzi evocato, ossia assumendola quale primo momento di una definizione per genere e differenza. Laddove avevo predicato (opportunamente) l’afferenza del contratto alla classe degli accordi, abbiamo visto che era poi relativamente agevole distinguerlo dagli altri elementi del medesimo genere: adesso la cosa diverrebbe invece complicatissima, dovendomi assumere l’onere di elencare tutte le caratteristiche in forza delle quali il contratto differisce da ogni altro fatto o atto giuridico. Un onere davvero gravoso, e quasi impossibile da assolvere, se solo pensiamo alla sterminata conge33

Pertinenza e prossimità del genere identitario

L’esempio del contratto

rie di figure che trovano spazio nell’una categoria o nell’altra: come, nel primo caso, il deperimento di un bene, l’accoppiamento di due animali, il cedimento strutturale di un edificio, la maturazione di un frutto, il danneggiamento causato dalla caduta incidentale di un oggetto; nel secondo, l’adempimento di un’obbligazione, la gestione di un affare altrui, il conferimento di una procura, l’emanazione di un provvedimento amministrativo, il compimento di un illecito. Due consigli In definitiva, per cercare di racchiudere in una formula quanto sioperativi nora rilevato ed esprimere qualche raccomandazione a chi intenda operare una qualificazione, in primo luogo direi che è quasi sempre consigliabile – a meno che le circostanze non impongano soluzioni diverse (§ 5) – eseguirla nella tipologia da ultimo illustrata (quella identitaria). In secondo luogo suggerirei di prestare la massima attenzione nell’individuare un genere non solo identitario corretto e pertinente, ma anche più vicino possibile rispetto al qualificando: ossia comprensivo, oltre che di quest’ultimo, del minor numero di altri elementi o sottoclassi. Chi riesca ad attenersi a questi suggerimenti, e tradurli nella pratica della sua attività qualificatoria, sarà in grado di produrre informazioni veritiere e proficue – pensiamo ancora alla spiegazione di un docente, impegnato a governare e trasmettere un bagaglio di nozioni –, e anche a restituire quanto appreso (in sede di esame) in modo ordinato e calzante, tale da destare la sensazione di sapersi destreggiare nella specifica trama di classi e sottoclassi in cui si articola ogni ramo del sapere: percorrendo quella trama in senso ascendente, laddove l’esempio induceva a farlo in senso discendente. Ancora a ridosso delle cose, ma rischiarate dalla prima luce che viene dalla teoria e che consente di muoversi nel proprio settore di esperienza.

5. Qualificare (e sussumere) in campo giuridico

La qualificazione nell’ambito del diritto

Il discorso fin qui condotto, e la maggior parte degli esempi formulati, non attengono esclusivamente all’ambito giuridico. Sul rilievo che la qualificazione riveste nel mondo del diritto e delle sue pratiche discorsive, e anche su certe peculiari configurazioni che essa vi assume, è però opportuno spendere ancora qualche parola, entrando più nel dettaglio. Non molto diversamente dell’esempio – ma con un più ampio e puntuale bagaglio informativo –, la qualificazione vi gioca un ruolo rilevante già nel momento della divulgazione didattica. Come accennato, chi insegna si serve di essa (essenzialmente nella sua tipologia identitaria) per fornire un primo inquadramento delle varie figure: 34

non così preciso ed esclusivo come accadrebbe con una definizione, ma non del tutto generico (né in gran parte rimesso alle inferenze del destinatario: il grande limite riscontrato per l’esempio). Indubbiamente, rispetto agli esiti di una corretta pratica definitoria, la qualificazione (anche) identitaria garantisce risultati che possono apparire solo parziali e provvisori. Rende l’idea, incasella più o meno felicemente, illustra l’area di afferenza, ci fa orientare in un impianto tecnico più o meno “sistematico” (§ 4 e infra, capitolo V); ma non delimita concettualmente dalle figure più contigue, né coglie integralmente l’essenza teorica. Eppure, nella prospettiva di chi intende trasmettere un sapere – e non solo per sua comodità, in quanto la qualificazione è operazione meno ardua e rischiosa della definizione (capitolo III, spec. §§ 3 e 4) – talvolta essa si rivela persino più efficace. O almeno riesce proficuo un approccio per gradi, che passi necessariamente da un primo ragguaglio circa il genere identitario, per poi procedere a scomposizioni (ossia classificazioni: capitolo IV, §§ 3 e 4) e distinzioni (sino ad approdare a una vera e propria definizione). Poniamo che io debba spiegare, in una lezione di diritto privato, cosa sia una servitù prediale. Non faticherei a fornirne una puntuale nozione, giacché essa mi è offerta dallo stesso legislatore. L’articolo 1027 del codice civile recita infatti: “la servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario”. Cosa ne comprenderà uno studente all’inizio della sua carriera a Giurisprudenza? Verosimilmente non molto. Immaginerà, innanzi tutto, che si tratti di qualcosa che riguarda solo i campi: in tal senso è probabile che intenda la parola “fondi”, che invece, in realtà è comprensiva anche di altri beni immobili, come case e fabbricati. Percepirà poi in questa figura qualcosa di quasi patologico, stigmatizzata dallo stesso legislatore – che in effetti non ha provveduto a una definizione neutra, schierandosi piuttosto, per così dire, dalla parte del fondo su cui insiste la servitù: egli avrebbe potuto dire che questa consiste nell’utilità per l’altro fondo, detto “dominante”, a favore del quale viene appunto imposto un peso su quello considerato “servente”. Ma soprattutto il nostro studente rischia di non cogliere la natura della servitù prediale, ossia il luogo (il genere identitario, appunto) in cui collocarla entro il sistema del diritto privato. Potrebbe cioè sfuggirgli proprio l’elemento essenziale, ossia che tale figura afferisce sì all’area dei rapporti patrimoniali, ma non di carattere obbligatorio: e quindi non si risolve in una relazione di credito-debito fra due persone qualsiasi. Con essa, piuttosto, abbiamo di fronte i titolari di due fondi, e una posizione giuridica soggettiva che per l’uno (il proprietario del 35

Efficacia della qualificazione

Un esempio, a lezione

Qualificazione e strategie didattiche

L’impiego delle qualificazioni in sede di esame

Qualificazioni di classi o di individualità

fondo detto dominante) consiste in un diritto reale su cosa altrui (ossia, appunto, sul fondo detto servente). Si tratta di diritti che ineriscono ai rapporti giuridici fra uomini e cose, configurabili come “qualità” dei fondi medesimi, e che potranno essere esercitati (o sopportati) solo da chi via via ne diverrà titolare, e unicamente finché rimarrà tale. Ecco allora che, per cercare di farmi meglio comprendere ed evitare fraintendimenti, è preferibile lavorare per tappe. La prima è costituita da una qualificazione identitaria: “la servitù prediale è un diritto reale su cosa altrui”. Provvederò poi alle dovute distinzioni: non, giunto a questo punto, da tutti i diritti, ma solo dagli altri diritti reali su cosa altrui (usufrutto, uso, abitazione, ipoteca, ecc.). Opererò qualche classificazione: come tra servitù costituite tramite accordo fra i titolari dei due fondi oppure imposte in via coattiva. Passerò quindi a esemplificare il contenuto di alcune tipologie di servitù, illustrando cosa formi oggetto del loro esercizio (il diritto di passare a piedi sul fondo altrui; di passarvi con automezzi; il divieto di elevare una costruzione oltre una determinata altezza, ecc.). Infine ripercorrerò la definizione del codice civile. Mutato quel che è da mutare, qualcosa di analogo riguarderà il momento della verifica. In sede di esame lo studente ricorrerà alla qualificazione identitaria per dimostrare di saper padroneggiare le grandi partizioni del sistema privatistico, e ricondurre ciascuna figura nella classe più pertinente e prossima. Inutile ripetersi in proposito, salvo l’avvertenza che – per quanto una buona qualificazione identitaria veicoli informazioni interessanti e attesti già una discreta dimestichezza con la materia – essa rimane comunque qualcosa di sensibilmente diverso dalla definizione, e non può essere quindi offerta all’esaminatore come un più comodo surrogato di quest’ultima. Se alla domanda “cos’è una servitù prediale?” verrà risposto, come prima si immaginava, “la servitù prediale è un diritto reale su cosa altri”, l’esaminatore tirerà un sospiro di sollievo (il peggio è scongiurato: almeno non gli è stato detto che è una forma di schiavitù, un illecito o un tipo di contratto), ma di sicuro non si riterrà ancora soddisfatto. Rimane altra strada da fare: intanto ci si è posti comunque nella direzione giusta. Ma al di là dell’esperienza didattica, nei suoi diversi momenti, la qualificazione – ancor più dell’esempio – assume una rilevantissima funzione in molte altre pratiche discorsive del diritto. Le situazioni che abbiamo sinora prospettato hanno riguardato prevalentemente qualificazioni aventi a oggetto non concreti e singoli elementi ma, a loro volta, classi: il contratto (cioè la classe di tutti i contratti) o le servitù prediali (ossia la classe di tutte le servitù prediali). Ma, distinte dalle qualificazioni di questo tipo, esistono anche quelle di individualità – ecco dunque un’altra classificazione a cui possiamo sotto36

porre la nostra operazione (dopo quelle ricordate al § 4). E se nella fase della formazione universitaria si lavora soprattutto su qualificazioni (identitarie) di classi – come appunto negli esempi proposti sinora –, nella successiva attività professionale l’attenzione sarà quasi sempre concentrata su oggetti (in senso lato) specifici e determinati, assolutamente reali. Ho di fronte l’accordo concluso fra Tizio e Caio sei mesi fa, in forza del quale il primo si impegnava a tenere in ordine il giardino di Caio, e questi ad assistere la nonna paralitica di Tizio. Cos’è quest’accordo? Non interessa fornirne una definizione, ma qualificarlo in modo corretto, ossia attribuirgli la debita (e più pertinente) “etichetta” tecnicogiuridica. Si risponderà che è un contratto, ma atipico (ossia non incluso fra i tipi espressamente previsti e disciplinati dall’ordinamento giuridico). E probabilmente si aggiungerà che è diretto a realizzare un interesse stimato meritevole di tutela dall’ordinamento medesimo – abbiamo dunque, secondo le classificazioni via via evocate, una qualificazione composta, identitaria, di individualità. La precisazione in merito all’obiettivo perseguito da Tizio e Caio consentirà di fugare ogni dubbio circa la possibilità, riconosciuta alle parti, di concludere quell’accordo, secondo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 1322 del codice civile. Attribuire la qualifica di contratto consentirà poi di rendere applicabili a Tizio e Caio tutte le disposizioni giuridiche che riguardano, in generale, la materia contrattuale. In linea di massima – salvo la possibilità di qualche richiamo in via analogica – il loro rapporto non sarà invece interessato da quanto il legislatore ha disposto in merito alle singole e specifiche tipologie di contratti (cosiddetti tipici, o nominati: compravendita, locazione-conduzione, mutuo, ecc.). Già questa prima situazione fa comprendere l’enorme rilievo che assume la qualificazione nella prassi giuridica. Per molti versi, nel quotidiano impegno di ogni operatore giuridico, essa si presenta come l’attività più ricorrente, e spesso anche di maggior impatto. Ricondurre una singola e non fittizia figura – quello specifico oggetto, fatto o rapporto – alla sua classe di appartenenza innesca conseguenze molto concrete, e talora decisive. È proprio attraverso quell’operazione che, per così dire, si produce la presa del giuridico sul reale: si rendono applicabili le previsioni generali e astratte del legislatore a una determinata e reale casistica. È appunto per tale ragione che riesce fondamentale individuare il genere identitario più pertinente e contiguo. Proprio questo consentirà di far sì che quel singolo oggetto, fatto o rapporto sia interessato dalla disciplina prevista per un’intera classe di oggetti, fatti o rapporti. Ma tanto più delimitata sarà questa classe, tanto più puntuale sarà il fa37

Esempi giuridici

Ancora su pertinenza e contiguità del genere identitario

Qualificazione e diritto penale

Il caso della sottrazione di energia elettrica

scio di disposizioni applicabili a quanto si è qualificato. L’accordo con cui Mevio, ricevuto un quintale di farina da Sempronio, si impegna a restituirne entro un mese un’eguale quantità, e del medesimo tipo, allo stesso Sempronio non è soltanto un fatto giuridico, un atto giuridico, una convenzione o un contratto. È anche, più specificamente, un contratto di mutuo: questo è appunto il genere identitario che avrebbe indicato ogni pratico del diritto, chiamato a qualificarlo. Il che fa sì che esso possa essere disciplinato secondo le prescrizioni che il codice civile detta non solo con riguardo a tutti i contratti, ma anche in riferimento al mutuo (articoli 1813-1822). Se dal diritto privato ci spostiamo a quello penale, la rilevanza della qualificazione si presenta persino più incisiva. Su quel piano nessun fatto può essere punito se non previsto dal legislatore come reato. Diviene pertanto decisivo stabilire se una certa condotta possa ricevere una qualificazione identitaria, tale da predicarne l’afferenza al genere identitario della fattispecie penalmente rilevante. Ancora una volta, non si tratta di esprimersi “bene” e di usare con eleganza le parole, ma di decidere della vita delle persone: dall’esito della qualificazione scaturisce la reclusione o la libertà. Un soggetto, allacciandosi ai fili elettrici stradali – senza autorizzazione, e con piena consapevolezza e volontà di conseguire un vantaggio economico –, ha utilizzato energia elettrica, il cui consumo non gli verrà quindi addebitato. Possiamo qualificare come “furto” quanto è avvenuto? Nel linguaggio corrente non avremmo dubbi, e oggi in Italia non hanno ragione di nutrirne neppure i giuristi. Nel codice penale tuttora vigente, infatti, l’inclusione dell’energia elettrica nella nozione di cosa mobile – la cui sottrazione costituisce (come vedremo fra un attimo) il primo elemento della fattispecie di furto – è stata espressamente sancita al secondo comma dell’articolo 624. Ma già questa precisazione è significativa, in quanto il legislatore ha avvertito l’esigenza di fugare ogni incertezza. Per un certo periodo le cose non furono così scontate, proprio perché ancora non era pacifica la qualificazione giuridica dell’energia elettrica. Nel nostro ordinamento (primo comma del citato articolo 624) – ma la disposizione corrisponde, per quanto ora interessa, al codice penale della Germania, in cui con maggior forza fu posta tale questione, in sede giudiziaria –, integra l’ipotesi del furto “chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri”. Se quest’ultimo requisito (lo scopo della condotta: quello che i penalisti indicano come “dolo specifico”) è senz’altro rinvenibile nella situazione che abbiamo immaginato, e altrettanto può dirsi per la “sottrazione”, riuscirà allora determinante accertare se l’energia elet38

trica – che nessuno è in grado di vedere o afferrare – sia qualificabile come “cosa mobile”, e anche quale bene “corporale” (di cui sia perciò possibile impossessarsi). Solo una risposta affermativa – alla quale si è infine pervenuti – consente di sancire l’afferenza del fraudolento allaccio e utilizzo di energia elettrica alla classe dei furti. Come vedremo fra breve, si tratta più precisamente di una particolare tipologia di qualificazione, denominata sussunzione. Come si procede dunque, in casi simili, per stabilire se sia fondata o meno la qualificazione identitaria di un oggetto o di un fatto? L’itinerario logico non muta tanto che si debba far fronte a un quesito specifico e “chiuso” (“quel fatto è un furto?”) quanto che ci venga posta una domanda aperta (“cos’é quel fatto?”, ossia “come qualificarlo?”). Semplicemente, nel primo caso, è già determinato il potenziale qualificante, nel secondo dovrò individuarlo da solo, rivolgendomi a uno (o più) fra quelli che, in prima approssimazione, giudicherò più pertinenti e plausibili. Le tappe del ragionamento possono essere ricondotte a uno schema, che è stato indicato come “tecnica delle tre fasi”. La prima di esse sarà volta a individuare gli elementi essenziali del possibile qualificante: ossia i modelli di fatto fissati dal legislatore (nei nostri esempi il mutuo e il furto). La seconda tenderà a verificare se tali elementi ricorrano nel fatto o nell’oggetto qualificando (per noi, l’accordo tra Mevio e Sempronio oppure il contegno di chi si sia allacciato ai fili elettrici stradali). La terza consisterà nella conclusione, con cui dovremo negare la qualificazione oppure ammetterla – solo qualora venga accertato che tutti i predetti elementi, nessuno escluso, siano rinvenibili nella situazione esaminata. Così, per limitarci al primo dei nostri due ultimi esempi, dovrò volgermi alla nozione di mutuo fissata dal legislatore (articolo 1813 del codice civile), il quale parla di “contratto col quale una parte consegna all’altra una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili, e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità”. I dati fondamentali da isolare sono la natura contrattuale, l’elemento della consegna (senza il quale non si produrrebbe l’effetto dell’obbligo di restituzione, essendo a tal fine necessario ma non sufficiente il consenso delle parti), le caratteristiche della cosa che della consegna forma oggetto (e che dovrà essere un bene fungibile, ossia perfettamente sostituibile con altro della medesima specie e qualità), il conseguente obbligo di restituire l’equivalente. Nell’accordo concluso fra Mevio e Sempronio ricorrono tutti: quanto da essi stabilito rientra infatti nella classe dei contratti – di cui si tenga presente la definizione, che già abbiamo richiamato (§ 4), leggibile all’articolo 1321 del codice civile –, contempla la con39

Richieste di qualificazione

Qualificazione e “tecnica delle tre fasi”

Esemplificazione delle tre fasi

segna di una quantità di farina, e determina l’obbligo di restituirne l’equivalente dopo un mese. L’unica incertezza potrebbe essere forse destata (ma non certo per il giurista) dal requisito del bene fungibile: in realtà è indubbio che proprio in questi termini sia da qualificare il bene al centro del nostro accordo (la farina, appunto). In effetti, una volta che la si sia prestata, non ci si attende di riavere indietro proprio “quella” farina (a che scopo, altrimenti, porre in essere tutta l’operazione?!), ma piuttosto un’eguale quantità di essa, e della medesima tipologia (farina di grano duro e non di segale, o granturco; macinata secondo una determinata modalità e non altra, ecc.). Qualificazione Torniamo ora, invece, al caso della sottrazione di energia elettrica. e sussunzione Anche per esso – come di qualsiasi altro fatto – abbiamo sinora parlato di qualificazione. Per essere più precisi, i giuristi userebbero senz’altro, al riguardo, il termine “sussunzione”. La metafora che ne viene evocata è piuttosto evidente, in quanto rinvia all’immagine del “prendere sotto” (sub sumere). Un certo fatto – in primo luogo, uno specifico e reale – viene ricondotto sotto un “modello di fatto” (species facti, da cui appunto “fattispecie”). Di esso è cioè predicata l’afferenza a una classe composta da una tipologia di eventi, fissata dal legislatore (in termini ovviamente generali e astratti), o comunque ben radicata e definita nella cultura giuridica. Le fattispecie L’ultima precisazione è resa necessaria dall’esistenza di alcune fattispecie (essenzialmente del diritto privato) che non vengono espressamente contemplate in alcuna disposizione normativa ma si presentano come mere costruzioni della scienza giuridica. È quanto, almeno nel nostro ordinamento, riscontriamo ad esempio col “negozio giuridico”, in cui sono sussumibili solo alcuni fra gli atti (leciti): ossia quelli consistenti in manifestazioni di volontà – sia tra vivi che mortis causa; unilaterali, bilaterali o plurilaterali (un testamento, un matrimonio, un contratto di società, ecc.) – idonee a produrre, nel mondo del diritto, conseguenze corrispondenti a quanto effettivamente si era inteso raggiungere. A connotare, in ogni caso, la classe di fatti (“y” o sussumente) in cui è ricondotto il singolo evento è la circostanza che tale classe sia composta da fattispecie cui sono legate precise conseguenze giuridiche (o per esplicita volontà del legislatore o quantomeno tramite un gioco di interpretazioni e rimandi consolidato presso teorici e operatori del diritto). Conseguenze che verranno dunque a scattare (solo) all’esito positivo di una richiesta di sussunzione. Il che spiega perché di quest’operazione trattiamo solo ora, dopo aver seguito alcune peculiarità che emergono nell’impiego di ogni qualificazione in sede di discorso giuridico. 40

Possiamo pertanto considerare la sussunzione come una specifica e più ristretta tipologia di qualificazione: una sua sottoclasse, in sostanza. A caratterizzarla è la natura sia del suo oggetto (il sussumendo: propriamente, solo un fatto) sia del genere identitario che viene predicato (il sussumente, consistente appunto in una fattispecie normativa, in senso stretto o in senso lato). E gran parte degli elementi – requisiti, tipologie, consigli operativi, “tecnica delle tre fasi” – su cui ci siamo soffermati a proposito delle qualificazioni (soprattutto identitarie) mantengono il loro pieno valore, senza necessità di ripetersi, anche riguardo alle sussunzioni. Naturalmente, nell’assumere queste ultime come operazioni tipiche ed esclusive del discorso giuridico, abbiamo già operato una scelta, tutt’altro che scontata, e che richiede di essere almeno spiegata. Di sussunzione, infatti, si parla anche in altri contesti, e con una diversa portata. In particolare, nello studio di una specifica tipologia di inferenza – ossia la deduzione, che muove da elementi generali per giungere a conoscenze particolari (capitolo V, § 2) – è rinvenibile un procedimento logico denominato sillogismo, il quale parte da una premessa maggiore (assunzione), e una premessa minore, per pervenire a una conclusione. Nel classico esempio, “tutti gli uomini sono mortali” rappresenta la premessa maggiore; “Socrate è un uomo” quella minore; “Socrate è mortale” la conclusione. La premessa minore è appunto indicata come sussunzione, in quanto è proprio essa che consente di ricondurre Socrate entro la classe degli “esseri mortali” (“prenderlo sotto” di essa, secondo la metafora cui rinvia l’etimologia del nostro termine). Non troppo lontana sul piano logico – salvo l’ulteriore caratterizzazione in senso tecnico-giuridico, ma con una portata comunque diversa rispetto al suo significato, e impiego, qui maggiormente considerato – è ancora un’altra accezione di sussunzione. Essa può essere intesa quale premessa minore di un sillogismo: ma, questa volta, non di qualsiasi tipo, bensì solo giudiziale. Qui quale premessa maggiore troviamo una previsione normativa; come premessa minore i fatti conosciuti dal giudice; come conclusione la sentenza di quest’ultimo. Così ad esempio posso scandire il ragionamento che conduce un organo giudicante a decidere per l’annullamento di un contratto: tutti i contratti viziati da violenza – in cui cioè l’accordo di una delle parti sia stato estorto tramite la minaccia di un male ingiusto e notevole – devono essere annullati su richiesta di chi abbia subito tale minaccia (premessa maggiore, o assunzione); il contratto, su cui verte la causa promossa da Tizio, è stato estorto a Tizio medesimo prospettandogli 41

La sussunzione come tipologia di qualificazione

Altre accezioni di sussunzione

Sussunzione e sillogismo

Sussunzione e sillogismo giudiziale

Critiche al sillogismo giudiziale

Qualificazioni attributive in campo giuridico

Esempi

che, qualora non vi avesse acconsentito, egli sarebbe stato licenziato (premessa minore, o sussunzione); il contratto deve essere annullato (conclusione-sentenza). Quest’immagine dell’attività del giudice – tradotta nei termini ferrei di un rigoroso e quasi meccanico sillogismo – ha goduto in passato di un notevole successo, e rinvia a una precisa ideologia, volta a fare del giudice stesso, essenzialmente (ed esclusivamente) “la bocca della legge”. Oggi siamo sempre più convinti che le cose non siano così semplici, che la valutazione di ogni caso implichi operazioni assai delicate e talora piuttosto incerte. Il passaggio fra la previsione generale e astratta del legislatore e la disciplina della singola controversia non appare più, o non sempre, esauribile in una semplice deduzione. Tramontata l’assoluta fiducia nel sillogismo giudiziale, è venuta meno anche l’idea che la più significativa accezione di sussunzione in campo giuridico sia quella appena evocata, tesa ad assumerla come premessa minore di un procedimento sillogistico. Peraltro, a ben vedere (e slegandosi ormai da ogni lettura riduttiva del momento interpretativo, anche da parte del giudice: capitolo VII, §§ 1 e 2), il ragionamento seguito riguardo al contratto estorto a Tizio implica un uso di sussunzione che non è poi lontanissimo da quello che abbiamo illustrato nelle battute precedenti. Siamo pur sempre di fronte a un fatto concreto – uno specifico contratto, che Tizio ha concluso sotto minaccia – che viene qualificato indicandone il genere identitario (cioè sussunto in un modello fissato dal legislatore): quello dei contratti viziati, appunto, da minaccia, e per questo considerati annullabili. Un’ultima notazione, sempre inerente alle pratiche qualificatorie all’interno del discorso giuridico. Più volte, nelle pagine che precedono, è stata sottolineata la loro maggior fecondità (e ricchezza di conseguenze operative) laddove – come accade pure nell’ipotesi delle sussunzioni: lo abbiamo appena verificato – prendono la forma di una qualificazione identitaria. Dobbiamo desumerne che le qualificazioni attributive non rivestono, agli occhi del giurista, alcun rilievo, e che possono trovare spazio solo in contesti comunicativi poveri e atecnici (le tre affermazioni che sfuggono di bocca appena alzati, secondo il nostro esempio iniziale)? La conclusione sarebbe senz’altro affrettata, e anzi falsa, se formulata in termini assoluti. Non mancano, infatti, situazioni in cui anche nell’ambito del diritto è opportuno, e anzi necessario, affidarsi a una qualificazione attributiva, in modo tale che proprio da essa vengano tratte conseguenze giuridiche. Pensiamo a una controversia che verta sullo stato di un edificio, che il proprietario asserisca danneggiato da infiltrazioni d’acqua provenienti dall’appartamento sovrastante. Per stabilire se il danno sussi42

sta e se per non aggravarlo sia necessario adottare un provvedimento d’urgenza, il giudice domanderà innanzi tutto a un esperto da lui nominato (consulente tecnico d’ufficio) se l’edificio sia realmente danneggiato, e in che misura. La risposta al quesito (“l’edificio X è gravemente danneggiato”) non costituisce altro che una qualificazione attributiva. Ma il complesso delle pratiche discorsive in cui si inserisce (un processo civile) lo carica di enorme significato, inducendo il giudice ad assumere conseguenti delibere. E tutto questo senza che vi sia alcuna esigenza di tradurre quell’enunciato nella veste di una qualificazione identitaria, il che sarebbe pur possibile e piuttosto agevole sul piano logico (“l’edificio X è un edificio gravemente danneggiato”, ossia afferente alla classe degli “edifici gravemente danneggiati”). Immaginiamo ancora, fuori da un’ipotesi di contenzioso, che io acquisti una grossa partita di Barolo o Brunello da un produttore vinicolo, col quale pattuisco che la compravendita sarà però risolta qualora, a seguito della degustazione di un enologo di mia fiducia, il vino non si riveli della qualità attesa (è quello che ancor oggi viene indicato con un nome latino: pactum displicentiae). L’enologo aprirà una bottiglia, annuserà il tappo di sughero, verserà il vino, farà ruotare il calice, lo inclinerà, valuterà il colore e il bouquet del Barolo o del Brunello, assaporerà a lungo, bofonchierà qualche considerazione di ordine organolettico a noi incomprensibile, sputerà, ripeterà il rito e assaggerà di nuovo; infine sentenzierà solennemente: “questo vino è buono”. Una semplice qualificazione attributiva, affidata a uno degli aggettivi più banali e in apparenza meno tecnici. Ma è proprio quello che io e (ancor più) il venditore volevamo. Poche, pochissime parole: ma tali da far scattare precise implicazioni giuridiche – in questo caso disinnescare l’effetto risolutivo del pactum displicentiae – e riversare le proprie conseguenze, non proprio irrisorie, sul patrimonio di chi vende e di chi acquista.

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Capitolo terzo

UN’OPERAZIONE PIÙ AMBIZIOSA E COMPLESSA: LA DEFINIZIONE

1. Un’etimologia rivelatrice Abbiamo già accennato a quella che può essere considerata la più impegnativa fra le operazioni copulative: la definizione. È stata per esempio ricordata la difficoltà di farvi fronte, cui talora si cerca di ovviare (quasi sempre con scarso successo) tramite il ricorso a surrogati alquanto imperfetti, quali esempi o qualificazioni. Ed è stato segnalato come queste ultime, anche se realizzate nel modo più corretto – e più soddisfacente sul piano informativo –, non costituiscano altro che il primo segmento di una (specifica tipologia di) definizione. Ma perché definire dovrebbe essere tanto complicato? Gli usi del termine nel linguaggio comune – non, si badi, le effettive ricorrenze dell’operazione nelle concrete pratiche discorsive – non parrebbero deporre in quel senso. Sento dire da un mio collega che alcuni definiscono un cretino chi consideri ancora la didattica la parte fondamentale del nostro lavoro; leggo che il tal uomo politico ha definito, ovviamente in campagna elettorale, una priorità la lotta contro l’evasione fiscale; mi è stata appena richiesta una definizione degli obiettivi che mi prefiggo con questo libro. Chi, di volta in volta, provveda in tal modo a “definire” non sembra aver prodigiosamente assolto chissà quale impegno. E allora dove starebbe questa grande difficoltà della definizione? Il fatto è che nelle tre situazioni appena richiamate ci imbattiamo in altrettanti impieghi dei termini ‘definire’ o ‘definizione’ assolutamente impropri: espressione di una deriva terminologica (ma anche concettuale) diffusa, che ha finito col dilatare a dismisura la portata della nostra operazione, o – per esprimerci più correttamente – ha indotto a utilizzare le parole che la designano anche per indicare attività che da essa sono (o dovrebbero essere) nettamente distinte. Nelle nostre tre ipotesi è evidente, infatti, che quelle evocate non sono affatto autentiche definizioni, bensì una qualificazione – attributiva nella 45

Impieghi impropri dei termini ‘definire’ e ‘definizione’

Disinvolture espressive e problemi teorici

L’origine della parola ‘definizione’, e il senso di una metafora

prima occasione; identitaria nella seconda, almeno formalmente – e un elenco nell’ultimo caso. Ma gli esempi potrebbero facilmente moltiplicarsi, così da mostrare come si parli talora di definizioni anche per indicare classificazioni, semplici spiegazioni o concise descrizioni, formulazioni di regole o registrazioni di somiglianze, decisioni o direttive interpretative. Certe volgarizzazioni del lessico comune hanno qui intercettato, consapevolmente o meno, anche proposte teoriche volte ad allargare l’idea del definire, al di là delle sue concezioni classiche – vi è stato anche questo, nella riflessione che nel corso dei millenni, diversamente da quanto riscontrato per esempio e qualificazione, si è sviluppata attorno alla nostra operazione (§ 2). La definizione ne è uscita come sfibrata, consegnata a un impiego talmente generico e flessibile da smarrire buona parte della sua nitida specificità, per riuscire addirittura inservibile, o quasi. In questo libro ci atterremo sempre, invece, a una sua accezione assai più circoscritta e rigorosa, che non intende affatto attenuare – ma semmai, al contrario, porre in evidenza – la sua distanza da altre pratiche discorsive. E ciò non per un velleitario purismo né per lodare il tempo passato, ma perché solo in quella prospettiva ha un senso ripercorrere natura, funzioni, tecniche e tipologie della definizione (anche) nel campo del diritto. Del resto, sarebbe sufficiente considerare l’etimologia della parola per avvedersi della reale portata dell’attività che essa denomina. Finis indica in latino il limite, la linea che demarca e separa, e quindi è condivisa da chi, rispetto a essa, si trovi da una parte o dall’altra – è questa appunto l’origine anche del nostro “con-fine”, ove interagiscono, in chiave reale o metaforica, vicinanza e alterità, contiguità e distinzione. E del resto non sono forse le cose più simili e prossime a reclamare le differenziazioni più delicate e rilevanti, indispensabili affinché sia evitata l’assoluta confusione di tutto, e compromesso ogni regime identitario? Porre su piani ben separati una nuvola e un ippopotamo, o un omicidio e un’adozione, è un’operazione banale, rispondente a un’assoluta evidenza, ma anche poco significativa, realizzabile senza particolari approfondimenti circa la natura di ciascun oggetto – e infatti, per marcarne la distanza, saranno sufficienti qualificazioni identitarie: basterà, nel caso delle due figure giuridiche, ricordare che l’una è un reato (contemplato dal diritto penale), l’altra un atto, o negozio, giuridico (disciplinato dal diritto civile). Assai meno immediato è riuscire a distinguere il cammello dal dromedario, il furto dalla rapina, il deposito dal comodato. Meno immediato, ma anche decisamente più fecondo, poiché imporrà di esaminare con maggiore puntualità il complesso dei rispettivi elementi identitari, e consentirà di trasmettere cognizioni più complete e interessanti. 46

“De-finire” evoca dunque la fissazione di un confine: consiste nel marcare il perimetro ideale che circoscrive una nozione, escludendo con esattezza tutto ciò che a essa non sia inerente. La “de-limita”: ma anche limes è parola latina per indicare il confine. Parlare di “definizioni perimetrali”, come è stato proposto in alcune ricerche storicogiuridiche, si rivela dunque poco più di una tautologia, per quanto suggestiva. In senso proprio, non si dà definizione che non sia, appunto, “perimetrale”. Da qui la ricchezza degli spunti che il definire ha offerto alla speculazione filosofica e giuridica, coinvolgendo – in una misura inimmaginabile per altre attività (si pensi soltanto all’esempio) – problematiche di carattere ontologico e di teoria della conoscenza (gnoseologia). Ma da qui anche la delicatezza e complessità cui si accennava: quel confine va delineato con mano sicura e piena cognizione di causa, garantita solo dalla padronanza del contenuto della nozione su cui si lavora. Il tratto dev’essere nitido e breve; senza inutili e fuorvianti ridondanze, né zone d’ombra, genericità o sovrapposizioni. Nessun elemento che afferisca alla classe di ciò che deve essere definito – detto definiendum, laddove quanto enunciato per tratteggiarne la nozione prende il nome di definiens – può trovarsi fuori dai confini; né dentro questi ultimi può venire incluso alcun elemento estraneo a quella classe. Ma dirlo, come verificheremo fra breve, è assai più semplice che farlo. I rischi di una definizione troppo stretta (qualora non si realizzi il primo dei due obiettivi appena evocati) oppure troppo larga (nell’ipotesi inversa) sono sempre in agguato (§ 3). Le difficoltà connesse alla nostra operazione sono dunque di ordine sia teorico sia operativo. Teorico, dal momento che essa è stata al centro di una lunghissima tradizione di pensiero, sfociata in sue molteplici e differenti concezioni (§ 2). Operativo, poiché è tutt’altro che immediato pervenire a una “buona” definizione, e anzi accade non di rado che, pur sforzandosi di approntarne una, si formulino enunciati che neppure hanno un’effettiva attitudine definitoria (§§ 2 e 3). Simili difficoltà, del resto, non hanno nulla di sorprendente. Nel mettere a punto una definizione non si tratta più di fornire sommarie informazioni su qualcosa, perché il destinatario possa farsene un’idea o al massimo collocarla entro una griglia di classi e sottoclassi. L’ambizione, ben più elevata, è ora quella di enunciare l’identità di quel qualcosa, coglierne l’essenza – o almeno, in altra prospettiva, individuare il puntuale significato della parola che la designa. E una simile ambizione ha i suoi costi, e i suoi “pericoli” (come i giuristi avvertono da quasi due millenni: § 4); anche se destinati a essere ripagati dalle straordinarie utilità cognitive assicurate dalla definizione, 47

Complessità del definire: sue ragioni e implicazioni

Difficoltà teoriche e operative

in qualsiasi ambito del sapere. Senza contare che, soprattutto in quello del diritto, essa rimane uno strumento ineludibile per dissipare o prevenire oscurità (in senso ampio: capitolo IX § 1), orientare l’interpretazione, tenere distinte figure solo per certi aspetti accostabili e perciò, in sostanza, porre le condizioni affinché ne venga garantito un trattamento congruo e articolato.

2. Uno snodo del pensiero occidentale Il lettore più attento (o malevolo) si sarà accorto che quanto detto sinora attorno alla definizione presenta un taglio particolare, e per certi versi sorprendente. Si è insistito sulla funzione di essa, e sull’etimologia della parola che la designa (in grado di dirci già molto circa la finalità che l’operazione persegue): ma non ne sono stati forniti esempi né classificazioni, e soprattutto non è stato veramente precisato cosa essa sia. In altre parole, ci si è limitati a ribadirne l’afferenza alla classe delle operazioni copulative – ma questa, come ormai sappiamo, è solo una qualificazione identitaria –, senza invece fornirne alcuna definizione. E in un capitolo che intende illustrare l’importanza che riveste saper confezionare buone definizioni, e muovere da esse per compiere altre (e anche più complesse) attività, può risultare piuttosto curioso che si parli a lungo di definizione ma senza farla ancora oggetto, a sua volta, di alcuna definizione. Concezioni Il problema è che, come accennato, attorno a quest’operazione si diverse del sono svolte infinite discussioni, che dalla logica e dalla teoria retorica definire dell’antichità greca e romana – col ruolo decisivo giocato, nelle strategie argomentative, dal locus definitionis – hanno attraversato decine di secoli, per giungere alle eterogenee impostazioni oggi riscontrabili in vari settori (almeno) delle scienze umane. Per molti aspetti non vi è un orientamento unanime neppure su cosa debba intendersi per definizione, né tantomeno su quali ne siano le tipologie possibili, o almeno salienti. Se per quasi tutte le altre enunciazioni copulative è necessario fare i conti con una sostanziale povertà di riflessione teorica (che stranamente si contrappone alla loro larghissima diffusione nella prassi comunicativa), qui dobbiamo misurarci, al contrario, con un sovraccarico di speculazione ed elaborazione concettuale, che impone di operare delle scelte ed esige alcuni chiarimenti. Ovviamente non è questa la sede per seguire nei dettagli la storia della definizione, al crocevia di saperi e competenze molteplici: il discorso ci porterebbe decisamente lontano, lungo percorsi sin troppo impervi. Dovremo perciò limitarci ad alcuni fenomeni di fondo.

Una definizione (di definizione) sinora rinviata

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Il più significativo è probabilmente costituito dal fronteggiarsi di due diverse concezioni: l’una che possiamo indicare come realistica, l’altra nominalistica. Non ingannino i termini, e soprattutto il primo. L’orientamento che esso designa non si connota per maggior aderenza alla realtà, carattere pragmatico anziché inclinazione astratta (come quando parliamo, ad esempio, di un progetto nient’affatto utopistico, ma anzi decisamente “realistico”). Quella contrapposizione rinvia, piuttosto, a uno specifico dibattito culturale – che percorre, in particolare, la logica medievale –, nel quale si qualifica “realistica” la posizione di chi individui nei termini astratti, con cui indichiamo classi di oggetti concreti (il cane, l’uomo, i beni mobili), essenze reali, ulteriori e distinte rispetto ai singoli elementi che compongono tali classi (tutti i cani o gli uomini esistenti, in carne e ossa; tutti i beni mobili presenti sulla faccia della terra: cibo, vesti, denaro, utensili, ecc.). Viceversa, alla stregua di un approccio nominalistico quei termini non costituirebbero altro che parole – nomi, appunto –, sprovvisti di un’esistenza reale e autonoma (riconoscibile solo nei vari cani, uomini o beni mobili). Le diverse conseguenze, nel concepire la definizione, sono inevitabili, e decisive. Secondo il primo orientamento – in cui è innegabile una precisa istanza metafisica, che conduce cioè al di là delle cose rinvenibili in natura –, la nostra operazione consentirà di cogliere, e ben delimitare, l’identità propria di quelle entità astratte ma non per questo meno reali (l’idea di cane, di uomo o bene mobile: detto altrimenti, la classe di tutti i cani, di tutti gli uomini, di tutti i beni mobili). La definizione consisterà dunque nell’operazione copulativa che di un certo oggetto enunci tutte le caratteristiche necessarie e sufficienti alla sua identificazione. Ecco la definizione (della definizione stessa) da cui finora mi ero astenuto. Lo avevo fatto perché, appunto, non è l’unica possibile. Chi segua una linea nominalistica privilegerà infatti una prospettiva centrata sulla portata semantica (ossia sul significato) dei segni linguistici (o significanti) che di volta in volta lo interessano. La definizione, pertanto, riguarderà non cosa sia il cane, l’uomo o il bene mobile, ma cosa si intenda designare allorché si impiegano quei sostantivi (o sintagma, nell’ultimo caso). Muterà quindi anche la nozione di definizione, che potremmo intendere stavolta (con Lantella) come la proposizione che enuncia del significante ‘x’ il significato “y”. La differenza, nettissima sul piano culturale, è forse meno determinante ai nostri fini, ossia sul piano operativo e con particolare riguardo al mondo del diritto – e quindi a livello di tecniche di utilizzo di questo specifico “attrezzo” del giurista. E ciò sia perché, in defini49

Visuale realistica e nominalistica

Definire nelle due prospettive

Modalità deboli di definizione

La definizione tramite sinonimo

tiva, a noi interessa apprendere come si possa correttamente predisporre una definizione (quale che sia la visuale entro cui calarla), sia perché ormai conosciamo il peculiare statuto della maggior parte dei termini giuridici: segni astratti privi di correlativi oggettivi (senza cioè un puntuale riscontro nel mondo naturale) e tuttavia straordinariamente capaci di incidere sulla realtà. In definitiva, anche se ‘contratto’ fosse solo una parola, e non un’entità dotata di esistenza propria, tale parola sarebbe destinata a prendere vita – per divenire una “cosa”, sia pure astratta – nella dimensione virtuale del giuridico. E tuttavia la compresenza di quelle due prospettive, pressoché opposte (almeno in termini generali, e in alcune declinazioni che storicamente si sono date), mantiene un suo rilievo, che era qui indispensabile segnalare. Alcune tipologie di definizione sono sorte – e conservano un significativo primato – sul versante realistico oppure nominalistico. In particolare, la definizione per genere e differenza sul primo, la definizione tramite regola d’uso (o di enunciazione) sul secondo. Per altre soluzioni espressive risulta controversa, invece, la stessa afferenza ad autentiche pratiche definitorie: e il giudizio dipenderà, di nuovo, dalla diversa configurazione (e ampiezza) attribuita alla definizione. Una configurazione che è anch’essa mutata nel corso dei secoli, ma che stavolta non dipende strettamente (o esclusivamente, in alcuni casi) dall’adozione di un approccio realistico o nominalistico. Mi riferisco, più specificamente, ad alcune visuali che – già affacciatesi nel mondo classico (e riproposte con forza soprattutto nella cultura tardoantica) – godono ancora di qualche fortuna, sino a coniugarsi con (se non addirittura propiziare) certi dilatati impieghi di definizione e definire ancor oggi ricorrenti, e ai quali si è già accennato (§ 1). In tale prospettiva risulta senz’altro accettabile fornire la nozione di un concetto (o termine) tramite modalità ulteriori rispetto alle due – definizione per genere e differenza oppure tramite regola d’uso – che abbiamo finora menzionato (e su cui, assieme a una terza figura, sarà necessario tornare: § 3). Poniamo il caso che un amico non italiano, poco esperto della nostra lingua, mi chieda chi o cosa siano i “coniugi”. Evidentemente il suo interesse è di ordine semantico: egli non intende conoscere l’identità della cosa designata con quel sostantivo, ma sapere quale sia, in italiano, il significato di quest’ultimo. Potrei semplicemente rispondergli: “i coniugi sono gli sposi”. Nulla avrei detto circa l’essenza e i confini teorici di quella nozione, ma probabilmente avrei soddisfatto il mio interpellante. A patto, naturalmente, che egli sappia cosa vuol dire “sposi”. Quella così realizzata è una tipica definizione parola-parola (o per sinonimo): utilissima per 50

chi voglia arricchire il proprio lessico o imparare una lingua straniera – non a caso ne sono pieni i dizionari, inclusi quelli che traducono i vocaboli di una lingua negli equivalenti di un’altra. Una definizione di questo tipo è del tutto carente a livello intensionale: ossia sul piano del complesso delle proprietà del definiendum che vengono enunciate, e che, in generale, sono invece richieste perché esso sia suscettibile di venire indicato con quella parola. Essa appare perciò piuttosto inadeguata dal punto di vista teorico, sebbene sia innegabile la sua ricorrenza operativa, anche all’interno del discorso giuridico (e talora con una certa efficacia). Ad esempio, qualora io voglia spiegare il significato di un termine, proprio del linguaggio tecnico, e indichi il corrispondente significante del lessico comune: “la permuta è il baratto”. Permane però il rischio, non di rado elevato, di ingenerare fraintendimenti, o eludere semplicemente la richiesta, ove il destinatario abbia un’idea imprecisa (prima ipotesi) o addirittura non ne abbia alcuna (seconda ipotesi) in merito al sinonimo cui ho fatto ricorso come definiente. Colui al quale mi rivolgo potrebbe non conoscere affatto cosa significhi “sposi” o “baratto” oppure, più facilmente, cadere in un equivoco, pensando che sposi (e di conseguenza anche coniugi) siano solo coloro che si sono sposati in chiesa (oppure, al contrario, anche coloro che hanno formalizzato un’unione civile), o che il baratto (e quindi anche la permuta) possa avere per oggetto esclusivamente beni di modico valore. La domanda del mio conoscente straniero potrebbe essere poi sod- La disfatta anche in altro modo. Vedendo vicino a noi una coppia al cui definizione matrimonio siamo stati entrambi invitati, potrei sbrigarmela dicendo- ostensiva gli: “loro due sono coniugi” (oppure “dei coniugi sono loro due”). È quella che viene denominata definizione ostensiva, che cioè si realizza tramite l’indicazione di una concreta figura che renda con immediatezza il significato di un segno linguistico – ricorrendo quindi a una modalità comunicativa alquanto vicina alla definizione tramite esemplificazione (anche se in certe situazioni da essa tenuta distinta). Non mancano contesti in cui anche un’operazione di questo tipo – pur rivelando a sua volta un’estrema povertà a livello teorico – potrà raggiungere il suo scopo. Nella nostra ipotesi, in particolare, è effettivamente probabile che il comune amico sia posto nella condizione di comprendere. Il pericolo di fraintendimenti è però altissimo. Se, per mutare esempio, mi fosse stato domandato cosa significa “compravendita” e, additando un signore recatosi a un’edicola per acquistare il giornale, avessi affermato “quella che vedi concludersi in questo momento è una compravendita”, cosa avrebbe capito il mio interlocutore? Che la compravendita riguarda solo i giornali? Che si conclude 51

La definizione per partizione

La definizione per divisione

La definizione per antitesi

solo con un pagamento in contanti? Che si realizza unicamente in merito a oggetti di prezzo modesto, il quale deve essere corrisposto contestualmente alla consegna del bene? Difficile sperare che egli si sia formato un’idea precisa, quale sarebbe stata invece garantita da una definizione per genere e differenza – come quella offerta dall’articolo 1470 del codice civile: “la compravendita è un contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo” (sempre che io abbia cura di spiegare il significato di alcuni termini che la compongono). In definitiva, questa è una delle occasioni in cui anche sul piano pratico giova “fare i puristi”, e sapere qualcosa circa le operazioni elementari del discorso, non solo giuridico. Quelle ostensive e tramite esemplificazione hanno, della definizione, davvero molto poco: formalmente, ma anche nella sostanza, rimangono esempi (capitolo II, §§ 1-2), e di essi conservano tutti i limiti. E se invece, tornando alla domanda su chi siano i “coniugi”, avessi risposto: “i coniugi sono marito e moglie”? Anche in questo caso, probabilmente, l’amico straniero sarebbe riuscito a sapere quanto desiderava. Alla sua richiesta avrei fatto fronte indicando le “parti” che compongono l’insieme designato in quel modo. Saremmo dinanzi, pertanto, a una definizione per partizione. Essa rivela già meno carenze sul piano teorico, sebbene a sua volta non costituisca, nella maggior parte dei contesti, la soluzione ottimale, né sia sempre in grado di prevenire fraintendimenti. Al che si aggiunge, in un contesto come il nostro, la difficoltà di tenerla distinta da un’altra tipologia definitoria: quella per divisione, in cui il definiendum è affrontato non guardando agli elementi che concorrono a delinearlo, ma alle sottoclassi (o comunque alle figure) in cui può essere scomposto. In altre circostanze la differenza fra queste ultime due tecniche definitorie è assai più nitida. Così se affermo che “i contratti annullabili per vizio del consenso sono quelli conclusi a seguito di minaccia o per effetto di raggiri (dolo) o a causa di un errore (purché essenziale e scusabile)” realizzo una definizione per divisione. Se affermo che “nei contratti annullabili per vizio del consenso si riscontra un elemento che ha indebitamente inciso sulla libera determinazione della volontà, assieme a un nesso determinante fra tale elemento e la conclusione del contratto” ne realizzo una per partizione – fra l’altro non espressa, in questa come in molte soluzioni di questo tipo, secondo la classica modalità copulativa “x è y”; laddove nell’ipotesi precedente l’enunciato può essere invece schematizzato come “x è y1, y2, y3”. Potremmo proseguire, e includere nella nostra rassegna ancora altre modalità definitorie, talora più complesse da spiegare che felici da 52

realizzare. Alcune di esse, peraltro, non mi gioverebbero affatto per illustrare al mio amico chi siano questi benedetti “coniugi”. Non potrei servirmi, ad esempio, della definizione per antitesi, che lavora non sulla sinonimia (come quella parola-parola, già incontrata) ma sull’opposizione. Così, per rimanere nello stesso campo tematico, posso definire il celibe come “l’uomo non sposato”, o la nubile come “la donna non sposata”. Non potrei invece dire, evidentemente, che “i coniugi sono coloro che non sono celibi né nubili”, perché perderei il valore relazionale del nostro termine: una simile definizione potrebbe valere semmai per i “coniugati”, che sono tali di fronte a chiunque, e non solo tra loro. In una prospettiva più ampia, e con riguardo anche alla comunicazione giuridica, operare per antitesi presenta poi non solo tutte le carenze intensionali richiamate finora, ma rischia anche di innescare uno dei difetti più frequenti riscontrabili nei tentativi di definizione (§ 3). Non di rado, infatti, le definizioni di questo tipo possono risolversi – se compiute in modo troppo sbrigativo – in autentiche tautologie, tramite una sostanziale circolarità tra definiendum e definiens. Pensiamo all’ipotesi in cui io affermi che “il dissenso è il contrario del consenso”, “l’invalidità del contratto è la condizione in cui esso non è valido”, “l’inefficacia è l’inattitudine a produrre effetti” (o, persino peggio, “la mancanza di efficacia”), e così via. Soluzioni a cui si può forse ricorrere per spiegare a un bambino il significato di qualche parola, ma che non lasciano minimamente soddisfatti entro pratiche discorsive di maggiore complessità e (necessariamente) più impegnative, in cui il definire sia inteso nel suo significato più proprio, quale rigorosa fissazione di confini concettuali, raggiunta tramite la compiuta illustrazione delle caratteristiche essenziali di quanto vi sia incluso. Ed è con questa consapevolezza che, dopo aver richiamato le mo- Le “quasi dalità operative che si situano ai margini del definire (per alcune di definizioni” esse si è talora parlato di “quasi-definizioni”), è opportuno tornare su quelle in cui esso più frequentemente si realizza, e alle quali riesce ben più fruttuoso – seppure non sempre facilissimo – rivolgersi.

3. Le figure principali (e alcune raccomandazioni operative) Delle due tipologie di definizione a cui abbiamo accennato nel precedente §, ponendole in rapporto con una prospettiva realistica oppure con una nominalistica, è forse la seconda ad apparirci, almeno a un primo sguardo, più consona all’attuale sensibilità culturale. 53

La definizione tramite regola d’uso

La formulazione della definizione tramite regola d’uso

Esempi

La definizione tramite regola d’uso, infatti, ci conduce dal piano delle essenze – realtà oggi considerate sempre più evanescenti, se non spettrali – a quello dei segni linguistici, e dei significati di cui essi sono portatori. Lo sfondo teorico è quello della semantica anziché della metafisica, e il campo di lavoro più risultare più rassicurante: meno astratto, e meglio controllabile nei presupposti. Vedremo, in realtà, che quest’impressione non si rivela del tutto fondata, e che soprattutto nel discorso giuridico l’altra modalità definitoria – quella per genere e differenza (considerata per secoli, anche fuori del nostro ambito, la tecnica di gran lunga preferibile) – mantiene uno spazio considerevole, e garantisce alcuni non trascurabili vantaggi teorici. Ma cosa significa definire tramite una regola d’uso (o di enunciazione)? La prospettiva adottata – lo si ricordi – è quella che mira a precisare quale sia la portata di un determinato significante (il nostro definiendum): ossia quando, e riguardo a cosa, sia appropriato impiegare quel termine. Di tale impiego linguistico viene così stabilita, appunto, la regola. In genere, quest’ultima si esprime tramite l’enunciazione di un rapporto (di regolarità) tra fatti – per cui al verificarsi dell’uno si determina il realizzarsi dell’altro –, e assume la (o almeno è sempre traducibile nella) forma canonica “se x, allora y” (“se ho sete allora bevo”; “se hai assunto un debito allora devi onorarlo”; ma anche “il venerdì mangio il baccalà, ossia “se è venerdì allora mangio il baccalà”). Ne consegue che proprio in questa veste, anziché in quella di una proposizione copulativa (“x è y”), si esprime anche la modalità definitoria che ora ci interessa. Essa, pertanto, si presenta come registrazione del nesso consequenziale e univoco tra l’integrarsi di un fatto e il ricorso a un determinato segno linguistico che lo denomina. Così, per perseverare nel nostro esempio, abbiamo una definizione di questo tipo laddove io affermi “se mi sono sposato con una persona, in Chiesa o in Comune, e non è intervenuto alcuno scioglimento del matrimonio, allora si dice che la persona che ho sposato ed io siamo coniugi”. Rispetto ad alcune risposte che avevo fornito al mio amico straniero, è evidente non solo la diversità della formulazione, ma anche la sua maggior puntualità – detto meglio: la maggior ricchezza sul piano intensionale. In particolare, la prima parte dell’enunciato condizionale (protasi) contempla ora, oltre a un fatto positivo (l’essersi sposati), anche la necessaria insussistenza di uno negativo, ossia lo scioglimento del rapporto matrimoniale (per morte di uno dei coniugi, divorzio o, se del caso, annullamento canonico). Non diversamente, sono da ricondurre alla nostra tipologia definitoria – a prescindere da certe variazioni lessicali che possono ricorrere nella seconda parte delle rispettive enunciazioni (apodosi) – regole 54

quali “se ho concluso con altri un contratto che non rientri nei tipi per i quali l’ordinamento stabilisce una disciplina particolare, allora si parla di un contratto atipico”; “se si è costituito un diritto di godere di un bene altrui e di farne propri i frutti, ma senza alterarne la struttura e destinazione economica, allora significa che si è costituito un diritto di usufrutto”. In casi come questi (ma è verosimilmente lecito andare oltre, e attribuire al rilievo una portata generale) appare evidente che nella protasi vengono inclusi una pluralità di elementi positivi e negativi, comunque costitutivi del definiendum, in modo non troppo difforme da quanto avverrebbe con una tipologia di definizione ulteriore, e che in effetti alcuni studiosi propongono di tenere distinta dalla nostra. Mi riferisco alla definizione tramite elenco componenziale. Anche nell’ipotesi in cui si adotti quest’ultima modalità, non ci esprimeremo secondo la modalità copulativa (“x è y”). Ma stavolta non si farà neppure ricorso a un’enunciazione in forma di regola – sebbene la proposizione che otterremo sarebbe non difficilmente traducibile proprio in quei termini –, bensì all’impiego di verbi e sintagmi diversi (“viene integrato quando ...”, “implica ...”, “è costituito da ...”, “esiste ove si riscontrino ...” o simili). L’importante è che nel definiens trovino spazio, tramite un elenco esaustivo – ancor più di quanto riscontrato per la definizione per partizione (§ 2), che rimane comunque un’operazione piuttosto vicina –, gli elementi dalla cui sussistenza (nessuno escluso) consegue l’esistenza della cosa che intendo definire. Cosa che sarà intesa, ancora una volta, o come autonoma entità, nell’approccio realistico; oppure come mero significante, in quello nominalistico. Così, per riproporre gli ultimi esempi di figure giuridiche, diremo che “il contratto atipico si ha laddove le parti abbiano concluso un accordo, questo abbia natura contrattuale, e però non rientri nei tipi per i quali l’ordinamento stabilisce una disciplina particolare” – magari con l’integrazione (per chiarire l’ammissibilità, e produttività di effetti, in merito a tale contratto atipico) secondo cui l’interesse che si mirava così a realizzare risulti “meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Oppure diremo che “l’usufrutto implica che si tratti di un diritto reale, che esso abbia come oggetto un bene altrui, che il suo contenuto consista nel poter godere di quel bene e farne propri i frutti, che sia però escluso il potere di alterarne la struttura e destinazione economica”. Ma possiamo anche tornare alla nozione di furto, cui abbiamo fatto riferimento nel trattare della qualificazione (capitolo II § 5), e affermare che “esso sussiste in presenza dei seguenti elementi: l’impossessamento da chiunque compiuto, che ne sia oggetto una cosa mobi55

La definizione tramite elenco componenziale

Diverse soluzioni sintattiche e lessicali

Esempi

Vantaggi di queste modalità definitorie ...

le, che questa sia altrui, che la sottrazione avvenga rispetto a chi detiene il bene, che tale sottrazione sia finalizzata a trarne un profitto, che quest’ultimo sia a vantaggio di chi si impossessa della cosa oppure di altri” (al che dovremmo forse aggiungere anche alcuni dati negativi, quali l’assenza di “violenza alla persona o minaccia”, in presenza delle quali saremmo invece dinanzi alla fattispecie della rapina, di cui all’articolo 628 del codice penale). Le esemplificazioni appena proposte costituiscono, ovviamente, solo dei tentativi di definizione, e non escludo affatto che si possa fare di meglio, anche attenendosi alle medesime tipologie – vedremo in effetti (in questo e nel successivo §) come sia dato giungere, tanto più in campo giuridico, a una vasta gamma di risultati definitorî, dal più apprezzabile a quelli che disattendono completamente l’obiettivo della nostra operazione. In base alle ipotesi sin qui contemplate, possiamo in ogni caso formulare alcune considerazioni, valevoli in merito sia alla definizione tramite regola d’uso (o di enunciazione) sia a quella tramite elenco componenziale. Non vi è dubbio che ci troviamo dinanzi a enunciazioni dal contenuto informativo assai più ricco e puntuale di quello offerto dalle modalità censite al § 2, per molte delle quali è apparsa dubbia persino la natura effettivamente definitoria. Vi sono poi alcuni indiscutibili vantaggi garantiti al giurista (soprattutto) dalla definizione tramite elenco componenziale. Essa si rivela probabilmente la più efficace, nella schematica articolazione in cui è scandita, per visualizzare la serie di elementi il cui simultaneo ricorrere integra una fattispecie: e perciò la più utile laddove si intenda poi esaminare un evento concreto e valutarne la riconducibilità a questo o quel modello normativo di fatto. E in effetti è proprio tale modalità definitoria a venire più utilizzata nel primo momento di quella “tecnica delle tre fasi” raccomandata in sede di qualificazione identitaria e sussunzione (capitolo II, § 5). A ciò può aggiungersi che la definizione (in particolare) tramite regola d’uso – ma abbiamo accennato a come sia sostanzialmente traducibile in questa forma anche l’altra – è apparsa non di rado quella più idonea ad affrontare nozioni astratte, così ricorrenti nel lessico giuridico. In esso troviamo infatti vocaboli o sintagmi privi di qualsiasi correlato oggettivo: non il gatto o il sigaro, per cui posso pensare alla bestia a quattro zampe che ronfa e fa le fusa o al rotolo di foglie di tabacco che in questo momento sto fumando; ma il diritto soggettivo o l’usucapione, per i quali in natura non troverei alcuna traccia fisica ma solo, al massimo, chi sia titolare del primo o a favore del quale si compia la seconda. E vocaboli – “nomi”, ancora una volta – di cui preme chiarire, innanzi tutto, la portata: ossia le regole che presiedono al loro corretto impiego entro un linguaggio tecnico. 56

È tuttavia innegabile che entrambe le tipologie appena esaminate presentino anche alcuni inconvenienti. Il primo, evidente già negli esempi indicati, è costituito dal carattere un po’ macchinoso della formulazione: per certi versi sin troppo schematica, per altri piuttosto ridondante. In una parola – ma attribuendole un significato sostanziale, e non solo formale – fa difetto l’eleganza, o almeno rischia di esservene troppo poca. Manca poi, o rimane alquanto defilata, la collocazione delle figure cui ci siamo riferiti (il contratto atipico, l’usufrutto, il furto) entro l’impianto sistematico del diritto privato (nei primi due casi) o penale (nel terzo). Difetta cioè l’indicazione del genere identitario, costituito dalla classe (di atti o diritti) più vicina al definiendum, e che sarebbe stato invece richiamato già in sede di qualificazione (appunto) identitaria – laddove sarebbe stata predicata, rispettivamente, l’afferenza al complesso degli accordi aventi contenuto giuridico e patrimoniale, a quello dei diritti reali su cosa altrui, a quello dei reati e in particolare dei delitti (da tenere distinti, secondo la scansione del nostro codice penale, dalle contravvenzioni). Per affidarci di nuovo a una formula sintetica, potremmo parlare di una carenza di spessore teorico – non disgiunta, inevitabilmente, dal pericolo di ingenerare qualche fraintendimento. Proprio alla luce di questi limiti, possiamo tornare a esaminare, più distesamente, la definizione per genere e differenza: l’unica che appaia in grado di ovviare a simili inconvenienti. E, pertanto, la modalità definitoria che rimane spesso preferibile (anche) per il giurista, nonostante le varie critiche ricevute nel corso della sua lunga storia, e al di là dei vantaggi che in certi contesti sono assicurati da tipologie definitorie diverse (come appena riscontrato in merito a quella tramite elenco componenziale, rispetto alla prima delle tre fasi del qualificare o sussumere). Come è stato osservato, la definizione per genere e differenza spicca, in definitiva, proprio perché capace di soddisfare una duplice esigenza teorica: una sistematica e una identitaria. Il primo obiettivo è raggiunto in quanto la nostra tipologia di definizione necessariamente presuppone una puntuale e articolata griglia concettuale in cui sia disposto un intero sapere o campo d’esperienza, e vigila sulla collocazione di ogni nozione entro la “casella” appropriata. Il secondo è garantito dal fatto che tale modalità di definizione è volta a individuare, entro il genere identitario, i tratti distintivi del definiendum. Alcuni esempi sono già stati forniti trattando della qualificazione identitaria (capitolo II, §§ 4 e 5). Possiamo aggiungerne qualcun altro, e soprattutto formulare alcune raccomandazioni affinché questo tipo di definizione venga realizzato nel modo più corretto e soddisfacente 57

... e loro limiti

La definizione per genere e differenza

Esempi e suggerimenti

Esempi, di oggetti comuni o giuridici

Importanza della scelta del genere identitario

(anche sul piano comunicativo). Le modalità dell’operazione non mutano se ci riferiamo a oggetti comuni e concreti oppure a figure tecniche e astratte – salvo che, nel secondo caso, all’approccio realistico, di regola prevalente, potrà più frequentemente affiancarsene uno nominalistico: per far intendere che si vuole definire non la cosa in sé, ma il significante, sarà sufficiente sostituire il verbo “è” con “designa”, “indica” o simili. Così, nella prospettiva delle cose tangibili o comunque (almeno per noi) atecniche, dirò che “la forchetta è la posata con manico e rebbi”, “l’impermeabile è il soprabito che si indossa per riparare gli indumenti sottostanti, e il corpo, dalla pioggia”, “la scrivania è il mobile adibito a tavolo di studio, per leggere, scrivere o disegnare”. Guardando all’ambito delle figure giuridiche, dirò che “l’uso è (oppure “designa”) il diritto di usare un bene altrui e di farne propri i frutti limitatamente alle esigenze del consumo proprio e della propria famiglia”, “il dolo contrattuale è (oppure “designa”) ogni astuzia, raggiro o macchinazione volto a ingannare altri e determinare in lui un’errata e pregiudizievole rappresentazione della realtà su cui verte il contratto”, “la successione ereditaria è (oppure “designa”) la successione a titolo universale che si apre alla morte di qualcuno, in modo tale che gli eredi subentrino nella totalità dei rapporti giuridici trasmissibili di cui era titolare la persona defunta”. Anche in questi casi, naturalmente, sarebbe possibile fare di meglio, almeno in merito all’eleganza della formulazione. Nell’ultimo esempio, in particolare, è quasi inevitabile una certa circolarità, nel senso che nel definiens ritroviamo un termine proprio già del definiendum: “la successione ereditaria è ... la successione a titolo universale”. Un difetto che potremmo evitare ricorrendo a sinonimi o perifrasi (“è la forma di trasmissione a titolo universale”, “è il fenomeno in forza del quale, alla morte di qualcuno, altri subentra nella totalità dei rapporti giuridici trasmissibili ...”): ma con l’inconveniente di dover rinunciare all’espressa menzione del genere identitario, che per il giurista è proprio quello della “successione a titolo universale”. Si noti comunque che, già a proposito di oggetti comuni (che usualmente riteniamo di poter definire in modo alquanto più rapido e approssimativo), le definizioni proposte consentono di delimitare le nozioni di nostro interesse. In questo siamo agevolati già dalla puntualità del genus richiamato nel primo tratto: non genericamente “la cosa”, ma rispettivamente la posata, il soprabito e il mobile. In virtù delle caratteristiche più tardi segnalate, abbiamo poi escluso oggetti che certo tutti consideriamo ben distinti dal definiendum, ma che finirebbero per l’esservi indebitamente ricondotti ove ci esprimessimo in maniera inadeguata. 58

Se ad esempio avessi detto della forchetta che è l’utensile per portare i cibi alla bocca, avrei fornito una definizione troppo ampia, in quanto sarebbe comprensiva anche dei cucchiai, e probabilmente pure di tazzine da caffè, bicchieri e tazze da thè (se nei cibi includiamo le bevande). Non diversamente, affermando che l’impermeabile è ciò che mi ripara dalla pioggia non avrei affatto escluso l’ombrello; e parlando della scrivania come del piano su cui scrivere avrei finito per includere la tastiera del computer. In effetti il primo requisito che deve presentare ogni definizione è quello della “giustezza”, ossia di non essere né troppo larga né troppo stretta; priva di eccedenze o carenze. La definizione per genere e differenza non fa certo eccezione. La sua struttura dovrebbe essere anzi la più idonea, se realizzata in modo corretto, a raggiungere tale obiettivo, e rende comunque subito evidenti le (inaccettabili) deviazioni rispetto ad esso. Sarà sufficiente, appena formulata la definizione, una rapida verifica. Chiediamoci, in primo luogo, se nel definiens così allestito possano trovare spazio tutti gli oggetti riconducibili al termine generale cui mi sto riferendo. Tutte le forchette del mondo rientrano nella mia definizione? E gli impermeabili e le scrivanie? Basta rinvenire mentalmente un solo elemento che rimarrebbe escluso per comprendere che ho proposto una definizione troppo stretta. Come se, nel primo dei nostri esempi, avessi detto che “la forchetta è la posata metallica con manico e rebbi”: in tal caso avrei tralasciato tutte le forchette di plastica, legno o altro materiale. In secondo luogo – e questa è spesso la verifica più delicata – dovrò valutare se il mio definiens non sia tale da includere anche altri elementi oltre alla nozione che avrei voluto (e dovuto) identificare. Sarebbe sufficiente, di nuovo, rinvenirne uno solo per comprendere che ho predisposto una definizione troppo larga. Esattamente quello che abbiamo riscontrato poco sopra, ricordando cucchiai, ombrelli e tastiere del computer quali oggetti che non venivano affatto esclusi da maldestre definizioni di forchetta, impermeabile e scrivania. Ove manchi il requisito della giustezza abbiamo una pessima definizione, o addirittura dobbiamo escludere di essere dinanzi alla nostra operazione. In quest’ultimo modo dovremmo sempre valutare una definizione troppo stretta, sebbene sia forse possibile (anche alla luce di certe occasioni in cui incorre in tale difetto lo stesso legislatore: § 4) essere più concessivi e stimare che, qualora gli elementi esclusi siano di rilievo trascurabile, o sia consentito farli rientrare nel definiens con qualche sforzo interpretativo, si possa parlare di un enunciato che abbia comunque natura definitoria, ma formulato in maniera assolutamente insoddisfacente. Di fronte a una definizione troppo larga divie59

“Giustezza” della definizione

Verifica della “giustezza”: primo passaggio

Secondo passaggio

Linearità della definizione

Gravi limiti delle definizioni tautologiche o circolari

ne poi francamente difficile, in ogni caso, parlare ancora di definizione: propriamente mi troverò dinanzi, in realtà, a una mera qualificazione identitaria, con cui il definiendum rimane ancora da circoscrivere rispetto agli altri elementi ospitati nella medesima classe (nei nostri tre esempi, quelle delle posate, dei soprabiti e dei mobili). Muovendo una parziale autocritica all’ultima delle definizioni proposte in merito a figure tecniche del diritto (più precisamente, in merito alla successione ereditaria), ho poi presupposto un altro inconveniente da cui è opportuno guardarsi nell’allestire una definizione (anche per genere e differenza). Occorre sforzarsi di far sì che essa non sia circolare, ossia non riproponga nella seconda parte (definiens) uno o più termini propri del definiendum. “Il frigorifero è l’elettrodomestico che serve per refrigerare cibi e bevande”; “il possesso è la situazione di fatto, giuridicamente qualificata, in cui taluno possiede una cosa”; “l’accordo delle parti è il momento in cui esse si accordano” sono tutti esempi di definizioni sostanzialmente tautologiche, in quanto affette da vistose (e maldestre) circolarità, non attenuate neppure dal ricorso a minimi mutamenti grammaticali (i verbi, all’interno del definiens, in luogo dei corrispondenti sostantivi del definiendum). Tentativi definitorî di questo tipo eludono completamente le finalità dell’operazione: non colgono l’identità di una cosa né chiariscono il significato di un vocabolo, rischiando di alimentare circoli viziosi di spiegazioni che tornano poi al definiendum, in un vacuo andirivieni ben noto a chi debba valutare certi esami (persino) universitari. Così ad esempio, nel caso del possesso, chi ne ignori la portata nel linguaggio giuridico (o intenda verificare se è effettivamente nota all’interrogato) non saprà neppure cosa significhi “possedere” (o della sua sola menzione non potrà essere soddisfatto). Sarà perciò indotto a chiederne conto, per sentirsi magari rispondere che “possedere significa avere il possesso”. Enunciazione con la quale torniamo esattamente al punto di partenza, senza aver nulla appreso attorno a quella nozione. In ipotesi come questa è evidente che il vuoto cognitivo e comunicativo – per esprimerci meglio, la gravissima carenza sul piano intensionale – rende del tutto inaccettabile la (presunta) definizione, che sostanzialmente neppure può dirsi realizzata. Certo potremmo immaginare ipotesi in cui (come nell’esempio della successione ereditaria) un qualche elemento di circolarità potrebbe essere tollerato. Ma solo a patto che la sua presenza sia imposta dalla consolidata e significativa ricorrenza di una determinata terminologia entro quello specifico contesto tecnico (come appunto nel caso richiamato), e venga adeguatamente compensata da un congiunto, e ben più ricco, nucleo informa60

tivo. E rimane comunque indubbio che, ove possibile (e lo è quasi sempre), la definizione (anche) per genere e differenza richiede linearità nella formulazione – nel senso, appunto, di assenza di circolarità. Altri requisiti che essa deve presentare concorrono poi a migliorarne la qualità (e talora anche in modo decisivo, guardando agli scopi che essa persegue). Essi però non sono richiesti, per usare una terminologia cara ai giuristi, a pena di nullità. In effetti, qualora non vengano integrati, sarebbe eccessivo considerare inammissibile o inesistente la definizione: questa però sarebbe senza dubbio poco elegante, e malamente congegnata. È quanto riscontriamo, in particolare, per le definizioni che si servano di parole o sintagmi oscuri – in senso ampio, ossia caratterizzati da ambiguità o indeterminatezze (capitolo IX, § 1) –, e per quelle eccessivamente prolisse e ridondanti. Nel primo caso la definizione finisce con l’amplificare, anziché risolvere – come sarebbe suo compito: spesso vi si ricorre proprio per venire a capo di parole o locuzioni poco chiare –, le difficoltà di comprensione innescate da polisemie o vaghezze. Un inconveniente tanto più rilevante in campo giuridico, atteso il rigore (innanzi tutto) linguistico che dovrebbe connotarlo. Rigore che rende perciò sempre consigliabili formulazioni nitide e univoche, che indulgano il meno possibile anche a espressioni figurate o metaforiche. Queste ultime possono riuscire talora suggestive, ma assumono contorni spesso nebulosi. Come laddove, ad esempio, intendessi definire il contratto quale “il luogo privilegiato dell’idem sentire, che informa l’affare in cui le parti vollero composti i loro interessi e le loro aspettative”. Dinanzi a una simile enunciazione rimarrebbe interdetto non solo ogni operatore del diritto, stimandola giustamente troppo poco tecnica, ma anche lo studente che la udisse a lezione, e che verosimilmente stenterebbe a cogliere il reale significato, all’interno di quella frase, dei verbi “informare” e “comporre”, per non parlare del terrifico sintagma latino. Nel secondo caso – quello di una definizione ridondante (della quale, proprio per non cadere in inutili prolissità, rinuncio a proporre esempi) –, il problema è in primo luogo di riuscita comunicativa. Una definizione così caratterizzata risulterebbe, infatti, assai difficile da seguire e comprendere, e tanto più da memorizzare: col pericolo che il destinatario ne conservi solo una versione parziale, e magari ne lasci cadere quei tratti che in realtà sarebbero i più importanti. Ma l’inconveniente è spesso anche di ordine sostanziale – così che non varrebbe ad attenuare il difetto di sintesi (o di economicità espressiva) il luogo comune per cui “nel più sta il meno”, né l’antico adagio (ricorrente proprio presso i giuristi, sin dall’antichità) secondo il quale “il superfluo non nuoce”. 61

Altri requisiti di una “buona definizione”

Definizione, ambiguità e vaghezza

I rischi di una definizione ridondante

Una definizione che contempli lungaggini o comunque segmenti non indispensabili è, in effetti, maggiormente esposta al rischio di oscurità e di carenze di giustezza, imprecisioni e indebite esclusioni (o inclusioni). Non è funzionale per chi fa didattica, e finisce con l’affastellare dettagli secondari, distogliendo i discenti dai tratti essenziali della nozione che vorrebbe spiegare. E tantomeno giova a chi vi ricorre nella veste di esaminato, e dimostra così di non saper andare dritto verso quei medesimi tratti, costitutivi dell’identità della figura su cui verte il colloquio, moltiplicando fra l’altro le affermazioni in merito alle quali può essere colto in fallo. Il dono della sintesi (anche) nel definire è in realtà una conquista: necessaria quanto faticosa, raggiungibile solo da chi abbia padronanza della materia e delle tecniche espositive.

4. “Ogni definizione è nel diritto (civile) pericolosa”

Una consapevolezza antica, ma da contestualizzare

L’assoluto rilievo della definizione all’interno delle pratiche discorsive del diritto è già ampiamente emerso nel corso di questo capitolo, e qualcosa sarà ancora aggiunto nelle pagine che seguiranno, guardando ad altre classificazioni (e quindi tipologie) della nostra operazione, diverse da quelle richiamate sinora. Ma perché, allora, parlare di una “pericolosità” del definire? Il titolo di questo paragrafo riprende, in realtà, un’affermazione rimasta famosa (per chi, naturalmente, si occupi dei nostri temi). Essa risale a un giurista romano, Giavoleno Prisco, attivo tra I e II secolo d.C. In un passo tratto dall’undicesimo libro delle sue epistulae – un’opera contenente soluzioni di casi specifici, formulate come risposte a quesiti a lui rivolti per lettera – egli ammoniva che “ogni definizione è nel diritto civile pericolosa, in quanto è raro che non possa essere sovvertita”. Ho richiamato il luogo in cui quella massima fu enunciata perché aiuta a comprendere come essa debba essere valutata, senza assumerla in termini troppo generali e perentori. Con quelle parole Giavoleno non intendeva affatto esimersi da ogni sforzo definitorio, né giustificare perché tenersene lontani. Segnalava, piuttosto, la difficoltà di fissare in modo univoco i confini concettuali di ogni figura giuridica (egli si riferiva al diritto civile, ma possiamo senz’altro estendere la prospettiva). E ciò tanto più a fronte delle esigenze di rimodulazione, anche teorica, suscitate dalla mutevolezza dell’esperienza giuridica e dall’esame delle situazioni concrete – dal che appunto l’importanza di ricollocare quella dottrina nel suo originario contesto. 62

Né Giavoleno né molti altri giuristi romani, in realtà, si astennero dal definire; così come non potrebbe farlo alcun loro collega dei nostri giorni. Più volte il loro impegno su questo versante si rivelò anzi decisivo. Spesso essi si trovavano ad affrontare testi normativi (l’editto del pretore, in particolare) in cui erano impiegati determinati termini, ma senza che ne venisse chiarita la portata. Spettava dunque agli interpreti colmare questi vuoti e prevenire (o risolvere) le incertezze che potevano scaturirne, sino a tracciare i confini di alcune rilevantissime nozioni giuridiche. E talvolta ciò fu realizzato, tramite un lavorio protratto sull’arco di più generazioni, con risultati talmente soddisfacenti da entrare stabilmente nel bagaglio teorico della nostra tradizione. Al punto che anche l’odierno legislatore può esimersi dal definire alcune figure del diritto privato da lui disciplinate: è il caso, ad esempio, del dolo (che noi denominiamo contrattuale, o negoziale), ma anche dell’usufrutto, per i quali può tuttoggi rinviarsi a quanto precisarono, rispettivamente, i giuristi Antistio Labeone (I secolo a.C.-I secolo d.C.) e Giulio Paolo (III secolo d.C.). Nell’esperienza giuridica antica possiamo dunque cogliere non una generica avversione, o indifferenza, per la nostra operazione, ma semmai la precisa percezione della sua difficoltà e delicatezza, e ancor più della provvisorietà degli esiti cui essa può condurre. Questi potevano, e in certa misura dovevano, essere rimessi continuamente in discussione, attraverso la riflessione degli interpreti successivi. La consapevolezza di quella provvisorietà si cala pienamente nelle tipiche dinamiche del mondo romano – con l’impianto casistico e l’attitudine dei suoi giuristi a produrre diritto, tramite una pluralità di soluzioni, non di rado fra loro divergenti (vi torneremo, in particolare, ai capitoli V, § 4 e VII, § 2). E, soprattutto, nel lavoro di quegli esperti, possiamo scorgere una significativa ritrosia a fossilizzare la sostanza cangiante del diritto – in perenne trasformazione, brulicante di varianti casistiche sempre nuove e di contrastanti interessi – in formule di ampio respiro, univoche e fisse, valevoli per ogni ambito e situazione. In aderenza a uno stile di lavoro irriducibile a ogni idea moderna di sistema, che non privilegiava affatto ragionamenti di carattere deduttivo ma neppure si esauriva in semplici induzioni (capitolo V, §§ 2-4), i giuristi romani inclinarono spesso per definizioni che possiamo denominare “topiche”. Definizioni, cioè, volte a illustrare la portata assunta da un termine entro uno specifico luogo (tópos, appunto) del complesso normativo che avevano dinanzi. Esse valgono dunque, di volta in volta, in riferimento a questo o quel nucleo di disposizioni, ma solitamente non comportano che il significato così stabilito permanga identico anche per le ricorrenze del medesimo termine in altri contesti – né tantomeno nel lessico comune. 63

La definizione come operazione indispensabile per il giurista

Le definizioni “topiche” degli antichi

Definizioni per differentiam

Un esempio in altro senso: la definizione di obbligazione

È anzi sintomatico, a quest’ultimo riguardo, che talora i giuristi romani affrontassero un sostantivo, o un verbo, delimitandone il significato per differentiam (ecco un’ulteriore tipologia di definizione, oltre a quelle censite nei §§ precedenti). Essi, cioè, procedevano illustrandone la diversità semantica rispetto ad altri vocaboli che nel linguaggio non tecnico potevano esservi assimilati. Lo riscontriamo ad esempio laddove il citato Labeone intese identificare il contractum (ciò che è stato contratto), e scelse di farlo distinguendolo dall’actum (atto) e dal gestum (gesto): parole che solo entro il discorso giuridico acquistano una loro precisa fisionomia, la quale non sopporta indebite sovrapposizioni. Non mancano peraltro occasioni in cui le fonti antiche tramandano definizioni di concetti di ampia portata, destinati a essere impiegati (e proprio nel significato così enucleato) in una molteplicità di previsioni e soluzioni normative. Né è probabilmente casuale che, nel realizzare ciò, si ricorresse a definizioni per genere e differenza (§ 3), che tornano così a presentarsi come modalità privilegiata della nostra operazione. Basti pensare a un’altra figura per cui, come nel caso di dolo e usufrutto, cercheremmo invano una definizione nel nostro codice civile – ove pure a essa è dedicato un libro intero (il quarto), ma iniziando già con lo stabilirne le fonti (articolo 1173) e dandone invece per pacifica la sottesa nozione. Mi riferisco all’obbligazione. Per illustrarne il concetto ci serviamo ancora, nella sostanza, della definizione leggibile nelle Istituzioni fatte redigere dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo d.C.: “l’obbligazione (obligatio) è un vincolo giuridico, in forza del quale siamo tenuti dalla necessità di compiere una prestazione in conformità ai diritti della nostra comunità”. Anche senza entrare troppo nei dettagli, vediamo che qui, per il rapporto fra creditore e debitore (l’obbligazione, appunto), il genere identitario è individuato nel vincolo giuridico (iuris vinculum): non una qualsiasi relazione rilevante per il diritto, e tantomeno un generico legame, di qualsiasi natura (in cui sarebbe quindi da includerne anche uno fisico, o morale). L’obbligazione viene poi delimitata, rispetto agli altri elementi presenti in questa classe, da una serie di dati, che rinviano tutti alla cogente doverosità di eseguire la prestazione, intesa quale oggetto dell’obbligazione medesima. Viene in tal modo escluso ogni altro vincolo giuridico: come l’obbligo di astenersi dall’ostacolare l’altrui esercizio di un diritto su cose (diritto reale: proprietà, usufrutto, servitù prediale, ecc.), oppure le relazioni di carattere meramente personale (come ad esempio, e tanto più nel mondo antico, quelle tra il capofamiglia e le persone soggette alla sua potestà). 64

L’insistenza sulle pratiche definitorie entro un’esperienza (almeno in apparenza) tanto remota non vuole, in un libro come questo, rispondere a un mero gusto antiquario. E non solo perché in alcuni casi, come accennato, i risultati tecnici a cui allora si pervenne conservano gran parte del loro valore nell’odierna disciplina. Questa rapida escursione all’indietro nei secoli ci consegna soprattutto un’immagine ricca e complessa del fenomeno definitorio, talora – ma solo a uno sguardo superficiale – persino contraddittoria. Ci fa comprendere come, fin dai suoi esordi (che sono, appunto, tutti romani), la scienza del diritto si sia puntualmente misurata con la nostra operazione: praticandone diverse tipologie, interrogandosi sui suoi rischi, facendone un uso tutt’altro che sporadico e spesso determinante, declinandola in configurazioni teoriche (e soprattutto in modalità operative) diverse, conseguenti alle difformi concezioni che storicamente si sono fissate riguardo allo stesso diritto. Abbiamo anche in questo una conferma di quello snodo fondamentale rappresentato dalla definizione: snodo non più, in genere, della cultura occidentale (§ 2), ma più specificamente del pensiero giuridico. Oggi i giuristi definiscono in innumerevoli occasioni: in più modi, in svariate vesti e con differenti finalità. Definisce (solitamente per genere e differenza) il legislatore, al fine di delimitare la figure per cui formula le sue previsioni. Definiscono (in molteplici forme, a seconda delle esigenze dettate dal contesto) l’interprete e l’operatore pratico del diritto, interessati a individuare la portata di un determinato termine normativo (e magari poter qualificare, alla luce di esso, figure e fatti concreti). Definisce – secondo differenti modalità, ma privilegiando più spesso quella per genere e differenza – il teorico e l’insegnante di diritto, che costruisce dottrine scientifiche e ne trasmette il contenuto, con l’esigenza di chiarire ai suoi discenti il significato dei vocaboli che impiega. Definisce un organo amministrativo, anche nelle non infrequenti occasioni in cui interviene a precisare (non di rado tramite regola d’uso o elenco componenziale) l’esatta portata di termini e locuzioni impiegate in atti che esso stesso ha emanato in precedenza (cosiddetta interpretazione autentica: capitolo VII, § 3). Definiscono i privati allorché stipulano gli accordi più complessi (ed economicamente rilevanti: pensiamo a un capitolato di appalto) e intendono prevenire oscurità, e quindi anche possibili controversie, stabilendo in modo esaustivo e puntuale quale senso vada attribuito a certe parole di cui essi stessi si serviranno. Da qui specifiche esigenze (e difficoltà) poste via via dall’attività definitoria; ma anche, come anticipato, nuove classificazioni in cui essa può essere scandita – le quali valgono, in verità, anche per altri ambiti, ma che per l’operatore del diritto assumono ulteriore e specifico rilievo. Possiamo così distinguere, in primo luogo, tra varie tipo65

Il significato di questo percorso storico

Odierna onnipresenza delle definizioni

Ulteriori classificazioni delle definizioni

Definizioni interpretative, teoriche, qualificatorie

Definizioni descrittive, stipulative, precisanti

Esempi

logie di definizione, a seconda della finalità per cui esse sono compiute (cosiddetta funzione perlocutoria). Per quanto i motivi alla base di ogni atto linguistico (definizione inclusa) possano essere innumerevoli, in questa prospettiva sono da ricordare almeno le definizioni interpretative, a cui ricorreranno i molteplici soggetti che devono misurarsi con questo compito (capitolo VII, § 3), non esclusi studenti e insegnanti alle prese con la comprensione o spiegazione di un testo normativo; quelle teoriche o scientifiche, da parte del giurista che mette a punto le sue dottrine, in chiave più o meno sistematica, e perciò provvede anche a distinguere le varie nozioni, collocandole entro un vasto impianto teorico; quelle qualificatorie, destinate a costituire la prima delle tre fasi attraverso le quali abbiamo visto realizzarsi una qualificazione identitaria e una sussunzione (capitolo II, § 5). Da un altro punto di vista – guardando cioè alle funzioni prime, e tipizzate (dette illocutorie), di ogni enunciato – possiamo poi avere definizioni con cui si asserisce, o afferma, oppure si assume un impegno (sono invece logicamente da escludere le rimanenti funzioni illocutorie, consistenti nell’interrogare od ordinare). Si parlerà quindi di definizioni descrittive oppure stipulative. Le prime tendono a illustrare con precisione il significato di un termine già di uso consolidato (all’interno, nel nostro caso, del linguaggio giuridico, o di un suo settore). Le seconde sono destinate a impegnare il soggetto (o i soggetti) che le realizza(no), e talvolta (anche) i destinatari, a impiegare un vocabolo – nuovo o almeno tale nel significato – secondo la regola d’uso sancita appunto con la definizione. A questa coppia dovremo poi aggiungere le definizioni precisanti, che ne costituiscono come la combinazione, in quanto rivolte a un termine di comune utilizzo, ma per delimitare la sua accezione entro un preciso contesto (si parla, in effetti, anche di ridefinizioni), e orientarne dunque la semantica alla luce delle esigenze che in quell’ambito si pongono, risolvendo le incertezze che possono scaturirne. Così l’insegnante (e in molti casi anche il legislatore) farà ricorso a definizioni descrittive: come molte di quelle finora ricordate. Definizioni stipulative – riguardo, più di frequente, a parole nuove con significato vecchio, o vecchie con significato nuovo – saranno impiegate talora dal legislatore medesimo (ma il vincolo scatterà soprattutto nei confronti dei consociati, tenuti a servirsi di quei termini nell’accezione da lui fissata). Le troviamo però utilizzate non di rado anche dai privati. Come nel caso, già ricordato, in cui essi chiariscano, nelle prime clausole di un contratto, la portata di sostantivi o espressioni di cui si serviranno – e sempre secondo il significato preventivamente stabilito – nel prosieguo dell’accordo (è una prassi diffusa soprattutto 66

nei contratti di appalto e di assicurazione, ma anche in molti contratti collettivi di lavoro, coi quali ultimi ci spostiamo però ai confini dell’autonomia privata). Le definizioni precisanti ricorrono poi, in prevalenza, nel lavoro interpretativo, col quale si presta attenzione allo specifico contesto cui è rivolta una previsione normativa. Ne abbiamo incontrato alcuni esempi nel metodo dei giuristi romani (col loro incedere “topico”), ma molti altri ne sono rinvenibili anche nell’attuale prassi giuridica. Si pensi, per rimanere all’ambito di nozioni di ampio spessore, a quelle di fatto e atto (giuridico). Essi, secondo l’accezione consolidata nella nostra tradizione, designano rispettivamente – come già ricordato (capitolo II, § 4) – ogni avvenimento rilevante per il diritto e ogni fatto (parimenti produttivo di effetti giuridici) posto in essere dall’uomo. Ma nessuna disposizione di legge sancisce tale significato, e può accadere di imbatterci, nei nostri codici, in qualche ricorrenza di tali nozioni difficilmente comprensibile attenendosi a quella semantica. In particolare, l’articolo 1173 del codice civile, dedicato alle “fonti delle obbligazioni”, prevede che queste ultime “derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”. Se qui intendessimo i nostri due termini nel significato usuale, non risulterebbe affatto chiaro come sia possibile avere un “fatto illecito” che non si identifichi con la sua sottoclasse di “atto illecito”. La qualifica di illiceità può essere infatti attribuita solo a eventi che scaturiscono da comportamenti umani, e non a meri avvenimenti naturali (come il trascorrere del tempo o una variazione meteorologica). Ecco dunque che la pur consueta accezione di fatto e atto giuridico deve essere rivista e (appunto) ridefinita con specifico riguardo a questa disposizione. Qui pertanto “fatto giuridico” assume – secondo la ricostruzione più persuasiva – la portata che solitamente viene attribuita ad “atto giuridico” (potendosi connotare anche per la sua illiceità), e lo steso “atto giuridico” equivale ad atto negoziale. In definitiva, il legislatore avrebbe stabilito che un rapporto di credito-debito può sorgere, oltre che da contratto o atto illecito, da qualsiasi altro atto idoneo a produrlo in conformità dell’ordinamento: sia esso un negozio giuridico (come un testamento che dispone un legato con cui sia costituito, a carico di un erede, l’obbligo di compiere una prestazione a favore di altro soggetto, denominato legatario) o non lo sia affatto (come il pagamento di un indebito, che determina l’obbligo della restituzione, non voluto da alcuno dei due soggetti). Le definizioni a cui si ricorrerà per intendere i due vocaboli rinvenibili nell’art. 1173 del codice civile ricalcheranno pertanto, nella sostanza, quelle già formulate a proposito di atto e negozio giuridico (capitolo II, §§ 4 67

Il caso dell’articolo 1173 del codice civile: “fatto giuridico” e “atto giuridico”

Definizioni infelici del legislatore: la nozione di compravendita

e 5): e si presenteranno – secondo le tipologie finora individuate – come definizioni per genere e differenza, interpretative e precisanti. Indubbiamente simili deroghe, da parte del legislatore, rispetto a un’accezione consolidata possono risultare criticabili, al punto da compromettere trasparenza comunicativa e certezza del diritto. Ma tanto più diverrà essenziale, in simili frangenti, un lavoro definitoriointerpretativo accorto e puntuale. Né dobbiamo pensare che i padri dei nostri codici, quando a loro volta sono stati chiamati a compiere definizioni, ne abbiano sempre fornite di irreprensibili. La “pericolosità” di cui parlava Giavoleno vale, mutato quel che è da mutare, anche per loro. Mi limiterò a due esempi, attinenti entrambi a disposizioni del codice civile che già abbiamo incontrato. Mi riferisco, in primo luogo, alla compravendita, che abbiamo visto (§ 2) essere definita dall’articolo 1470 come il contratto “che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo”. L’effetto che da essa scaturisce sembra quindi, e senza alcuna eccezione, quello di determinare un passaggio di proprietà (oppure il trasferimento o la costituzione di altro diritto reale). Abbiamo però già verificato (capitolo II, § 3) che non tutte le compravendite danno vita a questo tipo di conseguenze, essendovene alcune (aventi a oggetto, ad esempio, beni futuri o beni altrui) da cui sorge solo un’obbligazione a carico del venditore, tenuto a operare la trasmissione di quel bene in un momento successivo (ossia quando esso verrà in essere, o il venditore stesso l’avrà a sua volta acquistato, come appunto è suo dovere fare). Se dunque sottoponiamo l’enunciazione dell’art. 1470 alla verifica che abbiamo suggerito nelle pagine precedenti (§ 3), non tarderemo ad accorgerci che una simile definizione risulta troppo stretta, in quanto il definiens è in grado di ospitare solo una parte (pur maggioritaria) delle compravendite, ma non riesce ad abbracciare tutti gli elementi della classe in cui consiste il definiendum. A questa definizione legislativa farebbe così difetto uno dei requisiti essenziali: quello della giustezza. Ove però volessimo essere meno severi, potremmo immaginare che il nostro codice, laddove stabilisce che la compravendita “ha per oggetto” (e non “ha come effetto”) il trasferimento della proprietà, intende richiamare la circostanza che quest’ultimo costituisce comunque la finalità perseguita con tale contratto, sia che scaturisca immediatamente alla conclusione di esso (nella maggior parte dei casi), sia che si realizzi in via indiretta e successiva (nelle ipotesi poc’anzi ricordate). Peraltro, se inteso in tal modo, all’articolo 1470 sarebbe comunque da rimproverare una certa oscurità, dalla quale invece (come 68

segnalato al § 3) dovrebbe essere esente ogni enunciato di cui ci si serva per definire. Semplicemente, il difetto di quella disposizione, da grave ed essenziale qual era secondo la precedente lettura, si rivelerebbe ora veniale: ci troveremmo pur sempre dinanzi a una definizione, ma non proprio apprezzabile. Diversi sono i problemi destati da un’altra e più ampia nozione, per come fissata dal legislatore: quella di contratto, fornita dall’articolo 1321 del codice civile e già richiamata in precedenza (capitolo II, § 4). Il definiens è così formulato: “l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Si tratta dunque, con ogni evidenza, di una definizione per genere e differenza. L’accordo è individuato quale genere identitario del contratto, e vengono poi indicati i tratti distintivi di quest’ultimo rispetto a ogni altro accordo: come quelli privi di contenuto giuridico, o direttamente produttivi non di effetti patrimoniali, ma solo personali, quali il matrimonio. L’unico elemento censurabile potrebbe consistere in una certa ridondanza, laddove viene affermato che l’accordo è “di due o più parti”: col che il codice parrebbe escludere che esso possa essere concluso da una persona singola (non affetta da grave schizofrenia). Ma è verosimile che il legislatore intendesse precisare che la nozione da tener presente, anche in riferimento all’accordo, è quella di “parti” anziché di “soggetti” – queste due figure, infatti, in un contratto possono non coincidere, come laddove vi siano più soggetti che formano però una sola parte (ad esempio due comproprietari di un immobile che intendano alienarlo e costituiscono pertanto la parte venditrice). Il vero problema si pone però altrove: non all’interno della definizione predisposta all’articolo 1321, ma a livello sistematico, ossia guardando al complesso delle prime previsioni (di portata generale) dedicate al contratto. Appena quattro disposizioni più tardi (all’articolo 1325) troviamo infatti elencati i suoi requisiti, ossia quegli elementi che concorrono a formare il contratto stesso, e in assenza dei quali esso è da considerare nullo. Al primo posto – anteposto quindi a causa, oggetto e forma (ove prescritta sotto pena, appunto, di nullità) – troviamo “l’accordo delle parti”. Proviamo allora a leggere congiuntamente i due articoli, sostituendo (come in un’espressione matematica) il definiendum dell’articolo 1321 col suo definiens. Scopriremo che, secondo il nostro legislatore – il quale ha persino peggiorato la situazione, rispetto a quella del codice civile previgente, del 1865 –, il primo requisito che deve presentare “l’accordo di due o più parti” (“... per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”) è “l’accordo delle parti”. In altre parole, viene stabilito che una cosa, per poter esistere 69

La definizione di contratto ...

... e il suo coordinamento con l’elenco dei requisiti del contratto

Il rapporto tra contratto e accordo

Una spiegazione storica

validamente, sia ciò che è. La prima sensazione è effettivamente quella di una comicità involontaria, quasi che i padri del nostro codice non fossero riusciti nel compito (francamente neppure troppo arduo) di coordinare decorosamente due articoli posti a così breve distanza. Già un omaggio tanto eclatante alla tautologia e alla ridondanza sarebbe sufficiente, da solo, a lasciarci perplessi; ma in realtà il difetto non è neppure solo di ordine espositivo. A ben vedere, fra una disposizione e l’altra muta un elemento sostanziale, e di particolare rilievo giuridico: il rapporto fra contratto e accordo. Nell’articolo 1321 quest’ultimo è visto, come già segnalato, quale genere identitario del contratto; nell’articolo 1325 l’accordo degrada invece a mero requisito, accanto a ulteriori elementi. Né varrebbe argomentare che si tratta solo, nella sostanza, di due definizioni concorrenti, ma realizzate secondo due delle diverse tipologie incontrate in precedenza (§ 3): l’una (nell’articolo 1321) per genere e differenza; l’altra (nell’articolo 1325) per elenco componenziale. Questa lettura conciliativa è in realtà assai poco plausibile, e nient’affatto appagante sul piano logico. Dovremmo infatti postulare, innanzi tutto, che nel nostro codice civile vi siano due diverse definizioni di contratto: la prima esplicita, e volta a precisare cosa esso sia; la seconda implicita (ricavabile cioè solo da un elenco di requisiti), e tesa a stabilire come esso debba essere per risultare pienamente valido. E soprattutto dovremmo accettare come definizione (nel caso dell’articolo 1325) l’indicazione di un complesso di elementi che in realtà non è affatto predicabile esclusivamente per il contratto – la cui nozione, pertanto, non viene delimitata in modo appropriato –, dal momento che i quattro requisiti così contemplati sono altrettanto essenziali per atti (o negozi) giuridici di natura non contrattuale (ad esempio, ancora una volta, il matrimonio). Dobbiamo perciò rassegnarci: la definizione di contratto è una soltanto – quella dell’articolo 1321 –, e neppure può dirsi mal formulata (a parte la pleonastica precisazione, già rilevata, circa il riferimento dell’accordo a due o più parti). Risulta però nient’affatto all’unisono col successivo dettato del codice, insinuandovi un elemento di incertezza in merito a quello che, come accennato, è un punto delicatissimo, al centro della riflessione giuridica per millenni: il rapporto fra accordo e contratto. E in effetti, la più convincente giustificazione dell’ambiguo contegno dell’attuale legislatore sembra costituita da una spiegazione storica. Occorre, anche stavolta, risalire fino all’antica Roma, allorché i giuristi prima posero in luce – con Sesto Pedio, nel I secolo d.C. – la necessità che ogni contratto fosse basato su un effettivo accordo (conventio); più tardi – con Domizio Ulpiano (III secolo d.C.) – mos70

sero proprio dalla nozione di conventio, precisando come i contratti ne costituissero una sottoclasse. Ovviamente, esula dagli obiettivi del nostro discorso ripercorrere compiutamente queste dottrine, e poi le rimeditazioni che hanno innescato nel corso dei secoli, così da alimentare concezioni e discipline diverse. Ci basti aver individuato una nuova conferma della difficoltà – o “pericolosità”, per dirla con Giavoleno – del definire in campo giuridico, amplificata dall’esigenza che essa risulti (non solo ben congegnata in sé, ma anche) adeguatamente coordinata con gli altri enunciati compresenti nel medesimo contesto, a maggior ragione se normativo.

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Capitolo quarto

GOVERNARE LA PLURALITÀ: ELENCO E CLASSIFICAZIONE

1. Una mappa della realtà (non solo giuridica) Con le operazioni linguistiche affrontate sinora (esempio, qualificazione e sussunzione, definizione) ci siamo sempre trovati a trattare di cose singole, magari costituite da entità collettive (come generi e specie), ma pur sempre colte nella loro unitarietà. Salvo qualche cenno in tema di definizione per divisione, per partizione e tramite regola d’uso o elenco componenziale (capitolo III, §§ 2 e 3), il profilo della pluralità è pertanto rimasto, tendenzialmente, ai margini del nostro discorso. Eppure la realtà – quella giuridica non meno di quella naturale – brulica di un’infinità di figure, e le classi sono popolate, talora in gran numero, di sottoclassi diverse, e poi di molteplici individualità. Come esprimere, con gli “attrezzi” a nostra disposizione, questo dato incontestabile? Come procedere a una mappatura di qualsiasi campo di esperienza (e di quello giuridico in particolare), in grado di veicolare informazioni adeguatamente ricche e puntuali, ma senza cadere nello sforzo velleitario (e in definitiva assurdo, minuzioso sino all’inutilità) di certi cartografi descritti da Borges, che pur di non omettere alcun dettaglio finirono per creare una mappa dell’Impero “che aveva la grandezza stessa dell’Impero e con esso coincideva esattamente”? Le strade, come vedremo, sono essenzialmente due. L’una, quella dell’elenco, da percorrere in maggior aderenza ai dati che si intende enumerare, nella loro nuda oggettività. L’altra, quella della classificazione, da praticare attingendo a una più pronunziata capacità teorica, tale da articolare un insieme in più sottoinsiemi, e magari non una volta soltanto, tramite il ricorso a criteri distintivi via via diversi. Strade che comportano esigenze (e perseguono obiettivi) sensibilmente difformi, anche se verificheremo come la seconda si risolva in una particolare tipologia della prima – ossia l’elenco di sottoclassi –, pur necessariamente provvista di specifiche prerogative. 73

La molteplicità del reale e la sua gestione teorica

Selettività dello sguardo e fecondità delle informazioni

Un’interpretazione della realtà

Primi tratti distintivi fra elenco e classificazione

Ma un aspetto, ancor prima di affrontare queste due nuove operazioni, merita di essere sottolineato. Governare la molteplicità implica sempre una selezione, che trova le sue ragioni nella fecondità delle conoscenze che si intende formare e trasmettere, al di là della correttezza logica delle operazioni realizzate. A livello di rigore dei ragionamenti e degli enunciati, nessuna fallacia (capitolo IX, § 4) potrebbe essere imputata a chi si misuri nello sforzo titanico di elencare gli abitanti della Cina, o i mozziconi di sigaretta rinvenibili lungo i binari di tutte le stazioni d’Italia; o di scomporre in sottoclassi il complesso delle orme lasciate dai passanti sulla spiaggia in una domenica d’agosto. Eppure solo un folle penserebbe di compiere un lavoro del genere (e forse anche solo di immaginarlo: il che non depone a mio favore). A parte l’impossibilità fisica di assolvere un compito di questo genere, la sua insensatezza risiede nell’assoluta inutilità. Ne scaturirebbero, infatti, acquisizioni di dati sprovvisti di ogni rilievo (a parte quanto diremo fra breve), quale che sia la prospettiva assunta: persino, rispettivamente, quella demografica oppure dell’economista o del sociologo attratto dallo stato di ferrovie e stabilimenti balneari. Mappare la realtà non significa riprodurla pedissequamente. Comporta, piuttosto, anche uno sforzo teso a interpretarla, creando ordine e gerarchie, e operando una cernita già nell’individuazione degli oggetti posti al centro dell’interesse, e/o dei modi di impostarne la tassonomia. Quest’esigenza non riguarda, ovviamente, solo le nostre due operazioni. In un certo senso, ogni conoscenza è interpretazione (capitolo VII, § 1) e pensare la realtà, storica o attuale, innesca sempre un gioco di luci e di ombre, privilegiando alcuni dati a scapito di altri. Con l’elenco e la classificazione questa necessità si fa però ancor più pressante, perché maggiore è il rischio di darvi vita in forme logicamente irreprensibili, ma incapaci di veicolare alcuna seria informazione. Con una doverosa precisazione: e cioè che il pericolo della vacuità sostanziale si colloca, nel caso dell’elenco, già al livello dell’individuazione dell’insieme (detto elencando) di cui si intende indicare gli elementi. Con la classificazione, invece, esso risiede per lo più nel modo in cui avviene la scomposizione: e quindi già nella scelta del criterio in base al quale essa è compiuta. Nella prima ipotesi (come negli esempi degli abitanti della Cina e dei mozziconi di sigaretta) il vizio è a monte, e non può che condurre a un’enumerazione priva di qualsiasi rilievo (oltre che fatalmente, e largamente, incompleta). Nella seconda il vizio è (o può essere) prevalentemente a valle, in quanto la scelta della classe (su cui si esercita la classificazione) può avere il suo peso, ma riescono decisive forme, circostanze e finalità dell’operazione. 74

Il nostro terzo esempio, che ci è sembrato non meno assurdo dei primi due, potrebbe in effetti non rivelarsi propriamente tale in particolari situazioni. Come nell’ipotesi in cui io fossi un investigatore chiamato a indagare su un delitto commesso su quella spiaggia, all’alba, da un uomo corpulento (così ha riferito un testimone, vedendolo allontanarsi con un cadavere sulle spalle), e pertanto intendessi distinguere le impronte più fresche da quelle meno recenti, e le più profonde dalle più superficiali, in modo da isolare le uniche che può essere significativo ripercorrere. Nel mio ragionamento abduttivo (capitolo V, § 2) anche la ripartizione in sottoclassi (in apparenza) più insensata potrebbe assumere valore. Né mancano, come vedremo (§ 3), classi che di per sé sono rilevantissime, ma possono essere sottoposte – ove il criterio adottato sia assolutamente inappropriato – a distinzioni del tutto futili e improduttive. Tutto questo ci dice un altro paio di cose in merito al diverso rilievo da attribuire alle nostre due operazioni. In primo luogo, che la fecondità (o meno) di un elenco ha una portata assoluta, imposta appunto dal suo oggetto, mentre per una classificazione riveste un significato relativo, ed è essenzialmente affidata a chi la compie. In secondo luogo – ma non ne è, in realtà, che la conseguenza –, che vi sono insiemi che non vale la pena di sottoporre a elenco ma che potrebbe essere di notevole interesse scomporre in sottoinsiemi. Ad esempio, costituirebbe un’improba ma vana fatica (per un docente) o una gratuita tortura (per uno studente sotto esame) enumerare tutti i contratti tipici disciplinati dal nostro codice civile, o tutti i reati sanzionati dal codice penale. Ben più proficuo sarebbe invece classificare i primi, ad esempio, fra quelli che si concludono col semplice consenso e quelli che richiedono anche la consegna di una cosa, o fra quelli per la cui validità è prescritta la forma scritta e quelli per cui non è necessaria, quelli che fanno sorgere obbligazioni a carico di tutte le parti (bilaterali o plurilaterali) e quelli che ne determinano a carico di una soltanto (unilaterali). Oppure distinguere i secondi fra delitti e contravvenzioni, o fra quanti siano punibili esclusivamente se posti in essere con coscienza e volontà del fatto (dolosi) e quanti vengano repressi anche se determinati solo da imprudenza, negligenza o imperizia (colposi).

Diversa fecondità di elenchi e classificazioni

2. Enumerare gli elementi La prima operazione sinora evocata per governare la molteplicità Esempi non sembrerebbe destare eccessivi problemi, almeno dal punto di vi- di elenchi sta teorico – altro discorso, ovviamente, riguarda la sua realizzazione, 75

Verso una definizione dell’elenco

Il problema della completezza

in quanto si tratta pur sempre di esprimere, e quindi conoscere puntualmente, il contenuto di una classe. Di elenchi, in effetti, ne realizziamo innumerevoli, quasi quanto gli esempi e le qualificazioni (capitolo II). E possiamo fruirne in svariate occasioni: allorché scorriamo l’indice di un libro, leggiamo gli ingredienti di un dolce o di un medicinale, controlliamo l’appunto che ci siamo fatti circa le cose da comprare al supermercato, riceviamo la lista delle persone invitate a una festa o cerchiamo un numero nelle “pagine gialle” (ecco, appunto, un elenco: e in particolare un elenco di esempi, inevitabilmente incompleto, ma in un modo che il contesto rende tollerabile, come apprenderemo fra breve). Sappiamo tutti – o pensiamo di sapere – cosa sia dunque un elenco. Eppure, non diversamente dalle altre operazioni che si compiono più a ridosso delle cose, senza richiedere (almeno in apparenza) un particolare impegno speculativo, anche questa nasconde più insidie di quel che immaginiamo. Già inquadrarla concettualmente non è proprio scontato. È chiaro, infatti, che l’elenco fornisce informazioni di capienza (esprime cosa sia contenuto in una classe) e che la sua enunciazione avviene tramite la struttura copulativa ormai nota, però provvista stavolta di una variante, dettata appunto dal dato della pluralità: “x è y1, y2, y3, ...”. Ma come definirlo? Forse la prima tentazione sarebbe di delimitarne così la nozione (ricorrendo alla definizione per genere e differenza, che ormai conosciamo): l’elenco è l’operazione che di una classe enuncia tutti gli elementi in essa contenuti. Le ultime tre parole, inserite a evitare fraintendimenti, potrebbero essere considerate pleonastiche; ma nel complesso, a un primo sguardo, giudicheremmo il risultato accettabile. In particolare, con esso verrebbero effettivamente distinti dall’elenco altri enunciati: in particolare l’esempio, che consiste nell’indicazione di un solo elemento contenuto in quella classe. Abbiamo dunque evitato di tracciare confini troppo ampi. Ma siamo poi proprio sicuri che si tratti di una definizione adeguata? Proviamo a operare la verifica, circa la giustezza che quest’ultima deve presentare, della quale già abbiamo parlato (capitolo III, § 3). L’elenco degli esempi di elenchi di cui ci serviamo (proprio così: non è un gioco di parole!), proposto poche righe sopra, è incluso entro i confini teorici tracciati con la definizione di elenco appena formulata? Evidentemente no, perché quell’elenco era (inevitabilmente) incompleto, e in sede di definizione abbiamo invece precisato che la nostra operazione enuncia “tutti” gli elementi della classe che ne forma oggetto. Pertanto delle due l’una: o quello sopra richiamato non è un vero elenco, oppure il requisito della completezza restringe eccessivamente il campo della definizione che abbiamo prospettato. 76

Ma se fosse vera la prima ipotesi, dovremmo rinunciare a considerare elenchi anche le tassonomie più ricche, che giungano a indicare novantanove elementi su cento ma manchino di menzionare l’ultimo: solo per questo neppure dovremmo qualificarle elenchi (per quanto incompleti), per trattarle alla stregua di una serie (pur lunghissima) di esempi. Si tratta di un esito francamente inaccettabile, contrario agli usi consolidati nel linguaggio, al buon senso e anche alle finalità che all’elenco sono attribuite. Vi sono classi talmente ricche di elementi che non sarebbe possibile enumerarli tutti, nessuno escluso. Ad esempio sarebbe precluso a chiunque annoverare tutti i numeri pari e dispari, per definizione infiniti. Ecco allora che la definizione di elenco dovrà essere corretta: precisando che con esso verranno designati, di una classe, tutti gli elementi, o un numero significativo di essi. Numero che, come vedremo fra breve, potrà poi variare a seconda dei contesti. La differenza fra elenco completo e incompleto meriterà pertanto attenzione a livello di diverse tipologie individuabili a proposito della nostra operazione (e anche di raccomandazioni rivolte a chi intenda realizzarla: vi torneremo). Tale differenza non può essere invece assunta nell’individuazione dei requisiti richiesti per stabilire cosa l’elenco sia, o denomini. Ma la definizione che abbiamo provato a formulare esige di essere ricalibrata da un secondo punto di vista, tramite un’ulteriore integrazione (o almeno precisazione). Ci siamo finora riferiti, quanto ai componenti dell’insieme da elencare (ossia agli y1, y2, y3, ... dell’elencante) solo a elementi, intendendoli – o lasciando almeno intuire che debbano essere considerati – quali singole individualità. Le persone presenti a questo convegno sono Paolo, Giovanni, Mario, Claudia, Leonardo, Chiara, ecc. Ma se avessi detto che le persone presenti a questo convegno sono giudici, professori, avvocati? Non sarebbe forse anch’esso un elenco? Però non avrei enumerato persone in carne ossa, bensì classi – stabilite in virtù della professione svolta. Per esprimerci più correttamente, avrei indicato le sottoclassi in cui può essere scomposta, secondo il criterio appena segnalato (quello del rispettivo lavoro), la classe costituita dalle persone presenti a questo convegno. Di nuovo, la distinzione fra elenchi di individualità ed elenchi di sottoclassi attiene alle differenti tipologie della nostra operazione, ma non può condurre a stringerne eccessivamente i confini (facendo sì che solo i primi possano trovarvi spazio). Ecco perciò come potremmo riformulare la nostra definizione: l’elenco è l’operazione che di una classe enuncia tutti gli elementi (o un numero significativo di essi), costituiti da sottoclassi oppure individualità, che in tale classe siano contenuti. Non sarà un capolavoro di sintesi ed eleganza, ma almeno non costringe a escludere enuncia77

Elenchi di individualità ed elenchi di sottoclassi

Una definizione più soddisfacente di elenco

Requisiti dell’elenco: la verità

Requisiti dell’elenco: la completezza, o almeno non grave lacunosità

zioni in cui nessuno dubiterebbe di dover riconoscere un elenco. E aver soddisfatto il requisito della giustezza può essere considerato, come per ogni definizione, già un discreto risultato. Chiarito cosa sia propriamente da designare col termine ‘elenco’ – o, secondo una diversa prospettiva (capitolo III, § 2), cosa sia l’elenco –, vediamo in quali forme (ossia secondo quali tipologie) e in che modo (cioè nell’osservanza di quali requisiti) esso possa essere correttamente realizzato. Inizierei dal secondo aspetto, precisando come un elenco debba essere, in primo luogo, vero. Con esso non può essere infatti predicata la capienza, all’interno di una classe, di elementi – solitamente individualità, più che sottoclassi – a essa in realtà estranei. Se affermo che i mesi dell’anno sono gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, l’estate, l’autunno e l’inverno, incorro in una falsità, dal momento che gli ultimi tre elementi sono stagioni, e non mesi (nella classe dei quali, pertanto, non possono essere inclusi). Non diversamente, se affermo che i diritti reali sono la proprietà, l’usufrutto, l’uso, l’abitazione, le servitù prediali, il pegno, l’ipoteca, la superficie, l’enfiteusi, gli usi civici e l’usucapione (dal momento che quest’ultima non è affatto un diritto reale, ma costituisce piuttosto un modo d’acquisto della proprietà). Vi è poi, come segnalato, il profilo della completezza. Ove il contesto lo consenta – e al tempo stesso lo richieda –, non vi è dubbio che anche questo requisito debba essere soddisfatto. Un elenco (non solo vero, ma anche) tale da non tralasciare alcun elemento è senz’altro la soluzione ottimale. Ne ho tenuto conto nel menzionare, poche righe sopra, i diritti reali; ma sarei felicemente sorpreso se mi sentissi riproporre, in sede di esame, un’enumerazione altrettanto esaustiva. Ambito e carattere della mia formulazione (scritta e avente scopo didattico) non consentivano esclusioni: ho tralasciato solo gli oneri reali, dai contorni più problematici, e che avrebbero richiesto qualche ulteriore chiarimento. E ciò tanto più a fronte di una quantità di elementi non amplissima. Nell’immediatezza dell’esposizione orale, dallo studente – incalzato dalla mia usuale ansia di verifica – non sarebbe stata realisticamente esigibile un’eguale completezza. Ma le carenze non hanno tutte eguale peso. Se egli avesse tralasciato solo gli usi civici, non vi avrei dato gran peso, e neppure mi sarei scandalizzato se avesse omesso anche l’enfiteusi o l’abitazione. Se avesse trascurato pegno e ipoteca, avrei iniziato a pensare a una lacuna grave, constatando che egli non aveva in mente l’intera categoria dei diritti reali di garanzia. Se non avessi udito menzionare l’usufrutto e le servitù prediali, avrei iniziato seriamente a preoccuparmi (e lo studente avrebbe dovuto iniziare a temere). Se fosse poi mancata al78

l’appello la proprietà, avrei decisamente concluso che lo sventurato non aveva alcuna idea di cosa fosse un diritto reale (con reazioni, da parte mia, facilmente immaginabili). Cercando di astrarre da quest’esempio una direttiva di lavoro, possiamo dire che, in un elenco, è da raccomandare la completezza (ove possibile: esistono, come accennato, anche elenchi in tal senso irrealizzabili), mentre le lacune sono tollerabili solo se ridotte sul piano quantitativo e poco significative su quello qualitativo (in quanto siano tralasciati solo gli elementi meno rilevanti, e/o di più incerta afferenza all’insieme elencando). Dinanzi a carenze numericamente intollerabili – e anche qualora i pochi dati inclusi nell’elencante siano innegabilmente di un certo spessore (come se, ad esempio, dicessi che i diritti reali sono la proprietà e l’usufrutto) – neppure potremmo dire di trovarci, propriamente, dinanzi a un elenco: sarebbe stata indicata, al più, una coppia di esempi (col che l’operazione richiesta sarebbe stata fraintesa, e sostituita improvvidamente con un’altra, più agevole da realizzare, secondo una distorsione frequente nel ricorso all’esempio: capitolo II, § 3). Il caso dei diritti reali ci consente, poi, di individuare un altro aspetto di cui tener conto nell’allestimento di un buon elenco. Nella sequenza che ho proposto in prima posizione si trova la proprietà, all’ultima (se ora, come doveroso, escludiamo l’usucapione) gli usi civici. Il primo è il diritto reale per eccellenza, maggiormente diffuso e dal contenuto più ampio; i secondi un relitto del passato giuridico, di limitatissima rilevanza pratica e valutati con sfavore dalla legge. Per il resto ho proceduto per ideali aggregazioni, ripercorrendo i diritti reali su cosa altrui, indicando dapprima quelli cosiddetti di godimento – le antiche “servitù personali” (usufrutto, uso e abitazione), quindi le servitù prediali – e più tardi quelli di garanzia (pegno e ipoteca), chiudendo con due figure particolari (e oggi meno diffuse, specie la seconda) quali superficie ed enfiteusi. Quello che ho così inteso esprimere è un elenco ordinato, in cui cioè la sequenza degli elementi dell’elencante non è casuale, ma governata da un criterio (o più). Che nell’elencare vi sia una successione di elementi è un’ovvietà, poiché connaturata al linguaggio, che non consente enunciazioni simultanee. Non lo è affatto gestirla secondo un parametro rigoroso, che è già indice della capacità di operare, entro un campo d’esperienza, gerarchie, connessioni teoriche e graduazioni di rilievo (§ 1). Un’enumerazione realizzata in modo caotico, richiamando via via gli elementi che semplicemente vengono in mente, costituisce pur sempre un elenco, ma vi sono non poche situazioni in cui essa lascerebbe alquanto insoddisfatti. Naturalmente, anche in questo caso, il difetto – che non inficia, 79

Diversa tollerabilità delle lacune

Requisiti dell’elenco: la sequenza ordinata

Esigenza di un ordine e rilievo del contesto

Ancora esempi

stavolta, l’esistenza dell’elenco, ma la sua riuscita – può assumere una gravità diversa. Invertire, nella nostra ricognizione dei diritti reali, pegno e ipoteca non ha praticamente alcun peso, come non ne avrebbe se menzionassi le servitù prediali prima di usufrutto, uso e abitazione. Se invece richiamassi gli usi civici fra usufrutto e uso, già desterei qualche perplessità. E lascerei addirittura sconcertato il destinatario (e tanto più l’esaminatore) se iniziassi con gli stessi usi civici e finissi con proprietà e pegno. Sarebbe una soluzione persino più infelice di quella adottata da chi elencasse i giorni della settimana in giovedì, lunedì, domenica, venerdì, martedì, sabato e mercoledì; oppure – spostandosi a tutt’altra tecnica – enumerasse i semi delle carte da gioco in picche, fiori, quadri e cuori (dal momento che, come sa ogni giocatore di poker, la sequenza dovrebbe essere esattamente quella inversa, in ordine di prevalenza). Sarebbe ancor più infelice, perché in questi due ultimi esempi avrei solo una sequenza fortuita, che stravolge quella convenzionale, mentre nel caso dei diritti reali vi sarebbe sottesa anche una grave incomprensione teorica, determinata dall’incapacità di cogliere la diversa natura degli elementi e il loro rilievo nient’affatto omogeneo. Ma allora dobbiamo ritenere che ogni elenco debba seguire un ordine? E secondo quale criterio? Escluderei, ancora una volta, che vi sia una regola perentoria, e invariabile. Vi sono contesti – soprattutto colloquiali – nei quali non avrebbe senso esigere tanto rigore. Nel raccontare a un amico chi era presente a una festa, potete tranquillamente menzionare i nomi alla rinfusa: a nessuno verrebbe in mente di chiederne un elenco in ordine alfabetico, o di età, o secondo l’orario di arrivo. Eppure anche in simili frangenti non è sempre consigliabile affidarsi completamente al caso. Provate – se siete un ragazzo, ma immagino valga anche l’inverso – a enumerare, su richiesta della vostra fidanzata, le ragazze davvero carine che conoscete: Sara, Caterina, Marta, Gemma, Giulia, Elisabetta e lei (la vostra fidanzata, intendo). Vedrete che effetto le fa! A parte che giudicherà questa lista (qualsiasi lista) comunque troppo lunga – la risposta corretta, per lei, non era affatto un elenco, ma “solo tu, amore” –, averla collocata all’ultimo posto vi esporrà (se siete fortunati) al rischio di una mutilazione corporale. Vi sono poi ambiti, maggiormente formali e in cui si tende a trasmettere informazioni più impegnative, in cui un ordine è richiesto, o almeno fortemente raccomandato, con deroghe più limitate (e meno rilevanti) possibile. Lo abbiamo verificato coi nostri diritti reali, ma gli esempi potrebbero facilmente moltiplicarsi. A mutare sensibilmente sarà però il parametro di volta in volta adottato, che dovrà essere il più adeguato a contesto e scopi dell’operazione. Quello alfabe80

tico funziona in alcune situazioni – come per gli studenti di una classe o i soggetti che abbiano attivato un’utenza telefonica –, mentre riesce risibile in altre (non avrei mai iniziato l’elenco dei diritti reali col diritto di abitazione per finire con quello di usufrutto). In alcune occasioni richiede poi di essere almeno combinato con un ulteriore criterio ordinante: ad esempio la ricognizione dell’organico di una certa unità militare contempla la nostra sequenza solo fra pari grado, assumendo quindi come prioritaria una successione gerarchica; e altrettanto avviene per gli incardinati presso un dipartimento universitario, dei quali si elencano in ordine alfabetico prima i professori ordinari, poi i professori associati e infine i ricercatori. Più spesso, la successione viene disposta secondo diversi e specifici criteri, costituiti da quelli più attinenti al campo cui ci rivolgiamo, e alla rappresentazione che intendiamo offrirne. Se volessi enumerare i più diffusi contratti tipici, terrei uniti quelli che si concludono al semplice raggiungimento dell’accordo (compravendita, locazioneconduzione, società, mandato, ecc.) e solo successivamente quelli che, per produrre effetti, richiedono anche la consegna di una cosa (mutuo, deposito, comodato, ecc.). E avrei sempre cura di iniziare dall’elemento maggiormente significativo – lo stesso su cui mi concentrerei se mi fosse richiesto un esempio –, per chiudere con quelli meno rilevanti, o di natura controversa. Esattamente quanto è avvenuto coi diritti reali. Ma non diversamente mi comporterei se dovessi menzionare le disposizioni che possono essere contenute in un testamento, nel qual caso procederei senz’altro dall’istituzione d’erede e poi dai legati, non certo dalla previsione di un fedecommesso (oggi ammissibile solo in una circostanza eccezionale: la sostituzione fedecommissaria per finalità assistenziali). Saper gestire una sequenza di elementi denota, oltre che la conoscenza della loro afferenza a una classe, anche la consapevolezza dei rapporti – di decrescente rilievo e di affinità – fra loro intercorrenti. Un discorso per molti aspetti simile può essere svolto in merito a un ulteriore requisito che un buon elenco dovrebbe soddisfare. Mi riferisco all’esigenza di designare gli elementi in modo omogeneo. Talora essa risponde a un mero gusto estetico, gratuito se non pedante, dal momento che nel parlare quotidiano nessuno (e ragionevolmente) vi si sentirebbe tenuto. Dire che le persone invitate a cena da me iersera erano Giovanna, mia sorella, suo marito e il signore che abita nella casa di fronte, non desterebbe le censure neppure del logico o del linguista più intransigente (anche se, per indicare quelle persone, mi sono via via servito di un nome, di un grado di parentela, del coniugio con un mio parente e del luogo di abitazione). In quel contesto un simile modo d’esprimersi riuscirebbe anzi più congruo di un elen81

Specificità dei criteri ordinanti

Requisiti dell’elenco: la designazione omogenea degli elementi indicati

Elenchi repertoriali ed elenchi ricognitivi

Elenchi in campo giuridico

co con nomi e cognomi dei presenti (piuttosto ridicolo soprattutto in riferimento a mia sorella). Se però trovassi una soluzione analoga nella verbalizzazione dei partecipanti all’assemblea di una grande istituzione, rimarrei francamente sconcertato. Il carattere ufficiale dell’evento e della sua registrazione imporrebbe un’indicazione più precisa, circostanziata e uniforme (e ordinata alfabeticamente: il giudice Mario Bianchi, la professoressa Gianna Conti, il dottore Giacomo Di Carlo, ecc.). Quell’esigenza, avvertita altrove come superflua o impropria, si rivela in questo caso essenziale, e nella forma sarebbe da riconoscere – almeno ai fini della corretta redazione di un elenco – della sostanza. Senza dimenticare che esistono poi situazioni in cui si redigono elenchi col preciso scopo di consentire al destinatario di rinvenire gli elementi che li compongono. Si parla al riguardo di elenchi “repertoriali”, come ad esempio il catalogo di una biblioteca o anche solo la rubrica dei numeri telefonici attivata nel nostro cellulare. In questi frangenti l’elenco non informa solo sulle individualità contenute in una classe (come accade con gli elenchi meramente “ricognitivi”), ma agevola il loro reperimento. E questo diviene possibile solo se ciascuno degli elementi è stato designato in modo congruo, preciso e omogeneo. Se un bibliotecario bizzarro inserisse qualcuno dei volumi con la dicitura “il più bel libro di storia che abbia letto” o “il libro che ho catalogato il giorno dopo la nascita di mia figlia” nessuno riuscirebbe mai a ritrovarlo – come invece avviene se, attenendosi alle modalità usuali, ne sia stato inserito nome e cognome dell’autore, titolo, casa editrice e anno di edizione (e magari il genere letterario in cui può essere inserito e la lingua in cui è scritto), seguiti dal codice di collocazione nella biblioteca. Concludiamo con qualche altra considerazione circa ricorrenze, caratteristiche e tipologie della nostra operazione in campo giuridico. A quest’ultimo afferivano già molti degli esempi incontrati finora, ma non è forse inutile precisare come, in tale ambito, di elenchi ne vengano realizzati in gran numero, e non solo da docenti e studenti (cui abbiamo fatto finora riferimento). Elenca i documenti allegati a un atto processuale l’avvocato; elenca le caratteristiche e gli estremi identificativi del bene immobile oggetto di una compravendita il notaio che ne redige il contratto scritto; elenca gli adempimenti assolti l’organo amministrativo che emana un determinato provvedimento; elenca gli oggetti del debitore coinvolti nel pignoramento l’ufficiale giudiziario. Elenca anche, e non di rado, il legislatore. E qui sarebbe lecito attendersi sempre enunciazioni esaustive e rigorose (oltre che, possibilmente, ordinate e omogenee). In realtà le cose non vanno sempre così, e proprio riguardo alle ricorrenze della 82

nostra operazione nel discorso normativo assume particolare rilievo un’ultima classificazione riferibile agli elenchi (dopo quelle già emerse, volte a ripartirli in realizzabili e irrealizzabili, completi e incompleti, ordinati o a sequenza libera). Alcuni di essi, infatti, risultano tassativi (o chiusi), altri meramente esemplificativi (o aperti). Tale distinzione interseca – pur non essendo affatto, in alcuna delle sue due sottoclassi, a questa assimilabile – un’altra tipologia di elenchi, ossia quelli provvisti di una clausola cosiddetta di completamento. Procediamo con ordine, muovendo proprio da quest’ultima modalità di elencazione. Essa non è, ancora una volta, esclusiva del discorso giuridico, e tantomeno legislativo. Ce ne siamo già serviti, ad esempio, quando è stata evocata la struttura copulativa dell’elenco (“x è y1, y2, y3, ...”), laddove i tre puntini di sospensione – al pari di “eccetera”, “così via” o locuzioni analoghe – avvertivano che con y3 non erano esauriti gli elementi dell’elencando, ma con esso era lecito arrestarsi. Il vuoto sostanziale viene, in tal modo, attutito da un accorgimento formale. E in effetti sarebbe opportuno munire di una simile clausola ogni elenco che non vogliamo o possiamo completare. Ma quando a misurarsi con la nostra operazione è lo stesso legislatore, tutto questo assume, come ovvio, un rilievo anche maggiore: non confinabile al piano del rigore o tantomeno dell’eleganza espositiva, ma produttivo, almeno potenzialmente, di concrete e incisive conseguenze. Nello spazio limitato di una disposizione di legge un elenco troppo lungo potrebbe contrastare coi dettami di una buona tecnica normativa: da qui l’opportunità di lasciarlo volutamente in sospeso, contemplando solo gli elementi essenziali e facendo rinvio a quanto previsto in altre prescrizioni. Troviamo così, non di rado, clausole di completamento esplicite, congegnate con formulazioni del tipo “... e negli altri casi stabiliti dalla legge”. Così ad esempio in norme fondamentali come gli articoli 922 e 1418 del codice civile, in tema, rispettivamente, di modi di acquisto della proprietà e di cause di nullità del contratto. Più delicato il discorso per quelle che possiamo considerare clausole di completamento implicite. Esse sono riscontrabili laddove una disposizione fornisca un elenco (apparentemente) esaustivo, ma dallo stesso corpo normativo o da una successiva previsione si possa ricavare l’esistenza di altri elementi, che vanno dunque a integrare quella tassonomia. Basti pensare a come, stando all’articolo 1 delle “Disposizioni sulla legge in generale” (risalenti al 1942), tra le fonti del diritto siano da annoverare solo leggi, regolamenti e usi (essendo ormai abrogato il riferimento alle norme corporative, menzionate in origine dal legislatore fascista). I mutamenti istituzionali intervenuti nei de83

Elenchi tassativi oppure esemplificativi Elenchi con clausola di completamento

Clausole di completamento esplicite

Clausole di completamento implicite

Qualificare un elenco normativo come chiuso oppure aperto: difficoltà e conseguenze

Esempio

cenni successivi – dapprima l’avvento della Repubblica e l’entrata in vigore della Costituzione, poi l’adesione dell’Italia all’Unione Europea – impongono di aggiungere a quell’elenco (pur rimasto formalmente immutato) almeno la Costituzione stessa, nonché le leggi regionali e la normativa europea. Ma qualora clausole di completamento non vengano espressamente impiegate, né sia dato ricavarle da altre disposizioni e/o dai posteriori sviluppi dell’ordinamento, un elenco formulato in un testo di legge deve essere sempre inteso come tassativo – in modo che con esso si possano considerare esauriti tutti gli elementi –, oppure vi sarà la possibilità (se non addirittura il dovere) di integrarlo? Ecco qui il problema, delicatissimo, della distinzione fra elenchi chiusi e aperti. Distinzione che, ancora una volta, ci interessa nell’ambito del discorso giuridico (e normativo in particolare), ma non è affatto prerogativa solo di questo. Dinanzi a un elenco tassativo non è dato inserire elementi ulteriori (esso non solo è completo, ma neppure risulta disponibile ad accogliere componenti che si prospettino in futuro); mentre, se a carattere esemplificativo, mira a focalizzare l’attenzione su una serie di oggetti (in senso lato), a loro modo paradigmatici, affinché l’interprete possa (o debba), proprio sulla falsariga di essi, inserirne di nuovi. Oltre questo primo inquadramento di tale classificazione probabilmente, in questa sede, non è opportuno spingersi. La scelta di attribuire a un elenco normativo l’una qualifica o l’altra è infatti compito dell’interprete, tramite un’operazione complessa e spesso controversa. Troppo semplicistico è affidarsi all’argomento del silenzio – consacrato nell’antico adagio secondo cui “ove la legge volle (dire), disse; ove non volle, tacque” – e inclinare perciò, invariabilmente, a favore del carattere tassativo. Vi sono circostanze in cui questa lineare constatazione deve misurarsi con altre logiche, situate sull’incerto crinale fra interpretazione estensiva e analogia (capitolo VII, § 3, VIII, § 2 e IX, § 2), supportate dalla considerazione degli obiettivi perseguiti dal legislatore e anche dalla possibilità che egli si sia espresso in modo difettoso. Per rimanere nel nostro piccolo mondo accademico, oggi la cosiddetta legge Gelmini prescrive che non possano essere chiamati a far parte dello stesso dipartimento universitario una serie di soggetti (ecco l’elenco) legati da vincoli di parentela o affinità, sino al quarto grado compreso, con quanti già vi siano incardinati, o col rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo (articolo 18 della legge numero 240 del 2010). E marito e moglie? La relazione personale che fra essi si instaura non è, a rigor di termini (e per chi sappia di diritto privato), né di parentela né di af84

finità ma, appunto, di coniugio. Se considerassimo tassativo quell’elenco, nulla osterebbe a che la moglie potesse legittimamente afferire allo stesso dipartimento del marito (persino se quest’ultimo fosse il rettore!), mentre non potrebbero farlo né lo zio né la cugina di lui (anche se non rivestisse alcuna carica). L’esito sarebbe quantomeno sorprendente, e infatti in molti atenei non è stato accolto, ritenendo di dover integrare quell’elenco – senza però spingersi, ad esempio, sino ai conviventi non coniugati –, in base alla logica (ratio) che ne aveva guidato la previsione normativa. Si è perciò scelto di muovere dalle ipotesi esemplari enumerate in quest’ultima, e forse anche dall’idea (tutt’altro che infondata) che il legislatore si sia preoccupato più di assecondare frettolosamente certo giustizialismo suscitato da presunte “parentopoli” universitarie, che di curare il rigore della formulazione tecnica. Ma questi sono, per fortuna degli studenti, problemi coi quali devono fare i conti soprattutto i professori, e coloro ai quali è affidata – oggi si dice così – la governance universitaria.

3. Scomporre in sottoclassi L’elenco, come appena verificato, ci informa sulla capienza di un insieme, ossia sugli elementi (sottoclassi, ma più spesso individualità) in esso contenuti. Ma non è l’unica operazione che fornisce notizie di questo tipo. A gestire la molteplicità dei dati – anche a questo si è già accennato (§ 1) – concorre la classificazione. Quest’ultima, propriamente, non è che una peculiare e più ambiziosa tipologia di elenco: quello, appunto, di sottoclassi. Con la classificazione è però richiesto che esse vengano indicate in modo esaustivo e in osservanza degli ulteriori requisiti di cui diremo (§ 4), a livello di correttezza logica e ricchezza comunicativa. Possiamo dunque definire la classificazione come l’operazione che, di una classe, enuncia due o più sottoclassi (ed eventualmente loro ulteriori sottoclassi) in cui essa è scomponibile senza residui. La struttura della sua enunciazione può essere schematizzata come “x è y1 o y2 o y3, ...”, con l’avvertenza che ciò non significa che il classificando x è disgiuntivamente qualificabile come y1 o y2 o y3 (si ricordi che ciascun y non è né un attributo né il genere identitario di x, bensì una sua sottoclasse): intende esprimere, piuttosto, il fatto che x è comprensivo di y1, y2, y3 (o, detto altrimenti, è in essi scomponibile). Una simile definizione consente subito di cogliere la non lieve difformità dall’elenco, il quale non consiste sempre nell’enumerazione di sottoclassi e non richiede necessariamente la completezza: si noti, 85

La classificazione come tipologia di elenco Definizione di classificazione

invece, che ora la scomposizione deve avvenire senza residui. Ma la nostra definizione impone anche di considerare alla stregua di assolute improprietà, inaccoglibili nei moduli espressivi (anche) del giurista, certi impieghi di classificazione ricorrenti nel linguaggio comune (e talvolta, ahimè, anche in quello dei tecnici del diritto). Accade di udire, ad esempio, che un certo animale o vegetale viene “classificato” con un determinato nome scientifico, o che il tal fatto è stato “classificato” come estorsione, o ancora che contratti unilaterali, bilaterali e plurilaterali costituiscono “tre classificazioni” dei contratti. Nei primi due casi, in realtà, della classificazione c’è solo il nome (usato a sproposito): non si tratta affatto di scomporre una classe in sottoclassi, ma di attribuire una qualifica a un essere vivente o a un fatto. Nell’ipotesi dell’animale o del vegetale ciò si realizza collocandolo nel sistema, esso sì classificatorio, attinente a ciascuno di quei due “regni” (una classificazione, nella classica versione di Linneo, a innumerevoli livelli). Nel caso del fatto la qualificazione è compiuta predicandone la riconducibilità entro una fattispecie prevista e sanzionata dal legislatore penale (si tratta dunque, più precisamente, di una sussunzione: capitolo II, § 5). Il terzo caso è più delicato, e per certi versi più pericoloso. Qui effettivamente la classificazione esiste: ma ve ne è una sola, e non tre. Riaffiora il consueto slittamento semantico (sull’asse della contiguità, ossia metonimico: capitolo VI, § 2) che abbiamo visto coinvolgere anche altre operazioni. In forza di esso il termine che le designa passa impropriamente a indicarne solo una parte, ossia il risultato: esclusivamente l’esemplificante, il qualificante, il definiens o l’elencante. In quest’uso volgarizzato non viene intesa come esempio l’intera enunciazione “un vino è il Barolo”, ma solo “il Barolo”; non come qualificazione “la margherita è un fiore” ma solo “un fiore”; non come definizione “la poltrona è un sedile monoposto con schienale e braccioli” ma solo “un sedile monoposto con schienale e braccioli”; non come elenco “le regioni confinanti col Veneto sono Emilia-Romagna, Lombardia, Trentino Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia”, ma solo “Emilia-Romagna, Lombardia, Trentino Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia”. Nel nostro caso, però, l’improprietà espressiva è decisamente meno innocua, e per questo merita di essere esaminata con maggior puntualità di quanto sia avvenuto per le altre operazioni. Rischi di Confondere l’atto del classificare con le sottoclassi che, suo tramifraintendimenti te, vengono individuate può comportare un radicale fraintendimento sostanziali dell’operazione. In tal modo, si elude il requisito della completezza che ad essa viene richiesto (§ 4) – tanto che, ancora una volta, ci si può illudere di soddisfare una domanda di classificazione offrendo, sostanzialmente, solo qualche esempio (di sottoclassi). Viene inoltre

Usi impropri del termine ‘classificazione’

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disatteso l’obiettivo che si vorrebbe perseguire richiedendo una pluralità di classificazioni dedicate al medesimo oggetto. In effetti scomporre più volte un insieme in sottoinsiemi comporta che siano posti in campo criteri distintivi via via diversi, che concorrono a produrre una mappatura ordinata e feconda della realtà esaminata, governando la molteplicità dei suoi elementi. Distinguere i contratti in unilaterali, bilaterali o plurilaterali costituisce un’unica classificazione, e unico è il parametro adottato (tradizionalmente, quello del numero delle parti a carico delle quali il contratto fa sorgere obbligazioni: una, due o più parti). Richiedendo tre classificazioni mi attenderei, invece, altre articolazioni e altri criteri. Ad esempio, quello della forma per esso prevista (così da ottenere contratti a forma vincolata, ossia scritta, o a forma libera); dell’elemento perfezionativo, ossia dell’elemento integrato il quale il contratto è concluso e produttivo di effetti (così da distinguere, oggi, contratti consensuali e reali); del tipo di effetti prodotti (così da averne con effetti reali o con effetti esclusivamente obbligatori). In molti campi del sapere – e quello giuridico è senz’altro fra questi – una sola classificazione (in special modo, se realizzata sulla base di un criterio poco felice) non è in grado di fornire informazioni di rilievo, mentre queste assumono particolare importanza allorché si realizzi, sul medesimo oggetto (il contratto del nostro esempio), un sistema di classificazioni. Ma naturalmente questa pluralità di operazioni deve essere compiuta in modo corretto ed efficace. Innanzi tutto, il repertorio di criteri messi in campo deve essere sufficientemente ampio e pertinente rispetto al contesto e alle esigenze cognitive. Le diverse classificazioni devono essere compiute con rigore (§ 4) e poste in relazione fra loro secondo relazioni e sequenze chiare, trasparenti e ordinate. In particolare è preferibile muovere dalla classificazione più rilevante sino a quella meno significativa, e disporre la successione in conformità alla vicinanza dell’area cui afferiscono i rispettivi criteri. È quanto si è cercato di fare poco sopra, trattando dei contratti, dei quali si è come ripercorso l’iter, dalla formazione alle diverse tipologie di effetti prodotti. In definitiva, la rappresentazione che viene in tal modo a delinearsi in merito alla classe presa in esame deve essere in grado di assicurare una conoscenza seria e il più possibile articolata. Così, per perseverare nell’esempio dei contratti, ove io li distingua in contratti il cui nome consta di un numero pari di sillabe oppure di un numero dispari, in contratti che debbano essere conclusi da persone dello stesso sesso o di sesso diverso, in contratti di cui almeno una parte possa essere una donna o in cui ciò è escluso, avrò sì ottenuto 87

Esempi di più classificazioni dello stesso oggetto

Classificazioni semplici e composte, o sistemi di classificazioni

Requisiti di un sistema di classificazioni

Esempi

La scelta del criterio distintivo

Requisiti del criterio

un sistema di (tre) classificazioni, ma quasi nessuno dei requisiti prescritti sarà soddisfatto. Ciascuna classificazione, e il complesso di esse, non offrirà ad alcuno (e tantomeno al giurista) elementi di pur minimo interesse, dal momento che ogni criterio distintivo era palesemente inadeguato. Senza contare le intersezioni che potremmo individuare fra la seconda e la terza classificazione: entrambe tali, fra l’altro, da articolarsi in una sottoclasse vuota, giacché il sesso dei contraenti non ha alcuna rilevanza. Ne desumiamo – e questo vale non solo per un sistema di classificazioni, ma anche per ciascuna di esse (quale classificazione semplice) – che l’autentico perno su cui ruota la nostra operazione, e al quale deve essere prestata la massima attenzione, è costituito dal criterio in base al quale si realizza la scomposizione in sottoclassi. Proprio qui si misura la più accentuata capacità di astrazione che necessariamente connota la classificazione (anche) rispetto all’elenco, come pure la sua maggiore idoneità a produrre mappe ragionate e feconde di un campo d’esperienza. Solo in apparenza l’elenco (di individualità) assicura una ricognizione più puntuale: ma essa rimane ancorata al dato reale, senza compierne alcuna selezione (che si pone semmai a monte, nella scelta dell’oggetto di cui valga la pena fornire un elenco: § 1) né una prima “lavorazione” a livello teorico. Ne offre conferma il comportamento di chi, alla richiesta di una classificazione, risponde fornendo un elenco (spesso, peraltro, incompleto); mentre quasi mai accade l’inverso – evidentemente perché l’interpellato possiede qualche pur lacunosa cognizione circa il contenuto di quella classe, ma non è in grado di governarlo e scandirlo sul piano concettuale. Il criterio dovrà essere dunque serio e adeguato alle peculiarità dell’insieme classificando, ma anche al contesto in cui si lavora, alla funzione assegnata all’operazione e ai suoi destinatari. In ambiti disciplinari diversi potranno risultare interessanti classificazioni molto difformi (conseguenti all’adozione di criteri assai lontani), in modo analogo a quanto riscontrato in materia di qualificazione (capitolo II, § 4). Ad esempio, distinguerò i beni in maniera senz’altro differente se sono un giurista, un economista, un sociologo o un fisico. Ma mi servirò di classificazioni diverse anche se, trattando della nozione giuridica di persona, intendo fornire una spiegazione elementare, esporre un’innovativa teoria scientifica o sostenere qualche delirante tesi xenofoba. Né mi atterrò alla medesima classificazione degli illeciti se mi rivolgo a un ragazzo delle scuole medie inferiori, a uno studente di Giurisprudenza o a un agente di pubblica sicurezza.

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Soddisfatti questi requisiti, il criterio potrà poi presentare caratteristiche diverse, parimenti legittime. In particolare potremo adottare un criterio semplice oppure uno composto. Nel secondo caso avremo il concorso di più criteri, in modo talora anche molto complesso. Si pensi, pur senza entrare nei dettagli, alla classificazione degli alberghi in varie categorie (contrassegnate dal numero di “stelle”) determinata da una lunga serie di parametri (relativi alle dimensioni delle camere, al loro arredamento, alla presenza di finestre e bagno, al servizio colazione, ecc.); oppure alla distinzione fra autostrade, strade extraurbane principali e strade urbane di scorrimento (per cui concorrono i parametri della presenza o meno di incroci a raso, della tipologia di spartitraffico che separa le carreggiate e della limitazione, o meno, a determinate categorie di veicoli). Ci siamo così inoltrati nel vasto ambito delle tipologie di classificazione, ossia delle classificazioni a cui essa stessa può essere sottoposta. A seconda del parametro adottato, come appena verificato, potranno darsi classificazioni con criterio semplice e classificazioni con criterio composto. Queste ultime non coincidono con le classificazioni composte (o sistemi di classificazioni) delle quali abbiamo parlato poco sopra, contrapponendole alle classificazioni semplici. Ma il quadro è assai più composito, dal momento che include varie altre possibili classificazioni della nostra operazione – il che, considerando che essa consiste a sua volta nella classificazione, non riesce poi troppo sorprendente. Possiamo qui limitarci a ricordarne tre, particolarmente rilevanti o per le ulteriori esigenze che pongono sul piano della correttezza logica, o per certe loro importanti ricorrenze anche nel discorso giuridico (e in testi normativi). Mi riferisco, in primo luogo, alle classificazioni che si articolano su un solo livello oppure su più livelli – il criterio distintivo è dunque costituito dal numero dei piani su cui si realizza l’operazione. Le prime si arrestano alla divisione di una classe in sottoclassi; le seconde procedono a scomporre (in ulteriori sotto-sottoclassi) anche queste ultime. Potrò quindi semplicemente classificare i miei conoscenti in non fumatori e fumatori; oppure andare oltre, e distinguere questi ultimi a seconda che fumino sigarette, sigari, pipa o altro. Potrò arrestarmi alla classificazione dei contratti – già incontrata – in unilaterali, bilaterali e plurilaterali; oppure dividere ulteriormente i secondi in quelli necessariamente bilaterali (che comportano sempre, a carico di entrambe le parti, l’obbligo di eseguire una prestazione) o eventualmente bilaterali (in cui tale effetto può sorgere, sul lato di uno dei contraenti, solo in determinate circostanze: come accade con mandato, deposito e comodato). Non vi è dubbio che una classificazione su più livelli fornisca in89

Classificazioni con criterio semplice oppure con criterio composto

Classificazioni a un livello oppure a più livelli

Classificazioni positive oppure con una sottoclasse negativa

formazioni più estese e dettagliate, entrando maggiormente nel merito della classe e delle peculiarità dei suoi elementi. Essa richiede, tuttavia, particolare attenzione. Innanzi tutto sul piano della correttezza logica, vigilando sulla sussistenza del requisito del coordinamento (§ 4), che verrebbe meno qualora ponessi fra le sottoclassi di primo livello una sottoclasse di secondo livello (come se distinguessi tra non fumatori, fumatori di sigarette, fumatori di sigari, fumatori di pipa o fumatori di altro; o tra contratti unilaterali, necessariamente bilaterali, eventualmente bilaterali o plurilaterali). Risulta poi necessario, affinché la rappresentazione prodotta sia veramente ordinata e feconda, che il criterio messo in campo permanga identico – o, più precisamente, pertenga al medesimo campo tematico – fra il primo livello e il successivo (o i successivi). È quanto possiamo appunto riscontrare nei nostri esempi, laddove nessuna seria informazione sarebbe stata invece veicolata se avessi poi distinto i fumatori in persone con capelli o senza capelli, o i contratti bilaterali in contratti a forma vincolata oppure a forma libera. In secondo luogo, riguardo alle diverse tipologie di classificazioni rileva la distinzione (sottesa agli esempi appena formulati) tra classificazioni positive oppure con una sottoclasse negativa. Si tratta qui di isolare – a seconda della natura (o formulazione) in positivo o in negativo delle sottoclassi – una prima tipologia di classificazioni in cui esse (due o più) sono tutte composte da elementi accomunabili per avere, rispetto al parametro assunto, determinati requisiti, sempre espressi in positivo; e un’altra, con cui sono invece indicate due sottoclassi (non di più), una delle quali contenente gli elementi (anche fra loro molto eterogenei) per i quali, semplicemente, non sussistono i requisiti di cui al parametro. Distinguere i fumatori in fumatori di sigarette, fumatori di sigari, fumatori di pipa o fumatori di altro costituisce dunque una classificazione positiva (prodotta dall’adozione del criterio della tipologia di fumo praticata, o di “oggetto” fumato); mentre dividere i propri conoscenti in fumatori e non fumatori costituisce una classificazione con sottoclasse negativa. Quest’ultima soluzione, in genere, non può essere considerata scorretta sul piano logico, ed esistono situazioni in cui è praticabile con una certa efficacia. Situazioni molto pragmatiche: se andate a funghi, e non siete esperto, è già qualcosa tener distinti quelli velenosi e quelli non velenosi: almeno salvate la pelle. Ma talora anche contesti di maggior respiro teorico, sin nel cuore del nostro sapere, laddove ad esempio i diritti possono essere classificati in disponibili e indisponibili, gli atti in leciti e illeciti, i beni in commerciabili e non commerciabili oppure (come già verificato: capitolo I, § 3) in consumabili e inconsumabili, fungibili e infungibili, mobili e immobili. 90

In molti contesti, tuttavia, le informazioni garantite da questo tipo di classificazione si rivelano piuttosto povere, e si ritiene che con esse venga comunicato davvero troppo poco circa caratteristiche e capienza della classe. Se ai propri studenti un docente segnalasse, in merito ai contratti, solo che possono classificarsi fra consensuali e non consensuali, fra quelli unilaterali e quelli che non lo sono, fra quelli che hanno effetti reali e quelli che non ne hanno, dubito che l’uditorio rimarrebbe molto soddisfatto. E non è infrequente che si ricorra a questo genere di classificazioni, sostanzialmente, come a un espediente: conoscendo poco o nulla del contenuto di un insieme, si ritiene di poter comunque ottenere, per questa via, una classificazione esente dal rischio dell’incompletezza (§ 4). Come se a me, che non ne so nulla, venisse chiesto di classificare i cantanti bielorussi, e rispondessi dividendoli fra quanti hanno cantato solo in patria e quanti si sono esibiti anche all’estero – poco rilevando, sul piano logico, se questa seconda sottoclasse dovesse eventualmente rivelarsi vuota di elementi. Una terza e ultima distinzione fra classificazioni merita di essere richiamata, anche per il rilievo che, come accennato, certi suoi impieghi rivestono nel discorso normativo. Guardando ancora – ma da una prospettiva diversa – al rapporto fra le sottoclassi (coi rispettivi elementi) e il criterio adottato, si potranno avere classificazioni omogenee oppure con una sottoclasse residuale. Nel primo caso le sottoclassi saranno tutte composte da elementi accomunati da una caratteristica esprimibile in positivo (che cioè non consista semplicemente nell’essere diversi dagli elementi di altre sottoclassi). Nel secondo avremo almeno tre sottoclassi – se fossero due soltanto saremmo di nuovo in presenza di una classificazione con sottoclasse negativa –, una delle quali (solitamente l’ultima) ospita elementi che condividono esclusivamente la propria estraneità alle altre sottoclassi. Esempi della prima tipologia sono costituiti dalle tradizionali classificazioni degli strumenti musicali (a fiato, a corda o a percussione), o delle voci maschili della lirica (tenori, baritoni e bassi); esempi della seconda tipologia sono estremamente ricorrenti già nella comunicazione quotidiana (nel mio guardaroba ci sono cravatte rosse, blu, verdi e di altro colore). Le classificazioni con una sottoclasse residuale non risultano del tutto soddisfacenti sul piano teorico: l’unità concettuale delle sottoclassi non è infatti uniforme, poiché in un frangente è esprimibile solo in negativo, senz’altra informazione sulle qualità degli elementi che la compongono. E tuttavia non è infrequente che ad esse debba farsi ricorso, soprattutto a fronte di classi assai ampie ed eterogenee (e/o di criteri che quasi non consentano alternative). Tramite questa soluzione sarà almeno scongiurato il rischio dell’incompletezza, che costitui91

Classificazioni omogenee oppure con una sottoclasse residuale

Limiti e utilità delle classificazioni con una sottoclasse residuale

L’esempio dell’articolo 1173 del codice civile

I precedenti storici

sce uno dei difetti più gravi di una classificazione (§ 4). E non è forse un caso che lo stesso legislatore opti talora per una simile tipologia. Abbiamo già incontrato (capitolo III, § 4) l’esempio più noto, costituito dall’articolo 1173 del codice civile, laddove le obbligazioni sono distinte – in base alla loro fonte – in quelle derivanti “da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”. L’ultima sottoclasse è chiaramente residuale (oltre a sconfinare nella tautologia, registrando che l’obbligazione nasce da ciò ... che è idoneo a farla nascere). Vi sono inclusi molteplici atti (di natura negoziale o meno, come verificato a suo luogo), accomunati dal solo fatto di poter dar vita a un’obbligazione, ma senza essere contratti né atti illeciti – si parla infatti di atti leciti extracontrattuali, quali il pagamento d’indebito, la gestione di affari altrui, il legato con effetti obbligatori, ecc. Dietro a quella disposizione vi è una storia plurimillenaria, che rimonta all’analoga formulazione rinvenibile in un’opera attribuita a Gaio (un giurista romano vissuto nel II secolo d.C.), e verosimilmente proposta a correttivo di una precedente classificazione. Quest’ultima – risolvendosi in una mera bipartizione (in forza della quale le obbligazioni sorgerebbero o da contratto o da delictum, ossia da atto illecito) – presentava l’esiziale inconveniente di non poter includere i rapporti di credito-debito posti in essere tramite gli atti leciti extracontrattuali di cui si è detto (ai quali, nell’esperienza antica, si aggiungevano gli illeciti non contemplati dal diritto civile in senso stretto). Da qui la necessità di inserire una sottoclasse residuale: anticamente proposta come comprensiva di tutte le (altre) “varie figure di cause”, e la cui eco è ancora percepibile nel dettato dell’articolo 1173.

4. Rigore logico e fecondità comunicativa Quanto appena rilevato in merito alle classificazioni con una sottoclasse residuale ci conduce a spendere ancora qualche parola – ora sviluppando dati già emersi, ora aggiungendone di nuovi – in merito ai requisiti richiesti per realizzare nel modo migliore la nostra operazione. Abbiamo osservato che essa, quando è compiuta secondo l’ultima tipologia esaminata, non assume una configurazione ottimale (ove possibile, sarebbe sempre da preferire una classificazione omogenea): e tuttavia ne vengono garantiti almeno due risultati non trascurabili. Sul piano della correttezza logica, quello di non omettere alcun elemento del classificando (sia pure al prezzo di una certa genericità, nell’ultimo tratto dell’enunciazione); sul piano dell’efficacia comunicativa, quello di rendere immediatamente percepibile il diverso rilie92

vo da attribuire alle prime sottoclassi rispetto all’ultima, evidentemente eterogenea e meno significativa – è indubbio, in effetti, che la maggior parte delle obbligazioni sorgono o da contratto o (f)atto illecito, così come pochissime delle mie cravatte sono di colori diversi dal rosso, blu e verde. Ecco allora come potremmo riassumere le caratteristiche che, in genere, deve necessariamente presentare una classificazione. In primo luogo, è necessario che essa sia esaustiva, ossia tale da non tralasciare alcun elemento afferente al classificando, ma riuscire a collocarli tutti in una sottoclasse (si ricordi il “senza residui” della definizione che abbiamo fornito della nostra operazione: § 3). Ove quest’esigenza non venga soddisfatta, potremmo addirittura dubitare di essere di fronte a un’autentica classificazione – e tanto più qualora sia omesso uno (o più) elemento/i di particolare importanza: come se dicessi che le fonti del diritto sono ordinarie o sub-ordinarie (come i regolamenti), senza quindi contemplare la Costituzione (considerata fonte sovraordinaria). Altrettanto è da dirsi per un altro requisito che deve essere soddisfatto in ogni classificazione: quello della distintività. Ciò significa che ogni elemento del classificando deve essere inserito in una sola delle sottoclassi. Detto altrimenti, essa comporta che fra queste ultime non devono sussistere inclusioni né intersezioni. Quasi sempre il mancato soddisfacimento della distintività è determinato da un’inadeguata gestione del criterio distintivo: a maggior ragione qualora esso sia composto oppure si presti a essere utilizzato, con le debite articolazioni, per una classificazione a più livelli, che non si è però in grado di gestire adeguatamente (§ 3). Dividere le materie (strettamente giuridiche) che, da studente, dovrò affrontare nel corso di laurea in Giurisprudenza in materie di teoria e storia del diritto, di diritto vigente e privatistiche comporterebbe che, ad esempio, “Istituzioni di diritto privato” e “Diritto commerciale” vengano inserite tanto nella seconda quanto nella terza sottoclasse. Senza contare, in questo caso, il mancato coordinamento (cui già si è accennato al § 3). Una sottoclasse di secondo livello (quella delle materie privatistiche) sarebbe infatti posta sullo stesso piano delle due precedenti sottoclassi, di primo livello (le materie di teoria e storia del diritto e di diritto vigente). Un mancato coordinamento aggravato, nello specifico, dalla concorrenza col difetto di distintività, dal momento che la (sotto-)sottoclasse delle materie privatistiche è contenuta, come accennato, in una delle due sottoclassi di primo livello (quella delle materie di diritto vigente). Ma neppure sarebbe coordinata – per quanto completa e, stavolta, distintiva – una classificazione in materie di teoria e storia del dirit93

Primo requisito: la completezza

Secondo requisito: la distintività

Terzo requisito: il coordinamento

Conseguenze della mancata integrazione dei tre requisiti

L’esigenza dell’efficacia comunicativa della classificazione

to, di diritto vigente nell’area privatistica e di diritto vigente nell’area pubblicistica. Vi emergono già alcune criticità sul piano della formulazione: l’area privatistica e quella pubblicistica presentano, infatti, confini sempre più mobili e sfumati, e per alcune discipline (come quelle processualistiche) sarebbe incerta l’afferenza all’una o all’altra. Ma, al di là di questo, il mancato coordinamento stavolta sarebbe determinato dal fatto che sullo stesso piano delle materie di teoria e storia del diritto non verrebbero a trovarsi – come sarebbe invece doveroso – (solo) quelle di diritto vigente. In realtà la sottoclasse che comprende queste ultime dovrebbe essere a sua volta ripartita – ma a un ulteriore livello della classificazione – a seconda dell’area di riferimento: privatistica o pubblicistica, seguendo la tradizionale dicotomia. E qualcosa del genere dovrebbe farsi, in astratto, anche per le materie di teoria e storia del diritto (sebbene un’analoga ripartizione sia per esse meno canonica, e ancor più problematica). Una classificazione carente di distintività è da valutare pressoché alla stregua di una che manca di esaustività: l’una e l’altra, nella sostanza, risultano inservibili, e completamente da riformulare. Forse si può essere invece più indulgenti nei confronti di una che sia difettosa (esclusivamente) nel coordinamento. Almeno qualora sia agevolmente riconoscibile – anche in virtù della terminologia impiegata – che le sottoclassi di secondo livello sono riconducibili alla medesima sottoclasse di primo livello, che (pur non esplicitata) le contiene tutte senza sovrapposizioni, non potremo considerare del tutto erronea la classificazione, anche se certo realizzata in modo assai caotico. Così, se divido i miei parenti fra quanti sono astemi, bevono preferibilmente vino, bevono preferibilmente birra, bevono preferibilmente altri alcolici, non sarà difficile comprendere che le ultime tre sottoclassi (inclusa quella conclusiva, di carattere residuale: § 3) sono di secondo livello, ma concorrono tutte a costituire, ed esauriscono, la sottoclasse (di primo livello) di coloro che bevono alcolici. I tre requisiti esaminati finora – completezza, distintività e coordinamento – tendono a soddisfare un’esigenza di rigore e correttezza logica della classificazione. Ma abbiamo a lungo insistito sulla circostanza che quest’ultima (al pari dell’elenco) debba anche fornire informazioni congrue ed efficaci in merito alla conoscenza della classe cui è rivolta. La gestione della molteplicità torna così a mostrare il suo volto selettivo (§ 1), orientato dall’esigenza di ordinare e interpretare il reale. È già stato segnalato (§ 3) come al raggiungimento di questo scopo debba essere innanzi tutto rivolta l’individuazione del criterio (o della molteplicità di criteri) adottati per operare la scomposizione. 94

Diviene poi essenziale – o almeno estremamente opportuno – che tale criterio sia reso esplicito, e designato in termini appropriati. Se ad esempio divido i miei amici in alti, di media statura e bassi, il parametro non sarà l’altezza (sostantivo polisemico, e poco congruo rispetto all’ultima sottoclasse), ma la statura. Se divido i miei gatti in maschi e femmine, il criterio non sarà l’essere maschi o femmine (col che verrebbe semplicemente a replicarsi la denominazione delle sottoclassi), ma il sesso, o genere. Talvolta enunciare apertamente simili criteri può apparire superfluo, e anche piuttosto pedante: è però sempre consigliabile (soprattutto nel contesto di classificazioni più complesse), poiché nel formularli con precisione siamo costretti a un’ulteriore riflessione su di essi, tramite la quale vengono spesso scongiurate le carenze (almeno) di distintività e coordinamento. Infine, la trasparenza ed efficacia comunicativa può dirsi raggiunta tramite una designazione chiara, puntuale e incontroversa delle varie sottoclassi, in modo che sia immediatamente possibile coglierne le caratteristiche. Il problema, per l’ennesima volta, non è esclusivamente di forma. Ove quest’esigenza rimanga insoddisfatta, non solo trasmetterò una conoscenza incerta e nebulosa, ma rischierò che la classificazione possa apparire (almeno ad alcuni destinatari) incompleta e/o non distintiva. Se ad esempio – per rivolgermi a un problema col quale mi sono dovuto spesso confrontare – divido il complesso della storia giuridica dell’antica Roma in una fase monarchica, una repubblicana, una del principato, una tardoantica e una bizantina, non potrò poi sottrarmi a una lunga serie di precisazioni, perché questa ripartizione (pur consueta fra gli studiosi) non consente di cogliere subito, fra l’altro, la cesura (e quindi i rispettivi tratti identitari) fra età del principato e tardoantica, né fra quest’ultima e quella bizantina (il regno di Giustiniano, in particolare, a quale delle due dovrebbe afferire?). Questioni non semplici, come spesso accade quando, nel racconto di esperienze (anche) giuridiche del passato, è richiesto di assumere quale griglia di riferimento una periodizzazione, per quanto orientativa. E questioni che l’interprete – in questo caso lo storico (del diritto) – dovrà risolvere con un inevitabile margine di discrezionalità, accettabile (solo) ove debitamente illustrata e motivata: ossia, per tornare a guardare la questione nella logica della classificazione, dando conto delle ragioni che presiedono a quella partizione cronologica, e inducono a collocare determinate sequenze di anni entro una delle fasisottoclassi e non in quella anteriore o successiva. In definitiva, come è emerso da queste pagine, fornire una buona classificazione è tutt’altro che facile. Eppure, se ben congegnata, essa costituisce uno strumento prezioso. E non è certo un caso se – oltre ai suoi innumerevoli impieghi nelle pratiche discorsive correnti, e anche 95

Designazione adeguata del criterio ...

... e delle sottoclassi

L’opportunità di una congrua motivazione

in quelle legislative (come nell’ipotesi dell’articolo 1173 del codice civile: capitolo III, § 4 e supra, § 3) – a un simile “attrezzo” faccia frequente ricorso chi insegna e apprende il diritto. I nostri manuali ne sono pieni, provvedendo spesso a sottoporre le figure più significative (le fonti, i diritti, i beni, i rapporti, i contratti, i delitti) ad autentici sistemi di classificazioni. Una tradizione che viene da lontano, e rimonta a un giurista romano già menzionato (Gaio: § 3), nelle cui Istituzioni, vero e proprio archetipo di ogni testo didattico in campo giuridico, troviamo più volte integrate definizioni e classificazioni: o anche solo realizzate queste ultime, in assenza delle prime.

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Capitolo quinto

ASTRAZIONE, PENSIERO SISTEMATICO E METODO TOPICO

1. Un’ontologia sociale Abbiamo insistito più volte sulla realtà virtuale del diritto (in particolare al capitolo I, § 3): una dimensione gremita di forme e concetti, elementi irreperibili (almeno in quei termini) nel mondo naturale, ma appositamente creati dai giuristi – creazione che passa in primo luogo, come sappiamo, dal dare loro un nome. Il diritto riguarda la vita reale degli uomini e dà risposte molto pragmatiche alla loro necessità di una convivenza disciplinata, ma si compone di figure astratte: cose che non si possono toccare – “incorporali”, come si ripete da un paio di millenni –, e che tuttavia prima o poi, appunto, coinvolgono tutti, in forme estremamente concrete. Non è affatto automatico, in effetti, che nel nostro campo astrazione e concretezza si escludano a vicenda. Al contrario. L’astrazione prende, (anche) in ambito giuridico, molteplici strade. Alcune le abbiamo già incontrate, trattando delle operazioni cosiddette copulative: in particolare, definizione e classificazione (capitoli III e IV, §§ 3-4). Altre ne seguiremo in questo capitolo, o nel prossimo – a proposito dei mutamenti di significato da cui sono interessati alcuni termini, tanto più al loro ingresso in un linguaggio specialistico. L’astrazione percorre, dunque, i nostri tentativi di delineare le identità degli oggetti (anche) del diritto o di gestirne la molteplicità tramite una rete di classi e sottoclassi; oppure governa i nostri modi di designare le cose a livello lessicale o di ragionare e produrre conoscenza (le inferenze che esamineremo al § 2). Il pensiero astratto si coniuga, per quanto ora più interessa, con la vocazione a regolare la vita tramite schemi e categorie logiche, replicabili pressoché all’infinito. La loro prestazione consiste nel trascendere i nudi accadimenti e i loro protagonisti, per spegnerne i conflitti tramite un calcolo, freddo e decantato, che muove da ruoli e rapporti formali. La parabola del diritto occidentale, dalla Roma antica (tardo97

L’astrazione in campo giuridico

Le molteplici vie dell’astrazione

Astrazione e razionalità formale del diritto

Nozioni ed entità giuridiche

In che senso “ontologia sociale”?

repubblicana e imperiale) a oggi, si è tutta compiuta all’interno di quest’orizzonte: così da assumere i tratti di una funzione sociale autonoma, irriducibile all’etica come pure alla mera proiezione dei dettami del potere (in primo luogo politico, ma non solo), connotata da una razionalità in senso appunto formale – secondo la terminologia di Max Weber –, con regimi e conseguenze “calcolabili”, ossia conoscibili in via preventiva. Il diritto (soprattutto privato, se consideriamo la tradizione alle nostre spalle) non può prescindere da una fittissima trama di nozioni: i “dogmi” di cui hanno spesso parlato i giuristi, ma che sappiamo essere anch’essi mutevoli, non cristallizzati né sottratti al divenire. Si tratta di categorie e relazioni prive di un correlativo empirico: tali cioè da designare qualcosa di non percepibile coi nostri sensi. Come la proprietà, gli altri diritti reali e/o diritti soggettivi; la capacità giuridica, la tutela o l’eredità; oppure le figure unitarie (e a loro volta variamente scomponibili) dell’atto (o del negozio) giuridico e del contratto (ma persino dei beni, che non sempre coincidono con le cose, e le rispettive tipologie: capitolo I, § 3); o ancora i rapporti fra creditore e debitore, fra titolare del fondo servente e titolare del fondo dominante (nel caso delle servitù prediali), tra usufruttuario e nudo proprietario, fra erede gravato di un legato e colui a favore del quale questo sia stato disposto, e così via. Queste entità e i ruoli tipizzati cui danno vita (negli ultimi esempi, in particolare) hanno come un’esistenza autonoma, che prescinde dalle persone in carne e ossa che via via rivestano quella determinata posizione. Esistenza che viene separata anche da tutta la materiale effettività – motivi e bisogni che guidano ciascuno, interessi conformi o più spesso divergenti, relativi scontri – propria delle interazioni fra uomini, nel loro agire come soggetti privati (ma qualcosa di analogo potrebbe dirsi anche per il diritto pubblico). Regole, previsioni normative e attribuzione di diritti e connessi obblighi si definiscono tutte in riferimento a quelle figure funzionali e astratte. La prevedibilità delle conseguenze cui si accennava è determinata proprio dalla circostanza che, una volta che io abbia assunto un determinato ruolo (di proprietario, usufruttuario, venditore, compratore, erede, debitore, garante di un’altrui obbligazione, tutore, marito e così via), a me ne saranno applicabili tutte le prerogative, e le conseguenti disposizioni ed eventuali modalità di tutela, quali che siano le mie caratteristiche personali (vi abbiamo già accennato: capitolo I, § 3). Proprio per questo suo consistere in essenze – che da molti secoli percepiamo come provviste di una propria e specifica oggettività – si è inteso richiamarsi al diritto (fin dal titolo di questo §) come a una “ontologia”, ma dispiegata e rivolta verso il sociale. Una ontologia: 98

dunque un’investigazione sull’essere di ciò che è (nel nostro caso, dei concetti giuridici), cui risultano vincolati il pensiero e l’azione. Il tutto, però, orientato a esercitare una straordinaria presa sulla concreta convivenza umana, tramite pratiche cognitive (e al tempo stesso disciplinanti) razionalmente verificabili. E una costruzione teorica che pertanto si allontana molto dai tratti di quella metafisica che ci è resa familiare da una lunga tradizione filosofica – risalente stavolta alla Grecia (e non a Roma) antica –, tesa a trascendere la realtà naturale, nel segno di idee collocate fuori della storia, o di forme invariabilmente predominanti sulla materia. Nel nostro caso, la dimensione cui afferiscono quelle entità – sia pure per venirne distaccate, e provviste di un’esistenza propria –, e che è appunto la dimensione del sociale, non è mai perduta di vista. Essa rimane sempre l’orizzonte di riferimento del diritto. Quest’ultimo è, al tempo stesso (e per profili diversi), immanente e trascendente quel campo d’esperienza: che ne viene messo in forma, non superato o negato. Le categorie giuridiche sono la stilizzazione (l’astrazione, appunto) dell’empirica e frastagliata varietà di persone cose eventi che in quell’esperienza esistono o accadono, ciascuno irripetibile nella sua specificità. E come tale pressoché ingovernabile, almeno in via preventiva (così da impedire ogni previsione della disciplina a cui si andrà incontro: la [pre]calcolabilità di cui si è detto). Ma poi quelle categorie devono essere di nuovo calate – al momento dell’applicazione di ogni disposizione generale e astratta – nel vivo delle relazioni umane: in una dialettica delicata e incessante, costitutiva dell’intera dinamica giuridica, dispiegata nel tempo. È sullo sfondo di simili fenomeni – che si è qui cercato di esporre nelle linee essenziali, ma sui quali gli studiosi non cessano di riflettere – che converrà porsi alcuni interrogativi, relativi soprattutto alla cifra peculiare che assume l’astrazione in campo giuridico. Di questa sua peculiarità già abbiamo accennato qualcosa, poco sopra (in particolare, rispetto ai diversi esiti cui la speculazione teorica ha storicamente condotto in altri ambiti, come quello filosofico). Ma è opportuna qualche altra considerazione: soprattutto attorno ad alcuni quesiti di fondo, a cui può dar luogo quanto osservato finora. La circostanza che il diritto si componga e sviluppi attorno a schemi astratti fa sì che esso, necessariamente, assuma i tratti di una razionalità matematica – asettica, neutra e invariabile negli anni –, per risolversi così in operazioni di carattere esclusivamente logico? Il fatto che le sue categorie presentino quelle prerogative, e che le stesse disposizioni normative siano formulate in termini generali e astratti (in modo più o meno accentuato, ma pressoché inevitabile), comporta che il ragionamento giuridico si disponga sempre secondo una pro99

Peculiarità dell’astrazione giuridica

Alcuni quesiti di fondo

gressione dall’universale al particolare (già stabilito il primo, da inquadrare e regolamentare il secondo)? E in tal caso dobbiamo allora ritenere che il sapere giuridico sia integralmente configurabile quale un sistema, con un impianto organico e coeso che procede da una limitata gamma di nozioni fondamentali e le sottopone via via ad articolazioni e distinzioni di regime, sino a offrire – per chi, appunto, discenda sino al caso concreto – gli schemi entro cui ricondurre ogni situazione (per conferirle la debita disciplina)? Si tratta, come evidente, di domande estremamente complesse, alle quali è adesso possibile fornire solo risposte parziali e orientative, spesso a loro volta tutt’altro che univoche. Chi si accinge agli studi giuridici dovrà misurarsi con tali quesiti per anni, prima e dopo la laurea: sul piano delle precisazioni di filosofia e teoria del diritto che riceverà, ma anche delle nozioni storiche e comparatistiche che gli saranno prospettate (così da scoprire in quali modi simili questioni siano state affrontate in tempi e luoghi diversi dall’Italia del 2018) e soprattutto nell’esperienza che si formerà sul campo, ragionando sul (e poi contribuendo all’applicazione del) diritto vigente, qui e oggi.

2. Le modalità dell’inferenza: deduzione, induzione, abduzione Inizierei dunque con le modalità di ragionamento praticabili in campo giuridico (ovviamente non in esso soltanto, ma è quello l’ambito che a noi interessa). Modalità che avremo occasione di richiamare anche più avanti (capitolo VIII, § 2), trattando dell’argomentazione – in modo da cogliere le connessioni fra le due prospettive (quella di chi ragiona e quella di chi produce discorsi per persuadere), ma anche la loro distinta fisionomia. Cos’è Abbiamo accennato a come, insistendo tanto sulla carica di astraun’inferenza zione propria del diritto, saremmo forse tentati di immaginare che il giurista – a parte i rari casi in cui sia egli stesso a coniare determinati schemi – lavori quasi sempre su categorie di vasta portata, presenti nel linguaggio normativo o comunque nella cultura giuridica, e che da esse proceda per approdare a conclusioni più specifiche. Si parla al riguardo di una “inferenza” – che possiamo intendere (con Irving Copi) quale “processo attraverso cui si arriva ad affermare una proposizione sulla base di una o più proposizioni accettate come punto di partenza del processo” (processo logico, s’intende). Nella situazione che abbiamo appena ipotizzato tale inferenza asLa deduzione sume poi la specifica veste di una deduzione: ossia di un ragionamen100

to che muove da una o più proposizioni, o premesse, di carattere universale per giungere a una conclusione di tipo particolare. Accertata la validità di tali premesse non potrà che scaturirne – se il procedimento è correttamente realizzato – la validità del suo approdo (il che vale anche per le argomentazioni che si legano a questo schema logico). La circostanza che l’articolo 1321 del codice civile (già più volte richiamato) definisca il contratto come “l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale” fa sì che in quei termini possa essere intesa ogni singola figura contrattuale (sia i “tipi” contemplati dal legislatore o comunque definiti nella prassi, sia i singoli specifici contratti di volta in volta conclusi nella realtà). Quel che vale in universale vale in particolare: ed è proprio un’inferenza di carattere deduttivo che consente di trasmettere la conoscenza (e la disciplina) da un livello all’altro. In realtà, in casi come quello da ultimo evocato, difficilmente la premessa è una soltanto. Cosa consente ad esempio di attribuire alla compravendita la natura di accordo teso a costituire un rapporto giuridico patrimoniale? Un’altra disposizione, ossia l’articolo 1470 del codice civile, che ci offre la “nozione” (così recita la sua rubrica) della compravendita stessa, definita come “il contratto che ha per oggetto ...”. Questo secondo enunciato del codice permette di portare la compravendita “sotto” il dettato dell’articolo 1321, operando essenzialmente come premessa minore (o sussunzione: capitolo II, § 5) di un sillogismo, del quale la definizione di contratto (leggibile appunto all’articolo 1321) funziona come premessa maggiore, o assunzione. Per rimanere all’ipotesi della compravendita, proviamo ora a chiederci cosa accade qualora io, compratore, non abbia ancora corrisposto il prezzo della merce (un quadro, poniamo), in quanto il venditore si è fino a oggi rifiutato di consegnarmi il bene oggetto del contratto. A fronte di un simile e persistente contegno della controparte, cosa è in mio diritto fare? Per formulare una risposta – circa la disciplina specifica di tale situazione – procederò ancora da alcune premesse generali: ma esse saranno in numero maggiore di due. Mi gioverà innanzi tutto quanto stabilito dal codice civile in tema di “risoluzione per inadempimento” (articolo 1453: “nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto ...”). Mi sarà poi di aiuto quanto prescritto dall’articolo 1460 riguardo alla “eccezione d’inadempimento”: “nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria ...”. Ma perché il mio caso sia sussumibile entro queste fattispecie, oc101

Esempi

Deduzioni con pluralità di premesse

Sillogismo e “sorite”

Rilievo dei sillogismi nella storia della logica

corrono due elementi, parimenti rinvenibili – e sempre, s’intende, in termini generali e astratti – nel codice civile: la natura del contratto di compravendita e la tipologia di obbligazioni che ne sorgono a carico del venditore. Solo se la compravendita sia qualificabile come contratto “con prestazioni corrispettive”, a essa (a ogni compravendita, quindi anche a quella che ho concluso in merito al quadro) sarà applicabile quanto disposto dagli articoli 1453 e 1460. E in effetti la reciprocità delle prestazioni emerge chiaramente dalla seconda parte (quella che finora non avevamo trascritto) dell’articolo 1470, ove della compravendita è chiarito come abbia “per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo” (ci siamo già soffermati su questa definizione: capitolo III, §§ 2 e 4). A sua volta, che la consegna della cosa al compratore costituisca una delle “obbligazioni principali del venditore” (la prima, nell’enumerazione del codice) è sancito dall’articolo 1476. Ecco dunque che dal complesso di tutte queste premesse – dal combinato disposto, come dicono i giuristi, delle varie previsioni codicistiche – ricavo in via deduttiva quanto interessa riguardo al mio caso. Ho dinanzi tre strade percorribili. Potrò rimanere inerte, cioè a mia volta inadempiente, non pagando il prezzo: e in tal caso l’eccezione di inadempimento vanificherà eventuali pretese del venditore che a sua volta non consegni il quadro, o non offra di farlo. Oppure potrò chiedere che tale consegna avvenga, offrendo a mia volta il contestuale pagamento del prezzo. Avrò, infine, anche l’opportunità di agire in giudizio per chiedere la risoluzione del contratto. Il complesso di dati da cui si è sviluppata l’inferenza presentava sempre un carattere universale (generale e astratto, come è consueto nelle formulazioni di legge), ma la deduzione mi ha condotto a una conclusione particolare, con tre possibili soluzioni alternative. Rispetto all’esempio precedente – in cui il percorso logico era stato intrapreso sulla scorta di due soli enunciati del codice (leggibili all’art. 1321 e nelle prime battute del 1470) –, qui spicca l’esigenza di ricorrere, come accennato, a un maggior numero di premesse, ossia di proposizioni universali che sorreggono la mia deduzione. Possiamo ancora guardarvi, se debitamente impostato nella sua classica concatenazione di proposizioni, come a un ragionamento di natura sillogistica (in genere, quando la conclusione venga raggiunta muovendo da una pluralità di premesse, tramite una catena di inferenze, ciascuna delle quali funge da premessa per la successiva, si parla più precisamente di “sorite”). Ma quello dei sillogismi è un campo sterminato e complesso, che ha per lungo tempo attratto i dibattiti della logica (da Aristotele alla scolastica medievale, in particolare), per offrirsi come paradigma dell’unica conoscenza allora ritenuta veramente soddisfacente. Essi si 102

sono a lungo presentati, in effetti come la sola modalità di inferenza in grado di condurre a risultati veri e certi, laddove l’induzione non poteva garantirne che di plausibili – e in effetti anche gli argomenti che possiamo trarre da quest’altra forma di inferenza sono considerati, al massimo, cogenti; mentre si parla di validità, come accennato, per le sole argomentazioni deduttive. A un uomo colto del Medioevo il sillogismo appariva il ragionamento per antonomasia, e in tale accezione troviamo impiegata la parola, ad esempio, in Dante (Paradiso XI vv. 2-3: “quanto son difettivi sillogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali!”). Oggi difficilmente condivideremmo un giudizio così perentorio, ma la teoria dei sillogismi rimane un’affascinante costruzione dell’intelligenza umana, oltre che una straordinaria palestra per educare un pensiero rigoroso e corretto (così da addestrarlo a evitare fallacie, tutt’altro che infrequenti in questo campo: capitolo IX, § 4). In una trattazione come la nostra non possiamo ricomporne che qualche lineamento: poco più della punta di un iceberg. Interessa, essenzialmente, porre in evidenza tre aspetti. In primo luogo, la circostanza che, come già segnalato, il sillogismo si presenta – se non come modello di ogni ragionamento e di ogni ricerca di conoscenza – quale esemplare tipologia di quella particolare figura dell’inferenza che è la deduzione. In secondo luogo, il frequente ricorso che vi viene fatto (anche) in campo giuridico. Talora in modo dichiarato e anche un po’ ingenuo, quasi che momenti delicatissimi come la risoluzione di una controversia possano davvero esaurirsi, e integralmente, entro quello schema logico (come accadeva secondo la vecchia teoria del sillogismo giudiziale: capitolo II, § 5). Più spesso, e ancor oggi, in forme meno canoniche e forse neppure consapevoli, in cui la sequenza delle proposizioni sfugge alla classica concatenazione del sillogismo, e vengono non di rado omessi dei passaggi (il che può non inficiare la solidità del percorso mentale, ma è sempre sconsigliabile in sede di argomentazione: capitolo VIII, § 2). È quanto potremmo riscontrare, per tornare all’esempio precedente, ove affermassi che la risoluzione per inadempimento è prevista per i soli contratti con prestazioni corrispettive, e quindi essa può trovare applicazione anche per la compravendita. Vi mancherebbe la premessa minore (o sussunzione: ossia la precisazione che la compravendita è un contratto con prestazioni corrispettive), ma nessuno faticherebbe a comprendere la logica che si è seguito. In questi casi il sillogismo è detto entimematico (secondo una delle due accezioni in cui l’aggettivo viene usato dai logici: incontreremo presto la seconda). Esso ha carattere ellittico, in quanto una delle due premesse vi rimane sot103

I sillogismi in campo giuridico

Sillogismi in forma ellittica

Un esempio, tra serio e faceto

Una seconda accezione di entimema

Ragionamenti giuridici e logica del probabile Un esempio

tintesa – o anche la conclusione: come se io dicessi che la risoluzione per inadempimento è prevista per i soli contratti con prestazioni corrispettive, aggiungendo che la compravendita ha appunto tale natura. Per particolari ragioni di economia ed efficacia comunicativa, consolidate negli usi, può persino accadere che in un sillogismo non vengano rese esplicite né una delle premesse né la conclusione. In tal modo sembra sia ad esempio da intendere, seguendo l’ironica ma serissima analisi di Lelio Lantella, la frase “questa è una rapina!” rivolta agli astanti (e in primo luogo ai rapinati, evidentemente) da chi, armi in pugno, sta appunto compiendo una rapina. Escludendo che, con quella proposizione, il rapinatore provveda semplicemente a una qualificazione del fatto che sta compiendo (a una sua sussunzione, nel senso chiarito al capitolo II, § 5) – a ciò provvederà piuttosto il magistrato chiamato a valutare quanto accaduto in sede penale –, è più ragionevole scorgervi la traccia essenziale di un sillogismo. Sillogismo che potremmo ricostruire nei seguenti termini: “tutte le rapine sono situazioni in cui possono succedere cose terribili a chi non coopera / questa (situazione) è una rapina / questa (situazione) è una situazione in cui possono succedere cose terribili a chi non coopera”. Non è il massimo del rigore logico e della trasparenza comunicativa (e tantomeno, come ovvio, della legalità), ma non può negarsi che in genere sortisca gli effetti sperati, se non altro nell’immediato. Un terzo e ultimo aspetto che preme segnalare in tema di sillogismi – e che ci conduce verso un’altra forma di inferenza – riguarda la seconda accezione di “entimema”, cui si alludeva poco sopra. Aristotele impiegava quel termine per indicare un sillogismo costruito su premesse non certe in modo assoluto, ma plausibili. Nei Topiká egli, in effetti, assumeva come punto di partenza per l’attività dialettica (capitolo VIII, § 3), e i relativi sillogismi, le proposizioni probabili, stimando tali quelle che possono “apparire vere a tutti o alla maggioranza, o ai sapienti, e di questi o a tutti o alla maggior parte, o ai più noti e più stimati”. Questo significa che possiamo individuare nel sillogismo un modello di ragionamento di più ampia e inclusiva portata, tale da veicolare conoscenze (e produrre argomenti) anche in settori in cui non siano rinvenibili, quali premesse da cui poter prendere le mosse, elementi certi. In campo giuridico, se escludiamo le deduzioni che direttamente possiamo trarre dal dettato di una disposizione (certo in quanto vigente, e univoco perché accertato come tale in sede di costante interpretazione), sono proprio sillogismi di questo tipo a trovare maggiore spazio, e a sorreggere molte argomentazioni. Se ad esempio io rilevo che, secondo i più diffusi e recenti orientamenti della Corte di Cassazione, il tenore di vita mantenuto dai co104

niugi in costanza di matrimonio ha tendenzialmente rilievo (ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento eventualmente da corrispondere dal più facoltoso dei due al meno abbiente) solo in sede di separazione legale e non di divorzio, e constato che nel mio caso si tratta di divorzio, concludendo per l’irrilevanza del predetto parametro, ho sostanzialmente dato vita a un sillogismo. Ma la sua premessa maggiore è solo probabile, basata su una tendenza giurisprudenziale – dei più autorevoli (Aristotele avrebbe detto: “più noti e più stimati”) fra i giudici – emersa essenzialmente negli ultimi anni, che richiede di essere contestualizzata, ripercorrendo nel merito quelle pronunzie (nei loro reciproci rapporti, e con le delicate questioni che ciascun caso solleva). Tale premessa potrebbe venire sempre smentita o almeno differenziata tramite successive decisioni. L’interpretazione, sia pure proveniente dai soggetti più qualificati a realizzarla (come magistrati e scienziati del diritto: capitolo VII, § 3), non fornisce dati certi ma solo, al massimo, altamente verosimili. Anche quando si esprime tramite costanti e uniformi orientamenti della massima autorità giudiziaria, rimane una premessa inevitabilmente temporanea, sempre aperta al mutamento (il che, del resto, vale sotto molti aspetti per l’intero diritto). Eppure proprio da simili dati, frutto di attività interpretativa, muove una parte cospicua dei ragionamenti compiuti dai giuristi, e delle argomentazioni da loro allestite per sostenere o confutare una tesi. Ma come si giunge alla formulazione di un enunciato plausibile? L’induzione La strada più frequente è costituita da una tipologia di inferenza diversa (e anzi opposta) rispetto alla deduzione: l’induzione. Con essa muoviamo dal particolare per giungere al generale. Da una serie di proposizioni del primo tipo (singolari) pervengo a una proposizione del secondo tipo (universale). Detto altrimenti, dalla registrazione di una serie nutrita, costante e (almeno tendenzialmente) uniforme di accadimenti traggo una conclusione applicabile al loro complesso (e, almeno potenzialmente, ad altri ancora). Dalla sequenza di sentenze (e relative motivazioni) emanate in cause di separazione e divorzio, si giunge a estrapolare “la massima” (così dicono i giuristi) e quindi a delineare l’indirizzo giurisprudenziale, come quello riferito poc’anzi. Ma accade lo stesso, molto banalmente, se ogni volta che piove mi ostino a non aprire l’ombrello, col risultato di inzupparmi d’acqua: da cui la conclusione che quell’ombrello sarà bene usarlo, se voglio rimanere asciutto. Conclusione solo in apparenza scontata e incontrovertibile, dal momento che, in realtà, essa è solo probabile: potrei bagnarmi lo stesso (qualora la precipitazione sia così forte che nessun ombrello potrebbe efficace105

I ragionamenti induttivi nella pratica giuridica

Né deduzione né (solo) induzione: un esempio storico

mente svolgere la propria funzione), o non bagnarmi affatto anche senza impiegare il mio ombrello (perché trovo riparo sotto quello di un altro, assai capiente, o dentro un negozio, o sotto una tettoia). La ricerca scientifica – fisica, biologica, medica – è dominata dall’induzione, che trae spunto dall’osservazione empirica per ricavarne “leggi”, sempre che (o finché) non siano smentite da successive esperienze. Anche il diritto se ne serve, e non solo per l’ausilio che tali discipline, coi risultati raggiunti tramite questa tipologia di inferenze, possono fornirgli (pensiamo solo all’ambito delle prove: persino quella del DNA, spesso decisiva per i riconoscimenti di paternità o in sede penale, non è mai considerata sicura al 100%, ma, almeno formalmente, solo al 99,9%). Gli argomenti induttivi, in particolare, assolvono un compito ricorrente ed essenziale, come anticipato, soprattutto (ma non solo) nell’ambito della retorica e della dialettica forense. Un simile rilievo potrebbe forse stupire chi si appresti a studi giuridici, conferendo alla materia che sta per affrontare un alone di incertezza, forse un po’ deludente. Ma le dinamiche del diritto, come vedremo fra breve (in questo e nei prossimi §§), difficilmente si esprimono tramite una ferrea logica di stampo cartesiano. Sono sì improntate a una loro specifica razionalità, ma di rado questa assume le vesti di una certezza assoluta, di tipo matematico. La stessa prevalenza, nel campo degli stili di pensiero, del modello deduttivo – una prevalenza affermatasi nei secoli a noi più vicini (sostanzialmente dal Seicento in poi), per essere oggi avvertita, peraltro, in termini più problematici – rinvia a una peculiare configurazione dell’intero fenomeno giuridico. A partire almeno dagli scritti giovanili di Leibniz in esso si è voluto scorgere una trama di proposizioni logicamente conseguenti (proposizioni ascrivibili alla sapienza dei giuristi antichi, e poi dei loro interpreti; più tardi alla volontà del legislatore), da inferire e concatenare entro le scansioni deduttive del sistema. Era quest’ultimo l’autentica icona – incarnata nell’“ordine naturale” a cui ricondurre la sparsa messe delle soluzioni approntate dalla scienza giuridica del passato, o in cui riversare le previsioni dei codici –, e la conseguente (più o meno presunta) certezza del diritto il valore considerato preminente, e affatto irrinunciabile. Ma non sempre, e non dovunque, si è ragionato allo stesso modo. Riesce particolarmente istruttivo, in particolare, il modus operandi che per secoli fu tipico proprio dei giuristi romani (i cui risultati interpretativi, selezionati e raccolti nel Digesto giustinianeo, pur si prestarono a fornire i materiali con cui vennero eretti i moderni sistemi). Essi ben di rado procedevano per deduzioni. Rinunziarono deliberatamente a fare del ius un’ars – nel senso di un sapere organizzato appunto in chiave sistematica, alla cui base collocare poche e fonda106

mentali nozioni, come già era avvenuto in altre discipline antiche: dalla geometria alla grammatica, dalla teoria retorica alla musica. Piuttosto, privilegiarono a lungo un approccio centrato sull’analisi e soluzione di casi: ma congiungendovi una crescente capacità di astrazione, così da dar vita a quelle particolari essenze incarnate dai concetti del diritto (soprattutto) privato (supra, § 1), così da poter anche trarre, dall’iterazione di quei puntuali interventi, linee teoriche di portata generale. In tal senso il loro stile di pensiero sembra conformarsi maggiormente a un modello induttivo. Tuttavia – e proprio qui sta il punto davvero saliente, e il valore in certa misura esemplare di quel tipo di lavoro – questo non era che il primo tratto del loro modo di procedere. Dopo aver lasciato stratificare (non di rado sull’arco di più generazioni) soluzioni casistiche, interventi specifici e circoscritti segmenti di interpretazione, essi ne desumevano, quasi distillavano, una massima di più ampio respiro – una regola, generale e astratta, o una direttiva ermeneutica di carattere più o meno universale –, ma poi subito procedevano a verificarne la tenuta rispetto a ulteriori fattispecie, reali o fittizie. Veniva valutato, in tal modo, se l’applicazione del principio che era stato enucleato non richiedesse, una volta introdotta una variante casistica, adattamenti o parziali disapplicazioni, affinché fosse realizzato un trattamento giuridico davvero soddisfacente, che scongiurasse inaccettabili disparità. Dal caso alla regula, e poi di nuovo – inserendo difformità fattuali e conseguenti articolazioni di disciplina – all’empiria della realtà giuridica, secondo una dinamica incessante: l’unica in grado di garantire approdi fecondi (in quanto non consumabili nella sola prospettiva del fatto che li aveva innescati) ma anche equi, ossia flessibili e ridefiniti in base alle circostanze, debitamente sagomati attorno alle esigenze e ai concreti, confliggenti interessi via via coinvolti. In questo sembra davvero consistere il cuore della sapienza giuridica antica, con l’incalcolabile peso che il suo lascito ha esercitato sulla storia del diritto in Occidente. Fornirne esempi sarebbe qui forse superfluo, o almeno ci condurrebbe all’interno di problemi tecnici di cui è tutt’altro che immediato ricostruire i contorni. Basti aver segnalato una forma mentale e uno stile d’analisi che è certo lontano dalle pratiche storicamente a noi più vicine (centrate sulla deduzione) ma neppure si risolve nel suo speculare opposto – l’induzione, appunto –, la quale copriva allora, per così dire, solo metà del cammino. Vi è poi una terza forma di inferenza, eccentrica (almeno in apparenza) rispetto alla polarità evocata finora (dal generale al particolare oppure, all’inverso, dal particolare al generale), e che riveste un ruolo 107

Dal caso alla regola, e di nuovo al caso

L’abduzione

Un esempio classico

La conoscenza abduttiva

tutt’altro che secondario nelle pratiche discorsive del diritto (soprattutto nei contesti che vedremo): l’abduzione. Non entrerò qui nei suoi dettagli, di carattere logico e semiotico, e nei complicati rapporti in cui essa è stata posta rispetto alle due tipologie precedenti, né sul possibile ordine – stimato da alcuni costante e obbligato – secondo il quale si succedono, entro il processo della conoscenza, queste tre modalità di ragionamento. Vorrei limitarmi a spiegare cosa s’intenda per abduzione, e quali risultati cognitivi da essa sia lecito attendersi. Possiamo prendere le mosse dalla terminologia e dall’esempio di uno studioso americano vissuto da tra XIX e XX secolo (Charles Sanders Peirce), al quale si deve un contributo decisivo (poi ampiamente rivisitato e discusso) attorno a questo tema. Egli muoveva dall’idea che in ogni inferenza vi siano tre elementi, da lui denominati caso, risultato e regola – altri hanno parlato, rispettivamente, di antecedente, conseguente e implicazione. La deduzione parte dalla regola, affronta il caso e perviene al risultato; l’induzione procede dal caso, passa al risultato e ne trae la regola. L’abduzione esamina il risultato (o conseguente), enuncia la regola (o implicazione) e procede dunque a ritroso: verso il caso, o antecedente. L’esempio formulato da Peirce è probabilmente più efficace di questa distinzione teorica, e aiuta a comprendere in cosa differiscano le tre inferenze (e quindi anche gli argomenti che, sulla loro scorta, è possibile produrre). È il caso, considerato ormai classico, dei fagioli. Chi deduce (nella forma, evidentemente, del tipico sillogismo) afferma che tutti i fagioli di un certo sacco sono bianchi, quindi che questi fagioli vengono da quel sacco; pertanto conclude (ed è un risultato di cui si ha la certezza) che questi fagioli sono bianchi. Chi opera una induzione osserva che questi fagioli vengono da quel sacco, rileva che sono tutti bianchi, quindi perviene alla conclusione – plausibile ma tutt’altro che certa, e dotata di maggior consistenza a seconda del numero dei fagioli di cui si è accertato il colore – che tutti i fagioli di quel sacco sono bianchi. Con l’abduzione, invece, inizio col constatare che questi fagioli sono bianchi, rilevo che tutti i fagioli di quel sacco sono bianchi e formulo dunque un’ipotesi: ossia che (probabilmente) questi fagioli provengono da quel sacco. L’abduzione, pertanto, non trasmette conoscenze sicure (come la deduzione) né astrae dal caso una regola o implicazione di più vasta portata (come l’induzione), ma ricostruisce – in termini ipotetici (tramite indizi) – un fatto ignoto e antecedente in base a uno noto e conseguente, valutato alla stregua di una implicazione comprovata o comunque ammessa. Per questo una simile inferenza è stata vista come l’unica che possa dirsi propriamente “ampliativa”, ossia in grado di accrescere il patrimonio di conoscenze con elementi davvero nuo108

vi. Incremento cognitivo che si realizza, evidentemente, tramite una spiegazione (fra le più possibili) attorno al nesso causale tra un fatto determinato e un fatto determinante. Non possiamo assolutamente escludere, per rimanere all’esempio dei legumi, che quei fagioli provengano da un sacco diverso, contenente solo fagioli bianchi o (almeno) anche fagioli bianchi, tra cui tutti quelli che ne sono stati tratti e che ho sotto gli occhi. In modo non troppo difforme, se trovo il bagno allagato e consta- Altri esempi to che nessun rubinetto è stato lasciato aperto, posso ipotizzare che si sia rotta una tubatura; ma la causa potrebbe essere da trovare anche in un violento temporale, che ha fatto entrare un gran massa d’acqua dalle finestre lasciate aperte, oppure in un’infiltrazione proveniente dal piano superiore. Se ho fatto una cena di pesce e la notte successiva ho vomitato l’anima, sarò indotto a pensare che quel pesce era deteriorato; ma non è da escludere che tutto sia dipeso dal troppo vino con cui l’ho accompagnato, o magari da un virus che da giorni avevo contratto. Anche senza entrare nelle molte questioni legate a questa forma di ragionamento e su come sia possibile accertare se un’abduzione è effettivamente riuscita – in modo da poter davvero “produrre” nuove verità, anziché limitarsi a “preservarle”, come accade con le deduzioni –, è evidente come una simile inferenza sia destinata a un’applicazione tutt’altro che marginale in campo giuridico. Essa domina, in particolare, la materia delle prove. La maggior parte di queste ultime, in ogni processo, non ha carattere deduttivo o induttivo (o almeno non ha esclusivamente tale carattere) ma, appunto, (anche o prevalentemente) abduttivo. Si tratta di risalire, in base a una relazione causale, da un elemento noto a uno sconosciuto. L’indizio da cui muove l’investigatore (non a caso la teoria di Abduzione e Peirce è stata più volte paragonata al metodo di Sherlock Holmes) o indizi le prove disciplinate dai codici di procedura civile o penale, e con cui lavorano ogni giorno i protagonisti di innumerevoli processi – magistratura inquirente e giudicante, avvocati, forze di polizia, investigatori privati – testimoniano l’irrinunziabile fecondità di questo tipo di ragionamento, con le ipotesi esplicative cui consente di pervenire. Un percorso in cui non possiamo considerare assente la carica di astrazione di cui abbiamo parlato: ma per porsi decisamente fuori dello spazio certo e a suo modo rassicurante delle procedure deduttive, e farsi portatore di una razionalità che non coincide con la consequenzialità matematica.

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3. Il diritto come una matematica?

I giuristi come matematici: un’immagine persistente

Le voci di Leibniz e Savigny

Alla luce di quanto rilevato sinora l’interrogativo impiegato nel titolo di questo paragrafo potrebbe apparire retorico, e scontata una risposta negativa. Si è già più volte richiamata, in effetti, l’irriducibilità del ragionamento giuridico a una logica rigorosa, di tipo aritmetico. Eppure una simile consapevolezza costituisce un approdo – generalmente condiviso – piuttosto recente, se valutato sui tempi lunghi della storia del diritto. La sua parabola moderna, almeno dal Seicento in poi, è stata guidata da tendenze e persuasioni di segno sostanzialmente opposto, che ne misuravano la razionalità (la piena scientificità) sul metro dell’impianto sistematico in cui poteva essere inscritto e del ferreo calcolo che ne scandiva le scomposizioni teoriche, i nessi fra concetti, le inferenze deduttive, e dunque le concrete modalità di applicazione. Da Cartesio e Leibniz in poi la razionalità matematica (o geometrica, come in Spinoza) si è presentata come forma di pensiero pressoché totalizzante: un autentico paradigma per il ragionamento interno a ogni sapere, incluso quello giuridico. Anche in quest’ultimo ambito, la certezza delle conclusioni (ossia della disciplina cui sottoporre i casi via via affrontati) era assicurata dal rispetto di concatenazioni concettuali e procedure formali, senza lasciare spazio a interferenze di ordine etico o politico, né ad adattamenti imposti dalle esigenze delle situazioni concrete. Gli stessi giuristi romani – le cui soluzioni (originariamente di stampo casistico) costituivano ancora, tramite la mediazione del Corpus iuris giustinianeo, diritto vigente – venivano assimilati a matematici: artefici di un calcolo giuridico neutro e pressoché infallibile. I risultati cui essi erano pervenuti mantenevano valore (e spendibilità) in qualsiasi contesto storico e sociale, e si riteneva semmai che fosse da renderne più esplicita l’architettura sistematica (assai meno nitida, o come nascosta, nella realtà antica). Questo significativo accostamento fra giuristi (romani) e matematici ricorre, a distanza di centocinquant’anni, in uno scritto giovanile di Leibniz, dedicato a un “nuovo metodo di apprendere e insegnare la giurisprudenza” (1667) e in un noto saggio del 1814 di Savigny – il più influente giurista dell’epoca – attorno alla “vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza”. Non è qui il caso di approfondire i dettagli delle rispettive posizioni: i fili di continuità, come pure i differenti sfondi teorici in cui si collocava il ricorso alla medesima analogia. Possiamo però almeno rilevare che quell’immagine era funzionale sia a una lettura “attualizzante” dei materiali giuridici romani – di cui cioè veniva proposta un’analisi non meramente storica, ma tutta piegata all’allestimento di regole utilizzabili 110

per disciplinare i rapporti fra gli uomini del proprio tempo –, sia a una ricostruzione del fenomeno giuridico come rispondente a precisi parametri logici, inscritti nella ragione umana o nelle leggi che scandivano, nel divenire storico, la volontà e lo spirito di un popolo. Il regime della proprietà o del contratto, della successione testamentaria o del danneggiamento ingiusto, per come si era delineato nel laboratorio antico, manteneva integra la propria validità. Non diversamente dal teorema di Pitagora o dall’esito di un’operazione matematica. Due più due fa quattro: nell’antica Babilonia, o nella Roma imperiale, tanto quanto nell’Europa del XVII o XIX secolo. E l’esattezza del calcolo prescinde dagli oggetti coinvolti – siano essi due coppie di sassolini sulle spiaggia, o due grandi industrie che si fondono con altre due, in modo che i rispettivi capitali sociali vengano a sommarsi. Così come è indifferente al soggetto che li compie: sia egli un bambino agiato e felice che frequenta le migliori scuole, o un ragazzino costretto dal bisogno a lavorare in fabbrica a dieci anni. Di lì a breve, nella scienza giuridica (soprattutto tedesca) dell’Ottocento, l’istanza sistematica avrebbe conosciuto la sua stagione più felice, con ardite costruzioni teoriche che intendevano enfatizzare la “purezza” e neutralità del diritto (soprattutto privato), la sua separatezza da valutazioni morali, condizionamenti politici o pressioni economiche. Diritto raffigurato come un complesso organico e compatto di figure astratte, legate da vincoli puramente razionali, percorribili in via deduttiva. Un pugno di nozioni fondamentali – quelle, in definitiva, di norma, soggetto, oggetto, atto, rapporto e vicenda (con le qualità attribuibili a ciascuna di esse) – consentiva di erigere autentiche “piramidi concettuali” (come allora si diceva). Costruzioni raffinatissime sul piano teorico, ma sempre più lontane dall’effettiva vita degli uomini, indifferenti alle loro diseguaglianze sostanziali e ai loro conflitti, come pure alle specificità dei casi che chiedevano di volta in volta di essere regolati. Oggi il quadro che abbiamo dinanzi è sensibilmente mutato. Dietro quell’algido gioco di pure tecniche e d’incontaminata logica formale abbiamo da tempo imparato a decifrare presupposti e implicazioni ideologiche. Si consumava allora il trionfo dell’individualismo liberale e borghese, che voleva il singolo liberato dai condizionamenti di ceto e di status che lo avevano oppresso prima dell’età delle rivoluzioni; ma finiva per porre al centro un soggetto solo virtualmente “unico e universale”, e in realtà da identificare essenzialmente col cittadino-maschio-adulto-sano di mente-marito-padre-proprietario-contraente-testatore. Solo a chi assumesse integralmente tali qualifiche era dato godere in pieno di un sistema giuridico costruito – potenzialmente – attorno ai diritti degli individui, al riconoscimento della 111

Il diritto come sistema

Tecniche e ideologie

La presunta neutralità dei “dogmi”

Gli sviluppi teorici più recenti

loro eguaglianza (formale), libertà e volontà (in quanto, quest’ultima, produttiva del più ampio fascio di effetti giuridici). La rigorosa razionalità del calcolo giuridico, l’intangibilità dei concetti – autentici “dogmi”, come accennato: dei quali si volevano mai sfumati i contorni, e immodificabile l’essenza – e le precise geometrie del sistema in cui essi erano incasellati si rivelavano, in realtà, funzionali a strategie di potere. Nella loro neutralità, celebrata quanto fittizia, essi si prestavano ad assecondare forme di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, anche le più impietose. Pensiamo solo ai rapporti di lavoro subordinato: pienamente inquadrabili nello schema del contratto (nello specifico, un contratto di locazione di opere), e quindi di un negozio giuridico, legato alla signoria della volontà individuale. Quest’ultimo aspetto ne marca la specificità rispetto agli altri atti giuridici, e si declina qui come libero accordo di due soggetti che operano in piena autonomia, capaci di agire e formalmente eguali. Uno schema simile risulta agevole da delineare muovendosi, in senso ascendente e discendente, entro la “piramide dei concetti” di cui abbiamo detto. Ma esso è del tutto indifferente all’ovvio rilievo che fra il proprietario di una grande industria e l’operaio che in essa lavora non vi è affatto un’eguaglianza sostanziale, e che il loro accordo costituisce l’esito, sul secondo versante, di una libertà fortemente compressa, se non vanificata, dal bisogno. Il Novecento – i suoi progressi come pure le sue tragedie – è stato segnato da un radicale e variegato ripensamento critico di questa visione (anche in chiave autoritaria, con “terapie” che erano di gran lunga peggiori del male che si intendeva curare). Seguirne momenti e tendenze, anche in modo sommario, esula dai nostri obiettivi. Certo però ben pochi, oggi, sottoscriverebbero l’idea che il diritto (anche quello privato, tradizionalmente connotato da un più robusto spessore dogmatico) sia inquadrabile in un complesso coeso e coerente, privo di smagliature – un sistema, appunto –, di cui ricomporre le “dottrine generali” e desumerne con rigida coerenza ogni implicazione, tramite inferenze prevalentemente deduttive. Lo scenario ci appare ormai alquanto più mobile e articolato, anche instabile e incerto, sin dalle sue fondamenta, non agevole da governare. La metodologia giuridica si è arricchita di altre prospettive, molteplici ed eterogenee. Continuiamo in larga parte a servirci di un lessico e di categorie risalenti, nella loro più compiuta messa a punto, alla seconda metà del XIX secolo, e di esse rimane doveroso acquisire la piena padronanza. Quasi tutti i manuali, soprattutto di diritto privato, non rinunziano affatto – e probabilmente con buone ragioni, considerando l’efficacia didattica – a un’impostazione sistematica. 112

Un efficace esempio di quest’ultima può essere in effetti rintracciato anche solo scorrendo l’indice delle Istituzioni inflitte a migliaia di matricole in Giurisprudenza: usualmente scandite in una parte sui concetti generali e le fonti del diritto civile, e poi in diritto delle persone, vicende dei diritti soggettivi (in cui tradizionalmente era inclusa anche la trattazione del negozio giuridico), diritto di famiglia, beni e diritti reali, obbligazioni (con una nutrita sezione dedicata ai contratti), successioni a causa di morte e donazioni. E tuttavia non manchiamo di celebrare quotidianamente la crisi dell’approccio di fondo, sistematico e dogmatico, che è stato alla base di simili scelte espositive. O almeno percepiamo con crescente vigore deroghe e revisioni a cui vanno incontro le tradizionali strutture teoriche, dinanzi a soluzioni legislative e orientamenti giurisprudenziali (degli organi giudiziari nazionali o sovranazionali) che è sempre più difficile ricondurre entro un impianto concettuale unitario ed esaustivo. Viviamo, anche dal punto di vista giuridico, un tempo di estrema complessità, sovraccarico di alternative. Questa demistificazione del sistema e della dogmatica – dopo il culto che le era stato tributato – dischiude prospettive arricchenti e più realistiche, forse anche più eque, ma di cui non è facile pronosticare gli sviluppi, e i margini di un soddisfacente controllo. Lo stesso insistere sull’effettività della vita e dell’esperienza (proprio quanto era deliberatamente lasciato ai margini, da parte di chi assumeva il fenomeno giuridico alla stregua di una matematica sociale) rischia di far smarrire, come è stato osservato, “il carattere proprio del diritto (o almeno del moderno diritto), che è nell’astrazione, e, per così dire, nella distanza dalla vita, nello sguardo razionale e impersonale onde fatti e cose acquistano significato giuridico”. Col che ci troviamo, di nuovo, dinanzi al tema di fondo con cui abbiamo aperto questo capitolo.

Un esempio di sistema, a livello didattico

La complessità dei nuovi orizzonti

4. Le alternative al sistema Ma se il pensiero giuridico non coincide con una logica matematica, come salvaguardarne il rigore, che è garanzia di certezza e imparzialità, quindi di coesistenza ordinata fra gli uomini? Come non smarrire quella razionalità formale e quella carica di astrazione senza le quali è preclusa la stessa esistenza, in senso proprio, di ciò che denominiamo diritto? E se l’immagine di esso alla stregua di un sistema – dominante la cultura europea fra XVII e XIX secolo – rivela sempre più incrinature e incompletezze, così che essa può essere (al massimo) assunta come orientativa, ma bisognosa di essere integrata e 113

Alcuni quesiti di fondo, al declinare del sistema

La “inconseguenza” dei giuristi antichi nel giudizio di Hegel

Il metodo topico

adattata onde recuperare l’effettiva complessità del giuridico, a quali modalità di ragionamento dovremo affidarci? Si tratta, senza dubbio, di domande delicate e difficili, che coinvolgono ogni operatore del diritto (non solo chi lo studi a livello teorico), e rispetto alle quali è quasi impossibile fornire una risposta univoca. Qui – unitamente a quanto osservato (§ 2) attorno alle modalità di inferenza diverse dalla deduzione – vorrei richiamare solo alcuni orientamenti, legati ad autori moderni (del XIX e XX secolo), ma densi di echi antichi. La prima è la voce di Hegel: resa particolarmente rilevante dalla statura dell’autore (non tanto nella storia giuridica in senso stretto, ma nell’intera cultura europea) e anche dalla sua provenienza storica. Si tratta, infatti, di riflessioni messe a punto entro lo stesso contesto a cui risale – espressivo però di un approccio sostanzialmente antitetico – il secondo accostamento fra giuristi (romani) e matematici di cui si è detto, quello operato da Savigny. Nei Lineamenti di filosofia del diritto Hegel osservava che “l’inconseguenza dei giureconsulti romani e dei pretori è certo da considerare come una delle loro più grandi virtù, come quella con la quale si scostarono dagli istituti ingiusti”. All’origine della ragione giuridica dell’Occidente egli individuava, pertanto, non il rigore di un calcolo aritmetico, ma una ricorrente (quasi programmatica) e salutare incoerenza. A connotare, ai suoi occhi, l’antica scientia iuris (così come l’operato dei magistrati chiamati ad amministrare la giustizia civile) era la capacità – ove lo richiedessero le specificità dei casi e le esigenze di un loro trattamento effettivamente equo e congruo, altrimenti frustrato – di discostarsi dall’applicazione rigorosa (perfettamente “conseguente”) delle previsioni generali e astratte. Il ragionamento giuridico rivelava dunque, nei suoi più risalenti artefici, una flessibilità assolutamente irriducibile a un’inferenza sillogistica o a un computo matematico. Ne veniva sacrificata la certezza, ma scongiurati gli esiti ingiusti (o comunque quelli allora percepiti come tali: non era ad esempio fra questi la schiavitù, rimasta in vigore per millenni). La lettura di Hegel ci consegna un’immagine del lavoro dei giuristi romani certamente più fedele al suo originario profilo di quanto lo fossero le sue rivisitazioni in chiave sistematica nell’Europa moderna, e offre anche una concezione del giuridico che merita tutt’oggi di essere seriamente considerata. L’antica giurisprudenza lavorava, come sappiamo, a ridosso dei casi – senza esaurire il proprio impegno in pratiche deduttive, ma neppure solo in procedure di carattere induttivo (§ 2) –, sorretta da un metodo topico (lo stesso che abbiamo richiamato a proposito delle sue definizioni: capitolo III, § 4), volto cioè a rimodulare i confini delle nozioni con attenzione al luogo 114

(tópos, appunto) in riferimento al quale dovevano essere intese, e applicate. Ne scaturiva un regime duttile e fluido, costantemente orientato verso la ricerca della soluzione più adeguata, in grado di garantire un’eguaglianza sostanziale di trattamento – disciplinando nello stesso modo situazioni considerate effettivamente eguali, anche se formalmente differenti; e in modo proporzionalmente diverso situazioni solo in astratto eguali, ma caratterizzate da effettive difformità, a cui il diritto, per essere veramente tale, non può rimanere insensibile. Gli studiosi hanno più volte insistito, nel corso del Novecento, su queste peculiarità della scienza giuridica antica, e dell’impianto puntiforme che la connotava, rendendola per vari aspetti accostabile (ben più che alla logica matematica) alla teoria e prassi retorica coeva. Esattamente i tratti di metodo che sembrano oggi destinati a riproporsi – sia pure in tutt’altro contesto, e in una nuova declinazione – dopo il tramonto di molte “mitologie giuridiche della modernità”, incluso il culto del sistema e della dogmatica. Il riferimento ad altri ambiti disciplinari antichi – in particolare quello della retorica e della dialettica (soprattutto nell’accezione aristotelica: capitolo VIII, § 3) – induce a richiamare una seconda voce, che proviene dalla seconda metà del XX secolo e si lega alla riscoperta dell’elaborazione classica, non solo come fondante una nuova teoria dell’argomentazione, ma come espressiva di uno stile di ragionamento basato sul verosimile e il convincente (anziché sul necessario ed evidente, o comunque su quanto ricavabile in via deduttiva). È la proposta teorica legata soprattutto al nome di Chaïm Perelman, la cui “nuova retorica” si pone in dichiarata “rottura rispetto a una concezione della ragione e del ragionamento, nata con Descartes, che ha improntato di sé la filosofia occidentale degli ultimi tre secoli”. E riesce estremamente significativa proprio l’attenzione riservata da quest’autore – che non era, professionalmente, uno studioso di diritto – al ragionamento giuridico: fra i più aderenti, secondo la sua lettura, a un paradigma di pensiero e argomentazione assai lontano da una consequenzialità matematica, e in cui piuttosto si può inclinare per l’adozione di una tesi non soltanto perché vera, ma “perché sembra più equa, più opportuna, più utile, più ragionevole, più adatta alla situazione”. Le antiche giunture, o contaminazioni, fra diritto (elaborato da un ceto di esperti) e tecniche di persuasione sono state in tal modo riscoperte e di nuovo valorizzate, caricandosi di ulteriori valenze. Ne emerge uno scenario composito, ove le alternative al sistema – incarnate dall’analisi casistica e dall’incedere topico, con la logica del probabile che lo contraddistingue – sono chiamate a giocare un ruolo 115

L’eguaglianza secondo la prospettiva dei giuristi romani

Perelman e la “nuova retorica”

Irriducibilità del pensiero giuridico alla logica cartesiana

nuovo, e non secondario, nel quotidiano evolversi dell’esperienza giuridica. Basti pensare a certi sviluppi, oggi sempre più intensi, nel campo Gli scenari odierni del diritto privato e amministrativo, affidati allo stratificarsi di puntuali interventi delle corti giudicanti, in Italia e in Europa. Un’evoluzione giuridica di marca giurisprudenziale, nel senso odierno dell’aggettivo, che colma vuoti di tutela (ossia decide sull’esistenza di lacune: capitolo IX, § 2), varca antiche frontiere (in senso fisico o ideale) e consolida progressivamente figure e soluzioni difficilmente collocabili entro le linee teoriche del sistema. Il diritto è, e non può probabilmente che rimanere, un sapere formale, alla cui base è un’ineludibile carica di astrazione. Ma non dobbiamo mai smarrire la consapevolezza che esso è uno strumento – costruito dall’uomo e all’uomo destinato, al fine di fronteggiare nel modo meno inadeguato la sua esigenza di una convivenza pacifica e ordinata –, guardandosi dal rischio che la sua rigorosa applicazione possa degenerare nel suo rovescio (summum ius summa iniuria), vanificando l’anelito di giustizia posto da millenni alla sua base.

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Capitolo sesto

AL DI LÀ DEL PRIMO SIGNIFICATO

1. Vicende di parole, creazione di realtà Nelle pagine che precedono abbiamo più volte insistito sia (a partire dal capitolo I) sullo straordinario peso che assumono le parole nel campo del diritto, sia sui diversi percorsi attraverso i quali, nell’ambito di quest’ultimo, si realizza l’astrazione (soprattutto nel capitolo V). È giunto il momento di esaminare, più da vicino, un fenomeno che si colloca come all’intersezione di questi due aspetti, e cioè come si formi il lessico specialistico che ci riguarda. Un lessico necessariamente composto (oltre che da particolari stilemi sintattici e costrutti morfologici) da vocaboli esclusivi o peculiari del nostro settore tecnico, in grado di esprimere concetti – nozioni astratte, qualità, relazioni – che vivono esclusivamente nella sua dimensione virtuale, senza un immediato correlativo (o referente fattuale) nella realtà empirica, raggiungibile coi nostri sensi. Aver ricordato il contesto entro cui quest’analisi si pone, e i suoi nessi con quanto già rilevato, dovrebbe essere sufficiente per farci comprendere – senza necessità di ripetersi – l’importanza di queste soluzioni espressive. Non si tratta di meri strumenti volti a designare elementi già esistenti ma piuttosto, non di rado, di spie terminologiche del venire a esistere di qualcosa di nuovo: entità o figure incorporali che il linguaggio del giurista crea, assai più che registrare. Il che spiega l’esigenza di acquisire qualche cognizione, anche senza entrare in questioni linguistiche troppo complesse, circa simili dinamiche: su come, in altre parole, siano stati forgiati alcuni dei primi ed essenziali “attrezzi” che rinveniamo nel nostro “laboratorio”. L’introduzione di un vocabolo tecnico rivela il (e contribuisce in modo decisivo al) fissarsi di un’entità teorica o di un modello di fatto. E anche il passaggio da un verbo o aggettivo al sostantivo che ne è derivato o composto, o comunque vi è legato, illustra il compimento di un percorso significativo, che evidentemente esprime, ancora una volta, un rilevante sforzo di astrazione. Non è un caso se per secoli, 117

Il costituirsi di un vocabolario tecnico

Alcune vicende esemplari

Transiti linguistici

Prevalente andamento dal concreto all’astratto

Ulteriori modifiche semantiche, ed esempi

nelle lingue antiche, si impiegò il verbo némein (dividere, distribuire, assegnare), poi il conseguente vocabolo eunomía o eunomíe (buon ordine), e solo più tardi il sostantivo nómos (che traduciamo usualmente come legge); o, in modo analogo, il verbo che designa il “contrarre” (contrahere) molto prima che il sostantivo contractus; o che per lungo tempo si sia affermato che un bene “è mio” anziché parlare di proprietà (dominium) su di esso. Ovviamente non sarebbe praticabile – e neppure, in definitiva, molto interessante (almeno ai nostri fini) – un censimento di tutte le parole che si trovano esclusivamente nel linguaggio giuridico, in quanto coniate all’interno di quel sapere e non suscettibili di impiego fuori di esso (o utilizzate sempre secondo l’accezione che assegnano loro i giuristi). A ben vedere, casi simili non sarebbero poi neppure frequentissimi. E quando è dato riscontrarli riguardano figure davvero molto specifiche, come protette e isolate dal proprio tecnicismo: usucapione, usufrutto, fideiussione, anticresi, anatocismo, sinallagma, enfiteusi, peculato, concussione, ecc. Più spesso i vocaboli transitano dalla lingua settoriale a quella comune: o perché, introdotti nella prima, si diffondono nella seconda assumendovi una semantica almeno parzialmente diversa – solitamente figurata: si pensi a pegno, ipoteca o adozione; ma anche a potestà o imperio oppure, a livello di sintagmi, a ‘indagini preliminari’. Oppure perché nascono e ricorrono nella seconda, per fare successivamente il loro ingresso nella prima, attraverso slittamenti di significato e/o più rigorose precisazioni dei loro contorni. Questa seconda possibilità è appunto quella che, nella prospettiva seguita, merita la maggiore attenzione. Ci riconduce alla genesi di molti elementi del vocabolario giuridico, con le variazioni semantiche che li hanno interessati, secondo un vettore che va prevalentemente dal concreto all’astratto. L’impiego (o re-impiego) delle parole del diritto – quelle così coniate, ma anche le altre – in ambiti comunicativi diversi e più vasti, non settoriali, rimarrà invece sullo fondo del nostro discorso. Ma con l’avvertenza che a esso il giurista non può completamente disinteressarsi. Certi fenomeni, apparentemente ascrivibili solo a usi impropri o volgari, possono infatti tradire trasformazioni sostanziali e non del tutto trascurabili. Pensiamo, come unico esempio, alla parola ‘transazione’: per lo studioso di diritto (in particolare privato e processuale civile) essa designa una specifica e puntuale nozione, la cui definizione è offerta dal legislatore (articolo 1965 del codice civile: “la transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro”). Vi è alle spalle una lunghissima tradizione, che rimonta 118

all’esperienza romana e alle decisive svolte in virtù delle quali si passò allora dal verbo transigere al sostantivo transactio, e dal valutare questa figura alla stregua di una causa, in base alla quale potevano essere compiuti i più svariati atti giuridici, a trattarla in sé quale autonomo atto giuridico, cui si riconobbe (sia pure in modo graduale e problematico) natura contrattuale. Tutto chiaro, e tutto interessante. Appena però, passando dai libri alla vita di ogni giorno, andate a compiere un’operazione al Bancomat, leggerete sullo schermo, appena essa sarà conclusa, che “la transazione è stata eseguita”. Ma avete solo ritirato del denaro dal vostro conto corrente, non certo concluso (o prevenuto) una lite con la banca! Quest’impiego di ‘transazione’ – la medesima parola, e in un contesto comunicativo che è sì rivolto a qualunque risparmiatore, ma dovrebbe essere provvisto di un qualche spessore tecnico – non ha in realtà molto in comune con l’articolo 1965 del codice civile e la storia che è dietro di esso. Troviamo qui, semplicemente, il calco italiano (come ormai tante volte accade, in ogni ambito linguistico) di un termine inglese: ossia ‘transaction’, che indica – più comunemente che l’accordo da noi denominato ‘transazione’ – qualsiasi operazione, affare, faccenda. In occasioni simili fare i puristi non è di grande aiuto. Si potrà stigmatizzare una certa improprietà espressiva, tacciandola (nel nostro caso) di gratuita anglofilia e di approssimazione volgarizzante. Ma certe rivisitazioni semantiche della lingua corrente hanno dalla loro il peso dei numeri: e prima o poi troveranno accoglienza persino nel lessico normativo. Acquisirne consapevolezza consente almeno reazioni appropriate sul piano interpretativo, facendo ordine nella polisemia (capitolo IX, § 1) che viene così a instaurarsi.

2. La via della metafora e la via della metonimia Torniamo dunque alle modalità con cui certi termini del linguaggio comune si inseriscono in quello proprio del diritto, e vengono ad assumervi significati tecnici, non coincidenti con la loro prima portata. Abbiamo già evocato (capitolo I, § 1) i casi di ‘regola’ e ‘norma’, i cui corrispondenti vocaboli latini designavano in origine oggetti fisici (rispettivamente, il righello e la squadra). Rilievi analoghi possono essere formulati attorno ad altre fondamentali nozioni giuridiche: a cominciare da quella di ‘fonte’, impiegata sia per indicare il complesso di atti (come la legge) e comportamenti (quali usi e consuetudini) idonei a creare regole giuridiche vincolanti una comunità; sia per per richiamarsi al materiale – oggi es119

Esempi di metafora: regola, norma, fonte

La metafora, in generale

Voci metaforiche del lessico giuridico

senzialmente testi; riguardo ad altre epoche, anche documenti epigrafici o archeologici – da cui attingere la conoscenza delle norme, vigenti oggi o in un determinato periodo del passato. Nella prima prospettiva si parla di “fonti di produzione” del diritto; nella seconda di “fonti di cognizione”. Anche in questo caso abbiamo una parola che comunemente designa un elemento concreto (il luogo da cui sgorga l’acqua), e passa poi a denominare qualcosa che può anche sottrarsi a un’immediata percezione (come gli usi e le consuetudini di cui si è appena detto) e dal quale solo virtualmente scaturisce un effetto (la produzione del diritto o la sua conoscibilità). Quest’uso traslato era già dei romani – che usavano fons per indicare ciò da cui promanava il ius (così come affermavano che esso iniziò a “fluire”, in particolare, dalla legge delle XII Tavole) – ed è stabilmente entrato nel modo di esprimersi dei giuristi. Né può stupire che, dopo regula e norma, si torni a insistere su parole latine: molte di esse furono coinvolte nei fenomeni che ci interessano quando era al lavoro la giurisprudenza romana, e da allora non sono mai uscite dal vocabolario giuridico, mantenendo sostanzialmente la stessa accezione tecnica. Ma cosa consente, nei tre casi appena evocati (regola, norma, fonte), di passare dal significato originario, provvisto di un correlativo oggettivo, a quello specialistico, connotato da un’astrazione? Si tratta, in tutte queste ipotesi (e in numerose altre) di un mutamento semantico di carattere metaforico. La metafora – che non a caso Quintiliano considerava una “similitudine abbreviata” – consiste in effetti in un trasferimento semantico (o comunque in una modificazione, che può anche essere nel senso della specificazione) in forza del quale una parola passa da un significato già acquisito a uno diverso, che ha col primo una o più connessioni di somiglianza. Vi facciamo ricorso in innumerevoli occasioni, anche nel linguaggio comune: quando sussurriamo “tesoro” al(la) fidanzato(a), qualifichiamo “una roccia” il più duro (ma anche quest’aggettivo, a ben vedere, è qui usato in senso metaforico) e tenace dei nostri conoscenti, o “uno stronzo” il meno amabile (per rimanere ... in tema, “un cesso”, riferito al meno attraente, ha invece una portata prevalentemente metonimica), o ancora “un gioiello” la nostra moto o “un macellaio” un calciatore molto falloso. E tuttavia in campo giuridico, ancora una volta, questa figura linguistica assume tratti specifici, e ulteriormente significativi. Essa lavora dunque sull’asse della somiglianza. Come il righello e la squadra consentono di calcolare l’estensione di oggetti, commisurandoli a un modello; così (in modo simile, appunto) la regola e la norma delimitano e conformano i comportamenti umani. Come dalla 120

fonte sgorga l’acqua, così dalla fonte (di produzione del diritto) scaturiscono le prescrizioni di condotta per i consociati. In ciascuno di questi mutamenti semantici possiamo anche rinvenire un passaggio dal concreto all’astratto. E lo stesso – con eguale carica di astrazione, in quanto la similitudine si dirige da un significato empirico a uno immateriale – può dirsi per altri vocaboli (latini e poi italiani) che fanno anch’essi parte del nostro linguaggio tecnico: da vinculum/vincolo (passato dal designare il legame fisico a indicare quello virtuale del diritto) e onus/onere (dal peso corporale al gravame giuridico) sino a solutio (dallo scioglimento fisico a quello di un particolare vinculum iuris quale l’obbligazione, ma col concorso di un ulteriore trasferimento semantico, di ordine metonimico, di cui presto diremo). Non sempre i fenomeni metaforici, anche fuori del lessico giuridico, seguono questa direttiva. Talora assumono piuttosto altre versioni: così da dar luogo a metafore antropomorfiche, animalesche, sinestetiche, biologiche od organicistiche. Sono ad esempio di questi ultimi tipi, per tornare al nostro ambito, le metafore per cui si parla di nascita, modificazione ed estinzione di un rapporto giuridico; oppure di realtà pluripersonali considerate alla stregua di una “persona”, munita di “organi”, come quelli dello Stato o di una società. In realtà, potremmo forse cogliere, anche in simili impieghi, una carica di astrazione; ma è indubbio che essa connoti soprattutto i primi trasferimenti semantici su cui ci siamo soffermati, e ai quali è legata la creazione di una parte considerevole del vocabolario giuridico. Non è soltanto servendosi di quelle nozioni – indicative di concetti o fattispecie – per costruire i nostri ragionamenti giuridici che partecipiamo della dimensione astratta del diritto. Tale dimensione ha preso corpo già nel momento in cui quelle parole assunsero una portata figurata, e poi appena noi le enunciamo, in conformità a tale accezione. A un mutamento semantico di carattere metaforico può esserne inoltre combinato un altro, che troviamo poi, da solo, nella vicenda di ulteriori termini. Mi riferisco alla metonimia, in forza della quale una parola passa, da un significato già acquisito, a un altro diverso, ma che ha col primo una o più connessioni di contiguità. Contiguità che può disporsi secondo un rapporto spaziale, temporale, causale o quantitativo. In quest’ultimo caso, si parla più specificamente di sineddoche, che abbiamo quando viene indicata la parte per significare il tutto (come nell’espressione “guadagnarmi il pane”), o viceversa (se ad esempio dico “America” per intendere gli Stati Uniti). Anche la metonimia è di larghissimo uso nella comunicazione quotidiana. Si pensi, oltre a quelle appena richiamate, a espressioni come “leggere Montale” (mentre in realtà oggetto di lettura sono i suoi scritti, non ciò che resta della sua persona), “bere un bicchiere” 121

Da un significato concreto a uno astratto

Ulteriori percorsi della metafora

La metonimia

Espressioni metonimiche nel linguaggio comune

Alcune metonimie in campo giuridico: dall’antichità a oggi

Il cammino verso l’astrazione: esempi

Combinazioni di metafora e metonimia

(ossia, ovviamente, ciò che in esso è contenuto), “essere una buona forchetta” (cioè un notevole mangiatore, che fa dunque grande uso di quella posata), “avere un bel cervello” o “una bella testa” (per indicare una considerevole intelligenza), “essere senza cuore” (ossia privo di sentimenti e umanità). Ma, di nuovo, a interessarci da vicino sono soprattutto le sue ricorrenze e ripercussioni nel campo del diritto: sia per seguire – in modo analogo alla metafora – il suo ruolo nella costituzione di un vocabolario tecnico, sia per mettere in guardia da certe sue applicazioni che rischiano di introdurre modalità espressive scorrette o almeno equivoche. Possiamo ancora rivolgerci ad alcuni termini latini, con rilievi che però li accompagnano anche nella loro versione italiana, così da coprire un lunghissimo tratto di storia giuridica. Troviamo parole che sono passate dall’indicare un atto (o attività) ben visibile al designare qualcosa di più difficile da percepire (esistente solo nella realtà del diritto): come il rapporto che ne deriva, o il diritto di porlo/a in essere. Così è accaduto, nella prima prospettiva, per nuptiae (il cui significato transita da “atto nuziale” a “rapporto coniugale”: qualcosa di analogo vale per l’italiano ‘matrimonio’, ma in chiave essenzialmente volgarizzante), ma anche adoptio (dall’adozione come atto allo stato cui quest’ultimo ha dato vita); nella seconda, per actio (da “attività processuale”, intrapresa assumendo l’iniziativa della causa, a “diritto di agire in giudizio”). Il percorso nella direzione dell’astrazione è ancor più evidente in altre occasioni, soprattutto laddove possiamo scorgere un cammino che va da un oggetto fisico a una fattispecie. Ad esempio, laddove il sostantivo furtum non designa più, come in origine, la cosa rubata (la refurtiva, appunto) ma l’atto compiuto dal ladro, ossia il modello di fatto (definito a livello normativo). Ma pensiamo anche – nel segno di una transizione che muove dal contenitore verso il contenuto, tecnicizzando fortemente un vocabolo – alla polisemia che ha connotato, dispiegata nei secoli, il termine codex/codice: inizialmente impiegato per designare un supporto librario (non più il rotolo papiraceo ma il volume di fogli legati sul dorso, come appunto i nostri libri); poi, fra III e VI secolo d.C., una raccolta (operata prima da privati; più tardi disposta dall’autorità pubblica) di costituzioni già emanate dagli imperatori e afferenti ai vari settori del diritto; modernamente, un corpo normativo organico, emanato da chi sia stato istituzionalmente investito del relativo potere, formalmente nuovo e tendenzialmente esaustivo, diretto a disciplinare un solo e determinato ramo del diritto (codice civile, di procedura civile, penale, ecc.). Le ipotesi di un trasferimento semantico che coinvolge il significato di “atto” si rivelano ancor più interessanti laddove è dato cogliere il combinarsi di un fenomeno metaforico e di uno metonimico. Vi assi122

stiamo, in particolare, all’origine delle nostre idee di obbligazione e adempimento. Obligatio indicava in origine, con buona probabilità (anche se il dato non è incontroverso), la condizione di chi fosse (fisicamente) legato oppure l’atto di stringere tale vincolo corporale. Dovette poi passare a designare, in via metaforica – dunque per somiglianza –, il comportamento di chi desse vita a un legame virtuale ed esclusivamente giuridico, di credito-debito (obligatio, pertanto, come “atto produttivo di obbligazione”). Solo più tardi giunse, in via metonimica, a indicare la relazione patrimoniale che ne scaturiva, appunto, fra creditore e debitore – obligatio come “rapporto obbligatorio”: che è ormai l’unico significato di ‘obbligazione’ nell’italiano giuridico, ma appare già ben consolidato al tempo delle Istituzioni giustinianee, con la definizione che abbiamo ricordato al capitolo III, § 4. Speculare (anche, in verità, riguardo al carattere dibattuto di certi suoi snodi) appare la vicenda della parola latina, per così dire, eguale e contraria: solutio. Dallo scioglimento di un vincolo corporale essa passò a indicare l’atto opposto e simmetrico all’obligatio (nel suo più risalente significato giuridico), ossia il comportamento idoneo a sciogliere il vincolo sorto fra creditore e debitore. Infine pervenne a designare (esclusivamente) l’adempimento. Come evidente, il primo trasferimento semantico si compì sull’asse della metafora – lo stesso che ancora è evocato da alcune disposizioni del nostro codice civile, come l’articolo 1200, in tema di “liberazione dei beni dalle garanzie reali date per il credito”. Il secondo ebbe luogo in via metonimica, e cioè isolando la più rilevante, diffusa e fisiologica fra le varie modalità di estinzione dell’obbligazione – quest’ultima, in effetti, poteva e può venir meno anche a seguito di altre vicende (remissione del debito, confusione, novazione, impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore, ecc.). Un ulteriore profilo della metonimia cui si accennava è il suo ricorso in alcuni impieghi (entro il linguaggio comune) di termini giuridici, ma fortemente, diciamo così, de-tecnicizzati. Pensiamo al caso che, invitati a cena da un vostro conoscente facoltoso – un grande proprietario terriero – siate da questi esortati a salire sull’ampia terrazza della sua casa. “Da qui potrai vedere”, vi dice compiaciuto, “tutta la mia proprietà”. Quest’ultima parola non esprime affatto il significato che assume usualmente nel lessico giuridico – e che è consacrato all’articolo 832 del codice civile, il quale si riferisce al “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo ...” –, ma vuole qui indicare l’oggetto di tale diritto, nel suo complesso. La contiguità scatta nella direzione inversa a quella esaminata finora (o che almeno è stata più enfatizzata): procede dall’astratto (un diritto) al concreto (ciò su cui esso si esercita). Nulla di particolarmente grave, 123

Metonimie volgarizzanti: l’esempio di proprietà ...

se però non rischiasse di ingenerare qualche equivoco sulla natura della proprietà, che è – e deve rimanere per chi si occupi di diritto – qualcosa di immateriale, un artificio del pensiero. ... e quello di Non diversamente, se un vostro amico studente fuori sede (speracontratto bilmente non iscritto a Giurisprudenza) vi informasse che, per poter abitare in un appartamento di altrui proprietà, ha concluso un contratto di locazione, e vi mostrasse un documento dicendo “ecco, questo è il contratto”, cadrebbe anch’egli in un’improprietà espressiva, scaturita da uno slittamento metonimico operante di nuovo nella linea che retrocede dall’astratto al concreto. Il contratto – ai sensi dell’articolo 1321 del codice civile, che tante volte abbiamo richiamato – consiste infatti in un accordo, e rimane altro dall’atto scritto in cui ne è riversato il contenuto, e che viene redatto o semplicemente per precostituirsene una prova (scrittura ad probationem) o perché tale forma è richiesta quale requisito di validità del contratto stesso (scrittura ad substantiam: come nel caso di una compravendita di beni immobili). Anche in quest’ipotesi, nessuno scandalo. Rimane però una soluzione espressiva atecnica e volgarizzante, che vanificherebbe di colpo, se venisse a diffondersi e consolidarsi, secoli di storia giuridica. Tanti ne sono occorsi, a partire dalla Roma repubblicana, per mettere a punto una nozione precisa e unitaria di contratto – e senza ricorrere a termini che, come nell’Atene classica, si prestavano a indicare tanto il documento quanto l’incontro di volontà che in esso veniva incorporato.

3. Altre rimodulazioni semantiche Ridefinizioni di significato

Qualche osservazione, infine, su ulteriori assestamenti di significato che possono coinvolgere le parole (che entrano) nel linguaggio giuridico. Il riferimento è, essenzialmente, a quei processi di ridefinizione in virtù dei quali elementi del lessico comune fanno il loro ingresso in quello tecnico, assumendo un campo semantico peculiare e diverso: ma non in chiave strettamente metaforica o metonimica. Si tratta, in sostanza, di una specializzazione di determinati vocaboli, che vedono restringere la propria portata rispetto agli usi linguistici più diffusi: ad esempio ‘azione’, che si tecnicizza come “azione processuale”; o ‘persona’, che diviene inclusivo anche di entità non umane, considerate appunto “persone giuridiche”. Oppure vedono affiancarsi alla loro comune accezione una nuova, esclusiva del diritto: si pensi a negozio, ma anche a bene, magari con le qualifiche di immobile, indivisibile e inconsumabile (sostantivo e aggettivi che acqui124

stano per il giurista una portata diversa che nel linguaggio ordinario: capitolo I, § 3). Riguardo al termine ‘bene’, in particolare, abbiamo ricordato come, soprattutto nella prospettiva del diritto privato, esso designi qualcosa di diverso dalla “cosa”: o, per meglio dire, riguardi solo una particolare tipologia di cose (quelle suscettibili di formare oggetto di diritti). Questo rinvia, sia pure da un punto di vista lievemente diverso, anche a un fenomeno che già conosciamo (capitolo I, § 4): ossia l’insofferenza del sapere giuridico per troppo sbrigative sovrapposizioni lessicali o presunte sinonimie. Quanto, nel parlare di ogni giorno, può essere considerato almeno equivalente, una volta entrato nel diritto acquista una propria specifica portata, inassimilabile ad altre. E persino una parola così generica (e dal significato apparentemente così tangibile) come ‘cosa’ può assumere presso i giuristi connotazioni impreviste, se è vero che dal tempo di Gaio essi parlano di cose incorporali (res incorporales). Esse vennero, già nel II secolo d.C., identificate nelle posizioni giuridiche soggettive, o comunque in quelle entità astratte che trovano la propria esistenza esclusivamente nel diritto (l’obbligazione, la successione ereditaria, i diritti reali). Un ossimoro solo apparente: con un sostantivo che in genere evoca quanto destinato a essere percepito fisicamente, e un aggettivo che segna invece l’irrompere della smaterializzazione, e l’entificazione dei concetti. In quella terminologia (“cose incorporali”) è piuttosto da riconoscere un’autentica formulazione ipostatica – ossia priva di un referente fattuale, diversamente dai termini “empirici” –, e fra le più durature e fortunate nella storia del diritto occidentale. Vi sono poi casi in cui la ridefinizione conduce, nel lessico giuridico, a un significato davvero molto distante da quello che un vocabolo riveste nella lingua comune: un significato, nella sostanza, completamente diverso. Tale percorso è non di rado spiegabile – come nel secondo e terzo esempio che stiamo per richiamare – in virtù di una maggiore aderenza al corrispondente termine latino, o al suo etimo (è quanto accade anche per l’aggettivo ‘reale’, che per il giurista rinvia in primo luogo alla res e ai diritti che si vantino su di essa, valevoli nei confronti di tutti gli altri consociati). Si tratta comunque di un itinerario non riconducibile a slittamenti di ordine metaforico o metonimico, né a semplici restringimenti o ampliamenti semantici. Consideriamo parole quali ‘emulazione’, che (non designa la tensione a eguagliare e imitare, ma) qualifica comportamenti – appunto gli “atti emulativi”, di cui all’articolo 832 del codice civile – aventi “il solo scopo ... di nuocere o recare molestia ad altri”. Oppure pensiamo a ‘compromesso’, non nel senso di “accomodamento” (né tantomeno come participio passato di ‘compromettere’), ma come accor125

La nozione di ‘bene’

La nozione di “cosa incorporale”

Ridefinizioni e distanze semantiche

Esempi

Ridefinizione e pluralità di accezioni specialistiche

do in virtù del quale le parti rimettono agli arbitri la decisione di una controversia (articoli 806 ss. del codice di procedura civile), cui si aggiunge il significato (non nella normativa ma nella prassi giuridica, e diffuso anche nel lessico comune) di “contratto preliminare”. Ricordiamo infine ‘confusione’, ricorrente per indicare (non il disordine o l’agitazione, ma) una particolare vicenda che conduce all’estinzione di un rapporto giuridico, in quanto nella medesima persona vengono a identificarsi (a fondersi in uno, appunto) il soggetto attivo e quello passivo di tale relazione (il creditore e il debitore, oppure, in materia di servitù prediali, il titolare del fondo dominante e il titolare di quello servente). Non mancano poi occasioni in cui la ridefinizione di un termine – termine comune, che al suo ingresso nel linguaggio giuridico si specializza – può condurre a esiti anche molto diversi fra loro, strettamente dipendenti dai diversi contesti (ma sempre interni al mondo del diritto). Pensiamo all’aggettivo ‘nudo’. Difficilmente, nelle pratiche discorsive dei giuristi, lo incontreremo nell’accezione abituale, di “svestito” o “privo di indumenti”. Piuttosto, ne rinveniamo un impiego essenzialmente metaforico in locuzioni come “nudo patto” (che indica, e soprattutto ha indicato in passato, il mero consenso di due o più parti, il nucleo essenziale del loro accordo, che per produrre pienamente effetti giuridici richiede il “vestimento” assicurato da ulteriori elementi, prestabiliti dal diritto). Forse sull’asse della somiglianza – ma con un passaggio meno univoco ed evidente – si è pervenuti anche al suo impiego nel sintagma “nudo proprietario” (che designa il titolare di un bene sul quale insista, a favore di altri, un diritto di usufrutto, così che poteri e facoltà del proprietario ne vengono fortemente compressi). Di certo non è propriamente una metafora, invece, ma piuttosto una ridefinizione ipercontestualizzata, quella che incontriamo con l’espressione “a mani nude”: che per il giurista non indicherà l’assenza di guanti – che ne costituisce probabilmente il primo significato nella comunicazione ordinaria –, ma semmai di armi, o comunque di oggetti idonei ad arrecare nocumento ad altri. L’ennesima conferma, se ancora ve ne fosse bisogno, dell’inventiva lessicale del diritto e del suo peculiarissimo impatto nel rimodulare e specificare (anche in chiave topica: capitolo V, § 4) le parole: i primi elementi – indispensabili, duttili e rigorosi a un tempo – del nostro “laboratorio”.

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Capitolo settimo

NEL MONDO (SCONFINATO) DELL’INTERPRETAZIONE

1. Un’attività onnipresente (e sempre fisiologica) Possiamo considerare il percorso compiuto sin qui come sostanzialmente preliminare all’analisi delle attività più ricorrenti e complesse che chiunque studi diritto sarà, prima o poi, chiamato a compiere. Un lungo cammino propedeutico, che ci ha fornito le risorse per affrontare le ultime tappe, decisive. Anche le operazioni più impegnative esaminate finora – come la definizione (capitolo III) o certe modalità di inferenza (capitolo V, § 2) – acquistano ulteriore senso se consideriamo la frequenza con cui esse verranno impiegate, per combinarle in più articolate pratiche discorsive, da chi intenda realizzare un’interpretazione o allestire un’argomentazione (due campi contigui e interagenti, ma che cercheremo di non sovrapporre: § 4). In effetti, il primo equivoco che è necessario prevenire trattando dell’interpretazione – altri sono i pregiudizi che dovremo sfatare parlando di argomentazione, e soprattutto di retorica (capitolo VIII, § 3) – è quello che la vorrebbe confinata in una dimensione marginale e quasi patologica. Come se si trattasse di una pratica dagli esiti sempre troppo incerti e controversi, che solo pochi soggetti (e se proprio è indispensabile) dovrebbero compiere, laddove manchino chiare previsioni, sotto le quali ricondurre in modo immediato e univoco (sussumere: capitolo II, § 5) ogni situazione della realtà umana. Niente di più falso. Abbandoniamo idee – davvero chiacchiere da bar, come suol dirsi – secondo cui urgono leggi ben fatte, tali da evitare ogni interpretazione; o vecchi e malevoli adagi (pur non privi di un fondo di verità, sotto altri aspetti) secondo cui rispetto ai nemici una prescrizione si applica, nei confronti degli amici si interpreta. Ed evitiamo pure di farci condizionare da un brocardo reso (solo in apparenza) più autorevole dalla sua formulazione latina – ma nessun giurista romano si sognò mai di pronunziarlo, e il suo conio è tutto moder127

L’approdo di un itinerario

Alcuni pregiudizi da evitare

Chiarezza e interpretazione

Visioni riduttive dell’interpretazione e loro superamento

La disciplina legale dell’interpretazione nel nostro ordinamento

Limiti e difetti dell’articolo 12 delle “Preleggi”

no –, secondo il quale in claris non fit interpretatio (non si dà interpretazione in merito alle cose chiare). L’idea che vi è sottesa, per quanto dura a morire soprattutto presso i pratici del diritto, si rivela doppiamente inaccoglibile. Innanzi tutto sul piano logico, dal momento che l’accertamento della chiarezza di un testo (come di ogni altro mezzo di comunicazione) segue, e non precede, il suo tentativo di comprensione. Ne è una risultante ben più che un ostacolo, e semmai agevola il compito ermeneutico, anziché inibirlo. Giustamente è stato osservato che è piuttosto riguardo alle cose connotate da oscurità (in senso stretto, o assoluto: capitolo IX, § 1) che non può darsi interpretazione (in obscuris non fit interpretatio). Quell’idea riesce poi inaccettabile anche sul piano teorico, in quanto visibilmente connessa a una concezione superata e riduttiva dell’interpretazione (e di chi la pone in essere): assunta come attività pericolosamente incontrollabile, che occorre limitare e sottrarre all’arbitrio del giudice e al capzioso cavillare dei vari Azzeccagarbugli. Non a caso una simile svalutazione del momento ermeneutico, a tutto vantaggio del primato di leggi chiare e stringenti, fu tipica dell’Illuminismo e del movimento (a esso per più aspetti legato) che condusse alle codificazioni nazionali (a partire dalla Francia napoleonica), e dunque partecipe di quell’“assolutismo giuridico” che voleva l’intero diritto esaurirsi nel volere del legislatore (quale che fosse l’istituzione politica in cui esso era incarnato: dalla più democratica alla più autoritaria), interrotta l’immediata vigenza normativa delle soluzioni approntate dai giuristi del passato (tramite la loro interpretatio: § 2), e ridotto il giudice stesso a mera “bocca della legge”. La preoccupazione per gli abusi a cui l’interprete può dar luogo ha peraltro accompagnato l’intero percorso dei codici, dall’inizio del XIX secolo a oggi. Nell’attuale ordinamento italiano troviamo una previsione – l’articolo 12 delle “Disposizioni sulla legge in generale” (cosiddette “Preleggi”), rubricato appunto “interpretazione della legge” – che lo testimonia in modo chiaro. Al primo comma esso ripropone, nella sostanza, quanto già stabilito dagli articoli 14 e 3 delle “Disposizioni preliminari”, rispettivamente, al codice civile del regno di Sardegna e di quello unitario del 1865. Vi è infatti stabilito che “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. Su quest’articolo si è stratificata una bibliografia vastissima, orientata a fornirne letture (interpretazioni, appunto) anche molto diverse, e che qui potremo seguire solo in minima parte, così come potrà appena accennarsi ad alcuni degli innumerevoli problemi che pone quella disposizione. Già è innegabile, riguardo ad essa, una prima e rile128

vante difficoltà teorica. Incontriamo infatti un corto circuito logico, con una prescrizione che dovrebbe imporre anche l’interpretazione di se stessa, ma secondo criteri e obiettivi ricavabili solo a posteriori, dopo averla cioè a sua volta compresa. Ma ciò non può evidentemente avvenire in osservanza dei suoi criteri (che ancora non sono, a loro volta, accertati tramite interpretazione). L’articolo 12 sarà pertanto da sottoporre a una prima e “libera” attribuzione di significato, svincolata dai suoi stessi dettami: col che esso finisce col regolare l’interpretazione di tutte le disposizioni, fuorché di sé. Ma anche a prescindere da questo, come pure da certi condizionamenti “iperstatualisti” (se non proprio autoritari: le “Preleggi” risalgono pur sempre al 1942!), l’aspetto che più colpisce, e merita qui la massima attenzione, è un altro. L’articolo 12 è pressoché inservibile a fronte dei casi che pongono maggiori problemi all’interprete, e per i quali sarebbe pertanto più forte l’esigenza di una direttiva ben definita. I casi, cioè, in cui non è affatto riscontrabile “un senso [fatto] palese”, o è controverso quale sia il “significato proprio delle parole” o “la connessione di esse”, oppure riesca divergente la portata letterale di una disposizione rispetto alla “intenzione del legislatore”. L’articolo 12 finisce così per sancire solo la doverosità di attenersi all’interpretazione che razionalmente – e a prescindere, nella sostanza, dalle sue stesse prescrizioni – risulta di gran lunga preferibile, in quanto ad essa conduce in modo univoco una serie di dati. E l’intento di chi ha redatto questa previsione (al pari dei suoi precedenti storici) sembra concentrarsi nella volontà di “evitare il pericolo di interpretazioni più o meno cervellotiche” (come leggiamo nei lavori preparatori). Quella previsione si inscrive perciò in una storia risalente e consolidata, che aveva come primo obiettivo la definizione dei rapporti fra potere giudiziario e potere legislativo (che coincideva peraltro, nel 1942, con quello esecutivo). Una visione, per così dire, tutta sulla difensiva: legata a ragioni politiche assai più logiche e tecnico-giuridiche. Il che conferma l’estrema difficoltà cui va incontro qualsiasi legislatore che ambisca a imbrigliare nei suoi dettami l’incoercibile complessità del momento ermeneutico. E con questo torniamo all’aspetto cui si accennava: la presenza capillare – non confinabile a poche situazioni né tantomeno patologica, ma semmai costitutiva e vivificante – dell’interpretazione nel campo del diritto. In quest’ultimo e, per la verità, non in esso soltanto. Il fenomeno di cui stiamo trattando (e lo stesso vocabolo che lo designa) accomuna in effetti una molteplicità di ambiti, sia pure per assumervi connotazioni via via sensibilmente diverse. Diciamo che interpreta il teologo alle prese con le Sacre Scritture; lo storico che seleziona eventi del passato e li ricostruisce secondo 129

Diffusione dell’interpretazione nelle “scienze dello spirito”

una personale chiave di lettura – senza potersi limitare a (o illudersi di) raccontare “cosa veramente accadde” (secondo un visuale ingenua quanto fortunata, ritenuta ormai implausibile) –; il filosofo, tanto più se impegnato nel settore, appunto, dell’ermeneutica; il sociologo o l’economista che isola e valuta, secondo specifici parametri, tipologie di relazioni e tratti di andamento nelle interazioni umane da lui contemplate; lo psicologo in riferimento alle pulsioni della psiche rivelate dalle sue manifestazioni anche più oscure (pensiamo solo ai sogni); il filologo che attribuisce senso a un testo; il traduttore che lo riversa in una lingua diversa; il semiologo, impegnato nella decifrazione dei segni più vari; l’artista rispetto ai propri sentimenti e ai fermenti del tempo in cui vive; il critico d’arte dinanzi all’opera da questi composta; il direttore d’orchestra e il musicista nei confronti di uno spartito; il regista e l’attore riguardo al copione teatrale o alla sceneggiatura cinematografica. Davvero, per molti versi, possiamo considerare l’interpretazione l’autentico comune denominatore – sia pure in sé estremamente eterogeneo – fra tutte quelle che erano un tempo indicate come “scienze dello spirito” (oggi preferiremmo forse parlare di discipline umane e sociali). Una delle sue più rilevanti peculiarità in campo giuridico può però essere individuata nella circostanza che lo sforzo intellettivo (l’intendere) non è qui fine a se stesso, ma rivolto a orientare l’azione. L’attribuzione di un senso ha una ben precisa finalità pragmatica. E assume questa funzione anche laddove sembra risolversi in mera attività teorica: come da parte del docente di diritto che insegnando interpreta, ma pone così le basi affinché altri si formino lo strumentario tecnico che consentirà loro, in futuro, di ricavare da un testo la sua portata normativa, e orientarne quindi l’applicazione. Fermiamo però ora l’attenzione, prima ancora che sugli obiettivi Etimologia e significato di (secondo la declinazione che vi è impressa nella dimensione giuridi‘interpretazione’ ca), sull’essenza dell’interpretazione. Un’attribuzione di significato – abbiamo appena detto – rispetto a un artefatto comunicativo. Questo, il più delle volte, è costituito da un testo. Ma potrebbe anche essere meramente fonico o gestuale: pensiamo al fischio o al movimento del braccio di un vigile che intima di arrestarsi o di procedere. Oppure potrebbe consistere in una mera immagine (iconico): come ad esempio, nello stesso ambito, i cartelli stradali. L’elemento caratteristico della nostra operazione, al di là delle configurazioni riduttive che talora ne sono state fornite, è compiutamente rivelato dall’etimologia del suo nome. Interpres è in primo luogo, nella lingua latina, il “mediatore”: chi mette dunque in relazioni (d’affari) due soggetti. Esattamente come l’interprete pone in rapporto, facendosene tramite, due elementi: il segno significante e il significato (a esso attribuito). 130

Risulta evidente, in questa luce, il dato da cui abbiamo preso le mosse a proposito dell’interpretazione (anche) in campo giuridico: la sua onnipresenza, o (se preferiamo) il suo carattere necessario e fisiologico. Interpreto laddove sono alle prese con un testo normativo non agevolmente comprensibile (come certi odierni regolamenti ministeriali di argomento estremamente specifico; disposizioni redatte in lingue ostiche ai più o semplicemente formulate in modo ambiguo; passi risalenti a giuristi o legislatori del passato) e cerco di fornirne una lettura provvista di senso, coerente e plausibile, che regga al vaglio delle mie argomentazioni interiori e sia poi difendibile con adeguate strategie discorsive (§ 4 e capitolo VIII). Ma interpreto anche quando, molto banalmente, all’accendersi di un lampadina dietro al vetro rosso di un semaforo, comprendo che mi è imposto di fermarmi; quando mi imbatto in un cartello cerchiato di rosso con una sigaretta barrata, e ne ricavo la vigenza del divieto di fumare; quando leggo che il codice penale (articolo 575) punisce chiunque “cagiona la morte di un uomo” e in quest’ultimo termine stimo senz’altro incluso qualsiasi essere umano, non solo di genere maschile (scongiurando così l’assurdità per cui non verrebbe incriminato di omicidio chi uccida una donna). Secondo alcuni studiosi si darebbe luogo a un’interpretazione in senso proprio, o forte, solo nel primo ordine di situazioni, quelle più problematiche – il che concorre anche a spiegare perché si ripeta usualmente che l’interpretazione può essere distinta, quanto ai soggetti che la realizzano, solo in dottrinale, giurisprudenziale e autentica (ossia posta in essere dalla scienza giuridica, dai giudici oppure dal medesimo soggetto che ha emanato l’atto da interpretare: § 3), senza neppure contemplare la possibilità che vi ricorrano, e infinite volte ogni giorno, anche i rimanenti consociati, chiamati anch’essi a conoscere e rispettare le prescrizioni giuridiche. Discostarsi da una simile impostazione, come a me sembra preferibile, ovviamente non significa negare la notevole distanza che intercorre fra la comprensione di significanti ora estremamente banali e ora assai complessi. Pensiamo, da un lato, al significato agevolmente attribuibile a un cartello stradale tondo, di colore blu e raffigurante una freccia bianca rivolta verso destra (così da indicare, come ovvio, l’obbligo di svoltare in quella direzione) e, dall’altro, la completa decifrazione di una legge in materia di appalti pubblici, resa improba dall’affastellarsi di incisi, deroghe, combinati disposti, rinvii a regolamenti, ipertecnicismi e via discorrendo. Ma la distanza non è sempre così netta, e non di rado il confine fra ciò che dovrebbe costituire il terreno dell’impegno ermeneutico riservato esclusivamente all’esperto (chissà poi quale, e perché lui solo ...) e quanto invece si consegna all’immediata comprensione di chiunque, risulta estremamente labile. Troppo, a mio avviso, per poter sancire 131

Onnipresenza dell’interpretazione giuridica

Diverse accezioni di interpretazione

Una concezione più ampia e inclusiva

L’interpretazione, anche giuridica, riguarda ogni mezzo comunicativo

Disposizioni normative, interpretazione e norme

Le norme come risultati dell’attività interpretativa

che solo nel primo caso si dia interpretazione in senso proprio. Più semplicemente – ma si tratta, in realtà, di una constatazione tutt’altro che scontata, e tale da innescare rilevanti conseguenze teoriche – dobbiamo convenire che l’interpretazione segue e avvolge ogni testo, immagine, gesto o suono che veicoli un significato in campo (o di rilievo) giuridico. Essa consiste appunto nell’attribuzione (talora nella scelta, fra più possibili) di questo significato: secondo forme e procedure che in qualche caso possono essere pressoché ovvie e automatiche (ma le modalità espressive dell’uomo rivelano sempre, in realtà, infinite ambiguità: capitolo IX, § 1), e conoscere in altri casi un grado crescente di difficoltà, sino a ipotesi in cui non è agevole andare al di là del prospettare più soluzioni plausibili (a meno che, come un giudice, non si sia istituzionalmente tenuti a optare per una di esse). E appare davvero significativo, oltre che logicamente incontestabile, quanto molti teorici del diritto hanno segnalato, soprattutto negli ultimi anni: e cioè che la nozione stessa di norma non dovrebbe essere impiegata per indicare ciò su cui lavora l’interprete (il cui oggetto va piuttosto individuato, più correttamente, in disposizioni normative), ma solo per il risultato del suo impegno. Un impegno volto appunto a stabilire il contenuto prescrittivo di un testo giuridico (il quale “opera come progetto che diviene attuale grazie all’interpretazione”). La norma, in altre parole, non preesiste al lavoro ermeneutico, ma ne costituisce semmai l’esito. È noto, del resto, che nella lingua italiana (non solo giuridica) la parola ‘interpretazione’ designa tanto il complesso di operazioni con cui si attribuisce un significato quanto il risultato cui esse approdano. Convenire sul fatto che, in definitiva, le norme sono interpretazioni (nella seconda accezione), e che non vi è diritto senza interpretazione (intesa come attività), non appare un dato di poco momento per chi, come noi, proprio con le norme e col diritto sia chiamato a lavorare. Tanto che appare assolutamente condivisibile il rilievo che si legge in apertura di un libro dedicato all’età comunale, ma la cui portata si proietta ben oltre quel contesto storico: “l’attività del giurista, comunque intesa, è sostanzialmente attività interpretativa”.

2. Interpretatio, interpretazione, esegesi Interpretatio

Abbiamo accennato all’etimologia – ancora una volta rivelatrice (come già lo era stata per l’esempio e la definizione: capitoli II, § 2 e III, § 1) – della parola che designa la nostra operazione, offerta dal latino interpres (forse a sua volta connesso a pretium: ma questa derivazione è più discussa). Non sarà inopportuno, allora, soffermarsi 132

brevemente su alcuni tratti distintivi che l’interpretatio assunse nell’esperienza giuridica dell’antica Roma – e poi nel millennio di rielaborazioni (reinterpretazioni, appunto) a cui furono sottoposti i materiali normativi da essa provenienti – rispetto alla portata che oggi attribuiamo al termine italiano corrispondente, ma anche in confronto ad altre pratiche del mondo classico (della Grecia, in particolare), a cui rimonta una seconda nozione che ci riguarda (quella di “esegesi”). Una duplice comparazione, quindi: come spesso accade di compiere allo storico, anche del diritto. L’una in chiave diacronica, l’altra sincronica – almeno in senso lato, muovendosi cioè con qualche disinvoltura fra i molti secoli dell’antichità. Non si tratta di una digressione, suggerita dalla maggior familiarità di chi scrive con certe vicende così risalenti. Essa intende contribuire, piuttosto, a far luce sulla complessa ricchezza dell’attività che ora ci riguarda, sulla composita tradizione che è alle sue spalle e anche sulle ragioni che, come segnalato (§ 1), negli ultimi secoli hanno condotto a fornirne una visione riduttiva, se non proprio distorta. Per migliaia di anni si è dunque parlato di interpretatio: dalla Roma repubblicana fino a quando il latino è rimasto la lingua di tutti i giuristi dell’Europa continentale (nel segno di un’autentica “globalizzazione” del sapere, anche giuridico). In questo lunghissimo percorso la ricorrenza del vocabolo è stata accompagnata da un elemento sostanziale del massimo rilievo: ossia la circostanza che – salvo un discorso più complesso che dovrebbe farsi per l’età tardoantica e il regno di Giustiniano – alla produzione normativa (soprattutto nell’ambito del diritto privato) concorsero in modo decisivo i giuristi. Essi, a Roma come nel Medioevo e in un tratto considerevole della modernità, non si limitavano a studiare, teorizzare e insegnare il diritto; ma contribuivano alla sua elaborazione, coniando soluzioni casistiche o regole di condotta di più vasta portata, sulla base delle quali si orientavano i consociati, e vincevano o perdevano i processi. È in questo senso che possiamo parlare, come già si è accennato in questo libro, di una plurisecolare parabola del diritto “giurisprudenziale”, che giunge all’inizio del XIX secolo, per venire interrotta solo dall’irrompere delle codificazioni nazionali. Queste ultime, in definitiva, coprono un tratto esiguo della nostra storia. È solo il trovarsi all’interno del suo estremo segmento – un breve tratto, se misurato sui millenni del cammino del diritto – che ci consegna a una deformazione prospettica, per cui ci appare altra e inconsueta la modalità di produzione normativa che più a lungo ha caratterizzato le società occidentali. 133

Una duplice comparazione

L’interpretatio romana e medievale

L’impatto di un diritto “giurisprudenziale”

Distanza dell’interpretatio dall’interpretazione

Interpreti romani ed “esegeti” greci

Cifra peculiare di questa scienza giuridica (iuris prudentia) era appunto l’interpretatio. Insisto sul termine latino non per deformazione professionale, ma perché la sostanza che esso designa non coincide pienamente con quello che oggi intendiamo parlando di ‘interpretazione’, e ancor meno con quello che si intendeva sino a un paio di generazioni fa, allorché il primato della legge statuale (e della sua icona incarnata dal codice) era percepito in termini ancor più univoci e totalizzanti. Nonostante l’ovvia derivazione della seconda parola dalla prima, con interpretatio e interpretazione siamo quasi dinanzi a “falsi amici” – così si è soliti denominare certi vocaboli che, fra una lingua e un’altra, presentano somiglianze morfologiche o fonetiche ma hanno significati assolutamente diversi (ad esempio, l’inglese ‘horse’ o ‘street’ e l’italiano ‘orso’ o ‘stretto’). L’interpretatio era compiuta da quanti (i giuristi, appunto, ancor prima dei giudici) sapevano di poter contribuire all’allestimento di regole nuove, sia pure immancabilmente collocate nel solco della tradizione. Si compiva a ridosso delle prescrizioni dettate dal potere politico (leggi approvate dalle assemblee popolari, editti dei magistrati, statuti comunali, disposizioni dei sovrani). Ma poteva anche largamente prescinderne: più spesso, infatti, era rivolta al diritto (interpretatio iuris) che a specifiche disposizioni (il cui paradigma è la legge: interpretatio legis). E in ogni caso si connotava sempre per autonomia e creatività, sino a piegare con noncuranza la lettera dei testi su cui si esercitava, così da raggiungere risultati inediti, neppure immaginati da chi quei testi aveva predisposto. Un abisso separa gli esperti romani di diritto – che si identificavano, nell’età più risalente, con un collegio sacerdotale, quello dei pontefici – e poi i doctores del diritto comune (dalla nascita medievale delle Università, a cominciare da Bologna, sino alle soglie dei codici ottocenteschi), rispetto all’immagine dell’interprete chino sul documento legislativo, ossequioso del suo dettato e a questo strettamente vincolato, quale gli ultimi due secoli hanno impresso nelle nostre menti (ma a cui, in verità, quasi più nessuno crede, almeno in senso assoluto). Una distanza non meno profonda corre – muovendosi ora all’interno degli scenari antichi (tramite la comparazione sincronica, in senso lato, di cui si è detto) – anche fra i medesimi giuristi romani e quei soggetti, denominati exeghetái, cui ci si rivolgeva, nell’Atene del V e IV secolo a.C., per ottenere pareri in merito (anche) a questioni legali (ta nomizómena). Il loro impegno si risolveva integralmente nella puntuale comprensione di quanto stabilito dagli organi cittadini (legislatori, assemblea popolare o appositi collegi), e sancito in prescrizioni generali e astratte (si parlò dapprima di thesmói, poi appunto 134

di nómoi). Lo spazio per letture libere e originali, inventive, era alquanto compresso, se non totalmente eliso. E alle stesse lacune della legge si sopperiva tramite interventi compiuti in nome dell’equità, affidati non certo a tali exeghetái ma semmai ai giudici e (ancor più, come ben sapeva Aristotele) alla stessa assemblea del popolo (Ekklesía), alla quale era demandata l’emanazione di atti normativi (psephísmata) cui faceva difetto o il carattere della generalità o quello della perpetuità (oppure entrambi). Atti normativi che erano perciò rivolti a regolare casi più specifici, quali difficilmente il legislatore avrebbe potuto contemplare, esprimendosi in termini universali. Ecco pertanto l’origine della nostra ‘esegesi’ (dal greco exéghesis): esposizione e spiegazione del contenuto di un testo, rimanendo il più possibile aderenti alle sue parole: destinate, diremmo oggi, a un’interpretazione strettamente “letterale” (secondo una delle tipologie che incontreremo a proposito della nostra attività: § 3). Il lavoro esegetico ha dominato alcune stagioni della scienza giuridica europea: in particolare in Francia all’indomani della promulgazione (1804) del codice civile napoleonico, allorché fiorì per decenni la cosiddetta “Scuola dell’esegesi”, che esercitò una notevole influenza anche in Italia (per essere poi affiancata e superata da impostazioni diverse, centrate sulla “sistematica” [capitolo V, § 3] di ascendenza tedesca). Ancor oggi l’esegesi si dimostra necessaria, e spesso nient’affatto agevole o immediata, né di scarso rilievo per il giurista. Il che consente di poterla almeno accostare alla sua autentica “sorella maggiore”, ossia l’esegesi biblica, che per millenni è stata esercitata dalla sapienza rabbinica nella convinzione che ogni minimo dettaglio della Toràh (ciascuna parola, o il numero delle sue ricorrenze, qualsiasi dettaglio, pur se solo inerente alla grafia di una lettera) rivestisse un significato profondo, meritevole di accuratissimo studio. Anche dinanzi a un testo giuridico, la dovuta attenzione prestata a una virgola, o la corretta ricostruzione circa il nesso di una parola con quella che la precede, anche non immediatamente (oppure, all’inverso, con quella che la segue) può influire in modo determinante sull’attribuzione di un certo significato a una disposizione (ne incontreremo un esempio al § 3). E può quindi incidere sull’applicabilità, o meno, di quella previsione normativa a una concreta situazione, con decisive conseguenze sulla vita delle persone coinvolte. Dall’esegesi, dunque, non è dato prescindere, se non a rischio di ricostruire – tramite operazioni alquanto ardite – un significato normativo contrastante col dato letterale. Esito che non sempre è da escludere in modo assoluto (come vedremo: § 3), ma neppure può essere perseguito con approssimazione e noncuranza, sottraendosi all’onere di un’adeguata motivazione. 135

Dalla exéghesis all’esegesi

Esegesi giuridica ed esegesi biblica

Odierno rilievo dell’esegesi

L’interpretatio al di là delle parole

Creatività e autonomia dell’interpretatio

Un esempio romano ...

L’interpretazione, tuttavia, non è solo esegesi. E tanto meno lo era l’interpretatio, che contemplava anche lo sforzo di precisare, secondo gli usi linguistici consolidati, il significato delle parole (verba) impiegate dal testo normativo (incluso gli atti di autonomia privata, come un testamento o un contratto), ma si dilatava alla ricerca della volontà che vi era sottesa e poteva non essersi fedelmente riversata in quella sua manifestazione. Cogliamo nitidamente, in quest’ultima situazione, quell’opposizione (almeno potenziale) tra verba e voluntas la cui messa a punto percorre l’intera riflessione giurisprudenziale (e retorica) antica, e che a Roma conobbe una straordinaria palestra, a partire dalla tarda repubblica, soprattutto nella decifrazione degli atti di ultima volontà (i testamenti, appunto). Non mancavano poi casi in cui, come accennato, l’interpretatio romana o medievale si presenta in termini per noi piuttosto sorprendenti, all’insegna di una disinvoltura e libertà di azione che si giustificano proprio per la loro afferenza alle dinamiche di un assetto giurisprudenziale (nel senso poc’anzi chiarito). Anche senza entrare in troppi dettagli (se non quelli strettamente indispensabili per comprendere la portata di certi interventi), saranno qui sufficienti due esempi: uno per ciascuno di quei contesti. Era possibile, a Roma, che un figlio uscisse dalla potestà paterna (patria potestas: un potere allora estremamente incisivo), acquisendo perciò piena capacità giuridica, prima della morte del proprio padre (o comunque dell’ascendente maschio che di quella potestà fosse titolare)? In età arcaica, anche qualora padre e figlio condividessero tale aspirazione, ciò non era realizzabile. Non esisteva infatti, per assicurare quell’effetto, alcun apposito atto giuridico (un rituale, nella sostanza) che fosse riconosciuto dall’ordinamento giuridico e consolidato negli usi della comunità (mores). E senza di esso nessun rilievo poteva assumere – secondo la mentalità giuridica allora dominante – la mera volontà degli individui. La legge delle XII Tavole, introdotta a metà del V secolo a.C., offrì però uno spunto decisivo, anche se tramite una disposizione emanata a tutt’altro scopo. Vi era infatti contemplata una sanzione per il capofamiglia che abusasse della patria potestas, eccedendo nell’esercitare una delle facoltà (quella di vendere i propri discendenti) incluse nel suo potere. Chi per tre volte avesse venduto il proprio figlio – sancivano le XII Tavole – avrebbe perso la patria potestas su di lui. I pontefici (allora protagonisti, come accennato, della conoscenza ma anche produzione del diritto) sfruttarono questa prescrizione: per perseguire però un fine alquanto diverso. Essi predisposero un congegno negoziale in virtù del quale padre e figlio – di comune accordo, e avvalendosi di una terza persona di loro fiducia – davano vita a tre 136

vendite (fittizie, nella sostanza), finché non scattava l’effetto della liberazione dal potere paterno. Qualora poi si trattasse di nonno e nipote, i pontefici stimarono sufficiente una sola vendita: nella legge si parlava, infatti, esclusivamente di filius, ed essi intesero la parola in senso stretto, escludendo gli altri discendenti (e rimodellando perciò la disciplina relativa alla vendita di questi ultimi). Il congegno negoziale appena menzionato prese il nome di emancipatio (emancipazione: un termine ancora presente nel lessico del diritto privato in materia di persone e famiglia), e già gli antichi non dubitavano che esso fosse stato messo a punto tramite interpretatio. È però evidente come quest’ultima non si risolvesse affatto, in tal caso, in un’esegesi della previsione delle XII Tavole, ma fosse piuttosto rivolta alla creazione di una nuova procedura in grado di garantire effetti giuridici alla volontà dei privati. La disposizione di legge, che perseguiva tutt’altro obiettivo, non costituiva che il punto d’appoggio (il pretesto, verrebbe da dire), che garantiva una mera copertura formale. Lo stesso punto d’appoggio che venne sfruttato, sempre in via di interpretatio, per garantire che la patria potestas, perduta dal padre naturale, potesse essere ottenuta da un altro soggetto, che diveniva il padre adottivo del suo discendente. Era questo, appunto, il modo in cui fu introdotta l’adozione (adoptio), tramite una procedura simile all’emancipatio, ma conclusa dalla rivendicazione di paternità da parte di colui che per tre volte aveva “comprato” l’altrui figlio. Oggi nessuno parlerebbe, per queste due costruzioni, di interpretazione – così come non sarebbe verosimilmente sufficiente, per il loro allestimento, il solo contributo di esperti, senza appositi e diretti interventi del potere legislativo. Volgiamoci ora a un altro momento della storia del diritto giuri- … e uno sprudenziale: all’interno del laboratorio sapienziale del Medioevo. I medievale suoi protagonisti lavoravano a stretto contatto col Corpus iuris: ossia col complesso di soluzioni e regole provenienti, in primo luogo, dai giuristi romani (Digesto) o dagli antichi imperatori (Codice), assemblato da Giustiniano nel VI secolo d.C. e considerato ancora pienamente vigente. In quel testo essi riconoscevano la propria massima auctoritas, così come i teologi la rinvenivano nelle Sacre Scritture e i filosofi in Aristotele. Da giuristi – e in quanto operanti in un periodo in cui mancava un potere politico interessato a dettare regole (soprattutto) di diritto privato –, essi potevano poi individuarvi il proprio momento di “validità”, ossia l’elemento in grado di assicurare un avallo formale alle loro decisioni. E tuttavia, anche laddove, in un primo momento, l’impegno interpretativo si esplicò in minimi interventi rispetto alla lettera giustinia137

nea (ai cui margini ci si limitò ad apporre brevi annotazioni, apparentemente solo di chiarimento: si parla perciò di età della Glossa), i giuristi medievali sapevano farsi tramite delle esigenze sociali più vive al loro tempo, che richiedevano una disciplina giuridica anche molto difforme, nella sostanza, da quella rinvenibile nel Corpus iuris. Da qui un secondo e decisivo elemento – di “effettività”, è stato detto – alla base del loro lavoro, in forza del quale essi non esitavano a rivisitare le antiche soluzioni onde trarne regole affatto nuove. Era ad esempio possibile sostenere che su un certo bene (un fondo rustico, in particolare) vi fossero due proprietari – uno in senso formale, corrispondente al dominus dei romani, ma privo di un reale controllo della cosa; uno che intratteneva invece con essa un rapporto consolidato dal dispiegarsi sul lungo periodo, e che del bene aveva l’effettivo sfruttamento? Le regole del testo giustinianeo lo escludevano decisamente, in virtù del principio per cui su una cosa non può aversi, in capo a due o più soggetti, dominium in solidum (ossia proprietà integrale, al 100%, anziché per quote, come era invece ammissibile). Gli interpreti medievali, tuttavia, non si arrestarono dinanzi a questo ostacolo, e dettero vita a una dottrina assai ardita, nota come teoria del “dominio diviso”: da un lato il dominio diretto, dall’altro quello utile. In virtù di essa poteva ad esempio considerarsi titolare di dominio (utile, appunto) l’enfiteuta (tenuto al miglioramento di un fondo altrui, concessogli per un periodo straordinariamente ampio) o persino chi fosse stato immesso nella disponibilità di quel bene in virtù di una locazione a lunghissimo termine. L’innovazione rispondeva a precisi dettami dell’economia e della mentalità medievale, centrata sulle cose più che sui soggetti umani, e dominata dall’esigenza di recuperare terre alla coltura, premiando chi concretamente vi si impegnasse. L’esito finale – con cui era considerato alla stregua di un titolare della cosa (sia pure nella forma del dominio utile) chi l’avesse ricevuta solo in concessione, anche tramite contratto – risultava senz’altro lontano dalla disciplina antica. Ma la sua prima introduzione venne affidata a una brevissima glossa apposta a un frammento del Digesto che affrontava ben altro problema, ossia la tutela processuale di quanti avessero ottenuto in concessione terreni pubblici (ossia fondi del populus Romanus: i cosiddetti agri vectigales), e che si escludeva allora di poter considerare proprietari – domini, aveva semplicemente scritto il giurista romano (Giulio Paolo). Proprio questa parola era annotata dal glossatore con un intervento sintetico e apparentemente solo esplicativo (scilicet directo: col che veniva escluso soltanto che in capo a quei soggetti fosse un dominio 138

“diretto”). Un intervento tale, però, da stravolgere il senso del discorso originario, e lasciar intendere che il concessionario dell’ager vectigalis potesse essere titolare di un’altra forma di appartenenza, di per sé sconosciuta al Corpus iuris (il dominio utile, appunto). Anche questa era opera di interpretatio: al formale ossequio nei confronti dell’autorevole testo antico non corrispondeva alcuna sudditanza sostanziale, e il giurista si proponeva come libero artefice di tutt’altra disciplina giuridica, conformata ai bisogni della società del suo tempo. Casi simili illustrano chiaramente cosa intendessimo dire parlando di interpretatio e interpretazione quasi come “falsi amici”, segnati da differenze e discontinuità profonde sul piano dei rispettivi contenuti. Oggi non penseremmo di qualificare esiti tanto innovativi, e distanti dal dato testuale che li ha innescati, come mera interpretazione di quest’ultimo. Su ciò naturalmente incide il complessivo mutamento di registro cui si accennava: da un diritto giurisprudenziale a uno che trova la sua fonte primaria nella legge, e in cui pertanto il lavoro ermeneutico dovrebbe essenzialmente consistere in una corretta e ben controllata comprensione dei suoi dettami, rispettosa della sua lettera e della finalità (la ratio, come ancora suol dirsi) che vi è sottesa. Elementi da cui invece potevano tranquillamente discostarsi – e per pervenire a esiti originali quanto fecondi – i pontefici della Roma protorepubblicana o i giuristi “laici” che vi seguirono, così come i maestri (già) dell’età della Glossa (per non dire dei successivi e ancor più autonomi sviluppi cui condussero le riletture medievali e moderne del Corpus iuris). A fronte di simili costruzioni giurisprudenziali, qui proposti proprio per il loro carattere esemplare, è peraltro necessario evitare un fraintendimento, legato al rischio di una contrapposizione troppo drastica, che rischierebbe di lasciare in ombra alcuni dati teorici cui pure si è in parte accennato (nel § 1). Non dobbiamo infatti pensare che – tramontata la parabola del diritto giurisprudenziale e compressa la portata della più risalente interpretatio – l’odierna interpretazione consista in un’operazione sì onnipresente (§ 1) ma d’impatto modesto, con la quale l’attribuzione di senso si colloca in un limitato perimetro semantico già tracciato dal legislatore, e che richiede solo qualche precisazione e minime scelte. In realtà esistono situazioni e tipologie di interpretazione (§ 3) in cui lo sforzo ermeneutico, ancor oggi, può (e talora deve) condurre a esiti anche piuttosto lontani dall’originario significato di una prescrizione normativa. Insomma, ai lunghi secoli di libera interpretatio sapienziale si è storicamente sostituita l’immagine di un giurista che sceglieva di farsi semplice esegeta del codice, mentre gli ultimi decenni ci hanno restituito la percezione di tutta la complessità e responsabilità del suo ruo139

Ancora su interpretatio e interpretazione come “falsi amici”

Un fraintendimento da evitare

Il giurista, essenzialmente, come interprete

Il rischio di altri equivoci

Pluralità e contrasto di interpretazioni

L’interpretazione tra soggettività e oggettività

lo. Che è appunto, prima di tutto, quello di interprete: protagonista del ricco fascio di operazioni che consente di passare, come rilevato, da disposizioni normative (meri significanti) a contenuti normativi. Il nostro futuro, del resto, sembra decisamente avviato nella direzione di un peso crescente delle soluzioni giuridiche affidate ai puntuali interventi di chi interpreta e applica le leggi (i giudici, in primo luogo) più che a chi ne redige ed emana di nuove. Un fenomeno che, anche nei termini alquanto sommari nei quali possiamo qui trattarne, deve essere peraltro valutato alla luce di un paio di considerazioni: al fine di evitare altri equivoci, o gli opposti eccessi di radicali scetticismi o troppo facili entusiasmi. La presenza capillare e incisiva dell’interpretazione non significa che essa possa essere condotta in maniera arbitraria, sulla base di orientamenti (se non addirittura interessi) solo soggettivi, in modo che l’unità della previsione normativa, generale e astratta, venga concretamente a frantumarsi in un pulviscolo di distinte e incomunicanti letture, ciascuna valevole per un caso diverso. In alcuni frangenti è innegabile che l’esistenza di interpretazioni divergenti – anche quando risalgono a pronunzie delle massime autorità giudiziarie – possa dar luogo a inconvenienti, compromettere la prevedibilità delle conseguenze giuridiche e minare, in definitiva, la stessa fiducia dei cittadini nel diritto. Ma si tratta di ipotesi che, pur non rarissime, non coprono che una minima parte delle innumerevoli interpretazioni a cui ogni giorno danno vita gli operatori del diritto, e alle quali (almeno nei casi estremi, come l’esistenza di decisioni confliggenti di diverse sezioni della Corte di Cassazione) l’ordinamento prevede di far fronte con specifici interventi. Non sembra lecito, sulla scorta di questi fenomeni, ridurre l’intera interpretazione, nel campo del diritto, a mera “affabulazione”, in cui ciascuno può sostenere la tesi che preferisce, purché abbia sufficienti risorse per ottenere attorno ad essa – e non solo con la forza razionale degli argomenti – l’adesione altrui. L’interpretazione non è dunque, come in passato si è talora temuto (e come ancora comunemente si è indotti a pensare), necessariamente il regno dell’opinabile e dell’incerto, o addirittura dell’arbitrario. Indubbiamente, come si accennava, dal punto di vista pratico qualche problema può porsi. E sul piano teorico è altrettanto innegabile che l’intimo e profondo rovello del pensiero ermeneutico dell’ultimo secolo sia stato costituito proprio dalla tensione fra oggettivo e soggettivo, tra rivendicazione della libertà creativa dell’interprete e limitazione della sua discrezionalità, in quanto sempre da commisurare al dato letterale. Il che ha anche condotto a diverse immagini del rapporto fra l’autore interpretante e quanto sia al centro del suo sforzo di 140

comprensione: termini percepiti talora come fra loro altri e distinti, altre volte come entrambi intimamente calati in un contesto Contesto, a sua volta, diversamente configurato, ma comunque tale da orientare e precondizionare le opzioni dell’interprete. Il discorso è, insomma, decisamente complesso, ed è stato affrontato secondo impostazioni anche molto difformi. Certo però una prospettiva accettabile non può essere quella (“neosofistica”, per così dire) dell’interpretazione degradata appunto a mera “affabulazione”, né quella di chi, al contrario, la vorrebbe il più possibile compressa e imbrigliata, illudendosi che il legislatore possa davvero disciplinarla in modo rigoroso e puntuale (ancor più di quanto avvenga con l’articolo 12 delle “Disposizioni sulla legge in generale”: § 1). Come vedremo, la direzione più soddisfacente sembra piuttosto da rinvenire in una stretta relazione fra impegno ermeneutico e pratiche argomentative (§ 4 e capitolo VIII), nel senso che la discrezionalità del primo può essere accettabile, e anzi arricchente, ma purché logicamente fondata, resistente al vaglio di una valutazione critica attorno agli argomenti invocati a suo sostegno. E tuttavia recuperare una piena consapevolezza circa l’apporto irrinunciabile e fecondo dell’interpretazione, coi margini di autonomia e creatività da assegnare a chi la realizzi, neppure deve farci nascondere certe insidie, o incognite, che si delineano nel nostro prossimo futuro, e a cui rinviano alcuni fenomeni già oggi ampiamente in atto. Come accennato, la regolamentazione di rilevanti settori del diritto (soprattutto privato e amministrativo) vede ormai un evidente concorso di previsioni generali, fissate dal legislatore, e soluzioni puntuali, ottenute in via d’interpretazione dai giudici (italiani o delle Corti europee). Al che possiamo aggiungere la straordinaria forza che nella prassi assumono atti di autonomia privata, ma destinati a coinvolgere gli interessi di soggetti anche più numerosi dei destinatari di certe leggi nazionali. Pensiamo agli accordi (o agli arbitrati) conclusi – derogando quanto sia derogabile del diritto sostanziale (civile e commerciale) e processuale dei vari Stati – fra società multinazionali, dietro alle quali operano grandi studi legali, con sedi in molteplici paesi, a loro volta connotati da spiccata inventiva sul piano dell’interpretazione. Cogliamo nitidamente, in entrambe le ipotesi (apporto dei giudici e tendenze della prassi), il tramonto del monopolio statuale nella produzione normativa, e il declino di vecchi modelli (se non proprio “miti”). Un destrutturarsi per molti versi salutare, come lo è sempre il venire meno (anche pratico, e non solo in sede di ripensamento critico) di un monopolio a lungo assunto in termini troppo rigidi e assoluti. E un destrutturarsi tale da recuperare un più immediato ancoraggio del 141

L’interpretazione non è solo “affabulazione”, né una pratica da limitare

Oltre lo Stato: l’interpretazione e i nuovi scenari del diritto

Prospettive e pericoli

L’interpretazione e relazioni di potere

diritto ai fatti. Ma si tratta di un fenomeno che comporta anche questioni delicatissime, col pericolo di una carenza di democraticità determinata dallo svuotare di effettivo senso, e sostanza, la funzione legislativa costituzionalmente affidata a un organo eletto dal popolo (il Parlamento), per assegnare sempre più rilievo a un ceto di esperti (i giudici), che del proprio operato solo in minima parte sono tenuti a dar conto, oppure a quanti, a ridosso degli interessi (esclusivamente) economici di cui siano portatori, coniano a proprio uso e consumo le regole di un diritto “sovranazionale”, intimamente (e per più versi) “sconfinato”. In gioco, dunque, non vi è solo la certezza del diritto – che, soprattutto nel primo caso, rischia di essere compromessa, smarrendo quella “calcolabilità” del diritto di cui dicevamo al capitolo V. In discussione è la stessa esigenza di impostare inedite forme di controllo e mediazione delle forze in campo, a fronte della crescente ingerenza di poteri nuovi, diversi da quello dello Stato sovrano (e legislatore) con cui fino a ieri la contemporaneità si è misurata. E anche il ruolo e la portata dell’interpretazione dovrebbero essere rimeditati alla luce di simili scenari: fin dall’individuazione dei soggetti che ne sono artefici, tra i quali appaiono costantemente estromessi i singoli consociati (§ 3) e nei fatti sempre più defilati (rispetto ai giudici, ossia alla giurisprudenza in accezione moderna) gli studiosi e teorici del diritto (la dottrina, come si dice), troppe volte a rimorchio di quelli. Su questi ultimi aspetti conviene ora concentrarci, tornando ad affrontare la nostra operazione sotto altri profili. Lasciando sullo sfondo, in una complessità alla quale è stato qui possibile rivolgere solo un accenno, il nuovo orizzonte entro cui l’interprete è tenuto ad agire. Ma senza mai perderne completamente di vista la ricchezza e l’ambivalenza, con tutte le inquietudini che ne sorgono: perché è in esso che chi studia oggi Giurisprudenza dovrà esercitare domani le proprie funzioni di giurista e (ancor prima) di cittadino.

3. Tipologie, tecniche e soggetti dell’interpretazione: un primo quadro Dell’interpretazione abbiamo dunque constatato il carattere pervasivo e l’inabdicabile attitudine inventiva, la lunga e alterna tradizione in cui ne è inscritto l’attuale impiego e alcuni dei molteplici problemi – teorici e operativi – che pone la recente riaffermazione della sua creatività. Ne è (ri)emersa l’immagine di una pratica tutt’altro che ancillare rispetto alla previsione di fattispecie generali e astratte, ma 142

semmai con essa fortemente integrata e concorrente. Ma chi, e in quali modi, interpreta in campo giuridico? In proposito non potremo offrire che alcuni orientamenti, assieme a qualche spunto critico circa impostazioni diffuse ma non sempre del tutto appaganti. Anche a questo riguardo è infatti impensabile dar conto di una riflessione che percorre l’intero sapere giuridico (dalla teoria generale alla dimensione storica, sino ai vari ambiti del diritto vigente), e di cui non è agevole già solo tracciare alcune linee di fondo. L’esigenza di una sintesi estrema – con l’inevitabile discrezionalità nella scelta di temi e impostazioni – si fa in questo caso ancor più acuta di quanto non fosse per le precedenti tappe del nostro percorso. Lo si coglie già nel delineare, entro il panorama giuridico, la figura dell’interprete. Nelle prime pagine dei suoi manuali di diritto privato e pubblico (o costituzionale) la matricola in Giurisprudenza si troverà dinanzi una tripartizione fortunata, in pochi casi estesa a una quadripartizione. È quella cui già si accennava (§ 1), secondo la quale può aversi (o comunque assume precipuo rilievo la sola) interpretazione “autentica”, “giudiziale” (o “giurisprudenziale”) oppure “dottrinaria”, cui taluni aggiungono una quarta tipologia, denominata “burocratica” o “amministrativa”. I soggetti chiamati a compierla sono, rispettivamente, il medesimo organo che ha emanato l’atto da interpretare, di cui esso stesso interviene così a chiarire il significato (secondo alcuni, si tratterebbe esclusivamente del legislatore: ma la prospettiva risulta davvero troppo angusta); i giudici; la scienza giuridica; i funzionari della Pubblica Amministrazione. Trattandosi di uno schema tralatizio, spesso ripetuto in modo acritico, esso non è quasi mai accompagnato dall’indicazione delle ragioni che dovrebbero sorreggerlo, e in particolare di quelle poste alla base di un così rigoroso oligopolio ermeneutico. In effetti una simile classificazione non solo difetta di molti (altri) requisiti che abbiamo visto necessari per quel tipo di operazioni (capitolo IV, §§ 3-4), ma neppure – e prima di tutto – può dirsi completa. Basti pensare all’assenza di ogni riferimento all’interpretazione posta in essere da altri “addetti ai lavori”, che pure impattano non poco sul modo di intendere e applicare le previsioni del legislatore. Basti pensare a notai e avvocati, ma anche a cancellieri, ufficiali giudiziari, forze dell’ordine e agenti di pubblica sicurezza. Ma nemmeno riesce condivisibile la persuasione, evidentemente sottesa a una simile tri- (o quadri)partizione, secondo cui l’unica interpretazione che meriti di essere considerata in campo giuridico è quella tesa a risolvere situazioni di una certa complessità, e che solo chi riveste una funzione in varia misura istituzionale può essere in grado di gestire (contribuendo, col proprio autorevole intervento, an143

I soggetti dell’interpretazione giuridica

Una classificazione tradizionale ...

… e i suoi limiti

L’interpretazione “diffusa”

Molteplici tipologie di interpretazione

che al lavoro degli interpreti che seguiranno). Manca in effetti, quasi sempre, un minimo cenno all’interpretazione posta in essere dal complesso dei consociati, che pure ogni giorno attribuiscono un significato a innumerevoli disposizioni, e conseguentemente le applicano e rispettano – o violano, ma ben consapevoli di farlo, e ancor più attenti a cogliere il preciso senso dei dettami che intendono eludere. Potrà sostenersi che un simile impegno viene esercitato su significanti meno complessi, in modo pressoché immediato e sprovvisto di motivazione, o che ne scaturiscono orientamenti poco significativi nell’economia di un’esperienza giuridica. Questo non è, in realtà sempre vero: o almeno non in senso assoluto, giacché all’effettiva vita delle regole in seno a una comunità concorre il contegno di tutti i suoi membri, e non solo di pochi specialisti. Coloro che lo negano lo fanno essenzialmente perché includono se stessi tra i secondi, e vivono nel mondo dei sogni, in cui vorrebbero tenere relegati anche i codici. Chi potrebbe dire, ad esempio, che sull’effettiva applicazione di una prescrizione in tema di diritto del lavoro incida più la lettura dei professori universitari di quella materia che non gli orientamenti di Confindustria e sindacati, politici e giornalisti, come pure dei molteplici operatori del settore, coi loro avvocati e commercialisti?! E comunque quell’idea di un’interpretazione sin troppo facile (e povera di ripercussioni) non costituirebbe un argomento decisivo, almeno per chi concordi nell’attribuire alla nostra operazione la vasta portata illustrata finora, e con coerenza ne tragga le debite conseguenze. Proprio quel che altrove ho cercato di fare, segnalando appunto l’attenzione che merita anche quest’ultimo tipo di interpretazione: che proporrei di qualificare “diffusa”, in quanto circolante nell’intero corpo dei consociati, ciascuno dei quali a suo modo vi contribuisce. Ripercorso, e dilatato, il novero dei soggetti che possono (o devono) realizzare l’operazione che ci riguarda, rimane da fornire qualche ragguaglio circa tecniche e modalità con cui provvedervi. Con l’avvertenza che le tipologie che ne conseguono non differiscono solo quanto alle procedure adottate – come se esse convergessero tutte verso la stessa direzione –, ma anche in merito ai risultati che ne conseguono. Non è anzi da escludere che l’opzione per un genere di interpretazione anziché per un altro possa essere la premessa, ma in certi casi anche la risultante, del proposito di attribuire un determinato significato alla disposizione normativa che si esamina. Naturalmente non è sempre così, e la situazione più agevole (l’unica a cui si riferisce, senza troppo sforzarsi, il nostro legislatore, con l’articolo 12 delle “Preleggi”: § 1) è quella in cui i diversi percorsi praticati conducono verso il medesimo esito. 144

Non dobbiamo quindi immaginare che necessariamente ogni prescrizione giuridica, sottoposta a ciascuna delle modalità interpretative che fra breve richiameremo, sia suscettibile di vedersi attribuiti tanti significati quante sono queste ultime, e tutti tra loro difformi. Rimane però innegabile che tra alcune interpretazioni – intese come risultato ancor più che attività – possa darsi contrasto. Ed è proprio nel sapersi orientare fra esse, comparando gli argomenti che militano a favore dell’una o dell’altra (i quali assumono non di rado un peso diverso col mutare di sensibilità sociale e orientamenti tecnici), che consiste gran parte del lavoro del giurista, quale che sia il suo ruolo formale. E tanto che egli debba tendere a una valutazione imparziale (come i giudici e la dottrina), quanto che egli si muova secondo una logica diversa, proponendo (come l’avvocato) la lettura più favorevole al proprio assistito, ma muovendo pur sempre da un quadro realistico delle interpretazioni più verosimili, e che pertanto abbiano maggiori opportunità di essere accolte. Immaginiamo dunque qualche disposizione formulata in modo (volutamente) assai semplice, e vediamo come possa comportarsi chi deve attribuirle un significato. Poniamo che in un regolamento condominiale sia vietato a quanti abitano in quell’immobile tenere nelle rispettive abitazioni “cani e altri animali domestici”. Si tratta ora di interpretare questi pochi segni grafici. Escludendo che lo faccia un professore di diritto o intervenga un’apposita delibera condominiale, e prima che sia chiamato a decidere un giudice, avremo un tipico caso di interpretazione che non è, rispettivamente, dottrinale, autentica o giurisprudenziale. Piuttosto, essa sarà affidata ai singoli condomini, forse ai loro consulenti legali e all’amministratore di condominio: un tipico caso, dunque, di interpretazione “diffusa”. Poniamoci ora alcune domande, formulate in riferimento a situazioni concrete, ossia a casi di cui appurare l’afferenza alla previsione generale: ma l’interpretazione continua, ovviamente, ad avere a oggetto quest’ultima. I quesiti saranno tali da restringere al massimo le possibili risposte: o “sì” o “no”. Non sempre, è quasi inutile dirlo, le cose sono così semplici e l’alternativa altrettanto chiusa e perentoria. Ma proponiamo qui un esercizio elementare, anche per mostrare come non sempre le varie tipologie di interpretazione conducano a esiti necessariamente divergenti. Innanzitutto la violazione della previsione condominiale può dirsi integrata solo da chi tiene in casa un cane e un altro animale domestico (un gatto, poniamo)? Oppure è sufficiente, per considerare disattesa la prescrizione, che qualcuno tenga in caso un cane o un altro animale domestico? Il problema è posto, evidentemente, dal diverso significato che può essere attribuito alla congiunzione ‘e’ presente nel 145

Analisi delle diverse modalità interpretative, a partire da un esempio

Un primo passo: l’esegesi

Soluzioni interpretative e argomento per absurdum

Lavorare sulla polisemia

testo del regolamento. E il problema va affrontato ricorrendo a un’operazione che ci è nota (§ 2), ancora designata con un nome antichissimo: l’esegesi. Quella congiunzione indica che il comportamento vietato è costituito dalla somma di due condotte (tenere in casa un cane + tenere in casa un altro animale domestico) oppure che è vietata tanto la prima che la seconda? Detto altrimenti, si ha un unico divieto (esclusivamente) per una condotta risultante dalla combinazione di due contegni, oppure troviamo due divieti, valevoli sia per l’uno che per l’altro? Credo che ciascuno di noi, a meno di sposare tesi alquanto capziose, propenderebbe per questa seconda lettura. Essa è basata su un significato di ‘e’ non necessariamente congiuntivo (fra le condotte vietate), ma alternativo: per cui è proibita sia l’una che l’altra – lo stesso significato che assumono, in genere, divieti di questo tipo: come “è proibito introdurre e consumare cibi in aula”; “è proibito copiare il test da altri e scaricarne le risposte da internet”, ecc. Sul piano grammaticale, però, entrambe le opzioni sarebbero plausibili, ed è essenzialmente un ragionamento – compiuto nella testa di ciascuno, prima ancora che riversato in un’argomentazione volta a destare l’altrui consenso – a riuscire decisivo. Un ragionamento basato sulle possibili conseguenze dell’una esegesi e dell’altra. Ove infatti accedessi a quella che abbiamo scartato, ne conseguirebbe un esito assurdo – si tratta appunto di un argomento per absurdum, di cui torneremo presto a parlare e ritroveremo poi al capitolo VIII, § 2. Sarebbe infatti vietato avere in casa un cane (anche silenziosissimo) e un criceto; ma non lo sarebbe – perché manca la prima condotta che dovrebbe esservi congiunta: ossia avere anche un cane – tenere un gatto, un pappagallo, un canarino e un merlo indiano (con conseguente sinfonia di miagolii, canti e cinguettii per l’intero casamento). E addirittura – col che l’assurdità si accentua ulteriormente – non risulterebbe consentito tenere un cane e un criceto, ma sarebbe ammissibile ospitare in casa dieci gatti, dieci pappagalli, dieci canarini e dieci merli indiani. È infatti evidente che l’articolo indeterminativo ‘un’ del nostro regolamento non indica “soltanto uno” ma “anche solo uno”: se ragionassi diversamente, sarei allora legittimato ad allevare in casa una muta di segugi, perché in numero superiore a uno. Poniamoci poi un’altra domanda. In quel condominio è consentito tenere in casa un galletto? Non essendo evidentemente un cane, il problema è stabilire se rientri o meno fra gli animali domestici. Se intendo questi ultimi in senso stretto – più ricco sul piano delle qualità che si attribuiscono (intensione) e conseguentemente meno ampio nel numero di elementi che possono esservi inclusi (estensione) –, riterrò che sono tali gli animali che non solo non hanno (più) il carattere del146

la “selvatichezza”, ma il cui addomesticamento li pone anche in una spiccata relazione affettiva con l’uomo. Non al punto di prestargli necessariamente obbedienza – se pensassi questo non dovrei considerare un “animale domestico” neppure la mia gatta, di cui io non sono che l’umile servitore, addetto all’apertura delle scatolette –, ma almeno tale da consentire un’articolata gamma di interazioni, non esclusivamente di paura o di aspettative di cibo. Interazioni che francamente tenderei a escludere di poter avere col mio galletto, anche qualora io sia tanto magnanimo da volerlo risparmiare dall’arrosto. In virtù di una simile lettura il galletto non è quindi da includere fra gli animali domestici, e chi lo tenga in casa non incorre in alcuna violazione del regolamento condominiale. Abbiamo qui una tipica ipotesi di interpretazione “restrittiva”. Qualora invece io intenda “animale domestico” in senso più ampio, comprensivo di ogni genere animale addomesticato e allevato dall’uomo, tale da riprodursi abitualmente e prosperare in cattività, anche il galletto sarà senz’altro da qualificare in quei termini (ecco un esempio di come la qualificazione [capitolo II, §§ 4-5] ricorre nel lavoro dell’interprete, e contribuisce a orientarne l’approdo: ma a monte vi è anche un tentativo di definizione [capitolo III], avente a oggetto “l’animale domestico”). Secondo questa logica sarebbe vietato tenere in casa anche il galletto. E ciò in forza di un’interpretazione detta “estensiva”, ossia volta a dilatare il più possibile la semantica di una prescrizione, senza alterarla né proiettarne la disciplina a ipotesi simili (almeno sotto il profilo giuridicamente più rilevante), ma di per sé indubbiamente diverse. In quest’ultimo aspetto consiste appunto la differenza fra tale forma di interpretazione e l’analogia (su cui torneremo al capitolo VIII, § 2). Darei luogo a quest’ultima, ad esempio, se ritenessi contrario al divieto condominiale anche tenere in casa un coccodrillo, che di certo non è domestico, ma che sembrerebbe meritare un trattamento non meno rigoroso di un labrador. Una differenza, questa fra interpretazione estensiva e analogia, molto nitida in teoria; ma che non di rado risulta alquanto labile nella pratica, e con più di un risvolto problematico – consideriamo solo che in diritto penale può farsi ricorso all’interpretazione estensiva, ma non all’analogia. Questa prima classificazione (capitolo IV, §§ 3-4) delle interpretazioni – restrittive o estensive – guarda dunque, in primo luogo, all’esito da esse prodotto rispetto alla disposizione cui occorre attribuire un senso. Abbiamo peraltro cercato, nelle righe precedenti, di fornire anche qualche dato circa l’itinerario logico che si è seguito, nell’una direzione e nell’altra. Entrambe erano comunque connotate da una stretta aderenza alle parole impiegate nel regolamento condominiale. Si è pur sempre trattato, in altri termini, di interpretazione “letterale”. 147

L’interpretazione restrittiva

L’interpretazione estensiva

Interpretazione estensiva e analogia

L’interpretazione letterale

Al di là del dato letterale: l’interpretazione secondo la ratio

La stessa strada che potrei adottare per decidere se sia lecito o meno tenere in casa un ghepardo, animale non domestico, ma considerato comunque addomesticabile – la logica messa in campo si presterebbe peraltro a dilatazioni sin troppo ampie, in quanto l’addomesticamento potrebbe eventualmente riguardare, come in effetti nella storia è avvenuto, molte altre specie che vivono in natura, e non certo nelle nostre case. L’interprete potrebbe però seguire un itinerario affatto diverso, centrato sulla ratio, o fondamento, della prescrizione, e in particolare sulla finalità per cui essa è stata introdotta – si parla pertanto di lettura “teleologica”, orientata dallo scopo (télos) perseguito, da identificare nel nostro caso in quello per il quale il divieto è stato posto nel regolamento. L’obiettivo era senza dubbio evitare qualsiasi nocumento e disturbo agli altri condomini: rumori, cattivi odori, sporcizia per le scale comuni, possibili aggressioni, ecc. Il galletto, che canta a squarciagola a ogni levar del sole, è innegabilmente fonte di fastidio (di immissioni acustiche superiori alla normale tollerabilità, per dirla con l’articolo 844 del codice civile). E lo è certamente di più di una tartarughina o di un coniglio da compagnia, che avremmo minori dubbi a considerare “animali domestici” ma che nessun condomino potrebbe udire: e che perciò, ragionando in termini teleologici, potremmo anche considerare estranei al divieto (ma qualche condomino rompiscatole avrebbe certamente da ridire). Un’interpretazione “secondo la ratio” – “fondamentale” o “logica”; più specificamente, “teleologica” – conduce pertanto, nell’ipotesi del galletto, allo stesso risultato di una “letterale-estensiva”: è necessario sbarazzarsi di quel dannato pennuto. Ma se in casa, affetto da chissà quale strana patologia, qualcuno tenesse uno sciacallo, le cui urla notturne raggelano il sangue all’intero condominio? Attenendomi alla lettera del regolamento faticherei molto a individuarne, stavolta, una violazione, dal momento che non si tratta certo di un “animale domestico”. In realtà, proprio il massimo ossequio prestato al tenore verbale della disposizione comporterebbe, in un frangente simile, la frustrazione del suo scopo, ribaltandone il rigore in un intollerabile lassismo (davvero, summum ius summa iniuria). E una classica argomentazione per absurdum (capitolo VIII, § 2) avrebbe facilmente ragione di una simile tesi interpretativa. Poiché riuscirebbe insensato – assurdo, appunto – vietare di tenere una tartarughina, che non dà noia ad alcuno, e consentirlo invece per lo sciacallo, che meriterebbe senz’altro un eguale trattamento (e anzi a maggior ragione, ossia a fortiori, secondo un altro argomento dal nome antico: capitolo VIII, § 2). ‘Animali domestici’ andrebbe pertanto inteso come inclusivo di tutte le bestie che si tengono in casa, a pre148

scindere dalla loro relazione affettiva con l’uomo, e purché tali da poter arrecare disturbo ai condomini. Quell’assurdità potrebbe essere poi evitata per un’altra via, ossia privilegiando un’interpretazione non “settoriale” (che guarda alla sola prescrizione: l’articolo del nostro regolamento di condominio), ma “sistematica”, che cioè la valuta in un contesto più ampio. L’estensione di quest’ultimo può a sua volta variare considerevolmente – alcuni parlano perciò di interpretazione “sistematica parziale” o “sistematica totale” (anche se la totalità difficilmente può essere presa alla lettera). Ma rileva in ogni caso come in esso venga in rilievo un complesso di dati normativi, di vario livello e diversamente connessi alla disposizione che ci riguarda. Il divieto condominiale dovrà essere pertanto considerato alla luce, in primo luogo, degli articoli del codice civile in materia di rapporti di vicinato e di immissioni (anche di rumori ed esalazioni), ma forse anche con quanto dettato dalla Costituzione in materia di libertà, “rapporti civili” e tutela della salute. Il risultato sarebbe di nuovo, e sempre lontano dalla lettera del divieto, nel senso che anche lo sciacallo (come già il galletto) dovrebbe sloggiare. E se invece – per completare la possibile fauna condominiale – qualcuno tenesse in casa un’iguana, che di per sé non infastidisce alcuno di quanti abitano negli altri appartamenti? Dovremmo forse tornare a chiederci se, nondimeno, non sia vietato averla in casa perché anch’essa “animale domestico”. Ma ne siamo certi? Oggi probabilmente risponderemmo in senso affermativo, a ciò indotti dalla recente ondata di animali esotici che sono stabilmente entrati nelle nostre case a far compagnia a cani, gatti e pesci rossi (già, i pesci rossi: mancavano giusto loro, che per definizione sono muti, ma che il cultore rigoroso della proibizione, presa alla lettera, vorrebbe destinati al water). Ma se nel nostro condominio fosse vigente un regolamento risalente a sessant’anni fa – quando le iguane si vedevano giusto allo zoo o alla neonata televisione – come dovremo intenderne i dettami riguardo a quel rettile un po’ inquietante ma per qualcuno fascinoso? Questo è il tipico caso in cui sarà diverso l’esito qualora si opti per un’interpretazione “soggettiva” oppure per una “oggettiva”. Con la prima si guarderà alla volontà di chi predispose la previsione: nel nostro caso l’assemblea dei condomini di oltre mezzo secolo fa. Con la seconda – “oggettiva”, e in particolare (per quanto ci riguarda) “oggettivo-evolutiva” – si tenderà a ricostruire il significato della disposizione in sé, e non per come si configurava al momento della sua introduzione (come accade secondo l’interpretazione “storica”), ma per come è da intendere adesso, allorché si intenda applicarla. 149

Interpretazione “settoriale” oppure “sistematica”

L’interpretazione storica

Interpretazione soggettiva oppure oggettiva

L’interpretazione evolutiva

L’interpretazione “normativa” e “negoziale”: critiche

L’interpretazione “soggettiva” è per definizione esclusivamente “storica”, in quanto non posso sapere cosa i condomini di allora, frattanto tutti defunti, penserebbero e vorrebbero oggi. Alla sua stregua difficilmente l’iguana assumerebbe la qualifica di “animale domestico”. Per allontanarla dal condominio, mandandola a far compagnia a galletto e sciacallo, dovrei pertanto ricorrere a una delle altre soluzioni ermeneutiche poc’anzi richiamate. Ove invece mi attenessi a una interpretazione “oggettivo-evolutiva” potrei direttamente ottenere il medesimo risultato, prendendo in considerazione i mutamenti frattanto intervenuti nella sensibilità sociale, anche nella valutazione di ciò che possa essere incluso fra gli “animali domestici”. Direi che possiamo interrompere qui questa carrellata sulle tipologie di interpretazione – e sul bestiario rinvenibile nelle nostre case –, anche se l’elenco (di nuovo un’operazione nota: capitolo IV, § 2) che abbiamo appena proposto non può dirsi affatto completo. Non abbiamo ad esempio menzionato la distinzione, frequente nei manuali, fra interpretazione “normativa” e “negoziale”: la prima rivolta ai testi legislativi, la seconda agli atti di autonomia privata. Una simile classificazione, oltre che radicata nella tradizione, collima con alcuni dati dell’ordinamento oggi vigente, che disciplina le due figure con previsioni diverse, in quanto alla prima è rivolto il citato articolo 12 delle “Preleggi”, mentre alla seconda pertiene un più articolato complesso di disposizioni del codice civile, relative all’interpretazione dei contratti (articoli 1362-1371), applicabili in via analogica anche ai testamenti – ma in modo da dar sempre luogo a un’interpretazione “oggettiva”, dal momento che in quest’ambito deve essere ricercata la “volontà testamentaria” e non la “volontà del testatore”. E tuttavia sul piano teorico la distinzione, o almeno la terminologia adottata per le due sottoclassi, decisamente non è delle più felici. Abbiamo infatti segnalato (§ 1) come oggi è diffusa (e fondata) la tendenza a considerare le norme non oggetto ma prodotto del lavoro dell’interprete. Diviene pertanto difficile riferirsi ad esse, contrapposte ai negozi, per qualificare una distinta forma di interpretazione (in base, appunto, al tipo di documento giuridico su cui essa si esercita). Senza contare che disposizioni normative sono poste non solo dal legislatore ma anche dai privati che “dettano legge” fra loro, in particolare, tramite un contratto (articolo 1372 del codice civile) – ma anche il regolamento di condominio a cui abbiamo fatto riferimento è espressione di autonomia privata e, al tempo stesso, prescrizione rivolta a un nucleo di consociati. Non parliamo poi di testi che, come le sentenze, richiedono anch’essi un’interpretazione, ma non rientrano propriamente né tra quelli “normativi” (nell’accezione usuale) né tra 150

quelli “negoziali” – col che è da dubitare della stessa completezza della classificazione da ultimo menzionata. A parte simili rilievi attorno ad essa, non solo le tipologie di interpretazione ripercorse finora potrebbero essere integrate da altre, ma dovremmo scendere ulteriormente nei dettagli e soffermarci su due fenomeni, cui si è solo implicitamente accennato, e per ciascuno dei quali è stato fornito un esempio. Scopriremmo così, da un lato, che per alcune delle modalità interpretative richiamate esistono anche dei sottotipi (lo abbiamo verificato per l’interpretazione “sistematica”, scindibile in “sistematica parziale” e “sistematica totale”: ma ciò non vale solo per essa). Dall’altro, che possono darsi intrecci e combinazioni fra le varie tipologie: in modo analogo all’ipotesi, già segnalata, di una interpretazione “oggettivo-evolutiva”. Ma anche arrestandoci sulla soglia di queste ulteriori figure e problematiche, un dato credo sia emerso con evidenza: la straordinaria ricchezza di percorsi e soluzioni che si schiudono dinanzi all’interprete, imponendogli scelte e valutazioni, non di rado lontane dalla ferrea applicazione di una logica deduttiva (capitolo V, § 2). E se tanto articolato è riuscito il discorso in merito a una sola espressione – in apparenza “chiara”, e contenuta in un testo piuttosto banale quale un regolamento di condominio –, proviamo a immaginare quanta energia intellettuale viene ogni giorno profusa nell’attribuire un significato (o più) a disposizioni e documenti estremamente più complessi. Usare, in proposito, l’immagine di una selva, o di un labirinto, sarebbe tutt’altro che improprio. Infiniti gli oggetti al centro dello sforzo di comprensione, molteplici le impostazioni a cui ricorrere e innumerevoli, di conseguenza, i risultati che possono scaturirne. Come orientarsi, allora? Difficile dare una risposta in due righe, giacché la capacità di districarsi in questa rete di simboli e significati si acquisisce solo sul campo, e dopo un apprendistato faticoso (ma anche, alla lunga, gratificante). Dai nostri semplici esempi si sono però, più volte, affacciati spezzoni di ragionamento, tali da consentirci di sciogliere certe alternative, scartandone uno dei possibili esiti – in particolare perché, in riferimento a determinate situazioni, si rivelava assurdo. Ne siamo stati indirizzati verso interpretazioni (intese come risultato) più plausibili, destinate a incontrare più facilmente anche l’adesione altrui. Ecco, quello di una giustificazione razionale – sia pure di una razionalità non proprio di stampo matematico – e del conseguente controllo da esercitare circa tenuta e implicazioni delle diverse attribuzioni di significato, costituiscono appunto la bussola di cui dobbiamo imparare a servirci. E per farlo è innanzi tutto indispensabile cogliere la diversità fra i livelli del discorso, e l’alterità fra il testo oggetto di 151

Ulteriori tipologie interpretative, e combinazioni

La varietà dei percorsi interpretativi

Il labirinto dell’interprete

Interpretazione e giustificazione razionale

interpretazione e l’esercizio di quest’ultima, coi motivi che inducono a impostarla in una certa forma anziché in altre, privilegiandone determinati esiti. Preferenze che non possiamo sancire in termini assoluti, come se vi fosse una modalità interpretativa costantemente migliore di altre, ma che piuttosto si determinano in ragione del contesto e dei problemi da affrontare: in modo da pervenire alle soluzioni di volta in volta più congrue e sensate rispetto a essi. Se la bussola è quella, il nostro modo di procedere avrà, in definitiva, la flessibilità della topica assai più che il rigore del sistema (capitolo V, §§ 3-4).

4. Disposizioni normative, interpretazione e argomentazione: saper distinguere i piani Insisto su questa esigenza di tenere nitidamente distinti i piani di cui si diceva, essenzialmente, per due ragioni. Una assai empirica, dettata dall’esperienza; l’altra più impegnativa (e anche, ne convengo, meno indiscussa) sul piano teorico. Un’esigenza Dal primo punto di vista, rileva una tendenza perniciosa con cui della pratica accade di scontrarsi nella pratica dell’insegnamento: quella, da parte didattica dei discenti, di fare “di tutta l’erba un fascio”, ossia di smarrire completamente i rapporti fra i vari segmenti e livelli di discorso – ciascuno contrassegnato da un diverso grado, a seconda dei contesti, di veridicità, attendibilità, cogenza. Essi vengono invece posti, non di rado, tutti entro un magma di parole senza ordine (e talora senza senso). Spesso ancor più che le nozioni acquisite, fa difetto una struttura razionale in cui collocarle, e alla quale attenersi nel riproporle. Si tratta, verosimilmente, di un’ulteriore manifestazione di quel modo di esprimersi (e ragionare) alquanto approssimativo di cui già si è parlato (capitolo I), nel quale si riflette il pressappochismo comunicativo dilagante nella nostra società, e che già non consente di cogliere le specificità fra vocaboli e sintagmi differenti, tra loro nient’affatto fungibili. Ma un pensiero minimamente complesso non può prescindere – e tanto meno, come sappiamo, ove si rivolga al diritto – da un uso sorvegliato del linguaggio e dalla capacità di articolare un discorso secondo strutture gerarchiche (di senso e di inferenza), assegnando un diverso peso alle proposizioni che le compongono. È sempre opportuno, pertanto, sforzarsi di non confondere quanto espressamente affermato dal testo sottoposto all’interprete, i risultati del lavoro di quest’ultimo e le ragioni che sorreggono le relative scelte. In particolare, saranno da evitare sovrapposizioni fra questi elementi, come pu152

re salti logici che conducano più speditamente alla meta, ma facendo smarrire il significato dell’itinerario e precludendo la possibilità di una verifica razionale circa le varie tappe in cui esso si snoda, e dei passaggi logici fra l’una e l’altra. Questo vale, in generale, per tutti gli innumerevoli ambiti del sape- Un esempio re nei quali si dà interpretazione (§ 1). Tra il tenore letterale di un letterario verso di Dante, il significato (allegorico, se del caso) che gli è tradizionalmente attribuito e gli argomenti che gli studiosi hanno fornito a sostegno di tale lettura, vi sono nessi evidenti; ma ciascun elemento va collocato in una dimensione diversa e appropriata. Anche la fondatezza di quei dati assumerà forme diverse, che non possono essere confuse. Ne scaturirebbe, altrimenti, un’esposizione caotica, se non addirittura assurda, composta di spezzoni di per sé non inesatti ma assemblati senza controllo logico. Come se ad esempio, per rimanere a Dante, affermassi che egli ci presenta il personaggio di Ulisse quasi come (o, peggio ancora, ci dice che Ulisse è) una figura già dell’Umanesimo, segnata da una sconfinata e laica sete di conoscenza del mondo. Ma che poteva saperne Dante dell’Umanesimo (per non dire della nostra accezione dell’aggettivo ‘laico’)? Il suo Ulisse è comunque un dannato, al quale fa pronunziare parole come “fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza” (Inferno XXVI.119-120). Questo è il contesto e il dato letterale, di cui devo intendere il significato, e che costituisce un elemento indiscusso – nel senso, ovviamente, non che Ulisse si è davvero espresso in quel modo (Dante forniva, a sua volta, una propria e personalissima interpretazione del suo mito), ma che così lo ha fatto parlare il poeta. Finché non dovessero emergere manoscritti che smentiscano questa versione, quello è il testo da cui partire, non oggetto di controversia. La lettura che invece coglie, nella volontà del personaggio dantesco di varcare le colonne d’Ercole, quasi un precorrimento dei tempi, un presagio di fermenti spirituali che si sarebbero pienamente sviluppati solo secoli più tardi (con caratteristiche e conseguenze ben diverse), è esclusivamente un’interpretazione. Interpretazione compiuta non da Dante, naturalmente, ma dalle generazioni di studiosi che hanno meditato sulla sua opera. Ed è, come tale, plausibile – soprattutto se formulata nei termini problematici dei critici e non nella forma semplicistica a cui talora viene ridotta – ma anche esposta a obiezioni o almeno a ridimensionamenti. E tanto questi ultimi che quell’interpretazione letteraria sono logicamente sorretti da vari elementi: dall’altissima statura del personaggio, che Dante fa andare incontro a una fine in qualche modo eroica, ben diversa da quella che gli assegnava la prevalente ricostruzione 153

Un esempio giuridico

Interpretazione storica dell’articolo 1322, e sua inaccoglibilità

mitologica degli antichi, sino all’ammirazione che egli sembra destare nel poeta, ma anche – e questo opera nel senso di una valutazione più prudente – alla scelta di collocarlo nondimeno all’Inferno e di considerare il suo ultimo gesto quale una trasgressione dell’ordine divino, varcando il limite segnato “acciò che l’om più oltre non si metta”. Se ora passiamo all’interpretazione giuridica, l’esigenza di tenere distinti quei piani si fa persino più pressante, perché a ciascuno di essi si collega un difforme livello non solo di verità o plausibilità, ma anche di cogenza, in quanto formalmente vincolante (o meno) rispetto ai consociati. Riprendiamo un articolo a cui già abbiamo accennato (capitolo II, § 5): quello del codice civile in tema di “autonomia privata” (1322). Esso recita che “le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Questa la disposizione normativa, vigente oggi (e finché non sia eventualmente abrogata o sostituita da altra). La sua interpretazione – che è per un ampio tratto immediata, letterale, unanime – le conferisce il contenuto di norma: il riconoscimento del potere, in capo ai privati, di concludere contratti “atipici” (ossia, appunto, non compresi nei tipi disciplinati nel codice e in eventuali leggi speciali) e parimenti vincolanti quanti li abbiano stipulati (provvisti cioè di “forza di legge tra le parti”, come recita il ricordato articolo 1372 del codice civile). Questo potere viene però sottoposto dal legislatore a una condizione: il perseguimento di “interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Riguardo a questa frase si apre un ventaglio di letture diverse, e assai più controverse. Potremmo optare, in primo luogo, per un’interpretazione “soggettiva” (e pertanto solo “storica”: § 3), e fare dunque riferimento allo scopo perseguito dal legislatore del 1942 – da appurare ripercorrendo i lavori preparatori del codice, ma anche le posizioni teoriche dei componenti la relativa commissione (in particolare, Emilio Betti, che incise verosimilmente più di altri sulla formulazione che ci riguarda). Ne dovremmo concludere che la “meritevolezza di tutela” rivestiva allora un ben preciso significato. Potevano essere valutati in quei termini gli obiettivi che i singoli perseguivano in conformità non solo alle proprie aspirazioni individuali ma anche agli interessi (stimati superiori) dell’economia nazionale, che si voleva organizzata secondo i dettami autoritari del solidarismo e corporativismo fascista. Ma posso ritenere oggi vincolante anche questo contenuto normativo, che quel tipo di interpretazione ci consegna? Evidentemente no, perché si porrebbe in aperto contrasto rispetto ai principi della carta costituzionale emanata pochi anni più tardi del codice civile. Essa 154

impone di considerare illegittima ogni prescrizione strettamente dipendente dall’ideologia fascista. Ecco pertanto tre piani, o livelli di discorso, ben distinti: quello delle parole rinvenibili nel codice civile, quello di una loro prima possibile interpretazione, quello delle ragioni che impongono di respingere quest’ultima. E non sarebbe corretto sostenere che l’articolo 1322 limita l’autonomia privata al rispetto degli interessi superiori della nazione e dell’assetto corporativo. Questo non lo dice espressamente: usa, piuttosto, una locuzione che, al tempo in cui fu coniata, rivestiva con ogni probabilità quel significato, ma che l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e settant’anni di vita democratica rendono inaccoglibile. Ma allora che significato attribuire a quella previsione di “meritevolezza di tutela”, riferita agli interessi che intendono realizzare quanti vogliano concludere un contratto “atipico”? Secondo una lettura, per così dire, minimalista, essa non differisce sostanzialmente dalla liceità. Alle parti verrebbe cioè impedito di perseguire obiettivi negoziali riprovati dall’ordinamento: espressamente sanzionati come nulli (ad esempio i “patti” di cui agli articoli 458, 2265, 2744 del codice civile) o addirittura considerati illeciti. Di nuovo, questa è un’interpretazione – aperta a condivisione o rettifiche – non quanto espressamente sancito dal legislatore, e da lui provvisto di una forza vincolante sicura (almeno in astratto). Anche in questo caso possono intervenire elementi tali da rendere non del tutto appagante tale soluzione. Non nel senso, stavolta, che essa risulta infondata o costituzionalmente inaccettabile, ma in quanto non sembra tale da cogliere e valorizzare appieno il contenuto di quella disposizione. In effetti, ove l’articolo 1322 si limitasse a escludere la natura di (validi) contratti (atipici) agli accordi caratterizzati da una causa illecita, esso riuscirebbe – almeno in riferimento a tale limitazione dell’autonomia privata – sostanzialmente inutile. Il codice civile contiene, infatti, già altre previsioni relative, come segnalato, alla nullità di specifici “patti” e più in generale ai requisiti che devono presentare la causa e l’oggetto del contratto: requisiti fra i quali spicca appunto la liceità (articoli 1343 e 1346). Da qui l’esigenza – ma il discorso si dispone ancora a livello di valutazione delle interpretazioni (intese come risultato) e degli elementi a favore o contro la loro condivisione – di prospettare ulteriori letture, in forza delle quali la “meritevolezza di tutela” implichi sì la liceità ma non si esaurisca integralmente in essa. Un percorso – effettivamente praticato da giurisprudenza e dottrina – può essere offerto da un’interpretazione “oggettivo-evolutiva” (§ 3): volta cioè a cogliere la volontà della legge (non del legislatore) e per come è da intendere nel contesto in cui ne è richiesta l’applicazione. Un contesto ormai profondamente segnato dai principi della 155

Interpretazione “minimalista” dell’articolo 1322

Un’interpretazione “oggettivoevolutiva”, alla luce della Costituzione

Un’esigenza teorica

Argomentazione e ragionamento

Costituzione, col ruolo primario assegnato alla persona e al lavoro, ben più che alla proprietà e all’impresa (per non parlare del solidarismo e corporativismo di matrice fascista). Sarà dunque alla luce dei valori della Carta repubblicana, per quanto assolutamente estranei all’orizzonte storico del legislatore del 1942, che dovrà essere valutata anche la formula impiegata nel nostro articolo. Ma non sarebbe corretto affermare che quest’ultimo limita espressamente l’esercizio dell’autonomia contrattuale al rispetto della persona umana e della solidarietà sociale, in modo da contribuire a (o almeno non ostacolare) quella realizzazione dell’eguaglianza sostanziale che il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione addita quale compito della Repubblica. Questo non è enunciato dal legislatore del 1942 – né assolutamente egli avrebbe potuto o voluto farlo. È piuttosto, ancora una volta, esito del lavoro degli interpreti, in questo caso, come si dice, costituzionalmente orientato. Ed è, in quanto tale, provvisto di un carattere cogente piuttosto sui generis: da un lato persino più forte – in quanto radicato in un testo normativo, quale la Costituzione, sovraordinato allo stesso codice civile –, ma dall’altro più tenue e indiretto, in quanto ricavato tramite la mediazione (torna l’etimologia di interpres: § 1) di quanti attingano dalla Carta repubblicana le direttive per intendere anche le fonti a essa gerarchicamente inferiori. Quel significato, o contenuto, normativo non è insomma immediatamente presente nel dettato dell’articolo 1322, ma ha preso forma nell’interpretazione da questo innescata, e tanto più da quando (grosso modo dalla fine degli anni ’60 del Novecento) si è iniziato a leggere anche il codice civile alla luce di dettami e principi della Costituzione. Questi due esempi – l’uno tratto dall’interpretazione letteraria, l’altro da quella giuridica – intendevano illustrare l’articolazione di piani della quale dicevamo: piani che dobbiamo guardarci dal sovrapporre o assimilare gli uni agli altri. Ma vi è anche, come accennato, una ragione teorica per cui appare preferibile tenere ben distinta l’interpretazione non solo dalla lettera del testo su cui si esercita, ma anche dalle argomentazioni che possono essere addotte per orientare l’attribuzione di significato, e/o farne preferire una rispetto ad altre. Non mancano, in verità, studiosi che tendono a enfatizzare il nesso fra argomenti e lavoro dell’interprete, muovendo dall’idea che ragionare equivalga essenzialmente a formulare proposizioni, e che queste vengano poi a concatenarsi, così da condurre a una conclusione (l’interpretazione-risultato per cui si opta). A favore di questa impostazione milita almeno un dato non trascurabile – senza dimenticare che il verbo ‘ragionare’, nell’italiano meno recente (ma in Toscana ancora oggi), significa sia “pensare” che “parlare” (qualcosa di non 156

molto dissimile dalla duplice semantica, di pensiero speculativo o di discorso, di lógos nel greco antico). L’elemento sostanziale invocato da coloro che legano più strettamente interpretazione e argomentazione – sino a vedere nella seconda il complesso di schemi e figure che orientano la prima –, consiste proprio nella portata generale attribuita a quanto anche noi abbiamo riscontrato a proposito della comprensione di alcuni testi, e tanto più se innescata da problemi specifici, cioè nel vagliare se determinate situazioni rientrassero o meno in una previsione generale (come nel caso del regolamento condominiale affrontato al § 3). Per respingere certi esiti interpretativi abbiamo infatti segnalato come dessero luogo a conseguenze assurde. Per sottolineare l’opportunità di altri, si è invece notato come alla loro stregua si sarebbero evitate disparità di trattamento, includendo casi che meritavano di essere sussunti nel divieto “a maggior ragione” di quelli che ricadevano nel suo tenore letterale. Questi due tipi di ragionamento – rispettivamente noti come argomento per absurdum e a fortiori – ci hanno quindi guidato nella scelta di un significato: o, se preferiamo, sono stati due luoghi ideali attraverso i quali si è sviluppato il percorso logico dell’interprete. E altrettanto può dirsi di innumerevoli altri argomenti (su alcuni dei quali torneremo al capitolo VIII, § 2, ma anche IX, § 4): supporti razionali di chi vaglia il significato più appropriato da assegnare a un significante, e tutti interni alla sua mente. Dinanzi a una simile impostazione e al dato che abbiamo appena richiamato – il quale costituisce (è il caso di dirlo) il principale argomento a suo sostegno –, in questo libro si è però ritenuto preferibile seguire un’altra linea, e non solo per quell’esigenza di chiarezza didattica (e di maggior nettezza nella distinzione dei piani) richiamata poco sopra. Il punto fondamentale, a livello concettuale, è rappresentato dal diverso significato attribuito ad ‘argomentazione’. Assunta nell’accezione da ultimo richiamata, essa diviene quasi un sinonimo di ragionamento: ossia produzione di argomenti nella testa dell’interprete, che costituiscono altrettanti passaggi della sua interpretazione-attività e orientano la scelta dell’interpretazione-risultato. Ma in tal modo rischiamo di smarrirne una funzione primaria: quella di creare persuasione (capitolo VIII). E crearla negli altri, oltre (se non più) che in se stessi, come è emerso nella plurimillenaria tradizione della retorica (e della dialettica, nel senso che illustreremo: capitolo VIII, § 3). Come vedremo meglio nel prossimo capitolo, argomentare significa produrre discorsi (argomenti, appunto) a sostegno o confutazione di una tesi. Ciò potrà avvenire anche nel mio intimo ragionamento, laddove soppesi i pro e i contra di una determinata soluzione interpretativa – ed è proprio questo quanto, secondo l’approccio qui non 157

Argomentazione e scelta dei risultati interpretativi

Una diversa accezione di argomentazione ...

… e le sue ragioni

Interpretazione e selezione delle strategie argomentative

Interpretazione e scelta fra argomenti convergenti

Un primo esempio, dalla pratica forense

integralmente condiviso, viene più enfatizzato –, ma non si esaurisce affatto in questo momento, per riproporsi piuttosto in un’altra fase, allorché dovrò convincere altri ad aderire anch’essi a tale soluzione. E non è affatto automatico che in questo secondo frangente io mi serva dei medesimi argomenti che mi ero rappresentato interiormente, quando ancora dovevo giungere a una interpretazione-risultato. Accade anzi, di frequente, che si adotti una strategia discorsiva sensibilmente diversa, costruita (come meglio vedremo nel capitolo VIII) sulle peculiarità del contesto e dei miei interlocutori. In casi estremi, ma non infrequenti, è possibile che vengano messi in campo argomenti opposti, volti a sostenere una tesi interpretativa inversa, o almeno sensibilmente difforme, rispetto a quella che nella nostra testa ci era apparsa razionalmente preferibile. Si pensi all’ipotesi in cui quest’ultima si riveli meno consona agli interessi della persona che io assista in veste di avvocato, e sia pertanto “costretto” a ricorrere – nel confronto col legale di controparte (dialettica) o nei riguardi dell’organo giudicante (retorica) – a tutt’altri ragionamenti rispetto a quelli che adotterei ove assumessi una posizione imparziale. Ma anche se, sempre nella veste di avvocato, io fossi pienamente convinto, in cuor mio, che l’interpretazione più favorevole al cliente coincida con quella che logicamente mi appare più fondata, non è affatto certo che gli argomenti da spendere nelle trattative con la controparte o nel corso della causa siano i medesimi in base ai quali mi sono formato quel convincimento. L’esito potenziale non risulterebbe divergente – in quanto entrambi i complessi discorsivi conducono nella medesima direzione – ma il supporto razionale potrebbe riuscire sensibilmente difforme. Potrei ad esempio trovare quella tesi (quell’interpretazione-risultato) minuziosamente esposta, con sottili ragionamenti, nel libro di uno stimato professore. Pur pienamente convinto della logica da questi seguita, nei miei atti processuali preferirò però supportare quella tesi richiamando alcune decisioni della Corte di Cassazione che vadano sostanzialmente nello stesso senso. Esse, infatti, hanno molte più probabilità di essere seguite dal giudice, il quale si stancherebbe delle disquisizioni teoriche della “dottrina” e si riconosce invece nel lessico e nello stile di ragionamento del massimo organo giudiziario, per quanto formalmente non vincolato alle precedenti decisioni di quest’ultimo (per non parlare di un certo “spirito di corpo”, che in questi casi ha il suo peso). A un convegno scientifico mi comporterei probabilmente nel modo inverso, spendendo l’argomento “di autorità” di quella pagina scientifica, tanto più se proveniente da un autore che sia accademicamente vicino a quanti compongono il mio uditorio. In entrambe que158

ste situazioni mi servirei peraltro del medesimo argomento (argumentum auctoritatis, come si dice da millenni: capitolo VIII, § 2). Ne muterei solo la fonte: il che però non è cosa da poco, e in alcuni frangenti può rivelarsi determinante. In altre occasioni proporrei invece, per sostenere di fronte ad altri la tesi interpretativa di cui mi sono persuaso, tutt’altro ragionamento rispetto a quello su cui ho fondato la mia convinzione. Torniamo al nostro regolamento di condominio. Poniamo che io non abbia in casa alcun animale, né intenzione di averne, né abbia particolari motivi di amicizia od ostilità rispetto ad alcuno degli altri condomini: sono dunque in una posizione di assoluta imparzialità. Ritengo che il divieto di tenere “animali domestici” vada esteso a ogni bestia che possa arrecare disturbo o nocumento a quanti abitano nel condominio: lettura cui mi ha indotto una valutazione “teleologica” di quella previsione, sulla base dello scopo (télos) che essa persegue e della ratio che vi presiede (§ 3). Nell’assemblea di condominio, in cui si discute su come intendere quel passaggio del regolamento, risulta decisivo il voto del proprietario del primo piano: uomo di conclamata, abissale ignoranza e affetto da una grave allergia a ogni pelo animale si trovi a distanza di centinaia di metri. In questa sede quale argomento adotterò per convincere i presenti (ossia la maggioranza di essi) che la mia è l’attribuzione di significato su cui convergere? Parlerò di interpretazione “logica” di quella previsione, richiamando il télos a cui tende e la ratio dalla quale è orientata? Il condomino del primo piano difficilmente mi seguirebbe: non comprenderebbe la parola latina e si domanderebbe forse cosa c’entri un “telo” col regolamento e gli animali. Più probabilmente mi limiterò a rivolgermi proprio a lui, e a domandargli insinuante: vuoi starnutire per ventiquattro ore al giorno? Userei perciò un argomento assai meno elevato (e razionalmente anche meno solido), alquanto più prosaico, formulato in modo ellittico – il che non sarebbe affatto da apprezzare sul piano logico, ma lascia al destinatario quello che avvertirà come una lusinga alla sua presunta intelligenza, ossia di concludere egli stesso il ragionamento. Si tratta di un argomento concentrato sulle sole conseguenze che si determinerebbero col mancato accoglimento della mia soluzione interpretativa (è il tipico argomento che si pone a valle, anziché a monte, della tesi in discussione: capitolo VIII, § 2). Rinunzierei, dunque, ad altre strategie di persuasione, culturalmente senz’altro più elevate. E in quella da me scelta potremmo persino cogliere un ragionamento fallace (capitolo IX, § 4), schiacciato com’è su un argomento ad personam. Insomma, non sarebbe affatto un capolavoro di oratoria. Eppure, innegabilmente, avrei in tal modo molte più chances di ottenere 159

Un secondo esempio, tornando al condominio

Primi cenni sulla funzione pragmatica dell’argomentazione

l’adesione dell’energumeno, e quindi una delibera dell’assemblea conforme alla mia proposta. In effetti, come vedremo fra breve (capitolo VIII), l’argomentazione non può prescindere dalla sua funzione pragmatica. Ed è anche per questo che può rivelarsi qualcosa di diverso dal ragionamento interiore di chi si trova dinanzi un testo (o altro artefatto comunicativo) ed è impegnato ad attribuirgli un significato. Una ragione in più, come si diceva, per tenere presenti i molteplici rapporti fra interpretazione e argomentazione, ma collocarle comunque su piani autonomi e distinti.

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Capitolo ottavo

LA FORZA DEI DISCORSI: ARGOMENTARE, PERSUADERE, CONVINCERE

1. Sostenere o confutare una tesi Abbiamo chiuso il capitolo precedente (§ 4) cercando di mantenere separati, pur nelle interazioni fra loro innegabili, il piano dell’interpretazione e quello dell’argomentazione. Quest’ultima è stata perciò intesa come qualcosa di non pienamente coincidente col ragionamento, che pure si esprime a sua volta tramite una concatenazione di proposizioni – e di ragioni che prefiguriamo a noi stessi, per sostenere o escludere una determinata conclusione. Ma dell’argomentazione è per noi opportuno cogliere e valorizzare soprattutto la sua proiezione verso l’esterno, fuori della testa di chi la compie: una estroflessione in pratiche discorsive volte a suscitare il consenso e l’adesione degli altri (a persuaderli o convincerli: due esiti che assumiamo usualmente come coincidenti, ma che troveremo differenziati, in alcune delle pagine più importanti dedicate all’attività che ci riguarda: § 2). Pur configurata in questi termini, l’argomentazione si presta a essere considerata secondo due accezioni lievemente difformi. In un primo senso, essa si identifica con la elaborazione di argomenti in senso ampio, comprensivi della tesi (o asserzione) e di una o più proposizioni volte a sostenerla o confutarla. Alla stregua di un’altra e più ristretta prospettiva, essa è invece costituita solo dalla produzione di queste ultime proposizioni, escludendo la tesi o asserzione. In linea di massima, d’ora in avanti ci atterremo alla seconda accezione: la più vicina, fra l’altro, all’impostazione della retorica classica. Ma essa verrà qui privilegiata soprattutto perché appare maggiormente idonea a isolare il percorso logico e discorsivo rispetto alla sua conclusione, attorno alla quale si mira a creare l’accordo (nella veste della ricezione o del rifiuto condiviso). Non può tuttavia negarsi che sulla falsariga del primo significato si è mossa una lunga e illustre tradizione, che dagli stoici giunge ad alcuni studiosi di logica del secondo Novecento. 161

L’argomentazione come pratica discorsiva rivolta verso gli altri

Due ulteriori accezioni di argomentazione

L’argomentazione fuori dell’ambito giuridico

Chi argomenta nel mondo del diritto

Il ruolo del giudice

Per quanto qui più interessa, argomentare significa dunque produrre proposizioni tali da far accettare ad altri, razionalmente, quanto da noi sostenuto. Ed è un’operazione che vediamo compiersi – ancor prima di entrare nel mondo del diritto – mille volte al giorno, con finalità via via diverse. Tutte però accomunate da un intento suasorio e pragmatico, dal momento che quelle attività discorsive tendono a persuadere qualcuno a seguire (oppure respingere) una tesi. Vi impegnate in un’argomentazione, in questo senso, quando cercate di convincere i vostri amici ad andare a vedere un film al cinema anziché la partita a casa (o viceversa), a non sbronzarsi pesantemente se devono poi tornare a casa in auto, a prestarvi il motorino per raggiungere l’Università, a smettere di fumare o iniziare a farlo. Argomento io quando provo a far desistere mia figlia dalla tentazione di un nuovo pezzo di cioccolata; quando tento di impedire che venga fatto ordine nel mio studio (nel cui casino mi trovo benissimo); cerco di far comprendere che le discipline storico-giuridiche hanno, e oggi persino di più, un elevato valore formativo; illustro ai ragazzi di un liceo le ragioni per cui svolgere i propri studi universitari a Siena. In tutti questi casi si mettono in campo discorsi, affidando loro la funzione di orientare i comportamenti altrui. Non diversamente accade con l’argomentazione nel mondo del diritto. In quest’ultimo contesto il suo principale artefice è l’avvocato: impegnato a proporre tesi – per lo più tesi interpretative, rivolte a enunciati normativi, o qualificazioni di fatti – e a renderle persuasive tramite adeguati supporti discorsivi. Ma argomenta anche chi, nelle opportune sedi, formuli un disegno di legge (o il progetto di altro atto normativo, oppure amministrativo), che spetterà poi a un organo, solitamente collegiale, approvare – apportandovi, se del caso, taluni emendamenti – o respingere. Argomenta lo studioso, che sottopone le sue dottrine alla comunità scientifica, nella consapevolezza che il loro successo dipenderà anche dalla coerenza dell’itinerario teorico da lui seguito – ma anche da ragioni estranee, almeno in apparenza, a una valutazione logica: come il prestigio intellettuale e accademico di cui gode egli stesso, o gli autori da lui citati in passaggi nevralgici del suo discorso. Argomenta il sindacalista, il politico, il consulente legale di un’azienda privata o pubblica, ogni cittadino nel “corpo a corpo” che è quotidianamente costretto a ingaggiare con la burocrazia. E il giudice? Possiamo dire che anche da parte sua vi è un’argomentazione? Nel nostro ordinamento ogni sentenza deve essere motivata: ossia contenere (come dispone l’articolo 132 del codice di procedura civile) “la concisa esposizione ... dei motivi in fatto e in diritto della decisione”. Per chi tenda ad assimilare argomentazione e ragionamento, o a vedere nella prima il repertorio di figure o luoghi ideali 162

attraverso cui si giunge a formulare un’interpretazione (in questo caso giurisprudenziale: capitolo VII, § 3), anche la scelta del giudice viene quindi supportata da un’argomentazione. E tuttavia vi manca – o è almeno assai più tenue e indiretta – la finalità suasoria, in quanto egli non propone una tesi, ma decide. E non aspira a convincere alcuno (tantomeno la parte soccombente nel giudizio), ma al massimo a evitare vizi e carenze della propria statuizione, in modo da limitare le possibilità che essa venga impugnata, con successo, presso un organo giudicante di grado superiore. Si noti, per rimanere al processo civile, che tra le ragioni per cui è possibile proporre ricorso per cassazione era contemplata – sino alla modifica, nel 2012, dell’articolo 360 del codice di procedura civile – proprio la “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia”. A costo di apparire pedanti, suggerirei pertanto di tenere distinta l’argomentazione dalla motivazione – come pure, sotto altro profilo, dalla giustificazione e dalla spiegazione. Pertanto circoscriverei ulteriormente la natura e il campo operativo dell’argomentazione. Il che naturalmente non significa affatto che il lavoro del giudice abbia poco a che vedere con essa. Al contrario: è proprio a lui, infatti, che viene assegnato il compito di vagliare le argomentazioni dei contendenti, ossia di valutare quale, e in che misura, delle loro qualificazioni dei fatti e interpretazioni di enunciati normativi risulti più plausibile – e tale perché sorretta da complessi discorsivi fondati e stringenti, immuni da incoerenze e fallacie (capitolo IX, § 4). Vince la causa chi assolve nel modo più soddisfacente l’onere di provare quanto asserisce, e argomenti in modo più persuasivo le proprie tesi. Appunto a questa verifica è chiamato il giudice, ancor più che ad appurare se siano calzanti i riferimenti normativi posti dai litiganti alla base delle rispettive pretese – egli potrebbe infatti decidere anche in base a disposizioni diverse, optando per una sussunzione non coincidente con alcuna di quelle formulate dalle parti (iura novit curia, come ancora si ripete). Se è dunque vero che l’argomentazione non si compie esclusivamente nel mondo del diritto, è però indubbio che il rigore proprio di quest’ultimo, e l’esigenza di un fondamento logico (almeno secondo la logica del plausibile) per le decisioni che vi vengono assunte, rendono quell’operazione, per il giurista, ancor più delicata e impegnativa. Saperla padroneggiare – per servirsene o (come segnalato) per valutarne l’impiego da altri compiuto – è assolutamente indispensabile. Si può formulare la tesi più corretta e più accuratamente meditata, ma se non si è in grado di difenderla in modo efficace, si è quasi sempre destinati a soccombere: nell’agone forense come nel confronto intel163

Argomentazione e motivazione delle sentenze

Centralità dell’argomentazione nella prassi giuridica

Esigenza di formare all’argomentazione

Il laboratorio della persuasione antica, e di quella moderna

lettuale, nella competizione politica o nelle mille piccole battaglie della convivenza sociale (dall’assemblea di condominio al luogo di lavoro, dai rapporti coi vicini a quelli coi parenti). Ed è un piccolo mistero – spiegabile forse solo con ragioni storiche, alla luce del discredito in cui la retorica è caduta nel corso dell’età moderna (§ 3) – il motivo per cui in molti corsi di laurea in Giurisprudenza manchino insegnamenti espressamente dedicati all’argomentazione giuridica. Ciò non accade, per fortuna, nel Dipartimento presso il quale lavoro; ma il problema, in termini generali, non è da sottovalutare. Quel vuoto didattico equivale a dotare gli studenti di un’infinità di strumenti (le nozioni relative a molteplici branche del diritto), senza però istruirli su come usarli nel modo più proficuo. Una carenza formativa tanto più deprecabile in quanto non facilmente colmabile in via empirica – imparando ad “arrangiarsi”, come suol dirsi, nel successivo apprendistato professionale –, anche perché destinata a perpetuare una lacuna di fondo riscontrabile nella quasi totalità dei giovani all’esordio degli studi universitari. Decenni di esperienza come docente, e soprattutto come esaminatore, mi hanno in effetti mostrato che la loro maggior lacuna non sia tanto nella carenza di preparazione (pur in molti casi indiscutibile, e con radici lontane), ma nell’incapacità di argomentare in modo compiuto e coerente. Per quanto io non ami i facili alibi, e i buonismi che assolvono senza far crescere, quel limite non è imputabile solo ai ragazzi – o ai loro cattivi maestri, a casa e a scuola –, ma trova evidenti connessioni con (se proprio non è determinata da) tratti di fondo del contesto in cui viviamo, tali da incidere sul nostro modo di ragionare ed esprimerci. Se il grande laboratorio della persuasione antica fu la retorica (soprattutto in ambito politico e forense: § 3), oggi esso si incarna, in primo luogo, nella pubblicità commerciale. Essa suggestiona e martella, non convince razionalmente alcuno – ed è in effetti palesemente non credibile, costantemente costruita su contraddizioni logiche, per cui un prodotto costa meno ed è al tempo stesso della qualità migliore –, eppure induce desideri e bisogni, orienta milioni di consumatori, inibisce ogni loro reazione critica, per farne passivi recettori di slogan, allusioni e immagini (di innegabile impatto, sia pure non di rado a livello inconscio). Si procede tramite ossessive, quasi narcotiche, ripetizioni della tesi, ma quasi senza fornirne un supporto argomentativo – se non, al massimo, quella versione depotenziata e risibile dell’“argomento d’autorità” (che ha effettiva consistenza solo laddove si richiami la conforme opinione di chi vanti, in un certo ramo del sapere, un consolidato prestigio) che degrada alla voce e al suadente sorriso dei testimonials pubblicitari, con un “vip” (attore, calciatore, sou164

brette) cui dovremmo prestare ascolto mentre pontifica, ben retribuito, su cose a lui assolutamente estranee: una marca di scarpe, un gestore telefonico, un’azienda di divani e sofà. Anche il dibattito politico – soprattutto nel corso dello “shopping elettorale” periodicamente indetto per la scelta dei nostri rappresentanti al Senato e alla Camera – ricalca visibilmente l’impostazione commerciale. Le “tribune elettorali” di pochi decenni fa ci appaiono polverose (ma almeno più provvedute) disquisizioni di insigni politologi, a fronte dei vari personaggi di spettacolo e di sport che vengono a rendere noto il proprio orientamento di voto, e dinanzi a programmi di segretari di partito ridotti a colpi di twitter, banalità martellanti (o proposte chiaramente irrealizzabili) sino allo sfinimento, senza un’ombra di serie strategie di persuasione, che si sollevino almeno di un dito rispetto al turpiloquio e ai più grevi attacchi personali. Non vi è dichiarazione, nell’agone politico, che non fornisca ricco materiale a chi voglia raccogliere esempi di fallacie argomentative (capitolo IX, § 4). Dalla ignoratio elenchi – con cui si producono proposizioni tali da poter supportare una tesi vicina, ma in sé diversa, da quella che si dovrebbe dimostrare – alla petizione di principio, in cui la tesi stessa viene assunta come fondamento del discorso, anziché posta come suo esito, cui pervenire razionalmente. Dalla contraddittorietà da cui sono afflitti, se uniti fra loro, più argomenti (“votate me, perché ridurrò le tasse e aumenterò gli investimenti pubblici”) all’argumentum ad personam (“senti chi parla!”) o ad baculum (con velate allusioni di carattere intimidatorio), e via seguitando. Entro uno scenario simile, attendersi che un ragazzo di vent’anni abbia dimestichezza con una rigorosa pratica argomentativa, è una pretesa che si colloca fra l’utopia e la gratuita crudeltà. Quello spettacolo desolante è ciò che ha sempre visto offerto da quanti dovrebbero comporre la classe dirigente e, da parte sua, egli è ormai assuefatto alla concisione stereotipata dei social networks, ove si discetta dell’ignoto, deresponsabilizzando – anche da supporti probatori – qualsiasi esternazione. Eppure proprio su una proposta formativa in controtendenza rispetto a tutto questo dovrebbe indirizzarsi una didattica (anche) giuridica al passo coi tempi. Diversamente da quel che spesso si afferma (affidandosi ancora a slogan piuttosto beceri: “meno diritto romano e più diritto dell’informatica!”; “con la cultura non si mangia!”), il nostro presente non esige maggiore innovazione e specializzazione a livello di nozioni da acquisire, ma piuttosto attitudini a servirsene in modo vincente. In realtà nulla, ai nostri giorni, è così rapidamente raggiungibile come i nudi dati (anche normativi). Il peggior ignorante della terra, ma in grado di navigare su internet, perviene a più informazioni di quelle che avrebbe potuto solo immaginare Pico 165

Propaganda commerciale e campagne elettorali

Argomentazione politica e ricorrenza di fallacie

Una didattica al passo coi tempi

della Mirandola – pur rimanendo, ovviamente, l’ignorante che era prima, ed essendo anzi incoraggiato a restarlo. Chi, studiando Giurisprudenza, si avvia al mondo del lavoro non ha tanto (o solo) bisogno di imparare cosa recita il tale articolo di un codice o di un remoto regolamento: questo potrà tornare mille volte a verificarlo, digitando rapidamente sul telefonino – così da reperire disposizioni che magari già sono mutate da quando le ha studiate all’Università. Quello che gli è (e ancor più sarà) essenziale consiste proprio in tutto ciò che i supporti digitali e informatici non possono garantire: un complesso di tecniche, attitudini, sensibilità che vengono dalla nostra tradizione e intessono la cultura giuridica. Ed è su questo che chi insegna dovrebbe maggiormente puntare, cominciando proprio dall’addestrare alla corretta impostazione di una tesi interpretativa e all’allestimento, rigoroso ma anche efficace sul piano suasorio, di una strategia argomentativa a suo sostegno.

2. Funzione pragmatica e correttezza argomentativa Abbiamo così iniziato a fare chiarezza su cosa sia – o almeno in che senso sia qui assunta – l’argomentazione. Ma come formularla in modo adeguato? Ed è possibile individuarne una tipologia che sia in assoluto migliore? Al primo interrogativo tenteremo di rispondere in queste pagine. Il secondo, invece, dovremo lasciarlo senza seguito, accantonato nel luogo che merita: ossia, detto brutalmente, tra le domande cretine. La stessa finalità pragmatica che abbiamo segnalato come caratteristica dell’argomentazione – e cioè la sua destinazione a creare consenso attorno a una tesi – fa sì che essa debba essere via via congegnata in modo diverso, guardando all’obiettivo, e quindi al contesto e ai destinatari. Non a caso l’autore del più grande libro dedicato a questi temi – la Costruirsi gli strumenti di Retorica di Aristotele, di lettura assai meno ostica di quanto si possa persuasione ritenere (ne esistono ottime traduzioni) e che gioverebbe infinitamente a molti avvocati, politici e manager – rivendicava il carattere innovativo del proprio lavoro, in quanto non rivolto a fornire una carrellata di argomenti e discorsi spendibili (come fino ad allora era avvenuto da parte dei maestri di quella disciplina), ma a insegnare, appunto, a costruirsene di adeguati, a seconda della situazione. Il paragone – “pedestre”, non in senso figurato – che usava il filosofo è ancora efficace. Aristotele (Confutazioni sofistiche 184a 8) rilevava infatti che, da parte degli autori a lui precedenti, erano state offerte, per evitare il dolore ai piedi, solo una molteplicità di diverse calzature, dando un aiuto in relazione al bisogno, ma senza trasmettere un’arte – che è ap-

Alla ricerca delle migliori argomentazioni

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punto quella di confezionarsi le scarpe a ciascuno più idonee: fuor di metafora, i mezzi di persuasione più appropriati. Ecco dunque che per sostenere la medesima tesi potrò servirmi di una varietà di argomenti – talora altrettanto fondati: ma torneremo fra breve sul problema della loro correttezza logica. Mi troverò quindi, almeno potenzialmente, dinanzi a una duplice scelta. In primo luogo se spenderli tutti, o concentrarmi solo su uno o due di essi. Qualora mi orienti in questo secondo senso, dovrò poi valutare quale (o quali) meriti(no) di essere selezionati e sviluppati. Entrambe le questioni sono piuttosto delicate, e non mancano occasioni in cui proprio dalla risposta ad esse dipende la riuscita di una strategia discorsiva. In linea teorica potremmo pensare che, ove si disponga di più argomenti producibili a sostegno di una tesi, sia bene non rinunciare ad alcuno di essi. In realtà questo è vero solo in determinate circostanze, e merita comunque (anche in riferimento ad esse) alcune precisazioni. Procediamo con alcuni esempi – un’operazione che conosciamo (capitolo II, §§ 2-3), e che è di larghissimo uso anche nelle pratiche di persuasione –, soppesando i pro e i contra della tesi secondo cui tutti i potenziali argomenti devono essere spesi (abbiamo qui, a sua volta, già un esercizio di argomentazione). Posso in primo luogo rilevare che, non omettendo alcuno di quegli argomenti, sarei in grado di rafforzare la sensazione di una più solida e completa fondatezza della tesi che sostengo. Il destinatario dovrebbe ricavarne, in effetti, la percezione di un’accurata ponderazione da parte mia, e che la posizione che prospetto sia, da ogni punto di vista la si valuti, sempre preferibile – esibirei, in altre parole, una piena convergenza fra tutti gli argomenti. Inoltre, procedendo così, preverrò repliche o almeno sospetti: come quello di non aver considerato (o, ancor peggio, di aver deliberatamente taciuto) elementi che potrebbero deporre in senso inverso alla tesi che propongo. Infine potrò raggiungere una maggior varietà di destinatari, in quanto alcuni saranno più sensibili a determinati argomenti, altri ad argomenti diversi. Qualora ne ometta alcuni, rischierei invece di tralasciare proprio quelli che potrebbero rivelarsi determinanti (o in assoluto, o nei confronti di alcuni interlocutori). Fermiamoci qui – e anche questo diviene allora un esempio di argomentazione che si serve solo di un triplice ordine di supporti discorsivi, lasciandone altri sullo sfondo. Il terzo argomento richiamato, in particolare, sarebbe probabilmente condiviso da molti agenti pubblicitari. Un attore noto e fascinoso, accompagnato da una ventenne bellissima, poco vestita e sorridente, decanta la qualità di una marca di caffè in capsule, di cui ci vengono resi noti anche ulteriori (presunti) vantaggi, quanto a rapidità di preparazione, effetti sulla salute e conve167

Varietà dei percorsi argomentativi

Usare più argomenti: i vantaggi ...

... e gli svantaggi, almeno sul piano logico

Il rischio dell’incoerenza fra più argomenti

nienza del prezzo. Abbiamo così la suggestione del vip testimonial (la versione degradata e illogica, ma efficace, dell’argumentum auctoritatis di cui si è detto al § 1); la piacevolezza estetica, con gli immancabili ammiccamenti sessuali (tali da raggiungere persone di ogni genere e inclinazione); l’argomento della superiore qualità; quello del risparmio di tempo, del benessere fisico e della convenienza economica. Raggiungo così le persone più semplici, attratte dal volto noto; gioco sull’attrazione fisica (destata soprattutto in un pubblico più giovane: anche se in verità quasi nessuno penserà di rimorchiare solo perché sorseggia quel caffè); e cerco poi di orientare soggetti fra loro (e dai primi) almeno in parte diversi: chi aspira a beni di maggior gradevolezza (anche senza badare a spese), chi vuole in primo luogo risparmiare tempo e/o denaro, chi è preoccupato per la propria salute. Naturalmente tutto questo funziona in una pubblicità commerciale, ma assai meno, o non sempre, in altri contesti. Fra la pluralità di argomenti messi in campo difetta – al di là della scarsa consistenza di molti di essi, singolarmente valutati – soprattutto la coerenza. Innanzi tutto, se la qualità è superiore, difficilmente il prezzo sarà più vantaggioso, e viceversa. E potremmo aggiungere che se con quelle capsule è tanto veloce farsi un caffè, sarò forse indotto a prepararmene in numero superiore, con dubbi vantaggi per la salute e per l’umore: nervoso come sarò, alla prima stupidaggine che le sento proferire manderei al diavolo anche la tizia della reclame, per quanto avvenente. Senza trascurare che se, nel fare la spesa al supermercato, suggerirò alla mia compagna l’acquisto di quella marca, mi sentirò rispondere “e da quando ti piace il caffè in capsule? Da quando hai visto quella scostumata in tivù?” – al che riporrò diligentemente la confezione sullo scaffale (e magari mi dirigerò verso lo scompartimento dei profumi, illudendomi di placarla). Astraendo dall’esempio un rilievo più generale, possiamo rintracciare proprio nella contraddittorietà o incoerenza fra i vari argomenti – o almeno fra alcuni di essi – il maggior rischio cui si espone chi, per sostenere una tesi, scelga di non scegliere, ossia opti per richiamare tutto quanto può essere invocato a sostegno di quel che propone. In alcuni frangenti, naturalmente, questo è un rischio che vale la pena correre: o perché (come nel nostro caso, e in tutta la pubblicità commerciale) lo scopo è quello di suggestionare più che di convincere razionalmente, oppure perché le circostanze (e talora le pretese del committente) esigono che nulla sia lasciato intentato. Difficilmente, ad esempio, l’avvocato ometterà – almeno nella redazione scritta dei suoi atti (laddove la maggior riflessione consentirà di scongiurare o almeno attenuare simili pericoli) – qualcuno dei possibili argomenti che militano a favore della sua interpretazione di una 168

disposizione (o della sua qualificazione dei fatti). Ma egli sa bene di farlo soprattutto per compiacere il cliente, e che perseverare in quest’atteggiamento, tanto più in udienza, determinerà una conseguenza persino più grave della contraddittorietà: stancherà il giudice. In effetti, una rassegna di argomenti troppo lunga e pedante finisce per annoiare, e già solo per questo può fallire lo scopo per cui viene formulata. Non a caso un insegnamento ricorrente nella retorica antica veniva rivolto proprio a chi dovesse gestire una pluralità di argomenti, di diversa consistenza e forza suasoria. A questi veniva suggerito di seguire il cosiddetto ordine “nestoriano”, secondo il quale è inizialmente da fare un rapidissimo cenno agli argomenti più robusti – con esplicito rinvio alla loro successiva, e più dettagliata, esposizione –, quindi da esaurire velocemente quelli meno pregnanti e decisivi, infine da riprendere e sviluppare i primi. In tal modo si riteneva di poter evitare un duplice inconveniente. Se agisse diversamente, infatti, l’oratore determinerebbe due conseguenze alternative, entrambe dannosissime per la sua tesi. Ove trattasse gli argomenti più deboli a conclusione del discorso, la sensazione negativa da essa suscitata nei destinatari sarebbe l’ultima, ossia proprio quella che più incide sul loro complessivo giudizio. Qualora, viceversa, egli si concentri su tali argomenti all’inizio, ma dilungandosi troppo, il pericolo sarebbe di far sì che il pubblico frattanto si distragga, al punto poi di non cogliere appieno il rilievo dei supporti discorsivi più solidi. Quel consiglio è sempre attuale. L’accenno iniziale dovrebbe riuscire a creare un minimo di attesa, così da garantirsi come un supplemento di attenzione. Naturalmente occorre però non abusarne, evitando di soffermarsi eccessivamente sugli argomenti minori, per poter poi ridestare l’interesse dell’uditorio nel momento in cui sono riproposti, più compiutamente, quelli cui sono affidate le maggiori aspettative. E tuttavia, anche con questi accorgimenti – volti a evitare la stanchezza dell’uditorio (e, già prima, la contraddittorietà fra argomenti) – rimane talora preferibile concentrarsi su pochi supporti discorsivi, debitamente ritagliati sul tipo di interlocutori cui mi rivolgo. Se voglio convincere un bambino di sei anni a mangiare gli spinaci, è inutile (oltre che fortemente diseducativo) dirgli “altrimenti la mamma si arrabbia”: tendenzialmente se ne infischia beato, tanto più se la cosa gli appare, come è effettivamente in quei termini, immotivata. Sarà poi controproducente decantargli le proprietà nutrizionali dell’ortaggio – in un linguaggio che a lui risulta incomprensibile –, così come esasperarlo richiamando tutti gli innumerevoli argomenti teoricamente utilizzabili. Ho maggiori probabilità di convincerlo usandone uno solo, co169

Evitare stanchezza o distrazione dell’uditorio: l’ordine “nestoriano”

La scelta a favore di pochi argomenti

Argomenti a monte oppure a valle

La selezione degli argomenti

Un esempio

struito su un appello ai sentimenti e alle cose che lo divertono oppure sugli effetti benefici. Gli dirò pertanto – e presterò maggior enfasi sull’uno aspetto o sull’altro, a seconda delle sue presumibili reazioni – che “questi spinaci sono quelli dell’orto di papà, che abbiamo seminato insieme”, oppure “mangiali che poi diventi forte come Braccio di ferro” – e se alla frase riesco ad abbinare un episodio del cartone in tivù, il gioco è fatto. Con questi due possibili argomenti – alternativi o eventualmente congiunti, ma senza aggiungerne altri – io evoco o la provenienza degli spinaci o le conseguenze del nutrirsene: argomenti situati, rispettivamente, a monte oppure a valle rispetto alla tesi “bisogna mangiare gli spinaci”. Tale distinzione riguarda, anche se non sempre in modo altrettanto visibile, praticamente tutte le argomentazioni: la ritroveremo riguardo ad alcune loro forme consolidate e tipizzate da una ormai lunga tradizione. Anche riguardo a strategie di persuasione più sofisticate e complesse – ammesso che sia facile formularle nei confronti di un bambino (chi ne ha esperienza, sa perfettamente che non è affatto così!) – non solo è spesso preferibile concentrarsi su una gamma limitata di argomenti, ma è altresí di primaria importanza scegliere quelli “giusti”. Un’esigenza tanto più pressante proprio in quanto su altri si è preferito soprassedere – un dato che avevamo in effetti invocato ipotizzando la scelta opposta: di un’argomentazione che non tralasciasse nulla. Negli incontri dedicati all’“orientamento”, allorché cerco di convincere gli studenti di una scuola media superiore, prossimi all’esame di maturità, a iscriversi ai corsi di laurea giuridici attivati presso l’Università di Siena, dubito riesca fruttuoso soffermarsi sull’ampiezza e varietà della produzione scientifica dei miei colleghi – le cui ricadute in merito alla qualità della loro didattica difficilmente convincerebbero i miei interlocutori. Altrettanto può dirsi per gli oltre sette secoli di storia del nostro Ateneo o sull’alto prestigio culturale della formazione giuridica: dati tutti di per sé fondati, ma di scarsa presa. Né varrebbe dilungarsi sulle bellezze artistiche ed enogastronomiche della città toscana – col che incorrerei in una fallacia già ricordata (l’ignoratio elenchi), in quanto fornirei un argomento per visitare Siena, ma non per trasferirvisi a studiare Giurisprudenza. Insisterò, piuttosto, sulla pluralità degli sbocchi professionali che in genere quest’ultima garantisce, unitamente alla circostanza che proprio in una città “a misura d’uomo” come Siena il corpo docente – preparato, e probabilmente più giovane e presente che in altre Università, di maggiori dimensioni – è particolarmente impegnato nel seguire gli studenti, senza neppure abbandonarli al momento della laurea, 170

per garantire loro occasioni di confronto e cooperazione con varie figure ed enti del mondo del lavoro. Cercherei di combinare, in tal modo, argomenti a monte e a valle; caratteristiche della città e degli insegnanti di un Dipartimento assieme alle aspettative di concreti sbocchi occupazionali (aspetto cui oggi, comprensibilmente, si è sempre più sensibili). E se alla chiacchierata farò seguire un esempio di lezione universitaria, cercherò di usare anche questa come argomento, “tagliandola” a beneficio dell’uditorio, il più vicina possibile, pur nella specificità di un tema giuridico, alle materie che in quella scuola si studiano. Mi sforzerò infatti di far comprendere che nozioni e metodi acquisiti finora non sono poi così distanti da quelli con cui si misurerà chi si iscriva a Giurisprudenza. Solo in un liceo classico, ad esempio, parlerò dei rapporti fra esperienza giuridica greca e mitologia, o retorica, o teoria aristotelica della giustizia. Un’analoga esigenza – se vogliamo, ancora una volta “topica” (capitolo III, § 4 e capitolo V, § 4), in quanto dettata dal luogo, concreto e ideale, in cui si esprime – orienta chi argomenta in qualsiasi altro contesto, incluso quello strettamente giuridico. Non dobbiamo mai perdere di vista questo dato, anche di fronte alla varietà e ricchezza di soluzioni discorsive che si schiudono dinanzi a chi intenda sostenere una tesi. Egli potrà servirsi, innanzi tutto, di ragionamenti che mettono a frutto due diverse tipologie di inferenza che abbiamo incontrato (capitolo V, § 2: lasciamo qui da parte l’abduzione, che può avere un enorme rilievo, ma va a sua volta dimostrata). Si parla, in effetti, di argomenti deduttivi (che possono aspirare a essere “validi”) oppure induttivi – che al massimo giungono a essere “stringenti” o “cogenti”, in quanto maggiormente probabili. Procedo nel primo modo, ad esempio, se sostengo (oggi, due aprile 2018) che l’Italia non vincerà i prossimi campionati mondiali di calcio, sulla base del fatto (tristemente noto a tutti) che non si è qualificata alla fase finale. Opero per mezzo di induzione – e neppure delle più stringenti – se invece affermo che difficilmente potrà vincerli il Brasile, in quanto tutte le edizioni che si sono svolte in Europa, dal 1934 a oggi, sono state vinte da squadre europee, con l’unica eccezione del 1958, quando il Brasile stesso si affermò in Svezia: e ritengo improbabile che una seconda deroga a quella presunta regola si ripeta in Russia, proprio a beneficio della medesima nazionale. Non diversamente – spostandosi su tesi giuridiche – ove io sostenga che il comportamento della banca con cui sono entrato in trattative al fine di stipulare un contratto di mutuo doveva essere improntato a buona fede (intesa come correttezza e lealtà), non faccio che dedurre dalla disposizione valevole per tutti i contratti (articolo 1337 del co171

Argomenti deduttivi oppure induttivi

Esempi, su temi comuni

Esempi, su temi giuridici

Figure o schemi di argomentazione

L’argomento apagogico, o per absurdum

dice civile) ciò che sto affermando in merito al mutuo che ho concluso (che è appunto un tipo di contratto, secondo la definizione dell’articolo 1813 del codice civile). Nella sostanza, in questo caso, io argomento tramite un sillogismo (capitolo V, § 2): e poiché ne sono vere le premesse, ne sarà vera la conclusione, e valida l’argomentazione messa in campo. Poniamo invece che io intenda persuadere qualcuno (un giudice, in primo luogo) di aver iniziato a possedere una porzione del fondo del vicino convinto che fosse mio, ossia nell’incolpevole ignoranza di ledere l’altrui diritto (cosiddetta buona fede in senso soggettivo, che potrebbe fra l’altro dimezzare i tempi richiesti per un eventuale acquisto della proprietà tramite usucapione). Segnalerò come non esistessero recinzioni o altri segni visibili di delimitazione tra i vari appezzamenti; che mai nessuno degli altri confinanti ha avuto da lagnarsi del mio contegno, sempre rispettoso dei diritti altrui; che su quel tratto di terra, appena ne sono entrato in possesso, ho provveduto a compiere lavori costosissimi, che non avrei avuto alcuna ragione di realizzare ove fossi stato al corrente che non era mio, e senza che il vicino (effettivo proprietario), col quale ho avuto per lungo tempo ottimi rapporti, abbia mai espresso il minimo dubbio sulla correttezza del mio agire. Dal complesso di dati specifici trarrò, per induzione, la conclusione generale, secondo la quale possedevo quel terreno in buona fede, nella piena convinzione – non imputabile a mia colpa – che fosse di mia proprietà. Conclusione probabile, ma aperta e repliche e obiezioni. Questa distinzione di fondo fra argomenti costituisce una classificazione (capitolo IV, §§ 3-4), il cui criterio è costituito dalle forme di inferenza che vi vengono adottate. Ma essa, unitamente a quella – cui già si è accennato – fra argomenti si collocano a valle oppure a monte della tesi da sostenere (della sua accettazione, più precisamente), non esaurisce le tipologie ipotizzabili in materia di argomentazione. Una lunga tradizione (retorica, logica e giuridica) ha infatti consentito di tipizzarne molteplici figure, o schemi: elaborandone in verità elenchi, più che ulteriori classificazioni, e di estensione anche molto differente. Una loro rassegna completa e puntuale richiederebbe ben altro spazio di quello che può esservi dedicato in queste pagine. Non possiamo che limitarci, pertanto, a poche figure, coi relativi esempi. Ad alcune è già occorso di fare riferimento, nel vagliare i vari esiti interpretativi a cui dava luogo il tentativo di attribuire una significato a una disposizione (capitolo VII, §§ 3-4). Rileva in primo luogo l’argomento cosiddetto apagogico, o per absurdum, che è cioè costruito sulla dimostrazione delle conseguenze insensate cui darebbe luogo il rifiuto della tesi proposta (in particolare, nel nostro caso, una tesi di carattere interpretativo). 172

Poniamo – pur mutare esempio rispetto a quelli precedentemente impiegati – che io mi trovi dinanzi, apposta sul muro di una caserma, la scritta “Zona militare. Limite invalicabile”. Ritengo che essa sia da intendere come un divieto di oltrepassare quel muro, valevole per chiunque non appartenga alla forze armate (e abbia ricevuto l’ordine di entrarvi). In che modo convincere un possibile interlocutore della fondatezza della mia interpretazione? Posso sostenere che essa è l’unica, fra le tre possibili che suscita quell’enunciato, a non rivelarsi assurda. Come alternativa potrebbe infatti pensarsi, in primo luogo, che l’aggettivo “invalicabile” non indichi qui una proibizione (un’impossibilità giuridica) ma – come in vari altri usi linguistici – una caratteristica dell’oggetto tale per cui esso non può essere fisicamente superato (impossibilità materiale, anche in senso figurato: come laddove si consideri “invalicabile” un ostacolo, una difficoltà o un’obiezione). In secondo luogo potrebbe ipotizzarsi che quel muro sia invalicabile (cioè che è vietato oltrepassarlo) per chiunque, nessuno escluso. Ma si tratterebbe, in entrambi i casi, di conclusioni assurde (o ridicole: un elemento che può avere un notevole peso in questo genere di argomentazioni). Da un lato, infatti, di un’impossibilità fisica non vi sarebbe alcun bisogno di segnalazioni: nessuno ha mai pensato di avvisare che è materialmente impedito parcheggiare l’auto sopra un albero, o guidarla in cielo. Dall’altro, se neppure i militari (o almeno alcuni di essi) potessero varcare quel limite, la caserma rimarrebbe vuota, e assolutamente inutile. Questo tipo di argomento lavora dunque a valle, e induce a condividere una tesi mostrando l’inconsistenza logica delle sue alternative. Ha una forza indubbia, tanto nell’uso retorico (destinato a un pubblico terzo) che in quello dialettico (§ 3), nel “corpo a corpo” con l’antagonista, che viene messo “schiena a terra”. Ma esso funziona bene solo se tali alternative sono in numero limitato, e tutte logicamente incompatibili con quanto si intende sostenere. Ove difetti uno di questi due elementi, la dimostrazione dell’assurdità si rivelerà o laboriosissima (nella prima ipotesi) o semplicemente inutile (nella seconda). Trattando dell’interpretazione è occorso di fare un rapido cenno anche all’argomento a fortiori, col quale il giurista – per quanto a noi più interessa – sostiene che una certa disciplina, prevista in modo incontroverso per determinati soggetti, debba valere anche per altri (non menzionati), in quanto ancor più meritevoli dei primi di quel trattamento giuridico. Se in un albergo è affisso l’avviso “vietato l’ingresso ai cani”, potrò argomentare che a maggior ragione non possono esservi introdotti lupi, orsi o giaguari. Se, per escludere di poter considerare confinanti due fondi (ai fini dell’esercizio del diritto di prela173

Forza e limiti dell’argomento apagogico

L’argomento a fortiori

L’argomento analogico o a simili

Esempi giuridici

Combinazione fra argomento a simili e argomento a fortiori

zione da parte del titolare dell’uno ove il secondo sia posto in vendita), la Corte di Cassazione ha ritenuto sufficiente che essi siano separati da una strada agraria o da un canale, ne trarrò argomento per sostenere che – a fortiori, appunto – non siano qualificabili come confinanti gli appezzamenti divisi da una strada provinciale o addirittura da un’autostrada. Il confronto fra i soggetti (in senso lato) cui è riferita una disposizione e quelli in essa non contemplati può assumere forme diverse, e ulteriore rilievo, in altre soluzioni argomentative. Potrò muovermi nella logica della diversità oppure della somiglianza – purché tale sotto un profilo, per quanto ci riguarda, giuridicamente rilevante. Quest’ultima è l’ipotesi dell’argomento analogico o a simili. Al centro di una lunghissima tradizione, nel campo della retorica e del diritto, esso è stato oggetto di svariate e non sempre coincidenti ricostruzioni. Consiste nei procedimenti discorsivi volti a sostenere l’applicazione, riguardo a una fattispecie non direttamente disciplinata, di una disposizione prevista per altra ipotesi (analogia legis, distinta dall’analogia iuris, con cui una lacuna viene colmata ricorrendo ai principi generali dell’ordinamento: capitolo IX, § 2). Il supporto argomentativo fa appunto leva sulla somiglianza fra la prima situazione e la seconda: detto altrimenti, sulla loro distinzione solo “inessenziale”. Ove propenda per disciplinare il parcheggio custodito – che non è un contratto tipico, il cui regime sia fissato dall’ordinamento – tramite le regole vigenti in merito alla locazione oppure al deposito (o con parte delle une e parte delle altre), sosterrò tale soluzione facendo leva sulle somiglianze che possiamo cogliere fra il rapporto che si instaura fra il gestore del parcheggio e chi vi conduca l’auto rispetto alla relazione che ha luogo fra locatore e conduttore, o tra deponente e depositario. Qualora mi chieda a quali direttive attenermi nell’interpretazione di un testamento – tema che il legislatore omette quasi completamente di affrontare – non potrò che ricorrere all’applicazione analogica (di alcune) delle disposizioni relative all’interpretazione dei contratti (articoli 1362-1371 del codice civile). E argomenterò tale opzione sulla scorta di alcune linee comuni alle due figure (testamenti e contratti), che non a caso afferiscono entrambe al più ampio genere del “negozio giuridico”, in riferimento al quale – ecco un altro argomento, questa volta di ordine storico – è stata tradizionalmente messa a punto tanta parte della riflessione attorno all’ermeneutica degli atti di autonomia privata. Si noti come, in questo secondo esempio, assistiamo anche a un’ipotesi di combinazione fra argomento a simili e argomento a fortiori. Nel senso che l’applicazione, previo qualche adattamento, di alcune disposizioni inerenti all’interpretazione dei contratti potrà essere argomentata sulla scorta di un semplice tratto di analogia. Così l’arti174

colo 1362 – che prescrive di indagare la “comune intenzione delle parti” di un contratto – in merito ai testamenti comporterà l’obbligo di ricercare l’effettiva volontà del testatore senza “limitarsi al senso letterale delle parole”. Invece, a proposito di quanto previsto dall’articolo 1367, la sua proiezione all’ambito testamentario potrà essere sostenuta appellandosi alla più accentuata esigenza di dare attuazione alla medesima disciplina. Quell’articolo prevede infatti che “nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”. Se tale regola (volta alla “conservazione del contratto”, come recita la rubrica dell’articolo) è sancita per i contratti medesimi – sottoposti a interpretazione quando, di regola, le parti che li hanno conclusi sono ancora vive e vegete – a maggior ragione (a fortiori) essa appare opportuna riguardo ai testamenti, laddove si cerca di ricostruire una volontà che ancor più merita di essere salvaguardata, in quanto non più ripetibile: quegli atti, infatti, divengono oggetto di interpretazione quando chi li ha redatti è ormai defunto. Tornando all’argomento analogico, o a simili, esso trova il suo speculare opposto nell’argomento a contrario, anch’esso al centro di una riflessione risalente e nutrita. Ricorre a quest’ultimo chi intende sostenere la tesi di un’interpretazione letterale relativa a una determinata disposizione, escludendo che possa esserle attribuito un significato più ampio di quello proprio delle parole che vi sono impiegate, e/o che essa sia suscettibile di applicazione analogica. Se ciò vale per ogni argomento a contrario, è peraltro vero che questo può essere declinato secondo due diverse modalità (si è parlato, al riguardo, di una “variante interpretativa” e di una “produttiva”). Nella prima versione, ci limiteremo – sul presupposto di un’assoluta congruenza fra la volontà del legislatore e il testo da lui redatto – a sostenere che niente può essere detto in merito a soggetti (in senso lato) diversi da quelli espressamente contemplati nell’enunciato normativo. In tal modo si giunge a riscontrare, in definitiva, l’esistenza di una lacuna (capitolo IX, § 2). Pensiamo ai non pochi articoli della nostra Costituzione che fanno riferimento ai “cittadini”: ad esempio l’articolo 18 (diritto di associazione), 38 (diritto al mantenimento e all’assistenza sociale per gli inabili al lavoro) e 48 (diritto di voto). In questa prima versione l’argomento a contrario verrà speso da quanti ritengono che il termine “cittadini” sia da prendere alla lettera, senza alcuna possibilità di dilatarlo sino a ricomprendervi stranieri e apolidi. In riferimento a queste ultime due categorie di soggetti niente sarebbe pertanto previsto: né nel senso di riconoscere loro quei diritti, né di escluderli. 175

L’argomento a contrario

Due diverse accezioni: “variante interpretativa” e “produttiva”

L’argomento di autorità

Ulteriori figure

Ma lo stesso procedimento discorsivo – nella seconda variante – potrà essere impiegato per sostenere una tesi lievemente difforme. In tal caso non verrà riscontrata una lacuna, ma sostanzialmente prodotta una norma nuova – persino di più, per certi aspetti, che nella situazione antitetica del ragionamento analogico. Si argomenterà infatti che, nel momento in cui i Padri Costituenti hanno espressamente menzionato solo i “cittadini”, attribuendo loro quei tre diritti, hanno implicitamente escluso dal godimento di questi ultimi tutti quanti cittadini non siano (e quindi, appunto, stranieri e apolidi: la cui situazione, in questa prospettiva, non sarebbe affatto passata sotto silenzio). Un altro argomento a cui più volte è occorso di accennare (già nel § 1) è quello “di autorità” (argumentum auctoritatis). In tal caso una tesi viene sostenuta supportandola col conforme parere di soggetti provvisti di un particolare e riconosciuto prestigio in un ramo del sapere. Certo esso può prestarsi a più di un abuso (o impiego in forma debole e distorta: anche su questo ci siamo soffermati), e in effetti è stato al centro di svariate critiche, che sostanzialmente sono giunte a scorgervi un esempio di argomentazione fallace (capitolo IX, § 4). Già Locke – che ne trattava preferendo denominarlo “argomento ad verecundiam” – insisteva su quella sorta di timore reverenziale che, tramite esso, si mira a suscitare nei destinatari: quasi un moto di vergogna, appunto, tale da imporre di non discostarsi dall’opinione consolidata presso gli uomini di maggior autorevolezza. E tuttavia, pur con questi profili controversi, non vi è dubbio che un simile argomento abbia assolto storicamente, e svolga tuttora, una funzione ricorrente e incisiva. Basti pensare al peso delle citazioni di altri studiosi che affollano la produzione scientifica, soprattutto nell’ambito delle discipline umane e sociali. Difficilmente è dato prescinderne per chi proponga una costruzione teorica. Ma consideriamo anche il frequente richiamo, negli atti giudiziari, a precedenti pronunzie (soprattutto) della Corte di Cassazione, pur sprovviste di un carattere formalmente vincolante nei confronti di chi dovrà giudicare nuove controversie (e proprio per questo spendibili solo in sede argomentativa). Possiamo fermarci qui. Su qualche altra figura – a sua volta tipizzata nel corso dei secoli (argumentum ad personam, ad baculum, ecc.) – occorrerà tornare trattando delle fallacie (capitolo IX, § 4), proprio perché costruite su fondamenti palesemente irrazionali, o comunque contraddistinte da vizi logici. In ulteriori modalità discorsive (argomento della coerenza dell’ordinamento, teleologico, sistematico, ecc.) è probabilmente preferibile non addentrarsi, anche per le maggiori difficoltà che pone rispetto a chi si sforzi di tenere distinta l’argomentazione rispetto al ragionamento seguito nel realizzare un’interpretazione (capitolo VII, § 4). 176

Pur a fronte di una ricognizione così visibilmente incompleta, preme però formulare alcune considerazioni. Innanzi tutto, abbiamo già una prima conferma di quanto dicevamo a proposito dell’ampio ventaglio di soluzioni discorsive che si apre dinanzi a chi intenda sostenere o confutare una tesi. L’altrui persuasione può essere raggiunta tramite molteplici vie, anche sensibilmente diverse. E tanto più diviene opportuno, caso per caso, scegliere quella più propizia, in ragione dell’uditorio al quale mi rivolgo e del contesto in cui mi esprimo. In un convegno, ad esempio, per supportare una mia teoria userò con moderazione e garbo dell’argomento per absurdum – senza mai ridicolizzare le tesi difformi di altri colleghi: cosa da cui invece non mi asterrei affatto, nei confronti della controparte, in un atto giudiziario – e sarò assai accurato nella selezione delle mie auctoritates, così come adotterò una certa cautela rispetto all’argumentum a contrario (in particolare, nella seconda variante che abbiamo visto), consapevole di espormi a molte critiche qualora sovraccaricassi di significati i silenzi del legislatore. Sono poi necessarie almeno tre precisazioni, al fine di scongiurare equivoci che quanto detto potrebbe destare. Le prime due si riferiscono soprattutto alle singole forme argomentative che abbiamo illustrato, e ai relativi esempi; l’ultima concerne invece l’intero discorso svolto finora, con particolare riguardo alla funzione pragmatica dell’argomentazione. A costo di ripetersi (dopo ciò che abbiamo rilevato al § 1), è in primo luogo da segnalare che i singoli (tipi di) argomenti da noi censiti assumono particolare rilievo per il giurista – a cui in effetti sono riferiti gli esempi formulati –, ma non sono affatto a lui esclusivi. L’argomento d’autorità è rinvenibile in ogni strategia discorsiva, dalla dialettica dei bambini (“è così perché lo dice papà”) alle più sofisticate dispute intellettuali. Sull’assurdità delle conseguenze che si determinerebbero ove venisse scartata la tesi proposta fanno leva molteplici pratiche suasorie, soprattutto in contesti di acceso confronto di idee (dall’assemblea di condominio all’agone politico). E altrettanto può dirsi per la comparazione, declinata in diverse forme, che è alla base degli argomenti a fortiori, a simile e a contrario: non limitati affatto, anche gli ultimi due, all’ipotesi di chi sia alle prese con quanto detto o taciuto dal legislatore. Si pensi a chi voglia convincere la fidanzata a vedere la finale dei Campionati del Mondo perché già hanno assistito insieme a quella dei Campionati Europei, o alla replica di lei (che è francese), basata sul fatto che vi aveva acconsentito solo perché in quest’ultima giocava la Nazionale del suo paese. E con ciò passiamo alla seconda precisazione, la quale non è poi che uno sviluppo di questa. Gli argomenti che abbiamo ripercorso – assieme ad altri, da noi omessi o solo menzionati – sono stati spesso affrontati dai teorici del diritto in stretta connessione con l’attività interpreta177

Scelta dell’argomentazione e rilievo dell’uditorio

Le figure argomentative fuori dell’ambito giuridico

Al di là del nesso fra argomentazione e interpretazione

Sul “relativismo” argomentativo

Argomentazione persuasiva oppure convincente

Un orientamento duttile e prudente

tiva (in particolare, appunto, con quella dei giuristi): schemi di ragionamenti tramite i quali si giunge ad attribuire significato a una disposizione normativa, ancor prima di (provare a) far convergere su quella soluzione il consenso altrui. Indubbiamente è legittimo, e non infruttuoso, guardarvi anche in questa prospettiva. Ma essa non è l’unica possibile, né (per le ragioni ormai note: capitolo VII, § 4) quella su cui si è scelto di concentrarci maggiormente in queste pagine. Al di là degli esempi che abbiamo formulato, rimane valido tutto quanto si è osservato in merito alla natura autonoma e specifica dell’argomentazione. Infine un problema di fondo, che non possiamo eludere dopo aver tanto insistito sull’esigenza che l’argomentazione si riveli efficace, e sia diversamente congegnata in ragione di contesti e destinatari. Dobbiamo allora accettare l’idea (retorica in senso deteriore: § 3) secondo cui ogni tesi può essere sostenuta, e che “buono” è solo l’argomento che – quale esso sia, persino se non verificabile criticamente da parte dei destinatari – produce consenso e orienta l’agire dei destinatari? Oppure dobbiamo sforzarci di considerare l’argomentazione, sempre inserita entro un’esperienza condivisa di pensiero e una libera comunità di parlanti, come un confronto intellettuale, flessibile e aperto alle repliche, ma non per questo privo di un fondamento razionale, rigoroso e coerente? Non è facile, ancora una volta, fornire una risposta univoca e perentoria. E non è certo un caso se il maggior teorico dell’argomentazione del XX secolo (Chaïm Perelman) si sia sforzato di evitare la deriva sofistica propria dell’orientamento che abbiamo espresso con la prima domanda, soffermandosi a lungo sulla funzione pragmatica delle strategie suasorie e sull’impatto che su di loro esercita l’uditorio (che a sua volta l’autore deve essere in grado di “costruire”), ma scongiurando un esito assolutamente relativistico attraverso due strade. In primo luogo, distinguendo fra argomentazione “persuasiva” – identificata con quella “che pretende di valere soltanto per un uditorio particolare” – e “convincente”, ritenuta in grado di “ottenere l’adesione di qualunque essere ragionevole” (e perciò necessariamente valida, o almeno stringente, sul piano logico). In secondo luogo, e in visibile connessione con ciò, attribuendo valore a una figura astratta e virtuale quale “l’uditorio universale”: composto da tutti “coloro che si sottomettono ai dati dell’esperienza o alla luce della ragione”, e ai quali è appunto destinata una corretta argomentazione, congegnata per “convincere”. Al di là delle diverse reazioni – talora anche fortemente scettiche – sollevate da questo fondamentale passaggio della teoria perelmaniana, io direi che ancora una volta sia consigliabile un approccio duttile e topicamente orientato, accompagnato da una realistica distinzione 178

tra l’effettività delle cose e i compiti che è doveroso perseguire. Vi sono situazioni in cui la correttezza logica dell’argomentazione non può (né deve) essere assolutamente compressa, e in cui davvero questa ha valore solo se “convincente”: dall’argomentazione-ragionamento che si compie nella propria testa, prefigurando e soppesando gli argomenti favorevoli o contrari a una determinata tesi (tramite una sorta di benefica schizofrenia indotta, cui si richiama lo stesso Perelman), sino ai contesti in cui chi si esprime lo fa in una posizione di assoluta imparzialità – come dovrebbe essere, ad esempio, nel dibattito scientifico. Ma immaginare che accada lo stesso anche solo in un’aula di tribunale o in una commissione parlamentare non è sempre aderente alla realtà, né remunerativo (in senso figurato). Innegabilmente, in questi frangenti la logica dello schieramento impone di porre in primo piano il risultato, il cui raggiungimento può anche dipendere da opzioni discorsive disinvolte e accattivanti, che fanno leva su fattori emotivi, irripetibili con altri destinatari. In simili occasioni dubito che l’oratore assolverebbe degnamente la propria funzione sacrificando, in nome di una presunta argomentazione “convincente” (un “uditorio universale”), quella “persuasiva” (quello specifico uditorio, con la sua psicologia e le sue specifiche reazioni). Un avvocato che si comportasse così non credo, sinceramente, andrebbe incontro alla stima del suo cliente, e forse neppure dei giudici e della controparte. Se però passiamo dalla situazione empirica con cui è necessario fare i conti ai compiti che abbiamo il dovere di assumere al fine di migliorarla (sin dal momento decisivo della formazione scolastica e universitaria), è indubbio che la qualità dell’uditorio (concreto, non virtuale) riesce sempre determinante nel rendere migliori o peggiori le pratiche argomentative. Solo un controllo vigile, assiduo e diffuso, su di esse è in grado di garantire che – come sarebbe auspicabile – la distanza fra correttezza logica ed efficacia suasoria venga cancellata o almeno fortemente ridotta, e che quanti curano la prima non siano danneggiati sul piano della seconda. È la verifica razionale del giudice circa fondamento e concatenazione degli argomenti prodotti dagli avvocati che può elevare la qualità della retorica forense. Così come il vaglio attento e informato degli elettori gioverà a quella delle argomentazioni politiche; o il rigore dell’esaminatore contribuirà all’addestramento dei giovani in questo genere di operazioni, senza accontentarsi di sentire semplicemente ripetuta una tesi o affastellati spezzoni di argomenti, privi di ordine e coerenza. L’affinamento delle tecniche argomentative non dovrebbe essere mai disgiunto dall’educazione a un pensiero critico, in chi ne costituisce il potenziale destinatario. Solitamente, del resto, è proprio 179

Il controllo critico sull’argomentazione

chi sia abituato a predisporre corrette strategie di persuasione a non lasciarsi poi facilmente suggestionare dagli argomenti più deboli (se non propri fallaci: capitolo IX, § 4) posti in campo da altri. Una ragione in più – programmatica, ma non utopistica – per investire su una formazione di questo tipo, e riscoprire nella retorica, come per secoli è stato, una disciplina fondante della nostra cultura (e anche della stessa identità di cittadini), tale da contribuire all’allestimento di discorsi corretti, rigorosi ed efficaci.

3. Retorica e dialettica (non solo) forense

La denigrazione della retorica

La “neoretorica”

Non di rado, soprattutto nel corso di questo capitolo, è accaduto di mettere in rapporto l’argomentazione con la retorica e la dialettica. È giunto il momento di spendere qualche parola attorno a queste due figure, anche per chiarire il senso in cui ne parliamo, che può risultare nient’affatto scontato. Riguardo alla prima, siamo abituati a sentirla menzionare in un’accezione dispregiativa, per indicare pratiche discorsive vuote e strumentali, pompose o stucchevoli nella forma e assai povere di contenuti. “Una vuota frase retorica” è espressione non infrequente, con cui un certo enunciato viene liquidato senza appello, come inautentico e sostanzialmente vacuo. Alla retorica tendiamo ad associare immagini polverose: di vecchi maestri pedanti, demagoghi e avvocati di basso profilo. Sa di falso e stantio, di artefatto. Ma non sempre è stato così, come sa bene chi conosca appena un po’ della cultura antica (e medievale). La torsione semantica, in senso peggiorativo, è registrata nei dizionari solo nel corso del XIX secolo, ma le sue radici si rinvengono già nella prima età moderna, legate soprattutto al nome di Pierre de la Ramée (Petrus Ramus [1515-1572]). Secondo la sua impostazione, destinata ad ampia fortuna, il campo della retorica veniva circoscritto solo a due delle parti in cui essa tradizionamente consisteva: la forma dell’espressione (elocutio) e la declamazione (pronuntiatio). Ne veniva invece lasciata più defilata la memoria (indispensabile per porre ordine in qualsiasi ramo del sapere), e – dato ancor più rilevante – era consegnata alla sola dialettica (o logica) lo studio dei modi con cui rinvenire argomenti (inventio) e collocarli nel discorso (dispositio). Da allora la retorica è stata progressivamente svuotata di significato, consegnata a formalità (se non proprio futilità) puramente esornative, sottraendole il controllo dell’argomentazione. Il ritorno dell’interesse per quest’ultima, nel corso del Novecento, è coinciso proprio con una riabilitazione della retorica: almeno nel dibattito scientifico, se non nel linguaggio comune. Un autore cui più 180

volte si è fatto riferimento (Chaïm Perelman) ha parlato, sin dal titolo della sua opera più famosa (apparsa nel 1958), di “nuova retorica”, per la cui impostazione riusciva decisiva una puntuale rimeditazione degli insegnamenti classici, in primo luogo di Aristotele. E tuttavia di quest’ultimo non sono stati – da parte di Perelman e di quanti hanno poi lavorato su questi temi – messi a frutto solo gli insegnamenti risalenti alla Retorica, ma anche quelli contenuti in altri scritti (i Topiká, in particolare), dedicati a una disciplina che il filosofo di Stagira considerava distinta dalla retorica medesima (seppure, rispetto ad essa, per molti aspetti analoga e simmetrica), e che egli denominava dialettica. Quest’ultimo termine, nella prospettiva aristotelica, designava una tecnica (dialektikè téchne, appunto) incentrata sull’esame e la produzione di proposizioni verosimili e probabili – e non vere e necessarie, come nei ragionamenti analitici –, da utilizzare anche laddove si disputa sostenendo opinioni divergenti. Peraltro, nella storia della cultura europea (e filosofica in particolare) questo non è stato affatto l’unico significato della parola ‘dialettica’. Nello stesso mondo antico, e per un buon tratto delle vicende posteriori, essa è stata estesa fino a comprendere l’intera logica. Da Hegel in avanti ha poi assunto altri e ben precisi contorni teorici, legati all’incessante dinamica della giustapposizione di una tesi e di un’antitesi, con un “superamento nella conservazione” (aufheben) che conduce alla sintesi. Proprio la varietà delle accezioni di dialettica ha contribuito a consigliare a Perelman l’adozione, per la proposta teorica che egli andava coniando, della formula di “neoretorica” (anziché “neodialettica”, come taluno ritiene sarebbe stato più calzante), unitamente alla circostanza che proprio il richiamo alla retorica consentiva di meglio focalizzare l’analisi su quell’“adesione delle menti” stimata imprescindibile in ogni pratica dell’argomentazione. In questo libro è dunque nella portata aristotelica – e non platonica o stoica, hegeliana o marxiana – che parliamo di dialettica. Così come di retorica trattiamo secondo la valenza, tutt’altro che dispregiativa, che ci è stata trasmessa dalla cultura classica (e poi sino all’Umanesimo), e che nell’ultimo cinquantennio è stata provvidenzialmente riscoperta e valorizzata. Per quanto più ci interessa, si esercita la dialettica nel confronto con un interlocutore che sostenga tesi difformi dalle proprie, affidandosi ad argomenti che non possono costituire una dimostrazione (come accade in matematica e geometria) ma che egli deve sforzarsi di rendere più plausibili, stringenti e probanti, sino a disarmare il suo contendente, se non proprio a convincerlo. Alla dialettica presiede una logica strettamente agonale: un duello di parole, che può andare 181

La dialettica, in senso aristotelico

Dimensione agonale e logica del plausibile

Ambiti e forme dell’argomentazione dialettica

Addestrare al confronto dialettico

dal più pacato scambio di idee allo scontro aspro. Scontro nel quale non si risparmiano colpi bassi e in cui può essere consigliabile iniziare col mettere a disagio la controparte – secondo la regola, un po’ spregevole ma non infondata, per cui “chi picchia per primo picchia due volte”. Sarà pertanto consiglibile, non di rado, individuare subito i punti deboli del contendente e su di essi portare i propri attacchi: limiti di preparazione culturale, competenze linguistiche, rapidità di ragionamento, capacità mnemonica. Si ha argomentazione dialettica – in questo senso – nelle trattative che l’avvocato conduce con la controparte, nei negoziati intavolati dai rappresentanti di due aziende che intendono concludere una transazione o altro contratto, nelle vertenze sindacali, nei “faccia a faccia” durante le campagne elettorali o nelle discussioni fra studiosi (si pensi ai dibattiti che seguono le relazioni a un convegno). Ma duelli di discorsi vengono ingaggiati in infinite occasioni di divergenza che si danno nella quotidianità. Quel che abbiamo segnalato (§ 2) a proposito della funzione pragmatica dell’argomentazione, e dell’esigenza di impostarla diversamente a seconda del contesto, mantiene qui tutto il suo rilievo, persino amplificato. Chi disputa deve essere anche abile psicologo, e saper cogliere difficoltà e reazioni altrui, valutare se sia più conveniente insistere in affondi serrati o alternarli con toni più distesi e momenti di condivisione su alcuni punti (quasi sempre secondari), facendo seguire violenza espressiva (nei limiti dell’educazione) e finte tregue, che consentano di allentare momentaneamente la tensione, “tirare il fiato” o depistare l’avversario. Egli non deve illudersi di ottenere ragione – spesso il suo contendente è istituzionalmente preposto a negargliela – ma può impegnarsi per ridimensionare le altrui pretese, indebolendone i supporti logici. Una pratica, quest’ultima, non di rado decisiva (ancor più dell’accorta produzione di propri argomenti) e alla quale può fornire un notevole contribuito svelare ed enfatizzare le fallacie (capitolo IX, § 4) insite nel ragionamento che si contrasta o le assurdità che ne conseguirebbero – volgendole il più possibile in ridicolo: anche l’ironia, e il sarcasmo, possono riuscire talvolta letali. La scelta del registro, più aggressivo o più flemmatico, volutamente indisponente o di simulata accondiscendenza, è talora non meno rilevante, anche in considerazione dell’antagonista, dei supporti discorsivi che vengono adottati. Ma certo, anche in questo caso, la soluzione ottimale (nel migliore dei mondi possibile) sarebbe quella per cui a prevalere sia chi produce gli argomenti razionalmente migliori, più coerenti e corretti, superando le obiezioni e cogliendone l’inconsistenza logica. Sarebbe sempre auspicabile – e abbiamo il dovere di crearne tutte le premesse – 182

che il risultato della contesa non dipenda dall’alzare la voce o ripetere semplicemente la tesi, prendendo per stanchezza chi vi si oppone (è anche questa una tattica, ma delle più dozzinali). E offriremmo una straordinaria palestra ai nostri giovani se, nelle scuole e nelle università, riuscissimo a riproporre, nelle forme adeguate, quelle pratiche di “dispute fra dotti” che tanto peso hanno rivestito in molteplici momenti dell’insegnamento (anche giuridico) in Occidente. Assistere a un seminario costruito sul confronto tra due docenti, che sostengono tesi diverse (in merito, ad esempio, all’interpretazione di una disposizione normativa) e argomentano ciascuno a favore della propria, oppure dividersi in gruppi di studenti che replichino il medesimo esercizio, ha effetti formativi – come ben sa chi ne ha fatto esperienza – incomparabilmente più incisivi della classica lezione frontale, cattedratica nel senso tradizionale (che poi, appunto, tanto tradizionale non è: ma solo conformistica, e spesso meno faticosa per chi la tiene). Possiamo dunque parlare, per quanto più ci riguarda, di dialettica forense: ma con l’avvertenza, ancora una volta, che questo non è che uno dei molteplici ambiti in cui si esplica l’argomentare, in un serrato “corpo a corpo”, a favore o contro tesi probabili. Non diversamente, quello giudiziale non è che uno dei settori in Retorica cui si esercita la retorica. Come sappiamo, essa si indirizza verso un giudiziaria ... uditorio, più o meno nutrito, ma comunque diverso dall’antagonista in senso stretto. Chi prende la parola deve creare un contatto con quanti costituiscono il suo pubblico, predisporre l’adesione delle loro menti, che sarà raggiunta attraverso la stringente concatenazione dei discorsi, ma a cui può giovare non poco l’instaurazione di un’empatia, intellettuale o anche solo emotiva. Il retore, perciò, dovrà a sua volta saper cogliere umori e orientamenti dei suoi ascoltatori, accattivarsene il favore e non proporsi in modo respingente: iniziando a curare (nella comunicazione orale) già il tono e il registro della voce, che non deve essere troppo alta né troppo flebile, e tantomeno saccente, incerta, aggressiva o monocorde (perdere l’attenzione dell’uditorio è il pericolo maggiore, e più concreto). Già Aristotele, del resto, sottolineava come la riuscita degli argomenti propri della rhetorikè téchne dipendesse non solo dalla concatenazione logica del discorso e dalla sua attitudine a dimostrare qualcosa (lógos), ma anche dal carattere dell’oratore (éthos) e dallo stato d’animo ingenerato negli ascoltatori (páthos). E tutti i grandi maestri antichi della parola – da Demostene a Cicerone – erano consapevoli che la voce, unitamente a una gestualità ben sorvegliata, costituiva la loro prima arma: da educare con esercizi non troppo distanti da quelli con cui si compie la preparazione di un attore. 183

... deliberativa ed epidittica

La finalità suasoria anche dell’oratoria di circostanza

Per richiamarsi ancora ad Aristotele, e alla tripartizione da lui resa canonica, la retorica giudiziaria – che, come accennato, ha luogo nei processi ed è rivolta a convincere i giudici – si distingue da quella deliberativa (o assembleare) e da quella epidittica (o d’occasione). Di queste la prima riguarda i discorsi da tenere dinanzi all’assemblea del popolo – oggi diremmo: in sede politica – e concerne le proposte che si sottopongono alla sua approvazione. Come quella giudiziaria, è connotata da un’evidente e immediata finalità pragmatica, poiché mira a convincere altri. Ma è rivolta essenzialmente verso il futuro – in quanto si incentra sull’illustrazione delle conseguenze che conseguirebbero dall’accettazione o dal rigetto della propria tesi – e ruota attorno al motivo dell’utile. In un contesto giudiziario si guarda invece al passato (ossia alla ricostruzione più verosimile dei fatti su cui verte la causa), e a dominare è il tema del giusto e dell’ingiusto. Il terzo genere, quello della retorica epidittica, ha luogo coi discorsi celebrativi, che si tengono in occasioni solenni. Pensiamo, oggi, a un elogio funebre dedicato a una personalità eminente, a una prolusione accademica o alla laudatio di uno studioso cui è conferita una laurea honoris causa, oppure ai discorsi che inaugurano l’anno giudiziario o sono pronunziati in determinate ricorrenze. Il suo tempo di riferimento è prevalentemente il presente – anche se, segnalava Aristotele, l’oratore “si avvale anche di altro, rievocando il passato e prefigurando il futuro” – e si esprime attraverso lode o biasimo, assumendo come categorie di riferimento il bello e il brutto. Solo in apparenza, però, si tratta di pratiche discorsive che prescindono da una finalità suasoria. Non si tratta, in realtà, solo di eleganti esercizi di stile, che dilettano (o più spesso annoiano) senza ambire a orientare l’azione dei destinatari. La scelta del tema – figure assunte come modelli, problemi posti al centro dell’attenzione, valori o imprese ritenute più meritevoli di encomio – e il modo di impostarne la trattazione rivelano quasi sempre, in realtà, precise strategie di persuasione, dirette a suscitare imitazione oppure reazioni sdegnate, a far perseverare altri in una direzione (culturale, politica, giuridica) o assumerne con decisione una difforme. Da questo punto di vista, la retorica epidittica non è affatto sprovvista di uno scopo pragmatico, anche se più o meno latente, o indiretto. E talora è in grado di raggiungerlo persino meglio degli altri generi. Lo conferma l’esempio più celebre che, probabilmente, un uomo antico potesse indicare in merito alla retorica epidittica: il discorso con cui, stando a Tucidide, Pericle celebrò i caduti ateniesi del primo anno della guerra del Peloponneso. L’onore reso a quanti erano morti in combattimento si legava (e reciprocamente interagiva) con l’esal184

tazione delle istituzioni politiche ateniesi, contrapposte a quelle di Sparta: sino a risolversi in un accorato appello, neppure troppo velato, a proseguire la guerra, e far valere con essa la superiorità delle proprie ragioni (come invece sappiamo che non avvenne affatto). L’elaborazione in materia di retorica e dialettica viene dunque da molto lontano: ha attraversato, con sorti alterne e inevitabili mutamenti di paradigmi, l’intera storia della cultura occidentale, con decisive proiezioni anche sul campo del ragionamento e dell’argomentazione giuridica. Ancor oggi è improbabile, se non in contesti alquanto banali, riuscire ad allestire discorsi persuasivi affidandosi alla pura improvvisazione, senza usare particolari accorgimenti né avere alle spalle una specifica preparazione. Se ci appare scontato parlare, connaturato al nostro stesso essere uomini, non lo è affatto servirsi della parola, in modo corretto e proficuo, per ottenere il consenso degli altri e orientarne l’azione. Rimane vero quel che, ancora una volta, già era colto da Aristotele a proposito della dialettica e della retorica, e cioè che “tutti partecipano in un certo senso di entrambe, perché tutti, entro un certo limite, si impegnano a esaminare e sostenere un qualche argomento, o a difendersi e ad accusare”. Ma quel “limite” può assumere configurazioni alquanto diverse, in modo tale che non di rado l’efficacia della comunicazione disordinata, che chiunque più realizzare, è di gran lunga minore di quella affidata a chi, professionalmente (e non a caso), si occupa di questo tipo di pratiche discorsive. E non vi è avvocato penalista che, nell’accingersi a tenere un’arringa importante, non avverta il dovere di curarne la struttura logica, l’organizzazione dei passaggi, persino l’impostazione fonica e la gestualità da assumere in udienza. Anche la collocazione e la lunghezza delle pause sarà da lui meditata con attenzione, consapevole che in ogni attività retorica (non solo giudiziaria) sono importanti anche i silenzi: spesso non meno eloquenti delle parole, e talora più efficaci. Proprio nel lavoro del penalista – basato sull’esposizione orale, ancor più che scritta, e tradizionalmente posto a cavallo fra retorica e diritto – tornano a incarnarsi, coesistendo, quei cinque elementi che erano considerati propri del sapere retorico, almeno fino a Pierre de la Ramée. Egli dovrà rinvenire gli argomenti adeguati (inventio); organizzarne la collocazione nel discorso (dispositio), secondo sequenze ben governate – basti pensare all’ordine “nestoriano” di cui si è detto (§ 2) – e concatenazioni stringenti, immuni da incoerenze, contraddizioni e salti logici. Dovrà tenere saldamente in testa tutto ciò, con l’ausilio di minimi appunti (memoria); esprimersi in modo elegante o almeno consono al proprio ruolo (elocutio); curare la dizione e il timbro della voce (pronuntiatio). 185

Il lungo cammino di retorica e dialettica

L’esempio dell’avvocato penalista

Talento ed esercizio, non improvvisazione

Tutto questo – per l’avvocato penalista, ma anche per molteplici altri protagonisti dell’esperienza giuridica, chiamati a esercitare la forza dei discorsi – non è affatto semplice né immediato. Non si improvvisa, appunto, e può essere svolto a livelli molto diversi: con un successo professionale, di conseguenza, estremamente difforme. Lo si apprende anche sul campo, seguendo i professionisti più esperti, e imparando a “rubare loro il mestiere”. Occorre talento, ma soprattutto perseveranza e concentrazione, e un incessante, meticoloso lavoro su se stessi. Averne però contezza fin dal proprio ingresso negli studi giuridici, cercando di acquisirne qualche base teorica, può essere di grande ausilio. E condurrà anche a comprendere come i libri non siano da trattare alla stregua di oggetti ostili e inerti, ove sono accumulate astratte teorie di cui arrangiare qualche generica riproposizione, al fine di placare esaminatori troppo zelanti. Essi offrono, piuttosto, un prezioso e pressoché inesauribile repertorio di “attrezzi”, dei quali potersi poi servire nella vita effettiva del diritto, palpitante di contrasti: nella sua agonalità – sperabilmente leale, e improntata a razionale correttezza –, la quale non è, in definitiva, che espressione tecnica e peculiare della quotidiana lotta di esistere.

186

Capitolo nono

QUANDO LE PAROLE CREANO PROBLEMI

1. Oscurità, ambiguità, vaghezza Siamo quasi giunti all’epilogo del nostro cammino. Nel corso di esso abbiamo affrontato, da molteplici punti di vista, pratiche discorsive: “cose” fatte con le parole, richiamando le tecniche per realizzarle nel modo più corretto ed efficace. Ci siamo sempre mossi, in altri termini, entro un orizzonte fisiologico del linguaggio e delle sue operazioni. Non sarà forse inutile chiudere quest’itinerario soffermandosi su alcune situazioni in cui, invece, emergono profili patologici – o almeno alcune criticità – nelle modalità espressive, nostre o altrui. Ancora una volta la prospettiva che verrà privilegiata è quella giuridica, ma con la consueta avvertenza che quanto diremo (salvo che nel § 3) vale sostanzialmente anche in altri ambiti. Di oscurità, lacune e fallacie sono gremiti innumerevoli artefatti comunicativi (prevalentemente di natura testuale, ma non solo), anche esterni al mondo del diritto. Chi però lavora in quest’ultimo avvertirà ancor più la necessità di acquisirne una cognizione teorica puntuale e rigorosa, per imparare a riconoscerle – il che spesso è già meno scontato di quanto siamo indotti a pensare – e se possibile a gestirle e risolverle nel modo migliore (oppure, come nel caso delle fallacie, impiegarle in maniera proficua, volgendole a proprio vantaggio). L’esigenza, tante volte segnalata, di impiegare i termini in un’accezione precisa, evitando sovrapposizioni e indistinzioni non tollerabili dal giurista, si avverte soprattutto a proposito della prima figura, ossia l’oscurità, che è poi quella di cui chi si avvia a studiare Giurisprudenza ha (o crede di avere) maggiore contezza – laddove in merito alla lacune riuscirà appena a prospettarsi qualche idea, e potrebbe non sapere affatto cosa si intenda per antinomia o fallacia. Ma che significato attribuire a “oscurità”? E cosa designare come “oscuro”? Appare subito da scartare, ai nostri fini, l’impiego dell’aggettivo per indicare qualcosa di minaccioso, non ben determinato ma certamente pericoloso, talora connotato da sinistra maestosità: come 187

Dentro e fuori il linguaggio giuridico

Il significato di “oscurità”

Oscurità e chiarezza

Due accezioni di oscurità: in senso stretto ...

... e in senso ampio

“l’oscuro signore” ben noto ai lettori di Harry Potter. Ed è anche evidente che ci stiamo qui riferendo a un significato metaforico (capitolo VI, § 2), il quale dunque non coincide con l’assenza di luce che preclude fisicamente di visualizzare la realtà circostante. Una prima risposta, piuttosto istintiva, ci condurrebbe ad affermare che l’oscurità è il contrario della chiarezza. Definizione (sostanzialmente per antitesi: capitolo III, § 2) che non spicca per acume e per ricchezza informativa, ma che grosso modo ci sembrerebbe accettabile. Ma è proprio così? Cosa intendiamo, ad esempio, parlando di un testo “non chiaro”? Proprio questo è il punto. Immagino che quasi tutti i miei lettori ignorino il giapponese. Pertanto un libro scritto in quello lingua è per loro (e anche per me, ovviamente) “oscuro”. Qualificarlo semplicemente “non chiaro” apparirebbe improprio, e riduttivo. Piuttosto, potrebbero ritenere “non chiaro” questo, che sto scrivendo io in italiano, o almeno qualche sua pagina (spero non tutte!). Vi è dunque qualcosa che non torna. Qualcosa di oscuro (appunto) in questo primo, sommario tentativo di definizione. La verità è che con la stessa parola – oscurità – possiamo designare, rispetto a un testo o altro mezzo comunicativo, caratteristiche fra loro sensibilmente diverse. Se assunta in senso stretto, essa equivale a inintellegibilità, ossia all’impossibilità di attribuire qualsiasi significato a un significante – quale ne sia l’estensione: da una parola non censita in alcun dizionario all’intero libro in giapponese di cui dicevamo. Naturalmente, quest’impossibilità andrebbe poi distinta in soggettiva (l’ultimo esempio vale, come ovvio, solo per quanti non conoscano quella lingua, non certo per i giapponesi) e in oggettiva. Questa si integra laddove un segmento discorsivo riesce del tutto privo di senso, a prescindere dalle qualità di chi si sforza di comprenderlo, coi suoi limiti linguistici o intellettivi: col che si ha davvero un’oscurità assoluta. Nella serie di segni grafici “sedia adescate imperituro zig-zag panettone” non è dato rinvenire alcun significato, e così in un cartello stradale tondo di colore blu in cui compaia l’immagine stilizzata di un albero di pere. L’oscurità in senso stretto vanifica, in questi frangenti, ogni sforzo interpretativo. Chi tenti di compierlo, di tale oscurità potrà registrare solo l’esistenza, senza porvi rimedio. Per questo – come segnalato a suo luogo, rovesciando il logoro adagio in claris non fit interpretatio (capitolo VII, § 1) – è proprio nelle “cose oscure” (in questo primo senso) che non si dà interpretazione. L’unico risultato prodotto da quest’ultima è la registrazione del proprio insuccesso, o impraticabilità. Ma di oscurità possiamo parlare anche secondo un’altra e diversa accezione. Essa non corrisponde alla totale assenza di chiarezza, ma 188

consiste in una sua limitata carenza. A quanto sia affetto da questo tipo di oscurità (in senso ampio) non è impossibile attribuire un significato, ma è incerto quale esso sia. Il dubbio può essere determinato da vari fattori. I più ricorrenti – anche in riferimento a testi di rilievo giuridico – sono costituiti dall’ambiguità e dalla vaghezza (o indeterminatezza). Dinanzi ad esse l’interpretazione non è affatto preclusa, ma piuttosto viene complicata, e talora resa notevolmente più difficile. Si daranno così situazioni in cui il giurista dovrà mettere ancor più a frutto quell’ampio repertorio di mezzi interpretativi di cui si è detto (capitolo VII, § 3), soppesando le ragioni favorevoli o contrarie alle diverse soluzioni cui può pervenire. In cosa consista l’ambiguità è rivelato già dall’etimologia del termine: come già è accaduto a proposito di esempio, definizione e interpretazione (capitoli II, § 2; III, § 1, VII, § 1). Il latino ambiguitas, composto da amb- (entrambi) e agere (condurre), evoca infatti, metaforicamente (capitolo VI, § 2), l’idea del “condurre da una parte e dall’altra”. Ambiguo – al pari di “equivoco” (parola la cui origine rivela a sua volta una portata non troppo diversa) – è dunque il significante che, valutato all’interno di un contesto, può portare l’interprete in più direzioni, inducendolo ad attribuirgli due (o più) significati differenti. Le ambiguità, in ogni esperienza discorsiva, sono molto più numerose di quanto potremmo immaginare. Ne abbiamo minore consapevolezza solo perché molte di esse vengono risolte quasi immediatamente, senza particolari problemi, in quanto risulta pressoché ovvio quale sia il significato da scartare – ne vedremo presto alcuni esempi. Ma non sempre è così, ed è importante imparare a riconoscere le ambiguità: primo ed essenziale passo per poterle affrontare e risolvere nel concreto del lavoro interpretativo; oppure per cercare di evitarne il più possibile, nella redazione di previsioni destinate a regolare future condotte. Tra i fattori che danno luogo a questo tipo di oscurità (in senso ampio) non pone di regola particolari difficoltà l’elemento grammaticale, che rileva laddove due diverse parole si presentino come scritte nel medesimo modo (omografia) e talora anche da pronunziare in maniera non difforme (omofonia). Ad esempio ‘deriva’ o ‘buca’, che possono costituire tanto un sostantivo quanto una voce verbale – e non è immediato comprendere se si tratti del primo o della seconda in locuzioni quali “deriva da niente” o “buca da paura”. Più di frequente si dà solo la prima situazione, che però può essere allora distinta con la trascrizione degli accenti. Così per il plurale di principe (prìncipi) e di principio (principî o princípi), o per il sostantivo pèsca (frutto) e pésca (attività del pescare), a sua volta da distinguere dalla terza per189

L’ambiguità

Frequenza delle ambiguità

L’ambiguità grammaticale

Ambiguità semantica e ambiguità sintattica

Esempi di ambiguità sintattiche

sona dell’indicativo presente del verbo – nel qual caso si ha anche omofonia. A parte ipotesi eccezionali, il contesto discorsivo consente di venire a capo di queste situazioni, in cui è chiara la parola (ancor prima che il significato) che viene in rilievo. Converrà piuttosto soffermarsi su altre due tipologie di ambiguità: l’una relativa a singole parole – a cui sia possibile attribuire due o più significati diversi: ambiguità semantica –, l’altra alla costruzione di un enunciato (di cui risulti, potenzialmente, almeno duplice il senso nel suo complesso: ambiguità sintattica). Pensiamo, sul primo versante, alle ipotesi, assai frequenti, di vocaboli o sintagmi polisemici, o che tali divengono perché, accanto al significato originario, se ne consolida uno metaforico (capitolo VI, § 2). La frase “è stato sollevato il cane” a cosa si riferisce? Al quadrupede domestico che scodinzola e abbaia o all’elemento del fucile che opera come percussore della capsula? E nella frase “in teatro ho sentito un cane”? Significa che ho udito abbaiare quell’animale oppure la parola ‘cane’ è usata in modo ironico – come spesso accade proprio nel mondo dello spettacolo –, per indicare un attore o cantante di scarse qualità? “Ho visto Mario e Giovanni che tagliavano la corda” andrà inteso in senso letterale o metaforico (in quanto si è osservato i due recidere fisicamente una fune, oppure svignarsela furbamente)? A livello di ambiguità sintattiche pensiamo invece a frasi del tipo “ho udito leggere un poeta”: era quest’ultimo che leggeva oppure si intendeva dire, per metonimia, che si è ascoltato la lettura delle poesie da lui composte? O quelle poesie sono state sia scritte che recitate dalla medesima persona? “È divertente il racconto dell’esame fatto da Chiara”: Chiara è l’autrice del racconto? O è colei che ha fatto l’esame? O l’una cosa e l’altra? E poi l’esame l’ha fatto come esaminatrice o come candidata? “L’ho sentito mentre suonava”: ci ho parlato, magari al telefono, mentre era impegnato a eseguire uno spartito oppure l’ho udito durante un’esecuzione musicale? “Il regalo è per le bambine e i bambini che non abbiano compiuto i sei anni”: il limite di età vale sia per le une che per gli altri, oppure solo per i bambini maschi, con la conseguenza che il regalo sarà destinato a tutte le bambine e solo ad alcuni bambini? “Osserviamo mangiare una lepre”: questa si sta nutrendo d’erba oppure è ormai in salmí, degustata da qualcuno? “Mi ha lasciato dopo parole soltanto d’amore”: mi aveva, sino al momento del commiato, rivolto esclusivamente parole dolci e appassionate? Oppure si era trattato di amore solo a parole, come in effetti potrebbe dimostrare l’epilogo? Nella formulazione vocale vi sarebbe forse un’enfasi diversa sulle parole, e una piccola pausa, in grado di farci propendere per un significato o l’altro; ma nella versione scritta questo manca totalmente. E poi mi ha lasciato nel senso di un mo190

mentaneo distacco o in quanto ha interrotto la nostra relazione? In casi come questi – ma potremmo proseguire all’infinito – il contesto consente, il più delle volte, di risolvere l’ambiguità con una certa sicurezza, perché tra due significati uno risulta senz’altro più improbabile, e meno consono allo specifico ambito comunicativo. Il che, in ragione delle circostanze, può però anche condurre a interpretazioni (intese come risultato) via via diverse. Le frasi “domani mi trovi sul cellulare” e “ho visto mangiare un gatto” (caratterizzate l’una da ambiguità semantica e l’altra da ambiguità sintattica) nel più comune dialogo indicano che domani io sono reperibile al telefono cellulare e che ho visto il felino sbafarsi una scatoletta. Ma se la prima risalisse a un ergastolano di cui è imminente il trasferimento in altro penitenziario, e la seconda fosse pronunciata, con un certo disgusto, da un amico al rientro da un viaggio in Cina, diverrebbe più plausibile attribuire loro tutt’altro significato. Tutti questi esempi ineriscono a segmenti di discorso non propriamente giuridico. Una scelta voluta: al fine di mostrare concretamente quanto accennavamo, e cioè come in tante soluzioni comunicative della quotidianità si annidino parole o costruzioni sintattiche ambigue. Non sarebbe però difficile trovare situazioni analoghe in enunciati afferenti al mondo del diritto, o addirittura a testi normativi. Ne abbiamo incontrato vari casi nei capitoli precedenti: come laddove abbiamo parlato del sintagma “atto giuridico” impiegato dall’articolo 1173 del codice civile (capitolo III, § 4), a cui siamo indotti ad attribuire il significato di “atto negoziale” anziché quello – parimenti legittimo, e anzi prevalente nel lessico del giurista – di “fatto giuridico posto in essere dall’uomo”. Pensiamo poi alla stessa parola “uomo”, che in disposizioni quali l’articolo 575 del codice penale (in materia di omicidio: capitolo VII, § 1) sarà da intendere come inclusivo di qualsiasi essere umano, ma potrebbe indicare solo persone di genere maschile – come in effetti accade in altri contesti, anche normativi: basti ricordare il primo comma dell’articolo 48 della Costituzione. O, ancora, consideriamo prescrizioni formulate in termini di impossibilità, la quale in astratto potrebbe essere considerata di ordine tanto materiale quanto giuridico, ma che solitamente sarà da intendere in quest’ultimo senso (come a proposito del “limite invalicabile” di cui al capitolo VIII, § 2). Non sarebbe difficile, anche stavolta, proporre molti altri esempi. In alcuni casi ci troveremmo dinanzi ad ambiguità più complesse, in quanto sono da riconoscere più di due significati suscettibili di venire attribuiti a un enunciato. Era proprio quanto riscontrato, del resto, nel caso della scritta apposta sulla caserma. Ma pensiamo anche, sulla falsariga di quell’esempio, a due banalissimi avvisi che tante volte in191

Ambiguità e contesto

Ambiguità in testi giuridici

Esempi

Altri esempi, per chi viaggia in treno

contra chi viaggia in treno. Nei bagni troverà la dicitura “acqua non potabile”. Potrebbe significare un’impossibilità materiale – ma escluderei subito di attribuirvi questo senso, per ragioni analoghe a quelle esposte in merito al “limite invalicabile” – oppure un divieto (è proibito bere quell’acqua). Ma perché non dovrebbe essere consentito? Per avarizia delle Ferrovie dello Stato, che negano da bere agli assetati? Molto più plausibile pensare che quell’avviso indichi altro: ossia rendere noto che quell’acqua non è buona da bere. In tal modo, pertanto, viene reso noto che è declinata ogni responsabilità per eventuali conseguenze sul benessere fisico di chi si attacchi al rubinetto, incurante di quell’informazione. Prima di salire sul treno e quindi al momento di scenderne, ci imbattiamo poi in un altro enunciato, relativo alla linea gialla tracciata in prossimità del binario. Di essa viene scritto che “è insuperabile” oppure che è interdetto andare oltre di essa (“non oltrepassare la linea gialla”). Nella seconda formulazione i significati possibili si riducono a due. Dinanzi alla prima viene in ballo, al solito, anche quello dell’impossibilità materiale (pur evidentemente subito da scartare). Perché (almeno) due significati? Per la semplice ragione che, qualora intendessimo in senso letterale quell’avviso, sul treno non potremmo mai salire; oppure, miracolosamente calati dall’alto al suo interno, dovremmo finire dentro di esso i nostri giorni, o esserne estratti solo con un elicottero. Quella linea è infatti proibito superarla, ed essa delimita il tratto di marciapiede più vicino al treno: quello che necessariamente devo calpestare per salirvi o scenderne. Ma ovviamente a quel divieto di immettersi nello spazio contiguo ai binari deve essere attribuito un altro significato, che la necessaria stringatezza dell’avviso non consente di esplicitare ma che non è difficile ricavare con un po’ di buon senso. La linea gialla non deve essere oltrepassata quando il treno è in movimento – e neppure è certo che ciò valga per tutti: indubbiamente per i viaggiatori; ma qualcuno potrebbe ritenere che non coinvolga, almeno di fronte a particolari esigenze, anche il personale delle Ferrovie o di pubblica sicurezza. Riconoscere Ancora una volta abbiamo scelto ipotesi banali e scherzose, per le ambiguità quanto stavolta già inerenti al mondo degli enunciati giuridici. Il compito dell’interprete è spesso, in primo luogo, quello di scovare e (possibilmente) risolvere gli elementi di ambiguità. Il che non sempre è agevole e immediato come nei casi richiamati sinora. Si troveranno – anche nell’attribuire un significato normativo a disposizioni (della Costituzione, dei codici o di altre fonti) – ambiguità che il legislatore non poteva né voleva evitare, in quanto pressoché ineludibili nel redigere una prescrizione, e comunque di risoluzione talmente scontata da non porre problemi ad alcuno (come nel caso, ricordato, dell’articolo 192

575 del codice penale). Ma sarà possibile rinvenirne, con maggiori difficoltà di venirne a capo, altre di cui il legislatore stesso non si è probabilmente avveduto, o che ha comunque scelto di lasciare irrisolte – anche a fronte di altre possibili soluzioni espressive, ma forse troppo lunghe e tortuose: come in molti dei nostri esempi, a cominciare dall’articolo 1173 del codice civile. Un’ultima tipologia di ambiguità appare addirittura, con ogni verosimiglianza, frutto di un deliberato proposito: di darvi vita, o almeno di non evitarle affatto. Si pensi, a quest’ultimo riguardo, al tenore di non pochi articoli della nostra Costituzione, che visibilmente risentono di una composizione faticosa, cui si pervenne fra le molteplici matrici ideologiche di coloro ai quali fu affidata la loro stesura. Ne sono emerse enunciazioni polisemiche: come ad esempio quelle consegnate al verbo “fondarsi”, a cui si ricorre già all’articolo 1, ma poi anche all’articolo 29 (ove è sancito il riconoscimento dei diritti “della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”). Soffermiamoci sulla prima disposizione: “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. La sua formulazione costituisce l’esito di un complesso dibattito, risolto cercando di conciliare proposte molto diverse. Si evitò di parlare di una “Repubblica democratica di lavoratori” (come era stato ad esempio suggerito da Togliatti), per affidarsi a un verbo – “fondarsi”, appunto – suscettibile di più significati: trovare la propria base, fisica o ideale; ma anche trarre origine o sostegno; oppure avere un proprio indispensabile requisito (come se dicessi che “il contratto si fonda sull’accordo”). L’assetto repubblicano e democratico è fondato sul lavoro in quanto quest’ultimo ne è componente essenziale, così che, ove gli italiani smettessero di lavorare (e molti di loro sono già sulla buona strada ...) verrebbe meno quella configurazione istituzionale del nostro Stato? Oppure la Repubblica democratica è fondata sul lavoro nel senso che unicamente i lavoratori hanno diritto di partecipare in modo attivo e completo alla vita pubblica – ai cui margini dovrebbero perciò venire collocati disoccupati (volontari o meno), pensionati, inabili al lavoro e abbienti che vivono di rendita? A quest’ultimo risultato avrebbe più agevolmente condotto una delle diverse formulazioni che circolarono, per essere poi escluse, in seno all’Assemblea Costituente: formulazione secondo cui “il lavoro è titolo di partecipazione all’organizzazione politica economica e sociale della Repubblica italiana”. Ma sarebbe difficile accogliere entrambe le interpretazioni che abbiamo prospettato: per ragioni logiche (nel primo caso) oppure di coerenza con altri dettami costituzionali – a partire da quelli in materia di eguaglianza, di cui all’articolo 3, ma anche in relazione al dovere (non direttamente ed esclusivamente di lavorare, ma) di “svolgere, 193

Ambiguità volute, o deliberatamente non evitate

Alcuni esempi, tratti dalla Costituzione

L’ambiguità come elemento non solo patologico

Una diversa soluzione linguistica

secondo le proprie possibilità e le proprie scelte, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (articolo 4 comma 2). Quei due significati in astratto rimangono comunque possibili, attesa l’ambiguità che appunto connota, volutamente, la formula con cui si apre la nostra Costituzione. E fra quanti la scrissero vi era chi, verosimilmente, le avrebbe assegnato, almeno in parte e in modo forse meno perentorio, una portata non lontana dalla seconda che abbiamo contemplato – in tal senso potrebbe deporre l’insistenza con cui si fece poi riferimento esclusivamente ai “lavoratori”, a partire dal fondamentale secondo comma dell’articolo 3. A tali significati appare in ogni caso da preferirne un terzo, secondo cui il lavoro è da assumere come diritto-dovere e valore, fondante (solo) idealmente la Repubblica: espressione prevalente e paradigmatica delle attività che appunto mirano alla realizzazione della persona e alla costruzione di una società democratica e più giusta. La formula adottata vale, in definitiva, anche come connotazione in negativo: ossia a escludere – come fu osservato – che la Repubblica “possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui”. In casi come questo è forte la sensazione che, nello scrivere alcune disposizioni della Carta repubblicana, sia stata accettata, se non proprio cercata, una formulazione suscettibile di più interpretazioni. Come a proiettare nella sua lettera l’eterogeneità di culture e visioni politiche che si riuscì a far convergere e comporre. Il che ci pone dinanzi a ipotesi in cui, nella sostanza, l’ambiguità – con l’oscurità, in senso ampio, che essa determina – neppure può essere ascritta a un fenomeno patologico. Concorre, piuttosto, ad alimentare costantemente (e programmaticamente) quell’impegno ermeneutico, volto a individuare e ridefinire significati, che è poi l’essenza (anche) della vita effettiva di una Costituzione come la nostra. Vi sono poi occasioni in cui assistiamo a un fenomeno lievemente diverso. Talora, infatti, si pervenne ad altre soluzioni di compromesso, ma adottando una via differente. Più che espressioni ambigue, ne furono impiegate di piuttosto vaghe. Pensiamo a come viene qualificato l’esercizio del voto: non un diritto né, all’inverso, un obbligo (perciò da sanzionare ove non adempiuto), ma un “dovere civico” (articolo 48 comma 2). Anche la scelta di quest’enunciato fu lungamente dibattuta. L’esito cui si approdò è come sospinto fuori dal giuridico, e della forza coercitiva che gli è propria. Si rinunziò, infatti, all’aggiunta secondo cui tale dovere “può essere reso obbligatorio dalla legge” – ma neppure si precluse completamente questa possibilità, dal momento che fu lasciato cadere l’aggettivo “morale”, da alcuni proposto in aggiunta a “dovere civico”. L’esercizio del voto venne perciò collocato in una 194

dimensione nobile ma indefinita, diversamente declinabile nella coscienza di ciascuno: una dimensione che rinvia al senso di appartenenza comunitaria, proprio del cittadino partecipe di una collettività (non a caso fu preferita la qualifica “civico”, anziché “politico”). I dettami legati a quel piano di doverosità rimangono pertanto, in caso di inottemperanza, privi di forza: incapaci, appunto, di dar luogo a sanzioni. E con ciò veniamo appunto al secondo possibile fattore di oscurità (in senso ampio): riconducibile, come accennato, alla vaghezza (o indeterminatezza) di un termine o di un enunciato. In modo ancor più immediato e visibile che nell’esempio tratto dalla Costituzione, presentano questo carattere innumerevoli soluzioni espressive tanto del linguaggio quotidiano che di quello normativo. Il loro significato non si presenta preciso. Nel senso che esso non viene compiutamente definito in base a parametri quantitativi: di numero, peso, estensione, misure temporali, gradi centigradi, ecc. Una richiesta di venti bigné, rivolta al pasticciere, non è affatto indeterminata: lo è invece quella di “un po’ di bigné, diciamo per quattro o cinque persone”. La composizione del vassoio dovrebbe infatti dipendere, in primo luogo, dall’effettiva golosità di quei soggetti (io, che sono diabetico, in teoria dovrei mangiarne il meno possibile; ma prima di scoprire quella patologia, ne spazzolavo il triplo dei miei commensali ...). Senza dubbio non verrà proposto un misero piatto con quattro o cinque bigné, e neppure un centinaio: ma, intermedio fra quegli estremi sicuramente da scartare, affiorerà un vasto spazio di incertezza, risolta rimettendosi all’esperienza del pasticciere, solitamente di concerto col cliente (“basta così o ne metto ancora un paio?”). Significati non meno indefiniti si riscontrano in innumerevoli altre soluzioni comunicative della quotidianità. “Ci vediamo domattina presto”; “usciamo appena smette di fare troppo freddo”; “se il dolore è acuto chiama il medico”; “sentiamoci all’ora di pranzo”; “col caldo non bevo vini troppo forti”; “l’appuntamento è per metà pomeriggio”, e così all’infinito. Caratteristica della vaghezza è, in genere, l’attitudine di simili enunciati a escludere una serie di casi (negli ultimi due esempi il riferimento non sarà certamente a vini di undici gradi e mezzo bevuti quando la temperatura è poco sopra lo zero, né a un incontro da tenersi alle 12 o alle 21); a farne considerare altri come indubbiamente coinvolti nel discorso, e anzi paradigmatici (come un vino di diciotto gradi nei giorni della canicola estiva) e lasciarne poi alcuni come dubbi, in una zona considerata “di penombra” – a che ora inizia la metà del pomeriggio? Le 15 sono già entro quella fascia? E le 18 lo sono ancora? Come è stato osservato, la vaghezza non è tanto 195

La vaghezza o indeterminatezza

Un esempio, dalla comunicazione quotidiana

Altri esempi

Vaghezze e contesto

Presenze inevitabili di vaghezze nella comunicazione giuridica

Un esempio, dal codice civile

“una qualità che c’è o non c’è, ma è principalmente una questione di grado”. Talvolta, anche in questo caso, il contesto consente di risolvere le incertezze, o comunque attenuarle sensibilmente, almeno sul piano pragmatico. In molte città dell’Italia settentrionale “vedersi dopo cena” implica un incontro non posteriore alle 21; non così a Barcellona (ma anche a Roma o Napoli), ove tendenzialmente si cena molto più tardi. E in alcune circostanze dall’indeterminatezza si dovrà pur uscire. Se alla fine di un esame dico a un mio studente che “la sua preparazione è molto buona”, dovrò poi tradurre in trentesimi quest’affermazione – con cui è certamente escluso un giudizio di bocciatura, o di stretta sufficienza, ma che potrebbe condurre a un voto che varia dal ventisette al trenta e lode. Come ogni linguaggio, anche quello giuridico non può (e spesso non vuole) rinunciare completamente a locuzioni vaghe e formulazioni indeterminate. E il problema è costituito proprio dal margine di discrezionalità – affidato, in definitiva, a una valutazione in certa misura soggettiva – con cui vengono affrontati i casi limite, collocati nella “zona di penombra”. L’obbligo di ridurre la velocità per chi guidi “in condizioni meteorologiche avverse” non si applica certamente in una luminosa giornata di primavera, assolata e senza vento, e può dirsi senza dubbio violato da chi sfreccia a 180 Km orari sotto una tormenta di neve. Ma una semplice pioggia può già dirsi una situazione climatica tale da far scattare quella prescrizione? Per un padano, abituato a guidare fra spessi banchi di nebbia, o un australiano (per il quale le autentiche avversità iniziano con gli uragani), probabilmente no. Ma non tutti la valuterebbero allo stesso modo. Pensiamo, ancora, a disposizioni già richiamate (capitolo VII, § 3), come quella del codice civile (articolo 844) secondo cui il proprietario di un fondo non può impedire immissioni, esalazioni, rumori e “simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità”. Per quanto quest’ultimo parametro sia ancorato a un elemento che si vorrebbe oggettivo o comunque orientativamente accertabile – corrispondente alla “normalità”, in modo da evitare le reazioni paranoiche di chi sia urtato dai semplici sussurri del confinante –, è tutt’altro che semplice, in molti casi, stabilire se sia “tollerabile” (e quindi consentito) o no (e pertanto suscettibile di essere impedito) un odore, un rumore o quant’altro provenga dalla proprietà contigua. In ipotesi simili il rischio di valutazioni difformi – da parte dei due vicini, ed eventualmente di più giudici chiamati a decidere su diverse cause relative allo stesso motivo del contendere – è di per sé innegabile. Non sarebbe però agevole, per il legislatore, esprimersi diversa196

mente. Sia perché egli, dovendo operare tramite previsioni generali e astratte, non può disciplinare minuziosamente tutti i casi, quantificando in modo rigoroso quanto è tollerabile o meno (per esempio tramite l’indicazione dei decibel, nel caso dei rumori); sia perché l’accertamento della medesima tollerabilità dovrà tener conto anche di specifiche e concrete circostanze, usi del luogo e consuetudini di vita invalse nei rapporti fra quei vicini. La vaghezza, da questo punto di vista, non è che il rovescio della medaglia di disposizioni connotate da una salutare flessibilità, da interpretare e applicare alla luce (prima di tutto) del buon senso, in modo da scongiurare gli esiti assurdi e iniqui cui possono dar luogo disposizioni costruite, pur con precisione e rigore (o forse proprio per questo), su dati meramente numerici. Lo stanno verificando sulla loro pelle i professori universitari, la cui produzione scientifica non viene valutata nel merito – che è ovviamente sempre discutibile –, ma sulla scorta di nudi rilievi statistici: conta infatti aver pubblicato tot articoli in riviste qualificate di “fascia A”, mentre risulta pressoché ininfluente averle infarciti di idiozie o banalità. Vi sono poi, nel repertorio concettuale e terminologico del giurista (e dello stesso legislatore) figure che trovano nell’indefinitezza dei propri contorni la loro stessa ragione di esistere. Si parla di clausole (o categorie) generali, congegnate per attribuire rilievo giuridico a canoni e valori condivisi a livello sociale: autentici polmoni dell’ordinamento, come è stato scritto, destinati a trarre ossigeno dall’etica collettiva, dai modelli di comportamento e dal sentire diffuso. Si pensi a figure, che tante volte ricorrono nel codice civile e penale, come buona fede (in senso oggettivo: sostanzialmente identificata in lealtà e correttezza), ragionevolezza, diligenza (magari, come ancora la si denomina, “del buon padre di famiglia”), onore, decoro, giustificato motivo, buon costume, morale familiare e così via. In alcuni autori è forte (e soprattutto lo è stata in passato) la tentazione di vedervi mere formule vuote, prive di una specifica identità, in quanto destinate a ospitare i contenuti più svariati, profondamente diversi al mutare della sensibilità sociale. In astratto, e almeno in parte, può anche condividersi un simile scetticismo. Ma rimproverare a quelle figure di essere vaghe sarebbe insensato tanto quanto criticare, rispetto a un triangolo, il fatto che abbia tre lati. Per ciascuna di esse potrebbe dirsi ciò che è stato osservato a proposito dell’equità romana (aequitas): “nozione in cerca di equilibrio, fra la vaghezza e l’eccesso di significato”. La loro natura non può che essere quella: sfumata, cangiante, gremita di zone d’ombra. Terreno d’elezione per interpretazioni anche difformi, e conseguenti, disomogenee pratiche argomentative. 197

Evitare le vaghezze non è immune da controindicazioni

Vaghezze e “clausole generali”

Ancora su vantaggi e svantaggi delle formule indeterminate

Prevenire le vaghezze, o almeno ridurle

La gestione delle vaghezze dovrà necessariamente passare per queste strade, che iniziano a esserci familiari: e non certo attraverso l’illusione di eliminarne ogni traccia dal linguaggio normativo, come se si trattasse di un fenomeno sempre patologico e gratuito. Il legislatore che si sforzi di evitare ogni indeterminatezza, ricorrendo a rigorosi parametri quantitativi non manca a sua volta di destare problemi, sia pure di altra natura. Come laddove, nel nostro ordinamento, ha prescritto (articolo 2721 comma 1 del codice civile) che non possa ammettersi “la prova per testimoni dei contratti” ove il valore dell’oggetto ecceda le 5.000 Lire, poi tradotte in Euro 2,58. Un regime che l’inflazione ha reso presto risibile, e sul quale non è stato necessario intervenire in via legislativa solo perché il secondo comma dello stesso articolo consente senz’altro di aggirarlo appena se ne presenti l’esigenza, in virtù dell’elenco aperto e, appunto, delle non poche formule vaghe che ne costellano il dettato: “tuttavia l’autorità giudiziaria può consentire la prova oltre il limite anzidetto, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza”. Il che naturalmente non significa che nelle previsioni normative – al di là delle opportune ricorrenze di clausole generali, e di soluzioni linguistiche che difficilmente potrebbero prescinderne – sia auspicabile inflazionare termini o sintagmi indeterminati. Indubbiamente essi sono talora inevitabili; ma in genere pongono problemi, spesso da risolvere tramite definizioni (che nella soluzione delle vaghezze trovano proprio uno dei loro scopi: capitolo III), e fatalmente alimentano attriti. È opportuno ne abbiano contezza non solo quanti ambiscono a farsi estensori di leggi ma anche coloro che, più banalmente e più di frequente, approntino un regolamento di interessi privati. Basti pensare a chi redige un contratto di locazione, sperando di avere il minor numero possibile di divergenze col titolare dell’appartamento che egli ha preso in locazione o col conduttore cui ne ha concesso uno proprio. Sarà sufficiente inserire nel contratto dizioni come “è tenuto alle riparazioni d’uso ...”, “nel caso di lavori straordinari ...”, “... non risponderà del normale logoramento”, perché la sua speranza rischi di essere vanificata. E inizieranno le discussioni attorno a cosa, precisamente, sia da considerare “d’uso”, “straordinario” o “normale”.

2. Le lacune: come individuarle, prima di colmarle Le lacune come spazi non coperti da prescrizioni

Fuori dall’ambito dell’oscurità (in senso ampio), un ulteriore fattore di criticità, in un testo (anche) normativo, può essere costituito dal fatto che esso non contempla determinati elementi: soggetti, oggetti, fatti, situazioni. I giuristi – ma in realtà non loro soltanto – parlano in 198

questi casi di lacune, e su di esse (in merito al riconoscimento: altro è ovviamente porvi rimedio) parrebbe che il discorso da fare sia alquanto breve. In realtà, non di rado, le cose non sono affatto così semplici. E prima di accennare agli strumenti predisposti dal legislatore per colmare le lacune (e già consolidati in una plurimillenaria tradizione), occorre spendere qualche parola sulla delicatissima operazione che presiede al loro riconoscimento. Ai fini del nostro discorso possiamo anche limitarci, per ridurne la complessità, a quelle che vengono denominate “lacune normative” – e perciò distinte da altre tipologie, a partire dalle “lacune tecniche”, riscontrabili qualora in un ordinamento manchi una norma necessaria per garantire l’efficacia di altra norma (come laddove una prescriva un fine ma nessuna indichi i mezzi per raggiungerlo; una istituisca un organo ma nessuna prescriva come esso debba essere eletto o nominato, ecc.). Si ha dunque “lacuna normativa” allorché siano individuabili situazioni di fatto non riconducibili ad (o sussumibili [capitolo II, § 5] in) alcuna fattispecie contemplata dal legislatore. Situazioni, cioè, in riferimento alle quali nessuna disposizione normativa preveda conseguenze giuridiche. Già questi primi, elementari rilievi suggeriscono alcune considerazioni. Innanzi tutto in merito alla stessa ammissibilità teorica di lacune. Per chi – come accadde soprattutto nel corso del XIX secolo – confidava nell’attitudine dell’ordinamento a disciplinare qualunque fatto, in modo che non vi fosse controversia che non potesse trovare nei codici la base giuridica della sua risoluzione (cosiddetto “dogma della completezza”), neppure si potrebbe, o dovrebbe, parlare di (effettive) lacune. È stata solo la crescente sfiducia in questo mito della completezza a far (ri)acquisire consapevolezza circa l’esistenza di casi che possono risultare non coperti da previsioni legislative – consapevolezza che ha, in verità, radici antichissime: risalenti almeno ad Aristotele e Teofrasto, e poi ai giuristi romani, soprattutto del II secolo d.C. Ed è proprio il concreto affiorare di quei casi – ecco la seconda, necessaria precisazione – che, almeno in via di fatto, consente di cogliere con maggiore evidenza un vuoto normativo. Niente impedisce, in astratto, di potersene avvedere (come di regola avviene per ambiguità e vaghezze: § 1) prima che si diano quelle specifiche circostanze. Ma è solitamente con esse che il problema viene posto con maggior forza, tanto più se in sede giudiziaria. Non dobbiamo però pensare che il giurista si limiti, allorché individua una lacuna, a registrare un dato evidente, o incontroverso, come imposto dai fatti medesimi. Non mancano – o sono addirittura prevalenti – contesti in cui il riconoscimento di una lacuna è già l’esito di una scelta, compiuta dall’interprete e talora suggerita da orientamenti ideologici: in modo che 199

“Lacune normative” e “lacune tecniche”

Diverse visioni delle lacune normative nella storia

La concreta emersione delle lacune, e il problema del loro riconoscimento

Lacune e argomento a contrario

Lacune e “argomento della dissociazione”

Lacune e interpretazione

possono darsi impostazioni divergenti già in merito alla sua esistenza, ben prima che sulle tecniche tese a colmarla. Pensiamo ad almeno due ipotesi in cui il riconoscimento di lacune trova la sua ragione in determinate tecniche interpretative (o, detto altrimenti, è da esse prodotto). La prima è da rintracciare laddove si faccia ricorso a un ragionamento fondato sull’argomento a contrario, nella prima variante (“interpretativa”) di cui abbiamo parlato (capitolo VIII, § 2). Se, come negli esempi allora proposti, ritengo che gli articoli della Costituzione i quali attribuiscono alcuni diritti ai “cittadini” debbano essere intesi in senso stretto e letterale, e che niente – né in positivo né in negativo – venga dunque stabilito in riferimento a stranieri e apolidi, mi troverò dinanzi a una lacuna. Essa invece non sussisterebbe affatto già per chi impiegasse quell’argomento nella seconda accezione, ossia secondo la sua “variante produttiva”. Può inoltre accadere che, all’interno dell’insieme di fatti logicamente riconducibili alla fattispecie normativa (e in essa non distinti), ne vengano isolati alcuni, a cui si ritiene non applicabile la disciplina stabilita per tale complessiva fattispecie – si è parlato, in proposito, di “argomento della dissociazione”). Pensiamo a problemi spinosi e oggi dibattutissimi, legati a complesse questioni giuridiche e bioetiche. Come nei casi, portati alla ribalta da dolorosi fatti di cronaca, di chi, destinato a uno stato vegetativo irreversibile, avesse dato disposizione di interrompere le cure che lo avrebbero tenuto artificialmente in vita. Coloro che sostenevano l’esigenza di provvedere a regolare, in via legislativa, tali situazioni – auspicando la legittimazione di pratiche di eutanasia – muovevano sostanzialmente dall’individuazione di una lacuna. Ma ciò era fondato sulla persuasione che ipotesi simili dovessero essere tenute distinte da quelle cui si riferisce il codice penale (articolo 579), laddove sanziona l’“omicidio del consenziente”. L’orientamento contrario (a sua volta ideologico, come inevitabile in discussioni del genere) faceva invece leva, sul piano tecnico, sull’inesistenza di qualsiasi effettiva lacuna, sostenendo proprio l’applicabilità, a tali situazioni, della repressione prevista per la fattispecie penalmente definita. Né i rapporti fra lacune e interpretazione si esauriscono qui. Le prime possono essere infatti anche prevenute (anziché prodotte) per mezzo della seconda. Come laddove questa assuma una portata estensiva – magari anche in ossequio alla ratio della disposizione su cui si esercita, o fornendone una lettura evolutiva (capitolo VII, § 3). In tal modo, la dilatazione del significante normativo conduce a comprimere, o elidere, gli spazi da esso lasciati scoperti: è quanto riscontrato nei nostri esempi riferiti al regolamento condominiale, allorché fra gli 200

“animali domestici” venivano a essere inclusi galletti, sciacalli e iguane, così che i relativi casi non potevano dirsi privi di disciplina. In tali frangenti non possiamo dire che la lacuna sia colmata – ma semmai, appunto, prevenuta –, né che sia prodotta (o “scoperta”) una norma nuova. Ciò accade invece (non in sede di interpretazione, ma) attraverso l’integrazione, affidata ai procedimenti analogici presenti da millenni nel bagaglio teorico del giurista, e disciplinati, nell’attuale ordinamento italiano, da una disposizione che già conosciamo (capitolo VII, spec. § 1): l’articolo 12 delle “Disposizioni sulla legge in generale”. Al secondo comma esso così presenta, con specifico riferimento all’operato del giudice, le due tradizionali figure dell’analogia legis e dell’analogia iuris: “se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe” (prima forma di procedimento analogico); “se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato” (seconda tipologia).

Integrazione delle lacune, analogia legis e analogia iuris

3. Legge contro legge. Il caso delle antinomie Un altro ordine di criticità può essere posto al giurista dall’esistenza di antinomie. Come accennato (§ 1), questa è una figura che pertiene esclusivamente al suo lavoro. Questo, almeno, se assumiamo il termine in senso proprio e specifico: nel linguaggio comune ne troviamo infatti usi traslati e più deboli, sostanzialmente destinati a evocare qualsiasi contraddizione o contrasto logico. Il termine antinomía, di origine greca, è infatti composto dalla preposizione antí e dal sostantivo nómos. La prima parola compare qui nel significato di “contro” (significato più risalente, poi tendenzialmente soppiantato da altri, come quello di “invece di” o “in cambio di”: così è ancora, ad esempio, nell’italiano “anticresi”, che designa un accordo volto a garantire un’utilità “al posto” dell’oro, ossia del denaro). E il contrasto si determina appunto fra nómoi, usualmente tradotto con “leggi” – pur se il vocabolo greco rivela non lievi, e composite, eccedenze semantiche rispetto al corrispondente italiano. Il richiamo all’antinomía conobbe, a Roma, maggior diffusione presso gli oratori – Cicerone e Quintiliano in primis – che presso i giuristi. E ciò non a caso, considerato il carattere fluido e intrinsecamente controversiale dell’assetto giuridico cui questi ultimi davano vita, tramite una miriade di soluzioni casistiche, non di rado divergenti. L’intento di evitare ogni antinomia sarebbe stato invece esplicito nel disegno di Giustiniano (VI secolo d.C.), che ne volle immune la pro201

Significato proprio di antinomia

Origine del termine

Ricorrenze più antiche della nozione di antinomia

Tecniche di superamento delle antinomie

Criterio della gerarchia, della specialità, della posteriorità

L’antinomia come incompatibilità fra norme

pria raccolta (Corpus iuris civilis), nel senso che non dovevano esservi inclusi elementi normativi confliggenti (fra le dottrine dei giuristi i cui frammenti vennero riprodotti nel Digesto, o fra le costituzioni imperiali ospitate nel Codice, o fra le une e le altre). Gli interpreti medievali, che in quel testo rinvenivano il proprio autentico “elemento di validità” (capitolo VII, § 2), presero decisamente alla lettera le dichiarazioni dell’imperatore. Ogni ipotesi per cui diversi passi della compilazione giustinianea offrivano una disciplina difforme venne minuziosamente esaminata: sino a scorgere (o inventare) impostazioni teoriche che consentissero di considerare solo apparente quel contrasto, creando armonia e concordia fra quanto sembrava porsi in dissonanza. E non è un caso se proprio alla sapienza giuridica medievale risalga la prima messa a punto di tecniche di superamento delle antinomie: tecniche in larga misura recepite dalla tradizione posteriore e sostanzialmente riproposte nelle legislazioni tuttora vigenti. Si pensi, nel caso italiano, al criterio della gerarchia (usualmente ricondotto agli articoli 134 e 136 della Costituzione, oltre che all’articolo 4 comma 1 delle “Disposizioni sulla legge in generale”), della specialità (che emerge da una disposizione quale l’articolo 15 del codice penale) e della posteriorità (sancito dall’articolo 15 delle stesse “Disposizioni sulla legge in generale”). Il primo criterio, o principio, impone che, qualora si dia conflitto tra due fonti gerarchicamente diverse, prevarrà quella superiore: come la Costituzione rispetto alle leggi ordinarie, inclusi i codici, o queste rispetto ai regolamenti. Il secondo farà sì che la norma speciale o eccezionale abbia la meglio su quella generale – il cui campo operativo rimane limitato alle situazioni che non rientrano nell’eccezione medesima. Il terzo, cui ricorrere laddove gli altri due non siano d’ausilio, opererà nel senso di una sostanziale abrogazione della norma precedente a opera di quella successiva. Anche in questo caso, tuttavia, ancor prima di apprendere come affrontare un’antinomia, occorre sapere precisamente di cosa si tratti, e in quale rapporto si ponga la sua esistenza rispetto al lavoro dell’interprete. La nostra nozione è stata così generalmente intesa come incompatibilità fra norme (non tra disposizioni normative: nel senso chiarito al capitolo VII, § 1) vigenti nello stesso ordinamento e col medesimo ambito di applicazione. Tale incompatibilità è di carattere, in primo luogo logico (nel senso della contraddittorietà o contrarietà), anche se alcuni autori richiamano anche ipotesi di incompatibilità non logiche – antinomie cosiddette “improprie”: pragmatiche, strumentali, assiologiche e teleologiche (ossia attinenti, le ultime due, al piano dei valori o delle finalità). 202

Fra le molteplici classificazioni di cui la nostra figura è stata oggetto, basti qui ricordare quella fra antinomie “necessarie” (o “in astratto”) oppure “contingenti” (“in concreto”). Le prime sono relative a intere “classi di fattispecie”, a cui due diverse norme riconducono conseguenze giuridiche incompatibili. Nella seconda ipotesi, invece, l’antinomia emerge solo a fronte di casi specifici: come qualora sia prevista una disciplina difforme per due classi di soggetti, e di fatto si riscontri che taluno può appartenere all’una e all’altra, e sarebbe perciò destinatario di due diversi e non conciliabili trattamenti. Pensiamo, ad esempio, a una disposizione la quale preveda che tutti i docenti dell’Ateneo senese abbiano diritto a un aumento di stipendio, e a un’altra fonte – di eguale livello, e non collocabile in una posizione di specialità rispetto alla prima – la quale prescriva che non abbiano diritto ad alcun aumento di stipendio tutti i professori ordinari di diritto romano (di qualsiasi Università). In astratto potrebbe non sussistere alcuna incompatibilità, in quanto nulla impone che professori ordinari di quella materia facciano parte del corpo docente di Siena – in tal senso, pertanto, l’antinomia non è “necessaria”. Ma il caso vuole che, di fatto, vi sia un soggetto (proprio chi sta scrivendo questo libro) che rientra nell’una classe e nell’altra: con la conseguenza che egli sarà destinatario di due norme logicamente incompatibili. È quasi superfluo osservare che la maggior parte delle antinomie si presenta proprio in questa veste: “contingente” o “in concreto”. Dobbiamo poi almeno segnalare un’altra distinzione. Si danno infatti situazioni in cui il contrasto è completo, in quanto le norme incompatibili si riferiscono alla medesima fattispecie; altre in cui in cui il contrasto è solo parziale, o in quanto la fattispecie di una norma (più circoscritta) è integralmente inclusa in quella disciplinata (diversamente) da altra norma, o perché tra le rispettive fattispecie si danno limitate intersezioni. Si parla, in proposito, di antinomie totali, parziali unilaterali e parziali bilaterali (tra queste ultime andrebbe posto anche l’esempio poc’anzi formulato, e che interesserebbe il sottoscritto). Non entro ulteriormente nei dettagli, né di questa classificazione né di altre prospettate dagli studiosi. Vorrei piuttosto tornare su un’ulteriore tripartizione: che però riguarda non le tipologie di antinomia, ma – ancor prima – le diverse concezioni che di essa possono darsi. Taluno ha infatti parlato di un primo concetto, statico, alla cui stregua l’antinomia consiste in “una qualunque incompatibilità tra due norme simultaneamente vigenti, almeno prima facie, per uno stesso ordinamento giuridico”. A questo ne ha fatti però seguire altri due, dinamici, per cui l’incompatibilità deve essere tale da non poter essere eliminata o (prima ipotesi) tramite il ricorso all’interpretazione oppure (seconda ipotesi) “applicando un criterio di risoluzione precostituito”. 203

Antinomie “necessarie” o “contingenti”

Un esempio di antinomia “contingente”

Antinomie totali, parziali unilaterali e parziali bilaterali

Un’altra tripartizione, su cosa intendere per antinomia

Antinomie e interpretazione

Evitare o prevenire le antinomie

Il caso dell’interpretazione “costituzionalmente orientata”

Situazione, quest’ultima, che rappresenta evidentemente la versione più ristretta e problematica della nostra figura, resistente a ogni sforzo interpretativo e all’applicazione di tutti i criteri o principi di cui si è detto. In realtà – e con ciò veniamo al rapporto fra antinomia e interpretazione – è opinabile che la prima possa essere eliminata attraverso la seconda (al pari di quanto rilevato riguardo alle lacune: § 2). Come rilevato, l’antinomia si pone tra norme (e non fra disposizioni normative): essa è perciò riscontrabile solo dopo che l’interpretazione è compiuta. E se non le preesiste, almeno da un punto di vista logico, non può essere da quella risolta. Semmai l’antinomia è essa stessa un prodotto dell’interprete: nel senso che questi, optando per l’attribuzione di un certo significato normativo a due disposizioni, ha determinato l’insorgere del loro conflitto (astratto o concreto). Più che il superamento delle antinomie – a cui il giurista potrà approdare, ma sulla scorta dei principi di gerarchia, specialità e successione cronologica poc’anzi descritti –, l’interpretazione può consentire di evitarle, ossia di prevenirle. Questo, in realtà, accade non di rado: tanto da poter ritenere che la potenziale carica antinomica di un ordinamento sia notevolmente ridotta, di fatto, dalle scelte operate optando per determinati contenuti normativi rispetto ad altri. Si pensi ai risultati che consente di raggiungere il ricorso a modalità ermeneutiche di cui abbiamo parlato (capitolo VII, § 2), quali l’interpretazione sistematica e quella restrittiva. La prima, proiettando la comprensione della singola disposizione in un più ampio contesto normativo, eviterà di ricavarne soluzioni confliggenti. La seconda, comprimendo la fattispecie interessata da una previsione, opererà in modo da tenerla distinta da ciò che forma oggetto di altra, e contrastante, disciplina. Ma si pensi anche a come certe incongruenze, in particolare, fra dettami costituzionali e norme codicistiche siano scongiurate ricostruendo le seconde proprio alla luce dei primi. Ne abbiamo incontrato alcuni esempi, trattando soprattutto dell’interpretazione “costituzionalmente orientata” (in sostanza evolutiva, o adeguatrice) dell’articolo 1322 del codice civile (capitolo VII, § 4). Il carattere sovraordinato (e la più recente promulgazione) di quanto sancito a livello costituzionale non opera nella direzione di una sostanziale abrogazione della previsione codicistica – come dovrebbe accadere ove a questo fosse attribuito un certo significato, coerente con l’originario disegno del legislatore –, ma piuttosto per condurre a una sua diversa lettura, che armonizzando rivitalizza. Ennesima conferma di quel carattere capillare e nevralgico, per molti aspetti creativo, che deve essere ascritto al lavoro dell’interprete, e dal quale dipende anche gran parte della coerenza di un ordi204

namento. Coerenza che peraltro rimane (al pari della sua completezza: § 2) un tratto solo tendenziale, che riuscirebbe esclusivamente ideologico (nell’accezione deteriore: di falsa rappresentazione della realtà) assumere in termini univoci e assoluti.

4. Le fallacie: principali tipologie Rimane, ora, da occuparsi delle fallacie. Non perché esse (almeno nell’accezione che sarà illustrata fra un attimo) ricorrano di regola nel discorso normativo – come riscontrato invece per oscurità, lacune e antinomie (§§ 1-3) –, ma perché costituiscono un’insidia ricorrente per chi ragiona e per chi parla, (anche) su temi attinenti al diritto. Da esse occorre perciò guardarsi con attenzione: il che sarà possibile soprattutto se ne acquisiamo qualche consapevolezza teorica. E può anche essere straordinariamente fruttuoso servirsene a proprio vantaggio, nelle strategie argomentative proprie della dialettica e della retorica (capitolo VIII), qualora a incorrervi siano altri, a noi contrapposti nell’agone verbale. Una fallacia è un errore: ma non un errore qualsiasi. Innanzi tutto esso pertiene esclusivamente all’ambito del ragionamento: più precisamente alle inferenze (capitolo V, § 2) e – se, ovviamente, ne trattiamo quale figura (almeno in parte) autonoma, come accade in questo libro – all’argomentazione (capitolo VIII). Datare la scoperta dell’America al 1592, attribuire Ossi di seppia a Ungaretti o scrivere “squola” sono tutti errori, e grossolani (di ordine storico, storico-letterario od ortografico), ma non fallacie. Altro tratto caratteristico di queste ultime è il loro prestarsi a tipizzazioni: ossia il loro essere riconducibili a una serie di schemi (o tipi, appunto). Possono perciò darsi, nella pratica, numerosi ragionamenti o argomenti difettosi nei quali sia rinvenibile la medesima fallacia. Il numero di queste figure tipiche è assai variato nel corso dei secoli – a partire dalle Confutazioni sofistiche di Aristotele sino ai più recenti studi di logica e argomentazione –, per superare ormai il centinaio. Il che, come ovvio, sconsiglia vivissimamente di offrirne qui una ricognizione completa. Un aspetto che però accomuna la maggior parte delle fallacie, e ne determina anche la natura particolarmente insidiosa, è la loro non immediata riconoscibilità. La circostanza, in altre parole, che esse consistono in ragionamenti, o argomentazioni, apparentemente corretti (e/o provvisti di una certa attitudine suasoria), ma nei quali si annida un vizio logico. E tanto più quest’ultimo non è immediatamente percepibile – celato ad arte da chi su esso fa leva –, tanto più la fallacia risul205

Le fallacie come un’insidia ricorrente

Cos’è una fallacia

La tipizzazione delle fallacie

Non immediata riconoscibilità delle fallacie

Sapersi proteggere dalle fallacie

Classificazioni ed elenchi di fallacie

La distinzione tra fallacie di rilevanza, di presunzione e di ambiguità Caratteristiche delle fallacie di rilevanza

Le fallacie dei sillogismi

ta pericolosa (in piena aderenza all’origine della parola nel vocabolario latino, laddove indicava l’inganno). Riuscire a smascherare la fallacia in cui sia incorso il nostro antagonista, e sulla quale egli ha fondato la dimostrazione della sua tesi, rappresenta spesso un passo decisivo per chi intenda confutarla. Ma saper riconoscere i ragionamenti difettosi è di grande ausilio per chiunque – anche fuori della competizione dialettica o delle pratiche retoriche – intenda salvaguardare la propria libertà di pensiero, reagendo criticamente ai tentativi (talora dozzinali, ma non di rado raffinati) di carpirne il consenso. Inutile dilungarsi in esempi. Basti solo pensare alle maggiori tragedie del secolo che è alle nostre spalle, e alle strategie di manipolazione delle masse su cui i totalitarismi fondarono il loro demoniaco successo. Dovendo rinunciare a un elenco completo dei tipi di fallacia – sempre ammesso che ciò, riguardo ad essi, sia possibile –, dovremo ripiegare su alcune delle classificazioni già proposte dagli studiosi, soffermandosi poi su una serie di figure specifiche, rese particolarmente interessanti da determinati aspetti, tanto più se fra loro concorrenti. Aspetti tra i quali sono da annoverare la difficoltà di individuare il vizio logico, la fortuna che sul piano pragmatico può nondimeno incontrare l’argomentazione in cui esso si inscrive, la ricorrenza di certi ragionamenti scorretti (anche, o prevalentemente) all’interno della comunicazione giuridica. In particolare, un notevole seguito ha riscosso la distinzione tra fallacie di rilevanza, di presunzione e di ambiguità. Da essa possiamo prendere le mosse, nonostante qualche rischio di sovrapposizione fra la prima e la seconda sottoclasse che essa istituisce, e l’esistenza di altre possibili classificazioni, solo parzialmente sovrapponibili (come quella tra fallacia deduttive, induttive e semantiche). Nelle fallacie di rilevanza le premesse (del ragionamento o dell’argomentazione) non sono conferenti rispetto alla conclusione (o tesi). Pertanto la verità (o plausibilità) di quest’ultima non trova nelle prime alcun serio fondamento. In un certo senso, tutti i vizi di una concatenazione di discorsi partecipano di questo difetto di rilevanza, in quanto vi manca – o non è comunque stringente – la consequenzialità logica tra le proposizioni che compongono l’itinerario ideale e il suo approdo. Pensiamo, ad esempio, ai classici difetti che possono affliggere un sillogismo (capitolo V, § 2), qualora premessa maggiore e premessa minore non consentano di giungere necessariamente alla conclusione, che rimane solo possibile, o al massimo probabile. Come se io affermassi che molti libri di diritto sono noiosi, che questo che state leggendo è un libro di diritto, e che pertanto esso è certamente noioso – 206

il che non è affatto da escludere, ma di sicuro non è predicabile in base a un sillogismo del genere. In altre occasioni il difetto logico fa venir meno la stessa fondatezza del risultato. Come se dicessi che nessun serpente ha le ali, che alcuni animali hanno le ali e ne deducessi che nessun serpente è un animale. In tal caso l’incongruità consiste nel quantificatore “alcuni” della premessa minore: solo se venisse sostituito con “tutti gli”, il sillogismo sarebbe corretto, anche se ovviamente la falsità della sussunzione determinerebbe anche una conclusione non vera. Tuttavia, nelle fallacie di rilevanza, più che nelle altre che vedremo fra breve, quel difetto di consequenzialità spicca maggiormente, e riesce decisivo: dal momento che proprio qui – e non nella qualità delle premesse in sé considerate – risiede quanto inficia il ragionamento o il discorso. All’interno di questa (sotto)classe trovano spazio le tipologie più frequenti anche nelle pratiche discorsive che interessano il diritto (pensiamo solo all’ambito forense), così come la politica – tornano, ancora una volta, i primi due generi della retorica, resi canonici da Aristotele (capitolo VIII, § 3). Si colloca in quest’ambito, innanzi tutto, l’ignoratio elenchi. Nella sua configurazione più antica, risalente allo stesso Aristotele, essa designava il comportamento di chi, sebbene la sua tesi fosse stata oggetto di confutazione, perseverasse nella propria linea argomentativa come se tale confutazione non vi fosse stata (ignorandola, appunto). Oggi usiamo quell’espressione per indicare, piuttosto, un argomento che dovrebbe sostenere una determinata tesi, ma si rivela in realtà adeguato (solo) a supportarne un’altra, diversa pur se contigua. Pertanto, la conclusione che si avrebbe il compito di dimostrare non segue alle premesse che sono state offerte – e anche questo, come vedremo accadere per molte fallacie, viene indicato con un’espressione latina: non sequitur. Abbiamo già incontrato l’ignoratio elenchi (capitolo VIII, §§ 1-2). Agli esempi formulati in quella sede potremmo aggiungerne numerosi altri, nei quali ci imbattiamo non di rado anche nelle argomentazioni prodotte a sostegno di una tesi interpretativa (capitolo VII, § 4). Limitiamoci però a un caso banale, interno al mondo dell’istruzione superiore. Qualora io rivendichi l’esigenza che le materie storicogiuridiche abbiano maggiore spazio in un percorso di laurea in Giurisprudenza, e lo affermi rilevando che compito dell’Università non è fornire una preparazione strettamente professionalizzante, ma una robusta base teorica – poi spendibile nei diversi sbocchi occupazionali, ma sempre imprescindibile (poiché altrimenti mancherebbe il fondamento su cui costruire le specifiche competenze) –, incorro sostanzialmente nel nostro tipo di fallacia. 207

Il difetto di consequenzialità

L’ignoratio elenchi

Esempi di ignoratio elenchi

Pericolosità dell’ignoratio elenchi

Le fallacie consistenti in appelli alle emozioni

L’argomento ad misericordiam

Finisco infatti col sostenere una tesi vicina, ma sensibilmente difforme, che riguarda il tipo di preparazione a cui dovrebbe tendere l’insegnamento di qualsiasi materia giuridica, e l’intero percorso di studi in cui ciascuna di esse si inserisce. L’argomento cui ricorro – e che peraltro, almeno secondo alcuni, si presterebbe a sua volta a più di un’obiezione – attiene infatti all’impostazione della formazione giuridica nel suo complesso. Ad essa concorrono anche le materie filosofico-giuridiche e le discipline rivolte al diritto vigente (se affrontate nella prospettiva che io auspico), senza necessariamente implicare la necessità che siano incrementati gli esami dedicati alla storia giuridica: come se essi soli fossero in grado di garantire quella “robusta base teorica”. In quest’esempio – e in molti altri, decisamente più complessi, che la comunicazione a fini persuasivi quotidianamente ci offre – la maggiore insidia dell’ignoratio elenchi consiste proprio nella distrazione che produce nei destinatari, amplificata dalla vicinanza fra la tesi che si dovrebbe sostenere e quella rispetto alla quale riescono effettivamente pertinenti gli argomenti spesi. E questo è non meno evidente laddove la nostra fallacia vizi un tentativo di confutazione – che è poi forse l’ipotesi più ricorrente: le etimologie, del resto, rivelano sempre qualcosa. In tal caso, contro la tesi vengono prodotti argomenti che la lambiscono appena, dal momento che la loro forza distruttiva è di per sé indirizzabile solo verso un altro bersaglio, per quanto prossimo. La replica che spesso udiamo da chi, in questi frangenti, scopre l’ignoratio elenchi, e da essa cerca di smarcarsi, assume una formulazione davvero significativa, che a suo modo riassume tutto quanto rilevato sinora: “questo è un altro discorso”. Sempre alla nutrita schiera delle fallacie di rilevanza appartengono altre figure, la cui fisionomia è nota da secoli. Alcune di esse sono caratterizzate dall’intento di suscitare emozioni, anziché di produrre dimostrazioni razionali. Come laddove venga fatto appello alla pietà, oppure alla forza e al timore ingenerato da una minaccia, o ancora a moti di entusiasmo o più frequentemente di rabbia e di odio – in modo da legarsi, non di rado alle classiche dinamiche del “capro espiatorio”, con cui la carica di violenza di un’intera comunità viene incanalata, in modo quasi sempre pretestuoso, contro un solo soggetto o un’unica categoria: il “mostro”, il “diverso”, gli ebrei, gli extracomunitari, i neri, i comunisti, i borghesi, ecc. Il primo caso è quello del cosiddetto argomento ad misericordiam: di antico e ancor diffuso impiego nell’ambito dei processi (soprattutto penali), in cui già nel mondo classico l’imputato si presentava in condizioni miserevoli, lacero e stravolto dall’angoscia, facendo presenziare moglie e figlioletti in lacrime – l’ipotesi estrema è quella del208

l’avvocato che, nel difendere chi abbia massacrato a colpi di scure entrambi i genitori, invoca spudoratamente la clemenza della corte per un povero orfano. Ma la fallacia in questione non risparmia anche contesti meno impegnativi. Lo sa bene ogni esaminatore universitario che, al fatidico rilievo circa l’impreparazione del candidato, sente snocciolare una serie agghiacciante di lutti familiari, calamità, sismi, incendi, inondazioni, problemi di salute e difficoltà psicologiche (sempre causate da altri) o ulteriori catastrofi da cui lo sventurato sarebbe stato colpito durante il periodo di studio: come se tutto questo costituisse una confutazione logica della constatazione secondo cui di quella materia egli ignora quasi tutto, o almeno elementi essenziali. La seconda tipologia di fallacia è nota come argomento ad baculum. Il bastone della metafora latina evoca appunto l’idea della violenza: che non convincerà razionalmente, ma induce – costringe, per meglio dire – a tenere il comportamento atteso da chi minaccia. A qualcosa di molto simile (il manganello, in quel caso) si riferivano alcuni fascisti affermando che esso costituiva, assieme alla ragione, uno dei due possibili strumenti di persuasione. Se non altro, non faceva loro difetto la sincerità. Nel dibattito politico degli ultimi decenni ci siamo abituati – o almeno così credevamo – a vedere almeno un po’ più occultata una simile fallacia. Il che peraltro la rende talvolta persino più pericolosa, in quanto obliqua e allusiva, intimidatoria in forme più sofisticate. E per certi versi essa ci accompagna sin dall’infanzia: come laddove la necessità di rimettere in ordine la nostra camera di bambini non venga argomentata in modo razionale, ma sbrigativamente risolta in un comando seguito da una minaccia. Anziché dire “perché altrimenti non ritrovi il giocattolo che cerchi” (oppure “perché non è giusto che papà e mamma passino ora a rimediare alla confusione che tu hai creato in pochi minuti”; “perché devi abituarti a un minimo di disciplina, che nella vita ti sarà indispensabile”, e così via), troppo spesso ci si limita a ordinare: “rimetti tutto a posto, altrimenti vai a letto senza cena!”. Oppure, in modo più subdolo: “se deve farlo mamma, allora non ha tempo per cucinare. E poi tu cosa mangi?”. Quest’ultima variante, peraltro, potrebbe essere valutata da qualcuno con maggiore indulgenza. Non manca, infatti, chi distingue la nostra fallacia dal mero argomento ad consequentiam. Con esso – senza un esplicito e diretto appello all’esercizio (ingiustificato) della forza – una tesi viene sostenuta richiamando le conseguenze negative che la sua inosservanza determinerebbe. Quest’argomento è corretto sul piano logico (almeno tendenzialmente: alcuni, infatti, nutrono in proposito qualche riserva) e senz’altro efficace su quello pragmatico. Su di esso, del resto, si fa leva in molteplici soluzioni discorsive, a 209

L’argomento ad baculum

Alcuni esempi, tra i più innocui

L’argomento ad baculum e l’argomento ad consequentiam

L’argomento ad populum

Altre fallacie di rilevanza: l’argomento ad ignorantiam

Il caso della presunzione di innocenza

conforto di conclusioni senz’altro degne di condivisione. Sarebbe decisamente improprio, ad esempio, affermare che si delinei una fallacia in ragionamenti (ed enunciazioni) del tipo: “occorre che tu studi perché altrimenti non passerai l’esame”; “è bene che in questo tratto moderi la velocità altrimenti ti arriva una multa salatissima”; “se non vuoi compromettere la vista a causa del diabete è necessario che ti moderi a tavola e segua le prescrizioni del medico”. L’argomento ad populum è invece la tipica fallacia in cui cadono, ma non certo inconsapevolmente, i demagoghi – giusta l’etimologia greca di questa parola –, ossia coloro che incitano reazioni impulsive, assecondando umori diffusi o latenti, sollecitano facili entusiasmi o biechi furori. All’esilità (spesso un’assoluta inconsistenza) di argomenti razionali si supplisce con la forza carismatica e un linguaggio suggestivo – proprio in senso letterale: congegnato per suggestionare. Chi pratica questa strategia discorsiva parla “alla pancia” della gente. Cerca la folla e la piazza, dà vita ad autentiche mitologie, fa perno su pulsioni viscerali, quasi istintive e mai elevate: l’esaltazione del sangue o della razza, la difesa della propria terra o di un presunto “spazio vitale”. Viene costruito un nemico, reale o più spesso immaginario; si intende trascinare prima ancora che persuadere. Ascoltare un discorso di Hitler o Mussolini consente di comprendere nel modo più vivo e completo ciò a cui mi sto riferendo. Ma il ricorso all’argomento ad populum non si è affatto estinto con l’esperienza dei totalitarismi nazifascisti. Con un’ultima serie di fallacie di rilevanza l’errore logico assume altre vesti. Può legarsi alle forme di conoscenza di determinati elementi, oppure su alcuni profili personali. Nella prima direzione si pone l’argomento ad ignorantiam, con cui a sostegno della veridicità di una certa tesi viene indicata esclusivamente la circostanza che essa non è stata dimostrata falsa – o viceversa, qualora si intenda argomentare la falsità di una certa proposizione, che nessuno ha dimostrato essere vera. Si tratta di un evidente stratagemma, anche se talvolta mascherato con una certa abilità: teso a invertire l’onere della prova e di un’adeguata argomentazione. Come è stato osservato, vi sono però casi in cui è legittimo servirsi di un simile ragionamento, senza che possa dirsi integrata una fallacia. Il più noto attiene proprio al mondo del diritto, con la presunzione di innocenza dell’imputato, finché la sua colpevolezza non sia provata oltre ogni ragionevole dubbio, e riconosciuta con sentenza passata in giudicato (ossia non più suscettibile di impugnazioni). Tale principio – sancito, in Italia, anche a livello costituzionale (articolo 27 comma 2) – rinvia più in generale al tipico meccanismo delle presunzioni giuridiche (capitolo I, § 3); ma certo consente, a chi sia sottopo210

sto a un procedimento penale, di argomentare la propria innocenza in base al fatto che non è stata dimostrata la sua colpevolezza. Il richiamo ai profili personali può operare almeno in due modi diversi. Il primo – a proposito del quale alcuni parlano di argomento ad verecundiam – ci è già noto (capitolo VIII, §§ 1-2), e consiste nella versione degradata e difettosa (fallace, appunto) dell’argomento di autorità. La fonte cui si fa appello sarà infatti largamente nota (come i testimonials pubblicitari dei quali dicevamo), ma sprovvista di qualsiasi competenza e reale credibilità rispetto alla materia in cui è invocata. Ancora una volta si persegue una mera suggestione: realizzata, stavolta, attraverso un senso di minorità e remissiva inadeguatezza che si mira a destare richiamando un nome di particolare prestigio. Ne abbiamo già fornito, a suo luogo, vari esempi, che dalla propaganda commerciale si proiettano su quella elettorale. Nonostante qualche successo che, di fatto, un’argomentazione così costruita può conseguire, da tale fallacia è sempre opportuno guardarsi – e semmai approfittare della sua scoperta, laddove vi sia incorso un nostro antagonista. Ed è bene prestarvi attenzione fin dal proprio percorso di studi, e dalla prova (la redazione della tesi di laurea) che ne costituisce l’epilogo. Saper selezionare la bibliografia, e le citazioni che è dato trarne, affidando il supporto argomentativo di quanto si scrive alle teorie di studiosi davvero autorevoli, e interni ai vari ambiti disciplinari, è già una dimostrazione di serietà (oltre che di conoscenza delle posizioni e delle questioni in campo). E, soprattutto, è sempre raccomandabile non consegnarsi passivamente a qualsiasi auctoritas: tanto più se si incarna, come ormai molto spesso avviene, in una figura spersonalizzata, dalla forza preponderante e quasi mitologica – quasi un Leviatano dei nostri tempi. “È così perché lo dice internet” (questo appunto il mostro che oggi annichilisce, schiacciandoci alla verecundia). Una frase che si dovrebbe aver pudore anche solo di pensare: o almeno tale da suscitare lo sdegno di qualsiasi docente che svolga seriamente il proprio lavoro. L’elemento personale può essere invocato anche in un modo diverso, e ancor più diretto: attraverso il cosiddetto argomento ad hominem (o ad personam, che ad esempio Schopenhauer riteneva distinto da quest’ultimo). Con esso la confutazione di una tesi non viene affidata a quella che dovrebbe esserne la via razionale – ossia la dimostrazione di una tesi con essa logicamente incompatibile, o almeno l’individuazione delle fallacie che minano la tenuta di quella che si intende smontare. Ci si affida, piuttosto, a un attacco indirizzato contro la persona che la sostiene. Limiti d’istruzione, orientamenti politici o sessuali, tratti caratteriali, vere o presunte manchevolezze di ordine etico o professionale, menomazioni fisiche, basso livello so211

L’argomento ad verecundiam

Esempi e suggerimenti

L’ argomento ad hominem o ad personam

Attaccare una tesi e attaccare chi la sostiene

L’argomento “del marchese del Grillo”

ciale: tutto può essere usato per gettare discredito sull’interlocutore – o almeno illustrarne l’incoerenza rispetto a quanto egli sostiene. Come se un ragazzino, che cerco di dissuadere dal vizio del fumo, segnalandogli gli innumerevoli danni che esso può cagionare alla sua salute, ritenesse che ciò sia irrilevante, solo perché, a mia volta, io fumo tre toscani al giorno. Denigrare l’autore di una tesi, o cercare di zittirlo col sempiterno “senti chi parla!”, non significa affatto – e in questo consiste appunto la fallacia – confutare ciò che egli sostiene: che può rimanere giusto e fondato anche se egli è il più solenne cretino della terra, o un conclamato farabutto, o non tiene condotte che vi siano pienamente conformi. L’errore logico consiste proprio nell’omessa distinzione fra la tesi e chi la espone. Ciò preclude un leale e razionale confronto di idee, per lasciare che tutto scada a un susseguirsi di attacchi e contrattacchi personali. Vi sono ambiti in cui l’argomento ad hominem si rivela, almeno entro certi limiti, pressoché inevitabile: dall’agone politico all’esperienza processuale (in cui quanto affermato dalle parti o dai testimoni è valutato anche sulla scorta della rispettiva credibilità, che molti dati concorrono a formare). Occorre però guardarsi dagli abusi di questa pratica discorsiva. Soprattutto ove ci si muova in ambiti diversi: come nei dibattiti scientifici (anche fra giuristi), laddove respingere una teoria solo perché proveniente da uno studioso di cui in genere non si abbia stima rappresenta solo una comoda e pretestuosa scorciatoia, cui si ricorre per non affaticarsi nell’analisi critica della tesi da lui formulata, e degli argomenti addotti a suo sostegno. E ciò vale ancor più se il presunto limite personale che viene additato è tale solo nella tendenziosa rappresentazione di chi lo invoca. Ne ho avuto più di una diretta conferma. “Colpevole” di essere andato in cattedra trentunenne, più volte ho udito liquidare da certi colleghi quanto sostenevo, non perché esaminato e respinto nel merito, ma deprecando semplicemente che io fossi “così giovane”. Un difetto, peraltro, dal quale col tempo è dato liberarsi: come sta accadendo anche a me, purtroppo. Sempre l’esperienza personale mi suggerisce anche una piccola variante – solo in apparenza scherzosa – della fallacia in questione: variante che inutilmente cercheremmo nei libri dedicati a questi temi. Proporrei di denominarla “argomento del marchese del Grillo”, dalla nota battuta di Alberto Sordi in quel film memorabile (“perché io so’ io e tu nun sei un c...!”). In questo caso lo svilimento della controparte, realizzato al fine di minare la fondatezza della sua tesi, è accompagnato dall’esaltazione – ancora una volta assai poco razionale, e stavolta apertamente autocelebrativa – dell’assoluta sproporzione d’im212

portanza fra un soggetto e l’altro (o almeno fra ciò che è al centro delle rispettive occupazioni, o interessi). Devo la messa a punto teorica di quest’ulteriore fallacia – o sottotipo dell’argomento ad hominem – a un garbatissimo collega, al quale rivolgo qui un grato pensiero. Dopo aver dettagliatamente illustrato l’imprescindibile esigenza che venisse bandito un posto di ricercatore per la sua disciplina, attinente al diritto vigente, egli ha accolto la mia proposta di un analogo concorso per la storia giuridica antica (che per legge ha un carico didattico superiore agli insegnamenti da lui impartiti) urlando argomentazioni del tipo “e allora bandiamo persino per il diritto romano! Ma cosa pretendi?! Pensiamo ancora al diritto romano?! Sarebbe questo il nostro futuro?! Aria! Aria! Apriamo le finestre!”. Che dire? Il cuore di simili strategie discorsive sta tutto nell’ostentare un dislivello fra sé e l’interlocutore. Fra un “io” (con tutto ciò che vi pertiene: inclusi, in quel caso, gli insegnamenti impartiti) esibito come il centro del mondo, e un “altro” svilito fino all’irrisione. Decisamente, una reincarnazione del marchese del Grillo, con la sua logica ferrea, correttissima (da tutti i punti di vista). Passiamo ora, più rapidamente, alle altre due (sotto)classi di fallacie: quelle di presunzione e quelle di ambiguità. Le prime si caratterizzano per il fatto che, al fine di sostenere una conclusione (o tesi), riescono decisive una o più premesse che si assumono (o, appunto, presumono) vere e fondate, mentre in realtà rimangono assolutamente indimostrate. Pertanto, diversamente che nelle fallacie di rilevanza, l’errore non consiste nel difetto di consequenzialità logica fra una catena di proposizioni e quella che dovrebbe costituirne l’approdo, ma si situa a monte: al livello degli stessi dati da cui muove il ragionamento o l’argomentazione. La tipologia più clamorosa – ma non sempre immediatamente percepibile, a causa di formulazioni linguistiche che (in modo più o meno voluto) occultano il circolo vizioso cui si dà vita – è probabilmente rappresentata dalla petizione di principio (petitio principii). Con tale fallacia la stessa tesi viene inclusa fra gli argomenti che dovrebbero essere destinati a sostenerla. Non può pertanto affermarsi che l’argomento sia irrilevante: semplicemente esso è tautologico, in quanto compare in due vesti, e fra loro incompatibili (l’una di conclusione e l’altra di premessa). È uno dei vizi logici più evidenti nella pubblicità commerciale, i cui slogan si risolvono in mere ripetizioni della tesi, talvolta smaccatamente assunta come dimostrazione: “è buono perché piace”. Ma incorre in quest’errore anche chi, ad esempio, sostenga di essere il migliore amico di Tizio, come proprio quest’ultimo gli ha rivelato – e di certo diceva la verità, perché non si può mentire al proprio 213

Fallacie di presunzione e di ambiguità

La petizione di principio

Esempi

migliore amico. Oppure (è un ragionamento che riferiva Platone) chi sostenga essere degne di fede le tradizioni degli antichi, i quali ritenevano di avere fra i propri progenitori degli dèi – chi potrebbe infatti mettere in dubbio quanto affermato da discendenti di dèi? Ma non diverso, nella sostanza, è il vizio che inficia molte (pretese) argomentazioni a favore di una tesi interpretativa, anche in ambito giuridico (il che è poi fra le ragioni che ci hanno indotto a tenere separate le due operazioni: capitolo VII, § 4). Si pensi – per tornare a una disposizione più volte richiamata (l’articolo 1322 del codice civile: capitolo II, § 5 e capitolo VII, § 4) – a chi intenda sostenere che la “meritevolezza di tutela” degli interessi alla cui realizzazione miravano quanti hanno concluso “contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare” non possa esaurirsi nella mera liceità. Questa tesi è di per sé plausibile, per le ragioni esposte in precedenza. Costituirebbe però una petizione di principio fondarla sul fatto che l’articolo 1322 fa appunto riferimento a “interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”, e non si limita a richiedere che siano immuni da profili di illiceità. La commistione fra il dettato dell’articolo, l’interpretazione che ne viene fornita e l’argomentazione che dovrebbe sostenerla fa sì che lo stesso significato normativo attribuito dall’interprete (che è poi la tesi da dimostrare) ricompaia, nella sostanza, come punto nodale del ragionamento. La fallacia di Fra le altre tipologie di fallacie di presunzione sarà qui sufficiente “falsa causa” ricordarne un paio, anche per il rilievo che possono assumere nella prassi giuridica (soprattutto nel momento processuale). Innanzi tutto l’errore denominato “falsa causa” – altri preferiscono la dizione latina: non causa pro causa. L’errore consiste nella ricostruzione di un nesso eziologico di fatto insussistente. Nel ragionamento e/o nell’argomentazione viene attribuito un rilievo essenziale ad alcuni eventi, considerati causa di altri. Un simile giudizio è spesso determinato dalla sequenza cronologica fra il primo accadimento e il secondo – che in realtà si è verificato indipendentemente dall’altro (oppure con un suo concorso assolutamente trascurabile). È vero, ad esempio, che negli anni successivi al 2005, allorché io Un esempio fui chiamato a far parte del Dipartimento (allora Facoltà) di Giurisprudenza di Siena, sia tendenzialmente diminuito il numero delle immatricolazioni ai nostri corsi di laurea. Ma sarebbe davvero fallace porre i due fatti in un rapporto di causa-effetto, come se io fossi responsabile del decremento delle iscrizioni. Un simile vizio logico è ancora tipizzato con una formula latina (post hoc ergo propter hoc: dopo di ciò, pertanto a causa di ciò) e ricorre non di rado nella pratica forense – per non parlare della strategie retoriche di politici e mana214

ger. E non inganni la voluta banalità del caso con cui lo si è appena illustrato: non sempre questo tipo di fallacia è altrettanto evidente (e risibile), né così scopertamente infondato il rapporto causale che si intende proporre. Come ultimo caso di fallacia di presunzione – ultimo fra quelli qui ripercorsi, ma la letteratura specialistica ne annovera ancora altri – possiamo ricordare le cosiddette “domande complesse”. Con esse l’interrogativo viene apparentemente focalizzato su un punto: ma per rispondere a esso il destinatario è indotto a riconoscere la verità (o consentire che altri lo facciano) di un altro elemento, che costituiva quanto l’autore del quesito intendeva dimostrare, e che ha abilmente insinuato nelle pieghe della domanda. “Da quanto tempo ha smesso di picchiare sua moglie?”: il pubblico ministero che così si rivolga all’imputato non mira, in realtà, a conoscere l’arco cronologico in cui si sono interrotte violenze e percosse, ma a insinuare che queste ultime vi sono effettivamente state. Solo la puntuale negazione di tutti i presupposti – e tanto più di quello che nella formulazione dell’interpellante è presentato come incontroverso, o solo implicito – consente di disinnescare le insidie di cui sono portatrici le domande complesse. Diversamente, si rischia che quanto non viene negato o contestato possa essere assunto come riconosciuto, e perciò vero (ai fini processuali). In effetti, per quanto non corretta sul piano logico, questa tecnica discorsiva può non di rado ottenere l’effetto sperato, soprattutto se congegnata con sottile abilità, e una buona dose di spregiudicatezza. Un motivo in più per acquisirne, da parte di chi si avvia a frequentare le aule di giustizia (ma questo tipo di fallacia non ricorre solo in quel contesto), una piena consapevolezza. Come di un fenomeno tutt’altro che teorico, che non si lascia affatto confinare alle dotte elucubrazioni di logici e teorici del diritto. Poche parole, infine, sull’ultimo gruppo di fallacie, dette di ambiguità – altri parlano di “sofismi”. A connotarle è la diversità del significato attribuito a un termine, o sintagma, in una o più premesse rispetto a quello che gli è assegnato nella conclusione. Inutile ripetere, in proposito, quanto già rilevato riguardo all’ambiguità (§ 1). Basterà qui segnalare la tipologia in cui questo scarto semantico opera con maggior evidenza – anche se, di nuovo, non sempre secondo modalità immediatamente riconoscibili. Vi faremo poi seguire solo alcune parole attorno a un paio fra le altre fallacie di ambiguità inquadrate dagli studiosi. La prima figura cui mi riferisco prende il nome di equivocazione, e ricorre proprio quando – deliberatamente o per noncuranza – si salta da un significato a un altro di un vocabolo o di un’espressione: caratterizzati appunto, entrambi, da polisemia. Si pensi, per riprendere 215

La fallacia delle “domande complesse”

Come difendersene

Le fallacie di ambiguità

La fallacia di equivocazione: natura ed esempi

(con qualche variante) esempi ricorrenti nella trattatistica, a chi si qualifichi “uomo di fede” in quanto ha fede nel proprio lavoro, o porta la fede al dito. La stessa parola ricorre qui in tre accezioni diverse, di cui la prima (impiegata nella tesi, o conclusione) attiene al credente (in Dio); la seconda indica la fiducia riposta in qualcosa (o in qualcuno); la terza l’anello coniugale. Oppure si pensi a un aggettivo, pur banale, come “buono” – uno dei non pochi “termini relativi”, come è stato osservato: ossia destinati ad assumere una portata differente a seconda del contesto. Chi si proponga sulla scena politica, vantandosi di poter essere un buon Presidente del Consiglio perché già ha dato prova di essere un buon padre, un buon marito, un buon imprenditore e un buon segretario di partito, gioca evidentemente sull’equivoco. È infatti evidente che ben altro (e neppure, sotto molti aspetti, agevolmente conciliabile) è quanto fa buono un padre, un uomo d’affari o un politico: in particolare, la dolcezza e l’affetto premuroso sono esclusivi del primo, il senso della cosa pubblica dell’ultimo, difficilmente riscontrabile (e forse neppure esigibile) nel secondo. Sono poi qui da annoverare gli errori che vertono sul rapporto fra La fallacia di composizione il tutto e le parti (o fra gli elementi e l’insieme cui afferiscono): essi assumono la forma di fallacia di composizione oppure di divisione. Quella di composizione consiste in uno scorretto passaggio dalle parti al tutto che esse compongono – oppure, secondo un’altra variante, dai singoli elementi alla classe che li contiene: ossia dal piano distributivo a quello collettivo. Nelle proposizioni in cui si snoda il ragionamento (o l’argomentazione) vengono richiamate qualità o proprietà di tali parti (o elementi): il che viene però poi utilizzato a sostegno della tesi che vuole tali qualità attribuite al tutto o alla collezione di elementi. Ma potrei sensatamente affermare che una moto è poco costosa soEsempi lo perché ciascuno dei pezzi di cui è composta, preso singolarmente, non ha un costo elevato? Oppure che, poiché gli struzzi allevati in Italia mangiano decisamente molto più delle galline, allora tutti gli struzzi allevati in Italia mangiano decisamente molto più di tutte le galline allevate in Italia? Evidentemente no, in entrambi i casi. Nel primo perché salto da ciascuna delle innumerevoli parti al bene composto che ne è la risultante, e che rispetto ad esse può presentare caratteristiche anche molto diverse (a livello di prezzo, peso, estensione, ecc.). Nel secondo perché – nonostante la polisemia del quantificatore ‘tutti/e’ (nella prima ricorrenza in accezione distributiva, nella seconda collettiva) – ciò che può sostenersi nel confronto fra ogni struzzo e ogni gallina non vale affatto comparando collettivamente tutti gli struzzi e tutte le galline: le quali, negli allevamenti italiani, sono infi216

nitamente più numerose, e perciò complessivamente consumano una quantità di gran lunga maggiore di cibo. La fallacia di divisione è il vizio logico perfettamente inverso, speculare anche nella duplice variante. Viene così infondatamente attribuito a una o più parti quello che costituisce una prerogativa del tutto, oppure viene predicato di un elemento quanto è proprio della sua classe. In realtà il fatto che io abiti in una casa piuttosto grande non giustifica affatto la tesi secondo cui è piuttosto grande lo studio in cui sto scrivendo in questo momento (in effetti esso è minuscolo). Né la circostanza che sia ormai assai basso il valore di mercato della mia vecchia automobile costituisce argomento decisivo e fondato a favore della tesi per cui saranno di poco prezzo i “pezzi” che la compongono: me ne accorgo bene quando essi devono essere sostituiti, benché io provi regolarmente a proporre questo ragionamento fallace al mio meccanico. Egualmente – passando alla seconda versione, che fa leva sul consueto equivoco fra piano distributivo e collettivo – se io ad esempio rilevo che i miei amici praticano calcio, tennis e golf, ciò non significa affatto che ciascuno di essi pratica tutti e tre questi sport. E riuscirebbe logicamente scorretto impiegare un argomento costruito sull’attività complessivamente svolta da tutti loro per sostenere una tesi relativa all’attitudine sportiva di ciascuno di essi. Possiamo fermarci qui: anche se, come accennato, la ricognizione sarebbe ancora molto lunga. Confido che la carrellata proposta abbia almeno consentito di formarsi un’idea su cosa siano le fallacie. Gli elementi che ne sono emersi inducono a chiudere il nostro discorso con almeno un paio di considerazioni: l’una di carattere teorico, l’altra di natura operativa. Colpisce, dal primo punto di vista, come una riflessione plurisecolare abbia condotto a coniare schemi e modelli tipici non solo per il “pensare (e parlare) bene” (ossia in modo logicamente corretto), ma anche – e forse persino più numerosi e puntuali – per il “pensare (e parlare) male”. Vi è dietro, verosimilmente, un’esigenza che è di ordine non solo speculativo, ma anche pragmatico. Nel senso di censire e precisare gli errori più frequenti e insidiosi, allo scopo di non incorrervi quando si ragiona e si argomenta, ma anche (se non soprattutto) di non lasciarsene ingannare quando si è destinatari delle altrui pratiche di persuasione. Il che ci conduce alla seconda riflessione, più pragmatica, la quale spiega anche l’ampio spazio riservato, in un libro come questo, all’esame delle fallacie. Saperle individuare è un esercizio talora tutt’altro che semplice, ma spesso straordinariamente remunerativo. Significa salvaguardare il proprio pensiero critico, oltre che trarne notevoli vantaggi nella dialettica e retorica (anche) forense. Cogliere (e magari enfatizzare) l’inconsistenza degli argomenti prodotti a sostegno della 217

La fallacia di divisione: natura ed esempi

Uno sguardo complessivo in tema di fallacie

Una considerazione operativa

tesi da noi osteggiata è spesso decisivo ai fini del suo rigetto – anche se a suo favore potessero militare ulteriori argomenti, diversi da quelli spesi da chi l’ha proposta. In molti casi cogliere i vizi nel ragionamento altrui può essere persino più fruttuoso che evitare a propria volta di incorrervi. Libertà e rigore, dunque, ancora una volta. La libertà di pensare Libertà e rigore del giurista con la propria testa, esercitando una razionalità che non si presti a raggiri, senza cedere il passo a reazioni incontrollate, puramente emotive, frutto dell’altrui manipolazione. E che si eserciti in forme consapevoli, coerenti e ordinate, espressive appunto del massimo rigore: volte a persuadere nella lealtà del duello verbale, impostato con correttezza (in ogni senso). Libertà e rigore: proprio quello a cui costantemente rinviano le peculiarità del diritto e delle sue parole. Anche se all’inizio del nostro itinerario ci era sembrato che, fra quei due elementi, fosse il primo a venire sacrificato (almeno sul piano espressivo), a tutto vantaggio del secondo. Se adesso, nel chiudere il nostro libro, la sensazione sarà anche solo lievemente diversa – aperta alla consapevolezza che con gli “attrezzi” del giurista, ove adoperati nel modo adeguato, si possono fare innumerevoli cose, e di grande rilievo –, questo già significa che l’itinerario percorso insieme non è stato compiuto invano.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Come anticipato nella Premessa, vengono qui offerte, capitolo per capitolo, alcune indicazioni – ai fini di un eventuale, primo approfondimento – circa la letteratura più significativa rispetto agli argomenti affrontati nel testo: senza velleità di completezza né voler esprimere giudizi di valore (rimarranno inevitabilmente defilati, o addirittura non menzionati, anche studi di indubbio spessore). In effetti, sebbene mai trattati congiuntamente, molti dei temi esaminati in questo libro sono stati al centro di innumerevoli ricostruzioni, e nei più diversi contesti: dalla teoria e storiografia giuridica all’analisi linguistica del diritto (i settori che, come inevitabile, si è più tenuto presente), dalla logica alla teoria dell’interpretazione e dell’argomentazione, dalla sociologia alla semiotica e alla filosofia del linguaggio. Il quadro bibliografico che emergerà è perciò solo in apparenza vasto e nutrito. In realtà mi sono limitato a indicare i contributi più pertinenti – classici oppure molto recenti, e perciò più aggiornati in merito ai vari orientamenti in campo –, preferibilmente in lingua italiana (considerato il pubblico cui mi rivolgo). Ho privilegiato, come ovvio, la menzione degli studi che ho maggiormente utilizzato nella mia riflessione su queste materie (i cui inizi rimontano a circa quindici anni fa) e poi nella redazione del testo. In qualche occasione, non frequente, è stato necessario anche richiamare saggi di contenuto più specifico, e talora eccentrico rispetto al fulcro dell’indagine, da cui è tratta una citazione o di cui presuppongo l’argomentazione rispetto a quanto è stato affermato nelle mie pagine.

Premessa Circa l’attuale situazione dei corsi di laurea in Giurisprudenza e le proposte di rinnovarne la didattica, oltre che sull’immagine e il ruolo del giurista nell’odierna società, il dibattito è assai vivo ed esiste ormai una folta letteratura. Da ultimo si veda B. PASCIUTA-L. LOSCHIAVO (a cura di), La formazione del giurista. Contributi ad una riflessione, Roma 2018: nel mio saggio in tale volume (Salvaguardare la cultura del giurista: 169 ss.) ho maggiormente sviluppato alcuni punti a cui nel testo è dedicato solo qualche accenno. Il volume della collana degli Scriptores iuris Romani cui viene fatto riferimento è J-L. FERRARY-A. SCHIAVONE-E. STOLFI (a cura di), Quintus Mucius Scaevola. Opera, Roma 2018.

Capitolo I L’immagine del “fare cose con parole” – con cui si apre e chiude il capitolo – ri-

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sale a J.L. AUSTIN, How to do Things with Words, Oxford 19822 (19621, trad. it. Milano 1987), cui si deve una lucida messa a punto del concetto di performatività (di un enunciato, soprattutto in ambito giuridico). Per un’utile rassegna delle sue tesi e delle conseguenti discussioni si vedano, fra i molti, G. TARELLO, Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Bologna 1974, 253 ss.; D. ANTISERI-M. BALDINI, Lezioni di filosofia del linguaggio, Firenze 1989, spec. 100 ss.; G. GARZONE, Performatività e linguaggio giuridico. Una proposta di classificazione, Milano 1996, 14 ss.; EAD., Gli enunciati performativi nel testo giuridico inglese: la prospettiva linguistica, in G. GARZONE-F. SANTULLI (a cura di), Il linguaggio giuridico. Prospettive interdisciplinari, Milano 2008, 57 ss. ove altra bibl.; M. LA TORRE, Norme, istituzioni, valori. Per una teoria istituzionalistica del diritto, Roma-Bari 20083, 229 ss.; F. VENIER, Il potere del discorso. Retorica e pragmatica linguistica, Roma 2008, 29 ss.; G. BERNARDINI, Le parole preparate, in Studi in onore di Remo Martini, II, Milano 2009, 227 ss., spec. 231 ss. Richiama, in apertura del suo itinerario, la formula di Austin anche G. COSI, Legge, diritto, giustizia. Un percorso nell’esperienza giuridica, Torino 2013, 1 s. Una suggestiva lettura dell’“esperienza performativa del linguaggio”, colta nella decisiva pratica del giuramento (coi molteplici significati che essa assume anche rispetto al cammino del diritto in Occidente), è in G. AGAMBEN, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (Homo sacer II, 3), Roma-Bari 2008. Più in generale, circa i rapporti fra linguaggio e diritto – rapporti estremamente complessi, suscettibili di essere indagati da molteplici punti di vista –, un’articolata rassegna di orientamenti è offerta da U. SCARPELLI-P. DI LUCIA (a cura di), Il linguaggio del diritto, Milano 1994. Ulteriori indicazioni, anche bibliografiche, in P. DI LUCIA, Normatività. Diritto linguaggio azione, Torino 2003, 3 ss., spec. 12 ss. (su “il diritto come linguaggio”). Importante B. MORTARA GARAVELLI, Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Torino 2001, ove altra bibl. (della medesima Autrice si veda anche, seppure meno pertinente al nostro discorso, Temi giudiziari, inventio e invenzione letteraria negli ultimi decenni: alcuni casi esemplari, in I. DOMENIGHETTI [a cura di], Con felice esattezza. Economia e diritto fra lingua e letteratura, Bellinzona 1998, 185 ss.). Spunti interessanti, soprattutto in merito alle soluzioni espressive adottate da alcuni operatori del diritto, in A. MARIANI MARINI (a cura di), La lingua, la legge, la professione forense, Milano 2003 e in F. BAMBI (a cura di), Lingua e processo. Le parole del diritto di fronte al giudice, Firenze 2016. Di recente, una suggestiva lettura del rapporto fra diritto e parole – muovendo da una penetrante osservazione tratta dal Glossario di Carl Schmitt (“costantemente ti accorgi di essere in balia di parole. Ogni potere è comando, ogni comando è parola ... Non abbiamo altro veicolo che la parola”) – è in N. IRTI, I ‘cancelli delle parole’ intorno a regole, principî, norme, Napoli 2015, 7 ss., spec. 40 ss. Si veda anche infra, a proposito del capitolo VI. L’originaria semantica di regula e norma (che designavano, rispettivamente, il righello e la squadra) è stata più volte segnalata: si vedano ad esempio V. FERRARI, Lineamenti di sociologia del diritto. I. Azione giuridica e sistema normativo, RomaBari 1997, spec. 158 ss.; D. MANTOVANI, Lingua e diritto. Prospettive di ricerca fra sociolinguistica e pragmatica, in G. GARZONE-F. SANTULLI (a cura di), Il linguaggio giuridico, cit., 36; L. LANTELLA-R. CATERINA, Se X allora Y. I: l’universo

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della regola, Torino 2009, 1 s.; U. VINCENTI, I fondamenti del diritto occidentale. Un’introduzione storica, Roma-Bari 2010, 10 s. “Pratiche discorsive” ricalca non solo la terminologia ma anche certe chiavi di lettura ricorrenti soprattutto in Michel Foucault, del quale si vedano, in particolare, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura [1969], trad. it. Milano 1997, spec. 43 ss.; L’ordine del discorso e altri interventi [1971], trad. it. Torino 20042; La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 [1976], trad. it. Milano 200410, spec. 16 ss., 63 ss. Il libro di Foucault di cui invece viene riecheggiato il titolo è Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane [1966], trad. it. Milano 1998: ne rilevano, ai fini del nostro discorso, soprattutto le p. 11 ss. La terminologia foucaultiana ricorre, in maggior contiguità con la ricerca (storico-)giuridica, in Y. THOMAS, Le droit entre les mots et les choses. Rhétorique et jurisprudence à Rome, in Archives de Philosophie du Droit 23 (1978), 93 ss. (ove leggiamo fra l’altro l’acuto rilievo secondo cui il diritto “de toutes les instances discursives, reste le seule à produire le monde qu’elle désigne”); ma si veda anche M. SPANÒ, Le parole e le cose (del diritto), in Y. THOMAS, Il valore delle cose, trad. it. Macerata 2015, 87 ss. Il riferimento alla terra come “laboratorio” dell’uomo antico è tratto da K. MARX, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), I, trad. it. Torino 1983, spec. 451 s. Per alcune considerazioni in proposito (ma in una prospettiva diversa da quella in cui ne è qui proposto il riutilizzo) cfr., da ultimo, E. STOLFI, La terra e il tempo. Per una discussione attorno a lavoro e forme giuridiche fra antichità e medioevo, in Studia et documenta historiae et iuris 83 (2017), spec. 67. Circa l’origine romana del diritto inteso come funzione sociale autonoma, una tecnica progressivamente isolata dagli altri sistemi direttivi e provvista di un carattere formale, per tutti, A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 20172, 5 ss. (ma si veda anche E. STOLFI, Il diritto, la genealogia, la storia. Itinerari, Bologna 2010, 13 ss., spec. 29 ss.). Sul significato più profondo e complesso del meccanismo della finzione un’acuta interpretazione (in chiave storica e filosofica) è in Y. THOMAS, Les opérations du droit, Paris 2011, 133 ss. Il richiamo a Weber (con le sue concezioni di un diritto, prima romano e poi tipico dell’Europa continentale, “calcolabile”, in quanto espressione di una “razionalità in senso formale”) presuppone il mio Il diritto, la genealogia, la storia, cit., spec. 31 ss. ove bibl., cui si aggiunga almeno la lucida sintesi di R. TREVES, Sociologia del diritto. Origini, ricerche, problemi, Torino 2002, 150 ss. e ora N. IRTI, Un diritto incalcolabile, Torino 2016, spec. 5 ss., 33 ss., 107 ss. (il quale coglie acutamente, ma per porvi forse un’enfasi eccessiva, l’odierna irruzione di altri modelli, che pongono in crisi le stesse idee di “fattispecie” e di conseguente “calcolabilità”, ottenuta tramite la sussunzione). Si veda anche il capitolo V, § 1. Il magistrato (ormai, in verità, ex magistrato) e scrittore di successo cui si allude è Gianrico Carofiglio: la citazione è tratta da La regola dell’equilibrio, Torino 2014, 36. Di un “pernicioso esoterismo” come rischio del linguaggio specialistico del diritto parla P. GROSSI, Le conclusioni del giurista. La lingua del diritto e tre rischi culturali, in F. BAMBI (a cura di), Lingua e processo, cit., 213. Utili orientamenti in merito al “lessico distintivo” proprio della nostra disciplina sono in D. MANTOVANI, Lingua e diritto, cit., spec. 33 ss.; ma cfr., in precedenza, almeno B.

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MORTARA GARAVELLI, Le parole e la giustizia, cit., 4 ss. (che non risparmia critiche [p. 99 ss.] alla “inutile bruttezza” di alcune soluzioni espressive, soprattutto a livello sintattico, rinvenibili nei testi normativi e nel linguaggio degli operatori giuridici). Si veda anche infra, a proposito del capitolo VI. Un’efficace rassegna circa la “varietà di usi del termine ‘legge’” (anche rispetto a ‘diritto’) è in R. GUASTINI, Il diritto come linguaggio. Lezioni, Torino 20062, 21 ss. Le locuzioni “ordinamento giuridico” ed “esperienza giuridica” sono impiegate in una precisa accezione teorica: in particolare quella che risale, nel primo caso, a S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 19622 (I ediz. 1918); nel secondo, a G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto [1930], nuova ediz. (a cura di P. PIOVANI) Milano 1962, spec. 41 ss. e Studi sull’esperienza giuridica, Roma 1932. Si tratta di nozioni particolarmente feconde – nel loro oltrepassare una visione strettamente normativista del diritto (alla cui stregua esso consisterebbe nel solo complesso di regole vigenti in un determinato tempo e luogo) – sia per accostarsi alla complessità della dimensione giuridica odierna sia in sede di ricostruzione storico-giuridica: per qualche indicazione a quest’ultimo riguardo, soprattutto bibliografica, cfr. E. STOLFI, Introduzione allo studio dei diritti greci, Torino 2006, 17 ss., 197, cui si aggiunga almeno P. CAPPELLINI, Storie di concetti giuridici, Torino 2010, 137 ss. ove altra bibl.

Capitolo II Tutto il discorso sulle operazioni (oltre che proposizioni) copulative nel loro complesso (e in merito alla relazioni che fra esse possono rilevarsi), sul possibile ordine da seguire nel trattarne, e più specificamente su esempio, qualificazione e sussunzione, presuppone L. LANTELLA-E. STOLFI-M. DEGANELLO, Operazioni elementari di discorso e sapere giuridico, rist. integrata e corretta Torino 2007. Di Lantella si vedano, in particolare, L’esempio (ivi, 93 ss.), La qualificazione (ivi, 21 ss.) e La sussunzione (ivi, 45 ss.): contributi ai quali possiamo qui rinviare, per ulteriori approfondimenti (e ai quali si riferiscono i vari richiami operati nel testo). Sull’esempio è sempre utile la lettura di Aristotele, Retorica I.1356b-1357b (che lo considerava una forma di induzione, e lo poneva a confronto con l’“entimema”, sul quale cfr. capitolo V, § 2). Circa il ricorso, in sede argomentativa, a esempio e illustrazione (proponendo quella sottile distinzione fra essi cui si accenna nel testo) cfr. C. PERELMAN-L. OLBRECHTS TYTECA, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica [1958], trad. it. Torino 2001, 371 ss. e C. PERELMAN, Il dominio retorico. Retorica e argomentazione [1977], trad. it. Torino 1981, spec. 119. Su un particolare impiego dell’esempio (anche in confronto al “precedente”) nelle pratiche discorsive dei giuristi, si veda M. TARUFFO, Precedente ed esempio nella decisione giudiziaria, in Scritti per U. Scarpelli, Milano 1997, spec. 791 ss. Sull’esempio in accezione pragmatica – quale modello di comportamento da imitare, o comunque assunto come riferimento – utile A. FERRARA, La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio, Milano 2008. Dell’intero diritto quale “struttura qualificatrice di ... atti o fatti” già parlava N. BOBBIO, Teoria della scienza giuridica, Torino 1950, 143 ss. Sui rapporti tra qualificazione (del caso) e “interpretazione degli enunciati normativi” ha insistito, di recente, L. DI CARLO, Teoria istituzionale e ragionamento giuridico, Torino 2017,

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255 ss. Ma anche tra qualificazione e interpretazione dei contratti – cui si riferiscono vari esempi formulati al § 5 – esistono varie e complesse relazioni, esaminate ad esempio da G. SCALFI, La qualificazione dei contratti nell’interpretazione, Milano 1962. Una puntuale analisi in materia di sussunzione (sia pure affrontata nella prevalente visuale di operazioni deduttive, e in particolare del sillogismo giudiziale), approfondendone i profili più problematici, è in K. ENGISCH, Introduzione al pensiero giuridico, trad. it. Milano 1970, 59 ss.: suo è anche il richiamo (p. 63) al caso della sottrazione di energia elettrica, che a fine Ottocento il “Reichsgericht” tedesco escluse di poter far rientrare nella nozione di “cosa” (discussioni analoghe si svolsero anche in Italia, e sono ben visibili alle spalle della ricordata precisazione di cui al secondo comma dell’articolo 624 del codice penale). Sul “caso preparato alla possibilità della sussunzione” come “tratto fuori della sua apparente natura empirica ... elevato a fatto conosciuto e a qualificazione universale” già si soffermava Hegel al § 226 dei Lineamenti di filosofia del diritto (trad. it. Roma-Bari 19745, 221). Il tema dell’odierna crisi del ragionamento giuridico centrato sulla sussunzione (e quindi sulla riconduzione del fatto alla fattispecie), in luogo del quale vanno nebulosamente affermandosi visuali della decisione giudiziale come basata su “valori”, senza alcuna mediazione, percorre l’intero libro di N. IRTI, Un diritto incalcolabile, cit.

Capitolo III Anche l’analisi della definizione presuppone (e può essere integrata con la lettura di) L. LANTELLA-E. STOLFI-M. DEGANELLO, Operazioni elementari, cit., 1 ss., 65 ss., e in particolare del contributo di Lantella, dedicato appunto alla definizione. Un’efficace sintesi è anche in A. GILARDONI, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano 20052, 59 ss. (soprattutto in merito alle finalità del definire, individuate [p. 60 ss.] nell’eliminazione di ambiguità, riduzione di vaghezza, restringimento o estensione dell’uso di espressioni preesistenti, persuasione). Circa la riduzione della vaghezza tramite definizioni cfr. anche C. LUZZATI, La vaghezza delle norme. Un’analisi del linguaggio giuridico, Milano 1990, spec. 86 ss. (con un’impostazione dichiaratamente nominalista). Su peculiarità e tipologie del definire (offrendone peraltro una rassegna non pienamente coincidente con quella proposta in questo libro), assai utile G. KALINOWSKI, Introduzione alla logica giuridica, trad. it. Milano 1971, 72 ss. Sul ruolo della definizione nel’argomentazione, per tutti, C. PERELMAN-L. OLBRECHTS TYTECA, Trattato dell’argomentazione, cit., 221 ss. Ulteriore bibliografia, relativa soprattutto a funzione e caratteristiche dell’attività definitoria in campo giuridico, sarà indicata fra breve. Circa la contrapposizione fra nominalisti e realisti (con le nuove versioni che essa assume, anche al di là della cultura medievale), un buon punto di partenza sono le pagine, critiche e classiche, di B. CROCE, Logica come scienza del concetto puro, Roma-Bari 198112 (19051), 36 ss. (di cui sono da leggere [p. 71 ss.] anche le considerazioni attorno alla “tautologia sublime” della definizione). La distinzione fra “definizioni nominali e definizioni reali” era già, ad esempio, in I. KANT, Logica, trad. it. Roma-Bari 20045, 137 s. Sulle caratteristiche delle definizioni nel lavoro della giurisprudenza antica, con la loro prevalente “funzione topico-interpretativa”, R. MARTINI, Le definizioni dei

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giuristi romani, Milano 1966, spec. 89 ss., 378 ss.; ma si vedano anche A. CARCATERRA, Le definizioni dei giuristi romani. Metodo mezzi e fini, Napoli 1966, spec. 107 ss., 156 ss. e R. FIORI, La definizione della ‘locatio conductio’. Giurisprudenza romana e tradizione romanistica, Napoli 1999, spec. 183 ss. Per ulteriori rilievi e indicazioni bibliografiche, G. COSSA, I giuristi e la retorica, in C. BALDUS-M. MIGLIETTA-G. SANTUCCI-E. STOLFI (a cura di), Dogmengeschichte und historische Individualität der römischen Juristen. Storia dei dogmi e individualità storica dei giuristi romani, Trento 2012, 319 ss. ed E. STOLFI, I casi e la regula: una dialettica incessante, in L. VACCA (a cura di), Casistica e giurisprudenza, Napoli 2014, spec. 20 ss. Si veda anche infra, a proposito del capitolo V. Sulla definitio per differentiam, realizzata in età augustea dal giurista Labeone (forse anche sulla scorta di un’elaborazione simile di Varrone) attorno ad actum, gestum e contractum, E. STOLFI, Il contesto culturale, in Dogmengeschichte, cit., 277 ss. ove bibl. In merito alla definizione di obligatio nelle Istituzioni giustinianee (un testo, inevitabilmente, molto studiato) un buon punto di partenza è costituito da G. FALCONE, “Obligatio est iuris vinculum”, Torino 2003 e ora ID., La definizione di obligatio, tra diritto e morale. Appunti didattici, Torino 2017. Sulle pratiche definitorie in campo giuridico (con riguardo anche ai molteplici soggetti che le pongono in essere, e in quali contesti) la letteratura è assai ampia. Si è tenuto conto soprattutto di U. SCARPELLI, La definizione nel diritto (1958), ora in U. SCARPELLI-P. DI LUCIA (a cura di), Il linguaggio del diritto, cit., 311 ss.; A.A. MARTINO, Le definizioni legislative, Torino 1975; A. BELVEDERE, Il problema delle definizioni nel codice civile, Torino 1977 (con perspicui rilievi anche in chiave storica, prendendo le mosse [p. 17 ss.] proprio dall’enunciazione di Giavoleno); A. BELVEDERE-M. JORI-L. LANTELLA, Definizioni giuridiche e ideologie, Milano 1979; D. FARIAS, Interpretazione e logica, Milano 1990, spec. 346 (con insistenza sulle varie configurazioni che ha assunto nel tempo l’attività definitoria); M. DELLACASA, Sulle definizioni legislative nel diritto privato. Fra codice e nuove leggi civili, Torino 2004; L. LANTELLA, La definizione, cit., spec. 82 ss.; D. ANTELMI, Vaghezza, definizioni e ideologia nel linguaggio giuridico, in G. GARZONE-F. SANTULLI (a cura di), Il linguaggio giuridico, cit., spec. 95 ss. Da ultimo cfr. anche F. CORTESE-M. TOMASI (a cura di), Le definizioni nel diritto, Trento 2016. Per un esempio delle critiche che, nell’ambito della teoria del diritto, sono state mosse alla definizione per genere e differenza, basti qui segnalare H.L.A. HART, Il concetto di diritto, trad. it. Torino 1965, 19 ss. Approfondisce ascendenze e implicazioni della sua impostazione C. LUZZATI, La vaghezza delle norme, cit., 150 ss. Circa le classificazioni delle definizioni in base alla funzione illocutoria o perlocutoria, per tutti, L. LANTELLA, La definizione, cit., 72 ss. Si veda, in merito alle “ridefinizioni”, anche B. MORTARA GARAVELLI, Le parole e la giustizia, cit., 12 ss. ove altra bibl. L’interpretazione proposta in merito all’articolo 1173 del codice civile presuppone l’acuta disamina di C.A. CANNATA, Materiali per un corso di Fondamenti del diritto europeo, II, Torino 2008, 27 s. Per una serrata analisi circa il rapporto fra articoli 1321 e 1325 del codive civile, suggerendo un possibile superamento dell’incongruità segnalata nel testo (ma sulla base di rilievi esegetici e sistematici, più che storici), per tutti, A. BELVEDERE, Il problema delle definizioni, cit., 141 ss., 154 ss.

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Capitolo IV Anche queste pagine presuppongono (e possono essere integrate con) quanto scritto in L. LANTELLA-E. STOLFI-M. DEGANELLO, Operazioni elementari, cit., con particolare riguardo ai capitoli in tema di elenco (p. 109 ss.) e classificazione (p. 137 ss., sulla cui scia si colloca ad esempio M. DEGANELLO, La dimensione cronologica dell’accertamento di responsabilità. Per una tassonomia dei termini processuali penali, in S. MASUELLI-L. ZANDRINO [a cura di], Linguaggio e sistematica nella prospettiva di un romanista, Napoli 2014, 71 ss.). Circa la prima operazione, con riguardo al suo impiego nel discorso giuridico, ne illustra solo alcuni specifici profili S. CASSARINO, Elenco, estr. da Enciclopedia del diritto, XIII, Milano 1963, 3 ss. Offre alcuni esempi, assai calzanti, circa i problemi connessi allo stabilire se un elenco sia chiuso (tassativo) o aperto (esemplificativo) C. LUZZATI, Del giurista interprete. Linguaggio, tecniche e dottrine, Torino 2016, 361 ss. Sulla classificazione si veda anche L. LANTELLA, Le opere della giurisprudenza romana nella storiografia, Torino 1979, 166 ss. L’immagine dei cartografi di Borges proviene da un brevissimo componimento, dal titolo evocativo e quasi beffardo (Del rigore nella scienza): cfr. J.L. BORGES, L’artefice, trad. it. Milano 1999, 181. Il problema delle “fonti delle obbligazioni”, ossia della classificazione di queste ultime in base all’atto che ne ha determinato la nascita, è assai antico e tuttoggi rilevantissimo per il giurista (dalle Istituzioni di Gaio, nel II secolo d.C., sino all’articolo 1173 del codice civile attualmente vigente): per qualche orientamento in proposito, un buon punto di partenza è C.A. CANNATA, Materiali per un corso di Fondamenti del diritto europeo, II, cit., spec. 27 ss. Più volte viene fatto riferimento in questo capitolo (e non solo in esso, per la verità) a contratti “unilaterali”, “bilaterali”, “plurilaterali” (ma anche “necessariamente bilaterali” o solo “eventualmente bilaterali”): puntuali precisazioni in merito al significato della nozione così evocata – quella, appunto, di “lateralità”, la quale assume fra l’altro una configurazione diversa se riferita ai contratti oppure agli atti (o negozi) giuridici – sono in L. LANTELLA, «Ultro citroque». Appunti teorici e storici sulla «lateralità» degli atti, in Diritto e processo nella esperienza romana, Napoli 1994, 89 ss. Sulla presenza delle classificazioni, e il loro integrarsi con definizioni, nel più risalente manuale di diritto privato (quello appunto di Gaio, redatto nell’età degli Antonini), per tutti, R. MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani, cit., 205 ss. e 392 ss. e A. GUZMÀN BRITO, Dialectica, casuistica y sistematica en la jurisprudencia romana, in Revista de estudios historico-juridicos 5 (1980), 17 ss.

Capitolo V In merito a significato e implicazioni del “pensare astrattamente” il diritto – per i giuristi romani (a partire dalla tarda repubblica, a cui risale una svolta decisiva in tal senso), il ius civile – ho tenuto conto soprattutto di A. SCHIAVONE, Ius, cit., 192 ss. Sull’“astrattezza” come “la nota più profonda e grandiosa della norma giuridica”, in quanto comporta “l’allontanarsi dall’unicità dell’evento, dimenticarne il volto irripetibile; asciugarlo in modo che rientri nello schema normativo” di recente, N. IRTI,

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Un diritto incalcolabile, cit., 20 ss. Da un punto di vista linguistico, sul “trionfo delle astrazioni” nella scrittura giuridica insiste B. MORTARA GARAVELLI, Le parole e la giustizia, cit., 171 ss. Per un primo orientamento attorno ai significati di “forma” e “formalismo” nel campo del diritto (e in merito al secondo come “caratteristica dell’ordinamento giuridico”), sempre utile G. TARELLO, Diritto, enunciati, usi, cit., 19 ss. Circa il riferimento a Weber, si veda supra, a proposito del capitolo I. Per la definizione di inferenza potremmo risalire almeno fino a I. KANT, Logica, cit., 107: “l’inferire va inteso come quella funzione del pensiero per mezzo della quale un giudizio viene derivato da un altro. Un’inferenza in generale è perciò la derivazione di un giudizio da un altro”. La definizione proposta nel testo (ma non molto difforme è quella di “ragionamento” rinvenibile in G. KALINOWSKI, Introduzione alla logica giuridica, cit., 21 e 198) è però tratta da I. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, trad. it. Bologna 19993, 23: un’opera di grande rilievo, anche per la ricostruzione che offre in merito a deduzione (p. 219 ss.) e induzione (p. 463 ss.), sebbene ne vengano qui prese le distanze in merito a un profilo non secondario – ossia la sostanziale identificazione, che percorre l’intero lavoro di Copi (ma ricorre, ad esempio, anche in R. GUASTINI, Il diritto come linguaggio, cit., spec. 189 s.), fra ragionamento e argomentazione: la seconda sarà qui assunta in un’accezione sensibilmente difforme (chiarita al capitolo VIII, ma si veda anche il capitolo VII § 4). In merito a deduzione (e sillogismi) si veda anche, fra i molti, A. GILARDONI, Logica e argomentazione, cit., 32 ss., 185 ss. Per qualche orientamento nello sterminato campo della speculazione medievale in materia di sillogismi cfr. R. FEDRIGA-S. PUGGIONI (a cura di), Logica e linguaggio nel Medioevo, Milano 1993, spec. 75 ss., 297 ss. ove altra bibl. Più specificamente, su deduzioni e sillogismi in campo giuridico, per tutti, N. BOBBIO, Il ragionamento dei giuristi (1955), ora in P. COMANDUCCI-R. GUASTINI (a cura di), L’analisi del ragionamento giuridico, II, Torino 1989, 172 ss. (attento al rapporto fra questo tipo di ragionamenti e quelle che egli denomina interpretazione logico-grammaticale e sistematica); K. ENGISCH, Introduzione al pensiero giuridico, cit., 59 ss., 91 ss.; G. KALINOWSKI, Introduzione alla logica giuridica, cit., spec. 21 ss., 29 ss., 205 s., 240 ss.; P. COMANDUCCI, Il sillogismo giuridico e la razionalità della decisione giudiziale, in P. COMANDUCCIR. GUASTINI (a cura di), L’analisi del ragionamento giuridico, I, Torino 1987, 277 ss.; A. RENTERÍA DÍAZ, Argomento a contrario e sillogismo giuridico, in A.A. MARTINO (a cura di), Logica delle norme, Pisa 1997, 90 ss. ove altra bibl. (con varie perplessità circa l’applicabilità delle regole della logica “normale” al ragionamento giuridico); V. ITALIA, Il ragionamento giuridico, Milano 2009, 35 ss. (il quale [p. 38] insiste fra l’altro, opportunamente, sulla circostanza che, nel sillogismo giuridico, la premessa maggiore è frequentemente “composta da varie premesse maggiori”, che possono anche essere implicite); G. ZAGREBELSKY, Diritto allo specchio, Torino 2018, spec. 308 s. Sull’esaltazione del sillogismo giudiziale nelle pagine di alcuni celebri autori (a cominciare da Dei delitti e delle pene di Beccaria), di recente, C. LUZZATI, Del giurista interprete, cit., 110 ss. Da tener presente – pur nella varietà di reazioni che ha nel tempo suscitato – anche l’impostazione di H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato [1945], trad. Milano 19665, spec. 136 ss., secondo il quale l’atto giurisdizionale è produttivo di una vera e propria

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norma individuale, e pertanto, nel complesso, “il procedimento attraverso il quale il diritto ricrea costantemente se stesso va dal generale e dall’astratto all’individuale ed al concreto”: non troppo difforme la posizione teorica in ID., La dottrina pura del diritto [1960], trad. it. Torino 1966, spec. 227 ss. (ove si parla espressamente di sillogismi); mentre già sensibilmente diversa (come segnalato, ad esempio, da F. MATERAZZI, Hans Kelsen e il sillogismo normativo, in Studi Senesi 101 [1989], 299 ss.) risulta in ID., Diritto e logica (1965), ora in P. COMANDUCCI-R. GUASTINI (a cura di), L’analisi del ragionamento giuridico, II, cit. 65 ss. Le considerazioni attorno alla frase “questa è una rapina!” riprendono quanto scrive L. LANTELLA, La sussunzione, cit., 63 s. Sui sillogismi entimematici, propri della dialettica aristotelica, si vedano almeno, nell’ottica che qui più rileva, T. VIEHWEG, Topica e giurisprudenza, trad. it. Milano 1962, 16 ss., 44; C. PERELMAN-L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione, cit., 242 ss.; A. GIULIANI, Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridica, Milano 1961, spec. 15 s. Sulla configurazione della dialettica, nel filosofo di Stagira, quale “logica del probabile” (non identificabile, pertanto, con l’intera logica, come sarebbe poi avvenuto con gli stoici), tra gli altri, B. RIPOSATI, Studi sui ‘Topica’ di Cicerone, Milano 1947, 1 ss.; A. GIULIANI, Il concetto di prova, cit., 23 ss.; C. PERELMAN, Logica giuridica nuova retorica, trad. it. Milano 1979, spec. 21 ss.; ID., Il dominio retorico, cit., 13 ss.; E. BERTI, La dialettica antica come modello di ragionevolezza, in Ars interpretandi 7 (2002), 17 ss., spec. 24 ss.; F. VENIER, Il potere del discorso, cit., 24 ss.; F. PIAZZA, La retorica di Aristotele. Introduzione alla lettura, Roma 2008, spec. 31 ss., 54 ss., 62 ss. Si veda anche (in merito a profili affrontati, in questo libro, soprattutto al capitolo VIII) G.M. AZZONI, Éndoxa e fonti del diritto, in G.A. FERRARI-M. MANZIN (a cura di), La retorica fra scienza e professione legale. Questioni di metodo, Milano 2004, 123 ss. Ulteriore bibliografia in E. STOLFI, ‘Argumentum auctoritatis’, citazioni e forme di approvazione nella scrittura dei giuristi romani, in A. LOVATO (a cura di), Tra retorica e diritto. Linguaggi e forme argomentative nella tradizione giuridica, Bari 2011, 99 s.; G. COSSA, I giuristi e la retorica, cit., 305 ss.; ID., Riflessioni sulla distinzione tra prove ‘tecniche’ e ‘atecniche’ in Grecia e a Roma, in Studia et documenta historiae et iuris 83 (2017), spec. 306 ss. Per qualche orientamento circa l’induzione, anche nell’ambito del diritto, cfr. N. BOBBIO, Il ragionamento dei giuristi, cit., 176 ss. (insistendo sul nesso fra questo tipo di ragionamento e l’interpretazione storica e teleologica); G. KALINOWSKI, Introduzione alla logica giuridica, cit., spec. 204 s., 211 s. (distinguendo fra induzione “completa” e “amplificatrice”); A. GILARDONI, Logica e argomentazione, cit., 32 ss., 231 ss. (inclinando per una terminologia lievemente diversa dall’usuale, e comunque assai efficace, ossia “generalizzazioni induttive”; e con attenzione anche ad altre figure della “logica del probabile”, come [p. 217 ss.] il ragionamento analogico); V. PASCALI, Causalità e inferenza nel diritto e nella prassi giuridica, Milano 2011, spec. 56 ss., 146 ss. Quanto rilevato in merito all’induzione (solo) quale primo tratto dell’itinerario logico e argomentativo dei giuristi romani riprende quanto ho scritto (cercando di offrirne una dimostrazione meno sommaria) in E. STOLFI, I casi e la regula, cit., spec. 44 ss., 63 ss. ove bibl. In tema di abduzione, si è ricordato il fondamentale contributo di Peirce e le discussioni di cui è stato oggetto: per qualche orientamento in proposito, R. FABBRI-

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LEO, Introduzione a Peirce, Roma-Bari 1993, spec. 29 ss. e C. MISAK (ed.), The Cambridge Companion to Peirce, Cambridge 2004. Nel testo si è presa in considerazione soprattutto l’analisi di M.A. BONFANTINI, La semiosi e l’abduzione, Milano 1987, spec. 45 ss. e G. TUZET, La prima inferenza. L’abduzione di C.S. Peirce fra scienza e diritto, Torino 2006, spec. 66 ss. (sull’abduzione come “ragionamento ampliativo”) e 258 ss. (su “abduzione e prova”); V. PASCALI, Causalità e inferenza, cit., 52 ss. Si vedano anche G. KALINOWSKI, Introduzione alla logica giuridica, cit., 206 s. (a proposito di quello che egli denomina “ragionamento riduttivo”, “la cui premessa constata un effetto e la cui conclusione ne indica la causa”) e A. GILARDONI, Logica e argomentazione, cit., 32 ss. (e 243 ss., in merito ai vari procedimenti logici tesi alla “ricerca delle cause”). Il confronto tra Peirce e Sherlock Holmes ricorre in più di uno dei contributi raccolti in U. ECO-T.A. SEBEOK (a cura di), Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce, Milano 1983. Tra la folta letteratura attorno alla nozione di “sistema” in ambito giuridico, cfr. almeno N. LUHMANN, Sistema giuridico e dogmatica giuridica, trad. it. Bologna 1978. Circa la sua vicenda storica – da certe (deboli) anticipazioni antiche alla compiuta realizzazione moderna, sino alle sue più recenti declinazioni (e problematiche) –, fra gli altri, L. LANTELLA, Il lavoro sistematico nel discorso giuridico romano (Repertorio di strumenti per una lettura ideologica), in F. BONA-F. GALLO-F. GORIA-L. LANTELLA-M. SARGENTI-N. SCAPINI-P.L. ZANNINI, Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino 1976, 1 ss.; P. CAPPELLINI, Systema iuris. I. Genesi del sistema e nascita della «scienza» delle Pandette, Milano 1984; ID., Systema iuris. II. Dal sistema alla teoria generale, Milano 1985; F. CUENA BOY, Sistema jurídico y derecho romano. La idea de sistema jurídico y su projección en la experiencia jurídica romana, Santander 1998; M.G. LOSANO, Sistema e struttura nel diritto. I. Dalle origini alla scuola storica, Milano 2002; ID., Sistema e struttura nel diritto. II. Il Novecento, Milano 2002; ID., Sistema e struttura nel diritto. III. Dal Novecento alla postmodernità, Milano 2002. Ulteriori indicazioni in E. STOLFI, A proposito di una fondamentale momento della «tradizione romanistica»: l’elaborazione medievale in materia di «pacta», in Rivista di diritto romano 2 (2002), 477 s. Una sintetica rassegna delle varie accezioni di ‘sistema’ (da cui prende le mosse anche P. CAPPELLINI, Storie di concetti giuridici, cit., 239 ss.) è in L. LANTELLA-E. STOLFI-M. DEGANELLO, Operazioni elementari, cit., 187 s. Sulla nozione di “dogmatica” (e il significato di “dogma” in campo giuridico, non sempre costante fra una lingua e l’altra) si veda – oltre allo stesso N. LUHMANN, Sistema giuridico, cit. – la bibliografia richiamata e discussa in E. STOLFI, I casi e la regula, cit., 40 s. Una distinzione, a mio avviso condivisibile, fra “dogmi” e “concetti giuridici” era tracciata da W. CESARINI SFORZA, Il diritto dei privati, rist. Milano 1963, 8, secondo il quale i primi, aventi una precisa realtà storica, assumono la veste dei secondi solo in un approccio che colga nel diritto un ordinamento di norme e non di rapporti (“normativismo”, cui si coniuga quello che Cesarini Sforza designava come “obbiettivismo”): i dogmi, in tal modo, “fingono una vita metastorica e perdurano come idee assolute”. Circa l’accostamento (da parte di Leibniz e poi di Savigny) fra giuristi (romani) e matematici si vedano M. BRETONE, Il diritto a Roma, in M. BRETONE-M. TALAMANCA, Il diritto in Grecia e a Roma, Roma-Bari 1981, 94 ss.; P. CAPPELLINI, Systema iuris, I, cit., 371 ss.; R. ORESTANO, Introduzione allo studio del diritto romaCHESI

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no, Bologna 1987, spec. 536 ss.; A. SCHIAVONE, Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994, 276 ss.; E. STOLFI, ‘Bonae fidei interpretatio’. Ricerche sull’interpretazione di buona fede fra esperienza romana e tradizione romanistica, Napoli 2004, 177 s. ove altra bibl.; M. BRUTTI, Interpretare i contratti. La tradizione, le regole, Torino 2017, 19 ss. Parlava degli antichi prudentes come “geometri delle scienze sociali” anche Roberto Savarese: cfr. A. LOVATO, Diritto romano e scuola storica nell’ottocento napoletano, Bari 1999, 70 s. Su più recenti, e chiari, ribaltamenti dell’ottica savignyana, sino all’esplicita negazione che la costruzione giuridica possa risolversi in un “calcolare attraverso concetti”, per tutti, D. CORRADINI, Il criterio della buona fede e la scienza del diritto privato, Milano 1970, 448 s. Ma il tentativo di trasformare la giurisprudenza in una “matematica del diritto” aveva già incontrato l’opposizione di Jhering, su cui K. LARENZ, Storia del metodo nella scienza giuridica, trad. it. Milano 1966, 60. Più specificamente, in merito alle opere giovanili di Leibniz (non solo la Nova methodus, cui viene fatto riferimento nel testo) e la concezione nuova – feconda di futuri sviluppi – che vi emerge, “secondo cui le proposizioni giuridiche, cioè le norme, sono nel loro complesso un sistema, potenzialmente completo”, si veda G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna 1976, 133 ss., spec. 139 (sue le parole citate). Cfr. anche I. BIROCCHI, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino 2002, 209 ss. e S. CURLIA, Diritto, Giustizia, Stato. Leibniz e la rifondazione etica della politica, Lecce 2005, spec. 51 ss., entrambi con altra bibl. Nel Leibniz più maturo, peraltro, la fiducia in una razionalità matematica, come unico fondamento sulla cui scorta decidere anche le questioni giuridiche più complesse, non sembra più assoluta, per lasciare talora spazio alla “logica del verosimile”: in tal senso C.M. DE IULIIS, Leibniz e la scienza giuridica tra topica e dogmatica, in G.W. VON LEIBNIZ, Il nuovo metodo di apprendere ed insegnare la giurisprudenza in base ai principi dell’arte dialettica premesi nella parte generale, e alla luce dell’esperienza, Milano 2012, spec. X s., XXXI ss. L’immagine della “piramide concettuale” si lega soprattutto al nome di Puchta: cfr. K. LARENZ, Storia del metodo, cit., 20 ss. Con la formula “dottrine generali” riecheggio volutamente il titolo di un libro fortunato di Francesco Santoro-Passarelli (Dottrine generali del diritto civile, Napoli 1944), che appare emblematico di un’intera temperie di studi giuridici (soprattutto in campo privatistico): in tal senso, fra gli altri, N. IRTI, Una generazione di giuristi, Milano 1988, 15 s.; P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano 2000, 280 s.; G. CIANFEROTTI, Il concetto di status nella scienza giuridica del Novecento, Milano 2013, spec. 130 ove altra bibl. La citazione con cui si chiude il § 3 è tratta da N. IRTI, Dalla lontana provincia del diritto civile, in Diritto pubblico 3 (2016), 827; ma cfr. anche ID., I ‘cancelli delle parole’, cit. 50 ss. ove altra bibl. La frase di Hegel si legge in Lineamenti di filosofia del diritto, cit., 33. In proposito cfr., per tutti, A. SCHIAVONE, Alle origini del diritto borghese. Hegel contro Savigny, Roma-Bari 1984, 75 ss. e P. CAPPELLINI, Systema iuris, II, cit., 152. Sul metodo topico, e in particolare sulla sua adozione da parte dei giuristi romani, si vedano almeno T. VIEHWEG, Topica e giurisprudenza, cit.; L. RAGGI, Il metodo della giurisprudenza romana [1968], rist. Torino 2007; U. VINCENTI, Metodolo-

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gia giuridica, Padova 20082, spec. 29 ss., 75 ss. Per ulteriori indicazioni cfr. G. COSSA, I giuristi e la retorica, cit., 319 ed E. STOLFI, Dal ius controversum alle antinomie, in Legal Roots 6 (2017), spec. 61. Si veda inoltre, da una prospettiva diversa, F. MÜLLER, Applicazione, precomprensione topica ed ermeneutica topica, ora in G. CARLIZZI-V. OMAGGIO (a cura di), L’Ermenutica Giuridica Tedesca Contemporanea, Pisa 2016, spec. 103 ss. Di “mitologia giuridica” già parlava S. ROMANO, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1947, 126 ss.; ma l’espressione impiegata nel testo tiene conto soprattutto di P. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, Milano 20052. Dello stesso autore si vedano anche Prima lezione di diritto, Roma-Bari 2003, spec. 8 ss.; Un impegno per il giurista di oggi: ripensare le fonti del diritto, in Laurea magistrale honoris causa in Giurisprudenza a Paolo Grossi. Napoli 20 dicembre 2007, Napoli 2008, spec. 49 ss.; L’invenzione del diritto, Roma-Bari 2017, spec. 54, 81, 93. Cfr. inoltre, sulla “forza dei miti giuridici”, S. CASSESE, Il mondo nuovo del diritto. Un giurista e il suo tempo, Bologna 2008, 57 ss. (ma anche 159 ss., sulla loro “distruzione”). La prima citazione perelmaniana è tratta dalle battute iniziali dell’Introduzione al suo libro più noto: cfr. C. PERELMAN-L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione, cit., 3. Il secondo lavoro di Perelman cui si allude è Logica giuridica nuova retorica, cit.: a quest’opera (p. 178) risale l’altra frase riportata. Per qualche indicazione attorno al folto dibattito cui hanno dato vita questi studi (ma occorre almeno ricordare anche C. PERELMAN, Il dominio retorico, cit.) cfr. E. STOLFI, ‘Argumentum auctoritatis’, cit., 88 ss. In particolare, tratta della teoria dell’argomentazione giuridica quale “un insieme specifico di studi contemporanei sul ragionamento giuridico”, nel senso di “un processo giustificativo la cui natura non è dimostrativa e non formalizzabile” S. BERTEA, Certezza del diritto e argomentazione giuridica, Soveria Mannelli (CZ) 2002, 73 ss. Si veda anche, più di recente, C. LUZZATI, Del giurista interprete, cit., spec. 368 ss. ove altra bibl., nonché infra, a proposito del capitolo VIII. L’adagio latino ricordato alla fine del capitolo (summum ius summa iniuria) ha una storia, e significati, di notevole interesse, e conobbe varianti già nell’esperienza antica: ne ricostruisce momenti e contesti A. SCHIAVONE, Ius, cit., 144 ss., 473 ove bibl.

Capitolo VI Una panoramica interessante (sia pure inevitabilmente per campione) attorno ai “tecnicismi specifici” (e talora “esclusivi”) del diritto, unitamente ai “termini attinti al lessico comune” – gli uni e gli altri partecipi di quel “lessico distintivo del diritto” esaminato sulla scorta della condivisibile persuasione che il diritto medesimo “non solo deve cercare parole per designare oggetti nuovi, ma deve anche creare concetti attraverso parole” – è in D. MANTOVANI, Lingua e diritto, cit., spec. 34 ss. In precedenza, cfr. soprattutto B. MORTARA GARAVELLI, Le parole e la giustizia, cit., 10 ss. (secondo la quale i “tecnicismi specifici ... sono termini di significato univoco ... che non hanno corso fuori del linguaggio specialistico o settoriale”: accanto ad essi è però nutritissima la schiera di vocaboli e sintagmi compresenti nel lessico comune, ma interessati da fenomeni di “ridefinizione”: vi torneremo infra, a proposito del § 3). Si veda anche supra, riguardo al capitolo I.

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Le osservazioni in materia di transazione, con particolare riguardo al suo percorso antico, tengono conto soprattutto di M.A. FINO, L’origine della transactio. Pluralità di prospettive nella riflessione dei giuristi antoniniani, Milano 2004 (e già, con attenzione anche agli sviluppi codicistici più recenti, ID., L’archetipo contrattuale transattivo: radici storiche e ruolo attuale nell’ordinamento, in Rivista di diritto romano 1 [2001], 405 ss.). La definizione di metafora ricalca, con alcuni adattamenti, quella fornita in L. LANTELLA-E. STOLFI-M. DEGANELLO, Operazioni elementari, cit., 177. In proposito si vedano, fra gli altri, C. PERELMAN-L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione, cit., 420 ss.; W.P. ALSTON, Filosofia del linguaggio, Bologna 1971, 152 ss.; C. CASADIO, Interpretazione generica e metafora, Lecce 1990, spec. 123 ss.; A. PLEBE-P. EMANUELE, L’euristica. Come nasce una filosofia, Roma-Bari 1991, 109 ss. (sulla “analogia metaforica”); G. BOTTIROLI, Retorica. L’intelligenza figurale nell’arte e nella filosofia, Torino 1993, spec. 42 ss., 213 ss.; O. REBOUL, Introduzione alla retorica, trad. it. Bologna 1996, spec. 131 ss. ove altra bibl.; D. VERONESI, La metafora negli articoli scientifici giuridici: linguaggio, testo, discorso, in EAD. (a cura di), Linguistica giuridica italiana e tedesca. Rechtslinguistik des Deutschen und Italienischen, Padova 2000, 363 ss., spec. 368 ss.; B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, Milano 20026, 145 ss., spec. 159 ss.; C. BAZZANELLA-L. MORRA, Metafora e linguaggio giuridico: alcune riflessioni, in G. BERNINIG. FERRARI-M. PAVESI (a cura di), Atti del 3° congresso di studi dell’Associazione Italiana di Linguistica Applicata, Perugia 2004, 191 ss. ove ampia bibl. (con giusta attenzione all’importanza che assume il contesto per la produzione e comprensione di ogni metafora, non solo di ambito giuridico); D. MANTOVANI, Lingua e diritto, cit., spec. 35 s. (suo il richiamo, fra l’altro, alla “linea metaforica del legame e del conseguente scioglimento, bene illustrata dall’art. 1200 cod. civ.”); C. SARRA, Lo scudo di Dioniso. Contributo allo studio della metafora giuridica, Milano 2010; C. LUZZATI, Del giurista interprete, cit., 134 ss. ove altra bibl. Circa il contributo della metafora alla costruzione, entro l’esperienza antica, di una terminologia tecnica (in larga parte transitata nel lessico giuridico posteriore, sino ai nostri giorni), cfr. anche L. LANTELLA-E. STOLFI, Profili diacronici di diritto romano, Torino 2005, spec. 174 ss. Sulla metafora quintilianea come similitudo brevior, da ultimo, A. ARNESE, La similitudo nelle Institutiones di Gaio, Bari 2017, 24 nt. 8 ove bibl. Anche riguardo alla metonimia ho preso le mosse dalla definizione proposta in L. LANTELLA-E. STOLFI-M. DEGANELLO, Operazioni elementari, cit., 178 e dalle considerazioni formulate (con particolare attenzione al suo ruolo nel costituirsi del lessico giuridico romano) in L. LANTELLA-E. STOLFI, Profili diacronici, cit., 172 ss. Si vedano inoltre, fra i molti, C. PERELMAN-L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione, cit., 355 s.; G. BOTTIROLI, Retorica, cit., 52 ss.; O. REBOUL, Introduzione alla retorica, cit., 129 ss. (il quale osserva fra l’altro, opportunamente, che in genere “la metonimia trae la sua forza argomentativa dalla familiarità”); B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, cit., spec. 148 ss., tutti con altra bibl. Sui termini del vocabolario normativo provenienti dal lessico comune, “ma il cui significato si è venuto modificando e specializzando, attraverso un processo di ridefinizione”, D. MANTOVANI, Lingua e diritto, cit., spec. 35. Importante l’analisi (al netto di alcune evidenti improprietà giuridiche, come laddove [p. 13] è considerato possessore il locatario o il depositario, che sono invece meri detentori) di B. MOR-

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TARA GARAVELLI,

Le parole e la giustizia, cit., 11 ss. ove altra bibl., da cui ho attinto anche alcuni esempi (secondo quest’autrice “le ridefinizioni consistono nell’attribuire a parole della lingua comune un significato che non coincide con quello col quale esse vengono normalmente impiegate”). Si veda anche quanto osservato, riguardo alle riprecisazioni semantiche operate da certe tipologie di definizione, da L. LANTELLA, La definizione, cit., 72 s., nonché il capitolo III, § 4. In merito a res incorporalis come espressione ipostatica, presuppongo quanto rilevato in L. LANTELLA-E. STOLFI, Profili diacronici, cit., spec. 178 s. Ma la discussione storiografica attorno a quell’elaborazione gaiana è assai viva: si vedano almeno, nell’ultimo decennio, G. NICOSIA, Ea quae iure consistunt, in Scritti in onore di G. Melillo, II, Napoli 2009, 821 ss.; E. STOLFI, Il diritto, la genealogia, la storia, cit., 164 ss.; G. FALCONE, Osservazioni su Gai 2.14 e le res incorporales, in Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo 55 (2012), 127 ss.; A. SCHIAVONE, Ius, cit., 197 ss., 483 tutti con ulteriore bibl.

CAPITOLO VII La letteratura in tema di interpretazione (anche solo in riferimento all’ambito giuridico) è sterminata. Ne richiameremo solo alcune voci, in riferimento a vari punti toccati nel testo: senza nascondersi che alcune delle posizioni che vi sono state assunte meriterebbero ben altri approfondimenti, e neppure incontrano una condivisione unanime (talora, come riguardo ai possibili soggetti dell’interpretazione, rivestono anzi un carattere volutamente provocatorio). Sebbene – come osserva G. ZACCARIA, Questioni di interpretazione, Padova 1996, 63 – “filosofi e giuristi hanno tardato ad assumere piena avvertenza del carattere strutturale e fondante del nesso che lega fra loro diritto e interpretazione”, ripercorrere i vari orientamenti degli studiosi attorno a questo tema significherebbe seguire, nella sostanza, l’intera storia della cultura giuridica. In particolare, nel caso italiano trovo siano stati assolutamente decisivi – per il rilievo di alcuni risultati così come per l’ampiezza degli ambiti coinvolti – un paio di decenni: quelli che vanno dal libro di M. ASCOLI, La interpretazione delle leggi. Saggio di filosofia del diritto, Roma 1928 a quello di E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), Milano 1949, passando da contributi quali C. GRASSETTI, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova 1938 (con indubbia influenza anche sulle disposizioni del codice civile del 1942 in materia di interpretazione del contratto); M.S. GIANNINI, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria generale dell’interpretazione, Milano 1939 e G. GORLA, L’interpretazione del diritto, Milano 1941. Nei decenni successivi la riflessione sull’interpretazione si è arricchita ulteriormente, assumendo nuovi indirizzi, anche in virtù della “svolta linguistica” legata alla filosofia analitica: per qualche orientamento al riguardo, da ultimo, C. LUZZATI, Del giurista interprete, cit., 173 ss. ove bibl. L’adagio in claris non fit interpretatio si afferma nella cultura giuridica moderna: lo incontriamo dagli anni del De Luca (1614-1683) o almeno dei riordinatori della sua opera, se non addirittura del de Vattel (1714-1767). In proposito, per tutti, P. ALVAZZI DEL FRATE, L’interpretazione autentica nel XVIII secolo. Divieto di interpretatio e “riferimento al legislatore” nell’illuminismo giuridico, Torino 2000, 16 e S. MASUELLI, «In claris non fit interpretatio». Alle origini del brocardo, in Ri-

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vista di diritto romano 2 (2002), 401 ss., spec. 421 ss. ove bibl. Da tempo è stata mostrata l’inconsistenza, logica e teorica, dell’idea che vi presiede: si vedano in particolare P. PERLINGIERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in Rassegna di diritto civile 6 (1985), 990 ss., spec. 996 ss. e, sia pure in una prospettiva più specifica, N. IRTI, Testo e contesto. Una lettura dell’art. 1362 codice civile, Padova 1996, 63 ss. (secondo cui la chiarezza “non è presupposto, ma risultato dell’interpretazione”, e il ditterio in esame dovrebbe semmai rovesciarsi in quello secondo cui “in obscuris non fit interpretatio”). Da tener presenti anche D. FARIAS, Interpretazione e logica, cit., 19 s.; P. COSTANZO, Il principio ‘in claris non fit interpretatio’ nel sistema delle norme relative alla interpretazione del contratto, in Giustizia civile 47.II (1997), 151 ss. ove bibl.; E. RUSSO, L’interpretazione delle leggi civili, Torino 2000, 43 s.; M. CAVINO, Interpretazione discorsiva del diritto. Saggio di diritto costituzionale, Milano 2004, 78 ss. ove altra bibl. Stima invece capziosi molti argomenti addotti contro quella massima R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale. Art. 10-15, in Commentario del Codice civile [a cura di A. SCIALOJA-G. BRANCA], Bologna-Roma 1974, 240 ss. Di “assolutismo giuridico” si parla nel senso di P. GROSSI, Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano 1998; ma si veda ora anche ID., L’invenzione del diritto, cit., spec. 23 ss., 40 ss. Circa il rapporto fra Illuminismo e movimento che condusse alle codificazioni dei Paesi dell’Europa continentale – rapporto al centro di molteplici ricostruzioni (non di rado, su alcuni aspetti, anche difformi) –, basti qui ricordare G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, cit., spec. 223 ss. In merito all’articolo 12 delle “Preleggi” (anche limitandosi, come nella nostra prospettiva, al primo comma, ossia lasciando sullo sfondo quanto previsto dal secondo, in materia di analogia legis e iuris) i problemi interpretativi sono innumerevoli. Basti leggere, per rendersene conto, R. QUADRI, Dell’applicazione, cit., 207 ss.; L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Milano 1981, spec. 83 ss.; S. RACHELI, Per una interpretazione «realistica» della legge. Osservazioni critiche a margine dell’art. 12 disposizioni preliminari al codice civile, in Scritti in onore di Angelo Falzea, I, Milano 1991, spec. 626 ss.; A. BELVEDERE, I poteri semiotici del legislatore (Alice e l’art. 12 Preleggi), in Scritti per U. Scarpelli, cit., spec. 91 ss. ove bibl.; ID., Pragmatica e semantica nell’art. 12 Preleggi, in D. VERONESI, (a cura di), Linguistica giuridica italiana e tedesca, cit., 49 ss.; P. CHIASSONI, Tecnica dell’interpretazione giuridica, Bologna 2007, 147 ss.; R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, in Trattato di diritto civile e commerciale (già dir. da A. CICU-F. MESSINEO-L. MENGONI), Milano 2011, spec. 309 ss. ove bibl.; F. MODUGNO, Interpretazione giuridica, Padova, 20122, spec. 447 ss.; P. CHIASSONI, Le poco ideali qualità dell’articolo «ideale» sull’interpretazione della legge, in Scritti per Luigi Lombardi Vallauri, I, Padova 2016, spec. 258 ss. ove altra bibl. Più specificamente, su precedenti storici e presupposti ideologici di questa disposizione, sempre importante G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del odice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale), in Foro Italiano 1969, 112 ss. Cfr. anche E. STOLFI, Quartum datur. Note in tema di interpretazione «diffusa», Scritti per Luigi Lombardi Vallauri, II, cit., 1348 ss. ove altra bibl.

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L’idea dell’interpretazione quale comune denominatore delle “scienze dello spirito” (in tutte le quali “il problema epistemologico dell’intendere” si presenta, pur variamente declinato, “quale aspetto del problema generale del conoscere”: p. 59 ss.) caratterizza soprattutto la monumentale ricostruzione di E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, nuova ediz. (a cura di G. CRIFÒ), Milano 1990. Circa le reazioni suscitate dal suo lavoro posso rinviare a E. STOLFI, Alle soglie dell’intraducibile. Il nómos ateniese nell’elaborazione dei giuristi severiani, in C. CASCIONE-C. MASI DORIA-G. MEROLA (a cura di), Modelli di un muliculturalismo giuridico. Il bilinguismo nel mondo antico. Diritto, prassi, insegnamento, I, Napoli 2013, 283 nt. 1 ove bibl.; ma cfr. anche F. PETRILLO, La decisione giuridica. Politica. Ermeneutica e giurisprudenza nella teoria del diritto di Emilio Betti, Torino 2005, nonché (in chiave decisamente critica) R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, cit., 4. Una panoramica sui vari contesti (e conseguenti snodi) del fenomeno interpretativo è offerta, da ultimo, in C. ALTINI-P. HOFFMANN-J. RÜPKE (ed.), Issues of Interpretation. Texts, Images, Rites, Stuttgart 2018. La distinzione fra una interpretazione in senso ampio e una in senso stretto (o forte) ricorre in più di un autore: ne prende ad esempio le mosse D. FARIAS, Interpretazione e logica, cit., 3 ss., ritenendo che “si ha interpretazione solo se la comprensione si inceppa, diviene in qualche grado problematica, sì che per restaurarla nella sua ottimale e normale scorrevolezza si richiede una ricerca, l’interpretazione appunto”. Cfr. anche E. DICIOTTI, Interpretazione della legge e discorso razionale, Torino 1999, spec. 205. Ma trovo senz’altro condivisibile quanto scrive R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, cit., 400 ss. ove altra bibl., secondo il quale “costituisce interpretazione qualunque attribuzione di significato ad un testo normativo, indipendentemente da dubbi e controversie. Qualsiasi testo normativo, in qualsiasi situazione, richiede interpretazione. O, detto in altra forma, qualunque attribuzione di significato ad un testo normativo costituisce interpretazione” (p. 404). A tre possibili “modelli” di interpretazione (ma non necessariamente connessi alla presenza, o meno, di oscurità o altre difficoltà di comprensione) si richiama S. MASUELLI, Interpretazione, chiarezza e oscurità in diritto romano e nella tradizione romanistica. I. Interpretazione: tratti di un percorso concettuale, estr. da Rivista di diritto romano 8 (2008), spec. 7 ss. Sulla norma come risultato anziché oggetto dell’interpretazione (che si esercita semmai su disposizioni o enunciati normativi), fra i molti (e per limitarsi agli ultimi vent’anni), E. RUSSO, L’interpretazione, cit., spec. 359 ss.; P. CHIASSONI, Tecnica dell’interpretazione giuridica, cit., spec. 49 ss.; V. VILLA, L’interpretazione giuridica fra teorie del significato e teorie della verità, in M. MANZIN-P. SOMMAGGIO (a cura di), Interpretazione giuridica e retorica forense. Il problema della vaghezza del linguaggio nella ricerca della verità processuale, Milano 2006, 127 ss.; A. CATANIA, Manuale di teoria generale del diritto, Roma-Bari 20102, 119 ss.; G. PINO, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Bologna 2010, 16 ss.; R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, cit., spec. 63 ss. ove altra bibl.; V. VILLA, Una teoria pragmaticamente orientata dell’interpretazione giuridica, Torino 2012, 1 ss.; C. LUZZATI, Del giurista interprete, cit., 193 ss.; ID., Interpretazione della legge, interpretazione del diritto e interpretazione nel diritto, in Scritti per Luigi Lombardi Vallauri, I, cit., 824 ss.; B. PASTORE, Diritto giuri-

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sprudenziale e ragione giuridica, ibidem, II, 1139 ss., spec. 1143 (da cui è tratta la frase citata); G. ZAGREBELSKY, Diritto allo specchio, cit., 294 s. Sulla distinzione fra interpretazione come attività e interpretazione come risultato, per tutti, G. TARELLO, Diritto, enunciati, usi, cit., 403 ss. e ID., L’interpretazione della legge, in Trattato di diritto civile e commerciale (dir. A. CICU-F. MESSINEO), Milano 1980, 39 ss. Si veda, da ultimo, anche C. LUZZATI, Del giurista interprete, cit., 14 s. La citazione con cui si chiude il § 1 è tratta da M. SBRICCOLI, L’interpretazione dello statuto. Contributo allo studio della funzione dei giuristi nell’età comunale, Milano 1969, 3. Circa il duplice vettore di confronto (da un lato nella diacronia; dall’altro nella sincronia, sia pure in senso lato) da cui è coinvolto ogni studioso di esperienze giuridiche del passato, posso ora rinviare a E. STOLFI, Problemi e forme della comparazione nella storiografia sui diritti antichi, in corso di pubblicazione in M. BRUTTI-A. SOMMA (a cura di), Diritto: storia e comparazione. Nuovi propositi un binomio antico. Circa la distanza fra l’interpretatio propria di un diritto giurisprudenziale e l’odierna interpretazione, per tutti, L. LOMBARDI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, rist. Milano 1975, 24 ss.; E. STOLFI, ‘Bonae fidei interpretatio’, cit., 79 ss.; ID., Brevi note su «interpretatio» e «auctoritas» fra tarda repubblica ed età dei Severi, in Interpretatio prudentium 1.1 (2016), 162 ss. ove altra bibl. Ritiene che la interpretatio anteriore all’età dei codici avrebbe “in comune con il concetto moderno soltanto il nome”, A. GIULIANI, Dialogo e interpretazione nell’esperienza giuridica, in A. GIULIANI-A. PALAZZO-I. FERRANTI, L’interpretazione della norma civile, Torino 1996, 8; circa alcuni tratti di tale difformità M. SBRICCOLI, Interpretazione come argomentazione nella esperienza giuridica intermedia, in G. GALLI (a cura di), Interpretazione e contesto, Torino 1980, 47 ss. e P. CHIASSONI, L’interpretazione dei documenti legislativi: Giustiniano e i glossatori, in Scritti per U. Scarpelli, cit., 199 ss. Ritiene nondimeno legittimo, “gettare un ponte tra i due termini”, in modo da “interrogarsi unitariamente sul significato di ‘interpretatio/interpretazione’”, L. LANTELLA, Dall’interpretatio iuris all’interpretazione della legge, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Prof. F. Gallo, I, Napoli 1997, spec. 559. Si veda anche S. MASUELLI, Interpretazione, chiarezza e oscurità, I, cit., 23 ss. Su significato e implicazioni di un “diritto giurisprudenziale” (nozione richiamata spesso in questo capitolo, ma che era già affiorata in precedenza), rimane un classico L. LOMBARDI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, cit. Circa il particolare stile di lavoro, nell’antica Atene, degli exeghetái, anche in confronto con le diverse modalità interpretative degli esperti di ius a Roma, posso rinviare a E. STOLFI, Introduzione allo studio dei diritti greci, cit., 29 ss., 200 ove bibl. e ID., Il diritto, la genealogia, la storia, cit., 45 s. ove altra bibl. Sulla posizione aristotelica attorno all’“equo” (epieikés) e alla sua esplicazione nella produzione di psephísmata (ancor più che nelle decisioni dei giudici) mi sono soffermato, da ultimo, in La legge e i due volti dell’antico, in corso di pubblicazione in G. LUCHETTI (a cura di), Legge, eguaglianza, diritto. I casi di fronte alle regole nell’esperienza antica. Atti del Convegno (Bologna-Ravenna 9-11 maggio 2013), §§ IV-V ove bibl. Sul “rapporto tra la volontà e il testo che lo dichiara”, quale motivo ricorrente nel-

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la trattatistica retorica e nel concreto dell’analisi giurisprudenziale a partire dall’ultimo secolo della repubblica, di recente, M. BRUTTI, Interpretare i contratti, cit., 43 ss. ove bibl. Ci troviamo in anni non lontani, del resto, dalla messa a punto (a opera di Ermagora) di un sistema retorico che, all’interno del genere legale dei discorsi, contemplava come una possibile “determinazione della questione su cui verte la causa” (stásis; poi in latino status causae) proprio “la lettera e lo spirito della legge, quando questi sembrano in contrasto reciproco”: cfr. B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, cit., 31 (sue le parole citate). Si veda anche R. MARTINI, Antica retorica giudiziaria (gli status causae), in Studi Senesi 116 (2004), 30 ss., spec. 77 ss. Sull’esercizio di interpretatio tramite il quale si pervenne ad allestire le procedure di emancipatio e adoptio, per tutti (e nella prospettiva che qui più interessa), C. GIACHI-V. MAROTTA, Diritto e giurisprudenza in Roma antica, Roma 2012, 126 ss. A proposito del secondo esempio storico (il dominio “diretto” e “utile” dei medievali) si è tenuto conto – anche riguardo ai tratti di fondo del lavoro degli interpreti che vi dettero vita, divisi fra “momento di validità” e di “effettività”) soprattutto di P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari 1995, spec. 172 s., 238 ss. La tesi, formulata da Monateri, secondo cui l’interpretazione sarebbe ridotta ad “affabulazione”, è discussa e analiticamente criticata da F. GALLO, L’interpretazione del diritto è affabulazione?, Milano 2005. Rispetto a quella che egli denomina “teoria scettica” dell’interpretazione (nella variante “estrema o radicale”) condivisibili i rilievi critici di R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, cit., 424 ss. Quanto osservato attorno alla polarità – nel configurare ogni teoria dell’interpretazione e poi nel concreto operare di quest’ultima – fra oggettivo e soggettivo presuppone soprattutto alcune pagine fondamentali: quelle bettiane della citata Teoria generale della interpretazione e quelle di Verità e metodo di Hans Georg Gadamer (trad. it. Milano 1983). Da ultimo, coglie in entrambi la prevalente “tensione verso l’oggettività”, sia pure espressa “con forme e terminologie diverse” – si è trattato, in effetti, di un dibattitto di grande intensità teorica, a suo modo paradigmatico – M. BRUTTI, Interpretare i contratti, cit., 3 ss. (sue anche le parole che citeremo fra breve). Quella tensione veniva infatti soddisfatta, in Betti, dal risolvere “l’atto conoscitivo in un’adesione alla totalità” (rappresentata, in campo giuridico, soprattutto dai valori propri della tradizione e del sistema); e invece articolata, in Gadamer, nel porre “all’inizio del conoscere una pre-comprensione ... dell’essere che si dà nel linguaggio” (significativa è l’impostazione che in Verità e metodo, cit., spec. 312 viene seguita a proposito del “circolo ermeneutico”, in serrato dialogo soprattutto con Heidegger). A proposito della “discrezionalità” interpretativa in Betti, di recente, C. LUZZATI, Del giurista interprete, cit., spec. 151 ss. Cfr. anche, tra i molti, T. GRIFFERO, Interpretare. La teoria di Emilio Betti e il suo contesto Torino 1988 e V. FROSINI-F. RICCOBONO (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano 1994. Più in generale, sul tema (di per sé quasi inesauribile) della peculiare “libertà dell’interprete” in campo giuridico, importante G. ZACCARIA, Questioni di interpretazione, cit., 145 ss. ove bibl. Circa il problema evocato alla fine del § 2 – che rinvia a uno snodo cruciale delle odierne istituzioni democratiche – la riflessione di giuristi e politologi è ovviamente assai intensa: per un primissimo orientamento cfr. la sintesi, assai lucida (anche se a tratti, almeno per la mia sensibilità, sin troppo ottimistica), di M. FIORAVANTI, La

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produzione del diritto tra legge e giudice: il rapporto tra democrazia e giurisdizione, in Scritti per Luigi Lombardi Vallauri, I, 519 ss. (per ulteriori indicazioni, soprattutto bibliografiche, di recente C. LUZZATI, Del giurista interprete, cit., spec. 314 s., spec. 317 s.). Anche riguardo ai problemi (cui subito dopo si accenna, nel testo) legati alla “globalizzazione” o “sconfinatezza” del diritto odierno la discussione è ormai ampia, e alquanto articolata: un buon punto di partenza è offerto da D. ZOLO, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Roma-Bari 20062; M.R. FERRARESE, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Roma-Bari 2006; A. CATANIA, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Roma-Bari 2008; S. CASSESE, Il mondo nuovo del diritto, cit., spec. 29 ss., 169 ss.; M.R. FERRARESE, Prima lezione di diritto globale, Roma-Bari 2012; G. PALOMBELLA, È possibile una legalità globale? Il Rule of Law e la governance del mondo, Bologna 2012. Si veda anche E. STOLFI, Il diritto, la genealogia, la storia, cit., 23 s. ove altra bibl. In merito a tecniche e tipologie di interpretazione la bibliografia è ovviamente sterminata. Fra i lavori che si è tenuto più presente, L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, cit., spec. 55 ss.; C. LUZZATI, La vaghezza delle norme, cit., 201 ss.; R. GUASTINI, Il diritto come linguaggio, cit., spec. 151 ss.; P. CHIASSONI, Tecnica dell’interpretazione, cit., 49 ss.; R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, cit., 75 ss.; C. LUZZATI, Del giurista interprete, cit., spec. 105 ss., 145 ss., 261 ss. ove altra bibl.; G. ZAGREBELSKY, Diritto allo specchio, cit., spec. 312 ss. In particolare, sui fondamenti (quasi sempre inespressi, e tendenzialmente insoddisfacenti) dell’usuale tripartizione in interpretazione autentica, giudiziale (o giurisprudenziale) e dottrinale – eventualmente integrata da quella burocratica o amministrativa –, posso rinviare a E. STOLFI, Quartum datur, cit., 1336 ss. ove bibl. In quelle pagine ho cercato di mostrare in modo meno cursorio (ma senza rinunciare al gusto della provocazione) le ragioni per cui dovremmo contemplare ulteriori tipologie e protagonisti dell’interpretazione giuridica. In merito ai rapporti fra interpretazione e argomentazione – da loro presentati come pressoché inestricabili, con la seconda essenzialmente risolta in una pluralità di schemi di ragionamento, in grado di orientare la prima – si vedano almeno G. TARELLO, Diritto, enunciati, usi, cit., spec. 452 ss.; ID., L’interpretazione della legge, cit., spec. 341 ss.; R. GUASTINI, Il diritto come linguaggio, cit., spec. 151 ss.; ID., Interpretare e argomentare, cit., 267 ss.; M. BRUTTI, Interpretare i contratti, cit., spec. 28 ss. Sul punto torneremo a proposito del prossimo capitolo.

CAPITOLO VIII La bibliografia relativa all’argomentazione è divenuta, soprattutto negli ultimi decenni, decisamente copiosa. Imprescindibili i lavori di Perelman già più volte richiamati (e in particolare il Trattato dell’argomentazione). Si vedano anche, fra i molti, P. SEMANA, Argomentazione e persuasione, Milano 1974; S. TOULMIN, Gli usi dell’argomentazione, trad. it. Torino 1975; V. LO CASCIO, Grammatica dell’argomentare. Strategie e strutture, Firenze 1991; A. CATTANI, Forme dell’argomentare. Il ragionamento tra logica e retorica, Padova 19942; M. PIATTELLI PALMARINI, L’arte di persuadere. Come impararla, come esercitarla, come difendersene, Milano 1995; R. BARILLI, Corso di retorica. L’“arte della persuasione” da Aristotele ai giorni nostri, Milano 19952, 171 ss.; R. MORRESI, Argomentazione e dialettica. Tra logica hegelia-

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na e “Nouvelle Rhétorique”, Roma 1995; O. REBOUL, Introduzione alla retorica, cit.; B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, cit., spec. 60 ss. e (su “le nuove retoriche”) 287 ss.; F. PIAZZA, Linguaggio persuasione e verità. La retorica nel Novecento, Roma 2004; A. GILARDONI, Logica e argomentazione, cit.; A. IACONA, L’argomentazione, Torino 2005; P. CANTÙ-I. TESTA, Teorie dell’argomentazione. Un’introduzione alle logiche del dialogo, Milano 2006; F. VENIER, Il potere del discorso, cit. Un’impostazione assai particolare, meritevole di attenzione, in C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica, Milano 200711, 39 ss. (ma lo scritto risale al 1910). Da tener presente anche I. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, cit., 23 ss. (pur con le riserve formulate a proposito del capitolo V). Con particolare riguardo ad argomenti e argomentazione in campo giuridico, cfr. almeno G. TARELLO, Diritto, enunciati, usi, cit., spec. 452 ss.; ID., L’interpretazione della legge, cit., spec. 341 ss.; R. GUASTINI, Il diritto come linguaggio, cit., spec. 155 ss.: tutti propensi a considerare gli argomenti alla stregua di schemi di ragionamento (su alcuni dei quali si insiste anche nel testo, sia pure in una prospettiva lievemente diversa), a cui ricorrere nell’interpretazione (cfr. capitolo VII § 4, nonché P. CHIASSONI, Tecnica dell’interpretazione, cit., 136 ss. e, da ultimo, L. DI CARLO, Teoria istituzionale, cit., 215 ss. ove altra bibl., che a sua volta tiene distinte le due operazioni, ma per trattare dell’argomentazione in un’accezione più ampia di quella qui accolta). Si vedano inoltre G. KALINOWSKI, Introduzione alla logica giuridica, cit., spec. 223 ss.; L. GIANFORMAGGIO BASTIDA, Gli argomenti di Perelman: dalla neutralità dello scienziato all’imparzialità del giudice, Milano 1973; R. ALEXY, Teoria dell’argomentazione giuridica. La teoria del discorso razionale come teoria della motivazione giuridica [1978], trad. it. Milano 1998; L. GIANFORMAGGIO, Studi sulla giustificazione giuridica, Torino 1986; A. MARIANI MARINI (a cura di), Teoria e tecnica dell’argomentazione giuridica, Milano 2003; G.A. FERRARI-M. MANZIN (a cura di), La retorica fra scienza e professione legale, cit.; U. VINCENTI, Metodologia giuridica, cit., 73 ss. Ulteriori indicazioni bibliografiche in E. STOLFI, ‘Argumentum auctoritatis’, cit., 88 ss. Una tassonomia di argomenti, “caratterizzati da procedimenti di associazione e dissociazione” era proposta nelle classiche pagine di C. PERELMAN-L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione, cit., 197 ss. (anche se nel testo è stata seguita prevalentemente l’esposizione di Tarello, nei lavori già citati). A proposito delle due diverse configurazioni dell’argomentazione (comprensiva o meno della tesi o conclusione, oltre che delle proposizioni atte a sostenerla), fra gli altri, S. TOULMIN, Gli usi dell’argomentazione, cit., spec. 13 ss.; V. LO CASCIO, Grammatica dell’argomentare, cit., spec. 53 ss.; A. CATTANI, Forme dell’argomentare, cit., 33 ss.; A. GILARDONI, Logica e argomentazione, cit., 45 ss. E. STOLFI, ‘Argumentum auctoritatis’, cit., 95 ss. ove altra bibl. Ho già insistito sul contrappunto fra i due laboratori della persuasione – la retorica antica e la pubblicità commerciale dei nostri giorni (ormai un termine di raffronto pressoché ineludibile anche per molti libri in materia di argomentazione) – in E. STOLFI, Introduzione allo studio dei diritti greci, cit., 83 ss., spec. 94 ss. Sul cosiddetto ordine “nestoriano” (o “nestorico”), per tutti, C. PERELMAN-L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione, cit., 522 s. e B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, cit., 105. Circa la distinzione di Perelman (Trattato dell’argomentazione, cit., 28 ss.; si

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veda inoltre Il dominio retorico, cit., spec. 29) fra “persuasivo” e “convincente”, e il rilievo da lui attribuito all’“uditorio universale”, esiste ormai una vasta riflessione. Per qualche orientamento cfr. L. GIANFORMAGGIO BASTIDA, Gli argomenti di Perelman, cit., 216 ss.; R. ALEXY, Teoria dell’argomentazione, cit., spec. 128 s.; M. LA TORRE, Teorie dell’argomentazione giuridica e concetti di diritto, in Appendice a R. ALEXY, op. cit., 366; P. CANTÙ-I. TESTA, Teorie dell’argomentazione, cit., 2 s.; E. STOLFI, ‘Argumentum auctoritatis’, cit., 93 ove altra bibl. Attorno alla decadenza moderna della retorica, cui contribuì in modo decisivo l’impostazione di Pierre de la Ramée, è qui sufficiente il rinvio a B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, cit., 46 ss. Sulla “morte della retorica” (almeno nella sua configurazione “classica”, protrattasi ben oltre l’antichità) e sulla “ambiguità attuale del fenomeno retorico”, importante R. BARTHES, La retorica antica. Alle origini del linguaggio letterario e delle tecniche di comunicazione, trad. it. Milano 2000, spec. 45 ss. Cfr. anche M. MEYER, La retorica, trad. it. Bologna 1997, 7 ss. e A. GILARDONI, Logica e argomentazione, cit., 5 (il quale constata amaramente come oggi “viviamo in un’epoca che ha denigrato la retorica, abbandonandola nelle mani dei pubblicitari, dei demagoghi e dei populisti”). In merito alle ragioni per cui Perelman parlava di “neoretorica”, e non di “neodialettica”, si veda il Trattato dell’argomentazione, cit., spec. 7. Ritiene comunque che egli abbia dato vita a una sorta di “neodialettica” – non come reinterpretazione di quella aristotelica, ma come frutto degli sviluppi resi possibili da quest’ultima – R. MORRESI, Argomentazione e dialettica, cit., 68. Parla dell’argomentazione, nell’impostazione perelmaniana, “come una via dialettica alla retorica”, spiegando poi le ragioni del riferimento a quest’ultima da parte dell’autore belga, F. PIAZZA, Linguaggio, cit., 49 e 52. Cfr. anche E. BERTI, La dialettica antica, cit., 18 s. Un impiego di “dialettica” in un’accezione non lontana da quella aristotelica era, peraltro, già nel prontuario di tecniche argomentative redatto da A. SCHOPENHAUER, L’arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi [1830-1831?], trad. it. Milano 199921, 15 ss., che si riferiva alla “dialettica eristica” come all’“arte di disputare in modo da ottenere ragione” (e già insisteva sulla polisemia storica del termine “dialettica”: 68 ss.). Sui tre generi della retorica (già enunciati da Aristotele, e da lui organizzati per la prima volta in modo sistematico), per tutti, B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, cit., 26 ss. Sul rilievo che lo stesso Aristotele (Retorica I.1356a) attribuivaa a éthos e páthos, da ultimo, G. COSSA, Riflessioni sulla distinzione tra prove ‘tecniche’ e ‘atecniche’, cit., spec. 309 ove bibl. Circa la funzione (sia pure indirettamente) pragmatica anche dell’argomentazione propria del discorso epidittico non ha dubbi C. PERELMAN-L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione, cit., 50 ss., spec. 54 ss. (ove leggiamo che essa “si propone di aumentare l’intensità dell’adesione ad alcuni valori, dei quali forse non si dubita quando si considerano isolatamente, ma che potrebbero eventualmente non prevalere contro altri valori che entrassero in conflitto con essi”). Per qualche approfondimento attorno al discorso di Pericle, richiamato quale modello di retorica epidittica, posso rinviare a E. STOLFI, Concezioni antiche della libertà. Un primo sondaggio, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano «Vittorio Scialoja» 108 (2014), 158 ss. ove bibl. L’ultima citazione di Aristotele è tratta da Retorica I.1354a.

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Su preparazione e requisiti dell’avvocato penalista – dalla cura degli aspetti fisici fino all’organizzazione dei discorsi e all’impostazione delle voce – rimangono tutte da leggere le pagine di E. FERRI, Difese penali. Studi di giurisprudenza penale. Arringhe civili, I, Torino 19253, 19 ss.

Capitolo IX In tema di oscurità un buon punto di partenza è S. MASUELLI, Interpretazione, chiarezza e oscurità in diritto romano e nella tradizione romanistica. III. Oscurità, estr. da Rivista di diritto romano 10 (2010), 1 ss. ove bibl. Cfr., pur in estrema sintesi, anche L. LANTELLA-E. STOLFI-M. DEGANELLO, Operazioni elementari, cit., 180 s. La nozione di ambiguità è stata affrontata dai giuristi da molteplici prospettive (teoriche, storiche, in relazione alle disposizioni delle varie branche del diritto vigente): per qualche orientamento si vedano almeno A. BELVEDERE, Il problema delle definizioni, cit., spec. 163 ss.; L. LANTELLA-E. STOLFI-M. DEGANELLO, Operazioni elementari, cit., 170; S. MASUELLI, Interpretazione, chiarezza e oscurità, III, cit., 2 ss. ove altra bibl.; R. GUASTINI, Il diritto come linguaggio, cit., spec. 30, 142 s.; ID., Interpretare e argomentare, cit., spec. 40 s., 67. Circa gli esempi tratti dalla Costituzione, basti qui – in merito all’articolo 1 – il rinvio a M.D. SANTOS FERNÁNDEZ-A. LOFFREDO, «La vita del Paese deve avere il volto del lavoro», in L. GAETA (a cura di), Prima di tutto il lavoro. La costruzione di un diritto all’Assemblea Costituente, Roma 2014, spec. 57 ss. Riguardo all’articolo 48 (e alle diverse impostazioni rispetto alle quali esso costituisce un tentativo di mediazione) è pressoché superfluo citare bibliografia: ogni manuale di diritto costituzionale tocca quel tema. Si veda inoltre, ma da una prospettiva più sociologica che giuridica, V. CUTURI-R. SAMPUGNARO-V. TOMASELLI, L’elettore instabile: voto/non voto, Milano 2000, spec. 47 s. Riguardo alla vaghezza importante C. LUZZATI, La vaghezza delle norme, cit., 3 ss. (sua [a p. 5, ma si vedano anche le p. 83 ss.] è la frase riportata, in merito alla nostra figura come “questione di grado”), il quale identifica la vaghezza con “l’imprecisione di significato”, per insistere sulla varietà delle sue ricorrenze, non solo in riferimento alle cosiddette “clausole generali” (o alle innumerevoli altre figure censite [p. 299 ss.] nell’ambito di quella che viene indicata come “vaghezza socialmente tipica”, “ o da rinvio”), e sempre contraddistinte dall’esistenza, accanto a “ipotesi centrali e non controverse”, di “casi-limite” per cui è dubbia l’applicazione del termine o enunciato vago. Si vedano anche K. ENGISCH, Introduzione al pensiero giuridico, cit., 170 ss. (in merito a quello che egli denomina “concetto indeterminato”); R. GUASTINI, Il diritto come linguaggio, cit., spec. 144; M. MANZIN-P. SOMMAGGIO (a cura di), Interpretazione giuridica e retorica forense. Il problema della vaghezza, cit.; D. ANTELMI, Vaghezza, definizioni e ideologia, cit., spec. 92 ss.; R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, cit., 52 ss., nonché (ma in una prospettiva diversa) W.P. ALSTON, Filosofia del linguaggio, cit., 135 ss. Circa il ruolo oggi riservato a clausole o categorie generali (ma anche valori e princípi: fondamentali o generali) la bibliografia è vastissima. Per qualche orientamento, anche bibliografico, si vedano – muovendo entrambi dalla figura della buona fede, ma con considerazioni di più ampio respiro – almeno E. STOLFI, ‘Bonae fi-

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dei interpretatio’, cit., spec. 17 ss., 259 ss. e F. PIRAINO, La buona fede in senso oggettivo, Torino 2015, spec. 41 ss., 68 ss. La frase citata in relazione all’equità è tratta da D. MANTOVANI, L’aequitas romana: una nozione in cerca di equilibrio, in Antiquorum philosophia 11 (2017), 28. Attorno alle lacune un’impostazione convincente è rinvenibile in R. GUASTINI, Il diritto come linguaggio, cit., 175 s. ove altra bibl. (da cui ho ripreso, nella sostanza, alcune delle considerazioni in merito ai rapporti fra lacune e interpretazione). Si vedano anche, fra gli altri, K. LARENZ, Storia del metodo, cit., 73 ss. (il quale, ripercorrendo il pensiero di Heck, insiste soprattutto sulla circostanza che [p. 75] “già la constatazione di una lacuna nella legge è ... il risultato di un esame critico, di una valutazione”); H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, cit., 276 ss.; G.A. CONTE, Saggio sulla completezza degli ordinamenti giuridici, Torino 1962, spec. 37 ss.; K. ENGISCH, Introduzione al pensiero giuridico, cit., 215 ss. ove ampia bibl.; L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, cit., 31 ss.; P. CHIASSONI, Tecnica dell’interpretazione, cit., 169 ove altra bibl.; R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, cit., 128 ss. ove altra bibl.; G. COSI, Legge, diritto, giustizia, cit., 205 ss.; L. DI CARLO, Teoria istituzionale, cit., 224 s., 280 ss. In materia di antinomie da tener presente, fra i molti, A. ROSS, Diritto e giustizia [1958], trad. it. Torino 1965, spec. 122 ss.; G. GAVAZZI, Delle antinomie, Torino 1959; N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino 1960, spec. 89 ss.; K. ENGISCH, Introduzione al pensiero giuridico, cit., 256 ss.; H. KELSEN, Teoria generale delle norme [1979], Torino 1985, 193 ss.; R. GUASTINI, Il diritto come linguaggio, cit., 109 s.; P. CHIASSONI, Tecnica dell’interpretazione, cit., 251 ss. ove bibl. (sue le tre diverse concezioni di antinomia ricordate: la prima statica, le altre due dinamiche); A. CATANIA, Manuale di teoria generale del diritto, cit., 183 ss.; R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, cit., 105 ss.; A. CELOTTO, Fonti del diritto e antinomie, Torino 20142; L. DI CARLO, Teoria istituzionale, cit., spec. 225 ss. I riferimenti all’emersione storica del problema delle antinomie (dalla teoria retorica antica al disegno perseguito da Giustiniano sino alle riletture medievali del Corpus iuris) presuppongono E. STOLFI, Dal ius controversum alle antinomie, cit., spec. 379 ss. ove bibl. In tema di fallacie è fondamentale – pur con le riserve formulate riguardo alla completa assimilazione fra ragionamento e argomentazione (supra, a proposito del capitolo V) – I. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, cit., 167 ss., del quale ho anche seguito la tripartizione in fallacie di rilevanza, di presunzione e di ambiguità. Le distingue invece in deduttive, induttive e semantiche (aggiungendo ignoratio elenchi e petitio principii) A. IACONA, L’argomentazione, cit., 107 ss. ove bibl. Si vedano, inoltre, almeno V. LO CASCIO, Grammatica dell’argomentare, cit., 351 ss. ove altra bibl.; M. PIATTELLI PALMARINI, L’arte di persuadere, cit., spec. 71 ss. (con particolare riguardo ai sillogismi invalidi e/o non persuasivi); G. MUCCIARELLI-G. CELANI (a cura di), Quando il pensiero sbaglia. La fallacia tra psicologia e scienza, Torino 2002; A. GILARDONI, Logica e argomentazione, cit., 107 ss. (con una nozione di ignoratio elenchi forse fin troppo dilatata, ma con rilievi sempre assai acuti, efficaci esemplificazioni e un’opportuna insistenza sul discrimine, talora sottile, che separa la fallacie vere e proprie da argomentazioni limitrofe, ma logicamente accettabili e retoricamente efficaci). Una lettura sempre istruttiva (e divertente, nel suo disincanto) è quella di A. SCHOPENHAUER, L’arte di ottenere ragione,

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cit.: negli “stratagemmi” da lui suggeriti è innegabile (e spesso segnalata dallo stesso autore) la presenza di fallacie sul piano logico, che però non sempre inficiano la forza dialettica. Per qualche approfondimento circa l’argomento ad verecundiam come fallacia (o “para-argomento”) cfr. E. STOLFI, ‘Argumentum auctoritatis’, cit., spec. 112 ss. ove bibl.

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Finito di stampare nel mese di giugno 2018 nella Stampatre s.r.l. di Torino – Via Bologna, 220

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